Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Vomitò l’anima in quel bagno.
O almeno avrebbe potuto dire così
se ne avesse posseduta una.
Con le mani sulle ginocchia,
piegato in due e scosso da brividi che non riusciva a controllare,scosse la testa fra se e se: no, lui un’anima
non l’aveva. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero tranquillamente giurato
che l’aveva venduta al diavolo già troppo tempo prima.
E forse era davvero così: forse
era una sottospecie di figliastro del demonio.
Ma allora perché stava così male?
Il fatto di non possedere
un’anima non lo avrebbe anche dovuto proteggere dal dolore?
A quanto pareva no.
Si sollevò a fatica, e
barcollando si appoggiò al piano del lavandino. Aprì l’acqua lasciando scorrere
un getto freddo e preso un bel respiro ci mise la testa sotto. Rimase così per
qualche minuto, aspettando che il mondo attorno a lui si fermasse, smettendo di
vorticare. Quando gli sembrò che si fosse stabilizzato chiuse il getto e si
guardò allo specchio: non era quel che si dice una bella vista.
Era un bel ragazzo certo, anzi
uno dei più attraenti del liceo scadente in cui andava, ma in quel momento
aveva un aspetto orribile: era stravolto, pallido e con gli occhi spenti.
Gli occhi di cui andava tanto
fiero: quelli neri più dell’ebano che sembravano risplendere di luce propria,
ora erano come morti. Le immagini di poche ore prima continuavano a ripetersi
nella sua testa, come se fosse un disco che si era impallato, e che rimandava
sempre le stesse scene: quelle orrende che non avrebbe mai dimenticato, quelle
che gli si sarebbero ripresentate per sempre come un filmino horror… quelle che
lo avrebbero tormentato a vita.
Con mano tremante si scompigliò i
capelli scuri che fradici gli si erano appiccicati sulla fronte.
Si lasciò cadere, scivolando con
la schiena lungo il muro, dando le spalle allo specchio che gli rimandava
un’immagine che non voleva vedere.
Piegò le ginocchia contro il
petto, stringendo le mani fino a farsi sbiancare le nocche: doveva smettere di
tremare. Chiuse gli occhi, prendendosi la testa fra le mani e dondolandosi
lentamente, avanti e indietro… come faceva da bambino quando i tuoni lo
spaventavano.
Il problema era che ora non si
trovava in quello stato per colpa dei tuoni.
I tuoni non avrebbero mai potuto
ridurlo così.
No. Stava così male per un
qualcosa che non era una paura irrazionale.
Smise di dondolare cercando di
pensare ad altro, sperando di riuscire a distrarsi.
Ma non poteva riuscirci, non
restandosene lì solo con i suoi pensieri.
Non era abbastanza forte da poter
combattere contro se stesso, o almeno non in quel momento.
A salvarlo fu il rumore della
porta che si apriva.
Sollevò lo sguardo, troppo stanco
per fare di più, e osservò apaticamente l’uomo appena entrato: doveva essere
sui trent’anni, alto, atletico, indossava un vestito nero e una camicia bianca.
Sul fianco destro notò un
rigonfiamento che senza problemi identificò come una pistola: era l’ennesimo
impiegato del governo o dei servizi segreti o qualunque persona avente a che
fare con il suo caso, dotata di arma, che lo fissava con sguardo
indagatore.
Chiuse gli occhi quando nello
sguardo dell’altro vide prendere il sopravvento quella punta di pietà e
compassione che aveva sfuggito per tutta la sera.
Avvertì chiaramente il disagio
dell’uomo che dopo un po’ si decise a parlare:
-E’ ora-
Ivan serrò ancora di più gli
occhi sentendo quelle parole: era il momento.
Avrebbe lasciato quella città,
quella dove viveva da sempre. Avrebbe lasciato la sua scuola, i suoi amici, se
così si potevano definire, e soprattutto avrebbe lasciato la sua casa.
La sua casa.
L’unica in cui aveva mai vissuto,
l’unica che aveva mai riconosciuto davvero come tale.
E il tutto per seguire una
schiera di “men in black” che lo avrebbero portato lontano… via da quel luogo
che ormai era diventato per lui solo un teatrino degli orrori.
Perché?
Perché lui, il figlio del
demonio, ora faceva parte del programma protezione testimoni.
Perché lui, il figlio del
demonio, avrebbe finalmente lasciato, dopo ore di tormento, quello che ora
poteva tranquillamente definire inferno.
Sogghignò, seduto sul sedile
posteriore dell’auto che correva nella notte, attirando su di sé gli sguardi
sorpresi degli uomini che erano in macchina con lui.
Ma loro non potevano e non
avrebbero mai capito.
Ivan sogghignava perché stava
lasciando il suo inferno personale.
E ovunque sarebbe andato a
finire… non poteva certo essere peggio.
O almeno così la pensava.
Bisogna pur tenere conto però che
tutti ci sbagliamo.
E in questo preciso caso anche
lui sbagliava.
Si passò la mano fra i capelli
ancora umidi, aveva quasi smesso di tremare.
Si lasciò andare contro il
sedile, chiudendo gli occhi, concentrandosi sul mormorio proveniente dai suoi
accompagnatori.
Stava meglio perché si stava auto
convincendo che non potesse esistere un inferno peggiore a quello che aveva
visto non molte ora prima.
Il figlio del demonio non sapeva
cosa lo aspettava.
Un viaggio di nove ore.
Cinquecentoquaranta minuti in cui era riuscito a riprendere il controllo di sé.
Ora niente poteva scalfirlo: era riuscito a fare in modo che quelle immagini in
grado di distruggerlo tornassero a prendere il sopravvento su di lui solo
quando chiudeva gli occhi.
Il suo nuovo compito era perciò di non chiuderli mai: non quando c’erano
altre persone che avrebbero potuto notare come improvvisamente la sua
solidità esteriore venisse annientata.
Aveva passato tutto il tempo in silenzio, ignorando i tentativi di
conversazione degli altri uomini.
Non aveva voglia di parlare e probabilmente non ne sarebbe nemmeno stato in
grado.
I suoi compagni dopo un po’ demorsero, lasciandolo in pace nel suo stato
catatonico.
E Ivan ne fu felice, perché aveva bisogno di starsene per conto proprio,
cercando la forza dentro di sé per tornare a essere quello di sempre. Doveva
assolutamente fare in modo che il ragazzino spaurito in lui non prevalesse.
E alla fine ci era riuscito: l’aveva capito quando guardando la strada
davanti a lui non aveva visto anche del sangue sullo sfondo. Ora solo se
chiudeva gli occhi tutto tornava a tingersi di rosso.
E ne andava fiero.
Già diverse volte, nelle prime ore di viaggio, quando il sonno sembrava starlo
vincendo e la mente lasciava liberi i pensieri, si era ritrovato in preda ad un
tremore irrefrenabile ed a un forte senso di nausea. La prima volta era stato
tanto forte che l’uomo al volante aveva dovuto accostare per farlo
scendere a prendere una boccata d’aria. Ogni volta lo guardavano tutti,
senza sapere bene come comportarsi, scambiandosi occhiate cariche di
compassione.
Era stato proprio l’odio per quel loro comportamento, la sua più
totale intolleranza per il modo in cui lo guardavano, a dargli la forza.
Non gli piaceva la pietà altrui, non voleva che lo compatissero.
Aveva bisogno di sapere che ce l’avrebbe fatta da solo.
E ora non ne aveva la certezza, ma di certo si sentiva più sicuro.
Si guardò le mani, notando con piacere che non tremavano più. La testa non gli
girava più di tanto e la sensazione di vuoto allo stomaco… bè quella non
era convinto se ne sarebbe mai andata.
Si accorse vagamente del cambiamento di velocità dell’auto: fino a quel
momento avevano sicuramente infranto tutti i limiti, ma ora sembrava fossero
tornati ad andare sotto i cento chilometri orari. Probabilmente perciò si
stavano avvicinando alla meta.
Alzò gli occhi, curioso di vedere in che posto si sarebbe ritrovato a vivere.
Non riconobbe niente: aveva davanti a sé solo una strada vuota, di quelle
sterrate, enormi.
Ai lati una fitta vegetazione: alberi altissimi che non riuscì ad identificare
a causa della luce ancora troppo fievole. Quando vide un fiumiciattolo scorrere
indisturbato alla sua destra e un pontile lì affianco con degli uomini
concentrati nella pesca, gli salì spontaneo alle labbra uno sbuffo contrariato:
-Ma cos’è? La terra di nessuno?-
Si sorprese delle sue stesse parole: le aveva pronunciate con voce roca e
sarcastica. Ecco in cosa si era trasformato: nel classico stronzo, ma non se ne
preoccupò più di tanto perché in fondo preferiva passare per stronzo che per
femminuccia.
Anche i suoi accompagnatori reagirono con un moto di meraviglia sentendolo
parlare, solo il guidatore non si voltò a scrutarlo incuriosito.
Fu lui a rispondergli, lanciandogli un’occhiata attraverso lo specchietto
retrovisore:
-Suncity-
Pronunciò il nome del posto in cui erano appena arrivati nello stesso momento
in cui Ivan lo lesse sul cartello attaccato al tronco di un cedro:
“Welcome to Suncity”
Si abbandonò di nuovo all’indietro, facendo aderire meglio la schiena al
sedile e si lasciò andare in un lungo sospiro liberatorio. Suncity: la città
del sole.
Non era possibile.
Aveva appena lasciato San Francisco per cosa? Per questo buco di posto?!
Certo San Francisco non era quella che si può definire una gran metropoli, ma
diamine era sicuramente meglio di questo…
Continuò ad osservare sconvolto la città in cui erano appena entrati. Non era
neanche sicuro si potesse definire città: era un minuscolo agglomerato di case,
quello che potrebbe essere un paese, ma sicuramente molto peggio.
Ivan cercò di cambiare atteggiamento, cercando un qualcosa di positivo in
quello che vedeva, ma non vi riuscì: lasciò vagare lo sguardo sulle villette a
schiera, sui prati ben curati, sulle strade pulite.
Regnava un silenzio impressionante: né l’abbaiare di un cane né il pianto
di un bambino… sì, erano le quattro del mattino, ma l’ora non
giustificava il fato che il paese sembrava morto.
Ivan iniziò a chiedersi se aveva davvero visto quei pescatori o se era stato
solo un gioco della sua immaginazione. La macchina girò ancora per un
po’, per quelle strade che sembravano tutte uguali, passando davanti a
villette nelle quali Ivan tentò inutilmente di trovare un qualche segno di
distinzione.
Si passò una mano fra i capelli, cercando di calmarsi: non riusciva a crederci!
Quel posto gli riportò alla memoria i film horror visti, in cui i paesi erano
proprio come quello: del tipo che ti fanno chiedere se veramente esiste o è
solo una scenografia… a quanto pareva esistevano, e lui ci avrebbe dovuto
vivere.
All’idea gli salì un sorriso alle labbra: non l’avrebbe mai detto,
ma la cosa quasi lo divertiva.
In posti così creare scompiglio doveva essere uno spasso.
Se la sarebbe spassata alla grande allora.
La macchina infine si fermò davanti ad una villetta, del tutto identica a tutte
quelle già passate: bianca, con un piccolo giardino sul davanti, lo steccato
anch’esso bianco e la cassetta della posta raffigurante un gallo. Vi
erano due finestre ed una porta al pian terreno e tre finestre al primo piano.
Questo fu quello che Ivan riuscì a vedere prima che l’uomo alla sua
sinistra lo spingesse fuori dall’auto. Scese e quasi andò a sbattere contro
l’altro fermo sul marciapiedi che lo afferrò per un braccio e lo trascinò
lungo il vialetto fino alla porta. Arrivato sotto il portico riuscì a liberarsi
con uno strattone:
-Ce la faccio anche da solo-
Borbottò a mezza voce entrando in casa. Sbattè più volte le palpebre per
abituarsi alla luce che vi era e riuscire così a vedere qualcosa di più: si
trovava in quello che poteva essere definito atrio;
un attaccapanni, un mobile con specchio ed un tappeto gli unici arredi. Spostò
lo sguardo a destra e poi a sinistra vedendo prima una cucina e poi un salotto.
Non vi si soffermò più di tanto.
Non gli importava nulla: stava già combattendo con tutto se stesso
l’impulso di correre verso la macchina, ingranare la marcia e fuggire da
quel posto. Ma non poteva e lo sapeva bene.
Così quando i due alle sue spalle chiusero la porta e un altro gli fece cenno
di seguirlo in salotto, non potè far altro che ubbidire. Entrò in quella
stanza, senza degnare di uno sguardo le veneziane alle finestre o i tappeti
persiani sul parchè né tantomeno si preoccupò di sedersi sul divano bianco, di
fronte all’uomo accomodatosi in poltrona, piegando le gambe sotto di sé e
rischiando così di sporcare quel candore immacolato.
L’unica cosa che gli importava fu quella che chiese, con tono indifferente
e seccato:
-Quanto dovrò rimanere qui?-
L’uomo che aveva davanti non rispose subito: continuò a guardarlo,
passandosi la mano sulla testa pelata. Teneva l’altra mano ferma invece
sul rigonfio della giacca, dove teneva la pistola: era la posizione che ormai
assumeva abitualmente.
Ivan per un po’ resse quello sguardo, poi cedette, abbassandolo sulle
proprie mani: l’altro lo stava studiando, non con preoccupazione ma con
aspettativa. Era come se stesse cercando di capire con chi aveva veramente a che
fare e di quanto si potesse sbilanciare, valutando cosa potesse dire e cosa
fosse invece più opportuno lasciar stare.
Alla fine poggiò l’avambraccio sul bracciolo della poltrona e, lanciato
uno sguardo agli altri uomini fermi alle spalle di Ivan, si decise a parlare:
-Non lo sappiamo ancora-
Prevenendo la rispostaccia di Ivan, continuò con tono duro:
-Vedi di non fare cazzate, ragazzo. Qui sarai al sicuro, e questo è ciò che
conta. Fai sempre ciò che ti diranno i miei uomini e cerca di attenerti alle
regole-
Ivan continuò a guardarlo contrariato ma non infierì.
“Vedi di non fare cazzate” … facile a dirsi.
Si guardò un attimo alle spalle, considerando velocemente gli uomini alle sue
spalle.
“I miei uomini” aveva detto la testa pelata: e così era lui il capo.
Lo aveva intuito fin dall’inizio, da come si comportava, dal fatto che
fosse stato lui a guidare, e perché era stato l’unico a guardarlo e
trattarlo come se fosse un normale diciassettenne.
Provò un moto di gratitudine e rispetto nei suoi confronti, che soffocò
momentaneamente il desiderio di ribellarsi che gli stava nascendo in petto.
Ne approfittò per porre un’altra domanda, una curiosità che gli era sorta
in seguito alle parole dell’altro:
-Non rimanete tutti?-
Non lo aveva chiesto per paura: per quanto gliene importava avrebbero anche
potuto lasciarlo lì da solo, ma per semplice voglia di essere informato come si
deve.
-No. Resteranno con te solo gli Esposito. In ogni caso tenterò di…-
Non concluse la frase, interrompendosi per rispondere ad un cellulare
ultrasottile che estrasse dalla giacca. Parlò in maniera coincisa, con un tono
che non ammetteva repliche.
-Parla McCartur. Sì. Abbiamo finito. Ripartiamo subito. … Lascio qui gli
Esposito, sì armati. Benissimo-
Chiuse lo slide del telefonino con uno scatto che fece sobbalzare Ivan: per
tutto il tempo avevano continuato a lanciarsi occhiate, e ora che aveva
concluso la telefonata McCartur si alzò in piedi.
Passando vicino al divano poggiò per pochi attimi una mano sulla spalla di
Ivan, sussurrando a fior di labbra, in modo da farsi sentire unicamente da lui:
-Cerca di non combinare troppi guai, ragazzo-
Quando Ivan si voltò, alle sue spalle erano rimasti solo due uomini:
-Gli Esposito?-
Annuirono in contemporanea, muovendo la testa verso il basso un’unica
volta. Senza scomporsi, senza sorridere. Ivan iniziò a chiedersi se fossero
davvero umani.
Li osservò meglio: erano molto diversi, quasi opposti.
Approssimativamente della stessa statura: forse un metro e ottanta, con fisici
robusti ed allenati, vestiti come gli agenti federali che si vedono in
televisione.
Le differenze che si notavano invece, erano nei loro visi, e come avrebbe
scoperto poi, nel modo di comportarsi.
Uno portava capelli lunghi, legati in una coda di cavallo, e aveva tre buchi
all’orecchio sinistro e due a quello destro. I tratti erano taglienti, e
una leggera barba gli colorava il viso troppo bianco.
L’altro invece, aveva i capelli quasi rasati a zero, nel taglio alla
marine. Un piercing sul sopracciglio sinistro: una minuscola pallina appena
visibile. I tratti di questo erano più dolci, il viso come più morbido;
l’unica pecca era una cicatrice bianca che gli attraversava le guancia
destra.
Entrambi mettevano paura, ognuno a modo suo. Ma messi insieme, erano come
un’arma micidiale.
Ivan iniziò a rimpiangere di non essere scappato prima: ora che aveva osservato
meglio quelli che sarebbero stati i suoi “controllori”
l’impresa gli sembrava assai più ardua.
-Siete parenti? Cugini?-
Tentò di intavolare una conversazione, senza nemmeno sapere il perché: non
aveva voglia di parlare, ma non voleva nemmeno rimanere immobile in quella
stanza, e se quei due non si fossero scostati, liberandogli il passaggio…
A rispondere fu il secondo, quello che gli ricordava un marine:
-Fratelli-
Ivan sollevò un sopracciglio: non l’avrebbe mai detto. Quei due fratelli?
Incredibile.
Li osservò ancora per un po’: vedendo che non accennavano a muoversi,
continuando invece a studiarlo con espressione accigliata, fece per sdraiarsi
quando uno dei due si schiarì la gola.
Alzò lo sguardo per capire chi fosse stato ma erano di nuovo entrambi immobili.
Si irrigidì, frustato da quella situazione, e stava per lasciarsi andare in uno
sfogo che sarebbe stato molto liberatorio per lui, quando il marine parlò:
-Ivan, giusto?-
Il ragazzo annuì.
Di più non fece: quando lui aveva iniziato il discorso loro si erano comportati
alla stessa maniera.
Pochi istanti dopo, senza capirne il motivo, Ivan li vide sogghignare.
Che facevano, ridevano del suo comportamento?
Il ghigno fu ben presto sostituito da un semplice sorriso: non un sorriso caldo
e confortante, ma quantomeno di certo un miglioramento dall’espressione
torva di prima.
Se avessero continuato a sorridere, sarebbero quasi potuti passare per due
normali giovani: perché Ivan ora se ne era accorto, ma non potevano avere più
di venticinque anni.
Il marine, sempre sorridendo, si passò la mano dietro il collo, per poi
rivolgersi ancora a lui:
-Senti Ivan, vediamo di partire con il piede giusto. Hai sentito McCartur: non
si sa quanto tempo dovrai restare qui. E con te dovremo restare anche noi. Se
non ci facciamo buon sangue… bè la convivenza può diventare complicata-
Ivan annuì, ancora diffidente: non gli piacevano quei due.
Il marine probabilmente intuì la sua apprensione, perché fece un passo avanti,
avvicinandosi al divano e porse la mano ad Ivan:
-Io comunque sono Jeremy-
Ivan ricambiò la stretta, continuando a non sorridere. Guardò di sbieco
l’altro uomo, rimasto ancora distante. Quello strinse gli occhi, come a
far capire che era meno propenso di lui a dare fiducia e a voce bassa mormorò:
-Terence-
Era una presentazione quella?
Ivan non ne era convinto, comunque annuì nella sua direzione. Se pure non si
era presentato, avrebbe fatto capire così, che a lui, di avere la fiducia
dell’altro non gliene poteva importare di meno.
Jeremy al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla. Ivan si voltò a
guardarlo e lo vide, con la testa leggermente piegata di lato, osservarlo
intensamente:
-Non sarebbe il caso che andassi a riposare un po’ Ivan? Hai l’aria
stanca-
Per quanto fosse vero, Ivan non potè fare a meno di provare fastidio a
quell’affermazione.
Non erano fatti suoi se voleva riposare o meno.
Non sarebbe certo stato un federale del cavolo a mandarlo a letto.
Ma Ivan sapeva che in realtà la sua rabbia era motivata solo dalla paura: dal
terrore che aveva di dover chiudere gli occhi. Se li avesse chiusi… non
riusciva nemmeno a pensarci.
Aveva sonno certo, e prima o poi avrebbe dovuto dormire di nuovo.
Sperava però di riuscire a rimanere sveglio, fino al momento in cui non fosse
definitivamente crollato. In quel modo il sonno lo avrebbe preso direttamente,
senza lasciargli nemmeno il tempo di rivedere un nanosecondo di quei fotogrammi
che aveva impressi nella memoria.
A bloccare il flusso dei suoi pensieri fu un qualcosa che lo colpì sul petto:
la afferrò appena in tempo, prima che cadesse a terra. Era un sonnifero.
Lanciò un’occhiata a Terence: era stato lui a lanciarglielo.
-Ti aiuterà-
Non lo aveva detto, lo aveva solo mimato con le labbra, ma Ivan lo aveva capito
benissimo.
Cosa aveva capito? Come faceva a sapere…?
Non ebbe il tempo di darsi una risposta: Jeremy, prendendolo per il braccio, lo
spinse verso le scale che portavano al piano di sopra.
-Ci sono tre camere da letto: scegline una e cerca di riposare-
Non disse altro.
E Ivan, senza sapere il perché ubbidì.
Iniziò a salire lentamente le scale, e ad ogni scalino la stanchezza sembrava
gravargli sempre più sulle spalle.
Strinse fra le dita il sonnifero: lo avrebbe preso.
Aveva troppa paura: lo avrebbe preso e non avrebbe chiuso gli occhi finché non
avesse fatto effetto.
Salì le scale lentamente, stringendo fra le dita quella che era la sua ancora
di salvezza.
L’ultimo suo pensiero, fu la speranza che Terence ne avesse una cospicua
scorta di quei sonniferi.
Perché, per quanto gli facesse male ammetterlo, senza sarebbe andato alla
deriva.
Quando Ivan si svegliò non
ricordava di preciso dove fosse.
Si girò per un po’ nel letto, togliendosi di scatto le coperte provato
dal troppo caldo.
Ci mise un po’ a rendersi conto che quella non era la sua camera, e
quando notò con orrore che il cuscino al quale fino a poco prima era
abbracciato, era tutto bagnato dalle sue lacrime, gli riaffiorò
completamente la memoria.
Si ricordò del buco di paese in cui era confinato, dei due pazzi che sarebbero
stati suoi coinquilini a tempo indeterminato, e soprattutto gli tornò in mente
il motivo per cui era lì.
Lo stesso motivo per cui a quanto pareva aveva pianto nel sonno.
Lui, che piangeva!
Gli sembrava assurdo anche solo prenderlo in considerazione, ma a quanto pareva
lo aveva fatto.
Con un moto stizzito si alzò a sedere, allontanando da sé il cuscino umido.
Odiava sentirsi vulnerabile e in quel momento…
Improvvisamente tutti i suoi pensieri si fermarono, bloccandosi su un
particolare che aveva appena registrato: era nudo.
O almeno quasi: aveva addosso solo i boxer neri. Per il resto
nient’altro.
Si passò le mani sul viso, chiedendosi se stesse impazzendo: si era messo a
letto vestito, ne era certo. E a meno che non fosse arrivato al punto da
svestirsi nel sonno… no, non era possibile!
I men in black?! Lo avevano spogliato loro?
Ivan inarcò le sopracciglia, valutando tutte le ipotesi, alla fine
l’unica conclusione a cui arrivò fu che non gliene importava. Non in quel
momento: aveva il bisogno impellente di farsi una doccia, lunga, molto lunga,
per togliersi di dosso quella sensazione di sporco ed inadeguatezza che si
portava dietro da San Francisco. Sempre che un getto d’acqua sarebbe
riuscito nell’intento.
Ne dubitava, ma ci avrebbe comunque provato.
Si alzò in piedi, e a causa di un giramento dovette poggiare una mano contro il
muro, tentando di ritrovare l’equilibrio. Nel frattempo si concesse due
minuti per studiare la stanza in cui si trovava: non era grande, ma nemmeno troppo
piccola, era giusta.
Con il parchè, come notò con piacere, e poi una scrivania e una cabina armadio.
Lanciò uno sguardo alla finestra alla sua sinistra: indeciso se aprire o meno
le tapparelle. Si risolse alla fine ad aprirle giusto un po’, lo stretto
necessario per capire almeno approssimativamente quanto tempo avesse dormito.
Si ritrovò a guardare lo stesso paesaggio di quando erano arrivati di mattina:
di fronte aveva un’altra villetta e di lato la strada. Il sole era ben
alto in cielo, quasi prossimo al tramonto: aveva dormito più di dodici ore.
Raggiunse la cabina armadio in pochi passi, con ancora in mente
l’immagine di quella che doveva essere la sua vicina di casa:
un’anziana signora, bassina e rotondetta, con i capelli bianchi raccolti
in una crocchia, che stendeva i panni nel cortile. Non riusciva a crederci: non
si vedevano nemmeno più nei film scene così. Una nonnina dolce e materna che
stendeva il bucato…
Stava ancora rimuginando su quanto gli sembrasse assurda come cosa mentre
apriva le ante dell’armadio. Non sapeva cosa aspettarsi in realtà, ma
sperava in un qualche miracolo: se l’avesse trovato vuoto, come temeva,
sarebbe dovuto scendere seminudo al piano di sotto e la prospettiva non lo
attraeva nemmeno un po’.
Restò perciò profondamente sorpreso e sollevato nel trovarne l’interno
fornitissimo: giacche, pantaloni, camicie, tute… c’era di tutto.
Prese un jeans e lo appoggiò contro la gamba, notando con piacere che era della
sua taglia. Iniziò ad aprire i vari cassetti, scoprendo di volta in volta
asciugamani, intimi, perfino delle cravatte che guardò con un misto di orrore e
divertimento. Aprendo l’ultimo cassetto però il cuore gli mancò un
battito e senza rendersene conto fece un precipitoso balzo all’indietro:
non c’erano vestiti ma un arsenale in piena regola.
Scuotendo la testa lo chiuse con un calcio: a quanto pareva mentre dormiva i
fratellini non se ne erano stati con le mani in mano.
Afferrò al volo una camicia nera e uscì dalla camera, alla ricerca del bagno.
Lanciò uno sguardo intorno, osservando alternativamente le tre porte sul
pianerottolo: una doveva pur essere il bagno. Il problema era: quale?
Con uno sbuffo spazientito si avvicinò a quella alla sua diretta sinistra,
sperando di essere talmente fortunato da indovinare al primo colpo: non osava
pensare a se avesse sbagliato, aprendo quella della camera di uno dei due
federali, disturbandoli semmai in… qualcosa di privato.
Per sicurezza bussò leggermente con le nocche, attendendo qualche istante prima
di spalancare la porta: entrò nel bagno reprimendo a mala pena un sospiro di
sollievo.
Stette per quelle che gli sembravano ore sotto il getto di acqua calda:
quando uscì distese gradevolmente le braccia, provando i muscoli ora ben
rilassati. Con la mano disappannò lo specchio, e rapido infilò i vestiti.
Prima di uscire diede un’ultima occhiata al suo riflesso: i jeans e la
camicia gli cadevano a pennello.
Le occhiaie violacee che aveva visto la sera prima, sembravano aver perso quel
colore così acceso, e per quanto il viso avesse un’aria ancora parecchio
stravolta, non era più esageratamente pallido.
Si passò una mano sul mento, sentendo sotto le dita il pizzicore tipico della
barba che accennava a ricrescere; la fece poi salire fino ai capelli,
scompigliandoli in modo da farli asciugare un po’.
Fu un caso se uscendo notò il taglio profondo che aveva sul collo: tornò un
attimo sui suoi passi, osservandolo meglio allo specchio. Era brutto, ma non
proprio orrendo. Girò il collo per vedere fino a che punto gli facesse male:
tirava, e bruciava anche parecchio, ma niente di insopportabile.
Con un’alzata di spalle scese al pian terreno.
La televisione in salotto era accesa: un uomo sui quaranta stava parlando di
una qualche tragedia successa nei pressi di una ferrovia. Ivan fece per spegnerla,
dato che non c’era nessuno a guardarla ma venne bloccato da una voce
pacata e perentoria:
-No-
Si girò verso la cucina, dove vide che a parlare era stato Terence.
Lo osservò, senza riuscire a nascondere la sorpresa probabilmente: indossava
dei sandali, pantaloni bianchi in lino e una camicia a mezze maniche. Come se
non bastasse quello a lasciarlo basito, stava anche cucinando, tutto
concentrato nel mescolare una qualche brodaglia rossa.
Ivan si avvicinò titubante al tavolo della cucina, già preparato per tre
persone: quel cambiamento lo aveva preso in contropiede.
-Ben svegliato-
Era stato sempre Terence a parlare: lo stesso uomo che giocando con uno degli
orecchini dell’orecchio sinistro si piegò a controllare a che punto di
cottura fossero le teglie che aveva nel forno.
Ivan annuì di rimando, concentrato sulle voci provenienti da fuori: la porta
finestra si aprì lasciando entrare Jeremy. Anche lui privo della divisa di
lavoro: jeans e una maglietta a mezze maniche militare i suoi nuovi vestiti.
Ivan si passò una mano sul viso, cercando di focalizzare quelle nuove immagini.
La voce di Jeremy gli giunse pimpante alle orecchie, costringendolo a riaprire
gli occhi:
-Ehilà, Ivan! Guarda che bella-
Nel dirlo gli mise sotto il naso una torta di zucca che sembrava appena
sfornata.
-Ce l’ha data la nostra vicina: una signora simpaticissima. Dice che ci
ha visti troppo deperiti e che ora ci pensa lei a farci riprendere-
Ivan annuì, immaginando già la cara nonnina tutta intenta a sfornare decine di
torte.
Con una mano scostò una sedia, sedendovisi di peso. Con voce atona chiese:
-Che ora sono?-
-Le sei-
Gli rispose candidamente Jeremy, studiando la sua espressione. Il sorriso che
aveva stampato in viso a un certo punto si spense leggermente e il giovane si
avvicinò ad Ivan. Gli afferrò fra due dita il mento, sollevandolo. Si piegò
sulle ginocchia, scrutando il taglio che aveva sul collo:
-Fa male?-
Ivan fece per negare, ma l’altro non gliene diede il tempo: poggiandoci
lievemente l’indice sopra fece scattare il ragazzo all’indietro.
Jeremy si rialzò, sorridendo ed ignorando apertamente l’espressione
arrabbiata di Ivan:
-Non si è infettato: tutto bene-
Ivan continuò a guardarlo con aria contrariata, poi con voce piccata disse:
-Mi sono svegliato con indosso solo i boxer-
Jeremy, prendendo posto di fronte a lui, quasi si strozzò con un’ oliva
che aveva appena messo in bocca. Ancora tossendo, accennò con la testa verso
Terence ai fornelli.
-Sì: Terry diceva che se non avessimo messo al più presto i vestiti a mollo
nell’acqua fredda, non si sarebbero tolte le macchie di sangue-
Ivan si morse il labbro inferiore a quella risposta: le macchie di sangue.
-Ad ogni modo te li restituiremo come nuovi-
Il ragazzo tornò a guardare il suo interlocutore realizzando con che soprannome
aveva chiamato il fratello. Sorrise, pensando alla possibile coppia:
“Terry e Jerry” Si astenne però dal vocalizzare i suoi
pensieri: potevano anche star fingendo di essere normali, ma non era così e
Ivan ci teneva ad arrivare incolume al processo.
Quando Terence portò a tavola un altro piatto strapieno di cibo, Jeremy ammiccò
verso Ivan, e bisbigliò, in modo da non farsi sentire dal fratello:
-Prima faceva il cuoco: in uno dei ristoranti più importanti di Manhattan-
Detto questo gli avvicinò un’insalatiera piena di un qualcosa che Ivan
non riuscì a definire.
-Perciò mangia-
Stavolta era stato Terence a parlare, glielo aveva quasi intimato mentre alzava
il volume al televisore. Ivan ubbidì, rispondendo più che altro al brontolio
del suo stomaco e data la prima forchettata, continuò a mangiare con appetito,
sorpreso dalla bravura dello chef che alle sue spalle sorrideva compiaciuto.
-Terry… e cambia! Fanno Titti e Silvestro sul terzo-
Ma il televisore rimase fisso sul telegiornale, e Jeremy con un sospiro affogò
nel ketchup le sue patate dolci. Al primo stacco pubblicitario Ivan si decise a
parlare, chiedendo una cosa che gli ronzava per la testa da quando aveva
sentito il cronista annunciare l’ultimo attentato terroristico:
-Non… non se ne parlerà?-
Quelle furono la parole che biascicò, senza alzare lo sguardo dal suo piatto,
vergognandosi quasi di averlo chiesto. Ma lo aveva fatto perché ci teneva a
saperlo, voleva prepararsi nel caso in cui ne avrebbero parlato anche in
televisione.
Entrambi i giovani al tavolo con lui intuirono subito che si riferiva a quello
che era successo la sera prima. Non diedero segni di sorpresa, però. Quasi come
se si aspettassero la domanda.
Il primo a rispondere fu Terence:
-No-
Coinciso come sempre, pensò Ivan. Poi intervenne anche Jeremy, non appena
ebbero incrociato lo sguardo: Ivan lo vide sorridere con fare rassicurante e
scuotere la testa:
-Certo che no. Almeno non finché non si saranno calmate le acque. Se ne
parlassero sulle reti televisive, tutto quello che stiamo facendo andrebbe a
farsi fottere-
Spiegò in poche parole. Ivan annuì sollevato: non era minimamente preparato a
sentir raccontare da altri la sua tragedia personale. Alzandosi per mettere il
suo piatto a lavare, chiese un’ultima cosa:
-Devo stare all’erta? … Cioè, corriamo qualche pericolo?-
Questa volta non risposero subito, e fu in parte la loro reticenza, in parte
l’occhiata che si scambiarono prima di parlare, a fargli capire che non
avrebbe potuto prendere come vere le loro parole:
-No, tranquillo Ivan. Che ci staremmo a fare noi, altrimenti?-
Jeremy intuì il suo scetticismo, perché continuò, quasi sarcastico:
-Credi che ti faremmo mai ammazzare? Tranquillo, sul serio. Va a giocare in
salotto, che ho installato la play station 3-
Ivan si dovette mordere la lingua per non rispondere male: ma quanti anni
pensava che avesse?
Che credeva, che dicendo va a giocare alla play avrebbe risolto qualcosa?
“Va a giocare in salotto…”
Gli sembrava di essere regredito a dieci anni prima.
Si sollevò le maniche fino ai gomiti, con gesti nervosi e irritati. Senza
guardarli nemmeno negli occhi si diresse alla porta a vetri:
-Vado a fare un giro-
Mormorò infastidito, alzando gli occhi al cielo quando sentì la risposta che
gli arrivò alle spalle:
-Non ti allontanare-
Scese i tre scalini, diretto in giardino, sbattendo i piedi con rabbia.
Spingendo a fondo le mani nelle tasche, piegò la testa all’indietro
accogliendo quasi con piacere il dolore sordo al collo che lo distrasse dai
suoi pensieri.
“Non ti allontanare”
Ma dove diamine sarebbe potuto andare in quel buco di paese?
In meno di un quarto d’ora si percorreva a piedi tutto, da un capo
all’altro.
E loro gli dicevano di non allontanarsi! Stavano decisamente degenerando!
Aprendo con disappunto il cancelletto, Ivan iniziò a prendere in considerazione
l’ipotesi di andare ad affogarsi nel fiume. Con un sorriso però mise da
parte quell’idea: in fondo, fortunato com’era, capace che lo
ripescavano…
*
Per prima
cosa volevo ringraziare tutti quelli che per qualche motivo a me ancora ignoto,
hanno avuto il coraggio di arrivare a leggere fino a questo punto… poi ci
tenevo anche a chiedervi di lasciare un mini-commentino, così per sapere che ve
ne pareva ^^Anche commenti del tipo:
“E’ orrendo, perché perdi tempo scrivendo cose del genere?!”
sono ben accetti: giusto per capire fino ad ora com’è xD
-E cosa pensi
di fare nella vita, ragazzo?-
Quando Ivan si sentì poggiare una mano sulla spalla non reagì prontamente:
quasi non capiva più niente, stordito dalle chiacchiere della nonnina.
Fissava i piccoli occhi dell’anziana signora, resi più tondi e grandi
dagli occhiali a mezza luna che indossava, e che davano alle iridi una
sfumatura violacea.
Gli stava simpatica, certo, e Ivan aveva provato subito un affetto innato verso
quella anziana, dolce signora, ma in quel momento non riuscì a trattenersi dal
lanciarle un’occhiata carica di risentimento perché lo teneva inchiodato
lì, appoggiato con i gomiti allo steccato bianco, da più di mezz’ora.
Gli aveva chiesto di tutto: dove era nato, che cosa gli piaceva mangiare, che film
guardava, se aveva mai avuto una ragazza… all’ennesima domanda Ivan
si era dovuto mordere la lingua per non darle una rispostaccia che avrebbe
rischiato di offenderla ma che sicuramente l’avrebbe zittita.
Anche ora, mentre lo interrogava su un futuro a cui non aveva mai pensato, Ivan
si chiedeva se fosse il caso di esprimere a voce cosa realmente gli passava per
la testa:
“Se vuole, signora, le scrivo una mia presentazione completa, con tanto
di certificato dell’anagrafe e fotografie allegate. Ma per favore! La
prego: si tappi quella dannata bocca e mi lasci andare!”
Per fortuna la mano che gli strinse solidale la spalla gli impedì di parlare.
Ivan si rimise in piedi, vedendo in Jeremy il suo salvatore: certo, da quando
la nonnetta lo aveva bloccato aveva imprecato mentalmente contro i fratellini
che, ne era sicuro, si stavano facendo chiatte risate su di lui, ma erano
passati quasi nove minuti dall’ultima volta che li aveva mandati al
diavolo perciò accolse l’altro giovane con un sorriso parzialmente sincero.
-Signora Applewear! Vedo che ha conosciuto Ivan!-
La signora si esibì in un sorriso ancora più caloroso alla vista del nuovo
arrivato:
-Jeremy! Sì è un ragazzo simpaticissimo e molto affascinante…-
Aggiunse con voce amabile, ammiccando ad entrambi. Poi sporgendosi maggiormente
verso di loro continuò:
-Gli stavo giusto chiedendo che aspirazioni lavorative avesse quando
voi…-
Jeremy la interruppe cortesemente, sperando invano di poter porre fine alla
conversazione:
-Ah signora, è ancora giovane. A sedici anni non si può ancora sapere-
Ivan al suo fianco strinse i denti e bisbigliò, innervosito:
-Diciassette. Ne ho diciassette-
Sia Jeremy che la vecchietta si voltarono ad osservarlo: il primo come messo in
difficoltà, gli rivolse un mezzo sorriso di scuse, la seconda invece con aria
incuriosita riprese a parlare:
-Diciassette, eh? Sei il più piccolo dei tre, allora-
Ivan non capì a cosa alludesse e Jeremy fu più veloce di lui a rispondere:
-No, signora, non siamo tre fratelli: Ivan ci è nipote-
Gli occhi della vecchietta se possibile si spalancarono ancora di più mentre
con voce concitata continuava:
-Oh! Figlio di…-
-… nostra sorella Amanda-
Concluse Jeremy per lei, per poi avvolgere le spalle di Ivan con un braccio e
tirarlo a sé:
-Ora però dovremmo andare, se non le dispiace-
Entrambi i giovani credettero di essere finalmente riusciti nel loro intento
quando videro la vecchietta giungere le mani e annuire con aria comprensiva.
Avevano anche iniziato ad arretrare lentamente, allontanandosi dalla staccionata,
quando improvvisamente la signora cacciò un urletto sorpreso che li fece
trasalire e fermare di colpo:
-Un momento! Ivan: è un taglio quello che hai sul collo? Come te lo sei fatto?-
Ma come aveva fatto a vederlo?
Jeremy stava già scuotendo la testa con fare rassicurante, ma la vecchina
continuava a fissare Ivan.
Il ragazzo sentendo l’ultima domanda si era inconsapevolmente irrigidito,
e dopo aver lanciato a Jeremy uno sguardo impaurito, si liberò dalla sua
stretta arretrando di qualche passo.
Jeremy parlò con voce calma, studiando nel frattempo con occhi preoccupati
l’espressione scombussolata di Ivan:
-E’ stato un incidente, signora. Non ci faccia caso-
Ivan non sentì la risposta dell’altro: a furia di arretrare era arrivato
a poggiare la schiena contro il muro della casa e in quel momento tutte le sue
energie erano concentrate nel tentativo di non tornare con i ricordi alla sera
prima. Si stava ancora massaggiando le tempie, quando si sentì sospingere per
gli scalini verso l’interno dell’abitazione.
-Ivan? Ivan!-
Il ragazzo realizzò giusto in tempo di trovarsi nel salotto, seduto sul divano,
con Jeremy in poltrona che gli sventolava le dita davanti al viso: appena in
tempo per bloccare il palmo della mano di Terence pronto a colpirlo su una
guancia.
Ivan lo guardò con tanto d’occhi, lasciando andare di botto la mano che
ancora stringeva.
-Era per il tuo bene-
Disse l’altro con una scrollata di spalle, alludendo allo schiaffo
evitato, prima di accomodarsi sul tappeto in posizione yoga e telecomando alla
mano, cominciare a fare uno zapping furioso.
Jeremy soffocò una risatina sotto lo sguardo inquieto del ragazzo, e
rivolgendosi a lui come per farlo contento propose:
-Se vuoi ancora uscire, puoi provare dalla porta sul retro-
Ivan scosse la testa frustrato e alzando gli occhi al cielo si distese supino
sul divano:
-Mi è passata la voglia-
Sputò fra i denti, quasi con rabbia, sebbene la colpa del suo nervosismo non
fosse da attribuirsi che alle chiacchiere della vicina.
Sentendo quelle parole Terence abbassò il volume al televisore e, scambiata
un’occhiata con il fratello, si rivolse ad Ivan:
-Allora ti va di cominciare a lavorare?-
L’altro in risposta emise solo un suono interrogativo, non capendo a cosa
si riferisse la domanda.
Come al solito fu Jeremy a prendere la parola, aiutando Ivan a capire:
-Dobbiamo iniziare a parlare: pianificare la copertura che useremo. Hai visto
quante domande ha fatto la signora Applewear: dobbiamo prepararci sulle
risposte da dare-
Ivan piegò le braccia dietro la testa, posizionandosi in modo tale da riuscire
tranquillamente a guardare entrambi i giovani in viso:
-Ad esempio quindi che ho diciassette anni… zio?-
Chiese il ragazzo con tranquillità, calcando volutamente sull’ultimo
appellativo.
Jeremy sorrise avvertendo la rabbia repressa dietro quella domanda,
contrariamente a Terence che invece gli rivolse quasi un ghigno.
-Sì, diciassette, ho capito. Non sbaglierò più, nipote-
Concluse l’altro provocandolo appositamente, ma Ivan cadde nella trappola
senza accorgersene:
-Non chiamarmi così! E ficcati bene in testa che non sono un bambino! Non puoi
dirmi cosa fare né quando andare a letto né altro! Tu… non puoi… e
basta! Sono stato chiaro?-
Era scattato in piedi nella foga della sfuriata e fu quando i due davanti a lui
annuirono sorridenti in contemporanea, che capì il tranello che gli aveva teso
Jeremy.
Tornò a sedersi con uno sbuffo contrariato, cercando di ignorare la vergogna
che minacciava di assalirlo: non voleva dargliela vinta, per niente al mondo.
-Stai meglio? Ho sempre detto che una sana sfuriata, migliora le cose-
Sollevò appena lo sguardo verso Jeremy, che continuò indifferente:
-Ora, tornando a noi: tu nipote, noi zii. Tu figlio di Amanda: figlio diciassettenne-
Ivan incontrò lo sguardo interrogativo dell’altro e annuì frettolosamente.
Sì, fino a quel punto c’era.
Continuarono così per ore: accordandosi persino sulle cose più insignificanti.
Al punto che Ivan arrivò a chiedersi se non fosse tutto un modo per conoscerlo
meglio.
Non ci si scervellò troppo, però: in fondo anche lui stava venendo a conoscenza
di tante cose. Informazioni che lo lasciarono basito: stupito dal fatto che
quei due riuscissero anche solo a parlarsi. A quanto pareva infatti i
fratellini erano esattamente l’opposto l’uno dell’altro, e
non solo fisicamente.
Se Jeremy era democratico, amante del gioco d’azzardo, vegetariano,
appassionato di scienze e di corse automobilistiche; Terence era repubblicano,
riflessivo, letterato, esperto di arte… di quelli che in definitiva
avrebbero tranquillamente potuto passare il loro tempo a lanciarsi continue
frecciatine, discutendo su ogni cosa.
Eppure, per quanto strano, fino a quel momento Ivan non li aveva mai sentiti
battibeccare, e anzi gli erano sempre sembrati molto solidali e uniti.
Del canto suo Ivan cercò di rivelare il meno possibile su di sé: giusto cose
del tipo che era allergico allo zenzero, che non sopportava i film romantici o
del suo odio per il football. Si astenne però dallo specificare il perché di
certe affermazioni, evadendo le loro domande.
Non era semplicemente ancora pronto ad aprirsi.
E loro lo capirono, non insistendo più di tanto.
Passarono poi ad altri argomenti, come il lavoro che Jeremy aveva già trovato
nell’officina del posto, mentre Terence aspettava di sapere se lo
avrebbero preso come capocuoco o semplice assistente nel ristorante più grande
che c’era, probabilmente anche l’unico.
Per quanto sembrasse impossibile, avevano fatto tutto nelle misere dodici ore
in cui lui era crollato: l’unica cosa ancora urgente da fare era la sua
iscrizione. Fu quella frase a far scattare Ivan ormai pressoché addormentato:
-Cosa?-
Quasi gridò, sgranando gli occhi in direzione dei due che giocavano a carte
accovacciati sul tappeto.
Jeremy ricambiò il suo sguardo con aria interrogativa, mentre Terence gli lanciò
un sorrisetto sardonico che riuscì soltanto a far inquietare maggiormente il
ragazzo.
-Devi andare a scuola, Ivan-
Un ululato ruppe il silenzio che si era creato in seguito a
quell’affermazione, risvegliando Ivan dalla sua sorpresa.
-Ma perché? Siamo a metà aprile, Jeremy! Fra poco più di un mese la scuola
chiude!-
Si lagnò sperando di averla vinta almeno in quella discussione.
Ma l’altro scosse la testa sorridendo. L’abbaiare energico di
un cane invase il salotto, entrando dalla finestra semi aperta che lasciava
filtrare una piacevole brezza quasi estiva.
-No, Ivan. Senti: la vita riprende. E qui più che mai dobbiamo sembrare
normali. Perciò andrai a scuola. Domattina ti accompagniamo noi e vediamo che
si può fare-
Ivan si mise a sedere, massaggiandosi le tempie, come faceva quando era
infastidito da qualcosa o particolarmente concentrato: e in quel momento stava
cercando un qualche modo per evitare di dover riprendere gli studi, tentando
nel frattempo di isolare l’abbaiare frenetico che continuava senza
accennare a smettere.
-Jeremy… non sono proprio nel mio periodo migliore. Non mi va di
chiudermi in una classe ogni mattina e…-
Jeremy poggiò le carte che aveva in mano per terra, mostrando così
all’avversario di aver vinto ancora una volta; poi si voltò verso il
ragazzo che ancora protestava:
-No. Andrai a scuola, punto. Non è così tragico il liceo, dai-
Fece per prendere le carte lanciate sgarbatamente da un Terence frustrato sul
tappeto e rimischiare il mazzo, quando gli sovvenne un’altra cosa:
-Ah, a proposito: tu comunque presta un po’ di attenzione in generale, mi
raccomando. Cioè cose del tipo non parlare troppo di te con chi non conosci,
non andartene sempre in giro da solo, tienici informati su qualunque risvolto
e…-
Ivan si alzò in piedi, avviandosi verso la finestra nella speranza che
chiudendola il latrare del cane sarebbe rimasto escluso fuori, ma invano. Dando
un pugno rabbioso al vetro, guardò Jeremy e con un sopracciglio inarcato
concluse il discorso per lui:
-… E non accettare mai caramelle dagli sconosciuti, vero mamma?-
Jeremy sorrise, divertito dalla sua frase. Terence invece annuì serio e
fissando Ivan negli occhi mormorò:
-Già: potrebbero essere pillole di cianuro-
Gli altri due si voltarono a guardarlo: Jeremy con fare biasimevole e Ivan
ancora indeciso se prendere o meno la sua frase come uno scherzo. Non si poteva
mai sapere con Terence…
Il giovane si alzò, soddisfatto dalla reazione ottenuta e si incamminò verso la
cucina, lasciando il fratello intento a mischiare le carte e Ivan con la testa
premuta contro il muro.
Gli stava per venire il mal di testa.
Se lo sentiva: come sentiva quell’odioso abbaiare.
Prese la decisione senza pensarci sopra due volte e in pochi passi raggiunse la
porta spalancandola di botto. Scese i pochi scalini quasi di corsa, gridando,
incurante del fatto che i vicini sentissero:
-Brutto sacco di pulci! Ti decidi a smetterla di rompere maledettamente
e…?!-
Ivan si era fermato, troncando la sua sfuriata immediatamente non appena aveva
messo piede in cortile: il cane che abbaiava era fermo ai piedi della quercia,
a pochi passi dal ragazzo.
Quando era apparso Ivan l’enorme pastore tedesco si era subito zittito,
smettendo di tirare il guinzaglio che lo teneva legato.
Il ragazzo inquadrò subito il proprietario della piccola mano bianca che
tentava inutilmente di tirare via il cane: nonostante fosse già buio, i
lampioni in strada rischiaravano abbastanza bene la scena.
Una ragazza abbastanza alta, esile, vestita con una semplice salopette di jeans
ed una magliettina celeste, fissava Ivan con i suoi occhioni azzurri spalancati
dalla sorpresa e anche un po’ dalla paura si accorse il ragazzo.
Sorrise subito cortese, sperando di poter rimediare alla pessima figura appena
fatta.
Continuò a studiare la ragazzina, notando che sebbene fosse alta, gli arrivava
appena alla spalla, spostò poi lo sguardo sui lunghi capelli lisci e biondi che
teneva legati in una coda di cavallo.
Sarebbe potuta essere davvero bella se solo si fosse curata un po’ di
più, pensò Ivan.
Ma poi si corresse fra sé e sé, notando le lentiggini che coprivano il visino
dolce ed abbronzato di lei: era bella anche così.
Si avvicinò di qualche passo, e dopo aver lanciato uno sguardo in tralice al
cane che con un guaito si mise a sedere, si rivolse a lei:
-Scusami. Non volevo gridare: è solo che il cane…-
Lei lo interruppe, facendogli segno di fermarsi con la mano e disse, a voce
tanto bassa che Ivan dovette sforzarsi per capirla bene:
-No no, non preoccuparti. Lui è Finster-
Spiegò indicando il cane, per poi continuare:
-Lo puoi chiamare anche Fin. Ho cercato di farlo smettere, ma c’è un
gatto sull’albero e Fin si è come imbestialito e finchè non sei uscito
tu…-
Ivan annuì, continuando a sorridere, sperando che la ragazza perdesse quella
sua aria spaurita: aveva un’aria così spaventosa?
Lei rispose al sorriso, mostrano i denti bianchi e perfetti. Strinse poi la
coda in una mano, iniziando a giocare nervosamente con i capelli: prendendoli e
lasciandoli con le dita.
Tirò quindi il cane per il guinzaglio e iniziò a retrocedere verso il
marciapiedi.
Ivan la guardò allontanarsi senza sapere bene cosa fare, alzò una mano in segno
di saluto e lei agitò la sua incamminandosi lungo la strada. Dopo pochi passi
si fermò, girandosi nuovamente verso il ragazzo e alzando un po’ la voce
per farsi sentire gli chiese:
-Senti, ti dispiacerebbe provare a far scendere di lì il gatto? Io… mi
sento in colpa: Fin lo avrà spaventato a morte-
Ivan annuì serio, sorprendendo persino sé stesso con quel gesto: la osservò
ancora un po’, mentre svoltava l’angolo, poi fece per tornare in
casa.
Sul primo scalino però si fermò, guardando la quercia con la coda
dell’occhio: doveva?
Ci pensò su per un po’, e in pochi passi tornò ai piedi
dell’albero. Individuò subito il gatto rosso, rannicchiato su un ramo,
per fortuna dei più bassi. Facendo leva con le braccia si sollevò lungo il
tronco, cercando di raggiungere l’animale.
Ma il gatto non sembrava minimamente interessato a essere preso: fissava Ivan
con un paio di occhi verdi, senza spostarsi di un millimetro. Il ragazzo cercò
di avvicinarglisi di più, mettendo un piede sul ramo alla sua destra, e
spostando la testa attraverso le foglie.
-Si chiama Zorba-
La voce giunta dal basso lo fece trasalire, rischiando di farlo anche cadere
data la posizione assai instabile in cui si trovava. Per fortuna riuscì ad
aggrapparsi saldamente al tronco, evitandosi così il capitombolo. Ivan guardò
con astio verso il basso, vedendo un ragazzo seduto sul prato sotto di lui.
Aveva i capelli ricci e castani, una corporature esile sebbene allenata, ed era
molto abbronzato, come tutti in quel paese, a quanto aveva potuto vedere Ivan.
-Mi hai fatto prendere un colpo-
Sibilò rivolto al ragazzino, che con aria innocente gli fece spallucce:
-Il gatto è mio: credevo di aiutarti-
Gli rispose a tono, prima di muovere le dita sul prato. Ivan osservò quel gesto
senza capire, poi sentì un fruscio alle sue spalle e si voltò rapido in
direzione del gatto. Ma Zorba non era più là.
Ivan riabbassò lo sguardo, per vedere il gattino accoccolato fra le braccia del
padrone.
Con un salto scese dall’albero, e lanciata un’occhiata di fuoco ai
due al suo fianco fece per andarsene. La voce del ragazzo lo fermò,
costringendolo a girarsi con uno sbuffo contrariato:
-Io sono Mattia, comunque. Abito qui di fronte-
Ivan annuì, indifferente a quella notizia. Ma il ragazzino, probabilmente
appena quattordicenne, non demorse, alzandosi in piedi e continuando a parlare:
-Tu sei Ivan, vero? Si parla già di te, sai? Ci vedremo sicuramente a scuola,
comunque, e volevo proporti un sacco di cose: sai com’è tu sei il nuovo
arrivato, lo straniero! Cioè, dico, è fantastico! Poi hai pure quell’aria
da cattivo ragazzo, tormentato anche, figurati: faremo una strage! Hai
intenzione di combinare qualcosa, vero? Perché…-
Ivan sorrise involontariamente davanti a quella fiumana di parole, ma verso la
fine iniziò a scuotere la testa in senso di diniego:
-No, Mattia: non ho intenzione di combinare niente. Mi dispiace se ti ho
deluso, ma credo me ne starò buono-
Mattia si girò un attimo verso casa sua, messo in allerta dalla luce nel
portico che si era accesa, per poi tornare a guardare rapido Ivan:
-Dici così ora: ma ne riparliamo fra tre giorni e vediamo se non hai cambiato
idea. Te lo dice uno che vive in questo mortorio da quattordici anni, fidati.
Ora vado, ci si vede-
Scappò a razzo, salutando appena Ivan con la mano.
Aveva indovinato l’età almeno, pensò il ragazzo, passandosi una mano fra
i capelli.
Quattordici anni in quel mortorio… sperò che Mattia si sbagliasse, e che
resistesse tranquillo molto più di tre giorni.
Ancora una volta fece dietro front per salire gli scalini, ma venne nuovamente
fermato.
Fu un dolore lancinante allo stomaco a bloccarlo sul gesto.
Una pressione penetrante fra le scapole, che con suo grande sconcerto vide gli
era stata provocata da un bastone: un randello ancora premuto nel punto
dolorante.
Ivan lanciò uno sguardo
astioso alla figura ferma al suo fianco.
Piegato in due per via del colpo ricevuto, non era ancora riuscito a vedere di
chi si trattasse.
Per qualche istante aveva quasi temuto potesse trattarsi della nonnina della
porta accanto, che per qualche motivo non del tutto chiaro, avevo deciso fosse
giusto dargliele di santa ragione.
Poi però dovette ricredersi, sentendo la voce che gli fece una domanda: era
roca, bassa, quasi soffocata, come di qualcuno reduce da una sbronza.
- Sei Ivan?-
Il ragazzo riuscì in quel momento a rimettersi in piedi, e studiò l’uomo
che aveva davanti: di pochi millimetri più basso di lui, pelato, con solo un
paio di corti baffetti a coprirgli il labbro superiore.
L’uomo lo fissava con astio, ed al tempo stesso aveva stampato in volto
un sorriso quasi sardonico: come se lo odiasse e fosse contentissimo di poter
finalmente infierire su di lui.
A confermare le supposizioni di Ivan, dopo meno di un minuto, il randello si
mosse di nuovo in direzione del ragazzo, colpendolo di struscio sul braccio.
Ivan era arretrato di scatto, non capendo appieno cosa stesse succedendo, non
ebbe il tempo di pensare ad altro che l’uomo parlò di nuovo,
ringhiandogli quasi contro:
- Rispondi, ragazzino!-
Ivan fece per ribattere, con le parole più secche e taglienti che gli venissero
sulla lingua, ma all’ultimo si bloccò, con la bocca semiaperta,
ricordando improvvisamente le raccomandazioni di Jeremy: “Attento a
quello che dici, e soprattutto a chi lo dici”… certo quel tizio non
gli sembrava una persona molto affidabile.
Il ragazzo si guardò rapido alle spalle, indeciso sul da farsi, frustato dal
fatto che i fratellini smettessero di essere onnipresenti proprio nella
situazione meno indicata. Sentì un movimento dietro di sé, e cercò di
proteggersi, prevenendo il nuovo colpo di randello, ma la botta non arrivò.
Ivan tornò a girarsi verso l’uomo, accorgendosi casualmente del riflesso
di luce sotto il suo collo: studiò meglio la scena, notando con sgomento la
figura di Terence alle spalle del suo assalitore, che teneva la lama di un
coltello ben ferma appena sotto il pomo di adamo dell’altro.
- Torna in casa, Ivan-
Il ragazzo spalancò ancora più gli occhi, colpito dal tono duro e minaccioso
dell’altro che non gli aveva mai sentito usare, quindi annuì
frettolosamente, girandosi e iniziando a salire gli scalini. Aprendo la porta
riuscì solo a vedere lo spostamento di fronde, dentro le quali probabilmente
erano spariti i due uomini, prima di venir tirato brutalmente per la manica da
Jeremy, che tutto sorridente gli chiese:
- Allora, la ragazzina chi era?-
Ivan con uno strattone deciso riuscì a liberare il braccio, per poi fermarsi in
mezzo al salotto, fissando scioccato l’espressione candidamente innocente
dell’altro:
- Cosa?! Ma… Dio mio! Uno sconosciuto mi assale, prendendomi a
randellate, chiedendo…-
Jeremy fece spallucce, con fare non curante, come se la cosa non fosse degna di
essere considerata:
- Sei stato bravo: non hai risposto impulsivamente, e per il resto oltre
qualche livido non rimarrà niente. Non hai risposto: la biondina?-
Ivan rimase inizialmente in silenzio, studiandolo stralunato, per poi
riprendere con maggiore ardore di prima, trattenendosi a stento dal cominciare
a gridare:
- Prendi in giro? No, dillo se è così! Terence stava per tagliare la gola a un
tizio sconosciuto e tu mi chiedi della biondina?!-
L’altro sorrise, sedendosi sul divano e scuotendo la testa, comprensivo:
- No, che non gli taglierà la gola. Al massimo ci si divertirà un po’:
stuzzicandolo, ma niente di più-
Il ragazzo crollò a sedere sulla poltrona, prendendosi la testa fra le mani, e
mormorando fra se e se frasi sconnesse. Jeremy nel frattempo rideva
sommessamente, divertito dall’aria sconvolta di Ivan.
Gli si avvicinò, e facendo leva sui talloni si piegò in modo da trovarsi alla
stessa altezza del volto del ragazzo. Quando questi alzò lo sguardo incontrando
il suo gli chiese con voce apprensiva:
- Ti ha fatto male?-
Ivan scosse la testa, leggermente sollevato dal fatto che l’altro
sembrava non voler più soprassedere sull’accaduto. Fece per chiedere
qualcosa ma Jeremy lo precedette:
- Non ti devi preoccupare. Ci siamo apposta noi, te l’ho già detto. Ora
perché non vai a dormire?-
Il ragazzo scattò improvvisamente in piedi, rischiando quasi di far perdere
l’equilibrio a Jeremy che si alzò di riflesso, imitando Ivan.
- No che non vado a letto! Ma che ti passa per la testa?! Ti sembra il momento
di dirmi di…-
Le aspre parole del giovane furono interrotte dal rumore della porta che si
apriva: si voltarono entrambi verso Terence che entrava sorridente, con il
coltello nella mano destra sporco di sangue.
Il giovane si avviò verso la cucina, ignorando i due fermi in prossimità delle
scale che lo fissavano. Aprì quindi il getto d’acqua nel lavandino e
prese a sciacquare la lama con cura.
Sentì distintamente il rumore di una sedia del tavolo che si spostava e quello
della porta che veniva chiusa sgarbatamente. Si voltò appena un po’, per
osservare gli altri che lo avevano seguito. Scambiò prima uno sguardo complice
con il fratello e poi, evitando di incontrare gli occhi perplessi di Ivan,
tornò a concentrarsi sul suo lavoro.
- Ti sei divertito, dì la verità-
A parlare era stato Jeremy, che in quel momento tratteneva a stento una risata:
aveva notato sul viso del fratello una strana aria felice, cosa che accadeva
solo quando c’era un po’ di movimento.
Terence gli sorrise di rimando, ammiccandogli, e mormorò divertito:
- Sì, giusto un pochino. Iniziavo ad annoiarmi, Jerry-
Jeremy del canto suo a quel punto non si trattenne più, scoppiando a ridere
apertamente:
- Non dirlo a me Terry! Mi ci è voluto uno sforzo enorme per non seguirti a
ruota quando sei uscito-
Ivan aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola.
Guardava scioccato i due continuare a sogghignare, scambiandosi mezze frasi che
provocavano maggiore ilarità.
Quando Terence si avvicinò a Jeremy, muovendo il coltello come ad imitare una
lotta immaginaria, e l’altro in risposta estrasse rapido un tagliacarte
dal calzino, non riuscì più a trattenersi:
- E basta! Ma che razza di gente siete?! Io… io uscirò di testa, lo so!
Voi… lo hai ucciso?-
Entrambi si fermarono al suo grido, voltandosi a guardarlo sorpresi. Ivan con
il viso tirato dall’inquietudine, se ne stava appoggiato allo stipite
della porta, muovendo ansiosamente le mani, incapace di rimanere fermo.
I fratelli si scambiarono uno sguardo, poi fu Jeremy a parlare:
- No che non lo ha ucciso, te l’ho detto già prima, Ivan-
Il ragazzo però non ne sembrava convinto: accennando con il capo al coltello
mormorò:
- E il sangue?-
Terence sorrise ambiguo prima di rispondere candidamente:
- Ci ho solo giocato un po’, ma era un falso allarme. Tranquillizzati
ragazzo, i cattivi devono ancora trovarci-
Se doveva essere un discorso di incoraggiamento, ci era riuscito ben poco, e a
farglielo notare fu il fratello che lo colpì violentemente nel fianco con una
gomitata. Scuotendo la testa con fare rammaricato si rivolse al ragazzo in
piedi di fronte a lui che lo fissava sconcertato:
- No, non ci fare caso Ivan. Lui scherza e…-
- Non scherzo e il ragazzo lo sa, Jeremy. Smettila di trattarlo come se non
fosse in grado di affrontare la cosa. Ne ha già passate abbastanza da poter
essere preso in considerazione non credi?-
Ivan sgranò ancora più gli occhi, prima perché non aveva mai sentito
l’altro parlare così tanto e poi perché si era appena reso conto di
essere l’oggetto della discussione.
- Proprio perché ne ha passate tante non credo ci sia bisogno di parlare già di
quello che potrebbe anche non succedere!-
- Non succedere? Ma a chi vuoi prendere in giro? Sai bene quanto me che è solo
questione di tempo. E se pensi che il ragazzo possa avere paura, bene, meglio
così: la paura fortifica e soprattutto rende prudenti, Jeremy-
- Sono passati meno di due giorni, Terence. Smettila di comportarti così, non
aiuti nessuno-
Terence stava per controbattere ancora, ma fu interrotto dalla voce di Ivan:
resa più roca dal disagio in cui si sentiva, e dallo sforzo che stava compiendo
per non cedere al terrore.
- Non ho paura-
Lo aveva detto a mezza voce, quasi non voleva nemmeno essere sentito. Era una
cosa che ci teneva a specificare, per quanto potesse essere falsa. Non gli
andava di essere messo da parte, e sebbene sembrasse strano persino a lui, in
quel caso si trovava d’accordo con il gelido Terence.
I due giovani tornarono a sedere al tavolo, ricomponendosi rapidamente: non
avevano certo creduto alle parole di Ivan, ma finsero non fosse successo
niente. Jeremy gli fece segno di prendere posto, sorridendogli calorosamente.
- Ci devi scusare, Iv. Ma non siamo abituati a trattare con… cioè
di solito siamo più… è la prima volta che ci capita una situazione del
genere: è stata una decisione del capo, quasi improvvisa. Naturalmente
non…-
- Posso prendere una pistola?-
Ivan lo aveva chiesto con aria spavalda, solo negli occhi vi si poteva
leggere l’inquietudine. Ci stava pensando da quella mattina, e la quasi
aggressione lo aveva convinto a chiederlo.
Anche se, in vista di un rifiuto, Ivan non si sarebbe certo fermato.
Jeremy era rimasto con la bocca leggermente aperta a quella domanda
inaspettata: aveva sentito bene?
- Vorresti una pistola?-
Chiese, accertandosi così di non essersi sbagliato, Ivan annuì deciso
continuando con condiscendenza a parlare:
- Sì, una qualunque è chiaro: una beretta, o una clock, non fa differenza-
- E dove… perché?-
Il ragazzo fece spallucce prima di rispondere:
- Ho visto l’arsenale nel mio armadio e, così, per sicurezza… non
si sa mai-
Jeremy annuì sconvolto: rivolse un occhiataccia al fratello che alzando gli
occhi al cielo spiegò:
- Ho riempito ogni angolo della casa, in caso di necessità così non avremo
problemi-
L’altro in risposta emise uno sbuffo infastidito per poi riprendere il
discorso:
- No! Niente armi! Non ce ne sarà bisogno, Ivan! Come te lo devo dire? Se inizi
ad assecondare le pazzie di quest’altro non ne usciremo vivi ti assicuro-
Bloccando con il palmo aperto la replica del fratello continuò imperterrito,
fermando così anche le proteste del ragazzo:
- Niente pistole. Punto. Ora vai a letto che è tardi-
- Non ho intenzione di…-
Le ultime parole gli vennero smorzate in gola da uno sbadiglio ed Ivan si
maledisse per quell’errore.
Jeremy infatti tutto sorridente accennò con la testa alle scale, porgendogli
allo stesso tempo una pasticca di sonnifero che Ivan, se anche contrariato e
frustrato, afferrò prontamente.
- Non prenderla tutta, altrimenti domani mattina nemmeno i cannoni ti
svegliano-
Era stato Terence a suggerirglielo, accendendosi una sigaretta e facendogli
ciao con la mano; Jeremy si unì a lui nel salutarlo, mimandogli con le labbra
un “Buona notte”
Ivan non rispose a nessuno dei due, innervosito sempre più da quella situazione
a dir poco tragicomica. Mentre si sdraiava vestito sul letto, però, e il
sonnifero cominciava a fare effetto, il suo ultimo pensiero fu tutt’altro
che rilassante: aveva un’inquietante sensazione.
Impressione che non riusciva proprio a scacciare.
Era sicuro dentro di sé che tutto doveva ancora iniziare.
*
Allora, grazie a tutti i coraggiosissimi
che sono arrivati a leggere fino a qui ^^
Un grazie enorme a chi segue, chi
preferisce e anche solo chi legge xD
Ma in particolare un bacione a chi
commenta: è grazie a voi se non mi fermo e continuo questa pazza storia **
Non so come farei senza di voi!! ^^
La voce l’aveva sentita: non aveva potuto farne a
meno.
Probabilmente non sarebbe comunque mai riuscito ad
ignorarla: si era pian piano insinuata nei suoi sogni, sconvolgendone l’andamento
caotico già di per sé. Non la riconobbe né capì da dove provenisse o perché lo
stesse torturando, la sentì però.
Era squillante, prorompente, invadente: terribilmente
fastidiosa.
Il cervello iniziò a funzionare in automatico, lasciando
che i pensieri venissero a galla.
Il primo di questi fu un’imprecazione.
Una bestemmia di quelle pesanti, che ti vergogni poi di
aver anche solo potuto pensare.
In quel momento però la preoccupazione non sfiorò
minimamente il ragazzo che era nel letto: con un movimento drastico e seccato
si girò, cercando di allontanarsi dal rumore.
Non vi riuscì purtroppo: sembrava che il molesto
schiamazzo non accennasse a diminuire.
Con un mugolio di protesta si allontanò ancora, tirandosi
le coperte fin sopra la testa e gettando via il cuscino, nella speranza di
riuscire a colpire il portare di guai che era sicuro non avrebbe goduto di
lunga vita. Ascoltò con piacere un gemito soffocato ed un tonfo, segno che il
cuscino aveva fatto il suo lavoro, la voce però dopo poco riprese più assidua
di prima:
- E dai Ivaaaan! -
Fu con un ringhio sommesso che il giovane si mise a
sedere, aprendo gli occhi che erano ridotti a due fessure sottili per la
rabbia: non ci si comportava in questo modo, non di mattina e certamente non
quando non era nemmeno riuscito a prendere ancora il caffè.
Non ci si comportava così: no, a meno che non si fosse
afflitti da manie suicida.
Chiunque quindi Ivan avrebbe visto, a breve si sarebbe
scontrato con qualcosa che era sicuramente più doloroso di un cuscino piumoso.
Uomo avvisato, mezzo salvato.
E a fottersi il fatto che non fosse stato avvisato in
realtà.
Forse per il residuo torpore del sonno non lo riconobbe
subito, quando poi riuscì ad inquadrarne per bene la figura, squadrando con
odio i capelli castani acconciati in un ammasso informe di ricci, le labbra del
ragazzo si strinsero quasi in uno spasmo mentre mimava a mezza voce un “
Tu! ” che esprimeva senza problemi tutto il disprezzo e la rabbia del
momento.
- F.U.O.R.I ! -
Lo aveva urlato, con tutto il fiato che i suoi polmoni
riuscivano a cacciare appena sveglio.
E non era poco.
A sentirlo furono tanti, primo fra tutti il malcapitato
che in fin dei conti se l’era cercata.
Poi arrivò alle orecchie di Jeremy, che sentendolo si
piegò un po’ su se stesso, stringendosi nelle spalle e socchiudendo gli
occhi.
Se lo aspettava ad essere sinceri, Terence per altro
glielo aveva anche detto.
Lui però se ne era infischiato altamente ed anche in quel
momento non è che la cosa lo interessasse più di tanto. Alzando gli occhi al
cielo tornò a concentrarsi sull’arma che teneva fra le mani, riprendendo
il lavoro di pulizia della canna da dove si era fermato come niente fosse.
Non si era perso la risatina soddisfatta del fratello,
poco lontano da lui, impegnato ai fornelli, solo aveva fatto finta di niente:
non aveva alcuna intenzione di dargli anche la più piccola soddisfazione.
Terence non sembrava della medesima opinione nel
frattempo: mentre con una mano stringeva l’elastico con cui aveva
raccolto i capelli, con l’altra aveva preso ad agitare una spatola nella
sua direzione, continuando sempre a sghignazzare compiaciuto.
- Devi ammetterlo su: chi aveva ragione ? -
- Non si sono ancora sentite urla di dolore -
Jeremy annuì come ad auto convincersene: non lo stava ancora
malmenando.
Proprio mentre se lo ripeteva un tonfo fortissimo giunse
dal piano superiore, poi sentì il fracasso di qualcosa che veniva scaraventato
contro un muro, quindi per concludere un ultimo colpo sordo.
La pistola quasi gli scivolò dalle mani per la sorpresa:
la posò rapidamente in una tasca dei pantaloni, alzando quindi lo sguardo per
incontrare quello del fratello.
- Dici che… -
Terence scosse la testa, girandosi verso il piano di
cottura e dandogli le spalle, concludendo la frase per lui in tono decisamente
divertito:
- Ucciso ? No, non credo. Se sali ora capace che lo salvi
ancora -
Jeremy scattò in piedi incredulo, avviandosi a passo
svelto verso le scale.
Salì la prima rampa incerto, indeciso su come affrontare
la situazione.
Fu a quel punto che notò la sagoma del ragazzino
accasciata sul parchè, con le spalle al muro e un abat-jour in pezzi affianco.
Spalancò gli occhi facendo gli ultimi scalini a due a due
e raggiungendo Mattia:
- Dio santo! Stai bene !? -
Si accovacciò di fronte al ragazzo in preda
all’ansia, studiandone la figura con sguardo colpevole.
L’altro ricambiò lo sguardo sorridente, annuendo
come se niente fosse:
- Certo! Non si preoccupi Jeremy sto benissimo. Adoro
Ivan! La mattina è intrattabile quasi quanto mio padre -
Jeremy scosse la testa e alzandosi gli porse una mano per
aiutarlo a fare lo stesso.
- Quasi !? -
Mattia annuì convinto prima di rispondere, sicuro di sé.
- Naturalmente: se avessi osato svegliare mio padre come
ho fatto con Iv. probabilmente ora non respirerei più -
Lo disse come fosse la cosa più naturale del mondo,
incurante del fatto che dall’interno della camera non provenissero altri
rumori che ante e cassetti sbattuti con forza brutale.
Quando poi giunse chiaramente anche un ringhio sommesso,
seguito da una sequela impressionante di imprecazioni, il ragazzo smise di
sorridere stringendo un po’ gli occhi e atteggiandosi in
un’espressione impensierita mentre si accarezzava con la mano dietro la
testa.
- Forse non dovrei dare per certo nemmeno che una volta uscito
mi lascerà vivo, vero ? -
Lo chiese con sincera curiosità, accennando a Jeremy con
il capo ed aspettando una qualche risposta, rassicurante o meno.
L’altro gli sorrise prendendolo a braccetto e
spingendolo giù per le scale, mormorando a mezza voce in modo che sentisse solo
lui:
- Farò di tutto perché ti lasci in vita, non preoccuparti
-
Ebbero appena il tempo di entrare in cucina e prendere
posto al tavolo che al piano di sopra una porta venne aperta e chiusa
violentemente, quindi dei passi lenti e irati risuonarono distintamente.
La risatina sommessa di Terence era l’unico altro
rumore.
- Meritereste di morire tutti. In modo atroce. Lentamente.
Dolorosamente. Il più possibile. Non vi assicuro che sarà per mano mia ma non
crediate che non lo desideri immensamente -
Ivan si era affacciato in cucina, poggiandosi allo stipite
della porta con le spalle e squadrando i tre uomini con reale disprezzo ed
odio. Che volesse o meno essere una minaccia quella che aveva appena
pronunciato, era stata comunque paurosamente inquietante.
Tre paia d’occhi erano puntati su di lui: su quel
ragazzo alto in jeans scuri e con una camicia nera che sembrava il demonio in
persona tanto i suoi occhi lanciavano saette.
Ivan si passò una mano sul viso, soffermandosi con il
palmo sulla fronte per massaggiare le tempie.
Fece quindi scorrere le dita fra i capelli e reclinò la
testa all’indietro;
Non si sentiva più un fiato, neanche Terence ridacchiava.
Fu sempre il ragazzo a parlare, con voce meno adirata questa volta ma ancora
altamente contrariata, e a rompere quel silenzio assordante:
- Forse non lo sapevate e per questo ci tengo a dirlo,
così che non ricapiti più una cosa del genere. E’ per il bene di tutti,
vi assicuro: non venite più a svegliarmi. Mai più. Mai. E’ importante che sia chiaro: ne va della salute fisica
e mentale di tutti. Non sopporto che mi si svegli, men che meno come ha fatto
Seth qui. Non va. Davvero. Non so come sia possibile che tu sia ancora vivo,
Seth. Poco ci è mancato che ti defenestrassi… -
- Caffè ? -
Terence si era avvicinato di soppiatto, piantandogli una
tazza enorme e fumante sotto il naso.
Ivan si interruppe, guardando alternativamente la tazza e
Terence, poi senza dire altro, con una semplice alzata di spalle afferrò la
tazza.
Cominciò a sorseggiarlo lentamente, mentre i tratti del
suo viso sembravano addolcirsi attimo dopo attimo.
Sempre bevendo si allontanò piano, aggirandosi per la
casa.
- Abbiamo scoperto come placare il demonio, allora -
Jeremy sogghignò, rispondendo prontamente all’espressione
del fratello che annuiva soddisfatto.
Mattia aveva gli occhi ormai costantemente spalancati:
fissava prima uno poi l’altro abitante di quella casa e non riusciva a
nascondere le proprie emozioni ed impressioni che ondeggiavano dalla sorpresa alla
gioia.
Fece per dire qualcosa ma venne interrotto da un lamento
soffocato.
Si voltò trovandosi di fronte un Ivan nuovamente alterato.
Osservò con rimpianto la tazza già vuota e dopo aver lanciato un’occhiata
veloce alla caffettiera purtroppo vuota, si preparò al peggio.
- Cos’è ?! -
Dicendolo sollevò con gesto stizzito uno zainetto rosso e
nero.
Lanciò uno sguardo allo zaino, guardandolo con aria
schifata, per poi tornare a puntare gli occhi su Jeremy e Terence.
- Non sono milanista! -
Mormorò a denti stretti con tono accusatorio, continuando
a tenerlo in alto e ben lontano.
- Iv… è per la scuola -
Jeremy lo aveva detto con naturalezza, come se la cosa
fosse ovvia e banale ma Ivan scosse la testa vivacemente, perdendo però
l’aria infuriata, sostituita velocemente da qualcosa che sembrava un
misto fra disperazione e rassegnazione.
- Oggi è lunedì -
Non era una domanda e nemmeno un’affermazione.
Era una semplice e pura constatazione.
- Sì -
Ivan abbassò lo zaino, lasciandolo cadere ai suoi piedi e
facendo una faccia da condannato a morte.
- Non ci credo… devo andare a scuola ? -
Quasi non si era sentita la domanda tanto la voce era
uscita esile e provata da quelle labbra che sembravano tendere verso il basso
tanta l’angoscia che in quel momento lo affliggeva.
Jeremy e Terence annuirono in contemporanea, con
espressioni serie che non ammettevano repliche.
- Perché tu e Mattia non vi avviate ? Noi vi seguiamo fra
un po’ e finiamo di accordarci con il preside, anche se ormai è già tutto
sistemato: non ci saranno problemi di alcun tipo -
Ivan annuì svogliatamente, afferrando lo zaino e
lanciandoselo in spalla con furia ed al tempo stesso in un movimento pieno di
eleganza innaturale.
Senza salutare si avviò fuori dalla cucina dopo aver
lasciato la tazza sul tavolo e con passo spedito uscì di casa.
Mattia aveva assistito a tutta la scena in silenzio e
mentre scattando in piedi per raggiungerlo salutava i due ragazzi,
l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che Ivan sarebbe andato a scuola:
la cosa lo entusiasmava oltre modo in maniera eccessiva, eppure non riusciva ad
evitarlo.
- E’ fantastico! -
Ivan non gli rispose, osservandolo con indifferenza mentre
Mattia adattava il passo a quello dell’altro ragazzo.
Il ragazzino non si scompose, mantenendo invariata la sua
euforia.
Fece per riprendere il discorso quando gli tornò in mente
qualcosa che prima gli era sfuggito:
- Seth ? -
Ivan si voltò appena, non capendo dove volesse andare a
parare e il ragazzino annuendo continuò con voce squillante e gesticolando al
contempo con le mani:
- Mi hai chiamato Seth! Più volte! Perché ? -
Ivan sorrise con aria divertita e saccente prima di
rispondere:
- Mai visto “ The O.C. ? ” -
Mattia strinse gli occhi, faticando a stargli dietro nel
ragionamento, ma Ivan continuò imperterrito alzando gli occhi al cielo e
sbottonando i primi bottoni della camicia.
- Ecco, tu sei Seth. Ragazzino, bamboccio, ingenuo,
atipico, frustrato dalla vita noiosa e monotona che si ritrova. Per quanto la
cosa sia impressionante devo aggiungere che sei anche fastidioso e rompipalle
quanto lui -
Mattia iniziò quasi a saltellare al fianco di Ivan,
costringendolo a fermarsi e girarsi per guardarlo in viso.
Sprizzava gioia ed entusiasmo da tutti i pori e quando
parlò sembrò che faticasse a non urlare come un pazzo:
- Sì, sì, sì! Sono Seth! Allora tu sei Ryan! -
- Cosa ? -
Mattia prese a fare piccoli saltelli, tenendo le mani
sulle spalle del ragazzo che aveva di fronte e fissandolo con occhi luccicanti.
Sorrideva candidamente, annuì senza fermarsi:
- Certo! Tu sei lo straniero! Diventeremo amici per la
pelle e combinerai tantissimi guai che poi però non saranno guai! Cioè…
niente di eccessivamente grave, che risolveremo e che però movimenterà comunque
le cose! Sarà fantastico! Assolutamente eccezionale e noi… -
Ivan gli piantò saldamente una mano sul capo, spingendolo
e trattenendolo per terra fermo.
Scosse la testa. Una sola volta.
In modo perentorio e incorruttibile.
- NO -
Mattia provò a ribattere ma Ivan non glielo permise: prese
un bel respiro e continuò.
- Credevo di essermi già spiegato: tu sarai anche una
piaga come Seth ma io non sono e non sarò Ryan. Non ho intenzione di combinare
un bel niente. Ribadisco che me ne starò buono per un po’ e al massimo
quello che potrà succedere sarà il mio suicidio -
La faccia di Mattia assunse per qualche istante
un’espressione delusa e risentita, poi Ivan mormorò qualcosa a voce
bassa, come fosse una maledizione e Mattia tornò a sorridere.
“ Ah no, quasi dimenticavo: o il mio suicidio o il
tuo omicidio, perdonami ”
- Sei fortissimo, lo sai ? -
Ivan lo guardò, temendo seriamente per la sanità mentale
del ragazzo che senza problemi continuava a trasudare allegria pura.
- Devi avere qualche problema secondo me -
Mattia ignorò la frase dell’altro prendendo a
camminare e trascinandoselo dietro per la manica.
- Siamo quasi arrivati ! -
Ivan socchiuse gli occhi non capendo dove vedesse la
scuola il ragazzino, così con voce carica di sconforto chiese:
- Dove ? Non vedo ragazzi -
Mattia allungò il braccio, indicando dritto di fronte a
sé.
Ivan seguì la direzione del dito con lo sguardo e vedendo
finalmente quella che era la scuola sentì un tuffo al cuore.
Cercando di capacitarsi di non star ancor dormendo sbattè
più volte le palpebre e poi con un gemito soffocato pensò fra se e se che forse
un Ryan Atwood sarebbe servito per davvero.
Ivan lanciò uno sguardo sconvolto al piccolo cowboy che lo
aveva appena superato.
Cercò di dire qualcosa, ma la cosa gli risultava alquanto
difficile.
Quando però il piccolo cowboy tornò sui suoi passi,
fermandosi sul ciglio della strada per sparare pallini gialli contro un indiano
poco lontano, gli tornò improvvisamente il dono della parola. Con voce atona ed
incredula mormorò, rivolto a nessuno in particolare:
- Sembra un film horror -
Mattia che gli camminava affianco in religioso silenzio,
timoroso della possibile reazione del compagno, sentendo quelle parole si
illuminò in volto.
Sollevato e divertito rispose:
- No, dai, horror no… più fantascientifico se vuoi -
Ivan si fermò, costringendo l’altro ad imitarlo. Lo
squadrò, nero in volto:
- Mattia, non prendermi in giro. Siamo in maggio, o
sbaglio ? -
Il ragazzino non disse niente, spaventato dal tono
dell’altro e si limitò ad annuire.
Ivan annuì, poi fingendo di riflettere continuò:
- Sbaglio io, o i travestimenti normalmente si relegano ad
ottobre ? -
Mattia, non sapendo bene come comportarsi, fece per dire
qualcosa. Ivan fu più veloce:
- Sempre se non sbaglio, Halloween infatti è il 31
ottobre, giusto ? Mi spieghi come mai allora, qui sono tutti in costume ? No,
perché non mi sembra di essermi fumato niente stamattina e … -
Mattia lo interruppe, portando le mani davanti a sé con il
fare di chi vuole risolvere tutto:
- Avevo avvertito tuo zio che forse era meglio farti
cominciare domani, ma lui ha insistito dicendo che invece ti saresti
divertito… che così ti potevi distrarre… -
Ivan scosse la testa, più confuso di prima:
- Vi siete travestiti per me ? -
Mattia sgranò gli occhi, scuotendo rapido la testa:
- No, certo che no! Che hai capito ? -
Ivan sbuffò, portandosi una mano alla fronte e lanciando
un’occhiata minacciosa al ragazzino:
- Senti, non sono io che non mi so spiegare. Ti decidi a
parlare chiaro ?! -
- Allora… -
Mattia annuì ancora, prendendo un bel respiro e scrutando
pensieroso attorno a sé:
- Non c’è niente da spiegare, ecco! Solo oggi ci si
poteva presentare in costume. So che sembra assurdo, ma davvero da noi non è
strano: ci sono anzi cose decisamente più strambe e … -
Ivan riprese a camminare, smettendo di ascoltarlo e
borbottando sottovoce:
- Quindi voi così, avete deciso di ripeter Halloween ? -
Il ragazzino, di nuovo al suo fianco tutto sorridente, gli
fece segno di sì.
Ivan scosse la testa, sconfortato, continuando a camminare
in direzione del cortile della scuola.
- E i costumi sono estesi a … ? -
Mattia non rispose subito, non capendo la domanda. Quando
parlò lo fece con titubanza.
- Tutte le scuole, se è questo che vuoi sapere -
Ivan ridacchiò, aspettandosi quella risposta. Si girò
appena verso di lui, squadrandolo sovrappensiero, prima di bisbigliare
incredulo:
- E non dirmi che anche tu… -
A fargli morire le parole in bocca fu però il gesto che
Mattia stava compiendo: aveva infilato una mano nella cartella a tracolla,
tirandone fuori una mascherina verde che fece per indossare.
Ivan lo bloccò, afferrandogli di slancio la mano:
- Starai scherzando -
Mattia sgranò gli occhi, fissandolo sospettoso ed agitato:
- Bè, no, veramente. La vorrei mettere. -
Ivan basito gli liberò la mano, portandosela sulla bocca a
coprire un sorriso.
Il ragazzino leggermente risentito indossò la maschera,
tornando poi a frugare nella borsa.
Ne tirò fuori un cappello da Peter Pan, con tanto di piuma
colorata, che porse ad Ivan.
Il ragazzo non prese il cappello, osservandolo con le
sopracciglia inarcate.
Mattia fece spallucce, porgendoglielo nuovamente:
- Jeremy me l’ha consigliato: dice che per te è
perfetto -
Ivan aveva ripreso a camminare, attraversando il
cancelletto d’entrata, e sentendo le ultime parole del ragazzino non
riuscì più a trattenere le risate.
Cominciò a sghignazzare selvaggiamente, piegato in due
dalle risa. Non poteva essere!
Doveva essere assolutamente uno scherzo, non c’erano
altre spiegazioni.
Quando, con le lacrime agli occhi, riuscì a tornare in posizione
eretta, fermò uno sguardo su Mattia che lo fissava senza capire.
Allungò un braccio, afferrando il cappello e mettendolo
nello zaino, sempre sotto gli occhi increduli dell’altro.
Con voce ancora sconvolta dal ridere mormorò:
- Non credere che lo metterò: morirei piuttosto. Però lo
prendo lo stesso… a casa provvederò a farlo ingoiare a Jeremy -
Detto questo si decise finalmente a guardarsi attorno,
smettendo di focalizzare la sua attenzione unicamente su Mattia.
Con sorpresa si accorse di trovarsi già nel cortile della
scuola: non si era nemmeno accorto di esserci arrivato, eppure la frotta di
ragazzi che lo attorniava non lasciava altre spiegazioni.
Girando piano su di sé, lasciò vagare lo sguardo su tutti
quanti: per quanto potessero essere decisamente in minoranza numerica rispetto
alla sua vecchia scuola, attiravano decisamente molto di più
l’attenzione. Non c’erano gruppi, o almeno non in quel momento: se
ne stavano tutti sparpagliati, senza alcun ordine, chi nel giardino chi già sulle
scale.
La cosa più sconvolgente era però che davvero erano
travestiti: Ivan fino all’ultimo aveva sperato in uno scherzo, ma a
quanto pareva si sbagliava.
Si lasciò distrarre da quell’eterogeneità:
c’erano fate, eroi, vampiri, mostri…
Si accorse di star trattenendo il respiro solo quando
sentì i colpetti di Mattia sul braccio che richiamavano la sua attenzione.
Con aria ancora persa lo guardò interrogativo:
- Che c’è ? -
- Vuoi scappare ? –
Ivan inarcò ancora il sopracciglio, nel gesto che Mattia
aveva già imparato a temere.
- No, perché… mi sembri sconvolto e non vorrei
vederti scappare a gambe levate -
Ivan accennò quello che con un po’ di fantasia
poteva essere visto come sorriso.
- No, credo di no. Penso rimarrò qui. Siete strani forti,
lo sai ? -
Mattia sorrise, ridacchiando cauto.
- Già. E questo è ancora niente. Entriamo ? -
Ivan seguì il movimento del capo di Mattia, individuando
il portone di ingresso.
Annuì, muovendo piano i primi passi su per le scale.
Era ancora sul terzo scalino, quando sentì una risata
dietro di sé. Fece per voltarsi, incuriosito, ma Mattia gli fece segno di no.
- Andiamo dai, non ci fare caso -
Ivan sollevò ancora il piede, deciso a fare come diceva il
ragazzino, ma la risata eruppe di nuovo.
Si voltò questa volta, fermando immediatamente lo sguardo
su tre o quattro ragazzi.
Erano poco lontani, fermi ai piedi delle scale, divertiti
da qualcosa e scossi dalle risa.
Quando il ragazzo al centro lo indicò con un cenno del
capo, alimentando le risate, si accorse di essere proprio lui quel qualcosa di
divertente.
Mattia non appena si rese conto che Ivan aveva capito,
afferrò saldamente una parte dello zaino del ragazzo, tirandolo verso
l’alto.
- Iv. saliamo dai! Non farci caso -
Ivan lo ascoltò, annuendo piano e gli sorrise candido.
- Mattia, ma ti pare che me la prendo ? Non mi ascolti
allora quando parlo: ti ho detto che ho intenzione di starmene buono -
Il ragazzino avrebbe dovuto sentirsi rinfrancato e
rassicurato da quelle parole, eppure ancora non era tranquillo.
Continuò a tirare l’altro, leggermente preoccupato
dal fatto che non si muovesse.
Ivan studiava, seriamente interessato, il ragazzo che lo
aveva indicato: indossava un mantello nero, una maglietta a mezze maniche con
la S di Superman e in testa, per concludere, teneva quella che sembrava tanto
un’aureola.
Scuotendo la testa, il ragazzo riprese a salire le scale,
divertito dall’assurdità della scena.
Mattia, sollevato, lo seguì. Non aveva fatto pochi
scalini, però, che vide Ivan fermarsi ancora.
- Il nuovo arrivato, ragazzi. Non lo vogliamo accogliere
come si deve ? -
Ivan sentendosi chiamato in causa tornò a girarsi: a
parlare era stato lo stesso ragazzo che prima stava osservando.
Scese uno scalino, fermando gli occhi su di lui.
- Hai qualche problema ? -
Lo aveva chiesto con voce tagliente: un tono che fece
rabbrividire Mattia.
Il ragazzo ai piedi della scala scosse la testa,
sorridendo beffardo.
- No, cosa te lo fa pensare? Piuttosto tu, dì un po’
, cos’è che fai ? Il becchino, forse ? -
Ivan rispose al sorriso dell’altro, scendendo un
altro scalino.
Il becchino…
Guardò i suoi vestiti: il jeans e la camicia nera,
sorridendo.
- Battute così penose non le sentivo da tempo... ehm, tu
saresti ? -
L’altro smise di sorridere e fece per ribattere, ma
Ivan, ormai di fronte a lui, non gliene diede il tempo: quando parlò lo fece
con cattiveria, seriamente infastidito.
- Lascia che ti aiuti. Ho come l’impressione che il
tuo povero neurone sia già troppo affaticato. Vediamo: dovresti essere un misto
fra Zorro, Superman e un tenero angioletto, vero ? Cos’ è stamattina non
sapevi scegliere che costume mettere ? Perché, quello che indossi, se mi
permetti, non è propriamente esatto e anche una scimmia se ne accorerebbe. Ma
no, perdonami, forse la scimmia ha più cervello di te, povero cerebroleso.
Potrei anche azzard… -
Le parole furono troncate ad Ivan dal violento tiro che
Mattia diede al suo zaino.
Con rabbia il ragazzo abbassò lo sguardo sull’altro,
furioso per l’interruzione.
- Non avevi detto che volevi startene buono, cazzo ? E che
fai ti metti ad insultare… -
- Scusatemi –
Sia Mattia che Ivan alzarono il viso, distratti
dall’intervento esterno: era sempre lo stesso ragazzo, il cerebroleso.
Aveva un’aria tutt’altro che amichevole e,
come notò Ivan con rimpianto, non ce l’avevano neanche i suoi amici.
Ivan sospirò, preparandosi ad ascoltarlo e ricordando i
propri propositi: non poteva attaccare briga, si era promesso di starsene
buono.
Con un rapido controllo si accorse anche dei tantissimi
occhi puntati su di sé e, infastidito, fece per riprendere a salire le scale.
Si sentì però afferrare di nuovo lo zaino e girandosi,
trovò a mantenerlo questa volta, il cerebroleso, tutto sorridente:
- Non ho finito -
Ivan assottigliò gli occhi, fissandolo con aria superiore.
- Lascia il mio zaino -
- No –
Ivan squadrò sorpreso l’altro: sembrava per niente
intimorito e continuava a trattenerlo sorridendo tranquillo.
A quel punto anche Ivan sorrise, contento per qualche
assurdo motivo, che l’altro gli avesse tenuto testa.
Solo in seguito capì che ne era contento perché in quel
modo gli aveva dato un pretesto.
Un pretesto per infrangere sul nascere la sua promessa.
Sempre sorridendo Ivan strinse le dita.
Sorrideva ancora quando centrò con un potente diritto la
mascella dell’altro.
Ivan
annuì, muovendosi sulla sedia per sistemarsi più comodamente.
In fin
dei conti le aveva già sentite quelle cose.
Assottigliò
lo sguardo, fissando truce l’uomo che aveva di fronte: era dall’altra
parte della scrivania e, con evidente sforzo, non aveva smesso di parlare un
attimo da oltre dieci minuti.
- Non mi
sarei mai aspettato un simile comportamento nella mia scuola. Come vi è saltato
in mente ? Proprio voi, poi! Signor Carter, infastidire il nuovo studente ?
Perché mai ? -
Ivan
voltò appena la testa, senza darlo a vedere, per lanciare uno sguardo al
ragazzo seduto poco lontano da lui: teneva lo sguardo basso, con un dito
arrotolava un angolo del mantello e agitava nervoso un piede.
Nonostante
questo, Ivan non faticò a riconoscere un accenno di sorriso sulle sue labbra.
Un
sorrisetto piccolo, quasi invisibile, eppure ben presente.
Era un
sorriso divertito, allegro, svagato, anche soddisfatto volendo.
Un
sorriso che si trovava in contrasto con l’aureola che gli fluttuava sulla
testa.
Ivan
smise di osservarlo, riportando invece lo sguardo sul preside: con due dita si
deterse qualche goccia di sudore dalla fronte, poi, dopo aver passato la mano
lungo tutta la testa pelata, riprese il discorso.
- Come è
possibile, signor Carter ? Lei, il nostro miglior studente! Io, davvero, non
riesco a crederci. Non che il suo comportamento, signor Evans, sia stato
migliore! -
Ivan si
era distratto e ci mise un po’ a ricordarsi che Evans era lui: non
era il suo cognome in fin dei conti.
A quanto
pareva però, lì tutti lo conoscevano così: Ivan Evans.
Opera
degli Esposito, ne era sicuro.
Non
appena riportò lo sguardo negli occhietti piccoli e neri del preside, questi
continuò la sua filippica interminabile:
-
Colpire un altro studente, solo per una provocazione! No, no, no! Spero
vivamente che non si ripeta mai più. Lo spero per entrambi. Quand’ è
stata poi, l’ultima volta che è successa una cosa del genere qui ? Nella
mia scuola ? Non riesco nemmeno a ricordarlo, guardate! -
Scosse
vivacemente la testa, con aria sconfortata e delusa, guardando entrambi i
ragazzi con occhi rimproveranti.
Ivan si
trattenne a stento dal sorridere, stava per cedere all’impulso, quando
sentì un sussurro.
-
L’ultima volta è stata tre giorni fa, prima del week-end -
Con la
coda dell’occhio Ivan si accorse dello spostamento avuto
dall’altro: aveva mosso la sedia, avvicinandola alla sua e ora se ne
stava leggermente inclinato verso di lui, il viso poggiato sul palmo aperto.
Sorrideva ancora, questa volta complice, dopo aver parlato.
Il
preside non aveva sentito, infatti, con le labbra corrucciate, continuò
imperterrito:
- Se non
fosse intervenuto il professor Shellet a dividervi, non oso immaginare cosa
avreste potuto combinare, tutti e due! Due teste calde, ecco cosa siete! -
Al nome
del professore, ecco giungere un altro bisbiglio:
-
L’uomo con l’ascia in testa -
Ivan
sorrise, in modo impercettibile, alla delucidazione che l’altro gli aveva
dato.
Sì, ora
se lo era ricordato.
Ci pensò
un attimo e lo inquadrò. Aveva davvero, un’ascia in testa: l’ ascia
che aveva colpito con un calcio mentre tentava di fermarlo.
- Io
davvero non so più cosa pensare: se anche il mio miglior studente mi
tradisce, deludendomi in questo modo… rischio di impazzire! -
Ivan
annuì, fingendo di ascoltarlo, quando invece tutti i suoi pensieri erano
incentrati su una frase ripetuta diverse volte dal preside: com’è che
aveva detto ? Il mio miglio studente ?!
No, forse
aveva capito male: poteva mai essere ?
Il
cerebroleso poteva davvero essere il miglio studente di quella scuola ?
Se fosse
stato vero, le spiegazioni erano due: o il livello degli altri studenti si
avvicinava paurosamente a quello dei lombrichi, o era vero che
l’apparenza inganna.
Perché
ad Ivan quel giovane con i costumi spaiati, l’impressione di genio, non
gliela dava proprio.
Sospirando
iniziò a chiedersi se l’idea di alzarsi ed uscire con un salto dalla
finestra…
- Signor
Evans! Mi sta ascoltando ?! -
Ivan
sobbalzò sulla sedia, incontrando controvoglia il viso accaldato ed irato
dell’uomo.
Negò con
il capo, fissando gli occhi nei suoi.
- No,
signor preside, mi scusi. Se però fosse così gentile da togliersi il naso,
forse riuscirei a focalizzare meglio la mia attenzione su di lei -
Dopo
aver parlato, Ivan si sentì subito meglio, sollevato per così dire.
Divertito,
si accorse di come il suo vicino stesse tossendo, piegato in due, in un vano e
fiacco tentativo di trattenere le risate.
Incontrò
il suo sguardo esilarato e fece spallucce.
Se
bastava così poco a fare scalpore da quelle parti…
Il
preside sbiancò, ascoltando Ivan e subito dopo si ricolorò di un rosso acceso.
Un rosso
quasi pari a quello del naso da pagliaccio che portava.
Gli
stava bene in fondo: era perfettamente azzeccato. Con la pelata infatti e il
viso rotondo, lo faceva sembrare davvero un pagliaccio.
Era pur
vero però, che non poteva pretendere l’attenzione di Ivan con quello
indosso.
L’uomo
sbuffò, ignorando il divertimento del giovane Carter e rivolgendosi ad Ivan:
- Signor
Evans, lei… tutti e due… -
Scosse
la testa, chiudendo per un attimo gli occhi.
Quando
li riaprì, Ivan credette di vederci una punta di divertimento.
- Cortile
laterale. Dovete liberarlo, tutto. Non muovetevi di là finché non avrete
concluso -
Detto
questo, in onore dei migliori film, li congedò facendo ruotare la poltrona e
dandogli le spalle. Ivan rimase immobile per la sorpresa.
Quando
si sentì toccare la spalla non reagì male, limitandosi a sollevare lo sguardo
sull’altro ragazzo che, già in piedi, gli faceva cenno di alzarsi con il
capo.
Ivan
ubbidì, seguendolo in silenzio fuori dall’ufficio, quando questi ebbe
chiuso la porta ridacchiò, poggiando la schiena contro il muro:
- Ma fa
sempre così il pagliacciucolo ? -
L’altro
ragazzo sorrise, cominciando a camminare lungo il corridoio.
-
Purtroppo sì. E’ buono però: il tipo da “ can che abbaia non morde
”. Si lamenta e strilla, ma poi non prende mai veri provvedimenti. Al
massimo punizioni, come a noi -
Ivan
sollevò le sopracciglia, seguendo l’altro.
- E tu
lo sai perché a te capita spesso ? -
Lo aveva
chiesto con ironia, sicuro che non fosse così. L’altro però lo sorprese
ancora, quando per risposta mosse la testa in segno di affermazione.
Meravigliato
Ivan continuò a camminargli dietro, superando le porte delle classi, imboccando
un corridoio dopo l’altro.
Era
tutto rigorosamente bianco, come il resto della città del resto.
Si
sentiva quasi perso in quel luogo così… immacolato.
Lui:
nero dentro e fuori, si sentiva esattamente fuori posto.
Distratto,
non si accorse che avevano raggiunto una porta a vetri né che l’altro
l’aveva appena aperta.
Non vide
gli scalini, perciò, e finì bello che dritto contro la schiena di Zorro.
Finirono
tutti e due per terra, uno affianco all’altro.
Ad un
primo momento di silenzio attonito, seguì uno scoppio di risa improvviso,
proveniente dai due.
Ivan si
alzò per primo, porgendo una mano all’altro.
- Scusa -
Lo
mormorò soltanto, con un residuo di risa nella voce.
- Di
niente -
Ivan
sorrise, passandosi una mano sulle ginocchia per togliere il verde appena
preso: erano finiti sull’erba, notò con sorpresa.
Si
guardò attorno, lanciando occhiate incredule a tutto il verde che li circondava:
dal prato agli alberi. Tutto verde.
Ripensò
a San Francisco: lì nemmeno nei parchi si trovava quel verde, figurarsi in un
cortile di scuola!
Scosse
la testa, seguendo l’altro verso il campo che si trovava poco lontano.
Una gran
parte di terreno era libera dal prato, infatti, pronta ad ospitare quello che
era un bel campo, utilizzabile tanto per la pallacanestro quanto per il
calcio.
-
Cos’è che dovremmo far… -
Non finì
di porre la domanda, accorgendosi solo in quel momento dell’anomalia:
l’intera area del campo era occupata da decine e decine di palloni.
Palloni
di tutti i tipi, le forme, i colori.
Semplicemente
palloni.
Ricordò
le parole del preside: “ Dovete liberarlo ” … così con faccia
sconsolata si appoggiò ad un paletto lì vicino.
- Dobbiamo…
togliere… tutti… i palloni! -
Il
ragazzo aveva parlato, raccogliendo di volta in volta un pallone e gettandolo
in un cesto poco lontano. Sorridendo, lanciò uno sguardo ad Ivan.
- Se ci
impegniamo, in un paio d’ore potremmo finire -
Ivan
sorrise, facendo un gesto ironico con la mano che doveva vagamente
significare “ E che vuoi che sia ?! ”
-
Preferivi essere espulso, ehm… ? -
- Ivan.
E comunque sì –
L’altro
ragazzo ridacchiò, guardandolo divertito.
- Io
sono James. James Carter come avrai intuito -
- James Carter. Fa molto James Bond –
Ivan lo
aveva detto sorridendo, provocando una risatina dall’altro.
- Mi
aiuti o faccio da solo ? -
Ivan
sospirò, piegandosi per prendere un pallone.
- Ti
aiuto. Ma devi rispondere -
James
annuì, lanciandogli un pallone da basket e sorridendo:
- Mi
devo aspettare un interrogatorio ? -
- Più o
meno –
Lanciando
altri due palloni nella cesta Ivan sollevò il dito indice, per far capire che
era la prima domanda:
- Perché
tutti questi palloni ? -
James
scosse la testa, sorridendo sornione.
- Sicuro
di volerlo sapere ? -
Ivan
inarcò un sopracciglio, mormorando a mezza voce:
-
Un’altra trovata come quella di Halloween a Maggio ? -
James
annuì, esibendosi in un lancio all’indietro.
Ivan
sospirò, sconfitto:
- E ce
ne saranno altre ? -
- Fino
alla fine della scuola, temo –
Ivan
scosse la testa, incredulo. Dopo aver sbagliato un tiro, sollevò un secondo
dito.
- Se sei
il miglior studente, com’ è possibile che ti capita spesso di avere a che
fare con il pagliacciucolo ? -
A quella
domanda l’ altro si bloccò, in posizione di lancio, guardandolo
incuriosito.
- Sai
che potremmo diventare amici ? –
Ivan
sbagliò il tiro, sentendo quelle parole. Si voltò, incredulo.
- Cosa ?
-
James
annuì, convinto, gettando tre palloni di seguito.
- Certo.
Ci siamo già azzuffati, visitina in presidenza e ora raccolta di palloni. Che
ci manca ? -
Ivan
sorrise, teso.
Ma che
razza di modo di pensare era ?
Lo
guardò, per davvero questa volta: si soffermò un bel po’ su quel ragazzo
sorridente, così uguale e così diverso da lui.
Era
biondo, tanto per cominciare.
Occhi
azzurri, fisico slanciato e allenato. Aria da bravo ragazzo.
Ivan era
il contrario.
Aveva i
capelli neri, così come gli occhi. E tutto fuorché l’aria da bravo
ragazzo.
-
Cos’è che ti fa pensare che potremmo diventare amici ? -
James
sorrise, facendo brillare gli occhi azzurri e passandogli un pallone, rispose:
-
Chiamalo sesto senso. E poi secondo me, già lo siamo. Solo non vuoi ammetterlo -
Ivan scosse
la testa, guardando con sconforto i troppi palloni rimanenti.
- Io non
credo che… -
Venne
interrotto, da una voce gentile e maliziosa.
-
Possiamo aiutarvi, o ve le raccogliete da soli le palle ? -
I due
ragazzi sollevarono gli occhi in contemporanea, guardando l’uno sorpreso
e l’altro sollevato, le due ragazze che si avvicinavano.
A
stento, Ivan riconobbe in una delle due, quella che aveva conosciuto poche sere
prima.
*
Ho fatto presto
questa volta avete visto? ^^
E con immenso piacere
noto che voi lettori lievitate paurosamente! **
Ne sono
onoratissima! Grazie, davvero!
Me lo dite voi che
ne pensate di questo capitolo ?
Un bacio,
Miseichan
Risposte alle recensioni:
ChiaraBella : Chiara,
tesoro mio, lo sai che per te ci sono sempre. Come farei senza di te? Non mi
piace però risponderti qui, mi sembra troppo impersonale ^^ Appena ci
risentiamo su msn ti spiego quanto sei unica! **
LaIKa_XD : Ciao ^^ Grazie infinite per i
complimenti, sono contentissima che le mie pazze idee ti piacciano! Il cane
della ragazza non è ancora riapparso, ma lei sì… dici che per ora può
bastare ?
AleEe_E: Temo che il paese dei balocchi ci
faccia un baffo a questo posto ^^ Piaciuto il cap ? Aleee…
mi manchi!! Ma non ci sei mai su msn?!
Fatina93: Ciao ^^ Sì, lo so che il ritardo era
imperdonabile e mi dispiace… Sono contenta che ti piaccia però, così come
ci tenevo a ringraziarti per i complimenti ** I personaggi sono certo un
po’… particolari.. La storia in generale diciamo che è particolare
^^ Continua lo stesso a piacerti ?
Vannaggio : Ciao ^^ Noo..
nn essere arrabbiata per il ritardo!! Mi dispiace e non smetterò mai di dirlo
ma non ci ho potuto fare niente! ^^ Le somiglianze con i Simpson eh? Ma lo sai
che non ci avevo mai pensato? No davvero °.°Comunque, continua a piacerti o sconfina nel demenziale ?? ^^
Ancella79: Onorata che anche questa ti
piaccia! ^^ Certo, è particolare… ma sono contentissima che tu la segua.
** Ti ho già ringraziato in privato, quindi non mi resta che augurarmi tu continui
a seguire! xD