Il figlio del demonio

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Suncity ***
Capitolo 3: *** La nonnina della porta accanto ***
Capitolo 4: *** Finster ***
Capitolo 5: *** Falso allarme ***
Capitolo 6: *** Manie suicida ***
Capitolo 7: *** Halloween ***
Capitolo 8: *** James ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Il figlio del demonio

 

*Prologo*

 

 

Vomitò l’anima in quel bagno.
O almeno avrebbe potuto dire così se ne avesse posseduta una.
Con le mani sulle ginocchia, piegato in due e scosso da brividi che non riusciva a controllare,  scosse la testa fra se e se: no, lui un’anima non l’aveva. Tutti quelli che lo conoscevano avrebbero tranquillamente giurato che l’aveva venduta al diavolo già troppo tempo prima.
E forse era davvero così: forse era una sottospecie di figliastro del demonio.
Ma allora perché stava così male?
Il fatto di non possedere un’anima non lo avrebbe anche dovuto proteggere dal dolore?
A quanto pareva no.
Si sollevò a fatica, e barcollando si appoggiò al piano del lavandino. Aprì l’acqua lasciando scorrere un getto freddo e preso un bel respiro ci mise la testa sotto. Rimase così per qualche minuto, aspettando che il mondo attorno a lui si fermasse, smettendo di vorticare. Quando gli sembrò che si fosse stabilizzato chiuse il getto e si guardò allo specchio: non era quel che si dice una bella vista.
Era un bel ragazzo certo, anzi uno dei più attraenti del liceo scadente in cui andava, ma in quel momento aveva un aspetto orribile: era stravolto, pallido e con gli occhi spenti.
Gli occhi di cui andava tanto fiero: quelli neri più dell’ebano che sembravano risplendere di luce propria, ora erano come morti. Le immagini di poche ore prima continuavano a ripetersi nella sua testa, come se fosse un disco che si era impallato, e che rimandava sempre le stesse scene: quelle orrende che non avrebbe mai dimenticato, quelle che gli si sarebbero ripresentate per sempre come un filmino horror… quelle che lo avrebbero tormentato a vita.
Con mano tremante si scompigliò i capelli scuri che fradici gli si erano appiccicati sulla fronte.
Si lasciò cadere, scivolando con la schiena lungo il muro, dando le spalle allo specchio che gli rimandava un’immagine che non voleva vedere.
Piegò le ginocchia contro il petto, stringendo le mani fino a farsi sbiancare le nocche: doveva smettere di tremare. Chiuse gli occhi, prendendosi la testa fra le mani e dondolandosi lentamente, avanti e indietro… come faceva da bambino quando i tuoni lo spaventavano.
Il problema era che ora non si trovava in quello stato per colpa dei tuoni.
I tuoni non avrebbero mai potuto ridurlo così.
No. Stava così male per un qualcosa che non era una paura irrazionale.
Smise di dondolare cercando di pensare ad altro, sperando di riuscire a distrarsi.
Ma non poteva riuscirci, non restandosene lì solo con i suoi pensieri.
Non era abbastanza forte da poter combattere contro se stesso, o almeno non in quel momento.
A salvarlo fu il rumore della porta che si apriva.
Sollevò lo sguardo, troppo stanco per fare di più, e osservò apaticamente l’uomo appena entrato: doveva essere sui trent’anni, alto, atletico, indossava un vestito nero e una camicia bianca.
Sul fianco destro notò un rigonfiamento che senza problemi identificò come una pistola: era l’ennesimo impiegato del governo o dei servizi segreti o qualunque persona avente a che fare con il suo caso, dotata di arma, che lo fissava con sguardo indagatore. 
Chiuse gli occhi quando nello sguardo dell’altro vide prendere il sopravvento quella punta di pietà e compassione che aveva sfuggito per tutta la sera.
Avvertì chiaramente il disagio dell’uomo che dopo un po’ si decise a parlare:
-E’ ora-
Ivan serrò ancora di più gli occhi sentendo quelle parole: era il momento.
Avrebbe lasciato quella città, quella dove viveva da sempre. Avrebbe lasciato la sua scuola, i suoi amici, se così si potevano definire, e soprattutto avrebbe lasciato la sua casa.
La sua casa.
L’unica in cui aveva mai vissuto, l’unica che aveva mai riconosciuto davvero come tale.
E il tutto per seguire una schiera di “men in black” che lo avrebbero portato lontano… via da quel luogo che ormai era diventato per lui solo un teatrino degli orrori.
Perché?
Perché lui, il figlio del demonio, ora faceva parte del programma protezione testimoni.
Perché lui, il figlio del demonio, avrebbe finalmente lasciato, dopo ore di tormento, quello che ora poteva tranquillamente definire inferno.
Sogghignò, seduto sul sedile posteriore dell’auto che correva nella notte, attirando su di sé gli sguardi sorpresi degli uomini che erano in macchina con lui.
Ma loro non potevano e non avrebbero mai capito.
Ivan sogghignava perché stava lasciando il suo inferno personale.
E ovunque sarebbe andato a finire… non poteva certo essere peggio.
O almeno così la pensava.
Bisogna pur tenere conto però che tutti ci sbagliamo.
E in questo preciso caso anche lui sbagliava.
Si passò la mano fra i capelli ancora umidi, aveva quasi smesso di tremare.
Si lasciò andare contro il sedile, chiudendo gli occhi, concentrandosi sul mormorio proveniente dai suoi accompagnatori.  
Stava meglio perché si stava auto convincendo che non potesse esistere un inferno peggiore a quello che aveva visto non molte ora prima.
Il figlio del demonio non sapeva cosa lo aspettava.

 

*

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Capitolo 2
*** Suncity ***


 

Il figlio del demonio

 

*Suncity*

 

 

Un viaggio di nove ore.
Cinquecentoquaranta minuti in cui era riuscito a riprendere il controllo di sé.
Ora niente poteva scalfirlo: era riuscito a fare in modo che quelle immagini in grado di  distruggerlo tornassero a prendere il sopravvento su di lui solo quando chiudeva gli occhi.
Il suo nuovo compito era perciò di non chiuderli mai: non quando c’erano altre persone che avrebbero potuto notare come improvvisamente la sua solidità  esteriore venisse annientata.
Aveva passato tutto il tempo in silenzio, ignorando i tentativi di conversazione degli altri uomini.
Non aveva voglia di parlare e probabilmente non ne sarebbe nemmeno stato in grado.
I suoi compagni dopo un po’ demorsero, lasciandolo in pace nel suo stato catatonico.
E Ivan ne fu felice, perché aveva bisogno di starsene per conto proprio, cercando la forza dentro di sé per tornare a essere quello di sempre. Doveva assolutamente fare in modo che il ragazzino spaurito in lui non prevalesse.
E alla fine ci era riuscito: l’aveva capito quando guardando la strada davanti a lui non aveva visto anche del sangue sullo sfondo. Ora solo se chiudeva gli occhi tutto tornava a tingersi di rosso.  
E ne andava fiero.
Già diverse volte, nelle prime ore di viaggio, quando il sonno sembrava starlo vincendo e la mente lasciava liberi i pensieri, si era ritrovato in preda ad un tremore irrefrenabile ed a un forte senso di nausea. La prima volta era stato tanto forte che l’uomo al volante aveva dovuto accostare per farlo scendere a prendere una boccata d’aria. Ogni volta lo guardavano tutti, senza sapere bene come comportarsi, scambiandosi occhiate cariche di compassione.
Era stato proprio l’odio  per quel loro comportamento, la sua più totale intolleranza per il modo in cui lo guardavano, a dargli la forza.
Non gli piaceva la pietà altrui, non voleva che lo compatissero.
Aveva bisogno di sapere che ce l’avrebbe fatta da solo.
E ora non ne aveva la certezza, ma di certo si sentiva più sicuro.
Si guardò le mani, notando con piacere che non tremavano più. La testa non gli girava più di tanto e la sensazione di vuoto allo stomaco… bè quella non era convinto se ne sarebbe mai andata.
Si accorse vagamente del cambiamento di velocità dell’auto: fino a quel momento avevano sicuramente infranto tutti i limiti, ma ora sembrava fossero tornati ad andare sotto i cento chilometri orari. Probabilmente perciò si stavano avvicinando alla meta.
Alzò gli occhi, curioso di vedere in che posto si sarebbe ritrovato a vivere.
Non riconobbe niente: aveva davanti a sé solo una strada vuota, di quelle sterrate, enormi.
Ai lati una fitta vegetazione: alberi altissimi che non riuscì ad identificare a causa della luce ancora troppo fievole. Quando vide un fiumiciattolo scorrere indisturbato alla sua destra e un pontile lì affianco con degli uomini concentrati nella pesca, gli salì spontaneo alle labbra uno sbuffo contrariato:
-Ma cos’è? La terra di nessuno?-
Si sorprese delle sue stesse parole: le aveva pronunciate con voce roca e sarcastica. Ecco in cosa si era trasformato: nel classico stronzo, ma non se ne preoccupò più di tanto perché in fondo preferiva passare per stronzo che per femminuccia.
Anche i suoi accompagnatori reagirono con un moto di meraviglia sentendolo parlare, solo il guidatore non si voltò a scrutarlo incuriosito.
Fu lui a rispondergli, lanciandogli un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisore:
-Suncity-
Pronunciò il nome del posto in cui erano appena arrivati nello stesso momento in cui Ivan lo lesse sul cartello attaccato al tronco di un cedro:
“Welcome to Suncity”
Si abbandonò di nuovo all’indietro, facendo aderire meglio la schiena al sedile e si lasciò andare in un lungo sospiro liberatorio. Suncity: la città del sole.
Non era possibile.
Aveva appena lasciato San Francisco per cosa? Per questo buco di posto?!
Certo San Francisco non era quella che si può definire una gran metropoli, ma diamine era sicuramente meglio di questo…
Continuò ad osservare sconvolto la città in cui erano appena entrati. Non era neanche sicuro si potesse definire città: era un minuscolo agglomerato di case, quello che potrebbe essere un paese, ma sicuramente molto peggio.
Ivan cercò di cambiare atteggiamento, cercando un qualcosa di positivo in quello che vedeva, ma non vi riuscì: lasciò vagare lo sguardo sulle villette a schiera, sui prati ben curati, sulle strade pulite.
Regnava un silenzio impressionante: né l’abbaiare di un cane né il pianto di un bambino… sì, erano le quattro del mattino, ma l’ora non giustificava il fato che il paese sembrava morto.
Ivan iniziò a chiedersi se aveva davvero visto quei pescatori o se era stato solo un gioco della sua immaginazione. La macchina girò ancora per un po’, per quelle strade che sembravano tutte uguali, passando davanti a villette nelle quali Ivan tentò inutilmente di trovare un qualche segno di distinzione.
Si passò una mano fra i capelli, cercando di calmarsi: non riusciva a crederci!
Quel posto gli riportò alla memoria i film horror visti, in cui i paesi erano proprio come quello: del tipo che ti fanno chiedere se veramente esiste o è solo una scenografia… a quanto pareva esistevano, e lui ci avrebbe dovuto vivere.
All’idea gli salì un sorriso alle labbra: non l’avrebbe mai detto, ma la cosa quasi lo divertiva.
In posti così creare scompiglio doveva essere uno spasso.
Se la sarebbe spassata alla grande allora.
La macchina infine si fermò davanti ad una villetta, del tutto identica a tutte quelle già passate: bianca, con un piccolo giardino sul davanti, lo steccato anch’esso bianco e la cassetta della posta raffigurante un gallo. Vi erano due finestre ed una porta al pian terreno e tre finestre al primo piano.
Questo fu quello che Ivan riuscì a vedere prima che l’uomo alla sua sinistra lo spingesse fuori dall’auto. Scese e quasi andò a sbattere contro l’altro fermo sul marciapiedi che lo afferrò per un braccio e lo trascinò lungo il vialetto fino alla porta. Arrivato sotto il portico riuscì a liberarsi con uno strattone:
-Ce la faccio anche da solo-
Borbottò a mezza voce entrando in casa. Sbattè più volte le palpebre per abituarsi alla luce che vi era e riuscire così a vedere qualcosa di più: si trovava in quello che poteva essere definito atrio;
un attaccapanni, un mobile con specchio ed un tappeto gli unici arredi. Spostò lo sguardo a destra e poi a sinistra vedendo prima una cucina e poi un salotto. Non vi si soffermò più di tanto.
Non gli importava nulla: stava già combattendo con tutto se stesso l’impulso di correre verso la macchina, ingranare la marcia e fuggire da quel posto. Ma non poteva e lo sapeva bene.
Così quando i due alle sue spalle chiusero la porta e un altro gli fece cenno di seguirlo in salotto, non potè far altro che ubbidire. Entrò in quella stanza, senza degnare di uno sguardo le veneziane alle finestre o i tappeti persiani sul parchè né tantomeno si preoccupò di sedersi sul divano bianco, di fronte all’uomo accomodatosi in poltrona, piegando le gambe sotto di sé e rischiando così di sporcare quel candore immacolato.
L’unica cosa che gli importava fu quella che chiese, con tono indifferente e seccato:
-Quanto dovrò rimanere qui?-
L’uomo che aveva davanti non rispose subito: continuò a guardarlo, passandosi la mano sulla testa pelata. Teneva l’altra mano ferma invece sul rigonfio della giacca, dove teneva la pistola: era la posizione che ormai assumeva abitualmente.
Ivan per un po’ resse quello sguardo, poi cedette, abbassandolo sulle proprie mani: l’altro lo stava studiando, non con preoccupazione ma con aspettativa. Era come se stesse cercando di capire con chi aveva veramente a che fare e di quanto si potesse sbilanciare, valutando cosa potesse dire e cosa fosse invece più opportuno lasciar stare.
Alla fine poggiò l’avambraccio sul bracciolo della poltrona e, lanciato uno sguardo agli altri uomini fermi alle spalle di Ivan, si decise a parlare:
-Non lo sappiamo ancora-
Prevenendo la rispostaccia di Ivan, continuò con tono duro:
-Vedi di non fare cazzate, ragazzo. Qui sarai al sicuro, e questo è ciò che conta. Fai sempre ciò che ti diranno i miei uomini e cerca di attenerti alle regole-
Ivan continuò a guardarlo contrariato ma non infierì.
“Vedi di non fare cazzate” … facile a dirsi.
Si guardò un attimo alle spalle, considerando velocemente gli uomini alle sue spalle.
“I miei uomini” aveva detto la testa pelata: e così era lui il capo. Lo aveva intuito fin dall’inizio, da come si comportava, dal fatto che fosse stato lui a guidare, e perché era stato l’unico a guardarlo e trattarlo come se fosse un normale diciassettenne.
Provò un moto di gratitudine e rispetto nei suoi confronti, che soffocò momentaneamente il desiderio di ribellarsi che gli stava nascendo in petto.
Ne approfittò per porre un’altra domanda, una curiosità che gli era sorta in seguito alle parole dell’altro:
-Non rimanete tutti?-
Non lo aveva chiesto per paura: per quanto gliene importava avrebbero anche potuto lasciarlo lì da solo, ma per semplice voglia di essere informato come si deve.
-No. Resteranno con te solo gli Esposito. In ogni caso tenterò di…-
Non concluse la frase, interrompendosi per rispondere ad un cellulare ultrasottile che estrasse dalla giacca. Parlò in maniera coincisa, con un tono che non ammetteva repliche.
-Parla McCartur. Sì. Abbiamo finito. Ripartiamo subito. … Lascio qui gli Esposito, sì armati.  Benissimo-
Chiuse lo slide del telefonino con uno scatto che fece sobbalzare Ivan: per tutto il tempo avevano continuato a lanciarsi occhiate, e ora che aveva concluso la telefonata McCartur si alzò in piedi.
Passando vicino al divano poggiò per pochi attimi una mano sulla spalla di Ivan, sussurrando a fior di labbra, in modo da farsi sentire unicamente da lui:
-Cerca di non combinare troppi guai, ragazzo-
Quando Ivan si voltò, alle sue spalle erano rimasti solo due uomini:
-Gli Esposito?-
Annuirono in contemporanea, muovendo la testa verso il basso un’unica volta. Senza scomporsi, senza sorridere. Ivan iniziò a chiedersi se fossero davvero umani.
Li osservò meglio: erano molto diversi, quasi opposti.
Approssimativamente della stessa statura: forse un metro e ottanta, con fisici robusti ed allenati, vestiti come gli agenti federali che si vedono in televisione.
Le differenze che si notavano invece, erano nei loro visi, e come avrebbe scoperto poi, nel modo di comportarsi.
Uno portava capelli lunghi, legati in una coda di cavallo, e aveva tre buchi all’orecchio sinistro e due a quello destro. I tratti erano taglienti, e una leggera barba gli colorava il viso troppo bianco.
L’altro invece, aveva i capelli quasi rasati a zero, nel taglio alla marine. Un piercing sul sopracciglio sinistro: una minuscola pallina appena visibile. I tratti di questo erano più dolci, il viso come più morbido; l’unica pecca era una cicatrice bianca che gli attraversava le guancia destra.
Entrambi mettevano paura, ognuno a modo suo. Ma messi insieme, erano come un’arma micidiale.
Ivan iniziò a rimpiangere di non essere scappato prima: ora che aveva osservato meglio quelli che sarebbero stati i suoi “controllori” l’impresa gli sembrava assai più ardua.
-Siete parenti? Cugini?-
Tentò di intavolare una conversazione, senza nemmeno sapere il perché: non aveva voglia di parlare, ma non voleva nemmeno rimanere immobile in quella stanza, e se quei due non si fossero scostati, liberandogli il passaggio…
A rispondere fu il secondo, quello che gli ricordava un marine:
-Fratelli-
Ivan sollevò un sopracciglio: non l’avrebbe mai detto. Quei due fratelli? Incredibile.
Li osservò ancora per un po’: vedendo che non accennavano a muoversi, continuando invece a studiarlo con espressione accigliata, fece per sdraiarsi quando uno dei due si schiarì la gola.
Alzò lo sguardo per capire chi fosse stato ma erano di nuovo entrambi immobili.
Si irrigidì, frustato da quella situazione, e stava per lasciarsi andare in uno sfogo che sarebbe stato molto liberatorio per lui, quando il marine parlò:
-Ivan, giusto?-
Il ragazzo annuì.
Di più non fece: quando lui aveva iniziato il discorso loro si erano comportati alla stessa maniera.
Pochi istanti dopo, senza capirne il motivo, Ivan li vide sogghignare.
Che facevano, ridevano del suo comportamento?
Il ghigno fu ben presto sostituito da un semplice sorriso: non un sorriso caldo e confortante, ma quantomeno di certo un miglioramento dall’espressione torva di prima.
Se avessero continuato a sorridere, sarebbero quasi potuti passare per due normali giovani: perché Ivan ora se ne era accorto, ma non potevano avere più di venticinque anni.
Il marine, sempre sorridendo, si passò la mano dietro il collo, per poi rivolgersi ancora a lui:
-Senti Ivan, vediamo di partire con il piede giusto. Hai sentito McCartur: non si sa quanto tempo dovrai restare qui. E con te dovremo restare anche noi. Se non ci facciamo buon sangue… bè la convivenza può diventare complicata-
Ivan annuì, ancora diffidente: non gli piacevano quei due.
Il marine probabilmente intuì la sua apprensione, perché fece un passo avanti, avvicinandosi al divano e porse la mano ad Ivan:
-Io comunque sono Jeremy-
Ivan ricambiò la stretta, continuando a non sorridere. Guardò di sbieco l’altro uomo, rimasto ancora distante. Quello strinse gli occhi, come a far capire che era meno propenso di lui a dare fiducia e a voce bassa mormorò:
-Terence-
Era una presentazione quella?
Ivan non ne era convinto, comunque annuì nella sua direzione. Se pure non si era presentato, avrebbe fatto capire così, che a lui, di avere la fiducia dell’altro non gliene poteva importare di meno.
Jeremy al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla. Ivan si voltò a guardarlo e lo vide, con la testa leggermente piegata di lato, osservarlo intensamente:
-Non sarebbe il caso che andassi a riposare un po’ Ivan? Hai l’aria stanca-
Per quanto fosse vero, Ivan non potè fare a meno di provare fastidio a quell’affermazione.
Non erano fatti suoi se voleva riposare o meno.
Non sarebbe certo stato un federale del cavolo a mandarlo a letto.
Ma Ivan sapeva che in realtà la sua rabbia era motivata solo dalla paura: dal terrore che aveva di dover chiudere gli occhi. Se li avesse chiusi… non riusciva nemmeno a pensarci.
Aveva sonno certo, e prima o poi avrebbe dovuto dormire di nuovo.
Sperava però di riuscire a rimanere sveglio, fino al momento in cui non fosse definitivamente crollato. In quel modo il sonno lo avrebbe preso direttamente, senza lasciargli nemmeno il tempo di rivedere un nanosecondo di quei fotogrammi che aveva impressi nella memoria.
A bloccare il flusso dei suoi pensieri fu un qualcosa che lo colpì sul petto: la afferrò appena in tempo, prima che cadesse a terra. Era un sonnifero.
Lanciò un’occhiata a Terence: era stato lui a lanciarglielo.
-Ti aiuterà-
Non lo aveva detto, lo aveva solo mimato con le labbra, ma Ivan lo aveva capito benissimo.
Cosa aveva capito? Come faceva a sapere…?
Non ebbe il tempo di darsi una risposta: Jeremy, prendendolo per il braccio, lo spinse verso le scale che portavano al piano di sopra.
-Ci sono tre camere da letto: scegline una e cerca di riposare-
Non disse altro.
E Ivan, senza sapere il perché ubbidì.
Iniziò a salire lentamente le scale, e ad ogni scalino la stanchezza sembrava gravargli sempre più sulle spalle.
Strinse fra le dita il sonnifero: lo avrebbe preso.
Aveva troppa paura: lo avrebbe preso e non avrebbe chiuso gli occhi finché non avesse fatto effetto.
Salì le scale lentamente, stringendo fra le dita quella che era la sua ancora di salvezza.
L’ultimo suo pensiero, fu la speranza che Terence ne avesse una cospicua scorta di quei sonniferi.
Perché, per quanto gli facesse male ammetterlo, senza sarebbe andato alla deriva.

 

*

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Capitolo 3
*** La nonnina della porta accanto ***


La nonnina della porta accanto

Il figlio del demonio

 

 

*La nonnina della porta accanto*

 

Quando Ivan si svegliò non ricordava di preciso dove fosse.
Si girò per un po’ nel letto, togliendosi di scatto le coperte provato dal troppo caldo.
Ci mise un po’ a rendersi conto che quella non era la sua camera, e quando notò con orrore che il cuscino al quale fino a poco prima era abbracciato, era tutto bagnato dalle sue lacrime, gli riaffiorò completamente la memoria.
Si ricordò del buco di paese in cui era confinato, dei due pazzi che sarebbero stati suoi coinquilini a tempo indeterminato, e soprattutto gli tornò in mente il motivo per cui era lì.
Lo stesso motivo per cui a quanto pareva aveva pianto nel sonno.
Lui, che piangeva!
Gli sembrava assurdo anche solo prenderlo in considerazione, ma a quanto pareva lo aveva fatto.
Con un moto stizzito si alzò a sedere, allontanando da sé il cuscino umido.
Odiava sentirsi vulnerabile e in quel momento…
Improvvisamente tutti i suoi pensieri si fermarono, bloccandosi su un particolare che aveva appena registrato: era nudo.
O almeno quasi: aveva addosso solo i boxer neri. Per il resto nient’altro.
Si passò le mani sul viso, chiedendosi se stesse impazzendo: si era messo a letto vestito, ne era certo. E a meno che non fosse arrivato al punto da svestirsi nel sonno… no, non era possibile!
I men in black?! Lo avevano spogliato loro?
Ivan inarcò le sopracciglia, valutando tutte le ipotesi, alla fine l’unica conclusione a cui arrivò fu che non gliene importava. Non in quel momento: aveva il bisogno impellente di farsi una doccia, lunga, molto lunga, per togliersi di dosso quella sensazione di sporco ed inadeguatezza che si portava dietro da San Francisco. Sempre che un getto d’acqua sarebbe riuscito nell’intento.
Ne dubitava, ma ci avrebbe comunque provato.
Si alzò in piedi, e a causa di un giramento dovette poggiare una mano contro il muro, tentando di ritrovare l’equilibrio. Nel frattempo si concesse due minuti per studiare la stanza in cui si trovava: non era grande, ma nemmeno troppo piccola, era giusta.
Con il parchè, come notò con piacere, e poi una scrivania e una cabina armadio.
Lanciò uno sguardo alla finestra alla sua sinistra: indeciso se aprire o meno le tapparelle. Si risolse alla fine ad aprirle giusto un po’, lo stretto necessario per capire almeno approssimativamente quanto tempo avesse dormito.
Si ritrovò a guardare lo stesso paesaggio di quando erano arrivati di mattina: di fronte aveva un’altra villetta e di lato la strada. Il sole era ben alto in cielo, quasi prossimo al tramonto: aveva dormito più di dodici ore.
Raggiunse la cabina armadio in pochi passi, con ancora in mente l’immagine di quella che doveva essere la sua vicina di casa: un’anziana signora, bassina e rotondetta, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia, che stendeva i panni nel cortile. Non riusciva a crederci: non si vedevano nemmeno più nei film scene così. Una nonnina dolce e materna che stendeva il bucato…
Stava ancora rimuginando su quanto gli sembrasse assurda come cosa mentre apriva le ante dell’armadio. Non sapeva cosa aspettarsi in realtà, ma sperava in un qualche miracolo: se l’avesse trovato vuoto, come temeva, sarebbe dovuto scendere seminudo al piano di sotto e la prospettiva non lo attraeva nemmeno un po’.
Restò perciò profondamente sorpreso e sollevato nel trovarne l’interno fornitissimo: giacche, pantaloni, camicie, tute… c’era di tutto. Prese un jeans e lo appoggiò contro la gamba, notando con piacere che era della sua taglia. Iniziò ad aprire i vari cassetti, scoprendo di volta in volta asciugamani, intimi, perfino delle cravatte che guardò con un misto di orrore e divertimento. Aprendo l’ultimo cassetto però il cuore gli mancò un battito e senza rendersene conto fece un precipitoso balzo all’indietro: non c’erano vestiti ma un arsenale in piena regola.
Scuotendo la testa lo chiuse con un calcio: a quanto pareva mentre dormiva i fratellini non se ne erano stati con le mani in mano.
Afferrò al volo una camicia nera e uscì dalla camera, alla ricerca del bagno.
Lanciò uno sguardo intorno, osservando alternativamente le tre porte sul pianerottolo: una doveva pur essere il bagno. Il problema era: quale?
Con uno sbuffo spazientito si avvicinò a quella alla sua diretta sinistra, sperando di essere talmente fortunato da indovinare al primo colpo: non osava pensare a se avesse sbagliato, aprendo quella della camera di uno dei due federali, disturbandoli semmai in… qualcosa di privato.
Per sicurezza bussò leggermente con le nocche, attendendo qualche istante prima di spalancare la porta: entrò nel bagno reprimendo a mala pena un sospiro di sollievo.
Stette per quelle che  gli sembravano ore sotto il getto di acqua calda: quando uscì distese gradevolmente le braccia, provando i muscoli ora ben rilassati. Con la mano disappannò lo specchio, e rapido infilò i vestiti.  
Prima di uscire diede un’ultima occhiata al suo riflesso: i jeans e la camicia gli cadevano a pennello.
Le occhiaie violacee che aveva visto la sera prima, sembravano aver perso quel colore così acceso, e per quanto il viso avesse un’aria ancora parecchio stravolta, non era più esageratamente pallido.
Si passò una mano sul mento, sentendo sotto le dita il pizzicore tipico della barba che accennava a ricrescere; la fece poi salire fino ai capelli, scompigliandoli in modo da farli asciugare un po’.
Fu un caso se uscendo notò il taglio profondo che aveva sul collo: tornò un attimo sui suoi passi, osservandolo meglio allo specchio. Era brutto, ma non proprio orrendo. Girò il collo per vedere fino a che punto gli facesse male: tirava, e bruciava anche parecchio, ma niente di insopportabile.
Con un’alzata di spalle scese al pian terreno.
La televisione in salotto era accesa: un uomo sui quaranta stava parlando di una qualche tragedia successa nei pressi di una ferrovia. Ivan fece per spegnerla, dato che non c’era nessuno a guardarla ma venne bloccato da una voce pacata e perentoria:
-No-
Si girò verso la cucina, dove vide che a parlare era stato Terence.
Lo osservò, senza riuscire a nascondere la sorpresa probabilmente: indossava dei sandali, pantaloni bianchi in lino e una camicia a mezze maniche. Come se non bastasse quello a lasciarlo basito, stava anche cucinando, tutto concentrato nel mescolare una qualche brodaglia rossa.
Ivan si avvicinò titubante al tavolo della cucina, già preparato per tre persone: quel cambiamento lo aveva preso in contropiede.
-Ben svegliato-
Era stato sempre Terence a parlare: lo stesso uomo che giocando con uno degli orecchini dell’orecchio sinistro si piegò a controllare a che punto di cottura fossero le teglie che aveva nel forno.
Ivan annuì di rimando, concentrato sulle voci provenienti da fuori: la porta finestra si aprì lasciando entrare Jeremy. Anche lui privo della divisa di lavoro: jeans e una maglietta a mezze maniche militare i suoi nuovi vestiti.
Ivan si passò una mano sul viso, cercando di focalizzare quelle nuove immagini.
La voce di Jeremy gli giunse pimpante alle orecchie, costringendolo a riaprire gli occhi:
-Ehilà, Ivan! Guarda che bella-
Nel dirlo gli mise sotto il naso una torta di zucca che sembrava appena sfornata.
-Ce l’ha data la nostra vicina: una signora simpaticissima. Dice che ci ha visti troppo deperiti e che ora ci pensa lei a farci riprendere-
Ivan annuì, immaginando già la cara nonnina tutta intenta a sfornare decine di torte.
Con una mano scostò una sedia, sedendovisi di peso. Con voce atona chiese:
-Che ora sono?-
-Le sei-
Gli rispose candidamente Jeremy, studiando la sua espressione. Il sorriso che aveva stampato in viso a un certo punto si spense leggermente e il giovane si avvicinò ad Ivan. Gli afferrò fra due dita il mento, sollevandolo. Si piegò sulle ginocchia, scrutando il taglio che aveva sul collo:
-Fa male?-
Ivan fece per negare, ma l’altro non gliene diede il tempo: poggiandoci lievemente l’indice sopra fece scattare il ragazzo all’indietro.
Jeremy si rialzò, sorridendo ed ignorando apertamente l’espressione arrabbiata di Ivan:
-Non si è infettato: tutto bene-
Ivan continuò a guardarlo con aria contrariata, poi con voce piccata disse:
-Mi sono svegliato con indosso solo i boxer-
Jeremy, prendendo posto di fronte a lui, quasi si strozzò con un’ oliva che aveva appena messo in bocca. Ancora tossendo, accennò con la testa verso Terence ai fornelli.
-Sì: Terry diceva che se non avessimo messo al più presto i vestiti a mollo nell’acqua fredda, non si sarebbero tolte le macchie di sangue-
Ivan si morse il labbro inferiore a quella risposta: le macchie di sangue.
-Ad ogni modo te li restituiremo come nuovi-
Il ragazzo tornò a guardare il suo interlocutore realizzando con che soprannome aveva chiamato il fratello. Sorrise, pensando alla possibile coppia: “Terry e Jerry”   Si astenne però dal vocalizzare i suoi pensieri: potevano anche star fingendo di essere normali, ma non era così e Ivan ci teneva ad arrivare incolume al processo.
Quando Terence portò a tavola un altro piatto strapieno di cibo, Jeremy ammiccò verso Ivan, e bisbigliò, in modo da non farsi sentire dal fratello:
-Prima faceva il cuoco: in uno dei ristoranti più importanti di Manhattan-
Detto questo gli avvicinò un’insalatiera piena di un qualcosa che Ivan non riuscì a definire.
-Perciò mangia-
Stavolta era stato Terence a parlare, glielo aveva quasi intimato mentre alzava il volume al televisore. Ivan ubbidì, rispondendo più che altro al brontolio del suo stomaco e data la prima forchettata, continuò a mangiare con appetito, sorpreso dalla bravura dello chef che alle sue spalle sorrideva compiaciuto.
-Terry… e cambia! Fanno Titti e Silvestro sul terzo-
Ma il televisore rimase fisso sul telegiornale, e Jeremy con un sospiro affogò nel ketchup le sue patate dolci. Al primo stacco pubblicitario Ivan si decise a parlare, chiedendo una cosa che gli ronzava per la testa da quando aveva sentito il cronista annunciare l’ultimo attentato terroristico:
-Non… non se ne parlerà?-
Quelle furono la parole che biascicò, senza alzare lo sguardo dal suo piatto, vergognandosi quasi di averlo chiesto. Ma lo aveva fatto perché ci teneva a saperlo, voleva prepararsi nel caso in cui ne avrebbero parlato anche in televisione.
Entrambi i giovani al tavolo con lui intuirono subito che si riferiva a quello che era successo la sera prima. Non diedero segni di sorpresa, però. Quasi come se si aspettassero la domanda.
Il primo a rispondere fu Terence:
-No-
Coinciso come sempre, pensò Ivan. Poi intervenne anche Jeremy, non appena ebbero incrociato lo sguardo: Ivan lo vide sorridere con fare rassicurante e scuotere la testa:
-Certo che no. Almeno non finché non si saranno calmate le acque. Se ne parlassero sulle reti televisive, tutto quello che stiamo facendo andrebbe a farsi fottere-
Spiegò in poche parole. Ivan annuì sollevato: non era minimamente preparato a sentir raccontare da altri la sua tragedia personale. Alzandosi per mettere il suo piatto a lavare, chiese un’ultima cosa:
-Devo stare all’erta? … Cioè, corriamo qualche pericolo?-
Questa volta non risposero subito, e fu in parte la loro reticenza, in parte l’occhiata che si scambiarono prima di parlare, a fargli capire che non avrebbe potuto prendere come vere le loro parole:
-No, tranquillo Ivan. Che ci staremmo a fare noi, altrimenti?-
Jeremy intuì il suo scetticismo, perché continuò, quasi sarcastico:
-Credi che ti faremmo mai ammazzare? Tranquillo, sul serio. Va a giocare in salotto, che ho installato la play station 3-
Ivan si dovette mordere la lingua per non rispondere male: ma quanti anni pensava che avesse?
Che credeva, che dicendo va a giocare alla play avrebbe risolto qualcosa?
“Va a giocare in salotto…”
Gli sembrava di essere regredito a dieci anni prima.
Si sollevò le maniche fino ai gomiti, con gesti nervosi e irritati. Senza guardarli nemmeno negli occhi si diresse alla porta a vetri:
-Vado a fare un giro-
Mormorò infastidito, alzando gli occhi al cielo quando sentì la risposta che gli arrivò alle spalle:
-Non ti allontanare-
Scese i tre scalini, diretto in giardino, sbattendo i piedi con rabbia.
Spingendo a fondo le mani nelle tasche, piegò la testa all’indietro accogliendo quasi con piacere il dolore sordo al collo che lo distrasse dai suoi pensieri.
“Non ti allontanare”
Ma dove diamine sarebbe potuto andare in quel buco di paese?
In meno di un quarto d’ora si percorreva a piedi tutto, da un capo all’altro.
E loro gli dicevano di non allontanarsi! Stavano decisamente degenerando!
Aprendo con disappunto il cancelletto, Ivan iniziò a prendere in considerazione l’ipotesi di andare ad affogarsi nel fiume. Con un sorriso però mise da parte quell’idea: in fondo, fortunato com’era, capace che lo ripescavano…

 

*

 

 

 

 Per prima cosa volevo ringraziare tutti quelli che per qualche motivo a me ancora ignoto, hanno avuto il coraggio di arrivare a leggere fino a questo punto… poi ci tenevo anche a chiedervi di lasciare un mini-commentino, così per sapere che ve ne pareva ^^  Anche commenti del tipo: “E’ orrendo, perché perdi tempo scrivendo cose del genere?!” sono ben accetti: giusto per capire fino ad ora com’è xD

 

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Capitolo 4
*** Finster ***


Il figlio del demonio

 

 

* Finster*

 

 

-E cosa pensi di fare nella vita, ragazzo?-
Quando Ivan si sentì poggiare una mano sulla spalla non reagì prontamente: quasi non capiva più niente, stordito dalle chiacchiere della nonnina.
Fissava i piccoli occhi dell’anziana signora, resi più tondi e grandi dagli occhiali a mezza luna che indossava, e che davano alle iridi una sfumatura violacea.
Gli stava simpatica, certo, e Ivan aveva provato subito un affetto innato verso quella anziana, dolce signora, ma in quel momento non riuscì a trattenersi dal lanciarle un’occhiata carica di risentimento perché lo teneva inchiodato lì, appoggiato con i gomiti allo steccato bianco, da più di mezz’ora.
Gli aveva chiesto di tutto: dove era nato, che cosa gli piaceva mangiare, che film guardava, se aveva mai avuto una ragazza… all’ennesima domanda Ivan si era dovuto mordere la lingua per non darle una rispostaccia che avrebbe rischiato di offenderla ma che sicuramente l’avrebbe zittita.
Anche ora, mentre lo interrogava su un futuro a cui non aveva mai pensato, Ivan si chiedeva se fosse il caso di esprimere a voce cosa realmente gli passava per la testa:
“Se vuole, signora, le scrivo una mia presentazione completa, con tanto di certificato dell’anagrafe e fotografie allegate. Ma per favore! La prego: si tappi quella dannata bocca e mi lasci andare!”
Per fortuna la mano che gli strinse solidale la spalla gli impedì di parlare.
Ivan si rimise in piedi, vedendo in Jeremy il suo salvatore: certo, da quando la nonnetta lo aveva bloccato aveva imprecato mentalmente contro i fratellini che, ne era sicuro, si stavano facendo chiatte risate su di lui, ma erano passati quasi nove minuti dall’ultima volta che li aveva mandati al diavolo perciò accolse l’altro giovane con un sorriso parzialmente sincero.
-Signora Applewear! Vedo che ha conosciuto Ivan!-
La signora si esibì in un sorriso ancora più caloroso alla vista del nuovo arrivato:
-Jeremy! Sì è un ragazzo simpaticissimo e molto affascinante…-
Aggiunse con voce amabile, ammiccando ad entrambi. Poi sporgendosi maggiormente verso di loro continuò:
-Gli stavo giusto chiedendo che aspirazioni lavorative avesse quando voi…-
Jeremy la interruppe cortesemente, sperando invano di poter porre fine alla conversazione:
-Ah signora, è ancora giovane. A sedici anni non si può ancora sapere-
Ivan al suo fianco strinse i denti e bisbigliò, innervosito:
-Diciassette. Ne ho diciassette-
Sia Jeremy che la vecchietta si voltarono ad osservarlo: il primo come messo in difficoltà, gli rivolse un mezzo sorriso di scuse, la seconda invece con aria incuriosita riprese a parlare:
-Diciassette, eh? Sei il più piccolo dei tre, allora-
Ivan non capì a cosa alludesse e Jeremy fu più veloce di lui a rispondere:
-No, signora, non siamo tre fratelli: Ivan ci è nipote-
Gli occhi della vecchietta se possibile si spalancarono ancora di più mentre con voce concitata continuava:
-Oh! Figlio di…-
-… nostra sorella Amanda-
Concluse Jeremy per lei, per poi avvolgere le spalle di Ivan con un braccio e tirarlo a sé:
-Ora però dovremmo andare, se non le dispiace-
Entrambi i giovani credettero di essere finalmente riusciti nel loro intento quando videro la vecchietta giungere le mani e annuire con aria comprensiva. Avevano anche iniziato ad arretrare lentamente, allontanandosi dalla staccionata, quando improvvisamente la signora cacciò un urletto sorpreso che li fece trasalire e fermare di colpo:
-Un momento! Ivan: è un taglio quello che hai sul collo? Come te lo sei fatto?-
Ma come aveva fatto a vederlo?
Jeremy stava già scuotendo la testa con fare rassicurante, ma la vecchina continuava a fissare Ivan.
Il ragazzo sentendo l’ultima domanda si era inconsapevolmente irrigidito, e dopo aver lanciato a Jeremy uno sguardo impaurito, si liberò dalla sua stretta arretrando di qualche passo.
Jeremy parlò con voce calma, studiando nel frattempo con occhi preoccupati l’espressione scombussolata di Ivan:
-E’ stato un incidente, signora. Non ci faccia caso-
Ivan non sentì la risposta dell’altro: a furia di arretrare era arrivato a poggiare la schiena contro il muro della casa e in quel momento tutte le sue energie erano concentrate nel tentativo di non tornare con i ricordi alla sera prima. Si stava ancora massaggiando le tempie, quando si sentì sospingere per gli scalini verso l’interno dell’abitazione.
-Ivan? Ivan!-
Il ragazzo realizzò giusto in tempo di trovarsi nel salotto, seduto sul divano, con Jeremy in poltrona che gli sventolava le dita davanti al viso: appena in tempo per bloccare il palmo della mano di Terence pronto a colpirlo su una guancia.
Ivan lo guardò con tanto d’occhi, lasciando andare di botto la mano che ancora stringeva.
-Era per il tuo bene-
Disse l’altro con una scrollata di spalle, alludendo allo schiaffo evitato, prima di accomodarsi sul tappeto in posizione yoga e telecomando alla mano, cominciare a fare uno zapping furioso.
Jeremy soffocò una risatina sotto lo sguardo inquieto del ragazzo, e rivolgendosi a lui come per farlo contento propose:
-Se vuoi ancora uscire, puoi provare dalla porta sul retro-
Ivan scosse la testa frustrato e alzando gli occhi al cielo si distese supino sul divano:
-Mi è passata la voglia-
Sputò fra i denti, quasi con rabbia, sebbene la colpa del suo nervosismo non fosse da attribuirsi che alle chiacchiere della vicina.
Sentendo quelle parole Terence abbassò il volume al televisore e, scambiata un’occhiata con il fratello, si rivolse ad Ivan:
-Allora ti va di cominciare a lavorare?-
L’altro in risposta emise solo un suono interrogativo, non capendo a cosa si riferisse la domanda.
Come al solito fu Jeremy a prendere la parola, aiutando Ivan a capire:
-Dobbiamo iniziare a parlare: pianificare la copertura che useremo. Hai visto quante domande ha fatto la signora Applewear: dobbiamo prepararci sulle risposte da dare-
Ivan piegò le braccia dietro la testa, posizionandosi in modo tale da riuscire tranquillamente a guardare entrambi i giovani in viso:
-Ad esempio quindi che ho diciassette anni… zio?-
Chiese il ragazzo con tranquillità, calcando volutamente sull’ultimo appellativo.
Jeremy sorrise avvertendo la rabbia repressa dietro quella domanda, contrariamente a Terence che invece gli rivolse quasi un ghigno.
-Sì, diciassette, ho capito. Non sbaglierò più, nipote-
Concluse l’altro provocandolo appositamente, ma Ivan cadde nella trappola senza accorgersene:
-Non chiamarmi così! E ficcati bene in testa che non sono un bambino! Non puoi dirmi cosa fare né quando andare a letto né altro! Tu… non puoi… e basta! Sono stato chiaro?-
Era scattato in piedi nella foga della sfuriata e fu quando i due davanti a lui annuirono sorridenti in contemporanea, che capì il tranello che gli aveva teso Jeremy.
Tornò a sedersi con uno sbuffo contrariato, cercando di ignorare la vergogna che minacciava di assalirlo: non voleva dargliela vinta, per niente al mondo.
-Stai meglio? Ho sempre detto che una sana sfuriata, migliora le cose-
Sollevò appena lo sguardo verso Jeremy, che continuò indifferente:
-Ora, tornando a noi: tu nipote, noi zii. Tu figlio di Amanda: figlio diciassettenne-
Ivan incontrò lo sguardo interrogativo dell’altro e annuì frettolosamente.
Sì, fino a quel punto c’era.
Continuarono così per ore: accordandosi persino sulle cose più insignificanti. Al punto che Ivan arrivò a chiedersi se non fosse tutto un modo per conoscerlo meglio.
Non ci si scervellò troppo, però: in fondo anche lui stava venendo a conoscenza di tante cose. Informazioni che lo lasciarono basito: stupito dal fatto che quei due riuscissero anche solo a parlarsi. A quanto pareva infatti i fratellini erano esattamente l’opposto l’uno dell’altro, e non solo fisicamente.
Se Jeremy era democratico, amante del gioco d’azzardo, vegetariano, appassionato di scienze e di corse automobilistiche; Terence era repubblicano, riflessivo, letterato, esperto di arte… di quelli che in definitiva avrebbero tranquillamente potuto passare il loro tempo a lanciarsi continue frecciatine, discutendo su ogni cosa.
Eppure, per quanto strano, fino a quel momento Ivan non li aveva mai sentiti battibeccare, e anzi gli erano sempre sembrati molto solidali e uniti.
Del canto suo Ivan cercò di rivelare il meno possibile su di sé: giusto cose del tipo che era allergico allo zenzero, che non sopportava i film romantici o del suo odio per il football. Si astenne però dallo specificare il perché di certe affermazioni, evadendo le loro domande.
Non era semplicemente ancora pronto ad aprirsi.
E loro lo capirono, non insistendo più di tanto.
Passarono poi ad altri argomenti, come il lavoro che Jeremy aveva già trovato nell’officina del posto, mentre Terence aspettava di sapere se lo avrebbero preso come capocuoco o semplice assistente nel ristorante più grande che c’era, probabilmente anche l’unico.
Per quanto sembrasse impossibile, avevano fatto tutto nelle misere dodici ore in cui lui era crollato: l’unica cosa ancora urgente da fare era la sua iscrizione. Fu quella frase a far scattare Ivan ormai pressoché addormentato:
-Cosa?-
Quasi gridò, sgranando gli occhi in direzione dei due che giocavano a carte accovacciati sul tappeto.
Jeremy ricambiò il suo sguardo con aria interrogativa, mentre Terence gli lanciò un sorrisetto sardonico che riuscì soltanto a far inquietare maggiormente il ragazzo.
-Devi andare a scuola, Ivan-
Un ululato ruppe il silenzio che si era creato in seguito a quell’affermazione, risvegliando Ivan dalla sua sorpresa.
-Ma perché? Siamo a metà aprile, Jeremy! Fra poco più di un mese la scuola chiude!-
Si lagnò sperando di averla vinta almeno in quella discussione.
Ma l’altro scosse la testa sorridendo. L’abbaiare energico  di un cane invase il salotto, entrando dalla finestra semi aperta che lasciava filtrare una piacevole brezza quasi estiva.
-No, Ivan. Senti: la vita riprende. E qui più che mai dobbiamo sembrare normali. Perciò andrai a scuola. Domattina ti accompagniamo noi e vediamo che si può fare-
Ivan si mise a sedere, massaggiandosi le tempie, come faceva quando era infastidito da qualcosa o particolarmente concentrato: e in quel momento stava cercando un qualche modo per evitare di dover riprendere gli studi, tentando nel frattempo di isolare l’abbaiare frenetico che continuava senza accennare a smettere.
-Jeremy… non sono proprio nel mio periodo migliore. Non mi va di chiudermi in una classe ogni mattina e…-
Jeremy poggiò le carte che aveva in mano per terra, mostrando così all’avversario di aver vinto ancora una volta; poi si voltò verso il ragazzo che ancora protestava:
-No. Andrai a scuola, punto. Non è così tragico il liceo, dai-
Fece per prendere le carte lanciate sgarbatamente da un Terence frustrato sul tappeto e rimischiare il mazzo, quando gli sovvenne un’altra cosa:
-Ah, a proposito: tu comunque presta un po’ di attenzione in generale, mi raccomando. Cioè cose del tipo non parlare troppo di te con chi non conosci, non andartene sempre in giro da solo, tienici informati su qualunque risvolto e…-
Ivan si alzò in piedi, avviandosi verso la finestra nella speranza che chiudendola il latrare del cane sarebbe rimasto escluso fuori, ma invano. Dando un pugno rabbioso al vetro, guardò Jeremy e con un sopracciglio inarcato concluse il discorso per lui:
-… E non accettare mai caramelle dagli sconosciuti, vero mamma?-
Jeremy sorrise, divertito dalla sua frase. Terence invece annuì serio e fissando Ivan negli occhi mormorò:
-Già: potrebbero essere pillole di cianuro-
Gli altri due si voltarono a guardarlo: Jeremy con fare biasimevole e Ivan ancora indeciso se prendere o meno la sua frase come uno scherzo. Non si poteva mai sapere con Terence…
Il giovane si alzò, soddisfatto dalla reazione ottenuta e si incamminò verso la cucina, lasciando il fratello intento a mischiare le carte e Ivan con la testa premuta contro il muro.
Gli stava per venire il mal di testa.
Se lo sentiva: come sentiva quell’odioso abbaiare.
Prese la decisione senza pensarci sopra due volte e in pochi passi raggiunse la porta spalancandola di botto. Scese i pochi scalini quasi di corsa, gridando, incurante del fatto che i vicini sentissero:
-Brutto sacco di pulci! Ti decidi a smetterla di rompere maledettamente e…?!-
Ivan si era fermato, troncando la sua sfuriata immediatamente non appena aveva messo piede in cortile: il cane che abbaiava era fermo ai piedi della quercia, a pochi passi dal ragazzo.
Quando era apparso Ivan l’enorme pastore tedesco si era subito zittito, smettendo di tirare il guinzaglio che lo teneva legato.
Il ragazzo inquadrò subito il proprietario della piccola mano bianca che tentava inutilmente di tirare via il cane: nonostante fosse già buio, i lampioni in strada rischiaravano abbastanza bene la scena.
Una ragazza abbastanza alta, esile, vestita con una semplice salopette di jeans ed una magliettina celeste, fissava Ivan con i suoi occhioni azzurri spalancati dalla sorpresa e anche un po’ dalla paura si accorse il ragazzo.
Sorrise subito cortese, sperando di poter rimediare alla pessima figura appena fatta.
Continuò a studiare la ragazzina, notando che sebbene fosse alta, gli arrivava appena alla spalla, spostò poi lo sguardo sui lunghi capelli lisci e biondi che teneva legati in una coda di cavallo.
Sarebbe potuta essere davvero bella se solo si fosse curata un po’ di più, pensò Ivan.
Ma poi si corresse fra sé e sé, notando le lentiggini che coprivano il visino dolce ed abbronzato di lei: era bella anche così.
Si avvicinò di qualche passo, e dopo aver lanciato uno sguardo in tralice al cane che con un guaito si mise a sedere, si rivolse a lei:
-Scusami. Non volevo gridare: è solo che il cane…-
Lei lo interruppe, facendogli segno di fermarsi con la mano e disse, a voce tanto bassa che Ivan dovette sforzarsi per capirla bene:
-No no, non preoccuparti. Lui è Finster-
Spiegò indicando il cane, per poi continuare:
-Lo puoi chiamare anche Fin. Ho cercato di farlo smettere, ma c’è un gatto sull’albero e Fin si è come imbestialito e finchè non sei uscito tu…-
Ivan annuì, continuando a sorridere, sperando che la ragazza perdesse quella sua aria spaurita: aveva un’aria così spaventosa?
Lei rispose al sorriso, mostrano i denti bianchi e perfetti. Strinse poi la coda in una mano, iniziando a giocare nervosamente con i capelli: prendendoli e lasciandoli con le dita.
Tirò quindi il cane per il guinzaglio e iniziò a retrocedere verso il marciapiedi.
Ivan la guardò allontanarsi senza sapere bene cosa fare, alzò una mano in segno di saluto e lei agitò la sua incamminandosi lungo la strada. Dopo pochi passi si fermò, girandosi nuovamente verso il ragazzo e alzando un po’ la voce per farsi sentire gli chiese:
-Senti, ti dispiacerebbe provare a far scendere di lì il gatto? Io… mi sento in colpa: Fin lo avrà spaventato a morte-
Ivan annuì serio, sorprendendo persino sé stesso con quel gesto: la osservò ancora un po’, mentre svoltava l’angolo, poi fece per tornare in casa.
Sul primo scalino però si fermò, guardando la quercia con la coda dell’occhio: doveva?
Ci pensò su per un po’, e in pochi passi tornò ai piedi dell’albero. Individuò subito il gatto rosso, rannicchiato su un ramo, per fortuna dei più bassi. Facendo leva con le braccia si sollevò lungo il tronco, cercando di raggiungere l’animale.
Ma il gatto non sembrava minimamente interessato a essere preso: fissava Ivan con un paio di occhi verdi, senza spostarsi di un millimetro. Il ragazzo cercò di avvicinarglisi di più, mettendo un piede sul ramo alla sua destra, e spostando la testa attraverso le foglie.
-Si chiama Zorba-
La voce giunta dal basso lo fece trasalire, rischiando di farlo anche cadere data la posizione assai instabile in cui si trovava. Per fortuna riuscì ad aggrapparsi saldamente al tronco, evitandosi così il capitombolo. Ivan guardò con astio verso il basso, vedendo un ragazzo seduto sul prato sotto di lui. Aveva i capelli ricci e castani, una corporature esile sebbene allenata, ed era molto abbronzato, come tutti in quel paese, a quanto aveva potuto vedere Ivan.
-Mi hai fatto prendere un colpo-
Sibilò rivolto al ragazzino, che con aria innocente gli fece spallucce:
-Il gatto è mio: credevo di aiutarti-
Gli rispose a tono, prima di muovere le dita sul prato. Ivan osservò quel gesto senza capire, poi sentì un fruscio alle sue spalle e si voltò rapido in direzione del gatto. Ma Zorba non era più là.
Ivan riabbassò lo sguardo, per vedere il gattino accoccolato fra le braccia del padrone.
Con un salto scese dall’albero, e lanciata un’occhiata di fuoco ai due al suo fianco fece per andarsene. La voce del ragazzo lo fermò, costringendolo a girarsi con uno sbuffo contrariato:
-Io sono Mattia, comunque. Abito qui di fronte-
Ivan annuì, indifferente a quella notizia. Ma il ragazzino, probabilmente appena quattordicenne, non demorse, alzandosi in piedi e continuando a parlare:
-Tu sei Ivan, vero? Si parla già di te, sai? Ci vedremo sicuramente a scuola, comunque, e volevo proporti un sacco di cose: sai com’è tu sei il nuovo arrivato, lo straniero! Cioè, dico, è fantastico! Poi hai pure quell’aria da cattivo ragazzo, tormentato anche, figurati: faremo una strage! Hai intenzione di combinare qualcosa, vero? Perché…-
Ivan sorrise involontariamente davanti a quella fiumana di parole, ma verso la fine iniziò a scuotere la testa in senso di diniego:
-No, Mattia: non ho intenzione di combinare niente. Mi dispiace se ti ho deluso, ma credo me ne starò buono-
Mattia si girò un attimo verso casa sua, messo in allerta dalla luce nel portico che si era accesa, per poi tornare a guardare rapido Ivan:
-Dici così ora: ma ne riparliamo fra tre giorni e vediamo se non hai cambiato idea. Te lo dice uno che vive in questo mortorio da quattordici anni, fidati. Ora vado, ci si vede-
Scappò a razzo, salutando appena Ivan con la mano.
Aveva indovinato l’età almeno, pensò il ragazzo, passandosi una mano fra i capelli.
Quattordici anni in quel mortorio… sperò che Mattia si sbagliasse, e che resistesse tranquillo molto più di tre giorni.
Ancora una volta fece dietro front per salire gli scalini, ma venne nuovamente fermato.
Fu un dolore lancinante allo stomaco a bloccarlo sul gesto.
Una pressione penetrante fra le scapole, che con suo grande sconcerto vide gli era stata provocata da un bastone: un randello ancora premuto nel punto dolorante.

 

*

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Capitolo 5
*** Falso allarme ***


falso allarme

*

Il figlio del demonio


 

* Falso allarme*

 

Ivan lanciò uno sguardo astioso alla figura ferma al suo fianco.
Piegato in due per via del colpo ricevuto, non era ancora riuscito a vedere di chi si trattasse.
Per qualche istante aveva quasi temuto potesse trattarsi della nonnina della porta accanto, che per qualche motivo non del tutto chiaro, avevo deciso fosse giusto dargliele di santa ragione.
Poi però dovette ricredersi, sentendo la voce che gli fece una domanda: era roca, bassa, quasi soffocata, come di qualcuno reduce da una sbronza.
- Sei Ivan?-
Il ragazzo riuscì in quel momento a rimettersi in piedi, e studiò l’uomo che aveva davanti: di pochi millimetri più basso di lui, pelato, con solo un paio di corti baffetti a coprirgli il labbro superiore.
L’uomo lo fissava con astio, ed al tempo stesso aveva stampato in volto un sorriso quasi sardonico: come se lo odiasse e fosse contentissimo di poter finalmente infierire su di lui.
A confermare le supposizioni di Ivan, dopo meno di un minuto, il randello si mosse di nuovo in direzione del ragazzo, colpendolo di struscio sul braccio. Ivan era arretrato di scatto, non capendo appieno cosa stesse succedendo, non ebbe il tempo di pensare ad altro che l’uomo parlò di nuovo, ringhiandogli quasi contro:
- Rispondi, ragazzino!-
Ivan fece per ribattere, con le parole più secche e taglienti che gli venissero sulla lingua, ma all’ultimo si bloccò, con la bocca semiaperta, ricordando improvvisamente le raccomandazioni di Jeremy: “Attento a quello che dici, e soprattutto a chi lo dici”… certo quel tizio non gli sembrava una persona molto affidabile.
Il ragazzo si guardò rapido alle spalle, indeciso sul da farsi, frustato dal fatto che i fratellini smettessero di essere onnipresenti proprio nella situazione meno indicata. Sentì un movimento dietro di sé, e cercò di proteggersi, prevenendo il nuovo colpo di randello, ma la botta non arrivò.
Ivan tornò a girarsi verso l’uomo, accorgendosi casualmente del riflesso di luce sotto il suo collo: studiò meglio la scena, notando con sgomento la figura di Terence alle spalle del suo assalitore, che teneva la lama di un coltello ben ferma appena sotto il pomo di adamo dell’altro.  
- Torna in casa, Ivan-
Il ragazzo spalancò ancora più gli occhi, colpito dal tono duro e minaccioso dell’altro che non gli aveva mai sentito usare, quindi annuì frettolosamente, girandosi e iniziando a salire gli scalini. Aprendo la porta riuscì solo a vedere lo spostamento di fronde, dentro le quali probabilmente erano spariti i due uomini, prima di venir tirato brutalmente per la manica da Jeremy, che tutto sorridente gli chiese:
- Allora, la ragazzina chi era?-
Ivan con uno strattone deciso riuscì a liberare il braccio, per poi fermarsi in mezzo al salotto, fissando scioccato l’espressione candidamente innocente dell’altro:
- Cosa?! Ma… Dio mio! Uno sconosciuto mi assale, prendendomi a randellate, chiedendo…-
Jeremy fece spallucce, con fare non curante, come se la cosa non fosse degna di essere considerata:
- Sei stato bravo: non hai risposto impulsivamente, e per il resto oltre qualche livido non rimarrà niente. Non hai risposto: la biondina?-
Ivan rimase inizialmente in silenzio, studiandolo stralunato, per poi riprendere con maggiore ardore di prima, trattenendosi a stento dal cominciare a gridare:
- Prendi in giro? No, dillo se è così! Terence stava per tagliare la gola a un tizio sconosciuto e tu mi chiedi della biondina?!-
L’altro sorrise, sedendosi sul divano e scuotendo la testa, comprensivo:
- No, che non gli taglierà la gola. Al massimo ci si divertirà un po’: stuzzicandolo, ma niente di più-
Il ragazzo crollò a sedere sulla poltrona, prendendosi la testa fra le mani, e mormorando fra se e se frasi sconnesse. Jeremy nel frattempo rideva sommessamente, divertito dall’aria sconvolta di Ivan.
Gli si avvicinò, e facendo leva sui talloni si piegò in modo da trovarsi alla stessa altezza del volto del ragazzo. Quando questi alzò lo sguardo incontrando il suo gli chiese con voce apprensiva:
- Ti ha fatto male?-
Ivan scosse la testa, leggermente sollevato dal fatto che l’altro sembrava non voler più soprassedere sull’accaduto. Fece per chiedere qualcosa ma Jeremy lo precedette:
- Non ti devi preoccupare. Ci siamo apposta noi, te l’ho già detto. Ora perché non vai a dormire?-
Il ragazzo scattò improvvisamente in piedi, rischiando quasi di far perdere l’equilibrio a Jeremy che si alzò di riflesso, imitando Ivan.
- No che non vado a letto! Ma che ti passa per la testa?! Ti sembra il momento di dirmi di…-
Le aspre parole del giovane furono interrotte dal rumore della porta che si apriva: si voltarono entrambi verso Terence che entrava sorridente, con il coltello nella mano destra sporco di sangue.
Il giovane si avviò verso la cucina, ignorando i due fermi in prossimità delle scale che lo fissavano. Aprì quindi il getto d’acqua nel lavandino e prese a sciacquare la lama con cura.
Sentì distintamente il rumore di una sedia del tavolo che si spostava e quello della porta che veniva chiusa sgarbatamente. Si voltò appena un po’, per osservare gli altri che lo avevano seguito. Scambiò prima uno sguardo complice con il fratello e poi, evitando di incontrare gli occhi perplessi di Ivan, tornò a concentrarsi sul suo lavoro.
- Ti sei divertito, dì la verità-
A parlare era stato Jeremy, che in quel momento tratteneva a stento una risata: aveva notato sul viso del fratello una strana aria felice, cosa che accadeva solo quando c’era un po’ di movimento.
Terence gli sorrise di rimando, ammiccandogli, e mormorò divertito:
- Sì, giusto un pochino. Iniziavo ad annoiarmi, Jerry-
Jeremy del canto suo a quel punto non si trattenne più, scoppiando a ridere apertamente:
- Non dirlo a me Terry! Mi ci è voluto uno sforzo enorme per non seguirti a ruota quando sei uscito-
Ivan aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola. Guardava scioccato i due continuare a sogghignare, scambiandosi mezze frasi che provocavano maggiore ilarità.
Quando Terence si avvicinò a Jeremy, muovendo il coltello come ad imitare una lotta immaginaria, e l’altro in risposta estrasse rapido un tagliacarte dal calzino, non riuscì più a trattenersi:
- E basta! Ma che razza di gente siete?! Io… io uscirò di testa, lo so! Voi… lo hai ucciso?-
Entrambi si fermarono al suo grido, voltandosi a guardarlo sorpresi. Ivan con il viso tirato dall’inquietudine, se ne stava appoggiato allo stipite della porta, muovendo ansiosamente le mani, incapace di rimanere fermo.
I fratelli si scambiarono uno sguardo, poi fu Jeremy a parlare:
- No che non lo ha ucciso, te l’ho detto già prima, Ivan-
Il ragazzo però non ne sembrava convinto: accennando con il capo al coltello mormorò:
- E il sangue?-
Terence sorrise ambiguo prima di rispondere candidamente:
- Ci ho solo giocato un po’, ma era un falso allarme. Tranquillizzati ragazzo, i cattivi devono ancora trovarci-
Se doveva essere un discorso di incoraggiamento, ci era riuscito ben poco, e a farglielo notare fu il fratello che lo colpì violentemente nel fianco con una gomitata. Scuotendo la testa con fare rammaricato si rivolse al ragazzo in piedi di fronte a lui che lo fissava sconcertato:
- No, non ci fare caso Ivan. Lui scherza e…-
- Non scherzo e il ragazzo lo sa, Jeremy. Smettila di trattarlo come se non fosse in grado di affrontare la cosa. Ne ha già passate abbastanza da poter essere preso in considerazione non credi?-
Ivan sgranò ancora più gli occhi, prima perché non aveva mai sentito l’altro parlare così tanto e poi perché si era appena reso conto di essere l’oggetto della discussione.
- Proprio perché ne ha passate tante non credo ci sia bisogno di parlare già di quello che potrebbe anche non succedere!-
- Non succedere? Ma a chi vuoi prendere in giro? Sai bene quanto me che è solo questione di tempo. E se pensi che il ragazzo possa avere paura, bene, meglio così: la paura fortifica e soprattutto rende prudenti, Jeremy-
- Sono passati meno di due giorni, Terence. Smettila di comportarti così, non aiuti nessuno-
Terence stava per controbattere ancora, ma fu interrotto dalla voce di Ivan: resa più roca dal disagio in cui si sentiva, e dallo sforzo che stava compiendo per non cedere al terrore.
- Non ho paura-
Lo aveva detto a mezza voce, quasi non voleva nemmeno essere sentito. Era una cosa che ci teneva a specificare, per quanto potesse essere falsa. Non gli andava di essere messo da parte, e sebbene sembrasse strano persino a lui, in quel caso si trovava d’accordo con il gelido Terence.
I due giovani tornarono a sedere al tavolo, ricomponendosi rapidamente: non avevano certo creduto alle parole di Ivan, ma finsero non fosse successo niente. Jeremy gli fece segno di prendere posto, sorridendogli calorosamente.
- Ci devi scusare, Iv.  Ma non siamo abituati a trattare con… cioè di solito siamo più… è la prima volta che ci capita una situazione del genere: è stata una decisione del capo, quasi improvvisa. Naturalmente non…-
- Posso prendere una pistola?-
Ivan  lo aveva chiesto con aria spavalda, solo negli occhi vi si poteva leggere l’inquietudine. Ci stava pensando da quella mattina, e la quasi aggressione lo aveva convinto a chiederlo.
Anche se, in vista di un rifiuto, Ivan non si sarebbe certo fermato.
Jeremy era rimasto con la bocca leggermente aperta a quella domanda inaspettata: aveva sentito bene?
- Vorresti una pistola?-
Chiese, accertandosi così di non essersi sbagliato, Ivan annuì deciso continuando con condiscendenza a parlare:
- Sì, una qualunque è chiaro: una beretta, o una clock, non fa differenza-
- E dove… perché?-
Il ragazzo fece spallucce prima di rispondere:
- Ho visto l’arsenale nel mio armadio e, così, per sicurezza… non si sa mai-
Jeremy annuì sconvolto: rivolse un occhiataccia al fratello che alzando gli occhi al cielo spiegò:
- Ho riempito ogni angolo della casa, in caso di necessità così non avremo problemi-
L’altro in risposta emise uno sbuffo infastidito per poi riprendere il discorso:
- No! Niente armi! Non ce ne sarà bisogno, Ivan! Come te lo devo dire? Se inizi ad assecondare le pazzie di quest’altro non ne usciremo vivi ti assicuro-
Bloccando con il palmo aperto la replica del fratello continuò imperterrito, fermando così anche le proteste del ragazzo:
- Niente pistole. Punto. Ora vai a letto che è tardi-
- Non ho intenzione di…-
Le ultime parole gli vennero smorzate in gola da uno sbadiglio ed Ivan si maledisse per quell’errore.
Jeremy infatti tutto sorridente accennò con la testa alle scale, porgendogli allo stesso tempo una pasticca di sonnifero che Ivan, se anche contrariato e frustrato, afferrò prontamente.
- Non prenderla tutta, altrimenti domani mattina nemmeno i cannoni ti svegliano-
Era stato Terence a suggerirglielo, accendendosi una sigaretta e facendogli ciao con la mano; Jeremy si unì a lui nel salutarlo, mimandogli con le labbra un “Buona notte”
Ivan non rispose a nessuno dei due, innervosito sempre più da quella situazione a dir poco tragicomica. Mentre si sdraiava vestito sul letto, però, e il sonnifero cominciava a fare effetto, il suo ultimo pensiero fu tutt’altro che rilassante: aveva un’inquietante sensazione.
Impressione che non riusciva proprio a scacciare.
Era sicuro dentro di sé che tutto doveva ancora iniziare.

 

*

Allora, grazie a tutti i coraggiosissimi che sono arrivati a leggere fino a qui ^^

Un grazie enorme a chi segue, chi preferisce e anche solo chi legge xD

Ma in particolare un bacione a chi commenta: è grazie a voi se non mi fermo e continuo questa pazza storia **  Non so come farei senza di voi!! ^^

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Capitolo 6
*** Manie suicida ***


manie suicide

Il figlio del demonio

 

* Manie suicida*

 

 

- Ivaaaaan! -

La voce l’aveva sentita: non aveva potuto farne a meno.

Probabilmente non sarebbe comunque mai riuscito ad ignorarla: si era pian piano insinuata nei suoi sogni, sconvolgendone l’andamento caotico già di per sé. Non la riconobbe né capì da dove provenisse o perché lo stesse torturando, la sentì però.

Era squillante, prorompente, invadente: terribilmente fastidiosa.

Il cervello iniziò a funzionare in automatico, lasciando che i pensieri venissero a galla.

Il primo di questi fu un’imprecazione.

Una bestemmia di quelle pesanti, che ti vergogni poi di aver anche solo potuto pensare.

In quel momento però la preoccupazione non sfiorò minimamente il ragazzo che era nel letto: con un movimento drastico e seccato si girò, cercando di allontanarsi dal rumore.

Non vi riuscì purtroppo: sembrava che il molesto schiamazzo non accennasse a diminuire.

Con un mugolio di protesta si allontanò ancora, tirandosi le coperte fin sopra la testa e gettando via il cuscino, nella speranza di riuscire a colpire il portare di guai che era sicuro non avrebbe goduto di lunga vita. Ascoltò con piacere un gemito soffocato ed un tonfo, segno che il cuscino aveva fatto il suo lavoro, la voce però dopo poco riprese più assidua di prima:

- E dai Ivaaaan! -

Fu con un ringhio sommesso che il giovane si mise a sedere, aprendo gli occhi che erano ridotti a due fessure sottili per la rabbia: non ci si comportava in questo modo, non di mattina e certamente non quando non era nemmeno riuscito a prendere ancora il caffè.

Non ci si comportava così: no, a meno che non si fosse afflitti da manie suicida.

Chiunque quindi Ivan avrebbe visto, a breve si sarebbe scontrato con qualcosa che era sicuramente più doloroso di un cuscino piumoso. Uomo avvisato, mezzo salvato.

E a fottersi il fatto che non fosse stato avvisato in realtà.

Forse per il residuo torpore del sonno non lo riconobbe subito, quando poi riuscì ad inquadrarne per bene la figura, squadrando con odio i capelli castani acconciati in un ammasso informe di ricci, le labbra del ragazzo si strinsero quasi in uno spasmo mentre mimava a mezza voce un “ Tu! ” che esprimeva senza problemi tutto il disprezzo e la rabbia del momento.

- F.U.O.R.I ! -

Lo aveva urlato, con tutto il fiato che i suoi polmoni riuscivano a cacciare appena sveglio.

E non era poco.

A sentirlo furono tanti, primo fra tutti il malcapitato che in fin dei conti se l’era cercata.

Poi arrivò alle orecchie di Jeremy, che sentendolo si piegò un po’ su se stesso, stringendosi nelle spalle e socchiudendo gli occhi.

Se lo aspettava ad essere sinceri, Terence per altro glielo aveva anche detto.

Lui però se ne era infischiato altamente ed anche in quel momento non è che la cosa lo interessasse più di tanto. Alzando gli occhi al cielo tornò a concentrarsi sull’arma che teneva fra le mani, riprendendo il lavoro di pulizia della canna da dove si era fermato come niente fosse.

Non si era perso la risatina soddisfatta del fratello, poco lontano da lui, impegnato ai fornelli, solo aveva fatto finta di niente: non aveva alcuna intenzione di dargli anche la più piccola soddisfazione.

Terence non sembrava della medesima opinione nel frattempo: mentre con una mano stringeva l’elastico con cui aveva raccolto i capelli, con l’altra aveva preso ad agitare una spatola nella sua direzione, continuando sempre a sghignazzare compiaciuto.

- Devi ammetterlo su: chi aveva ragione ? -

- Non si sono ancora sentite urla di dolore -

Jeremy annuì come ad auto convincersene: non lo stava ancora malmenando.

Proprio mentre se lo ripeteva un tonfo fortissimo giunse dal piano superiore, poi sentì il fracasso di qualcosa che veniva scaraventato contro un muro, quindi per concludere un ultimo colpo sordo.

La pistola quasi gli scivolò dalle mani per la sorpresa: la posò rapidamente in una tasca dei pantaloni, alzando quindi lo sguardo per incontrare quello del fratello.

- Dici che… -

Terence scosse la testa, girandosi verso il piano di cottura e dandogli le spalle, concludendo la frase per lui in tono decisamente divertito:

- Ucciso ? No, non credo. Se sali ora capace che lo salvi ancora -

Jeremy scattò in piedi incredulo, avviandosi a passo svelto verso le scale.

Salì la prima rampa incerto, indeciso su come affrontare la situazione.

Fu a quel punto che notò la sagoma del ragazzino accasciata sul parchè, con le spalle al muro e un abat-jour in pezzi affianco.

Spalancò gli occhi facendo gli ultimi scalini a due a due e raggiungendo Mattia:

- Dio santo! Stai bene !? -

Si accovacciò di fronte al ragazzo in preda all’ansia, studiandone la figura con sguardo colpevole.

L’altro ricambiò lo sguardo sorridente, annuendo come se niente fosse:

- Certo! Non si preoccupi Jeremy sto benissimo. Adoro Ivan! La mattina è intrattabile quasi quanto mio padre -

Jeremy scosse la testa e alzandosi gli porse una mano per aiutarlo a fare lo stesso.

- Quasi !? -

Mattia annuì convinto prima di rispondere, sicuro di sé.

- Naturalmente: se avessi osato svegliare mio padre come ho fatto con Iv. probabilmente ora non respirerei più -

Lo disse come fosse la cosa più naturale del mondo, incurante del fatto che dall’interno della camera non provenissero altri rumori che ante e cassetti sbattuti con forza brutale.

Quando poi giunse chiaramente anche un ringhio sommesso, seguito da una sequela impressionante di imprecazioni, il ragazzo smise di sorridere stringendo un po’ gli occhi e atteggiandosi in un’espressione impensierita mentre si accarezzava con la mano dietro la testa.

- Forse non dovrei dare per certo nemmeno che una volta uscito mi lascerà vivo, vero ? -

Lo chiese con sincera curiosità, accennando a Jeremy con il capo ed aspettando una qualche risposta, rassicurante o meno.

L’altro gli sorrise prendendolo a braccetto e spingendolo giù per le scale, mormorando a mezza voce in modo che sentisse solo lui:

- Farò di tutto perché ti lasci in vita, non preoccuparti -

Ebbero appena il tempo di entrare in cucina e prendere posto al tavolo che al piano di sopra una porta venne aperta e chiusa violentemente, quindi dei passi lenti e irati risuonarono distintamente.

La risatina sommessa di Terence era l’unico altro rumore.

- Meritereste di morire tutti. In modo atroce. Lentamente. Dolorosamente. Il più possibile. Non vi assicuro che sarà per mano mia ma non crediate che non lo desideri immensamente -

Ivan si era affacciato in cucina, poggiandosi allo stipite della porta con le spalle e squadrando i tre uomini con reale disprezzo ed odio. Che volesse o meno essere una minaccia quella che aveva appena pronunciato, era stata comunque paurosamente inquietante.

Tre paia d’occhi erano puntati su di lui: su quel ragazzo alto in jeans scuri e con una camicia nera che sembrava il demonio in persona tanto i suoi occhi lanciavano saette.

Ivan si passò una mano sul viso, soffermandosi con il palmo sulla fronte per massaggiare le tempie.

Fece quindi scorrere le dita fra i capelli e reclinò la testa all’indietro;

Non si sentiva più un fiato, neanche Terence ridacchiava. Fu sempre il ragazzo a parlare, con voce meno adirata questa volta ma ancora altamente contrariata, e a rompere quel silenzio assordante:

- Forse non lo sapevate e per questo ci tengo a dirlo, così che non ricapiti più una cosa del genere. E’ per il bene di tutti, vi assicuro: non venite più a svegliarmi. Mai più. Mai. E’ importante che sia chiaro: ne va della salute fisica e mentale di tutti. Non sopporto che mi si svegli, men che meno come ha fatto Seth qui. Non va. Davvero. Non so come sia possibile che tu sia ancora vivo, Seth. Poco ci è mancato che ti defenestrassi… -

- Caffè ? -

Terence si era avvicinato di soppiatto, piantandogli una tazza enorme e fumante sotto il naso.

Ivan si interruppe, guardando alternativamente la tazza e Terence, poi senza dire altro, con una semplice alzata di spalle afferrò la tazza.

Cominciò a sorseggiarlo lentamente, mentre i tratti del suo viso sembravano addolcirsi attimo dopo attimo.

Sempre bevendo si allontanò piano, aggirandosi per la casa.

- Abbiamo scoperto come placare il demonio, allora -

Jeremy sogghignò, rispondendo prontamente all’espressione del fratello che annuiva soddisfatto.

Mattia aveva gli occhi ormai costantemente spalancati: fissava prima uno poi l’altro abitante di quella casa e non riusciva a nascondere le proprie emozioni ed impressioni che ondeggiavano dalla sorpresa alla gioia.

Fece per dire qualcosa ma venne interrotto da un lamento soffocato.

Si voltò trovandosi di fronte un Ivan nuovamente alterato. Osservò con rimpianto la tazza già vuota e dopo aver lanciato un’occhiata veloce alla caffettiera purtroppo vuota, si preparò al peggio.

- Cos’è ?! -

Dicendolo sollevò con gesto stizzito uno zainetto rosso e nero.

Lanciò uno sguardo allo zaino, guardandolo con aria schifata, per poi tornare a puntare gli occhi su Jeremy e Terence.

- Non sono milanista! -

Mormorò a denti stretti con tono accusatorio, continuando a tenerlo in alto e ben lontano.

- Iv… è per la scuola -

Jeremy lo aveva detto con naturalezza, come se la cosa fosse ovvia e banale ma Ivan scosse la testa vivacemente, perdendo però l’aria infuriata, sostituita velocemente da qualcosa che sembrava un misto fra disperazione e rassegnazione.

- Oggi è lunedì -

Non era una domanda e nemmeno un’affermazione.

Era una semplice e pura constatazione.

- Sì -

Ivan abbassò lo zaino, lasciandolo cadere ai suoi piedi e facendo una faccia da condannato a morte.

- Non ci credo… devo andare a scuola ? -

Quasi non si era sentita la domanda tanto la voce era uscita esile e provata da quelle labbra che sembravano tendere verso il basso tanta l’angoscia che in quel momento lo affliggeva.

Jeremy e Terence annuirono in contemporanea, con espressioni serie che non ammettevano repliche.

- Perché tu e Mattia non vi avviate ? Noi vi seguiamo fra un po’ e finiamo di accordarci con il preside, anche se ormai è già tutto sistemato: non ci saranno problemi di alcun tipo -

Ivan annuì svogliatamente, afferrando lo zaino e lanciandoselo in spalla con furia ed al tempo stesso in un movimento pieno di eleganza innaturale.

Senza salutare si avviò fuori dalla cucina dopo aver lasciato la tazza sul tavolo e con passo spedito uscì di casa.

Mattia aveva assistito a tutta la scena in silenzio e mentre scattando in piedi per raggiungerlo salutava i due ragazzi, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che Ivan sarebbe andato a scuola: la cosa lo entusiasmava oltre modo in maniera eccessiva, eppure non riusciva ad evitarlo.

- E’ fantastico! -

Ivan non gli rispose, osservandolo con indifferenza mentre Mattia adattava il passo a quello dell’altro ragazzo.

Il ragazzino non si scompose, mantenendo invariata la sua euforia.

Fece per riprendere il discorso quando gli tornò in mente qualcosa che prima gli era sfuggito:

- Seth ? -

Ivan si voltò appena, non capendo dove volesse andare a parare e il ragazzino annuendo continuò con voce squillante e gesticolando al contempo con le mani:

- Mi hai chiamato Seth! Più volte! Perché ? -

Ivan sorrise con aria divertita e saccente prima di rispondere:

- Mai visto “ The O.C. ? ” -

Mattia strinse gli occhi, faticando a stargli dietro nel ragionamento, ma Ivan continuò imperterrito alzando gli occhi al cielo e sbottonando i primi bottoni della camicia.

- Ecco, tu sei Seth. Ragazzino, bamboccio, ingenuo, atipico, frustrato dalla vita noiosa e monotona che si ritrova. Per quanto la cosa sia impressionante devo aggiungere che sei anche fastidioso e rompipalle quanto lui -

Mattia iniziò quasi a saltellare al fianco di Ivan, costringendolo a fermarsi e girarsi per guardarlo in viso.

Sprizzava gioia ed entusiasmo da tutti i pori e quando parlò sembrò che faticasse a non urlare come un pazzo:

- Sì, sì, sì! Sono Seth! Allora tu sei Ryan! -

- Cosa ? -

Mattia prese a fare piccoli saltelli, tenendo le mani sulle spalle del ragazzo che aveva di fronte e fissandolo con occhi luccicanti. Sorrideva candidamente, annuì senza fermarsi:

- Certo! Tu sei lo straniero! Diventeremo amici per la pelle e combinerai tantissimi guai che poi però non saranno guai! Cioè… niente di eccessivamente grave, che risolveremo e che però movimenterà comunque le cose! Sarà fantastico! Assolutamente eccezionale e noi… -

Ivan gli piantò saldamente una mano sul capo, spingendolo e trattenendolo per terra fermo.

Scosse la testa. Una sola volta.

In modo perentorio e incorruttibile.

- NO -

Mattia provò a ribattere ma Ivan non glielo permise: prese un bel respiro e continuò.

- Credevo di essermi già spiegato: tu sarai anche una piaga come Seth ma io non sono e non sarò Ryan. Non ho intenzione di combinare un bel niente. Ribadisco che me ne starò buono per un po’ e al massimo quello che potrà succedere sarà il mio suicidio -

La faccia di Mattia assunse per qualche istante un’espressione delusa e risentita, poi Ivan mormorò qualcosa a voce bassa, come fosse una maledizione e Mattia tornò a sorridere.

“ Ah no, quasi dimenticavo: o il mio suicidio o il tuo omicidio, perdonami ”

- Sei fortissimo, lo sai ? -

Ivan lo guardò, temendo seriamente per la sanità mentale del ragazzo che senza problemi continuava a trasudare allegria pura.

- Devi avere qualche problema secondo me -

Mattia ignorò la frase dell’altro prendendo a camminare e trascinandoselo dietro per la manica.

- Siamo quasi arrivati ! -

Ivan socchiuse gli occhi non capendo dove vedesse la scuola il ragazzino, così con voce carica di sconforto chiese:

- Dove ? Non vedo ragazzi -

Mattia allungò il braccio, indicando dritto di fronte a sé.

Ivan seguì la direzione del dito con lo sguardo e vedendo finalmente quella che era la scuola sentì un tuffo al cuore.

Cercando di capacitarsi di non star ancor dormendo sbattè più volte le palpebre e poi con un gemito soffocato pensò fra se e se che forse un Ryan Atwood sarebbe servito per davvero.

 

*

 

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Capitolo 7
*** Halloween ***


halloween

Il figlio del demonio

 

* Halloween *

 

 

Ivan lanciò uno sguardo sconvolto al piccolo cowboy che lo aveva appena superato.

Cercò di dire qualcosa, ma la cosa gli risultava alquanto difficile.

Quando però il piccolo cowboy tornò sui suoi passi, fermandosi sul ciglio della strada per sparare pallini gialli contro un indiano poco lontano, gli tornò improvvisamente il dono della parola. Con voce atona ed incredula mormorò, rivolto a nessuno in particolare:

- Sembra un film horror -

Mattia che gli camminava affianco in religioso silenzio, timoroso della possibile reazione del compagno, sentendo quelle parole si illuminò in volto.

Sollevato e divertito rispose:

- No, dai, horror no… più fantascientifico se vuoi -

Ivan si fermò, costringendo l’altro ad imitarlo. Lo squadrò, nero in volto:

- Mattia, non prendermi in giro. Siamo in maggio, o sbaglio ? -

Il ragazzino non disse niente, spaventato dal tono dell’altro e si limitò ad annuire.

Ivan annuì, poi fingendo di riflettere continuò:

- Sbaglio io, o i travestimenti normalmente si relegano ad ottobre ? -

Mattia, non sapendo bene come comportarsi, fece per dire qualcosa. Ivan fu più veloce:

- Sempre se non sbaglio, Halloween infatti è il 31 ottobre, giusto ? Mi spieghi come mai allora, qui sono tutti in costume ? No, perché non mi sembra di essermi fumato niente stamattina e … -

Mattia lo interruppe, portando le mani davanti a sé con il fare di chi vuole risolvere tutto:

- Avevo avvertito tuo zio che forse era meglio farti cominciare domani, ma lui ha insistito dicendo che invece ti saresti divertito… che così ti potevi distrarre… -

Ivan scosse la testa, più confuso di prima:

- Vi siete travestiti per me ? -

Mattia sgranò gli occhi, scuotendo rapido la testa:

- No, certo che no! Che hai capito ? -

Ivan sbuffò, portandosi una mano alla fronte e lanciando un’occhiata minacciosa al ragazzino:

- Senti, non sono io che non mi so spiegare. Ti decidi a parlare chiaro ?! -

- Allora… -

Mattia annuì ancora, prendendo un bel respiro e scrutando pensieroso attorno a sé:

- Non c’è niente da spiegare, ecco! Solo oggi ci si poteva presentare in costume. So che sembra assurdo, ma davvero da noi non è strano: ci sono anzi cose decisamente più strambe e … -

Ivan riprese a camminare, smettendo di ascoltarlo e borbottando sottovoce:

- Quindi voi così, avete deciso di ripeter Halloween ? -

Il ragazzino, di nuovo al suo fianco tutto sorridente, gli fece segno di sì.

Ivan scosse la testa, sconfortato, continuando a camminare in direzione del cortile della scuola.

- E i costumi sono estesi a … ? -

Mattia non rispose subito, non capendo la domanda. Quando parlò lo fece con titubanza.

- Tutte le scuole, se è questo che vuoi sapere -

Ivan ridacchiò, aspettandosi quella risposta. Si girò appena verso di lui, squadrandolo sovrappensiero, prima di bisbigliare incredulo:

- E non dirmi che anche tu… -

A fargli morire le parole in bocca fu però il gesto che Mattia stava compiendo: aveva infilato una mano nella cartella a tracolla, tirandone fuori una mascherina verde che fece per indossare.

Ivan lo bloccò, afferrandogli di slancio la mano:

- Starai scherzando -

Mattia sgranò gli occhi, fissandolo sospettoso ed agitato:

- Bè, no, veramente. La vorrei mettere. -

Ivan basito gli liberò la mano, portandosela sulla bocca a coprire un sorriso.

Il ragazzino leggermente risentito indossò la maschera, tornando poi a frugare nella borsa.

Ne tirò fuori un cappello da Peter Pan, con tanto di piuma colorata, che porse ad Ivan.

Il ragazzo non prese il cappello, osservandolo con le sopracciglia inarcate.

Mattia fece spallucce, porgendoglielo nuovamente:

- Jeremy me l’ha consigliato: dice che per te è perfetto -

Ivan aveva ripreso a camminare, attraversando il cancelletto d’entrata, e sentendo le ultime parole del ragazzino non riuscì più a trattenere le risate.

Cominciò a sghignazzare selvaggiamente, piegato in due dalle risa. Non poteva essere!

Doveva essere assolutamente uno scherzo, non c’erano altre spiegazioni.

Quando, con le lacrime agli occhi, riuscì a tornare in posizione eretta, fermò uno sguardo su Mattia che lo fissava senza capire.

Allungò un braccio, afferrando il cappello e mettendolo nello zaino, sempre sotto gli occhi increduli dell’altro.

Con voce ancora sconvolta dal ridere mormorò:

- Non credere che lo metterò: morirei piuttosto. Però lo prendo lo stesso… a casa provvederò a farlo ingoiare a Jeremy -

Detto questo si decise finalmente a guardarsi attorno, smettendo di focalizzare la sua attenzione unicamente su Mattia.

Con sorpresa si accorse di trovarsi già nel cortile della scuola: non si era nemmeno accorto di esserci arrivato, eppure la frotta di ragazzi che lo attorniava non lasciava altre spiegazioni.

Girando piano su di sé, lasciò vagare lo sguardo su tutti quanti: per quanto potessero essere decisamente in minoranza numerica rispetto alla sua vecchia scuola, attiravano decisamente molto di più l’attenzione. Non c’erano gruppi, o almeno non in quel momento: se ne stavano tutti sparpagliati, senza alcun ordine, chi nel giardino chi già sulle scale.

La cosa più sconvolgente era però che davvero erano travestiti: Ivan fino all’ultimo aveva sperato in uno scherzo, ma a quanto pareva si sbagliava.

Si lasciò distrarre da quell’eterogeneità: c’erano fate, eroi, vampiri, mostri…

Si accorse di star trattenendo il respiro solo quando sentì i colpetti di Mattia sul braccio che richiamavano la sua attenzione.

Con aria ancora persa lo guardò interrogativo:

- Che c’è ? -

- Vuoi scappare ? –

Ivan inarcò ancora il sopracciglio, nel gesto che Mattia aveva già imparato a temere.

- No, perché… mi sembri sconvolto e non vorrei vederti scappare a gambe levate -

Ivan accennò quello che con un po’ di fantasia poteva essere visto come sorriso.

- No, credo di no. Penso rimarrò qui. Siete strani forti, lo sai ? -

Mattia sorrise, ridacchiando cauto.

- Già. E questo è ancora niente. Entriamo ? -

Ivan seguì il movimento del capo di Mattia, individuando il portone di ingresso.

Annuì, muovendo piano i primi passi su per le scale.

Era ancora sul terzo scalino, quando sentì una risata dietro di sé. Fece per voltarsi, incuriosito, ma Mattia gli fece segno di no.

- Andiamo dai, non ci fare caso -

Ivan sollevò ancora il piede, deciso a fare come diceva il ragazzino, ma la risata eruppe di nuovo.

Si voltò questa volta, fermando immediatamente lo sguardo su tre o quattro ragazzi.

Erano poco lontani, fermi ai piedi delle scale, divertiti da qualcosa e scossi dalle risa.

Quando il ragazzo al centro lo indicò con un cenno del capo, alimentando le risate, si accorse di essere proprio lui quel qualcosa di divertente.

Mattia non appena si rese conto che Ivan aveva capito, afferrò saldamente una parte dello zaino del ragazzo, tirandolo verso l’alto.

- Iv. saliamo dai! Non farci caso -

Ivan lo ascoltò, annuendo piano e gli sorrise candido.

- Mattia, ma ti pare che me la prendo ? Non mi ascolti allora quando parlo: ti ho detto che ho intenzione di starmene buono -

Il ragazzino avrebbe dovuto sentirsi rinfrancato e rassicurato da quelle parole, eppure ancora non era tranquillo.

Continuò a tirare l’altro, leggermente preoccupato dal fatto che non si muovesse.

Ivan studiava, seriamente interessato, il ragazzo che lo aveva indicato: indossava un mantello nero, una maglietta a mezze maniche con la S di Superman e in testa, per concludere, teneva quella che sembrava tanto un’aureola.

Scuotendo la testa, il ragazzo riprese a salire le scale, divertito dall’assurdità della scena.

Mattia, sollevato, lo seguì. Non aveva fatto pochi scalini, però, che vide Ivan fermarsi ancora.

- Il nuovo arrivato, ragazzi. Non lo vogliamo accogliere come si deve ? -

Ivan sentendosi chiamato in causa tornò a girarsi: a parlare era stato lo stesso ragazzo che prima stava osservando.

Scese uno scalino, fermando gli occhi su di lui.

- Hai qualche problema ? -

Lo aveva chiesto con voce tagliente: un tono che fece rabbrividire Mattia.

Il ragazzo ai piedi della scala scosse la testa, sorridendo beffardo.

- No, cosa te lo fa pensare? Piuttosto tu, dì un po’ , cos’è che fai ? Il becchino, forse ? -

Ivan rispose al sorriso dell’altro, scendendo un altro scalino.

Il becchino…

Guardò i suoi vestiti: il jeans e la camicia nera, sorridendo.

- Battute così penose non le sentivo da tempo... ehm, tu saresti ? -

L’altro smise di sorridere e fece per ribattere, ma Ivan, ormai di fronte a lui, non gliene diede il tempo: quando parlò lo fece con cattiveria, seriamente infastidito.

- Lascia che ti aiuti. Ho come l’impressione che il tuo povero neurone sia già troppo affaticato. Vediamo: dovresti essere un misto fra Zorro, Superman e un tenero angioletto, vero ? Cos’ è stamattina non sapevi scegliere che costume mettere ? Perché, quello che indossi, se mi permetti, non è propriamente esatto e anche una scimmia se ne accorerebbe. Ma no, perdonami, forse la scimmia ha più cervello di te, povero cerebroleso. Potrei anche azzard… -

Le parole furono troncate ad Ivan dal violento tiro che Mattia diede al suo zaino.

Con rabbia il ragazzo abbassò lo sguardo sull’altro, furioso per l’interruzione.

- Non avevi detto che volevi startene buono, cazzo ? E che fai ti metti ad insultare… -

- Scusatemi –

Sia Mattia che Ivan alzarono il viso, distratti dall’intervento esterno: era sempre lo stesso ragazzo, il cerebroleso.

Aveva un’aria tutt’altro che amichevole e, come notò Ivan con rimpianto, non ce l’avevano neanche i suoi amici.

Ivan sospirò, preparandosi ad ascoltarlo e ricordando i propri propositi: non poteva attaccare briga, si era promesso di starsene buono.

Con un rapido controllo si accorse anche dei tantissimi occhi puntati su di sé e, infastidito, fece per riprendere a salire le scale.

Si sentì però afferrare di nuovo lo zaino e girandosi, trovò a mantenerlo questa volta, il cerebroleso, tutto sorridente:

- Non ho finito -

Ivan assottigliò gli occhi, fissandolo con aria superiore.

- Lascia il mio zaino -

- No –

Ivan squadrò sorpreso l’altro: sembrava per niente intimorito e continuava a trattenerlo sorridendo tranquillo.

A quel punto anche Ivan sorrise, contento per qualche assurdo motivo, che l’altro gli avesse tenuto testa.

Solo in seguito capì che ne era contento perché in quel modo gli aveva dato un pretesto.

Un pretesto per infrangere sul nascere la sua promessa.

Sempre sorridendo Ivan strinse le dita.

Sorrideva ancora quando centrò con un potente diritto la mascella dell’altro.

 

*

 

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Capitolo 8
*** James ***


james

Il figlio del demonio

 

* James *

 

 

- E’ stato inammissibile -     

Ivan annuì, muovendosi sulla sedia per sistemarsi più comodamente.

In fin dei conti le aveva già sentite quelle cose.

Assottigliò lo sguardo, fissando truce l’uomo che aveva di fronte: era dall’altra parte della scrivania e, con evidente sforzo, non aveva smesso di parlare un attimo da oltre dieci minuti.

- Non mi sarei mai aspettato un simile comportamento nella mia scuola. Come vi è saltato in mente ? Proprio voi, poi! Signor Carter, infastidire il nuovo studente ? Perché mai ? -

Ivan voltò appena la testa, senza darlo a vedere, per lanciare uno sguardo al ragazzo seduto poco lontano da lui: teneva lo sguardo basso, con un dito arrotolava un angolo del mantello e agitava nervoso un piede.

Nonostante questo, Ivan non faticò a riconoscere un accenno di sorriso sulle sue labbra.

Un sorrisetto piccolo, quasi invisibile, eppure ben presente.

Era un sorriso divertito, allegro, svagato, anche soddisfatto volendo.

Un sorriso che si trovava in contrasto con l’aureola che gli fluttuava sulla testa.

Ivan smise di osservarlo, riportando invece lo sguardo sul preside: con due dita si deterse qualche goccia di sudore dalla fronte, poi, dopo aver passato la mano lungo tutta la testa pelata, riprese il discorso.

- Come è possibile, signor Carter ? Lei, il nostro miglior studente! Io, davvero, non riesco a crederci. Non che il suo comportamento, signor Evans, sia stato migliore! -

Ivan si era distratto e ci  mise un po’ a ricordarsi che Evans era lui: non era il suo cognome in fin dei conti.

A quanto pareva però, lì tutti lo conoscevano così: Ivan Evans.

Opera degli Esposito, ne era sicuro.

Non appena riportò lo sguardo negli occhietti piccoli e neri del preside, questi continuò la sua filippica interminabile:

- Colpire un altro studente, solo per una provocazione! No, no, no! Spero vivamente che non si ripeta mai più. Lo spero per entrambi. Quand’ è stata poi, l’ultima volta che è successa una cosa del genere qui ? Nella mia scuola ? Non riesco nemmeno a ricordarlo, guardate! -

Scosse vivacemente la testa, con aria sconfortata e delusa, guardando entrambi i ragazzi con occhi rimproveranti.

Ivan si trattenne a stento dal sorridere, stava per cedere all’impulso, quando sentì un sussurro.

- L’ultima volta è stata tre giorni fa, prima del week-end -

Con la coda dell’occhio Ivan si accorse dello spostamento avuto dall’altro: aveva mosso la sedia, avvicinandola alla sua e ora se ne stava leggermente inclinato verso di lui, il viso poggiato sul palmo aperto. Sorrideva ancora, questa volta complice, dopo aver parlato.

Il preside non aveva sentito, infatti, con le labbra corrucciate, continuò imperterrito:

- Se non fosse intervenuto il professor Shellet a dividervi, non oso immaginare cosa avreste potuto combinare, tutti e due! Due teste calde, ecco cosa siete! -

Al nome del professore, ecco giungere un altro bisbiglio:

- L’uomo con l’ascia in testa -

Ivan sorrise, in modo impercettibile, alla delucidazione che l’altro gli aveva dato.

Sì, ora se lo era ricordato.

Ci pensò un attimo e lo inquadrò. Aveva davvero, un’ascia in testa: l’ ascia che aveva colpito con un calcio mentre tentava di fermarlo.

- Io davvero non so più cosa pensare: se anche il  mio miglior studente mi tradisce, deludendomi in questo modo… rischio di impazzire! -

Ivan annuì, fingendo di ascoltarlo, quando invece tutti i suoi pensieri erano incentrati su una frase ripetuta diverse volte dal preside: com’è che aveva detto ? Il  mio miglio studente ?!

No, forse aveva capito male: poteva mai essere ?

Il cerebroleso poteva davvero essere il miglio studente di quella scuola ?

Se fosse stato vero, le spiegazioni erano due: o il livello degli altri studenti si avvicinava paurosamente a quello dei lombrichi, o era vero che l’apparenza inganna.

Perché ad Ivan quel giovane con i costumi spaiati, l’impressione di genio, non gliela dava proprio.

Sospirando iniziò a chiedersi se l’idea di alzarsi ed uscire con un salto dalla finestra…

- Signor Evans! Mi sta ascoltando ?! -

Ivan sobbalzò sulla sedia, incontrando controvoglia il viso accaldato ed irato dell’uomo.

Negò con il capo, fissando gli occhi nei suoi.

- No, signor preside, mi scusi. Se però fosse così gentile da togliersi il naso, forse riuscirei a focalizzare meglio la  mia attenzione su di lei -

Dopo aver parlato, Ivan si sentì subito meglio, sollevato per così dire.

Divertito, si accorse di come il suo vicino stesse tossendo, piegato in due, in un vano e fiacco tentativo di trattenere le risate.

Incontrò il suo sguardo esilarato e fece spallucce.

Se bastava così poco a fare scalpore da quelle parti…

Il preside sbiancò, ascoltando Ivan e subito dopo si ricolorò di un rosso acceso.

Un rosso quasi pari a quello del naso da pagliaccio che portava.

Gli stava bene in fondo: era perfettamente azzeccato. Con la pelata infatti e il viso rotondo, lo faceva sembrare davvero un pagliaccio.

Era pur vero però, che non poteva pretendere l’attenzione di Ivan con quello indosso.

L’uomo sbuffò, ignorando il divertimento del giovane Carter e rivolgendosi ad Ivan:

- Signor Evans, lei… tutti e due… -

Scosse la testa, chiudendo per un attimo gli occhi.

Quando li riaprì, Ivan credette di vederci una punta di divertimento.

- Cortile laterale. Dovete liberarlo, tutto. Non muovetevi di là finché non avrete concluso -

Detto questo, in onore dei migliori film, li congedò facendo ruotare la poltrona e dandogli le spalle. Ivan rimase immobile per la sorpresa.

Quando si sentì toccare la spalla non reagì male, limitandosi a sollevare lo sguardo sull’altro ragazzo che, già in piedi, gli faceva cenno di alzarsi con il capo.

Ivan ubbidì, seguendolo in silenzio fuori dall’ufficio, quando questi ebbe chiuso la porta ridacchiò, poggiando la schiena contro il muro:

- Ma fa sempre così il pagliacciucolo ? -

L’altro ragazzo sorrise, cominciando a camminare lungo il corridoio.

- Purtroppo sì. E’ buono però: il tipo da “ can che abbaia non morde ”. Si lamenta e strilla, ma poi non prende mai veri provvedimenti. Al massimo punizioni, come a noi -

Ivan sollevò le sopracciglia, seguendo l’altro.

- E tu lo sai perché a te capita spesso ? -

Lo aveva chiesto con ironia, sicuro che non fosse così. L’altro però lo sorprese ancora, quando per risposta mosse la testa in segno di affermazione.

Meravigliato Ivan continuò a camminargli dietro, superando le porte delle classi, imboccando un corridoio dopo l’altro.

Era tutto rigorosamente bianco, come il resto della città del resto.

Si sentiva quasi perso in quel luogo così… immacolato.

Lui: nero dentro e fuori, si sentiva esattamente fuori posto.

Distratto, non si accorse che avevano raggiunto una porta a vetri né che l’altro l’aveva appena aperta.

Non vide gli scalini, perciò, e finì bello che dritto contro la schiena di Zorro.

Finirono tutti e due per terra, uno affianco all’altro.

Ad un primo  momento di silenzio attonito, seguì uno scoppio di risa improvviso, proveniente dai due.

Ivan si alzò per primo, porgendo una mano all’altro.

- Scusa -

Lo mormorò soltanto, con un residuo di risa nella voce.

- Di niente -

Ivan sorrise, passandosi una mano sulle ginocchia per togliere il verde appena preso: erano finiti sull’erba, notò con sorpresa.

Si guardò attorno, lanciando occhiate incredule a tutto il verde che li circondava: dal prato agli alberi. Tutto verde.

Ripensò a San Francisco: lì nemmeno nei parchi si trovava quel verde, figurarsi in un cortile di scuola!

Scosse la testa, seguendo l’altro verso il campo che si trovava poco lontano.

Una gran parte di terreno era libera dal prato, infatti, pronta ad ospitare quello che era un  bel campo, utilizzabile tanto per la pallacanestro quanto per il calcio.

- Cos’è che dovremmo far… -

Non finì di porre la domanda, accorgendosi solo in quel momento dell’anomalia: l’intera area del campo era occupata da decine e decine di palloni.

Palloni di tutti i tipi, le forme, i colori.

Semplicemente palloni.

Ricordò le parole del preside: “ Dovete liberarlo ” … così con faccia sconsolata si appoggiò ad un paletto lì vicino.

- Dobbiamo… togliere… tutti… i palloni! -

Il ragazzo aveva parlato, raccogliendo di volta in volta un pallone e gettandolo in un cesto poco lontano. Sorridendo, lanciò uno sguardo ad Ivan.

- Se ci impegniamo, in un paio d’ore potremmo finire -

Ivan sorrise, facendo un gesto ironico con la mano che doveva vagamente significare  “ E che vuoi che sia ?! ”

- Preferivi essere espulso, ehm… ? -

- Ivan. E comunque sì –

L’altro ragazzo ridacchiò, guardandolo divertito.

- Io sono James. James Carter come avrai intuito -

- James Carter. Fa molto James Bond –

Ivan lo aveva detto sorridendo, provocando una risatina dall’altro.

- Mi aiuti o faccio da solo ? -

Ivan sospirò, piegandosi per prendere un pallone.

- Ti aiuto. Ma devi rispondere -

James annuì, lanciandogli un pallone da basket e sorridendo:

- Mi devo aspettare un interrogatorio ? -

- Più o meno –

Lanciando altri due palloni nella cesta Ivan sollevò il dito indice, per far capire che era la prima domanda:

- Perché tutti questi palloni ? -

James scosse la testa, sorridendo sornione.

- Sicuro di volerlo sapere ? -

Ivan inarcò un sopracciglio, mormorando a mezza voce:

- Un’altra trovata come quella di Halloween a Maggio ? -

James annuì, esibendosi in un lancio all’indietro.

Ivan sospirò, sconfitto:

- E ce ne saranno altre ? -

- Fino alla fine della scuola, temo –

Ivan scosse la testa, incredulo. Dopo aver sbagliato un tiro, sollevò un secondo dito.

- Se sei il miglior studente, com’ è possibile che ti capita spesso di avere a che fare con il pagliacciucolo ? -

A quella domanda l’ altro si bloccò, in posizione di lancio, guardandolo incuriosito.

- Sai che potremmo diventare amici ? –

Ivan sbagliò il tiro, sentendo quelle parole. Si voltò, incredulo.

- Cosa ? -

James annuì, convinto, gettando tre palloni di seguito.

- Certo. Ci siamo già azzuffati, visitina in presidenza e ora raccolta di palloni. Che ci manca ? -

Ivan sorrise, teso.

Ma che razza di modo di pensare era ?

Lo guardò, per davvero questa volta: si soffermò un bel po’ su quel ragazzo sorridente, così uguale e così diverso da lui.

Era biondo, tanto per cominciare.

Occhi azzurri, fisico slanciato e allenato. Aria da bravo ragazzo.

Ivan era il contrario.

Aveva i capelli neri, così come gli occhi. E tutto fuorché l’aria da bravo ragazzo.

- Cos’è che ti fa pensare che potremmo diventare amici ? -

James sorrise, facendo brillare gli occhi azzurri e passandogli un pallone, rispose:

- Chiamalo sesto senso. E poi secondo me, già lo siamo. Solo non vuoi ammetterlo -

Ivan scosse la testa, guardando con sconforto i troppi palloni rimanenti.

- Io non credo che… -

Venne interrotto, da una voce gentile e maliziosa.

- Possiamo aiutarvi, o ve le raccogliete da soli le palle ? -

I due ragazzi sollevarono gli occhi in contemporanea, guardando l’uno sorpreso e l’altro sollevato, le due ragazze che si avvicinavano.

A stento, Ivan riconobbe in una delle due, quella che aveva conosciuto poche sere prima.

 

*

 

 

Ho fatto presto questa volta avete visto? ^^

E con immenso piacere noto che voi lettori lievitate paurosamente! **

Ne sono onoratissima! Grazie, davvero!

Me lo dite voi che ne pensate di questo capitolo ?

Un bacio,

Miseichan

 

Risposte alle recensioni:

 

ChiaraBella : Chiara, tesoro mio, lo sai che per te ci sono sempre. Come farei senza di te? Non mi piace però risponderti qui, mi sembra troppo impersonale ^^ Appena ci risentiamo su msn ti spiego quanto sei unica! **

 

LaIKa_XD : Ciao ^^ Grazie infinite per i complimenti, sono contentissima che le mie pazze idee ti piacciano! Il cane della ragazza non è ancora riapparso, ma lei sì… dici che per ora può bastare ?

 

AleEe_E: Temo che il paese dei balocchi ci faccia un baffo a questo posto ^^ Piaciuto il cap ? Aleee… mi manchi!! Ma non ci sei mai su msn?!

 

Fatina93:  Ciao ^^ Sì, lo so che il ritardo era imperdonabile e mi dispiace… Sono contenta che ti piaccia però, così come ci tenevo a ringraziarti per i complimenti ** I personaggi sono certo un po’… particolari.. La storia in generale diciamo che è particolare ^^ Continua lo stesso a piacerti ?

 

Vannaggio : Ciao ^^ Noo.. nn essere arrabbiata per il ritardo!! Mi dispiace e non smetterò mai di dirlo ma non ci ho potuto fare niente! ^^ Le somiglianze con i Simpson eh? Ma lo sai che non ci avevo mai pensato? No davvero °.°  Comunque, continua a piacerti o sconfina nel demenziale ?? ^^

 

Ancella79: Onorata che anche questa ti piaccia! ^^ Certo, è particolare… ma sono contentissima che tu la segua. ** Ti ho già ringraziato in privato, quindi non mi resta che augurarmi tu continui a seguire! xD

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