All, all, are sleeping, sleeping,sleeping, on the hill

di Lalani
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** It is a boat longing for the sea and yet afraid(George Gray) ***
Capitolo 2: *** Genius is wisdom and youth(Alexander Throckmorton) ***
Capitolo 3: *** And then she died and haunted me, and haunted me for life(Fletcher&Ollie Mcgee) ***
Capitolo 4: *** You think your eye sweeps about a wide horizon(Griffy The Cooper) ***
Capitolo 5: *** Nevica sul mare(Mrs. Kessler) ***
Capitolo 6: *** Oceano in Scatola (Mrs. Sibley) ***
Capitolo 7: *** Gli Angeli della Città Incompresa(Franklin Jones) ***



Capitolo 1
*** It is a boat longing for the sea and yet afraid(George Gray) ***


It is a boat longing for the sea
 and yet afraid




Un deserto blu si stendeva dai suoi piedi fino all’orizzonte. Un dipinto acquoso cosparso di sfumature candide e rosate, incorniciato da un cielo senza contorni.
Temari piegò la testa all’ingiù, come faceva da piccola per osservare la sabbia dorata sottosopra; ora invece vedeva un unico manto azzurro. Sorrise, la gola arsa dal desiderio di dissetarsi bevendo tutta quell’acqua salata e cristallina, così scarsa nella sua terra natale. Sorrise, nel vedere per la prima volta il mare, dopo anni di mitici racconti e vestiti turchini che non potevano essere paragonati a quell’immensità acquamarina. Aveva sempre pensato che il blu e l’azzurro fossero colori mitici e divini, tonalità che gli uomini potevano copiare solo dal cielo, sede delle divinità e della vita infinita. Mai avrebbe pensato che molti uomini potessero toccarlo e berlo e sentirlo sulla pelle arsa, quel colore divino.
Il sorriso gioioso della ragazza svanì quando vide un’ombra allungarsi sotto i suoi piedi, ingigantita dal sole cocente.
“Te lo puoi scordare.”
“Cosa c’è, cry-baby, paura dell’acqua?”
“Ti ricordo che sei tu quella che non sa nuotare! Sei sicura di non aver cambiato idea??” commentò Shikamaru con un cipiglio sprezzante e allo stesso tempo speranzoso.
“Mai! Ho dato la mia parola di kunoichi che dopo aver concluso questa noiosa missione diplomatica, mi sarei goduta per la prima volta una bella gita in barca!” esclamò Temari, estatica alla vista delle vele bianche che danzavano con le onde.
Shikamaru sbuffò annoiato e si schermò gli occhi neri per proteggerli dal sole incandescente e si ritrovò a guardare i lineamenti di Temari, meno tesi e più leggeri, come se l’adolescenza fosse la sua vecchiaia, e alla vista del mare fosse tornata bambina.
“Non ho intenzione di spendere i miei risparmi per una stupida gita! Dovevi tenerne conto prima di ingozzarti di dolci e sprecare tutto il tuo denaro” ribatté Shikamaru, nel tentativo di togliersi di mezzo questa seccatura del mare e di tornarsene a casa, dove avrebbe potuto finalmente stendersi e sbarazzarsi del pungente odore di salsedine.
Togliersi il ricordo, il rimorso, di quel viaggio troppo breve.
“Ma che razza di uomo sei?? Come puoi essere così spilorcio con una signora?” protestò Temari senza staccare gli occhi dall’orizzonte azzurrato.
“Quale signora, di grazia?”
“Coglione. Aguzza i tuoi sensi da super-genio e quei tuoi occhietti cisposi.”
“Nonostante la mia abilità nelle arti ninja, temo che questa richiesta potrebbe risultare un po’ troppo difficile.”
“Per uno sfaticato e fifone come te, di sicuro.”
“Oh, taci, mendokuse”
“Demente”
“Vecchia strega”
“Piagnone”
“Testa d’ananas”
“COOOSA???!!”




Una barca con le vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
ma la mia vita.



Shikamaru si sporgeva da una piccola terrazza miracolosamente all’ombra: sotto di sé, il porto era un via vai di pesci freschi e agonizzanti, braccia sudate, barche vergini che compivano il loro primo viaggio, barche anziane che arrancavano verso il porto.
Shikamaru non riusciva a decidersi a quale barca assomigliasse di più. Probabilmente a nessuna della due.
“Ecco. Tu sei una dannatissima barca ferma in porto”.
Shikamaru dovette accendersi un’altra sigaretta per non essere tentato dalla notevole altezza della terrazza, che gli avrebbe procurato un’agognata e indolore fine.
Temari, con i capelli increspati dal vento salato e gli occhi dalle sfumature turchesi simili a quelli del mare sottostante, guardava con curiosità e desiderio le barche tozze che scivolavano leggere a pelo dell’acqua.
Shikamaru si sedette sulla sottile ringhiera, incorniciata da gerani purpurei, e sbuffò fuori una zaffata di fumo che si confuse presto nell’aria salmastra.
“E invece di rimanere in porto, dove dovrei andare secondo te?” le chiese il ragazzo, buttando la testa indietro e chiudendo gli occhi stanchi.
“Dovresti semplicemente smettere di sbuffare e lamentarti” gli rispose la voce forte di Temari “Sei un chuunin fra i più prestanti nelle missioni interne ed esterne al tuo villaggio! E ho sentito anche che molti nobili hanno richiesto la tua presenza nelle loro carovane e nelle loro dimore. Dovresti lasciare il nido e volare verso orizzonti più vasti. Cazzo, Shikamaru, potresti fare quello che vuoi e ottenere il massimo rendimento, se solo lo volessi. Potresti anche portarmi a fare una gita in barca, se lasciassi il porto della tua pigrizia e la smettessi di essere così sfaticato!”
Potresti esaudire un mio desiderio, per una volta.
Shikamaru, annoiato, strizzò gli occhi stretti e li puntò in quelli enormi di Temari, pacati ma sicuri. Chissà perché gli stava facendo quella predica, invece di tirargli un pugno in pancia e costringerlo a dargli i soldi rimasti.
“ Piantala con questa menata della barca! E comunque, non lascerò Konoha. La mia volontà è quella del fuoco. Io vivo per servire il mio villaggio, i miei amici, i miei parenti” le comunicò serio, mentre, di malavoglia, tornava a guardare il mare, e quell’acqua tiepida e smorta, così diversa dal fuoco che sentiva nel suo cuore.
“Serviresti benissimo il tuo villaggio, se non fossi così pigro! Ma non ce l’hai un minimo di ambizione? Non vuoi spiccare tra gli abitanti della Foglia??” replicò Temari, infastidita, mentre si mordeva un labbro al sapore di sale. Forse era solo lei che sentiva questo bisogno, che lo agognava come acqua, la stessa che invocava dopo mesi di siccità. Lei e i suoi fratelli avevano dovuto scalare il muro dell’indifferenza costruito dai loro stessi concittadini, mattone dopo mattone. Non potevano rimanere i figli di quello sciagurato del Quarto Kazekage, che aveva distrutto la moglie fino a costringerla a maledire il suo stesso villaggio, che aveva trasformato suo fratello in una macchina di sangue e sabbia.
Era stata l’ambizione sacra e pulita di Gaara a riesumarli dal fango. E ora quel cretino del Nara denigrava la sua ancora di salvezza…ma perché stava cercando di spronarlo in quel modo? Era inutile, come sbattere la testa contro un melone.
Shikamaru buttò indietro la testa, sotto i raggi che cominciavano a perforare l’ombra della timida terrazza, e si rigirò nel palato la parola ambizione, assieme al fumo.


L’ambizione mi chiamò
 ma io temetti gli imprevisti


La prima volta che aveva davvero sentito l’ambizione nel suo animo, la prima scintilla della sua volontà di fuoco, era stata durante l’esame di selezione dei chuunin.
Quando era stato travolto dagli applausi della folla multicolore, punteggiata da facce orgogliose e note, sorprese. Aveva sentito il suo corpo bagnato di stanchezza e adrenalina, mentre le sue orecchie erano piene di schiamazzi, di grida, di voci dal timbro straniero e altre comuni nella sua amata patria.
Aveva visto con occhi intrisi di piacere il maturo corpo della sua avversaria fremere e la sua sfacciataggine sbriciolarsi negli occhi chiari. Eppure si era ritirato.
Non sapeva ancora perché avesse rinunciato a infliggere una sonora sconfitta a Temari. All’inizio si era ripetuto fino alla stremo di non aver avuto voglia, anche se questa sua versione aveva provocato lo sgomento del villaggio, le prese in giro degli amici e l’ira di sua madre. E anche una promozione a chuunin, che, tirando le somme, era risultata la conseguenza più seccante.
Ma forse era stata la vista degli occhi di Temari, splendenti e fieri, che gli avevano mostrato una forza e un’ambizione contro le quali la sua fiammella da candela non poteva competere: un amore smisurato, fanatico, per il suo villaggio, un orgoglio immenso e un fiducioso amore fraterno.
Shikamaru si era sentito indegno di vincere quella sfida; lui, il ragazzino pigro e viziato contro quella ragazza erosa dal deserto, innamorata di Suna.
E poi aveva ragione Asuma-sensei: era troppo pigro per fare qualsiasi cosa, figuriamoci per seguire un’ambizione neonata e incerta.
Un’ambizione vicina, ma che presentava l’imprevisto di essere troppo stancante.


Il dolore bussò alla mia porta,
e io ebbi paura.

“Anche il dolore può essere una fonte di cambiamento” mormorò Shikamaru, mentre lasciava che il sole bagnasse la sua fronte pallida, anche se sapeva che presto avrebbe desiderato bagnarsi con l’acqua del mare turchese.
“Oppure ti fa radicare le tue convinzioni su un terreno sterile. Ti blocca” commentò Temari, mentre si arricciava un boccolo, lentamente. Il suo dolore l’aveva rinchiusa nella prigione che si era rivelata il suo stesso villaggio, la sua stessa casa, la sua stessa famiglia. Aveva dovuto scavare e toccare il fondo prima di poter risalire.
Invece il dolore aveva fatto viaggiare Shikamaru per chilometri, lontano dal nido, per estirpare la sua sofferenza.
 E quella sofferenza l’ aveva indubbiamente temprato
Temari, durante la sua ultima visita, aveva trovato Shikamaru alle porte di Konoha e durante quei pochi giorni si era dimostrato più affabile e loquace. Solo alla sua partenza Temari era venuta a conoscenza della morte di Asuma, il fedele e benevolo Asuma. E Temari aveva scoperto cosa si nascondeva dietro l’apparente serenità di Shikamaru, cos’era l’ombra nei suoi occhi e il lieve tremore alle mani, cosa significasse per lui parlare per la prima volta da settimane con una persona estranea alla tragedia, una persona che non usava una voce più soffice o cercava lacrime nascoste.
Per un attimo, solo con lei, solo per lei,  aveva lasciato il suo porto.
Temari abbassò di nuovo lo sguardo sull’ormai amato mare, che l’affascinava sempre di più con le sue chiazze di acqua chiara e scura, con i suoi gabbiani che stridevano contro il tramonto imminente, con le sue vele che la chiamavano, preganti.
Temari volse lo sguardo verso il profilo preciso e forte di Shikamaru, ammantato della beatitudine marina.
“Anche l’amore può far smuovere una barca dal suo porto, no?”


Perché l’amore mi si offrì e
 io mi ritrassi dal suo inganno


Shikamaru sentì il sangue ribollire, che presto si trasformò in calore, che presto si trasformò in ansia, che presto si tramutò paura.
Ma sul viso di Temari c’era un sorriso aperto, solare, semplice, allegro, diverso dai canoni di seduzione o timidezza femminile. Diverso.
“L’amore può essere un inganno” borbottò il ragazzo mentre gettava la sigaretta giù per la terrazza, in una tomba di luce.
Temari si alzò e scosse la chioma lucente.
“O forse no” sorrise.
Shikamaru sentì le sue labbra stendersi, indipendentemente dal suo volere e dal suo orgoglio.
Altro sorriso.
“Allora, barchetta, esci dal porto?”
“Col cavolo che sono una barchetta!”
“Vero, ora che ci penso assomigli di più a una zattera…”
“Dovrai sperare che le ananas galleggino, mendokuse che non sei altro! È insultandomi che tenti di farmi uscire dal porto?”
“Bè, mi pare che come tattica funzioni! Infatti, ora compiremo il primo passo: mi porterai a fare la gita in barca!E pagherai tu”.
“Posso sperare che dopo quest’inutile perdita di tempo e di energie mi lascerai nel mio calmo e sicuro porto?”
“In realtà, credo che potrei costringerti a farti uscire più spesso. Magari verresti più spesso a Suna, invece di fare di bradipo tutto il giorno!”
“Sei proprio un ananas, mendokuse: spinosa fuori e aspra dentro!”
Per non dire dolce dentro.
Temari rise, forte, incurante dell’insulto che la sua mente incantata ben presto trasformò in complimento.
 Attese un attimo, e poi, con la velocità di uno sprazzo di sole, gli donò un fulgido bacio sulle labbra screpolate dal sale.
Temari corse via, soddisfatta, col vestito e i capelli impregnati di granelli di sabbia persi nel vento. Non vedeva l’ora di toccare il colore divino.
Shikamaru le corse dietro, felicemente sconfitto, agile nella brezza marina.
Non vedeva l’ora di toccare il cuore di Temari.




E adesso bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre alla follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.







Eccomi tornata!* e il terrore calò su efp*
Buongiorno care lettrici e cari lettori: LaLa, dopo un’assenza 4 mesi( o cavolo O_O) è tornata sui vostri schermi.
Intanto, questa fic è stata scritta per lo ShikaTema day, il giorno più nero dell’anno! Sono fiera di professare l’OMN, una filosofia di vita. Mi raccomando, commentate tutte le perle nere che saranno postate oggi! Sono venuta a conoscenza dell’evento soltanto ieri, e quindi ho avuto un giorno di tempo per scriverla! Quindi linciatemi piano^^.
Ma ora passiamo alla presentazione di questa nuova fic!Per scacciare il blocco dello scrittore e la mia pigrizia, scriverò questa raccolta ispirata dalle celebri poesie di Edgar Lee Masters, ovvero tratte dall’Antologia di Spoon River.
Queste poesie sono scritte dal punto di vista degli abitanti del cimitero della città, che raccontano le loro vite terrene e i loro rimpianti: la mia interpretazione sarà libera e differente, anche se cercherò di “risolvere” i rimorsi dei morti con i personaggi di Naruto. Non credo che riuscirò ad analizzare tutte le poesie, anche perché sono 460 O_o e perché alcune sono a tema politico, e non voglio scrivere sciocchezze o errori.
Il protagonista di questa poesia è George Gray(scritto nel titolo) un uomo che ha abbandonato le sue ambizioni per paura: si considerava una barca forte e resistente ma che non si è mai staccata dal porto. Mi ha ricordato il nostro Shika e poi ci ho aggiunto una spruzzatina di Temari.Mi è venuta fuori una roba un po’ filosofica, ma l’ho fatto per rispettare le esigenze della poesia. Le frasi in corsivo non sono mie, ovviamente, ma sono tratte dalla poesia, come il titolo, che però ho conservato in lingua originale.
Spero che vi sia piaciuta^_^
Non mi resta che augurare tutti un buon ShikaTema day(la sentite, la fuorviante energia del nero??*_*)
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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Capitolo 2
*** Genius is wisdom and youth(Alexander Throckmorton) ***


xxx
Genius is
Wisdom and Youth




Da giovane, avevo ali forti e instancabili,
ma non conoscevo le montagne.


Volo, appoggiato alle spalle sottili di Kakashi-sensei. Ero sicuro che non avrei più rivisto il suo volto soffocato dalla maschera o le sue mani potenti.
Un sorriso ricoperto di stoffa gli si modella sul volto, nonostante la fatica e la sofferenza provocata dalla battaglia.
“Sono fiero di te” mi mormora Kakashi, con una cadenza affaticata e gentile.
Sorrido, ancora e ancora, al mio maestro: è incredibile che dopo tutti questi anni, assieme o separati, i suo complimenti e il suo affetto paterno mi riempiano tuttora di orgoglio, e rinforzino le mie ali rattrappite e stanche, aiutate da quelle del sensei.
Un grumo di sangue assieme alle ultime fiamme nate dalla furia di Kyuubi, stagnati nel mio petto, mi si incastrano in gola: Konoha è sbriciolata, immersa nella polvere, mai così lontana dal cielo, dal sole che al tramonto la sfiora, l’accarezza.
È scomparsa, come il rifugio di Nagato; ma quello era fatto di carta e odio...Konoha non era un preciso e vuoto origami. Konoha era sudore, legno e amore. Era.
Ma il villaggio non è morto: tutti gli abitanti, sconvolti e insanguinati, vivi, si  sono riversati  nello spiazzo occupato precedentemente dal bosco, ormai sradicato e bruciato.
Volano, anche loro, tutti verso di me.
E, per la prima volta, vedo sorrisi e saluti nella mia direzione, vedo la folla che si accalcava sulle mie ali forti, più forti che mai.
Konoha è in polvere, erosa dall’odio, ma gli abitanti ridono, piangono, urlano, mi dicono “sei tornato” “sei il nostro eroe””ci hai salvato”.
Dopo anni di schiaffi e di pugni, le loro grida di giubileo e speranza sono carezze.
Dovrei correre e saltare, dovrei ridere e piangere assieme a loro, dovrei spalancare le ali piene di chakra e felicità che mi spuntano dalla schiena, e volare, volare, sempre più su.
Invece non capisco e rimango fermo e spiazzato, per paura di rovinare il mio sogno appena diventato realtà, per paura di essere un illuso sonnambulo.
Non capisco le pacche dei ninja, i loro sorrisi stanchi tra le barbe bruciate, le loro cicatrici che si tendono, doloranti, pur di assestarmi un pugno di riconoscenza. Non capisco i volti delle kunoichi, impregnati di lacrime e di sorrisi che scavano fosse profonde sulle guance, le mani che mi sfiorano come se fossi loro figlio.  Non capisco le parole stanche del sensei, mentre mi sostiene con delicatezza. Non capisco l’orgoglioso cipiglio di Shikamaru, appoggiato a Choji, o il perfetto sorriso di Ino.
Vorrei correre via, vorrei abbracciare e stritolare, ma è tutto troppo, troppo. Ho realizzato il mio sogno. Ed è troppo, troppo.
Non capisco le lacrime di Hinata, sei viva, viva, viva, che si confondono con le sue iridi perlacee. Quelle stesse iridi incastonate nel volto diafano(mai così diafano, in contrasto con le mani bruciate di chakra) che avevo visto duro e omicida, nella mia ora più buia. Non avevo capito, e non capisco, la follia e la disperazione, la furia e la paura, che c’erano nella sua voce ferma, quella vocina perennemente spezzata da un balbettio frustrato.
Non capisco il suo amore, incondizionato e potente, cha l’aveva trascinata verso la rovina. Ma avevo capito e compreso l’odio e l’ira che io avevo provato: l’ennesimo senso di perdita, di essere un peso, di non aver visto il tuo cambiamento e la tua crescita, Hinata, dopo anni che sei accanto a me, e lo sei sempre stata, sempre; avevo capito che non potevo lasciarla lì, in una tomba piena di polvere e senza fiori. Non la piccola Hinata, quella ragazza piena, strapiena, di emozioni che sprizzavano dalla sua anima timida come lacrime e chakra(da quando i tuoi occhi sono luminosi? Da quanto sei cambiata? Da quanto sono stato cieco alla tua forza?). Kyuubi era impazzita alla vista del Byakugan ribaltato verso il cranio( proprio come aveva tremato nel vedere lo Sharingan di Sasuke) e io con lei. Per la prima volta, io e la mia nemesi, eravamo esplosi assieme, nel nome di Hinata, un nome pieno di sole.
Hai detto che mi amavi. L’hai detto a me, e solo a me, senza pudore e vergogna, sull’orlo della morte.
Hai sentito, Kyuubi? Mi ama.
Forse è proprio questo che mi blocca: dopo anni di sofferenza e solitudine, sono paralizzato davanti a tanto amore. Cuore e cervello, anima e braccia, non riescono ancora a riconoscere, a sentire, ad annusare, ad abbracciare tutto l’amore del villaggio, è troppo, troppo…troppo bello.
Ma mentre guardo il pianto gioioso di Hinata tramutarsi in un sorriso timido e i suoi occhi risplendere sotto un nuovo sole, sento che lei può insegnarmi, ad amare.
Può insegnarmi a volare, a battezzare con le nuvole e i sogni queste mie ali da angelo.
Insegnami, Hinata.



Quando fui vecchio, conobbi le montagne
ma le mie ali stanche non tennero più dietro alla visione-



La mia schiena brucia, scorticata dall’odio di Pain e dal miracoloso sacrificio del mio amore. Ancora vedo scintille di dolore e di chakra verde esplodere nei miei occhi albini, risalire sulla mia pelle. Ma non sono i soli: gli sguardi penetranti e feriti della mia casata sono fissi sulla mia schiena, sulle mie ali stanche, bruciate. Percepisco quasi i loro sospiri, muti e mendaci.
Perché, Hinata-sama, vi siete gettate tra le fiamme dell’inferno per salvare un demone da un suo simile? Perché un angelo pauroso e sereno come voi ha dovuto sacrificare la sua anima per un mostro?
Loro non capiscono che è Naruto l’angelo, l’angelo caduto, scacciato: il ragazzo senza clan e senza famiglia che, nel tentativo di salvare sé stesso dalle tenebre, ha trovato il coraggio di salvare anche me. Guardate come vola, guardatelo, voi Hyuuga ciechi e tronfi, guardate la sua forza e la sua purezza, la purezza che non conosce e riconosce l’amore perché nessuno gliel’ha mai mostrato.
Io invece conosco l’amore, Naruto-kun: è la montagna della vita, quella che devi scalare per raggiungere il cielo, il divino. Su quella montagna ci devi cadere, sudare, sanguinare, morire, per capire quanta fatica e quanta dedizione e quanta costanza servono per raggiungere il vero amore. Io non mi sono mai fermata su colline o punte più pianeggianti: ho sempre cercato di raggiungere la montagna più alta, quella irraggiungibile, quella innevata e cosparsa di nuvole, la tua, solo la tua, l’unica per me.
Le mie ali sono stanche, Naruto-kun: dopo anni di tentativi, dopo notti insonni a guardare la tua vetta lontana come un fiore agogna il sole, le mie ali si sono prosciugate, e ora devo avanzare a piedi, tra i sassi e tra la polvere.
“è tornato! È tornato a casa!” esclama Kiba con la sua voce forte, e finalmente lo vedo, Naruto, che atterra delicatamente sulla sua terra nativa. Dovrei ridere e urlare, ma piango, assieme alla mia anima, ancora impaurita e ferita, ma, per la prima volta, orgogliosa,.
Vedo che sei sgomento, Naruto-kun, alla vista delle mie lacrime e delle bruciature lasciate da Pain e dalla Volpe, ma io piango di gioia, piango per amore. E un giorno lo capirai anche tu, Naruto-kun. Un giorno raggiungerò la tua vetta.
Perché so che con le tue ali immense potremo volare assieme, mano nella mano.








Allora, io non sono brava a scrivere le NaruHina( da devota NaruSaku) e si vede^^’. Ma LalyBlackangel mi ha chiesto una NaruHina e io gliela dovevo.
Dunque, questa brevissima poesia, narrata da Alexander Throckmorton, parla di uomo che da giovane era forte e potente, ma non conosceva i veri obbiettivi della vita. Solo nella vecchiaia li comprende, ma ormai è troppo vecchio e stanco per raggiungerli.
Io l’ho interpretata così: nel 450 Naruto ha una faccia da ebete quando torna la villaggio(bellissima, ma da ebeteXD) e quindi mi pareva che non riuscisse a comprendere l’adorazione dei suoi concittadini, dopo tutte le mazzate che ha ricevutoXD. Hinata invece conosce già l’amore( e chi meglio di lei??) ma la timidezza e la sua infanzia rubata hanno indebolito il suo copro e le sue ali. E alla fine c’è un scintillio di speranza per i due;)  Io però rimango fedele al NaruSaku, sia chiaro! La fic non è bellissima, ma mi sono un po’ commossa a scriverla…quindi mi sono detta, va bè mettiamolaXD Spero che non ci siano troppi errori!

Recensori*_*:
temari nara: Sono felice che ti sia piaciuta la mia fic!Comunque se la trovi commovente, allora le altre ti sembreranno tragiche!!(infatti la precedente ShikaTema, secondo i miei standard, era stranamente comica, quindi fa un po’ tuXDXD)
Grazie!
bambi88: infatti sono stata stranamente folgorata dall’ispirazione, grazie al signor Masters! La poesia era scritta proprio per ShikaXD e sono contenta che la trovi adatta! È certo, l’OMN è pura filosofia!(dovremmo stillare i principiXD) Grazie!
LalyBlackangel: cara, spero che ti sia piaciuta la NaruHina^^’*LaLa evita un pomodoro*. Comunque se mi vuoi fare altre richieste, sono sempre ben accette, anche su coppie che non mi piacciono. Al contrario, mi stimola scrivere su coppie più ostiche…è un po’ un esercizioXD Sono felice che tu sia un’amante di queste poesie…sono davvero bellissime**.
Grazie!
Rinalamisteriosa: ma va, cara, anche la tua fic era carinissima!Evocativa…esagerata!Sono felice che continuerai a seguire la mia raccolta*LaLa ha gli occhi sbarluccicosi*
Grazie!
x Saretta x: già sono proprio loroXDXD!Adoro dare a Temari della spinosa e dura testa d’ananas(le si addice perfettamente)!Sono felice che seguirai la mia raccolta*_*!
Grazie!
_BellaBlack_: eh sì, Temari è una mitica testa d’ananas, dolce ma spinosa al punto giusto!Anche tu mi seguirai??*_* che bello!
Grazie!
Shatzy: già già!L’energia del nero ci segue e ci inonda della sua oscurità*LaLa fa faccina inquietante!*. Grazie mille per i complimenti, è un onore: in realtà l’idea ce l’avevo da un po’…appena ho letto la poesia ho detto “ma questo è ShikaO_O”. Si, il mare e l’azzurro mi rallegrano sempre, anche perché Milano ne è quasi totalmente priva=_=. Sono felice che ti sia piaciuto il riferimento ai fratelli**: io Temari non riesco a vederla senza quel dolore interiore nato dalla sua infanzia tragica e senza l’amore infinito che prova per i fratelli…è vuota senza questi sentimenti!
Grazie!
valy88: grazie per i complimenti! Ma magari neanche in cartolina…povera Temari! Infatti, mi è piaciuto che Shikamaru nonostante la sua pigrizia sia riuscito a fare qualcosa di veramente importante per Temari(che romanticone, il nostro pigroneXD). Che bello, io, Miss Tragicità, sono riuscita a far ridere!Purtroppo prevedo che le prossimo fic saranno un po’ più tragiche^^’sorry!
Clahp: cara, non ti ringrazierò mai abbastanza per avermi avvertito dello ShikaTema Day…mi è sembrato di stare più vicina a ognuna delle anima nere di efp**. Spero che le prossime fic non siano troppo malinconicheXD Grazie mille per i complimenti!
Grazie!
_Rael_89: bè, c’è sempre una prima voltaXD! Bellissimi i tuo complimenti mi hanno fatta diventare della clorazione di un pomodoro e delle consistenza di un passato.

Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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Capitolo 3
*** And then she died and haunted me, and haunted me for life(Fletcher&Ollie Mcgee) ***


Lucciole di metallo, dense, color smeraldo, colano sotto i miei occhi come lacrime. Da tempo avevo dimenticato questo dolore, questa pesantezza sulle mie guance incavate, mangiate dalla vita.
Polvere, incandescente, sotto le mie dita, sotto la mia lingua, io sarò polvere.
Non sento più le sue mani, callose e screpolate dal chakra impetuoso, così diverse da quelle paffute e tremanti che infestano i miei ricordi.
Anche lei mi ha abbandonato? Anche lei? Ha deciso di condannarmi alla punizione che la vita, traditrice, mi ha scritto?
La mia punizione, vagare un limbo di lune rosse, lacrime dimenticate e fantasmi ipnotizzati, senza vedere la mia ombra scontrarsi contro il sole della realtà.
“Sasuke-kun…”
La mia punizione, sentire quelle parole rauche e assetate, sentire quel suffisso pieno di rispetto e sollievo, ansia e amore, affiancarsi al nome di un assassino. Lei è ancora lì, e il suo chakra verde splende, nelle sue iridi. E si amalgamano, perché sono fatti della stessa essenza, dello stesso amore.
Un enorme mostro dagli occhi verdi sbuca dalla selva nera che affolla i miei sensi, ma non è invidia quella che vi scorgo, ma solo adorazione.
La sua punizione.
Mi sta riportando alla vita, con le sue mani intrecciate, incrociate, votate alla speranza e al destino.
E, alla fine, vedo. Di nuovo. Sento. Muovo. Grido.
Sento il suo capo, morbido e umido, posarsi sul mio cuore furibondo, alla ricerca dell’amore che la mia anima non gli ha mai concesso.
Muovo una mano, raggrinzita, sui suoi occhi aperti. Troppo aperti, ciechi.
Grido, di dolore e di sollievo, aspiro sabbia e pioggia.
Vedo, la donna che mi ha salvato.
Mi hai salvato, Sakura. Hai salvato un traditore.
Sei una peccatrice.
P e c c a t r i c e.
E per questo sarai punita.


And then she died and haunted me,
And haunted me for life.

La Città di LA


“Quando torni?”
“Presto, Sakura, presto. Te l’ho già detto”
“Ah sì…”
È sempre più difficile ingannarla. Sono passati tre anni, solo tre dannatissimi anni e lei è sbocciata, violentemente, in un esplosione di colori.
Eppure questa trasformazione sembra innaturale, come se avessero preso un fiore acerbo, fresco, e l’avessero forzato e violato con un kunai per obbligare i petali ad aprirsi verso la luce del sole, sconosciuta ed accecante.
Lei stessa si è inflitta questo supplizio: il suo corpo reca cicatrici e ferite recenti, frutto di un allenamento costante, devastante.
In fondo è anche colpa mia. Solo un po’.
“Allora ti aspetto, mi raccomando” mormora Sakura quieta ma decisa, mentre accarezza un gruppo di soffici fiori.
La sua mente lavora frenetica, la sento: i suoi pensieri intelligenti e maturi si inceppano, cadono nella memoria confusa. Tocca ancora i petali, mentre cerca di ricordare dove ha già sentito quell’odore, quel profumo, perché le ricordano due occhi color del cielo.
“Non ti sforzare troppo: non ti sei ancora ristabilita” le ricordo per l’ennesima volta.
Lei si volta, sospettosa ma speranzosa: cerca tracce e conferme del mio recente cambiamento. La sua fronte enorme e lucida sembra fumare nel tentativo di scoprire il motivo della mia nuova, strana gentilezza. Strana per i miei standard, si intende.
“Lo so, Sasuke-kun” sussurra dopo aver rinunciato a stanare il mio segreto “Lo so benissimo!”.
Togli quel maledetto –kun, penso, infastidito, mentre sento che i miei lineamenti sempre più stanchi si irrigidiscono. Quel suffisso mi ricorda il passato, un passato fatto di sorrisi e sudore, di ali tagliate e sangue, il passato che io stesso ho distrutto, e che ora non posso ricomporre. Mi ricorda la pena e la punizione che devo scontare.
“Ma non parlarmi con quel tono sofferente” mi rimprovera, mentre esibisce lo stesso broncio che aveva da bambina, quello che non è mai riuscita a cambiare “Sembra che per te sia una punizione rimanere qui con me!”.
Io sospiro e mi allontano, scompaio, quasi, nella luce troppo intensa di un sole incandescente e perenne.
Non sai quanto lo sia, Sakura. Una punizione infernale che io stesso ho costruito, tassello dopo tassello.
Un mosaico di dannazione eterna.
“Torna presto Sasuke-kun, così riusciremo a trovarla”.
Ancora quel dannato suffisso, un’espressione di rispetto e di tenerezza che io non ho mai voluto. Basta, basta.
Mi volto, per ricordaglielo, come ogni volta; ma incontro i suoi occhi di cristallo e il suo sorriso opaco ma fiero, fedele.
Perché ora è così difficile distogliere lo sguardo da quel volto scheggiato dalla fatica? Forse perché è solo un ricordo, appannato di latte e nuvole.
“Vedrai che insieme troveremo la città di LA. E poi tornerà tutto come prima”.



L’avete visto in giro nel villaggio
un uomo con gli occhi bassi e il volto scavato?
E’ mio marito, è lui che per segreta crudeltà
innominabile, mi prese gioventù e bellezza;




Lampi d’alba invadono una notte di petrolio. Scivola via, oleosa, come i miei incubi. Come le ciocche di mia madre e lo sguardo vuoto di Itachi, che ossessionano la mia memoria. Vorrei solo raggiungerli, stringerli, sentirli, per l’ultima volta.
Pezzi di vento incompleti portano nel silenzio della stanza odori, rumori, parole, colori.
Gli stessi di sempre, gli stessi che sentivo secoli fa, nella mia dorata dimora Uchiha(nella mia vita dorata, contornata di diamanti).
La mia punizione: la quotidianità e l’apatia, un continuo scorrere di immagini rovinate e scivolose, viste e riviste.
Penso a lei, come lei ha fatto per tutti questi anni di lontananza; lo so, gliel’ho letto in quegli occhi, che in un attimo si illuminano e la fanno tornare bambina. In quegli occhi che mi tengono prigioniero, che mi puniscono, che io punisco.
Le ho portato via tutta la sua ricchezza, l’ho derubata del suo tesoro più grande: onore e amore.
In una città stravolta da Pain, nessuno si accorge di Sasuke Uchiha, di un ombra scavata, mangiata, rannicchiata pronta a rubare istanti di vita dalla sua aguzzina( o della sua vittima).
Un attimo prima era l’alba, ora il sole esplode, dietro le colline.
E comincia un altro giorno di tortura, contornato da lucciole di smeraldo, sangue, e dalla sua voce, sempre la stessa.



Ma sapete cos’è che rode il cuore a mio marito?
Com’ero, e come mi ha ridotta!



“Ma dimmi, Sasuke-kun…”
Ancora quel dannato suffisso. Ancora e ancora.
“Quante volte ti ho chiesto di non chiamarmi in quel modo?”
Ringhio, quasi.
“Mai”.
È vero. Dannazione.
Uno sguardo furbo, opaco a causa del sole soffocante, sempre soffocante, mi squadra divertito. Non più un sorrisetto timido e dolci occhi a fargli da contorno, ma una smorfia enorme e gioiosa. Si alza, veloce, e allarga lo sguardo verde verso il cielo, il regno dei sognatori. Accarezza, senza guardarle, alcune margherite, senza ricordarne il nome o il colore, l’aspetto e l’odore.
Dio, come ti ho ridotta, Sakura. Come ho ridotto la tua mente sveglia e i tuoi occhi traboccanti di luce?
Si gira di nuovo verso di me, sicura di essere abbandonata di nuovo, e vedo i suoi occhi, occhi che non vedono il tempo, la fame, il sole.
“Dimmi, Sasuke-kun…”
Ancora e ancora, il dannato -kun. L’ennesima punizione, un affetto non meritato.
“Dov’è la città di LA?” chiede Sakura, con voce timorosa, come se il suo mondo splendido e luminoso potesse venire inghiottito e maciullato da zanne ignote. Perché tutti hanno paura della città di LA, anche quelli che non l’hanno mai vista, che non hanno iridi e mente per vederla, eppure la sentono camminare, non si ferma mai, la città di LA.
“Può essere dappertutto” le rispondo, per l’ennesima volta al suo ennesimo, quesito, ennesima punizione quotidiana “è sempre in agguato. Solo chi ha gli occhi per vederla può avvicinarsi, può comandarla. Dovresti temerla”.
Invece Sakura sa che tutto il suo mondo è scivolato via in quella città sconosciuta, in quell’altro buio, nella tana della volpe. E lei, innocente bambina, si perde nel labirinto, si fa smembrare carne e ossa.
“Allora aspettiamola: che vanga a prenderci, a trovarci. Se vuole giocare a nascondino, prima o poi dovrà smettere di contare” mormora Sakura, decisa, una furia incontrollata in quegl’occhi di giada, una madre che ha perso tutti i suoi figli.
“Vedrai che riusciremo a tirarli fuori da lì. Mi mancano, l’entusiasmo di Lee e, sai, anche un po’ Ino…l’acida e vanitosa Ino. Mi mancano tutti” mormora mentre cerca i suoi amici verso l’orizzonte invisibile.
Mi manca Naruto, agogno la sua amicizia e il suo illuso amore come un prigioniero brama la pioggia, il mare, il vento, i colori.
I miei occhi color alabastro si concentrano sul cielo lindo, macchiato da un sole bianco e cieco.
“Credevo che la mia presenza di bastasse” sussurro, sibilo, prego.
È invidia il veleno che imbratta il mio palato?
È davvero così disgustosa e bruciante, l’invidia?
Lei non mi sente, troppo intenta a stanare la città di LA dalla mia memoria, riempiendomi la testa di domande.
Perché LA? LA come la nota musicale? O LA come al di là? O come articolo determinativo? Oppure è il nome di una città lontana lontana, come quelle delle favole? Eh, Sasuke-kun?
“Sasuke-kun, ma tu ci sei stato nella città di LA?”
“Tempo fa”
“E come ne sei uscito?”
La guardo. Ha paura. Tenta di prendermi la mano, di trattenermi, di salvarmi, un’altra volta, ma io scappo, un’altra volta.
Lei si volta, malinconica, guarda il cielo, bianco, e non si ricorda che una volta era azzurro.
Si appiglia agli unici ricordi che le sono rimasti, i ricordi dei prigionieri della città di LA.
Io mi volto un’ultima volta, e la vedo, un fiore sbocciato con una corolla di petali secchi, che io mi sono divertito a strappare, durante la mia stolta gioventù.
Dio, come ti ho ridotta Sakura? Che cosa ti ho fatto? Che cosa mi hai fatto?



La sorreggo, ormai è solo una marionetta tremante: la sua pelle è distrutta, sfasciata, nervi e ossa si intrecciano in un'unica spirale di sangue. La mia cute invece è tornata splendida e pallida, come sempre, come la luna.
Sento che non posso lasciarla lì, in balia del fango, in balia della morte, che poco prima mi accarezzava.
E per la prima volta la guardo, la piccola Sakura, la bambina seppellita nella mia memoria sterile, seppellita nelle mie braccia. Lei mi guarda, persa nei miei occhi, addolorata, già nelle mani della morte. E prega, una preghiera muta e silenziosa
Un oceano rosso si spalanca sotto il suo cielo turchino, per sempre.


I giorni trascorsero come ombre,
i minuti ruotarono come stelle.


Ora sono cominciati i giorni del buio, i primi giorni a tentoni, a carponi, mentre
 il mio mondo gira e traballa come un bambino capriccioso e sbadato.
Un bambino che si è dimenticato del suo gioco.
Ho persino rischiato di farmi riconoscere da alcuni ninja del villaggio confondo notte e giorno, fuoco e stelle. Per fortuna ora i ninja e civili non portano kunai in mano, ma travi, chiodi, martelli per risanare il dolore della defunta Konoha, uccisa da Pain.
E poi portano fiori, tanti fiori.
Posati su un enorme tomba che io avevo solo intravisto, mentre si ingigantiva, colorata, e si espandeva in tutto il villaggio, come un arcobaleno pieno di speranza.
E ora che le sono davanti, in una notte sempre più buia, la mia notte, penso che, finalmente, sono io il più forte.
Penso che, come Kakashi-sensei, trovo conforto nel parlare, balbettare, pregare davanti alla tomba del mio rivale, perché è l’unico modo per dimenticarmi dei vivi, dei suoi occhi vivi, quelli di Sakura. Per dimenticare i miei ex compagni di accademia, i bambini che ho visto giocare e crescere e che ora non posso salutare, ma posso solo vederli nella loro frustrazione e nella loro stanchezza, mentre sono davanti alla tomba colorata o all’ospedale, da lei.
Per dimenticare la piccola, sottile fossa dietro la tomba enorme, già scavata e pronta per essere riempita.
Non ho fiori da appoggiarci, non ho lacrime da versare, ma ho occhi con cui guardarla, quella tomba vuota, stagliata contro il tramonto. Occhi traballanti, occhi sempre più spenti, sempre più neri.
E il giorno della fine finisce.
La mia punizione non finirà mai.


Questo lo spinge al luogo dove giaccio.
Nella morte, dunque, sono vendicata.


Il mondo dal cielo bianco mi esplode davanti agli occhi neri.
E lei è già lì ad aspettarmi, sull’orlo del vuoto.
Mi guarda per la prima volta…da quanto?Mesi, settimane? I suoi occhi, mai, mai, li ho visti così vivi, incerti, pavidi, consapevoli.
“Sasuke-kun…”
E in un attimo la paura divampa nel mio corpo come un mare furioso, e il mio mondo scricchiola, terrorizzato.
“Tu mi hai baciata, vero?”mormora emozionata, impaurita, mentre si tocca le labbra sottili.
Schegge di mondo esplodono, mentre il nero si sazia del bianco.
 

Così alla fine, avvizzita e coi denti gialli,
spezzata nell’orgoglio e in abietto avvilimento,
sprofondai nella fossa


Le labbra di Sakura sono così scarne e gelide, in questo mattino bellicoso.
In mezzo alle macerie del nostro nido nasce il più piccolo e docile gesto d’amore, quello più falso, quello più codardo.
Cos’è un bacio, se non disperazione e pazzia? Cos’è un bacio, se non falsità?
Cos’è un bacio, se non un bacio?
Lei spreca il suo ultimo respiro con questo gesto scialbo, senza promesse, eppure così importante per il suo cuore rattrappito. Così importante da ridurla a uno spettro.
Così importante da lasciare una cicatrice, nella mia anima lacerata, da incidermi l’immagine di Sakura(il mio primo e ultimo amore) nella mia memoria ormai morta.
Cos’è un bacio, se non una punizione?

Mi cavò dal cuore la pietà,
e la mutò in sorrisi.

Sakura avrebbe voluto accarezzare i fiori, quei fiori che le ricordavano Naruto, Konoha, il verde, la pioggia. Ma ora non c’è più niente, tutto è petrolio.
Il nero è immobile, pesante, pressante. Solo noi due siamo sopravissuti alla furia di questo abominevole colore, di questo fiume infernale.
Sakura è confusa, si agita come una sonnambula, i suoi occhi sono comete di smeraldo piene di fuoco.
“È questa la città di LA?” mormora, incerta, mentre mi guarda, ancora, ancora, all’infinito “Gli altri sono qui?”.
“No, Sakura. Ci siamo solo noi due”.
Il buio è immenso e piccolissimo, non ha confini.
“Città di LA, Sakura, è il termine usato per indicare un’altra dimensione. Ogni Genjutsu, ogni tecnica illusoria che crea una realtà alternativa si chiama città di LA”.
Sakura smette di barcollare e riacquista lucidità. Forse la sua mente punita e distorta sta cominciando a capire.
“Gli Uchiha sono sempre stati maestri delle arti illusorie, e all’epoca della grande guerra hanno terrorizzato numerosi avversari con la minaccia di spedirli nella città di LA e di non farli più uscire. È nostra figlia, nostra alleata, nostra nemica, la città di LA”.
Lei mi guarda stupita ma con un viso di pietra, mentre il mio si strazia, al ricordo del mio supplizio nella città di LA creata da Itachi, dove ho perso forza e speranza. Alla fine, è stata la città di LA a portarmi sul cammino della perdizione, a trascinarmi lontano da Sakura, da tutto.
“Stai dicendo che gli altri non riusciranno più ad uscire dalla città di LA?” mi chiede Sakura, angosciata, senza il freddo autocontrollo che si è imposta in tutti questi anni “Nemmeno…nemmeno Naruto?”.
Ringhio, senza motivo, mentre una scintilla di gelosia mi esplode nel petto.
“Sto dicendo che sei tu quella imprigionata nella città di LA, Sakura”.
Forse l’ha sempre saputo. Forse ha sempre saputo che il cielo non era bianco, che i fiori non erano reali, che persino io ero la pallida ombra di me stesso. L’amore si sente, e lei lo sentiva poco, nella persona gentile, troppo gentile, che l’accudiva, nel suo inferno personale.
Si morde le labbra, annuisce, piano. E poi scruta la sua città, la città di LA, la sua punizione.
Strizza gli occhi, accecata dal buio.
“Perché, Sasuke-kun? Perché tutto questo…per me?” chiede, e il suo sorriso non sa se mostrarsi deluso o imbarazzato.
“Perché lasciare la tua mente prigioniera della città di LA era l’unico modo per tenerla attiva, in vita. Il tuo corpo è distrutto, ma la tua mente poteva sopravvivere. Tu…sei forte, sei sempre stata forte”.
“Perché, Sasuke-kun?”
La guardo, e non so dove guardare.
Mi vorrà chiedere dove si trova il suo vero corpo, il suo vero sangue, e io dovrei risponderle che si sta decomponendo nella tenda adibita ad ospedale, visitata da amici senza speranza. Mi chiederà del suo coma e della sua mente prigioniera, e io le dovrei dire che non potrà spezzare le catene che la imprigionano. Mi chiederà il perché le ho mentito sulla sua famiglia e sui suoi compagni e io le dovrei dire che tutti i suoi amici sono lontani, e che non li potrà più rivedere. Le dovrei dire che il suo migliore amico è in altra città di LA, la vera città di LA, quella senza porte e finestre, ucciso dal Dolore, deposto in una collina di fiori. Le dovrei dire che la sua tomba è già stata scavata, che ho visto, toccato e annusato il fango che si appiccicherà al suo gracile viso.
E invece mi chiede: “Perché sei venuto qui, perché sei venuto per così tanto tempo nella mia città di LA?”. È quasi affetto quello che sento nelle sue parole, come se la sua città, il suo regno, nero e scialbo, sia un gatto smanioso di coccole.
Parlo, e non so quando parlare.
Non posso dirle che devo subire la punizione divina, che io stesso mi sono imposto, imposto di rimanere legato e prigioniero alla sua ombra, lontano e vicino alla mia salvatrice. La mia punizione, sognare e rivivere la mia tortura e la mia resurrezione, agognare la forza che non  mi aveva permesso di salvare Sakura, la mia Sakura. Non posso dirle che ogni giorno, ogni giorno rientravo nella sua mente e guardavo come un orgoglioso architetto la mia ciità, il mio mondo folle. Non posso dirle che ogni giorno, ogni giorno rimanevo ore ad osservarla, sofferente e immobile, imprigionata nel lettino dell'ospedale.  Le sono stato troppo lontano, e solo ora riesco a vederla nella luce della verità, in questo mondo buio. Perché non  mi hai guardato così, Sakura, quando hai gettato nel fango, nel buio, il tuo amore per addolcire il mio orgoglio glaciale? Tutto è un circolo vizioso, tutto questo è la mia punizione.
Non parlo, semplicemente non parlo.
E lei sorride. Ora è redenta, ora è luminosa come un angelo, ha scontato la sua punizione. Vorrei un ultimo bacio, un ultima carezza, ma lei si allontanerebbe, non vuole contaminarsi, una povera santa appena nata.
Ma lei mi guarda, e il suo sguardo è una carezza, una benedizione.
“Io mi sono ricordata del bacio perché la tua illusione stava svanendo, perché tu la indebolivi…perché proprio adesso hai deciso di lasciarmi andare, Sasuke-kun?”
Poi la sua immagine sparisce, in un fascio di luce divina, e il fuoco divampa dai miei occhi( fuoco o lacrime?).
Esco dalla città di LA, dalla mia città di LA, fuggo dal mio angelo. Faccio appena in tempo a scorgere il vero corpo di Sakura, mangiato dalla morte e un lampo mi acceca.
Finalmente lo Sharingan si è mangiato la luce, e i miei occhi, pieni di sangue muoiono, assieme al mio amore.
Io non ti avrei mai abbandonata Sakura, ma il mio potere, la mia benedizione e punizione, mi hanno distrutto gli occhi che ti avrebbero salvata, aiutata, amata. Mi ha reso cieco.
Non sono stato abbastanza forte per resistere, per trovare il coraggio di abbracciarti un’ultima volta, per confessarti le mie colpe. E per questa mia debolezza io sarò punito,Sakura, e sconterò la mia pena in una città di LA senza luce, senza ombre.
Senza di te.


e allora morì e mi ossessionò,
e mi ossessionò per la vita.






Dunque, spero che la lettura sia stata piacevole e, soprattutto, chiara^^. Ora vi faccio un riassunto: la città di LA è un termine un po’ romanzato per un’illusione potente, che crea un’altra dimensione. Quindi, per salvare Sakura, Sasuke l’ha intrappolata in una città di LA da lui creata per mezzo dello Sharingan in modo da  tentare di riattivare la mente della ragazza. Ogni giorno andava a trovarla all’ospedale ed entrava nella sua stessa illusione, per cercare di riportarla alla vita, ma senza successo. Alla fine, la sua illusione si è indebolita per via dello Sharingan, che lo stava rendendo cieco, e Sakura ne divenne consapevole, tanto da distruggere la tecnica. La tomba piena di fiori è quella di Naruto, morto nell’attacco contro Pain. Spero che sia tutto chiaro^^

Che dire, scrivere sui pairing che non mi piacciono mi fa scrivere certe robe depressive e autodistruttive. Sono molto felice della posizione, considerando che ho scritto la fic in una settimana, e con il lavoro di una settimana ho scioccato il giudice^^
Complimenti ancora a tutti i partecipanti e grazie alla giudice e alla bannerista. Le poesia sono due, ovvero quelle di Flethcer e Ollie Mcgee, marito e moglie(le loro poesia sono collegate^^). Le frasi di Ollie McGee sono le seguenti:

"L’avete visto in giro nel villaggioun uomo con gli occhi bassi e il volto scavato?E’ mio marito, è lui che per segreta crudeltàinnominabile, mi prese gioventù e bellezza;" 
"Così alla fine, avvizzita e coi denti gialli,spezzata nell’orgoglio e in abietto avvilimento,sprofondai nella fossa"
"Questo lo spinge al luogo dove giaccio.Nella morte, dunque, sono vendicata."
Lei infatti condanna il marito per averle fatto qualcosa di terribile, che le ha tolto la giovinezza e la forza, anche se si è presa la rivincita ossesionandolo col suo ricordo anche da morta. Le frasi di Fletcher sono la terza, la sesta e l'ultima; questa poesia è piuttosto complessa, e non si capisce bene cosa voglia dire: credo che lui abbia tentato di plasmare sua moglie come voleva, ma che l'argilla con cui la stava "costruendo" aveva preso sembianza demoniache e che aveva preso una volontà sua. Perciò il ricordo di Ollie, anche dopo la sua morte, continua a tormentarlo.
Soprattutto grazie a:
LalyBlackangel: sono felice che continuerai a seguirmi, guarda che ci conto!Sono felice di aver scritto una bella NaruHina, da fervente NaruSaku che sono. Probabilmente ne scriverò altre, ma ti avverto, questo pairing lo so scrivere solo in chiave tragica^^’ Bacioni e grazie ancora!
Shatzy: o grazie, è sempre bello ricevere i complimenti di una fan NaruHina^^! Sono felicissima che ti piaccia il mio stile, faccio del mio meglio(anch’io ammiro moltissimo il tuo e lo sai^_^). Non ti ignorerei mai!Infatti la NejiTen è la prossima della lista!Bacioni, cara!LaLa
Rinalamisteriosa: cara, mi fai arrossire, non merito tutti questi aggettivi^//^. Ma figurati, riusciresti benissimo a fare una NaruSaku, basta che le scrivi in chiave tragica e/o sadica e ti verrà naturaleXD(mi sto tirando la zappa sui piedi da sola, peròXD) MinaKushi accettata, ma prima scriverò la NejiTen!Bacioni, LaLa

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Capitolo 4
*** You think your eye sweeps about a wide horizon(Griffy The Cooper) ***



Un battito, è tuono.
Una scintilla, è fulmine.
Una lacrima, è pioggia.
Un sospiro, è bufera.
Quanto è profonda la tua botte?


You think your eye sweeps about
a wide Horizon




Il bottaio deve intendersi di botti.
Ma io conoscevo anche la vita,
e voi
credete di conoscere la vita.
Credete che il vostro occhio abbracci un vasto orizzonte, forse,
in realtà vedete solo l'interno della botte.





I suoni rimbalzavano, contriti, filtrati; continuavano, imperterriti, irrispettosi.
“Neji, credi che riuscirò a centrare il bersaglio con tre kunai contemporaneamente?”
“Dobbiamo muoverci, o Gai-sensei ci rifilerà la solita tiritera sulla giovinezza!”
“Neji, un giorno posso venire a cena da te? Mi piacerebbe così tanto vedere villa Hyuuga, sembra un palazzo…”
“Neji!Neji!”
Sin da quando Neji aveva deposto la sua fragile ed eterea figura nella botte, nello scudo di tradizioni e nozioni che si intrecciavano nei suo pensieri, sin da quel momento ogni suono e ogni luce si erano amplificati e, allo stesso tempo, attenuati.
E la voce di Ten Ten era un urlo, che nella sua botte diventava un inno, era un sussurro, che nella sua botte diventata una ninna-nanna.
Neji aumentò il passò, lasciando che la voce acuta della ragazza si insinuasse nel suo scudo, raro privilegio, domandandosi se la luce dei suoi occhi sarebbe stata più luminosa, se non fosse stata coperta dalla botte.
“Neji, un giorno dovrai uscire da quella conchiglia che ti sei costruito attorno!”
Un passo più veloce, un lampo niveo.
Non si può uscire dalla botte.

“Il Clan Hyuuga è il più prestigioso di Konoha, la perla della foglia, il sole e la luna della nazione”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora perché quel ragazzo pieno di luce, senza famiglia se non il cielo che lo accudiva dall’emisfero divino, lo aveva trasformato da astro a stella cadente, e lo aveva trascinato sulla terra brulla?
“La Casata Principale è nata per essere servita da quella cadetta, in modo che il nostro segreto e il nostro potere venga preservato nei secoli a venire”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora perché Hinata sembrava un fringuello muto, abbandonato tra la neve, mentre lui volava con l’eleganza del falco tra sprazzi di cielo e oltre l’arcobaleno?
“Uno Hyuuga deve esser accompagnato da una donna  elegante, remissiva e, soprattutto, nobile: non possiamo permettere che il sangue marcio della plebe si mischi con il nostro, sacro e prescelto. Lascereste che la rosa si accoppi con una purulenta graminacea? Dobbiamo mantenere il prestigio del clan Hyuuga, sempre e comunque.”  
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
Allora perché gli occhi di Ten Ten, così scuri ma così vivi, intensi, riscaldavano l’inverno e rinfrescavano l’estate con una luce che nessun  Byakugan poteva aspirare a possedere?
Ma ormai le risposte contrastanti alle domande retoriche e non scritte nel clan erano da eliminare, da accartocciare e buttare nel fuoco dell’obbedienza, quella candela che doveva essere alimentata di giorno in giorno, di ora in ora.
La botte era fatta di ordini, di precetti, di regole, di ferro e ghiaccio. E ogni occhio, anche quello più sacro e potente, vedeva quello che la botte vedeva.
“Tuo padre è morto per volontà del clan. Il suo sacrificio ha salvato Konoha e il nostro nome: il suo eroico gesto ci ha miracolosamente salvato dalla miseria e dal disonore”.
ÈVeroèveroèveroèveroèvero.
“Dovresti esserne fiero”.


Un grido, è terrore.
Un colore, è arcobaleno.
Una lacrima, è pianto.
Una perdita, è destino.
Quanto è profonda la tua botte?



Non riuscite a innalzarvi fino all'orlo
e vedere il mondo di cose al di là,
e a un tempo vedere voi stessi.
Siete sommersi nella botte di voi stessi-
tabù e regole e apparenze
sono le doghe della botte.

 

“Ti dico che i colori sono diversi. Non sono come li vedi tu: sono più tenui, più accesi, più forti e più scoloriti allo stesso tempo.”
“Dipende dalla prospettiva”.
“No, no, Ten Ten, non capisci, non dipende da questo! Dipende dalla botte, dipende tutto dalla botte. Il clan mi ha insegnato che i tramonti sono solo la fine del giorno e le tane dei nemici. Le sfumature rosse nascondono sempre presagi nefasti e kunai nascosti”.
“Quindi non vedi la magia dei colori? Non vedi la musica e il ritmo cadenzato delle nuvole che fuggono via? Non vedi il fulgore delle prime stelle? E il tuo miracoloso Byakugan?”
“Io li vedo, figurati se non li vedo…ma non riesco a vederli che li vedi tu! Magia, musica, ritmo…non ci riesco, non mi hanno mai insegnato questi precetti, non a un cadetto come me. In realtà non so neanche perché te ne sto parlando. È come se vedessi il mondo attraverso una botte trasparente e bellissima, rifinita di diamanti e cristallo, ma pur sempre un prigione, resa visibile solo dal mio potere. Non riesco ad emozionarmi, sì ecco, ad emozionarmi nel vedere un tramonto, l’emozione per un evento naturale secondo la botte che mi ha costruito il clan non ha senso, è inutile…quindi anche per me è così. Perché io, nobile esponente del clan Hyuuga, sono cieco?”
“E perché non esci dalla botte, mio invincibile guerriero astigmatico?”
“Non scherzare. È impossibile uscire dalla botte, io non posso, tu non puoi. Tu sei in una botte piena di precetti ninja, di favole stantie, di regole di fisica, di colore e di gioia. Il tuo corpo è come una radice e ne trae nutrimento, da tutti questi sentimenti che ti accudiscono e intanto ti affogano, ti distruggono, ti costruiscono la tomba”.
“Ma io lo vedo, il tramonto!Giallo, arancio, rosa, verde e blu: li vedo, eccoli la all’orizzonte!”.
“Sì, ma allo stesso tempo non puoi vederlo come lo vedo io, non puoi vedere il nemico e il senso di pericolo che trasmette questo spettacolo. E non te ne rendi nemmeno conto, perché i tuoi occhi non possono scalfire la botte. Non hanno il byakugan, non sono abbastanza forti. Non sei abbastanza forte”.
“Sai, Neji, sei proprio una conchiglia”.
“E sai cos’è una conchiglia, Ten Ten? Un cadavere, abbandonato sulla spiaggia, cimitero e deserto del mare.”
“Cos’è una conchiglia, Neji? È una creatura che crede che il suono che rimbomba nel suo corpo vuoto sia quello del mare. E invece è solo un’illusione”


Una conchiglia, è mare.
Quanto è profonda la tua botte?


Spezzatele e rompete la magia
di credere che la botte sia la vita,
e che voi conosciate la vita!



La sua voce è vicina, vicinissima, troppo, troppo vicina.
Così vicina che la botte freme, la botte lo mangia, lo gusta, quel suono limpido, si lecca le dita per quegli occhi intensi e luminosi.
“Neji!Neji”
Eccola, sull’orlo della botte, in alto, come un angelo.
Un tuffo e poi eccola lì, in piedi, davanti a un paio di allibiti occhi vuoti e ciechi.
“Ma cos’hai fatto, Ten Ten?” urla Neji, un rantolo nella botta vuota.
E lei ride, ride, come sempre.
“Ora sono anch’io nella tua botte: potrò vedere che quello che vedi tu. Avremo gli stessi occhi”.
No, è impossibile, due occhi benedetti non possono vedere come due occhi prigionieri. Ten Ten, perché sacrificare la selva misteriosa dei tuoi occhi con la scheletrica realtà delle mie iridi di vetro?
“Non puoi, Ten Ten. Nessuno può uscire dalla botte“
“Ma ora sono qui, accanto a te, nella tua botte. Io guardo con il mio cuore, Neji. E se non vedrò con il cuore, vedrò con i sensi. E se non vedrò con i sensi, vedrò con i tuoi occhi. E se non vedrò con i tuoi occhi, vedrò con il tuo cuore, il tuo cuore che mi ama, Neji, ormai lo so. E se non vedrò con il tuo cuore, diverrò cieca, e morirò accanto a te, nella nostra botte.”
 






Ah bè…
L’ho appena finita di leggere…e non ci ho capito nienteO_O. Purtroppo questa fic non è ai livelli della precedente, e per questo chiedo perdono…ma dovevo assolutamente togliermela di mezzo, se no mi bloccavoXD
Vabbè, ora tento di spiegarmi: a livello cronologico, la fic si svolge dopo gli esami dei chuunin, quando Neji viene sconfitto da Naruto e comincia ad interrogarsi sulla vita che aveva condotto fino a quell’evento. Dato che non credo che sia cambiato in un secondo, ho analizzato la sua situazione. La poesia di Griffy il bottaio( che ho riportato tutta e pure in ordine^^) è una perla: ogni uomo, anche se non se ne rende conto, è in una botte, che si è costruito da solo a causa della società, della famiglia, della condizione psicologica. Non riesce a vedere ogni cosa in modo imparziale, ma si fa condizionare da quello che gli hanno insegnato o dalle sue credenze(magari anche errate) che lui stesso si è costruito. Insomma, appena l’ho letta mi sono detta: cavoli, ma questo tipo ha ragione, ha totalmente ragione. Ho cavoli, sono prigioniera di una botteO_O.
Ma tornando a Neji: dopo che è stato battuto da Naruto, Neji si rende conto che la sua vita era stata condizionata  dalla botte di credenze e ordini che gli aveva imposto il clan. Ora, il suo Byakugan riesce persino a vedere la botte e Neji si rende conto che se vuole vedere il mondo vero deve uscire dalla botte. Allo stesso tempo però sa che è impossibile, perché non si possono cambiare regole e imposizioni così radicate. Allora Ten Ten, anche lei rinchiusa in una botte, per amore è disposta ad entrare nella botte di Neji, a farsi corrodere dalle sue regole amare e sbagliate, a perdere il suo punto di vista, la sua botte, pur di rimanere con lui.
Mi sa che non ci ho capito niente neanch’ioXD.
Ora i miei amati recensori:
LalyBlackangel: grazie mille per i complimenti, carissima^^. Ma sì, magari un giorno, moooolto lontano, ce la farò a scrivere una NaruHina più allegra e meno tragicaXD Bacioni!
Ayumi Yoshida: guarda, anche a me non piace la coppia SasuSaku, quindi immagina che parto sia stato!Sono felice che nonostante non sia una delle tue coppie favorite tu l’abbia letta e mi abbia regalato questo bellissimo commento. Sono commossa ed esterrefatta*_*. È stato un onore gareggiare contro di te, il contest di Kimly è stato fantastico: emozionante, pulito e soprattutto ci ha soddisfatto tutti, senza dimenticare che ha donato delle bellissime fic al fandom!Alla prossima, bacioni!
Hikaru_Zani: ciao winner! Sono stata molto orgogliosa del tuo commento e del fatto che tu abbia commentato una fic con una delle tue coppie sfavorite. Ah, sono felice che qualcuno si ricordi del povero Naruto defuntoç_ç. Rinnovo i miei complimenti per il tuo meritatissimo primo posto e ribadisco che è stato un onore perdere contro di te!Alla prossima!
Shatzy: o cara, sono sempre commossa con i tuoi commenti, non so mai cosa dire^^’’. Comunque, sì, se ti stai chiedendo se questa è la tua NejiTen, sì, questa schifezza è lei(e LaLa venne fucilata sul posto^^’). Ti prometto che ci saranno altre NejiTen e saranno decisamente più belle, è una promessa! Mano sul cuore!Bacioni!
itachi_love: figurati per la recensione, la tua storia mi è piaciuta davvero tanto^^. Bè, sei una delle poche fan della coppia tra i commentatori, quindi se piace sia a loro che a te, mi ritengo soddisfatta! Sono felice che tu abbia capito questa fic super contorta, allora non sono così complicata^^’Bacioni!
Rinalamisteriosa: no, non puoi piangere, te lo impediròXD Nonostante la sofferenza, sì, leggerei una tua NaruSaku in chiave tragica(ma non esagerare, ne!). La prossima è la MinaKushi, ovviamente^^!Bacioni!

Sarò felice di accettare altre richieste!
Grazie per la vostra attenzione,
 LaLa

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Capitolo 5
*** Nevica sul mare(Mrs. Kessler) ***



Nevica sul Mare






Imparavo i segreti di tutti
da coperte e coltri, camicie e sottane.



Una fiamma, e tutto divenne bianco. Come se i suoi occhi fossero immense stelle immortali.
La morte era nera, la morte era grigia, era il disonore, la fine, era questo.
Ma questa morte era bianca, era dolore, la morte erano due occhi grigi.
“E dato che sono l’unica femmina, sono io, quella che si deve umiliare a cucirti i pannolini!”.
I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?.
Questo pensò Minato, subito dopo aver visto, sentito, annusato, che quel grigiore non sapeva di morte, sapeva di pioggia, di fumo. Quel grigiore era il cielo, che a Konoha era sempre blu. Sempre.
La stronza continuava a parlare.
“Mi ascolti, brutto porcospino giallo??Ti ho chiesto dov’ è finito il tuo coprifronte!Siamo sicuri che sei un ninja di Konoha? A me sembri un po’ troppo mollaccione…”.
Blateravano e blateravano, quegli occhi grigi sormontati da una fiamma, da un sole coperto dalle nuvole.
Perché non gli diceva niente della missione al confine col Paese del Turbine, di come si era conclusa dopo il suo svenimento? Ovviamente le femmine non servivano mai, nei momenti critici.
“Ecco, guarda come viene schiavizzata la migliore kunoichi di Uzu, solo perché devi fare il sonnellino pomeridiano. Cucire, che schifo! Che umiliazione!” sputa veleno, la stronza, mentre gli getta in faccia i suoi pantaloni appena ricuciti. Ha le dita piena di puntini rossi, la stronza, come papaveri, come piccoli soli.
Un goccia di pioggia, che sembrava olio bollente, sulla fronte, di Minato. Un ninja con la fronte scoperta è un ninja morto. Minato per la prima volta sentì che la morte sarebbe stata preferibile al disonore, che la morte non era disonore, la morte era la fine, la vita era tutto. E la vita era anche disonore. Ma la vita era anche il sole, e il sole, in quel momento, era il rosso di quella fiamma(stronza).
Si agitò, e vide negli occhi della bambina il suo stesso riflesso: erano quelli gli occhi di un ninja senza coprifronte, senza casa, senza onore?
“Capita a tutti. Capiterà a tutti, di perderlo” mormorò la bambina, e capì. Minato si chiese come riuscisse, una bambina immersa dalla pioggia, a capire.
“È un sogno essere immortali, esseri invincibili” continuò la stronza con quegli occhi troppo concreti, troppo reali, troppo tetri.
Minato le avrebbe detto che i sogni a Konoha si toccavano con la punta delle dita, e i sognatori come lui, che guardano sempre in alto, verso la vittoria, verso l’infinito, hanno il cielo negli occhi, hanno tutti gli occhi blu. Le avrebbe detto che i suoi occhi sono così cupi perché ha passato la vita a guardare cadaveri grigiastri e tombe smembrate, a non sognare.
 E Kushina, con la sua smorfia sghemba, gli avrebbe dato del cretino e gli avrebbe fatto notare che il cielo era sempre grigio, a Uzu.


perché le cose nuove diventano vecchie a lungo andare,
sono rimpiazzate da migliori o non lo sono affatto.


Gira, gira.
“Mi sta venendo da vomitare”
Gira, gira.
“Senti porcospino, se non la smetti potrei rivelare a Choza la verità sulle sue venti porzioni di ramen e della loro terribile fine, immerse nel tuo schifoso stomaco…”.
Gira, gira. Gira, gira.
Una chioma crespa e bionda cadde a capofitto in un manto verde.
“Ti viene la nausea solo se faccio ruotare un kunai? Sei proprio una femmina mollacciona…” mormorò Minato mentre strizzava gli occhi lesi sotto il prepotente sole di Maggio. Girò la testa solo per godersi le labbra di Kushina stringersi, ed evitò con prontezza il pugno che avrebbe dovuto intaccare la sua guancia liscia.
Minato fece ruotare di nuovo il kunai, adornato con nastri color arcobaleno.
“Esattamente! E poi rischi di lasciarlo cadere su questo stupido costume”.
Costume che immancabilmente stava cucendo: ormai si era sparsa la voce che quella pallida e suscettibile kunoichi aveva maturato una buona preparazione nel cucito… e che per qualche astrusa ragione era rimasta a Konoha. All’inizio si era pensato a una missione di spionaggio, forse per tenere d’occhio i clan più potenti della città, o, come sospettavano i preoccupati proprietari dell’Ichiraku ramen, per sgraffignare la loro ricetta segreta, dato che i cibi di Uzu facevano notoriamente schifo. Minato aveva addirittura teorizzato che potesse essere una missione con lo scopo di screditare proprio, alias l’astro nascente della Foglia, dato che da quando quella furia rossa e stronza era giunta a Konoha sentiva in continuazione strane risatine alle sue spalle.
“Il maestro Atasuke sembrava una marionetta con tutte quelle cuciture” bisbigliò Minato al cielo, come se potesse sentirlo.
“Non lo trovo un motivo giusto per abbandonare la carriera di shinobi” sbottò Kushina, mentre assestava un altro punto al mantello, con l’evidente desiderio di smembrarlo.
“Già…la Foglia perde uno dei suoi migliori jounin!” esclamò Minato, frustrato, mentre strappava qualche innocente filo d’erba e lo liberava dalla terra per lascarlo volare fino alle nuvole.
“Soprattutto avrebbe dovuto sapere che avrebbero allestito quelle patetiche festicciole da settantenne per la sua pensione. Nessun motivo è giusto se implica la schiavizzazione della kunoichi più promettente di Uzu!”.
“Festicciola da settantenne?? Ma se io sarò il protagonista” sbottò irritato Minato, ignorando il successivo “ecco, appunto” sibilato a denti stretti dalla kunoichi.
“Non hai sentimenti, serpe!” continuò il biondo “Il maestro Atasuke mi ha allenato per il corso specializzato di sopravvivenza, mi ha insegnato a concentrare il chakra, ci ha allevato negli anni all’accademia…Non mi merito il suo kunai prediletto!”.
Un altro giro. La vita gira. Ed è solo un giro.                                                   “Almeno il maestro Atasuke ha potuto farlo, il suo giro” borbottò Kushina, concentrata sul suo lavoro “Pensa che poteva fermarsi a metà e poi interrompersi, tornare giù e ciondolare come una testa mozzata. O non muoversi nemmeno.”
Un movimento del dito, flebile, e il kunai, che stava per compiere un giro competo attorno all’indice, tornò indietro, come una campana.
Evitò frasi di circostanza come “hai ragione, Kushina”: era una femmina, no? E da quando le femmine avevano ragione??
Alzò gli occhi turchesi al cielo, il giovane Minato: voleva girare, avrebbe voluto farlo più volte, ma se la vita era un giro solo, il suo sarebbe un stato un doppio, no, un triplo salto mortale.
“A proposito, ho bisogno di comprarmi dei nuovi pantaloni. Quelli che mi hai ricucito tu cominciano a starmi un po’…”
Ed ecco il famoso Minato, piccolo prodigio di Konoha, una grande speranza, che ignorava le risatine della folla, con gli occhi sempre fissi davanti a sè, senza mai voltarsi indietro, neanche per vedere il ghigno sadico di Kushina e la toppa a forma di cuore che per oltre due mesi aveva adornato il suo posteriore.




E gli strappi e le toppe s’allargano col tempo;
non c’è ago o filo che possano frenare la rovina.



Su e giù, dolorosamente. Nervi, carne, pelle, ossa, niente sfuggiva all’ago.
Una distesa di ninja aveva preso il posto dell’erba, il rosso aveva surclassato il verde. Corvi e rantoli.
Non c’era anestesia per gli occhi troppo chiari di Minato, che vedevano solo ombre fosche. Konoha aveva vinto, ma a che prezzo? Il verde della Foglia era morto, e se ne stava lì, rattrappito, sotto il sangue.
Kushina cuce, cuce la sua ferita, nessun altro può farlo.
È come un maglione, come un maglione, non è diverso da un maglione, si ripetevano quegli occhi grigi, impauriti. Una maglione di dolore.
“Sei fortunato, porcospino. Andiamocene da questo schifo e cerchiamo un ninja medico per questo taglio”.
“Ci sono ferite che non si possono curare, Kushina”.
Ogni giorno di guerra, era un nuovo baratro.
Minato sapeva che a casa ci sono cuori angosciati e fra un po’ ce ne saranno il doppio. Minato sapeva, e vedeva, il corvo che rubava il braccio a un cadavere, sapeva che Jiraya-sensei quella sera stessa avrebbe festeggiato la vittoria con le sue donnine e affogato i ricordi, i morti, gli amici, nel sakè, sena rimpianti.
Gli occhi di Kushina dovrebbero essere grigi e sicuri, freddi e forti. Ma erano argentati di lacrime. Il baratro li stava ingoiando tutti e due.
Una carezza: è solo questo il dono che Minato può dare a quella scorbutica kunoichi senza intaccare il suo dorato orgoglio. Solo una carezza, taglio su taglio, baratro su baratro. Uniti da un ago.
“Dobbiamo tornare a casa. Inoichi e Itsuko non ci permetteranno di mancare al loro matrimonio” sorride Minato, mentre Kushina rabbrividisce alla minaccia riguardo alla mancata presenza all’evento che le aveva rivolto una delle sue poche amiche prima della missione: qualcosa che centrava con una morte lenta e dolorosa.
Si tennero per mano, taglio su taglio, e volarono via.
 Fino a dove potremmo ricucire?


Fazzoletti, tovaglie, hanno i loro segreti-
la lavandaia, la Vita, li conosce tutti.



Erano passati solo pochi mesi da quando Kushina, a detta di Minato, era diventata da stronza a bella stronza.
Erano passati pochi mesi da quando Minato, a detta di Kushina, era diventato da porcospino a istrice, e da quando era statonominato, sempre da Kushina, Istrice gialla della Foglia.
Ma, si sa, le vecchie abitudini erano dure a morire.
“No, brutta e schifosa istrice, non cucirò i tuoi fottuti bottoni!”
Il fottuto bottone, un solo dannato bottone Kushina!”.
Kushina cercò rifugio nel suo ristretto appartamento e trattenendo le sue nefaste intenzioni solo perché avrebbero implicato macchie di rosso su tutta la sua immacolata cucina, ora che il giallo era di moda, a Konoha.
Forse era meglio tornare al cupo grigiore di Uzu, pensò la donna mentre lei e il nuovo idolo di Konoha davano vita a un improbabile inseguimento nella ristretta area della cucina.
“Ormai ti conosco, Namikaze! Quando devo ricucirti i bottoni è perché hanno finito il ramen e ti senti talmente angosciato per questo che non hai più voglia di vivere, né tantomeno di metterti a cucire”” sbottò la donna con voce roca e forte, mentre si fermava a un angolo del tavolo per calcolare la via di fuga più veloce.
Un fulmine rosso e uno giallo balzarono fuori dalla finestra, uno agile e fiammante e l’altro con un uniforme sgualcita tra le mani forti.
“Quando mi porti i tuoi giubbotti è perché :o Kami, o Kami, o Kami, questa macchia è terribilmente antiestetica e non va via, cosa dirà il mio povero fan club?? Altro che fulmine, stupida istrice!” ghignò la donna, balzando giù dal tetto e attraversando il prato su cui era atterrata con leggerezza.
“Io non penserei mai una cosa simile!” esclamò Minato, sudando per il terrore di incontrare veramente qualche membro femminile del famigerato Minato fan-club.
Un lampo a ciel sereno, ed eccolo tra i fiori, dietro a Kushina, dietro al fuoco.
“Ma Uzumaki-chan, non hai mai preso in considerazione la possibilità della nostalgia??” esclamò ridendo, rideva troppo, quell’enorme porcospino alias istrice “Non posso stare troppo tempo senza di te!”.
“No, quando ti manco mi porti i pantaloni, per i bei ricordi!” grida Kushina, ora ferma, splendente, in mezzo ai fiori, i fiori che dovrebbe bruciare.
Turchese e grigio, i due volti del cielo.
“E se ti dicessi che ti ho portato anche un paio di calzini?”
“Prova solo a tirare fuori una schifezza simile e ti togliere tutti gli aculei, istrice!”
“Allora non guardare!”
Un soffio di vento, un movimento stizzito di un paio di labbra, sempre loro, una finta, un lampo, miliardi di cieli, nessun cielo, una mano enorme a coprire gli occhi grigi, labbra contro labbra, cuore contro cuore, un bacio.
“Non porterei mai dei calzini a una bella stronza come te!”
Un pugno e una settimana in ospedale.
E un sorriso e un battito di cuore, e una risata, e una fiamma più allegra.
E un giubbotto che rimase senza il suo bottone.


e ci sono macchie che sfuggono al sapone,
e ci sono colori che stingono vostro malgrado,



L’anima di una bolla si raffredda e vola giù. E poi esplode, esplode, implode, esplode di nuovo.
È questo quello che ha fatto la tua anima, Itsuko? È diventata una bolla, è spirata via, è tornata acqua?
Kushina si aggrappava al panno lindo, solo a quello straccio, che asciugava le lacrime di Itsuko. Si aggrappava come le unghie della donna hanno strappato le lenzuola che l’hanno cullata con dolcezza, prima di venire squarciate da un dolore e da un amore troppo forte. Dovrà ricucirle.
Le dita sottili di Kushina affondano, e vorrebbe distruggere anche loro: perché deve essere sempre lei a riparare maglioni, cuore spezzati, a lavare, a risciacquare per dare splendore ai sorrisi troppo usati, troppo vecchi, perché lei deve lavare le lacrime degli eroi e ricamare vite? Perché non può strappare?
La bambina di Itsuko era un angelo con la forza di un cinghiale, e stava per distruggere la vita di sua madre come un bambino scherzoso come una bolla.
Ora dorme in una culla troppo grande, mentre sua madre lotta ancora per la vita, la sua vita, la loro vita, in ospedale. Stupida, che aveva voluto partorire a casa, per consacrare il letto nuziale con il miracolo del suo amore.
E ora il suo letto era intriso di morte: il sangue non andava via, non c’era niente da pulire, se non la paura, invisibile.
Si sentivano le urla di Inoichi, talvolta, dalla stanza accanto.
Kushina era una kunoichi, era la cucitrice, era una salvatrice, un’ eroina, era la forte, scorbutica Kushina, Kushina doveva partorire tra un mese.
Cosa avrebbe portato il suo bambino?
Una macchia, dolore, fine?
E Minato? Il loro amore inaspettato sarebbe morto così? O si sarebbe stinto, si sarebbe bagnato e piano piano, sciolto, come una malattia?
Il loro mondo sarebbe diventato grigio?
Ora Minato non era più solo il suo Minato: era il Minato di tutti, ognuno poteva, doveva, avere un suo pezzetto. Sarebbe stato smembrato, il suo Minato, ogni frammento della sua vita sarebbe stato spartito come cibo tra gli affamati, i suoi tesori sarebbero stati donati ad altre vite, come il kunai di Atasuke che era passato al giovane Kakashi?
Una mano enorme sui suoi occhi. Non riuscirà a portarla via da lì.
“Non guardare, Kushina”.
“Ho già visto del sangue, Hokage-sama”
“Non lo vedrai più: i tuoi occhi sono stanchi, del rosso. Devi poter guardare il cielo, devi poter tornare a sognare.”
“Credevo che fossi già stato eletto…stai cercando di comprare il mio voto?”.
La gira, nel suo abbraccio. Vorrebbe guardarlo, vorrebbe assaporare con gli occhi l’uomo che ama, che ha tutto di lei, si vede, che si è caricato di ogni suo difetto, di ogni suo capriccio, di ogni suo desiderio. Ma con tutto quel rosso, preferisce rimanere cieca.
“Voglio restare qui… ma non voglio più vedere”.
“Vedrò io per te. Vedrò tutto il dolore del mondo, solo per te”.
 Non lo vede, Kushina, ma sente i colori tornare a ridipingere il mondo.
Non lo vede, Kushina, ma si stanno baciando.
Non lo vede, Kushina, ma il cuore di suo figlio sta battendo, assieme al suo.



la gente può prosperare o decadere.



Guerra, sangue e morte. Bianco, nero e rosso. Questa è la via del ninja. E il sole non può penetrare questa oscurità. Ma a Minato non serviva il sole per vedere, non ora, non la luce, non serviva. Non c’era sole e non c’era luce. C’è solo Kushina, con in braccio un fagotto candido che prima non c’era. Cuciti assieme, come in arazzo.
La scorbutica Kushina e il testardo Minato: eccoli, lei con in mano una piccola anima, una delicata bolla da non far scoppiare e lui, padre.
Incredibile, impossibile.
Forse domani ci sarà il sole, o forse la pioggia, o la tetra nebbia, e più avanti l’arcobaleno. Ma  quel giorno avvenne un miracolo
Quel giorno, nevicava sul mare.






Oddio, c’è l’ho fatta.
Perdonate il ritardo ma il troppo canon non fa per me^^. Bè, che dire, alla fine credevo che venisse fuori moooolto peggio: non spicca di originalità ed è terribilmente ovvia e lineare, ma non è malaccio. Si può apprezzare.
Lo so che il titolo centra poco, ma oggi, a Milano, nevica. E sono felice, e mi è venuto in mente il titolo ora che tornavo a casa, sotto la bufera. Dovevo usarlo, per forza. Un tocco natalizio.
Fic per Rina: sono riuscita ad accontentare anche te!
Ma ora parliamo della fic: la protagonista della poesia è la signora Kessler, una donna che manteneva la famiglia facendo la sarta e la lavandaia. La vita è paragonata agli abiti che si rovinano, perdono il loro colore, come i corpi e le anime. Diciamo che la caratterizzazione dei personaggi non mi piace granché: Kushina è troppo mollacciona e Minato è troppo stupido. Ma mi sono venuti così. Dimenticavo: quesat frase "I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?" non è mia, ma di Ennio Flaiano
Recensioni*_*:
celian4ever: grazie mille!IC dici?? Meno male, credevo di aver scritto delle assurdità! Guarda, io Ten Ten non so mai come caratterizzarla(maledetto Kishy che non da spessore alle signore!>_<) e quindi mi sono fatta guidare dall’istinto. Grazie ancora!
LalyBlackangel: il nonsense c’è tuttoXD Ti ringrazio molto per i complimenti, se a una non-appassionata di NejiTen(come meXD) piace e non la trova spenta, sono felice!Grazie mille, bacioni!
Shatzy: cara**Mi dispiace per la “contortezza” della fic, ma la poesia era troppo da Neji, non potevo non usarla!(splendida, infatti^^). Ma certo, ci saranno sicuramente altre fic nere(intanto mi diletterò a leggere le tue^^)Bacioni, alla prossima!
Rinalamisteriosa: dear, ho fatto del mio meglioXD ma il troppo canon ha avuto la meglio e ho partorito questa solaXD Ma sono felice di averti fatto apprezzare la mia NejiTen^^(cioè, in realtà il pairing non piace per niente , quindi non dovrei essere contentaXD). Attendo con ansia la NaruSaku!Bacioni!

Grazie per la vostra attenzione,
E
Buone Feste!
LaLa

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Capitolo 6
*** Oceano in Scatola (Mrs. Sibley) ***





Ci sono molte cose che il mare non conosce.
Non conosce il calore di un abbraccio, e non perché non esistano braccia abbastanza ampie per stringerlo, ma perché non sarebbero abbastanza tenere e abbastanza calde neanche per concedergli la sensazione di una carezza. È sempre e solo lui che stringe, che soffoca, che coccola, che sfiora.
E tavolta allunga timidamente le sue mani e ci ruba qualche fiore, qualche spiaggia, qualche vita.
Non conosce la parola casa: esiste davvero un angolo, tra gli innumerevoli luoghi che ha bagnato, che possa essergli familiare e caldo, che possa essere solo suo?
Un padre amorevole come lui, che conosce l’unicità di ogni singolo cristallo di sale e che accompagna le onde nella loro grigia e monotona malinconia, dovrebbe avere un rifugio dove riposare, e sospirare, per un attimo.
Non mi conosce, il mare.
Eppure ora mi sta sfiorando i piedi, mi annusa e piange sopra le mie unghie. E io sprofondo, un po’ di più.
Non avevo mai visto il mare, prima d’ora.
Vorrei baciarlo, ma né io né il mare sappiamo cosa sia un bacio.

Nella mia conchiglia di solitudine, oggi ascolto la voce del mare.
E oggi il mare urla.




Oceano in Scatola




La vita si ascolta, così come si ascolta il mare...
Le onde montano, crescono, cambiano le cose.
Poi, tutto torna come prima ma non è più la stessa cosa
(Baricco)



Il segreto delle stelle,-la gravitazione.





Un posto stretto, comodo, un nido tra cielo e terra.
Ecco che cosa le avevano promesso, e Shiho aveva accettato la proposta al volo: un nastro tra i capelli svolazzanti, lenti enormi su iridi minuscole, una gonna spiegazzata ed eccola lì, al suo primo colloquio di lavoro, e un attimo dopo eccola nel suo disordinato studio, un angolo luminoso profumato di cappuccino.
Certo, avrebbe dovuto prevederlo: un istituto sismologico doveva avere i suoi terremoti, e i giorni non potevano trascorrere tra aereoplanini di carta, timide battute tra i colleghi e stracci di sole polveroso.
“Ma non avrei mai immaginato…questo!” sbottò disperata, con un’aureola di ciuffi crespi a coronarle il volto sconvolto.
“Nessuno lo poteva immaginare” le rispose, atono, il suo superiore.
Neji Hyuuga, viso impeccabile, occhi di cristallo, voti incredibili e cuore di ghiaccio, sembrava aver messo le radici in quell’istituto, nonostante la sua austera bellezza non dimostrasse più di trent’anni. Era un iceberg, intatto e prezioso, un eremita in quello studio lontano dal mondo.
Mentre gli occhi celesti di Shiho tracciavano i contorni delle guance incavate del suo superiore, gli occhi di quest’ultimo erano fissi sul sismografo impazzito.
Sembrava l’elettrocardiogramma di un cuore esagitato.
Il mare stava per avere un infarto.
“Conferma all’istituto di Tokyo il messaggio che gli abbiamo inviato pochi minuti fa” mormorò Neji, imperturbabile: “Sta davvero arrivando uno tsunami”.
Shiho emise un singulto strozzato e corse via, per riconfermare il messaggio e avvertire i loro colleghi in timorosa attesa.
Stupidamente, l’unico pensiero coerente che riuscì a formulare fu che il mare sembrava così limpido e luminoso, accecante, in quel profumato giorno di Maggio, mentre quella sera stessa avrebbe raggiunto il cielo e mangiato le stelle.


“Gliel’avevo detto, signorina Haruno, il mio ginocchio predice ogni sorta di catastrofe! Dovrebbero esaminarlo, anzi, farci un documentario in televisione! Lei mi accompagnerebbe, non è così…?”.
Era incredibile come l’allegria del paziente più anziano e più esuberante del reparto, il signor Fujibara, non venisse scalfita dall’imminente catastrofe che presto si sarebbe abbattuta sulle loro coste, sulle loro anime.
“Interessante, signor Fujibara…ma ora si dia una calmata, o mi costringerà a riempirla di sedativi” mormorò Sakura con l’ultima briciola di entusiasmo che le era rimasta impigliata, quasi per sbaglio, nella fitta ragnatela che attanagliava il suo cuore.
Strizzò l’occhio al malato e poi fuggì.
Ma no, non poteva fuggire: il mare era lì, ai suoi piedi, ai piedi del minuscolo, frenetico ospedale che si era inciso nel suo animo con una facilità disarmante. Non c’era paragone tra il violento amore per il lavoro tanto agognato e il ricordo bruciante di Tokyo e delle sue comodità, della sua famiglia e della sua tranquillità.
Era sfuggita dalla città con un cappello, una valigia e la sua tipica ingenuità che rasentava l’infantilismo. In quel piccolo ospedale era maturata, era entrata nell’estate della sua vita: aveva assaggiato la frenesia e il terrore del mondo adulto.
Entrò nella stanza con una mano ancora attorcigliata attorno ai ciuffi rosati e un sorriso stretto e masticato fra i denti.
“Non c’è pericolo: l’ambulanza arriverà fra mezz’ora e noi abbiamo tutto il tempo per prepararci”.
Uno scintillio di speranza si accese in due paia di occhi celesti fin troppo simili.
“Insomma, puoi andare a prenderti un caffè in tutta tranquillità, Temari” mormorò atono il ragazzo dai radi ciuffi rossi e le braccia atrofizzate attaccate alla flebo.
La sorella maggiore strinse le labbra con sofferenza, ma il suo sguardo non perse la durezza e la forza, scolpiti in un’anima di ghiaccio, che Sakura ammirava come una figlia stimava il proprio padre.
“Dì la verità, fratellino, avevi paura che il mare ti portasse via??” mormorò sollevata, pizzicando le ormai insensibili braccia del ragazzo.
“Temari, non preoccuparti, ti porto io un caffè” mormorò quieta Sakura “Voi riposate: ci aspetta un lungo viaggio” consigliò lasciando la stanza e la sua intima atmosfera fraterna.
Il giovanissimo medico sospirò: la sua nuova vita si era appena addomesticata ai ritmi dell’ospedale ed ecco che il mare, quasi sconosciuto per una cittadina come lei, sconvolgeva il suo perfetto e immacolato ordine.
L’allarme tsunami era stato diramato da pochi minuti e il piccolo paese era già in preda al panico. L’ospedale sarebbe stato evacuato e sarebbe rimasto solo a fronteggiare la furia dell’oceano: la sua nuova casa appariva così fragile e familiare, se paragonata alla fredda morsa dell’imminente onda assassina.
Persino le stelle avrebbero tremato, quella notte, e Sakura lo sapeva: il loro più antico segreto, la gravitazione, la loro continua e immobile danza nel cielo, sarebbe stato frantumato dagli elementi della terra.
Solo i due fratelli Sabaku, già sconvolti dalla malattia infinita di Gaara, sembravano in sintonia con l’imminente tragedia: la loro stanza pareva un acquario e Gaara ci galleggiava dentro, come una bellissima stella cadente sciolta nel mare.
Sakura sospiro, sfinita.
Il suo sole era così lontano, in quel momento.


Il segreto della terra,-strati di rocce.


Me l’avevano detto in molti; relativamente in molti, dato che conoscevo le stesse quattro persone da tutta la vita.
Me l’avevano detto in molti che sembravo vivere sottovuoto, come una ciliegia ubriaca e rattrappita sotto l’alcol, sotto spirito.
Trovavo più poetico dire che vivevo in una conchiglia, una di quelle candide e semplici, sepolte sotto tonnellate di acqua salata, e che il mio spirito era una perla, di quelle minuscole e dal valore incerto.
Bè, lui rideva sempre di queste mie metafore: conducevo uno stile di vita troppo filosofico ed eremita per lui, che aveva sulla pelle i segni indelebili della vita cruda, reale, quella che mi era sempre stata preclusa.
“Non posso più cibarmi di sogni; sono esplosi come bolle” aveva mormorato con il suo ghigno allegro e nascosto “e tu dovresti cibarti di carne, o svanirai. Esci dalla conchiglia, mio goffo paguro.”
Sotto il mare, sotto le onde, sotto il mondo che non ho mai conosciuto, ci sono tesori preziosi e perduti, come nella mia anima.
Ma per lui era diverso: la sua anima era terra e fango. E sotto la terra ci sono solo rocce senza vita, rocce che non possono essere distrutte.
Io ho perso sangue e ossa nel tentativo di scalfirle e di affondare le mie mani nel suo cuore ferito.  


“Ripetimelo”.
“Questo tsunami sarà la nostra salvezza! E tira giù i piedi, l’auto è mia!”
“Ma se l’estetista ha appena finito di farmi il pedicure…”
“Pagato sempre con i miei soldi, vorrei sottolineare!”.
Ino, dopo diversi mesi di pacata collaborazione con Sasuke Uchiha, ancora non si capacitava di come la sua iridata bellezza risultasse totalmente inefficace contro il suddetto socio e di come spesso la trattasse come un peluche, sprimacciandola e trascinandola di qua e di là a suo piacimento.
Però in quei mesi di rado aveva visto i suoi occhi d’ebano scaldarsi per l’eccitazione.
“Rifletti:” mormorò febbrile il ragazzo, mentre cercava di non rimanere bloccato nel traffico che si era formato in quei minuti di panico dopo la diramazione dell’allarme tsunami “gli antifurti andranno all’altro mondo, la polizia se la darà a gambe levate e i cavò saranno solo nostri!”.
La bocca di Ino si spalancò, sconvolta, ed ebbe la sensazione che persino i suoi capelli si stesero sciupando per l’oltraggio subito.
“Sasuke Uchiha” cominciò, puntando un dito tremante contro il guidatore “stai dicendo che io, Ino Yamanaka, sublime e infallibile ladra di professione…”
“Fino a prova contraria, io sono il ladro: tu se solo il palo” ribatté atono Sasuke.
“Io dovrei diventare uno sciacallo??” concluse la ragazza, ancora incredula.
“Non vedo differenza. Rimarrai la solita ladra goffa e vanesia”.
“Un ladro non approfitta delle disgrazie per i suoi furti!”.
“Ah no?” borbottò Sasuke, sardonico “forse non te ne sei accorta, ma io non sono Robin Hood: nessuno scrupolo e nessun beneficio per il prossimo; piantala di fare la santerellina! I ladri di tutto il mondo ci staranno invidiando, nessuno di loro ha mai avuto una simile fortuna!”.
Ino sbuffò, grattandosi via i rimasugli dello smalto color vinaccia: era impossibile discutere con l’Uchiha. La bellezza fragile e quasi eterea del ragazzo era in totale contrapposizione con la durezza e la forza di ogni sua frase e di ogni suo gesto. Era un diamante perfetto, con un viso di cristallo e un’anima d’acciaio. E, come ogni persona di questo genere, era solo, immerso in un mondo pieno di angeli incompresi. E non si potevano scalfire, tutte quelle rocce che imprigionavano il suo cuore.
Ino ci aveva provato, ma i suoi solari ed entusiasti tentativi si erano scontrati troppo presto con la durezza del socio. Lei, dopo essere scappata di casa, complice la mancanza di soldi e di affetto, cercava solo un angolo pulito e discreto dove rifugiarsi e respirare il vero odore della vita…e invece si era trovata complice di un ladro e ladra a sua volta. Un’anima errante.
“Non ti preoccupare” mormorò Sasuke, come se avesse percepito il suo nervosismo “Te l’ho detto, no? Dopo aver racimolato quest’ultima somma, Tobi mi rivelerà il nascondiglio di Itachi, ci divideremo il denaro e poi voleremo verso orizzonti diversi, senza più problemi o rimpianti”.
“Lo so, lo so, ormai questa tua ossessione è diventata una filastrocca” sbuffò Ino, mentre scrutava il cielo che avrebbe probabilmente accolto lo tsunami: limpido e celeste.
L’unica ragione per cui il distinto Sasuke Uchiha si era trasformato in un ladro era ritrovare suo fratello, o meglio, i soldi che aveva rubata alla miliardaria azienda Uchiha Corporation, che ormai era sull’orlo del fallimento.
Una vendetta, ecco cosa voleva rubare Sasuke Uchiha.
“E comunque, come facciamo a fidarci di uno così?” sbottò Ino “Si fa chiamare Tobi…Cristo, Uchiha, il mio cane si chiamava Tobi!!”


“Cari telespettatori, come potete vedere, la situazione, nonostante la sua gravità, è sotto controllo!”.
Bisognava ammetterlo: Lee non bucava solo lo schermo, ma probabilmente anche gli occhi e le orecchie degli ascoltatori. Ma Ten Ten, che ormai lo seguiva con la sua telecamera da diversi mesi, si era abituata ad avere gli occhi color nocciola sempre puntati su quel sorriso enorme( almeno quanto le sue sopracciglia) e ad apprezzarlo nella sua originalità.
“L’allarme tsunami è stato lanciato pochi minuti fa, ma come sappiamo il tempo a nostra diposizione prima dell’ arrivo dell’onda assassina è sufficiente per permettere un’ordinata evacuazione dei villaggi costieri più a rischio! Non siate in ansia: le autorità competenti sono continuamente aggiornate dai sismologhi di Tokyo e dagli esperti del nostro studio! Quindi non temete per i vostri cari! Come potete vedere in loro brucia il fuoco della giovinezza!” concluse con entusiasmo.
Ten Ten si precipitò ad inquadrare la piccola città che si muoveva come un solo uomo verso l’interno del territorio: nonostante l’enorme quantità di macchine, di fuggitivi a piedi e di famiglie che cercavano di salvare i loro oggetti più cari, i militari erano stati bene istruiti e organizzavano l’operazione con sicurezza e velocità.
Eppure gli occhi di Ten Ten continuavano a saettare sul mare limpido, un gatto che ammaliava con iridi dolci un topolino troppo avventato.
“Non lasciare che la paura spenga il fuoco della giovinezza, Ten Ten!Il servizio non è ancora terminato!” esclamò Lee. Infatti avrebbero presto riavuto la linea dal loro telegiornale per eventuali aggiornamenti sullo tsunami in arrivo.
Ten Ten aveva sempre avuto una personalità entusiasta e intraprendente: appena ricevuto il posto di reporter, invece di riprendere noiosi dibattici politici o sfilate d’alta moda, si era buttata in disastri ambientali, incidenti mortali, cronaca nera e solo la sua giovane età le impediva di precipitarsi nelle zone di guerra.
Mai avrebbe sognato di ritrovarsi in compagnia di un giornalista ancora più scatenato e impavido di lei.
“Figuriamoci, Lee, io non ho mai avuto paura in vita mia!” esclamò fiera Ten Ten “Sei tu che sei stancante!”.
Entrambi sorrisero, complici, e approfittarono di quel momento di calma, così raro nel loro lavoro, per sospirare, almeno per un attimo.
Erano sul balcone di un modesto edificio abbandonato, stretto e illuminato da diversi gerani color rubino, ed era incredibile il silenzio e la calma che regnavano in quel piccolo regno tra cielo e terra, tra nuvole e onde. Era come se la pioggia stessa avesse seminato e coltivato quel piccolo angolo di paradiso.
Ten Ten si sporse, appena appena, tanto per controllare che la terra fosse ancora lì e non fosse volata via, o dissolta fra le nuvole.
“Ma…”.
“Non ti preoccupare, Ten Ten” la interrupe Lee, con il suo solito enorme sorriso, che aveva compreso l’ansia della collega “Mancano ore, insomma, ore, all’arrivo dello tsunami! La città è piccola, sarà evacuata in un attimo e noi avremmo fatto un servizio fantastico!”.
Ten Ten sorrise: la sua indole coraggiosa ma a volte pessimista era ben compensata con la solare allegria e l’infantile ottimismo di Lee.
“Speriamo solo che l’elicottero si ricordi di noi…” sospirò, sorridente. Il mare, dietro di loro, ghignava.
Infatti i due giornalisti erano atterrati sull’enorme condominio abbandonato con l’elicottero della protezione civile, con il quale stavano sorvolando la zona costiera, evidenziando alcuni problemi ambientali per un servizio naturalistico. Ma quando era arrivato l’allarme tsunami, l’incosciente Rock Lee aveva fatto il diavolo a quattro per scendere a terra e registrare, a sua detta, “un servizio storico, un trampolino di lancio per la nostra carriera!”.
Il loro sacrificio, il loro scavare rocce su rocce, le loro speranze li avevano portati lì, a un passo dal mare, a un passo dal successo.
Queste parole avevano convinto definitivamente Ten Ten, che aveva persuaso con maniere più o meno lecite e ricatti più o meno sottili il pilota a lasciarli sull’edificio prima di ripartire alla volta di cittadini più bisognosi prima di tornare a riprenderli.
“Certo che ritornerà!Era un pilota estremamente giovanile” esclamò Lee, fiducioso “E poi, i soldi che gli ho allungato sono stati estremamente persuasivi!”
“Cosa???”


Il segreto del suolo,-ricevere il seme.


Era una delle idee migliori che il suo meraviglioso cervello avesse mai elaborato .
Non smetteva di pavoneggiarsi, Suigestu, mentre nuotava elegante come una sirena tra un banco di pesci argentati e sfiorava enormi anemoni variopinti.
Quale migliore idea delle immersioni subacquee per chiudere la bocca alla sua eterna appendice, o meglio, alla sua adorabile metà?
D’altronde gliel’aveva detto lei stessa che se intendeva salvare la loro relazione doveva trovare una soluzione originale e praticamente miracolosa.
Bè, non che Suigestu fosse amante di storie complicate e ragazze violente e irose come la sua Karin, ma doveva ammetterlo: lei era l’unica che riuscisse a smuoverlo dalla sua inerzia e avesse il fegato di contestare le sue decisioni.
E poi non si sarebbe mai potuto perdere lo spettacolo di Karin in tuta subacquea che si agitava terrorizzata alla vista di un banco di innocue sardine che la circondavano curiose.
Si diresse a salvare la propria ragazza, la sua Karin con un cuore di pietra che lo faceva penare
Le prese la mano e per un attimo si soffermò sul mare color petrolio, la sua seconda casa, il suo paradiso turchese. Ed era quasi commovente poterlo condividere con Karin, in un etereo silenzio che sulla terra non riuscivano mai a concedersi.
Erano dei semi a cui era stato fatto il regalo più grande: poter scegliere il loro suolo, un suolo morbido fatto di onde.
Quel giorno il mare era una culla.
      

Erano anni che Neji Hyuuga, cresciuto come un bonsai perennemente potato, non lottava come un’ostinata edera sui rami della vita.
Ma non c’era tempo, per la vita e per il decoro: i capelli di seta volteggiavano come onde prigioniere del vento e il suo viso di cristallo era pieno di crepe.
Correva, e il suo cuore, così abituato alla calma e al riposo, correva con lui.
Dietro Neji, Shiho incespicava come una variopinta farfalla nell’aria.
“Professor Hyuuga! Aspetti! Non può scatenare il panico in città per una supposizione infondata!!” gridò Shiho con voce fioca e i capelli avvolti da un’aureola di luce.
“No! Non commetterò un altro errore!” borbottò affaticato Neji, sotto lo sguardo incredulo della giovane collega “Ti dico che i sismologhi di Tokyo sono stati troppo ottimisti nel loro pronostico! Forse sulle loro coste lo tsunami arriverà fra ore, ma per noi sarà già troppo tardi! Sta prendendo velocità e arriverà al massimo tra mezz’ora!”.
“Professor Hyuuga!” gridò Shiho, in preda al panico “Neji, aspetti!”.
Gli afferrò, gelida.
“La prego professore, non distrugga tutti questi anni di lavoro” mormorò la ragazza, imbarazzata e spaventata: si sentiva un’insignificante lucciola di fronte all’eterna e splendente luna “Ma non capisce? Questo errore può danneggiare inevitabilmente tutta la sua carriera a futura!”.
Questo seme del dubbio potrà crescere e maturare in un edera che si sarebbe arrampicato su Neji per il resto della sua vita. Avrebbe succhiato via ogni sua possibilità di riscatto, assorbito veleno e ucciso le radici di un nuovo germoglio.
Neji strinse la mano della ragazza, una carezza gelata.
“Ho già fatto un errore simile, un errore che mi ha incatenato e trascinato a terra. La mia situazione non cambierà con un altro sbaglio… ma oggi potrò espiare la mia precedente colpa” mormorò con calma forzata.
Un’ultima, forte, stretta alla mano nivea di Shiho e poi la paura si affacciò di nuovo sul volto dei due sismologhi.
“Dobbiamo sbrigarci a trovare un incaricato dell’operazione di evacuazione, o meglio, raggiungere le stazioni radio o televisive non ancora abbandonate! Se mandiamo adesso un messaggio a Tokyo, non riusciranno a ricontrollare i dati in tempo!” disse Neji sotto lo sguardo incerto ma risoluto della collega.
Nessuno dei due sismologhi era un corridore e raggiungere le scale esterne d’emergenza fu uno slalom di fogli vaganti e armadi traballanti. Un penetrante odore di aria salmastra invase le loro narici appena giunsero all’esterno dello studio, come a confermare l’oscura forza marina che ribolliva tra le onde.
Scesero saltando i gradini, con i camici al vento e i volti sconvolti; l’unico rumore udibile era il tintinnio delle scale cigolanti e il battito furioso del loro cuore impazzito.
“Aspetti, professore!”.
Neji si voltò. A metà scala vide Shiho  si era sporta nel vuoto e aguzzare le minuscole iridi dietro occhiali troppo spesse.
“Professore, guardi! Hanno una telecamera…e un microfono…” borbottò la ragazza lottando contro la sua scarsa vista.
Ma Neji poteva vedere per entrambi, e la speranza, come una semplice candela in una stanza buia, parve rischiarare il suo animo più del sole.
Con uno spirito atletico nascosto nel suo rigido corpo, saltò dalla scala d’emergenza fino a un pittoresco balcone dell’enorme magazzino abbandonato praticamente attaccato allo studio sismologico, vicino a quello su cui litigavano ferocemente due ragazzi.
“Hai corrotto il pilota?? Lee, sei un idiota! Faranno un’indagine, ci copriremo di ridicolo, ci…o mio Dio, ci licenzieranno!”
“Ten Ten, con lo tsunami e tutto questo caos chi vuoi che si ricordi di qualche banconota passata di mano?? Abbi fiducia nel forza della giovinezza!”.
“Tu l’hai mandata a quel paese la mia giovinezza, assieme al mio lavoro e alla mia dignità…e lei chi è?” chiese Ten Ten, lasciando per un attimo il tenero collo di Lee, perfetto da strangolare, mentre Neji atterrava con grazia sul balcone.
“Oh, ci stanno ridando la linea…” mormorò Lee con voce soffocata, tastandosi l’auricolare.
“Ottimo” borbottò Neji, mentre Shiho scavalcava con fatica il balcone e Lee esibiva il suo enorme sorriso.
“Ecco i nuovi aggiornamenti sullo tsunami in arrivo!” esclamò con enfasi e guardando fisso la telecamera di Ten Ten.
“L’allarme non era preciso: l’onda arriverà sulle nostre coste fra meno di mezz’ora!!” gridò Neji, infilandosi fra la telecamera e il giornalista.
“Come??” chiese Lee, attonito.
“È inutile continuare l’operazione…”
“Ten Ten, taglia, taglia!”
“Subito! E…ma che diavolo! Molla la mia telecamera, talpa!”
“Vi prego, fate parlare il professor Neji!”
“…Salite sui piani superiori della abitazioni più alte e costruite di recente, dovrebbero reggere alla forza dell’urto…”
“Professore, la sua tesi è estremamente giovanile, ma da quali elementi è supportata?”
“Ma quale professore, stai parlando con un pazzo, Lee! E tu mollami, lascia la mia telecamera!!Regia, chiudete il collegamento!”
“Mi sa che ci licenzieranno per davvero, Ten Ten!”.

“Graffi. Tanti graffi”.
“Non sono niente. Niente.”
Vero: non erano niente in confronto alle cicatrici che vedevo nel suo animo.
Avevo incautamente perso il conto di tutte le volte che quel giovane dal ghigno enorme e l’animo martoriato era stato ricoverato nell’ospedale di mio padre.
Era il primario, mio padre: avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto avere pietà.
Ma proprio come con la mia insensata debolezza, era stato cieco al dolore di quello spavaldo giovane con il sole nel volto.
“I tuoi genitori vengono a prenderti? Non sono preoccupati?” chiesi in un giorno di vento.
Silenzio e una domanda come risposta.
“Da quanto sei qui?” mi chiese, quel giorno. Aveva visto che nei miei occhi non c’era il colore del cielo?
Aveva visto che ero un seme rinsecchito senz’ acqua?
“Da sempre: mio padre dice che sono di salute molto cagionevole e mi lascia uscire molto di rado”.
“Ma tu non sei malata…e sei libera!” esclamò, incredulo e permaloso.
Quanto può essere libera, un onda, nell’immensità dell’oceano?

Erano passati pochi minuti dal delirante annuncio e il nuovo allarme, dichiarato certo e imminente da quel pazzoide dagli occhi di ghiaccio, non era ancora stato smentito.
“Come se ci stessero riflettendo…ma, chissà, forse! Tanto loro sono al sicuro nel loro studio e noi gli idioti a dieci metri dal mare!” borbottò Sakura, mentre si dilaniava le unghie e scrutava con odio la televisione che non annunciava niente di preciso.
“Oh andiamo, Sakura, l’hai visto anche tu, era un folle, non ci stava con la testa!” ribadì deciso Shikamaru, il genio di quel piccolo ospedale. Era spuntato come un germoglio screziato in un mare di fiori bianchi.
“Vedrai che riconfermeranno il precedente allarme e ci trasferiranno tutti con la massima calma” concluse con tono seccato mentre la mano scattava a prendere il pacchetto di sigarette.
Ma Shikamaru non finì la frase e non agguantò le sigarette: un addetto al piano di evacuazione si avvicinava con un viso che mal celava un crescente nervosismo.
“Signori, mi dispiace interrompervi, ma dobbiamo accelerare l’operazione. Probabilmente abbiamo meno tempo del previsto” borbottò concitato.
“Come??” saltò su Sakura, mentre Shikamaru spalancava la bocca, esterrefatto “Ma allora quello strano professore…?”.
“Purtroppo non è da escludere che avesse ragione” mormorò “Ve ne dovete andare, adesso! Vi riferiranno i dettagli al piano terra…”.
“No, non possiamo!” sbottò Shikamaru “Ci sono ancora i fratelli Sabaku!”.
“Gaara necessita di un’ambulanza specializzata! Non possiamo muoverlo altrimenti!” confermò Sakura.
“C’è un malato così grave?” chiese spiazzata la guardia.
Non si stupì, Sakura, dell’incredulità dell’addetto. Il loro ospedale era un ex-sanatorio, sull’orlo del mare, eroso dal glicine, semplice e minuscolo: ben pochi malati gravi si sarebbero fatti ricoverare lì. Ma i fratelli Sabaku non potevano permettersi altro: Sakura conosceva ogni goccia di sudore sul volto di Temari, ogni lavoro che aggiungeva alla sua lista per coprire i costi troppo elevati per le cure dell’amato fratello, l’unico rimasto della famiglia che l’aveva abbandonata. Conosceva la sofferenza e la stanchezza, ormai apatica, di Gaara e la speranza che giaceva, morta, nei suoi occhi pallidi. Quante volte aveva pregato per loro?
Sakura scattò verso il telefono mentre Shikamaru cercava di trattenere, inutilmente, la guardia ormai terrorizzata.
“Shikamaru, non rispondono! Eppure l’ospedale centrale aveva promesso che l’ambulanza sarebbe arrivata in pochi minuti!” mormorò, disperata.
L’espressione di Shikamaru era di pietra.
“Sakura, ormai si è scatenato il panico: forse l’ambulanza si è fermata a soccorrere qualche ferito in questo caos oppure è bloccata o gli autisti se la sono filata…sta di fatto che non arriverà in tempo. Ormai l’ospedale è vuoto, manchiamo solo noi”.
 Dov’era, il suo sole?
“Cosa succede? Ma gli altri sono già stati tutti evacuati? E l’ambulanza?”.
Shikamaru e Sakura sospirano e distesero il viso, in modo che i loro volti non riflettessero lo stesso panico di Temari.
Ma non potevano nasconderle il pericolo ormai imminente.
“Preoccupata, testa d’ananas?” Shikamaru mormorò con voce incerta ma supponente “Non lo sai che il genio ha sempre tutto sotto controllo?”.
Temari strinse gli occhi con forza, la poca che la malattia di Gaara non le aveva rubato.
“Sai, tendo a non fidarmi dei ragazzini” ribatté con un ghigno appena accennato, rivolgendo poi la sua preoccupazione verso Sakura, che aveva la gola secca e la mente spenta.
Shikamaru sospirò, con forza. Perché doveva addossarsi lui, tutte le cattive notizie e seccature varie?
“Temari, ascolta…l’ambulanza…eccola! Visto? Tutto sotto controllo!”.
Era proprio vero: parcheggiata proprio sotto di loro, ecco la tanto agognata ambulanza.
Sakura si mise a correre, finalmente euforica e con una gioia atavica che l’esplodeva nel petto, la stessa che sgorgava dal suo petto ogni volta che vedeva il sorriso di un paziente guarito. La stessa gioia che seminava ogni giorno, nel suo lavoro, e dopo ore, minuti e secondi diventavano fiori. La gioia che avrebbe voluto vedere riflessa sul volto di Gaara.
Sakura arrivò, estatica, al pian terreno: era pronta a baciare e idolatrare l’autista, il suo salvatore…
“Sakura, amore mio! Ti ho fatto una bella sorpresa, vero?? Il tuo Naruto è venuto a salvarti dallo tsunami! E ho pure trovato il tempo per comprarti un po’ di ramen!”.
O forse no.

Il segreto del seme,-il germoglio.


Neji non era solo mio cugino; era la mia guida, la mia spalla, un custode fedele, mio fratello e
la mia ombra.
“No, non possiamo fare un’accusa così grave? Ma ti rendi conto? Non li conosciamo nemmeno!”
“Neji…c’è qualcosa di oscuro, Neji, qualcosa di terribile nell’animo di quel ragazzo!”
“Bambina” mormorò con la poca sensibilità che possedeva “sicuramente ti sei impressionata per qualcosa che ti ha detto…dimmi, non starà cercando di spaventarti?”
“No, Neji…è lui che tenta di nascondermi il suo dolore…”
“Allora non ci dobbiamo intromettere! Ricordati: anche se tuo padre è un medico e tu sei spesso a contatto con i suoi pazienti, non devi farti influenzare dalle loro vite.”
“Neji…”
“Rimani qui, bambina. Non farti portare via”.
Ha seminato il seme dell’incertezza e dell’apatia, come ogni uomo nella mia vita prima di lui. Ha disseminato nella mia anima germogli laceri e rachitici.
Mi ha lasciato anche lui, nel mare che non ho mai visto.
Ed è stato il suo rifiuto che mi dato la forza di indagare, di salvarti, di vedere chi ti infieriva quei tagli.
Non lo sapevo, non lo sapevo.
Non lo sapevo se era la prima volta che tuo padre alzava le mani su di te. Sembravi così agile e forte, ma eri fragile come fiore, sotto le sue urla.
Tu urlavi, e io ero muta.
Eppure sono stata io a ribellarmi: io che ti conoscevo a malapena, che non avevo mai visto quello schifoso ubriacone di tuo padre, che non conoscevo il dolore e la debolezza di tua madre, io che ti ho donato solo un sorriso quando eri ricoverato nell’ospedale di mio padre, nella mia prigione.
Eppure sono stata io a sparargli, a tuo padre.
Se non avesse lasciato l’arma abbandonata tra le bottiglie, se tu non mi avessi guardato con quegli occhi così neri, se io non fossi stata così fragile.
Ma non ti preoccupare per me. Ora il mare laverà via i miei peccati.
Ma non incolparti di quello che è successo.
Tu hai seminato in me coraggio e forza, e mi hai donato i fiori della speranza, nel mio modno pazzo.
È proprio così, il mio mondo, è proprio come il mare: ovattato, immobile, denso. E giù, giù, giù, nella mia anima, ci sono tutte le mie emozioni, compresse, stuprate, schiavizzate, immense come l’oceano.
C’è un oceano di emozioni, nella mia anima. Compresso, stuprato e schiavizzato.
Un oceano imprigionato, immobilizzato.
Un oceano sottovuoto.
Un oceano in scatola.


Forse fu proprio lei, Ino, a percepire per prima l’imminente arrivo dell’onda. Forse perché era abituata alle catastrofi, alle frane che erano crollate sul suo cuore, a un seminatore crudele, che, imparziale, disseminava dolori solo per lei. Prima aveva perso l’affetto della famiglia
(l’aveva mai avuto?) e poi la casa e il suo cuscino caldo.
Aveva poco da lamentarsi, il suo “socio” Uchiha.
Forse.
“Sasuke…c’è troppa confusione là fuori!” esclamò la ragazza preoccupata.
“Sai, non capita tutti i giorni che arrivi uno tsunami” mormorò, atono come sempre, il collega.
“Ma prima si stavano muovendo tutti in modo ordinato… e ora, guarda là! Stano correndo come pazzi!”.
“Il solito gruppo di isterici…non ti distrarre e ammira.”
Il suo compare stava trafficando da qualche minuto con la minuscola ma precisa bomba che era riuscito a fabbricare dopo mesi di lavoro e informazioni ricattate.
“Questo gioiellino farà esplodere il cavò in un nanosecondo” mormorò con un’espressione estatica, quasi reverenziale “Ci basta attaccarlo alla parete( tanto ormai tutte le guardie se la sono filata e possiamo controllare le telecamere), aspettare che arrivi lo tsunami, farla esplodere nella confusione e poi tornare subito a prendere il denaro. Geniale, in effetti” concluse con una nota di fanatica enfasi nella voce solitamente apatica, mentre attaccava sofisticata bomba alla parete che li divedeva dal denaro.
Perché si entusiasmava tanto per la bomba e non per la bella ragazza che gli sta accanto? Si chiese Ino, sconfortata.
La ragazza era un germoglio su cui sbocciavano fiori di amara delusione.
I suoi occhi celesti si spostarono sulla finestra, fuori dalla banca che avrebbero svaligiato.
E la sentì di nuovo.
La voce del mare che si avvicinava.


Il mare era di petrolio, denso e oleoso.
E nero, buio, come se fossero sul suo fondo, sulla sua pelle.
Vide Karin stringere gli occhi miopi e la stretta al suo polso, ansiosa: probabilmente non l’aveva bevuta, la storia che il mare si era improvvisamente oscurato perché una balena stava nuotando sopra le loro teste.
Sarebbe stato preferibile, di sicuro.
Suigetsu si strinse ancora di più alla ragazza, alla sua ancora di salvezza, nelle profondità oceaniche: il mare, suo amico fidato, la sua seconda casa, tremava e gemeva, piangeva, sotto il peso dell’onda gigantesca che aveva sfiorato le loro teste. Il mare, oggi, era un pericolo.
Per la prima volta in vita sua sperò che Karin cominciasse a starnazzare, ciarlare, imprecare o emettere qualsiasi tipo di suono, tanto per spezzare il silenzio e la paura che per la prima volta lo assalivano in mare. Che facesse germogliare risatine o ghigni, battutacce o grida assordanti.
E invece restò zitta, assieme a lui, ad ascoltare l’onda rotolare con fatica tra le sue sorelle, guardarli, accarezzarli appena e poi proseguire nella sua furia disperata.
 E per la prima volta rimpianse il rumore.
In compenso, la sua dolce metà si esibì in una moltitudine di gesti indispettiti, usando il linguaggio a gesti dei sub: era davvero una balena? Che fine aveva fatto il motoscafo? Era uno stupido scherzo, vero, viscido mollusco?? Se era successo qualcosa ai suoi amati salvagenti rosa di Hello Kitty, rimasti sul motoscafo, l’avrebbe aperto in due come una cozza!


“Mi stai dicendo che sei arrivato fino a qui da Tokio con l’ambulanza??”
“Già, e ho pure trovato il tempo per il ramen! Non sono stato fantastico?”
“No, tu sei pazzo, Naruto! Come hai potuto prendere un’ambulanza per i tuoi scopi personali? Sei la solita testa quadra, non sei cambiato una virgola dall’asilo nido! Ma chi ti ha fatto entrare nella protezione civile??”.
“Scopi personali?? Ma Sakura, io dovevo venire a salvare te! E poi ho appena sentito alla radio che lo tsunami sarebbe arrivato nel tuo paese molto prima che a Tokyo…”
“ Mi dispiace molto interrompere questo momento così toccante…” lo bloccò Shikamaru, divertito dalla scoperta del nuovo e burrascoso carattere di Sakura.
“…ma un’onda ci sta per travolgere! Il pigrone ha ragione” concluse Temari, vagamente incredula di dover dare ragione a Shikamaru.
Sakura sospirò, e sorrise, sollevata: il suo sole era tornato. Era tornato come un lampo, come un odore nostalgico e penetrante, come un arcobaleno. Era tornata a casa.
“Forza, razza di idiota. Aiutaci a portare Gaara al sicuro” mormorò con la speranza nella voce e l’affetto che si rifletteva negli occhi celesti del ragazzo.
Pochi minuti dopo erano tutti sull’ambulanza che attraversava le strade deserte, dato che tutti gli abitanti si erano rifugiati sui tetti delle città più moderne, cosa che loro non potevano fare, dato che il loro ospedale era vecchio e pericolante.
E proprio in quei minuti, in quegli istanti prima dell’apocalisse, in quei minuti dove Gaara sedeva apatico tra le amorevoli mani della sorella e quelle ruvide di Shikamaru(una famiglia), tra le frasi sconclusionate e preoccupate di Naruto, a Sakura parve di scorgere, sulla spiaggia, una ragazza di vetro.
Un germoglio mai fiorito.

Il segreto dell'uomo,-il seminatore


Sono qui, a un passo dal mare, a un passo dalla fine.
Un sussulto: le tue braccia mi circondano. Perché sei venuto? Come hai fatto a trovarmi?
“Hinata, ma cosa stai facendo?? Lo tsunami arriverà a momenti!”
Sorrido, al mare.
“Non posso, Kiba. L’ho ucciso, e la pena per me sarà la prigione. Mio padre potrà dire quello che vuole, potrà ripetere ai magistrati le sue teorie sulla mia fragilità psicologica e fisica per le quali mi tiene chiusa e prigioniera…ma la mia sorte è segnata”.
“Mio padre era uno schifoso maiale, e tu mi hai salvato!” balbettò Kiba, stringendomi con forza “la tua è stata legittima difesa, nessuno ti avrebbe incolpata! Perché sei scappata, infrangendo gli arresti domiciliari??”
Non capisci, Kiba. Io sono come il mare. Non so cosa sia una casa, un abbraccio o un bacio, e non mi serve; ho bisogno solo della libertà, come un seme senza radici. Il mio seminatore mi ha lanciato in un deserto, e io ho bisogno di acqua.
Stavo scappando dalla giustizia e dalla mia stessa famiglia, quando ho sentito l’allarme tsunami: era il mare, che mi chiamava, e mi chiedeva di riposare nei suoi fondali per l’eternità, per scontare la mia pena.
 Per tornare a casa.
Perché non avrei potuto sopportare di vivere la vita con una simile colpa nella mia anima altrimenti innocente.
“Non avrei potuto sopportare ancora di più la prigionia, Kiba; né quella legale né quella di mio padre. Sei stato tu, a salvarmi. E io avrei tanto voluto salvare te”.
Perché sei qui, Kiba? Perché voi scontare la mia pena, germoglio innocente, seminato da un destino crudele?
La senti, Kiba, la voce del mare?
Noi uomini siamo seminatori, ma anche seminati: sono il mare e la terra che decidono dove porre le nostre radici. E il mare le sta sradicando.
Io lo vedo sospirare e ritrarsi, il mare, come se avvolgesse il suo vestito color cobalto per lasciare che i suoi piedi avanzino sulla terra. Come se volesse conoscerci.
Tu mi stringi, e sento la tua determinazione nel rimanermi accanto fino alla fine. Testardo e coraggioso.
Finalmente vedo il mare…ed è un benedizione ammirarlo con te.


“Per la cronaca, Uchiha, io ho sempre trovato i tuoi piani estremamente stupidi”.
“Cosa?”
“Ma non ti ho mai abbandonato, nonostante tutto”.
“Ma che…”
Glielo doveva dire, Ino. E gliel’aveva detto sotto un cielo splendente, turchese e accecante.
Gliel’aveva detto appena fuori dalla banca, fuori dalla loro miniera d’oro.
 “Nonostante tutto, ti ho sempre amato”.
Gliel’aveva detto in un posto senza tramonti e senza fiori, senza fiumi e senza prati.
Ma pochi ragazzi avrebbero potuto vantarsi di aver ricevuto una dichiarazione d’amore con un’onda alta circa sette metri come sfondo.


“Naruto, non entrare in città!”.
“Cosa?? Sei impazzito, bradipo ambulante?”.
Shikamaru si voltò, scocciato e terrorizzato, verso Temari, che stringeva con forza la mano del fratello, come ad attingerne energia e speranza. Anche perché Gaara, con il sapore della morte in bocca, era il più tranquillo tra i passeggeri dell’ambulanza.
Shikamaru strinse le labbra e si rilassò solo perché sapeva che Temari era troppo nervosa, per tutto, e che doveva scaricare la sua ansia.
“Ascoltatemi” incominciò, interrompendo la protesta di Sakura “Non riusciremo mai a raggiungere il centro della città e i palazzi che non rischiano di crollare in tempo! La maggior parte dei cittadini avrà abbandonato la propria auto in mezzo alla strada e sarà fuggito! Non possiamo rischiare di doverci fermare o trovare ostacoli, dato che non possiamo spostarci a piedi per via di Gaara!”.
“Allora lasciatemi qui! Non rischiate la vostra vita per me!” esclamò con enfasi il ragazzo, prima di esser zittito dal terrore dipinto sul volto della sorella.
“Non dire fesserie” lo ammoni con decisione Shikamaru “Dobbiamo raggiungere la collina sopra la città, passando per la statale! È divisa dal mare da una foresta di diversi metri, che potrebbero bloccare la furia dell’onda!”.
L’ambulanza cadde nel silenzio e Naruto scelse da solo la soluzione più adatta: svoltò nella tangenziale, deserta, e schizzò come un lampo verso la collina.
“Comunque, se volete allentare la tensione o vi siete dimenticati di far merenda, vi ricordo che c’è il ramen sul retro!”


La vita si ascolta, così come si ascolta il mare... Le onde montano, crescono, cambiano le cose. Poi, tutto torna come prima ma non è più la stessa cosa.
Io ti ho sempre ascoltato, mare, dalla mia conchiglia, dalla mia scatola. Sentivo l’eco della tua melodia nella mia mente fragile, le tue note cullarmi. Ogni melodia della mia vita era prodotta dal tuo canto. Ti ho ascoltato per tanti, tanti anni.
Ora è il tuo turno. Ti prego, ascoltami.
Io ti imploro, mare, mio amato e sconosciuto mare, ti prego di risparmiare Kiba, che non è fuggito, cha ancora mi abbraccia, nonostante la tua furia.
Lui è innocente, ha seminato solo speranza e bontà, e la sua anima è pura e libera.
Io sono la peccatrice, ho seminato morte, e la mia anima è prigioniera.
Ti imploro di liberarla, di aprire la conchiglia, la scatola dove è racchiuso il mio oceano.
Ti imploro, mio amato e sconosciuto mare.
Liberami.

Un ultimo sospiro, un ultimo sorriso.
E in un attimo sono dentro di te, mio amato mare.




Il segreto della donna,-il suolo.


.

“Allora, stai riprendendo??”
“Non riuscirò a filmare un bel niente se continui a inserirti nel mio campo visivo!”
Shiho, al dialogo, aveva sempre preferito il silenzio, specialmente durante avvenimenti tragici o almeno preoccupanti. E il fatto che quei due strambi giornalisti continuassero a bisticciare mentre l’onda anomala devastava la cittadina era inquietante agli occhi della timida sismologa.
Fiori, bambole, fango, sangue, tutto trascinato dall’acqua, che sfondava vetrine, maciullava auto, sradicava alberi e case.
Li poteva sentire, i cittadini rifugiati sui palazzi miracolosamente in piedi, come il loro, trattenere il fiato mentre riconoscevano una portiera, una bicicletta, forse una foto.
Il mare stava portando via tutto, persino la terra dove Shiho poggiava i piedi, la terra che accarezzava e si sbriciolava, delicata, tra le dita di un bambino, quella stessa terra che girava con tutti gli uomini.
Sotto i loro piedi, c’era solo il mare furioso e instabile.
Persino la sua terra, la sua stabilità, le era stata portata via; ora era un fiore senza suolo. C’era solo una certezza, una costante, una fievole speranza: la mano di Neji, ghiacciata e diafana, ancorata alla sua.
Gliel’aveva svelato, sul quel tetto sopra il mare, in quei momenti di terrore, il suo errore, il suo peccato: a causa della sua superficialità, della sua freddezza, aveva lasciato che la cugina, la sua fragile adorata bambina si caricasse sulle spalle il dolore di Kiba, di quel ragazzo dal ghigno tormentato.
  “Lei ti perdonerà” gli sussurrò e Neji appoggiò la sua fronte su quella della ragazza.
Come la terra perdonerà il mare.

“Merda!”
Naruto svoltò ed evitò per un pelo che l’ambulanza cadesse nella scarpata, invasa dall’onda assassina.
“Vai, vai!” gridò Sakura, che lottava con i suoi compagni per tenere ferma la barella di Gaara
“più avanti c’è uno spiazzo abbastanza alto da poterci fermare!”.
Ma il più avanti si dimostrò molto lontano e Naruto ingaggiò una vera e propria lotta tra l’ambulanza e le forze della natura (e qualcuna della fisica) per sfuggire all’onda.
Li sfiorava, li attaccava, quasi li superava, li illudeva, come un intransigente boia. Labbra venivano morse e urla venivano soffocate, in quell’ambulanza.
Gocce e granelli di sale penetravano nel veicolo come un’ombra.
“A destra, a destra!!” ulularono i passeggeri mentre l’onda sommergeva un enorme pino e seminava il panico.
“Forza, lo spiazzo non è lontano!” gridò Sakura mentre l’ambulanza sbalzava verso il dirupo e veniva sballottato sulla barella.
E con un’ultima epica frenata, Naruto raggiunse lo spiazzo, incastrandosi con una discreta abilità tra due enormi pioppi.
Come per magia, l’acqua, tormentata e sporca, sfiorò lo spiazzo, lo accarezzò, con reverenza, e lo adottò come una nuova spiaggia, una nuova terra, una nuova meta.
Il mare aveva conquistato altro territorio, un altro pezzo di terra era diventato lago. Erano su un’isola vagante.
“Gaara! Gaara!” gridò Temari, spaventata e tremante, mentre il fratello cominciava ad ansimare affaticato.
“Spostati, Temari” le intimò velocemente Shikamaru, mentre faceva stendere Gaara e lo attaccava alla flebo.
“Merda!” imprecò nuovamente Naruto, pallido e sudato “Guardate la!”.
Lui e Sakura si sporsero e riconobbero la periferia della cittadina stravolta e smembrata, letteralmente mangiata dall’elegante furia marina, che ora, dopo il violento impatto, si stava fermando per creare una palude di detriti.
E in mezzo al fango sbucava una diafana chioma bionda, un’angelica aureola, che rischiava di essere trascinata nelle fauci del mare.
“È una ragazza!” esclamò Naruto.
Non necessitavano di altre parole, Sakura e il suo sole, l’amico che aveva a malincuore abbandonato per la sua nuova e intensa vita: si gettarono lungo la scarpata e raggiunsero ben presto la ragazza, svenuta, tenuta a galla da un ragazzo altrettanto sconvolto e da un paio di stravaganti salvagenti rosa.
“Resisti!” urlò Naruto al ragazzo e si gettò incoscientemente tra le onde sporche e salate.
“Naruto, torna indietro! La corrente è ancora troppo forte!” lo avvertì Sakura, ma prima che potesse sgolarsi a elogiare l’imbecillità del suo migliore amico vide Naruto allacciarsi delle lunghe crode alla vita. Il giovane medico strizzò gli occhi, e vide che sbucavano da un piccolo motoscafo incastrato fra muri sbriciolati, probabilmente trascinato lì dall’onda.
“Reggi!” gridò il ragazzo mentre le lanciava le corde alla ragazza a si avventurava tra i flutti per recuperare i due feriti.
Si sarebbe ricordata ben poco, Sakura, di quegli infernali minuti in cui il suo fisico minuto aveva dovuto sopportare il fuoco acido e pungente della fatica e della paura. Nella sua memoria ferita c’erano soltanto l’odore salmastro, il sangue e la sua pelle che si strappava sotto la pressione delle corde, il suolo che le scivolava sotto i piedi, e infine il sole negli occhi di Naruto, un Naruto trionfante che portava sulle spalle, con delicatezza materna, i superstiti.


Il cielo, finalmente.
Mai lo scenario di nuvole e sbuffi color celeste gli era stato caro.
Il mare era un paradiso, ma la terra, là in fondo, era diventata un inferno. E Suigetsu pensò, per l’ennesima volta, che il mare era molto più sicuro del fango e del loro mondo, del suolo, troppo freddo e grigio. Era solo troppo silenzioso, il mare rispetto alla terra: talmente silenzioso che la morte ti passava sopra la testa, mentre si prendeva tutto il tempo per decidere il tuo destino.
Forse il rumore era piacevole, a volte.
Suigestu si tolse la maschera e respirò, grato di poter compiere tale gesto.
Ma rimase in silenzio; lei lo avrebbe riempito.
“Che diavolo è successo, mollusco?? Il motoscafo…dov’è?? C’erano sopra la mia borsa, il mio cellulare…e i miei salvagenti di Hello Kitty! Bastardo, parla, non fare il pesce, parla, che diavolo è successo??”
“Karin…ti ho appena salvato la vita! Se non avessi avuto la splendida idea di rimanere sott’acqua, saremmo rimasti sulla terra e sommersi dall’onda!”
“…”
“…”
“Avevo uno tsunami sopra la testa e tu hai avuto il coraggio di dirmi che si trattava di una balena?? Altro che tsunami: appena rimetto i piedi sulla terraferma ti trasformo in un fritto misto!”

“Temari, lascia che Sakura si occupi di Gaara e aiutami!” gridò Shikamaru che stava soccorrendo la ragazza bionda. Sembrava una bambola rotta, quella figura esile e sciupata.
Temari lasciò, fiduciosa, il fratello tra le mani di Sakura e strinse con tutte le sue forze un pezzo di stoffa intorno alla gamba della ragazza, per fermare il sangue, che, copioso, la copriva come un tragico sudario.
Sudore e polvere non fermarono le mani della ragazza, avvezza a dolori ben più profondi e velenosi, ai dolori del cuore. Strinse, strinse il pezzo di stoffa come a scaricare tutta la rabbia per la sua vita rovinata, per suo fratello, e per quella fata diafana che aveva lottato contro il mare.
“L’abbiamo recuperata!” annunciò trionfante Shikamaru, mentre controllava l’elettrocardiogramma della ragazza e le teneva una maschera sul viso per consentirle di respirare e tornare a ridere.
“Bravo! E tu stai seduto, idiota!L’hai capito che potresti avere di tutto, da emorragie interne a un trauma cranico?? Devi stare fermo!” sbottò Naruto, trattenendo Sasuke che seguiva il soccorso di Ino con la lucidità di un sonnambulo e si muoveva a scatti, come un marionetta.
“E smettila! Cos’è, ti sta scoppiando una bomba sotto il sedere?”
Naruto non aveva mai avuto grande sensibilità o una grande intuizione, perciò non calcolò minimante il fremito di terrore che scivolò nel corpo del sopravvissuto.


L’esplosione della banca aveva creato un certo scompiglio, principalmente perché diversi bigliettoni bruciacchiati ma in uno stato comunque discreto, avevano cominciato a volteggiare sopra l’acqua dello tsunami, sotto gli occhi desiderosi dei supersiti.
Quindi Neji fu l’unico, a vederlo.
A vedere il corpo sconvolto e graffiato di Kiba riemergere dai flutti proprio grazie all’esplosione e volteggiare, elegante, fino ai piedi del loro edificio.
E mentre Ten Ten e Lee esultavano per la creazione di servizio storico, lui scese come un angelo dal magazzino e raccolse con delicatezza il giovane, l’unico che aveva capito e salvato la sua Hinata.
 Gli sembrò di vedere una vetrosa scintilla nell’acqua, sul quel pavimento instabile, su quel fondo sterile.      
Una scintilla, per un attimo. E poi più niente.


Il mio oceano in scatola piange di gioia, mentre la mia vita scivola via.
O mare, l’hai risparmiato!
Ora posso purificarmi e stare nel tuo abbraccio fraterno per sempre. Sei unico e perfetto, forte e misericordioso.
È stato piacevole, quasi un onore, poter lasciare il mio corpo sul tuo fondo.



 
Il mio segreto: sotto un tumulo che non troverete mai.




Erano passati mesi, e ancora i fiori profumavano di sale. Erano passati istanti per le vittime dell’onda anomala, eppure i loro sorrisi erano cibo e calore per la gente che li circondava.
Erano passati pochi minuti da quando Kiba aveva stretto Hinata tra le sue braccia e l’aveva sentita sua: una sorella, un’amante, una salvatrice, una peccatrice, una santa, un’illusa. Ma sua. Non erano stati minuti, ma lo sembravano.
Sembravano minuti, e invece erano stati mesi, il tempo che Kiba aveva passato all’ospedale per riconquistare la sua vita e la forza per viverla. Ma solo dal punto di vista fisico: la sua sanità mentale era guarita sotto quei flutti, tra l’abbraccio dell’onda, negli ultimi istanti in cui aveva potuto stringere le mani di Hinata. Avrebbe dovuto renderlo pazzo, e invece il sacrificio della ragazza gli aveva ridato la vita. Lui, che dopo la morte del padre era sprofondato nel ricordo della sua violenza, aveva trovato la speranza nel rivedere, per un attimo, l’immagine di Hinata in televisione, nel servizio dello tsunami presentato da uno strano giornalista, fermo sostenitore della giovinezza.
Era sfuggita dalla giustizia e Kiba era fuggito dalla sua disperazione. Era resuscitato, dopo il calvario e la morte.
Era stato l’ultimo, a guarire, tra tutti i supersiti che erano stati catapultati in quel piccolo ospedale lontano dalle città colpite. I primi erano stati Sakura e Naruto: era bastato raccontare la loro rocambolesca fuga per purificare i loro ricordi e se mai l’incubo dello tsunami sarebbe ritornato, si sarebbero stretti la mano e avrebbero continuato a vivere, insieme. Infatti, dopo la catastrofe, Sakura si era rifiutata di lasciare di nuovo Naruto, e sarebbero tornati presto a lavorare insieme in quel piccolo ospedale disseminato di glicine, dopo la sua restaurazione.
E poi, tutti insieme, avevano visto Sasuke rifiorire, dopo che Ino aveva riaperto gli occhi celesti e dopo aver scoperto che Itachi, a causa dei disordini creati dallo tsunami, era stato rintracciato e arrestato, e che i soldi rubati erano tornati nelle tasche di famiglia.
Ora poteva guardare fiducioso il mondo negli occhi di Ino.
L’avevano vista sbocciare, quella strana coppia che un giorno era salita su una costosa Ferrari per poi sparire.
Shikamaru era guarito dalla sua paranoia grazie alla nuova felicità di Temari, che era esplosa in un giorno miracoloso, il giorno in cui il burbero Sasuke, per sdebitarsi dal debito di vita che doveva ai suoi salvatori, le aveva spedito un assegno la cui cifra copriva abbondantemente le spese delle cure di Gaara.
E lui era tornato alla vita, come una lucciola nella notte, sorretto dalla sorella e da quel fenomenale team di medici che lo avevano nuovamente salvato. Ora sorrideva, e camminava, Gaara.
Neji era guarito con Kiba, passo dopo passo: salvandolo, il sismologo aveva esorcizzato quella terribile colpa che non gli aveva consentito di salvare la cugina. Si erano salvati a vicenda, in quei tumultuosi mesi all’ospedale che Kiba aveva dovuto affrontare, tra i timidi sorrisi di Shiho e speranze mai spente.
Gliel’aveva chiesto tante volte, Neji, se gli sarebbe piaciuto partecipare al suo nuovo programma televisivo: lui e Shiho sarebbero andati in giro per il mondo per registrate servizi sui movimenti sismici più sinistri e a rischio. Seguiti, ovviamente, dall’eccentrico Lee e dalla telecamera di Ten Ten.
Ma Kiba non aveva accettato: voleva la stabilità, non altri terremoti.
Non era riuscito a dirlo, ad Hinata. Non gliel’aveva detto che anche lui aveva un oceano in scatola, nascosto sotto anni di sofferenza. E ora l’avrebbe liberato, l’avrebbe donato al mondo, l’avrebbe messo a disposizione dei bambini che, come lui, avevano sofferto soffrivano ancora.
 Uscì dall’ospedale un luminoso giorno di fine estate: Kiba era sta l’ultimo a guarire, ma sarebbe stato il primo a curare il prossimo, con il suo sorriso.

Sull’orizzonte, solo il mare.
 




Spero che siate ancora vivi dopo la letturaXD^^.
La scuola mi sta distruggendo ma se riesco a sopravvivere spero di riuscire a scrivere di più.
La fic è un’AU, ambientata nei giorni nostri. Si tratta della poesia della signora Sibley, bella ma ostica, come la storia.
Grazie a Rina per i complimenti^^Baci!
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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Capitolo 7
*** Gli Angeli della Città Incompresa(Franklin Jones) ***







Gli Angeli della Città
 
Incompresa

Solo che l’uomo ha l’intelligenza d’un angelo
e vede la scure sin dal primo momento!



1.Serafini


 Sua madre diceva sempre che una città era come un corpo umano. O viceversa…e chi se lo ricordava?
Temari non aveva tempo per richiamare alla mente gli eventi passati: lei era uno dei piedi di Suna, assieme agli altri cittadini e, si sa, i piedi sostengono tutto.
Sabaku no Temari, nove anni, doveva già reggere sulle sue spalle i fratellini, il caldo afoso del suo villaggio, le proteste di suo padre su come Konoha fosse diventata una traditrice e meritasse di venire scagliata tra le fiamme del centro della terra.
Temari non sapeva dove fosse il villaggio della foglia, ma doveva essere molto, molto lontano. Forse il palloncino che in quell’afoso giorno di agosto era riuscita ad acchiappare e che sembrava aver visto chilometri di paesaggi sconosciuti, poteva averla vista.
Era verde, quel palloncino, ma Temari ancora non lo sapeva.
Non esisteva il verde, nel disgustoso deserto di Suna.
E c’era un tesoro, dentro il palloncino. Un tesoro venuto da lontano lontano. Forse proprio da Konoha.
O forse da un posto ancora più distante: da dove stava la mamma.


Shikamaru Nara, sei anni, amava il verde.
Perché era il colore della sua città, e nessuno si faceva domande su il perché fosse il tuo colore preferito. L’amore patriottico distrugge ogni dubbio, ogni domanda.
Perché procurarsi seccature cosmiche evidenziando la bellezza delle sfumature tra il grigio e il nero o lo splendore del rosso?
Per questo Shikamaru aveva scelto un palloncino verde smeraldo il giorno dell’anniversario della fine della grande guerra. Un palloncino che si sarebbe librato in cielo per portare la pace in un orizzonte sconosciuto.
Ma mentre gli altri  bambini cantavano, stonati, le nenie degli antenati, Shikamaru ne aveva approfittato per inserire un tesoro, nel suo palloncino. Non fazzolettini ricamati, non calze, non caramelle, non poesiole.
Un tesoro, il tesoro del suo cervello troppo sveglio, che, solo per quella volta avrebbe sopportato una seccatura colossale, pur di compiere quel gesto.
Sbuffò, Shikamaru, mentre guardava volar via il suo palloncino, contro il tramonto.

Temari aveva provato di tutto.
A decifrarlo, ad addentarlo, a disegnarci, ad ammorbidirlo, a colorarlo.
Ma quella strana pedina con su scritto “Re” non sembrava mutare o provocare qualcosa.  
“Aahhh!” gridò, irritata “è arrivato di sicuro da Konoha, da quella città traditrice! Può abitare solo a Konoha un cretino, sbruffone e cervellone che prende in giro gli altri mettendo oggetti inutili nei palloncini!!”.
Strinse la pedina, Temari, e la tenne con sé per anni, a ricordarle il suo astio per Konoha. L’aveva illusa, l’aveva illusa che potesse esistere un posto migliore dell’inferno di Suna.
Un posto che avrebbe potuto chiamare casa.



2.Cherubini


Un viso d’angelo per pregare.
Un viso da leone per combattere.
Un viso d’aquila per osservare il nemico.
“Per chi preghi?”.
E un viso d’uomo per parlare con gli scarti umani.
Questi erano i volti di un ninja: un ninja non aveva un viso suo, personale, ma solo maschere.
Temari si strinse le braccia sotto il seno mentre osservava, altera, il giovane che avrebbe affrontano il giorno dopo, per essere promossa chuunin.
“Per i miei cari…e anche per te, povero pivello” rispose sorniona(perché si dava tanta pena per parlare con uno sconosciuto?) “Dopo l’incontro di domani avrai proprio bisogno di tutte le mie preghiere! Non oso pensare a come sarai ridotto!”.
Il ragazzo mormorò qualcosa come “spocchiosa viziata velenosa seccatura grassa con i capelli per aria” talmente velocemente che Temari gli concesse la grazia di non capire i suoi insulti e mantenerlo in vita almeno fino al giorno dopo.
“E chi esaudirà questa tua clemente preghiera?” chiese il ragazzo, sbadigliando.
“I miei antenati, ovviamente” rispose orgogliosa, mentre osservava le stelle cucite in un cielo nero “Le stelle non sono altro che le loro anime, e la loro luce ci dà speranza e forza”.
“Capisco” borbottò il ragazzo “La solitudine e la scarsa autostima sono la principale causa di credenze e superstizioni. Ti consiglio di uscire di più e…”.
Certo, Temari si trovava in un villaggio straniero e non poteva attaccare un abitante della foglia, anche se si trattava di un elemento di cui probabilmente  non si sarebbe sentita la mancanza. Tuttavia non poté frenare il suo istinto vendicativo e, con il suo fedele kunai, diede una spuntatina alle doppie punte del codino del ragazzo, che sbiancò all’istante.
Sogghignò, Temari, e per un attimo il suo volto non era né d’aquila, né di leone, né tantomeno d’angelo: era il suo viso. Il viso di Temari.

Shikamaru riprese fiato e colore, mentre imprecava contro quella kunoichi simile a un grasso cactus. Un cactus con un ghigno allegro, un cactus con un corpo armonioso e morbido. Un cactus che pregava.
Era per questo che si era avvicinato a lei: per vedere quanto fosse diversa dalle altre donne della sua vita.
E lo era, fin troppo. Una seccatura di troppo. L’ennesima. Un’epocale seccatura.
Shikamaru alzò lo sguardo sulle stelle e poi lo abbassò sui suoi capelli mutilati. Forse gli serviva davvero, l’aiuto degli antenati.



3.Troni


“La politica è come una ruota: gira e si interseca con le altre. Solo così si può aspirare a far funzionare tutto il meccanismo” protestò l’anziano consigliere di Suna.
Dopo la morte del Kazegake, i suoi degni successori erano in netta disarmonia con la linea politica della città: Kankuro e Gaara, quel reietto che ora si spacciava per martire, non facevano con inveire contro le loro decisioni.
“Suna non si può permettere di rifiutare una richiesta d’aiuto da parte della Foglia” replicò ferocemente Kankuro “o potrebbe compromettere ancora di più la sua situazione. Le ruote, come la chiama lei, devono girare in avanti, per il progresso; le ricordo che noi abbiamo un debito nei confronti di Konoha!”
“Appunto: voi!” ribatté il consigliere “è vero, la Foglia ci ha concesso il suo perdono dopo l’attacco durante gli esami dei chuunin, ma le nostre risorse sono comunque troppo ridotte per poter dare un contributo incisivo alla Foglia! Per cosa, poi, per la fuga di un ragazzino!”.
“Le sue motivazioni sono…”
“Inconcludenti” terminò Gaara, facendo trasalire tutti i consiglieri per il gelo di quell’uncia parola: un gelo estraneo al sole di Suna “Inconcludenti, perché noi non siamo ruote di un meccanismo, ma che girano libere sul sentiero della loro vita. Infatti, mia sorella è già partita, senza rendere conto a nessuno”.
I consiglieri e Kankuro, tutti sconvolti dalla notizia, accorsero alle finestre, ma non riuscirono a vedere la kunoichi del vento che teneva stretto il suo segreto e correva contro il tramonto radioso.
Una ruota senza carro, libera, pensò Gaara, orgoglioso. E spinosa quanto quegli strani cespugli che correvano tra le dune alla disperata ricerca di acqua.


4. Dominazioni


Correva sulla sabbia, sull’acqua, tra le foglie.
E intanto mormorava, sperava, Temari.
Ma soprattutto ricordava.
E mordeva il suo segreto. Per sentirne ancora una volta il sapore.
 
Ferrei giocolieri.
Freddi amanti.
Ladri di sorrisi.
Monetine in un pozzo.
Foglie morte.
 Questo erano i ninja.
Le sue prime insegnanti le avevano messo un kunai in mano con lo stesso affetto con cui una madre porgeva il seno al figlio, con un lieve carezza disinteressata. Avevano insegnato a lei e alle altre fragili bimbe dell’accademia che i ninja erano creature benedette, nate con l’unico scopo di portare onore e pace al loro popolo affamato e assetato.
Oh, quale gravosa bugia.
I ninja potevano anche atteggiarsi a salvatori, a uomini divini e sorridenti. Ma era solo il primo volto.
Temari li aveva visti per la prima volta, i ninja, durante l’attacco a Konoha: prima il sorriso ingannatore, poi la violenza e il sangue, occhi rossi in menti oscure. E poi solo scarti e resti, e corvi che beccavano i moribondi.
E infine morte, solo morte, la morte senza volto.
Lei era stata condannata: quando era tornata a cercare Kankuro, lui l’aveva vista. Quegli occhi intelligenti e pigri l’avevano scovata tra i cespugli: perché proprio per un fallito piagnucoloso le avrebbe fatto vedere l’ultimo volto dei ninja, quello che donava la morte?
Aveva sbuffato, quell’insulso mollusco.
“Forza, sparisci, prima che ritorni Asuma-sensei: sei una seccatura troppo seccante per essere sprecata. Sei un pezzo da collezione!” aveva mormorato con la stessa noncuranza con la quale si era arreso contro di lei durante l’esame.
Temari non era mai arrossita in vita sua: non aveva permesso neanche alla furia del deserto e della sabbia bollente, traditrice e omicida, di scalfire le sue ruvide guance.
Perché era crollata davanti a quel cretino??

Shikamaru sperava che quella seccante ragazza tenesse per sé quel bruciante segreto, che lo custodisse nel suo cuore gelato e lo riportasse alla mente solo tra i sogni.
Perché altrimenti era fottuto.
Perché altrimenti si sarebbe dimenticata di lui.
E lui sperava di poterla rivedere, un giorno, quell’intramontabile seccatrice.


5.Potestà

 

“Avevi detto che i tuoi antenati ti guardavano dalle stelle…”
“Ogni defunto può guardare la terra, non solo quelli di Suna!”
“E secondo te che cosa sta pensando Asuma-sensei?”
Temari avrebbe voluto dirgli che, probabilmente, stava battendo la testa sulle nuvole, in assenza di muri, per aver contagiato il suo allievo prediletto con il terribile vizio del fumo.
Ma per una volta, una volta soltanto, si limitò a tossire infastidita, arricciare il naso e sfoggiare la sua infima e nascosta sensibilità.
“Sarà molto orgoglioso, no? Hai smosso quel tuo pigro culone e l’hai finalmente vendicato! Insomma, scommetto che non si sarebbe mai aspettato tanto da te!”
Ecco, questa era la sua sensibilità.
L’odore acre della sigaretta si fondeva con un vago sentore di pioggia e l’invitante profumo di incenso. Di crisantemi. Di lacrime.
Temari poggiò un fiore bianco sulla semplice tomba, assieme agli altri mille portati dal suo team di allievi e da Kurenai.
Una stella in un mare nero.
“Vendetta…Naruto ha ragione: alla fine non ti realizza, non cicatrizza, non cura, non ti asciuga le lacrime. È come un contentino, una pensione, un ricordo grigio. È un’ennesima malattia. Non vale la pena, perseguirla” mormorò Shikamaru, aspirando lentamente dalla sigaretta.
“Lo so, lo so bene” annuì Temari, pensando a suo fratello, al suo adorato fratello dai tristi occhi turchesi “Ma l’incontro con quello schizoide dovrebbe averti dato più fiducia nelle tue capacità: Asuma aveva ragione, puoi davvero aspirare a un titolo onorevole nel mondo dei ninja!”
La sigaretta si spense, e morì tra le prime gocce di pioggia.
“Stai scherzando??” esclamò Shikamaru con voce lamentosa “Un’altra seccatura in più…ho già faticato troppo per battere quel pazzo: ora non mi schioderò più dal mio letto almeno per due settimane!”.
Mentre cercava di difendersi dalle imprecazioni di Temari, Shikamaru rammentò quello che, nonostante tutto, la vendetta, sadica maestra, gli aveva insegnato un ultimo monito: oltre la morte c’era e ci sarebbe sempre stata la vita. La vita che germogliava fra le braccia di Kurenai. La vita ardente negli occhi di Temari.
Shikamaru sorrise, tra gli insulti della ragazza: sperò intensamente che, le prossime volte, non dovesse morire nessuno per dargli una scusa per rivederla.


6.Virtù


Temari si raccolse i capelli biondi nei suoi tipici e disordinati codini. Appena qualche goccia d’acqua per il viso, una ruvida carezza per gli occhi stanchi. Un tramonto di sangue rischiarava la valle.
Scacciò di nuovo alcune mosche che si affollavano sul viso di un cadavere.
“È per una vostra incertezza che quest’uomo è morto? O per eccessiva indulgenza?” chiese la ragazza, al compagno di una vita.
Shikamaru non staccò i suoi pigri occhi dalla grotta; non poteva permetterselo. Un mostro con un viso d’angelo vi era rinchiuso.
Temari si appoggiò lievemente ad una delle spigolose e pallide rocce da cui erano nascosti: non l’avrebbe mai capita, questa contagiosa ossessione.
“Lo fai per lui o per Naruto? È Naruto, che vi ha avvelenato con la sua opaca idea del buonismo assoluto e del’imminente fine di tutti i dolori? Cosa vi appanna la mente, Shikamaru, io…non capisco” era quasi rotta e malinconica, la voce roca della ragazza.
“Non esiste questo mondo, questo paradiso terrestre, arrenditi” mormorò, fioca.
“Non c’è più speranza, per Sasuke Uchiha”.
Gli occhi di Temari scorrevano, freddi, sui volti stravolti dei ninja che avevano inseguito Sasuke, dopo che era sta tradito dal suo antenato Madara: ormai era sconfitto.
Ino era un fantasma, un pallido riflesso, Choji batteva i denti e là, più avanti, troppo avanti, una tremante chioma rosa.
Naruto, una candela tra mozziconi di cera, era sparito nella grotta. Una conchiglia dal rumore di un mare scarlatto.
Temari chiuse gli occhi: non li avrebbe mai capiti, i ninja, della Foglia, in quella loro fanatica ossessione.
Non avrebbe mai capito l’amore della sua vita. E forse era meglio così: era meglio lasciare un rompicapo irrisolto piuttosto che perdercisi dentro, in un labirinto di nuvole e cuscini.

Shikamaru si godette per lunghi minuti l’espressione sbigottita di Temari: buffa e tonda come non lo era mai stata.
La strinse, forte, aveva bisogno del suo colore, del suo odore; la voleva proteggere, come aveva sempre fatto.
L’aveva protetta da sé stessa, dal suo orgoglio, dalla sua impudenza e ora dalla sua aggressività, dalla sua noncuranza, dalla sua violenza.
Sorrise di nuovo: Naruto era come resuscitato, dopo essere uscito dalla grotta. Aveva concesso a Sasuke la libertà, il perdono: l’Uchiha non sarebbe più tornato a Konoha, ma il giovane neo-hokage aveva realizzato un nuovo miracolo. Una nuova alba, per il mondo dei ninja.
Era un lampo di vita, un fulmine di speranza.
E mentre tutti si affollavano sul Naruto, il loro nuovo sole, Shikamaru ne approfittò per rubare un bacio alla sua scioccata Temari.


7.Principati

 

A Shikamaru non importavano le decisioni dei consigli o i dilemmi politici: li lasciava al loro indaffarato Sesto Hogake. E non gli importavano seccature e scartoffie varie, granelli di sabbia o nuvole, fiori o lampi. Non gli importavano gli improperi della madre e i moduli da compilare, né gli odori della sua terra.
Vedeva soltanto il sorriso degli amici, tramonti scintillanti e fratelli gelosi. Gli importava di Temari, la sua salvatrice, la seccatura con cui voleva passare il resto dei suoi giorni. Gli importava solo del loro amore che avrebbero visto sbocciare nel deserto, tra sabbia e cielo.
Gli importava del loro sereno, pacifico e calmo matrimonio, senza intoppi o seccature.
“Allora Shikamaru…il colore dei tovaglioli per il buffet lo vuoi panna o crema?”.
Mai smettere di sperare, almeno


8.Arcangeli


“Non te lo consiglio, Shikamaru”
“Allora è un sì?”
“Non l’ho detto!”
“Seccatura, sei snervante! Lo guardo o no, questo test?”
“Forse dovrei dirtelo a voce…”
“Forse…
“O forse no…”
“O forse no…”
“Shikamaru, non mi aiuti!”
“A me aiuterebbe sapere se tra nove mesi ci sarà un’altra piccola testa d’ananas oppure no!”
“Sverrai, lo so…”
“Allora è un sì??Sei già stata a fare gli esami, lo sai di certo!!”
“E va bene, guardalo!”
“Allora lo guardo!”.
Ma il vero shock fu sapere che entro nove mesi ci sarebbero state due teste d’ananas in più.



9.Angeli


Un ultimo pensiero affiorò nella mente stanca di Temari, che si accarezzava l’enorme pancia, mentre la sua dolcissima metà usciva imprecando alla disperata ricerca di un cocomero.
Lei era una città dispersiva e caotica, piena di affanni politici e carestie, di povertà e inganni. Era un città fantasma, una città incompresa. E Shikamaru era stato il suo angelo, che era sceso sempre più in fondo, sempre più a terra, tra la polvere, pur di guidarla e guarirla.
Era un angelo, alla fine, il suo Shikamaru.
Un angelo che aveva rinunciato alle nuovle e alle sue ali, e, solo per lei, era diventato

10.Uomo





 
L’ho finita adessoXD
Ah, si potrà notare che il primo capitolo era scritto proprio per lo ShikaTema day dell’anno scorso. Si potrà notare la mia velocità nell’aggiornareXD
Ecco le note riferite alle gerarchie angeliche, su cui si basa ogni capitolo:
Serafini: continuamente cantano le sue preghiere: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!». Molti cristiani credono che il Diavolo sia un angelo decaduto nell’inferno e che una volta fosse nei Cieli un Serafino.
Cherubini: Hanno quattro ali e quattro facce, ovvero una umana, una di cherubino, una di leone ed infine una di aquila. Si crede che, anche se sono stati rimossi dal piano reale e materiale degli uomini, la luce divina che essi filtrano giù dal cielo possa ancora toccare le vite umane.
Troni: Inoltre, sono descritti come ruote intersecate ad altre ruote, delle quali una si muove avanti e indietro, e l'altra si muove da un lato all'altro.
Dominazioni: Essi compongono l'esercito dell'Apocalisse e da loro dipende l'ordine universale e la disciplina ferrea alla quale gli angeli si rivolgono per mantenerlo. (riferimento ai quattro cavalieri dell’Apocalisse).
Potestà: Gli angeli della nascita e della morte sono Potestà.
Virtù: loro forma è simile a lampi di luce che ispirano nell'umanità molte cose come l'Arte o la Scienza.
Principati: Sono gli angeli guardiani delle nazioni e delle contee, e tutto quello che concerne i loro problemi e eventi, inclusa la politica, i problemi militari, il commercio e lo scambio.
Arcangeli: questi angeli tendono ad essere i più grandi consiglieri e amministratori inviati dal Cielo.
Angeli: sono i più familiari agli uomini, poiché sovraintendono a tutte le loro occupazioni.
Piccolo pezzo per Franklin Jones.
Aiuto che stanchezzaXD
Grazie per la vostra attenzione,
LaLa

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