ARANCIO

di nous
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***



Capitolo 1
*** I ***


ARANCIO I

Ci sono giornate in cui non si sa che fare. Alzarsi o crogiolarsi nel letto fino alla morte. Sebbene la seconda ipotesi fosse allettante, la data imponeva il rendersi presentabile al pubblico.  Shikamaru Nara concetrò tutta la sua attenzione nel focalizzare l’ubicazione della sua divisa.  Avrebbe sicuramente preferito continuare a dormire: le ricorrenze di Konoha erano particolarmente noiose. Indossò la divisa da chunin. Sbadigliò e legandosi i capelli uscì dalla stanza.

La casa era insolitamente silenziosa; probabilmente gli altri lo avevano preceduto. Suo padre, come lui, non era il tipo da dare eccessivo peso alle feste di stato. Vi partecipava esclusivamente per il suo grado. Essere jonin implicava anche questo e Shikamaru ne aveva fatto esperienza con quella mattina di sonno privato. Per sua madre la cosa era differente: Yoshino nutriva un genuino entusiasmo nei confronti di quegli eventi mondani. Appeso all’uscio della residenza Nara vi era un drappo arancione. L’entusiasmo di sua madre era decisamente esagerato.

L’ossessione degli abitanti di Konoha per quel giorno era al limite del maniacale. Le vie del villaggio erano invase da decorazioni arancio. Troppo colore. Troppa ipocrisia. Ma che cosa poteva farci se loro avevano voluto così. Prese la via più breve per il Palazzo dell’Hokage. Il suo scopo era di arrivare il prima possibile incontrando il minor numero di persone e edifici con suppellettili arancioni. Quel colore, in quel giorno, lo metteva a disagio. Conosceva il perché, ma riteneva fosse meglio tacere e continuare a pensare a fatti propri. La filosofia del minimo sforzo era il suo credo e non vi avrebbe rinunciato per una questione morale.

Shikamaru poteva chiaramente scorgere i volti dei Kage. Primo. Secondo. Terzo. Quarto. Quinto. Sesto. Aveva trovato interessante come gli abitanti della foglia avessero eclissato il governo Danzo non solo non raffigurandolo mai, ma anche non considerandolo mai come Rokudaime. In effetti, l’attuale sarebbe stato il settimo. A Konoha si aveva l’abilità innata di nascondere gli eventi spiacevoli fino a perderne memoria.

 

 

«Avete redatto il rapporto della missione?»

«Si»

«E lo avete consegnato?»

«No. Il Rokudaime è attualmente occupato»

«Capisco, ma provvedete il prima possibile»

«Sarà fatto.»

Questa assicurazione bastò al vecchio per allontanarsi e lasciare solo il ragazzo in mezzo al corridoio. Appena l’odioso uomo voltò l’angolo, il giovane si rilassò. Da un po’ si domandava da quanto avesse iniziato a comportarsi da bravo soldatino. Non se lo ricordava, ma se si guardava attorno vedeva che tutti erano a modo loro cambiati anche se sembravano sempre gli stessi. Si ravvivò la zazzera bionda, credendo fosse un valido modo per allontanare quei pensieri scomodi.

Il biondo aveva sempre creduto che crescendo i problemi sarebbero scomparsi, ora, alla veneranda età di vent’anni, si era accorto di averli solo sostituiti con le scartoffie. Aveva ben altri progetti per la sua età, ma il passato è il passato e i sogni sono sogni. Quello che si immagina da bambini, spesso, si rivela un’utopia. Da tempo aveva imparato a mettere da parte le fantasie passate. Ogni giorno che trascorreva il mondo appariva meno bello di come fosse anni prima.

Non era nella sua indole passare il tempo a deprimersi lungo i corridoi del palazzo dell’Hokage, ma il solo pensiero di tornare a lavoro lo bloccò. Quel benedetto rapporto andava consegnato, nella speranza che non fosse mai letto. Odiava profondamente quel genere di missioni. Eliminazione. Nemmeno si ricordava il volto si tutti quelli a cui aveva tirato un kunai fatale. Persino l’ultimo non gli veniva in mente. Lo aveva guardato dritto negli occhi, mirato e colpito. Un tiro pulito, un centro perfetto tra le cavità oculari.

Mosse i primi passi in direzione dell’ufficio. Quella aveva tutti i presupposti per presentarsi come una pessima giornata. Gli stendardi arancione acceso fuori dalli vetri ne erano la prova. Ancora trenta passi e avrebbe varcato la soglia della stanza, ancora trentacinque passi e si sarebbe trovato affianco il suo capo ad assistere a quell’ingloriosa ricorrenza.

 

 

 

 

ARANCIO

 

«Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l'ira funesta che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco

generose travolse alme d'eroi,

e di cani e d'augelli orrido pasto

lor salme abbandonò»

(OMERO, Iliade, libro I)

 

 

 

 

 

I.

 

«Vedo che lavori molto, Naruto» . Il biondo si voltò sorpreso.

«Shikamaru» disse come svegliato da un lungo sonno. «Anche tu qui» e il suo sguardo tornò a puntare l’arancione di fuori. Alla fine quella trentina di passi non era riuscito a farla.

Il moro accorciò le distanze, portandosi affianco al compagno.«Non ti piacciono proprio, eh? ».

«Dovrebbero!?». Naruto accennò un sorriso sghembo non degnandolo di uno sguardo. Shikamaru ormai aveva acquisito una certa esperienza nel gestire il biondo in situazioni come quella. Ogni anno quel siparietto si ripeteva con le stesse modalità e tempi. Forse il dialogo variava, ma il succo no.

Divagazione.

«Il grande capo ci starà aspettando. Andiamo…».

«Non ti preoccupare non saremo certo noi in ritardo».

«Quell’uomo non perde proprio il vizio…».

«Già…».

Silenzio e mugugni.

«Mhn…».

«Mhn…ma ti rendi conto!?».

Sfogo.

«Che?».

«Questa festa…».

«Ah…».

«Questa festa…non ha senso».

«Festeggiano l’uccisione di Madara. Ti celebrano.».

«Stronzate.»

Solo mettendo il sale sulla ferita questa si sarebbe cicatrizzata. Shikamaru sapeva che solo dando da dire a Naruto lo avrebbe aiutato a fare pace con il mondo.

«Stronzate. Io non ho fatto nulla. Nulla degno di essere celebrato. Lo sai, hai visto: ha fatto tutto lui. Da solo. Io…io alzato un polverone senza combinare nulla di concreto…»

«Lo hai ucciso.»

«Mi sono limitato a dargli il colpo di grazia. Il grosso lo ha fatto lui.». Naruto fissava i drappi arancioni come volesse incenerirli con lo sguardo. Per una decina di secondi rimase immobile senza nemmeno prendere fiato. Shikamaru comprendeva come l’amico ribollisse di rabbia nel guardare fuori dalla finestra.

«Mi sono trovato lì nel momento adatto, non mi merito nulla.» Liquidò così il moro, svoltandogli le spalle e comprendo i trenta passi che lo separavano dall’ufficio dell’Hokage. Shikamaru strinse le spalle fissandolo entrare, per poi seguirlo, come era consuetudine negli ultimi anni.

 

 

Fu svegliato dal brontolio del suo stomaco. Erano giorni che intervallava momenti di torpore a rari attimi di lucidità. Non si ricordava nemmeno l’ultima volta che avesse toccato cibo. Decise , quindi, che era arrivato il momento di svegliarsi e andare a fare qualcosa per affermare il suo essere vivo. Forse avrebbe ucciso qualcosa. Si sarebbe alzato, sarebbe corso nel bosco e avrebbe preso qualcosa, qualsiasi cosa.

Fece perno sulle braccia per sollevare il busto. Il braccio destro rispose all’impulso , il sinistro no. Ad essere precisi l’intorpidimento coinvolgeva la parte sinistra del torace, la spalla, il braccio, la mano, le dita. Tutto era addormentato. Supino,  portò la mano destra a massaggiarsi la zona vicina al cuore. Il palmo poteva avvertire un intenso e febbricitante calore a fior di pelle.

Rimase a pancia all’aria ancora a lungo, dopo che il suo stomaco lo svegliò, ad accarezzarsi il petto. Si era perso ad osservare le macchie di umidità sul soffitto. Alcune gli sembravano dei cavolfiori andati a male, con mezzi di intonaco cadenti ed umidicci; altri componevano codici. Tondo grande. Tondo grande. Tondo piccolo. Cerchio. Tondo grande. Continuò a decriptare le chiazze marroni sopra la sua testa fino a sentire la mano della stessa temperatura del torace. Ormai poteva percepire nuovamente la sua parte sinistra. Decise, allora, che era giunto il tempo di alzarsi e andare ad uccidere qualcosa, anche se ormai non aveva più fame.

Trovava scomoda quella sensazione di bruciore di quando si cessa di avere fame senza aver mangiato nulla.

Fuori era discretamente caldo. Uscì dal suo rifugio senza maglia. Le fronde di vegetazione, umide di mattino, gli stavano lasciando un alone appicicaticcio addosso. Si sentiva come grande carta moschicida. Una di quelle che sua madre metteva d’estate fuori dalla finestra della cucina. Si vedeva circondato da mosche. Ma lì, a parte qualche fastidioso stormo di moscerini, non c’era nulla. Forse qualche grassa larva intenta a mangiare le piante dall’interno, ma nulla che somigliasse ad una mosca. Troppo spesso la sua mente viaggiava più veloce della realtà.

Con quei suoi dannati occhi vedeva cose straordinarie. Però, di una realtà alternativa non aveva la più pallida idea di che farsene. Lo stavano ingannando. Prima il mondo si era preso beffa di lui ed ora anche le parti che componevano il suo corpo. Avrebbe preferito il silenzio a quel ronzio di mosche nella sua testa.

Agli insetti si sostituì uno scrosciare d’acqua. Probabilmente nelle vicinanze doveva esserci un fiume. Si diresse verso la fonte del rumore. Cacciare in quel sottobosco era troppo complicato, meglio pescare. Era da una vita che si nutriva di pesce.

Con la testa vuota si ritrovò davanti ai salti di una torrente. L’acqua era eccessivamente limpida per occultare le sue prede: dei pesci tonti che non sanno che sopra di loro vi era il predatore. Li fissò con intensità, come se il suo sguardo potesse uccidere anche loro. Quelli se ne rimanevano attorno al un masso, vivi ed ignari di tutto. Sorrise. Questa volta avrebbe dovuto sporcarsi le mani per uccidere.

Si avvicinò ancora, fino ad essere sopra il suo pasto. L’ombra del ragazzo cadeva al di là della roccia. Era stato un abile ninja e non avrebbe rovinato la sua caccia spaventando il cibo con la sua proiezione. Constatò ancora quanto l’acqua fosse limpida. Vide la sua immagine riflessa e la ignorò. Fulmineo, ruppe la superficie con il braccio, avverrò la vittima e la portò fuori. Il suo riflesso, in sua manciata di secondi, si ricompose.

Un giovane uomo con in mano un pesce. Un grosso pesce, un pasto adatto per una persona sola. Non si riconosceva. Era da un po’ che non si guardava in uno specchio. Lo scoprirsi diverso dal ricordo che aveva di sé, lo lasciò basito. Era magro, forse a causa della sua dieta fatta di sonno. Aveva il viso scavato. Una leggera barba incolta gli copriva il mento e le guance. I capelli erano arruffati. Lo sguardo incredibilmente vuoto. Non era più lui. La sua immagine lo guardava con espressione severa.. Poteva distinguere chiaramente il limite tra ossa e muscoli sulle braccia e sul torace scoperto. All’altezza del cuore vi era una cicatrice, il segno di un’ustione, più scura rispetto al pallore cadaverico delle sue membra. Quella dannata cicatrice lo tormentava da tempo. Ma era un ricordo, uno brutto che non si vuole dimenticare. Fissò la macchia sul petto. Voleva entravi dentro ed accedere a quelle memorie. Ora che era lucido, desiderava sapere che cosa fosse successo, che fine aveva fatto il suo vecchio io. Strinse il pungo, fino a sentire le unghie entrare dentro la carne del pesce. Non riusciva a capire cosa lo infastidisse maggiormente: se la nostalgia di sé, o l’incapacità di far riaffiorare i ricordi. Scaraventò l’animale sulla riva. Con un balzò lo raggiunse. Prese il kunai che portava al fianco, lo affondò nel ventre della bestia. Infilò dentro il taglio rosso la mano e la portò fuori con le viscere del pranzo. Si guardò attorno. Un grosso ramo secco sarebbe bastato ad alimentare un piccolo fuoco. Appena trovò la legna adatta, la portò vicino alla sponda. Trafisse il pesce con un rametto verde e conficcò lo spiedo a terra. Compose dei sigilli. Serpente, pecora, scimmia, cinghiale, cavallo, tigre.

«Katon!»

Ora poteva prepararsi un pasto decente.

 


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Capitolo 2
*** II ***


ARANCIO II

 

 

 

 

 
 

II.

 

Il suo ingresso fu accolto dallo sguardo del Rokudaime. Naruto si meravigliò di vederlo già a lavoro, ma non lo diede a vedere. Si accinse a percorrere quei cinque passi, abbassando gli occhi, che per un attimo avevano incontrato quelli comprensivi del vecchio sensei. Lui aveva imparato a conoscerlo meglio di nessun’altro. L’Uzumaki non voleva dargli la soddisfazione di trattarlo come un bambino, per l’ennesima volta.  D’altronde, per il biondo era sempre stato così. Ogni legame forte, che avesse costruito con una persona a lui cara, era andato a colmare il vuoto di una famiglia mai avuta. I suoi maestri avevano recitato da fratelli maggiori, zii e genitori. Non aveva mai ritenuto di poter considerare Kakashi alla stregua di un padre, era più uno zio incostante: un’ ombra sempre presente alle sue spalle, che però lo aveva lasciato solo molte volte. Non gliene poteva dare colpa, aveva compreso che quello era il suo modo d’essere.

Naruto si accostò alla scrivania, continuando ad analizzare i listelli di parquet sotto i suoi piedi. L’Hogake lo seguì con la coda dell’occhio, continuando a dedicarsi alle scartoffie sul suo piano di lavoro.

«Sei in ritardo…». Disse atono.

«Sono arrivato all’ora in cui dovevo arrivare».

«Potevi darmi questa soddisfazione, non capita spesso che io sia in anticipo…».

Naruto lo squadrò dall’alto con sufficienza.

«Scendi con me dopo?». La voce del Rokudaime si fece improvvisamente seria. Il ragazzo, prontamente, distolse lo sguardo dalla figura seduta vicino a lui. I piedi si mossero automaticamente e lo portarono tre passi più avanti, di fronte alla parete vetrata. Era sempre stato incapace di rimanere fermo in situazioni a lui scomode.

«Non ho ancora deciso…».

Shikamaru attendeva sull’uscio. Nessuno aveva prestato attenzione al suo ingresso. Aveva potuto chiaramente sentire come il tono della conversazione fosse cambiato e come, tutt’attorno, l’aria fosse diventata densa. L’allievo ed il sensei erano arrivati, nuovamente, ad un irreversibile situazione di stallo. Era uno stratega, sapeva che doveva intervenire un nuovo elemento per sbloccare la situazione.

Bussò sul legno massello della porta aperta per rivelare la sua presenza.

 «Ah…Shikamaru.». Kakashi alzò il volto nella sua direzione accogliendolo con una velata espressione bonaria.

«Sono venuto ad informarla che ora di andare.»

«E’ già ora!? Come vola il tempo....».

Si alzò frettolosamente dalla sedia, prese il soprabito appeso alla spalliera. Se infilò, continuando a fissare il moro.

«Sei tu la scorta oggi, vero?».

«Sì, signore.».

«Bene, andiamo.» Afferrò il cappello e si diresse verso il jonin che lo attendeva. Ma il suo percorso si bloccò a meta strada.

«Naruto, che fai?».

Il ragazzo, di spalle, non lo degnò né di un sguardo, né di un accenno di risposta. Quel silenzio, però, per Kakashi fu più efficace di qualsiasi parola.

«Come ti pare.». Appoggiò il copricapo in testa e fece cenno a Shikamaru di andare.

Lo stratega rimase immobile per un po’ a guardare la schiena dell’amico. Sperava di vederlo distogliere lo sguardo da oltre il vetro e seguirli. Purtroppo era consapevole che questo non sarebbe mai successo, non in quel giorno.  Fece perno sul tallone destro. Si voltò. Con le mani in tasca ripercorse i passi del suo capo.

Anche Naruto cominciava ad essere una seccatura.

 

 

«Anche quest’anno l’eroe fa i capricci.»

«Già….».

Strinse gli occhi e si morse il labbro inferiore fino a sentire il sapore metallico del sangue. Naruto odiava quel giorno e avrebbe fatto di tutto per non sentire più quei discorsi. La parola eroe lo disgustava. Un tempo avrebbe dato il braccio destro per sentire inneggiare il suo nome associato a quella, ma ora era tutto diverso.

 Per gli altri era facile scegliere la versione dei fatti che più si adattasse alle circostanze. Konoha doveva essere salvata da un fedele e valoroso ninja di Konoha. Aveva desiderato a lungo diventare l’eroe del suo villaggio. Lo era stato. La sensazione era durata un nulla. Non aveva senso essere acclamato nuovamente. Lo vedevano come un eroe assoluto che salvava tutto e tutti ad ogni situazione di pericolo, in ogni circostanza. Eroe una volta, eroe per sempre.

Quel 13 maggio, il salvatore di Konoha fu il suo nemico. Che fosse stato un atto eroico o no, cosa importava. Naruto aveva urlato al mondo che lui non era un eroe, ma nessuno lo aveva ascoltato. Non sopportava quell’ingrata attribuzione di merito.

Il silenzio annunciava una disgrazia imminente. Davanti alle porte del villaggio si stagliava il profilo di due ombre. Poteva distinguere le fattezze del compagno. Quel chakra spaventosamente freddo. Un brivido gli percorse la schiena. Paura ed eccitazione. Avrebbe combattuto, lo sentiva delle ossa. Era certo, che un giorno, si sarebbero scontrati e, sicuramente, sarebbero morti.

Naruto era pronto ad attaccare un nemico che non accennava a muoversi. Il biondo si sentiva ignorato. Lo stavano ignorando. Era praticamente impossibile che due ninja di tale calibro non si fossero accorti di lui. Madara di fronte a Sasuke. Sasuke di fronte a Madara. Una luna ambrata  illuminava di un lugubre bagliore quel poco che riusciva a vedere dei volti dei due nukenin. Le labbra di Sasuke si aprivano e chiudevano ritmicamente. Sicuramente stavano parlando. Naruto dalla sua posizione non riusciva a sentire che un minimo brusio. I due Uchiha continuavano a stare immobili. Due statue. Se la stavano prendendo comoda, come se avessero avuto tutto il tempo del mondo, come se non ci fosse nessuno disposto a combattere per Konoha. Lui era pronto a combattere e basta. Al diavolo il villaggio. Farsi guerra. Morire. Era pronto. Quello era il suo momento: l’amico tanto cercato era lì. Meno di sessanta passi da lui. Sentiva la frenesia espandersi per tutto il corpo. Il timore era annullato dall’eccessiva dose di adrenalina, che circolava nelle vene del ninja di Konoha.

 Sasuke si mosse. Naruto sobbalzò. Il vecchio amico aveva solo inclinato la testa in avanti, come per riflettere.  Il biondo lo vide sollevare il capo e rivolgerlo verso di lui, in un tempo che sembrò infinito. Il moro portava sul volto una smorfia simile ad una sorriso. Un’espressione artefatta. L’Uzumaki vedeva in quella bocca leggermente piegata all’insù la brutta copia di quei ghigni di sfida, che tante volte si erano scambiati a dodici anni. Ma gli occhi erano diversi. Quello sguardo gli fece gelare il sangue. Quelle iridi scarlatte avevano un disegno nuovo. Naruto si sentiva trafitto da quegli occhi. Vi leggeva una follia mai vita sul viso del ragazzo, ne in nessun uomo. La sua mente elaborò velocemente che quello non poteva essere Sasuke.

«Naruto, proprio tu».

Le parole furono accompagnate dal braccio sinistro allungato verso il biondo, come ad invitarlo. Per la prima volta in vita sua , quel Sasuke gli aveva teso una mano, ma quello non era il Sasuke che si era più volte promesso di salvare.

Si sentì miserevolmente preso in giro. Avvertì  il calore pervadergli  il corpo, la rabbia affanargli il respiro e velocizzargli il battito, gli occhi del nemico su sé, dentro di sé, tutto l’allenamento per controllare il Kyūbi rivelarsi inutile. Il ninja sentiva che quel folle la stava chiamando. Stava invocando la parte più inconscia di quello che era stato un fratello. Sasuke lo aveva tradito. Lui si era tradito. Quello che il biondo non aveva preso dal demone, ora, lo stava reclamando l’Uchiha.

Poi venne il buio.

Naruto non riusciva esattamente a ricordare cosa fosse successo. Aveva solo immagini frammentarie. Sasuke. Fuoco. Madara. Sangue. La sua mente aveva registrato solo questo.

Odiava ammettere che rammentava solo di essersi svegliato a terra con un ricordo dei suoi vestiti e zuppo di sangue. Odiava ammettere di avere provato una irrazionale odio nel momento in cui aveva visto Sasuke seduto, inespressivo, su quello che doveva essere l’architrave della porta del villaggio.

A quella visione concentrò tutta l’energia che aveva in corpo nel suo colpo migliore. Lo avrebbe scagliato all’amico, come ringraziamento. Ma qualcosa lo portò a voltarsi. Una sensazione che partiva dalla viscere. Sentiva la necessità di guardare oltre la sua schina.

Madara stava lì. Malfermo sulle gambe. Grondante di sangue. Con una maschera da vecchio in volto.

 Naruto riconduceva a quel momento la firma delle sua condanna ad eroe.

Guardò fiero la detonazione. Non si era reso conto con quanta rapidità avesse cambiato bersaglio. Si voltò in direzione di Sasuke.

Guarda cosa ho fatto. Ora siamo solo io e te.

 Ma tutto l’odio scomparve e lasciò posto alla pietà. Colui con cui voleva combattere aveva la casacca stracciata e innaturalmente rossa. Naruto non sentiva più il suo sguardo su di sé. Quegli occhi parevano guardare altrove, anche se stavano fissando nella direzione del biondo.

Naruto non riusciva a sostenere oltre quello scontro impari e silenzioso. Rivolse le spalle ai resti della porta di Konoha ed analizzò brevemente ciò che rimaneva di Madara.

La stanchezza si fece largo tra la sue carni travagliate. Gli arti inferiori non erano più in grado di sostenerlo. Chiuse gli occhi e si accasciò.

 

 

Sasuke Uchiha, a gambe incrociate davanti al fuoco, si sentiva la testa pesante. Era ipnotizzato dall’imbrunirsi della pelle del pesce. Troppo vicine alla fiamma, alcuni brandelli di squame bruciavano velocemente lasciando il loro posto ad aloni neri.

 Sin dall’infanzia aveva imparato ad utilizzare il suo elemento. Più che una sua peculiarità era una cosa di famiglia. Di padre in figlio, ogni Uchiha che si rispetti, prima dello Sharingan, doveva saper manipolare il fuoco. Si era più volte domandato come poteva essere carbonizzare una persona. Forse era come stare a guardare quel pesce da troppo lasciato a cuocere. Aveva letto che un uomo che brucia ha un odore dolciastro, ma non lo aveva mai annusato in prima persona. C’era stato un periodo in cui non uccideva nessuno. In cui tutto era allenamento. Quando nel suo mondo ancora resistevano gli ideali.

Afferrò lo spiedo. Si ricordava un vago sapore di arrosto. Bastava illudersi che fosse buono per mangiare. Soffiò un paio di volte per disperdere il calore. Avvicinò la bocca per addentare la carne. Sentì la porzione di pelle sotto il naso bruciargli. Aspettò un po’, osservando il diradarsi dei fumi provenienti dal pesce. Nuovamente, si avvicinò. Avvertita una temperatura accettabile per la sua lingua, aprì la bocca ed addentò il fianco dell’animale. Masticò lentamente, non per gustare il sapore ma per trovare qualcosa di buono.

La carne bianca dell’animale aveva un retrogusto di pesce. Il sapore predominante era quello dello strato superficiale quasi carbonizzato. Aveva la bocca piena di cenere.

 Cenere, sangue e polvere. Sentiva affogarsi nella nube incandescente delle ripetute deflagrazioni. Doveva socchiudere gli occhi per continuare a vedere.

Lasciò cadere il pasto a terra. Entrambe le mani gli raccolsero il volto. Andò a massaggiarsi le tempie. Il suo campo visivo era concentrato ad uno spiraglio tra i due palmi. La sua attenzione era localizzata in una manciata di centimetri. Una fila di formiche si dirigeva a conquistare il pesce.

Il capo era Madara. Lui voleva essere a capo di tutto. Voleva prendere tutto. In un modo o nell’altro aveva preso parte di Sasuke. Aveva portato al crollo di quel castello di carte, che per il ragazzo era la realtà. Aveva fatto breccia in quell’animo scoperto di bimbo sperduto. La semplicità di occhio per occhio, dente per dente continuò ad essere il suo irrazionale credo.

Quella successione di pallini neri, zampettava sul segno lasciato dai denti. Dentro e fuori. Anche per loro quel cadavere doveva avere la temperatura ottimale per essere lentamente smembrato. Il moro pensava che anche lui un giorno sarebbe stato mangiucchiato da quelle insignificanti bestiole. Probabilmente avevano digerito anche i suoi affetti. Da tempo il suo passato non c’era più.

«E’ ora.»

«Cosa dovrei distruggere!? Qualcosa che non c’è.»

«Konoha non è mai stata così debole. Approfittane.»

«No! Mi è stata spianata la strada una volta. Lo concedo a mio fratello, ma a Konoha non posso permetterlo. Devono perdere ciò che hanno di più caro, non quello che gli rimane. »

«Distruggila e basta.»

«Non prendo ordini da te.»

«Che ingrato...e dire che sono stato io a permetterti di arrivare a questo giorno.»

«Mpf». I suoi nuovi occhi guardavano la maschera di Madara.«Ho ridimensionato i miei obiettivi.»

«Mi stai dicendo che non vendicherai più Itachi?»

«Konoha sarà distrutta. Per mio volere, non per il tuo! Sarò io a decidere quando sarà il momento per rendere onore a mio fratello…»

«Illuso…»

«Sei solo un intralcio.»

«Ragazzino…»

«Ora siamo uguali. Abbiamo lo stesso potere.»

«Tu non sei nemmeno vicino al mio livello. Credi che avere ottenuto lo Sharingan Eterno ti renda simile a me!? Non farmi ridere. Sei solo un presuntuoso ragazzino inesperto.»

«Quanto può durare ancora quel corpo che ti porti in giro?»

«Cosa?»

«Io sono giovane e non posso altro che migliorarmi. Tu sei vincolato da quel bamboccio che usi per muoverti. Per questo hai lasciato combattere solo me…tu non puoi con quel corpo…Inoltre…»

«Taci!»

«Perché? Il ragazzino ha scoperto il tuo punto debole?», ghignò, tutto andava come si era immaginato, «Inoltre, chi meglio di me può fare breccia nel Nove Code…»

«Che vuoi fare?!»

L’ospite d’onore degli Uchiha era già arrivato.

«Naruto, proprio tu.»

Il demone era dinnanzi a lui, confinato nel biondo. Entrambi erano diversi dall’ultima volta, ma abbastanza potenti per il suo scopo. Con  suoi occhi poteva addomesticare la volpe ed adempiere al suo nuovo obiettivo; Madara non avrebbe visto l’alba.

Un attacco dopo l’altro, esplosione dopo esplosione. Quella potenza era inarrestabile ed indomabile.

La testa gli stava esplodendo, le formiche gli avevano cominciato a mangiare il cervello.

Il Kyubi era distruzione. Puro odio. A stento riusciva a controllarlo, a non farsi spazzare via dall’enorme quantità di chakra generato.

La pelle bruciava. Sentiva gli insetti camminargli sulla carne viva.

Il  corpo del suo nemico stava cedendo. Contava i secondi che impiegava a rialzarsi da terra. Il lasso di tempo si allungava ad ogni caduta. La maschera arancione aveva iniziato a cadere a pezzi. La pelle fittizia iniziava a perdere di tensione. Il corpo cominciava a mostrare l’età dell’anima.

I morsi di quelle creature erano insopportabili. Gli stavano sulle labbra, sulle cavità del naso, sulle palpebre. Mordevano e maciullavano.

Il nove code non smetteva la sua opera distruttiva. Sasuke  sapeva che doveva farlo rientrare il prima possibile. Non aveva intenzione di morire. Non lì. Non avrebbe dato a Konoha il privilegio di avere il suo cadavere. Il guerriero concentrò il suo potere sugli occhi. Il suo demonio cominciò a materializzarsi. Per la prima volta sotto gli attacchi della volpe vide la sua armatura scalfita e fiotti di sangue uscire dal suo corpo. Le fiamme nere si alzavano su campo di battaglia. La volpe e il ninja combatterono per un tempo indecifrabile. Quei suoi maledetti occhi chissà per quanto tempo li ingannarono.

Il dolore si fece insopportabile. Scattò in piedi. Nel lanciarsi cadde a carponi sul greto del torrente. Tuffò la testa in acqua. Le formiche sarebbero morte affogate. Nessuna si sarebbe salvata. Decimava insetti ad occhi aperti, scrutando il vicino letto di ciottoli. I capelli nuotavano trasportati dalla leggera corrente. Poteva sentire il fresco delle liquido annidarsi tra la barba. Nell’apnea, si sentì purificato. Ma i polmoni cominciavano a reclamare ossigeno, Sasuke dovette riemergere per respirare. Fece forza sulle braccia, per sollevare il capo ed il collo come fossero un blocco unico e rigido con la schiena. Si fermò con la punta del naso a pelo dell’acqua. I capelli per metà ancora immersi. La barba aderente alle guance magre. Gli mancò l’aria vedendo, da fuori, l’ombra si una figura con nove code sui sassi del fondale del rio.

 

 

Konoha si era tinta di arancio. Ogni finestra ed ogni lampione portava vessilli arancione. La gente si era riversata sul viale principale. Alcuni sventolavano la loro bandierina, altri intonavano canti e urla di gioia. I più mattinieri si erano guadagnati un posto sotto il palco alla fine di quel taglio sul villaggio. Sullo sfondo del palazzo dell’Hokage, la massima autorità si apprestava a tenere il tradizionale discorso da cerimonia. Naruto vedeva l’Hakate nascosto dietro il palco ligneo, anche esso con fastidiose decorazioni. Un mare si persone ad attendere le parole di un uomo che dava fiato a frasi fatte. In tre anni, il sensei non aveva cambiato tipologia di discorso, evidentemente i suoi collaboratori avevano trovato la formula efficace per gettare fumo negli occhi del popolo. L’eroe non vuole essere elogiato, poiché ritiene che tutto i cittadini di Konoha sono stati eroici nel riportare il villaggio al suo fasto originario. Il biondo, dall’alto dell’ufficio dell’Hokage, se la rideva si cuore sentendo quel passaggio e vedendo la popolazione alzarsi in un giubilo.

I bambini stavano sulle spalle dei genitori, facendo vedere i sorrisi sdentati e sventolando la bandierina arancione. Come lui, anche le nuove generazioni avevano bisogno di avere miti. I piccolo erano giustificati. Gli adulti, senza eccezioni erano un branco di idioti. Lui ne era il re. 

Quella baraonda sarebbe andata avanti fino a tardi. Dopo il pomposo discorso istituzionale, gli abitanti del villaggio avrebbero preso d’assalto le bancarelle e gli stand gastronomici. Gli uomini si sarebbero ubriacati, le donne spettegolato e i bambini giocato in suo onore. Oltre un falso eroe in certi momenti si sentiva un capro espiatorio per far aumentare gli introiti di Konoha.

«Naruto…», disse una voce femminile alle sua spalle. La riconobbe immediatamente.

 «Non sei di sotto a festeggiare, Sakura!?»

«Non ne avevo voglia...» La ragazza fece una panoramica della sala in cui era appena entrata. L’amico non si era voltato nemmeno per salutarla. «Ho saputo che a breve avrai un’altra missione in solitaria.» disse passandosi la mano desta sul gomito sinistro, come per mascherare il disagio, «Quando parti?»

«Domani.»

Naruto si voltò, perdendosi gli ultimi attimi del discorso dell’Hokage. Percorse i trentotto passi che si mettevano tra lui e l’uscio. Sakura se lo vide passare vicino senza che la degnasse di uno sguardo. Il biondo sparì nel corridoio. La ragazza abbandonò le braccia lungo i fianchi. Strinse i pugni per farsi sbollire la rabbia.

Salve a tutti. Grazie a coloro che hanno messo la storia tra le seguite. Un particolare ringraziamento va ad ilarione e Sarhita che hanno recensito.

   

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Capitolo 3
*** III ***


ARANCIO III

 

 

III.

 

 

Anche l’acqua era sua nemica. Lo leggeva in quelle lievi increspature. Quel rigagnolo si stava prendendo gioco di lui. Lo stava deridendo. Lo stava uccidendo con l’illusione della pace. Tutta l’acqua nel suo corpo era complice del fiume. Si sentiva affogare. D’istinto, i palmi e le ginocchia indietreggiarono di poco, il necessario per non far leggere al suo nemico informe il terrore sul suo volto.

Tachicardia. La stessa che sentiva dopo anni d’allenamenti. La stessa che sentiva dopo ogni scontro. La stessa che sentiva emergere quando pensava alla sua morte. L’Uchiha  presagiva che il suo cuore sarebbe arrivato al limite, presto. Sarebbe scoppiato. Avvertiva la pressione che il muscolo stava esercitando sul suo sterno. Gli sarebbe esploso nel torace fracassandogli tutto. Le costole si sarebbero sbriciolate e i polmoni sarebbero diventati una poltiglia grigiastra. Oppure, una volta che la pressione dell’esplosione li avrebbe svuotati di tutta l’aria che contenevano, avrebbero risucchiato tutto il sangue, che da lì a poco gli avrebbe riempito il corpo. Si sarebbe gonfiato di sangue. Sarebbe morto affogato nel suo stesso sangue. Forse, negli spasmi della morte, avrebbe vomitato tutta quella inconsistente gelatina rossiccia che una volta era stata parte del suo corpo. Forse si sarebbe liberato di tutta quella fastidiosa roba rossa. Sarebbe morto leggero.

Aspettava il sapore di ferro salire dalle viscere lungo la gola. La bocca era secca. Il naso aveva smesso di funzionare. L’aria non arrivava ai polmoni. Il suo battito era talmente accelerato da impedire ai suoi organi di dilatarsi. Respirava. Ma non riusciva ad assaporare l’aria. La sentiva entrare, ristagnare per una frazione di secondo in bocca ed essere espulsa.

 La sensazione di debolezza dovuta all’asfissia, lo fece cadere sui gomiti. Sasuke si trovò con il naso a tre dita dal suolo polveroso. Si sarebbe aspettato di sentire le carezza dei radi ciuffi d’erba sul suo volto. Sulla pelle veniva sfiorato solo dal ruvido turbinio di terra secca sollevato dal suo tentativo di respirare. Precipitò di lato per aver più spazio per continuare a vivere. Vedeva il suo torace alzarsi ed abbassarsi convulsamente. Su e giù. Stava morendo. Nei suoi vent’anni era morto troppo spesso. Se si fosse risvegliato sarebbe morto ancora. Ancora. La morte alla fine l’avrebbe ucciso per noia.

 La sua era una signora machiavellica. Una dama gentile e meschina. Amorevole e fatale. Dal basso ventre alla gola un brivido caldo si fece largo tra le sue carni. La dopamina manteneva il battito accelerato. Inarcò la schiena per gustare al meglio il tocco dei crini scuri che ricadevano su di lui. Lei era pallina, non di un biancore malato come il suo, ma lunare. La pelle avorio delle sue mani danzava sul suo torace, pronto a non accoglier più aria. Lei era bella. Una bellezza che non si limitava alla forma, ma a tutta la sua essenza. Una bellezza ipnotica che più volte aveva catturato il guerriero.

Sasuke era troppo pieno di lei. Vedeva le sue iridi verdi nella volta di vegetazione che lo sovrastava. La sua bocca sottile e dorata in quello squarcio di sole che si faceva largo tra le fronde e le nubi di un cielo spento. Il corpo faceva da cassa di risonanza al ricordo delle parole sagaci e argute della dama. Strinse il pugno afferrando frammenti di vegetazione spontanea e terra come se fossero le leggere vesti della delicata signora alla sua presenza. L’incosciente piacere di essere accompagnato da una creatura di tale magnificenza si aggiunse alla paura e al tedio della continua sensazione di morire. Appagante era l’illusione di trattenere la musa a sé. Disarmante la certezza di essere stato catturato dalla diva. Il dolore proveniente dalla cicatrice sul petto gli iniziò a sembrare gradevolmente lacerante. La mancanza d’ossigeno, in quel momento,  avrebbe significato affogare in lei. Forse sarebbe morto.

 

 

Passava la lama sull’incavo tra incide e pollice per valutare quanto fosse affilata. In penombra, seduto sul pavimento freddo della sua abitazione controllava attentamente la qualità del suo armamento. La luce delle ultime ore del giorno veniva filtrata dalla fessure lungo la persiana. Il sinistro bagliore dei ferri si rifletteva sul suo volto di giovane uomo.

Con il tempo aveva imparato a prestare una cura maniacale per il suo equipaggiamento. L’esperienza di molte battaglie gli aveva insegnato a scegliere quali dovessero essere le sue armi. C’era chi portava con se katane, spade o spadini di vario genere. Lui prediligeva armi corte e da lancio, ma pratiche anche nei corpo a corpo. Kunai. Shuriken. Spiedi, all’occorrenza.

Portò il kunai vicino a viso per analizzarlo meglio. Pasò un dito lungo il suo profilo. Troppo poco affilato per essere utile.

L’affilatura era un processo semplice. Sapeva bene come rendere un’arma inutilizzabile, fatale. Sistemò la lama sulla pietra abrasiva ai sui piedi. Impose una leggera angolazione all’arma e la guidò sulla superficie ruvida. Numerose volte, finchè non fu soddisfatto del risultato. Passò all’altra faccia del kunai. Al filo opposto. Con insistenza sfregava la lama sulla pietra per renderle estremamente tagliente. Doveva essere in grado di ferire il nemico al tocco. Immediatamente doveva lacerare e non concedere all’avversario la consapevolezza del taglio.

Prese un altro kunai ed incominciò ad analizzarlo.

Le armi per un ninja erano un semplice strumento. Non erano essenziali, ma facevano comodo. Naruto le usava perché non amava usare le sue tecniche per sporcarsi le mani con nemici che non lo meritassero. Aveva sperimentato sul campo il fascino di un combattimento essenzialmente basato sui fondamentali ninja, sulla semplicità. Se si conosceva dove colpire, tutto poteva diventare letale. Le sue armi dovevano essere letali. Uccidere silenziosamente. L’affilatura era diventata il suo rito prima di ogni missione. Una veglia alle sue lame, alle sue compagne. Ormai era solo con loro sempre più spesso. L’eroe era in grado di lavorare senza team. Lui si bastava.

Aveva odiato stare solo. Ora la solitudine era l’unica cosa che cercava negli scontri e forse nella vita. Non avere nessuno da proteggere e non avere nessuno a cui rendere conto delle proprie azioni. Una sorta di palliativo alla libertà privata dagli stereotipi comuni.

L’eroe era un assassino ben addestrato, tutto qui. Konoha era una fabbrica di assassini.

Passò la lama dell’ennesimo kunai sulla punta del medio. Sentì un leggero solletico e dopo poco vide l’impercettibile solco tingersi di rosso. Guardò il sangue riempire gli argini del taglio e straripare. Quella ferita era un’insignificante  prova delle capacità dell’arma.

Si mise il dito in bocca, per disinfettarlo con la saliva. Quella lesione autoinflitta non meritava una medicazione. Era un bel taglio, uno di quelli che non sporcano i ferri con cui sono stati prodotti. Naruto adorava quel genere di ferite. Riassumevano forse quel genere di pulizia che aveva cercato crescendo. Il caotico ragazzino snobbato da tutti era diventato uno shinobi dal maniacale ordine mentale. Per la gente rimaneva il solito ragazzino, meno caotico e più eroico. Un eroico ragazzino con una serie di affilati kunai, taglienti shuriken e appuntiti spiedi distesi in tre file dinnanzi a lui.

Il tempo del compiacimento per il suo bel lavoro si era andato affievolendo con il tempo. Meccanicamente prese il marsupio, appoggiato alle sue spalle. Aprì la tasca principale. Estrasse il kit di primo soccorso e lo ripose in una tasca secondaria. Era ancora nuovo, non lo aveva mai utilizzato ne aveva mai avuto la curiosità di aprirlo.

Passò in rassegna le armi che aveva di fronte. Prese i kunai, li raggruppò e li ripose verticalmente in uno scomparto interno. All’accademia gli avevano insegnato come disporre ogni tipo di arma nel modo più convenevole. Lui dopo anni aveva tirato fuori dalla sua memoria quelle noiose lezioni. Kunai: verticali, anello verso l’alto. Shuriken: disposizione parallela. Spiedi: verticali. Tutto perfetto. Richiuse l’allacciatura.

Ora doveva solo superare la notte. Si alzò e appoggiò il suo bagaglio sul tavolo. Si diresse in camera. Nel breve corridoio si sfilò la maglia. Oltrepasso la porta aperta. La sua stanza era misera. Letto. Sedia . Armadio. Aveva rinunciato a comodino, scoprendo l’utilità del pavimento come luogo per appoggiare la sveglia.

Piegò con cura la maglia e l’appoggiò sulla seduta di paglia della sedia presa dalla cucina. Slacciò i pantaloni e se li fece cadere lungo le gambe. Pigramente alzò i piedi per toglierseli del tutto e poterli appoggiare sullo schienale, sopra la maglia. Tutto rigorosamente nero. Da tempo i colori vivaci erano stati abbandonati nel suo vestiario.

Due passi per arrivare al letto e caderci sopra. Un secondo per accorgersi di avere ancora il coprifronte addosso. Sbuffare. Slegarselo dalla fronte e tirarlo in qualche parte della stanza. L’Uzumaki conosceva la procedura a memoria. Prima di ogni missione faceva sempre così. Non era l’abitudine, ma l’inspiegabile necessità di seguire gesti prefissati la sera prima per avere la certezza del successo il giorno seguente. Naruto aveva sviluppato una ritualità scaramantica. Tutto iniziava con il preparare le armi e terminava con il non riuscire a dormire. Avrebbe passato la notte aggiustando la mira sulla porta del bagno, con qualche vecchio shuriken sdentato.

Disteso sul letto, allungò la mano sinistra sotto la rete. Riconobbe l’oggetto al tatto. Lo tirò su. Il sacco logoro tintinnava di un rumore metallico. Il biondo lo aprì quel poco, che bastava a far uscire uno shuriken, distrutto al punto giusto.

 

scusate per il ritardo...ho avuto dei problemi con la connessione.

grazie a coloro che hanno letto e che mi seguono ...e poi...

p_chan:  Grazie di aver recensito. Mi fa piacere che apprezzi la mia scrittura. Non faccio spoiler, ma la storie non è lunga come pensi, anzi.

 ilarione: Grazie.

Sarhita: Grazie. Avevo paura che fosse incomprensibile, ma l'effetto confusione è arrivato. Ne sono felice.

             

a breve il IV capitolo nous


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Capitolo 4
*** IV ***


ARANCIO IV

                   IV.

Sentiva il corpo pesante. Non più suo. La mente era altrove. Lontana dal tempo e dallo spazio. Era riuscito a scappare dal luogo della battaglia. Le sue gambe avevano retto fino al confine. Poi non c’era più nulla. Se ci fosse stato qualcosa d’importante se lo sarebbe ricordato. 

Aveva la certezza di essere ancora vivo. Mezzo vivo. Non sentiva nulla di sé, ma se sapeva di esserci allora era vivo. Doveva essere ridotto male. Piedi. Gambe. Braccia. Mani. Dita. Chissà se c’erano ancora. Non provava dolore. O era talmente messo male da non sentirlo più, o non aveva alcun motivo per avvertirlo. Il risvegliarsi senza avere alcuna nozione spazio-temporale, implicava sempre delle domande dalla risposta poco soddisfacente.

Nella peggiore delle ipotesi non era riuscito a fuggire. Konoha lo aveva preso subito; oppure, lo aveva raggiunto e riportato indietro. Lo avevano curato per tenerlo in vita per il tempo necessario ad interrogarlo, giustizialo e condannarlo.

Nella migliore delle ipotesi era riuscito a fuggire e qualcuno, vedendo  le sue condizioni, lo aveva portato chissadove e lo aveva curato. Se lo aveva riconosciuto, per riscuotere la taglia sulla sua testa. Se non lo aveva riconosciuto, per pura pietà.

 

 

Prendere la mira.

Respiro profondo.

Lanciare.

 

 

«Ti sei svegliato.» Soave voce femminile.

Tentò di cercare la fonte del suono con lo sguardo. Lei era fuori del suo campo visivo.  Cercò di voltarsi. A malapena riuscii ad accennare l’azione.

«Non ti muovere. Sei ancora troppo debole.»

Sentì i passi leggeri della donna farsi più vicini. Poteva avvertirla al suo capezzale. Inaspettato giunse un panno bagnato sulla fronte del guerriero. Contornò gli occhi. Il naso. La guancia destra , poi la sinistra. La bocca.

«Ricordi come ti chiami?» La stoffa umida stava massaggiando il collo.

«Sa…Sasuke…» le parole facevano fatica ad uscire. Sembravano anni che non apriva bocca. Sentiva la gola secca. La disidratazione gli impediva di parlare.

« Sasuke…E poi?»

« Sasuke…e basta.» La voce era rauca, come se il suono gli morisse in gola.

 La donna  sembrò comprendere il bisogno del suo ospite.  Allontanò il panno. Sasuke sentì lo sciabordare d’acqua. Lei si fece sopra di lui e gli pose la stoffa grondante sulla bocca. Il ninja bevve avido. Mai aveva avuto così tanto desiderio di dissetarsi.

 Mentre stava soddisfacendo la sua gola, la fissava.  Voleva capire le sue intenzioni.  Cosa si nascondeva dietro a quelle iridi verdi, che riuscivano a vincere i suoi occhi maledetti.

 

 

Centro.

Uno.

Due.

Tre.

Centro.

 

 

Abbandonato sul suo giaciglio, Sasuke sentiva le mani avorio della sua dama  addrentrarsi tra i suoi inestricabili capelli. Un tocco leggero e donatore di quiete. Dal basso la fissava e rinunciava a dare risposte a quei fastidiosi perché che tormentavano la sua testa.

 I crini d’ebano, sottili, piacevolmente profumati. Quei pozzi verdi dei suoi occhi. Quel disegno delle sue labbra. Nulla in quel viso era sovrabbondante, nulla era volgare. Tutto era armonioso e bello nella sua semplicità.  

Il guerriero guardava la donna quasi di nascosto per timore di poterle fare del male. Lei cercava i suoi occhi per  vedere al di là di quello sguardo imperscrutabile. Allora lui li socchiudeva. Lei rideva ed avanzava nell’esplorazione del corpo di lui.

Una mano fissa sulla chioma, l’altra scendeva  tra le cicatrici e il profilo del torace.

«Gli dimostrerai che la loro pace dipende da te?», il suo dolce massaggio si concentrò sullo sterno.

«Gli dimostrerai che la loro felicità dipende da te?», iniziò a punzecchiare la sua pelle con piccole scariche di energia.

 Sasuke  reclinò la testa inspirando.

Lei si avvicinò al suo orecchio. «Gli dimostrerai che la loro vita dipende da te?».

 Appoggiò la mano sul suo torace.

«Li ucciderai?».

Il ninja espirò.

«Moriranno tutti.»

La sua musa era lì, pronta a giacere accanto a lui. La sentiva continuare il gioco di dita sul petto e distendersi meglio alla sua sinistra. Si costrinse a non guardare i suoi occhi. Scrutava il soffittò combattendo contro il desiderio di rimanere incantato dal suo viso.

 «Loro ti hanno fatto dono dell’odio e della vendetta. Per questo si sono condannati a morte con i loro discendenti e i loro affetti. L’inganno verrà ripagato con l’inganno. Non vedranno nemmeno la loro fine.»

Il fiero Uchiha era cullato dalle parole della sua diva. Lei lo avrebbe guidato nell’odio e lo avrebbe riportato finalmente a vivere.

 

 

Centro.

Uno.

Due.

Tre.

Lo shuriken non si conficcò sul legno della porta. Cadde a terra.

 

 

Non si era mai posto certe domande. Non ne aveva avuto il tempo. Normalmente non si doveva provare piacere nel dolore. Ma lui ad ogni piccola scintilla di energia che lo trafiggeva era pervaso da un brivido d’eccitazione. Forse era lei che lo tranquillizzava. Forse era continuare ad odiare che lo rendeva diverso. La sua musa aumentava la forza di volta in volta. Quel gioco sapeva di violenza. Lui ne avvertiva la pericolosità. Il dubbio cominciò a formularsi nella sua annebbiata mente. Ma quando lei si adagiò sul suo corpo, immediatamente, ogni sospetto del guerriero di attenuò.

La delicata mano ferma sopra lo sterno. Le abili dita cominciarono a disegnare cerchi  sulla sua pelle. Sasuke sentì il torace avvampare. Se fosse stata solo eccitazione, si sarebbe lasciato torturare. Tutto quel che stata succedendo gli puzzava di morte. Nel disegno invisibile sul torace vedeva scorrere troppa energia. L’istinto di sopravvivenza fu più forte di ogni altro. Si tirò su. La prese per i polsi e la trascinò sotto di sè. Si trovava mantido di sudore. Per la prima volta la guardò fissa negli occhi. Lei sorrideva maliziosa.

«Che cosa mi hai fatto?» ringhiò lui.

Canzonò sicura,«Le mie parole e la mia bellezza sono state sufficienti ad ingannarti.»

Lui le strinse i polsi ulteriormente. Il grazioso volto di lei si tramutò in una smorfia di sfida.

«Chi giura vendetta non ha bisogno né dell’amore né della pace. Chi uccide per odio è già morto. Uchiha,tu non hai bisogno di vivere!»

La fanciulla concentrò tutto il chacra sul sigillo composto sul petto di Sasuke.

«Muo..»

Le parole le si strozzarono in bocca. Sopra di lei, quegli occhi rossi le stavano strappando la vita. Il ninja sentiva le pulsazioni del polso, che stritolava, perdere intensità e frequenza.  Sempre più lento. Fino a sparire. La sua musa era svanita.

Dall’alto poteva guardarla bene nelle sua maschera di paura. Era bella. Aveva un bel corpo, un bel viso. Probabilmente un bravo ninja. Probabilmente una persona che non desiderava altro che la sua testa. Per lui, era questo l’unico motivo plausibile per quel tentativo di condanna a morte.

L’inganno verrà ripagato con l’inganno.

 Si alzò dal corpo esanime.

«Strega…»

Mano al petto. Era riuscita a ferirlo. Sentiva il frizzare l’aria sulla carne viva. Non sembrava avere causato altri danni. Non sembrava essere riuscita a fare niente. Onore ed orgoglio erano già stati feriti abbastanza in passato, altri danni sembravano irrilevanti.

Sasuke si guardò attorno alla ricerca di qualcosa con cui coprirsi.  A terra giacevano i vestiti che si era tolto poco prima. Vi si avvicinò, li sollevò e li indossò. Aveva bisogno di uscire da quel posto. Di respirare aria vera.

Abbassò la maniglia della porta che lo separava dal mondo. L’anta si aprì silenziosamente. La oltrepassò e la richiuse alle sue spalle.

Si sarebbe aspettato di trovare  le stelle, invece vi era solo un lungo corridoio. Una nefasta luce arancione di torce che non c’erano. L’aveva già vista. Avanzava, ma il ricordo del luogo non veniva.

Una leggera emicrania. Una lieve pulsazione della tempia destra. Si portò la mano a massaggiare la parte dolorante. Evidentemente non era ancora abituato ai nuovi poteri. Abbassò lo sguardo quasi a difendersi da  quella luce improvvisamente fastidiosa. Non si sarebbe fermato che qualche secondo per quel disturbo.

Riprese il passo e lentamente alzò il capo. Si bloccò. Boccheggiò tra l’incredulo e lo spaesato. Due fari. Due bulbi fiammeggianti. Due enormi occhi rossi lo stavano fissando. Non potevano essere davanti a lui. Non ora. Non nuovamente.

Sentì la ferita fresca ardere. Il corpo gli stava prendendo fuoco. Quello sguardo lo stava divorando. Il dolore alla testa era ingestibile. Tutti i pensieri tornavano a galla e si confondevano. Quell’immonda creatura giocava con le sue sinapsi. Quel demonio doveva essere altrove.

 Crollò in ginocchio a terra. Si afferrò la testa tra le mani.

Non gestiva le memorie. Ogni ricordo veniva estratto dal suo subconscio. Ogni barriera veniva valicata. Il mostro sotto il suo letto era venuto a prenderlo. Era uscito. Non sarebbe bastato urlare Onii-chan nel cuore della notte. Itachi non c’era.

Cominciò a ondeggiare con il busto. Le braccia ad avvolgere il torace. Avanti. Indietro. Avanti.

Itachi non sarebbe venuto.

 

Shuriken terminati.

Buona notte.

un leggero richiamo alla storia biblica di Giuditta...

grazie

nous

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Capitolo 5
*** V ***


arancio V

 

V.

Per una vita ti insegnano cosa devi fare e come lo devi fare. Ti insegnano a seguire uno schema prefissato. Un qualcosa che c’è e che non si vede. Uno schifo di vita, in uno schifo di mattina.

Naruto voleva ignorare l’immagine riflessa sullo specchio del bagno. La luce alogena e la pelle di un’innaturale tonalità verdognola. Il fusibile ancora freddo e il sole ancora spento. In quelle prime ore del giorno, simili a tante altre, portava i segni di una notte dal sonno disturbato. Ravvivarsi i capelli, legare il copri fronte. Spegnere la luce uscendo dal bagno. Prendere la bisaccia e agganciarla. La solita routine che Naruto odiava, eppure non sapeva farne a meno. Perché sapeva, o meglio sentiva, che se solo una volta fosse uscito da quello sistema, che gli si era creato attorno, sarebbe caduto. Il suo equilibrio era nato perdendo l’avventatezza dei suoi anni. La battaglia, che lo aveva fatto cambiare, la stava ancora combattendo. Costantemente in allerta contro la sua realtà. L’Uzumaki aveva un nemico, un solo nemico da cui temeva la morte: il se stesso in cui lo avevano fatto diventare.

Uscì di casa, senza nemmeno inchiavare. Dentro quelle mura non vi era nulla di interessante, in più nessuno sarebbe mai voluto entrare lì dentro, eccezione fatta per Sakura. Il biondo non si curava dell’interesse che la compagna nutriva nel fargli le pulizie. Quella ragazza era la persona più vicina quando voleva ognuno lontano. Stava lì e cercava di avvicinarselo e lui freddamente la respingeva. E dire che l’aveva desiderata a lungo. E dire che lei lo aveva desiderato a lungo. Lui ora era simile a quell’altro lui.

Come un’ombra si aggirava tra le vie avvolte nel gelo mattutino. Ovunque il silenzio, lo stesso che si respira nei cimiteri. La notte era il regno degli avi di Konoha. La città che cade e risorge. La città che non dorme mai.

Naruto sentiva su di se gli occhi nascosti degli Anbu, ma continuava a sfrecciare come il vento, ignorandoli. Davanti a lui solo il profilo delle porta principale. I passi che si rallentano fino a interrompersi davanti al blocco delle sentinelle.

Con un gesto meccanico, estrasse dalla tasca i permessi redatti dall’Hokage. Non li sfiorarono nemmeno, bastò il nome di Kakashi a farlo passare. Quanta fiducia in un semplice nome. Se fosse stato lui la guida di Konoha, altri avrebbero avuto fiducia nel prossimo semplicemente leggendo la sua firma su un foglietto.

A passo lento oltrepassò la monolitica costruzione. Se avesse voltato il capo avrebbe ancora visto l’amico con lo sguardo perso, le macerie e quell’ultimo incontro. Naruto, nelle mille e una volte che aveva lasciato il villaggio in quegli anni, non aveva mai avuto la forza di compiere quel gesto. Guardarsi alle spalle per vedere quello che stato era troppo doloroso e lui era un debole. Andare avanti sempre e comunque. Ingoiare il rospo e con il groppo alla gola non confidare nel passato.

Erano compagni. Erano amici. Erano fratelli. Erano nemici. I migliori nemici che potessero essere. Perché rivaleggiare implicava conoscersi e ammirarsi. Provare invidia per l’altro e tentare di superarlo. Sia lui che Sasuke avevano imparato a dire addio per inseguire la propria strada. Naruto comprendeva che la sua strada si era interrotta, o aveva subito una lunga deviazione.

Nel bosco soffocato dalla nebbia ogni pensiero si faceva ovattato. Non era mai stato riconosciuto come un grande pensatore, ma quel silenzio e quell’atmosfera gli strappavano dal cuore le più belle e tristi riflessioni mai uscite dalla bocca di uno shinobi. Da solo, nel vuoto del salto, il ninja pensava che il villaggio avesse tradito lui.

 

 

L’aria densa del mattino gli fece aprire gli occhi. Il gelo, che da terra gli penetrava nelle ossa, lo fece alzare. Poi la fame. L’odore della brace. Il ricordo di una cena lontana.

Sasuke sentiva l’aria umida del mattino scivolargli addosso. Non sentiva particolarmente l’esigenza di cibo.

Si sentiva bene, in pace con il suo mondo.

Tutto quello che c’era stato e tutto ciò che non era mai avvenuto, era passato. Non gli importava. Un nuovo giorno, un nuovo inizio, dopo il caos. Aprire gli occhi e riconoscere la realtà. Ciò che è vero si distingue da ciò che non lo è. Sasuke non aveva la certezza di ciò che era stato e quando. Il tempo aveva perso consistenza davanti all’ombra della sua vita. Un Uchiha che non sa più come vivere il suo nome. Disperso in un bosco dove gli anni durano secondi e tutto perde senso.

Sasuke  non aveva capito nulla. Non sapeva se darsi dello stupido od elogiarsi della sua genialità. Era stato uno stupido, ma era stato eccezionale nell’essersi accorto di quanto si fosse  mosso bene in quel ruolo. La superbia e la stupidità sono compagne. Se gli altri erano stati esseri inferiori, lui era inferiore a tutti. Non era stato capace di riconoscere la mano che il suo vecchio mondo avrebbero potuto tendergli. Ma andava bene così.  

Ormai aveva visto tutto, quello sguardo lo aveva portato lontano. E andava tutto bene.

 Una scintilla di fuoco, frammenti incandescenti, che come lucciole, si alzano dal braciere, per poi spegnersi. La vita del guerriero era quella. Ora che galleggiava nella aria aveva la certezza che presto il contatto con la terra l’avrebbe spento. Il campo di battaglia era la tomba degli shinobi.

Camminava vicino la riva del fiumiciattolo. Non aveva una meta precisa. Non un luogo dove andare.  Seguiva l’acqua a ritroso addentrarsi nella vegetazione selvaggia.

 

 

Fratellino ti sei perso nel bosco?

Hai gambe per saltare e polmoni per respirare. Corri. Lascia per i rami secchi ti graffino la pelle. Lascia che l’aria ti si scontri addosso.  Se ti fermi sei morto.  Nessuno qui è pronto a spingerti. Nessuno ti salva. I grilli scappano al tuo passaggio. Le mosche volano via.

Sei entrato nel bosco. Sei partito con l’intenzione di andare a caccia. A caccia di cosa?

 Di una preda, un’illusione, un’utopia, un sogno, un’idea. È una persona quella che vai inseguendo?

 Per cosa sei entrato nel bosco, per inseguire l’immagine che hai di quell’individuo…

Salta. Più in alto. Fino a raggiungere la volta degli alberi. Non restare fermo a guardare. Se riesci mantieniti sempre in moto. Le gambe possono riposare ma tu devi continuare a procedere. Lontano. Il limite non è stabilito.

 E dopo che avrai trovato l’idea inseguita, che farai?

La ucciderai e ti ciberai delle sue carni. Allora sarai tu a scappare dai ricordi. 

La lascerai scappare. Allora continuerai a vagare nel bosco scappando e inseguendo. 

La ignorerai e passerai oltre. Ti sei già fermato.

Fratellino, ti sei già perso!?

 Il bosco è grande e inghiotte tutto. Il bosco non attende che altri corpi per rinnovarsi. Tu lo sai: la terra reclama i suoi figli. Elementi chimici che rinnovano il mondo. Un giorno anche tu tornerai a casa.

Sono io, fratellino, l’incubo che devi inseguire?

 Se sì, io non scappo. Correrò con te che mi cerchi. Sarò l’ombra dei tuoi passi e la gioia dei tuoi tormenti. Un ricordo che ogni giorno perde di consistenza.

 Ho visto le stelle cedere posto all’alba e tu hai guardato con me il sole morire all’orizzonte, anche lui inseguito dalla notte. Il buio rincorre la luce, poiché coesistono e senza l’una non esiste l’altro. Corrono insieme , come noi due.

Il bosco finge di essere immobile e vede tutto passare. Ha visto anche te. Ha riso.

Fratellino, sei tu il mio vero nemico?

O sono io il tuo?

 Il sangue non crea fratelli. Siamo diversi, ma non siamo mai stati così simili. Fratello. Quello che ci unisce non si vede.

Fratellino, sei mio amico?

Vuoi uccidermi tu?

 Sono stanco e ho bisogno di qualcuno di cui mi fido. Non voglio più sentire i discorsi della gente. In quel bosco di persone mi sono già perso. Da quel punto non ho più ritrovato la strada.

Fratellino, siamo pronti a lasciarci alle spalle i sogni?

 Vivremmo per nulla, forse ci basteranno i ricordi. Sarà un rassegnarsi e perdersi. Ma nulla è perfetto. Se sei entrato nel bosco, te ne sei già accorto. Credimi nulla è più bello e deprimente di inseguire una chimera.

È giorno e poi sarà di nuovo notte.

Fratello, amico, compagno, ma soprattutto, nemico, prega per me.

 Che la fine di questo mio viaggio sia piacevole.

egregi signori che per sbaglio seguite questa storia mi scuso per il ritardo, impegni vari mi hanno impedito di avvicinarmi al pc e dunque inviare.

ringuazio la  fedele p_chan che ha recensito gli ultimi due capitoli , nonchè una mia storia originale, il che mi ha fatto molto piacere. grazie mille p_chan!!!

 

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Capitolo 6
*** VI ***


arancioVI

VI.

Cosa è un ninja se non un mercenario. Dov’è l’eroismo nell’essere un assassino?

Dal suo nascondiglio fissava il suo obiettivo, come un cacciatore che ha trovato la sua preda. In quell’appostamento, Naruto non trovava giustizia. L’attesa mancava di adrenalina, non c’era nulla che annunciasse uno scontro. Nulla. Forse quell’uomo sarebbe caduto a terra e basta. Morendo non si sarebbe accorto che la sua vita stava finendo.

Aveva sentito dire che prima di morire si rivive tutta la propria esistenza, ma non vi credeva. Se il biondo fosse morto in quel momento, pensava, avrebbe maledetto il suo nemico. Se la sua vita finisse in quel momento non l’avrebbe rivista come un vecchio film, con le lacrime agli occhi e la nostalgia nel cuore. No. Sarebbe morto. Fine.

Dubitava che dopo la morte ci fosse qualcos’altro.  Aveva idee confuse a riguardo. Pensare che la sua anima potesse vagare su questo mondo senza un corpo era una fantasia. L’essenza dimora nel corpo. E finito il corpo rimane il ricordo. Poi non dovrebbe esserci altro.

Ma era un ipocrita e lo sapeva. Anche se non ci fosse stato nessun dopo, lui regalava una morte rapida: aveva paura di lasciar al nemico il tempo per maledirlo.

Dalle fronde vedeva chiaramente i movimenti di quell’uomo. Era ancora lontano, proseguiva incurante lungo il sentiero che costeggiava il fiume.  Cosa avesse fatto, a Naruto non era dato sapere. Era un uomo scomodo, per questo un signore lo voleva morto. Era un assassinio scomodo, per questo avevano chiamato lui. Era un mercenario, nulla di più.

Leggeva il quel passo cadenzato tranquillità.  Più si avvicinava, più se ne convinceva. Vedeva  sul volto del suo obiettivo la quiete di chi non ha nulla da temere. Ciò lo turbava. Perché quell’uomo non aveva le sembianze di un ladro, di un traditore, di un truffatore o di un assassino. Sembrava un uomo con una famiglia a casa. Una persona rispettabile e ben voluta da tutti. Ma quelli non erano discorsi da farsi. Quell’individuo doveva morire.  D'altronde anche lui era un assassino e non lo dava a vedere.

Scrutò ancora quella faccia alla ricerca di qualche increspatura che rivelasse le sue intenzioni. Ma quello camminava.

La morte doveva essere talmente veloce da non rompere quella sacra quiete.  Aprì la bisaccia e estrasse un kunai. Attese. Una statua nel fitto del bosco.

Un istante preciso per far scattare  fulmineo il braccio in un gesto pulito. 

Il suo obiettivo aveva seguito le previsioni del ninja. Era passato incurante davanti alla sua postazione, lo aveva sorpassato e dato le spalle.

Per tutte le abilità che quell’individuo avesse dimostrato per essere giustiziato a morte, a Naruto non pareva che un semplice uomo. La katana che portava alla vita, a mo di samurai, gli sembrava più una vanità, che una necessità. Aveva imparato a dare nobiltà al proprio nemico per non sentirsi un vile cecchino. Ed ora, a missione finita, gli balenò il dubbio che l’uomo, con il kunai conficcato alla base della nuca, sapesse già della sua morte e la avesse accettata stoicamente.

A questo punto sarebbe potuto scendere e controllare che effettivamente ci fosse un cadavere dinnanzi a lui. Chissà se quel presunto samurai, con la katana legata alla cintola e il bel vestito, avesse imparato a morire nella quiete in cui era vissuto. Quel corpo era caduto a terra senza un rantolo ne uno spasmo. Naruto leggeva eleganza in quella morte silenziosa.

Aveva gli occhi ancora aperti. Una sorta di antico rispettoal ninja impediva  di voltare il cadavere. Non voleva guardarlo in faccia oltre quel vago profilo che ne percepiva. Nella sua quiete probabilmente faceva finta di respirare polvere.  Sarebbe stato inutile scavare una tomba per uno sconosciuto, sapendo che  avrebbe dovuto lasciare il corpo al bosco, in bella vista a far dar monito ai viandanti. Il signore voleva che alle sue vittime non fosse dato il riposto della terra. Forse più tardi degli scagnozzi sarebbero passati e avrebbero fasciato quei resti di bombe carta e li avrebbero fatti brillare. O altro. Il suo compito era finito lì.

«Ti lascio il kunai.»

Si congedò dal caduto e si inoltrò tra la vegetazione.

Nonostante il suo unico compito fosse stato svolto alla perfezione, avvertiva un forte senso di insoddisfazione. Un vuoto allo stomaco che raffreddava il sangue e pretendeva che le gambe andassero più veloci. Un ritmo più incalzante. Puro vento tra gli alberi. La tuta nera che aderiva come seconda pelle al corpo a causa nella velocità.  Essere più rapido del proprio flusso di pensieri. Sfidare la logica del cervello e seguire l’istinto delle viscere. Solo per far sparire quella sgradevole sensazione che avrebbe finito per annullarlo. Inseguire qualcosa che non c’era, un obiettivo che era già stato oltrepassato.

Un rovo gli graffiò la guancia, ma non si accorse di un segno in più. Sentiva di dover correre e seguire quel senso d’instabilità che gli dava la terra appena toccata dai piedi che solcavano più l’aria che il suolo.

Correva fino ad annullarsi nel bosco, fino a perdere ogni concezione di se, fino a regolarizzare il proprio respiro con quello che vi era attorno.

Lui non era più Naruto Uzumaki.

Lui non era più il ninja eroico di Konoha.

Lui non era più colui che avrebbe portato avanti il sogno di chi non c’era.

 Lui era solo vuoto da colmare.

Lui era un uomo in stato vegetale.

Lui era un dipinto venuto male.

Lui era un libro che non valeva la pena di essere letto fino alla fine.

 Lui era il fratello che non si era riuscito ad uccidere.

Ora, il ragazzo, voleva solo correre fin dove le gambe lo avrebbero portato. Se necessario al di là del bosco, dell’orizzonte, delle nubi, della sua vita.

Correva, perché correre in quel momento, pareva dare senso a tutta la sua esistenza.

Era l’istinto a dire che forse in quella direzione c’era chi aveva dato per perso. Si aspettava che appena superata quella fitta barriera di alberi avrebbe visto la sua prepotente aria da ragazzino snob. Era naturale ricostruirselo mentalmente con tutta la superbia del passato. Con tutto l’egocentrismo degli anni  in cui ancora erano compagni.

Dietro quell’ultima cortina di alberi, nella luce che filtrava ad illuminare una piccola radura, Naruto  credeva nel ragazzino del passato.

Invece non vi era altro che erba. Tutta lo splendore del sole allo zenit non ha il potere di illuminare un’illusione vinta dalla più cupa delusione. Naruto aveva avuto l’impressione che lui lo stesse chiamando, che lui fosse sempre stato lì a chiamarlo. Ma in quel luogo non vi era nessuno. Sarebbe stato più semplice se fosse morto, se fossero morti insieme anni prima. Entrambi si sarebbero rassegnati alla loro inconciliabile solitudine. Invece lui continuava segretamente a sperare. Non era una questione di orgoglio ferito, ma una ricerca necessaria come quella d’aria. Sperare segretamente che il suo compagno camminasse ancora tra i vivi. Il nome Uchiha era morto con Madara. Nessun comunicato parlava più di lui. Anche i villaggi ninja si erano dimenticati di volerlo morto.

Il vento gli stava scombinando i capelli biondi. Appena ritornato a casa li avrebbe tagliati, pensò.

Si era fermato su limitare del bosco e si guardava attorno cercando la ragione che lo avesse condotto lì. Un fantasma.  Sentiva la presenza. Ma forse era solo un ricordo che si trascinava dentro. Attorno a lui vi era solo vegetazione, un muro nero d’alberi che lo osservavano.

Sapeva che non era solo. Non si sentiva in pericolo. Se ne stava là, imbambolato come un pivello, a dare un nome alle ombre. Si muovevano con il vento. Avanti. Indietro. Ritmicamente.

La pace di quell’uomo abbandonato lungo la via, la pace eterna dei morti era il respiro della terra. La sentiva salire dai piedi. Il desiderio di movimento era morto. A quel punto, forse, non c’era nemmeno la necessità di fare ritorno. No, non c’era. Lui voleva stare fermo a godere di quella danza di ombre. La pace che tanto aveva cercato di raggiungere era tutta lì. Le promesse che non aveva mia mantenuto stavano tutte lì.

Naruto provava una sensazione troppo grande per avere un nome. Un fulmine che attraversa tutto il corpo e che fa venire i brividi lungo la schiena. Qualcosa che secca le labbra e azzera la salivazione. Era come sentire gli organi cambiare disposizione. Era un po’ come  quello che si diceva dell’amore, solo che non lo era.

I ninja non devono essere confusi. Un bravo guerriero non deve esternare le proprie emozioni. Si deve essere impassibili e lasciare che dentro bruci l’inferno. Bisogna crescere per scoprire che non si sa più piangere, come quando si era bambini. E il biondo quelle lacrime di gioia le avrebbe fatte cadere a terra se solo ne fosse ancora stato capace. Quello spettacolo, quel piacevole malessere interiore valeva più della rabbia e del dolore. Pareva più efficace del benessere di un intero villaggio. Ciò che riappacifica il tormento del cuore non aveva valore. Per quanto poteva essere da egoisti, l’Uzumaki, davanti a quell’ombra che emergeva dalle altre, avrebbe rinnegato la sua nazionalità. Avrebbe voluto urlare, strapparsi i capelli, saltare. Ma gli anni gli aveva portato via tutto. Forse nulla era sparito e quello che Naruto sentiva dentro era solo confinato nella scorza dell’eroico shinobi che gli si era calcificata addosso.

grazie a tutti

(lode a p_chan)

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Capitolo 7
*** VII ***


arancio VII

 

VII.

Se in quel mare di buio ci fosse stato anche solo il ricordo di quell’assurdo personaggio, Naruto sarebbe stato quasi felice. Ma lì forse c’era più di un’immagine sfuocata. Era lui. Era quell’animale strano e superbo. Il silenzio del suo avanzare, quell’abilità ninja di non farsi sentire.  La leggerezza di chi ha imparato a non avere peso e con non curanza fa finta di non esistere.

Il sensei gli aveva insegnato l’importanza di sapersi muovere il più silenziosamente possibile per non compromettere le missioni e farsi notare dai nemici. Sasuke lo aveva appreso molto velocemente. Sasuke era bravo a concentrarsi. Naruto  lo ammirava segretamente per questa sua capacità, lui aveva difficoltà ad assimilare gli insegnamenti di Kakashi. Era stupido. Per quanto fosse forte e coraggioso, gli mancava quel qualcosa in più che il suo compagno pareva possedere. E se adesso credeva  che chi avesse davanti fosse un dannato idiota, riteneva di non aver ancora raggiunto quella naturale abilità del suo nemico.

Riconosceva i profili umani dell’ombra e sapeva che nome assegnargli. Si era immaginato, qualche volta guardando il loro vecchio campo d’allenamento, quale forma il corpo del compagno avesse assunto. L’ultima volta che lo aveva visto era diventato un uomo come lui. Un demonio non tanto diverso da lui. Quel sorriso e poi la mente non ricordava altro.

I raggi solari leggermente delineavano la fisionomia di quel traditore. Ma quella luce sembrava perdere intensità su quell’essere.  Naruto pensava a quanto potesse essere cresciuta l’oscurità nell’altro. In quell’uomo non vedeva più il diavolo che lo aveva reso un eroe, non vedeva il compagno di un tempo. Quello sembrava un Sasuke diverso da tutto ciò che era venuto prima. Una persona completamente differente da quella che aveva vissuto nella memoria del biondo. Il tempo era passato e li aveva cambiati. Forse nemmeno l’Uzumani era quello di anni prima. Forse ,senza rendersene conto, era talmente cambiato da far sorgere il dubbio negli altri che fosse veramente lui. Erano diventati entrambi uomini, entrambi adulti, entrambi si erano affossati lungo quel percorso che così dolorosamente si erano scelti.

Quel Sasuke si fermò.  La luce del sole non era abbastanza forte per illuminargli il volto. Naruto, però, ne poteva scorgere l’incuria. Forse gli salì alla gola la nostalgia del vecchio compagno. Incredulo davanti  a quel corpo, avrebbe voluto scattare e dargli un pugno in pieno viso. Sentirsi insultare ancora,  come in un piacevole incubo in cui tutto si svolge come nel passato. Ma non riusciva a schiodare i piedi da terra.  Era l’oscurità di quella maschera scavata. Un contenitore di risentimento ed odio che era stato logorato da dentro. Non provava più invidia. Non aveva senso provarla. Non sentiva nemmeno pietà. Sasuke non avrebbe voluto.

Ad una decina di passi da lui vedeva quell’ombra aprire gli occhi. Sarebbe stato meglio che li avesse tenuto socchiusi ancora un poco. Il tempo necessario perché Naruto distogliesse lo sguardo e non potesse leggere il vuoto di quelle iridi insanguinate. 

Se solo avesse voluto, Naruto sapeva,  l’Uchiha avrebbe potuto farlo sprofondare nelle sue illusioni. Nessuna sarebbe stata eguagliabile alla visione del cadavere dell’amico, forse, mosso ancora dal rancore.

Aveva già visto quello sguardo,ne aveva già visto uno simile. Era a casa di Sakura. Non ricordava nemmeno più il motivo. Sopra la mensola vi erano delle bambole. Avevano quegli occhi vitrei, imperscrutabili. Occhi che portano dentro un’immensa tristezza senz’anima. Sasuke aveva rubato gli occhi ad una di quelle donnicciole di porcellana.

Era solo un fantasma senza tomba quello che aveva davanti, solo uno spirito maledetto che vagava per il bosco. La fattura che qualche nemico gli aveva lanciato prima di spirare.

Quella visione, però, era così reale. Non aveva la consistenza dei sogni ma l’odore di terra umida della realtà.

«Teme…».  Sussurrò con un filo di voce, aspettandosi di riceve come risposta dobe.

Non ci fu alcun fiato. Sasuke stava impassibile. Solo in capelli erano in movimento, scossi da una leggera brezza che aveva iniziato a far frusciare le foglie.

Il biondo si ritrovò di nuovo ad avere quel maledetto groppo alla gola. Aveva anche gli occhi lucidi, se qualcuno glielo avesse chiesto era colpa del vento e non della nostalgia di quegli insulti. Lui non era il tipo da piangere, non davanti ad un Uchiha. Non davanti a quel bastardo di Uchiha.

Abbassò la testa, stringendo i pugni. Raccolse la forza e riempì i polmoni d’aria. «Teme! », urlò con la voce rauca di chi trattiene a stento il pianto.

 

Teme, una parola da tempo taciuta. Il teme era lui. Il siparietto mai concluso di quei fraterni insulti. Nemmeno sta volta lui avrebbe risposto. Non ne aveva voglia. Non aveva la voglia di soddisfare quella tempesta che gli offuscava la mente. Non avrebbe dato una conferma al passato. Era stanco di quello strano gioco. Un passo avanti e due indietro. Come se gli fosse impossibile procedere. Ed inevitabilmente non restava che fermo sulla sua posizione.

Teme. Avrebbe dovuto tirargli un pugno. Ma che senso aveva colpire l’aria. Forse ancora stava sognando. Perché lui non si sentiva vivere. Non aveva una ragione d’essere, non un motivo per muovere il prossimo passo.

Konoha.

«Konoha…». Un impercettibile schiudersi delle labbra.

La faccia lamentosa del dobe davanti a lui sgranò gli occhi. Era nella sua testa, logicamente aveva sentito.

Doveva essere distrutta.

Perché quell’idiota continuava a guardalo meravigliato, quasi speranzoso. Non aveva sentito!?

Sasuke Uchiha  aveva distrutto, o doveva distruggere, Konoha. Non se ne ricordava. Aveva in mente le macerie di qualcosa. Casa sua. Un covo nascosto. Un villaggio. Era confuso.

Non c’era un luogo a cui fare ritorno, ma quella fastidiosa voce gli chiedeva di tornare. Più cercava di isolasi, più quella tampinante presente lo assillava. Naruto era sempre stato decisamente fastidioso.  Era un tarlo che gli divorava le sinapsi. Che gli faceva nascere dentro una rabbia profonda. Perché lui non era mai stato come il biondo. Preferiva morire, invece che mostrarsi debole. Solo odio. Konoha non esisteva più. Quel petulante essere doveva rassegnarsi. Non ci sarebbe mai stato un ritorno.

 

Quella maschera di ghiaccio portò il suo sguardo spento sul ninja biondo. Naruto rabbrividì, pronto per essere catapultato di una strana dimensione. Ma non sentì nulla. I suoi piedi erano ancora saldamente ancorati a terra. Sentiva il vento sputargli in faccia. Era lì, davanti a lui stava Sasuke. Tutto qui. Davanti a lui stava quello che era Sasuke. Non rammentava quel compagno dall’aria assente. Ora quelle biglie rosse puntavano lui.

Naruto si ricompose. Cercò di dare un contegno al suo volto. Si lisciava la maglia nera e si immaginava la reazione di Sakura al suo posto. Sarebbe scoppiata a piangere, come l’ultima volta. Si sarebbe bloccata. Gli occhi le si sarebbero riempiti di lacrime. Poi le mani alla bocca, per soffocare le emozioni. Con le prime stille anche lei sarebbe caduta a terra, con poca eleganza, atterrando sulle ginocchia. Avrebbe continuato a piangere, a testa china. In preghiera davanti all’icona del suo primo amore. Il grosso difetto della compagna, era che ragionava ancora come una donna e non come un ninja. Per questo lui era l’assassino e lei il dottore.

Sasuke, davanti all’addolorata non avrebbe reagito, sarebbe rimasto inespressivo, come ora lo era davanti a lui.

«Non credo che ora abbia senso riportarti al villaggio.» Disse in risposta al sussurrò dell’altro, con il tono serio di chi non ha più voglia di scherzare.

« Non ha più senso portati al villaggio.» ,distolse lo sguardo su un frammento di cielo,«Non ho voglia di sprecare tempo a convincerti a tornare per poi farti giustiziare.»

Abbassò lo sguardo analizzandosi le nocche della mano destra. C’era una vecchia cicatrice. Perse tempo attendendo una qualche reazione del suo interlocutore. E dopo quel nulla, diresse le iridi, ancora un poco lustri, sul moro, interrompendo la pausa.

«Tu, vuoi per caso tornare?»

Il silenzio rispose.

«Come immaginavo. Sai, neanche io ho voglia di tornare». Detto ciò, mise le mani in tasca e si mosse di qualche passo.

 

Il Naruto della sua testa era diverso dal vecchio Naruto. Gli venne il dubbio che quella fosse già la realtà e non fosse più parte del sogno. Forse quei suoi occhi lo avevano fatto impazzire e lo aveva spinto dove non si può più tornare indietro. Forse sarebbe bastato aprire bocca e provare a parlagli. Sentiva che doveva distogliersi da ciò che il suo cervello supponeva. Stava giocando una partita con la sua mente. Ora sentiva il dovere di scontrarsi con la realtà per toccare quanto fosse vera.

«Stai rinunciando al villaggio?». Si accorse di avere una voce raspante. Da quanto tempo non parlava. Non sapeva più che suono producesse la sua gola scossa dall’aria.

Il suo interlocutore nemmeno lo guardò. «Forse».

Quella non era la realtà. Il dobe non avrebbe mai asserito ciò. Sasuke si stava domandando in quale perversa illusione fosse caduto. Non gli era mai capitato di rimanere così lucido e consapevole.

 

«Perché continuate a tormentarmi?»Naruto potè notare come l’espressione di Sasuke si increspò. Un alone di ira ed esasperazione.

«Cosa!?»

«Perchè?», ruggì il moro. 

Naruto era visibilmente sorpreso da quell’inaspettata reazione. Avrebbe voluto chiedere il motivo di quella domanda. Venendo il nukenin riprendere fiato, nel vano tentativo di ritornare inespressivo, si trattenne.

«Perché anche tu?»

«Ma di che cazzo stai parlando?»

«Ti diverti Kyūbi. Il tono della voce del moro era di nuovo alterato. Il biondo lo vide guardarsi attorno. Fare qualche passo per avere una visuale più completa. Aveva abbassato le spalle e flesso gambe, come se dovesse prepararsi ad un combattimento. L’unico con cui scontrarsi era lui, il suo vecchio compagno di squadra. Ma il moro non degnava il biondo della minima attenzione. Sorrideva con quel suo ghigno terrificante e con quei dannati occhi offuscati scrutava furente attorno.

«Ti stai divertendo Madara? Bastardo, ti diverte, vero!?». Urlava, come poche volte Naruto lo aveva sentito fare. E gli fece una immensa pena, perché il nemico che cercava era morto.

«Sasuke», era difficile non far trasparire quel disagio che provava dentro,«Madara è morto. Lo…lo abbiamo ucciso insieme.»

Il traditore si bloccò. Gli stava dando le spalle, spoglie e cadaveriche. L’Ukumaki non ricordava come fossero le spalle dell’amico prima di quel giorno. In quel momento Naruto non riusciva proprio a ricordare come fosse il suo compagno. Aveva sempre avuto quell’aria trasandata? Forse sì e lui da ragazzo non ci aveva mai dato peso. A Sakura non sarebbe piaciuto. Lei se lo sarebbe voluto portare a casa, come uno stupido cucciolo, gli avrebbe sistemato i capelli  proprio come ad una delle sue bambole. Era un pensiero assurdo. Ma in quel momento gli venivano in mente le galline che inseguivano il perfetto Sasuke. Perché Sasuke era bello. Perché Sasuke era forte. Perché Sasuke aveva quell’aspetto misterioso che alle donne piaceva tanto. Per lui era solo un pallone gonfiato, ma per le ragazze era diverso. Per loro era sempre tutto diverso.

«Già…è morto…». Flebilmente l’Uchiha interruppe i contorti ragionamenti del biondo. Seguì quella che al ninja parve come una risata. «Giusto…». Il moro si era di nuovo spento, atono.

 

«Di tanti ..non mi sarei aspettato proprio te»

«Nemmeno io»

«Per quale motivo…»

Naruto non capiva se doveva rispondere  o meno. Non gli sembrava una conversazione quanto un soliloquio. Se lui ci fosse stato o meno non importava. Non riusciva a cogliere i fili del discorso dell’altro. Desiderava rispondere per sentirsi meno estraneo. Il motivo della sua presenza non lo sapeva, lo sospettava, ma era più una sensazione che una certezza.

«Ho sentito che dovevo venire…»

«Come gli altri, sei venuto per vendicarti…»

«Credo di essere venuto perché ho sentito che mi hai chiamato, amico…». Non pensò minimamente a quello che disse. Amico!? Il Sasuke che conosceva si sarebbe tagliato un braccio piuttosto di farsi chiamare amico da lui. Si dannò , perché non era stato capace di dare peso alle parole e quello che ne era uscito era stato un discorso melenso e senza logica. Aveva risposto d’istinto, aveva detto male. Si aspettava una reazione da quel ragazzo di spalle, una qualunque.

Quello, invece di lanciarsi all’attacco, stava fermo in un’ascetica calma, come se le cose di questo mondo non gli importassero più. Naruto espirò rassegnato. Se non erano già passati alle mani, allora erano veramente cambiati.

«Madara…»ridacchiò facendo voltare il biondo, che incontrò il profilo indecifrabile.

«Cosa vuoi…amico»

L’ultima parola suonava distorta, quasi stridente marcata dalla voce dell’Uchiha.

Forse era da una vita che si aspettava quel momento, ma non sapeva come agire. Si era sempre immaginato uno scontro all’ultimo sangue. Quella sembrava più conversazione senza argomenti da trattare. Era snervante. Tutte le parole che aveva infilato mentalmente una dietro l’altra negli anni, gli erano svanite dentro. Tutto ciò che aveva programmato di fare si era annullato in quell’inattesa esigenza di parlare di Sasuke. In fondo lui non voleva nulla. Aveva serbato la speranza di rivederlo, ma ciò non giusticava la sua presenza lì.

Si morse il labbro inferiore,  come se il dolore lo facesse ragionare più velocemente. Naruto credeva di essere in quel luogo semplicemente perché doveva esserci. Cosa voleva non era certo di saperlo. In quel momento avrebbe voluto sfogarsi e basta, perché gli stava salendo l’agitazione e quel groppo alla gola non voleva scendere.

Il vecchio compagno era migliore di lui a parole. Lo era sempre stato. Come poteva parlare con lui, le loro voci non potevano avere la naturalezza di quelle di due amici che non si vedono da tempo. I nemici si possono sconfiggere anche a parole, ma si deve conoscere per cosa si sta lottando. Lui ignorava tutto. Sasuke agiva in solitaria, come unico compagno aveva il suo orgoglio. Gli avrebbe voluto dire quanto fosse stato doloroso saperlo irraggiungibile. Non ne aveva la forza.

Lo guardò, sperando di trovare nel volto dell’altro la risposta. Ma non era facile leggere in quel profilo. Ci sarebbero state mille cose che in quel momento avrebbe voluto dirgli, sapeva che non gliele avrebbe chieste mai. Non avrebbe mai riversato anni di preghiere e maledizioni. Non era sicuro che quelle domande che gli vagavano in testa avessero soluzione.

Sasuke, intanto, attendeva che il biondo aprisse bocca.

Dischiuse le labbra, attendendo che uscisse un qualche suono. Silenzio. Solo il gelo nel volto del moro. Naruto si sentiva trafitto da quello sguardo scarlatto, che non si distoglieva da lui. Se non avesse detto qualcosa sarebbe stato Sasuke a tiragli fuori le parole dal profondo dello stoamco.

«Sasuke…». Quelle iridi maledette chiedevano di continuare.

Sai Sasuke, non so nemmeno io perché sono qui.

 Naruto cominciò ad analizzare i suoi calzari.

Quel che è fatto è fatto e certo ne tu , ne io possiamo tornare indietro e cancellare tutto quello che è successo. Forse sarebbe bello, ma non sono del tutto scemo come mi credi, so benissimo che noi non possiamo essere più compagni. Sinceramente ora ti considero più amico di altre persone.

Erano sporchi di polvere. Non era sicuro che avrebbe avuto voglia di pulirli.

Anzi tu sei l’unico che io possa considerare un vero amico.

Trovava i suoi pensieri strani ed ingestibili. Si sarebbe morso la lingua pittosto che esternarli. Se dalla sua bocca fosse uscito uno di quei discorsi mentali, si sarebbe morso la lingua fino a farsela sanguinare.

No, noi siamo stati amici.

«…Noi siamo nemici ».

 

Sentite quelle parole, Sasuke si voltò completamente verso il biondo. Era strano, ma per la prima volta dopo tanto tempo l’aria aveva una consistenza. Le parole erano taglienti. Quella era una dichiarazione di guerra. Ed era bellissimo. L’Uchiha pensò che poteva riconoscersi bene nel ruolo del nemico. Lui era il nemico. Nemico del suo stesso sangue. Lui era il nemico che conosceva l’avversario e sapeva dare una nuova dimensione alla crudeltà. A lungo il moro era stato nemico di se stesso, ed ora se ne compiaceva. Se non lo fosse stato, non sarebbe mai assaporato questo momento. Non si sarebbe mai riconosciuto nemico.

Il biondo era il suo passato. Sasuke non stringeva nelle mani il proprio futuro. E questa era una debolezza. Si era dimenticato il suo obiettivo. Forse le sue gambe dovevano solo condurlo fino a quel luogo, davanti all’unico amico, a confessarsi nemici. 

L'odore acre dell'erba inebriò i suoi polmoni.

 
 

«Cosa voglio?»

Sai cosa voglio, Sasuke? Ho promesso pace e voglio ottenerla. Ma se non conquisto la mia pace non potrò mai portarla in questo mondo. Tu, bastardo, sei la mia piaga. Finché io e te non regoleremo i conti, io non saprò se avrò la forza di rendere giustizia in questo mondo.

Naruto, guardando il suolo, prese a camminare. Contava i passi che li separavano. Cinque. Sei. Otto. Dieci. Undici. Undici passi per stare di nuovo al fianco del proprio compagno. Le gambe pesanti come mai nella sua vita. Ma ormai era l’istinto che lo guidava e quella nuova ragionata avventatezza.

Sasuke continuava a guardare avanti. Attendeva una risposta.

 Si desidera una cosa solo quando non la si può più ottenere. Il ninja della foglia aveva paura di perdere per sempre l’occasione per far finire tutto. Era certo che esclusivamente loro conoscessero il modo per  trovare le ragioni delle proprie esistenze.

Un attimo eterno pareva poter decidere il senso del loro incontro. Immobili nel silenzio della foresta cullata dal vento.

 

Naruto sollevo il braccio, caricando un pugno.

Sasuke sentì la pressione sulla spalla. La mano chiusa del nemico. Calda di calore umano. Il vento prese vigore e spazzò via le incertezze.

«Battiamoci». Un sibilo nella ritrovata voce del bosco.

La stretta si sciolse ed il palmo aderì alla spalla nuda. Una spinta per allontanarsi ed oltrepassarlo. L’ululato dell’aria tra gli alberi lì spinse l’uno agli antipodi dell’ altro.

«Ti va?».

I due si fermarono. In piena contemplazione del proprio nemico. Naruto aveva espresso la sua volontà. Sasuke  sembrava avere silenziosamente accettato. Il cielo si muoveva sopra di loro. Le chiome danzavano. Le ombre si rincorrevano.

 

Naruto portò le mani alla nuca, sul nodo che reggeva il comprifronte. Con calma, gustando la sensazione di quella stoffa sotto i polpastrelli, lo sciolse. La fascia si allentò e gli scese di un poco lungo la fronte. Lo afferrò per una delle sue estremità liberate e se lo sfilò definitivamente, lasciando la chioma libera di essere torturata dalla brezza violenta. Quel coprifronte se lo era sudato, ma ora lo odiava. Fu l’adrenalina in circolo a fargli chiudere il pugno attorno a quella dannata piastra di metallo. Forse, fu l’emozione a fargli scaraventare quell’oggetto lontano, oltre le sue spalle.

Gli occhi cerulei si incotrarono con quelli vermigli. Naruto sorrise, come non faceva da tempo. Seguendo il suo avversario si preparò per combattere. Non si sarebbe mai aspettato che in un situazione come quella, lui fosse felice. In quel ghigno di sfida c’era tutto quello che aveva provato in quella lunga lontananza. Gioia. Dolore. Vendetta. Sdegno. Ammirazione. Rispetto. Invidia. Nostalgia. 

Era felice. Finalmente si sarebbero compresi, come solo loro potevano. D’improvviso quegli anni parevano non essere mai trascorsi.

 

Grazie a coloro che leggono.....

p_chan, mi tocca ringraziarti di nuovo...mi fa sempre piacere leggere le tue recensioni. grazie ancora....


saluti,
nous


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Capitolo 8
*** VIII ***


arancio vII

VIII.

 

Non ricordava il volto di sua madre. Una voce della lontana infanzia gli diceva che forse quella donna assomigliasse un poco a lui.

Segretamente, aveva conservato la foto di sé con i suoi cari sotto il cuscino per tanti anni, ma poi si era lasciato tutto alle spalle.  Aveva spiccato il volo. Le sue ali, via via, si erano fatte più forti. Ora potevano reggere lo scontro con il vento. Ora poteva sfidare le correnti con naturalezza, senza dover riflettere su come adattare il proprio corpo all’attrito dell’aria.

Era in picchiata. Un taglio nei venti. Le ali allineate al corpo. Lo sguardo vigile a contare i metri che lo separavano dal suolo. Una mare verde in cui tuffarsi. Sentire il fragore delle onde, che come sirene confondevano le idee.

Se ci si abbandonava a quel canto si affogava. Se non si aveva la forza di riaffiorare si perdevano  battiti.

Ma  la sua caduta libera non si poteva frenare. E giù. Sprofondare in un abisso smeraldo. Un abisso che era denso, come le speranze ed i sogni. Un liquido che lo vestiva, come le memorie.

Con quei suoi oceani verdi guardava il falco e rideva. Sapeva che non sarebbe tornato. Che non sarebbe riemerso. Quella sirena maledetta aveva tentato di ammaliarlo per poi abbandonarlo alle acque. Allora, per lui non era ancora giunto il momento di stringere le ali al corpo.  

Era veloce.

Incantevole si inabissava.

Il rapace aveva smesso di chiedere ossigeno. Non ne aveva più bisogno. Il suo essere si era adattato alla consistenza del verde. Volava in apnea nell’acqua. Solo lui poteva. Solo lui ne aveva la determinazione. I suoi erano polmoni d’acciaio.

Scendeva. Toccato il fondo avrebbe controllato sotto il suo vecchio cuscino, tentando di scoprire se qualcuno avesse toccato quel suo tesoro.

Lui era ancora piccolo e non si ricordava nemmeno lo scatto. Quella donna che lo teneva in braccio era la più bella che avesse mai visto. La madre che non avrebbe mai visto invecchiare.

Il padre da cui non sarebbe mai riuscito a farsi rimproverare. Nessuno sarebbe mai stato orgoglioso di come bene avesse imparato a volare da solo.

Lui era solo. 

Sotto il cuscino non avrebbe mai ritrovato quel sorriso materno e quella fierezza paterna.

Suo fratello non avrebbe più giocato con lui. Non avrebbe mai più sentito il calore della sua schiena.

L’acqua bruciava gli occhi. In quel mare di incertezze poteva distinguere le sue lacrime.

Forse quella foto sarebbe sprofondata con lui. Sarebbe rimasto il suo più grande tesoro. Sommerso.

Avrebbe continuato a tenerla nascosta  sotto il letto. Si sarebbe infilato sotto le coperte attendendo, a luce accesa, che suo fratello passasse davanti all'ingresso della sua stanza ad auguragli la buona notte.

Poi avrebbe spento la luce. Accoccolato in quel tepore avrebbe fatto finta di dormire. Ma intanto aspettava di sentire il passo leggero di quella donna lungo il corridoio. Il rumore della porta che veniva aperta.

Lui se ne rimaneva lì a far finta di dormire. Lei gli si sarebbe avvicinata.

Lui avrebbe solo fatto finta di dormire. Sentiva le coperte sollevarsi e riadagiarsi sul corpo, un po’ più su di dove erano.

Era bello sapere che lei gliele avrebbe rimboccate ogni sera quelle coperte.

Il calore di un bacio sulla fronte.

Lei lo avrebbe visto sorridere beato. Sapeva, che stava solo facendo finta di non essere sveglio. Teneva solo gli occhi chiusi. 

«Dormi, piccolo mio. Fa bei sogni!». Come era dolce e calda quella voce. Sarebbe stato bello potere stringere quel calore e portarselo dietro come un’ombra.

Come sempre, la mamma si sarebbe allontanata verso la porta. Da sotto le coperte, si era preparato a seguirla con lo sguardo stanco. Le spalle magre e quei capelli neri, scuri come i suoi. Lei era la donna più bella che avesse mai visto. Desiderava gustarsi la figura materna fino a che non fosse sparita dalla stanza.

Il falco era volato a lungo, aveva visto il sole sorgere e tramontare. Ora che scendeva la notte, doveva riposare le ali ferite dall’acqua.

Era giunto il momento di chiudere gli occhi, abbandonarsi a quel torpore e farsi cullare dal bacio materno.

Dormi, piccolo mio.

---

grazie,

nous

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Capitolo 9
*** IX ***


arancio IX

 

IX.

“Non ho voglia di aspettarti e non ho voglia di capirti.

 Perché per capire la realtà bisogna amarla e io,

 la realtà che tu vivi non la amo più.”

DAVIDE TOFFOLO, Pasolini.

 

La sera si stava infiltrando dentro di lui. Naruto, nell’incertezza del salto, avvertiva il freddo trafiggergli le ossa. L’aria era pungente. Forse solo lui la sentiva così. Non era stagione per avere brividi. Ma lui li aveva. Ed era come se il gelo nascesse da dentro e si espandesse a tutto ciò che aveva attorno.

Si domandava se fosse ancora vivo. Forse quella, che stava così meccanicamente percorrendo, non era la strada di casa, ma una via verso l’aldilà. Dritto verso un inferno in cui non credeva. Ma dal ritrovarsi a Konoha o davanti la faccia di un qualche dio, non cambiava molto. Ovunque i suoi passi lo portassero, lui non poteva cambiare ciò che era stato. La sua dannazione la stava vivendo. Vivo o morto che fosse.

Non provava dolore. La mente non era lì, solo il corpo c’era e sembrava non avere coscienza. Un automa che seguiva un percorso prestabilito. Le numerose missioni svolte glielo avevano impresso a fuoco nella parte più nascosta del cervello. Agiva senza volerlo. I piedi comandavano e il resto placidamente seguiva.

Il peso degli anni sulle spalle e la consapevolezza che nulla sarebbe mai stato lo stesso. Non per lui. Forse il mondo avrebbe continuato a girare e le persone ad amarsi ed uccidersi, ma lui non sarebbe mai stato più lo stesso. In lui la verità e la menzogna si erano unite. Da quell’immondo parto era nato quel freddo che sentiva dentro. Era colpevole. Il traditore della patria, dei compagni e degli amici. Lui aveva tradito in nome del fratello.

Erano simili ed immensamente diversi. Due corpi in collisione. Un’energia spaventosa e primordiale. Detriti del passato che si spargevano nel nulla che vi era attorno.

A volte si sentiva una marionetta nelle mani del caso. Sarebbe stato semplice non essere responsabile delle proprie azioni. Essere libero perché inconsapevole di essere schiavo.

Il cervello scollegato dal corpo, disperso nel bosco a rivedere quella successione d’immagini. Lui per cento volte era caduto a terra.

 Non si rialzava.

Di nuovo a mezz’aria, trattenendo il respiro. Saltare.

 La tensione. L’eccitazione. Pronti a lanciare il migliore colpo. Energia che defluiva dal corpo per concentrarsi in un unico punto. In un secondo la vita veniva decisa. Un lampo. Un bagliore ancestrale. Ancora una volta pronto a rimanere accecato.

La chioma biondo sporco si scuoteva per la resistenza dell’aria. Senza soffrire, procedeva verso la sua dannatamente amata patria. Gli occhi cerulei puntavano l’orizzonte, senza guardare nulla. Ceco continuava a farsi guidare dalle gambe.

Una afona deflagrazione. Spaventosa e distruttiva nella sua immensità. Non riusciva a capire se la sua mente riportasse fotogrammi senza suono, o se il certo boato gli avesse perforato i timpani, rendendolo sordo. Era stato scagliato lontano.

La terra ed il sangue raggrumato gli facevano da vestito. Il tempo gli era sfuggito dalle mani. Il sole era alto. Nella diapositiva successiva doveva essere in procinto di tramontare. Doveva riempire quel vuoto. Si era immaginato il suo corpo, come un sacco di carne, essere fatto rotolare per metri. Probabilmente era svenuto. Per questo aveva avuto quella sensazione  di ferro in bocca, quel calore tipico delle ferite profonde, quel malessere e stordimento che si prova dopo una botta in testa.

Konoha era sempre più vicina. Naruto era veloce. Era vento. Anche se i suoi pensieri si erano persi. Il suo corpo sapeva gestire lo sforzo. Forse non aveva più energie. Forse si sarebbe fermato pochi metri da casa. Lui non era lì e finché la sua mente non fosse rientrata in simbiosi con il corpo non ci sarebbe stata ne stanchezza ne dolore. Era una macchina. Una corpo senza anima. Un puro meccanismo che continua a funzionare senza il bisogna di qualcosa di intangibile che lo governi. I piedi dell’automa forse sarebbero affondati di meno nel fango. Se la sua anima fosse tornata, forse i rami si sarebbero rotti sotto il suo peso. Tutte quelle incofessabili colpe sicuramente erano  macigni.

Quel bastardo gli aveva affidato i suoi ricordi, i suoi errori e i suoi tormenti. Era bastato uno sguardo per ricevere in testamento quella sua maledizione che lo aveva tormentato tutta la vita. Ora il cuore condivideva un dolore mai rivelato. Ora Naruto sapeva cosa l’altro avesse patito. Ogni scelta porta a delle conseguenze, saperle accettare significa essere maturi. Poteva affermare che erano cresciuti troppo in fretta. Non avevano le spalle abbastanza forti per affrontare quella tormenta che li sconfiggeva dentro. Non avevano abbastanza forza per portare la maschera del guerriero imperturbabile. Erano fratelli. Avrebbero condiviso le loro colpe.

Sasuke era il traditore.

Naruto era il traditore.

Avevano disubbidito alla patria.

Avevano abbandonato gli amici.

Avevano combattuto il proprio fratello.

Sul cielo cominciavano a comparire le prime stelle. Quella sarebbe stata una notte senza luna. Una lunga notte rischiarata solo dalla luce fredda degli astri. Un meraviglioso tetto sotto il quale abbandonarsi al sonno. Perdersi completamente. Sognare. Vedere un altro sé ed il mondo che prende una piega diversa.

Sakura vedendolo arrivare gli sarebbe corsa incontro. Lo avrebbe abbracciato con le lacrime agli occhi. Era felice. Era stata preoccupata. Tutte le sua ansie sarebbero state sfatate presto. Alle sue spalle la ragazza avrebbe visto il suo antico amore. Sasuke era  di nuovo a Konoha. La squadra 7 era di nuovo completa. Si sarebbero fissati, tutti e tre, e avrebbero riso.

Naruto non poteva più sognare. Aveva versato il veleno della realtà sui suoi sogni. Il passato era morto da tempo. Tutte quelle promesse fatte a Sakura le aveva infrante.

Non c’era più nessuno da riportare indietro. Nemmeno lui doveva tornare. Nulla andava portato a casa.

Però la sua carcassa procedeva. Senza anima. Senza voglia. Non aveva l’esigenza di andare avanti. Lui doveva restare fermo. Lasciare che tutto il sangue rimastogli nel corpo uscisse a bagnare la terra. Il sangue andava pagato con il sangue. La vita glielo aveva insegnato. Il fatto che fosse ancora vivo, forse, era il segno che dovesse continuare a respirare. Morire ora sarebbe stato troppo facile. La sua punizione era vivere. Vivere per chi ora non c’era. Per chi non sarebbe stato più che un ricordo del passato. Un’anima destinata a vagare sulla terra senza una tomba a cui tornare.

Erano precipitati, come una violenta pioggia.

I corpi premuti a terra. La nebbia in testa.

Ogni muscolo, ogni osso dava dolore. Ma nulla sembrava rotto. Forse qualche costola. Mentre respirava aveva delle fitte. L’aria era pungente. Dolorosa. Un braccio non rispondeva. Tentò si sollevarsi con l’altro. Non aveva mia creduto che il suo corpo pesasse tanto.

Una volta sollevata la faccia dal suolo, sputò. Polvere, sangue, saliva: una poltiglia vermiglia.

Scrutò attorno. Quel paesaggio lunare, non poteva trovarsi in mezzo al bosco. Loro non erano più sulla terra. Quello era un sogno. Un incubo. Ma il sangue era reale.

Se fosse stato tutto un’illusione, la sua mente non starebbe passando in rassegna ad uno ad uno i frammenti di quell’improbabile film.

Konoha era talmente vicina da poter riconoscere i profili delle mura. Casa c’era ancora. Lui stava tornando fedelmente all’alveare. Lui non aveva volontà. Lui era un’ape. Era destinato a tornare. Ad ubbidire.

Per una vita aveva disubbidito, pensando che la sua morale fosse superiore ad impersonali regole. Era affogato in un mare di guai, ma ne era riemerso eroe. Per la prima volta eroe. Quando si diventa importanti per qualcuno le responsabilità aumentano. Presto qualcuno lo avrebbe visto come un esempio da imitare. Un’icona. Non poteva stare più rimanere attaccato al suo mondo di ideali. Era tempo di crescere ed essere un ninja rispettoso delle leggi per quanto giuste, sbagliate, irrazionali che fossero.

Quanto tempo era passato da quando voleva fare ancora l’Hokage?

In quei due anni avrebbe voluto scavare una fossa e sprofondarci dentro. Sparire. Non voleva sentirsi chiamare eroe. Non voleva vedere quei sorrisi luminosi di chi lo incontrava. Konoha era un vestito stretto, pesante, che non lo faceva respirare più.

Le porte, alte e fredde, incombevano su di lui, pronte per crollargli addosso. Forse era ancora in tempo per voltarsi e lasciarsi il suo mondo alle spalle. Scappare, tornando a morire nel bosco. Una scossa lo attraversò. Ora era integro. Mente e corpo. Si rese conto di essere troppo debole per ritornare sui suoi passi. Ormai era tardi. Sentiva le gambe deboli, instabili, incapaci di sorreggerlo ancora. Sorrise al pensiero che forse non sarebbe nemmeno riuscito a ritornare.

Anche il fiato era corto. Per quanto tempo aveva corso? Quando si era allontanato dal bosco?

Davanti a sè vedeva solo l’ingresso di quella prigione chiamata casa.  Salì con lo sguardo lungo la porta lignea. Due metri. Tre metri. Cinque metri. Forse sei. Probabilmente di più. Proseguì. In alto si distingueva il punto dove il muro vecchio si innestava sul nuovo. Nonostante fossero passati due anni da quando era stato ricostruito, quella cicatrice era ancora visibile. Non aveva mai osato voltarsi per scrutare il limite tra la vecchia struttura ed il cielo. Là lo attendevano i fantasmi. Ora, però, era curioso di vedere se quegli occhi persi che vagano nella sua memoria c'erano ancora. Per Naruto, quel ricordo viveva nei mattoni e nel legno rimasto in piedi alla furia del loro ultimo incontro. Lui stava lì. Era sempre stato lì, pronto a farlo sentire inadeguato. Lui doveva rimanere lassù, irraggiungibile.

Lo sfondo della notte non permetteva di vedere nulla. Appollaiato sul quel muro non vi era nessuno. L’aria di quella sera era tutta sua.

Sasuke non poteva essere lì. Non si era più rialzato.

Quel fantasma era stato raggiunto e superato.

Sasuke era nel bosco. Non aveva più bisogno di tornare a Konoha. Naruto non aveva più motivi per vederselo sulla porta del villaggio.

L’aria di quella sera era tutta sua, Sasuke non ne aveva più bisogno.

 

«Mi è stato riferito che Naruto è stato ferito gravemente nell’ultima missione.» pronunciò l’Hokage, non distogliendo lo guardo dai fogli sparsi sul tavolo.«Non è da lui…».

La ragazza scrutava il vecchio sensei. La voce dell’uomo era atona, sembrava più interessato alle sue scartoffie che alla salute di uno dei suoi migliori ninja.  Credeva che in tutto il villaggio solo lei fosse davvero preoccupata per Naruto.

«Sakura…ti ha detto qualcosa?»

«Ha parlato di un’ imprevisto.»

Il suo compagno non le aveva raccontato nulla. Da tempo non l’aggiornava più riguardo le missioni. In quella stanza d’ospedale era stato freddo ed evasivo. Sakura avrebbe dovuto rispondere a Kakashi che imprevisto fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca come risposta alle molte domande che gli fece.

Fissava il parquet dell’ufficio dell’hokage, così lontano dall’ ospedale, così diverso.

Il Naruto con cui era cresciuta non c’era più. Ogni volta che tentava di incontrare lo sguardo del ragazzo ne aveva la certezza. Il suo Naruto non c’era più. Ciò che rimaneva di lui stava guardando il soffitto della triste stanza. Ebbe l’impressione che stesse facendo di tutto per evitare i suoi occhi verdi. Tutte le risposte dovevano risiedere in quell’asettico intonaco bianco.

Sakura non poteva capire.

«Sakura?»

La voce del Rokudaime la destò. Doveva essersi eclissata nei propri pensieri, Kakashi la stava fissando interrogativo.

«S-si?»

«Quando torni da Naruto, digli che, appena si rimette, voglio il rapporto della missione. D’accordo?». La ragazza ebbe l’impressione che sotto la maschera l’uomo le stessa sorridendo. Rassicurante. La ragazza doveva sembrare al maestro una bambina smarrita.

Annuì.

«Ora vai.»

Sakura fece un piccolo inchino in direzione dell’autorità per congedarsi. Si voltò, dirigendosi verso la porta. L’aprì e l’accompagno dolcemente nel suo chiudersi.

 

Delle bandierine arancioni sventolavano dimenticate  su qualche balcone. Non era più un giorno di festa. Le persone affollavano le strade distratte e perse nei loro affari. I bambini giocavano a rincorrersi lungo la strada. Alcune donne stavano comprando delle verdure che avrebbero cucinato per cena in un chiosco lungo la strada. Dei ninja in libera uscita stavano bevendo assieme, discutendo animatamente. Armi, combattimento, donne. Konoha era serena. Protetta dai suoi guerrieri. L’eroe della città era stato ferito, ma nessuno lo sapeva. Il villaggio continuava ad essere sicuro nella sua ignoranza. Bastava avere la certezza che qualcuno avrebbe protetto il suo popolo e la sua patria: la vita procedeva.

Nonostante tutto, il villaggio nascosto della foglia era rinato, più fiorente di prima. Del passato non si faceva memoria. Non vi era interesse nel raccontare i tempi bui. Non c’era nessun pericolo, non c’era bisogno di allarmarsi. I nemici erano caduti. Gli eroi erano caduti. Gli uomini continuavano a vivere. Mantenere il silenzio diventava una garanzia per continuare ad esistere.

Nessuno avrebbe saputo dell’ultimo grande guerriero Uchiha che, nel fitto del bosco, stava guardando il cielo, senza vederlo.

Nessuno sarebbe venuto a conoscenza di quel ninja che, alle porte del suo villaggio, aveva pregato perché  tutto quello che aveva vissuto si mischiasse al suo sangue per non dimenticare.

Naruto portava in sé il vecchio compagno di viaggio. In quella notte erano morti entrambi. Ma questo era un loro segreto, un patto tra fratelli.

Nessuno doveva sapere.

 

 

 

 

 

 

 

Fine

 

 

I personaggi apparsi in questa storia appartengono a Masashi Kishimoto.

 

 

 

Mi scuso per l’enorme ritardo nell’aggiornamento. Nel frattempo mi sono successe parecchie cose e complice la mancanza di internet e di tempo sono stata un po’ assente.

Questo, cari miei, era l’ultimo capitolo. Ogni storia deve finire. E questo è il momento dei saluti e dei ringraziamenti a coloro che hanno letto e apprezzato e a quelli a cui ciò che ho raccontato non è piaciuto.

 Grazie a tutti.

 

nous

 

 

 

 

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