Imprisonment

di Altariah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 13 anni ***
Capitolo 2: *** 12 anni ***
Capitolo 3: *** 15 anni ***
Capitolo 4: *** 15 dannati anni ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 13 anni ***


Image and video hosting by TinyPic Circa 13 anni

Pensa al passato, capisci il presente, indovina il futuro.
Toccai coi polpastrelli le incisioni su quel muro ruvido e freddo, di colore grigiastro. Chissà chi le aveva scritte prima che io venissi portata lì.
Tante volte avevo riflettuto sul significato di quelle parole, e altrettante volte mi ero immaginata storie sempre diverse. La mi fantasia vagava; era l’unica cosa che quella cella non poteva impedirmi.
Immaginavo di essere nata in una famiglia affettuosa, cresciuta insieme a qualche fratello, anche loro immaginati minuziosamente sotto ogni particolare: c’era Carlo, biondo come me, ma piuttosto basso, primogenito, ed io e lui avevamo quattro anni di distanza; Federico, dai capelli bruni e più piccolo rispetto a me di un anno; e Bianca, la più piccola della mia famiglia, dai boccoli castano chiaro e dagli occhi turchesi.

Avevo imparato benissimo a leggere e scrivere, la mia padronanza della lingua parlata era eccezionale. Sapevo così bene la materia grazie ad un mio vicino di stanza, rinchiuso lì per motivi legati alla politica. Avevo solo sette anni, allora, ma imparai volentieri; mi faceva leggere libri, quelli che gli avevano permesso di portare, e mi spiegava di giorno in giorno cose sempre nuove ed interessanti.
Quando avevo dieci anni lo portarono via una notte e non lo vidi mai più. Eravamo diventati come zio e nipote, anzi, quasi come padre e figlia.
In lui riconobbi la figura paterna che mi aiutò a crescere senza diventare pazza. Non avevo mai conosciuto un mio parente, e soprattutto mai nessuno mi rivolgeva la parola… o almeno… più parole al giorno di qualche presa in giro da parte dei secondini.
“Perché tenete rinchiusa una bambina piccola?” era l’ultima causa per cui il mio compagno si era battuto, ed è finita che ancora per colpa mia persi l’unica persona che mi aveva fatto sentire un essere umano e non soltanto un ammasso di carne senza sentimenti. Franco, si faceva chiamare. L’ho amato davvero più di ogni altra cosa.


Mi piaceva troppo fantasticare, dopotutto se non avessi fatto nulla tutto il tempo sarei di certo impazzita. Vivevo la mia monotona vita senza rimpianti: quali avrei dovuto avere? È da quando ho memoria che non posso gustarmi la sensazione della libertà, quella vera, e non quella dei cinque minuti di aria che mi concedono una volta al mese, se si ricordavano le guardie.
Libertà.
Anche su quello avevo riflettuto molto, e non riuscivo comunque a capire bene cosa significasse. Il mio papà e la mia mamma dovevano aver fatto grandi sciocchezze per farmi rinchiudere a vita in una cella.

Gli errori dei genitori non devono essere ripagati dai figli.

Anche quello c’era inciso, sulla parete opposta. “Cosa combini oggi?” Una voce, dopo un paio di settimane, da dietro le sbarre arrugginite della porta.
Ero felice di poter parlare con qualcuno, sebbene sapessi che quel qualcuno mi detestasse con tutta l’anima. Anche se per un motivo a me del tutto ignoto. Non mi parlava nessuno neppure quando mi scortavano a lavarmi o quando mi portavano da mangiare. Perché mi odiavano tanto?
“Penso.” Risposi semplicemente, voltandomi e sorridendo al mio interlocutore.
“A cosa vuoi pensare, tu, che sei completamente pazza e non sai neppure il tuo nome?” Continuai a sorridere, nonostante il tono odioso che quell’uomo aveva assunto. No, non potevo rispondergli male, avevo troppa voglia di scambiare delle parole, anche poche, con qualcuno. “A cosa mi serve sapere il mio nome? So la mia data di nascita, e ciò è più che sufficiente.” In effetti non era del tutto vero, mi faceva star male il fatto di essere una ragazza senza nome.
Avevo pianto pensandoci, quella notte.








Mi pareva l'ora di revisionare un po' questa storiella vecchiotta sulla ragazza che non conosce la propria identità ed è rinchiusa da quando ha memoria. 
Altariah

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Capitolo 2
*** 12 anni ***


Image and video hosting by TinyPic 12 anni

Pensa al passato, capisci il presente, indovina il futuro.

Le mie mani cercavano insistentemente, una notte tra tante, di cercare di arrivare a toccare i sottili fori della finestra della mia cella. Avevo dodici anni allora, ma purtroppo quello sbocco per me era raggiungibile solo stirandomi e faticando. E il risultato era che riuscivo a farci arrivare solo le mie mani, completamente graffiate, a furia di colpire involontariamente il muro ruvido, quando giocavo a giochi - inventati da me, ovvio- in cui c’era da correre.
Parlavo spesso da sola; anzi, praticamente da sola, sembrava che facessi ribrezzo ai carcerieri. Se non addirittura paura.
Paura?
Perché io, una semplice fanciulla che non ha neppure idea di cosa sia la Libertà, dovevo incutere una sensazione del genere a degli uomini?
Io?
Io chi ero? Chi sono, anzi?

Uno scarto della società, senza sentimenti, senza genitori, senza passato e senza futuro.
Senza un nome.
Chissà se mio padre o mia madre avessero mai deciso per me un nome. Penso che sia un lusso troppo grande possederne uno tutto per sé. Chissà se sono costretta qui per una giusta causa.
Io non lo so, sono soltanto un puntino sulla faccia della Terra.

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Capitolo 3
*** 15 anni ***


Image and video hosting by TinyPic 15 anni

Pensa al passato, capisci il presente, indovina il futuro.

Da un sacco di tempo non pensavo più alla finestra. Mi sembrava inutile tentare di osservare fuori, ci avevo già provato, prima, e non avevo mai raggiunto niente di concreto.
Piangevo perché nessuna guardia mi voleva alzare per dare un occhiata fuori. Ero una bambina, non conoscevo l’odio, ma la tristezza sì.
Ma ora le mie lacrime non si vedono più spesso come prima. Una prigione dentro una prigione: una ragazza evidentemente senza colpe, rinchiusa in una cella, i sentimenti richiusi dietro alte mura di cemento armato, nella ragazza.
Però… quegli spiragli di luce nell’angolo mi avevano attratto quel giorno. Ero sicura che non vi sarei arrivata, ma volli tentare, ero stanca di scorgere soltanto un po’ di azzurro. Volevo vedere il mio mondo, la mia casa.

Franco mi aveva raccontato di tanta gente che era radunata nelle città, tanta cattiva come i nostri carcerieri, ma anche tanta buona.
“Allora perché i buoni non fanno convertire i cattivi…?” avevo sette anni. Ero innocente, forse troppo. Mi sorrise, almeno mi pare di ricordare. “Non è così facile.”
Mi aveva detto che fuori dalle nostre gabbie, c’erano degli alberi, dei prati colmi di fiori e degli oceani che parevano infiniti.


Infiniti?

Tante, troppe volte ho riflettuto su cosa fosse la luna, cosa fossero le stelle. È vero, Franco mi aveva spiegato tante cose, ma non tutte, e non come fosse possibile che il nostro sole fosse una stella.
Volevo sapere, voglio sapere, anzi. Su troppe cose c’è un punto interrogativo.


Ero seduta in un angolo piuttosto buio della stanza, e mi alzai di scatto. Mi avviai verso la finestra e il chiarore improvviso che penetrava mi fece socchiudere gli occhi. Mi resi conto che non mi era più così difficile arrivare a toccare quell’apertura: la mia mano era tranquillamente appoggiata su quel piccolo “davanzale”, sempre se così si può definire, e non avevo neppure il braccio del tutto teso.
Mi esaltai all’idea di poter finalmente, dopo una vita, riuscire a capire cosa fosse il “fuori”.
Mi sollevai sulle punte pian piano, pregando per riuscire nel mio intento. Non potevo mollare, per nulla al mondo.
Tenni gli occhi serrati, li aprii solo infine. Ed eccola lì, di fronte a me, dinnanzi a me, la Libertà, maestosa e incredibilmente affascinante.

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Capitolo 4
*** 15 dannati anni ***


Image and video hosting by TinyPic 15 dannati anni

Pensa al passato, capisci il presente, indovina il futuro.

I prati verdi di Franco stavano lì, ad ondeggiare nel vento.
Gli uccelli attraversavano l’indaco della sera.
Mi invase la sensazione di essere finalmente viva, di essere una persona, vedendo il sole di minuto in minuto affondare nell’orizzonte spinto da una forza invisibile e tingere il cielo, colorando di rosa le nuvole altrimenti bianche come latte.
Ero lì chissà da quanto tempo, infatti era il cielo era già all’imbrunire, sotto colori vivaci e dai riflessi dorati.
L’aria mi accarezzava il viso dolcemente, i miei occhi erano colmi di lacrime.
“E allora è così il mondo.” Ero ancora incredula e incantata. Colorato, allegro, prepotente e crudele a volte, proprio come mi sembravano quelle montagne sfocate in lontananza. Le montagne di cui Franco mi aveva tanto parlato.
Ma il mare non c’era, il mare no. Non si può avere tutto, mi diceva… e devo ammettere che mi bastava di gran lunga quel panorama.
Sorrisi come mai avevo fatto, sorrisi e piansi lacrime di gioia, gridai fuori quanto avrei voluto sentire sotto le mie pallide mani i fili d’erba, quanto avrei voluto sdraiarmi al sole e sentirmi scaldare le ossa.

Ma i secondini mi videro e irruppero nella mia cella, la cella che mi aveva visto crescere, che mi aveva allontanato da quel mondo magico tutto intorno a me, e mi allontanarono dalla cosa più bella che i miei occhi avevano mai visto.
Uno mi afferrò da dietro e mi tenne ferma, mentre quell’altro bastardo andava a cercare qualcosa per sprangare la finestra.
Non mi avrebbero lasciata provare emozioni positive, no, mi avrebbero fatto vivere per torturarmi psicologicamente. Atroce.
Anche se avrei preferito il dolore fisico; quello avevo imparato a sopportarlo.
In quel momento l’odio lo provai, più intenso e più terribile di ogni altra sensazione, più distruttivo delle guerre.
Ma non parlai, mi limitai a imprecare nella mia mente e a pregare che a quei figli di cane venisse una lunga e atroce malattia.
Non mi pentii mai di quelle terribili maledizioni che lanciai.






Eccoci con il quarto e penultimo capitolo; vi lascio un messaggio tanto abusato
Il momento più buio della notte è quello appena precedente al mattino. 

Altariah

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


Imprisonment

 

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Epilogo

 Prima del grido delle campane  

                      fateci dunque piangere un poco.*

 

 

22 anni

 

Pensa al passato, capisci il presente, indovina il futuro.

Ormai quella scritta riesco a malapena a distinguerla, a causa di quest’oscurità.

 

Mi colpisce la malinconia, di tanto in tanto.

Ma dopotutto non ci posso fare niente.

Forse qualcuno ascoltò le mie suppliche e fece in modo che una guardia venisse rimpiazzata.

 

Quattro anni con la luce di una candela.

È stato davvero difficile.

Me la cambiavano spesso, sebbene cercassi di accenderla il meno possibile per farla durare più a lungo.

 

Quando la nuova guardia giunse davanti alla mia porta gli spiegarono di non farsi fregare dal fatto che fossi una semplice ragazza, isolata non solo dalla luce del giorno, ma anche dalle emozioni di una qualche persona. Gli dissero che non avrebbe mai dovuto parlarmi.

 

Quelle frasi mi ferirono.

 

Dopo credo un mese però, quel giovane uomo mi aveva avvicinata, al che rimasi praticamente stranita.

Mi voleva prendere in giro?

“Perché sei qui?” Mi domandò, cercando di non farsi scoprire a parlarmi.

Non aprivo più bocca ormai, da quattro anni, nemmeno da sola.

Socchiusi le labbra per pronunciare qualche parola, ma me mi uscì un sussurro spezzato dall’odio.

Mi ripresi un po’, frugando nella mia anima e nel mio cuore per darmi un contegno, e cercare ancora quel briciolo di dignità che sapevo non fosse andato perso. “E a me lo chiedi?” Mi scese una lacrima che percorse lentamente la mia guancia e cadde con un piccolo ticchettio impercettibile per terra.

La semi oscurità non permise di decifrare bene l’espressione che il suo viso assunse, ma credo comunque che fosse stata di totale stupore.

“…da quanto…”

“Da sempre.” Sussurrai mentre il dolore attraversava nuovamente le mie membra.

Stette in silenzio, continuando a fissarmi.

“Come ti chiami?”

Scoppiai in un pianto disperato, dopo quella domanda totalmente fuori luogo.

Faticavo a respirare, era terribile

Dopo molti minuti in cui si udirono soltanto i miei singhiozzi, ripresi parola, cercando di tranquillizzarmi.

“Lo, so, non mi puoi parlare. Ti devo fare anche un po’ paura, o forse solo pena, ma ti prego, ora ascoltami.” Lo supplicai. La mia flebile voce tremava. “…dammi qualcosa da leggere. Ti prego.”

Fece cenno di sì, e si allontanò. Dopo poco lo sentii di nuovo. “Prendi.” Mi porse un libro parecchio alto.

 

“Franco, è vero: esiste anche gente buona.” Mi dissi.

 

Ringraziai in silenzio quell’uomo e mi avvicinai alla luce della candela, che tremolò un poco per il movimento d’aria.

Una copertina arancione e verdastra, macchiata con un fondo di bicchiere. “Pascoli, poesie.”

 

“Sai, di poesie non ne ho mai lette.” Ammisi alla guardia, accennando un sorriso.

 

Ho ventidue anni, e mi accontento di quel poco che ho.

Ripenso a tutta la mia vita, inutile. Apro il libro di poesie e rileggo le mie preferite, soffermandomi un po’ sulle frasi che mi piacciono di più.

Sfoglio piano ancora una volta, ormai nella mia memoria sono impresse quasi tutte, ma una fin ora mi è sempre sfuggita: una incompleta.

 

.   .   .   in alto, a un ramo della quercia,

la cetra   .    .   .   .    .    .   .    .   .    .    .

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   . 

brillando al sole, o tintinnando al vento.

 

Cosa vuol dire? Istintivamente completo con parole semplici ma al contempo estremamente complesse da esprimere. Io so cos’è un ramo, ma l’ho visto di sfuggita una volta soltanto. Quella maledetta volta.

So cos’è la cetra, ma non udirò mai il suo suono.

       

 

Tu che puoi, Guarda là,

 in alto, a un ramo della quercia,

la cetra suona la tua libertà

 

mentre ogni mio intento

evapora come rugiada,

brillando al sole, o tintinnando al vento.

 

 

 

Anche tu, Giovanni Pascoli, sei stato rinchiuso ma al contrario di me, rilasciato, per questo t’invidio. Anche tu hai tirato avanti come potevi. Anche tu ami l’infanzia che hai vissuto, e tua madre.

 

Anch’io la amo, perché nonostante tutto so, ne sono certa, al momento della mia nascita mi abbia dato un nome.

E così grazie a questa raccolta di poesie, ho ricominciato ad aver voglia di vivere.

 

 

 

Come una rondine, di primavera,

ricomincia ad aver voglia di spiegare le ali al cielo azzurro

e all’aria gemmea del mattino,

Io,

rinchiusa per sempre ed incatenata ad una vita di solitudine,

ricomincio a sperare di riuscire a volare via, un giorno.

 

Senza nome

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“…Che non ancora si pensa al pane,

che non ancora s’accende il fuoco;

*prima del grido delle campane

fateci dunque piangere un poco.

 

Non più di nulla, sì di qualcosa,

di tante cose! Ma il cuor lo vuole,

quel pianto rande che poi riposa,

quel gran dolore che poi non duole;

 

sopra le nuove pene sue vere

vuol quel singulti senza ragione:

sul suo martòro, sul suo piacere,

vuol quelle antiche lagrime buone!”

 

Giovanni Pascoli, ultime tre strofe da “Le ciaramelle

, da “Canti di Castelvecchio, 1903-1907-1912

 

L’altra poesia incompleta è tra altre varie senza un inserimento particolare e precede le elegie,

1912-1913

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con queste bellissime parole di Pascoli, si conclude Imprisonment. Terrò sempre in mente questo straordinario scrittore, come punto di riferimento e come esempio quando scrivo. Infatti diverse volte mi hanno detto che i miei racconti sembrano quasi poesie.

Mi sono dilettata a completare la poesia che Pascoli ha lasciata incompleta, ma con uno sforzo enorme, sperando che almeno si capisca il senso.

Tendenzialmente inizio le storie osando, lancio un sasso e vedo poi la storia che pian piano va a delinearsi, io creo un’idea di partenza senza avere in mente di preciso come continuare, ed è successo anche qui.

Pascoli l’ho aggiunto per ricordarlo, da sempre ho avuto una predilezione per quel poeta, trasmessa da mia madre fin da quando ero piccola, che mi ha sempre letto La cavalla storna, Le ciaramelle, La mia sera, Vagito… e molte altre, ma ahimè non posso stare qui a elencarle tutte T-T

Voi tutti siete troppo, troppo gentili… e mi spiace se qualcuno c’è rimasto male nel veder (già) finire questa storia. Ma ne sto scrivendo un’altra davvero molto impegnativa, e non potevo soffermarmi troppo su questa, anche perché poco c’era da dire. 

 

Teresa e Scraffy ringraziano:

 

Ringrazio la Lilly (mia mamma) per avermi fatto conoscere ed amare Pascoli tanto quanto ama lei stessa;

 

Ringrazio tutti coloro che hanno messo Imprisonment tra le storie da ricordare, quelle preferite o seguite, e anche un grazie per chi mi ha recensito;

 

Grazie a chi ha letto, davvero, e mi scuso per chi era interessato a sapere cosa potessero aver fatto i genitori della protagonista Senza nome, ma l’ho trovato un argomento senza troppa importanza e che non aggiungeva nulla alla storia.

 

 

 

 

Spero di ritornare il prima possibile con un’altra trama, coinvolgente e interessante.

Vi saluto insieme al mio gatto Scraffy che tengo qui in braccio.  Anche Jenny (la mia gatta nera fidanzata di Scraffy), Aurora (la mia coniglia), Gwen –che in realtà ho scoperto essere maschio - (la mia tartaruga), Bill (il mio cane), tutti e dieci i miei pesciolini di cui non sto qui ad elencare tutti i nomi, vi salutano con tanto affetto. –li ho detti tutti? sì, credo… di sì.-

Gli animali rilassano… ^-^ e forse ti fanno sentire meno pazza e un po’ più amata. Almeno, per me è così…

 

Grazie mille per il commento sul cortometraggio… sono emozionata vedendo quanta gente così tanto gentile ci sia su EFP.

 

 

Alla prossima storia.

 

Verba volant, scripta manent

 

 

 

 

 

Altariah e Scraffy

(We want to Belive)

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