Dream On 0.2

di SinnerCerberus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La coscienza dell'automa ***
Capitolo 2: *** La scoperta dell'automa ***
Capitolo 3: *** La protezione del'automa ***



Capitolo 1
*** La coscienza dell'automa ***


Apro gli occhi. Un soffitto bianco è sopra di me, proprio dove doveva essere. Sposto lo sguardo ed esamino l'ambiente che mi circonda. Sono in una stanza, a giudicare dai mobili si direbbe una camera da letto. Sono steso su un letto freddo e duro, nella stanza c'è un armadio in un angolo, una televisione su un comodino posizionato su un muro, un vecchio computer a terra ed una scrivania. Qualcosa non va, però. La televisione non ha uno schermo, posso vedere tutti i circuiti all'interno. La finestra è sbarrata da una pesante placca di metallo fissata con numerosi e spessi bulloni, ma nonostante tutto la luce riusciva a filtrare dalla finestra. Capisco dunque che è giorno. Dal letto partono centinaia di cavi che si immergono in tubi di ferro collegati a chissà cosa. Sono al centro di una ragnatela di ferro, ed il letto è il mio ragno. Le ossa mi fanno un male terribile. Mi siedo sul letto e continuo a guardarmi in torno. Perché tutto ciò non mi sorprende? Perché per me è tutto terribilmente normale? Mi massaggio le tempie, e rifletto. Ieri non ero qui. Ero altrove, facevo qualcos'altro, e sono andato a dormire da qualche altra parte. I ricordi sembrano esserci, ma sfocati, ed appena li focalizzo sfuggono dalla mia mano, scivolano via. Chiunque fossi stato ieri, non avevo questo cazzo di dolore alle ossa. La casa mi è familiare, ma non provo la tipica sensazione di appartenenza. La conosco ma non sembra essere mia. Di conseguenza, dovrebbe essere di qualcun altro. Mi stringo la testa e mi arruffo i capelli - ah ho dei capelli! - e mi alzo. Se incontrerò qualcuno, mi presenterò e gli spiegherò la situazione. Cioè, mi sono appena svegliato in camera tua e non ricordo nulla di ciò che ho fatto ieri. No, no, no. Ciò non può funzionare. Mi rendo conto che effettivamente non conosco il mio nome. Come posso presentarmi a qualcuno se non conosco il mio nome? Cerco di andare indietro, ma la mia memoria non è che un colabrodo, mi sfugge tutto. Ho un passato, ma più cerco di ricordarlo, meno riesco ad afferrarlo. La cosa più strana è che tutto ciò mi sembra perfettamente normale. Sento il bisogno di continuare la mia routine. Un pensiero in un qualche angolo della mia testa mi suggerisce che effettivamente sarebbe ora di andare a scuola. Insomma, io mi sveglio senza sapere chi sono e voglio andare a scuola. Mi fa quasi ridere. Esco dalla stanza, dò uno sguardo in giro, e sembra essere tutto in ordine. Silenzio tombale però. Vado in giro a curiosare e noto effettivamente che non c'è nessuno. Un perfetto appartamento vuoto, perché effettivamente è un appartamento, e non ci sono mobili. Tranne, ovviamente, quelli della stanza dove mi sono svegliato. La casa è polverosa, come se non pulissero da tempo, eppure si vedono chiaramente quadrati chiari sui muri, privi di polvere e sporco. In quei punti dovevano trovarsi dei mobili, evidentemente. Ora non ci sono, non capisco perché avrebbero dovuto toglierli. Entro in quella che presumibilmente dovrebbe essere la cucina, lo capisco da un fornello ed lavandino staccati e poggiati a terra, rovinati. Le tubature del lavandino erano come strappate, mentre cammino calpesto una vite, e mi rendo conto della presenza di piccoli pezzi come bulloni, pietre o pezzi di ferro. Oltre quello, non è che una stanza vuota. Dalla cucina si affaccia un balcone. Dò uno sguardo all'esterno e vedo solo un ambiente urbano. Il crepuscolo soffocato dai gas assume una colorazione verdastra. Sto assistendo ad un'alba verde. Non riesco a credere che la sensazione di obbligo alla ciclicità di routine mi stia obbligando a proseguire come se nulla fosse. Che razza di persona sono se sento il bisogno di proseguire normalmente, se accantono automaticamente ogni problema insolito per proseguire per la mia strada? Mi viene da accantonare anche il fatto che sia strano, non sembrano nemmeno miei pensieri. E' quasi un istinto, una forza innata che mi spinge a continuare e rende scivolosi i miei ricordi. Vado in bagno ed osservo la mia figura allo specchio. Vedo un ragazzo con labbra carnose, occhi castani a mandorla e pelle abbronzata. Ho i capelli folti e lunghi. C'è un elastico sul lavandino, e con un gesto automatico lo prendo e mi faccio un codino. Evidentemente è un'abitudine che non sono riuscito a lavare via. Apro il rubinetto e vedo che in questa casa l'acqua c'è, quindi non è completamente abbandonata. Mi sciacquo nella speranza che l'acqua fresca mi chiarisca le idee, e magari mi faccia passare il dolore alle ossa, ed alle articolazioni. E' ora di decidere cosa fare. Tra i tanti flussi di possibilità e di eventi, ci sono infinite vie da prendere. Principalmente potrei aspettare che qualcuno arrivi e potrei chiedere spiegazioni, ma scelgo di continuare, di andare avanti secondo i miei bisogni ed istinti. Ed io sento di dover andare a scuola. Utilizzo il treno per raggiungerla, so automaticamente dov'è la stazione e dove e quando effettuare i cambi. Ho dimenticato le mie esperienze e le mie conoscenze, ma allo stesso tempo riconosco gli oggetti, la routine. So cos'è una sedia. Quindi non sto partendo da capo. E' strano rendersi conto delle piccolezze che si pensano quando si perde la memoria. Dopo numerose fermate, scendo alla mia destinazione, e prendo la strada per la scuola. Vengo accompagnato da una folla di studenti, tutti vanno nella stessa direzione. Un manipolo di gente pieno delle più varie persone. Mi sento stretto ed accaldato quando cammino, gente sudata o poco lavata si stringe tra di loro e si affretta per arrivare puntuale. La scuola ha due entrate. Scendendo dalla stazione si raggiunge prima l'entrata secondaria ma io, in qualche modo, preferisco entrare da davanti. E' una scuola priva di specializzazione. Quando arrivo, riesco a notare, nonostante la mia confusione tra sudore altrui e dolore alle ossa, dei particolari sfuggevoli. Il cancello è deforme, tubi di ferro si intersecano col marmo per formare due enormi porte. Le ante sono aperte, ma non simmetricamente. Riesco ad intravedere la cancellata sinistra; sono sculture in bassorilievo confusionarie. Dalle parti della serratura c'è un disegno particolare, sembrano mani, o zampe. Le persone sudaticce ed indaffarate continuano per la loro strada, ignorando tutto e tutti. Ignorano il cancello, ignorano me ed il mio dolore alle ossa. Mi lascio trascinare dagli altri, tralascio i dettagli ed entro a scuola. L'edificio è grigio, assomiglia quasi ad un carcere. Le mura all'interno sono bianche e noto che in ogni angolo c'è una statua di marmo greca o un manichino flaccido. Prima di chiedermi troppe cose, decido di non riflettere. La mia classe è composta da trenta persone circa, l'aula è ampia ed io naturalmente non riconosco nessuno. Mi siedo, ed attendo lo scorrere degli eventi. I primi dieci minuti passano in un silenzio religioso e stupefatto, almeno la metà degli studenti non sa perché si trova a scuola. Come me. Sono circondato da persone bizzarre, mi diverto ad osservarli. Di fronte a me è seduto un ragazzo alto, slanciato, dai capelli rossi e lo sguardo furbo. Ha le gambe rilassate e distese, le mani dietro la testa ed attende l'inizio della lezione con fare beata. Vicino alla cattedra c'è un tipo che non riesce a stare fermo, con la testa squadrata, molto pallido e con pesanti occhiaie. Cammina da una parte all'altra della stanza con fare nervoso, disordinandosi i capelli biondi e sussurrando cose che solo lui può sentire. Vicino la finestra c'è una ragazza castana dal volto perfetto ed inespressivo, fissa un punto indefinito, pare inanimata. Di fianco a me c'è un ragazzo dai capelli tinti di nero e pesante trucco sugli occhi. Sembra stia rimuginando qualcosa, si tocca il mento e pensa intensamente, spesso accenna ad un sorriso. Nonostante tutto è un bel ragazzo. Arriva il professore, un uomo alto, panciuto ma giovane, con gli occhiali ed uno sguardo particolarmente irritato. Non procede con l'appello, dopo pochi minuti semplicemente si alza e comincia a spiegare. – Cominciamo con una domanda casuale.. Tu! Tu, ragazzo dai capelli rossi, hai idea di dove ci troviamo? La domanda colpisce un po' tutti. Dopo qualche attimo, il rosso risponde titubante: – Siamo a scuola? – Bravo il mio piccolo genio, certo che siamo a scuola. Intendevo, la città, il paese, il luogo in generale! – – Ma professore, non avevo capito, non si era spiegato! – Poco importa, se m'ero spiegato o meno. Avanti, marmocchio, rispondimi. Non vorrai mica un voto basso. – L'insegnante cammina da una parte all'altra dell'aula con fare imponente, toccandosi le punta delle dita, si sente sicuro, potente, aggressivo. Il ragazzo un po' confuso ed impaurito, nonostante la sua aria inizialmente beffarda, adesso è sottomesso ed impacciato, e decide di non far innervosire ulteriormente il professore, che sembra poter impazzire da un momento all'altro rispondendo – Siamo a Neapolis, professore. – La risposta è giusta. – Complimenti, genio. Sai perché si chiama così? – Ed il silenzio che ottiene è più che eloquente. Capiscono tutti che era solo un pretesto per insultare il primo malcapitato. Lui continua – Bravo, bravo il mio genietto rosso. Ci rendiamo conto dell'ignoranza che ci circonda? Come può andare avanti questa generazione se è popolata da bambini ignoranti! Quanti anni hai, cinque? Stiamo parlando della tua terra, impara! Il professore inveisce sul rosso sputandogli addosso un ritrito di rimproveri da adulto stanco del mondo. Sebbene si trovi in difficoltà, io preferisco starmene zitto, proprio come gli altri. Davvero.. come può questa generazione andare avanti se è popolata da bambini ignoranti, da povere pecore? Non ho intenzione di sporcarmi le mani per qualcuno che non conosco, e che non mi ringrazierebbe nemmeno. – Professore. – Sento dietro di me. Tutta la classe si volge a guardarlo, e così anch'io. Così lo vedo; un ragazzo elegante, con un camicia e pantaloni neri, ed un'unica cravatta rossa. I capelli pettinati in modo da coprirgli un occhio, lunghe ciocche rosse brillano tra i suoi capelli castani e mossi. L'occhio visibile, il suo occhio destro, non dava emozioni, sembra apatico. – Io sono nuovo di qui, non sono di questo paese.. mi sarebbe utile saperlo, può spiegarlo? Può anche rinfrescare la memoria agli altri. – Dice con un vago accento francese. Il professore lo guarda infastidito e – Va bene, e sia.. Ma se trovo qualcuno distratto, lo decapito. – Non voglio sapere se è un uomo di parola, dunque gli dò retta e presto attenzione. – Attualmente siamo su un'isola artificiale chiamata Neapolis, ispirata ad una florida città Italiana. L'Italia era una penisola, ma non perdete tempo a cercarla sulle mappe da internet, è sprofondata negli abissi in seguito ad un maremoto da almeno duecento anni. Quanto tempo fa era.. Sì, accadde nel 2050, quindi praticamente centosettant'anni fa. Quest'isola artificiale è stata costruita sott'ordine di mafiosi e camorristi, la ricchissima malavita del paese, per poter avere un luogo di ritrovo, una città a cui appartenere, che rievocasse la politica, la struttura e l'ambiente Napoletano. Ovviamente l'isola era piena di infiltrati, c'erano più più poliziotti che camorristi, ed al primo passo falso furono tutti sbattuti in galera. L'operazione venne chiamata "operazione Partenope II", tenetelo a mente. Prima che possiate formulare qualche stupida domanda, vi illuminerò io: nel 1988, ci fu la prima operazione Partenope per estirpare la camorra dall'Italia, ma come potete aver dedotto, miei stupidi studenti, non andò buon fine. Difatti, quell'anno.. – Mentre il professore spiega e ci insulta, decido di dare uno sguardo all'elegantone con la frangia, rischiando una possibile decapitazione dell'insegnante. Come immaginavo, è distratto e non segue per niente la lezione. Si limita a guardare dritto, con quello strano sguardo sguardo vuoto. Però c'è da dire che suo tentativo di salvare lo studente rosso è riuscito perfettamente.. chissà se fossi intervenuto io, cosa sarebbe successo. Probabilmente niente, avrei fallito. Lascio perdere la lezione e mi concentro su cose un po' più rilevanti. Per esempio, perché diamine mi sembra così normale. Perché nonostante io riconosca l'anormalità della situazione, niente memoria, niente domande, niente appello, niente professore che spiega seriamente ma bensì insulta i primi che capitano, io senta il bisogno di andare avanti, e smetterla con queste dannate domande. Accantono già le domande e mi perdo nella contemplazione dei miei compagni di classe, e noto una ragazza, particolare, bionda, tra i primi banchi alla mia sinistra. Sembra posata ed educata, ha i capelli lisci e lunghi, elegantemente pettinati, ed un volto pulito ed immacolato, da quel poco che ho potuto vedere. Mi persi nella contemplazione di quell'opera d'arte e mi svegliai diverse ore più tardi. Sembra proprio che io mi sia addormentato. E nessuno se ne è accorto. Parlo al rosso – Ehi, quand'è che si va a casa? – Lui mi guarda indispettito, guarda pigramente l'orologio e risponde – Tra un'ora. – – Bene.. e perché non c'è nessun professore? – Ah boh, sono ore che non c'è più nessuno. Ma dove sei stato nelle ultime ore, sulla luna? O su Marte? O su.. – Torno al mio posto senza dargli la possibilità di continuare, non voglio litigare ma neanche farmi insultare. Mi guardo intorno, i ragazzi si rilassano e perdono tempo. La ragazza bionda fa finta di ascoltare le chiacchere delle compagne di classe, ma si limita ad annuire, senza rispondere o intervenire. Sorrido stupidamente. In ogni caso, non posso bighellonare, del resto ho dimenticato chi sono. – Scusa se ti chiamo ancora, ma sai chi sono? – Chiedo al rosso. – No. – Fu la sua risposta pronta. – Sei un personaggio famoso? Se no, levati dai piedi. Esito qualche attimo, e lui aggiunge – Anzi, levati dai piedi anche se sei un personaggio famoso. Sono troppo di cattivo umore, dopo lo sproloquio del prof. – Mi allontano pronto, e chiedo in giro, ignorando che dovrebbe essere strano. Però nessuno ci fa caso, ed ormai ciò che è strano sfugge dalle percezioni, lasciando solo una sensazione di normalità. Con me non funziona del tutto, quindi potrei anche reputarmi ad un livello più alto degli altri, penso tra me e me sogghignando. Ma non c'è tempo per i miei superbi vaneggiamenti. Nessuno mi dà una risposta positiva, nessuno pare conoscermi. Evito di chiederlo al ragazzo truccato dai capelli neri, che mi ispira una certa soggezione. Arrivo infine a chiederlo all'elegantone francese, lui mi guarda e fa – Non posso credere che hai aspettato tanto per chiederlo alla persona giusta. Persona giusta? Sa chi sono! Non riesco a credere di esser riuscito ad arrivare alla soluzione del mio problema, così presto. – Non so chi tu sia, anche se mi lasci un certo senso di deja-vù – Ah, lui e i suoi termini francesi! – però.. Mi guarda, col suo occhio apatico, e se solo fosse stato un minimo estroverso, mi avrebbe permesso di capire tutta l'emozione che gli scorreva nelle vene. Invece no, lo capisco solo dal suo sommesso – Neanche io ricordo chi sono. In quel momento suona la campana, l'effetto sorpresa è paragonabile ad una doccia d'acqua fredda, come il cliché dell'allarme antincendio americano, uno spruzzo continuo freddo e silenzioso. Il suono strillante della campana copre ogni voce, tutti si alzano e si preparano, tranne noi, in silenzio, ci guardiamo e restiamo immobili. La classe è vuota appena la doccia fredda si esaurisce, e come risvegliato da un improvviso sonno, come se tipo il tempo si fosse bloccato, lui riprende: – Non è strano? – Tu sei strano. – Rispondo a bruciapelo. – Idiota. – Con questo, lui quasi mi ignora e con naturalezza continua – Neanche io ricordo il mio nome, e finalmente trovo qualcuno con lo stesso problema. Ascoltami, è inutile chiedere in giro, non avrai nessuna risposta. E' come se il ricordo della tua persona fosse stato cancellato, e resta solo il tuo corpo. –Uhm.. ho capito. – Rispondo io, pateticamente. Diamine, ti sta aiutando, sta facendo un discorso intelligente, che ti costa riuscire ad essere al suo pari? Non mi esce mai nulla di buono. Annuisco anche con la testa. – Ma mi stai ascoltando sul serio? Dove ti sei svegliato oggi? – Che diamine dovrei dirgli? La mia mente è così confusa, piena di immagini, di stupidaggini, della bionda, dell'insegnante, del rosso, della bionda, bellissima, della scuola, del cancello, del mio letto con i cavi, della televisione rotta. – Non so dove mi sono svegliato, mi sono svegliato in un posto strano, alle sette e ventisei, non so che dirti, cioè. Prima di tutto c'era questo televisore che non funzionava, non è che non funzionava ma non aveva proprio lo schermo e dubiti funzioni senza schermo. Non l'ho acceso quindi non so dirti niente nel particolare. Però non mi fiderei. Potrebbe succedere qualcosa di brutto, tipo una scintilla fuori posto che fa esplodere tutto, quindi stai attento alle scintille. Comunque mi sono svegliato in questa casa vuota, tipo appartamento, senza mobili, tranne la televisione rotta, ma è un mobile la televisione? Perché si dice TV oltre a televisione? E perché.. – – Ti prego, basta. – Mi interrompe lui. Riesco a sentire la voce che sfiora la disperazione, ma dal volto non traspare nulla. – Ho capito che non sai spiegarti, credo che non ti chiederò mai più di raccontarmi qualcosa. Ascoltami, ho una teoria, una specie di piano. Vedrai che qualcosa accadrà. – Si alza, preso dall'enfasi. – In pratica.. – Comincia ad abbozzare, ma una forte accozzaglia di insulti da parte di un bidello lo interrompe. L'uomo più largo che alto, tuona con imprecazioni e bestemmie, esortando ad allontanarci per permettergli di proseguire il suo lavoro, sparendo il più lontano possibile. Il mio interlocutore si vede costretto a sparire, molto più velocemente di me. – Aspetta – Lo fermo. – Si può sapere come ti chiami? – Si gira, mi guarda col suo occhio inespressivo col suo dannatissimo accento franche mi risponde – Ne so quanto te. –

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Capitolo 2
*** La scoperta dell'automa ***


La casa dove mi sono svegliato non ha serrature, posso entrare ed uscire tranquillamente quando voglio. Ladri e malintenzionati non troverebbero nulla di interessante, quindi non me ne faccio un problema. Come immaginavo, non trovo nessuno quando torno. Decido di poter chiamare casa quel luogo. Non ho fame, e non mi preoccupo di cercare viveri. Ho solo un dannato dolore alle ossa, ed anche alle articolazioni. Cosa posso fare? Vorrei un attimo per riflettere, curiosare ed indagare, ma mi mancano le energie. Sono talmente demotivato e pieno di pensieri. Alle otto e quindici lascio perdere tutto e mi stendo su quel letto di ferro, in quella stanza piena di cavi. E' adattato alla mia forma in un modo così perfetto che non sento fastidio, nel dormirci su. Mi addormento immediatamente, mandando al diavolo tutta la logica ed il buonsenso. Il giorno dopo mi sveglio senza problemi, senza aver bisogno di un orologio so già che ore sono, e con naturalezza torno a scuola, nonostante la lezione sia l'unica cosa che non m'interessava. Guardo quella ragazza, la biondina, mentre il professore parla. Tra l'altro anche oggi c'è solo lui, ed ogni tanto se ne va per fatti suoi portandosi dietro una paperella di gomma. Non mi perdo nella contemplazione generale della bionda, ma questa volta osservo i lineamenti, il volto, il sorriso. Sebbene, credo, non sia nulla di speciale, non riesco a smettere di guardarla. E' una calamita, di quelle potenti, ed io non son altro che un insulso pezzo di metallo, in balia del suo potere. Non posso fare altro che essere attratto. E' come se il mio sguardo sia un piccolo chiodo fissato a lei, ogni suo movimento è una vampa di calore; non mi importa di essere notato. A fine lezione perde tempo nel raccogliere alcuni quaderni che aveva fatto impacciatamente cadere. Come voglio salutarla, aiutarla, non lo so, voglio rendermi utile. Purtroppo il tempo è crudele, e lei se ne va senza che io possa raccogliere abbastanza coraggio. Il ragazzo con la frangia attese pazientemente che finissi di sbavare sulla bionda, me ne accorgo solo adesso, e mi chiede – Vuoi venire a casa mia? – Accetto ed usciamo da scuola insieme. Parliamo delle cose che abbiamo in comune. Anche lui si è svegliato in un posto singolare; una stanza al quinto appartamento del quinto piano di un palazzo, il quinto della quinta via. Non ricorda nulla, come me. Solo che io non ho una casa in un posto così figgo. Camminiamo sul marciapiede mentre macchine e motorini creano il traffico. – Non credi che dovremmo avere un nome? Insomma, come possiamo chiamarci? – Mi chiede. – Non lo so – Rispondo in tutta sincerità. – Abbiamo perso tutto della nostra identità, se ci inventiamo anche dei nomi, perderemo ogni possibilità di ricordare. Non vorrei riempirmi di informazioni. – – Vuoi dire che non t'importa di avere un nome? – – Preferisco rimandare. – Cade il silenzio. Il ragazzo sembra immerso nei suoi pensieri, ed anche un po' deluso. Continuamo a camminare, in silenzio. Lui vuole andare avanti, io invece resto qui, senza progressi. Arriviamo, dopo interi minuti di silenzio che parevano ore. Il portiere saluta con aria insolitamente vivace ,mentre chiacchera con qualche vicina. L'ascensore un po' sporco e malconcio ronza in modo inquietante, e si possono sentire i cani dei vicini abbaiare ad ogni minimo rumore. Ciò che vedo a casa sua non mi piace per niente, per le sensazioni che mi dà. Se quel palazzo sembra malconcio, quella casa è una discarica. Sembra la classica casa abbandonata, piena di stracci, polvere, calcinacci e così via. Eppure mi sembra così dannatamente familiare. Attraverso la casa a grandi passi. Il corridoio decrepito, le stanze rovinate, l'odore deprimente di una casa in malora, con la carta da parati bagnata e puzzolente, la muffa stantia fanno parte de particolare arredamento. La delusione mi avvolge, sto guardando qualcosa a cui ero affezionato, sicuramente, ma come se fosse passata una decina di anni. Non c'è nessun'altra spiegazione, ho già visto questo posto. Molte stanze hanno mobili, ma sono ricoperti da teli bianchi. – Ho provato a toglierli, ma non ci riesco. Sembrano più che incollate, non ho idea di che senso abbia. – Ci sediamo su una poltrona rotta e parliamo del più e del meno per un po' di tempo. Se si fa silenzio, mi dice lui, si può sentire un flebile suono di carillon da una stanza situata al centro del corridoio. Tutta via la porta non vuole saperne di aprirsi, e la melodia inafferrabile sfugge ai sensi appena stai per catturarla. Mi trattengo fino a tarda notte, ed alla fine decidiamo che sarebbe meglio se rimanessi lì a dormire, ma non passo una notte piacevole. Non riesco ad addormentarmi. Neanche una goccia di sonno scorre sui miei occhi, e per qunto potesse essere comodo un divano pieno di buchi, non mi sento molto a mio agio. Passo la notte da sveglio a cercare di comprendere la melodia che aleggia nella casa. Non è un carillon, questo è sicuro. E' una musica indistinta, che cambia e si trasforma dolcemente, e quasi non ci fai caso. La mattina dopo lo vedo sbadigliante e bisognoso di una colazione. – Dannazione, muoio di fame, mi mangerei un bue intero. Vivono buoi da queste parti, che dici? – Mi chiede sbadatamente. Io invece non ho fame. Non ce l'ho da quando mi sono ricordato di esistere. Metto da parte questo pensiero ed andiamo a scuola. Non mangiare non è un problema, secondo me al mio vecchio io non piaceva molto mangiare, adesso non m'importa definitivamente. A scuola il professore si addormenta ascoltando col suo lettore mp12 musica tantrica. Alle undici e venticinque secondi, il rosso si gira per parlarmi – E così non ricordi chi sei, eh? E nemmeno il francese lì? – Chiede. Il ragazzo con la frangia, che già era in piedi, si avvicina interessato. – Così pare. – rispondo io. – Nemmeno quel tipo lì se lo ricorda, lo sapete? – Indica il ragazzo dai capelli neri, truccato. Lui si ferma qualche secondo, pensa, e poi risponde. – Rosso, rosso, rosso. Qualcuno ti ha mai insegnato a chiudere il becco quando parli di me? Non farlo più a meno che non te lo ordini io. – Dice il ragazzo dai capelli neri. Il rosso sorride e dice – Io mi dimentico un sacco di cose ultimamente, se può esservi di conforto. – – No, non lo è. – Risponde il francese. Dopo qualche secondo interviene il ragazzo truccato – Io non ho bisogno del mio passato, poco m'importa. Ho tutta la vita davanti, mi sto già divertendo così, comando tutto io, belli. Sapete come mi chiamo, adesso? Il lupo, mi chiamo il Lupo.– – Interessante, Lupo. Come mai hai scelto questo nome? – Chiede il ragazzo con la frangia, mentre rotea distrattamente la sua cravatta, sembra proprio rapito. Lui, il Lupo, è seduto ritto, gambe aperte e braccia conserte. Noto che pensa sempre qualche secondo, prima di rispondere, come se dovesse valutare se la risposta da dare fosse degna di essere ascoltata. – L'ho sentito dentro di me, è l'unica cosa che mi appartiene. Non sono legato a nulla, e se ciò è nato da me, vuol dire che mi appartiene, interamente. Anche voi dovreste fare lo stesso, belli. – Non sono interessato. – Commento timidamente. Gli altri la prendono male, la reputano una sciocchezza e mi guardano storto. – Wow, anche io voglio un nome del genere! A stento mi ricordo il mio. – Sghignazza il rosso. Il discorso finisce tra qualche sghignazzo e commenti stupidi, poi cala il silenzio ed ognuno torna a pensare ai fatti suoi. Osservo il Lupo, che ha trovato una soluzione a questo stato anormale, ovvero l'autoreaizzazione della propria strada. Beato lui. La notte stessa la passo con il francese, ma non parliamo del Lupo, non parliamo di niente in particolare. Come al solito non mangio, né dormo, né mi faccio qualche domanda. Dopo nove ore, il mio amico con la frangia si sveglia e va a fare colazione, io lo guardo silenzioso. Erano le sei e due minuti e trentatré secondi.. trentaquattro.. trentacinque.. Ho una buona concezione del tempo. Anzi, intuisco l'orario fin troppo bene, come se avessi un orologio preciso da qualche parte, dentro di me. Interessante. Sorpreso di questo particolare, decido di fare un resoconto veloce. Mi sono svegliato in una stanza vuota, su un letto duro e pieno di cavi, e solo lì riesco a dormire. Non ho fame. Quando cerco di ricordarmi qualcosa di importante ,automaticamente metto da parte i particolari preoccupante. Nessuno si ricorda di me. Non ho mai fame. Non ho mai fame.. dormo nel mio letto, e mi sento bene. Rifletto, penso al mio letto, a come prendo immediatamente sonno quando mi stendo e poggio la testa sulla rientranza metallica, che ospita la mia testa. Ai cavi, ai fili elettrici, a tutte quelle cose meccaniche ed elettriche che dal letto partono dappertutto, a che possono servire? Al senso di caricamento spontaneo, immediato. Allora mi viene un dubbio, un dubbio che solo ad un idiota può venire. Collego l'idea della rientranza sul letto concava, quella che ospita la mia testa, sulla sua utilità. Tocco la mia testa, tasto i miei capelli, la nuca, ed ecco, li sento. Sono fori, ho dei fori sul collo, sulla schiena, sul cranio. Che diamine sono? Lo so, ovvio. Mi è naturale saperlo, come faccio? Fanno parte di me, di quella coscienza immersa nell'insolito. Sono umano? La consapevolezza è diversa di fronte a questa domanda, la mia mente non mi devia, non sono distratto. Sul serio, lo sono o no? Devo rispondermi. Come faccio già a sapere la risposta? Infilo le unghie nella carne del braccio, e tiro. Fa male, ed è una reazione esagerata, ma mi darà la risposta. Le unghie non si spezzano, ignoro il dolore e tiro, stringo e mi ferisco. Finché finalmente non strappo la carne, per vedere il sangue che ho all'interno. Il sangue che indica che sono umano, un essere vivente, che sono una creature di Dio. Il sangue che non c'è. Mentre il mio braccio si ricompone a vista d'occhio, coprendo i fili metallici dentro di me, tristemente capisco. Il francese entra e mi chiede che diamine sto facendo. – Uhm – Rispondo. – Non sono umano. –

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Capitolo 3
*** La protezione del'automa ***


Rimasi giorni immobile, seduto a terra, a casa mia. Non ero depresso, non ho subito uno shock, semplicemente avevo bisogno di riflettere sull'accaduto. In realtà non ho pensato a nulla, nella mia testa potevano volare delle mosche tanto era vuota. Ho la forte sensazione di non essere completamente meccanico. Se dovessi classificarmi in qualche modo, non mi chiamerei androide, né Cyborg, né macchina. Sento di essere ancora umano, e soprattutto so di provare sentimenti. Decido di punto in bianco di testare la mia resistenza, e provo a non dormire. Per capire quanto sarebbe durata la batteria, insomma. Tre giorni e tre notti dopo, sento decisamente il bisogno di dormire. Con la mente offuscata, non riesco a svolgere nemmeno i compiti più semplici, e provo difficoltà a tenere oggetti tra le mani in modo saldo. Non riesco nemmeno a scrivere il mio nome. Posso dire che la mia autonomia dura almeno settanta ore. Ora chiarito il mistero, posso tornare a scuola. Niente è cambiato davvero, il francese non ha novità, la bionda non mi rivolge la parola, il professore continua ad insultare il rosso. Scopro che la scuola non ha orari, spesso è aperta per giorni ma alcune volte il cancello si chiude nei momenti più sconvenienti. Vivo uno di quei momenti una mattina, non posso entrare perché il cancello è chiuso ed il Lupo osservava l'ostacolo con disappunto. Lo guardo negli occhi e noto le sue occhiaie nere, pesanti, che sfumano col trucco. – Che diamine è 'sta roba? – Mi chiede, nervoso. Guardo meglio, che finalmente ho l'occasione di vedere le due ante chiuse. Sono di ferro scuro, piene di decorazioni e fronzoli, e due esseri deformi sono scolpiti in modo da dare la sensazione di aprire le porte. Le mani dei mostri si congiungono, delineando la forma di una serratura. Ma solo quando il cancello è chiuso. Da aperto sono solo due mani separate. Insomma due mostri gentiluomini che ci permettono di entrare quando gli gira, forte. Sono abituato alle cose strane ormai, e concludo che anche gli oggetti attorno a me stanno cambiando. Il Lupo è contrariato – Credono davvero di poter fare i loro comodi? Non ho tempo da perdere, cazzo, non qui. Dio che mal di testa.. questo sole mi fa star male. – – Mettiti all'ombra, se ti dà tanto fastidio. – Dico io. Lui segue il mio consiglio ed aspetta seduto a terra, in un angolo sotto un muro. Mi chiedo se anche qualcun altro ha cominciato a cambiare fisicamente.. me lo lascia pensare il Lupo, ed anche lui si è svegliato senza ricordarsi nulla. Tre ore più tardi, il cancello si aprì da solo. Ero abituato al fatto che nessuno facesse particolarmente caso alle cose strambe, ma ora sto notando una consapevolezza generale. La situazione è un po' delirante, sembra che un velo di caos sia stato steso sulla città. Anche l'atmosfera si fa più pesante. Il tramonto dura di più, e quando si respira, sembra di inalare il gemello cattivo dell'aria. Il giorno dopo, entrando a scuola, noto che i bordi del cornicione del terrazzo sono piuttosto sfocati. Altre persone lo notano. Non sono molte, ma riesco a vedere una decina di ragazzi guardare in alto. La lezione del giorno non è entusiasmante, il professore spiega perché la frequenza del verso di un gabbiano possa risultare sgradevole ("mi svegliano, ed ho il sonno leggero!") e quante mutande possiede sua sorella (Veramente poche, posso dire.) Il giorno dopo la lezione è tenuta da un nuovo professore, ma scopriamo infine che è un maniaco e non ha niente a che fare con la nostra scuola. Oggi qualche ragazzo ha notato il cancello. Era ora. Il ragazzo con la frangia si assenta spesso, quelle poche volte che lo vedo mi racconta di una palestra che sta costruendo, per diventare più forte nel combattimento. Il Lupo sorride e dice – Fai bene. La lotta nobilita l'uomo. – Non sono molto d'accordo. Il lavoro nobilita l'uomo, non il combattimento. Ma non posso dirlo con certezza. Non ho mai lottato, a quanto ricordo. La bionda è una di quelle poche persone che hanno notato il cancello. Sapevo che in qualche modo era speciale, ed avevo ragione! Mi perdo spesso ad osservarla, e lei non se ne accorge mai. Sono come invisibile. La capra che guardava la montagna, come disse il maniaco. E' sempre distaccata dal suo gruppetto, e guarda spesso fuori dalla finestra, ma non sono mai riuscito a distogliere abbastanza lo sguardo per capire quale fosse l'oggetto del suo interesse. Spesso mi rivolge la parola il ragazzo dai capelli rossi, e chiede di me, vuole sapere come sto. Me lo chiede tranquillo, mentre distende le gambe e si rilassa, nei suoi pantaloni sempre bianchi e la sua camicia rosa. Non sono mai riuscito a capire se anche lui riesce a vedere il cancello o i bordi sfumati del cornicione, perché spesso si impegna a fissare delle cose normalissime. Non so dire se guarda con più intensità il cornicione o un astuccio. E' passato un mese ormai, il tempo vola ed ogni giorno accadono cose curiose. Il tetto, i vasi dei fiori, le finestre, la lavagna: hanno i bordi seghettati, o pezzi mancanti, come se qualcuno con un taglierino magico avesse asportato dei pezzi a caso degli oggetti. Capitano cose come una cattedra senza la gamba o i gabinetti senza sciacquone, che mi preoccupano. Il Lupo ha spostato il banco nell'angolo più remoto della classe, dove arriva meno luce. Ormai non la sopporta più.. Allora io, il francese ed il rosso andiamo da lui a chiacchierare e tenergli compagnia per non farlo spostare e non farlo sentire solo. Il giorno in cui ho preso conoscenza non è stato altro che l'inizio delle stranezze. Altre persone oltre me si sono risvegliate senza ricordarsi nulla, come il Lupo o il francese. Sicuramente succederà ad altre persone. Ragazzi normali notano il cancello deformato, però, e questo mi fa riflettere. Possibile che tutti acquistano man mano una dose di coscienza? Se c'è una cosa di cui posso essere sicuro è che nessuno diventerà un androide come me. Il francese si è svegliato in un posto totalmente diverso dal mio, e non ci sono tracce di macchinari in casa sua. Lui mangia, beve e dorme. Dentro di lui scorre del sangue, non dei dannatissimi fili di ferro. E' da quando ho preso consapevolezza di ciò che sono che non ho problemi con la forzatura del pensiero, e non sento più l'obbligo di pensare alla routine. Sono totalmente fuori dal giro, amici. Al tramonto di un Lunedì, un gruppo di ragazzi tra cui il rosso si accinge ad esaminare il cancello aperto. Vicino è acceso un falò, e pezzi di giornale volano nell'aria rossastra di fine giornata. Dico – Dovreste esaminarlo quando è chiuso, così si capisce che forma hanno i segni fuori. – Il rosso risponde – Non è quello che stiamo cercando. Vedi quelli che trafficano sulle giunture? Stanno cercando di capire che meccanismo c'è dietro. Vogliamo trovare il pazzo che si diverte ad impedirmi di uscire prima di pranzo. – – E come sta andando la ricerca? – Il rosso non risponde, si limita a guardare in modo cupo i suoi compagni. – Sono tuoi amici quelli? – Indico i ragazzi, cambiando argomento. – No, sono un manipolo di gente curiosa. Le cose qui stanno cambiando, ma non capisco cosa.. e raramente se ne parla. Tre-quattro di loro dormono nella scuola, sai? Non hanno più nessuno, un po' come te. – L'affermazione mi colpisce, ma mi limito a scrollare le spalle e dopo me ne vado, lasciando dietro di me un focolare solitario, usato per riscaldare in una notte di primavera. Anche se tutta la città è strana, tutto sembra concentrarsi nella scuola. Un giovedì, io ed il francese veniamo interrotti dalla nostra partita a scacchi da una ragazza dai capelli castani, e lo sguardo addormentato. – Ciao ragazzi, anche se non vi conosco vorrei invitarvi alla mia festa di compleanno. Sto invitando tutti, venite anche voi. – Noto subito che è affiancata dalla ragazza bionda, e sento il profumo delle possibilità. Dò un'occhiata speranzosa verso il mio compagno, ma non vedevo interesse nel suo occhio. Certo, è difficile intravedere qualsiasi emozione nelle sue espressioni comunque. Dannazione, non voglio andarci da solo, dovrò pur trovare qualcuno al mio fianco. – Certo, verremo con piacere – Dissi, sottolineando il plurale. Lei ringrazia e se ne va soddisfatta, dopodiché cala un silenzio imbarazzante, un silenzio interpretabile come "esigo una spiegazione". – Avanti amico, accompagnami alla festa! Non te ne pentirai, ci divertiremo e ci sarà un sacco da mangiare. – – Non so nemmeno chi sia. E nemmeno lei sa chi sono. E se è per questo, non sa nemmeno chi sei tu. – Risponde di rimando. – Sì che lo sa. Sai chi altro lo sa? Quella ragazza bionda. Dio quanto è bella.. non vedi quanto è fantastica? Devo andare a quella festa per conoscerla. – – Perché diamine vuoi conoscerla ad una festa quando puoi benissimo parlarle qui, a scuola? – – In classe è diverso, è sempre circondata da pazze scatenate e comunque troverò dei momenti più appropriati! Avanti accompagnami, ti prego ti prego ti prego ti prego! – E sicuramente l'ho intenerito con le mie ottime capacità persuasive, perché risponde – Vedrò cosa posso fare. – Il compleanno della ragazza dall'aria addormentata è abbastanza vicino, e non si parla d'altro in classe. Scopro che quando disse che "avrebbe invitato tutti", intendeva davvero tutti. Ha invitato chiunque gli capitasse a tiro, per esempio il maniaco che si finse un professore a scuola, sua sorella, vari controllori della stazione ed il bidello grasso. In un momento di tranquillità, mi avvicino all'angolo buio del Lupo e gli chiedo se ha intenzione di partecipare all'evento. – Probabilmente sì, verrò. Non oso immaginare a quante persone interessanti possano esserci. Sarà un nuovo spruzzo di novità, bello! – Risponde lui. Si avvicina il rosso intervenendo – Speriamo che non sia una spruzzata di merda, hah! – Seguito a ruota dal francese, che commenta stizzito – Che finezza. – Ci ritroviamo a discutere della festa, animatamente. Inaspettatamente si avvicina anche il professore, preceduto dai classici insulti di saluto. – Sappiate che l'organizzatrice della festa ha un buon reddito, terrà la festa in una villa molto grande, da quanto ho saputo. Cercate di essere presentabili e di non fare le solite figure da idioti. – Dice il professore. – Non è un problema per me, so già come presentarmi. – Risponde il Lupo, tranquillo. Il rosso invece dice – Piuttosto, cercherete di rimorchiare qualcuno? – Mi imbarazzo e non so cosa rispondere, il Professore invece dice – Io sì. – Segue quindi una discussione sui gusti in fatto di ragazze. A parte per la differenza di età, l'insegnante ed il rosso si trovano d'accordo dicendo che preferiscono le sciacquette. Il francese invece dice – A me piacciono le ragazze semplici e dal volto pulito. Vorrei una di quelle che quando la guardi ti viene da pensare "ah, questa sì che è una ragazza seria, e si prenderà sicuramente cura di me." – Io non dico la mia, non credo di capirne molto di ragazze. Non so dire se una ragazza è bella o brutta, o se ha un bel fisico o meno, sono termini privi di significato, nemmeno li concepisco come termine assoluto. Io riesco solo a capire quando una persona è bella per me, solo per la mia persona. Come la bionda; sembra sia stata scolpita nel marmo con l'obiettivo di farmi perdere la testa, e direi che l'autore c'è riuscito. Il Lupo dopo il suo attimo di riflessione dice la sua – Io voglio una ragazza particolare, splendente, di quelle che saltano subito all'occhio. E comunque non devono parlare, voglio una ragazza silenziosa che mi segua, e, ah!, mi piacciono con gli occhi grandi e sbrilluccicosi– – Tipo nei fumetti giapponesi? – Chiede il rosso. – Si chiamano Manga, comunque esatto, bello, hai indovinato. – Ed assume una posa pensierosa, intrecciando le dita e coprendosi la bocca. Il professore con aria raggiante propone – Facciamo una cosa, ragazzi. Propongo una scommessa! Chi non trova una ragazza in questa festa, deve baciare i piedi a chi l'ha trovata. Ci state, marmocchi? – Il francese mentre giocherella con la ciocca di capelli rossa dice – Non so quanto sia appropriata una proposta del genere da parte sua, professore, ma accetto. – Lupo pensa, poi – Accetto. – Il rosso ridacchia e – Accetto. – Poco convinto, concludo e – Accetto. – Vado a casa del mio amico elegantone, e mi strepito. Voglio sapere il suo nome. E' l'unico nome di cui m'importi. Il francese, il rosso, il professore, il bidello grasso, il maniaco, la drogata, la commessa. Questi soprannomi mi bastano, ma non mi accontento della Bionda. A casa del francese esprimo la mia preoccupazione riguardo il vestiario. Io ed il mio amico vestiamo sempre allo stesso modo. Io per questione di praticità, non ho altri vestiti e basta la mia grigia felpa. Decidiamo comunque di andare a fare shopping ignorando il problema principale: la mancanza di denaro. Ma proprio come previsto, i negozianti non badarono ai nostri acquisti e riuscimmo a scivolare nella sensazione di normalità, uscendo dai negozi senza sganciare un soldo. Al mio amico però questo non piace, dice che è come rubare, ed anche se non ha alternativa preferisce prendere il minimo indispensabile. – Promettimi che non approfitterai mai di questa falla del sistema. Promettimelo.– mi dice. Ed io va bene, promesso, e gli chiedo di aiutarmi a trovare un capo adeguato. Non mi preoccupa la promessa; non posso mangiare e non ho interesse nel prendere nulla nel particolare. Ma come fa lui a trovare cibo senza sapere che può non pagare? Dal negozio prende una camicia, un pantalone nero ed una cravatta scintillante, ma sembra afflitto. Non posso dire che ha lo sguardo triste, però c'è qualcosa in fondo che me lo lascia capire, tipo sesto senso. Sembra che in lui il senso morale esiste, al contrario di me. Quando mostro i vestiti che ho scelto io, sento i commessi ridere a voce alta, facendosi beffe del mio mancato intuito estetico, dannati. Il ragazzo con la frangia si offre di scegliere per me, ma mi presenta cose indicibili accompagnate da una doccia di sguardi incuriositi. Infine, una commessa mora dallo sguardo dolce si avvicina e mi aiuta mostrandomi vestiti adatti ad una festa per ragazzi. Gli credo, li prendo e me ne vado. Personalmente troverei davvero figo un cappotto lungo in pelle, ma non riesco a trovarlo da nessuna parte ed il francese dice che non è adatto ad una festa e dovrò accontentarmi di quello che ho preso. Seppur riluttante, gli credo. Incuriosito dai suoi sensi di colpa, gli chiedo come fa a procurarsi da mangiare. Dopo secondi di silenzio, mi risponde che la cosa è troppo imbarazzante, che non mi risponderà e che spera che io non tocchi più tale argomento, altrimenti si sarebbe offeso tantissimo. La cosa mi inquieta. Decido di lasciar correre e non pensarci più. Passo la notte a casa sua, e spero di restare sveglio tutta la notte per parlare della festa come delle scolarette eccitate ma alle due e trentasei del mattino, decide di ignorarmi ed infilarsi sotto le coperte. Passo la notte seccato ed innervosito, ma mi lascio cullare dalla melodia arcana e mi faccio avvolgere dalla tristezza. Dopo una notte di malinconia, andiamo a scuola. Sebbene domani sia il giorno fatidico, gran parte dei miei compagni di classe si lascia abbandonare sulla sedia e cadono in uno stato di pigrizia pesante, crogiolandosi al sole o lagnandosi. Il professore fuma e legge un libro di barzellette. Io mi trovo ancora all'angolo dell'aula col Lupo, il rosso ed il francese. Pezzi di cenere volano, e grossi quadrati di luce sono dipinti sul pavimento, il sole è estremamente forte. Il Lupo trema e digrigna i denti, non sopporta il calore. – Fa un cazzo di caldo, sono anni che non soffro così. – Afferma. – Che ne sai? – chiede annoiato il francese. – Non ne ho idea, è una sensazione. – – A proposito di anni, ma voi quanto siete grandi? Gli altri mi sembrano così piccoli, rispetto a noi.. – Chiede il rosso. Automaticamente formulo, ho diciannove anni, due mesi e tre giorni, e molte ore e secondi. – Io ho diciotto anni. – Dice il francese. – Anche io – afferma il rosso. – Anche io. – Conclude il Lupo, mentre digrigna i denti. – Io.. da quel che ricordo, ho perso un anno in questa scuola. Questa classe è una quarta, noi tre siamo stati bocciati una volta mentre tu – e mi indica – sei stato bocciato due volte. – Io rispondo – Magari no. Può darsi che non sono di questa classe. Prima di avere l'amnesia potevo essere di una quinta, che ne so. Qui neanche fanno l'appello, ed io semplicemente.. sapevo che dovevo stare qui, ho avuto un grosso sentimento di empatia. Come posso spiegare. Basta pensare che.. – Ma il francese mi interrompe – No, non dilungarti, abbiamo capito. – Cala il silenzio per una ventina di secondi, ed il rosso chiede – Secondo voi cosa c'è dopo la morte? – – Oh santo dio – Il francese si alza incredulo – Ne ho abbastanza – E se ne va. Dopo un'altra decina di secondi, passati col rumore dei passi del nostro amico che se ne andava, il rosso continua – Secondo me non c'è nulla, però solo pensarlo mi fa così paura.. come puoi andare in guerra sapendo che in qualsiasi modo puoi spegnerti per sempre? – – Bello, non ancorarti al mondo materiale. Hai paura perché non vuoi perdere ciò che sei. Pensa agli animali, loro combattono tra di loro e riconoscono la morte come un processo ovvio e naturale. Capito bello? Come un processo ovvio e naturale. – Il lupo scandisce bene le ultime parole. – Ed allora tu in cosa credi? – Chiedo io. Dopo qualche secondo di riflessione dice – Devo ancora pensarci. – Con calma, hai tutto il tempo del mondo. Distolgo lo sguardo soprappensiero. Io in cosa credo? Sono una macchina, eppure mi sento così affine alla religione, così propenso alla fede. L'idea di un essere sovrannaturale che ci segue mi appaga, quasi. Ma quindi il mio corpo è il risultato di uno scherzo di un dio? La giornata passa tra cenere e battute blasfeme, in un batter d'occhio sono già a casa mia. Il tempo scorre in fretta quando pensi alle battute idiote dei tuoi compagni o alla splendida figura della ragazza di cui sei perso. Mi rendo conto che quel manipolo di persone con cui spendo il tempo ogni giorno sono miei amici. Persino quello scorbutico del Lupo posso considerarlo amico. Sorrido e mi stendo sul letto. Immediatamente, mi scollego. Il giorno dopo apro gli occhi e sono nel panico. Non ho idea di dove si trovi la villa in cui si terrà la festa. Per la strada cerco come un disperato qualche indizio. Un po' di persone lo sanno, mi indica la via prima un controllore della stazione, poi un delinquente che si presenta come colui che ha tentato di violentare la sorella della festeggiata e si offre di accompagnarmi. Rifiuto gentilmente e vado da solo. Prendo tre autobus per arrivare, nel viaggio penso a tutti i miei amici che saranno presenti e spero in un minimo di incoraggiamento morale. La casa è maestosa, si staglia tra gli alberi esotici e tropicali di un grosso e lussuoso giardino. Sono le sette e trentaquattro e venticinque secondi, il cielo è già scuro e dal basso ci sono possenti luci e proiettori colorati, messi lì per decorazione, anche se non ne vedo il bisogno. Volano uccelli esotici, dei pavoni elegantemente passeggiano e mostrano la loro coda variopinta, dei pappagalli rossi e blu si appoggiano a trespoli o alle numerose palme disposte in file parallele alla strada che bisogna percorrere per raggiungere l'edificio. La villa ha un portone di legno, elegante e colpito dall'inevitabile mutazione dell'ambiente. Gli mancava la serratura, scomparsa di netto lasciando un buco quadrato preciso. Mi ricorda la gamba mancante del mio banco o lo sciacquone del gabinetto della scuola. Entro e mi trovo in un'ambiente diverso, particolare e decisamente qualcosa non va. Mi ritrovo in quest'ampio atrio, luci viola tingono le pareti. L'aria è soffocante, un profumo dolciastro ma pungente mi colpisce immediatamente. Noto cose bizzarre; al posto del lampadario c'è un enorme fiore, un'orchidea lilla che irradia l'ambiente di un colore malsano. Non sembra un lampadario costruito con una forma particolare, ma bensì un fiore vero e proprio che emana luce. La cosa mi puzza, ma solo metaforicamente. Persone di tutti i generi entrano ed escono, si adagiano, chiacchierano, mangiano tartine o bistecche, mangiano, dormono, vomitano o cercano di aiutare il compagno svenuto. Mi pare di scorgere anche qualcuno in pigiama. Decido di cercare qualche persona che conosco. C'è un vecchio baffuto che suona un pianoforte. Suona una composizione che mi ricorda il carillon della casa del francese. Appena tento di seguire la melodia, subito me ne dimentico. E' lo stesso effetto. Il musicista porta occhiali neri, mi chiedo se ci veda. Lo saluto, ma non mi risponde. Provo a chiedergli se un tempo ha contribuito nella costruzione di un carillon, ma non mi risponde. Che sia anche sordo? O semplicemente non mi dà retta. Ogni tanto un cameriere con un sacco sulla testa passa ed offre bicchieri vuoti e stuzzichini composti da volantini e matite. Rifiuto cortesemente. Mi appoggio ad una poltrona a forma di camelia, o meglio una camelia enorme usata come poltrona, ed aspetto il mio amico con la frangia, o il rosso. Sospetto che il francese non verrà mai. Lo sospetto da quando me l'ha promesso, non è mai stato convinto. Eppure è venuto a comprare i vestiti con me. Che rabbia. D'un tratto l'aria cambia, il profumo si fa più intenso ed alla musica si aggiunge un violino, suonato da una signora con un lungo vestito scuro ed occhiali neri, sarà cieca anche lei? Si avvicinano altre persone, mi chiedo se sto assistendo alla nascita di un nuovo gruppo musicale. Arriva il punto che non riesco a sopportare di non fare nulla e non vedere la bionda, allora mi alzo e vado a cercarla. Vago senza meta nella casa ma trovo solo tipi strambi. In una stanza c'è un uomo che porta a spasso un cane, mentre un corridoio è pieno di gente che mi impedisce il passaggio, e l'unico modo per poter passare è ammettere di far parte della confraternita del buco nero. Una confraternita di cui non ho mai sentito parlare. Trovo qualche indicazione da un maniaco che raccoglie ciocche di capelli, che può dirmi dove l'ha vista se gli lascio tagliarmi una ciocca. Acconsento, e dice che l'ha vista dalle parti del bagno. Vado in ricerca delle toilette, ed intravedo il Lupo in un angolo mentre parla con due ragazze. Mi avvicino a lui con aria impacciata. Ha una camicia blu scuro, pantaloni neri attillati ed una lunga pelliccia nera da signora avvolta sulle spalle. Nonostante tutto fa la sua figura. Le ragazze al suo fianco hanno abiti neri ed antichi, con gonne a balzo come le antiche nobili del '700. Una è albina, l'altra è castana, sono entrambe truccate in modo vistoso. Il Lupo si accorge di me e mi saluta sorridendo, con i suoi denti bianchi e brillanti. – Ehilà, bello! Vieni qui, ti presento queste due bambolone – e loro ridacchiano, ma a me non interessa. Dico – Sì, magari dopo. Hai visto per caso il francese o il rosso? E la bionda? L'hai vista lei? – – Chi diamine è la bionda? – Chiede lui dopo un attimo di riflessione. Ovvio, non si è mai accorto di lei ed io non gliene ho mai parlato. – Non so dove sia il francesino con il capellone rosso, ma posso dire con sicurezza che il rosso non verrà. L'ho visto stamattina e mi è parso in pessime condizioni – Ma certo, non verranno. Come ho potuto sperare e fidarmi di loro? Altro che amici.. non ho parole per esprimermi. Io avevo bisogno di loro. E di certo non posso affidarmi al Lupo, che sembra troppo immerso nel suo mondo. Faccio per andarmene e lui fa – E' la prima volta da tanto che non mi vedi così in forma, vero? Sto così bene, la notte. – dice sghignazzando. Io gli sorrido, scrollo le spalle e vado via, sbattendo contro un tavolo a forma di rosa. Oppure è semplicemente una rosa gigante, non lo so. In un angolo remoto della villa trovo le toilette, composte come dei bagni pubblici misti. Scosto delle lunghe liane e foglie di palma viola che funzionavano da tendine ed entro. Ci sono numerosi urinatoi, ed alla mia sinistra si trovano le cabine private. Sul pavimento viola, colorato dalla luce di un fiore sul soffitto, c'è distesa la festeggiata, che si diverte ad aprire la porta del bagno a calci, fingendosi ignara di tutto il marciume e l'urina che c'è per terra. Lei mi guarda, sorride e mi saluta, silenziosa, ed è l'ultima volta che la vedo, perché muore. Viene trascinata all'interno della cabina, senza preavviso e fiotti di sangue esplodono sul pavimento. Resto immobile. Dal bagno esce una creatura mai vista. Qualcosa in me mi permette di analizzarlo, è un esemplare di octopus vulgaris che in modo inusuale portava con se una conchiglia, in quel caso il gabinetto. Per definirlo con parole profane è un mostro polpo grosso come un cane. La creatura mi ignora, con i suoi tentacoli avanza e raggiunge l'uscita del bagno. Contemporaneamente, sento rumori elettrici e vedo materializzarsi un altro mostro. Ecco come è uscito quello di prima. Milioni di quadrati bianchi si uniscono e si sovrappongono, creando un'altra chimera. E' verde, squamosa, ha un solo occhio un solo braccio deforme ed artigliato e si regge in piedi a stento. Appena creato cade a terra paralizzato e quasi terrorizzato, col suo occhio sbarrato si agita e si dimena come un pesce fuor d'acqua. Ancora confuso si alza in malo modo, scavalca il cadavere della festeggiata, sbatte contro il muro, contro la porta e zoppicando segue il polpo. Dopo un attimo di silenzio, sento orchestrali urla di terrore, degli "oh mio Dio", degli "è morta", degli "siamo finiti" così naturali che nel mio shock trovavo ovvio sentire la disperazione. Mentre corro ad affacciarmi dal bagno per vedere la tragedia, noto che al gruppo di musicisti si è aggiunta una cantante, una splendida voce tra le urla. Altre persone stanno morendo. La lucertola da un occhio solo agita il suo braccio artigliato freneticamente colpendo persone a caso. Il polpo è lento e preciso, prende una persona per le braccia e la trascina verso la sua bocca interna, triturandolo. E' un inferno, abbiamo superato il limite delle stranezze. Individuo subito la ragazza bionda. E' immobile, con gli occhi sgranati ed un bicchiere d'aperitivo ancora in mano. Corro da lei, salto una gamba tagliata, cerco di non scivolare tra il sangue ed ignoro ciò che sta succedendo, lei ha la priorità e devo salvarla. La prendo per il braccio e le urlo per farmi sentire nel trambusto – Muoviti, scappa! Dobbiamo scappare. – Ma lei è ferma, immobile. Lo shock è troppo grande, o forse ha realizzato che la sua unica amica era nel bagno da dove sono usciti quei mostri ed adesso è poco viva. Cerco di strattonarla, oppone una debole resistenza e si lascia trascinare. Quando mi giro mi accorgo del mostro lucertola che sceglie noi come prede. Con tutta la forza che ho prendo la bionda e la abbraccio, la tengo più lontana possibile dal mostro, e cadiamo a terra. Nessuno più si muoveva, il rettile dal solo occhio decide di esprimere su di noi la sua violenza, ed io chiudo gli occhi, spero colpisca me. Non posso che sperare e stringerla. Ed invece basta una zampata ed il sangue zampilla, sento del liquido bagnarmi i vestiti e so, di per certo, che non sono io il ferito, perché io di sangue non ne ho neanche una goccia. Apro gli occhi, alla mia destra vedo un braccio bianco, puro e staccato dal corpo originale. Non riesco a ragionare. Sento qualcuno correre, giro la testa e guardo. E' il francese a correre, si ferma due centimetri prima del mostro e gli dà un pugno eccezionale. La terra trema. Basta un colpo, ed il rettile si accascia a terra rotolando. Il salvatore prende fiato e corre verso il secondo mostro, schiva i tentacoli saltando ed appena il piede tocca terra, il francese si scaglia con tutte le forze verso il polpo. Con veemenza colpisce ripetutamente il guscio, ad ogni colpo l vetri tremano. Il suo volto inespressivo lo fa sembrare ancor più un eroe. Più colpi dà, più la musica si intensifica, ed arriva il gran finale. Il guscio si rompe, e basta un pugno nel cervello morbido per uccidere il mostro. Poi cade il silenzio. Era finita. Dodici morti e due mostri, poi il resto tutti sani e salvi. Tranne l'angelo che ho tra le braccia. L'eroe con la frangia si piega ed ansima, suda freddo. Poggio delicatamente la bionda per terra, e mi avvicino. – Sei venuto alla fine.– Gli dico. – Già. Alzati e porta quella donna in ospedale. – E fa per andarsene. Io lo guardo e chiedo – Dove vai? – – In bagno. Devo vomitare. –

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