Le tre madri

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1



Prompt: Organza



Il luogo gli era vagamente familiare, una sensazione a cui era abituato, poiché col passare dei decenni la probabilità di ritornare in posti che gli sembrava di avere già visto pareva aumentare in modo tanto esponenziale quanto sgradevole. Talvolta scopriva che l’impressione corrispondeva a realtà ma nella maggior parte dei casi l’effetto era dovuto semplicemente, oltre che all’andamento ciclico della moda e del design, al fatto che sembravano esistere limiti naturali alla fantasia di architetti e arredatori.
Questo gli fece tornare in mente che aveva spezzato il collo a un arredatore, una volta. Come la lingua batte sul dente che duole, quasi tutti i suoi ricordi comprendevano la medesima scena: sullo sfondo la sagoma indistinta di un essere umano per terra, nella posa scomposta e vagamente oscena della morte, e in primo piano lui stesso, intento ad asciugarsi con la mano l’angolo della bocca ancora sporco di sangue. Per l’ennesima volta, Spike si chiese quando avesse imparato a dare questo taglio cinematografico così vivido e drammatico alle immagini che emergevano nella sua memoria, quasi che un altro se stesso, uno che non fosse nato e cresciuto prima dell’invenzione dei fratelli Lumiere, fosse tornato su tutte le scene dei suoi delitti al solo scopo di riprenderle puntigliosamente una per una con particolari d’effetto e la giusta illuminazione.
Dio solo sapeva se ci fosse bisogno di aggiungere ulteriore pathos agli avvenimenti del passato che già opprimevano la sua coscienza al punto che aveva visto quasi con sollievo l’opportunità di farla finita.
A proposito.
Dal momento che l’ultima cosa che ricordava era di essere bruciato vivo come una novella Giovanna d’Arco nel sotterraneo del liceo di Sunnydale, che cosa ci faceva adesso seduto su una sedia a braccioli di fronte a una riproduzione della Vergine delle Rocce malamente incorniciata? Spike osservò attentamente le maniche della sua giacca di pelle ma non le trovò più malconce di quanto fossero di solito. Sulle mani aveva solo qualche cicatrice passeggera delle battaglie più recenti. Pantaloni, neri, attillati e ragionevolmente puliti, sebbene non ricordasse di avere indossato proprio quelli, ma in fondo quella mattina, o per meglio dire l’ultima mattina di cui serbava memoria, s’era vestito al buio e nemmeno la vista di un vampiro può distinguere un paio di jeans neri da un altro paio di jeans ugualmente neri senza un minimo di illuminazione. Scarpe le uniche che possedeva e calzini scompagnati per lo stesso motivo di cui sopra, oltre che per essersi vestito molto di fretta.
C’era qualcosa che non andava: niente bruciature, niente ustioni, niente odore di cenere.
Niente medaglione della serie I gioielli di Barbie appeso al collo.
Decisamente c’era qualcosa che non andava.
Nessun dolore.
Non che di quest’ultimo sentisse particolarmente la mancanza.
Spike arrotolò la manica e sospirò di sollievo quando trovò la minuscola scalfittura all’interno del gomito. Normalmente non gli sarebbe rimasto il minimo segno, ma poiché Buffy aveva non solo le unghie affilate ma anche la forza di una Cacciatrice, gli era rimasta sulla pelle la traccia del momento in cui gli aveva stretto un po’ troppo il braccio. Se ne era infinitamente scusata, come se l’anno precedente lui non fosse uscito con graffi e lividi da ognuno dei loro rendez-vous.
Saggiamente, Spike si era però tenuto quest’ultima considerazione per sé.
Quindi, quella notte era realmente esistita. Ma poi?
La stanza era quadrata, non grande, tappezzata con una carta da parati color crema a fiorellini stilizzati che gli stava già venendo a noia. Sul pavimento di parquet un po’ usurato era steso un tappeto persiano piuttosto liso ma ancora bello, con un disegno particolare di cui un tempo Spike avrebbe saputo dire il nome. Più il disegno era minuto, più nodi c’erano in ogni centimetro quadrato e più il tappeto era di valore: Spike ridacchiò, pensando che non riusciva a ricordare se questo l’avesse sentito dire nel salotto di sua madre o se l’avesse invece imparato da Angelus.
C’erano altri quadri appesi alle pareti e sotto la Vergine delle Rocce un tavolinetto accostato al muro, su cui era appoggiato un vaso da fiori a forma di coppa di ceramica bianca, vuoto. Di fianco alla sedia su cui era seduto c’era un’altra sedia uguale e più in là un grosso portaombrelli con due ombrelli, uno verde da donna e uno nero da uomo. Ai due lati della finestra, celata da anonimi tendoni color marron glacé lievemente sbiaditi, facevano bella mostra di sé due esili vetrinette dal disegno molto sobrio, che contenevano alcuni oggetti vagamente ornamentali, come una serie di scatoline di porcellana, simili a quelle che in taluni luoghi si usano come bomboniere, una pipa di radica appoggiata sul suo supporto, un piatto d’argento lavorato a sbalzo e tre campioni di minerale di diversi colori, che Spike probabilmente all’età di tredici anni avrebbe potuto riconoscere.
In altre parole, era una stanza che avrebbe potuto trovarsi ovunque in qualsiasi epoca. A partire dall’invenzione della pipa e dell’ombrello in poi.
Spike si alzò, andò alla finestra e scostò il tendone. Sembrava che fosse notte, una notte priva di luna e di illuminazione artificiale e attraverso il vetro non si vedeva assolutamente niente. L’infisso, due ante di comune legno verniciato stranamente prive di maniglia, resistette ad ogni tentativo da parte di Spike di aprirlo, cosa che di per sé era decisamente sospetta. Poiché nel corso degli ultimi mesi aveva passato veramente molto tempo rinchiuso da qualche parte per una ragione o per l’altra, non si sentiva molto tollerante verso questa ulteriore privazione della sua libertà personale. Si tolse la giacca e se l’avvolse attorno al braccio per non tagliarsi mentre rompeva il vetro, ma già mentre vi si buttava contro con tutta la sua forza, aveva il presentimento che non sarebbe servito a niente. Infatti, rimbalzò contro quello che come minimo era un vetro antisfondamento e si ritrovò seduto per terra. Si rialzò sospirando e si rimise la giacca. Forse aveva viaggiato indietro nel tempo, come in una di quelle storie di fantascienza che piacevano tanto a Xander.
Oddio. Harris. Chissà se se l’era cavata. E Dawn? Willow, Faith, Anya? Quei due idioti di Osservatori che lo avrebbero voluto morto? Poi c’era il ragazzino, quel povero Andrew che tutti trattavano malissimo e che lui aveva morso. E tutte quelle bambine (la scolaresca, le chiamava dentro di sé). Alcune le aveva viste cadere e non più rialzarsi mentre infuriava la battaglia con gli Übervamp.
Buffy, sì. Lei doveva avercela fatta, Spike ne era sicuro: lo avrebbe sentito, se Buffy fosse morta. Di tutte quelle persone, solo a lei era veramente importato qualcosa di lui, eppure provava una terribile ansia al pensiero che a qualcuno di loro fosse accaduto il peggio.
Stupida anima.
E più stupido ancora lui che se l’era andata a cercare.
Anche se sembrava che ci fossero degli innegabili vantaggi nell’avere questa famosa anima, almeno per quanto riguardava la Cacciatrice.
Innegabili, enormi vantaggi.
Magari un filino tardivi.
Spike attraversò la stanza e andò alla porta. Come la finestra, era anonima, insignificante, priva di maniglia e in grado di resistere a ogni tentativo di forzatura, anche da parte di un vampiro. Spike decise di rimandare a un momento successivo un ulteriore tentativo a spallate e si sdraiò per terra. Non fu affatto sorpreso di constatare che da sotto la porta né filtrava il minimo chiarore né penetrava la più leggera corrente d’aria.
A questo punto gli venne un dubbio e balzò nuovamente in piedi, senza poter fare a meno di cercarsi affannosamente il polso e poi di affondare il pugno nello stomaco. Stava respirando? Sì, no. Chi lo sa.
No, il battito non c’era: sembrava che fosse ancora un vampiro, dopotutto.
Le zanne uscirono docilmente, a comando; le ripose in fretta, timoroso di farsi sorprendere a fare esperimenti con le sue armi vampiriche.
Sul muro dietro alla sedia dove era stato seduto era appeso un tendaggio di velluto bordeaux, rialzato da un lato per mezzo di un cordone di seta con tanto di nappine, sotto il quale si intravedeva un pezzo di cornice dorata.
Spike si avvicinò, perplesso: aveva già incontrato qualcosa del genere negli studi dei pittori e nelle gallerie d’arte. Molto, moltissimo tempo prima aveva visto un ammennicolo quasi uguale in casa di un tale che era stato suo compagno di università; in quel caso il tendaggio aveva celato alla vista l’opulento nudo femminile rappresentato nel dipinto sottostante. William era stato ingenuo, ma non così tanto da non riconoscere nei lineamenti della signora in questione quelli di una celebre mantenuta, della quale aveva dedotto – giustamente – che il padrone di casa fosse l’amante di turno. Poiché quel tale si trovava all’estero quando William, qualche tempo dopo, aveva incontrato Drusilla, ora averlo ucciso non aggravava il suo già pesante fardello di rimorsi: no, quel poveraccio aveva avuto tutto il tempo di farsi massacrare con tutti i crismi della legalità e in odore di amor di patria durante la guerra contro i Boeri.
Quando Spike spostò di lato il tendaggio, perciò, quasi si aspettava di posare gli occhi su una bella ragazza discinta, invece fu alquanto sorpreso di trovarsi viso a viso con un volto noto. Capelli biondi accuratamente acconciati, occhi verdi, lineamenti perfetti in un ovale che sembrava di porcellana, collo sottile: portava perfino quella collana di perle e zaffiri che le piaceva tanto e che una volta era appartenuta a una vera contessa francese. Sebbene il ritratto si fermasse all’altezza del seno, era evidente che la donna raffigurata indossava un ricco abito di seta azzurra. La profonda scollatura era velata da sottili ruches un po’ rigide, di pallida seta arricchita da delicati ricami dorati, che adornavano anche i polsi. Drusilla aveva un abito abbastanza simile, ma di un rosso cupo, con guarnizioni color perla. Entrambi avevano fatto parte del guardaroba di una signora del bel mondo, molto raffinata e alla moda, alla quale in una sera d’inverno la sarta li aveva appena consegnati e che non immaginava certo chi avrebbe finito con l’indossarli al suo posto. Mentre Drusilla, che quando voleva era molto brava con i lavori di cucito, li riadattava per sé e per Darla, non la finiva più di elogiare la finezza del tessuto usato per le decorazioni, perciò Spike ricordava ancora che era organza, la stessa impiegata per molti moderni abiti da sposa. Sia Dru sia Darla ci avevano tenuto molto a quelle decorazioni di organza, l’una per la bellezza della fattura, l’altra perché pensava che la facessero sembrare una vera signora. Non era così, naturalmente, ma Spike aveva imparato presto a tenersi per sé tali opinioni, onde evitare risse in cui avrebbe quasi certamente avuto la peggio. Era un dato di fatto: la scollatura sempre un po’ eccessiva, l’inutile rosso artificiale sulle guance, i riccioli troppo gonfi ai lati del collo, ogni piccolo dettaglio avrebbe rivelato a lui, e a maggior ragione a qualunque donna della buona società, che Darla non era una vera signora. E mai lo sarebbe stata. Poteva avvolgersi di metri di seta finché voleva, ma restava sempre una sgualdrina del Nuovo Mondo, della quale non era mai importato niente a nessuno, prova ne fosse che non aveva mai rivelato il nome che aveva portato da viva. Nemmeno Angelus lo sapeva, solo il suo adorato Maestro. Darla era come un pezzo di volgare pane di segale avvolto in un pacchetto di finissima organza, e della segale, perfida e meschina come sapeva essere, aveva lo stesso gusto amaro.
Ciò non toglie che fosse una delle donne più belle che Spike avesse mai visto. Come incantato, restò a fissare gli splendidi occhi verdi del sire del sire del suo sire – una sorta di bisnonna, dal punto di vista vampirico – senza riuscire a capire come mai in quella stanzetta fosse appeso un suo ritratto, dipinto ad olio e anche molto somigliante.
Darla.
Non pensava a lei da anni. Sebbene moltissimo tempo prima avessero avuto rapporti molto stretti, tale relazione non era mai diventata amichevole, almeno che Spike ricordasse. Al di sotto della comunanza di interessi, dei legami quasi familiari, dell’alleanza tattica e di fuggevoli incontri sessuali, il disprezzo reciproco era sempre rimasto alla base della loro relazione. Quando Darla se n’era andata, lasciandolo solo con Drusilla, Spike non ne aveva certo sentito la mancanza.
“Così, William, ci si rivede.”
Spike fece un balzo all’indietro e si guardò intorno per capire da dove venisse la voce. Quando riportò gli occhi sul quadro, non vi erano rimasti che gli elementi dello sfondo. In compenso, aveva la sensazione che qualcuno alle sue spalle stesse guardando la sua nuca.
Si voltò lentamente.
Sì, era un vestito di seta azzurro da sera, con una guarnizione di piccoli fiocchi sul davanti dell’ampia gonna che sarebbe stata meglio su una poltrona. Drusilla avrebbe voluto toglierli, ma ovviamente Darla non era stata a sentirla.
“Magia?” chiese Spike sospirando.
“Non proprio” rispose Darla e gli sorrise in modo affettuoso.
“Allucinazioni?” ipotizzò lui. La vera Darla, e nemmeno una Darla finta o l’incarnazione del Primo o il fantasma della medesima, non avrebbe mai rivolto un sorriso come quello proprio a lui.
Le pizzicò il braccio, attraverso il leggero tessuto del vestito da sera.
“Ahi!” protestò la sedicente Darla e gli tirò una sberla che gli fece girare la testa da un lato.
Chiunque fosse, due cose si potevano già dire con certezza: cioè che picchiava esattamente come Darla e che non poteva essere il Primo.
Mentre cercava di ricordare se le allucinazioni potessero essere tattili, lei lo sospinse gentilmente verso la sedia posta sotto il ritratto da cui era misteriosamente uscita: “Vieni, William, sediamoci.”
Spike ubbidì docilmente, sempre più sconcertato anche perché non era più abituato a sentirsi chiamare in quel modo.
Lei si sedette nella sedia a fianco, accomodando accuratamente la gonna del vestito in pieghe ordinate, perché non rimassero brutti segni sul tessuto, proprio come avrebbe fatto la vera Darla con un abito prezioso.
Gli appoggiò una mano sul ginocchio e abbassò il capo da un lato, mentre lo guardava: “Ti trovo bene, tutto sommato.” Le ruches d’organza attorno al polsino della sua manica erano così rigide che gli fecero solletico, persino attraverso il pesante tessuto dei pantaloni.
Spike sapeva molto poco di quello che aveva fatto Darla dopo aver rischiato di finire bruciata insieme a Drusilla, per mano di Angel. Sapeva solo, perché lo aveva detto Faith, che si era uccisa. Perché, dove e in che circostanze, Faith o non lo sapeva o non lo aveva voluto spiegare, perciò Spike non ne aveva la più pallida idea. Faticava anzi moltissimo a credere una cosa del genere: gli sembrava più probabile che Angel si fosse disfatto della sua vecchia amante e fosse poi andato in giro a dire che lei si era suicidata.
“È vero che ti sei spaccata il cuore tu stessa, due anni fa a Los Angeles?” chiese incuriosito.
“Sì” ammise lei con un lieve sorriso. “Non potevo fare diversamente, capisci?”
“No.”
“Eppure dovresti. Mi dicono che ti sei lasciato bruciare vivo la notte scorsa” replicò Darla dandogli un altro colpetto affettuoso sul ginocchio.
Spike borbottò qualcosa.
“Colpa dell’anima, immagino. La stessa cosa è capitata a me, in un certo senso.”
“Tu, un’anima?” chiese lui in tono incredulo. Se gli avessero mai chiesto chi altri, tra tutti i vampiri, avrebbe potuto avere la malsana idea di gettarsi alla riconquista della sua anima immortale, Darla sarebbe stata di certo l’ultima a cui Spike avrebbe pensato.
“L’anima di qualcun altro, veramente.”
“Di lui?”
“No. Del mio bambino. L’anima del mio bambino che cresceva dentro di me.”
“C’è un solo modo in cui un bambino possa stare dentro una vampira, se non ricordo male.”
“Ricordi bene, ma evidentemente c’è anche un altro modo. Io ne sono la prova, anche se non vivente.”
“Tu sei matta.”
“Perché tu, invece… Da quando in qua si è sentito di un cretino di vampiro che si fosse messo in testa di rivolere indietro la sua anima? Ho sempre saputo che eri stupido, William, ma non mi sarei mai aspettata che tu fossi così stupido.”
Spike alzò le spalle.
“Almeno è servito?” si informò Darla.
“Che?”
“Questa cosa dell’anima. È venuta a letto con te, ti ha detto di amarti?”
“Cosa vuoi da me? Tu non sei di famiglia. Non più.”
Darla rise: “Beh, se è servito, buon per te. Ma soprattutto, trattandosi di chi sappiamo, mi farebbe piacere vedere la faccia di Angel quando verrà a saperlo.”
“È viva, vero?”
“Buffy? Come puoi dubitarne? Quella è peggio della gramigna.”
“E gli altri?”
“Quanto sei curioso. Non credo di poter… Ah, ma chi se ne importa? Le ragazzine no, ma i grandi ce l’hanno fatta quasi tutti. Però ho sentito parlare di un ex-demone della vendetta che sarebbe già in attesa del prossimo incarico.”
E così, Anya aveva finito una volta per tutte di dire cose inopportune. Harris ci sarebbe rimasto molto male, pensò Spike con una fitta di pietà.
”Hai sentito parlare, da chi?”
Darla fece un gesto, come a significare che c’erano dei padroni di casa, che decidevano la sorte di chi si trovava in quella stanza.
“E soprattutto: che cosa siamo? Io e te, qui e adesso.”
“Morti, no?”
Beh, c’era da immaginarselo.
“Non-morti definitivamente morti?” indagò Spike.
“Non c’è niente di definitivo, mio caro.”
Si scambiarono uno sguardo d’intesa, da quegli amici che non erano mai stati.
“E allora tu stai in quel quadro come se fossi un ex-preside di Hogwarts?” volle sapere lui.
“Hogwarts? Che cos’è?” chiese Darla, genuinamente perplessa “No, quel quadro è soltanto un po’ di spettacolo. Questo vestito e la collana, te li ricordi? Li avevo a Bruxelles, quella sera all’opera.”
“Ci sono state molte sere e molte opere, Darla. La proprietaria di quella collana… non ricordo come si chiamasse. Ma la sua cameriera, la ragazzina… ricordo come gridava mentre Angelus le spezzava le dita, una alla volta. Solo quando le ruppi il collo, smise di urlare. Quanti anni avrà avuto, Darla? Quattordici, quindici al massimo.”
“No, non mi ricordo della cameriera della contessa. Però rammento i due sposini fiamminghi in viaggio di nozze. Quella sera al teatro di Bruxelles.”
Ora anche Spike ricordava. Non c’erano stati cadaveri scompostamente buttati per terra, quella volta. Era stata una delle rare occasioni in cui lui e Darla avevano cacciato insieme, loro due da soli, mentre Angelus si godeva lo spettacolo con Dru avvinghiata a lui come una pianta d’edera s’attorciglia attorno una colonna, perché il fragore degli ottoni la spaventava terribilmente, e Dio solo sapeva perché.
Chiunque gli avesse mandato Darla attraverso quel quadro, era un vero perfezionista, non c’era che dire. Erano così sereni quegli abitanti di Bruxelles, così convinti che nulla potesse turbare la loro vita ordinata e produttiva. Si sbagliavano di grosso, visto che dopo una quindicina d’anni sarebbero venute la Grande Guerra e l’invasione tedesca, ma lui e Darla questo, allora, non potevano saperlo. Era perciò sembrata loro un’idea divertente riportare il scena il vecchio Jack, che tanto aveva spaventato i londinesi solo un paio di anni prima, per dare uno scossone alla sonnolenta capitale belga.
Non era così improbabile che Jack fosse della consorteria, dopotutto: agiva sempre di notte e se fosse stato un vampiro, ci sarebbe stata almeno una certa logica nello sventrare quelle donne.
Poteva esserci qualche ragione perché non volesse o non potesse usare i denti, come qualunque altro volgare succhiasangue: dentatura insufficiente, riluttanza a mettersi in mostra o addirittura uno strano genere di senso dell’umorismo.
“Volevamo imitare Jack. Fare uno scherzo a quei mangiacavolini” disse Spike.
“Già. Avesti tu l’idea.”
“Io? Non credo proprio…”
“Figurati se non lo ricordo: per una volta che dimostrasti un po’ di fantasia e di senso estetico. L’unica volta” aggiunse Darla con un’ombra della sua caratteristica malignità “Di solito saresti stato troppo ubriaco per poter disporre gli intestini in quel modo. Sei sempre stato così sciatto.”
Spike scrollò le spalle: quando uno era morto, era morto. Non che gli potesse importare un granché del modo in cui venivano impiegate le sue viscere. A lui di sicuro non sarebbe importato un accidente. Certo, non doveva essere stato un bello spettacolo per il direttore del teatro, che aveva trovato lo scempio appeso alla porta degli artisti mentre rientrava alla chetichella dalla sua consueta visitina veloce all’amante. Né per i poliziotti che avevano staccato i resti dei due sposini dalla suddetta porta. Ma soprattutto quell’immagine doveva aver tormentato la mente di coloro che avevano amato i due ragazzi in vita e che avevano accompagnato al cimitero le bare in cui i due corpi erano stati frettolosamente ricomposti. Poiché probabilmente c’era stata una certa confusione nell’attribuire giustamente gli organi interni, non era fuori luogo dire che i due malcapitati fossero rimasti strettamente uniti anche nella morte. Uniti ma anche disassortiti, come due collane rotte, raccolte di fretta e buttate via in due diversi sacchetti.
Spike alzò gli occhi a fissare quelli di Darla, senza provare per questa ragione tristezza e depressione, come gli capitava da quando aveva riavuto la sua anima immortale. Nel libro mastro delle esistenze, il bilancio di Darla era molto in rosso, sotto il riguardo del dare e avere in materia di vite umane. Parecchio più in rosso persino del suo, visto che lei aveva sul groppone almeno un paio di secoli di omicidi in più.
Per qualche ragione, gli sembrò meschino dirle apertamente“Tu sei più malvagia di me.” Non ebbe problemi, viceversa, a sostenere il suo sguardo senza abbassare il capo.
“È solo una rimpatriata tra ex-commilitoni o mi devi dire qualcosa in particolare, Darla?”
“Giusto.” Si mise più eretta, come una ragazzina che stesse per recitare la lezione: “Sono stata mandata per annunciarti che riceverai tre visitatori stanotte.”
Spike corrugò la fronte, sospettoso, mentre dei campanelli – anzi delle festose campane natalizie – gli risuonavano in testa.
“Aspetta un momento… non avrò mica avuto la parte del vecchio Scrooge?“
Darla sorrise ma non rispose niente: aveva incontrato Charles Dickens in persona, una sera, quand’era già troppo vecchio per essere appetitoso. E sebbene quello fosse l’unico motivo per cui lo avesse lasciato andare, si era poi vantata per anni di non aver voluto compromettere lo stato della letteratura inglese.
Scomparve così repentinamente che a Spike, che l’aveva afferrata per un polso, rimase in mano un minuscolo frammento di quella organza così preziosa. Menomale che se ne era andata, altrimenti gli avrebbe fatto una scenata per averle rovinato il vestito.
“Ci mancava solo questa” borbottò seccato, nascondendo il pezzetto di tessuto tra il sedile e lo schienale della sedia. “Possibile che non mi riesca mai di morire in pace?”


***


Potete considerare questa breve storia a capitoli - quattro in tutto - come una celebrazione del settimo anniversario, da poco trascorso - della fine del telefilm Buffy.
O semplicemente come l'ennesima prova del rammollimento cerebrale della sottoscritta.
O entrambe le cose.
Comunque sia, "crossover" non solo perché si situa esattamente a metà tra la settima stagione di Buffy e la quinta di Angel, ma anche per il pedestre riferimento a Dickens.
La storia è conclusa, perciò ne pubblicherò un capitolo alla settimana, in modo da farla finita nello spazio di un mese. Sì, lo so: è una rapidità insolita, trattandosi di me. Spero che di questo almeno mi sarete grati: via il dente, via il dolore!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2



Prompt: Giardino



Spike aveva sempre odiato aspettare. Ultimamente, oltretutto, gli sembrava di non aver fatto altro: aspettare di ritrovare la ragione o che qualcuno ritrovasse lui e lo tirasse giù dalla parete di quella stramaledetta caverna, aspettare che Willow escogitasse un modo per battere il Primo, aspettare che Buffy venisse a fargli visita in cantina.
Camminò avanti e indietro dentro quella stupida anticamera finché non gli sembrò che il tappeto avesse conservato una traccia del suo passaggio. La finestra e la porta erano sempre ermeticamente chiuse. Magari se fosse riuscito ad aprirle si sarebbe trovato in un desolato deserto, alla mercé di enormi mostri pronti a divorarlo.
Chissà com’era l’Inferno.
Quando andava in chiesa la domenica insieme a sua madre, aveva sentito spesso il pastore descriverlo. Più tardi, aveva letto i fantasiosi tormenti scaturiti dalla fervida immaginazione dell’italiano Alighieri. Forse l’Inferno, però, era solo un posto noioso dove non succedeva mai niente e si restava completamente soli e abbandonati e sicuri di non valere niente e di non interessare a nessuno, per l’eternità. Nessuno da amare, nessuno da odiare, nessuno per parlare. Chissà se si trovava già all’Inferno, il posto dove finivano tutti quelli come lui.
Ricoprì il quadro con la tenda, pensando che magari il visitatore che stava attendendo non si sarebbe fatto vedere, finché non avesse rimandato, per così dire, il suo mezzo di trasporto al capolinea. Dopo un po’, constatando che non succedeva niente, scoprì di nuovo il quadro, che continuava a mostrare uno sbiadito paesaggio privo di figure umane. Quello sullo sfondo sembrava un tipico cottage della campagna inglese.
Forse invece il trucco era fissare il quadro intensamente?
“William.”
La voce era dolce, femminile. Non gli pareva di averla mai sentita prima.
Spike si voltò lentamente, perché ora che l’attesa era finita, improvvisamente non aveva più tanta fretta di scoprire chi fosse il primo dei visitatori che Darla gli aveva preannunciato. Non sapeva che cosa aspettarsi, veramente, ma gli pareva ragionevole che dovesse trattarsi di una delle sue vittime. Qualsiasi cosa si attendesse, di certo non era preparato a ciò che vide. Sbatté le palpebre, ma la visione non mutò d’aspetto. Eccola ancora lì, con il grembiule bianco, le guance rosse e gli occhi celesti come le porcellane allineate su una mensola di cucina: la tipica Nannie, un esemplare della vasta schiera di donne che avevano allevato generazioni e generazioni di danarosi rampolli britannici. Ne aveva avuta anche Spike una, quand’era piccolo: più magra, rossa di capelli e con gli occhi nocciola, ma vestita proprio in quello stesso, identico modo. Sebbene spesso le bambinaie restassero nella casa dove avevano servito anche quando l’oggetto delle loro cure era ormai diventato grande, la sua invece aveva preferito tornare al villaggio natio, dove era poi morta di tifo. Quando in collegio era arrivata la lettera che gli dava la triste notizia, il piccolo William aveva pianto e i compagni di scuola avevano rispettato il suo dolore, come se gli fosse morto un membro della famiglia. Spike non aveva mai più ripensato al profumo d’amido di un candido grembiule come quello, eppure il desiderio di sentirlo ancora una volta, di immergerci il naso proprio come quando era bambino, lo spinse istintivamente ad allargare le braccia verso la sua visitatrice.
La nannie si tirò indietro d’un passo, mostrando la punta delle grosse scarpe stringate sotto la lunga gonna blu. “Mi spiace, tesoro” disse scuotendo la testa. “Anche a me piacerebbe abbracciarti, ma non si può fare. Ci sono delle regole.”
Spike non questionò sul fatto che gli si rivolgesse come se fosse un bambino, perché ciò era tipico delle donne che svolgevano la sua professione, soprattutto dopo che avevano raggiunto una certa età.
“Allora, Mary Poppins, saresti tu il visitatore che aspettavo?”
“Sono il fantasma…” iniziò a presentarsi.
“Guarda che mancano ancora sette mesi a Natale” la avvertì Spike.
“…della madre del passato!” concluse la donna.
“Di chi?”
“Della madre del passato” ripeté scandendo bene le parole, come se dovesse farsi intendere da un bimbo un po’ duro di comprendonio. ”Andiamo, adesso?”
‘Una storia di madri, proprio quello di cui avevo bisogno’ si disse Spike.
La bambinaia camminò fino alla porta e attese pazientemente che l’ombrello verde nel portaombrelli si sollevasse graziosamente e raggiungesse la sua mano forte e grassoccia.
Spike si chinò da un lato, per controllare che il manico non fosse il becco di un pappagallo, come quello dell’ombrello di Mary Poppins. A Drusilla piaceva il film con Julie Andrews, tant’è vero che l’aveva costretto a rivederlo molte volte. Se lo avesse desiderato, Spike sarebbe stato in grado di cantare tutta la colonna sonora dall’inizio alla fine. Non che ci tenesse a farlo.
La bambinaia si girò e gli tese la mano, proprio come se dovesse far attraversare la strada a un fanciullo.
“Cosa? No. Nemmeno per idea.” Spike rimase fermo dov’era e scosse il capo, risoluto. La nannie gli rivolse uno sguardo di mite rimprovero, come se lui avesse appena rifiutato una porzione di budino di riso, anzi avesse respinto proprio quel budino di riso che la sua devota nannie gli aveva appena preparato con tanto amore. Sospirando, Spike prese la piccola mano grassoccia tra la sua. La bambinaia nascose un sorriso sotto le labbra, lievissimamente baffute, e aprì l’ombrello.
“Hai visto? Ce n’è un altro” osservò lui. Non gli andava molto di viaggiare insieme a una bambinaia sotto lo stesso ombrello. Verde acceso, per di più. “Non sarebbe meglio se ognuno di noi avesse il suo ombrello magico person…”
Una folata di vento gli gelò le parole in bocca, mentre si sentiva sollevare e trasportare a grandissima velocità. Memore del racconto di Dickens e delle molte trasposizioni cinematografiche con cui glielo avevano ammannito durante gli anni, non appena riuscì a riaprire gli occhi Spike guardò verso il basso, aspettandosi di vedere scorrere sotto di sé città e campagne, mentre la sua accompagnatrice lo conduceva a destinazione. Invece, non c’era niente se non una leggera polvere grigiastra che vorticava intorno a lui, alla nannie e al loro ombrello verde, puntato in avanti più che verso l’alto. Si sarebbe detto che stessero percorrendo un tunnel dalle pareti lisce e curve, come se fossero due pacchetti spediti a tutta velocità dentro un condotto della posta pneumatica. Invece che sul pavimento di qualche ufficio della City, però, atterrarono sopra un prato alquanto bitorzoluto, per primo l’ombrello, con la punta ficcata nel terreno, poi la bambinaia e per ultimo Spike, che accorgendosi di essere all’aperto in pieno giorno si accucciò istintivamente, tentando di coprirsi la testa con la giacca per non essere incenerito. Poi gli tornò in mente che non solo quel giorno era già andato a fuoco una volta, ma che non c’era nemmeno il minimo indizio che quella spiacevole esperienza stesse per ripetersi, dal momento che non si sentiva bruciare, non avvertiva odore di fumo e, soprattutto, non provava neppure il più piccolo dolore. Dopo aver controllato che la sua bianca mano, esposta al sole di una bella giornata di primavera, non era diventata un moncherino nero e non era neppure un po’ arrossata, con un certo imbarazzo si rimise in piedi con vampiresca agilità e restò a guardarsi attorno cercando invano di capire da dove fossero arrivati.
“Io odio la magia” sospirò, constatando che a quanto pareva erano finiti dentro un sereno angolo della campagna inglese: sembrava proprio un ritorno alla madrepatria in grande stile. Con tardiva galanteria, tese una mano per raccogliere da terra la corpulenta nannie, che si stava ancora dibattendo, con la candida cuffia tutta di traverso, nell’ingombro dovuto all’ampio grembiale e alla voluminosa gonna nonché a una sterminata sottoveste di rigida tela, la cui presenza era stata impudicamente rivelata dal capitombolo della sua proprietaria.
“La magia non c’entra” lo rimproverò la sua guida, mentre si rimetteva in ordine i vestiti. Pareva che le facoltà da vampiro non avessero abbandonato Spike nemmeno all’altro mondo, perché la sua vista straordinariamente acuta gli consenti di individuare una lunga forcina tra l’erba. Si chinò a raccoglierla e la restituì alla bambinaia, che l’infilò subito dentro le trecce strettamente arrotolate. La manovra ricordò al vampiro certi giochetti che gli era piaciuto fare, in tempi ormai lontani, con i grossi chiodi che di solito si usano per le traversine ferroviarie. La sua ottima memoria, sulla quale aveva sempre contato, ora gli si ritorceva contro, riproponendogli a tradimento tutti i dettagli delle sue gesta disumane, persino di quelle che aveva compiuto quand’era ubriaco fradicio e che in teoria non avrebbe dovuto rammentare affatto, ma che gli ritornavano invece alla mente come brandelli di incubi, ancora più angosciosi perché slegati da qualsiasi logica. Nei mesi appena trascorsi, si era reso conto che in dodici decenni si ha davvero il tempo di ammazzare un sacco di gente. Prima della battaglia, quando aveva considerato l’ipotesi che sarebbe potuto non tornare, aveva pensato che in quel caso, se non altro, avrebbe smesso di ricordare. Avrebbe dovuto immaginarselo, che non poteva essere così facile.
Senza dirgli nient’altro, la donna gli voltò le spalle e si avviò di buona lena su per un sentierino che serpeggiava lungo la collina.
“Ferma, Mary Poppins, dove vai?” le chiese invano Spike. Si rassegnò a seguirla, brontolando: “Facciamo questa scampagnata”. Come se stare in pieno sole non gli facesse nessun effetto. Si chiese per chi o per che cosa si prendesse la briga di fare la commedia. Perché non si sdraiasse invece in mezzo all’erba, con la faccia al sole e gli occhi chiusi, come un morto la cui bara fosse stata improvvisamente scoperchiata; per lasciar filtrare la luce attraverso le palpebre fino al preciso momento in cui nel sollevarle avrebbe visto solo un accecante chiarore. A proposito di bare, era oltremodo seccante essere morti per ben due volte e non avere mai avuto un vero funerale. Dovette affrettare il passo per stare dietro alla bambinaia, che era già un bel pezzo avanti. Spike non era sorpreso che una donna di quell’età e di quella corporatura fosse così in forma, perché prima dell’avvento dell’era dell’automobile, la maggior parte delle persone non poteva che camminare, se aveva bisogno di spostarsi per star dietro alle proprie faccende. I suoi scarponi neri e polverosi, ma neanche un po’ bruciacchiati, affondavano leggermente nel terreno morbido e umido, coperti dall’erba alta fin quasi alla caviglia, tra cui facevano capolino minuscoli fiori spontanei, dei quali il vecchio William avrebbe saputo dire il nome latino. Era la sfolgorante primavera inglese di quando era ragazzo, quella che erompeva senza preavviso alla fine delle fioche giornate invernali come se un ignoto pittore avesse deciso all’improvviso di cambiare tavolozza, passando dalle tinte pastello a quelle vivaci. E quella, sospirò Spike guardando giù dal colmo della collina, era proprio la casa di campagna dove trascorreva le vacanze primaverili, al tempo in cui frequentava la scuola.
Per qualche ragione, non ci era mai tornato. Nel cottage, appartenuto in origine alla famiglia di sua madre, avevano vissuto a quell’epoca due sorelle, una zitella e una vedova, che dovevano essergli cugine di terzo o quarto grado, insieme all’anziano padre, da loro accudito con filiale devozione, forse accresciuta dalla consapevolezza che alla sua morte avrebbero dovuto sloggiare. Che Spike sapesse, quando la sua esistenza aveva preso una svolta imprevista il vecchio era ancora vivo e vegeto, mentre la più giovane delle figlie, quella zitella, era morta un paio d’anni prima, per aver preso una polmonite andando in chiesa la sera di Natale. La casa doveva essere finita all’unico nipote maschio, sempre che fosse sopravvissuto al longevo zio. Molti anni più tardi, Spike aveva scoperto che al posto del cottage sorgeva ormai un complesso di villette a schiera, non troppo lontano dalla stazione su una delle nuove linee ferroviarie che erano state costruite tra le due guerre, per avvicinare Londra a sobborghi sempre più lontani, ma a quell’epoca raggiungere quel posto dalla città richiedeva un lungo e scomodo viaggio in carrozza.
La nannie, che stava già scendendo lungo il pendio dall’altra parte, usando l’ombrello verde per mantenere l’equilibrio, si girò e gli fece cenno di muoversi, schermandosi gli occhi con una mano. Il giardino posteriore, inondato dal dolce sole pomeridiano, era esattamente come Spike lo ricordava: il romantico gazebo di ferro battuto, le aiuole di bulbi e di fiori annuali intervallate da vialetti rettilinei nel mezzo, le piante perenni lungo la recinzione di legno verniciata di bianco e l’edera che si arrampicava sulla parete della casa, in apparenza invadente ma in realtà disposta a lasciare spazio ai fiori blu dell’ipomea, che si sarebbero fatti strada a luglio.
Rendendosi conto che era inutile stare fermo lì a guardare e a temere che da un momento all’altro comparisse il lembo di un vestito ben noto, Spike corse giù lungo il prato, verso le vacanze primaverili della sua adolescenza.
La porta a vetri del soggiorno si aprì proprio nel momento in cui raggiunse la sua guida, in piedi sul sentiero che passando dietro alla casa portava alla parrocchia. Aveva appoggiato i gomiti su una delle assi orizzontali della recinzione e si allungava per guardare nello spazio tra quella e il bordo superiore, come un ragazzino che sbircia lo spettacolo dei clown attraverso una fessura del tendone del circo. Spike notò che aveva appeso l’ombrello alla recinzione. Le girò attorno e si appostò al suo fianco, silenzioso e vigile come un gatto selvatico, così come aveva fatto infinite volte, mai però alla luce del giorno e mai in compagnia di una bambinaia. Quello che stava per apparire era più spaventoso dei mostri ai quali aveva dato la caccia negli ultimi anni, mentre aiutava Buffy a sventare tutte quelle apocalissi in serie.
Proprio in quel momento la porta a vetri che dalla casa portava in giardino si aprì e due donne, una dopo l’altra, passarono attraverso il vano, manovrando abilmente le ingombranti gonne. Non era ancora l’epoca degli abiti slanciati dell’ultima parte del secolo e le crinoline gonfiavano ancora i vestiti delle due signore. La prima, più anziana, portava cappello, ombrello e scialle, come se fosse pronta per uscire.
“Eccole” disse la nannie.
“Sst” l’ammonì Spike, che non riusciva a togliere gli occhi dall’altra donna, che indossava solo un semplice vestito grigio pallido e una cuffia guarnita di nastri viola. Era la padrona di casa, che stava accompagnando la sua amica al cancello.
“Non ci possono sentire” replicò la sua guida. “Neppure tu ci puoi sentire” aggiunse, indicando con il suo dito grassoccio la panchina mezza nascosta dall’edera, proprio sotto la finestra aperta. Un ragazzino smilzo, seduto scompostamente con un libro in mano. Il giovane William, a casa per i pochi, preziosi giorni delle vacanze primaverili, lontano dalle tetre aule scolastiche e dal cibo insipido del collegio per leggere al sole, esplorare i dintorni e ingozzarsi con le deliziose torte della cugina Sarah.
Spike fece una smorfia quando il se stesso quindicenne, nell’accorgersi che la madre e la sua amica erano uscite, scattò in piedi e si avvicinò per accomiatarsi educatamente dall’ospite. Sciocco ragazzino, che cosa sperava di ottenere, comportandosi sempre in modo così corretto?
La signora Manners accolse gli educati saluti del collegiale con un sorrisetto di condiscendenza e spinse la sua compiacenza fino a congratularsi con l’amica. “Anne, vostro figlio diventerà un uomo garbato in società, se saprete tenere a freno la sua immaginazione” sussurrò a voce molto bassa, ma non abbastanza perché i suoi invisibili spettatori non la ascoltassero. Se la madre di Spike non gradì questa implicita critica al suo unico figliolo, non lo diede a vedere. “Spesso rimpiango che egli non abbia avuto la guida né di un padre né di uno zio” convenne con un modesto sorriso “purtroppo il destino ha deciso altrimenti.” Anne richiuse il cancello dietro le spalle della sua visitatrice con un po’ più di energia di quanto non sarebbe stato necessario e si girò verso il figlio. Il suo sorriso si allargò: “Abbiamo un po’ di tempo tutto per noi prima di cena, che cosa desideri fare?”
“Vuoi che ti legga qualcosa?” chiese William, con un sorriso speranzoso che fece arrabbiare Spike. Stupido ragazzino, perché non andava a correre tra i prati come avrebbe fatto qualsiasi quindicenne? “Quello che stavi leggendo tu, qualsiasi cosa sia!” disse Anne accennando al libro che il ragazzo aveva abbandonato sulla panchina. “Che cos’è?” chiese ridendo mentre andava a prender posto sotto il piccolo gazebo di ferro battuto.
“Coleridge, naturalmente” rispose William, correndo a recuperare il libro dalla panchina.
“Naturalmente” sorrise Anne, mettendo mano alla borsa da lavoro, appesa al bracciolo della sedia. Prese in mano il suo ricamo e cercò il punto in cui l’aveva lasciato. Aveva le guance rosee, la pelle vellutata e i capelli luminosi, e la semplice cuffia da casa la faceva sembrare ancora più giovane. No, era giovane, pensò Spike. Era giovane e, soprattutto, stava ancora bene.
“Perché mi fai vedere questo?” chiese alla nannie.
“Non ti ricordi questo giorno?”
“Non in particolare” ammise Spike.
Il giovane William sedette con il libro in mano, lo aprì e lo richiuse.
“Mamma.”
“Scegli pure tu la poesia che preferisci, William” disse lei senza alzare gli occhi dal ricamo.
“Io… non ho potuto fare a meno di ascoltare quello che ti diceva la signora Manners.”
“William…”
“Non ho fatto apposta, te lo giuro. Credo di essermi addormentato al sole, poi il suo tono di voce mi ha destato. Mi spiace, mamma.”
“Non erano discorsi intesi per le tue orecchie” osservò Anne, arrossendo leggermente. “Ma se dici di non aver fatto apposta, io ti credo.”
“Conosco Charles Denton, mamma.”
Anne smise di ricamare e lo guardò interrogativamente, con l’ago in aria: “E…?”
“La storia che racconta lui è diversa.”
“Diversa, in che senso?”
“Non so davvero se dovrei parlartene…”
“Certo che devi” rispose Anne fermamente.
William sospirò: “È quello che pensavo anch’io. La signora Manners ha detto che questa parente dei Denton è stata… allontanata per certe ragioni, che hanno a che fare con Charles.”
“Non è una bella storia, ragazzo mio.”
“Non è nemmeno una storia vera, mamma. Charles è a Oxford, perciò io non ci avrei niente a che fare, se suo cugino Terence Hamilton non fosse del mio corso.”
“È un tuo amico?”
“Charles Denton? Non si degnerebbe mai.”
“Terence Hamilton.”
“Nemmeno lui. Non direi proprio che sia mio amico” storse la bocca William. Anne non insistette. No, pensò Spike, Hamilton non era mai stato suo amico, né a scuola né in seguito. Nemmeno lui gli avrebbe dimostrato molta amicizia, d’altra parte, circa quindici anni più tardi.
“Ci ha raccontato tutto” spiegò William. “Eravamo nella camerata, saremo stati dieci o dodici. Tutti abbiamo sentito, quelli che erano interessati alla sua storia, ma anche quelli, come me, che avrebbero preferito non ascoltare affatto. Saranno passati forse due mesi, era subito prima del compito di latino su Sallustio… sei settimane fa, quindi. Hamilton, sai, è uno di quelli che deve sempre trovare qualche ragione per vantarsi – non intendo parlare male di lui, ma…”
Anne annuì.
“Quando non ha niente di cui vantarsi per conto suo, allora si gloria delle imprese altrui, senza rendersi conto che spesso tali fatti potrebbero suscitare nel suo uditorio, invece di ammirazione, imbarazzo se non addirittura riprovazione” continuò William.
“Parlavo davvero in quel modo?” chiese Spike, disgustato.
La nannie lo zittì e gli fece cenno di continuare ad ascoltare.
“Mi stai dicendo che ha raccontato ai compagni di scuola le azioni di suo cugino Charles?” dedusse la madre.
“Sì, senza forse pensare che tali azioni non rendevano più onore a chi le riferiva di quanto potessero procurarne a colui che le aveva compiute” sentenziò ampollosamente il ragazzo, per poi proseguire, più affrettatamente e con crescente imbarazzo, a narrare come Charles Denton avesse confidato a suo cugino Terence di avere approfittato di una giovane orfana, che i suoi genitori ospitavano nella loro casa di Londra quasi per carità, dal momento che non aveva né mezzi economici né parenti più prossimi che si occupassero di lei. Poiché la fanciulla si schermiva e resisteva a tutte le sue profferte (“cosa che non sorprenderà” aveva osservato William a questo punto “chiunque abbia frequentato Charles Denton anche solo per cinque minuti”) era arrivato al punto di ricattarla, minacciando di nascondere una spilla tra le sue cose e accusarla di furto presso la signora Denton.
“In questo modo ottenne quello che voleva, almeno in parte” concluse William, ormai rosso come un peperone, senza entrare in particolari, “perciò non è vero quello che ti diceva la signora Manners poco fa, cioè che i Denton avrebbero allontanato quella poveretta per averla sorpresa mentre tentava di esercitare le sue perfide mire sul loro… innocente rampollo.”
Perplesso, William inclinò la testa di lato in un’espressione che Spike avrebbe certamente riconosciuto come propria, se solo avesse potuto specchiarsi negli ultimi centoventicinque anni, prima di aggiungere: “È vero solo nel senso che probabilmente la signora Denton è convinta di sapere da che parte sta la colpa, perché Charlie dev’essere riuscito a far sembrare la situazione del tutto differente dalla realtà.”
Anne allungò il braccio attraverso il tavolo e diede una pacca affettuosa sul dorso della mano del figlio: “Hai fatto bene a parlarmene, William.”
“Temevo avresti pensato male di me per aver ascoltato i vostri discorsi” sorrise il ragazzo, rinfrancato. “Poi ho pensato che non dovevo farmi sfuggire la possibilità di aiutare una creatura calunniata e priva di qualsiasi appoggio. Perché tu farai qualcosa, vero?” chiese ansiosamente. “Avevi un animo generoso e cavalleresco” osservò la bambinaia, guardando Spike dalla testa ai piedi con poco lusinghiera incredulità.
“Sono sempre stato un idiota.”
“Lei scrisse a qualcuno, lo sapevi?”
“No, mi disse soltanto che sarebbe stato meglio se non ne avessi saputo più niente.”
“Andò a finire che diedero una piccola dote alla ragazza e mandarono il figlio in Marina…”
“Finalmente un po’ di giustizia a questo mondo!”
“…il che permise a Charles Denton d’incontrare una ricchissima ereditiera a Cadice.”
“Come non detto. E la ragazza?”
“Sposò un ricco bottaio, mise al mondo cinque figlie e morì di polmonite a cinquantasette anni, non prima di aver conosciuto i primi otto dei suoi dodici nipoti, il più giovane dei quali sarebbe poi emigrato negli States e avrebbe dato un contributo essenziale all’invenzione del… come si chiama?, computer personale, ecco” recitò diligentemente la nannie.
“Un altro delitto da aggiungere alla mia già lunga lista” commentò Spike, per niente impressionato.”A che cosa dovrebbe servire esattamente questo viaggio nel passato?”
“Questo è ciò che eri. Qui è da dove sei partito, le tue radici affondano in questo posto…” gli spiegò la sua guida, alzando l’ombrello per indicargli il giardino.
“Radici del cavolo, sono londinese...” protestò Spike. Intendeva aggiungere purosangue ma non ne ebbe il tempo, perché del tutto inaspettatamente e senza che egli potesse reagire, la mite governante lo stese con una violenta ombrellata sulla testa.


***


Un grande grazie a Kiki May per aver recensito. Come si sarà capito, Spike è anche il mio personaggio preferito.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3



Prompt: Uova fritte



Si ritrovò nell’anticamera. La situazione era identica all’inizio, eccezion fatta per un ombrello in meno nel portaombrelli e un bernoccolo in più sulla sua testa. Camminò per un po’ avanti e indietro, tastandosi la testa dove era stato colpito e imprecando contro la dannata razza delle governanti inglesi, prima di riprendere posto sulla stessa sedia di prima. La porta e la finestra erano sempre ermeticamente chiuse, fuori era ancora buio pesto e la scialba illuminazione presente nella stanza non aveva nessuna spiegazione: né lampade, né candele, né faretti incassati da qualsiasi parte. A Spike continuavano a roteare per la testa vecchi versi che parlavano dell’implacabile luce della coscienza, ma forse era solo effetto del trauma cranico.
Nella sua lunga non morte era stato atterrato dagli avversari più improbabili con le armi più assurde, ma l’ombrellata di una bambinaia batteva ogni record. Al confronto, l’accetta di Joyce Summers e la freccia di Harmony impallidivano.
Studiò per un po’ la Vergine delle Rocce. L’arte figurativa non era mai stata il suo forte, ma la riproduzione gli parve eccellente. Osservò i personaggi uno alla volta, poi arretrò d’un passo per guardare bene l’insieme. Non che grotte e caverne fossero al momento il suo paesaggio preferito, a dir la verità. In ogni caso, la Madonna, i due bambini e l’angelo sembravano molto sereni e molto compresi in ciò che stavano facendo, di qualsiasi cosa si trattasse. Se quel quadro era stato scelto per farlo sentire ancora di più un reietto, era stato fin troppo facile. Se invece c’era qualche altro motivo, allora non era abbastanza intelligente o abbastanza preparato in storia dell’arte per capirlo.
Com’è che da quando aveva di nuovo l’anima gli sembrava di essere diventato più stupido? Era una cosa che era successa anche ad Angel, a ben vedere.
La direzione inquietante che avevano preso i suoi pensieri fu bruscamente interrotta da una voce femminile.
“Bel quadro, vero? Dicono rappresenti l’unione fra la maternità e il divino… o qualcosa del genere. Leonardo da Vinci era figlio illegittimo, sa? Era un po’ fissato anche lui con le madri. E a proposito di questo, dobbiamo andare. Su, venga.”
Tutto questo discorso era stato pronunciato senza prendere fiato da una donna asciutta e scialba sulla quarantina, che mentre parlava gesticolava indicandogli la porta. Spike notò che aveva lo smalto delle unghie un po’ rovinato.
Era sicurissimo che la donna fosse arrivata senza fare il minimo rumore. Al suo orecchio da predatore, che poteva sentire strisciare un paio di mocassini indiani, non sarebbe dovuto sfuggire il ticchettio delle scarpe scollate col tacco alto.
“Il fantasma della madre del presente, suppongo” s’informò Spike con un cenno del capo.
“Indovinato. Che cosa fa lì impalato? Su, dobbiamo andare” lo sollecitò la sua nuova guida, sollevando dal tavolino sotto la Vergine della Rocce il vaso da fiori che vi era posato. Era di ceramica bianca e aveva forma di coppa. La donna ci guardò dentro, scuotendolo un po’, come se volesse assicurarsi che fosse proprio vuoto. Sembrava uno strano momento per darsi all’ikebana.
“Non prendiamo, ehm… l’ombrello?” chiese Spike indicando l’ombrello che era rimasto, quello da uomo.
La donna lo guardò sorpresa e sollevò il vaso sopra la testa con entrambe le mani. Spike fu lesto a ritrarsi, temendo, dopo l’esperienza con la bambinaia, che glielo rompesse sul capo. Non era preparato però a quello che accadde subito dopo: ricevette infatti un colpo dietro le ginocchia che gli fece piegare le gambe e chinare la testa. Quando rialzò lo sguardo vide calare su di sé un’ombra gigantesca, quella di una versione enormemente ingrandita della coppa, poi gli sembrò di rimbalzarci dentro come un pupazzetto lasciato cadere in una scatola. Cercò di afferrarsi alle pareti, ma erano lisce e fredde, proprio come se fossero fatte di porcellana. Colto dalla vertigine, chiuse gli occhi e si rannicchiò, lasciandosi trasportare. Li riaprì non appena la testa smise di girargli e si ritrovò a fissare le pupille grigio azzurre della sua guida, che sedeva compostamente sul fondo della coppa, proprio di fronte a lui, le gambe ordinatamente raccolte sotto di sé e le scarpe con i tacchi alti tenute in mano.
“Stia attento con quegli anfibi, o rovinerà la porcellana” gli consigliò, come se per viaggiare dentro un vaso da fiori si dovessero seguire delle ovvie regole di comportamento.
Spike le rivolse un’occhiataccia e piegò ancora di più le ginocchia, ma senza strisciare sulla porcellana con il carrarmato delle suole.
“Dove andiamo di bello?”
La sua guida sbuffò e guardò l’orologino che portava al polso. “Ci vorrà poco. Ha avuto anche lei una giornata pesante?” s’informò, sarcastica. “Io mi sono alzata alle sei per portare il bambino all’asilo e arrivare al lavoro per le otto.”
“Io invece sono bruciato vivo per salvare il mondo” replicò Spike.
La donna spostò un ciuffo di capelli rossicci dagli occhi e lo guardò incuriosita. “Così lei sarebbe un vampiro con l’anima?” gli chiese come se se lo fosse aspettata completamente diverso. Spike nel frattempo notò che sotto la tinta si vedevano le radici scure e che la matita aveva sbavato lungo il bordo delle palpebre.
“Noi vampiri con l’anima non siamo tutti uguali” protestò.
“Siete solo due” osservò la donna, sottintendo che per quanto la riguardava avrebbero anche potuto essere zero. Sbadigliò, mettendosi educatamente la mano davanti alla bocca. Sembrava stanca oltre il punto in cui le potesse importare ancora qualcosa di qualcuno.
“La piccola si è svegliata due volte, stanotte” gli confidò. Anima o non anima, Spike non riusciva a provare interesse per il sonno perso a causa di infanti. Quand’era stato vivo, si supponeva che queste fossero cose che non lo dovessero riguardare, l’attenzione di Dru verso i bambini era stata di un genere molto particolare e persino nell’ultimo, disgraziato periodo, le Potenziali erano state sì troppo giovani ma non così tanto.
Stava ancora decidendo se esprimere francamente il suo disinteresse sarebbe stato considerato scortese, quando il loro viaggio – o trasvolata o quello che era – si arrestò bruscamente e il loro mezzo di trasporto ondeggiò come una nave sul punto di naufragare. Spike e la sua guida finirono ammonticchiati sul fondo del vaso per un breve istante, prima che entrambi si rialzassero, imbarazzati, sistemandosi inutilmente i vestiti, che per la verità erano già molto stazzonati prima che quella gita avesse avuto inizio. Il vaso era così inclinato che ne uscirono facilmente, ritrovandosi in una fitta oscurità. Il caratteristico odore di gas di scarico misto ad effluvi marini, insieme col caldo umido e appiccicoso, gridò alle narici ipersensibili del vampiro “Los Angeles”, la città degli angeli in generale e di uno in particolare. Che meraviglia. Una luce si accese dietro a una finestra, illuminando fiocamente il giardinetto posteriore di un villino suburbano, sul cui praticello erano atterrati con il loro vaso come avrebbero potuto fare degli strambi visitatori extraterrestri nella parodia di un film di fantascienza. Il piccolo giardino confinava sui tre lati con altre proprietà simili, quel tipo di casette che si estendevano per miglia e miglia nei sobborghi di Los Angeles, per ospitare famiglie di reddito medio, un gradino più su del proletariato di recente immigrazione ma parecchio più in basso del ceto medio di impiegati d’alto livello e di professionisti che vivevano in quartieri più eleganti, con abitazioni più grandi e meglio tenute, più vicine al mare o nascoste tra la vegetazione sulle colline.
La sua guida gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra che si era illuminata. Spike volse gli occhi nella direzione indicata per un attimo, e non appena si girò nuovamente il vaso da fiori formato gigante era svanito dal giardino senza lasciare nessuna traccia sull’erba.
“Odio la magia” borbottò con convinzione.
Attraverso la finestra a saliscendi si vedeva una piccola cucina, con mobili di legno chiaro che sembravano nuovi e pareti allegramente tinte di giallo pallido. Sul giardino dava anche la portafinestra, schermata da una tenda a listelli, che tintinnava lievemente contro il vetro ad ogni minimo alito di vento. Spike pensò che sarebbe diventato matto, se fosse stato costretto a sentire quel rumore giorno e notte. Meno fine d’udito, il padrone di casa sedeva tranquillamente al tavolo quadrato, dando loro le spalle, e affettava pomodori.
Il rumore del motore di una macchina si avvicinò poi si spense, mentre qualcuno parcheggiava sul davanti dell’abitazione. Si sentì una portiera sbattere, poi le chiavi girare nella serratura.
“Sono tornata, amore. Dove sei?” chiese una voce femminile.
“In cucina, Amanda” rispose l’uomo seduto al tavolo, alzando la testa. Non c’era bisogno di vederlo in faccia per capire quanto gli facesse piacere sentire quella voce. Ecco un uomo felice di affettare pomodori nella cucina della sua casa, aspettando che la sua donna tornasse a casa e che magari gli preparasse qualcosa da mettere vicino ai pomodori. Era un giovanotto grande e grosso, con spalle ampie e muscolose che si disegnavano sotto la semplice maglietta bianca e larghe mani abbronzate, più adatte a maneggiare pesanti arnesi da lavoro che utensili da cucina. Aveva i capelli scuri ancora bagnati, come se si fosse appena fatto una doccia. Tutto lasciava pensare che si trattasse di un onesto operaio, reduce da una lunga giornata di duro lavoro e dotato di un giusto appetito. Doveva esserci del gusto ad essere un uomo così, pensò fuggevolmente Spike, a maggior ragione se si aveva per moglie una biondina adorabile come quella che faceva il suo ingresso in quel momento attraverso la porta. Spike vide scintillare il cerchietto d’oro all’anulare della mano sinistra. Se il marito non portava la fede, doveva essere solo perché avrebbe potuto impigliarsi in qualche gancio o qualche chiodo mentre lavorava. Era un’abitudine di coloro che avevano a che fare con macchinari pericolosi. Negli anni Venti e Trenta Spike trovava spesso la fede del padrone di casa ancora nuova, conservata nella sua scatolina dentro il primo cassetto del comò, quando buttava all’aria la povera abitazione di qualche famiglia proletaria, dopo averne dissanguato i membri. Se un operaio portava la fede al dito, poteva solo significare che era disoccupato, una vittima della Grande Crisi.
“Oh, tesoro mi spiace” stava dicendo la giovane e graziosa biondina nel frattempo, gettando la giacca su una sedia e andando a lavarsi le mani sotto il rubinetto del lavello. “Avrai fame, e io ho fatto tardi: ho dovuto aspettare un’eternità.”
“Non importa, che cosa ti ha detto il dottore?”
Le voci si distinguevano perfettamente attraverso il vetro aperto della finestra a saliscendi.
“Chi è questa gente?” bisbigliò Spike alla sua guida, che si era appoggiata comodamente al davanzale con i gomiti per osservare la scena all’interno, indifferente alle piantine di basilico che crescevano nei vasi.
“Sst” gli intimò “se no non sentiamo niente. Non ti preoccupare: loro non…”
“… ci possono sentire, lo so.”
“Belle notizie, adesso ti racconto” disse Amanda cominciando ad aprire e chiudere gli sportelli e l’anta del frigorifero “purtroppo però non sono riuscita a fare la spesa. Qualcosa ci sarà, vediamo un po’…”
Lui si alzò dal tavolo ed andò ad abbracciarla da dietro, cingendole la vita sottile. Si chinò a baciarla dietro un orecchio.
“Ho visto che hai trovato i pomodori” disse lei, pratica, sgusciandogli dalle mani, non prima di avergli affettuosamente dato un colpetto su un braccio. “Non abbiamo più bistecche e nemmeno un hamburger” si rammaricò frugando dentro il frigorifero. Aveva una bella figura, che nemmeno l’abbigliamento semplicissimo, quasi da ragazzina, riusciva a celare. Il marito le guardò i fianchi con un sorriso di apprezzamento, mentre lei parlava con la testa dentro al frigorifero. Ora che si era alzato, Spike vide che aveva un profilo gradevole, con un simpatico naso a patata, un po’ spellato dal sole. Era un giovanotto alto e robusto.
“Mi ha detto che non dobbiamo preoccuparci” disse Amanda, riemergendo trionfante con in mano una confezione di bacon e una di uova “Che ne dici se ti friggo un paio di uova?” propose appoggiando gli ingredienti sul ripiano vicino al fornello.
“Magnifico” approvò lui, senza che fosse chiaro se si riferisse alla cena o al responso del dottore.
Amanda tirò fuori una padella da sotto il piano cottura e riaprì il frigorifero per prendere il burro: “Lo so che sarebbe più adatto per la colazione che per…”
“Avevo proprio voglia di uova fritte” la rassicurò lui “Che cosa ti ha detto il dottore esattamente?”
“Che gli esami vanno benissimo” rispose Amanda sorridente. Mise la padella sul fornello e vi pose dentro un bel pezzo di burro, che cominciò subito a sfrigolare.
“La fiera del colesterolo” osservò acidamente la guida di Spike, dandogli di gomito. “Lo vuole proprio ammazzare, quel povero ragazzo!”
‘Quante storie’ pensò lui, che sebbene avesse fatto regolarmente colazione con uova e pancetta per gran parte dei suoi anni mortali, di una cosa era certo, e cioè che non fosse certamente stato il colesterolo ad ucciderlo.
“E che non c’è ragione perché non ci dobbiamo riprovare quando vogliamo” aggiunse Amanda, estraendo rapidamente le fette di pancetta dalla confezione per posarle sul fondo della padella. Un delizioso profumo di pancetta rosolata si sparse attorno, raggiungendo anche i visitatori all’esterno, della cui presenza i padroni di casa continuavano ad essere ignari.
“Anche subito, ha detto il dottore” ridacchiò Amanda. “Affetta il pane, vuoi?”
“Intendi dire… subito subito?” chiese il marito, in piedi in mezzo alla cucina con un filone di pane in mano.
“Aspettiamo di aver mangiato, magari” sorrise lei, osservando la pancetta con una paletta in mano, pronta a rigirarla quando fosse ben rosolata da un lato.
Lui si sedette allo stesso posto di prima e finì di affettare i pomodori. Poi tagliò alcune spesse fette di pane e le appoggiò ordinatamente su un piatto.
“Ora che ci penso, a pranzo ho mangiato solo un’insalata” sospirò, dalla sua posizione di vedetta, la donna vicino a Spike.
La pancetta venne rigirata e sfrigolò allegramente. La donna sospirò più forte.
“Chi diavolo sono questi due?” chiese di nuovo Spike.
“Lei è la madre del presente, no?” rispose la donna, distogliendo malvolentieri la sua attenzione dallo sfrigolare dei grassi nella padella “Adesso lo dirà, se hai un attimo di pazienza.”
Le uova raggiunsero la pancetta e Amanda apparecchiò rapidamente la tavola mentre venivano pronte.
“Tu non mangi le uova?” le chiese il marito mentre lei gliene faceva scivolare due nel piatto.
“Preferisco un po’ di formaggio magro. Una dieta salutare è importante.”
“Hai ragione, il nostro bambino dovrà avere il meglio.”
“Lo avevi detto anche la scorsa volta” sorrise lei, triste.
“Non ci devi pensare più” si sporse attraverso il tavolo per mettere una delle sue manone su quelle di lei. “Il dottore non ha detto che è stato solo un caso?”
“Sì, ha detto che un aborto spontaneo può capitare” confermò Amanda, guardando i pomodori e il formaggio nel suo piatto, ma senza iniziare a mangiare.
Il marito, al contrario, si stava spazzolando di gusto le uova, usando il pane per raccogliere bene il tuorlo dal piatto. Ingoiò il boccone prima di replicare: “E allora, cosa c’è che non va?”
“Sono un po’ preoccupata per il tuo lavoro” confessò Amanda.
“Guadagno bene, adesso: lo so che il bambino costerà molto, ma ce la faremo.”
“Quella cosa del contratto, però… e se ti succede qualcosa?”
“Stavo attento anche prima e a maggior ragione ora che ho te, anzi che avrò voi.
“Quello che fai è pericoloso, ho sempre paura che tu ti possa fare male. E l’assicurazione non copre quasi niente” insistette Amanda.
“Non c’è ragione di preoccuparsi, amore” tagliò corto lui, guardando con rammarico il piatto, ormai vuoto: “E per inciso, adoro le tue uova fritte!”
Spike guardò interrogativamente la sua guida, che scosse leggermente la testa e commentò: “Uomini: non pensano mai che le cose possano andare male!”
“E poi, ho incontrato di nuovo quei signori” aggiunse Amanda.
“Quegli strani demoni? Ti hanno fatto qualc…”
“No, no” si affrettò a negare lei “Anzi, sono stati gentilissimi, come sempre. In un certo senso, non si potrebbero desiderare dei vicini di casa migliori.”
“Los Angeles è piena di gente del genere” considerò il marito, abbassando la voce come se temesse di farsi sentire “ma non capisco l’interesse del loro clan verso di noi.”
“Dicono che apparteniamo a un’antica discendenza, lo sai. Comunque sia, mi rendono nervosa.”
“Lo credo bene, anche se devo ammettere che sembrano bene intenzionati.”
Spike fischiò piano. Finalmente cominciava a intravedere un suo possibile ruolo nella faccenda. Forse avrebbe dovuto proteggere quella coppia da demoni che volevano ucciderli. Questo sembrava penosamente simile a ciò che di solito faceva un certo vampiro al quale preferiva non pensare.
Forse, anzi, era proprio qualcosa che toccava a tutti i vampiri con l’anima, vai a sapere.
“Su, bella biondina” sussurrò “dimmi qualcosa di più su questi brutti demoni che ti fanno paura. Di che colore sono? Quanto sono lunghe le loro zanne? Se non so niente, come faccio a… ahia!”


***


Voglio scambiare due parole con Kikia27, che non si fa spaventare dalla solitudine e continua coraggiosamente a recensire. Una vera eroina, almeno ai miei occhi! Eccomi qui, con l’aggiornamento settimanale: niente avrebbe potuto impedirmi di pubblicarlo, nonostante sia reduce da una settimana di lavoro infernale, roba da far concorrenza a un immigrato cinese. Temo però che il nuovo capitolo ti abbia deluso: niente dettagli sulla lunga parentesi sanguinaria di William il Sanguinario, come vedi. La ragione è che seguendo pedissequamente il Canto di Natale di Dickens, questa volta era il turno del fantasma della madre del presente, e se conosci l’ultima stagione di AtS avrai sicuramente capito chi sia questa madre del presente e che ruolo avrà Spike riguardo al nascituro. Il prossimo capitolo è anche l’ultimo, e cercherò di pubblicarlo puntualmente venerdì prossimo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4



Prompt: La rosa bianca



“A forza di botte in testa, diventerò anch’io rimbambito come Giles” borbottò Spike tra sé e sé. Era steso sul medesimo pavimento della solita stanza, uguale in tutto e per tutto a prima tranne che per la mancanza di un vaso di fiori dal tavolino sotto la riproduzione della Vergine delle Rocce. L’altra novità era un secondo bernoccolo sulla sua testa, questa volta sul lato opposto. Era sicuro che il fantasma della madre del presente non avesse avuto con sé nessun oggetto contundente.
Memore dell’esperienza con l’ombrello della nannie, infatti, Spike l’aveva guardata bene e aveva considerato che il massimo che avrebbe potuto fargli, era colpirlo con il tacco di una delle sue scarpe scollate. Non aveva previsto che gli avrebbe rotto in testa uno dei vasi di basilico che stavano sul davanzale della cucina di Amanda.
Si alzò e provò di nuovo, coscienziosamente, porta e finestra, che come si aspettava erano sigillate esattamente come prima. Inventariò daccapo tutto il contenuto della stanza, dalla tappezzeria a fiorellini ai quadri appesi ai mobili e agli altri oggetti, cercando di indovinare quale di questi avrebbe costituito il suo prossimo mezzo di trasporto. Considerò uno dopo l’altro la pipa, le bomboniere e il piatto d’argento, ma gli sembrarono ipotesi tanto improbabili quanto ridicole, posto, s’intende, che dopo aver viaggiato appeso a un ombrello e dentro un vaso da fiori i concetti di comico e di assurdo avessero ancora senso. Il portaombrelli pareva già più promettente, ma sarebbe stato un po’ ripetitivo, mentre Spike aveva l’impressione che chi comandava lì dentro, di chiunque si trattasse, fosse invece attento a ogni particolare. Si sedette sulla solita sedia e si rassegnò a un’ennesima attesa, che si prolungò al punto di fargli venire sonno: in quel posto sembrava notte, pertanto non sarebbe dovuto essere il momento di dormire, ma negli ultimi tempi aveva spesso riposato durante le ore di buio, perciò i ritmi abituali che avevano gestito la sua esistenza da vampiro erano stati sconvolti. O forse era finalmente giunto per lui il momento di abbandonarsi, una volta per tutte, al sonno eterno. Comunque fosse, quando fu improvvisamente ridestato da un discreto tossicchiare, si sentì molto imbarazzato di venir sorpreso a sonnecchiare con la testa ciondoloni, come un vecchietto.
“Sei stanco?” gli chiese una giovane donna molto graziosa, che stava in piedi di fronte a lui, guardandolo comprensiva “Tranquillo: abbiamo quasi finito, io sono l’ultima.”
La madre del futuro, che a prima vista sembrava una ragazzina, a uno sguardo più attento rivelava gli occhi duri e i lineamenti tirati caratteristici di chi è ricorsa abbondantemente alla chirurgia estetica. L’abbigliamento pareva stranissimo, come se per vestirsi avesse saccheggiato il guardaroba di uno studio di posa, abbinando capi che provenivano da momenti diversi degli ultimi cinquant’anni. Drusilla aveva avuto una camicia di pizzo nero molto simile, un tempo. E lo stesso Spike aveva portato una giacca non molto diversa, all’inizio dei favolosi anni Sessanta.
“Hai degli strani vestiti” commentò. “Ma ti stanno bene” concesse, osservando con apprezzamento il seno prosperoso sotto la camicia semitrasparente. La donna aveva la pelle ambrata, che contrastava con gli occhi molto chiari. I capelli, vaporosi e tinti di una curiosa sfumatura di castano, con riflessi quasi verdi, formavano una nuvola attorno al viso ben proporzionato.
“Sono alla moda” protestò la donna, sorpresa. “Alla moda di un periodo che tu non hai ancora visto” si corresse con un sorriso, dopo averci pensato su. “Pronto per andare?” Sorridendo non allargava troppo la bocca, come se le avessero cucito la pelle troppo stretta.
“Con che cosa andiamo?” chiese Spike, che si era alzato in piedi, guardandosi attorno interessato. “Con questo, no?” rispose la sua guida, accennando al tappeto persiano sotto i loro piedi. Si sedette agilmente per terra a gambe incrociate, invitando con un gesto Spike a fare altrettanto. “C’è un gran ritorno al classico” sospirò, accomodando attorno a sé il tessuto in eccesso della gonna, che era ampia e lunga. “In tutto, sai?” disse agitando la mano sottile, con le unghie corte e senza smalto, ma adorna di anelli enormi e scintillanti, che parevano usciti da un sacchetto di patatine fritte. Spike le si sedette di fronte, nella medesima posizione.
“Un tappeto volante, eh?” commentò in tono indifferente, ma quando cominciarono a sollevarsi lentamente non riuscì a fare a meno di esclamare: “Forte!” Si morse le labbra e la madre del futuro sorrise senza dire niente, mentre salivano insieme al tappeto, rigido sotto di loro come una tavola; solo le frange ondeggiavano leggermente. Vedendo avvicinarsi il soffitto, Spike abbassò istintivamente la testa, ma subito vide aprirsi nell’intonaco uno squarcio, dapprima piccolo, che si allargò rapidamente, lasciando apparire il profondo buio all’esterno. Senza venir colpiti nemmeno da un po’ di cemento o da qualche frammento di mattoni, passarono di misura attraverso un varco grande quanto bastava per il tappeto, e si ritrovarono a volare nella notte nera e fredda. Spike si allungò di lato per vedere da dove fossero usciti, ma non riuscì a scorgere al di sotto nient’altro che un’uniforme oscurità, poi, quando tentò di sporgersi ulteriormente, la sua guida lo afferrò saldamente per la mano e lo tirò indietro, scuotendo il capo in segno di ammonimento. Salirono verticalmente, poi cambiarono dolcemente direzione e cominciarono a procedere in orizzontale. Al vampiro pareva di essere ritornato ragazzo, ai tempi in cui si immergeva completamente con la fantasia nel mondo delle Mille e una notte. La loro velocità aumentò rapidamente, finché si ritrovarono a filare così in fretta che Spike, dopo aver tentato inutilmente di sollevare un pezzetto di tappeto tra le dita, rinunciò a darsi un contegno e si afferrò con la mano al bordo, che nonostante fosse rigido, dava ugualmente al tatto la sensazione di lana e di seta fittamente intrecciate. Il vento gli percuoteva la faccia e i capelli della madre del futuro, seduta di fronte a lui, ondeggiavano come quelli di un’annegata tra flutti impetuosi. Comparve qualche stella, poi la loro corsa divenne ancora più rapida, rendendo difficile mantenere il busto eretto. Vestito completamente di nero, Spike non vedeva nient’altro se non la pelle bianca delle sue stesse mani, la sclera degli occhi della sua guida e lo scintillare degli anelli che ella portava alle dita. Viaggiare in quel modo era una sensazione al tempo stesso inebriante e spaventosa, che se avesse respirato gli avrebbe mozzato il fiato in gola per l’emozione. Senza nessun preavviso e senza rallentare, il tappeto prese improvvisamente a scendere verticalmente, con un brusco mutamento di direzione che in teoria avrebbe dovuto sbalzare fuori bordo i suoi passeggeri, i quali invece rimasero dov’erano, incollati a quell’insolito mezzo di trasporto, proprio come due statuine di gesso al loro supporto. Spike imprecò brevemente al cambio di rotta e la giovane donna sorrise, lasciando scorgere il biancore dei denti. Non videro avvicinarsi il suolo, ma atterrarono bruscamente con un tonfo, sempre immersi nella più completa oscurità. Spike lasciò andare il bordo del tappeto appena in tempo per non rompersi le dita nell’impatto, perse l’equilibrio e rotolò fuori, andando a sbattere il naso contro un cordolo di cemento. “Avete molti reclami per gli atterraggi, suppongo” commentò mentre si rialzava. Si guardò attorno per capire dove fosse finito, confidando che la sua vista acuta riuscisse a distinguere i contorni delle cose, ora che erano fermi. Si trovava sul limite di un tetto di tegole scure piatte, lievemente inclinato, come quelli che si trovano un po’ dovunque, tranne che nelle regioni assolate o in quelle a clima molto rigido.
Sporgendosi dalla balaustra, Spike scorse un’anonima strada cittadina, un viale fiancheggiato con alberi così alti e imponenti da riparare la luce dei lampioni. Nella strada affacciavano altri palazzi, alti cinque o sei piani come quello in cima al quale si trovavano, per lo più contornati dalle aree sgombre dei giardini condominiali. Su entrambi i lati erano parcheggiate auto troppo lontane perché se ne potesse distinguere il modello o tantomeno la targa. Avrebbero potuto trovarsi nella periferia residenziale di una metropoli così come nel quartiere semicentrale di una cittadina, in qualsiasi parte del mondo o quasi, ma certamente non in Inghilterra, perché lì si circolava a destra, sebbene al momento non passasse nessuna macchina.
“Dove siamo?” chiese alla sua guida, che era ruzzolata dalla parte opposta del tappeto, e che ora ci si era seduta sopra, mentre si rimetteva la scarpa che aveva perso nell’impatto. A quanto Spike ricordava, si trattava di uno zoccolo con la suola di legno e un cinturino legato dietro la caviglia con un fiocco di seta: era incredibile quello che aveva visto le donne usare come calzatura nel corso dei decenni lungo cui si era sviluppata la sua esistenza.
“Non crederai che te lo possa dire, vero?” rispose la donna senza smettere di armeggiare col suo sandalo. “Spero che non si siano rovinate… le ho prese in saldo, ma sono di marca.”
“Chi o cosa siamo venuti a guardare?” chiese Spike.
Lei gli tese la mano per farsi aiutare a rimettersi in piedi, operazione che fece increspare il tappeto, tornato nel frattempo al suo normale stato di complemento d’arredo.
“Seguimi” gli rispose.
“Passiamo dal camino come Babbo Natale?” propose lui, indicando un camino a qualche metro di distanza: “Sarebbe in tema.” La donna non gli diede retta, ma raggiunse il colmo del tetto e prese a camminarci sopra, con tutta la grazia e la sicurezza di un’esperta funambola. Allibito, Spike le andò dietro, ma rimase sulla falda, posando cautamente i piedi uno dopo l’altro su quelle tegole inclinate e scivolose. Nonostante la sua agilità soprannaturale, non condivideva nemmeno alla lontana la tranquillità della sua guida, che avanzava invece con i suoi insicuri sandali di legno sulla stretta sommità del tetto, proprio come se stesse passeggiando lungo una comoda strada cittadina.
“Trucchetti per impressionare gli allocchi: odio la magia” brontolò Spike. Non aveva ancora finito la frase, che mise un piede in fallo ed evitò per un pelo di finire di sotto. Imprecò e la madre del futuro rise: “Attento, vampiro.”
‘Che idiota. Di che mi preoccupo?’ si disse Spike ‘Scommetto che rimbalzerei come una dannata palla.’
“Eccoci arrivati” annunciò la sua guida, accomodandosi graziosamente sul colmo del tetto, con le gambe penzoloni dall’altra parte. Poco al di sotto si apriva un’ampia finestra a vasistas, aperta per lasciar entrare il fresco della notte, che offriva una veduta perfetta della mansarda sottostante. Il locale era ampio, illuminato da una lampada da tavolo che lasciava larghe zone d’ombra. Sembrava una camera studio, arredata in modo semplice ma confortevole con mobili dalle linee armoniose e con tessuti naturali, che conferivano all’insieme un’atmosfera serenamente accogliente. La stanza, tuttavia, non era in ordine: i cuscini del divano erano fuori posto, una borsa di tessuto celeste era appoggiata sulla scrivania, con parte del contenuto sparpagliato sul ripiano e sulle mensole della libreria erano appoggiati tazze, piatti e bicchieri con i resti di una cena frugale. Il letto matrimoniale era fatto, ma il copriletto di pesante seta era stato abbassato, come se qualcuno vi si fosse sdraiato per un breve riposo, lasciando l’impronta del capo sui cuscini rivestiti dalle belle federe ricamate e coprendosi col leggero plaid, che ora era ammucchiato in fondo al letto. Così come il palazzo e la strada, quella stanza non offriva nessun indizio sul luogo in cui si trovavano. Un forte ronzio fece sobbalzare Spike, che ci mise qualche secondo a realizzare che si trattava della suoneria di un telefono. Si sentì un rumore di piedi nudi sulle doghe di legno del pavimento, poi una donna entrò nella stanza e il cuore del vampiro si contrasse, quasi prendesse la rincorsa per tornare a battere. Era lei, Buffy. Dalla sua posizione sul tetto, Spike riconobbe la linea delicata della nuca, lasciata scoperta dai capelli raccolti in un buffo nodo sulla sommità del capo, prima ancora di lasciarsi incantare dall’inimitabile modo di muoversi della Cacciatrice, quell’unione di forza e di delicatezza che era sempre stata la sua caratteristica. Gli era mancata: era morto bruciato, poi si era svegliato in quella dannata stanza, senza di lei e senza nemmeno sapere dove lei fosse. In quegli ultimi tempi, aveva sempre saputo dove fosse Buffy. Non aveva più avuto bisogno di spiarla di nascosto, per saziare il suo bisogno di vederla: lei gli diceva dove andava, e se per qualche ragione se ne dimenticava, bastava chiedere a Willow o a Xander per saperlo, perché anche loro, i migliori amici della Cacciatrice, si rendevano conto che Spike doveva essere al suo posto, un passo indietro a Buffy, pronto a guardarle le spalle. Era diventato naturale, prima ancora che lei venisse a dormire con lui, giù in quell’adorabile seminterrato. Prima che Buffy, passasse davanti ai suoi amici, radunati in cucina, aprisse la porta e scendesse le scale per andare da Spike e restare sola con lui, come se fosse la cosa più normale del mondo. Se le fosse successo qualcosa, lo avrebbero cercato per dirglielo. In quello stesso momento, forse, le stavano chiedendo che cosa diavolo gli fosse accaduto.
“Oh, ciao. No, non è troppo tardi” stava dicendo nel frattempo la Buffy del futuro, seduta sul letto con in mano quello che sembrava un giocattolo ma che invece doveva essere uno strano incrocio tra un telefonino e un computer portatile. Sotto l’accappatoio di morbida spugna, sembrava meno magra di quando Spike l’aveva lasciata, in lacrime, nel sotterraneo del liceo di Sunnydale. Anche il volto era meno scarno, anzi ricordava le guance piene e ancora quasi infantili della Cacciatrice adolescente che il vampiro aveva incontrato per la prima volta cinque anni prima. Quella che stava guardando ora, però, non era una ragazzina, bensì una giovane donna nel periodo migliore della sua vita: il colore dei capelli era leggermente più scuro, la linea delle sopracciglia disegnata in modo da far risaltare la forma degli occhi e le labbra si incurvavano spontaneamente in un sorriso, mentre parlava, come se fosse abituata ad essere felice.
“No, non è ancora tornato” disse Buffy. “Dai, Giles, è via per lavoro, mica per div…” s’interruppe, scuotendo il capo in un gesto di affettuosa esasperazione. “Sto benissimo qui, ho tutto quello che mi serve” disse ancora Buffy, dopo aver ascoltato quello che l’Osservatore aveva replicato. “Sono la Cacciatrice, ricordi?” rise. “Soprannaturalmente forte, bla bla bla. Non crederai seriamente che non me la possa cavare da sola, vero?”
Ma ovviamente non era facile tacitare l’Osservatore, che doveva aver mantenuto nei suoi confronti quel suo tipico atteggiamento, tra il presuntuoso e il protettivo, di cui lo stesso Spike aveva fatto le spese.
“Che cosa vuol dire che mi lascia troppo sola?” protestò Buffy, dopo un po’. Il suo sguardo corse al comodino accanto al letto, sul ripiano del quale era posato un esile vaso di cristallo, dove svettava una bellissima rosa bianca appena sbocciata. “A proposito, non so come abbia fatto, ma mi ha fatto recapitare anche oggi la solita rosa” sorrise, mentre si alzava e si metteva a camminare per la stanza, sempre parlando al telefono. Sfiorò delicatamente i petali del fiore nel vaso, nel passare accanto al comodino.
“Sai che prodezza: siamo a maggio, il mese delle rose” commentò Spike, rivolto alla sua guida.
“Sei geloso?” insinuò lei.
“Sono morto. Dovrei ricevere fiori, non mandarne” chiarì il vampiro, imbronciato. Si rammaricava di non essere mai riuscito a regalare niente a Buffy, nemmeno un soffione rubato in un campo. Se l’anno precedente le avesse offerto un mazzo di fiori, probabilmente glieli avrebbe fatti ingoiare. Quell’ultimo anno, beh, era… complicato. Spike sorrise, pensando che anche lei avrebbe detto proprio così.
Buffy uscì dalla stanza, costringendo entrambi i suoi visitatori ad allungare la testa per tenerla d’occhio. Sparì nel locale adiacente.
“Il tuo figlioccio sta benone” la sentirono dire.
“C’è un’altra finestra” affermò la madre del futuro. Scese dal colmo del tetto e si sdraiò sulla falda, con il capo verso il bordo. Da quella parte c’era il cortile, ribassato rispetto al livello della strada, perciò l’oscurità sprofondava per un altro piano ancora, lasciando intravedere qualche macchina parcheggiata sul fondo di quell’abisso. Spike si spinse più avanti possibile, si afferrò al bordo del tetto con le mani tenendo le braccia lungo i fianchi e si sporse verso il basso con la parte superiore del corpo: da quel lato si apriva una piccola finestra, così vicina al soffitto che la parte superiore dell’infisso quasi confinava con la grondaia. C’era una tendina, che però copriva solo la parte inferiore del vetro, perciò Spike aveva una buona visuale sulla stanza all’interno, che era piccola e illuminata solo dalla fievole luce di un’abatjour. Sebbene quella finestra fosse chiusa, la voce di Buffy riusciva a giungere, sia pure attutita, attraverso quella che si apriva sul tetto: “Mangia come un lupo, dorme come un ghiro e fa tante altre cose animalesche che non vorresti certamente sapere.”
Così dicendo, Buffy si chinava su un lettino bianco, dentro cui dormiva profondamente un neonato dal visino tondo, la boccuccia lievemente aperta, con un braccino grassoccio sollevato e un pugnetto minuscolo posato sulla guancia paffuta. Era un bambino bellissimo e aveva una vaga somiglianza con le foto di famiglia che c’erano in casa Summers.
Suo figlio’ si disse Spike. Non solo era sopravvissuta, ma aveva anche avuto un bambino. “Tu non puoi saperlo, ma io trovo che assomigli al mio maggiore” gli sussurrò nell’orecchio la sua guida, seduta sul bordo del tetto in una posizione impossibile, ma a suo agio come se si trovasse su una panchina al parco. Allungò una mano e giocherellò oziosamente con le dita della mano con cui Spike si afferrava alla sporgenza della copertura di tegole del palazzo.
“Ehi ehi, non fare scherzi” mormorò il vampiro, tentando, invano, di tirarsi su con un colpo di reni: impossibile, perché improvvisamente non aveva più forze.
“Questo ditino è andato al mercato” cantarellò la madre del futuro, staccando una ad una le dita di Spike dalla presa. Impotente, il vampiro annaspò col braccio all’indietro, senza però riuscire a riafferrarsi.
“Dammi una botta in testa” implorò torcendo il collo per guardare la sua guida in faccia. “Perché non mi dai una botta in testa come hanno fatto le altre due?”
Senza dar segno di aver sentito, la madre del futuro si alzò in piedi, restando in equilibrio sull’orlo del tetto, con l’ampia gonna che le svolazzava attorno.
“Tranquillo: questo non ti ucciderà” gli sorrise, prima di sferrare un calcio alla mano destra di Spike con uno dei suoi sandali di legno. Il vampiro perse la presa e precipitò a capofitto verso il vuoto. Prima di cadere, fece in tempo a vedere attraverso il vetro ancora per un attimo Buffy, nell’atto di posare le labbra sulla fronte del suo bambino.

Questa volta riprese i sensi sul nudo pavimento di legno, perché il tappeto se n’era andato insieme al fantasma della madre del futuro. Non c’era nessun nuovo bernoccolo. Era anche strano che ricordasse di aver cominciato a cadere ma non rammentasse l’impatto col suolo. L’unica cosa che gli facesse male erano le dita della mano destra, rosse e tumefatte. Probabilmente un paio erano rotte, ma sarebbe potuta andargli molto peggio. L’ultima volta che era caduto da una grande altezza, si era spezzato una gamba e un braccio, e forse qualcos’altro che al momento non ricordava: qualcuno doveva averlo portato nella sua cripta perché si riprendesse, ma allora era stato troppo sconvolto dalla morte di Buffy per preoccuparsi di se stesso o di coloro che lo avevano soccorso. Non fece in tempo a soffermarsi sul confronto tra quella circostanza e il futuro al quale aveva appena dato una sbirciatina, perché si accorse di non essere più solo nella stanza.
“Hai trovato queste gite istruttive?” s’informò Darla. Abbandonate seta e organza, era adesso vestita modernamente con un completino da ragazzina perversa: gonna blu, camicetta bianca e scarpine completamente prive di tacco. Aveva quasi quattrocento anni, ma così combinata ne dimostrava sì e no quattordici.
“Non direi: quest’ennesima rilettura non è per niente fedele all’originale” protestò Spike “Il presente era confuso e il futuro tutt’altro che minaccioso.”
Darla alzò le spalle: “Forse avrei fatto meglio a mangiarlo, dopotutto.”
“Chi?”
“Dickens” rispose lei, imbronciata. “Sai, qui pensavano che questa messa in scena ti avrebbe motivato” gli confidò, sedendo compostamente su una sedia. Spike si accomodò in quella a fianco e verificò che ciò che aveva addosso non si fosse strappato, ma il suo abbigliamento non sembrava aver risentito del volo giù dal tetto più di quanto ne avesse risentito lui. Forse era diventato senza saperlo un vampiro della Rice e perciò adesso sapeva volare. O il suo angelo custode, rientrando in servizio dal suo lunghissimo periodo di vacanza proprio in quell’occasione, lo aveva afferrato per i capelli mentre cadeva. Oppure era tutta un’allucinazione. O anche un brutto sogno. Magari si sarebbe svegliato davanti alla TV, dopo essersi addormentato di fronte a una delle molte versioni cinematografiche del Canto di Natale. Dopotutto, che prove aveva di essere veramente andato a fuoco nel sotterraneo del liceo di Sunnydale? Nonostante ricordasse la sensazione di calore, il diffondersi del dolore per tutto il corpo e persino l’odore di carne bruciata, sui suoi vestiti non c’erano né bruciature né tracce di fuliggine.
Scrutò con sospetto Darla, la quale scoppiò nella sua tipica risata, così cristallina da far male alle orecchie. Tutto in lei, del resto, era sempre stato duro e tagliente come vetro. “Ammetto che sarebbe divertente lasciartelo credere, ma no, non sei matto” gli rispose. “Non più del solito e certamente sempre meno di Dru.”
Povera Dru, pensò Spike fugacemente, chissà come se la stava cavando, tutta sola senza nessuno di loro a impedirle di sprofondare nei suoi deliri. Dal punto di vista di Drusilla, tuttavia, quelli ad essere messi male dovevano essere proprio gli altri componenti della famiglia: uno con l’anima (per non parlare dell’orribile taglio di capelli), una morta, un altro con l’anima e per di più morto (o qualcosa del genere). Probabilmente li commiserava per ciò che era loro accaduto e che le sue visioni dovevano averle già mostrato.
“E adesso che cosa succede?” chiese “Ma soprattutto: dove lo trovo un tacchino ripieno, in quest’epoca dell’anno?”
“Ci crederesti? Posso dirmi a buon titolo uno dei fondatori di questo paese, eppure non ho mai mangiato tacchino ripieno” confessò Darla. “Non succederà niente, per quanto ti riguarda” proseguì accavallando le gambe. Fece dondolare il piede, infilato dentro il mocassino blu, completamente privo di tacco. “Anche perché non ricorderai niente, temo” aggiunse con un sorriso malizioso.
“Perché diavolo…” cominciò Spike, sorpreso da quella che sembrava una complicata messa in scena priva di scopo.
Darla lo interruppe con un gesto della mano affusolata. “Consideralo un premio” gli consigliò. “Meglio ancora, un viaggio d’istruzione premio.”
“Un’inutile gita scolastica.”
“Non sarai né il primo né l’ultimo a non ricordare niente di una gita scolastica” sorrise lei, del tutto in tema col suo abbigliamento da liceale.
“Perché, allora?”
“Oh, ecco… sai, una di queste teorie moderne sulla motivazione sub qualcosa.” Darla sbuffò, irritata per essere costretta a spiegare ciò che lei stessa non aveva compreso. “Avessero chiesto a me, io ti avrei semplicemente rimandato di sotto con un bel calcio nel sedere” concluse imbronciata. La frase, detta in quel modo da colei che pareva l’interprete di un filmino scollacciato, lo fece sorridere. “Colpo in testa o che altro?” s’informò in fretta, vedendo che si stava alzando, come se la loro conversazione fosse finita.
“Se anche lo sapessi, credi che te lo direi?”
“Sei sempre la solita…”
“…puttana!” completò prontamente lei. “Certo. Ti sorprende, forse?”
“Intendevo dire carogna, ma va bene lo stesso” mormorò Spike. Sbatté le palpebre, accorgendosi che la vista gli si stava annebbiando. Questa volta forse non sarebbe stata dopotutto né una botta sul capo né una spinta giù da un tetto.
“Darla” chiamò, aggrappandosi alla sedia per non scivolare. Ora la vedeva avvolta da una nebbia leggera e luminosa, più o meno come un angelo, se non fosse stato blasfemo anche solo il pensarlo.
“Sì?” gli rispose con voce attutita, quasi ci fosse una grande distanza tra di loro.
“Io una volta del tacchino ho assaggiato la salsa” riuscì a dire, scandendo faticosamente le parole.
“E allora?”
“Non hai perso…” Spike chiuse gli occhi, rinunciando a lottare contro l’incoscienza in cui stava per sprofondare “…niente” riuscì ancora a dire, prima di perdere i sensi. Forse era soltanto suggestione, ma gli sembrò quasi che un tintinnare di campane natalizie – o forse era solo una risata, aguzza come una pietra preziosa? – lo accompagnasse giù nel buio.

FINE


***


Ecco fatto: tutto qui.
In quanto alla morale, mia cara Kiki May, temo di non essere all'altezza del mio famoso modello: come direbbe Spike, questa ennesima rivisitazione del Canto di Natale è alquanto farlocca. Oltretutto Spike non può ricordare un bel niente - se no, chiacchierone com'è, nella quinta stagione di Angel non si sarebbe certo tenuto per sé le sue esperienze soprannaturali, ti pare? Va beh, diciamo che questa "gita motivazionale" nell'inconscio del nostro vampiro preferito potrebbe fornire una mezza spiegazione al perché Spike, superato il periodo da fantasma, non si metta non dico alla ricerca, ma almeno in contatto col grande amore della sua non-vita. Comportamento la cui vera ragione ovviamente è "siamo su un altro canale e la Gellar è indisponibile", ma che indubbiamente incuriosisce il fanwriter.
A proposito, la madre del futuro era chi ti aspettavi? Io spero di sì.
Eugeal , che piacere trovarti qui! In effetti sì, se non conosci Angel (la serie) non puoi sapere chi è la madre del presente. Non voglio spoilerarti troppo, ma verso la fine della quinta stagione di Angel, Amanda si rivolgerà alla Wolfram & Hart per uno strano contratto con un clan di demoni a proposito del bambino che porta in grembo. E nell'ultimo episodio Spike salverà proprio quel bambino (non è che un momento delle molte cose che accadono nel finale, quindi spero di non avertelo rovinato). Piccola curiosità: l'attrice che interpreta Amanda altri non è che la vera signora Boreanaz (forse ora dovrei dire ex-signora, ma non vorrei cadere nel gossip).
Grazie ancora tanto a tutte e due. E che Whedon sia sempre con noi!

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