KUOLEMA TEKEE TAITEILIJAN - la morte crea l'artista

di Hanairoh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Once upon a tour ***
Capitolo 2: *** II - A moment for the poet's play ***
Capitolo 3: *** III - Into a dying day ***
Capitolo 4: *** IV - Drunken disguise ***
Capitolo 5: *** V - Save one breath for me ***
Capitolo 6: *** VI - Breathtaking butterfly (parte I) ***
Capitolo 7: *** VII - Breathtaking butterfly (parte II) ***
Capitolo 8: *** VIII - A nocturnal concerto ***
Capitolo 9: *** IX - Dead gardens (parte I) ***
Capitolo 10: *** X - Dead gardens (parte II) ***
Capitolo 11: *** XI - Dead gardens (parte III) ***
Capitolo 12: *** XII - Storyteller's mind ***
Capitolo 13: *** XIII - It starts a new dream ***
Capitolo 14: *** XIV - An Ugly Duckling lost in a verse ***



Capitolo 1
*** I - Once upon a tour ***


Hello, guys, how are you? Io stupendamente, anche perché ho passato l'esame e ora sono al secondo anno ^^
Questa storia (che reputo la migliore che abbia scritto finora) è nata quasi per scherzo ed è in cantiere da parecchi mesi. VI AVVISO CHE NON SO CON QUANTA FREQUENZA POTRO' POSTARE! SICURAMENTE PER I PRIMI CAPITOLI 6 O 7 NON DOVRETE ASPETTARE MOLTO, MA DAL DECIMO IN POI LE COSE SI COMPLICANO IN QUANTO LA STORIA ENTRA NELLA SUA PARTE CENTRALE.
A me personalmente piace, sia per l'originalità della trama (scusate la poca modestia) e sia per lo stile da me adottato: vi dico adesso che ci troverete qualche parolaccia e non mancheranno delle espressioni volgari. Ho sempre pensato che la Bella di zia Meyer sia troppo educata...Insomma cara, hai diciassette anni e neanche una parolaccia se non "merda". E poi ho dovuto sviluppare nuovi personaggi con le loro storie e cercare di farci entrare i nostri vampiri nel mezzo, altrimenti avrei scritto una ff originale (e non è escluso che lo faccia).
Un'ultima cosa: nel corso della storia troverete testi e citazioni presi da acuni brani della mia band preferita, i Nightwish, a cui mi sono ispirata per scrivere. Perciò i copyright sono ESCLUSIVAMENTE loro (per le canzoni) e della Meyer (per i personaggi). Luoghi e cose descritte sono assolutamente reali, mentre altre no. Inoltre, troverete alcuni elementi chiaramente presi dalla vita dei Nightwish e dei loro membri. Non voglio in nessun modo criticare le loro scelte, questa ff l'ho scritta PER PURO DIVERTIMENTO.
Chiarito questo, direi che possiamo procedere.
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
 
 
 

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“E che palle, ma vuoi stare attento?!”.
  Alzai gli occhi al cielo. Eccoli che ricominciano…
“Matt, non rompere”, borbottò Brian con la voce affaticata dallo sforzo. La vena sulla tempia pulsava, ma non era per la fatica di sollevare gli strumenti.
“Vedi tu di non rompere quelle casse. Ci servono per stasera!”.
“Lo so, microcervello, non c’è bisogno che me lo ricordi”.
 Combattendo contro il desiderio improvviso di buttare i gemelli giù dal palco, riabbassai lo sguardo sulla Fender Stratocaster che stringevo tra le mani. Rischiavo seriamente di fracassargliela sulla testa. La troupe dei tecnici incaricati di montare l’impianto elettrico e audio scorrazzavano per il palco e ci ignoravano bellamente. Sapevano sopportare.
“Poppanti”, commentò Mischa al mio fianco tamburellando distrattamente sulle cosce con le bacchette. Annuii con un cenno del capo.
 Robert si lasciò cadere per terra al nostro fianco col respiro affannato, la fronte imperlata di sudore.  “Non ce la faccio stasera, sono troppo stanco!”, si lamentò.
“Come se tu avessi fatto molto…”.
“Guarda che quelle dannate casse sono pesanti, non è facile sollevarle”.
“E basta, smettetela!”, esplosi mettendo brutalmente via la chitarra. “Prima i gemelli e poi voi, comincio ad avere mal di testa!”.
Robert farfugliò qualcosa che suonava come ‘aspirina’.
“Robert, sai dove finiranno le tue aspirine se non taci? Te le ficcherò da qualche parte, e stai pur certo che non si tratta della gola”.
Mischa scoppiò a ridere e inevitabilmente Robert la seguì. Anche io non trattenni un sorriso.
Uno dei gemelli, Brian, mi chiamò dall’altra parte del palco; o meglio, strillò il mio nome neanche fossi a cento metri. “Bellinaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!”.
Povero il mio timpano. “Perché urli, scemo? Ci sento benissimo, non sono sorda!”. Non ancora, aggiunsi mentalmente.
Robert mi guardò malissimo. Lo ignorai.
“Primo, urlo per tenere le corde vocali allenate. Secondo, dove vuoi il microfono? A destra no, ci sta quel coglione che si spaccia per mio fratello…”.
“Spesso mi chiedo se non ci sia stato uno scambio di culle in ospedale”, borbottò il diretto interessato.
“…e a sinistra Mischa e i suoi meloni si prendono tutto lo spazio insieme alla ba…AHIA!”.
Una delle bacchette aveva spiccato il volo in direzione di Brian e lo aveva colpito sotto l’occhio sinistro. Mischa invece era in piedi con l’altra bacchetta ben stretta nella mano sollevata come pronta a colpire di nuovo.
“Parla ancora e giuro che ci ritroveremo a dover cercare un sostituto per stasera”, ringhiò.
Brian sbuffò. “Si, e dove lo trovate un chitarrista bello e talentuoso come me?”, continuò massaggiandosi la parte lesa.
“E io chi sono, il postino?!”.
“No, Rob, sei solo il secondo vocalist, il vicino in pratica”.
Avrebbero continuato per un bel po’ se non fossi intervenuta. Per il nervosismo sbagliai un accordo e le corde produssero un suono stridulo e violento.
“Vi conviene smetterla”,  abbaiai fulminandoli con lo sguardo. “Uno, perché mi fate peggiorare il mal di testa, secondo perché se continuate distruggete gli strumenti e terzo, perché tra… quattro ore precise si apre ufficialmente il Tour! Quindi direi di alzare le chiappe, finire il lavoro e andare a cambiarci”.
Mischa si alzò flettendo le gambe come prima di una gara. E, in un certo senso, era quello che stavamo per fare.
“Okay, allora vado dietro a vedere come procede l’impianto d’illuminazione”. Sparì dietro le quinte con uno svolazzo della gonna color vinaccia.
Mi alzai anche io. “Quasi quasi vado con lei…”.
“Eh no, cara, tu rimani qui”, esclamò Robert rimettendomi seduta. “Devi ancora accordare la mia adorata Jackson e finire di acconciare la tua”. Sghignazzò. “Divertiti”.
“Ma non puoi farlo tu?”.
“Devo andare da quei due imbecilli, o finiranno di rompere tutto”.
“A volte mi chiedo dove abbiamo trovato il coraggio di far firmare loro il contratto con la casa discografica…”.
“Me lo chiedo anche io”.

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Capitolo 2
*** II - A moment for the poet's play ***


Per prima cosa, ringrazio nanerottola per aver commentato (felice che ti piaccia, cara ^^) e ringrazio pure le due persone che hanno inserito la storia tra i preferiti e le cinque che l'hanno messa invece tra le seguite.
Ammetto, però, di essere rimasta male nel vedere una sola recensione: faccio davvero così schifo? Sappiate che sono aperta alle critiche negative, purché siano costruttive. Ditemi, ad esempio, se ho scritto qualche bestialità (tipo che Forks è in Alaska o altro) o se ho fatto qualche orrore grammaticale. Ripeto, accetto tutte le critiche costruttive e non offensive.
Dopo questi piagnistei, passiamo al capitolo.
So che finora non si è capito molto ma le cose comincieranno a chiarirsi tra qualche capitolo. Nel frattempo gustatevi il secondo, leggermente più lungo del precedente.
 
 
 
 Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
 
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Fissavo Brian e Matt a bocca aperta, a metà fra lo stupito e l’indignato.
“State scherzando, spero!”.
Sbuffarono. Nello stesso istante. Altro che scambio di culle, quei due si assomigliavano più di quanto loro stessi pensassero…
“No, non scherziamo. Perché dovremmo?”, chiese Matt.
“Già, perché?”, gli fece eco l’altro.
Abbassai lo sguardo dai loro visi alla…cosa che tenevano in mano e che scuotevano come in quei giochi a premi della tv.
Si trattava di un vestito. Anzi, chiamarlo così era un insulto: era nero, con due spesse spalline di pizzo ed un corpetto strettissimo in vita; la gonna, lunga fino a terra, ricordava quei motivi e quelle forme che andavano di moda due secoli prima. Ma la cosa più orripilante era la scollatura, a barca, profondissima e pensata per esporre parecchio.
“Voi siete matti”, dissi e richiusi la porta del camerino con uno scatto secco. Li sentii ridacchiare.
“Oh beh, allora…”.
“…se la metti così, Bellina…”.
“…va’ pure sul palco nuda”.
“Ma che carini, vi completate le frasi a vicenda!”, disse la voce di Mischa dal camerino alla mia sinistra. La sentivo trafficare con vestiti ed oggetti di metallo vari.
“Quasi quasi preferisco andarci nuda sul palco. Cavolo, questo vestito è…è…insomma, è!”.
Sentii il rumore delle grucce che scorrevano sull’asta mobile. Dopo pochi istanti bussarono alla porta di nuovo.
“Per stavolta passi. Adesso apri e mettiti questo, altrimenti fregati”, ordinò la voce di Matt. Già sentivo le risatine di Robert. Non tentai nemmeno di immaginare cosa potesse essere; aprii la porta giusto lo spazio necessario per far passare il mio braccio e, a tentoni, trovai la stampella. Richiusi velocemente la porta e osservai l’abito.
Sospirai di sollievo. Niente scollature eccessive o roba simile: solo una gonna nera di pizzo ed una semplice canotta bianca ricamata.
“Vedo con piacere che non sei ancora uscita urlandoci contro”, sghignazzò Brian.
“Oggi pioverà, è accaduto il miracolo. Vi siete contenuti”.
“Cos’è, Bella?”. La voce di Mischa proveniva non più dal camerino ma dal corridoio. Doveva essere uscita. 
“Un attimo e te lo faccio vedere”.
Mi sfilai rapidamente i jeans e la camicia per sostituirli con il completo che avrei indossato sul palco. Mi guardai nello specchio verticale: okay, la gonna era un po’ larga e nella canotta ci sarebbe entrato un altro mio busto, ma nel complesso stavo bene. Mi accorsi però che mancava qualcosa.
“E le scarpe?”, chiesi.
“Guarda nella busta sotto la mensola; dovrebbero esserci un paio di stivali bianchi lucidi, sono della tua misura”.
Feci come indicato e adocchiai una busta bianca in cui, una volta aperta, trovai gli stivali. Erano di una misura più grandi, ma ormai tutto quello che avevo mi cascava addosso. Ed erano miracolosamente senza tacchi; unica pecca, impiegati un’eternità a sciogliere e riannodare tutti quei lacci.
Uscii dal camerino, soddisfatta.
Robert mi squadrò da capo a piedi mentre i gemelli fischiarono. Mischa si limitò a sorridermi.
“Finita la radiografia?”, chiesi divertita.
“Mi sa che stasera la sicurezza avrà parecchio da fare per tenere a bada quei mostri urlanti che si definiscono fans”.
“Però manca qualcosa”, mormorò Matt pensieroso. Si voltò e cominciò a squadrare uno ad uno tutti gli abiti appesi sulle stampelle.
“Nulla di troppo appariscente o stravagante”, lo ammonii. Lui mi ignorò bellamente e squadrò un paio di abiti. Mi porse un cappotto nero in eco pelle, che io liquidai con uno “Scordatelo” che lo fece immediatamente desistere.
Per dieci minuti andammo avanti così: lui proponeva capi che senza troppe cerimonie scartavo. Alla fine Mischa, stanca di perdere tempo, mi rifilò una giacca nera dal taglio elegante che probabilmente aveva fatto da pezzo superiore ad un tailleur. Ignorò completamente le mie proteste sul caldo che avrei sofferto una volta sotto le luci.
“Mettici questi, pettinati un poco e sarai perfetta”, disse porgendomi un paio di guanti di pizzo nero senza dita. Non avevo ancora avuto modo di osservarla bene, ma quando mi sedetti per permetterle di farmi i capelli la guardai nello specchio di fronte a me. Indossava un paio di pantaloni a scacchi dall’aria comoda  infilati in un paio di stivali alla caviglia con tanto di zeppa stile marines, ed una maglia strappata larga senza maniche, in modo da avere libertà nei movimenti.
Per un po’ non dicemmo nulla e l’unico rumore era lo crepitio dei meccanismi interni della piastra che Mischa adoperava sui miei capelli, cercando di trasformarli da lisci a ricci.
A rompere il silenzio fu lei.
“Nervosa?”.
Scossi la testa. Chiunque altro al mio posto sarebbe stato un tantino agitato e col cuore in gola, ma non io; in quasi quattro anni avevo imparato a convivere con la tensione fino a vincerla del tutto. Neanche stare sotto i riflettori –esposta allo sguardo di migliaia persone- mi procurava più l’imbarazzo di un tempo.
Qualcuno avrebbe detto che ero maturata, ma la verità non era propriamente quella: ero semplicemente cresciuta, diventando da imbranata adolescente a donna di successo e sicura di sé. Un bel salto, in pratica.
“Hai visto come si sono conciati i gemelli? Sembrano usciti da una clip degli anni Ottanta”. Rise.
“Giuro, quando ho visto quei pantaloni neri di pelle scampanati ho avuto l’impulso di vomitare”.
“E quella giacca e quella camicia orribili!”.
Continuammo a ridacchiare e discutere dello stramo gusto nel vestire di Brian e Matt finché non arrivò Robert per avvisarci che…
“Ragazze, è arrivato”, proclamò con aria tragica.
Cercai di non scoppiare a ridere. “Che cosa, Rob?”.
“Il Momento”.
Già. Il Momento. Valeva a dire quell’orribile quarto d’ora che passavamo nel backstage a firmare album, foto e magliette di decine di adolescenti in delirio. Un incubo, in pratica.
“Okay, arriviamo”.
Mischa staccò la spina e ripose la piastra insieme agli altri accessori di make-up. Poi mi lanciò qualcosa di nero e luccicante che presi al volo.
Mi guardò strana mordendosi il labbro inferiore. “Sei sicura, Bella?”.
Respirai profondamente. “Ti prego, Mischa, te l’ho già detto. Non me la sento ancora…anzi, non so neanche se avrò mai il coraggio di mostrarlo”.
Non osò controbattere. Forse sapeva che non le avrei dato ascolto o addirittura che mi sarei arrabbiata. Che cara ragazza, mi ritrovai a pensare affettuosamente. Mi ricordava Angela, anche lei odiava forzare le persone o metterle a disagio. C’era un’unica differenza: Mischa era cento, mille volte più pericolosa, soprattutto se il bersaglio era Brian. Mi chiedevo perché fosse sempre lui l’oggetto dell’ira di Mischa ma in realtà la risposta ce l’avevo già. Quei due erano così tonti da non capire di essere fatti l’uno per l’altra. Entrambi amanti della musica e dei fast food…e si, ugualmente matti.
Ridendo, guardai il risultato allo specchio: chissà per quale miracolo divino, era riuscita a piegare i miei capelli in ricci perfetti e lucenti. Dalle sopracciglia alle palpebre inferiori era tutto coperto dalla mascherina nera. Perfetto.
“Lo sai che ti adoro, vero?”, le chiesi innocentemente.
Ghignò. “Se stasera non finisce male noi due ci sposiamo, vero?”.
“Allora prepara l’auto per Las Vegas, tesoro, perché stasera nessuno ci fermerà!”. La voce tonante di Brian esplose e ci fece sobbalzare. Ma prima che Mischa potesse fare nulla –come uscire e strangolarlo con la cintura- Robert ci richiamò dal corridoio.
Feci per alzarmi ma Mischa mi fermò e prese qualcosa da dietro. Poggiò delicatamente le mani sul mio collo e sentii del metallo freddo sull’incavo bella gola. Mi guardai allo specchio e vidi una collana dalla montatura poco elaborata di argento e decorata da varie pietre rosse che identificai come granati. Un pendente a goccia più grosso degli altri mi sfiorava leggermente la gola. Era meraviglioso.
“Un piccolo pensierino”, disse ammiccando. La abbracciai per ringraziarla; mi accarezzò i capelli stando attenta a non rovinare la pettinatura. 
Quando uscimmo Robert era già in piedi e torceva inconsapevolmente le mani.
“Allora, ragazzi, ci siamo. È inutile che vi dica cosa fare, ormai siete grandi e lo sapete. In particolare tu, Matt”.
Lui lo guardò con finta innocenza. “Io?”.
“Si, tu. E non guardarmi così, devo ricordarti il casino che hai combinato tre mesi fa al Turner Field di Atlanta?”.
“Non tirare sempre fuori quella storia, cazzo! Non è stato nienteeeeeee!”.
“Spaccare il naso ad un tizio che neanche conosci ti sembra niente?!”.
“Mi assillava che voleva un autografo, cos’ altro dovevo fare!”.
La risposta –poco educata- di Robert fu coperta da un’ ovazione proveniente dalle nostre spalle; una massa di corpi addossati gli uni agli altri si riversò nel corridoio. Alcuni stringevano foto e cd in una mano e un pass nell’altra, neanche fossero delle reliquie sacre.
Da lì si scatenò l’inferno. E con la I maiuscola.
Passati il successivo quarto d’ora a sorridere e firmare di tutto, dai poster alle copertine dell’ultimo album. Brian e Matt cominciarono a sghignazzare quando un bambinetto mi chiese con voce tremante di dargli un bacio sulla guancia paffuta. Non so dire chi fosse più rosso, se io o le sue gote chiazzate dal sangue che affluiva e dal mio rossetto scuro.
Fu un sollievo quando gli addetti alla sicurezza spinsero via la folla impazzita per permetterci di iniziare il vero concerto.
Anche quella volta non mancò il discorso di Robert.
“Eccoci qua. Comportatevi come sempre e vedrete che li manderemo in delirio!”.
“Come se servisse”, commentai accennando alla urla che già si sentivano dalla platea.
“Bene allora, ho detto tutto. Myötäkäyminen*!”.
Kiitos**!”, rispondemmo in coro.
“Che bello, alla fine lo avete imparato”, rise lui.
Assurdo, direbbe qualcuno. Assurdo eppure vero: Robert non era inglese, e neppure americano. Era nato e cresciuto a Vaasa, sulla costa finlandese, e parlava sia la sua lingua natale che l’inglese. Spesso però ci costringeva a parlargli ed a rispondergli in finlandese, al punto che dopo tre anni e mezzo avevamo imparato qualcosa, nonostante il nostro vocabolario si limitasse a parole ed espressioni come ‘buongiorno’ o ‘grazie’. Eravamo addirittura arrivati a lanciare intere canzoni cantate esclusivamente in finlandese. Ovviamente i testi originali, scritti e composti da me in lingua inglese, venivano corretti e tradotti da Robert. Dannato geniaccio.
“Ehi, Mischa, ma dopo ci andiamo davvero a Las Vegas, vero?”.
La frase costò a Brian una bacchettata sulla testa.
 
 
*Buona fortuna
**Grazie
Dio benedica il finlandese u_u
Ancora una cosa, la collana che Mischa regala a Bella è più o meno questa; di immagini così ne posterò parecchie, dato che per me lo stile d'abbigliamento non è solo una questione di vanità ma un modo di essere e di porsi agli altri (da brava alternativa quale sono ^^). Prendete Brian e Matt: cosa vorrà mai dire quel look da Final Countdown?? x°D
 
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Capitolo 3
*** III - Into a dying day ***


Oddeo, è già martedì?! Scusate il ritardo ma ormai il mio cervellino non connette più, causa scuola T^T Anyway, ecco a voi il nuovo capitolo fresco fresco di Word! Gustavelo bene, c'ho messo parecchio a scriverlo anche se si tratta di un chappy di transizione che potevo pure risparmiarmi...
 
RISPOSTE ALLE RECENSIONI:
 
elys: davvero sono brava? *me tranzolla* lo so che per ora non si capisce molto, ma le cose cominceranno a chiarirsi tra qualche capitolo. Per risponderti, allora si...la sotria si ambienta durante New Moon, e in pratica Ed non è tornato mentre Jacob...ma che sto a dire, poi rovino il finale! Ti basti sapere che il lupastro avrà un ruolo-chiave pur non essendoci (ormai è come il prezzemolo, è ovunque!). Spero continuerai a seguirmi. Baci!
mine: *w* ne sono felice!
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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Già dopo quattro brani iniziai ad avvertire la stanchezza. Il continuo movimento, le luci del palco ed in generale la soffocante atmosfera tipica dei concerti rock mi avevano costretta a togliere la giacca; per cui mi ritrovavo a dovermi esibire con solo una canotta, tra l’altro larghissima, e una gonna lunga si e no fino alle ginocchia. Speravo solo che gli stivali coprissero le gambe e che i bordi della maglia non si alzassero troppo rivelando la vita. Come avevo già detto a Mischa, non ero ancora pronta a farlo sapere a tutti.
Tra una canzone e l’altra i gemelli mi passavano una bottiglia d’acqua mentre loro si scolavano senza troppe cerimonie la loro, piena di vodka e chissà quale altro alcolico schifoso. La cosa più impressionante era che anche dopo dieci canzoni la bottiglia non era arrivata neanche a metà; certo non avevano problemi di alcolismo.
Più di una volta ero stata tentata di lasciar perdere l’acqua e darmi alla vodka; dovevo mantenere ben alta la voce e per questo ero costretta ad ingollare liquidi su liquidi per evitare che la gola si seccasse troppo, neanche fossi una cantante d’opera. Anche se in effetti era così, dopotutto.
“Ed ora”, gridò Robert attraverso il microfono scatenando ovviamente la folla. “che ne dite di rispolverare qualcosa dei vecchi?”.
Le urla raddoppiarono mentre io cominciai a ripassare mentalmente i testi. Chissà quale mi avrebbe chiesto, dato che nel programma non c’era quasi più nulla. Ma d’altronde, Robert era Robert, e adorava le improvvisate.
Mi fece l’occhiolino e gridò di nuovo nel microfono. “Che ne pensate di Wish I Had An Angel?”.
Non ci fu neanche bisogno di una risposta: le urla ormai erano a livelli inimmaginabili e sperai che diminuissero prima di raggiungere la soglia del dolore.
Almeno non aveva scelto un brano difficile; ricordavo ancora il giorno in cui avevo buttato giù la prima bozza.
 
*INIZIO FLASHBACK*
 
Io e la band eravamo in ritiro a Buenos Aires, cercando ispirazione per il prossimo album. Il titolo era ancora da definire, ma speravamo di farcela entro l’inverno.
Quel giorno di fine luglio ci eravamo fermati nel parchetto pubblico del quartiere di Parque Chas e riposavamo sotto l’ombra degli alberi per proteggerci dal sole cocente di mezzogiorno. Indossavo un enorme paio di occhiali da sole, un po’ per il riverbero della luce e un po’ per nascondere la mia faccia.
Robert succhiava distrattamente il tappo di una penna e osservava il cielo in cerca di qualche spunto; Mischa tamburellava le bacchette sul terreno fingendo di non essere interessata ai gemelli che giocavano a calcio con un pallone recuperato chissà dove. E io? Mi limitavo a fissare una pagina, ancora vuota, del mio fidato quaderno rilegato. Era pieno zeppo di appunti e pensieri che occasionalmente riesumavo per trarne ispirazione, ed era ovviamente macchiato e in pessime condizioni.
“Bleah!”.
L’esclamazione disgustata di Brian mi fece sobbalzare. Anche gli altri lo guardavano strano.
“Insomma, guardate! Ma sono cose da fare in pubblico?!”.
Seguii il suo sguardo e incontrai due figure abbracciate sotto un albero e distese sopra un telo. Peccato che non stessero proprio, ehm, prendendo il sole.
Brian li fissava scandalizzati. Matt incuriosito. Robert con divertimento e Mischa con aria sognante. Io, invece, rimasi indifferente. Totalmente, completamente indifferente.
“Be’, che c’è di strano?”, chiese Matt.
Il fratello lo guardò indignato. “Cosa c’è di strano? Il fatto che due tizi stiano facendo sesso all’aperto e in un luogo pubblico all’ora di punta ti sembra normale?”.
“Guarda che non siamo nel Medioevo, Brian”, gli ricordò Robert.
“Siiiii, è così romantico!”. Mischa sembrava persa nei suoi pensieri e poco mancava che le venissero gli occhi a cuoricino.
Chiusi di scatto il quaderno. La verità era che quella scena mi dava la nausea, intrisa com’era di amore e passione. Quel ricordo ancora stuzzicava le mie ferite.
Robert mi guardò preoccupato. E certo, come avrebbe potuto non sapere cosa sentivo? Sembrava che lui potesse leggermi nel pensiero.
“Stai bene?”, chiese piano e a voce bassa.
Respirai a fondo per calmarmi ma ottenni l’effetto contrario. “Perché dovrei stare male? Guarda che sto benissimo”.
La voce mi uscì più alta e scorbutica di quanto volessi. Era davvero ironico che, lodata com’era da migliaia di critici per la sua delicatezza da soprano, potesse assumere toni così sgraziati.
Ebbi appena il tempo si biascicare uno “scusatemi” appena accennato e corsi via da quell’atmosfera troppo sdolcinata.
 
Robert mi seguì, ovviamente. Mi ritrovò appollaiata su una panchina del chiosco all’entrata del parco che sorseggiavo una granita al limone. Mi ci voleva qualcosa di aspro e capace di scacciar via il ricordo della dolcezza a cui avevo assistito nel prato: quella scena mi era fin troppo familiare.
“Perché sei scappata?”.
“Non sono scappata”, risposi asciutta.
“Invece si. Perché lo hai fatto?”.
Non gli si poteva nascondere niente. Mi conosceva troppo bene.
“Sai che non sopporto queste scenette stomachevoli. Sono patetiche”. Complimenti Bella, ottimo riassunto. Più dura di così non potevo essere.
Rob si sedette al mio fianco e mi cinse le spalle con un braccio. Non parlammo, non avevamo bisogno di parole.
Finii la mia granita e gettai il bicchiere vuoto nella spazzatura. Poi presi il quaderno e la penna e aspettai che arrivasse l’ispirazione.
“Secondo te quei due facevano sul serio?”, chiese lui.
“E che ne so. Non ho fatto in tempo a vedere il gran finale”.
“Cioè lui che la spoglia e se la fa davanti a tutti?”.
Scoppiammo a ridere e per un po’ non smettemmo.
“Allora spero per loro che stanotte si divertano. Lui è fortunato, quella ragazza era bellissima”, continuò Rob. Le sue parole non facevano nemmeno male, c’era lui ad anestetizzare il dolore.
“Te la sei squadrata ben bene, vero?”, chiesi maliziosa.
Arrossì. “Scema. Volevo solo dire che non sembrava sudamericana. Era più chiara di pelle e aveva dei bellissimi occhi marroni. Sembrava un angelo”, finì con aria trasognata.
Ed infine eccola lì, la mia ispirazione: da una conversazione dolorosa ma dall’apparenza innocua nacque qualcosa che rimase per sempre inciso nella mia mente e sul CD che ci accingevamo a rilasciare.
 
I wish I had an angel
for my moment of love,
I wish I had your angel tonight


 

****NOTE DI FINE CAPITOLO****

Come ho già detto all'inizio della storia, le canzoni NON appartengono a me ma ai NIGHTWISH. Compresa, quindi, la canzone sopra citata. Se volete sentirla, ve ne do la versione live a questo link: http://www.youtube.com/watch?v=zR4QvZUgpMc&feature=PlayList&p=2FE6C7688DC93391&index=17

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Capitolo 4
*** IV - Drunken disguise ***


Anche se dopo un'eternità, eccomi di nuovo a postare. Sono felice che lo scorso capitolo sia stato apprezzato da almeno una persona (felice che ti piaccia, cara ^^). Ringrazio certo chi ha inserito la storia tra i preferiti, ma vorrei mettere in chiaro una cosa: non mi piace nè che mi si dica solo 'Bello, aggiorna' nè che si inserisca la storia tra le preferite senza neanche lasciare un commento, sia esso negativo o positivo. Non è una regola del sito, è una regola morale che ogni scrittore dovrebbe conoscere e seguire.
 Dpo questo piagnisteo, vi lascio al capitolo^^ BUONA LETTURA
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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Era da bambocci, ma volli a tutti costi prendermi una rivincita su Robert: dopo l’intervallo di metà concerto mi aveva costretta ad eseguire due dei brani più difficili che avessimo mai provato. Fortuna volle che nel programma vi fosse anche la possibilità di scambiare una canzone complicata con la più facile –per me, ovvio- The phantom of the Opera. Lì si che Rob avrebbe dovuto mettersi d’impegno. Merda, non che per me fosse meno semplice infondo!
Quando vidi che stava per annunciare la prossima traccia, presi io la parola.
“E adesso”, cercai di esclamare contenendo la voce per non danneggiarla ma allo stesso tempo riscaldarla, “vi presentiamo un brano che molti di voi già conosceranno. Avete mai letto Il fantasma dell’Opera di Leroux?”. Già a quella frase in parecchi cominciarono a capire e ad emettere versi eccitati. “Magari avete  visto il musical di qualche anno fa…Insomma, conoscete la celebre aria Angelo della musica?”.
Altre grida in cenno di assenso.
“Benissimo! Godetevi quindi questa cover e ringraziate Rob per la musica. Ovvio, le parole non sono sue, non è così romantico il ragazzo…”.
Le risate di Mischa e dei gemelli furono coperte dalle ovazioni non appena Matt poggiò le mani sulla tastiera per il primo accordo; quanto a Rob, la sua faccia era impagabile e dovetti far violenza su me stessa per non scoppiare a ridergli in faccia.
“Questa me la paghi”, sibilò un attimo prima di dare il via con la chitarra assieme a Brian che aveva smesso di squassarsi dal ridere.
Il primo verso toccava a me. M’immersi totalmente nella mia parte, quella della bella Christine, e mi ci trovai a mio agio nonostante a volte mi sentissi più vicina che mai ad Eric, il fantasma sfigurato che infestava i sotterranei dell’Opera. E probabilmente era così.
 
In sleep he sang to me, in dreams he came,
that voice which calls to me and speaks my name.
And do I dream again? For now I find
the phantom of the Opera is there,
inside my mind.
 
A quel punto Mischa scatenò la sua energia incanalandola nelle mani e nelle bacchette che reggevano; la musica esplose con una forza che mandò il mio cuore a mille e il pubblico in delirio. Sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene assieme al sangue, dando forza al corpo e alla voce. Il suono rimbombante della batteria si fuse con quello delicato ed inquietante della tastiera che Matt adoperava per renderla somigliante ad un organo. Il risultato era strabiliante, e lo fu ancora di più quando Rob avvicinò la bocca al microfono e iniziò a cantare senza però distrarsi dalla chitarra.
 
Sing once again with me our strange duet;
my power over you grows stronger yet.
And though you turn from me to glance behind,
the phantom of the Opera is there,
inside your mind.
 
Ormai non riuscivo a non cogliere l’ironia della situazione: io, che celavo il mio volto dietro una maschera, ad interpretare Christine e Robert, con il suo viso così aperto e socievole, nei panni di un uomo-fantasma sfregiato e chiuso in se stesso al punto da non mostrarsi mai a viso scoperto.
Ironico, molto ironico.
 
Those who have seen your face
draw back in fear.
I am the mask you wear.
 
It’s me they hear!
 
Your spirit and my voice in one combined,
the phantom of the Opera is there,
inside my/your mind.
 
He’s there, the phantom of the Opera.
Beware the phantom of the Opera!
 
In all your fantasies you always knew
that man and mystery
 
Were both in you!
 
And in this labyrinth where night is blind,
the phantom of the Opera is there,
inside my mind.
 
Arrivò la parte più complicate e più emozionante del brano: quella in cui Christine canta per il suo uomo-fantasma, mentre lui la esortava. Quello di lei era un semplice canto senza parole che aumentava man mano che il brano si avviava verso la fine.
 
Sing, my angel of music!
 
La melodia attaccò e mi ritrovai con la bocca a due centimetri dal microfono; mi ci volle tutto l’impegno che avevo e tutto quello che Rob mi aveva insegnato per non sbagliare.
 
Sing, sing, my angel!
 
Il ritmo crebbe, la musica si fece più intensa e la mia voce più acuta e potente. Mi rinchiusi nella mia bolla privata in cui niente e nessuno –né le urla del pubblico né i ricordi dolorosi- poteva farmi del male; scivolai invece, nell’annebbiamento appena cominciai a rendermi conto che l’unica persona per cui avrei mai voluto cantare non c’era più.
Stavo da sola nel mio posto infelice.
 
SING! SING! SING, MY ANGEL!
 
Furono le urla di Rob a riportarmi sul palco un istante prima che le lacrime avessero la meglio.
 
 
NOTE DI FINE CAPITOLO:
 
A questo link trovate la versione live della canzone. Inutile dire che TUTTI i copyright sono dei Nightwish e che questa storia non ha alcuno scopo di lucro e/o pubblicità occulta.
 

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Capitolo 5
*** V - Save one breath for me ***


Sacre bleu, da quanto non aggiorno?? Ho perso il conto ormai *si mette in ginocchio sui ceci e si cosparge la testa di cenere*
SCUSATEEEEEEEEEEE!!  Giuro che cercherò di non rifarlo più...In compenso, questo chappy mi è venuto abbastanza carino (spero). Anche perché ho cercato di metterci un po' del mio stile, non so se capite...
RISPOSTE ALLE RECENSIONI
 
3things: wow, davvero non conoscevi i Nightwish? Sono stata io a farteli scoprire? Ripeto, wow...Neanche io riesco a fare a meno di saltare per casa cantando quella canzone, anche se preferisco farlo quando sono sola o tutti mi prendono per pazza ^^ Felice che ti piaccia!
__cory__: eeeeeeeeeh, queste domande troveranno risposta nei prossimi capitoli. E la ff è bella lunga, finora ho scritto 27 capitoli! Spero che non ti stuferai e continuerai a seguirmi ^^
ginny89potter: tutti questi complimenti mi manderanno in autocombustione. Grazie mille, non avevo mai ricevuto una critica così positiva...Si, in effetti ce ne sono molte di storie su Bella che si da alla musica e diventa una persona famosa, e so che non sempre ricevono critiche positive. Ed è per questo che c'ho messo tanto a pubblicare la ff. Avevo paura che mi lanciaste tutti i pomodori dietro ^^
Che dire di più, ringrazio tutti quelli che hanno messo la mia storia tra i preferiti o fra le seguite e anche chi legge e basta. Mi raccomando, recensite!
A presto, si spera,
 
Oriana
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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Rob mi trovò nell’ultimo camerino del corridoio, rannicchiata sulla sedia senza più la mascherina e con il trucco che mi colava sulle guance come piangessi lacrime nere. Il concerto era concluso da un pezzo e il backstage si era appena sgomberato dai giornalisti per le interviste. Finite quelle ero scoppiata a piangere ed ero riuscita a scappare appena in tempo prima che qualcuno mi vedesse.
Circondai le ginocchia con le braccia e ci appoggiai sopra la testa.
Lui non disse nulla: sapeva tutto quanto. Si limitò ad abbracciarmi e a stringermi contro il suo petto. Mi lasciai cullare per un po’ finché non mi calmai e le lacrime smisero di scendere.
“Scusa, ti ho rovinato la camicia”, riuscii a dire con voce roca.
Guardò la stoffa chiara sporca di trucco mischiato a lacrime e scrollò le spalle. “Chissenefrega, non mi piaceva nemmeno”. 
Le sue parole rimbombarono nel camerino e nel corridoio; solo allora mi accorsi del silenzio di tomba che regnava nel backstage. Dovevano essersene andati tutti.
“Mi sa che dobbiamo andare, piccola, gli altri saranno già sull’autobus e si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto”.
“Va bene, aspetta qualche minuto”.
Sciogliemmo il nostro abbraccio e lui uscì per permettermi di cambiarmi. Uscii dagli abiti di scena per infilarmi in quelli più comodi che usavo solitamente. Il viaggio del giorno dopo sarebbe stato lungo e stancante, per cui avevo riempito il mio bagaglio di vestiti robusti ma soprattutto sportivi e coprenti. Niente top o fasce.
“Finito?”, chiese Rob dall’altra parte.
“Quasi”. Dalla borsa tirai fuori un pacchetto di salviette struccanti e me ne passai un paio sulla faccia in modo da rimuovere ogni traccia di trucco e di pianto. Buttai tutto nel cestino e uscii fuori dopo aver recuperato un’aria vagamente umana.
Robert mi dava le spalle ed era rivolto verso lo specchio sulla parete. Tra le mani reggeva un mazzo di fiori colorati.
“Di nuovo?”, chiesi.
Annuì semplicemente.
 Ecco una delle cose più strane dei nostri concerti: subito dopo l’esibizione, nel backstage trovavo sempre un mazzo di fiori indirizzato a me ed ogni volta il tipo di fiore cambiava; ogni tanto rose rosse, poi fresie, poi gigli e così via. Il bouquet era sempre accompagnato da qualche riga in stampatello in cui però non compariva mai il nome del mittente. Probabilmente si trattava di qualche omaggio da parte del pubblico, ma mi pareva strano che la stessa persona partecipasse ad ogni singolo concerto di tutti i tour annuali. Chissà quanti soldi spendeva tra fiori e biglietti.
E neanche quella volta fui delusa; come al solito, dalle corolle dei fiori sbucò fuori un triangolino di carta bianca. Lo presi per leggerlo a voce alta. Era scritto in stampatello in modo da rendere poco riconoscibile la calligrafia.
 
Se Monsieur Leroux avesse provato ad immaginare il suo Angelo della musica, sono certo che mai avrebbe potuto pensato ad una creatura che avesse anche solo un briciolo della tua bellezza e della tua grazia.
 
Sbuffai e appallottolai il biglietto. “Tutte queste sdolcinerie mi faranno venire il diabete”, borbottai a mezza voce.
Robert ridacchiò. “Allora dovrai assumere uno specialista, perché mi sa che questo tizio non smetterà di perseguitarti tanto presto”.
“E tu che ne sai?”.
“Chiamalo intuito maschile”.
“E da quando tu avresti un intuito?”.
“La mia maestra è bravissima”.
E, ridendo, tornammo insieme sul pullman che ci avrebbe portato in albergo.
 
Da poco avevamo lasciato Rockford in direzione di Chicago; lì avremmo fatto scalo fino a Columbus, dove si sarebbe svolta la seconda serata del tour. Io e Mischa ce ne stavamo sedute sul divanetto a parlare di musica –o meglio, io parlavo mentre le si divertiva ad usare il tavolino come batteria- e ogni tanto venivamo interrotte dalle grida dei ragazzi, impegnati in una storica partita a carte. Imprecazioni e sfottò volavano ogni cinque minuti e ben presto ci unimmo a loro.
Subito me ne pentii.
“Ahah! Hai perso, Bellina, mi spiace”, gongolò Brian buttando a terra le ultime carte.
Sbuffai e gettai sul tavolino le mie con più forza del necessario. “Con tutto il cuore, Brian, vai al diavolo”. Per consolarmi ingollai una sorsata dalla bottiglia di birra di Mischa.
Matt mischiò le carte e cominciò a distribuirle per iniziare. A metà partita cominciai ad annoiarmi e tirai fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette.
“Ne vuoi una?”, chiesi offrendone una a Rob. Il quale accettò lanciandomi un’occhiataccia che ignorai.
“Sul serio, Bella, non ti fa bene”.
 Erano secoli che tentava di farmi smettere ma non gli avevo mai dato retta, e i risultati si vedevano. Rischiavo seriamente di compromettere la mia salute. O almeno di peggiorarla…Ma la cosa che più rischiava di peggiorare era il mio mal di testa, accidenti ai gemelli!
“Preparati-preparati, Columbus! Preparati-preparati, la banda arriva!”. I due deficienti in questione si erano alzati in piedi sul divano con un braccio intorno alle spalle dell’altro, ondeggiando come allo stadio durante le partite di football e brandendo due bottiglie di birra mezze vuote.
Ci tappammo teatralmente le orecchie. “E voi suonereste in un gruppo? Ma dico, che ci eravamo fumati quando abbiamo deciso di prenderli con noi?”, esclamò Mischa.
“Nulla che non fumiamo quotidianamente”, rispose Rob enfatizzando le sue parole aspirando dalla sua sigaretta e buttando fuori lentamente.
Alla fine però ci unimmo ai gemelli nel coro. Fu spassosissimo quando Brian mi chiese di ripeterlo in acuto; avevo la voce arrochita dal fumo e dall’alcool, per cui non mi uscii proprio benissimo.
Ben presto il salottino del bus venne invaso dal fumo e dalle nostre voci accompagnate dalle bacchette di Mischa sul tavolino. Rob e Brian suonavano un’immaginaria chitarra elettrica con tanto di plettro e spaccata. Eseguiamo i primi brani che ci venivano in mente, a volte anche aggiungendo modifiche all’originale.
Arrivata alla decima canzone –e alla terza birra- cominciai a sentirmi brilla; i gemelli già russavano in un angolino del divano con la testa sulle spalle mentre Rob finiva la sua seconda bottiglia. Mischa cercava di farci smettere ma neanche lei appariva tanto sobria.
“Non vi pare di –hic!- stare un po’ esagerandooooooooo?”. Barcollò per un attimo e poi crollò definitivamente sul divano. In qualche secondo già era nel mondo dei sogni.
Ridacchiai senza motivo. La sua faccia era…buffa.
Mi allungai per afferrare il pacchetto di sigarette davanti a me ma una mano familiare me lo tolse dalle mani e mi afferrò un braccio.
“Basta adesso. Va bene qualche birra, ma così è troppo”.
“Senti chi parla. E dimmi, Rob, il tuo alito sarebbe così schifoso perché hai mangiato qualche spicchio di aglio di troppo o ti sei semplicemente scolato delle bottiglie con…quante, tre sigarette in meno di due ore?”.
Si chinò per sussurrarmi arrabbiato all’orecchio: “Almeno io ho fegato e polmoni a posto, non come te! Rischi di dimezzarti la vita così”.
Lasciai cadere il braccio che cercavo di sfilare dalla sua presa; i miei tentativi erano stati così deboli da non lasciar credere che ci stessi provando davvero. La bottiglia che stringevo mi scivolò tra le dita e finì sul pavimento senza rompersi.
Per un istante lo guardai negli occhi. Erano molto belli, di un grigio-bluastro striato di azzurro, ed esprimevano calore. A quell’immagine si sovrappose un’altra: due familiari occhi castano scuro prima ridenti, poi arrabbiati ed infine velati di follia. Mostruosi. Inumani.
Lui sembrò pentirsi di ciò che aveva detto, perciò si affrettò ad aggiungere: “Scusa, non so cosa cavolo mi sia preso. Forse ho alzato davvero troppo il gomito…”.
Scossi la testa. E invece aveva ragione, una dannata ragione, a parlarmi in quel modo; lui mi aveva trovata, capita e aiutata quando ormai ero rimasta sola, mi aveva insegnato tanto e infine grazie a lui avevo trovato tre magnifici amici con cui passare il poco tempo che mi era rimasto. E io cosa avevo fatto per lui? Nulla, se non prestargli la mia voce. E non bastava: più volte gli avevo rinfacciato tutto, la sua preoccupazione nei miei confronti, le sue ansie e le sue paure. Più che legittime, tra l’altro.
“Ehi, ehi, piccola, non fare così. Non piangere, ti prego”. Non mi ero neanche accorta di stare versando lacrime.
Con la poca forza che avevo nelle braccia lo strinsi forte appoggiando la testa nell’incavo sotto il mento. Cominciò a canticchiare una canzoncina a bassissima voce mentre i singhiozzi mi scuotevano il petto vuoto. Nonostante la sua voce non fosse neanche lontanamente paragonabile a quella dei vampiri, non potei fare a meno di ripensare a lui che mi accoglieva tra le braccia canticchiando la mia ninna nanna.
Avrei voluto urlare forte, molto forte, e piangere tutte le lacrime che avevo; ma ormai era tardi e avevo sonno. Così, cullata dalla vocina di Rob, raggiunsi la tanto desiderata incoscienza. 
 

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Capitolo 6
*** VI - Breathtaking butterfly (parte I) ***


Incredibile, ci ho messo solo 10 giorni a postare! Sono stata brava, no? Tornando a noi, ho notato che lo scorso capitolo ha suscitato un bel po' di scompiglio. E avete ragione, per ora non si capisce un tubo ma era proprio questo il mio intento (bastarda, n.d.lettrici) e penso che continuerò così per un po' di tempo ancora. Ma non preoccupatevi, tra un paio di capitoli il mistero verrà svelato, promesso! E non solo quello dell'ammiratore segreto (che tanto segreto non è XD).
Un'ultima cosa: questo capitolo è diviso in due parti, la prima è un POV di Bella, mentre l'altro lo posterò al più presto e sarà a sorpresa! Adesso rispondiamo alle recensioni...
ginny89potter: hai addirittura scommesso i capelli? Stavolta ti è andata bene, ma la prossima volta potresti ritrovarti pelata XDXD Comunque ci hai azzeccato in pieno: i Cullen sanno di Bella, come potrebbero non saperlo? E' diventata un personaggio abbastanza noto, e con Alice che vede&prevede tutto...Davvero scrivo bene? Ti ringrazio^^ *arrossisce tutta*
3things: infatti T_T per questo odio i programmi a rotazione musicale, non passano mai cose tipo Nightwish o Theatre of Tragedy, sempre e solo le schifose canzoni commercialiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!! Vabbe', meglio tardi che mai. Pensa che io li ho scoperti a 13 anni e allora manco mi piacevano (ma come facevo?? avevo battuto la testa??)
__cory__: lo vedo XD ma devi portare pazienza, anche se infondo l'ammiratore non è poi tutta questa cosa importante. Nella storia non avrà nessun ruolo in particolare, è solo un...possiamo chiamarlo indizio, che però non c'entra nulla con la storia di per sè. Altro non posso dire, sorry, anche perché rovinerei la sorpresa. Consolati, l'ammiratore si rivelerà nel prossimo capitolo!
Chanellina94: in un'ora? Di solito io ce ne metto 2 ^^ Mi fa piacere che la storia stia avendo successo, perché ci ho messo cuore, anima e corpo nello scriverla. Vedo che un po' tutti/e vi state facendo le stesse domande: PAZIENTATE, E SARETE RICOMPENSATI/E!
 
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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L’aeroporto di Chicago era uno dei più caotici che avessi mai visto.
Rimasi sbalordita di fronte alla marea di gente e bagagli in fila per i voli. C’era di tutto: bar, fast food, negozi di souvenir, persino una libreria. Fu lì che trascinai tutti quanti in attesa del nostro volo, ovviamente privato, mentre i produttori della casa discografica si avviavano verso la pista.
Il primo a stancarsi fu Matt, con Brian al suo seguito.
“Bella, davvero hai intenzione di portare…”, pescò un titolo a caso dallo scaffale, “Emma con te? Non ne avevi una copia a casa?”.
“No, in realtà della Austen ho solamente Orgoglio e pregiudizio e Ragione e sentimento più un’antologia. Ah, e ovviamente I sonetti di Shakespeare e Cime tempestose. Che dici, prendo anche questo?”, domandai innocentemente mostrando una vecchia edizione dei Fiori del male di Baudelaire sepolta in fondo allo scaffale.
Non dissero nulla: mi fissarono come se si trovassero di fronte ad una povera pazza e poi si incamminarono verso l’uscita.
“Dove andate?”.
“Al fast food. Abbiamo fame”.
Mi sembrò quasi di vedere gli occhi di Mischa luccicare alla parola ‘fast food’. “Vengo anche io! Comincio ad avere appetito”.
“Tu hai sempre fame”, la provocò Matt mentre si allontanavano.
“Vai a quel paese, Foster”.
Li sentii battibeccare per un po’ mentre si allontanavano. Alla fine io e Rob ci ritrovammo da soli.
“Come ti senti oggi?”, mi chiese. Ormai potevamo parlare a voce alta.
“Benissimo, risposi sistemandomi meglio gli occhiali da sole. Li portavo sempre con me, durante i viaggi tra una serata e l’altra. Non che il sole fosse nascosto, comunque.
“Vuoi mangiare qualcosa? Te la vado a prendere io”.
“No, grazie, passo. Non ho fame”.
Mi guardò con rimprovero. “Bella, dovresti mangiare. Non hai toccato nulla neanche stamattina, e ieri sera hai pensato solo a scolarti tre bottiglie di birra col 18% di alcool”.
Sbuffai pesantemente e una ciocca che mi cadeva sul viso si sollevò per poi tornare a posto. Mi guardò con più insistenza; alla fine mi arresi. “Solo un trancio di pizza e una bottiglia d’acqua. E basta”. Annuì e mi trascinò letteralmente via dalla libreria.
Ci ritrovammo al tavolo insieme agli altri; loro stringevano tra le mani assurde quantità di cibo –pizza, patatine, hamburger e schifezze varie- mentre io sembravo sfigurare con il mio piattino molto ino. Ovviamente, Robert fece di testa sua e ordinò per me un milk-shake alla fragola che finì dritto nello stomaco di Brian, con grande disgusto da parte di Mischa.
Ufficialmente: non avevo fame.
Ufficiosamente: rischiavo di rimettere tutto.
 
L’aereo atterrò con precisione svizzera al terminal numero quattro, dove, schiacciati contro il vetro, stavano centinaia di persone, alcune delle quali con indosso delle maglie dalla scritta The Howling a caratteri cubitali. Molti altri ancora stringevano fra le mani una nostra fotografia in attesa di essere autografata: praticamente mezza Columbus si era riversata nell’aeroporto solo per noi.
“È lei! È lei!”.
“Eccoli! Finalmente!”.
“Non ci credo!”.
“Stupendi!”.
“Un autografo!”.
Rischiammo tutti una paralisi facciale per il tempo che passammo a sorridere e agitare la mano in cenno di saluto. In realtà non vedevamo l’ora che la conferenza stampa finisse e la vera serata iniziasse.
 
 
*******NOTE*******
 
Mi scuso per la brevità del capitolo, ma è stato purtroppo necessario interrompere qui. Il prossimo POV sarà il proseguio di questo, giurooooooooooooooooooooo!

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Capitolo 7
*** VII - Breathtaking butterfly (parte II) ***


Come promesso, ho cercato di postare il prima possibile e ci ho messo meno di dieci giorni, un record per me ^^
Ringrazio tutti/e i/le santi/e che perdono tempo dietro ai miei scleri partoriti durante l'estate mentre, appunto, deliravo invece di studiare per l'esame di settembre T_T
AAAAAAAANYWAY, ora vi lascio al capitolo. Finalmente saprete di chi è il misterioso p.o.v. ^^ Un bacio!
Ma prima vediamo le risposte alle vostre recensioni...
 
3things: io invece me ne sto volentieri fino alle due a guardare se passano dei video decenti, ma nisba T_T  Davvero ti piace Robert? Anche a me, ho creato un figliolo troppo bello. Se vuoi posto una foto dell'attore che me lo ha ispirato...anzi, di tutti i personaggi! Comunque stai tranquilla, non è cattivo...E' solo MOLTO particolare x°D Inolte le tue recensioni non sono affatto pallose. Ecco il tuo chappy!
__cory__: ci sarà, ci sarà, ma non fisicamente. Al massimo in qualche ricordo o qualcosa del tipo TURBE MENTALI DI BELLA SWAN. Sei Jacobista, per caso? Io sono Svizzera, li amo entrambi <3
HanaMomoAka: e la tua (im)pazienza verrà ricompensata! Per ora no, c'è solo Bella ma ti basterà leggere questo capitolo per capire qualcosa in più ^^
Chanellina94: li riavrai presto...o forse no? x°D
ginny89potter: la mia, di capa, assomiglia più ad un fungo x°D ho i capelli corti e lisci e con l'odiosa fila al centro che non si sposta manco a piastrarla...Quando Bella e Edward si icontreranno (SE si incontreranno) saranno già passati tipo...ho perso il conto di tutti i capitoli che ho scritto ^^ Per ora siamo sulla trentina. Si, Bellina ha qualche problema che si capirà tra due o tre capitoli...Ce la farai a seguirmi? Spero di si.
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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EDWARD'S POV
 
 
C’è bisogno che ti chieda dove stai andando o è ciò che penso?, mi chiese Esme con il pensiero.
“La seconda”, rispose Alice al posto mio. “Sbrigati o perderai l’aereo. Anche se sono sicura che arriverai in orario”.
Non obiettai; era meglio non scommettere contro di lei.
Mi rispose prima ancora che le chiedessi quello che mi interessava sapere: Non preoccuparti, i fiori arriveranno a destinazione in tempo, diciamo verso le…, si concentrò un attimo, le undici, più o meno.
Annuii e presi il borsone da viaggio. Non che mi servisse a molto, dopotutto sarei stato via solo per poche ore- ma era meglio così: per un volo da Albany a Columbus era necessario mostrare almeno qualche bagaglio, per non dare nell’occhio. E poi non mi pesava. La caricai sulla Volvo e ci mettemmo alla guida.
Mentre sorpassavamo il cartello d’uscita di Ithaca, Alice saltò all’improvviso.
“Accendi la radio”.
La guardai confuso.
“Fa’ come ti ho detto”.
Obbedii e armeggiai per qualche istante con le manopole dell’autoradio. La voce di un uomo si diffuse nell’abitacolo, parlottando allegra.
“…di Columbus, dove questa sera alle ventuno si esibiranno i Raintrag per la seconda tappa del loro tour autunnale. Non li conoscete? Ma ragazzi, siamo nel 2011 e non nella preistoria! Okay, allora vi aggiorno io: sono una band symphonic metal formatasi a Seattle tre anni e mezzo fa da un’idea della attuale vocalist, Isabella Swan. Sono conosciuti perlopiù qui negli Stati Uniti ma pian piano si stanno creando una certa fama anche dalle parti dei nostri amici oltreoceano con l’EP del 2009 Funeral e l’album dell’anno scorso, The Howling. Ricordate la scorsa puntata, in cui abbiamo intervistato uno dei membri fondatori della band nonché chitarrista e vocalist, Robert Vuorinen? Bene, allora non mancate all’appuntamento di stasera! Ricordate, ore nove in punto, ingresso del…”.
La radio tacque; mi ci volle qualche istante per capire che l’avevo spenta io. Voltai piano la testa e incrociai lo sguardo preoccupato di Alice.
Fratellino, forse è meglio se lasciamo stare. Ti sei già fatto abbastanza del male, perché ti ostini a fartene ancora?
“Non ci penso nemmeno”, dissi con foce fredda per liquidarla. Non volevo tornare sull’argomento, e lei lo sapeva benissimo. Ma non mancava mai di farmi notare quanto disapprovasse quel che stavo facendo. Inutile masochismo, lo aveva definito, e forse era proprio quello di cui avevo bisogno: non potevo procurarmi dolore fisico, così sfogavo la mia disperazione su altro.
Per tutto il resto del viaggio non dicemmo una parola, finché non arrivammo all’aeroporto di Albany. Il mio volo sarebbe partito entro mezz’ora, quindi io ed Alice avevamo tutto il tempo di salutarci.
“Mi raccomando, quando riporti la macchina a casa di’ a Rosalie di darle una lavata. E che non le venisse in mente di verniciarmela”. Rosalie aveva provato a convincermi a cambiare il colore della macchina da argento a blu, ma mi ero opposto e temevo qualche sua improvvisata.
Lo farò. E tu in cambio prometti di non fare scemenze?
“Tipo?”.
Tipo abbinare i gelsomini con le rose bianche. È un’accoppiata stomachevole.
“Ci starò attento”.
La voce gracchiante dell’altoparlante annunciò il mio volo. Presi il borsone e me lo caricai in spalla. Non pesava più di una piuma.
A domani, fratellino.
“Ciao, mostriciattolo”, la salutai scompigliandole i capelli. Rise e sgusciò via dalla mia stretta. La osservai saltellare allegramente, sotto lo sguardo allibito di alcuni passanti, e poi mi incamminai verso il terminal.
E comunque rose rosse e fresie fanno ancora più schifo assieme!, mi urlò con la mente prima di sparire tra la folla.
 
L’aereo atterrò puntuale sulla pista bagnata dalla pioggia. Quando uscii fuori dall’aeroporto notai una gran folla al terminal numero quattro; sapevo benissimo cosa fosse successo, ma feci finta di nulla e proseguii dritto combattendo contro l’istinto di voltarmi e raggiungere il pullman che sostava fuori.
L’auditorium distava dall’aeroporto parecchi isolati, ma ormai faceva scuro e con tutta quella pioggia nessuno mi avrebbe notato. Così imboccai una stradina alternativa deserta e cominciai a correre. Il borsone veniva sballotto lato qua e là rischiando di rompersi e fui costretto a rallentare quando sbucai in una strada più affollata. Dopo qualche isolato trovai la mia meta e m’infilai tra la folla che attendeva impaziente. Senza farmi vedere, e ringraziando la mia natura, scivolai davanti alla fila per assicurarmi un posto abbastanza vicino da poterla vedere ma non troppo da rischiare di farmi scoprire. Chissà come avrebbe reagito se avesse saputo quel che stavo facendo.
In due ore la folla si triplicò e l’atmosfera divenne soffocante persino per me, e la situazione peggiorò quando aprirono le porte e tutti si riversarono all’interno. Fui uno dei primi ad arrivare, il mio posto era in prima fila accanto al palco. Ero così vicino che avrei potuto toccarla non appena vi fosse salita…
Resomi conto di quanto fossi vicino al palcoscenico, decisamente troppo, m’infilai dietro un gruppetto di ragazzi urlanti. Alcuni reggevano degli striscioni decorati con fotografie varie. Puntai stentatamente lo sguardo altrove e attesi in silenzio che la fatidica mezz’ora passasse.
Grande errore.
La mia infallibile mente di vampiro mi permetteva, purtroppo, di pensare a più cose contemporaneamente. Così, mentre mi domandavo se i fiori fossero arrivati nel backstage, una piccolissima parte della mia mente era altrove, totalmente immersa nei ricordi che avrei voluto elidere e che invece erano parte immortale dei miei tessuti celebrali.
Razionalmente, sapevo di stare commettendo una sciocchezza; così come a giocare col fuoco ci si scotta, così un giorno avrei pagato le conseguenze di quello che stavo facendo. Avevo promesso di sparire e non farmi mai più vedere, invece eccomi lì, come ad ogni suo concerto, in attesa di rivederla.
Forse Alice aveva ragione: ero solo un pazzo masochista. Masochista e pure egoista, per fare rima.
Ma probabilmente la ragione che mi spingeva ad arrivare fin lì era un’altra, e non c’entrava con il controllare che fosse felice. No, la cosa che più mi premeva sapere era il perché di quella maschera che puntualmente le ricopriva il viso dalla metà della fronte fino agli occhi, fortunatamente visibili attraverso le fessure. Essi però apparivano diversi dall’ultima volta che li avevo visti, quando ancora si poteva definire vita la mia inutile esistenza: non sapevo quale fosse esattamente il cambiamento, ma sembravano…più maturi, in qualche modo, come se avessero visto e vissuto di tutto. Da un lato ne ero contento –significava che era andata avanti e che il mio sacrificio non era stato vano- ma dall’altro ero inquieto. Il cambiamento non sembrava sempre positivo e spesso avevo intravisto una strana luce che speravo non avesse a che fare con me.
Era in momenti come quello che maledivo la sua immunità al mio potere; sarebbe stato tutto molto più facile se fossi riuscito a leggerle dentro. Mi sarei risparmiato parecchi dubbi e tormenti. Ma d’altro canto, pensai, se fosse così non sarebbe la mia Bella. Sarei dovuto essere disgustato da me stesso –con che coraggio osavo definirla mia?- ma il mostro dentro di me ruggì, approvando.
Sei un idiota, Cullen. E con la I maiuscola, mi urlava, ti sei lasciato sfuggire la cosa più bella che ti potesse capitare nella tua miserabile esistenza. Anzi, te ne sei allontanato volontariamente. Peggio di così non può andare.
Le mie urla mentali furono sovrastate da quelle reali del pubblico attorno a me; le luci si erano spente e quelle sul palco si erano appena accese. Avvertivo dei movimenti dietro palco e dei pensieri circa il funzionamento dell’impianto acustico ed elettrico. Poi alcune coscienze si fecero più forti e attive.
Giuro che se Brian lo rifà di nuovo gli ficcherò le bacchette nella gola e a quel punto Rob ci sgriderà perché non avrà il tempo di cercare un sostituto…penso che Matt mi ucciderebbe in ogni caso perché gli toglierei l’unica persona che lo sopporta…Bella sarebbe l’unica d’accordo con me, anche se forse preferirebbe una morte più pulita. Magari è la volta buona che gli avveleno la vodka o…
La mente di Mischa Williams (mi pareva si chiamasse così) cominciò ad elencare altri possibili espedienti per ammazzare questo tale Brian, che presumevo fosse il secondo chitarrista. Dai suoi pensieri, però, traspariva anche un sentimento più profondo, forse affetto o addirittura amore. Incuriosito, sondai la mente del diretto interessato. Anche lì vi trovai dei pensieri alquanto rumorosi, tutti rivolti ad attirare l’attenzione della bellissima rossa che lo minacciava con due bacchette per batteria.
Evidentemente tra loro c’era qualcosa che, chissà per quale motivo, si rifiutavano di confessare. Sorrisi fra me e me: perché non dare loro una piccola spintarella nella direzione giusta? Dopotutto, lo avevo già fatto in passato con Angela Weber e Ben Cheney, nonostante quell’episodio sembrasse lontano anni luce dal presente.
Una terza coscienza non sembrava prestare grande attenzione a ciò che succedeva dietro le quinte; era infiammata dall’eccitazione di salite sul palco e sfogare tutto lo stress sulle tastiere (e potevo in un certo senso capirlo, da musicista qual’ero). Una quarta, invece, era concentrata in un discorso che voleva essere d’incoraggiamento.
Bene, se stasera andiamo bene può darsi che quelli della casa discografica si decidano a mandarci anche oltreoceano. Merda però, non so se Bella sia in grado di affrontare viaggi simili, non è già nelle condizioni migliori per stasera…
I pensieri erano tutti rivolti alla quinta persona, la cui mente mi era preclusa. Doveva essere lei. Le parole di Robert Vuorinen mi spaventarono: cosa volevano significare? Bella stava forse male? Se si, quanto? All’istante mi sentii pervadere da un senso di angoscia enorme e dovetti stringere le mani a pugno per evitare di sfrecciare verso il backstage. Iniziai a contare sottovoce per scandire il tempo.
Centodiciassette secondi e tre quarti dopo le luci sul palco si spensero e quattro delle cinque figure si stagliarono contro lo sfondo nero e grigio. Il suono di un basso e di una chitarra elettrica risuonò chiaro nel chiasso, subito seguiti da una seconda. Infine qualcosa, o meglio, qualcuno picchiò contro i piatti della batteria.
La tastiera attaccò, subito seguita dalla batteria e da una vocina  preregistrata che non era quella che volevo sentire.
 
Once I had a dream, and this is it…
 
Fu a quel punto che pubblico, batteria e chitarre esplosero in tutto il loro fragore. I cuori degli umani battevano forsennati e i loro corpi grondavano sudore, guastando il loro profumo reso più penetrante dall’eccitazione. Tutti urlavano e agitavano le braccia a tempo di musica.
Dalle quinte sbucò la quinta figura, e lì mi sembrò di sentire qualcosa nel petto, di nuovo.
La vidi avanzare agitando la mano libera dal microfono in segno di saluto, senza l’impaccio che l’aveva caratterizzata nel periodo in cui eravamo stati insieme, e un sorriso sulle labbra violacee –chissà se per il trucco o per effetto naturale. Gli abiti che indossava avrebbero fatto impazzire Alice dalla gioia: non potei fare a meno di notare come i pantaloni neri le avvolgessero bene le gambe e di come il cappotto rosso a collo alto le stringesse il busto esaltando le forme prosperose e la vita sottile. Migliaia di ragazze avrebbero pagato oro per avere un corpo simile senza dover ricorrere ad espedienti artificiali.
 
Fossi stato più attento e meno di parte, avrei capito subito che c’era qualcosa di strano in lei rispetto a pochi mesi prima, e mi sarei chiesto subito il perché di quella vita così sottile, troppo per una ragazza di ventiquattro anni, e di quelle gambe così magre da far spavento. Ma ero troppo rapito da lei e dalla sua voce per prestarvi attenzione.
 
Once there was a child’s dream!
One night the clock stuck on twelve, the widow open wide…
Once there was a child’s heart!
The age I learned to fly and took a step outside…
 
Once I knew all the tales!
It’s time to turn back time, follow the pale moonlight…
Once I wished for this night!
Faith brought me here, it’s time to cut the rope and…
 
Fly to a dream, far across the sea,
all the burdens gone, open the chest once more,
dark chest of wonders, seen through the eyes
of the one with pure heart,
once so long ago.
 
In quel momento pensai che, umana o immortale che fosse, non c’era voce o bellezza in grado di competere con la sua, né l’accecante perfezione di Rosalie né il tono argentino e tintinnante di Alice. Se non fosse stato per il battito del cuore –più accelerato del normale- e per il colore delle iridi, l’avrei scambiata per una vampira. E il mostro si rammaricò, con mio grande disgusto, che non fosse così.
 
The one in the Big Blue is what the world stole from me.
This night will bring him back to me.
 
Dovevo riconoscerlo: quella band non era niente male. I due stili diversi –metal progressivo ed opera- erano equilibrati alla perfezione e in alcuni punti si sposavano in maniera squisita.
Per due volte il ritornello venne ripetuto e per due volte la voce di Bella mi fece rabbrividire per i toni raggiunti senza neanche una stonatura. Un fragoroso applauso chiuse il brano e la voce dell’uomo di nome Robert ringraziò il pubblico urlando dal microfono.
A quel punto dovevo solo aspettare che il mio regalo arrivasse e la mia vita sarebbe diventata perfetta un attimo prima di ripiombare nella solita apatia.
 
 
*******NOTE*******
 
Il vestito di Bella è lo stesso di Tarja Turunen nel video di "Nemo". Il testo, invece, è preso da "Dark Chest of Wonders" e lo trovate in versione live qui:
 

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Capitolo 8
*** VIII - A nocturnal concerto ***


GIURO CHE C'é UNA SPIEGAZIONE.
Allora, tutto è cominciato la settimana scorsa, io mi sono detta "Vabbe' postiamo" ma il mio pc non era evidentemente d'accordo. E quindi vai con la linea che non collabora, i virus che cercano di fregarti e l'ispirazione che va a farsi un giro alle Maldive! Poi aggiungeteci la febbre a cui piace tanto stare lassù, giusto per farmi impazzire ancora di più -.-''
Ma sono riuscita, il cielo sia lodato, a trovare un quarto d'ora di lucidità da dedicarvi! In questo chappy probabilmente vi confonderò ancora di più le idee, ma state tranquille: nel prossimo ci sarà un flashback MOLTO importante (evvai con gli spoiler ^^) in cui si comincerà a capire qualcosa.
Questa era la buona novella. La cattiva è che il prossimo capitolo sarà postato probabilmente dopo Capodanno perché tra Natale e compleanno sarò superoccupata. Altra brutta (per voi) notizia è che sarà anche l'ultimo per un poco di tempo, perché a gennaio parto e starò via due settimane. E prepara, e paga, e compra vestitiadattisennòtimuoridifreddo...Insomma, siamo lì ^^
RISPOSTE ALLE RECENSIONI:
 
3things: nel senso che Edward non la ama?? o__O La tua question è legittima: no, Bella non usa pseudonimi ma si copre solo la faccia...Nel prossimo chappy si scoprirà perché ^^
__cory__: oddio, se sei jacobista allora alla larga da qui x°D Rischio il linciaggio! Allora, hai fatto due supposizioni e ti do una piccola risposta, giusto per farti penare di più: una delle due è SBAGLIATISSIMA ù__ù e non dico altro.
ginny89potter: noooo, la cosa di cui dubitavo è quanto sei disposta a sopportare le mie cretinate di adolescente complessata e pervertita xDxD Felice che il POV di Eddy ti sia piaciuto...Neanche a me andava molto giù -.-''
 BUONA LETTURA A TUTTE! Ah, ehm...non odiate troppo Rob dopo questo ^^''
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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Il volo tra Chicago e casa fu brevissimo, o semplicemente ci addormentammo tutti quanti per poi risvegliarci all’aeroporto di Seattle, dove avremmo trascorso la settimana che ci separava dalla terza tappa, quella a Detroit. Avevamo deciso di non fermarci in albergo ma di sfruttare i generosi spazi della casa di Robert. O meglio, di una delle sue tante case in America; ne possedeva altre, fra cui alcune ville in North Dakota e in Kansas. Io ero già stata in tutte mentre per gli altri sarebbe stata la prima volta.
“C’è persino un enorme garage”, ci aveva confidato Rob, “ed è vuoto, quindi possiamo provare lì, anziché in auditorium con tutti i fan”.
“Ma non avevamo superato la fase del garage?”.
“Prendilo come un ritorno ai vecchi tempi”.
“No, per carità”, avevo esclamato portandomi teatralmente la mano alla testa. “Non mi voglio ricordare ancora goffa e stonata!”.
Brian sghignazzava in un angolo: “Non che ora sia diverso…”.
Era in momenti come quello che capivo perché Mischa lo usasse sempre come bersaglio, ma non come facesse a piacerle un tizio così.
Ah, l’amore!
 
Nonostante ci fossi già stata, la casa di Rob non finiva mai di stupirmi: era enorme. Aveva due piani più una soffitta nella mansarda, una balconata gigantesca che somigliava di più ad un terrazzo e persino un giardino con la piscina e l’altalena. Era per le sue due nipotine, mi aveva spiegato, per quando venivano a trovarlo durante le vacanze.
“Ventiquattro anni e sono già zio, mi sa che tra un po’ mi spunteranno le rughe”, diceva sempre ridendo.
Ero davvero felice per lui; aveva tutto quello che si potesse desiderare. Un lavoro che amava, una carriera promettente davanti, una vita agiata e soprattutto una famiglia su cui contare. Ah già, e anche degli amici che in quel momento minacciavano di sfasciargli la casa.
“Ehi, guardate qui!”, aveva urlato Matt saltando sul suo letto nella stanza degli ospiti al primo piano che avrebbe diviso col fratello (io e Mischa avremmo occupato quella a fianco, dato che il pianterreno ed il secondo piano erano occupati da cucina, bagni, soggiorno, biblioteca e studio).
“Com’è morbido!”.
“Ebbravo Rob, ti tratti bene, a quanto vedo”.
“Scendi immediatamente, Matt, e pure tu, Brian, altrimenti vi…”.
Non riuscì a finire la frase perché Brian gli lanciò addosso un cuscino che lo colpì in piena faccia. Rob rispose con un’altra cuscinata ed in breve tutti ci ritrovammo coinvolti in una battaglia coi cuscini. Le piume volavano dappertutto e quando smettemmo ne eravamo ricoperti dalla testa ai piedi.
“Mamma mi ucciderà”, si lamentò il padrone di casa.
“Puoi sempre dire che ti è entrato un uragano in casa e che ha sfasciato tutto”, disse Mischa scrollandosi le piume dai vestiti e dai capelli.
“Che poi sarebbe la verità”, aggiunsi io accennando ai due gemelli che ancora se le davano a suon di cuscinate.
Smisero quando si resero conto dell’ora.
“Quasi le due, è meglio andare a nanna”.
Non replicammo neanche, avevamo troppo sonno. La battaglia mi aveva prosciugata di ogni energia, mi sentivo le gambe e la testa pesanti. Le braccia, al contrario, non le sentivo affatto.
Io e Mischa crollammo sul letto e in pochi minuti lei si era già addormentata. Io rimasi sveglia per qualche altro minuto a fissare il soffitto; i rami dell’albero di fronte sbattevano contro i vetri e le ombre galleggiavano inquietanti sul muro alle mie spalle.
Già stavo per cedere a Morfeo quando un violento tuono mi fece balzare a sedere: fuori si era scatenato un diluvio e minacciava di non smettere tanto presto. Ficcai la testa sotto il cuscino, ma niente…sentivo comunque quel rumore assordante. Poi però mi resi conto che quel che sentivo non erano tuoni.
Erano dei ringhi. E non venivano neanche da fuori…Tutto era solo nella mia testa.
Mi ricordava qualcosa.
 
Pioveva tantissimo. Però faceva un caldo terribile, o forse era solo il mio corpo a sentirlo. Era come se il fuoco mi ricoprisse dalla testa ai piedi impedendomi anche di vedere ciò che avevo davanti agli occhi.
Non capivo: un attimo prima tutto era così chiaro e semplice, mentre adesso…
Ringhi animaleschi.
Rumore di pietre che cozzano fra loro.
Ululati.
Ed infine silenzio.
L’incendio si spense, attutito dall’improvviso freddo sceso su di me e che non aveva nulla a che vedere con la pioggia; se prima ero avvolta nelle fiamme, adesso mi sentivo come ricoperta dal ghiaccio. Ma non me ne lamentavo, il freddo era piacevole a contatto con il mio corpo bollente.
Mi accordi che la lastra diventava sempre più fredda. Troppo, troppo fredda. E sempre meno piacevole.
Urlai con tutte le mie forze ma nessuno venne a salvarmi.
 
 
Affondai la faccia nel cuscino e lo morsi forte per impedirmi di gridare, ma non potevo frenare le lacrime. Soffocavo i singhiozzi contro la stoffa che mi concedeva a malapena di respirare; non volevo che nessuno si svegliasse e mi sentisse, o avrei dovuto ricorrere a qualche bugia per giustificare la mia crisi isterica.
Ma non avevo preso in considerazione Robert, che dormiva nella stanza alla mia destra. Probabilmente aveva atteso un mio cedimento per intervenire, e così fu. Lo vidi entrare in punta di piedi per non svegliare Mischa e sedersi accanto a me.
Mi lasciò fare. Per tutta la notte rimase con me a sentirmi piangere senza mai alzarsi o chiedere di andare a dormire; aveva evidentemente sonno, ma si rifiutò di lasciarmi sola. Con lui vicino mi sentii subito meglio.
Verso l’alba ancora stavamo abbracciati tra le coperte. Avevo ancora i segni delle lacrime sulle guance ma avevo smesso di piangere.
Fu lui a pronunciare le prime parole per quella notte:
“Ti va di uscire fuori dal terrazzo? Si vede l’alba da lì”.
Annuii piano. Mi aiutò ad alzarmi e mi avvolse in una coperta leggera per poi prendermi in braccio.
“Guarda che ce la faccio”, dissi con voce roca.
Mi sorrise e lasciai perdere. Mi condusse per i corridoi e per le scale fino al secondo piano. Arrivati a destinazione, mi appoggiò su una sedia e scostò le tende per aprire la doppia porta di vetro. Poi mi riprese fra le braccia e mi portò fuori.
Era la parte della casa che preferivo: era praticamente un terrazzo con tanto di dondolo e piante curatissime. Da lassù si aveva una vista stupenda di Seattle e dello Space Needle; la figura del monte Rainer, in quel periodo ricoperto da un leggero strato di neve, era ben visibile sullo sfondo.
Rob mi depositò sul dondolo per poi sedersi accanto a me. Mi sfregò le braccia per riscaldarmi.
“Come sapevi che avevo freddo?”, gli chiesi.
“Bella, stai tremando e hai le labbra viola”. Non me ne ero neanche accorta, presa com’ero dall’ammirare il paesaggio. “Forse vuoi rientrare…o prendo un’altra coperta…”.
Scossi la testa sorridendo appena. “Tu ti preoccupi troppo per me”.
“E tu invece per niente, quindi tocca a me”.
Aveva ragione. Negli ultimi tempi avevo trascurato la mia salute per dedicarmi alla carriera. Non che a quel punto m’importasse più granché.
Notai che mi squadrava da capo a piedi, disapprovando. “Sembri stare peggio. Ma le prendi le medicine che mio fratello ti ha prescritto?”.
“Ultimamente no”. Bugia, Bella, grandissima bugia. In realtà non assumevo neanche un’aspirina per il mal di testa da settimane.
S’irrigidì. “Quando le hai prese l’ultima volta?”, chiese piano.
“Ehm…un mese e mezzo fa, mi pare”.
Spalancò la bocca e si alzò di scatto fissandomi in faccia. “Ma sei completamente uscita di testa?! Due mesi senza medicine? Vuoi forse morire, Bella? Quelle medicine per te sono vitali”.
“Appunto per questo!”. Ormai mi stavo alterando anche io, ma rimasi seduta. Mi sentivo ancora deboluccia. Provai a calmarmi. “Robert, quelle cose che ti ostini a chiamare medicine fanno più danni che altro. Peggiorano solo le cose, fidati. E poi”, aggiunsi sorridendo senza gioia, “a che cosa servirebbero? Avanti, dimmelo. Sai che non c’è nulla da fare”.
A quello rispose con fatica, con parole strozzate.
“Servono. Servono perché…ti fanno stare meglio. Non guariscono, okay, ma almeno ti mantieni in forze e soprattutto viva. È per questo che devi prenderle”.
Evidentemente non mi ero spiegata bene. Cercai un modo carino per comunicargli la mia decisione ma non lo trovai. Niente scorciatoie: direttamente al punto.
Un taglio netto fa meno male, no?
“Ascoltami, Robert Vuorinen, perché non lo ripeterò una seconda volta. Io ho già deciso; anzi, la decisione è una sola. Insomma, prendere le medicine o non prenderle che cosa cambia, arrivati a questo punto? La mia strada è a senso unico, l’uscita è una sola. L’ho capito ed accettato. Ti chiedo solo di aiutarmi a finire i miei giorni come un essere umano, come una ragazzina di ventitre anni. Tanto non credo che arriverò al ventiquattresimo. E poi”, aggiunsi alzando una mano per interromperlo prima che parlasse, “voglio finire il tour. Almeno quello me lo devi”.
Per un attimo sembrò non trovare le parole per ribattere. Gli lasciai il tempo di assimilare la cosa.
Poi aprì la bocca, e le parole uscirono strozzate.
“Tu…mi stai chiedendo di…di lasciarti così? Di stare a guardarti morire senza fare nulla? Come puoi, Bella? Sono tuo amico, Cristo santo, non puoi chiedermelo! Meglio ancora, io ti amo, non posso aiutarti a morire! Non posso…”. La voce non uscì più. Si lasciò cadere in ginocchio accanto a me, e feci uno sforzo tremendo per non distogliere gli occhi; odiavo vedere Robert soffrire, e ancora di più sapendo che la causa ero io. Ma non potevo cedere ora che avevo finalmente preso una decisione.
“E proprio perché sei mio amico te lo chiedo. Se sei un essere umano, allora ti prego di aiutarmi. Se invece non vuoi, farò da sola. Ma non mi piacerebbe finire i miei giorni sapendo che mi odi”.
Cominciò a singhiozzare. Lasciava scorrere le lacrime senza vergogna. Era davvero forte, il mio Rob. Peccato che io non lo fossi altrettanto.
Presi la sua testa e me la poggiai in grembo.
“Non piangere, Rob, ti prego…sapevamo che sarebbe finita così. Ed è anche per questo che non ho voluto cominciare una storia con te; fosse andata diversamente, avrei anche potuto amarti e farti felice e tu avresti fatto felice me. Ma tu meriti di più di me, di una che non potrà mai darti né dei figli né una vita assieme. Ti prego, capiscimi”.
Dovevo fare in modo che capisse. Era la mia unica speranza e la mia unica certezza: sapere che, ovunque fossi andata dopo, Robert non mi avrebbe serbato rancore e sarebbe andato avanti. Cosa che io non ero riuscita a fare dopo quel maledetto giorno.
 
 
*******NOTE*******
 
Mi è stato chiesto di postare le immagini degli attori che ho scelto per Bella, Mischa, Robert ed i gemelli. Ebbene, eccoli qui ^^
 

Image Hosted by ImageShack.us  BELLA SWAN (EMILY BROWNING, mi dispiace ma non mi piace molto Kris)

 
Image Hosted by ImageShack.us ROBERT VUORINEN (ALEXANDER SKARSGARD *ç* cche bbonoooooo ed è pure scandinavo!)

Image Hosted by ImageShack.us MISCHA WILLIAMS (HAYLEY WILLIAMS, vocalist dei Paramore, il cognome uguale è solo un caso ^^)

 


 Image Hosted by ImageShack.us MATTHEW FOSTER (VILLE VALO, cantante degli HIM, somiglia molto a Brian)

 


Image Hosted by ImageShack.us BRIAN FOSTER (TUOMAS HOLOPAINEN, tastierista dei Nightwish, è buona la somiglianza col fratello?)

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Capitolo 9
*** IX - Dead gardens (parte I) ***


LO SO, LO SO, LO SO! Sono l'essere più abietto che io conosca, il più inutile, l'ameba dell' ameba della società, l'undicesima piaga d'Egitto! Da quanto non aggiorno? Non lo so e, ad essere sincere, non voglio saperlo xD ciò che conta è che ho postato.  
Come avete passato il Natale? Io uno schifo -.-'' ho avuto la febbre a 40 durante il compleanno e la vigilia e il 26 ho ripreso i contatti con il mondo. Poi il pc è andato in coma e, santo tecnico, è riuscito a resuscitarmelo e mi viene a dire che è in fase terminale. Ed io "NOOOOOOOOOOOO!!" tipo urlo di Munch. Merda.
Ma, come vedete, sono ancora viva e ho deciso di postare oggi che è l'ultimo dell'anno ^^ Perciò gustatevi questo capitolo, che tra parentesi sarà l'ultimo fino alla fine di gennaio perché starò all'estero dal 17 al 27 e prima devo studiare -.- quindi BUON ANNO A TUTTI/E E FELICE 2010!
Baci,
 
Oriana
 
__cory__: eh già, proprio una causa persa ù__ù dai, ma come non ti ricordi? vatti a rileggere le recensioni ^^ sisi, continua a fare finta che non voglio perdere lettori MUAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!
3things: ehi, giù le zampe! Rob è miooooooooooooooooo è mio figlio e mio maritooooooooooooo! okay, sono senza speranze xD
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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Storsi il naso quando Jacob passò l’olio sulla pezza per lucidare la moto; quella roba aveva un odore davvero disgustoso. A parte quello, non avrei desiderato essere da nessun altra parte –anche perché fuori pioveva a dirotto. L’acqua colpiva il tetto del garage di casa Black e il rumore era piuttosto rilassante.
“Passami la chiava inglese”, disse Jacob tendendo la mano vuota mentre con l’altra passava lo strofinaccio sulla ruota.
Guardai sulla sedia, disorientata; là sopra c’erano circa cinque modelli di vari tipi di chiavi inglesi.
“Quale?”.
“Quella con la punta a stella grande”.
Adesso lo fissavo, scettica: davvero si aspettava che capissi ciò che intendeva? A giudicare dall’espressione spazientita, si.
“Ma quando imparerai qualcosa di meccanica?”, chiese afferrando la chiave giusta.
“Ehi, piano con le offese!”. Ma mi veniva da ridere.
Sghignazzò. “Giusto, dimenticavo che sei una donna di mezz’età”.
Gli restituii il sorriso e stetti al gioco. “Guarda che anche tu ci vai vicino, sei così bravo che dovrò aggiungere qualche annetto alla tua età”.
“Okay, hai vinto tu”.
Rimanemmo a scherzare e lucidare le moto fino alle quattro: quel sabato pomeriggio avevo in programma una bella corsa in moto con Jake. Ormai ero diventata brava, non vedevo il pronto soccorso da settimane. E, cosa ancora più bella, Victoria sembrava essersi volatilizzata nel nulla: nei tre mesi precedenti i lupi non avevano rinvenuto alcuna traccia o scia che facesse pensare il suo ritorno. Per cui io e Jake avevamo cominciato a rilassarci e a vederci ancora più spesso di prima, solitamente a casa sua (Charlie ne era contento, ma non lo sarebbe stato altrettanto se avesse saputo delle moto). Sapevo le conseguenze che il mio comportamento avrebbe portato, ed ero pronta ad accettarle; avevo deciso di dare una possibilità al mio migliore amico per riparare la voragine nel petto. Il rischio che correvo a stare con lui mi sembrava un’equa contropartita.
Ero certa che il suo amore per me avrebbe frenato i suoi istinti animaleschi. Evidentemente mi sbagliavo; non lo era affatto. E pagai caro quell’eccesso di fiducia.
 
Quel giorno eravamo fuori, da soli. Forse sarebbe andata diversamente se con me ci fossero stati Sam o Paul e Jared, ma volevo passare una giornata in compagnia di Jacob. Così rassicurai tutti e partimmo insieme verso il sentiero che portava alla scogliera.
A mezzogiorno scendemmo dalle moto, io esausta ed accaldata e lui affamato. Ormai ingurgitava circa nove o dieci panini in un pasto più le patatine e la birra. Io la detestavo, ma lui mi pregava sempre di buttarne giù almeno un sorso.
“Eddai, Bells. Sei un adolescente, mica una pensionata di novant’anni”.
“Guarda che mi hai aggiunto due anni per lo sfornato di ieri, ormai ho raggiunto la cinquantina”.
“Vero”. Mi obbligò comunque a tracannare mezza bottiglia di birra. Alla fine avevo una nausea incredibile e la testa mi girava.
“Mi sa che abbiamo esagerato”, dissi ridacchiando. All’improvviso mi sentivo leggera come l’aria.
Finse di guardarmi preoccupato. “Oh no, non dirmi che sei ubriaca! Merda, e adesso chi mi salverà dall’ispettore Swan?”.
“Scemo”, e schiaffeggiai scherzosamente la sua spalla. Avevo imparato a non fare sul serio con lui ed i suoi amici, rischiavo di rompermi una mano.
Appoggiammo le nostre giacche a terra e ci sdraiammo al sole. Vicino a lui, iniziai a sudare in pochi minuti.
Improvvisamente lo vidi irrigidirsi e lasciò la sua presa sulle mie spalle.
“Jake, che succede?”, gli chiesi un po’ preoccupata.
Non mi rispose; mi accorsi che stringeva convulsamente i pugni tanto forte da far sbiancare le nocche. Teneva le mascelle serrate come a trattenersi. Gli occhi lampeggiavano di una luce folle.
“Va’ via, Bella”, disse con voce strozzata.
Mi alzai e lo guardai in faccia. Una vena pulsava minacciosamente sulla tempia destra.
Scostò violentemente il braccio e mi fece quasi cadere a terra. Indietreggiai, spaventata.
“Scappa…scappa…”, continuava a ripetere. Lo vidi annusare l’aria e storcere il naso.
“Che…che cosa…Jake, mi stai facendo paura…”.
“Succhiasangue”, sibilò, ed esplose. Pezzi di abiti volarono dappertutto ed un pezzo di scarpa mi arrivò a due centimetri dal viso.
Compresi le sue parole: Victoria era tornata.
L’enorme lupo rossiccio mi fissò per una frazione di secondo e poi scappò nella foresta. Volevo seguirlo, ma sentivo le gambe paralizzate dalla paura. Ma poi, che aiuto avrei potuto offrire a Jacob contro una vampira come Victoria?
Per un orribile istante mi sembrò di rivedere Edward voltarsi e sparire in mezzo agli alberi per non tornare mai più. E se fosse stato così anche per Jacob, se anche lui se ne fosse andato e mi avesse abbandonato? Cos’avrei fatto io, a quel punto?
La risposta era facile: non sarei sopravvissuta. Già una volta mi ero vista strappare via anima e cuore, non avrei permesso che avvenisse ancora.
Tremando, mi alzai e cominciai a correre nel verde del cuore della foresta. Non avevo idea di dove andare, potevo solo affidarmi alla fortuna. Cosa rischiosa, dato che di solito la dea bendata con me sembrava essere davvero cieca.
In lontananza sentii un tuono, ma nessuna goccia d’acqua colò attraverso le foglie; la luce del sole filtrava dalle chiome degli alberi illuminando la massa di alberi davanti a me. Seguì un altro tuono e alla mia sinistra colsi un bagliore in lontananza. Dopo un altro tuono mi resi conto che quelli che sentivo altro non erano che i rumori prodotti dallo scontro tra Victoria e Jacob. Accelerai il passo e sbucai in uno spiazzo all’aperto.
Vedevo indistintamente due chiazze, una nera ed un’altra rossa scintillante, avvicinarsi per poi allontanarsi di scatto. Sembrava una danza, ed ogni movimento era parte di una coreografia imperfetta.
Cercai di seguire lo scontro ma i miei deboli occhi umani non potevano cogliere i dettagli salienti dello scontro. Inerme ed inutile, odiai la mia stupida umanità: se fossi stata più forte avrei potuto aiutare Jake, anziché continuare a dargli preoccupazioni.
Ero solo una stupida umana, e per questo saremmo morti tutti.
L’ennesimo ringhio da entrambe le parti segnò la fine: Victoria si voltò per una frazione di secondo a guardarmi con desiderio, combattuta. Per un attimo pensai che sarebbe fuggita. Ma improvvisamente vidi un lampo bianco e arancione sfrecciare verso di me. Chiusi gli occhi, aspettando la morte.
Edward, Edward, Edward, pensai con tutta me stessa, e al diavolo il dolore. Edward, ti amo.
Solo dopo mi accorsi di avere urlato il suo nome a voce alta.
Ma la morte non arrivò; osai aprire un poco gli occhi e mi si parò davanti la scena più orribile degli ultimi mesi. Victoria sovrastava Jacob con il suo corpo e lo inchiodava a terra. Jake ululava, cercando di liberarsi, ma nulla poteva contro la presa d’acciaio della vampira.
La scena cambiò: ora era Jacob a tenere Victoria in pugno. Lei si agitava furiosa e cercava di liberarsi. Ci riuscì e sgusciò via silenziosamente, lanciando un urlo belluino nella mia direzione.
Lui sembrò pronto a seguirla, ma io mi misi in mezzo: lo avrei tenuto lontano da lei, a costo della vita.
“NO!”, urlai spalancando le braccia. “Non seguirla”.
Ululò in risposta.
“Ti prego”, ansimai affannosamente.
Mi guardò frustrato. Sostenni il suo sguardo finché non lo abbassò. Feci lo stesso con le braccia.
Lo osservai ritrasformarsi e correre dietro ad un albero per rivestirsi. Quando uscì fuori, era furioso.
“Si può sapere perché mi hai fermato?”, urlò avanzando verso di me e afferrandomi per le braccia. “Ti avevo detto di scappare!”.
“Jake”, protestai divincolandomi nella sua stretta. Mi avrebbe lasciato dei lividi, lo sapevo.
“Jake, mi fai male, lasciami!”.
“Perché ti sei messa in mezzo?”. Ad ogni parola mi dava uno scrollone fortissimo. La mia testa veniva sballotto lata a destra e a sinistra.
“Perché volevo aiutarti, idiota!”, strillai lacrimando per il dolore. Temevo che mi avrebbe spezzato l’osso, ma pensai di lasciargli il tempo per calmarsi.
Un errore dopo l’altro; non si calmò. Anzi, aumentò la stretta sulle mie braccia al punto da bloccarmi la circolazione del sangue. Le sentivo intorpidite.
Il cielo si oscurò; la pioggia cadde su di noi bagnandoci completamente. In lontananza udii lo scoppio di un tuono –reale, questa volta.
Jacob rise amaro.
“Davvero volevi salvarmi? Ho visto come, davvero. Ed era a me che pensavi mentre quella bastarda mi attaccava, o ad una certa sanguisuga coi capelli rossi?”.
Mi bloccai dov’ero. Aveva toccato un tasto dolente e lo sapeva bene. Il senso di colpa m’inondò e mi resi conto di aver sempre nutrito Jake di false speranze. Davvero credevo che tra di noi potesse nascere qualcosa di diverso dall’amicizia? Che stupida ero stata, a pensare di poter dimenticare il mio unico vero amore!
“Jacob”, mormorai con voce tremante. Mi ero arresa all’evidente potenza dei sentimenti che ancora provavo per Edward, incredibile se paragonata a quella del mio legame col licantropo che avevo di fronte.  Pioggia e lacrime mi offuscavano la vista e vedevo sfocato il suo viso contorto dalla rabbia. “Non posso più negare. Si, è vero, lo amo ancora. Nonostante tutto quello che mi ha fatto, nonostante non mi voglia più, io lo amo disperatamente. È assurdo, lo so, ma è così. E tu non puoi farci nulla, Jake! Sono stata una stupida a credere che il mio amore per te fosse più forte di quello per lui. Stupida e anche cattiva! Ho continuato a darti false speranze su noi due e con questo ti ho solo ferito. Ti prego, perdonami, ma non possiamo. Non…”. Non ce la feci a continuare. Avrei voluto seppellirmi il viso tra le mani ma Jacob ancora teneva imprigionate le mie braccia.
Sembrò che gli avessi mollato un pugno nello stomaco; mi lasciò andare. Mi sfregai le braccia per riattivare la circolazione. Lo vidi indietreggiare e guardarmi con un misto di rabbia e…disgusto. Il mio migliore amico mi odiava. Mi odiava perché avevo preferito il suo amore umano a quello freddo e non corrisposto di un fetido succhiasangue. Lo avevo ferito, irreparabilmente forse.
Prima che potessi fare nulla, lo vidi tremare di nuovo. Ma stavolta era per la rabbia.
Seppi cosa stava accadendo un attimo prima che succedesse; i vestiti appena indossati esplosero in mille frammenti di stoffa blu e nera. Il suo braccio ricoperto dalla pelliccia si alzò e sferzò l’aria. Fu troppo veloce; qualcosa di bollente mi colpì in viso e mi ritrovai riversa sull’erba. L’odore di terra bagnata mi penetrava le narici e sentivo qualcosa di caldo ed appiccicoso colarmi lungo la guancia e la tempia. L’occhio destro mi bruciava da morire impedendomi di tenerlo aperto. Vedevo solo buio.
La tortura non si fermò lì: altre lame roventi mi colpivano dappertutto, sul costato, sull’addome, anche sulla schiena, e dagli squarci che lasciava il sangue scorreva a fiotti. Pian piano sentivo le forze abbandonarmi e la vita scorrere via assieme a quel liquido vitale. E avevo caldo. La pioggia non poteva placare l’incendio dentro di me. Stavo morendo? Mi sembrava di si: vedevo il viso di Edward davanti a me e mi guardava disperato.
“No, Bella, no!”, urlava. Anche in fin di vita, ricordavo la sua voce perfetta.
Da caldo cominciai a sentire freddo. Adesso ogni goccia di pioggia mi faceva male senza ferirmi. Mi sentivo stranamente in pace.
Il mio cuore rallentò i battiti. La voce e la splendida illusione svanirono, lasciandosi alle spalle un buio dal quale non sarei mai riemersa.
 
*******NOTE********
 
BUON 2010 A TUTTI!!
 

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Capitolo 10
*** X - Dead gardens (parte II) ***


Avevo promesso. Dopo Vienna dovevo aggiornare. Faccio schifo a me stessa: sono tornata da due settimane e non ho ancora aggiornato! Ma cos'ho nella testa, formaggio di groviera??!
A mia discolpa va il fatto che i prof non sono stati niente affatto carini anche se sapevano che avevo tante lezioni da recuperare -.-'' mister hai-voluto-la-vacanza-e-mo-prendilo-in-quel-posto colpisce ancora, evvai. Nonostante l'Everest di compiti che ho, vi faccio questi regalino-ino, anche se non ve lo meritereste. Cioè UNA SOLA recensione per un capitolo?! Mi sento, scusate se ve lo dico, un poco confusa: i 17 preferiti e le 24 seguite sono andati in vacanza pure loro? Mi pare strano...
Perciò ho preso una decisione: non prendetelo come un ricatto, per favore. Diciamo che sarò...più veloce a postare dopo almeno 4 o 5 recensioni. Mi pare equo, no? Solo mi fa rabbia che in questo sito (niente nomi!) ci sono un sacco di ff scritte male e con 6 o 10 commenti. Vi pare giusto?
Per rispondere a __cory__ : mi dispiace, tesoro, se ho trasformato il tuo Adone in un titano :P auguri in ritardo pure a te! 
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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La morte era scomoda; la mia schiena era poggiata su qualcosa di duro e liscio e sentivo uno strano BIP costante. Aprii leggermente l’occhio sinistro –l’altro era coperto da qualcosa di morbido che sembrava ovatta. Il braccio destro era completamente immobilizzato e mossi l’altro per toccarmelo.
“Ferma lì”. Una mano sbucò dal nulla e mi afferrò delicatamente per il polso.
Misi a fuoco la scena; accanto a me, pallido e stanco, c’era Charlie. Mi guardava sollevato.
“Papà?”, chiesi debolmente. Tutto mi appariva poco chiaro. “Dove…dove siamo? Che ci fai qui? E gli altri sono…”.  Non ricordavo granché delle ore –o giorni?- precedenti.
“Siamo in ospedale”, rispose appoggiando delicatamente la mia mano sul materasso. “Non ricordi quello che è successo?”.
Scossi la testa e il movimento mi costò una fitta incredibilmente dolorosa. Il fastidio all’occhio si acuì; se non altro, non ero morta.
“Beh, tesoro, Jacob e i ragazzi di La Push ti hanno trovata vicino alla spiaggia. Eri vicino ad un ruscello, e…e c’era un orso, ti ha vista e…”. Si coprì la faccia come se non trovasse le parole adatte. Ma capii lo stesso quel che cercava di dirmi, e mi sentii gelare: le moto, Victoria, Jacob che tremava, Jacob che si trasformava, il combattimento ed infine l’aggressione…Jacob che mi si avventava contro, il buio, il sangue, il caldo…la splendida illusione di Edward che urlava disperato...“Dopo che ti ha assalita, ti hanno portato subito qui. Scottavi e stavi perdendo tantissimo sangue…il dottor Snow ha deciso di tenerti qui finché non ti rimetterai completamente. E potrebbe volerci un bel po’, hai anche un braccio rotto e qualche costola incrinata”. Ecco spiegato il fastidio al braccio; era il gesso. Ma c’era ancora qualcosa che non tornava.
“Perché ho un occhio bendato?”, domandai.
Charlie si morse il labbro; faceva sempre così quando era nervoso o a disagio. Una ruga di preoccupazione gli increspò la fronte. “Ecco, hanno preferito bendarlo per evitare un’altra emorragia”.
Emorragia? Cioè, Jacob mi aveva colpita anche lì? Di fronte al mio sguardo confuso, papà si affrettò a spiegare: “L’orso ti ha presa sull’occhio, anche se molto superficialmente. È un miracolo se non hai perso la vista”.
Rabbrividii al pensiero di essere stata così vicina alla morte. Forse non ero così sfortunata, dopotutto.
“A proposito, Bells”, continuò mio padre, un po’ più calmo di prima, “forse è meglio se vai a trovare Jacob, quando sarai uscita. È sconvolto e non risponde più al telefono”.
Non risposi; la rabbia che credevo di provare verso Jacob non arrivò. Anzi, mi sentivo un vero schifo. Povero Jacob, chissà cosa stava passando per colpa mia: doveva sentirsi in colpa per quanto accaduto. Sperai solo che non mi abbandonasse ancora, perché non avrei retto una seconda volta, non ora che avevamo deciso di provare a stare insieme.
 
Restai in ospedale per altre due settimane, durante le quali Charlie si prese un periodo di congedo dal lavoro per starmi accanto, nonostante le mie proteste. Ma non fu l’unico a farmi visita: anche Sam ed Emily venivano, di tanto in tanto. Spesso io ed Emily rimanevamo da sole a chiacchierare; mai come in quei momenti mi ero sentita così in sintonia con lei.
“Non è facile”, disse la prima volta guardando le cicatrici che deturpavano il suo braccio, “ma col tempo ci fai l’abitudine. L’unico che mi preoccupa è Jacob: dopo quel che ti ha fatto, non so se se la sentirà ancora”.
La fissai –mi avevano tolto la benda dall’occhio, per cui ci vedevo bene- aggrottando la fronte. “Che intendi dire? Guarda che non voglio che i miei rapporti con Jake cambino!”.
Poggiò una mano sulla mia guancia sinistra. Notai il suo sguardo pieno di…comprensione?
“Bella, ti sei vista allo specchio dopo l’incidente?”.
Scossi la testa.
“Allora questa è un’ottima occasione. Ma ti prego, cerca di non spaventarti troppo, d’accordo?”. Al mio cenno d’assenso, mi fece alzare in piedi e, con la massima delicatezza, mi portò nel bagno adiacente alla camera.
“Sei pronta?”, sussurrò mantenendo la presa ben salda sui miei gomiti.
“Si”. A tentoni, trovai l’interruttore del bagno; era vuoto, a parte noi due. Mi diressi un po’ barcollante verso il lavandino sopra cui stava appeso un piccolo specchio quadrato.
Non sapevo perché, ma non ero più tanto sicura di volermi specchiare. Era tardi, però, e vidi il mio viso comparire sulla superficie riflettente.
Dovetti tapparmi la bocca col pugno per non urlare.
L’immagine dei miei occhi spalancati in una smorfia d’orrore veniva riflessa dallo specchio, e in quel momento avrei voluto spaccare il vetro e fuggire via coprendomi il viso. Il sinistro stava bene, a parte un piccolo taglio sulla palpebra inferiore che in qualche giorno sarebbe andato via, ma non era lo stesso per il destro. Due sfregi profondi, rossi e violacei segnavano la pelle dal sopracciglio sinistro fino all’occhio destro; l’angolo esterno era orrendamente distorto da una delle due ferite, l’altra abbassava il contorno in una grottesca smorfia permanente.
Non trovai nemmeno la forza di urlare; mi accasciai sulle ginocchia con Emily al mio seguito. Continuava a cingermi le braccia e a ripetere “Shh, calma, non piangere”. Non mi ero neanche accorta di farlo.
Molti, molti giorni più tardi, dopo essere stata dimessa, ebbi il coraggio di guardare anche il resto del mio corpo nello specchio verticale del mio armadio. Quella volta non riuscii a trattenere un gridolino: neanche l’addome e la schiena erano stati risparmiati dagli artigli di Jacob. Altri tagli, molto più profondi e rossi, mi ricoprivano per intero, dalle spalle fino alla base della schiena e dal costato fino al ventre.
Non trattenni un conato di vomito e mi precipitai in bagno. Quando ne uscii, mi sentivo spossata e senza neanche la forza di piangere. Non pensai all’incontro con Jacob, la mattina seguente, o a quello che avrebbe detto la città quando mi avesse vista in faccia. Desideravo solo sprofondare in un’incoscienza senza pensieri se non quelli rivolti ad Edward.
Per un po’ riuscii a dimenticare il mio nuovo viso. Ma solo per poco.

 

 

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Capitolo 11
*** XI - Dead gardens (parte III) ***


 Meglio che non provi nemmeno a dire scusa. Non aggiorno da parecchio, in compenso il chappy chiarirà molti dei vostri dubbi. Vado di frettissima, quindi bacioni a tutti/e!
3things: un bel po' di confusione quindi tranquilla, è OK anche io mi impappino spesso ^^  e credo di non essere l'unica a condividere la tua opinionel sulle recensioni -.- molto spesso mi sento, scusate e non faccio nomi, presa in giro. Ho notato che le ff più commentate sono quelle o in cui Bella è incinta dopo NM o quelle a raiting rosso (niente critiche a chi tratta queste trame!). Sono belle, ma a me paiono banali. Se ne vedono troppe ù__ù
__cory__: ullalà, finalmente ti stai avvicinando! qui avrai la risposta...
Michelegiolo: ucchebellu, una nuova fan!! benvenuta ^^ spero ti piaccia
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
-la morte crea l'artista-
 
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Non ebbi la forza di rimandare ancora l’incontro con Jacob. Così la mattina del tredici giugno uscii di casa dopo essermi accuratamente pettinata i capelli in modo da nascondere le cicatrici sulla nuca. Indossai, nonostante il caldo, una maglia con maniche a tre quarti nera, lunga e poco trasparente, e un pantalone a vita molto alta tenuto su con una cintura ben nascosta. Per finire, un enorme paio di occhiali da sole neri tempestati di strass e grandi abbastanza da coprire la fascia degli occhi. Ringraziai l’orrendo gusto di Jessicia, che me li aveva regalati qualche mese prima per Natale.
Ero uscita prestissimo, quindi alla riserva non incrociai nessuno: la scuola era chiusa –mi ero diplomata con il massimo dei voti ed ero in attesa di una risposta dalle varie università a cui avevo inviato la domanda d’iscrizione- ed era ancora presto per andare al lavoro. Per cui, quando bussai a casa Black, Billy venne ad aprirmi dopo molto tempo e con l’aria assonnata. La quale sparì subito dopo avermi riconosciuta.
“Che cosa ci fai qui?”, esclamò. Che educazione. “Non ti è bastato, vuoi metterti ancora in pericolo?”.
Non battei ciglio e sostenni il suo sguardo arrabbiato. Fu lui ad abbassarlo per primo.
“Entra, sta ancora dormendo. Puoi accomodarti in cucina. Stavo preparando la colazione”.
Attraversammo lo stretto corridoio di legno fino alla minuscola cucina. Billy si sedette al tavolo e sorseggiò il suo caffè; aveva notato il mio vistoso abbigliamento, ma non disse nulla e gliene fui grata. Mi alzai e lo aiutai a preparare la tavola. Da qualche parte, un pendolo batté le sette.
Sentii un rumore di passi sulle scale e un secondo dopo Jacob comparve sulla soglia più assonnato che mai e con indosso solo dei pantaloncini corti.
Quando mi vide si raddrizzò, d’un tratto sveglissimo.
“Buongiorno”, dissi sfoderando il mio sorriso migliore. Niente, non potevo avercela con lui.
A quanto pareva, però, non era dello stesso avviso. Reagì come il padre.
“Perché sei qui, Bella? Non dovevi venire”, disse rigido voltandomi le spalle.
“Voglio parlarti”.
“Non c’è nulla da dire”.
“Si, invece”, ribattei con fermezza. Mi sembrava di essere tornata a pochi mesi prima, quando Jacob mi evitava apparentemente senza motivo. Ma allora ci eravamo capiti e riappacificati; invece, stavolta avevo paura che nulla avrebbe salvato i nostro rapporto e prevedevo una dolorosa separazione, l’ennesima nella mia stupida vita.
Non disse nulla né mutò espressione quando lo trascinai in camera sua. Lo feci sedere sul letto mentre io rimasi in piedi.
“Bene, parliamo”.
“Ti ho detto che non c’è nulla da dire”.
“Invece si, maledizione, c’è ancora tutto da dire!”, urali quasi esasperata, “Non mi dici nulla e non mi guardi neanche!”.
Riuscii a smuoverlo; mi guardò a metà fra l’incredulo e il rabbioso. “Bene, ora sono io a non guardarti. Diciamoci la verità, sei tu a non voler essere guardata!”.
“Ma che cazzo stai dicendo, Jacob?”. Dovevo ricredermi, cominciavo ad avercela con lui, anche se non per i motivi che credeva lui.
“Non mentire. Sei talmente disgustata dal quello che ho fatto che non riesci nemmeno a sopportare che ti si guardi…vedi, non lo neghi neppure!”, mi accusò quando rimasi zitta a sbollire la rabbia. “Meglio che non provi a spiegarti quanto sono io ad essere disgustato da me stesso. Rimarresti sconvolta”.
Più di così non posso esserlo, te l’assicuro, avrei voluto dirgli, ma preferii non gettare sale sulla sua ferita. Tacqui per lasciargli il tempo di calmarsi; almeno non gli tremavano le mani. Non ancora.
“Forse”, sussurrò leggermente più tranquillo, “forse è meglio che la smettiamo, Bella. Non dobbiamo più vederci, mai più”.
Mi immobilizzai dov’ero. Provai una familiare sensazione di intorpidimento a partire dal collo. Rimasi in silenzio ripetendomi le sue parole nella mente.
“Che…cosa vuoi dire con questo?”, chiesi debolmente.
Piegò le labbra in quello che immaginavo essere un sorriso amaro. Sembrava di più una smorfia. “Dobbiamo finirla qui. Smettiamola di vederci”.
La sua voce mi arrivava lontana. Sentivo la testa girare e la nausea assalirmi prepotentemente. Provai ad immaginare la mia vita senza Jacob e mi apparve assurdamente vuota, priva di significato.
“Spero tu stia scherzando, Jacob, e comunque non fa ridere”, mi uscì debolmente. Scoppiai in risatine isteriche.
Lo guardai meglio in viso e smisi di ridere; sul suo volto abbronzato non c’era segno di ilarità. Era serio: voleva che ci allontanassimo. Voleva che ci lasciassimo, ed io non potevo fare nulla. Ancora una volta.
“No”, sussurrai. “Ti prego, non farlo”. Aprì la bocca per parlare ma lo precedetti. La rabbia ruppe gli argini e la riversai in un fiume di parole gridate. “Non farmi questo, Jacob, non ora che abbiamo costruito un vero rapporto! Sai che non lo sopporterei di nuovo, lo sai. Anzi, sai che ti dico?”. Strillai ancora più forte, al punto da farmi male alla gola e alle orecchie. “Non me ne frega nulla di quello che dirà la gente, nulla! Se per essere tua amica dovrò farmi vedere così, allora lo farò!”.
Con un movimento rapido mi sfilai gli occhiali e li gettai a terra, e con un colpo del piede li spaccai. Le lenti si infransero in tanti piccoli frammenti di vetro e plastica che rimasero sul pavimento. Respiravo affannosamente e non mi scomposi neanche quando Jacob mi guardò in faccia rabbrividendo.
“Non è per questo, Bella”, mormorò. Rimasi sorpresa nel vedere le lacrime scorrergli lungo le guance. “O meglio, non è solo per questo…Tu credi davvero che non ti amerei più solo per queste?”. Avanzò di qualche passo e sfiorò piano i segni sul viso. Lo interpretai come un buon segno, e lo lasciai fare. Il suo tocco era caldo e rassicurante.
Lasciò cadere la mano dopo pochi istanti. Cattivo segno. All’orizzonte vedevo profilarsi una separazione permanente e dolorosa. 
“Sono costretto a lasciarti, ma non pensare che sia per colpa tua o di quello che sembri adesso…”.
“E per che cosa, allora?”, chiesi trattenendo le lacrime. Gridai quando non mi rispose: “PER CHE COSA, DANNAZIONE!?”.
Mi guardò di nuovo, e stavolta indietreggiai impaurita: i suoi occhi sembravano aver perso la ragione, lampeggiavano folli e furiosi.
“Vuoi la verità?”, ringhiò stringendo i pugni. Tremava da capo a piedi. “Sai che succede agli umani morsi dai licantropi? Sai che anche noi, come i vampiri, siamo velenosi? Se il nostro veleno entra in circolo nel corpo umano, questo reagisce come nei confronti di qualsiasi sostanza tossica: pian piano si diffonde e attacca tutto quello che incontra! Se sei molto fortunata, tra qualche anno al massimo ti ritroverai con tutti gli organi in pappa, cervello escluso,e allora qualunque intervento sarebbe inutile! Lo capisci, Bella, ti ho praticamente uccisa, o è come se lo avessi fatto! Proprio io, che ho giurato di proteggerti da tutto e tutti, per primo da me stesso. Proprio io, che ti amo…”. La voce sfumò e lui cadde in ginocchio davanti a me abbracciandomi le ginocchia.
Anche se avessi voluto dire qualcosa, non ci sarei riuscita. Un grosso nodo mi bloccava la gola e a malapena respiravo. Per un attimo, credetti davvero che Jacob mi stesse prendendo in giro.
Mi bastò un’occhiata per capire che non era così; nei suoi occhi c’erano solo dolore e disperazione. Si sentiva in colpa, ovvio, perché mi aveva condannata. Il peso della rivelazione mi si scagliò addosso. Sarei morta. Stavo morendo.
Mi schiarii la gola e provai a parlare.
“Ma…non capisco, Sam ed Emily allora…?”.
“È diverso”, sussurrò singhiozzando. “Emily è il suo imprinting, il suo veleno non potrebbe mai ucciderla. Tu, invece…”. Un singhiozzo più forte degli altri gli impedì di continuare.
In quel momento il mondo intero smise di avere senso per me. Persino Jacob, che giaceva rannicchiato ai miei piedi cercando perdono, non riusciva a tenermi coi piedi per terra. Andavo alla deriva, da sola.
“Quindi è per questo che non mi vuoi più neanche come amica?”, chiesi con voce quasi inudibile. Ma sapevo che per lui non sarebbe stato un problema. “Perché sono destinata a morire? Perché ti senti in colpa? Forza, dimmelo! È così?”.
Un urlo strozzato fu l’unica risposta che ottenni. Ma fu abbastanza. Feci un passo indietro e sgusciai via dalla sua presa. Mi lasciò fare: forse non aspettava altro che me ne andassi, o forse era troppo sconvolto per fermarmi. Scivolò di lato e rimase rannicchiato sul pavimento.
“È la tua ultima parola? Non vuoi ripensarci?”.
Non rispose, ed allora capii. Mi amava, certo, ma non abbastanza da sopportare il dolore e la sofferenza. Voleva lasciarmi perdere? Mi andava bene così.
“Sono stata una stupida a credere che tu potessi farmi di nuovo felice”, sputai fuori mettendoci quanto più veleno e disprezzo possibile. “Invece sei riuscito solo a spezzarmi il cuore una seconda volta”.
Mi voltai e aprii la porta. Sulla soglia fui costretta a fermarmi. Avevo ancora un’ultima cosa da dirgli prima di sparire dalla sua vita.
“Credevi fossi diverso da lui. E invece sei esattamente uguale. Scappi dai problemi per degli stupidi sensi di colpa! Ma almeno lui ha avuto il coraggio di dirmi in faccia che non mi amava più. Codardo”, finii sprezzante. Niente lacrime, niente piagnistei. Quella Bella ormai non c’era più: non lo avrei supplicato di tenermi con lui né gli avrei imposto la mia presenza.
Sbattei la porta più forte possibile; scesi le scale a razzo ed uscii dalla casa senza neanche salutare Billy. Dalla sua espressione, dedussi che aveva sentito tutto. Mormorai un flebile “Addio” e mi ritrovai al sicuro nel mio pick up.
Guidai senza fermarmi e alla massima velocità fino a casa. Non incontrai nessuno, e fu un bene dato che non avevo più gli occhiali. Sperai solo che le infermiere si attenessero alla regola del segreto professionale e non rivelassero niente a nessuno. Ovviamente non sarei andata al college; avrei dovuto ritirare tutte le domande di iscrizione che avevo inviato alla Cornell University, a Yale e a tutte le altre. Tanto non ero neanche sicura che ci sarei arrivata, al college.
Giunta a casa, andai in camera e iniziai a svestirmi con gesti meccanici. Non mi guardai neanche allo specchio. Non volevo rivedere il mio corpo orrendamente sfregiato. Mi buttai sotto il getto bollente dell’acqua e rimasi in piedi, immobile, a cercare di non pensare. Cosa impossibile, data la moltitudine di pensieri che mi affollavano la testa.
Se sei fortunata, tra qualche anno al massimo ti ritroverai con tutti gli organi in pappa, cervello escluso, e allora qualunque intervento sarebbe inutile!
Mi appoggiai sulla parete della doccia e scivolai fino a terra; ero bagnata come un pulcino ma non me ne fregava nulla. Portai le ginocchia al petto e ci poggiai la testa stringendo la presa con le braccia. Piansi mischiando lacrime ed acqua finché non scivolai nell’incoscienza. 
 
 
***PICCOLO SONDAGGIO***
Preferite Edward o Rob (non Pattinson, s'intende ^^)? 
 

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Capitolo 12
*** XII - Storyteller's mind ***


Ho polverizzato ogni record! Un mese e una settimana di ritardo...che bello -.-'' meriterei la fucilazione senza appello. L'unica cosa che mi consola è vedere le recenzioni lievitate *assetata di potere fino al midollo* So che lo scorso capitolo ha lasciato così *0* un po' di gente. Vi faccio un regalino: in questo non ci sarà nè sangue o altro...ho deciso, infatti, di lasciare stare i nostri amici per un poco (ma davvero poco ^^) e questo è solo un capitolo di transizione. ATTENZIONE: è sconsigliato alle pro-Rob xDxD.
3things: a dire la verità a me non piacciono gli happy ending. Sono troppo scontati. Al limite, userò l'happy ending MA facendo capitare qualcosa di moooooolto brutto *me perfida*
ginny89potter: nah. Non sarà troppo dolorosa xDxDl a ragione del titolo è un pochettino...ehm...contorta forse. Ve la rivelerò a tempo debito! E il nostro caro Eddy tornerà, parola mia!
Michelegiolo: mah guarda, non so se essere pro-Ed o pro-Jake. In NM ho odiato un e adorato l'altro, in Ec al contrario e in Bd D avrei voluto pestare il vampiro o_O
cussolettapink: no, lei indossa la maschera perché le ferite sono visibilissime anzi, si scuriscono col tempo. La storia di Rob si svelerà tra un po'.
Chanellina94: mmazza, che poema! Mi piaccioni le recensioni chilometriche ^^ si scoprirà, si scoprirà, tranquilla...E comunque, se Rob non finirà con Bella finirà sicuramente con ME quindi giù le zampe dal mio bambino MUAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH! Ps: non è che da Modena mi speidresti un lanternino per ritrovare la mia perduta sanità mentale?
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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“Andava bene, no?”, chiesi ansiosa. Avevo paura di aver stonato sull’ultima strofa di un pezzo particolarmente difficile.
Mischa mi fece l’occhiolino. “Più che bene”.
Sospirai di sollievi e rimisi a posto il microfono. Provavamo da ore e cominciavo ad essere stanca. Inoltre, era quasi ora di pranzo.
“Ho fame, vado a mangiare”, annunciai. “Voi restate qui in garage?”.
Mischa e Brian dissero “Si” all’unisono e si guardarono negli occhi per poi distogliere lo sguardo arrossendo. Ridacchiai.
“Matt, vieni?”.
“No, grazie, rimango un altro po’ qui”.
“E tu, Rob?”, chiesi mordendomi il labbro. Dal giorno della nostra chiacchierata sul terrazzo i nostri rapporti si erano incrinati ed era diventato freddo con me; che non approvasse era chiaro, e avevo deciso di arrangiarmi. Ma non volevo che la nostra amicizia finisse.
Proprio in quel momento mi guardava con distacco.
“No, grazie”. Solo un iceberg avrebbe potuto essere più freddo.
“Ti prego”, lo implorai. Dovevamo chiarire. Probabilmente vide con quanta determinazione desideravo parlargli, perché si alzò sospirando e posò la sua Jackson accanto alle casse.
“Okay, dieci minuti di pausa”, annunciò e mi seguì in casa.
Una volta in cucina, frugai nel frigorifero ed estrassi un bottiglione di acqua gelata. Robert si sedette al tavolo e cominciò a tamburellare le dita sul legno.
Bevvi lentamente per scongiurare una congestione e poggiai la bottiglia sul ripiano di marmo. Feci un respiro profondo e presi la parola senza però voltarmi ed affrontarlo.
“Perché non vuoi parlarmi?”.
Si riscosse dai suoi pensieri. “Che?”, chiese con indifferenza ammirevole. Bene, tanto peggio di così non poteva essere.
“Ti ho chiesto perché ti rifiuti di parlare e di stare nella stessa stanza con me per più di due minuti”.
“Chi ti dice che non voglio?”.
“Rob, non costringermi a mandarti a fanculo”.
“Forse non ho nulla da dire”, puntualizzò.
“O forse hai troppe cose da dire e non sai da dove cominciare”, suggerii sarcastica.
Rise senza gioia. “Touché”. Okay, mi sbagliavo: sapeva essere anche stronzo, oltre che freddo e distaccato. Ma d’altro canto, era per quello che gli volevo così bene.
Mi sedetti accanto a lui e gli presi le mani portandomele alle labbra. Le sentivo rigide contro la mia pelle.
“Robert”, cominciai piano, “non ho dimenticato quello che mi hai detto. So dei sentimenti che provi per me, e ne sono onorata. Ma, come ti ho già detto, non è un bene per te frequentarmi. Quanto avremmo a disposizione? Sei mesi? Un anno? Probabilmente di meno, e allora a che cosa sarebbe servito? Sarebbe solo un atto egoista da parte mia. Vedrai che prima o poi…”.
“Non dirlo”, sussurrò  con voce bassa e roca. “Se mi vuoi bene, allora non azzardarti a dire che ti dimenticherò e che troverò un’altra dopo la tua morte”. La voce gli si ruppe sull’ultima parola.
“Ma è così. Ascoltami, è la vita: nasciamo, cresciamo, diamo vita ad altri esseri umani e poi moriamo. Io ho solo bruciato qualche tappa”. Abbozzai un sorriso che però non ne trovò lo specchio sul viso di Rob.
Pessima battuta.
Odiavo vederlo così, per cui mi affrettai a distrarlo.
“Senti, ora non ne parliamo, okay? Concentriamoci invece su Detroit e su come convincere quei vecchi caproni a mandarci in Europa. Chissà, magari finiamo al festival di Lowlands (*)!”, la buttai sullo scherzo.
Funzionò: lo feci ridere e mi sentii meglio. “Se la metti così, allora forse è meglio darsi da fare”, disse con finta serietà.
Non aspettavo altro; dalla mia borsa presi il mio quaderno e lo aprii al centro.
“Oh mamma, devo preoccuparmi?”.
“Nah. Non ancora”.
Sfogliai qualche altra pagina e trovai il testo che volevo. Lo avevo scritto la sera prima, davanti alle peggiori schifezze ordinate al più vicino fast food. Robert rimase a fissare il frutto di tre ore di duro lavoro per parecchi minuti. Cominciai a temere che non gli piacesse, quando d’un tratto sorrise.
“Fammi indovinare: quando ieri sera ti sei rinchiusa in camera con un cheeseburger doppio e una bottiglia della scorta di mio padre non era per smaltire lo stress, vero?”.
“Volevo che fosse una sorpresa”.
“Però non è finita”. Non era una domanda.
“No”, risposi triste.
“Beh, finiamola adesso”. Fece spazio sul tavolo e prese una penna. Lavorammo per parecchio tempo aggiungendo e cancellando alcuni pezzi.
Alla fine la canzone (**) era finita e la musica composta –merito di Robert, ovvio, ed infondo io avevo già in mente il ritornello.
 
La nuova canzone ebbe più successo di quanto mi aspettassi: Mischa saltò subito battendo le mani e farneticando circa la batteria, mentre i gemelli fischiarono d’approvazione e batterono il cinque a me e a Rob. Inutile dire che ci mettemmo subito al lavoro; per quella sera ci concentrammo solo sul nuovo brano, mettendo momentaneamente da parte gli altri.
Ci fermammo solo quando i nostri stomaci cominciarono a gorgogliare per la fame, intorno alle sei e mezzo. Persino io avevo un certo languorino…e anche voglia di cibo fatto in casa, anziché ordinato al solito fast food.
“Rob, hai qualche cosa di commestibile in casa, o voi vivete di solo alcool?”.
Rise, un po’ imbarazzato. “Veramente…ci dovrebbe essere della pasta nella credenza e delle verdure, potresti fare un…okay, okay!”, aggiunse guardando la mia espressione incredula. “Chiamo il supermercato più vicino e faccio mandare la spesa, d’accordo?”.
“Così va meglio”, dissi soddisfatta. Mi avviai in cucina e presi carta e penna dal cassetto: scrissi la lista della spesa che consegnai a Robert.
Il quale la guardò strabuzzando gli occhi.
“Scherzi, vero? Davvero stasera hai intenzione di preparare”, guardò di nuovo la lista, “tutta questa roba? Lasagne, patate…”.
“Hai dimenticato la torta di mele”. Insomma, qualche volta faceva bene, mangiare cose sane fatte in casa, no? Tutto il contrario di Charlie, che prima del mio arrivo a Forks viveva di pizza e tavola calda.
“Hai deciso di farci stare male, per caso?”.
“Primo, non credo che il mio stomaco reggerebbe l’ennesimo cheeseburger, e secondo, io cucino benissimo”.
Preferì non ribattere, considerando che anche lui stava morendo di fame. Sgusciai via in cucina, guardandolo compiaciuta.
 
 
*Il festival di Lowlands è uno dei più importanti eventi musicali in Europa e si svolge in estate in Olanda. I Nightwish hanno partecipato già un paio di volte.
**La canzone è End of all hope e potete sentirla qui

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Capitolo 13
*** XIII - It starts a new dream ***


DIV>*Oriana esce dall'angolino in cui si era rifugiata e si guarda attorno con paura*
Non dico altro xD tanto nulla mi salverà da un liciaggio collettivo...Ho persino paura a rispondere alle recensioni (per Chanellina94 grazie, l'ispirazione è arrivata xD). Chiedo solo una cosa, a parte il solito "commentate": VI SCONGIURO NON UCCIDETEMIIIIIIIIIIIIIIIIIII *sta in ginocchio sui ceci e si autoflagella*
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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Dopo due giorni senza stare male, I ragazzi furono costretti ad ammettere che come cuoca non facevo poi così schifo. Detto dai gemelli era un complimento, quindi non protestai nemmeno quando mi chiesero una seconda torta che fui ben felice di preparare; cucinare era il genere di attività che mi teneva occupate mente e mani, impegnata com’ero a cercare di non tagliarmi.
Nella settimana che seguì fummo sempre più impegnati con le prove per la serata a Detroit; a quanto pareva era una delle date più attese, perché più di una volta scorgemmo delle figure familiari appostate sotto casa e con a tracolla qualcosa che assomigliava terribilmente ad una macchina fotografica professionale, di quelle enormi che nessun teenager si sognerebbe di usare.
“Paparazzi in cerca di scoop, senza dubbio”, chiarì Robert storcendo il naso. Diede un’altra sbirciatina dalla finestra del salotto, da cui avevamo intravisto delle figure allontanarsi in tutta fretta.
Matt annuì con vigore. “Meglio non uscire per un po’, o rischio di spaccare il naso a quei deficienti”.
“Come se non lo avessi già fatto”, lo punzecchiai. Mi ignorò bellamente e richiuse la tenda con uno scatto secco.
“Torniamo al lavoro”, disse con irritazione.
Nonostante quel piccolo inconveniente, continuavamo a concentrarci solo sulla musica e su nient’altro; l’atmosfera allegra e felice che regnava in casa ci aveva contagiati tutti, ed era impossibile non sentirsi a proprio agio, specie durante le prove. In più cominciavo a sentirmi meglio: ero meno magra e meno pallida e dopo il garage avevo sempre appetito. Robert ne era felicissimo e non mi stressò più con la faccenda delle medicine. Chissà, magari Jacob ed i suoi amici si erano sbagliati. Forse non ero destinata a morire entro l’anno, dopotutto…
Ma la tranquilla e cordiale atmosfera che si era creata fu sconvolta da un tornado la mattina della domenica prima della partenza, fissata per martedì: e il tornado fu costretto a bussare due volte alla porta di casa Vuorinen.
“RAGAZZI! RAGAZZI!”.
Mischa correva per casa urlando e svegliandoci tutti. Io sonnecchiavo, quindi fu più facile alzarsi, ma i ragazzi non erano dello stesso avviso, specie Brian.
“Brian, svegliati, avanti!”.
“Mmmh!...ancora cinque minuti, mamma…”, bofonchiò nel sonno.
“Alza il culo, dannato perditempo, che ci sono novità!”.
Meglio non scendere nei dettagli: sta di fatto che Brian si alzò con un livido enorme sul sedere dopo una spettacolare caduta dal letto. Ci riunimmo tutti insieme nel soggiorno: schiacciati sul divano e sulle poltrone, fissavamo tutti la busta che Mischa aveva appoggiato sul tavolino di cristallo.
“Mischa, vuoi spiegarci che cazzo è successo per tirarci giù”, Matt guardò il pendolo sbadigliando, “tre ore prima del solito?”.
Osservai meglio Mischa: sembrava essere stata appena colpita in pieno stomaco.
“Guardate meglio il mittente”, sussurrò.
Ci guardammo tutti in faccia, confusi.
“È della casa discografica”.
Scese un religioso silenzio, carico di tensione. L’unica cosa che si udiva era il ticchettio del pendolo alle nostre spalle; nessuno parlava, nessuno respirava. Ruppi il silenzio per prima.
“Chi la apre?”.
Dovevo correggermi: nessuno parlava, respirava oppure osava aprire quella dannata busta. Neanche Brian, solitamente pronto a farci ridere quando c’era solo da piangere. Non sapevamo cosa fare, effettivamente.
“Oh, datela a me”, sbottò Matt, ma prima che potesse finire la afferrai con uno scatto del braccio. Le mie mani tremarono mentre aprivo la busta senza romperla, come invece faceva sempre Robert. Finalmente la linguetta si sollevò e, lentamente e respirando a fondo, la aprii del tutto.
Sospirai di sollievo, leggermente confusa: non diceva nulla che non ci fosse già stato comunicato dal signor Coleman, il nostro talent manager. C’era solo la conferma delle date previste per il tour autunnale. Stavo per esprimere le mie perplessità anche agli altri, quando un foglio che non avevo notato scivolò dalla busta. Lo raccolsi e lo esaminai.
Dopo un minuto ero certa di essere sbiancata, e anche parecchio. Volevo dire qualcosa, ma avevo la gola bloccata; ero sotto shock. Quasi non mi ricordai che gli altri pendevano dalle mie labbra.
“Bella, che dice? Cosa c’è scritto?”, chiese Mischa con ansia evidente.
Non risposi, ero ancora troppo scossa. Rileggevo muta quelle frasi, incredula.
“Oh, va bene! L’hai voluto tu!”. Rob mi strappò letteralmente di mano la lettera e cominciò a leggerla a voce alta.
Noi, sottoscritti bla, bla, bla…in data dodici settembre, al Theatre District, Detroit, nello stato del Michigan e bla, bla, bla…si conta la presenza di stima…”, e s’interruppe bruscamente; aveva spalancato bocca ed occhi e fissava la lettera con sguardo stranito.
“La presenza di?”, chiesero gli altri, un po’ preoccupati.
Robert non sembrava aver riacquistato l’uso della parola, quindi toccò a me finire: “Si conta la presenza di stimati rappresentati di una delle etichette indipendenti più note negli Stati Uniti, la Immortal Records, la quale ha mostrato un certo interesse nei confronti del nuovo progetto autunnale e gradirebbe assistere all’esibizione per poi stipulare un contratto a lungo termine nei prossimi giorni. Si spera nel vostro più cordiale consenso”, conclusi con voce fioca. Robert non poté che annuire.
Ero sicura che le facce di Mischa e gli altri fossero l’esatta replica della mia espressione scioccata. Ora che avevamo appurato che non si trattava di niente di grave, avremmo anche potuto rilassarci; ma non lo facemmo. Restammo in silenzio, impietriti e senza fare alcun movimento, come se avessimo paura di spezzare lo splendido incantesimo.
Il pendolo batté le sette, e nello stesso momento ci sbloccammo tutti.
“SI! MA VIENI!”.
Brian urlò all’improvviso e scattò in piedi prendendo Mischa per le mani e trascinandola in una specie di danza sulle note di un immaginario valzer. Continuava ad urlare e sorridere e anche lei appariva emozionatissima. Matt fischiò (distruggendomi quasi un timpano) e cominciò a saltare sul divano; si sbottonò la camicia del pigiama e la fece ruotare come un lazo. Robert non provò neanche a sgridarlo, eravamo troppo occupati a stritolarci a vicenda. Sentivo le lacrime scorrermi lungo il viso e per la prima volta in quasi cinque anni piansi di gioia.
“Ma vi rendete conto?! La Immortal Records!”.
“State pur certi che il prossimo disco sarà il migliore!”.
Si udì un rumore preoccupante: saltando, Matt aveva rovesciato il divano e giaceva a gambe all’aria. Subito ci avvicinammo, preoccupati di doverlo portare in ospedale, ma lui si rialzò come se nulla fosse, ancora euforico e con i capelli fuori posto.
“E ADESSO SFIDO QUELLI DELLA CASA A NON MANDARCI IN EUROPA!”.
 
 
Per tutto il giorno non parlammo altro che di quello: in barba a tutte le preoccupazioni e le paure, agli occhi di un estraneo saremmo sembrati dei pazzi con la sigaretta perenne alla bocca e le guance rosse dall’eccitazione. Avevamo ordinato al più vicino fast food tanta roba da poter tranquillamente sfamare il doppio di noi, con tanto di dessert, una di quelle bombe tutta panna e cioccolata. Ovviamente, non potevano mancare le scorte di alcolici di casa Vuorinen: tutti avevamo, a turno, ingurgitato almeno una bottiglia di vodka o di rum. E, come se non bastasse, lo shaker di Robert aveva un fascino irresistibile su di noi, per cui non restò inutilizzato. Era mezzanotte e ancora stavamo festeggiando: io e Robert sedevamo vicini sulle sedie del tavolo del salotto mentre i gemelli se ne stavano spaparanzati sul divano e Mischa appoggiata alla loro gambe (in particolare quelle di Brian, notai con un sorriso).
“Allora”, cominciò lei sorseggiando un B52, il suo preferito, “abbiamo deciso il titolo del disco, okay, ma le canzoni?”.
“Io ne avevo già scritta una. L’abbiamo anche provata”, cominciai io, “ma per ora non ho altre idee”.
Robert mi guardò dal suo bicchiere di caffè molto corretto. “Ma come, e tutte le meravigliose annotazioni sul tuo quaderno?”.
Lo guardai, a metà tra il lusingato e l’irritato. “Chi ti ha dato il permesso di leggerlo?”.
“Io. Allora, che ne vuoi fare di quei testi?”.
“Sono…in fase di rifinizione”, ammisi arrossendo. Quel vizio non sarebbe mai andato via, vero?
Alla fine Robert mi costrinse a portare il quadernetto per leggerlo ad alta voce; per quanto gradissi l’idea di buttarlo giù dal terrazzo, feci come mi aveva chiesto.
“Ehi, questo è buono”, commentò Mischa indicando una pagina. La ringraziai, avevo scritto quelle cose in uno dei rari momenti di allegria della mia carriera. “Come si chiama?”.
“Non ha un nome, ci ho lavorato pochissimo”.
“Be’, io ce l’avrei”, s’intromise Matt dopo averlo esaminato attentamente. Era rarissimo che avesse delle idee circa le canzoni, solitamente si limitava ad eseguirne le musiche.
“Spara”, disse il fratello.
Wanderlust”. Pronunciò il nome con aria solenne. Lo ripetei tra me e me e mi parve perfetto.
“Approvato”, dissi sorridendo.
“Per pura curiosità”, chiese Robert, “quando lo hai scritto, di preciso?”.
Ci pensai su prima di rispondere. “Esattamente non so, ma più o meno quando ci hanno negato il tour in Europa per la prima volta. Ero talmente furiosa che ho scritto senza pensarci…Ad essere sinceri”, aggiunsi, “quando scrivo non penso affatto, immagino e basta”.
Mi resi conto di essermi tirata la zappa sui piedi da sola ma ormai era tardi per fermare Brian.
“Eeeh, chissà cosa ti immagini! Per caso è alto, magari nudo, coi capelli biondi e gli occhi grigi e si chiama Robert?”.
Accaddero due…anzi, tre cose contemporaneamente: Matt cadde a terra squassandosi dal ridere, le bacchette di Mischa attraversarono in volo la stanza e due cuscini –uno mio e l’altro di Robert- schizzarono in direzione di Brian. Bacchette e cuscini lo colpirono in pieno, le prime nello stomaco ed i secondi in piena testa.
“Brian Foster”,  gli ringhiai addosso mentre continuava a sghignazzare come un idiota, “se osi ripeterlo ti…ti…”.
“Idem per me, qualunque cosa tu abbia in mente”, finì Robert, rossissimo fino alla radice dei capelli.
“Il momento in cui sentirò di nuovo le parole ‘Rob’ e ‘nudo’ pronunciate dalla tua bocca e nella stessa frase sarà anche quello della tua dipartita”, minacciò Mischa. Ma almeno lei lo faceva per gelosia, anche se non lo avrebbe mai ammesso.
Brian rise. “Chi disprezza compra, vero Bellina?”.
Non avevamo altro da lanciargli addosso, per cui ci limitammo a ghignare, metà divertiti e metà irritati.
 
******NOTE******
La canzone Wanderlust è dei Nightwish e potete ascoltarla qui 

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Capitolo 14
*** XIV - An Ugly Duckling lost in a verse ***


Eeeeeeeeeeeeeeeeed eccomi qua finalmente! Vi siete abbronzate, mie dolci pulzelle? Io parecchio...forse troppo =_= ho scoperto che non bisogna mai mandare a quel paese la mamma quando dice "non esporti troppo al sole, mettiti la crema, indossa il cappellino" e che non bisogna MAI addormentarsi sulla prua di una barca sotto il sole dell'una. La mia schiena può confermarlo, ci potete cuocere una frittata tant'è rossa! In più oggi ho avuto un incontro ravvicinato col marciapiede mentre correvo e vi sto scrivendo con le mani, le ginocchia e i gomiti fasciati ^^'' Passando alla ff, ho notato che s'è leato un coro di protesta che dice "ma quand'è che entrano in scena i Cullen?". CI TENGO A PRECISARE UNA COSA: gran parte della ff è dedicata a Bella e ai suoi amici e che i nostri vampiri non ci saranno per MOLTO tempo. Fino al, uhm, 20esimo capitolo? Poi da lì ci sarà un POV di Edward e POI torneranno i Cullen. Spero che questo non vi scoraggi e che continuiate a seguirmi <3 un'ultima cosa. La Immortal Records non ha niente a che fare con i Volturi, che in questa ff non sono neanche nominati. E' una casa di produzione americana realmente esistente ed anche molto famosa. Chi ascolta i Korn e i 30 Seconds To Mars mi capisce ;) 
Purtroppo oggi non ho tempo di rispondere a tutte le recensioni, quindi ringrazio __cory__, elys, kandy_angel, Chanellina94 e valli per i loro commenti. Siete fantastici, ragazze (scusate se ci sono maschi ^^).
Buona lettura!
 
 
 
Kuolema Tekee Taiteilijan
 
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Avevamo vari motivi per cui essere nervosi, quella sera. Primo fra tutti, l’improvviso arrivo dei produttori della I.R. a Detroit: perdere una simile opportunità significava perderne qualunque altra per farci conoscere oltreoceano. La nostra carriera dipendeva quasi totalmente da come saremmo andati quella sera, e ciò comportava tantissimo stress. Soprattutto per me, dato che, come Robert amava ripetermi, la maggior parte delle responsabilità gravavano su di me.
“Osa sbagliare la seconda strofa dell’introduzione e ti taglio la gola”, mi sibilava ogni volta che mi ritrovavo a dover ripetere tutto daccapo. Evitavo di dirgli che la colpa era anche sua, che aveva scelto un pezzo difficilissimo come brano di apertura. Era il genere di canzone che eseguivamo solo ogni tanto, per evitare che la mia voce ne risentisse troppo ma Rob s’era intestardito e a nulla erano valse le mie preghiere.
 Il secondo motivo per cui rischiavamo di farci esplodere la testa era Mischa; si era fissata con i vestiti e gli accessori di scena e aveva insistito per sceglierci dei vestiti di persona. Situazione davvero poco piacevole, a dirla tutta.
“Non credevo che un giorno mi sarei fatto convincere ad indossare questa roba”, disse mesto Brian contemplando la sua immagine allo specchio: Mischa lo aveva letteralmente infilato in un paio di pantaloni di pelle aderenti  e pieni di borchie sulle tasche. La maglia, poi, era..come dire, insolita. Una specie di barca nera con la scritta rossa LET THERE BE THE GUITAR che riprendevano forme e caratteri antichi; Matt era conciato più o meno allo stesso modo salvo per la maglietta, la cui scritta era verde.
“Potrei denunciarti, lo sai?”.
“Taci o dovrai denunciarmi per ben altro. Ecco, abbinateci questi anfibi e siete a posto”.
Li sentii imprecare per un po’ e poi zittirsi. Poverini, potevo capirli. Anche io ero stata costretta nel più ridicolo dei vestiti che avessi mai indossato. Vero, spesso avevo messo abiti di pizzo più o meno lunghi e corpetti strettissimi, ma quello li batteva tutti: era nero, lucido e pieno di pizzi e fiocchi rosa. Rosa confetto! Che orrore.
“Che accidenti mi hai dato?”, urlai verso la porta. Lei la spalancò improvvisamente e mi affrettai a coprirmi con la maglia, dato che ero quasi del tutto nuda. Cercavo con tutte le mie forze di non guardarmi nello specchio.
“Mmh?”, fece con aria innocente.
“Non lo metterò mai e poi mai. Dovrai prima spararmi!”.
Si batté una mano sulla fronte e spalancò gli occhi. “Porca miseria, mi sono dimenticata…! Aspettami, torno subito”. Neanche il tempo di protestare ed era sparita.
Tornò dopo dieci secondi scarsi e mi scaraventò addosso un paio di pantaloni neri .
“Mettiteli sotto assieme agli stivali che trovi qua fuori e poi mettiti qualche collanina non troppo appariscente, o finirai per assomigliare ad Amber Lynn. Ah, e mi raccomando, usa una mascherina nera!”.
Discutere con Mischa era il novantanove per cento delle volte tempo perso. Meglio star zitti e ubbidire. Per prima cosa infilai la biancheria adatta quel tipo di abbigliamento –almeno quella potevo deciderla io!-  ed i pantaloni; sentivo la pelle sintetica strusciarsi contro le mie gambe, mi dava fastidio. Qualcuno bussò alla porta facendomi trasalire.
“Hai finito?”, disse la voce di Brian. Sembrava vagamente nervoso, chissà se per la faccenda di Mischa o per la serata che si prospettava…Probabilmente entrambe le cose. “Tra dieci minuti Robert ci vuole dietro il palco”.
“Vengo subito”, borbottai piano e finii di vestirmi. Senza troppe cerimonie infilai cappotto e scarpe perdendo il poco tempo che mi restava a districare i fiocchi e ad infilami qualche catenina al volo.
“Oh cielo!”, esclamò Mischa quando uscii in corridoio. “Tesoro, hai una faccia e dei capelli orribili!”.
La guardai alzando un sopracciglio. Orribile, a me? Evitai di fare commenti sulla sua mise –completamente nera, tranne per la maglietta con un immagine bianca stampata- e mi abbandonai alle sua mani che cercavano di aggiustarmi i capelli ed il viso.
Non c’era molto da fare: erano così intricati da poterli solo raccogliere. Fece due codini e li fermò sulla nuca con due nastri. Erano talmente lunghi da sfiorarmi la vita.
“Perché non te li tagli?”, suggerì lei.
“Perché tu non te li fai crescere?”, ribattei con un sorriso. Arrossì e tirò indietro una ciocca di capelli fin dietro l’orecchio; l’altra ricadeva fino alla clavicola, mentre dietro…be’, dietro erano cortissimi, per cui non c’era molto da pettinare.
Solo allora notai come era conciato il suo orecchio sinistro.
“Mischa”, esclamai, colpita. “Dove lo hai preso? È stupendo!”.
“Questo?”, chiese sfiorandosi l’orecchino. Era d’argento massiccio e si arrampicava per tutta la lunghezza della cartilagine tra complicati intrecci e pietruzze color sangue.
“Me lo hanno regalato”, rispose ancora rossa.
Non ci voleva un genio per capire a chi si riferisse. Le sorrisi contenta. Significava che anche Brian non le era del tutto indifferente, né lei lo era a lui.
“Siete due coglioni”, borbottai a mezza voce. Ma non riuscii a dire altro perché lei cominciò a passarmi il rossetto sulle labbra con molta più foga del necessario; riuscì quasi a strozzarmi col girocollo che mi aveva persuaso a provare.
 
 
“Robert, risparmiaci questo cazzo di discorso”, iniziò Brian prima che il diretto interessato potesse aprire bocca. “Sappiamo già cosa vuoi dirci: state calmi, non siate nervosi e fate del vostro meglio per stupire quelli della casa”.
“E che se Bella osa sbagliare l’introduzione gliela farà pagare cara”, aggiunse il fratello guardandomi malizioso.
Mi venne naturale arrossire. Però dovevo ammettere che cominciavo ad essere tesa anch’io, e non solo per ciò che ci aspettava a meno di dieci metri di distanza. Avevo la sensazione che quella sera sarebbe successo qualcos’altro ma non sapevo cosa. Forse aveva ragione Robert, eravamo solo preoccupati per quello che sarebbe successo nell’ipotesi in cui  non fosse andata bene.
Per questo eravamo tutti col cuore in gola quando ci ritrovammo sul palco davanti a centinaia di persone che evitavamo accuratamente di guardare per timore di vedere qualche completo di giacca e cravatta dall’aria importante. Prendemmo posto dove prestabilito e aspettammo la battuta di entrata che non tardò ad arrivare.
 
 
Ero già alla seconda bottiglia d’acqua e dei rappresentanti della Immortal Records neanche l’ombra; cominciavo a credere che non sarebbero venuti e anche i ragazzi erano pessimisti. L’unica ad essere un minimo fiduciosa era Mischa.
“In questo cavolo di posto ci saranno almeno duemila persone e voi pretendete di riconoscerne anche solo dieci? Vedrete che alla fine ci contatteranno nel backstage”.
Beata lei, pensai amaramente. Fino ad allora ce n’erano stati pochi, di momenti per pensare: tra il cantare, le urla del pubblico e le luci ipnotiche del palco avevo difficoltà a ragionare. Inoltre, avevo un gran mal di testa e fu proprio a questo che attribuii la scena sconcertante che mi si parò davanti.
Durante i pochi istanti tra un brano e l’altro avevo dato una veloce occhiatina al pubblico delle prime file: la solita massa di ragazzi urlanti che cercava di farsi largo per poter vedere meglio. Chissà perché, ebbi la tentazione fortissima di guardare meglio. Aguzzando la vista, portai lo sguardo nell’angusto spazio tra una ragazzina coi capelli neri e il suo coetaneo biondo e mi sembrò di vedere qualcun altro il cui volto mi era familiare.
Per un attimo incrociai i suoi occhi e la voce mi mancò improvvisamente. Veloce com’era arrivato lo sguardo di quell’estraneo –o forse no?- sparì. Ma non potevo dimenticare il colore singolare delle iridi che erano sembrate intente a scrutarmi l’anima: un castano dorato così chiaro da sembrare oro liquido e la cui bellezza non poteva essere paragonata al colore del miele o a quello del sole.
Per fortuna non stavo cantando, altrimenti avrei fatto una bruttissima figura coi produttori!
“Tutto bene, Bella?”, mi chiese Robert alla mia destra. Aveva ancora la Jackson a tracolla.
Per un attimo fui tentata di dirgli la verità: lui conosceva ogni particolare della mia storia e forse non mi avrebbe biasimata, anche se ciò che vedevo era impossibile. Ma all’ultimo diedi una risposta diversa.
“No, tranquillo. Non è successo nulla”.
 
Merda. Merda. Merda.
Non ci potevo credere. Anzi, non ci potevamo credere. 
Era bastato davvero poco; qualche parola scambiata per cortesia, una stretta di mano, un biglietto da visita e un bel bicchiere di gin tonic. Risultato, un appuntamento per la settimana seguente agli studi di registrazione per ‘discutere sull’eventuale stipulazione di un contratto’. Ma ormai era fatta, e lo sapevamo benissimo. Per cui quella sera, al secondo piano di un confortevole albergo nel centro della città, ci furono grandi festeggiamenti.
“Un altro giro, prego!”, strillò Mischa alzando il suo bicchiere vuoto e sprofondando ancora di più nel morbido divano dell’ingresso. Io e Rob le sedevamo affianco, io coi piedi appoggiati al tavolino e lui mezzo stravaccato sulla moquette color avorio. Tutta la stanza era in legno, dal pavimento fino ai pannelli alle pareti, ed il mobilio era verniciato a creare un effetto di finto invecchiamento. Vari quadri ed una semplice illuminazione completavano il tutto in un perfetto stile country.
Speravo solo che i gemelli non rompessero nessuna delle ceramiche in bella vista nelle vetrine del soggiorno, scatenati com’erano.
“Alt, alt!”, urlò Matt saltando sulla cassapanca e spegnendo lo stereo –che, tra parentesi, stava riproducendo il nostro disco- con il telecomando.
“Siamo qui riuniti per festeggiare la nostra ascesa al potere…”.
“Megalomane”, sbuffò Mischa tracannando vodka.
“…Finalmente domineremo il mondo della musica”, continuò Brian, forse più esaltato del fratello, “e allora altro che Detroit o Rockford, finiremo sui palchi più famosi d’Europa!”.
“Un brindisi!”, finì l’altro alzano il bicchiere.
Andammo avanti così per più o meno tutta la notte. Alla fine, verso le due, qualcuno ci venne a bussare pregandoci di fare meno chiasso. Fummo costretti a spegnere la musica, ma continuammo a bere e a parlottare e ci accorgemmo della luce che entrava dalle persiane sbarrate solo qualche ora più tardi.
“Io sono sfinito”, annunciò Brian mettendo a posto il mazzo di carte con cui avevamo giocato. “Buonanotte, a”, controllò l’orologio, “ad oggi pomeriggio e siate puntuali, che l’autobus parte alle sei”.
Non chiedevamo altro; non avevamo neanche la forza di mettere a posto il casino che avevamo lasciato in soggiorno –bicchieri, bottiglie e piatti vuoti, buste di patatine e di popcorn e cuscini fuori posto. Di sicuro ci saremmo beccati una denuncia da parte della direzione, pensai con un sorrisetto. Ma che importava, ora che finalmente il nostro sogno si stava realizzando?
Avevamo un contratto con una casa d’alto livello, insieme lavoravamo benissimo e, ciliegina sulla torta, avevo una possibilità di guarire. E guarire avrebbe significato varie cose, tra cui una carriera lunga e promettente ed un futuro con un uomo straordinario. Il mio Robert.
Fu a lui che pensai mentre dormivo, e nemmeno per un attimo mi tornò in mente ciò che avevo visto quella sera.
 
******NOTE******
 
 

 IL CORPETTO  E GLI STIVALI DI BELLA 

 

 I VESTITI  E LO STUPENDO ORECCHINO DI MISCHA

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