Guerrillas

di Diffy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- Not one of them ***
Capitolo 2: *** 01. I'll miss her. ***



Capitolo 1
*** Prologo- Not one of them ***


Guerrillas

*

00. Prologo: Not one of them

*

E’ festa oggi, qui da noi.

Frutta sulle nostre tavole di legno, musica che aleggia nell’aria.
Danze attorno al fuoco.
Risate.
Ci basta solo questo, per riuscire a trascorrere felicemente una serata in compagnia di familiari e amici di famiglia.
Una festa per la mia laurea.
Una festa per me.
 
Sono l’unico che è riuscito a laurearsi, nel nostro villaggio.
 
Medicina e chirurgia. Ho deciso di sfruttare i miei anni di studio per aiutare i paesi che ne hanno più bisogno: quelli del terzo e quarto mondo, principalmente. O comunque, quelli in via di sviluppo, ad alto tasso di mortalità infantile; quelli con scarse condizioni igienico-sanitarie, o quelli in cui la guerra è diventata un’abitudine, oltre che un pericolo.
Domani parto. Mi hanno già chiamato d’urgenza – o meglio, hanno chiesto aiuto. Ed io mi sono offerto.
 
Vado in Brasile. Nel Mato Grosso, per la precisione. A Cuiabá.
Mi hanno parlato di guerriglie. Di feriti. Di malati.
Non so con chi avrò a che fare – ma il mio lavoro è anche questo.
 
L’ho scelto io.
Se ho voluto la bicicletta, adesso devo pedalare.
 
Afferro un’arancia da uno dei cesti vicini. Con un coltello nell’altra mano la sbuccio, velocemente.
Ne stacco uno spicchio, e lo porto alle labbra, masticando a bocca chiusa.
Davanti a noi, maschi del villaggio seduti in fila a gambe incrociate, delle fanciulle danzano a ritmo di musica.
E’ folk. Non vi aspettate grandi cose.
 
Questi spettacoli riescono sempre a farmi venire il sonno in clima di festa. Tuttavia, Sondes insiste nel dire che gli uomini hanno il diritto di godere della grazia femminile in tutte le sue forme.
Cerco di coprire uno sbadiglio, voltandomi dall’altra parte per qualche secondo.
Sbatto le palpebre.
Porto nuovamente lo sguardo sulle danzatrici.
Belle, senza dubbio, e molto sensuali nella loro grazia pudica. Ma in tutta sincerità, non passerei la mia intera vita a sbavare sulle ragazze del villaggio.
Gli altri uomini accanto a me, invece, sembrano essere di parere diverso. Uno di loro, Tarek, non fa che fissare una delle danzatrici in particolare.
Seguo il suo sguardo.
Inarco un sopracciglio.
 
Sta guardando mia sorella. Fatma, la più grande delle mie due sorellastre minori.
Nonché la più bella fra tutte le giovani del villaggio.
 
Distolgo lo sguardo.
Non che sia geloso – ma semplicemente, lo sguardo di quel tizio mi infastidisce. Senza contare che sarà più grande di lei di almeno vent’anni.
 
Fatma ha diciannove anni, compiuti lo scorso mese. Mio padre ha già progettato di darla in sposa a qualcuno del villaggio. Ma non mi ha specificato niente.
A lei sembra piacere l’idea. Ha sempre sognato un uomo accanto e una famiglia numerosa.
Vede la ‘vie en rose ’, come si suol dire.
Forse è un po’ ingenua; ma è la ragazza più dolce e materna che conosca. Era sempre lei a coccolarmi, da piccolo, quando ero triste.
E spesso lo fa ancora adesso.
 
Lo sguardo mi cade su un’altra delle danzatrici.
Probabilmente quella che balla peggio – infatti si tiene un po’ in disparte.
Karima. La mia sorellastra più piccola. Sta sbagliando tutti i passi.
 
Non le piace ballare. Per la verità, non le piace neanche essere una donna.
Ha solo quindici anni, ma il suo carattere ribelle la rende già una spina nel fianco per i miei genitori. E per il villaggio.
Fisicamente mi assomiglia. Ha i miei stessi occhi neri, e il mio stesso naso a patata. Ereditati da nostro padre, Mohamed.
Fatma invece è totalmente diversa da me. Lei assomiglia a Sondes – mia madre putativa, e sua madre naturale.
Anche Karima è figlia di Sondes – ma la somiglianza con nostro padre è di troppo superiore, per poter accorgersene.
 
Io non assomiglio alla mia vera madre. Non ho preso nulla, da lei.
Purtroppo, devo dire.
Non ho mai conosciuto Aida. Ma ho potuto vederla in alcune foto. E constatare quanto fosse straordinariamente bello il suo sorriso.
 
Avrei tanto voluto conoscerla.
Avrei tanto voluto che quel meraviglioso sorriso fosse rivolto a me.
 
Karima non mi parla da tre giorni.
E non mi rivolge lo sguardo neanche adesso – nonostante io la stia fissando insistentemente mentre danza (o meglio, mentre tenta di danzare).
 
Ce l’ha con me.
Non so per quale bislacco motivo, ma ce l’ha con me.
Devo averla offesa in qualche modo – magari senza accorgermene, o senza volerlo.
 
Le parlerò sicuramente. Prima che venga domani.
 

 
Le fanciulle chiudono – finalmente – la loro danza, sorridendo al “pubblico” e chinando il capo in segno di rispetto.
Applaudisco, mentre Fatma mi sorride dolcemente.
 
Karima non si è inchinata. Sa che gli applausi non sono di certo rivolti a lei.
 
Mi alzo in piedi, gettando la buccia d’arancia dentro un sacchetto, messo appositamente per la spazzatura. Mi pulisco le mani con un tovagliolo.
 
Mia madre mi raggiunge. Le rivolgo uno sguardo, mentre si dirige verso di me.
 
E’ in compagnia.
 
“Chadi, tesoro!” mi chiama, sorridente.
Le sorrido a mia volta, volgendomi verso di lei. O meglio, verso di loro.
Vicino a lei c’è una ragazza sulla ventina, dai lunghi capelli neri e dall’aria piuttosto timida. E dal sorriso apparentemente innocente.
 
“Tesoro, ti è piaciuta la danza?”
La domanda di mia madre arriva così, di botto, mentre getto anche il tovagliolo dentro il sacchetto.
Ridacchio.
Non perde tempo.
“Emozionante.” Commento, semplicemente. Mi sono accorto adesso di aver utilizzato l’unico aggettivo che non si addice ad uno spettacolo del genere.
Sondes lo prende comunque con un complimento, e sorride soddisfatta.
Pone uno dei suoi bracci carnosi intorno alle spalle della ventenne vicino a lei. Che – piccola parentesi senza alcuna utilità – non ho mai visto in vita mia.
Non era neanche fra le danzatrici.
Eppure mia madre sembra quasi conoscerla da tempo.
“Caro, vorrei farti conoscere una persona. Si chiama Yasmina, è la figlia maggiore del signor Samir Houda … sai, quello che possiede la catena di ristoranti africani in città.”
“Oh, ho capito chi è.” Affermo, lanciando uno sguardo alla ragazza.
Lei mi ricambia, sorridendo. Sembra emozionata.
“Sono onorata di fare la sua conoscenza, Chadi. Davvero, è un onore talmente grande, che non si può spiegare a parole.”
Iiiiiiih! E questa frase da dove se l’è presa, da una soap opera?
La cosa più straziante, è che, da come l’ha pronunciata, mi dà anche l’impressione di essersela preparata in precedenza. Come le battute di uno spettacolo teatrale.
Trattengo una risata sommessa. Chino appena il capo, per rispetto ed educazione.
“Sono io ad essere incantato, Yasmina.” Cerco di formulare una frase decente.
La ragazza mi sorride ancora.
Perché ho l’impressione di piacerle?
“Vedo che riuscite ad andare d’accordo!” afferma mia madre. Sta facendo tutto lei. “Yasmina è anche in età da marito. Magari un giorno …”
“Mamma.” La interrompo, fulminandola. La ragazza non sembra per nulla infastidita – anzi. Il contrario.
“Va bene, va bene, non devo correre troppo!” si arrende Sondes, ridacchiando. “Però fatevela, una chiacchierata!”
Sospiro, portandomi una mano alla testa.
 
Un’altra pretendente.
Avrei dovuto aspettarmelo. Da quando ho terminato il mio corso di studi all’università (e soprattutto, da quando ho comunicato la mia intenzione di andarmene),  mia madre non ha fatto altro che presentarmi ragazze. Una dietro l’altra.
 
Oh, no, non mi sono spruzzato feromoni sui vestiti – ma ho addosso qualcosa di molto più attraente.
 
Una laurea.
Una laurea significa lavoro. E un lavoro significa soldi.
 
Ehi. Non immaginatevi chissà quale grandioso stipendio.
Ma il punto è che qui, non sono a caccia del meglio. Ma del meno peggio.
Una laurea – e quindi un lavoro sicuro, è già una bella garanzia. E ai padri di famiglia, questo interessa parecchio. Di certo non darebbero mai le loro figlie in moglie a dei disoccupati.
 
Yasmina è ancora di fronte a me. Mi guarda con un sorriso più malizioso – adesso che mia madre si è allontanata.
Inarco un sopracciglio.
“Perdona la scortesia. Ma devo proprio allontanarmi. Sai, oggi è il mio giorno; c’è parecchia gente, che vuole rivolgermi la parola.”
Le parole mi escono giusto un po’ più acide di quanto avevo programmato.
Yasmina mi guarda male.
“E la nostra chiacchierata?” mi domanda, stizzita.
Abbasso lo sguardo. Incurvo le labbra in un sorriso sornione.
“Sono spiacente, davvero. Ma io do la priorità ad altri.”
 
Non faccio in tempo a osservare l’espressione infastidita della ragazza, che mi sono già allontanato.
 
Probabilmente la bella Yasmina si è offesa. Magari racconterà tutto a babbo Samir.
Magari non vorrà più cercarmi. Né essere mia pretendente.
Benissimo. Volevo proprio levarmela di torno.
 
Mi piazzo alle spalle di Sondes.
Adesso mi sente.
Mammina …?” la chiamo, picchiettando col dito sulla sua spalla. Lei si gira di scatto.
Sta masticando qualcosa – datteri, probabilmente. Ne ha una ciotolina in mano.
Ingoia il boccone, prima di rivolgermi la parola.
“Ma … Chadi! Già finito?”
“Era un’altra pretendente, vero?” domando, incrociando le braccia al petto.
Sondes sorride, un po’ imbarazzata. Poggia sul tavolo la ciotola.
“Tesoro … a me piacerebbe vederti sistemato, lo sai. E poi, è una così bella ragazza …”
“Niente da dire al riguardo, ma non è questo il punto.” Preciso, sicuro.
Sospiro. “Ti ho già detto più volte che non ho intenzione di sposarmi, per ora. Ma parlo coi muri o cosa?”
“Suvvia, caro, non ti arrabbiare.” Mi prega, carezzandomi la guancia affettuosamente. La lascio fare. “Mi sarebbe … soltanto piaciuto che mi avessi dato dei nipotini, prima di partire …”
“Ma certo, ci credo.” Sorrido, con finta aria di rimprovero. “Dei nipotini che, in qualche modo, mi tenessero incollato a Tunisi. Mh?”
Mia madre ridacchia. Sa, che sto dicendo la verità. Lo ammette.
Ridacchio anch’io.
Le prendo il viso fra le mani, e le stampo un bacio sulla guancia. Piccola manifestazione d’affetto.
Spesso ne sento il bisogno.
Sondes per me è come una madre vera. Lo è sempre stata.
Non posso essere arrabbiato con lei.
“Perché te ne devi andare?” mi domanda, con uno sguardo di supplica.
Le sorrido. Più dolce di come io sia solitamente.
“Non mi succederà niente. Stai tranquilla. Vado solo per … essere un medico.”
Mi sorride.
Un altro bacio sulla guancia. Da parte sua, stavolta.
La lascio fare. Poi arretra, risistemandomi gli occhiali sul naso, che minacciavano di cadere giù.
“Sai che tuo padre ha intenzione di far sposare Fatma, a breve?” mi domanda, cambiando discorso.
Annuisco.
“Sì, me l’aveva accennato. Con chi?”
Sta un po’ a riflettere. Poi risponde. “Avevamo pensato a Tarek Habib. Sì, per evitare matrimoni troppo distanti.”
Tarek?!
“Mamma, sinceramente, non sono d’accordo.” Affermo immediatamente, lanciando uno sguardo all’interessato. Sta proprio conversando con Fatma, in questo momento. “E’… troppo grande, per lei.”
“Ma questo non ha importanza, tesoro. L’amore non ha età.”
Storco il naso.
 
Mi prende in giro? Parliamo di matrimoni combinati, e ci mette in mezzo l’amore?
 
“Per altro, tua sorella è d’accordo.” Continua mia madre, sicura delle sue argomentazioni.
“Su questo non avevo dubbi.” Rispondo, sorridendo appena.
Fatma ha espresso da tempo il desiderio di sposarsi. E di avere figli.
Ma io sono un po’ preoccupato.
 
“Anche a Karima toccherà sposarsi, fra qualche anno.”
Oddio. E’ vero. Non riesco a pensarci.
 
Vi immaginereste Karima davanti ai fornelli con dei poppanti intorno?
 
“Se mai qualcuno troverà il coraggio di sposarla.” Commento, sghignazzando.
“Chadi!”
Sondes se la ride, insieme a me.
Passa qualche attimo. Poi Sondes si blocca.
Io continuo a ridacchiare. Da solo.
 
Mia madre mi fa un cenno con la testa.
Cenno di smetterla.
Mi blocco di colpo.
 
Mi volto.
 
Occacchio.
Ho Karima dietro.
 
Mi fissa, con occhi vitrei. Avanza appena di qualche passo, prima di rivolgere la parola a Sondes.
“Mamma, sono finiti i tramezzini, di là.” Annuncia, fredda. “Anziché discutere su quanti uomini potranno un giorno chiedere la mia mano, perché non ti attivi e vai a farne di altri?”
“Vedi di calmarti, Karima. Se vuoi i tramezzini, te li fai da sola.” Intervengo, inarcando un sopracciglio.
“No, no … non preoccupatevi ragazzi, faccio io.” Sondes cerca di mettere la buona. Si allontana, dirigendosi dentro casa.
Fulmino Karima, di fronte a me.
“Doveva per forza andarci lei?” sbotto. “Tu di certo hai più tempo libero.”
“E non ho intenzione di rinunciarci.” Risponde a tono, reggendo il mio sguardo.
Ma guarda te che scansafatiche. Non solo crea sempre problemi, ma non fa niente per riparare.
“Dovresti renderti più utile, a casa. Siamo in cinque, cavolo, non possono fare tutto Sondes e Fatma!”
“No, ti correggo; da domani, saremo in quattro.”
Già. Proprio così.
Inarco un sopracciglio. “La cosa ti dispiace?”
“Assolutamente. Anzi, spero che tu non torni proprio più.”
 
Stringo i pugni. E i denti.
Ma che accidenti ti ho fatto, io?” sbotto, scocciato. “Perché ce l’hai tanto con me?”
Perché?!” ripete, sgranando gli occhi. A voce più alta. “Tu adesso te ne vai. Ci lasci. Ci abbandoni.”
“Non starò via per sempre, Karima!”
“Non m’interessa per quanto starai via!” ribatte, scocciata. Qualche testa si gira a guardarci. “Tu puoi farlo! Tu puoi fare tutto! A te danno la possibilità!”
Mi blocco.
La guardo negli occhi, mentre la vedo in procinto di scoppiare in lacrime.
“Ed io, invece?”continua. “Io devo rimanere segregata in questo schifo di casa, a cucinare e a lavare i piatti. E quando sarò più grande, sarò costretta a sposarmi, e a partorire dodici figli di seguito per soddisfare i desideri del mio padrone. Perché di questo, si tratterà.”
“Se quando sarai più grande manterrai il carattere che hai adesso, non ci sarà il rischio che qualcuno ti prenda in moglie, questo è sicuro.”
 
Ehm. Potevo risparmiarmela, questa.
 
Sospiro.
 
La guardo negli occhi, cercando di mantenere la calma. Devo cercare di parlarle tranquillamente. Non risolvo niente, con l’orgoglio.
Lei mi fissa severa.
“Ascolta.” Esordisco, a voce bassa. Aspetto che quei pochi che si sono girati si voltino di nuovo. Non mi piace essere osservato mentre parlo con mia sorella.
“Anche tu avrai le tue occasioni. Le tue opportunità.” Continuo, lento. Sospiro. “Ma il fatto che queste non siano ancora arrivate, non ti autorizza ad invidiare l’erba del vicino, né tantomeno a godere del male degli altri!”
“Le mie occasioni non arriveranno mai.” Afferma, sorridendo cinica. “Io sono femmina. Tu sei maschio. Io non potrei mai andarmene, perché non mi è concesso.”
Ehi! Ma tutto questo vittimismo?!
“No, tu non potresti mai andartene perché, se lo facessi, al 99% delle probabilità non ritorneresti a casa!”
 
Ora basta. Sono esploso.
 
Mia sorella mi fissa con aria omicida. Ma nei suoi occhi, le lacrime minacciano di venir fuori da un momento all’altro.
 
Probabilmente sono stato troppo duro. Ma è già tanto che non le abbia tirato uno schiaffo, per tutto il male che mi ha augurato fino a ieri.
Il fatto che io non abbia mai alzato le mani sulle donne ha aiutato. Fino all’ultimo mi è rimasto qualche briciolo di coscienza e di buonsenso.
Quello che in Karima manca.
 
Si allontana a passo pesante. Probabilmente non avrà più voglia di parlarmi.
 
E di nuovo sento gli sguardi dei parenti tutti addosso.
Mi volto verso di loro.
E qualcuno si avvicina.
 
“Ehi, Chadi! Qualche problema?”
 
“Chadi, che è successo?”
 
“Cos’ha Karima? L’ha morsa la tarantola?”
 
“Perché tua sorella è arrabbiata?”
 
“Mi sembri nervoso! Che succede?”
 

 
Odio quando la gente non si fa i fatti propri.
 
Un sorriso di circostanza a ognuno di loro. Un sorriso molto forzato. Non sono mai stato bravo a nascondere i miei stati d’animo.
“Niente di importante, state sereni.” Rispondo,  semplicemente.
Mi volto dall’altra parte.
“Ora perdonatemi, ma devo allontanarmi per qualche minuto.”
 
Mi fissano incuriositi, mentre mi allontano a passo veloce.
Lo so, sembro strano, a volte.
 
Una cosa è certa: io non sono come nessuno di loro.
 

 

 
 
Mordo.
Mastico.
 
Mordicchio.
 
Purtroppo questo è un brutto vizio che non avrò mai né la voglia, né la possibilità di togliermi.
Mangiarmi le unghie è ormai diventato parte del mio essere – da parecchio tempo.
 
Lo faccio soprattutto quando sono nervoso. O quando mi metto a pensare.
Oppure quando mi metto a pensare e sono nervoso. Cioè, quando studio.
 
Sussulto appena, quando la lavatrice, sulla quale sono seduto, ricomincia a girare.
Vibra. Concilia il sonno.
In effetti di sonno ne ho parecchio – colpa di tutte le notti passate in bianco, su quei cacchio di libri.
Per colpa loro, ho imparato a non tenere più conto del tempo.
 
A proposito … da quanto tempo sono chiuso in questo bugigattolo? La festa è già finita?
 
“Ora perdonatemi, ma devo allontanarmi per qualche minuto.”
Heh. Bella questa.
 
Non ho neanche un orologio con me – solitamente lo tengo sempre nel polso sinistro. Oggi me ne sono dimenticato.
 
Mi stringo sulla ginocchia. Faccio roteare appena fra le mani un bastone, probabilmente appartenente ad una scopa, o a una radazza.
 
Se non voglio partecipare alla festa, dovrei almeno andare a dormire. Non mi farebbe male – domani devo alzarmi presto.
Partirò verso le undici e mezza. Mi converrà partire prestissimo, il volo durerà mezza giornata, per lo meno.
Per altro, fra Tunisi e Cuiabá ci sono cinque ore di differenza. Dormirò anche di meno.
 
Ma cacchio.
Chi riesce a dormire? Chi?
 
Da domani cambio vita. Da domani sono un’altra persona.
Non so se è solo una sensazione mia, o se è normale provarla. Quando si ha sonno, ma non si riesce a chiudere occhio.
Porto la testa al muro.
 
Domani esco.
 
Domani vado.
 
Non disturbatemi.


***

Nota dell'Autrice:

Salve a tutti, piccoli fiori di magnolia in primavera...

Sono Diffy, e questa è la prima volta che posto qui una mia storia. Se sono qui, tutto merito di quella graziosa grafomane di Chandrajak - che conosco bene e che mi ha convinta ad iscrivermi. Questo è il primo capitolo, e spero che vi piaccia. Vi chiedo di commentare in tanti, per me è importante ricevere consigli e suggerimenti per migliorare - sono un pò una principiante. ^^"

Spero di non annoiarvi, nè coi miei discorsi da caffè/ascensore, nè con il mio racconto.
Un saluto! See ya!

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Capitolo 2
*** 01. I'll miss her. ***


01. I'll miss her.


“Ehi! Sta’ un po’ attento!”

“Scusi!”

Sono in ritardo. In ritardo, in ritardo, in ritardo.
Il volo parte fra un quarto d’ora – e io ho appena fatto il check-in. Al Carthage, per giunta. L’aeroporto di Tunisi, il più trafficato di tutti.
Corro seguendo le indicazioni sui cartelli appesi. Mio padre e Karima mi corrono appresso, mettendomi fretta.
E io ho appena spintonato l’ultima persona che mi sono trovata fra i piedi, per passare.

“Pazzesco! Come accidenti hai fatto ad addormentarti sulla lavatrice?! E a dormire così tanto poi!”
La voce roca di mio padre mi arriva distintamente alle orecchie, mentre continuiamo a correre. Karima porta un borsone sulla schiena –il mio bagaglio a mano-, mentre io trascino la valigia più piccola. Quella con gli attrezzi da medico.

Ci serviva aiuto per portare tutto. E Mohamed ha avuto la brillante idea di ingaggiare Karima.
Che butta imprecazioni da quando siamo arrivati.

Raggiungiamo il metal detector. Spero che si sbrighino, questi qua.
Prima di lasciarmi andare, mio padre mi blocca.
“Aspetta un attimo.”mi ferma, sicuro. “Devo darti una cosa.”
Inarco un sopracciglio.

Cacchio, non adesso! Ho fretta!
Esce qualcosa dalla tasca. Un piccolo tubetto, con un simbolo ‘infiammabile’ grosso così.
Lo prendo fra le mani.
Lo osservo.
“E’ spray al peperoncino.” Afferma, sicuro di sé.
Lo guardo strano.
“Per fare che?” domando, perplesso.
“Per difenderti, genio.” Interviene Karima, scocciata. “Ma non era meglio un bel coltello lungo? O un revolver?”
“Li sequestrano al metal detector.” Le fa notare mio padre, paziente.

Porto il tubetto in tasca.
Sospiro.
E’ preoccupato per me. Si vede.
“Fai attenzione, figliolo.” Mi dice, mettendomi una mano sulla spalla. “Mi raccomando.”
“Mi rivedrete ancora vivo.” Lo rassicuro, abbracciandolo.

Mi stacco.
Lancio uno sguardo a Karima. Guarda dall’altra parte.
“Ciao.” Mi saluta semplicemente, con la freddezza di un ice-berg.
Mi mordo il labbro inferiore.

Avrei voluto salutarla diversamente, dato che non la vedrò più per molto tempo.
Sondes e Fatma, a casa, hanno pianto come fontane. C’è voluto mio padre, per farle smettere a modo suo.
Lei sembra quasi fregarsene.
“Buona fortuna.” Le auguro, con la stessa freddezza.

Non mi guarda.

Sospiro.

E mi allontano, una volta per tutte.
Verso il metal detector.





Sono al cancello.
Fuori la navetta aspetta tutti i passeggeri, per portarli alla pista aerea.
Esco fuori, godendo di quell’alito di vento che tira, in mezzo al caldo soffocante.
Mi metto in fila, per entrare nella navetta.

“Chadi!”

Una voce femminile, giovane, mi giunge alle orecchie come un soffio di vento.
Mi volto indietro.
E resto a bocca aperta.

Karima.
Sta sorpassando tutti i passeggeri messi in fila, per raggiungermi.

Ma che diavolo …!
Che succede? E’ successo qualcosa?

“Chadi!” mi chiama di nuovo, raggiungendomi.
“Karima! Ma che …!”

Stop.
Il tempo si ferma, il mondo sembra bloccarsi di colpo.

Mi abbraccia.

“Non te ne andare.” Mi supplica.
Ha la voce tremante. Le sue lacrime bagnano la camicia scura che indosso.

Mi sta abbracciando.
Le sue braccia incollate a me. Il viso nascosto sul mio petto.
La sento singhiozzare.

Qualcuno della sicurezza, dietro, protesta. Dev’essere passata a forza attraverso il metal detector per raggiungermi – conoscendola.
La guardo.
Mi stringe forte. Come non aveva mai fatto prima.

Non mi sento più le gambe, per lo stupore.
La gente che era messa in fila ci sorpassa, infastidita, entrando nella navetta.
Io non li seguo. Non ora.
“Karima.” Sussurro. Semplicemente.
Singhiozza ancora. La stringo forte a me. Le bacio la testa.
“Ti prego.” Biascico. “Non fare così.”

Non sta recitando.
Lo capisco, quando Karima recita. Non sa fingere.
Neanch’io so fingere – nessuno in famiglia è bravo a farlo.

Alza lo sguardo su di me.
Ha gli occhi gonfi. E colmi di lacrime, che scendono giù rapidamente.
“Io non voglio che tu vada via.” Mi dice, a voce bassa.

Certo.
Quanto sono stato stupido. Ed infantile.
“Tornerò presto.” La rassicuro, anche se poco convinto. Strizzo gli occhi, per evitare di piangere a mia volta. Per lo meno, non davanti a lei. “Tu pensa solo ad avere cura di te. E a non fare stupidaggini. Altrimenti papà …”
“… deve raccogliermi col cucchiaino. Lo so.” Completa la mia frase.

Sorrido.
La stringo di nuovo.

“Ehi! Si sbrighi! Non posso stare qui tutto il giorno!” brontola l’autista della navetta. Lo capisco, che è rivolto a me, anche se in questo momento gli do le spalle. E’ ovvio. “Saluti la sua fidanzata e si muova!”

Scoppio inevitabilmente a ridere. E Karima con me.
“Non sarei la tua fidanzata neanche se mi mettessero sotto tortura.” Mi confessa mia sorella, facendomi ridere ancora di più.
Ecco la solita Karima.
Quasi mi mancava. Un attimo di sarcasmo, in un momento triste.
“Neanch’io.” Rispondo, tenendola ancora stretta.

Ci separiamo a forza.

Ha gli occhi ancora lucidi. E gonfi di pianto.
“Addio …” mi dice Karima, mentre le lacrime minacciano ancora di venir giù.
Scuoto il capo.
“No.” La correggo. “Arrivederci.”

Mi sorride.
Indietreggio.
Mi dirigo verso la navetta, camminando all’indietro come i gamberi.
Salgo su, forzatamente.

L’autista non perde tempo. Chiude le bussole, e parte, diretto verso il nostro aereo.

Guardo dal finestrino.

E mia sorella e ancora lì, a seguirci con lo sguardo. La sua figura, man mano che la navetta avanza, va diventando sempre più piccola, fino a scomparire del tutto, alla mia vista.

Lascio che alcune lacrime cadano giù. Dopo averle trattenute per tutta una mattina. Mi tolgo gli occhiali, per asciugarmi gli occhi umidi.
Mi mancherà. Mi mancherà Karima. Più di tutti.

___________________________________________________________________________________________

Cammino lentamente, ancora per strada.

Lo stradario di Cuiabá nella mano destra, mentre con la sinistra trascino il trolley e la valigetta degli attrezzi. Sulle spalle porto il borsone.
Sembro un beduino. Mi mancano solo il turbante e un cammello che mi sbava addosso.

Qui a Cuiabá, in questo momento, sono le otto e un quarto di sera.
Quando sono arrivato al Marechal Rondon, l’aeroporto di Cuiabá, erano le sei e mezza del pomeriggio. Ho viaggiato circa dodici ore – in questo istante, a Tunisi saranno … hmm … l’una e mezza del mattino, all’incirca. Credo.

Sono quasi due ore che giro a vuoto – non riesco a raccapezzarmi. Non si capisce niente, in questo stradario – queste stradine minuscole.
Sbuffo.
Per ora credo di essere in periferia, vicino al bosco. So solo questo.

Mah … forse se vado di qua …
Uhm, no, meglio se vado dall’altra parte.

Santo cielo, che confusione.

Sono sempre stato una frana, ad orientarmi. Karima è molto più brava di me.
Ognuno ha le sue qualità. Il mio senso dell’orientamento non è tra i migliori.

Provo ad imboccare una stradina stretta – che teoricamente dovrebbe portarmi alla stazione di polizia. Lì magari mi daranno qualche dritta.

Ma chi lo parla, lo spagnolo?!

Posso parlargli in francese, se a loro va bene. O in inglese.
Ma no, non in spagnolo. Assolutamente.

...

Sussulto.

Lo stradario e la valigetta mi cadono dalle mani.

Mi immobilizzo di colpo – una fitta alla spalla mi costringe a fermarmi. E a emettere un suono strano – un rantolo, probabilmente.
Stringo i denti. Mi porto una mano dietro la schiena.

Tocco qualcosa. Qualcosa di sottile, piumato come un volano di badminton – e appuntito.
Lo afferro. Prendo un respiro, e lo tiro dalla spalla con un colpo secco. Emetto un gemito rauco.
Porto la mano davanti agli occhi. E osservo attentamente ciò che sto stringendo.

Un dardo.
Di quelli soporiferi. Che servono a stordire.
La punta è appena sporca di sangue – segno che la sostanza che c’è stata messa, qualunque essa sia, è entrata in circolo.

Sgrano gli occhi. Mi guardo freneticamente intorno.
Eppure non c’è nessuno nei paraggi. Da dove cavolo viene?!



Non ho il tempo di riflettere.

Un colpo ben calibrato, alla schiena. Come il calcio di un mulo.
Piombo a terra, sbattendo il mento. Gli occhiali mi volano via.
Stringo i denti, il sapore metallico del sangue sotto la lingua. Con la mano destra, immediatamente, cerco gli occhiali.

Non vedo niente. Non vedo niente, senza.

Non li trovo, devono essere atterrati lontano.
Come se non bastasse, mi sento confuso. La sostanza sta cominciando a fare effetto.

Spero solo che sia sonnifero. E non qualcosa di peggio.
Una voce maschile spezza il silenzio. A me sconosciuta.
“Esto es el médico que Ulises ha llamado para su caballería. Tenemos que ocultarlo.”
Oddio, no. Non lo capisco, lo spagnolo …!
Mi sento così spossato. Anche se fosse tunisino, inglese o qualunque altra lingua, sento che non lo capirei lo stesso.

Provo a rialzarmi. Qualcuno mi blocca, tenendomi giù.
Istintivamente, la mia mano va a cercare, in tasca, il tubetto di spray al peperoncino.

Lo trovo. Lo stringo in mano.
Approfitto di un attimo di distrazione dello sconosciuto. Rotolo sul posto, girandomi a pancia all’aria.

Ho la vista offuscata. Ma la sagoma, di fronte a me, è ancora visibile.
Spruzzo. Un urlo rauco, simile ad un ringhio, mi indica che l’ho preso in pieno.

Provo di nuovo a rimettermi in piedi. Un’altra presenza mi tiene per le spalle, facendomi restare seduto.

Mi arriva un ceffone in pieno viso. Rantolo, barcollando col busto.

“No te levantes. O te mato.”

Ancora non capisco. Ma il tono minaccioso mi avverte che sono tipi pericolosi.
Mi tolgono il tubetto dalle mani. Le loro voci sembrano allontanarsi sempre di più.

E’ finita.



Un rumore sordo mi giunge alle orecchie.
Come il rombo di un motore – o di un’auto molto pesante.

Un urlo.
Diverso dagli altri – più lontano. E femminile.

“Son los terroristas, Rafaèl! Están atacando al médico! Tenemos que detenerlos!”

Le figure davanti a me sembrano essersi distratti. Li sento alzarsi in piedi, e dirigersi da un’altra parte.

La stessa voce roca e maschile di prima farsi più cupa e più furiosa.

“La guerrilla de Ulises! Dispara!!”

Spari.
Strizzo gli occhi.
Giurerei su mia madre che c’è una battaglia in corso – fra due gruppi di persone. Di gente che non conosco.
Proprio ora. In questo istante.

Io sono in mezzo. A terra, mezzo cieco –non ho ancora trovato gli occhiali-, e spossato.

Era sonnifero … o droga di qualche genere. Ne sono sicuro …

“Inténtelo de nuevo, y te rompo el culo!”

Una voce maschile. Molto arrabbiata.
Non è come quelle che ho sentito prima – credo che sia dall’altra parte.

Rumori di macchine. Altri spari.

E poi il silenzio.

Porto il busto all’indietro, mentre le sagome pian piano vanno diventando solo macchie scolorite.
Vedo solo una figura.
Si piazza davanti a me. Non ne distinguo i tratti – soltanto una grande massa nera con lei.

Devono essere capelli.

“Rafa! Miguel! Ayúdame con esto!”

La stessa voce femminile di prima.

Non ho più la forza di riflettere – porto la testa all’indietro, chiudendo gli occhi.

E poi il nulla.

-




Rafaèl Luz è un OC appartenente a Chandrajak, che mi ha concesso di farne uso in questa originale. Grazie ancora!

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