Storia del numero seicentodiciannove e del sogno che diventò realtà. di ballerinaclassica (/viewuser.php?uid=40547)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [619] La sbarra, una realtà scandita in tendus. ***
Capitolo 2: *** [192] Eppure rimase coi piedi per terra, il Lago dei Cigni. ***
Capitolo 3: *** [206] Era come scalare una montagna, Paquita. ***
Capitolo 4: *** [231] A lei bastava soltanto ballare, Giselle. ***
Capitolo 5: *** [288] Più semplice di così, la Bayadére. ***
Capitolo 6: *** [291] I fatti parlano da sé, La Fille Mal Gardée. ***
Capitolo 1 *** [619] La sbarra, una realtà scandita in tendus. ***
L'odore
delle tavole di legno, il rumore delle scarpette da punta nuove o di
quelle vagamente consumate, respiri affannati, lamenti, salti, giri,
passi ovattati. Arthur aprì gli occhi soltanto in quel
momento, come
per accertarsi che tutto ciò che stesse vivendo fosse reale,
come
per accertarsi che lui fosse veramente lì, dietro le quinte
di un
teatro parigino, accovacciato sul pavimento con le ginocchia stese e
le punte dei piedi rivolte al pavimento.
Un tutù, un degas,
scaldamuscoli, calzamaglie. A pochi metri da lui e tutto intorno a
lui, c'era il mondo in cui aveva sempre sognato di vivere. Tra i
ragazzi che condividevano la sua stessa passione, che lottavano per
realizzare quel sogno e che piangevano per la paura che restasse
tale.
Arthur non lo sapeva nemmeno come ci era arrivato lì, lui,
che aveva sempre visto anche i ballerini di quinta fila del Royal
Ballet come esseri perfetti ed irraggiungibili. La spiegazione ai
suoi dubbi arrivò in un minuto, quando nella sua mente prese
vita il
ricordo del suo fratellino che gli sventolava una busta (adesso
orribilmente macchiata di gelato alla fragola) sotto il naso. Arthur
aveva sollevato un sopracciglio, aveva guardato sua madre e l'aveva
aperta.
Ci aveva impiegato qualche minuto a capire di che cosa si
trattasse. O meglio, l'aveva capito, ma aveva stentato a
crederci.
«Ho
passato le selezioni.»
Uno
sguardo severo da parte di suo padre, un urlo di gioia da parte di
sua madre e qualche battuta sarcastica che riguardava un bel corpetto
rosa ed una gonnellina da parte di Peter. E poi aveva realmente
compreso.
Il concorso sarebbe durato due settimane, su circa
settecentocinquanta ballerini provenienti da tutto il mondo, soltanto
quindici erano sopravvissuti. Arthur aveva cercato di inquadrare i
suoi “avversari” abbastanza velocemente, e il
risultato lo aveva
leggermente spaventato.
I russi, era ben noto, erano famosi per
una tecnica perfetta e un portamento invidiabile. Sapere che uno di
loro era lì, variazione fissa nella mente e nel corpo, lo
spaventava
un pochino. Anche i francesi non erano male, con la loro eleganza e
la leggerezza. Arthur li detestava per partito preso e il sentimento,
di conseguenza, ricadeva in maniera inevitabile sul ragazzo biondo e
sui cinque giri più che perfetti che stava provando in quel
preciso
istante. L'Italia era la terra della passione, un luogo caldo,
solare, vivace, non a caso i numeri centonovantadue e
trecentoquindici erano a pochi metri da lui sembravano piuttosto a
loro agio in quell'ambiente (o almeno, uno di loro sembrava a suo
agio). Accanto a lui invece c'era Antonio, l'unica persona che
conosceva lì dentro, giusto perché ci aveva
litigato e fatto pace
circa tre volte da quella mattina. Lui era spagnolo, fisico scolpito,
sorriso stampato in faccia, l'emblema del ballerino sensuale, di un
corpo caldo e di un movimento fluido e suadente. Arthur era riuscito
a notare anche chi era totalmente l'opposta, lo aveva definito
“l'anti danza”, tutto ciò che lui non
avrebbe mai voluto essere.
Un ragazzo rumoroso, alto, che da quando era arrivato non aveva fatto
altro che ridere. Aveva un accento strascicato, consonanti molto
marcate e non faceva altro che sbattere la mano su un ragazzo serio,
silenzioso e minuto.
«Quel tipo», disse Antonio, accennando con
la testa a suddetto ragazzo, «è giapponese, dicono
che sia
bravissimo.»
Arthur sollevò un sopracciglio e lo guardò.
«Dimmi
il nome di un ballerino orientale che sia diventato
qualcuno.»
Antonio sbuffò e continuò a riscaldarsi, a tirare
i
talloni e a poggiare la testa sulle ginocchia. Arthur
continuò ad
osservare gli altri ragazzi.
Uno dei due italiani aveva
cominciato a parlare a raffica con qualcuno; una specie di armadio
biondo, davanti a lui, non faceva altro che annuire e aprire la bocca
per rispondere qualcosa, almeno una sillaba, ma ogni tentativo veniva
prontamente bloccato da un'altra frase da parte dell'altro. Suo
malgrado, Arthur sorrise e lo sguardo si spostò sulle
ragazze.
Non
sembrava esserci astio tra di loro, non a primo impatto e non per
ora, almeno. Ma Arthur era più che certo che, passate due
ore, non
avrebbero fatto altro che sputarsi addosso veleno e tirarsi i capelli
a vicenda. La più piccola sembrava realmente fidarsi di
loro, però,
racchiusa nel suo body color panna e con un sorriso dipinto sul
volto. Aveva i capelli biondi, quasi bianchi, occhi enormi, un fisico
sottile e un'espressione a volte impaurita, di chi probabilmente non
si aspettava minimamente di passare le selezioni dei quindici e dei
sedici anni. Accanto a lei, a mostrare un'apertura fantastica ed una
spaccata perfetta, un'altra ragazza, più grande e alta,
occhi verdi
e fissi su un ballerino che sembrava albino.
«Non ci posso
credere, Gilbert ne ha già conquistata una!»
«Eh?»
«Ah,
dimenticavo che tu sei inglese. Non puoi capire questi ragionamenti
sottili.»
Con le sopracciglia aggrottate ed un'espressione
perplessa, Arthur tornò al suo stratching.
Qualche ora dopo
Arthur era venuto a conoscenza del fatto che mancavano ancora tre
partecipanti all'appello: un ragazzo proveniente dalla Cina, un
canadese timido, impacciato e talmente tanto silenzioso da sembrare
invisibile, una ragazza bielorussa e il suo perfetto collo del piede,
una specie di Zakharova nascente.
La cosa più traumatica di
quella giornata, ad ogni modo, non era stato scoprire che nessuno
provenisse dalla sua bella Inghilterra (Arthur aveva voluto illudersi
di potersi fare un amico), quanto venire a sapere che avrebbe passato
otto ore al giorno con gente sconosciuta, di nazionalità
diversa
dalla sua. E per di più questa gente sarebbe stata stanca,
nervosa e
sudata.
Arthur appoggiò la mano sinistra alla sbarra, rivolgendo
un'occhiataccia al ragazzone davanti a lui, talmente grosso da
impedirgli di vedere che razza di esercizio stesse spiegando una
donna con un caschetto biondo. E adesso che Arthur ci faceva caso,
notava (con tanto di smorfia scocciata) che si trattava
dell'americano.
Tentò di ignorarlo e di concentrare la mente
sulla sequenza di tendus, con tanto di piroetta dalla quinta per le
donne e dalla quarta per gli uomini, ma niente. Lui restava
lì e si
voltava a fissarlo.
«Scusa, non è che posso mettermi dietro di
te e copiare quello che fai tu?»
Arthur fissò per un attimo la
sua perfetta faccia da schiaffi ed annuì, chiudendo la bocca
per
evitare che qualche commento acido uscisse incontrollato (e
semi-involontario) dalle sue labbra.
«Certo», rispose a denti
stretti.
Arthur si affrettò a cambiare posto con lui, trovandosi
così nascosto soltanto dal corpo minuto di una ragazza.
Tanto
meglio, almeno avrebbe avuto una visuale decente di quello che
accadeva nella sala e non avrebbe dovuto farsi venire il torcicollo a
furia di cercare di capire qualcosa spiando negli specchi
lucidi.
«Comunque io sono Alfred, piacere!»,
sentì mormorare al
suo orecchio, con tanto di voce acuta e risatina finale.
Borbottò
un velocissimo “Arthur” e tagliò corto.
Il livello era alto,
non c'erano dubbi. Dall'inizio della lezione non aveva sentito una
sola domanda insicura, né visto una piroetta finire male, le
ginocchia erano tutte stese, così tanto da sembrare
incrinate nel
senso contrario, le espressioni erano rilassate, le braccia morbide
nonostante la forza nascosta che ogni ballerino nascondeva in ogni
minima parte del corpo. Arthur non era il tipo da autocommiserarsi o
da piangersi addosso, ma per un attimo aveva temuto tutti loro.
Nella
sua scuola, una piccola Accademia, ma pur sempre di tutto rispetto,
che si trovava in provincia di Liverpool, Arthur era stato abituato
ai complimenti, agli innumerevoli “guardate come lo fa
Arthur”,
“Arthur, fa' vedere loro un grand jeté”,
“Arthur ha dei piedi
perfetti”, “Arthur è nato per fare il
ballerino”. Adesso lui
non era nemmeno “Arthur”, adesso lui era solo e
soltanto il
numero-- Arthur abbassò il mento, quando si rese conto di
averlo
dimenticato. Oh, sì, adesso lui era solo e soltanto il
numero
seicentodiciannove, come diceva il foglio appiccicato al suo petto,
in mezzo ad altri quindici numeri che probabilmente erano stati
abituati (proprio come lui) a sentire decine e decine di lodi al
giorno.
Arthur si sedette sul pavimento, prima di uscire e
andare verso l'albergo nel quale alloggiavano i partecipanti. Aveva
bisogno di un minuto che gli permettesse di mettere a posto le idee,
aveva bisogno di massaggiarsi le tempie e di far passare almeno in
parte quel mal di testa che lo opprimeva da almeno un paio
d'ore.
«Tutto bene?»
Alzò la testa di scatto e vide che il
ragazzo francese era in piedi di fronte a lui, con un asciugamano
sulle spalle e i capelli raccolti in una coda alta.
«Sì,
grazie.»
Chiuse gli occhi e la mente tornò verso casa, verso la
sua Inghilterra. L'unico legame che aveva adesso con tutto
ciò che
si era lasciato alle spalle, erano le telefonate continue di sua
madre e quelle dei suoi insegnanti. Di suo padre nemmeno l'ombra, ma
doveva aspettarlo, visto quanto era scettico riguardo il suo sogno di
diventare un ballerino.
«Mh, sembri stanco.»
Arthur sussultò.
Non si aspettava che il francese fosse ancora lì, mentre lui
se ne
stava zitto a pensare e a ipotizzare che cosa accadesse oltre la
Manica.
«Chiunque sarebbe stanco, ora», gli disse.
E si
maledisse mentalmente, per aver dato corda ad un individuo di razza
francese, e di conseguenza incompatibile con lui.
«Hai ragione.
Più che stanco, io mi sento... Spaesato. Come se fossi
l'unico qui a
non sapere che cosa fare e da dove cominciare.»
Arthur sollevò
un sopracciglio e il suo stupore fu dovuto a due motivi fondamentali.
Il primo coincideva con la strana scena di due sconosciuti che si
parlano per la prima volta e che discutono di qualcosa di abbastanza
intimo e personale. Il secondo non era altro che lo shock che era
derivato dal fatto che un tizio che non aveva nemmeno mai visto prima
provasse le sue stesse sensazioni.
«Immagino che tu non te la
cavi meglio, no? Sei anche in terra straniera, io per lo meno sono
francese, ma di Lione.»
Arthur si limitò ad una scrollatina di
spalle e ad una diplomatica stretta di
mano.
«Francis.»
«Arthur.»
Francis gli sorrise, ad
Arthur quella bocca sembro meschina. Non che Francis potesse essere
uno di quei tipi che sussurravano all'orecchio un gentile “in
bocca
al lupo” e che poi di auguravano di cadere e di romperti una
caviglia o... Un ginocchio. O comunque di farti abbastanza male da
doverti ritirare dal concorso a tutti i costi, no. Il sorriso di
Francis sembrava più che altro un “ti tengo
d'occhio”, o almeno
Arthur lo interpretò come tale.
«Arthur!»
Mentre Francis
apriva la bocca per dire qualcosa, Alfred arrivò urlando e
agitando
le braccia. Stringeva la maglietta sudata in una mano e portava degli
occhiali che prima, durante gli esercizi, lui non aveva visto.
Probabilmente era miope e non riusciva a vedere ciò che la
donna gli
stava spiegando, ecco perché aveva deciso di prendere posto
dietro
di lui.
Francis gli rivolse un'occhiataccia e si alzò,
continuando a fissarlo con tanto di sopracciglio sollevato ed aria
scettica.
«E tu saresti...?»
«Alfred!», strillò, «Io
sarei Alfred!»
Arthur ridacchiò divertito da quella scena e si
alzò in piedi, recuperando la tracolla e la sua bottiglia
d'acqua
(sfortunatamente vuota).
«Ah, Alfred.»
Alfred lo ignorò
totalmente e si rivolse di nuovo ad Arthur, scuotendolo per una
spalla.
«Ehi, Arthur, ti va di andare insieme in albergo? Io non
ricordo la strada, perché sulla mia cartina degli Stati
Uniti non
c'è!»
Mentre si chiedeva per quale assurdo motivo un albergo
situato nel pieno centro di Parigi dovesse apparire anche sulla
cartina degli Stati Uniti, Alfred gli afferrò il polso e
annuì con
energia, quasi convinto che Arthur si stesse apprestando a dargli il
via libera e una risposta positiva.
«Frena, Superman, con Arthur
ci stavo parlando io.»
Francis appoggiò una mano sul petto di
Alfred e lo costrinse ad indietreggiare di un passo, mentre si poneva
tra lui e Arthur. E Arthur, con tutta la nonchalance di cui era
capace, sparì dietro la porta dei camerini.
«Non mi hai
nemmeno aspettato per cenare, sei veramente antipatico.»
Arthur
sollevò il viso dal suo piatto di riso scondito e
guardò Alfred.
Era completamente diverso da quando lo aveva visto quel pomeriggio a
lezione. Adesso era trasandato, coi jeans larghi e una maglietta
più
lunga del normale, scarpe da tennis della portata di carri armati e
orlo dei boxer sovrapposto ad un lembo di T shirt.
«Non vedo il
motivo per cui avrei dovuto aspettarti.»
Si era anche seduto in
un tavolo appartato, lontano dagli occhi degli altri ballerini e con
la speranza di sfuggire a battute, commenti pungenti, ma soprattutto
con la speranza di sfuggire ad Alfred e Francis. Era lì per
concentrarsi, ballare, concentrarsi e ballare ancora. Doveva fare del
suo meglio e portare uno dei premi a casa, piuttosto che sentirsi
ripetere da suo padre che ancora una volta aveva dimostrato di aver
sprecato soldi in maniera inutile.
«Ti avevo anche chiesto di
tornare insieme e tu invece sei scappato.»
«Non sono scappato,
ho semplicemente preferito una doccia al vostro blaterare. Odio
perdere tempo.»
Arthur guardò di sfuggita il piatto di Alfred,
dopo di che tornò a concentrarsi sul suo. Tempo un paio di
secondi e
tornò, con tanto di occhi sbarrati e di espressione
sconvolta, sulla
cena americana.
«Mi spieghi perché diamine hai preso tutta
quella roba?!»
Alfred sembrava stupito, probabilmente per lui la
reazione di Arthur era del tutto inaspettata.
«Perché ho fame»,
gli rispose con ovvietà.
Cercando le parole giuste per fargli
capire che non era umano mangiare così tanto, che
“avere fame”
non significava sentire il bisogno di riempirsi lo stomaco con
tonnellate di schifezze e che avrebbe dovuto lasciare oltre la
metà
di tutta la roba che aveva preso se voleva evitare di fare un buco
nel palco, Arthur scosse la testa e continuò a fissarlo.
«Alfred,
credo che tu abbia dimenticato che domani dobbiamo ballare. Che siamo
ad un concorso e che il giudizio sul fisico è uno dei
criteri più
influenti di tutti.»
«Io mangio sempre così tanto, ma il mio
fisico è sempre lo stesso.»
«Bene, vi presento Antonio e
Gilbert!»
Arthur ed Alfred sussultarono e smisero di guardarsi,
sollevando invece gli occhi su Francis che era appena arrivato
lì,
assieme ad altri due ragazzi.
Arthur naturalmente conosceva già
Antonio e aveva visto Gilbert. Alfred porse la mano a entrambi e si
presentò.
Nonostante i suoi buoni propositi di cenare da solo, di
rilassarsi da solo, di decidere da solo quando andare a dormire e di
andare a dormire da solo, Arthur si ritrovò costretto a
parlare non
con uno, ma con ben cinque sconosciuti, stranieri ed anche piuttosto
bizzarri.
Aveva scoperto che Gilbert era tedesco e che sia lui
che suo fratello erano riusciti a passare. A casa era stata una
sorpresa per tutti, Gilbert aveva tutte le doti degne di un ballerino
come si deve, ma non ci aveva mai messo troppo impegno, preferiva
vivere di rendita e accontentarsi di quello che le sue gambe perfette
gli consentivano di fare con il minimo sforzo. Antonio invece ci
aveva sempre messo la massima dedizione, ma preferiva il flamenco
alla danza classica. Gli permetteva di trasmettere con i suoi
movimenti tutta la passione che sentiva dentro, la danza classica
invece, con tutte le sue regole e la rigidità, tarpava le
ali ai
suoi sentimenti. Francis invece doveva essere uno piuttosto bravo,
proveniva da un'Accademia abbastanza prestigiosa della Francia ed
aveva avuto un diploma già a quindici anni. Francis aveva
già
esperienza in quel genere di concorsi, ma nemmeno lui aveva mai
immaginato di arrivare ad un così alto livello in una
competizione
di portava internazionale. Alfred... Beh, Alfred era quello che lo
rassicurava. Proprio come lui era completamente estraneo a quel
mondo. Lontano da tutto e da tutti, aveva coltivato la sua passione
tra i confini del Wisconsin ed era arrivato lì quasi per
caso, dopo
un colloquio avuto con suo zio, che insegnava nell'Illinois.
«Io
sono di Liverpool. Non mi sono diplomato a quindici anni, non ho uno
zio che mi ha aiutato, non ho le doti che tutti sognano e nemmeno
troppo sentimento da comunicare. Mi piace ballare e non pensare a
nulla e se sono arrivato qui il merito è solo e soltanto
mio.»
Quella frase aveva destato parecchie occhiate stupide ed un
paio di sorrisi straniti. Alfred gli aveva battuto una poderosa pacca
sulla spalla, mandandolo quasi con la faccia dentro il piatto.
«Beh,
sono sicuro che farai del tuo meglio allora! Che variazione hai
portato?»
«La Sylphide.»
«Oh, quindi avremo l'onore di
vederti in gonnella!»
Se gli occhi di Arthur avessero potuto
incenerire, quasi sicuramente Francis adesso non sarebbe stato altro
che un mucchietto di polvere ammassato su una sedia, da soffiare via
e da dimenticare.
«Non è una gonna», borbottò,
«è un kilt.
C'è una bella differenza.»
Francis tralasciò il fatto che,
qualunque cosa fosse, Arthur sarebbe comunque stato costretto a
mostrare gambe, cosce e il sedere sodo fasciato da un bel paio di
mutande o boxer neri. E a lui interessava soltanto quello, gli altri
particolari, gonna o kilt, erano del tutto secondari.
«Dio, ma
l'avete visto quello?», disse all'improvviso Antonio,
indicando uno
dei due italiani seduti ad un tavolo piuttosto distante.
«Ti
piace? Io credo ci sia di meglio», e Francis, mentre lo
diceva,
fissava Arthur e sorrideva come un idiota. O come un maniaco.
«Nah,
non credo. Andiamo, ma hai visto che fisico? Ha un culo che-»
«A
proposito di culi», li interruppe Gilbert,
«guardate quella
lì.»
Lunghi capelli castani ed un fiore rosa, Gilbert stava
chiaramente fissando lei, che rideva assieme alle altre
ragazze.
«Insomma, la volete smettere di parlare di culi?!»,
Arthur cercò di non alzare la voce, ma era comunque
abbastanza
innervosito dal discorso.
«E perché dovremmo?», Francis invece
sembrava piuttosto coinvolto.
«Lascialo perdere, Francis, lui è
soltanto invidioso.»
Arthur si voltò verso Alfred, e lo squadrò
attentamente.
«E che cosa te lo fa pensare, di grazia?»
«Il
fatto che tu non abbia un bel culo. E non fare quella faccia. Fidati,
è così, l'ho guardato tutto il tempo proprio per
accertarmene.
Seriamente, Arthur, è troppo magro! Secondo me dovresti
mettere su
qualche chilo, dico sul serio!»
E mentre pronunciava quelle
parole oltraggiose, da una parte divertite e divertenti per tutti
gli altri ragazzi, Alfred versava nel piatto di Arthur una dosa
abbondante del cibo che aveva preso per sé. E naturalmente
rideva
come un matto, complice l'espressione sconvolta dell'inglese.
«Sei
un idiota! Sei un cretino! Ti meriti di scivolare! Ma che sto
dicendo?! Ti meriti di cadere giù dal palco! Sei un
deficiente! E
smettila di ridere! E voi che cosa diamine avete da guardare?!
Aiutatemi, aiutatemi che lo ammazzo! Stupido! Maiale!»
Ed erano
cominciati così, il suo meraviglioso giorno e il suo sogno
di
bambino.
E
dopo un lungo periodo di torpore, finalmente ho ripreso a scrivere.
Non odiatemi se non aggiorno le fic da così tanto tempo,
prometto di
farlo al più presto. Voi non me ne vogliate... Ma
è estate e quel
poco che scrivo lo faccio perché ne ho voglio in quel
momento.
Altrimenti, col poco tempo che ho, non scriverei proprio nulla.
;^;
Su questa storia vorrei spendere due paroline. Innanzitutto,
mi ci sono già affezionata, visto che parla di danza.
Inserirò
tutti e quindici i personaggi citati, e ognuno di loro avrà
almeno
un capitolo tutto per sé! =)
E credo di inserire un link di
YouTube per ogni capitolo, per far vedere il balletto (la variazione)
eseguito, visto che so che non molti hanno la mia stessa passione.
Ci
terrei a precisare anche che il rating è destinato a
diventare
rosso! =) E ora vi lascio, ci sentiamo nel prossimo capitolo per le
risposte alle recensioni!
PS: secondo voi chi sarà il primo?
Provate a indovinare! :D
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Capitolo 2 *** [192] Eppure rimase coi piedi per terra, il Lago dei Cigni. ***
[192]
Ludwig
Beilschmidt;
«Paura,
eh?»
«No, perché dovrei? Sto solo per fare per la
milionesima
volta quello è ho sempre fatto.»
«Non cercare di fare il duro
con me, sono tuo fratello e quindi ti conosco!»
«Ti conosco
anche io e ti consiglio di fare meno il gradasso, già lo so
che
quando sarà il tuo turno, te la starai facendo
addosso.»
Gilbert
aggrottò le sopracciglia ed evitò di guardare in
direzione di
Ludwig, giusto per fargli capire quanto fosse realmente offeso.
Insomma, lui era il meraviglioso Gilbert, il primo della fila nella
sbarra a destra, il primo ad eseguire i giri in diagonale, i grandi
salti, gli allegri. Mica era uno qualunque, lui era Gilbert.
«Pfff,
come ti pare», borbottò al fratello, voltandosi di
spalle e
dirigendosi nei retroscena.
Eppure Ludwig era teso, per quanto
cercasse di nasconderlo al fratello, più si guardava allo
specchio,
più cercava sicurezza nel suo sguardo serio. Doveva solo
mantenere
quell'espressione, fissa, distaccata, dura, e ballare, ballare,
ballare. Si trattava solo di qualche tour, di un mucchio di salti e
un paio di piroette. La musica avrebbe coperto ogni lamento,
l'adrenalina avrebbe preso il posto della fatica per un minuto e
venti secondi circa. Lui doveva soltanto trovare la sua
concentrazione, pancia in dentro e petto in fuori, il respiro che
faceva muovere soltanto il diaframma, proprio come gli aveva
insegnato suo padre, quando ancora vivevano a Berlino.
Ludwig
deglutì ed annuì un paio di volte, mentre
qualcuno, dietro di lui,
apriva la porta di scatto.
«Gilbert, se sei venuto di nuovo
per-»
«Ve, non sono Gilbert!»
Attraverso lo specchio, Ludwig
riconobbe la figura di Feliciano. Indossava una tuta un po' larga ed
una maglietta attillata, scaldamuscoli colorati e spessi calzettoni.
«Ah, sei tu.»
«Sono venuto a dirti in bocca al lupo,
Lud!»
Non capiva se Feliciano fosse realmente ingenuo o se si
fingesse tale. Insomma, lui aveva partecipato a molti concorsi, e
nessun ballerino era mai stato gentile con un altro. Non
veramente, almeno. Per
quanti potessero essere i sorrisi scambiati nei camerini, le parole
gentili e le battute durante i cinque minuti di pausa della lezione,
nella loro mente restava comunque quello spirito di competizione che
li aveva portati fino a lì. Distribuito in modo ed in
maniera
diversa nel cervello di ognuno di loro, ma pur sempre fisso e
presente nella loro testa. Nel caso di Ludwig, lo spirito di
competizione poteva riassumersi in un “fa' del tuo
meglio”, che
coincideva con il desiderio di prevalere sugli altri e con
l'affermare se stesso. Lui, tedesco fino al midollo, non si sarebbe
mai abbassato a dei subdoli giochetti cui spesso aveva assistito.
Scarpette da punta che sparivano, mezze-punte bagnate, scaldamuscoli
sfilacciati e perfino un tutù strappato, una
volta.
«Grazie.»
Feliciano però lo spiazzava, perché Ludwig
non aveva ancora capito a quale categoria appartenesse. Feliciano era
una persona strana, ovviamente squisita, ma difficile da capire.
Tanto per cominciare, era così sbadato da risparmiare agli
altri
ballerini la fatica di nascondergli le cose: lui le avrebbe perse
comunque, perfino in una stanza completamente vuota. Inoltre,
Feliciano era sempre disponibile con tutti. Era capace perfino di
rinunciare alla sua mezz'ora di stretching pur di aiutare Lili, una
ragazza che aveva soltanto quindici anni, ad ammorbidire le suole
alle sue scarpette.
«Ve, sei teso, non è vero?»
Ludwig lo
fissò, Feliciano gli sorrise raggiante e allora lui
scostò lo
sguardo.
«No, affatto.»
«Ah, inutile che fai il duro!», gli
disse, appoggiando le mani sulle sue spalle, «Lo so che sei
emozionatissimo!»
Auto-convincendosi che sarebbe stato
completamente inutile protestare, Ludwig sbuffò ed
annuì in maniera
impercettibile.
«Ve, lo sapevo! Io la paura la sento a
pelle!»
Ludwig sollevò un sopracciglio, domandandosi
perché mai
Feliciano fosse così esperto di quel tipo di sentimento.
«Allora
Lud, che variazione porti?»
«Lago dei Cigni», rispose
velocemente, mentre accendeva le luci attorno allo specchio, per
truccarsi.
«Mi piace Sigfrido!»
«Non la variazione di
Sigfrido, però», specificò,
«Non mi piaceva l'idea di un principe
che si fa prendere in giro da una donna e da un uccello.*»
Feliciano
rise, Ludwig non capiva che cosa ci fosse di tanto divertente in
ciò
che aveva appena detto.
«Ve, adesso torno dal mio fratellino, che
non era nemmeno molto contento del fatto che io venissi qui da te. Ci
vediamo, Lud, ciao!»
Lui si limitò ad un cenno della testa,
mentre il ballerino italiano spariva di nuovo oltre la porta.
Aveva
conosciuto Feliciano appena un giorno prima. Tra gli altri
quattordici finalisti, non capiva per quale assurdo motivo dovesse
attaccarsi a lui proprio una persona tanto rumorosa e loquace.
Feliciano gli aveva stretto la mano con tanta energia da agitarlo
fino alle spalle, dopo di che aveva cominciato a raccontare la storia
della sua vita (e di quella di suo fratello) e Ludwig l'aveva
registrata quasi inconsciamente.
Lovino (così doveva chiamarsi)
e Feliciano vivevano rispettivamente con la madre e con il padre,
separati quando loro due avevano poco più di dieci anni.
Entrambi
però erano stati ammessi, all'età di quindici
anni, all'Accademia
Nazionale di Roma. A Feliciano Roma piaceva, perché gli
ricordava
veramente tanto i racconti di suo nonno, che aveva visitato
praticamente ogni angolo di quella città. Era stato proprio
grazie a
lui che i due fratelli si erano decisi ad affrontare quel provino.
Fortunatamente per entrambi, visto le doti interpretative e
coinvolgenti di Feliciano, e la tecnica e la dedizione di Lovino, il
Grand Prix che si stava tenendo a Parigi in quei giorni non era poi
così irraggiungibile. E quindi, preparate le adeguate
variazioni, si
erano iscritti ed erano passati alla fase finale.
Ludwig pensò
che quella storia probabilmente era simile a quella di suo fratello,
con l'unica differenza che, nel caso di Gilbert, si era trattata di
pura fortuna, e che mai e mai un tipo come lui avrebbe potuto
immaginare di arrivare ad un livello così alto. Gilbert
aveva le
doti e non le usava, credeva che la danza, almeno nel suo
meraviglioso
caso, potesse basarsi su un'espressione convincente e su una presenza
scenica niente male.
Pensare a suo fratello lo aveva fatto
distrarre come al solito. Doveva finire di truccarsi e doveva trovare
l'equilibrio psicologico per affrontare la giuria. Chiuse gli occhi,
si concentrò.
Ludwig sentì una voce femminile con un forte
accento francese parlare al microfono e annunciare che la finale del
concorso sarebbe cominciata fra quindisci
minuti.
A
Ludwig la danza piaceva, dava ordine alla sua vita. La danza gli
diceva cosa mangiare, quanto mangiare, quando mangiare, quando andare
a dormire, quanto allenarsi, dove allenarsi, fino a che punto
sforzarsi. La danza lo spingeva oltre i limiti del suo fisico e lo
aiutava a riscoprirne di nuovi, lo aiutava a crescere dentro e
fuori.
La tensione che precedeva la sua performance faceva parte
di questo tipo di cambiamento, una crescita attraverso la conoscenza
che era cominciata quando lui aveva soltanto sei anni.
Ludwig
inspirò ed espirò lentamente, ripassando
mentalmente i passi, dove
e quando sorridere, in che modo usare le braccia. Il suo corpo
avrebbe dovuto fuggire da Parigi, volare in un castello e rimanere
lì
per un paio di minuti. Ludwig non era più Ludwig, le quinte
sparivano e venivano sostituite da pareti di pietra, i riflettori
diventavano lanterne e candele, la giuria erano dame e
principesse.
Ma Ludwig purtroppo rimase a Parigi, coi piedi per
terra ed una bottiglia d'acqua tiepida stretta tra le mani.
Qualcuno
gli batté una pacca sulla spalle, la telecamera restava
puntata sul
suo profilo.
«Numero centonovantadue, Ludwig Beilschmidt, dalla
Berlino Dance Academy. Lui interpreta la variazione maschile dal Pas
de Trois del Lago dei Cigni di Petr Il'ic Cajkovskij.»
Ludwig
chiuse gli occhi e sospirò di nuovo. Era concentrato, si era
allenato per settimane, addirittura mesi. Non aveva nulla da temere,
lui non era spaventato come invece Feliciano aveva cercato di
convincerlo. Anzi, era rilassato, stava per fare una delle cose
più
naturali che sapeva fare. Non doveva dibutare di se stesso.
Qualcuno
gli fece segno di entrare, Ludwig sollevò il mento. Punta,
pianta,
tallone, punta, pianta, tallone, punta, pianta, tallone. Il pavimento
scivolava lentamente sotto i suoi piedi e lui nemmeno se ne
accorgeva. Lanciò uno sguardo veloce alla giuria, prima di
mettersi
in posa e poi cominciare a ballare.
«Ve, Gilbert! Tuo
fratello è proprio bravo!»
Un paio di gradinate più sotto,
cinque metri in un corridoio scarsamente illuminato, seconda porta a
sinistra, il resto dei ballerini aveva trovato la posizione
più
comoda per seguire Ludwig in diretta. C'era un televisore abbastanza
grande da permettere a tutti di capire che cosa stesse succedendo in
quel momento sul palco. Feliciano era letteralmente euforico e per
questo si era già guadagnato qualche occhiata più
che stupita.
Gilbert aveva un'aria di sufficienza. Arthur, accovacciato sul
pavimento, non staccava gli occhi dallo schermo nemmeno per un
secondo. E Alfred fissava lui, ovviamente, chiedendosi se fosse un
umano o un alieno, dato che non sbatteva nemmeno le palpebre.
«Wow,
ma hai visto la punta nel jeté?»
«Eh?», fu l'unica risposta
che riuscì a formulare quando vide quegli occhi verdi
puntati
direttamente sulla sua faccia.
«Niente», borbottò Arthur,
continuando a seguire la variazione.
Francis aveva entrambe le
braccia appoggiate sulla sbarra, accanto a lui un ragazzo stringeva
in maniera spasmodica un orso di peluche. Probabilmente un talismano,
un anti-stress o un portafortuna, ce n'erano tanti in giro.
«Bravo,
vero?»
Il ragazzo lo guardò per un attimo, si sistemò
gli
occhiali sul naso ed annuì.
«Non ti ho mai visto a lezione, sei
arrivato ora?»
«... Veramente c'ero a lezione, sono alla sbarra
accanto alla tua.»
Francis sbatté le palpebre un paio di volte.
Nella sua mente focalizzò Alfred, Arthur (che aveva
catturato la sua
attenzione molto spesso, per colpa dei pantaloncini troppo corti),
Gilbert, Antonio e le ragazze; quelli erano i suoi vicini di sbarra,
ma di quel biondino timido non c'era neanche l'ombra. Non tra i suoi
ricordi, almeno.
«Oh, sì! Ho capito! Sì, mi ricordo di
te!»,
il che era una sporca bugia.
Il ragazzo annuì,
semplicemente.
«Comunque mi chiamo Francis,
piacere.»
«Matthew...»
Antonio osservava la scena perplesso
e si chiedeva per quale assurdo motivo Francis fosse così
maledettamente bravo quando si trattava di fare colpo. E per quale
assurdo motivo lui, che gli somigliava in molti aspetti, non aveva
affatto la stessa capacità. Probabilmente però
quel ragazzo (che
era sicuro di non aver mai visto prima) si era semplicemente fidato
di quello che poteva essere un viso amico ora che si trovava in un
contesto così difficile da affrontare.
Per forza, doveva
assolutamente essere così. E di conseguenza, con lui quella
tecnica
avrebbe avuto la stessa riuscita.
«Ehi», disse, avvicinandosi a
uno dei due italiani (ovviamente quello che non si dimenava come
un'anguilla davanti al televisore).
Lui gli rivolse
un'occhiataccia, che ovviamente Antonio non colse.
«Ti ho visto
ieri a lezione e... Cioè, sai, non sei mal- Ehi, io sono
Antonio!»
…
E forse sembrava anche un cretino.
«Lasciami in pace, bastardo,
non vedi che sono impegnato ora?»
Antonio rimase perplesso, e per
un attimo fu anche tentato di scappare da Francis e chiedergli
qualche consiglio.
«... Come, scusa?»
«Sei anche sordo
allora? Ho detto:
b a s t a r d o,
lasciami in pace», gli ripeté il ragazzo,
scandendo con precisione
viscerale ogni singola lettera dell'insulto.
Antonio rimase a
fissarlo a bocca aperta, mentre a qualche metro da loro, Elizabeta si
godeva la scena. E sembrava anche parecchio divertita! Non si era
minimamente accorta che se Gilbert non guardava suo fratello, allora
si perdeva sulle sue curve un po' morbide. Non aveva il fisico di una
ballerina, clavicole sporgenti come matite, costole che spuntavano
sotto i vestiti o anche che premevano contro i body, Elizaveta era
armoniosa, completamente, e forse proprio per questo nessuno dei suoi
movimenti era mai sembrato spigoloso. Lei era sempre gentile,
delicata, leggera come una piuma mentre volteggiava su pochi
centimetri di gesso e raso rosa.
Quando si guardò attorno, notò
gli occhi di Gilbert e lo vide distogliere immediatamente lo sguardo,
senza capire.
«Che ti succede, aru?»
«Niente, quel tipo è
un po' strano.»
«Ha la faccia da maniaco, aru.»
«Mh, hai
ragione. Se si avvicina lo stendo.»
«Ti serve una mano,
aru?»
«No, mi farò bastare una padella.»
«Ve! Lud, sei
stato bravissimo!»
Quando Ludwig tornò dietro le quinte, il
primo che lo accolse (forse fin troppo calorosamente) fu Feliciano.
L'italiano gli era corso incontro con un enorme sorriso stampato in
faccia, ovviamente a braccia aperte e lo aveva stretto con forza,
continuando a ripetere quanto lui fosse bravo, forte, bello, quanto
il suo collo del piede fosse impressionante, quanto avesse eseguito
bene la variazione scelta. Ludwig si era limitato ad assumere
un'espressione seria, forse un po' troppo burbera, vista la vicinanza
di una persona così solare che creava troppo contrasto con
lui, ma
non se ne importò.
«Grazie», borbottò, afferrando un
asciugamano.
Feliciano trotterellava dietro di lui, Gilbert gli
rivolse un cenno con il mento, senza dire nulla. Quando
arrivò
davanti ad un ragazzo quasi sicuramente orientale, quello fece un
piccolo inchino e si complimentò.
«Ve, Lud, tu conosci Kiku?»,
domandò Feliciano.
Ludwig scosse la testa. Non aveva nemmeno
voglia di fare amicizia proprio ora che pensava che avrebbe potuto (o
dovuto) ballare almeno mille, fosse duemila volte meglio.
«No.»
La
sua era una risposta secca, mirata a far desistere ogni tentativo
dell'italiano. Ma ovviamente era tutto inutile, visto che Feliciano
sembrava ancora più intenzionato di prima a disturbarlo.
«Oh,
allora penso proprio che sia arrivato il momento che voi due vi
conosciate!», disse Feliciano, «Lud, lui
è Kiku! Kiku, lui è il
mio amico Lud!»
[619]
Arthur
Kirkland;
«Ma hai visto che roba?! Quel ragazzo è
bravissimo! Oh, dannazione, ma lo hai visto? È praticamente
perfetto!»
Arthur stava parlando da circa mezz'ora del medesimo
argomento, e Alfred lo fissava come uno che aveva sentito parlare per
circa mezz'ora del medesimo argomento. Eppure era stato lui a
chiedergli di riscaldarsi insieme... Ma come gli venivano in mente
certe idee?
«Oddio, e i salti! Ma hai visto che salti?!
Cioè...
Io non riuscirei a saltare così in alto, quel ragazzo ha dei
muscoli
eccezionali. E poi-»
«Arthur?»
«Che vuoi?»
«Basta
adesso, okay? Se devi parlare così tanto dopo ogni
variazione, io
preferisco starmene con mio fratello Matthew.»
«Chi è
Matthew?»
«Mio fratello.»
«Questo l'avevo capito. Intendevo
sapere chi è tra tutti i ragazzi.»
«Ah.»
Alfred si voltò,
le gambe ancora in spaccata e la schiena girata all'indietro. Arthur
fissò per un attimo il solco che si creava tra le scapole e
tra i
muscoli, la linea sottile che evidenziava la colonna vertebrale, le
spalle e-
«Quello lì.»
A qualche metro da loro, con la
schiena appoggiata alla sbarra e il mento nascosto contro il pelo
marroncino di un orso di peluche, c'era un ragazzo biondo,
tremendamente simile ad Alfred, ma fortunatamente per lui molto meno
rumoroso ed appariscente. Matthew (se quello era Matthew) sembrava
piuttosto impegnato a seguire gli ampi gesti che Francis faceva con
le mani mentre gli parlava.
«Poverino, credo che Francis ci stia
provando con lui. Forse dovresti dargli una mano.»
«Ahahaha! È
compito di un eroe come si deve!»
Arthur aveva un sopracciglio
sollevato ed un'espressione praticamente sconvolta. Alfred lo stupiva
sempre di più, perché adesso che credeva che la
sua età mentale
ammontasse più o meno a dodici anni, Alfred lo aveva fatto
ricredere
convincendolo che non arrivasse nemmeno di striscio ai sei.
«Ma
forse è contento così, di solito nessuno parla
con lui.»
«Alfred,
dimentichi che Francis è un maniaco.»
[288]
Kiku
Honda;
La stretta di mano di Ludwig prima o poi lo avrebbe
ucciso, o più semplicemente gli avrebbe spezzato le ossa.
Kiku
aveva sentito a lungo gli elogi che Feliciano aveva fatto di lui.
Essi non si limitavano soltanto alla danza, ma al suo carattere
magnifico. Magnifico a detta dell'italiano. Kiku credeva che tutto
ciò che poteva definirsi “simpatico”,
“carino” o “magnifico”
fosse lontano anni luce da Ludwig. Ludwig era una specie di militare
in borghese (o in calzamaglia) che non scattava sull'attenti, ma che
era costantemente rigido e serio. L'opposto di Feliciano,
letteralmente, che però, in un certo senso, sembrava
affascinato da
lui.
Kiku per queste cose aveva sempre avuto occhio, interessarsi
della sfera privata altrui era spesso più divertente che
curarsi
solo ed esclusivamente della propria. Soprattutto per quanto
riguardava il campo amoroso.
Lui era solito offrire una visione
visione di sé abbastanza vaga, troppo scarna per permettere
a
qualcuno di scoprire qualcosa sul suo conto. E questo gli permetteva
di concentrarsi ed analizzare gli altri, sia nei loro particolari
più
fastosi, che in quelli più piccoli ed accennati.
Feliciano, ad
esempio, era una di quelle persone che ben presto commettevano
l'errore di fidarsi più degli altri che di se stessi,
così come
faceva con Ludwig, che aveva già innalzato a suo mentore e
protettore. Ludwig, al contrario, tentava (quasi con successo) di
mantenersi estraneo ad ogni legame, senza capire che era ciò
di cui
avesse più bisogno.
«Piacere di conoscerti, Ludwig.»
[559]
Antonio
Fernandez Carriedo;
Quella sera, a cena, molte cose erano
cambiate rispetto al giorno precedente. Alcuni gruppi si erano
consolidati, altri si erano appena formati. Tra una stretta di mano e
l'altra, Antonio riconobbe la sagoma del ragazzo italiano che aveva
visto quel pomeriggio.
Ne aveva parlato con Francis e lui aveva
detto che quella sera sarebbe riuscito a presentarglielo, in un modo
o nell'altro. Antonio non sapeva ancora che razza di scusa si sarebbe
inventato, ma sperava che per lo meno non usasse metodi illegali e
poco ortodossi. Ma si trattava pur sempre di Francis, quindi doveva
prepararsi al peggio.
«Antonio!»
Qualcuno lo afferrò per le
spalle e rischiò di farlo cadere. Dopo aver barcollato per
qualche
secondo, Antonio riconobbe attorno a lui i volti di Francis e Gilbert
e quello di... E quello di una specie di armadio a tre ante che
sembrava essere appena uscito da una caserma. Antonio alzò
le mani
quasi per istinto, biascicando frettolosamente un “sono
pulito”
con tanto di espressione sgomenta.
«Smettila di fare il cretino»,
disse Francis, ridendo.
«Lui è Ludwig, il fratello di Gilbert.
Ma non l'hai visto ballare, oggi?»
Antonio ricordò vagamente di
un tedesco, del Lago dei Cigni e di una faccia seria e quasi
spaventosa, ma quel pomeriggio era stato troppo impegnato a fissare
l'italiano e a provarci con lui (fallendo miseramente).
«Sai,
Ludwig si è già trovato un ragazzino.»
«Non è il mio ragazzo,
è solo un italiano petulante», si
affrettò a specificare
l'interessato.
Le parole “italiano petulante” destarono
improvvisamente l'attenzione di Antonio, ma prima che potesse
interessarsi oltre, sentì una specie di urlo flebile, che
pronunciava il nome di Ludwig e quello di suo fratello.
«Scusate,
ci abbiamo messo un po' di tempo perché io e Lovino ci
eravamo
incastrati!»
Mentre gli altri presenti si domandavano i che modo
due ragazzi potessero restare incastrati, Antonio fissò
l'italiano
che aveva appena parlato. Era quello che, quel pomeriggio, non aveva
fatto altro che ripetere quanto Ludwig fosse bravo a ballare. Accanto
a lui, però, c'era anche-
«Feliciano!», disse Gilbert,
sorridendo in direzione di Antonio, «Non ci presenti tuo
fratello?»
Francis fu sicuro di vedere gli occhi di Antonio
brillare per un attimo, non appena il fratello di Feliciano
borbottò
un “Lovino” e strinse un paio di mani.
*Ludwig
si riferisce a Odile e a Rothbart, che riescono ad ingannare il
principe e a fargli giurare amore eterno alla persona
sbagliata.
Okay, lo ammetto, questa fic si sta
praticamente scrivendo da solo e io ne approfitto finché le
cose
vanno così! :D
Per prima cosa, ora vorrei spiegare il motivo che
mi ha spinto a scegliere quella variazione per Ludwig. È
presa dal
Passo a Tre del Lago dei Cigni e qualunque versione che ho visto, il
ballerino è sempre rigido, serio e fissa sempre un punto in
alto! XD
In più ho visto che ogni ballerino che la esegue, punta
molto sulla
forza nei salti... E okay, quello che sto dicendo non interessa a
nessuno, quindi passo direttamente alle risposte alle
recensioni!
Stefy_rin:
sappi che le stalker, se ti somigliano, allora sono sempre ben
accette! Mi fa piacere leggere che la fic ti sia piaciuta
così
tanto. Era da un po' che volevo scrivere qualcosa sulla danza, visto
che è la mia più grande passione, ma non ne avevo
mai avuto il
coraggio. Quindi sapere che questo esordio non ha fatto del tutto
schifo... Beh, mi rende assai felice, grazie<3
Scricciola:
spero che questo seguito ti sia piaciuto, nonostante l'USUK scarseggi
un po'. D: Ho voluto introdurre un po' di coppie, come la GerIta, la
Franada e la Spamano, ma prometto che presto anche Alfred ed Arthur
avranno un bel po' di pagine Word dedicate a loro. =) In fondo
restano pur sempre la coppia più bella!
Kiretta:
anche io inizialmente ero un po' scettica all'idea di Alfred come
ballerino. Ma poi, ricordandomi che razza di persona mi tocca
sopportare a lezione, mi sono resa conto che anche lui potrebbe
calzare a pennello nel suo ruolo! XD Spero che questo capitolo ti sia
piaciuto e, se non hai ancora [ri]visto la Sylphide, allora posso
consigliarti quale cercare? *__* Se ti piace la storia, credo la
versione migliore sia quella Nureyev/Fracci, se invece vuoi guardare
bene i balletti, allora ti consiglio qualcosa di più
recente, come
quella Legris/Platel. Lei è veramente brava, io l'ho
conosciuta
grazie alla Sylphide e ho comprato il dvd della Bayadére
dell'Opera
di Parigi solo perché c'era lei che interpretava Gamzatti!
XD
Ichibanme_Arisu:
il rating non diventerà subito rosso, anzi, penso che ci
vorrà
ancora del tempo! Ad ogni modo, grazie per tutti i complimenti e ti
prometto che prima o poi continuerò anche la fic che ho
abbandonato
mesi fa. E se lo dovessi mai fare, sappilo, sarà soltanto
per te! XD
Grazie mille per la tua recensione, alla prossima<3
emily
ff:
credo di inserire un link per ogni capitolo, per dare una vaga idea
sul balletto. Perché lo so che probabilmente sono l'unica
malata che
conosce ogni coreografia, maschile o femminile, che conosce ogni
ballerino e ogni versione di un grande balletto. XD Prometto che il
capitolo arriverà presto, ho cominciato a scriverlo, quindi
ormai è
questione di giorni. =) Quella fic devo finirla, perché odio
lasciare le cose a metà D: Grazie mille per il tuo commento,
a
presto!
AlterNeko:
ti ho risposto su FB, ma ovviamente lo faccio anche io! Innanzitutto
sappi che per me è un onore leggere una tua recensione,
visto che ti
ho ripetuto miliardi di volte che adoro il tuo modo di scrivere e che
ti ammiro come autrice. Sono anche contenta che la caratterizzazione
di piaccia, perché solitamente è la cosa che mi
fa dannare più di
tutte le altre! Spero di risentirti presto (e di leggerti presto
anche qui su EFP ;P) un bacio!
Smary:
quando c'è Francis nelle vicinanze un argomento poetico come
quello
dei culi è sicuramente d'obbligo, su questo non ci piove. La
frase
“ho passato le selezioni” con tanto di atmosfera di
suspance
credo sia più che naturale! XD O almeno per quello che ne
so, visto
che per ora non mi sono mai cimentata in qualcosa del genere, quando
si arriva alle finali di un concorso internazionale è
praticamente
scontato che qualche compagnia famosa ti noti. A quel punto, il sogno
di Arthur di essere anche solo un ballerino di quinta fila del Royal
Ballet, comincia. =) Grazie mille per la tua recensione, a
presto<3
inuyasha94:
entra in una scuola di danza, guarda dei ragazzi ballare e poi
conoscili anche fuori. Non ti sembreranno mai dei ballerini! XD Forse
questo non basterà a spiegarmi, ma è
così, almeno per quel che mi
riguarda! XD Purtroppo in questo capitolo c'è soltanto un
po' di
Alfred/Arthur, ma tempo al tempo, devono ancora fare amicizia.
ù__ù
Ci risentiamo al prossimo capitolo, un bacio! :3
Robbuccia:
Alfred effettivamente fa un po' strano come ballerino. E Feliciano e
Lovino, sì, li vedo anche io più ferrati nel
contemporaneo. In
questo tipo di concorsi però (quelli internazionali) si
punta
soprattutto sul classico e quindi ho cercato di adattare più
o meno
tutti quanti e di scegliere balletti che potessero rifarsi alla
storia dei personaggi. Ad esempio, nella Sylphide (ambientata in
Scozia), il protagonista, James, vede delle creature fatate e si
innamora di una di loro, ma nessuno crede alla loro esistenza... E
insomma, fa molto Arthur con le sue fatine. XD A dir la
verità, io
non amo particolarmente la Spamano, ma so che in questo Fandom sono
molti a shippare questa coppia e così ho provato a
cimentarmi anche
io nell'impresa... Sperando di riuscirci, ma ho dei seri dubbi! XD
Grazie per la recensione, a presto! =)
Lalani:
okay, lo ammetto, anche a me manca tanto Lituania. =( Avevo pensato
di mettere lui e Polonia al posto di due ragazze, ma poi mi restavano
quattordici giovincelli e soltanto una fanciulla, la cosa non sarebbe
stata equa! D: Altrimenti avrei dovuto alzare il numero dei
partecipanti, e a quel punto so che sarei andata nel pallone,
perché
ci sarebbero stati veramente troppi personaggi da gestire! D: Ad ogni
modo, grazie per il commento, spero che la storia continui a
piacerti! =)
yalexy:
yeah, anche a te piace la Prussia/Ungheria. Ti ritenevo una persona
totalmente stupida, ma forse (forse, forse, forse) non è
così. Però
potrei anche sbagliarmi. Alfred che balla è... Beh, direi
una specie
di pericolo che rischia di caderti addosso dal palco e quindi di
farti stramazzare al suolo. Una mica vagante, o qualcosa del genere.
Spero di riuscire a gestire tutte le coppie, visto che ho cercato di
inserire almeno le più famose. ;w; Ma non so se
riuscirò
nell'impresa. Ad ogni modo, grazie mille per la tua recensione,
perconsachemisembravaseriamachepoisièrivelatailcontrario.
AliDiPiume:
beh, vedo che la fic ha avuto l'effetto tanto sperato di attirare
qualche ballerino o ex ballerino (e magari privo di lattina di birra
stretta in mano, visto uno dei tuoi ultimi commenti :D) Beh per ora
Arthur non viene ancora conteso, ma dammi un po' di tempo e
cominceranno un po' di guerre (dato che con tutte queste coppie
è
praticamente impossibile evitarne). Spero di continuare a vederti in
giro e di risentirti presto, un bacio!
Vorrei
fare un ringraziamento finale a tutti coloro che hanno recensito il
primo capitolo. Non mi aspettavo che questa fic potesse piacere
così
tanto, ma ho comunque voluto scriverla. La danza è la mia
più
grande passione (e so che non importa a nessuno questa cosa xD) per
questo penso di essermi affezionata particolarmente a questa storia.
Spero continuiate ad apprezzarla e a commentarla, perché mi
farebbe
veramente molto piacere.
Adesso la smetto di annoiarvi e vi
saluto, con la speranza di poter rispondere alle vostre recensioni
nel terzo a capitolo. =)
Un bacio<3
Ci rivediamo nel
prossimo capitolo con... Oh beh, vi lascio un indizio:
Paquita;
La coreografia non c'entra molto con il personaggio, ma la storia di
questo balletto mi ricordava qualcuno! =)
Bye! ♥
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Capitolo 3 *** [206] Era come scalare una montagna, Paquita. ***
[300]
Francis
Bonnefoy;
Arthur
non ci aveva impiegato troppo tempo a rivelare che cosa fosse in
realtà. Si trattava di una creatura strana, fisicamente
imperfetta,
ma pur sempre attraente. Gambe sottili, addominali vagamente visibili
sotto le magliette attillate, spalle appuntite ed espressione seria.
Se fuori Arthur era un ballerino completamente normale, di quelli che
appartenevano più ai solisti che ai danzatori di passo a
due, dentro
era qualcosa di estremamente complicato.
Innanzitutto non ci si
poteva avvicinare a lui senza un permesso esplicito. Perfino Alfred,
che era invadente già di suo, ogni tanto indugiava davanti
alle sue
occhiate severe. In secondo luogo, Arthur riusciva ad essere
contemporaneamente irritante ed irritabile.
Ormai era palese che
Francis avesse un debole per lui (per lui come per molti altri
ragazzi lì dentro), eppure Arthur continuava a fare il finto
tonto... Oppure a torturarlo. Quarantotto ore non potevano di certo
far sbocciare un amore, ma di solito la gente si era sempre
dimostrata collaborativa – almeno con lui.
«Non vedo perché
dovrebbe interessarmi.»
Arthur appoggiò la fronte sul pavimento,
le gambe ancora aperte in una spaccata perfetta, ginocchia dritte e
punte stese al massimo.
«Visto che io conosco la tua variazione,
volevo che tu conoscessi la mia», rispose Francis,
«così siamo due
avversari alla pari, no?»
Arthur soffocò una risata
nell'avambraccio.
«Ripeto: non vedo perché dovrebbe
interessarmi. Io e te non saremo mai alla pari.»
Sebbene la frase
formulata non fosse troppo difficile da comprendere, Francis
indugiò
soltanto per un attimo. Ma probabilmente Arthur si stava fingendo
modesto, oppure molto presuntuoso ed anche un po' arrogante.
«Che
cosa intendi dire?»
Di fronte a lui, Arthur si sollevò appena,
poggiando i palmi delle mani sul pavimento di legno e flettendo i
piedi.
«Quello che ho detto.»
«Cioè?»
«Che io e te non
siamo allo stesso livello. La tua tecnica non mi piace.»
Arthur
ci aveva messo due giorni scarsi a rivelare la sua vera natura.
Quella di una persona distaccata, senza peli sulla lingua, che si
permetteva di giudicare ma che non sopportava di essere giudicato. Un
ragazzo solitario, che passava metà del tempo a studiare gli
altri e
che nell'altra metà si impegnava per superarli. Francis
purtroppo
non si sentiva combaciare con lui, per quanto fosse attraente,
Francis purtroppo non riusciva nemmeno a sopportare gran parte dei
suoi atteggiamenti spocchiosi.
«E che cosa ne sai tu? Mi avrai
visto ballare sì e no una volta e tra l'altro stavo
provando.»
«Ma
ti vedo eseguire esercizi per tutto il giorno. E non mi piacciono i
tuoi piedi.»
Arthur l'aveva detto con una punta di acidità,
Francis lo fissava e si tratteneva a stento dallo sputargli addosso
lo stesso veleno. Magari non ne valeva nemmeno la pena, magari alla
fine Arthur avrebbe vinto il concorso e sarebbe stato così
concentrato su se stesso da dimenticarsi di lui, oppure sarebbe
arrivato quindicesimo e Francis gli avrebbe dato un fantastico
schiaffo morale. Per ora, si limitò a tacere e a piegarsi in
avanti,
cercando di allungare i muscoli della schiena.
«Ahahahah! Voi
vecchi state sempre in compagnia?»
Alfred lasciò cadere per
terra la sua tracolla, Francis alzò la testa quando
sentì il rumore
metallico della miriade di portachiavi ed accessori che sbattevano
sul pavimento, Arthur evitò di farci caso e di far caso al
fatto che
lui e Alfred si passassero sì e no quattro anni.
[315]
Yao
Wang;
Ciò che si diceva sugli orientali in un certo senso era
vero e Yao se n'era fatto una ragione, in un modo o nell'altro.
Almeno due o tre riuscivano ad arrivare in finale, grazie ad una
tecnica eccellente e ad un fisico niente male, ma alla fine nessuno
di loro (o quasi) riusciva a portare un premio fino a casa.
Analizzando uno per uno tutti i concorrenti, Yao aveva capito quale
avrebbe potuto essere il motivo.
C'erano due italiani e tra tutti
i partecipanti erano quelli che aveva dato nell'occhio più
di tutti
gli altri (forse a causa del fratello minore, che era un ragazzo
piuttosto rumoroso). Per loro la danza non era fatta di sbarra, pece
e diagonali, per loro la danza era linguaggio, era divertirsi e
coinvolgere gli altri. Fondamentalmente ciò che
differenziava gli
orientali da tutti gli altri era questo e bastava guardare Kiku,
silenzioso, mentre si riscaldava.
«Qualcosa non va?»
Yao
sollevò il mento di scatto. Davanti a lui c'era quel ragazzo
russo
che aveva visto il giorno prima a lezione. Era una persona
inquietante, sorridente e disponibile, ma pur sempre inquietante. Yao
pensava che avesse qualcosa come un piede di porco o un vecchio
rubinetto arrugginito nascosto nello zaino. Anzi, ne era più
che
convinto. Magari il russo voleva manomettere il concorso frantumando
qualche caviglia o assassinando una ballerina mentre si trovava da
sola. Magari adesso toccava proprio a lui.
[206]
Lovino
Vargas;
Era come scalare una montagna. Un passo dopo l'altro,
gli scalini che lo portavano al palco gli sembravano più
ripidi.
Lovino deglutì quasi a fatica, un groppo in gola ed una
goccia di
sudore impaziente che scivolava sulla sua tempia ancora prima che lui
iniziasse a ballare.
Era come scalare una montagna, e i gradini
erano ripidi e scivolosi, sassi appuntiti ai quali era praticamente
impossibile aggrapparsi. E ogni volta che guardava verso l'alto, i
riflettori lo abbaiavano e il sipario, raccolto sul soffitto, lo
osservava. E ogni volta che guardava verso il basso, la giuria lo
spaventava di più.
Era come scalare una montagna, e nessuno stava
lì ad assisterlo, nemmeno suo fratello Feliciano, che
tentava di
tendergli una mano ogni qual volta lui si trovasse in
difficoltà.
Erano tutti lontani e probabilmente molti di loro speravano che lui
scivolasse e che non ci fosse nemmeno un ramo rinsecchito a
permettergli di salvarsi.
Era come scalare una montagna, e la cima
di quella montagna era piena di sassi spigolosi ed appuntiti, che gli
graffiavano i piedi e le caviglie. A volte era superficie viscida e
la paura più grande era quella di cadere, di vedere gli
occhi della
giuria abbassarsi e scrivere qualcosa di negativo sui loro pezzi di
carta bianca.
«Forza fratellone, io sono sicuro che ce la
farai!»
E poi, quello era stato l'inizio dell'apocalisse.
Le
previsioni di Feliciano non si erano mai avverate, anzi, molto spesso
si era verificato l'esatto contrario. Al loro primo saggio di danza,
suo fratello, entusiasta e praticamente uguale ad adesso nonostante
all'epoca avesse sì e no cinque anni, gli aveva detto che
loro due
sarebbero stati i migliori e che nessuno avrebbe ballato meglio.
Inutile dire che entrambi avevano avuto un gran mal di pancia prima
di cominciare (forse a causa delle tonnellate di pizza mangiate) e
che non avevano potuto ballare. Durante il primo anno di liceo,
Feliciano era sempre più convinto che nonostante l'impegno
della
danza, la scuola sarebbe andata bene comunque e che nessuno dei due
aveva da preoccuparsi, nonostante fossero lontani chilometri... A
dispetto delle sue previsioni, però, a Giugno si sarebbero
ritrovati
con le teste chine sui libri e il terrore causato dagli esami di
recupero.
Ed infine, la frase preferita di Feliciano quando
veniva circondato dai bulli era “e poi dovrete vedervela con
il mio
fratellone!” (ovviamente seguita da un piagnisteo senza
fine). E
ovviamente, quando il fratellone arrivava, le prendevano
entrambi.
Lovino deglutì a fatica e osservò ancora gli
scalini.
Adesso poteva mettersi l'anima in pace, perché era
matematico che
sarebbe andata malissimo e che ormai non c'era più niente da
fare.
Nel frattempo, qualcuno alle sue spalle pronunciò il suo
nome con aria concitata. Un rumore di passi veloci sul pavimento di
legno e poi una mano sbatté tanto violentemente sulla sua
spalla da
farlo sussultare. Lovino si voltò di scatto e si
ritrovò di fronte
al viso congestionato di Antonio – se così si
chiamava – e ad
un'espressione letteralmente esausta, qualche goccia di sudore che
scivolava giù dalla fronte ed un sorriso abbastanza stupido
stampato
in faccia.
«Che cosa ci fai qui, bastardo?»
«Finalmente ti
ho trovato! Pensavo di non farcela!»
«E perché mi stavi
cercando, idiota?»
«Ah, tuo fratello mi ha detto che avevi
bisogno di qualcuno che ti aiutasse psicologicamente!»
«Mio
fratello è stupido quanto te», borbottò
Lovino, notando poi che
Antonio continuava a fissarlo con quell'espressione, «okay, quasi
quanto te. Ma è stupido comunque.»
«Ad ogni modo, io volevo
soltanto augurarti in bocca al lupo!»
Lovino, con le guance che
si colorivano più del dovuto e le mani che cominciavano a
sudare, si
astenne dal ringraziare. Non si aspettava che qualcuno andasse
lì ad
assisterlo, immaginava tutti i ballerini appollaiati davanti al
grande schermo del televisore che c'era nell'aula che usavano per
riscaldarsi. E magari ognuno di loro gli augurava una sfortuna
diversa (eccezion fatta per suo fratello, troppo buono ed ingenuo per
farlo anche solo con il suo più acerrimo nemico).
«Tu non
dovresti essere qui», disse tutto d'un tratto un uomo che
aveva un
microfono ad archetto.
Antonio gli mostrò un sorriso cordiale, ma
l'uomo lo afferrò comunque per braccio e lo
trascinò via.
«Lovino,
non ti preoccupare, andrai benissimo! Io queste cose le sento a
pelle!», gli strillò Antonio, mentre i talloni
scivolavano sul
pavimento e lui spariva oltre una porta.
Perfetto, la sua carriera
era stata troncata sul nascere.
[471]
Matthew
Williams;
Alla fine non era stato poi così male arrivare a
quella finale. C'era gente cordiale e simpatica, anche se a volte
qualcuno dimenticava completamente la sua presenza. Matthew
però
riusciva facilmente a sopportarlo, in fondo era abituato ad essere
scambiato per suo fratello praticamente da sempre. Perfino ai tempi
del liceo, quando ad Alfred conveniva, decidevano di scambiarsi i
ruoli. Stranamente, però, Matthew veniva sempre scambiato
per
Alfred, ma a nessuno veniva in mente di chiamare Alfred
“Matthew”.
A
Parigi però tutto era diverso, perché Matthew non
era nessuno, così
come Alfred era soltanto un numero cucito sul petto della sua divisa
accademica.
«Matthew.»
Qualcuno, alle sue spalle, lo chiamò.
Francis si inginocchiò accanto a lui e sorrise, allungando
le gambe
sul pavimento ed indicando lo schermo del televisore.
«Secondo te
com'è quel ragazzo?»
Lui scosse le spalle e la testa.
«Non
lo so, suo fratello mi sembra bravo.»
«Però i fratelli non si
somigliano molto, non credi? Tu e Alfred non vi somigliate per
niente.»
Effettivamente quella frase era un po' insolita, dato
che Matthew non aveva mai sentito nessuno – sano di mente
– che
la pronunciasse con tanta naturalezza e sincerità.
«Dici... Dici
davvero?»
«Sì.»
E in un certo senso, era la cosa più
carina che qualcuno gli avesse detto nel corso di tutta la sua
vita.
Era come scalare una montagna, Paquita.
[559]
Antonio
Fernandez Carriedo;
Qualcuno pronunciò il suo nome,
probabilmente Francis, ma non ricevette risposta. Antonio
andò ad
inginocchiarsi di fronte allo schermo del televisore, accanto a
Feliciano e lanciò un'occhiata al ragazzo. Era carino almeno
quanto
Lovino, ma era gentile, servizievole e disponibile. Praticamente
l'opposto di suo fratello. E se qualcuno li avesse sentiti aprir
bocca uno dopo l'altro probabilmente avrebbe pensato che si
somigliavano in quanto erano cugini alla lontana.
Forse gli
piaceva proprio questo di Lovino, il suo broncio, la sua aria
indisponente che rendeva ogni conquista un po' più difficile
e un
po' più sofferta.
Non gli piaceva avere tutto e subito.
«Ve,
hai trovato il fratellone prima di tornare qui?»
«Certo! E mi
sembrava anche piuttosto rilassato!»
Il fatto che Lovino avesse
già sudato sette camicie (e non per la fatica, ma per la
paura e
l'ansia) magari era passato inosservato ai suoi occhi.
«Ah, meno
male! Di solito il fratellone in queste situazioni è sempre
molto
agitato!»
Antonio ridacchiò e appoggiò il peso sui gomiti,
rimanendo quasi sdraiato sul pavimento a fissare lo schermo, come
stavano facendo tutti gli altri.
Bastava guardare Arthur, che si
era completamente dimenticato della presenza gigantesca di Alfred e
che si stava più o meno immedesimando nella telecamera fissa
sul
palco. O Feliciano, che adesso che qualcuno cominciava a parlare al
microfono iniziava a mordersi le unghie per la disperazione.
«Numero
duecentosei, Lovino Vargas, dall'Accademia Nazionale di Danza di
Roma. Lui interpreta la variazione di Lucien d'Hervilly di Paquita di
Edouard Ernest Deldevez e Léon Minkus.»
Antonio non poté fare a
meno di sorridere, mentre le luci si abbassavano e dalle quinte di
sinistra proveniva un rumore felpato di mezze punte. Lovino aveva
scelto un balletto ambientato in Spagna, in cui Paquita era una
giovane gitana e Lucien un ufficiale francese che si sarebbe presto
innamorato di lei. Dopo anni di creature irreali, Paquita aveva
rappresentato di nuovo il trionfo della passione e di una fanciulla
viva e vera nella storia del balletto. Era una delle opere che
Antonio preferiva, perché il paesaggio spagnolo sullo sfondo
lo
aveva sempre fatto sentire a casa, quando gli era capitato di danzare
lontano dalla sua bella terra e di interpretare uno dei personaggi di
quel celebre balletto.
E il fatto che ora Lovino si calasse nei
panni di uno di loro era indiscutibilmente un segno del
destino.
[206] Lovino
Vargas;
Il fatto che il primo jeté fosse andato bene non
significava che sarebbero andati bene anche tutti gli altri. Infatti,
la più piccola incertezza prima di un passo, lo
deconcentrava.
Lovino ed il suo amore per danza erano conosciuti nelle terre
calde dell'Italia. Un ragazzo che studiava in una piccola scuola ad
almeno un'ora di autobus da casa, un maestro severo che sembrava
esigere più di quanto lui potesse dare. Il fatto che fosse
portato o
meno non importava, se voleva ballare – e con
“ballare”
l'insegnante intendeva “ballare davvero”, su un
vero palco, con
una vera orchestra e davanti a un vero pubblico – Lovino
doveva
impegnare tutto se stesso, a partire dalla punta dei piedi per finire
alla cervello. Doveva svuotare la sua mente, uscire da Lovino e
diventare Lucien, Solor, Sigfrido, Conrad, Romeo, James, Albrecht o
Basil.
Ogni volta che ballava Lovino preferiva ripetersi quelle
parole, piuttosto che la coreografia. Ricordare il viso del suo
maestro mentre gli urlava le parole “en dehor!” con
la stessa
voce di un soldato che gli puntava un fucile contro il petto.
Per
questo il tour a l'aire risultò piuttosto semplice, con un
plié che
non lo fece titubare, il sorriso mentre sollevava un braccio e uno
sguardo rivolto ai giudici.
Ballare lo faceva sentire a casa, lo
faceva tornare nel suo piccolo paese, in cui ogni incontro con i
coetanei diventava una sfida, in cui i bambini si rincorrevano senza
uno scopo ben preciso o cominciavano ad interessarsi alle
“ragazze”.
E adesso lui era uno di loro, di nuovo, che ballava davanti davanti
alla più carina, quella con i capelli neri, la pelle un po'
scura ed
un fiore stretto tra le mani. E magari si chiamava Paquita.
Notò
lo scatto di un fotografo, mentre aveva il mento alto, un'espressione
completamente diversa dalla solita ed una gamba alzata oltre i
novanta gradi. Aveva ragione, sua madre, quando diceva che durante un
balletto Lovino sembrava un'altra persona. E poi gli batteva una mano
in testa e gli arruffava i capelli.
Una piroetta perfetta e Lovino
tornò indietro, sul fondo del palco. E adesso arrivava la
parte che
lui aveva sempre considerato la più difficile, quella
durante la
quale il suo maestro gli urlava di incollare i piedi al pavimento e
di non indugiare durante un salto. Lui eseguì, e salto dopo
salto
tutto gli sembrava più semplice e il suo corpo diventava
più
leggero, già si immaginava l'espressione di Feliciano che
gli
correva incontro e lo abbracciava, o quella di Antonio che si sarebbe
complimentato con lui con quella faccia da idiota e-
Gli erano
bastati un paio di secondi, dopo l'ultimo salto Lovino finì
la
variazione su un ginocchio, ma poggiò una mano a terra per
non
perdere l'equilibrio. Ovviamente quel gesto gli avrebbe fatto perdere
punti, e sperava vivamente che almeno un paio tra i giudici non
l'avessero notato.
Si alzò in piedi e dopo un inchino veloce
scappò via. Doveva trovare Antonio e strozzarlo il prima
possibile,
perché la colpa naturalmente era di quel bastardo, che gli
tornava
in mente nel momento sbagliato.
[619] Arthur
Kirkland;
Arthur continuò a fissare lo schermo fino
all'ultimo nanosecondo prima che diventasse completamente nero. Quel
concorso doveva coinvolgerlo parecchio, se era così
interessato ad
ognuno dei partecipanti.
«Andiamo, Kirkland», buttò
giù
Alfred, battendogli una poderosa manata sulla spalla, «non
fare
quella faccia da pesce lesso.»
“Kirkland”, che fino a quel
momento aveva preferito ignorare quel ragazzone egocentrico piuttosto
che avere una nuova conversazione con lui, si voltò
semplicemente
per fulminarlo con gli occhi.
«Non ho una faccia da pesce lesso,
Jones.»
Alfred
gli mostrò trentadue denti bianchi e avvolse le dita attorno
al suo
braccio sinistro.
«Che stai facendo, razza di pachiderma rapito
dal suo habitat?!»
«Andiamo a farci un giro! Non dirmi che hai
ancora voglia di stare qui a riflettere sulla figuraccia che farai tu
su quel palco!»
Arthur arrossì fino alla punta dei capelli, per
la rabbia, decisamente non per l'imbarazzo, e strattonò
inutilmente
il braccio. Infatti la presa di Alfred rimase salda e il suo
sorrisone non mutò di una virgola.
«Non farò una figuraccia e
non avevo nemmeno intenzione di rimanere qui!»
«Allora esci con
me!»
«... Cosa?»
Okay, forse la sua voce poteva sembrare un
po' acuta e vagamente isterica adesso, ma chiunque avrebbe reagito
così qualora un ballerino alto e biondo chiedesse di uscire
insieme
in pieno centro parigino.
«Esci con me! Non è un appuntamento,
sia chiaro, non ho intenzione di allungare le mani su di te o
altro... Anche perché mi è sembrato di averti
detto che il tuo
sedere non mi piace.»
«Sì, lo hai detto.»
«Perfetto,
grazie per avermelo ricordato! Adesso possiamo andare?»
Arthur
balbettò qualche parola senza senso, che riguardava il
concorso, il
fatto che gli fosse stato categoricamente vietato allontanarsi (ah,
gli insegnati che temevano addirittura un leggero raffreddore!) o che
entrambi si erano stancati a lezione e che sarebbe stato meglio per
tutti e due farsi una bella dormita. Ovviamente Alfred, che aveva
orecchie soltanto per se stesso, non sembrò comprendere
nessuno di
quei balbettii.
«Perfetto! Lo sapevo che avresti accettato!»
«Io
non ho accettato! E poi, Alfred, guarda come siamo vestiti!»
Arthur
indicò i proprio pantaloni, leggermente larghi e gli
scaldamuscoli
che nascondevano le caviglie, l'orlo della maglietta bianca nascosta
da una felpa enorme e spessa. E Alfred, con la sua calzamaglia nera e
le scarpe da tennis della stazza di carri armati abbandonate in un
angolo della sala, di certo non era messo meglio.
«Ahahahah!
Andiamo, Kirkland! Nessuno farà caso al tuo abbigliamento se
affianco hai un eroe come me!»
Fu inutile cercare un nesso logico
tra le frasi di Alfred, e in un certo senso fu anche impossibile.
Alfred aveva di nuovo afferrato il suo braccio, trascinato Arthur
verso il suo paio di scarpe da tennis nere con la suola spezzata e
poi indossato le proprie alla velocità della luce. Arthur
notò
anche lo sguardo di Francis che li seguiva, mentre Matthew capiva
meno della metà di quanto stesse succedendo.
Quando la porta del
teatro scomparve alle sue spalle, capì soltanto che il
giorno dopo
avrebbe dovuto evitare di parlarne con chiunque, se non voleva fare i
conti per telefono con le urla isteriche e inferocite della sua
insegnante.
E subito dopo, realizzò in che razza di situazione si
fosse cacciato. Era a Parigi, in Francia, in una delle Nazioni che
più detestava al mondo, con l'americano più
rumoroso e zotico che
avesse mai vissuto sulla faccia della terra.
Non
dovrei mai smettere di scusarmi per l'immenso ritardo col quale
aggiorno le mie FanFiction, ma purtroppo non posso farci nulla dato
che devo studiare per i quiz all'Università. ;w; Ad ogni
modo, spero
che possiate perdonarmi e che continuiate a seguirmi
comunque!
Ammetto che inizialmente il ballerino di questo capitolo
avrebbe dovuto essere Antonio, ma poi ho finito per scegliere Lovino
dato che per Antonio ho trovato una variazione decisamente
più
appropriata. ù__ù Quindi, chi nella recensione
aveva scritto che
probabilmente ci sarebbe stato Antonio... Beh, in un certo senso
aveva detto bene!
Se a qualcuno potesse mai interessare la storia
del balletto Paquita (anche se ne dubito xD) può facilmente
trovarla
qui Paquita.
:3 Anche se le informazioni
di Wikipedia sono scarne e in giro non se ne trovano di migliori.
D:
Ad ogni modo, adesso passo alle risposte alle vostre recensioni
che sono state talmente tante da stupirmi ogni volta che quel
numerino aumentava di uno! Grazie mille, siete stati tutti molto
gentili! :D
AlterNeko:
mi fa piacere sapere che l'idea di accostare la variazione al
capitolo ti sia piaciuta! *___* Credo che continuerò a farlo
con
tutti, perché mi rendo conto che è praticamente
impossibile
conoscere a memoria tutti i balletti (nemmeno io so alla perfezione
le variazioni maschili! XD). E sono felicissima di sapere che l'idea
della danza non ti annoi, ma che ti stia facendo appassionare a
quest'arte, dato che ho sempre il terrore di ammorbare qualcuno!
Grazie mille per la tua recensione, sei sempre gentilissima! Un
bacio<3
Ichibanme_Arisu:
io te l'ho promessa quella fic e se la continuerò
sarà solamente
per te, sappilo! :D Credo di inserire Svezia nel prossimo capitolo o
in quello successivo, ma non come partecipante al concorso, dato che
nel primo capitolo li avevo già elencati tutti. Adesso ti
saluto con
un “cesso del capo” u___ù Grazie per la
tua recensione! :D
Fire
Angel:
Matthew comparirà presto, in questo capitolo ho preferito
dare più
importanza alla Spamano! ^^; Ma comunque sappi che il canadese prima
o poi sarà MOLTO, ma MOLTO importante e soprattutto non
sarà più
invisibile! :D E con questo ho detto troppo, quindi basta spoiler.
ù_ù Noto che a leggere questa fic ci sono
comunque molti disertori
della danza classica, almeno sono riuscita a riunirvi! *___* Spero
che la storia continui ad appassionarti (nonostante l'USA/UK xD) Al
prossimo capitolo!
Robbuccia:
Sìsì, Tino ci sarà! Non come
partecipante, ma presto apparirà al
fianco del suo Susan! :D Sono contenta che ti piaccia Antonio, e
spero che continui a piacerti anche in questo capitolo, dato che ho
il terrore di andare OOC ogni volta che non scrivo di Alfred e di
Arthur. D: Con la speranza che questo capitolo non ti faccia
totalmente schifo, ti saluto! ;D
Aka
Tomate:
okay, FrUK no, USUK no, GerIta no, PrUngheria... Boh? Vabeh, almeno
c'è la Spamano che ti piace! >:D Sono contenta che le
risposte
scurrili di Lovino siano state di tuo gradimento, ammetto che mi
diverto non poco a scriverle! E spero di non aver rovinato la tua
coppia con questo capitolo, dato che non sono molto brava –
anzi,
dato che non sono affatto brava a scrivere su di loro. E non dire che
a danza facevi schifo, secondo me avevi un talento nascosto che
tardava a rivelarsi! :D Baci, a presto!
Lalani:
sappi che quando hai scritto di aver visto il Lago dei Cigni alla
Scala sono rimasta per almeno cinque minuti a fissare lo schermo del
pc e a rodere dentro per l'invidia... Le mie esperienze purtroppo si
limitano a due. D: Con Feliciano ci eri andata vicino, dato che poi
si è trattato di Lovino. Ma la variazione di Feliciano
sarà più
incentrata sulle doti di un personaggio un po'... Amatore?
Innamorato? Non so, non saprei come definirlo senza farlo capire,
visto che Feliciano interpreterà la parte di uno dei
protagonisti di
una storia che tutti conosciamo. :3 Spero che anche questo capitolo
ti sia piaciuto, baci<3
eithriadol__:
tu donna, e questo nick difficile che non so mai scrivere e che non
sono sicura di aver scritto bene. Innanzitutto sappi che una
recensione forzata è per sempre una recensione e che si ti
pesa il
culo (o le dita) a scrivere tu devi farlo lo stesso perché
mi vuoi
bene. Passando ad altro, sono contenta che i personaggi ti siano
sembrati IC, dato che io ho odiato ognuno di loro e soprattutto me
stessa per aver scritto così male (e non osare contraddirmi,
fic
mia, comando io!). I cessi
col
mento valli a fare tu, ILU<3
giuliettaz91:
leggere una recensione così, di una persona che non conosce
la danza
ma che comunque mi scrive che la mia fic le piace, mi rende veramente
felice! Ammetto che all'inizio ero un po' scettica anche io a
scrivere una storia del genere, dato che viene difficile immaginarsi
un Alfred in calzamaglia (stesso dicasi per Ludwig, ad esempio), ma
poi l'ho fatto e non sono più riuscita a fermarmi! *___*
Spero che
la storia continui a piacerti e grazie mille per la tua recensione!
Un bacio =)
inuyasha94:
e qui c'è tanto USUK (nonostante la presenza dilagante di
Spamano)
quindi spero di averti fatta felice. E nel prossimo capitolo, penso
di descrivere anche questo fantomatico pseudo-appuntamento!
ù__ù E
Ludwig che mette allegria credo sia una cosa più strana di
vederlo
ballare! XDDD Un bacio e a presto!
AliDiPiume:
credo che quella recensione la salverò la
stamperò e me la
appenderò in camera, dato che è qualcosa di
contemporaneamente raro
e divertente! Magari qualche volta bevi un bicchierino dopo una fic,
così ripeterai l'esperienza! :D Kiku sappi che è
un'incognita anche
per me che scrivo, questa fic è stata così
improvvisa che non ci ho
ancora pensato, detta in tutta sincerità.
ò_ò L'unica certezza è
che non finirà MAI e poi MAI con Alfred o Arthur. Amen.
Nella
speranza che tu continui a seguire (e magari a recensire in pieno
delirio alcolico) ti saluto! :DDD
smary:
sono felice che l'Icness (ma a me piace un sacco questa parola xD) di
Elizaveta, Lovino e Matthew ti sia piaciuto.. E ammetto che per
l'ultimo ho una specie di predilezione, dato che dopo Arthur
è il
mio personaggio preferito! :D E sono ancora indecisa se salvarlo o
meno dalle grinfie di Francis, ho bisogno di tempo per rifletterci un
po' su. u__u Per ora ti saluto, un bacio e un grazie immenso per la
recensione!
Stefy_rin:
nonostante tu non conosca la danza, sei riuscita quasi a indovinare.
Paquita, la gitana spagnola, e Antonio (che poi però ho
deciso di
sostituire con Lovino). E sono veramente contenta che le scene
appaiano realistiche, dato che in questa fic mi sono sganciata
MOLTISSIMO da Hetalia e ho calato i personaggi in vesti completamente
diverse. Spero che continuerai a seguirmi, baci<3
IlyuChan:
sono veramente lusingata dal fatto che la storia ti piaccia
così
tanto! *__* E ammetto che la tua recensione mi ha fatto quasi...
Sì,
emozionare. In questo capitolo Antonio e Lovino hanno avuto molto
spazio, ma sappi che non finisce qui, dato che voglio combinare
qualcosa a questi due. :3 Sono contenta che tu ti stia interessando
anche alla danza, dato che è la mia più grande
passione e che mi
piacerebbe condividerla praticamente con chiunque! :D Grazie mille
per la tua (bellissima recensione), a presto! =)
Aerith1992:
felicissima che la storia ti piaccia e spero che anche quest'altro
capitolo ti faccia appassionare! Baci e a presto! *___*
E
nel prossimo capitolo, finalmente una ragazza! =)
Giselle;
E
come sarà andato l' “appuntamento” di
Alfred e Arthur? E Antonio
sarà sopravvissuto alle grinfie di Lovino?
:D
E...
Le
vostre recensioni mi hanno resa contentissima e ogni volta rispondere
è un vero piacere, spero che questa fic continui a piacere a
voi e a
me e che io possa ancora condividere la mia passione e le mie idee
con i lettori.
Grazie a tutti quanti.
Bye!
♥
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Capitolo 4 *** [231] A lei bastava soltanto ballare, Giselle. ***
[619]
Arthur
Kirkland;
«E poi ho fatto uno stage con l'American Ballet e
tutto mi è sembrato più facile. Sai, credo di
essere portato per
stare sul palcoscenico, la gente che mi guarda e che mi acclama...
Sì, è decisamente quello che fa per me. Mi fa
sentire bene e
soprattutto amato. Penso che ballare mi piaccia proprio per questa,
perché amo l'idea di una platea che ha gli occhi puntati
solo e
soltanto su di me.»
Il monologo che Alfred aveva intrapreso
almeno tre quarti d'ora prima lo stava stordendo. Arthur, con in mano
una bottiglia d'acqua e un sandwich leggero, ne risultava quasi
intontito, travolto da quel fiume di parole strascicate con accento
oscenamente americano. E Alfred, col suo bicchierone di Coca Cola
colmo fino all'orlo e il suo cheeseburger triplo, sembrava averne
ancora per molto.
«La prima volta che ho ballato su un vero palco
è stato quando avevo dodici anni. Conosci il Youth American
Grand
Prix? Ecco, era quello. E ovviamente un eroe come me è
arrivato in
finale! Portavo la variazione di Albrecht di Giselle, conosci? Eh
sì,
ovvio che la conosci, figuriamoci. E sembrava fatta apposta per me,
sai? Un innamorato che crede di salvare la sua donna dalla morte! Ah,
soltanto un eroe come me poteva interpretare così bene un
balletto
del genere!»
Probabilmente, se Alfred parlava così delle imprese
compiute durante i suoi anni di carriera, doveva avere alle spalle
parecchie vittorie, la mensola della camera da letto colma di coppe e
trofei e le mura tappezzate di foto che lo ritraevano con i
più
grandi nomi della danza.
«E quindi hai vinto? Al Youth American
Grand Prix intendo.»
Invece Alfred borbottò qualcosa riguardo al
fatto che la finale fosse più che truccata –
qualcosa che alle
orecchie di Arthur suonò molto poco convincente –
e affondò i
denti nel suo panino.
Qualche minuto dopo, trascorso in un
rigoroso (quanto sacro) silenzio, si sedettero su di una delle
panchine che si trovavano di fronte al teatro. Il palazzo era
illuminato completamente, ricoperto di sfumature gialle, arancioni e
rosa. Ad Arthur tutto quello sembrava un sogno che prendeva vita,
calpestare gli stessi pavimenti sfiorati dai piedi delle più
grandi
celebrità. Nomi come Margot Fonteyne, Rudolf Nureyev o i
più
recenti, come Isabelle Guerin o Elisabeth Platel. Il suo sogno
diventava concreto e si trasformava nell'immagine di Emmanuel
Thibault o di Manuel Legris che regnava sul palco dell'Opera di
Parigi.
«Davvero bello, non trovi?»
Arthur sussultò, era
così preso dai suoi pensieri che si era completamente
dimenticato
della massiccia presenza che se ne stava seduta accanto a lui e che
sorseggiava quantitativi inimmaginabili di Coca Cola.
«Sì»,
mormorò, annuendo, «Parigi è una bella
città. Peccato per i
francesi.»
Era ormai noto a tutti i partecipanti al concorso
ormai (specialmente ad Alfred o a Francis stesso) che Arthur non
amava molto i francesi, e che dover rimanere in Francia per almeno
due settimane non gli piaceva come idea, né lo faceva
sentire al
sicuro. Gli sembrava un posto subdolo e talvolta ingannevole. Non era
affatto come la sua Londra, bella, elegante e sicura quando
attraversava la strada.
«E tu invece?»
«Cosa?», domandò,
voltandosi di nuovo a guardare Alfred.
«Non mi hai detto niente
di te. Non che mi interessi, sia chiaro, ma preferisco conoscere i
miei avversari, per quanto siano innocui! Aahahahah!»
Arthur
sollevò un sopracciglio, chiedendosi se quella fosse
un'offesa o
l'ennesima sciocchezza fuoriuscita in maniera incontrollata da quelle
labbra sporche di briciole.
«Cosa dovrei dire, sentiamo.»
«Che
ne so... Che variazione porti, quanti anni hai – questo
perché ho
fatto una scommessa con Antonio –, qualcosa sulla danza, uno
stage,
un concorso.»
«James, dalla Silfide, hai presente? Ho
l'impressione che tu non oltrepassi l'ignoranza, purtroppo. Ho
ventitré anni. Che genere di scommessa? Uno stage col Royal
Ballet,
un paio di anni fa e tre concorsi.»
Arthur cercò di essere più
telegrafico possibile, mentre Alfred sbadigliava, si stiracchiava e
allungava un braccio appoggiandolo poi allo schienale della panchina,
proprio dietro l'altro ballerino.
«Giusto, stavo quasi
dimenticando l'impegno preso, piazzarmi sotto il palco e fotografarti
le mutande – perciò frena la lingua, Kirkland, so
cos'è la
Silfide. E comunque, io e Antonio cercavamo di capire quanti anni
hai. Mi davi l'idea di uomo vissuto che non invecchia mai, non
più
di quanto lo sei ora almeno, tipo gli Highlinder. Non vivono
lì da
te?»
«No, vivono in Scozia.»
«È quello che ho detto,
l'isola è la stessa. Ad ogni modo, Antonio era per i trenta,
io per
sicurezza gli ho risposto che un trentacinque ti calzava a
pennello.»
«Non so chi di voi due odio di più.»
«Ahahahah!
Non preoccuparti, non dirò a nessuno che in
realtà sei
giovane!»
Nel frattempo, Alfred ne approfittò per stringere la
spalla di Arthur con una mano e tirarlo a sé, mentre Arthur
sembrava
voler strangolare la sua bottiglia oppure incenerire le aiuole di
fronte a loro con il solo uso dello sguardo.
«Andiamo, Arthur! Lo
sai che stavo scherzando!»
«Sì», borbottò, guardando
Alfred
con aria arrabbiata, «ma non è
divertente.»
Alfred ricambiò la
sua occhiataccia con un enorme sorriso, uno di quelli che potevano
abbagliare, uno di quelli che, uniti allo sfondo del teatro
dell'opera, all'atmosfera parigina e al calore del braccio di Alfred
attorno alle sue spalle, avevano il potere di ridurre il quoziente
intellettivo di Arthur ad un misero zero. Alfred abbassò
leggermente
il viso, Arthur mosse le caviglie negli scaldamuscoli di lana e
trattenne a stento un lamento dovuto un po' all'ansia e un po' alla
preoccupazione.
E nel frattempo il viso di Alfred era sempre più
vicino, i centimetri diminuivano e il battito cardiaco aumentava,
così vicino da rendere visibile ogni particolare del suo
viso, e
fortunatamente Arthur ebbe il tempo necessario per registrarli
tutti.
Nonostante la temperatura si fosse abbassata parecchio,
Arthur riusciva a sentire soltanto il calore. Eppure qualche ciuffo
biondo cominciava a rizzarsi dietro il suo collo, e aveva la pelle
d'oca sulle braccia e sulle gambe.
«Io... Io devo tornare in
camera mia», disse all'improvviso, facendo allontanare Alfred
nell'immediato, «la mia insegnante mi ha raccomandato
più volte di
non andare a letto troppo tardi.»
Detto questo, Arthur si alzò
di scatto e camminò velocemente in direzione del loro
albergo, senza
nemmeno preoccuparsi di conoscere la reazione di Alfred.
[342]
Gilbert
Beilshmidt;
Alla fine era riuscito a scoprire il nome di
quella ragazza. E grazie a quei ficcanaso di Francis e Antonio era
venuto a conoscenza di parecchi altri aneddoti sul suo conto.
Elizaveta era nata e cresciuta nel cuore dell'Ungheria, aveva
conosciuto Aleszja Popova e più volte aveva ballato con nomi
importanti del Balletto Ungherese. A primo impatto non sembrava
essere una ballerina, gli accenni di curve e l'atteggiamento un po'
mascolino non richiamavano la figura leggera ed armoniosa della
danzatrice. Nonostante ciò però, Elizaveta era
bella. Una bellezza
che non appassiva, Elizaveta era come un fiore, dai lineamenti
morbidi come petali.
A Gilbert non capitava spesso di fare
pensieri del genere, anzi, a Gilbert non capitava mai
di fare
pensieri del genere. Eppure, con lei, non era possibile che non
accadesse.
Se avesse dovuto usare un solo aggettivo per
descriverla, Gilbert avrebbe scelto la parola
“luminosa”.
Elizaveta era una persona raggiante, di quelle che con un sorriso
potevano stregare centinaia e centinaia di spettatori.
«Hai di
nuovo la bocca aperta.»
Gilbert la chiuse di scatto, sentì i
denti battevano gli uni contro gli altri, seguiti dallo sghignazzare
di Francis e di Antonio.
«Ma voi due non avete niente di meglio
da fare che stare qui a fissarmi? Andate via, per favore, mi date sui
nervi.»
«Mh, non
è che quando
torniamo ti troviamo appollaiato da qualche parte nelle vicinanze del
camerino di-»
«Francis, sparisci.»
Antonio avvolse un
braccio attorno alle spalle dell'amico, che, quasi offeso, si diresse
verso la sbarra opposta.
Gilbert ringraziò il cielo; qualcuno gli
aveva in quel momento concesso la grazia di starsene un po' in pace e
continuò a rimanere in silenzio, godendosi la
tranquillità che non
riusciva mai a trovare quando Antonio e Francis erano con lui o a
meno di dieci metri da lui.
Probabilmente l'amicizia che si era
velocemente stretta tra loro era dovuto al fatto che tutti e tre
fossero fondamentalmente molto estroversi e che ognuno di loro avesse
un valido motivo per cercare l'appoggio altrui. Antonio... Beh,
Antonio aveva praticamente monopolizzato le orecchie di Francis con
un unico argomento: Lovino Vargas, numero duecentosei, italiano.
Francis aveva fatto lo stesso per Arthur, con l'unica differenza che,
se Lovino era stato elogiato fino alla nausea, Arthur era stato
descritto come una specie di esserino spregevole che adorava infilare
il coltello nella piaga e rigirarlo, paragonabile a un poltergeist
(visto l'inspiegato amore dell'inglese per le creature magiche)
dispettoso e malefico. Gilbert, al contrario degli altri due, non
aveva nessuno da giudicare, non cercava un amico o un punto di
riferimento, per lui quel legame era nato in maniera spontanea e
adesso sembrava un po' un gomitolo che lo proteggeva da tutti gli
avversari.
Elizaveta gli passò davanti, un body verde e le calze
bianche, Gilbert sussultò e cominciò a saltare
per riscaldarsi...
Oppure per farsi notare.
[192] Ludwig
Beilshmidt;
Alla fine era sempre la stessa, identica storia.
Ludwig ci aveva quasi fatto il callo, la mano di Feliciano che
stringeva forte il suo braccio, le urla concitate e i sorrisi rivolti
praticamente a chiunque, persino agli sconosciuti. La schiena che si
allontanava veloce e il ricciolo di capelli castani che ondeggiava ad
ogni passo. Poi di nuovo la sua voce, dolce e soave, e le sue mani
che stringevano quelle di qualcun altro.
Alla fine era sempre la
stessa, identica storia, e Ludwig la sopportava e ne era addirittura
un po' divertito. Feliciano gli chiedeva di fare una passeggiata
insieme e poi finiva col salutare chiunque e col parlare con ogni
conoscente che incrociasse – eccezion fatta per soggetti come
Arthur, che era sempre troppo burbero con lui, o come Ivan, che
riusciva a farlo tremare con un normalissimo sorriso.
«Ve, Lud!
Sapevi che oggi tocca ad Elizaveta?»
La ragazza gli rivolse un
sorriso, mentre Feliciano continuava a stringerle le mani e ad
agitarle, e Ludwig, a qualche metro da loro, sospirava rassegnato.
«Che variazione porti? Anzi, voglio indovinare!»,
le disse,
pieno di entusiasmo, mentre la ragazza ungherese rideva e sistemava
dietro un orecchio una ciocca di capelli sfuggita allo chignon.
«Mmm... Swanilda da Coppelia? Oppure... Gulnara! Gulnara ed
il
giardino di fiori! Ve, saresti perfetta!»
Ma Elizaveta scosse la
testa e Feliciano aggrottò le sopracciglia, mentre Ludwig si
domandava per quale assurdo motivo, ogni volta, cadesse in quella
trappola. Accettare di fare una passeggiata per il teatro o
nell'albergo in compagnia di Feliciano portava sempre alla stessa
soluzione – di lui che stava immobile, con le braccia
incrociate al
petto e dell'italiano che parlava a raffica.
«Ve, non credere che
io mi arrenda tanto facilmente!»
Ludwig assunse un'espressione
scettica e guardò Elizaveta, che aveva un sopracciglio
sollevata e
la faccia di chi sta per scoppiare a ridere.
«Allora tu sei...
Giselle?»
Quando Elizaveta annuì, Feliciano scoppiò in una
fragorosa risata. E Ludwig ovviamente provò molto imbarazzo
al posto
suo, lo avrebbero sentito nel raggio di centinaia e centinaia di
metri (o addirittura di chilometri), visto quanto era rumoroso e
vivace.
«Veee! Ci avrei scommesso! Sì, sapevo che prima o
poi ci
sarei arrivato anche io!»
Certo, dopo un trilione di tentativi o
giù di lì.
E a quel punto, dopo una serie interminabile di
convenevoli, una buona dozzina di baci e di schiocchi sulle guance,
dopo un paio di abbracci spezza-ossa, dopo un'infinità di
“ciao”
e di “in bocca al lupo”, dopo un “ti
voglio bene” detto forse
con una dose eccessiva di ingenuità, Feliciano afferrava di
nuovo la
mano di Ludwig e riprendeva a camminare, chiedendogli dove fossero
arrivati e ricevendo soltanto una specie di grugnito.
«Ehi Lud,
hai visto quanto è gentile Elizaveta? Ve, io credo che sia
una delle
ragazze più carine che ci siano qui dentro. Anche Natalia
è molto
bella, però mi fa un po' paura... Beh, anche il suo amico
Ivan mi fa
un po' paura. E... Non te la prendere, però anche tu a volte
mi fai
paura, sai? Hai sempre quella faccia seria quando mi guardi...
Esatto, intendo proprio quella che stai facendo ora! Invece tuo
fratello sembra più simpatico, sai? Non so, siete molto
diversi tu e
lui! Un po' come me e Lovino, o come Alfred e... E come si chiama suo
fratello? Non lo ricordi nemmeno tu? Che peccato... Ad ogni modo,
credo che a tuo fratello Gilbert piaccia Elizaveta, lo sai? Un giorno
mentre Francis mi aiutava a fare stretching-»
«Francis ti
aiutava a fare cosa?»
«Stretching?»
«Sì!»
«Con
Francis?»
«Esatto, Lud!»
«Credo sia una cosa pericolosa
quasi quanto il bunjee jumping.»
Feliciano non sembrò capire al
volo cosa Ludwig intendesse e il tedesco sospirò. Quel
ragazzo era
veramente troppo ingenuo e in un ambiente come quello aveva veramente
poche speranze di sopravvivenza. Ovviamente lui non credeva che
Francis fosse una persona talmente subdola da ferire Feliciano o
causargli qualche strappo muscolare forzandolo nei movimenti, ma era
più che certo che avesse allungato le mani un po' troppo e
più di
una volta... La cosa non avrebbe dovuto minimamente interessargli, ma
purtroppo riusciva a percepirla a pelle.
[231]
Elizaveta
Héderváry;
Il degas era in ordine, i capelli anche. I nastri
delle scarpe da punta erano nascosti e schiacciati contro le
caviglie. Il trucco le piaceva, soltanto un azzurro accennato e due
linee di matita che le mettevano in risalto gli occhi. Eccezion fatta
per il pesante maglione di lana e per gli scaldamuscoli rosa,
Elizaveta era pronta per entrare in scena.
Nella stanza era
rimasta soltanto Lili a farle compagnia, probabilmente
perché lei
era l'unica persona con la quale la quindicenne fosse riuscita a
legare – e fortunatamente, almeno con Elizaveta, aveva vinto
la
timidezza.
Lili le accarezzò la spalla e sorrise, mentre la luce
soffusa rendeva la sua immagine vagamente poetica. L'ombra degli
zigomi, gli occhi grandi, il collo sottile e le clavicole che
sporgevano come due matite, il corpo fasciato dalla lycra sottile di
un body color panna.
«Sei agitata?»
Elizaveta annuì,
continuando a fissare il palco e a mordere l'unghia dell'indice
destro.
«Un po'... Ma sono sicura che quando sarò
lì, l'ansia
passerà.»
Lili le strinse la mano e accennò ad un sorriso,
mentre qualcuno sussurrò ad Elizaveta che aveva appena altri
cinque
minuti.
«Allora io vado a vederti assieme agli altri, okay? Fa'
del tuo meglio!»
Agitò una mano nella sua direzione, Elizaveta
le rispose con lo stesso gesto e poi si sfilò uno degli
scaldamuscoli, accorgendosi che le tremavano leggermente le mani,
nonostante avesse cercato di fare la dura con tutti, convincendo se
stessa che l'emozione e la paura non potevano di certo metterla fuori
gioco.
Da quel concorso non dipendeva la sua vita, da quel
concorso non dipendeva quasi niente. Forse solo un po' di
soddisfazione e di orgoglio, una buona raccomandazione con qualche
compagnia emergente, magari una borsa di studio, ma nulla di
più. Il
talento avrebbe potuto compensare ognuno di quei premi.
C'erano
modi e modi di vivere quel concorso, Elizaveta se lo ripeteva sempre.
C'era chi arrivava lì lottando con le unghie e con i denti,
come
Arthur, che cercava di emergere sugli altri e di dimostrare il suo
valore; c'era chi finiva lì per puro caso e sembrava
più divertito
dalla situazione che preoccupato per l'avvenire, come Alfred; chi
sapeva già dall'inizio di arrivare fino in fondo, fino al
podio,
come Ivan; chi sperava di vincere qualcosa per il solo gusto di
essere notato da qualcuno, come Matthew; e chi, come lei, che non
dava troppo peso a nessuna di queste cose, perché
l'importante era
ballare.
Giselle,
a
lei bastava soltanto ballare.
«Numero
duecentotrentuno, Elizaveta Hedèrvàry,
dall'Accademia Nazionale di
Balletto Ungherese. Lei interpreta la variazione di Giselle di
Adolphe Charles Adam. »
Elizaveta sorrise e sollevò il mento, la
musica iniziava e lei entrò sul palco, sfiorando il tulle
bianco con
la punta delle dita. In quel momento sembrò dimenticare
tutto, tutte
le persone che probabilmente stavano assistendo, chi aveva fiducia in
lei e chi sperava che non ballasse al massimo, i ballerini
accovacciati davanti a un televisore, Lili che probabilmente ripeteva
a se stessa che tra qualche anno, se doveva diventare qualcuno,
voleva assolutamente somigliarle, Feliciano, Ludwig e tutti gli
altri.
La sua ombra si muoveva assieme a lei, Elizaveta si rese
conto che era l'unica che veramente poteva starle accanto anche
mentre danzava, nonostante dietro le quinte ci fosse la sagoma di
Gilbert che continuava a spiarla a bocca aper-
Elizaveta lo ignorò
completamente, ma sentì chiaramente quel brivido freddo
lungo la
spina dorsale. Un ragazzo che oltrepassava la sicurezza e si
appollaiava su una delle colonne che reggevano il telo sullo sfondo
del palco, che restava a guardarla per tutta la durata della sua
variazione.
Suo malgrado, Elizaveta sorrise di nuovo. La presenza
di Gilbert, in un certo senso, confermava il fatto che suo
personaggio doveva assomigliarle parecchio, ora che se ne rendeva
conto, una giovane contadina che aveva la passione per la danza e che
amava muoversi tra le vie del suo villaggio – un po' come lei
da
bambina, che tornava a casa con gli stivali sporchi di fango
perché
aveva saltato veramente troppo mentre tornava da scuola. E il giovane
principe, travestito da popolano, che si incantava a guardarla mentre
ballava.
Elizaveta strinse tra le dita l'orlo della gonna,
sollevandolo appena, mentre saltellava su un piede, la punta
perfettamente stesa e le braccia morbide ed eleganti, come se
eseguire quella diagonale fosse la cosa più naturale del
mondo.*
Sentì un applauso provenire da qualche parte, nella zona
della giuria, e un altro battito di mani, più distinto e
vicino,
dalle quinte alla sua destra. Molto probabilmente Gilbert era ancora
lì, e preferiva dare nell'occhio e farsi notare anche lui,
piuttosto
che continuare a guardarla senza disturbare.
E infine i giri, e il
palcoscenico era di nuovo tutto intorno a lei, la giuria continuava a
guardarla e Gilbert rischiava di cadere e (magari) di rompersi l'osso
del collo senza darle il disturbo di intervenire. Elizaveta
distingueva chiaramente la circonferenza disegnata dal suo stesso
degas che si gonfiava e che girava con lei, il rumore delle punte di
gesso che scivolavano sul pavimento con velocità, gli
sguardi, i
sorrisi e i volti che annuivano. Doveva essere andata bene, per
forza.
Quando si fermò, tutto tornò al suo posto,
eccetto
qualche penna che continuava a segnare un po' di appunti.
Uno dei
giudici annuì e sorrise nella sua direzione. Per quanto
potesse
essere fantastico ed impressionante avere avuto così tanto
successo
in una competizione di quel livello, Elizaveta pensò che in
fondo
aveva soltanto fatto ciò che le veniva più
naturale.
Ballare.
[411] Ivan
Braginsky;
Yao Wang era una persona un po' difficile da
capire, dato che la maggior parte delle volte tendeva ad evitarlo. E
adesso che ci pensava razionalmente, Ivan si rendeva conto che la
maggior parte delle persone, lì dentro, tendeva ad evitarlo
–
esclusa Natalia ovviamente, che sembrava sin troppo incline a voler
misurarsi con lui (oppure ad assalirlo).
La cosa non lo
sorprendeva, in fondo ci aveva fatto il callo e aveva capito che la
sua, tra tutte le altre, era la posizione più vantaggiosa.
Ivan si
era concesso il lusso di osservare i suoi avversari, nonostante il
più delle volte fosse veramente difficile farlo e arrivare
ad una
conclusione sensata.
Eppure, giorno dopo giorno, aveva passato in
rassegna ognuno di loro.
Aveva avuto occasione, quella mattina, di
sedere allo stesso tavolo di Alfred ed Arthur e aveva confermato
tutte le ipotesi che erano nate su di loro. E aveva fissato Alfred,
ovviamente, e aveva notato una specie di sguardo di sfida che a Ivan
piacque particolarmente. Francis invece non lo aveva preoccupato, era
seduto accanto a lui adesso, e rideva mentre Elizaveta inseguiva
Gilbert agitando una padella – e Ivan si domandò
come diamine
fosse possibile trovare una padella in un teatro, ma restò
un dubbio
totalmente irrisolto.
Feliciano, Lovino, Ludwig e Antonio. Poi
Natalia, Lili e la stessa Elizaveta. Kiku era più
complicato, troppo
taciturno per riuscire a studiarlo con precisione, e anche con Yao
aveva avuto problemi.
«Hai intenzione di mantenere la tua
promessa, aru?»
Ivan sollevò il mento di scattò. Davanti a lui,
Yao teneva le mani infilate nelle tasche di una felpa pressapoco
enorme.
«Io mantengo sempre le mie promesse», rispose,
cercando
di mascherare la sua sorpresa dietro al suo solito sorriso.
La
verità era che non si aspettava che Yao andasse veramente da
lui.
Quella mattina a lezione aveva avuto occasione di parlare con lui per
la prima volta – o di avvicinarsi quantomeno ad un accenno di
conversazione. Yao gli aveva confessato di temere un po'
“tutti
questi odiosi europei, aru” e di temere la competizione in
sé, di
preferire il clima tranquillo che si respirava in Cina e di essere
stato trascinato a Parigi forse un po' controvoglia.
“Con questo
non voglio dire che io non ne sia felice, aru”, gli aveva
sussurrato, “ma a volte penso che questo genere di gare sia
del
tutto inutile, aru. Perfino l'ultimo in classifica può
meritare il
primo premio, ma non essere riuscito a raggiungerlo perché
magari
era una giornata no.”
Ed effettivamente Yao aveva ragione, ma
purtroppo la giuria non perdeva di certo tempo a chiedersi se il
ballerino fosse in piena forma o meno.
Per questo motivo Yao gli
aveva chiesto un favore, senza nemmeno domandarsi se Ivan, dopo,
avesse mai potuto pretendere qualcosa in cambio.
“Sei russo,
aru. Tu puoi aiutarmi.”
«Allora andiamo.»
Ivan si alzò e
sorrise, Gilbert sfrecciò davanti a lui seguito a ruota da
Elizaveta, Yao rivolse loro un'occhiata seria e si incamminò
verso
l'uscita.
*la diagonale che comincia dal secondo
1:14
Eccomi
tornata!
Chiedo subito scusa se questo aggiornamento arriva con un
particolare ritardo, ma ho avuto un paio di settimane piuttosto
impegnate – università, che brutta cosa. D:
Dopo il precedente
capitolo, devo dire che rimango soddisfatta. Quello su Lovino non mi
era piaciuto molto (anzi, non mi era piaciuto affatto :<),
mentre
questo merita – almeno dal mio punto di vista, qualche
punticino in
più. Probabilmente perché mi viene più
naturale scrivere sulla
danza dal punto di vista di una donna, piuttosto che di un ragazzo!
XD
La variazione eseguita da Elizaveta è presa dal balletto
Giselle e la coreografia non è quella originale, ma
è di Marius
Petipa. Per questo motivo, dato che so che ama questo balletto,
vorrei dedicare questo capitolo a kiretta,
con la speranza che le sia piaciuto almeno un pochino.
:3
Inizialmente avevo pensato ad altre due variazioni, invece che
a questa. La prima era appunto quella di Swanilda, in Coppelia
(l'entrata), e penso che nonostante non conoscano il mondo della
danza, molti di voi riconosceranno questa musica:
Swanilda,
Coppelia
(la musica e quella che inizia a 0:40). L'altra opzione era Gulnara,
dal Corsaro, che danza vestita da fiore nell'harem di un
pascià –
e il fiore mi aveva fatto pensare proprio ad Elizaveta. E la
variazione è questa Gulnara,
le Jardin Animée,
e io l'ho studiata quest'anno, dato che abbiamo fatto l'opera il
Corsaro e io avevo la parte di Gulnara! *___*
Come ultima cosa (e
spero che almeno questa interessi a qualcuno ò_ò)
vorrei spiegare
perché ho scelto proprio
quel
video per Elizaveta. Io credo la Giselle più bella di tutte
sia
Alessandra Ferri, una etoile italiana famosa in tutto il mondo, ma ho
usato un video di Svetlana Zakharova per far vedere la variazione di
Elizaveta. A me la Zakharova non piace molto, dato che spesso mi
sembra più una ginnasta che una ballerina, ma questa
è solo la mia
opinione u__u lei è russa, e proprio per questo ha un modo
di
ballare molto diverso da quello degli italiani, o dei francesi, e
penso che si avvicini molto più del nostro però a
quello degli
ungheresi. Ad ogni modo, se volete vedere questa bellissima ballerina
italiana, potete trovarla qui:
Alessandra
Ferri, Giselle.
E
con quest'ultima cosa la smetto di ammorbarvi u__u qui c'è
la
variazione del prossimo personaggio: la
Bayadére.
Chi sarà mai? :3
E ora passo alle risposte alle recensioni!
:D
Ichibanme_Arisu:
possibile che tu riesca a provare solo odio, donna? Eppure Antonio
faceva tanta tenerezza, poveretto, e aveva un po' l'aria dello
sfigato di turno. BTW, sono contentissima che il mio stile ti piaccia
e che tu continui a seguire la fic. :D Kisu!
Haru
J:
il nuovo capitolo purtroppo non è arrivato tanto presto, ma
cercherò
di rimediare con i prossimi, dato che fino ad Ottobre non ho proprio
un bel niente da fare! La tua recensione mi ha lasciato felicemente
soddisfatta, davvero! Tra tutte le fic che ho scritto questa
è una
tra le mie preferito e ogni volta che c'è un commento
positivo in
più il mio cuore si riempie di gioia! Grazie<3
inuyasha94:
eh... Lovino e Antonio hanno avuto un capitolo tutto per loro, oggi
è
stato il turno di Alfred e Arthur, Gilbert ed Elizaveta e un accenno
su Ivan e Yao. :P Spero che il capitolo ti spia piaciuto lo stesso,
baci!
AliDiPiume:
uh, che genere di concorso era? E a chi è che piacciono le
salsicce?
ò_ò Le tue recensioni hanno sempre il potere di
confondermi donna,
fatti delle domande e chiediti di chi è la colpa! XD Beh,
effettivamente Arthur a volte è odioso, ma Francis non
demorde e
tornerà presto all'attacco. >:D Grazie per la tua
recensione
(anche se preferivo quelle in preda all'ebbrezza
dell'alcool!)
Lalani:
il ballerino del video doveva avere circa sedici anni, ma ho
preferito usare quel video perché in un concorso non possono
esserci
professionisti! Ad ogni modo sono felice che le descrizioni su Lovino
ti siano piaciute, io avevo sempre il terrore che fosse schifosamente
OOC. ;_; Avevi indovinato con Elizaveta :P La variazione di Natalia
è
una cosa un po' più... Fredda. XD Comunque sì,
salvo imprevisti e
cambi di idea dell'ultimo minuto dovrebbero esserci almeno altre due
variazioni prese da musiche di Tchaikovsky! Al prossimo capitolo
:3
kiretta:
innanzitutto la tua recensione non faceva schifo, mettitelo bene in
testa. E in secondo luogo spero che tu abbia gradito questo capitolo,
soprattutto la parte su Elizaveta (e sì, anche
l'appuntamento di
quei due poveri disgraziati) dato che so quanto ami Giselle –
me lo
sarò sentito dire milioni di volte.
ù__ù Ti perdono giusto perché
sei tu... E perché è una fanfiction, non un corso
con obbligo di
frequenza, quindi capita che a qualcuno sfugga di recensire. XD Con
la speranza di averti strappato un sorrisino con questo capitolo ti
saluto, baci! <3
AlterNeko:
oggi ero in vena di inserire video, se li hai visti spero che vi
siano piaciuti<3 Grazie mille per tutti i complimenti, anche se
spesso ho molti dubbi su quello che scrivo >_< e questa
credo
sia un'altra delle cose che ci accomunano, no? XD Spero che anche
questo capitolo ti sia piaciuto cara, ci sentiamo prestissimo!
*___*
alyciana:
sono felice che tu abbia apprezzato il modo in cui ho trattato le
altre coppie, dato che sono abituata a scrivere solo sulla USA/UK e
quindi ho continuamente il terrore di sbagliare qualcosa quando si
tratta degli altri. ;_; E la frase che ho scritto non ha senso, ma ho
appena studiato statistica quindi mi concedo di essere sgrammaticata,
scusa. ;_; BTW, spero che anche questo nuovo capitolo ti sia
piaciuto, un bacio<3
giuliettaz91:
beh, Alfred ha provato a mettere le mani su Arthur, ma Arthur non ha
ceduto – e in effetti sarebbe un po' prestino per farlo, ma
quell'americano egocentrico tende sempre ad accelerare le cose.
ù__ù
Anche tu i test all'università? D: Allora ti capisco e ti
commisero,
sono una delle cose più stressanti del mondo... Ti dico solo
che per
fare i miei il due Settembre sono entrata alle dieci, quando l'orario
di entrata era previsto per le sette e mezza. ò_ò
Vabeh, questo non
c'entra nulla con la fic però xD Spero che questo atteso
capitolo
sia stato di tuo gradimento, grazie!
Aka
Tomate:
veramente i personaggi ti sembrano così IC? *_*
Non
sai quanto mi rende felice questa sola frase, dato che gran parte del
terrore si dissolve. :D Penso proprio che Antonio non la
passerà
liscia per aver fatto una cosa grave come... Essere ricordato da
Lovino mentre ballava. ò_ò E sì,
ricordo vagamente un viaggio in
Francia in cui la prima cosa che facevo era guardare scettica quelle
maglie enormi e quelle scarpe oscene che usavano 'ste francesi.
Trauma. ò_ò Grazie mille per la tua recensione!
Marlot:
ammetto che Tino e Susan dovevano essere in questo capitolo, ma alla
fine non sono riuscita a inserirli perché altrimenti sarebbe
stato
troppo lungo. ;_; Ma nel prossimo ci saranno, dato che ho
già fatto
una specie di scaletta su quello che devo scriverci. :P Anche se non
ci sono Antonio e Lovino spero che il capitolo ti sia piaciuto lo
stesso! Grazie!
Fire
Angel:
Matthew alla fine si riscatterò, lo giuro. E a quel punto
tutti si
ricorderanno di lui... Magari non del suo nome o della sua faccia, ma
di lui come... Almeno come presenza fisica xD Enorme spoiler.
ò_ò
Non so esattamente cosa ci sia nella tracolla di Alfred, non ho avuto
il coraggio di controllare ò.ò Non so, ho scritto
rumore metallico
perché io la borsa di Alfred la immagino piena di spille e
portachiavi e magari pesa duecento chili proprio per questo.
ò.ò (E
perché dentro ci nasconde almeno una dozzina di hamburger!)
Figurati, la tua recensione non mi ha offesa affatto, anche
perché
sono d'accordo con te: spesso sono le tantissime storie OOC che ci
fanno odiare le coppie... E lo dico perché a me è
capitata la
stessa cosa con la FrUK. ;_; Spero che questo capitolo non ti abbia
deluso cara, un bacio!
Frances:
e invece a me le tue recensioni piacciono tutte. E mi piacciono anche
molto! Per non parlare della tua fic, quella che ti ho commentato e
che... E che ovviamente mi piace più delle recensioni, per
ovvi
motivi. ù__ù Ad ogni modo, ogni singola riga di
quello che hai
scritto per il precedente capitolo mi ha strappato un sorriso, dato
che tutto mi aspettavo con questa fic meno che complimenti.
Perché
ho pensato fino all'ultimo che era veramente una cavolata scrivere
una cosa del genere e che Ludwig (ma perché tutti prendono
ad
esempio proprio lui?) non stava bene in calza maglia... Proprio per
questo motivo ho amato la tua recensione, ogni singolo ed ordinato
punto. :P E sono contenta che si noti che l'unico un po' alieno al
contesto sia Alfred che... Che in effetti non richiama molto la
figura snella e aggraziata del ballerino, anzi. XD Spero che anche
questo capitolo ti sia piaciuto, a presto!
Stefy_rin:
ti dico solo che il balletto di Antonio è molto, ma molto
famoso.
Tutti conoscono almeno la storia, che io trovo molto bella... Ed
è
molto spagnola, quindi ci puoi arrivare. :P Sono felice di aver
realizzato una fantasia! Perché in effetti la maggior parte
dei
ballerini famosi provengono dalla Russia o comunque da quella zona. E
sì, Giselle è una storia tragica... Lei muore e
il principe danza
tra le villi fino allo sfinimento e poi viene salvato da Giselle...
Ma se ti interessa puoi controllare su Wikipedia, io non sono una
fonte troppo attendibile! XD Grazie mille per la tua
recensione<3
smary:
ah, la danza classica non è tanto difficile (almeno la
teoria) pensa
che nonostante la scuola io riuscivo a studiare con piacere anche la
storia del balletto, perché alle fine non è
affatto pesante, anzi!
La frase di Feliciano era lì giusto perché credo
veramente che quel
ragazzo in qualche modo porti sfiga, altrimenti non è
possibile che
gli capitino sempre tutte quelle disgrazie. ò_ò
Spero che anche
questo capitolo ti sia piaciuto cara, un bacio :3
eithriadol__:
suca!
IlyuChan:
effettivamente mi piace scrivere dell'idiozia, e in particolare
dell'idiozia di Alfred! E sappi che Matthew è il mio secondo
personaggio preferito, quindi conto di concentrarmi un po' di
più su
lui e su Francis, prossimamente. Non preoccuparti se le recensioni
arrivano in ritardo, l'importante è che arrivino! Grazie
mille per
il tuo commento<3
E con questo chiudo!
:D Ammetto che non mi aspettavo 17 recensioni, e che mi hanno resa
veramente felice. Spero che continuiate a seguirmi e che la fic non
cominci a farvi schifo ò_ò;;
Al prossimo capitolo.
Bye♥
|
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Capitolo 5 *** [288] Più semplice di così, la Bayadére. ***
[439]
Alfred
F. Jones;
Ormai aveva perso il conto delle volte che Arthur
aveva pronunciato il suo nome, e di quelle in cui lo aveva sostituito
con un velato insulto o con un semplice e conciso
“idiota”.
Affondò di nuovo i denti nel suo hamburger e
cercò di ignorare
quella vocina acuta e petulante che si stava ancora sforzando di
elencare tutte le proprietà fisico-chimiche di quella carne
di
dubbia provenienza.
«Vuoi stare un po' zitto? Se non te ne fossi
accorto sto mangiando.»
Arthur rimase a bocca aperta,
probabilmente spiazzato dal fatto che qualcuno avesse osato
rivolgersi a lui con un tono tanto insofferente, e cercò di
concentrare la sua attenzione su qualcosa che si trovava al lato
opposto della grande sala da pranzo dell'albergo, qualcosa che ad
Alfred non interessava minimamente, comunque.
Era da quella
mattina che si domandava per quale assurdo motivo Arthur fosse
lì
con lui, con quella faccia da schiaffi e il tipico atteggiamento di
chi preferiva fingere che non fosse accaduto nulla. Per la prima
volta da quando si erano conosciuti, Arthur si era preso la briga di
andarlo a svegliare – ossia, di andarlo a spingere
giù dal letto
fino a farlo agonizzare sul pavimento – e di stare assieme a
lui a
lezione, addirittura lo aveva aiutato quando non aveva capito alcuni
passi, a causa dell'eccessiva cadenza francese della loro insegnante
temporanea.
«E ho sentito dire che proprio questa mattina
verrà
un coreografo svedese con una specie di assistente, sai? Non vedo
l'ora di fare lezione, sono sicuro che sia un tipo in gamba. Tu che
ne pensi? Ci mettiamo vicini a lezione anche stamattina, ver-»
Alfred
cercò di caricare il suo sguardo con tutta l'insofferenza di
cui
fosse capace, nonostante quel temperamento non fosse nella sua natura
docile e giocherellona, ma sembrava quasi che i ruoli si fossero
invertiti. Era quasi come se Arthur, con il suo rifiuto la sera
precedente, avesse dato uno schiaffo all'ego di Alfred, facendogli
sbattere la testa e ricordandogli che non aveva l'obbligo morale di
essere gentile con lui, per quanto potesse trovare divertente
gironzolargli attorno e prenderlo in giro. Che non doveva nemmeno
affezionarsi troppo a quell'inglese insopportabile, anche se poi non
sarebbe più riuscito ad evitarlo, e ne avrebbe pagato le
conseguenze
sulla sua stessa pelle, circa due settimane dopo.
«Senti,
Arthur», gli disse, semi-nascosto dal terzo hamburger,
«non ho
niente contro di te, ma ho bisogno di mangiare immerso nella pace e
nella tranquillità, altrimenti mi va storto il pranzo. E se
mi va
storto il pranzo, rischio di morire o di ammazzare qualcuno, magari
qualcuno che sta seduto vicino a me e continua a parlare di cose che
non mi interessano affatto.»
Vide Arthur guardarlo in silenzio,
con un'espressione strana, probabilmente delusa, ma Alfred
pensò
ingenuamente che doveva essere stata soltanto una sua impressione e
quindi continuò a mangiare.
[411] Ivan
Braginsky;
Era divertente notare come Yao si affannasse per
arrivare a qualcosa che non gli apparteneva, un livello troppo alto
per lui, che si era rivelato uno dei migliori della sua Nazione.
Secondo Ivan la sua scalata poteva dirsi conclusa lì, e il
cinese
avrebbe dovuto ringraziare il cielo se la giuria aveva avuto il
coraggio di farlo arrivare fino a quel punto. Perché per
quanto i
salti fossero alti, le punte stese e le ginocchia tirate, per quanto
le braccia fossero morbide, la sua era una performance fredda.
Yao
restava estraniato dal suo personaggio, concentrando tutto se stesso
per uscire dal suo corpo mentre ballava e osservarlo mentre si
muoveva nella penombra di una sala in disuso.
E Ivan sorrideva,
perché gli piaceva vederli spaventati, Yao così
come tutti gli
altri partecipanti, tremare dalla paura mentre salivano gli scalini
del palcoscenico, deglutire e fissare i giudici come se fossero stati
serial killer che puntavano loro addosso una dozzina di
mitragliatrici e fucili a canne, invece che penne a sfera e block
notes per prendere appunti.
«Non hai capito Yao, qui hai bisogno
di piegarti di più.»
A quel punto Ivan si avvicinava lui, che
era ancora inginocchiato e teneva le mani congiunte, e poggiava una
mano sulla sua nuca, costringendolo col collo in avanti, in una
posizione quasi fetale e del tutto innaturale, come se il ragazzo
stesse pregando qualcuno, una terza persona, pur di salvarlo dalle
sue grinfie.
«Ed è come se tu stessi supplicando, hai
capito?»
Yao provava ad annuire, ma non ci riusciva, perché la
stretta sul suo collo era troppo dolorosa, ma lui era abbastanza
fiero da non provare nemmeno a lamentarsi o a chiedere a Ivan di
smettere, perché aveva capito benissimo. La sua voglia di
dimostrarsi forte, nonostante avesse chiesto l'aiuto di qualcuno,
divertiva Ivan e al tempo stesso lo inquietava.
Yao gli sembrava
una persona mansueta soltanto all'apparenza, ma dentro sembrava
nascondere lo spirito di uno di quei draghi dell'oriente, capace di
lottare fino ad esalare il suo ultimo respiro incandescente.
Yao
stringeva così forte le mani tra di loro che le nocche
diventavano
pallide, la sua espressione era veramente sofferente, e la posizione
in ginocchio appariva forzata, come se lui non avesse più la
forza
di pregare, né di stare in piedi, e rischiasse di
stramazzare al
suolo da un momento all'altro.
Questo era dovuto principalmente
al fatto che stava ballando almeno da due ore, che aveva saltato la
colazione e che non si era dato tregua nemmeno a lezione.
«Direi
che va bene così,», disse Ivan, lasciando andare
la sua nuca e
camminando verso la porta.
«Anche domani.»
Il russo si voltò,
guardandolo con un sorriso divertito, perché quel ragazzo
non finiva
mai di stupirlo.
«Vediamoci anche domani», ripeté Yao.
[300,
342, 559] Francis
Bonnefoy, Gilbert
Beilshmidt, Antonio
Fernandez Carriedo;
«Non hai capito, Antonio, io intendo
qualcosa di ancora più grande!»
«Tipo un mausoleo?»
«Non
esattamente, voglio una tomba enorme, con una statua gigantesca che
mi rappresenti. In cui ho in mano la testa di una tigre e un serpente
avvolto attorno al collo, e calpesto i resti di un coccodrillo. In
più deve avere le ali, delle enormi ali luccicanti di
brillanti e il
mio nome deve essere inciso nell'oro.»
Francis sollevò un
sopracciglio e si chiese da dove nascessero tutte le stravaganze di
Gilbert, se suo fratello era così semplice da ridurre la sua
camera
da letto a una branda militare e una lampadina che pendeva dal
soffitto, un arredamento spartano che però rispecchiava con
esattezza oscena la personalità di Ludwig. Gilbert aveva
passato
metà della mattina a mostrare le sue foto, alcune erano
più vecchie
ed ingiallite, altre erano recenti, e lo ritraevano circondato da
ragazze su una spiaggia del sud America o mentre faceva parapendio
tra le valli e le catene montuose del Belgio.
C'erano fotografie
di tutti i tipi, e Antonio aveva chiesto incessantemente per ore ed
ore per quale assurdo motivo Gilbert le avesse portate tutte con
sé,
ma non aveva ancora ricevuto risposta, e adesso si rigirava tra le
mani l'intera famiglia Beilshmidt, profondamente mutata nel tempo, e
la guardava con aria curiosa.
Ludwig poteva avere sì e no sei
anni, ma il berretto verde gli conferiva già un'aria di
giovane leva
in prova per il servizio militare. Il signore e la signora
Beilshmidt aveva un'espressione seria, sopracciglia aggrottate e
un'aria molto austera che, accostata ai tre enormi cani accovacciati
ai loro piedi, gli conferiva qualcosa di inquietante. Gilbert,
infine, nonostante fosse parecchio più giovane di adesso e
leggermente più vecchio di suo fratello, non sembrava avere
avuto un
cambiamento così radicale. Sorrideva, mostrando i suoi
canini
appuntiti e l'espressione di chi crede di poter scalare una montagna
con le mani legate dietro la schiena.
«E quindi tu sei più
grande di Ludwig...», mormorò Antonio, senza poter
staccare gli
occhi dalla foto.
Francis, che stava osservando Gilbert mentre
studiava nella sua stanza, adornata di letto a baldacchino e
gigantografia personale su una parete, alzò il mento di
scatto e
guardò attentamente entrambi.
«Davvero?», chiese a
Gilbert.
«Davvero.»
«Non sembra.»
«E perché
scusa?»
«Beh, perché... Lui è così
serio-»
«E io
no?»
«No.»
«Tu sembri un bambino», aggiunse
Antonio.
Gilbert tolse la foto dalle sue mani e la infilò in
mezzo al mucchio, in modo tale che non la ritrovasse, poi si prese la
briga di scegliere personalmente le foto da mostrare ai suoi amici,
onde evitare altri inconvenienti simili.
«La vostra casa è
strana...», mormorò Francis, «Alcune
stanze mi ricordano una
caserma, altre un campo di concentra-»
«Non dirlo.»
Gilbert
nascose anche la foto che stava guardando Francis, e gliene porse una
meno incriminante, in cui Ludwig indossava un antiestetico costumino
a righe e lui era intento a prendere il sole... Ovviamente
né
Francis, né Antonio potevano immaginare che, quella stessa
sera,
Gilbert si era lamentato fino alle lacrime delle ustioni che aveva
ottenuto grazie alla sua bella pensata.
«E poi vorrei tanto
sapere che cos'ha la tua casa in più della mia.»
Francis
raccontò che la casa era stata arredata a suo gusto, per
fortuna,
con una raffinatezza equivoca e decadente, che la sua famiglia
indossava abiti pomposi e barocchi, mentre i servitori avevano abiti
blu notte e camicie di seta. Antonio chiese se il maggiordomo si
chiamasse Ambrogio, Francis rispose che Ambrogio era morto di
vecchiaia un paio di anni prima, e che il maggiordomo attuale era uno
sfaccendato greco che avevano pensato più volte di
licenziare, ma
che alla fine continuava a poltrire sul divano del salotto.
Disse
che su tutti i mobili c'erano dozzine di oggettini in porcellana,
tanto piccoli che se la domestica ne rompeva uno, nessun membro della
famiglia sembrava accorgersene. Quegli oggettini erano accompagnati
da enormi vasi cinesi, pieni di colori e disegni, e dentro i vasi
cinesi c'erano piume di pavone che talvolta arrivano fino al
soffitto. Sulle mensole d'oro sua madre aveva fatto mettere degli
incensi profumati, in modo tale che, quando Francis tornava dal
collegio inglese in cui studiava, poteva mescolarsi di nuovo
all'odore della sua casa, senza che quello tipico britannico
prendesse il sopravvento su di lui. C'erano tendaggi di damasco,
paraventi e lampade a stelo che le donne delle pulizie, fasciate nei
loro vistosi vestiti da operetta, si affannavano a spolverare ogni
giorno.
«Fantastico! E hai qualche foto?», chiese Antonio.
«No,
mi dispiace, le ho lasciate tutte a casa.»
«Che
peccato!»
Antonio era una persona ingenua, e alle mirabolanti
avventure di Gilbert e alla raffinatezza della vita di Francis, aveva
contrapposto la sua casa umile e la sua vita ordinaria, in cui suo
padre scalpitava per andare a vedere la Corrida il fine settimana e
sua madre diffondeva volantini affinché abolissero quello
scempio.
«Viviamo in un vecchio monolocale in periferia»,
disse,
«A volte manca l'acqua calda, oppure la corrente elettrica,
però
mio padre non ci fa mancare mai niente. In più io ho trovato
lavoro
come cameriere in un bar, quindi riesco a pagare le lezioni di danza
senza dover chiedere aiuto a loro.»
Francis era completamente
estraneo a quella realtà in cui, nel ventunesimo secolo, i
figli
dovevano affannarsi per mantenersi e per non gravare troppo sulle
spalle della propria famiglia. Gilbert stesso si stupiva della
naturalezza con cui Antonio lo raccontava, nonostante lui stesso
avesse dovuto sopportare molte fatiche fin da bambino, ma
più perché
suo padre voleva che lui e suo fratello Ludwig diventassero presto
due uomini forti e responsabili che non per un bisogno vero e proprio
di denaro. Quindi fissarono Antonio un po' stupiti, come se si
trattasse di una specie di alieno armato di vassoi e tazzine di
caffé, tortillas calde e suadente accento spagnolo.
«Forte la
Corrida», fu l'unico commento di Gilbert.
[288]
Kiku
Honda;
Quel giorno era il suo turno, e Kiku aveva ringraziato
il cielo che non ci fosse nessuno a cospirare per una sua caduta o
per una sempre scivolata, accovacciato davanti a un televisore che
aveva le sue stesse origini. Gli altri ballerini avrebbero
frequentato una lezione extra, una specie di stage con un coreografo
venuto direttamente da Stoccolma e con un nome impronunciabile che
era stato strillato, sussurrato e detto dalle labbra di tutti quegli
strani europei che partecipavano al concorso almeno un milione di
volte ciascuno.
Stava finendo di truccarsi, nonostante odiasse
l'odore di tutta quella roba che gli imponevano di mettersi in
faccia. Kiku preferiva essere più semplice, così
come lo era il suo
costume. Aveva vietato categoricamente alla sua insegnante di
cospargergli il corpo di vernice color bronzo e di addobbarlo di
cianfrusaglie dorate come se si fosse trattato di una specie di
albero di Natale in scala ridotta.
Kiku aveva stretto al petto il
suo semplice paio di pantaloncini dorati, vagamente luccicanti e la
cintura gialla che avrebbe stretto in vita. In più si
aggiungeva il
paio di scarpette color carne, con le suole leggermente consumate dal
tempo e dai continui esercizi.
Infine aveva bloccato sulla testa
una rigida corona color bronzo, che mano a mano che saliva sfumava
nel colore del rame, fino ad avere una punta brillante. Quella non
era stata scelta da lui, purtroppo, e aveva patito fino a che non era
stato obbligato a portarla con sé.
Kiku credeva che nella forza
dei suoi muscoli sottili e nella tecnica che aveva appreso
più da
solo che con i suoi maestri, osservando video di vecchia data dei
padri della danza, risiedeva il vero spirito del ballerino, quello
che apprendeva molto osservando gli altri e che faceva pratica
avvolto in un'aurea di religioso silenzio, piuttosto che nella
baraonda che si creava con una ventina di ballerini rumorosi e pieni
di aspirazioni. Nulla di meno e nulla di più, non c'era
bisogno di
fronzoli inutili e quant'altro, un costume appariscente non era
necessariamente efficace. Peccato che i suoi insegnanti non
sembrassero capirlo ogni volta che lui provava a
spiegarglielo.
«Numero
duecentottantotto, Kiku Honda, dall'Accademia del Tokyo Ballet. Lui
interpreta la variazione dell'Idolo d'Oro dalla Bayadére di Ludwig Minkus
...»
[388] Feliciano
Vargas;
Feliciano annuiva costantemente, ad intervalli di
dieci secondi circa, scuoteva la testa su e giù e poi
sorrideva,
fingendo di aver capito. Quella era la tecnica più efficace
per
garantirsi che il maestro non si arrabbiasse con lui, e la usava da
quando aveva sei anni circa.
Feliciano aveva un caschetto marrone
che ondeggiava con ogni movimento della testa, era alto poco meno di
un metro e socchiudeva gli occhi o li teneva chiusi, affermando che
quella era soltanto la tecnica segreta che usava per non dover
guardare tutte le cose brutte e spaventose che succedevano nel mondo.
Era l'ultimo della sua sbarra, e le dita sottili stringevano il
legno, le sopracciglia si aggrottavano e lui doveva copiare gli altri
bambini, perché non ricordava assolutamente niente di quanto
aveva
appena detto loro l'insegnante. Quella non era una bella cosa, gli
spiegava Lovino al telefono, perché prima o poi gli altri
ragazzini
avrebbe cominciato a prenderlo in giro. E così infatti era
accaduto.
Feliciano era un bambino socievole e non attaccava mai
briga con nessuno, preferiva privarsi di metà del suo pranzo
pur di
dividerlo con qualche amico, ma non ne aveva mai avuto
l'occasione.
Finché non aveva conosciuto lui.
«Ve, Lud! Dopo
posso starti vicino? Non ricordo mai gli esercizi, tu invece hai una
memoria di ferro! Ho provato a chiederlo anche ad Arthur, ma lui mi
ha mandato a quel paese dicendo che oggi non voleva avere a che fare
con gli idioti, specialmente quelli americani. Lud, io non sono
americano, quindi credo che Arthur si sia sbagliato... Beh, si
è
sbagliato di sicuro, dato che io non sono nemmeno idiota. Lud, allora
ho chiesto a mio fratello, però Antonio se l'è
portato via mentre
Lovino strillava! Lud, aiuto! Non so come fare, perfino Gilbert mi ha
detto di no! E lui non mi dice mai di no! A questo punto penso che mi
toccherà andare a chiedere a Fran-»
«Puoi stare vicino a me»,
disse Ludwig in una risposta secca, impedendo a Feliciano di
continuare a travolgerlo con quel fiume di parole pronunciate con un
inglese a dir poco deleterio, «ma devi giurarmi che ti
comporterai
bene e che non mi darai fastidio.»
Feliciano scattò con la
velocità di un lemure e Ludwig si trovò stretto
in un abbraccio che
avrebbe incrinato addirittura le sue di ossa. Così
poggiò le mani
sulle spalle di Feliciano e lo staccò con tutta la dolcezza
di cui
era capace, sempre che si potesse parlare di dolcezza, almeno nel suo
caso.
«Questo rientra nel darmi fastidio.»
«Lud, sei sempre
così gentile con me! Grazie!»
«Non lo faccio per te, lo faccio
per aiutare gli altri e tenerti lontano da loro.»
«Ve, Lud, tu
hai un cuore così grande! Ti preoccupi sempre per tutti
quanti!»
«Ma
cosa c'è di sbagliato in te?»
Feliciano continuò a sorridere
con un'aria raggiante, mentre Ludwig si sedeva sul pavimento a
riscaldarsi e scuoteva la testa afflitto. In cuor suo, l'italiano
sapeva che Ludwig aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto,
perché per quanto ostentasse il suo stile di vita solitario,
per
quanto lo si vedesse sempre da solo, sempre accigliato, scontroso
quasi come Arthur, anche lui aveva bisogno di qualcuno con cui
dividere il pranzo.
L'insegnante di Stoccolma entrò circa venti
minuti dopo, quando tutti i ballerini erano in fila lungo la sbarra,
era seguito da un ragazzo minuto, biondo e dall'aria molto timida.
Poco dopo scoprirono che si chiamava Tino e che era uno dei migliori
ballerini tra le accademie scandinave arrivato a Parigi soltanto per
quella lezione dimostrativa.
«E mi piacerebbe assistere a tutte
le altre performance, a partire da domani», aveva confessato
più
tardi.
Feliciano si guardava attorno con un'espressione sicura,
davanti a lui c'era Ludwig e questo gli bastava per non farlo sentire
troppo in ansia, in quel momento per lui tutto era perfettamente
normale e ogni cosa andava esattamente come doveva andare. Non si era
nemmeno accorto della presenza fantasma di Matthew, delle occhiate
di puro odio che si scambiavano Alfred e Arthur, di Antonio che
allungava le mani sul suo sventurato fratellone, di Elizaveta che
tirava fuori da chissà dove una padella e che la dava in
testa a
Gilbert, di Ivan e Yao che erano arrivati in un silenzioso ritardo e
che sembravano già stanchi e provati. Feliciano badava
soltanto alla
schiena forte del suo Ludwig e sorrideva, perché non doveva
fare
altro che copiare.
Il maestro si rivelò meno severo di quanto
sembrasse, aveva un cipiglio burbero e la faccia di chi non accetta
errori o distrazioni, ma alla fine era stato silenzioso e la collera
che sembrava controllare in silenzio in realtà si era
dimostrata
inesistente. Si chiamava Berwald
Oxenstierna
e Feliciano non riuscì mai a pronunciare il suo nome
correttamente, ma il maestro non sembrava nemmeno ascoltarlo, si
limitava a fissare
Tino che prendeva le sue veci e che quindi sillabava con gentilezza
quel nome all'italiano, nonostante ogni suo sforzo per farglielo
ricordare si rivelasse totalmente inutile.
A fine lezione Tino
aveva la bocca più stanca delle gambe, a furia di
avvicinarsi a
Feliciano e ripetere ogni lettera a voce alta come se stesse parlando
con un mezzo sordo, Matthew continuava a essere invisibile anche per
il loro insegnante temporaneo (in effetti sembrava essere invisibile
per tutti, meno che per Francis, che sussurrava qualcosa riguardo a
un invito a cena), Arthur e Alfred avevano finito il loro scambio di
occhiate rabbiose e avevano cominciato a sfoderare il loro repertorio
di frecciatine sarcastiche, che colpivano i difetti fisici, tra i
quali spiccavano le sopracciglia di uno e lo stomaco dell'altro,
quanto quelli caratteriali, accusando il carattere cinico tipicamente
inglese e l'egocentrismo dilagante di cui Alfred era letteralmente
malato. Antonio non si era ancora dato per vinto, e infatti sfoggiava
un grosso livido violaceo sullo zigomo e si reggeva lo stomaco mentre
agonizzava dopo una testata di Lovino, e a Gilbert, forse per
solidarietà con l'amico, era toccato lo stesso destino e
infatti
esibiva un enorme bernoccolo sulla fronte, mentre Elizaveta sorrideva
soddisfatta e metteva via la padella. Ivan e Yao erano già
spariti,
Feliciano non sapeva dove, ma non se ne preoccupò molto,
perché
aveva qualcosa di più importante a cui pensare.
«Lud! Guarda che
cosa ho qui!», strillò, afferrando Ludwig per la
manica della felpa
e scuotendo il suo braccio.
«Pizza!»
In una scatola di latta
Feliciano aveva chiuso il suo pranzo, avvolgendolo amorevolmente in
una carta gialla. Ludwig notò che il pranzo era stato
preparato per
due, e automaticamente pensò che lui avesse intenzione di
consumarlo
con suo fratello.
«No, non è per Lovino!», gli
spiegò in
fretta, quando Ludwig accennò andare via, «L'ho
preparato per noi
due! Siamo amici, no? Quindi pranziamo insieme!»
E a quel punto,
Feliciano mollò il suo braccio e infilò un pezzo
di pizza nella
bocca semi aperta di Ludwig, ridendo per la sua espressione
buffa.
Vorrei innanzitutto
chiedere scusa per il ritardo, e poi spiegare perché non
posso
rispondere alle recensioni. Sono all'università
(;___;”) e il mio
internet mi dà un po' di problemi ...
diciamo anche
che fa cagare. E' difficile anche riuscire a
postare e
a leggere i commenti, e questa cosa è veramente fastidiosa!
Spero di
avere una pennina per metà mese o al massimo
arriverà a Novembre
(nella speranza che arriverà), nel frattempo continuo a
pensarvi e a
scrivere tanto per voi. =)
Nonostante la mancanza di risposte,
mi piacerebbe leggere qualche recensione (e a chi non piacerebbe?) e
cercare di rispondervi non appena ne avrò l'occasione! C:
Kisu<3
|
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Capitolo 6 *** [291] I fatti parlano da sé, La Fille Mal Gardée. ***
[471]
Matthew
Williams;
«Credevi che mi fossi dimenticato di te?
Anzi, di noi?»
Matthew alzò il mento con uno scatto e lasciò
perdere le sue mezze punte color carne, sfilacciate e lise; davanti a
lui c'era Francis in piedi, e teneva una mano appoggiata su un
fianco, il sopracciglio sollevato e l'espressione tipica di chi la sa
molto lunga. Aveva un abbigliamento sportivo, e ciononostante emanava
profumo di fiori e cannella che fece chiudere gli occhi a Matthew ed
inspirare a fondo, perché era quasi assuefante.
«A dire la
verità... Sì.»
Lui e Francis avevano un appuntamento quella
sera, una specie di appuntamento che poteva definirsi meglio come...
Un'uscita a cena tra amici. Matthew non ne era mai stato troppo
convinto (del fatto che fosse una semplice uscita tra amici e non
qualcosa in più) e infatti non aveva nemmeno speso tempo con
Alfred
per giustificarsi, e comunque Alfred era troppo preso da se stesso e
dalle nuove tecniche che escogitava per infastidire Arthur per
preoccuparsi di suo fratello. Il fatto era che aveva passato tutta la
vita a giustificarsi con lui, quindi era normale che ormai gliene
fosse completamente passata la voglia. Secondo la visione amorevole e
forse anche un poco campanilistica di una madre divorziata, Alfred
era il figlio perfetto, quello che non passava i pomeriggi davanti ai
videogiochi, ma preferiva leggere un libro seduto sulla veranda,
quello che non perdeva tempo a rompersi le ossa in sport come il
football (che per quanto la riguardava, poteva essere uno sport da
signori, ma a giocarlo erano spesso e volentieri gli animali), ma
preferiva una mazza da hockey e un paio di pattini per il ghiaccio.
Secondo l'opinione di Matthew, sicuramente meno cieca e molto
più
generale, sua madre aveva fatto un gran confusione addirittura tra i
suoi stessi figli, dato che Alfred aveva sempre il video games di
ultima generazione, prima ancora che uscisse in commercio a volte e
sempre Alfred era il quaterback della squadra di football al
liceo.
Alfred e Matthew erano stati abbastanza fortunati da
potersi vedere soltanto tre volte l'anno negli ultimi tre anni (uno
ballava a New York e l'altro a Toronto), e la cosa risultava
abbastanza positiva per entrambi, dato che l'uno credeva che l'altro
fosse una specie di eremita franco-canadese che passava le sue
giornate ad intagliare il legno e a piazzare tende nel bel mezzo
della foresta, mentre l'altro credeva di avere un fratello
egocentrico, indisciplinato e forse anche un po' stupido che sapeva
orientarsi solo e soltanto nella jungla newyorchese, che giudicava
addirittura un paradiso (col rombo della metropolitana che ti
stordisce, la puzza di fritto che ti arriva in faccia ogni qual volta
entri in qualche locale, le persone che camminano velocemente e non
si scusano se ti urtano per sbaglio e infine i taxi che, se non
attraversi la strada con la velocità di un ghepardo nel bel
mezzo di
un inseguimento, cominciano a strimpellare col clacson rischiando di
fracassarti un timpano).
Era quindi evidente che fossero due
fratelli un po' singolari, e forse un po' troppo diversi tra loro,
tanto che, se qualcuno li avesse visti con un sacchetto di carta in
testa, avrebbe faticato a crederli tali.
Il guaio infatti (forse
soltanto per Matthew) era la somiglianza. Ogni volta che si faceva la
barba aveva la strana abitudine di guardarsi negli occhi, piuttosto
che seguire il movimento del rasoio, per il semplice fatto che gli
veniva più naturale fissare quell'unica differenza che c'era
tra lui
e Alfred, invece che notare quanto i loro lineamenti fossero simili.
Matthew aveva gli occhi blu, di una sfumatura tendente al viola, che
gli attribuiva un'aria dolce e anche abbastanza ingenua (il che era
veramente nella sua natura) e che se ne stavano dietro un paio di
occhiali con la montatura ovale. Gli occhi di Alfred erano tutt'altro
e ogni qual volta venissero descritti, lui pregava di usare la
terminologia più adeguata, ossia un “azzurro-blu
tendente al verde
acqua, come il colore del cielo limpido che si staglia dietro la
Statua della Libertà illuminata dal sole di
mezzogiorno”. Anche
riguardo a questo Matthew aveva un'opinione discordante e molto meno
ridondante, secondo cui gli occhi di Alfred erano semplicemente di
“quell'azzurro che attribuiva alla sua faccia un'aria ancora
più
arrogante e scapestrata”. Ma questi erano soltanto pareri,
sia
chiaro.
La verità stava nel fatto che probabilmente, al momento
della nascita di ciascuno dei due, qualcosa era andato storto. Tanto
per cominciare, loro madre, nel partorire il primogenito, Alfred,
aveva avuto delle serie complicanze in sala parto. Il bambino era in
una posizione irregolare, l'angolazione era strana e il cordone
ombelicale gli avvolgeva il collo – per quanto la cosa fosse
stupida e di poco conto, Matthew la tenne per sempre a mente dal
giorno in cui gliela raccontarono, giustificando la
stupidità di suo
fratello col fatto che probabilmente da piccolo aveva subito (il suo
cervello in particolare) una grave carenza di ossigeno. Lui invece
era nato in auto, mentre la signora Williams, in preda alle
contrazioni, si faceva beffe di tutti i limiti di velocità e
andava
spedita verso l'ospedale, Alfred, seduto sul sedile posteriore della
macchina, non aveva ancora idea del futuro di ostetrica che lo stava
aspettando. Ovviamente la strana vicenda della nascita di Matthew
finì ben presto nel dimenticatoio, dando spazio ad una serie
di
altre strambe versioni secondo cui il bambino era nato ai confini del
Canada, nella vecchia tana di un'orsa dal collare, o in una tenda di
Apache (poco importava se a quel tempo, da circa duecento anni, non
ci fosse più la benché minima traccia di tende
degli Apache negli
interi Stati Uniti d'America).
Alle sei e trenta di quella sera,
Matthew se ne stava seduto sul pavimento, e ancora una volta nella
sua vita stava pensando a suo fratello. Evidentemente Francis scorse
un lampo di turbamento sulla sua faccia, o più semplicemente
reclamò
l'attenzione che era sicuro gli spettasse di diritto, e
tossì.
«Allora ci vediamo tra un paio d'ore?», chiese.
«Certo.
A dopo.»
«Non farmi aspettare», aggiunse Francis con un
sorriso.
Se ne andò accendendosi una sigaretta e reggendola tra
l'indice e il medio della mano sinistra, lanciandosi una tracolla
sulla spalla e scuotendo la testa e i capelli. Indossava una tuta blu
notte, di quelle strette da un elastico sui fianchi che cadono larghe
sui piedi, e copriva un paio di scarpette nere. Lanciò
un'ultima
occhiata a Matthew e sorrise.
In un certo senso era una persona
gentile, che Matthew paragonava a una specie di druido onnipresente
che conosce a memoria la storia della Rivoluzione Francese e che non
transige sulle abitudini alimentari, l'accento parigino di chi deve
parlare inglese controvoglia e i modi di fare gentili e riverenti.
Ovviamente sapeva essere anche scorbutico (con Arthur), poco
accondiscendente (con Arthur) e anche parecchio sboccato (sempre con
Arthur), ma Matthew non ci badava, anzi, lo trovava addirittura
buffo, ora che ci pensava e continuava a fissare la porta dietro la
quale Francis era sparito appena un secondo prima.
E in
quell'attimo di silenzio e concentrazione, fu addirittura sicuro di
sentire una voce familiare che sussurrava «Dio mio, ho un
modo di
uscire di scena assolutamente sublime!».
[619]
Arthur
Kirkland;
Arthur era chino da almeno tre ore su un
vecchio pezzo di carta che avrebbe potuto essere identificato come
spazzatura. Infatti si era ormai strappato lungo le pieghe, e
esattamente al centro c'era una grossa e circolare macchia di
caffè
risalente a quel pomeriggio stesso. Sopra c'era scritto da cima a
fondo con una calligrafia piccola e singolare, con parecchie
cancellature e altrettanti giri di parole inutili. Arthur l'esaminava
da cima a fondo, cercando di capirne il significato intrinseco che
ovviamente non esisteva e senza avere ancora la benché
minima idea
di come rispondere al misterioso mittente (sempre ammesso che non
fosse soltanto uno scherzo di cattivo gusto). Era una specie di
lettera scritta all'ultimo minuto e ingenuamente lasciata scivolare
sotto la porta della sua stanza, una lettera che era
contemporaneamente stupida, sgrammaticata, imbarazzante, strana, poco
pragmatica e piena di affettuosità e insensatezze fino alla
nausea.
Insomma, quel genere di lettera che qualunque Kirkland avrebbe
preferito dimenticare (o non aver mai ricevuto), ma che, a causa
dell'intelligenza acuta e alla macabra tendenza all'autolesionismo,
teneva a mente come se fosse stata imparata a memoria. Una di quelle
lettere talmente strane da meritare il privilegio di essere riportate
per intero:
Caro
Arthur,
forse
“caro” non è la parola giusta,
dato che non ho mai
avuto l'impressione che tra noi ci fosse un'amicizia di sorta o
qualcosa che andasse oltre il tuo strano attaccamento alle buone
maniere...
Caro conoscente
Arthur, che va decisamente meglio,
sono appena tornato
in camera
dopo un interminabile pomeriggio passato ad allenarmi e poi a fissare
una ragazzina vestita di rosa che lancia sorrisi a destra e a manca,
e adesso mi sento una persona molto cinica, il che sarebbe un
atteggiamento molto alla te, ma ormai non ci faccio più
caso, la tua
presenza deleteria mi sconvolge e mi logora dall'interno, credo che
tu abbia un virus e che io me lo sia beccato, in barba alle mie
potentissime difese immunitarie.
Probabilmente ti
starai chiedendo
chi ti abbia scritto questa lettera, ma visto che sei convinto di
sapere tutto e di conoscere anche il segreto del Santo Graal, la
strada che porta al Nirvana e mille altre cose, capiscilo da solo.
In questo momento il
compito che io decido di assumermi, dato che
ho sempre un compito da assumermi, è quello di dedicarmi un
po' a me
stesso (cosa che non faccio mai) e riordinare un po' le mie idee
lontano da tutte le distrazioni. Nel frattempo il telefono della
camera sta squillando, ma almeno questo non mi infastidisce. Adoro
quel vecchio telefono. In realtà adoro questo albergo
intero, è
come vivere in un'altra epoca, è un posto che sa di vecchio
e questo
un po' mi conforta, un po' mi ricorda la tua presenza costantemente
(sai, per lo storia che è un posto che sa di vecchio).
Vorrei
proprio vedere la tua faccia mentre leggi, perché credo sia
la
solita, esilarante faccia che hai ogni volta che vedi in giro la mia.
Aggrotti le sopracciglia, quelle enormi sopracciglia che sembrano
disegnate con un pennarello spesso almeno quanto un dito, e cominci a
contrarre la mascella per darti un'aria da duro. Fidati, sembrano
soltanto tentativi mal riusciti di arrotolare la lingua, cosa che io
so fare benissimo. E so anche muovere le orecchie, per la cronaca.
Ad
ogni modo, il motivo per cui ti scrivo è molto semplice, ma
allo
stesso tempo va al di là del motivo imprescindibile per cui
non
voglio dirtelo in faccia.
Tu mi piaci.
Purtroppo non mi
piaci
come mi piace il burro di arachidi o come mi piaceva il mio primo
cane. Si chiamava Alban, ed era un bel cane da caccia con le zampe
grosse e le orecchie penzoloni. Una volta ha vomitato sulla moquette
del salotto, che da quel giorno ha una grossa macchia scolorita che a
mio parere ha la forma di un hamburger. Purtroppo non mi piaci
nemmeno come mi piacerebbe un amico che mi va a genio, dato che tu
non sei un amico che mi va a genio, anzi, sei esattamente l'opposto.
Facciamo l'assurdo esempio che l'amico che mi va a genio beva
soltanto Coca Cola classica, quella che esiste da mille anni o
giù
di lì. Ecco, tu invece sei più un tipo da Coca
Cola dietetica, e
questo a me non va a genio per niente. Visto che però sei
all'antica, e potresti non aver capito questo esempio, te ne
farò un
altro. L'amico che mi va a genio è difensore nella squadra
di
football migliore del New England. Mentre lui gioca, tu non guardi
nemmeno la partita, perché stai giocando a golf. Capisci?
Con me non
si gioca a golf, il golf è roba da borghesi, da gente che
beve Coca
Cola dietetica...
Tuttavia potrei
anche sbagliarmi, dato che ti
conosco come si conoscono due persone che si incontrano in
metropolitana e hanno soltanto il tempo di dirsi quanto fosse grande
l'ultimo topo che hanno visto alla Stazione Centrale. Per questo
motivo (e ovviamente per il motivo che ho citato sopra) voglio darti
un'altra possibilità. Qualcuno potrebbe leggere in questa
frase una
sorta di velato, come si dice, “scarica barile”,
nel senso che tu
mi piaci e sono io a doverti dare un'altra chance, ma non è
così,
fidati. Voglio veramente che tu mi descriva quel topo che hai visto
alla Stazione Centrale, voglio veramente avere una reale
conversazione con te.
La verità
è che mi stavo facendo la
doccia, e un'assurda serie di coincidenze mi ha fatto capire che in
qualche modo tu dovevi sapere quanto ti scrivo adesso (sempre che non
lo sapessi già, dato che sai tutto). Il telefono squillava e
produceva quel suono fantastico che solo lui sa emettere, alla tv
c'era la pubblicità di una nuova catena di Fast Food, le
signore
delle pulizie mi avevano portato un rotolo di carta igienica nuovo di
zecca, il che mi aveva messo di buon umore appena entrato in
camera.
Ovviamente non mi
aspetto che il tuo cuore si accenda di
gioia leggendo, anzi, sono convinto che l'unica cosa che si
accenderà
dopo la lettura di questa lettera sarà il tuo piccolo e
subdolo io
da psicanalista freudiano [in realtà l'aggettivo
“freudiano” era
stato cancellato e corretto svariate volte, e nessuna delle versioni
era scritta nella maniera giusta], nonché le
capacità alla Holmes.
Qui si chiama “CSI”, ma ho preferito citare un
vecchio classico,
una cosa che fosse più adatta alla tua veneranda
età.
A dire il
vero, prima o poi dovrai dirmi quanti anni hai. Quanti anni hai
veramente,
perché non ci credo che ne hai ventitré. Forse ne
avevi ventitré
una decina di anni fa. Ma comunque per me l'età non conta,
sappilo,
anzi, mi piacciono le persone mature e tu hai un qualcosa di
paterno... Anzi, più che di paterno io direi di materno.
Ah,
queste gocce che vedi sulle parole che ti scrivo... No, non sono
lacrime, non ti illudere. Non ti schifare nemmeno, quando ti
dirò
che si tratta di sudore, perché ti ho scritto appena un
minuto fa
che sono appena uscito dalla doccia. Ad ogni modo, è sudore.
Fa
caldo, e io non posso farci niente, non riesco ancora a controllare i
cambiamento climatici con la forza del pensiero, ma ci sto
lavorando.
E ci tengo ad
avvisarti anche (oltre alla questione
sudore) che non mi aspetto nemmeno che tu ti metta a esplorare i
più
reconditi angoli del tuo cuore per me, per noi o per te stesso. Io so
già che riuscirò nella mia impresa, ne sono
sicuro quanto sono
sicuro che alla fine Starbucks non chiuderà mai, anzi, vi
surclasserà tutti.
Bene, adesso dovrei
proprio smettere di
scrivere, perché sta per terminare il foglio che ho a
disposizione e
perché la mia scialba carriera di aspirante amanuenso sta
togliendo
tempo a quella decisamente più promettente di ballerino.
Vorrei
solo dirti, alla fine di tutto, e adesso che sai quello che dovevi
sapere e che (questo lo so io) probabilmente non avresti mai voluto
sapere (come al solito i miei tentativi di onniscenza sono ridicoli,
ma tu più di tutti dovresti essermi grato, in questo giorno)
che
secondo la mia (quasi sempre giusta) opinione, tu dovresti prendere
in considerazione quanto ho appena scritto. Non puoi tirarti
indietro, e non puoi fare nemmeno l'eroe e salvarti dal guaio (di
eroe ce n'è soltanto uno e, mi spiace, non sei tu), non sei
nemmeno
Gesù se è per questo. Anche di Gesù ce
n'è soltanto uno,
fortunatamente, e anche Gesù, sempre fortunatamente, non
è te.
Sfortunatamente però non è nemmeno me. Sono
gentile, vero? Con
questa frase puoi almeno depennare un nome dall'elenco dei sospettati
per la tua lista di ipotetici ammiratori segreti.
Adesso puoi
anche buttar via questa carta straccia, oppure rimuginarci sopra
cercando di capire chi sia io – a quel punto sarò
più che certo
di interessarti, e tu sarai più che sicuro riguardo la mia
identità.
Quindi, da zoppo a zoppo, per favore, cerchiamo di non mentirci e
apri gli occhi (magari da' una sistemata anche alle sopracciglia,
così ci vedi meglio).
Con affetto.
Non c'era
nessuno in quel maledettissimo albergo che fosse mai stato tanto
abile con lui a parole, Arthur dovette ammettere che si sentiva quasi
superato. Aveva letto frasi che non si aspettava minimamente, da
nessuno, e si era accorto di qualche indizio lasciato qua e
là con
distrazione (forse) quasi come se si fosse trattato di nebbiolina.
Svariati riferimenti agli Stati Uniti, una eccessiva dose di
egocentrismo puro e alcuni errori grammaticali. Tuttavia continuava
comunque a dubitare che l'autore di quella malefica missiva potesse
essere Alfred, sia perché non era totalmente sicuro che una
persona
del genere potesse avere una vita sentimentale più
complicata della
vita sentimentale di un comodino, sia perché aveva
riscontrato nella
sua lettera una capacità lessicale disarmante, che poteva
appartenere soltanto ad un attento conoscitore della lingua inglese.
Sfortunatamente per Arthur, però, gli attenti conoscitori
della
lingua inglese, in quell'albergo, in quel momento, si limitavano
all'esiguo numero di due, uno dei quali, purtroppo, era egli stesso.
Arthur si sentì un po' come quando la maestra di danza, da
bambino,
lo rimproverava di pulirsi le scarpette prima di entrare in sala. Non
sapeva chi ci fosse lì dentro, ma in cuor suo era
più che certo che
ci fosse qualcuno per cui valesse la pena di pulirsi le scarpette, e
quindi eseguiva l'ordine.
Stessa cosa valeva per quella lettera.
Non sapeva chi fosse l'autore, ma in un certo senso immaginava che
valesse la pena scoprirlo.
Sembrava interminabile, scritta in
maniera fittissima e con una calligrafia che gli ricordava vagamente
quella di un bambino delle elementari, solo che riprodotta in scala
più piccola, faticava un po' a leggerla a quell'ora,
l'orologio
segnava lei sei e trenta, e fuori era quasi buio. Era chino di lato,
verso l'abat-jour, il foglio era poggiato sulle ginocchia piegate, e
lui se ne stava sdraiato a letto, strizzando gli occhi e
avvicinandosi, di tanto in tanto, la lettera alla faccia come per
assicurarsi che ci fosse veramente scritto quello che lui aveva
appena letto.
Il fatto era che non si aspettava che quel maledetto
sconosciuto fosse veramente tanto abile. Per quanto ne sapeva,
lì
dentro, soltanto Francis poteva essere capace di acrobazie verbali
tanto prodigiose (in campo amoroso) ma al tempo stesso dubitava
seriamente che Francis fosse il tipo da dichiararsi tramite una
lettera.
I suoi dubbi quindi, per quanto la cosa potesse
sembrargli assurda, incredibile, stupida e contemporaneamente
fantastica, ricadevano sempre sulla stessa, americana persona.
I
fatti parlano da sé, si dice, ma a volte nessuno di noi
è in grado
di interpretarli. Spesso parlano una lingua tanto più
volgare,
quanto più ci interessano personalmente, a volte sembrano
schiaffarci in faccia la realtà con una certa violenza. Ma
che i
fatti parlino da sé si dice soltanto, magari qua e
là c'è qualcuno
che nemmeno se ne accorge. A volte gli intrecci sono troppo
complicati da capire, a volte siamo noi stessi a renderli tali. I
fatti, ad ogni modo, spesso derivano da un miscuglio complessivo (e
anche un po' profano) di azioni.
E infine, il numero di cose che i
fatti dicono è direttamente proporzionale al numero di
conseguenze
che noi ne vogliamo dedurre.
[559] Antonio
Fernandez Carriedo;
«Che cosa vedi lì dentro,
Antonio?»
«Tulle, tantissimo tulle.»
«Non intendevo sullo
schermo, intendevo dire dentro lo schermo.»
«Ah... Che ne
so. Plasma?»
Francis sbuffò, e si passò una mano sulle tempie,
come se si trovasse nell'atrio di un asilo e stesse chiedendo ad uno
dei bambini che colore fosse il fiorellino giallo che c'era disegnato
sul muro. Il bambino rispose “blu”.
«Una visione profonda,
devi avere una visione profonda! Io vedo una ragazza che si impegna
con tutta se stessa e sprizza energia. La vedi la sua energia? Io la
vedo.»
«Io vedo solo che è fuori tempo.»
Il bambino fece un
secondo tentativo, e disse “rosso”.
Francis si diede
un'occhiata intorno, e poi calciò Antonio all'altezza delle
reni.
«Ehi, ma si può sapere che ti prende?!»
«Smettila di
abbrutirti, d'accordo? Smettila. Non è da te. Non puoi
abbrutirti di
colpo, non è un tuo diritto farlo.»
A quel punto, raccogliendo
l'onere che gli era appena stato affidato (che Antonio avrebbe quasi
sicuramente preferito descrivere come una zavorra) si alzò
in piedi
e guardò Francis negli occhi. Aveva voglia di dargli un
pugno, ma
non si trattava di quel genere di pugni che nei libri e nei film si
davano al nemico, era più un pugno da “migliore
amico”, uno di
quei pugni che ti faceva capire per sempre che qualcosa si era rotto,
dentro, e che lui era giù di morale.
Effettivamente se si
metteva a pensare sul serio alla sua vita nell'ultima settimana e la
tramutava un po' in un film riusciva quasi a vederci una lunga serie
di personaggi principali, un po' come quei telefilm che rifilavano
ogni santissimo giorno dall'America, in cui lui era un liceale con
problemi esistenziali, Francis era una specie di agile soubrette
tramontata, Gilbert era l'amico popolare che lo avrebbe quasi
sicuramente accusato, durante queste sue riflessioni, di avere un
cervello imperniato di fantasia, che doveva mettere i piedi per terra
e agire, un po' come faceva lui (ovviamente Gilbert, nel suo film,
continuava ad essere malmenato da una donna, e questo giusto
perché
Antonio voleva la sua piccola vendetta personale). E infine c'era
Lovino, la ragazza carina e riservata che si soffia sempre il naso in
classe.
«Senti», cominciò a fatica, come se
ciò che stesse per
dire risvegliasse in lui il tormento di una vita, «non sono
in vena,
dico davvero.»
«Dal mio illustre punto di vista, sappi che sono
sicuro che invece sarai in vena, dammi soltanto un minuto.»
A
quel punto Francis estrasse dalla tasca il suo telefono cellulare e
cominciò a picchiettare le dite sulla tastiera con la stessa
calma
che potevano avere quelle signore che sanno di dover aspettare almeno
due ore quando sono in fila dalla parrucchiera. Nel frattempo,
Antonio attendeva impaziente cosa stesse per dirgli – lui
aveva
l'assurda tendenza a fidarsi meccanicamente delle persone, come se in
lui ci fosse una specie di cromosoma benefico che gli impediva di
provare sentimenti come l'odio o l'indifferenza.
«Ecco,
guarda.»
Detto ciò Francis gli piazzò il cellulare a due
centimetri dalla faccia e Antonio impiegò un paio di
secondi, che
usò per sbattere ripetutamente le palpebre, prima di mettere
a fuoco
quello che c'era scritto sul display. La delusione amorosa aveva
causato una mancanza d'espressione sul suo volto (e anche i seri
dubbi sulle potenzialità di Francis, a dir la
verità) che lo faceva
sembrare come uno di quei passanti che per ammazzare il tempo mentre
camminano leggono quegli opuscoli inutili che distribuiscono per
strada o, sebbene fosse abbastanza triste come cosa, i necrologi.
«E
allora?», chiese infine, dopo una veloce ma attenta
analisi.
«Allora? Vorresti dirmi che non ti interessa?»
«Che
cosa dovrebbe interessarmi? Non si capisce nemmeno cosa ci sia
scritto.»
Francis roteò gli occhi con aria piuttosto teatrale
(era un attore nato, aveva anche la strana abitudine di parlare con
un tono di voce basso e di gesticolare muovendo soltanto le dita).
«Stavo parlando con Feliciano», spiegò,
come se adesso stesse
parlando con un ritardato mentale, «e in questo messaggio,
scritto
in tre diverse lingue per ragioni a me ignote, lui mi spiega che
Lovino resterà con te, dato che lui e Ludwig devono
uscire.»
Antonio
respirò adagio e osservò il sorriso di Francis.
In quel momento gli
sembrò la cosa più bella che potesse guardare, e
quindi concentrò
la sua attenzione su quel particolare per quasi un minuto. Quando
riprese coscienza di se stesso e di quello che stava accadendo,
sapeva già che cosa avrebbe fatto dopo.
«Ah, non so come tu lo
abbia convinto. Ah, tu fai i miracoli! Ti devo un favore, d'accordo?
Ricordamelo però, odio dovere i favori alla gente. Sei un
amico
Francis, ti devo un favore!», cominciò a dire.
Raccolse
velocemente la sua borsa, salutò Francis con la mano e corse
a farci
una doccia.
Ovviamente non seppe mai che fu Lovino stesso a
chiedere a Francis di poter fare da tramite tra lui ed Antonio, ma
questa era un'altra storia. Si sa, i fatti derivano da un miscuglio
complessivo (e un po' profano) di azioni.
Nel
frattempo Lili eseguì la sua ultima diagonale di pas de
basque, e si
fermò, salendo sulle punte e guardando tutta la giuria
dall'alto.
Con la fine della sua variazione finiva anche il mondo che si era
creata attorno, quello di una storia piena di inganni, intrighi e
intrecci, una storia fittissima, in cui le dichiarazioni non erano
mai esistite, in cui gli equivoci erano all'ordine del giorno e in
cui, nonostante tutto, c'era il lieto fine.
L'ultima
parte si riferisce alla trama della “Fille mal
Gardée” (la
Figlia Mal Custodita). =) Ho deciso di incentrare questo capitolo
più
sui protagonisti (che, ahimé, sono soltanto tre per
questioni di
lunghezza) che non sulla danza. In un certo senso credo sia meglio
così, oppure alternare, per non risultare noiosa e
ripetitiva,
giusto?
Ad ogni modo, la variazione che avevo scelto per Lili era
un'altra, per la precisione questa qui
Swanilda,
tratta da Coppelia. Ho
cambiato proprio alla fine, mentre scrivevo e mi rendevo conto che
anche con la trama ci stava meglio la seconda scelta! (E poi
è la
mia variazione femminile preferita, quindi...!)
Nel prossimo
capitolo però toccherà a un personaggio piuttosto
importante,
quindi vorrei di nuovo portare l'attenzione sul balletto. Si tratta
di questo
Flames
de Paris
(purtroppo non trovo un video decente, chiedo scusa D:), che secondo me
è praticamente perfetto, vista la
trama.
:P Secondo voi di chi si tratta? :P
Infine, grazie a chiunque
abbia recensito, letto o soltanto dato un'occhiata al titolo!
=)
A presto, baci! <3
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