Un'altra possibilità

di berlinene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Festa con sorpresa ***
Capitolo 2: *** Una breve vacanza inaspettata ***
Capitolo 3: *** Il momento giusto ***
Capitolo 4: *** Dichiarazioni ***
Capitolo 5: *** ***EPILOGO*** ***



Capitolo 1
*** Festa con sorpresa ***


E’ da tanto che lo dico  finalmente l’ho fatto. Ho ripreso in mano il Diario,non nella forma ma, in un certo senso, nei contenuti. Per questa storia si potrebbe parlare di una sorta di “ibridazione” fra la storia originale, l’esperienza nel mondo delle FF (e dello yaoi) e una certa [presunta] maggiore maturità da parte mia.

Vorrei precisare tuttavia che questa mini-long non è parte della storia “ufficiale” del diario bensì un suo spin off\what if… anzi, come dice il titolo è “Un’altra possibilità”...

 

Dedico le pagine che seguiranno a tutti coloro che hanno mostrato interesse per il Diario: lasciando recensioni, inserendolo fra preferiti e simili o magari scrivendomi direttamente. Grazie di cuore, perché questa “saga” per me significa davvero tanto  e amo incondizionatamente chiunque la apprezzi. Questa storia è anche un modo per scusarmi del lungo silenzio, ma vi garantisco che prima o poi riprendo in mano tutto!

Ringrazio fin d’ora chi leggerà “sulla fiducia” pur non amando il format *wink*.

Grazie a wakashimazu_ken e agli msn-deliri di cui questo “e se” è figlio… un po’ mi mancano lo sai?

Grazie a Lady Snape e Kianeko che, facendolo comparire nelle loro storie, hanno risvegliato in me l'antica voglia di scrivere di Mune!

Last but not least grazie alla betina rel ormai convertita a etero ed AU. XD

 


Note dell'Autore:

And when the broken hearted people living in the world agree,

there will be an answer, let it be.

For though they may be parted there is still a chance that they will see,

there will be an answer.

let it be.

“Let it be” – The Beatles

 

 

 



Lo scopo della serata era: passare inosservata. Ma sapeva che non sarebbe stato facile, non con l’orrendo vestito da sera che sua madre le aveva imposto: una brutta caricatura di un abito tradizionale giapponese, per di più rosa.
Lei lo odiava, il rosa. Ma che poteva saperne sua madre.
Yasu sospirò: d’altronde la bella vita che da mesi stava conducendo, prima ad Amburgo da Genzo e ora a Londra dai suoi genitori, doveva pur mandarle il conto, una buona volta. E, considerando che, per la maggior parte del tempo, faceva tutto ciò che le pareva, dover recitare la parte della brava figlia per una sera non sarebbe stato poi così terribile: si era dunque rassegnata alla festa per il fidanzamento di suo fratello maggiore, all’orribile vestito rosa e al fuoco incrociato delle presentazioni cui sua madre l’avrebbe sicuramente sottoposta. Il gioco valeva la candela: fra l’altro, il catering era curato dal suo ristorante giapponese preferito e appena possibile, si sarebbe ritirata nelle sue stanze adducendo la scusa di un lieve malessere.
Si appuntò i capelli ormai ricresciuti e sistemò il vestito attorno alle sue nuove curve: da quando stava in Europa aveva preso qualche chilo ma, a detta di tutti, si erano depositati nei punti giusti e il suo corpo non era più atletico e mascolino ma decisamente più femminile. Non che ne fosse così felice, le piaceva più il suo “vecchio” corpo come le piaceva e le mancava allenarsi quotidianamente ma, anche quelle, erano cose della sua “vecchia” vita, quella che si era lasciata alle spalle con tanta fatica.
Sopportò i complimenti e le smancerie dei primi cinque o sei “buoni partiti” propinatele dalla madre, poi, quando questa si distrasse, sgusciò abilmente sulla terrazza.
L’aria era fresca, nonostante fosse quasi primavera, ma profumava di mare ed era molto più pulita di quella di Londra. In effetti quella villa nella campagna inglese era molto simile a quella di Nankatsu.
Rabbrividì leggermente e si strinse nella seta leggera dell’abito, mentre, appoggiata alla balaustra, fissava l’immenso giardino, pensierosa. Quando sentì dei passi avvicinarsi, un uomo a giudicare dal rumore, restò immobile, fermamente decisa a evitare uno dopo l’altro tutti i cicisbei inviati dalla madre.
“Do you mind if I smoke?” chiese lo sconosciuto, ma l’accento giapponese era così forte che Yasu rispose quasi di riflesso nella propria lingua.
“Parla giapponese?” proseguì l’altro, una nota di sorpresa nella voce. Voce che a Yasu suonò subito familiare, facendola girare di scatto. “Katagiri-san!” gridò felice e stupita al contempo.
“Ci conosciamo?” fece lui. La piega delle sopracciglia lasciava indovinare uno sguardo sorpreso celato dalle lenti scure.
La ragazza fece un passo verso il cono di luce di un lampione: di sicuro il buio e le lenti da sole non gli erano d’aiuto. E poi da quel che sapeva…
“Forse se avessi un cappellino e una sdrucita tuta del Toho aiuterebbe?” fece, mettendo una mano alla fronte a mo’ di saluto militare, per imitare la tesa del berretto.
Stavolta lo stupore era palese, tanto che l’uomo indietreggiò persino di qualche passo. “Wakabayashi? La Wakabayashi femmina?”
La ragazza rise, poi, fingendosi arrabbiata, mise le mani sui fianchi e disse: “Veramente avrei un nome”.
“Yasu…” rispose Katagiri quasi in un sospiro.
“Ai!” confermò lei accennando un inchino.
“Sei…” la squadrò poco educatamente. “… molto cambiata”.
“Può dirlo ‘ingrassata’”.
“No” si affrettò a dire. “Sei… cresciuta…”
“Addirittura? Ma se sono passati solo pochi mesi…”
“E cosa ci fai qui?”  chiese lui, quasi brusco.
“Beh, infondo quello che si fidanza è mio fratello, anche se lo conosco appena… ma visto che ora vivo qui…” spiegò. “Lei, piuttosto, cosa ci fa lontano dalla madre patria?”
“Sono qua per incontrare i dirigenti di alcune squadre inglesi che sembrano interessati a ingaggiare qualcuno dei nostri ragazzi…”
“Davvero???” lo interruppe Yasu eccitatissima. “E chi?” domandò prendendolo praticamente per le spalle. Salvo ritrovare, arrossendo, un contegno. “Ehm, mi scusi, stava dicendo?”
Lui inarcò leggermente il sopracciglio, poi riprese da dove si era interrotto. “Dicevo, siccome passavo da Londra ho chiamato tuo fratello Ichirou, che è un mio vecchio amico d’infanzia, con l’intento di incontrarlo per un saluto… e lui mi ha invitato a questa sua festa di fidanzamento. Ho dovuto accettare per educazione ma credo resterò poco, visto che non conosco nessuno”.
“Già, vale lo stesso per me”.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale entrambi si volsero a osservare il giardino.
“Nitta e Matsuyama” disse all’improvviso Katagiri.
“Eh?”
“Mi avevi chiesto chi sono i ragazzi voluti dalle squadre inglesi”.
Fu come soffiare su delle braci quasi spente.
Yasu si lanciò in una lunga disquisizione su quanto le capacità dei due giocatori si adattassero alla Premiere League, per poi passare in rassegna un po’ tutti i membri della Nazionale, dimostrando non solo profonde conoscenze tecniche ma anche di essere notevolmente aggiornata circa le faccende mondane dei vari giocatori, soprattutto per una che viveva lontano da circa un anno.
Quando Katagiri, che aveva partecipato attivamente alla discussione, glielo fece notare con un sorriso, lei arrossì.
“Ken… Wakashimazu… mi scrive sempre lunghe e dettagliatissime email…” spiegò, alle quali non rispondo mai, avrebbe voluto dire ma invece aggiunse solo: “E lui è un ottimo scrittore e un petteg- ehm un osservatore anche migliore”.
Il sorriso sul volto di Munemasa, che si era eclissato un attimo sentendo il nome del Karate Keeper, si trasformò in una sonora risata. Non conosceva la storia nei particolari, ma sapeva che il portiere c’entrava qualcosa col soggiorno o, meglio, la fuga di Yasu in Europa. Ricordava che qualche anno prima i due stavano insieme, era durata piuttosto a lungo considerata la loro giovanissima età. E se le voci che giravano circa Wakashimazu erano vere, capiva bene perché lei fosse fuggita così lontano…Qualcosa che, a suo tempo, anche lui aveva desiderato fare.
La conversazione continuò amabilmente e dal calcio passarono a parlare del più e del meno, finché, mentre raccontava dei migliori ristoranti giapponesi di Londra, Yasu, quasi senza accorgersene, aveva iniziato a dargli del tu.
“Il migliore è senz’altro quello che ha fornito il catering stasera, è un po’ fuori Londra, ma se ti trattieni qualche volta possiamo andarci…”
Munemasa annuì cercando di ignorare lo strano brivido che non tanto il “tu” quanto quell’ultimo “noi” gli aveva provocato.
In quel momento la signora Wakabayashi apparve sul terrazzo.
“Yasuko, ma dove…” strillettò salvo poi interrompersi scorgendo il signor Katagiri. Un sorriso le si allargò sul volto. “Tesooooro” cinguettò. “Non sapevo fossi in compagnia… Il figlio di Katagiri, vero?” chiese civettuola.
“Sì, signora, Munemasa Katagiri” si presentò con un educato inchino.
Yasu sorrise arricciando il naso: era buffo pensare al “signor Katagiri” come al “figlio del signor Katagiri”, ma d’altra parte i suoi genitori erano amici di vecchia data del padre, un facoltoso imprenditore.
“E come sta suo padre?” proseguì la signora.
“Bene, grazie” rispose lui, sempre estremamente cortese. “Manda i suoi saluti a lei, a suo marito e ai suoi figli…”
“E niente per mia figlia? Non è uno splendore?”
Yasu strabuzzò gli occhi e diventò rossa. Aprì la bocca per ansimare “Mamma!” ma Munemasa fu più svelto di lei.
“Davvero, uno splendore” confermò, senza guardare la ragazza che, intanto, da rossa era diventata viola.
“E di cosa parlavate?” insisté la signora.
“Dei vecchi tempi” tagliò corto Yasu, desiderosa di porre fine all’incresciosa situazione.
“Ah!” esclamò eccitata la madre. “Di quando veniva a fare i compiti da Ichi-chan e non poteva fare a meno di prenderti in braccio?”
“Ehm… no, mamma” balbettò sconvolta. “In effetti si parlava della Nazionale…”
La signora si ritrasse, stupita, guardandoli a turno.
“Ehm… mamma… ti ricordi che Genzo gioca a calcio e che l’hanno anche chiamato in Nazionale… che vedesti la partita in TV una volta…”
La donna annuì, non troppo convinta.
“E ti ricordi che io andavo con lui? E che ero entrata nello staff della Nazionale? C’era anche Mune- il signor – il figlio del signor Katagiri…”.
“Ah, sì… ricordo… anche lei giocava a calcio come il mio Genzo”.
Yasu si morse le labbra.
Quando aveva deciso di venire a stare a Londra, sapeva di dover convivere coi suoi genitori, quelli che se ne erano partiti lasciando lei e suo fratello in Giappone perché erano troppo piccoli e sarebbero stati loro d’intralcio. Non li aveva mai esattamente odiati per quello, in fondo lei e Genzo avevano avuto una vita piena e felice, in cui l’affetto non era mai mancato, ma talvolta era davvero difficile.
Sapeva che avrebbe dovuto convivere col fatto che i suoi genitori non conoscevano niente di lei e del suo gemello. Neppure che lui era uno dei portieri migliori del mondo. Ma sentirla dire il “mio Genzo”, la faceva comunque andare in bestia.
Ma era il prezzo da pagare, si ripeté, quindi rilassò i muscoli della mascella e il pugno che istintivamente aveva serrato.
A Munemasa il movimento non sfuggì. Un po’ di anni prima avrebbe reagito allo stesso modo, ora aveva imparato a controllare ulteriormente le proprie emozioni. Ebbe tuttavia l’istinto di prendere quella mano rabbiosamente serrata fra le sue, ma, ovviamente, non lo fece. Si limitò ad annuire cortesemente all’indirizzo della signora Wakabayashi, quindi dette un’occhiata all’orologio.
“Si è fatto molto tardi” osservò.
“Sì” incalzò Yasu “Domani hai molti, impegni, no?”
Lo sguardo che si scambiarono fu eloquente: entrambi sarebbero rimasti ancora ore a parlare come poco prima, ma la situazione che si era venuta a creare non piaceva a nessuno dei due.
“Un’infinità… quindi con permesso…” rispose lui, accennando un inchino e un saluto.
Yasu rilassò le spalle, celando appena il sospiro di sollievo. Gli sorrise, ringraziandolo segretamente per aver capito l’antifona.
Lo accompagnò fino alla porta, sempre seguita a ruota dalla madre.
Si salutarono formalmente e Yasu lo guardò allontanarsi con una punta di amarezza. Poi si voltò verso la madre e la salutò con un brusco: “Vado a letto, buonanotte”, quindi si addentrò nella sala alla ricerca di Ichirou per congedarsi anche da lui.

Munemasa Katagiri rientrò nella sua camera d’albergo. Gettò il soprabito e la giacca sul letto e andò in bagno. Lentamente sfilò gli occhiali, riempì le mani a coppa di acqua fredda e si bagnò il viso. Poi appoggiò i palmi sul lavandino e rimase a lungo a fissare lo scarico, le gocce che scendevano lungo le  guance come lacrime, i lunghi capelli che pendevano ai lati del volto. Rimase lì alcuni secondi, stringendo allo spasimo i bordi del lavandino. Quindi inspirò ed espirò profondamente, infine, alzò la testa per guardarsi nello specchio.
Contemplò la cicatrice che occupava l’orbita destra, là dove avrebbe dovuto stare il bulbo oculare. Serrò la palpebra sana, quindi la riaprì per guardare l’occhio. Lo faceva tanto di rado che aveva dimenticato persino il colore della sua iride, quel marrone quasi verde che un tempo aveva un discreto successo con le donne.
“Già, quando ancora guardavi le donne, Munemasa, non le ragazzine” mormorò fra sé. “Quando non eri sfregiato e neppure pedofilo” ringhiò, prendendo con rabbia la salvietta in cui affondò il viso per alcuni istanti.
Trasse ancora qualche lungo respiro, quindi si spogliò e si distese sul letto. Aveva sperato di addormentarsi subito, perché era stanco e aveva fatto più tardi del previsto, ma, rilassandosi, il ricordo della serata appena trascorsa invase la sua coscienza.
E il pensiero andò a lei.
Yasu Wakabayashi. La ricordava appena come una ragazzina tutta gambe, così somigliante al fratello che fino a una certa età li potevi scambiare. Il suo atteggiamento da maschiaccio ribelle lo aveva fatto sorridere più volte, ma aveva anche notato quanto sapesse essere dolce coi ragazzi, soprattutto nei momenti più difficili e delicati, per esempio quando si infortunavano. Si era stupito quando Mikami aveva proposto di farla entrare nello staff della Nazionale ma, alla fine, era stato soddisfatto della scelta, per quanto strana. Era toccato a lui farle quella proposta ed era stato il primo a sostenerla e, pur nell’ombra, aveva sempre cercato di continuare a farlo. Gli era dispiaciuto quando Gamo l’aveva messa alla porta e a volte rimpiangeva di non aver usato la sua autorità per tentare di fare tornare Minato sui suoi passi. Soprattutto gli dispiaceva perché quell’abbandono si era andato a sommare a quello ben più grave da parte di Ken.
E lui lo sapeva bene che ogni colpo inferto dal destino fa più male del precedente.
Quel filo di pensieri aveva preso una brutta piega e ora, non poteva che arrivare fino a Hinata. La sua mente che vagolava fra il sonno e la veglia non oppose sufficiente resistenza e la rivide com’era a vent’anni, minuta e delicata, col viso come un petalo di rosa, la bocca a cuore, i capelli come una cascata di velluto nerissimo, un volto da dipinto antico, in contrasto e armonia col modo sfacciatamente moderno che aveva di vestire. Amava il calcio, Hinata e amava lui. Sembrava divertirsi anche a parlare di partite e schemi per interi pomeriggi. Gamo, Mikami e gli altri della Nazionale lo prendevano in giro, perché era il più piccolo e perché era innamorato. Ma lui era convinto fosse tutta invidia.
Poi l’incidente e tutto era cambiato.
Gli dissero che doveva rinunciare al calcio. Lei l’abbracciò forte e promise che gli sarebbe rimasta accanto. Ma Munemasa vide l’ombra che le attraversò il viso quando gli tolsero le bende e Hinata vide il volto che amava sfregiato per sempre.
Lei sorrise, tuttavia, e gli accarezzò la guancia colpita. Quello che lui percepì, però, non fu amore ma pietà. Allora fu lui a chiederle di andarsene, prima a parole, poi, di fronte al suo rifiuto, coi fatti: si trasformò in un uomo che nessuno avrebbe amato. E Hinata capitolò, abbandonandolo, come lui stesso le chiedeva ormai da mesi.
Da allora, c’erano state solo avventure. Da allora – da quasi dieci anni -, non aveva più provato… quello che aveva provato poche ore prima.
Nonostante il sonno che premeva, Munemasa cercava di darsi una spiegazione razionale: ci sentivamo entrambi soli, ci mancava qualcuno con cui parlare delle cose che ci piacciono…
Ma c’era di più…
Avevano molto in comune: la storia familiare, i genitori ricchi e distanti che ti vorrebbero diverso da quello che sei, il fallimento di un amore importante, col suo carico di dolori e cicatrici più o meno visibili…
Aveva avuto voglia di stringerla fra le braccia, per consolarla, si disse.
Aveva avuto voglia di restare a parlare con lei tutta la notte… è simpatica, arguta e si intende di calcio, si giustificò.
Non le aveva chiesto il numero di telefono, e vorrei ben vedere, si rimproverò prima che il sonno, finalmente, avesse la meglio.


Yasu Wakabayashi salì in camera sua col cuore leggero, come non lo sentiva da tempo. Rise fra sé quando si rese conto che stava canticchiando. Credeva si sarebbe annoiata, quella sera, invece le ore erano volate…grazie alla compagnia del signor Katagiri. Le era sempre sembrato un tipo simpatico, ma non aveva mai avuto l’occasione di parlarci, diciamo così, da pari a pari. In effetti l’unica conversazione propriamente detta che avessero mai avuta, era stata quando lui era venuto a proporle il posto nello staff della nazionale. E anche quella volta, anzi, soprattutto quella volta, si era sentita come a un colloquio di lavoro.
Invece quella sera era stato come parlare con un vecchio amico, a parte il modo squisitamente deferente e formale che aveva sfoderato con sua madre. Yasu ridacchiò: per quello le occorreva ancora un po’ di allenamento… e magari un ripassino di “buona educazione nipponica”…come aveva borbottato più di una volta il padre di Ken, di fronte alla sua “esuberanza occidentale”.
Ecco. Ancora una volta aveva pensato a lui: ma proprio come quando l’aveva menzionato qualche ora prima, era riuscita a farlo serenamente… chissà, magari stava finalmente imparando.
Prima di addormentarsi fra le coltri morbide, il suo ultimo pensiero era stato che era un peccato non essersi scambiati il numero di telefono, le sarebbe piaciuto portarlo a cena in quel ristorante giapponese di cui avevano parlato e passare un’altra serata piacevole e spensierata come quella appena trascorsa.



Note di chiusura:

Vi ho intrippato un po'?

Al prossimo cap;)

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Capitolo 2
*** Una breve vacanza inaspettata ***


Una breve vacanza inaspettata

Katagiri rimase immobile a osservare il tassista scaricare le sue valigie. Non mosse un muscolo e non solo per risparmiarsi la fatica, pensando che già il lungo viaggio avrebbe messo a dura prova la sua schiena, ma anche perché non voleva partire. Gli incontri coi dirigenti inglesi erano andati bene, c’erano buone prospettive per una serie di amichevoli, oltre che di stage per alcuni ragazzi. Tutto secondo i piani, insomma: doveva essere fiero del proprio operato. Se prima di partire gli avessero detto che poteva finire così, ci avrebbe messo la firma. Ma allora non sapeva…
Alla fine, in barba a tutte le fisime, si era quasi deciso a chiamarla, ma, poi, ogni sera, puntualmente, era stato incastrato dall’invito di qualche dirigente e la cena che più ambiva era sistematicamente saltata. Ma forse era un bene. Andare a disturbare Ichirou o, peggio, Mikami per recuperare il numero di lei gli sarebbe parso un gesto piuttosto disperato.
Lasciò al tassista una lauta mancia, svuotando le tasche delle ultime sterline, afferrò il carrello con le valigie e si avviò verso la porta. Poi si fermò, cambiando idea: si posizionò in un angolo e accese una sigaretta. La aspirò gustandone tutto il sapore, cercandone l’effetto rilassante che nelle ore successive gli sarebbe mancato.
Il cellulare interruppe l’idillio. Katagiri si frugò agitato le tasche, mosso da un presentimento. Inspirò profondamente, infine guardò il display.
Gamo.
“Sì?” rispose a mezza voce, mentre il cuore rallentava, deluso.
“Ma dove cazzo sei?”
Munemasa sospirò indispettito: Minato non avrebbe mai imparato le buone maniere. Quindi rispose, cercando di mantenersi calmo: “Ho l’aereo fra poco più di due ore, dove vuoi che sia? Mi fumo l’ultima sigaretta prima di entrare in aeroporto.”
“Ti do una notizia buona e una cattiva… Quale vuoi prima?”.
“La buona” sibilò innervosito Munemasa.
“Non è l’ultima sigaretta quella che stai tenendo in mano come una checca in questo momento”.
Munemasa si affrettò a infilare la sigaretta fra le labbra, poi biascicò a mezza bocca: “E la cattiva?”.
“Che hai fatto una levataccia per niente, hai buttato via i soldi del taxi e… dovrai sciropparti qualche altra colazione iperproteica… in effetti le notizie cattive sono più di una”.
Katagiri prese una profonda boccata, cercando di controllare la voce, mentre il cuore riaccelerava. “E perché dovrei rimanere qua?”
“Perché ci è stato comunicato che la prossima settimana, a Parigi, si terrà una riunione per l’organizzazione di una serie di amichevoli fra nazionali giovanili. Abbiamo pensato che già che sei in zona… Avremmo anche già provveduto a cambiare la data di ritorno del volo Londra – Tokyo e a prenotare volo e albergo a Parigi…”
“Ah…bene… è bello essere sempre il primo a sapere le cose…”
“Ho provato a chiamarti un sacco di volte ma avevi il cellulare spento…”
“Forse perché qui era notte fonda? Comunque, non so se sarò all’altezza…”
“Di cosa?”
“Beh, un conto è fare degli incontri privati, un altro è ‘sto summit… il mio inglese…”
“Bah” biascicò Gamo. Katagiri lo immaginò scuotere le spalle poderose in un gesto tipico. “Hai tre giorni a Londra, trovati l’interprete…”
Un’idea saettò subito nella mente di Munemasa, mentre Gamo concludeva mellifluo: “…magari carina che Paris c’est toujour Paris*”, con un inaspettato sfoggio di poliglossia.
Katagiri arrossì violentemente, ma, per fortuna, il collega non poteva vederlo. La voce si mantenne serena, il tono volutamente casuale: “Ho già una mezza idea che Mikami apprezzerà. Ti faccio sapere, intanto vedi di fermare un altro volo e un’altra camera” disse scandendo bene le ultime due parole.
“Bene, ci sentiamo” salutò Gamo e riagganciò. “Stupido ragazzino” disse al telefono chiuso, “quando imparerai a divertirti un po’?” il tono era bonario, la voce quasi triste.
Munemasa, invece, era al settimo cielo, senza aereo. Scorse rapido la rubrica del cellulare: “Wakabayashi Ichirou e poi dovrebbe esserci Gen-” Sorrise: il numero era sempre stato lì, da quando l’aveva chiamata per proporle di collaborare con la Federazione. Cosa che si apprestava a rifare.

“Se ‘ti trattieni qualche giorno’ e hai ‘qualcosa da dirmi’” aveva risposto Yasu allegra, riassumendo la sua richiesta, “non c’è bisogno di parlare per telefono. Posso essere lì all’aeroporto fra mezz’ora”.
Erano passati solo alcuni minuti in più, quando una spider argentata zigzagò  birichina fra le auto ferme fino ad arrestarsi davanti a lui. La Wakabayashi sgusciò fuori dallo sportello salutandolo da sopra il tettino. I capelli mossi le circondavano scompostamente il viso sorridente: l’inconfondibile naso a patata e gli occhi color nocciola, i tratti che la rendevano uguale a Genzo, erano dissimulati da occhiali da vista con la montatura di plastica azzurra.
“Nel bagagliaio ci sta giusto la ventiquattr’ore… la valigia la mettiamo sul sedile posteriore… considerato che non ha le gambe dovrebbe entrarci” spiegò divertita, arricciando il naso. “Non so cosa ci trovi mio fratello in questa macchina!”
“Non c’è problema. Grazie per essere venuta a prendermi” rispose il giovane, con un inedito sorriso solare.  
Sistemati i bagagli, Munemasa spiegò che sarebbe rimasto per poter partecipare a un altro incontro di lì a qualche giorno, ma non entrò nello specifico.
Yasu, da parte sua, non indagò oltre le motivazioni di quel cambio di programma, si informò invece su cosa lui volesse fare nel frattempo.
“Prima di tutto” rispose l’altro, soffocando uno sbadiglio e sprofondandosi nel seggiolino, “dovremo tornare al mio albergo a sentire se hanno stanze libere. Oppure cercarne un altro…”
“Ho io la sistemazione giusta” rispose lei, nascondendo a stento un sorriso sornione “se ti fidi…”.
Lui acconsentì, anche se sospettava ci fosse sotto qualcosa: ma non ebbe molto tempo di rifletterci perché la stanchezza lo vinse e si appisolò. Il viaggio durò un’oretta circa, ma a Munemasa parvero pochi minuti e solo quando si fermarono, riconobbe la villa dove si era svolta la festa.
“Ma questa è casa tua” protestò.
“Sì, ma quanto a stanze e personale non ha niente da invidiare a un albergo” rise lei. Poi si fece seria “A noi fa piacere ospitarti… intendo dire… ai miei, a Ichirou e… a me…” esitò. “Ma se a te non va…” si affrettò ad aggiungere.
“No, no” fu altrettanto rapido lui a rassicurarla. “Solo non voglio dare…”
“Shhh” fece Yasu scuotendo la testa e sfiorandogli le labbra con la mano come a zittirlo. “Nessun disturbo”.
Un leggero calore le salì alle guance, ma fu salvata dal cancello che, aprendosi, la costrinse a rimettere le mani sul volante, per entrare, a passo d’uomo, nel vialetto.
Il maggiordomo si avvicinò a passetti rapidi e, istruito da Yasu, prese i bagagli e invitò Katagiri a seguirlo per mostrargli la tua stanza.
“Sistemati pure con calma,” si congedò la ragazza, “il pranzo sarà servito fra un’oretta”.
Ancora una volta entrambi si sentirono combattuti fra il desiderio di restare soli e quello di passare insieme più tempo possibile. Ma – rifletterono tutti e due- non c’era fretta.
Un’ora dopo Katagiri si presentò nel salone, con indosso dei jeans e una polo. Yasu, accovacciata sul divano, alzò lo sguardo dalla rivista che sfogliava svogliatamente e ridacchiò.
“Beh?” fece lui un po’ risentito, accorgendosene.
“Scusa è che” ammise, “è la prima volta che ti vedo senza giacca e cravatta”.
“Non credevo fosse prevista per il pranzo” si giustificò, vagamente a disagio.
“Ma cosa vai a pensare?” rise. “Fra l’altro siamo solo io e te, e per me è meglio così”.
In effetti stava bene: sebbene leggermente appesantito attorno al giro vita, il fisico da calciatore si indovinava ancora.


 “Allora” chiese allegra Yasu, al momento del caffè, “cosa ti va di fare oggi? Vuoi andare a Londra? Un’oretta e ci siamo…”
“Non saprei… credo di sì…”
“Non mi sembri convinto…”
“I posti affollati non mi vanno… troppo a genio…” ammise lui.
“Ok, allora ho un’idea. Se ti fidi…”
“L’ultima volta che hai detto così” osservò. “Mi hai fregato…”
“Qualcosa non va?” si preoccupò la padrona di casa, “la stanza non ti piace? Il pranzo non era buono?”
“Ma no” si affrettò a rassicurarla, posando la tazza sul tavolino da fumo e mettendole una mano sulla spalla. “Scherzavo… è tutto perfetto!”
“Anche il posto che ho in mente, vedrai” esclamò lei, balzando in piedi con la solita vivacità, immediatamente ritrovata.

In macchina Yasu si informò circa gli esiti degli incontri dei giorni precedenti: il discorso tornò sulla nazionale e il tempo del viaggio trascorse quasi senza che se ne accorgessero. Quando la ragazza fermò l’auto e dichiarò che erano arrivati, Munemasa si maledisse per non essere riuscito a introdurre l’argomento Parigi.
Scesero dalla macchina e il giovane si guardò intorno: la brughiera che aveva fatto da sfondo a buona parte del loro tragitto, si diradava lentamente sfumando in una lingua di sabbia grigiastra, lambita da un mare placido, del colore del piombo fuso. La spiaggia si dipanava vuota e solitaria per alcuni chilometri. Un paesaggio che colpiva per la sua mancanza di colori, sorprendente anche per uno abituato da anni a vedere il mondo da dietro delle lenti scure.
“Il Giappone è molto più colorato,” osservò Yasu arricciando il naso, quasi avesse seguito la sua linea di pensieri, “ma se chiudi gli occhi, il profumo del mare è lo stesso”.
Sì, lo ricordava anche lui, il piccolo villaggio sul mare in cui era nato, dove l’acqua e il cielo spesso erano di un azzurro intenso.
“Quando mi manca molto vengo qui. Chiudo gli occhi, inspiro l’odore del mare, ascolto le onde e…” aveva chiuso gli occhi e aperto le braccia, come per fare un respiro profondo, poi si era ricomposta immediatamente. “Penserai che sono una sciocca sentimentale…”.
Katagiri che l’aveva osservata a metà fra il divertito e l’ammirato, la rassicurò che no… solo non si immaginava avesse così tanta nostalgia.
“Oh, sì… mi manca Nankatsu, mi manca Tokyo… mi manca il Giappone anche se non gli sono mai appartenuta davvero… insomma, sicuramente mi sento più a mio agio qua, ma forse… mi manca proprio quel sentirmi speciale… e ovviamente mi mancano i ragazzi…”
“Intendi la nazionale?”
“Sì, ma soprattutto…”
Silenzio. Yasu si morse le labbra, mentre lo sguardo le si annebbiava.
Munemasa cercava disperatamente un modo per cambiare discorso, forse poteva dirle di Parigi…
“Soprattutto i miei compagni del Toho” continuò lei all’improvviso, la voce che tremava un po’. “Kojiro, Kazuki… con Kojiro ci siamo beccati un paio di volte qua in Europa, ma è così strano…”
Lo sguardo invisibile di Katagiri era rivolto verso di lei, lo sentiva.
“Non Kojiro” spiegò lei, “…la situazione”.
Munemasa taceva: non sapeva se doveva cambiare discorso o semplicemente ascoltarla. Fu lei a decidere: ormai era un fiume di confessioni in piena.
“E mi manca Ken… ma non nel modo disperato in cui mi mancava all’inizio… ma nelle piccole cose… a volte mi imbatto in qualcosa e automaticamente penso ‘questo devo dirlo a Ken, questo devo chiederlo a Ken, chissà cosa dirà Ken quando glielo racconto…’ poi l’istante successivo mi rendo conto che non succederà”.
Katagiri aggrottò la fronte, come se qualcosa non fosse chiaro. “Ma non hai detto che ti scrive?”
“Sì, ma non ho detto che gli rispondo…”
Annuì meditabondo, mentre si frugava in tasca per prendere una sigaretta che poi si accese. Aspirò pensoso una boccata, poi osservò: “Hai ragione, differenza sottile ma sostanziale”.
Yasu lo guardò: il tono formale riuscì a strapparle un sorrisetto sghembo. Inspirò un po’ di aria salmastra, sforzandosi di sorridere davvero.
“Ti fa male” osservò poi, accennando alla sigaretta.
“Facciamo tante cose pur sapendo che ci fanno male…”
“Sacrosante parole” confermò lei con un sospirone. “D’altra parte… smettiamo anche di fare cose che invece ci fanno piacere… Forse siamo un po’ tutti dei ‘pazzi masochisti’ come dice la Aoba”
“Quali cose?” chiese, curioso, osservandola avvicinarsi alla bauliera della macchina e aprirla.
“Tipo questo” fece la ragazza, tirandone fuori un pallone da calcio.
“Oh, mio Dio” rise Munemasa portandosi una mano alla fronte. “Da quanto tempo non ne tocco uno…” aggiunse. Yasu ne immaginò lo sguardo quasi cupido.
Gli gettò la palla, ma lui scansò rapido le mani, stoppandola col ginocchio per poi fermarla sotto la pianta del piede. “Per ‘toccare’ intendo nel modo giusto… con i piedi, non con le mani…” spiegò, rialzando il pallone da terra con la punta del piede e facendo qualche abile palleggio.
“Almeno che non indossi i guanti…” rispose lei, strappandogli la palla con le mani fasciate da un paio di vecchi guantini da portiere.
Non li infilava da tanto tempo. Si sforzò di non pensare alle iniziali incise in un angolo, sbiadite, appena visibili a tutti, ma non a lei, fermamente decisa com’era a concentrarsi solo sulle sensazioni positive: il modo in cui i guanti le calzavano a pennello, il sole timido e tiepido, la sabbia della temperatura giusta e lui, che ancora una volta aveva capito senza bisogno di parlare.
Si misero a giocare come due bambini, ridendo e sporcandosi di sabbia.
Per quei lunghi minuti, Munemasa ebbe l’impressione che la sua vita ricominciasse esattamente dal punto in cui si era interrotta, gli sembrò di non avere mai abbandonato il calcio e di avere di nuovo vent’anni, proprio come la ragazza che gli stava di fronte.
Quello che non sapeva, è che lei provava le stesse identiche sensazioni, anche se, nel suo caso, a scomparire erano stati solo pochi mesi, per quanto intensi e dolorosi.
Quando l’ennesimo tiro le si spense fra le braccia, però, Yasu protestò: “Smettila di usarmi cortesie, sai fare molto meglio di così…”
“Ti sbagli” ansimò l’altro, piegandosi e poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. “Il problema è che io sono vecchio e tu sei la Super Girl Goal Keeper.”
Yasu sgranò gli occhi “E questa dove l’hai sentita…? Quel coglione di Soda…”
“Sarà pure un elemento di disturbo per la squadra,” rispose, “ma come creatore di soprannomi è imbattibile…”
“Ma va… Credo fosse più per prendere in giro mio fratello che altro… presente, no, quanto quella sigla lo renda tronfio?” sghignazzò. Un sorrisetto che prometteva poco di buono le si allargò sul viso mentre, giocherellando col pallone, con aria vaga disse: “Parlando di soprannomi, poi… so che il tuo era Robin…”
Lui la guardò stupito. “Come fai a saperlo? Non eri nemmeno nata quando…”
“Esagerato! Ero nata eccome…”
“Sì, ok, ma…”
“L’ho letto su una foto che Mikami portava con sé…”
“E ti ha anche spiegato perché?”
“No”
“Passami una palla rasoterra”.
Yasu obbedì. Il passaggio fu preciso e Munemasa ne parve soddisfatto: fece una breve corsa misurando attentamente i passi e poi colpì il pallone.
La ragazza lo guardò, un po’ delusa e si buttò per parare con sicurezza, ma, quando la palla stava praticamente sfiorandole le dita, d’improvviso fece uno scarto repentino, scavalcandole le mani e terminando la sua corsa sulla sabbia, alcuni metri dopo di lei. Yasu finì con la faccia nella rena, ma si risollevò quasi subito, facendo leva sui gomiti.
“Fantastico!” gridò emozionata. “Tsubasa impazzirebbe se glielo insegnassi!”
“Sì… credo che il mancato successo di questo tiro sia dovuto al nome…”
Yasu ridacchiò: “Ho paura di chiedertelo”.
“Visto il modo in cui scarta? Ricorda il modo in cui si muove…”
“Oddio cosa?”
“Un pipistrello”.
“Beh, in effetti rispetto a rapaci e tigri varie il pipistrello fa un po’ pena…”
“Infatti”
Yasu scoppiò a ridere fragorosamente. Poi si fermò un attimo e riprese ancora più forte, mentre, senza riuscire a prendere fiato e gesticolando per sopperire alle parole, balbettò “Allora…hihi…Robin…era…ahahah…perché facevi…oddio non ci riesco…il bat-tiro?”
“Esatto, però ero una mezza sega”.
Yasu riaffondò il viso nella sabbia, ridendo fino alle lacrime e battendo con un pugno a terra. Poi si rialzò e, sempre sghignazzando, andò a recuperare il pallone, colpendolo con forza con l’intenzione di rispedirlo al mittente, non accorgendosi, però, che, da quella posizione sarebbe arrivato a Katagiri dal suo lato cieco. Il giovane non riuscì dunque a vedere la palla che gli urtò la guancia, facendo cadere gli occhiali.
“Oddio scusa!” esclamò Yasu correndogli incontro. Non riuscì a vederlo in volto: la mano di lui corse rapidissima a raccogliere gli occhiali per rimetterli e solo dopo  a sfiorare il punto dove la palla lo aveva colpito.
“Ti ho fatto male?” gli chiese, allungando una mano verso il suo volto.
“No” tagliò secco lui, ritraendosi da quel tocco e saggiando con dita quasi tremanti la montatura.
“Non si sono rotti?” insisté Yasu, sollecita.
Munemasa scosse leggermente la testa in gesto di diniego. La guardò ritrarre la mano e mordersi le labbra.
“Non è niente, Yasu, sono cose che capitano” le disse infine, avvicinandosi. “Adesso sai perché ho smesso di giocare a calcio, perché adesso sono ancora più simile a un pipistrello” concluse, stiracchiando un sorriso amaro.
Lei fece altrettanto e aggiunse “Andiamo a casa, mi farò perdonare con la cena che ti prometto da tempo”.

Quando quella sera Munemasa si coricò fra le morbide coltri del letto ad acqua di villa Wakabayashi, ci mise un po’ a prendere sonno. Innanzitutto si sentiva strapieno: il cibo ottimo e la gradevole compagnia della giovane Wakabayashi l’avevano spinto a mangiare un sacco. Yasu aveva fatto altrettanto ma era stata capace, contemporaneamente, di chiacchierare a macchinetta per tutta la sera. I soliti discorsi sul calcio e sulla nazionale di cui entrambi avrebbero potuto parlare all’infinito e poi la storia di come erano andate le cose fra lei e Wakashimazu. L’aveva raccontata con il sorriso sul volto, ma era un sorriso faticoso, di quelli che Katagiri sapeva riconoscere bene. Un sorriso che ha dietro ettolitri di lacrime e sangue.
Con semplicità gli aveva raccontato di come si erano lasciati quando lui aveva abbandonato il ritiro, di come lei aveva pensato si trattasse solo di una pausa di riflessione, di come si erano rincontrati al matrimonio di Tsubasa e Sanae, di come lui gli avesse rivelato di essere gay e di stare insieme a Sawada. E poi di come lei fosse scappata in Germania da Genzo, di come, grazie a lui, avesse faticosamente ritrovato se stessa. Aveva abbandonato gli studi di Fisioterapia e Medicina Sportiva per approfondire la conoscenza delle lingue, che aveva coltivato fin da piccola e ora…
Quello sarebbe stato il momento di farle la proposta per andare a Parigi ma, puntualmente, erano sbucati i soliti inopportuni conoscenti che avevano monopolizzato Yasu il tempo necessario perché si facesse tanto tardi da dover tornare a casa. In macchina e poi a casa, in corridoio, prima di augurarsi formalmente la buonanotte, non ci era riuscito.
Pazienza: c’era ancora il giorno successivo.



NOTA:

* "Parigi è sempre Parigi"... la città romantica per eccellenza... lo sa pure Gamo!

RIFLESSIONI:

Che che ne dica releuse, secondo me la storia del pipistrello è *ridicolerrima* ma non mi è venuto niente di meglio...

La frase sui "pazzi masochisti" Yayoi la dice in un'altra mia ff, Le cose che amo. Amo fare cross reference (e spam XD).

Sì, sì la coppia KenTakeshi non fa impazzire neppure me, ma questo "what if" è nato con questo pairing e mi dispiaceva cambiarlo... Anche perché crea una serie di interessanti spunti per un fantomatico seguito... *firulì firulà*

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Capitolo 3
*** Il momento giusto ***


Il momento giusto

La mattina seguente, trovò ad attenderlo Ichirou. “Mia sorella è dovuta andare a Londra a sistemare delle scartoffie per l’università” spiegò. “Mi ha chiesto di farti compagnia per oggi, con lei ci incontreremo per cena stasera, in centro”.
“Non vorrei…”
“Nessun disturbo” lo rassicurò il vecchio amico, dandogli un’energica pacca sulle spalle. “Anzi, sono proprio contento di stare un po’ insieme a te come ai vecchi tempi!”
Munemasa sorrise: in fondo, faceva piacere anche a lui.

E in effetti la giornata risultò assai piacevole: Ichirou, che aveva il dono della ciarla tipico della sorella e non di Genzo, fu una compagnia squisita e lo portò a fare un rapido quanto classico “sightseeing tour” delle bellezze della capitale inglese. Certo, Munemasa se la sarebbe goduta assai di più quella gita, se non fosse stato tormentato dall’urgenza di invitare Yasu a Parigi: il volo era di lì a meno di quarantott’ore!
La graticola continuò per tutta la cena, che si rivelò essere l’ennesimo party organizzato dai signori Wakabayashi. Yasu era lì, ma sempre circondata da un sacco di altre persone. Più volte nel corso della serata, la ragazza gli rivolse sorrisi e sguardi supplici, ma, purtroppo, non riuscirono a sfuggire alla folla che, Munemasa lo sapeva, entrambi sopportavano a stento.
Dopo alcune ore, finalmente, Ichirou li chiamò entrambi per andare a casa.
In auto i due Wakabayashi parlarono fra loro ininterrottamente, commentando ogni singolo partecipante alla festa. Katagiri rise fra sé, chiedendosi se davvero quei due avessero gli stessi geni di Genzo, ma tentando, al contempo, di soffocare ancora il terribile dubbio che lei lo stesse evitando, dubbio che lo aveva tormentato per l’intera giornata.

Quando arrivarono alla villa Yasu si defilò subito in camera sua. Lo sguardo invisibile di Katagiri la seguì su per le scale, e lui imprecò mentalmente contro Ichirou che, col solito sorriso a quarantaquattro denti, gli bloccava la visuale, mentre gli proponeva il bicchiere della staffa.
Munemasa trangugiò il drink trattenendosi con lui il minimo indispensabile per non risultare scortese, poi, farfugliando una scusa, si avviò a sua volta per le scale.
Il bicchierino di whisky, non era cascato a sproposito: insieme al respiro profondo che emise di fronte alla porta della stanza di lei, servì a dargli coraggio.
“Solo un momento”. Al suo bussare, rispose una voce lontana, seguita da un lieve scalpiccio. Quindi la porta si aprì.
“Qualcosa non… uh! Sei tu? Credevo fosse mio fratello… Tutto bene?” chiese Yasu.
Munemasa esitò e rimase un attimo a guardarla: aveva i capelli un po’ umidi e indossava solo una t-shirt oversize del Toho, da cui spuntavano le gambe dritte, tornite e muscolose. Mentre con lo sguardo accarezzava quelle gambe nude, pensieri dispettosi su chi fosse il proprietario originario della maglia evidentemente troppo grande per lei, lo punzecchiarono fastidiosamente.
“Tutto bene?” chiese di nuovo Yasu, di fronte al suo impasse.
“Ti devo parlare” dichiarò infine. La spaventi, così, idiota, disse una voce dentro di lui.
“Certo… accomodati” mormorò lei facendogli spazio, a metà fra il curioso e il preoccupato. La ragazza si sedette sul letto già disfatto, le lunghe gambe penzoloni, le mani appoggiate ai lati del busto e un’espressione interrogativa nello sguardo.
Munemasa si guardò un attimo in giro: la stanza era come se l’era immaginata, fresca, piena di colore e fotografie. Da cornici di varie forme e misure si affacciavano i volti di un po’ tutti i giocatori della nazionale, in varie fasi della loro vita. Scorse Genzo e gli altri della Shutetsu ai tempi delle elementari, la prima formazione della selezione della Nankatsu e una serie di foto del Toho, fra cui quella del diploma, in cui una Yasu dall’aria orgogliosa posava col tocco in testa fra Kojiro Hyuga, Ken Wakashimazu e Kazuki Sorimachi.
Ma nessuna foto di Ken da solo e neppure di lui con Yasu, registrò, mentre qualcosa, in lui, si acquietava.
Si sedette sulla sedia vicino alla scrivania, trattenendo a stento l’impulso di accendersi una sigaretta.
“Scusa l’intrusione” esordì ostentando disinvoltura. “Ma sono due giorni che voglio dirti una cosa”.
Yasu annuì, l’espressione sempre più incuriosita.
“Ecco, il prossimo incontro di cui ti ho parlato… si terrà a Parigi”.
“Oh” esclamò Yasu con una punta di delusione. “Quindi vuol dire che presto te ne andrai?”
“Sì… no, ecco il punto è…” inspirò brevemente e poi finalmente sputò il rospo: “Vorrei che venissi con me”.
“Ah…” mormorò Yasu, un’aria indecifrabile sul volto - imbarazzo, sorpresa, paura? -Munemasa non riusciva a capirlo.
“Ti sto solo chiedendo di farmi da segretaria e interprete… di lavorare di nuovo per la federazione” incalzò lui, a mezza voce. “Se ti va…” concluse, quasi in un sospiro.
“Ok”.
“Come hai detto?”
“Ho detto che va bene, vengo volentieri. Quando si parte?” aveva di nuovo quella sua aria serena e sbruffoncella.
“Be… bene” balbettò Katagiri spiazzato e felice per la rapidità con cui la sua proposta era stata accettata, mentre la sensazione negativa, che lo aveva accompagnato tutto il giorno, spariva, lasciando solo un senso di pace.
“Già che sei qui” aggiunse lei a mezza voce, come leggendogli nel pensiero. “Scusa per oggi, ma è stata una giornata incasinata e poi quell’orribile party… avessi saputo che era una cosa del genere, avrei evitato di andarci e di portarti…”
“Nessun problema” scandì lui, come a chiudere l’argomento, senza far trasparire troppo il suo sollievo. “Abbiamo l’aereo dopodomani mattina da Londra” la informò con un sorriso, cambiando discorso.
“Bene” gongolò sorniona. “allora domani shopping sfrenato pre-partenza”.
“Perfetto. Buonanotte” si congedò il giovane, avviandosi verso la porta.
“Buonanotte”.
Munemasa uscì dalla stanza, il sorriso ancora dipinto sulle labbra, si appoggiò un attimo alla porta e socchiuse gli occhi prima di riavviarsi, a cuore leggero, verso la propria stanza.
Yasu tuttavia non udì il lieve tonfo sul legno dell’uscio perché nello stesso istante si gettò all’indietro sul letto, con stampata sulla faccia e nel cuore la stessa gioia di Munemasa.

I giorni seguenti trascorsero rapidi e paradossalmente normali: per quanto fosse tutto nuovo, infatti, tanto a Yasu quanto a Munemasa fare shopping, viaggiare e lavorare insieme era parsa la cosa più naturale di questo mondo, come se non avessero mai fatto altro nella vita.
Mentre aspettava, seduto nella hall del loro hotel a Parigi, che Yasu scendesse per cena, Katagiri ripercorreva e riassaporava quegli ultimi giorni. Ripensò al tour delle boutique londinesi in cerca di vestiti con cui Yasu diceva di “sembrare una persona seria”. A lui sembrava soprattutto bella e solare. La sua capacità di muoversi con consumata disinvoltura fra aerei e alberghi, così come nella formalità del meeting di lavoro, lo aveva riempito di stupore e ammirazione. A volte gli era difficile associare quella giovane donna cosmopolita, con la ragazzina pestifera dei suoi ricordi, eppure, quando la rivedeva gettarsi nella sabbia ad afferrare i suoi tiri, la amava ancora di più.
Ecco. Lo aveva detto, anzi, pensato.
Amore. Una parola enorme e difficile, che non pronunciava, che non pensava neppure, da tempo. Eppure non sapeva che altro nome dare a quella stretta dolce e dolorosa che gli serrava la gola, mentre vedeva le gambe di lei spuntare da un fresco vestitino azzurro, ai piedi un paio di semplici sandali neri, con un tacco non altissimo ma sufficiente a disegnare a ogni passo i muscoli sul polpaccio.
Yasu sorrise scusandosi per il ritardo, e con quella impalpabile e paradossale naturalezza che aveva contraddistinto quei giorni, si appoggiò leggera al suo braccio e si lasciò condurre verso il ristorante. Avevano deciso di concedersi una cena speciale per festeggiare la fine del meeting e la splendida alchimia che si era creata lavorando insieme.
Eppure c’era ancora un muro fra loro: mentre lei, un po’ per volta , gli aveva raccontato tutta la sua storia, aprendogli il proprio cuore in modo quasi commuovente, lui non aveva detto niente di sé, neanche le aveva mai mostrato il suo vero volto.
Quella sera, si promise, appoggiando alle labbra un bicchiere dell’ottimo champagne scelto per pasteggiare, qualcosa sarebbe cambiato. Svuotò il calice e se lo riempì di nuovo. Un po’ di coraggio liquido non fa mai male.
Guardò Yasu mangiare di gusto le splendide ostriche che avevano ordinate, spruzzando ognuna con un goccio di vodka. Sorrise: insieme erano capaci di godere di quei piccoli piaceri che per diritto di nascita potevano concedersi, ma che, in compagnia di altri, spesso evitavano per non passare da ragazzini viziati.
“Yasu” esordì serio. “Perché non mi fai mai domande?”
La ragazza sorrise sghembo, come al solito. “Se c’è una cosa che ho imparato convivendo con mio fratello prima e con Ken e Kojiro poi, è a rispettare i silenzi”.
“Tu coi silenzi hai poco a che spartire” la canzonò.
“Esatto. Non solo li rispetto ma li riempio anche”.
Katagiri rise di gusto.
“Eppoi” soggiunse lei, “Quando arriverà il momento comincerai a raccontare, proprio come hai iniziato a ridere così”.
La risata si spense in una specie di sospiro di resa. Poi il giovane si fece serio.
“Credo che il momento sia arrivato”.
Per quasi un’ora il mondo girò al contrario: Yasu fissò Munemasa in silenzio, a bocca aperta, ma senza toccare cibo, mentre l’altro raccontava per filo e per segno cose che Yasu aveva solo immaginato o sentito accennare.
Le raccontò del suo esordio da giovanissimo in nazionale, della storia con Hinata, dei progetti di matrimonio e dell’incidente che aveva cambiato tutto: dal suo volto alla sua vita. E quello che non si era spezzato, l’amore che Hinata continuava a dire di provare, l’aveva reciso lui con le proprie mani. Dopo dei mesi molto bui, su suggerimento del vecchio compagno di squadra Mikami, che intanto aveva lasciato il calcio per fare l’allenatore, sublimò la sua passione per il calcio reinventandosi talent scout. L’amore invece era rimasto come sospeso, distratto da storielle finite prima di iniziare, tanto per passare il tempo.
Di fronte a quel racconto tanto terribile, Yasu si sentì crollare addosso il peso dei suoi pochi anni: si sentì talmente giovane e inesperta, che ebbe quasi paura. In quei giorni, naturalmente, aveva fantasticato un po’ su Katagiri, affascinata dai suoi modi gentili e raffinati e dal suo essere “uomo”, pur mettendola a suo agio, ma, adesso, la distanza fra loro le sembrò incolmabile.
E ancora una volta lui capì quello che provava, senza che lei lo spiegasse. Sentì il vuoto che si apriva fra loro e le prese la mano, come a volerle impedire di scappare.
La mano del giovane era ancora più fredda della sua e… piccola, si trovò curiosamente a pensare Yasu, abituata com’era alle pale di Genzo e Ken. Lui le carezzò appena il dorso della mano poi intrecciò le proprie dita alle sue.
Yasu si godette quel contatto, ma poi qualcosa la spinse ad alzarsi e lasciare rapida la sala, uscendo fuori. Aveva bisogno di aria.
Sentì un tocco timido sulla spalla scoperta. “Non aver, paura, ti prego” sussurrò Munemasa. “Come hai detto tu, era giunto il momento. Poche persone sanno le cose che ti ho raccontato stasera, se te le ho confidate è perché so che mi puoi capire, anche se sei giovane, quello che hai passato…”
“Munemasa… la mia è una cotta da ragazzini finita male…”
“È questo quello che ti dicono tutti?”
“È quello che è”.
“Non per te. Puoi nasconderlo a tutti ma non a me. C’è una ferita profonda sulla tua anima, sul tuo cuore. E le ferite profonde lasciano cicatrici…”
Il corpo di Yasu tremava, scosso dai singhiozzi, lui la abbracciò e le carezzò la schiena per calmarla. I loro volti erano vicinissimi, sentivano ognuno il profumo acidulo dello champagne provenire dalla bocca dell’altro.
D’istinto, Yasu sollevò lenta una mano verso gli occhiali di Katagiri, lui si irrigidì, quindi scartò all’indietro, colpendole la mano.
Yasu si ritrasse, turbata, mormorò delle scuse e scappò in camera.



Note di chiusura:

Ho rivisto e modificato più volte questo cap... copre un periodo di tempo piuttosto lungo, ma molti giorni sono solo "riassunti"... non è facile, si rischia di apparire frettolosi e, come spesso mi capita, ho l'impressione di non sfruttare adeguatamente le opportunità che la storia mi offre...

Vabbè, lasciamo perdere. Mi faccio più pare di Mune...

Grazie rel e grazie a tutte le lettrici\i lettori:)

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Capitolo 4
*** Dichiarazioni ***


Dichiarazioni

Il giorno dopo, il volo era previsto per il pomeriggio. Nonostante gli avvenimenti della sera prima, Yasu aveva dormito profondamente, ma dover riaffiorare allo stato cosciente era doloroso. Quando dischiuse faticosamente le palpebre, vide la propria mano posata sul cuscino, a pochi centimetri dal naso. Naturalmente, le dita di Katagiri non vi avevano lasciato nessun segno visibile, in fondo si era trattato solo di un lieve buffetto, eppure aveva la sensazione che bruciasse come una ferita aperta.
Era stata stupida, presuntuosa e affrettata, come sempre. Aveva sin da subito percepito l’aura di dolore che Katagiri emanava e proprio quando lui le aveva spiegato tutto, aprendogli il suo cuore in modo tanto sincero, lei, con la sua solita delicatezza, aveva tentato di forzare le sue difese.
Una ragazzina, una stupida ragazzina, ecco cosa sei, Yasuko Wakabayashi, disse una voce ben nota dentro di lei. Quando inizierai ad accorgerti anche degli altri? Il mondo non gira attorno a te, riecheggiarono nella sua testa le parole di Ken.
Ancora una volta era stata cieca di fronte ai sentimenti degli altri e ancora una volta aveva fatto soffrire qualcuno.
Come allora sentì il bisogno dell’unica persona con cui invece l’intesa era sempre stata naturale e perfetta.
Accese il pc e sorrise vedendo che Genzo era online. Quella storia dei gemelli funzionava maledettamente bene.
Niente allenamenti? gli scrisse.
Vado fra poco… per un po’ sono tutto tuo…
Pensa che culo…
Spiritosa… tanto lo so che se mi contatti è perché hai da lamentarti di qualcosa…
Non è vero!:( Hai davvero una pessima concezione di tua sorella…
Rispose lei, seccata che ancora una volta Genzo avesse colpito nel segno. Accettò il suo invito alla videochiamata.
L’immagine sgranata di suo fratello fece un mezzo sorriso e un saluto con la mano, che lei ricambiò. Poi vide le sopracciglia del ragazzo corrucciarsi: “Dove cavolo sei?” le chiese.
“In un albergo a Parigi…”
“Da sola?”
“Sì, vuoi controllare? Posso puntare la webcam nell’armadio o nel bagno…”
“Non cambiare discorso… cosa cavolo ci fai a Parigi?”
“Ho accompagnato Katagiri a un meeting…”
“Katagiri? Munemasa Katagiri?”
“Sì, ci siamo incontrati a Londra e mi ha chiesto di accompagnarlo qua per fargli da interprete” spiegò con un’alzata di spalle.
“Mmmm… non mi sembra bello che tu viaggi da sola con lui…”
Yasu spalancò gli occhi. “Genzo, ma sei fuori? Munemasa è una persona rispettosissima…”
“Lo devi conoscere bene se lo chiami per nome…”
La posa da fratello geloso presa da Genzo, sprofondato nella sedia, braccia incrociate e sopracciglio inarcato, l’avrebbe fatta sbellicare dal ridere, se la sua ennesima intuizione non l’avesse fatta sudare freddo.
“Smettila, sei assurdo… per non dire …obsoleto” lo rimbrottò.
“E mamma non ha detto nulla?”
“No”.
“Appunto, quella già vede il buon matrimonio…”
“Genzo, finiscila, hai delle idee medievali”.
“È troppo grande”
“Ha solo una decina di anni più di noi… e comunque non è successo niente”
“Ma…?”
“Ma niente.”
“… ti piace. Andiamo, Yasu, non è la persona adatta a te.. pensa che scandalo in federazione e poi è vecchio, dai! Torna un po’ qua da me, ti presento…”
“Pensa a trovartela per te la fidanzata e lasciami in pace…”
“Voglio solo che tu non soffra ancora… non sopporterei di vederti di nuovo…”.
“Non succederà, sono forte, ora”
“Sei la mia sorellina…”
“Tornerò un po’ in Germania da te, ok?”
“Posso dirlo a Kalz?”
Yasu rise, mettendosi una mano sul viso. “Sì, ma avvertilo fin da subito che non ho cambiato idea… hihihi… ciao!”
“Ciao, Ya-chan. Non fare le tue solite cazzate”.

Yasu chiuse il pc, ridacchiando. Se non altro Genzo sapeva metterla di buon umore. L’idea di tornare in Germania non le dispiaceva: adesso che era più serena si sarebbe divertita ancora di più! La nuova prospettiva le mise voglia di alzarsi e sistemare le valigie, ma di lì a poco bussarono alla porta.
Munemasa.
“Non ti ho vista a colazione… stai bene?” chiese, non appena Yasu gli aprì.
“Sì, solo… mi sono appena svegliata, devo fare la valigia…” rispose lei, brusca.
“Mi sono permesso di portarti qualcosa…” disse, scostandosi per mostrarle un carrello colmo di cibo. Yasu spalancò la porta per consentirgli di entrare.
Lo stomaco della ragazza brontolò, tradendo il fatto che, effettivamente, aveva fame: si sedette sul letto avvicinandosi il carrellino. Quando fece per prendere qualcosa si rese conto di non sapere da dove iniziare: di fronte a lei c’era l’assortimento completo di tutto quello che le piaceva di più, come se lui avesse scrupolosamente preso appunti di tutto, durante ognuno dei tanti pasti consumati assieme.
Sentì una stretta al cuore. Suo fratello non era l’unico a leggerle dentro, quindi i casi erano due: o lei era troppo cristallina o era l’unica assolutamente negata in quella cosa.
“Non ti piace?” chiese lui, in leggera apprensione.
“No” si schernì lei, agitando le mani. “È tutto così… perfetto… che non so da cosa iniziare… come fai?”.
“A fare cosa?”
“A… sapere quello che voglio. Ken in cinque anni sotto lo stesso tetto non ha mai capito che io il tè lo prendo…”
“Con il latte?”
Yasu lo fissò con occhi sgranati e annuì sorridendo brevemente, ma le labbra presero presto una piega amara. “A sua discolpa va detto, che io in cinque anni non ho capito che a lui piacevano gli uomini. Se ci fosse Soda insinuerebbe che probabilmente neanche Ken si era reso conto che io ero una donna e…”
“Smettila di crogiolarti nel tuo cinismo” la rimproverò lui. Poi, come rendendosi conto di essere stato un po’ duro, proseguì con un tono più dolce. “Anche se invidio la tua capacità di scherzare sulla tua storia e su di te… e comunque Soda si sbaglierebbe…”
Yasu smise per un attimo di ingozzarsi e lo guardò con aria interrogativa.
“Sei una donna eccome, certo, forse un po’ diversa dai canoni giapponesi, perché sei forte, indipendente, decisa… e dici un sacco di parolacce” la rimbrottò scherzosamente. “Ma sei intelligente e affascinante e…” inspirò profondamente e le strinse una mano, la stessa che la sera prima aveva colpito, sfiorandola piano con la sua. “… e ieri sera avrei voluto… invece sono stato solo un villano”. Prese le dita di lei fra le sue, poi le baciò il dorso della mano. “Perdonami” sussurrò, inginocchiandosi.
Yasu arrossì confusa. “Munemasa ma che fai… tirati su…” balbettò. “La maleducata sono stata io…”
“No” sentenziò. “Mi sembra giusto voler guardare negli occhi qualcuno che…”.
“No, Munemasa, avevo fatto tanti bei discorsi sull’aspettare il momento giusto e poi…”
Katagiri si alzò di scatto in piedi, quasi in un moto di rabbia, allontanandosi di qualche passo: “Ma quello era il momento giusto, Kamisama, era uno dei momenti più giusti degli ultimi dieci anni. E invece ho avuto paura…”
“Munemasa…” Quel nome, che non gli era mai piaciuto, gli sembrò miele mentre lei lo sussurrava a fior di labbra, quelle labbra rosee, ben disegnate e… morbide, s’immaginò con un fremito. La guardò avvicinarsi e allungare una mano verso di lui. Il palmo si posò sul suo petto, laddove il cuore batteva forte.
“Munemasa” ripeté, “Credi davvero che vedere qualche centimetro in più del tuo viso cambierebbe quello che provo per te? Mi credi tanto superficiale?”
“Yasu, sei tanto giovane e bella e piena di vita, so che non sei superficiale ma non so cosa provi per me, non oso sperarlo. So solo che io, in questi ultimi giorni, mi sono sentito come non mi sentivo da anni, come se la mia vita fosse ricominciata da dove si era interrotta… come se l’incidente non fosse mai avvenuto… ma la cicatrice sta lì a ricordarmi che, invece, c’è stato e le cose non possono cambiare…”
Yasu ascoltò a bocca aperta quella dichiarazione, bellissima e profonda, a dispetto del tono  pratico e concreto, tipico di Katagiri, con cui era stata pronunciata. La risposta le sgorgò quasi automatica, direttamente dal cuore:
“Cancellare il passato non serve e comunque non si può. Ma si può prenderne atto, e costruirci sopra un presente… e magari un futuro. E lo stesso vale per le cicatrici: puoi nasconderle, ma sono sempre lì. E allora tanto vale mostrarle e farne un punto di forza, ricordando gli errori che ci hanno portato a ferirsi, perché, che ci piaccia o meno, sono la nostra storia…” s’interruppe, mordendosi le labbra. “Ma chi sono io per darti lezioni, come dici tu ‘sono così giovane’ e soprattutto… non sono migliore di te. Anche io sono scappata a nascondermi”.
“Se non altro… tu non hai esitato a mostrarmi le ferite profonde che segnano il tuo cuore…”
“E non ti hanno fatto paura…”
“Solo un po’ di gelosia” sussurrò lui, quasi si trattasse di un segreto.
Ormai erano vicinissimi, Katagiri posò le mani sui fianchi di Yasu, poi, con una, dolcemente, risalì lungo il busto, fino alla spalla e lungo il braccio, fino alla mano ancora appoggiata sul suo petto. Gliela strinse, e la guidò al volto. Lei portò anche l’altra mano sulla montatura e, guardandolo fisso in direzione degli occhi, lentamente, gli sfilò gli occhiali.
Gli occhi della ragazza fissarono per lunghi attimi quel viso paradossalmente nuovo. Le palpebre sbatterono più volte, l’espressione era indecifrabile.
Il ricordo della reazione di Hinata era vivo come non mai e Munemasa era terrorizzato dall’idea di leggere quel misto di pietà e ribrezzo anche nelle iridi color nocciola che aveva davanti.
Ma non accadde.
Lo sguardo di Yasu era serio, indagatore, curioso ma non c’erano né commiserazione né disgusto. Infine una luce vi balenò, ad annunciare il sorriso che di lì a poco si accese sul suo volto. Uno di quei sorrisi puri e solari che lo facevano impazzire.
“Che bello vederti” disse soltanto.

****************

Grazie a tutti i lettori e commentatori.

Grazie in particolare a Sandie Rose, spero che la ff continui a piacerti... ormai è quasi finita ma manca ancora *qualcosina*.

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Capitolo 5
*** ***EPILOGO*** ***


***EPILOGO***

Yasu sistemò il bagaglio a mano nella cappelliera, ignorando le pretese di Munemasa di aiutarla, poi sprofondò nel suo posto vicino al finestrino.
“Dio benedica la business class” sentenziò, godendosi la comodità del seggiolino.
“Sei una ricca ragazzina viziata” la canzonò lui, chinandosi a sfiorarle le labbra con un bacio.
“Eh già, perché sono io il vecchietto che se non viaggia comodo si incricca…”
“Touché…” sorrise Katagiri, sedendosi.
Yasu si allungò verso di lui, poggiandogli la testa sulla spalla e abbracciandolo. Gli sfregò col naso la guancia e l’angolo della bocca, cercandogli le labbra. Lui si voltò accennando un sorriso e ottemperando la dolce richiesta con un bacio leggero.
“In Giappone” le sussurrò, dovremo essere un po’ più cauti rispetto agli… ehm… ultimi giorni”. Inghiottì a vuoto, ripensando a quei giorni rubati nella meravigliosa Parigi. Vide il visetto di lei rattristarsi e non sapeva dirle quanto quelle parole facessero male anche a lui.
“Potevamo restare ancora un po’…” protestò la ragazza, imbronciata.
“C’è un limite al numero di aerei che si può far finta di perdere” commentò lui, sarcastico.
Yasu rise di cuore. Il primo l’avevano perso sul serio, per essersi trattenuti più del dovuto nella sua stanza. Ma nei tre giorni seguenti non c’era tutto quell’overbooking di cui avevano parlato in giro. Infine erano tornati a Londra, giusto il tempo per Yasu di riempire un paio di valigie.
“Prima o poi si deve tornare” aggiunse Katagiri.
“Immagino di sì”.
“Ehi” la richiamò lui, sollevandole il mento con la mano e avvicinando il volto al suo. “Tutti quei bei discorsi sul non fuggire e sulle cicatrici valgono anche per te, signorina. Hai promesso…”
“Lo so” mugolò.
Negli ultimi giorni, Yasu si era sentita come un palloncino, come su una nuvola. Con un nuovo amore e una delle città più romantiche del mondo ai suoi piedi, aveva dimenticato facilmente tutto il resto. Ma Munemasa aveva dato uno strattone al filo, riportandola a terra. Lo rivedeva appoggiare la cornetta, chiudendo la chiamata con la quale aveva fissato il volo per Londra.
“E così ognuno torna a casa propria” aveva mormorato, accigliato.
A Yasu era crollato il mondo addosso: presa da quella specie di incantesimo che erano stati quei giorni, non aveva assolutamente riflettuto sul dopo. E sul fatto che lui doveva tornare in Giappone.
“Come la mettiamo?” aveva chiesto Munemasa, di fronte al silenzio della ragazza. “Per me non è stata una storiella come un’altra”.
“Neanche per me” si era affrettata a confermare lei.
“Posso parlarti francamente, Yasu?”
“Certo” aveva acconsentito lei, un po’ preoccupata, sedendogli vicina.
“Questi giorni sono stati meravigliosi” aveva detto, lasciandosi sfuggire un sospiro. “Ma se vogliamo andare avanti, c’è qualcosa che tu devi fare. Abbiamo fatto tanti bei discorsi sul non nascondere le cicatrici ma, temo, che le tue ancora non siano tali. Le ferite sul tuo cuore sanguinano ancora…”
La ragazza aveva distolto lo sguardo, mentre gli occhi le si erano riempiti di lacrime.
Katagiri l’aveva tratta a sé, stringendola forte e carezzandole la schiena, come piaceva a lei.
“Yasu, devi far guarire quelle ferite. Quando saranno cicatrici, allora, potremmo costruirci sopra il presente e il futuro che vogliamo. Non piangere, amore mio.” le mormorò stringendola a sé. “Non voglio forzarti, non è per me che lo dico. Lo dico per te e, se vorrai, per noi…”
La voce gli era morta in gola sentendola singhiozzare violentemente contro il proprio petto. Ma aveva continuato a sussurrarle: “Devi tornare in Giappone per chiarire e chiudere con Ken”.
L’aveva lasciata sfogare un po’, poi l’aveva spinta dolcemente, facendola distendere sulle proprie ginocchia. “Basta adesso” l’aveva esortata con un sorriso. “La realtà è che voglio che tu venga con me in Giappone… non saprei stare a lungo così lontano da te… adesso”.
Lei aveva sorriso debolmente, asciugandosi le lacrime. Ci aveva pensato tutta la notte, infine, aveva detto di sì.
Erano volati a Londra, dove erano rimasti un paio di giorni durante i quali Yasu aveva sistemato le proprie cose e avvertito la famiglia. Sua madre era stata entusiasta, Genzo, manco a dirlo, un po’ meno. “Lo sapevo che facevi una cazzata” era stato il suo commento.

“Inoltre…” La voce di Munemasa la riscosse dai suoi pensieri, riportandola al presente, sull’airbus diretto in Giappone. Lo vide alzarsi dal seggiolino darsi un’occhiata intorno. “Qui nessuno ci conosce quindi, direi, che hai ancora diverse ore per coccolarmi quanto vuoi…”
“Pensa che culo…”
Lui la guardò male, poi le mise una mano sulla bocca. “Yasuko Wakabayashi, te la lavo col sapone quella bocca”.
“Uh, che palle”.
“Yasuko!”
“Smettila! Solo mi madre mi chiama così!”
“Smetto quando tu la finisci di dire parolacce”
“Mi tratti come una mocciosa” sbuffò lei, sprofondandosi a braccia conserte nel seggiolino.
“Solo quando ti comporti come tale” ridacchiò lui, dandole un buffetto. Fece una pausa studiata, poi guardandola di sottecchi, buttò là: “Avevo anche un regalino per te, ma se non fai la brava bambin-ahia” protestò ridendo e incassando una gomitata. “Le maniere forti non ti aiuteranno, Wakabayashi… non sai che si prendono più mosche con il miele?”
“Le mosche non lo so… i pipistrelli- anzi i pettirossi, sì” disse, chinandosi su di lui e infilandogli le mani sotto la giacca.
“Ahahah queste non sono coccole, è una perquisizione… ferma, dai mi fai il solletico. Aspetta…” Liberandosi dalle sue mani, l’uomo si allungò a prendere qualcosa nel suo bagaglio a mano, un involto che lanciò fra le braccia di Yasu.
Felice, la ragazza lo aprì: era una specie di quaderno blu, rilegato con eleganza: sulla copertina lettere svolazzanti componevano la parola “Journal”.
Yasu scorse pensosa le pagine bianche. “Ho smesso tempo fa di tenere il diario”.
“Nel caso ti venisse voglia di scrivere di noi” disse lui, stringendole la mano, mentre l’aeroplano iniziava il decollo. Verso il Giappone.



Note di chiusura:

Deluse? Spero di no... il fatto è che questa storia era nata come un "prequel" a un'altra cui lavoro da un po'... spero di farvela leggere al più presto, ma non prima della long per il contest;)

(visto Mela? non me ne sono scordata!)

Grazie a tutti i lettori e i commentatori!

bacini sparsi^^

nene

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