Un'altra possibilità di berlinene (/viewuser.php?uid=50434)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Festa con sorpresa ***
Capitolo 2: *** Una breve vacanza inaspettata ***
Capitolo 3: *** Il momento giusto ***
Capitolo 4: *** Dichiarazioni ***
Capitolo 5: *** ***EPILOGO*** ***
Capitolo 1 *** Festa con sorpresa ***
E’ da
tanto che lo dico finalmente l’ho fatto. Ho ripreso
in mano il Diario,non
nella forma ma, in un certo senso, nei contenuti. Per questa storia si
potrebbe parlare di una sorta di “ibridazione” fra
la storia originale,
l’esperienza nel mondo delle FF (e dello yaoi) e una certa
[presunta]
maggiore maturità da parte mia.
Vorrei
precisare
tuttavia che questa mini-long non è parte
della storia “ufficiale” del
diario bensì un suo spin off\what if… anzi, come
dice il titolo è “Un’altra
possibilità”...
Dedico le
pagine che seguiranno a tutti coloro che hanno mostrato interesse per
il Diario:
lasciando recensioni, inserendolo fra preferiti e simili o magari
scrivendomi direttamente. Grazie di cuore, perché questa
“saga” per me
significa davvero tanto e amo incondizionatamente chiunque la
apprezzi. Questa storia è anche un modo per scusarmi del
lungo
silenzio, ma vi garantisco che prima o poi riprendo in mano tutto!
Ringrazio fin
d’ora chi leggerà “sulla
fiducia” pur non amando il format *wink*.
Grazie a
wakashimazu_ken e agli msn-deliri di cui questo “e
se” è figlio… un po’ mi
mancano lo sai?
Grazie a Lady
Snape e
Kianeko che, facendolo comparire nelle loro storie, hanno risvegliato
in me l'antica voglia di scrivere di Mune!
Last
but not least grazie alla betina rel ormai convertita a
etero ed AU. XD
Note
dell'Autore:
And when the broken
hearted people living in the world agree,
there will be an answer,
let it be.
For though they may be
parted there is still a chance that they will see,
there will be an answer.
let it be.
“Let it
be” – The Beatles
Lo
scopo della serata era: passare inosservata. Ma sapeva che non sarebbe
stato facile, non con l’orrendo vestito da sera che sua madre
le aveva
imposto: una brutta caricatura di un abito tradizionale giapponese, per
di più rosa.
Lei lo odiava, il rosa. Ma che poteva saperne sua madre.
Yasu
sospirò: d’altronde la bella vita che da mesi
stava conducendo, prima
ad Amburgo da Genzo e ora a Londra dai suoi genitori, doveva pur
mandarle il conto, una buona volta. E, considerando che, per la maggior
parte del tempo, faceva tutto ciò che le pareva, dover
recitare la
parte della brava figlia per una sera non sarebbe stato poi
così
terribile: si era dunque rassegnata alla festa per il fidanzamento di
suo fratello maggiore, all’orribile vestito rosa e al fuoco
incrociato
delle presentazioni cui sua madre l’avrebbe sicuramente
sottoposta. Il
gioco valeva la candela: fra l’altro, il catering era curato
dal suo
ristorante giapponese preferito e appena possibile, si sarebbe ritirata
nelle sue stanze adducendo la scusa di un lieve malessere.
Si
appuntò i capelli ormai ricresciuti e sistemò il
vestito attorno alle
sue nuove curve: da quando stava in Europa aveva preso qualche chilo
ma, a detta di tutti, si erano depositati nei punti giusti e il suo
corpo non era più atletico e mascolino ma decisamente
più femminile.
Non che ne fosse così felice, le piaceva più il
suo “vecchio” corpo
come le piaceva e le mancava allenarsi quotidianamente ma, anche
quelle, erano cose della sua “vecchia” vita, quella
che si era lasciata
alle spalle con tanta fatica.
Sopportò i complimenti e le smancerie
dei primi cinque o sei “buoni partiti” propinatele
dalla madre, poi,
quando questa si distrasse, sgusciò abilmente sulla terrazza.
L’aria
era fresca, nonostante fosse quasi primavera, ma profumava di mare ed
era molto più pulita di quella di Londra. In effetti quella
villa nella
campagna inglese era molto simile a quella di Nankatsu.
Rabbrividì
leggermente e si strinse nella seta leggera dell’abito,
mentre,
appoggiata alla balaustra, fissava l’immenso giardino,
pensierosa.
Quando sentì dei passi avvicinarsi, un uomo a giudicare dal
rumore,
restò immobile, fermamente decisa a evitare uno dopo
l’altro tutti i
cicisbei inviati dalla madre.
“Do you mind if I smoke?” chiese lo
sconosciuto, ma l’accento giapponese era così
forte che Yasu rispose
quasi di riflesso nella propria lingua.
“Parla giapponese?”
proseguì l’altro, una nota di sorpresa nella voce.
Voce che a Yasu
suonò subito familiare, facendola girare di scatto.
“Katagiri-san!”
gridò felice e stupita al contempo.
“Ci conosciamo?” fece lui. La piega delle
sopracciglia lasciava indovinare uno sguardo sorpreso celato dalle
lenti scure.
La
ragazza fece un passo verso il cono di luce di un lampione: di sicuro
il buio e le lenti da sole non gli erano d’aiuto. E poi da
quel che
sapeva…
“Forse se avessi un cappellino e una sdrucita tuta del Toho
aiuterebbe?” fece, mettendo una mano alla fronte a
mo’ di saluto
militare, per imitare la tesa del berretto.
Stavolta lo stupore era palese, tanto che l’uomo
indietreggiò persino di qualche passo.
“Wakabayashi? La Wakabayashi femmina?”
La ragazza rise, poi, fingendosi arrabbiata, mise le mani sui fianchi e
disse: “Veramente avrei un nome”.
“Yasu…” rispose Katagiri quasi in un
sospiro.
“Ai!” confermò lei accennando un inchino.
“Sei…” la squadrò poco
educatamente. “… molto cambiata”.
“Può dirlo
‘ingrassata’”.
“No” si affrettò a dire.
“Sei… cresciuta…”
“Addirittura? Ma se sono passati solo pochi
mesi…”
“E cosa ci fai qui?” chiese lui, quasi
brusco.
“Beh,
infondo quello che si fidanza è mio fratello, anche se lo
conosco
appena… ma visto che ora vivo qui…”
spiegò. “Lei, piuttosto, cosa ci fa
lontano dalla madre patria?”
“Sono qua per incontrare i dirigenti di
alcune squadre inglesi che sembrano interessati a ingaggiare qualcuno
dei nostri ragazzi…”
“Davvero???” lo interruppe Yasu eccitatissima.
“E chi?” domandò prendendolo
praticamente per le spalle. Salvo
ritrovare, arrossendo, un contegno. “Ehm, mi scusi, stava
dicendo?”
Lui
inarcò leggermente il sopracciglio, poi riprese da dove si
era
interrotto. “Dicevo, siccome passavo da Londra ho chiamato
tuo fratello
Ichirou, che è un mio vecchio amico d’infanzia,
con l’intento di
incontrarlo per un saluto… e lui mi ha invitato a questa sua
festa di
fidanzamento. Ho dovuto accettare per educazione ma credo
resterò poco,
visto che non conosco nessuno”.
“Già, vale lo stesso per me”.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale entrambi si volsero a
osservare il giardino.
“Nitta e Matsuyama” disse all’improvviso
Katagiri.
“Eh?”
“Mi avevi chiesto chi sono i ragazzi voluti dalle squadre
inglesi”.
Fu come soffiare su delle braci quasi spente.
Yasu
si lanciò in una lunga disquisizione su quanto le
capacità dei due
giocatori si adattassero alla Premiere League, per poi passare in
rassegna un po’ tutti i membri della Nazionale, dimostrando
non solo
profonde conoscenze tecniche ma anche di essere notevolmente aggiornata
circa le faccende mondane dei vari giocatori, soprattutto per una che
viveva lontano da circa un anno.
Quando Katagiri, che aveva partecipato attivamente alla discussione,
glielo fece notare con un sorriso, lei arrossì.
“Ken… Wakashimazu… mi scrive sempre
lunghe e dettagliatissime email…”
spiegò, alle quali non rispondo mai,
avrebbe voluto dire ma invece aggiunse solo: “E lui
è un ottimo scrittore e un petteg- ehm un osservatore anche
migliore”.
Il
sorriso sul volto di Munemasa, che si era eclissato un attimo sentendo
il nome del Karate Keeper, si trasformò in una sonora
risata. Non
conosceva la storia nei particolari, ma sapeva che il portiere
c’entrava qualcosa col soggiorno o, meglio, la fuga di Yasu
in Europa.
Ricordava che qualche anno prima i due stavano insieme, era durata
piuttosto a lungo considerata la loro giovanissima età. E se
le voci
che giravano circa Wakashimazu erano vere, capiva bene
perché lei fosse
fuggita così lontano…Qualcosa che, a suo tempo,
anche lui aveva
desiderato fare.
La conversazione continuò amabilmente e dal calcio
passarono a parlare del più e del meno, finché,
mentre raccontava dei
migliori ristoranti giapponesi di Londra, Yasu, quasi senza
accorgersene, aveva iniziato a dargli del tu.
“Il migliore è
senz’altro quello che ha fornito il catering stasera,
è un po’ fuori
Londra, ma se ti trattieni qualche volta possiamo
andarci…”
Munemasa annuì cercando di ignorare lo strano brivido che
non tanto il “tu” quanto quell’ultimo
“noi” gli aveva provocato.
In quel momento la signora Wakabayashi apparve sul terrazzo.
“Yasuko,
ma dove…” strillettò salvo poi
interrompersi scorgendo il signor
Katagiri. Un sorriso le si allargò sul volto.
“Tesooooro” cinguettò.
“Non sapevo fossi in compagnia… Il figlio di
Katagiri, vero?” chiese
civettuola.
“Sì, signora, Munemasa Katagiri” si
presentò con un educato inchino.
Yasu
sorrise arricciando il naso: era buffo pensare al “signor
Katagiri”
come al “figlio del signor Katagiri”, ma
d’altra parte i suoi genitori
erano amici di vecchia data del padre, un facoltoso imprenditore.
“E come sta suo padre?” proseguì la
signora.
“Bene, grazie” rispose lui, sempre estremamente
cortese. “Manda i suoi saluti a lei, a suo marito e ai suoi
figli…”
“E niente per mia figlia? Non è uno
splendore?”
Yasu strabuzzò gli occhi e diventò rossa.
Aprì la bocca per ansimare “Mamma!” ma
Munemasa fu più svelto di lei.
“Davvero, uno splendore” confermò, senza
guardare la ragazza che, intanto, da rossa era diventata viola.
“E di cosa parlavate?” insisté la
signora.
“Dei vecchi tempi” tagliò corto Yasu,
desiderosa di porre fine all’incresciosa situazione.
“Ah!”
esclamò eccitata la madre. “Di quando veniva a
fare i compiti da
Ichi-chan e non poteva fare a meno di prenderti in braccio?”
“Ehm… no, mamma” balbettò
sconvolta. “In effetti si parlava della
Nazionale…”
La signora si ritrasse, stupita, guardandoli a turno.
“Ehm…
mamma… ti ricordi che Genzo gioca a calcio e che
l’hanno anche chiamato
in Nazionale… che vedesti la partita in TV una
volta…”
La donna annuì, non troppo convinta.
“E
ti ricordi che io andavo con lui? E che ero entrata nello staff della
Nazionale? C’era anche Mune- il signor – il figlio
del signor
Katagiri…”.
“Ah, sì… ricordo… anche lei
giocava a calcio come il mio Genzo”.
Yasu si morse le labbra.
Quando
aveva deciso di venire a stare a Londra, sapeva di dover convivere coi
suoi genitori, quelli che se ne erano partiti lasciando lei e suo
fratello in Giappone perché erano troppo piccoli e sarebbero
stati loro
d’intralcio. Non li aveva mai esattamente odiati per quello,
in fondo
lei e Genzo avevano avuto una vita piena e felice, in cui
l’affetto non
era mai mancato, ma talvolta era davvero difficile.
Sapeva che
avrebbe dovuto convivere col fatto che i suoi genitori non conoscevano
niente di lei e del suo gemello. Neppure che lui era uno dei portieri
migliori del mondo. Ma sentirla dire il “mio
Genzo”, la faceva comunque
andare in bestia.
Ma era il prezzo da pagare, si ripeté, quindi
rilassò i muscoli della mascella e il pugno che
istintivamente aveva serrato.
A
Munemasa il movimento non sfuggì. Un po’ di anni
prima avrebbe reagito
allo stesso modo, ora aveva imparato a controllare ulteriormente le
proprie emozioni. Ebbe tuttavia l’istinto di prendere quella
mano
rabbiosamente serrata fra le sue, ma, ovviamente, non lo fece. Si
limitò ad annuire cortesemente all’indirizzo della
signora Wakabayashi,
quindi dette un’occhiata all’orologio.
“Si è fatto molto tardi”
osservò.
“Sì” incalzò Yasu
“Domani hai molti, impegni, no?”
Lo
sguardo che si scambiarono fu eloquente: entrambi sarebbero rimasti
ancora ore a parlare come poco prima, ma la situazione che si era
venuta a creare non piaceva a nessuno dei due.
“Un’infinità… quindi con
permesso…” rispose lui, accennando un inchino e un
saluto.
Yasu
rilassò le spalle, celando appena il sospiro di sollievo.
Gli sorrise,
ringraziandolo segretamente per aver capito l’antifona.
Lo accompagnò fino alla porta, sempre seguita a ruota dalla
madre.
Si
salutarono formalmente e Yasu lo guardò allontanarsi con una
punta di
amarezza. Poi si voltò verso la madre e la salutò
con un brusco: “Vado
a letto, buonanotte”, quindi si addentrò nella
sala alla ricerca di
Ichirou per congedarsi anche da lui.
Munemasa Katagiri rientrò
nella sua camera d’albergo. Gettò il soprabito e
la giacca sul letto e
andò in bagno. Lentamente sfilò gli occhiali,
riempì le mani a coppa di
acqua fredda e si bagnò il viso. Poi appoggiò i
palmi sul lavandino e
rimase a lungo a fissare lo scarico, le gocce che scendevano lungo
le
guance come lacrime, i lunghi capelli che pendevano ai lati del volto.
Rimase lì alcuni secondi, stringendo allo spasimo i bordi
del
lavandino. Quindi inspirò ed espirò
profondamente, infine, alzò la
testa per guardarsi nello specchio.
Contemplò la cicatrice che
occupava l’orbita destra, là dove avrebbe dovuto
stare il bulbo
oculare. Serrò la palpebra sana, quindi la riaprì
per guardare
l’occhio. Lo faceva tanto di rado che aveva dimenticato
persino il
colore della sua iride, quel marrone quasi verde che un tempo aveva un
discreto successo con le donne.
“Già, quando ancora guardavi le
donne, Munemasa, non le ragazzine” mormorò fra
sé. “Quando non eri
sfregiato e neppure pedofilo” ringhiò, prendendo
con rabbia la
salvietta in cui affondò il viso per alcuni istanti.
Trasse ancora
qualche lungo respiro, quindi si spogliò e si distese sul
letto. Aveva
sperato di addormentarsi subito, perché era stanco e aveva
fatto più
tardi del previsto, ma, rilassandosi, il ricordo della serata appena
trascorsa invase la sua coscienza.
E il pensiero andò a lei.
Yasu
Wakabayashi. La ricordava appena come una ragazzina tutta gambe,
così
somigliante al fratello che fino a una certa età li potevi
scambiare.
Il suo atteggiamento da maschiaccio ribelle lo aveva fatto sorridere
più volte, ma aveva anche notato quanto sapesse essere dolce
coi
ragazzi, soprattutto nei momenti più difficili e delicati,
per esempio
quando si infortunavano. Si era stupito quando Mikami aveva proposto di
farla entrare nello staff della Nazionale ma, alla fine, era stato
soddisfatto della scelta, per quanto strana. Era toccato a lui farle
quella proposta ed era stato il primo a sostenerla e, pur
nell’ombra,
aveva sempre cercato di continuare a farlo. Gli era dispiaciuto quando
Gamo l’aveva messa alla porta e a volte rimpiangeva di non
aver usato
la sua autorità per tentare di fare tornare Minato sui suoi
passi.
Soprattutto gli dispiaceva perché quell’abbandono
si era andato a
sommare a quello ben più grave da parte di Ken.
E lui lo sapeva bene che ogni colpo inferto dal destino fa
più male del precedente.
Quel
filo di pensieri aveva preso una brutta piega e ora, non poteva che
arrivare fino a Hinata. La sua mente che vagolava fra il sonno e la
veglia non oppose sufficiente resistenza e la rivide com’era
a
vent’anni, minuta e delicata, col viso come un petalo di
rosa, la bocca
a cuore, i capelli come una cascata di velluto nerissimo, un volto da
dipinto antico, in contrasto e armonia col modo sfacciatamente moderno
che aveva di vestire. Amava il calcio, Hinata e amava lui. Sembrava
divertirsi anche a parlare di partite e schemi per interi pomeriggi.
Gamo, Mikami e gli altri della Nazionale lo prendevano in giro,
perché
era il più piccolo e perché era innamorato. Ma
lui era convinto fosse
tutta invidia.
Poi l’incidente e tutto era cambiato.
Gli dissero
che doveva rinunciare al calcio. Lei l’abbracciò
forte e promise che
gli sarebbe rimasta accanto. Ma Munemasa vide l’ombra che le
attraversò
il viso quando gli tolsero le bende e Hinata vide il volto che amava
sfregiato per sempre.
Lei sorrise, tuttavia, e gli accarezzò la
guancia colpita. Quello che lui percepì, però,
non fu amore ma pietà.
Allora fu lui a chiederle di andarsene, prima a parole, poi, di fronte
al suo rifiuto, coi fatti: si trasformò in un uomo che
nessuno avrebbe
amato. E Hinata capitolò, abbandonandolo, come lui stesso le
chiedeva
ormai da mesi.
Da allora, c’erano state solo avventure. Da allora
–
da quasi dieci anni -, non aveva più provato…
quello che aveva provato
poche ore prima.
Nonostante il sonno che premeva, Munemasa cercava di darsi una
spiegazione razionale: ci sentivamo entrambi soli, ci
mancava qualcuno con cui parlare delle cose che ci piacciono…
Ma c’era di più…
Avevano
molto in comune: la storia familiare, i genitori ricchi e distanti che
ti vorrebbero diverso da quello che sei, il fallimento di un amore
importante, col suo carico di dolori e cicatrici più o meno
visibili…
Aveva avuto voglia di stringerla fra le braccia, per
consolarla, si disse.
Aveva avuto voglia di restare a parlare con lei tutta la
notte… è simpatica, arguta e si
intende di calcio, si giustificò.
Non le aveva chiesto il numero di telefono, e vorrei ben
vedere, si rimproverò prima che il sonno,
finalmente, avesse la meglio.
Yasu
Wakabayashi salì in camera sua col cuore leggero, come non
lo sentiva
da tempo. Rise fra sé quando si rese conto che stava
canticchiando.
Credeva si sarebbe annoiata, quella sera, invece le ore erano
volate…grazie alla compagnia del signor Katagiri. Le era
sempre
sembrato un tipo simpatico, ma non aveva mai avuto
l’occasione di
parlarci, diciamo così, da pari a pari. In effetti
l’unica
conversazione propriamente detta che avessero mai avuta, era stata
quando lui era venuto a proporle il posto nello staff della nazionale.
E anche quella volta, anzi, soprattutto quella volta, si era sentita
come a un colloquio di lavoro.
Invece quella sera era stato come
parlare con un vecchio amico, a parte il modo squisitamente deferente e
formale che aveva sfoderato con sua madre. Yasu ridacchiò:
per quello
le occorreva ancora un po’ di allenamento… e
magari un ripassino di
“buona educazione nipponica”…come aveva
borbottato più di una volta il
padre di Ken, di fronte alla sua “esuberanza
occidentale”.
Ecco.
Ancora una volta aveva pensato a lui: ma proprio come quando
l’aveva
menzionato qualche ora prima, era riuscita a farlo
serenamente… chissà,
magari stava finalmente imparando.
Prima di addormentarsi fra le
coltri morbide, il suo ultimo pensiero era stato che era un peccato non
essersi scambiati il numero di telefono, le sarebbe piaciuto portarlo a
cena in quel ristorante giapponese di cui avevano parlato e passare
un’altra serata piacevole e spensierata come quella appena
trascorsa.
Note
di chiusura:
Vi ho intrippato un po'?
Al prossimo cap;)
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Capitolo 2 *** Una breve vacanza inaspettata ***
Una breve vacanza
inaspettata
Katagiri
rimase immobile a osservare il tassista scaricare le sue valigie. Non
mosse un muscolo e non solo per risparmiarsi la fatica, pensando che
già il lungo viaggio avrebbe messo a dura prova la sua
schiena, ma
anche perché non voleva partire. Gli incontri coi dirigenti
inglesi
erano andati bene, c’erano buone prospettive per una serie di
amichevoli, oltre che di stage per alcuni ragazzi. Tutto secondo i
piani, insomma: doveva essere fiero del proprio operato. Se prima di
partire gli avessero detto che poteva finire così, ci
avrebbe messo la
firma. Ma allora non sapeva…
Alla fine, in barba a tutte le fisime,
si era quasi deciso a chiamarla, ma, poi, ogni sera, puntualmente, era
stato incastrato dall’invito di qualche dirigente e la cena
che più
ambiva era sistematicamente saltata. Ma forse era un bene. Andare a
disturbare Ichirou o, peggio, Mikami per recuperare il numero di lei
gli sarebbe parso un gesto piuttosto disperato.
Lasciò al
tassista una lauta mancia, svuotando le tasche delle ultime sterline,
afferrò il carrello con le valigie e si avviò
verso la porta. Poi si
fermò, cambiando idea: si posizionò in un angolo
e accese una
sigaretta. La aspirò gustandone tutto il sapore, cercandone
l’effetto
rilassante che nelle ore successive gli sarebbe mancato.
Il
cellulare interruppe l’idillio. Katagiri si frugò
agitato le tasche,
mosso da un presentimento. Inspirò profondamente, infine
guardò il
display.
Gamo.
“Sì?” rispose a mezza voce, mentre il
cuore rallentava, deluso.
“Ma dove cazzo sei?”
Munemasa sospirò indispettito: Minato non avrebbe mai
imparato le buone
maniere. Quindi rispose, cercando di mantenersi calmo: “Ho
l’aereo fra
poco più di due ore, dove vuoi che sia? Mi fumo
l’ultima sigaretta
prima di entrare in aeroporto.”
“Ti do una notizia buona e una cattiva… Quale vuoi
prima?”.
“La buona” sibilò innervosito Munemasa.
“Non è l’ultima sigaretta quella che
stai tenendo in mano come una checca in questo momento”.
Munemasa si affrettò a infilare la sigaretta fra le labbra,
poi biascicò a mezza bocca: “E la
cattiva?”.
“Che hai fatto una levataccia per niente, hai buttato via i
soldi del
taxi e… dovrai sciropparti qualche altra colazione
iperproteica… in
effetti le notizie cattive sono più di una”.
Katagiri prese una
profonda boccata, cercando di controllare la voce, mentre il cuore
riaccelerava. “E perché dovrei rimanere
qua?”
“Perché ci è stato
comunicato che la prossima settimana, a Parigi, si terrà una
riunione
per l’organizzazione di una serie di amichevoli fra nazionali
giovanili. Abbiamo pensato che già che sei in
zona… Avremmo anche già
provveduto a cambiare la data di ritorno del volo Londra –
Tokyo e a
prenotare volo e albergo a Parigi…”
“Ah…bene… è bello essere
sempre il primo a sapere le cose…”
“Ho provato a chiamarti un sacco di volte ma avevi il
cellulare spento…”
“Forse perché qui era notte fonda? Comunque, non
so se sarò all’altezza…”
“Di cosa?”
“Beh, un conto è fare degli incontri privati, un
altro è ‘sto summit… il mio
inglese…”
“Bah” biascicò Gamo. Katagiri lo
immaginò scuotere le spalle poderose
in un gesto tipico. “Hai tre giorni a Londra, trovati
l’interprete…”
Un’idea saettò subito nella mente di Munemasa,
mentre Gamo concludeva mellifluo: “…magari carina
che Paris c’est toujour Paris*”,
con un inaspettato sfoggio di poliglossia.
Katagiri arrossì violentemente, ma, per fortuna, il collega
non poteva
vederlo. La voce si mantenne serena, il tono volutamente casuale:
“Ho
già una mezza idea che Mikami apprezzerà. Ti
faccio sapere, intanto
vedi di fermare un altro volo e un’altra camera”
disse scandendo bene le ultime due parole.
“Bene, ci sentiamo” salutò Gamo e
riagganciò. “Stupido ragazzino” disse
al telefono chiuso, “quando imparerai a divertirti un
po’?” il tono era
bonario, la voce quasi triste.
Munemasa, invece, era al settimo
cielo, senza aereo. Scorse rapido la rubrica del cellulare:
“Wakabayashi Ichirou e poi dovrebbe esserci Gen-”
Sorrise: il numero
era sempre stato lì, da quando l’aveva chiamata
per proporle di
collaborare con la Federazione. Cosa che si apprestava a rifare.
“Se ‘ti trattieni qualche giorno’ e hai
‘qualcosa da dirmi’” aveva
risposto Yasu allegra, riassumendo la sua richiesta, “non
c’è bisogno
di parlare per telefono. Posso essere lì
all’aeroporto fra mezz’ora”.
Erano passati solo alcuni minuti in più, quando una spider
argentata
zigzagò birichina fra le auto ferme fino ad
arrestarsi davanti a lui.
La Wakabayashi sgusciò fuori dallo sportello salutandolo da
sopra il
tettino. I capelli mossi le circondavano scompostamente il viso
sorridente: l’inconfondibile naso a patata e gli occhi color
nocciola,
i tratti che la rendevano uguale a Genzo, erano dissimulati da occhiali
da vista con la montatura di plastica azzurra.
“Nel bagagliaio ci
sta giusto la ventiquattr’ore… la valigia la
mettiamo sul sedile
posteriore… considerato che non ha le gambe dovrebbe
entrarci” spiegò
divertita, arricciando il naso. “Non so cosa ci trovi mio
fratello in
questa macchina!”
“Non c’è problema. Grazie per essere
venuta a prendermi” rispose il giovane, con un inedito
sorriso solare.
Sistemati i bagagli, Munemasa spiegò che sarebbe rimasto per
poter
partecipare a un altro incontro di lì a qualche giorno, ma
non entrò
nello specifico.
Yasu, da parte sua, non indagò oltre le
motivazioni di quel cambio di programma, si informò invece
su cosa lui
volesse fare nel frattempo.
“Prima di tutto” rispose l’altro,
soffocando uno sbadiglio e sprofondandosi nel seggiolino,
“dovremo
tornare al mio albergo a sentire se hanno stanze libere. Oppure
cercarne un altro…”
“Ho io la sistemazione giusta” rispose lei,
nascondendo a stento un sorriso sornione “se ti
fidi…”.
Lui acconsentì, anche se sospettava ci fosse sotto qualcosa:
ma non
ebbe molto tempo di rifletterci perché la stanchezza lo
vinse e si
appisolò. Il viaggio durò un’oretta
circa, ma a Munemasa parvero pochi
minuti e solo quando si fermarono, riconobbe la villa dove si era
svolta la festa.
“Ma questa è casa tua”
protestò.
“Sì, ma
quanto a stanze e personale non ha niente da invidiare a un
albergo”
rise lei. Poi si fece seria “A noi fa piacere
ospitarti… intendo dire…
ai miei, a Ichirou e… a me…”
esitò. “Ma se a te non va…”
si affrettò ad
aggiungere.
“No, no” fu altrettanto rapido lui a rassicurarla.
“Solo non voglio dare…”
“Shhh” fece Yasu scuotendo la testa e sfiorandogli
le labbra con la mano come a zittirlo. “Nessun
disturbo”.
Un leggero calore le salì alle guance, ma fu salvata dal
cancello che,
aprendosi, la costrinse a rimettere le mani sul volante, per entrare, a
passo d’uomo, nel vialetto.
Il maggiordomo si avvicinò a passetti
rapidi e, istruito da Yasu, prese i bagagli e invitò
Katagiri a
seguirlo per mostrargli la tua stanza.
“Sistemati pure con calma,” si congedò
la ragazza, “il pranzo sarà servito fra
un’oretta”.
Ancora una volta entrambi si sentirono combattuti fra il desiderio di
restare soli e quello di passare insieme più tempo
possibile. Ma –
rifletterono tutti e due- non c’era fretta.
Un’ora dopo Katagiri si
presentò nel salone, con indosso dei jeans e una polo. Yasu,
accovacciata sul divano, alzò lo sguardo dalla rivista che
sfogliava
svogliatamente e ridacchiò.
“Beh?” fece lui un po’ risentito,
accorgendosene.
“Scusa è che” ammise,
“è la prima volta che ti vedo senza giacca e
cravatta”.
“Non credevo fosse prevista per il pranzo” si
giustificò, vagamente a disagio.
“Ma cosa vai a pensare?” rise. “Fra
l’altro siamo solo io e te, e per me è meglio
così”.
In effetti stava bene: sebbene leggermente appesantito attorno al giro
vita, il fisico da calciatore si indovinava ancora.
“Allora” chiese allegra Yasu, al momento
del caffè, “cosa ti va di fare oggi? Vuoi andare a
Londra? Un’oretta e ci siamo…”
“Non saprei… credo di
sì…”
“Non mi sembri convinto…”
“I posti affollati non mi vanno… troppo a
genio…” ammise lui.
“Ok, allora ho un’idea. Se ti
fidi…”
“L’ultima volta che hai detto
così” osservò. “Mi hai
fregato…”
“Qualcosa non va?” si preoccupò la
padrona di casa, “la stanza non ti piace? Il pranzo non era
buono?”
“Ma no” si affrettò a rassicurarla,
posando la tazza sul tavolino da
fumo e mettendole una mano sulla spalla.
“Scherzavo… è tutto perfetto!”
“Anche il posto che ho in mente, vedrai”
esclamò lei, balzando in piedi con la solita
vivacità, immediatamente ritrovata.
In macchina Yasu si informò circa gli esiti degli incontri
dei giorni
precedenti: il discorso tornò sulla nazionale e il tempo del
viaggio
trascorse quasi senza che se ne accorgessero. Quando la ragazza
fermò
l’auto e dichiarò che erano arrivati, Munemasa si
maledisse per non
essere riuscito a introdurre l’argomento Parigi.
Scesero dalla
macchina e il giovane si guardò intorno: la brughiera che
aveva fatto
da sfondo a buona parte del loro tragitto, si diradava lentamente
sfumando in una lingua di sabbia grigiastra, lambita da un mare
placido, del colore del piombo fuso. La spiaggia si dipanava vuota e
solitaria per alcuni chilometri. Un paesaggio che colpiva per la sua
mancanza di colori, sorprendente anche per uno abituato da anni a
vedere il mondo da dietro delle lenti scure.
“Il Giappone è molto
più colorato,” osservò Yasu arricciando
il naso, quasi avesse seguito
la sua linea di pensieri, “ma se chiudi gli occhi, il profumo
del mare
è lo stesso”.
Sì, lo ricordava anche lui, il piccolo villaggio sul
mare in cui era nato, dove l’acqua e il cielo spesso erano di
un
azzurro intenso.
“Quando mi manca molto vengo qui. Chiudo gli
occhi, inspiro l’odore del mare, ascolto le onde
e…” aveva chiuso gli
occhi e aperto le braccia, come per fare un respiro profondo, poi si
era ricomposta immediatamente. “Penserai che sono una sciocca
sentimentale…”.
Katagiri che l’aveva osservata a metà fra il
divertito e l’ammirato, la rassicurò che
no… solo non si immaginava
avesse così tanta nostalgia.
“Oh, sì… mi manca Nankatsu, mi manca
Tokyo… mi manca il Giappone anche se non gli sono mai
appartenuta
davvero… insomma, sicuramente mi sento più a mio
agio qua, ma forse… mi
manca proprio quel sentirmi speciale… e ovviamente mi
mancano i
ragazzi…”
“Intendi la nazionale?”
“Sì, ma soprattutto…”
Silenzio. Yasu si morse le labbra, mentre lo sguardo le si annebbiava.
Munemasa cercava disperatamente un modo per cambiare discorso, forse
poteva dirle di Parigi…
“Soprattutto i miei compagni del Toho”
continuò lei all’improvviso, la
voce che tremava un po’. “Kojiro,
Kazuki… con Kojiro ci siamo beccati
un paio di volte qua in Europa, ma è così
strano…”
Lo sguardo invisibile di Katagiri era rivolto verso di lei, lo sentiva.
“Non Kojiro” spiegò lei,
“…la situazione”.
Munemasa taceva: non sapeva se doveva cambiare discorso o semplicemente
ascoltarla. Fu lei a decidere: ormai era un fiume di confessioni in
piena.
“E mi manca Ken… ma non nel modo disperato in cui
mi mancava
all’inizio… ma nelle piccole cose… a
volte mi imbatto in qualcosa e
automaticamente penso ‘questo devo dirlo a Ken, questo devo
chiederlo a
Ken, chissà cosa dirà Ken quando glielo
racconto…’ poi l’istante
successivo mi rendo conto che non succederà”.
Katagiri aggrottò la fronte, come se qualcosa non fosse
chiaro. “Ma non hai detto che ti scrive?”
“Sì, ma non ho detto che gli
rispondo…”
Annuì meditabondo, mentre si frugava in tasca per prendere
una
sigaretta che poi si accese. Aspirò pensoso una boccata, poi
osservò:
“Hai ragione, differenza sottile ma sostanziale”.
Yasu lo guardò:
il tono formale riuscì a strapparle un sorrisetto sghembo.
Inspirò un
po’ di aria salmastra, sforzandosi di sorridere davvero.
“Ti fa male” osservò poi, accennando
alla sigaretta.
“Facciamo tante cose pur sapendo che ci fanno
male…”
“Sacrosante parole” confermò lei con un
sospirone. “D’altra parte…
smettiamo anche di fare cose che invece ci fanno piacere…
Forse siamo
un po’ tutti dei ‘pazzi masochisti’ come
dice la Aoba”
“Quali cose?” chiese, curioso, osservandola
avvicinarsi alla bauliera della macchina e aprirla.
“Tipo questo” fece la ragazza, tirandone fuori un
pallone da calcio.
“Oh, mio Dio” rise Munemasa portandosi una mano
alla fronte. “Da quanto
tempo non ne tocco uno…” aggiunse. Yasu ne
immaginò lo sguardo quasi
cupido.
Gli gettò la palla, ma lui scansò rapido le mani,
stoppandola col ginocchio per poi fermarla sotto la pianta del piede.
“Per ‘toccare’ intendo nel modo
giusto… con i piedi, non con le mani…”
spiegò, rialzando il pallone da terra con la punta del piede
e facendo
qualche abile palleggio.
“Almeno che non indossi i guanti…”
rispose
lei, strappandogli la palla con le mani fasciate da un paio di vecchi
guantini da portiere.
Non li infilava da tanto tempo. Si sforzò di
non pensare alle iniziali incise in un angolo, sbiadite, appena
visibili a tutti, ma non a lei, fermamente decisa com’era a
concentrarsi solo sulle sensazioni positive: il modo in cui i guanti le
calzavano a pennello, il sole timido e tiepido, la sabbia della
temperatura giusta e lui, che ancora una volta aveva capito senza
bisogno di parlare.
Si misero a giocare come due bambini, ridendo e sporcandosi di sabbia.
Per quei lunghi minuti, Munemasa ebbe l’impressione che la
sua vita
ricominciasse esattamente dal punto in cui si era interrotta, gli
sembrò di non avere mai abbandonato il calcio e di avere di
nuovo
vent’anni, proprio come la ragazza che gli stava di fronte.
Quello
che non sapeva, è che lei provava le stesse identiche
sensazioni, anche
se, nel suo caso, a scomparire erano stati solo pochi mesi, per quanto
intensi e dolorosi.
Quando l’ennesimo tiro le si spense fra le
braccia, però, Yasu protestò: “Smettila
di usarmi cortesie, sai fare
molto meglio di così…”
“Ti sbagli” ansimò l’altro,
piegandosi e
poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. “Il
problema è
che io sono vecchio e tu sei la Super Girl Goal Keeper.”
Yasu sgranò gli occhi “E questa dove
l’hai sentita…? Quel coglione di
Soda…”
“Sarà pure un elemento di disturbo per la
squadra,” rispose, “ma come creatore di soprannomi
è imbattibile…”
“Ma va… Credo fosse più per prendere in
giro mio fratello che altro…
presente, no, quanto quella sigla lo renda tronfio?”
sghignazzò. Un
sorrisetto che prometteva poco di buono le si allargò sul
viso mentre,
giocherellando col pallone, con aria vaga disse: “Parlando di
soprannomi, poi… so che il tuo era
Robin…”
Lui la guardò stupito. “Come fai a saperlo? Non
eri nemmeno nata quando…”
“Esagerato! Ero nata eccome…”
“Sì, ok, ma…”
“L’ho letto su una foto che Mikami portava con
sé…”
“E ti ha anche spiegato perché?”
“No”
“Passami una palla rasoterra”.
Yasu obbedì. Il passaggio fu preciso e Munemasa ne parve
soddisfatto:
fece una breve corsa misurando attentamente i passi e poi
colpì il
pallone.
La ragazza lo guardò, un po’ delusa e si
buttò per parare
con sicurezza, ma, quando la palla stava praticamente sfiorandole le
dita, d’improvviso fece uno scarto repentino, scavalcandole
le mani e
terminando la sua corsa sulla sabbia, alcuni metri dopo di lei. Yasu
finì con la faccia nella rena, ma si risollevò
quasi subito, facendo
leva sui gomiti.
“Fantastico!” gridò emozionata.
“Tsubasa impazzirebbe se glielo insegnassi!”
“Sì… credo che il mancato successo di
questo tiro sia dovuto al nome…”
Yasu ridacchiò: “Ho paura di
chiedertelo”.
“Visto il modo in cui scarta? Ricorda il modo in cui si
muove…”
“Oddio cosa?”
“Un pipistrello”.
“Beh, in effetti rispetto a rapaci e tigri varie il
pipistrello fa un po’ pena…”
“Infatti”
Yasu scoppiò a ridere fragorosamente. Poi si
fermò un attimo e riprese
ancora più forte, mentre, senza riuscire a prendere fiato e
gesticolando per sopperire alle parole, balbettò
“Allora…hihi…Robin…era…ahahah…perché
facevi…oddio non ci riesco…il
bat-tiro?”
“Esatto, però ero una mezza sega”.
Yasu riaffondò il
viso nella sabbia, ridendo fino alle lacrime e battendo con un pugno a
terra. Poi si rialzò e, sempre sghignazzando,
andò a recuperare il
pallone, colpendolo con forza con l’intenzione di rispedirlo
al
mittente, non accorgendosi, però, che, da quella posizione
sarebbe
arrivato a Katagiri dal suo lato cieco. Il giovane non
riuscì dunque a
vedere la palla che gli urtò la guancia, facendo cadere gli
occhiali.
“Oddio scusa!” esclamò Yasu correndogli
incontro. Non riuscì a vederlo
in volto: la mano di lui corse rapidissima a raccogliere gli occhiali
per rimetterli e solo dopo a sfiorare il punto dove la palla
lo aveva
colpito.
“Ti ho fatto male?” gli chiese, allungando una mano
verso il suo volto.
“No” tagliò secco lui, ritraendosi da
quel tocco e saggiando con dita quasi tremanti la montatura.
“Non si sono rotti?” insisté Yasu,
sollecita.
Munemasa scosse leggermente la testa in gesto di diniego. La
guardò ritrarre la mano e mordersi le labbra.
“Non è niente, Yasu, sono cose che
capitano” le disse infine,
avvicinandosi. “Adesso sai perché ho smesso di
giocare a calcio, perché
adesso sono ancora più simile a un pipistrello”
concluse, stiracchiando
un sorriso amaro.
Lei fece altrettanto e aggiunse “Andiamo a casa, mi
farò perdonare con la cena che ti prometto da
tempo”.
Quando quella sera Munemasa si coricò fra le morbide coltri
del letto
ad acqua di villa Wakabayashi, ci mise un po’ a prendere
sonno.
Innanzitutto si sentiva strapieno: il cibo ottimo e la gradevole
compagnia della giovane Wakabayashi l’avevano spinto a
mangiare un
sacco. Yasu aveva fatto altrettanto ma era stata capace,
contemporaneamente, di chiacchierare a macchinetta per tutta la sera. I
soliti discorsi sul calcio e sulla nazionale di cui entrambi avrebbero
potuto parlare all’infinito e poi la storia di come erano
andate le
cose fra lei e Wakashimazu. L’aveva raccontata con il sorriso
sul
volto, ma era un sorriso faticoso, di quelli che Katagiri sapeva
riconoscere bene. Un sorriso che ha dietro ettolitri di lacrime e
sangue.
Con semplicità gli aveva raccontato di come si erano
lasciati quando lui aveva abbandonato il ritiro, di come lei aveva
pensato si trattasse solo di una pausa di riflessione, di come si erano
rincontrati al matrimonio di Tsubasa e Sanae, di come lui gli avesse
rivelato di essere gay e di stare insieme a Sawada. E poi di come lei
fosse scappata in Germania da Genzo, di come, grazie a lui, avesse
faticosamente ritrovato se stessa. Aveva abbandonato gli studi di
Fisioterapia e Medicina Sportiva per approfondire la conoscenza delle
lingue, che aveva coltivato fin da piccola e ora…
Quello sarebbe
stato il momento di farle la proposta per andare a Parigi ma,
puntualmente, erano sbucati i soliti inopportuni conoscenti che avevano
monopolizzato Yasu il tempo necessario perché si facesse
tanto tardi da
dover tornare a casa. In macchina e poi a casa, in corridoio, prima di
augurarsi formalmente la buonanotte, non ci era riuscito.
Pazienza: c’era ancora il giorno successivo.
NOTA:
*
"Parigi è sempre Parigi"... la città romantica
per eccellenza... lo sa pure Gamo!
RIFLESSIONI:
Che
che ne dica releuse, secondo me la storia del pipistrello è
*ridicolerrima* ma non mi è venuto niente di meglio...
La
frase sui "pazzi masochisti" Yayoi la dice in un'altra mia ff, Le
cose che amo. Amo fare cross
reference (e spam XD).
Sì,
sì la coppia KenTakeshi non fa impazzire neppure me, ma
questo
"what if" è nato con questo pairing e mi dispiaceva
cambiarlo... Anche
perché crea una serie di interessanti spunti per un
fantomatico
seguito... *firulì firulà*
|
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Capitolo 3 *** Il momento giusto ***
La
mattina seguente, trovò ad attenderlo Ichirou.
“Mia sorella è dovuta
andare a Londra a sistemare delle scartoffie per
l’università” spiegò.
“Mi ha chiesto di farti compagnia per oggi, con lei ci
incontreremo per
cena stasera, in centro”.
“Non vorrei…”
“Nessun disturbo” lo
rassicurò il vecchio amico, dandogli un’energica
pacca sulle spalle.
“Anzi, sono proprio contento di stare un po’
insieme a te come ai
vecchi tempi!”
Munemasa sorrise: in fondo, faceva piacere anche a lui.
E
in effetti la giornata risultò assai piacevole: Ichirou, che
aveva il
dono della ciarla tipico della sorella e non di Genzo, fu una compagnia
squisita e lo portò a fare un rapido quanto classico
“sightseeing tour”
delle bellezze della capitale inglese. Certo, Munemasa se la sarebbe
goduta assai di più quella gita, se non fosse stato
tormentato
dall’urgenza di invitare Yasu a Parigi: il volo era di
lì a meno di
quarantott’ore!
La graticola continuò per tutta la cena, che si
rivelò essere l’ennesimo party organizzato dai
signori Wakabayashi.
Yasu era lì, ma sempre circondata da un sacco di altre
persone. Più
volte nel corso della serata, la ragazza gli rivolse sorrisi e sguardi
supplici, ma, purtroppo, non riuscirono a sfuggire alla folla che,
Munemasa lo sapeva, entrambi sopportavano a stento.
Dopo alcune ore, finalmente, Ichirou li chiamò entrambi per
andare a casa.
In
auto i due Wakabayashi parlarono fra loro ininterrottamente,
commentando ogni singolo partecipante alla festa. Katagiri rise fra
sé,
chiedendosi se davvero quei due avessero gli stessi geni di Genzo, ma
tentando, al contempo, di soffocare ancora il terribile dubbio che lei
lo stesse evitando, dubbio che lo aveva tormentato per
l’intera
giornata.
Quando arrivarono alla villa Yasu si defilò subito
in camera sua. Lo sguardo invisibile di Katagiri la seguì su
per le
scale, e lui imprecò mentalmente contro Ichirou che, col
solito sorriso
a quarantaquattro denti, gli bloccava la visuale, mentre gli proponeva
il bicchiere della staffa.
Munemasa trangugiò il drink trattenendosi
con lui il minimo indispensabile per non risultare scortese, poi,
farfugliando una scusa, si avviò a sua volta per le scale.
Il
bicchierino di whisky, non era cascato a sproposito: insieme al respiro
profondo che emise di fronte alla porta della stanza di lei,
servì a
dargli coraggio.
“Solo un momento”. Al suo bussare, rispose una voce
lontana, seguita da un lieve scalpiccio. Quindi la porta si
aprì.
“Qualcosa non… uh! Sei tu? Credevo fosse mio
fratello… Tutto bene?” chiese Yasu.
Munemasa
esitò e rimase un attimo a guardarla: aveva i capelli un
po’ umidi e
indossava solo una t-shirt oversize del Toho, da cui spuntavano le
gambe dritte, tornite e muscolose. Mentre con lo sguardo accarezzava
quelle gambe nude, pensieri dispettosi su chi fosse il proprietario
originario della maglia evidentemente troppo grande per lei, lo
punzecchiarono fastidiosamente.
“Tutto bene?” chiese di nuovo Yasu, di fronte al
suo impasse.
“Ti devo parlare” dichiarò infine. La
spaventi, così, idiota, disse una voce dentro di
lui.
“Certo…
accomodati” mormorò lei facendogli spazio, a
metà fra il curioso e il
preoccupato. La ragazza si sedette sul letto già disfatto,
le lunghe
gambe penzoloni, le mani appoggiate ai lati del busto e
un’espressione
interrogativa nello sguardo.
Munemasa si guardò un attimo in giro:
la stanza era come se l’era immaginata, fresca, piena di
colore e
fotografie. Da cornici di varie forme e misure si affacciavano i volti
di un po’ tutti i giocatori della nazionale, in varie fasi
della loro
vita. Scorse Genzo e gli altri della Shutetsu ai tempi delle
elementari, la prima formazione della selezione della Nankatsu e una
serie di foto del Toho, fra cui quella del diploma, in cui una Yasu
dall’aria orgogliosa posava col tocco in testa fra Kojiro
Hyuga, Ken
Wakashimazu e Kazuki Sorimachi.
Ma nessuna foto di Ken da solo e neppure di lui con Yasu,
registrò, mentre qualcosa, in lui, si acquietava.
Si sedette sulla sedia vicino alla scrivania, trattenendo a stento
l’impulso di accendersi una sigaretta.
“Scusa l’intrusione” esordì
ostentando disinvoltura. “Ma sono due giorni che voglio dirti
una cosa”.
Yasu annuì, l’espressione sempre più
incuriosita.
“Ecco, il prossimo incontro di cui ti ho parlato…
si terrà a Parigi”.
“Oh” esclamò Yasu con una punta di
delusione. “Quindi vuol dire che presto te ne
andrai?”
“Sì… no, ecco il punto
è…” inspirò brevemente e poi
finalmente sputò il rospo: “Vorrei che venissi con
me”.
“Ah…” mormorò Yasu,
un’aria indecifrabile sul volto - imbarazzo,
sorpresa, paura? -Munemasa non riusciva a capirlo.
“Ti
sto solo chiedendo di farmi da segretaria e interprete… di
lavorare di
nuovo per la federazione” incalzò lui, a mezza
voce. “Se ti va…”
concluse, quasi in un sospiro.
“Ok”.
“Come hai detto?”
“Ho detto che va bene, vengo volentieri. Quando si
parte?” aveva di nuovo quella sua aria serena e sbruffoncella.
“Be…
bene” balbettò Katagiri spiazzato e felice per la
rapidità con cui la
sua proposta era stata accettata, mentre la sensazione negativa, che lo
aveva accompagnato tutto il giorno, spariva, lasciando solo un senso di
pace.
“Già che sei qui” aggiunse lei a mezza
voce, come leggendogli
nel pensiero. “Scusa per oggi, ma è stata una
giornata incasinata e poi
quell’orribile party… avessi saputo che era una
cosa del genere, avrei
evitato di andarci e di portarti…”
“Nessun problema” scandì lui,
come a chiudere l’argomento, senza far trasparire troppo il
suo
sollievo. “Abbiamo l’aereo dopodomani mattina da
Londra” la informò con
un sorriso, cambiando discorso.
“Bene” gongolò sorniona.
“allora domani shopping sfrenato pre-partenza”.
“Perfetto. Buonanotte” si congedò il
giovane, avviandosi verso la porta.
“Buonanotte”.
Munemasa
uscì dalla stanza, il sorriso ancora dipinto sulle labbra,
si appoggiò
un attimo alla porta e socchiuse gli occhi prima di riavviarsi, a cuore
leggero, verso la propria stanza.
Yasu tuttavia non udì il lieve
tonfo sul legno dell’uscio perché nello stesso
istante si gettò
all’indietro sul letto, con stampata sulla faccia e nel cuore
la stessa
gioia di Munemasa.
I giorni seguenti trascorsero rapidi e
paradossalmente normali: per quanto fosse tutto nuovo, infatti, tanto a
Yasu quanto a Munemasa fare shopping, viaggiare e lavorare insieme era
parsa la cosa più naturale di questo mondo, come se non
avessero mai
fatto altro nella vita.
Mentre aspettava, seduto nella hall del loro
hotel a Parigi, che Yasu scendesse per cena, Katagiri ripercorreva e
riassaporava quegli ultimi giorni. Ripensò al tour delle
boutique
londinesi in cerca di vestiti con cui Yasu diceva di
“sembrare una
persona seria”. A lui sembrava soprattutto bella e solare. La
sua
capacità di muoversi con consumata disinvoltura fra aerei e
alberghi,
così come nella formalità del meeting di lavoro,
lo aveva riempito di
stupore e ammirazione. A volte gli era difficile associare quella
giovane donna cosmopolita, con la ragazzina pestifera dei suoi ricordi,
eppure, quando la rivedeva gettarsi nella sabbia ad afferrare i suoi
tiri, la amava ancora di più.
Ecco. Lo aveva detto, anzi, pensato.
Amore.
Una parola enorme e difficile, che non pronunciava, che non pensava
neppure, da tempo. Eppure non sapeva che altro nome dare a quella
stretta dolce e dolorosa che gli serrava la gola, mentre vedeva le
gambe di lei spuntare da un fresco vestitino azzurro, ai piedi un paio
di semplici sandali neri, con un tacco non altissimo ma sufficiente a
disegnare a ogni passo i muscoli sul polpaccio.
Yasu sorrise
scusandosi per il ritardo, e con quella impalpabile e paradossale
naturalezza che aveva contraddistinto quei giorni, si
appoggiò leggera
al suo braccio e si lasciò condurre verso il ristorante.
Avevano deciso
di concedersi una cena speciale per festeggiare la fine del meeting e
la splendida alchimia che si era creata lavorando insieme.
Eppure
c’era ancora un muro fra loro: mentre lei, un po’
per volta , gli aveva
raccontato tutta la sua storia, aprendogli il proprio cuore in modo
quasi commuovente, lui non aveva detto niente di sé, neanche
le aveva
mai mostrato il suo vero volto.
Quella sera, si promise, appoggiando
alle labbra un bicchiere dell’ottimo champagne scelto per
pasteggiare,
qualcosa sarebbe cambiato. Svuotò il calice e se lo
riempì di nuovo. Un
po’ di coraggio liquido non fa mai male.
Guardò Yasu mangiare di
gusto le splendide ostriche che avevano ordinate, spruzzando ognuna con
un goccio di vodka. Sorrise: insieme erano capaci di godere di quei
piccoli piaceri che per diritto di nascita potevano concedersi, ma che,
in compagnia di altri, spesso evitavano per non passare da ragazzini
viziati.
“Yasu” esordì serio.
“Perché non mi fai mai domande?”
La
ragazza sorrise sghembo, come al solito. “Se
c’è una cosa che ho
imparato convivendo con mio fratello prima e con Ken e Kojiro poi,
è a
rispettare i silenzi”.
“Tu coi silenzi hai poco a che spartire” la
canzonò.
“Esatto. Non solo li rispetto ma li riempio anche”.
Katagiri rise di gusto.
“Eppoi” soggiunse lei, “Quando
arriverà il momento comincerai a raccontare, proprio come
hai iniziato a ridere così”.
La risata si spense in una specie di sospiro di resa. Poi il giovane si
fece serio.
“Credo che il momento sia arrivato”.
Per
quasi un’ora il mondo girò al contrario: Yasu
fissò Munemasa in
silenzio, a bocca aperta, ma senza toccare cibo, mentre
l’altro
raccontava per filo e per segno cose che Yasu aveva solo immaginato o
sentito accennare.
Le raccontò del suo esordio da giovanissimo in
nazionale, della storia con Hinata, dei progetti di matrimonio e
dell’incidente che aveva cambiato tutto: dal suo volto alla
sua vita. E
quello che non si era spezzato, l’amore che Hinata continuava
a dire di
provare, l’aveva reciso lui con le proprie mani. Dopo dei
mesi molto
bui, su suggerimento del vecchio compagno di squadra Mikami, che
intanto aveva lasciato il calcio per fare l’allenatore,
sublimò la sua
passione per il calcio reinventandosi talent scout. L’amore
invece era
rimasto come sospeso, distratto da storielle finite prima di iniziare,
tanto per passare il tempo.
Di fronte a quel racconto tanto
terribile, Yasu si sentì crollare addosso il peso dei suoi
pochi anni:
si sentì talmente giovane e inesperta, che ebbe quasi paura.
In quei
giorni, naturalmente, aveva fantasticato un po’ su Katagiri,
affascinata dai suoi modi gentili e raffinati e dal suo essere
“uomo”,
pur mettendola a suo agio, ma, adesso, la distanza fra loro le
sembrò
incolmabile.
E ancora una volta lui capì quello che provava, senza
che lei lo spiegasse. Sentì il vuoto che si apriva fra loro
e le prese
la mano, come a volerle impedire di scappare.
La mano del giovane
era ancora più fredda della sua e… piccola, si
trovò curiosamente a
pensare Yasu, abituata com’era alle pale di Genzo e Ken. Lui
le
carezzò appena il dorso della mano poi intrecciò
le proprie dita alle
sue.
Yasu si godette quel contatto, ma poi qualcosa la spinse ad
alzarsi e lasciare rapida la sala, uscendo fuori. Aveva bisogno di aria.
Sentì
un tocco timido sulla spalla scoperta. “Non aver, paura, ti
prego”
sussurrò Munemasa. “Come hai detto tu, era giunto
il momento. Poche
persone sanno le cose che ti ho raccontato stasera, se te le ho
confidate è perché so che mi puoi capire, anche
se sei giovane, quello
che hai passato…”
“Munemasa… la mia è una cotta da
ragazzini finita male…”
“È questo quello che ti dicono tutti?”
“È quello che è”.
“Non
per te. Puoi nasconderlo a tutti ma non a me. C’è
una ferita profonda
sulla tua anima, sul tuo cuore. E le ferite profonde lasciano
cicatrici…”
Il corpo di Yasu tremava, scosso dai singhiozzi, lui la
abbracciò e le carezzò la schiena per calmarla. I
loro volti erano
vicinissimi, sentivano ognuno il profumo acidulo dello champagne
provenire dalla bocca dell’altro.
D’istinto, Yasu sollevò lenta una
mano verso gli occhiali di Katagiri, lui si irrigidì, quindi
scartò
all’indietro, colpendole la mano.
Yasu si ritrasse, turbata, mormorò delle scuse e
scappò in camera.
Note di chiusura:
Ho
rivisto e modificato più volte questo cap... copre un
periodo di tempo
piuttosto lungo, ma molti giorni sono solo "riassunti"... non
è facile,
si rischia di apparire frettolosi e, come spesso mi capita, ho
l'impressione di non sfruttare adeguatamente le opportunità
che la
storia mi offre...
Vabbè, lasciamo perdere. Mi faccio
più pare di Mune...
Grazie rel e grazie a tutte le lettrici\i lettori:)
|
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Capitolo 4 *** Dichiarazioni ***
Il giorno dopo, il volo
era previsto per il pomeriggio. Nonostante gli avvenimenti della sera
prima, Yasu aveva dormito profondamente, ma dover riaffiorare allo
stato cosciente era doloroso. Quando dischiuse faticosamente le
palpebre, vide la propria mano posata sul cuscino, a pochi centimetri
dal naso. Naturalmente, le dita di Katagiri non vi avevano lasciato
nessun segno visibile, in fondo si era trattato solo di un lieve
buffetto, eppure aveva la sensazione che bruciasse come una ferita
aperta.
Era stata stupida, presuntuosa e affrettata, come sempre. Aveva sin da
subito percepito l’aura di dolore che Katagiri emanava e
proprio quando lui le aveva spiegato tutto, aprendogli il suo cuore in
modo tanto sincero, lei, con la sua solita delicatezza, aveva tentato
di forzare le sue difese.
Una ragazzina, una stupida ragazzina, ecco cosa sei, Yasuko
Wakabayashi, disse una voce ben nota dentro di lei. Quando
inizierai ad accorgerti anche degli altri? Il mondo non gira attorno a
te, riecheggiarono nella sua testa le parole di Ken.
Ancora una volta era stata cieca di fronte ai sentimenti degli altri e
ancora una volta aveva fatto soffrire qualcuno.
Come allora sentì il bisogno dell’unica persona
con cui invece l’intesa era sempre stata naturale e perfetta.
Accese il pc e sorrise vedendo che Genzo era online. Quella storia dei
gemelli funzionava maledettamente bene.
Niente allenamenti? gli scrisse.
Vado fra poco… per un po’ sono tutto
tuo…
Pensa che culo…
Spiritosa… tanto lo so che se mi contatti
è perché hai da lamentarti di qualcosa…
Non è vero!:( Hai davvero una pessima concezione di tua
sorella… Rispose lei, seccata che ancora una
volta Genzo avesse colpito nel segno. Accettò il suo invito
alla videochiamata.
L’immagine sgranata di suo fratello fece un mezzo sorriso e
un saluto con la mano, che lei ricambiò. Poi vide le
sopracciglia del ragazzo corrucciarsi: “Dove cavolo
sei?” le chiese.
“In un albergo a Parigi…”
“Da sola?”
“Sì, vuoi controllare? Posso puntare la webcam
nell’armadio o nel bagno…”
“Non cambiare discorso… cosa cavolo ci fai a
Parigi?”
“Ho accompagnato Katagiri a un meeting…”
“Katagiri? Munemasa Katagiri?”
“Sì, ci siamo incontrati a Londra e mi ha chiesto
di accompagnarlo qua per fargli da interprete”
spiegò con un’alzata di spalle.
“Mmmm… non mi sembra bello che tu viaggi da sola
con lui…”
Yasu spalancò gli occhi. “Genzo, ma sei fuori?
Munemasa è una persona rispettosissima…”
“Lo devi conoscere bene se lo chiami per
nome…”
La posa da fratello geloso presa da Genzo, sprofondato nella sedia,
braccia incrociate e sopracciglio inarcato, l’avrebbe fatta
sbellicare dal ridere, se la sua ennesima intuizione non
l’avesse fatta sudare freddo.
“Smettila, sei assurdo… per non dire
…obsoleto” lo rimbrottò.
“E mamma non ha detto nulla?”
“No”.
“Appunto, quella già vede il buon
matrimonio…”
“Genzo, finiscila, hai delle idee medievali”.
“È troppo grande”
“Ha solo una decina di anni più di noi…
e comunque non è successo niente”
“Ma…?”
“Ma niente.”
“… ti piace. Andiamo, Yasu, non è la
persona adatta a te.. pensa che scandalo in federazione e poi
è vecchio, dai! Torna un po’ qua da me, ti
presento…”
“Pensa a trovartela per te la fidanzata e lasciami in
pace…”
“Voglio solo che tu non soffra ancora… non
sopporterei di vederti di nuovo…”.
“Non succederà, sono forte, ora”
“Sei la mia sorellina…”
“Tornerò un po’ in Germania da te,
ok?”
“Posso dirlo a Kalz?”
Yasu rise, mettendosi una mano sul viso. “Sì, ma
avvertilo fin da subito che non ho cambiato idea…
hihihi… ciao!”
“Ciao, Ya-chan. Non fare le tue solite cazzate”.
Yasu chiuse il pc, ridacchiando. Se non altro Genzo sapeva metterla di
buon umore. L’idea di tornare in Germania non le dispiaceva:
adesso che era più serena si sarebbe divertita ancora di
più! La nuova prospettiva le mise voglia di alzarsi e
sistemare le valigie, ma di lì a poco bussarono alla porta.
Munemasa.
“Non ti ho vista a colazione… stai
bene?” chiese, non appena Yasu gli aprì.
“Sì, solo… mi sono appena svegliata,
devo fare la valigia…” rispose lei, brusca.
“Mi sono permesso di portarti qualcosa…”
disse, scostandosi per mostrarle un carrello colmo di cibo. Yasu
spalancò la porta per consentirgli di entrare.
Lo stomaco della ragazza brontolò, tradendo il fatto che,
effettivamente, aveva fame: si sedette sul letto avvicinandosi il
carrellino. Quando fece per prendere qualcosa si rese conto di non
sapere da dove iniziare: di fronte a lei c’era
l’assortimento completo di tutto quello che le piaceva di
più, come se lui avesse scrupolosamente preso appunti di
tutto, durante ognuno dei tanti pasti consumati assieme.
Sentì una stretta al cuore. Suo fratello non era
l’unico a leggerle dentro, quindi i casi erano due: o lei era
troppo cristallina o era l’unica assolutamente negata in
quella cosa.
“Non ti piace?” chiese lui, in leggera apprensione.
“No” si schernì lei, agitando le mani.
“È tutto così…
perfetto… che non so da cosa iniziare… come
fai?”.
“A fare cosa?”
“A… sapere quello che voglio. Ken in cinque anni
sotto lo stesso tetto non ha mai capito che io il tè lo
prendo…”
“Con il latte?”
Yasu lo fissò con occhi sgranati e annuì
sorridendo brevemente, ma le labbra presero presto una piega amara.
“A sua discolpa va detto, che io in cinque anni non ho capito
che a lui piacevano gli uomini. Se ci fosse Soda insinuerebbe che
probabilmente neanche Ken si era reso conto che io ero una donna
e…”
“Smettila di crogiolarti nel tuo cinismo” la
rimproverò lui. Poi, come rendendosi conto di essere stato
un po’ duro, proseguì con un tono più
dolce. “Anche se invidio la tua capacità di
scherzare sulla tua storia e su di te… e comunque Soda si
sbaglierebbe…”
Yasu smise per un attimo di ingozzarsi e lo guardò con aria
interrogativa.
“Sei una donna eccome, certo, forse un po’ diversa
dai canoni giapponesi, perché sei forte, indipendente,
decisa… e dici un sacco di parolacce” la
rimbrottò scherzosamente. “Ma sei intelligente e
affascinante e…” inspirò profondamente
e le strinse una mano, la stessa che la sera prima aveva colpito,
sfiorandola piano con la sua. “… e ieri sera avrei
voluto… invece sono stato solo un villano”. Prese
le dita di lei fra le sue, poi le baciò il dorso della mano.
“Perdonami” sussurrò, inginocchiandosi.
Yasu arrossì confusa. “Munemasa ma che
fai… tirati su…” balbettò.
“La maleducata sono stata io…”
“No” sentenziò. “Mi sembra
giusto voler guardare negli occhi qualcuno che…”.
“No, Munemasa, avevo fatto tanti bei discorsi
sull’aspettare il momento giusto e poi…”
Katagiri si alzò di scatto in piedi, quasi in un moto di
rabbia, allontanandosi di qualche passo: “Ma quello era
il momento giusto, Kamisama, era uno dei momenti più giusti
degli ultimi dieci anni. E invece ho avuto paura…”
“Munemasa…” Quel nome, che non gli era
mai piaciuto, gli sembrò miele mentre lei lo sussurrava a
fior di labbra, quelle labbra rosee, ben disegnate e… morbide,
s’immaginò con un fremito. La guardò
avvicinarsi e allungare una mano verso di lui. Il palmo si
posò sul suo petto, laddove il cuore batteva forte.
“Munemasa” ripeté, “Credi
davvero che vedere qualche centimetro in più del tuo viso
cambierebbe quello che provo per te? Mi credi tanto
superficiale?”
“Yasu, sei tanto giovane e bella e piena di vita, so che non
sei superficiale ma non so cosa provi per me, non oso sperarlo. So solo
che io, in questi ultimi giorni, mi sono sentito come non mi sentivo da
anni, come se la mia vita fosse ricominciata da dove si era
interrotta… come se l’incidente non fosse mai
avvenuto… ma la cicatrice sta lì a ricordarmi
che, invece, c’è stato e le cose non possono
cambiare…”
Yasu ascoltò a bocca aperta quella dichiarazione, bellissima
e profonda, a dispetto del tono pratico e concreto, tipico di
Katagiri, con cui era stata pronunciata. La risposta le
sgorgò quasi automatica, direttamente dal cuore:
“Cancellare il passato non serve e comunque non si
può. Ma si può prenderne atto, e costruirci sopra
un presente… e magari un futuro. E lo stesso vale per le
cicatrici: puoi nasconderle, ma sono sempre lì. E allora
tanto vale mostrarle e farne un punto di forza, ricordando gli errori
che ci hanno portato a ferirsi, perché, che ci piaccia o
meno, sono la nostra storia…”
s’interruppe, mordendosi le labbra. “Ma chi sono io
per darti lezioni, come dici tu ‘sono così
giovane’ e soprattutto… non sono migliore di te.
Anche io sono scappata a nascondermi”.
“Se non altro… tu non hai esitato a mostrarmi le
ferite profonde che segnano il tuo cuore…”
“E non ti hanno fatto paura…”
“Solo un po’ di gelosia”
sussurrò lui, quasi si trattasse di un segreto.
Ormai erano vicinissimi, Katagiri posò le mani sui fianchi
di Yasu, poi, con una, dolcemente, risalì lungo il busto,
fino alla spalla e lungo il braccio, fino alla mano ancora appoggiata
sul suo petto. Gliela strinse, e la guidò al volto. Lei
portò anche l’altra mano sulla montatura e,
guardandolo fisso in direzione degli occhi, lentamente, gli
sfilò gli occhiali.
Gli occhi della ragazza fissarono per lunghi attimi quel viso
paradossalmente nuovo. Le palpebre sbatterono più volte,
l’espressione era indecifrabile.
Il ricordo della reazione di Hinata era vivo come non mai e Munemasa
era terrorizzato dall’idea di leggere quel misto di
pietà e ribrezzo anche nelle iridi color nocciola che aveva
davanti.
Ma non accadde.
Lo sguardo di Yasu era serio, indagatore, curioso ma non
c’erano né commiserazione né disgusto.
Infine una luce vi balenò, ad annunciare il sorriso che di
lì a poco si accese sul suo volto. Uno di quei sorrisi puri
e solari che lo facevano impazzire.
“Che bello vederti” disse soltanto.
****************
Grazie a tutti i lettori e
commentatori.
Grazie in particolare a
Sandie Rose, spero che la ff continui a piacerti... ormai è
quasi finita ma manca ancora *qualcosina*.
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Capitolo 5 *** ***EPILOGO*** ***
***EPILOGO***
Yasu sistemò il
bagaglio a mano nella cappelliera, ignorando le pretese di Munemasa di
aiutarla, poi sprofondò nel suo posto vicino al finestrino.
“Dio benedica la business class”
sentenziò, godendosi la comodità del seggiolino.
“Sei una ricca ragazzina viziata” la
canzonò lui, chinandosi a sfiorarle le labbra con un bacio.
“Eh già, perché sono io il vecchietto
che se non viaggia comodo si incricca…”
“Touché…” sorrise Katagiri,
sedendosi.
Yasu si allungò verso di lui, poggiandogli la testa sulla
spalla e abbracciandolo. Gli sfregò col naso la guancia e
l’angolo della bocca, cercandogli le labbra. Lui si
voltò accennando un sorriso e ottemperando la dolce
richiesta con un bacio leggero.
“In Giappone” le sussurrò, dovremo
essere un po’ più cauti rispetto agli…
ehm… ultimi giorni”. Inghiottì a vuoto,
ripensando a quei giorni rubati nella meravigliosa Parigi. Vide il
visetto di lei rattristarsi e non sapeva dirle quanto quelle parole
facessero male anche a lui.
“Potevamo restare ancora un
po’…” protestò la ragazza,
imbronciata.
“C’è un limite al numero di aerei che si
può far finta di perdere” commentò lui,
sarcastico.
Yasu rise di cuore. Il primo l’avevano perso sul serio, per
essersi trattenuti più del dovuto nella sua stanza. Ma nei
tre giorni seguenti non c’era tutto
quell’overbooking di cui avevano parlato in giro. Infine
erano tornati a Londra, giusto il tempo per Yasu di riempire un paio di
valigie.
“Prima o poi si deve tornare” aggiunse Katagiri.
“Immagino di sì”.
“Ehi” la richiamò lui, sollevandole il
mento con la mano e avvicinando il volto al suo. “Tutti quei
bei discorsi sul non fuggire e sulle cicatrici valgono anche per te,
signorina. Hai promesso…”
“Lo so” mugolò.
Negli ultimi giorni, Yasu si era sentita come un palloncino, come su
una nuvola. Con un nuovo amore e una delle città
più romantiche del mondo ai suoi piedi, aveva dimenticato
facilmente tutto il resto. Ma Munemasa aveva dato uno strattone al
filo, riportandola a terra. Lo rivedeva appoggiare la cornetta,
chiudendo la chiamata con la quale aveva fissato il volo per Londra.
“E così ognuno torna a casa propria”
aveva mormorato, accigliato.
A Yasu era crollato il mondo addosso: presa da quella specie di
incantesimo che erano stati quei giorni, non aveva assolutamente
riflettuto sul dopo. E sul fatto che lui doveva tornare in Giappone.
“Come la mettiamo?” aveva chiesto Munemasa, di
fronte al silenzio della ragazza. “Per me non è
stata una storiella come un’altra”.
“Neanche per me” si era affrettata a confermare lei.
“Posso parlarti francamente, Yasu?”
“Certo” aveva acconsentito lei, un po’
preoccupata, sedendogli vicina.
“Questi giorni sono stati meravigliosi” aveva
detto, lasciandosi sfuggire un sospiro. “Ma se vogliamo
andare avanti, c’è qualcosa che tu devi fare.
Abbiamo fatto tanti bei discorsi sul non nascondere le cicatrici ma,
temo, che le tue ancora non siano tali. Le ferite sul tuo cuore
sanguinano ancora…”
La ragazza aveva distolto lo sguardo, mentre gli occhi le si erano
riempiti di lacrime.
Katagiri l’aveva tratta a sé, stringendola forte e
carezzandole la schiena, come piaceva a lei.
“Yasu, devi far guarire quelle ferite. Quando saranno
cicatrici, allora, potremmo costruirci sopra il presente e il futuro
che vogliamo. Non piangere, amore mio.” le mormorò
stringendola a sé. “Non voglio forzarti, non
è per me che lo dico. Lo dico per te e, se vorrai, per
noi…”
La voce gli era morta in gola sentendola singhiozzare violentemente
contro il proprio petto. Ma aveva continuato a sussurrarle:
“Devi tornare in Giappone per chiarire e chiudere con
Ken”.
L’aveva lasciata sfogare un po’, poi
l’aveva spinta dolcemente, facendola distendere sulle proprie
ginocchia. “Basta adesso” l’aveva
esortata con un sorriso. “La realtà è
che voglio che tu venga con me in Giappone… non saprei stare
a lungo così lontano da te… adesso”.
Lei aveva sorriso debolmente, asciugandosi le lacrime. Ci aveva pensato
tutta la notte, infine, aveva detto di sì.
Erano volati a Londra, dove erano rimasti un paio di giorni durante i
quali Yasu aveva sistemato le proprie cose e avvertito la famiglia. Sua
madre era stata entusiasta, Genzo, manco a dirlo, un po’
meno. “Lo sapevo che facevi una cazzata” era stato
il suo commento.
“Inoltre…” La voce di Munemasa la
riscosse dai suoi pensieri, riportandola al presente,
sull’airbus diretto in Giappone. Lo vide alzarsi dal
seggiolino darsi un’occhiata intorno. “Qui nessuno
ci conosce quindi, direi, che hai ancora diverse ore per coccolarmi
quanto vuoi…”
“Pensa che culo…”
Lui la guardò male, poi le mise una mano sulla bocca.
“Yasuko Wakabayashi, te la lavo col sapone quella
bocca”.
“Uh, che palle”.
“Yasuko!”
“Smettila! Solo mi madre mi chiama così!”
“Smetto quando tu la finisci di dire parolacce”
“Mi tratti come una mocciosa” sbuffò
lei, sprofondandosi a braccia conserte nel seggiolino.
“Solo quando ti comporti come tale”
ridacchiò lui, dandole un buffetto. Fece una pausa studiata,
poi guardandola di sottecchi, buttò là:
“Avevo anche un regalino per te, ma se non fai la brava
bambin-ahia” protestò ridendo e incassando una
gomitata. “Le maniere forti non ti aiuteranno,
Wakabayashi… non sai che si prendono più mosche
con il miele?”
“Le mosche non lo so… i pipistrelli- anzi i
pettirossi, sì” disse, chinandosi su di lui e
infilandogli le mani sotto la giacca.
“Ahahah queste non sono coccole, è una
perquisizione… ferma, dai mi fai il solletico.
Aspetta…” Liberandosi dalle sue mani,
l’uomo si allungò a prendere qualcosa nel suo
bagaglio a mano, un involto che lanciò fra le braccia di
Yasu.
Felice, la ragazza lo aprì: era una specie di quaderno blu,
rilegato con eleganza: sulla copertina lettere svolazzanti componevano
la parola “Journal”.
Yasu scorse pensosa le pagine bianche. “Ho smesso tempo fa di
tenere il diario”.
“Nel caso ti venisse voglia di scrivere di noi”
disse lui, stringendole la mano, mentre l’aeroplano iniziava
il decollo. Verso il Giappone.
Note di chiusura:
Deluse? Spero di no... il fatto
è che questa storia era nata come un "prequel" a un'altra
cui lavoro da un po'... spero di farvela leggere al più
presto, ma non prima della long per il contest;)
(visto Mela? non me ne sono scordata!)
Grazie a tutti i lettori e i
commentatori!
bacini sparsi^^
nene
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