Dimostramelo
È un sole timido quello che si
affaccia alla finestra, stamattina. Niente a che vedere con lo sfolgorio di
quel giorno di dieci anni fa, ultimo barlume estivo. Se credessi nel destino,
direi che simboleggiava l’atto conclusivo – se così vogliamo definirlo –
dell’ultima estate spensierata della mia vita.
Aveva stentato – questo sì – per
tutta la mattina, ad uscire dalle nuvole. Ma poi, con gran sollievo di tutti
noi, e in particolare degli sposi, i cieli si aprirono e, come in una visione
biblica, il sole uscì in tutto il suo splendore.
È pur vero che sposa bagnata /
sposa fortunata, ma non credo che Fleur sarebbe stata entusiasta di testare
l’efficacia del pronostico sul broccato del suo abito. Non che fosse un abito
particolarmente prezioso, piuttosto, il suo valore era affettivo. Sapete, non
c’era stato tempo per confezionarne uno nuovo: Fleur voleva sposarsi prima che
Bill cambiasse idea “per il suo bene”, o per altre simili idiozie che aveva
accennato qualche giorno dopo esser stato dimesso dal San Mungo. Così Molly le
aveva adattato il suo vecchio abito, quello indossato da lei più di 25 anni
prima. L’aveva tirato fuori da un cassettone polveroso della soffitta, fra gli
starnuti di tutte le presenti e gli ululati del fantasma di casa. E le era
scesa qualche lacrima, quando Fleur l’aveva abbracciata, dicendole quanto per
lei fosse prezioso quel dono.
Ma torniamo al lieto giorno. Fu,
dunque, con il sole, che Arthur accompagnò la futura nuora all’altare. Esatto,
Arthur, perché la famiglia di Fleur non poté raggiungere la figlia: si era in
stato di belligeranza, e non era opportuno intraprendere viaggi verso
l’Inghilterra.
Ma non fu a causa della guerra
che si decise di non festeggiare in pompa magna. La bianca tomba era ancora
troppo vivida nei nostri ricordi, il cuore ancora troppo gonfio. Beninteso, ciò
non ci impedì di essere felici, perché << Nulla avrebbe fatto più piacere
ad Albus che vedere tutto questo! >>, come esclamò la McGrannitt tra le
lacrime, mentre Fleur chiudeva gli occhi e lanciava il bouquet di margherite a
noi fanciulle.
La cerimonia, dunque, e tutto il
resto dei festeggiamenti, vennero organizzati nel giardino della Tana. I
ragazzi sistemarono un grande gazebo, sufficiente appena a contenere tutti i
Weasley e i pochi invitati. Pochi, sì, perché c’era poca gente di cui potersi
fidare. Così, eccettuati i membri dell’Ordine della Fenice, non c’erano molte
altre persone con cui poter condividere la gioia del momento.
<< Pochi ma buoni! >>
dichiarò Moody, e nessuno osò smentirlo.
Siamo arrivati, quindi, al lancio
del bouquet. Devo forse aggiungere che lo acchiappò Tonks? Dalle vostre facce
intuisco che non era necessario. Comunque, è certamente d’obbligo aprire una
parentesi sull’espressione di Remus nel momento in cui lei glielo mostrò,
compiaciuta come una bambina. Era a dir poco buffo: non si capiva cosa
pensasse. Alzò gli occhi al cielo, come se fosse esasperato dall’ostinazione di
Tonks, ma forse anche un po’ divertito, perché uno strano sorriso gli si
dipinse sul volto. Era forse felice? Si, credo di aver letto una felice
rassegnazione in lui. Ma questa è un’altra storia.
Dove eravamo rimasti? Ah, si: il
dopo-bouquet.
Ovviamente, Molly aveva preparato
leccornie per un reggimento. E devo dire che, ancora oggi, quel rinfresco viene
ricordato negli annali come uno dei più memorabili, degno del banchetto di fine
anno di Hogwarts.
Sì, Molly aveva dato il meglio di
se, e i gemelli, manco a dirlo, aspettarono la sera ma poi diedero anch’essi il meglio di loro. Che
avete capito? No, non fecero i loro soliti scherzi o cose simili. Avete
presente i fuochi d’artificio che fecero impazzire la Umbridge al quinto anno?
Bene, non posso dire che fossero più numerosi o fragorosi, perché – l’ho già
spiegato – i tempi non ce lo permisero. Ma la quantità di esclamazioni dinnanzi
ai cuori malva e alle scritte smeraldo, alle colombe cobalto e alle ghirlande
rosa, che esplosero nel cielo stellato e che fecero diventare rauca Ginny per
il resto della settimana, sì, quello è un buon metro di giudizio.
Ma tutto questo avvenne più
tardi, quando ormai il sole era tramontato. Non anticipiamo i tempi.
Quella fu la prima volta che vidi
ballare Arthur, e devo dire che rimasi sconvolta. No, non perché fosse un
ballerino disastroso, ma proprio per il motivo contrario. E posso assicurare
che era proprio così, perché lo testai io stessa: dopo un doveroso giro di
valzer con tutte e tre le donne della famiglia, toccò pure a me. Lo sapete, non
sono una provetta ballerina – anche se la mia bella figura la feci al Ballo del
Ceppo –, ma con un tale maestro, devo ammettere che mi divertii un mondo.
Fu allora che mi venne quel
pensiero, dolorosamente bello e triste al contempo. Ci sarebbe mai stata una
festa così per me? Oh, avanti, non fate quelle facce, avete capito cosa intendo.
Può sembrare patetico, lo so, ma a quasi 18 anni, con una
guerra incombente, voi non ci avreste forse pensato? Insomma, – e qui mi
rivolgo alle fanciulle – chi di voi non ha mai sognato l’abito bianco? Ballando
con Arthur, dunque, per la prima volta
capii che forse per me non ci sarebbe stato nessun abito bianco.
Fu istintivo. Mi volsi, tra un
volteggio e l’altro, e lo guardai. Era in piedi, vicino al buffet, in mano
aveva un bicchiere di succo di zucca. Stava chiacchierando con Charlie, pareva
preso da una discussione sul Quidditch, e io non potei fare a meno di
sorridere, perché ciò che mi prendeva quando lo vedevo così, era una tenerezza
sconfinata.
Credo che quell’immagine mi
rimarrà per sempre impressa, perché fu accompagnata da una fitta allo sterno,
un’ansia dolorosa che non avevo mai provato. Ma che, purtroppo, avrei provato
tante altre volte negli anni seguenti. La gelosia per Lavanda non mi aveva
causato nemmeno la metà di quel dolore, e solo in quel momento mi resi conto
della portata dei miei sentimenti per lui. Lo amavo, su questo non nutrivo
alcun dubbio oramai, ma l’avevo realizzato solo due mesi prima ed è difficile
accettarlo tranquillamente dopo anni di negazione. Ma ora, ora una frase mi
riecheggiava dentro, forte e chiara, solo una frase: non voglio perderlo.
I pensieri, come sapete, le
sensazioni, sono questioni di secondi, ma come è difficile descriverli! Così,
tutto questo avvenne in un soffio, ma Arthur dovette accorgersene, perché mi
chiese se ero stanca e se non volessi sedermi. Io uscii per un momento dal mio
trance, giusto il tempo di ringraziarlo e di dirgli che, sì, in effetti ero
proprio stanca ed era meglio se mi sedevo, e poi ripiombai nuovamente nelle mie
elucubrazioni.
Una persona di mia conoscenza, a
questo punto, direbbe che penso troppo ed agisco poco. Al che io, come al
solito, le risponderei che lei invece ha la cattiva abitudine di agire senza
pensare. Una cosa che – detto tra di noi – avrei dovuto fare più spesso
anch’io.
Quando mi sedetti, dall’altra
parte del gazebo, non realizzai subito che l’avevo fatto per poterlo osservare
da lontano, indisturbata. Mi sentivo confusa e angosciata, e volevo solo un
momento di tranquillità e solitudine. Dunque, credetti che fosse per questo che
mi irritai, quando Ginny si sedette accanto a me. In realtà, la mia irritazione
fu dovuta a ben altro: ora non potevo più guardarlo in santa pace.
Comunque, devo dire che Ginny si
fece subito perdonare, porgendomi un dolce.
<< È al cioccolato.
>> dissi, stupidamente.
<< Lo so, me l’ha dato
Remus. – replicò lei trattenendo una risata – Mi sembrava l’ideale per te in
questo momento. >>
Lo disse guardando al buffet, in
direzione di Ron, ed io la guardai a mia volta, sconcertata.
<< È così evidente?
>> le chiesi, con una nota di panico nella voce.
<< No, – mentì – ma lo sai
che non mi ci vuole molto a indovinare ciò che ti passa per la zucca. >>
Le lanciai un’occhiataccia, ma
non potei fare a meno di ringraziarla. Ora lo so: se non ci fosse stata Ginny,
in tutti quegli anni, sarei certo impazzita.
Rimasi per un po’ in silenzio,
finché non trovai il coraggio di esprimere a parole ciò che provavo, e allora
un fiume mi sgorgò dalla gola, inarrestabile. Lei restò zitta per tutto il
tempo, ascoltando attentamente, finché non terminai il mio patetico monologo.
Non replicò subito, e allora rimasi in attesa, guardando alternativamente la
barretta di cioccolato e le mie scarpe.
<< Io penso – esordì dopo
un attimo di riflessione – che se continui a perderti in queste stupidaggini
non troverai mai ciò che cerchi. >>
Rimasi senza parole. E potete
immaginare come possa essere sconvolgente per una come me.
Ginny non aspettò che ribattessi,
forse perché aveva capito meglio di me che non c’era niente da ribattere. Si
alzò e si diresse verso un gruppetto lì vicino, scosso dalle risate di fronte
alle metamorfosi di Tonks.
Dopo un tempo indeterminato
passato a fissare il vuoto, mi alzai di scatto, poggiai il cioccolato
sbocconcellato sul tavolo e mi diressi in casa. Ancora oggi non so perché,
forse per cercare sfuggire alla sensazione di soffocamento che mi davano le
parole di Ginny. Inutile dire che non vi riuscii.
Rimasi in cucina per un po’,
piangendo tutte le mie lacrime e sentendomi più patetica che mai. Quando arrivò
Harry, per avvertirmi che stavano per tagliare la torta, mi resi conto dal suo
sguardo che dovevo sembrare proprio penosa.
Quello fu il punto di non
ritorno.
<< Harry… >> dissi,
ma non seppi come proseguire.
D’altronde, capii che anche lui
aveva intuito perfettamente il mio stato, proprio come Ginny.
<< Sai, forse un amico
dovrebbe consolarti ora, ma… non credo che ti serei amico se lo facessi.
>> mi disse.
Mi trovai a chiedermi da dove
avessero preso tutta quella saggezza quei due.
<< Vuoi che lo chiami?
>> aggiunse.
<< No. – dissi,
rassettandomi – Sono presentabile? >>
Harry sorrise e annuì, poi mi
porse il braccio ed io uscii con lui. Un po’ rincuorata, devo dire, dal suo
tacito sostegno.
Quando arrivammo, il sole stava
già tramontando, ma nessuno parve essersi accorto della nostra breve assenza. Dico
“parve”, perché effettivamente qualcuno se n’era accorto.
Io mi fermai tra la McGrannitt e
Percy, mentre Harry si diresse verso Ron e i gemelli. Li osservai. Ron
applaudiva di fronte al taglio rituale, come tutti noi, ma sembrava più
interessato a parlare con Harry. Non capii cosa si stessero dicendo e non lo
seppi mai, ma non credo che Harry avesse detto qualcosa di rilevante a Ron sul
mio stato. E, in ogni caso, oramai non ha più importanza.
Fattostà che, comunque, qualcosa
dovette scattare in lui. Dopo il taglio della torta, mentre stavamo tutti
gustando il capolavoro di Molly, mi si avvicinò e mi si sedette accanto. La
cosa mi stupì, perché finora non aveva fatto altro che ignorami.
<< Va tutto bene? >>
mi chiese.
Per la sorpresa mi andò di
traverso la torta.
Dopo parecchie manate sulla
schiena ed un bicchiere di succo di zucca, riuscii a recuperare il controllo
del diaframma, e potei rispondere alla sua domanda.
<< Sì, bene. >>
<< Non è vero. >>
replicò lui aggrottando la fronte.
Non potevo resistere quando faceva così. Era per
questo che ogni volta mi difendevo innalzando un muro di petulanza.
Ma questa volta no,
pensai, questa volta devo ingoiare il mio orgoglio e le mie paure, devo
seppellire l’Insopportabile Sottutto.
<< Mi commuovono sempre i
matrimoni. >> mentii.
<< Ieri hai detto che non
eri mai stata a un matrimonio. >> mi fece giustamente notare.
Annaspai. Sciocca, non ti ricordi nemmeno ciò che
dici.
Nonostante tutto, riuscii a
cavarmela con un: << Ma… ne ho letti tanti… sui libri. >>
<< A-ah. >>
Era un’espressione dubbiosa o
esasperata quella che gli lessi in volto? Non ne avevo idea, e non ne ho
tuttora. Ma penso ancora oggi ciò che pensai in quel momento: non avrei
dovuto nominare i libri.
Seguì un interminabile,
imbarazzante silenzio. Finché non Ron non si preparò e partì il colpo.
<< Ti va di ballare?
>>
Ecco, il colpo era partito.
Ci volle un po’ perché
raggiungesse la meta, il mio cervello non era abituato. Ma a quanto pare ne
valse la pena: l’espressione sul mio volto fu comica. O almeno così mi fu
riferito in seguito.
Dovetti impiegarci un po’ troppo
a reagire, perché Ron emise uno buffo suono, che mi riportò alla realtà. Allora
notai che guardava nervosamente le altre coppie danzanti, e che le sue orecchie
erano diventate rosse.
Ora, mi perdonerete, ma una
parentesi sulle sue orecchie ci vuole proprio. Sono sicura che lui lo
considerasse un imperdonabile difetto e che, se avesse potuto, se le sarebbe
strappate volentieri in quei momenti. Ma – giudicatemi pure strana – io l’ho
sempre trovato adorabile, per non dire sexy. Chiusa parentesi.
Alla luce di questo, potete ben
immaginare quale fosse la mia difficoltà nel mantenere un contegno degno di me.
Nel secondo e mezzo che impiegai a rispondere, notai una lucciola che passava
lentamente tra di noi, illuminando il rosso dei suoi capelli e il malva del mio
vestito. Un pensiero fulmineo mi attraversò la mente: Per Merlino, Hermione, cosa diavolo stai
stai aspettando ancora?!
<< Si. >> dissi
alzandomi.
Per un momento rimase imbambolato
a fissarmi. Ancora oggi sorrido ripensando a quegli occhi che si spalancavano
nella sorpresa, con la stessa espressione che aveva dipinta in volto al Ballo
del Ceppo. Allora non lo sapevo, ma l’avrei vista altre volte,
quell’espressione, molte altre. Ma non ci avrei mai fatto l’abitudine, per
fortuna.
Comunque, accettare fu forse la
decisione migliore che abbia mai preso in vita mia.
Ron si alzò, mi prese la mano e
mi portò in mezzo alle altre coppie, al centro del gazebo. Era una situazione
anormale per noi due, una delle poche in cui, in sei anni di amicizia, non ci
eravamo mai trovati. È a questo che imputo la strana difficoltà che scoprii nel
dover posizionare la mano sulla sua spalla, e quella che lui ebbe nel dovermi
cingere la vita. Credo che impiegammo più tempo a sistemarci che a danzare.
Fu solo quando cominciammo a
ballare che realizzai la situazione.
<< Non ti ricorda niente?
>> gli chiesi.
<< Mhm… hai lo stesso
abito. >> disse lui, e ci intendemmo perfettamente.
<< Anche tu. >>
aggiunsi io.
<< Già. >>
Capisco come a orecchie altrui
possa sembrare una conversazione penosa, ma vi assicuro che per noi non lo era
affatto. La mancanza di vocaboli era dovuta all’emozione, e l’emozione al fatto
– almeno da parte mia – che non avevo mai visto le sue lentiggini da una distanza
così ravvicinata, ne avevo avuto modo di sentire il suo odore. E ora che
scoprivo queste piccole cose, mi rendevo conto che non ne avrei più potuto
farne a meno.
<< Non sono un granché.
>> rise lui.
I nostri passi erano
effettivamente stentati. Ma cosa poteva importarmene? In quel momento, avrei
ballato con lui per il resto della mia vita. È melenso, ma è così!
<< Be', non mi hai ancora
pestato i piedi. >> gli feci notare.
Non so che effetto ebbero quelle
parole su di lui. Non furono molto lusinghiere, ma forse la sua successiva
reazione fu dovuta al mio tono di voce: fino ad allora, non credo che gli
avessi parlato in modo così dolce.
In ogni caso, fu in quel momento
che lui mi strinse di più a sé, con un gesto quasi possessivo. Era ciò che
volevo, anche se mi resi conto dalla tachicardia che mi prese, che non ero
affatto preparata. Ma forse non lo sarei mai stata del tutto, quindi che
differenza fa?
Purtroppo, il momento idilliaco
non durò molto. Quando gli appoggiai la testa al petto, percepii tutta la sua
tensione e capii che, se non avessi subito fatto qualcosa, sarebbe stramazzato al
suolo di lì a pochi secondi. Quindi, con mio grandissimo rammarico, dovetti
interrompere la danza.
Ancora una volta sua reazione mi sorprese.
<< No, – disse
trattenendomi – perché? >>
Era così dolce che l’avrei
baciato lì, davanti a tutti. Ma, se devo essere sincera, non mi andava che il
nostro primo bacio fosse una replica di quello tra Harry e Ginny.
Così, feci un bel respiro per riprendere il controllo, gli
sorrisi e gli dissi che lì faceva caldo e che volevo fare due passi. Ron parve
intuire, per un volta, che era solo una scusa per allontanarci dalla ressa, e
mi diede retta.
Cercammo di ignorare gli sguardi
che accompagnavano ogni nostro passo, ma non ci riuscimmo. Quando fummo
abbastanza lontani dal gazebo e ci fermammo, notai come le orecchie di Ron
fossero più rosse che mai. Per quanto riguarda me, non voglio nemmeno
immaginare il mio aspetto.
Restammo per qualche secondo in
silenzio, a guardare le stelle pur di non guardarci in faccia. Altrimenti
sarebbe saltata fuori, inevitabile, la domanda: che diamine ci facciamo qua,
soli?
<< Cos’avevi prima?
>> disse a un certo punto Ron.
Se da una parte ero felice che
avesse spezzato il silenzio, dall’altra non avevo nessuna intenzione di toccare
l’argomento.
<< Te l’ho detto, i
matrimoni mi commuovono. >> risposi, cercando di apparire calma e sicura.
Ovviamente, non la bevve.
<< Hermione, dico sul
serio… che avevi? >>
<< Niente di importante.
>> ribadii.
Ron mi lanciò un’occhiata apertamente
scettica.
<< Senti, sarebbe troppo
lungo e noioso da spiegare… >> cominciai, ma lui mi interruppe.
<< Tu non mi annoi!
>> disse in tono offeso.
Di nuovo, dovetti trattenermi dal
saltargli al collo e baciarlo.
<< Bè… comunque, non mi và.
>>
<< È colpa mia? >>
chiese allora.
Non c’è una domanda di
riserva? Pensai.
<< No… >> dissi.
Fortunatamente, mi interruppi
prima del “ma”. Comunque a lui non sfuggì in tono d’esitazione.
<< Ma… ? >> incalzò,
infatti.
Mi chiesi come mai fosse
diventato tutto d’un colpo così intuitivo.
<< Niente. >> mi
affrettai ad aggiungere.
<< È colpa mia. >>
concluse lui, ostinato come sempre.
Be', non aveva tutti i torti. Ma
come spiegargli la situazione, se non era chiara neppure a me?
<< No, Ron, non è colpa
tua. – sospirai – Per favore, non litighiamo. >>
<< Non voglio litigare con
te. – puntualizzò lui – Perché non mi dici cos’hai? >>
E allora diedi la risposta
peggiore che potessi dare.
<< Non voglio parlare di
queste cose con te. >>
<< Non ti fidi di me? Di
Harry ti fidi di più? >> sbottò lui, e non lo si poteva certo biasimare.
Così, finii per innervosirmi
anch’io.
<< Ora non fare il geloso,
Ronald, per favore! >>
<< Non chiamarmi Ronald!
>> sibilò lui, diventando inspiegabilmente rosso.
<< Ecco, lo sapevo, stiamo
litigando… >> dissi sull’orlo del pianto.
Questo parve addolcirlo, perché
prima di riprendere si placò.
<< Io vorrei solo che ti
confidassi con me. – disse in tono calmo e continuò con voce tremante – Non mi
piace vederti così. >>.
È necessario dire che le sue
parole mi commossero?
<< Be', è una cosa molto bella da dire. >> dissi nel tono più dolce del mio repertorio.
Non credo di averlo mai visto
tanto compiaciuto, prima di allora, anche se tentava in tutti i modi di
trattenersi. Ma ciò che aggiunse spezzò l’incantesimo.
<< Sì, be'… se valesse
qualcosa per te… >>
Lo presi per un braccio e lo feci
voltare, in modo che mi guardasse in faccia.
<< Ron, pensi davvero che
ciò che dici non m’importi? >> gli chiesi, ed era una domanda seria.
Lui abbassò lo sguardo.
<< Non lo so. >> mi disse
dopo un momento.
Lasciai andare il suo braccio e
fissai il vuoto.
Dove ho sbagliato?
Sentii che, come io avevo fatto
poco prima con lui, mi prendeva per un braccio mi faceva voltare.
<< Dimostramelo! >>
mi disse guardandomi negli occhi.
Non so cosa realmente volesse
dire con quelle parole. Probabilmente, desiderava solo che io mi confidassi con
lui, dimostrandogli così che per me era importante.
In ogni caso, certo non si aspettava ciò che stavo per fare.
E, a dire il vero, non me lo aspettavo nemmeno io. Fattostà che lo feci. E
quando smisi, mi resi conto che quello era l’unico modo per dimostrargli quanto
lui fosse importante per me.
State scalpitando, immagino. E va
bene, ve lo dirò: lo baciai.
Non fu un bacio apocalittico. Gli
presi il viso fra le mani, mi alzai in punta di piedi e gli stampai un bacio
sulle labbra. Veloce, schietto, senza spazio per alcun “ma”. Perfettamente
adatto a me, insomma.
Quando finii, come vi ho già
detto, capii che quella era la dimostrazione più efficace che potevo dargli.
Quello che non ho detto, è che ebbi appena il tempo di formulare questo
pensiero. Perché, dopo un attimo di smarrimento, venne il suo turno di
dimostrami quanto ci teneva a me, e la sua fu una dimostrazione molto più lunga
della mia.
Quella “dimostrazione”, come
c’era da aspettarsi, coinvolse anche me. E devo dire che, ancora oggi, non ho
idea di quanto andò avanti quel reciproco scambio di “dimostrazioni”. Forse
andammo avanti a “dimostrare” per un’ora, o forse per tutta la notte. Comunque,
calcolando che dovevamo sfogare sei anni di “dimostrazioni” represse, credo che
sia stata la più lunga “dimostrazione” della mia vita.