Conflitti del Mondo Emerso

di Josie_n_June
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Figlia della Gilda ***
Capitolo 3: *** Sulla strada per Laodamea ***
Capitolo 4: *** Elnath e Morwen ***
Capitolo 5: *** Coincidenza ***
Capitolo 6: *** Ricorda, Odia, Lotta ***
Capitolo 7: *** La fine delle finzioni ***
Capitolo 8: *** In viaggio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il sole splendeva alto nel cielo, nonostante l’inverno fosse ormai alle porte. La luce che filtrava dalle finestre illuminava a tratti il viso del Generale dell’Accademia dei Cavalieri di Drago, mentre camminava spedito lungo i corridoi del palazzo.

Parascheuazo aveva le labbra storte in una smorfia di disgusto e repulsione, anche se, in effetti, era con tutta probabilità difficilmente distinguibile dalla sua espressione abituale. Di fatto, il volto del Generale era per metà attraversato da una profonda cicatrice, che gli storpiava la bocca verso il basso in una posa piuttosto strana.

Ma, nonostante questo, l’astio nei suoi occhi era probabilmente ben visibile, perché i due allievi Cavalieri che aveva portato con sé badavano bene a restargli a una certa distanza.

I due ragazzini non erano estranei ai pettegolezzi di corte e, inoltre, quasi tutti all’Accademia sapevano del contrasto tra il Generale Endacril Parascheuazo e il re della Terra del Sole. Anche se pochi, tutto sommato, sapevano il perché.

Questo non toglieva l’evidenza che nessuno dei due fosse più odioso all’altro, tranne forse, nel caso del re, per il Supremo Generale, ma era da un po’ che lui non si faceva vedere a Makrat.

Così, stava a Parascheuazo amministrare gli affari dell’Accademia, e questo includeva, purtroppo per lui, anche trattare direttamente con il re.

Cosa che il Generale avrebbe evitato molto volentieri.

Parascheuazo odiava quel ragazzino. Ventotto anni e Cavaliere di Drago, aveva cominciato a farsi strada nella politica quando molti altri della sua età non avevano ancora la più pallida idea di come andasse il Mondo. Nessuno l’aveva visto come una minaccia. Parascheuazo compreso.

La cosa che più bruciava al Generale era, infatti, che era stato lui ad addestrare quel moccioso. Certo, in mezzo a un altro centinaio di studenti, ma quel ragazzo era portato, e Parascheuazo l’aveva capito al volo.

L’aveva allenato personalmente, come un vero e proprio maestro. Aveva notato l’arroganza e l’ambizione del marmocchio, ma non vi aveva dato peso. Aveva pensato che se ne sarebbero andate con la maturità, e l’acquietarsi degli ormoni adolescenziali.

Beh, si era sbagliato di grosso.

E quel giorno, quando l’aveva portato con sé a Palazzo come semplice attendente per andare a trovare la sua protetta, la regina, aveva probabilmente fatto la storia del Mondo Emerso.

Il ragazzo era subito stato notato dall’assemblea che affiancava la sovrana in capo al regno, e anche se, a dire il vero, il Supremo Generale si era dimostrato subito abbastanza contrariato, Parascheuazo non aveva capito il perché, all’inizio.

Nessuno avrebbe immaginato che, di lì a dieci anni, quel bambino sarebbe stato la persona più potente di tutto il Mondo Emerso.

Parascheuazo strinse i pugni, e li riaprì, e li richiuse qualche altra volta in modo spasmodico. Solitamente manteneva una certa freddezza, perché, nonostante i fatti, il Generale continuava a vedere quel marmocchio come un marmocchio.

Ma non quella volta. Un certo nervosismo, anche se non l’avrebbe mai ammesso, si faceva strada nel suo petto insieme alla rabbia.

Il re l’aveva fatto chiamare in fretta e furia. Come ogni volta, Parascheuazo aveva accampato con leggerezza una scusa perché fosse il re ad andare da lui, in Accademia. Era una cosa che l’aiutava a manifestare la propria autorità di fronte a quell’arrogante, e che, sostanzialmente, lo divertiva molto.

Ma con sua grande sorpresa, il re aveva insistito. O meglio, tra le righe, aveva ordinato che fosse lui, a raggiungerlo a palazzo. E per quanto gli sarebbe piaciuto, Parascheuazo non poteva disobbedire agli ordini del re.

Così aveva eseguito. La cosa in sé lo irritava, ma non era solo questo. Se il re cominciava ad imporre seriamente la propria autorità, significava che aveva un piano. E soprattutto, se lo convocava con una tale urgenza, che aveva qualcosa tra le mani.

E questa non era mai una buona cosa.

Il re, infatti, sospettava di lui. E i suoi sospetti, per l’appunto, erano fondati.

Parascheuazo faceva parte di quella forza segreta, neonata, che capitanava le forze dei ribelli dalla Terra dell’Acqua. Era una Resistenza o, almeno, un germoglio di essa. La guerra imperversava violenta da più di sei anni lungo il confine della Terra dei Giorni, ed era solo grazie all’aiuto che quella forza nascosta offriva ai fammin che era riuscita a durare così tanto.

Sfruttando il proprio ruolo nell’Accademia, il Generale forniva informazioni di alto livello dall’interno stesso di Makrat, la capitale della Terra del Sole.

Partecipava alle assemblee di quel consesso di maghi, capi militari e sovrani, che, per via della sua prudenza e della sua giovinezza, veniva chiamato semplicemente Consiglio. Anche se, soprattutto tra i giovani, si stava diffondendo un nuovo appellativo, derivato dal luogo in cui l’assemblea si riuniva.

Consiglio delle Acque.

O qualcosa del genere. Parascheuazo era sicuro che il re non ne sapesse niente, ma di certo non era stupido. E più volte, il Generale gli aveva fatto capire di non essere precisamente dalla sua parte.

Nonostante questo, il re non osava condannarlo o anche soltanto accusarlo. Sapeva benissimo che Parasheuazo godeva di estrema popolarità tra le file dei Cavalieri, popolarità che pochissimi prima di lui avevano avuto. Il re non poteva giustiziarlo perché in quel caso, i Cavalieri di Drago si sarebbero uniti contro di lui, scatenando una guerra civile senza precedenti in cui, di certo, il sovrano sarebbe risultato sconfitto. E anche Parascheuazo lo sapeva, ed era l'unico motivo per cui si permetteva di trattare il re come un semplice giovane di ventotto anni con un Drago e una spada.

Beh, questo valeva, ovviamente, finché i sospetti del re rimanevano soltanto sospetti.

Gli venne in mente quello che gli aveva detto una volta Indil, piuttosto preoccupata:

“Vieni via, Endacril. Non importa che tu rimanga nella Terra del Sole, abbiamo spie che ci forniscono informazioni sufficienti e meno sospettabili di te. E poi all’Accademia c’è…”

“No.” l’aveva interrotta Parascheuazo “Lui non fa parte del Consiglio. Lo sai bene.” le aveva sorriso “Devo rimanere qui, Indil. A Makrat c’è bisogno di qualcuno che tenga a freno quel marmocchio e che protegga l’Accademia.”

Così era rimasto. Ma in realtà, c’era un altro motivo per cui non si era trasferito, come tutti i ribelli, nella Terra dell’Acqua.

Sfruttando il proprio ruolo di Generale, aveva l’opportunità di star vicino ai giovani Cavalieri. Di formarli, e di notare in loro talento, coraggio, un particolare senso di giustizia. E quando ne incontrava uno degno, di indirizzarlo sulla giusta strada, strada che conduceva solitamente molto, molto lontano dal re e, con una certa frequenza, verso la Marca dei Boschi.

A quel punto, Parascheuazo dovette riscuotersi dai propri pensieri. Era arrivato di fronte alle alte, elaborate porte della sala del trono. Prese un profondo respiro, e lanciò un’occhiata ai due ragazzini in armatura alle sue spalle.

“Voi avete intenzione di entrare?” chiese semplicemente.

“Assolutamente no, Generale.” rispose subito uno dei due Cavalieri.

Parascheuazo abbozzò la metà di un sorriso. “Ragazzi furbi.” commentò, prima di spalancare le porte con un unico, ampio gesto.

E lui era lì.

Impettito, fasciato nell’armatura, con le spalle rivolte alla porta e lo sguardo fuori dalla finestra. I corti capelli di un biondo chiarissimo erano resi quasi bianchi dai riflessi del sole, che illuminava il fisico potente, muscoloso e slanciato. Il re della Terra del Sole si voltò, e lo squadrò freddamente con i suoi occhi di quel verde così spento.

“Ben arrivato, Generale.” disse Dohor, abbozzando un ghigno.

Parascheuazo rispose con un mezzo –per forza di cose- sorriso “Non granché bene, veramente. Avrei da fare, Dohor, non ho tutto il giorno per sbrigare le tue faccende ufficiali.”

Lo chiamava sempre per nome. Niente sire, o maestà, o vostra altezza, o plurale maiestatis per lui. Il Generale rimaneva il maestro storpio, e il re il marmocchio a cui aveva insegnato. “Se dovevi parlarmi di guerra potevi mandarmi un messo.”

“In verità, Endacril” replicò il re, voltandosi verso di lui “Non era esattamente il caso di passare in Accademia.”

Aveva la spada tra le mani, ed era evidente che si stava allenando. Parascheuazo sapeva che lo faceva tutti i giorni per più di un’ora.

Dohor fece per affondare la spada, poi si produsse in un tondo perfetto. “Gli argomenti di cui devo parlarti sono piuttosto… delicati.” menò con precisione la spada intorno a sé, come se davvero si trovasse nel mezzo di una battaglia. “Come sta, Ido?” chiese ad un tratto.

Parascheuazo trattenne un sorriso. Non gli era sfuggito il tono cupo e represso con cui aveva nominato il Supremo Generale dell’Accademia. “Bene.” rispose “Nella Terra del Fuoco c’è un bel clima, di questi tempi, e riesce perfettamente a tenere d’occhio la situazione nella Terra della Notte. Ti porge i suoi omaggi.” aggiunse.

Il re annuì. “Mi sono sempre chiesto perché non abbia voluto portare la sua sposa con sé.”

“Dice che non vuole metterla in pericolo.” rispose prontamente Parascheuazo “Quella è una zona calda.”

Dohor fece una smorfia. “Capisco.”

Il Generale non rispose. Si limitò ad inarcare le sopracciglia, immobile, in totale disaccordo con il fatto che Dohor potesse comprendere la preoccupazione per una sposa, aspettando che finisse. Dopo un paio di minuti, il re rilassò le braccia, e con un unico gesto ripose la spada nel fodero. Immerse le mani in una bacinella d’acqua e si inumidì il viso e il collo.

Poi fece segno alle due guardie ai due lati del trono. “Lasciateci.”

I due soldati obbedirono senza esitare, e uscirono dalla sala chiudendosi la porta alle spalle. A quel punto, Parascheuazo fissò Dohor.

“Allora? Qual è il motivo della mia convocazione a palazzo?” chiese con leggera ironia.

Il re sorrise. “In realtà di tratta di affari, Endacril. Affari che, come presumo, non ti faranno piacere.”

Il Generale ridacchiò. “Affari, dici? Affari che non mi faranno piacere…” rimase qualche secondo in silenzio, poi allargò le braccia. “Allora sono ansioso di scoprire cosa c’è che non va.”

Un lieve segno di fastidio passò sul volto del re. “Ne sono convinto.”

Gli voltò di nuovo le spalle, e si diresse con tutta calma verso un grosso ed elaborato tavolo di pietra contro il muro.

Parascheuazo notò che sopra c’era distesa una grande cartina della Terra dei Giorni, con diversi segnalini e una spessa linea rossa che indicava l’avanzata delle truppe del re. Accanto ad essa, diversi rotoli di pergamena. Dohor ne prese alcuni, e prese a sfogliarli dirigendosi di nuovo, con lentezza, verso Parascheuazo.

“Mi chiedevo…” mormorò, senza alzare gli occhi dai fogli “Avete dei registri, all’Accademia?”

Parascheuazo si mostrò sorpreso. “Registri?”

“Sì.” rispose il re “Con nomi, date d’iscrizione e di diploma dei Cavalieri di Drago.”

Il Generale sorrise sarcastico. “Lo sai benissimo, Dohor, hai passato la vita in quell’Accademia.”

Dohor alzò un secondo lo sguardo. “Rinfrescami la memoria, allora.”

Era un ordine. E Parascheuazo, divertito, obbedì. “Ne abbiamo più di uno, sì. Da quando t’interessi delle questioni formali dell’Accademia?”

Il re non rispose. Continuò a scorrere i fogli di pergamena con lo sguardo, e dopo un po’ fece: “Conosci un certo Dolbar, Endacril?”

Il Generale si mostrò sorpreso. “Dovrei?”

“Proveniente dalla Terra del Vento, ventenne, diplomato due anni fa. Stando a questa scheda ha un drago verde.” alzò gli occhi per guardarlo.

Parascheuazo scosse la testa, con una leggera inquietudine nascosta da un’espressione interrogativa.

“No?” il re prese un altro dei fogli, e lesse “Sear, ventiquattro anni, diplomato cinque anni fa. Un ragazzo nobile di queste parti, con un drago di terra. Niente?”

Parascheuazo scosse la testa, conficcandosi le unghie nella carne.

 “Liton, Fren, Kevat, Vedris… Nessuno?”

Dohor si avvicinò a Parascheuazo. Nei suoi occhi c’era una scintilla strana, diversa. Il Generale la riconobbe: vittoria. E vendetta.

“Sono tutti scomparsi dall’Accademia. Partiti per una missione e mai più tornati.” disse il re, ormai a un passo da lui “Non ne sapevi nulla?”

“No.” si limitò a dire Parascheuazo, senza battere ciglio, uno sguardo di velata sfida fisso negli occhi del sovrano “In che modo questo riguarda me?”

“Riguarda te” riprese Dohor “Perché l’Accademia è sotto il tuo controllo. E perché questi Cavalieri non sono affatto scomparsi nel nulla.”

Gli voltò le spalle, e si diresse a passo spedito verso il tavolo con la cartina “E’ stato il Generale Pineider a raccogliere queste informazioni su di loro. Nella Terra dei Giorni.” si voltò  guardarlo “Perché questi Cavalieri, Generale, combattono insieme ai ribelli!” gridò il re, sbattendo un pugno sul tavolo.

Parascheuazo rimase in un silenzio attonito. Non perché fosse sorpreso. Semplicemente, non avrebbe mai pensato che il re sarebbe venuto a saperlo.

“Non hai niente da dire a tua discolpa, Generale? Quei ragazzi erano sotto la tua responsabilità, e adesso sono nella Terra dei Giorni in aiuto dei fammin! Si sono rivoltati alla Terra del Sole, e ai loro sovrani! Come ti giustifichi per questo?” gridò il re, furioso.

Per la prima volta, davanti a Dohor, Endacril non seppe cosa replicare. Non poteva ammettere niente. Ma non poteva neanche discolparsi.

Dohor rimase per parecchio tempo immobile, in attesa che parlasse. Poi, indossò la sua maschera.

Parascheuazo la conosceva. Era la maschera del re giusto e retto, ma terribile nella collera, pronto a fare azioni all’apparenza sbagliate per il bene del suo popolo.

“Sono estremamente deluso, Generale.” dichiarò Dohor, in tono grave “Deluso dall’ordine dei Cavalieri di Drago. Deluso dall’istituzione dell’Accademia. Deluso da te.” si voltò e si diresse a passo lento e deciso verso il trono. Salì i tre scalini, si sedette e appoggiò i gomiti sui braccioli. Lo guardò dall’alto e, dopo, cominciò a parlare. “Non avrei mai creduto che l’Accademia potesse ridursi a livelli così infimi. E’ chiaro che non può continuare ad essere gestita in questo modo. Occorre prendere un serio Provvedimento a riguardo.” fece una pausa, e poi continuò “Da questo momento in avanti, decreto che ogni Generale e insegnante dell’Accademia debba passare al vaglio di una commissione composta dal re e da alcuni funzionari da lui scelti, prima di essere eletto. Stabilisco inoltre che la stessa commissione debba esaminare ogni incarico proposto ai Cavalieri, prima che esso sia loro assegnato. Ordino infine che ogni Cavaliere di Drago in missione per il Mondo Emerso torni immediatamente a Makrat, affinché sia fatta una rivalutazione profonda dei loro mandati e affinché possano riconfermare la loro fedeltà ai sovrani e al regno. Chiunque non abbia fatto ritorno entro due mesi sarà considerato un disertore, e condannato a morte. Verranno poste delle basi sui confini della Terra del Sole per coordinare il rientro dei Cavalieri, e sarà tua incombenza, Generale, vigilare sul loro operato. Personalmente. Partirai domani per il confine della Terra del Mare.” Respirò profondamente “Questo è tutto. Mi preoccuperò di far sì che questo Provvedimento divenga valido al più presto.” inclinò la testa di lato “Puoi andare. Avrai molte cose da sistemare, prima della partenza. E stavolta…” aggiunse, chinandosi leggermente verso di lui “Vedi di non deludermi.”

Parascheuazo fu sicuro di vedere il bagliore di un ghigno sul viso perfetto del re.

Strinse i denti. “Sono sicuro che questo decreto sarà provvidenziale.” disse atono “Ma non per l’Accademia.”

Prima che Dohor potesse ribattere qualsiasi cosa gli voltò le spalle, e si diresse a grandi passi verso la porta. La spalancò con rabbia, tanto che i due studenti che aveva portato con sé trasalirono dallo spavento.

Parascheuazo non li degnò di uno sguardo, deciso ad uscire il prima possibile da quel palazzo.

Non riusciva ancora a crederci.

Il marmocchio aveva appena preso in pugno tutto il Mondo Emerso.

 

 

“…In seguito, fu chiaro che Dohor aveva sposato Sulana solo per acquistare il titolo di Re della Terra del Sole. Esiliò o uccise tutti coloro che gli si contrapponevano, e avvicinò a sé le persone che potevano aiutarlo per i suoi scopi.
Da allora, governa con il pugno di ferro sulla Terra del Sole, e mira a estendere il proprio dominio su tutto il Mondo Emerso. Non si cura dei bisogni del popolo, non più dello strettamente necessario, e di rado. Sta sferrando violenti attacchi contro i fammin  della Terra dei Giorni, e temiamo che non riusciranno a resistere ancora a lungo.

Noi, storici e letterati, che viviamo a stretto contatto con quest’uomo spregiudicato, tremiamo all’idea che possa riuscire nei suoi scopi. Questo significherebbe un nuovo regno del Tiranno, una nuova epoca scura per il nostro amato Mondo Emerso.

Preghiamo gli dèi che non ci riesca."

Dagli Scritti di Trea, Storico di Corte, frammento.

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Note:

Ecco, cominciamo con i commentini di fine capitolo.

Questo primo, in particolare, può sembrare piuttosto noioso, ma stiamo cercando di imitare l’impostazione troisiana della storia –la citazione da un documento “storico” ne è un esempio- per cui un prologo ci voleva. E’ più che altro un riepilogo del panorama sul quale si svolge la nostra storia: Dohor è re della Terra del Sole da circa otto, nove anni, e ha già il protettorato della Terra della Notte. Adesso si è lanciato alla conquista della Terra dei Giorni allo scopo ostentato di riportare la pace tra i fammin che adesso vivono lì, dopo che re Rewar –il precedente sovrano della Terra della Notte- l’ha attaccata. In realtà, come saprà chiunque abbia letto le Guerre, il suo scopo è semplicemente quello di impadronirsene, ma i re delle altre Terre non lo sospettano ancora. Dohor in effetti è visto, per il momento, soltanto come un giovane filantropo.

Ovviamente qualcuno è più sveglio; il Consiglio delle Acque è appena nato, e ancora il re della Terra del Sole non sa della sua esistenza. Il ruolo del Consiglio nella guerra della Terra dei Giorni è semplicemente di supporto e di aiuto, per adesso.

La situazione è più o meno questa… La trama comincerà a delinearsi nei seguenti capitoli. Vi promettiamo che gli altri sono meno noiosi XD

A prestissimo,

Josie e June

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Capitolo 2
*** Figlia della Gilda ***


Algeiba si svegliò di soprassalto, ansimante.

Si guardò intorno, e lentamente ricordò che si trovava nel suo alloggio, come ogni notte. Serrò gli occhi e si prese la testa tra le mani, cercando di far rallentare il battito del cuore.

Un altro incubo. Era il terzo in una settimana. Non poteva andare avanti così.

Improvvisamente, si accorse che oltre al suo cuore, c’era un altro rumore martellante nella stanza. Aprì gli occhi e sollevò lo sguardo sulla porta. Stavano bussando da almeno due minuti.

Si alzò dal letto e infilò velocemente la casacca e i calzoni, prima di andare ad aprire stropicciandosi il viso con una manica.

Dall’altra parte della porta stava un ragazzino vestito di nero, biondo e slavato, che non poteva essere molto più piccolo di lei. La ragazza lo riconobbe immediatamente, e il suo cuore fece un altro balzo.

“Che cosa c’è?” gli chiese con freddezza.

“Sua Eccellenza ti ha convocata nel suo studio.” rispose il ragazzino, un po’ infastidito.

Di nuovo, il cuore di Algeiba sussultò. “D’accordo.” disse “Di’ a Sua Eccellenza che sarò da lui tra poco.”

Il ragazzino annuì, e poi sparì nel corridoio.

Algeiba respirò profondamente e chiuse la porta. Cercò a tentoni la candela e lo stoppino, e l’accese con un unico movimento.

Poi l’appoggiò sulla cassapanca, l’unico oggetto d’arredamento nella sua cella oltre al letto, e si sedette sul materasso.

Come non mai, desiderò rinchiudersi dentro quel buco per tutto il giorno.

Ma, ovviamente, non poteva.

Si alzò dal letto, e afferrò gli abiti e la bisaccia. Si vestì velocemente, e una volta finito di allacciarsi il corpetto e di intrecciarsi i lunghi capelli castani, cominciò ad armarsi.

Le sei armi della Gilda erano disposte ordinatamente sulla cassapanca, vicino alla candela.

Algeiba sistemò nella cintura i cinque coltelli da lancio, sul fianco destro, e poi infilò il piccolo arco e la faretra nella sacca a spalla, insieme alla cerbottana. Ficcò il pugnale nell’apposito fodero nella cintola, e le piccole fiale di vetro al sicuro in una bisaccia imbottita. Poi infilò i guanti, e avvolse attorno ai polsi i lanci per strangolare. Infine si legò sul fianco il fodero che conteneva l’elaborata sciabola che usava fin da bambina.

Una volta completata la procedura, Algeiba si sporse sotto il letto per prendere gli stivali. Nel tirarli fuori, la sua mano sfiorò un’asse leggermente sollevata.

La ragazza rimase qualche secondo ad osservarla, indecisa.

Poi la spostò, e ne tirò fuori un libretto piccolo foderato di cuoio, piuttosto spesso e chiuso da una fibbia di ferro. Si sedette a terra, il diario tra le mani, accarezzando distrattamente la copertina.

Erano quattro anni che non ci scriveva. Non avrebbe avuto senso portarlo con lei.

Per qualche motivo, però, si tolse dalle spalle la bisaccia e lo fece scivolare sul fondo, sotto l’arco e la faretra.

Fatto questo, calzò i pesanti stivali, e con cura inserì cinque aghi praticamente invisibili nella stoffa spessa del rivestimento interno, in modo che non le sfiorassero la pelle.

Poi si rialzò, si gettò il mantello sulle spalle, spense con un soffio la candela e infine uscì.

Prese a camminare per i corridoi tetri e asfittici della Casa automaticamente, guardando a terra. Dopo diciassette anni di vita lì dentro… Valeva a dire tutta la sua vita, conosceva ogni più piccolo angolo di quel posto, e le sue gambe ormai la conducevano senza bisogno che fosse lei a guidarle.

L’odore di sangue che impregnava le pareti le fece storcere il naso solo un attimo, prima che ci si abituasse. Come Assassina, avrebbe dovuto piacerle. Ma le era sempre rimasto indifferente. E da quattro anni a quella parte, le dava anche una certa nausea.

Il ricordo di Righel l’aggredì prepotente, confuso con l’incubo di quella notte, e la ragazza serrò gli occhi ancora una volta, cercando di scacciarlo.

Non poteva andare avanti così.

“Algeiba…”

La ragazza si voltò. Una giovane donna alta e bella veniva verso i lei, i lunghissimi capelli rosso intenso legati in una coda di cavallo. Indossava gli abiti degli Assassini, che aveva fatto in modo le lasciassero scoperte abbondanti porzioni di pelle ambrata. Algeiba le sorrise.

“Ciao, Talitha.”

La ragazza le si avvicinò, e anche lei le sorrise un sorriso impeccabile. I suoi occhi a mandorla color miele incrociarono quelli azzurri di Algeiba.

“Cosa ci fai qui?” le chiese la ragazza, prendendo a camminare vicino a lei “Sei andata a pregare?”

Algeiba storse appena le labbra. Molti dei suoi compagni Assassini si alzavano prima per ritirarsi nella Sala delle Piscine a pregare davanti alla statua di Thenaar. Persino Talitha, da quando era entrata nella Gilda a otto anni per aver ucciso la sua sorellina, si era avvinta al culto più di lei. Che eppure, come Figlia di Thenaar, avrebbe dovuto essergli una delle più devote.

Anche se Algeiba tendeva a considerarsi più una Figlia della Gilda, che di Thenaar.

Blasfemia. le fece presente il suo cervello, e la ragazza cercò di rimangiarsi quel pensiero. Senza in realtà riuscirci granché.

“No. Sono stata convocata da Sua Eccellenza, sto andando nel suo studio.”

“Ah davvero?” fece Talitha, sorpresa.

Algeiba non rimase sorpresa dalla sua sorpresa. A diciassette anni aveva compiuto soltanto dieci omicidi, almeno quattro in meno della quota prevista per un Assassino della sua età. E dire che aveva cominciato in anticipo.

“Davvero. E tu dove vai?” chiese a Talitha.

“Anch’io da Sua Eccellenza.” rispose lei, con una certa eccitazione “Forse vuole assegnarci una missione insieme.”

A quel pensiero, Algeiba rabbrividì.

Non che non volesse stare insieme a Talitha; si conoscevano da quando erano bambine, era la sua migliore amica. Ma proprio perché erano cresciute insieme l’aveva vista addestrarsi, e a volte anche uccidere. E il modo in cui lo faceva era così violento, così spietato, così sadico…

“Forse.” si limitò a risponderle.

Non si scambiarono più parola finché non raggiunsero la sobria porta scura che chiudeva la loro meta. Sul legno, era incisa la scritta: Studio privato della Suprema Guardia.

Algeiba esitò, e fu Talitha a sporgersi per bussare.

“Avanti.” dichiarò perentoria una voce dall’interno.

Talitha afferrò la maniglia e spinse la porta.

Algeiba la seguì all’interno, e in quel momento l’uomo seduto dall’altra parte di una lucida scrivania intarsiata sollevò lo sguardo. Aveva un aspetto gradevole e giovanile, nonostante si stesse avvicinando ormai alla quarantina. Aveva la testa coperta di riccioli neri e fluenti, probabilmente più simili a boccoli se li avesse lasciati crescere, e il viso pallido brillava d’intelligenza e passione, nonostante i grandi occhi color ghiaccio fossero totalmente inespressivi.

Sorrise loro con fare paterno, e Algeiba si portò insieme a Talitha i pugni al petto, nel segno di saluto della Gilda. La Suprema Guardia si alzò e aggirò la scrivania con estrema grazia e agilità. Il suo corpo non mostrava minimamente i segni del tempo; avrebbe potuto battere in combattimento chiunque all’interno della Casa.

Algeiba sapeva che ancora, ogni tanto, Yeshol si distaccava dal suo ruolo altolocato per andare personalmente sul campo.

“Ben arrivate, Algeiba, Talitha.” le salutò, portandosi a sua volta brevemente i pugni al petto. “Mi perdonerete per questa sveglia anticipata, spero.”

“Non aspettavo altro, Vostra Eccellenza.” disse immediatamente Talitha, la voce vibrante d’emozione.

A quel punto, Yeshol si voltò verso Algeiba.

La ragazza abbassò il capo. “Ai vostri ordini, Eccellenza.” si limitò a dire.

La Suprema Guardia annuì, e tornò in un lampo a sedersi alla scrivania. “Benissimo. Perché Thenaar necessita il vostro impegno.” disse, prendendo tra le mani due fogli di pergamena.

A quella vista, lo stomaco di Algeiba si strinse.

“Ho un compito per entrambe voi.” spiegò Yeshol, svolgendo uno dei rotoli “E sono entrambi compiti di estrema importanza.”

Algeiba non poté fare a meno di sospirare internamente di sollievo. Talitha non sarebbe stata la sua compagna.

“Prendete questi due Informatori.” continuò l’uomo, riarrotolando la pergamena “Studiateli rapidamente, e siate di ritorno tra due ore, dopo aver compiuto i riti appropriati.” disse poi, porgendone uno per una.

Algeiba prese il suo, e lo strinse al petto. Talitha fremeva vicino a lei.

“Sì, Vostra Eccellenza.”

Si voltarono e mossero qualche passo verso la porta.

“Ah, Algeiba…” la chiamò Yeshol.

La ragazza si voltò di nuovo con aria interrogativa.

“Tu resta. Devo parlarti.” spostò gli occhi su Talitha “Devo dire qualche parola anche a te, ma più tardi. Raggiungimi prima di salire al Tempio.”

Talitha annuì e lanciò uno sguardo all’amica, poi uscì chiudendosi la porta alle spalle. Algeiba represse un sospiro e si avvicinò di nuovo alla scrivania.

Yeshol la guardò dal basso, e incrociò le dita davanti a sé. “E’ evidente, Algeiba, che i tuoi servizi alla Gilda sono stati alquanto limitati, da quando sei qui.” cominciò la Suprema Guardia, e la ragazza abbassò lo sguardo.

Era un discorso che le faceva quasi ogni volta. E non cambiava mai. Che risultati sperava di ottenere, stavolta?

“Ti accordai fiducia quando, quattro anni fa, ti assegnai il tuo primo omicidio nonostante tutto ciò che avevi fatto.” disse con freddezza, e Algeiba dovette stringere i pugni “Hai cominciato ad uccidere con un anno di anticipo rispetto a tutti i tuoi compagni. Eppure, per qualche motivo, non mi sei riconoscente. E non sei riconoscente a Thenaar.”

Algeiba alzò lo sguardo. “Io gli sono riconoscente, Maestro.”

Lo chiamava così soltanto quando erano da soli.

Yeshol la fissò intensamente negli occhi, come faceva quando era bambina e voleva sondare la verità delle sue affermazioni. Era stato lui ad insegnarle tutto quello che sapeva sulla storia del Mondo Emerso e sulla fede verso Thenaar. A volte, anche con le maniere forti.

Probabilmente, Yeshol considerava Algeiba come il suo più grande fallimento.

“Allora non mostri con la dovuta partecipazione la tua riconoscenza.” riprese la Suprema Guardia con la stessa freddezza “Ti ho assegnato molti omicidi di poco valore da quel giorno in avanti, sperando che si scatenasse in te un istinto di rivalsa. Invece ti accontenti, come se non volessi realmente svolgere il compito che sei stata mandata a fare tra noi Vittoriosi.”

Algeiba si morse le labbra, senza distogliere lo sguardo dal suo. Non sapeva davvero che cosa rispondere.

Yeshol rimase in silenzio a lungo, senza smettere di fissarla. “Ma io voglio darti fiducia, Algeiba, ancora una volta. Sono stato io ad istruirti, e voglio credere di non aver sprecato diciassette anni della mia vita. E della tua.” fece un cenno del capo verso il rotolo di pergamena che Algeiba continuava a stringere al petto “Le nostre spie hanno impiegato mesi per cercare il Perdente che dovrai uccidere, e adesso che finalmente l’abbiamo trovato, sarai tu, a fare la volontà di Thenaar.”

Algeiba spalancò gli occhi. “Mi mandate da sola?”

Non era mai uscita dalla Casa da sola. Di solito, Yeshol le assegnava degli Assassini più grandi per accompagnarla… e, essenzialmente, per controllarla.

Yeshol annuì. “Esatto. E’ ora che impari ad essere autonoma. Non posso continuare a trattarti come una bambina.” l’uomo disintrecciò e intrecciò di nuovo le dita, poi la guardò intensamente e riprese: “L’omicidio che ti mando a compiere è forse il più importante che ci sia stato chiesto da un anno a questa parte. Sarà difficile, sarà pericoloso. Se riuscirai a portarlo a termine, saprò che sei una vera Vittoriosa. Se, invece, fallirai…” inarcò le sopracciglia, e sospirò: “In quel caso, saprò che la tua morte non sarà stata altro che un bene, per la Gilda.”

Detto questo si alzò, e si voltò a prendere qualcosa in una scansia alle sue spalle. Algeiba aggrottò le sopracciglia, e gli lanciò un’occhiata d’odio profondo, che era già scomparsa quando la Suprema Guardia tornò a girarsi.

Le porse una limpida ampolla trasparente, chiusa da un tappo e con un denso liquido verde raggrumato sul fondo. “Raccogli il sangue del Perdente per versarlo nelle piscine. Quando l’avrai fatto, sarai davvero una Figlia di Thenaar.”

Algeiba afferrò l’ampolla senza guardarla e senza esitare, e la ripose nella bisaccia imbottita insieme alle fiale di veleno. Poi risollevò gli occhi su Yeshol, e vide che sorrideva.

“Come ho già detto, ho fiducia in te.” disse l’uomo, appoggiandole una mano sulla spalla “Vedi di non deludermi.”

La ragazza sentì la pelle gelarsi sotto le dita di Yeshol. “Non vi deluderò, Maestro.”

Yeshol annuì, e poi la lasciò. Algeiba fece un passo indietro, e si portò di nuovo i pugni al petto, stringendoli forte.

Non posso andare avanti così.

 

_________________________________________

Note:

Questo secondo, breve capitolo introduce uno dei personaggi. Algeiba, Figlia di Thenaar o, come dice lei, della Gilda XD Le vogliamo un gran bene, anche se è una stupida autolesionista.

Vi accorgerete che inizialmente somiglierà un po' a Dubhe -ma va'? XD- ma piano piano prenderà una strada tutta diversa.

Ecco presentata la piccola dolce Assassina armata di sciabola. Presto si uniranno a lei altri personaggi, che si ammassano e fanno a botte per chi entra in scena per primo.

Con calma si presenteranno tutti u.ù

Cerchiamo di aggiornare entro la settimana! Alla prossima,

Josie e June

MonyPurpa: Sei geniale! XD Siamo morte dal ridere.

Beh, sì, Dohor riserverà un gran numero di sorprese nei prossimi capitoli. Abbiamo cercato di svilupparlo nel modo più affascinante e bastardo possibile, per così dire XD Grazie della tua recensione, è un grande incoraggiamento!

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Capitolo 3
*** Sulla strada per Laodamea ***


Taras fissava critico la piccola locanda sulla strada, accerchiato dai suoi compagni.  Tutti sembravano sollevati, lui aveva una smorfia di disappunto dipinta sul viso.

Quella stamberga doveva avere parecchi anni, forse parecchie decine d’anni. Dal tetto mancavano diverse tegole, molte delle quali erano ammucchiate per terra dov’erano cadute. Le pareti dovevano essere state costruite bene, se non altro, perché sembravano piuttosto solide, ma i vetri delle finestre erano evidentemente sudici e trascurati.

Perfino il nome non era un granché; “Sulla strada per Laodamea”, recitava la vecchia insegna, storta in cima alla porta. I proprietari dovevano avere una gran fantasia, non c’era che dire, dato che si trovava sull’unica via di transito che conduceva dalla Terra del Vento direttamente alla capitale della Marca dei Boschi.

Un altro cartello imperava: “Fermatevi ad assaggiare la migliore birra della Terra dell’Acqua!”  

Un po’ datato anche quello, a occhio, visto che quella zona del Mondo Emerso non veniva chiamata così da quasi dieci anni.

Il ragazzo passò lo sguardo su tutti i suoi compagni di spedizione, fino al caporale. Aveva un sorriso piuttosto soddisfatto stampato sulla faccia, e Taras accentuò la sua smorfia.

Evviva.

“Ci fermeremo qui, stanotte!” dichiarò Verton alla truppa, che reagì con un comune sospiro di sollievo e appagamento. Poi il caporale si rivolse a un uomo alto a cavallo, con una folta barba bionda e una calvizie incipiente “Per voi va bene, Consigliere Tèedin?”

Il Consigliere, dall’alto del suo destriero, infilò le dita nella propria fitta lanugine per passarsi una mano sul mento. “Quanto ancora dista Laodamea?” chiese dubbioso.

Verton storse il naso “Almeno un altro giorno di viaggio.” rispose.

Tèedin sospirò. “Suppongo allora che sia bene fermarsi. Immagino che sarete molto stanchi.”

La truppa, escluso Taras, rispose con una serie di decisi mormorii d’assenso.

“D’accordo, allora.” acconsentì il Consigliere, smontando da cavallo. “Passeremo la notte qui.”

La scorta del Consigliere l’acclamò con entusiasmo, e poi tutti si accinsero a preparare l’accampamento all’esterno, mentre Tèedin legava il cavallo vicino all’abbeveratoio ed entrava nella locanda.

Verton fece per seguirlo, ma Taras decise di bloccarlo.

“Signore!” esclamò, camminando velocemente verso di lui con un gran tramestio d’armatura.

Il Caporale si voltò con fare scocciato. Lo squadrò dall’alto in basso, lentamente, e il ragazzo alzò gli occhi al cielo.

Odiava quando qualcuno lo faceva. E lo facevano sempre tutti.

Nessuno mancava mai di esaminare con attenzione i suoi sei piedi buoni, a cominciare dall’alto ed erto ciuffo di capelli blu scuro in cima alla testa, e dalle lunghe orecchie a punta che sbucavano in mezzo alla sua folta e stravagante chioma. Scendevano sempre, poi, sul suo viso giovanile e appuntito da diciottenne, dove, sulla guancia destra, erano evidenti degli illeggibili tatuaggi verde acqua. Proseguivano poi tutti in discesa lungo la parte destra del suo corpo, dove quei simboli si attorcigliavano su loro stessi dalla spalla al braccio, dal torso alla gamba, fino ad arrivare al piede che, per fortuna, era spesso infilato in uno stivale.

A quel punto i loro occhi tornavano sempre su, con impressa la domanda; Perché diavolo si è dipinto la pelle a quel modo?

Solo che Taras non l’aveva mai fatto. O almeno, non che ricordasse. Quei tatuaggi erano sulla sua pelle da quando aveva otto anni, o forse anche da prima. Non lo sapeva.

A dire il vero, Taras non ricordava niente dei suoi primi otto anni, quando era stato trovato da Regolo, un sacerdote della Terra della Notte, sotto le mura di Narbet. E per quanto si sforzasse, non riusciva a tornare più indietro di così.

Taras sapeva bene di avere un aspetto insolito. Ma non gli sarebbe dispiaciuto se, una volta tanto, qualcuno avesse evitato di ricordarglielo.

“Sì?” fece Verton, guardandolo con aria di sufficienza.

Taras dette un’occhiata alla locanda, e poi tornò a rivolgersi al suo caporale “Credete davvero che questo posto sia… adatto per fermarsi?” chiese inarcando le sopracciglia azzurrine.

Verton si produsse in una breve risata molto simile a uno sbuffo. “Perché, soldato, cosa c’è che non va in questo posto?” gli domandò annoiato.

Le sopracciglia di Taras si aggrottarono in un millesimo di secondo. “Perché è vecchio, malandato ed esposto, e nel caso qualcuno tentasse di attaccare il Consigliere Tèedin avrebbe il lavoro facile. E visto che il nostro compito è quello di proteggerlo…”

“Come ti chiami?” l’interruppe il caporale.

Taras rimase qualche secondo in silenzio, attonito. “Taras, signore.”

“Bene, Taras.” riprese Verton, con un ampio movimento del braccio davanti al suo viso “Io ho scortato una lunga serie di personaggi di spicco fino al Consiglio fin da quando è stato istituito, e tutti sono arrivati sani e salvi a Laodamea. C’è un motivo se sono Caporale. E quando vorrò farmi dire da un soldato semplice come svolgere il mio lavoro, di certo non lo chiederò a un eversivo con i capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante. Sono stato abbastanza chiaro?”

Gli lanciò un’occhiataccia, e senza aspettare risposta aprì la porta ed entrò nella locanda.

Taras rimase immobile davanti all’uscio sbarrato, con il viso storto in una nuova smorfia.

Certo. L’eversivo dai capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante.

Inutile spiegargli che era un Cavaliere di Drago fuggito proprio sotto il naso di Dohor dall’Accademia di Makrat a sedici anni, e che da allora aveva combattuto più battaglie nella Terra dei Giorni di quante un qualsiasi ragazzo della sua età avrebbe potuto sopportarne. Inutile aggiungere che, nel caso non se ne fosse accorto, non ci teneva affatto ad essere lì, e l’unico motivo per cui si era unito a quella spedizione era perché gli era stato chiesto direttamente dal Generale dell’Accademia dei Cavalieri di Drago Endacril Parascheuazo, che era stato il suo maestro per più di tre anni. E che l’unico motivo per cui aveva accettato era rientrare dalla zona di stallo della Terra del Vento, in cui era stato costretto a rimanere per due mesi e senza il suo drago, a Laodamea, per chiedere il permesso di ritornare sul fronte della Terra dei Giorni.

No, qualunque cosa dicesse e qualunque cosa facesse della sua vita, lui sarebbe sempre stato l’eversivo dai capelli blu e il corpo pitturato come un teatrante.

“Fantastico.” mormorò alla porta chiusa.

Poi, deciso a non indugiare oltre, si voltò e raggiunse i suoi compagni per preparare l’accampamento.

 

 

Algeiba era seduta, incappucciata, davanti a una fumante scodella di minestra di verdure che non aveva degnato di uno sguardo.

Era da un bel po’ che era lì, appoggiata con i gomiti al tavolo, la testa piegata a leggere il foglio di pergamena steso sulle sue ginocchia. Quell’Informatore era stato srotolato così tante volte che adesso rimaneva svolto senza problemi.

Aveva impiegato un mese ad arrivare nella Terra dell’Acqua, o più precisamente nella Marca dei Boschi. Aveva preso la strada più lunga, quella attraverso la Terra del Fuoco, delle Rocce e del Vento, perché Yeshol le aveva detto che sarebbe stato pericoloso attraversare la Grande Terra. Algeiba non aveva chiesto il perché; aveva capito che non pagava.

Perciò si era limitata ad obbedire.

A cavallo ci aveva messo relativamente poco. E adesso stava seduta a quel piccolo tavolo in quella vecchia locanda, chiamata in modo strano. Sulla strada per Laodamea. L’aveva trovato piuttosto banale quando l’aveva letto, ma a quanto pareva il nome non scoraggiava i suoi avventori; la taverna, che pur si sviluppava su un piano sotterraneo e un robusto soppalco di legno, era praticamente piena.

I clienti erano per lo più mercanti in viaggio o messaggeri, e, nell’angolo più lontano da lei, c’era un’allegra e chiassosa tavolata di soldati in armatura.

Le piaceva guardare le altre persone non vista, soprattutto quando sembravano felici a quel modo. Ma il vero motivo per cui era entrata lì era raccogliere qualche notizia. Ancora non aveva chiesto niente; avrebbe aspettato la sera tardi, quando la taverna sarebbe stata semivuota.

La ragazza si riscosse, e appoggiò la guancia alla mano guantata, riprendendo a leggere.

Scorse velocemente, per l’ennesima volta, i punti del suo Informatore. Anche se ormai l’aveva imparato a memoria, concentrarsi sui dettagli tecnici l’aiutava a non pensare.

Per l’ennesima volta, posò lo sguardo sullo schizzo della vittima, e incrociò i suoi occhi. Era buffo come la sua mente trasformasse la sua espressione neutra in una d’accusa, e colorasse quel disegno in bianco e nero di colori estremamente reali. La pelle pallida, i capelli corvini spettinati, il viso giovanile, e dei profondi e grandi occhi blu. Così almeno diceva la scheda, anche se, ad essere precisi, non faceva accenno alla profondità degli occhi della vittima. Quello era tutto un gioco della mente di Algeiba.

La ragazza fissò per qualche altro secondo il viso del giovane, e spostò lo sguardo sulla piccola parola criptata vicino al disegno. Diciannove anni, solo due in più di lei.

Chissà cos’aveva fatto per tirarsi addosso le ostilità della Gilda. Di sicuro qualcosa di enormemente stupido.

Ad un tratto un’ombra si parò sul tavolo, e con un breve sussulto Algeiba fece sparire l’Informatore nella tasca del mantello.

Alzò lo sguardo, e incrociò quello alticcio di un grosso soldato appartenente alla compagnia che aveva osservato poco prima, e di cui adesso i componenti si davano di gomito ridendo a squarciagola.

Ma che diavolo…?

 

 

Taras stava appoggiato contro la porta da ormai tre ore.

Il suo compagno di guardia, Nes, l’aveva scaricato circa venti minuti dopo l’inizio del turno, mandando con enfasi il lavoro a farsi maledire, e esortandolo a scendere con lui a farsi una birra.

Taras aveva declinato gentilmente. Primo, dubitava che le intenzioni di Nes si limitassero a una birra. Secondo, di conseguenza, non ci teneva affatto a ubriacarsi con i suoi compagni di scorta. E terzo, per quanto inutilmente, qualcuno a fare sul serio la guardia ci doveva rimanere.

E visto che, ovviamente, quelli che dovevano dargli il cambio non si erano fatti vedere, Taras era rimasto lì fuori, da solo, al freddo.

Il ragazzo strofinò le mani l’una con l’altra e poi ci soffiò dentro, cercando di riscaldarsi, senza in realtà molto successo. Sciolse le gambe e inarcò le spalle, che stavano cominciando a fargli male per il peso della spada legata sulla schiena.

Taras si dette uno sguardo dietro, pensando a quando Regolo gliel’aveva regalata. Era uno spadone a due mani, con la lama azzurra che sembrava emanare luce propria, e l’elsa cesellata di uno strano materiale trasparente simile ad ambra, e di lucide pietre bianche. Regolo l’aveva chiamata Abissea, perché veniva dal Mondo Sommerso.

Taras invece non la chiamava. Si limitava a usarla, e a considerarla come il più bel ricordo di suo padre.

Fece uno sbadiglio, e chiuse gli occhi. Era dura essere come lui. E non soltanto perché aveva i capelli blu e segni verde acqua su tutta la parte destra del corpo; era dura essere l’unico con un po’ di forza di volontà e responsabilità di un gruppo di circa venticinque persone, compreso quello che avrebbe dovuto essere il suo superiore. Era dura perché spesso finiva così; con lui da solo e il resto della compagnia da qualche parte a spassarsela.

Sbuffò sonoramente, e lanciò un’occhiata alla ripida scala di legno che conduceva alla taverna nel sotterraneo della locanda.

Scosse la testa, raddrizzò la schiena e riprese a guardare la strada. Ma non ci volle molto perché i suoi occhi venissero attratti di nuovo verso il chiasso e la luce calda del piano di sotto.

Così sospirò, e si tolse uno degli spessi guanti di cuoio. Si guardò intorno con circospezione, e poi sussurrò:

“Inwert megra Tèedin dleìll.”

Una soffusa luce violacea si sprigionò dalle punte delle sue dita e si diresse luccicando verso le mura, che sembrarono assorbirla. Per un attimo le pietre delle pareti si colorarono di viola, ma fu un lampo così breve che nessuno avrebbe potuto esserne sicuro.

Un buffo senso di colpa s’impadronì di Taras. Non sapeva perché, ma quando usava la magia aveva sempre l’impressione di stare sbagliando. Era una cosa che faceva fin da quando era bambino; quando aveva bisogno di pronunciare un incantesimo le sue mani sembravano fare tutto da sole. Ma funzionava praticamente sempre.

Aveva formulato quell’incantesimo in modo che, se si fosse avvicinato alla locanda qualcuno con cattive intenzioni nei confronti del Consigliere, lui lo sapesse immediatamente.

Una sorta di campanella che mi suona nella testa, pensò il ragazzo, ricordando con un sorriso il metodo simile che usava da bambino quando suo padre lo lasciava solo in negozio.

Fece un altro sospiro e poi, combattendo il disprezzo per se stesso e il senso di colpa, cominciò a scendere le rumorose scale di legno.

Si ritrovò in un ambiente caldo e accogliente, gremito di persone che si muovevano da una parte all’altra e invaso dall’odore amaro della birra.

Prima che avesse il tempo di individuare i suoi compagni, qualcuno gli passò con forza una mano intorno alle spalle e lo spintonò.

“Guardate chi ci ha raggiunto!” gridò Nes un po’ troppo forte, con in mano un grosso boccale di birra.

Un allegro clamore si levò da una lunga tavolata proprio davanti a Taras, e una buona parte dei venticinque soldati in armatura sedutivi attorno levarono il bicchiere verso il ragazzo.

Molti altri gli batterono vigorose pacche sulle spalle che lo fecero sprofondare di diversi pollici sul pavimento di legno.

“Taras si unisce a noi, gente!” urlò di nuovo Nes, spingendolo a sedere su una panca, accanto a un grosso soldato dal viso paonazzo di cui Taras non ricordava il nome, ma che l’abbracciò con vigore.

“Tieni, capelli blu!” esclamò in tono gioviale, sbattendogli il suo boccale di birra sotto il naso “Fatti una pinta!”

La tavolata scoppiò a ridere a crepapelle, e Taras tentò di sorridere, imbarazzato.

“Io veramente…”

“Non fare il guastafeste!” esclamò il tizio dal faccione rubicondo “Ingoia e dimentica i problemi!” aggiunse poi, prima di rovesciare una buona metà del boccale nell’esofago di Taras.

Il ragazzo tossì e ne sputò una buona parte, mentre il resto della compagnia continuava a ridere sguaiatamente. Si pulì la bocca con la mano, e ansimò un:

“Grazie…”

“Figurati!” esclamò l’omone ridendo “Ma non ti aspettare altra carità, solo la prima prova è gratis! Perciò muovi le tue gambine da cicogna e fila al bancone, se ne vuoi ancora!”

Taras stava per ribattere, ma Nes l’afferrò per un braccio e lo fece alzare di nuovo.

“Sì, io e Taras andiamo a prendere altra birra! Chi vuole fare un altro giro?”

Praticamente tutti alzarono la mano. Prima che potesse rendersene conto, Taras veniva di nuovo trascinato da Nes, che lo faceva rimbalzare con qualcuno ogni due passi, stavolta verso il bancone.

Una volta raggiunto, Taras tirò un sospiro di sollievo. Nes sbatté violentemente una mano sulla superficie di legno e la locandiera, una signora di mezza età ben in carne, si voltò verso di lui con un sopracciglio inarcato.

“Sì?” chiese svogliatamente.

Taras si chiese quante volte, nella sua vita, si fosse trovata a dover discutere con un ubriaco.

“Altra birra per me e per il mio amico!” esclamò Nes, circondando di nuovo le spalle di Taras con un braccio “E per tutti i miei amici laggiù!” aggiunse poi, indicando l’allegro e dissoluto tavolo della scorta del Consigliere Tèedin.

La donna alzò anche l’altro sopracciglio. “Mi spieghi poi chi paga tutta questa roba?”

“Offre tutto il Consigliere Tèedin!” rispose immediatamente Nes, con un grosso sorriso.

La locandiera non sembrava molto convinta. Ma in men che non si dica fece scivolare due grossi boccali di birra sul bancone verso Nes e verso Taras, e dispose gli altri venti su un enorme vassoio che si caricò su un fianco. Aggirò il bancone e si fece con grazia strada tra la folla, diretta al tavolo.

Nes si sedette su uno degli sgabelli lungo il bancone, tracannò subito una buona parte del suo boccale, e poi guardò Taras. Aprì bocca per dire qualcosa, ma prima che potesse farlo, il ragazzo agguantò la sua birra e bevve qualche sorso.

L’altro gli sorrise soddisfatto. “E bravo Taras! Sai, sapevo che non eri così rigido come sembravi, anche se quella volta, quando volevi che non ci fermassimo alla locanda perché era pericoloso sono stato vicino a crederlo!”

Taras lo guardò un po’ preoccupato. “Era oggi, Nes.”

Il ragazzo sbatté gli occhi un paio di volte, confuso. “Ah, sì? Allora sei cambiato in fretta!” esclamò poi, tornando alla solita allegria “Sai, mi ricordo del cambiamento più veloce che ho fatto, una volta, quando ho mangiato delle bacche velenose, era circa due anni fa, o forse tre, comunque, quella volta…”

Taras smise di ascoltarlo quasi subito. Bevendo lenti sorsi dal suo boccale di birra lasciò vagare lo sguardo intorno alla stanza strapiena di gente.

Quasi si stentava a credere che tutte quelle persone potessero entrare in un posto solo. Non soltanto il pianoterra era affollatissimo, ma anche il grosso soppalco che percorreva le alte pareti straripava di persone.

Taras vide un sacco di commercianti che parlavano di affari, un gran numero di ubriaconi attaccabrighe –si capiva perché le zone attorno a loro erano le uniche vuote della stanza-, messaggeri che viaggiavano di Terra in Terra portando missive, molti abitanti evidentemente del posto –riconoscibili dall’abbigliamento meno impegnato degli altri-, magari provenienti da un villaggio vicino, e giovani, adulti e vecchi di tutte le fogge.

Quello che però Taras notò, era che, oltre alla locandiera, non c’era neanche una donna. Aggrottò le sopracciglia, pensando che fosse impossibile. Di solito nei posti come quello c’era sempre qualche prostituta pronta ad allietare il viaggio degli avventori.

Beh, non che a lui importasse, a dire il vero. Ma il fatto che, con tutta quella gente, non ci fosse neanche…

Eccone una. Credo…

Lo sguardo di Taras si era soffermato su una figura incappucciata seduta in un angolo e che, per qualche motivo, era stata invisibile per lui fino a quel momento. Un mantello nero la copriva dalla testa ai piedi, lasciando intravedere solo delle labbra carnose e un mento liscio evidentemente femminile. Non fosse stato per quel piccolo particolare, sarebbe sembrata soltanto un uomo molto piccolo.

Si guardò intorno, cercandone magari altre vestite a quel modo, ma sembrava davvero esserci solo lei.

La donna aveva il capo abbassato sul petto e a stento si muoveva. Forse era addormentata.

Per qualche ragione, Taras non riusciva a staccare lo sguardo da lei. Adesso che l’aveva notata, avvertiva una sensazione strana. Un misto di inquietudine e curiosità.

“Ah, che occhio!” esclamò improvvisamente Nes molto, molto vicino al suo orecchio.

Taras sussultò, e per poco non si rovesciò tutta la birra addosso. Aveva vagamente sentito il compagno farneticare di qualcosa come l’aver perso trenta libbre in due giorni, ma a quanto pareva si era accorto che non lo stava ascoltando e aveva seguito il suo sguardo.

“L’hai notata subito…” fece il ragazzo allusivo, tirandogli una gomitata “L’unica ragazza del locale. Beh, a parte la taverniera, ma lei è…” Nes aprì la bocca in una smorfia e scosse velocemente la testa. Taras intuì che era un brivido di disgusto. “Non ce ne sono altre perché, a quanto pare, questo è il periodo in cui la Dea delle Acque ha fatto qualcosa in qualche posto, ed è tradizione che in quest’occasione le donne rimangano a casa.” spiegò confusamente “Sfortuna, eh? Comunque, l’abbiamo vista anche noi. Cioè, non subito, ma a forza di cercarne una l’abbiamo beccata. Sai, prima stavano scommettendo su chi sarebbe riuscito a guardarle sotto il cappuccio e sotto…”

Nes scoppiò a ridere, e poi all’improvviso si accasciò sul bancone. Taras lo fissò per qualche secondo, spaventato, prima che il suo compagno prendesse a russare sonoramente.

Scosse la testa con un sorriso, e si voltò di nuovo a guardare la figura incappucciata seduta nell’angolo più lontano dal bancone, cercando di capire perché si fosse coperta a quel modo.

Improvvisamente, un rumore alla sua sinistra attirò la sua attenzione. Uno dei suoi compagni, quello grosso che gli aveva fatto tracannare la propria birra, si era appena alzato un po’ traballante dal tavolo, e si faceva strada verso la parte di stanza dove si trovava la ragazza.

Quando si avvicinò un po’ di più, Taras capì che stava andando proprio verso di lei.

Oh-oh…

A quanto pareva qualcuno aveva accettato la sfida.

Fece appena in tempo ad alzarsi dallo sgabello che il grosso tizio l’aveva raggiunta, e le si era parato di fronte, con le mani sui fianchi e il bacino pericolosamente inarcato.

Adesso sì che Taras si ricordava come si chiamava.

“Maledizione, Argogas!” gridò esasperato, spintonando gente a destra e a manca per raggiungere il tavolo.

Aveva la netta sensazione che la sua popolarità nella compagnia stesse di nuovo per calare vertiginosamente.

 

 

Algeiba fissò dal basso quell’energumeno con una brutta sensazione d’inferiorità.

“Che cosa?” chiese attonita per la seconda volta, aggrottando le sopracciglia sotto il cappuccio.

“Sei sorda, tesoro? Ti ho chiesto se vuoi ballare con me…” biascicò di nuovo il tizio, con un’espressione che non le piaceva per niente.

Algeiba si guardò intorno di nuovo, ma non sentiva nessuna musica. “Ballare? Sentite, io…” 

“Che, fai la schizzinosa, piccola? Andiamo... Se non ti va di ballare possiamo andare direttamente a…”

“Non toccarmi.” gl’intimò Algeiba, guardando con freddezza la grossa mano che l’uomo le aveva posato sul braccio.

Cominciava a capire, e la cosa le piaceva sempre meno.

“Che caratterino!” commentò lui, ridendo in modo osceno “Scommetti che ti faccio cambiare idea?”

La tirò in piedi, e il cappuccio le scivolò dal viso.

L’uomo si voltò a guardarla. “Oh, sei anche carina. Si prospetta una bella serata…” rise di nuovo, fiatandole in faccia un’alitata di birra, e con il braccio libero la indicò alla tavolata di soldati “E la prima parte dei soldi è già mia!”

Sempre ridendo cominciò a trascinarla via dal tavolo. Algeiba oppose resistenza, e con un lesto movimento del braccio si liberò dalla sua presa.

L’uomo si voltò a guardarla con gli occhi spalancati. “Ma come…?”

Fece per riafferrarla, ma Algeiba fece un passo indietro. Si dette della stupida. Non avrebbe mai dovuto entrare lì dentro.

“Per favore, lasciami in pace.” gli chiese con voce velatamente intimidatoria.

Non costringermi a farlo.

All’uomo non sfuggì il tono di minaccia. “Come osi, sgualdrina?” sibilò, avanzando di nuovo verso di lei.

Levò il braccio come a volerle tirare uno schiaffo, e la ragazza si preparò a difendersi.

Improvvisamente, un lampo blu.

Algeiba fece un passo indietro, e si trovò davanti le spalle di un ragazzo. Alto, asciutto e… con i capelli blu.

Con una velocità incredibile il ragazzo bloccò la mano dell’energumeno, e si parò davanti a lei con fare protettivo.

“Ma che accidenti pensi di fare, bamboccio?” farfugliò furioso l’altro.

“Non credi di avere esagerato, Argogas?” disse il ragazzo con voce tranquilla ma ferma, senza muoversi da dov’era.

“Tu non puoi certo dirmi quando ho esagerato, hai capito, razza di marmocchio multicolore? E adesso togliti di mezzo, se non vuoi che ti prenda a calci!” ringhiò l’energumeno di nome Argogas, e fece un passo avanti per scostarlo.

Come aveva fatto Algeiba, il ragazzo indietreggiò, facendo arretrare anche lei. Le sue spalle s’irrigidirono davanti alla ragazza, e fu con estrema freddezza che disse:

“Non siamo qui per dare spettacolo.”

L’energumeno divenne paonazzo, e sembrarono uscirgli gli occhi fuori dalle orbite. “Che problema hai, mostro? Ho detto togliti di mezzo!

Mosse un altro feroce passo in direzione del ragazzo, ma prima che potesse raggiungerlo, lui caricò e gli assestò un violento pugno sulla mascella.

Argogas cadde a terra come un sacco di patate, e il ragazzo scrollò la mano.

“Ahia…”

Solo allora, alzando lo sguardo, Algeiba si accorse che tutte le persone nel locale si erano zittite, e li fissavano.

Addio copertura.

Quasi subito, altri due soldati della tavolata dell’energumeno chiamato Argogas si alzarono per aiutarlo a tirarsi in piedi. Lui da solo non ci riusciva; le opzioni erano due. O era troppo ubriaco e stordito per farlo, oppure non lo era poi così tanto.

I due soldati lo presero da sotto le ascelle e lo sollevarono, poi, guardando Taras di sbieco, lo trascinarono di nuovo al tavolo.

Nel frattempo, piano piano, il frastuono si era rimpadronito della taverna. Doveva essere una cosa che capitava spesso.

Una volta che il gruppo di tre soldati fu definitivamente fuori portata, il ragazzo si voltò verso di lei. Algeiba spalancò gli occhi.

Era decisamente il ragazzo più strano che avesse mai visto.

Oltre alla chioma blu, aveva pallidi segni verde acqua che dalla guancia s’intersecavano su tutta la parte destra del corpo, e due buffe orecchie a punta che gli sbucavano in mezzo ai capelli. Ma –ed era tutto dire- erano i suoi occhi la cosa più interessante e bizzarra; grandi e leggermente allungati, a prima vista sembravano grigi. Ma bastava che sbattesse le palpebre che la tonalità cambiava, e Algeiba contò una quantità incredibile di sfumature e colori. Azzurro, blu, verde, miele, marrone, persino indaco.

Ma da dove viene questo tizio?

“Uff… E io con quel tipo ci devo passare ancora ventinquattr’ore.” sbuffò il ragazzo, massaggiandosi la mano. La guardò, e dischiuse le labbra carnose in un sorriso. Il suo volto sembrò illuminarsi. “Scusalo.” disse poi, stringendosi nelle spalle “Di solito non è così…” esitò “Ubriaco. Tu stai bene?”

Algeiba spalancò gli occhi e sbatté le palpebre. L’aveva salvata, si preoccupava che stesse bene…

“Sì.” rispose, annuendo con decisione “Grazie…”

Quella parola le scivolò sulla lingua con una consistenza nuova. Come se fosse la prima volta che la pronunciava davvero.

“Figurati. Rimpiango solo di non aver usato i guanti dell’armatura per prenderlo a pugni. Quel tizio ha una mascella davvero dura.” commentò, scuotendo ancora una volta la mano. Poi la guardò con le sopracciglia aggrottate “Mi spieghi solo perché te ne vai in giro incappucciata a quel modo?” chiese improvvisamente “Qualcuno potrebbe pensare male… Io l’ho fatto.” aggiunse poi, stringendosi nelle spalle un po’ imbarazzato.

Algeiba si guardò furtivamente intorno, con una gran voglia di tirarsi su il cappuccio. Ma ormai il danno era fatto.

Perciò meglio che s’inventasse una scusa alla svelta.

“Per i tipi come quello, in realtà.” mentì, accennando appena col capo verso l’altra parte del locale.

Il ragazzo spalancò un attimo gli occhi dal colore indefinibile, e poi abbassò lo sguardo. “Hai ragione. Mi scuso per tutti i cattivi pensieri che ho avuto su di te.” le sorrise.

Scommetto non erano neanche lontanamente cattivi abbastanza.

Il ragazzo si voltò un attimo verso la tavolata di soldati a cui probabilmente apparteneva. Tutti lo fissavano in cagnesco, e lui sostenne con fierezza i loro sguardi finché non si voltarono, confabulando. A quel punto il ragazzo abbassò il suo, rabbuiandosi.

“Io sono Taras, comunque.” si riscosse poi, porgendole la mano.

Algeiba la strinse automaticamente, e la stoffa dei suoi guanti venne a contatto con la pelle di Taras.

“Sei un Cavaliere?” chiese la ragazza, prima che avesse il tempo di mordersi la lingua.

Taras spalancò gli occhi ancora una volta, colpito. Probabilmente non si spiegava come avesse fatto Algeiba ad intuirlo. Ma oltre al fatto che aveva, sul dorso delle mani, evidenti cicatrici provocate dalle redini delle selle da drago, sul pettorale della sua armatura era impresso lo stemma della Terra del Sole, a malapena riconoscibile. Era innaturalmente sbiadito e consumato, come se fosse stato grattato via.

“Sì…” mormorò dopo un po’, guardandola stranito “Cioè, per il momento mi limito a fare da scorta ma… Sì, ho un drago. Da qualche parte.”

Si sedette, continuando a fissarla attonito e allo stesso tempo divertito.

La ragazza lo guardò indecisa.

Sarebbe stato necessario andarsene, e di corsa. Ma se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe attirato ancora di più l’attenzione.

E poi, quel ragazzo era davvero curioso.

Così si sedette di fronte a lui.

“E tu ti chiami...?” proseguì il Cavaliere di nome Taras, interessato.

Algeiba.

“Fanela. Figlia di Lao.” rispose.

“E cosa sei?” rise il ragazzo.

Algeiba pensò ai propri guanti, e disse: “Una filatrice. Sono di Loos.”

Il Cavaliere sorrise di nuovo. “Loos… Non è molto lontana da qui. E che ci fa una ragazzina come te in viaggio da sola?”

Ragazzina?

Algeiba inarcò un sopracciglio. “Devo prendere degli accordi a Laodamea. Per mio padre.”

Taras si rizzò sulla sedia. “Vai a Laodamea?” le chiese allegro “Anche noi, sai? Se vuoi…”

“Grazie.” si affrettò ad interromperlo Algeiba “Ma non penso che con il tuo amico…”

Di nuovo, il ragazzo sembrò imbarazzato. “Ah. Sì. Scusa.” fece una breve pausa “Sappi che non è mio amico.” aggiunse poi.

Lei aggrottò le sopracciglia. “Perché no?”

Il Cavaliere esitò. “Beh… Sostanzialmente per le cose come quella che è successa prima. E poi non andiamo troppo d’accordo in genere.” disse guardando il tavolo.

“E come mai?” chiese ancora Algeiba.

Taras alzò gli occhi su di lei. “Fai un sacco di domande.”

La ragazza si riscosse. Aveva ragione.

Ma che accidenti sto facendo?

“Scusa, io…”

“Non preoccuparti.” l’interruppe il ragazzo, con un nuovo sorriso “E’ che, sai… Come puoi vedere sono un tipo piuttosto…” esitò, come cercando la parola adatta “Diverso.” tagliò corto, scrollando le spalle “E questo non va a genio a tutti.” aggiunse con amarezza.

“Capisco.” mormorò immediatamente Algeiba.

I loro sguardi s’incrociarono, e per un fugace attimo, negli occhi del Cavaliere la ragazza vide qualcosa. Stupore, comprensione, affinità.

Si sentì improvvisamente messa a nudo. Abbassò lo sguardo.

“Dev’essere difficile.” aggiunse in fretta.

Il ragazzo scosse la testa. “Non così tanto.” sorrise “Ormai ci ho fatto l’abitudine.” dette un’occhiata intorno “Per esempio, adesso ci stanno fissando tutti.”

Sì, anche Algeiba se n’era accorta. Seguì brevemente gli occhi di Taras intorno alla stanza, poi tornò a guardare lui.

Inarcò un sopracciglio. “Non pensi che sia perché hai appena preso a pugni un tizio?”

Taras sorrise. “Dici che l’hanno notato?”

La ragazza scoppiò a ridere. Poi chiuse di scatto la bocca, sentendosi stupida.

Non era così divertente.

“Il punto è mi succede spesso di sentirmi osservato.” concluse il Cavaliere, stringendosi nelle spalle.

Algeiba prese fiato. “E come mai sei…?”

Il Cavaliere la guardò. Lei ammutolì.

“Scusa. Non dovevo chiedertelo.”

Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui lei tenne lo sguardo basso.

Ti stai mettendo nei guai. Vattene.

Risollevò gli occhi, e quando lo fece, il Cavaliere tentò un altro sorriso.

“Non preoccuparti.”

Algeiba era sicura che si sarebbe fermato lì, invece lui continuò:

“Sono nato così, o almeno è ciò che mi hanno detto.” disse quella frase in modo strano, perso. Poi le fece un altro sorriso “Anche tu hai qualcosa di strano, però.”

Algeiba si sentì raggelare. “Io? Che cosa?”

Taras scrollò le spalle. “Beh, per prima cosa hai… Quanti anni hai?”

“Diciassette.”

Credo.

“Beh, hai diciassette anni e te ne vai in giro da sola di notte… Senza offesa, ma conosco poche ragazze a cui sarebbe permesso.” concluse il Cavaliere di Drago, e Algeiba avvertì nel suo tono una leggera nota indagatrice.

Pensò in fretta. “Non muoio dalla gioia nel farlo.” rispose “Ma siamo solo io e mio padre. E lui è troppo vecchio per spostarsi.”

“Capisco.” annuì il ragazzo “Mi spiace. Anche a casa mia eravamo solo io e mio padre… Più o meno.” aggrottò le sopracciglia, come riflettendoci.

Cosa vuoi dire?

Fortunatamente, stavolta la ragazza riuscì a mordersi la lingua prima di aprire bocca.

“Non è tutto qui, comunque.” riprese il Cavaliere “Sei particolarmente… curiosa per essere una filatrice.” commentò, come se fosse nella sua testa.

Algeiba lo guardò stupita. “Le filatrici non sono curiose?”

“No… E’ che…” Taras sembrava imbarazzato.

Una volta tanto, era lui a desiderare di rimangiarsi le proprie parole.

“Insomma, suppongo di sì. A quanto pare.” disse infine “Ma conosco studiose meno sveglie di te.” aggiunse poi, come a voler riparare alla figuraccia.

Algeiba sorrise. “E’ un complimento?”

“Suppongo di sì.” ripeté lui, rispondendo al suo sorriso. “Perché non togli il mantello?” fece ad un tratto. “Sembra pesante.”

Algeiba si morse il labbro inferiore. Lo faceva sempre quando era nervosa. E la tradiva sempre.

“Ho freddo.” buttò lì.

Il Cavaliere, che aveva le guance paonazze per il caldo, inarcò un sopracciglio.

“Da dove vieni?” si affrettò a chiedere Algeiba “Dall’Accademia dei Cavalieri di Drago di Makrat, vero?”

Il ragazzo sembrò irrigidirsi. Esitò. “…No.”

L’Assassina aggrottò le sopracciglia. “Dalla Terra del Mare, allora.” fece, poco convinta.

Perché allora ha lo stemma della Terra del Sole sul pettorale?

“Nemmeno.” rispose il Cavaliere.

“Ma… Non ci sono altre Accademie di Cavalieri nel Mondo Emerso, che io sappia.” osservò confusa.

“Infatti.” ribatté Taras, improvvisamente schivo. “A dire la verità non vengo da nessun’Accademia.” rimase qualche secondo in silenzio “E’ complicato.” disse infine, in risposta allo sguardo interrogativo della ragazza.

“Perché?” non poté fare a meno di domandare Algeiba.

Taras rise, e sospirò. “Fai davvero un sacco domande. Sei nervosa?” chiese poi all’improvviso.

Algeiba raggelò. “Io? Nervosa?” fece, senza accorgersi di aver detto qualcosa del genere poco prima.

“Non hai toccato cibo.” replicò il Cavaliere, alludendo al piatto di minestra di fronte a lei, completamente intatto “C’è qualcosa che non va?”

“No, sto bene.”

Maledizione.

Non solo era ansiosa, ma a quanto pare non riusciva neanche a nasconderlo. Doveva darsi una regolata.

“Non temere.” le sorrise Taras, rassicurante “Nessuno è obbligato a credere a una divinità solo perché lo fanno gli altri.”

Algeiba spalancò gli occhi, con una fitta allo stomaco. Il suo cuore accelerò il battito.

“Come, scusa?” mormorò con voce spezzata.

“Mi dispiace.” fece il Cavaliere, schiarendosi la gola “Non volevo insinuare niente. E’ solo che so che in questo periodo c’è l’esaltazione della Dea delle Acque per la creazione del Saar, e le donne tradizionalmente rimangono a casa. Pensavo che, visto che tu… Insomma, sei fuori… “ s’ingarbugliò “Magari non fossi una fedele. Ma probabilmente ci sono modi di venerarla anche senza chiudersi in casa, di sicuro ne so meno di te…” abbassò lo sguardo “Mi dispiace, non volevo.” ripeté.

“No, io…”

Si morse di nuovo le labbra.

Maledizione.

Non aveva niente da fare lì. Si stava intrattenendo a parlare con un Cavaliere di Drago, qualcuno che poteva arrestarla da un momento all’altro. Faceva domande. Si mostrava nervosa. Sbagliava a mentire.

La copertura era saltata, non avrebbe potuto raccogliere le informazioni che le servivano.

Che diavolo ci faccio qui?

Improvvisamente, le tornarono in mente le parole di Yeshol. Le risuonarono nella testa come se fosse stato lui a sussurrargliele nell’orecchio.

“Nessuno deve vederti a volto scoperto. Nessuno, all’esterno della Casa. A costo di fare una strage devi eliminare qualsiasi testimone. Nessuno può conoscere i tuoi lineamenti e continuare a vivere.”

Taras l’aveva vista. Tutto il locale l’aveva vista in faccia. Doveva ucciderli.

Dovrei ucciderli.

Avrebbe dovuto ucciderli.

“Dove vai?” chiese il Cavaliere, allarmato, quando la ragazza scattò in piedi.

“Fuori.” tagliò corto Algeiba, prima di farsi strada con agilità verso l’uscita.

Raggiunse il fondo delle scale, le salì a due a due e uscì nella notte. Mentre camminava spedita alzò lo sguardo verso il cielo.

Rubira, la stella di Sangue, splendeva luminosa sopra la sua testa, come un occhio sempre vigile. L’occhio di Thenaar. L’occhio della Gilda.

E l’accusava.

Si guardò alle spalle. Un piccolo gruppo di soldati stava uscendo dalla locanda, ma tra di loro non c’era il Cavaliere.

Addio, Taras, pensò, prima si sparire nella foresta.

 

 

Taras rimase a fissare l’uscita, stordito, per qualche secondo. Ma che accidenti le era preso?

Ho detto qualcosa di sbagliato?

Forse aveva toccato un nervo scoperto. No, evidentemente l’aveva fatto. In un attimo la freddezza della ragazza era sparita, ed era scappata come un ladra. Fuori, aveva detto. A prendere aria?

Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla superficie liscia del tavolo, sul piatto di minestra che Fanela non aveva ancora toccato.

Evidentemente sì.

Gli sfuggì un sorriso.

Quella ragazza era davvero strana. Ma uno strano piacevole. Strana come…

Come me.

Era stato un momento. Un secondo fugace, eppure così intenso. Quell’attimo in cui lei aveva detto che lo capiva, e i loro sguardi si erano incrociati.

Era stato come se gli occhi della ragazza –di un azzurro così puro e allo stesso tempo così torbido, come le acque del Saar- all’improvviso fossero diventati da glaciali a trasparenti, come un’onda che passa e, per un secondo, tornando indietro, lascia visibile il fondo. In quell’attimo, era stato come se gli occhi di Fanela gli avessero aperto la sua anima.

E in quell’attimo, Taras aveva sentito un incredibile senso di familiarità. Aveva letto in quell’azzurro un’intimità e una comprensione mai provata prima, e qualcosa, da qualche parte nella sua testa, gli aveva detto:

Lei è uguale a te.

Poi, l’attimo era finito, e si era sentito stupido ad averlo soltanto pensato. Ma il ricordo di quella breve scintilla continuava a ripresentarsi nella sua mente a intervalli regolari, come se non volesse lasciarlo in pace, e gli faceva desiderare di riuscire a scorgerla ancora.

Si riscosse e alzò lo sguardo.

Fanela se n’era andata da almeno cinque minuti. Spostò gli occhi sul tavolo dei suoi compagni, e considerò che almeno, avevano smesso di fissarlo.

Il giorno dopo sarebbe stato davvero divertente, non c’era dubbio.

Improvvisamente, si rese conto di una cosa. Attorno alla tavolata c’erano tutti. Ma mancava una figura alta e imponente, che circa cinque minuti prima era accasciata mollemente sul tavolo.

Oh no…

Si alzò in piedi di scatto e si guardò intorno. Ma non era da nessuna parte.

Cavolo.

Corse di slancio verso la porta, senza preoccuparsi di andare addosso alla gente. Raggiunse le scale e le salì più in fretta che poteva, per poi prendere a correre per la strada.

Stavolta ti ammazzo, Argogas…

Si bloccò in mezzo alla via col fiatone, senza avere la più pallida idea di dove andare. Poi sentì una risata sguaiata provenire dall’interno della foresta, sul lato sinistro della strada.

Non stentò a riconoscerla e si lanciò di corsa in quella direzione, sperando di arrivare in tempo.

Continuò a correre alla cieca per mezzo minuto, vagando freneticamente con lo sguardo, cercandoli.

Poi sentì il rumore di una spada sguainata alla sua destra, e si fermò.

Il suo cuore, nonostante battesse velocissimo, parve fermarsi.

Argogas era a terra, boccheggiante, steso in orizzontale di fronte a lui. E Fanela gli era sopra, con una lunga sciabola lungo l’avambraccio destro, i muscoli tesi allo spasimo e ansante.

I suoi occhi chiarissimi si alzarono su di lui, brillanti di una luce strana. La ragazza sussultò.

Rimasero a guardarsi per secondi interminabili, senza muoversi, con soltanto il suono dei loro respiri affannati a rompere il silenzio.

Qualcosa nella mente di Taras non faceva altro che urlargli di prendere la spada, di fare qualcosa, qualunque cosa, ma i suoi arti sembravano insensibili, e lui non poteva fare altro che rimanere immobile, impietrito, a fissarla.

Poi, l’Assassina ruppe l’incanto.

Rinfoderò la sciabola con un unico movimento fluido, spiccò un salto e sparì tra le fronde degli alberi.

Taras la sentì allontanarsi tra i rami, spostandosi correndo di pianta in pianta.  

Soltanto allora, sconvolto, abbassò lo sguardo su Argogas.

Si riscosse e gli si avvicinò velocemente, accovacciandosi di fianco a lui. Aveva una lunga ferita sul torace, e nonostante fosse superficiale stava perdendo molto sangue. Ma era ancora vivo.

Gli scosse la spalla.

“Stai tranquillo, d’accordo?” gli disse, cercando il suo sguardo “D’accordo? Resisti. Io vado a chiamare aiuto.”

Si alzò di nuovo, e prese a correre a perdifiato indietro verso la locanda.

Cercando di muoversi più veloce del senso di colpa che si stava insinuando, strisciante, dentro di lui.

 

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Note:

Ecco un altro personaggio. Lui è Taras... Il tatuatone. XD

Ha un po' di complessi e si dimentica le cose... Beh, c'è un motivo, ma lo scoprirete più in là. Però è simpatico. Sì. Non sappiamo bene cos'altro dire... Commentate voi XD

Grazie mille a tutti quelli che hanno recensito! Siamo un po' di fretta, perciò non abbiamo il tempo di rispondervi con dialoghi di altri personaggi delle Cronache XD MonyPurpa, alias nipote di Yeshol, tuo zio è un bell'uomo davvero, però è altrettanto malvagio (risata malefica di sottofondo). Asteria 95, se sei dal lato Marvash ti divertirai un sacco nel leggere questa FF, soprattutto se ti piace Aster :) Vedrai... Kratos the Pokemaster, ti ringraziamo tantissimo per i complimenti. Continua a leggere e vedrai il tuo odio per Dohor cambiare in... odio ancora più profondo. XD O forse no, la cosa è soggettiva.

Okay, basta con le anticipazioni. Continuate a commentare, ci divertiamo un sacco a leggere le vostre recensioni!

A presto,

Josie e June

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Capitolo 4
*** Elnath e Morwen ***


 

Ad Elnath si chiudevano gli occhi.

Il pomeriggio prima, mentre dormiva nel suo sacco a pelo, avevano sentito dei rumori. Così si era subito alzato, era salito sulla groppa di Morwen ed erano partiti.

Il tutto in anticipo di quasi quattro ore, e adesso erano quasi dodici che volavano senza sosta sulla Terra del Mare, alla ricerca di un posto sicuro dove accamparsi e fare provviste.

Il ragazzino riusciva a stento a reggersi sulla sella di Morwen.

Cercava di ripetersi che, comunque, era meglio non dormire per quasi ventiquattr’ore filate piuttosto che trovarsi a dormire per sempre.

La dragonessa sotto le sue gambe reagì con uno sbuffo seccato.

Elnath l’imitò. “Senti, Morwen, non è colpa mia se ci eravamo accampati in un posto pieno di cacciatori. Mica potevo lasciare che ci ammazzassero, no?”

Morwen voltò il testone e gli lanciò uno sguardo con gli occhi rossi come braci ardenti, quasi luminescenti nell’oscurità della notte.

Elnath sorrise. “Dai, bella. L’abbiamo fatto altre volte, non morirò per aver perso qualche ora di sonno.”

Lei emise un gorgoglio infastidito, che pareva ribattere che era proprio il fatto di averlo fatto così tante volte il punto.

Questo era l’inconveniente di viaggiare di notte. Dovevano farlo per forza, visto che Morwen sarebbe stata troppo visibile sul cielo azzurro, ma era difficile imparare a dormire di giorno. Infatti, nonostante fossero più o meno due anni che lo faceva, Elnath non era ancora riuscito ad abituarcisi.

Il bambino le batté una mano sulle lucide squame nere. “Ho quasi dodici anni e mezzo, Morwen. Posso resistere quanto voglio senza dormire. Sono un uomo ormai.”

Altro sbuffo scettico.

“Oh, sta’ zitta!” sbottò Elnath, ferito nell’orgoglio “Guarda che sei più piccola di me!”

La dragonessa fece una virata piuttosto brusca, e il bambino per poco non cadde. Le lanciò un’occhiataccia, e lei emise un altro gorgoglio molto simile a una risata.

“Esibizionista.” sibilò il ragazzino, reggendosi forte all’arcione.

Si voltò, offeso, a guardare il mare il lontananza. Brillava appena, illuminato dalla luna e dalle stelle. Era una distesa infinita, di un nero così profondo e omogeneo che competeva quasi con le squame di Morwen.

C’era una grande baia, poco distante dalla zona che stavano sorvolando. Il bambino distinse una piccola casa sulla spiaggia, lontana dall’acqua per quel tanto che bastava da essere protetta dall’alta marea e dalle tempeste.

Anch’io vivevo in una casa così, una volta, pensò Elnath, con un triste sorriso.

La ricordava ancora come se ce l’avesse avuta di fronte…

 

 

Elnath ha quattro anni.

Sua madre, Lilia, è davanti al focolare. Gli sorride mentre prepara la cena.

Lui è disteso a terra, a pancia in giù, e gioca con i soldatini che gli ha intagliato suo padre. Gamnar è bravo a intagliare. E’ bravo a fare tutto.

Elnath lo aspetta, e lancia occhiate impazienti alla porta. Sa che manca poco prima che torni dal lavoro.

Suo padre fa lo studioso, e loro abitano vicino a Laia. Ad Elnath piace il mare, e la sua famiglia ha una casetta proprio sulla spiaggia.

Tutto il giorno si sente il riflusso delle onde, e di pomeriggio Elnath si diverte a fare il bagno con gli altri bambini del paese.

Ma il momento che ama di più è la sera, quando Gamnar torna dal lavoro e loro cenano tutti insieme, e poi lui e Elnath si mettono davanti al camino, a leggere le Cronache del Mondo Emerso. E’ il suo libro preferito. Elnath ha ormai imparato a leggere da solo, ma vuole che sia suo padre a raccontare. Lo fa troppo bene.

In quel momento, la porta si apre, ed Elnath alza lo sguardo, con gli occhi spalancati. La figura di suo padre entra in casa trafelata, insieme al vento e alla sabbia. Elnath è in piedi in un attimo, e gli corre incontro. Ma, poi, si blocca in mezzo alla stanza.

C’è qualcosa che non va.

Gamnar sta appoggiato con la schiena contro la porta, e ansima. Tiene le braccia chiuse attorno a un grosso rigonfiamento del mantello.

Non sembra accorgersi di nient’altro finché Lilia non esclama, nervosa:

“Gamnar!”

Lui alza la testa, e guarda prima la moglie e poi Elnath.

“Va tutto bene.” dice per tranquillizzarli.

Ma Elnath continua ad avere  paura.

Suo padre apre il mantello, e ne esce un involto di stracci, che però sembra molto pesante, e che Gamnar maneggia con cura. Lo stringe al petto e sospira. Lilia è immobilizzata contro il muro, con gli occhi spalancati e il viso pallido.

Il silenzio regna sovrano nella stanza.

Elnath avanza piano un passo verso suo padre, poi un altro, finché non gli si trova davanti.

Piano allunga le manine verso l’involto di stracci, e intanto la presa di Gamnar si allenta. Elnath comincia a tirare via gli stracci uno dopo l’altro, e alla fine, sotto l’involucro di stoffa, appare una pietra nera.

E’ ovale e liscissima, ed è attraversata da numerose venature bianche. Elnath rimane a guardarla a lungo.

Ad un tratto sente un grido, e un rumore di cocci infranti. Sussulta e si volta di scatto verso sua madre, in simultanea con Gamnar. A terra ci sono i resti di uno dei piatti che Lilia stava mettendo in tavola. Sembra furiosa.

“E’ quello che penso che sia?” chiede, con la voce che trema.

Gamnar non risponde subito.

“Lilia…”

“No, Gamnar, no!” grida lei, mettendosi le mani tra i capelli “Come hai…?”

“Cerca di capire, Lilia.” la interrompe Gamnar “Ho dovuto farlo.”

“L’unica cosa che capisco è che non hai esitato a mettere in pericolo la tua famiglia solo per salvare la tua coscienza! E ad Elnath non ci pensi? Cosa succederebbe se ti scoprissero?”

Lilia è fuori di sé. Elnath non l’ha mai vista così. Sua madre corre verso Gamnar, che lascia scivolare la pietra nelle mani di Elnath. E’ pesante. E stranamente calda.

“E’ proprio a voi che penso, Lilia! Come si sentirebbe Elnath a sapere che suo padre non ha fatto niente per evitare un assassinio? Era la cosa giusta da fare!”

“No, Gamnar! La cosa giusta da fare era proteggere la tua famiglia! Quella… cosa non è più importante di nostro figlio!”

“Lilia, tu non capisci…”

“No, Gamnar, capisco benissimo!”

Suo padre e sua madre hanno cominciato a gridare. Lilia appoggia le mani sulle spalle di Elnath, e continuando a urlare qualcosa lo conduce fino alla stanza accanto. Poi richiude la porta, e le voci concitate dall’altra parte si fanno meno forti. Elnath rimane da solo al buio, con quella pietra liscia e tiepida fra le mani.

 

 

 

Elnath si svegliò di soprassalto, e se non fosse stato assicurato alla sella per i lacci attorno alle gambe sarebbe caduto di sotto.

Per un attimo richiuse gli occhi, accecato dalla luce del sole.

… Del sole?

Li riaprì di scatto, in preda al panico. Era già l’alba!

“Morwen, scendi!” gridò, afferrando con forza l’arcione.

La dragonessa obbedì, e cominciò a planare lentamente verso il basso. Elnath le dette un pugno sul dorso –l’equivalente di un pizzicotto, per lei- e disse:

“Dovevi svegliarmi!”

Morwen si limitò a emettere un sibilo orgoglioso, e a continuare a scendere. Intanto, il bambino si guardava intorno, cercando un posto sicuro dove atterrare.

Stavano sorvolando una zona piena di orti e campi coltivati, piuttosto lontana dai centri abitati.

“Lì, Morwen!” gridò, con il vento forte che gli frustava la faccia e gli tirava indietro i capelli corvini, indicando un campo di cereali scuri.

Almeno là in mezzo sarebbero stati meno evidenti che su una distesa di grano.

Morwen si diresse immediatamente in quella direzione, e poco dopo fece un atterraggio vellutato sopra le piante marroncine, che si piegarono all’aria sollevata dal movimento delle sue grandi ali diafane.

Elnath aspettò che le abbassasse per scivolare lungo il suo fianco.

Subito cominciò a slegare una piccola bisaccia dalla sua sella. Era quasi vuota; dovevano proprio fare provviste.

Morwen chinò il grande muso nero alla sua altezza, e piantò gli occhi rossi nei suoi.

Il bambino sostenne il suo sguardo con uno severo, nonostante avesse una gran voglia di ridere.

Dopo un po’, la dragonessa accostò la fronte a quella di Elnath, inondandolo di fiato caldo, e il bambino si permise di lasciarsi andare. Scoppiò a ridere e l’abbracciò.

“Ma sì che ti perdono, stupido grosso piccione!”

Per tutta risposta, Morwen gli passò sulla faccia la grossa lingua ruvida e bagnata.

Il bambino rimase qualche attimo ad occhi chiusi, immobile e disgustato, e poi si passò una mano sul viso.

“Bleah.” mormorò.

Morwen gorgogliò la sua bizzarra risata, e Elnath finì di slegare la bisaccia.

A quel punto, la dragonessa gli tirò un altro buffetto. Stavolta, il bambino indietreggiò di qualche passo.

“Ehi!”

Lei lo guardò dura, e il ragazzino sospirò.

“Smettila, Morwen. Devo andare a fare provviste. Non posso vivere di carne, io.”

Mosse qualche passo tra le spighe, ma Morwen lo seguì e lo circondò con il lungo collo per bloccargli la strada.

Elnath non poté fare a meno di sorriderle. “Torno subito, piccola, davvero… Dopo mi metto subito a dormire.” le assicurò, accarezzandola. Ma la dragonessa non si mosse.

“Guarda, prendo l’arco e le frecce. E anche la spada di papà.” aggiunse allora il bambino, staccando il vecchio fodero dalla sella della dragonessa e legandoselo alla cintura. Sentire il suo peso gli strinse il cuore. “Sei più tranquilla, adesso?”

Morwen emise un basso mormorio di gola, poco convinta, ma lo lasciò passare.

“Torno subito.” le ripeté Elnath, rassicurante “Davvero. Riposati, e se arriva qualcuno, vola via, d’accordo?”

La dragonessa sbatté le palpebre, e i suoi occhi luccicarono. Chinò il capo, ma il bambino sapeva che, purtroppo, non l’avrebbe mai lasciato lì.

“Torno subito.” disse per l’ennesima volta “Te lo prometto.” aggiunse, per poi riprendere a farsi strada tra le spighe che gli arrivavano al petto.

Si mosse più veloce che poteva.

Non aveva intenzione di infrangere la sua promessa.

 

 

Il Generale dell’Accademia dei Cavalieri di Drago Endacril Parascheuazo, parecchi piedi più in alto, aveva appena cominciato il suo turno.

Il suo compito, per quella giornata, era volare a vuoto tra il confine della Terra del Sole con la Terra del Mare, dal quale era partito, e quello della Terra del Mare con la Terra dell’Acqua.

Per coordinare il rientro dei Cavalieri.

Un corno, pensò l’uomo con un moto di stizza.

La sua dragonessa, Estella, gl’inviò mentalmente un flusso di calma, che però non lo calmò affatto. Il Generale, comunque, apprezzò il gesto.

“Grazie, vecchia mia.” le disse, battendole affettuosamente una mano sul collo. “Ma servirà molto di più perché possa smettere di detestare il moccioso, lo sai.”

Il moccioso, al solito, era Dohor.

Anche Estella, al suono del suo pseudonimo, fremette appena. E il Generale sorrise.

“Già. Lo penso anch’io.”

A Parascheuazo, la Terra del Mare era sempre piaciuta. Ci aveva passato anche qualche tempo, durante la guerra, come soldato nell’esercito delle Terre Libere. Anni prima, quando era ancora giovane e convinto della bontà di quel Mondo. Ma il paesaggio florido e profumato di salsedine stava cominciando a diventargli insopportabile, da un mese a quella parte.

Dohor era riuscito anche in quello.

I pensieri di Parascheuazo si persero nel vento, e corsero velocemente nella Terra del Sole, a Makrat, nel palazzo del re. In una delle grandi stanze, probabilmente stava ancora dormendo la sua Sulana. Endacril si sentì devastato all’idea che non la vedeva da almeno due anni, che non aveva potuto rimanerle vicino e sostenerla in quei tempi difficili.

Parascheuazo aveva servito sotto suo padre, l’ultimo vero re della Terra del Sole, che l’aveva accolto nella sua corte quando non aveva più nessuno. Si era subito affezionato a quella bambina testarda e coraggiosa che saltellava in giro per il palazzo. Giocava con lei, le faceva cavalcare la sua dragonessa, l’accompagnava in lunghe passeggiate per il parco del castello, e mano a mano che passavano gli anni, aveva cominciato a considerarla come una sorellina.

L’aveva vista crescere, diventare una ragazza, avere i primi problemi con se stessa e affrontare con coraggio il dolore per la morte di suo padre, e infine trasformarsi in una donna, una donna bellissima piena di forza e voglia di vivere.

Era rimasto al suo fianco per tutti i lunghi anni in cui aveva regnato da sola, e anche dopo che, stanca e prostrata da un peso che nessuno di così giovane avrebbe dovuto portare, aveva deciso di sposarsi.

Ricordava ancora i suoi occhi verde brillante guardare nel vuoto fuori dalla finestra, il giorno in cui era andato a trovarla…

 

 

Endacril entra nella grande stanza ormai familiare. Se si concentra, può ancora vederla com’era  quando la regina era ancora  bambina, piena di giochi e bambole che però non riuscivano mai ad estinguere la sua creatività.

E Sulana è  lì, seduta sul divanetto sotto la grande finestra, con il viso poggiato alla mano e lo sguardo perso nel vuoto.

Endacril si schiarisce la gola per annunciare la sua presenza.

“Mia regina…” dice, accennando un inchino.

La regina si volta e gli sorride. “Da quando ti inchini a me, Endacril?”

L’uomo ride. “Da sempre, in realtà. Fino a qualche anno  fa non avevo scelta, se volevo guardarti in faccia.”

Sulana sorride di nuovo debolmente. Non ride. Endacril non saprebbe neanche dire da quanto tempo non la sente ridere.

“Temo che non mi abituerò mai a vederti con quella cicatrice.” dice la donna, cercando di scherzare.

Endacril si passa una mano sulla lunga ferita che, da pochi mesi a quella parte, gli deturpa il viso altrimenti bello, paralizzandogli la bocca verso il basso. Abbozza un sorriso.

“Neanch’io, sai?” replica, stringendosi nelle spalle con aria tranquilla.

“Non è così male.” lo rassicura Sulana sinceramente “Ti rende affascinante.”

Endacril scoppia a ridere.

Come no…

“Volevi parlarmi?” le chiede poi, curioso.

Quando l’ha convocato, mentre faceva lezione in Accademia, gli era sembrata una cosa urgente.

La regina abbassa il capo, improvvisamente seria, e batte un paio di volte la mano sul cuscino vicino a sé, per invitarlo a raggiungerla. Endacril attraversa la stanza e le si siede accanto, su quel divanetto antica sede di tante fantasticherie.

Sulana non parla subito. Rimane a lungo a fissare fuori dalla finestra, prima di prendere un respiro profondo, e piantare gli occhi nei suoi. Endacril rimane sempre stupito di quanto, nonostante il dolore abbia ormai sciupato il suo bel viso, quello sguardo rimanga ancora vivo e brillante.

“Ho deciso di sposarmi.” dichiara la regina, in tono più rassegnato che deciso.

Endacril spalanca gli occhi e sbatte le palpebre, stupito. “Credevo che…”esita. Non vuole ferire i suoi sentimenti. “Alla fine il  Consiglio ti ha convinta.”osserva infine.

Sulana accenna un altro sorriso “Sono semplicemente stanca delle loro insistenze. Sono stanca di tutto, Endacril.” lo guarda, e Endacril legge nei suoi occhi una fragilità nuova, che non le aveva mai visto e che non le riconosce.

“Sulana…”

“E’ così, Endacril. Non posso farci niente.” mormora la donna. Sembra voler piangere… Ma forse è stanca anche di piangere. “Ho quasi ventun’anni, lo sai. Ho visto morire mio padre, e gli sono succeduta a quattordici anni. Ho assistito alla rovina del mio popolo,  ho combattuto per la sua libertà... E l’ho conquistata. In sette anni ho visto più morte e dolore di quanto avrei voluto vederne in tutta la mia vita. Adesso basta.”

Torna a guardare fuori, e stavolta il suo sguardo è determinato. Endacril guarda il suo viso pallido, il suo profilo nobile, la sua statura eretta e regale, e non può credere che quel corpo in fiore nasconda un’anima stanca e molto più vecchia dei suoi anni.

“Non devi arrenderti!” le dice accorato “Hai fatto grandi cose per questa Terra, non puoi rinunciare adesso! D’ora in poi sarà tutto più facile, vedrai Sulana, io…”

“Ma io mi sono già arresa!” esclama la regina, voltandosi a guardarlo. Stavolta, una lacrima le scende lungo la guancia “Mi ero già arresa quando l’esercito delle Terre Libere ha vinto nella Grande Battaglia, mi ero già arresa quando ho firmato il trattato di pace con gli altri sovrani! Non c’è più niente in me di quello che c’era un tempo.” sospira, e si asciuga gli occhi “ Sono vuota, Endacril. Sono prosciugata. Non ho più niente da dare al nostro popolo.” abbassa lo sguardo “Adesso tutto ciò che posso e voglio dare loro è un erede che continui la discendenza reale, così come avrebbe voluto mio padre. E non credi che me lo meriti? Che dopo tutto quello che ho fatto abbia diritto a un po’ di pace? Voglio solo vivere come qualunque donna di questo Mondo! Avere un marito e una famiglia, com’è normale! Perché vuoi negarmelo, Endacril?”

Di nuovo torna con lo sguardo sulla finestra, mentre le lacrime continuano a scenderle sulle guance e le sue spalle ad essere scosse da lievi singulti.

Endacril sa che non può darle torto. E’ davvero suo diritto, e non può certo rifiutarglielo.

Le prende una mano. La stringe.

“Ho capito.” mormora “Ho capito, Sulana. Devi fare ciò che credi giusto. Solo...”  esita di nuovo, cercando le parole adatte “Solo cerca di scegliere bene, d’accordo? Fa’ quest’ultimo sforzo, fallo per il tuo regno. Ignora chi ti sta intorno, fidati solo del tuo istinto… Non ha mai sbagliato in tutti questi anni.”

Le sorride, e Sulana si volta piano verso di lui. Per la prima volta da tanto tempo, ricambia con sincerità  il suo sorriso.

“Grazie.” mormora “Grazie di aver capito.”

Gli circonda il collo con le braccia e nasconde la testa nel suo petto. Endacril la stringe a sé e le accarezza i capelli, sentendosi come se stesse abbracciando la Sulana bambina, e non quella adulta.

In quel momento, si promette che le rimarrà accanto. Per sempre.

 

 

Beh, grazie a Dohor non aveva potuto mantenere la sua promessa. Appena il moccioso si era accorto del rapporto d’affetto tra la sposa e il Generale dell’Accademia che l’aveva addestrato, e che gli era divenuto ostile, gli aveva proibito di vederla.

Aveva proibito a tutti di vederla. La giustificazione erano le sue fragili condizioni di salute.

Endacril sapeva perfettamente che non era altro che una scusa; Sulana non era mai stata né fragile né cagionevole, il Generale non ricordava neanche che fosse mai stata malata per più di un giorno.

Ma il suo timore più grande, che era più una sicurezza, era che il re predicasse la grande delicatezza della sposa in modo che, quando non avesse più avuto bisogno di lei, avrebbe potuto liberarsene senza problemi.

Da quasi due anni, Parascheuazo non la vedeva se non da lontano, nelle occasioni ufficiali. Per qualche tempo si erano scambiati delle lettere, ma poi, progressivamente, Sulana aveva smesso di scrivergli. E il Generale era più che certo che non fosse stata una sua decisione.

Non sapeva neanche se fosse mai rimasta incinta…

Improvvisamente, Estella lanciò un grido acuto.

Parascheuazo si riscosse dai suoi pensieri e le batté una mano sul fianco. “Calma, bella, calma! Che succede?”

La dragonessa si lanciò in una lieve picchiata, inducendolo a guardare in basso. E Parascheuazo capì.

Cosa accidenti…?

“Scendi, Estella!” esclamò, e la dragonessa cominciò a planare lentamente verso il basso. “Atterragli lontano.” aggiunse, sporgendosi dalla sella per vedere meglio quella stranezza “E dopo che sono sceso vola in cerchio sopra di noi. Meglio che mi avvicini da solo.”

Che razza di bestia è?

La dragonessa rispose con un altro ruggito, e prese a scendere sempre più velocemente sui campi di cereali.

 

 

Elnath superò in un balzo le ultime spighe e il piccolo fossato, per poi trovarsi di fronte al cancello dell’orto. Dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno, si arrampicò oltre il recinto, e cadde morbidamente dall’altra parte.

“Oh oh…”

Il suo atterraggio aveva svegliato un cane dal pelo marroncino e dalle dimensioni improbabili, che lo guardò per qualche istante interrogativo, come se non riuscisse a credere che quel piccolo umano avesse osato entrare nel suo territorio.

Prima che avesse il tempo di realizzare, però, Elnath aprì la bisaccia e gli lanciò un grosso pezzo di carne secca.

Il cagnone l’annusò con cura, guardandolo di sottecchi, e poi ne staccò un morso. Convinto, ingoiò tutto il resto.

Elnath rimase qualche altro istante immobile, accovacciato per terra, e poi si ritirò su e gli si avvicinò. Il cane si lasciò accarezzare senza esitazioni, e gli leccò la mano.

Il bambino sorrise. Aveva sempre avuto una grande intesa con gli animali.

Prese a camminare in giro per l’orto, cercando di riconoscere le piante che vi crescevano, e inginocchiandosi infine davanti a un piccolo quadrato coltivato a carote. Aprì la bisaccia e scavò con le dita finché non riuscì a tirarle fuori dal terriccio, poi cominciò a riempirne la borsa.

Elnath non lo considerava proprio come rubare. Lo vedeva più come un… risarcimento per tutto quello che aveva perso.

Intanto, il cane scodinzolava intorno alla sua bisaccia, sperando in un altro pezzo di carne.

Quando ebbe finito con le carote si mise a sradicare delle rape e qualche ravanello grossissimo, per poi concludere con un bel cavolfiore.

Si fermò soltanto quando la bisaccia fu piena fino in cima. A quel punto tornò al cancello e si issò a cavalcioni sul muretto. Prima di scendere dall’altra parte, però, ficcò la mano nella borsa e tirò fuori un altro pezzo di carne secca, che lanciò al cagnone.

Poi, soddisfatto, si calò fino a terra.

Riprese a camminare in direzione dell’accampamento stringendo i lacci della bisaccia sulle spalle, e fischiettando una buffa canzone di cui non ricordava le parole.

Doveva essere una di quelle che gli cantava sua mamma prima di dormire, una di quelle su prodi Cavalieri e avvincenti battaglie. Oppure su quanto facesse bene mangiare le verdure.

Cercando di riportare alla mente il testo della canzone giunse in poco tempo vicino al campo di cereali scuri dove si trovava Morwen.

E a quel punto si fermò, agghiacciato. C’era qualcuno.

 

 

Parascheuazo si avvicinò con cautela. Non era possibile. Quello che vedeva era del tutto impossibile.

A una decina di braccia da lui, c’era un drago che, a occhio a croce, non poteva avere più di cinque anni. Ed era nero. Un drago nero.

Anzi, una dragonessa nera.

Il Generale aveva riconosciuto la sagoma anche dall’alto, ma non ci aveva creduto. Così, dopo aver lasciato Estella a volare in cerchio sopra di loro, si era avvicinato alla strana creatura usando l’erba alta come nascondiglio.

E adesso se lo trovava davanti, incredibile e terribilmente possibile, a quanto pareva.

Un bell’esemplare femmina di Drago Azkur, o Drago Nero da battaglia. Di quelli che si era soliti vedere ai tempi del Tiranno volare a contrasto con il cielo, per poi essere assaliti da un terrore glaciale. Solo che quelli non erano i tempi del Tiranno, e Parascheuazo non aveva paura. Non molta.

Ma quell’esemplare era troppo giovane per venire dalle stalle del Tiranno. Di cinque anni troppo giovane, per la precisione.

Ma che accidenti avevano combinato i responsabili della Terra del Vento? Credeva che tutti i draghi neri fossero stati sterminati dopo la caduta della Rocca. Allevarli era illegale e, decisamente, quel drago non aveva potuto sopravvivere da solo appena uscito dall’uovo.

Parascheuazo non sapeva bene cosa fare. Non poteva certo affrontare un drago da solo, e poi, a dirla tutta, perché avrebbe dovuto affrontarlo?

Il drago non era colpevole di essere nato. L’unico colpevole era il Cavaliere che, a giudicare dalla sella ancora legata al dorso dell’animale, non doveva essere molto lontano.

Endacril sentiva la strana voglia di andarsene e lasciar perdere. Era un desiderio stupido. Insomma, quel Cavaliere era un fuorilegge, e magari aveva anche delle intenzioni poco innocenti. A cosa sarebbe servito il suo viavai ininterrotto sulla Terra del Mare, se non a rendersi conto di situazioni del genere?

L’unica cosa bizzarra era che non aveva mai sentito parlare di un Cavaliere di Drago Nero da almeno dieci anni a quella parte, e che, chiunque egli fosse, fosse riuscito a sfuggire così a lungo alla giustizia.

Dev’essere abile.

L’impulso a lasciar perdere continuava a perseguitarlo. Dopotutto, lui conosceva i draghi, e aveva letto numerosi trattati che affermavano che i Draghi Neri erano per davvero una minima parte più aggressivi degli altri per natura. Il resto era una conseguenza dell’addestramento e dei maltrattamenti subiti nelle stalle del Tiranno.

E chi ti dice che il Cavaliere di questo drago non l’abbia addestrato allo stesso modo?

Il cucciolo di Drago Nero si stava pulendo le ali con la grossa lingua, e in quel momento a Parascheuazo sembrava davvero poco aggressivo.

Ma è la legge. Devo fare qualcosa.

Emise un inudibile sbuffo.

Proprio io parlo di legge.

Beh, non poteva non fare niente. Perciò, il Generale riprese ad avanzare verso il drago a passi lenti, e nascosto nell’erba alta. Dette un’occhiata al cielo per controllare Estella, e la scorse mentre, molto sopra di loro, si produceva in una virata.

Bene. Doveva agire.

Continuò ad avvicinarsi finché non arrivò al punto dove l’erba era stata schiacciata dall’animale, che ancora non si era accorto della sua presenza. A quel punto, estrasse la spada e si alzò in piedi.

E nello stesso istante, qualcun altro uscì allo scoperto.

 

 

Il cuore di Elnath batteva fortissimo. Il bambino si era subito accorto della presenza dall’altra parte dell’accampamento, che spiava Morwen. L’aveva sentito, e si era accovacciato tra le spighe. Improvvisamente la figura si mosse, e per un attimo Elnath venne abbagliato da un luccichio metallico.

E’ un soldato!

Il ragazzino strinse i denti e i pugni. Li avevano trovati, e adesso avrebbero provato a uccidere Morwen.

No…

Il soldato si avvicinava alla sua dragonessa sempre di più, e qualche secondo dopo, Elnath lo scorse muovere il braccio con un movimento ampio e circolare.

No!

L’uomo uscì dal suo nascondiglio, e nello stesso attimo Elnath si tolse l’arco dalla spalla, estrasse una freccia dalla faretra e la incoccò con una velocità impressionante.

“Fermo!”

Si alzò in piedi e si parò davanti a Morwen, che ruggì spaventata dalla vista dell’estraneo e dal movimento fulmineo di Elnath.

Sta’ tranquilla!, pensò il bambino con forza, e la dragonessa si calmò, estraendo i lunghi artigli.

Elnath puntò l’arco in direzione del soldato e lo guardò con gli occhi neri ridotti a due fessure. “Prova ad avvicinarti e ti ammazzo.”

 

 

Parascheuazo spalancò gli occhi e si mise in posizione di guardia con la spada, stupito.

Fissò il ragazzino che era sbucato dal nulla, e che adesso lo minacciava con un arco troppo grande per lui. Magro, esile, non molto alto, con un irregolare caschetto di capelli neri, aveva negli occhi scuri un odio e una determinazione tali che il Generale non riusciva a credere potessero essere racchiusi in quel corpicino.

Endacril sentì una fitta allo stomaco.

Cosa può averlo spinto a odiare così tanto?

Valutò velocemente il ragazzino. Quanti anni poteva avere? Tredici? Non poteva essere il Cavaliere di un Drago Nero. E come poteva viaggiare da solo? Come aveva fatto a sfuggire alla legge per tutto quel tempo?

Endacril mosse un passo verso il bambino e il suo drago.

Il primo indietreggiò e tese ancora di più l’arco, il secondo ringhiò. Endacril si chiese quanto ancora le braccia esili del ragazzino sarebbero riuscite a tenere la corda in tensione.

“Non avere paura. Non ho intenzione di farvi del male.” disse, sinceramente.

Dopotutto non avrebbe giovato a nessuno. Il Generale era semplicemente curioso, e preoccupato.

“La tua spada dice il contrario.” replicò il ragazzino sprezzante “Vattene e neanche noi avremo intenzione di farti del male.”

Parascheuazo sorrise appena. Arrogante, il ragazzino.

“Non dovresti usare l’arco come minaccia.” l’avvisò con tranquillità.

Il bambino ghignò sarcastico. “E perché no?”

“Sei troppo vicino a me, ti vedo benissimo.” gli spiegò Endacril “Non sarebbe difficile schivare la tua freccia, e non faresti neanche in tempo ad incoccare la seconda che avresti già la mia spada puntata alla gola.”

Il ragazzino dondolò sul posto, a disagio, ma riassunse quasi immediatamente la sua espressione sicura e supponente “Come sai che non potrei difendermi? Chi ti dice che non sono un abile spadaccino?” fece, con un cenno del capo al lungo fodero che aveva legato alla cintura.

Parascheuazo si strinse nelle spalle. “Il fatto che mi minacci con l’arco.”

Il ragazzino spalancò gli occhi e arrossì appena sulle guance pallide. Il drago ringhiò, e il Generale sospirò. Non sarebbero arrivati da nessuna parte così. E in più, le braccia del bambino cominciavano a tremare per lo sforzo.

“D’accordo, facciamo a modo tuo, allora.” disse, prima di buttare la spada a terra “Non mi avvicino, contento?” aggiunse, piantando solidamente i piedi dov’era “Permettimi, in cambio, di farti qualche domanda. In primo luogo” cominciò “Chi sei?”

Il ragazzino abbassò lentamente l’arco, senza però metterlo via. “Questi non sono affari tuoi.” rispose cupo.

“Io credo di sì, invece.” replicò Parascheuazo, leggermente irritato.

“Ah sì? Io no. E poi non so chi sei tu, perché tu dovresti sapere chi sono io?”

“Mi chiamo Endacril Parascheuazo.”

“Oh, questo cambia tutto.” ribatté il ragazzino ironicamente “Senti, ti dispiacerebbe far scendere il tuo drago?” chiese poi, alzando un attimo gli occhi al cielo “O vuoi continuare a minacciarci dall’alto come un codardo?”

Parascheuazo spalancò gli occhi.

Brillante, non c’era che dire. Se si era accorto della presenza di Estella a una tale distanza doveva avere un grande spirito di osservazione e, come minimo, qualche ulteriore capacità.

Guardò a sua volta verso il cielo, e fischiò forte.

Estella!

La dragonessa si lanciò in picchiata, e divenne via via più grande finché non arrivò a coprire tutto il loro campo visivo, e fare loro ombra dal debole sole mattutino. Estella atterrò con grazia vicino a Parascheuazo, il cui mantello si sollevò alla forte folata di vento che creò con le ali, e che fece indietreggiare d’un passo il bambino.

L’enorme dragonessa bianca scrutò quella piccola e nera con vago e tranquillo interesse, senza scomporsi minimamente. L’altra, al contrario, emise uno stupito e allegro mormorio di gola. Doveva essere il primo suo simile che vedeva.

Il ragazzino, dal canto suo, aveva un’aria così ammirata che era impossibile dire se avesse più spalancati gli occhi o la bocca.

Il Generale gli sorrise, soddisfatto. “Sei sveglio, ragazzo.”

“Mi chiamo Elnath.” balbettò il bambino “E lei è Morwen.”

A quel punto si riscosse e si accigliò, rendendosi conto che forse aveva detto troppo.

Parascheuazo gli fece un nuovo sorriso, cercando di rassicurarlo. “Piacere di conoscerti, Elnath. E adesso che abbiamo superato l’ostacolo del tuo nome, dimmi… Come accidenti ha fatto un bambino come te a procurarsi un drago nero?”

La dragonessa di nome Morwen e il bambino di nome Elnath ringhiarono all’unisono.

“Io non me la sono procurata.”sbottò Elnath, sdegnato “Il suo uovo si è schiuso di fronte a me.”

Parascheuazo si sorprese. Nessuno era stato capace di studiare bene l’argomento, ma i fatti documentavano che una cosa del genere accadeva soltanto quando Cavaliere e Drago erano destinati a un fortissimo legame. E il più delle volte, questo significava che erano destinati a grandissime cose.

“D’accordo.” disse “E allora come ti sei procurato un uovo di Drago Nero?”

“Mio padre.” rispose di getto il bambino “Mio padre l’ha…”

Esitò, e poi tacque. Parascheuazo lo vide stringere i pugni.

“Non sono cose di cui voglio parlare. E poi, tu chi sei per fare così tante domande?” fece Elnath, con aria di sfida.

Il Generale sorrise. Più tempo passava, più quel ragazzino gli piaceva. “Un Cavaliere di Drago, non è abbastanza?”

“Beh, anch’io…” cominciò il bambino.

“Mi dispiace contraddirti” l’interruppe Parascheuazo, che, come insegnante, si sentiva in dovere di precisarlo “Ma non basta avere un drago per essere un Cavaliere.”

“E che serve, allora?” esclamò Elnath, con una superbia mista a stupore e curiosità.

“Tanto allenamento. E tanta esperienza.” rispose Endacril “Forse hai già una delle due. Da quanto tempo tu e Morwen siete insieme?”

Il bambino non esitò a rispondere. Il Generale capì che, nonostante la diffidenza e la paura, aveva ancora l’istinto infantile di essere riconosciuto importante dai grandi.

“Morwen ha quattro anni.” disse con orgoglio “Ma la cavalco solo da due. Prima era troppo piccola.” aggiunse a voce più bassa.

Parascheuazo annuì. “Ci possiamo lavorare.”

Il ragazzino spalancò gli occhi “Lavorare su cosa?”

“Sul tutto.” rispose il Generale “L’esperienza, le capacità di volo, l’arte della scherma.” disse, con un cenno allusivo alla spada del ragazzino “Forse non sarà facile, ma vale la pena provare. Dopotutto non mi sono mai arreso di fronte a una sfida.”

Il ragazzino era semplicemente sbalordito. Lo fissava stralunato con gli occhi neri, e si era bloccato immobile con l’arco e la freccia tra le mani. “Cosa?”

Endacril rise. “Mi sto offrendo di addestrarti, mocciosetto presuntuoso.” disse “Mi era sembrato che fossi un tipo sveglio.”

“Ma… ma…”. Il bambino balbettava. Parascheuazo capì che non si aspettava niente del genere. “Addestrarmi? Io…” ripeté Elnath, guardandolo smarrito. Poi scosse forte la testa, e assunse di nuovo un’espressione sprezzante. “No.” disse, gelido, arretrando verso la dragonessa.

Anche Morwen parve riscuotersi, e chinò il muso sulla spalla del bambino.

Il Generale non si scompose. “Perché no?”

“Non ne ho voglia.” accampò il ragazzino, sistemando la bisaccia che aveva sulle spalle alla sella della dragonessa.

Parascheuazo rimase a fissarlo, in silenzio, finché non ebbe finito. Aspettava. E infatti, poco dopo, Elnath si voltò, e lo guardò altero.

“Non voglio essere addestrato da nessuno. Noi non lo vogliamo. Non abbiamo bisogno di nessuno, noi.” esclamò con convinzione che, intuì Parascheuazo, era più testardaggine puerile.

“Tutti hanno bisogno di qualcuno, Elnath.” disse semplicemente.

Il bambino alzò di nuovo lo sguardo su di lui e, per un attimo, di nuovo smarrito. Ma si ricompose in fretta.

“Beh, ti sbagli. Noi stiamo meglio da soli. Ce la siamo cavata da soli per due anni, e così continueremo per sempre. Io posso proteggerla da solo. Non abbiamo bisogno di nessuno.” continuò piccato, giocherellando con un laccio della sacca a spalla.

Il suo ripetere con ostinazione quella frase era, per Endacril, un’evidente dimostrazione della sua falsità. Sapeva benissimo che tentando di spiegargli che era troppo piccolo per continuare a vivere da solo, o addirittura obbligandolo a seguirlo, non avrebbe ottenuto niente. Per convincerlo, l’unica strada era stuzzicare il suo senso di sfida.

“E’ una tua scelta.” si limitò a dire il Generale, e a quel punto il bambino sollevò su di lui uno sguardo incredulo.

Evidentemente, si aspettava che insistesse.

“Sì, è tua, Elnath, e di nessun altro.” ribadì Parascheuazo, tranquillamente “Ma mi sento in dovere d’informarti. Sai cosa sta accadendo nel Mondo Emerso in questo periodo, ragazzino?”

Il ragazzino inarcò un sopracciglio, e fece una smorfia. “No. E non m’interessa.”

“E perché no?” chiese di nuovo Endacril.

“Perché nessuno si è interessato di me, quando ne avevo bisogno. Perché io dovrei interessarmi di loro?” ribatté, aspro.

Quella frase colpì Parascheuazo nel profondo. In quell’affermazione infantile c’era una coscienza adulta, e terribilmente ferita.

“Lo so.” rispose “Ma sbagli a generalizzare. Per esempio, io adesso mi sto interessando di te, o no?”

Il bambino si strinse nelle spalle. “Non so ancora se questo mi fa piacere o no.”

Parascheuazo sorrise. Almeno erano passati dall’ostilità all’indecisione.

“E tu non vuoi essere migliore delle persone che ti hanno ignorato, Elnath?” chiese.

Elnath abbassò gli occhi, e non rispose. Così, il Generale proseguì:

“C’è una guerra. Non è ancora aperta, e per i più è sconosciuta, ma c’è. Il re della Terra del Sole, Dohor, ha l’intento d’impadronirsi di tutto il Mondo Emerso con una politica fatta di diplomazia e protettorati, ma non meno decisiva di una conquista vera  e propria. Sta riuscendo a ricostruire ciò che a suo tempo aveva creato il Tiranno, e nessuno sembra accorgersene. E sono sicuro che, se sei dotato di un minimo di buon senso, non vuoi che questo succeda.”

Il bambino lo guardava con occhi sbarrati, in silenzio.

“Nella Terra dell’Acqua si stanno organizzando delle persone pronte a fronteggiarlo, e questa guerra già si combatte. Sotto altre spoglie, nella Terra dei Giorni, si sta già combattendo per proteggere il Mondo Emerso da questa nuova minaccia. E tutti coloro che possono dovrebbero partecipare a questo Conflitto occultato con tutte le loro forze, senza risparmiarsi.” disse Parascheuazo, guardandolo fisso negli occhi “E se non vuoi che ciò che ti ho detto accada, dovresti fare qualcosa anche tu.”

Il ragazzino indietreggiò. “Cosa c’entro io?”

“Quello che c’entro io, o c’entrano tutti quelli che combattono con me. Tu sei un abitante di questo Mondo, Elnath.” gli spiegò Parascheuazo “E se vuoi che sia il Mondo che desideri, è tuo dovere cercare di trasformarlo.”

Elnath lo guardò confuso “Ma io credevo che Nihal…”

“Nihal ha sconfitto il Tiranno.” l’interruppe Endacril “Ma sfortunatamente, non era l’unica persona cattiva del Mondo.”

Il bambino abbassò il capo. “Lo so.” rialzò lo sguardo, e lo piantò nel suo “Ma tu lavori per delle altre persone. Dei sovrani, dei tizi al governo, proprio come quel Dohor. Mio padre diceva che le lotte tra Terre non sono altro che questo, lotte di potere. E che gli unici che ne traggono vantaggi sono i re, mentre la popolazione soffre e muore. Mi dici cosa c’è di giusto in questo?” esclamò Elnath, con forza.

Di nuovo, la sua maturità sorprese Parascheuazo. Gli sorrise con comprensione.

“In questo caso è diverso. Io siedo in un Consiglio insieme ai sovrani, decido insieme a loro e a tante altre persone di quello che accadrà. Non è una lotta di potere. Coloro che cadono sono volontari, persone che si sono legate di loro spontanea volontà alla causa. Non c’è un sovrano che li porta via dalle loro famiglie e li obbliga ad arruolarsi, è una loro scelta. E sanno che muoiono per la vita di altri, e per ciò che è giusto.”

“Uccidendo soldati come loro, che invece sono stati obbligati ad essere dove sono!” ribatté Elnath.

Parascheuazo annuì con serietà. “Questo è vero. Ma non c’è scelta, su questo punto. E’ la nostra vita, o la loro.”

A quel punto, il bambino ammutolì. Posò di nuovo lo sguardo a terra, e prese a spostare la sabbia con la punta dello stivale.

Dopo un po’, gli lanciò un’occhiata. “Io e Morwen siamo sempre stati rifiutati. Ci hanno sempre visti come una minaccia, e soltanto perché lei è diversa. I sovrani che stai cercando di aiutare sono… sono responsabili della morte dei miei genitori.” mormorò, con voce spezzata.

Endacril capì immediatamente da dove veniva tutto l’odio che gli aveva visto negli occhi.

“E io non voglio avere a che fare con loro.” concluse Elnath.

“Se lo vorrai” rispose Parascheuazo con fermezza “Potrai dimostrare loro che si erano sbagliati. E non far soffrire nessun altro come hai sofferto tu.”

Elnath lo guardò.

Morwen fece un basso gorgoglio, e gli picchiettò il muso sulla spalla. Il ragazzino fece un gesto di stizza.

“Finiscila. Non ho ancora deciso.”

A quel punto, Endacril sbuffò. “Beh, moccioso, non ho tutto il giorno.” disse brusco, raccogliendo la spada da terra e rinfoderandola “Il sole è già sorto, e io ho un compito da svolgere. Quindi, se non ti dispiace, muovi il sedere e monta in sella.”

Detto questo, salì sul dorso di Estella, che si era già abbassata alla sua altezza, e prese le redini.

Poi inarcò un sopracciglio, guardando il ragazzino ancora immobile.

“Allora? Andiamo?”

 

 

Elnath fissò negli occhi il Cavaliere di Drago, squadrò la sua faccia storpiata da quella brutta cicatrice che gli piegava la bocca in un’eterna smorfia, e poi guardò Morwen.

La sua dragonessa fremeva dalla voglia di seguire l’enorme dragonessa bianca, per imparare e diventare un giorno grande come lei.

Ed era un desiderio che Elnath, anche se in modo un po’ meno esplicito, condivideva nei confronti del Cavaliere.

Non si era mai fidato dei soldati. Non si era mai fidato di nessuno, dalla notte in cui i suoi erano stati brutalmente uccisi. Eppure, quell’uomo gliel’aveva ispirata immediatamente, e alle sue parole, per la prima volta da tanto tempo, Elnath si era sentito di nuovo proprietario di un futuro.

Di nuovo un bambino, che non doveva fare affidamento soltanto su se stesso. Che poteva appoggiarsi a qualcuno.

Ma non sapeva niente di quel tizio. Guardò di nuovo Morwen, e si accigliò.

Non poteva metterla in pericolo. Era l’unica cosa importante della sua vita, l’unica parte della sua famiglia che gli rimaneva. Se quel Cavaliere gliel’avesse portata via, non sapeva cos’avrebbe fatto.

Ma le parole di Endacril Parascheuazo continuavano a riecheggiargli nella mente, implacabili.

Elnath lo guardò, imponente e spaventoso sul dorso della sua dragonessa, prese un respiro profondo… e decise.

 

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Note:

Ecco qui altri due personaggi. Tre. I draghi possono essere considerati come personaggi? Bhé, Morwen ed Estella sì XD

Vi dico subito che siamo tremendamente affezionate al piccolo Elnath e alla sua Morwen, per il momento sono due dei nostri personaggi preferiti. La loro storia si svolgerà piuttosto lentamente, per forza di cose, ma acquisteranno importanza via via. Non c'è dubbio che, nel trovare un drago nero a dieci anni dalla caduta della Rocca, ci siamo dovute sforzare molto XD Però, come scoprirete più in là, siamo riuscite a trovare un modo per conciliare il tutto senza contaminare la trama generale delle Cronache e delle Guerre. E dopotutto, Dohor non aveva fatto incrociare i draghi neri con i draghi comuni?

Il problema è che io (Elisa) me ne sto per andare. Eh sì, partirò per la Spagna questo sabato, e rimarrò a Barcellona per dieci giorni. Il capitolo 4 sarà postato inderogabilmente al mio ritorno, promesso, con un ritorno in grande stile anche dei nostri Taras e Algeiba. A presto, continuate a recensire, vi prego, i vostri commenti ci fanno bene! XD

Asteria 95: Wow che teoria interessante! o.ò Davvero, complimenti! In quanto alla sua realtà... Potrebbe essere così... O forse no XD. Chissà. Mi piacerebbe risponderti, ma non vogliamo fare spoiler XD. Solo un appunto; sei piedi d'altezza corrispondono a circa 1 metro e 85 , quindi il povero Taras non è granché basso XD

Scusa, è colpa nostra, avremmo dovuto specificarlo. La prossima volta che mettiamo delle misure provvederemo a convertirle in nota. Grazie mille della tua recensione, è bello vederti così appassionata e intuitiva e indagatrice! *__* E siamo contente che adori il personaggio di Taras!

MonyPurpa: Addirittura una parabola di matite? Siamo lusingate! XD Aspetta, se vuoi intercediamo presso Taras a nome tuo per chiedergli di prestarti i suoi occhi... Non sarà facile convincerlo, però, ci è molto affezionato!

XD A parte questo, grazie! *__* Fatti coraggio, e resisti all'assenza di cioccolata! A presto!

 

 

 

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Capitolo 5
*** Coincidenza ***


Namhar si guardò ancora una volta alle spalle per assicurarsi di essere solo. Sorrise. Nessuno.

Era riuscito di nuovo a sgattaiolare fuori da palazzo senza essere visto. Tutte le guardie del corpo che gli affibbiavano erano dei tali carciofi che bastava uno stupidissimo incantesimo di levitazione per calarsi dalla finestra del suo alloggio fino a terra, e scomparire nel bosco.

Il giovane mago prese un respiro profondo, assaporando l’aria fresca profumata di alberi ed erba. Era da troppo tempo che era costretto dentro le mura del castello. La prossima volta non avrebbe aspettato così a lungo prima di scappare di nuovo.

Il ragazzo camminava nel bosco con una soddisfazione paragonabile all’euforia, affondando piacevolmente i piedi nudi nel terreno morbido ricoperto di foglie cadute.

Si sentiva di nuovo come quando scendeva in battaglia al fronte, fino all’anno prima. Allora sì che si sentiva utile. Che si sentiva vivo.

C’era la paura, certo, e l’orrore della battaglia. Non aveva mai pensato che combattere o uccidere fosse appagante, anzi, spesso avrebbe preferito non farlo. Ma nella Terra dei Giorni, a contatto con la guerra vera e propria, riusciva a rendersi conto che esistevano persone più infelici di lui, e che avevano bisogno del suo aiuto.

Riusciva a non pensare alla sua famiglia nella Terra del Mare, e al Maestro Flaren.

Ci stai pensando, si disse Namhar.

Il ragazzo fece una smorfia, e calciò un sassolino sul sentiero.

Erano passati tre anni da quando il suo Maestro era morto per salvargli la vita. Flaren e Namhar stavano tornando a Laodamea dalla Terra dei Giorni; il suo Maestro era un componente del Consiglio delle Acque, uno dei maghi più potenti e più saggi. Era stato uno dei primi ad opporsi esplicitamente a Dohor, e quando Namhar l’aveva incontrato, otto anni prima, era perché era stato costretto a trasferirsi nella Terra del Mare per sfuggire all’ira del despota.

Il ragazzo sorrise al ricordo di quella volta in cui, quando era ancora soltanto un bambino che aveva paura di se stesso, si era arrampicato da solo sulla cima di un albero ma, non essendo molto agile, era caduto di sotto. Si sarebbe sicuramente rotto qualcosa, ma inaspettatamente, la caduta era stata lenta, ed era atterrato sull’erba come una piuma. Si era guardato intorno, sperando che non l’avesse visto nessuno, e invece…

Invece, che lo guardava da lontano, c’era Flaren, che sorrideva. Gli aveva spiegato che quello che sapeva fare non era una cosa brutta, e che esistevano tante altre persone come lui. Flaren, per l’appunto, era come Namhar. Infine, il mago si era offerto di insegnargli.

Da allora non si erano separati mai. Era diventato un padre per lui.

Fino a quel pomeriggio di tre anni prima, quando erano ormai quasi arrivati a Laodamea, ed erano stati aggrediti da due sicari. Da due Assassini della Gilda.

Il mago strinse i pugni a quel pensiero.

Da allora, da quando Flaren era morto, si era dato anima e corpo alla battaglia e al Mondo Emerso. Finché, poco meno di un anno prima, i Consiglieri l’avevano richiamato a Laodamea.

Avevano ritrovato il testamento di Flaren. E nel testamento, era chiaramente espresso il volere che fosse lui a sostituirlo nel caso della sua morte.

Così, Namhar era stato riportato nella Marca dei Boschi e messo a sedere sullo scranno che era appartenuto al suo Maestro. E, adesso, era il secondo Consigliere più giovane mai esistito, dopo Sennar.

All’inizio gli era piaciuta l’idea. Adesso, la detestava.

I Consiglieri non si fidavano di lui. Lo trattavano come un bambino, e da quando abitava di nuovo a Laodamea lo facevano seguire costantemente da uno dei loro carciofi in armatura.

Namhar sapeva che temevano per la sua sicurezza. Avevano paura che la Gilda tentasse di far fuori anche lui.

Ma il ragazzo la trovava una grande cavolata. Lui non aveva niente che potesse spaventare la Gilda. E quegli energumeni che gli facevano da guardie del corpo gli toglievano l’aria.

Così era diventata un’abitudine, quella di sgattaiolare via.

Namhar si era anche trovato un posto perfetto, in mezzo alla foresta che si estendeva oltre il lato ovest del palazzo.

E quando vi arrivò, fece un sorriso.

L’ampia radura ricoperta di foglie rosse, gialle e arancioni l’accolse con una gelida folata di vento, che gli sollevò i ricci corvini. Namhar chiuse i grandi e profondi occhi blu e respirò profondamente, prima di camminare fino al centro esatto della radura.

Lì, si sedette a gambe incrociate, senza aprire gli occhi. E, sempre con il sorriso sulle labbra, aprì la mente.

 

 

Algeiba uscì soltanto un momento alla luce. Il sole del tardo pomeriggio le illuminò la parte del viso scoperta dal cappuccio del mantello, e le labbra serrate.

Poi, sempre senza staccare lo sguardo dal ragazzo seduto al centro della radura, spiccò un salto e si nascose tra le fronte degli alberi.

Namhar, diciannove anni. Nato a Lome, nella Terra del Mare. Residente a Laodamea, nella Marca dei Boschi. Mago. Pericoloso.

Algeiba non lo trovava affatto pericoloso, a vederlo così…

Finiscila!

Si riscosse, e si disse di darsi una calmata. Doveva pensare ai dettagli tecnici, come si sforzava di fare da una settimana a quella parte.

Non era stato difficile trovare Namhar. Quando era arrivata a Laodamea, aveva passato un giorno per capire dove abitasse di preciso. Poi, aveva sentito una conversazione tra due soldati. Dovevano sorvegliare il mago Namhar perché non scappasse, al palazzo della regina, sulla cima della cascata. E lì si era diretta Algeiba.

Non aveva neanche dovuto infiltrarsi a Palazzo. Era stato sufficiente appostarsi fuori, e aspettarlo invisibile nell’ombra.

Il ragazzo era proprio come se l’era immaginato. Capelli neri, viso giovanile, espressione scocciata, per via del tizio in armatura che gli faceva la guardia. Occhi blu estremamente svegli e profondi…

Algeiba aveva subito capito che quella volta non sarebbe stato facile. E la cosa, in un certo senso, non le dispiaceva affatto.

Inizialmente aveva cercato un modo per avvicinarsi a lui. Poi, però, aveva scoperto che sarebbe stato lui ad avvicinarsi a lei.

La sentinella del ragazzo parlava irritata con un compagno delle precedenti scappatelle del suo protetto, commentando che era impossibile prevedere quando l’avrebbe fatto di nuovo, e perciò altrettanto impossibile evitarlo. Così, tutto era divenuto ad un tratto più facile.

Bastava che Namhar fuggisse e sarebbe stato da solo, totalmente indifeso.

Il momento era arrivato. Quando Algeiba l’aveva visto calarsi con la magia fuori dalla finestra, il cuore le era balzato in gola. Sapeva che non avrebbe più potuto rimandare. Era l’unica opportunità che aveva di portare a termine il lavoro.

Perciò, senza farsi vedere, l’aveva seguito.

E adesso lo guardava dall’alto, accovacciata sul ramo di un grosso albero, in attesa. Namhar era un mago potente, non avrebbe potuto combattere contro di lui se fosse stato pronto a difendersi. Perciò, doveva aspettare che fosse del tutto immerso nella meditazione.

Allora, quando non avrebbe avuto nessuno scudo, l’avrebbe ucciso.

La ragazza deglutì, e trattenne un sospiro. Con un movimento fluido appoggiò una mano sul pugnale, mentre il sole era sempre più basso sull’occidente.

 

 

Il carciofo in armatura camminava spedito nel bosco, con un’espressione furiosa ed esasperata dipinta sul volto.

Giuro che se lo trovo vivo l’ammazzo io!, pensò Taras, i cui pensieri erano parecchio più violenti da qualche tempo a quella parte.

Il ragazzo era arrivato a Laodamea un giorno dopo il previsto. Per via di Argogas… Le sue cure avevano preso un po’ di tempo.

Le sue condizioni non erano gravi. Fortunatamente la ferita non era profonda, e con tutta probabilità sarebbe guarito a grande velocità.

Ma Taras si sentiva come se l’avesse ucciso.

La scena del bosco gli si ripresentò nella mente per l’ennesima volta, e il ragazzo strinse i pugni. Si rivedeva lì, impalato davanti al corpo di Argogas, che fissava negli occhi Fanela. Quegli occhi azzurri, in cui gli era sembrato di vedere qualcosa di familiare, freddi come il ghiaccio, e molto più impenetrabili.

Un’Assassina.

Non c’erano dubbi, per Taras. Non esisteva nessuno capace di movimenti così fulminei, di una tale agilità…

E di una finzione tanto convincente.

Il ragazzo fece una smorfia.

Taras veniva dalla Terra della Notte. Lì, tutti sapevano, anche se preferivano non ammetterlo, dell’esistenza della Gilda degli Assassini. Nessuno sapeva dove vivessero o perché agissero, ma girava voce che esplicassero il culto di Thenaar, un dio violento e sanguinario che aveva il suo unico tempio proprio nella parte più interna della Terra della Notte.

Taras, così come suo padre, aveva imparato a provare un odio smisurato e automatico per quelle persone. Se così potevano essere definite.

Ma la cosa che detestava di più, era di essersi fatto ingannare.

E non solo. L’aveva lasciata andare.

Taras sapeva che era inutile mentirsi. E la verità, era che non aveva avuto la forza di arrestarla. Non ci aveva neanche provato. Qualcosa l’aveva bloccato, e anche se ci avesse ragionato per cent’anni, il ragazzo era sicuro che non avrebbe mai scoperto di che cosa si trattava.  

Rimaneva il fatto, però, che aveva lasciato fuggire una pericolosa criminale. Qualcuno che poteva mettere a rischio la vita di un’incredibile quantità di persone completamente sola, e che già l’aveva fatto, con Argogas.

Per questo motivo, il senso di colpa continuava a tormentare Taras più di quanto non avessero fatto i suoi compagni di scorta.

Infatti, durante il viaggio di ritorno verso Laodamea, gli altri soldati erano stati stranamente più cordiali con lui. Taras supponeva che fosse perché aveva salvato Argogas.

E dato che lui era troppo ubriaco per ricordarsi cosa fosse successo di preciso, il ragazzo aveva taciuto che, in qualche modo, era lui la causa di tutto.

Inizialmente per arroganza. Poi, probabilmente, per convincersi che fosse ancora per arroganza.

Appena arrivato, Taras era andato a salutare Hìrador. Il suo drago, un enorme animale dalle squame dorate e dagli occhi smeraldini, l’aveva accolto con aria offesa ed altera. Il ragazzo aveva cercato di scusarsi, di fargli capire che non era colpa sua se era stato via così tanto, e alla fine il drago si era convinto, e avevano fatto pace.

Ma i sensi di colpa tormentavano Taras a tal punto che la sera stessa del suo arrivo era salito a Palazzo, e aveva chiesto di parlare col Generale Malver.

Malver era un Consigliere, e il Generale dei Cavalieri di Drago Azzurro della Terra del Mare; era a lui che tutti i Cavalieri ribelli si riferivano. Taras, dopo che Parascheuazo l’aveva mandato a sedici anni a Laodamea, si era affidato totalmente alla sua guida, e in qualche modo Malver l’aveva accolto sotto la sua ala protettrice.

Ma sfortunatamente, il Generale non aveva potuto riceverlo subito. A quanto aveva capito Taras, era occupato nella sua Accademia nella Terra del Mare, e non sarebbe tornato a Laodamea di lì a quattro giorni.

Taras l’aveva aspettato, praticamente sempre in sola compagnia di Hìrador, e il quarto giorno dal suo arrivo, valeva a dire due giorni prima, era stato chiamato negli alloggi del Consigliere.

Malver l’aveva salutato con una certa freddezza –non era il tipo da effusioni- ma Taras aveva letto nei suoi occhi che era felice di vederlo. Dopodiché gli aveva chiesto perché volesse parlargli.

“Voglio andarmene.” aveva risposto Taras “Tornare nella Terra dei Giorni col mio drago, a combattere. E’ questo l’unico motivo per cui mi sono unito alla scorta di Tèedin. Tornare qui e chiedervi di rimandarmi al fronte.”

Ma non sarebbe stato così facile. Malver gli aveva spiegato che non poteva partire da solo; sorvolare il Mondo Emerso con un drago fuorilegge, Taras lo sapeva bene, era estremamente rischioso. Di solito, quando le condizioni erano favorevoli, partivano da Laodamea grandi compagnie di Cavalieri di Drago e soldati, che sfruttavano le veloci cavalcature per arrivare più in fretta al fronte. Se erano in tanti, nessuno avrebbe osato attaccarli.

Ma per il momento non c’erano abbastanza persone per mettere insieme una compagnia. Il gruppo sarebbe partito il mese dopo, quando altri soldati si sarebbero arruolati nell’esercito del Consiglio delle Acque, e altri Cavalieri avrebbero dovuto rientrare al fronte.

Taras aveva protestato che aveva già aspettato per più di due mesi nella Terra del Vento, e non poteva attendere oltre.

Così –Taras sospettava che l’avesse fatto per punire la sua insolenza- Malver gli aveva detto che aveva un compito per lui. Sorvegliare il Consigliere Namhar.

Il Maestro del ragazzo, gli aveva spiegato Malver, era stato ucciso in un attentato da parte di alcuni sicari, che il mago si ostinava a dire provenissero dalla Gilda degli Assassini.

Taras, nonostante lo scetticismo di Malver, non la trovava tuttora un’idea così assurda.

Per cui, il giovane mago aveva bisogno di una scorta perenne, ovunque andasse. Taras, insieme a un altro soldato che si sarebbe occupato del turno di notte, era appena diventato quella scorta.

Il ragazzo non era impazzito di gioia all’idea. L’inattività e l’esasperazione, miste al senso di colpa, lo uccidevano.

Ma un maghetto viziato a cui piace sgattaiolare fuori da palazzo mi mancava.

Si era accorto della sua assenza soltanto quando le imposte della finestra avevano sbattuto violentemente, e si era affacciato in camera per vedere se fosse tutto a posto. Così, aveva scoperto che le imposte avevano sbattuto per via del vento, e che la stanza era vuota.

Al che si era affacciato dalla finestra, e aveva notato il sentiero che conduceva dentro il bosco. Si era precipitato subito giù, sperando di riuscire a ritrovarlo prima del cambio di guardia.

Quel mago me la paga.

Non aveva idea di dove fosse andato, ed erano due ore che camminava senza meta nel bosco, alla ricerca di una qualche traccia. Ma sembrava che Namhar avesse camminato scalzo. Se non altro era sveglio.

Taras sbuffò sonoramente, ricordando il suo recente colloquio con Vitis.

Anche lei è una maga.

E in passato, anche la sua migliore amica.

Si rivide insieme a lei, ragazzini, che correvano di soppiatto per gli intricati vicoli di Makrat, mentre lui avrebbe dovuto essere in Accademia e lei col suo Maestro Groven. Vitis era sempre stata una ragazzina solare. Taras non poté fare a meno di sorridere con amarezza al ricordo del suo viso grazioso incorniciato dai capelli biondi, e della sua risata così spontanea che le faceva venire quelle fossette sotto le lentiggini.

Erano scappati dalla Terra del Sole insieme, quando dei soldati erano entrati in casa di Groven per arrestarlo per tradimento. Era stato Taras a salvarli; aveva combattuto contro i soldati e li aveva feriti, dopo essere stato ferito a sua volta, e poi erano corsi in Accademia nel cuore della notte. Lì Parascheuazo li aveva aiutati; li aveva nascosti per un po’, aveva curato velocemente Taras e poi aveva tenuto lontano le guardie dalle stalle, mentre il ragazzo aiutava il vecchio mago e la sua amica a salire su Hìrador, e partivano verso Laodamea.

L’amicizia di Taras e Vitis era continuata fino a un mese dopo, quando Malver aveva mandato il ragazzo sul fronte. Vitis era parsa insofferente, e non era andata a salutarlo. E quando lui era tornato, dopo quasi un anno di guerra, e gli aveva chiesto perché fosse arrabbiata con lui, lei gli aveva urlato che l’aveva lasciata sola. Che lui era andato a combattere, mentre lei non aveva potuto fare altro che continuare a stare lì, inutile, quando come maga avrebbe potuto fare così tanto in battaglia per il Consiglio. Era arrabbiata perché non aveva fatto il modo di portarla con lui.

Avevano litigato, ed era finita lì. Taras era ripartito dopo pochi giorni, e non si erano più rivisti… fino al giorno prima.

Taras era davanti alla stanza di Namhar, a fare la guardia. Vitis era passata per il corridoio, e all’inizio, il ragazzo non l’aveva riconosciuta. Si era sorpreso di quanto fosse diventata bella.

La ragazza si era fermata di fronte a lui, stupita. Aveva un libro tra le braccia; Taras la ricordava proprio così, con un grosso tomo, spesso di botanica, stretto al petto.

“Ciao.” aveva detto, senza riuscire a trattenersi.

“Ciao.” aveva mormorato a sua volta Vitis “Che ci fai qui?”

“Faccio la guardia al Consigliere Namhar.” aveva provato a sorridere “Mi sento un po’ come un cane. L’unica differenza è che non abbaio a chiunque passi di qui.”

Lei non aveva sorriso. “Intendevo qui, a Laodamea. Perché non sei nella Terra dei Giorni?”

Taras si era incupito. “Ci tornerò presto, non temere.”

“Non è una cosa che temo.” aveva ribattuto lei, dopo un istante “Anzi, spero che tu te ne vada al più presto. E’ la cosa che fai meglio, no? Andartene.”

Taras aveva aperto bocca per risponderle per le rime, ma lei l’aveva interrotto.

“Immagino che rimanere bloccato qui sia frustrante per te.” aveva detto, con un’amarezza falsa, che non le riconosceva “Mischiarti con noi semplici pianificatori, limitarti a guardare. Vero?” aveva proseguito, sempre più aspra “Torna a fare l’eroe, Taras. Ti si addice di più.”

E senza dargli il tempo di fermarla, aveva girato l’angolo e se n’era andata.

Taras sentì una fitta di tristezza, che andò a sommarsi spiacevolmente ai sensi di colpa, e scosse forte la testa.

Decise di non pensarci. Era inutile. Vitis lo odiava… L’avrebbe odiata anche lui. O perlomeno, ci avrebbe provato. E il primo passo, era smettere di pensare a lei.

Improvvisamente, qualcosa distolse la sua mente da quell’idea.

Si ritrovò al margine di una stretta radura, bagnata dagli ultimi raggi dorati del sole. Al centro di essa, c’era il Consigliere Namhar, seduto a gambe incrociate sul tappeto di foglie secche, con gli occhi chiusi e l’aria completamente assente.

Taras fece un sospiro di sollievo, forse misto a uno sbuffo, ma il fiato gli si bloccò in gola.

Una figura nera si avvicinava furtivamente alle spalle di Namhar. La vide muovere il braccio dall’altezza della cintura fino alla spalla, e il sole illuminò la sua mano di una scintilla metallica.

Qualcosa scattò velocemente in Taras. E corse.

 

_____________________________________

Note:

Salve a tutti, ed ecco un nuovo capitolo, un nuovo personaggio e due non nuovi che tornano in scena. Ho avuto parecchio da fare in questi giorni, scusate se ci ho messo tanto a postare il quarto capitolo... E scusate anche se al momento non possiamo commentare personalmente le vostre recensioni, che sono sempre geniali e divertenti. Grazie davvero di leggere gli aborti della nostra mente, ci rendiamo conto che non è affatto facile XD Al prossimo capitolo che postiamo vi risponderemo più profusamente, promesso! A presto!

Josie e June

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Capitolo 6
*** Ricorda, Odia, Lotta ***


Ecco. Adesso. Era immerso nella meditazione, completamente assorto, e inerme.

Algeiba irrigidì la mascella e si calò giù dall’albero. Namhar era lì. Il suo obbiettivo. La sua vittima. Non aveva scampo, non aveva alcuna speranza di contrastarla. Era il momento perfetto.

Un omicidio semplice. Pulito.

Mosse un passo all’esterno della cerchia d’alberi.

Non c’era esitazione. Non c’era ragione che ci fosse. Lui era lì, seduto al centro della radura. E lei alle sue spalle, inudibile, invincibile, letale.

Inevitabile.

La ragazza si mosse sempre più velocemente verso il centro della radura. La bile le salì alla gola, le gambe le tremarono, ma non si fermò.

Lei era un’Assassina. E l’Assassina che era in lei, in quel momento, prese il sopravvento.

Algeiba smise di pensare. Smise di esistere. Ed estrasse il pugnale.

Soltanto una breve scintilla, quando incontrò i raggi del sole morente. Il mago non avrebbe neanche potuto vedere la sua ombra, proiettata e innaturalmente allungata alle loro spalle.

Nessuna esitazione. Nessun rimpianto.

Le parole di Yeshol. E l’Assassina eseguì; calò il pugnale veloce, inesorabile, verso la gola del mago, in un ampio arco. Come aveva fatto una settimana prima con Argogas nel bosco, quando lui aveva tentato di sopraffarla. Come aveva fatto ogni volta, da quattro anni a quella parte.

Il pugnale sarebbe affondato nella carne come se fosse stata burro, come sempre, lo sapeva. E poi la sua mano sarebbe stata inondata dal solito fiotto caldo e appiccicoso, mentre il suo odore disgustoso le avrebbe pizzicato gli occhi e le narici.

Algeiba socchiuse le palpebre.

E la sua mano incontrò un contrasto. La ragazza spalancò di nuovo gli occhi, e trattenne il fiato.

Il suo sguardo si fissò nelle iridi indefinibili del Cavaliere di Drago della locanda, che respirava affannosamente. In quegli occhi pieni di colore passò prima un lampo di stupore, poi di comprensione, e infine una scintilla d’odio.

Algeiba strinse i denti.

Taras.

 

Namhar venne bruscamente riportato alla realtà dal cozzare di metallo contro metallo.

Il suo cuore prese a battere a una velocità impressionante, come se stesse rispondendo a un vecchio istinto, e il mago si alzò in piedi e voltò in un secondo.

E la vide. Nera e terribile come un incubo, eppure incredibilmente reale.

Il mago provò una violenta fitta al petto, e poi qualcosa di caldo e incontrollabile gli si diffuse in tutto il corpo.

Rabbia. Odio. Desiderio d’uccidere come mai l’aveva provato nella sua intera vita.

E’ una di loro.

Rimase impietrito a guardare lei, mentre quei sentimenti troppo forti lo inchiodavano al suo posto, e senza quasi vedere la figura del tizio in armatura dai capelli blu che aveva bloccato il suo pugnale.

Tutto ciò che vedeva era il mantello nero e il suo corpo, in quella posizione d’attacco così simile a quella della sua memoria. La figura della ragazzina si sovrappose a quella dell’uomo che, senza pietà, aveva pugnalato il suo Maestro con una lama avvelenata.

La odiava. E questo fu tutto ciò che, per troppo tempo, riuscì a pensare.

 

Aveva sempre avuto la prepotente sensazione che l’avrebbe rincontrata. E quando aveva visto quella figura nera, Taras aveva subito sentito che era lei.

Aveva incontrato i suoi occhi azzurri e impenetrabili sotto il cappuccio, e vi aveva visto passare stupore, comprensione… e infine odio.

Continuò a frapporre il suo spadone a due mani tra se stesso e il pugnale dell’Assassina, e non riuscì a trattenere un ghigno.

“Eh no, filatrice, non è questo il modo di tessere una tela.”

 

Algeiba digrignò i denti. Senza neanche pensare di rispondere, fece forza sui muscoli delle braccia, e saltò. Sfruttando la forza che il Cavaliere usava per contrastare la sua arma, riuscì a compiere una ruota usando la croce di lame come perno. Quando si ritrovò sulla sua testa fece di nuovo forza con le braccia, e mentre ricadeva dietro Namhar, gettò via il pugnale e si raggomitolò su se stessa, arrivando con le mani all’altezza degli stivali.

Il secondo dopo, dopo un lesto quanto impercettibile movimento del polso, atterrava morbidamente alle spalle del Consigliere, acquattata a terra.

Si rialzò, liberandosi in un gesto del mantello e nel contempo estraendo un coltello da lancio dalla cintura. L’istante dopo, quando fu in piedi, lo lanciò verso la schiena di Namhar.

 

Il ragazzo eresse istintivamente uno scudo magico attorno a sé. Si voltò verso l’Assassina con uno sguardo di puro rancore, mentre il coltello che gli aveva lanciato rimbalzava sonoramente sul suo scudo.

Non così in fretta, sgualdrina.

 

Taras l’aveva guardata volare con leggerezza sopra la sua testa, atterrare alle spalle del Consigliere e lanciargli il pugnale con una velocità incredibile.

Aggirò Namhar, che fortunatamente era riuscito a proteggersi, per fronteggiarla di nuovo. Sapeva che, quella volta, rischiava grosso. Ma non si tolse quell’espressione arrogante dal viso.

 

Algeiba imprecò tra i denti, mentre il coltello finiva lontano da lei. Estrasse la sciabola, e si voltò ad affrontare il Cavaliere, che nel frattempo l’aveva raggiunta.

“Ma tu non hai niente di meglio da fare che complicarmi la vita?” gli domandò esasperata, lanciandosi contro di lui.

 

Taras schivò con facilità il suo affondo, e tentò di colpirla a sua volta. L’Assassina reagì con prontezza, e le loro lame s’incrociarono di nuovo.

Le sorrise sfrontato oltre le loro spade. “Complicarla? Io credo solo di rendertela più divertente.”

 

Algeiba ringhiò, liberandosi di nuovo. Gli rivolse uno sguardo pieno di sfida e avversione.

“Ti assicuro che avremo ben poco da divertirci.” gli promise, rilanciandosi all’attacco.

 

Stavolta non fu così facile bloccarla, per Taras. Per poco non lo colpì, e fu costretto ad indietreggiare per parecchi passi, preso alla sprovvista, parando i suoi affondi. Non gli piacque, ma dovette ammettere che era brava.

Dopo quel pensiero, riuscì finalmente a bloccare la spada dell’Assassina in basso. Ghignando, strinse con più forza l’elsa dello spadone con entrambe le mani, e lo roteò velocemente.

Una fugace espressione di dolore passò sul viso dell’Assassina quando il suo polso venne piegato verso l’esterno, ma riuscì a non perdere la presa sulla sciabola.

Si allontanò con un balzo e lo guardò, se possibile, con più astio di prima. Taras, arrogante, le sorrise di nuovo, appoggiandosi con aria tranquilla lo spadone su una spalla.

“Dici? Perché io non mi sono mai divertito così tanto.”

 

Namhar assisteva immobile a quelle inutili schermaglie. Adesso si chiedeva chi fosse il tizio in armatura, e concluse che doveva trattarsi della sua guardia. Era un abile combattente, ma altrettanto lo era l’Assassina. Si eguagliavano.

Non posso stare fermo a guardare.

E, soprattutto, non lo voleva.

Alzò il braccio e aprì la mano, il palmo già illuminato di luce rossa.

“Frès ill!” ordinò, e immediatamente la magia corse oltre il suo scudo protettivo, verso l’Assassina.

 

Algeiba si morse le labbra. Sentiva una tremenda ostilità nei confronti di quel Cavaliere. Per la sua arroganza, in primo luogo, e per il suo sorrisetto provocatorio.

Ma soprattutto per ciò che le aveva fatto. Non perché la combatteva; ma perché, adesso, sarebbe stata costretta a ucciderlo.

Avrebbe dovuto uccidere la persona che aveva deciso di lasciare in vita, contro tutti i principi della Gilda. Sarebbe stata obbligata a uccidere la prima vera scelta che aveva fatto da molto tempo a quella parte.

Per questo lo odiava.

Spinta da quella sensazione si lanciò di nuovo con foga contro di lui. Il Cavaliere fu lesto a muovere la sua spada, Algeiba sapeva che le loro armi si sarebbero toccate per l’ennesima volta.

Ma non accadde.

Improvvisamente, le sue dita si trovarono a stringere il niente, e fu a un palmo dallo spadone del Cavaliere, completamente disarmata.

Trasalì e si buttò a terra, passando appena in tempo sotto la lama, e sentì un bruciante dolore al braccio. Rotolò fino a trovarsi a distanza del Cavaliere, alle sue spalle, e poi si mise in posizione di guardia, acquattata a terra con una gamba piegata e l’altra tesa.

Le sfuggì dalle labbra un sibilo di dolore, quando abbassò lo sguardo sul suo braccio.

 

La manica si era aperta sopra un sottile taglio a forma d’arco, sull’avambraccio, appena sotto la giuntura.

Un centimetro più in alto e le avrebbe preso le vene!

Pensò Namhar con rabbia, dall’interno della sua barriera protettiva. Tra le mani, adesso, stringeva la sciabola dell’Assassina.

Sia lei che il Cavaliere si voltarono a guardarlo, stupiti.

Il ragazzo fece una smorfia, lasciandola cadere a terra dietro lo scudo, dove il sicario non poteva raggiungerla.

“Vi ho tolto il divertimento? Quanto mi dispiace.” sbottò ironico.

 

Taras guardò il mago con aria confusa per qualche altro secondo, e poi si voltò di nuovo a fronteggiare l’Assassina.

Notò il sangue sulla sua lama, e poi la ferita sporca di terra sull’avambraccio dell’Assassina che, per la prima volta dall’inizio del combattimento, ansimava.

Si aspettava che adesso sarebbe stato tutto molto più facile; lei era ferita, e in più disarmata. Resistette all’impulso di buttare via a sua volta lo spadone, per continuare a combattere alla pari.

Non poteva, stavolta.

Non era solo la sua vita ad essere in pericolo.

 

Algeiba ignorò il dolore, e lanciò uno sguardo al mago. Non avrebbe potuto riprendersi la sciabola; ed era certa che qualsiasi arma avrebbe estratto, Namhar avrebbe ripetuto l’incantesimo, privandogliene.

Non le rimaneva che combattere a mani nude.

Vide Taras esitare, come se volesse lasciar cadere lo spadone. Digrignò i denti, e si alzò in piedi.

“Non ti azzardare a farlo.” ringhiò “Non ho bisogno della tua pietà.” sbottò sprezzante, e si lanciò di nuovo verso di lui.

 

Taras venne preso alla sprovvista. Per qualche motivo, reagì in ritardo.

Vibrò la spada soltanto quando l’Assassina era ormai su di lui, e lo bloccava a terra. Il ragazzo ebbe appena il tempo di sorprendersi della sua forza che lei gli assestò un violento pugno sulla mascella, del tutto simile a quello con cui aveva colpito Argogas per difenderla pochi giorni prima.

Sputò una boccata di sangue, e usò il fronte della lama, che si frapponeva tra lui e l’Assassina, e le gambe per spingerla via.

La ragazza finì a terra dietro di lui, e Taras non fece in tempo a rialzarsi, tremendamente impacciato dall’armatura, che lei gli circondò il collo con le braccia, subito sostituite da un laccio.

Il ragazzo tentò di alzarsi in piedi, mentre la corda gli segava la pelle e gl’impediva di respirare, e cercò di liberarsi dalla presa dell’Assassina, che però rimase tenacemente ancorata al suo collo.

Stringeva. Stringeva sempre di più, e il Cavaliere sentì il violento bisogno d’aria. La vista gli si annebbiò, cominciò a barcollare, mentre l’Assassina continuava a stringere la presa sulla sua gola.

Sempre più forte.

 

 _______________________________

Note:

Chiediamo venia per il clamoroso ritardo! Pur avendo questo capitolo già pronto da un pezzo, con l’inizio della scuola e una serie di altre cose non abbiamo avuto un attimo di tempo per postare il quinto, che tra l’altro è anche piuttosto cortino. Per farci perdonare posteremo il sesto in settimana, il più presto possibile. Abbiamo cercato di rendere questo capitolo piuttosto veloce, con frequenti cambi di narrazione e senza descrivere tutto minuziosamente. Speriamo di essere riuscite nel nostro intento.

 

MonyPurpa: Grazie delle tue recensioni, è bello trovarne una ad ogni capitolo. Anche noi ti stimiamo! XD I tuoi dialoghi ci fanno sempre morire dalle risate. Abbiamo notato che ti sei appropriata di Taras; questo potrebbe rivelarsi un problema in caso Algeiba lo accoppasse. Ma finirà così davvero?

 

Yuaki: Non ci è sfuggita la tua recensione! Speriamo che continuerai a leggere questa fanfiction che procede a passo di lumaca, cosa che però ti darà tutto il tempo per metterti in pari XD

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Capitolo 7
*** La fine delle finzioni ***


 

E Algeiba continuò a stringere il laccio sulla gola del Cavaliere, mentre lui menava lo spadone a due mani alla cieca, cercando di colpirla, e continuò anche quando perse la presa sull’elsa, e cominciò ad artigliare impotente prima i suoi polsi, poi le sue vesti, ma lei non si lasciò strappare via. Doveva farlo. Doveva ucciderlo, e per quanto la sua testa gridasse, il suo corpo agiva da solo, temprato dall’esperienza.

Algeiba continuò a stringere, mentre il viso di Taras diventava paonazzo e poi di un malsano color viola. Continuò a stringere anche quando il Cavaliere barcollò all’indietro, abbandonando le braccia lungo i fianchi, senza avere più la forza di reagire. E continuò a stringere anche quando sentì la trachea piegarsi sotto il filo del suo laccio, consapevole che a Taras rimanevano solo pochi secondi di vita…

Un lampo di luce azzurrina, ed Algeiba cadde inerme come un sacco di patate sulle spalle del Cavaliere, che oscillò e cadde a terra steso sulla pancia, ingoiando avide boccate d’aria.

Quando Taras si fu ripreso, alzò il viso da terra, ansimante. A pochi metri da lui, il giovane mago del Consiglio che avrebbe dovuto proteggere aveva la mano ancora luminescente tesa verso di lui.

“Oh, tu guarda. Ti avevano mandato per proteggermi e alla fine è toccato a me salvarti. Che ironia.” esclamò questi, con evidente sarcasmo.

Taras si alzò in piedi appoggiandosi sulle ginocchia, ignorando la testa che girava vorticosamente.

“Se non ci fossi stato io, lei ti avrebbe ucciso subito. Non fare tanto il gradasso, anch’io ti ho salvato la vita.” mugolò, con la gola che gli doleva terribilmente.

Il mago non ribatté, palesemente irritato, e Taras raccolse e ripose la sua spada nel fodero che aveva legato alla schiena. Poi, si voltò a guardare l’Assassina che si era fatta passare per una filatrice.

Giaceva scomposta sul suolo ricoperto di foglie secche. Scoperta dal mantello mostrava, finalmente, una sfilza d’armi di ogni genere. Taras vide un assortimento di quattro pugnali infilati nella cintola, una faretra piena di frecce, delle minuscole fiale che evidentemente non contenevano tonici e il fodero della sciabola di cui era stata disarmata. C’era anche una bisaccia che le pendeva dalla schiena, e Taras intuì dalla forma che conteneva un piccolo arco. Li conosceva, quegli archi; venivano fabbricati nella Terra della Notte. Non avevano una gran gittata, ma la corda era così tesa e resistente che l’impatto con le frecce era devastante. Non se vedevano molti, in giro. La loro produzione era limitata e ora, Taras sapeva a chi era destinata.

Il corpo minuto dell’Assassina era fasciato da dei larghi calzoni e da una casacca nera; sopra questa, spiccava un curioso corpetto ornato di bottoni dello stesso colore. Infine, lo sguardo di Taras si soffermò sul suo viso, quel viso che aveva fatto vacillare pericolosamente il suo istinto. Aveva le labbra dischiuse e un’espressione accigliata, ma a parte questo, sembrava dormisse.

Taras non poté fare a meno di pensare che così somigliava ancora di più a una bambina. Il mago si accostò a lui, e prese a fissare a sua volta il corpo privo di sensi del sicario.

“Chi è?” chiese spontaneamente.

Taras si massaggiò la gola. “A me ha detto che si chiamava Fanela. Ma non so quanto possa essere vero.”

Al suo fianco, il giovane mago fremette “E’ un’Assassina?”

Taras si voltò verso di lui, e vide che stringeva i pugni e aveva i denti serrati.

“Sì” rispose “Una di quelli che volevano ucciderti e da cui tutti cercavano di tenerti lontano, ricordi? Che le hai fatto?” chiese poi.

Il mago parve riscuotersi, e si voltò a incrociare lo sguardo di Taras. “L’ho soltanto tramortita. Per il momento è priva di sensi, ma non resterà così per molto. Che hai intenzione di farci?”

Taras si accovacciò accanto a lei “La porterò nella Terra del Fuoco, al cospetto della regina Aires. Lì verrà giudicata.”

Il mago sembrò perdere la ragione. Fece due passi indietro, quasi la sua indignazione fosse troppo grande per ridursi allo spazio minimo che lo divideva dal Cavaliere. “Sei matto?” chiese spalancando gli occhi “C’è il Consiglio delle Acque qui, perché accidenti vuoi portarla nella Terra del Fuoco?”

Taras le mise una mano dietro le spalle e l’altra sotto le cosce, poi si sollevò lentamente “Perché il Consiglio delle Acque non ha il potere di processarla.” rispose, voltandosi verso il mago con l’Assassina fra le braccia “Non più. Serve un sovrano. E come saprai bene, la regina Dafne giudica soltanto le ninfe. L’unica cosa da fare è portarla alla regina.” 

Il mago fece saettare velocemente gli occhi dal suo volto a quello dell’Assassina “Non puoi farlo! Andiamo, cosa vuoi che processino? Ha cercato di uccidermi, e questo è quanto!”

Taras piantò uno sguardo furente negli occhi del mago, alterandosi.

“No, non lo è!” esclamò rabbioso “Non è così semplice! Quando una persona commette un crimine, non puoi semplicemente metterla sulla forca e tanti saluti. Siamo in un Mondo civile, o no? E’ proprio questo che ci distingue da Dohor e dal suo dispotismo. Deve essere processata, e questo è quanto.”

Quando ebbe finito, il Cavaliere oltrepassò il mago, tenendo l’Assassina fra le braccia. Si fermò al centro della radura e raccolse la sua sciabola, studiandola.

Se l’era lasciata scappare.

No, peggio, l’aveva volutamente lasciata andare. Nonostante sapesse che non poteva essere una filatrice, non l’aveva fermata. Non doveva più accadere.

Per questo doveva essere lui a portarla nella Terra del Fuoco, per riparare al proprio errore. Per poco non si era lasciato sfuggire un’Assassina e due ragazzi non erano morti. Era stato uno stupido.

Ma in fondo, sapeva di mentire anche a se stesso. La verità, era che quella ragazza gli interessava. Ricordava lo smarrimento che aveva visto nei suoi occhi azzurri quella sera alla locanda, dell’amara determinazione che le aveva letto in viso quando si erano scontrati. E soprattutto, quel fugace lampo di comprensione. Sentiva che c’era qualcosa in lei. Qualcosa che gli somigliava terribilmente.

“Quando hai intenzione di partire?” chiese improvvisamente la voce del mago alle sue spalle.

Taras si riscosse. “Immediatamente.” rispose, voltandosi verso di lui “Non voglio mancare troppo dal fronte. Sono un Cavaliere, gli servo.”

Il mago fece una smorfia “E per i viveri?”

“Caccerò strada facendo.” disse Taras, valutando le possibilità “Sarebbe uno spreco di tempo tornare in città adesso.”

E poi potrebbero impedirmi di partire, aggiunse una voce nella sua testa.

“Il mio drago non è molto lontano da qui, posso raggiungerlo e partire subito. L’unica cosa che mi serve è qualcosa per legarle le mani…” aggiunse osservando dubbioso la cintura stipata d’armi dell’Assassina.

Il mago scosse la testa e gli si avvicinò “Ti servirà ben più di un paio di manette per tenerla buona.” sbottò, e Taras non poté che dargli ragione.

A quel punto, il mago afferrò bruscamente una mano dell’assassina, e le tolse il guanto. Poi le circondò il polso col pollice e l’indice, e chiuse di occhi.

“Che cosa fai?” esclamò Taras, ritraendosi minaccioso.

Il mago lo zittì con un cenno della mano, ed esasperato, il Cavaliere lo lasciò fare. Sperava solo che non decidesse di ucciderla. In fondo sapeva poco di magia, e di certo non avrebbe potuto competere con un membro del Consiglio.

Il mago cominciò a mormorare tra le labbra una strana litania, e le sue dita si illuminarono di nuovo di luce rossa. Dal punto in cui erano a contatto con la pelle dell’Assassina, si levò un leggero fumo bianco dall’odore acre, che fece lacrimare gli occhi di Taras. Oltre il fumo, vide la ragazza aggrottare la fronte, agitandosi nel sonno con aria sofferente. Dopo un po’, il mago smise di borbottare, e sciolse la presa attorno al polso dell’Assassina.

Nel punto in cui prima c’erano le sue dita, adesso c’era una sorta di tatuaggio luminescente, che dopo qualche secondo si opacizzò, lasciando sulla sua pelle bianca dei fregi neri, simili a rune.

Taras alzò gli occhi sul mago, guardandolo con aria interrogativa. Lui sembrò rispondere di malavoglia.

“E’ un sigillo.” spiegò, stringendosi nelle spalle “L’ ho formulato in modo che non possa allontanarsi da te per un raggio superiore alle sei braccia*, e se lo vorrai anche di meno. Inoltre la indebolirà. Se per esempio volesse provare a strangolarti –di nuovo- perderà le forze per un po’ di tempo. E’ semplice. Per scioglierlo, devi semplicemente prenderle il polso come ho fatto io e dire Oein. Vuol dire apriti.”

Taras annuì, come se già lo sapesse.

“Così non scapperà.” concluse il mago, e i suoi occhi blu cupo si illuminarono di una strana luce.

Il Cavaliere fece un mezzo sorriso. Lui e quel ragazzo non avevano cominciato nel migliore dei modi, ma per qualche motivo, gli era simpatico.

“Bene. Ti ringrazio…”

“Namhar.” concluse il mago, ricambiando mestamente il sorriso.

“Taras.” si presentò a sua volta il Cavaliere.

Poi, lo sguardo di entrambi calò sulla piccola figura in nero che dormiva immobile, svenuta, tra le sue braccia.

“Loro hanno ucciso il mio Maestro.” sibilò Namhar tra i denti, senza staccare gli occhi dal volto dell’Assassina “L’ hanno ammazzato come un animale, con una coltello intriso di veleno. L’unico motivo per cui io sono qui, è perché lui ha usato le sue ultime forze per salvarmi. Era come un padre per me.” con un sussulto, alzò lo sguardo verso Taras, come accorgendosi di aver detto troppo. Ma si riprese in fretta, e alzò il mento con orgoglio, fissandolo con fredda rabbia “Fa’ il modo che arrivi davanti alla regina.”

Taras annuì con convinzione “Farò del mio meglio.”

Anche Namhar annuì. “Adesso va’. Prima parti, prima arrivi,”

Il ragazzo non rispose, ma fece un lungo fischio che echeggiò per tutto il bosco. Pochi secondi dopo, una figura imponente si stagliò sul cielo notturno, e la luce della luna filtrava attraverso le sue ali diafane mettendo in risalto le vene più scure.

Hìrador planò dolcemente nella piccola radura, sollevando una folata di vento che investì sia Taras che Namhar, scompigliando loro i capelli.

Senza parlare, il Cavaliere infilò un piede nella staffa della sella e sistemò con un po’ di difficoltà il corpo inerme dell’Assassina contro l’arcione, dove poteva averla ben in vista. Poi si issò a sua volta, afferrando gli appigli della sella oltre i suoi fianchi,

Abbassò lo sguardo verso il mago.

“Dovrai tornare da solo in città. Credi di farcela?” lo schernì.

“Me la caverò.” rispose a tono Namhar, con un sorrisetto.

Anche Taras sorrise e poi, con un lieve colpo ai fianchi del drago e un breve vuoto allo stomaco, furono in cielo.

 

 

Namhar camminava al buio, lentamente e soprappensiero, lungo la strada che aveva percorso per arrivare in quel bosco di latifoglie dove era quasi morto. Gli uscì uno sbuffo. Quasi morto. La vedeva dura come definizione. O si muore o non si muore, punto.

La Gilda l’aveva trovato. Era riuscita ad arrivare a lui, e Namhar, come uno scemo, per poco non si era lasciato ammazzare. Aveva fatto proprio quello che il suo Maestro gli aveva raccomandato di non fare, durante i suoi ultimi minuti di vita. La cosa che gli bruciava di più, in tutta quella faccenda, era che il Consiglio aveva avuto ragione. Se non ci fosse stato quel Cavaliere, quel Taras, a quell’ora sarebbe stato morto.

Con rabbia, ripensò al volto addormentato dell’inviata della Gilda. La tentazione di ucciderla, quando aveva avuto la sua mano molle e fragile nella sua, era stata forte. Per qualche secondo, aveva immaginato come si sarebbe sentito se, invece di imprimere il sigillo, le avesse semplicemente tagliato le vene. Sarebbe stato così facile, e anche giusto, in un certo senso…

Ma Flaren non avrebbe voluto questo. Il suo Maestro non faceva altro che ripetere che la magia non doveva essere usata per togliere la vita, e suo malgrado, Namhar non riusciva ad andare contro i suoi insegnamenti. Erano l’unica cosa che gli rimaneva di lui.

Improvvisamente, sentì un dolore lancinante alle gambe, proprio dietro il ginocchio. Namhar provò a fare qualche altro passo, ma poi cadde in ginocchio, prostrato dal dolore. Ansimando, si voltò sulla schiena, e osservò raggelato il punto che gli doleva. Dalle sue gambe, uscivano per due o tre dita due aghi sottili, infilati direttamente tra le giunture. Ecco perché non se n’era accorto prima.

Maledizione.

Cadde disteso con la testa che gli girava vertiginosamente, mentre il sapore amaro della bile gli saliva alle labbra.

Mi ha avvelenato.

Non aveva idea di quando fosse successo. Per quanto aveva visto, il Cavaliere aveva fermato la mano dell’Assassina appena prima che gli tagliasse la gola, e quasi immediatamente dopo aveva eretto attorno a sé lo scudo protettivo.

Dev’essere successo in quell’arco di tempo. Dovevo saperlo…

Sembrava quasi stupido morire così. Da solo, in quel bosco, dopo essersi andato a cacciare volutamente la morte. Avvelenato, per di più.

Proprio come Flaren.

Desiderò aver ucciso quell’Assassina. Desiderò aver compiuto la sua vendetta, aver fatto qualcosa di concreto nella sua vita. Dalla fronte gli scendevano stille di sudore freddo, e sentì il suo corpo muoversi da solo in preda alle convulsioni. La vista gli si oscurò.

Sto per morire.

Pensò scioccato. Stava davvero per succedere. E la cosa più incredibile, era che non aveva paura. Anche il dolore era sopportabile.

Stranamente, sentì il tocco di qualcosa di soffice e profumato sul viso, e un alito di vento caldo a pochi palmi dalle sue labbra.

Che strane sensazioni s’inventa il tuo corpo, appena prima della fine.

E con quell’ultimo, lucido pensiero cadde in un sonno freddo e tormentato.

 

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Note:

Altro capitolo corto, lo sappiamo. Il fatto è che non ci piace allungare i capitoli tanto per allungarli, quando riteniamo ci voglia uno stacco, allora stacchiamo. In compenso il prossimo è quasi pronto, e lo posteremo tra pochissimo ^__^ Che dire? Non ci sono grandi commenti da fare, è corto e non c'è grande azione. Davvero, promettiamo che il settimo capitolo arriva presto XD Saluti, e grazie a chi recensisce e anche a chi passa solo di qui!

MonyPurpa: Tutte le volte che entriamo sul sito veniamo a controllare se c'è la tua recensione XD Ci facciamo sempre delle grandi risate, ed è bello vedere che ci segui con tanta partecipazione! Povero Aster, anche lui ha dei begli occhi... Non ti preoccupare, non hai niente da invidiare a Taras! Di certo non hai avuto nessun momento così poco dignitoso come quello in cui lui viene quasi strangolato da una ragazza... Stupido inetto di un Cavaliere dai capelli blu. XD A parte questo, grazie davvero per l'aver commentato ogni capitolo fino ad ora. Ti abbracciamo, un bacio! XD

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Capitolo 8
*** In viaggio ***


Un dolore forte e pulsante le martellava il braccio. Algeiba aggrottò le sopracciglia ed emise un gemito tra le labbra. Poi, improvvisamente, si ricordò. Spalancò gli occhi e rotolò a terra, allungando la mano verso uno dei pugnali che aveva nella cintola. Non tutto era perduto. Poteva ancora salvarsi.

Ma le sue dita strinsero solo aria, e quando la ragazza si mise in posizione di guardia, accovacciata a terra con i muscoli tesi, si accorse che non si trovava più nella piccola radura vicino Laodamea.

Era in un bosco, certo, ma vicino al luogo in cui si era svegliata scorreva placido un basso torrente, che rendeva il terreno umido e molle. Algeiba si tirò su lentamente, respirando forte.

Era al centro di un piccolo accampamento. A pochi metri da lei, scoppiettava un fuoco magico circondato da pietre, sopra cui era appesa una pentola che sembrava piena d’acqua calda. Guardò verso sinistra, e vide un basso cumulo di foglie secche ricoperto da un lenzuolo, che doveva essere stato il suo giaciglio. Continuò a guardarsi intorno per un po’, ma a parte lei, non sembrava esserci nessun altro.

Si permise di abbassare lo sguardo sul suo corpo. La sua cintura era sparita, e con essa le sue armi, e così il corpetto e la bisaccia. La manica sinistra della casacca era arrotolata sopra il gomito, ed Algeiba vide una fasciatura bianca attorno al suo avambraccio, macchiata da una mezzaluna di sangue. Si portò una mano a sfiorare la ferita, e trasalì. Bruciava, e sembrava gonfia.

Ma questo non è il momento di pensarci.  

Riprese a guardarsi intorno, chiedendosi dove si trovasse. Aggrottò le sopracciglia, sforzandosi di pensare. L’ultima cosa che ricordava erano le sue braccia attorno al collo di Taras. Poi più nulla.

Algeiba alzò lo sguardo verso il cielo. Era pomeriggio inoltrato, a giudicare dalla luce e dalla posizione del sole. Quindi, secondo l’ipotesi più ottimistica, erano passate almeno venti ore da allora.

Perlustrò di nuovo l’accampamento con lo sguardo. Nessuno. Possibile che chiunque l’avesse catturata se ne fosse andato così, senza prendersi nemmeno la briga di legarla? Era strano. Troppo strano.

Ma non avrebbe guardato in faccia alla fortuna, se poteva scappare, tanto meglio. Non riusciva a vedere nessuna delle sue armi, ma non poteva sperare tanto. Le dispiaceva un po’ per la sua sciabola e il diario, ma la sua libertà era più importante.

Libertà. Che parola grossa.

Ignorò quel pensiero, e senza indugiare oltre prese a correre via da quell’accampamento improvvisato. Superò il fuoco, il giaciglio, i primi alberi intorno al bivacco, ma non riuscì ad andare oltre. Una forza invisibile la sbalzò di nuovo all’indietro, facendola cadere a terra.

Algeiba si alzò facendo leva sul braccio sano, senza capire. Provò di nuovo a muoversi in quella direzione, ma di nuovo una forza, proporzionale a quella che aveva usato per andare incontro a quell’invisibile barriera, la fece indietreggiare.

Sconvolta, Algeiba provò a scappare in altre direzioni, ma ogni volta era costretta ad arretrare, come se qualcosa la incatenasse all’accampamento vicino al torrente.

Disperata provò a tornare indietro, percorse la strada a ritroso fino al bivacco e poi lo superò, dirigendosi di corsa verso le acque tranquille del torrente…

Di nuovo si ritrovò distesa a terra, il respiro mozzato dall’impatto con il suolo. Si puntellò sui gomiti, troppo confusa e frustrata per badare al dolore all’avambraccio. Fu allora che lo sentì.

“Dove pensi di andare, filatrice?” chiese una voce nota alle sue spalle, palesemente divertita.

In un secondo, Algeiba fu in piedi, facendo per estrarre una spada che non aveva. A circa sei braccia da lei, all’altro capo dell’accampamento, il Cavaliere di Drago di nome Taras la osservava con arroganza, con le spalle appoggiate ad un albero. Non indossava più l’armatura, ma un semplice completo da viaggio, anche se il grande spadone a due mani rimaneva legato alla sua schiena.

Algeiba istintivamente ringhiò, e fece per indietreggiare di un passo. Ma sentì distintamente contro la schiena una pressione opposta, che le impediva di muoversi oltre.

Il Cavaliere ridacchiò. Sembrava proprio che si divertisse.

“Non hai ancora capito che non puoi allontanarti da me più di così? Siamo legati, filatrice, che ti piaccia o no.”

Algeiba si guardò intorno, cercando la sottile corda o catena di cui parlava il Cavaliere. Poi capì.

“Esatto.” esclamò Taras, leggendo la comprensione sul suo viso “Magia. Guardati il polso.”

Automaticamente la ragazza abbassò lo sguardo sul braccio ferito, ma non vide niente. Poi, con lentezza, sollevò l’altro braccio di fronte al viso. La manica della tunica le scivolò lungo l’avambraccio, e Algeiba lo vide.

Un tatuaggio di rune fittamente intrecciate le cingeva il polso come un bracciale. Sapeva che cos’era.

“E’ un sigillo.” la precedette il Cavaliere, visibilmente compiaciuto “Sei braccia è la distanza massima che può separarci. Hai una vera e propria attrazione per me.” aggiunse con insolenza.

Algeiba smise di osservarsi il polso e sollevò verso di lui uno sguardo feroce. Ci mancava solo questo. Un Cavaliere arrogante e spocchioso che si divertiva a fare giochi di parole.

“Nel caso tu non lo sappia, Cavaliere, mi basta uccidere il depositario dell’incantesimo per essere libera. Quindi ti conviene guardarti le spalle.”

Taras inarcò un sopracciglio con fare sarcastico.

“E nel caso tu non lo sappia, Assassina, ti riuscirà piuttosto difficile uccidermi senza nemmeno un’arma. Quindi, fossi in te, eviterei di fare minacce a vuoto.”

Algeiba si morse le labbra, consapevole che aveva ragione. Il Cavaliere non era uno sprovveduto, e come aveva avuto modo di vedere, era un abile combattente. Anche se avesse cercato di colpirlo mentre dormiva, avrebbe potuto fare ben poco. In più, lui era armato.

“E tra parentesi” proseguì il Cavaliere “Questo sigillo è formulato in modo che se dovessi provare ad attaccarmi a mani nude, perderesti le forze. Quindi non puoi fare niente contro di me.”

Algeiba sorrise amara “Certo. Perché senza questo giochetto non avresti opportunità di battermi.”

Taras scrollò le spalle, affatto colpito “Libera di crederlo.”

Improvvisamente, Algeiba sentì un senso di vertigine, come se stesse per svenire. Vacillò appena sul posto, e l’espressione arrogante del Cavaliere si incrinò.

“Sei ferita,” le disse, avvicinandosi a lei a grandi passi “E il taglio si sta infettando. Smettila di fare la testarda e siediti.”

Algeiba non si mosse, stringendosi con la mano il braccio dolorante, uno sguardo sprezzante fisso in quello del Cavaliere. Taras sbuffò, e la prese per il braccio sano, trascinandola verso il giaciglio.

La ragazza oppose resistenza, puntando i piedi, ma il Cavaliere non l’assecondò.

“Oh, finiscila, non costringermi a legarti.”

“Anche se lo facessi servirebbe a poco.” sibilò Algeiba.

“Appunto.” sbottò Taras.

La obbligò a sedersi sul pagliericcio, e poi si accovacciò di fronte a lei. Le rivolse uno sguardo severo, che la ragazza ricambiò con uno di pura avversione. Taras sbuffò, e le prese il braccio. Con un paio di movimenti esperti svolse la benda che glielo fasciava, e osservò la ferita. Con disgusto, Algeiba notò che quello che era cominciato come poco più di un taglio si era ridotto a uno squarcio gonfio e sanguinolento, con un aspetto molto poco rassicurante. Taras lo esaminò con aria critica, e dopo un po’ estrasse una foglia larga e spessa da una bisaccia che gli pendeva dalla cintura. La mise in bocca e la masticò per un po’, per poi sputarsi sulla mano una poltiglia blu verdastra, che avvicinò alla ferita.

Algeiba si ritrasse, tenendosi il braccio stretto al petto, uno sguardo diffidente fisso sul volto del Cavaliere. Questi alzò gli occhi al cielo, e senza dire altro le riprese a forza il braccio e ci spalmò sopra l’intruglio medicinale.

Algeiba lo lasciò fare controvoglia, per il semplice fatto che non voleva che la curasse. Conosceva quella pianta, e sapeva che aveva sul serio proprietà mediche. Ma le dava fastidio il fatto che fosse lui a medicarla.

Suo malgrado, appena l’impasto fresco le venne spalmato sulla ferita sentì un immediato sollievo. Capì che l’unico motivo per cui il Cavaliere si era allontanato era trovare le erbe mediche per fermare l’infezione.

“Non facevi che agitarti mentre venivamo qui.” disse Taras, quando ebbe finito di masticare la seconda foglia “Avevi la fronte calda e mugugnavi qualcosa. Era Righel, giusto?”

Algeiba sussultò, e abbassò lo sguardo. Ricordava di aver fatto l’ennesimo incubo, e anche stavolta riguardava Righel. Lui e il mago di nome Namhar le camminavano incontro, gli sguardi supplicanti, chiedendo pietà. Lei li uccideva ancora e ancora, ma ogni volta loro tornavano, e lei era costretta a farlo di nuovo, finché non era sprofondata in un sonno più profondo.

Non rispose, lasciandosi applicare l’unguento sulla ferita.

“E’ tuo padre, filatrice? Non si chiamava Lao? Oppure è il tuo maestro nella Gilda?” chiese con violenza il Cavaliere, stringendo il nodo sul bendaggio così forte che Algeiba strinse i denti.

Alzò uno sguardo sdegnoso verso di lei, uno sguardo totalmente differente da quelli arroganti o ironici che le aveva rivolto prima. Algeiba rimase di nuovo in silenzio, sottraendo bruscamente il braccio alla sua presa. Ricambiò il suo sguardo con uno di sfida.

“Perché è questo che sei, vero Fanela? Un’Assassina. E io come uno stupido mi sono lasciato abbindolare.”

Nei suoi occhi dal colore indefinibile c’era una scintilla di rabbia repressa, ma anche qualcos’altro, che Algeiba non avrebbe saputo definire.

“Ma scommetto che neanche ti chiami Fanela. Come ti chiami veramente, eh? Con quale nome ti chiamano i tuoi amici sicari?” aggiunse con amara ironia, senza distogliere lo sguardo dal suo.

Algeiba incurvò un lato delle labbra in un sorriso senz’allegria, quasi cupamente divertito.

“E tu dove mi stai portando, Cavaliere? Non mi hai lasciata a Laodamea. Per quale assurdo motivo devo sopportare la tua presenza?” chiese ironica.

Taras scosse la testa, sorridendo rassegnato, e poi si alzò in piedi.

“Ad Assa, nella Terra del Fuoco, al cospetto della regina. Lì ti attendono il processo e la condanna.” rispose asciutto.

Per Algeiba fu come ricevere un pugno nello stomaco. Avrebbe dovuto vivere, ancora, e viaggiare con quell’odioso Cavaliere fino ad Assa, per avere lo stesso verdetto che avrebbe ricevuto a Laodamea.

Lo guardò con odio, e senza dire altro si coricò su un fianco, osservando accigliata le rune tatuate sul suo polso. Di nuovo, la fine della sua miserabile vita era stata ritardata.

 

 

Taras la osservò chiudersi in quel silenzio ostinato a poca distanza da lui, e fece una smorfia. Quella ragazza era incredibilmente cocciuta. Ed era un’Assassina, era malvagia.

A quel pensiero, qualcosa nella sua mente reagì. Rivide i suoi occhi, quegli occhi azzurri torbidi come le acque del Saar, colmi di quella determinazione fredda, vacua, e allo stesso tempo brillanti di quella strana luce che, per qualche motivo, gli era parsa familiare.

Scosse la testa e abbassò lo sguardo sulla pentola d’acqua che gorgogliava dolcemente sul fuoco, e vi immerse delle radici e qualche spezia. Mescolò distrattamente il contenuto e poi coprì la pentola con il coperchio, accigliato. Senza che se ne rendesse conto, il suo sguardo era scivolato di nuovo verso la figura dell’Assassina, distesa sul giaciglio dall’altra parte del falò.

Doveva portarla ad Assa. Doveva condurla al cospetto della regina Aires e farlo al più presto, come aveva promesso a Namhar. Doveva farlo, e non avrebbe esitato mai più.

 

 

Partirono l’indomani mattina. Taras la svegliò battendole forte le mani vicino all’orecchio, e sembrò divertirsi molto quando Algeiba scattò in piedi allarmata. Ogni giorno che passava, la ragazza sentiva di odiarlo di più.

Il Cavaliere radunò le sue poche cose, che ripose in una grossa sacca a spalla, spense il fuoco e prese a farle strada attraverso il bosco, senza neanche dirle dove stavano andando. Algeiba, dal canto suo, lo seguiva senza fare domande, automaticamente. Il suo passo era così silenzioso che spesso il Cavaliere doveva voltarsi a controllare che ci fosse ancora.

La guidò fino a una vasta radura poco lontana, inondata dal sole tiepido d’inizio inverno. Appena Algeiba uscì dall’ombra degli alberi e immediatamente si bloccò, terrorizzata.

Al centro della radura c’era una creatura grandissima, con delle enormi ali ripiegate lungo il corpo possente. Le zampe dell’animale erano alte poco meno di lei e spesse il doppio, e una lunga coda spinata frustava nervosamente l’aria. Il muso era coriaceo, allungato, con due buchi per narici, due grandi occhi verde smeraldo e, soprattutto, una bocca smisurata piena di denti aguzzi. Le scaglie dorate della creatura brillavano al sole mattutino, spargendo riflessi ocra tutto intorno.

Un drago, pensò Algeiba, senza fiato. Non ne aveva mai visto uno, non dal vivo. E le illustrazioni dei suoi libri erano molto meno… imponenti. Quella creatura le metteva addosso una certa agitazione.

Intanto, Taras si era avvicinato tranquillamente al drago, e adesso gli stava dando delle pacche affettuose su un fianco, mentre agganciava la sacca a dei legacci di cuoio che pendevano dalla sella.

Dopo un po’ parve accorgersi che Algeiba non era dietro di lui. Si voltò lentamente, fino a incrociare la sua figura rigida, bloccata ai margini della radura. Inarcò le sopracciglia.

“Allora? Che aspetti?”

Algeiba alzò il mento in segno di sfida, senza muoversi da dove stava “Io su quel coso non ci salgo.”

Il drago ringhiò infastidito, e una nuvola di fumo uscì da una delle narici. Cosa che non fece altro che scoraggiarla ancora di più dall’avvicinarsi.

Taras scoppiò a ridere. “Guarda che ci sei già salita. Come credi che siamo arrivati fin qui?”

“Ero svenuta!” sbottò Algeiba, esasperata.

Taras scosse le spalle. “Beh, io ci salgo. Quindi se non vuoi penzolare nel vuoto a sei braccia da me, ti conviene seguirmi.”

La ragazza rabbrividì al pensiero e, di malavoglia, si avvicinò cauta all’enorme drago dorato. Questo fissò due occhi verde brillante su di lei, con atteggiamento poco amichevole. Per la seconda volta, una nuvola di fumo gli uscì dalle narici.

Visibilmente divertito, Taras batté un altro paio di pacche sul fianco del drago per tranquillizzarlo.

“Su Hìrador, ti assicuro che non morde.”

Il drago rivolse ad Algeiba uno sguardo che sembrava ricordarle che lui, invece, lo faceva eccome.

Taras rise di nuovo. “Mi spiace, ma dobbiamo portarla con noi, amico mio. Lo so, anch’io la preferivo quando dormiva.”

Algeiba gli lanciò uno sguardo di fuoco. “Mi fai salire o no?” chiese brusca.

Con un sorrisetto irritante, il Cavaliere si avvicinò a lei, e la aiutò ad issarsi sulla sella. Algeiba afferrò l’arcione con tutte le sue forze, mentre Taras si sistemava dietro di lei, e le cingeva i fianchi con le braccia per arrivare agli appigli della sella.

Decisamente compiaciuto, vide le nocche della ragazza sbiancare intorno all’arcione.

“Non preoccuparti.” le sussurrò all’orecchio “Il volo non è difficile, infondo è come andare a cavallo. E il decollo, che dà più problemi.”

Algeiba non rispose soltanto perché aveva paura che se avesse aperto bocca avrebbe vomitato.

Poi, senza avvertirla, il Cavaliere dette un colpo ai fianchi del drago, che spalancò le ali, le sbatté e si staccò da terra. L’urlo terrorizzato di Algeiba riempì la radura. 

 

 

Elnath chiuse gli occhi, lasciando che il frizzante vento autunnale gli rinfrescasse il viso e gli scompigliasse i capelli. Sotto di lui, Morwen sbatteva le ali con forza per guadagnare terreno sulla dragonessa bianca davanti a loro. Il bambino non si sarebbe mai aspettato che Estella, molto più grande di Morwen, riuscisse ad andare così tanto più veloce di lei. Avevano molto da imparare.

Tutti e due, pensò di malavoglia.

Accarezzò uno dei fianchi neri della dragonessa.

Ci siamo quasi, piccola.

Il Cavaliere di Drago, Parascheuazo, li stava portando ad accamparsi in un posto sicuro, dove avrebbero potuto passare qualche tempo, allenandosi, aveva detto. Era una piccola foresta che Elnath conosceva come Bosco Marino. Quando Parascheuazo l’aveva nominato, il bambino aveva avuto un tuffo al cuore; era vicinissimo a Laia, la sua città natale.

Si trovava al confine tra la Terra del Mare e la Terra dell’Acqua, e dal luccichio sempre più debole della distesa azzurra alle sue spalle, Elnath intuì che erano quasi arrivati.

Lanciò uno sguardo malinconico al mare. Non si era mai allontanato così tanto dalla costa. In un certo senso, il riflusso delle onde in lontananza gli dava un senso di familiarità, di protezione. Inoltrarsi così tanto in un entroterra sconosciuto lo rendeva ansioso.

Non sapeva perché alla fine avesse deciso di seguire quel soldato. Nonostante fosse passata una settimana, ancora, dentro di lui, scalciava l’idea di piantarlo in asso e tornare indietro. In fondo, non sapevano granché di quel tizio. Magari li stava portando in un accampamento militare, verso morte certa.

Eppure, Elnath sapeva che non era così. L’aveva convinto a seguirlo dicendogli che avrebbe dovuto lottare per il Mondo Emerso con la sua dragonessa, e il bambino aveva letto una tale passione nei suoi occhi che non credeva avrebbe potuto mentirgli.

L’aveva seguito perché le sue parole l’avevano infiammato. Perché dopo tanto tempo si era sentito di nuovo un bambino in vena d’avventure, con un futuro di gloria e battaglie di fronte a sé. Quelle sensazioni gli ricordavano gli anni passati ad allenarsi con suo padre sulla spiaggia, gli donavano uno scopo più alto di quello di salvare la pelle. Ma non era solo questo.

Per qualche motivo, sapeva che quella era la sua strada. Dietro quel Cavaliere brusco e sconosciuto, per allenarsi, per combattere. Per qualche motivo, sentiva che era quello il suo destino.

 

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Note:

 

Ci stiamo avviando verso il solito, prevedibile tema del viaggio, che però si presta benissimo a una storia di tipo fantasy XD Spero siate felici che Elnath (insieme a Morwen) abbia deciso di andare con il Generale e la sua Estella verso nuove avventure! Fa tanto episodio dei pokémon… Nient’altro da dire che buona lettura!

 

Josie e June

 

MonyPurpa: Ecco la nostra fedele lettrice! E’ bello vedere che ti piace davvero Taras e che la nostra storia ti appassiona. Una domanda; cos’è un AK-47? XD

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