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di Daphne Chasseur
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 23 ottobre 1990 ***
Capitolo 2: *** Cioccolata ***
Capitolo 3: *** Jane, Jared ***
Capitolo 4: *** Like a virgin ***
Capitolo 5: *** Artista ***
Capitolo 6: *** Il giorno moriva, assai dolcemente ***
Capitolo 7: *** Resto qui ***
Capitolo 8: *** Profumo ***
Capitolo 9: *** Central Park ***
Capitolo 10: *** La storia di Amanda e Luca (parte prima) ***
Capitolo 11: *** La storia di Amanda e Luca: l'imprevisto (parte seconda) ***
Capitolo 12: *** Addii ***
Capitolo 13: *** "La cavalleria è morta" ***
Capitolo 14: *** Connessioni ***
Capitolo 15: *** Una piccola stella ***
Capitolo 16: *** Dobbiamo dovere ***
Capitolo 17: *** Lei ***
Capitolo 18: *** Inizio ***



Capitolo 1
*** 23 ottobre 1990 ***


Non so perché stia facendo questo, nemmeno perché, dopo tutto questo tempo, solo ora ho ho deciso di prendere in mano queste pagine.
Una seconda volta.
L’ultima.
Non è la parola “fine” che cerco, tantomeno un nuovo inizio.
Semmai, mi chiedo perché, certe notti, io continui a fissare quel manto di velluto blu in cui i diamanti rimangono impigliati alla ricerca di un senso che tu, tempo fa, hai cercato di dare.

Ti ricordo così. Ho forse altra scelta?

*****



Ricordo il caldo e la luce.
Un’intensa sensazione di benessere che, come una morbida scossa, attraversa ogni singola fibra del mio corpo. Come se fossi una fredda e rigida statua che prende, d’un tratto, vita dall’interno.
E poi… il buio.

Mi ritrovo in uno dei tanti piccoli bar che costeggiano Central Park. Sul tavolino, una tazza di caffè fumante e un mucchio di fogli. Sono stanca.
Il mio tempo, ormai lo so, sta per terminare.
Sono circondata da un brusio indefinito di voci e suoni che giungono da ogni parte: creano una sorta di barriera attorno a me.
Devo scrivere e devo farlo in fretta.
La mia storia non ha senso o forse ne ha di più di quello che io stessa pensi. Comunque sia, devo lasciarne un segno perché la mia storia è un messaggio.
Per chiunque non si sia mai accontentato dell’ordinario.
Lascio quindi spazio ai ricordi: lasciando andare, senza alcun freno, la mia memoria, sarò spettatrice degli eventi che segnarono la mia esistenza tanto quanto te.


Quel 23 ottobre 1990 pareva che la pioggia, indifferente e capricciosa, non volesse smettere di cadere su una New York infreddolita e fin troppo cupa. A differenza dei newyorkesi, io l’accoglievo come un dono. Un’amica che nascondeva le mie lacrime ai fintamente compassionevoli sorrisi altrui.
Ero appena uscita da scuola e, indifferente come la mia amica, non mi affrettavo verso la fermata della metro e non mi coprivo col cappuccio.
Arrivai sotto casa mia, venti minuti dopo.
E fu allora.
Ancora adesso –ancora adesso che non ha più senso porsi domande!- mi chiedo se fosse stato tutto prestabilito, prima. Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi preso la metro, se avessi scelto di mangiare fuori, se avessi deciso di non rientrare subito.
Se non mi fossi voltata e se i miei occhi non si fossero posati su di te.
Che cosa sei stato? Una maledizione o una benedizione?
Questa è una delle due domande a cui posso rispondere senza esitazioni.
Ma intanto, in quel lontano 23 ottobre, eri semplicemente un ragazzo, come me, sotto la pioggia avida di bagnarti. E tu, incurante delle sue gocce senza pudore, con lo sguardo perso e insicuro dall’altra parte della strada.

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Capitolo 2
*** Cioccolata ***





Come nei film, quando il protagonista percepisce il tempo fermarsi e gode di quell’inspiegabile dilatazione sensoriale, venni riportata alla realtà da una voce che, inizialmente, sentivo arrivare da lontano e che, poi, si fece solida e concreta. Mia zia, uscita dal piccolo ristorante che gestiva col suo compagno, avvolta in malo modo in uno scialle turchese, mi prese per il braccio costringendomi a staccare gli occhi da quel ragazzo e trascinandomi nel locale, caldo e soprattutto asciutto.
“Ma che ti prende! Sei completamente bagnata. Su, corri ad asciugarti che fra poco arriverà una mandria di ragazzi affamati”. Severa, ma benevola come sempre, mi lanciò diverse occhiate sospettose mentre andavo a cambiarmi.
Tornai subito poiché ero ben consapevole che a quell’ora, e con quel tempo, ci sarebbero state parecchie persone da servire. Mi legai un grembiule alla vita e mentre lo allacciavo non potei non gettare uno sguardo fuori.
Lui era ancora là.
Con il volto leggermente coperto dal cappuccio del giubbotto in cui si stringeva senza, apparentemente, sentire davvero freddo.
L’entrata di una decina di ragazzi mi costrinse a impostare i miei pensieri sul lavoro. Iniziai a prendere un paio di ordinazioni, ma ero comunque distratta da quell’ombra ormai indistinguibile sotto la pioggia.
Mentre servivo una coppia vicino alla finestra, mi accorsi che era sparito.
Confusa, senza alcun motivo, mi allontanai dal tavolo, ma andai a sbattere contro qualcuno che in quel preciso istante apriva la porta del locale.
“Oddio, scusa, io non so cosa…” inizia a farfugliare, ma poi annegai, oh sì!, annegai in due occhi d’un azzurro intenso e depresso.
“Scusami tu” disse lui e poi rimase in silenzio, cogliendo come me la momentanea attenzione della sala.
“Ti porto il menù, accomodati pure” mi ripresi.
“No no, grazie, ho solo bisogno del telefono” gesticolò. “E’ laggiù, in fondo a sinistra”.
“Grazie”
“Figurati”.
Il brusio ricominciò, rassicurante, e io tenni d’occhio quel misterioso ragazzo per un paio di minuti, il tempo che durò la sua telefonata. Stavo lucidando un paio di bicchieri quando si avvicinò al bancone e, esitante, si sedette senza ordinare nulla.
Aveva freddo ed era bagnato dalla testa ai piedi, ma se ne restava là, seduto, a fissare il legno segnato dagli anni.
Allora, presi l’iniziativa, e un po’ per intuito, un po’ per compassione gli portai una cioccolata calda che avevo preparato tra un giro e un altro ai tavoli.
“Offre la casa” dissi, abbozzando un sorriso impacciato. All’aroma di cacao che gli ponevo sotto il naso, si calò il cappuccio.
Potei così vedere bene in volto un ventenne dai lineamenti perfettamente disegnati e coi capelli castani arruffati e umidi. Colsi soprattutto la meraviglia, l’incredulità e l’indifferenza: tre emozioni che, rapidissime, attraversarono il suo viso, spostando e cambiandone i tratti.
“Perché?” mi chiese, più come un’accusa che come una domanda.
Ma ero pronta a mettermi sulle difensive anch’io. “Se sei così estraneo alla gentilezza, la bevo io e mi scuso per il disturbo” e feci per andarmene con la tazza in mano. Ma allora, mi fermò e quel contatto con quelle mani lisce e fredde mi fece venire i brividi. Quante volte, dopo la prima, rabbrividii ancora, ancora e ancora. L’abitudine, distrutta ogni volta dalla meraviglia di quel tocco.
“Grazie” e la tensione si sciolse in un sorriso. Prese la tazza e accolse con piacere il calore che ricevevano le sue mani.
“Grazie” ripeté.

Mi allontanai, sbirciandolo con la coda dell’occhio mentre gustava quella bevanda calda e notando che spesso si soffermava a guardarmi.
Poi parlò, rivolgendosi a me: “Sai se c’è qualche buon appartamento in affitto, qui vicino?”. Continuava a fissarmi. Sentivo quegli occhi perforarmi l’anima.
“Io.. io, non so, sì, ma appartamenti piuttosto grandi”.
“Ah, ok…”. Deluso.
Idea! Stupida, senza senso e inaspettata.
“Ma se vuoi, sopra questo ristorante affittano una camera abbastanza spaziosa con un appartamento in comune a un prezzo stracciato”.
Si illuminò.

“Davvero? E puoi dirmi quale persona devo cercare?”.
Seria. Sii seria, mi dissi. Ma non ce la feci e sorrisi.
“Ce l’hai davanti”.

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Capitolo 3
*** Jane, Jared ***


Mentre salivamo le scale, nel retro della tavola calda, elencavo a quel ragazzo tutte le informazioni riguardo all’affitto e lui mi ascoltava, talvolta annuiva, ma non faceva alcuna domanda. Era stanco, direi anche sfinito perciò fui piuttosto concisa.
Entrati nell’appartamento gli feci fare un breve tour di quello che sarebbe stato, per un anno, il suo rifugio.
La stanchezza non gli permetteva di controllare le emozioni più istintive, quindi non fu difficile scorgere la soddisfazione e il compiacimento davanti a ciò che gli mostravo. La mia casa era piccola, sì, ma con gli anni la mia fantasia l’aveva plasmata secondo il mio volere.
La cucina, coloratissima, dava su un salottino in cui tutto s’aggirava attorno al colore blu. Blu erano i puff di fronte al divano, azzurro, d’una tonalità tendente al grigio azzurro il tappeto e d’un profondo azzurro marino la libreria che avevo dipinto io stessa. Il tutto, apparentemente contrastante, s’incastrava perfettamente in un gioco di colori che sembrò piacergli. All’angolo del salotto una scala portava, poco  più sopra, alle uniche due camere da letto.
La mia, davanti a cui passai in fretta per evitare che lui potesse avere un’idea concreta del termine “caos” e quella che mi capitava talvolta di affittare a giovani studenti di passaggio. Appena lo feci entrare, pose il borsone per terra e iniziò a girovagare per la stanza toccando qua e là i mobili e respirando con una sorta di divertente approvazione l’aria.
Poi si fermò sui quadri.
“Li posso togliere, non ci sono problemi” m’affrettai.

Uno dei miei passatempi preferiti era dipingere o disegnare. Qualche volta decidevo di incorniciare un paio di schizzi e non avendo molto spazio, li portavo in quella camera.
“No, no… li hai fatti tu?”
“Sì”
Si soffermò soprattutto sul dipinto che troneggiava nella parete di destra. Un tramonto, pittura risalente al breve soggiorno in Africa con mia zia, che avevo tentato di rappresentare usando tutte le sfumature di rosso e arancione possibili.
“Guarda le sfumature rosse in cielo…” sussurrò, fra sé e sé.
D’un tratto, si volse verso di me e stranamente risoluto disse “La prendo”
“Perfetto. Ora sono di fretta, più tardi possiamo metterci d’accordo sull’affitto da pagare, ok?”
“Certo…” e mi guardò, sempre sorridente, allungando  la sua mano verso di me.
Inizialmente lo fissai senza capire, poi afferrai.
“Jane”
“Jared”.

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Capitolo 4
*** Like a virgin ***


Quel pomeriggio, fu l’inferno e bruciò in quel che mi parve un istante.
Terminati i giri tra i tavoli, aggiornai Fred, la metà di mia zia, su Jared e l’affitto della camera.
“Ma è a posto?”. Titubante.
“Sì Fred, l’ho osservato per bene”
Certo.
“Ma ti è sembrato davvero a posto?”. Sguardo indagatore.
Non era mia abitudine prendere dalla strada il “primo che passa”. Jared mi sembrava apposto e lui aveva  bisogno di un posto in cui stare. Era palese.
Salii in camera con le gambe a pezzi e la cena fumante in mano. Ma quella sera avrei cenato da sola.
Non aveva fatto nulla. Non aveva aperto la sua valigia, non si era lavato, non si era tolto le scarpe, nulla. Lo trovai disteso sul letto, immerso in un sonno pacifico.
Stremata, mi distesi sul divano davanti a un fuoco che ben presto mi ipnotizzò. Riuscii a leggere le prime cinque righe della Tempesta di Shakespeare, atto terzo. Ebbi solo il tempo di chiedermi se quel ragazzo avesse un’incredibile e triste passato come quello del mago Prospero.
Poi, mi addormentai.

Il risveglio, la mattina dopo, fu senza dubbio uno dei momenti più spiacevoli della mia vita, ma che permise a me e Jared di tralasciare i convenevoli.
Senza sapere perché, scherzi del destino con gusto,  quella mattina mi svegliai canticchiando “Like a virgin, touched for the very first time, like a viiiirgin…” e ancora assonnata, ma soprattutto dimentica del fatto che non ero più sola, mi trascinai appoggiandomi alla parete verso il bagno. Passai anche davanti alla sua camera, ma ciò non mi rinfrescò la memoria. Affatto.
In un’ultima, lunga, imbarazzante scivolata aprii la porta del bagno e vi entrai.
Ma, il bagno, era occupato.
Splendidamente, magnificamente occupato.
E mentre concepivo questo disastroso pensiero, scivolai, ma per davvero, sul pavimento leggermente bagnato.
Dolorante, solo la sua risata riuscì a farmi alzare gli occhi.
“Buongiorno. Se avessi saputo che accogli con queste entrate a effetto i tuoi inquilini, non sarei rimasto così a lungo sotto la pioggia”.
Mi porse la mano e mi aiutò a rialzarmi.
“Nulla di rotto?”. Preoccupato.
“Solo la dignità”
Arrossii, come una bambina, alla vista delle inclementi gocce d’acqua che scendevano lungo le linee del suo corpo, impregnando l’asciugamano legato alla vita.
Mi voltai prima che se ne potesse accorgere o prima che potesse nascere in lui il pensiero di trovarsi un altro alloggio. Con proprietarie meno imbranate e invadenti.
Farfugliando inutili scuse, mi diressi in cucina a preparare la colazione. Dieci minuti dopo, Jared comparve sorridente e invitato dal profumo di un paio di toast che avevo appena messo a scaldare.
“Colazione, pranzo e cena potrai farle sia qui in appartamento sia giù, dai miei zii”
“Dai tuoi zii?”
“Intendo al locale, è gestito da loro”
“Me li dovrai presentare”
“Non avere fretta…” e mentre parlavo di fretta e quindi di tempo, mi venne in mente una cosa
“Quanto pensi di fermarti qui? Voglio dire, a New York o anche qui, data la scarsa stima in cui mi devi tenere dopo quello che è successo in bagno…”
Sorrise, mesto.
“Tranquilla, mi hai fatto ridere e poi…” si fermò pensieroso. “Ecco, sarebbe un problema se tenessi la camera per otto mesi?”
Otto mesi.
Duecentoquaranta giorni.
Cinquemilasettecentosessanta ore.
Trecentoquarantacinquemilaseicento secondi di…
Vita.
Sì. Voltandomi indietro , adesso, ingloberei gli attimi vissuti in quegli otto mesi in questa parola: vita.


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Capitolo 5
*** Artista ***


“E cosa ti porta a New York?”
I suoi occhi azzurri mi squadrarono a fondo, come se volessero, da soli, soppesare la mia reazione alla sua risposta ancora prima di darmela.
“Studio. Mi sono iscritto e sono stato accettato alla Scuola di arti visive. Non avrei mai potuto permettermi un alloggio nelle sue residenze quindi ho iniziato a cercare un posto modesto in cui rimanere fino al diploma”
Ero consapevole della faccia da pesce lesso che dovevo avere, ma questa rivelazione fu proprio inaspettata. “Quindi ho un’artista in erba, a casa?”.
“Chissà, un giorno mi piacerebbe definirmi tale ed esserlo realmente”
“E cosa ti piace fare? Cantare, dipingere, suonare…?”
“Aspiro a diventare un’artista quindi l’ambito dell’arte è relativo: amo l’arte in senso lato. L’arte è universale. Ma non nascondo che sono qui a New York soprattutto per studiare recitazione” e mentre parlava, i suoi occhi stavano guardando lontano, davano una sbirciata a un mondo fragile, ma affascinante su cui i miei occhi non si sarebbero mai posati.
La meraviglia e l’ammirazione con cui lo guardai e specialmente la curiosità lo distrassero e ritornò in sé, abbandonando le sue fantasie presenti sul futuro.
“E tu?”
“Bè, in confronto a te, sto frequentando l’ultimo seccante anno da liceale” e mi cadde l’occhio sull’orologio a parete a forma di sole, uno dei pochi lasciti di mia madre.
“Sono in ritardo”
“Anch’io” disse, seguendo il mio sguardo.

Dieci minuti dopo, attraversavamo insieme la porta di casa e in strada, all’incrocio, ci dividemmo salutandoci.
Ma poi mi volsi.
“Jared!”
Si girò a guardarmi.
“La chiave del bagno è nel mobiletto sopra il lavandino”.
Sorrise.

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Capitolo 6
*** Il giorno moriva, assai dolcemente ***



.
E il freddo del tardo pomeriggio si insinuava sotto il giubbotto e il maglione di lana. Tornavo, affrettandomi nel fitto traffico newyorkese, circondata dai più perfetti yuppi, da scuola dopo un intenso pomeriggio di studio in biblioteca.
Mi catapultai nel locale e rimasi sorpresa nel trovare Jared e mia zia conversare e ridere come due vecchi amici.
“Jane! Eccola, te l’ho detto che sarebbe arrivata.”
Lui, appoggiato sul bancone, mi dava le spalle e non appena mia zia si rivolse a me, lui si voltò e mi sorrise, maliziosamente, come a ricordarmi la mattina passata.
Mi trascinai fino al bancone a testa bassa, sfinita, e poggiai i libri che ormai mi avevano logorato le braccia. Mi sedetti e alzai gli occhi.
Incontrai i suoi, irridenti “Pomeriggio di studio intenso?” e tentò di sbirciare alcuni titoli.
“Pomeriggio di ciance intense?” e ammiccai alla zia che sorrideva mentre allineava le tazze.
“Mary è fantastica…”
“Che confidenza!” dissi ironicamente, ma lui pronto rispose con una finta aria di superiorità “Io e tua zia abbiamo avuto la fortuna di parlare e conoscerci. Altrimenti non sarei stato assunto come lavapiatti.”
“Lavapiatti?Tu?” e per la prima volta in quella giornata mi lasciai andare a un riso sincero. Stavo bene in quel posto, al caldo. Mi sentivo al sicuro.
“Pensi non ne sia capace?” ribattè sulla difensiva.
“Oddio no, solo che… solo che…” e i miei occhi si mossero dalle sua mani dalle sottili dita rosee alla pelle liscia e perfetta dell’avambraccio alle labbra fini che sembravano disegnate con cura da una precisa e delicata mano di donna.
“Solo che cosa?” e non la smetteva di fissarmi. Mi liberai da quella morsa.
“Solo che non ti ci vedo, ecco! Tu che lavi i bicchieri e i piatti. Tutto qui. Nulla di personale.”
“E invece ti stupirò”, rise.
“Come?”, risi.
“Facevo il lavapiatti a dodici anni ed è stato un bellissimo lavoro” ammise fiero.
“Oh…” e rimasi senza parole, d’un tratto comprendendo che lui e il suo passato mi erano in gran parte ignoti.
“Non te l’aspettavi, eh?”.
E così vinse la prima di molte battaglie.
“Questo ragazzo è in gamba, mi piace. Potrà sostituirti un po’, lavori troppo. Guardati, stai in piedi grazie al caffè!” e mi coprì col suo solito sguardo teneramente severo.
“Primo: io sono ancora in piedi grazie alla mia volontà, non c’entra nulla il caffè. Secondo: non è perché lavoro qui che sono così. Domani ho l’esame e lo sai.”
“Che esame?” curiosò Jared.
“Di storia avanzata” e sbuffai guardando l’ora e sentendo lo stomaco brontolare.
“Tosto, immagino…”
“Non per lei. Ricorda date su date a memoria. E’ incredibile…”
“Ciò non mi esenta dalla studio. E ora vado. Mangio, dormo.” Mi alzai e ripresi con fatica i libri che mi parvero pesare il doppio di quando li avevo abbandonati poco prima.
“Lascia, faccio io” e tese le mani per prenderli, ma mi tirai indietro.
“Nessun problema” e mi diressi verso le scale.
Mi si parò davanti.
“Insisto”.
E piantò i suoi occhi azzurri nei miei. Fu allora che colsi quelle sfumature color ghiaccio. Come se delle minuscole scaglie di cristallo fossero penetrate nel suo occhio e si fossero amalgamate al colore liquido.
Ero stanca e sospirando, gli detti i libri. Non riuscivo a sopportare quegli occhi che sapevano tutto e non dicevano niente.

Salimmo in silenzio le scale semibuie e appena entrammo nell’appartamento mi liberai di qualsiasi peso e mi fiondai sotto il caldo getto della doccia. Ma non fu benefico come speravo, ero mezz’avvolta dalle braccia del sonno.
Infilai il pigiama e mi abbandonai sui morbidi cuscini del divano. Sentivo Jared muoversi in cucina.
Presi il mio quaderno degli appunti. Non lo aprii.
Non vi riuscii.
Dormivo.

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Capitolo 7
*** Resto qui ***



Mi svegliai con quella terribile sensazione di cadere e quasi ci finii, sul tappeto. Ansimavo per l’incubo da cui emergevo e cercavo la luce per provare a me stessa che ero finalmente sveglia.
Mentre nuotavo nel buio, sentii un rumore provenire a pochi passi  da me.
Trovai la luce e l’accesi.
“Jared!” e mi lasciai cadere sul divano, tirando un lunghissimo sospiro di sollievo.
“Non ti ho svegliata, vero?” mi guardò preoccupato. Indossava una t-shirt  azzurra che metteva perfettamente in evidenza le linee del torace. Il mio respiro, che si era appena tranquillizzato con l’accensione della luce, riprese una corsa inspiegabilmente veloce e lo calmai  a stento.
“No assolutamente, è solo questa maledettissima ansia che non mi fa dormire”. Guardai l’ora, sgomenta.
23:23
Perfetto.
“Scusami, fa pure quello che devi fare tanto io so già che non chiuderò occhio” e sconsolata mi sistemai nel divano.
Rise di me. “Come fai a sapere che non dormirai più?”
“Perché lo so, funziona sempre così. Mi sveglio a notte fonda e poi non riesco più a dormire”.
Si sistemò nel puff vicino a me. “Se te lo ripeti così è ovvio che non riuscirai a dormire. Tranquillizzati. Respira”
“E’ impossibile. Fidati” ribattei testarda.
Alzò gli occhi al cielo sorridendo e riprese “Domani hai l’esame, DEVI riposare!”
“Ma lo so, lo so. Pensi che non vorrei dormire fino alle sette di domani mattina senza quest’ansia logorante? Pensi davvero che lo faccia apposta? Invece sono fatta così e mi conosco. Quell’esame mi serve per il college e sono le 23:23 e non dormo e non chiuderò occhio per un po’ e non mi ricordo quando morì Carlo V e…”
Mi zittì, giustamente, tappandomi la bocca.
“Torno subito”
E se ne andò in cucina, lasciandomi agitata e sola.
Cinque minuti dopo, tornò trovandomi nella stessa condizione in cui m’aveva lasciata, ma reggendo una tazza che mi porse senza parlare. Odorai la bevanda giallo pallido e arricciando il naso gli chiesi cosa fosse.
“Bevi.”
“Mmmm… mi vuoi morta?”
“Bevi” e inchiodò gli occhi sui miei.
Eseguì l’ordine e scoprii che quella miscela di camomilla, miele e qualche altra pianta non era affatto male. Espressi il mio pensiero.
“Non è… male.”
Ma continuò a mantenere il silenzio fino a quando la svuotai. Poggiai la tazza sul tavolino ai miei piedi e questa volta fui io a fissare lui.
Poi, come se una terza persona gli avesse dato il via, parlò.
“Quando ero piccolo, mi svegliavo spesso terrorizzato dagli incubi e non volevo più dormire. Allora mia madre mi avvolgeva nella coperta, mi portava fuori, in veranda, sotto il cielo blu e mi faceva bere quella tisana mentre mi teneva in braccio. Nel silenzio della notte, riuscivo a calmarmi e il buio non mi spaventava più. Mi raccontava che era una ricetta segreta che in una notte d’estate la nonna le aveva insegnato. La insegnò anche a me, quando crebbi.”
E i suoi occhi ritornarono sui miei senza rompere quell’incantesimo che aveva creato nel mio salotto. Ero sua.
“Come si chiama tua madre?”
“Constance.”
“Che bel nome… ” e quasi la immaginavo abbracciare il figlio e rassicurarlo sussurrandogli parole confortanti all’orecchio.
“E hai dei fratelli?”
“Sì, uno, Shannon. Ha un anno in più di me. Ora è a casa, in Virgina, con mia madre.”
“Ne hai fatta, di strada…” mormorai. “Ti assomiglia?” ecco, non so perché glielo chiesi.
Ma quando sei stanca, la parole è più veloce del pensiero.
Rise “Io e Shan? Non proprio. Ma non saprei spiegare cosa c’è di diverso quando allo stesso tempo condiviamo tutto. Facciamo le stesse cose, insieme, ma in modi diversi. Ma lo amo, comunque. E ovunque.”
Non citò suo padre e così, quella notte, non m’azzardai a chiedere di lui. Esitai.
“Ti manca?”
“Cosa?”, disse confuso, inclinando il capo.
“Casa. La tua famiglia.”
“Ah sì… è ovvio. Ma sono qui da soli quattro giorni e dovrò abituarmici, se voglio resistere per un po’ di mesi.”
E sorrise stanco e con la mente sopra i cieli della Virginia.
“Jay…”
“Sì?” e ritornò a guardami col capo inclinato.
“Grazie”.
“Di nulla” e si alzò, mi passò la coperta caduta sul pavimento.
“Distenditi. Rilassati. Domani andrai benissimo”.
E lo cercai con gli occhi mentre gli occhi stessi si chiudevano e io ritornavo ad affondare nel sonno.
“Resto qui” furono le ultime parole che udii. Poi chiusi gli occhi e presi il largo.

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Capitolo 8
*** Profumo ***


Ringrazio chi, finora, ha avuto la pazienza e la buona voglia di leggere e recensire i capitoli di questa ff. Vi ringrazio di cuore! Per me è importante sapere cosa ne pensate, quindi dite pure tutto quello che vi passa per la testa.
E, Talisa, giuro che questo è l'ultimo capitolo corto!  Hai ragione, è un mio vizietto in cui cado spesso.
Buona lettura,
vostra F



Mi svegliai, dolcemente alle sette e un quarto. Un invitante profumo di pane tostato mi costrinse ad  alzarmi e a recarmi in cucina. Jared era ai fornelli.
“Anche cuoco? Non smetterai mai di stupirmi”
“Buongiorno, dormito bene?” e si volse a cercarmi e sorrise ammiccante, di quel sorriso che sotto nasconde un segreto consapevole e comune.
Mangiai con lui e volai a prepararmi. Poi, il mio urlo riecheggiò tra le stanze.
“Che succede?” disse Jay precipitandosi in camera mia.
Continuavo a frugare dentro i cassetti e tiravo fuori tutto, senza trovare ciò di cui avevo bisogno.
“Che cerchi?” ripeté, sbirciando al di sopra della confusione che stavo creando.
“Il maglione di mia madre. Blu. Mi serve. Non ho mai fatto un esame senza il maglione blu. E non lo trovo. Devo trovarlo” ansai.
Iniziò così la vana ricerca disperata.
“In bagno non c’è” urlò lui dall’altro capo dell’appartamento.
“Nemmeno in salotto!” dissi sconsolata.  
“Ascolta…” iniziò mentre mi raggiungeva “è davvero necessario? Non sarà il maglione a farti passare l’esame, lo sai”
“Sì, Jay, non c’entrano la superstizione o cose del genere. Ma per me è comunque importante. Quel maglione, QUEL colore mi rassicurano. E poi, ha un profumo particolare che adoro e mi piace da morire. Mi serve quel blu”.
E mi gettai sul puff incrociando gambe e braccia.
Passarono trenta secondi.
“Aspetta” e sparì in camera sua. Ne uscì con una maglia blu in mano.
“Prendi il mio. E’ blu. Altrimenti non arriverai in tempo e allora sì che dovrai preoccuparti davvero!” disse prendendomi in giro.
“Jared, non posso, grazie ma…”
“Prendilo. Vestiti e sbrigati. E’ tardi”.
Detto questo andò a prepararsi e mi lasciò sola in salotto col suo maglione in mano.Assomigliava a quello di mia madre ed era molto morbido. Seppur all’inizio fossi titubante, lo indossai. Mi andava bene.
Ok, forse era leggermente più grande, le maniche erano lunghe, ma placò subito la mia preoccupazione e le mie sciocche ansie.
“Sei una bambina!!” mi dissi rabbiosa e svelta pettinai i capelli, presi la borsa e chiamai Jared.
“Io vado…” dissi arrossendo mentre entrava nella stanza e mi squadrava.
“Niente male!” fu il suo giudizio. Sorrise e io feci lo stesso prima di volgermi alla porta dopo un attimo di esitazione e uscire di corsa, urlando un grazie più sentito di quanto lui pensasse.

*****
Jane uscì di corsa, i capelli al vento e il mio maglione blu addosso. Rimasi fermo dov’ero per un paio di secondi poi decisi di ritornare in camera. Mentre percorrevo il corridoio, mi accorsi che in camera di Jane la porta finestra era aperta ed entrava un’aria dispettosa e noiosa; v’entrai e la chiusi, poi mi volsi al disordine che lei aveva lasciato e sorrisi.
Uscendo vidi che in un angolo, dietro la porta, erano caduti dei vestiti dall’appendiabiti. Li raccolsi e li depositai sul letto, ma non prima di notare il tanto ricercato maglioncino blu. Lo tenni tra le mani per assaporarne la morbidezza poi, incuriosito, l’annusai. Un inebriante e al contempo delicato profumo di donna mi catturò. Jane aveva ragione.
Quel profumo era speciale.

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Capitolo 9
*** Central Park ***


Appoggiata al sedile, mi lasciavo cullare a occhi chiusi dal tremito continuo della metro. Uscita da scuola mi ero sentita uno straccio, ma pian piano il sole, spuntato quasi miracolosamente quella mattina stessa, contribuì a infondermi un nuovo tipo di energia.
Avevo voglia di uscire, respirare, camminare.
E non l’avrei fatto da sola.
Scesi alla mia fermata e sempre più velocemente raggiunsi casa. Entrai raggiante nel locale e mia zia subito comprese il motivo della mia allegria.
“Sole e libertà: una coppia perfetta”
“Puoi dirlo… dov’è Jared?”
“Dietro di te” mi sussurrò una voce bassa e calda all’orecchio; sobbalzai e mi voltai di scatto mentre lui si tirava indietro.
“Ma tu a scuola non ci vai mai?” lo accusai, usando un tono grave più per il brivido causatomi che per il motivo per cui lo incolpavo.
“Sono appena tornato e ci vado da quattro giorni: dammi il tempo di prendere il ritmo!” si giustificò fingendo un’aria innocente e appoggiandosi mollemente al bancone col gomito.
Rimasi in silenzio e il mio sguardo volò dalla parete opposta a mia zia, per fermarsi su di lui.
“Mm…”
“E ora che c’è?” e alzò gli occhi sorridenti al cielo.
“Io esco, vieni?” domandai a bruciapelo.
“E dove mi porteresti?” chiesi con aria dubbiosa.
“Sei a New York da appena una settimana, giusto? Lascia che sia io a guidarti, non importa dove per ora…” e sorrisi lasciando un’ombra di mistero sulla frase.
Jared ricambiò il sorriso ambiguo. “Mi affido a te”.
Ecco, questo era esattamente quello che volevo sentirmi dire.

In poco tempo giungemmo all’Upper West Side e da lì a Central park.
Entrammo in quell’innaturale oasi verde e mi rivolsi a lui “Oggi vorrei rimanere qui, ti va?”.
E lui annuì, troppo preso dai giochi di luce ingannevoli del lago, in lontananza.
Ci addentrammo per un po’, in silenzio, tra alberi e bambini, ragazzi e tutte le altre persone che si gustavano la prima vera giornata di sole dopo l’ondata di pioggia. Nel caos e nella confusione della metropoli, quel pezzo di paradiso, sconvolgeva per l’aura di privilegio e libertà che si insinuava tra i fili d’erba.
Giunti a pochi metri dal lago centrale, ci sedemmo su una panchina, al sole, ed entrambi, come se fossimo d’accordo, chiudemmo gli occhi e assaporammo il momento.
Poi, Jay, occhi chiusi e testa abbandonata indietro, ruppe il silenzio.
“Ho trovato il maglione di tua madre, ma presumo che l’esame sia andato bene comunque.”
“Davvero? Oh… non dirmi dov’era sennò mi mordo le mani” risi ”… e sì, l’esame è andato bene. Ma devo ringraziare te per questo.” e indicai il maglione blu a cui m’ero stranamente affezionata durante il giorno.
“Sai, quando l’ho trovato” riprese come se non avesse sentito la mia risposta e stesse pensando a tutt’altro “non ho potuto fare a meno di sentire il famoso profumo. E’… affascinante. E’ quello di tua madre?” e allora volle trovare i miei occhi.
Esitai.
“Sembrerà impossibile, ma il suo profumo sembra sia stato… rinchiuso, in quella rete di lana. Imprigionato per sempre. E mi piace, mi ricorda lei e mi dà quella sicurezza e quella determinazione che nessuno saprebbe darmi, nemmeno zia Mary” ammisi ai suoi occhi indagatori.
“E lei, lei… ora dov’è?”. Cauto.
Sospirai.
Il dolore e la nostalgia mi assalirono d’un tratto e solo a stento e solo perché me lo stava chiedendo lui, tirai fuori dal baule dei ricordi più preziosi la storia di mia madre.
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Capitolo 10
*** La storia di Amanda e Luca (parte prima) ***


Mia madre non c’è più. Mi ha lasciata a 12 anni, sconfitta e distrutta da un male che le divorava da tempo ogni sorta di energia e ogni sorriso che fino ad allora mi aveva regalato.

Mio padre? Spesso mi facevo raccontare da lei la storia di Amanda e Luca.

Mia madre visse a Manhattan con mia zia Mary e i suoi genitori fino a 26 anni. L’impegno, gli sforzi e lo studio che aveva impiegato nell’arte della fotografia la portarono a essere assunta da una nota rivista di cultura che la mandò a Roma per due mesi, con l’incarico di ritornare con un book fotografico che soddisfasse gli affamati palati americani del mondo romano-medioevale.
Quando arrivò, mi raccontava, si sentì risucchiata da quella città sempre viva, non solo nel presente, ma anche nel passato. Un passato che le bisbigliava segreti intrappolati nelle mura.
Non sapeva che sarebbero trascorsi più di due mesi prima del suo ritorno a casa. E tante cose, da allora, sarebbero successe.
Iniziò subito il suo tour artistico nella capitale.
Toccò piazza di Spagna e rimase incantata dai vivaci colori dei fiori che troneggiavano lungo la scalinata che portava alla Trinità dei Monti.
Amò il colore che assumeva il Colosseo, al tramonto.
Si innamorò del Bernini e della passione e del tormento che infondeva nelle sue opere.
Ammirò la grandezza di San Pietro e si sentì piccola piccola di fronte alla magnificenza e alla lucentezza di quella straordinaria ricchezza che imperava su Roma da secoli.

E poi, sorridendo, mi narrava di quel fatale pomeriggio a villa Borghese.
Fotografata la nobile villa dall’esterno e da varie prospettive, si addentrò nel famoso e idilliaco giardino. Si perse!
Non che il parco fosse grande, ma per quanto girò, non le riuscì di trovare la statua onoraria del suo amato Byron.
Sfinita e sudata, posizionò i suoi strumenti su un leggero rialzo e tentò di placare la propria rabbia verso il suo inesistente senso di orientamento fotografando il surreale laghetto che appariva d’incanto nel verde magnetico del parco.
Mentre si apprestava a cogliere le sfumature turchesi luccicanti alla luce del sole, una figura maschile si piazzò proprio nel raggio dell’obiettivo a una trentina di metri da lei.
Stizzita, chiese, in un italiano instabile, di spostarsi. Ma egli non l’udì o, molto probabilmente, non la comprese.
Allora si diresse verso di lui, ma mentre si trovava a pochi passi dal ragazzo inciampò su una radice, posta lì dal destino, e cacciando un grido acuto gli atterrò ai piedi.
Attirò la sua attenzione, perlomeno, perché solo allora lui si accorse di lei e svelto la aiutò a rialzarsi.
Non posso dirlo con certezza, ma penso che mio padre si innamorò di quegli occhi verdi brucianti di vergogna e di rabbia e di quel broncio che tanto s’intonava ai capelli rosso fuoco di mia madre.
Lei invece s’innamorò, come mi diceva, col tempo, pian piano, ma non con meno intensità, di quegli occhi scuri e penetranti, di quel sorriso dolce e giovane e dei contorni da statua greca che poteva vantare lui.
“Perdonami, io non ti avevo vista, ero assorto nei miei pensiei. Tutto bene?” domandò ansiosamente, continuando a sorreggerla.
“Sì, io, volevo dire, se potevi spostarti perché io stavo prendendo foto…” e indicò la macchina e il cavalletto che l’attendevano all’ombra di un albero.
“Non sei italiana?” e sorrise per la prima volta di fronte all’apparente fragilità che si rivelò dietro a quei battaglieri occhi verdi.
“No, americana. Devo fare un servizio” e delicatamente si staccò dalla presa sicura di lui e s’avviò ai propri strumenti.
Ma la caviglia destra le doleva così cadde di nuovo, ma questa volta, il ragazzo l’afferrò.
“Permettimi di accompagnarti, mi sento terribilmente in colpa” affermò lui in un inglese perfetto, facendola sentire a suo agio, e senza aspettare risposta caricò il peso della figurina di mia madre sul suo braccio.
“Io non serve, sto bene!” protestò lei, arrossendo.
Ma le proteste andarono svanendo e si lasciò trasportare, abbandonandovisi, da quel corpo giovane e forte.
“Molto interessante… un servizio fotografico alla mia città. Cos’hai visto finora?” domandò, ma senza alcuna pretesa di superiorità.
“Ah… San Pietro, l’isola tiberina… non molto. Sono qui da poco e ci metto un po’ a girare…”
“Mmm… ascolta, per sdebitarmi ti accompagnerò ovunque tu voglia andare e ti porterò nei posti più segreti ed eterni di Roma. Ti va?”
E a quel sorriso mia madre non seppe dire di no.
“Sei, sei… gentile!” e il rossore che le tinse le guance bastò come conferma.
“Perfetto!” esclamò lui, non controllando l’entusiasmo che quell’incontro gli aveva causato.
Le porse la mano che non usava per sorreggerla e lei gliela strinse. I loro occhi, verde e nero, si incontrarono.
“Luca”
“Amanda”
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Capitolo 11
*** La storia di Amanda e Luca: l'imprevisto (parte seconda) ***



Il tempo non era mai volato, così.
Sguardi, notti, giorni, sorrisi.
Tutto volava, tutto viaggiava a una velocità tale che spesso il giorno dopo Amanda si ritrovava a chiedersi se era realmente esistito il giorno prima e quello prima ancora e tutte le sensazioni che si trascinava dietro.
Sensazioni che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, si stampavano con un’immensità allarmante dentro di lei.
Una sera, Luca la bendò e lei non riusciva a smettere di ridere pensando a dove volesse portarla.
Era un ragazzo… incredibile.
Amava l’antico.
Si era laureato in archeologia e lavorava presso un centro di scavi romano, guadagnando così la totale indipendenza dai genitori, entrambi noti avvocati.
L’antico lo affascinava e i capelli rossi di mia madre, la sua pelle lattea e quegli occhi verde bosco, gli avevano riportato alla mente le caste sacerdotesse egizie che compievano riti lungo il Nilo.
Le descrisse quella immagine, quella sera, mentre l’aiutava a scendere dalla sua moto e le slacciava il foulard che le copriva gli occhi impazienti. Glielo disse per dominare la sua curiosità, un tentativo non andato a buon fine.
Quando aprì gli occhi, dovette abituarsi a un’oscurità leggera e bluastra che dominava una piccola piazzetta circondata sui tre lati da mura abbastanza alte e da un maestoso e antico portone che si apriva davanti a lei.
“Prendi la macchina fotografica, penso ti servirà” le suggerì.
Poi, Luca avanzò verso il portone e lei, presa la macchina, lo seguì silenziosa.
“Ordine dei cavalieri di Malta…” lesse piano nella targhetta che affiancava la porta. “Luca, io non capisco…
“Abbassati e dà un’occhiata dentro il buco della serratura”
Amanda alzò il sopracciglio, titubante, com’era solita fare quando qualcosa non la convinceva.
O forse, non riusciva a comprendere del tutto.
Ma fece quello che le aveva detto e, subito, appena mise a fuoco quel che si vedeva oltre quel foro finemente lavorato, vide delinearsi da lontano in modo perfetto e perfettamente inscritta entro i limiti della piccola fessura, la cupola di S. Pietro.
“Straordinario” e dopo aver assaporato quella finezza artistica, tentò di fotografare quella sorta di magica burla.
“Questa chicca fotografica mi piace un sacco!” e si divertì, come una bambina, a mettere a fuoco la cupola inscritta nel buco della serratura.
”Sono contento ti sia piaciuto, ma… non ti ho portata qui solo per questo” e ammiccò alla viuzza che saliva verso la cima del colle, tra alti e folti alberi che, a quell’ora, parevano, con quella fiera chioma bruna, silenziosi e secolari guardiani di quel posto.
Camminarono fianco a fianco, assaporando la pace di quell’ambiente, fino a quando non arrivarono a uno spiazzo verdeggiante da cui si spalancava semplice e innocente Roma. Le luci in lontananza punteggiavano palazzi, edifici, ville che pian piano entravano nell’oscurità precoce di marzo.
Il silenzio che custodiva quel luogo, legava Luca e Amanda in una morsa sempre più stretta, quasi palpabile.
Luca ruppe quel silenzio.
“Laggiù” e indicò una graziosa villa a centro metri da loro “c’è casa mia. In teoria, apparterrebbe ai miei genitori, ma mia madre si è trasferita per un po’ fuori città e mio padre preferisce stare in centro per comodità. Diciamo che allora rimango io, come padrone di casa” e si voltò a scrutare nel buio l’espressione di Amanda.
Respirando ancora quell’aria fresca, spezzò anche lei il suo silenzio e lo guardò.
“E’ bellissima. E’ bellissimo quassù, ormai non so più trovare le parole per ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in queste settimane…” e d’un tratto, da una casa vicina partì “Following the river” e rise perché qualche giorno prima si erano lanciati in una contesa tra Beatles e Rolling stones.
Ovviamente, lei parteggiava per i primi.
Sorrise anche lui. “So come potresti sdebitarti…” le disse malizioso avvicinandosi.
La prese delicatamente per la vita e le chiese, in inglese, di ballare.
Shall we dance?
In tutta risposta, si abbandonò al suo petto e si lasciò cullare.

Una settimana prima di partire, come aveva fatto ogni giorno da quando la conosceva, Luca si era diretto di prima mattina al suo albergo per accompagnarla in giro per la città.
Ma, stranamente, lei lo aspettava già pronta davanti all’ingresso lanciando continue e nervose occhiate attorno a sé.
“Buongiorno!” e la baciò.
Amanda non si ritrasse, ma ricambiò quel bacio in modo distaccato, come se la sua testa fosse da tutt’altra parte.
“Ciao, ho fame. Andiamo a far colazione?” e ammiccò al bar di fronte, tirando in su gli angoli della bocca, in un sorriso che non le riuscì bene.

Seduti davanti a due tazze fumanti di caffè, si osservavano a vicenda.
Nessuno parlava.
“Amanda, che c’è?” sbottò infine Luca, prendendole la mano.
Si decise a parlare. “Un… un imprevisto.”
Io ero l’imprevisto.

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Capitolo 12
*** Addii ***


Nacqui in un mite e ventilato pomeriggio di settembre.
Venni al mondo urlando con quel poco fiato che potevo avere nei miei piccoli polmoni, quasi fossi impaziente di vedere il volto dei miei genitori, che mi avevano amata sin dal primo momento.
A volte, vittima di un assurdo senso di colpa, chiedevo timidamente a mia madre se non fossi stata un “fuori programma”. Allora lei smetteva subito di fare quello che stava facendo, mi prendeva dolcemente il volto nelle sue mani vellutate e mi sussurrava:
“Se così fosse, sei stata il miglior “fuori programma” che mi potesse accadere!”
Vissi insieme ai miei genitori nella villa dei miei nonni paterni che mi riempivano costantemente di affetto e attenzioni. Di quei tre anni non ricordo quasi nulla, se non due cose: le braccia di mio padre che mi afferrava e mi faceva scherzosamente volare in aria e la vista della città eterna dallo spiazzo sopra la villa.
Ah sì, e un’altra cosa che raffiorava talvolta nei miei sogni.
Ricordo una bambina con cui giocavo molto spesso. Quando, dopo una lunga serie di sogni in cui la vedevo pettinarmi i capelli, chiesi a mia madre se si ricordasse di quella mia piccola amica, mi rispose che probabilmente mi ero ricordata della figlia dei vicini di casa.
Me lo disse con gli occhi lucidi.
Con gli anni, cercai di limitare il più possibile l’accenno agli anni passati.

Quando avevo tre anni e mezzo, mio padre morì.
Mentre stava attraversando la strada laterale a piazza Venezia, un auto in corsa, sbucata all’improvviso, me lo portò via, così, come nulla fosse, come fosse la cosa più semplice e naturale del mondo.
Mio padre, di cui mi rimane solo una foto sbiadita dal tempo e forse anche dal dolore, a testimonianza della sua bellezza e dell’inesorabile amore che aveva per me.

E tirai fuori dalla borsa una foto strappata a metà.
La porsi a Jared.
Luca teneva sulle ginocchia la figlia e gli occhi scuri erano interamente rivolti a lei. I capelli gettavano una leggera ombra sul suo volto, ma ciò non oscurava affatto l’amore che sorrideva in quegli occhi che avrebbero voluto veder crescer Jane.
Dell'altra metà di foto, si intravedeva solo una liscia ciocca rossa.

Guardando la foto, mi accorsi subito di come Jane avesse preso i lineamenti dal padre. Il naso perfettamente dritto, gli zigomi alti, ma delicati, i contorni del viso precisi e fini e le labbra rosse, ma sottili.
I capelli ramati erano un dono della madre, ovviamente.

Quello fu il primo momento in cui realizzai, consapevole, che Jane era davvero bella.

Leggermente turbato, Jared mi riconsegnò la foto e, senza chiedermelo, per un’ovvia paura di ferirmi, mi fissò in attesa della fine di quella storia.
Presi un respiro profondo.

Mia madre crollò. Non volle partecipare al funerale, né andare al cimitero.
Era distrutta.
Si contorceva, agonizzante, nel suo dolore con la speranza che tutto divenisse buio anche per lei.
Silenziosa, scivolava verso l’autodistruzione.
Ma non poteva perché c’ero io.
Aiutata dai miei nonni, si aggrappò con le poche forze che ancora non si erano mutate in lacrime, a me e per me, da quel momento, visse.
Solo per me.
Resistette a Roma solo due mesi, poi volle ritornare a New York.
Salutò i genitori di Luca sapendo che quello era un addio. Non aveva più alcun senso rimanere là, dove ogni singola cosa su cui si posavano i suoi fragili occhi verdi le portava alla memoria singoli attimi, piaceri, baci, sorrisi.

Ritornata a casa, due cose da allora riempirono la vita di Amanda. O forse, solo una.
Jane e il lavoro, per Jane. Devo ringraziare lei se posso frequentare la scuola che frequento e fare dei progetti per il futuro.
Col tempo, mia madre diventò una donna forte e coraggiosa. Imparò a convivere col dolore, ad accettarlo e a placarlo guardandomi crescere.
Le devo tutto.

“E per un volere del destino ingiusto e crudele che mai capirò…” feci una pausa e un sorriso amaro mi congelò la faccia “… perdetti anche lei quando avevo dodici anni.”
Per tutto il tempo, Jared sembrava aver trattenuto il respiro. Mi voltai a guardarlo e lo trovai che mi contemplava tristemente; si avvicinò e mi prese la mano tra le sue.
Terminai la mia storia.
“Sul letto d’ospedale, le dissi addio. Lei sorrise e pianse per tutto il tempo.” Respirai e lui mi strinse la mano.
“Accarezzandomi, prima di lasciarla, mi sussurrò: Lascio un angelo e ritorno a un altro angelo.”
Poi quel verde si spense.



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Capitolo 13
*** "La cavalleria è morta" ***


Io e Jared divenimmo inseparabili.
La possibilità di allacciare rapporti superficiali con i ragazzi delle nostre rispettive scuole non soddisfò mai né lui né me. Presto le nostre vite, come quasi per una sorta di legame ancestrale già prestabilito e deciso, divennero due specchi.
Quando tornavamo a casa, finita la scuola, trascorrevamo il resto della giornata assieme; spesso lui si esercitava, mentre io, copione alla mano, distesa mollemente sul puff, lo controllavo.
Ma presto finii semplicemente con l’ascoltarlo.
Si muoveva di fronte a me, consapevole della mia presenza, ma riuscendo perfettamente a estraniarsi da quel momento: gesticolava, rideva, talvolta assumeva delle espressioni così divertenti e assurde che mi era impossibile non scoppiare a ridere. Allora rompevo la magia, lui mi fissava con un broncio malizioso e mi domandava se era così male.
Era perfetto, ma io non glielo dissi mai perché volevo riprendesse, da abile illusionista, la magia.
Possedeva una dote innata e invidiabile che gli permetteva di andare oltre i confini di se stesso, spezzare le barriere e appropriarsi di qualcun altro. Sì, di qualcun altro.
E quel qualcuno potevi essere anche tu, ignaro spettatore.

Spesso sentivamo lo strano e pressante bisogno di fare qualcosa di diverso dal solito.
Ricordo come, una gelida notte di novembre, uscimmo in strada alle undici, diretti al supermercato a due isolati da casa nostra.
Jared non era particolarmente goloso, ma mentre mi caricavo le braccia di biscotti aggiunse più di una volta qualche schifezza ipercalorica. Annoiato, mi camminava al fianco con le mani in tasca, mentre io sbuffavo.
“La cavalleria è morta!” scoppiai alla fine.
Allora si accorse delle mie braccia cariche, sorrise come per scusarsi, ma poi un sorriso ancora più radioso illuminò il suo viso.
“Scusami un attimo…” e si volatilizzò dietro un alto scaffale.
Sbuffando, girai dall’altra parte. Mi stavo dirigendo verso la cassa che intravedevo nascosta dieci scaffali più in là, quando sentii un “Pistaaa!” dietro di me.
“Ma che diav…” non ebbi il tempo di voltarmi che mi sentii spingere e caricare da un mezzo in movimento e ben presto mi ritrovai addossata alla parte anteriore di un piccolo rimorchiatore.
Dietro di me, soltanto la sonora risata di Jared.
Veloce, sfilò tra una scaffale e l’altro, curvando sempre all’ultimo momento così che io più volte temetti di finire in mezzo alla colonna di carta igienica.
Si fermò davanti alla cassa e, sempre ridacchiando, prese la spesa a cui sembrava mi fossi aggrappata durante quella folle corsa e poi mi aiutò a rialzarmi.
Traballante, lo carbonizzai con lo sguardò.
“La cavalleria esiste ancora!” mi sussurrò all’orecchio mentre pagavo sotto lo sguardo minaccioso del cassiere verso cui tentavo di rivolgere un sorriso di scuse.
“Bisogna saperla riconoscere, però…” gli dissi sprezzante, appena mettemmo piede fuori dal discount.
Jay si fermò a guardarmi alla luce opaca del lampione.
Lo fissai, truce, anch’io.
Aspettava.
Poi scoppiai a ridere e ci incamminammo verso casa.
“Lo rifaremo, un giorno!” mi disse.
E le nostre risate andarono spegnendosi nella notte.

Durante i primi giorni di dicembre, amavamo camminare lungo le strade di New York.
In silenzio.
Il chiacchiericcio costante di chi ci passava accanto, il rumore dei taxi e delle auto in corsa, le prime melodie natalizie erano la colonna sonora perfetta…
…le piccole ed esuberanti luci natalizie, una gioia infantile per i nostri occhi.
Camminavamo l’uno accanto all’altro, uno di quei giorni, quando i suoi occhi lo costrinsero a fermarsi di fronte alla vetrina di un negozio di quadri.
Esposto al centro della vetrina, su un piccolo rialzo di vetro, era posato un kit professionale per dipingere.
Gli occhi bramosi di Jared volarono dalla scala di dieci pennelli a punta fine, alla grande tavolozza laccata, dalle innumerevoli e improvvise sfumature dei colori nei pieni tubetti agli altri piccoli arnesi, gioielli invitanti e altezzosi.
“Che meraviglia…” disse a bassa voce.
Io me ne stetti zitta a guardarlo; non volevo interrompere quella sorta di contemplazione estatica.
Poi Jay sbuffò e riprese a camminare, ignorando con evidente difficoltà il richiamo di colori e pennelli.
“Dipingi?”
“Un tempo…”
“Interessante,  quando mi farai ammirare qualcosa? Sono curiosa.”
Mugugnò e non mi rispose.
Io lo seguii, d’un tratto sorridendo pensierosa.

Una settimana prima di Natale, mi trovavo sola in casa, intenta a sperimentare con scarso successo la ricetta dei muffin che mi ero fatta dare da mia zia.
Li avevo appena infilati in forno quando squillò il telefono.
Strano, pensai.
Non ricevevo mai telefonate e il vecchio apparecchio era diventato ormai un semplice oggetto d’arredo.
Incuriosita, alzai la cornetta.
“Pronto?”
Dall’altra parte, silenzio.
“Pronto, chi parla?” domandai, sicura che fosse un puro guasto telefonico.
Ma poi, qualcuno parlò.
“Scusa, credo di aver sbagliato numero. Eppure… ” e percepii dell’esitazione all’altro capo del telefono “… eppure ero certo fosse giusto.”
Cercai di andare incontro a quella voce calda e ruvidamente carezzevole.
“Bè, dimmi chi cerchi, forse posso aiutarti.”
“Cerco Jared.”
“E tu sei…” iniziai.
“Sono suo fratello, Shannon. ”

Terminata la conversazione, presi il cappotto e uscii di corsa con un unico pensiero fisso in testa.
Non mi accorsi del pungente odore di bruciato che iniziava a impossessarsi della cucina…

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Capitolo 14
*** Connessioni ***


Seduta su una panchina nei sotterranei della metro di New York.
Aspettavo.
E, i miei pensieri, seguivano oziosi due flussi differenti.
Ammaliata dallo scorrere delle persone, fissavo questo sciame caotico e rumoroso e mi chiedevo dove fosse diretto ogni suo singolo componente. Casa, ufficio, ristorante, strada, negozio, ospedale… e poi?
E intanto io me ne stavo seduta, avvolta nel mio cappotto viola, a osservare lo sciame che non appena usciva dal treno, si diradava in tutte le direzioni.
Assaporavo l’istante silenzioso prima dell’arrivo o dopo la partenza della metropolitana. Adoravo il vento clandestino che si sollevava appena essa riprendeva la corsa o quando stava per arrivare.
Era un venticello carico di aspettative.

Pregustai una nuova, ultima folata.
Il treno arrivò, si fermò, le porte si aprirono.

Il secondo fiotto di pensieri era indirizzato a Shannon.

Avevo tentato di estorcere da Jared, nel modo più discreto possibile, una sua descrizione fisica, ma lui abbozzava sempre un semplice ritratto che io non giudicavo mai sufficiente.
Ma appena scese, seppi che era lui.
Di scatto, mi alzai e mi diressi verso di lui che, apparentemente confuso, guardava a destra e a sinistra, alla ricerca di… me.
“Shannon?” chiesi, per sicurezza, sorridendo timidamente e facendomi più vicina.
I suoi grandi occhi nocciola caddero su di me e subito ricambiò un sorriso dolce e giovane “Jane? E io che ero certo che mi sarei perso!” e rise porgendomi la mano.
La sua stretta fu decisa, ma allo stesso tempo delicata. La definii, rassicurante.
Insieme, ci dirigemmo verso le scale che ci avrebbero portati al freddo e nevoso mondo di sopra, confondendoci tra lo sciame in corsa di cui ora anche io facevo parte.

“Lui non sa…” chiese cauto mentre lo facevo sedere sul divano di casa.
“Niente di niente!” completai io, sicura e fiera di me.
Con un banale pretesto avevo cacciato Jared fuori di casa, così da permettermi di preparare al meglio la sorpresa che io e Shannon avevamo progettato una settimana fa.

Ci eravamo trovati, subito, io e Shannon, senza bisogno di complicate o imbarazzanti spiegazioni.
Lui voleva venire a trascorrere il Natale col fratello e io gli suggerii di venire senza avvertirlo. Sarebbe stato un fantastico regalo.
Così, eccoci qui, Shannon sul divano e io in piedi appoggiata al caldo caminetto a sorridere al pensiero della serata che avevamo davanti.
“Se Jared non fosse all’oscuro di tutto, sono sicuro che mi avrebbe parlato bene di te. Anche troppo bene” mi disse guardandomi fisso negli occhi, come se volesse dire qualcosa di più. Quel nocciola parlava per lui.
Io arrossii, “O forse avrebbe avuto troppe cose da dire…”, ma mentre terminavo la frase, sentii dei passi sulle scale, oltre la porta.
Riconobbi il passo leggero di Jared.
“Mi trovate in camera, se avete bisogno di qualcosa” bisbigliai a Shannon mentre salivo frettolosamente le scale e mi volatilizzavo, concedendo ai due fratelli il  loro momento.

Scesi quando era ormai ora di cena e li trovai dove li avevo lasciati: distesi sul divano, parlavano e ridevano mentre dalla finestra della cucina vedevo la neve cadere abbondante.
Una scena, un momento che meritava d’essere fermato.
Presi la macchina fotografica dal ripiano vicino alla scala e, non vista, scattai una foto.
Allora i due fratelli si accorsero della mia non più silenziosa presenza e si volsero a cercarmi.
Non appena gli occhi di Jared mi trovarono, nascosta dietro alla balaustra, s’alzò dal divano e mi venne incontro, o meglio, mi si gettò addosso in quello che doveva essere un abbraccio.
Quasi lasciai cadere la macchina fotografica, quando le sua braccia mi avvolsero in una morsa stretta, il mio corpo si serrò indolente al suo e il suo volto andò a nascondersi nell’incavo del mio collo; tutto questo mi rapì il fiato in petto.
Passati alcuni secondi, alzò leggermente la testa e mi sussurrò “Grazie” all’orecchio.
In quel momento, la foto che avevo appena scattata uscì dalla macchina e cadde per terra. Jared se ne accorse, allora mi lasciò e si chinò a raccoglierla.
Sorrise, guardandola, come lo avevo visto sorridere poche volte.
Era bellissimo.
In tutto quello scompiglio, di soli trenta secondi, Shannon aveva assistito alla scena da riguardoso spettatore, in silenzio. Con la coda dell’occhio gli avevo dato una sbirciatina, per quanto Jared me lo permettesse, e lo trovai che sorrideva teneramente.
Quando lo stuzzicante profumo dell’arrosto di mia zia, cominciò a salire le scale e a entrare, non invitato, nella stanza, sbottò “Hey, io ho fame!”
Jared si mise la foto in tasca e mi prese per mano.
Ci fiondammo tutti e tre al piano di sotto.


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Capitolo 15
*** Una piccola stella ***


Era inutile dire che il cibo era squisito.
Era inutile dire che l’atmosfera era perfetta.
Era inutile dire che mi sentivo davvero felice.
Ma non solo io.
Attorno a quella tavola, una bizzarra compagnia si era riunita per festeggiare quella notte.
Io, Fred, zia Mary, Jared e Shannon.
I miei zii adoravano Jared e ben presto non smisero di ridere alle battute di Shan: si divertiva a raccontare alcuni aneddoti a dir poco irriverenti sulla loro infanzia e a stuzzicare il fratello a controbattere.
“E quando hai fatto la pipì nella ciotola del cane perché volevi vedere se si poteva davvero bere come avevi letto il giorno prima nel libro di scienze?”
Rosso in volto, Jared metteva il broncio per alcuni secondi poi, venutogli in soccorso il ricordo imbarazzante di Shannon da regalarci, cominciava a parlare e nessuno lo fermava più.
Cinque persone di diverse età, piene di cose da scambiarsi, di cui ridere e da ricordare. Spesso i miei occhi cadevano inavvertitamente su di lui, ma poi se ne accorgeva e mi guardava a sua volta curioso.
Verso mezzanotte, zia Mary e Fred fecero per andarsene e lasciare a noi giovani il resto della nottata.
Li aiutai a portar via i piatti e mentre tornavo, colsi al volo alcune parole di ciò che si stavano dicendo i due fratelli.
“Tre settimane… Mamma… … dopodomani… ” e riconoscevo la voce di Shannon.
Timorosa, ma curiosa, mi avvicinai ancora di più, appoggiandomi cautamente al muro. Allora percepii chiaramente la risposta di Jared.
“Shannon, non lo so, ti giuro che mi piacerebbe moltissimo rivedere mamma anzi ti direi già di sì, ma…” e qui si fermò perché le parole c’erano, erano pronte, ma qualcosa all’inizio della gola impediva loro di uscire.
“C’è lei” completò tranquillamente il fratello maggiore, togliendogli un peso.
“Sì.”
C’è lei.
Lei.
Lei?

Ero io quella Lei?

Shannon ruppe il corso delle mie considerazioni.
“Chiedile di venire!” bisbigliò energicamente, dandomi l’impressione che si fosse avvicinato al fratello.
In quell’istante, comparve da dietro mia zia che mi squadrò curiosa mentre me ne stavo attaccata al muro.
Sorridi e diventai rossa.
“Non è quello che pensi!” sussurrai e per dimostrare che era vero, voltai l’angolo ed entrai nella stanza, interrompendo la loro conversazione.
“Ah! Jane eccoti qui… cos’hai in mano?” esclamò Shan fissando il pacco con me.
Me l’ero quasi scordato!
Il regalo.
L’avevo stretto così tanto mentre li ascoltavo da dimenticarmi di averlo tra le mani.
“Questo? Questo è per Jared. Buon Natale!” e finalmente gli porsi il pacco scintillante, ma senza guardarlo negli occhi. Avvertii che, dopo un attimo di esitazione, prendeva il mio regalo.
Lo scartò con una sorta di tranquilla ansia. Le mani tremavano impercettibilmente e il silenzio era disturbato unicamente dalla carta strappata.
La tavolozza e i colori pian piano vennero a galla.
Sentii arrestarsi quel frenetico lavoro e solo allora alzai gli occhi.
Immobile e incantato, Jared fissava il tutto come se il mondo si fosse ridotto a quei pennelli e a quei colori. Le sue mani morbide accarezzano le punte dei pennelli e ne solleticarono i crini.
La sua mente, lo potevo vedere, correva già alle immagini che avrebbe creato con quei colori.
Poi alzò gli occhi e un’espressione che non avevo mai visto sul suo volto mi colpì in pieno petto.
Non saprei descriverla tutt’oggi sebbene l’abbia rivisto una seconda volta, poco tempo fa.
Rimane comunque mia. Mia la strana luce degli occhi, del sorriso,mia quella curva leggera delle labbra, mia l’ombra elegante delle sopracciglia, mio il grazie in tutto questo e mio quel qualcosa che non posso descrivere.

Mia.

“Non ti illudere, è per Natale, ma anche per il tuo compleanno!!” scherzai.
Sembrò riprendersi.
“Come fai a sapere che…?” ma poi entrambi ci voltammo verso Shannon che ci guardò alzando le mani a mò di scusa.
Poggiò la tavolozza con una delicatezza fin troppo calcolata sul tavolo e si alzò. Tastò la tasca dei suoi pantaloni e ne tirò fuori una scatoletta in velluto blu.
“Buon Natale anche a te!” ripeté dandomi la delicata scatoletta.
Ricordo ancora che prima di aprirla mi fermai a domandarmi cosa potesse essere. Ma sentivo gli occhi di Jared premere sulle mie dita affinché l’aprissi così lo accontentai.
Un luccichio leggero m’accolse, una piccola “J” in argento mi salutò e dallo stupore che mi prese aprii leggermente la bocca.
“Jared è bellissima, non…” balbettai tirando fuori dalla confezione la fine catenina col ciondolo.
“E invece sì” mi disse all’orecchio, per la seconda volta quella sera, facendomi ancora rabbrividire.
Come un automa mi voltai e lui mi scostò con delicatezza i capelli, rivelando il mio collo bianco.
Portai la collana al collo e lui chiuse il minuscolo gancio.
Cercai con gli occhi la mia piccola J sul maglione blu scuro. Una piccola stella che aveva finalmente trovato casa.
“Grazie…” e non seppi aggiungere altro.
Salendo le scale per tornare a casa, ricordo che mi chiesi per cosa stesse quella J.
Jane o Jared?

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Capitolo 16
*** Dobbiamo dovere ***


L’indomani mi svegliò la risata squillante e mattiniera di Shannon.
Balzai giù dal letto e mi diressi in cucina dove i fratelli stavano affacciati da una finestra a godersi il bianco manto che dava riposo a tutto, quel giorno.
“Buongiorno ragazzi!” e le loro teste rientrarono infreddolite e si volsero a me.
“Oggi mi dovete assolutamente portare a Central park… con questa neve soprattutto!” proferì Shannon maliziosamente.
L’allusione sottile alla neve era piaciuta a tutti e tre.

Un’ora dopo ci rotolavamo come dei bambini nel prato bianco del parco.
Ansimavo per il troppo correre da Shannon che inseguiva me e Jared sempre provvisto ----  
magicamente di neve, in mano e nelle tasche.
Caddi sfinita dopo una buona oretta di corsa e piegamenti per evitare le palle di neve, dietro a Jared e mi aggrappai alle sue spalle, usandolo malignamente come scudo.
Ma resistere alla furia di Shannon era impossibile così alzammo entrambi le mani.
“Vi arrendete? Di già? Bè allora tanto vale che vada a prendere qualcosa di caldo” e le ultime due palle di neve colpirono Jared mentre io mi nascondevo dietro di lui.
Ci accasciammo a terra, con il naso e le guance tinte di un tenue rosso. Ci sfilammo i guanti pieni di neve mentre il nostro respiro riprendeva regolare. Ridevamo sotto voce.
“Che ne dici di venire con me e Shannon in Virginia per tre settimane?”
La domanda, attesa, mi spiazzò comunque.

Ci sono tante cose di cui mi sono spesso pentita.
Questa è una di quelle.
Non potevo lasciare da soli i miei zii a gestire il locale, soprattutto in quel periodo dell’anno in cui la gente affluiva a ogni ora e difficilmente si sarebbe trovato qualcuno che mi sostituisse dall’oggi al domani..
Tutta me stessa voleva dire di sì, ma una piccola parte mi imponeva di restare.
Dovere o piacere?
Si dice che dovrebbe venire prima il dovere, ma già in questa frase il dovere ha preso, sovrano, il sopravvento. E’ ingiusto, già calcolato.
Noi dobbiamo, dobbiamo, dobbiamo dovere in questa vita.
La scelta era ovvia e pronta davanti a me, invitante, maledettamente invitante.
Ma dovevo dovere.

Quando lui capì, cercò di sminuire il mio rifiuto perché comprese le mie preoccupazioni, ma la delusione era lì, in bella vista, e né lui né io potevamo ignorarla.
Rialzandosi mi porse la mano sorridendo “Non scappi però, prima o poi mi seguirai e verrai con me”.
Accettai l’aiuto e togliendomi via gli ultimi residui di neve dai pantaloni, mi rialzai desiderando con ogni singola fibra del mio corpo che le sue parole si avverassero, un giorno.
Bisogna, si deve…
No.
State semplicemente attenti a quello che desiderate perché potrebbe avverarsi.

Camminammo vicini per un po’, in silenzio, mentre tutt’attorno a noi le urla e gli schiamazzi di grandi e bambini ci raggiungevano ovattati, come il suono della neve sotto gli stivali; poi si avvicinò e mi scompigliò debolmente i capelli, accennando un sorriso.
Cadde altra neve.

Il resto della giornata si trasformò nel compito abbastanza faticoso, ma irriverente di portare Shannon a spasso per la città.
Ci tirava di qua e di là, instancabile e gongolante in quella festa di luci, e abilmente disperse la sottile tensione che inizialmente aleggiava tra me e Jared, confondendo l’umor grigio tra i sfavillanti colori di quel Natale.

Ma, l’indomani, era tempo di partire.

La mattina del 26 dicembre, io e Shannon entrammo di soppiatto nella camera di Jay e lo svegliammo insieme tirandogli via le coperte, io, e saltandogli sopra, Shan.
“Auguri fratellone!”
“Sh… non respiro!” tentò di dire lui.
“Così lo ammazzi!!” dissi ridendo e mi inginocchiai affianco al letto a un palmo di mano dal viso di Jared.
“Buon compleanno…”
Sotto il peso del fratello, biascicò un grazie.


Dopo colazione, sulla porta di casa, abbracciai Shannon e mi lasciai stringere da quelle forti braccia. Quando mi lasciò, mi fissò con un’occhiata inquisitrice come se fosse preoccupato.
Quanto erano fondate le sue preoccupazioni!
Ma poi rividi quel sorriso dolce e lo salutai mentre usciva.
Mi volsi cauta verso Jared.
“Ancora buon compleanno!”
“Non mi piace invecchiare…” brontolò fissando la porta.
Mi lasciai scappare una risata “Io ODIO invecchiare! Ma tu, tu…” e mi fermai a raccogliere le parole “… tu rimarrai un eterno bambino. Senza freni o limiti”.
“Mmm… mi piace!” e finalmente sorrise.
E notando che teneva in mano il kit per dipingere, aggiunsi.
“Voglio vedere quello che hai visto tu, al tuo ritorno”.
Il suo sì fu un abbraccio veloce.
Sentii chiudersi la porta dietro di me e mi girai inconsciamente verso la finestra.
La neve aveva ricominciato a cadere.



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Capitolo 17
*** Lei ***


Che cos’è la solitudine?
Per voi, intendo.
Starsene unicamente con se stessi, immagino.
In una stanza e, perché no, anche in mezzo alla gente.
La solitudine era così anche per me, fino a poco tempo prima.
Ma in quelle tre settimane plasmai un nuovo modello di solitudine.
Me ne stavo da sola, in una stanza o in mezzo alla gente, con un’estranea.
Una me che non era me.
Un’estranea a me stessa.
Una diciassettenne che coglievo di sfuggita nelle vetrine dei negozi, negli specchi di casa, nei finestrini dei taxi e il cui sguardo malinconico mi rattristava.
Non amo ricordare quei giorni.
E non capii, allora, perché ero costretta a convivere con lei e perché detestavo rimanere da sola con lei.
Cos’era successo in quei due ultimi mesi?
La presenza dell’estranea mi inquietava.
Ricominciai a suonare il pianoforte.

Era sempre rimasto là, in quell’angolo remoto del salotto, e qualche volta mi capitava di sfiorarlo col pensiero, ricordando i giorni in cui mia madre mi teneva sulle ginocchia e mi insegnava i vari passaggi e le note, mentre i suoi capelli mi solleticavano le guance.
Un giorno, mi sedetti sullo sgabello e alzai il coperchio di mogano protetto dalla polvere.
Lo trovai magicamente accordato e perfetto, come se mi avesse atteso immacolato tutti quegli anni. Le mie dita scivolarono delicate sui suoi tasti e azzardai qualche melodia che affiorava in superficie dall’antro oscuro della mia memoria.
Ricominciai a suonare, ogni giorno, e lei se ne andò.

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Capitolo 18
*** Inizio ***


Release termina qui.

It's the end,
here today,
But I will build a New Beginning.

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