My life has just begun

di Mary15389
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


My life has just begun CAP1 Spoiler: No spoilers
Disclaimer: I personaggi (fatta eccezione per quelli creati da me) non mi appartengono, sono di Jeff Davis. Criminal Minds è della CBS. Questa storia non è a scopo di lucro.
Note: La primissima ff che io abbia scritto, e si vede. E' passato più di un anno da quel momento. Chiedo scusa se è particolarmente banale e se la scrittura è molto claudicante e incerta.

My life has just begun



CAPITOLO 1

Avevo sempre vissuto sotto una campana di vetro. I miei genitori sin dall’inizio avevano manifestato molta apprensione. Mai una gita, mai una vacanza fuori tra amici, sino in età abbastanza adulta. Ma la mia voglia di evadere era sempre stata più grande. Avevo pazienza. Mi ripetevo che sarebbe arrivato il giorno……
E poi ero lì. I grattacieli davanti a me. L’Italia lontana e l’America sotto i miei piedi. Lo ripetevo sin dal primo giorno all’università: datemi il tempo di laurearmi, di mettere qualche cosa da parte e io lascerò questa Italia che mi sta tanto stretta. E c’ero riuscita.
Non avevo mai avuto grosse ambizioni, avevo sempre voluto provare tutto quello che mi si presentava davanti, conscia del fatto che se non si prova non si saprà mai se le cose piacciono o no e se soprattutto fanno per noi. E quindi sin da piccolissima a provare tutte le attività possibili e immaginabili, a trovarmi così me stessa in alcune, e così snaturata in altre. Ma almeno avevo provato sulla mia pelle.
Con il sogno d’America era stato diverso….quella era stata la mia prima ambizione. Lì non c’era da provare, c’era solo da riuscire. Era come se fossi nata per questo, come se al momento della mia nascita fosse stato sbagliato il luogo dove venire al mondo.
Mi ero rimboccata le maniche. Avevo finito presto l’università, mi ero adattata a qualsiasi tipo di lavoro pur di mettere da parte la somma sufficiente alla mia partenza. E con la stessa naturalezza che sentivo sin dall’inizio ero finalmente scesa dall’aereo in quella che sentivo la mia vera casa.
Per iniziare avevo preferito prendere una stanza in albergo, giusto come primo appoggio per cercare magari un appartamentino conveniente. Non sapevo ancora nemmeno quello che avrei fatto in quel posto per mantenermi, ma non mi preoccupavo. Avrei provato come sempre cose nuove e forse avrei trovato la giusta strada.
Quando sento qualcosa di così naturale non mi spaventa nulla.
Per prima cosa dovevo trovare una casa dove stare, l’albergo avrebbe in breve tempo prosciugato le mie finanze. Avevo deciso di affrontare questo viaggio da sola, perché egoisticamente credevo che nessuno avrebbe potuto avere il mio stesso slancio e le mie stesse motivazioni nel fare quella che chiamavo ancora follia.
Credevo nel destino, credevo nella fortuna. La casa l’avevo trovata in pochissimo tempo. Non chiedevo nulla di lussuoso, giusto un due vani. Al pian terreno un soggiorno con cucina e un primo servizio e al primo piano una camera da letto con un secondo bagno. Non avrei avuto con chi dividere spazi più ampi.
Ma forse la mia fortuna, o destino come preferivo chiamarlo, non era ancora terminata.
Ero tornata all’albergo per prendere i miei bagagli e saldare il conto. C’era uno strano fermento. Caricai le valigie sull’ascensore e scesi senza nessun altro nel vano. Al momento di uscire si manifestò un’altra delle mie tipiche caratteristiche: sono goffa e imbranata. Le valigie si incastrarono e la gente era così indaffarata nelle sue cose da non accorgersene e darmi una mano. Finalmente riuscì a farle uscire con un balzo e atterrai su qualche cosa.
Pregai si trattasse di un muro, ma sentì un’imprecazione. Non volevo voltarmi, volevo solo sprofondare. Lentamente mi girai e mi trovai davanti un ragazzo alto, elegantemente vestito. E proprio quell’eleganza rovinata da una macchia di caffè sul petto. Decisamente avevo combinato un disastro.
“Mi dispiace tanto…è solo che le valigie si erano incastrate e…non volevo…la prego mi dica cosa posso fare per aiutarla…”
“Non si preoccupi, ero distratto anche io…vuole un aiuto con quelle valigie?”
Questa era bella. Non solo gli avevo rovinato la camicia facendogli rovinosamente cadere il caffè addosso e per giunta mi offriva il suo aiuto.
“No grazie. Ormai sono quasi arrivata. Il danno l’ho fatto,” affermai indicando la sua camicia “e spero non ce ne siano altri in agguato.”
Non ero mai stata brava nelle relazioni interpersonali, e soprattutto ero sempre stata diffidente con le persone che mi si presentavano davanti. Specie se uomini e carini. Causa la mia scarsissima autostima.
“Oh, non si preoccupi per questa.” Mi rispose indicando il capolavoro di pittura astratta che avevo abilmente spennellato sul suo petto. “Statisticamente, se si cammina con un bicchiere di caffè in mano, ci sono ottime probabilità, circa il….”
Giovane, alto, carino, educato. E ora cosa stava facendo? Mi sbatteva in faccia anche la sua smisurata, e oserei dire inutile, cultura. La mia mente non poteva sopportare di più.
“Grazie grazie, ho capito.” Lo interruppi sperando di potermi congedare in fretta. “La ringrazio ancora per essersi offerto di aiutarmi e mi scuso nuovamente.”
Lui fece un sorriso e salutò con la mano. Si allontanò per il corridoio rischiando di urtare qualche altra persona.
Tutto sommato forse la colpa non era stata tutta mia. Che tipo strano… Smisi di pensare e mi avviai verso l’uscita. Saldai il conto e chiamai un taxi per raggiungere la nuova casa. Mentre attendevo, passeggiavo per la hall dell’albergo, fin quando i miei occhi rimbalzarono su un cartello: “Ore 18, sala Lincoln, conferenza sul profiling.”
Erano le diciotto meno dieci, e una vocina dentro la mia testa ripeteva che si trattasse del destino. Non sapevo nemmeno che cosa fosse questo “profiling”, ma il nome mi piaceva e alla fine non avevo nulla da perdere a vedere questa conferenza. Sentivo dentro di me che dovevo andare, provare, come avevo sempre voluto fare nella mia vita.
Avvertii la reception di annullare il mio taxi, lasciai le valigie custodite e mi avviai verso la sala Lincoln. Non avevo idea di quello che mi avrebbe aspettato dietro quella porta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


My life has just begun CAP2 CAPITOLO 2

La sala era strapiena. Forse questo “profiling” doveva essere qualcosa di particolarmente interessante o importante. Anche se i visi che riuscivo a scorgere erano tutti di giovani… ipotizzavo studenti del college. Forse la mia scelta di partecipare non era stata così sbagliata.
Mi divincolai un po’ tra la folla e finalmente trovai un posto a sedere. Avevo fatto appena in tempo. Mi ero sistemata e un applauso accoglieva un uomo che si andava ad accomodare sul bordo della scrivania messa al centro della sala prendendo un microfono. Ancora non parlava.
Lo scrutavo da brava osservatrice, doveva aver passato la cinquantina, alto, fisico normale. Un buffo pizzetto con dei baffi che rendevano il suo viso, come dire, buono. Ma niente che mi potesse aiutare a capire di cosa avrebbe parlato di lì a poco.
“Chiedo scusa per l’attesa. Il mio collega è in ritardo e non vorrei cominciare senza di lui...” disse con sguardo un po’ imbarazzato, ma con un sorriso appena visibile.
Pochi secondi dopo, una porta vicino alla scrivania, da cui prima era entrato l’uomo, si apriva e io non potevo credere ai miei occhi. Il giovane che avevo incrociato, o forse sarebbe meglio dire urtato, fuori dall’ascensore si avvicinava all’uomo più grande e gli diceva qualcosa. Poi si metteva in piedi accanto alla scrivania.
“Ora possiamo cominciare...io sono l’Agente Speciale David Rossi e questo è il mio collega, il Dottor Spencer Reid. Vi do il benvenuto a questa conferenza sul profiling. Come sapete siamo dell’FBI, dell’unità analisi comportamentale, la BAU, e siamo qui per spiegarvi come si diventa profiler.”
Cercavo di riprendermi dallo shock. Non era possibile che quello che avevo incontrato era un agente dell’FBI. Un'altra caratteristica da aggiungere a quelle che mi erano venute in mente quando lo avevo visto la prima volta. E tutte così maledettamente positive. Ma almeno la conferenza che stavo ascoltando parlava di qualche possibilità lavorativa. Inutile non sarebbe risultata, anche se una ragazza come me, così lontana da questo mondo fatto di divise, distintivi e pistole, non ne avrebbe potuto beneficiare per nulla.
“Io sono stato il fondatore storico di questa unità, che si occupa di affiancare la polizia dei vari stati nelle indagini federali, cercando di fornire un profilo psicologico di quello che noi preferiamo definire S.I., ovvero il Soggetto Ignoto, colui che ha commesso il reato.” Continuò l’Agente Rossi.
Mi ero già persa. L’istinto era quello di alzarmi e andar via prima. Ma un qualcosa di inspiegabile mi tratteneva lì.
“Il nostro lavoro è quello di raccogliere più indizi possibili analizzando diversi fattori: la scena dei crimine, la vittimologia, il tipo di ferite o l’arma usata, a seconda del tipo di reato.” Ora era il più giovane a parlare. “Ogni dettaglio può essere utile per capire le motivazioni che hanno spinto l’S.I. ad agire in un determinato modo.”
I miei dubbi crescevano, ma quella vocina mi faceva rimanere incollata alla sedia. Il Dottor Reid cominciava allora a mostrare con un proiettore alcuni esempi di casi che avevano risolto in passato, soffermandosi ovviamente sul come erano riusciti a cogliere i particolari necessari a risalire a questo famoso Soggetto Ignoto. Più andavano avanti con queste dimostrazioni, più la vocina dentro di me cresceva e si emozionava per l’acutezza e bellezza di alcune risoluzioni. L’unica nota stonata erano le continue statistiche che il ragazzo riportava come se fosse un computer, o un’enciclopedia, proprio come se le stesse leggendo davanti a sé. Aveva proprio bisogno di questo sfoggio di cultura?
“È importante sottolineare che…” concludeva l’agente anziano “…qualsiasi sia il vostro corso di studi, potete tentare di entrare all’Accademia e fare l’addestramento per diventare ottimi profiler. Quindi considerate questa idea. Se vi sentite acuti osservatori e sentite di voler provare...beh, noi siamo sempre in cerca di giovani menti da aggiungere alle nostre squadre.”
Un applauso salutò gli agenti che lasciavano la sala. E io non potevo trattenermi dall’ascoltare un commento, fatto da due ragazze che sedevano davanti a me: “Io non potrei mai, ho troppa paura del sangue..ci pensi a dover vedere cadaveri tutti i giorni?”. E l’amica, guardandosi le unghia finemente curate, rispondeva: “Cara...io per poter avere a che fare con quel giovane dottore farei carte false. Provo a seguire il loro consiglio.”
Certo che se le motivazioni per provare un tale addestramento erano queste...nella mia ottica ci volevano cuore, passione, abilità. E poi, il ragazzo poteva anche essere carino, ma continuavo a non approvare questo suo modo di fare da so-tutto-io. Mi sembrava troppo sicuro della sua cultura.
E se avessi provato anche io? Con motivazioni certamente diverse da quelle che avevo sentito, volevo provare. D’altronde non avevo nulla da perdere.
Lasciai la stanza delle conferenze e tornai a recuperare le valigie. Chiamai un nuovo taxi. Arrivato, caricai le valigie e mi rilassai sul sedile posteriore lungo la strada per la mia nuova casa. Continuavo a pensare alla conferenza, e alle strane sensazioni che aveva suscitato dentro di me. Sentii vibrare qualcosa. Il mio cellulare.
“Pronto?”
“Tesoro, come stai?”
“Mamma…ma che ora è lì in Italia??? Sarà notte fonda...” Niente da fare, mia madre non sarebbe cambiata mai...
“Ero in pensiero...trovata la casa?”
“Ci stavo giusto andando ora. È molto carina...quando tu e papà verrete a trovarmi la troverete fantastica.” Sorridevo perché sapevo che lei non avrebbe lasciato mai l’Italia per un luogo che la spaventava così tanto. Nemmeno per farmi una visita.
“Lo sai come la penso...hai già trovato un modo per mantenerti?”
Mi allargai in un incontrollabile sorriso. "Ho qualcosa sotto mano..."

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


My life has just begun CAP3 CAPITOLO 3

La strada davanti ai miei occhi si allungava, così che la mia mente aveva modo di vagare, di ricordare, di riflettere, di valutare. Ero alla guida dal mio nuovo SUV. Sul sedile accanto a me una cassetta piena di effetti personali che avrebbero riempito la mia nuova scrivania. Avevo messo dentro di tutto perché non avevo proprio idea di quanto spazio avrei avuto a disposizione, e di come sistemare le cose. Per il mio essere sempre decisa nel portare materiale in più piuttosto che nel rimpiangere di aver risparmiato.
Sul sedile posteriore la mia ventiquattrore. Piena di oggetti, anche quelli scelti a caso e in abbondanza, perché non si sa mai cosa ti riserva la vita. Il lavoro prevedeva di averne sempre una pronta e a disposizione.
Ma quello che per me era più strano era avere un distintivo nella tasca che recava la scritta FBI. E ovviamente insieme a questo, una pistola alla cintura. Ebbene si, ero diventata un’agente dell’FBI.
Avevo seguito quella vocina dentro di me, mi ero presentata all’Accademia e avevo superato tutte le prove necessarie per accedere all’addestramento. Avevo terminato anche questo, avevo fatto i corsi accessori e avevo preso le varie abilitazioni. E ora ero pronta ad essere assegnata ad una squadra definitiva di profilers.
Ed era proprio verso la sede di Quantico che stavo guidando. Pronta ad incontrare i miei nuovi colleghi. Dovevo ammettere di essere anche molto spaventata. Non sapevo chi mi sarei trovata davanti, come sarebbe stata l’accoglienza, come avrei reagito, che danni avrei combinato.
Ma questo futuro, insieme al suo carico di paura, mi stimolava molto. Ed era per questo che mi ero impegnata per superare tutte le prove che mi si erano poste davanti sempre nel migliore dei modi. Ero fatta così.
Mentre la mia mente rifletteva ancora, ecco davanti a me il palazzo della sede dell’FBI della Virginia. Architettura semplice, quasi terrificante. Si stagliava sull’orizzonte, incutendo timore in chiunque vi si trovasse ai piedi. Enorme, grigio, ricco di piccole finestre. E io sentivo che a momenti sarei stata ingoiata dal mostro.
Mi avvicinai alla guardiola, e in breve tempo, dopo l’identificazione, mi fecero entrare nel garage. Posteggiai il SUV e mi avviai all’ascensore con i crampi allo stomaco. Entrai nell’ascensore, sola, e schiacciai il pulsante del piano desiderato.
La salita mi era sembrata allo stesso tempo interminabile e troppo breve. All’apertura delle porte del vano ascensore, mi ritrovai davanti una folla di gente che correva avanti e indietro freneticamente. Ma quello che colpì maggiormente la mia attenzione fu la grande porta a vetri che recava il simbolo della Behavioral Analysis Unit. Per un attimo i crampi cessarono per lasciare il posto all’emozione più vera.
I brividi mi percorsero schiena e braccia. Paradossalmente era come se fossi nata per appartenere a quel posto.
Con la ventiquattrore in mano e la cassetta sotto braccio varcai l’ingresso di quello che sarebbe stato il mio open space. Gente anche lì indaffarata in ogni attività. Chi rispondeva al telefono, chi correva da un ufficio all’altro, chi portava fascicoli…
Io rovistai nella tasca e tirai fuori il foglietto sul quale avevo appuntato il nome dell’agente supervisore a cui mi era stato detto di rivolgermi. Fermai la prima persona che mi passò davanti e le chiesi gentilmente di indicarmi l’ufficio giusto. Temevo che molta gente mi avrebbe ignorata così intenta nelle proprie attività, e invece al primo tentativo mi venne indicato che l’ufficio di Aaron Hotchner era quello in cima alla scala.
Ecco che erano tornati i crampi. Salii la scala, mi avvicinai alla porta con su scritto il nome dell’agente che cercavo e bussai. Nessuna risposta. Riprovai a bussare, ma ancora nessuna risposta. Poi mi accorsi anche delle luci spente.
I crampi allo stomaco mi stavano quasi facendo arrivare al puro panico. Che non avessi capito qualche cosa? Che avessi sbagliato giorno per presentarmi?
“Agente Liardi?”
Una voce interruppe le mie domande. Mi girai lentamente e mi trovai davanti una bellissima donna, bionda con gli occhi azzurri. Alta, delicata, dolce e con un amorevole pancione.
“Si, sono io…”
“Sono l’agente Jennifer Jereau. La stavamo aspettando.”
“Ma io..” volevo spiegare che io cercavo l’agente Hotchner e che stavo iniziando a confondermi, ma la giovane donna mi interruppe, con un sorriso fraterno.
“Non si preoccupi, so che le era stato dato il nominativo dell’agente supervisore Hotchner, ma stiamo partendo per un caso. Sono già tutti sull’aereo, io ero rimasta qui ad aspettare lei.”
Ecco il panico. Ero appena arrivata e dovevo subito andare sul campo a risolvere un caso?
“Lasci la cassetta nel mio ufficio,” continuò l’agente Jereau “e venga con me sul jet. La aggiornerò sul caso durante il viaggio e lì conoscerà gli altri membri della squadra.”
Mi stava già molto simpatica. Anche se mi chiedevo come facesse a lavorare con quel pancione, come mai non avesse deciso di mettersi già in maternità, per allontanarsi dalle brutture che il suo, anzi il nostro lavoro riservava e vivere in serenità quello che dicono essere il periodo più bello della vita di una donna.
“Mi scusi per prima,” sentivo la necessità di chiarire “ma sono stata presa alla sprovvista. Sono l’agente Nicole Liardi, non mi ero nemmeno presentata nel modo giusto..” Le porsi una mano che prontamente strinse sorridente.
“Siamo colleghe, quindi può darmi del tu. Sul lavoro preferisco essere chiamata JJ! Io mi occupo della scelta dei casi e del contatto con i media.”
“Ovviamente lo stesso vale anche per te, JJ!”
Eravamo arrivate al jet, e i crampi allo stomaco erano tornati. Lasciai che fosse lei a fare strada. Salii la scaletta dietro di lei ed entrai nel veicolo imbarazzata, tenendo lo sguardo basso.
“Ragazzi siamo pronti a decollare, questa è l’agente Nicole Liardi..”
Alzai finalmente gli occhi e rimasi di sasso. Se me l'avessero detto prima non ci avrei creduto. Il destino mi stava proprio giocando un brutto scherzo.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


My life has just begun CAP4 CAPITOLO 4

“Ragazzi siamo pronti a decollare. Questa è l’agente Nicole Liardi.”
Dopo le parole di JJ avevo alzato gli occhi, e mi ero trovata davanti cinque agenti, i miei nuovi colleghi, ma uno più degli altri aveva colpito la mia attenzione.
 “Questo è l’agente supervisore Aaron Hotchner, capo dell’unità…” JJ mi indicò un uomo alto e distinto, che mi aveva gentilmente allungato la mano. Io la strinsi con decisione come ero solita fare. Il suo viso portava il segno della sofferenza e della reazione naturale agli orrori visti sul lavoro. Il peso della responsabilità di gestire la squadra e forse qualche problema al di fuori del lavoro giocavano anche il loro ruolo. Ma sentivo che in fondo aveva un gran cuore.
Ma il nodo allo stomaco era ancora lì, mentre escludevo ad uno ad uno gli agenti prima di arrivare al più temuto.
“Io sono l’agente speciale Derek Morgan, piacere di averti nella nostra squadra.” Un ragazzo di colore, alto e muscoloso, si presentò da sé con un bianchissimo e ampio sorriso. Se non fosse stato un mio collega l’avrei scambiato per uno di quei culturisti tutto muscoli e niente cervello. Invece mi trasmetteva una certa sicurezza.
“Lei è l’agente speciale Emily Prentiss…” JJ continuò a fare gli onori di casa, almeno con chi glielo permetteva.
“Un’altra donna nella squadra...sono contenta!” esclamò Emily, mostrando ad una prima impressione la sua dolcezza. Sembrava una donna forte, ma anche estremamente comprensiva e buona.
E ancora non ero riuscita a dire una sola parola a nessuno di loro. Si sarebbe potuto pensare che stavo tracciando dentro di me il loro profilo, in realtà stavo solo aspettando l’arrivo della più colossale brutta figura della mia vita. Anche se forse mi stavo preoccupando per nulla, era passato troppo tempo.
“Invece lui è l’agente speciale Spencer Reid…” Ma JJ venne interrotta dall’agente Hotchner, che la corresse, “Il Dottor Reid…” ma io già non ascoltavo più; allungai la mia mano tremante, ma l’agente non la strinse. Agitò invece la sua in aria con un mezzo sorriso.
“Ci siamo già visti all’albergo dove abbiamo tenuto una conferenza…” esclamò.
La mia faccia sbalordita, tanto per lo strano modo di salutare, quanto e soprattutto per il fatto che dopo tutto quel tempo si ricordasse di quel nostro brevissimo incontro. O forse sarebbe stato meglio dire scontro. Credevo di vivere quel momento imbarazzante dentro di me, e invece ricordava anche lui.
Sentii gli occhi di tutti interrogativi su di me. Volevo sprofondare.
“Non cercare risposte che nessun umano potrà mai trovare.” intervenne, salvandomi dall’imbarazzo, l’ultimo agente che non mi era stato ancora presentato “il nostro Dottor Reid ricorda alla perfezione ogni minima cosa che incrocia nella sua vita. Ha una memoria eidetica…”
“…e un quoziente intellettivo di centoottantasette…” aggiunse Emily, sorridente.
“Ma è completamente impedito in qualsiasi altra cosa che non si possa gestire con tutte queste caratteristiche…” concluse l’agente Morgan causando le risate di tutti.
“E infine io sono l’agente speciale David Rossi.” riprese l’agente soffocando le risate dei colleghi. “Ma se il Dottor Reid si ricorda di te, evidentemente sai già chi sono perché ero con lui alle conferenze.”
Scossi la testa in segno affermativo. Era il massimo che riuscivo a fare in quel momento. Sentivo i loro sguardi addosso. Mi stavo comportando esattamente come credevo e come avevo sperato di non fare. I crampi allo stomaco non erano passati, e si era aggiunta un’altra sensazione che non riuscivo ancora ad identificare bene.
Il silenzio da parte mia si prolungava. L’amorevole JJ si avvicinò a me e mi disse sottovoce, “Va tutto bene?”
Mi ridestai dai miei pensieri e dal mio attacco di panico. “Scusatemi tanto. Sono arrivata qui per conoscere la nuova squadra ed ero già abbastanza emozionata per questo. Essere stata catapultata su questo aereo direttamente per andare sulla mia prima scena del crimine mi ha dato il colpo di grazia. Mi dispiace se vi sono sembrata strana, sono contentissima di fare la vostra conoscenza. E spero di essere all’altezza…”
Vedevo rilassarsi i loro volti. JJ, Derek e Emily mi sorridevano. Mi sentivo bene, a casa, in famiglia. Speravo che quella prima impressione non si dovesse in qualche modo guastare. Anche se ancora dovevo combattere con il dottore. Magari su di lui mi ero fatta un’idea sbagliata. Avrei avuto modo di conoscerlo e di cambiare idea. Anche se la memoria eidetica e quell’esagerato Q.I. erano solo punti a favore della mia prima impressione su di lui alla conferenza.
“L’aereo sta per decollare, prendete posto e allacciate le cinture.” Annunciò il pilota.
Mi sedetti nel primo posto libero che trovai. Accanto a me Emily, di fronte l’agente Hotchner e l’agente Rossi. Sul fondo da una parte Morgan e dall’altra il dottor Reid che aiutava JJ a mettersi comoda. Lo sguardo nei suoi occhi era di pura devozione, controllava che tutto fosse a posto. Sia per lei, sia per la creatura in grembo. La aiutava a scegliere la musica da far ascoltare al piccolo attraverso il pancione durante il viaggio…
Si accese una lampadina nel mio cervello, che mi lasciò completamente a bocca aperta mentre l’aereo saliva di giri prima di staccarsi dal suolo.
Che dovessi aggiungere 'futuro padre' alle mie informazioni su di lui?

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


My life has just begun CAP5 CAPITOLO 5

L’aereo si era stabilizzato in volo e io avevo slacciato la cintura di sicurezza. Continuavo ad osservare JJ con il dottor Reid. Avevo notato come anche lei gli sorridesse in modo fin troppo amorevole. Ma soprattutto, lo chiamava Spence...quale maggiore intimità di un diminutivo?
“A cosa pensi?” l’agente Prentiss interruppe i miei pensieri, facendomi sobbalzare.
Che si fosse accorta che fissavo da troppo la giovane coppia? Volevo uscire dall’imbarazzo, senza però dire la verità sui miei pensieri, lo credevo troppo prematuro. Ero appena arrivata e già mi interessavo dei fatti personali dei miei colleghi. Non avrei dato certo un’ottima impressione. “Niente di particolare, solo che...nel trambusto di essere arrivata per sistemarmi in una scrivania ed essere stata invece trasportata su questo aereo...beh, a dire il vero non so nemmeno dove siamo diretti...”
“Kentucky.” Era JJ che nel frattempo si era alzata e stava già distribuendo i fascicoli, mentre tutti si radunavano intorno al piccolo tavolo nel jet. “Ti aggiorno sul caso.” Mi alzai e la seguii fino a lì.
“Abbiamo già tre vittime.” continuò l’agente Jereau “uomini tra i venticinque e i trent’anni. Nessun legame apparente tra di loro. Sono stati trovati a distanza di un mese i primi due. Mentre fra la seconda e la terza vittima sono passati solo venti giorni.”
“Si sta lentamente evolvendo, passa meno tempo fra una vittima e l’altra.” Affermò l’agente Hotchner.
Io aprii il mio fascicolo e iniziai a guardare le foto dei cadaveri. Una strana sensazione allo stomaco che stavo imparando a controllare sempre meglio. Alzai lo sguardo per continuare ad ascoltare la nostra agente.
“I corpi sono stati trovati all’interno di alcune grotte, sempre dalla polizia locale.”
“Com’è possibile? Voglio dire, non è un luogo semplice dove trovare un cadavere.” La interruppe Emily.
“Telefonate anonime che segnalavano il luogo dove trovarli...” continuò JJ. “Tra la denuncia di scomparsa e il ritrovamento passa almeno una settimana.”
“Gli piace passare del tempo con loro prima di ucciderli, e poi quando ha finito i suoi giochetti, si eccita telefonando alla polizia per fare ritrovare il corpo. Vuole il controllo assoluto...non mi stupirebbe che si interessi alle indagini, o meglio, che stia a guardare quando la polizia viene a prendere i cadaveri.” Era la voce di Derek.
“Credo si tratti di un sadico.”
Silenzio improvviso e tutti gli occhi puntati su di me. Il mio primo pensiero era che avessi detto qualcosa di troppo scontato.
“Ci sono segni di tortura sul corpo...bruciature, tagli in punti del corpo tali da non causare emorragie che possono portare ad una morte veloce.” Venne in mio soccorso il dottor Reid. “Vuole che restino vivi per tutto il tempo che stanno con lui.”
“Acuta osservazione agente Liardi.” Non capivo se l’agente Rossi pensasse veramente quello che aveva appena detto o fosse solo un modo di prendersi gioco di me.
“Però il corpo mortale.” continuai a riflettere ad alta voce “è stato inferto al cuore con molta violenza e precisione. Possiamo dire anche che è molto organizzato, porta le vittime in luoghi isolati come le grotte, sta attento a non causare emorragie letali mentre li tortura, telefona alla polizia per gustarsi il momento del ritrovamento. E allora perché questa violenza improvvisa al momento dell’uccisione? È come se si stancasse del gioco e desse la colpa di questo alla vittima...”
“Vedo che qualcuno ha studiato bene durante l’addestramento! Ci conosciamo?” affermò una voce che non avevo mai sentito prima. Iniziai a guardarmi intorno un po’ preoccupata. Nell’abitacolo del jet c’eravamo solo noi sette.
“Piccola, ti ho detto mille volte di non spaventare le persone comparendo così all’improvviso...” rispose sorridendo l’agente Morgan e girò verso gli altri il portatile su cui era aperta una finestra con l’immagine proveniente da una webcam.
Vi era il volto di una donna molto particolare. Occhiali, capelli biondi con qualche ciocca colorata raccolti in due code. A tenerle su, fiocchetti e bastoncini multicolori.
“Lo so zuccherino, ma sai quanto mi piace coglierti di sorpresa...” Rispose la donna con un tono alquanto malizioso.
“Questa è l’agente Nicole Liardi, appena assegnata alla nostra squadra.” Evidentemente l’intento di Derek era quello di cambiare discorso, anche se il sorrisetto sul suo volto non era ancora scomparso.
“Piacere di conoscerti cara, io sono Penelope Garcia, l’occhio che tutto sa e che tutto vede...”
“Il piacere è tutto mio.” Risposi un po’ turbata.
“È la nostra informatica. È un tipo particolare, ma ti piacerà. Imparerai ad adorarla anche tu.” Cercò di rassicurarmi JJ. “Hai qualcosa per me?”
“Ho fatto le ricerche che mi hai chiesto, ma oltre a non esserci alcun punto in comune nell’aspetto delle vittime, non c’è niente che può aiutarci neanche nei loro mestieri, nelle loro estrazioni sociali, nella tipologia di famiglia...azzarderei che le vittime sono state scelte senza alcun criterio, ma come ricordava prima la nostra acuta new entry, l’S.I. è troppo organizzato per affidarsi al caso.”
“Grazie Garcia. Continua a fare ricerche, magari ci sfugge qualcosa. Ottimo lavoro agente Liardi. Credo si debba partire proprio da quanto ha notato per tracciare un profilo dell’S.I., è come se ad un certo punto succeda qualcosa che scatena in lui un raptus violento.” La voce di Hotchner sembrava più sicura in questa affermazione rispetto a quella di Rossi. Mi sentivo sollevata.
“Morgan e Prentiss, voi andate sull’ultima scena del crimine,” intervenne David “io e JJ andiamo a interrogare la famiglia della vittima per cercare di scoprire qualche punto di contatto con le altre vittime. L’agente Liardi, Hotch e Reid andranno al dipartimento di polizia per sistemarsi.”
Stavamo quasi per atterrare, quindi ognuno tonò al suo posto e allacciò la cintura. Almeno non mi sarei trovata subito a contatto diretto con un cadavere. Avrei avuto modo di ambientarmi intanto all'interno di una stazione di polizia.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


My life has just begun CAP6 CAPITOLO 6

La squadra mi piaceva.
JJ era adorabile, saremmo potute diventare grandi amiche. Sentivo che era dolce, ma per il mestiere che faceva doveva anche avere una certa dose di prontezza di spirito. Doveva essere tosta quando combatteva con i giornalisti. Ma fondamentali erano anche l’autocontrollo e una certa diplomazia quando doveva portare certe notizie alle famiglie delle vittime. O peggio quando doveva far loro domande scomode nel momento più brutto della loro vita, proprio come sarebbe successo di lì a poco.
L’agente Hotchner era il prototipo del capo. Autoritario, serio, non lasciava trasparire emozioni. Professionale, un complimento da parte sua te lo dovevi guadagnare con molto sudore. Anche se in cuor suo non smetteva di ripetersi quanto valesse ogni suo collega. Mi incuteva un po’ di timore; avevo paura di fare qualche sbaglio, cosa che credevo avrebbe scatenato una reazione furiosa da parte sua. Sentiva il peso della responsabilità e non voleva fallire. Per se stesso, ma soprattutto per la sua squadra.
L’agente Rossi...beh, su di lui avevo diverse idee. L’avevo già visto alla conferenza e mi era sembrato particolarmente buono e simpatico. Ora potevo aggiungere che si vedeva in lui l’anzianità e l’esperienza. Traspariva anche un metodo diverso di indagine, magari derivato dal fatto che lui aveva fondato l’unità, quindi i progressi, le modifiche, le nuove tecniche erano arrivati dopo. Ma vedevo che ce la metteva tutta per essere al passo con la sua squadra. E ci riusciva benissimo. Lo vedevo anche un po’ sarcastico. Magari sapeva stemperare i momenti più tetri legati al nostro lavoro con la sua ironia.
Poi c’era Emily. Anche lei come Jennifer aveva fatto subito breccia nel mio cuore. Sarà stata solidarietà femminile. Al contrario dell’agente Jereau però lei mi sembrava più donna d’azione. D’altronde JJ non era una profiler...anche se ritenevo il suo mestiere altrettanto se non più importante e delicato. Ma l’agente Prentiss doveva essere anche simpatica, una ragazza con cui scherzare e magari, perché no? Spettegolare. Era forte. Anche con lei sarebbe potuta nascere una bella amicizia.
La donna che sembrava un po’ fuori dal gruppo era invece Penelope Garcia. L’avevo trovata...non riuscirei a descriverla...esuberante? Eccentrica? Particolare? Di certo potevo affermare che con Derek Morgan faceva proprio un bel duo comico. Chissà se quelle battutine tra loro erano solo un caso o andavano avanti sempre così...per poter dire altro di lei avevo bisogno di conoscerla meglio. D’altronde l’avevo vista attraverso un computer per pochissimi minuti.
Derek era sicuramente un bel ragazzo. Doveva avere un bel peso essere un agente dell’FBI di colore. Mi trasmetteva tanta sicurezza. Avrebbe fatto di tutto per la salvezza della sua squadra. Potevo affermare anche che doveva essere un uomo che metteva al primo posto cuore, emozioni e istinto. Non gli sarebbe importato di infrangere qualche regola dell’FBI se questo fosse stato necessario per salvare una vita. Da come lo vedevo scherzare sull’aereo con gli altri, potevo classificarlo come il tipico ragazzo simpatico e compagnone. Specialmente con il dottor Reid aveva il classico comportamento del fratello maggiore. Lo prendeva in giro, ma si vedeva che sarebbe anche morto per lui dal bene che gli voleva.
E qui venivano i problemi...il Dottor Spencer Reid. Dovevo ammettere che dopo il nostro primo scontro in cui aveva prevalso l’imbarazzo, e la conferenza in cui lo vedevo da lontano, visto in tranquillità su quel jet era decisamente un ragazzo molto carino. Intelligente, forse anche troppo, e giovane. Non avrei saputo dargli un’età, anche se ero certa che non arrivasse ai trenta. Sentivo una strana sensazione verso di lui, ma non appena questa si manifestava, non perdevo tempo a ricordarmi tutte le cose negative che pensavo di lui...
I miei pensieri, però, furono interrotti dal carrello dell’aereo che toccava terra. Era il momento di scendere e di dirigermi con l’agente Hotchner e il dottor Reid alla stazione di polizia.
Raccolsi la mia ventiquattrore e il fascicolo del caso e mentre scendevo la scaletta del jet sentii una voce chiamarmi, “Agente Liardi...posso darti del tu vero?” era la sorridente agente Prentiss.
“Ma certo, chiamami pure Nicole...” risposi per rassicurarla. “E tu chiamami Emily allora!” questa donna sprizzava energia e buonumore da tutte le parti.
Continuò sotto voce avvicinandosi a me, “Ho visto, mentre l’aereo atterrava, come guardavi tutti e pensavi. Ti avviso che noi abbiamo una regola: non dobbiamo farci il profilo tra colleghi.” Aveva notato il mio sguardo imbarazzato, “Tranquilla...non potevi saperlo. Ed è normale che appena arrivata in una nuova squadra devi un attimo tirare le somme di chi ti sei trovata davanti. Non farò la spia!” concluse facendo l’occhiolino e affrettandosi verso il SUV dove l’agente Morgan la aspettava.
“Grazie Emily!” le gridai dietro e mi avviai al SUV dove invece l’agente Hotchner stava già salendo al posto di guida.
Durante il viaggio fino alla stazione di polizia rimasi in silenzio sul sedile posteriore. Ero imbarazzata, non sapevo cosa dire. Una volta arrivati, entrammo e ci venne assegnata una stanza dove poter sistemare tutte le nostre cose.
“Spencer, lì c’è la cartina della zona, inizia a segnare i luoghi dei ritrovamenti e i luoghi dove sono state viste per l’ultima volta le vittime. Poi traccia un profilo geografico. Io inizio a sistemare la bacheca con le foto...” ordinò l’agente supervisore.
“Quanto tempo è passato dall’ultimo ritrovamento?” domandai.
“Due settimane, ci hanno chiamato perché è arrivata una nuova denuncia di scomparsa. Un uomo di ventisette anni è scomparso una decina di giorni fa...”
“E hanno fatto passare così tanto tempo prima di fare la denuncia?” interruppi sbalordita il dottor Reid.
“All’inizio non hanno pensato ad un rapimento...l’uomo stava facendo un viaggio per lavoro che gli avrebbe reso impossibile la comunicazione per un po’ di tempo. Ma poi hanno capito che c’era qualcosa che non andava, hanno chiamato la ditta e hanno scoperto che il giorno della partenza il ragazzo non si era presentato.” Mi spiegò il mio capo.
“Dobbiamo ipotizzare che l’S.I. fosse a conoscenza di questo ipotetico viaggio?” riflettei.
“Può darsi. Dobbiamo confrontare questa situazione con quella delle vittime precedenti.” Mi rispose Spencer.
“Se posso assentarmi un attimo, avrei bisogno di un caffé...” chiesi gentilmente.
“Faccia pure agente Liardi, se non le dispiace, potrebbe portarne anche due per noi?”
“Grazie Hotch, io preferisco prenderlo da me...” aggiunse il dottor Reid, guardandomi e sorridendo.
L’imbarazzo mi pietrificò e Aaron se ne accorse. “C’è qualcosa che mi è sfuggito?”
Aprii la bocca per cercare di dire qualcosa, ma venni interrotta da un agente di polizia che si affrettò nella stanza. “Agenti, è appena arrivata una chiamata anonima che ci indica dove trovare un cadavere.”
“Forse è il nostro S.I. Reid, continua il profilo geografico. Liardi, con me!”
Salvata dall'S.I. Ma questa il caro Dottore me l'avrebbe pagata presto...

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


My life has just begun CAP7 CAPITOLO 7

Durante il viaggio in macchina l’agente Hotch aveva chiamato Morgan e Prentiss per dire loro di raggiungerci alla nuova scena del crimine, se avevano già finito il loro lavoro, così che avrebbero potuto aggiornarci lì stesso e valutare gli eventuali tratti in comune. Erano già davanti alla grotta che ci aspettavano quando il mio capo posteggiò il SUV e scendemmo.
La preoccupazione dentro di me cresceva, mi sarei trovata davanti ad un cadavere e speravo di non avere reazioni esagerate o fuori luogo.
La grotta era fredda, umida, illuminata solo dalla luce che proveniva dall’esterno. Il corpo era lì, nudo, al centro. Segni di tortura anche questa volta. E quell’unico colpo al cuore deciso che ne aveva stabilito la morte.
“È decisamente il nostro S.I.” constatò Emily.
“Michael Sturn, ventisette anni. Impiegato di banca, moglie, due figli.” Affermò Hotch.
“Rientra sicuramente nel profilo delle vittime precedenti, ma anche stavolta diversa estrazione sociale e diversa tipologia di famiglia.” Intervenni io.
“La scena è troppo pulita, la vittima è troppo vicina all’ingresso della grotta, credo che non sia questo il luogo dell’uccisione, ma il corpo sia solo stato portato qui prima della telefonata per farcelo ritrovare.” Concluse Morgan.
“Analogie con la scena del crimine precedente?” chiese Hotchner.
“Anche lì scena fin troppo pulita, nessuna prova organica utilizzabile. A pochi passi dall’ingresso anche la precedente vittima. Nessuna posa particolare del corpo o qualche elemento particolarmente caratterizzante.” Riassunse Emily.
Io continuavo a fissare la vittima, mentre ascoltavo i miei colleghi analizzare i dettagli. La mia mente era troppo impegnata a pensare come si potesse fare una cosa del genere ad un altro essere umano. Indossavo i guanti e mi avvicinavo alle ferite. Quella al cuore era abbastanza fresca. E molte bruciature lo erano anche. La posa del corpo era scomposta. Segno che nessun rimorso aveva assalito l’uccisore.
Poi qualcosa catturò la mia attenzione. Un’ombra, sul fondo della grotta. C’era una piccola insenatura e potevo giurare di aver visto qualcosa muoversi. Le parole dell’agente Morgan mi risuonavano in testa. L’assassino poteva essere lì a godersi il momento del ritrovamento.
Ormai non ascoltavo più i miei colleghi che proponevano nuove idee, e mi avvicinavo lentamente a quella insenatura. La raggiunsi. Era piccolissima. Ci sarei passata a stento io che ero molto minuta. Seguii l’istinto, magari avrei commesso un grandissimo errore, ma in quel momento sentivo che dovevo entrare in quella fessura e scoprire cosa c’era dall’altra parte.
Il fatto che era così stretta mi faceva pensare che nessuno dei miei colleghi forse sarebbe riuscito a seguirmi, ma non mi importava. Appoggiai le mani sul bordo e mi sollevai lentamente da terra introducendo prima una gamba e poi l’altra. Mi guardai intorno, nessuno mi aveva visto. Scivolai verso il basso per un condotto che andava sempre più stringendosi. Prima di toccare terra sentii una sola cosa: “Dov’è Nicole?”
Dopo la domanda di Emily non potevo sentire più nulla di quello che accadeva sopra. Di certo l’S.I. non doveva essere troppo robusto, altrimenti non sarebbe potuto passare da quella strettoia come avevo fatto io. Però non c’era nessun tipo di ferita che avesse fatto capire che le vittime erano state stordite. Forse li convinceva a seguirlo in altri modi.
Mentre riflettevo mi tolsi i guanti di lattice e portai la mano destra al mio fianco. Aprii la fondina e cominciai ad accarezzare l’impugnatura della mia pistola. Camminavo lentamente, la luce non arrivava fino a lì. Con la mano sinistra afferrai allora la torcia. Dopo aver tolto la sicura alla mia automatica, procedetti con altrettanta cautela.
Lasciai che fosse la pistola, con la torcia tenuta sotto, a farmi strada. Il cammino era illuminato da quella piccola luce, ma era comunque molto buio. Sentivo però qualcosa muoversi davanti a me. La galleria aveva molte altre insenature, diramazioni e curve. C’era un anormale silenzio, interrotto solo da fruscii appena udibili, che mi avevano convinto che l’S.I. fosse lì con me.
Continuai a muovermi con cautela. Forse essere scesa così da sola senza dire nulla non era stata una buona idea.
Poi un colpo e tutto iniziò a roteare. Mi ritrovai a terra e ebbi appena il tempo di voltarmi per sentire una presenza accanto a me. Cadendo avevo perso pistola e torcia, che si era spenta nell’urto, quindi ero nell’oscurità più totale, mentre la testa cominciava a farmi male.
Gli occhi iniziavano ad abituarsi all’oscurità e piano piano apparve una figura che mi sovrastava. Un uomo normale, non riuscivo a vederlo in viso. Le mie mani cominciavano ad esplorare la terra accanto a me in cerca della luce o della pistola. Lentamente, senza farmi notare.
La figura si abbassò e afferrò la mia pistola. L’aveva trovata prima di me. Il sudore freddo mi scorreva lungo la schiena. Avevo decisamente commesso un errore con le mie azioni. Un assassino organizzato come lo avevamo definito, non avrebbe lasciato testimoni sulla sua strada. Finalmente sentii qualcosa vicino alla mia mano.
Accesi la torcia e la diressi direttamente in faccia all’uomo che avevo davanti. Almeno volevo vedere in faccia il mio assassino. Rimasi sbalordita. Il volto di quell’uomo era sfigurato. Cicatrici, ferite, ustioni, lo rendevano indescrivibile.
“Hai fatto un errore...” mi disse, con voce meno ferma e sicura di quello che mi sarei aspettata da un uomo tanto spietato. Io non esitai e non distolsi la torcia dal suo viso. L’uomo alzò la pistola verso il mio viso.
Stava esitando troppo. Un sadico organizzato come lui mi avrebbe agito prima ancora che avessi visto il suo viso. Aspettavo il momento della mia fine incapace di dire e di fare qualsiasi cosa.
Il pollice dell'uomo si avvicinò al caricatore. Lo tirò verso il basso. L'indice accarezzò il grilletto. Attendevo lo sparo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


My life has just begun CAP8 CAPITOLO 8

“Agente Liardi! Fermo, FBI. Butta la pistola e alza le mani...”
La voce di Derek mi risvegliò dal mio torpore causato dal panico. L’S.I. lasciò cadere la pistola ai miei piedi e fuggì, lasciando così che il fascio di luce della mia torcia raggiungesse direttamente il mio collega, che cercò di corrergli dietro. Ma l’assassino era sparito nel nulla.
Morgan si avvicinò a me e mi porse una mano per aiutarmi a rialzarmi. “Sta bene?” mi domandò. Io non riuscii a rispondere, assalita dal senso di colpa e dalla rabbia verso me stessa per essermi messa in quel pasticcio da sola. Avevo rovinato tutto. L’agente Hotchner mi avrebbe sicuramente fatto una lavata di capo. E me la meritavo tutta.
Riuscii a scuotere la testa, giusto per tranquillizzare Derek. Avevo ancora dolore per la botta, ma per fortuna niente sangue. “Mi ha salvato la vita.” Riuscì finalmente a dire, mentre ci incamminavamo fuori dalla galleria verso i nostri colleghi. “La prego di darmi del tu. Sono stata una stupida ad agire di testa mia, lo so.”
“L’importante è che sei salva. E dammi del tu anche tu, Nicole. Sei riuscita a vederlo in viso?”
“Si, era strano. Pieno di cicatrici. La luce era poca, ma sono stata colta da questi particolari. Bruciature e ferite. Tu non sei riuscito a vederlo?”
“No, l’ho visto solo di spalle. Ti ha detto qualcosa?”
“Che avevo fatto un errore a puntargli la luce contro il viso. Ma non so...non era sicuro. Ha esitato anche a spararmi. Credo che ci sia qualcosa che ci sfugge...”
“Morgan, cos’è successo?” la voce dell’agente supervisore ci interruppe. Era il momento che più temevo.
“L’S.I.,” cominciai a spiegare, dovevo prendermi le mie responsabilità. “Ho notato che ci stava osservando mentre controllavamo il corpo. Ho seguito l’istinto e l’ho seguito. Mi ha colpito e sono caduta a terra perdendo la pistola. Stava per spararmi, se non fosse arrivato Derek.”
Il viso di Aaron parlava da solo. Era livido. “Ma cosa le è saltato in mente? Cosa voleva dimostrare? Cosa credeva di fare? Io veramente non la capisco.” Non tentai di fermarlo. Aveva tutta la mia approvazione nel reagire in quel modo.
“Aaron, è riuscita a vederlo in faccia...” interruppe Derek, per cercare in qualche modo di proteggermi.
“Questo non esclude il fatto che abbia agito da irresponsabile!” la rabbia non si era per nulla affievolita in lui. Mi chiedevo come avrei fatto a riconquistarmi la fiducia della mia squadra. “Sarebbe in grado di fare un identikit?”
“Mi dispiace agente Hotchner. La luce era scarsa e non l’ho visto bene da poter fare un identikit. Posso però dirle che aveva il volto pieno di cicatrici e ustioni.” Ero pronta per la successiva sfuriata.
“Prentiss, vai a casa della famiglia della prima vittima. Magari riusciamo a scoprire qualcosa di veramente utile.” Aveva deciso di lasciar perdere con me e di cambiare discorso. Ma sentivo che non era finita lì.
“Si signore, ma porto con me Nicole.” rispose Emily, sorridendomi.
 “Fai come vuoi.” Il capo non sembrava molto contento. Ma Emily si avvicinò a me e mi mise un braccio sulle spalle mentre mi accompagnava al SUV.
“È il suo modo di scaricare la paura per la vita dei suoi agenti, non devi prendertela.” Cercò di tranquillizzarmi mentre si metteva al volante.
“Ha ragione ad avercela con me. Ho sbagliato e non riesco a perdonarmi.”
“Non dire così. Magari quello che sei riuscita a vedere risulterà utile.” Era proprio dolce l’agente Prentiss. Voleva a tutti i costi che stessi bene e mi rilassassi. Ma per me non era così facile.
“Sarà...” lasciai andare e scelsi di cambiare discorso. “Dove andiamo?”
“A casa della prima vittima, Steven Chase, ventinove anni. Interrogheremo i genitori. Viveva ancora con loro ed era un tassista.”
Non risposi e restammo in silenzio per tutto il tragitto.
Arrivate alla casa dei Chase, fummo accolti dai genitori. Anche se erano passati dei mesi dalla disgrazia, il dolore era ancora vivo. La madre era distrutta e tra i singhiozzi cercava di parlarci del figlio. Una bravissima persona, nessuna nota stonata nella vita del ragazzo. Il padre stava lì, volto contratto dal dolore ma non riusciva a dire una parola. Poi mi si accese una lampadina.
“Vostro figlio aveva in programma un viaggio per caso?” Prentiss mi guardò senza capire il perché della mia domanda.
“Si, ed eravamo dispiaciuti. Diceva che ormai era quasi trentenne e si era stancato della vita che faceva. Non fraintendetemi, stava benissimo con noi a casa, ma sognava tanto di farsi una famiglia sua. Quindi anche se a malincuore voleva staccarsi da noi, partire per un viaggio e costruire il suo futuro.”
I singhiozzi del signor Chase presero il sopravvento e non gli permisero di dire altro.
“Siete stati di grande aiuto. Ci dispiace tanto per vostro figlio.” Emily mi fece capire che era il momento di andare e lasciarli soli.
Mentre salivamo in macchina la mia collega mi chiese il motivo della mia ultima domanda. “La denuncia di scomparsa di Michael Sturn è avvenuta con una decina di giorni di ritardo perché la famiglia credeva che fosse impegnato in un viaggio per il quale non avrebbe potuto tenere contatti con loro. Una questione di lavoro che non aveva fatto insospettire inizialmente i cari. Volevo capire se l’S.I. era a conoscenza di questo viaggio, e credo che non sia un caso che anche la prima vittima stava per preparare le valigie...”
“Brava Nicole! Ora torniamo alla centrale. Dobbiamo informarli di questa scoperta e vedere cosa hanno saputo JJ e Rossi dalla famiglia della terza vittima.” Le sue parole furono accompagnate da un raggiante sorriso.
Ero un po' più calma e rilassata, Emily era riuscita a far scendere la tensione. Anche se ancora non avevo del tutto superato l'accaduto.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


My life has just begun CAP9 CAPITOLO 9

Arrivati alla stazione di polizia erano già tutti nella stanza che ci era stata assegnata. Mancavamo solo io ed Emily per iniziare la riunione che ci avrebbe permesso di ricapitolare tutto ciò che avevamo tra le mani.
“Eccovi, possiamo iniziare.” Ci accolse così l’agente Hotchner, riservando a me uno sguardo ancora ricco di odio per quello che avevo combinato sulla scena del crimine. “Io e Derek siamo andati dalla famiglia della seconda vittima. Si tratta di Simon Diggory, trentenne. Faceva il commesso in un negozio di abbigliamento. Aveva lasciato da poco la moglie e la figlia perché il loro matrimonio non funzionava più. Voi che avete scoperto?”
“Molto interessante...” affermò Prentiss, prima di lasciare a me la parola sulla prima vittima.
“Beh...” esitai mentre combattevo ancora con i miei sensi di colpa “…la vittima ritrovata oggi, la sua denuncia di scomparsa era arrivata in ritardo perché si credeva che Sturn fosse in viaggio di lavoro. Partendo da questo ho chiesto alla famiglia di Steven Chase se loro figlio avesse in programma qualche viaggio...mi è stato risposto di si, stava partendo per farsi una nuova vita e cercare di metter su famiglia. Quindi credo proprio che l’S.I. sapesse che le vittime si stavano allontanando da casa, per dei viaggi o per delle questioni familiari magari.”
“Anche la terza vittima stava per partire?” il supervisore non aveva commentato la mia intuizione. Ci sarebbe voluto ben più di questo per riacquistare la sua fiducia.
“Non sapevamo di questa linea di indagine quindi non abbiamo chiesto.” Rispose Rossi. “Dalla moglie di John Turblack non abbiamo scoperto nulla di particolarmente utile. Erano sposati da poco e tutto andava bene.”
Non lasciai loro il tempo di parlare, mi girai e, mentre rovistavo fra i fascicoli delle vittime, presi il mio cellulare componendo per la prima volta un numero che si sarebbe rivelato utilissimo per tutte le situazioni critiche.
“Chiedete e troverete le risposte alle vostre domande!” rispose vivacemente la voce dall’altra parte.
“Garcia, avrei bisogno di alcune ricerche su John Turblack, pilota di venticinque anni. Precisamente mi servirebbe sapere se lei riesce a trovare informazioni su un possibile spostamento che stava per fare la vittima...”
“Cara, mi chiedi di fare un giochetto da ragazzi...” affermò mentre sentivo un vivace e veloce ticchettio sulla sua tastiera. “Ecco qui..John Turblack, giovane pilota ma già tantissimi riconoscimenti per le sue capacità. Avrebbe a breve intrapreso il suo primo viaggio intercontinentale che lo avrebbe allontanato da casa per parecchi giorni. È questo che volevi sapere?”
“Grazie, è stata preziosissima.” Riattaccai raggiante e informai i miei colleghi della nuova notizia. Sui volti di Emily, JJ e Derek lessi un sorriso d’orgoglio indirizzato a me. E questa volta, anche se con qualche titubanza, Aaron Hotchner fu costretto a complimentarsi con me.
“Allora sappiamo per certo che l’S.I. conosce le vittime personalmente e abbastanza bene da sapere dettagli delle loro vite private. Reid, come procede il profilo geografico?”
“Ho messo insieme molti dati. I luoghi dove sono state viste per l’ultima volta le vittime non hanno dato alcun riscontro perché molte sono semplicemente uscite di casa quella mattina e poi sono scomparse nel nulla. Però ho notato che la banca dove lavorava Michael Sturn, così come il negozio di Simon Diggory si trovano a qualche isolato di distanza. In questa zona qui,” il Dottor Spencer Reid stava tracciando sulla mappa una grossa circonferenza rossa che racchiudeva i luoghi da lui analizzati, “e...aspettate un attimo. JJ dove si trova la casa della moglie di John Turblack?”
“La moglie di John Turblack vive in quella che era la loro casa da sposati. Si trova al 127 di...” gli occhi dell’agente Jereau si erano alzati sulla cartina per indicare la dimora dei Turblack ma si era pietrificata quando aveva visto che l’indirizzo entrava perfettamente nella zona evidenziata da Spencer.
“Restringiamo le ricerche a questa zona. Magari qualcun altro ha notato qualcosa di strano. Qualche collega, qualcuno in strada. Anche l’S.I. deve essere un abitudinario della zona. Non credo che sia anche questa una coincidenza...” sciorinò l’agente Morgan.
“Ormai è sera, proporrei di andare in albergo a riposarci. Domani mattina metteremo insieme il profilo provvisorio e lo consegneremo alla polizia, così da iniziare le ricerche nella zona segnalata.” Concluse David Rossi, avviandosi già verso l’uscita.
“Stai dimostrando grande carattere. Sei in gamba!” mi disse JJ mentre si avviava verso l’uscita con il suo Dottor Reid. Chissà come desideravano questi momenti di quiete per stare un po’ da soli.
“Vieni con noi a mangiare qualcosa fuori?” mi chiese Derek riportandomi sulla terra dai miei pensieri.
“No grazie. La mia prima giornata con voi è stata abbastanza intensa, e non vedo l’ora di andare nella mia stanza per riposarmi.” Declinai gentilmente l’invito.
Dopo aver salutato tutti, salii sul SUV e in poco tempo arrivai all’albergo assegnatoci. Dopo aver ritirato la chiave, salii in camera e iniziai a rilassarmi. Mi buttai sul letto e mi lasciai inondare da pensieri e emozioni della mia prima giornata sul campo con la mia squadra. Nonostante i disastri che avevo causato, ero soddisfatta. Mi trovavo veramente bene. Mentre i pensieri scorrevano, il sonno prese il sopravvento su di me.
Venni svegliata da alcuni colpi alla ma porta. Qualcuno stava bussando. Aprii gli occhi e guardai l'orologio. Avevo già dormito un paio di ore. Mi avviai verso la porta per aprire.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


My life has just begun CAP10 CAPITOLO 10

“Ti ho disturbato?” mi apparve davanti l’agente Prentiss quando aprii la porta.
“No assolutamente...riflettevo da sola nel silenzio...già di ritorno?”
“Si, abbiamo mangiato e siamo subito tornati. Ero proprio curiosa di parlare con te...dimmi, come è andata la tua prima giornata?” mentre parlava Emily era entrata nella mia stanza e si stava accomodando sul divano. Chiusi la porta e la seguii, sedendomi sul letto di fronte a lei.
“Strana! Voglio dire, ero arrivata per sistemarmi in una scrivania e invece vengo catapultata su un jet e parto per un caso. Bellissimo certo, però io sono un tipo che vuole una certa organizzazione...”
La mia collega si lasciò andare ad una fragorosa risata. “Hai dimostrato carattere però...”
“Si, come no...e mi sono anche messa subito nei pasticci, piazzandomi direttamente al primo posto nel libro nero dell’agente supervisore Aaron Hotchner.”
“Lui non è così cattivo come sembra. Tiene alla sua squadra, è tutto quello che gli è rimasto...” sentii sotto queste ultime parole un tono in un certo senso triste e nostalgico, ma non mi andava di indagare oltre. “Sente su di sé tutte le responsabilità. In passato una collega, prima che arrivassi io, è uscita dalla squadra in maniera parecchio misteriosa. Coinvolta nell’assassinio di un S.I., apparentemente per legittima difesa. Poi anche un altro agente storico dell’FBI è andato via perché non ha retto la pressione di essere stato personalmente coinvolto in un caso. E per entrambi Aaron si è sentito responsabile. Preferisce mettere su di sé questa corazza da duro, perché sa che è il perno su cui tutti noi possiamo contare. Lui non può vacillare.”
Quella donna doveva ammirare veramente il capo. Ne parlava con una devozione unica. Forse avrei imparato a vederlo sotto questa luce anche io un giorno. Per ora ero troppo impegnata ad aiutarlo a colpevolizzarmi.
“Anche con me.” continuò Emily, “Non è stato molto gentile all’inizio. Ma le cose sono presto cambiate...ma non siamo qui per parlare di me. Gli altri come ti sono sembrati?”
“L’agente Rossi l’avevo già visto alla conferenza che mi ha portato a questo lavoro. Mi sembra carico di esperienza, simpatico, paterno. Derek è fantastico. Se non ci fosse stato lui stamattina, a quest’ora non saremmo qui a parlare...gli devo tutto. Ho anche notato sul jet che ha un ottimo rapporto con Penelope Garcia, l’informatica. Scherzavano in un modo alquanto complice...”
“Sono sempre stati così. Se non sapessi che lei ha un ragazzo, oserei dire che c’è qualcosa tra quei due. Anche se loro non vogliono ammetterlo.”
“Non vi basta una sola coppia nella squadra?” chiesi di getto. Ma il volto dell’agente diventò interrogativo. Non rispose e mi scrutò. “JJ e il Dottor Reid...” continuai, sperando di non aver detto qualcosa di sbagliato.
“Tu...cioè...non ci posso credere...hai creduto che fossero una coppia?” mi rispose balbettando e poi scoppiò a ridere. “No Nicole, non è lui il padre del bambino di JJ. Sono grandi amici, ma non c’è stato mai niente tra di loro. Il compagno di Jennifer è un poliziotto di New Orleans, si sono conosciuti in un caso qualche anno fa.”
Le parole di Prentiss avevano avuto un effetto inaspettato su di me...quasi uno strano sollievo. Mi sentivo felice, come un’esplosione di serenità dentro di me. Del tutto ingiustificata avrei osato dire. La scacciai in fretta e ripresi a parlare, “Io li ho visti sull’aereo, c’era complicità, e poi stasera sono andati via insieme. Ero sicura che ci fosse un forte legame fra di loro che andasse ben oltre l’amicizia.”
“Beh...si vede che non conosci bene il Dottor Reid ancora...lui e il gentil sesso. Semplicemente un disastro.”
“Vi divertite tutti a prenderlo in giro...non fraintendermi. Capisco che lo fate con affetto, specialmente Derek. Li vedo come fratelli. Il maggiore che stuzzica il minore.”
“Lui non se la prende...anzi molto spesso si prende in giro da solo. Però posso dirti per certo che senza di lui ci sarebbero dei seri problemi per noi. È semplicemente un genio. Ha delle trovate, fa delle scoperte che risolvono il caso la maggior parte delle volte. Non sottovalutarlo assolutamente.”
E chi poteva sottovalutarlo se continuava a dimostrare al mondo intero di essere fin troppo in gamba? Ovviamente questi pensieri non troppo positivi su Spencer me li tenevo tutti dentro. Non mi sembrava giusto condividerli con Emily, era troppo presto.
“Grazie...” sussurrai.
“E di cosa?” mi chiese in risposta, sbalordita.
“Di tutto. Ti ho sentita vicina da subito. Mi hai sostenuto, hai capito le mie difficoltà stamattina e hai voluto portarmi con te per farmi cambiare aria. E ora sei venuta a cercarmi per vedere come stavo. Penso di poter veramente contare su di te.” Il mio sorriso parlava da solo.
“Grazie a te Nicole. Sento che sarai un pezzo importante della nostra squadra. Ora ti lascio riposare però. Domani ci aspetta un’altra giornata di lavoro e ti voglio al meglio.” L’ultima frase l’aveva accompagnata con una strizzatina d’occhio.
Accompagnai la mia collega e amica alla porta. Dopo esserci salutate, richiusi la porta alle mie spalle. Riuscii a muovere pochi passi verso il letto e sentii bussare nuovamente alla porta.
“Hai dimenticato qualcosa Emily?” affermai raggiante mentre aprivo la porta.
“Veramente...ehm...non sono Emily...” era ufficiale. La mia specializzazione era in disastri. Il sorriso mi morì sulle labbra.
“Dottor Reid, mi dispiace...non pensavo...Emily è appena uscita, quindi mi è venuto spontaneo pensare che fosse tornata indietro per qualche ragione. Vuole entrare?”
“No no...volevo...volevo solo dirle...cioè...volevo scusarmi per oggi. La storia del caffé...beh, non era mia intenzione offenderla. Volevo solo rompere il ghiaccio...fare conversazione. Ma come vede la cosa non mi riesce molto bene...”
Era sempre così imbarazzato o ero io a crearli problemi? Certo finora tutti gli incontri tra di noi non erano certo stati un successo. “Non si preoccupi. Acqua passata...” un silenzio imbarazzante era calato tra di noi.
“Allora...torno in camera mia. L’importante è che sia tutto chiarito. A...a domani.” Alzò la manina in segno di saluto e si avviò per il corridoio.
“Dottor Reid...” la mia voce era uscita da sola, senza che avessi potuto riflettere prima. Lui si fermò e si girò lentamente aspettando di sentire cosa avevo da dire. “Mi dia tranquillamente del tu. Siamo colleghi ormai, anche se non so quanto piacere le possa fare...”
“Dammi del tu anche tu...” mi rispose mentre cercavo di trovare una ragione delle mie azioni. Si avviò nuovamente mentre io chiudevo la porta. “Ah Nicole...” riaprii lentamente e mi affacciai. “Sono veramente contento di averti in squadra...” questa volta non c’era altro da aggiungere, lo vidi scomparire in fondo al corridoio.
Completamente stordita chiusi la porta e mi buttai sul letto. Lasciai che delle strane emozioni si impadronissero di me. Che mi stava accadendo? Senza avere il tempo di cercare di trovare una risposta, crollavo già addormentata.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


My life has just begun CAP11 CAPITOLO 11

Mi ridestavo dal sonno ed erano le sette del mattino. Non avevo voglia di tornare a dormire anche se era ancora presto per raggiungere il dipartimento. Così mi vestii e andai comunque, con molta calma. Entrai nella stanza dove c’era il tabellone delle prove e continuai a fare mente locale. Quel giorno avremmo presentato il profilo alla polizia e avremmo cominciato le ricerche.
“Agente Liardi, già qui?”
“Agente Hotchner buongiorno. Non riuscivo a dormire e ho pensato di venire qui abbastanza presto.”
“Ha fatto bene. Gli altri stanno arrivando, prima ci muoviamo e prima lo prendiamo.” Senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.
In una mezz’ora arrivarono tutti ed eravamo schierati di fronte ad un pubblico di poliziotti in attesa di sentire il nostro profilo. Erano tutti attenti e pronti con le loro penne in mano per segnare i punti salienti sui loro taccuini.
“L’uomo che cerchiamo ha tra i trentacinque e i quarant’anni.” Cominciò Hotch. “Corporatura normale. Per questa ragione crediamo che le vittime abbiano deciso spontaneamente di seguirlo.”
“Questo anche perché crediamo che l’uomo conoscesse personalmente le vittime.” continuò Emily “infatti sapeva dettagli delle loro vite private, come una separazione o l’imminente partenza per un viaggio.”
“Proprio per la conoscenza che aveva delle vittime e per il fatto che queste ultime lavoravano o vivevano nella zona contrassegnata sulla cartina che vi è stata consegnata, troviamo più utile cominciare le ricerche proprio da quell’area.” Andò avanti il Dottor Reid.
“Quando interrogherete i commercianti o gli abitanti della zona, chiedete di un uomo particolarmente sfigurato in volto.” Aggiunsi io.
“Dalle ferite inferte alle vittime e soprattutto per i segni di tortura possiamo ipotizzare si tratti di un sadico particolarmente organizzato. Un uomo del genere non lascia testimoni sul suo cammino, è determinato, e non può essere definito da chi lo conosce come una persona tranquilla.” Era la voce dell’agente Rossi.
“Mettete in guardia le persone con cui parlate. L’S.I. ha già ucciso quattro persone e per quello che ci risulta potrebbe essere già alla ricerca della quarta vittima. Si sta evolvendo velocemente.”
Dopo le parole di Derek, un poliziotto chiese la parola. “Ma non sarebbe meglio diffondere un profilo alla stampa vista la pericolosità dell’assassino?”
“Il grado di organizzazione di un S.I. sadico farebbe si che un comunicato stampa o una notizia resa pubblica lo portino a fuggire in fretta e a cambiare stato. A coprire insomma le sue tracce. A quel punto sarebbe per noi molto difficile ritrovarlo.” Una professionale JJ aveva in pochissime parole risposto al poliziotto.
“Se non ci sono altre domande, proporrei di dividerci in squadre e iniziare ad andare in strada ad interrogare le persone.” Concluse il capo. Non essendoci ulteriori interventi, congedò i poliziotti.
Rimasti soli, potevamo discutere dei nostri dubbi. Il profilo era certamente provvisorio, ma era comunque un’ottima base di partenza per iniziare le ricerche sul campo che forse avrebbero fatto chiarezza.
“Dividiamoci anche noi e aiutiamo la polizia locale. Io e Morgan andiamo alla caffetteria della zona, Reid e Rossi, la lavanderia. Cerchiamo in quelli che sono i posti che possono essere maggiormente frequentati da lavoratori e abitanti. Liardi, JJ e Prentiss, voi cercate di capire in che modo possa essere collegata alle altre l’unica vittima di cui non abbiamo trovato riscontro con la zona, Steven Chase. Oltre a chiedere informazioni sull’S.I., vedete se qualcuno conosceva questa vittima. Ci rivediamo alla fine dei nostri giri qui al dipartimento.”
Un cenno della testa da parte di tutti ed eravamo pronti a partire. Io e le altre due donne ci avviammo al nostro SUV. Lasciai che fosse Emily a guidare, io non ne avevo particolare voglia, così mi guadagnai il sedile posteriore.
Arrivate nella zona segnalata, posteggiammo il SUV e proseguimmo a piedi. Iniziammo ad interrogare la gente delle varie attività commerciali, ma nessuno sembrava conoscere il nostro S.I. ne tantomeno Steven Chase. Dopo giri che non portavano alcun riscontro, arrivammo in uno slargo con parecchi taxi in sosta, e vedemmo un carretto per la vendita di Hot Dog. Da quando ero arrivata in America, avevo capito che quel  tipo di attività era una sorta di emblema degli Stati Uniti e quindi proposi alle mie colleghe di provare a chiedere al proprietario...molte volte erano abbastanza fissi con la loro attività.
“Buongiorno, agente Liardi, FBI, queste sono l’agente Prentiss e l’agente Jereau.” Mostrammo tutte il tesserino. “Ci chiedevamo se conosceva per caso un uomo che frequenta questa zona, corporatura normale, viso particolarmente sfigurato...”
“Mi dispiace, ma avrei ricordato un uomo del genere. Sono bravo a ricordare i miei clienti, e tutti sono della zona.”
“E invece ha mai visto quest’uomo?” mostrai la foto di Steven Chase. E l’uomo non mi diede nemmeno il tempo di spiegargli di chi si trattasse...
“Steven? Si è messo in qualche modo nei guai? Che caro ragazzo...questa è la sua piazzola di sosta con il taxi, e a dire il vero è da un bel po’ che non lo vedo. Nelle pause facevamo delle belle chiacchierate. Forse è già partito...”
Intervenne JJ. “Mi dispiace, ma Steven Chase è morto da qualche mese. L’uomo che cerchiamo potrebbe essere l’assassino, è proprio sicuro di non ricordare nulla?”
“Ma quell’uomo era un angelo...non avrebbe fatto del male a nessuno. Ripensandoci, qualche mattina capitava che quando arrivavo per aprire, Steven era in compagnia di un uomo. Non l’ho mai visto in viso, non so nulla di lui. Ma appena mi avvicinavo per salutare Chase, lui scappava via.”
“La ringrazio per l’informazione. È stato molto utile. Stia attento e se vede qualcosa ci chiami.” Disse Emily porgendo all’uomo il biglietto da visita. Poi ci allontanammo. Si stava facendo tardi e avevamo battuto tutta la zona senza particolari novità, forse era il caso di tornare alla centrale e confrontarci con gli altri. Avevamo da comunicare quello che avevamo scoperto sulla prima vittima.
Alla stazione di polizia c’era particolare agitazione. Forse i nostri colleghi erano stati più fortunati. “Abbiamo trovato la piazzola di sosta di Chase. Ecco in che modo era collegato alla zona.” Espose Emily a Hotch. “Il proprietario del carretto di Hot Dog ci ha detto che lo vedeva alcune mattine in compagnia di un uomo sospetto. Non l’ha mai visto in volto, e quando si avvicinava fuggiva via.”
“Robert Finnigan...” le rispose Aaron. “Lavorava alla caffetteria. Si è licenziato qualche tempo fa, proprio quando è scomparso Steven Chase. Tutte le nostre vittime la mattina prima di andare a lavoro si fermavano lì.”
“Finnigan non aveva contatto con il pubblico, era incaricato di pulire e sistemare il locale all’apertura. Il proprietario ci ha però detto che era proprio mentre lui era lì che le vittime erano solite arrivare. Aveva un ottimo rapporto con loro.” Aggiunse Morgan.
“Agente...una strana telefonata. Un uomo dice che c’è un cadavere in una grotta...” interreppe un poliziotto.
“È il nostro S.I., è molto lontano?”
"Proprio questa è la cosa strana...dice che si trova a Washington D.C.!"

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


My life has just begun CAP12 CAPITOLO 12

“Hotch che facciamo?” sorse spontanea la domanda di Morgan.
Il capo, dopo aver fatto un cenno con la testa a JJ che si allontanò con il cellulare, rimase a pensare qualche minuto in silenzio. “Ci sta sfidando...” affermò infine, “è chiaramente un messaggio per noi. Altrimenti perché chiamare qui per segnalare un cadavere a Washington? Agente, dica alla polizia di Washington di non intervenire fin quando non arriveranno i nostri. Reid, Morgan, Liardi, preparatevi a partire per Washington D.C. Noi rimarremo qui per ora. Teniamoci in contatto, vi raggiungeremo appena saremo sicuri che si tratta di lui.”
“Hotch, l’aereo è pronto a decollare fra dieci minuti.” Informò JJ rientrando.
“Perfetto...”risposi io, mentre facevo cenno a Derek e al dottore di avviarci. Andammo con un solo SUV, d’altronde avremmo dovuto lasciarlo all’aeroporto. Una veloce fermata per raccogliere le nostre cose all’albergo e poi correvamo per la città per raggiungere il jet. La guida di Morgan era veloce, ma sicura. In sette minuti eravamo già a bordo.
Questa volta salire sul velivolo mi procurò delle sensazioni diverse. L’occasione precedente era stata la prima per me, avevo incontrato la mia nuova famiglia sopra, mi era sembrato particolarmente affollato e per l’emozione e l’imbarazzo non ne avevo potuto godere del tutto. Ora invece sembrava particolarmente vuoto ma nello stesso tempo molto accogliente. Morgan prese posto sul fondo allacciandosi la cintura e mettendosi le cuffie. Io e Spencer ci sedemmo invece di fronte, il tavolo fra noi. In pochi minuti il decollo.
Il silenzio riempiva l’ambiente. Nessuno di noi parlava. Poi uno squillo del cellulare. Era quello di Derek, che mise da parte le cuffie e rispose. Dopo aver conversato si alzò e si venne a sedere accanto a me.
“Era Hotch, Garcia ha trovato l’indirizzo di Finnigan. Stanno andando a controllare la casa, anche se sicuramente non lo troveranno lì...sarà utile comunque per perfezionare il profilo. Ma soprattutto non ci sono tracce di nessun Robert Finnigan da prima di dieci anni fa. È come se ad un certo punto si fosse creato una nuova vita.”
Il dottor Reid sospirò. Chissà se si trovavano tutti così disarmati sempre...Leggendo lo sconforto nei nostri occhi Derek ricominciò a parlare.
“Comunque fin quando non arriveremo a Washington non sapremo nulla di più, quindi cerchiamo di tirarci su...Nicole come va con la squadra?” frase accompagnata da un sorrisetto malizioso.
Caddi dalle nuvole, non capendo perché tutti volevano sottopormi al terzo grado. Prima Emily, ora lui. “Bene, mi trovo molto bene...ma perché volete saperlo tutti? Emily mi ha detto che non si fa il profilo ai colleghi...” un sorriso e un cenno di approvazione provennero da Reid.
“Ragazzo non fare in quel modo...anche tu hai partecipato alla fine...” rispose Morgan. Io non capivo e chiesi spiegazioni, mentre un turbato e sbalordito Spencer cercava di difendersi dalle accuse di Derek.
“Ho partecipato alla fine, hai detto bene. Ma l’idea non è certo stata mia, anche se le conseguenze sono ricadute anche su di me...vi avevo avvertiti in tempo. Voi non mi avete voluto ascoltare.”
“Potreste spiegare anche a me gentilmente?” interruppi i miei due colleghi mentre si scaricavano l’uno con l’altro la responsabilità di un’azione che non conoscevo.
“Semplicemente, il qui presente Derek Morgan insieme a Emily hanno pensato bene di intrufolarsi nell’ufficio di Dave, quando era appena arrivato, e di fargli il profilo guardando il colore delle pareti e i pochi effetti personali che aveva già portato. Ovviamente hanno coinvolto anche me, anche se gli avevo ricordato della regola. Solo che sul più bello è arrivato proprio Rossi, e diciamo che ce le ha cantate...”
Scoppiai a ridere di gusto. “Perdonatemi...immaginavo la scena! Ma se avete rischiato con un membro storico dell’FBI, immagino che avrete già pronto anche un bel profilo della sottoscritta...”
“Il genietto ci ha impedito di fartelo...” lanciò così Morgan mentre Spencer rischiava di soffocarsi con il caffé che stava bevendo. Mi stavo specializzando anche nel mettermi in imbarazzo con le mie stesse mani. Provai a salvare la situazione, “Bene Derek, fammelo adesso!”
“Innazitutto ti definirei fuori dall’ordinario. Non so se in Italia siete abituati diversamente, ma sai qui all’FBI non è usuale vedere una ragazza con lo smalto nero...”
“Non è nero! È color cioccolato...” ribattei scherzosamente stizzita.
“…come vuoi. Ma il tratto caratteristico è un altro...le converse. Noi siamo abituati a JJ che è sempre elegantissima e con i tacchi. Anche Emily, sebbene lei a volte usa delle scarpe più comode. Ma le converse ci risultano nuove.”
“Tranquillo, a volte mi vedrai ai piedi anche le Vans...sono patita della comodità. Non saprei muovermi con i tacchi.”
“Almeno nelle Vans non ci sono i lacci...”
“Che problema hai con i miei lacci?”
“Dai! Uno rosso messo a croce e uno bianco invece retto...se già le converse da sole ti davano un tocco originale, così completi l’opera...”
“Questa sono io, prendere o lasciare...e poi anche lui non porta certo scarpe particolarmente classiche o eleganti.” Dissi indicando il dottor Reid, che stava beatamente ridendo per il mio scambio di battute con Derek.
“Ehi, ma io non sono una donna!” mi rispose. Attimo di silenzio e poi ci lasciammo andare tutti ad una fragorosa risata.
“Ma a parte il tocco di originalità, non sai dirmi altro Derek?”
“Segui molto l’istinto, come l’altra mattina. Se fai un errore non ti lasci abbattere, o meglio...mi correggo, non mostri che te ne fai una colpa anche se dentro combatti una battaglia. Sai comunque mettere da parte tutto e andare avanti con determinazione e caparbia. Vuoi conquistarti la fiducia di chi lavora con te e non deludere mai nessuno. Ti concentri su quello che vuoi e alla fine lo ottieni anche se con sacrifici e fatica...”
“Va bene...va bene. Mi stai un attimino spaventando, quindi meglio finirla qui. Sei un ottimo profiler...”
“Tu invece che ci dici di noi? Non dire che non è vero perché so che ci hai fatto il profilo...” chiese Spencer causandomi un attacco di panico. Non potevo certo dirgli direttamente tutte le cose negative che pensavo di lui, o peggio che ero convinta che fosse il compagno di JJ. Decisi di iniziare diplomaticamente e cercare poi una qualche via di fuga.
“Un giudizio su entrambi per cominciare. Vi vedo come due fratelli. Derek è il maggiore e tu sei il minore. Da bravo fratello maggiore il suo compito è stuzzicarti e prenderti in giro, ma in fondo in fondo ti vuole un mucchio di bene e farebbe di tutto per proteggerti.”
“Ora non ci allarghiamo però...” disse Morgan a Spencer per mantenere la sua maschera da duro ben fissa sul volto.
La voce del pilota mi salvò dall’imbarazzo in cui mi trovavo e ci disse di allacciare la cintura per l’imminente atterraggio. Eseguimmo l’ordine.
"Signori è stato un piacere chiacchierare e ridere con voi. Ma ora si torna al lavoro..." con questa frase di Derek calò il silenzio. Il carrello toccò il suolo e ci preparammo a scendere. Il cielo si era già oscurato e io stavo per incontrare il secondo cadavere nel giro di due giorni. Ma questo non mi faceva cambiare idea, amavo quel lavoro. Ma soprattutto amavo la mia squadra.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


My life has just begun CAP13 CAPITOLO 13

Arrivati sulla scena del delitto trovammo la polizia fuori dalla grotta ad aspettarci. Posteggiammo il SUV e scendemmo. Io mi avviai decisa verso i poliziotti per essere aggiornata su qualche novità. “Nicole!” sentii chiamare alle mie spalle. Mi girai, era Morgan. Mi si avvicinò insieme a Reid, porgendomi un giubbotto antiproiettili.
“Sappiamo che potrebbe essere qui...stavolta ti metti questo e segnali i tuoi movimenti...intesi?” disse con voce severa ma non arrabbiata. Io feci cenno di si con il capo, mentre lo sguardo di Spencer si fece interrogativo.
Torcia alla mano, raggiungemmo i poliziotti locali che ci informarono della presenza del cadavere a pochi passi dall’ingresso. “Si tratta di Daniel Crostar, trent’anni originario di Washington. Non sappiamo altro perché abbiamo avuto ordine dall’FBI di non muoverci prima del vostro arrivo.”
“Strano che abbia cambiato modello, la vittima non viene dalla sua zona abituale...” pensò a voce alta Spencer.
Derek stava già componendo un numero di telefono, mentre io combattevo con una piccola crisi causata dal ricordo della precedente scena del crimine sulla quale ero stata. “Bambolina...Daniel Crostar, trent’anni di Washington. Fammi sapere tutto quello che puoi.” Mentre Derek si aggiornava con Garcia, Spencer mi fece cenno di entrare e cominciare ad analizzare la vittima.
Era quasi identica alla precedente. Nessuna composizione particolare del corpo, bruciature e ferite, a pochi passi dall’ingresso. Unico colpo al cuore che ne aveva decretato la morte. Tutto faceva pensare che si trattasse del nostro uomo, ma quello che ancora non riuscivamo a capire era il perché di questo cambio di città per le sue azioni.
“Strano...” affermai e Spencer mi guardò, mentre mi abbassavo a fianco del corpo. “C’è una novità...manca un dito della mano destra.” Informai il collega mostrandogli l’arto.
“È stato tagliato poco prima della morte...c’è del sangue.” Rispose il genio.
“L’S.I. deve averlo conosciuto sull’aereo.” Ci interruppe la voce di Morgan. Mi alzai e mi avvicinai a lui per sentire cosa aveva da dire, mentre il dottor Reid continuava ad esaminare il corpo. Vidi che iniziava a seguire la scia di sangue, ma poi rivolsi l’attenzione all’altro mio collega. “Crostar era un manager di una grande azienda privata. Era stato in Kentucky per un meeting con altri manager e proprio oggi doveva prendere l’aereo per fare ritorno alla sua città. Possiamo ipotizzare che l’S.I. si sia trovato sullo stesso aereo, magari sono stati vicini di posto, e si siano conosciuti lì. Era divorziato da qualche anno, ma aveva lui l’affidamento dei figli.”
“La componente del lungo viaggio c’è...la scena è la stessa della precedente. Tutto ci fa pensare che si tratti del nostro S.I. Però ci sono elementi che non combaciano.” Stavo riassumendo io dopo aver ascoltato quello che aveva da dire il mio collega. “La scena è sporca di sangue. Sembrerebbe quasi che stavolta la vittima sia stata torturata e uccisa qui. E poi ha tagliato il dito della vittima. È sempre stato molto preciso nelle ferite che incideva come tortura, non credo si tratti di un errore. Ma soprattutto ha cambiato città, apparentemente senza motivo...”
“Nicole, non è così strano che abbia cambiato il copione...” mi disse Derek con uno sguardo preoccupato. Io non lo seguivo, non capivo. Probabilmente leggendo il dubbio sul mio viso, decise di proseguire dopo un profondo sospiro. “Ha commesso un errore sull’ultima scena del crimine. Tu l’hai notato, l’hai inseguito e l’hai visto in volto. Anche se lui non può sapere che tu non hai avuto modo di vederlo bene, questa vicenda l’ha confuso, ha causato in lui una involuzione che lo ha portato ad accelerare tra una vittima e l’altra e a cambiare città perché lì si sentiva braccato ormai...”
“Ma...stiamo parlando di un sadico organizzato!” lo interruppi. “Avrebbe potuto uccidermi benissimo l’altra volta. Ma non l’ha fatto...ha preferito cambiare città. Non mi convince molto questa storia. E poi lasciare questa scena così sporca, scegliere la vittima a caso su un aereo. Se non si trattasse di un sadico?”
La mia domanda sbalordì l’agente Morgan. Forse stavo azzardando troppo. Ero nuova..avrei dovuto guardare e imparare. Invece andavo avanti per colpi di testa. “Spiegati meglio...”
“Se invece di un sadico organizzato si trattasse di un S.I. vittima di una compulsione?” continuai. “Conosce una persona sull’aereo che ha quel qualcosa che fa scattare in lui la compulsione. Stesso elemento che ha ritrovato anche nelle vittime precedenti.”
“E la tortura?” mi chiese.
“Potrebbe far parte della compulsione...la mia è una ipotesi che troverebbe riscontro anche in altri fattori. Come il fatto che chiami la polizia per far scoprire i corpi. Più che di un giochetto eccitante potrebbe trattarsi di una qualche sorta di rimorso...”
“Ricomporrebbe le vittime con le braccia sul petto...”
“Ma non mi ha ucciso! Ha esitato...non rientravo nel suo schema che causa compulsione forse e non è così forte e organizzato come un sadico per premere un grilletto.”
“Dov’è Reid?” mi interruppe Morgan.
“Stava seguendo una scia di sangue che partiva dalla vittima. Ma mi stai ascoltando?” chiesi con un tono di voce un po’ troppo alto stavolta.
“Nicole!” la voce affannata di Spencer arrivò dal fondo della grotta, interrompendo la risposta che stava arrivando feroce da Morgan. “Nicole, vieni subito...c’è qualcosa che dovresti vedere...” il fascio di luce della sua torcia si diresse verso di noi.
Mi avvicinai al corpo della vittima e iniziai a seguire la scia di sangue seguita in precedenza dal mio collega. Partiva proprio da quel dito tagliato e proseguiva per diversi metri verso il fondo buio della grotta. Continuavo a vedere il fascio di luce del dottore venire verso di noi.
Ad un certo punto, proprio dove c’era Spencer con un viso molto turbato, il fascio di luce della mia torcia investì un dito abbandonato sul pavimento. In una pozza di rosso sangue. Si trovava quasi a ridosso di un muro, dove continuavano ad esserci gocce di sangue che sembravano scivolare dall’alto. Alzai la mia torcia e inorridii.
Una morsa mi strinse lo stomaco. Il dottor Reid allungò un braccio verso la mia spalla forse conscio del cedimento che stavo per avere. Il mondo iniziò a ruotare sotto i miei occhi. La luce della torcia iniziò a tremare contro quella parete. La abbassai di scatto. Allontanai violentemente la mano di Spencer. Mi voltai e fugii via urtando Derek che era attonito alle mie spalle. Avevo visto abbastanza.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


My life has just begun CAP14 CAPITOLO 14

Ero fuori dalla grotta, vicino al SUV. Sola, non volevo che nessuno si avvicinasse. Cercavo di ristabilire il ritmo del mio respiro. Invano. Quella immagine fissa davanti ai miei occhi. Quella scritta fatta con il sangue di un innocente. Tutto stava avvenendo per colpa mia. Era il mio nome quello sul muro. C’era scritto ‘Agente Liardi’. Non era il nome di uno dei miei colleghi, forse più capaci di me nel gestire quello che era senza mezzi termini puro panico.
Forse se non riuscivo a combattere con una cosa del genere, quella era la conferma che quel lavoro non era per me. Era stato bello finché era durato e tanti saluti. Ma io potevo essere più forte di questo. Dovevo almeno provarci. Ero sempre stata abbastanza cocciuta. Al primo ostacolo invece di voltare le spalle, proseguivo con più forza. Ma stavolta forse non era così facile.
I battiti tornavano pian piano regolari, e così anche il respiro. Quell’uomo, Finnigan o qualunque fosse il suo vero nome, si era spostato a Washington per me. Voleva attirarmi lì perché lo avevo visto in volto. Voleva riparare all’errore fatto non avendomi sparato quando avrebbe potuto.
E io ora ero lì, nella sua stessa città. Probabilmente era a qualche passo da me, mi guardava proprio in quel momento, godendo della paura sul mio volto. Attendendo il momento opportuno per mettere fine al capitolo che avevo ingenuamente cominciato.
“Come stai?” la voce calda e tranquilla dell’agente Morgan mi fece tornare alla fresca sera di Washington.
“Non lo so...” risposi senza nemmeno voltarmi.
“Nicole, non è colpa tua. Voglio che te lo stampi bene in mente. Quell’uomo non è morto per colpa tua.” Mi aveva afferrato facendomi girare e scandiva quelle parole guardandomi fisso negli occhi. Un forte accento sulla parola ‘non’. Non mi faceva stare meglio.
Si stava avvicinando anche Spencer. Sul volto ancora lo stesso turbamento che avevo notato nella grotta. “Ho parlato con Hotch...” continuò Derek. “Come credevamo non hanno trovato nulla a casa di Robert Finnigan. Sembra si tratti di un’abitazione che gli serve solo come appoggio. Non torturava e uccideva lì le prime vittime. Una casa normale con tutto lo stretto e necessario per vivere una nuova vita da solo.”
Io continuavo a non poter proferire parola. Ma ad un certo punto una sola domanda sorse spontanea dalle mie labbra, “Gli hai detto quello che è successo?”
In realtà avevo paura a sentire la sua risposta. Se già Aaron aveva avuto modo di arrabbiarsi con me in precedenza, ora avrebbe raggiunto livelli di furia indescrivibili. Quasi mi pentivo di aver domandato.
“Si...vuole che tu vada subito a casa tua e ci resti. Io vado alla sede dell’FBI per coordinarmi con Penelope e con loro. Stavano già per imbarcarsi sul jet per far ritorno qui. Reid ha l’ordine di venire a casa con te e non lasciarti sola un secondo.”
Io e Spencer trasalimmo all’idea. Evidentemente a nessuno dei due piaceva la prospettiva. Io avevo voglia di stare sola. E la sua presenza era più che scomoda. Lui che era il grande genio e che sicuramente non aveva mai commesso errori, ora doveva ritrovarsi a badare a me, la nuova arrivata che sapeva solo mettersi nei guai. “Posso venire all’FBI con voi. Mi sento bene, sarà un modo per distrarmi.” Azzardai cercando di trovare una scappatoia.
“Assolutamente no. L’S.I. ti sta chiaramente cercando. Quello potrebbe essere uno dei primi posti dove sa di poterti trovare. Devi andare a casa e non muoverti da lì. A tutto il resto pensiamo noi.”
Non potevo far altro che accettare l’idea. Anche se Spencer come guardia del corpo non era di certo confortante. Non aveva detto una parola da quando avevo visto quella scritta. E ora continuava a tacere.
Quasi leggendo i dubbi nella mia mente, Derek mi disse “Non ti preoccupare Nicole. Il dottor Reid ha già protetto qualcun altro tempo fa...vero ragazzo?” rivolse infine la domanda al collega con un sorriso malizioso.
“Smettila Derek...” lasciò andare Spencer dopo il lungo silenzio. A me non sembrava il momento di scherzare. E almeno su questo sembrava che io e Reid fossimo d’accordo.
“Ci vediamo domani mattina in ufficio allora, ragazzi. Se ci sono novità, vi chiamo. State in guardia.” Ci salutò così Morgan mentre salivamo sul SUV.
Ero troppo sconvolta per guidare. E Spencer sembrava averlo capito. Si diresse direttamente al posto di guida senza parlare. Io mi accovacciai sul sedile passeggero, incapace di parlare o pensare. Solo quella scritta nella mia mente.
“La grotta era buia...” esordì quasi esitando il mio collega. “Ho però cercato di analizzare la scrittura. C’è da dire che l’analisi non può essere ritenuta molto valida perché non si tratta di una scrittura fatta a mano ad esempio con la penna. C’è da considerare che l’S.I. teneva un dito tagliato per scrivere. E il sangue scorreva. Comunque, ho notato segni di esitazione e sbavature...” sciorinò quasi come una macchinetta.
“Non vedo come questo possa aiutarmi...” risposi fredda e acida. Prima il rifiuto della sua mano dentro la grotta, ora questa. Non riuscivo a superare le barriere che avevo con lui.
“Già...hai...hai ragione, scusa.” Calò di nuovo il silenzio.
Dopo qualche minuto, provò a prendere la parola di nuovo. “Ma...come faceva l’S.I. a conoscerti?”
“Semplice...nella precedente scena del crimine, qualcosa ha attirato la mia attenzione. Senza dire niente ai nostri colleghi ho seguito l’ombra e mi sono ritrovata nei labirinti della grotta. Finnigan mi ha atterrato e mi ha puntato contro la mia stessa pistola che avevo perso nella caduta. L’ho visto in viso, stava per spararmi, ma è arrivato Morgan che l’ha messo in fuga chiamando il mio nome…”
Il suo sguardo si fece interdetto ed esclamò, “Hai rischiato grosso...”
Non gli consentii di continuare. Quella sua frase fece scattare qualcosa di incontrollabile dentro di me. Lo investii irrazionalmente di parole. “Non metterti a farmi la ramanzina anche tu! Già ci basta il capo che mi odia per quello che ho combinato. Dico io quello che vorresti dire tu...sono una immatura, una bambina inesperta che sarà arrivata all’FBI non si sa come. Ho agito da stupida mettendo in pericolo me e gli altri. È colpa mia se quell’uomo innocente è morto. Ho spinto l’S.I. a cambiare schema. Sarebbe stato meglio per voi che non fossi stata mai assegnata alla vostra squadra...” cercò di fermarmi per dire qualcosa, ma non glielo consentii proprio. “Posso dirti che hai ragione a pensare questo di me. Se tu fossi il capo...ma tu non lo sei. Sei il membro più giovane della squadra che è arrivato alla BAU grazie al suo infallibile cervello. Parli, parli, parli proprio per mostrare a tutti di avere un’intelligenza superiore alla norma e per far sentire falliti gli altri. Ma qui forse il fallito sei tu...fai da schiavo a una donna e al suo bambino solo perché non hai avuto le palle di farti avanti quando era il momento. Volevi un profilo…eccoti servito.”
Non ci vedevo più dalla rabbia. Lui non riusciva più a dire una parola. "Siamo arrivati." Affermai vedendo casa mia e facendogli cenno di accostare. Avrei voluto continuare, ma avevo solo voglia  di entrare e dimenticare tutto. Piccolo dettaglio fondamentale: lui sarebbe dovuto restare lì con me fino all'indomani. Scesi sbattendo violentemente lo sportello dietro di me. Sarebbe proprio stata una lunga notte.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


My life has just begun CAP15 CAPITOLO 15

Al momento di entrare in casa tirai fuori la pistola. Per cause di forza maggiore dovevo collaborare con il mio collega, dovevamo assicurarci che Finnigan non fosse già dentro casa ad attendermi. Io mi avvicinai alla porta, mentre il dottor Reid mi copriva le spalle. Girai la chiave e spinsi la porta, accingendomi ad entrare, ma lui mi fece cenno di star ferma, e mi precedette. Dopo aver dichiarato che la via era libera mi permise di entrare.
Verificammo che nessuno si fosse introdotto in casa mia e riponemmo le armi. Io tolsi finalmente il giubbotto antiproiettili che avevo indossato all’arrivo sulla scena del crimine e lo gettai sul divano dell’ingresso, dirigendomi poi velocemente verso il bagno per rinfrescarmi.
Non considerai nemmeno Spencer, che restò immobile nel salotto senza sapere cosa fare. Avevo da smaltire uno shock e una sfuriata, non potevo mettermi a pensare anche a lui.
Guardavo il mio volto riflesso nello specchio mentre l’acqua scorreva dal rubinetto sotto di me. Avevo un aspetto orribile. Mi gettai una manciata di acqua lasciando che il trucco sbavasse formandomi delle strane occhiaie su un viso già sfatto. Poi presi il latte detergente per eliminare le sbavature nere, sperando di portar via così anche quello che mi affliggeva e rendeva impresentabile il mio volto.
Quando uscii dal bagno un po’ più rilassata vidi il mio collega immobile sul divano. Fermo e in silenzio. Continuando a ignorarlo mi avviai verso la scala che portava al piano di sopra e quindi alla mia camera da letto. Aprii la porta e per un attimo mi sentii tranquilla e in pace tra le mie mura domestiche. Mi adagiai sul letto matrimoniale, provando a riposare la mente. Ma quell’immagine della grotta si stagliò dinnanzi a me. Mi costrinse ad alzarmi di scatto con i battiti accelerati.
Mi avvicinai all’armadio a muro e tirai fuori uno scialle da mettermi sulle spalle. Poi mi avviai verso il terrazzino. Aprii delicatamente le imposte e lasciai che la brezza di quella fredda serata mi investisse in pieno volto. Mi adagiai alla ringhiera e lasciai che i miei pensieri andassero nelle direzioni naturali del loro flusso, cercando di evitare ovviamente la scritta con il mio nome.
Cosa strana, il mio pensiero si rivolse a Spencer Reid e a quello che era accaduto poco prima in macchina. Non gli avevo dato modo di parlare e lo avevo aggredito, dicendo per altro cose senza una qualche logica. Non volevo dire che non le pensassi, ma era come se pensassi questo per non accettare quelli che erano veramente i miei pensieri su di lui. Mi creavo una sorta di scudo...ma non ne capivo la ragione. C’era qualcosa di strano nel mio rapporto con Spencer: a partire dal nostro primo incontro, continuando con la sera in cui era passato dalla mia stanza, per finire con questi ultimi avvenimenti...i miei sentimenti verso di lui erano molto altalenanti e confusi.
Mi rilassai per godere della fresca brezza che accarezzava la mia pelle causandomi confortevoli brividi. “Mia...mia madre...” la voce del mio collega interruppe la mia chiacchierata interiore. Mi voltai e lo trovai alle mie spalle. Gli occhi come quelli di un cucciolo timoroso e spaventato. Stavolta il mio impulso fu di stare zitta ad ascoltarlo. “Beh...lei è una paranoide schizofrenica. È in un istituto di salute mentale. Io la vado a trovare a volte, ma è sempre difficile e non solo perché non so mai come potrei trovarla. Soprattutto perché mi ricorda che anche io potrei finire come lei. È una malattia genetica...”
Il sangue mi si gelò nelle vene, mi sentii terribilmente in colpa per il comportamento che avevo tenuto fino a quel momento con lui. Ma mi ricordai anche come non fosse bello provare pietà per una persona. Avrei voluto dire qualcosa, ma lessi nei suoi occhi che non aveva ancora finito di parlare. “Ho vissuto con lei la mia infanzia perché mio padre ha deciso di abbandonarci quando io ero ancora piccolo. Ha preferito voltarci le spalle piuttosto che aiutarci. La responsabilità di far portare nell’istituto mia mamma è stata tutta mia...ho sofferto, ma era la cosa giusta da fare. O almeno è quello che mi ripeto per non starci male. Mi sono diplomato a dodici anni e ho preso tre dottorati di ricerca. Con quello che mi aveva regalato la vita, l’unico appiglio che mi era rimasto erano i libri e lo studio. Anche se nella stessa scuola mi sono imbattuto in ulteriori ostacoli e difficoltà nelle relazioni con gli altri ragazzi. Dopo il college ho incontrato Jason Gideon, che mi ha portato all’FBI. È diventato un secondo padre per me, mi portava con se per farmi imparare, mi proteggeva e si preoccupava per me...inutile dire che anche lui ha deciso di lasciarmi. Solo un biglietto con le sue motivazioni e si è eclissato dalla mia vita come aveva fatto mio padre...”
“Mi dispiace...” sussurrai con gli occhi umidi. E non per dire che mi dispiaceva solo di quello che aveva subito, ma anche per quello che gli avevo detto poco prima.
“Nicole, non te lo sto dicendo per quello che è successo prima, te lo sto dicendo perché voglio che tu possa conoscere meglio me e il mio passato. Non lo permetto a molte persone...”
“Non devi...ho sbagliato io e basta.”
“Lo so che non devo. Ma voglio. Tu hai detto che io non commetto mai errori...qualche anno fa io e JJ siamo andati ad interrogare un sospettato. Mi ero convinto che fosse l’S.I. e le ho detto di dividerci per bloccarlo. È stato un errore, e anche molto grosso. L’uomo mi ha preso e mi ha torturato per giorni. Mi ha anche ucciso e riportato alla vita con un massaggio cardiaco. Ero spaventato...ma mi sono convinto che è normale commettere errori fin quando si riesce a ripararli e a sfruttarli come elemento di crescita. L’S.I. aveva un disturbo da personalità multipla e la sua parte più buona mi drogava per non farmi sentire dolore. Questo problema me lo sono portato avanti per molto tempo, causando anche preoccupazioni e dolori ai miei colleghi. Ora ne sono venuto fuori per fortuna. Per quanto riguarda JJ e il suo bambino...”
“No ti prego,” lo fermai “non voglio saperlo perché non sono affari miei.” Le lacrime sgorgavano e non mi permettevano di dire altro.
Rimanemmo così in silenzio per un po’. Poi decisi di prendere io la parola, “Non so perché ho reagito in quel modo. Forse ero spaventata, sotto shock. Ma in ogni caso tutto questo non può giustificarmi. Ho detto delle cose orribili e mi dispiace veramente tanto...”
“Anche io ho detto cose che non avrei voluto nei miei momenti peggiori. Quindi facciamo finta che non sia successo nulla e ricominciamo da capo.”
“Agente Nicole Liardi!” dissi scherzando e porgendogli la mano. Lui sorrise, stringendomela. “Spencer Reid...” mi rispose.
Tutto sommato forse avevo terribilmente sbagliato sul suo conto. Mi ponevo ora con un nuovo animo a capire come fosse realmente. Di certo aveva sofferto nella vita. Anche troppo. Il silenzio tra noi accompagnava le mie riflessioni. Le nostre mani non si erano ancora sciolte. Poi una squillo interruppe il nostro sguardo.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


My life has just begun CAP16 CAPITOLO 16

“Spencer Reid!” rispose. “Metto in viva voce così vi sente anche Nicole."
“La qui presente maga del computer è riuscita a trovare qualcosa.” Era Derek.
“Oh, zuccherino...non puoi dubitare di me, lo sai che non ti lascio mai insoddisfatto...” faceva eco la voce di Penelope Garcia. E seguiva un silenzio imbarazzato per entrambi.
“Su Derek, cosa avete scoperto?” andai in loro soccorso.
“Robert Finnigan. Hotch ha trovato a casa sua dei vecchi diari incomprensibili. Le uniche cose che è riuscito a tirare fuori sono dei nomi e mettendoli nel computer, grazie a un colpo di bacchetta della mia streghetta preferita, è venuto fuori un nome che aveva in qualche modo a che fare con tutti. Thomas Duster...”
“Può essere il nostro uomo?” chiese Reid.
“Se il vostro S.I. è un uomo che è stato sfigurato da bruciature e ferite, penso proprio si tratti di lui, piccolo ragazzo con la pistola!” un’entusiasta Garcia aveva preso la parola. “Ha quarant’anni ed è originario dell’Oregon. Circa dieci anni fa scompaiono le tracce di quest’uomo...”
“Perché ha cambiato stato e nome.” Completai io la sua frase.
“Due mesi fa è morto il padre. Se è venuto a saperlo, questo potrebbe essere il fattore di stress che gli ha fatto cominciare le uccisioni.” Continuò Morgan. “È stato schedato per aver dato fuoco ad una proprietà, da lì sembra si sia procurato bruciature e ferite. Ma stranamente, non c’è nessun altro reato che porti il suo nome. E la denuncia è stata fatta dal padre.”
“Molto strano...” dicemmo contemporaneamente io e Spencer.
“Gli altri si sono trattenuti in Kentucky perché hanno trovato un edificio a nome di Thomas Duster. Dopo averlo ispezionato faranno ritorno qui. Se ci sono altre novità, ci risentiremo. Ora pensate a riposarvi perché specialmente per te Nicole è stata una giornata dura.” Derek era molto affettuoso.
“E cercate di fare i bravi voi due...!” fu l’ultimo commento di Garcia, prima che un dottor Reid molto rosso in volto chiudesse la comunicazione.
“Sembra che abbiamo imboccato la strada giusta...” dissi a Spencer. “Ora andiamo giù a mangiare qualcosa e poi ti faccio vedere dove puoi sistemarti per la notte...”
Mi diressi verso le scale con il dottor Reid alle spalle. Mangiammo qualcosa e poi gli mostrai il divano, dandogli qualche coperta per la notte.
Mi sedetti accanto a lui sul divano, avevo voglia di esporgli i miei pensieri sul profilo. Gli stessi che stavo condividendo con Morgan prima della tragica scoperta.
“Hai pensato che può non trattarsi di un sadico?” gli dissi a brucia pelo.
“Cosa?” mi domandò.
“Dicevo che oggi parlando con Derek ho espresso qualche dubbio sul profilo che abbiamo tracciato. E le nuove scoperte mi indirizzano sempre più in quella direzione.”
“Da quello che abbiamo appena scoperto, io ho ipotizzato che il reato che ha interessato l’S.I. potrebbe essere una copertura di qualcos’altro. Non so dirti però cosa. Sicuramente come ha detto Morgan in qualche modo Thomas ha appreso della morte del padre e questo ha scatenato in lui l’istinto omicida.”
“Ma non ti sembra strano che il nostro uomo sia sfigurato da bruciature e ferite, proprio come i cadaveri che ritroviamo?”
“Che tipo di disturbo credi che abbia?”
“Ho detto a Morgan che forse potrebbe essere affetto da compulsione...”
“Derivante da cosa?”
“Questo non lo so, ma anche il fatto che abbia scelto l’ultima vittima quasi a caso, conoscendola sull’aereo, mi fa pensare che una certa concomitanza di fattori faccia in lui scattare la compulsione per cui deve torturare in quel modo le vittime e poi ucciderle...senza contare il fatto che hanno molto in comune con lui.”
“Bruciature e ferite...”
“Non solo.” Mi era appena chiaro un nuovo dettaglio. “Duster è diventato Finnigan. Ha lasciato la città natale per farsi una nuova vita nel Kentucky, e questo se messo a paragone con le vite delle vittime...”
“...può considerarsi un viaggio o uno spostamento come quello che compivano Chase, Diggory, Sturn e in qualche modo Turblack.” Spencer completò facilmente il mio ragionamento.
“E da un viaggio tornava anche Crostar. Se poi fai attenzione al fatto che la prima vittima, Chase, stava proprio intraprendendo un viaggio per farsi una vita lontana dalle sue origini...il paragone con l’S.I. è ancora più evidente.”
“Quindi secondo te la compulsione nascerebbe dal viaggio?” mi chiese.
“Potrebbe essere una idea...anche se andrebbe capito il rituale di tortura...” venni interrotta da un giramento di testa che mi fece quasi cadere dal divano.
“Nicole...stai bene?” mi chiese il mio collega allarmato.
“Si...si...solo un giramento di testa. Sarà la stanchezza...” risposi con un filo di voce.
“Forse è meglio che ti vai a riposare. Tanto domani mattina saremo in ufficio e potrai condividere i tuoi ragionamenti anche con gli altri. Vai in camera a dormire. Io sono qui sul divano, qualsiasi cosa succeda.”
“Grazie...buonanotte...” mi alzai con qualche difficoltà dal divano e mi diressi verso le scale. Arrivata in camera con molta cautela, sfilai la pistola dalla fondina e la poggiai sul comodino. Per qualsiasi evenienza l’avrei avuta a portata di mano.
Stavo iniziando a mettermi in libertà, quando mi ricordai che al piano di sotto c'era un agente federale. Uomo. Si insomma, magari uomo era un termine esagerato per qualcuno così giovane...diciamo un ragazzo. Il pensiero fece nascere un dolce sorriso sulle mie labbra.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


My life has just begun CAP17 CAPITOLO 17

Mi svegliai di soprassalto. Non ricordavo nulla di quello che stavo sognando. Guardai il comodino accanto a me per accertarmi che la pistola fosse sempre al suo posto. Non c’era...
Il cuore accelerava i suoi battiti, poi notai una luce accesa che passava sotto la porta della mia stanza. Pensavo si trattasse di Spencer, anche se continuavo a domandarmi che fine avesse fatto la mia automatica.
Mi alzai con qualche difficoltà, sicuramente colpa della stanchezza che affliggeva ancora le mie povere ossa. Cercai la sveglia per vedere l’orario...non trovai nemmeno quella sul comodino.
Mi sentivo strana, preferivo vedere perché il mio collega avesse deciso di accendere la luce. Aprii la porta e il bagliore investì i miei occhi, facendoli chiudere di scatto. Lentamente, aprendoli e chiudendoli riuscì ad abituarmi.
La scala sembrava essere più lunga del solito. La percorsi tenendomi saldamente alla ringhiera, come se un peso esagerato gravasse su di me impedendomi la libertà dei movimenti. Raggiunsi l’ultimo gradino.
La luce si spense di colpo, e sentii qualcosa di umido sotto il piede che avevo finalmente appoggiato sul pavimento del pian terreno. Mi accorsi di essere scalza...non ci avevo fatto caso prima. “Spencer?” chiamai con voce debole che giungeva alle mie orecchie con uno strano rimbombo.
Nessuna risposta. Abbassai lo sguardo verso il pavimento e mi accorsi di essere al centro di una pozzanghera. Ma il liquido era troppo scuro e denso per essere acqua...
Il respiro si fece irregolare, i battiti acceleravano ancora di più. Guardai la parete accanto a me e rividi la scritta della grotta, immensa, dinanzi i miei occhi. Corsi via scivolando sul sangue. Mi macchiai tutta.
L’S.I. era in casa mia e io non trovavo la mia pistola...e il dottor Reid mi aveva abbandonato. Mi rialzai lentamente, decisa a trovare una soluzione. Alzai la cornetta del telefono per chiamare la BAU...la linea era isolata.
Continuai a controllare tutte le stanze per cercare Spencer, continuai a chiamarlo...la mia voce la percepivo esageratamente ovattata.
Mi diressi verso il bagno...l’ultima stanza che mi era rimasta da aprire. Se non avessi trovato il mio collega lì, voleva dire che era andato via. Aprii la porta lentamente, e percepii la mia vista sparire. Non distinguevo più nulla...sentivo Finnigan chiamare il mio nome e dirmi che avevo fatto un grosso sbaglio. Proprio come al nostro primo incontro.
Non vedevo nulla, la sua voce che mi chiamava giungeva da tutte le parti...mi ubriacava. In preda al panico cominciai a gridare. L’unica cosa che riuscivo a dire era il nome di Spencer Reid...lo chiamavo, lo cercavo. Mi sentivo tradita da lui, mi aveva detto che non mi avrebbe lasciata sola. Ma nel mio grido non c’era rabbia, c’era solo bisogno di lui...
Continuai a brancolare nell’inspiegabile oscurità, facendomi strada con le braccia e continuando a chiamare il nome del mio collega. Poi d’improvviso sentii delle braccia afferrarmi e la voce che mi chiamava diventare più insistente. Non riusivo a divincolarmi...mi aveva presa.
Il peso che sentivo sulle scale tornò forte su di me...continuavo a non vedere nulla...sentivo avvolto in uno strano fruscio ripetere il mio nome. Scalpitai, non volevo arrendermi senza lottare.
“Nicole, ti prego svegliati!” con questa richiesta disperata aprii di scatto gli occhi.
Stavo sognando, era solo un incubo. Pian piano tornavo a vedere intorno a me. Ero sul mio letto, la pistola e la sveglia ancora sul comodino. Ero sudata e davanti a me c’era Spencer. La presa era la sua, cercava di svegliarmi. Ed era lui a ripetere il mio nome. Lo guardai e mi sciolsi di tutta la tensione in un pianto violento.
Mi lanciai contro il suo petto e continuai a singhiozzare, mentre lui dapprima allargava le braccia insicuro sul da fare e poi mi abbracciava lentamente e delicatamente.
“Era solo un brutto sogno...stai tranquilla.” Mi ripeteva cercando di calmarmi.
“Lui...lui era qui...c’era del sangue...al piano di sotto e tu...tu eri scomparso.” tentai di dire tra i singhiozzi. “Ti chiamavo...avevo bisogno...di aiuto...e poi mi ha preso...” non potei andare avanti perché il fiato divenne troppo corto per i continui sussulti.
“Non ti lascio sola...sono qui con te...te l’ho promesso.” Queste parole acquistarono uno strano effetto dentro di me. Cominciai a realizzare che mi stava avvolgendo in un caldo abbraccio...mi sentii protetta. I singhiozzi rallentarono, mentre i battiti continuavano a seguire un ritmo accelerato. Ma questa volta non si trattava di paura...
Mi allontanai delicatamente dal suo petto per guardarlo dritto negli occhi. Era spaventato e preoccupato per me...continuai a fissarlo mentre sollevava una mano per asciugar via le lacrime dalle mie guance. Era un tocco delicato...
Senza distogliere lo sguardo, assecondai un istinto e adagiai le mie labbra sulle sue...
L’ultima volta che avevo dato retta al mio istinto mi ero messa seriamente nei guai...e forse lo stavo facendo anche ora. Ma non era il momento per pensarci...
Gli occhi di Spencer erano ora interrogativi, ma lentamente chiusi i miei mentre aprii delicatamente la bocca. La mia lingua cominciò a stuzzicare le sue labbra, ma trovò un ostacolo deciso. Non mi fermai e presto sentii la mano del mio collega afferrare dolcemente il mio volto tirandolo ancora di più verso il suo. Le sue labbra aprirono un varco e la sua lingua decise di accompagnarmi nella coreografia.
Ci lasciammo dolcemente andare e provai delle sensazioni e delle emozioni mai sperimentate in precedenza. Il bacio fu lungo e caldo, ci immise in una spirale senza tempo, fatta solo di noi.
Quando infine ci staccammo, pur con qualche titubanza, continuammo a guardarci. Non potei trattenermi dal lasciar andare un sorriso, quando vidi che era ancora vestito come l’avevo lasciato. Anche la cravatta perfettamente annodata. Il suo sguardo era dolce e anche lui mi sorrise.
La stanchezza si impossessò nuovamente di me, anche se avevo paura a riaddormentarmi. Come se avesse letto nei miei pensieri, mi aiutò ad adagiarmi sul materasso, sdraiandosi poi accanto a me. Io mi voltai verso di lui, che mi avvolse in un caldo abbraccio, mentre con gli occhi mi ripeteva che non mi avrebbe lasciata.
Mi accoccolai, protetta dalla mia roccia, e lasciai che il sonno prendesse il sopravvento. Con lui accanto a me, non avevo nulla da temere.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


My life has just begun CAP18 CAPITOLO 18

Stavo entrando nello stato di dormiveglia che accompagna il risveglio di una persona. Avevo dormito profondamente e serenamente da quando il dottor Reid mi aveva accolto tra le sue braccia, non smettendo mai di accarezzare i miei capelli. Mi aveva infuso una fantastica tranquillità.
Ora però non potevo fare a meno di ripensare a quello che era successo, a quel bacio. Era stato bellissimo...non me ne pentivo per nulla. Aveva anche chiarito perfettamente i dubbi che avevo sui miei sentimenti altalenanti nei suoi confronti.
Come sempre nella vita, mi risultava difficile per qualche oscura ragione ammettere che mi stavo affezionando a qualcuno. E allora correvo ai ripari preventivi, accanendomi ingiustamente contro il soggetto che invece era al centro dei miei pensieri. Non mi sarei stupita di ammettere che mi fossi innamorata di lui già al nostro primo incontro.
Tornando al caro destino che mi piaceva tanto considerare burattinaio della nostra vita...beh, ovviamente dovevo ringraziare le mie valigie per avermi fatto atterrare su una persona così speciale.
Mi venne da sorridere a pensare a come avevo creduto che lui e JJ fossero una coppia in attesa di un figlio...e ora mi risultava anche chiara la sensazione di sollievo provata quando Emily mi aveva smentito. Però ero curiosa di sapere cosa stava per dirmi ieri sera su di lei quando l’avevo interrotto. D’altronde non erano appunto fatti miei.
Però stavo considerando solo le cose positive...come sempre c’era il rovescio della medaglia. Nel nostro lavoro non erano concessi legami del genere. Avremmo messo a repentaglio le nostre carriere...fin quando fosse stata solo la mia, ero nuova, non avrebbe comportato particolari conseguenze. Ma per lui era diverso, questo era il suo lavoro da parecchio tempo, non avrei permesso che avesse avuto problemi per colpa mia.
Stavo valutando la mia visione della situazione...ma che ne pensava lui? Forse stavo solo vedendo un film nella mia mente. In certe cose bisognerebbe essere in due...e diciamo che quella era una situazione che meritava di stare in cima a questa lista. Era un momento difficile per me e mi aveva solo assecondato probabilmente. La mia mente lavorava vagliando tutte le miriadi di interpretazioni e spiegazioni.
Non potevo continuare così, dovevo prenderla con calma. Mi sarei solo procurata un mal di testa se non avessi interrotto subito il flusso dei miei pensieri. L’idea era di prendere le cose per come mi si fossero presentate davanti...avrei saputo come agire mano a mano che mi si presentavano le situazioni. Anche se un lieve crampo allo stomaco mi assaliva nel pensare che l’avrei rivisto a breve dopo quello che era successo.
Mi mossi lentamente nel letto e allungai il mio braccio alle mie spalle, cercando un contatto con il corpo di Spencer. Ma lui non c’era...le lenzuola erano fredde, segno che mancava da un po’.
Non poteva non saltarmi subito alla mente il sogno della notte precedente. Aprii gli occhi e mi voltai verso il comodino...la pistola era al suo posto. Mi alzai lentamente e misi le scarpe, poi afferrai la pistola. Tolsi la sicura e mi diressi con cautela verso la porta.
Mi adagiai con le spalle contro il muro e respirai profondamente prima di aprire la porta e uscire dalla stanza dietro alla mia automatica. La casa era illuminata dalla luce del sole che proveniva dalle finestre. Scesi lentamente le scale, ma il panico mi impediva di chiamare Reid. Nessuna pozza di sangue ad aspettarmi al pianterreno e nessuna scritta minacciosa sul muro, per fortuna.
Per prima cosa controllai il soggiorno...nessuna traccia del mio collega. Il divano era perfettamente sistemato e nessun effetto personale del dottor Reid era in giro. Mi diressi allora verso la cucina. Lui non c’era. Mi era rimasto solo il bagno da verificare, proprio come nel mio sogno...voltandomi urtai un vaso all’angolo del soggiorno. “Maledizione...” sussurrai tra i denti.
Poi dei rumori che provenivano dal bagno. Le possibilità erano due...o si trattava di Spencer o dell’S.I. Nel dubbio impugnai con maggiore fermezza il calcio della mia pistola. Avanzai passo dopo passo verso la porta del bagno. Lo scatto della serratura.
Sentivo la tensione scorrere per tutta la lunghezza delle mie braccia. Deglutii nervosamente e con fatica. La maniglia si abbassò e la porta si aprì lentamente. Era il momento della resa dei conti. Mi fermai e avvicinai il dito al grilletto.
Vidi spuntare lentamente la canna di una pistola che si dirigeva minacciosa verso di me. Attendevo con pazienza di vedere chi mi sarei trovata davanti. Poi con uno slancio venne fuori anche il resto della persona che teneva l’arma. Mi concentravo pronta a sparare il colpo.
“Ehi...ehi...non sparare...sono io.” Un terrorizzato Spencer Reid aveva alzato le mani e implorava quasi pietà.
Abbassai la pistola liberando un esagerato sospiro di sollievo. “Spencer...mi hai fatto spaventare...non c’eri nel...” le parole mi morirono in bocca per l’imbarazzo e vidi le sue guance tingersi di un adorabile rossore.
“Mi stavo dando una rinfrescata, fra poco sarà ora di raggiungere gli altri alla stazione di polizia...non volevo svegliarti.” Aveva detto tutto di un fiato, pronto a voler cambiare discorso... “Vado a preparare del caffé...posso? Tu ne vuoi?” mi voltava già le spalle e si dirigeva verso la cucina.
Era visibilmente imbarazzato. Forse sarebbe stato meglio affrontare l’argomento della notte precedente senza girarci troppo intorno. Era meglio sapere con esattezza come stavano le cose, altrimenti il mio cervello non mi avrebbe lasciato in pace. “Spencer...ascolta...”
Si bloccò sui suoi passi e si girò lentamente verso di me. I nostri occhi si incontrarono, mentre lui cominciava ad avvicinarsi. Ora ero anche io in difficoltà...
Lo squillo del telefono ruppe ancora una volta l’incantesimo.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


My life has just begun CAP19 CAPITOLO 19

Presi il mio cellulare e guardai l’identificativo del chiamante. Alzai una mano verso Spencer per dirgli di aspettare e risposi “Nicole Liardi!”
“Kiki! Ora fai tutta la formale anche con me?” la voce di mia cugina giungeva dal telefono, lasciandosi andare dopo ad una fragorosa risata.
“Ehi, non avevo capito che fossi tu.” Non capivo bene se quella telefonata mi faceva piacere o no. Sentirla era sicuramente un piacere, ma lo sguardo del dottor Reid su di me mi faceva capire che forse era arrivata nel momento sbagliato.
“Come va il nuovo lavoro, Agente?” mi chiese, pronunciando l’ultima parola con fare scherzosamente canzonatorio. Io sapevo di dover mentire perché quello che stava succedendo non poteva essere reso pubblico... “Un lavoro tranquillo. Mi piace molto, mi trovo molto bene con la mia nuova squadra...sono tutte persone speciali.” Così dicendo i miei occhi incontrarono quelli di Reid, il cui viso si velò di un delicato colore rosso, accompagnato da un sorriso quasi smarrito che mi fece perdere il filo del discorso.
“…perciò? Mi hai sentita?” la domanda di mia cugina mi riportò sulla terra.
“Scusami...io...cioè, mi ero distratta...” non potevamo continuare in questo modo, decisi allora di far cenno al mio collega di spostarci in cucina e preparare il caffé. “Dicevi?” continuai concentrando ora tutte le mie attenzioni sulla mia interlocutrice.
“Ti chiedevo se avevi conosciuto qualche collega attraente...” touché...silenzio da parte mia, non riuscivo a rispondere niente, formulai solo un paio di balbettii. “Nicole Liardi...vuoi dirmi che non puoi parlare perché il fusto è già li con te?” mi rimproverò scherzosamente.
“Ehi ehi...calma con le parole...e soprattutto con i pensieri.” Cercavo di prender tempo per riordinare le idee e riuscire a inventare una storia verosimile per giustificarmi. Il mio collega nel frattempo cercava di preparare il caffè, facendo rovinosamente cadere tutto quello che prendeva tra le mani. Forse aveva colto dal mio imbarazzo il contenuto del discorso che stavo facendo con mia cugina. “Non è come pensi...sono solo questioni di lavoro che non posso spiegarti, niente di quello che sta già immaginando la tua testolina...” dissi con un tono che non convinceva nemmeno la sottoscritta.
“Si si...raccontala a qualcun altro.” Mi conosceva troppo bene per credere a questa storia, oltre il fatto che non sono ero a mentire. Mi infastidiva quasi non poterle dire tutta la verità, anche se sarebbe stata shockante.
“Tu che mi racconti?” cercai abilmente di cambiare discorso, ma il mio tentativo risultò chiaro a chi mi ascoltava. Sulle proteste di mia cugina Spencer mi porse il caffé pronto e io lasciai scappare un “Grazie...” che non sfuggì alla persona all’altro capo del telefono.
“Aaaahhh...lo sapevo che non eri sola...”
“Smettila!” la interruppi decisa. Dopo aver sventato altri tentativi di scoprire la verità, riuscì finalmente a portare il discorso su altri argomenti, fino a quando il mio collega, che nel frattempo si era letto tutti i libri del mio soggiorno in un tempo record, mi fece cenno che era ora di andare in ufficio.
“Perdonami, ti devo proprio lasciare perché il lavoro chiama...è ora di andare in ufficio e non posso far tardi.” Avrei voluto chiacchierare un altro po’...ma il lavoro è lavoro.
“Faccio finta di credere mi stai salutando perché devi andare a lavoro...”
“Ciao...” sottolineai fintamente arrabbiata.
“Sto scherzando ovviamente Kiki! Un bacione e a presto...” chiusi la comunicazione, rimanendo però a fissare il telefono nelle mie mani.
Mi era mancato sentire quel soprannome che era solo nostro. Era l’unica persona a cui permettevo di usarlo, proprio a sancire il nostro speciale rapporto...
“Nicole...che...che cosa volevi dirmi prima che suonasse il telefono?” mi ero quasi dimenticata della presenza di Spencer accanto a me.
“Ee..Aa..niente...cioè niente di importante.” Avevo deciso di rimandare la conversazione ad un altro momento. “Se non ci sbrighiamo rischiamo di far tardi!” mi alzai di slancio dal divano del soggiorno dove ci eravamo spostati durante la mia conversazione telefonica e andai nel bagno.
Dopo essermi rinfrescata e cambiata ero pronta ad andare. Girai la chiave nella toppa della porta d’ingresso mentre il mio collega si stava già dirigendo al posto di guida del SUV.
“No Spencer.” lo chiamai da lontano, raggiungendolo di corsa “se non ti dispiace avrei proprio voglia di guidare io stavolta...”
“Fai pure...” mi rispose porgendomi gentilmente le chiavi.
Non guidavo da tanto, ma ne sentivo veramente il bisogno. Per me era una valvola di sfogo, e dopo tutto quello che mi era successo, avevo necessità di rilassarmi come solo io riuscivo a fare al volante.
Il mio collega si accomodò sul sedile passeggero e allacciò la cintura. Io mi godevo la strada verso Quantico. Era la seconda volta che andavo verso l’edificio dell’FBI, ma la prima volta dovevo ancora conoscere i miei colleghi. Questa volta non mi sarebbe sembrato imponente come la volta precedente. Era la mia seconda casa ormai.
“Ti trovo molto bene...” il mio collega aveva deciso di spezzare il silenzio che c’era tra noi dalla nostra partenza. Io annuii con la testa solamente.
Era vero, mi sentivo particolarmente bene. E la motivazione era la notte precedente...lui...mi aveva aiutato tantissimo. E non parlavo del suo bacio, ma del sentirlo vicino e presente in un momento difficile. Significava molto per me.
“Statisticamente, il 70% delle persone che subiscono minacce come è successo a te...” il mio sguardo eloquente aveva fermato il flusso di statistiche che stavano per essermi presentate dal dottor Reid. “Ok...scusa...” il suo sguardo chiedeva umilmente perdono.
“Grazie...” gli sussurrai sorridendo dopo un breve momento di silenzio. Una parola che volevo si fermasse lì e non richiedesse ulteriori spiegazioni o motivazioni. Era una parola che poteva riferirsi a molti accadimenti, ma avrei voluto che scegliesse lui quali considerare e quali no.
Eravamo quasi arrivati. Spencer aveva colto perfettamente la richiesta implicita di non fare domande e prendere il ringraziamento così com’era.
Scendemmo dal SUV e ci avviammo insieme verso l’ascensore che ci avrebbe portato alla BAU. Lì avremmo ritrovato tutti gli altri.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


My life has just begun CAP20 CAPITOLO 20

Quel percorso mi stava facendo rivivere le emozioni avute al mio primo arrivo alla BAU. La stessa salita in ascensore, coronata dalla visione della vetrata che immetteva nell’open space. Ma ora era anche il mio open space.
Lo stupore all’uscita dall’ascensore mi bloccò ancora una volta. Restai immobile a fissare la porta a vetri, mentre il dottor Reid mi superò avviandosi per aprirla. La mia contemplazione venne interrotta da una voce.
“Dolcezza, finalmente ci incontriamo di persona!” era la voce ormai ben conosciuta di Penelope Garcia. Mi voltai verso di lei e mi ritrovai davanti la versione reale della donna esuberante che avevo già visto attraverso lo schermo di un portatile. Era quasi più stravagante di quanto mi fosse sembrata. Questa volta i capelli erano lasciati cadere sulle spalle tranquilli, ma potevo notare gli psichedelici vestiti, gli occhiali coloratissimi e uno splendido sorriso.
“Agente Nicole Liardi.” le dissi con gentilezza porgendole una mano.
“Suvvia cara, odio le formalità,” mi rispose lei con fare schietto e amichevole. Nel frattempo Spencer era tornato indietro e ci aveva raggiunto.
“Garcia, gli altri?” le chiese il mio collega.
“Perché tutta questa fretta cucciolo? Stavo facendo amicizia con la nostra nuova collega...” la genuinità della tecnica informatica mi fece sorridere. “Che c’è piccola?” mi domandò.
“Niente, mi dispiace...sono solo molto contenta di incontrarla finalmente.”
“Eh no...non ci siamo!” Mi interruppe lasciandomi di sasso. “Non ti ho detto niente quando ci siamo sentite al telefono perché aspettavo di vederti davanti ai miei occhi, ma...o ti levi questo bruttissimo vizio di darmi del lei o puoi trovarti un’altra squadra...” il suo tono era seriamente arrabbiato.
Interdetta guardai Reid, che trovai altrettanto turbato. Poi fu la stessa Penelope a interrompere il silenzio con una fragorosa risata, “Cara, sto scherzando ovviamente...almeno per quanto riguarda le minacce...”
“Mi avevi fatto seriamente preoccupare...” le risposi “prometto allora di darti sempre del tu, Penelope.” Accompagnai il tutto con una sincera strizzatina d’occhio.
“Così mi piaci ragazza...”
“Oh guardate chi si rivede...” la voce di Derek aveva interrotto Garcia e ci aveva portati a voltarci verso la porta dell’open space da cui stava venendo fuori con una tazza di caffé in mano. “Nicole come stai oggi?”
“Bene, va tutto bene...mi sono ripresa.” Risposi sorridendo per rassicurarlo.
“Merito del nostro ragazzo? Come si è comportato?” chiese dando delle violenti pacche sulla spalla di Spencer. Temevo quasi potesse procurargli una slogatura...
La domanda di Morgan era molto scomoda, e vedevo già lo sguardo di Penelope desideroso di sentire la mia risposta. “Ha fatto il suo dovere...” dissi teneramente, mordendomi poi le labbra per il commento che mi ero lasciata scappare.
Avevo lasciato il mio giovane collega pietrificato, mentre Derek e Garcia decisamente non si aspettavano una risposta del genere. Non era da loro restare senza parole...o peggio senza una battutina pronta a peggiorare la situazione. Segno che ero stata brava a metterci nei guai da sola.
“Nicole!” sentii chiamare dietro di me. Le porte dell’ascensore si stavano richiudendo dietro Emily che stava correndo verso di me preoccupata. “Abbiamo saputo quello che ti è successo...come stai?” mi aveva raggiunta.
“Bene bene, ho avuto uno smarrimento momentaneo, ma ora sono pronta ad andare avanti...dobbiamo chiudere questo caso il prima possibile!” dichiarai con una fermezza che fino a poco tempo prima mi era estranea.
I miei colleghi sorridevano compiaciuti intorno a me...sentivo seria preoccupazione nelle loro domande e calore nello starmi intorno. Stavo benissimo con loro, non li avrei abbandonati per nulla al mondo. Poi ricordai che chi era rimasto in Kentucky aveva tardato a tornare per andare a controllare una proprietà a nome dell’S.I., quindi mi rivolsi all’agente Prentiss. “Cosa avete trovato nell’edificio di Thomas Duster?”
“Era un capanno...” cominciò la mia collega.
“Nicole...ero in pensiero per te...” La voce dell’amorevole JJ ci raggiunse nel corridoio. “Hotch ci vuole tutti nella sala conferenze per aggiornarci.”
Il capo. L’Agente Supervisore Aaron Hotchner, come mi ero potuta dimenticare di questo piccolo dettaglio? Lo avrei rivisto per la prima volta dopo il mio secondo disastro. “Quello che ti è accaduto non è stato certo qualcosa facile da digerire...ma direi che stai reagendo bene.” Mi sorrise Jennifer facendomi dimenticare le preoccupazioni per la prossima ramanzina.
Intorno a noi non c’era più nessuno, si erano già tutti avviati verso la sala conferenze che io avrei visto per la prima volta. La mia collega mi accompagnò gentilmente nella giusta direzione, “Intanto aggiorniamoci, poi vieni nel mio ufficio a ritirare la tua scatola, così ti mostro quale è la tua scrivania...”
“Quanto ci vuole per nascere?” le chiesi a bruciapelo.
“Ci siamo quasi,” mi rispose accarezzandosi dolcemente il ventre. Era bellissima, la più bella mamma che avessi mai visto. Non conoscevo il suo compagno, ma se il bambino avesse preso anche un minimo dalla madre, sarebbe stato un angelo.
“Posso toccare?” le chiesi con un po’ di esitazione.
“Certo, fai pure...” dopo la sua risposta affermativa avvicinai con timore la mano alla sua pancia. Mi sembrava quasi di violare una cosa sacra.
“Ehi, piccolino...fra poco ci conosceremo. La tua mamma è veramente speciale, trattala bene...e se ti fa qualche cosa, ti vendica la zia Nicole.” Alzai gli occhi per sorridere ad una JJ quasi commossa. Poi sentii sotto la mia mano un lieve calcio. “Oh oh...sembra che sia in grado di difendersi bene da solo.” Aggiunsi.
Eravamo arrivate alla sala conferenze. Era una sala con un tavolo rotondo al centro, circondato da sedie. Uno schermo alla parete, una macchinetta del caffè all’angolo, e un divanetto che sarebbe servito magari per riposarsi in qualche sera passata a scartabellare carte in quella sala.
Sul tavolo c’erano diversi scatoloni di prove chiusi, contro la parete un grosso tabellone con tutte le foto delle vittime, delle varie scene del crimine, la mappa su cui Spencer aveva evidenziato le varie zone. E poi una foto che colse la mia attenzione più delle altre. Mi avvicinai lentamente, rapita dal volto rappresentato. Era lui. Robert Finnigan. Thomas Duster. L’S.I. L’uomo che mi aveva minacciato nella grotta con la mia stessa pistola. L’uomo che aveva scritto con il sangue di un innocente il mio nome sulla parete di un’altra grotta. La paura mi stava assalendo di nuovo.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


My life has just begun CAP21 CAPITOLO 21

Il viso di Thomas Duster era ancora più sfigurato di quanto fossi riuscita a cogliere nel buio della grotta. “Agente Liardi, come si sente?” la voce del mio capo era stranamente comprensiva.
Mi voltai dal tabellone delle prove per incontrare i suoi occhi. Sembravano seriamente preoccupati. “B...bene. È stato un duro colpo, ma sono pronta a rimettermi in pista.” Gli sorrisi, forse serviva proprio del tempo per conoscerci come mi aveva detto Emily. “Ah, Agente Hotchner...un’altra cosa. Per favore, non mi dia del lei...sono giovane.”
“Va bene, Liardi. Farò come desideri...” odiavo la gente che usava i cognomi per chiamare le persone. Io con i miei colleghi evitavo, ma il capo era sempre il capo. Gliel’avrei permesso...magari un giorno avrebbe capito spontaneamente che poteva tranquillamente usare soltanto il mio nome proprio. “Morgan mi ha detto che hai avuto dei dubbi sul profilo sull’ultima scena del crimine.” Continuò Hotch.
“Si...mi dispiace ma...” non mi aveva permesso di continuare e aveva detto, “Ho appena ricevuto un file dalla scientifica...sull’ultimo cadavere è stata trovata una composizione di acqua, muco e sostanze grasse...”
“Lacrime...” sussurrò Prentiss.
“Esattamente, la vittima ha pianto mentre torturava e uccideva Crostar...” dopo questa ultima affermazione del supervisore, gli occhi di tutti si rivolsero verso di me.
David Rossi, sorridendo amichevolmente mi chiese “Cosa pensavi che fosse l’S.I.?”
“Pensavo che fosse affetto da compulsione...” dissi timidamente e timorosamente.
“Spiegherebbe le lacrime come senso di colpa, che un sadico non avrebbe...” continuò Derek, evitando di incontrare il mio sguardo.
“Nicole, di agli altri quello che hai detto a me ieri sera...” mi incoraggiò Spencer. Dopo sentii un silenzio carico di attese.
“Ho notato...” ebbi una lieve esitazione, ma ripresi coraggio e andai avanti. “Ho notato che ci sono molti punti in comune tra le vittime e Thomas Duster. Se confrontiamo quello che sappiamo di lui in particolare con la prima vittima, possiamo notare che entrambi hanno intrapreso un lungo viaggio per farsi una nuova vita. O meglio, Steven Chase lo avrebbe intrapreso se non avesse incontrato Finnigan. Il viaggio è componente fondamentale anche per le altre vittime. E il rituale di tortura comporta ferite che l’S.I. presenta anche sul suo corpo...”
“Ma la madre di Thomas? Potremmo sapere da lei qualche dettaglio che ci sfugge...” propose Emily.
“Ci avevo pensato, ma ho fatto controllare a Garcia. La madre è morta dandolo alla luce...” le rispose JJ.
“Quindi Thomas Duster è cresciuto solo con il padre. Questa mancanza materna potrebbe aver scatenato in lui la ribellione che è sfociata inizialmente nell’incendio dell’edificio. Poi con la morte anche del padre, si è tramutato in qualcosa di più grande...gli omicidi.” Riassunse l’agente Morgan.
“Nella maggior parte dei casi, un bambino che scopre che la madre è morta dandolo alla luce tende a colpevolizzarsi. Si sente quasi un assassino, lui è vivo mentre la madre non c’è più. È come se avesse commesso lui stesso con le sue mani l’uccisione.” La parte enciclopedica di Reid era riemersa.
“È improbabile però,” aveva preso la parola David, “che un bambino così tormentato non sfoghi la sua rabbia in qualche piccolo reato o atto di violenza, ma tenga tutto dentro fino ad arrivare direttamente alla piromania...magari c’è qualche reato precedente all’incendio che non è stato segnalato.”
“Garcia, voglio che rivolti la vita della famiglia Duster...voglio sapere ogni minimo dettaglio.”
“Agli ordini Hotch. Mi metto subito al lavoro.” Così dicendo, Penelope si alzò e lasciò la stanza diretta al suo ufficio.
“Ma nella proprietà a nome di Duster cosa avete trovato?” rivolsi a tutti la domanda che era ancora rimasta senza risposta.
“Questo...” disse Rossi indicando gli scatoloni e sollevando lentamente il coperchio di uno di questi. Era pieno di strumenti di tortura che sicuramente l’S.I. aveva usato per infliggere le ferite sui corpi delle vittime.
“Era il luogo dove li torturava e li uccideva. Era tutto sporco di sangue...un caos tremendo.” Affermò Emily con volto turbato.
“Dobbiamo immaginare che sceglierà presto una nuova vittima?” chiese Morgan.
“Molto probabile...dopo quello che abbiamo visto, è chiaro che è in involuzione. Diminuirà il tempo tra una vittima e l’altra. E se non commette qualche altro errore, o non scopriamo qualcosa di utile non possiamo far altro che aspettare...” il volto di Rossi che accompagnava queste parole mostrava un sentimento quasi di sconfitta.
La porta si aprì di scatto ed entrò una Penelope affannata. “Ho trovato una carta di credito a nome di Robert Finnigan. È stata usata mezz’ora fa in un negozio non lontano da qui...”
Eravamo scattati tutti pronti ai comandi. “Voglio andare io...” affermai con voce sicura.
“Liardi non è possibile. Ha già dimostrato che ti sta cercando, sarebbe da stupidi mandare proprio te.” Mi avvertì Hotch.
“Verrà qualcuno con me. Sappiamo che vuole me, ci vado spontaneamente ma con qualcuno che mi copra. E poi in mezz’ora può anche essere andato via...”
“Non si discute...”
“Posso farcela.” Lo interruppi. La mia sicurezza aveva incrinato la fermezza dell’opposizione del mio capo. Si scambiò uno sguardo con Rossi che annuì. Poi mi rispose, “Va bene. Ma Reid viene con te e noi arriviamo il prima possibile. Non fare sciocchezze...”
Annuii perché il suo sguardo non poteva essere più eloquente. Mi voltai verso Spencer che era già pronto ad andare. Ci avviammo insieme verso l’ascensore. Nell’attesa che si aprissero le porte, il dottor Reid controllò il contenuto della sua tracolla. “Ah Nicole...ho dimenticato una cosa sul tavolo. Aspettami qui, non ti muovere, torno subito.” Disse voltandosi per tornare nella sala conferenze.
“Scendo e comincio ad accendere il motore...” gli gridai dietro mentre entravo in ascensore e schiacciavo il pulsante che mi avrebbe portato al garage. Speravo che il mio collega mi avesse sentito.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


My life has just begun CAP22 CAPITOLO 22

Le porte dell’ascensore si aprirono direttamente nel garage. Con me nel vano non c’era nessun altro. Pochi anche i veicoli posteggiati, e nessuno tra me e il SUV con cui eravamo arrivati. Mi avviai decisa percorrendo la distanza che lo separava da me, chiedendomi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che il mio collega mi avesse raggiunto.
Sentii le porte dell’ascensore chiudersi alle mie spalle, segno che qualcuno l’aveva richiesto al piano. Forse si trattava proprio di Spencer. Presi le chiavi dalla tasca pronta ad aprire la vettura, ma qualcosa mi strattonò alle spalle.
Mi sentii afferrare. “Finalmente ci incontriamo da soli Agente Liardi...” avrei riconosciuto quella voce fra mille. Aveva tormentato la mia notte, solo che questa volta non si trattava di un incubo. Duster era lì con me...
Mi bloccava le braccia, avevo sottovalutato la sua forza. “Fossi in te non farei mosse azzardate...” mi sussurrò all’orecchio mentre sfilava la mia pistola dalla fondina.
Io non riuscivo a proferire parola, tutto si svolgeva troppo in fretta. Il freddo della pistola contro la mia tempia, il riflesso di noi contro il finestrino oscurato del SUV che avevo di fronte.
Dovevo trovare in fretta una soluzione, ma il panico mi impediva di pensare. Il garage era deserto, girai lentamente la testa e scoprì che la scelta del punto in cui afferrarmi era stata perfettamente studiata...nessuna telecamera aveva campo libero per riprendere.
Poi il rumore dell’ascensore che si apriva colpì entrambi. Io speravo che fosse Reid, mentre il mio assalitore mi voltava permettendomi di guardare nella sua direzione.
“Spencer...” lo chiamai con il panico nella voce, così che il mio collega alzò gli occhi dalla sua tracolla rendendosi conto di quello che stava accadendo.
Avvenne tutto in una frazione di secondo.
Il dottor Reid gridò il mio nome portando le mani verso la sua pistola. Ma non ebbe nemmeno il tempo di estrarla...
Duster allontanò la pistola dalla mia tempia e sparò al mio collega prima che potesse fare qualsiasi mossa. Il proiettile lo colpì, spingendolo violentemente indietro e facendolo rovinosamente atterrare al suolo.
Io non riuscivo a proferire parola...il mondo si gelò intorno a me. Il tempo sembrava essersi fermato. Guardavo il corpo di Spencer fermo a terra, rivolto con il viso contro il terreno, sperando che da un momento all’altro si fosse alzato. Il pavimento cominciò a macchiarsi di rosso sangue.
Le lacrime iniziarono a riempire i miei occhi...non volevo accettare la realtà dei fatti. “Spencer” chiamai con un filo di voce.
Sicuramente qualcuno aveva sentito lo sparo e stava arrivando a controllare, conscia di questa speranza provai a divincolarmi per liberarmi dalla presa di Thomas, che però velocemente estrasse dalla tasca un panno che avvicinò alla mia bocca, ostruendomi completamente il respiro.
Il forte odore della sostanza che impregnava il panno in poco riempì il mio naso. Pizzicava, mentre le lacrime scorrevano lungo le guance. Provavo ancora a divincolarmi, ma le forze lentamente mi abbandonavano.
Lo sguardo fisso sul corpo di Reid, mentre iniziavo a sentirmi stordita. I movimenti mi riuscivano più difficili. I contorni del mio campo visivo si facevano sempre più neri, inghiottendo piano piano quello che avevo davanti.
Mi rassegnai al mio destino. Poi l’oscurità...
Non sentivo il mio corpo, non sentivo nulla. Riuscivo soltanto a pensare a quanto ero stata stupida e ingenua. Era chiaro che l’S.I. ci aveva attirato in una trappola e io vi ero caduta in pieno. Almeno ne avessi pagato le conseguenze solo io...
L’immagine di Spencer riverso a terra mi faceva sentire dolore, un dolore che avvolgeva tutto.
Erano stati categorici nel non farmi andare a Quantico la sera precedente perché era troppo pericoloso, e l’edificio dell’FBI sarebbe stato poco popolato. Ci ero andata la mattina seguente perché la situazione sarebbe stata meno rischiosa con la gente che riempiva i vari uffici. E invece proprio di mattina era riuscito a prendermi. Stava diventando più audace e sicuro di sé.
La mia mente si domandava anche se non avessi opposto scarsa resistenza. Magari con un po’ di sangue freddo in più e con maggiore iniziativa avrei potuto evitare tutto questo. Ora avevo bisogno di concentrarmi e riparare all’errore.
In realtà non sapevo nemmeno se sarei mai uscita da quel tunnel di stordimento, possibilmente stavo già morendo.
Il dolore per il mio collega aumentava sempre più, annullando allo stesso tempo la lucidità dei miei ragionamenti. Stavo iniziando a non collegare nemmeno più i pensieri. Avevo voglia di dormire, di abbandonarmi completamente. Ma prima mi ripromisi una cosa fondamentale...
Se dovevo morire anche io, l’avrei fatto portando Duster nella tomba con me. La mia squadra meritava che io facessi qualcosa. Se mai mi fossi risvegliata, avrei fatto del mio meglio per risolvere la faccenda. Mi sarei impegnata perché il sacrificio di Reid non fosse stato vano.
Non sapevo cosa mi avrebbe aspettato dopo il mio eventuale risveglio, ma l’avrei affrontato a testa alta. Per Spencer...

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


My life has just begun CAP23 CAPITOLO 23

Stavo lentamente riprendendo possesso delle mie sensazioni e del mio corpo. Il senso di stordimento stava andando via. Evidentemente non ero morta, ero stata addormentata. Iniziai a sentire i miei arti formicolare, forse lo star ferma in una posizione per del tempo li aveva atrofizzati. Chissà quanto tempo era passato da quando mi aveva rapito...
Iniziai a muovere le gambe per riprendere le forze, poi passai alle mani. Con qualche difficoltà perché le avevo legate dietro la schiena. Le corde mi procuravano tagli ad ogni movimento, erano ruvide e strette.
Sentivo una strano cerchio alla testa che piano piano si diradava. Aprii lentamente gli occhi, curiosa di sapere cosa mi aspettava.
Ero sul pavimento, appoggiata sul fianco, in quello che sembrava un capanno scarsamente illuminato. Dalla mia prospettiva non riuscivo a vedere altro, quindi cercai di mettermi a sedere. Ignorai i dolori che accompagnavano ogni mio movimento e ci riuscì.
Mi trovavo in un capanno, un modesto ambiente unico. Diversi strumenti di tortura come quelli che avevo visto nello scatolone aperto da Rossi in sala conferenze erano poggiati ovunque. E vicino ad un tavolo c’era proprio lui, Thomas Duster. Era impegnato a guardare qualcosa sul tavolo che io non riuscivo a scorgere.
“Thomas...” lo chiamai con voce ancora debole.
“Qui non c’è nessun Thomas, agente Liardi.” Il suo tono era meno sicuro di quando mi aveva rapito.
“Chi sei tu?” domandai, d'altronde la figura che avevo davanti mi dava le spalle. Possibile che il nostro S.I. avesse un complice?
L’uomo si voltò, e per la prima volta vidi davanti ai miei occhi in tutta chiarezza Duster. La sua pelle era completamente rovinata da bruciature e ferite che sembravano quasi fresche. Non riuscii a mantenere il contatto visivo e sentii la necessità di abbassare lo sguardo.
“Chi sono io non importa...anche se credo che tu lo sappia già.” Mi stava provocando.
“Sei Thomas Duster...” provai di nuovo, alzando lo sguardo verso di lui.
“Ti ho già detto che non c’è nessun Thomas qui...e non voglio parlare di lui.” Avrei potuto giurare di aver sentito un segno di tristezza nel pronunciare l’ultima frase, che era però svanita in un baleno.
“Allora sei Robert?” azzardai.
“Sei molto intelligente, sapevo che avevi già scoperto tutto...” si voltò per tornare al suo lavoro.
“Conosci Thomas Duster?” volevo capire di più, e per farlo dovevo assecondarlo.
“Ti ho detto che non voglio parlare di lui...” non si voltò nemmeno nel rispondermi.
“Quale è la tua storia Robert?” pensavo che avevamo scoperto il passato di Duster, ma in realtà non sapevamo nulla di Finnigan. Se negava anche di essere stato Thomas, doveva per forza avere inventato una storia per Robert, un suo passato.
“Cosa ti importa? Dovresti chiedermi che ne sarà di te invece di cercare di scoprire qualcosa su di me...ti ho rapito, ti ho portato qui, ho ucciso un tuo collega...” le sue ultime parole erano state lame taglienti nel mio cuore. Lui sembrava aver notato il dolore nei miei occhi quando si era lentamente voltato e si era interrotto.
Ricacciai con forza indietro le lacrime che erano accorse ai miei occhi al ricordo di Spencer senza vita a terra e decisi di farmi forza.
“Non mi importa di quello che mi farai...sono pronta a tutto.” Questa mia frase provocò una risata nel mio sequestratore.
“Non eri così coraggiosa la prima volta che ci siamo incontrati...avrei potuto ucciderti tranquillamente se non fosse arrivato il tuo collega.” Si era voltato di nuovo a fissarmi. Io sostenevo il suo sguardo.
“La gente cambia Finnigan, ci sono degli avvenimenti che ci segnano e ci fanno crescere. Si impara dai propri errori...”
“Basta!” mi interruppe bruscamente e si portò le mani al volto come in preda a una forte emicrania.
“È Thomas che reclama il suo posto?” chiesi con sicurezza.
“Ti ho detto che Thomas non è qui...lui è morto!” mi urlò contro.
“Oh no, non è morto...te lo dico io dove si trova. Puoi anche aver cambiato nome, stato, vita, ma sei e sarai sempre Thomas Duster. Qualsiasi cosa ti sia successa nella vita, non ti abbandonerà mai. Puoi aver voltato le spalle a quello che non ti andava bene, ma come vedi...ti tormenterà in eterno.” Dissi con un flusso inarrestabile di parole.
“Tu non sai nulla...smettila!” il dolore che lo affliggeva sembrava essere cresciuto ancora di più.
“E allora spiegami cosa è successo a Thomas...a te...” lo stavo quasi implorando.
“Lo hai voluto tu...” si massaggiò leggermente le tempie prima di allontanarsi dal mio campo visivo. Mancò un po’ di tempo, così mi sporsi per vedere dove era andato. Era in un angolo che cercava di calmarsi. Poi si diresse di nuovo verso il tavolo sul quale stava lavorando.
Aprì dei cassetti e cominciò a rovistare fin quando tirò fuori una flacone di liquido. Prese un panno e gli versò sopra un po’ del contenuto della boccetta. Mi iniziai a interrogare su cosa sarebbe successo di lì a poco. Ma non avevo paura.
Si avvicinò verso di me parlando, “Ora ti addormento di nuovo, non sono così stupido da lasciarti sveglia quando non posso controllarti. Al tuo risveglio ne riparleremo...”
Poi la sua mano con il panno imbevuto si avvicinò al mio viso. Questa volta la dose doveva essere maggiore perché non riuscii nemmeno a rendermi conto di quello che stava accadendo. Crollai immediatamente in un sonno profondo.
Non mi trovavo nel tunnel di stordimento che avevo attraversato la prima volta. Stava accadendo tutto più velocemente. Il corpo mi abbandonava già completamente.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


My life has just begun CAP24 CAPITOLO 24

Mi stavo risvegliando di nuovo. Lentamente. Mi sentivo scossa e scombussolata più della volta precedente. Aprii lentamente gli occhi...ero stata spostata. Il mio corpo si trovava ora in un luogo più ostruito del capanno. Il mio campo visivo era fortemente limitato.
I dolori erano ancora più forti e le corde ai miei polsi dovevano aver provocato delle ferite non indifferenti. Riuscivo però a vedere anche da terra Thomas Duster, sempre concentrato su ciò che lo impegnava sul tavolo.
Lasciai scappare un lamento e l’uomo che mi teneva prigioniera se ne accorse.
“Ti sei svegliata...” disse con voce tranquilla. Non sembrava la persona che mi aveva gridato contro prima. Non riuscivo più a capire da quanto tempo ero lì con lui, e nemmeno quanto tempo avessi dormito. Pensavo che anche quella era chiaramente una forma di tortura.
Non avevo ancora risposto a Thomas...o Robert, non capivo ancora bene in che rapporto stessero i due. Iniziavo a sentire fame e sete. Chissà quanto avrei potuto resistere ancora in quelle condizioni.
“Hai dormito molto stavolta...” aggiunse ancora. Sembrava più propenso al dialogo. Decisi di sfruttare la situazione.
“Robert?” speravo di aver indovinato al primo tentativo.
“Si agente Liardi...”
“Da quanto tempo sono qui con te?” provai a chiedere.
“Ti ho preso stamattina...” ancora un solo giorno, a me sembrava un’eternità.
“Perché mi hai addormentato di nuovo?”
“Dovevo...fare una cosa...” sembrava nuovamente turbato.
“Ti andrebbe di parlare di Thomas?” tentai un approccio meno aggressivo.
“Deciderà lui il momento opportuno per spiegarti come stanno le cose...” la sua risposta mi lasciò perplessa. Poi la mia attenzione venne catturata da alcuni lamenti provenienti da una parte del capanno che non potevo vedere.
“Chi c’è? Robert...c’è qualcun altro qui dentro?” chiesi preoccupata.
Lui si avvicinò senza rispondermi, mi afferrò. Non c’era rabbia nella sua presa, voleva solo aiutarmi a sollevarmi. Le fitte colpivano ogni parte del mio corpo, ma con qualche difficoltà riuscii a mettermi in piedi e mi diressi barcollando nella direzione in cui mi spingeva l’uomo.
Ora riuscivo a vedere tutto l’ambiente. Il primo pensiero fu guardare cosa aveva sul tavolo, cosa lo teneva così occupato. Ma non riuscivo a scorgere nulla nemmeno dalla posizione eretta. Poi i miei occhi ricaddero sul pavimento di fronte a me.
Un uomo, legato e imbavagliato chiedeva aiuto con gli occhi ricolmi di lacrime. Mi bloccai sui miei passi, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla povera vittima.
“Mettiti qui.” Duster mi aiutò ad adagiarmi sul pavimento.
“Che...ma...cosa...” non riuscivo a formulare una frase di senso compiuto. Respirai profondamente e provai di nuovo. “Cosa hai fatto, Robert?”
“Sta tranquilla...capirai tutto.” così dicendo si allontanò da me e si avviò verso l’uomo a terra.
Per prima cosa gli tolse il bavaglio, permettendogli di urlare tranquillamente. Non sembrava preoccuparsene. Sicuramente ci trovavamo in un posto sperduto, dove nessuno poteva sentirci. Poi gli slegò le mani e i piedi, permettendogli di alzarsi. Dopo averlo spogliato, gli rilegò le mani in una corda che veniva giù da una trave sul soffitto.
Non riuscivo a sostenere lo sguardo su una scena del genere, era troppo per me. Ma sentivo che dovevo guardare, era necessario se volevo cercare di capire qualcosa di più sull’assassino che era con me.
L’uomo non aveva smesso un attimo di urlare, era visibilmente terrorizzato.
“Non fare così,” cercò di rassicurarlo Robert. “L’hai voluto tu, io ti sto solo indicando quella che doveva essere la tua giusta scelta.”
Sembrava che il dubbio per le parole usate da Finnigan oltre ad aver colpito me, avesse stupito anche il corpo che aveva tra le mani. Improvvisamente aveva cessato di gridare e guardava interrogativo il suo carnefice.
“Bravo...proprio così. Veramente pensavi che fosse la scelta migliore?” domandò all’uomo che aveva uno sguardo ancora più interdetto.
“Non so di cosa stai parlando...” rispose l’altro con un filo di voce.
Io non potevo far altro che osservare in silenzio la scena.
Duster si allontanò verso il tavolo e prese un coltello, dirigendosi nuovamente verso l’uomo appeso per i polsi. Iniziò lentamente a imprimere la lama sulla pelle nuda, causando dei tagli da cui scorrevano poche gocce di sangue. Gli urli della vittima tornavano a farsi sentire acuti.
Non riuscivo più a sopportare quello che stava accadendo davanti ai miei occhi. Un altro povero innocente caduto sotto il controllo di un pazzo...
“Ti prego basta!” il grido uscì spontaneo dalle mie labbra senza che potessi minimamente controllarlo.
Robert si fermò...voltandosi verso di me. Mi guardò e poi si rivolse alla persona che aveva di fronte, che cercava di riprendere fiato dopo essersi sfiancato urlando.
“L’agente Liardi non vuole che continuo...quindi per oggi come prima lezione credo proprio che possa bastare. Ringrazia questa donna, Thomas...”
Quell’ultima parola aveva catturato la mia attenzione. “Come sarebbe a dire Thomas?” domandai.
“Volevi sapere cosa gli era successo,” mi rispose avvicinandosi “eccoti qui le risposte...Thomas è un debole, serve che gli insegni io come andrebbero gestite certe situazioni.”
“Ma quello è un povero innocente...” sussurrai con un nodo in gola.
“Oh credimi...Thomas ha motivo di essere trattato così...” stava diventando sempre più spavaldo.
“Posso chiederti il motivo?”
Non mi stava ascoltando più. Stava sciogliendo l’uomo e lo lasciava cadere a terra, sfinito. Poi si rivolse di nuovo a me.
“Chiedilo a lui stesso.”

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


My life has just begun CAP25 CAPITOLO 25

Era l’occasione per saperne di più. Dovevo ponderare bene le domande che stavo per porgere a quell’uomo, che era sicuramente all’oscuro delle perversioni mentali del folle che ci teneva prigionieri.
Cercai un contatto visivo con lui, sperando che capisse dai miei occhi di assecondarmi per quanto possibile. Mi guardava, spaventato, tremante, dubbioso.
“Thomas...” dissi molto lentamente e colsi dagli occhi del mio interlocutore che era disposto ad aiutarmi. “Come hai conosciuto Robert?”
“Io...” cominciò a rispondermi con grande fatica, “io non l’avevo mai visto prima...ero alla stazione. Aspettavo il treno, seduto su una panchina con la mia valigia...”
Il lungo viaggio...non aveva cambiato schema. L’uomo dimostrava un’età paragonabile a quella delle altre vittime.
“Devi capirlo Thomas che partire non serve.” Si intromise Robert.
“Ma io...stavo...dovevo...” le forze vennero completamente meno al giovane che si accasciò a terra. Non avrei ottenuto altre informazioni da lui per il momento.
“A cosa non gli sarebbe servito, Robert? Dimmelo ti prego...” le lacrime accorrevano ai miei occhi al pensiero delle giovani vite che quell’uomo stava stroncando ingiustamente.
“I problemi vanno affrontati, non bisogna scappare.” la stessa tristezza che avevo sentito in precedenza nella voce dell’S.I. riaffiorava ora in questa frase.
“Quali problemi?”
“Si è fatto tardi...” stava raccogliendo il corpo di quello che vedeva come Thomas e lo stava spostando. Aveva ignorato la mia domanda. Dopo aver sistemato lui, mi rimise in un angolo. Poi si sedette su una poltrona di fronte alla televisione.
“Posso farti un’ultima domanda Robert?” chiesi.
“Non so se ti risponderò però...” sembrava tornato il Finnigan tranquillo che avevo visto al mio risveglio.
“Perché Thomas ha incendiato quell’edificio?” la mia domanda lo aveva lasciato sbalordito. La mano che teneva il telecomando cominciò a tremare.
“Quello...quello era un segno che...che doveva affrontare in altro modo quelle situazioni. Lui non doveva...non doveva farlo. Doveva dire la verità una volta per tutte...”
“Chi ha mentito? Thomas?” incalzai con la speranza di sfruttare il momento opportuno.
“Ti ho già detto che è tardi...” si era chiuso di nuovo in una corazza. Non sapevo esattamente cosa, ma c’era un argomento che non voleva affrontare. E riguardava Thomas e la vera ragione per cui faceva tutto questo.
“Puoi parlarmi della sua famiglia?” ero determinata a fargli dire qualcosa di veramente utile.
“Ora sono io la sua famiglia.”
“Sua madre è morta dandolo alla luce...lo sa che non è colpa sua vero?” avrei trovato un punto debole per distruggere il suo muro.
“Tu menti...”
“No, Robert, che motivo avrei di mentirti? È solo che sono cose che capitano. Lo so è triste, ma Thomas non deve farsene una colpa...” vedevo i suoi occhi quasi riempirsi di lacrime. Forse stavo toccando le giuste corde.
“Thomas era un bambino cattivo, andava punito...aveva ucciso sua madre...” la sua mano strinse ripetutamente il telecomando.
“Non è vero...chi gli diceva queste cose?”
“Ormai non importa più...”
“A me importa...” lo stavo supplicando.
“Hai già saputo abbastanza.” Si stava alzando dalla poltrona e ripetendo i gesti della mattina. Sapevo già cosa mi attendeva.
Stava imbevendo il panno di narcotico poi mi guardò dritto negli occhi.
“Agente Liardi, devi riposare adesso. Domani se Thomas vorrà ti racconterà altro.”
Il panno si avvicinò al mio volto. L’oscurità mi colpì.
Stavolta la dose era poca. Forse non sarebbe uscito dal capanno e avrebbe saputo gestire un mio eventuale risveglio. Riflettevo sulle informazioni in mio possesso. Robert vedeva Thomas negli uomini che torturava e uccideva. Infliggeva a loro le ferite che aveva sul suo corpo. Per renderli più simili a lui? O forse perché...i pensieri non riuscivano più a legarsi fra loro.
Poi la mia mente si abbandonò a diversi ricordi. I miei colleghi...chissà cosa stavano facendo in quel momento? Mi mancavano...il sorriso di Emily, lo sguardo preoccupato di Derek...il viso affettuoso di Rossi. E poi il brio di Penelope, la dolcezza di JJ...anche la sicurezza di Aaron Hotchner.
E poi c’era Spencer. Ancora non volevo accettare quello che gli era accaduto. Ripensarci provocava delle forti fitte al mio petto. Mi riusciva difficile continuare su questa scia. Mi abbandonai allora al sonno.
E sognai lui. Reid di nuovo accanto a me.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


My life has just begun CAP26 CAPITOLO 26

Lentamente dovetti abbandonare il mondo perfetto che mi ero creata in sogno e affrontare la cruda realtà. Ero prigioniera di un S.I. e Spencer Reid non poteva più essere accanto a me.
Aperti gli occhi, mi accorsi che la televisione era ancora accesa, e Robert stava ancora dormendo sulla poltrona con il telecomando tra le mani.
Sfidai ancora una volta i dolori per portarmi in una zona da cui potevo vedere il povero uomo che condivideva con me la prigionia.
Era a terra, legato e imbavagliato. Ma sveglio. Mi avvicinai lentamente, strisciando a terra e sperando di non fare alcun rumore.
“Mi dispiace tanto.” lo avevo raggiunto. Mi affrettai a fargli cenno di star zitto e di ascoltarmi solamente. “È convinto che tu sia lui. Vive in una sua realtà per cui deve punirsi per qualcosa che sto tentando di scoprire, e riversa la sua rabbia sugli altri...te in questo caso. Sono un agente dell’FBI...spero di tirarci fuori di qui entrambi. Ma dobbiamo assecondarlo nei limiti del possibile per capire cosa realmente vuole e usarlo a nostro favore.”
Scosse il capo per dirmi che aveva capito, anche se nei suoi occhi c’era paura. D’altronde era lui quello che veniva torturato. Poi di colpo mi si risvegliò un pensiero che stavo cominciando a formulare prima di cadere nell’oblio del narcotico. Volevo rendere partecipe la vittima della mia scoperta per farmi aiutare, ma una voce furiosa arrivò alle mie spalle.
“Che cosa stai facendo?” era Robert e mi stava strattonando con violenza dall’altra parte della stanza. Atterrai sul muro battendo violentemente la testa.
Poi vidi Finnigan afferrare il corpo dell’uomo e appenderlo per i polsi come la volta precedente.
“Robert, ti prego ascoltami...” cercai di calmare la furia che si leggeva nei suoi occhi. “Tu non vuoi parlare di Thomas, di quello che gli è successo, e mi sta bene. Ma ascoltami almeno...”
“Stai zitta...” urlava fra i denti mentre estraeva un attrezzo a me sconosciuto.
“Ti parlo io di Thomas...è cresciuto con suo padre, perché la madre è morta dandolo alla luce. Non è stata colpa sua, anche se questo è quello che gli ripetevano tutti. Si sentiva tremendamente in colpa e veniva punito quotidianamente...”
“Ti prego smettila!” mi aveva gridato contro, mettendo il funzione l’attrezzo da cui ora fuoriusciva una fiamma incandescente.
“Faceva così anche lui? È questo che dovevi subire tutti i giorni, Thomas?” incalzai.
“Ti ho detto che non sono Thomas, e ora sta a guardare cosa si merita...” così dicendo iniziò ad arroventare le carni dell’innocente che aveva davanti a se. L’odore di pelle bruciata arrivò alle mie narici, mentre le urla dell’uomo riempivano le mie orecchie.
“Pensavo che le tue ferite fossero dovute all’incendio della proprietà in cui sei stato coinvolto e di cui sei risultato colpevole,” queste parole sembravano aver placato la sua ira per un attimo. “Ma non è così...il capanno, perché di un capanno si trattava sicuramente, è andato a fuoco mentre qualcuno faceva a te quello che stai facendo ora a questo povero uomo che non sa nulla. E quel qualcuno era tuo padre...”
Finnigan si era arrestato del tutto e si stava ora voltando verso di me. Il suo volto sembrava diverso. Triste.
“Lui ti torturava, tagli e bruciature, per punirti di aver ucciso sua moglie, tua madre. Il capanno è andato a fuoco per un errore e lui ha pensato bene di sfruttare la situazione per coprirsi le spalle. Eri stato tu e ti eri procurato queste ferite, così che nessuno potesse sospettare di lui...”
“Thomas è un debole...per questo deve essere punito...” disse con rabbia.
“No, Thomas ha avuto la forza di andarsene...ha lasciato tutti e si è fatto una nuova vita. Ora è Robert Finnigan...e nessuno gli farà più del male, dal momento che anche suo padre è morto...”
La furia di Robert si era di colpo riaccesa, si stava dirigendo verso la sua vittima e stava continuando con le ustioni. Le urla si facevano sempre più insistenti e sofferenti...e io non avevo più la forza di parlare perché non stavo ottenendo i risultati sperati. Quell’uomo non poteva pagare per qualcosa che non aveva commesso. Si era solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Una spinta violenta dentro di me mi suggerì la prossima mossa.
“Prendi me!” gridai con quanto fiato avevo in gola, superando tutti i rumori.
“Come?” Finnigan si era fermato e mi guardava interrogativo.
“Prendi me...tortura me...lui non c’entra niente...”
Non rispose. Slegò soltanto l’uomo facendolo cadere a terra su se stesso. E mi afferrò, tirandomi verso il posto dove mi avrebbe appeso. La mia maglietta si strappò. Mi sciolse i polsi che provavano un breve sollievo. In pochissimo tempo erano di nuovo legati insieme alla corda che pendeva dal soffitto. Robert allargò gli strappi della mia maglietta osservando la mia pelle nuda.
“Chi è stato?” Mi chiese con dolcezza. Io non capivo.
“A fare cosa?”
Continuò a rispondere con il silenzio alle mie domande. Accarezzò la mia pelle soffermandosi sulle ferite di vecchie operazioni subite da piccola. Indugiò su una in particolare, molto somigliante ad una bruciatura. Capii al volo cosa voleva dire.
“No, Robert, non è come pensi tu.”
“Non negarlo. So che è istintivo farlo, ma...” Mi interruppe. “…ho io il rimedio giusto...” e si allontanò per afferrare un coltello. Non avevo paura, non mi pentivo della mia scelta.
La lama affondò lentamente e dolorosamente nella mia pelle. Non gridai, sopportai a testa alta. Mentre le lacrime cominciano a rigare il mio volto...
...poi una voce a me nota ci raggiunse in lontananza.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


My life has just begun CAP27 CAPITOLO 27

“Stiamo cercando questo individuo. Come vedete dalla foto è fortemente sfigurato in volto. È arrivato da poco a Washington e ha già rapito un uomo. Chiediamo a chiunque lo veda di avvertire subito la polizia, è un uomo pericoloso…”
Il televisore era rimasto acceso e stavano trasmettendo una conferenza stampa. La voce della tenera JJ aveva bloccato il mio carnefice dall’infliggermi tagli. Stavo sanguinando copiosamente, il che unito con la prolungata assenza di cibo e acqua mi stava facendo sentire al limite delle mie forze.
Non sapevo per quanto sarei riuscita a resistere ancora, sentivo la voglia di abbandonarmi ad un sonno senza risveglio che mi avrebbe tirato fuori nel modo più veloce dalla situazione insostenibile.
“No!” il grido di Robert mi aveva riportato al presente. “È tutta colpa tua...” si rivolse a me con rabbia. E tornò a fare qualche altro taglio sulla mia pelle.
Non avevo la forza di reagire in alcun modo. Ero immobile e silenziosa.
“Arriveranno a breve...” rifletté tra sé Finnigan lanciando il coltello che aveva tra le mani dall’altra parte della stanza. Sciolse la corda che mi reggeva per i polsi. Il mio corpo cadde a terra quasi come se fosse morto.
Mi sollevai lentamente per guardarlo negli occhi. “Robert...” dissi, ma lui mi interruppe.
“Zitta! Hai già fatto abbastanza. Ora devo chiudere la partita.” Con queste parole tirò fuori una lunga sbarra di legno, con una punta più affilata. Era sporca di sangue rappreso...
“No, ti prego non farlo...lascialo stare...” lo pregai con quel po’ di voce che mi era rimasta, quando avevo ormai capito cosa fosse intenzionato a fare.
“L’hai voluto tu...quello che sto per fare è colpa tua, solo colpa tua...” poi nessun’altra parola tra di noi. Io guardai la scena che si svolgeva sotto i miei occhi.
Finnigan spostò il corpo dell’uomo che aveva diviso con me la prigionia. Lo mise a terra, volto verso il soffitto. L’uomo si ridestò, ma non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo che Robert lo trafisse al cuore con il legno.
Silenzio ghiacciato per tutta la stanza. Era l’ennesimo innocente che moriva...ed era ancora colpa mia. Il carnefice ora era seduto accanto al corpo inerme. Piangeva.
“Thomas...hai capito?” ripeteva a chi ormai non poteva più rispondergli. “Ho risolto tutto io...tu sei stato debole, ma ora non devi preoccuparti più di nulla. Doveva andare così...”
Si stava lentamente alzando. Io ero completamente sciolta, ma non avevo la forza di fuggire. Per non rischiare, Robert si stava avvicinando a me. Mi legò nuovamente i polsi, il dolore era più forte delle volte precedenti.
“Ora tu stai buona qui e non fai nulla...io devo andare a risolvere le cose. A modo mio stavolta...” mi disse prima di trascinarmi nuovamente nell’angolo del capanno. Chiuse il corpo della vittima in un telo e poi si avviò al tavolo per il solito rituale. Boccetta di narcotico, panno. L’odore riempì le mie narici, mi abbandonai al sonno.
Non avevo voglia di lottare. Mi sentivo sfinita, perdevo sangue. Forse quella era la migliore fine che potessi fare dopo quello che avevo combinato.
Ripercorsi i migliori momenti che mi erano capitati negli ultimi tempi, mentre il tempo si dilatava, impossibile da seguire. Il primo incontro con Spencer all’albergo. La conferenza che si era rivelata un trampolino di lancio. L’incontro con Jennifer nell’open space della BAU. L’arrivo sul jet e la conoscenza della mia squadra. Morgan che mi salvava la vita dall’S.I. sulla prima scena del crimine. La chiacchierata con Emily nella stanza dell’albergo. Spencer che si veniva a scusare...
E ancora il viaggio in jet con Morgan e il dottor Reid. Ancora lui che mi raccontava del suo passato. Come mi abbracciava nel letto. Il nostro bacio. Io che accarezzavo il pancione di JJ...lo spazio era poi solo per ricordi negativi. Non volevo pensarci...
L’immagine dell’uomo con il dito tagliato, la scritta nella grotta, Spencer a terra nel garage. Queste immagini si sommavano a quelle dell’ultima vittima uccisa con me lì a fare da testimone. Era tutta colpa mia...
Avevo perso la concezione del tempo. Stavo morendo...o almeno era quello che mi auguravo.
Rumori, luci tutte intorno a me. Non capivo se reali o immaginarie.
Confusione. Un boato fragoroso. Le luci erano adesso più forti.
“Nicole!” un suono ovattato raggiunse le mie orecchie. Io pregavo chiunque fosse di non svegliarmi. Avevo preso la mia decisione.
Delle mani mi afferravano. “Nicole...” continuavano a chiamare.
“È qui!” gridò una voce che avrei dovuto conoscere ma che non percepivo distintamente.
Mi sollevai da terra tra delle braccia incerte. Mi stavo muovendo verso la zona dove suoni e luci erano più forti...non volevo. Volevo essere lasciata lì, volevo morire. Non volevo essere salvata.
“David, l’ho trovata...non risponde.” Sentivo il panico in quelle parole. Cosa stava accadendo? Non volevo saperlo.
“Ha perso sangue...aiutami ti prego...” implorò rivolgendosi all’altra voce. Poi mi sentii spostare in altre braccia, stavolta più sicure.
“Un ambulanza...presto!” anche questa voce mi sembrava familiare, ma il frastuono che la accompagnava mi rendeva impossibile l’identificazione.
“Devi farti forza Nicole...” mi diceva dolcemente. Ma non volevo ascoltarla...volevo andare via, nessuna preoccupazione.
D’improvviso le luci smisero di colpire le mie palpebre chiuse. Silenzio nelle mie orecchie. Era tutto finito.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


My life has just begun CAP28 CAPITOLO 28

Silenzio ancora intorno a me. Qualche fitta agli arti tornava a farsi sentire...
Sentivo una forte luce colpire le mie palpebre ancora serrate. Ero già morta? I dolori mi facevano credere che non fosse così...
Cercai di muovermi...la mia mano era bloccata da qualcosa.
Cominciai ad aprire gli occhi, e la luce si fece ancora più insistente. Scorsi una sagoma avvolta dal bagliore. Non vedevo bene...ma cominciavo a convincermi di essere veramente morta.
Dei capelli castani lunghi...arruffati dolcemente. Non poteva essere...
La luce troppo forte mi portò a far scattare di nuovo gli occhi chiudendoli. Lui non poteva essere lì...se era così, allora dovevo essere morta anche io.
Mi diedi qualche minuto prima di ritentare di aprire gli occhi. La sagoma era ancora lì. Mi abituai lentamente alla luce fino a vedere nitidamente.
“Spencer...?” sussurrai con un filo di voce, mentre una fitta alla gola mi bloccò.
“Ssshhh, non ti affaticare...”
“S...sono...morta?” chiesi.
“No Nicole...perchè dovresti?”
“Io...ti ho visto a terra...il sangue...” tentai nuovamente di muovermi. La mia mano era ancora ferma.
“Non era grave come sembrava.” Mi disse indicando una fasciatura alla spalla.
Le lacrime sgorgarono dai miei occhi bagnandomi le guance. “È stata tutta colpa mia...scusa.”
Mi sorrise mentre sentii una carezza sulla mano che non riuscivo a muovere. Abbassai gli occhi, la stava stringendo dolcemente.
“Da quanto tempo sono all’ospedale?” con la mano libera asciugai il mio volto.
“Tutta la notte...mi hai fatto preoccupare…” si bloccò imbarazzato, abbassando lo sguardo. “Volevo dire che hai fatto preoccupare tutti quanti...”
“Come avete fatto a trovarmi?”
“Dopo la conferenza stampa di JJ abbiamo avuto una segnalazione di una donna che aveva visto Finnigan. Poco dopo abbiamo anche ricevuto la telefonata anonima per un corpo...” si era bloccato per il mio sguardo triste, poi aveva ripreso. “Io e David siamo andati a controllare il capanno che ci avevano segnalato, mentre gli altri sono andati sul luogo indicato per il ritrovamento. Ti ho trovato che perdevi molto sangue...non rispondevi...”
“Ti sentivo...o meglio, sentivo delle voci indistinte, ma non volevo svegliarmi...”
“Perché Nicole?” mi chiese fissandomi negli occhi.
“Io...beh io credevo che t...”
“È permesso?” una voce ci interruppe prima che dalla porta sbucasse il volto dell’agente Prentiss. Le mani mie e di Reid ancora intrecciate si allontanarono di scatto.
“Emily...” la chiamai delicatamente.
“Come stai?”
“Sono stata meglio...ma non mi lamento...” accompagnai il tutto con una smorfia causatami da un dolore nel tentativo di assumere una posizione più comoda sul letto.
“Sono tutti qua fuori. Sono ansiosi di vederti e sapere che stai bene...”
“Falli entrare!” dissi sorridendo.
La mia collega si avvicinò alla porta per chiamare gli altri. Io guardai Spencer che sbadigliava vistosamente.
“Ma hai dormito stanotte?” gli chiesi.
“Certo che no...il ragazzo da quando ti ha portato in ospedale non si è mosso dal fianco del tuo letto!” ero sempre più convinta che Derek Morgan fosse un ottimo profiler...sospettava sicuramente qualcosa. Speravo di sbagliarmi. E dall’espressione sul volto del dottor Reid credevo che condividesse le mie speranze.
“Ragazzi...è un piacere vedervi. Ho combinato un casino e vi chiedo scusa.” Erano tutti lì davanti a me. Emily e Derek, l’agente Hotchner, David Rossi, JJ e anche Penelope Garcia.
“L’importante è che sei ancora fra noi.” Esclamò JJ.
“L’avete preso?” poi mi ricordai che c’era ancora qualcosa in sospeso.
“No.” Ora era Rossi a rispondermi. “Sul luogo c’era solo il corpo di Walker Canon...”
“L’ha preso per colpa mia...” sussurrai sul punto di piangere di nuovo.
“L’avrebbe preso comunque, deve uccidere...” cercò di tranquillizzarmi Morgan.
“Credo che sia stato suo padre a fargli ferite e bruciature. Lo incolpava per la morte della moglie e lo torturava. L’incidente del capanno sarà avvenuto mentre erano insieme e ha ben pensato di far ricadere la colpa sul figlio, così da togliere tutti i sospetti...” volevo spiegare quello che avevo intuito nel tempo della mia prigionia.
“Ho scavato nel passato di tutta la famiglia,” mi informò ora Garcia. “Il padre ha dei precedenti penali…”
“…che giustificherebbero un profilo psicologico da sadico.” Emily completò la frase cominciata dall’informatica.
“Dobbiamo trovarlo. Prima di lasciarmi ha detto che doveva chiudere la partita, pensavo si riferisse all’abbandono del corpo.”
Uno squillo sul cellulare di Hotch lo costrinse a lasciare la stanza per rispondere, mentre gli altri mi pregavano di non pensare al caso per un po’.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


My life has just begun CAP29 CAPITOLO 29

“Come sto?” chiesi quando finalmente ricordai di essere stata ostaggio di un S.I. per un paio di giorni.
“Meglio di quanto ci era parso quando ti abbiamo trovato,” mi spiegò David. “Il medico ha detto che anche se hai perso una certa quantità di sangue, le ferite non erano gravi o profonde. La situazione è stata amplificata dal fatto che eri debilitata dalla mancanza di cibo e acqua.”
“Ma...come è possibile…?” stavo cominciando a formulare una domanda ma venni interrotta da Derek.
“Sei donna. Non rispondi al suo schema. La donna per lui è pur sempre una figura materna vista la sua situazione familiare. Non vorrebbe rivivere l’uccisione di una donna, come sente di aver fatto con sua madre. Quindi non ha messo decisione e forza nei tagli che ti ha inferto...sicuramente qualcosa lo ha spinto a torturati, ma non era sufficiente per ucciderti.”
“Le tue cicatrici...” aggiunse in un sussurro Spencer. Mi ero quasi dimenticata che fosse lì e pensare che mi avesse trovato lui quando ero con la maglietta strappata, mi trasmetteva un lieve imbarazzo.
“Credeva che fossero segni di una violenza infertami da qualcuno, come era stato per lui con suo padre.” Spiegai velocemente, vedendo poi il capo rientrare dalla porta.
“Ragazzi, una segnalazione. Un uomo riconosciuto come Robert Finnigan ha appena preso un volo per l’Oregon. Dobbiamo partire immediatamente tutti.”
All’ultima affermazione di Hotchner, feci leva sulle mie braccia per alzarmi dal letto.
“Nicole, che vuoi fare?” mi bloccò Emily vistosamente preoccupata.
“Venire con voi naturalmente...” risposi quasi sbalordita della domanda.
“Devi riposarti, non puoi lasciare subito l’ospedale dopo quello che ti è successo.” Rossi sembrava deciso nelle sue parole.
“Ma io mi sento benissimo e voglio aiutare.” Mi stavo impuntando, ma ormai mi sentivo parte della squadra a tutti gli effetti. Non sarei rimasta indietro.
“Non posso permetterlo. Qui c’è il tuo distintivo, non hai altri documenti al momento. E qui il tuo nuovo cellulare con tutti i nostri numeri già dentro. Aspettaci qui e riprenditi.” Il tono di Aaron era deciso e, come sempre, non ammetteva repliche.
Afferrai il mio nuovo telefonino non ancora del tutto convinta di voler restare in quel letto di ospedale. Vidi i miei colleghi andar via, li salutai. Poi la stanza diventò deserta. Troppo.
La mia mente cominciò a ripensare a quello che avevo vissuto durante la mia prigionia. Thomas Duster stava tornando in Oregon, che volesse cercare di fuggire in un posto dove poter ricominciare la sua mattanza senza l’FBI alle calcagna? Poi mi balenò di nuovo alla mente la frase con cui mi aveva lasciato nel capanno prima di andar via.
Mi alzai di scatto dal letto. Ignorai i dolori. Mi cambiai in fretta, misi tutto alla rinfusa in una sacca che avevo trovato accanto al mio letto. Rossi o Reid evidentemente avevano pensato che avrei avuto bisogno di un cambio e di qualche effetto personale e me l’avevano procurato. Poi chiamai l’infermiera che al suo arrivo quasi svenne a vedermi in piedi e vestita.
“Devo uscire di qui!” le dissi quasi aggredendola.
“Ma lei non può...ancora deve restare in osservazione. I medici...” la interruppi violentemente. Non c’era tempo da perdere.
“Non mi importa cosa dicono i medici. Mi dica, se firmo prendendomi tutte le mie responsabilità può lasciarmi uscire?”
“Ma...”
“Nessun ma. Risponda semplicemente alla mia domanda...” il mio tono era perentorio.
“Se se ne assume tutta la responsabilità lei...” l’infermiera atterrita aveva capito che non avrebbe ottenuto nulla dalla lotta contro di me.
“E allora mi dia subito quei documenti!”
Mentre seguivo l’infermiera all’accettazione dell’ospedale per firmare le carte che mi avrebbero permesso di uscire da quella struttura, i dolori tornavano a farsi sentire violenti. Li ignoravo, pensando al fatto che i miei colleghi sarebbero sicuramente riusciti a partire con il jet prima che io li avessi raggiunti. Ma soprattutto non mi avrebbero mai imbarcato con loro.
Apposi tutte le firme necessarie e mi affrettai fuori dall’edificio, trovando per mia fortuna un taxi sul davanti.
“All’aeroporto Ronald Reagan. In fretta!” dissi all’autista, scivolando poi al mio solito sul sedile posteriore.
Pensavo che avrei viaggiato come una normale cittadina con un normale volo di linea. Poi un pensiero spezzò la perfezione del piano: la mia pistola! Da quando Finnigan l’aveva usata per sparare a Spencer non l’avevo più vista. Ero disarmata. Ma poco importava.
In breve tempo ero all’aeroporto. Correvo al suo interno alla ricerca di informazioni sui voli. Dopo il volo preso da Duster, il prossimo diretto in Oregon era quasi in partenza. Mi diressi al bancone per il check-in.
“Un biglietto per l’aereo diretto a Salem.” Dissi ancora affannata alla elegante signorina al di là del banco.
“L’aereo è in partenza, non possiamo staccare altri biglietti.” Mi rispose gentilmente.
“Lo so che è in partenza, ma è un emergenza.” Tentai un approccio tranquillo.
“Mi dispiace signorina, può controllare gli orari del prossimo volo. Partirà...” la interruppi bruscamente.
“Io devo prendere quell’aereo. Ora!” stavo iniziando a scaldarmi.
“L’aereo decolla fra due minuti...” l’impiegata iniziò ad avere qualche difficoltà.
“Devo attraversare l’intero paese, non posso perdere un minuto di più. Fermi quell’aereo e mi faccia salire...” mi stavo comportando da irresponsabile? Non volevo fermarmi a chiedermelo. Anche perché i dolori ricominciavano e dovevo metterli a tacere prima di cambiare idea.
La signorina stava alzando la cornetta di un interfono, sicuramente per chiamare la sicurezza. Poi pensai che mi era rimasta un’altra carta da giocare...

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


My life has just begun CAP30 CAPITOLO 30

Decisi per un approccio diverso.
“Mi scusi signorina. Ho agito con un po’ troppa violenza.” Mi ero calmata e la dipendente stava riponendo l’interfono.
Frugai nella tasca posteriore dei miei jeans, mentre continuavo a parlare avvicinandomi alla mia interlocutrice per non dare nell’occhio.
“Ho bisogno di prendere quell’aereo e questa è realmente un’emergenza.” Avevo trovato il distintivo e lo stavo mostrando discretamente. “Sono un’agente dell’FBI e come può ben capire, è di vitale importanza che io raggiunga subito Salem...”
La donna che avevo di fronte si fermò a pensare. Sicuramente la stavo mettendo in difficoltà, ma mi appellavo al suo buon senso. Sentivo che la mia presenza accanto alla squadra era fondamentale. Volevo condividere con loro gioie e dolori. Anche i pericoli ovviamente. Non volevo essere quella che guardava le azioni dalla finestra, soffrendo per un’eventuale cattiva riuscita dell’assalto senza aver avuto la possibilità di intervenire. Senza aver rischiato con loro.
“Un attimo di pazienza.” mi rispose cordialmente la donna mentre si allontanava.
Chissà se sarei arrivata in tempo. Sicuramente il jet era più veloce di un aereo di linea e soprattutto loro avevano qualche vantaggio su di me. Ma ero decisa a voler essere con i miei colleghi.
“Il volo diretto a Salem in partenza da Washington ritarderà la partenza per problemi tecnici.” Annunciò una voce dall’altoparlante.
Intanto il volo si era fermato e per me era una speranza in più. Poi lentamente la signorina tornò al suo posto oltre il bancone porgendomi qualcosa, “Ecco il suo biglietto. Uscita due. Si sbrighi e non dia nell’occhio.” Accompagnò il tutto con un cordiale sorriso.
“La ringrazio.” Ero felicissima di essere riuscita a prendere quel volo. Mi affrettai lungo i corridoi che mi avrebbero portato all’imbarco. Mi avrebbero atteso parecchie ore di volo. Non sapevo nemmeno se il mio fisico nelle sue condizioni le avrebbe sopportate. Avrei dormito e mi sarei riposata.
Venivo perquisita prima di essere ammessa sull’aereo, ma non avevo armi con me. Dettaglio che dovevo ancora realizzare del tutto. In realtà non avevo nulla con me oltre ad una piccola borsa quasi vuota.
Ero a bordo, cercavo il mio posto. Finalmente mi sedetti accanto al finestrino. Il mio posto preferito per guardare le nuvole e il panorama che si allontana o avvicina durante decollo e atterraggio. Ma quella volta il sonno mi colse non appena allacciai la cintura di sicurezza.
Mi risvegliai quando l’aereo stava quasi per atterrare. Mi aveva svegliato una fitta al petto. C’era ancora luce fuori, anche se non avevo idea di che ora fosse. Per fortuna non avrei dovuto attendere bagagli ma sarei subito potuta uscire dall’aeroporto alla ricerca di ancora non sapevo nemmeno io bene cosa. A dire il vero mi ero diretta a Salem senza sapere se fosse la città giusta. Ma almeno ero in Oregon. Presi un taxi e non appena si mise in moto estrassi il telefonino ricercando fra gli altri il nome della persona con cui desideravo parlare.
“Ufficio di Quantico, risponde il Sapere in persona!” quell’esuberante voce sarebbe sempre riuscita a mettermi di buon umore.
“Penelope, avrei bisogno di un'informazione...” chiesi cercando di non provocare troppe domande.
“Nicole, come stai?” mi chiese preoccupata.   
“Bene, puoi aiutarmi allora?” ero impaziente.
“Certo che si dolcezza, cosa vuoi sapere?”
“Thomas Duster è originario dell’Oregon, ma di quale città nello specifico?”
“Dammi il tempo di aprire il file...ecco. Salem!” esclamò. Ero nel posto giusto fortunatamente.
“Meno male...” lasciai scappare.
“Cosa? Nicole, ma dove sei?” era decisamente allarmata.
“E dimmi un’altra cosa. Dove sono sepolti i genitori? Qui a Salem?” avevo appena commesso un errore irrimediabile. Portai istintivamente una mano alla testa.
“Qui? Nicole, dimmi subito dove sei o non ti do nessun’altra informazione...” ora l’informatica era decisamente arrabbiata.
“Ho firmato i documenti in ospedale prendendomi tutte le responsabilità e ho preso un volo per Salem...” ero pronta per la sfuriata.
“Piccola, ma perché?” il suo tono era stranamente dolce e comprensivo.
“Perché io sono parte di questa squadra...” dissi sinceramente causando un momento di silenzio dall’altra parte del telefono.
“Hai una bella testa dura. Comunque i genitori di Duster sono sepolti a Salem. Ti mando via e-mail sul telefonino le coordinate di dove si trovano. Ma perché vuoi saperlo?”
“Perché forse so quali sono le intenzioni di Thomas...o per meglio dire di Robert Finnigan.”
“Lascio tutto ciò che è psicologia a voi, gente con la pistola! Io mi limito al mio lavoro...” era tornata la Garcia divertente e brillante.
“Sei bravissima nel tuo lavoro, credimi...”
“Ma lo so cara. Guai a chi lo mette in dubbio.”
“Un’ultima cosa Penelope...” la interruppi.
“Dimmi pure, dolcezza.”
“Per favore, non dire agli altri di questa telefonata. Non dire loro che sono a Salem. Insomma, tu non sai niente di me, mi hai lasciato all’ospedale e immagini che io sia ancora lì...” la supplicai.
“Non preoccuparti Nicole. So mantenere un segreto.” Mi rispose.
“Grazie...” riagganciai e aprii l’e-mail che nel frattempo era arrivata. Comunicai le indicazioni all’autista del taxi a cui chiesi anche di accelerare. Poteva già essere troppo tardi.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


My life has just begun CAP31 CAPITOLO 31

Il taxi si stava fermando dove gli avevo indicato per permettermi di percorrere a piedi la restante strada. Scesi con un po’ di paura in corpo. Mi indirizzai nel punto esatto in cui si sarebbero trovate le lapidi dei genitori di Thomas Duster. Un grande giardino con altre tombe intorno, molti alberi che mi ostacolavano la vista. E poi ecco la scena che apparve davanti ai miei occhi.
Erano tutti lì, erano già arrivati. Indossavano tutti il giubbotto antiproiettili e puntavano l’arma verso Thomas che teneva in mano un revolver. Non potevo sentire le loro parole, ero ancora troppo distante. Per fortuna loro non potevano vedermi.
Mi avvicinai ancora arrivando alle spalle dei miei colleghi, fin quando vidi gli occhi dell’uomo saettare verso di me.
“Agente Liardi...” disse con stupore.
I miei colleghi si voltarono cauti per guardarmi. Li ignorai e feci ancora qualche passo in avanti lasciando cadere a terra la sacca che avevo con me e alzando le mani.
“Thomas?” domandai per essere certa di rivolgermi alla persona giusta.
“Si...sono io...” rispose.
“Sono disarmata, vedi? Mi avvicino lentamente ma non voglio farti del male.” Lo avvisai cautamente.
“No Nicole!” sentii sussurrare a Morgan, ma continuai a non dare ascolto a quello che mi dicevano.
“Io credevo di averti ucciso...” riprese Duster.
“E invece sono qui e voglio aiutarti. Hai ucciso tutte quelle persone perché credevi che stessero scappando da qualcosa, come avevi fatto tu diventando Robert Finnigan.” Cercai di rompere la sua barriera difensiva.
“Robert aveva ragione, non serve a nulla scappare.”
“Ma tu sei Robert tanto quanto sei Thomas.” Lo interruppi.
“È per questo che devo farla finita ora.” Avvicinò ancora di più la pistola alla sua tempia. I miei colleghi si preparavano a sparare. Feci loro cenno di aspettare.
“No Thomas, non serve a nulla...ti ricordi cosa ti ho detto quando mi hai rapito?”
“No! Non voglio ascoltarti più...smettila!” aveva allontanato la pistola dalla sua tempia per indirizzarla verso di me, non avevo paura.
“Ti ho detto che le persone cambiano, imparano dalle esperienze che affrontano nella loro vita...” le mie mani tremavano anche se non volevo ammettere con me stessa di avere paura. L’uomo di fronte a me piangeva ma non abbassava l’arma dalla mia linea di tiro.
“Io non posso cambiare...” singhiozzò con qualche difficoltà.
“Si che puoi. Sei stato Robert Finnigan per tanto tempo, hai trovato un lavoro, hai ricominciato a vivere facendo anche amicizia con le persone della tua zona...”
“Ma io le ho uccise!” mi gridò contro e io serrai gli occhi automaticamente. “Ho fatto loro quello che mio padre faceva a me. Sono una persona orrenda...”
“Thomas, tuo padre ti ha tolto la tua infanzia. Ti ha reso colpevole di una cosa che non avevi commesso, ti ha torturato ripetutamente. Ti ha denunciato per incendio, ti ha distrutto la vita...” i miei colleghi continuavano a dirmi di smetterla, ma non avevo ancora finito. “Ma sei sempre tu che hai avuto la forza di prendere un aereo e cercare una nuova vita, un’esistenza senza problemi.”
Si era fermato a fissarmi, le sue lacrime avevano smesso di scorrere. Avevo ottenuto parte della reazione che desideravo.
“Ma sono sempre un debole...alla prima occasione ho agito come lui.” Strinse ancora di più la sua pistola e attendevo da un momento all’altro il colpo che avrebbe decretato la mia fine.
“Ma adesso è il tuo momento. Ora hai la possibilità di fare veramente la differenza...”
“Come?” sembrava interdetto, ma puntò nuovamente la pistola alla sua tempia.
“Abbassa la pistola. Non è questa la soluzione...”
“È la giusta conclusione.” Chiuse gli occhi pronto a tirare il grilletto. Io calmavo ancora i miei colleghi che volevano evitare che Duster si uccidesse.
“Thomas...guardami per favore.” Aprì gli occhi pieni di lacrime e aspettò che gli dicessi qualcosa. “Se premi quel grilletto, avrà vinto tuo padre. E tu non vuoi che vinca lui vero?”
“No...” disse con un filo di voce.
“E allora dimostra a tutti che puoi andare oltre, dimenticare questo e vivere...”
Il silenzio correva nell’ambiente che ci circondava. Nessuno parlava. Io guardavo il nostro S.I., i miei colleghi erano pronti a sparare e Duster non mollava la presa sulla sua pistola. I secondi si tramutavano in eternità.
Poi le lacrime bloccate negli occhi di Thomas ricominciarono a scorrere, la sua mano tremava, ma lentamente si aprì e lasciò cadere a terra la pistola. Mi avvicinai lentamente e la raccolsi, mentre Morgan lo afferrò e gli portò le braccia dietro la schiena.
Porsi la pistola a Rossi che nel frattempo mi si era avvicinato con gli altri.
“Morgan!” Hotch si stava avvicinando a Derek. “Aspetta...” gli ordinò. Poi si voltò verso di me. “Liardi, vuoi farlo tu?” mi chiese porgendomi un paio di manette.
“Con grande piacere, agente Hotchner!” mi avvicinai a lui afferrando le manette, poi mi diressi verso Derek che teneva le braccia dietro la schiena di Duster mentre io chiudevo quei bracciali metallici intorno ai suoi polsi.
Mi diressi verso i miei colleghi nuovamente, ma una forte fitta al petto accompagnata da un giramento di testa mi fece cedere le gambe. Prima che potessi toccare il suolo Emily corse verso di me e mi afferrò.
“Nicole...” gridò.
“Sto bene, sto bene. Non vi preoccupate, sono solo molto stanca.” Ritrovai le forze per rimettermi in piedi e sorridere a tutti.
“Non dovevi farlo...” mi sussurrò Spencer avvicinandosi.
“Dovevo esserci, dovevo essere con voi. Voglio rischiare insieme a voi, non guardarvi da lontano.” Dissi con voce tremante.
Ora ero felice, avevo aiutato i miei colleghi. Mi diressi con loro verso i SUV che ci avrebbero riportato alla centrale di polizia prima di prendere il jet per tornare a Washington. Avevamo appena risolto il mio primo caso.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


My life has just begun CAP32 CAPITOLO 32

Avevamo consegnato Thomas Duster alla polizia locale. L’avrebbero messo in prigione e poi processato. Il nostro lavoro era finito. Dopo aver ritirato tutto il necessario al dipartimento, ci avviammo per ripartire con il jet. Durante il viaggio verso la pista, il cielo si stava scurendo. Era già sera e avremmo passato parte della notte in volo.
Salimmo sull’aereo e ci sistemammo, ognuno su un sedile.
“Come sei arrivata fin qui?” mi chiese riscuotendomi dai miei pensieri Morgan.
“Ho preso un aereo di linea all’aeroporto di Washington...” non avrei aggiunto altro sul come avessi realmente convinto l’impiegata a farmi salire sull’aereo. “Ma voi come avete capito che avreste trovato Duster alla tomba dei suoi genitori?”
“La nostra informatica di Quantico facendo ricerche ha scoperto che la tomba della famiglia Duster si trovava proprio a Salem, dove era stato visto dirigersi il nostro uomo...” mi spiegò Rossi. E non riuscii a trattenere un sorriso al pensiero che con la mia telefonata a Garcia avessi dato l’idea anche a loro su dove andare. Almeno Penelope non mi aveva tradito.
“E tu come hai capito che sarebbe stato lì?” domandò ora l’agente Prentiss.
“Ho ricordato quello che mi aveva detto prima di abbandonarmi nel capanno. E ho capito che per lui chiudere la partita voleva dire portare a termine quello che non aveva avuto il coraggio di fare quando invece era fuggito. Uccidersi. E che se era andato in Oregon, voleva farlo dove tutto era cominciato...” sospirai ripensando al mio carnefice piangere davanti alla tomba dei genitori.
“Hai avuto un sangue freddo straordinario. Voglio dire, disarmata, nelle tue condizioni, ragionare con lui in quel modo.” Il sorriso di JJ era sincero.
“Non volevo fare l’eroina, non è da me, semplicemente avendo vissuto la prigionia con lui e avendogli parlato prima di quel momento, credevo di poter usare le parole giuste per convincerlo a non fare sciocchezze.”
“E così è stato...” aggiunse l’agente Hotchner. Non era più così ostile come agli inizi. Avevo apprezzato il suo gesto di permettermi di ammanettare io l’assassino, l’avevo visto come un suo voler riappacificare i rapporti tra di noi. Di certo non avevamo cominciato bene. Ma potevamo migliorare.
Il silenzio di Spencer mi turbava invece. Mi guardava parlare con gli altri, ma da quando mi ero risvegliata all’ospedale non mi aveva detto nulla.
“Sarai stanca...” disse lasciandomi senza parole, “forse è meglio che ci riposiamo tutti...”
“Ottima idea!” gli sorrise di rimando JJ. E tutti si alzarono per trovare il posto dove dormire. La luce della cabina del jet si abbassò.
Io andai ad occupare il sedile accanto all’ingresso. Alla mia sinistra Emily e di fronte a lei Morgan. Ai due capi del tavolino Rossi e Hotch. Mentre JJ occupava la poltrona di fronte a me.
Io non potevo staccare gli occhi da Spencer, sdraiato sul lungo divanetto dalla parte opposta a dove mi trovavo io, sul fondo.
In breve tempo erano tutti addormentati. Io non riuscivo a prendere sonno, colpevoli i dolori e le emozioni della giornata. Impiegavo il tempo guardando dormire Reid. Era meraviglioso. Sdraiato sul fianco, mi rivolgeva il suo viso illuminato dalla penombra del veicolo. I capelli scompigliati, l’espressione rilassata e sognante. Sarei rimasta così per tutta la vita. Si muoveva ogni tanto, lamentandosi lievemente per i suoi sogni. Non riuscivo ancora a credere di aver baciato una creatura così bella. Con gli occhi accarezzavo le forme del suo corpo coperte da una giacca usata come lenzuolo.
Poi mi rivolsi verso il finestrino a guardare il paesaggio illuminato delle città che sorvolavamo. Mi stavo rilassando, ma di prendere sonno non se ne parlava proprio. Non avevo più dubbi sul mio lavoro. Lo sentivo mio, mi realizzava, nonostante i suoi pericoli. E ogni singola persona su quel jet era qualcuno per cui valeva la pena rischiare e morire. Non mi sarei potuta augurare nulla di meglio.
“Non riesci a dormire?” una voce interruppe i miei pensieri. Scossi il capo senza nemmeno voltarmi, non avevo dubbi su chi si trattasse.
“Tu invece dormivi profondamente fino a qualche secondo fa...” adesso permettevo ai miei occhi di incontrare i suoi. Era sempre di fianco, ma si era sollevato su un braccio per guardarmi meglio. E stava arrossendo.
“C’è qualcosa che non va?” mi chiese preoccupato.
“No...” mi alzai lentamente per non svegliare i nostri colleghi e mi diressi verso di lui sorpassando JJ e Emily, ognuna sdraiata su un diverso sedile accanto e di fronte a me, Rossi con la testa appoggiata al tavolino, Hotchner seduto sempre composto anche nel sonno. E Morgan che si era addormentato con le cuffie alle orecchie. Raggiunsi il dottor Reid che mi guardava con lieve panico.
“Posso?” gli feci cenno di liberarmi un po’ di spazio accanto a lui per sedermi.
“Ma certo...” si agitò per spostarsi insieme alla coperta improvvisata, che puntualmente cadde a terra per darmi la prova dell’imbarazzo che provava. Mi sedetti e nel farlo mi si scoprirono alcune delle bende che mi erano rimaste dall’ospedale.
“Hai proprio esagerato oggi,” mi rimproverò con dolcezza, “ti fanno male?” indicò con la testa le mie ferite.
“Mentirei se ti dicessi di no, ma posso sopportarlo.” Silenzio di nuovo. Alzai le gambe sul sedile cercando una posizione più comoda. Sotto lo sguardo vigile di Spencer.
“Ho fatto qualcosa che non dovevo?” chiesi improvvisamente.
“Perché?” si sbalordì.
“Non so perché, ho come l’impressione che mi eviti...mi dispiace comunque. Qualsiasi cosa abbia fatto è stato involontario.” Poggiai delicatamente la mia testa sulla sua spalla. Si irrigidì lievemente ma poi lo sentii rilassarsi.
“Non hai fatto niente che non dovevi. Scusami tu se ti ho dato un’impressione sbagliata...” trasferì quindi la giacca su di me per impedirmi di prendere freddo. Chiusi gli occhi. Quel ragazzo aveva sempre un ottimo influsso su di me.
“Nicole...”
“Che c’è?” mormorai nella mia rilassatezza.
“Quando...quando ti ho trovato nel capanno di Duster, tu...tu parlavi.” Non ricordavo nulla di tutto questo.
“Non ricordo di aver parlato. E cosa dicevo?” il controllo delle mie funzioni mi veniva sempre più difficile.
“Tu...” non riuscì a continuare. “Tu chiamavi il mio nome...” alla fine pronunciò tutto d’un fiato.
Prima ancora che potessi rispondergli qualcosa, il sonno mi colse.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


My life has just begun CAP33 CAPITOLO 33

Mi svegliai decisamente rilassata dopo qualche ora. Fuori era ancora buio, ma sicuramente stavamo per atterrare. I miei colleghi dormivano ancora tutti. Poi ricordai imbarazzata qualcosa del momento in cui mi ero addormentata.
Ero sdraiata su un sedile e cercavo di alzarmi, un peso mi impediva il movimento. Spencer si era addormentato su di me. Subito la mia mente iniziò a pensare all’eventualità che qualcuno ci avesse visto.
“Spostati...” sussurrai tra i denti cercando di spostare il suo braccio.
In risposta solo qualche lamento, ma riuscii comunque a tirarmi fuori dalla sua presa. Mi sedetti sul sedile ancora intontita.
Presi qualche momento per svegliarmi del tutto, poi mi alzai e mi incamminai verso la parte opposta dalla cabina. I dolori erano ancora al loro posto.
“Buongiorno Liardi!” la voce del mio capo mi fece sussultare.
“Agente Hotchner, mi dispiace se l’ho svegliata...”
“Liardi, puoi darmi del tu tranquillamente.”
“Buongiorno non è il termine più esatto..tecnicamente è ancora notte.” La voce del dottor Reid ancora insonnolito arrivò dal fondo del jet per contraddire Hotch.
“Proprio perché è ancora notte potresti far silenzio...” gli rispose Derek.
“Morgan, è quasi ora di atterrare, quindi faremmo meglio a svegliarci tutti e metterci le cinture.” Il tono di Rossi era particolarmente allegro e gioioso.
“Va bene...” risposero tra gli sbadigli Emily e JJ.
Io non potei trattenere una risata, sembrava di essere in casa di una famiglia molto numerosa.
“Liardi, questo è un ordine e non ammette repliche. Va eseguito. Come l’aereo tocca terra, l’agente Morgan ti accompagnerà a casa. Ti riposi e fino a domani mattina non voglio vederti in ufficio.”
“Non c’è bisogno che nessuno mi accompagni, anche perché avrò bisogno di un mezzo per raggiungere l’ufficio domani. E il mio è rimasto nel garage della BAU.” Un po’ di riposo ci voleva proprio.
“Siamo d’accordo...” concluse così il mio capo prima di prendere posto e allacciare la cintura.
L’aereo atterrò, raccolsi la mia sacca e in breve tempo dopo aver ritirato il SUV ero a casa. Non riuscivo a pensare ad altro se non a farmi una bella dormita. L’indomani mattina sarei dovuta andare alla sede dell’FBI, mi attendeva una giornata di lavoro d’ufficio per la compilazione dei vari rapporti sul caso.
Dopo essermi svegliata di buon ora, essermi rinfrescata, cambiata e medicata, ero pronta ad andare in ufficio dai miei colleghi.
La prima persona che incontrai al mio ingresso nell’open space fu JJ che mi corse incontro raggiante.
“Mi sa che è proprio il momento per te di ritirare la tua roba, vieni con me e poi ti accompagno alla scrivania.”
La seguii fino al suo ufficio, una stanza completamente sommersa di cartelle contenenti casi da analizzare e sottoporre alla squadra.
“Ecco la tua scatola, proprio come l’hai lasciata.”
“Grazie...” avevo anche dimenticato cosa ci avevo messo dentro, quindi diedi una sbirciatina.
“Seguimi nell’open space, ti dico dove sistemarti.”
Mentre la mia collega mi precedeva non potevo non notare l’eleganza con cui si muoveva, nonostante i tacchi e il pancione.
“Spero sia di tuo gradimento!” esclamò indicandomi una scrivania ad angolo retto, vicina a quella dei miei colleghi.
“Ora dovremo sopportarci per tutto il tempo, cara Nicole...” esclamò sorridendo Derek Morgan, che aveva la scrivania di fronte alla mia.
“O forse sarebbe meglio dire che sarà lei a dover sopportare te.” Gli rispose Prentiss che sedeva dall’altra parte del corridoio, dallo stesso di lato di Morgan.
La scrivania di fronte ad Emily, quella che si trovava alla mia destra oltre il passaggio, era ancora vuota.
“E a te chi allieta le giornate?” chiesi sorridente alla mia collega, indicando il posto vuoto.
“Io...” rispose una voce alle mie spalle.
“Il dottor Spencer Reid, non puoi sapere quale onore...specialmente quando si lascia andare in qualcuno dei suoi interminabili discorsi pieni di dati e statistiche.” Emily aveva provocato le risate generali. Di tutti tranne che di Spencer che si era silenziosamente sistemato nella sua postazione.
“Ragazzi, ci controllano...forse è meglio tornare al lavoro.” Ci avvertì JJ indicando con la testa verso la ringhiera alla quale erano affacciati Hotch e David. Poi ci lasciò.
“Chi finisce per ultimo paga la cena?” Derek aveva deciso di lanciare una sfida sulla compilazione dei rapporti. Sarebbe stato divertente passare le mie giornate con loro tre.
Tutti avevano deciso per la sfida, tranne la sottoscritta che era sicura che avrebbe perso e avrebbe passato la notte in ufficio.
E così era stato. La BAU era deserta, nessuno negli uffici o nell’open space. Solo la luce della mia postazione accesa. Non mi ero nemmeno accorta di quando erano andati via tutti, ero troppo immersa nel lavoro. Avevo quasi finito. Stavo apponendo l’ultimo segno con la penna. Ma mancava ancora qualcosa. Decisi allora di farmi un caffè perché gli sbadigli non mi davano tregua.
La macchina del caffè era in una sorta di area relax, anche quella scarsamente illuminata a quell’ora tarda. Non potevo fare a meno di ripensare al mio caso, ai miei colleghi. E trovare tutto splendido. Poi pensavo in particolare a Spencer. Non avevamo in realtà mai parlato di quello che era accaduto a casa mia quella notte.
Il caffè era pronto, mi voltai per tornare alla mia scrivania, finendo per versare tutto il liquido bollente addosso a qualcuno che era silenziosamente alle mie spalle. Dopo un attimo di imbarazzo e silenzio, nessuno dei due riuscì a trattenere una fragorosa risata.
“Pensavo fossi andato via...” dissi quando ritrovai il fiato per parlare.
“No, perché andare via senza farmi versare un po’ di caffè sulla camicia?” rispose sarcastico.
“Io, te e il caffè troppo vicini non possiamo stare.”
“Non preoccuparti, tanto stavo per andare a casa.”
“Già che ci siamo, vieni qui.” Gli feci cenno mentre mi avviavo verso la scrivania. “Se non hai paura che possa macchiarti in qualche altro modo...”
“Molto divertente...” rispose Reid dietro di me.
“Manca solo la tua firma e il rapporto è completo.”
Gli porsi la cartelletta che conteneva i fogli da firmare. Lui l’afferrò dall’altro lato e in quel momento mi regalò uno dei suoi sorrisi più belli.
Forse in realtà non avevamo niente da dirci, nulla di cui discutere. Era chiaro ad entrambi il ruolo che avevamo l’uno nella vita dell’altra, parlarne avrebbe potuto rovinare tutto. Di una cosa potevo dirmi certa però.
Con Spencer Reid accanto, la mia vita era appena cominciata.



FINE

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