Then you catch him di Mary15389 (/viewuser.php?uid=106808)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Then you catch him CAP1
Spoiler: Episodio 2x11
Disclaimer: I personaggi non mi
appartengono, sono di Jeff Davis. Criminal Minds appartiene alla CBS.
Questa storia non è a scopo di lucro.
Note: Ho provato a immaginare lo svolgersi degli avvenimenti quattro anni dopo l'episodio 'Eros e Tanathos'.
Then you catch him
CAPITOLO
1
Stava
lentamente riprendendo possesso delle facoltà del suo corpo. Quel corpo che era
stato sconvolto così pesantemente fino a qualche secondo prima. L’orgasmo lo
stava abbandonando, lasciando il respiro ancora irregolare e i battiti del
cuore accelerati. Aspettava da tanto questo momento e non pensava che avrebbe
provato sensazioni del genere. Per parecchio tempo si era dovuto frenare, non
aveva potuto fare quello che sentiva più naturale, ma ora si sentiva bene,
finalmente vivo.
Alzava piano
le mani dinanzi a sé e un ghigno si disegnava sul suo volto. Il sangue scorreva
fino ai gomiti, provocandogli intensi brividi di piacere. Poi l’attenzione
cadeva su quel corpo esanime a terra, e subito la forza di un nuovo orgasmo
crescente lo colpiva. Per accompagnare il momento, si voltava per afferrare
qualcosa nella tasca del suo cappotto scuro.
Niente
poteva più fermarlo stavolta.
L’agente
speciale Aaron Hotchner si voltava a guardare l’alba dalla finestra del suo
ufficio nell’edificio dell’ FBI di Quantico. La vedeva spesso, visto che
passava tra quelle quattro mura la maggior parte della sua giornata. E non solo
perché era il capo dell’Unità Analisi Comportamentale, ma soprattutto perché
sapeva che quando toglieva le vesti dell’agente supervisore, restava di lui
solo un uomo che soffriva per la lontananza del figlio. Il suo appartamento non
era rallegrato dalle risate di Jack quando la mattina facevano colazione tutti
insieme, nessuna traccia del sorriso della moglie, Haley, quella donna che
tanto aveva amato, e per cui continuava a provare un profondo sentimento.
Nonostante lei l’avesse tagliato fuori dalla sua vita senza mezzi termini,
avevano pur sempre un figlio insieme.
Un sospiro
faceva sollevare le spalle di Hotch, prima di concentrarsi nuovamente sul
rapporto che stava finendo di scrivere. Poi lo squillo del telefono lo fece
quasi sobbalzare.
“Hotchner!”
rispondeva portandosi l’apparecchio all’orecchio sinistro.
“Agente
Hotchner, sono il detective Carlson.” Una voce affannata si stava qualificando
prima di dare la motivazione della telefonata. Aaron aveva già inteso che non
erano buone notizie. “Abbiamo appena trovato una vittima in un motel di
Washington. Il modus operandi è compatibile con quello di Ronald Weems, dal
database risulta che l’avete arrestato voi quattro anni fa.”
“Ricordo il
caso, le prostitute del Campidoglio...cosa posso fare per voi?” Hotch si
stropicciava con le dita la zona tra l’attaccatura del naso e la fronte. Quel
vecchio caso l’aveva portato a scontrarsi con il deputato Karen Steyer, una
donna che di certo non le mandava a dire. Sperava stavolta di non dover
affrontare nulla del genere.
“Vorremmo chiudere
il caso il prima possibile, quindi vorremmo il vostro aiuto per confermare che
sia veramente opera sua.” Chiedeva il poliziotto con voce calma.
“Mi dia il
tempo di raccogliere la squadra e presentare il caso. Mandi tutto quello che
avete all’agente Jennifer Jareau e ci risentiremo al più presto.” L’agente
supervisore sapeva che quando i poliziotti si mettevano in testa di chiudere un
caso in fretta, si concentravano solo su quello che poteva tornare utile perché
ciò accadesse. Non importava se in carcere mettevano un innocente, e
l’assassino era ancora libero di continuare la sua azione indisturbato. Il caso
era chiuso e loro potevano andare a festeggiare la vittoria. Per la sua squadra
non funzionava così.
“La
ringrazio agente Hotchner. Aspetto una sua.” Il rumore della cornetta che si
poggiava all’apparecchio fu l’ultima cosa che sentì prima di restare qualche
minuto con il telefono vicino all’orecchio. Lo poggiò lentamente con un sospiro
profondo e lo riprese subito dopo componendo velocemente un numero.
“Agente
Hotchner, faccia una chiamata d’emergenza agli agenti Jareau, Rossi, Morgan,
Prentiss, Reid e Garcia. Abbiamo un nuovo caso...” alla risposta affermativa
all’altro capo del telefono Hotch aveva riposto delicatamente la cornetta.
Poi aveva
finalmente apposto l’ultima firma sul rapporto che stava compilando, guardava
quelle lettere incise sul foglio con la penna nera fortemente impugnata nella
sua mano sinistra. Ma ora era il momento di impegnarsi in un nuovo caso.
Pochi secondi dopo lo squillo di sei cellulari in diverse parti della
città stava svegliando altrettante persone. Ognuna di loro era
impegnata in diverse attività, ma dopo quel segnale erano tutti
pronti a raggiungere l'ufficio.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Then you catch him CAP2
CAPITOLO 2
La
telefonata era arrivata mentre lei lo guardava dormire. Un figlio le aveva
cambiato la vita. Ora oltre ad essere Jennifer Jareau, coordinatrice del
rapporto con i media dell’FBI, era anche la madre di uno straordinario bambino,
Henry. La lontananza dall’ufficio si era fatta sentire i primi tempi, a tal
punto che una volta aveva deciso di portare lì il suo pargolo, così da avere un
ricordo felice di quella sala conferenze dove di solito lei e la sua squadra
vedevano i peggiori orrori.
Ma una volta
tornata al lavoro, settimane prima di quando era previsto il suo rientro,
altrettanto era stato il sentimento di mancanza del suo piccolo. Mancanza che
colmava mostrando ai suoi colleghi le foto del pargolo, che documentavano ogni
attimo della sua piccola vita che aveva superato il primo anno.
Era abituata
a non dormire molto, e anche a stare fuori per parecchi giorni. Quindi quando
era a casa, certe mattine si svegliava presto e ne approfittava per passare del
tempo accanto al suo bambino, con una mano che non smetteva di accarezzare quel
piccolo corpo. E proprio mentre osservava il lento respiro del suo scricciolo
beatamente perso nel mondo dei sogni, lo squillo del cellulare aveva interrotto
l’incanto, riportandola alla realtà dei fatti. Avevano un nuovo caso, e lei era
richiesta in prima linea perché in poco tempo sarebbero arrivati gli altri e li
avrebbe dovuti aggiornare sui dati in loro possesso.
Erano questi
i pensieri di lei, mentre entrava nel suo ufficio di Quantico. La ormai ben
nota carpetta beige con sopra stampata in toni scuri l’effigie dell’FBI la
attendeva sulla sua scrivania. La prendeva tra le mani, accompagnando il gesto
con un profondo sospiro. Adagiava i suoi effetti personali, borsa e cappotto,
su una delle sedie e raggiungeva la sua poltrona lasciandosi sprofondare su di
essa. L’ultimo pensiero ad Henry, il cui sorriso la salutava dalla foto di
fronte a lei, ed era pronta a gettarsi completamente nel suo lavoro.
Apriva il
fascicolo, ma dopo aver letto il necessario, un ricordo saettò nella sua mente.
Non poteva crederci, ma sapeva che quel caso non sarebbe stato facile. Almeno
per qualcuno di loro. Si alzava affrettandosi verso l’ufficio di Hotchner. Non
poteva permettere che questo accadesse.
Aaron
attendeva l’arrivo della sua squadra studiando il fascicolo del caso. Tutto
sembrava ricondurre a Weems, anche se qualcosa non lo convinceva. Piccoli
dettagli nel modus operandi si distaccavano dal precedente e sapeva che c’era
ancora quella possibilità...ma preferiva scacciare in fretta quel pensiero,
sperava di arrivare ad una soluzione senza risvegliare vecchi fantasmi del
passato. Poi sentiva un bussare alla porta del suo ufficio. Sollevava gli occhi
verso la stessa prima di permettere a chiunque ci fosse fuori di entrare.
“Hotch, hai
visto il fascicolo del caso?” la bionda collega entrava dirompente nell’ufficio
lasciando la porta aperta dietro di se. Aaron si alzava in piedi, turbato
dall’espressione che poteva scorgere nei profondi occhi blu di JJ.
“Mi hanno
chiamato direttamente, vogliono che confermiamo che sia opera di Ronald Weems.
Fine della storia.” Non voleva che qualcuno si facesse venire i suoi stessi
dubbi, avrebbe reso tutto più reale.
“Ma...se
così non fosse? Ci hai pensato?” la voce le tremava. Il capo non sapeva come
risponderle, la donna stava dicendo il vero, ma doveva calmarla. Dopo un
prolungato silenzio cercò di formulare la frase nel miglior modo possibile.
“Non
possiamo tirarci indietro. Se deve succedere succederà, anche se non ce ne
occupiamo noi direttamente. Meglio muoverci e sperare di chiudere in fretta e
senza problemi il caso.” L’espressione di Jennifer suggeriva che le parole
dell’uomo non l’avevano calmata, ma non riusciva a controbattere nulla.
Il dottor
Reid stava attraversando la porta a vetri della BAU per raggiungere la sua
scrivania nell’open space. Era arrivato abbastanza in fretta, dopo aver
ricevuto la telefonata. Aveva finito di leggere il libro che aveva preso dallo
scaffale pochi minuti prima, aveva indossato i suoi soliti vestiti e dopo aver
preso la sua inseparabile tracolla aveva lasciato il suo appartamento. Aveva
raggiunto senza grandi intoppi lungo le strade l’edificio e ora si domandava
dove fossero gli altri. Si aspettava di trovarli lì e invece le due scrivanie
dei suoi colleghi erano ancora vuote. Si guardò intorno prima di notare la
porta dell’ufficio di Hotchner aperta, decise di avvicinarsi, magari erano
tutti riuniti lì dentro. Ad un certo punto fu raggiunto da delle voci, e
riconobbe una discussione in corso tra JJ e Hotch.
“Non può
affrontare anche questo...” stava gridando l’agente Jareau con voce
preoccupata.
“Che sta
succedendo?” interveniva Spencer per cercare di capire cosa turbasse la bionda
collega. In un primo momento i colleghi erano sobbalzati sentendo la sua voce,
ma dopo averci pensato un po’ Aaron gli aveva risposto.
“Niente
Reid, sta tranquillo. Gli altri sono già arrivati?” chiedeva poi mettendosi di
nuovo a sedere dall’altro lato della scrivania.
“Nell’open
space non c’è nessuno...” sentiva ancora l’aria tesa, “Quale è il caso?” a
questa domanda Jennifer rispondeva consegnandogli tra le mani il fascicolo che
aveva tenuto stretto durante il piccolo diverbio con il suo capo.
“Tieni. Io
vado a prendere gli altri.” Lui la osservava lasciare nervosa la stanza.
Qualcosa non andava, lo sentiva. Voleva chiedere a Hotch, ma era concentrato in
qualche lavoro. Apriva allora lentamente il fascicolo per iniziare a farsi
un’idea di quello che li attendeva. Caso locale, sarebbero rimasti a
Washington. I suoi occhi scorrevano con estrema velocità le righe di quei fogli,
fino a quando i ricordi dolorosi si affacciarono alla sua mente. Ricordava quel
caso con particolare nitidezza, ricordava quello che era successo mentre
cercavano Weems. Aveva messo tutto se stesso in quel caso, ed era rimasto
segnato da come si era concluso. Brividi freddi gli attraversavano schiena e
braccia. Alzava timidamente lo sguardo verso il suo capo che ora lo stava
guardando.
"Io...preferirei...insomma...io vado in sala conferenze. Voglio
guardare meglio il fascicolo e qui...credo di disturbarti..." non gli
aveva lasciato il tempo di rispondere, quando invece l'agente Hotchner
era pronto a dirgli qualcosa. Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di
convincersi che non era quello che credeva. Sapeva in cuor suo che
questo momento sarebbe arrivato, ma si augurava anche che sarebbe stato
in grado di affrontarlo. In quegli anni era cresciuto. Evidentemente si
sbagliava.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Then you catch him CAP3
CAPITOLO 3
Derek Morgan
stava rimescolando la tazza del suo caffè, lo sguardo fisso nel vuoto. Voleva
essere ancora in quel caldo letto accanto alla bellissima donna con cui aveva
passato la notte, ma il lavoro chiamava. E lui era pronto a rispondere, amava
il suo lavoro e non gli piaceva farsi cogliere impreparato. Aveva bevuto un
sorso e si stava lasciando andare ad uno sbadiglio quando una voce entusiasta
catturava la sua attenzione.
“Ma
buongiorno!” Emily Prentiss era di fronte a lui poggiata con la spalla al muro
che aveva accanto. Si stava godendo la scena divertita. La bruna agente
dell’FBI era stata svegliata dalla chiamata dell’ufficio, ed era contenta di
sapere che qualcuno, come lei, era ancora insonnolito. Stare in quella squadra
le piaceva ogni giorno di più, erano passati quattro anni ma le emozioni erano
sempre le stesse del primo giorno. Ora guardava il suo collega imbarazzato
dall’essere stato scoperto in flagrante.
“Beccato! Ma
che ci posso fare? È stata una nottata dura...” lo sguardo di malizia negli
occhi dell’agente di colore suggeriva ad Emily più di quanto avesse realmente
detto. Il volto della collega cambiava di scatto, il sorriso scompariva e la
donna alzava una mano verso l’uomo, accompagnando il gesto con espressione
scherzosamente disgustata.
“Non voglio
sapere i dettagli grazie...” e prima che potesse continuare qualcuno arrivava a
sostenere la sua causa.
“Credo che
nessuno di noi sia impaziente di conoscerli!” un paterno sorriso si rivolgeva a
Morgan, che scuoteva il capo abbassato per come lo stavano trattando, e a
Prentiss che si era voltata per incontrare l’affettuosa figura di David Rossi
di fronte a lei. La stima per quell’uomo era profonda, era il pilastro
dell’Unità Analisi Comportamentale ed era sempre riuscito ad arginare con
estrema maestria le crisi all’interno della squadra. Era stato per tutti in
diverse occasioni una spalla su cui piangere, una valvola di sfogo, un
confidente, un amico, lo sprone ad andare avanti.
“Scusate se
cerco di mettervi di buon umore in qualche modo.” Lo sguardo di Derek cercava
ora di catturare la pietà dei suoi colleghi che si stavano prendendo gioco di
lui. Sulle sue labbra un timido sorriso che ben presto si trasformava in un
broncio di finta offesa.
“Di che si
tratta?” chiedeva Emily al ragazzo cercando di cambiare discorso, mentre un
David divertito rideva alle sue spalle.
“Beh,” un
cenno delle sue sopracciglia che si sollevavano ripetutamente e ritmicamente
accompagnava le parole, “Alta, formosa...” smetteva di parlare perché la sua collega
aveva preso la parola.
“Sei senza
speranze. Mi riferivo al caso.” Diceva la bruna portandosi una mano alla testa
in segno di disperazione.
“Scusate se
vi interrompo, ma con permesso io raggiungerei Hotch.” Si intrometteva Rossi
avviandosi poi sempre con il sorriso sulle labbra verso la scala che l’avrebbe
portato nell’ufficio di Aaron. La donna si girava nuovamente interrogativa
verso il giovane collega per avere delucidazioni sul caso.
“Non so
nulla...e non parlo più...” Derek raccoglieva la tazza tra le mani prima di
allontanarsi verso la sua scrivania.
“Fai come
vuoi, io mi preparo un caffè.” Prentiss non voleva perdere tempo con i capricci
di Morgan, sapeva che entrambi si divertivano a stuzzicarsi così, altrimenti le
giornate sarebbero state noiose, specialmente quando si trovavano tutti riuniti
di prima mattina in ufficio. Emily si chiedeva se sarebbero dovuti partire, e
dove li attendevano per il caso, nel frattempo prendeva la moka e la caricava
nella macchinetta aspettando che il liquido nero scendesse fumante all’interno
della tazza con lo stemma dell’FBI in bella evidenza sul fianco.
“Siamo
pronti?” la voce della coordinatrice del rapporto con i media che scattava
nella loro direzione carica di fascicoli catturava la loro attenzione. Emily afferrava
il suo caffè e Derek si alzava dalla sedia della scrivania. Entrambi
raggiungevano la bionda collega che cominciava a dare loro i fascicoli del
caso. Prentiss si guardava intorno prima di rispondere a JJ.
“Rossi è in
ufficio da Hotch, ma manca ancora Reid.” Era vero, non avevano ancora visto il
piccolo genio raggiungere l’ufficio. La sua scrivania era vuota, nessun segno
che potesse essere già passato da lì. Non potevano sapere che appena arrivato
era stato costretto a fare i conti con una triste verità. Jennifer sollevò gli
occhi vedendo tra le fessure delle persiane la sagoma di Spencer nella sala
conferenze.
“Lui è già
arrivato...” indicava verso il vetro, “Sta studiando il caso.” Anche gli altri
due agenti si voltarono per vedere quella chioma di capelli castani stagliarsi
dall’altra parte della finestra. “Raggiungetelo, io chiamo gli altri e possiamo
cominciare.” Con la sua solita eleganza l’agente Jareau stava raggiungendo
l’ufficio del capo per invitarlo insieme a David a raggiungere la sala dal
tavolo rotondo.
Spencer
leggeva per l’ennesima volta le parole su quei rapporti della polizia, sperando
ogni volta che cambiassero. Era seduto con i gomiti appoggiati al tavolo e con
una mano si tormentava la zona sotto il mento, combatteva con i suoi pensieri.
Desiderava farli sparire, o avere la forza di affrontarli senza piegarsi. Poi
sentì alle sue spalle i passi di qualcuno che entrava nella sala conferenze. A
breve tutta quella situazione avrebbe assunto tratti ancora più reali, e non
avrebbe potuto più far nulla per evitarlo. Era agitato e nervoso.
“Ehi
ragazzino, mattiniero oggi...” lo apostrofava Derek. Un altro giorno avrebbe
trovato la domanda una battuta divertente del suo collega per stuzzicarlo, ma
quel giorno non era in vena. Si voltava per vederlo entrare dalla porta seguito
da Emily.
“Buongiorno
ragazzi. Nottata insonne, quindi all’arrivo della chiamata ero già abbastanza
reattivo.” Dopo queste parole tornava a guardare il fascicolo aperto sul
tavolo. Con la coda dell’occhio seguiva però i movimenti degli altri due
agenti. Derek, con il fascicolo sottobraccio, allontanava una sedia prima di
accomodarsi. Evidentemente aveva capito che non doveva insistere con il
ragazzino. Emily invece teneva tra le mani la tazza fumante di caffè e stava bevendo
ancora in piedi. Dopo pochi secondi dalla porta entrarono anche JJ, Hotch e
Rossi. Erano pronti a cominciare. Prentiss si sedeva accanto a Morgan poggiando
la tazza di fronte a se. Prendevano posto anche Aaron e David, mentre Jennifer
avviava lo schermo a parete prima di prendere tra le mani il telecomando per
controllarlo. Poi cominciava a parlare accompagnando le parole con le immagini.
“Questa
donna, di cui non si conosce ancora il nome, era una prostituta di Washington.
È stata trovata morta questa mattina in una stanza di un motel. Indossava solo
l’intimo e la causa della morte è una pugnalata al cuore. È stata lasciata lì
ad agonizzare mentre le venivano inferti altri colpi a fianchi e gambe. Non è
stata riscontrata nessuna violenza sessuale e la vittima non ha avuto nessun
rapporto prima della morte.” Ora la donna si avvicinava al tavolo per sedersi
anche lei. Gli altri guardavano le altre informazioni nei fogli a loro
disposizione nel fascicolo. Poi David interrompeva il silenzio.
“Vittime
simili?”
“Al momento
nessuna.” Rispondeva JJ portandosi sotto il mento la mano con cui teneva il
telecomando.
“Potrebbe
non essere un seriale, potrebbe essere un omicidio isolato. Perché ci hanno
chiamati?” chiedeva Emily attendendo una risposta che le spiegasse la strana
situazione.
“Alla
vittima sono stati tagliati i capelli.” L’agente Jareau accompagnava alle
parole un’espressione sconfitta. Conosceva il peso di quella affermazione.
Poteva leggere il terrore negli occhi del suo giovane collega, così intelligente
ma così indifeso. Poi la voce di Derek la faceva voltare verso di lui.
“Non ci
posso credere...” il ragazzo di colore colpiva con la mano il tavolo e lasciava
andare indietro la testa con una smorfia sulle labbra. Ora aveva capito perché
tutto gli sembrava così familiare.
“Ci hanno
chiamato perché sembra opera di Ronald Weems,” interveniva Aaron sentendosi il
più autorizzato a spiegare meglio la situazione avendo ricevuto lui la
telefonata e conoscendo i dettagli riferitigli dallo stesso detective. “L’abbiamo
arrestato quattro anni fa, per chi allora non c’era,” si rivolgeva adesso a
David “uccideva le prostitute nell’area del Campidoglio di Washington. Vogliono
conferma che sia lui il colpevole anche stavolta.”
“Hotch, ma
quell’uomo incideva scritte nel ventre delle donne. Qui non c’è nessun
messaggio.” Interveniva Derek, ma prontamente l’agente supervisore lo
interrompeva. Non voleva che i dubbi assalissero anche i suoi colleghi.
“Quei
messaggi erano legati all’imminente dichiarazione del deputato Steyer.” Nella
stanza era calato nuovamente il silenzio.
“Garcia ha
già controllato questo Ronald Weems?” chiedeva Rossi che in realtà non
conosceva nulla del precedente caso. Si sarebbe aggiornato al più presto.
Quattro anni prima c’era ancora Jason Gideon in quella squadra e lui era a
condurre la vita da pensionato promuovendo i suoi libri.
“Vado ad
avvertirla.” Spencer si era alzato di colpo facendo quasi rovinosamente cadere
la sedia su cui era seduto. Aveva bisogno di allontanarsi dagli altri un’altra
volta. E raggiungere Penelope poteva essere un’ottima soluzione. Lei avrebbe
capito. Lei sapeva anche più degli altri.
Mentre Reid
raccoglieva il fascicolo e lasciava in fretta la sala, gli altri si scambiarono
un’occhiata veloce prima che Aaron riprendesse la parola per assegnare a
ciascuno un incarico. “Morgan, Prentiss, voi interrogate le prostitute nella
speranza di trovare notizie sulla nostra vittima. O su eventuali altre
scomparse e non denunciate direttamente. David, tu vieni con me al motel dove è
stato ritrovato il corpo. JJ, appena Garcia scopre qualcosa aggiornaci subito.”
Detto questo tutti si alzavano per avviarsi a portare a termine i propri
compiti. Ma la voce di Jennifer bloccava Hotch.
“E Spence?”
si era accorta che per lui non c’era nessun incarico. Tutti si voltarono a
guardarla, non riuscendo a capire il perché di quella domanda. Aaron la
guardava intuendo perfettamente a cosa si riferisse. Dopo averci pensato un po’
le rispose.
"Dagli tempo..." lei fece un cenno del capo in risposta all'uomo e
quando tutti furono usciti dalla stanza JJ si ritrovò sola con i
suoi pensieri. E con le sue preoccupazioni.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Then you catch him CAP4
CAPITOLO 4
“Che l’ira
della divina Penelope si scagli su di te! Come osi metterti contro la regina
del cyberspazio?”
Penelope
Garcia era nel suo ufficio. Era arrivata da poco ma non avendo trovato nessun
altro ad accoglierla aveva pensato bene di riprendere l’attività che svolgeva
prima di ricevere la convocazione alla BAU. Era nel suo variopinto
appartamento, sul divano del salotto impegnata nell’ennesimo gioco di ruolo che
conduceva su internet. E ora continuava a giocare dal suo ufficio, circondata
dalla multi task con la quale lavorava per aiutare la sua squadra.
Ricordava
ancora quando con il videogame in stile da ciclo arturiano aveva messo in
pericolo tutti i suoi colleghi, quando il Re Pescatore era entrato nel sistema
e l’aveva bloccato. Ma quella per lei era diventata l’ennesima sfida, l’aveva
tracciato e aveva poi migliorato il sistema così da renderlo ancora meno
vulnerabile. E aveva ripreso a giocare dal suo ufficio, senza timori stavolta.
Stava
svolgendo un incontro corpo a corpo con un altro giocatore e stava avendo la
meglio, quando fu distratta da un rapido e agitato bussare alla porta. La
distrazione fu fatale, Penelope perse la battaglia cibernetica.
“Manifestati
mortale, e sii pronto a ricevere la punizione per quello che hai combinato!”
dire che l’informatica era furente sarebbe stato un eufemismo. Stava
abbandonando la partita per riporre il suo portatile nell’apposita valigetta
che aveva sempre con se. Si voltava poi ancora infuriata verso la porta che si
stava lentamente aprendo.
“Spero si
tratti di una catastrofe naturale...” guardare Spencer negli occhi l’aveva
fatta smettere di gridare e le aveva fatto capire che c’era qualcosa che non
andava. “Genio, che succede?” la rabbia era svanita in un sol colpo.
“Garcia,
dovresti cercare informazioni su Ronald Weems.” Reid aveva abilmente ignorato
la domanda rivoltagli dalla collega. Voleva che tutto restasse un suo problema.
“Subito!”
affermava Garcia prima di riprendere posto sulla sedia e iniziare a far
saettare le dita sulla tastiera del suo computer. “Ronald Weems, è stato un
nostro caso...” sembrava quasi sbalordita nel leggere questa informazione. Non
ricordava alla perfezione tutte le persone che i suoi colleghi avevano
arrestato, ma non appena lesse di che caso si trattava, tutto le tornò alla
mente. Aprì la bocca senza poter emettere alcun suono, mentre al di la delle
lenti i suoi occhi vibravano guardando lo schermo. Preferì non interferire, se
il ragazzo non le aveva detto nulla, non l’avrebbe fatto lei. Deglutì con
difficoltà e continuò a rovistare nei files che riusciva a trovare. “È libero
per buona condotta da una settimana.” Diceva infine, “Ma questi viscidi come
fanno a diventare degli agnellini in carcere?” chiedeva poi sperando in una
reazione del giovane che aveva accanto.
“Ora dove si
trova?” chiedeva invece Reid disposto a convincersi che fosse proprio lui il
colpevole.
“Spence...”
la voce di JJ li raggiungeva dalla porta. Entrambi gli agenti nella stanza si
voltavano per guardarla. I suoi occhi erano ancora preoccupati. Voleva chiedere
al ragazzo come si sentiva, ma una volta trovatoselo davanti il coraggio era
scomparso. “Avete...” indugiò un attimo, poi si ricompose. “Avete trovato
qualcosa?” riuscì infine a dire.
“Weems è
fuori per buona condotta.” Le rispondeva il dottore mentre la donna gli si
avvicinava per guardare anche lei verso lo schermo sul quale la maga del
computer stava visualizzando gli ultimi spostamenti del sospettato.
“Oh.” si
intrometteva Garcia “Lavora come volontario in un centro di recupero per
senzatetto e prostitute...ditemi che c’è una ragione psicologica vi prego.”
“Ci sono
cose che nemmeno le più grandi scienze dell’universo possono spiegare.” Le
rispondeva Reid che al momento non aveva un briciolo di ottimismo in corpo.
“Gli altri
sono già andati, Derek e Emily in strada ad interrogare le prostitute, Hotch e
Rossi sulla scena del crimine. Volevano essere avvisati quando trovavamo
qualcosa.” Spiegava brevemente la donna bionda al magro ragazzo, che poi si
rivolgeva all’agente seduta davanti al computer.
“Chiama
Hotch...”
La donna
velocemente schiacciava con la penna colorata che teneva in mano il tasto di
chiamata veloce per il suo capo sul telefono che aveva alla sua sinistra. Al
termine del primo squillo li raggiunse la voce di Aaron.
“Ditemi
tutto.”
“Ronald
Weems è stato scarcerato una settimana fa e ora lavora in un centro di ricovero
per senzatetto e prostitute...” aveva riferito Spencer mentre si tormentava le
mani sfregandole l’una contro l’altra. Jennifer non poteva fare a meno di
guardare lo stato di agitazione nel ragazzo, e lo stesso faceva Penelope.
“Quindi la
tempistica per commettere l’omicidio ieri sera potrebbe essere quella giusta.
Te la senti di andare con JJ a prenderlo a lavoro e portarlo lì a Quantico per
interrogarlo?” Hotch voleva dare al giovane la possibilità di tirarsi indietro
qualora non se la fosse sentita.
Reid si
voltava verso la bionda collega, fissando i suoi occhi in quelli blu che si
trovava davanti e poi rispondeva alla persona all’altro capo del telefono,
“Posso farcela...” La collega aveva mantenuto il suo sguardo senza vacillare un
attimo, sapeva che lui aveva bisogno di un appoggio e lei era ben disposta a
darglielo.
“Vi mando in
ufficio Morgan e Prentiss appena finiscono il loro giro, io e David vi
raggiungiamo appena possibile.” A queste parole di Aaron, i due agenti FBI
risposero che stavano per incamminarsi subito verso il centro di ricovero dove
lavorava il loro sospettato. La comunicazione era stata chiusa e Penelope si
era messa alla ricerca dell’indirizzo al quale i due giovani dovevano recarsi.
“Vi mando
tutto sui palmari...” aveva detto loro mentre lasciavano la stanza diretti a
recuperare le loro cose prima della partenza. Mentre camminava, JJ aveva tirato
fuori dalla tasca un elastico con cui si stava raccogliendo i capelli in una
coda. Quando doveva muoversi per qualche azione preferiva non avere i capelli
sciolti, lo trovava più pratico. Reid era invece andato nella sala conferenze,
dove aveva lasciato la sua tracolla.
In pochi
minuti erano pronti a partire, anche se il giovane si sentiva teso,
particolarmente teso. I due entravano nell’ascensore senza dirsi nulla. Lei non
sapeva esattamente cosa dire, lui era troppo perso nei suoi pensieri per
parlare. Quando le porte della cabina si aprirono sul garage, camminarono verso
la macchina, e una volta raggiuntala, Spencer prendeva posto dal lato guidatore
e Jennifer dal lato passeggero. Il ragazzo girava la chiave nella toppa e
avviava il motore, facendo la manovra per uscire dal posteggio. La ragazza
osservava la strana presa che aveva il collega sul volante, mentre pensava che
quel caso avrebbe sicuramente avuto delle conseguenze nella vita di Reid, ma
lei, come del resto l’intera squadra, sarebbe stata accanto a lui e lo avrebbe
aiutato con tutte le forze possibili.
“Agente
Hotchner,” l’uomo stava porgendo la mano al detective che sostava davanti alla
porta della stanza del motel nella quale avevano trovato il corpo. “Questo è
l’agente Rossi.” Il collega faceva altrettanto, prima di concentrare
l’attenzione in quello che li aspettava all’interno.
“Sono il
detective Carlson, ci siamo sentiti per telefono...” rispondeva il poliziotto
ad Aaron.
“Io comincio
a dare un’occhiata...” David lasciava Hotch e Carlson a discutere delle
questioni formali ed entrava nella stanza. Il corpo era stato già inviato al
coroner che l’aveva analizzato, ma era visibile a terra il luogo in cui era
stato ritrovato. Il pavimento di moquette recava una macchia di sangue, che
difficilmente e solo con il tempo sarebbe andata via. L’agente teneva sotto
braccio il fascicolo del caso, si piegò sulle ginocchia per vedere meglio e
aprì il documento per cercare le foto del ritrovamento. Il corpo della donna
era stato abbandonato lì, in una posa scomposta, quindi nessuna traccia di
rimorso da parte della vittima. Il sangue era probabilmente dovuto al colpo
inferto al cuore, ne aveva perso parecchio e la morte doveva essere stata lenta
e dolorosa.
A parte il
corpo, nulla era stato toccato, quindi mancava qualcosa. I biondi capelli della
donna, tagliati, non erano lì. Proprio quello che era stato il segno distintivo
di Ronald Weems.
Dave
rigirava tra le mani le foto, e si guardava intorno. Parecchie erano le macchie
di sangue nel resto della stanza. Sul letto, su una sedia vicino a dove era
stata ritrovata la vittima, su un mobile e sulle pareti. Un lavoro sicuramente
caotico, poco riconducibile ad una persona che aveva già ucciso altre volte.
“Cosa abbiamo?” la voce del collega l’aveva fatto voltare verso la porta, dove
era in piedi con il solito volto pensieroso. L’agente Rossi si sollevava
lentamente, riponendo il tutto nella cartelletta che teneva tra le mani.
“Non ti
sembra tutto...troppo caotico?” chiedeva sperando magari in qualche
delucidazione da chi conosceva il precedente caso. Poi rimaneva a fissare
l’uomo negli occhi mentre rifletteva portandosi una mano alle labbra. “C’è
sangue ovunque, non sembra qualcuno che abbia già ucciso prima.” Continuava a
sostenere la sua tesi.
“Però in
tutto questo caos, non ha lasciato nessuna impronta.” Rispondeva infine Aaron,
“Quindi non possiamo ritenerlo disorganizzato.”
“I capelli
come souvenirs...le uccide ma conserva la loro femminilità?” chiedeva ancora
l’uomo grattandosi il pizzetto brizzolato. Poi sentiva pesante lo sguardo di
Hotch su di se.
“Come hai
detto?” gli chiedeva quasi incredulo.
“Ha portato
via i capelli che ha tagliato alla donna. Come ben sappiamo sono simbolo della
femminilità...” non poteva proseguire perché l’agente supervisore si era già
rivolto al detective sulla porta.
“Detective
Carlson, oltre al corpo avete rimosso altre prove?” chiedeva per sentirsi
rivolgere una risposta negativa. Hotchner stretto nel suo cappotto nero, si
avvicinava di nuovo a David per dirgli sottovoce “Ronals Weems non teneva
souvenirs...”
“Ma voi
avete detto...” interveniva il collega.
"Si, tagliava loro i capelli ma li lasciava sparsi sulla scena del
crimine, che era pulita. Ed era la strada..." a qualcuno doveva pur
confessare i suoi dubbi, e sperava di aver scelto la persona giusta.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Then you catch him CAP5
CAPITOLO 5
Era da poco
mattino e le strade di Washington sulle quali si aggiravano gli agenti speciali
Morgan e Prentiss erano popolate da prostitute. Avevano imparato la volta
precedente che quelle ragazzine lavoravano anche la mattina, e molto spesso con
uomini che subito dopo prendevano servizio nell’area del Campidoglio. Emily non
poteva fare a meno di notare quanto fossero giovani, ricordava ancora la
bambina che aveva interrogato quattro anni prima. Aveva mentito sulla sua età,
e solo quando la donna l’aveva trovata a terra, morta, con il ventre inciso di
lettere sanguinanti, aveva scoperto che aveva solo sedici anni.
Derek e la
sua collega camminavano da un po’ e ancora non avevano scoperto nulla,
nessun’altra donna scomparsa e nessuna prostituta disponibile a dare loro
informazioni sul cadavere della sera precedente. Poi avevano avvistato in un
angolo due ragazze che si guardavano intorno, e avevano deciso di fare
l’ennesimo tentativo. “Emily Prentiss, questo è l’agente Derek Morgan.” Si
qualificavano mostrando il distintivo, che faceva quasi scappare le due
ragazze. Dopo averle tranquillizzate la donna ricominciava a parlare, “la
conoscevate?” stendeva la mano nella quale teneva la foto della vittima come
gli era stata consegnata dalla scientifica prima di rimuovere il corpo. Nessuna
delle due ragazze sembrava battere ciglio per lo spettacolo raccapricciante che
avevano davanti gli occhi.
“Ci
conosciamo tutte...” rispondeva con poca voglia la più grande delle due. Aveva
vestiti che lasciavano ben poco all’immaginazione e capelli particolarmente
colorati. Masticava vistosamente una gomma. La sua collega era invece più
timida e chiusa. Anche lei aveva molta pelle scoperta, ma sembrava da poco
avviata al mestiere della strada. Derek decise di puntare sulla seconda per
sapere qualcosa, sorrise dolcemente prima di rivolgerle la parola.
“Piccola, ci
servirebbe sapere qualcosa in più di lei.”
“Nancy...”
la risposta era arrivata immediata dalla ragazza più giovane che però era stata
subito interrotta dalla gomitata sferratale dall’amica. Emily aveva visto il
gesto ed era subito intervenuta per non rovinare la possibilità di uno
spiraglio di contatto aperto dal suo collega.
“Non vi
porteremo dentro, e non vi denunceremo. Ma voi dovete aiutarci...” aveva detto
dolcemente. Ma la reazione della ragazza dai capelli colorati fu violenta.
Stizzita si voltò e andò via, senza voler sentire ragioni di rimanere con
quegli sbirri. L’altra ragazza dopo averla seguita con gli occhi si voltava
nuovamente per parlare con gli agenti federali.
“Scusatela...”
era seriamente imbarazzata per il comportamento della collega. “È stata in
prigione e non vuole tornarci...in realtà posso capirla, ma voglio fidarmi e
aiutarvi. La ragazza della foto si chiama Nancy Sulligan, io sono arrivata da
poco ma lei era già qui in strada da parecchio. Non so altro, mentiamo sempre e
anche tra di noi.” Era seriamente dispiaciuta di non poter aiutare in altro
modo.
“Hai visto
per caso qualcuno girare in questa zona, qualcuno che magari prestava
particolare attenzione alle prostitute...o in particolare a Nancy?” chiedeva
Morgan sfruttando la voglia di collaborare della ragazza, che però si guardava
intorno furtivamente prima di rispondere alla domanda senza nemmeno pensarci il
tempo necessario.
“Nessuno. Mi
dispiace, abbiamo tanti clienti ma sono praticamente tutti abituali.”
“Piccola sei
stata gentilissima.” La congedava cordialmente l’agente di colore, guardandola
poi raggiungere l’amica che l’aspettava sul fondo di una stretta traversa
accanto a loro. Durante tutto il tragitto la ragazza continuava a guardarsi
alle spalle, come se volesse essere certa di non essere stata vista.
“Chiamo
Garcia...” interveniva Emily richiamando l’attenzione di Derek, e mentre
componeva il numero sul suo cellulare, i due si avviavano verso la zona dove
avevano lasciato il SUV.
“Genio
informatico a rapporto!” il vivavoce aveva permesso a entrambi di essere
fermati dall’esuberanza della tecnica di Quantico. Erano pronti ad ascoltare
cosa aveva da dire loro.
“Penelope,
hai trovato qualcosa su Ronald Weems?” Prentiss riprendeva la parola, alzando
poi gli occhi verso Morgan che si era fermato di fronte a lei per ascoltare.
“Ma
certamente mia cara. È stato rilasciato una settimana fa per buona condotta.
Chissà perché questi delinquenti quando arrivano in prigione diventano sempre
dei santi...” questa domanda tormentava l’eccentrica donna, non poteva fare a
meno di rivolgerla anche a loro.
“Non
chiedertelo bambolina...potresti diventare pazza per trovare una risposta.” Le
rispondeva amorevolmente Derek, e anche se non poteva vederlo, aveva
rasserenato con un sorriso il volto della collega dall’altro lato del telefono.
“Che altro?” chiedeva poi invitandola a continuare.
“Udite
udite, ora lavora come volontario in un centro di ricovero per senzatetto. JJ e
Reid sono già andati a prenderlo con un mandato.” Una lieve preoccupazione
incrinava ora la sua voce, non aveva visto il piccolo genio troppo sereno
nell’intraprendere quell’azione.
“Ora abbiamo
bisogno che cerchi questo nome: Nancy Sulligan, è la nostra vittima.”
Interveniva Emily, attendendo poi una risposta che arrivava immediata.
“Più veloce
della luce. Vi richiamo appena so qualcosa.” Le ultime parole erano
accompagnate dal rumore della penna colorata di Garcia che schiacciava il tasto
di interruzione della chiamata.
“Weems verrà
interrogato a Quantico, sarà meglio tornare.” diceva Prentiss mentre riponeva
il cellulare nella tasca e i due agenti si avviavano verso il SUV. Una volta
raggiuntolo Derek si era fermato e lo stesso aveva fatto la donna in attesa di
sentire cosa il suo collega aveva da dire.
“Non sarebbe
meglio chiamare Hotch?” suggeriva l’uomo per essere subito interrotto dallo
squillo del cellulare che teneva alla cintura. L’aveva preso e aveva guardato
l’identificativo del chiamante, “Hotch, dimmi tutto.” Rispondeva prima di
premere il tasto per il vivavoce.
“Reid e
JJ hanno appena prelevato Ronald Weems e
a breve saranno a Quantico per interrogarlo. Voglio che li raggiungiate anche
voi. Io e David arriviamo appena finiamo qui sulla scena del crimine.
L’interrogatorio ha la massima priorità.” Ordinava l’agente Hotchner.
“Noi abbiamo
un nome,” interveniva l’agente Prentiss, “Nancy Sulligan. Penelope sta già
facendo ricerche.”
“Ottimo. Ci
aggiorniamo in ufficio.” Queste le ultime parole del capo prima che chiudesse
la comunicazione. Emily afferrava la maniglia dello sportello del SUV prima di
tirarla verso di se e salire a bordo. Morgan girava intorno al veicolo e
compiva gli stessi gesti della donna. Dopo i colpi degli sportelli che venivano
richiusi Emily sospirò e prese la parola.
“Ma non ti
sembra strano?”
“Cosa?”
chiedeva il collega appoggiandosi sul volante con un braccio e voltandosi verso
di lei.
“Nessuna
delle due ragazze ha fatto domande di alcun genere su Nancy. Siamo agenti dell’FBI,
sono spaventate dell’eventualità che le arrestiamo ma non si insospettiscono o
fanno domande se mostriamo una foto di una loro collega in quelle condizioni?”
il suo sguardo incredulo aspettava una risposta.
“Probabilmente
sanno qualcosa di più, ma non vogliono dirlo. Per ora interroghiamo il nostro
sospettato, forse sarà tutto più semplice del previsto. In caso contrario
ripartiremo proprio da questo punto.” Morgan girava con decisione la chiave e
metteva in moto la macchina, mentre Emily si metteva comoda sul sedile non meno
dubbiosa. Erano diretti all’ufficio della BAU.
Spencer Reid
e Jennifer Jareau erano appena scesi dal SUV e guardavano l’edificio che
avevano innanzi. Era un grande capannone abbandonato, che ora veniva usato come
rifugio per senzatetto e prostitute. Qualche persona sostava lì fuori,
abbandonato su qualche cartone.
Il giovane
era agitato, sperava che vedere Weems lo avrebbe convinto che fosse proprio lui
il colpevole di quegli atti. La ragazza stringeva gli occhi blu per la forte luce
della mattina, in attesa che il suo collega fosse pronto a varcare quella
soglia. Mentre aspettava, decise di avviarsi verso il portabagagli del veicolo.
“Dove vai?” l’aveva fermata la voce di Spencer.
“A prendere
i giubbotti antiproiettili. Non vorrai certo entrare senza...non sappiamo se il
nostro sospettato è armato e come reagirà.” Mentre parlava aveva aperto il
portellone e stava afferrando due giubbotti blu con la scritta FBI sul petto.
“Hai, hai
ragione...non ci avevo pensato.” Si avviava ora per raggiungere la collega sul
retro della macchina. Lei si voltava per porgergli il giubbotto, ma non l’aveva
sentito arrivare alle sue spalle, e quasi si spaventò a trovarselo così vicino.
“Grazie.” Rispose lui iniziando a indossarlo. Poi si volse a grandi passi verso
l’edificio. Era meglio entrare subito, altrimenti sapeva che sarebbe rimasto a
rimuginarci sopra troppo tempo.
JJ, dopo un
attimo di imbarazzo, aveva chiuso velocemente il portellone e correva dietro al
suo collega. In breve tempo si trovarono dentro quell’unico ambiente, vedevano
letti sparsi ovunque, alcuni occupati da uomini e donne, altri vuoti. Alla loro
destra si trovavano le cucine, e molte donne erano già all’opera per preparare
i quantitativi di cibo necessari a sfamare tutta quella gente per il pranzo.
“Come posso aiutarvi?” la voce di un uomo li raggiunse dalla sinistra, ed
entrambi si voltarono per trovarsi davanti Ronald Weems, sorridente. Quella
visione lasciò per un attimo interdetti i due agenti. Ricordavano un uomo
triste, accigliato, burbero e furioso. Nulla era rimasto di lui nella persona
che avevano dinnanzi.
“Ronald
Weems?” chiedeva Jennifer ridestandosi dallo stupore iniziale.
“Si sono io.
Perché l’FBI mi cerca?” chiedeva indicando la scritta sul petto della donna.
“Abbiamo un
mandato per portarla all’ufficio dell’Unità Analisi Comportamentale per un
interrogatorio.” La donna tirava fuori dalla tasca il mandato ripiegato, ma
l’uomo la precedeva. Le porgeva delicatamente i polsi, vicini, pronti per
essere ammanettati. Lei non poteva far altro che osservarli in silenzio.
“Ha il
diritto di rimanere in silenzio, tutto quello che dirà potrà essere usato
contro di lei...” Reid si era mosso superando JJ e stava afferrando le braccia
dell’uomo portandole dietro la schiena e bloccandole con i bracciali di ferro.
Non opponeva nessuna resistenza.
“Non vuole
sapere perché la stiamo arrestando?” chiedeva la donna camminando dietro
Spencer che già accompagnava Ronald verso l’uscita.
“E che cosa
cambierebbe?” l’aveva guardata dritta negli occhi nel formulare questa domanda.
Lei non aveva saputo controbattere. Avevano raggiunto il SUV e il giovane aveva
accompagnato l’uomo a sedersi al suo interno, una mano sulla testa per evitare
spiacevoli inconvenienti. Poi aveva preso posto accanto a lui, avrebbe guidato
la ragazza. Non le avrebbe mai permesso di stare sul sedile posteriore del
veicolo con un uomo che era stato in carcere per diversi omicidi e ora era
sospettato per un nuovo reato.
L'agente Jareau si era messa al volante e stava guidando verso
Quantico. Ma non poteva smettere di pensare che era stato tutto fin
troppo semplice.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Then you catch him CAP6
CAPITOLO 6
L’ufficio
della BAU era davanti ai loro occhi. Jennifer aveva posteggiato il SUV nel
garage e aiutava Spencer a portare fuori dal veicolo il sospettato che
avrebbero dovuto scortare fino alla sala interrogatori. Proprio mentre
entravano nella cabina dell’ascensore, qualcosa catturò l’attenzione di Reid.
Si sentiva osservato e si voltò di scatto in quella direzione proprio mentre le
porte si richiudevano impedendogli di vedere bene.
“Spence che
succede?” lo raggiunse la voce sussurrata di JJ.
“Niente...niente...”
rispose strofinandosi il viso con la mano con cui non stava reggendo il braccio
di Ronald Weems. La ragazza aveva notato lo sguardo che si era disegnato sul
volto del collega, ma non voleva insistere. Il giovane aveva ancora quella
figura negli occhi, non l’aveva visto bene, ma era sicuro si trattasse di lui.
Per il momento si riscosse da quel ricordo.
Emily e
Derek erano alle loro scrivanie in attesa dell’arrivo di Reid e JJ con il
sospettato da interrogare. Quando li videro entrare dalla porta si avvicinarono
a loro per seguirli fino all’anticamera della sala interrogatori. Spencer
consegnò Weems alle guardie che lo portarono dentro, sciogliendogli i polsi per
poi mettergli nuovamente le manette fissandolo alla sedia sulla quale si era
accomodato.
“Ha opposto
resistenza?” chiese Derek indicando con la testa verso il sospettato che
potevano vedere al di là del vetro.
“No, per
nulla. Appena ha visto il mandato ci ha porto i polsi per farsi ammanettare.”
Rispose JJ mentre scioglieva i suoi lunghi capelli biondi.
“Come
procediamo?” domandò poi il dottor Reid riavvicinandosi al gruppo. Prentiss
osservava l’uomo seduto tranquillo al tavolo, lo stesso guardo triste che
ricordava dalla prima volta, ma c’era qualcosa di diverso, anche se ancora non
sapeva stabilire di cosa si trattasse.
Morgan decise
per condurre lui l’interrogatorio con Emily, e poi chiese a JJ di dargli il
materiale necessario. La donna uscì rapidamente dall’anticamera per dirigersi
nel suo ufficio e recuperare il fascicolo con le foto e tutto ciò potesse
servire ai colleghi. Non poteva smettere di pensare a come lo sguardo di
Spencer fosse mutato dentro il vano ascensore, come se d’improvviso avesse
visto un fantasma. Forse erano i tristi ricordi che si riabbattevano su di lui.
In pochi minuti era di ritorno, e consegnò tutto al collega di colore che
apriva la porta, facendo entrare per prima la donna bruna. Una volta richiusa
la porta JJ e il ragazzo si sistemarono per seguire dall’esterno lo svolgimento
dell’interrogatorio. Weems si guardava intorno, stranamente sereno.
David era
sul sedile passeggero del SUV che stava guidando Aaron, mentre erano diretti
nuovamente a Quantico con le informazioni della scena del crimine da comunicare
agli altri. Continuava a pensare a come il suo collega avesse espresso i suoi
dubbi, quando aveva scoperto che era cambiato qualcosa nella firma di Ronald
Weems, se proprio di lui si trattava.
“Aaron,”
decise di rompere il silenzio per capire qualcosa di più di quello che stava
accadendo, “Io non c’ero quando avete affrontato il caso per la prima volta.
Per aiutarvi ho bisogno di capire esattamente il profilo del nostro
sospettato...”
L’agente
Hotchner non distoglieva l’attenzione dalla strada che stava percorrendo, ma
continuava a pensare se veramente si stesse realizzando quello che tutti temevano
che un giorno potesse accadere. Poi decise di mettere Rossi al corrente del
profilo che avevano steso per l’S.I. quattro anni prima, “Si trattava di un
uomo furioso e frustrato, faceva parte delle Guardie della Moralità, un gruppo
di sostegno ad un progetto di legge per la prevenzione del crimine a
Washington, ma questo suo ruolo da semplice comparsa lo faceva sentire
impotente, come se la sua voce non fosse ascoltata. Sui documenti che abbiamo
trovato a casa sua, l’odio verso le prostitute era tangibile, le considerava
sporche e da cacciare. Abbiamo parlato anche con alcune donne che erano state
avvicinate da lui, e tutte ne parlavano come di un uomo spaventato
inizialmente. Quando poi prendeva coraggio, chiedeva loro prestazioni che
avrebbe solo guardato, per poi dire loro che erano sporche. Era un qualcosa di
cui non poteva fare a meno, e prima di passare alle prostitute aveva fatto le
stesse richieste alla moglie. Quando aveva smesso con lei per rivolgersi alle
donne della strada, lei aveva notato con sollievo che usciva di casa furioso, ma
poi lo vedeva rincasare sereno come
quando l’aveva conosciuto. La sua era una sorta di missione per lo stato. Si
impegnava a correggere quello che secondo lui la politica non riusciva
realmente a fare.” Concluse la sua spiegazione con un profondo sospiro.
“Non si può
definire il classico sadico sessuale...” aggiunse il collega guardandolo con
attenzione. “Non era mosso semplicemente dal bisogno di uno sfogo sessuale, ma
agiva con uno scopo ben preciso. E allora perché non rivendicare anche ora la
sua missione? Ma soprattutto perché iniziare a raccogliere trofei?”
“Sono
confuso quanto te, Dave.” Esclamò Hotch non sentendosi ancora pronto a
raccontargli la più completa verità.
“Avevate
altri sospettati?” chiese poi Rossi a bruciapelo. Era quella la domanda che
l’agente supervisore voleva evitare, perché sapeva quale sarebbe stata la
risposta, lo tormentava da quando aveva accettato il caso.
“Ci
rivediamo dopo un paio di anni Ronald.” Lo provocò l’agente Derek Morgan mentre
lanciava sul tavolo il fascicolo del caso. Alle sue spalle Emily Prentiss
prendeva silenziosamente posto sulla sedia posta dall’altro lato del tavolo di
fronte al sospettato.
“Cosa volete
da me?” chiese l’uomo senza mutare espressione del viso. Non vi si leggeva
nessuna particolare preoccupazione, sembrava più che altro spaesato.
“Sei nei
guai, credimi.” Continuò l’agente di colore mettendogli davanti le foto della
vittima. L’uomo era ora improvvisamente sorpreso. “Da quanto sei tornato in
libertà? Una settimana? La voglia di uccidere si è riaccesa subito?” Emily non
aveva ancora proferito parola, lasciava fare a Morgan osservando tranquilla la
scena.
“Non so di
cosa sta parlando.” Weems guardava Prentiss con la speranza di ricevere un
qualche aiuto.
“Oh si che
lo sai, Ronald,” Derek riprese controllo dell’attenzione dell’uomo,
ostruendogli quasi la vista della collega, poi continuò, “questa è Nancy. Ieri
sera avevi voglia di passarti un piacere e hai pensato bene di cercare una
prostituta. Ma poi sei stato assalito dal tuo istinto naturale di ucciderla...”
Il
sospettato si stava agitando sempre più, implorava con gli occhi un aiuto che
lo cavasse da quell’impiccio in cui non voleva credere di trovarsi. Sembrava
non sapere più gestire la situazione, il che richiedeva l’intervento di Emily.
“Calmati
Ronald, parla un po’ con me. Come mai hai scelto di lavorare in un centro di
ricovero per senzatetto?” la donna si sporse lentamente in avanti, appoggiando
le braccia sul tavolo e sorridendogli dolcemente.
“Buono
contro cattivo, ottimo!” esclamò il dottor Reid all’esterno della sala, prima
di ripiombare di nuovo nel silenzio per ascoltare la risposta che stava per
arrivare dall’uomo.
“Io, sentivo
che dovevo provare ad avvicinarmi a loro. Capire che quello che avevo fatto era
sbagliato. Cioè...” sfregava le mani per il nervosismo, “l’ho già capito, ma
volevo in qualche modo ripagare il male fatto con buone azioni.”
“Ma a chi
vuoi darla a bere!” Morgan aveva colpito
violentemente il tavolo della sala interrogatori mentre gridava quelle parole.
“Vuoi farci credere che sei diventato un agnellino?” continuò avvicinandolo
quasi come se volesse mettergli le mani addosso.
“Io...non ho
fatto del male a nessuno.” Weems stava quasi per mettersi a piangere e chiese
ancora aiuto alla donna che era di fronte a lui.
“Non sembra
l’uomo che abbiamo arrestato la prima volta. Era rabbioso, ci inveiva
contro...” JJ era molto perplessa ed esprimeva ad alta voce i suoi dubbi,
mentre Spencer sembrava fin troppo concentrato nei suoi pensieri. Non aveva
nemmeno risposto alla ragazza.
“Vogliamo
crederti,” cercò di tranquillizzarlo Prentiss, “dove eri ieri sera?” continuò
poi con la dolcezza che la caratterizzava.
“Se sei
veramente innocente non avrai problemi a rispondere...” le parole di Derek
coprirono con un filo di sarcasmo l’esitazione dell’uomo.
“Io...ero...facevo
un turno al centro. Era fuori dal mio normale orario, e prima che possiate
domandarmelo, nessuno può confermare il mio alibi.” Il suo tono di voce era
sconfitto, sapeva che la mancanza di testimoni l’avrebbe fatto restare in cima
alla lista dei sospettati.
“È troppo
calmo, c’è qualcosa che non va.” Reid era finalmente esploso confermando le
preoccupazioni di JJ, si voltò di scatto prima di lasciare l’anticamera diretto
chissà dove. La donna rimase sola oltre quel vetro ad ascoltare la conclusione
di un interrogatorio svoltosi in maniera contraria alle aspettative di tutti.
“Sai cosa
significa questo, Ronald?” chiese Morgan avvicinandosi all’uomo. Non gli lasciò
nemmeno il tempo di rispondere, aprì le manette e lo sollevò dalla sedia per
trascinarlo violentemente fuori dalla stanza, lasciandolo poi alla custodia
delle guardie. Era in stato di fermo.
“Troppo
semplice...” Emily scuoteva la testa mentre raggiungeva la collega che era
dubbiosa quanto lei. “C’è qualcosa che non mi convince.”
L’agente
Jareau rispose alla donna ponendo l’attenzione sul comportamento tenuto
dall’uomo, “È troppo calmo, anche in una situazione di stress, mostra un
autocontrollo non indifferente. Anche quando stava per agitarsi, più che
rabbia, la sua sembrava paura.”
“Penso che
questo è il caso che abbiamo chiuso in minor tempo...” le interruppe Derek
raggiante avvicinandosi a loro.
“Aspetta a
cantar vittoria...” la voce di Rossi anticipò il suo arrivo. I tre agenti si
voltarono verso l’ingresso per vederlo entrare sorridente.
"Ci sono novità dalla scena del crimine." intervenne Hotchner
serio, facendo segno a tutti di dirigersi verso la sala dal tavolo
rotondo.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Then you catch him CAP7
CAPITOLO 7
Il dottor
Reid aveva abbandonato carico di dubbi l’anticamera di quella sala
interrogatori. Aveva sperato che arrestare Weems avrebbe significato fugare una
volta per tutte i suoi dubbi. E invece la visione di quell’uomo, completamente
diverso dal Ronald che ricordava, non aveva fatto che accrescerli.
Aveva
percorso in tempo record il corridoio fino all’ufficio di Garcia e aveva
bussato cautamente, aprendo poi la porta senza attendere una risposta.
“Che notizie
porti forestiero?” Penelope lo accolse voltandosi con la sedia verso
l’ingresso.
“Non
buone...” rispose il ragazzo avvicinandosi a lei. “Puoi cercare altre
informazioni su Ronald Weems e scavare più a fondo?” chiese poi.
La maga del
computer si voltò nuovamente verso gli schermi chinandosi sulla tastiera e
iniziando a far saettare le sue dita mentre si rivolgeva a Spencer. “Cucciolo
penso di aver trovato tutto il necessario ma si può sempre fare un tentativo.
Cosa cerchiamo esattamente?”
“Ho bisogno
di informazioni sulla condotta carceraria del nostro sospettato.” rispose il
giovane cominciando a camminare avanti e indietro alle spalle della donna
concentrata sulla ricerca.
“Oh. Mio.
Dio.” Esclamò Garcia. Reid corse verso di lei abbassandosi verso lo schermo.
Aveva aperto un file che la prima volta aveva ignorato perché non riguardava le
ultime informazioni sull’uomo. Ma ora era decisamente una notizia fondamentale.
I due si voltarono l’uno verso l’altra guardandosi intensamente prima che
Spencer rompesse il silenzio.
“Vai più a
fondo.” Le disse come se fosse un ordine e rimase a bocca aperta mentre la
donna cercava altri rapporti sulla vicenda.
I cinque
agenti dell’FBI avevano preso posto intorno al tavolo rotondo pronti a sentire
cosa Hotch e Rossi avevano da dire loro sulla scena del crimine, quando un
trafelato Spencer Reid varcò la soglia correndo e tenendo tra le mani un
foglio. “Ho scoperto qualcosa.” Disse nell’affanno della corsa. Poi si arrestò
dopo aver capito che i suoi colleghi stavano per discutere di qualche cosa.
“Prima tu
Reid...” lo invitò infine a parlare Aaron.
Spencer
iniziò a riportare, “Dunque, il comportamento di Weems non mi convinceva e ho
fatto fare delle ricerche a Garcia. Risulta che in prigione ha tentato il
suicidio, ma l’hanno salvato in tempo. Lo stato di frustrazione era arrivato al
limite, hanno richiesto una perizia psicologica e il dottore ha optato per
tenerlo in cura farmacologica, con farmaci che lo rendono tranquillo,
mascherando il suo lato furioso e aggressivo. E quei farmaci non ha mai smesso
di prenderli, l’ultima ricetta con relativo acquisto è di qualche giorno fa.”
“Questo
significa che non può aver commesso l’omicidio?” chiese sorpreso Derek.
“Non dico
che è impossibile, ma c’è un alta percentuale statistica che sia così...”
concluse il giovane con una smorfia lasciando sul tavolo il foglio su cui erano
scritte le informazioni appena riferite.
“Se non abbiamo
prove concrete non possiamo scagionarlo.” Li informò Hotch come se stesse solo
riflettendo ad alta voce.
“Si potrebbe
condurre un’analisi per sapere se il farmaco è in circolo o sta solo fingendo?”
suggerì Rossi.
“Potremmo
tentare questa strada.” accordò l’agente Hotchner uscendo dalla sala per
telefonare.
“La scena
del crimine?” chiese Emily richiamando l’attenzione di tutti.
“Anche la
scena sembra dire che non si tratti di Weems,” cominciò David, “innanzitutto i
capelli non sono rimasti lì, l’S.I. li ha portati con se. Poi c’era troppo
caos, non sembra per nulla la scena di un assassino che ha già ucciso altre
volte. Le ferite lasciate sul corpo durante l’agonia sembrano suggerire una
lama corta, diversa da quella con cui è stato inferto il colpo mortale. Però
nessuna prova organica sembra disponibile, quindi il nostro uomo è organizzato.
Ha ripulito tutte le tracce che potevano farlo incastrare.”
“O forse si
sta organizzando e perfezionando...” rifletté Derek ad alta voce interrompendo
il collega. Lo sguardo di tutti saettò poi verso Spencer che aveva fatto cadere
a terra alcuni fogli. Sembrava nuovamente turbato.
“Cosa vuoi
dire?” intervenne Emily.
“Voglio dire
che potrebbe trattarsi di qualcun altro, magari un imitatore, e questo forse è
il suo primo omicidio. Non conosce a fondo i dettagli degli omicidi di Weems e
deve ancora migliorare la sua tecnica.”
Aaron rientrò
nella stanza ordinando a JJ di comunicare alla stampa che avevano arrestato un
uomo per l’omicidio di una prostituta. “Non dire nulla dei dubbi che si hanno.
Se si tratta di un altro S.I., si farà avanti per farci capire lo sbaglio.”
“Consideralo
fatto.” Rispose la coordinatrice del rapporto con i media alzandosi e
avviandosi velocemente verso il suo ufficio.
“Noi intanto
concentriamoci sul profilo, se Ronald Weems si rivelerà innocente, dobbiamo
avere pronto qualcosa da comunicare alle forze dell’ordine.” Continuò l’agente
supervisore.
“Proporrei
di seguire sia la linea dell’imitatore che quella di un nuovo S.I.” suggerì
Rossi.
“Per quanto
riguarda l’imitatore, Reid, appena finiamo questa riunione vai al carcere dove
era detenuto il nostro sospettato e fatti dare delle informazioni, magari una
lista, sulle visite che ha ricevuto.”
Un semplice
cenno del capo di Spencer aveva comunicato il suo assenso.
“Ora
concentriamoci sul profilo.” disse Hotch prendendo posto con gli altri intorno
al tavolo. Solo il piccolo genio era rimasto in piedi e non stava fermo un
attimo.
“Pugnalata e
nessuna violenza sessuale, impotente?” chiese Morgan poggiandosi con i gomiti
sul tavolo.
“Potrebbe
essere un’idea, la lama che perfora la pelle potrebbe sostituire la reale
violenza fisica per lui impossibile. Potrebbe avere anche un senso di
inadeguatezza.” Aggiunse Emily.
“Le colpisce
di notte, quando sono più attive e a caccia di prede, quindi sicuramente vuole
mascherare la sua inadeguatezza. Non accetta la sua impotenza e cerca le
prostitute per salvare il suo onore.” Continuò il dottor Reid dondolandosi
sulle gambe con le mani in tasca.
“Sprezzante
e organizzato. Si eccita con la violenza, quindi direi che si tratta di un
sadico sessuale. Non prova in nessun altro modo piacere se non guardando
soffrire la vittima.” Concluse Rossi.
“Se la scena
del crimine è caotica perché è alle prime armi, potrebbe essere giovane.” Propose
Derek prima di essere interrotto da Hotch che ricordò di dover comunicare
qualcosa.
“Mi hanno
accordato l’analisi per Ronald Weems. Fra un’ora, io e Prentiss andiamo ad
assistere che tutto sia fatto nella più totale correttezza.” Poi un ticchettio
alla porta li fece voltare tutti verso l’ingresso.
“Scusate, ho
qui i risultati sulla ricerca di Nancy Sulligan. Non ho trovato molto ma è
sempre un punto di partenza.” Penelope appoggiò delicatamente un foglio sulla
tavola per poi voltarsi e tornare nel suo ufficio.
“La nostra
vittima...” spiegò Emily per chi non sapeva di chi si trattasse seguendo con
gli occhi David che prendeva il fascio di carta portato da Garcia.
“Io e Morgan
restiamo qui ad indagare sulla vittima,” Rossi scorse velocemente con gli occhi
le informazioni sul foglio. “Andremo ad interrogare la famiglia...beh, quello
che ne resta.”
“Ci
rivediamo nel tardo pomeriggio per aggiornarci sugli sviluppi.” Hotch sciolse
la riunione alzandosi e lasciando la sala.
“Agente
Speciale Jennifer Jareau. Devo riferire un comunicato dell’FBI, fra mezz’ora
alla sede della BAU di Quantico si terrà una conferenza stampa in merito
all’omicidio di una prostituta...” La giovane stava parlando al telefono con le
testate giornalistiche di Washington per invitarli a partecipare alla
conferenza nella quale avrebbe dato i dettagli necessari per loro per cercare
di arrestare la giusta persona.
Il lavoro
per JJ era questo. Trovare sempre le parole giuste da dire, mandare sempre il
messaggio più corretto perché l’assassino cadesse nella trappola tesa da loro
esperti profiler. Era tutta una questione di retorica.
Quello che
doveva fare nella prossima conferenza era far credere alla stampa che il caso
era risolto. Per gli S.I. ogni assassinio era un’opera d’arte, e quasi mai
erano felici di vedere i loro lavori attribuiti alle persone sbagliate. A quel
punto scattava in loro il bisogno di rivendicare la propria azione, di far
capire che era stato commesso un grande errore. Dovevano rimediare. E loro li
avrebbero aspettati al varco.
“La
ringrazio.” Disse la donna rimettendo la cornetta al suo posto. E con quella
aveva concluso le telefonate. Si alzò dalla sedia del suo ufficio e si avviò
verso l’appendi abiti per indossare la giacca che era appesa lì. Sarebbe
passata dal bagno per rinfrescarsi prima di mettersi davanti alle telecamere ed
andare in onda.
Sapeva che
la maggior parte delle volte la rivendicazione che aspettavano arrivava con un
altro cadavere. Era una cosa orribile, ma molte volte necessaria. E aveva imparato
anche dopo anni di esperienza a non ritenersene colpevole. Lei faceva solo il
suo lavoro, l’omicidio nasceva solo dalla mente perversa del loro S.I. Inutile
dire che se riuscivano a prenderlo prima che uccidesse di nuovo, lei riteneva
la vittoria doppiamente fondamentale.
Prese fiato
per l’ultima volta e uscì dal suo ufficio per avviarsi verso il bagno quando
vide Rossi e Morgan uscire dall’open space. Li raggiunse per sapere gli ultimi
svolgimenti e li incontrò davanti agli ascensori.
“Qualche
novità?” chiese JJ.
“Stiamo
andando ad interrogare la famiglia di Nancy Sulligan, la prima vittima. Ci
servirebbe proprio il tuo aiuto.” Le rispose Dave con voce sconfitta per la
realtà che avrebbero dovuto affrontare in quella casa.
“Ho una
conferenza stampa da tenere fra meno di mezz’ora.” Si scusò la ragazza. “Gli
altri?” domandò.
“Hotch e
Prentiss resteranno qui in attesa di sottoporre Weems al test,” cominciò a
spiegare Derek, “nel caso di risultato positivo abbiamo già un profilo da
rilasciare alla polizia. Reid intanto è andato in carcere per informarsi sulle
visite ricevute dal nostro sospettato.”
“Solo?”
esclamò JJ interrompendolo.
“Si, ce la
farà. È forte.” La rassicurò Morgan mettendole una mano sulla spalla prima di
congedarsi ed entrare con David nell’ascensore.
L'agente Jareau vide le porte scorrevoli chiudersi tra se e i colleghi,
tirò un sospiro e si avviò verso il bagno. Si
bagnò il viso con l'acqua gelida, poi rimase qualche secondo a
guardarsi allo specchio. Quando sentì di essere pronta si
asciugò, richiuse il rubinetto e si avviò decisa verso la
stanza in cui si sarebbe data in pasto ai giornalisti.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Then you catch him CAP8
CAPITOLO 8
La presa sul
volante era salda, ma la mente di Spencer vagava senza sosta. Si soffermava
specialmente su quella notte di quattro anni prima. La paura e il dubbio erano
ancora vivi sulla sua pelle, ricordava ogni minimo dettaglio. E faceva male,
molto male.
Il carcere
in cui era stato detenuto Ronald Weems non era molto lontano da Quantico,
quindi il ragazzo lo raggiunse in fretta. Posteggiò il SUV accanto al
marciapiede e si prese qualche minuto per rilassarsi. Per quanto questo fosse
possibile.
Il tempo
passava ma l’ansia era sempre tanta. Aveva paura delle risposte che avrebbe
potuto ricevere dalle persone che avrebbe incontrato a breve. Ma quello era il
suo lavoro e non poteva tirarsi indietro.
Con un
ultimo profondo sospirò avvicinò le dita alla maniglia dello sportello e la
tirò verso di sé. I battiti del cuore erano accelerati e poteva sentirli fino
alle punte delle dita. Ogni emozione era amplificata al massimo. Mise un piede
sull’asfalto e poi l’altro, voltandosi per richiudere il veicolo prima di
lanciare un ultimo sguardo preoccupato all’edificio di fronte a sé. Poi si
lasciò inghiottire.
Percorreva
l’ingresso del carcere sfregando le mani l’una contro l’altra, diretto verso
una guardiola dove gli avrebbero indicato a chi rivolgersi.
“Agente
Speciale Spencer Reid.” Disse il ragazzo mostrando il distintivo all’uomo in
divisa al di là del vetro. “Desideravo...si insomma, volevo parlare con la
guardia che si è occupato di Ronald Weems. È stato mandato in prigione quattro
anni fa ed è stato rilasciato la settimana scorsa per buona condotta...” a
Spencer non sembrava quasi vero essere riuscito a dire tutte quelle parole senza
balbettare troppo. Ora in attesa di una risposta riprendeva fiato.
“Controllo
il registro.” Rispondeva l’uomo alzandosi dalla sua sedia e avviandosi sul
retro in una sorta di archivio. L’agente federale nel frattempo si guardava
intorno spaventato.
“Arthur
Cale.” Il grido dell’uomo dall’interno della stanza lo fece voltare nuovamente
dopo alcuni minuti. “Arthur Cale,” ripeté l’ufficiale avvicinandosi, “è nella
stanza dei colloqui al momento. Può andare e se non è impegnato può parlargli
anche subito.” Lo congedò l’uomo riprendendo posto sulla sedia a lui assegnata.
Reid alzò una mano in segno di saluto e si avviò seguendo le indicazioni che lo
avrebbero portato alla stanza indicatagli.
Morgan stava
bussando delicatamente alla porta dell’appartamento dove viveva Nancy Sulligan
prima che fosse brutalmente uccisa la notte precedente. Nel frattempo Dave
osservava il corridoio di quel palazzo. Le pareti erano distrutte, tutto era
particolarmente vecchio e malandato.
Nessuno era
venuto ad aprire, ma il portiere li aveva informati che il padre della ragazza
era in casa, quindi Derek bussò nuovamente. Dopo una lunga attesa un rumore di
chiavistello li avvertì che qualcuno stava finalmente aprendo la porta, che
videro allontanarsi dal muro lasciando intravedere un viso sconvolto.
“Agente
Morgan e Agente Rossi, FBI. Possiamo entrare?” disse Derek mentre David si
avvicinava a lui.
L’uomo
all’interno della casa chiuse il battente senza proferire parola e dopo aver
sganciato la catenella lo riaprì permettendo l’ingresso nell’appartamento ai
due federali.
Rossi lo
vide camminare sconfitto all’interno della casa, e non appena superata la
soglia e richiusa la porta, un forte odore di alcol lo investì. Si scambiò
un’occhiata con Derek e entrambi capirono che sarebbe stato più difficile di
quanto avevano immaginato.
“Signor
Sulligan, dovremmo farle qualche domanda...” intervenne David seguendo l’uomo
verso la cucina. Lo vide versarsi l’ennesimo bicchiere di alcolico. Ancora non
proferiva parola.
Nel
frattempo Morgan stava osservando le pareti spoglie della casa, bianche e
scrostate dal tempo. Nessuna fotografia, nessun quadro, niente che potesse far
intendere che quella casa era abitata. Era un piccolo monovano con cucina, ma
vi era un solo letto. E nessun altro mobile oltre ad un tavolo, due sedie e una
cassettiera consumata.
“Cosa
volete?” chiese infine l’uomo nel silenzio che si era creato. La sua voce era
particolarmente cantilenante.
“Vorremmo
farle qualche domanda su sua figlia Nancy.” Aggiunse David, mentre l’uomo
mandava giù l’ennesimo bicchierino.
“Non è
ancora tornata, ed è una cosa normale. Spero non sia andata a spendere i soldi
che guadagna, sa che servono a me.” si lasciò quindi andare ad una fragorosa
risata.
Dave sapeva
che in quel momento il signor Sulligan non era in grado di capire nemmeno la
frase più banale, ma doveva tentare. “Nancy, non credo che tornerà...è stata
uccisa ieri sera.”
Nessuna
reazione da parte dell’uomo. Continuava a giocherellare con la bottiglia che
teneva tra le mani senza nessuna espressione in viso.
“Rossi,
andiamo. Non riusciremo a sapere nulla da lui, saremo più utili in ufficio.” Lo
incitava Derek avvicinandosi ai due uomini che tentavano di intrattenere una
conversazione impossibile.
“Ve l’ho già
detto. Nancy lavora e torna quando le pare. Se aspettate magari la incontrate e
potete chiedere direttamente a lei tutto quello che volete...” si intromise
l’uomo prima di vuotare nella sua bocca la bottiglia di liquore.
I due agenti
decisero di abbandonare ogni speranza di ricavare qualche informazione da
quell’uomo. Si congedarono e si diressero verso l’ingresso senza che nemmeno il
signor Sulligan li accompagnasse. Si richiusero la porta alle spalle e decisero
di tornare in ufficio.
Spencer
aveva depositato l’arma nella cassetta di sicurezza, procedura non certo nuova
per lui, prima di entrare nella sala dei colloqui. Si era avvicinato ad una
guardia mostrando il distintivo. “Agente Speciale Spencer Reid, desideravo
parlare con Arthur Cale.”
L’uomo fine
ed elegante sorrise a Spencer rispondendogli, “Sono io, mi segua.” Lo accompagnò
così a sedersi in un angolo tranquillo. “Al momento non sono impegnato, quindi
mi dica, cosa desidera?”
“Ehm...io
volevo delle informazioni riguardo a Ronald Weems, era sotto la sua custodia
fino alla sua scarcerazione qualche giorno fa.” chiese timidamente Reid che
aveva gentilmente rifiutato di sedersi. I due uomini erano quindi rimasti in
piedi per parlare.
“Si, mi
ricordo benissimo di lui. I primi tempi era irrequieto, non lo si poteva lasciare
solo un momento. Il tentativo di suicidio, oh Dio, è successo tutto in un
secondo. Mi sono voltato ed era appeso alle sbarre. Per fortuna l’abbiamo
salvato in tempo. Poi dopo la visita e la cura è diventato un’altra persona.”
Spiegò brevemente la guardia.
“Ha ricevuto
visite durante la detenzione?” la voce del giovane era sempre più insicura ora
che era arrivato alla domanda che gli interessava maggiormente.
“Mai
nessuno...anzi ora che ci penso, poco prima di cercare di togliersi la vita ha
ricevuto la visita della moglie. È stata l’unica persona con cui lo abbia mai
visto parlare. Una donna timida e riservata, quasi si spaventava ad aggirarsi
in un luogo del genere. Peccato che fosse venuta ad avvisarlo che avrebbe al
più presto richiesto il divorzio.”
“Nessuno lo
ha mai avvicinato in nessuna situazione?” Spencer voleva un’ulteriore conferma,
più per dubbi personali che per questioni di procedura.
“No, o
almeno, non in mia presenza. Ma cosa gli è successo?” i suoi occhi erano
seriamente preoccupati.
Il dottor
Reid rifletté qualche secondo sulla possibilità di informare l’uomo. Infine
rispose, “Ieri sera è stata uccisa una prostituta, e gli indizi indicano che
possa essere opera di Weems.”
“La stessa
ragione per cui è stato portato dentro. Mi dispiace non potervi aiutare, ma se
mi verrà in mente qualcosa vi informerò subito.” Con queste parole Cale afferrò
il biglietto da visita portogli da Spencer, che prontamente accompagnò verso
l’uscita. Dopo una stretta di mano, lasciò che il giovane uscisse e richiuse la
porta della sala colloqui.
Reid
recuperò la pistola dalla cassetta e se la rimise alla vita. Poi si avviò lungo
il corridoio del carcere in direzione della strada.
Varcato il
portone ricominciò a respirare a pieni polmoni. Quello che temeva non si era
avverato, non ancora. Estrasse il cellulare dalla tasca e compose il numero
dell’agente Hotchner.
“Hotch,
Weems non ha ricevuto nessuna visita in carcere. Dobbiamo escludere la
possibilità di un imitatore?” chiese al capo che lo ascoltava dall’altra parte
dell’apparecchio.
“Non è
ancora detta l’ultima parola, magari ha avuto notizie del delitto senza
mettersi in contatto direttamente con lui.” Replicò Aaron. “Ora ti devo
lasciare, stiamo per iniziare l’esame sul sospettato.”
“Un’ultima
cosa. Verrà eseguito a Quantico?” continuò il giovane mentre raggiungeva la
macchina e toglieva l’antifurto.
“Si, Reid.
Torna in ufficio e aspetta gli altri.” Concluse il supervisore capo prima di
riagganciare.
Spencer si
sedette al volante e mise subito in moto. Aveva bisogno di incontrare Ronald
Weems e questa volta da solo. Doveva fargli delle importanti domande.
Emily
Prentiss stava attendendo dentro la sala che era stata allestita per effettuare
le analisi al loro sospettato. Weems era già sistemato, ma aveva ordinato di
non procedere quando il suo collega aveva lasciato la sala per rispondere al
cellulare.
La donna non
smetteva di osservare quell’uomo che si lasciava spostare, legare e fare
qualsiasi cosa senza nessuna obiezione. Sorrideva, ma nello stesso tempo l’agente
Prentiss poteva notare una leggera paura nei suoi occhi.
“Scusatemi,
possiamo procedere.” La voce di Aaron arrivò dalla porta mentre rientrava e si
posizionava accanto alla collega.
“Novità?”
chiese Emily, mentre i medici si avviavano ad effettuare l’analisi.
“Era Reid,
nessuna visita al carcere.” La informò Hotch, non distogliendo lo sguardo dalla
scena che si svolgeva davanti a loro.
“Dobbiamo
supporre che il probabile imitatore sia venuto a conoscenza dei dettagli degli
omicidi in altro modo?”
“Probabile...speriamo
che la conferenza stampa di JJ smuova le acque abbastanza da farci avere
qualche risposta positiva da parte del nostro S.I. Sempre che non lo abbiamo
già sotto gli occhi.” Hotchner indicò con il mento l’uomo che aveva di fronte e
che stava seguendo con attenzione ogni movimento dei medici che gli stavano
intorno.
"Non lo so. Non credo c'entri qualcosa." Sospirò la donna,
tornando anche lei a concentrarsi sull'esame che si stava svolgendo in
quella sala.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Then you catch him CAP9
CAPITOLO 9
Non appena Jennifer
si era avvicinata alla sala dove avrebbe tenuto la conferenza stampa era stata
assalita da luci, telecamere, microfoni. Tutti erano in ansia per avere le
ultimissime notizie su quello che stava accadendo alle prostitute di
Washington.
“Agente Jereau,
l’avete preso?”
“La prego,
ci dica se dobbiamo preoccuparci a girare per le strade.”
“Può
mostrarci le foto dell’omicidio?”
“Abbiamo un
nuovo seriale sulle strade di Washington?”
JJ si faceva
largo tra quella gente invadente. “Vi prego, saprete tutto durante la
conferenza. Non posso rilasciare ulteriori dichiarazioni.”
Con qualche
difficoltà l’agente Jareau aveva raggiunto il leggio con il simbolo dell’FBI
posto di fronte ad una serie di file di sedie stracolme di gente che attendeva
che lei iniziasse a parlare.
I flash e le
luci continuavano a darle fastidio agli occhi mentre sistemava i tre microfoni
che campeggiavano su quella struttura di legno. Piano piano il ronzio causato
da tutte quelle persone stipate in una sola stanza si stava affievolendo.
Quando
finalmente ci fu silenzio, JJ si schiarì la voce prima di cominciare a parlare.
“Devo riferire un comunicato dell’FBI.” Prese un leggero respiro profondo e poi
continuò con voce ferma, “Ieri sera in città c’è stato un omicidio. Una
prostituta ha perso la vita in circostanze che fanno pensare all’opera di un
uomo che è già sotto la custodia della nostra squadra.”
“Si tratta
di un seriale?” chiese interrompendola un giornalista del pubblico.
“Al momento
non abbiamo avuto segnalazioni di altri omicidi riconducibili a quello di ieri
sera.” Rispose professionalmente JJ.
“E allora
perché è stato richiesto l’intervento dell’Unità Analisi Comportamentale?”
intervenne quindi un’altra giornalista.
“L’uccisione
sembra collegata ad un caso che è stato seguito da questa squadra quattro anni
fa.” Non era facile per Jennifer far sembrare l’arresto definitivo, ma nello
stesso tempo non dare nessuna certezza. Sapeva che se avesse esagerato nel
sottolineare la sicurezza che Weems fosse colpevole e si fosse rivelato innocente,
la squadra, la BAU, avrebbe perso di credibilità. Ma nello stesso tempo il
reale S.I., qualora fosse stato ancora a piede libero e stesse ascoltando le
sue parole, doveva convincersi che qualcun altro si stava prendendo il ‘merito’
delle sue azioni.
“Le
prostitute di Washington potranno quindi stare tranquille stanotte?” aveva
chiesto a bruciapelo un autorevole signore che lavorava per qualche grossa
testata del luogo. La domanda aveva mandato in confusione JJ per qualche
secondo. Ma si era prontamente ripresa.
“Vorrei
poterle dire che preso un assassino, non ce ne saranno altri in giro. Ma
purtroppo non è così...lavoriamo per cercare di consegnare alla giustizia la
maggior parte di questi psicopatici. Ma qualcuno è sempre pronto ad uccidere
non appena voltiamo le spalle.” La diplomazia era sempre stata il suo forte,
non a caso era la coordinatrice del rapporto con i media dell’FBI. Non avrebbe
mai cambiato ruolo in quella squadra. La vicinanza con i suoi colleghi le stava
facendo acquisire qualche nozione di profiling. Ma d’altronde anche nella
scelta dei casi doveva cercare di fare una sorta di profilo preliminare per
decidere la migliore destinazione per la squadra. Ma lei non era una profiler.
“Se ci saranno ulteriori sviluppi, vi saranno comunicati al più presto.”
Affermò infine scendendo dal leggio e avviandosi fuori dalla sala prima di
poter essere raggiunta dai giornalisti, desiderosi di qualche altra
informazione che lei non poteva rilasciare.
Non restava
altro da fare che aspettare.
“I risultati
saranno pronti al più presto, abbiamo dato loro la massima priorità su tutto il
resto.” Affermò il coordinatore delle analisi appena eseguite su Ronald Weems
stringendo vigorosamente la mano dell’agente Hotchner.
Aaron
restituiva la stretta, prima di incamminarsi dietro a Prentiss verso l’uscita
della sala. Le guardie stavano ammanettando nuovamente il sospettato per
riaccompagnarlo nella cella.
Non appena
Hotch ed Emily rimasero soli, lui prese la parola. “Non sappiamo cosa diranno
questi risultati. Non possiamo restare con le mani in mano mentre attendiamo i
risultati. Appena arrivano tutti consegneremo il profilo preliminare che
abbiamo steso alla polizia. Dobbiamo essere un passo davanti a lui, se
realmente Weems è innocente.”
L’agente
Prentiss rispose scuotendo il capo e avviandosi verso l’open space. Aveva
bisogno di un caffè.
Spencer si
era precipitato a Quantico con la speranza di poter vedere il loro sospettato e
poter scambiare qualche parola con lui. L’attesa per l’ascensore gli era sembrata
infinita. Aveva varcato in fretta le porte della sala comune per trovarsi di
fronte Emily che si avviava a prendere un caffè nell’area relax.
“Reid,
perché tutta questa premura?” lo fermò lei guardandolo dubbiosa.
“Io...beh,
si insomma...Weems dov’è?” chiese invece lui a bruciapelo dopo una prima
esitazione.
“L’hanno
riportato in cella, perché hanno finito le analisi. Perché?” si informò lei.
Tutta quella situazione si faceva sempre più strana.
“No, niente.
Curiosità!” concluse lui con un tono poco convincente prima di avviarsi alla
sua scrivania.
Prentiss
l’aveva seguito con lo sguardo, poi si era ricordata. “Reid, Hotch ci vuole
tutti per presentare il profilo preliminare alle forze dell’ordine.” richiamò
la sua attenzione per quella comunicazione.
Lui aveva
risposto scuotendo semplicemente il capo prima che lei continuasse il suo
cammino fino all’agognato caffè. Aveva raggiunto la sua scrivania e aveva
abbandonato su questa la sua tracolla. Poi si era lasciato andare sulla sedia
stropicciandosi con forza il viso e gli occhi. Sperava di svegliarsi da un
momento all’altro dall’atroce incubo in cui era rimasto intrappolato. Ma questo
non sarebbe successo.
Un lieve
bussare alla porta aveva riscosso JJ dal rilassamento a cui si era abbandonata
sulla poltrona del suo ufficio. “Avanti!” disse rivolta alla porta,
rimettendosi composta. La porta si aprì lentamente e vide affacciarsi il viso
di Hotch.
“Come è
andata la conferenza?” le chiese entrando e richiudendosi la porta alle spalle.
“Al solito.
Sono ancora brava a combattere contro i giornalisti!” rispose lei abbozzando un
sorriso e facendo cenno al suo capo di accomodarsi nella sedia di fronte a lei.
“No grazie,
sono solo passato per dirti di chiamare Derek e David e vedere fra quanto
arrivano. Dobbiamo consegnare il profilo alla polizia.” Ribatté cordialmente
Aaron, mentre Jennifer prendeva già tra le mani il telefono.
“Rossi!”
Dave rispose prontamente al cellulare scambiandosi poi uno sguardo con Derek
che era al volante del SUV.
“Hotch vuole
consegnare il profilo preliminare alla polizia. Vi aspettiamo?” chiese JJ al
suo interlocutore sotto lo sguardo vigile di Aaron.
“Non penso
che riusciremo ad essere lì a breve e soprattutto non portiamo nessuna nuova
notizia. Vi spiegheremo poi con calma, ma intanto procedete pure senza di noi.”
Ribattè deciso David, prima di congedarsi e chiudere il telefono.
“Cosa
volevano?” chiese Morgan non distogliendo l’attenzione dalla strada.
“Hotch vuole
dare il profilo alle forze dell’ordine, volevano sapere se dovevano aspettarci.”
Rispose Rossi rimanendo poi a fissare il collega pensieroso. “Ho come
l’impressione che ci sia qualcosa di veramente grosso e importante dietro a
questo caso,” continuò poi, “ma che nessuno di voi vuole dire ad alta voce,
come per paura che diventi reale.”
“Credimi. È
meglio così...” lo interruppe lapidario Derek prima di schiacciare a fondo
l’acceleratore con la voglia di arrivare a Quantico il prima possibile e
tenersi impegnato in qualcosa che non gli facesse pensare a quella notte di
quattro anni prima.
“Possiamo
procedere senza di loro.” Comunicava JJ al suo capo mentre riponeva il
telefono.
Un cenno del
capo di Aaron e si era già avviato fuori dalla porta, lasciando Jennifer di
nuovo sola nel suo ufficio deserto.
Fece le
dovute telefonate per radunare le forze dell’ordine per ascoltare il profilo.
Poi si prese qualche minuto per rilassarsi, e quando si sentì pronta si avviò
verso l’open space per un caffè.
Varcando la
porta a vetri vide Spencer alla sua scrivania, si stropicciava il viso con le
mani ed era immerso nei suoi pensieri, che JJ poteva solo lontanamente
immaginare. Non riusciva a smettere di fissarlo, ma poi si decise a dirigersi
verso la macchina del caffè, dove incontrò Emily che sorseggiava dalla sua
tazza.
Sorrise alla
collega e si mise ad armeggiare con la moka per prepararsi la sua razione
necessaria di liquido bollente.
“Sosterrà
tutta questa pressione?” esordì Prentiss catturando l’attenzione di Jennifer
che si voltò verso di lei interrogativa. Un cenno del capo verso il genietto
fece capire a JJ a cosa esattamente si riferisse la collega.
“Me lo
auguro per lui.” Rispose lei cominciando a soffiare per cacciar via il fumo che
saliva dalla tazza che stringeva tra le mani. “Dobbiamo consegnare il profilo
alla polizia.” Disse poi decisa a cambiare discorso.
“Lo so. Sarà
una notte lunga.” Riprese Emily voltandosi verso la collega. “I risultati
dell’esame arriveranno fra qualche ora, e penso che saranno la risposta
definitiva per decidere la direzione di questa storia.” Concluse.
Le due donne
sospirarono in silenzio prima che Hotch si affacciasse dal suo ufficio facendo
loro cenno che erano pronti a cominciare.
“Penelope
Garcia, cerca di trovare qualcosa. Hai già sorvolato su un dettaglio della vita
di quel lurido verme, cosa ti sta sfuggendo ora sulla piccola Nancy?”
Il tecnico
informatico continuava a parlare da sola davanti alla sua multi task risoluta a
trovare il dettaglio da fornire come appiglio alla sua squadra. Ma la vita di
una prostituta era la vita di un fantasma. Non lasciavano nessuna traccia da
poter percorrere passo dopo passo. Niente di niente.
Della
vittima era riuscita a trovare solo un certificato di nascita, da cui era
risalita al nome del padre, e solo tramite quello aveva reperito l’indirizzo.
Il padre, un altro personaggio della feccia umana, alcolizzato, senza un
impiego.
Ma aveva
bisogno di altro Penelope, un piccolo magari all’apparenza insignificante
particolare.
“Pensa come
una donna indifesa...tuo padre non ti aiuta, anzi...” continuava con le sue
teorie ad alta voce, quando iniziò a digitare freneticamente sulla sua tastiera
tecnologica. Improvvisamente davanti ai suoi occhi un file lampeggiava con un
avviso.
"Aprire?" ripetè a se stessa Garcia. "Mostrami le tue meraviglie
bellezza!" si rispose da sola prima di inviare il comando al suo
sistema.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Then you catch him CAP10
CAPITOLO 10
La folla di
poliziotti era in attesa delle delucidazioni in merito al profilo che avrebbe
dato loro la squadra dell’agente Hotchner. I tre profilers erano pronti per
cominciare. Il primo a prendere la parola fu proprio l’agente supervisore.
“Come sapete, abbiamo già un sospettato sotto custodia, ma nel caso in cui non
sia opera sua vi consegneremo un profilo dell’S.I. che cerchiamo.” cominciò
Aaron.
“Vi
preghiamo di non diffondere il profilo e la notizia che ci sono dei dubbi
sull’uomo arrestato.” Intervenne JJ, prima di mettersi di lato e lasciare la
parola ai profilers.
“Crediamo si
tratti di un imitatore di Ronald Weems, l’uomo che abbiamo fermato. Costui
uccideva le prostitute perché sentiva messa in minoranza la sua voce a sostegno
dell’approvazione di un progetto di legge che prevedeva la diminuzione del
crimine a Washington.” Riprese il capo.
“Il nostro
S.I. potrebbe invece essere mosso da sadismo sessuale. Non ha altri motivi per
uccidere e ferire le vittime se non quella di provocarsi un piacere fisico, non
altrimenti raggiungibile.” Spiegò Emily.
“Crediamo
che possa essere alle prime armi perché il tasso di disorganizzazione è evidente,
anche se manifesta un’organizzazione che gli permette di non lasciare tracce.
Sta migliorando e si sta evolvendo. Motivo per cui crediamo che attaccherà di
nuovo. Data questa possibilità potrebbe essere molto giovane. È un elemento
disturbato, vive con disagio la sua sessualità, non lega facilmente con gli
altri.” Fu la volta del dottor Reid. La voce gli tremava particolarmente.
“È il caso
di pattugliare le strade?” chiese un agente.
“Sicuramente
si, alcuni dei miei uomini saranno in strada, potranno affiancarvi.” Informò
Hotch.
“Se non ci
sono altre domande...” scherzò l’agente Rossi entrando con Morgan dalla porta.
Un raro sorriso dell’agente supervisore congedò poi tutti gli uomini in divisa.
Non appena
la sala fu deserta, David si lasciò andare su una sedia grattandosi il mento.
Alle sue spalle Derek prendeva posto attorno al tavolo e si stropicciava
visibilmente la testa. “È stato devastante interrogare la famiglia di Nancy. In
casa c’era solo il padre, ubriaco.”
“Non ha
nemmeno capito cosa è successo a sua figlia. Diceva che era una cosa
perfettamente normale che non si fosse ritirata a casa. Capitava spesso. Non
gli abbiamo nemmeno mostrato le foto, sarebbe stato inutile.” Intervenne Rossi
decisamente spiazzato da quello che avevano appena vissuto.
“Immagino
che non avete scoperto molto quindi.” Chiese timidamente Jennifer.
“Un profilo
della casa è il massimo che potevamo fare. Di certo a lavoro non guadagnava
troppo, o meglio, quello che guadagnava lo spendeva il padre per bere. Pareti
spoglie. Una casa che per quanto riguarda lei era solo un appoggio per i momenti
in cui non lavorava. Un solo letto, pochi mobili...” Espose Morgan.
“Ma
d’altronde le prostitute vengono scelte il massimo delle volte perché sono
facili da trovare, giusto?”
Hotch scosse
il capo in direzione di Emily che aveva appena ricordato quel dettaglio, poi
passò ad assegnare gli incarichi. “Derek te la senti di uscire di nuovo?”
“Certo,
Hotch.”
“E allora
vai con Prentiss a pattugliare le strade. Io resto qui in attesa dei risultati
dell’esame.” Gli ordinò mentre già l’agente si alzava per andare fuori con
Emily.
“Resto anche
io, la notte sarà più breve se siamo in due.” Aggiunse David poggiando
amichevolmente una mano sul braccio del collega.
“Io...avrei...del
lavoro da fare, quindi resto qui.” Balbettò Spencer, rimasto in silenzio fino a
quel momento.
Anche JJ diede
la sua disponibilità a rimanere in ufficio con gli altri, non senza aver prima
fatto una telefonata al suo bambino.
Le ore
passavano in quella notte trascorsa alla BAU in attesa ancora nemmeno loro
sapevano bene di cosa. I semplici risultati di Ronald Weems se negativi
potevano chiudere il caso in pochissime battute.
La
telefonata per un nuovo cadavere avrebbe invece aperto fin troppe nuove porte,
e avrebbe impegnato fisicamente e soprattutto psicologicamente tutti loro.
Qualcuno più degli altri.
JJ aveva
telefonato a casa, aveva parlato con Henry, che le aveva chiesto quando sarebbe
tornata a casa. Lei aveva dovuto mentire, “Presto...”, conscia del fatto che a
breve il piccolo si sarebbe addormentato e non si sarebbe nemmeno accorto che
lei non c’era.
Ora la donna
stava bevendo l’ennesimo caffè, mentre osservava Spencer alla sua scrivania.
Era seduto, o per meglio dire, sdraiato sulla sedia, con i piedi incrociati
adagiati alla scrivania. Era stanchissimo e fissava il tetto pensieroso, mentre
giocherellava con le sue stesse dita.
“Sei
preoccupata per lui?” le chiese una voce, facendola voltare verso il sorriso di
Dave. Lei scosse il capo impercettibilmente, tornando poi ad osservare il fondo
della tazza.
“Penso che
lo siamo tutti...” sussurrò.
“Secondo me
devi solo dargli tempo di capire che ha bisogno di qualcuno. Prima o poi dovrà
confidarsi, e sa che noi siamo qui...” Rossi stava cercando di rassicurarla, ma
Jennifer non sembrava sentirsi meglio. Aveva visto troppe volte il ragazzino
distruggersi interiormente in silenzio. “Io non c’ero quattro anni fa.” Continuò
David, “Non so cosa è accaduto, non so nemmeno se c’entra con questo caso...”
“David!”
gridò Hotch interrompendo il dialogo dei due agenti. Entrambi alzarono lo
sguardo, mentre Spencer si rimise dritto e sollevò gli occhi verso la balconata
su cui si trovava il loro collega dopo essere uscito dal suo ufficio. “I
risultati.”
Tutti
avevano interrotto le loro attività e si erano affrettati all’interno
dell’ufficio dell’agente Hotchner in attesa di una risposta. L’atmosfera era
carica di attese mentre il capo scorreva con gli occhi il foglio che era appena
venuto fuori dal suo fax.
Aveva alzato
gli occhi verso il suo uditorio e aveva scosso il capo, “I farmaci sono in
circolo allo stato attuale. Tecnicamente non può essere stato lui...”
“...ma fin
quando non abbiamo una prova inconfutabile non possiamo rilasciarlo.” Aveva
completato Rossi.
Tutti
sospirarono nel silenzio prima di essere interrotti da una voce che proveniva
dall’ingresso.
“Scusatemi,
posso?” la donna era rimasta in attesa di una risposta.
“Che c’è
Penelope?” le chiese JJ mentre Hotch fece cenno al tecnico informatico di
entrare.
“Ho
continuato a cercare notizie su Nancy Sulligan. Ha sporto denuncia perché
qualcuno la importunava qualche mese fa. Il rapporto dice che si trattava di un
ragazzino...” l’informatica non riuscì a dire altro. Dopo aver incrociato lo
sguardo con Spencer, quest’ultimo aveva colpito una sedia che aveva vicino ed
era uscito di corsa dalla stanza.
Aveva
bisogno di prendere aria il dottor Reid. Ogni possibilità di avere sollievo
veniva presto soffocato da un nuovo dettaglio che riportava l’indagine proprio
nella direzione che voleva evitare.
Era solo
colpa sua quello che stava accadendo, la voce dentro di lui non smetteva di
ripeterglielo. Si era trovato ad un bivio anni prima e la scelta che aveva
fatto, secondo lui al momento quella più corretta, si stava rivelando invece
quella errata.
Senza
smettere di pensare aveva raggiunto la sua scrivania, si era appoggiato in
avanti con la necessità di dare ossigeno ai suoi polmoni che non erano in grado
di svolgere le loro funzioni in tranquillità.
Poi il suo
cellulare aveva iniziato a suonare svegliandolo da quell’intorpidimento.
L’aveva prontamente estratto dalla tasca e dopo aver letto l’identificativo del
chiamante aveva risposto.
“Spencer
Reid!”
Hotch aveva
seguito con gli occhi Reid uscire dalla stanza, silenziosamente. Poi aveva
invitato Garcia a continuare. “Dicevo che si trattava di un ragazzino che le si
avvicinava di sera. Non voleva pagarla per avere i suoi favori e la sua
presenza allontanava altri clienti. Non parlava, non faceva nulla, ma poteva
affermare con certezza che aveva un comportamento strano.”
“Nessun
riscontro con qualche altra denuncia o qualche sospetto?” chiese Rossi.
“No signore,
la cosa strana è che qualche giorno dopo la vittima ha ritirato la denuncia
dicendo che aveva inventato tutto per giustificare gli scarsi guadagni.”
“Prentiss mi
ha detto una cosa,” riprese David, “quando lei e Morgan hanno interrogato le
prostitute, hanno notato che in molte non volevano nemmeno rispondere alle loro
domande. Ma soprattutto non riusciva a capire perché l’unica che ha dato loro
le informazioni non ha battuto ciglio nel vedere la foto della vittima...”
“Sembra che
nascondano qualcosa.” Concluse il capo.
“Se si
convincessero a parlare, forse potremmo scagionare Ronald Weems.” Intervenne
l’agente Jareau prima che uno Spencer trafelato entrasse improvvisamente dalla
porta.
Tutti si
voltarono a guardarlo preoccupati.
“Morgan...ha
chiamato...” disse nell’affanno, “...è scomparsa una prostituta, ma nessuno sa
chi era il cliente che è andato con lei...”
“David,
raggiungiamoli.” Hotch invitò il collega a seguirlo afferrando il cappotto.
Prima di
uscire dalla porta si voltò verso JJ e il dottor Reid. “Potrebbe essere quello
che ci serve per scarcerare Weems, vi faccio sapere e in caso ve ne occuperete
voi.” Un cenno affermativo del loro capo e poi videro i colleghi attraversare
l’open space e sparire oltre la porta a vetri.
Penelope si
voltò per tornare nel suo studio dopo aver guardato intensamente ancora una
volta Spencer, che ora era rimasto solo con Jennifer. “Vado nel mio ufficio,
fra poco cominceranno le telefonate dei giornalisti.” Disse la donna al ragazzo
lasciandolo così solo.
Ma Reid
sapeva già quale era la prossima mossa per lui. Se veramente Weems era
innocente sarebbe toccato a lui occuparsi della scarcerazione, e quindi gli
avrebbe finalmente potuto parlare. Ma per farlo, prima aveva bisogno di
qualcosa.
Uscì
dall’open space e raggiunse la porta dell’ufficio di Garcia. Bussò timidamente
e poi aprì la porta. Penelope si voltò verso di lui, “Cucciolo, mi dispiace...”
cominciò a dire ma fu interrotta dal ragazzo che si era richiuso la porta alle
spalle.
"Ho bisogno che tu mi faccia un favore." Le disse prima di metterla al corrente di quello che aveva intenzione di fare.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Then you catch him CAP11
CAPITOLO 11
Le sue dita
si intrecciavano nella chioma bionda della ragazza che stava baciando. Nelle sue
orecchie risuonavano le sue stesse parole pronunciate poco prima. “Io cerco
compagnia...”
Guardava la
donna sfilarsi via la maglietta e continuava a chiedersi perché questo non gli
provocasse alcuna reazione. Poi portava una mano in tasca e il semplice
contatto con il metallo freddo lo eccitava.
Si adagiava
sul letto, la prostituta cavalcioni su di lui. Iniziò a sorridere mentre lei
cercava di piegarsi su di lui. Ma era stato più veloce.
Gli occhi
sbarrati di lei lo fissavano e lui sentiva già il calore del suo sangue
scivolare dalla lama ancora conficcata nel suo petto fino alle sue dita.
Proprio come
aveva sempre immaginato. Forse anche meglio...e l’orgasmo iniziava a imporsi
prepotente in lui.
“Non
possiamo rilasciare dichiarazioni al momento.” Continuava a ripetere JJ al
telefono che non smetteva di suonare. Passavano pochi secondi da quando aveva
poggiato la cornetta per l’arrivo di una nuova chiamata. Tutti sapevano già che
era scomparsa una prostituta. Le notizie correvano veloci di bocca in bocca.
L’ennesimo
squillo. Ma questa volta era il suo cellulare. “Jareau...” rispose.
“JJ, abbiamo
una segnalazione per una scena del crimine. Ancora una volta un motel. Hotch è
già lì con David e sta organizzando il trasferimento di Ronald Weems lì da voi.
Tenetelo nella stanza degli interrogatori fino alla conferma che può essere
scarcerato.” La aveva rapidamente informata Prentiss che stava raggiungendo con
Morgan gli altri due agenti sul luogo segnalato.
“Avete
bisogno di essere raggiunti?” chiese Jennifer.
“Per il
momento no. Pensate al sospettato, in caso vi richiamiamo.” Affermò
interrompendo poi la comunicazione.
La giovane
agente ripose il cellulare e dopo pochi secondi fu il telefono a squillare per
informarla che Weems era già in arrivo. Erano veramente tutti molto efficienti.
Riposta la
cornetta, l’agente si avviò fuori per raggiungere il collega nell’open space.
Lo trovò seduto alla scrivania, intento ad osservare qualcosa sul ripiano.
“Spence...”
lo chiamò avvicinandosi, ma prima che potesse vedere su cosa fosse così
concentrato Reid raccolse qualsiasi cosa fosse tra le mani e lo nascose nella
tasca interna della giacca. Rimase poi in attesa di sentire cosa dovesse dirgli
JJ.
La ragazza
si riscosse e ricominciò a parlare. “Ha chiamato Emily. Hanno una nuova scena
del crimine e stanno trasferendo qui Ronald Weems in attesa di una conferma di
scarcerazione. Direi di tenerlo in sala interrogatori...” il ragazzo non le
permise di terminare la frase.
“Ottimo...vado
dentro io con lui se non ti dispiace.” I suoi occhi si erano accesi come non
accadeva da tempo mentre si alzava in piedi.
“Fai pure,
se questo può farti stare meglio...” gli sorrise JJ amorevolmente.
Lui allungò
timidamente un braccio verso la spalla di Jennifer. “Caffè?” chiese poi
ritraendo la mano di scatto dopo qualche minuto di silenzio.
“Ottima
idea!” rispose la ragazza seguendolo verso l’area relax. Lo guardò preparare la
moka e quando si voltò per porgerle la tazza lei non poté trattenere una domanda.
“C’è qualcosa in questo caso che ti preoccupa, ho ragione?”
“Si è
vero...” Non riuscì a mantenere un contatto visivo. Si lasciarono quindi andare
ad una silenziosa bevuta, senza approfondire l’argomento.
La
scientifica stava già analizzando le tracce organiche di quella stanza. David
li osservava al lavoro, spostando poi gli occhi sul corpo senza vita di quella
ragazza a terra. Stavolta erano arrivati prima che lo portassero via. La
vittimologia corrispondeva. Ancora una volta la prostituta scelta aveva occhi
azzurri e capelli biondi.
“Stanno
trasferendo Weems a Quantico. Cosa abbiamo qui?” chiese Hotch avvicinandosi a
lui dopo aver parlato con il detective Carlson che si sentiva particolarmente
scoraggiato dal dover ricominciare da capo con un caso che riteneva chiuso.
“La
vittimologia corrisponde.” Espose Rossi, attendendo poi notizie dal medico
legale che stava facendo un esame preliminare.
L’uomo si
voltò verso i due agenti quando fu pronto a dare la sua diagnosi, “A prima
vista sembra abbastanza chiaro che il motivo della morte è la pugnalata al
petto. Ci sono diversi tagli sul resto del corpo...”
“Come la
precedente vittima.” Intervenne Dave, ma il dottore non aveva completato.
“Quello che
è diverso questa volta è che la vittima presenta una ferita lungo tutto il
petto...potrò essere più preciso solo dopo averla portata all’obitorio. Per ora
è tutto.” Concluse l’uomo sollevandosi da terra e riponendo la sua
attrezzatura.
“La scena è
più pulita della precedente volta.” Sussurrò Hotch quando rimase solo con
Rossi. “È evidente che c’è uno sviluppo nel modus operandi, si sta
perfezionando.”
“Te la senti
di affermare che si tratta dello stesso uomo?” chiese David grattandosi il
mento e continuando a rivolgere lo sguardo verso la donna a terra.
“I capelli
Dave...” accennò Aaron abbassandosi sulla vittima. “…tagliati e non sono
qui...” ad un cenno affermativo del collega, l’agente Hotchner si rialzò e si
avviò verso l’uscita per fare delle telefonate.
In poco
tempo le forze dell’ordine varcavano la soglia dell’open space della BAU,
accompagnando il sospettato in manette. JJ posò la tazza ormai vuota sul piano
e si diresse spedita verso di loro.
“Agente
Jareau. Dobbiamo prendere in custodia il sospettato. Vi prego di seguirmi da
questa parte.” Li guidò verso la stanza degli interrogatori e in fretta anche
il dottor Reid la raggiunse.
Mentre le
guardie sistemavano l’uomo dentro la sala, il piccolo genio le si avvicinò
furtivamente.
“Io...cioè...vorre..vorrei
parlargli. Da solo. Ti dispiacerebbe?”
“Non c’è
problema, resto qua dietro.” Jennifer indicò il vetro che le avrebbe permesso
di vedere dentro la stanza, ma si sarebbe rivelato un semplice specchio per chi
era dall’altra parte.
“No,
intendevo...completamente solo.” La richiesta la lasciò senza parole per
qualche secondo ma decise poi di accontentarlo.
“Va bene, ma
ascoltami bene.” Gli afferrò con forza un braccio. “Se succede qualcosa, non
fare l’eroe e chiamami. Intesi?” un cenno con la sua testa accompagnato da un
triste sorriso l’avevano convinta che avesse recepito il messaggio.
L’agente
Jareau ritornò nel suo ufficio, in attesa di un segnale da parte dei colleghi,
e pregando che Spencer non si mettesse in qualche guaio solo dentro quella
stanza.
Dopo
svariati minuti il cellulare suonò nuovamente.
“Jareau.”
“JJ, siamo
certi che l’S.I. di questa scena del crimine sia lo stesso della precedente. A
breve arriverà un fax che ti permetterà di avviare il procedimento di
scarcerazione per Weems. Fatto questo, tu e Reid raggiungeteci subito.”
“Ricevuto,
Hotch.” Interruppe la conversazione riponendo il telefono sul tavolo e
avviandosi poi alla stanza in cui il fax avrebbe recapitato il documento. Era
una stanza spoglia, serviva solo come postazione per usare quell’apparecchio.
La ragazza si guardava intorno camminando in cerchio, in attesa che emettesse
qualche suono.
Spencer era
entrato nella sala interrogatori e si era richiuso la porta alle spalle. Aveva
aspettato qualche secondo per essere certo che la sua collega fosse andata via
e poi si era portato istintivamente una mano alla tasca della giacca
accarezzandola.
Aveva preso
posto di fronte a Ronald e lo guardava. “Cosa sta succedendo?” chiese ad un
certo punto l’uomo.
“Presto
potrebbe essere fuori di qui.” Rispose Reid non smettendo di guardarlo. Era
diventata la sua unica ancora di salvezza. E invece a breve lo avrebbe
rigettato nel caos più totale.
“Un nuovo
omicidio?” chiese spaventato.
“I miei
colleghi stanno indagando...” controbattè Spencer prendendo poi un respiro
profondo. “Io volevo sapere se lei ha ricevuto delle visite. La sua guardia mi
ha detto che non è venuto nessuno a trovarla, ma preferisco chiedere a lei.”
L’uomo non
capiva bene a cosa potesse servire tutto quello, ma si decise a rispondere
comunque. Non aveva nulla da perdere. “In carcere nessuno. Ma appena sono
uscito mi ha avvicinato qualcuno...”
Spencer
portò nuovamente la mano alla tasca e tirò fuori quello che custodiva
gelosamente.
Arrivato il
documento, Jennifer si avviò rapida verso la sala interrogatori. Aprì
lentamente la porta dell’anticamera e guardò attraverso il vetro quello che
accadeva. Il collega era ancora dentro, le dava le spalle ma stava mostrando
qualcosa a Weems. La donna riuscì a percepire solo la risposta di quest’ultimo.
“Si lo
conosco, è venuto da me al centro per senza tetto subito dopo la mia
scarcerazione. Mi ha rivolto diverse domande, sui miei precedenti omicidi, e su
di me. Era interessato soprattutto a conoscere quanto tempo era passato tra
l’inizio delle mie fantasie omicide e la messa in atto delle stesse.”
“Agente, c’è
qualche problema?” chiese la guardia rivolta a JJ. Probabilmente doveva aver
assunto qualche strana espressione nel tentativo di capire di cosa stessero
parlando.
“Oh no,” disse
la ragazza ricomponendosi. “Prego.” Aggiunse poi porgendo il foglio che aveva
tra le mani. “Potete avviare la scarcerazione a questo punto. Siamo certi non
si tratti di lui.”
I due
ufficiali aprirono la porta per recuperare l’uomo. L’agente Jareau entrò
velocemente subito dopo loro nella speranza di vedere cosa avesse mostrato
Spencer a Ronald Weems.
Al rumore
della porta che si apriva, il dottor Reid alzò gli occhi e appena vide la
collega, raccolse rapidamente quello che c’era sul tavolo e lo infilò
furtivamente nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni, alzandosi in piedi.
JJ non era riuscita a cogliere molti particolari, aveva solo capito che si
trattava di una fotografia.
“Che
succede?” le chiese. Lo sguardo di terrore di nuovo vivo e più forte nei suoi
occhi
“Non è stato
lui, va scarcerato. Dobbiamo raggiungere gli altri sulla nuova scena del
crimine.” Lei lasciò cadere in basso gli occhi, in direzione del luogo dove
aveva nascosto gelosamente la foto. Automaticamente, seguendo la direzione del
suo sguardo, lui portò una mano a protezione del suo segreto.
"Andiamo..." le rispose superandola fuori dalla porta.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Then you catch him CAP12
CAPITOLO 12
“La divina
Penelope per servirvi!” rispose l’allegra tecnica dell’FBI schiacciando con la
sua penna colorata il tasto sul telefono alla sua sinistra.
“Garcia,
servirebbe che lei controlli questo nome: George Swide.” Chiese David mentre
sostava di fronte al bancone della reception del motel continuando a consultare
il libro in cui venivano registrati gli ingressi. Ovviamente il loro uomo aveva
pagato in contanti. Mai nessuno che usasse una carta di credito facilmente
tracciabile. Erano furbi.
“Signore,
non ho trovato nessun riscontro con quel nome.” Rispose la donna all’altro capo
del telefono.
“Un nome
falso, c’era da immaginarselo.” Rifletté ad alta voce l’agente Rossi,
formulando subito dopo una nuova richiesta. “Può dirmi se il motel di ieri sera
ha un database elettronico per i clienti?”
“Già fatto.
E la risposta è si. Nessuno con questo nome però registrato né nella serata di
ieri né in nessun’altra.” Disse Penelope continuando a inserire campi di
ricerca nel suo computer.
“Ottimo
lavoro. Lei è veramente in gamba.” Rispose l’uomo con un furbo sorriso
abbozzato sulle labbra.
“La
ringrazio.” Concluse riponendo il cellulare in tasca.
Erano
nuovamente ad un punto morto.
Per tutto il
tempo della strada non si erano rivolti la parola. Reid guidava guardando fisso
la strada. Leggermente accigliato avrebbe potuto dire Jennifer che invece
guardava fuori dal finestrino con il viso sorretto dal braccio. Era tardi e
nessuno dei passanti che incrociava poteva sapere quello che stava accadendo a
qualche isolato di distanza.
La ragazza
sospirò. Dal quantitativo di chiamate ricevute, avrebbe trovato molti
giornalisti davanti a quel motel. Lei l’avrebbe potuto sopportare, era
abituata. Ma il silenzio del collega e la sua inaspettata voglia di guidare, quelli
erano delle novità.
“Siamo
arrivati.” Annunciò il ragazzo apprestandosi ad iniziare la manovra di
posteggio accanto agli altri due SUV neri. Dovevano essere già tutti lì.
Spento il
motore scesero entrambi dal veicolo. JJ si voltò verso di lui e gli comunicò
che sarebbe rimasta a tenere a bada tutte quelle telecamere e microfoni.
Spencer aveva assentito e si era diretto verso il portone d’ingresso.
“Eccoci.” Affermò
Derek varcando la soglia della stanza con Prentiss.
“È pieno di
giornalisti qui fuori.” Aggiunse la donna mentre Hotch si voltava verso di
loro.
“JJ e Reid
stanno arrivando.” Rispose guardando poi David rientrare nella stanza.
“Nome falso
e nessun riscontro dal motel di ieri sera.” Li informò l’agente anziano raggiungendo
i due nuovi arrivati. “Praticamente dobbiamo ripartire da zero.” Lasciò andare
un sospiro, voltandosi poi insieme agli altri verso l’ingresso da cui stava
entrando Spencer.
“JJ è
rimasta fuori con i giornalisti.” Esordì portandosi poi vicino agli altri.
“Cosa abbiamo?” era particolarmente impaziente di sapere cosa li aspettasse.
“Prostituta
ancora da identificare. Colpo al cuore come la precedente vittima, ma stavolta
le ha anche procurato una ferita lungo tutto il petto.” Spiegò Dave
accogliendolo con un sorriso. Che il giovane non ricambiò.
“La scena è
più pulita, credo si tratti veramente di qualcuno che si sta perfezionando
vittima dopo vittima.” Continuò Emily, ma venne interrotta dalla voce di Reid.
“Con che
nome si è registrato il cliente alla reception?”
“Nome falso e
non corrispondente a nessuno di quelli che si erano registrati nella precedente
scena del crimine. Ho già fatto controllare a Garcia.” Rispose Rossi.
“Possibilità
di riconoscerlo e di fare un identikit?” incalzò ancora Spencer.
“C’è stato
il cambio di turno, il portiere che li ha fatti entrare non lo stanno riuscendo
a rintracciare...” rispose Hotch.
“Fantastico!”
il tono ironico del giovane era un po’ troppo sostenuto.
“Calmati
ragazzino...” Derek si avvicinò per calmarlo portandogli sulla spalla una mano
che il dottore respinse energicamente.
“Non ho
bisogno di calmarmi.” Scandì lentamente. Uno sguardo volò tra Emily e David:
erano seriamente preoccupati, non lo avevano mai visto reagire in quel modo. A
calmare la situazione carica di tensione che si era creata intervenne il
supervisore capo.
“Fino a
domattina non riusciremo ad avere maggiori notizie, o i referti dell’autopsia,
quindi tornatene a casa, fatti una dormita e ci rivediamo domani mattina quando
sarai più tranquillo.” Dopo queste parole Aaron indicò con il mento la porta
d’uscita che il giovane ragazzo imboccò sbattendola dietro di sé.
“Hotch, lo
sai...” iniziò Morgan ma l’agente lo interruppe. Lo sapeva, ma non era una
motivazione accettabile per giustificare un simile comportamento. Stavano facendo
tutto il possibile e lui avrebbe fatto meglio ad aiutarli piuttosto che andare
così in escandescenze.
“Spero che
siano soddisfatti, almeno fino a domani mattina...ho visto correre fuori
Spence, cos’è successo?” l’agente Jareau si guardò intorno entrando nella
stanza. Gli altri la guardarono ma non risposero alla sua domanda.
“Cosa hai
detto ai giornalisti?” chiese invece Rossi alla donna.
“Che non
possiamo ancora rilasciare dichiarazioni. È stato ritrovato un corpo, una
prostituta, ma questo già lo sapevano, e che non siamo ancora in grado di
accertare che sia collegabile a quello dell’altra sera.” Spiegò brevemente
attendendo ora che le dessero qualche indicazione sul da farsi.
“Noi abbiamo
interrogato di nuovo le prostitute mentre eravamo di sorveglianza...” Cominciò
Prentiss ma si interruppe quando Aaron aveva sollevato un braccio che prima teneva
incrociato con l’altro al petto.
“Quello che
ho detto a Reid è vero. Aspettiamo i referti domattina e ci aggiorniamo in sala
conferenze appena pronti.”
In breve
tempo tutti uscirono dalla stanza e si diressero ognuno al proprio SUV per
tornare a casa. Almeno qualche ora di sonno l’avrebbero potuta fare. L’indomani
avrebbero dovuto fare i conti nuovamente con la realtà.
Aveva quasi
superato i limiti di velocità. Ma non aveva raggiunto casa sua come gli era
stato consigliato di fare. Era tornato a Quantico, perché sentiva che non si
sarebbe potuto riposare.
Mentre
raggiungeva la sua scrivania e lanciava sopra questa la sua tracolla, portò la
mano alla tasca posteriore dei pantaloni. Era ancora tutto al suo posto.
Mentre
spostava la sedia per sedersi fu raggiunto dalla voce di Penelope che si
avviava verso l’area relax con la sua tazza colorata tra le mani. “Piccolo, che
succede?”
Si voltò
mentre lei si avvicinava alla sua scrivania poggiandosi poi contro il piano di
lavoro mentre lui si sedeva sulla sedia. “Non abbiamo nessun punto da cui
partire. Due vittime e nessun maledetto indizio.” Ringhiò.
“Tu hai
sempre quel sospetto?” chiese la donna timidamente.
“Lo hanno
tutti, ma non vogliono dirlo.” Non riuscì a continuare spostando gli occhi
verso la superficie liscia del tavolo.
“Cucciolo...”
continuò Garcia portandogli una mano sotto il mento e facendolo voltare di
nuovo verso di lei. “Hai fatto la scelta giusta...”
“Ho già
sentito queste parole.” La interruppe Spencer cercando di sfuggire a quella
presa, ma l’informatica non glielo permise.
“Ehi...io
ero lì con te. Ti ho aiutato. Se veramente credi che sia colpa tua, allora è
anche colpa mia.” Era sincera nel pronunciare quelle parole.
Reid non
rispose, sospirò solamente per ricevere poi un buffetto sulla testa
dall’eccentrica donna che continuò a parlare, “Riposati. Ne hai bisogno.” Lo
lasciò finalmente andare mentre sorrideva camminando verso l’area relax, sua destinazione
originaria.
“Dovresti
farlo anche tu.” Le gridò dietro lui avvicinando la sedia alla scrivania.
“Io ho il
mio caffè!” esclamò entusiasta sventolando la tazza psichedelica. Si voltò poi per
prepararsi l’ennesima razione. Quando il fumo si sollevò dal bordo del
recipiente in ceramica si voltò per tornare nella sua stanza. Il dottor Reid
dormiva con la testa poggiata sul piano del tavolo. La donna non riuscì a
trattenere un amorevole sorriso.
Si era
svegliato dopo qualche ora. Era confuso, stava cercando di capire dove si
trovava. Era il suo ufficio e quella che vedeva subito accanto al suo occhio
era la sua scrivania.
Si sollevò
sulla schiena che doleva leggermente per la strana posizione assunta nel sonno.
L’intero open space era nella semioscurità, solo qualche persona lavorava al
proprio rapporto con un piccola luce puntata sui propri fogli, così da non
disturbare gli altri.
Si sgranchì
le ossa, poi ricordò cos’era successo. Aveva reagito in maniera sconsiderata
davanti a tutti ed era stato gentilmente allontanato dalla scena del crimine.
Quel caso lo stava consumando e aveva bisogno di riposo. L’istinto era quello
di rimanere a lavorare, ma ormai non aveva più strade da controllare senza
destare troppa curiosità in quelli che erano i suoi colleghi.
Decise di
dare ascolto alle parole di Hotch, sarebbe tornato a casa, avrebbe provato a
dormire e poi sarebbe tornato in ufficio. Raccolse la tracolla e si avviò verso
l’ascensore.
Non aveva
voglia di guidare, preferiva utilizzare la metropolitana, ma anche quella si
rivelò presto una cattiva idea. Stava ancora scendendo nel sotto passaggio
quando proprio il poggiare il piede su quel gradino riportò indietro la sua
mente a quel giorno. Lo vedeva di nuovo di fronte a lui. Ricordava ogni minimo
dettaglio.
Lui teneva
tra le mani un bicchiere di caffè, e quel giovane così timido l’aveva fermato,
conosceva il suo nome, sapeva chi era. E lui, che doveva essere un profiler
dell’FBI, non aveva capito niente, non aveva capito chi si trovava davanti e
l’aveva semplicemente lasciato andar via.
Si riscosse
dai suoi pensieri e riprese a scendere verso il posto dove avrebbe staccato il
biglietto che lo avrebbe portato in quel posto sicuro che era casa sua. E
proprio quando strinse finalmente il pezzo di carta tra le mani sentì di nuovo
quella sensazione, la stessa che lo aveva colpito quando con JJ stava portando
Ronald Weems nel garage di Quantico. Si sentiva osservato.
Si voltò
circospetto, ma non incrociò i due occhi azzurri che tanto lo atterrivano in
quei giorni non appena chiudeva le palpebre. Forse stava semplicemente
immaginando tutto, la sua mente, che tanto temeva, gli stava giocando qualche
brutto scherzo.
Quella storia doveva finire, e sapeva come avrebbe fatto. Doveva semplicemente aspettare l'indomani mattina.
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Then you catch him CAP13
CAPITOLO 13
L’agente
Hotchner era arrivato l’indomani mattina molto presto come al suo solito e
aveva immediatamente raggiunto l’ufficio di Penelope Garcia. Avevano ricevuto i
vari risultati, compresa l’identificazione del cadavere, aveva fatto cercare
notizie sulla donna, ma l’informatica non aveva avuto riscontri utilizzabili.
Il capo le aveva quindi ordinato di preparare il resto del materiale per
l’aggiornamento di JJ in sala conferenze e di raggiungerli lì anche lei.
Si era poi
portato nel suo ufficio a raccogliere il necessario, aveva visto arrivare
Morgan e Prentiss che iniziavano a consultare incartamenti alle loro scrivanie
e David che era passato a salutarlo prima di infilarsi nella sua stanza. E
quando aveva visto varcare l’ingresso dell’open space da Penelope e Jennifer si
era avviato nella sala conferenze, dove l’avevano subito raggiunto gli altri.
“Siamo
pronti?” chiese prendendo posto.
“Manca
Reid.” Avvertì Rossi guardandosi intorno. “Qualcuno l’ha visto o sentito?”
Garcia si
era sistemata gli occhiali sugli occhi prendendo poi posto attorno al tavolo.
“Signore, ieri notte è tornato qui. Si era addormentato sulla scrivania, poi
credevo fosse andato a casa, non so perché non sia ancora qui.”
“Procediamo
comunque.” Stabilì Hotch facendo cenno a JJ di mostrare i nuovi dettagli.
“La
prostituta è stata identificata, si chiamava Sarah Navy.” Cominciò a spiegare
la liaison dell’FBI spostando le immagini sullo schermo con il telecomando che
aveva tra le mani.
“Io ho già
controllato, abbiamo solo un certificato di nascita. I genitori sono morti
entrambi quando era ancora bambina e non c’è altra traccia di questa donna da
nessuna parte. Non è chiaro nemmeno a chi sia stata affidata.” Intervenne la
tecnica informatica.
“Ora che
siamo in possesso di due vittime possiamo parlare di vittimologia.” Intervenne
Rossi.
“Bionde,
occhi chiari. Non penso ci serva altro, le prostitute sono vittime ad alto
rischio, è facile che vengano scelte solo perché sono facili da trovare.” Tagliò
corto Morgan.
“Possiamo
ipotizzare che sia un modello?” chiese Emily sporgendosi in avanti.
“Credo
proprio di si, queste donne che stanno sulla strada sono tutte diverse, e
proprio perché facili da trovare avrebbe potuto prendere chiunque. Invece ha
scelto due ragazze somiglianti.” Rispose Rossi sotto lo sguardo vigile di Aaron
che in seguito aggiunse altri dettagli.
“Il modus
operandi è invece cambiato tra le due vittime. Sempre un colpo al cuore, ancora
una volta lesioni in altre parti del corpo, ma questa volta si è spinto oltre,
ha deciso di aprirle il petto.”
“Ha portato
via qualche organo?” si informò Jennifer.
“No, tutto
al suo posto. Dimostra ancora di essere organizzato, nessuna traccia
utilizzabile. La scena era anche più pulita, sta decisamente imparando e
migliorando. È giovane e intelligente. Non credo si tratti di un imitatore
però...” continuò David.
“Perché lo
pensi?” l’agente Prentiss si incuriosì.
“Ancora una
volta ha portato con sé i capelli della vittima. Weems non lo faceva, come non
ha mai torturato le vittime dopo l’uccisione o ancor peggio non ha mai tagliato
loro il petto. Credo che sia lo sfogo di una patologia, la realizzazione di una
fantasia. E solo per puro caso queste somigliano a quelle del nostro precedente
S.I.”
“Il nostro
profilo allora è errato?” intervenne Morgan.
“No, è
giovane, organizzato, sadico. Lo rilasceremo alla stampa per cercare un punto
di partenza per le nostre ricerche, l’uomo non può passare inosservato. Ha
terrorizzato anche Nancy Sulligan, spingendola a sporgere denuncia.” Concluse
Hotch.
“E se
nessuno lo riconosce?” chiese JJ titubante.
“Non serve
un segnale dall’esterno. Io ho un nome...” la voce di Spencer arrivò dalla
porta. Era appena rientrato, aveva il volto sconvolto che non lo aveva ancora
abbandonato negli ultimi giorni. “Nathan Harris.” Dichiarò sfilando dalla tasca
posteriore dei pantaloni una foto e poggiandola sul tavolo rotondo.
“Ragazzino è
una vecchia storia...” Derek non era disposto a credergli.
“È giovane,
mi aveva raccontato di avere fantasie sull’uccisione di prostitute. Aveva fatto
accenno anche al taglio dei capelli. Io tenterei questa strada.” Insistette il
ragazzo ancora in piedi.
“Non conosco
questa storia.” Si intromise David attirando l’attenzione di tutti. “Vorrei
provare a capirne di più.”
Il dottor
Reid prese un respiro profondo girando poi intorno al tavolo fino a trovare una
sedia vuota. Prese posto e cominciò a raccontare. “Quattro anni fa, Nathan
Harris mi ha avvicinato prima che si scoprissero i cadaveri di Ronald Weems. Mi
aveva visto ad una conferenza ed era interessato al profiling, mi aveva fatto
domande sull’uccisione delle prostitute. Solo grazie a lui siamo venuti a conoscenza
di quello che stava accadendo a Washington. Avevamo sospettato di lui, ma si
era rivelato innocente. Gideon...” deglutì con sofferenza dopo aver pronunciato
quel nome, “...beh lui lo aveva sottoposto ad una perizia psicologica ed era
risultato chiaro che se non avesse seguito adeguate cure, sarebbe arrivato ad
uccidere qualcuno.”
“Hai i
dettagli della perizia?” chiese Hotch poco intenzionato a lasciare tempo al
ragazzino per concentrarsi su quello che era finalmente riuscito ad ammettere
apertamente.
“No, ma
c’era un avvocato con loro, se non è nel database dell’FBI, lui avrà conservato
i documenti sicuramente.” Non sembrava meno turbato ora che aveva vuotato il
sacco.
Aaron fece
un cenno con il capo e si fermò a pensare. Poi riprense la parola. “Penelope,
pensi di poter fare qualcosa per trovare questa perizia?”
“Posso
provarci, se c’è la troverò sicuramente.” Affermò sicura raccogliendo le
carpette che si era portata dietro.
“Reid vai
con lei.” ordinò il capo e subito il ragazzo scattò in piedi seguendo
l’informatica verso il suo ufficio. L’agente Hotchner si voltò poi verso i
colleghi. “Prentiss, mi dicevi ieri sera che avevate parlato con le prostitute
nuovamente...”
Emily si
sporse in avanti rispondendo di si con la testa, “Esatto, ci hanno detto che
Nancy aveva ricevuto delle attenzioni da un ragazzino. Lo stesso era successo
anche alle altre, ma lui le aveva avvertite di non avvisare la polizia. Per
questa ragione non volevano parlare con noi e la nostra vittima aveva ritirato
la denuncia. Erano atterrite dalle sue minacce.”
“Vuoi
muoverti sulla linea di Nathan Harris?” chiese Dave leggendo il dubbio negli
occhi del suo capo.
“Possiamo
provare, ma con discrezione, fin quando non avremo ulteriori conferme.
Prentiss, raggiungi Reid e non appena avrete finito da Garcia, andate ad
interrogare la madre di Nathan Harris. Morgan e Rossi, voi tornate in strada
con la foto di Harris e cercate di farvi dire dalle donne se il ragazzino a cui
si riferivano era proprio lui. Io e JJ organizziamo la conferenza stampa per
comunicare il rilascio di Weems e rilasciare il nuovo profilo.”
In breve
erano tutti pronti all’incarico che gli era stato assegnato.
“Inutile che
ti dica di metterti comodo come se fossi a casa tua.” Scherzò Penelope
recuperando la sua sedia e portandola fino allo schermo principale della sua
multi task. Si mise comoda e iniziò a far saettare le dita sulla tastiera alla
ricerca della perizia psicologica. “Ecco qui tutte le perizie di Gideon. Anno?”
“Duemilasei.
Nathan Harris. Quantico, Virginia.” Rispose il dottor Reid.
“Bingo!” fu
l’esclamazione di Garcia quando con i campi da lei inseriti venne fuori un solo
riscontro. “Non puoi immaginare come sale l’adrenalina quando questa scritta
lampeggia davanti ai miei occhi.” Scherzò la donna, ma Spencer le disse di
aprire il file senza perdere altro tempo.
“È
permesso?” chiese una voce alle loro spalle.
“Emily,
giusto in tempo per goderti la lettura della perizia.” Rispose l’informatica,
dando subito dopo il comando per visualizzare il documento.
Prentiss si
avvicinò allo schermo insieme agli altri due colleghi e assunse la stessa
espressione interdetta nel vedere le poche informazioni disponibili. Le loro
aspettative furono distrutte all’istante.
“Il giovane Nathan Harris necessita di
assistenza medica a tempo pieno, va ricoverato e tenuto sotto controllo. Nel
ragazzo sono stati riscontrati impulsi psicotici. Tutto qui?” chiese
Spencer con un misto di rabbia e stupore.
“Cucciolo,
non capisco. Non c’è altro, la registrazione di Gideon è questa, c’è anche la
sua firma.” Rispose Penelope non volendo dubitare delle sue abilità.
“Jason non
avrebbe mai rilasciato una perizia così povera. C’è qualcosa di strano...”
riflettè il giovane ad alta voce.
“Hotch vuole
che andiamo ad interrogare la madre di Nathan.” Comunicò Prentiss rompendo quel
momento di smarrimento.
“Vi do
l’indirizzo.” Rispose Garcia digitando sui tasti.
“La stessa
casa dove siamo andati a prelevarlo la prima volta.” Fu la risposta di Reid nel
leggere il risultato della ricerca.
“Andiamo,
magari lei ci chiarirà qualche dubbio.” Affermò Emily invitando il ragazzo a
precederla fuori da quell’ufficio.
“Hotch ho
chiamato i giornalisti, li ho convocati tra un’ora qui alla BAU.” Informò JJ
entrando nell’ufficio del supervisore capo, che alzò gli occhi dai fogli che
stava compilando.
“Io ho
chiamato il detective Carlson per comunicargli che stiamo seguendo una nuova
pista.”
“Pensi che
sarà quella giusta?” chiese la donna accomodandosi sulla sedia di fronte alla
scrivania.
Aaron
sospirò senza riuscire a rispondere. La donna allora riformulò meglio la sua
domanda, “Pensi che sarà una strada semplice da intraprendere?”
“Nessuna
strada è facile da intraprendere. Come pensi di organizzare il discorso per la
stampa?” l’agente Hotchner era intenzionato a cambiare discorso.
Jennifer si
lasciò trascinare in quella nuova discussione senza insistere. “Pensavo di
iniziare spiegando il motivo del rilascio di Ronald Weems e segnalando poi
l’allerta per tutte le donne che lavorano sulle strade di Washington.”
“Proporrei
di non accennare a Nathan Harris fin quando non abbiamo una conferma.”
Intervenne l’uomo alzandosi dalla poltrona e girando intorno al tavolo.
L’agente
Jareau scosse il capo in segno di assenso e si alzò a sua volta. A breve
sarebbe andata in onda su tutte le reti, questa volta per evitare che dovessero
trovare una nuova vittima per compiere il passo successivo. Questa volta si
trattava di anticipare l’S.I. Stavano compiendo quelle procedure che avrebbero
dato loro il vantaggio.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Then you catch him CAP14
CAPITOLO 14
Spencer
continuava a guidare pensando a quello che avevano letto sul referto della
perizia psicologica. Era impossibile che Jason Gideon avesse scritto quelle
poche parole prive di senso, sperava per questo che la madre sarebbe stata
d’aiuto. Lei era stata una pedina importante la prima volta che avevano
incontrato il minorenne Nathan Harris, era stata lei quindi a dare la parola
finale su ogni decisione nei riguardi del figlio. Si era adirata non volendo
accettare che Nathan avesse dei problemi e necessitasse di un ricovero, ma per
fortuna infine si era convinta per il bene del ragazzo.
Erano scesi
dal SUV e si erano avviati in quell’appartamento. Emily aveva bussato alla
porta che dopo qualche secondo si era lentamente aperta rivelando una discreta signora
con un caschetto biondo e degli occhi azzurri che si erano illuminati alla
vista del ragazzo.
“Dottor
Reid?” chiese sbalordita mentre apriva di più il battente permettendo ai due
agenti di entrare in casa.
“Signora
Harris...” fu la cordiale risposta di Spencer nell’atto di accomodarsi, mentre
anche Prentiss si qualificava con la donna.
“A cosa devo
questa visita?” Sarah fissò le due figure sedute sul divano di fronte a lei e
sfregò nervosamente le mani tra di loro.
“Io...noi
volevamo semplicemente qualche notizia di Nathan...” il dottor Reid era
timoroso, non voleva esporre troppo il caso, ma prima voleva sondare il
terreno.
“Sa che il
mio lavoro mi prendeva del tempo, me lo prende tutt’ora. Insomma, non lo vedo
da tempo. Anzi, non l’ho mai visto. Non riuscivo ad accettare quello che gli
stava accadendo, non a mio figlio...”
“Signora ci
sta dicendo che non l’ha fatto ricoverare?” chiese Prentiss allarmata per la
verità che stava emergendo dalle parole della donna.
“Oh si,
certo. Alla fine l’agente Gideon mi aveva convinta, anche se l’avevo pregato di
non rovinare il nostro nome e di scrivere nel rapporto sulla perizia solo lo
stretto e necessario...” si interruppe per guardare lo sguardo che saettò da
Emily verso Spencer che tirò un sospiro di sollievo. Non poteva accettare che
Jason fosse completamente impazzito e non avesse emesso un referto corretto se
non sotto la spinta di qualche fattore esterno. Ora sapeva quale fosse stato.
“Abbiamo
bisogno che ci racconti come è andata dopo che abbiamo rilasciato
definitivamente Nathan.” Il tono del giovane, contrariamente alle aspettative
era calmo. Voleva mettere la donna nelle condizioni perché si aprisse e dicesse
tutto il necessario per mandare avanti l’indagine.
Sarah Harris
raccolse le forze per immergersi in ricordi di un passato doloroso e che
avrebbe voluto cancellare con un semplice colpo di spugna, qualora fosse stato
possibile, poi cominciò a parlare. “All’uscita dal distretto sono dovuta
tornare a lavoro d’urgenza. Lui mi aveva promesso che sarebbe tornato a casa da
solo. Era la sua ultima serata di libertà, l’indomani mattina avevamo deciso
che saremmo andati alla clinica. Io sono tornata a casa quando lui non era
ancora rientrato, sono andata a dormire. Era normale che rimanesse fuori, è un
uomo, lo trattavo come tale. Poi l’indomani mattina sono dovuta uscire
d’urgenza nuovamente. Sa noi medici...” prese un sospiro prima di ricominciare.
“Al pomeriggio quando mi sono liberata siamo andati alla clinica. Da allora non
sono andata a trovarlo o a vederlo nemmeno una volta. Ancora ora non ho
accettato la situazione.”
“Dovrebbe
dirci il nome della clinica in cui è stato ricoverato.” chiese gentilmente
Emily sporgendosi in avanti verso la donna che la guardò con occhi
terrorizzati.
“Gli è
successo qualcosa?”
“No, non ne
siamo sicuri. Stiamo solo facendo dei controlli.” La tranquillizzò l’agente
Prentiss con un sorriso e il tono più dolce che potesse modulare.
“Alla
clinica Saint James. Dottor Reid,” la donna si voltò di scatto afferrando con
forza il braccio di Spencer. “Mi prometta che qualsiasi cosa scoprirete mi
farete sapere...” lo stava implorando. Il ragazzo fece un cenno con la testa.
“Una promessa non conta se non si fa ad alta voce...” lo riprese amorevolmente
Sarah.
“Glielo
prometto.” Sussurrò l’agente prima di alzarsi con la collega per dirigersi
verso l’uscita.
Arrivati in
macchina Emily non poté fare a meno di manifestare ad alta voce i suoi dubbi.
“Fattore di
stress?”
“Cosa?” il
magro ragazzo non aveva capito le parole di Prentiss.
“La madre
che lo abbandona...”
“Potrebbe
essere.” Era di poche parole, e ancora sconvolto.
“Reid dì
qualcosa, te ne prego.” La donna era preoccupata e cercò di scuotere il
collega.
“Lo ha
abbandonato senza mezzi termini, ti rendi conto?” sbottò finalmente non allontanando
gli occhi dalla strada che stava percorrendo.
“Non mi
stupisce per nulla. Se Nathan è quello che è dipende strettamente dalla
famiglia che ha alle spalle. Nessun padre, la madre che non si curava di lui,
dai, quale madre non si accorge che il figlio è malato? Ai suoi livelli è
impossibile non farci caso.”
Seguì un
pesante silenzio, che dopo qualche minuto Emily infranse.
“Stiamo
andando in clinica?” chiese timidamente.
“Si.”
“Credi che
sia ancora ricoverato?” indagò più a fondo nei pensieri del ragazzo che non
aveva voglia di lasciarsi andare a confidenze.
“Non lo so,
ma lo spero...” pronunciò come se avesse scagliato una pietra.
Prentiss si
sistemò meglio sul sedile e il viaggio proseguì nel silenzio.
Per la
seconda volta in due giorni Jennifer si stava dando in pasto ai giornalisti per
la conferenza stampa, ma questa volta le dichiarazioni le avrebbe rilasciate
Hotch. Lei doveva solo essere lì pronta a sfoderare le giuste parole
nell’eventualità in cui venisse rivolta qualche scomoda domanda.
Alternarsi
nel rilasciare le dichiarazioni davanti alle telecamere serviva per dare una
maggiore idea di squadra e per evitare che in caso di fallimento o di smentita
JJ non diventasse l’unico e solo capro espiatorio.
Il segnale
che stavano per andare in onda arrivò mentre Aaron sistemava i microfoni sul
podio dal quale avrebbe parlato. Raccolse il fiato necessario e cominciò, “Ieri
è stata rilasciata la dichiarazione che l’FBI aveva sotto custodia l’uomo
ritenuto responsabile dell’omicidio di una prostituta qualche notte fa. Gli
avvenimenti della notte scorsa hanno dimostrato che Ronald Weems era la persona
sbagliata, quindi il sospettato è stato rilasciato nelle prime mattinate di
oggi. Chiediamo pertanto a tutte le donne che lavorano sulle strade di Washington
di prestare particolare attenzione ai clienti che le avvicinano. L’uomo che
cerchiamo uccide le sue vittime in camere di motel, le pugnala al cuore.
Pensiamo che il Soggetto Ignoto sia giovane e particolarmente disturbato, che
viva con difficoltà la sua sessualità e che per questo provi sempre maggior
piacere con i suoi atti criminosi. Si sta evolvendo, quindi crediamo che questa
notte attaccherà di nuovo e possibilmente con maggior violenza. Chiunque noti
una persona che corrisponde a questa descrizione è pregato di chiamare il
numero di emergenza per un intervento immediato.”
“Agente
Hotchner, avete qualche sospetto?” un giornalista si sporse in avanti in cerca
della dichiarazione da pubblicare in esclusiva nel suo articolo.
L’agente
Jareau salì sul podio dando gentilmente il cambio al suo capo. “Al momento non
ci è permesso rilasciare altre dichiarazioni in merito. La polizia ha il
profilo dettagliato dell’S.I., chiediamo la collaborazione di tutti perché
questo caso si chiuda nel minor tempo possibile.” Un cenno del capo della donna
comunicò che la conferenza era finita e i due agenti si allontanarono mentre i
giornalisti insoddisfatti continuavano a fare pressione con le loro domande.
Penelope
stava continuando a processare informazioni sola nel suo ufficio. Fermarsi
avrebbe voluto dire pensare, e non le sembrava la cosa più adeguata da fare in
quella situazione. Meglio concentrarsi sul lavoro e cercare di scoprire
qualcosa di utile prima che fosse veramente troppo tardi.
Un lieve
bussare alla porta la fece voltare prima di invitare il visitatore ad entrare.
Era Aaron Hotchner, quindi lei istintivamente si portò in piedi.
“Signore?”
chiese preoccupata.
“Nessuna
novità.” Rispose il capo richiudendosi il battente alle spalle.
Garcia si
rilassò lievemente sedendosi nuovamente. “Ho provato a processare di nuovo il
nome della seconda vittima, ma non ne ho acquistato nulla di più. È stata
affidata alla nonna paterna, che è morta qualche anno fa lasciandola sola. È finita
all’ospedale un paio di volte per lesioni, non ha mai denunciato il colpevole.
Nessun precedente penale, nessuna traccia che porti da qualche parte. Un
fantasma...”
“Garcia, va
bene così. Abbiamo una nuova strada da seguire ora. La perizia di Gideon?”
ricordò poi.
La donna si
voltò verso lo schermo aprendo nuovamente il documento. “Solo questo Signore,
è...è una cosa incredibile...” esclamò indicando il monitor vicino a lei.
“Prentiss e
Reid potrebbero avere una spiegazione anche per questo.” Sospirò l’uomo
sistemandosi la cravatta.
“Tu
credi...” la donna fu interrotta dalla tempestiva risposta di Aaron.
“Non lo so.”
Dopo queste tre parole si voltò per scomparire dietro la porta lasciando
Penelope sola con i suoi pensieri e i suoi computer.
Vagavano da
ore senza alcun risultato. Se la prima volta Morgan e Prentiss aveva estorto
qualche risposta alle donne impegnate nelle strade di Washington, questa volta
Derek e Dave non riuscivano nemmeno ad avvicinarle.
Non appena cercavano
di rivolgersi loro, queste scappavano. L’agente di colore aveva anche
riconosciuto la ragazza che li aveva aiutati la prima volta, aveva provato a
parlarle, ma l’amica questa volta l’aveva afferrata e portata via,
sussurrandole parole che sicuramente potevano essere minacce.
“E io che
pensavo che vedendo un fusto come te avrebbero fatto a pugni per parlarti...”
ironizzò l’agente Rossi fermandosi al centro del marciapiede che stavano
percorrendo.
Derek si
arrestò a sua volta guardando verso il cielo al di là dei suoi occhiali da sole
e facendo schioccare la lingua all’interno della bocca, “Sono pur sempre un
agente federale.” Ribattè sornione.
I due
sorrisero per un attimo prima di rimettersi in marcia. David rigirava tra le
mani la foto di quel ragazzino che per lui era uno sconosciuto. Era stato
ritratto quando poteva avere qualcosa come quindici o sedici anni e i suoi
occhi esprimevano sicuramente tutto il disagio che viveva.
Ad un certo
punto una presa ferma strinse il braccio di Rossi che si voltò di scatto per
incontrare il viso di una donna giovanissima. Era terrorizzata. Morgan notò il
movimento quando già la prostituta trascinava il collega verso un vicolo
abbandonato e corse a passo spedito dietro di loro.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Then you catch him CAP15
CAPITOLO 15
“Agente
Prentiss e Dottor Reid.” I due federali mostrarono i distintivi all’accoglienza
della clinica Saint James all’interno di un edificio antico e immenso. Un uomo
di mezza età seduto al di là del bancone li osservò interessato. “Volevamo
delle informazioni su Nathan Harris, un vostro paziente...” spiegò Emily, ma la
strana figura la interruppe con voce particolarmente allegra.
“Errato
signorina.” Rise.
Prentiss si
irrigidì guardando Spencer che non aveva idea di quello che stesse accadendo.
“Come prego?” chiese profondamente interdetta.
“Lei ha
detto che è un nostro paziente, e questo non è vero.”
“La madre ci
ha dato il vostro recapito, l’ha ricoverato qui quattro anni fa.” Intervenne
Reid con voce tremante.
“Sapete? Io
non sono autorizzato a dare informazioni, quindi forse è meglio che vi chiamo
il medico.” L’uomo balzò dalla sedia trottando poi verso una piccola porticina
al di là della quale scomparve.
La donna si
voltò verso il giovane scuotendo il capo interrogativa. “Siamo sicuri che non
era un paziente quello?” domandò con il dito indice proteso verso la porta in
cui lo avevano visto dileguarsi.
“Buongiorno,
sono il dottor Scott.” La voce profonda
di un autoritario medico li raggiunse alle spalle.
Il più
rapido a voltarsi fu Spencer che mostrò il badge affermando, “Dottor Reid e
Agente Prentiss.” Emily alle sue spalle aveva tirato fuori dalla tasca anche il
suo tesserino. “Desideravamo parlare di Nathan Harris.” Il ragazzo magro
deglutì profondamente dopo aver pronunciato quelle parole.
“Seguitemi
nel mio studio, così possiamo metterci comodi.” Li invitò cordialmente l’uomo
facendo loro strada lungo un corridoio intervallato da porte con spesse sbarre
di ferro.
Raggiunto il
suo ufficio, permise loro di entrare per primi. Si trovarono all’interno di una
stanza elegantemente arredata, ogni fascicolo era meticolosamente sistemato
negli appositi spazi. Quell’ambiente risplendeva di luce propria in quanto a
ordine e pulizia. Prentiss non poté fare a meno di pensare che una tale
precisione fosse normale visto quello che si trovava a dover affrontare ogni
giorno quell’uomo; quello si rivelava essere l’unico posticino in cui poteva
rimettersi in pace con se stesso.
Il dottore
la riscosse dai suoi pensieri facendo cenno ai due agenti di prendere posto
sulle comode sedie di fronte alla scrivania che aggirò per sedersi alla sua
poltrona di pelle. Si sporse in avanti poggiando i gomiti sul vetro del tavolo
e incrociò le mani a sostenere il viso. “Nathan Harris...” cominciò a parlare.
“Sicuramente una bella grana. La madre lo accompagnò qui il pomeriggio del suo
ricovero circa quattro anni fa e poi scomparve. Quel ragazzo non ha mai
ricevuto una visita da nessuno, era irrequieto, alternava momenti di
confusione, con momenti in cui si chiudeva nel suo mondo interiore a
riflettere. Aveva una grande intelligenza però, voleva sempre sapere cosa gli
stavamo facendo e perché.”
“Possiamo
vederlo?” chiese improvvisamente Reid che non riusciva a trovare comodità sulla
sedia su cui si era accomodato.
“Dottore,
non vorrei sconvolgerla. Ma lui non è più un nostro paziente.” Pronunciò Scott mantenendo
la calma. Un bagliore saettò nello sguardo di Spencer prima di spegnersi. Emily
si sentì in dovere di intervenire.
“Ma come è
possibile?”
“Quando ha
compiuto la maggiore età ha subito firmato la dimissione. Seguiva le cure, era
stato ricoverato minorenne, sua madre era scomparsa, non potevamo
impedirglielo. Anche se a mio avviso non era sicuro, doveva essere tenuto
all’interno dell’istituto ancora.”
“Come...come
viveva il suo...essere...rinchiuso qui?” balbettò con difficoltà il giovane che
non riusciva quasi a respirare.
“Male. E
oserei dire che sia quasi un eufemismo. Si sentiva costretto, ripeteva che non
sarebbe mai uscito di qui. Aveva paura anche di se stesso.” Il dottor Scott
prese un respiro profondo ad accompagnare le sue ultime parole, poi si lasciò
andare con le spalle contro la poltrona.
“Sa per caso
dove sarebbe andato una volta uscito?” tentò l’agente Prentiss.
“Ha detto
che sarebbe tornato a casa...”
“Cosa che
non ha fatto.” Concluse Spencer interrompendo il medico. “Avete una cartella
con i suoi referti?” domandò.
“Certo,
gliela vado a prendere subito. Vogliate scusarmi.” Cordialmente si congedò per
uscire dall’ufficio.
Il silenzio
improvviso in quella stanza aveva mandato Reid in confusione, uno strano
fischio gli tormentava le orecchie, mentre la vista gli si appannava. Si portò
le dita a stropicciarsi le palpebre.
Prentiss lo
fissava soffrire e decise di rompere il silenzio, “Non è ancora detto nulla.
Non vuol dire nulla che non sia più ricoverato.” Cercò di infondergli coraggio,
me quello che stava vivendo il collega era panico.
“Prendiamo
questi documenti e torniamo dagli altri prima di prendere qualsiasi decisione.”
Pronunciò lui con pochissimo fiato spingendosi in avanti e strofinando i palmi
delle mani sul pantalone.
“Ecco qui
tutto quello che ho trovato.” Il dottor Scott rientrò alle loro spalle
sorridendo. “Qualcosa è andato perduto, diciamo che a volte anche i nostri
assistenti meriterebbero di essere internati come pazienti.” Ironizzò non
sortendo alcun effetto sui due agenti che non erano dell’umore adatto.
“È stato
gentilissimo.” Emily si alzò in piedi porgendo la mano all’uomo, lo stesso fece
Reid alle sue spalle.
“Per
qualsiasi cosa sono a vostra disposizione.” Il medico li accompagnò
cortesemente alla porta.
In silenzio
i due agenti ripercorsero il corridoio e videro la gente rinchiusa in quelle
stanze che avevano tutta l’aria di prigioni, anche se ben sapevano che la prima
prigione che tutte quelle persone avevano era proprio la loro mente.
Sospirando raggiunsero
il SUV e si diressero alla volta di Quantico.
“Ma che...”
il pensiero sussurrato da Rossi mentre la donna lo trascinava contro la parete
del vicolo.
In pochi
secondi Derek fu al suo fianco, stava per afferrare la ragazza ma questa lasciò
Dave prima che l’uomo potesse fare nulla.
“Io lo
conosco...” biascicò abbassando gli occhi.
“Come?”
intervenne Morgan mentre il collega si risistemava la giacca.
“Questo
ragazzino. Io lo conosco!” affermò senza dire altro indicando la foto ancora
tra le mani dell’uomo.
Derek
sospirò alzando gli occhi al cielo, richiedendo quindi l’intervento del più
paziente e distaccato David. “E hai qualcosa da dirci?” domandò freddo.
“Lui ci
spia, tutte quante. Ha anche minacciato molte di noi, anche me. Ma non mi
importa, se potete toglierlo di torno sono più contenta.” Sciorinò la
prostituta guardandosi poi intorno per assicurarsi che occhi indiscreti non li
stessero guardando.
“Ehi, hai
altro da dirci?” si intromise Morgan spingendola quasi contro il muro. La
ragazza scosse timidamente la testa in segno negativo per poi sgusciare via
dalla morsa del ragazzo e scomparire oltre l’angolo.
I due agenti
si guardarono negli occhi, prima che Rossi interrompesse il silenzio. “Questo
non vuol dire nulla di certo. Le spia, ma non per forza deve anche ucciderle,
che sia un ragazzo disturbato l’avevamo capito anche prima.” Spiegò brevemente.
Nessuna
risposta dal ragazzo di colore che si incamminò nuovamente sulla via principale
in direzione del SUV. “Torniamo a Quantico.” Disse semplicemente quando avevano
quasi raggiunto la vettura.
L’agente
speciale Aaron Hotchner era nel suo ufficio a studiare referti e altri
incartamenti quando un lieve bussare alla sua porta gli fece sollevare lo
sguardo verso l’agile figura di Jennifer.
“Hotch, ci
sono tutti. Se vogliamo aggiornarci...” espose in tono calmo e pacato.
“Arrivo
subito.” Fece cenno l’uomo invitandola a precederlo. Lui richiuse ciò su cui
stava lavorando, prese un foglio e si alzò dalla poltrona richiudendosi la
porta alle spalle e raggiungendo la sala conferenze. Tutti occupavano le loro
sedie intorno al tavolo. Tutti tranne il dottor Reid che come sempre
ultimamente preferiva un’irrequieta posizione in piedi in un angolo della sala.
“Qui ho il
referto di Gideon sulla perizia psicologica.” Affermò posando il foglio sul
tavolo. “Per chi non l’ha già letta...” concluse.
Rossi si
allungò sul tavolo per raccogliere il documento e leggerlo rapidamente.
“Sappiamo il
perché.” Lo anticipò Emily nel vederlo intento a proferire una domanda, “La
madre di Nathan Harris ha chiesto a Jason di non screditare il loro buon nome,
ma di scrivere lo stretto e necessario.” Spiegò.
“La stessa
madre che lo ha accompagnato al ricovero e l’ha abbandonato non avendo più sue
notizie per i seguenti quattro anni.” Intervenne Spencer dal fondo.
Derek batté
un lieve colpo sul tavolo gettando indietro la testa, non sapeva come dire al
ragazzino che loro sapevano per certo che fosse lui ad importunare le donne
sulla strada. Parlò al suo posto Dave.
“Noi siamo
riuscite a parlare con una prostituta che ha riconosciuto nella foto del
sospettato il giovane che le spia e le minaccia. Ma non ha saputo dire altro.”
Gli occhi di tutti saettarono verso il dottor Reid che si premurò ad aggiungere:
“So già che
è in giro...alla clinica Saint James, dove Sarah ha detto di averlo ricoverato,
abbiamo saputo che compiuta la maggiore età ha firmato per essere dimesso e le
sue tracce si sono perse...” era incapace di dire qualsiasi altra parola.
“Ma il fatto
che sia stato riconosciuto come un molestatore di prostitute, non vuol dire che
sia un assassino. Giusto?” chiese preoccupata JJ con l’intento di
tranquillizzare il collega in primo luogo ma anche se stessa.
Nessuno
disse nulla, e Spencer concentrò la sua attenzione sulla cartella che teneva
tra le mani, “I medici erano contrari al rilascio di Nathan, mi sono fatto dare
i referti. Segue una cura meno invasiva di quella di Weems, nonostante i suoi
problemi fossero maggiori. È sicuramente in grado di commettere un omicidio,
anche nel caso in cui stia seguendo correttamente la somministrazione dei
farmaci, cosa di cui dubito fortemente.”
“Perché lo
credi?” intervenne David.
Il giovane
arricciò le labbra prima di rispondere, “Non lo so...lo sento semplicemente.”
Allungò quindi il fascicolo della clinica sul tavolo. Fascicolo che prontamente
Hotch afferrò e lesse.
“Ha mostrato
grande intelligenza, ma non ha passato i test sotto provocazione. Tutti i
sintomi psicotici sono presenti. Dobbiamo sapere il profilo che ne aveva fatto
Jason con la perizia.” Sospirò sconfitto.
“Se solo
quella donna non l’avesse fatto praticamente sparire...” ringhiò Derek.
Un lungo
silenzio calò in quella sala, quando infine il volto di Reid si illuminò.
Arrestò la sua camminata frenetica e si avvicinò al tavolo.
“Un modo ci
sarebbe...” esclamò e tutti rimasero in attesa di sapere cosa avesse in mente.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Then you catch him CAP16
CAPITOLO 16
“Non mi
sembra la soluzione migliore...” azzardò JJ nel silenzio carico di aspettative
che si era creato.
“No.”
Intervenne Spencer comprendendo cosa la collega avesse immaginato. “Non ho
intenzione di cercare Gideon, però pensavo che quando Jason fece la perizia si
fece affiancare da un avvocato che doveva supervisionare che tutto avvenisse a
norma di legge e che Nathan non fosse trattato come un sospettato.”
“Sappiamo il
suo nome?” chiese Hotch.
“Non credo,
ma forse Garcia può...”
“Vai.” lo
interruppe Aaron prima di fargli cenno di uscire dalla stanza.
“Vado con
lui.” Esclamò Jennifer raggiungendo il ragazzo. “Potrebbero esserci problemi di
ordine burocratico.” Spiegò attendendo poi un cenno del capo dell’agente
supervisore che le diede conferma.
Non appena i
due uscirono dalla stanza, Rossi rivolse gli occhi verso l’orologio e poi si
voltò di nuovo verso i colleghi. “Se si sente il fiato sul collo, potrebbe
essere già in giro in cerca della prossima vittima.” Comunicò.
“Possiamo
organizzare delle pattuglie sulla strada affiancando la polizia...” propose
Derek per incontrare il favore dei tre colleghi nell’intraprendere
quell’azione.
La tecnica
informatica era ancora persa nella ricerca di notizie su Nathan Harris e sulla
perizia psicologica eseguita su di lui, quando un bussare alla porta interruppe
i suoi pensieri. “Amorini miei, come posso aiutarvi?” salutò mentre i due
entravano nel suo antro.
“Quando
Gideon ha fatto la perizia al nostro sospettato c’era un avvocato, per caso da
qualche parte potresti risalire alla sua identità?” chiese Spencer
avvicinandosi alla donna seguito a ruota da JJ.
“Ci provo
subito genietto.” Rispose lei voltandosi verso la tastiera e cominciando a
digitare velocemente. “Dagli archivi dell’FBI non risulta nulla, però prima ho
trovato qualcosa di interessante.” Continuò dopo qualche minuto ricercando un
file lasciato in standby sul desktop. Lo aprì per mostrarlo agli altri che si
sporsero verso il monitor. “Ecco qui. Nathan Harris ha pubblicato un libro.”
“Lo stesso
Nathan Harris?” domandò sbalordita la biondina.
“Oh si mia
cara, si tratta di un testo illustrato, e, cosa che non mi stupisce per nulla,
parla dell’uccisione di alcune prostitute. Molti i riferimenti a Jack lo
squartatore...”
“La stava
scrivendo quando siamo andati a prenderlo a casa.” ricordò Reid. “Quando è
stato pubblicato?”
“Poco tempo
fa.”
“È stato
dimesso dalla clinica, ha completato il libro, lo ha fatto pubblicare ma non ha
ricevuto l’appagamento che desiderava. Quindi è passato alle uccisioni vere e
proprie. Penelope abbiamo bisogno di parlare con quell’avvocato.” Riassunse il
giovane cominciando ad aggirarsi nervosamente per la stanza.
“Tesorino ci
sto provando, ma avrei bisogno di qualche dettaglio in più...”
“C’è la data
nella perizia?” chiese improvvisamente l’agente Jareau.
“Controllo
subito...si eccola.” Si accertò Penelope.
“Nessuno si
può muovere nell’edificio senza uno di questi, giusto?” JJ indicò il badge con
la sua foto e la qualifica che aveva appeso alla cintura. “E per qualcuno che
non sia dell’FBI c’è bisogno di una registrazione...”
“Mia cara
sei un genio!” esclamò Garcia. “Recupero i registri degli ingressi nell’edificio
di Quantico e controllo le persone che sono entrate quel giorno e...momento di
suspense per i federali che sono attorno a me...” un sorriso si disegnò sulle
labbra di Spencer forse per la prima volta in quella giornata, ma svanì in
pochi secondi. “Joseph Acorn. Eccovi il vostro legale.”
“Sei tu il
genio Penelope...grazie mille.” Rispose raggiante la liaison dell’FBI.
“Sempre a
disposizione.” Scherzò con il suo solito tocco di brio vedendo i due colleghi
lasciare di nuovo la stanza.
“Abbiamo il
nome, Joseph Acorn. In più abbiamo scoperto che Harris ha pubblicato un romanzo
illustrato sull’uccisione delle prostitute.” Esordì Jennifer rientrando nella
sala conferenze.
“Ha provato
con questo e non soddisfatto, ha cercato Weems appena uscito di prigione ed è
passato all’azione.” Continuò Spencer.
“Come hai
detto?” chiese Morgan sollevando gli occhi dalla tazza di caffè che teneva tra
le mani. Il silenzio calò tra i presenti, tutti gli occhi rivolti verso il
magro ragazzo. “Hai detto che ha cercato Weems?”
“Ah...si,
gli ho mostrato la foto di Nathan e mi ha detto che era andato a cercarlo al
posto di lavoro e gli aveva fatto delle domande...”
“Deve averlo
seguito per sapere che era stato scarcerato e che lavorava proprio in quel
centro.” Rifletté a voce alta Prentiss.
“Perché non
ci hai avvertito prima?” intervenne David con fermezza.
“L’avevo
dimenticato scusate...” fu la risposta del giovane che abbassò gli occhi prima
che la sua attenzione venisse catturata nuovamente dall’agente Hotchner.
“Che tipo di
domande gli avrebbe fatto?”
“Gli...gli
ha chiesto quando aveva capito chi era...e quanto tempo era passato da quando
aveva scoperto i suoi istinti a quando aveva ucciso la prima vittima...”
“Non si
controlla, è più grave di quello che si credeva. E non sta assolutamente
seguendo le cure. Tornerà a caccia stasera sicuramente. Io, Prentiss, Morgan e
Dave torniamo in strada, voi andate dall’avocato Acorn e quando finite
raggiungeteci.” Ordinò Aaron.
“Ricevuto...”
risposero i cinque agenti preparandosi a partire.
Come sempre
in quegli ultimi giorni, il posto di guida era occupato da Reid che si dirigeva
in silenzio verso l’indirizzo segnalato da Penelope come lo studio
dell’avvocato Joseph Acorn. Sul sedile accanto a lui c’era JJ, anche lei non
parlava, si limitava a guardare fuori dal finestrino con un’espressione
particolarmente preoccupata.
“Non eri
costretta a venire.” Disse infine il ragazzo vedendo gli occhi blu di lei
saettare verso di lui.
“Non sono
stata costretta, lo faccio perché lo voglio. Ma soprattutto, potrebbe servirti
il mio aiuto.” Precisò. Il silenzio si fece di nuovo fitto.
La ragazza
sospirò prima di parlare di nuovo. “Sei pronto per qualsiasi cosa scopriremo?”
“Perché me
lo chiedi?”
“Perché ti
vedo troppo coinvolto...”
“Siamo arrivati.”
Aveva evitato la domanda, non era per nulla un buon segno. Posteggiò il SUV e
si diresse seguito dalla donna verso il grattacielo di quaranta piani dove
aveva sede lo studio legale.
“Ascensore...”
disse Jennifer vedendo il ragazzo dirigersi verso le scale. “Non vorrai fare
ventitre piani a piedi?”
“Ah...”
deglutì lui spaventato. “Certo che no.” Si convinse allora ad entrare nella
scatola metallica al cui interno non c’era nessun altro oltre la collega che
schiaccio il pulsante per il ventitreesimo piano.
“Paura?”
chiese vedendo diventare il ragazzo sempre più pallido.
“No, anche
se diciamo che le statistiche non aiutano.”
“Ma riesci a
fare qualcosa senza pensare alle statistiche?” sorrise lei.
“Va
bene...allora diciamo che parlo per ricordo di vecchie esperienze.”
“Già va
meglio...rimasto bloccato qualche volta?” domandò ancora nell’intento di
distrarlo per tutto il tempo della corsa.
“Non dirmi
che non te l’hanno raccontato. Con Morgan, durante un caso. Ha completamente
perso la testa...e anche se dicono il contrario, io non avevo paura. Anzi
cercavo di calmarlo, era lui che stava per morire dal panico...”
Si bloccò
per lo sguardo sul viso dell’agente Jareau, lo fissava fin troppo seria. “Visto
che ti piacciono le statistiche...quante probabilità ci sono che io non creda a
questa storia?” disse lei.
Proprio su
uno dei classici sguardi da cucciolo bastonato che riusciva a sfoderare Reid le
porte dell’ascensore si aprirono rivelando il piano desiderato. “Da questa
parte...” indicò il giovane raggiungendo la porta che recava la targhetta dello
studio associato. La segretaria li lasciò entrare chiedendo loro di attendere
qualche minuto, il tempo che l’avvocato Acorn avesse terminato l’appuntamento
in corso. Quando finalmente fu il momento di entrare furono accolti da un uomo
distinto, con una folta barba bianca. “Cosa vuole l’FBI da me?” chiese porgendo
la mano agli agenti. Era completamente all’oscuro del motivo della loro visita.
“Niente di
compromettente, non si preoccupi. Volevamo solo sapere se per caso aveva
qualche documento della perizia psicologica effettuata in sua presenza
dall’agente Jason Gideon su Nathan Harris. Parliamo di qualche anno fa, quattro
all’incirca, ma speravamo che avesse un archivio magari.” Spiegò brevemente JJ
con la sua solita dolcezza e pacatezza mentre prendeva posto di fronte alla
scrivania.
“Posso
provare a controllare se ho qualche traccia. Anche se stranamente quel ragazzo
mi colpì molto. Un attimo di pazienza.” Si rivolse all’interfono che aveva sul
tavolo. “Agatha, un favore, controlla nell’archivio se c’è un documento a nome
di...” spostò gli occhi verso i suoi ospiti.
“Nathan Harris.” Sussurrò Spencer.
“Si esatto, Nathan Harris. Se
lo trovi portalo subito nella mia stanza.” Concluse concentrandosi poi sui due
federali. “Come vi dicevo, ricordo quella storia, ma come potete vedere la
memoria non mi accompagna molto, quindi preferisco avere i documenti alla mano.
Era un ragazzo particolarmente disturbato, la mia presenza lo metteva in
imbarazzo, ma ha comunque risposto alle domande del vostro collega. Ma come mai
chiedete a me?”
“Lui...”
cominciò Spencer, ma non riuscì a proseguire.
“L’agente
Gideon ha lasciato l’FBI da un po’ di tempo e non ci sembrava il caso di
cercarlo per una cosa del genere.” Intervenne in suo aiuto la donna.
“Capisco,
spero nulla di grave. Ricordo che il ragazzo era sospettato di omicidio, si
rivelò colpevole?”
“No, ma
stavolta potrebbe esserlo...” rispose il dottor Reid voltandosi poi verso la
porta alla quale qualcuno aveva bussato. Il battente si aprì per lasciare
entrare la segretaria che si diresse a passo spedito verso l’avvocato, al quale
consegnò un fascicolo che teneva tra le mani, uscendo poi subito dalla stanza.
“Ecco qui.
Nathan Harris, il ragazzo conosceva i segnali d’allarme della psicopatologia
del dottor Hare e affermava di non aver mai bagnato il letto o appiccato
fuochi. Si preoccupava del suo essere e alla domanda se avesse mai fatto del
male a qualcuno, aveva ammesso di aver ucciso un uccellino perché si sentiva
triste, questo...”
“Avvocato,
mi scusi.” Lo interruppe Jennifer. “Se non le dispiace, potremmo avere una
copia del materiale così da poterlo mostrare ai nostri colleghi?”
“Ma certo,
nessun problema.” Chiamò immediatamente Agatha per farsi produrre una copia dei
documenti che consegnò ai federali accompagnandoli alla porta.
Una volta
sul pianerottolo, JJ stuzzicò Spencer. “Sei ancora convinto sul voler fare le
scale?”
“Ma no dai,
vada per l’ascensore.” Rispose avviandosi non troppo sereno verso la cabina.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Then you catch him CAP17
CAPITOLO 17
Questa volta
Jennifer aveva optato per guidare lei, così che il piccolo genio potesse
rapidamente leggere i documenti e aggiornare telefonicamente i colleghi che
erano già in strada a Washington.
“Hotchner!” rispose
al telefono il capo. Reid si era premurato di mettere il vivavoce e poggiare il
telefono nel posto adibito all’interno del SUV, così da avere le mani libere e
poter maneggiare meglio i documenti. Nel frattempo dall’altra parte i colleghi
si stavano raccogliendo intorno ad Aaron che aveva fatto lo stesso per
permettere a tutti di essere aggiornati.
“Abbiamo i
documenti e il profilo è praticamente nero su bianco.” Esordì il giovane
cercando di riordinare i fogli datigli dall’avvocato Acorn. “Nathan conosceva i
segnali d’allarme della psicopatologia del dottor Hare e affermava di non aver
mai appiccato incendi e di non bagnare il letto. Jason lo lodò per la sua
curiosità che lo portava a interrogarsi e documentarsi su quello che gli stava
accadendo, ed è riuscito anche a fargli dire che da piccolo aveva ucciso un
uccellino, sapendo che anche questo fosse presente nella triade del dottor
Hare. Harris ammise di aver provato un senso di sollievo nel compiere quel
gesto: era triste e dopo si sentiva felice perchè lui era ancora vivo.”
“La violenza
diventa uno sfogo per un adolescente che non ha ancora esperienza sessuale. Ha
incanalato i suoi sentimenti nel gesto che poteva meglio sfogarli e farlo
sentire meglio.” Aggiunse Morgan aspettando poi di sentire altro dal giovane
collega.
“Le domande
di Gideon si sono spinte allora più sul personale. Nonostante l’iniziale
imbarazzo il ragazzo ha risposto, confidando di avere strani pensieri,
culminati addirittura nell’esserci eccitato alla vista di una donna nuda a
lezione in facoltà da sua madre.”
“Beh, non
può capitare ad una certa età?” interruppe JJ senza distogliere l’attenzione
dalla strada.
“Può
succedere.” Rispose Spencer. “Ma lui ha detto di essersi sentito bene solo
perché pensava che quella donna era morta.”
“È peggio di
quello che pensavamo.” Sospirò David.
“Sulle
prostitute ha detto qualcosa?” domandò Emily.
“Si.”
Rispose il magro ragazzo continuando a rovistare tra i fogli in cerca di quello
giusto. Aveva già memorizzato tutto, ma visto il coinvolgimento personale non
voleva sbagliare qualche dato. “Ecco qui. Ha detto che quando vede le
prostitute non immagina di farci...sesso, ma di aprirle in due.”
A quelle
parole seguì il silenzio e anche la stessa Jennifer voltò lo sguardo verso il
collega accanto a lei.
“Come
l’ultima vittima.” Derek fu l’unico ad avere il coraggio di rompere la stasi
del momento. “Ha detto anche il perché?”
“Non lo
sa...forse per guardarci dentro, ma si eccita nel sentire il sangue scorrere
sulle sue mani. Il semplice pensiero gli fa raggiungere l’orgasmo, che alimenta
con immagini che non riesce ad allontanare dalla mente.”
“La fantasia
sta alla base del sadismo sessuale,” cominciò a spiegare l’agente Rossi. “Gli
serve da giustificazione. Si inizia con riviste e video...”
“…come
quelli che ha trovato la madre in camera quando si è decisa a farlo
ricoverare.” Aggiunse Reid.
“...quando
nemmeno questo riesce a soddisfarli si rivolge alle prostitute e se continua a
non funzionare, passa alla vittime. La fantasia è sempre perfetta e quando
l’S.I. si rende conto che anche mettendola in atto non ritrova la stessa
perfezione, continua a ricercarla con altri omicidi.” Concluse l’agente
anziano.
“Le
conclusioni di Jason?” chiese infine Hotch.
“Discusse
con la madre e poi relazionò all’avvocato Acorn la necessità di un ricovero per
Nathan. Aveva bisogno di assistenza medica a tempo pieno da parte di
professionisti, viste le fantasie omicide direttamente collegate ai suoi
impulsi sessuali e al loro sfogo.”
“Allerto la
polizia, stasera potremmo prenderlo. Raggiungeteci sotto il Campidoglio, ci
divideremo in squadre e pattuglieremo le strade.” Ordinò Aaron prima di
interrompere la comunicazione. Si guardarono tutti negli occhi prima di
dirigersi al luogo in cui avrebbero dovuto incontrare gli altri due colleghi.
Spencer si
allungò sul sedile per riprendere il telefonino e dopo esserselo rimesso in
tasca, riordinò tutti i fogli che aveva sparsi sulle gambe. Cominciava a far
buio e avrebbero dovuto affrontare un’altra dura nottata. Cominciò a riflettere
ad alta voce mentre richiudeva il fascicolo che aveva tra le mani. “Sai? Gideon
cercò di convincermi che i profili e le valutazioni non fossero scienze esatte.
Ma lui stesso ammise che la domanda non fosse se Nathan avrebbe finito per
uccidere, ma semplicemente quando questo sarebbe accaduto.”
“Pensi che
non sia stato fatto il necessario?” chiese la ragazza.
“Penso che
se solo...” si interruppe ripensando a quella sera. Lo squillo del suo
cellulare, quella voce nel panico, la corsa in quella stanza del motel e poi...
“Spence...va
tutto bene?” l’agente Jareau lesse la paura nel volto del collega e lo riscosse
dai suoi pensieri.
“Si,
si..dicevo solo che...se lo avessero saputo trattenere in clinica magari non
saremmo arrivati a questo punto.” Mentì, ma JJ non volle indagare di più
percependo lo sconforto in quelle parole.
La sera. Il
momento della giornata che preferiva maggiormente. Vagava per le strade di
Washington guardando la gente, ma soprattutto le prostitute. C’era voluto del
tempo prima che si decidesse ad avvicinarne veramente una. Era successo quattro
anni prima, poi era stato costretto a smettere, ma non appena libero aveva
ricominciato. Sapeva che non poteva fermarsi a guardarle, a parlare con loro.
Doveva agire, doveva provare a farle finalmente sue, magari quel gesto avrebbe
incanalato i suoi impulsi in un altro sfogo non nocivo per nessuno.
“Calma, non
voglio farti del male.” Disse stringendo con forza quel braccio. Ormai erano in
confidenza.
“Ancora tu?”
chiese la donna.
“Non mi
piace il tuo tono.” Ammonì prima di tirarla a sé. “Stasera scelgo te.” Sorrise.
“Annie che
succede?” chiese un’altra ragazza avvicinandosi preoccupata per la scena che
accadeva sotto i suoi occhi.
“Tu sei
nuova, sta tranquilla.” La tranquillizzò lui. “Annie diglielo che stiamo solo
giocando...” le ordinò stringendo ancora di più la presa.
“Si...”
mormorò la donna con il fiato spezzato. “Ci...ci conosciamo. Sa che mi piace la
violenza.” Balbettò fingendo di essere tranquilla.
La ragazza
aveva sentito le voci che giravano da un po’ di tempo e non era sicura che
quello che vedeva fosse solo un gioco. “Ah va bene...magari posso unirmi a voi.
Se mi dite in che motel andate...” azzardò, così da assicurarsi di avere
l’amica sotto controllo.
La ragazza
deglutì, mentre l’uomo ci pensò su qualche istante. Sarebbe stato tutto più
stimolante.
Emily stava
osservando la strada quando vide il SUV di JJ accostarsi e posteggiare. Vide
venir fuori i due colleghi che li raggiunsero.
“Il
Detective Carlson è stato avvertito, in strada ci sono agenti in borghese, le
prostitute sono state allertate anche. Teniamo gli occhi aperti, potrebbe colpire
prima della notte. Gideon ha sottolineato più volte l’intelligenza del ragazzo,
spiegando che quando avrebbe agito, sarebbe stato preciso ed efficiente. Rimaniamo
in macchina, se ci vede potrebbe non farsi vivo.” Spiegò brevemente l’agente
Hotchner e dopo un segno con il capo continuò, “Io vado con JJ e Prentiss,
Reid, Morgan e Rossi sarete insieme. Ricordate che se è veramente Nathan
Harris, conosce i nostri volti.”
Si
separarono tutti, le due donne e il capo in un SUV da una parte, e gli altri
tre uomini dall’altra. Era snervante dover rimanere chiusi in una macchina
senza potersi muovere liberamente, senza entrare nel vivo dell’azione. Hotch
continuava a smistare telefonate insieme a JJ, erano il centro delle
comunicazioni tra l’FBI e la polizia. A qualche chilometro di distanza gli
altri tre uomini discutevano del caso.
“Hai parlato
con l’FBI.” Disse il ragazzo nel silenzio della stanza guardando la donna
timidamente seduta sul letto.
“Cosa te lo
fa pensare?” chiese lei con estrema naturalezza.
Il ragazzo
si avvicinò e solo quando fu a pochi centimetri dal suo viso le rispose. “Non
lo penso. Ti ho visto.” Ringhiò. Ora le cose si stavano mettendo veramente male.
“Spogliati.” Le ordinò infine. Lei si alzò e cominciò a svestirsi, ripetendosi
mentalmente che quello era il loro mestiere, dovevano fingere, dovevano
accontentare il cliente qualsiasi cosa richiedesse. Anche se il cliente era un
pazzo.
Un lieve bussare
al vetro del SUV catturò l’attenzione di JJ che si voltò quasi spaventata prima
di tirar giù il finestrino. Una delicata ragazza la stava fissando spaventata.
“Siete dell’FBI?” domandò timidamente. La bionda cercò di tranquillizzarla e
rispose affermativamente. “Ci hanno detto quello che sta accadendo, io...io ho
visto un ragazzo comportarsi in modo strano con Annie...” sussurrò guardandosi
intorno.
“In che
modo?” chiese Prentiss avvicinandosi a lei.
“La
strattonava con forza, lei ha cercato di tranquillizzarmi, ma non mi ha
convinto del tutto.”
“Sono andati
via insieme?” intervenne Hotch, prendendo già tra le mani il cellulare e al
cenno del capo della ragazza aggiunse allarmato, “Sai in che motel?”
Derek era
appoggiato al volante mentre si guardava intorno. Rossi e Reid stavano
discutendo di Nathan Harris, di altri dettagli che il giovane continuava a
ricordare e a riferire ai colleghi, quando il cellulare dell’agente di colore suonò.
Si voltarono tutti a guardarlo mentre rispondeva. “Come? Si. È a qualche
isolato di distanza da noi, vi raggiungiamo.” Disse riponendo poi il telefono e
mettendo velocemente in moto.
“Che
succede?” chiese Spencer allarmato.
“Ha preso
un’altra donna una mezz’ora fa, sappiamo in che motel sono andati.”
Il luogo
indicato era dietro l’angolo della strada in cui avevano posteggiato Hotch, JJ
e Prentiss. I tre scesero dal SUV e si diressero verso la struttura dividendosi
per coprire meglio l’edificio. Aaron si fermò per chiamare il Detective e i
rinforzi, mentre le due donne si avviarono nella struttura. Emily controllò le
registrazioni all’ingresso e non appena rintracciò il numero della stanza lo
comunicò a Jennifer che si trovava proprio di fronte a quella porta.
La ragazza
bionda e con gli occhi azzurri continuava a baciarlo, ma lui ancora una volta
non provava nulla. Solo l’intensa voglia di colpirla. Il ritmo della donna che
si muoveva su di lui cercando invano di eccitarlo cresceva sempre di più, fin
quando in preda alla noia più totale lui estrasse dalla tasca il solito
coltello e lo infilò dritto nel cuore della prostituta. Non ebbe nemmeno il
tempo di percepire il sangue toccare le sue mani che la porta si spalancò
rivelando un viso che lui conosceva. Guardò la donna che puntava la pistola
contro di lui e non riuscì a trattenere una risata ricca di soddisfazione.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Then you catch him CAP18
CAPITOLO 18
I tre agenti
si trovavano più lontano di quanto credessero dal luogo segnalato come il motel
in cui il loro S.I. aveva portato la donna. Arrivarono dopo parecchi minuti e
assistettero ad una scena di puro caos. La folla era raccolta intorno
all’ingresso dell’edificio. Morgan posteggiò il SUV e i tre scesero afferrando
le pistole e facendosi largo verso l’ingresso.
Ancora prima
che potessero arrivare a varcare la soglia, il suono di un’ambulanza che si
avvicinava attirò la loro attenzione. Si voltarono tutti verso il veicolo che
si fermò proprio lì davanti, mentre i paramedici si precipitavano all’interno
del motel. Proprio accanto alla reception c’era Hotch che dava indicazione agli
uomini per raggiungere la stanza.
“Eravamo
troppo distanti. Cos’è successo?” chiese Derek con il volto nervoso.
“La vittima
è sopravvissuta, ma ha urgente bisogno di essere portata in ospedale. Emily è
con lei.” disse l’uomo riponendo la pistola.
“L’avete
preso?” gli occhi di Spencer imploravano una risposta positiva da parte del suo
capo, che invece si limitò a scuotere il capo in segno negativo. Rossi si rese
conto che qualcosa non andava bene, ma non domandò nulla, mentre la barella con
la donna sfilava accanto a loro. Ancora una volta l’S.I. aveva scelto una donna
bionda e dalle iridi azzurre.
“Non riesce
a dire nulla. È sotto shock, dovremmo provare a parlarle in ospedale. Sempre
che se la cavi.” Esordì Prentiss raggiungendoli dal fondo e scambiando un
misterioso sguardo con Aaron.
“Stessa
vittimologia, ma qualcosa è andato storto questa volta.” Disse David per essere
interrotto da Reid.
“Dov’è JJ?”
riuscì a dire con un filo di voce. Quello che seguì fu il silenzio, quindi il
ragazzo ripeté nuovamente la domanda alzando il tono. Derek e Dave si
guardavano interrogativi, Hotch non parlava, e Emily cercava di far andar via
le macchie di sangue dalle sue mani. “Volete dirmi cos’è successo?” gridò
infine il magro ragazzo, avviandosi poi velocemente verso la stanza in cui era
stata trovata Annie. Rimase immobile sulla porta, non riuscendo a fare un passo
in avanti.
“Mi stavo
mettendo in contatto con il Detective Carlson, Prentiss era alla reception e
lei si è diretta da sola qui...” spiegò Hotch raggiungendolo alle spalle.
“E ora
dov’è?”
“Non lo
sappiamo. Presumibilmente l’ha presa il nostro S.I.” ammise.
Spencer fece
qualche passo in avanti guardando la scena. Ancora del sangue a terra, stavolta
meno abbondante delle volte precedenti, e il resto della stanza in perfetto
ordine. Poi un particolare attirò la sua attenzione, si voltò verso il tavolo e
si avvicinò timoroso, mentre con la coda dell’occhio notava Aaron che lo
controllava. Allungò la mano sul ripiano afferrando quel piccolo oggetto di
carta che rigirò un paio di volte tra le dita per accertarsi di quello di cui
era già fin troppo sicuro. “È lui Hotch.” Disse non riuscendo a smettere di
osservare il suo biglietto da visita lasciato in quella camera.
Era successo
tutto con troppa velocità perché se ne rendesse conto. Forse aveva
completamente sbagliato nell’avventurarsi per quei corridoi da sola. Riusciva a
pensare solo a suo figlio, non le importava di quello che sarebbe potuto
accadere a lei.
Aveva
spalancato quella porta e si era trovata davanti il ragazzo che aveva
accoltellato la donna. Non appena l’aveva vista si era lasciato andare ad una
fragorosa risata che l’aveva paralizzata. Non aveva sparato, non riusciva a
tirare il grilletto, mentre lui si alzava lasciando cadere il corpo agonizzante
della donna e puntava ora il coltello alla sua gola. Ripose la pistola come le aveva
ordinato di fare sotto minaccia della fredda lama e poi i ricordi si facevano
confusi e incomprensibili. Si era risvegliata in un posto umido e buio. Sola.
“Era di
turno lei quando è stata occupata la stanza?” chiese Morgan all’uomo alla
reception.
“Si, era un
ragazzo strano...se vuole le posso dare il nome.” Rispose afferrando già la
grossa agenda per le registrazioni.
“Non serve,
si sarà registrato con un nome falso. Lo riconosce?” chiese ancora l’agente
allungando sul ripiano la foto di Nathan Harris. La risposta dell’inserviente
fu positiva, quindi l’uomo di colore tornò da Dave e Emily che lo aspettavano
poco distante discutendo ancora di quello che poteva essere successo a
Jennifer.
“Lo ha
identificato.” Disse mostrando la foto ai colleghi. Tutto stava andando nella
direzione sbagliata.
“La
donna...” sussurrò Rossi alzando di colpo gli occhi verso Derek. “Aveva un aspetto
familiare, è la prostituta che ci ha avvicinato in strada.”
“Ci avrà
visto parlare con lei.”
“Qualcuno
dovrebbe andare in ospedale e provare a parlarle non appena possibile.” Propose
Prentiss e poi si voltò verso i due agenti che arrivavano dal corridoio.
“Mi ha
lasciato questo.” Disse Reid allungando verso gli altri il suo biglietto da
visita.
“L’uomo alla
reception ha riconosciuto la foto di Nathan.” Informò l’agente Morgan,
attendendo ora istruzioni dal capo.
“La
vittimologia è ancora una volta la stessa, ci deve essere uno schema alla base
che ci sfugge. Ha iniziato la sua mattanza e non si fermerà.”
“Ma ora ha
preso JJ, lei...si insomma, lei non è una prostituta, quindi dobbiamo
ipotizzare che il suo modello cambi.” Intervenne la donna volendo rassicurare
in primo luogo se stessa. Il silenzio seguente fu spezzato dalla voce di Aaron.
“Prentiss,
vai in ospedale e cerca di interrogare la donna se possibile. Dobbiamo sapere esattamente
cosa è successo in quella stanza. Noi torniamo in ufficio e cerchiamo di
ripercorrere i vari passi di questa storia per trovare un qualsiasi indizio che
ci aiuti.” Ordinò avviandosi poi verso l’uscita. I quattro uomini salirono su
un SUV diretti a Quantico, mentre Emily prese l’altro e raggiunse l’ospedale
sostando per svariate ore nei corridoi in attesa di sapere se Annie avrebbe
potuto rispondere alle sue domande.
Penelope
osservava con sguardo lucido lo schermo posto in alto nella sua stanza, quella
voce rimbombava nelle sue orecchie.
“Stanotte l’uomo che si aggirava per le
strade di Washington uccidendo le prostitute è tornato a colpire, ma questa
volta non è riuscito a portare a termine il suo intento. La donna che aveva
avvicinato è stata portata via dai paramedici in condizioni critiche e alcune
indiscrezioni ci informano che sia scomparsa un’agente dell’FBI…” queste
erano le ultime parole che la donna era riuscita a sentire prima di cadere nel
caos più totale. Solo dopo parecchio tempo riuscì a riscuotersi e a farsi forza
per uscire dalla sua stanza, per raggiungere l’open space. Voleva incontrare i
suoi colleghi e rendersi conto che era tutta una menzogna, ma una parte del suo
cervello permaneva nel panico.
Lo spazio
comune era ancora deserto e Garcia continuava a fare avanti e indietro tra le
scrivanie ripetendosi ad alta voce che andava tutto benissimo, che fosse solo
un trucco architettato dalla squadra per cogliere l’uomo con le mani nel sacco.
Poi l’ascensore si aprì rivelando Aaron Hotchner, subito seguito da Derek,
Spencer e David. Un tuffo al cuore della donna la fermò sui suoi passi. Gli
uomini si avvicinarono a lei sconfitti.
“Emily e JJ
sono ad interrogare la vittima...non è così?” domandò con gli occhi spalancati
dietro i colorati occhiali. Nessuno rispose alla sua domanda. Vide Reid sedersi
pensieroso alla sua scrivania, mentre gli altri uomini indugiavano lì intorno.
“Annie
Temper, la prostituta che è scampata. Ci serve che trovi tutte le informazioni
necessarie.” Disse l’agente Hotchner.
“Mi perdoni,
signore, ma prima vorrei una risposta alla mia domanda.” Insistette con audacia
la tecnica.
“Prentiss
sta aspettando di avere notizie della donna all’ospedale.” Rispose
semplicemente il supervisore capo.
“E JJ?”
sussurrò con pochissimo fiato in gola. Saettava con gli occhi su tutti i suoi
colleghi, solo gli occhi di Derek per lei non erano un mistero. E quegli occhi
trasmettevano paura e preoccupazione. “La stampa aveva ragione, ha preso
un’agente. Ha preso JJ...” si rispose da sola prima di essere abbracciata
dall’aitante uomo di colore.
“Garcia, ci
serve il suo aiuto per trovarla.” Intervenne David.
“Hanno
confermato che si tratta del nostro ragazzino?” chiese allontanandosi dal corpo
di Morgan che scosse il capo in segno affermativo. “Mi metto subito al lavoro.”
Concluse avviandosi nuovamente nella sua stanza, con il cuore che continuava a
pulsare.
“È una
parente di Annie Temper?” chiese una voce alle sue spalle e Emily si voltò per
incontrare un omone completamente vestito di blu con una cartella in mano.
“Veramente
no.” Sussurrò portando una mano alla tasca posteriore dei pantaloni. “Agente
Emily Prentiss, FBI. Sono qui perché vorrei avere la possibilità di rivolgere
qualche domanda alla donna, non appena sarà possibile ovviamente.”
“Mi
dispiace. Non ce l’ha fatta.” Annunciò il medico con sguardo vuoto. La donna
avvertì un tuffo al cuore. Avevano bisogno di parlare con Annie, scoprire anche
il minimo dettaglio che li avrebbe condotti a dove Nathan Harris teneva JJ. E
invece brancolavano nel buio.
“La...la
ringrazio.” Balbettò voltandosi poi per estrarre il cellulare. “Hotch, Annie
Temper...lei non ce l’ha fatta...” annunciò nel panico.
Ripose il
cellulare fissando i tre colleghi in attesa di notizie. “La nostra vittima non ha
superato l’intervento.” Riferì notando la reazione sconfitta degli agenti. “Ci
è rimasto solo il profilo...” aggiunse invitandoli a seguirlo in sala
conferenze dove si trovavano le prove.
“Vittimologia...”
cominciò David nell’intento di raccogliere le idee in cerca di quello che era
sfuggito loro.
“Prostitute
di Washington, bionde e con gli occhi azzurri.” Ripose immediatamente Derek.
“Perché
proprio quei colori?” intervenne Hotch, che notò il piccolo genio alzarsi dalla
sedia e avvicinarsi al tabellone per guardare meglio le foto delle due vittime,
ancora la foto di Annie Temper non era stata aggiunta.
“La
madre...” sussurrò alzando un dito vicino al viso.
“Come?”
chiese Morgan avvicinandosi.
“Sarah
Harris è bionda e ha gli occhi azzurri. Lei lo ha abbandonato in clinica...”
spiegò meglio il dottor Reid.
“Sta
ripetendo l’uccisione della madre?” Aggiunse Rossi portandosi le mani alle
tasche.
“Reid, torna
a interrogarla e cerca di scoprire il maggior numero di informazioni, tutto
quello che non ha detto prima. Posti dove andava il figlio per stare solo,
segreti, ogni cosa può essere rilevante.” Ordinò il capo al ragazzo pronto ad
avviarsi fuori dalla sala conferenze. “Noi allertiamo la polizia, ma non
facciamo mosse avventate o potremmo spingerlo ad uccidere JJ.”
“Se non l’ha
già fatto...” disse con estremo realismo Derek. Ricordava la spietatezza di
quel giovane ragazzo che aveva dovuto interrogare, non sembrava il tipo da
farsi scrupoli. Sapeva quello che voleva e l’avrebbe ottenuto, in un modo o in
un altro.
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
Then you catch him CAP19
CAPITOLO 19
I suoi occhi
si stavano abituando lentamente all’oscurità, ma quell’odore nauseabondo di
umidità aveva ormai saturato le sue narici. Si muoveva sul pavimento freddo
cercando di spostarsi, non aveva le gambe legate. Ciò preferiva attribuirlo al
fatto che evidentemente per lei non c’era via di fuga da quel luogo piuttosto
che alla distrazione del ragazzo, che sapeva essere fin troppo intelligente e
organizzato.
Un rumore
raggiunse improvviso le sue orecchie, una porta che si apriva con grande
rumore. JJ fece silenzio nascondendosi nell’angolo in cui si trovava. Qualcuno
si stava muovendo in quell’ambiente alla ricerca di qualcosa. Lo sentì agitarsi
e poi scorse una fioca luce avvicinarsi a lei, mostrandole quegli occhi azzurri
che conosceva. Iniziò ad indietreggiare sul pavimento.
“Agente
Jareau, perché scappa?” chiese la voce, mentre la donna continuava ad
osservarlo in silenzio. “È così forte quando parla di fronte alle telecamere e
poi davanti a me si spaventa?” domandò ancora.
“Ti
troveranno.” Disse semplicemente lei raddrizzando la schiena in moto di sfida.
“E chi le
dice che non è quello che voglio?” provocò ancora il giovane. Le iridi azzurre
della ragazza vibravano vigili, mentre lo vedeva avvicinarsi sempre più a lei.
Cercò di mantenere la calma, mentre sentiva il suo fiato su di sé.
“Io non sono
come le donne che hai ucciso.” Rispose sicura allontanandosi.
“Oh, agente
Jareau, lo so benissimo. Ma nessuno le ha detto che mi interessa riservarle lo
stesso trattamento.” Continuò lui lasciandola sfuggire alla sua presa. Si
rimise in piedi e si voltò. “Perché devo far del male all’esca che mi porterà
da colui che più di tutti mi preme incontrare?” concluse allontanandosi e
portando via quell’unico spiraglio di luce, lasciando così nuovamente la donna al
buio.
Gli agenti
Hotchner, Rossi e Morgan aveva ragguagliato le forze di polizia sulla
situazione vigente. Una loro collega era ostaggio di un S.I. e dovevano fare di
tutto per ritrovarla ancora viva e arrestare il colpevole.
Poi si erano
separati, Dave e Derek si erano messi in contatto con l’uomo della reception
dell’ultimo motel, lo stesso che aveva riconosciuto la foto di Nathan Harris
doveva ora rilasciare loro il maggior numero di informazioni possibili. Lo
stavano aspettando a Quantico quando lo videro arrivare e lo condussero nella
sala interrogatori. L’uomo si irrigidì leggermente per la formalità del
colloquio.
“Sono
accusato di qualcosa?” chiese una volta arrivato nella stanza.
“No…signor…?”
cominciò David prendendo posto sulla sedia.
“Grane.”
Rispose l’uomo rimanendo in piedi e continuando a stringere tra le mani
l’agenda.
“No, signor
Grane, dobbiamo solo farle qualche domanda sull’uomo che stiamo cercando.
Precisamente sul suo comportamento...” continuò l’agente anziano ma fu
interrotto dall’uomo.
“Io non
ricordo...molto.”
“Signor
Grane, non si preoccupi.” Intervenne il ragazzo di colore richiudendo la porta
e raggiungendo il tavolo. “La aiuteremo noi a ricordare, però si deve sedere.”
Lo invitò indicando la sedia dall’altra parte del tavolo. Lo vide guardarsi
intorno dubbioso, prima di decidere di mettersi finalmente comodo. Lasciando il
piccolo libro alla sua sinistra.
“Va
bene...ditemi cosa devo fare.”
“Si rilassi,
poggi le mani sul tavolo e chiuda gli occhi. La guiderò a rivivere la serata in
cerca di elementi importanti.” Spiegò brevemente Derek vedendo il signor Grane
reagire alle sue indicazioni. Quando capì che era pronto, cominciò sotto lo
sguardo vigile di Dave che non sarebbe intervenuto. “È la sua solita serata di
lavoro, in cosa consiste?”
“Sono seduto
oltre il bancone all’ingresso del motel, la gente entra e mi da le generalità
per affittare una stanza. Spesso si tratta di prostitute con i loro clienti.”
“Si è appena
seduto, sta iniziando il suo turno di lavoro. Chi è la prima persona ad
entrare?”
L’uomo
corrugò la fronte un attimo, “Peter, lui viene sempre nei giorni dispari, mi
chiede la solita stanza. Sua moglie non sa...”
“La stanza è
libera?”
“Si, gli do
la chiave e se ne va.”
“Poi cosa
succede?”
“Accendo la
televisione...”
“Non sta
entrando più gente?” lo sguardo dell’agente Morgan si posò su un silenzioso
Rossi che si allungava sul tavolo per afferrare l’agenda e controllare le
affermazioni di Grane.
“No,
stranamente una serata tranquilla.”
“Quando
cambia qualcosa?”
“Più
tardi...entra Fanny, con un cliente. Le do la chiave e va via.”
“Poi cosa fa
signor Grane?” chiese Derek voltandosi verso Dave che con un cenno del capo
confermò ciò che aveva appena detto l’uomo.
“Ricomincio
a vedere la televisione, ma...” si interruppe improvvisamente.
“È arrivato
lui?”
“La porta si
apre di scatto, è Annie, con un giovane ragazzo.”
“È nervosa?”
“La saluto
come sempre, ma lei non risponde, mi guarda...ed è spaventata. Oddio, dovevo
capirlo...”
“Signor
Grane, resti concentrato, non è colpa sua. Ci parli dell’uomo che è con lei.”
“La stringe
al braccio, la tiene vicina e lei non lo guarda, lascia parlare lui.”
“Si soffermi
su di lui...come è vestito?”
“Rasato di
fresco. Ha...ha un cappotto. Scuro. Sembra un capo su misura, niente di
particolare, nessuna stampa, niente. Mi dispiace io...non...”
“Sta andando
benissimo, ha qualcosa con sé?”
“Niente,
tiene...tiene la mano nella tasca destra...”
“Le sta
parlando?” Grane confermò con un cenno del capo in segno affermativo. “Cosa le
sta dicendo?”
“Mi guarda
fisso negli occhi, e mi dice che ha bisogno di una camera. Io afferro l’agenda
e gli chiedo il nome. Adam Leeson, io lo appunto e sento un mormorio.” Derek lo
vide strizzare gli occhi. “Sollevo lo sguardo e la sta stringendo più forte. Ma
penso che sia una cosa normale, cioè...insomma a qualcuno piace con la
violenza. Consegno la chiave, la afferra lei, la mano le trema. Poi scompaiono
lungo il corridoio.”
“Lei cosa
fa?”
“Chiudo
l’agenda e mi rimetto a guardare la televisione, poi si apre nuovamente la
porta, una donna bruna con la pistola mi chiede in che stanza può trovarli.”
“Prentiss...grazie
signor Grane.”
L’uomo
riaprì gli occhi sentendosi lievemente confuso. “Mi dispiace, io...potrei
averlo evitato, potrei aver visto qualcosa, ma non ricordo.” Si portò una mano
alla fronte.
“Ci è già
stato di grande aiuto.” Rispose Rossi rimettendosi in piedi. Accompagnarono
l’uomo fuori dalla sala e poi si guardarono negli occhi. Le informazioni appena
avute avevano rivelato loro qualcosa di importante.
Aaron era
rimasto solo dopo il colloquio con le forze di polizia. Dopo aver espletato
altre operazioni di routine e burocratiche, quelle di cui si solito si occupava
Jennifer, si era quindi diretto all’ufficio di Penelope per capire cosa aveva
scoperto di nuovo la loro informatica. Arrivato nell’ufficio la donna era
balzata in piedi fissandolo negli occhi. “Niente di nuovo.” Le disse e lei non
sapeva se esserne sollevata o no.
“Signore, io
ho cercato tutto quello che si può trovare su Nathan Harris, non ci sono carte
di credito a suo nome, non ha una patente di guida, niente che possa lasciare
una traccia del suo passaggio.”
“Annie
Temper?” chiese l’uomo e la donna rispose senza nemmeno voltarsi.
“Con tutto
il rispetto signore, non abbiamo trovato nulla di rilevante sulle altre due
vittime, non...non credo che indagare nella sua vita serva a qualcosa. È più
importante trovare Nathan.” Disse velocemente lasciando il supervisore capo
senza parole. Aveva ragione, e anche lui era preoccupato per JJ.
“Non ha
superato l’intervento.” La informò brevemente, prima che qualcuno bussasse alla
porta. Si voltarono entrambi e videro entrare Derek e David.
“Abbiamo
completato il colloquio con l’inserviente del motel. Nathan Harris era rasato
di fresco e indossava un capo su misura. Un cappotto di sartoria.” Informò brevemente
Rossi.
“Si mantiene
in qualche modo e anche bene.” Continuò Derek.
“Un lavoro?”
chiese Hotch grattandosi il mento.
“Non credo,
altrimenti non potrebbe controllare le prostitute durante il giorno.” Obiettò
ancora Dave.
“Come
dicevo, non ci sono carte di credito a suo nome. Se ha dei soldi, sono contanti.”
Garcia rispose cercando poi altre informazioni.
“Piccoli
furti?” azzardò Morgan.
“Perché
rubare dei soldi per farti fare un capo su misura, se puoi rubare direttamente
l’indumento. Non credo...” spiegò Aaron.
“Nathan
Harris, ha pubblicato il libro.” Esclamò Penelope lanciandosi alla ricerca.
“Magari si mantiene con i diritti e i soldi delle vendite. No...” concluse poi,
“non gli è stato pagato molto e non ha venduto che poche copie.” L’ennesimo
buco nell’acqua.
“Ha una casa
dove ha tutte le comodità, si fa cucire dei capi su misura di ottima
fattura,come si muove?” domandò l’agente anziano.
“Non c’è una
patente di guida a suo nome.” Ripeté l’informatica.
“Quindi o si
muove a piedi, per cui il suo appartamento o qualsiasi cosa sia è in zona,
oppure usa i mezzi pubblici e quindi...” cominciò Derek per essere interrotto
dall’agente Hotchner.
“...altri
soldi necessari.”
“Magari
qualche amico...” propose la donna ormai a corto di idee.
“Non lo so
bambolina, speriamo che Reid sia più fortunato di noi con questo secondo
colloquio con la madre del ragazzo.” concluse Morgan.
I quattro si
guardarono senza risposte. Potevano solo aspettare, anche se ogni minuto che
passava era un dubbio in più sulle sorti di JJ.
Spencer
aveva percorso velocemente il tragitto tra la sede della BAU e la casa di
Nathan Harris. Era notte e le strade erano deserte. Aveva posteggiato e si
trovava ora dinnanzi alla porta dell’appartamento in attesa di suonare e attendere
l’arrivo di Sarah ad aprirgli la porta. L’orario non era certo dei migliori e
avrebbe avuto molte cose da spiegare a quella donna. Troppe e difficili. Si
fece coraggio e bussò.
Nessuno
venne ad aprire, quindi insistette ancora, fin quando un’assonnata donna si
affacciò all’uscio, il suo sguardo mutò sensibilmente quando incontrò gli occhi
del giovane agente che era di fronte a lei.
“Dottor
Reid, è successo qualcosa?” chiese allarmata e ormai completamente sveglia.
“Devo farle
qualche domanda, ma è meglio se mi fa entrare.” Disse brevemente prima di
varcare quella soglia per prepararsi a scoprire la verità. Una volta per tutte.
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Capitolo 20 *** Capitolo 20 ***
Then you catch him CAP20
CAPITOLO 20
Continuava a
guardarsi intorno, incapace di prendere posto sul divano di fronte alla donna
che si era invece accomodata. Tranquilla, troppo tranquilla. Prima che
riuscissero a dirsi qualcosa, il telefono del ragazzo squillò e lui rispose.
Poche battute e ripose il telefono continuando a guardare la donna, che domandò
ancora una volta se fosse successo qualcosa.
“Signora
Harris, suo figlio aveva qualche amico molto intimo?” chiese infine l’agente,
voltandosi poi nuovamente verso gli scaffali di quel salotto.
“Io...non
credo. Cioè...non lo so.” Rispose balbettando.
“Lei e suo
marito volevate avere un figlio, o Nathan è stato semplicemente un incidente di
percorso?” disse a bruciapelo senza voltarsi, ormai incattivito dalla sua
implicazione in quella situazione e dalle risposte insensate della donna.
“Ma come si
permette...?” urlò lei alzandosi dal divano. Il giovane si voltò a fissarla.
“Dico
solamente, che più che indipendenza, quello che riserva a suo figlio mi sembra disinteressamento.
Non sa cosa fa, se ha amici, resta sempre solo...” continuò vedendo la donna
ritrarsi in silenzio e tornare seduta al suo posto. “Non è nemmeno troppo
preoccupata per la mia visita.” Concluse voltandosi di nuovo.
“Senta, io
ho il mio lavoro, la morte di mio marito ha fatto ricadere su di me tutta la
responsabilità anche di Nathan, ma lui è un ragazzo intelligente e forte. È
riuscito a crescere bene anche così.”
“Suo figlio
potrebbe essere responsabile di tre omicidi.” Confessò infine e notò la donna
non reagire in maniera sconsiderata, non disse nulla, quindi riprese a parlare.
“Si è dimesso dalla clinica quando ha compiuto diciotto anni, non sapeva
nemmeno questo?”
“Io...”
mormorò solamente la donna non aggiungendo altro.
“Crediamo
che abbia un posto dove vivere e soprattutto dei soldi. Chi l’ha riconosciuto
sostiene che usi capi di sartoria...”
“Dottor Reid
dove vuole arrivare?” chiese infine la donna all’agente che non smise di far
scorrere le dita sui libri, fin quando si fermò su un tomo che catturò la sua
attenzione. Nel silenzio lo afferrò e ne guardo la copertina, avviandosi poi
verso la donna e mostrandoglielo. Lei sollevò gli occhi dal volume agli occhi
del giovane. “Il romanzo illustrato di mio figlio...sono pur sempre una madre.”
“Ripeto la
domanda...” il ragazzo prese posto di fronte alla donna. “...non ha mai visto
suo figlio dal giorno del ricovero?” dopo che la donna scosse la testa in senso
negativo il ragazzo aprì la copertina. “Non è un libro comprato in una
libreria, ma uno di quelli che vengono dati agli autori da distribuire come
omaggio alle persone più intime.”
La donna lo
fissava non riuscendo a proferire parola, si stropicciava le labbra con le dita
di una mano. Tesa, ma non come qualcuno preoccupato per il proprio figlio.
Piuttosto come qualcuno preoccupato per se stesso. “È vero...” confessò
sospirando, “è venuto a cercarmi appena uscito dalla clinica. Era felice di
essere tornato a casa, ma io non riuscivo ad accettarlo. Mio figlio era stato
in una struttura psichiatrica...”
“L’ha
respinto di nuovo.” Completò Spencer accompagnato dal cenno di assenso della
donna.
“Qualche
tempo dopo mi sono ritrovata questo dietro la porta. L’ho preso come una sorta
di ringraziamento.”
“Per cosa?”
chiese l’agente. Tutto poteva immaginarsi tranne che Nathan dovesse in qualche
modo ringraziare la madre per qualcosa.
“Io gli
faccio avere dei soldi. Tutti quelli di cui ha bisogno e anche di più a volte.
Non ci incontriamo mai di persona, li lascio in facoltà in una busta. Lì non
sanno nulla di quello che è successo a Nathan, quindi semplicemente lui va lì a
ritirarli.”
“Lei sa che
le donne che uccide...sono tutte bionde e con gli occhi azzurri?” chiese quasi
sottovoce, provocando una reazione di terrore negli occhi della donna.
“Non sono
stata una buona madre...” sussurrò affondando il viso tra le mani.
“Signora
Harris, mi deve dire dove si potrebbe trovare Nathan.” Ordinò quasi il giovane,
trattenendo per un secondo il fiato, sentendo forse vicina la conclusione di
quel caso.
La donna
risollevò il volto verso l’uomo asciugando alcune lacrime che glielo rigavano.
“Questo veramente non lo so dottor Reid.”
Il ragazzo
si alzò afferrando nuovamente il romanzo di Nathan. “Le dispiace se lo tengo? A
fine delle indagini potrà riaverlo.” Disse semplicemente, attendendo una
risposta da Sarah.
“Faccia
pure.” Rispose alzandosi a sua volta e accompagnando l’agente alla porta.
“Non...non c’è nessuna speranza che vi stiate sbagliando?” domandò in un
sussurro.
“Me lo
auguro signora Harris, non sa quanto.” Concluse scomparendo alla vista della
donna.
Emily
Prentiss occupava la toilette femminile della BAU. Era tornata da parecchi
minuti da quell’ospedale e si era rifugiata in quella stanza a guardarsi allo
specchio, camminando avanti e indietro. Non riusciva a non pensare alla collega
che non era in ufficio con loro. Erano entrate insieme in quell’edificio, poi
si erano separate. E non l’aveva vista più.
Avevano così
pochi elementi in mano, che il pensiero che potessero non ritrovarla si
materializzava insistente nelle loro menti. Ma lei lo rifiutava. Nathan Harris
sapeva perfettamente chi era JJ, non era una prostituta, non l’avrebbe uccisa.
Le sue vittime erano solo le prostitute. Lo ripeteva costantemente nella
speranza di convincersi, ma era anche vero che la collega corrispondeva
perfettamente alla vittimologia del ragazzo. Era bionda e aveva gli occhi azzurri.
Ricordava ancora quando lei stessa le aveva chiesto come facesse a mantenere
tutta quella calma sul lavoro. Ma erano altri tempi, molti anni prima, quando
ancora non si era del tutto ambientata. Ora era parte integrante di quella
squadra, e il panico la stava assalendo.
Si controllò
ancora una volta, cercando di riprendere padronanza di sé, poi si avviò verso
la porta e uscì di nuovo nei corridoi. Inevitabilmente, per raggiungere l’open
space, passò davanti all’ufficio dell’agente Jareau, al quale lanciò
un’occhiata veloce. Poi portò le mani alla base della giacca che indossava,
sistemandola mentre spingeva la porta a vetri e raggiungeva la sua scrivania,
facendo un cenno di saluto a Derek che era seduto alla sua postazione.
“Reid?”
chiese indicando la sedia di fronte a sé.
“È tornato a
interrogare la signora Harris, abbiamo scoperto che il ragazzo si mantiene in
qualche modo e che forse la sua vittimologia è definita dal bisogno di uccidere
un surrogato della madre.” Spiegò brevemente, tornando poi a concentrarsi sui
suoi fogli, restando comunque a sorvegliare la donna con la coda dell’occhio.
La vide stropicciarsi il viso e osservare il vuoto. Dopo minuti di silenzio
parlò finalmente.
“Non c’era
nessuno in quei corridoi con me.” disse semplicemente continuando a guardare il
nulla di fronte a sé. Il ragazzo ripose i fogli e fece girare la sedia fino ad
incontrare la figura della collega che riprese a parlare. “Probabilmente non
aveva nessuno, il medico mi ha chiesto se ero una parente. Nessuno che piange
la sua morte, nessuno che ne reclama il corpo.” Era quasi una riflessione ad
alta voce.
“Che ti
succede? Non ti ho mai vista così...” chiese l’agente di colore incontrando
finalmente lo sguardo terrorizzato di Emily.
“Io sono
entrata con lei, dovevo coprirle le spalle...” confessò portando ora
l’attenzione a JJ.
“Emily, non
è colpa di nessuno, vi siete separati tutti. Anche Hotch era con voi ed è
rimasto fuori. Semplicemente è successo, è terribile lo so, ma abbiamo bisogno
di stare concentrati per trovarla.” Cercò di infonderle la forza necessaria.
Lei scosse la testa sospirando. Aveva ragione, dovevano essere al loro meglio
per rintraccialo, non era il momento per cedere.
L’agente
Hotchner era uscito dall’ufficio di Penelope seguito da Dave. Si erano diretti insieme
verso l’ufficio del capo, dove l’uomo aveva allertato la polizia di
intensificare le pattuglie per le strade. Il fatto che avesse con sé JJ, non
voleva dire che non avrebbe cercato altre donne da uccidere. Jennifer non
corrispondeva del tutto al suo profilo di vittima. Si trovò a dover parlare
anche con la stampa, cercando di calmare l’allarmismo che stavano creando, non
avrebbe voluto che la famiglia della donna si preoccupasse apprendendo la
notizia dalla televisione.
David
osservava con sguardo vigile i movimenti del collega, seduto alla sedia
dall’altra parte della scrivania, si tormentava il pizzetto riflettendo. Quando
finalmente l’uomo ripose il telefono e prese un sospirò, si sporse in avanti
per parlargli. “Il profilo è stato dato alla polizia, ma d’altronde nemmeno
serve. Abbiamo un nome e cognome e delle foto, cosa dovremmo fare adesso?”
“Dobbiamo
capire dove si trova, dobbiamo raggiungerlo prima che sia troppo tardi.”
Rispose Aaron portandosi le dita alla fronte.
“Reid
dovrebbe fare un profilo geografico.” Propose ancora l’agente anziano.
“Intanto scopriamo
che notizie riesce ad ottenere dalla donna, poi...non so quanto possa servire.
Nathan è troppo intelligente per aver lasciato una qualsiasi traccia.”
“Ma tentar
non nuoce, d’altronde passeremo tutta la notte in ufficio. Con JJ là fuori
nessuno di noi vorrà pensare a tornare a casa.” Continuò Rossi, controllando
istintivamente l’orologio.
“Questa
serata sarà particolarmente lunga.” Pronunciò l’agente supervisore alzandosi
dalla sua poltrona e girando intorno al tavolo. Prima che arrivasse alla porta
il collega aveva fatto lo stesso. Entrambi scendevano le scale che li avrebbero
portati nell’open space dove Derek ed Emily stavano rivedendo i fascicoli del
caso in cerca di qualsiasi cosa che potesse mettere luce su quello che era
accaduto.
“Hai parlato
con il medico?” chiese Hotch raggiunta la donna.
“Si,
pugnalata al cuore anche questa volta. La ferita non era profonda, ma ha perso
comunque troppo sangue. Non ha avuto il tempo di procedere con gli altri suoi
rituali perché...” il discorso le si troncò spontaneo tra le labbra.
Sospirarono tutti guardandosi intorno, quando le porte si aprirono e Spencer li
raggiunse con un volume sotto braccio.
“Gli manda
dei soldi.” Esordì poggiando sulla scrivania il tomo.
“Ehi ragazzino,
hai comprato un libro?” domandò Morgan sporgendosi in avanti.
“È il
romanzo illustrato di Nathan Harris.” Spiegò il dottor Reid, “Lo ha lasciato
alla madre come ringraziamento per i soldi con cui lo mantiene. Uscito dalla
clinica l’ha cercata, ma lei lo ha respinto ancora, ma non gli ha negato un
supporto finanziario.”
“Ti ha detto
dove trovarlo?” la speranza di David era forte nel formulare la domanda.
“No...non ha
idea di dove possa essere, non sa se ha amici. I soldi glieli lascia in facoltà
e lui li va a ritirare lì, perché nessuno sa che Nathan è stato in clinica.
Pensano che tutto sia normale come sempre.” Concluse prendendo posto alla sua
scrivania e aprendo il libro.
“Ci
servirebbe un profilo geografico, magari può aiutarci a capire qualcosa.” Lo
esortò Aaron scambiando un’occhiata con i colleghi.
Il ragazzo
faceva scorrere velocemente le dita sulle pagine, voltandole una dopo l’altra.
“Giusto il tempo di finire qui e lo faccio subito.” Rispose senza distogliere
l’attenzione dalla lettura.
Quel
comportamento lasciò tutti interdetti. Nonostante la facciata di tranquillità e
professionalità, il giovane agente non stava per niente bene. Si chiedevano in
silenzio per quanto ancora avrebbe resistito in quelle condizioni, quanto ci
sarebbe voluto perché esplodesse. Ma soprattutto, non riuscivano a immagine
come avrebbe potuto sfogarsi.
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Capitolo 21 *** Capitolo 21 ***
Then you catch him CAP21
CAPITOLO 21
Era uno
schema che si ripeteva costantemente. Il protagonista del romanzo andava avanti
a mietere vittime, in un misto tra quella che era ora la vita dello stesso
Nathan Harris, le sue fantasie e la storia di Jack lo Squartatore. Le immagini
che accompagnavano le parole erano altrettanto forti. Sicuramente gli impulsi
psicotici del ragazzo non si erano per nulla sanati anche dopo la permanenza
alla clinica.
Spencer
conosceva quel tomo a memoria. E non solo grazie alla sua memoria eidetica, ma
perché ormai l’aveva letto e riletto fin troppe volte, in cerca di
quell’elemento mancante. Che continuava a non trovare.
Si guardò
intorno rendendosi conto di essere ormai rimasto solo e non si era nemmeno
accorto di quando e dove se ne fossero andati tutti i suoi colleghi. Si alzò
dalla scrivania e si diresse in sala conferenze dove si trovava il tabellone
con tutte le prove e la cartina della zona di Washington dove il loro S.I.
operava. Afferrò il pennarello e cominciò a incrociare i dati in suo possesso
soffermandosi più volte su tutte quelle informazioni. Ma non riusciva a trovare
nulla che potesse essere di aiuto per loro.
Riprovò a
inserire i dati convinto di aver dimenticato qualcosa, ma ancora una volta non
riusciva ad identificare quella zona di sicurezza che avrebbe dato un’area in
cui potesse risiedere Nathan. Cominciò a camminare avanti e indietro
tormentandosi i capelli. Tutta quella situazione era assurda, si sentiva
coinvolto, troppo coinvolto. Ricominciava a sentire il peso della
responsabilità su di sé. Sudava e non riusciva a ragionare con lucidità. Portò
le mani alle tasche e sentì il contatto con qualcosa che per un momento aveva
del tutto trascurato. Quel piccolo quadrato di carta che aveva trovato al
motel. Lo portò fuori per osservarlo e tutti i ricordi si abbatterono pesanti
su di lui.
Di nuovo si
rivide alla stazione della metro con quel ragazzino che lo fermava, gli parlava
e lui se lo lasciava sfuggire. La prima volta. Poi l’identikit, la ricerca del
ragazzo, la visita a casa sua e il fermo. I prolungati interrogatori, la
necessità di una perizia psicologica. Il risultato di quell’esame. Nathan in
quella chiesa dove l’aveva ritrovato, che gli confidava la necessità per lui di
uccidersi perché altre persone non fossero in pericolo. E poi quella
telefonata, dovuta proprio ad un biglietto da visita. Una sera spensierata con
Penelope Garcia, si era trasformata in un’emergenza. Da cui era uscito
profondamente segnato e con mille dubbi. E anche se tutti continuavano a
ripetergli che aveva fatto la scelta giusta, gli era chiaro che non fosse così.
Ora più che mai. Ora che JJ era nelle sue mani. Mani che potevano essere
fermate.
Scagliò con
violenza quel biglietto da visita lontano da sé. Gli era chiara solo una cosa.
Nathan Harris stava cercando proprio lui.
Dall’altra
parte dell’edificio, gli agenti erano riuniti nella stanza della tecnica
informatica, il cui pensiero era costantemente rivolto alla collega scomparsa.
Quando
avevano visto Reid reagire in quel modo, concentrarsi sulla lettura del libro
troppo profondamente, ignorando anche l’ordine di Hotch, avevano deciso di
allontanarsi e avevano raggiunto la donna, nella speranza di trovare qualche
altro indizio. Pensavano di tentare di tracciare il cellulare di Jennifer, ma
risultava spento. Compito di Penelope era ora tenere sotto controllo
quell’apparecchio nell’eventualità, alquanto remota, che venisse acceso.
“Garcia,
isoli tutte le sartorie che fanno capi su misura a Washington.” Propose Rossi
sporgendosi verso lo schermo del computer. La donna eseguì subito l’ordine e generò
un discreto numero di risultati.
“Puoi
piazzare su una cartina della città questi posti?” chiese Hotch e vedendo
materializzarsi davanti ai suoi occhi la locazione di quelle attività
commerciali.
“Bambolina,
segna su quella carta i luoghi dei ritrovamenti.” Si intromise Derek,
speranzoso di trovare qualche punto di contatto. Ma nessuno dei punti
corrispondeva o si avvicinava in qualche modo.
“Non hanno
un database dei clienti?” domandò ancora Emily, disposta a trovare la collega
prima che fosse troppo tardi.
“Controllo.”
Replicò l’esuberante bionda digitando sui tasti, ma non riscontrando nulla. “Mi
dispiace, però posso darvi gli indirizzi dei proprietari.”
I quattro
agenti si guardarono tra di loro, prima che Aaron scuotesse la testa in segno affermativo.
“Chiamo Carlson, torniamo fuori. Interrogheremo questi uomini, mostreremo loro
la foto di Nathan e cercheremo di capire dove si serve. Prentiss, tu resta qui,
nel caso dovesse esserci qualche novità dal telefono di JJ.” definì il capo
prima di farsi consegnare gli indirizzi dalla tecnica e avviarsi fuori dalla
sala con gli altri. Si fermò davanti alle porte a vetri, dividendo i fogli con
le generalità delle persone che avrebbero interrogato, dando qualche ultima
istruzione ai due colleghi. “Dividiamoci, cominciamo da quelli più vicini ai
luoghi dei ritrovamenti. So che è tardi, ma fate capire loro che è
un’emergenza.” Furono le ultime parole dell’uomo, prima che i tre entrassero
nell’ascensore e facessero la loro corsa in silenzio. Fino a separarsi nel
garage, ognuno diretto verso un SUV.
Probabilmente
era lui quello che avrebbe dovuto mantenere un maggior distacco. Era arrivato
per ultimo in quella squadra, non conosceva Nathan Harris, non sapeva
esattamente cosa fosse successo a Reid. Non riusciva a credere che fosse tutto
legato a quel caso. Il ragazzo non era stupido, sapeva mantenere il suo
distacco anche quando si identificava...sapeva sfruttare le sue emozioni
canalizzandole al meglio. Se stava reagendo a quel modo doveva esserci di più.
Non gli
riusciva nemmeno di mantenere la calma, si era integrato in quella squadra. E
JJ era in pericolo. Non poteva dimenticarlo. Continuava a pensarci mentre
percorreva le strade buie di Washington diretto a casa di Anthony Faris. Lo
avrebbe svegliato, sconvolto, interrogato. E sarebbe andato via con qualche
risposta positiva. Era quello che sperava più di tutto.
Posteggiò il
SUV e scese, indirizzandosi verso la porta di quell’appartamento. Bussò
ripetutamente, fin quando una donna aprì la porta. “La signora Faris?” domandò
esibendo il distintivo e facendo così sobbalzare la donna. “Non si preoccupi,
dovrei fare delle domande a suo marito, so che l’orario è strano, ma è
un’emergenza.”
La donna non
riuscì a rispondere, semplicemente accennò con il capo, richiudendo la porta di
fronte a Dave, che attese paziente che si riaprisse, mostrandogli adesso un
uomo di una certa età. “Perdoni mia moglie, venga dentro.” Lo invitò
cordialmente, mentre l’agente allungava la mano verso di lui.
“David
Rossi,” disse stringendo quella dell’uomo. “Mi scusi per l’orario, ma come
dicevo è un’emergenza. Lei produce capi su misura nella sua bottega?”
“Si...ma non
capisco come questo potrebbe esservi utile.”
“Questo
ragazzo...” disse porgendo la foto di Nathan Harris, “Ha mai ordinato qualche
capo da lei?” domandò lasciando poi il tempo all’uomo di osservare con calma la
foto. Minuti di silenzio per lui interminabili.
“Mi
dispiace...sono abbastanza fisionomista, ricordo i volti dei miei clienti. Ma
lui non l’ho mai visto.” Restituì la foto all’uomo che si congedò con una nuova
stretta di mano.
Il primo
tentativo era andato a vuoto.
Osservava
ancora quel tabellone di fronte a sé. Vuoto. Nessuna indicazione che potesse
far apparire all’orizzonte un profilo geografico nitido. A terra giaceva ancora
quel biglietto che aveva scagliato via e che fu presto seguito dal pennarello. Si
voltò a prendere i fogli sul tavolo. Alla ricerca di qualcosa. Una ricerca disperata
che si tradusse presto in uno scagliare frenetico di fogli in tutte le direzioni.
Stava perdendo il controllo come mai gli era accaduto finora.
Non riusciva
a respirare, il fiato gli mancava sempre più. Aveva provato prima di allora
quella sensazione, in un periodo che preferiva non ricordare. Mai come ora
aveva bisogno di quel conforto che gli era stato accanto per molti mesi prima
che riuscisse a rendersi conto che poteva andare avanti con le sue sole forze.
Sudava
ancora...sfregava le mani l’una contro l’altra. Doveva controllarsi. Doveva
essere più forte di quell’istinto così profondamente sbagliato. Ma che in quel
momento sembrava l’unico giusto.
Si guardò
intorno ancora un paio di volte, mentre la voce di Nathan Harris che lo
implorava di lasciarlo morire si insinuava insistente nelle sue orecchie.
Sempre più forte, sempre più convincente. Sempre più a ricordargli come avesse
sbagliato quel giorno di quattro anni prima.
Le sue gambe
si stavano già muovendo, senza passare dal suo cervello. Stava seguendo
l’istinto. Quell’istinto. Mettendo da parte la sua spiccata razionalità. Attraversava
i corridoi senza nemmeno rendersi conto di quello che accadeva intorno a lui. I
suoi sensi si erano assopiti, fin quando raggiunse l’unica stanza in cui
sperava di poter soddisfare i suoi bisogni. Aprì la porta guardandosi per un
attimo intorno, prima di sgusciare all’interno di quel piccolo vano,
richiudendosi il battente alle spalle. Era solo. Fortunatamente. Pronto a
lanciarsi alla ricerca dell’unica sostanza che avrebbe potuto farlo stare
meglio.
Emily aveva
visto uscire i colleghi e si era intrattenuta ancora qualche momento nella
stanza di Penelope. Non era esuberante come le altre volte, e non poteva
biasimarla.
“Certe volte
mi domando se sia meglio rimanere qui a sperare di vedervi tornare o rischiare
la vita con voi.” Sussurrò la tecnica informatica con gli occhi bassi. “Per le
prossime ore vivrò pendendo dalle sorti di questa piccola finestra.” Continuò
indicando alla collega la zona dello schermo in cui era avviato il software che
controllava i movimenti del cellulare di Jennifer.
“Saremo in
due a farlo...” rispose la mora sporgendosi in avanti e mettendo con
delicatezza una mano sulla spalla della donna. “Caffè?” chiese poi riportandosi
in posizione eretta.
“Volentieri..ci
servirà.” Ribattè Garcia sollevandosi sulla sedia.
“No, vado
io, non si sa mai.” Prentiss indicò con il dito lo schermo, mentre la collega annuiva
con il capo riprendendo posto sulla sua poltroncina. Si voltò per afferrare il
suo tazzone giallo e lo porse alla donna che accennò un sorriso prima di uscire
dalla porta. Attraversò i corridoi raggiungendo ancora una volta l’open space,
dove le scrivanie erano tutte vuote. Alzò quindi istintivamente gli occhi verso
la sala conferenze, convinta di trovar lì il piccolo genio, ma anche quella
stanza era vuota. Una strana sensazione la spinse a raggiungerla. Salì le scale
e attraversò la balconata fino a varcare la soglia. C’era confusione...un
profilo geografico incompleto al tabellone. Fogli sparsi per terra e in un
angolo un pennarello e un biglietto da visita, quello di Spencer, a terra.
Si guardò
intorno incredula un’ultima volta, prima di decidere di raggiungere l’area
relax per preparare il caffè per sé e per Penelope. Poggiò la tazza sul ripiano
e ne prese una con il logo della BAU per lei. Armeggiò con gli attrezzi e mise in
funzione la macchina, avviandosi poi a dare anche una sbirciata al contenuto
del piccolo frigorifero. Ma non aveva fame. Camminò ancora un po’ avanti e
indietro in attesa che la bevanda scura fosse pronta, ma la sua attenzione fu
improvvisamente catturata da un tremendo frastuono proveniente da una stanza
vicina.
Sollevò la
testa di scatto, dubbiosa e portò quasi automaticamente la mano alla pistola
che teneva alla cintura avviandosi verso la fonte di quel rumore.
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Capitolo 22 *** Capitolo 22 ***
Then you catch him CAP22
CAPITOLO 22
“Cosa crede
che riusciremo ad ottenere svegliando delle persone nel cuore della notte?”
domandò il detective Carlson tenendosi alla maniglia al di sopra dello
sportello del SUV che stava guidando l’agente Hotchner. Stavano tornando nella
zona dell’ultimo ritrovamento, perché proprio alle spalle di quel motel abitava
Andrew Nelson, uno dei proprietari di una sartoria di Washington.
“Speriamo di
restringere la zona in cui vive Nathan Harris. Presumibilmente non fa molta
strada per comprare i capi d’abbigliamento, quindi se scopriamo dove si serve,
avremo scoperto la sua zona di sicurezza.” Rispose Aaron senza distogliere
l’attenzione dalla strada, davanti a sé vedeva già la strada dove erano
posteggiati con Emily e Jennifer prima che la donna bussasse al loro vetro
mandandoli nel motel da cui uno di loro non sarebbe uscito, se non tra le
grinfie dell’S.I. Posteggiò scendendo dal veicolo e richiudendosi lo sportello
alle spalle.
“Ancora
nessuna notizia della vostra collega?” chiese allora il poliziotto moderando i
toni rispetto alla precedente domanda.
“Nessuna, è
per questo che dobbiamo tentare questa strada.” Disse Hotch raggiungendo l’uomo
dall’altra parte del veicolo. “Ho già interrogato un uomo prima di passare in
dipartimento a prenderla, non aveva mai visto il nostro sospettato.” aggiunse.
“Saremo più
fortunati questa volta.” Lo incoraggiò l’uomo poggiandogli una mano sulla
spalla e spostandosi poi per permettergli di far strada fino al portone che
varcarono con notevole agitazione. Fece strada l’agente supervisore,
raggiungendo la porta della persona che cercavano. Bussò discretamente
attendendo una risposta, che arrivò in fretta mostrando al di là del battente
che si scostò un giovane uomo dal volto turbato.
“Agente
Hotchner, FBI, e il detective Carlson.” Li qualificò Aaron mostrando il suo
distintivo e indicando l’uomo accanto a lui.
“FBI?”
domandò incredulo il giovane.
“Possiamo
entrare?” chiese deciso Carlson avviandosi verso la porta che non si spostò,
l’uomo lo fissava ancora interrogativo.
“Lei è
Andrew Nelson, proprietario della sartoria che si trova qui sotto?” intervenne
Hotch inclinando il capo.
“Sono io, ma
non vedo perché dobbiate voler parlare con me.”
“Conosce
questo ragazzo?” continuò l’agente speciale mostrando la foto di Nathan Harris
al signor Nelson che si nascondeva ancora dietro la porta leggermente scostata
dalla parete.
“Può
essere...” rispose senza alcun trasporto. Per tutto il pianerottolo risuonò un
boato, causato dalla mano del detective che si era violentemente assestata
contro il legno del battente.
“Senta...veda
di fare meno il saccente e cerchi di rispondere.” Minacciò avvicinandosi alla
figura spaurita che aveva di fronte. “Questa è una indagine federale, c’è
un’agente in pericolo...”
“Lo...lo
conosco...” balbettò Andrew deglutendo visibilmente. “Ha ordinato un cappotto,
qualche tempo fa, poi non l’ho più rivisto.” Confessò spaventato.
“Ha
rilasciato una fattura per cui ha richiesto un indirizzo?” chiese Hotch sereno.
“Non ha
voluto...ha pagato in contanti ed è scomparso.”
“Aveva solo
bisogno di essere scosso un po’.” Commentò ironico il detective indicando con
la testa verso l’uomo che stavano interrogando.
“La
ringrazio.” Concluse Aaron avviandosi deciso verso l’uscita, proprio quando il
suo telefono cominciò a suonare.
Le dita di
una mano tamburellavano nervose sul volante del SUV, mentre l’altra sorreggeva
il suo volto contro il finestrino. L’agente speciale Derek Morgan aveva già
parlato con due dei nominativi che aveva con sé, ma nessuno di quei produttori
di capi su misura aveva mai visto Nathan Harris o qualcuno che gli somigliasse.
Si avviava ora in casa del terzo uomo da interrogare sperando finalmente in
qualche notizia utile. Il telefono non aveva squillato, quindi evidentemente
nemmeno Hotch o Dave avevano scoperto qualcosa. Erano tutti ad un punto morto,
ma c’era la vita di JJ in gioco, quindi bisognava tenere duro e continuare a
cercare uno spiraglio che aprisse una nuova via per le indagini. Sperava che
Reid riuscisse a tirar fuori qualcosa dal romanzo illustrato, anche se capiva
benissimo quanto fosse turbato.
Ricordava
ancora quando aveva raggiunto lui e Penelope insieme a Gideon vicino a quel
motel. Erano sconvolti, con le mani insanguinate e mentre Jason si dedicava a
Spencer, lui era rimasto con la sua informatica preferita. Non l’aveva mai
vista così triste e confusa. Gli aveva raccontato l’agitazione provata mentre
il genio le chiedeva la sciarpa e gliela faceva legare intorno ai polsi di quel
ragazzino agonizzante, come avesse dovuto ripetutamente chiamare il nome
dell’agente per convincerlo a spostarsi da quel corpo mentre anche i paramedici
lo invitavano a far spazio. Sapeva che Garcia non avrebbe cancellato quei
ricordi facilmente, così come non ci sarebbe riuscito Spencer.
Sospirò
profondamente rendendosi conto di essere arrivato all’indirizzo di Michael Mane.
Scese dal veicolo e raggiunse la porta bussando. Dopo qualche minuto un uomo
anziano e assonnato apparve oltre l’uscio.
“Mi dispiace
disturbarla, sono l’agente speciale Derek Morgan, FBI,” disse il ragazzo
estraendo il distintivo, “dovrei farle qualche domanda, posso entrare?” domandò
attendendo una risposta.
Il signor
Mane si allontanò lasciandogli lo spazio necessario per entrare, il volto
preoccupato. “FBI? Sono accusato di qualcosa?” domandò richiudendo la porta.
“No, non si
preoccupi, abbiamo un’emergenza e vorremmo solo sapere se questo ragazzo ha mai
acquistato qualcosa da lei.” chiese l’agente porgendo all’uomo la foto.
“Un
momento...” rispose l’anziano prendendo la fotografia e avvicinandosi ad un
tavolino. Lentamente ma con attenzione inforcò gli occhiali e accese una luce
ponendogli sotto il volto di Nathan Harris, che studiò in silenzio per qualche
minuto. “Ah, lei è tanto giovane. Io amo il mio lavoro e lo faccio ancora con
grande attenzione, ma la vista inizia a non accompagnarmi più.” Disse
sollevando il volto e raggiungendo di nuovo Derek. “Ma io lo conosco...è venuto
da me qualche tempo fa, ha richiesto un cappotto su misura. Ottima fattura e
anche molto costoso.”
Un lampo di
speranza si accese negli occhi di Morgan, che subito domandò, “Ne è sicuro?”
“Mi stupì il
fatto che un ragazzo così giovane avesse tutti quei contanti, lo ricordo
abbastanza bene.” Allungò di nuovo la fotografia verso l’uomo di colore che la
afferrò nuovamente.
“È venuto
più volte da lei?”
“Solo quella
volta. Il suo cappotto aveva uno squarcio alla tasca, volevo ripararglielo, ma
ha richiesto un capo nuovo. Non ho insistito, devo dire che era un tipo
abbastanza convincente. Ha...ha fatto qualcosa?” domandò curioso.
Derek evitò
di rispondere alla domanda. “Ha rilasciato una fattura? Ha un indirizzo?
Qualsiasi informazione potrebbe esserci utile al momento.”
“Non ha
voluto dirmi nulla. Non so nemmeno il suo nome...le ripeto...è stato
convincente.” Concluse l’uomo riponendo gli occhiali nel taschino della
vestaglia.
“La
ringrazio.” Sorrise Morgan allungando la mano e uscendo dall’appartamento.
Raggiunse la macchina ed estrasse il telefonino componendo un numero. Quando lo
raggiunse la voce dall’altro capo, parlò, “Hotch, ho un riscontro...”
La ricerca
era cominciata serena. Si era richiuso la porta alle spalle tirando un profondo
respiro, prima di avvicinarsi agli armadietti. Aveva aperto il primo e aveva
sollevato ad uno ad uno tutti i medicinali che aveva trovato, leggendo le
etichette e la composizione degli stessi. Solo una parola rimbombava insistente
nella sua mente e non era quella che ritrovava scritta lì. Si avviò allora al
secondo armadietto, mentre le mani cominciavano a tremare, segno evidente che l’astinenza
era troppo forte, il bisogno non poteva essere placato ancora per molto.
Cominciò a muoversi con sempre più foga, spostando i flaconi, facendoli cadere,
sbattendo le ante. Stava facendo sempre più rumore, ma la voce nella sua testa
era più forte, non gli faceva capire che qualcuno avrebbe potuto sentire il
frastuono così da essere attirato verso l’infermeria dove avrebbe trovato uno
Spencer Reid così scoraggiato da essere in cerca di una sola sostanza. L’unica
che avrebbe potuto ridargli speranza in quel momento. Riusciva a pensare solo a
come era riuscito a sentirsi qualche anno prima per un periodo della sua vita.
Aveva bisogno di una dose di Dilaudid.
Emily era
uscita dall’open space con la pistola dritta davanti a sé. Non c’era molta
gente a Quantico a quell’ora, erano andati via quasi tutti, tranne loro
ovviamente. Arrivata nel corridoio percepì il rumore ancora più forte, si
muoveva con cautela verso la porta al di là del quale sembrava originarsi quel
frastuono. Poggiò la mano sulla maniglia attendendo qualche secondo prima di
abbassarla così da spostare in un unico movimento il battente ed entrare nella
stanza. Quello che si trovò davanti la lasciò senza fiato.
Flaconi
rotti per terra, armadietti delle medicazioni aperti e proprio da dietro una
delle ante vide spuntare il volto del dottor Reid trafelato. Senza pensarci un
secondo posò la pistola e richiuse la porta mentre quegli occhi spaventati la
fissavano. Volevano spiegare qualcosa, ma non sapevano cosa dire. Volevano un
aiuto da lei.
“Ma cosa...”
la donna non riuscì a completare la frase, mentre Spencer si rimetteva dritto e
si allontanava procedendo all’indietro da quella teca. Respirando a fatica,
tenendo lo sguardo fisso sulla collega che doveva avere uno sguardo perplesso,
le braccia allargate, non ben certa di come comportarsi, cosa dire, cosa fare.
Il piccolo
genio continuava ad indietreggiare in un misto di vergogna per essere stato
colto in quel momento di debolezza e di sofferenza per non essere riuscito nel
suo intento. Improvvisamente sentì la parete alle sue spalle e non poté far
altro che appoggiarsi lasciandosi andare verso il basso, fino a sedersi sul
pavimento, le ginocchia verso il petto. Abbassò finalmente il viso lasciandolo
sprofondare tra le braccia, introducendo le dita a stringere le ciocche dei
suoi capelli. Soffriva perché non poteva risolvere quel caso, perché non poteva
smettere di ritenersi colpevole, perché aveva pensato di cercare rifugio nella
droga e se Prentiss non fosse entrata molto probabilmente ci sarebbe riuscito.
“Io...” cominciò a balbettare con il volto ancora nascosto. “Io...ho sbagliato
tutto...sto sbagliando tutto...” lasciò scappare un lamento prima di sentire le
lacrime affollarsi ai suoi occhi.
La donna era
rimasta immobile, non riusciva a muovere
un arto davanti alla scena che stava avvenendo di fronte ai suoi occhi. Solo
quando il ragazzo riuscì a pronunciare quel balbettio sconnesso si riscosse e
si avvicinò a lui. Si abbassò delicatamente fino ad appoggiarsi a terra con le
ginocchia, sporgendosi poi in avanti, lievemente timorosa, fino ad afferrare le
braccia del ragazzo, tirandolo verso di sé. Lo strinse con forza, senza dire
nulla, offrendogli tutto il conforto che riusciva a dargli in quel momento.
“E’ tutta
colpa mia...” mormorò lui prima di lasciarsi andare ai singhiozzi.
Emily rimase
in silenzio, semplicemente abbracciandolo con più calore, perché aveva capito
che era arrivato il momento per Reid di sfogarsi. Aveva trattenuto dentro di sé
rabbia, paura, dubbi, agitazione. Ora doveva lasciar andar via tutti questi
sentimenti, e lei era pronta a sostenerlo.
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Capitolo 23 *** Capitolo 23 ***
Then you catch him CAP23
CAPITOLO 23
Aveva
bisogno di bere. E anche di mangiare. Lasciava lentamente oscillare la testa a
destra e a sinistra cercando di far cessare i dolori. Era appoggiata alla
parete, le gambe tirate verso il petto e le braccia dietro la schiena. Legate.
Si domandava da quanto tempo fosse chiusa lì, al buio, se i suoi colleghi
fossero già riusciti a capire dove si trovasse, se avessero già avvertito la
sua famiglia. Quando riprese la mobilità del collo lasciò andare la testa
all’indietro poggiandola contro il muro che aveva alle spalle.
Poi un
rumore. Sollevò il capo di scatto e attese in silenzio, solo il suo respiro a
riempirle le orecchie. In breve arrivò anche la fioca luce che piano piano
rivelò la sagoma del ragazzo. Jennifer non aveva paura, non più. La sua era più
rassegnazione al suo destino. Abbassò gli occhi ritornando ai suoi pensieri.
“A cosa sta
pensando agente Jareau?” domandò il giovane sfilandosi il cappotto e lanciandolo
alla sua sinistra.
JJ sospirò
prima di rispondere. “A mio figlio.” Disse con sicurezza, notando una strana
luce accendersi negli occhi di Nathan che si avvicinò a lei, cauto. “Mi domando
se si sia già accorto della mia assenza...” sospirò.
“Sono...cambiate
molte cose in questi anni.” Pronunciò il giovane vedendo poi il capo della
donna muoversi lentamente dall’alto in basso. Tirò un profondo respiro anche
lui, prima che il silenzio calasse su entrambi.
La donna
tornò nei suoi pensieri quando avvertì un fruscio e voltandosi non vide più il
ragazzo. Le era sembrato strano, troppo tranquillo per quello che ricordava. Ma
lei non era una profiler. Poteva affidarsi al suo istinto e nulla di più.
“Beva.” Le
disse il ragazzo attirando di nuovo la sua attenzione mentre le porgeva un
bicchiere e glielo poggiava già sulle labbra. “È semplice acqua, si può
fidare.” Rispose allo sguardo preoccupato di JJ, che infine cedette per la
troppa arsura.
“Grazie.”
Sussurrò quando ebbe vuotato il recipiente. Quella volta Nathan non rispose, si
sollevò come un automa non presentando nessuna espressione negli occhi.
Ritornò dopo
qualche secondo, serio, troppo serio. Si avvicinò a lei che cercò di mantenere
la calma mentre sentiva le sue mani toccarla intorno alla vita. Ma non si mosse,
lo lasciò fare mentre sembrava semplicemente cercare qualcosa. Poi le dita si
spostarono alla sua giacca, come se non avesse ancora trovato l’oggetto dei
suoi desideri. Ispezionò una tasca, poi l’altra, dove indugiò più tempo e
Jennifer capì tutto.
Con il volto
più sereno Nathan si rialzò stringendo tra le mani il suo tesoro. “È il momento
di rimettere insieme i pezzi.” Le disse pigiando il tasto di accensione del
cellulare che aveva sottratto all’agente.
“Michael
Mane, ha visto Nathan Harris tempo fa. Abbiamo trovato la sua sartoria.”
Affermò Derek mentre sostava vicino al SUV. Attendeva una risposta rapida e
positiva da parte di Aaron e invece ci fu un prolungato silenzio. “Pronto?”
domandò per accertarsi che il collega fosse ancora dall’altra parte.
“Anche noi
abbiamo avuto un riscontro. Andrew Nelson, vicino all’ultima scena del
crimine.” Pronunciò infine il supervisore capo.
Morgan
sferrò un colpo alla carrozzeria del veicolo che aveva vicino a sé. “C’era da
immaginarselo. Ha frequentato diverse sartorie così da non rendere
identificabile la sua zona. Al signor Mane il pagamento è stato effettuato in
contanti per altro.” Spiegò.
“Anche qui,
solo contanti, nessun indirizzo. Questa strada non ci porterà da nessuna parte,
quindi torniamo in ufficio e vediamo se Garcia ha scoperto qualcosa tramite il
cellulare o se Reid ha dedotto qualcosa dal romanzo.” Ordinò Hotch.
“E Dave?”
chiese l’agente di colore.
“Chiamalo e
digli di raggiungerci a Quantico anche lui.” Concluse l’agente Hotchner
interrompendo la comunicazione.
Derek chiuse
il cellulare stringendolo tra le mani e avvicinandolo al viso rapito nei suoi
pensieri. Non avevano nulla, nessuna traccia, nessun indizio, nulla di
utilizzabile per trovare l’S.I. e soprattutto per salvare JJ. Non poteva essere
vero, non si erano mai trovati così disarmati prima d’ora. E non poteva
continuare a negare che non fossero tutti in qualche modo coinvolti a tal punto
da non essere completamente lucidi.
Riprese il
controllo di sé componendo il numero dell’agente Rossi, che subito rispose al
telefono. “Abbiamo un nome?” domandò con una nuova speranza nella voce, che
Morgan dovette subito interrompere.
“Torniamo in
ufficio, sia io che Hotch abbiamo avuto un riscontro con due diverse sartorie.
Ai due poli della città.” Mise in chiaro l’agente.
“È troppo
furbo questo ragazzo, confonde le sue tracce. Mi chiedo come faremo a...”
azzardò David per essere interrotto dalla voce del collega.
“Ce la
faremo. Ce l’abbiamo sempre fatta.” Sentenziò con voce ferma senza possibilità
di repliche. “A Quantico, dove Garcia o Reid potrebbero aver scoperto
qualcosa.” Concluse riponendo il telefono al suo posto alla sua cintura. Poi
aprì lo sportello e si sedette alla guida del SUV, diretto verso l’edificio
dell’FBI.
Il silenzio
continuava a regnare in quella stanza, dove Spencer si stava riprendendo
lentamente dopo aver pianto con forza. Era ancora tra le braccia della
comprensiva Emily, entrambi a terra vicino a quella parete, dove la donna lo
aveva lasciato fare senza intromettersi.
“Scusami...”
sussurrò il genietto ad un certo punto quando i singhiozzi gli permisero di
parlare di nuovo.
Prentiss si
allontanò da lui per catturare il suo sguardo e gli sorrise dolcemente. “La tua
è stata una reazione più che giustificabile.” Lo rassicurò con sincerità prima
di spostare il peso sulle sue gambe rimettendosi in piedi e porgendo al collega
una mano che prontamente afferrò per tirarsi su.
“Mi sento
così...vile per aver cercato...” provò a dire ma non riuscì a continuare,
fissando semplicemente lo sguardo sui vetri che c’erano a terra.
“Ti aiuto a
sistemare.” Liquidò l’imbarazzo Emily dirigendosi già a raccogliere i flaconi
in frantumi.
In poco
tempo tutto era tornato alla normalità, almeno nell’assetto di quella stanza,
gli occhi di Spencer tradivano ancora una certa tristezza e profondo
smarrimento.
“Non è colpa
tua.” Gli disse l’agente Prentiss poggiandogli una mano sulla spalla. “Non devi
pensarlo nemmeno.”
“Avrei
potuto evitarlo.” Dichiarò il ragazzo senza alzare gli occhi sulla figura della
donna.
“E come
avresti potuto? Non eri nemmeno con noi, siete arrivati il più in fretta
possibile. Nessuno poteva prevederlo.”
“Io gli ho
salvato la vita.” la interruppe Reid fissandola finalmente con panico.
“Come?”
domandò interdetta Emily vedendo le pupille del ragazzo rimbalzare nervose sul
suo viso.
Il giovane
prese fiato prima di raccontare quello che era successo quella notte di quattro
anni prima. Quando sentì di essere pronto cominciò. “Quando abbiamo chiuso il
caso di Ronald Weems, Penelope mi ha invitato ad uscire con lei per festeggiare
la nostra vittoria. Non eravamo nemmeno arrivati alla sua macchina quando ho
ricevuto una telefonata che mi avvertiva che Nathan era in pericolo, si era
tagliato i polsi in una camera del motel. Io e Garcia siamo corsi lì e io l’ho
salvato, mentre lui mi implorava di lasciarlo morire.” Aveva detto troppo, non
poteva continuare.
“Perché ha
chiamato proprio te?” chiese Prentiss.
“Lui aveva
lasciato il mio biglietto da visita sul tavolo.”
“Come...” la
donna sapeva benissimo cosa le ricordava quel dettaglio ma non riuscì a
completare la frase mentre Spencer già scuoteva il capo per dirle che era
proprio quello che era successo qualche ora prima quando era scomparsa JJ. “Hai
fatto solo quello che andava fatto.” lo incoraggiò lei.
“È quello
che dicono tutti.”
Non c’era
altro da dire e lo sapevano bene entrambi mentre uscivano in silenzio
dall’infermeria, avviandosi lungo il corridoio del Bureau ormai deserto. Erano
quasi arrivati alla porta a vetri, quando Reid parlò:
“Ho bisogno
di...stare un po’ da solo. Devo...devo rinfrescarmi.” Le disse indicando con il
dito la porta della toilette maschile. Prentiss non era ben disposta a
lasciarlo solo di nuovo in quel momento, ma non poteva nemmeno opporsi alla sua
scelta, o peggio entrare con lui nel bagno. Acconsentì infine, seguendolo nel
suo percorso fin quando lo vide scomparire oltre la porta.
La donna
lasciò andare un sospiro, prima di sistemarsi la giacca e avviarsi ancora lungo
quel corridoio fino alla stanza dove la stava aspettando Penelope, che come
accadeva spesso in quelle ore balzò in piedi non appena sentì il rumore della
porta. “È successo qualcosa?” chiese con il panico nella voce.
Emily scosse
il capo invitandola a riprendere posto comoda. “Nessuna notizia dal cellulare?”
domandò a sua volta.
“No, ma ci
hai messo troppo tempo.”
“Reid, non
stava bene...” liquidò il discorso. Il ragazzo si era mostrato in un momento di
debolezza che sarebbe rimasto tra loro.
“Sapessi
cosa vuol dire per lui questo caso.”
“Ora lo so.”
Sorrise all’informatica che si girò di scatto verso di lei nel sentire quelle
parole. Avevano capito entrambe con un semplice sguardo che si stava ancora
prolungando, quando il dispositivo sulla multi task di Garcia cominciò a
lampeggiare emettendo un suono ad intermittenze regolari.
Il volto
della donna mutò considerevolmente, mentre si voltava verso lo schermo e si
risistemava gli occhiali sul naso.
“Che
succede?” chiese Prentiss avvicinandosi a lei.
“Il
cellulare di JJ si è acceso.” Spiegò iniziando ad accanirsi sulla tastiera
senza nemmeno indirizzare lo sguardo verso di lei. “Stiamo venendo a prenderti
viscido verme schifoso.”
La sue dita
si stavano stringendo intorno al lavabo mentre spingeva con le spalle, proteso
in avanti. Come aveva potuto desiderare il Dilaudid? Come si era potuto far
scoprire in quella disperata ricerca dalla sua collega? Come aveva potuto
permettere che le lacrime sgorgassero sul suo volto?
Queste e
mille altre domande tormentavano il suo cervello mentre l’acqua scorreva sotto
di lui. Mise le mani a coppa, lasciando che quel liquido gelido si raccogliesse
al loro interno, poi lo gettò sul suo viso, massaggiandolo delicatamente.
Ripetè il gesto un paio di volte, fin quando richiuse il rubinetto e si asciugò
il volto, fissandosi per un po’ allo specchio. Sentiva che stava riprendendo il
controllo.
Sarebbe
tornato in sala conferenze e avrebbe lavorato ancora al profilo geografico,
sperando nell’apporto di notizie da parte dei colleghi che ormai mancavano da
parecchio tempo. E avrebbe guardato ancora il romanzo illustrato. Qualcosa lo
turbava, come se la soluzione fosse sotto i suoi occhi, troppo annebbiati per
coglierla. Si scostò i capelli dalla faccia, respirando con forza. Si sistemò
la camicia e la cravatta e gettò nella cestino la carta che teneva ancora tra
le mani. L’ultimo sguardo prima di lasciare quel locale e di gettarsi nel
lavoro.
Stava per
voltarsi, quando il suo cellulare iniziò a suonare. In un gesto meccanico
rispose senza guardare l’identificativo del chiamante, posando poi di nuovo gli
occhi sulla sua figura allo specchio. “Spencer Reid.”
Fu un
secondo.
Vide il suo
volto mutare come se appartenesse a qualcun altro. Il mondo gli crollò addosso.
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Capitolo 24 *** Capitolo 24 ***
Then you catch him CAP24
CAPITOLO 24
“È una cosa
impossibile!” imprecò l’informatica senza abbandonare le speranze.
“Che
succede?” domandò Emily che continuava a fissare lo schermo senza capire bene
cosa stesse accadendo.
“Non riesco
a tracciare il segnale. Sembra...schermato. Come se qualcosa impedisse al mio
programma di raggiungerlo.” Spiegò con sempre maggiore agitazione. “Sta
telefonando.” Comunicò.
“Non puoi
fare altro?”
“Posso
provare a capire a chi sta telefonando e cercare di tracciare il destinatario
mentre continuo a identificare la sorgente.”
Prentiss
fissava l’immagine che le rimandava lo schermo. In alto un riquadro con il
numero di telefono di JJ al di sotto del quale lampeggiava la scritta ‘In
funzione – Chiamata in corso’. Le dita di Penelope fluttuavano sulla tastiera
facendo apparire in fretta una mappa di Washington, che la donna andava via via
stringendo tramite l’aiuto del suo software.
“Non mi
abbandonare.” Pregava in un sussurro diretto al suo fedele amico computer.
Improvvisamente
una zona sulla cartina si illuminò. “L’abbiamo preso?” chiese Emily sporgendosi
in avanti.
“E’ riuscito
a infrangere la barriera, ma non con troppa forza. Abbiamo una zona con un
raggio di otto chilometri, ma non un punto esatto.”
“Sempre
meglio di niente. A chi sta chiamando?” domandò mentre la speranza cresceva in
lei.
Garcia si
risistemò ancora una volta velocemente gli occhiali, allontanando le dita dai
tasti solo il tempo necessario. “Questo dovrebbe essere più semplice.”
Ancora una
volta la cartina cominciò a muoversi sotto gli occhi dell’agente fin quando di
nuovo una zona si illuminò cominciando a rimpicciolirsi sempre più.
“Non è
possibile...” affermarono in coro fissandosi negli occhi, mentre l’immagine si avvicinava
sempre più.
“Quello è
Quantico?” chiese l’agente.
“No
bellezza, quello è il palazzo dell’FBI per l’esattezza.” Replicò la donna
ancora incredula, quando il punto si fermò definitivamente facendo apparire un
numero di telefono, subito seguito da un nome. “E quello è il telefono di
Reid.” Concluse con gli occhi spalancati e prima che potesse terminare la
frase, Emily si era già alzata e stava correndo fuori dalla stanza.
Penelope
rimase a fissare lo schermo fin quando un avviso non spense l’intero
dispositivo. “Chiamata terminata...” sussurrò prima di alzarsi e dirigersi
anche lei fuori dal suo ufficio. Ormai non c’era più nulla che potesse fare con
il suo programma. Il telefono si era spento di nuovo.
Prentiss
stava correndo per il corridoio. L’ultima volta che aveva visto Spencer era
stato quando le aveva chiesto di rimanere da solo e aveva varcato la soglia del
bagno. E proprio quella fu la stanza che raggiunse per prima, e senza pensarci
un secondo di più si introdusse al suo interno. Non importava trovarvi dentro
qualcuno in atteggiamenti sconvenienti. Era un’emergenza e a Quantico non c’era
quasi più nessuno.
“Reid!”
chiamò a gran voce una volta dentro il locale. In risposta ebbe solo il
silenzio. “Reid!” chiamò nuovamente svoltando dietro l’angolo. Non c’era
nessuno.
Uscì in
fretta continuando a chiamare il collega mentre si dirigeva nell’open space,
anche quello deserto, e su fino alla sala conferenze. C’era ancora la stessa
confusione di prima, il ragazzo non era nemmeno passato di là. Emily si voltò
ed uscì dalla stanza ripercorrendo al contrario il percorso su quel piano
rialzato.
“Dov’è?”
domandò nel panico Penelope che la aveva raggiunta nell’open space.
“Nel bagno
non c’è, in sala conferenze nemmeno.” Disse senza nemmeno scendere le scale ma
estraendo il cellulare e componendo il numero del giovane. Sentiva gli squilli
susseguirsi a intervalli regolari e l’agitazione cresceva. Nessuna risposta.
Riprovò mentre la campanella dell’ascensore catturò l’attenzione di Garcia che
si voltò con il desiderio di vedere spuntare il piccolo genio. Ma invece si trattava
di Morgan, seguito da David e Hotch.
L’agente
vide subito il cambio di espressione negli occhi dell’informatica. “Che
succede?” chiese affrettandosi oltre la porta a vetri.
“Ancora una
volta niente.” Sentì dire a Prentiss dalla balconata rivolta alla collega
mentre riponeva il telefonino.
“Che sta
succedendo?” domandò di nuovo Dave sotto lo sguardo preoccupato di Hotch.
Penelope
ricacciò indietro lacrime e agitazione e iniziò a spiegare velocemente. “Il
telefono di JJ si è acceso, ho provato a tracciare il segnale ma ho ottenuto
solo un’area con un raggio di otto chilometri. C’era una strana schermatura che
non mi permetteva di andare oltre. Ma ho rintracciato il destinatario della
chiamata...” non riuscì a continuare.
“La
telefonata era diretta a Quantico,” intervenne Emily sentendo subito tutti gli
sguardi curiosi dei colleghi su di sé, “al cellulare di Reid.”
“Cosa?”
esclamò Derek incredulo.
“E dov’è
lui?” si intromise Aaron.
Emily
allargò le braccia guardandosi intorno. “È scomparso e non risponde al
cellulare.”
Quella voce
lo aveva ipnotizzato. Non la credeva reale mentre raggiungeva le sue orecchie
tramite il suo telefonino.
“Dottor Reid,
è passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo visti...” aveva pronunciato
con una calma troppo pronunciata e i piedi di Reid si erano già mossi per
portarlo fuori da quel bagno.
Non capiva
più nulla, era andato dritto fino all’ascensore e giù nel garage, sedendosi al
sedile e mettendo in moto. Mentre quella voce continuava a parlare, sillabe che
scorrevano nelle sue orecchie. Ma che lui non percepiva più.
Chiuse la
telefonata e continuò a guidare ancora nel suo stato di trance, quando il suo
cellulare suonò di nuovo. Stavolta guardò il display che recava il nome della
sua collega Emily Prentiss. Mise il telefono di lato deciso a non rispondere,
ma a concentrarsi sulla strada che si allungava di fronte a lui.
Presto tornò
il silenzio in quel veicolo, seguito a breve da nuovi squilli ancora una volta
ignorati.
Ora era
tutto più chiaro, Nathan lo stava invitando a raggiungerlo e improvvisamente
lui sapeva esattamente dove trovarlo.
Il panico
iniziale aveva lasciato ora posto alla razionalità nelle menti dei cinque
agenti. Emily e Penelope erano sedute alle scrivanie dell’open space, mentre
Hotch, Dave e Derek erano in piedi vicino a loro. Dovevano far mente locale in
fretta e decidere come muoversi.
“Perché ha
chiamato proprio Reid?” chiese Rossi interrompendo il silenzio. Da come lo
guardarono gli altri si rese conto che forse era rimasto l’unico a non sapere i
dettagli di quella storia.
Morgan
guardò Garcia che non riusciva a sostenere lo sguardo fisso su nessuno. Lei più
di tutti aveva vissuto quell’esperienza sulla sua pelle e la sentiva ancora
bruciante. Infine fu Aaron a decidere di spiegare anche al collega tutta la
verità. “Quattro anni fa al nostro primo incontro con Nathan Harris come già
sai avevamo scoperto che non fosse lui il colpevole. Ma il ragazzo tentò
comunque di togliersi la vita per evitare che in futuro facesse del male a
qualcuno. Prima di tagliarsi i polsi lasciò sul tavolo per la prostituta che
era con lui il biglietto da visita di Reid che fu il primo ad accorrere e a
salvarlo, anche contro la sua volontà.” Ricordava ancora quando aveva dovuto
leggere il sofferente rapporto stilato dal giovane.
“È diventata
una questione personale quindi?” chiese ancora l’agente anziano. Nessuno in
realtà conosceva la risposta a quella domanda, quindi seguì il silenzio.
“Cosa
abbiamo in mano?” domandò Derek che ormai si teneva fermo a fatica.
“Un profilo
geografico incompleto, ma i vostri interrogatori nelle sartorie potrebbero...”
cominciò a dire Prentiss, ma l’agente Hotchner la interruppe.
“Quelli non
hanno portato a nulla. Ha cambiato sempre sartoria così da non poter essere
ricollegabile a nessuna zona.”
“Ma abbiamo
ora un raggio di otto chilometri ben definito da cui è partita la telefonata.”
Ricordò agli altri l’informatica.
Hotch prese
un sospiro prima di passare ad assegnare i prossimi incarichi. “Io e Garcia ci
occuperemo di comunicare a Carlson la zona da controllare e di cercare Reid.
Voi tre date un’occhiata al romanzo.” Ordinò indicando il volume in bilico
sulla scrivania di Spencer.
“Cosa
dobbiamo cercare?” chiese David, mentre già Penelope si alzava in piedi e
precedeva il capo fuori dall’open space.
“Qualsiasi
cosa, qualsiasi accenno a qualche nascondiglio.” Rispose l’uomo prima di
sparire oltre la porta.
I tre agenti
si guardarono in silenzio prima di affollarsi intorno al piano di lavoro del
genietto. Erano abituati a vederlo in ordine e ora vi regnava sopra solo il
caos.
“Al lavoro.”
Stemperò l’aria Dave prima di afferrare il volume e di aprirlo alla prima
pagina.
“Signore, è
tutto quello che abbiamo.” Disse Penelope allontanando la sedia una volta
arrivati nel suo ufficio, così da permettere all’agente supervisore di vedere
la zona segnalata sullo schermo.
L’uomo fece
un cenno con il capo, “Ottimo lavoro.” La incoraggiò ben consapevole di quanto
fosse difficile per lei tutta quella situazione, poi estrasse dalla tasca il
telefono e compose il numero del detective. “Carlson, sono Hotchner. Abbiamo
bisogno dei vostri uomini per controllare una zona. Abbiamo un’area con un
raggio di otto chilometri all’interno della quale dovrebbe trovarsi Nathan
Harris, le mando in dipartimento il fax, noi appena riusciremo a scoprire altro
vi faremo sapere.” Comunicò mentre Garcia si sedeva per inviare la
comunicazione alla polizia di Washington.
Quando ebbero
finito, Aaron si appoggiò alla scrivania vicino alla donna. “Puoi tracciare il
telefono di Reid?” domandò.
“No signore,
non è in funzione.”
“Puoi
controllare il nostro garage?” incalzò ancora l’agente supervisore.
La donna
schiacciò un tasto facendo apparire una griglia che segnalava la piantina del
posteggio interno con i rispettivi posti assegnati. “Cosa vuole sapere?”
“Il SUV di
Reid è al suo posto?”
Penelope
schiacciò una serie di due tasti, poi rispose. “No, signore.”
Hotch
sospirò. “Puoi anche vedere gli spostamenti che sono stati effettuati?”
“Certo. La
macchina ha lasciato il suo posto un quarto d’ora fa.”
“Confrontali
con l’orario della telefonata.”
L’informatica
fece apparire il file con i dettagli orari della chiamata effettuata quella
notte dal cellulare della collega. “È andato via quando era ancora in corso.”
“Il GPS del
veicolo, Garcia.” Suggerì Aaron e una nuova luce si accese negli occhi della
donna che subito cominciò le sue ricerche sulla stessa cartina su cui era
segnata la zona da controllare. In breve una luce cominciò a lampeggiare in
movimento.
“Eccolo, si
sta dirigendo verso la zona da cui è partita la telefonata.” Disse con lieve
stupore.
“Lo sta
raggiungendo...” sussurrò l’agente Hotchner alzandosi e avviandosi fuori senza
aggiungere altro.
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Capitolo 25 *** Capitolo 25 ***
Then you catch him CAP25
CAPITOLO 25
“Perché?”
sussurrò con il poco fiato che aveva ancora in gola. Non aveva ancora smaltito
la scena a cui era stata costretta ad assistere. La figura davanti a lei aveva
ancora sul viso un ghigno soddisfatto, mentre la guardava ponderando bene sulla
risposta.
Infine
parlò, “Io e il dottor Reid abbiamo tante cosa da dirci.” Le spostò lievemente
una ciocca di capelli dal viso, mentre lei si ritrasse da quel tocco. “Tu non
hai nulla da temere.” Le disse alzandosi in piedi e allontanandosi, voltandosi
solo per aggiungere un dettaglio. “A meno che il dottor Reid non opponga
resistenza.” Rise allontanandosi e facendo si che un sentimento di panico si
diffondesse nella donna.
JJ strinse
ancora di più le ginocchia contro il suo petto poggiandosi con la fronte alle
stesse, continuando a naufragare nei suoi pensieri.
Lo aveva
avuto sotto gli occhi per tutto il tempo, ma il suo cervello era troppo
offuscato per accorgersene. Serviva quella chiamata per fargli capire tutto.
L’errore che stava commettendo ricercando il Dilaudid, l’agitazione crescente
che non gli permetteva di svolgere il suo lavoro in pace. Tutto. Aveva
sbagliato tutto.
Posteggiò il
veicolo, scendendo rapidamente. Non indossò il giubbotto antiproiettili, non ci
pensò nemmeno concentrato nel voler chiudere la questione al più presto.
Camminò ancora per un po’, fino ad arrivare di fronte all’edificio che cercava.
Ce la poteva fare, lo sentiva con chiarezza, mentre sollevava una mano
richiudendo le dita a pugno per colpire ritmicamente quella superficie
consumata.
Era rimasta
sola nella sua stanza a osservare quel puntino in movimento sulla carta di
Washington. Il giovane agente stava andando proprio in quella zona segnata in
verde, che sembrò inghiottirlo ad un certo punto. Sembrava impossibile per un
software avanzato come quello di Garcia, ma era accaduto proprio questo. Fortunatamente
era riuscito a procedere per qualche altro chilometro visibilmente, riducendo
il raggio a soli tre chilometri. Poi era scomparso.
Trasferì i
propri dati sul suo computer portatile e si affrettò dagli altri nell’open
space. “Ho ristretto la zona.” Dichiarò. “Il SUV di Reid si è fermato qui.”
Illuminò un punto dello schermo. “Ci resta un raggio di tre chilometri invece
di otto.” Spiegò alzando poi gli occhi verso i colleghi che interruppero ciò
che stavano facendo per ascoltarla.
“Cosa c’è in
quella zona?” domandò Dave accarezzandosi nervosamente il pizzetto.
Penelope
digitò qualche tasto e poi si rivolse all’uomo. “Apparentemente nulla di significativo...”
si interruppe per un bip che la raggiunse dall’apparecchio che guardò
istintivamente.
“Che cosa
c’è Garcia?” chiese Hotch avvicinandosi.
“La scena
della prima uccisione...rientra in quel raggio.”
“Non era
premeditata?” si sbalordì Emily, mentre Derek alle sue spalle rifletteva
stropicciandosi le tempie.
“C’è rabbia,
nelle sue uccisioni come in questo romanzo.” Cominciò a spiegare l’agente di
colore. “Era motivato, tanto da motivi psicologici, quando dall’abbandono della
madre, non mi sentirei di dire che possa aver affidato al caso un omicidio.
Piuttosto il desiderio sarà stato così incontenibile la prima volta che non ha
trovato la forza di pianificare nel dettaglio.”
“E’ lì
vicino allora?” la speranza si era riaccesa negli occhi della tecnica
informatica.
Derek
sospirò, “Non credo bambolina...è troppo intelligente per farsi trovare.”
Aaron
estrasse il cellulare. “Chiamo Carlson e gli comunico di restringere la ricerca
alla nuova area individuata.”
“Li
raggiungiamo?” intervenne Emily, ma l’uomo scosse il capo.
“Siamo più
utili a lavorare su quei pochi dati certi che abbiamo...” rispose indicando il
romanzo tra le mani della donna. “Garcia, non smettere di controllare il GPS di
Reid. Torniamo al lavoro.” Concluse infine, mentre tutti si concentravano sul
loro lavoro e sulla speranza di salvare la vita a JJ.
Dei colpi
violenti le fecero sollevare il viso istintivamente. Vide Nathan muoversi
deciso verso una zona che non poteva vedere, oltre la quale il ragazzo
scomparve. Sperava che non fosse come credeva. Sperava che Reid non fosse
realmente andato da solo a cercarli, ma si augurava che con lui ci fossero
anche gli altri.
“Dottor
Reid, ben arrivato.” Sentì dire al giovane e tutte le sue speranze si
infransero. Strinse gli occhi sospirando profondamente. Pochi secondi dopo vide
tornare Harris seguito da uno spaesato Spencer che subito guardò nella sua
direzione. “Non serve che vi presenti...credo.” mormorò ironico il giovane,
impedendo poi all’agente di avvicinarsi alla donna. Non aveva ancora proferito
parola e la donna poteva leggere nei suoi occhi un misto tra paura, confusione
e sicurezza, che non era solita scorgere in quelle iridi.
Osservò il
giovane ragazzo invitare il suo collega a prendere posto su un divano
improvvisato poco lontano da loro. Il genietto si avvicinò con timore senza
riuscire a sedersi, e attese in silenzio cominciando a sfregare tra loro le
mani. Tornava ad essere il Reid che conosceva lei, mentre la sicurezza
scompariva dai suoi occhi.
Si era
recato lì senza saper bene cosa fare e solo ora se ne stava rendendo conto, in
quel freddo antro di cui gli altri non erano a conoscenza. Nessun rinforzo a
guardargli le spalle e la sua collega da salvare, lì, nell’angolo, così
indifesa e spaventata. “Nathan, io sono qui adesso.” Ebbe infine il coraggio da
dire. “Puoi lasciare andare Jennifer...lei non c’entra nulla.” Salvare JJ,
quello era il suo imperativo categorico, l’unica cosa che era certo dovesse
fare. Dopo che la donna avesse lasciato quel luogo, lui sarebbe stato pronto ad
affrontare qualsiasi cosa fosse successa.
Il ragazzo
fece schioccare la lingua contro il palato. “Lei resta dov’è.” Intimò impedendo
a Spencer di ribattere in alcun modo. “Ci rivediamo dopo quattro anni, non la
trovo molto cambiato agente Reid.” Continuò ancora. “La mia vita è molto
cambiata invece.”
“Perché hai
lasciato la clinica?” chiese con voce ferma l’agente. Doveva condurre lui
quella discussione e non fare in modo che Harris ne prendesse le redini.
“Non era
quello il mio posto...e lei lo sa bene.”
“Andavi
curato...”
“Mi sono
curato.” Lo interruppe in un ringhio, vedendo poi il capo dell’agente oscillare
da un lato e dall’altro.
“Non ti sei
curato Nathan, hai ucciso tre donne.” Esclamò con enfasi, non riuscendo ad
accettare il fatto che il giovane non si rendesse nemmeno conto di quello che
stava facendo. Lo vide alzarsi in piedi e cominciare a muoversi avanti e
indietro. Come per un riflesso automatico, assunse una posizione di allerta.
“Non capisce
proprio...” sussurrò. “Io avevo bisogno di farlo, un bisogno incontrollabile.”
Strinse i pugni ripensando al sangue caldo delle donne che scorreva tra le sue
mani.
“Tua madre è
preoccupata per te.” Affermò d’improvviso Spencer, senza smettere di
concentrarsi su ogni dettaglio, attento all’eventuale precipitare degli
effetti.
“A quella
puttana non importa di me...”
“Ti manda
dei soldi, ti mantiene e dici che non le importa di te?”
Le iridi
azzurre di Nathan si fissarono in quelle castane di Reid. “Che madre è una
donna che ti manda in una clinica? Che non ti viene a trovare nemmeno una volta
e che, quando torni, non ti accoglie a braccia aperte...?”
Calò il
silenzio tra quelle persone, un silenzio irreale e pesante. Il giovane ragazzo
cominciò a muoversi per la stanza, dirigendosi verso la zona in cui JJ era seduta
per terra. Spencer cominciò automaticamente ad accarezzare l’impugnatura della
sua arma. Non doveva accadere nulla a lei. Osservò in silenzio l’assassino
sollevare la donna dalle braccia e stringerla contro il suo petto, poteva
leggere la paura viva negli occhi di Jennifer. “Lasciala...” sussurrò con
pochissima voce.
“Lo sai
perché?” domandò Nathan rivolto alla ragazza. “Se io oggi sto uccidendo delle
donne, devo ringraziare lui.” Spiegò alzando il mento verso il magro ragazzo,
mentre uno sguardo interdetto si disegnava sul volto della bionda. “Io volevo
morire, ma lui mi ha salvato la vita.”
Reid fu
incapace di sostenere gli occhi della collega fissi nei suoi, così abbassò il
capo gonfiando il petto. Dolore, una fitta lancinante lo colpì al cuore, quando
alzò di scatto la testa al sentire la voce dell’agente Jareau. “Spence no!” lo
implorò. “Non è colpa tua.” Scandì volendosi far capire bene. “Non è colpa
tua.” Ripetè con maggiore enfasi.
“Che tenero
quadretto!” interruppe Harris scoppiando in una sonora risata, estraendo poi
dalla tasca dei pantaloni un bisturi e puntandolo alla bianca gola della donna.
Subito Spencer estrasse la pistola puntandola verso di loro, ma il sorriso
soddisfatto di Nathan lo fece riflettere e come se leggesse i suoi pensieri il
giovane cominciò a parlare. “Dottor Reid, voglio vedere se ora saprà fare la
scelta giusta. Ha due vite da salvare, ma...” si guardò intorno teatralmente,
“...a quanto pare non possono sopravvivere entrambe.”
Il respiro
dell’agente accelerava mentre si concentrava nel tenere la mira ferma. Nathan
aveva ragione, se l’avesse solamente ferito avrebbe potuto utilizzare la lama,
e in ogni caso sparando rischiava di ferire anche la sua collega. Se non avesse
fatto nulla...non voleva nemmeno considerare quella possibilità.
“L’abbiamo
già riguardato tre volte. È impossibile che non ci sia nulla!” gridò Derek
perdendo il controllo. Non ce la faceva più. Pensava al ragazzino perso non si
sapeva dove e a JJ prigioniera di uno psicopatico, non riusciva a concentrarsi.
Sentì su di sé lo sguardo di Rossi e si voltò a guardarlo.
“Agitandoti
così non otterremo nulla di più.” Disse l’agente anziano posando poi gli occhi
su Prentiss che teneva ancora tra le mani il piccolo tomo. “Abbiamo questo
giovane psicopatico che decide di uccidere prostitute,” cominciò a ricapitolare
il contenuto del romanzo, “le adesca per strada come un normale cliente, le
porta in alcuni motel e le uccide. Esattamente quello che fa lui.”
“Poi torna a
casa e si eccita nuovamente rivivendo le uccisioni.” Concluse Morgan.
Emily
sospirò, “Ci interessa sapere dove sia questa casa però.” Disse facendo
scorrere le dita sulle pagine, fino a soffermarsi. “Aspettate un attimo.” Si
sporse in avanti cominciando a sfogliare il libro velocemente. Andava avanti, poi
tornava indietro, poi ancora avanti. Improvvisamente sollevò il capo verso i
due uomini. “Forse ci siamo!” esclamò alzandosi in piedi e dirigendosi
velocemente fuori dall’open space.
Derek e Dave
si guardarono interdetti per qualche secondo, prima di seguire la donna curiosi
di scoprire cosa avesse colpito la sua attenzione.
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Capitolo 26 *** Capitolo 26 ***
Then you catch him CAP26
CAPITOLO 26
L’agente
Prentiss non pensò nemmeno alla possibilità di bussare. Spalancò semplicemente
la porta gettando nel panico Penelope che si alzò in piedi voltandosi con le
lacrime già agli occhi. L’agente Hotchner si voltò con più calma ma non meno
spaventato.
“Cosa...”
cominciò a sussurrare Garcia ma si interruppe prendendo fiato con la bocca
aperta, allargando l’intero petto come in deficienza di ossigeno.
Emily posò
il volume sul ripiano che aveva vicino, “Nessuna novità da JJ, scusate se sono
entrata come una furia...” si scusò spostandosi una ciocca di capelli dal viso
e voltandosi sentendo entrare anche Derek e Dave che si fermarono a pochi passi
dalla porta. La donna riportò l’attenzione sui colleghi di fronte a lei. “Stavo
continuando a sfogliare il libro di Harris e ho notato questo.” Disse indicando
un simbolo all’apparenza incomprensibile su una pagina.
“Cos’è?”
domandò l’informatica sedendosi di nuovo e sistemandosi gli occhiali.
La mora
scosse il capo. “Non lo so con esattezza, però...” cominciò a girare le pagine
una dopo l’altra, “...appare altre volte, molte altre volte.”
“Pensi ad un
indizio?” domandò Hotch strofinandosi il punto tra il naso e la fronte.
“Potrebbe
essere...se voleva arrivare a Reid potrebbe aver lasciato anche questi segnali
sparsi.”
“Dobbiamo
capire cosa rappresenta però...” aggiunse Morgan.
David superò
il collega prendendo tra le mani il volume e guardando con attenzione quel
simbolo. “Ricorre dopo ogni uccisione, spesso quando il ragazzo è a casa a
rivivere il crimine.” Constatò. “Garcia, potrebbe in qualche modo cercarlo sul
suo sistema?” chiese alzando gli occhi verso la donna che si guardò intorno
prima di rispondere.
“Si,
signore, posso acquisirlo con lo scanner e cercare delle corrispondenze.”
Rispose allungandosi per recuperare il volume dalle mani dell’agente anziano e
ponendolo dentro il marchingegno elettronico. “Non ci vorrà molto.”
Gli agenti
rimasero in attesa di scoprire forse finalmente la verità.
“Quante
possibilità abbiamo che ci porti realmente da loro?” chiese Emily pensando poi
che l’unico che avrebbe potuto rispondere esattamente a quella domanda sarebbe
stato proprio Spencer.
Hotch scosse
il capo voltandosi poi a guardare il monitor sul quale stava apparendo la
scansione della pagina. “Prima cerca di capire cos’è.” Ordinò alla bionda che
cominciò a digitare sulla tastiera.
“Evidenzio
lo stemma e lo inserisco nella ricerca.” Spiegò mentre compiva l’azione. In una
finestra alla sinistra dello schermo vi era la parte della pagina che
interessava loro, mentre sulla destra si aprì un’altra zona in cui cominciarono
a ruotare velocemente altri simboli. Tantissimi simboli che si andavano
confrontando con quello che poteva essere la chiave di tutto. Stemmi della
stessa dimensione, della stessa forma, che avevano qualche elemento in comune. Ce
n’erano alcune migliaia, che sembravano molti di più visto il tempo che
incalzava. Rimasero in silenzio ad osservare lo schermo in attesa di un
segnale.
“Ma il padre
di Nathan?” chiese l’agente Rossi nel silenzio.
“Un
incidente stradale, è morto quando il ragazzo aveva solo nove anni.” Spiegò
Hotchner, ma un allarme richiese l’attenzione di tutti.
“Trovato!”
disse Garcia. “Vediamo di cosa si tratta.” Inviò il comando al sistema perché
le aprisse un elenco di risultati sulla natura di quello stemma. Gli altri
agenti si strinsero speranzosi intorno a lei.
“Una casa
farmaceutica?” chiese Derek.
“La madre di
Nathan è medico..lo portava spesso al lavoro. Ha dimestichezza con i
medicinali.” Constatò Aaron. “Cos’altro sappiamo?”
L’informatica
si concentro sul suo computer. “Produceva molti dei farmaci usati negli
ospedali americani, ma è fallita cinque anni fa. Aveva filiali in tutti gli
stati.”
“Cerca quella
di Washington.” Propose Emily e l’altra donna subito lasciò saettare le dita
sulla tastiera alla sua solita enorme velocità.
“La centrale
della nostra città si trovava a questo indirizzo e c’era anche un magazzino per
rifornire gli ospedali che non era nello stesso edificio...” la donna fu
interrotta dalla voce di Morgan.
“Bambolina,
sovrapponi i risultati alla mappa.” Il tono era particolarmente esaltato, il
motivo fu confermato dal suono che fece il software quando segnalò che proprio
il magazzino si trovava dentro quel raggio di tre chilometri che era stato
evidenziato dalla scomparsa del segnale del GPS di Reid.
Penelope si
voltò verso Emily lasciandosi andare ad un ampio sorriso. “L’abbiamo preso?”
domandò e la donna scosse il capo in segno affermativo attendendo poi un
comando dal capo.
“Chiamo
Carlson per dirgli di far convergere le truppe verso quel magazzino,
prepariamoci ad andare anche noi.” Comunicò Hotch avviandosi verso l’uscita,
seguito dai tre agenti.
Prentiss si
soffermò appena uscita dall’ufficio dell’informatica raccogliendosi i capelli
in una coda, quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. “Ottimo
lavoro...” sentì dire da Dave prima che le sorridesse e la superasse lungo il
corridoio. La donna pensò che in realtà non aveva fatto nulla di particolare.
Aveva solo trovato una ricorrenza tra quelle pagine, come sicuramente aveva
fatto il piccolo genio prima di lei. Ma il momento più difficile doveva ancora
arrivare. Non erano certi che il luogo dove avrebbero trovato Harris fosse proprio
quello, ma poteva essere sicuramente un ottimo punto di partenza. Ma
soprattutto non sapevano cosa avrebbero trovato in quel capanno. Sospirò
mettendosi nuovamente in marcia convincendosi che sarebbe andato tutto bene.
Spencer
stava ancora osservando in silenzio JJ tra le braccia di Nathan, i suoi occhi concentrati
a mirare di fronte a sé nonostante gli fosse impossibile sparare senza colpire
la donna.
“Perché
questo capanno Nathan?” gli domandò per distrarlo e acquistare tempo. Sperava
che i suoi colleghi sarebbero arrivati ad aiutarlo ma ricordava di essere
andato via senza dire nulla e loro non sapevano del nascondiglio del giovane.
“Piuttosto,
mi dica come ha fatto a trovarmi.” ribatté Harris.
“Il
romanzo...c’era lo stemma della casa farmaceutica. Ricordavo di aver letto la
notizia della chiusura di questo magazzino sei anni fa. Ma non capisco come
facevi a conoscerlo tu.”
“Ci venivo
con mia madre a prendere le forniture per l’ospedale. È qui davanti che ho
visto per la prima volta una prostituta. Quella visione mi ha causato una sensazione
sgradevole. Quando lo hanno chiuso venivo qui se volevo stare da solo. Per un
certo periodo è rimasto nelle mani di barboni e prostitute, ma al ritorno dalla
clinica l’ho trovato vuoto e ho deciso di farne la mia casa. Visto che con mia
madre non c’era più posto per me. Ma non creda che riuscirà a farmi distrarre a
lungo.” Riportò l’attenzione su JJ cominciando a ferirle il collo in superficie
con il bisturi. Un leggero rivolo di sangue le macchiò la candida pelle.
“Spara!”
sussurrò la donna comprendendo la paura del collega che non rispose sentendo
semplicemente il battito del suo cuore aumentare considerevolmente. Non poteva
farlo, non poteva rischiare. “Spara...” ripetè la donna che sentiva la lama
fredda premere ancora contro la sua pelle.
“Cosa
succede agente Reid? Ha paura di colpirla?” domandò l’assassino beffardo al
giovane che non poté fare a meno di distogliere l’attenzione dal mirino per
concedere uno sguardo alla bionda agente. Gli dispiaceva di averla messa in
quel guaio e voleva tirarla fuori da lì senza un graffio, ma non poteva
uccidere nemmeno Nathan. Lo sguardo nelle iridi blu di JJ era strano, non più
spaventato, ma sicuro. Improvvisamente Spencer si riconcentrò sulla sua mira.
“Può anche
colpirmi...” cominciò la donna rivolta al ragazzo che la teneva stretta a se.
“Ho scelto il mio lavoro con i suoi rischi perché amo farlo. Potrei avere solo
un rimpianto...lasciare solo mio figlio.” Pronunciò con sicurezza e gli occhi
di Harris si spalancarono. La donna avverti una strana vibrazione nella lama
che le premeva contro il collo. Aveva ottenuto l’effetto sperato, lo avrebbe
colpito dove l’aveva sentito più vulnerabile sperando in un suo errore che
avrebbe permesso di prenderlo senza ferire nessuno. “Lo amo più di ogni cosa al
mondo. Ogni volta che posso dedico tutto il mio tempo libero a lui, sono i
momenti più belli della mia vita, quelli che mi fanno capire che nonostante io
rischi costantemente con il mio lavoro una volta tornata a casa c’è il mio
piccolo che mi aspetta...” Sentì la presa intorno al braccio allentarsi
lievemente e il bisturi allontanarsi dalla ferita già provocata e si preparò a
sgusciar via dalle sue mani non appena possibile.
“Avrei
voluto avere anche io una madre come te...” mormorò il giovane e Jennifer si
mosse per allontanarsi da lui. In quel momento uno sparo rimbombò riempiendo
l’intero ambiente.
Morgan aveva
guidato nervosamente per tutto il tragitto e Emily al suo fianco si era retta
allo sportello con la speranza viva nel cuore che tutto sarebbe andato bene.
Subito dietro di loro c’era l’altro SUV che ospitava Hotch e Dave, ugualmente
agitati per la situazione che avrebbero affrontato. In breve raggiunsero la
zona indicata dalle coordinate date loro da Garcia e videro la macchina di Reid
posteggiata, intorno alla quale sostavano Carlson e gli altri poliziotti ad
attenderli. Dopo aver spento il motore, scesero dal veicolo già con i giubbotti
antiproiettili indossati e raggiunsero gli altri. C’era anche due ambulanze con
dei paramedici, pronti nell’evenienza in cui ce ne fosse stato bisogno.
Derek si
stacco dal gruppo avviandosi subito ad estrarre la torcia che usò per
illuminare l’interno del SUV che aveva portato lì Reid in cerca nemmeno lui
sapeva di cosa. Poi si voltò di nuovo verso i colleghi.
“Il
magazzino che ci avete indicato è quello.” Disse Carlson indicando alla loro
sinistra. “Da questa parte non c’è nessun ingresso. Sembra abbandonato.”
“Ma siamo
nel posto giusto...” aggiunse Emily indicando con la testa il veicolo scuro del
collega.
“Forse lo ha
solo attirato qui per portarlo da qualche altra parte.” Azzardò l’agente
Hotchner guardandosi intorno. “Dov’è Dave?” domandò poi e anche gli altri due
agenti si voltarono scrutando ogni angolo intorno a loro. Sembrava sparito.
Poi un
rumore di boscaglia precedette un grido. “C’è un sentiero!” sentirono dire da
un lato dell’enorme capanno. Era la voce di Rossi. I tre agenti sfilarono le
pistole dalla fondina e si avviarono verso il luogo da cui era provenuto il
richiamo seguiti a breve da Carlson. All’imbocco di un sentiero alla destra del
magazzino, nascosto da alcuni rami, ritrovarono David che tornava verso di
loro. “Potrebbe essere passato da qui, ci sono alcuni rami spezzati.”
Aaron si
voltò verso il detective, “Lei e i suoi uomini coprirete il lato opposto, noi
quattro possiamo da questo sentiero. Dobbiamo trovare una porta da cui fare
irruzione all’interno.” Ordinò e l’uomo si riportò dai suoi uomini per muoversi
dal lato sinistro della costruzione.
Si stavano
per incamminare quando il rumore di uno sparo risuonò in lontananza. Ebbero la
conferma che erano nel luogo giusto. E che non c’era un minuto da perdere.
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Capitolo 27 *** Capitolo 27 ***
Then you catch him CAP27
CAPITOLO 27
Dopo aver
sparato Spencer aveva visto cadere sia Nathan che JJ a terra. Sperava di avere
la visuale libera, ma il giovane aveva intercettato il movimento della donna e
l’aveva immediatamente ritirata verso di sé, quando ormai Reid aveva già
premuto il grilletto. Non si era ancora perdonato l’errore, forse avrebbe
dovuto aspettare ancora qualche secondo prima di lasciar partire il colpo.
Si affrettò
verso i due corpi a terra, allontanando per prima cosa il bisturi dalle mani di
Nathan che lo fissava con il respiro corto. Calciò via la lama metallica
afferrando poi Jennifer e sollevandola. La allontanò dal suo aguzzino prendendola
tra le braccia. “JJ...” la chiamò con terrore, e la donna aprì gli occhi
guardandolo.
“Sto bene.”
Sussurrò, ma lo sguardo del magro agente indugiò prima sul suo collo ferito e
poi sul braccio che sanguinava. La poggiò a terra contro la parete vicina,
esaminando meglio il taglio che le aveva provocato il proiettile sparato dalle
sue mani. “Spence, non è nulla, mi hai colpito di striscio..” lo calmò la
donna. “Va da lui.” Gli intimò poi indicando il ragazzo a terra in preda agli
spasmi.
Ci volle
qualche secondo perché Spencer metabolizzasse quelle parole, alzandosi per
raggiungere Harris. Lasciò la pistola a JJ e si chinò accanto al giovane. Lo
aveva colpito alla spalla e stava perdendo molto sangue. “Mi...mi sembra di
aver già vissuto questa scena...” pronunciò Nathan con un filo di voce cercando
di ridere, ma quello che venne fuori dalle sue labbra fu solo un lamento di
dolore.
Il piccolo
genio sollevò gli occhi in cerca di qualsiasi cosa gli potesse essere d’aiuto
per tamponare la ferita. Vide degli asciugamani che subito si diresse a
prendere, tornò e si abbassò nuovamente stringendo la spugna sulla spalla dell’S.I.
“Ti farò un po’ di male.” Lo avvertì cercando di mantenere un tono di voce
calmo.
“Perché lo
fa dottor Reid? Non le è bastato salvarmi la vita una volta?” domandò il
ragazzo nell’affanno.
Spencer
sospirò profondamente, voltandosi verso l’agente Jareau per assicurarsi che
andasse tutto bene. Lei sostenne sicura il suo sguardo, ma notò la macchia di
sangue allargarsi sulla camicia. Tornò a concentrarsi su Nathan. “Non posso
lasciarti morire, non sarebbe...giusto.”
Rapidamente
si sollevò sulle gambe afferrando un altro asciugamani e ponendolo sulla ferita
della collega. “Tienilo premuto.” Le disse e lei eseguì. Tornò poi dal ragazzo
agonizzante che lo fissava con gli occhi sbarrati.
“Non merito
tutto questo...” pronunciò ancora Harris, ma l’agente gli consigliò di non
parlare.
In quel
momento si spalancarono le porte e videro entrare Hotch e Dave, seguiti da
Derek ed Emily. “Li abbiamo trovati!” gridò Morgan verso l’esterno.
“Serve
un’ambulanza.” Disse Reid non smettendo di occuparsi del giovane.
Subito
Prentiss corse verso la collega, aiutandola ad alzarsi in piedi. “Stai bene?”
le domandò posando gli occhi sulla ferita del collo e sull’asciugamani
macchiato di sangue che reggeva contro il braccio.
Jennifer
annuì “Si sto bene, sono ferite superficiali.” La rassicurò lasciandosi
accompagnare fuori dalla struttura.
I tre agenti
incitavano l’arrivo dei paramedici, mentre gli occhi di Spencer cominciavano a
tradire della paura. Nathan si faceva sempre più affannato. Infine un uomo
intimò a Reid di spostarsi, così che potessero caricare il giovane sulla
barella per portarlo fuori.
Il magro
ragazzo si sollevò in piedi guardandosi le mani insanguinate, sentendo dopo
poco una mano poggiarsi sulla sua spalla. “Hai fatto quello che dovevi.” Lo
consolò la voce di Morgan, dandogli una pacca amichevole. L’agente non ottenne
risposta, ma sentì solamente il collega scivolargli da sotto la presa e lo vide
avviarsi fuori dal magazzino. Per il momento non lo seguì.
Aveva perso
la cognizione del tempo che aveva passato lì fuori al freddo. Si era isolato
dal resto dei rumori, semplicemente pensando a quello che era avvenuto poco
tempo prima. Aveva rischiato di uccidere Nathan e anche Jennifer. Ma la sua
collega ne era uscita quasi del tutto illesa. Si era subito precipitato ad
aiutare il giovane, e al momento non riusciva a pensare lucidamente alle
statistiche che lo avrebbero illuminato nel capire se se la sarebbe cavata
oppure no. Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto da un rumore di passi alle
sue spalle. “Perdonami per prima.” Disse sicuro dell’identità della persona che
era dietro di lui.
“Non hai
nulla di cui scusarti.” Gli rispose Derek alzando le spalle.
Il magro
agente si voltò incontrando gli occhi scuri del collega. “Avrei preferito non
essere costretto a sparare, ma ho avuto paura per JJ.”
“È normale,
ragazzino, tutti avrebbero fatto la tua stessa scelta.”
“Ma non
potevo lasciarlo morire...”
“Hai fatto
tutto il possibile per salvarlo. Non puoi incolparti di nulla.”
Reid sospirò
abbassando lo sguardo verso i suoi piedi e calciando un sassolino. “Mi sembra
di essere tornato a quattro anni fa. Le sensazioni sono ancora vive nella mia
memoria. È successo proprio quello che temevo, l’avevo detto a Gideon.”
“E lui cosa
ti aveva risposto?”
Morgan aveva
toccato proprio la corda giusta, solo la risposta di Jason risuonava ora nella
mente di Spencer, dopotutto anche quella non era molto lontana dalla realtà.
Sollevò di nuovo lo sguardo prima di rispondere. “Che lo avrei arrestato se
fosse tornato per uccidere.”
Derek
sorrise avvicinandosi all’agente e porgendogli un panno pulito per asciugarsi
le mani. Anche il giovane si lasciò andare ad un lieve sorriso mentre afferrava
l’oggetto dalle mani del collega, cominciando a sfregare le dita. “In che
ospedale li stanno portando?” domandò poi.
“Al
centrale.” Rispose l’agente di colore.
“Posso
tenerlo?” domandò Spencer indicando il panno e cominciando ad avviarsi fuori da
quella radura.
Morgan lo
seguì con lo sguardo. “Certo, ma...dove stai andando?”
“Devo fare
una cosa. Ho una promessa da mantenere.” Disse velocemente scomparendo allo
sguardo del collega e raggiungendo il suo SUV.
Le luci dell’ambulanza
e dei lampeggianti della polizia illuminavano quella radura di fronte
all’ingresso del capanno, quando Emily e JJ si avvicinarono ai medici. Prentiss
aveva costretto la donna a farsi controllare.
“Sto bene,
come devo dirtelo?” continuava a ripetere l’agente Jareau alla collega per
convincerla, ma una volta arrivati al cospetto del dottore costui la fece
sedere sul retro del veicolo.
“Ha battuto
la testa?” domandò accendendo una piccola luce e indirizzandola contro le iridi
blu della ragazza.
“Non che io
ricordi...” fu la sua risposta mentre osservava i movimenti dell’uomo che
subito le sollevò il viso per controllare la ferita al collo. “Diglielo anche
tu che sto bene.” Disse rivolta alla mora che stava assistendo alla scena e che
le sorrise non dicendo nulla. Capiva che sicuramente JJ era ancora in stato di
shock e l’adrenalina le stava facendo sentire meno dolore di quanto avrebbe
dovuto.
Il medico si
concentrò sull’altra ferita sollevandole il braccio e togliendo l’asciugamano
che la donna stava ancora stringendo. Esaminò il taglio da varie angolazioni.
“Il
proiettile mi ha colpito di striscio.” Spiegò Jennifer.
“Ci vorranno
dei punti, e ha bisogno di recarsi in ospedale per fare altri controlli.”
Diagnosticò l’uomo facendole poi cenno di salire sull’ambulanza. La ragazza si
sollevò ed entrò nel veicolo voltandosi poi verso la collega che si rivolse al
medico.
“Posso
accompagnarla?” domandò e dopo un cenno affermativo dell’uomo salì anche lei
sul retro dell’ambulanza seguita da lui. Nel momento in cui si voltò per
chiudere le portiere l’ultima cosa che le due donne riuscirono ad intravedere
fu la barella con su Nathan Harris che veniva caricata sulla seconda ambulanza.
Si guardarono sperando che il ragazzo se la fosse cavata, non osavano immaginare
altrimenti la reazione di Spencer.
JJ si
concentrò quindi sull’uomo che le chiese di togliere la camicia per poter
cominciare a medicare il taglio, mentre Emily prese posto proprio quando il
veicolo si metteva in moto e partiva.
Osservava il
turbinio di volti e luci sopra di sé senza riuscire a distinguerli con
nitidezza. L’ultimo che era riuscito a vedere chiaramente era il volto del
dottor Reid, ancora una volta chino su di lui che gli prestava aiuto e che
gridava la necessità di un’ambulanza per salvarlo. Anche il suono che
raggiungeva le sue orecchie era confuso.
Si sentì
sollevare da terra per qualche secondo, prima di ritrovarsi su una superficie
dura e liscia al quale delle mani lo stavano assicurando, ponendogli sul viso
una maschera che lo avrebbe dovuto aiutare a respirare meglio. Ma il dolore
alla spalla era troppo forte, ora che qualcuno gli stava strappando via la
maglietta e stava toccando la ferita.
Si stava
muovendo, traballando per il terreno irregolare sotto le ruote della barella,
le luci erano più insistenti e non riconosceva nessun volto mentre entrava in
un ambiente neutro, con una forte luce bianca, calda. Si fermò improvvisamente
mentre le mani continuavano a toccarlo, apponendogli sul petto dei cavi che
avrebbero dovuto controllare il suo battito cardiaco. Lui lo sentiva rimbombare
nella sua spalla, sempre più lento.
Sentì dei
colpi non lontani da lui, poi il rumore del motore e ricominciò a muoversi.
Resistette pochi secondi guardandosi ancora intorno, confuso, prima di perdere
i sensi.
Aveva
percorso la strada con tranquillità e ora stava attendendo che la porta alla
quale aveva bussato si aprisse. Ancora una volta era un’ora tarda, ma si
trattava di una visita necessaria.
Osservava le
mani ancora macchiate del rosso del sangue quando finalmente il battente si
aprì. “Dottor Reid...” pronunciò nel panico la donna all’interno.
Spencer si
schiarì la gola prima di rispondere. “Le avevo promesso che le avrei portato
qualsiasi notizia su suo figlio.” Sarah si irrigidì per la paura. “L’abbiamo
trovato, ma sono stato costretto a sparargli. La accompagno all’ospedale, non
so nemmeno io quali sono le sue condizioni.” Ammise in tutta onestà.
“Si
accomodi.” Si premurò ad affermare la signora Harris aprendo la porta e
lasciandolo entrare. “Sarò pronta in pochi minuti. Se nel frattempo vuole
lavarsi le mani..il bagno è la seconda porta a destra.” Lo invitò indicando i
suoi palmi prima di scomparire nel corridoio lasciando solo l’agente che cominciò
a pensare a quello che aveva appena fatto, mentre si indirizzava verso il
servizio. Aveva confessato ad una madre di aver sparato al figlio, si stupiva
di come questa non l’avesse cacciato via.
Si lavò
accuratamente le mani, strofinando con forza via il sangue e dopo averle
asciugate, ritornò nel salotto attendendo la donna. In pochissimo Sarah Harris
tornò nell’ingresso facendo cenno al ragazzo di essere pronta ad andare. I due
uscirono di casa e dopo che la donna chiuse la porta si avviarono alla
macchina.
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Capitolo 28 *** Capitolo 28 ***
Then you catch him CAP28
CAPITOLO 28
Dopo aver
finito di perlustrare il magazzino dove Nathan si rifugiava, Aaron e Dave
uscirono all’aria aperta, dove ormai le due ambulanze erano andate via. Venne
incontro a loro il Detective Carlson, allungando una mano verso l’agente
supervisore. “Agente, la ringrazio. Se non fosse stato per voi non l’avremo mai
preso.” Disse stringendo energicamente la presa.
“Vanno
repertate le prove, ci sono tutti i capelli delle vittime che il giovane ha
conservato come trofei. Ora è tutto nelle vostre mani, vi faremo avere le prove
che sono rimaste a Quantico.” Lo informò Rossi, portandosi le mani in tasca e
sorridendo.
“Il ragazzo
lo stanno portando in ospedale, non sanno ancora se se la caverà.”
“Lo
raggiungeremo. Anche l’agente Jareau è stata portata al centrale per dei
controlli.” Lo rassicurò Hotchner.
Carlson
scosse la testa. “Ancora grazie.” Ricordò vedendoli allontanarsi, per dirigersi
al SUV sul quale salirono, mettendolo in moto. Un altro caso era stato risolto.
Non riusciva
più a capire quanto tempo fosse passato da quando tutti erano fuggiti fuori
dall’edificio dell’FBI ormai occupato solo da lei. Era sdraiata sulla sedia con
in mano un buffo pupazzo da usare come antistress. Lo rigirava nervosamente tra
le mani lanciando continui sguardi al telefono e al monitor del suo computer.
Improvvisamente lo squillo la fece quasi sussultare, gettandola nel panico.
Rispondere o non rispondere? Non sapeva cosa si sarebbe dovuta aspettare dalla
voce all’altro capo.
Timorosa si
avvicinò all’apparecchio, strizzando ancora di più l’oggetto tra le sue mani e
con un tocco tremante schiaccio il tasto di risposta. “Si?” domandò.
“Bambolina!”
era la voce del suo affascinante collega, che le strappò un sorriso facendole
per un attimo dimenticare la tensione precedente.
“Cosa
succede?” chiese tornando alla realtà della situazione.
“L’abbiamo
preso.” Disse trionfante. “Come potevi dubitare delle abilità del tuo agente
preferito?” le domandò accarezzandosi la testa con la mano libera e ridendo.
Penelope si
sistemò più comoda sulla sedia sporgendosi verso il telefono. “Mai dubitato mio
concentrato di ormoni..JJ come sta?”
“Bene,
l’hanno portata all’ospedale per dei controlli.”
“È ferita?”
la voce della tecnica si incrinò lievemente.
“Reid l’ha
colpita di striscio per sparare a Nathan.” Spiegò brevemente Morgan,
guardandosi intorno nella radura da cui non si era allontanato dopo aver
parlato con Spencer.
Garcia
sobbalzò sulla sedia. “E lui è...” non riuscì a completare la frase.
“No, è
gravemente ferito ma lo hanno portato in ospedale per salvarlo. Potrebbe
farcela.”
“E il
genietto? Lui...lui come sta?”
“Ho parlato
con lui fino a pochi secondi fa, poi è andato via perché aveva una promessa da
mantenere. È turbato, ma sembra aver capito. Ora vado con gli altri al centrale
per avere novità. Ci vediamo dopo zuccherino...” cominciò a dire ma fu
interrotto dalla voce perentoria della donna.
“Eh no! Tu
mi vieni subito a prendere e andiamo insieme. Non dimenticarti che c’è anche JJ
in ospedale.” Lo sgridò.
Morgan si
lasciò andare ad una sonora risata. “Come ti si può dire di no bambolina? Sto
arrivando.”
“Ti aspetto,
mio cavaliere. Io ti aspetto sempre.” Gli rispose chiudendo la comunicazione e
lasciandosi andare ad una risata liberatoria. Era tutto finito.
A quell’ora
di notte, l’ospedale era deserto e i loro passi rimbombavano prepotenti nel
tranquillo ambiente. Spencer camminava a passo spedito, seguito dalla donna
ancora intontita dall’essere stata svegliata e scagliata in quella dura realtà.
L’agente si avvicinò all’accoglienza, sorridendo ad una infermiera che si
avvicinò a lui. “Agente Speciale Spencer Reid,” si qualificò mostrando il
distintivo. “Dovrebbero essere arrivate due ambulanze, una con il paziente
Nathan Harris e l’altra con l’agente Jennifer Jareau.”
Sarah alle
sue spalle sospirò pesantemente in attesa di conoscere le sorti di suo figlio,
mentre la giovane tirò fuori le cartelle degli ultimi ricoveri. “Si, Nathan
Harris, ferita da arma da fuoco, è in sala operatoria al momento. Potete aspettarlo
da quella parte,” indicò un corridoio alle loro spalle, “c’è un’altra agente
che aspetta.” Li informò.
Reid sorrise
ringraziando e si indirizzò verso il corridoio indicatole dall’infermiera,
facendo cenno alla signora Harris di seguirlo. Girato l’angolo si trovarono
davanti Emily seduta su una sedia, che al vederli si sollevò in piedi. “Signora
Harris...” disse dirigendosi verso di lei e porgendole una mano che la donna
strinse delicatamente.
“Come sta
mio figlio?” domandò immediatamente stringendosi con la mano libera la giacca
che indossava.
L’agente
Prentiss sollevò lo sguardo verso il collega per capire cosa la donna sapeva
già e cosa no, ma fu interrotta dal rumore di una porta che si apriva alle sue
spalle. Si voltò e vide apparire il medico. “I parenti di Nathan Harris?”
chiese guardando le tre figure che aveva di fronte.
“Sono
la...sono la madre.” Balbettò Sarah avvicinandosi all’uomo in camice.
“La prego,
mi segua.” Rispose lui, facendole segno di precederla all’interno. Spencer ed
Emily rimasero soli.
“Come sta?”
chiese il ragazzo spezzando il silenzio.
La donna si
voltò tornando a sedersi, poi alzò gli occhi verso il collega. “Lo sai com’è
JJ. Continuava a ripetere che va tutto bene e che sta bene, ma il medico ha
voluto portarla qui comunque. Aveva bisogno di punti, ma sta alla grande. È una
donna forte.” Lo rassicurò regalandogli un sorriso. Non poteva dimenticare le
condizioni in cui l’aveva visto qualche ora prima. Tutto quel caso era stato
molto pesante per lui, e ancora doveva sciogliersi del tutto.
A quelle
parole il dottor Reid si sentì sollevato e decise di prendere posto anche lui, sedendosi
di fronte a Prentiss. Dopo pochi secondi furono raggiunti dal rumore di passi e
videro arrivare Hotch e Dave, che fissarono il loro sguardo sul giovane, che si
alzò sentendosi inquisito. “Dove eri finito? Oggi ci sfuggi continuamente.”
Ironizzò Rossi, sedendosi accanto alla collega. Hotch si lasciò scappare un
velato sorriso per l’espressione sul volto del ragazzo, poi prese posto anche
lui.
“Avevo promesso
a Sarah Harris che l’avrei informata di qualsiasi novità su suo figlio e quindi
mi è sembrato giusto portarla subito qui.” Spiegò brevemente.
“Cosa le
succederà?” chiese Emily poggiandosi con i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi
in avanti. “Ci ha tenuto nascoste informazioni su Nathan che ci avrebbero
potuto far arrivare prima a lui.”
“Se ne
occuperà chi di dovere. Noi abbiamo risolto il caso..e questo è quello che
importa.” Le rispose David, sistemandosi meglio sulla sedia.
Reid si
guardò intorno prima di riprendere posto sul sedile che occupava precedentemente
all’arrivo dei colleghi. Poi domandò, “Ma Derek?”
I tre
fissarono lo sguardo su di lui, guardandosi poi tra di loro. “È uscito dal
capanno poco dopo di te.” Osservò Aaron. “Pensavamo ti avesse raggiunto.”
“Si...si...abbiamo
parlato ma poi io sono andato via da solo.” spiegò.
“Ma che
succede agli agenti dell’FBI? C’è un mega torneo di nascondino e nessuno mi ha
avvertito?” scherzò l’agente Rossi, prima di essere interrotto da un agitato rumore
di tacchi che arrivava dal corridoio, che fu presto seguito da una frizzante
voce.
“Pensavo ci
sarebbe voluto di più.”
“Bambolina,
tu mi sottovaluti.”
Da dietro
l’angolo apparve Penelope Garcia, subito seguita da Derek. “Mh...dovresti
mostrare meglio le tue qualità per non farti sottovalutare. Io sono pronta.”
Scherzò la donna prima di incrociare gli occhi dei colleghi, lasciando quindi
l’agente di colore senza la possibilità di replicare.
“Ci stavamo
chiedendo che fine avessi fatto...” esordì David sorridendo al collega che era
rimasto senza parole al trovarsi davanti quella schiera di persone.
“Colpa mia!”
esclamò Garcia dirigendosi verso Emily e buttandosi a sedere accanto a lei. “Mi
sono fatta passare a prendere, non potevo non venire qui a vedere come stava
JJ.” concluse poggiando la testa sulla spalla della collega.
“Starà
facendo impazzire il medico. Già sull’ambulanza gliene ha fatte vedere delle
belle.” Raccontò Prentiss trattenendo a stento delle risate.
“L’adrenalina
ancora in circolo.” Aggiunse Dave. Poi tutti si accorsero dell’estremo mutismo
in cui si era gettato Spencer dall’altra parte del corridoio. Lo osservarono
senza essere capaci di dire nulla. Un rumore improvviso li fece voltare verso
la porta dalla quale venne fuori Jennifer. Subito Emily e Penelope le corsero
incontro e l’informatica la abbracciò provocandole una smorfia di dolore.
“Scusa
JJ...” si mortificò allontanandosi.
“Non avevi
detto che non sentivi alcun dolore?” ironizzò la mora togliendole dalle mani la
giacca che teneva e poggiandola sulla sedia vicina a loro.
L’agente
Jareau inclinò il capo. “Adrenalina...” disse. “Avrei preferito che fosse
rimasta ancora un po’.”
“Fa tanto
male?” domandò Derek che nel frattempo l’aveva raggiunta con Hotch e David.
La bionda
scrollò le spalle prima di rispondere. “Sopportabile...sono i punti che tirano
la cosa più antipatica. Ma mi riprenderò in fretta e l’importante è essere
uscita di qui. Ma...la donna che ho visto dentro è Sarah Harris?” domandò
indicando verso la porta da cui era uscita.
Aaron scosse
il capo, “Reid l’ha portata qui.”
Jennifer
subito si ricordò della reazione del giovane quando la teneva prigioniera.
Quella luce particolare che aveva attraversato i suoi occhi quando aveva
parlato del suo bambino. “Lui non l’ha perdonata.” Disse e tutti la guardarono
interdetti. “Nathan non l’ha perdonata per averlo abbandonato.” Spiegò meglio.
“Si è...ha reagito in maniera strana quando ho parlato di Henry. Nei suoi occhi
c’era malinconia, tristezza.”
“Non ti ha
toccata per questo.” Aggiunse Emily accarezzandole il braccio sano. “Tu non sei
come la donna che voleva punire, e lui l’ha capito.”
“Ma ora?
Riusciranno a risanare questo strappo?” incalzò la liaison.
Nessuno
seppe rispondere alla sua domanda, e Penelope si girò verso il piccolo genio
seduto in un angolo. Non aveva avuto nemmeno il coraggio di alzarsi per
avvicinarsi alla collega, la pressione che stava subendo dalla situazione
doveva essere estrema. Prentiss notò la direzione verso cui Garcia stava
guardando e fissò anche lei gli occhi sul ragazzo che gli sembrò indifeso come
qualche ora prima. Poi tornò a voltarsi verso i colleghi. “Ehm...” si schiarì
la voce. “A chi andrebbe un caffè?” disse tra i denti e tutti a partire
dall’analista assentirono prima di allontanarsi da JJ e scomparire oltre il
corridoio.
Jennifer
spostò quindi lo sguardo sul piccolo genio seduto sulla sedia, non aveva
nemmeno il coraggio di guardarla. Si avvicinò a lui, si sedette e prese la sua
mano tra le sue. Solo allora lui riuscì a guardarla, mentre gli regalava un
dolce sorriso.
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Capitolo 29 *** Capitolo 29 ***
Then you catch him CAP29
CAPITOLO 29
“Si
accomodi...” il medico aveva invitato Sarah Harris a sedersi nel suo ufficio,
mentre si richiudeva la porta alle spalle. La donna timorosa si fermò vicino
alla sedia senza essere capace di accomodarvisi. Vide passare oltre i vetri la
bionda agente dell’FBI che lavorava con il dottor Spencer Reid. La sua
attenzione fu però subito ricatturata dall’uomo con il camice che fissò
preoccupata. “La prego. Deve sedersi.” Ripetè il dottore girando oltre il
tavolo per prendere posto sulla sua poltrona, portandosi di fronte un
fascicolo.
La donna si
decise finalmente e si sedette sul bordo della sedia, quasi in bilico. L’uomo
la scrutò prima di inforcare gli occhiali e abbassarsi ad aprire la
cartelletta. “Suo figlio è stato ferito da un colpo di arma da fuoco, che ha
fratturato un osso e provocato un’ingente perdita di sangue. Se non avessero
arginato la fuoriuscita ematica con quell’asciugamano a quest’ora sarebbe già
morto. Il proiettile è già stato estratto e l’operazione sta per finire.
Presumibilmente non dovrebbero esserci controindicazioni. Dovrà restare sotto
osservazione per del tempo, ma non deve preoccuparsi.”
Quelle
parole rincuorarono la donna, che subito si lanciò a chiedere. “Posso vederlo?”
Il medico si
tolse gli occhiali, poggiandoli sui fogli che aveva appena finito di
consultare. “Non appena uscirà dalla sala operatoria sarà portato in una stanza
dove smaltirà l’anestesia. Le ricordo che suo figlio sarà sotto custodia della
polizia e dei federali non appena varcherà quelle porte. Dovrà riposare, ma non
appena riprenderà coscienza non c’è nulla di medico che le impedirà di vederlo.
Dovrà però essere autorizzata dalle autorità.” Spiegò l’uomo riportando la
signora Harris nell’abisso in cui si era dimenticata di essere caduta. Si era
dimenticata perché tutto fosse cominciato, si era dimenticata che suo figlio
presto sarebbe finito in carcere. “Signora, va tutto bene?” domandò il dottore
vedendola assorta nei suoi pensieri.
Sarah si
riscosse. “Si...si, tutto bene. Grazie per le sue informazioni. Posso
aspettarlo nella stanza dove verrà portato dopo l’operazione? Se la polizia me
lo permette ovviamente.” Domandò timorosa.
“Certo.
L’accompagno subito.” Disse l’uomo, facendole strada verso un corridoio
interno. In breve raggiunsero una zona tranquilla, dove c’era un modesto
spiegamento di ufficiali in divisa. Il detective Carlson si stava coordinando
con i suoi sottoposti, quando il medico lo interruppe per introdurre la signora
Harris.
“È la madre
del ragazzo.” spiegò mentre lei allungava una mano verso l’agente che gliela
stringeva con forza.
“Volevo solo
poter aspettare mio figlio e vederlo quando uscirà dalla sala operatoria.”
Disse con riverenza.
Il detective
Carlson si voltò verso i suoi uomini, prima di guardare la donna e risponderle.
“Ci saranno dei poliziotti sempre di guardia. A parte questo, non credo che ci
siano problemi.”
La donna si
allargò in un sorriso, prima di ringraziare nuovamente il medico che si congedò
gentilmente, lasciandola nelle mani del capo del dipartimento che la fece
accomodare in una sedia in quella stanza ancora così vuota. Sarah non poteva
smettere di pensare a tutto quello che era successo e non riusciva ad
immaginare come sarebbero andate le cose. Si chiedeva se Nathan l’avesse
perdonata e come avrebbe preso la sua presenza lì. Non lo vedeva da troppo
tempo, non gli parlava da troppo tempo.
Si sporse in
avanti poggiando i gomiti sulle ginocchia e lasciando affondare il suo viso tra
le mani. Lui uccideva donne che somigliavano a lei perché non poteva arrivare
direttamente a lei. Questo non cambiava il fatto che lei fosse decisa ad
aspettarlo e a provare a parlargli. Di nuovo.
In breve i
cinque agenti raggiunsero una macchina del caffè in fondo ad un corridoio. A
quell’ora, a parte la zona dell’accettazione, l’ospedale era completamente
deserto. Il primo a lanciarsi sul dispenser per prepararsi una tazza di caffè
fu Derek. Introdusse le monete ed schiacciò un pulsante per avere una tazza del
liquido scuro, poi si voltò appoggiandosi al muro mentre attendeva, guardando i
colleghi che attendevano il loro turno.
“Hai parlato
con Reid?” domandò Emily al collega di colore, gli aveva sentito dire che si
era intrattenuto con lui dopo essere uscito dal magazzino.
Morgan
scosse il capo. Non voleva scendere nei dettagli di quello che si erano detti,
conosceva la sensibilità del ragazzo e voleva tutelarla. “Era scosso...per JJ,
per Nathan, per tutta la situazione.” Disse semplicemente.
“Ora come
sta?” incalzò Rossi.
“Sembra che
abbia capito di aver fatto solo quello che andava fatto.” Un suono lo avvisò
che il caffè era pronto, così si voltò a prenderlo, lasciando che ora Aaron
preparasse il suo.
Penelope
osservava i colleghi, quando finalmente decise di dar voce ai suoi pensieri.
“Ma se Nathan non dovesse farcela?” domandò indugiando a turno sul viso di
tutti, soffermandosi poi su quello dell’agente di colore. “Voglio dire...si
riterrà responsabile di averlo ucciso lui.”
Calò il
silenzio, perché fondamentalmente la donna aveva espresso quello che vagava
nella mente di ciascuno di loro da molto tempo, senza che però nessuno avesse
il coraggio di farlo prima di lei.
Hotch si
voltò con la tazza fumante tra le mani, “Magari sul momento potrà pensarlo, ma
Reid è intelligente e con il tempo dovuto capirà che ciascuno di noi è artefice
del proprio destino. Nathan ha scelto di uccidere e di ingaggiare questo
scontro contro di lui. Ha voluto lui che reagisse. Riuscirà a superarlo.”
Mentre Dave
si apprestava a ordinare anche la sua razione di liquido caldo Prentiss si
avvicinò a Garcia poggiandole una mano sulla spalla. Vide il suo sguardo
smarrito e cercò di confortarla. “Non è ancora detto che lui non si salvi.”
Ricordò alla collega, che in risposta le sorrise dolcemente.
Quando Rossi
finì con la macchina del caffè lasciò che anche le due donne lo preparassero
per sé. Rimasero tutti in silenzio a sorseggiare dalle loro tazze, quando la
loro attenzione fu attirata dal rumore di alcuni passi che si affrettavano nel
corridoio.
Sentiva il
calore di quelle dita tra le sue, e continuava a fissare quelle iridi blu. Era
stanca, lo vedeva con chiarezza, ma d’altronde era pur normale vista la nottata
che aveva passato.
“Non è colpa
tua, vuoi capirlo?” disse la donna spezzando il silenzio che si era creato tra
di loro.
Gli occhi di
Spencer tremarono non smettendo di perdersi in quelli di JJ. “Mi dispiace...”
pronunciò in un sussurro appena udibile.
La collega
si lasciò andare ad una lieve risata. “Sono qui e sto bene. Se tu non avessi
sparato, magari sarebbe andata peggio.” Spiegò e il tocco della mano del
ragazzo divenne nervoso, prima di slacciare la presa allontanandosi.
Il giovane
si mise in piedi allontanandosi di qualche passo da Jennifer che ora aveva
mutato il suo sguardo con uno dubbioso. Che avesse detto qualcosa di sbagliato?
“Non pensare
ad ora.” Spiegò triste lui. “Pensa a quel momento. Pensa, se non ti avessi solo
colpita di striscio?” la sua voce si incrinò mentre non riusciva a tenere il
pensiero fisso su quella possibilità per un secondo di più.
“Hai una
mira perfetta e io mi fido di te.” Rispose lei.
Il piccolo
genio scosse il capo abbassandolo. “Sai meglio di me che non è vero...sai che
la mia mira il più delle volte non è giusta. Ti potevo fare del male. Avrei
dovuto aspettare che fossi lontana.”
L’agente
Jareau si sollevò a sua volta sulle gambe, lasciando le braccia lunghe sui
fianchi. “Non farlo...” lo pregò. “Non pensarci nemmeno. Hai fatto solo quello
che andava fatto e che chiunque avrebbe fatto. Lui mi stava minacciando, è
arrivato a ferirmi. Spence...tu mi hai salvato la vita!” continuò scandendo
bene le parole.
Reid alzò di
scatto la testa fissandola, mentre JJ sosteneva il suo sguardo allargandosi in
un sorriso. La bionda fece qualche passo in avanti, raggiungendo il collega.
Allungò le braccia portandole delicatamente intorno alla vita di lui e
poggiandosi con la guancia contro la sua spalla. Era il suo modo di dirgli
grazie.
Inizialmente
il federale non seppe bene come comportarsi. Gli ci volle qualche secondo per
rispondere all’abbraccio della ragazza, portando anche lui le braccia a
cingerla. Tutto sommato aveva ragione. Doveva semplicemente pensare che lei era
lì e che stava bene. E Nathan stava per essere assicurato alla giustizia.
La strinse
con più forza, lasciando che i morbidi capelli gli sfiorassero il viso in quel
corridoio vuoto e silenzioso. “Ti fa male?” domandò dopo qualche minuto, senza
allontanarsi da lei.
La donna si
spostò quel tanto che bastava per guardare il collega in viso e inclinò il
capo. “Un po’.”
“Ti resterà la
cicatrice.” La avvertì lui, disegnando una smorfia sulle labbra.
JJ alzò le
spalle, “Non importa.” Disse, poi si aprì in un sorriso. “Vorrà dire che quando
la guarderò penserò a te.” Concluse, non riuscendo più a sostenere quello
sguardo, così che nascose il viso contro il maglione del ragazzo. Stringendolo
di nuovo.
Spencer
arrossì per le parole della donna che si era subito stretta di nuovo a lui. Non
ebbe nemmeno il tempo di formulare un pensiero su quello che stava accadendo,
che una voce lo raggiunse dal fondo del corridoio. “JJ!”
I due
ragazzi si sciolsero dall’abbraccio, voltandosi verso il luogo da cui proveniva
quella voce. Will si stava affrettando verso di loro, con il volto preoccupato.
Raggiunta la donna la abbracciò con vigore e Spencer preferì farsi da parte,
indietreggiando di qualche passo.
“Non tornavi
a casa e non rispondevi al telefono, così sono passato dall’ufficio e mi hanno
detto che eri qui.” Pronunciò l’uomo velocemente. “Cosa ti è successo?”
Jennifer
cercò di allontanarsi dalla presa troppo vigorosa del compagno per cercare di
spiegargli qualcosa, senza contare il fatto che la ferita ricominciava a farle
male. “Niente di grave. Mi hanno dato qualche punto, ma sto bene.” Rispose,
accarezzandosi il braccio.
“Non sai
come ero in pensiero.”
La donna
sorrise, “Spence mi ha salvato la vita.” pronunciò dal nulla e Reid trasalì di
colpo, voltandosi verso la coppia e incontrando gli occhi del detective
LaMontagne che lo scrutava e che cominciò a muoversi per avvicinarsi a lui.
Quando lo raggiunse gli batté una mano sulla spalla.
“Grazie...”
mormorò al giovane, sorridendogli. Poi portò di nuovo l’attenzione sulla
compagna che osservava la scena. “Stai bene?”
“Te l’ho
detto...sto bene. Ti spiegherò tutto a casa.” Concluse allontanandosi per
recuperare la giacca che Emily aveva gentilmente posato sulla sedia quando era
uscita nel corridoio. “Henry come sta?” domandò voltandosi si nuovo, pensando
al suo bambino che aveva tanta voglia di riabbracciare.
“Dorme. Non
si è accorto di nulla.” La rassicurò il compagno.
Jennifer si
sentì più tranquilla, si avvicinò a Spencer per salutarlo. Era giunto per lei
il momento di tornare a casa a riposarsi. Guardò per qualche istante il ragazzo
senza sapere bene cosa dirgli. “Ehm...ci...ci vediamo in ufficio allora?” formulò
infine e in risposta ebbe solo una scrollata di capo dell’agente in segno
affermativo.
La donna
dopo aver ampiamente sorriso si voltò raggiungendo il compagno che abbassò il
mento per salutare il magro giovane. Will allora avvolse JJ con un braccio incamminandosi
nel corridoio finché Reid li vide scomparire entrambi dietro l’angolo. Tornava
ad occupare quei corridoi da solo, quando la sua mente si ricordò chi ci fosse
dall’altra parte di quella porta. Nathan era ancora lì, che lottava tra la vita
e la morte. Per colpa sua.
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Capitolo 30 *** Capitolo 30 ***
Then you catch him CAP30
CAPITOLO 30
“Detective
Carlson...” disse Hotch voltandosi verso l’uomo che si stava affrettando verso
di loro. Superò tutti i colleghi portandosi in avanti e attese che l’agente si
fermasse di fronte a lui. Tutti gli altri si fermarono osservando la scena,
tesi.
“L’operazione
è quasi terminata. È andata a buon fine, ma il ragazzo dovrà smaltire
l’anestesia prima che si possa essere certi dell’esito.” Spiegò il detective
rivolgendosi ad Aaron.
Una
sensazione di sollievo si aprì nel petto di Penelope principalmente, ma in
fretta anche gli altri furono contagiati dallo stesso sentimento.
“Ha perso
molto sangue, ma se il vostro collega non avesse arginato la ferita prima che
arrivassimo noi, probabilmente non ce l’avrebbe fatta.” Continuò l’uomo in
divisa, mentre vedeva rasserenarsi i volti dei cinque agenti. Tutto ciò
significava molto per loro, per Reid specialmente. Non si sarebbe dovuto
ritenere colpevole di nulla, ma avrebbe capito di aver salvato ancora una volta
la vita al ragazzo.
L’agente
Hotchner allungò la mano verso il capo del dipartimento di polizia di
Washington attendendo che gli offrisse la sua. La strinse avvolgendola anche
con l’altra mano. “La ringrazio di averci avvertiti.”
“Al momento
la madre è dentro la camera ad aspettarlo, ma se volete parlare con lui, una
volta sveglio, non avete che da chiedere. D’altronde l’abbiamo arrestato per
merito vostro.”
Un lieve
sorriso appena annunciato si disegnò in risposta sulle labbra del supervisore
capo, che lasciò la presa sulla mano di Carlson, permettendogli così di
congedarsi e di scomparire oltre l’angolo. Aaron si voltò allora verso i
colleghi, che stavano finendo di consumare i loro caffè. “Direi che visto
l’orario possiamo tornare a casa. Domattina dovremo completare i rapporti in
ufficio e se necessario torneremo qui per parlare con Harris.” Ordinò agli
altri agenti, che scossero il capo in segno affermativo.
Emily si
avvicinò a Penelope abbracciandola con sguardo stanco. Ora che era tutto
finito, la fiacchezza si stava abbattendo con pesantezza su di lei. Sollevò una
mano verso gli altri, inclinando il capo e avviandosi poi verso l’uscita
dell’ospedale. Dopo poco anche Hotch e Dave seguirono l’esempio della donna,
lasciando da soli in quel corridoio la bizzarra informatica e l’atletico agente
di colore. Derek aveva già finito il suo caffè e guardava Garcia che
sorseggiava ancora dalla sua tazza con sguardo assorto.
“Che succede
bambolina?” domandò sorridendole.
Lei sollevò
gli occhi verso di lui, senza allontanare il bicchiere dalle sue labbra. Lo
guardò per un po’ senza rispondere. Poi abbassò il braccio. “Devo fare una
cosa!” esclamò afferrando il collega per il braccio e trascinandolo con sé in
quei corridoi deserti. Uno sguardo di sorpresa si disegnò negli occhi di
Morgan, ma prima che potesse controbattere si fermò a pensare chi fosse la
donna con lui. Era abituato ai suoi momenti di follia, quindi semplicemente
scosse il capo lasciandosi guidare da quella presa sicura.
Aveva ceduto
alla sua mente di nuovo. Troppi pensieri si stavano affollando nel suo cervello
mandandolo in confusione. Era riuscito a trascinarsi fino ad una sedia sulla
quale si era seduto, cominciando a ripensare a ciò che aveva vissuto in quegli
ultimi giorni. Non voleva ricadere in quello stato pietoso in cui si era
ridotto, alla disperata ricerca del Dilaudid. Lui era più forte di questo,
l’aveva dimostrato smettendo di drogarsi, cercando Nathan quando l’aveva
provocato. E riuscendo a salvare JJ.
Non
bastavano queste parole ripetute dentro di sé per calmarlo. Non era chiaro
nemmeno a lui cosa avrebbe potuto fare per calmarsi. Il sangue gli pulsava
nelle tempie mentre volgeva lo sguardo verso la porta da cui era venuta fuori
Jennifer qualche tempo prima, sperando di vedere anche il giovane camminare
verso di lui. Erano tutte allucinazioni.
Abbassò di
nuovo il volto tra le sue mani, perdendo la concezione del tempo e dello
spazio, fin quando avvertì una voce insistente che lo chiamava. Non rispose
subito, credendo che fosse tutto ancora una volta solo nella sua mente. Ma un
tocco sulla schiena lo fece sobbalzare dal panico.
Si voltò di
scatto alzando la testa e incrociando gli occhi terrorizzati di Penelope che aveva
fatto un passo indietro ritraendo anche il braccio. Solo dopo notò che alle sue
spalle c’era anche Derek che lo guardava senza spiegarsi bene il perché di quella
reazione.
Il genio
iniziò a sfregare i palmi delle mani sui pantaloni, respirando profondamente.
“Ero...distratto.” si scusò a suo modo, deglutendo a fatica. Si stropicciò
infine gli occhi attendendo una replica dai colleghi.
Garcia
cominciò a rilassarsi dopo la paura che l’aveva assalita per il modo in cui si
era comportato Reid. Si voltò a guardare Morgan, cercando in lui il coraggio
per parlare. Poi, voltandosi di nuovo, aprì la bocca, “Abbiamo incontrato il
detective Carlson...” Disse e come se fosse appena stata erogata una scossa
elettrica alla sedia sulla quale era poggiato, Spencer balzò in piedi,
stringendo i pugni. La donna si sbrigò allora a completare la sua frase
“...Nathan ha superato l’operazione.” Sorrise stringendo gli occhi dietro la
sua bizzarra montatura.
Quella
notizia saettò nella mente di Reid che non riuscì a gioirne, né a
preoccuparsene di più. Semplicemente non fu capace di provare alcun sentimento
per un momento. “Voglio vederlo.” Pronunciò senza nemmeno controllarsi e
guardando in attesa di risposta la collega.
Derek si
mosse alle spalle della donna, superandola e poggiando una mano sulla spalla
del piccolo federale. “Non è ancora uscito dalla sala operatoria, e c’è già sua
madre ad attenderlo. Dovrà smaltire una forte anestesia.”
Il giovane
sospirò, cominciando a sentire allentarsi lievemente la tensione dentro di lui.
Forse quella poteva essere l’occasione per la signora Harris di chiarire con il
figlio, di ricostruire un rapporto. Seppur non sapeva quanto ciò sarebbe stato
possibile. Si era rotto qualcosa in profondità tra di loro. Forse troppo in
profondità.
Riportò
l’attenzione sui colleghi che lo guardavano. “Non ce l’avrebbe fatta senza il
tuo aiuto. Se non avessi fermato l’emorragia dentro il magazzino, sarebbe stato
spacciato.” Aggiunse Garcia, orgogliosa del suo collega. Lei aveva visto come
si era premurato per aiutare Nathan la prima volta, ed era certa che anche
stavolta ci avesse messo la stessa attenzione. Anche se non era presente, lo
sentiva dentro di sé. Tra il genietto e il ragazzo si era stabilito un legame
particolare, ed era per questo normale che gli volesse parlare. Ma l’avrebbe
fatto solo a tempo debito.
Penelope
fece qualche passo in avanti dando un buffetto al ragazzo, che non poté
trattenere un lieve sorriso. Come sempre, a quella donna non si poteva
resistere. “Ora devi riposarti però. Ne hai bisogno.” Lo rimproverò
bonariamente.
Il dottor
Reid cominciò a scuotere la testa, “Voglio aspettare qui di potergli parlare.”
Protestò, spingendo Morgan ad intervenire.
“Ragazzino,
sono andati tutti a casa. Domani abbiamo i rapporti da compilare, e non ho
nessuna intenzione di dover scrivere anche il tuo. Quindi, ti accompagniamo a
casa immediatamente.” Rispose con finto tono d’accusa l’agente che si divertiva
a trattare il collega come un fratello minore.
Dinnanzi ad
una minaccia del genere, Spencer non riuscì a tirarsi indietro. Era stanco, non
poteva negarlo. Lui più di tutti aveva sentito la vicenda su di sé,
specialmente a livello psicologico. Avrebbe potuto provare a dormire e
l’indomani si sarebbe recato in ufficio. Avrebbe svolto il suo lavoro, come
sempre, e poi avrebbe considerato la possibilità di parlare con Nathan. Ne
sentiva un immenso bisogno.
Mentre
questi pensieri attraversavano la sua mente, sentì il braccio di Derek
stringersi intorno alle sue spalle, mentre anche Penelope si portava al suo
fianco, serena. Lo stavano portando via, senza che lui potesse opporsi in alcun
modo. Si fidò, lasciandosi guidare per quei corridoi deserti, fino all’uscita.
Non aveva notato veramente quanto fosse fresca l’aria in quella serata, solo
ora la avvertiva pungente sulla sua pelle.
Il SUV si
trovava a pochi passi da loro, lo raggiunsero e Spencer prese posto sul sedile
posteriore, mentre Derek si poneva alla guida. Quando anche Penelope richiuse
lo sportello, l’agente mise in moto il veicolo e la donna si chinò verso di
lui, sussurrandogli, “Non credevo si sarebbe convinto così in fretta.”
Morgan rise
cominciando la manovra per uscire dal posteggio, “Piccola, so essere molto
convincente quando voglio.” Le fece una lieve carezza al volto, concentrandosi
poi sulla strada da percorrere, mentre i gridolini della tecnica informatica riempivano
l’abitacolo.
Reid
guardava le luci della città scorrere fuori dal finestrino velocemente, senza
accorgersi di quello che accadeva sul sedile anteriore. Forse per la prima
volta nel giro di giorni stava cominciando a rilassarsi, ma sapeva che sarebbe
stato solo un fenomeno passeggero. Nella solitudine di casa sua o l’indomani
mattina tutto si sarebbe potuto riabbattere su di lui. Sperava di avere la
forza di contrastare questa eventualità.
Erano
passate ore, credeva. Non lo sapeva con certezza. Da quando si era seduta su
quella sedia in quella stanza vuota, sotto lo sguardo vigile di quei
poliziotti, il tempo aveva preso a scorrere senza controllo.
Si era
alzata qualche volta, mettendosi a passeggiare, ma aveva finito per sedersi di
nuovo sentendo le gambe cedere lievemente. Poi mentre aveva assunto ancora una
volta una posizione in piedi e guardava fuori dalla finestra nel buio di
Washington, una strana agitazione l’aveva spinta a voltarsi e aveva visto gli
uomini in divisa muoversi verso una barella in arrivo. La speranza si accese in
lei.
Dopo alcuni
controlli, ai medici era stato permesso di portare dentro il degente, che
avevano sistemato vicino all’ossigeno e agli altri attrezzi necessari in caso
di emergenza. Sarah aveva ringraziato quegli uomini e solo quando erano andati
via aveva osato avvicinarsi a suo figlio. Sembrava tranquillo nel suo letto mentre
dormiva, proprio come quando viveva ancora con lei. Ma non poteva ignorare i
tubi e le flebo che erano attaccate al ragazzo, per tenerlo sotto controllo. Tutto
ciò l’aveva riportata alla realtà.
Il tempo
aveva continuato a scorrere mentre attendeva che aprisse gli occhi e la
guardasse e un senso di stanchezza si stava impossessando di lei. Non avrebbe
dovuto dormire, avrebbe solo dovuto aspettarlo sveglia, ma il sonno fu più
forte di lei.
Si svegliò
dopo del tempo, quando una voce si rivolse a lei, rabbiosa. “Cosa ci fai tu
qui?”
La signora
Harris sollevò di scatto la testa dal letto sul quale l’aveva inconsciamente
poggiata, incontrando lo sguardo furente di Nathan. Era debole, ma non lo era
altrettanto il sentimento nei suoi occhi. “Il dottor Reid mi ha detto quello
che è successo. Come ti senti?” gli chiese in un sussurro alzandosi.
“Cosa ti
importa?” biascicò il giovane, “Ti sei anche addormentata...” la rimproverò.
La donna
pensò che non avesse tutti i torti. Sarebbe dovuta rimanere sveglia, ma non
c’era riuscita. “Mi dispiace, ero in pensiero per te.” Disse, provando ad
avvicinare una mano al viso del ragazzo, che però la fermò semplicemente
guardandola.
“Sei
patetica.” Le disse, voltandosi dall’altra parte. “Il dottor Reid ti ha detto
anche cosa ho fatto?” domandò e Sarah rispose scuotendo semplicemente il viso.
“Ti ha anche spiegato perché l’ho fatto?” aggiunse lui. Conosceva troppo bene
il federale, sapeva che era bravo nel suo lavoro. E se era riuscito a trovarlo,
voleva dire che aveva rimesso tutti i pezzi al loro posto.
La signora
Harris si sentì raggelare il sangue nelle vene, ripensando al momento in cui
l’agente le aveva spiegato chi erano le vittime di suo figlio. E perché. Non
riuscì a rispondere, ma Nathan capì perfettamente, “Non cambierà nulla.” Le
disse. “Andrò in carcere e tu mi abbandonerai di nuovo.”
Una lacrima
rigò il viso di Sarah. Era stata così stupida a credere che le cose sarebbero
cambiate, mentre si stava rendendo conto che suo figlio aveva perfettamente
ragione. Non era riuscita a sopportare il ricovero in una clinica psichiatrica,
come avrebbe potuto accettare la reclusione dietro le sbarre?
“Perdonami.”
Sussurrò, allontanandosi da quel letto e avviandosi fuori da quella stanza.
Abbassò il capo rivolta agli agenti e corse lungo i corridoi, fuori da
quell’ospedale. Lontano da suo figlio. Per sempre.
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Capitolo 31 *** Capitolo 31 ***
Then you catch him CAP31
CAPITOLO 31
La notte era
trascorsa in fretta, d’altronde erano tutti andati a dormire quando era già
mattina. Ma il lavoro a Quantico li aspettava puntuali come tutti i giorni.
Il primo ad
arrivare in ufficio, come sempre, fu l’agente Hotchner. Varcò le soglie della
BAU e notò che tutto era rimasto esattamente come la sera prima. Passò dalla
sala conferenze, dove vi era un tremendo stato di confusione. Fogli a terra e
una lavagna che segnava ancora tutto ciò che avevano in mano sul caso Harris.
Si affacciò dalla porta e fece un cenno ad Anderson che era al telefono alla
sua postazione. Il giovane ripose velocemente la cornetta e si affrettò verso
il supervisore capo che gli venne incontro lungo il corridoio.
“Anderson,
ci serve qualcuno che ripulisca la sala conferenze.” Disse e l’uomo rispose con
un cenno del capo. “Prima che arrivino gli altri.” Precisò. Non avrebbe mai voluto
che Reid dovesse affrontare di nuovo tutto ciò.
“Lo
consideri già fatto.” Rispose l’agente semplice, avviandosi giù dai tre gradini
e raggiungendo nuovamente il telefono alla sua postazione.
Aaron si
voltò verso il suo ufficio, entrandovi e richiudendo la porta alle sue spalle.
Cominciò a raccogliere i fascicoli sparsi sul suo tavolo, poi si abbassò
tirando fuori da sotto la scrivania una cassetta, all’interno della quale
ripose con ordine le varie carpette. Cercò un pennarello, e dopo averlo trovato
scrisse sul fianco dello scatolone ‘Nathan Harris’, voltandosi poi a cercare il
coperchio. Fu distratto da un educato bussare alla sua porta. “Avanti.” Disse
rimettendosi dritto e attendendo di scoprire chi si celava dall’altra parte.
“Signore.”
Salutò Penelope attendendo un cenno per entrare, lasciando la porta aperta alle
sue spalle. Anche lei era arrivata presto in ufficio, come suo solito. “Penso
che questo vada tra i reperti. Era rimasto nel mio ufficio.” Continuò la donna
camminando a passo svelto verso di lui e allungando il volume che stringeva tra
le sue mani. Era il romanzo scritto dal loro S.I.
Hotch lo
prese. “Grazie.” Le rispose ponendolo poi insieme alle altre prove e trovando
finalmente il coperchio con cui richiudere il contenitore. La donna non si era
ancora allontanata da lì e lo guardava tormentandosi le mani. “C’è dell’altro?”
domandò allora l’agente.
L’analista
sollevò una mano a sistemarsi la montatura degli occhiali. “Volevo...volevo
sapere se verranno tutti in ufficio...oggi.” balbettò, senza capire bene il
senso di quella domanda.
“Mancano i
rapporti da aggiungere a questo materiale, quindi si. Solo Jennifer resterà a
casa. Le ho dato un giorno libero, ho pensato che ne avesse bisogno.” Spiegò il
capo, alzando poi gli occhi verso la porta al di là della quale vide comparire
David.
“Buongiorno.”
Esclamò facendo qualche passo in avanti. “Sembra quasi che ieri non sia
successo nulla.” Commentò vedendo i colleghi di buon ora in ufficio.
“Torno ai
miei computer.” Disse Penelope congedandosi gentilmente dai due uomini e
richiudendosi la porta alle spalle.
L’agente
Rossi si avvicinò ancora di più alla scrivania dell’amico e collega che stava
prendendo posto sulla sua comoda poltrona. “Notizie dall’ospedale?” chiese.
Aaron si
spostò in avanti, poggiandosi con le braccia al piano di lavoro. Scosse il
capo, “Nessuna...”
“Cosa pensi
che succederà adesso?” Hotch capì che Dave con quella domanda non si stava
riferendo al caso, agli sviluppi legali che sarebbero seguiti. Era un
interessamento più personale, al quale rispose con un sospiro. Non sapeva cosa
sarebbe successo nelle ore successive. O nei giorni che sarebbero arrivati.
Si
guardarono ancora negli occhi, completamente disarmati.
Con il
passare del tempo l’open space della BAU di Quantico si stava riempiendo sempre
più. Anche Emily e Derek erano arrivati e si erano seduti alle loro postazioni,
cercavano di svegliarsi per bene. Avevano pochissime ore di sonno sulle spalle
e tanta stanchezza fisica e soprattutto psicologica.
Speravano non
ci fosse un nuovo caso da affrontare subito, ma che quella fosse solo una
tranquilla e noiosa giornata da passare in un ufficio persi tra rapporti.
Videro Dave uscire dall’ufficio di Hotch, sventolò una mano in loro direzione
prima di scomparire oltre la porta della sua stanza.
I due agenti
tra una parola e l’altra scritta sul loro foglio alzavano lo sguardo verso la
scrivania di Spencer. Ancora vuota.
“L’abbiamo
riaccompagnato a casa io e Penelope.” Disse Morgan spezzando il silenzio e
indicando con la punta posteriore della penna verso la sedia che Prentiss stava
osservando. “Stava bene. Cioè...non sembravano esserci problemi.” Si corresse
perché bene non era l’aggettivo più appropriato per descrivere il ragazzino.
“Mi chiedo
cosa accadrà ora...” commentò ad alta voce la donna, rivolgendosi poi al
rapporto davanti a lei. Nessuno avrebbe saputo rispondere a quella domanda.
Entrambi si
concentrarono di nuovo sul loro lavoro, in silenzio, fin quando sentirono
qualcuno avvicinarsi a loro. Alzarono gli occhi per incontrare la magra figura
di Reid. Reggeva un bicchiere di carta dello Starbucks e stava lanciando la sua
tracolla sulla scrivania. “Buongiorno.” Li salutò sedendosi.
Emily e
Derek si scambiarono un’occhiata dubbiosa, non era come si aspettavano di
trovarlo. Poi risposero al saluto.
In effetti
anche Spencer si sentiva strano quella mattina. Quando i colleghi l’avevano
lasciato a casa, aveva varcato la soglia con una strana sensazione. Era nervoso
e certo che non avrebbe chiuso occhio, invece dopo essersi rinfrescato si era
gettato sul letto e il sonno l’aveva raggiunto subito, svuotando la sua mente e
lasciandolo sereno per la prima volta dopo giorni. Aveva dormito profondamente,
fin quando la sveglia gli aveva comunicato che era ora di andare in ufficio.
Solo quando aveva raggiunto la solita stazione della metro, una morsa gli aveva
stretto lo stomaco. Prima o poi avrebbe voluto affrontare Nathan in una
situazione per quanto possibile tranquilla. Sperava di riuscirci in fretta.
Aveva fatto
solo una fermata allo Starbucks prima di salire in ufficio, dove ora guardava i
colleghi che non smettevano di fissarlo. Si voltò dopo un po’ e poggiò il
bicchiere sul tavolo, rovistando nella tracolla in cerca del suo badge e una
volta trovatolo, se lo fissò al maglioncino che indossava. Prese le ultime cose
che potevano servirgli, poi mise la tracolla sotto il tavolo, avvicinando la
sedia al ripiano. “Quindi...” esordì interrompendosi per bere un altro sorso di
caffè, “...ci tocca compilare i rapporti?” domandò cercando il foglio con il
logo dell’FBI sul quale avrebbe dovuto inserire i dati.
Emily guardò
ancora una volta Derek, che decise di rispondere per primo. “Noi ci stiamo
lavorando. Poi va tutto consegnato a Hotch, che li metterà con il resto dei
reperti per consegnarli a Carlson.” Riassunse brevemente le istruzioni che
avevano ricevuto loro.
Proprio
mentre Morgan finiva di parlare, Spencer trovò il fascicolo con l’appunto
lasciato dal capo. “Tutto scritto qui, grazie.” Disse agitando la carpetta
verso i colleghi, prima di poggiarla sul ripiano e aprirla.
Come se
avesse scoperchiato il vaso di pandora, i ricordi si abbatterono violenti su di
lui, impazziti e aggressivi. Li ripose in un angolo, concentrandosi a fare il
suo lavoro, doveva imparare a farlo. Doveva crescere ed essere pronto ad
affrontare casi anche peggiori di quello riuscendo a non perdere la testa e
dando il meglio di sé. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi
scese sul viso fino a grattarsi il mento. Afferrò la penna con quella sua presa
strana e cominciò a scrivere, spostando alla sua sinistra i documenti che
avrebbe potuto consultare se necessario. Ma lui aveva la sua memoria eidetica
che gli aveva permesso di memorizzarli al primo sguardo.
Si era
immerso nella scrittura, isolandosi da tutto ciò che lo circondava mentre
mandava avanti il suo lavoro, quando con la coda dell’occhio scorse un
movimento accanto a sé. Alzò di scatto gli occhi e incontrò la figura seria di
Aaron Hotchner che lo guardava. Si sentì colpevole di qualcosa, leggendo quello
sguardo negli occhi del suo capo. Deglutì profondamente, poi si concentrò su
quello che stava per dirgli.
“Hanno
chiamato dall’ospedale.”
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Capitolo 32 *** Capitolo 32 ***
Then you catch him CAP32
CAPITOLO 32
Il mondo si
fermò un istante, mentre Spencer elaborava a velocità quella frase nella sua
mente. Hotch non gli diede tempo di replicare e continuò, “Nathan si è
risvegliato dall’anestesia e sta bene. Ho pensato che volessi andare tu a
interrogarlo e a...parlarci.”
Reid fu
preso alla sprovvista. Era quello che più desiderava, ma non si aspettava di
ottenerlo così presto e in quel modo. Continuava a fissare il suo capo, senza
riuscire a proferire parola. Tormentava la penna che teneva tra le mani.
“Non sei
obbligato..può andarci qualcun altro.” Lo tranquillizzò Aaron, continuando a
fissarlo.
Spencer si
accorse che anche gli altri lo stavano fissando preoccupati, era arrivato
nell’open space anche Rossi, quindi si decise a reagire. “Grazie Hotch, si.
Vorrei parlargli. Prima però completo il rapporto, se non ti dispiace.” Quello
era il primo passo da compiere. Non permettere che quel pensiero si mettesse al
primo posto e distruggesse tutto il resto.
L’agente
Hotchner scosse il capo, rilassandosi per aver ottenuto una reazione composta
da parte del collega. “Quando vuoi. Carlson sa che arriverà qualcuno dei
nostri.” Lo rassicurò voltandosi per andar via.
Il piccolo
genio si voltò per tornare al suo lavoro, poi si ricordò di una presenza che
non aveva ancora notato tra quelle scrivanie. Non aveva potuto darle il
buongiorno come era sempre abituato, quindi alzò il capo oltre il divisorio
delle scrivanie e chiese non rivolto in qualcuno in particolare, “Ma JJ?”
Fu lo stesso
Aaron a fermarsi sui suoi passi, voltandosi per rispondergli. “Le ho dato un
giorno libero. Domani tornerà in servizio, salvo novità.”
Il peso che
si era creato addosso al giovane agente si diradò nel sentire che non vi erano
stati ulteriori problemi di cui magari non era stato messo al corrente. Decise
allora di concentrarsi sul suo lavoro. L’avrebbe portato a termine con
attenzione e calma. Solo in seguito si sarebbe occupato di Nathan.
Di giorno i
corridoi dell’ospedale centrale di Washington erano popolati da gente in attesa
delle loro visite, di poter incontrare parenti e amici. O nel peggiore dei casi
di pazienti che dovevano essere curati.
Il dottor
Reid si districava tra queste persone, mentre l’agitazione amplificava i rumori
intorno a lui, facendoli rimbombare all’interno della sua testa. L’area in cui
era Nathan era stata circondata dalla polizia, che non permetteva l’accesso a nessuno,
quindi continuò a camminare, fin quando i corridoi cominciarono a farsi più
tranquilli. Scorse in lontananza due agenti di guardia ad una prima porta. Si
avvicinò cercando di calmarsi e portò una mano alla tasca, dalla quale estrasse
il distintivo, mostrandolo agli uomini, “FBI, Agente Speciale Spencer Reid. Il
Detective Carlson sapeva che sarei venuto ad interrogare Nathan Harris.” Disse
con qualche difficoltà.
I due agenti
lo lasciarono passare, così che ora si aggirava in corridoi deserti. Gli stessi
che aveva visto la notte precedente. Raggiunse il luogo indicatogli dagli
uomini in divisa e mostrò ancora una volta il distintivo. Gli furono aperte le
porte, rivelandogli così una stanza tranquilla, con un solo letto al centro.
Sospirò e
varcò la soglia, che sentì richiudere alle sue spalle.
Allo scatto
della serratura, Nathan si voltò lentamente verso la porta, vedendo la magra
figura dell’agente esitare qualche istante prima di avvicinarsi a lui. “Dottor
Reid, cosa ci fa lei qui?” chiese seguendo tutto il suo percorso.
Spencer
cercò di concentrarsi, poi parlò, “Volevo...volevo parlarti.” Balbettò
guardandosi intorno.
Il ragazzo
su quel letto fece un movimento per cui contrasse il volto per il dolore. “È un
interrogatorio?” chiese poi con espressione disgustata.
“Diciamo più
un incontro informale. Hai parlato con tua madre?” domandò ricordandosi di aver
portato la donna lì non appena saputo in quale ospedale si trovasse. “Era in
pensiero per te.”
Harris
corrucciò le labbra, “Lei era pronta ad abbandonarmi di nuovo. Così è andata
via prima di illudermi.”
Lo stomaco
di Spencer si contrasse in una morsa. Non avrebbe mai creduto possibile una
cosa del genere, e invece era accaduta. “Mi dispiace.”
“Non sarebbe
mai cambiata, ormai l’ho capito.”
Finalmente Reid
identificò all’interno della camera una sedia e fissò i suoi occhi su quella.
Nathan se ne accorse e lo invitò a prenderla e a sedersi se ne aveva voglia.
Quel comportamento era troppo pacato, ma poi l’agente si ricordò
dell’eventualità che gli stessero somministrando quei farmaci che lui aveva
smesso di prendere abbandonata la clinica.
Sembrava
tornato il Nathan Harris che aveva conosciuto la prima volta. La permanenza in
clinica e l’abbandono da parte della madre avevano risvegliato la sua parte più
negativa, quella che dava ascolto agli istinti e impulsi psicotici, il suo lato
sadico che l’aveva spinto ad essere aggressivo, a sfidarlo apertamente. Ora non
vedeva più traccia di tutto ciò.
“C’era
qualcosa in particolare che voleva dirmi, dottor Reid?” il giovane spezzò il
silenzio che si era creato.
Spencer dopo
essersi accomodato aveva cominciato a tormentarsi le mani, stringendole l’una
dentro l’altra. “Volevo assicurarmi che tu stessi bene.”
“Perché?
Perché, dottor Reid, mi salva sempre la vita?” La domanda aveva colpito con
violenza l’agente. Era quello il nodo di tutto, lo sapeva. “Se lei mi avesse
lasciato morire la prima volta, non saremmo arrivati a questo punto.”
Il piccolo
genio abbassò il capo agitandolo lentamente da destra a sinistra. “Ho fatto
quello che andava fatto.”
“Ma perché?”
insistette il giovane.
“Quando ci
siamo incontrati la prima volta io ho rivisto in te una parte di me. Anche io
ho avuto paura di me, di ciò che vi era dentro la mia mente. Anche io ho
cercato di conoscere i mostri che mi avrebbero potuto assalire, credendo che
per questo potessi evitarlo.” Si limitò ad usare un tempo passato, omettendo il
fatto che per lui quelle paure non avevano mai avuto una reale fine.
Ancora una
volta il silenzio riempì quella stanza. Nathan lo osservava, colpito da quelle
parole. “Cosa ne sarà di me adesso, dottor Reid?”
Rialzando il
capo, il federale vide paura in quelle iridi blu, proprio come la prima volta
che si erano incontrati. “Dovrai pagare per quello che hai fatto.” Scelse la
via della cruda realtà. Non era mai stato bravo ad indorare la pillola.
“Mi sta
arrestando ufficialmente?” domandò il giovane stringendosi a quelle lenzuola
che lo avvolgevano. Spencer non poté fare a meno di notare lo smarrimento in
quegli occhi.
Tutti i
dubbi che avevano assillato il giovane si diradarono davanti a quella
situazione. Aveva fatto la cosa giusta e avrebbe continuato a farla, se le
circostanze l’avessero voluto. L’avrebbe salvato tutte le volte che sarebbe
stato necessario, anche da se stesso.
Continuò a
guardare quel ragazzo, considerando quanto, in fondo, doveva anche a lui la sua
maturazione. La sua vicenda l’aveva segnato e l’aveva fortificato, non ne aveva
dubbi.
E quelle
parole di Jason Gideon risuonavano ancora una volta nelle sue orecchie. Cosa
avrebbe fatto se quel ragazzo a cui pochi secondi prima aveva bloccato la
fuoriuscita del sangue dalle vene avesse colpito ancora? Quante vite aveva
messo in pericolo salvandolo? Era proprio vero, gli S.I. sceglievano il proprio
destino da soli, non ne erano colpevoli loro agenti federali. Cosa avrebbe
fatto se al suo ritorno avrebbe ucciso qualcuno, eventualità che aveva potuto
provare essersi realmente verificata? Lui avrebbe fatto l’unica cosa che aveva
il potere e il dovere di fare. Lui l’avrebbe arrestato.
FINE
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