Il Nuovo Ordine

di nuria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto Primo - Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***
Capitolo 5: *** Cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***
Capitolo 7: *** Sette. ***
Capitolo 8: *** Atto Secondo - Otto. ***
Capitolo 9: *** Nove. ***
Capitolo 10: *** Dieci. ***
Capitolo 11: *** Undici. ***



Capitolo 1
*** Atto Primo - Uno. ***


   Il Nuovo Ordine

 

 

 Uno 

 

Tutti s'aspettavano che sarebbero arrivate altre incrociatrici, e invece da Coruscant arrivò un'intera luna grigia, che galleggiava nell'etere buio dello spazio carica di minacce senza nome.

A bordo, l'imperatore incappucciato aspettò che i suoi soldati - perché a lui tutti avevano giurato fin dalla culla eterna fedeltà - sfilassero all'interno della nuova, letale base spaziale di ultima generazione, un'arma capace di distruggere un intero pianeta con un fascio di luce terribile. S'informò con i suoi generali sulla condizione delle truppe, sulle perdite e sui feriti e poi aspettò che il suo apprendista sbarcasse all'interno di uno degli hangar.

Il caccia di Anakin ruppe l'atmosfera e si ritrovò nel buio senza fine a quello che sembrava un niente da una nuova luna sbucata attorno all'orbita di Generis. Pareva una luna in tutto e per tutto, decorata com'era da un grosso cratere, ma la sua corazza liscia a grandi placche tradiva la sua natura artificiale. A vedere di rado i progetti gli era parsa una base dalla forma originale, una stravaganza degli ingegneri; ora vedeva un pallone immenso, un'eccitante follia che non aveva precedenti nella storia. Gli venne una quasi irrefrenabile voglia di sostare lì a mezz'aria e osservare quell'abominio, ma seppe che non era possibile. S'avviò quindi dove gli veniva indicato, verso la bocca nera di uno degli hangar che correvano affiancati come tante celle all’equatore della sfera.

Passò con un brivido vicino all'immenso cratere, al centro del quale s'estendeva la temibile lente del superlaser. Viaggiando vicino alla superficie liscia della sfera apparivano migliaia di minuscole luci dalle finestrelle, puntini bianchi e gialli e rossi.

La bocca aperta dell’hangar lo risucchiò. Dietro il suo caccia si chiusero all'istante i portelloni e parcheggiò nell'ambiente enorme e sconosciuto. Uscì dall’abitacolo e alla sua sinistra da un portellone sbucarono degli ufficiali in divisa verde e dei cloni coi caschi in mano in un curioso comitato di benvenuto.

‹‹Generale Skywalker, benvenuto sulla Base Orbitante Prima.››

‹‹L'imperatore è qui?››

Uno degli ufficiali, con una targhetta appuntata al petto che leggeva 'Lee', annuì e parlò con tono trepidante.

‹‹Vi sta aspettando, generale.››

Anakin aveva letto i progetti della base, e mentre passeggiava per i suoi corridoi ben illuminati, un non piccolo progresso rispetto all'aria cupa che di solito regnava nelle navi e nelle basi spaziali, gli pareva di conoscerla già. Sapeva della sua divisione interna: dei due emisferi, il settentrionale, dedicato per lo più all'armamentario e alla mastodontica arma laser, e il meridionale, dove si trovavano le cittadelle per le truppe e altri armamentari; conosceva le ventiquattro sezioni superficiali, gli ottantaquattro livelli e i duecentocinquantasette sottolivelli in cui era divisa, ognuno scrupolosamente etichettato e tenuto di guardia da droidi di ultima generazione; sapeva dell’indescrivibile potenziale distruttivo della base, e mentre viaggiava attraverso i viali a bordo di navette di trasporto e ascensori velocissimi verso la sua destinazione, l'ufficio dell'imperatore, non potè ignorare un curioso prurito in ognuna delle sue cellule. Provava una strana, smodata eccitazione nell'osservare quella macchina di morte dal suo interno, sentendosi padrone e comandante.

Al polo settentrionale e al polo meridionale si trovavano gli smisurati quartieri di comando, in cui viaggiava una folla di varia umanità in divisa e armatura, e cloni a mai finire. A bordo tutti coloro che contavano erano umani: l’imperatore non nascondeva la sua preferenza per i membri della propria specie.

L'ufficiale Lee lo condusse con precisione attraverso il complesso reticolo di vie e corridoi mentre salivano su, verso il polo settentrionale. Sulla via, gli mostrò gli ambienti che erano stati assegnati a lui, direttamente sotto a quelli dell’imperatore. Descrisse come un agente immobiliare i comfort che avrebbe trovato al suo interno, parendo tutto orgoglioso delle meraviglie della base su cui era stato stazionato.

Un giorno avrebbe dovuto portarci Padmé, pensò con ironia morbidamente amara mentre sentiva la crescente oscurità dell'aria lì dentro, a dispetto della sua vivace illuminazione. Si chiese se sarebbe sempre stato così illuminato, come non era mai stata altra base, riflettendo sui costi e sulle necessità di mantenere illuminata giorno quella che sembrava la stragrande maggioranza degli ambienti; il sottufficiale Lee rispose come se avesse potuto scorgere nel suo cervello il dubbio. Parlò con un certo livello di confidenza, come se Anakin gli avesse implicitamente garantito la sua attenzione e il suo rispetto. I capelli di Lee, biondicci e un po' arricciati, cadevano flosci sulla fronte e gli davano un'aria di impenitente gioventù. La divisa faceva a pugni con il suo aspetto vivace. Anakin si chiese quando aveva smesso di sentirsi come i suoi coetanei.

‹‹Tutta questa luce, devo confessarvi, generale Skywalker, mi spiazza. Nelle navi d'addestramento non c'erano tutte queste belle lucette, ma i tecnici mi hanno detto che non sarà sempre così. Questo è il viaggio inaugurale, per così dire, quindi vogliono fare le cose per bene e in grande, con tutti i crismi. Non mi dispiace, qui è tutto nuovo e moderno. Fa piacere vedere bene le cose, per una volta.››

Anakin non rispose, perso tra i suoi pensieri, e il sottufficiale Lee, pur accigliandosi per una frazione di secondo, non disse altro finché non furono davanti al portello automatico che dava agli appartamenti dell'imperatore. Lì fece un passo indietro e fece un cenno al droide dorato che s'avvicinò a loro.

‹‹Questo è il droide maggiordomo dell'imperatore, l'unico che conosce la password. Cambia ogni trenta secondi. Io non ho il permesso di rimanere qui. Arrivederci, generale Skywalker.››

E poi sparì da dove erano venuti, tutto impettito.

Il droide inserì una propria appendice in un minuscolo foro della parete, tanto piccolo da essere rimasto inosservato all'analisi veloce di Anakin, che assorbì l'androne illuminato, le pareti alla moda rivestite di quadrati di pelle imbottiti color crema, la pavimentazione bianca e lucida. Il droide fece un piccolo fischio, e il portello s'aprì automaticamente con un piccolo sfogo d'aria, lasciando intravedere una grande sala di forma circolare, alla cui estremità, dal lato opposto di Anakin, s'apriva sullo spazio una lunga finestra d'acciaio trasparente, da destra a sinistra.

Vi era al centro della sala una grande piattaforma in metallo per oloproiezioni di forma circolare, circondata da un congresso di poltrone; oltre, di fronte alla grande finestra, c'era una scrivania imponente di legno scuro, con un'unica grande poltrona dietro. Solo dopo che ebbe riconosciuto gli interni della sala Anakin s'accorse che c'era della musica strumentale in sottofondo, e un gradevole odore di nuovo e lussuoso.

Sentì il suo Maestro ben prima di ascoltare la sua voce.

‹‹Ti stavo aspettando, Darth Vader,›› biascicò l'imperatore scendendo dal soppalco del piano superiore, con le vesti scure e pesanti che strisciavano dietro di lui.

Il suo ingresso scatenò in Anakin due sentimenti familiari, soggezione mista a un senso di competizione latente, come il fuoco sotto una coltre di cenere. Ogni movimento dell'imperatore gli pareva uno specchio del futuro. Pensò a cosa sarebbe successo se avesse estratto la spada in quel momento e attaccato.

‹‹Ho eseguito gli ordini come voluto da lei. Ecco l'arma dell'altra Jedi. Era una padawan.››

E posò la spada laser di Milena Ong sul tavolo delle oloproiezioni. Gli balenarono in mente gli occhi chiari della Pantorana, e poi sparirono. Rimase soltanto il volto bianco e repellente del suo Maestro con gli occhi illuminati di un osceno piacere.

‹‹Ben fatto, Darth Vader. La nostra pulizia prosegue. Un giorno, un giorno vicino, questa Galassia sarà libera dall'immondizia Jedi.››

‹‹Sì, Maestro.››

L’imperatore fece un ampio gesto del braccio ad indicare i dintorni.

‹‹Spero che la nostra piccola base sia di tuo gradimento.››

Anakin annuì, ficcando il suo sguardo nelle distese senza fondo dello spazio oltre la finestra. Da quel lato il pianeta di Generis era invisibile, e l'unico panorama erano le mille e mille stelle incastonate nel buio che splendevano come tante lucciole selvatiche nei campi d'estate la notte. Alcune parevano del tutto ferme, altre parevano lampeggiare; ed erano tutte a migliaia di anni luce, brucianti e morte ed esplose, singole o in ammassi di splendide nebule. Trovarsi di nuovo nello spazio era una sensazione rassicurante. C’erano poche cose che Anakin amasse di più.

Sul tavolo delle oloproiezioni comparve un ufficiale, in colori e qualità sorprendenti. Era evidentemente uno dei lussi dell’imperatore. ‹‹Ci prepariamo al salto nell'iperspazio, Sua Altezza.››

‹‹Bene.››

E prima ancora che uno dei due Sith potesse aprir bocca per riprendere la loro conversazione, Anakin sentì coi suoi sensi raffinati il leggerissimo, impercettibile vibrare dell'iperguida, come se sotto i suoi piedi stesse viaggiando uno sciame immenso di formiche; poi nella finestra si dipinsero nello spazio di un battito di ciglia fasci di terribili luci bianche e blu, che si componevano e scomponevano tra di loro a formare fiammelle e lapilli di pura velocità superiore alla luce; e lo spazio non c'era più, ma solo quello psichedelico tunnel di luci che facevano male agli occhi e alla testa. Anakin aveva sempre amato quelle luci, come manifesto di tutto ciò che era la sua vita, cambiamento, avventura e dinamismo; ma l'imperatore premette un pulsante e la finestra s'oscurò del tutto.

Il brusco cambiamento di panorama ricordò ad Anakin più pressanti conversazioni da essere tenute.

‹‹Maestro, desideravo parlarvi personalmente di qualcosa che ho estratto da Tavrak. Riguarda il Senato.››

‹‹Prendi pure una sedia.››

Raccontò all'imperatore ciò che aveva biascicato il pazzo sotto la subdola tortura della mente, degli aiuti del Senato ai ribelli, ma non osò avanzare le proprie ipotesi. L'imperatore ascoltò ciò che aveva da dire con un'espressione di moderato disappunto, come se la questione non fosse nè sorprendente né grave, ma meramente un inconveniente già preventivato. Quando parlò, infine, usò una voce profonda e pacata, come se stesse discutendo del tempo.

‹‹Evidentemente,›› disse, caricando di sarcasmo l'avverbio, ‹‹è finalmente giunto il momento per qualche arresto importante in Senato.››

Anakin annuì. ‹‹Lo pensavo anch'io.››

E volle aggiungere che non c’era da fidarsi dei politici, ma si morse la lingua.

‹‹Temo che al Senato s’annidino pericolose sacche di resistenza,›› continuò l’imperatore con tono svagato, ‹‹politicanti che non hanno ancora compreso quale sia il loro nuovo posto.››

‹‹Ma Maestro…non può semplicemente sciogliere il Senato, e liberarsi definitivamente di loro?››

‹‹Pazienza, Darth Vader, pazienza. Non sono cose da fare su due piedi. Dobbiamo dare tempo all’opinione pubblica di arrivare alle nostre conclusioni, convincendoli con…dolcezza. In realtà, il Senato è un organismo innocuo, se liberato di certi parassiti.››

‹‹Concordo, Maestro.››

Gli occhi del vecchio divennero pungenti.

‹‹Spero che la senatrice Amidala sia arrivata a più miti consigli.››

Anakin rispose con prontezza, usando l’inflessione impersonale che adottava quando doveva discutere della moglie con il suo Maestro.

‹‹Certamente, Maestro. Mia moglie sta imparando ad apprezzare il mio impegno. La mia missione. La maternità ha…influito positivamente su di lei.››

L’imperatore non disse nulla e chiese del vino ad un droide protocollare che attendeva alla parete. Il droide s’affrettò, in rispettoso silenzio, a versare in due calici un vino rosso rubino che pareva sangue spillato da un’arteria pulsante.

‹‹Favorisci, apprendista?››

Anakin non beveva alcolici per principio. Al Tempio non erano ammessi, e dannazione a lui se non riusciva a liberarsi da quegli stupidi precetti. Ma gli occhi del suo Maestro lo sfidavano.

‹‹Grazie.››

Il vino era amaro e dolce insieme e non gli piaceva. Le sue papille protestarono al contatto con il liquido fresco ed ebbe l’impulso di chiudere gli occhi e sfregare la lingua al palato come un bambino costretto a mandar giù una medicina sgradevole. Invece, schioccò insieme le labbra come aveva visto fare ad altri, sperando di essere un buon attore.

‹‹Sono soddisfatto del tuo operato, Darth Vader. Hai qualche desiderio?››

Era un curioso rapporto, quello instaurato tra lui e il suo Maestro. Anakin aveva la continua impressione che il suo Maestro cercasse in ogni modo di stuzzicare il suo desiderio di possedere oggetti, e si dava in ampie profusioni di promesse che pure avrebbe ben mantenuto se Anakin non avesse rifiutato; aveva l'impressione che tutto ciò facesse parte di un piano per assicurarsi la lealtà del suo apprendista, con le lusinghe di un'esistenza opulenta. Ma Anakin non peccava di avidità materiali.

‹‹Vorrei avere qualche settimana di congedo.››

‹‹Da passare con la tua famiglia?››

L'espressione dell'imperatore mantenne il suo alone di contenuto disappunto.

‹‹Non più di due settimane. Il tuo posto è a Coruscant.››

‹‹Sì, Maestro.››

Anakin terminò il suo vino.

‹‹E non dovresti lasciare che il tuo attaccamento alla senatrice Amidala comprometta il tuo cammino.››

Le parole sarebbero potute essere state pronunciate da qualsiasi Jedi, e il pensiero fece quasi sorridere Anakin. Il suo Maestro definiva il suo matrimonio un semplice 'attaccamento': il dettaglio lo sorprese e lo riempì di un'onda nera di dispiacere. Provò, per la prima volta in mesi, una sensazione di profondo disagio.

‹‹Il tuo desiderio di trascorrere del tempo con le persone alle quali sei talmente attaccato è legittimo, mio giovane apprendista,›› continuò l'imperatore, con un tono marginalmente più conciliatorio, come se stesse istruendo un bambino, ‹‹ma devi considerare la carne della quale sei fatto, il tuo potere. Il tuo destino. È tutto alla portata della tua mano ma...›› Serrò le labbra per un momento, e i suoi occhi, nella gomma bianca e rugosa che era il suo viso sfigurato, parvero come di fuoco, ‹‹...ma ci vuole concentrazione, e studio continuo. La Forza è un'amante scostante, difficile, capricciosa. Ci vuole tempo, dedizione, carattere per dominarla. Ci vuole raziocinio. Noialtri siamo impegnati in un matrimonio ben più impegnativo con essa, capisci, Darth Vader? Dilettati finché ne hai voglia con la senatrice Padmé, ma sappi a chi devi la tua massima fedeltà. Sappi qual è la tua strada. Sappi ciò di cui sei fatto.››

‹‹A volte è difficile, Maestro.››

‹‹Non devi lasciare che qualcosa, o qualcuno, ti distragga. Ci sono emozioni che un uomo grande deve rifiutare, come la pietà e la compassione e l’eccessivo attaccamento. Sono emozioni da deboli. Mi chiedo se tu non lo abbia ancora capito. Allora capiscilo adesso: solo i forti sopravvivono, solo i forti meritano di vivere, solo i forti meritano di dominare i deboli. Un uomo forte controlla la passione e la usa per diventare più potente. Un uomo debole si fa controllare da essa. Hai molto da imparare, ma se segui la giusta strada un giorno sarai grande.››

Anakin annuì.

‹‹Hai il tuo permesso, Vader. Ora va'.››

Anakin s'alzò senza dire una parola e lasciò l'appartamento dell'imperatore, sentendo gli occhi del suo Maestro ficcati sulla sua schiena come punte di bastoni aguzzi anche dopo che fu fuori dal suo campo visivo.

Percorse al ritroso le strade che aveva già visto con il sottufficiale Lee, mentre alla confusione dentro di lui si sostituiva un sentimento misto e frustrante, amplificato solamente da quella coltre fumosa che gli entrava nei polmoni, come se il potere oscuro del suo Maestro potesse entrare dentro di lui dalle narici e mischiarsi con il suo spirito in una combinazione pestifera. Scene casuali della sua vita recente s'affastellarono nella sua mente come ricordi di un'altra vita, in cui poteva guardare con distacco ciò ch'era successo, e ogni volta che vedeva le proprie mani colpire – e come colpivano! - il fiato gli vorticava in petto come un piccolo uragano che gli toglieva il respiro. Era uno dei suoi soliti, strani attacchi - e la sua intensità era dettata soltanto dal nuovo vis-à-vis con quell'uomo, l'uomo nel quale nasceva e finiva tutto, e, forse, la prossima riunione con Padmé: che era sua moglie, e madre dei suoi figli, e non un semplice 'attaccamento'.

Ebbe il tempo giusto di entrare nei suoi appartamenti prima di finire ansimante contro la porta, inchiodato ad essa dalla vista improvvisa, violenta ed ipnotica, del tunnel dell'iperspazio alla grande finestra non oscurata della sua sala, analoga ma di dimensioni inferiori a quella imperiale. Dapprima cercò di schermare i propri occhi dalla luce abbagliante: appoggiò una mano agli occhi e s'accorse che gli bruciava la fronte. Immediatamente ritirò via la mano e girò il capo; solo la sua guancia era esposta alla luce e la schiena era ancora attaccata al portello. Chiuse gli occhi ansimando.

Sappi qual è la tua strada. Sappi ciò di cosa sei fatto.

E in sé sentì bruciare qualcosa che faceva paura, senza nome e senza descrizione. Mai come in quel momento, nella stanza buia inondata dall’immensità caleidoscopica dell’altra dimensione, Anakin sentì d’essere qualcosa d’eccezionale che mai avrebbe trovato replica. Sentì in ognuna delle sue cellule di essere il Prescelto di una profezia millenaria. E per la prima volta nella sua vita lasciò che i suoi pensieri scivolassero laddove mai aveva osato lasciarsi scivolare: il suo misterioso concepimento, il padre che non c’era mai stato, il suo legame biologico, ben oltre l’eccezionale, con la Forza. La sua carne parve dissolversi sotto i proiettili di luce, e rimase soltanto lui che cercava di schermarsi dal blu e dal bianco e dagli anni luce che scorrevano fuori dalla finestra. Sentì, mai come allora, di essere il Figlio, e le voci e le profezie erano tutte vere.

Sappi ciò di cosa sei fatto.

E Anakin sentì di essere lo Spazio, quella base, quel tavolo, tutto. Era quello suo Padre? L’immensità insostenibile dell’Essere e di tutto ciò che esisteva dentro di lui, fuori di lui, in tutte le dimensioni, in tutte le realtà? La Forza mistica che teneva unito ogni singolo atomo in quella Galassia? Gli orizzonti di potere, crudo e sconosciuto, che gli si aprirono davanti agli occhi come illuminati da un lampo gli fecero vorticare la testa.

Un giorno sarai grande.

Biliardi di biliardi di vita brulicavano ovunque, in migliaia di specie, in migliaia di razze, in migliaia di etnie, e le culture sfumavano l’una nell’altra in ogni pianeta, e si spandevano oltre i confini delle loro atmosfere come spore di piante affidate al vento. Fuori da quella base c’era migliaia di migliaia di pianeti civilizzati, e in ogni emisfero c’erano città, deserti, oceani, foreste e valli e montagne che pulsavano di una musica misteriosa (e lui era quella musica!). I pianeti formavano sistemi che orbitavano attorno a milioni di soli, di stelle; e c’erano ammassi e nebule che facevano innamorare e piangere quando apparivano all’orizzonte con i loro colori usciti dai sogni più sfrontati di un artista a decorare il buio più cupo e silenzioso; supernove che sembravano fiori sbocciati in un campo notturno; buchi neri tremendi dalle singolarità inesplorate che pulsavano e facevano male come colpi di una frusta invisibile.

Voleva tutto, e non voleva niente. Sentiva in sé l’insostenibile grandezza divina delle sue origini e l’insopportabile effimerità del corpo in cui era rinchiuso. Nella sua brama di potere che gli strappava gli organi pezzo a pezzo si sentiva osceno e ridicolo. Un re sbeffeggiato dalla sua nascita, un principe intrappolato per sempre nelle vesti di un insetto.

Le luci lottarono per tenerlo prigioniero del loro incanto, ma presto l’onda di esaltazione mistica di Anakin declinò e infine s’infranse contro gli scogli di sé stesso, del suo senso di colpa, della sua solitudine, della sua mortificazione; si scontrò con ciò che in lui non era né grande né meraviglioso ma misero e schifoso: le sue paure, le sue insicurezze, le sue inadeguatezze, i suoi crimini; e seppe di essere abietto.

La luce fu insopportabile, e lui troppo debole. Si lanciò contro la piastra dei comandi sul tavolo delle oloproiezioni, premendo alla cieca come se gli avessero gettato acido negli occhi e in qualche modo riuscì a far oscurare la grande finestra: lo spettacolo d’indaco, nero, violetto e bianco spumeggiante terminò e Anakin rimase al buio.

S’accorse che stava ansimando, e gli faceva male il petto e gli prudeva la gola come se avesse corso per centinaia di metri. Si ripiegò sul tavolo e appoggiò la guancia calda sulla lastra fredda. Una bava spessa gli colò dalla bocca sul tavolo e sentì di essere prossimo al vomito.

La stanza si riempì di volti muti. C’erano sempre quei bambini in prima linea, sempre loro…Provò una cocente vergogna: le guance divennero di fuoco e le lacrime lava ad ustionargli le mani con cui si tappava gli occhi.

Al buio, tormentato dai suoi demoni senza nome, si sentì più solo e disperatamente perso di come si fosse mai sentito. Era sporco e disgustoso, in preda a mille conati senza mai riuscire a vomitare tutta quella melma di cui era pieno come un sacco.

Oh, era già pazzo!

Per festeggiare la liberazione di Naboo dalla tragica oppressione della Federazione del Commercio l’allora neo-eletto Supremo Cancelliere Palpatine aveva ordinato l’acquisto di numerose casse del più pregiato vino rosso naboo, specificando di volerlo acquistare ancora in maturazione. Il conte Menes, proprietario dei vitigni, gli assicurò che quel vino già lungamente invecchiato, tempo una decina d’anni, sarebbe diventato il nettare di cui si favoleggiava lungamente in giro per la Galassia; ed era un nettare assai superiore al generico buon gusto dei vini alderaaniani, checché ne dicessero i membri dell’Associazione Enologica di Coruscant (chiaramente a favore del pianeta del Nucleo a sfavore di un pianeta come Naboo, geograficamente più marginale – e poi ‘tutti sanno che il presidente dell’Associazione è cugino della regina Breha, lei mi capisce’).

Tempo tredici anni, l’investimento del Cancelliere era diventata la bevanda pregiata nei calici dell’Imperatore: austero ma amabile, scevro da asprezze, con il più delicato retrogusto di legno severo e, forse, violette. Era un vino adeguato ai giorni trionfali.

Per prima cosa, l’imperatore meditò sulle azioni da intraprendere in Senato, convenendo con se stesso che i tempi erano maturi per la necessaria cernita già eseguita, ad esempio, tra le forze armate che non erano costituite dai cloni del cacciatore di taglie Jango Fett. Pensò ai capi d’accusa, agli ordini di cattura e ai costosi processi che avrebbe dovuto montare per risolvere favorevolmente quella questione. Si risolse di trattare la questione quando sarebbe arrivato a Coruscant.

Quindi, ripensò alla situazione del suo apprendista e del suo matrimonio con la senatrice Amidala. Non aveva dubbi che lasciare in vita l’ex-senatrice costituiva un fattore di rischio per quella raffinata costruzione che era il suo successo, ma ad ogni modo sarebbe stato semplice liberarsi di lei e di almeno uno dei due bambini, se non di entrambi. Da quando erano nati i giovani Skywalker, infatti, lo aveva colto un improvviso languore: il sospetto, la curiosità, del potenziale dei due infanti. Le prospettive erano allettanti, ma vi erano rischi connessi che l’imperatore non sapeva ancora di voler affrontare.

Ad ogni modo, con la morte della moglie, il suo apprendista gli sarebbe stato fedele interamente.

Tuttavia, c’era stato un buon motivo per aspettare. Far assassinare la donna all’improvviso avrebbe probabilmente causato nel suo apprendista una sciocca depressione o qualche simile reazione controproducente, se non un attaccamento maggiore al ricordo della defunta. Sarebbe invece stato maggiormente produttivo ed utile cercare la maniera – o indurla - di rendere Darth Vader più o meno direttamente partecipe nella morte della sua donna, così da scatenare in lui tutte quelle emozioni negative di cui un Sith si nutriva. Ma non c’era da aver grande fretta. L’occasione si sarebbe presentata al momento giusto, e lui, l’imperatore, l’avrebbe colta.

Era sicuramente un maestro nel cogliere le occasioni favorevoli, o, meglio, a farle verificare.

Non era stato forse lui solo a far verificare la grande vendetta dei Sith?

Per mille anni i Sith, di Maestro in apprendista, avevano studiato le ragioni della loro caduta e allo stesso tempo avevano intessuto il piano della vittoria: a lui, Palpatine, era spettato tirare le fila, e oh, quale meravigliosa trama ne era uscita!

La rivelazione gli era arrivata lentamente, come durante il sonno, tanto che poi non avrebbe potuto distinguere un prima o un dopo il possesso di quella nozione che, dopo molti anni, lo avrebbe portato al potere supremo; era una rivelazione semplice: la maniera per vincere i Jedi era non farli comportare da Jedi.

Ricordare la sua impresa era sempre qualcosa di gradito, anche al rischio di indulgere nella vanità.

I Jedi li aveva sparsi per la Galassia dietro ad un gonfalone, e aveva dato loro titoli militari, mostrine, responsabilità ed incarichi. Li aveva messi a capo di una guerra, e aveva fatto diventare i pacifisti generali. La beata cecità in cui erano piombati in mille anni di tranquillità sarebbe stata esasperata dalla nuova paura, la paura di perdere, e quello sarebbe stato il momento in cui avrebbe colpito, come il serpente velenoso che morde le zampe ad una bestia molte volte più grande.

Skywalker non sarebbe stato necessario: la vendetta dei Sith si sarebbe svolta con o senza la sua partecipazione, ma era stato quasi divertente veder scivolare dalla presa dei Jedi il loro Prescelto.

Un Prescelto che era arrivato tra le loro braccia in maniera fortuita, senza che avessero dovuto cercarlo. Aveva dieci, nato da una schiava su un pianeta dell’Orlo Esterno controllato dal crimine organizzato, e aveva un potere eccezionale che li aveva confusi e impauriti. Non si erano fidati di lui fin dall’inizio, Palpatine lo sapeva. Aveva sentito nel corso degli anni i lamenti del ragazzo quando ricordava la prima umiliazione che gli avevano inflitto. Parlava del Concilio riunito attorno a lui, delle loro domande e dei loro esami; e poi parlava dei loro occhi freddi e delle loro voci impietose e di come si era posto la domanda cruciale: dov’è la compassione che predicano di avere? Il giovane era arrivato ben vicino ai motivi della disfatta. E così i Jedi avevano il loro Prescelto, ma non quello che s’erano aspettati, né quello che avevano desiderato. Stolti!, che avevano creduto di poter decidere secondo i loro termini ciò che la Forza avrebbe deciso con i propri! E quando il giovane Skywalker aveva chiesto aiuto, i Jedi non avevano ascoltato, ma risbobinato ciò che avevano ripetuto a migliaia di altri Jedi nella loro storia: i loro soliti precetti, di mantener la calma, di liberarsi dalle emozioni, di controllare i sentimenti.

Quando il giovane Skywalker aveva chiesto aiuto, l’unico ad averlo ascoltato era stato lui, il Cancelliere.

Ripensandoci, l’istruzione dei Jedi su Skywalker non era stata del tutto fallimentare. Durante le loro molte conversazioni il suo apprendista era sembrato sinceramente convinto dei precetti dei Jedi, e orgoglioso fino al midollo di far parte dell’Ordine. Non aveva dubbi che senza il proprio input Skywalker sarebbe stato felice di continuare la sua esistenza tra i Jedi, pur sopportando i loro oltraggi. Fino all’ultimo, dopotutto, il giovane s’era comportato da vero Jedi: aveva denunciato la presenza di un Sith a capo della Repubblica, e, per l’ennesima volta, gli era stato detto di rimanere indietro.

L’imperatore, a volte, si chiedeva se Windu non avesse provato, oltre a dare sfogo all’evidente sete di potere che pasceva nel cuore, di usurpare il ruolo di Skywalker nell’antica profezia. Chissà se s’era spinto fino a quel punto.

Ma ciò non importava. Era più interessante notare, ad esempio, come Skywalker si fosse dimostrato un Jedi davvero fino a un minuto prima di essere nominato Sith. Aveva ricordato al suo Maestro il diritto ad un giusto processo del Cancelliere, vecchio e disarmato, e aveva incontrato di nuovo un rifiuto; quando ormai disperava – e che disperazione, vedere la chiave della salvezza della propria moglie sul punto di essere ammazzato! – ecco che aveva fatto ciò che più caratteristico di un Jedi ci potesse essere: difendere un indifeso.

Oh, tutta quella storia era di una deliziosa ironia!

E ora sentiva un cupo turbinio provenire dal suo apprendista, un grido soffocato, una lacerazione nel tessuto stesso della Forza. Sentiva il suo conflitto e il suo dolore, e conosceva perfettamente tutte le esaltanti sfumature che lo stavano facendo a pezzi. Riusciva ad immaginarlo in mezzo a spasmi soffocati, mentre veniva inghiottito da ciò che c’era di cupo nel suo animo.

Finì il suo vino.

Sorrise.

 

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padme undomiel. Wow. Questa volta davvero non ci sono parole per descrivere il capitolo: è così particolare, così oscuro, così ... Sith che credo di non averne mai visti di uguali. Forse era l'atmosfera creatasi, forse il senso sempre crescente di vittoria del male, forse perché, ancora una volta, tutto sembra andare secondo i piani di Palpatine, è stato uno dei capitoli più intensi di questa storia.
La cosa più interessante è questa totale confusione su chi siano davvero i buoni, e su chi i cattivi. Non credo di sbagliarmi, se considero l'imperatore l'unico davvero malvagio in questa vicenda ... ma gli altri? Sono, in fondo, solo delle vittime. Vittime delle proprie passioni, che un male più grande ha sfruttato per i propri scopi. Si può considerare un esempio di questa terribile verità anche l'ufficiale Lee, in un certo senso. Sembra così convinto che l'impero porterà solo luce per la Galassia da non vedere l'oscurità che sempre più li sta inghiottendo, da parlare quasi con reverenza di questa temibile stazione spaziale grande come una luna, da ritenere importante discutere di cose futili come l'illuminazione generale invece della portata distruttiva di questa nuova invenzione dell'Imperatore.
E arriviamo, ancora una volta, ad Anakin. Anakin che sente comunque forte il fascino del potere, amplificato fino a limiti impensabili dalla nuova potenza dell'Impero. Anakin che guarda con disprezzo mal celato il suo nuovo mentore, sfidandolo come lui sfida il suo allievo. Anakin che si sente, infine, deluso dal comportamento comunque limitante di Palpatine, che sminuisce il suo amore per Padmé come qualunque Jedi avrebbe fatto. E poi Anakin, che sa che il potere è a portata di mano, ma sa di essersi macchiato per sempre, di essere indegno, di essere perseguitato dai suoi ricordi. E quest'angoscia, amplificata dall'immagine straziante dei bambini che ha trucidato, lo porta ancora una volta al limite della ragione. Un tormento, insomma, che è difficile da comprendere appieno, ma ancora di più da trattare: un tormento reale, di un'anima buona corrotta dall'oscurità, che si ribella, nonostante tutto, ai suoi gesti, e che ancora può provare senso di colpa.
Ma la cosa più terribile di questo gran tormento è che è stato completamente previsto e voluto da Palpatine. Che non aspettava altro. Che brinda alla sua vittoria con il vino più pregiato, calcolando la completa resa del suo allievo e la morte di sua moglie e dei suoi figli. Ancora una volta, l'ombra alimenta i suoi cupi piani, che sanno solo di morte della libertà, di dittatura, e di completa perdizione per il Prescelto.
Insomma, un capitolo perfettamente riuscito. Hai davvero trasmesso tantissimo, e credo che tu sia riuscita ad analizzare bene anche un personaggio complicato come Palpatine, impresa di per sé quasi impensabile. Bravissima, non vedo l'ora di leggere il seguito! Magari posso sperare in un nuovo incontro tra Anakin e Padmé? :)
Alla prossima, Padme Undomiel ^^

 

 

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Capitolo 2
*** Due. ***


       Due      

Il pianeta di Naboo era un grande globo verde e blu sospeso nel buio profondo e l'atmosfera appariva come un velo che all’orizzonte diventava albescente, e sotto di essa, sotto gli strati di soffici, sparsi cirri, si stagliavano i profili dei verdi continenti. Un lato offriva il proprio volto al sole, e il blu degli oceani era scintillante e magnifico; l’altro era già oscurato dalla notte. Tutta Naboo produceva nella Forza la propria impronta misteriosa.

Era lì, nel lato buio, che Anakin cercava la propria casa. Penetrata l'esosfera, l’altitudine calò presto, e dopo un quarto d’ora dall’aver penetrato l’atmosfera naboo Anakin già percorreva a velocità sostenuta il cielo basso sulle pianure e gli altopiani erbosi che a lui offrivano i loro steli familiari, ondeggianti nella brezza in disegni fruscianti d'ombre e sprazzi di luce. Gli ci volle quasi un’ora di viaggio prima che le montagne e le colline di Varykino oscurassero con le loro cime il cielo stellato che aveva lasciato da poco. Anche da lontano il lago luccicava. Delle due lune di Naboo solamente Tashmetoo si specchiava nelle acque; Nanna1 brillava nel cielo, poco più luminosa di una stella qualunque.

Anakin sorrise. Istintivamente alzò una mano per togliersi dalla fronte i capelli biondi ed arricciati dall’umidità che gli si attaccavano alla fronte. Ora sentiva il caldo dell’estate naboo.

Perse tempo con le guardie ai cancelli della proprietà. I cloni lo salutarono con deferenza, e gli diedero il loro benvenuto, poi si premurarono ad assicurargli che avevano tenuto ottima vigilia della proprietà ed erano sempre stati “ad un fischio dalla signora Padmé”. Anakin li ringraziò per il loro servizio e disse loro che per quella notte potevano dormire tutti insieme senza tenere altre vigilie, e poi li guardò incamminarsi insieme verso la cascina in cui Padmé li aveva sistemati. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, guardando oltre l'acqua e verso l'isola in mezzo al lago, più o meno di fronte a lui in linea d'aria.

S'imbarcò su una delle gondole alla battigia, e iniziò la traversata del lago. Ad ogni metro che passava si sentiva più impaurito dall'oscurità silenziosa dell'isoletta, e prese a ricordare altre volte in cui aveva effettuato quella traversata. Certo, le circostanze erano state diverse: ma non era stato sempre felicissimo di tornare lì, la loro oasi protetta dal resto della galassia? Invece questa volta sentiva una tremenda agitazione. Il cuore gli batteva un ritmo forsennato contro la cassa toracica e il respiro gli si inceppava a tratti, come se soffrisse d'asma. Cercò di calmarsi, provando anche a meditare velocemente, ma s'accorse presto che era troppo turbato per concentrarsi. Quindi, abbandonata qualsiasi pretesa di calma, si sporse sul bordo dell'imbarcazione e provò la forte, fredda brezza che gli gonfiava i capelli. Ogni tanto, guardava in basso, nello specchio d'acqua, e il suo riflesso lo guardava indietro con la bocca stretta in una smorfia.

Gli sarebbe piaciuto, d’un tratto, sentirsi pieno di cose meravigliose ed entusiasmo. Salire le scale due a due, tre a tre, entrare in casa, fermarsi in mezzo alla sala grande e annunciare a gran voce: sono tornato. E quando Padmé sarebbe stata lì con lui, sorridere e abbracciarla e dirle che era tornato un uomo nuovo, che non l’avrebbe mai più fatta soffrire, che per loro stava davvero iniziando una nuova vita, che la lontananza lo aveva fatto riflettere e ora sapeva esattamente doveva voleva portarla. E lei, ascoltando le sue parole pronunciate con la passione del ventenne che era stato, non lo avrebbe più lasciato andare, e i suoi occhi scuri lo avrebbero guardato dal basso in su tutti lucenti, come ambra illuminata dai raggi del sole. Questo era lo scenario che i suoi sogni gli avevano riproposto tutte le volte che era riuscito ad addormentarsi, e, anche se occasionalmente cambiavano dei dettagli, la sostanza rimaneva sempre quella: lui che ritornava, e lei che era sinceramente felice di averlo di nuovo tra le braccia.

Lo scenario attorno a lui, le montagnole boschive, il lago scuro e la luna e il suono del motore, non fecero altro che esagerare la sua improvvisa percezione di essere non nella realtà, ma all’improvviso in una sua fantasia. Aveva desiderato tanto quel momento che ora il ritorno vero gli pareva essere proprio quello, una fantasia, e la cosa lo turbava. Quaranta giorni non erano stati la separazione più lunga che avesse dovuto sopportare da sua moglie, e i cinque lunghi mesi passati nell’Orlo Esterno erano ancora vividi nella sua memoria; eppure quella riunione sembrava speciale.

In un certo senso, sentiva che quella era la loro occasione per essere felici. Quello che era successo era successo, avevano raggiunto il fondo, avevano fatto la loro dura risalita, avevano avuto più di un mese per stare lontani e riflettere e ora potevano ricominciare da capo. Se lei - se tutti e due avessero abbassato le loro difese, come Anakin si sentiva pronto a fare, era certo che sarebbero stati felici. Avevano superato la tempesta, e il peggio era dietro di loro: davanti a sé vedeva i felici campi prosperi e soleggiati, pieni di agio e serenità, che avrebbe potuto darle in dono.

Fu così che Anakin, tra una genuina trepidazione, e un inconfessato timore, trascorse il breve viaggio, accostando con dolcezza gli speroni rocciosi del lato dell’isoletta fino al piccolo molo informale, dal quale una scalinata portava alla terrazza panoramica dove s'era sposato. Guardando in su, notò che non vi erano luci accese, né alcun rumore dall'interno della villa. Tuttavia, e arrivò come una silenziosa rassicurazione, poteva captare nell’aria la loro presenza, perfettamente affine alla quiete che pervadeva l’intero paesaggio lacustre.

Le aveva scritto un messaggio dicendole che sarebbe tornato quella notte. Non aveva ricevuto risposte. Ora, mentre scrutava nella sala buia dalla terrazza, gli pareva di essere stato dimenticato.

Gli vennero in mente altri momenti e altre riunioni. In una tempesta di immagini lampeggianti, scorse tre anni di sotterfugi, e gli parve di aver capito qualcosa d'importante sulla sua vita: che quelli della guerra erano stati tre anni duri e pieni di scomodità, incertezze e paure, ma erano stati anni felici, in cui le riunioni erano occasioni di pura estasi sulla terra. Ora non avevano nessuno da cui nascondersi, ma i benvenuti, a quanto pareva, non erano diventati più calorosi.

Entrò in casa e accese le luci.

Tutto era più o meno come se lo ricordava, con la tinta delicata delle pareti, i tappeti pregiati, i mobili di legno scuro, i pochi, lineari soprammobili che parlavano del gusto di Padmé in una sintesi di tradizionalismo e modernismo. Vi erano ancora i cuscini imbottiti, e l’angolo degli strumenti musicali, con quell’arpa grandiosa e i liuti intagliati e suonati dal nonno di Padmé, che era stato un famoso concertista. Un giorno, dopo aver suonato per lui l’arpa, gli aveva raccontato l’affascinante vita di suo nonno, e Anakin, nella sua solita passione di scoprire quanto più potesse sul suo amore, aveva assorbito ogni parola tanto bene che avrebbe potuto snocciolarle a memoria.

Si mise in mezzo alla stanza e si chiese dove fossero sua moglie e i suoi bambini. Era tornato – era tornato! – e non c’era stato nessuno a salutarlo. Si era aspettato che Padmé sarebbe rimasta sveglia finché non fosse stato a casa, ma con un moto di malessere si rese contò che il suo desiderio era stata un’altra delle sue fantasticherie. Ormai avrebbe potuto tenerne un archivio, con le etichette appropriate: fantasie dell’eroe al ritorno, fantasie della moglie comprensiva, fantasie dei figli prodigio (quelle erano le più variegate, viaggiavano attraverso gli anni e innumerevoli possibilità), fantasie della famiglia felice, e così di seguito. Un enorme, anzi, gigantesco archivio di tutti quei desideri ingenui, alcune volte anche innocenti, che erano diventati il carburante per la sua nostalgia.

A star lì in mezzo alla stanza, tutto solo, l’impressione di essere in qualche specie di sogno s’intensificò, e non riuscì a muovere un passo. Era come uno di quei sogni dove si vorrebbe correre e i piedi rimangono incollati al suolo. I suoi occhi fecero il viaggio degli oggetti nella sala, soffermandosi su dettagli disparati. Notò gli intarsi sui tavolini, i dettagli dei quadri appesi alle pareti, alzò il viso e osservò l’affresco sul soffitto, al quale non aveva mai dedicato abbastanza attenzione; abbassò il viso e osservò la storia intessuta nel tappeto, motivi folkloristici tipici della regione e gli parve che se si fosse acclimatato per bene, forse la delusione di trovare Padmé addormentata nel loro letto non sarebbe stata tanto bruciante. Sarebbe entrato in camera, avrebbe visto la sua forma distesa sul letto, col viso tutto coperto dai riccioli, e si sarebbe steso lì accanto a lei, aspettando che arrivasse il mattino.

Ci fu un rumore da qualche parte, e ad esso fece eco una voce.

‹‹Anakin!››

La grande porta a due battenti che conduceva alle altre sale e stanze si spalancò e Padmé apparve sulla soglia, come se si fosse materializzata lì dall’etere invisibile dell’universo. Indossava una veste da notte elegante color avorio tutta ricamata in fantasie delicate e i capelli erano nascosti dal lungo velo che fluiva fino ai piedi. Il suo viso era di una sfolgorante, insopportabile bellezza.

‹‹Oh, Anakin…››

Corse da lei e le strinse la vita ripromettendosi che non l’avrebbe mai lasciata, mai. Non sapeva di cosa odorasse esattamente, ma era celestiale. Ora gli pareva di essersi dimenticato di cosa fosse mai odorata. Ma finalmente i suoi occhi scuri lo guardavano, dal basso in su, tutti lucenti; e le sue mani fresche gli accarezzavano la guancia e grattavano la corta barba. Poi Padmé s’alzò sulle punte e lo baciò.

Gli era successo poche volte di sentirsi così totalmente trasportato da un bacio in un altro luogo e in un'altra era, ma avrebbe potuto giurare che era nel deserto e stava soffocando per il caldo. E fu per uno strano fenomeno della percezione che all’improvviso le lacrime di Padmé sul suo collo sembravano stille d’acqua venute a salvargli la vita. Poi avrebbe potuto giurare che in realtà nel deserto c’erano tutti e due, come soldatini mandati ad un fronte sabbioso. Erano tutti e due infelici ed emotivamente esausti, e Anakin sentì con chiarezza, per l’ennesima volta, di essere profondamente inferiore alla creatura gentile che gli stava concedendo il suo conforto, e, in silenzio, il suo perdono. Il bacio finì e l’abbraccio continuò oltre, come se fosse la forma di saluto più onesta che potessero regalarsi. Gli sarebbe anche andato di piangere, ma gli occhi gli si erano seccati del tutto. Poi nemmeno Padmé pianse, e rimase lì, tra le sue braccia, scossa da singulti forti e secchi.

‹‹Sono a casa. Sono davvero a casa.››

Padmé gli offrì un sorriso timido, e poi sorrise un po’ di più. I suoi occhi parevano voler parlare, ma Anakin non riusciva a capire.

‹‹Quanto mi sei mancata.››

E di nuovo la strinse e affondò il viso nell’incavo del suo collo e chiuse gli occhi, cercando di memorizzare quell'odore singolare per scongiurare il pericolo di dimenticarselo.

‹‹I bambini. Muoio dalla voglia di vederli. Sono stati quaranta giorni di tortura.››

‹‹Ho parlato loro di te tutti i giorni. Tutti quanti.››

E glielo disse con una specie di tenera timidezza, come se fosse un fiore che offriva i suoi petali al sole di prima mattina. Anakin si chinò e la baciò di nuovo. Poi Padmé si districò dal loro abbraccio, gli prese la mano e lo portò tra i corridoi e su per le scale, verso la stanza dei bambini.

Anakin la seguì in uno strano stupore, perché d’un tratto non gli pareva di essere davvero lì, o, forse, di star guardando se stesso dall’esterno, come in un sogno. Non riusciva ad uscire dalla sua condizione, e, come spesso succede in uno stato alterato della coscienza, non riusciva a concentrarsi su altro che non fosse un dettaglio casuale, in questo caso il velo leggero di Padmé che svolazzava dietro di lei, come se fosse davvero un angelo, uno di quelli che abitavano sulle lune di Iego. Quando furono davanti alle doppie porte della nursery, Padmé si fermò e disse con una voce che traboccava d’orgoglio e che pareva stranamente fuori luogo nell’atmosfera delicata e sognante tra loro: ‹‹Sono così grandi, adesso. Sono dei piccoli bantha. In una settimana – due settimane, ecco, sono cresciuti così tanto. Crescono davvero a vista d’occhio. Loro…››

Poi chinò il capo e non disse nulla.

Oltre le porte c’era la sala dei bambini, che era un trionfo del buon gusto di sua moglie. Il mobilio intarsiato era di colore scuro e intenso, le pareti e i tessuti, delle tende, del baldacchino e delle fodere, un dolce avorio. Per terra c’era un nuovo acquisto, un largo tappeto di lana pregiata; alle pareti degli abat-jour davano in una sontuosa luce gialla. Di fronte alle porte, s’aprivano sulla notte due finestre, e oltre s’intravedevano i puntini luminosi delle stelle. Poco scostata dal centro della sala, speculare alla chaise longue e alle due poltrone dall’altro lato del tappeto, vi era la culla rotonda sormontata dal baldacchino, un trionfo elegante di seta. Non era stata così grandiosa quando era andato via.

Dentro la culla, i suoi bambini erano svegli.

‹‹Questa è una novità. Ormai dormono tutta la notte…››

Luke e Leia lo guardavano con i loro grossi occhi luminosi e un’espressione di netta confusione. Li aveva visti sì e no una decina di volte, tante quante aveva conversato con la loro madre, o forse meno, e ora che li aveva davanti agli occhi vide quant’era tangibile la loro metamorfosi. I loro volti erano promesse di quello che sarebbero stati un giorno, passati gli anni. I gemelli erano più o meno delle stesse dimensioni, anche se il volto di Luke era più rotondo di quello della sorella; avevano la stessa sfumatura della carnagione, che favoriva lui sull’incarnato esotico di Padmé; Luke aveva buffe ciocche di capelli bianchissimi e occhi azzurri, Leia una singola ciocca di capelli castani chiari e occhi scuri. Ma mentre gli occhi di Luke erano calme pozze e serene, quelli enormi della sorella nascondevano insondabili profondità. La sua bambina, realizzò Anakin in quel momento, mentre la guardava per la prima volta dopo più di cinque settimane, era destinata, forse più di suo fratello, a diventare qualcuno di grande ed importante, come sua madre prima di lei. Sentì l’eco di qualcosa di spiacevole dentro di sé, e si rimproverò per aver proiettato sui suoi bambini quelle mute aspirazioni che sentiva.

Ricordandosi di dover in qualche modo iniziare un contatto con i suoi figli, abbassò una mano nella culla e passò la sua mano tra i radi capelli sulla testa di Leia. Con due dita tracciò la morbida fontanella, poi scese fino al braccio paffuto, e prese nella sua la manina della bimba, sentendo la terrificante fragilità di quelle piccole falangi.

‹‹Come sono diversi,›› disse alla fine, perché sentiva gli occhi di Padmé scavare un buco sul suo profilo. ‹‹Mi ricordavo due – neonati. E guarda quanti capelli che hanno adesso, guarda quanti. E sono…davvero grandi. Sì.››

‹‹Prendili in braccio. Sono calmi. Secondo me ti hanno riconosciuto.››

Guardò prima il volto dolce di Padmé e i suoi occhi pieni di incoraggiamento, e poi il volto e gli occhi dei suoi bambini. E quando non potè prenderli, per motivi che gli rodevano il cuore e di cui non poteva parlare, guardò di nuovo Padmé e vide che il suo sorriso era diventato tirato. Dopo qualche istante neanche gli angoli degli occhi stavano sorridendo, e alla fine non sorrise più. Abbassò il viso e sembrava volesse nascondere le lacrime.

Anakin fece un passo indietro.

‹‹Non posso,›› fu tutto quello che riuscì a gracchiare.

Padmé, d’impeto, gli circondò la vita con le braccia e gli baciò la spalla. ‹‹Andrà meglio. Ora siamo tutti…››

‹‹…spiazzati…››

‹‹Sì. Siamo tutti spiazzati.›› Gli offrì un altro sorriso timido. ‹‹È così bello che tu sia tornato.››

Anakin sentiva che era dibattuta, e che desiderava parlare e sapere. Eppure nessuno dei due, per qualche motivo, aveva il coraggio di parlare davvero. Si sentiva sporco e stanco, e, nonostante avesse solo ventitré anni, si sentiva anche vecchio. Era esasperante: si sentiva lento, debole, come se le sue ossa stessero per cedere sotto le sollecitazioni di quattro, cinque volte i suoi anni, e il suo cervello iniziasse a cedere sotto i colpi del tempo.

Padmé tra le sue braccia era delicata e sofisticata come lo era sempre stata. Per lei Anakin non provava più né sfiducia, né irritazione, né rabbia. D’un tratto voleva solo proteggerla dalla melma che teneva dentro di sé.

E poi voleva solo riposarsi. Se non riusciva a trovare un accordo con se stesso, che forse lo avrebbe eluso per sempre, e se non riusciva ad esprimere a Padmé ai bambini tutta la gioia pura ed esilarante che provava nell’averli ritrovati, se, insomma, non riusciva ad essere il padre e il marito che sarebbe dovuto essere, almeno avrebbe trovato conforto nel chiudere gli occhi – forse lì, finalmente a casa, avrebbe riacquistato il lusso di una notte intera di sonno. Ma se lui era deluso, altrettanto doveva essere Padmé, che nascondeva le lacrime nella sua giacca.

Erano andati a dormire in silenzio e in silenzio Padmé s’era addormentata mentre gli accarezzava la mano, via via con minore intensità man mano che il sonno la prendeva. Fu solo dopo qualche ora che, a notte fonda, constatata la reticenza del sonno a venire a trovarlo, Anakin s’alzò, infilò il guanto sul suo arto meccanico e uscì dalla stanza. Camminò per un po’ tra i corridoi, aprendo di tanto in tanto le porte per controllare se le numerose stanze e sale della villa fossero rimaste le stesse; visitò le torri, pensò di uscire tra i giardini e invece finì nella stanza dei bambini.

Stavolta dormivano.

Sedendosi accanto alla culla, Anakin si chiese se l’avessero davvero riconosciuto o se fossero stati invece turbati dall’improvvisa presenza di uno sconosciuto che allungava le mani su di loro e li accarezzava come se li conoscesse.

Nella Forza la loro presenza era delicata e serena, ma sempre pulsante. Erano potentissimi piccoli bebè, che un giorno sarebbero stati utenti splendidi della Forza e avrebbero illuminato l’universo con il loro singolare potere. Ma non erano soltanto pensieri di potere quelli che corsero nella mente di Anakin mentre contemplava i suoi bambini. Dopo poco non pensò più al loro futuro, ma al presente che avevano modellato sul volto: cercò nei loro lineamenti dove si rassomigliassero, e dove differissero (e, a dirla tutta, non s’assomigliavano granché); poi cercò dove s’assomigliassero a lui, e dove a Padmé, e gli parve d’intravedere in Leia già qualcosa della madre, e in Luke qualcosa di Jobal (ma forse erano solo giochi di luce); e studiò la maniera in cui la luce soffusa dell’abat-jour accarezzava i loro volti, i piccoli menti, le guance rotonde, le labbra schiuse e un po’ umide, i nasi piccoli, le ciglia lunghissime e le fronti ampie e arrotondate.

E all’improvviso sentì qualcosa dentro di sé feroce e bellissimo, identico a ciò che aveva provato quando li aveva visti nascere. La timidezza fu dissolta, e nella stanza di colpo si respirò un’altra atmosfera, almeno per lui di pace e ritrovata amicizia. Era a casa, ed era con i suoi bambini, che con lui condividevano il segreto della Forza. Se ci pensava con abbastanza intensità, riusciva a convincersi che forse la sua vita non era poi troppo tragica, ma teneva in serbo per lui molte, felici novità.

Gli venne all’improvviso la fantasia di parlare con loro, e, senza nemmeno accorgersene, la prima lingua che usò fu l’huttese. Delle lingue che parlava, quella era stata la prima, per motivi che avrebbe preferito dimenticare: era l’unica lingua tollerata alla corte di Gardulla, e la prevalente a Mos Espa; per tutta la sua vita Anakin era spesso ricorso all’huttese in momenti inaspettati. Ma Gardulla fu presto cancellata dalla sua mente e rimasero soltanto le sue confessioni in lingua straniera ai suoi bambini. Si chiese se fosse il caso di parlare loro sempre in huttese, se non fosse proprio un bel regalo farli crescere bilingui. Glielo chiese anche, ma i bambini continuarono il loro pacifico sonnecchiare.

‹‹Uma ji muna,›› sussurrò. ‹‹Chok chok.››

Luke mosse il braccio e si accarezzò la guancia con un movimento un po’ scoordinato, che sembrava si fosse dato un piccolo pugno. Rimise a posto il braccino e nel farlo diede un colpo alla sorella, che dalla sua placida posizione sul fianco si spostò sulla pancia. Anakin si ricordò di aver sentito o letto da qualche parte che gli infanti non dovevano essere lasciati dormire sulla pancia, e si premurò di spostare la bambina di nuovo supina. La piccola arricciò il naso come se infastidita e…

‹‹Wan chuba hoohah takmeka Huttasa?››

Era Padmé. Parlò camminando verso di lui con gli occhi assonnati. Gli poggiò le mani sulle spalle. Erano calde, e morbide come la sua voce.

‹‹Come mai sei sveglio?››

Lo sentì parlare in huttese dall’altro lato della porta e la sua mente volò verso i giorni di Tatooine e le ore regali passate a perfezionare la pronuncia di cinque lingue straniere.

‹‹Uma ji muna, chok chok,›› gli sentì dire, e significava “vi voglio tanto, tanto bene”.

S’appoggiò alle porte e aprì quanto più delicatamente potesse, e parlò in huttese.

‹‹Perché gli parli in huttese?››

Anakin parve preso alla sprovvista, ma i suoi lineamenti si ricomposero in fretta in una maschera di malinconia. Gli andò vicino e gli poggiò le mani sulle spalle. Erano piene di nodi duri che chiedevano di essere massaggiati.

‹‹Come mai sei sveglio?››

Anakin si rilassò contro le sue mani.

‹‹Dovevo venire da loro. Ancora – ancora non riesco a credere di essere tornato.Un giorno fa ero su Generis, e faceva un freddo da cani. C’è l’inverno lì. E oggi ci sono trenta parsec di distanza, e sono a casa, con te e con loro. È strano, capisci? Non mi ero mai sentito così.››

‹‹Stai invecchiando.››

Anakin rise, ma c’era un’ombra di nervosismo nella sua voce. La sua mano guantata accarezzava un po’ distrattamente le gambe di Luke, che dormiva con le braccia stese sopra la testa, come un uomo che si arrende.

‹‹Stavo…›› ricominciò Anakin con un po’ d’incertezza, ‹‹…stavo pensando che sono davvero belli. Voglio dire, sono diventati più belli da quando li ho lasciati. Sono cambiati così tanto, e io non l’ho visto. Non va bene…››

Padmé s’abbassò dietro di lui, incrociando le mani sul suo petto e posandogli un bacio sulla guancia. I suoi capelli secchi le pungevano la guancia. Aveva bisogno di tagliarli; da tempo, un mese almeno, avevano superato la lunghezza che le piaceva, ed ora erano duri e stopposi. Odoravano di shampoo in polvere, di quelli che facevano a pezzi i capelli. Scoprì che quel dettaglio le faceva tenerezza.

‹‹Loro non se lo ricorderanno nemmeno. So che sono felici che tu sia tornato. È quello che conta, dopotutto.››

Anakin rimase zitto, e Padmé fissò il movimento lento e continuo delle sue dita che massaggiavano con delicatezza la gamba paffuta di Luke. Il bambino non sembrava accorgersene, e continuava a dormire indisturbato. Dapprima le sembrò che ci fosse decisamente qualcosa di sbagliato, ma solo dopo un po’ d’osservazione s’accorse che ciò che non quadrava era quel guanto di pelle nera contro la pelle rosea del neonato. Era un irrazionale pugno nell’occhio.

‹‹Perché porti il guanto?››

‹‹Non è umana…››

Mosse un po’ in aria la mano, girandola e flettendo le dita.

‹‹Non importa.››

Padmé gli sfilò via il guanto e lui la lasciò fare. Quell’arto Anakin l’aveva ritoccato innumerevoli volte, facendolo diventare dalla scarna appendice droidoscheletrica che gli era stata attaccata tre anni prima un sostituto dall’aspetto più umano e più minaccioso. Legamenti neri di metallo coprivano, pelle scintillante e dura, le scarne dita e il fascio di cavi e nervi robotici. Non aveva mai voluto applicarvi la carne e la pelle sintetica disponibili, che avrebbero reso il suo braccio indistinguibile da uno vero (“Non è da Jedi badare a cose come l’aspetto esteriore,” aveva detto, e non aveva mai avuto ripensamenti).

‹‹Sei il loro padre, e a loro non importa. Non è fredda,›› disse, facendo combaciare i loro polpastrelli, ‹‹non è pesante…›› e appoggiò le palme insieme, ‹‹…non è rigida…››

E poi le sembrava di star parlando d’altro, ma non riuscì ad inseguire quel pensiero che notò l’altra mano, quella di carne, che stringeva tanto forte il bordo della culla da essere sbiancata. Anakin era una corda tesa, e la sua posa seduta era all’improvviso marziale e innaturale.

‹‹Che succede, Anakin?››

Lui si districò dalla presa larga di Padmé, s’alzò e fece qualche passo. Si fermò e si girò. Troppo alto e spesso di muscoli, ma con i capelli biondi che s’arricciavano alle punte e gli cadevano sulla fronte e gli occhi blu grandi, pareva qualcosa che Padmé non aveva visto mai prima; e si accorse che non poteva più operare nessun confronto con un bambino o un ragazzino, ora che i loro bambini erano tra di loro. Pareva al lato opposto di quello spettro: una creatura familiare eppure misteriosa. C’era qualcosa di tangibile che pulsava attorno a lui. C’erano volte in cui anche lei poteva credere di essere sensibile alla Forza, tanto era netta la sensazione.

‹‹Non lo so, Padmé. È questo il problema. La mia vita mi è uscita di mano, la mia testa pure. So solo che se continuo così io impazzisco.››

A quelle parole Padmé dipinse nella sua testa i più orribili scenari, e nel mezzo c’era sempre lui che distribuiva morte come un tempo distribuiva sicurezza. Erano le strane immagini che l’assalivano di tanto in tanto e che lei ricacciava negli angoli più reconditi della sua mente. S’immaginò Anakin che ammazzava innocenti e andava a congresso con il suo nuovo Maestro. Se li immaginava attorno ad un tavolo, con gli occhi torvi e le mani stese su documenti che ogni giorno conficcavano in maggior profondità la bara della libertà. Il suo rimorso le pareva tinto di terribili delitti.

‹‹Cos’hai fatto quando eri lì? Io non so nulla.››

Anakin rispose con tono spazientito, come se non fosse la domanda giusta da porre.

‹‹Non è quello il punto. Non è quello che faccio io – è quello che succede attorno a me. Quello che faccio io non è mai abbastanza comunque.››

‹‹Non riesco a capirti…››

Si passò una mano tra i capelli, abbassò il volto; e quando lo rialzò pareva sconfitto da forze troppo grandi per essere nemmeno elencate.

‹‹Non è colpa tua,›› disse. ‹‹Non riesco a capirlo nemmeno io. So solo che qualunque cosa io faccia, non è mai abbastanza. Non sento mai di aver completato qualcosa; è come se fossi sempre a metà. Che io faccia o non faccia qualcosa, di solito è del tutto irrilevante. E io sono stanco di questo.››

Disse quell’ultima frase con un che di sinistro nella voce, ma Padmé non lo interruppe.

‹‹Vorrei che le cose fossero più semplici,›› concluse con ingenuità. Guardò verso la culla, in due guizzi improvvisi dei suoi occhi scuri. Poi guardò lei, come se si aspettasse qualcosa; e nella sua posa c’era un misto peculiare di impazienza e arrendevolezza.

Qualunque cosa Padmé gli avesse detto in quel momento avrebbe incontrato qualche rifiuto o impenetrabile muro, perché lo conosceva abbastanza ormai da sapere che in quei momenti non c’era maniera di prenderlo: il suo spirito selvaggio era ben oltre le parole, i consigli e professioni di compassione. Pur tentennando, Padmé s’alzò e andò da Anakin, che ad ogni momento pareva affondare di più nel tappeto lanoso, gli prese le mani, quella vera e ruvida e quella finta e dura e s’appoggiò tutta al corpo di lui. Districato l’intreccio di mani, le sue braccia trovarono presto la via della sua vita, e a tutti e due parve che le cose si fossero sistemate almeno un po’.

Poi in qualche modo (a Padmé pareva che fosse cresciuto un altro paio di centimetri da quando l’aveva visto l’ultima volta) Anakin s’abbassò profondamente e la baciò con una certa gentilezza. Poi, quando ebbe adorato le sue labbra, passò a infiorare il resto del suo viso con baci leggeri.

‹‹Ti amo.››

Sentirlo dopo quasi quattro mesi le fece girare la testa in maniera quasi spiacevole, e poi le fece venir voglia di piangere, ma non per la felicità.

‹‹Ma tu non devi dire niente adesso. Non devi dire proprio nulla. Voglio che tu me lo dica, se lo senti,›› la precisazione arrivò a mezza voce, e il resto delle parole in un fiume libero, ‹‹quando – ricordi quando mi hai detto che mi vedevi e ti sentivi scoppiare il petto e le ginocchia ti tremavano…e avevi la testa leggera…ed ero io a fartelo? Dicevi che ti sentivi male…Te lo ricordi?››

Padmé si ricordò del giorno in cui glielo aveva detto: le venne in mente il letto del suo vecchio appartamento, e loro due illuminati dal sole indiscreto dell’alba di un giorno di riposo, in un intreccio goffo di braccia, gambe e capelli. Lei rideva un po’ ubriaca di baci, e lui la guardava come se non avesse mai visto niente di più bello. E poi lei guardava nei suoi occhi blugrigi e diceva quelle parole con il più pigro e sincero sorriso della sua vita, sentendosi senza dubbio sulla cima dell’universo; e lui rispondeva con uno di quei baci che facevano girare la testa. Sì, se lo ricordava.

‹‹Voglio che tu me lo dica quando ti sentirai così, di nuovo…Puoi farlo?››

Quando Padmé annuì, Anakin le prese il viso tra le mani e le accarezzò le guance, spargendo dappertutto l’umidità delle lacrime che le uscivano dagli occhi. Poi la baciò di nuovo e se non felice, sembrava essersi calmato. Era quello il momento in cui Anakin era tornato dalla sua missione, non prima.

In qualche modo riuscirono ad uscire dalla stanza dei bambini, continuando ad allontanarsi e riavvicinarsi, scambiandosi baci dovunque potessero far poggiare le labbra. Anakin non era più tanto cupo, ma continuava ad esserci un anomalo nervosismo nei suoi gesti; Padmé si sentiva infiammata e un po’ si vergognava a mostrarsi tanto ansiosa di raggiungere il letto. Quando incrociavano gli sguardi, gli occhi di lui bruciavano di qualcosa che non era solo passione; gli occhi di lei cercavano di evitare lo scrutinio dei suoi, e si chiudevano contro la sua pelle.

Mai come allora Padmé sentiva tutto il peso della responsabilità di ristabilire il loro fragile contatto e rassicurare entrambi che ora che era tornato avevano l’opportunità di ricreare le loro vite. Ora si sentiva ricca di una conoscenza che aveva colto il buio mese prima della nascita dei gemelli e che aveva maturato quel mese di lontananza: che Anakin nonostante non fosse più, e probabilmente non sarebbe mai più stato, quello del quale si era innamorata anni prima, rimaneva padrone del suo cuore, e con sé lo portava ovunque andasse, rendendola tacita complice di tutto ciò che faceva. Chiunque fosse Anakin adesso, e qualunque cosa avesse fatto, Padmé amava ancora: e ciò era insieme la sua colpa e il suo fallimento. Forse era cambiata, forse era diventata una vigliacca, e forse lo era sempre stata: sapeva solo che se avesse saputo davvero ne sarebbe morta. Non voleva sentire, né sapere: buio, luce, male, bene, lei prendeva tutto, almeno quella notte, almeno lì.

Sprofondarono sul letto e stavolta non in silenzio. Anakin fu disperatamente gentile e freneticamente desideroso di adorare tutto il suo corpo. Le disse che gli faceva piacere che non avesse ancora perso tutti i chili della gravidanza, che amava le nuove curve e che non l’avrebbe mai più lasciata. I suoi abbracci furono soffocanti, e la sua pelle era bollente e odorava di caldo. Il nervosismo e l’incomunicabilità di prima divennero uno scostante, brutale attacco sui sensi di Padmé. Le lenzuola s’appiccicavano, davano fastidio. Padmé sentiva la testa girare e il petto espandersi in cerca d’aria fresca.

Dopo, si lasciò abbandonata su di lui, mentre le sue dita disegnavano cerchi sulla pelle della sua schiena. Era entrato ed uscito dal sonno un paio di volte, ma i suoi occhi continuavano a spalancarsi come se davanti ai suoi occhi apparissero paralizzanti incubi notturni. Forse s’addormentò anche lei, non ne era sicura: ma ad un tratto sentì gli occhi di Anakin fissi sulla sua testa, e quando alzò il viso e poggiò qualche bacio sul petto s’accorse d’avere ragione.

Anakin aveva gli occhi lucidi e con la voce un po’ spezzata da un’improvvisa emozione le disse che avrebbe messo a posto le cose, che avrebbe sistemato tutto. Le ripeté che l’amava, che tutto quello che faceva lo faceva per la loro famiglia, perché per lui non contava altro che lei e i bambini. Lo diceva con una foga così assoluta che poi a Padmé parve che un po’ stesse cercando di convincere se stesso, ma non disse nulla e continuò a spargere qualche bacio qua e là, in un languore sonnacchioso.

Stava forse scivolando di nuovo nel sonno, mentre si lasciava cullare e rassicurare dalle parole di Anakin, che delle parole la scossero.

‹‹Aiutami, Padmé. Stai con me. Stai sempre con me.››

Il tono con cui le disse era distante, come se sognasse, ma gli occhi erano aperti e disperati. Nel buio erano come due voragini che la chiamavano. Padmé si sporse in avanti per baciargli le labbra di nuovo.

I primi raggi del sole all’alba fecero capolino tra le tende leggere, a salutare il nuovo giorno.

___________________

1. Tashmetu è nella mitologia accadica la consorte del dio della cultura e della saggezza Nabu, che ha ispirato il nome del pianeta; Nanna è il dio mesopotamico della luna.

padme undomiel. Ho cercato di immaginare più volte la possibile riunione della famiglia Skywalker, così come un nuovo confronto tra Anakin e Padmé, ma ti giuro, uno sviluppo del genere non me lo sarei mai aspettato. Sarò ripetitiva, probabilmente, ma ancora una volta mi sembra che l'analisi introspettiva di questi personaggi -così come l'amore per loro che traspare da ogni parola che spendi nel raccontare le loro vicende- sia insuperabile. E insuperabilmente dolce, anche se estremamente difficile e combattuta. Assistere a quest'altalenarsi di sensazioni, a questi sentimenti contrastanti di avvicinamento/allontanamento che da sempre caratterizzano questa storia ma che in questo capitolo sono più evidenti che mai, è sempre interessante, talvolta anche straziante, soprattutto per chi, come me, ama questa coppia e non chiederebbe altro che un momento di conforto per loro.
Ancora una volta noto che il punto forte della tua storia è quello di passare da un sentimento all'altro senza mai apparire irreale. E così, da un clima quasi surreale di attesa, aspettativa e speranza di un Anakin che torna a casa e che non sa se sarà accolto come ai vecchi tempi, né se Padmé lo aspetterà sveglio e lo guarderà ancora con lo stesso calore di un tempo, si passa a un'esitante, timida scena di contenuta felicità quando Padmé corre da lui, lo bacia e lo stringe forte. Eppure, si avverte ancora un senso di incompletezza, perché non osano parlarsi, fingono ancora che tutto sia come un tempo, che Anakin non abbia ucciso né soffocato la libertà nella Galassia. Finché l'impossibilità di Anakin a prendere in braccio i suoi figli non abbatte le maschere, non rivela ad entrambi quanto i tempi siano cambiati, quanto il tormento di lui sia sempre presente come un'ombra opprimente, pronto a frapporsi tra lui e i bambini. E qui il senso di tristezza e delusione delle lacrime sconfitte di Padmé quasi soffoca ogni cosa, e il lettore non può esserne immune.
Eppure, la tenerezza che Anakin prova quando parla ai gemelli in Huttese -forse in un tentativo di creare un legame ancora più forte con Luke e Leia tramite le sue esperienze passate- è capace di rimarginare, in parte, le ferite. Tenerezza che sembra venire oscurata all'improvviso dal tentativo di Padmé di sapere ciò che lui ha fatto su Generis, per poi essere più forte che mai nel momento in cui quel "ti amo" non pretende una risposta immediata quanto falsa, ma sa aspettare momenti migliori. Momenti come quel ricordo conservato con la stessa cura di un gioiello prezioso, semplice ma importante, ora che Padmé non riesce a trovare maniera per esprimergli quello che lei prova.
E la scena finale? Intensa, in ogni senso. Nella volontà di lei di non guardarlo negli occhi, quasi come fosse spaventata dall'oscurità che incupisce il suo sguardo. Nel loro momento di intimità, in cui Anakin ha bisogno di lei, del suo sostegno, della sua purezza, del suo amore. Nella richiesta disperata di lui, così angosciata e toccante da non poter lasciare indifferente. E nell'alba che sorge piano oltre le tende, pronta a salutare ancora i due amanti, il cui amore ancora persiste, nonostante tutto.
Non credo di avere altre parole per descrivere il momento meraviglioso che hai creato ... posso solo dirti che questa storia diventa sempre più bella. E grazie per le emozioni che regali ai lettori.
Un bacio,
Padme Undomiel ^^

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Capitolo 3
*** Tre. ***


         Tre        

 

‹‹Sono stanco di andare in missione,›› le confessò Anakin la mattina dopo, sfiorandole le labbra con un dito. Poi s’alzò su un gomito per guardarla meglio, con gli occhi molto chiari ed intensi nel sole brillante del mattino. ‹‹Voglio rimanere con te e i bambini.››

Quelle parole le fecero ricordare di decine d’altre volte in cui le aveva ripetute. Le circostanze erano più o meno sempre le stesse: il ritorno da una missione difficile, molta stanchezza emotiva ed un letto. Anakin in quelle occasioni riscopriva il lato romantico del suo carattere e si dilungava in simpatiche, romantiche fantasticherie, che includevano sempre una sua strabiliante ribellione all’Ordine. Si sforzò di prodursi in un mezzo sorriso.

‹‹Non devi andare da nessuna parte, adesso.››

Un largo sorriso pigro s’allargò sul volto di Anakin.

‹‹Giusto. Da nessuna parte.››

Si chinò e le diede un bacio, poi ritornò supino, con aria pensosa. Le prese la mano, intrecciò le loro dita e alzò in alto le loro mani unite, tra di loro, guardando quel monumento a loro con occhi seri.

Padmé sapeva di non sbagliare se avesse detto che entrambi erano in preda ad una certa mestizia. Non era che non fossero felici, perché lo erano; era solo che quello stato di silenziosa, estatica felicità in cui s’erano ritrovati la sera prima non era una condizione naturale per gli esseri umani, né poteva essere sopportata troppo a lungo, sicché entrambi erano ritornati a quello che era diventato il loro umore naturale: lui, ad una quieta contemplazione di ciò che lo circondava esternata in una leggera ruga tra gli occhi; lei, alla sua ormai familiare malinconia. Non era esattamente quello che avrebbe voluto fosse la loro prima mattina insieme dopo tanti giorni di lontananza, ma non era del tutto spiacevole. Forse erano ancora tutti e due un po’ timidi.

Per stemperare quell’atmosfera un po’ troppo quieta, Padmé parlò, passandogli una mano tra i capelli lunghi e stopposi ed esagerando comicamente la sua inflessione: ‹‹Ti devo tagliare questi capelli. Hai un terribile bisogno di un taglio, devi credermi, caro. È stata la prima cosa che ho visto quando sei entrato.››

Anakin scoppiò a ridere, come non rideva da secoli. Era una risata sincera, di quelle che nascono dal diaframma e contorcono il viso in una smorfia d’allegria. Il suo riso risuonò in tutta la stanza, e Padmé s’accorse in quel momento di quanto le fosse mancato quel suono nella sua vita, perché, pensandoci, non si ricordava l’ultima volta in cui lo avesse sentito ridere in quel modo. Quasi ebbe la tentazione di dirgli di non smettere di ridere, o di fare qualcosa di ridicolo per sollecitare un altro scoppio di ilarità. Ma non fece nulla, e rimase lì, godendosi il calore del corpo di Anakin e la frescura delle federe di seta.

Aveva già dato da mangiare ai bambini, aveva passato con loro qualche minuto, aveva incaricato 3PO di stare attento che non succedesse nulla di strano in camera e poi era ritornata nel suo santuario: aveva un altro paio d’ore di riposo prima di dover scender giù. Aveva intenzione di preparare un buon pranzo per Anakin: avrebbe cucinato tutti i suoi piatti preferiti. Mentre s’addormentava, pensò che avrebbe anche potuto preparare il pane dei cinque fiori, la sua specialità.

E doveva dirgli qualcosa d’importante. La notte prima aveva preso la sua decisione, ed era troppo tardi per cambiare idea. Tutto quello che stava facendo in quel momento, essere carina, comprensiva, amorevole e apparentemente dimentica di tutto quello che era passato tra di loro (ed erano passate molte cose), tutto ciò non era che la dimostrazione di ciò che comportava quella decisione.

‹‹Ani, ascoltami. Non voglio parlare di Atrivis. Quello che è successo lì rimane lì. Se tu volessi parlarmi di qualcosa in particolare io ti ascolterò, ne parleremo quanto ne vuoi. Ma se non vuoi io lo accetto.›› Provò un moto di disgusto verso se stessa che le bruciò la gola, ma continuò a parlare. ‹‹M’importa solo che tu sia a casa, sano e salvo, con me e i bambini. Dobbiamo pensare a noi.››

E negli occhi di Anakin apparve un’ombra di così totale gratitudine, così grande felicità che Padmé potè quasi convincersi di aver appena fatto la cosa giusta. Poi alla gratitudine e alla felicità si mescolarono altre cose: e se Padmé era una buona lettrice degli occhi del marito avrebbe potuto affermare con certezza che c’era anche una punta di amarezza.

La loro conversazione non potè continuare, perché la voce allarmata di 3PO giunse dal piccolo monitor sul comodino, informandoli che Luke (“oh che cosa spaventosa, sentite come si lamenta, povero piccolo padroncino!”) stava di nuovo piangendo. Padmé spiegò ad Anakin che il piccolo stava per mettere su il primo dentino, ed entrambi si sbrigarono a lasciare il letto e quell’importante confessione dietro di loro.

Nella stanza dei bambini, Luke stava dando prova dei suoi polmoni, mentre Leia lo osservava con le labbra strette e già tremanti. Ma bastò che Anakin lo prendesse in braccio perché si calmasse all’istante e riprendesse, più pacificamente, a prodursi in sommessi singhiozzi e sfregarsi un dito paffuto sulle gengive. Anakin sorrise e la guardò.

‹‹Hai ragione,›› rispose, come se la conversazione fosse continuata ininterrotta fino a quel momento.

Padmé annuì, e, siccome all’improvviso non aveva davvero voglia di parlare, si chinò e prese dalla culla Leia, che la ricompensò con un grosso, umido sorriso. Le posò un bacio sulla tempia e odorò quel buon profumo di neonato, di latte, sapone alle rose e olio essenziale, sapendo che Anakin la stava ancora guardando con quel misto di ammirazione, gratitudine e compassione di prima.

In sua difesa, Padmé avrebbe voluto dire soltanto una cosa alla sua bambina: che con quelle parole di prima aveva fatto esattamente quello che doveva fare per garantire a lei e a suo fratello una vita felice. Una delle grandi tragedie della vita umana era proprio che, prima o poi, la vita trovava sempre il modo di farti fare un compromesso che ti avrebbe tormentato tutto il resto della tua esistenza. Prima o poi, tutti dovevano fare un passo indietro, chinare la testa e sopportare un male nella speranza, o l’illusione, di un bene maggiore: e in questo caso l’illusione era avere una vita tranquilla, accanto all’uomo che si ama. Di compromessi, Anakin ne aveva fatti anche di terribili, e lei lo sapeva. Padmé, di compromessi, ne aveva accettati pochi, e mai nella sua vita privata. Aveva sempre saputo che la cosa più preziosa che un uomo potesse avere erano i pochi centimetri cubici tra le orecchie, e quando svendevi anche quelli potevi finalmente dire di essere stato sconfitto e ripararti in un angolo a leccarti le ferite. Ma ora Padmé era una madre, e con ciò veniva la sconcertante scoperta che d’un tratto i centimetri cubici più importanti della tua vita e i più preziosi non erano quelli in mezzo alle tue orecchie, ma quelli in mezzo alle orecchie dei tuoi bambini: proprio lì, tra le tempie bionde e profumate della sua bambina. Per dare loro la felicità, Padmé sapeva di dover essere serena: una madre malinconica, arrabbiata, impaurita ed impotente cosa avrebbe potuto dare loro, se non una lunga sequela di vacui momenti di infelicità? E non sarebbe stato ancora peggio separarli fisicamente dal padre che li amava? E se uno svendeva almeno un po’ della propria onestà intellettuale per i propri bambini, non era forse un’azione giustificabile? Nessuno che avesse mai provato cosa significava amare un figlio (provare quell’amore disperato per qualcuno che era parte di te, scoprire di vivere per quei sorrisi) avrebbe potuto biasimarla. Quindi cosa importava se Padmé sentiva d’aver appena ucciso un’altra parte di se stessa, abbassando la testa e dicendo di non voler sapere: quello che stava facendo era un investimento, in favore dei suoi bambini, in favore della sua famiglia, in favore, anche, di Anakin, che le si era avvicinato e le aveva posato un bacio gentile sulla guancia.

Il giorno seguente e quello dopo ancora furono giorni idilliaci, come Padmé non se ne ricordava da mesi e come ne aveva sempre sognati dal momento in cui aveva saputo di aspettare un bambino. Stare lì, con Anakin e i bambini, a trascorrere momenti rilassanti senza sentire sul collo il fiato di una missione in arrivo, semplicemente a godersi la reciproca compagnia in un’atmosfera di dolcezza: era così che si era sempre sognata la sua maternità.

Le sue dame di compagnia, oltre alla servitù, vivevano in un piccolo, elegante edificio separato dalla villa più interno all’isola e ai giardini, sicché la famiglia Skywalker era sola che si rilassava dopo cena su una delle terrazze, dalla quale una scalinata portava ai giardini della villa. Su un tavolo elegante in ferro battuto giacevano i resti della loro cena, piatti in porcellana e bicchieri di cristallo con i rimasugli di un tenero arrosto e frittelle di mele. Tra i piatti e i bicchieri c’era una candela ancora accesa, una brocca per l’acqua e un vaso per l’olio d’oliva preferito di Anakin. Il grammofono, montato in un angolo, spandeva un successo di musica popolare, dove la voce calda di un crooner faceva da contrappunto ad una coinvolgente orchestra jazz con qualche assolo di tromba, come andava di moda a Corellia.

Padmé si era stesa sul divano, lasciando che una gamba le penzolasse dal bordo seguendo il ritmo della musica; Anakin, con i capelli decisamente più corti dopo che Padmé s’era preoccupata di sistemarglieli, era seduto per terra, sotto di lei, e i bambini erano svegli e pimpanti su un paio di materassini appoggiati al pavimento.

‹‹Padmé, voglio insegnare loro l’huttese,›› disse Anakin con un’espressione seria dopo un po’ che conversavano con leggerezza di questo e di quello.

‹‹Così mi togli il piacere di iscriverli alla Scuola Reale di Huttese,›› protestò Padmé. ‹‹Iniziano i corsi quando i bambini hanno tre anni, quindi si è obbligati a iscriverli quando hanno tre mesi. E danno loro queste uniformi carine, sono davvero adorabili.››

‹‹Un costume da lumaca o cosa?››

Padmé rise in direzione del cielo stellato. ‹‹Ma no, è una divisa tutta carina. I maschietti portano i pantaloncini e i mocassini, mentre le bambine un vestitino blu chiaro tutto elegante. E quando hanno dieci anni li portano in gita a Nal Hutta.››

‹‹E tutto ciò per imparare la lingua di qualche gasteropodo criminale -››

‹‹…oppure la seconda lingua più influente di questa Galassia.››

Anakin non replicò e allungò un dito a Luke per il diletto del bambino, che l’afferrò e se lo portò in bocca, cercando di trovare un po’ di conforto mordicchiandolo. Dopo poco il dito di Anakin fu ricoperto dalla bava del bambino, che in compenso offrì un sorriso e un acuto, allegro strillo di soddisfazione.

‹‹Piuttosto, tu dove hai imparato l’huttese? Lo parli quasi senza accento. Me lo sono sempre chiesto ma non te l’ho mai domandato.››

Padmé sbadigliò. ‹‹Essere una regina non è facile. Ero costituzionalmente obbligata ad imparare alla perfezione almeno tre delle lingue ufficiali riconosciute dalla Repubblica, e avevo i migliori tutori e insegnanti di dizione di tutta Naboo. Si fanno le cose in grande quando sei a capo di un pianeta.››

Omise di aver avuto una storia, quando aveva diciotto anni, col suo insegnante di huttese: un ragazzo di venticinque anni, di nome Mohan, figlio dell’ambasciatore di Naboo a Nal Hutta; giovane, carino e simpatico che era riuscito a vedere sotto la facciata di Amidala grazie alla sua spiccata sensibilità, e il resto lo avevano fatto lezioni supplementari di huttese a sera tarda. Se n’era andato un giorno, e Padmé aveva sempre sospettato – anche se non aveva mai avuto delle prove – che nella sua improvvisa partenza per Coruscant a sbrigare chissà quali faccende, ci fosse stato lo zampino del consigliere Sio Bibble, il quale – dopo il suo sedicesimo compleanno - aveva sempre dimostrato una quasi inquietante paranoia nei confronti di qualunque uomo giovane le si fosse mai avvicinato.

‹‹Deve essere stato interessante, avere tutte quelle materie.››

Per il divertimento di Anakin, Padmé allora gli raccontò com’erano state davvero le cose. Le materie obbligatorie al Palazzo Reale erano otto: matematica, biologia, storia, filosofia, letteratura, xenolinguistica, astrogeografia e studi della politica, e i suoi progressi in ciascuna venivano trasmessi al popolo in maniera a metà tra l’ufficiale e l’informale una volta all’anno, tanto che alcuni sudditi zelanti s’offrivano via lettera di aiutarla in qualsiasi materia capitasse che non fosse riuscita a raggiungere il massimo del punteggio negli esami. Oltre alle materie obbligatorie, ad ogni regina era richiesto un livello di conoscenza approfondito delle danze tradizionali naboo, alcune delle quali aveva dovuto eseguire personalmente, e sotto il peso degli imponenti abiti cerimoniali, ai ricevimenti danzanti a palazzo; inoltre la sua tutrice generale, la signora Maíbe, insisteva su un sufficiente grado di abilità nel suonare l’arpa e il flauto naboo, su una perfetta conoscenza dell’etichetta di corte, dell’arte della composizione scritta, e, in misura minore, su un’infarinatura decente in botanica ed architettura, l’ultima delle quali era, fortunatamente, una passione che Padmé condivideva dall’infanzia con il padre. Il curriculum accademico reale era disegnato per una carica di quattro anni, sicché una giovane regina, una volta abituati gli occhi allo sfarzo di corte, veniva rinchiusa nella tradizionale Sala dello Studio, una stanza rotonda collegata alla smisurata biblioteca di palazzo, e da lì poteva sperare di uscire solamente durante gli incarichi amministrativi, le sedute di consiglio settimanali, i giorni festivi, le visite al popolo e le vacanze del mese di Arah Abu, nel cuore dell’estate. Quando era stata rieletta, i pedagoghi di corte non s’erano scoraggiati, e la possibilità di lasciar riposare la povera Amidala non era stata nemmeno presa in considerazione: presto avevano modellato sulle sue esigenze un nuovo programma avanzato, ma, effettivamente, assai meno soffocante di quello della prima carica.

‹‹Ora capisco perché mi sembra che quegli otto anni siano volati via in un soffio.››

‹‹Al Tempio era diverso.›› Padmé, che aveva ancora un sorriso sulle labbra, smise di sorridere e ritirò le gamba che teneva penzoloni; Anakin tirò via il dito dalla bocca di Luke, e per un po’ nella terrazza non si sentì altro che quella musichetta, con le percussioni, la trombetta e il clarinetto che andavano avanti con la loro svelta melodia da sala da ballo e le grida indignate di Luke. Dopo un po’, forse accorgendosi che non era semplicemente credibile che terminassero la loro conversazione in quel modo brusco e forse scosso dalla tremenda cacofonia, Anakin diede di nuovo il dito a Luke e ricominciò a parlare a bassa voce.

‹‹Lì ti insegnavano obbligatoriamente solo storia e astrogeografia. Tutto il resto era facoltativo. Mi ricordo che c’erano molti corsi per ogni possibile materia. Matematica, biologia, filosofia, quello che vuoi, loro lo avevano. Ma nessuno aveva davvero voglia di studiare quelle materie, perché se avevi il tempo di studiarle voleva dire che nessun cavaliere ti aveva preso come padawan. E che senso aveva stare al Tempio se nessun maestro ti voleva? Io non ero granché come studente. Mi piacevano astronomia e meccanica, ma ero…distratto.››

Anakin non le aveva mai parlato sugli anni del Tempio. Sapeva che era rimasto lì tre anni circa dopo che si erano separati, e verso i tredici anni aveva iniziato a viaggiare con Obi-Wan per la galassia. Su quei tre anni di permanenza al Tempio, il momento in cui, presumibilmente, aveva dovuto iniziare a sentirsi un Jedi vero, non aveva mai fatto parola. Ma Anakin ricominciò a parlare ancora prima che lei potesse chiedergli qualcosa, con un tono strano e secco.

‹‹Non ero molto popolare. Finché non si sono abituati alla mia presenza sentivo gli altri bambini, ragazzini, fissarmi e bisbigliare. Ero quello strano. Penso che fossero un po’ invidiosi, perché ero l’unico ad avere una bella profezia sulle spalle, un potere molto più grande del loro e ad essere già un vero padawan, mentre loro cercavano di farsi notare dai Maestri. Era tutto molto ridicolo. M’aspettavo – non so, m’aspettavo che sarebbero stati gentili con me, che avrebbero avuto un po’ di pazienza, un po’ di fiducia, qualcosa del genere – ma niente. Mi sono fatto qualche rivale e ho fatto a botte e ho rischiato di essere espulso. Alla fine ho iniziato a passare tutto il mio tempo con…›› ma non disse il nome.

Padmé capì dalla maniera in cui aveva terminato il suo racconto che sarebbe stato meglio cambiare argomento, prima che si fossero addentrati troppo lontano nella selva dei loro ricordi. Erano sempre terreni instabili, quelli. Poggiando una mano sulla spalla di Anakin, parlò: ‹‹Mi chiedo invece cosa piacerà loro quando saranno grandi.››

Anakin rispose col tono monotono che aveva usato prima. ‹‹Saranno come me. Quando conosci il tuo potere non vuoi fare altro, vuoi solo la Forza. È un bisogno, come respirare.››

Di nuovo stavano andando alla deriva verso un gigantesco, minaccioso scoglio. Padmé aveva sempre saputo che qualunque figlio nato dalla loro unione sarebbe stato, prima o poi, addestrato nelle vie della Forza. Era non poco rassicurante sapere che i suoi figli, una volta allenati, non avrebbero dovuto temer nulla; e poi, nel frattempo i tempi sarebbero cambiati e ci sarebbe stata la pace di nuovo. All’epoca pensare al loro addestramento le aveva fatto venire in mente scene divertenti con piccole spade laser che fendevano ingenuamente l’aria, e occhi azzurri tutti eccitati sotto i caschi di protezione; ora s’immaginava soltanto una stanza buia, con Palpatine, deturpato e maligno, che metteva nelle loro mani vere spade laser, diceva loro di fare a pezzi i droidi d’allenamento senza pietà e Anakin che nelle retrovie osservava la discesa tra i Sith dei suoi bambini.

‹‹Ah. Ma, non so…forse qualcuno di loro potrebbe scoprire di amare la politica, o la musica…››

‹‹Forse.››

Questa volta fu il turno di Anakin di cambiare discorso, dopo quasi un minuto intero di silenzio. Si girò verso di lei e le prese la mano, come se avesse appena avuto un’idea. Per fortuna, quando parlò la sua voce era ritornata più o meno normale.

‹‹Mi chiedevo, mentre tornavo qui, se ti piacerebbe rinnovare i nostri voti, al Tempio di Theed. Potremmo fare le cose in grande, con i fiori, i cori, tutti gli invitati, la tua famiglia, il banchetto…Fare le cose per bene, senza nasconderci…Potremmo farlo fra qualche settimana, ci prendiamo una settimana da vacanza, lasciamo Coruscant e…››

‹‹Perché dovremmo farlo?››

Anakin parve confuso. ‹‹Pensavo ti sarebbe piaciuto. La nostra cerimonia è durata dieci minuti, e con noi c’erano solo 3PO e R2. Non abbiamo nemmeno avuto una cena di nozze.››

‹‹Non importa. È stato…›› cercò di trovare le parole giuste per quello che voleva dirgli, ‹‹è stato molto più bello di quello che avevo sognato da bambina. Il fatto che tu fossi lì bastava. Capisci? Bastava quello.››

La solitudine della loro cerimonia non era certo un punto di demerito, ma anzi di pregio. Cielo, si poteva ricordare esattamente l’intensità dei loro sguardi tutto quel giorno, la maniera in cui s’erano danzati attorno, il silenzio. Si ricordava quel silenzio assai più delle parole: e non lo aveva più ritrovato in quella maniera. All’epoca non s’erano nemmeno conosciuti davvero. Ora lo sapeva. Sapevano l’uno dell’altra quello che bastava per essersi innamorati, mentre il vero amore era sopraggiunto qualche mese dopo, quando un giorno s’era svegliata e s’era accorta che di lui aveva sviluppato un tale bisogno da odiare la Repubblica perché la costringeva a stare senza di lui.

Anakin le baciò la mano con delicatezza. Chiuse gli occhi e, all’improvviso, divenne immobile come una statua. Rimase in quella strana posizione per qualche lungo istante.

‹‹Anakin?››

Staccò le labbra dalle sue mani e alzò gli occhi. ‹‹Non è niente.››

‹‹Ho detto qualcosa di sbagliato?››

Scosse la testa. ‹‹No, è tutto perfetto.››

‹‹Tutto perfetto,›› gli fece eco dolcemente Padmé, chinandosi per baciarlo. E Padmé stava già avendo la mezza idea di terminare in fretta la loro sosta in terrazza e trasferire la famiglia all’interno della villa, per poter mettere la fine perfetta a quella giornata quando Anakin divenne di nuovo di ghiaccio, e in un movimento impossibilmente veloce s’alzò e afferrò la spada laser. Per un attimo vi fu il silenzio; poi i gemelli esplosero in alte grida.

‹‹Anakin cosa -››

‹‹C’è qualcuno qui.››

E dal modo in cui lo disse Padmé ebbe un’idea, una, vaga, impossibile…Ebbe paura, senza nemmeno sapere razionalmente perché il cuore le si fosse gelato in petto. Con la testa annebbiata e gesti meccanici, Padmé si alzò dal divano e si chinò sui bambini, cercando di tenere simultaneamente un occhio sul marito e sui bambini.

‹‹Anakin, non andare…chiamo le guardie…››

‹‹Prendi la barca, porta via i bambini da qui. Non venire per nessun motivo e -››

E poi lo sentì anche lei, in qualche maniera, mentre cercava di sollevare entrambi i dimenanti gemelli. Anakin guardava già nella direzione giusta.

Sull’ultimo gradino della scalinata che portava ai giardini, a meno di otto metri da loro, era comparso un uomo familiare, in vesti umili, con capelli e barba folti e rossicci. Aveva le braccia incrociate sul petto e pareva essere venuto in pace; li guardava con occhi calmi e intensi. Padmé non lo vedeva da tre mesi, e pareva che fosse passata una vita intera da quel momento. Era lo stesso uomo che aveva detto che Anakin era un grosso pericolo da eliminare e che aveva cercato di convincerla a lasciarlo e scappare con i bambini per farli diventare, un giorno, nemici del loro stesso padre. Ora le pareva tutto assurdo e spaventoso. Si rese conto, in quella surreale frazione di secondo, che ora lì, a pochi metri da lei, c’era qualcuno con il potere davvero di distruggere la sua vita.

‹‹Porta via i bambini, Padmé.››

Davanti a lei, Anakin aveva l’arma sfoderata ed accesa, e tutto nella maniera in cui si ergeva faceva pensare ad una fiera pronta ad attaccare. Con un sussulto d’orrore, Padmé s’accorse che non aveva nessuna intenzione di fermarlo.

 

 

padme undomiel. Ciao :) sono di nuovo in ritardo a lasciarti una recensione, me ne rendo conto e mi dispiace. Da adesso in poi cercherò di essere più puntuale, promesso. Ma passiamo a commentare questo aggiornamento ... Mi ha fatto davvero piacere trovare qui almeno un po' di serenità, a discapito di tutto quello che sta succedendo ai due sposi, e a discapito della malinconia che sempre permea i loro discorsi. Il momento tra loro mi sembra un tentativo di ritagliarsi un attimo di pace in mezzo al caos della loro vita, ed è un bisogno estremamente tenero e dolce. Impossibile non pensare a Padmé, alla sua responsabilità sempre presente per la sua famiglia e i suoi bambini, e al fatto che si sia decisa, infine, a preferire il quieto vivere ai continui contrasti ... quindi, in un certo senso, a preferire la vita privata e i suoi sentimenti per Anakin e i bambini alla sua etica e alla sua vita pubblica. Probabilmente la Padmé di un tempo non sarebbe mai scesa a un compromesso del genere, come giustamente riconosce anche lei ... è proprio per questo che ho apprezzato sul serio questo suo gesto. Ed ho apprezzato anche la reazione di spontanea gratitudine che questa decisione ha comportato in Anakin: è come se lasciasse ben sperare in una possibile apertura verso sua moglie. Io sono fermamente convinta che l'unico modo per salvare Anakin dalle sue tenebre sia fidarsi ancora una volta di lei, come in passato: lei è l'unica che può capirlo, amarlo e salvarlo da se stesso.
Sarebbe davvero bello se momenti dolci come questo non fossero una eccezione, ma un qualcosa di costante. Perché fa bene a entrambi, ma anche e soprattutto ai bambini, sempre sensibili alla tristezza dei genitori, e che comunque non meritano affatto una vita di sofferenze.
La scena del grammofono -posso chiamarla così?- è molto bella, soprattutto perché ci dà uno scorcio del passato di Anakin e Padmé che noi non conosciamo, e perché è così piena di dettagli e di spiegazioni. E ancora una volta ho notato una contrapposizione tra il carattere dei due: mentre l'ex regina di Naboo era pronta a sopportare lo stress, e non si lamentava di ciò che aveva, Anakin mal sopportava la vita che faceva al Tempio. E mentre il passato di Padmé è costellato di successi e di ammirazione del popolo, Anakin ricorda ancora con rancore la diffidenza degli altri padawan. E forse, l'essere diventato un Sith non ha fatto che amplificare la frustrazione che il Prescelto ha sempre covato nell'anima verso i Jedi: è naturale che adesso il passato sia visto solo in maniera negativa, dimenticando ogni bella esperienza che forse, in altre circostanze, sarebbero state ricordate.
E l'ultima scena lascia con il fiato sospeso, sul serio. Un po' perché uno scontro tra Obi-Wan e Anakin sembra ormai inevitabile, un po' perché ora è Obi-Wan che rompe il precario equilibrio tra Anakin e la sua famiglia. Può essere lui il momentaneo pericolo, malgrado tutto quello che lui significa per Padmé, e malgrado sia lui, ancora una volta, nel giusto. Come andrà questo incontro/scontro aspetto di vederlo con grande ansia. E spero di leggere il seguito presto, perché non sto più nella pelle :) ancora bravissima, un bacione!
Padme Undomiel ;)

VesiSchwartz. Ta-ta-ta-taaaaaaaan!
Mi sbaglierò, ma l'uomo con i capelli rossicci sembra proprio il nostro caro e vecchio Obi-Wan.
Quindi alla fine lo scontro arriva, ma spero che il buon Kenobi abbia il buonsenso di non lasciare Anakin affettato (cosa che ho sempre odiato, in ROTS) davanti alla moglie e ai gemelli.
Comunque, mi è piaciuta moltissimo la parte in cui descrivi l'educazione della regina di Naboo, e la vita al Tempio Jedi.
Rendono tutto molto più reale, e poi scritte da te...è ovvio che siano capolavori.
Ti faccio moltissimi complimenti (ormai ti sarai stufata di riceverne in continuazione, immagino...però quando c'è la bravura... u.u) e aspetto con ansia il seguito.

Baci, Vesi

 

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Capitolo 4
*** Quattro. ***


___Quattro___

 

Anakin si sentì le viscere diventare acqua. Il mondo lì attorno non c’era più. Quello che c’era davanti ai suoi occhi, nell’oscura penombra, era un fantasma: e dannazione se sarebbe dovuto rimanere un fantasma per sempre. E i fantasmi non stavano per definizione da qualche parte nel passato? Quattro mesi prima per Anakin quell’uomo era morto, e tra i morti sarebbe dovuto rimanere. Era stato un patto con sé stesso che aveva il sapore di una legge: non si sarebbe nemmeno preso la briga di andare alla sua ricerca, pur sapendolo ancora in vita, perché a cosa sarebbe servito, dopotutto? Perché sforzarsi a cercare ed affrontare quel piccolo, patetico uomo? Perché, perché…

Anakin non vedeva più niente, né sentiva altro che non fosse il sangue bollente che gli scorreva nelle orecchie. Tutta quella scenetta – lui, Padmé, i bambini, la cena sulla terrazzina sul lago, l’isoletta felice – cos’erano stati se non il palcoscenico per ciò che stava per accadere?

Padmé lo chiamava ma lui l'ignorava, i bambini piangevano e la musichetta jazz continuava allegramente, sicché la scena sarebbe potuta sembrare una cenetta alla quale s’era, all’improvviso, presentato un ospite non interamente desiderato: una scena di quelle in cui la conversazione finisce all’istante, magari perché si stava spettegolando proprio su quel convitato, e tutti si scambiano occhiatine nervose e parole di benvenuto. Nonostante ci fosse rumore, nessuno però parlò; e gli occhi di Anakin rimasero fissi su quelli di Obi-Wan, che sostennero l’indagine silenziosa. E s’accorse che in quattro mesi gli occhi del suo maestro non erano cambiati. Lo guardava come aveva sempre fatto – sì, lo guardava con quel solito sguardo accondiscendente, come se sapesse qualcosa del quale Anakin non era ancora stato messo al corrente. In tredici anni, nulla lo aveva mai irritato tanto quanto quello sguardo: e ora, quando pensava ad Obi-Wan, si ricordava soltanto di quegli occhi azzurri e quell’espressione un po’ saccente e un po’ bonaria. Sentì un lampo di soddisfazione nella consapevolezza improvvisa di poter togliere dal suo viso qualunque espressione. Obi-Wan quella notte sarebbe morto.

Prese coscienza della voce di Padmé che continuava a chiamarlo insistentemente; eppure, non riusciva a concentrarsi sulla sua voce. Sentiva vaghi richiami, il suo nome, qualche parola bisbigliata ai bambini, e soprattutto percepiva la sua agitazione e il suo timore.

‹‹Buonasera, Anakin.››

Gli occhi di Obi-Wan guizzarono alla spada laser accesa di Anakin, ma non fece un solo gesto per metter mano alla sua. Quello era il contegno di un Jedi. Se avesse dovuto dire cos’era cambiato nel suo maestro, avrebbe potuto dire che aveva un’aria ancora più serafica di prima, greve e solenne, da anziano. E Anakin si rese conto di non capirlo più. Una volta gli bastava guardarlo negli occhi per sapere cosa aveva intenzione di fare: e quello era il tempo in cui vederlo arrivare riempiva Anakin di una piacevole sensazione d’amicizia e anticipazione. Ora vederlo lo aveva riempito di una rabbia sorda, e nei suoi occhi non ci leggeva più nulla. Obi-Wan era diventato un estraneo. Obi-Wan sarebbe potuto essere chiunque altro, un passante per la strada, uno dei politici altezzosi, un mendicante, perché non era più Obi-Wan ma un Jedi qualunque.

Poi Obi-Wan parve quasi un po’ imbarazzato, come se dopo l’ingresso ad effetto non sapesse bene cosa fare. Nel dubbio, i suoi occhi superarono Anakin e si soffermarono su Padmé e i gemelli. Anakin s’affrettò a parlare.

‹‹Hai ucciso le mie guardie, per entrare qui?››

‹‹No.››

Finalmente Padmé gli era venuta accanto, tenendo un gemello su ogni fianco. Luke e Leia si dimenavano, con le bocche aperte in urla di agitazione e le piccole mani chiuse a pugno che colpivano a caso la madre con una specie di collera frustrata. Alcune ciocche erano sfuggite all’elaborata corona di trecce di Padmé, che lo guardava ormai disperata. ‹‹Anakin…!››

Non aveva tempo per lei, doveva andarsene, e andarsene in fretta.

‹‹Padmé, dannazione, vai via! vai!››

Padmé sussultò all’udire il suo tono aspro, e guardò verso Obi-Wan con gli occhi lucidi e febbrili.

Obi-Wan rispose con una specie di sorriso stanco. ‹‹Ciao, Padmé.››

Padmé rimase lì ferma, poi guardò di nuovo Anakin e parve così spaventata e vulnerabile che Anakin avrebbe voluto darle un bacio in quel momento e dirle che non doveva temere. Se aveva avuto un fugacissimo dubbio, un orrendo sospetto che comprendeva un’immagine di Padmé e Obi-Wan che cospiravano insieme durante la sua assenza, esso ora era sparito, perché in lei riconosceva il timbro singolare e sincero del terrore.

Quindi, con più gentilezza, senza distogliere lo sguardo dal suo avversario, le disse: ‹‹Vai, Padmé. Va tutto bene. Ma non tornare per nessun motivo, finché non te lo dico io.››

A quelle parole Padmé sembrò rinvenirsi, e s’allontanò a passi incerti dentro la casa, portando con sé i bambini aggrappati al collo che continuavano con quella loro inarticolata e struggente protesta, come se piangessero l’interruzione della serata piacevole e gli oscuri eventi futuri.

‹‹Sono bei bambini. Come si chiamano?››

‹‹Non ho intenzione di conversare. Non saresti dovuto venire, Obi-Wan. Questo non è il posto per uno come te.››

E Obi-Wan ebbe la temerarietà di abbozzare un piccolo sorriso accondiscendente. ‹‹Qualsiasi luogo è il posto giusto per un po’ di giustizia, Anakin.››

A quelle parole Anakin dovette contenere un afflato della rabbia muta e improvvisa che provava, chiedendosi con quale spirito quel Jedi avesse osato attraversare il lago, arrivare alla casa felice di Varykino, il suo santuario, e distruggere la più bella serata di tarda estate, in nome di quella relativa giustizia della quale sembrava essersi fatto campione, portando nei muscoli del viso per sempre scolpita quell’irritante, illeggibile e benevola espressione.

‹‹Oh, Obi-Wan, vedo che continui a sputare le tue sentenze morali come al solito. Non cambi mai, eh, Jedi?››

Obi-Wan salì d’un gradino, e fu quasi allo stesso livello di Anakin.

‹‹non ti muovere!››

E Anakin s’accorse che prima aveva avuto torto, perché Obi-Wan era cambiato, e ora che un lampo di luce della terrazza gli illuminava un lato del volto poteva veder bene cos’era successo alla fisionomia del suo vecchio amico: sembrava un vecchio. Non aveva nemmeno quarant’anni, e già era pallido e dall’aspetto un po’ curvo e sciupato, con le guance barbute più scavate e la pelle che gli s’increspava attorno agli occhi; nei capelli i fili bianchi si erano velocemente moltiplicati, la stempiatura s’era accentuata e, in generale, pareva che i vestiti gli stesseo parecchio più larghi di quando l’aveva visto l’ultima volta. Tutto ciò poteva solo significare che ammazzarlo sarebbe stato un lavoro più semplice di quanto si sarebbe potuto aspettare.

‹‹Obi-Wan, perché sei venuto qui? Qual è la tua missione? Non sapevi che non t’avrei offerto un posto a cena?››

‹‹Sono venuto perché sei il Prescelto,›› rispose con semplicità Obi-Wan. Ma ora i suoi occhi guardavano nervosamente la lama accesa di Anakin che tremolava fremente nell’aria tra loro, e il suo comportamento sembrava essere cambiato impercettibilmente.

Era arrivato il momento, perché non c’erano altre parole da dire; quindi, con altrettanta semplicità, Anakin si lanciò verso colui che un tempo era stato il suo Maestro, il suo fratello, il suo migliore amico, con l’intenzione chiara di ammazzarlo. Desiderava averlo ai suoi piedi, sotto i suoi piedi; desiderava schiacciarlo e fargli sentire tutta la superiorità del suo potere e del lato oscuro. Non pensò nemmeno ad assumere una posizione tradizionale d’attacco, né Obi-Wan pensò ad assumere una posizione di difesa, come succedeva nei duelli in cui c’era la volontà di mostrare all’avversario la propria superiorità tecnica. Le convenzioni, così come i loro antichi ruoli, erano ormai ininfluenti.

La lama di Obi-Wan incontrò la sua e cominciò il duello.

‹‹Io non volevo questo, Anakin!›› gridò Obi-Wan mentre Anakin esplodeva in una macchina di movimento, in cui l’unico obiettivo era attaccare, attaccare, attaccare. Obi-Wan si difendeva alla meglio, parando i suoi colpi con stolida sicurezza. Il suo Maestro non era mai stato eccezionale – anzi, il suo Maestro non era mai stato altro che un Jedi medio, solido nelle sue abilità, mai straordinario in qualcosa, che era arrivato all’Alto Consiglio grazie ai suoi modi ortodossi, la sua docilità e qualche missione fortunosa. Obi-Wan era, insomma, mediocre; e mentre combatteva contro di lui, la sua mediocrità divenne per Anakin, in un parossismo incontrollabile d’odio, un altro perfetto motivo per metter fine a quell’esistenza.

Finirono sulla terrazza perfettamente illuminata, così che Anakin poteva vedere oltre le vetrate nella sala immersa nel tepore giallo delle lampade. Si chiese dove fosse Padmé in quel momento – se fosse ancora in casa, o se avesse ubbidito e fosse già sull’altra riva del lago… Obi-Wan non attaccava mai, ma parava i colpi; in lui era ancora evidente la volontà di difendersi anziché colpire.  Era davvero venuto lì in missione diplomatica? E a che scopo? Convertirlo nuovamente alla luce? Il pensiero faceva montare ulteriore irritazione nell’animo turbato di Anakin; e talvolta, mentre s’incrociavano le lame accadeva la stessa cosa ai loro sguardi, e in quello di Obi-Wan Anakin vi leggeva una richiesta silenziosa di calare le armi e ragionare. Dunque andava così, quasi fermi sul posto in una lotta serrata, da un lato il lago scintillante e le ombre scure delle montagne boschive; dall’altro i giardini ombrosi della  villa, e su tutto un piacevole, nostalgico odore di sera d’estate. E se ci fosse stata altra gente con Obi-Wan? E se Padmé fosse stata –

Obi-Wan respinse una sua veloce stoccata diretta al petto, retrocedette un paio di volte e poi, con un colpo ben riuscito sfruttò l’improvvisa, traditrice distrazione di Anakin e lo disarmò, facendo volare l’arma in una parabola che sbatté contro la balaustra, e, per sua fortuna, rimbalzò sulle mattonelle. Anakin dovette gettarsi indietro, perché Obi-Wan estese la spada accesa contro di lui, puntandogliela al petto ansimante.

‹‹E ora?›› sputò Anakin, guardando da terra il suo vecchio Maestro, sentendo i gomiti feriti dalle mattonelle.

Obi-Wan fece un passo indietro. ‹‹Dovevo vederti con i miei occhi, Anakin. Qua non ci sono vincitori, ma se qualcuno ha ancora una possibilità, una sola, di fare la cosa giusta, Anakin, quello sei tu.››

‹‹Io non sono il Prescelto dei Jedi!›› urlò Anakin, mentre l’odio puro e scintillante gli contorceva i lineamenti in una smorfia di dolore, e prima che Obi-Wan potesse replicare qualcosa estese la mano davanti a sé e con una spinta della Forza lo mandò volando all’indietro, con violenza tremenda, oltre la terrazza, oltre la scalinata, contro un paio di arbusti ornamentali. Immediatamente recuperò la spada laser e corse giù dalle scale, verso il suo Maestro, mentre quello si rialzava a fatica dalla presa spinosa delle piante; e quando fu da lui, Obi-Wan riuscì a parare un colpo di brutale di Anakin, angolato come se fosse un colpo di mazzo alla testa. Se solo…! La testa sarebbe rotolata via sull’erba morbida, perfettamente cauterizzata, come un macabro trofeo! L’immagine gli fece venire un’ondata di nausea e la bile gli sobbollì nello stomaco.

‹‹Ah, sei un pazzo, Obi-Wan!›› urlò Anakin, continuando il suo attacco, spingendolo oltre i bassi cespugli, nei prati eleganti, a calpestar le aiuole rosse e bianche, ‹‹credevi di poter venire qui e – e metterti a parlare…come se tu ne avessi il diritto…!››

Le lame s’incrociarono tra di loro a meno di dieci centimetri dei rispettivi petti. ‹‹Tu sei un pazzo, Anakin!››

‹‹Ma combatto meglio.›› E velocemente fece lo stesso movimento di Obi-Wan prima, spiazzandolo con una finta leggera, fatta in punti di piedi, e sfruttò quel breve attimo di confusione iscritta sul viso di Obi-Wan, tra le labbra e la piega in mezzo agli occhi, per usare un’altra spinta della Forza e mandarlo a sbattere contro il tronco di un grosso albero a cinque metri da loro, e poi di nuovo e un’altra volta ancora, e Obi-Wan s’afflosciò come se l’avessero sgonfiato, ridicolo, inerme, prima tronfio e ora umiliato dalla corteccia dura. La spada laser del suo avversario finì a qualche metro da lui, abbandonato nell’erba umida. Anakin la richiamò a sé, ed era ancora calda della mano di Obi-Wan.

‹‹Cos’hai da dire adesso, Obi-Wan?›› chiese Anakin, tenendo saldamente entrambe le armi accese nelle mani, avvicinandosi a lui. ‹‹Sei diventato debole, o io sono diventato troppo forte per te. Scegli.››

E l’albero sopra Obi-Wan pareva avere al posto delle foglie mille specchietti che rifrangevano la luce della luna e oscillavano alla brezza tiepida. Qualcuna cadeva giù, verso il loro prigioniero.

In quel momento, arrivarono correndo dalla salitella in cui digradava dolcemente il giardino una manciata di guardie armate, facendo grandi voci. ‹‹Signore! Signore! Siamo qui!›› e ‹‹La signora Padmé ci ha avvisati!››.

‹‹È lì, Padmé? E i bambini?›› chiese Anakin, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo pietoso del suo maestro che ansimava e prendeva bruschi fiati quando cercava di muoversi per le fitte di dolore.

‹‹Sì, signore!››

Arrivarono e gli si misero alle spalle con le folgoratrici puntate contro il petto di Obi-Wan ma Anakin alzò una mano. ‹‹Lasciatelo a me. Allontanatevi.››

E quelli s’allontanarono rispettosamente verso le aiuole, calpestandole tutte con i loro stivali bianchi e lucidi. Anakin ritornò alla sua indisturbata contemplazione del suo vecchio Maestro.

Obi-Wan pareva ancora disorientato. Quando girò il volto, Anakin vide che c’era una grossa macchia scura al lato del suo cranio, che gli impiastricciava i capelli. ‹‹Anakin…Palpatine ti ha ingannato…perché non capisci che – perché non capisci che è solo un Sith? Nulla di quello che dice è vero! Lui continuerà a raccontarti menzogne, ti sfrutterà, fino a che tu…fino a che tu…oh, Forza, non c’è più nulla…››

‹‹Non importa quello che fa Palpatine. Fra poco io sarò l’unico signore dei Sith. Palpatine è l’ultimo ostacolo. Sai una cosa, Obi-Wan? Credo che un po’ se l’aspetti, il vecchio,›› continuò Anakin, all’improvviso divertito dalla nuova direzione degli eventi, ‹‹mi sfida. Mi provoca. E sa che io un giorno lo farò fuori.››

‹‹Anakin, tu -››

Obi-Wan si piegò su se stesso, scivolando di lato contro il tronco spesso dell’albero e appoggiò le mani sull’erba, esponendo la grandezza della macchia umida al lato della testa. ‹‹Io ti amavo, Anakin, ti amavamo tutti…››

Anakin non sentì niente, e quell’estrema freddezza turbò anche lui, seppure non lo avrebbe mai confessato ad anima viva. Invece, sbuffò e replicò, ‹‹Voi non eravate capaci di amare.››

Le parole di Obi-Wan gli arrivavano lontane e ridicole, come i vaneggiamenti di qualcuno che stava per morire. E per qualche motivo, era curioso: d’un tratto voleva davvero sentire quelle ultime parole di insegnamento del suo vecchio Maestro, fare l’ultimo carico di menzogne, e, poi, colpire mortalmente. Il pensiero di avere Obi-Wan morto, lì sull’erba del giardino, sotto un albero luminoso nella luce della luna, lo fece tremare tutto.

‹‹Sei perduto, Jedi.››

‹‹Tu eri un uomo buono, Anakin, tu – Qui-Gon si sbaglia!››

Il nome del suo primo Maestro fece vergognare Anakin. Non avrebbe voluto provare quel sentimento in particolare, e si vergognò della sua stessa vergogna, ma non poté evitarlo. Gli parve di essere sotto lo scrutinio  gentile degli occhi di Qui-Gon. Anakin era un uomo alto, eppure Qui-Gon sarebbe stato ancora più alto, e quei pochi centimetri gli apparvero, lì al buio, sotto l’albero, come un’ulteriore prova della grandezza morale di quell’uomo che sarebbe dovuto essere il suo Maestro. E s’accorse della tremenda possibilità che se ci fosse stato Qui-Gon al suo fianco il suo destino sarebbe stato del tutto diverso; perché Qui-Gon sarebbe stato il Maestro giusto per lui, Qui-Gon avrebbe capito, Qui-Gon…Qui-Gon aveva sempre saputo, e lui e Anakin sarebbero stati una coppia formidabile. A distanza di tredici anni, quando il cuore di Anakin sembrava ormai totalmente indurito e sprezzante nei confronti dell’Ordine, Anakin non poté evitare di provare un fremito che sembrava di commozione per quell’uomo alto e grande: e si rese conto che tra tutti i Jedi, di lui solo serbava ancora un ricordo affettuoso.

Ma ora Obi-Wan avrebbe sentito il potere del lato oscuro, e avrebbe dovuto capire, finalmente. Sì, avrebbe capito, e poi sarebbe morto. Il suo vecchio Maestro sembrò percepire che era arrivato il suo momento, rialzò la testa e con uno sforzo si mise in ginocchio davanti al suo vecchio padawan.

Prima, Anakin parlò nuovamente. ‹‹Dimmi perché. Perché sei venuto qui? Sapevi che sarebbe finita così.››

Obi-Wan rispose con onestà. ‹‹Perché avevo speranza. Pensavo, pensavo che forse non avessi perso il mio padawan. Che forse c’era qualcosa da fare. Ma non puoi trattare con qualcuno che ha gli occhi gialli.››

Ed Anakin entrò nei pensieri del suo vecchio Maestro, come ultimo, intimo attacco. Le difese di Obi-Wan erano calate, e l’uomo non sembrò nemmeno cercare di resistere. Era una delle prime tecniche che venivano insegnate ai bambini del Tempio, e in quel momento Obi-Wan non riusciva nemmeno a servirsene: sembrava essersi arreso sotto le sue mani. Ma poi Anakin trovò qualcosa, vide qualcosa, che lo fece piombare in uno stato di strano sospetto, perché Obi-Wan stava difendendo con tutte le sue forze un gruppo di pensieri, come un tesoro. Per contrattaccare l’assalto alla sua mente, Obi-Wan riempì la visione di Anakin di migliaia di inutili immagini di boschi, montagne, fiumi, giardini ornamentali; poi ci furono stelle, e infine pianeti visti da lontano e dune, e Anakin si ritrovò su Tatooine di nuovo, mentre viaggiava dentro la barriera della sua vittima. Aumentando la sua pressione, Anakin vide qualcosa di più distinto, e infine capì cos’era: il palazzo reale di Theed, e lo strascico di una veste regale di seta.

‹‹Theed?››

Poi la mente di Obi-Wan fu all’improvviso impenetrabile, e Anakin non indugiò oltre nel suo assalto, non riconoscendovi alcun vero vantaggio.

‹‹Non ho bisogno della tua redenzione. Io ho già vinto.›› Anakin lo guardò negli occhi, e ci vide una composta rassegnazione da eroe, che, per qualche motivo, lo fece infuriare. ‹‹E voglio che tu capisca perché morirai. Perché voi – voi avete la colpa. Voi avete tutta la colpa. Eravate arroganti, freddi, assetati di potere, e poi siete stati anche ciechi ed inutili. Io sto facendo la cosa giusta. Perseguo quello che mi spetta di diritto. Io sono il Prescelto della Forza, non il Prescelto dei Jedi.››

E quella era la frase più vera che Anakin avesse mai detto in vita sua. Faceva tutta la differenza dell’universo. Quando non aveva nemmeno dieci anni gli era stato detto che era il Prescelto di un’antica profezia, che il suo compito sarebbe stato un giorno riportare l’equilibrio nella Forza, e ciò, secondo la disciplina con la quale era stato indottrinato, significava sterminare i Sith. Ma, a dire il vero, i Jedi non erano mai stati felici del Prescelto che era capitato loro, e il Prescelto a sua volta non era stato felice degli insegnanti che gli erano stati assegnati: solo che lui aveva dieci anni, e i suoi insegnanti erano tutti adulti, e in virtù di ciò sarebbero dovuti esser capaci di guardare oltre le loro paure, i loro preconcetti, e offrire un aiuto compassionevole – davvero compassionevole! – al bambino che Anakin era stato. Cosa aveva ricevuto invece? Aveva ricevuto sempre la loro diffidenza, i loro sguardi sospettosi, i bisbiglii degli altri padawan, il trattamento pieno di sufficienza dei Maestri e l’aperta ostilità del maestro Windu. Nessuno di loro aveva saputo capire ciò che c’era di grandioso dentro di lui, si erano ostinati a soffocare il suo talento perché non riuscivano a capirlo, e ora, sì, ora lui era libero di perseguire le meraviglie del suo talento. Perché mentre i Jedi si umiliavano, negandosi l’assaggio delle loro reali potenzialità, i Sith esaltavano se stessi, raggiungendo le vette di ciò che un essere senziente talentuoso anelava per natura. Ora era tutto così chiaro, così cristallino: e tutto gli diceva che stava facendo la cosa giusta. Avrebbe riportato l’equilibrio davvero, in maniere che né i Jedi né i Sith avrebbero potuto prevedere.

Obi-Wan abbassò il capo come se si vergognasse, e poi lo rialzò lentamente per parlargli.

‹‹Se anche avevamo delle colpe, Anakin, le abbiamo ampiamente espiate.›› Quindi la sua voce si tinse di una nuova determinazione. ‹‹Fallo, Anakin. Uccidimi. Ma sappi che puoi vincere adesso, ma un giorno sarai tu ad essere vinto. E quel giorno tu sarai solo, e perderai tutto.››

Oh, pensava di fare l’eroe. Tutta quella storia doveva essere per Obi-Wan la delizia del martirio in nome della Giusta Causa. E Anakin ebbe una nuova idea, che gli parve all’istante deliziosa. Avrebbe ottenuto la grande beffa, e gli parve perfetto. Spense entrambe le spade.

‹‹Tu non morirai adesso. Vedo che ti senti come se avessi trionfato. Pensi di essere un eroe, e che la tua sarà la morte di un martire. Pensi che, uccidendoti, ti renderò più forte di quanto tu sia mai stato. Quindi decreto, Jedi, che tu avrai un giusto processo.››

Gli occhi di Obi-Wan si spalancarono in sorpresa.

‹‹Ovviamente sarai condannato a morte, e prima sarai torturato. E solo allora, tu morirai. Ma non mi sporcherò le mani del tuo sangue.››

Al buio, inginocchiato e insanguinato, Obi-Wan non appariva altro che un misero Jedi da quattro soldi, scovato in qualche mondo periferico e fatto a pezzi dalla nuova giustizia. La sua confusione era tanto più deliziosa, perché ora nei suoi occhi si profilava già il lontano fantasma di una morte ben più silenziosa e scura. Obi-Wan finalmente aveva paura, e il suo gran finale era stato rovinato.

Anakin fece un gesto alle guardie che avevano osservato la scena da lontano. Immediatamente arrivarono, e il suono dei loro stivali di gomma sull’erba lo riempì di un innominato fastidio. Desiderava che tutto ciò finisse, e finisse in fretta. Non aveva più voglia di sentire la loro presenza confusa e ignorante, né voleva vedere il viso sconcertato di Obi-Wan, o il suo corpo martoriato dai colpi. Tutto ora gli procurava una tremenda nausea: la vista di ciò che lo circondava, l’odore di sera misto a erba bagnata, il suono del lago, delle foglie che frusciavano, il respiro di Obi-Wan che s’inceppava quando le guardie lo presero e lo sollevarono dalle ascelle ammanettandolo, la sensazione della brezza tiepida sulla pelle e le pulsazioni nella Forza delle guardie e di Obi-Wan.

‹‹Prendetelo. Chiudetelo nel vostro scantinato e incatenatelo. Nessuna finestra. Dategli da bere e mettetegli un cerotto. Se ve lo lasciate scappare pagherete con la vostra vita, intesi? Vi ammazzo senza problemi.››

Anakin pensò ai suoi occhi e al suo stato, e scoprì di non voler vedere Padmé. Voleva solo stare solo. Padmé si sarebbe attaccata a lui, facendogli domande, oppure, ancora peggio, non facendole e limitandosi ad osservarlo con quei suoi bellissimi, sospettosi occhi scuri che parevano ogni volta aver intenzione di rubargli un segreto.

‹‹Dite a mia moglie di rimanere lì,›› gridò dietro alle guardie che già s’allontanavano. Uno dei cloni annuì secco e proseguì. Osservò la piccola comitiva scendere giù per la discesa che portava ad uno degli attracchi, e poi li vide attraversare il lago, con Obi-Wan messo in mezzo, testa bassa fra le spalle. E mentre lo guardava allontanarsi, Anakin non riusciva ancora a capire per quale motivo fosse venuto lì. Qual era il motivo per quell’apparizione disastrosa? Se non fosse comparso lì, nel suo giardino, Anakin non lo avrebbe inseguito per la Galassia. Ma Obi-Wan si era praticamente consegnato a lui. Voleva forse riprovare a parlare con Padmé? O rapire i bambini? O credeva davvero che sarebbero bastate quattro chiacchiere attorno ad un tavolino per richiudere la voragine che s’era aperta per sempre tra di loro? Era stato tanto ingenuo da credere che bastasse arrivare portando promesse di pace per riparare i torti, risanare l’orrore, curare la rabbia?

Quando sparirono dietro ad un costone dell’isoletta, ormai verso riva, Anakin non riuscì a far altro che  pensare a come sarebbe stato splendido il processo per il primo traditore Maestro Jedi catturato vivo dell’Impero. Avrebbero potuto farne un bello spettacolo del potere, magari una diretta su tutti i canali di trasmissione. L’imperatore sarebbe stato soddisfatto, pensò Anakin, con un quasi commovente desiderio di piacere, che, nonostante tutti quegli anni, non era ancora riuscito a scuotersi di dosso. All’imperatore sarebbe piaciuto. Provò un moto di disgusto verso quell’uomo, e poi verso se stesso, perché cos’era Anakin ormai, se non un braccio di Palpatine? Gli ultimi minuti incominciarono a girargli nella testa a velocità vertiginose, finché Anakin non fu costretto a chinarsi in due: e così terminò quella serata, da solo, vomitando.

 

 

 

      VesiSchwartz. wow, che capitolo. Se devo essere sincera, verso la metà ho seriamente pensato che Anakin l'avrebbe ucciso (cosa che poi in effetti fa, in ANH).
Al solito, il capitolo é bellissimo, ma penso che questo sarà il mio preferito, per la frase "Io sono il Prescelto della Forza, non dei Jedi!!" Mi ha molto colpita, aprendomi la porta verso una visione che fino ad adesso non avevo mai considerato.
Quindi, oltre ai complimenti, ti ringrazio, perché mi hai dato una nuova chiave di riflessione con la quale rivedere la saga.
Vesi

 

      irydionlover93. Santo cielo...non so ancora esattamente cosa scrivere perché essendo reduce dalla lettura tutta d'un fiato di tutto l'Atto II sono ancora sotto effetto del brainstorming di emozioni cui mi ha sottoposto la tua storia meravigliosa! Ho visto che avevi aggiornato oggi e non mi sono potuta trattenere :)
Devo dirti che adoro il modo in cui scrivi, molto scorrevole e accattivante, sei bravissima a entrare nella psicologia dei personaggi...mentre leggo è come se li sentissi parlare o li potessi vedere agire davvero! Soprattutto dipingi benissimo Anakin e Padmé, e il loro amore troppo grande e strano, i momenti di paura e malinconia ma anche quelli di indicibile tenerezza che entrambi non possono trattenere nonostante quello che accade ad Anakin *.* ke bello il capitolo XXI in questo senso! il mio preferito finora!!
Quello che ammiro molto in questa fic inoltre è che hai approfondito e dedicato spazio per i pensieri di un po' tutti i personaggi, ed è davvero difficile riuscire ad inquadrare tutti i punti di vista di personaggi complessi come quelli di SW! Riferendomi sempre anche a capitoli passati, per esempio mi è piaciuto molto come hai reintrodotto il personaggio di Palo (eeh si presagiva subito che sarebbe partita qualche dichiarazione prima o poi...:P) e come hai trattato i rapporti di Padmé con la famiglia. Ho trovato inoltre bellissime e molto commoventi le parti in cui Yoda e Obi-Wan parlano con lo spirito di Qui-Gon, molto riuscite davvero...mi piace molto la tua caratterizzazione di Obi-Wan, che questa volta ritrova una speranza nella redenzione di Anakin. E' così triste vedere quanto quei due siano amici all'inizio di Epi III e poi, come scrivi benissimo tu, la voragine incolmabile che si apre tra di loro...dopo tutto quello che è successo si possono davvero dire due estranei purtroppo. Molto intenso il "nuovo" duello tra i due, anche se sul momento è stato difficile inquadrarli duellare in mezzo al verde di Naboo piuttosto che nella vulcanica Mustafar...ma sono assolutamente della teoria anti-affettamento pure io, quindi hai tutto il mio appoggio!! solo spero che non tutto sia perduto per i prossimi capitoli, perché non mi farai mica morire Obi-Wan, VERO???
Purtroppo non potrò più leggere/recensire nelle prossime 2 settimane perché sarò confinata al mare senza pc (dannazione ai nonni anti-tecnologici! :P), ma sappi che appena torno mi fionderò sulla tua storia! wow, e davvero ti è piaciuta la mia fic? mi ha proprio sorpreso leggerlo nelle tue note, sarò contentissima di sapere cosa ne pensi, anche perché mi piace tantissimo come scrivi! grazie! spero di non avere scritto troppe assurdità ^^

 

      Padme Undomiel. Ed eccomi qui, pronta a lasciarti una nuova recensione :) devo dire che questo capitolo mi ha lasciato una strana sensazione addosso: come se tutto quanto, persino alcuni dettagli apparentemente insignificanti, volesse mettere in risalto la momentanea vittoria del Lato Oscuro su quello Chiaro della Forza. E, quel che mi ha fatto stare peggio che mai, una vittoria su ogni fronte di Anakin su Obi-Wan. Hai ribaltato completamente il finale di ROTS: nessuna mutilazione di arti, nessuna vittoria -sebbene momentanea- dei Jedi, nemmeno più alcuna sicurezza di Obi-Wan. Sembra che niente sia più a suo favore: la sua abituale gentilezza e i suoi modi garbati sono interrotti dalla furia di uno scontro, le sue certezze incrollabili sono confutate dall'odio e dal rancore del suo ex padawan, persino i ricordi felici sono mutati e corrotti in qualcosa di sbagliato. E mentre il combattimento imperversa, e i tentativi di Obi-Wan di far ragionare Anakin cadono sempre più nel vuoto, apparendo perfino completamente inutili, ci si rende conto che tutto è cambiato. Ma qui, a differenza del combattimento epico visto nel film, assistiamo a una scena, a mio parere, ancora più dolorosa. Perché lì Obi-Wan, sebbene distrutto dal dolore, sapeva quello che andava fatto, e appariva forte e stabile nelle sue convinzioni; qui, invece, "illuso" dalle speranze su di lui che Qui-Gon gli aveva instillato, è doppiamente deluso dal non poter trattare da "uno che ha gli occhi gialli", ma non solo: sembra che sia anche stanco, spossato fisicamente. Sembra quasi che abbia fallito in tutto, perché Anakin non riesce nemmeno più a considerarlo un maestro meritevole di addestrarlo come sarebbe stato Qui-Gon. L'ho trovato straziante. E la cosa che fa più male è, a fine capitolo, quando accetta con rassegnazione che Qui-Gon deve essersi sbagliato sul suo conto.
Eppure, ho rivisto in lui l'Obi-Wan che appare in ANH nella sua fierezza mentre afferma che, uccidendolo, non farà che perdere. Mi ha dato speranza, anche se tutto, ormai, sembra volgere a suo sfavore. Mi chiedo davvero come farà a salvarsi, ora che ha perso tutto ed è nelle mani del nemico.
E Anakin? Malgrado lo voglia sul serio, io non credo che l'abbia risparmiato soltanto per infliggergli una pubblica umiliazione. Non vorrei sbagliarmi, ma sembra ancora più tormentato che mai -la scena del vomito finale ne è una prova più che chiara-, e soprattutto la frase in cui dice che non vuole essere lui a sporcarsi le mani del suo sangue mi sembra indicativa. Che ora provi un rancore bruciante verso il suo ex maestro, questo è sicuro. Ma addirittura ucciderlo, dopo tutti i ricordi che gli sono sovvenuti mentre combattevano ... non credo proprio.
Insomma, non nego di essere rimasta davvero attonita a fine combattimento, perché non so più cosa pensare. Mi affido agli aggiornamenti per saperne di più, e intanto ti rinnovo i complimenti! Chissà, magari andando avanti con la storia Obi-Wan riuscirà a non apparire così sconfitto? xD Lo spero sul serio! Un bacio
Padme Undomiel :)

 

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Capitolo 5
*** Cinque. ***


Cinque.

Padmé trascorse la sua attesa seduta alla finestra della cascina poderale, gettando ora un occhio sul lago, ora un occhio sui bambini adagiati sul letto. Pensò di sedersi accanto a loro, ma rifletté che li avrebbe svegliati: e fra tutte le cose delle quali aveva bisogno in quel momento, sicuramente non aveva bisogno di due neonati irritati da un risveglio improvviso.

Trascorse un periodo di tempo di ambigua lunghezza: poteva esser stata mezz’ora come poteva essere stata un’ora intera. Si scoprì più volte con le unghie conficcate nei palmi sudati delle mani; un paio di volte provò ad affrontare il buio che pervadeva il resto dell’edificio. Non ne ebbe mai la determinazione sufficiente, ipnotizzata com’era dal riflesso lunare sul lago. Ritornava sempre alla finestra.

Dopo quella che sembrò una giornata intera, apparve finalmente lo scafo. Le armature bianche delle guardie luccicavano bene sotto le lune. Il cuore le si ghiacciò in petto mentre la barca filava veloce sul pelo dell’acqua; poi essa sparì a riva, coperta da una macchia di boscaglia.

Non poteva essere successo qualcosa ad Anakin: lo avrebbe sentito. I grilli non avrebbero continuato a suonare la loro monotona melodia, né la quiete notturna avrebbe proseguito tanto indisturbata. Le stelle si sarebbero spente, e le lune sarebbero scomparse. Se gli fosse successo qualcosa il microcosmo di Varykino lo avrebbe annunciato in qualche maniera adeguata e drammatica, e lei ne sarebbe stata la prima testimone.

No, doveva essere Obi-Wan. Dovette soffocare il senso di colpa che la chiamava da qualche angolo remoto del suo cervello. Aveva desiderato che Anakin lo uccidesse. Per tutta la durata della sua attesa, aveva combattuto con quella nozione, opponendovi spiegazioni razionali: era stato un attimo, un pensiero istintivo, un sentimento nato dal terrore. Aveva perso la testa. Ma cosa avrebbe dovuto fare poi, esattamente? Era solo una donna, senza alcun potere, tra due uomini follemente potenti e che si odiavano; e per di più doveva difendere i suoi due figli infanti.

Risuonarono dei passi al piano inferiore e un vocio indistinto. Immediatamente scattò in piedi, si asciugò le mani sudate sulla stoffa leggera del suo abito e dopo un’occhiata incerta ai bambini uscì dalla stanza e percorse il corridoio a lunghi passi. Scese le scale buie appoggiandosi alle pareti e alla ringhiera, quindi attraversò il grosso salone. L’ingresso era illuminato, e popolato da un capannello di guardie tutte uguali.

In mezzo a loro, una figura cupa, avvolta in vesti chiare e insanguinate.

Era Obi-Wan.

Quando si girò a guardarla, Padmé vide la grossa macchia che aveva sul cranio. ‹‹Cos’è successo?››

Uno dei cloni le si avvicinò a braccia spalancate, come se stesse tenendo lontano dalla scena di un delitto un intruso.

‹‹Milady, il signore ci ha ordinato di dirle di non ritornare alla villa per il momento…››

‹‹Cosa significa che non posso ritornare alla villa per il momento?››

Il clone parve a disagio. ‹‹Il signor Skywalker non desidera la vostra pres-››

Padmé sbuffò, infastidita, oltrepassò l’uomo che le stava davanti e seguì gli altri che conducevano via Obi-Wan.

‹‹Dove lo state portando?››

‹‹Il signor Skywalker ci ha ordinato di rinchiuderlo nello scantinato fino a nuovo ordine.››

L’angolazione le permetteva di vedere l’altro lato della faccia di Obi-Wan: era ricoperta di scuri rigagnoli rossi. Gli occhi del suo vecchio amico erano pieni di tristezza.

Non le servì molto tempo per comprendere cosa dovesse fare. Le arrivò come un’illuminazione divina, un consiglio dall’alto al quale non avrebbe mai potuto disubbidire. Quando la videro, le guardie, che fino a quel momento si erano passati bevute attorno al tavolo scuotendo solennemente le teste, scattarono in piedi come i bravi soldatini che erano e la guardarono un po’ nervosi. Qualcuno farfugliò una scusa per il rumore e per l’alcool.

Padmé, facendo del suo meglio per apparire innocente e cordiale, si rivolse all’unico clone del quale conosceva il nome. ‹‹Donnie?››

Quello annuì e fece un passo avanti con aria solenne.

‹‹Voglio ritornare a casa,›› annunciò Padmé, assumendo un tono gentile ma stringato. ‹‹Vorrei che qualcuno di voi mi preparasse la barca.››

‹‹Ma -››

‹‹Niente ma. Mio marito ha bisogno di me in questo momento. E questa è casa mia.›› Poi soggiunse, curando di mantenere il suo tono freddo e professionale: ‹‹Prima di andare, però, desidero parlare con il prigioniero. E siccome dubito che ve ne siate occupati, vorrei che qualcuno di voi mi portasse un kit di prima emergenza.››

Le guardie si lanciarono sguardi incerti per qualche istante, incerti tra il comando del padrone e il comando della padrona. Alla fine, Donnie annuì. ‹‹Fate come dice la signora Padmé. Tex, Thorn – uscite e assicuratevi che sia tutto pulito lì fuori. Roman, dai un’occhiata ai bambini. Milady, vi accompagnerò io. Non c’è da fidarsi.››

‹‹Grazie, Donnie.›› Gli regalò un sorriso luminoso e Donnie arrossì farfugliando.

Finalmente le portarono una cassettina bianca di tipo militare con il logo rosso dell’esercito, quindi, con un’occhiata d’intesa a Donnie, scese giù per il vano angusto e accaldato delle due rampe di scale, finché non furono all’improvvisamente fresco disimpegno prima della cantina, dove aleggiava uno strano odore di polvere e sporcizia vecchia anni. A quel punto, Padmé si girò e gli prese una mano tra le sue. ‹‹Vorrei entrare da sola. Si dà il caso che il maestro Kenobi sia un vecchio amico,›› gli disse, sperando che quell’amabile confessione rischiarasse i timori della guardia, ‹‹e, per favore, dammi la chiave. Non ho intenzione di parlare con qualcuno che sia incatenato come un animale, men che meno un vecchio amico. Il pensiero mi fa ribrezzo.››

Donnie annuì con lo sguardo limpido da ogni sospetto, le allungò la chiavetta liscia e fece un passo indietro. Padmé spinse la porta ed entrò nella cantina dal tetto a cupola. Dentro era buio pesto, e dovette tastare la parete per qualche istante per trovare l’interruttore.

La cantina era un luogo fresco e dall’odore antico e gradevole, dove impalcature di legno albergavano numerose bottiglie polverose del pregiato vino della Maison sur le Lac. Il vino e il chiuso spandevano nell’aria un vago sentore di polverosa dolcezza. Non le ci volle molto prima di trovare il prigioniero. Era seduto con la schiena dritta, sulla panca di pietra che aggettava direttamente dal muro.

‹‹Obi-Wan.››

‹‹Salve, Padmé,›› disse il prigioniero, infondendo nella sua voce un accento intriso di leggerezza. ‹‹Spero scuserai il mio aspetto impresentabile.››

Padmé gli si sedette accanto, posò la valigetta ad un lato e senza dire una parola esaminò con delicatezza l’aspetto del prigioniero di suo marito. Era sporco di sangue e di terra, e le sue vesti erano lacerate in più parti, gli stivali coperti di fango e di erba. Le ferite che avevo sul viso e sul cranio parevano dolorose, e una grossa macchia scura, una crosta di sangue sopra una lacerazione tumefatta, la guardava direttamente negli occhi. Padmé la toccò con delicatezza. Quando si guardò i polpastrelli, li vide intrisi di sangue.

‹‹Ahi.››

‹‹Scusami,›› disse Padmé.

‹‹Non è niente. Un bel colpo. Ne ho una buona collezione ormai.››

Ci fu un attimo di silenzio, in cui il tentativo di sdrammatizzazione di Obi-Wan evaporò e le preoccupazioni di Padmé si concretizzarono. Ebbene, lo stava facendo davvero. Non aveva esattamente paura – o, almeno, non sarebbe stato quello il nome che avrebbe assegnato al silenzioso incremento del suo battito cardiaco.

‹‹Devo pulirla. Non ha un bell’aspetto.››

Padmé aprì la valigetta con un gesto pratico e ne esaminò il contenuto. Vi era un assortimento di flaconcini, rotoli di garza bianca, accessori e strumenti per semplice chirurgia da campo. Sarebbe stato più che sufficiente. ‹‹Ho portato qualcosa per curarti,›› - prese un fiato prima di proclamare la propria libertà - ‹‹ma prima, ti libero.››

Gli occhi di Obi-Wan cercarono nei suoi una spiegazione. Padmé sorrise, pur prevedendo le conseguenze. Nessuno disse una parola.

Infilò la chiavetta nella sua piccola, tonda serratura e le manette caddero all’istante in grembo ad Obi-Wan, che prese a ruotare i polsi e spiegare le dita. Aveva le mani coperte di piccole escoriazioni, e i palmi erano infiammati. Le manette erano state strette troppo attorno ai polsi e vi avevano lasciati antipatici segni rossi.

‹‹Grazie,›› disse.

‹‹Non mi aspetto di rimettertele.››

 

Si risvegliò in preda ad una tremenda agitazione. Doveva aver sognato qualcosa di assolutamente terrificante, perché si drizzò a sedere con una tale velocità che macchie scure le comparvero davanti agli occhi, e, una frazione di secondo dopo, i suoi occhi vennero catturati dal bagliore bianco e rosato dell’alba che filtrava dalle tende leggere, e ancora brillavano delle piccole stelle bianche nella parte superiore della volta scura, ancora notturna. Doveva aver dormito molte ore, una notte intera o quasi: ma si sentiva spossata e, ora, infreddolita. Fu solo allora che Anakin parlò.

‹‹Sono qui, Padmé.››

La figura di suo marito si scostò da una zona d’ombra fuori dal suo angolo visivo e venne avanti, fino a sedersi sul letto, tenendo la mano meccanica esposta e tesa su quella vera. La luce dell’alba lo illuminava piacevolmente, rendendolo attraente e romantico; i suoi occhi apparivano di una meravigliosa, limpida sfumatura azzurra. Pareva tranquillo, eppure non lo era.

Padmé si portò una mano alla testa. ‹‹Dove sono i bambini? Ani…››

‹‹Si sono svegliati, e li ho riportati a casa. Se ne sta occupando Dormé.››

‹‹Da quant’è che sei qui?››

Fece spallucce. ‹‹Qualche ora.››

Rimasero un po’ in silenzio, mentre la testa di Padmé continuava a pulsare fastidiosamente e Anakin si guardava le ginocchia. Padmé ricordò all’istante ciò che aveva fatto quella notte, ma non aveva intenzione di intavolare la discussione, che, a ben vedere, sembrava stare per avvicinarsi in maniera del tutto naturale. Fu, infatti, dopo quella pausa calma e composta che Anakin, con tono altrettanto cortese, disse: ‹‹Obi-Wan è fuggito. E io vorrei… io vorrei che tu mi dicessi la verità.›› La guardò con occhi pieni di sottesi, ma non ostili. ‹‹Dimmi che non sei stata tu a farlo uscire, e io ti crederò.››

Erano quasi esattamente le parole che aveva pronunciato lei, mesi prima: ed ora era chiaro che Anakin, che aveva da qualche parte appreso una maggiore sofisticazione, era venuto per tormentarla, con quel tono garbato e composto, da amico di vecchia data che indulge in qualche raccontino da salotto. In silenzio, Padmé si chiese se fosse poi la sua intenzione davvero offenderla, schernirla, o, forse, usare contro di lei, con tenera amarezza, le parole più vulnerabili che avesse mai pronunciato, nel periodo più vulnerabile che avesse mai vissuto. E cosa avrebbe dovuto rispondere?

‹‹Le guardie mi hanno raccontato che anche tu sei stata una sua…vittima,›› continuò Anakin, parlando più alle sue ginocchia che a lei. ‹‹Che ti ha fatta svenire e che sei stata tu a trovare Donnie per terra. Ma non…›› il suo tono divenne quasi fievole, ‹‹…non credo sia andata così. Quindi ti sto chiedendo la tua versione dei fatti, così che nessuno mi possa incolpare di saltare alle conclusioni.›› E pronunciò quelle ultime parole con una specie di cupo, ironico disprezzo che le fece raggelare il sangue nelle vene.

Padmé lo guardò, poi guardò le mani che s’era stretta in grembo, e lo guardò di nuovo, cercando di intuire da quel profilo tranquillo e quella schiena girata quale sarebbe stata la sua reazione. Poi si ricompose, tirò in fuori il mento e parlò, estraendo dalla sua gola una voce che somigliava in maniera preoccupante all’inflessione di Amidala: ‹‹Non c’è nulla che io possa nasconderti. Lo sapresti comunque, e lo sai che non c’è maniera di farti cambiare idea. Quindi che tu mi chieda se io l’abbia fatto o no è irrilevante. Secondo te cosa ho fatto?››

A quelle parole, Anakin si girò verso di lei del tutto, e aveva negli occhi qualcosa di tremendo. Non era rabbia, né cattiveria o malizia: era quasi noia, delusione e vivida angoscia. Con quell’espressione ci si sarebbe anche potuti immaginare un piccolo sorriso malinconico, e Padmé sapeva che se avesse provato a sorriderle in quel modo sarebbe caduta in mille pezzi e avrebbe osato fare una pazzia, chiedergli scusa, rimproverarlo di non aver ucciso Obi-Wan lì quando poteva, e averla invece costretta ad agire contro di lui. Avrebbe potuto fare di tutto, se lui avesse fatto qualcosa del genere: e per questo si vergognava.

‹‹Usi i tuoi giochetti anche con me. Era tutto un vostro complotto, vero? Sono stato via un mese, che dico, un mese e mezzo,›› disse Anakin, con un tono di voce amaro, ‹‹chissà quante cose vi siete potuti dire. Immagino che il piano fosse farmi fuori. Non vi è riuscita, e siete stati fortunati, approfittandovi della mia…›› e chiuse violentemente la bocca. Non parlò per quasi un minuto. ‹‹Quella scenetta patetica…Era un bel piano…Avrei dovuto ammazzarlo lì, quando potevo. Devo ancora imparare molte cose, devo dare più ascolto al mio Maestro…Queste sono le cose che si ottengono ad essere…ad essere idioti, e…››

‹‹Anakin, no…››

Anakin scosse la testa, non curandosi di girarsi per guardarla.

‹‹Io so che non dovrei dubitare di te. So che dovrei fidarmi. Ma non ci riesco più, capisci?›› E lo disse come se pronunciare quelle parole lo stesse distruggendo davvero, con la voce spezzata da una delusione e un’amarezza così forti da fargli abbassare la testa in un gesto di mite malinconia. ‹‹Ogni volta che ti guardo mi chiedo se tu sia sincera o meno. È vero quando fai la gentile, quando sei tenera…? O altrimenti, per cosa lo fai? A volte sono certo che tu mi ami, e altre volte sono certo che non ho mai avuto e non avrò mai la tua totale lealtà. Quando stavo venendo qui pensavo -›› - sbuffò - ‹‹pensavo che avremmo potuto ricominciare, che le cose sarebbero cambiate, che eri diversa. Bè, che il tempo fa cambiare le cose. Ma cosa fai al primo ostacolo? La prima prova, e tu mi tradisci in questa maniera, fai scappare da sotto il mio naso una persona che era venuta per uccidermi. Tu sei diventata una sua complice…››

‹‹Anakin…››

‹‹Io ti amo, Padmé. Per la Forza, se ti amo. Potrei giurare che sono il bastardo più innamorato di questo mondo. Ma non posso fidarmi se tu fai queste cose.››

Se tu fai queste cose significava salvare una vita, e Anakin ne parlava come se fosse un crimine. Rimasero in silenzio finché Padmé non trovò il coraggio di rispondere, e quando parlò lo fece con un tono determinato e sincero, che non avrebbe fatto vergognare le donne impegnate in politica che era stata; ma non riuscì a guardarlo, preferendo fissare oltre i vetri, nel chiarore reso vivido e tremolante dalle sue lacrime.

‹‹Le cose sono cambiate, Anakin. Ieri mi pareva di avertelo dimostrato. In questi giorni ho capito che sono disposta a sacrificare i miei ideali per te e per i bambini. Credi che lo avrei fatto se fossi ancora la persona che ero qualche mese fa? Qualche mese fa non avrei nemmeno cercato di giustificarmi. Ma guarda cosa sto facendo. E ti dico che anche se sono disposta a…che anche se sono cambiata, io non sarò mai d’accordo con l’uccisione di un innocente. Obi-Wan non era venuto qui per ucciderti, e tu lo sai. Non potevo lasciare che tu lo portassi al tuo imperatore come un trofeo, per torturarlo ed ucciderlo come un criminale. Almeno in questo, sono la stessa persona di prima,›› - la sua voce si abbassò ancora, - ‹‹e la persona di prima è quella della quale ti sei innamorato, tre anni fa. Se non ti interessa più, se non sei più innamorato di quella persona, allora non vedo perché dovremmo continuare con questo matrimonio.››

Nella stanza calò un silenzio stupito, perché Padmé aveva per la prima volta frantumato una premessa che prima non era mai stata messa in discussione: che quel matrimonio non prevedeva un’altra fine che non fosse la morte di uno di loro due. Il loro amore sarebbe stato per sempre, il matrimonio con esso; e se Padmé metteva in dubbio anche quello, cosa rimaneva? Anakin, che era di profilo, s’irrigidì ma fece del suo meglio per non girarsi; Padmé rimase in silenzio davanti all’enormità di quello che aveva detto. Infine, drizzata ancora la schiena, scosso via il sonno e messo nella sua voce più coraggio di quanto non ne provasse davvero, parlò di nuovo: ‹‹Per quello che mi riguarda, se non credi alle mie parole, credi almeno a quello che senti. Tu lo sai che i miei sentimenti sono sinceri.››

Anakin non disse nulla. Abbassò gli occhi. La sua calma, così innaturale nell’uomo che era, così fuori luogo, la inquietava e la infastidiva insieme; senza riuscire a crederci si ritrovò a desiderare che s’alzasse e cominciasse ad urlare e minacciare lei e l’universo di cose terribili, esprimendo tutta la sua furia, esplodendo di rabbia, così che fosse più semplice dire che aveva torto. Ma ora che lo vedeva così, così freddo, apatico e silenzioso, non aveva appigli contro di lui: ma anzi aveva il terribile, mortale sospetto di esser stata lei in torto, di aver fatto qualcosa di male, di averlo tradito davvero, di essere stata lei a commettere un crimine, un crimine vile com’era tradire la fiducia di suo marito, che quei giorni a casa era stato così gentile, affettuoso e speranzoso. Questa era la grande beffa del male, far dubitare ai buoni delle loro buone azioni, insinuare dubbi dove dubbi non dovevano essercene, rendere tutto grigio, sia il bianco sia il nero. E così due giorni era stato tutto quello che il destino aveva concesso loro di felicità, prima di sbattere contro le loro facce la realtà delle cose: ovvero che erano ancora diversi, che non c’erano ponti e che non si capivano. Era una cosa buona, forse, eppure Padmé si scoprì a desiderare di essere cambiata davvero, di poter accettare Anakin così com’era senza nemmeno pensare due volte di tradire la sua fiducia; ma era quella la vita di una persona libera o di una schiava o peggio? Padmé, di nuovo, non aveva risposte.

 

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Capitolo 6
*** Sei. ***


Sei

Anakin uscì non sbattendo nemmeno la porta, camminando a passi pesanti, accaldato, sentendo una vena essere sul punto di esplodere, ogni muscolo una corda tesa, ogni movimento un’esternazione della sua impotenza. Attraversò il corridoio superando le finestre luminose, e quando fu alle scale, che lo invitavano a scendere giù e distruggere qualcosa, s’inchiodò. Cercò di riportare sotto controllo il suo respiro; inspirò, espirò e dannazione se non si era rammollito, lui, che ora si sentiva prossimo ad un collasso per il solo fatto di averla sentita parlare in quel modo – no, per l’audacia, la temerarietà, la slealtà che Padmé aveva appena dimostrato con quel discorsetto. Cosa era significato, poi? Che l’amava – ma fino ad un certo punto, fino al punto in cui lei avrebbe dovuto compromettere qualcosa di sé stessa. Fino a lì arrivava l’amore di Padmé. Un amore che era una bestia volubile, incontrollabile e imprevedibile, sempre soggiogato a quel razionale buon senso che sgocciolava da tutte le parole di sua moglie. Sì, Padmé era incapace di amare: era fredda, volubile, ambigua, se non bipolare; non avrebbe mai esitato a tradirlo, mentre lui aveva tradito anche sé stesso per lei; e siccome era così, viziata, idealista, e sì, non l’amava nemmeno così tanto (poi come si faceva ad amare qualcuno a metà, o per tre quarti, pareva impossibile, eppure…), le cose non sarebbero mai cambiate, mentre lui avrebbe continuato a dare la sua vita soltanto per strappare un sorriso, per pensare di tenere tra le mani un pezzo dei suoi reali sentimenti – era un affronto a tutto quello che era Anakin!

Era forse da uomo ridursi a quel fagotto ansimante di nervosismo, tic, tremori, tutto per i dispetti di una donna – la sua donna – Padmé, quella donna strana, sfuggente, sfuggevole; ogni volta gli pareva d’averla presa, di poter dire: oh, Padmé, ora ti conosco, ora so quale sarà la tua prossima mossa; per poi risvegliarsi e vederla sfuggire tra le sue dita, come se fosse sabbia, come se fosse acqua, o un fantasma.

Era forse da uomo poi ridursi in quello stato penoso? Aveva trascorso cinque ore di veglia notturna sul corpo di Padmé addormentata, sentendosi il cuore venire lacerato pezzo a pezzo dalla rabbia – no, dall’odio, perché poteva giurare di averla odiata, odiata come avrebbe potuto odiare Obi-Wan, odiata come non aveva mai fatto, quando aveva saputo quello che aveva fatto e aveva sbattuto i pugni contro il muro, una, due e tre volte, prima con una mano, poi con l’altra, dovendosi accasciare su se stesso quando la mano di carne aveva fatto un suono sinistro e gli era sembrato di essersela spaccata; era corso su, nella camera, e l’aveva trovata lì, addormentata coi bambini, come se non avesse fatto nulla di male, la fronte distesa come se non stesse nemmeno soffrendo di sensi di colpa, e avrebbe potuto giurare su tutto ciò che gli era più caro (e purtroppo comprendeva anche lei) che l’unico motivo per cui non aveva commesso una follia, mentre la vista gli si offuscava, il mondo iniziava a girare e una nausea acida e sobbollente gli bruciava e fondeva lo stomaco, era stata la presenza di Luke e Leia lì accanto a lei, a proteggerla come un talismano, e il dettaglio – quel dettaglio! – del ciondolo di japor appoggiato sulla morbida curva del seno che gli aveva fatto ricordare del freddo di una nave, e di quel gesto – una veste appoggiata sulle spalle, quella gentilezza, oh – e gli aveva fatto ricordare di tutto quello che era davvero Padmé per lui, nel bene e nel male e oltre quelle due definizioni, finché all’improvviso non aveva sentito più niente, se non una lucida, disperata disillusione.

Aveva ragione il suo Maestro, ecco tutto, come al solito: Padmé non era che una debolezza. Finché ci fosse stata lei, con quei begli occhi scuri, quei lineamenti perfetti, il suo sorriso, la curva del suo polso, ecco, finché ci fosse stato tutto ciò Anakin avrebbe dovuto subire quei sabotaggi. Lei non avrebbe smesso. E allora cosa avrebbe dovuto fare lui?

Ora voleva sbarazzarsi di lui, dunque – Padmé, che lo aveva tradito, tradito in favore di Obi-Wan!

S’appoggiò al muro fresco e intonacato di bianco, ne respirò l’essenza di stucco, mentre voci e colori e ricordi gli si mescolavano in testa come tendevano sempre a fare in quei momenti in cui il mondo sembrava non esistere davvero; desiderò ardentemente di poter riportare le lancette dell’orologio al giorno prima, di annunciare che quella sera avrebbero potuto fare qualcosa invece che rimanere a casa, che li avrebbe portati a qualche ristorante a Kadikoy, no, a Theed (e poi, perché Obi-Wan aveva pensato a Theed?), anzi, li avrebbe portati ad Otoh Gunga, dall’altro lato del pianeta, se solo avesse significato abbandonare quella villa prima che Obi-Wan vi ricomparisse!

Era stata una tale bella mattina, quella del giorno prima; Padmé era stata immensamente affettuosa, regalandogli abbracci e baci spontanei e distogliendo gli occhi come se fosse all’improvviso timida di riaverlo in casa, sfuggendo e ritornando tra le sue braccia in un gioco amoroso che aveva di gran lunga superato qualsiasi fantasiosa aspettativa di Anakin; avevano giocato con i bambini, o, forse, li avevano semplicemente osservati (non c’era nulla, nulla di meglio di osservare Luke e Leia), sbocconcellando fette del pane dei Cinque Fiori con il miele della tenuta, per poi avere un pranzo all’aria aperta, nel giardino, parlando di tutto e di niente con la leggerezza di due freschi innamorati; il pomeriggio era stato dolce, passato nel letto in abbracci inestricabili, affidati i bambini alle tate, passati in un piacevolmente noioso stato di tiepida immobilità, come se la galassia fosse dopotutto destinata a fermare il suo corso caotico per permettere a loro di ritrovarsi in pace, e poi era arrivata la sera e tutte le sue novità. Sarebbe bastato essere un po’ più intraprendenti, un po’ meno improvvisamente pigri – sarebbe bastato che Padmé fosse stata più fedele, più leale –

Una finestra andò in frantumi, i suoi frammenti spargendosi dentro e fuori dalla cascina, nel vento caldo che spirava fuori, seguiti poi dai rammenti dell’altra finestra e dell’altra ancora. Anakin spalancò gli occhi per vedere da dove fosse arrivato quel suono agghiacciante (da sempre foriero di cattive notizie), aggrottò le sopracciglia allo spettacolo delle finestre rotte e scosse la testa, d’un tratto sentendosi come se il suono improvviso lo avesse riscosso da un brutto sogno. Sentì nella Forza la sua Padmé; se la immaginava in piedi in mezzo alla stanza, pallida e minuta, con la sua corona di trecce sfatta e scivolata ad un lato della testa e qualche lacrima a farle luccicare gli occhi scuri, pozze infinite di meraviglie traditrici e pericolose, e senza nemmeno pensarci corse indietro, spalancò la porta e la trovò lì, più o meno come se l’era immaginata, alla finestra e con le mani appoggiate dietro di lei sul davanzale, pallida e sul punto di piangere, e tutto quello che Anakin riuscì a dirle, dopo essere penetrato in quella stanza come una furia fu: ‹‹Non abbiamo ancora finito.››

Padmé gli lanciò un’occhiata nervosa, e nella Forza vi fu una cacofonia di migliaia di violini alti e stridenti. Anakin fece un mezzo passo avanti, aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi aspettò che parlasse, ma finì che nessuno dei due parlò per un buon minuto, con le bocche sigillate in linee dritte, piene di rimprovero da parte di Anakin, e di tesa apprensione da parte di Padmé. Si squadrarono in cerca del benché minimo movimento, ma non ce ne furono.

‹‹Perché lo hai fatto? Perché lo hai lasciato andare via?›› attaccò Anakin, alzando una mano, sentendosi frustrato e impotente e ridicolo perché sapeva di avere gli occhi bagnati di lacrime (come una donnetta, come se fosse vulnerabile, lui! un Sith!), per poi passarsela tra i capelli, ora corti, morbidi e puliti.

Padmé fece un passo avanti e liberò le sue mani dalla presa disperata sul davanzale, attorcigliandosele all’altezza dell’ombelico in un intrico abbronzato di ossa minute.

‹‹Ani - ››

Ora usava il nome affettuoso che Anakin permetteva di usare soltanto a lei – perché era stato il suo nome quando era stato schiavo: era stato Ani, lo schiavetto, e la strada davanti all’officina di Watto era stata un risuonare di “Ani! Ani! Ani!” e lui lo aveva odiato. Ora s’accorgeva bene che era il nome adatto, perché era ancora uno schiavo di qualcuno. La sua padrona lo guardava con occhi luminosi.

‹‹Cosa ti saresti aspettato da me? Pensavi che avrei potuto lasciare un essere umano – un essere – morire là sotto, finché tu non ti fossi deciso? Tu lo sai che non sarei mai stata capace di agire in quella maniera, perché…››

‹‹Perché va contro tutto quello in cui credi, per cui hai lavorato…›› concluse Anakin scuotendo una mano. ‹‹La verità è che tu non avevi nessun diritto! Quella era una faccenda tra me,›› punteggiò le sue esclamazioni con gesti forti della mano, ‹‹e Obi-Wan! Tu dovevi rimanerne fuori!››

‹‹Non potevo lasciare che tu lo uccidessi.››

Anakin sbottò in una risata sarcastica, guardandosi attorno e prendendo a passeggiare nella stanza, sentendosi come vicino ad una brutta febbre. I vestiti gli si appiccicavano scomodamente alla pelle, anche se sentiva brividi gelati corrergli tra i nervi. Sentiva bene gli occhi di Padmé su di sé; anche quando le voltava le spalle conosceva la sua espressione, pallida e stanca. Desiderava, in maniera quasi parossistica, che lei sentisse solo un decimo dell’agitazione nervosa e sfinente che lo aveva travolto; desiderava che lei sentisse l’incommensurabile frustrazione di capire che ora lo tormentava. Doveva incalzarla, doveva farla cedere, doveva farla piangere, e solo allora forse lei avrebbe capito cosa - ‹‹Quindi hai lasciato andare l’uomo che ha tentato di uccidermi perché non potevi sopportare la morte del tuo oh-così-caro-Obi-Wan…›› poi girò via la testa, rabbioso, colto da un’idea tremenda ma sincera, ‹‹perché ora capisco che era davvero un piano, che tu mi odi. Tu mi vuoi morto solo perché…perché…ma non importa, importa soltanto che il collo del tuo prezioso Obi-››

‹‹Obi-Wan non importa, Anakin! Non riesci,›› disse lei accorata, avvicinandoglisi ancora e schiudendo le braccia nel tentativo di contenere il suo passo furioso, ‹‹non riesci a capire che non devi, per nessun motivo, macchiarti le mani di altro sangue? Anche se indirettamente, tu lo avresti ucciso…Non riesci a capire che non ne vale mai la pena, che ogni volta che tu…›› guardò via e deglutì, ‹‹tu non sei nato per uccidere, tu…››

Anakin si districò dalla presa di Padmé con bruschezza.

‹‹Chi lo dice, Padmé? Chi mi assicura che questo non è esattamente quello che devo fare? Ma tu stai cambiando l’argomento – il problema qui non sono io, ma il fatto che lui è venuto qua, a casa mia, parlando di portare giustizia, dicendo che un giorno la pagherò – quel pazzo, che non si merita nemmeno l’aria che respira…››

‹‹Allora non si merita nemmeno che tu commetta un crimine per lui.›› E di nuovo si avvicinò a lui, cingendolo di traverso con le sue braccia magre e calde e appoggiandogli la fronte contro il braccio.

Anakin chiuse gli occhi. ‹‹Non toccarmi, Padmé. Mi fa -›› ma non trovò le parole.

‹‹Sei tornato per un motivo…›› mormorò Padmé rafforzando la presa, con una nota di quieta esultanza nella voce. ‹‹Sei tornato per parlare…››

Padmé lo disgustava. Sì, lo disgustava. Chi poteva assicurargli che non fosse stata sempre parte di un piano? Chi poteva assicurargli che non fosse sempre stata una spia, una traditrice? Non c’erano parole davanti al vuoto abissale colmo della sua sfiducia. Non voleva guardarla negli occhi – lei, nemmeno, perché manteneva il viso schiacciato contro il suo braccio. Non piangeva. Anakin sapeva che se avesse provato a rivolgergli uno dei suoi sguardi – quelli che aveva perfezionato durante tre anni burrascosi di matrimonio – sarebbe riuscita a convincerlo del contrario: in un secondo, avrebbe potuto credere di nuovo che lei lo amasse, che lui la amasse, e che tutto fosse più o meno a posto di nuovo. Rimasero così, in piedi, forse per interi minuti. Dovevano avere tutta l’aria di un solenne complesso statuario: un uomo, alto e diritto (se non esageratamente impettito) che guardava a terra, e aggrappata a lui una donna in lunghe vesti fluenti, col viso affondato nella carne del braccio. L’immagine lo riempiva di nausea, eppure, non riusciva a muoversi. Sentiva i muscoli di piombo.

‹‹Anakin, è meglio così,›› riprese Padmé dopo un’eternità, con voce calma e conciliatoria, ‹‹non tornerà più. Non ci disturberà più. Io non c’entro nulla – non sarei mai in grado di complottare contro di te. Mai.›› Prese ad accarezzargli le braccia. I pugni di Anakin si contorsero in spasmi involontari.

‹‹Possiamo dimenticare quello che è successo. Possiamo davvero ricominciare. Prima hai detto che mentre venivi qua pensavi che potessimo ripartire da zero. Lo pensavo anche io, esattamente quello. Pensavo che quando saresti venuto, avremmo potuto cancellare quello che -›› ma poi fece una pausa, sicuramente stimando troppo grandi gli eventi passati per essere liquidati con una frase casuale. Dopo qualche istante, ricominciò: ‹‹Noi possiamo farlo davvero, capisci? Da oggi. So di aver perso la tua fiducia, ma…››

E Anakin non poté più sopportare il contatto fisico con lei, la presa bollente delle sue mani su di lui, il suo sguardo sulla guancia, la maniera in cui lei stava lentamente, ma con sicurezza, sgomitando per rientrare nelle sue grazie. ‹‹Non funziona così, Padmé,›› sbottò, prendendole le mani e spingendole lontano dal suo corpo. ‹‹Non funziona così. Io non so più chi sei.››

Glielo disse mentre la guardava negli occhi. Poteva vedere se stesso riflesso nelle pupille castane della moglie. Le sezioni impercettibili di verde attorno ai bordi esterni delle iridi erano luminosissimi in quel momento.

‹‹Potrei dirlo anche io.››

Le teneva i polsi. Avrebbe potuto spezzarli con un solo gesto. Pensandoci, avrebbe potuto ucciderla in quel momento. La morte era così facile da dispensare. La vita no. C’era qualcosa di profondamente ironico in quella considerazione che gli sovvenne mentre guardava le sue mani tenere in una presa di ferro i polsi di Padmé. Loro la vita l’avevano dispensata insieme. Ora avrebbe potuto, spronato dalla rabbia, ucciderla: spegnere per sempre quegli occhi e non dover mai più rischiare un tradimento, un sabotaggio. Il pensiero gli sembrò per un istante lucidissimo, una possibilità concreta, un’azione attuabile senza troppi problemi; poi lei mosse un po’ le mani, scosse un po’ le ossa delicate del polso che lui stava tenendo con tanta forza, e Anakin sentì la pressione all’interno del suo corpo aumentare a dismisura, come se fosse sul punto di esplodere. Sentiva le guance accaldate. Padmé lo guardava con occhi disperati. Era così calda e agitata, spaventata davvero eppure fiduciosa. Padmé era sempre fiduciosa.

Mai come allora gli parve effimera e ridicola la nozione di conoscere davvero qualcuno. Quando si poteva realmente dire di conoscere una persona? Soprattutto, era possibile?

Quando era arrivato, Padmé era stata un sogno. Vestita come un angelo, gli era parsa una donna nuova, liberata dalle sue manie, dalle sue infelicità, una donna sinceramente felice di riaverlo a casa e che lo accettava così com’era. Anakin era giovane, ma sapeva che quello stato di quieta beatitudine era impareggiabile; e gli era sembrato di aver finalmente capito Padmé. Eppure, erano bastate meno di due ore a distruggere tutto e riportarli dov’erano prima. Non si fidavano l’uno dell’altra, e questo insomma era quanto: due mezzi estranei che s’amavano. Era bastato un litigio perché Padmé ricominciasse ad avere paura di lui.

Si poteva vivere un’intera vita con qualcuno, per poi svegliarsi un giorno e capire di non averlo mai conosciuto. Gli era successo, qualche volta, con Obi-Wan (il pensiero fece infuriare qualche bellicosa, periferica regione della sua coscienza): vedere il suo viso segnato prematuramente dalla stanchezza e chiedersi se, dopo anni e anni di un rapporto maturato al più stretto contatto, conoscesse davvero ogni cavità e anfratto dell’animo del suo Maestro. E per quanto sembrasse impossibile, Anakin era sempre stato conscio che in Obi-Wan, come in tutti gli altri, c’era qualcosa di elusivo e inafferrabile; un piccolo spazio nel cervello irraggiungibile dai conoscenti, privato, esclusivo al suo proprietario: la sede di tutte le decisioni più intime e personali, dove maturavano i segretissimi piani di ammutinamento, dove si era liberi di impazzire, dove nascevano le azioni irrazionali che gli altri non riuscivano a spiegarsi del tutto. E se c’era questa parte, unica e impossibile da conoscere, rimaneva da vedersi quanto si conosceva il resto, la parte visibile del carattere, la parte che gli altri possono arrivare a conoscere: e mentre guardava negli occhi Padmé in quel momento, provando per lei un misto atroce di rabbia, delusione e curiosa apatia, gli sembrò di non conoscere poi tanto bene nemmeno quella parte visibile.

Dopotutto, in tre anni di matrimonio, durante la guerra, avevano trascorso insieme poco più di tre mesi. I congedi erano faccende brevi, spesso soste obbligate a Coruscant per ripartire l’indomani in direzione di qualche pianeta sperduto; le vacanze insieme – seppure Anakin ne avesse proposte decine – erano quasi sempre state liquidate da lei, per via di un impegno al Senato, o per via del timore di essere scoperti dal Concilio; loro erano le notti, ma non i giorni, se non quando la Senatrice intratteneva fruttuose visite professionali con il suo amico Jedi; in quei tre anni, che pure erano stati felici, non c’erano stati molti pranzi assieme, lunghe passeggiate, faccende domestiche svolte insieme; si erano conosciuti a frammenti, interrompendo le loro conversazioni per riaprirle, come se non fosse successo nulla, due o tre mesi dopo esattamente da dove le avevano lasciate, con un po’ di timidezza negli occhi perché quando si rincontravano era sempre un po’ come se non si conoscessero del tutto. Erano, quegli attimi di timidezza, della durata di non più di pochi battiti, e spesso venivano soffocati dalle loro improvvise passioni – eppure c’erano, e alla luce di ciò che era successo tutti quei mesi prima, Anakin doveva per forza chiedersi se non fossero stati i momenti più sinceri della loro relazione.

Non c’erano parole per descrivere il vuoto che sentiva in quel momento. Non aveva parole, né pensieri, solo un ingarbugliato intrico di tristezze. Non la odiava nemmeno più. Anzi, tutto quello che aveva detto suonava estremamente ragionevole e coerente. Provava quasi un moto di traditrice gratitudine nei suoi confronti, per la quale non sarebbe mai riuscito a trovare le parole; era anche disposto a perdonarla, o chiederle scusa, o qualsiasi cosa, se lei glielo avesse chiesto in quel momento. Lasciò la presa sui suoi polsi, e avrebbe quasi voluto chiederle scusa per il circolo rossastro che le aveva lasciato impresso sulla pelle, ma si trattenne. Quando vide quegli occhi scuri illuminarsi di gratitudine e sollievo, seppe di amarla ancora.

‹‹L’ho fatto per te,›› disse Padmé. ‹‹Voglio che tu ti fidi di me. Io non sono leale al tuo imperatore, ma sono leale a te. Non devi mai dubitare di questo. Ricominciamo di nuovo. Ce la faremo un giorno.›› La sua voce era gonfia di lacrime.

E lo abbracciò di nuovo, stavolta per davvero, schiacciandoglisi contro, tutta piccola, minuta e perfetta, e Anakin non ebbe il coraggio di rifiutarla, seppure non desiderasse altro contatto fisico. Dentro di sé, non riusciva a considerare altro se non quella vibrante, sorda vacuità spaziale che gli aveva occupato il petto. Non conosceva Padmé, e in realtà non conosceva nemmeno sé stesso; forse non si era mai conosciuto. Si arrendeva in quel momento ai molteplici, incomprensibili mutamenti del caso e dell’animo; non aveva la forza né d’amare né d’odiare, e anche Obi-Wan, con quella sua barbetta rossa e la grossa macchia scura sulla testa divennero un incomprensibile geroglifico destinato ad essere dimenticato.

Forse i morti a volte tornavano. Su Tatooine si diceva ai bambini di non avventurarsi di notte nel deserto, se non volevano vedere le anime dei morti levarsi nella notte fredda, irritate per esser state disturbate. A volte, gli era parso di sentire sua madre – come un’ombra che aleggiasse su di lui, attorno a lui. Alcune volte era quasi riuscito a sentirne l’odore. I morti forse non erano del tutto relegati agli oscuri Paesi dell’oblio. Obi-Wan poteva essere ciò, in quel momento – un visitatore notturno, uno spavento di bambino. Poteva esserlo, e Anakin, mentre teneva Padmé tra le braccia, poteva scegliere di renderlo tale.

Ma per il momento preferì semplicemente chiudere gli occhi e affondare il naso nei capelli di Padmé, sentendo che nel vuoto dentro di sé vibravano stringhe armoniose di un po’ di stanchezza, qualche pensiero passeggero e galleggiante, un amore sordo e distaccato, accompagnato da una morbosa, ma non del tutto spiacevole, mancanza di speranza.

VesiSchwartz. Kalispera!!!
Sei andata in grecia O.o!!!
Che invidia, io ci ho lasciato un pezzetto di cuore quando ci sono andata in gita con la mia mitica classe il primo anno del liceo!!!
Spero davvero che ti sia piaciuta, io l'ho trovata meravigliosa!!!
Comunque io non mi posso lamentare, sono appena tornata dall'Irlanda (che nostalgia della mia Galway...)...
Ora, passando alle cose serie, il captolo mi piace moltissimo: come tutte le volte in cui fai confrontare Anakin e Padmé, riesci nonsocome a far emergere i loro veri caratteri - per quanto due personaggi inventati possando avere un vero carattere...ma io sono convinta che ce l'abbiano - sicura di non avere agganci con un certo George Lucas???
Complimenti e complimentoni. E pensare che io sono sempre stata una tipa d'azione, e che in genere i capitoli introspettivi e/o riflessivi non mi appassionavano mai più di tanto... XD
baci baci,
Vesi

PS: scusa se non riesco sempre a commentare. lo vorrei, davvero, ma quest'estate faccio la vagabonda...e quando sono a casa, i miei mi rompono che devo finire quella valanga di versioni di latino e greco che mi aspettano...e pensare che mi asfissiano già durante l'anno scolastico, sigh!!! ;P

irydionlover93. Come VesiSchwartz, anch'io non riesco sempre a recensire (purtroppo!) perché d'estate sono sempre via...a volte muoversi così tanto risulta anche stancante! :D
Tuttavia, eccomi qui, in partenza per la Tunisia, ma senza potermi impedire di commentare su un altro, splendido capitolo! La storia è sempre più accattivante, e ora non so davvero più dove tu voglia andare a finire. In questi due ultimi capitoli hai tirato fuori un elemento, per me, di novità assoluta che non credo di aver mai trovato in altre ff su Star Wars...in tutte le storie, che Anakin resti un Jedi o no, l'amore grande e complicato tra lui e Padmé è sempre, in tutto quello che succede, l'unico punto fermo della storia...è sempre lì, indistruttibile, a lasciare uno spiraglio di speranza e felicità ai personaggi (e al lettore)...invece in questi due capitoli per la prima volta l'ho visto messo in discussione, e quindi ora sono davvero preoccupata per quello che potrà succedere poi!!
Mi è piaciuto molto l'accenno al fatto che Anakin permetta soltanto a Padmé di chiamarlo ancora "Ani"...quella era una riflessione a cui non avevo pensato, e che nella visione ormai distorta su tutto di Anakin purtroppo calza alla perfezione :( bellissimo e azzeccatissimo secondo me anche come hai descritto la loro relazione durante la Guerra dei Cloni...il fatto che si conoscessero pian piano, e che cmq ci fossero sempre quei momenti di improvvisa timidezza tra di loro...
bello bello bello!! accidenti al mio viaggio che m'impedirà di aggiornarmi regolarmente...terrò le dita incrociate per i miei adorati fino a settembre!
Buon proseguimento di vacanze, e ancora complimenti!

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Capitolo 7
*** Sette. ***


Sette.

 

 

Il caldo iniziava a morire. Riusciva già ad odorare nell’aria i gialli e i bruni dell’autunno. Presto la regione sarebbe stata visitata dalla prima folata di vento autunnale; l’inverno avrebbe bussato alla porta poco dopo. Ma il lago di Varykino era circondato da schiere di austeri sempreverdi che avrebbero resistito l’attacco delle stagioni; e l’anno successivo, in primavera o forse d’estate, sarebbero stati ancora lì immutati ad aspettarla. Varykino l’avrebbe sempre aspettata.

I suoi pensieri crepuscolari s’attardarono a lungo sulle sfumature degli occhi di Anakin, sui cambiamenti impercettibili della sua voce e su quella strana energia che solo lui sapeva emanare; le parole della loro discussione si ripeterono nella sua mente, ma dopo un po’ non pensò più nemmeno a quello. Il paesaggio lacustre cominciò a mutare sotto i suoi occhi. Nel buio tra i fitti alberi s’andarono ad infilare ombre minacciose. Era come se stessero nascondendo qualcuno.

Nascondevano Obi-Wan. La stava osservando. Era pronto a sbucare da là fuori e distruggere la sua vita, stavolta per davvero. O non l’aveva già fatto? Padmé non lo sapeva ancora. Com’era stato il rapporto tra lei e il Jedi? Un’amichevole confidenza, nient’altro; una fiducia ammantata di affettuosa familiarità. Come sta, maestro Kenobi? Chiamami Obi-Wan, Padmé. Non lo aveva saputo nessuno dei due a quei tempi che sarebbe finita così. Ma da quando era nato l’impero, erano complici di un piano comune. Il piano si chiamava Libertà (o Giustizia, spesso coincidevano). Erano le guardie in esilio; quelli che avrebbero serbato il ricordo del mondo che c’era stato prima, e che un giorno avrebbero visto il ritorno della libertà. Ma quando sarebbe successo? E lo avrebbero visto? Un giorno la libertà sarebbe ritornata, forse senza le loro firme.

Padmé aveva fatto bene. Su questo non c’era alcun dubbio. Non avrebbe mai potuto lasciare che Anakin uccidesse Obi-Wan. Non poteva lasciare che un’altra parte di Anakin morisse sotto i colpi della sua furia suicida. Questo Anakin non l’avrebbe mai capito; e se l’avesse capito lo avrebbe liquidato come i soliti sentimentalismi tipici di sua moglie. Sei troppo emotiva, Padmé. No, non lo sono. Sei un’idealista, e una sentimentale. Io non sono nessuna delle due. No, davvero. Credimi. Ma ti amo per questo. Ti amo. Ti amo.

La vita di Obi-Wan era più di un assillo per Anakin: era il suo passato, il fatto che Anakin sì, era stato un padawan un tempo. Finché Obi-Wan avesse respirato, ciò sarebbe stato impossibile da cancellare. Ogni volta che i suoi pensieri lo avrebbero ricondotto ad Obi-Wan, Anakin avrebbe ricordato il suo passato. Salvandolo, Padmé aveva salvato il Maestro, Anakin il padawan, se stessa, tutto quanto. Si sentiva piena di gioia.

Sorrise finché non le fecero male i muscoli del viso, sentendo sulla fronte rotonda gocce di meravigliosa pioggia profumata di autunno. Si alzò dalla poltrona con uno scatto da bambina.

Scusami per quello che ho fatto. Ma vedi, ho fatto la cosa giusta. E sono proprio convinta di questo. Voglio dire, è lampante che io abbia fatto la cosa giusta, e se tu ora sei come sei – bè, è un problema tuo. No? Ho salvato una vita. (Che l’abbia salvata da te, è ininfluente). Ho salvato anche te. Anche te. Te.

Corse giù per il giardino, superando terrazzine, gradini e praterelli (com’erano piacevoli le macchie delle aiuole, quando le si superavano!) e infine la pietra scura e umida del molo: quindi si fermò sul bordo, dondolandosi sugli avampiedi e recuperando il fiato mentre guardava verso il sole enorme e giallo poco sopra l’orizzonte. Quindi chiuse gli occhi e si tuffò nell’acqua sempre fresca, sentendosi percorsa da un’elettricità allegra e impenitente. Iniziò a nuotare nell’acqua caramellata del tramonto. Pareva proprio caramello, come quello che si lasciava scivolare sui dolci freddi. Sua madre, Jobal, aveva la ricetta di un meraviglioso semifreddo con salsa al caramello. Se lo sentiva sulla punta della lingua, e per quanto avesse provato a farlo mille volte non le era mai riuscito di farlo esattamente come veniva a sua madre. Ma Anakin pensava che fosse il dolce più buono che avesse mai mangiato. Posso averne altro? Gli allenamenti mi lasciano affamato. Potrei mangiare un budino grande quanto te. Forse potresti mangiare proprio me. Sono d’accordo.

Attorno a sé aleggiavano i lembi azzurri della sua veste. Pareva una grande medusa. Il sole tramontò sopra di lei, mentre i pensieri fuggivano dalla sua testa. Ora aveva la certezza che sarebbe andato tutto bene. Sorsero le due lune. Poi il lago iniziò a spumeggiare. Iniziò a ribollire di schizzi e fiotti impossibili, finché non fu un’immensa distesa di spuma bianca e scintillante sotto la luce lunare; le onde, che ora odoravano di salmastro, s’alzarono minacciose in arabeschi scuri, andarono a lambire le montagne, la villa e le terrazze, e infine la sommersero, finché il cielo non fu più visibile, e Padmé seppe che sì, non c’era via di fuga (da quella vita, dalla sua vita), non c’erano spiegazioni (Milady, si svegli…), che lei sì ci sarebbe morta…

 

‹‹Milady. Milady, si svegli. Inizia a far fresco. Milady.››

‹‹Voglio nuotare…aiutami, Anakin…››

Il suono della propria voce risvegliò completamente Padmé, che scoprì su di sé la presenza di un’accorata Dormé già in vestaglia. Era già notte. Il cielo era nero e trapunto di migliaia di stelle. Il lago era perfettamente calmo; lei, asciutta seppure infreddolita dalle brezze serali. Dormé le passò uno scialle di lana.

‹‹Sembra già Arah Samna,1›› commentò Dormé mestamente.

‹‹E’ tornato?››

Dormé scosse la testa e si mise a sedere sul divanetto, ai suoi piedi. Le appoggiò una mano sul ginocchio con la sua solita, delicatissima grazia, e con voce gentile le chiese ciò che Padmé aveva cercato di evitare tutto il giorno. ‹‹Avete litigato, vero?››

Padmé medito sulla possibilità di confessarle ciò che era successo la notte prima; eppure, non appena i suoi pensieri ritornarono agli eventi della notte prima, e del mattino al suo risveglio, un martellante mal di testa, un senso opprimente d’ansia e un desiderio confuso ma netto di fuga la invasero, e nella sua bocca le parole giuste si rifiutarono di assemblarsi, sicché rimase agitata e silenziosa e non poté far altro che annuire. Lo sguardo di Dormé divenne inquisitivo, e Padmé cerco nelle scanalature tra le mattonelle la via della fuga.

‹‹Che peccato. Tutto andava così bene fino ad ieri. Ma se ne voleste parlare, io, e le altre, siamo al vostro servizio, milady.››

Forse furono queste parole, o forse la stanchezza nervosa che si sentiva addosso, e l’atmosfera ancora sognante in cui era piombata, che composero la confessione che recitò a Dormé; una confessione sincera che acquistava in verità via via che riusciva a trovare le parole per formularla.

‹‹Questa volta è diverso. Io…io credo di essere cambiata, Dormé. Non è che non capisca la sua rabbia. Il problema è questo, che la capisco. Se fosse successo a me – se fosse successo a me, se fossi stata io al suo posto, se lui avesse fatto quello che ho fatto io, io sarei infuriata quanto lui. In questo momento, starei facendo quello che sta facendo lui. Capisci? Il problema è che io capisco. Io ho fatto la cosa giusta, eppure non riesco…›› e in quel momento notò l’espressione incuriosita e confusa di Dormé e non fu capace di andare avanti. ‹‹Devi perdonarmi. Non posso parlartene finché non avrò capito io cosa è successo. So solo che anche se ho fatto la cosa giusta, mi sento come se avessi fatto la cosa sbagliata, e questo non sarebbe successo qualche mese fa. Ho paura di star cambiando. Oh, non lo so nemmeno io di cosa ho paura.››

E rimase in silenzio.

Anakin era sparito. Dopo la loro conversazione, e quella fredda riappacificazione che erano riusciti a raggiungere grazie alla languida insistenza di Padmé, Anakin se n’era andato, aveva scambiato quattro parole tese con le guardie e non si era più fatto vedere per il resto della giornata. Se lo immaginava chiuso nella rimessa del cascinale, chino sui suoi inesauribili, sempre incompleti progetti di meccanica, inseguendo l’illusione di esser capace di riparare ogni cosa (o, almeno, un sistema di latta); conosceva perfettamente la ruga tra gli occhi da stratego frustrato mentre i pezzi di ferro andavano al loro posto, e quelli della sua vita no.

Dormé pareva all’improvviso un po’ a disagio. Le due donne rimasero lì sul terrazzino per vari minuti; ognuna inseguiva i suoi pensieri segreti. Il piede di Dormé batteva un ritmo veloce e silenzioso sul pavimento. Alla fine, Dormé iniziò a parlare, prima inceppandosi sulle parole, poi acquisendo sicurezza, e si mise a raccontarle, tenendosi tutto il tempo le mani intrecciate sulle ginocchia che, in sintesi, Anakin le dava i brividi, anche se giurava che un tempo non era stato così, e che era preoccupata per quello che sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate avanti a quel modo per molto altro tempo.  Quindi parve sul punto di dire qualcosa – qualcosa di molto grande e importante – ma chiuse repentina la bocca, e di nuovo calò tra di loro il silenzio.

‹‹Perché mi dici questo?›› chiese Padmé con gentilezza.

‹‹Anakin è…›› Ma non ebbe il coraggio di terminare il suo pensiero.

‹‹C’è qualche motivo per cui mi stai raccontando queste cose?››

Gli occhi di Dormé diventarono grandi come piattini, e anche se scosse il capo per dire no, la maniera in cui si leccò le labbra disse a Padmé la verità. Prima del cinque-venticinque2, i rapporti tra Dormé ed Anakin erano stati rilassati ed amichevoli, in seguito inesistenti, poi, d’improvviso, nervosi. Ora era ad un passo dal sapere perché.

‹‹Dimmi cosa è successo, Dormé,›› sussurrò Padmé.

Dormé le offrì un sorriso nervoso, si ritrasse un po’ e sembrò insicura sul da farsi; parve essere sul punto di andarsene, ma alla fine si lasciò andare contro lo schienale e tirò un sospiro. Quindi iniziò a parlare a bassa voce.

‹‹E’ successo quando voi non c’eravate più, la sera prima che nascessero i gemelli…mi svegliò. Era una furia. Ma non ricordo cosa mi ha detto – credo mi abbia ipnotizzata. Mi ricordo di essere rinvenuta nell’hangar di 500 Republica. Quando sono salita nell’appartamento lui non c’era più.››

‹‹Ti ha fatto qualcosa?››

Scosse la testa. ‹‹No. Ma era tanto infuriato. Era spaventoso. Era come una…belva, una belva feroce. Non ascoltava ragioni.››

Padmé rilassò la nuca e si mise le mani tra i capelli per massaggiarsi lo scalpo con i polpastrelli. Avrebbe potuto anche fare a meno di quell’informazione in quel momento; allo stesso tempo, non poteva dirsi sorpresa. Era inutile cercare di convincersi che fosse una memoria fabbricata dall’immaginazione di Dormé, o che Anakin non sarebbe mai stato capace di essere violento; quel piccolo racconto quadrava perfettamente con lo stato agitato e ferino in cui Anakin si era trovato tutto quei giorni.

‹‹Mi dispiace che tu abbia dovuto conoscere quel lato del suo carattere.››

Dormé scosse il capo. ‹‹Anakin è instabile, milady. Non è normale…››

Quelle parole avrebbero fatto infuriare Padmé in qualsiasi altra occasione. Se qualcuno – chiunque – si fosse mai preso la confidenza di parlare in quel modo di Anakin si sarebbe dilungata in un’accorata difesa del marito, perché lei sapeva che Anakin non era davvero così. Eppure ora le parole di Dormé registravano un silenzio dentro di lei. Non aveva cosa rispondere. Lei stessa non si sentiva granché stabile.

 

Quella sera Anakin non tornò. I sogni di Padmé stavolta furono surreali e felici. In una larga piazza soleggiata, migliaia di persone s’incontrarono per godere della bella luce del sole, ognuno ondeggiando al suono di una musica vivace di festa; e Padmé, lì in mezzo a loro, ritrovava la luce che le pareva d’aver perso tutta la sua vita. C’era buon cibo sulle tavolate, bambini che giocavano ai guerrieri, bambine con mille nastri tra i capelli, un odore di fiori e vino e musica di fisarmoniche e violini; Luke e Leia avevano quattro o cinque anni, e giocavano con la sua bisnonna, Silidar; l’aristocratica, elegantissima, bionda Silidar, nata cento anni prima di lei, venuta da Alderaan e per sempre immortalata nelle rime del poeta Baji Rao. C’erano molti dei suoi parenti, tra quei visi festosi, e ognuno aveva belle e pacifiche parole da scambiare con lei, e nessuno parlava di imperi galattici, o tempi oscuri.

Furono le urla dei gemelli, quelli veri e di soli tre mesi, a richiamarla da quella celebrazione della vita; a malincuore, Padmé s’accorse che ora anche le stanze della villa di Varykino le parevano una prigione. Quando ebbe calmato i gemelli, vegliò sul loro sonno finché non fu l’alba, e Moteé venne  qualche minuto dopo a vegliare a sua volta su di lei che s’era addormentata; al risveglio, le disse che le era sembrato d’aver visto – ma sicuramente si era sbagliata, con quel buio che c’era! – ecco, che le era sembrato d’aver visto Anakin nel giardino. Glielo disse con un fil di voce ansioso, e solo quando si guardò allo specchio Padmé capì il motivo di quelle incertezze: il suo aspetto era impresentabile.

Vi era poi un motivo per quel pallore? Dopotutto, il confronto della mattina precedente non era terminato in urla o strozzamenti. Sembrava quasi che avessero raggiunto una pacifica, civilissima impasse. Con tutta probabilità, a spaventarla doveva essere il fatto che le dita di Anakin sulla sua pelle, in mezzo a quello svogliato abbraccio che s’erano scambiati alla luce dell’alba, erano state gelide, distanti e (ora lo sapeva) fin troppo pacifiche. Quando qualcuno come Anakin si comportava in quella maniera vi era solo ogni motivo per preoccuparsi ancora di più. L’abbraccio di Anakin era stato un affare diplomatico.

L’assenza di Anakin era, come al solito, ancora più ingombrante della sua presenza. Vi era, aggiunto al generale malaise del sapere che tra lei e Anakin s’era aperta una nuova, profonda crepa, una vaga inquietudine nata dal non sapere dove fosse suo marito in quel momento, o cosa stesse facendo (una considerazione resa spaventosa anche dalla consapevolezza del suo immenso potere e del suo carattere distruttivo).

A metà mattina, 3PO stava leggendo ai bambini una storiella (‹‹E il grosso parlaan ruggì: “o voi bambini cosa siete venuti a fare nella dimora del…” - oh padrona Padmé, mi perdoni per il baccano, era ovviamente voluto a fine educativo…potrei citarle ben 4.311 pubblicazioni scientifiche sui benefici della lettura espressiva ai bambini in età infant-››) quando Padmé entrò per la centesima volta nella nursery, si diresse al confuso involto che aveva lasciato su uno scaffale e ne estrasse le due scatolette di metallo che Obi-Wan le aveva lasciato quella notte. Ne conosceva ormai a memoria il contenuto.

In una brillavano due cristalli di kiber, più preziosi e luccicanti di diamanti, doni “da Jedi ad altri Jedi”; nell’altra, due minuscoli repositori di memoria olografica la guardavano accusanti, promettendo di mostrarle tutta la verità di quello che era successo al Tempio. Non aveva il coraggio di estrarre dal loro comodo cuscinetto i due cristalli, né aveva il coraggio di guardare i due ologrammi. Li aveva trovati – momento terribile! – il giorno prima, quand’era tornata dalla cascina delle guardie; era rimasta mezz’ora in timida contemplazione di quel piccolo, terribile tesoro. Presero a tremarle le dita non appena le avvicinò al primo dei chip; e girò il capo istintivamente un paio di volte nella direzione dell’ufficio, dove si trovava l’unità di lettura olografica, rabbrividendo al solo pensiero di poter prendere quei chip e vederne il contenuto. No, quelle cose dovevano rimanere lontane dai suoi occhi, per sempre sepolte! Non avrebbe mai guardato quegli ologrammi.

Quattro mesi si condensarono in un giorno, e il passato sembro alitarle sul collo. Non erano passate che poche ore dal momento in cui era morta la repubblica; non erano passate che poche ore da quando Anakin era tornato da lei, mutato in una belva feroce. Il passato sarebbe sempre stato così. Aveva mai pensato di poter dimenticare? Finché ci fosse stato Obi-Wan, anche lei avrebbe dovuto per sempre ricordare il passato. E il fallimento di Anakin le appariva mai come allora lo specchio del suo proprio fallimento. Se solo lei fosse stata capace di salvarlo, se solo lei fosse stata capace di prevenire…perché lei avrebbe potuto, lei avrebbe dovuto…E incapace di fare altro se non perdersi tra i suoi incubi, riavvolse in fretta le due scatole e le nascose in una cesta di abiti infantili.

Anakin tornò quella sera, il culmine di due dei giorni più surreali e silenziosi della vita di Padmé. Riapparve in cucina, con gli occhi che vagavano vacui su ogni singolo pezzo di mobilio. La pelle abbronzata non nascondeva il pallore, e pareva stanco e rattrappito su sé stesso, come un vecchio. Tutte le domande che avrebbe voluto domandargli evaporarono nella sua testa quando lo ebbe davanti, e provò un sentimento terribile che somigliava alla pietà.

‹‹Ciao, Padmé.››

‹‹Anakin…!›› e poi, con più calma: ‹‹Dove sei stato?›› gli chiese, cercando di mantenere il tono della sua voce quanto più leggero ed informale potesse, come se gli stesse chiedendo dove fosse andato per un paio d’ore invece che per un paio di giorni. Per ribadire la sua totale estraneità ad ogni sospetto, non smise di mescolare il brodo. ‹‹I bambini sono di sopra, con Dormé e 3PO…›› aggiunse in fretta, per riempire il silenzio.

‹‹Ho comprato dei pezzi,›› rispose lui. ‹‹Ora devo andare a farmi un bagno.››

Diede un’occhiata alla pentola in cui Padmé cucinava il brodo chiaro, poi afferrò una mela dal cesto della frutta e se ne andò. La vista di lui la riempì di angoscia, così come il suo andarsene via, il mantello scuro che oscillava dietro di lui, gli stivali rumorosi contro il pavimento. Padmé non tentò nemmeno di seguirlo.

Si svagò facendo il bagno ai bambini dopo cena. Iniziò il rituale con Luke, che accettò di buon grado di essere svestito e meticolosamente deterso nell’acqua tiepida. Padmé aveva appoggiato la piccola vasca per neonati su una delle mensole del grande bagno padronale, giusto sotto la finestra da cui si vedevano le stelle, così che ogni volta che alzava lo sguardo dal suo bambino vedeva davanti a sé le scure montagne attorno al lago e il cielo notturno. Riusciva ad immaginarsi di vedere un giorno Luke sfrecciare col suo speeder in quel cielo, allontanandosi verso le sue avventure e ridacchiando delle preoccupate premure della madre. Avere dei figli non faceva che proiettare i genitori nel futuro.

E allora iniziavano le fantasticherie: un giorno sicuramente Luke, come ogni buon figlio, l’avrebbe trovata un po’ noiosa, un po’ severa e un po’ troppo apprensiva, mentre lui non avrebbe desiderato altro che partire per quel cielo alla velocità della luce. Mentre lavava il suo piccolo corpo paffuto, Padmé si meravigliò ancora una volta del miracolo della crescita e della maturazione; perché un giorno Luke sarebbe stato molto più alto di lei, con folti capelli biondi, bei lineamenti maschili e due occhi blu che avrebbero fatto innamorare tutte le donne. E sarebbe stato un uomo buono, compassionevole, gentile e amante della vita; sarebbe stato Luke, l’onorabile figlio di Padmé Amidala di Naboo.

‹‹A guh,›› articolò Luke, agitando un po’ le braccine verso di lei e poi regalandole un suo sorriso.

‹‹A guh?››

Luke sorrise e poi scoppiò a ridere per la prima volta. Non lo aveva mai fatto prima, mai davvero, in quella maniera assolutamente autentica e divertita che esponeva al mondo l’unico dentino bianchissimo. Padmé posò giù la salvietta, s’asciugò il viso dagli schizzi e rise a sua volta. Le loro risate si fusero insieme, la sinfonia più meravigliosamente cacofonica dell’Universo: il riso profondo e senza fiato di Padmé, e i brevi ma continui ed acuti scoppi di ilarità del piccolo. Un paio di smorfie e una linguaccia le valsero un’altra e un’altra sessione ancora di risate, e gli sganasciamenti di Luke divennero belluini quando Padmé prese a solleticargli lo stomaco.

‹‹Trovi mamma divertente, eh? Bene. Io non mi sono mai trovata molto divertente.››

Le loro risate insieme ebbero il meraviglioso effetto di cancellare dalla sua mente qualsiasi preoccupazione. Il mondo non sembrava – non poteva essere – troppo buio se poi regalava momenti di tale assoluta, perfetta felicità. Se fino a poco prima aveva pensato ad Anakin, ai suoi occhi vuoti, ai chip olografici, alla fuga di Obi-Wan, ora tutto ciò le appariva lontano e trascurabile, cancellato dalla suprema immanenza della risata di Luke.

Con nuova energia Padmé riprese il bagnetto del bambino, sollecitando in lui spontanee eruzioni di ubriaca ridarella ogni qual volta lo solleticava; infine lo avvolse in un asciugamani, baciò via le gocce d’acqua dal suo viso e massaggiò secondo tradizione il suo corpo con gocce d’olio di shuura.

‹‹Ti piace? Piaceva anche a me…››

Luke all’improvviso divenne agitato, alzò le braccia e le gambe in aria e scosse il capo, serrando la bocca e spalancando gli occhi. Quando Padmé alzò il capo e si girò per vedere cosa potesse star agitandolo, magari una zanzara o una corrente d’aria, registrò immediatamente la presenza di Anakin sulla soglia; eppure, sorpresa, non riuscì ad evitare di fare un salto scomposto all’indietro quando capì chi era.

‹‹Scusami. Non pensavo tu fossi qui.›› Le grosse occhiaie che aveva sotto gli occhi bastavano a Padmé per capire che aveva trascorso le ultime ore in discussione col suo padrone.

‹‹Devo ancora fare il bagno a Leia,›› rispose illogicamente Padmé.

Anakin annuì. Un movimento del piede sinistro le indicò che era sul punto di andarsene, ma il piede destro continuava a rimanere puntato verso di lei. Come sempre, Anakin compariva sugli usci, a metà tra l’andarsene e il venire da lei. Sarebbe stato così sempre. Anakin era l’uomo per sempre in bilico.

‹‹Potresti portarmela? Io ho finito qui con Luke. Se tu lo portassi a letto mi faresti un favore.››

La sua voce sorprese anche Padmé; Anakin si riscosse dalla sua misteriosa contemplazione e s’avvicinò a passi timidi a lei e il bambino. Padmé nascose il viso dietro la paratia dei suoi capelli, e abbassò lo sguardo sulle sue mani che finivano di abbottonare il pigiama di Luke, quindi fece un passo indietro e permise ad Anakin di prendere il bambino e portarlo via.

Rimase lì ferma, appoggiata alla superficie fredda del marmo mentre curiosava nel buio fuori dalla finestra. Una zanzara, una delle ultime per quella stagione, s’avventò su di lei ma terminò in fretta spappolata sul marmo, spillando una quantità oscena di sangue sul bianco e sul rosa della pietra. Padmé ne ripulì in fretta il cadavere.

Anakin tornò poco dopo, con Leia in braccio che si tormentava il pugno. Gliel’affidò in fretta, facendo sfiorare le loro braccia per il più breve, timido contatto, e rimase lì indeciso sul da farsi mentre Padmé la spogliava del suo vestito.

‹‹Potresti aiutarmi a farle il bagno,›› offrì Padmé sottovoce. ‹‹Potresti rimanere qui…››

E Anakin non se ne andò. Leia s’agitò tutta quando capì cosa la stava aspettando, scuotendo le braccia e le gambe e minacciando di piangere lamentosamente non appena fu a contatto con l’acqua (che pure era alla temperatura perfetta e profumata), rivolgendo quel suo visetto perfetto e gli occhi scuri speranzosi ad entrambi i genitori, come se stesse chiedendo loro una spiegazione per quella tortura. Spinse via il braccio di Padmé con la manina tre o quattro volte, finché non s’arrese al suo destino e lasciò che la madre le pulisse il viso.

‹‹Non è così male, no?...›› sussurrò Padmé mentre lasciava scorrere un po’ d’acqua sui pochi capelli della bambina. Per qualche momento non ci fu altro suono nel bagno che lo sporadico grido di protesta di Leia e il suono della salvietta intrisa d’acqua. Da fuori giungevano i rumori della notte: insetti canterini, il tubare di uccelli notturni, il suono della fontana nel giardino; e, sopra di loro, i passi di un androide domestico che faceva le pulizie. Dopo un po’, Padmé non riuscì più a sopportarlo. Posò giù la salvietta, sospirò e si girò per guardare in viso Anakin.

‹‹Anakin, ascolta…››

Lo sguardo cupo di lui la fece quasi desistere dal suo intento; il cuore le palpitò in petto. All’improvviso voleva dirgli tutto quello che non aveva detto la mattina prima, snocciolare il suo accorato discorso, quello che aveva formulato e ripassato durante quegli ultimi due giorni e che lo avrebbe convinto senza ombra di dubbio della sua onestà. Cos’era Obi-Wan, tra di loro? Cosa importava quello che era successo? Era tutto successo in meno di un’ora, e come potevano sessanta minuti influire sul loro rapporto in quel modo? Era disposta di nuovo a chiedergli scusa, qualsiasi cosa, se solo lui avesse ricominciato a comportarsi come aveva fatto fino a due giorni prima, quando era l’uomo più amabile, gentile e…

‹‹Non parliamone, d’accordo?›› disse Anakin. ‹‹Non c’è più nulla da dire. Non ho intenzione di parlarne. Quello che è successo…››

‹‹Non possiamo lasciare quello che è successo in sospeso…››

‹‹Non c’è nulla in sospeso,›› replicò lui. ‹‹Abbiamo parlato fin troppo.››

‹‹Ma Anakin…››

Anakin s’infilò le mani nei capelli con un gesto di stizza e un’espressione di noia. ‹‹Oh Padmé, lasciami in pace, vuoi?››

Le parole di Anakin la bruciarono. Forse aveva tirato su aria tra i denti, come si fa quando ci si scotta, perché Anakin le lanciò un’occhiata in tralice un po’ sorpresa; ma nessuno dei due disse più nulla. Dopo qualche istante, Padmé dovette mentalmente rimproverarsi, perché i suoi movimenti sul corpo della bambina erano diventati sbrigativi e indelicati. Riapparve all’angolo dei suoi occhi il bruciore familiare delle lacrime, e proprio quando sentiva di essere sul punto di scoppiare a piangere, proprio lì nel bagno sotto gli occhi di Anakin e Leia come una qualunque massaia frustrata, Leia la precedette e iniziò a urlare tutta la sua insofferenza.

‹‹No, Leia, no…Perché fai così? Dopo ti leggo un libro, ti leggo un libro se vuoi…››

La tolse dall’acqua, l’avvolse in un asciugamano tiepido e l’asciugò per bene, mormorando parole di conforto. Ma era inutile: la bambina si rifiutava di calmarsi. Il suo visetto era deformato dalla rabbia. Padmé si sentiva prossima al tracollo, lì lì per iniziare a singhiozzare assieme alla figlia e Anakin che fino a quel momento era parso a disagio, forse spronato da un’occhiata disperata di Padmé, s’avvicinò ad entrambe e poggiò la sua mano vera sulla testa della bambina. Leia smise subito di piangere.

‹‹Questo…›› disse Padmé, gesticolando in direzione di Anakin e Leia, ‹‹io non posso farlo. Grazie.››

‹‹Lascia che finisca io.››

Padmé, sollevata, si fece da parte mentre Anakin iniziava a massaggiare la bambina con l’olio. Stendeva ogni paffuta piega di pelle e la cospargeva con l’estratto profumato; teneva la testa della bambina con la sua destra guantata e la massaggiava con la sinistra. C’era qualcosa di profondamente, meravigliosamente intimo in quel momento di silenzio. C’era ancora un senso nell’universo, contenuto nell’eterna, risoluta ammirazione negli occhi di Leia per il padre.

‹‹Anche mia madre mi faceva i massaggi con l’olio. Me li fece fino a quando non ebbi tre anni.›› Anakin non alzò il viso mentre raccontava, ostinandosi ad evitarla. ‹‹Poi divenni troppo saccente per sopportarli. Ero un piccolo prodigio saccente. Ma faceva bene alla pelle, evitava che si seccasse troppo con il caldo, e la sabbia…››

Il meticoloso lavoro di Anakin alla fine fu concluso. Rivestì Leia ed ebbe la delicatezza di fare un fiocco coi due nastri color avorio che completavano la camiciola da notte della bambina. Padmé, ora accanto a lui, accarezzò con un dito la guancia della piccola.

Nonostante tra i loro corpi ci fossero meno di cinque minuti, una sgradevole elettricità intercorreva tra di loro, tenendoli opposti e intoccabili. Erano cinque centimetri incolmabili; ma com’erano vicine le loro mani, sul corpo di Leia! Così vicine che se Padmé avesse anche solo allungato un po’ il pollice in basso avrebbe incontrato quello di Anakin; eppure, all’improvviso, non aveva voglia di scoprire cosa sarebbe successo se l’avesse fatto. Anakin era intoccabile in quel momento. Nonostante quello, fu lui a parlare per primo.

‹‹Parto tra un’ora per Coruscant. Non voglio obbligarti a venire. Puoi fare quello che vuoi.››

‹‹Perché parti adesso?››

‹‹Devo discutere di cose importanti con l’imperatore di persona.››

Padmé non riuscì a contenersi. ‹‹Riguarda Obi-Wan? Quello che è successo…?›› Ebbe paura; nella sua testa s’affastellarono immagini di una brutale punizione, una terribile tortura, un grande dolore; s’aggrappò senza saperlo al braccio di Anakin, guardando in su, sentendolo più alto e inarrivabile che mai. ‹‹Anakin no -››

‹‹Il mio Maestro non è felice.››

‹‹Ma non potevi…››

‹‹…mentire?›› Anakin sorrise cupo. ‹‹Impossibile.››

‹‹Cosa vuole da te?››

‹‹Parlare. Soltanto quello.››

Il suo sguardo si fermò da qualche parte tra la finestra e la bambina, che ora pareva vicina al sonno, cullata dalla mano grande di Anakin appoggiata delicatamente sul suo petto.

‹‹Anakin, e se…››

Anakin scosse la testa. ‹‹Non ti preoccupare. Non dirà nulla su di te. Non ti succederà nulla.››

‹‹Io sono preoccupata per te, Anakin! Quell’uomo è folle, potrebbe…››

Lui parve quasi sorpreso dall’agitazione di lei, ma scrollò le spalle, parendo quasi annoiato dalle preoccupazioni di Padmé. ‹‹Non mi succederà niente.››

E lo disse con una tale tranquillità che Padmé avrebbe quasi potuto credergli. Tutta quella faccenda le dava un brutto presentimento. Sarebbe successo qualcosa. Una catena d’eventi era stata messa in moto il momento in cui aveva liberato Obi-Wan delle sue manette. Volle dire qualcosa ad Anakin, che si era rinfilato il guanto; ma stupefatta rimase lì ferma.

‹‹Vuoi che venga con te o vuoi che ti lasci in pace?››

Anakin abbassò lo sguardo, contemplando il marmo, l’asciugamano e la loro bambina. ‹‹Voglio che tu venga con me.››

 ___________________________

1. Naboo è un luogo molto esotico. In generale ho applicato a Naboo un’impostazione sumero-babilonese in tema d astronomia, russa/mediorientale in toponomastica e indiana/egiziana in onomastica.

                            2. Si riferisce alla data della fondazione dell’Impero Galattico.

 

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Capitolo 8
*** Atto Secondo - Otto. ***


Otto

 

 

 Alderaan

Qui-Gon gli apparve davanti agli occhi mentre meditava, nello stesso luogo in cui l’avevo visto la prima volta. La penisola del Re era un canto spiegato di primavera, e proprio lì, tra gli alberi dai tronchi coperti di muschio, l’erba folta e le campanule azzurre ecco che apparve il suo antico, carissimo maestro. Il tramonto dai colori delicati era già passato, e il cielo andava oscurandosi sopra alle fronde fitte del bosco, così che la luminescenza del Maestro appariva tanto più accesa, spargendo i suoi riflessi sulla Natura che lo circondava. Per quanto straordinaria, la sua presenza non stonava con lo sfondo, ma pareva anzi naturale, sensata, familiare, come se Qui-Gon non fosse un’anima nella Forza ma un’emanazione delle piante, dell’acqua e del cielo.

Interrotta la sua meditazione, Obi-Wan salutò la figura chiara del Maestro con un groppo in gola.

‹‹Maestro,›› disse. Gli fece eco una specie di gufo, lontano. Girandosi appena, guardando oltre il lago, Obi-Wan ricevette uno scorcio lucido del palazzo di Aldera, accertandosi di essere ancora nello stesso luogo di prima; quindi rivolse interamente la sua attenzione al visitatore.

‹‹Obi-Wan,›› ricambiò Qui-Gon, tenendo le braccia conserte e un sorriso mite sulle labbra. ‹‹Come stai adesso?››

‹‹Ho fallito di nuovo,›› commentò cupo Obi-Wan.

‹‹O forse,›› disse Qui-Gon, spostandosi a passo leggero tra gli alberi, ‹‹non era scritto che tu avessi successo.››

Obi-Wan non rispose; invece, rivolse il suo viso al terreno umido sotto i suoi stivali. Dopo qualche istante di contemplazione, Obi-Wan parlò di nuovo, non riuscendo a mascherare il suo rammarico nel tono della voce. ‹‹Se sono qui è solo perché Padmé mi ha liberato. Anakin è esattamente ciò che il nostro Prescelto dovrebbe distruggere – è un Sith, e non c’è nulla da -››

‹‹Continui ad essere fuori strada. Se ti avesse davvero voluto morto, non saresti qui.››

‹‹Ma-››

Qui-Gon alzò il braccio, un gesto stranamente imperioso, al quale Obi-Wan dovette obbedire immediatamente. ‹‹E Anakin è il Prescelto. Su questo non vi è dubbio,›› commentò, con un tono leggero, come se stesse disquisendo su una questione teologica. ‹‹È lui il vessillo della Forza.››

Rimasero in silenzio entrambi. Qui-Gon si sedette su un grosso ceppo. Ora che lo incontrava nuovamente, Obi-Wan ne poteva apprezzare di più la miracolosa presenza: il fantasma era insieme etereo e corporeo. I suoi movimenti non avevano peso, eppure imprimeva sul tronco un peso reale. Per un istante, si chiese come sarebbe stato avvicinarsi a lui, o se fosse anche solo possibile; o come sarebbe stato avvicinare a lui una mano e toccarlo. Ricordava bene, a distanza di anni, il tocco leggero della mano di Qui-Gon sulla sua spalla; e ora ne sentiva una terribile mancanza. Ma doveva ancora parlare, e così fece.

‹‹Ha due figli. Sono loro la nostra speranza,›› disse Obi-Wan. ‹‹Se noi riuscissimo a prenderli – se noi riuscissimo a -››

Qui-Gon parlò brusco. ‹‹Non continuare a parlare in questo modo. Sprechi il fiato. Luke e Leia, per quanto potenti, non possono riportare l’equilibrio. Solo Anakin può compiere la profezia; e lo farà quando sarà giunto il suo momento.››

‹‹Ma Qui-Gon, come possiamo aspettare e guardare mentre i Sith sono al potere?››

‹‹Pazienza, Obi-Wan. Uno dei più importanti precetti dei Jedi. Non ti ha forse detto lo stesso anche il maestro Yoda?››

A queste parole, Obi-Wan rimase silenzioso. L’espressione di Qui-Gon era però serena, gentile, come se stesse istruendo un bambino che ancora non riusciva a cogliere esattamente il significato della lezione; e allo stesso tempo era estremamente fiduciosa. Seppure avesse il corpo, i lineamenti e la voce del suo Maestro, il fantasma davanti ai suoi occhi esisteva in una dimensione nella quale l’ansia non trovava posto, e nemmeno la tristezza, o il dolore. Intoccabili e felici, erano i morti.

‹‹E io cosa devo fare allora?››

‹‹Quello che ti sei scordato di fare tutti questi giorni,›› rispose Qui-Gon. ‹‹Ascoltare la Forza vivente. Hai dato troppo ascolto ai tuoi desideri, a ciò che pensavi fosse giusto fare, a ciò che pensavi gli altri volessero da te. I tuoi sensi sono diventati opachi, grossolani. La mancanza di un Tempio e di un Ordine non devono far traballare tutto ciò che ti abbiamo insegnato. Ascolta la Forza, ascolta ciò che ti suggerisce di fare.››

‹‹Governando i sensi, la mente e l’intelletto, cercando la liberazione, libero dai desideri, dalla paura e dalla rabbia, il saggio è per sempre libero,1›› recitò Obi-Wan, sentendosi vagamente rincuorato dal suono della propria voce.

Qui-Gon sorrise. ‹‹Sai che sono sempre stato contrario ai versetti dogmatici del Tempio.››

Non ci hanno dato grande aiuto, pensò Obi-Wan con un improvviso gettito di ribellione.

‹‹Credi?›› chiese Qui-Gon. ‹‹Ho in mente decine di ragioni, più di quante ti potrei esporre ora. Ho sempre creduto che la Forza, e il nostro ruolo, fossero qualcosa di molto più semplice ma non meno meraviglioso. Ma tutto questo esula dal vero nocciolo della nostra conversazione. Lasceremo le cause e i perché agli storici che verranno dopo di noi, e rimanderemo questa conversazione a quando saremo entrambi pronti per sostenerla. Per ora ti chiedo soltanto di meditare con costanza e liberarti dalla tua tremenda agitazione.››

‹‹Lo farò, Maestro,›› disse Obi-Wan, sentendosi profondamente grato all’uomo davanti ai suoi occhi.

‹‹Ascolta la Forza dentro di te, Obi-Wan. Ascolta il suo respiro. Non coincide mai con una richiesta di vendetta, né con un tentativo di imporre dolore ad altri,›› sussurrò, mentre iniziava a scomparire e il fogliame dietro di lui iniziava a trasparire nella sua stessa essenza luminosa, ‹‹e ricorda: nel momento della più buia disperazione verrà un salvatore, e sarà conosciuto come il figlio dei soli.››

 

 

Coruscant

I suoi occhi si fissarono spontaneamente su un dettaglio: il ricamo argentato al fondo del mantello del suo Maestro. Era una linea arabescata finissima che correva tutt’attorno al mantello e pareva disegnare immortali vedute naturali sul porpora profondo del broccato.  Ad ogni passo dell’imperatore, il mantello ondeggiava increspandosi e la linea cambiava.

‹‹Concentrati, apprendista.›› Sul volto di Palpatine si dipinse per un istante una smorfia di disappunto. ‹‹Non rendere più complicato tutto questo. Abbiamo perso già abbastanza tempo, e un’ottima opportunità. Ad ogni modo, apprezzo che tu mi abbia raccontato la verità. Allo stesso modo, tu avresti potuto – scioccamente – mentire.››

Anakin scosse la testa. Si era chiesto per quale motivo avesse confessato tanto facilmente ciò che era successo a Naboo. Non era nuovo, dopotutto, al tenere segreti al proprio Maestro; aveva nascosto con successo – non aveva nemmeno sentito lo stimolo di confessare – ciò che era successo con Milena Ong, la Jedi che aveva risparmiato su Generis. Eppure, quando aveva visto il volto dell’imperatore sullo schermo del suo ufficio a Varykino, qualcosa, una forza potente e arcana, aveva fatto scivolare giù dalla sua lingua le parole. E nel parlare di Obi-Wan – il Jedi – egli aveva esternato tutta la sua rabbia, per poi scoprire di sentirsi meglio, come se un peso gravoso fosse stato sollevato dalle sue spalle. E quando aveva finito di narrare quell’evento, aveva sentito per qualche istante la meravigliosa tentazione di raccontare all’imperatore ogni altra cosa: anche Milena Ong, anche il salvataggio dei bambini su Generis, tutti i momenti in cui era stato vulnerabile. Aveva provato, nel suo stato confuso, nell’agitazione profonda che lo aveva scombussolato, un meraviglioso desiderio di essere punito, ed era stato quasi con animo gioioso che si era avvicinato all’ufficio dell’imperatore quella notte, sentendo di essere ad ogni passo più vicino all’abluzione totale della sua colpa. E la sua colpa non era stata esattamente lasciar sfuggire tra le sue mani un altro Jedi ma quel vago, eppure ammorbante senso di essere stato ingannato da Padmé. Quella breve ma intensa conversazione era stata la più vicina ad una discussione d’amore che l’imperatore avesse mai intrattenuto. Anakin aveva ardentemente desiderato dire al suo Maestro che aveva avuto ragione, e per quel vecchio aveva provato un senso di nuvolosa gratitudine. 

Egli aveva dunque mentito a Padmé. Anche sotto il più persuasivo degli assalti, Anakin avrebbe saputo resistere ad un attacco mentale, ne era sicuro. Era stato lui che consciamente aveva desiderato, dopo essersi nutrito per due giorni del proprio stesso veleno, impegnato in cupe meditazioni, esporre ciò che era accaduto.

‹‹È difficile,›› rispose semplicemente Anakin.

La bocca dell’imperatore divenne una linea sottile di carne in mezzo alle rughe profonde e grottesche del suo volto. Avevano dunque iniziato il loro esercizio da una mezz’ora, e la loro meditazione iniziava ad avere effetto. Era stata proposta dall’imperatore in maniera assolutamente casuale, come se fosse un altro dei loro soliti esercizi mentali, allo scopo di rivedere con maggior chiarezza ciò che era successo durante il duello contro il Jedi (ora gli risultava ostico anche solo pensarne il nome) e esaminare più lentamente il flusso di pensieri che Anakin era riuscito ad intercettare. Nella Forza, avrebbero unito le loro menti: ma perché ciò potesse accadere, e Anakin potesse imparare qualcosa, l’imperatore avrebbe dovuto pervadere la sua mente con la forza del proprio potere, e Anakin avrebbe dovuto difendere se stesso dall’attacco. Così avrebbero raggiunto due obiettivi insieme: esporre la tecnica della persuasione con la Forza, ed esaminare più attentamente ciò che era successo con il Jedi..

L’imperatore non aveva fatto nessun riferimento ad una punizione, né si era dimostrato duro con Anakin; aveva solo espresso il suo disappunto con quella ormai familiare espressione, quelle labbra da rospo serrate e il mento leggermente sollevato a esporre tutte le grinze del collo albino.

‹‹Non sono soddisfatto, Darth Vader.››

‹‹E’ stata tutta colpa mia. Non avrei dovuto lasciare che le guardie lo portassero via. Avrei dovuto essere più lucido. Non sono stato lucido,›› disse Anakin, scuotendo la testa con fin troppo abbandono mentre guadava le acque profonde e calde della meditazione, ‹‹volevo solo…non vederlo più. Non volevo altro che scomparisse. La sua vista mi dava la nausea.››

L’imperatore non smise di passeggiare tranquillamente attorno alla stanza. L’assenza del ricamo argentato turbò l’animo di Anakin, il quale fu costretto ad affondare i suoi occhi nella notte elettrica al di fuori della finestra. Quella notte pareva stranamente densa, come se il buio avesse una consistenza diversa da quella che aveva su Naboo. Si era forse disabituato a Coruscant. Forse aveva dimenticato com’era abitare a quattro chilometri d’altitudine – forse era come quando era arrivato per la prima volta a Coruscant ed era stato male per due settimane. Eppure, c’era qualcosa. Erano scarse e intermittenti le luci vicine al Palazzo Imperiale; mentre in lontananza uno dei distretti urbani alla moda appariva immensamente luminoso come al solito. Era lì che si muovevano i giovani di Coruscant, dove le opportunità erano migliaia, i sogni ancora intatti, tutti, indifferentemente dalla specie, drogati dell’essenza metropolitana del mondo del Nucleo. I pensieri di Anakin si stirarono fino ad una delle grande vie urbane, dove poteva vedere la folla acquistare nei bei negozi, tutti ignari di ciò che succedeva all’interno del Palazzo Imperiale.

 Per qualche istante nessuno dei due parlò. Il silenzio aiutò molto la concentrazione di Anakin, che riuscì a respingere più facilmente l’aggressione e riacquistare lucidità, ma fu presto interrotto dalla voce, ora stranamente affabile, del Maestro. ‹‹E così, un’altra volta, la senatrice Amidala si rivela inaffidabile. Mi chiedo quando accetterai la realtà. Oramai è assolutamente lampante.››

Seppure Anakin avesse ogni intenzione di protestare, la sua voce al momento di rispondere uscì confusa e vergognosamente impotente. Essendosi rifugiato in uno stato alterato della coscienza, parole e pensieri gli giungevano da estremamente lontano, come se fossero echi; e altrettanto lentamente le sue parole sembravano uscire dalla sua bocca. ‹‹Mia moglie continua ad avere delle…remore. Tutto questo è difficile per lei. Non è abituata a -››

L’imperatore alzò un braccio. Non aveva bisogno di alzarlo completamente, né di esporre la mano scarna; gli bastava semplicemente dare l’idea del movimento. Fu come se Anakin venisse investito da un’onda d’urto. ‹‹Continui a cercare scuse per il suo comportamento, Darth Vader.›› Si fermò davanti a lui. Si trovava ora tra Anakin e la finestra e lo guardava in pieno viso. Nei suoi occhi gialli guizzò un lampo di astuzia.

‹‹Io…››

‹‹Ti avevo avvertito, mio apprendista. Tua moglie è solo un ostacolo.››

Non voleva più continuare quella seduta. Voleva alzarsi ed andarsene via. Ora iniziava a sentire freddo, come se nella stanza entrassero spifferi gelidi. Non riusciva, però, ad alzarsi; o meglio, ne sarebbe anche stato capace, se si fosse lungamente sforzato, ma in profondità sentiva di non voler davvero alzarsi. Egli voleva e non voleva andarsene. Le parole del Maestro lo avevano ipnotizzato; allo stesso tempo, sentiva che esse erano intimamente false.

‹‹Mia moglie non è l’oggetto di questa conversazione,›› osò ribattere. Le sue dita iniziarono a tamburellare contro la stoffa grezza dei suoi pantaloni. Si grattò un prurito alla caviglia con la punta dello stivale dell’altro piede. Distolse lo sguardo dall’imperatore, perdendosi nella vastità della megalopoli oltre lo schermo. Sapeva in che direzione guardare per scorgere il complesso del suo nuovo appartamento. Sapeva che in quel momento Padmé dormiva. Poteva vederla dormire. Aveva i capelli sparsi sul cuscino come tanti uccelli selvatici in volo, e i suoi occhi chiusi si muovevano sotto le palpebre sottili inseguendo le immagini dei suoi sogni. La fronte sbucava appena da sotto la coperta. A Coruscant era già arrivato l’autunno con i suoi freddi.

‹‹Concentrati. Sento che non sei concentrato. Sento che ti lasci dominare troppo facilmente. Non è la sottomissione quello che stiamo trattando oggi, ma la persuasione. Io otterrò da te la tua sottomissione, alla fine, ma tu devi allontanarmi con quante forze possibili fino a quel momento.››

‹‹Non lo faccio di proposito. Mi risulta difficile concentrarmi.››

‹‹Smetti di parlare. Le parole ti distraggono. Comunica in silenzio.››

Anakin iniziava a provare una forte stanchezza. Era ormai come essere aggrappato al bordo di un burrone con le sole dita, in cui il precipizio era la voragine scura del potere del suo Maestro, e il burrone era la proprietà della sua mente. La voragine lo chiamava con maggiore intensità ogni secondo che passava, e l’oscurità del suo fondo pareva alzarsi verso di lui, come un’immensa marea nera che nasceva dalle profondità del nucleo liquido del pianeta. Lentamente, opporre resistenza era diventato da auspicabile a deplorevole: sempre più sentiva il desiderio di lasciarsi andare. No, opporre resistenza iniziava a suonare assolutamente assurdo. Perché avrebbe dovuto continuare a farlo, se la marea sarebbe arrivata comunque?

‹‹Tua moglie ha complottato contro di te, con il Jedi. Ti ha tradito. Ma hanno sottovalutato le tue capacità. Ti credevano più debole, più sciocco…››

‹‹Padmé non mi tradirebbe mai. E lei…lei ha già fatto molti progressi…lei sta iniziando a capire, sta iniziando ad accettare…››

‹‹Sei uno sciocco. La senatrice non cambierà mai. È troppo ottusa per farlo.›› Poi, quasi con gentilezza, soggiunse: ‹‹Amidala è fedele alla Repubblica, non a te, Anakin. È una politica, è capace di fingere, fingere sempre, mentire sempre, per anni! Tutti i politici fingono, tutti i politici mentono!››

La sensazione di essere solo all’universo con il suo Maestro andò intensificandosi. Era come un fumo nero e pesante, che, una volta entrato nei polmoni, costringeva il respiro in una morsa soffocante, eppure non letale. Era come ritrovarsi i polmoni all’improvviso pieni di un altro gas, un ossigeno mutato; capace di sostenere la vita, ma a lungo ineluttabilmente fatale. Come ultima resistenza, s’immerse più profondamente nel fiume caldo della sua coscienza. Ora aveva chiuso gli occhi e non vedeva più ciò che stava facendo l’imperatore. Non vedeva più nemmeno cosa stesse succedendo fuori dalla finestra: i palazzi, gli speeder, le luci in lontananza, il ricamo sul broccato – era tutto sparito. Eppure, Anakin conosceva intimamente ogni cosa. Seppure non potesse vederlo con gli occhi, sapeva perfettamente dove si trovava l’imperatore (dietro di lui, leggermente scostato verso destra, le mani congiunte, gli occhi chiusi e la bocca schiusa), e sapeva allo stesso modo cosa succedeva fuori dal Palazzo Imperiale (a cinquecento metri da lì, due speeder si erano appena schiantati l’uno contro l’altro, e il guidatore che veniva dalla sinistra, un Quarren rossastro, era morto precipitando nel vuoto). Mentre la Forza vibrava nel suo cervello, Anakin vedeva e non vedeva.

‹‹Ora, il silenzio. Voglio che tu mantenga la concentrazione. Per fare ciò dovrai mantenere il silenzio.››

‹‹Maestro, io non -››

‹‹Stai parlando. Invece di usare l’aria per trasportare il suono, usa la Forza per trasportare il pensiero.››

Era complicato. Anakin si sentiva ormai vicino alla trance, ed era complicato formulare i propri pensieri; comunicarli in quella maniera nuova, poi, pareva impossibile. In un’immensa folla, Anakin si mise a cercare la propria voce nella Forza. Gli pareva di essere ad una stazione della metropolitana, dove, tra un mare di persone, dovesse cercare un bambino; e sgomitava e correva per farsi strada. Eppure, alla fine, ci riuscì. Da quel momento in poi, la loro conversazione fu svolta nel più totale silenzio.

Fu preso alla sprovvista quando l’imperatore ricominciò a parlare. ‹‹Sbagli a fidarti di lei. Non devi fidarti di nessuno. Cos’è la fiducia, se non una debolezza? Siamo soli, Darth Vader. Non c’è nessuno di cui fidarsi. Ci siamo solo noi.››

La voce dell’imperatore assunse una curiosa qualità. Più profonda, più vibrante, superiore al prodotto reale di quel misero, danneggiato apparato fonatorio che era rimasto nel corpo di quel vecchio deturpato; era una voce del suo animo, una voce che era dentro di lui, la sua voce!

‹‹Non ha ragionato. Ha fatto un errore d’istinto. Ha perso la testa.››

‹‹Liberati dalle false convinzioni! Guarda la realtà per quella che è…›› e come suonava allettante in quel momento quell’invito! Come sembrava celare la chiave per risolvere ogni dolore, ogni miseria! ‹‹Un piano, un piano ben studiato, in anticipo, per tempo. Degli alleati che hanno permesso al Jedi di arrivare al pianeta. Sapeva anche quando ti avrebbe trovato. Ragiona, apprendista.››

‹‹Io non mi fido di lei,›› disse Anakin con un basso lamento di agonia, ‹‹ma non credo mi voglia uccidere…››

Non lo vedeva ma sapeva che l’imperatore era lì accanto a lui. Ne sentiva la presenza come se fosse lui stesso l’imperatore; ma in quel momento, Anakin era anche il tavolo, il pavimento, le stelle, i suoi stivali, il mantello, le onde elettromagnetiche che si spargevano in tutto l’Universo. Niente era riconoscibile ma Anakin conosceva tutto. La sua concentrazione era assoluta; la sua trance completa. Il pensiero era vicino all’annullamento, la difesa completa e disperata.

‹‹Io non mi fido di lei,›› ripeté con più forza.

‹‹Forse inizi a capire.››

‹‹Ma non ha voluto uccidermi. È stato solo un errore. Non è ancora perfetta. Le serve tempo. Mi serve tempo. Io posso farla cambiare.››

‹‹Lei non ti capirà mai.››

‹‹Lei sta già cambiando!››

L’imperatore aveva sorriso.

‹‹Sei tu che stai cambiando, Darth Vader. Per amore di quella donna ti stai ingannando. Stai cercando scuse. Liberati da questa prigione. Evadi. La libertà che cerchi è alla portata della tua mano.›› L’imperatore gli poggiò una mano sulla spalla. Pareva un gigante. ‹‹Pensa a come funziona l’amore. Pensa a come funziona l’amicizia. Noi stiamo con le persone che ci servono. Non c’è nessun’altra verità. Solo questo. Tu non le servi più. Ora sei troppo potente, sei troppo importante, e lei è troppo…impotente. Tu per lei non sei altro che un problema. Un pericolo. Una vergogna. Ora per lei sei solo tutte queste cose.›› La marea nera che s’alzava dalla voragine tremolava ad ogni parola e gli lambiva i piedi. Ma ormai Anakin non aveva più la forza, né la volontà, di accampare scuse. Le parole del suo Maestro risuonavano progressivamente più veritiere e sensate: in alcuni punti, Anakin avrebbe quasi desiderato annuire, magari ripetere un punto importante del discorso – per poi scoprire di essere troppo remoto dal proprio corpo, e di non saper più raggiungere la propria voce. ‹‹E a cosa ti serve lei? Se hai bisogno di una donna, puoi averne migliaia. Puoi averle più giovani di lei, anche più belle di lei. Puoi avere tutto, Darth Vader. Ma non avrai niente finché ci sarà lei. Non avrai niente finché non avrai accettato la Forza come unica padrona della tua vita, del tuo essere, la tua sola passione, il tuo unico amore!››

‹‹Io non riesco…io non riesco a pensare…››

‹‹Devi solo imparare a pensare nella maniera giusta. Ma ora basta parlare di lei. Confido che questa nostra seduta ti dia lo stimolo per continuare le tue riflessioni. Medita profondamente, mio apprendista. Vedo che hai perso la tua costanza. La meditazione è il primo cardine per uno studio fruttuoso. Senza la meditazione, non c’è la Forza: i nostri sensi diventano oscurati, fumosi, imprecisi.››

‹‹Sono diventato indisciplinato.››

‹‹Trascorri troppo del tuo tempo in allenamento con i tuoi robot. La vera potenza ci viene dalla mente. Mai dal nostro corpo. Il nostro corpo cambia…il nostro corpo peggiora…il nostro corpo decade…›› sussurrò l’imperatore nella sua testa, ‹‹ma la nostra mente ci rimane fedele. Non sono i muscoli che possono governare il talento, ma il cervello. E ora possiamo continuare. Impara. Riconosci ogni sensazione. Riconosci il mio metodo. Non hai bisogno delle parole. Io ti sto mostrando esattamente come fare. Le tue energie fisiche si esauriscono, ma la tua mente cresce. Per imparare il massimo controllo di sé, bisogna conoscere anche il massimo abbandono di sé. Ora siamo uniti, ma non devi temere. Ti puoi fidare di me. Per te non voglio che il meglio, Darth Vader.››

Con quelle parole, Anakin sentì i piedi essere bagnati dalla marea nera, e allo stesso tempo di essere completamente immerso nel fiume della propria coscienza. Infine, la marea continuò ad alzarsi, bagnandogli le caviglie, poi risalendo sulle gambe, fino a toccargli l’ombelico; nel frattempo, imparava a respirare sott’acqua. La marea ricominciò a salire, e gli bagnò il petto e il collo, il mento e infine Anakin dovette chiudere la bocca e gli occhi. Presto fu ricoperto dal liquido scuro e viscoso e lasciò la presa sull’orlo del dirupo, ma, per la sua sorpresa, non cadde nell’abisso. La marea lo avvolse semplicemente, come un abbraccio, e Anakin non cadde. Nelle sue orecchie risuonava il fluire di correnti subacquee, bollicine che esplodevano attorno al suo viso, bollori nascosti. Ora egli era totalmente soggiogato.

‹‹In soli quattro mesi ti ho insegnato più di quanto il tuo Jedi non avesse fatto in dieci anni. E non siamo che all’inizio. I poteri del lato oscuro sono sconfinati. Noi impareremo insieme. Per te non desidero che la gloria. Ma servono anni, lunghi anni di studio, di dedizione, di passione. Di assoluta devozione.››

‹‹Sì.››

‹‹I Jedi insegnano che noi non possiamo penetrare nelle menti altrui. Che ciò è oscuro e non va fatto. Che tutto ciò che possiamo fare è captare le emozioni collegate a quei ricordi. Quanto poteva essere sconfinata l’ignoranza dei Jedi…I Jedi consideravano la Forza semplicemente come un’essenza onnipresente, qualcosa da essere trattato con le pinze del loro dogmatismo. Ma noi sappiamo a cosa serve la Forza – noi sappiamo che la Forza è uno strumento. Nella Forza noi possiamo entrare nella mente. Impara da me Darth Vader. Impara da me. Io so leggere tutti i tuoi pensieri in questo momento. Io posso conoscere ogni tuo ricordo. Noi non abbiamo paura di essere ciò che siamo nati per essere. Noi modifichiamo la realtà, noi scaviamo nella realtà, noi distruggiamo la realtà e la ricomponiamo così come desideriamo. Neanche il più abile dei Saggi Maestri sarebbe capace di fare questo…››

‹‹Siamo onnipotenti, Maestro…››

‹‹No. Ma se ci fu qualcuno vicino all’onnipotenza, egli fu il mio Maestro, Darth Plagueis. Noi apprenderemo insieme, e lo supereremo. Molti ambiti della Forza rimangono inesplorati. Il suo mistero è infinito. Ma noi…noi possiamo esplorarlo. E tu puoi risolverlo. Pensa alle tue origini. Il tuo corpo è integro,›› - Anakin ebbe strane immagini, orrende immagini, ma non le vide più, ‹‹la tua mente è aperta alla Forza, e non hai paura…››

‹‹Io non ho paura.››

‹‹Ora vedremo cosa è successo quella notte. Esamineremo i pensieri di Obi-Wan con più calma, e non tralasceremo alcun dettaglio. Non eri lucido quella notte, ma ora possiamo esserlo, insieme.››

Rividero insieme le scene di quella notte, come se stessero scorrendo i fotogrammi di una registrazione. Anakin partecipò al proprio ricordo, in quanto era nella mente del proprio sé passato; l’imperatore, similmente, pur non avendo una forma esterna nel ricordo partecipò dentro Anakin, assieme ad Anakin, come due menti gemelle, perché ora erano l’uno dentro l’altro.

Troppo lungo sarebbe stato raccontare dettaglio per dettaglio ciò che videro, ma Anakin s’accorse di particolari che non era riuscito a considerare in precedenza, come i bagliori di assoluta disperazione negli occhi di Obi-Wan, gli incespicamenti del Jedi, la maniera patetica in cui si era rialzato la prima volta, ed era quasi ricaduto di nuovo, sul cespuglio, come una bestia ferita.

Un odio profondo e brutale lo colse, mentre lo guardava. Qualcosa di oscuro e parossistico, uno spasmo di odio cocente. E quando lo ebbe ai suoi piedi, vulnerabile e pronto a morire, urlò tutta la sua frustrazione non appena il suo Sé passato graziò la vita al Jedi. Avrebbe dovuto tagliarlo in due, o trapassargli il cranio, ma – in qualsiasi modo! - porre fine a quella vita!

‹‹Sciocco,›› sibilò una voce dentro la sua testa, e poteva essere la sua come quella dell’imperatore.

Colpire, colpire, colpire! Ecco cosa avrebbe dovuto fare! Colpire quando lo aveva lì, sotto le sue mani! La frustrazione lo tormentava, lo divorava; sentiva sé stesso e la Forza vibrare di collera. E Padmé! Padmé – come avrebbe mai potuto perdonarla! Tutto quello che l’imperatore gli aveva detto era stato vero – tutto, dalla prima all’ultima parola, perché era evidente – evidente come Obi-Wan fosse arrivato giusto in quel momento, con quell’espressione preparata ad arte; e quel saluto a sua moglie, non era forse stato un capolavoro della recitazione? Quelle esitazioni di Padmé erano un chiaro segno del loro piano, in quanto probabilmente avrebbe preferito farlo desistere dall’attacco, così che Obi-Wan potesse colpirlo per primo; e non c’era stato un bagliore strano nello sguardo di Obi-Wan all’inizio della loro conversazione? Era ovvio, ovvio!

‹‹E ora espellimi dalla tua mente,›› gli ordinò la voce, quando Obi-Wan non fu che un punto su una barca sul lago. ‹‹Lotta contro di me, combatti il mio potere! Impadronirmi di te è stato fin troppo semplice, apprendista, perché ti sei ripiegato in difesa! Non è con l’annullamento della mente che puoi difenderti da un attacco, ma con la sua sublimazione!››

‹‹Sono troppo stanco, Maestro…››

‹‹Non importa.››

E Anakin dovette ricominciare a prendere proprietà del proprio corpo all’interno della marea nera. Ne sentiva la consistenza soffice, che lo teneva a galla; ma ora che doveva uscirne, gli pareva di essere finito tra le sabbie mobili. Annaspava con estrema difficoltà nella melma densa della propria debolezza. Ora si sentiva soffocare. Non si sentiva più a suo agio; ora aveva la netta impressione che il suo Maestro si stesse spostando nella sua mente, andando ad esaminare altri pensieri. E se avesse scoperto dei suoi pensieri strani, i suoi pensieri ribelli – e se avesse anche solo scorto quei vaghi, tremuli assilli che non lo lasciavano dormire? Cosa sarebbe successo se avesse visto i bambini del Tempio, o Milena Ong, o tutti quei piccoli atti eversivi che non era riuscito a sopprimere? Venne preso dal panico; poi, lentamente, riacquistò possesso di sé, spronato dal terrore dei tentacoli della mente del suo Maestro, fino a che non riuscì a ricordare ciò che gli era stato insegnato al Tempio.

Ironico usare una tecnica Jedi, eppure non ne conosceva altre. Consisteva nell’immaginare un punto, e osservarlo con la Forza. Concentrandosi sul punto, ogni pensiero andava convogliato in quella direzione. Lentamente, il punto si sarebbe espanso, brillando come un sole: un muro di Forza, uno scudo impenetrabile, al quale andava data ogni priorità su ogni altro pensiero, perché non doveva esistere alcun altro pensiero. Svuotata la mente, vi sarebbe solo stata la protezione della Forza.

‹‹Combattimi!››

Il punto nel buio, dapprima indistinguibile, iniziò a brillare. Si trattava di proiezioni: non vi era nulla nella Forza, non vi era né il buio, né il punto. Forse non vi era nemmeno lui, né l’imperatore. Qualsiasi sensazione fisica era annullata, eppure, mille volte incrementata mediante il loro particolare sesto senso. Ma presto i pensieri scomparvero, le voci scomparvero, il punto crebbe e iniziò a splendere di forme meravigliose e colorate, come se fosse apparso nel buio dello spazio una grande nebulosa, di quelle che parevano dipinte da abili pittori. Il buio iniziò a rischiararsi, come se stesse risalendo dall’abisso verso il pelo dell’acqua. La pressione della marea venne meno, ed egli fu in grado di muoversi, o fu la marea a scendere di livello. Ogni suo pensiero venne assorbito dal combattere l’invasione del proprio Maestro, e prima che se ne rendesse davvero conto fu… libero.

Il mondo fisico ricominciò ad apparire. La prima sensazione fu quella della pelle degli stivali sul suo piede. Il prurito ad una caviglia. La marea s’abbassò, e si ritrovò saldamente in piedi al bordo del precipizio. Il legame s’andava sciogliendo, e l’imperatore non opponeva resistenza. Percepiva adesso con più chiarezza ogni cosa; i suoi sensi erano ritornati vigili, la Forza era limpida. E ora poteva vedere. Aprì gli occhi.

Stava boccheggiando. Gli ci vollero un paio di minuti per riacquistare la bussola ed abituarsi all’improvvisa, accecante vividezza dei colori; e altri li trascorse cercando di recuperare il respiro, ed asciugarsi con palmate brusche il collo, il viso e i capelli umidi.

‹‹Eccessivo. Si direbbe che tu non ti sia mai allenato in questo campo,›› commentò il suo Maestro.

Anakin si lasciò affondare contro lo schienale della poltrona, ancora vagamente ansimando. ‹‹Non l’ho mai fatto così. Pareva impossibile…pareva impossibile risalire…››

‹‹Lo sarebbe potuto essere. Su una mente meno preparata, un attacco come quello che ho esercitato su di te avrebbe potuto produrre la follia. Penetrare una mente è un atto di sopraffazione, un atto di violenza. Non è un caso se i Jedi erano estremamente cauti con la manipolazione del pensiero.››

Anakin si spostò sulla poltrona, quindi si dovette alzare in piedi, preso da una familiare smania di muoversi. Si avvicinò velocemente alla finestra, e da lì osservò la città in silenzio. La sua mente continuava a viaggiare alla velocità di migliaia di anni luce.

‹‹Ma ora abbiamo questioni più importanti da trattare,›› disse l’imperatore. ‹‹Un dettaglio importante nei ricordi del Jedi.››

‹‹Naboo,›› mormorò Anakin, assente. ‹‹Il palazzo di Theed.››

‹‹Esattamente.››

‹‹C’era una donna di fronte al palazzo,›› continuò Anakin, la sua voce monotona, gli occhi persi da qualche parte nel globo luminoso del lontano distretto commerciale. ‹‹Apailana. Ed era sua la veste. Ricordo quel pavimento.››

‹‹Inizi a capire.››

‹‹Potrebbe essere un vecchio ricordo,›› ribatté Anakin. ‹‹Non deve essere per forza una prova di…››

L’imperatore si sedette, del tutto tranquillo. ‹‹Cosa ti dice il tuo istinto?››

‹‹Da un mese a questa parte l’esosfera di Naboo è sotto il controllo della base orbitante planetaria e dei suoi satelliti,›› disse Anakin, inseguendo i suoi pensieri. ‹‹Solo i mezzi militari autorizzati possono entrare senza bisogno dell’autorizzazione. Ad ogni veicolo ad uso personale viene richiesta l’identificazione dei passeggeri; e i parametri della voce e delle impronte dei Jedi sono tutti schedati. E non ci sono segnalazioni di ingressi illegali nel pianeta. L’unica maniera in cui può essere arrivato è mediante una nave cargo, o una di trasporto passeggeri. Ma come può aver fatto ad evitare i controlli…?››

‹‹Oppure è arrivato con il benestare della BOP,›› concluse l’imperatore. ‹‹Già da un mese ho ordinato ai miei collaboratori di esaminare tutte le trasmissioni, su ogni frequenza, lanciate da Naboo nell’ultimo mese. Non è stato difficile decriptare un messaggio dalla base orbitante ad una stazione fantasma vicino Nubia. Si parla molto chiaramente del maestro Kenobi e del suo arrivo.›› I suoi occhi erano sgranati e sorrideva. ‹‹Ho messo sotto controllo le comunicazioni dei governi di altri undici pianeti influenti. Le mie orecchie sono ovunque. Gli ordini di cattura per migliaia di senatori e politici sono già pronti.››

Fece una pausa, e riprese con tono placido e soddisfatto. ‹‹Ho intenzione di inviare i primi ordini di cattura a partire dalla metà di questo mese. È arrivato il momento di…agire,›› disse. ‹‹I lavori su Bes Prime, Min-Ret e le loro lune sono quasi completi. Con un sistema interamente convertito in prigione avremo molto più campo d’azione,›› soggiunse, con un’inflessione distaccata e calcolatrice. ‹‹Entro un mese, potremo iniziare con le esecuzioni di coloro che verranno colti in flagrante. Ripuliremo la questione di Mantooine, ad esempio.››

‹‹E i senatori? Bail Organa, Mon Mothma…?››

‹‹Sarebbe controproducente agire contro di loro adesso. Sicuramente è più conveniente aspettare e valutare i loro piani. No, è molto più importante iniziare a far tacere i vecchi alleati…›› disse, quasi in un sussurro, ‹‹gente corrotta fino al midollo, insulsi mangiatori a ufo delle nostre risorse…disgustosi. Impossibile fidarsi di loro. Molta feccia da ambedue le parti, ma col tempo non dovremo preoccuparci di nessuno. Il lavoro ad ogni modo è già a buon punto. Durante gli anni della guerra il Senato sono stati compiuti grandi progressi in questo senso.››

Anakin ascoltò le parole del suo Maestro in silenzio. Alla fine aveva una sola domanda da porre.

‹‹Allora perché tutto questo? Se lo sapevate, se sapevate già del Jedi, perché? Perché avete lasciato che venisse a casa mia, perché avete lasciato che mi sfidasse…perché…perché non avete già arrestato tutti e concluso questa storia? Io non capisco!››

L’imperatore sorrise. ‹‹Ho atteso tutta la mia vita adulta per il momento in cui sarei stato imperatore di questa Galassia. Credi che non possa aspettare altre settimane, altri mesi? Io ho appreso la difficile arte della pazienza, apprendista, un’arte della quale ti devi ancora appropriare, a quanto vedo.››

‹‹Ma se – a cosa serviva allora tutto questo? Tutto questo esercizio? Avevate detto che lo avremmo fatto per vedere se nei miei ricordi ci fosse qualche indizio -››

‹‹Perché, Darth Vader, era assolutamente necessario per la tua crescita nelle vie dei Sith.››

‹‹È stata una tortura…››

‹‹È stata una lezione,›› liquidò l’imperatore, che ora pareva irritato. ‹‹La strada per diventare un grande Sith è irta di sofferenza. Non sei che agli inizi, Darth Vader…›› disse in un soffio. ‹‹Ma osserva quanto importante sia stata questa lezione. E grazie a questa, nel futuro potremo esaminare il controllo del pensiero mediante la Forza. Ti farò esercitare con uno dei senatori, e quando avremo catturato Kenobi potrai sbizzarrirti su di lui.››

E se anche le spiegazioni del Maestro lo avevano lasciato insoddisfatto e bruciante di collera, al sentire quella promessa qualcosa dentro di lui ruggì e la lingua gli si attaccò al palato. Si girò di nuovo verso la città oltre il vetro.

‹‹Tra poco partirai. Andrai su Naboo con un corpo scelto. Perquisisci l’intero palazzo, interroga la regina, costringila a confessare. Non lasceremo alcuna traccia militare, nulla,›› istruì velocemente l’imperatore. ‹‹L’arresterai e la porterai qui a Coruscant. Non possiamo permetterci di passare dalla ragione al torto per gli occhi dell’opinione pubblica. Non ora.››

Anakin annuì, brusco.

L’imperatore dietro di lui s’alzò. Non aveva bisogno di vederlo per sapere esattamente quale fosse la sua espressione. Darth Sidious era soddisfatto. Improvvisamente colto da una domanda, Anakin si girò leggermente verso di lui.

‹‹E Padmé? Nelle trasmissioni, c’era anche lei?››

‹‹No,›› rispose semplicemente il Maestro.

Prima che uscisse, gli occhi di Anakin catturarono nuovamente il filo argentato del ricamo, sul bordo del broccato. Ora parevano il corsivo in cui era scritta una formula arcana e minacciosa. Il Maestro uscì dalla stanza con lentezza, senza fretta. Nulla nel suo passo dava ad intendere qualsiasi emozione.

Si girò di nuovo verso la città. Era esausto, ancora ansioso, vagamente agitato; sentiva lo stomaco in subbuglio, e un gran desiderio di vomitare. Appoggiò la fronte al vetro. E con una terribile, gravissima leggerezza il suo occhio venne catturato da quell’edificio.

Il Tempio ricambiò severo il suo sguardo. Com’era solenne e triste, quel Tempio che svettava nella notte senza nemmeno una luce! La città si era scordata di lui. Il traffico si teneva alla larga dalla sua solida imponenza, come se nessuno volesse disturbarne i morti. La vista turbò ulteriormente la fantasia eccitata di Anakin, sollevando nella sua psiche mille incubi in un secondo, finché non dovette distogliere lo sguardo dalla sua antica casa, il suo passato e il suo tormento. Avrebbe voluto demolirlo tutto, pietra a pietra.

 

Il nuovo appartamento era immerso in una rinfrescante oscurità, illuminata solamente dai bagliori delle luci che provenivano dall’esterno. Anakin vi entrò a passo stanco e un po’ furtivo, desiderando non svegliare Padmé prima di quando sarebbe stato in grado di affrontare la sua vista.

Si liberò del tabarro e, con una certa quiete domestica, l’appese all’attaccapanni. Quindi andò in cucina e si versò un bicchiere di acqua aromatica, e lo andò bevendo mentre passeggiava nella grande sala principale, andando a sostare di fronte al grande vetro e gettando lo sguardo sulla notte luminosa. Ne sentiva il terribile fascino, e l’appartamento, per quanto grande e lussuoso, sembrava stringersi attorno a lui al ritmo del respiro di Padmé nella Forza.

L’attico, ad ogni modo, era ancora completamente vuoto. L’arredamento del precedente appartamento di 500 Republica era imballato e riposto nella seconda sala; e già gran parte di esso era stato venduto o liquidato. Anche se spoglio, Anakin ne apprezzava l’austerità. Tanto bello e lussuoso, l’attico non sembrava aver bisogno di complementi ornamentali. Infine, Anakin posò il bicchiere dove poté e salì le scale verso la camera da letto.

Padmé si svegliò non appena mise piede in camera. L’intera stanza odorava ancora di nuovo, e Padmé pareva un’estranea nel suo stesso letto, troppo grande e troppo nuovo. Si stiracchiò un po’ e si mosse sotto le coperte, alzando una mano ai capelli, i suoi occhi ancora disorientati dal sonno. Anakin si sedette sul bordo del letto e procedette a togliersi gli stivali. Non aveva davvero voglia di dormire nello stesso letto con lei – e a dire il vero non aveva nemmeno voglia di dormire – ma fu un istinto abituale a portarlo a compiere quel gesto abituale.

‹‹Mmm, Anakin…››

 Padmé si mise a sedere e gattonò fino a lui. Indossava una vestaglia bianca e leggera. Gliel’aveva vista addosso centinaia di volte. Era troppo leggera per il freddo che tirava già a Coruscant. Avrebbe voluto dirle di coprirsi, ma non lo fece. Padmé gli si avvicinò ancora di più.

‹‹Cosa ha fatto?››

‹‹Nulla. È andato tutto bene. Abbiamo solo conversato,›› disse, cercando di essere convincente. Poi si riscosse: non gli interessava davvero convincerla. Perché avrebbe dovuto farlo, ad ogni modo? Non ne vedeva più alcuna utilità. Non era più capace di guardarla come un tempo. Tutto quello che vedeva era un dubbio troppo grande, un dolore che non sarebbe mai stato lenito.

‹‹Cosa ha intenzione di fare?››

‹‹Nulla.››

Padmé odorava di more. Doveva essere un nuovo sapone. Era piuttosto invitante. Ma quando parlò, la sua voce era piena di lacrime e lo faceva infuriare. Le sue piccole mani fredde trovarono le spalle di lui e poi il suo viso, obbligandolo a guardarla negli occhi. Anakin non oppose resistenza. Al buio gli occhi di Padmé brillavano come diamanti.

‹‹Anakin…›› mormorò lei. ‹‹Anakin…››

Iniziò ad accarezzargli le guance mentre una lacrima le rotolò giù dall’angolo dell’occhio, tracciando lo zigomo ed andando a perdersi giù, nella mascella. Anakin ne seguì il triste viaggio, affascinato.

‹‹Ti ha fatto qualcosa…Lo vedo cosa ti ha fatto…›› disse. ‹‹Anakin…Ani…››

Pareva capace solamente di ripetere il suo nome come se fosse una formula magica. Forse si aspettava che chiunque fosse stato lui per lei potesse ritornare se solo avesse ripetuto quel nome abbastanza volte. Quante aspettative c’erano dietro quelle lacrime! Quante miriadi di sogni infranti, di incubi ritornati…Padmé affondò una mano nei suoi capelli e, dopo aver abbassato lo sguardo un paio di volte, e averlo rialzato altrettante, si slanciò contro di lui e lo baciò. Non gli diede il tempo di ragionare: in un secondo le sue mani viaggiarono sulla sua tunica, e le sue labbra sul suo collo, e in qualche modo gli si sedette sulle gambe e pretese di spingerlo giù sul materasso, mettersi a cavalcioni su di lui e –

Mai Anakin aveva provato qualcosa del genere nei suoi confronti: una repulsione nera, un desiderio di starle quanto più lontano possibile. Le parole del suo Maestro entrarono di nuovo nel suo cervello assieme a quella scura, sciropposa sostanza di cui era fatto il suo potere, e Anakin non ci vide più.

Afferrò con forza le braccia di Padmé e la rovesciò sul letto. Non gli importava se le stava facendo male – sapeva che le sarebbero rimasti i segni bluastri della sua rabbia. Le gambe di lei si alzarono in difesa dello stomaco, mentre lui le immobilizzava la coscia con il suo ginocchio; facendo così, la ebbe saldamente sotto il suo controllo. Avrebbe voluto fare qualcosa di tremendo, mentre guardava negli occhi terrorizzati di Padmé che lo supplicavano al posto della bocca tremante.

‹‹No, Padmé,›› disse in un soffio da pazzo. ‹‹Stammi lontano. Dannazione, stammi lontano.››

La pelle delle sue braccia era morbida e le dita di Anakin vi stavano scavando profonde fosse.

‹‹Per favore…›› supplicò lei con un filo di voce.

E Anakin la lasciò andare. Si raddrizzò e scese dal letto. Lei, presa all’improvviso dalla timidezza, si abbassò la vestaglia sulle cosce e si affrettò a rannicchiarsi dall’altro lato del letto. Seduta, piegò le ginocchia e vi nascose il viso. Anakin si spostò lontano da lei, fuori dalla stanza nel buio del corridoio, premendosi il pugno sulla bocca per evitare di urlare. La sentì singhiozzare dall’altra parte della parete, e in quel momento capì che il suo posto non era più in quella casa.

 

 

_________________

1. Bhavagad Gita, 5:28

 

 

Nota dell’autrice.:  Sì, l’ho fatto. Ho utilizzato la celeberrima profezia sul ‘Figlio dei Soli’. Anche se ho l’impressione che qui siamo tutti piuttosto ferrati in materia, basti sapere al lettore un po’ meno ossessionato acculturato che tale profezia della Forza è comparsa nelle prime due incarnazioni della sceneggiatura di A New Hope (quando, insomma, Luke era una ragazza e il mondo di Star Wars era decisamente diverso) per poi sparire misteriosamente. Recentemente, è comparso nel mondo del G (o T-canon) un Figlio dei Soli, una specie di uccelloide, tale Thi-Sen, in un episodio de “The Clone Wars”. Ma siccome io adoro le profezie e il materiale tagliato di Star Wars, ecco che la incorporo nella narrativa, uccelloidi di Orto Plutonia a parte.

 

 

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Capitolo 9
*** Nove. ***


 

 

             Nove_______

 

Coruscant era il luogo perfetto in cui perdersi, e se ci fosse impegnati, si poteva star certi di non riuscire mai a ritrovarsi. Le sue correnti sotterranee erano forti, ed era facile smarrirsi dietro alle luci della notte. Se non si stava attenti, Coruscant poteva rubarti anche l’anima, e siccome era allo stesso tempo un’imponente signora inanellata e una vandala che segue il ritmo della Necessità lo faceva spesso, e senza scrupoli.

Nel corso degli anni, Anakin Skywalker aveva imparato a conoscerla. Aveva percorso vie e vicoli, esplorato livelli, fatte amicizie con gli immigrati, gli esuli e gli emarginati di risma e provenienza varia, perché, dopotutto, nemmeno lui era mia riuscito a scuotersi di dosso quella sensazione, quella di essere un immigrato da un pianeta povero, e di appartenere a quella tribù di nullatenenti. Alla sua tribù si era sempre unito di notte, il momento in cui Coruscant, come tutte le città, mostrava la sua vera anima, che fosse elegante o criminale faceva lo stesso: di giorno apparteneva al Tempio,  ai Maestri e agli altri Jedi, e di quella tribù non si era mai sentito del tutto parte.

Coruscant era come una sinfonia, e Anakin aveva ascoltato tante variazioni della sua melodia nel fluire ed incrociarsi dei sentieri di quelli che come lui ne percorrevano le vie. C'erano pochi luoghi che riuscissero a risucchiare via da lui le preoccupazioni come le vie della megalopoli.

Dopo tanti anni, nulla era cambiato.

Aveva guidato a lungo. La rabbia che gli era nata nel petto in un istante era sbollita pian piano e lo aveva lasciato vuoto. Più che guidare, nel quale si sarebbe previsto un minimo di volontà da parte del guidatore, Anakin aveva lasciato che la Forza lo guidasse lontano da casa, verso la periferia della Città Galattica, giù per i livelli, oltre decine di quartieri.

Alla fine il suo occhio era stato catturato da un cartello: in vendita.

Il palazzo era un immenso blocco grigio e quadrato, uno dei tanti. Con il suo tetto costituiva la grande pianura di Coruscant, quella dalla quale si alzavano le cime raffinate di Coruscant superiore; con le sue pareti costituiva le altezze dei canyon di cemento nei quali si spostava il traffico. Le sue fondamenta si perdevano tra le colate di cemento che avevano segnato le ere urbanistiche della metropoli. E siccome aveva bisogno di un letto, ed era stanco di guidare senza meta, e non aveva voglia di affrontare lo staff di un hotel, e aveva voglia di sentire di possedere qualcosa, aveva svegliato il proprietario e concluso l’affare nel giro di cinque minuti.

Il tizio si era quasi messo a piangere dall’emozione. Il fatto che Anakin Skywalker lo avesse scelto tra migliaia di inserzionisti olografici era bastato a mandarlo in una piccola crisi isterica. La sua pelle verdastra era diventata blu acquamarina, e i piccoli tentacoli sulla sua testa si erano agitati ad ogni piccolo trillo della sua voce pesantemente accentata. Anakin aveva dovuto trattenersi dal soffocarlo e farla finita con quell’ometto che insisteva nell’accampare scuse per i lati meno brillanti dell’appartamento.

Era venuto centosessantamila crediti. L’appartamento che aveva appena lasciato, quello con il pavimento di pietra, le viste sul Parco della Vittoria, giardino coperto e Padmé piangente sul letto, valeva diciotto milioni. Nonostante l’odore ambiguo attaccato alle pareti, l’affare era stato concluso in fretta.

Era un po’ un bene che dalla finestra non si vedesse altro che il palazzo di fronte e il traffico in mezzo. In questo modo non c’era la distrazione di far vagare l’occhio nel campo visivo, e scorgere frammenti del Tempio, o l’alone luminoso del Palazzo Imperiale. Non sapeva nemmeno esattamente dove fosse, ma sulla via aveva visto vicino Oceania, la torre piena d’acqua in cui i membri più facoltosi delle specie acquatiche andavano a ritrovare gli habitat dei loro pianeti d’origine. Kit Fisto lo aveva invitato qualche volta. Diceva che il luogo era piacevole anche per gli Umani.

Il ricordo del Nautolano lo spiazzò. Ogni tanto arrivavano, quelle piccole considerazioni. Non era ancora capace di sopprimerle, o forse non ne aveva voglia, perché erano talmente insignificanti e illogiche che non meritavano nemmeno l'attenzione. Erano stralci di conversazioni, scene illuminate da un lampo repentino di ricordo.

Kit Fisto che gli parlava di Oceania, madama Nu che lo rimproverava per non aver trovato quello che stava cercando (un affare sulla guerra civile di Anselm Glee), gli alberi di acacia del Giardino dei Profumi e Aayla Secura che si tuffava nella cascata artificiale. Non c’era nessun calore attaccato ai quei ricordi, nessun colore. Erano frammenti e cadaveri della sua memoria che si staccavano dalle loro pareti, come avrebbe potuto fare un po' di stucco tradizionale, scoprendo il grigiore del muro sottostante.

Forse funzionava così anche quando pensava a Padmé. Il pensiero di lei lo aveva seguito durante la sua fuga, e ora permeava la sua nuova tana, come se Padmé fosse lì, da anni. Si aspettava quasi di vederla spuntare, con i capelli in qualche intricato sistema di trecce e gli abiti senatoriali. E sembrava quasi che Luke e Leia dormissero tranquilli nella loro cameretta, anche se non c’era che uno stanzino nel nuovo appartamento.

Il letto era ragionevolmente comodo, e per qualche minuto aveva provato a dormire; ma i suoi occhi erano rimasti violentemente aperti contro il cuscino, finché non aveva dovuto alzarsi e fermarsi davanti alla finestra.

Ora sapeva che il suo Maestro aveva sempre avuto ragione. Era assolutamente lampante che gli ultimi mesi non erano stati che una finta da parte di Padmé, e che lei e i Jedi avevano complottato insieme il suo assassinio. Probabilmente, la loro liaison continuava da molto tempo, fin dal giorno della nascita dei gemelli, ma ancora più plausibilmente da prima. Forse non avevano mai interrotto i loro contatti, ed erano riusciti in qualche modo ad aggirare tutte le restrizioni. Dopotutto, Padmé si era ingegnata con successo durante la guerra civile per mantenere i contatti con lui; le abilità acquisite dovevano esserle tornate utili anche con il Jedi esiliato. Ora riusciva a credere facilmente che lei e Kenobi avessero avuto una relazione, che fosse tutto vero quello che Palpatine gli aveva raccontato, mesi prima. In fin dei conti, Obi-Wan aveva trascorso molto più tempo di lui a Coruscant...e poi, e poi, Anakin si sentiva disposto a consumarsi di rabbia, in qualche modo trovando una sublimazione del proprio dolore nell'odio.

L’aveva amata, e questo era stato il suo errore, ma chi non si sarebbe innamorato di lei?

Padmé era la donna più bella di quella Galassia. Parlava bene, sapeva essere schiva come sfacciata, e anche se non era più regina, della regnante ne deteneva tutto il fascino. E c’erano momenti in cui era capace di farlo sentire il re dell’universo, e altri in cui lo faceva sentire il peggior criminale che avesse mai respirato; ma in entrambi i casi riusciva ad essere perfetta. 

La sua unica compagnia erano le parole dell’imperatore, che martellavano nella sua testa, là dove era più vulnerabile, i peggiori sospetti. Ed era semplice sapere dov'era più vulnerabile: gli occhi scuri di Padmé; le parole del suo Maestro andavano ad appannarli per sempre, e nonostante tutto, Anakin non era ancora sicuro di essere capace di rinunciare a quegli occhi.

Sapeva che non sarebbe riuscito a resistere. La sua era una battaglia persa in partenza. Prima o poi, sarebbe sempre ritornato da lei, nell’odio o nell’amore, sarebbe sempre ritornato da lei.

I suoi occhi si spostarono dal traffico fuori al suo riflesso sul vetro. C’era un uomo dall’espressione illeggibile e gli occhi spenti, un po’ ingobbito. Si raddrizzò. L’alba stava arrivando, e la vita non si fermava.

Girando le spalle allo schermo panoramico, diede un’occhiata al suo datapad acceso posato sul tavolo e si mise al lavoro. C’erano tante cose da leggere, tante da ascoltare, e la partenza per Naboo sarebbe stata quel giorno. Se non altro, era un passo più vicino alla definitiva cattura di Kenobi.

 

 

Coruscant era la città d'oro, e gli immigrati che arrivavano dall'Orlo Esterno pensavano tutti di essere capaci di rubarne un po', di scrostarlo dai palazzi lussuosi e serbarlo per sé e per i propri figli. Ma Coruscant era anche la città del dolore, e non c'era oro da essere rubato. Era il luogo dove s'incrociavano le più grandi disperazioni della Galassia, era il luogo dove la solitudine diventava una malattia tanto più incurabile che da qualsiasi altra parte dell'universo.

Nel vetro della finestra panoramica, aperta sulle vaste pianure di palazzi e grattacieli e lucette scintillanti, Padmé Skywalker osservava con morbosa attenzione se stessa. Sulle sue braccia erano già apparsi lividi violetti. Era difficile convincersi che fossero segni d'amore; che fossero l'esternazione di un momento, un'occasione che non si sarebbe mai più ripetuta, perché, se ci rifletteva, era l'ultimo di una serie, e non c'erano più promesse a cui credere.

Mentre quelle dita l'avevano stretta non le era sfuggito il bagliore giallo e malato che aveva attraversato i suoi occhi, come un dragone che fuggisse veloce nelle insondabili profondità del blu marino.

Quando la porta era stata sbattuta, Padmé aveva scrutato nel buio. Nella consapevolezza di essere rimasta sola, aveva cercato nell'oscurità della sua camera da letto una luce che la guidasse verso una conclusione logica, una conclusione accettabile. Erano seguite ore confuse, fatte di marce serrate su e giù per l'appartamento, in cui si era posta molte domande e non aveva trovato risposte.

Erano passati mesi da quando aveva visto il giallo, e quello zolfo rancido ora appestava tutto. Appestava la camera da letto, il letto, le lenzuola, le pareti, il corridoio, il salone elegante; appestava lei, le sue braccia, le sue mani, le sue labbra e la sua bocca. Non aveva avuto il coraggio di toccare i suoi bambini per paura di essere rifiutata, perché, lo sapeva, Luke e Leia lo avrebbero sentito.

A lei erano serviti quattro mesi pieni di rabbia, dolore e speranza per riavere una pallida impressione dell'uomo di cui si era innamorata. Era stata soffocata, umiliata, ignorata, maltrattata e lo aveva lasciato fare, perché lo amava, perché essere sua schiava era la schiavitù più dolorosa e dolce e meravigliosa e lei ne era totalmente dipendente, e sarebbe stato per sempre così, perché Anakin era crudele, e anche quando era oscuro, c'era sempre uno sguardo, una carezza, e lei ricadeva ai suoi piedi.

All'imperatore erano bastate quattro ore per far evaporare la sua illusione.

La lotta era troppo impari. L'amava - e sempre lo avrebbe amato, di questo ne era certa, per sempre sicura, perché era un fatto inalienabile, incontestabile, e avrebbe superato la prova del tempo, dei millenni, delle ere geologiche, e sarebbe continuato nell'aldilà e nell'oblio - ma forse non era abbastanza. Qualsiasi seduzione promettesse il Lato Oscuro, essa era troppo potente perché lei, una donna senza alcun potere, potesse contrastarla, e si odiava per star all’improvviso dubitando di quello di cui era stata sempre sicura: che prima o poi sarebbe stata capace di riportare indietro Anakin.

Se quella considerazione svaniva, allora svaniva la ragione per cui continuava a rimanere al suo fianco. O forse no.

Si portò una mano al petto, e strinse la collanina col pendente in legno di japor. Era un prezioso tesoro, un'inestimabile porta nel tempo e una pietra tombale dei sogni della sua vita; significava troppe cose perché potesse anche solo considerarle separatamente.

Era stata una persona diversa quando l'aveva ricevuta. Più giovane, più ingenua, ma era stata sicura dei suoi ideali, sdegnosa dei compromessi, e infaticabile. La persona di tredici anni prima sarebbe stata una madre migliore per Luke e Leia, e il pensiero bastava per torturarla.

Nell'altra mano, teneva il chip delle registrazioni. Era stato il dono più terribile che le avesse lasciato Obi-Wan: al suo interno vi era la distruzione dei Jedi, quella notte al Tempio, l'assassinio di maestri, anziani e bambini. 

Entrava nell'incavo di una mano. Era nero, e la sua superficie era venata di minuscoli fili dorati a beneficio del lettore olografico. Prometteva la terribile libertà della conoscenza, ma Padmé non aveva abbastanza coraggio. Non ne sarebbe mai stata capace.

I suoi occhi avevano trovato il Palazzo Imperiale. Uno spasmo d'odio la invase al pensiero di quel vecchio orrendo, la rabbia contorse il suo viso nel parossismo dell’odio. Sapeva cosa doveva fare: qualcosa che avrebbe dovuto fare molto tempo prima.

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Dieci. ***


        Dieci_____

L’assorta, meditativa contemplazione di una Coruscant illuminata dal sole fu interrotta in malo modo dalla voce roca di uno dei cloni. Zelante, forse confuso dall’attardarsi del generale, il giovane Sixty era venuto ad avvisarlo della prossima partenza, calpestando con i suoi stivali di gomma le pozzanghere lasciate dalle pulizie mattutine e producendo uno sgradevole squittio di suole bagnate.

‹‹Siamo pronti, generale.››

Ed era rimasto lì, fermo, in attesa del minimo segno di riconoscimento del generale Skywalker.

Fresco di Kamino, Sixty non poteva ancora conoscere l’animo nebuloso del generale. Gliene avevano parlato con toni di leggenda, giù all’accademia: le solite chiacchiere da camerati prima di infilarsi nel lettuccio incassato nell’immensa parete-dormitorio, capace di contenere, uno accanto all’altro, i sonni di migliaia e migliaia di cloni. Anakin Skywalker, ottanta chili del materiale di cui erano fatte le leggende: passato misterioso, prova d’eroismo a dieci anni, carriera da Jedi sfolgorante (“è il più potente di tutti, Sixty, dovresti sentire come ne parlano, dannazione”), generale a cinque stelle durante la guerra, il primo conflitto a livello galattico dopo novecento anni di pace (“quei Separatisti, vorrei ammazzarli uno ad uno”), uomo che aveva fisicamente posto fine a quella guerra, per poi diventare il pupillo personale dell’imperatore.

La sensazione che si provava ad avvicinarsi a lui era simile a quella che si sentiva quando a Kamino ti mettevano in mano per la prima volta una folgoratrice: la sensazione di aver incontrato il proprio destino.

Ma nonostante il tono di cupa professionalità che aveva infuso nella sua battuta, nonostante lo schiocco preciso quando aveva unito le caviglie da buon soldato, identiche a quelle di milioni di altri, Anakin Skywalker lo aveva completamente ignorato.

La sua silhouette atletica stagliata contro lo sfondo dei vicini palazzi della Coruscant importante, quella che s’affacciava direttamente sui palazzi del potere, il generale era totalmente nel suo mondo. Sixty era troppo giovane e inesperto per sapere che in quei momenti un Jedi – anche se tecnicamente Skywalker era un Jedi che aveva visto la luce abbastanza in tempo da salvare se stesso – non andava disturbato. E poi, tutti i veterani lo sapevano, lo avevano captato appena il giovane era entrato nella stanza, con quella sensibilità sociale che nasce dallo stare tutti insieme, per tutta la vita, in un formicaio umano: qualcosa era cambiato nel giovane generale. Si vedeva dal suo passo nervoso, dalla maniera in cui i suoi occhi si spostavano sui loro volti come se non fosse del tutto soddisfatto, dal modo in cui parlava, con periodi spezzati e pause che parevano pulsare di una rabbia sotterranea e per ciò tanto più pericolosa.

In quel momento, Anakin era preso, forse un po’ fuori luogo, dall’osservazione della città. Accettato di dover aumentare il suo contatto con la Forza – che ad ogni modo non era mai stato talmente vivido, corporeo – con la meditazione, si era ricavato un angolo di solitudine alla soglia dell’hangar, dove l’ombra data dal tetto finiva nettamente e iniziava il cemento soleggiato. Aveva provato a chiudere gli occhi, così da aumentare la sua concentrazione: ma lo spettacolo da quell’hangar non era mai stato così, e chiudere gli occhi pareva un peccato.

L’aria era così limpida che dall’hangar 100B del Palazzo Imperiale si vedeva chiaramente fino a chilometri di distanza, dove minuscoli edifici grigi e marroni andavano a perdersi nella bruma azzurrina dell’orizzonte. Ogni edificio pareva essere stato lucidato per essere esposto al pubblico; ogni guglia di grattacielo splendeva al sole, perfettamente lustra, nitida: gli attici grattavano il ventre chiaro delle nubi, alcuni si perdevano oltre esse. Anche gli airspeeder e i taxi e gli aerobus parevano sfrecciare nell’aria in maniera più elegante, come se fendessero il freddo dell’autunno con nuova nitidezza. Lo spettacolo era di una bellezza abbacinante.

Era come gli era stato insegnato: era possibile meditare in ogni luogo, e la mancanza di stimoli sensoriali erano preferibili, ma non indispensabili.

Ci fu un altro, fastidioso cigolio di suole bagnate.

‹‹Abbiamo inserito le coordinate generale,›› disse un altro clone, venuto ad affiancare il primo. Il nome di quest’ultimo era Jigster, un tipo dai capelli rossi e un curioso tic nervoso alla mascella. ‹‹Siamo pronti a partire -››

‹‹Ho capito,›› ringhiò sottovoce Anakin.

Forse i due cloni sentirono il clic metallico del pugno robotico, o forse notarono l’irrigidimento dei muscoli delle spalle, perché recepirono il messaggio, smisero di parlare e fecero un passo indietro. Per qualche istante si limitarono a fissare un po’ ottusamente la schiena di Anakin, in attesa di nuovi ordini.

‹‹Aspettatemi a bordo.››

Che cosa si aspettassero tutti da lui, Anakin non lo sapeva più. Era stanco, e di pessimo umore, e aveva sperato che tutti se ne accorgessero e gli dessero lo spazio di respirare, dannazione, perché era questo quello che aveva sempre odiato dello stare in guerra, il fatto che non ci fosse mai un solo momento per respirare un po’ d’aria da soli, senza avere qualcuno che ti cercasse, o qualcuno che volesse il tuo aiuto, o il tuo parere.

E sì che forse sul suo umore influiva la mancanza di sonno, perché quella notte era passata insonne e l’intera, strana sessione con l’imperatore si era ripetuta nella sua stessa come un olofilm messo in ripetizione automatica. C’era il suo arrivo, il suo ingresso nell’ufficio dalla moquette rossa, il panorama sulla città notturna; poi quell’ “accomodati”, lo sprofondare nella poltrona e poi nei recessi della sua testa, e poi quelle parole che si ripetevano, e si ripetevano ancora… Era come se quei discorsi fossero diventati una ciste nel suo cervello, impossibili da far uscire senza qualche operazione: il problema era che non aveva nessuna idea di quale operazione gli servisse.

Non c’era più tempo, e fissare il vuoto non dava grandi risultati, così girò le spalle al vasto panorama in cui aveva cercato delle risposte e si avviò verso la rampa d’accesso.

 

 

 

Il suo proposito, tante volte segretamente accarezzato nel corso di quei mesi e tante volte forzosamente ricacciato indietro, per questo o quel motivo, ora le appariva spaventoso.

Dopo una notte agitata, il sole era sorto. I suoi raggi indiscreti avevano colto una Padmé addormentata al tavolo della cucina, con il viso sepolto tra le braccia conserte. Accanto alla sua mano destra, un bicchiere appannato; accanto alla sua testa, una bottiglia di vino, discretamente piena.

‹‹Questo pomeriggio arriveranno i mobili. Se io dovessi uscire con i bambini, sai cosa devi fare, vero, 3PO?››

Era con ogni probabilità la ventesima volta quel mattino che ripeteva quella domanda e variazioni monotematiche della stessa, attendendo di cogliere in fallo il povero droide protocollare; dopotutto, per quanto 3PO credesse di essere il più affidabile dei protocollari, c'era da stare attenti con la sua memoria e la sua coordinazione. Forse era arrivato il momento di fare un piccolo controllo alle sue sinapsi – Anakin se ne  sarebbe occupato, se solo fosse stato lì.

‹‹Ma certo, signora Padmé,›› rispose il droide, con voce offesa. ‹‹Devo indicare ai lavoratori dove poggiare i mobili, come segnato da voi sulla piantina dell’appartamento. E nell’improbabile eventualità che non sapessi dove mettere un mobile, chiederò ai lavoratori di poggiare tutto nella sala famigliare. Padrona Padmé, onestamente, queste mansioni potrebbero essere svolte anche da un robot come R2.››

R2 alzò la sua cupola e indirizzò un lungo sibilo minaccioso verso 3PO.

‹‹Oh, che caratteraccio,›› commentò 3PO, indignato.

Padmé sorrise.

Stava terminando di inserire tra i suoi capelli le forcine necessarie a sorreggere l'acconciatura. Il risultato era egregio, e non avrebbe sfigurato (troppo) in confronto con una scultura della vecchia cara Eirtaé. Era il momento delle rifiniture il momento peggiore, quando si dovevano prendere tutte le precauzioni per evitare che i due giri di trecce sulla nuca crollassero rovinosamente sulla schiena

‹‹Quando tornerà padron Anakin?››

Una forcina finì direttamente, e con molta forza, contro lo scalpo.

‹‹Non sono affari che ti riguardano, 3PO.››

Abbassò lo sguardo, posò via le forcine e si rassettò il busto finemente pieghettato dell'abito. Era un lavoro di seta nata nei pregiati bozzoli dei bachi di Alderaan, fissato in vita da un largo nastro in tinta e coperto da un soprabito rigido. Da solo, riusciva a riportarla indietro al suo vecchio impiego e alla sua vecchia vita, come se stesse scorrendo nella cartella del suo datapad tutti i documenti su cui aveva impiegato amorevolmente le sue ore per sei anni, o stesse guardando all’Holonet il discorso di un qualche senatore.

Ma i discorsi dei senatori con i giornalisti  diventavano di giorno in giorno più prevedibili. Si levavano come cori di belati in direzione del sorriso onnipresente di Palpatine. Ritornare a Coruscant era significato immergersi di nuovo nella vita politica di quella Galassia, e indignarsi.

L'improvviso silenzio nella stanza non fece che amplificare la voce impertinente del senso di colpa. ‹‹Perdonami, 3PO. Sono stata sgarbata.››

‹‹Oh, non è niente, signora Padmé,›› disse il droide.

Provò un improvviso e travolgente moto d’affetto per il povero 3PO. La sua esistenza cromata d’oro pareva sempre così precaria e bisognosa di rassicurazioni che negli anni aveva sviluppato una forma di protezione materna nei suoi confronti. ‹‹Non lo so quando torna. Vorrei saperlo anche io.››

L’idea di dedicare l’intera mattinata all’accurata preparazione del suo aspetto, in preparazione alla sua missione, le era venuta come un sussurro dal passato, con il timbro e l’accento di sua madre.

Jobal era stata parte del bel mondo della Theed di quaranta anni prima. Figlia di due personaggi ugualmente belli e crudeli, era cresciuta in un tipo di società che non sembrava mescersi bene con le cupole azzurre e il sabbia rosato dei muri, eppure ne faceva incontestabilmente parte. Da ragazzina e giovane donna aveva assaggiato la vita mondana delle feste nei palazzi nobili e nelle ville di campagna, prima di innamorarsi di un certo giovane Naberrie, sposarlo in una cerimonia civile (troppo conformista e da alta società cercare un sacerdote) e fare due figlie con lui, delle quali una sarebbe stata regina.

E se anche aveva dato una sostanziale moderata alla sua dimestichezza con la mondanità cittadina, il suo animo era sempre rimasto quello di una ventenne spensierata che respirava a pieni polmoni l’euforia della capitale, sempre nell’annoiata attesa, magari, di fare il gran salto ed approdare a Coruscant (non era mai successo). La sua etica era rimasta sempre la stessa. Ed era: quando la vita vi butterà giù – e solo la dea Yami poteva sapere quante volte sarebbe successo – il migliore rimedio, se non altro temporaneo, era afferrare uno specchio, dei trucchi e un bel vestito, e lavorare sodo fino a raggiungere un risultato che soddisfacesse pienamente le vezzose preferenze dell’occhio. Quelle dei bastoncelli oculari erano consolazioni passeggere, ma le più semplici da ottenere.

E così Padmé aveva fatto.

Passò un velo di cipria sulle guance, tracciò il contorno degli occhi: e quando infine guardò il proprio riflesso nello specchio, il cuore le si espanse soddisfatto nel petto e ringraziò di cuore lo spirito pratico della madre. E in quello specchio la Repubblica non era morta, ma  era viva e vegeta e Padmé era una delle sue senatrici, sacerdotesse laiche che in quella dimensione erano riuscita a salvarla dai piani di un orco.

Fu in quel momento che vide Anakin, seduto sul bordo del letto. Aveva la divisa da Jedi già infilata, casacca e stivali, e sul volto indossava un sorriso pigro ed allusivo da diavolo. Stavolta il suo sorriso conturbante non era un ricordo della notte trascorsa insieme, ma un monito: che lei, Padmé, sua moglie, per quanto si travestisse da Amidala, non sarebbe più stata la donna di prima, perché, quattro mesi prima, aveva chiuso entrambi gli occhi davanti al male. Avrebbe per sempre pagato le conseguenze della sua debolezza, e si rese conto che anche lei, come lui, aveva di fronte a sé un lungo percorso di redenzione.

Il viso nello specchio fece una smorfia per contenere il pianto che bruciava dietro gli occhi.

 

 

 

Anakin non fu particolarmente sorpreso quando vide che l’illuminazione sulla Base Orbitante Prima era stata abbassata dall’ultima volta che aveva percorso i suoi corridoi. Dopo solo una settimana dal suo viaggio inaugurale, il luogo pareva essere già stato usurato dal passeggiare dei cloni; spesso e volentieri le luci alogene tremolavano come se decine di falene ne oscurassero i raggi altrimenti continui.

A nessuno importava davvero. Il personale di bordo era composto da soldati, ufficiali che Anakin nemmeno conosceva (i rinnovi al personale erano stati veloci, e spesso si ritrovava ad essere salutato da uomini dei quali non conosceva nemmeno i nomi) e un esercito di droidi che si occupavano delle pulizie, della cucina e della manutenzione. Ogni tanto, nei corridoi spuntavano scienziati: ingegneri, meccanici, tutti riconoscibili dal camice verde fango con un logo stilizzato sopra il cuore e il loro sguardo sempre un po’ sopraffatto in quel mare di uomini dai visi cupi e gli stivali di gomma.

Camminando per le sue vie, scendendo per i suoi ascensori, affacciandosi dai suoi oblunghi oblò, il mistero della sua deambulazione per l’etere appariva ancora più minaccioso. A volte sembrava bastasse quello per rendere felici coloro che vi lavoravano all’interno, quell’enorme arsenale umano e metallico pronto ad essere sganciato sul primo obiettivo; la consapevolezza di essere nel ventre di qualcosa che non era mai stato tentato prima li riempiva quasi di orgoglio, finché non s’accorgevano che al suo interno quella luna liscia s’assomigliava ad un alveare, e loro non erano altro che i fuchi, intrappolati dentro le loro cellette grigie e bianche.

Anakin ne era affascinato. Il luogo gli risonava nel petto, come se quella Base fosse nata, con i suoi corridoi bui, le sue mille stanze segrete, il delicato sali-e-scendi degli ascensori, per ospitarlo. Quell’affinità si staccava dalle pareti a circondarlo nel loro secco abbraccio, come se quei corridoi così nuovi stessero a salutare il loro figlio più caro.

Il suo passo tradiva un certo nervosismo. Dapprima, i cloni si chiesero per quale motivo il generale avesse i nervi talmente scoperti.

La missione a Naboo, com’era stata prontamente battezzata dai soldati che erano pronti ad appiccicare l’etichetta ‘missione’ anche al più banale compito di sorveglianza di un  paio di sassi nell’Orlo Esterno, non doveva essere una questione di particolare difficoltà. Naboo non aveva nemmeno un esercito: figurarsi se ci sarebbe stata poi un’opposizione. E, dopotutto, l’impero si muoveva ancora sulla linea della pace.

Anakin aveva parlato loro in toni asciutti, come si conveniva ad un vero generale.

‹‹Avete ordini precisi,›› aveva esordito. ‹‹Fase uno. Assoluto controllo del palazzo. Perquisizione completa e report dettagliato. Tra noi, è altamente improbabile che troviate qualcosa degno di nota.››

I nuovi dettami erano stati consegnati ad Anakin da Palpatine in persona, quando lo aveva incontrato nella mattinata. Il vecchio deforme gli aveva parlato alquanto vagamente di ciò che avrebbe dovuto fare, allo stesso tempo liquidando la faccenda e definendola assolutamente delicata, e aveva incaricato Anakin di svolgere in tutta libertà ciò che avrebbe ritenuto migliore.

‹‹E’ tempo che tu acquisisca esperienza di comando assoluto sotto lo stemma dell’impero,›› aveva detto Palpatine. ‹‹Vogliamo che il tuo apprendistato sia quanto più completo possibile, ovviamente. Hai pieno potere, Darth Vader.››

Poi aveva dato l’unico vero ordine. ‹‹Devi rimanere sulla Base Orbitante Prima fino a quando non potrai fare altrimenti.›› Con queste poche parole, lo aveva pressoché condannato a rimanere rinchiuso tra le mura lisce della Base, ma era stato quasi con sorpresa che si era accorto di apprezzare quel luogo più di quanto non pensasse.

Parlare con i capitani era stato curioso, perché li aveva lasciati da così poco che sembrava che Mantooine non fosse mai finita, ma che Naboo fosse la stessa Mantooine e tutto fosse destinato a ripetersi una,due, dieci, cento volte. Situazioni, luoghi, tutto ritornava (tranne le persone: quelle rimanevano per sempre accantonate nel passato); tutto non era che una versione di un tema più antico, una melodia già sentita, e gli intervalli avevano sempre lo stesso sapore. Amaro.

La battaglie della Guerra dei Cloni (così come stava già passando alla storia) erano finite da meno di sei mesi, e già non erano altro che un ricordo sempre più indistinto, con il passare di ogni ora: erano già un’unica grande battaglia combattuta su un campo che era allo stesso tempo su Ryloth, su Geonosis, su Coruscant, su Kamino, in uno spazio senza coordinate perché lo spazio s’assomigliava tutto, ovunque; e i suoi soldati, e i suoi capitani, quelli di un tempo e quelli che lo avevano ascoltato mentre li istruiva su ciò che avrebbero dovuto fare a Theed, erano sempre gli stessi anche se non erano mai le stesse persone; le tecnologie erano tutte dispiegate in quell’immensa battaglia, tutti gli arzigogolati aggeggi, uno più complicato e inefficace dell’altro, creati dalle menti dei Separatisti. Nulla di tutto ciò esisteva più: non c’era più nessun esercito della Repubblica, non c’erano più droidi separatisti.

L’unica cosa che pareva essere cambiata era lui.

 

 

 

Le mani di Padmé s’aggrappavano al volante del suo velivolo come se fossero l’ultimo appiglio prima della caduta verso l’infinito. Per quanto fosse uscita con un progetto ben sviluppato in mente, quando aveva visto la cupola del Senato tutto il coraggio che era riuscita a racimolare era impietosamente venuto a mancare; così aveva iniziato a girovagare per il distretto, e in questo modo era riuscita a perdere due ore del suo tempo.

La giornata era perfetta per quello che doveva fare. C’era freddo, ma un freddo frizzante che faceva scorrere più veloce il sangue nelle vene, e il sole era forte e il cielo blu e limpido. Fu l’incoraggiamento disinteressato di quel sole a farle ritrovare il coraggio necessario per parcheggiare lo speeder in uno degli hangar del palazzo del Senato.

Informalmente, il palazzo senatoriale veniva chiamato dai cittadini più smaliziati di Coruscant “il Fungo”. Il termine era poco elegante, ma, come Padmé aveva avuto modo di scoprire molte volte nel corso della sua carriera, dava spazio a numerose battute sulle sparate allucinanti dei politici che ne popolavano le aule. Nonostante ciò, la sua vista le aveva riempito il petto di nostalgia.

La cupola lucida, le guardie in armatura blu, i mezzi lussuosi dei senatori, e tutto ciò che aveva composto lo sfondo della sua vita per sei anni ora le apparvero di nuovo. Tutto pareva allo stesso tempo estraneo e familiare. Riconosceva bene i luoghi e gli oggetti, e avrebbe potuto giurare di conoscere il nome di un paio delle guardie che le avevano chiesto il suo documento di identificazione, ma c’era qualcosa di intangibile, ma non per questo meno reale, che rendeva tutto piuttosto alieno. Si ricordava l’hangar più piccolo, e più affollato; e c’erano state meno guardie agli ingressi degli ascensori, e lei, lei non era mai stata così nervosa di essere lì come in quel momento.

La prima volta che c’era andata aveva avuto sei anni. Ricordava perfettamente le circostanze di quel giorno e dei giorni che l’avevano preceduto: ricordava di quanto tempo avesse passato a scegliere il vestito perfetto per quel giorno importante, quanto avesse fatto i capricci quando aveva scoperto una smagliatura nei collant bianchi (sua madre era stata dunque costretta a cercare il paio perfetto in tutti i negozi di Theed) e come aveva voluto che fosse esattamente la sua acconciatura (“Una sola treccia per favore, con questo nastro, ma da questo lato, non dall’altro, sennò è brutto”). Finalmente, la partenza, e poi, per la prima volta, l’immensità artificiale di Coruscant.

Quel giorno l’hangar era stato pieno di giornalisti che chiedevano l’opinione di Palpatine (l’influente senatore che aveva portato Naboo, fino ad allora piccolo mondo isolato, tra i pianeti influenti della galassia) sulla questione scottante di quei giorni. Facevano un gran baccano, e Padmé non capiva perché non riuscissero a rispettare i turni come le avevano insegnato a scuola, ma suo padre le aveva detto, lo avrebbe sempre ricordato, ‹‹Quello è un sant’uomo››. Si erano poi fermati, e suo padre le aveva fatto fare la conoscenza del senatore di Rodia, Onaconda Farr; e in quelle, mentre perdevano un po’ di tempo davanti agli ascensori, il sant’uomo l’aveva notato e le aveva fatto l’occhiolino. Le era piaciuto un sacco, quel sant’uomo.

Era difficile credere che da quel giorno fossero passati più di vent’anni.

Dall’ascensore più vicino uscirono due imponenti Chagriani dalla pelle blu e abiti borgogna. Intrattenevano una discussione fitta sulla questione del giorno. Quando la videro, uno di quelli fece un profondo inchino.

‹‹Milady,›› disse.

‹‹Consigliere Amedda,›› replicò Padmé, ricambiando a sua volta con un piccolo inchino rituale.

 

 

 

Le nocche della mano destra di Padmé rimasero incollate alla porta anche dopo aver finito di bussare.

Quale follia! Non aveva nessun diritto di stare lì e bussare a quella porta e sperare in un benvenuto. Avrebbe fatto meglio ad andarsene immediatamente, prima di esporsi ad un’altra umiliazione; forse era ancora in tempo per correre giù per il corridoio, sparire dietro alla curva, prendere l’ascensore, ritornare all’airspeeder e lasciare il Senato e tutta quella piccola avventura in cui si era voluta cacciare perché… perché era stanca, e triste, ed era chiaro che non aveva ragionato chiaramente e ora ne avrebbe pagato le conseguenze.

Dapprima, le sembrò che non ci fosse nessuno, lì dentro. Dall’altro lato della porta non ci furono segnali di vita. Durante tutta l’eterna, agonizzante attesa nella testa di Padmé si rincorsero varie fantasie, una più catastrofica dell’altra, nelle quali aveva cercato – con un certo voluttuoso masochismo – una punizione alla temerarietà che l’aveva portata davanti a quell’ufficio.

In una, veniva neutralizzata con paroline sarcastiche e frecciate all’indirizzo suo e soprattutto di suo marito: la conclusione era che le veniva detto, chiaro e tondo, che non c’era modo di fidarsi veramente di lei, non dopo quello che aveva fatto, e che qualunque valore avesse avuto ora esso era per sempre perduto. In un’altra –

‹‹Oh.››

Bail Organa, il suo vecchio amico ed alleato, si parò davanti a lei per la prima volta in quattro mesi. Era esattamente lo stesso di sempre, con i capelli impomatati e l’accurata barbetta sul mento e sul labbro superiore; di più, indossava un completo familiare, divisa e pesante mantello di lana fino al suolo, che gli aveva visto addosso decine di volte. La sua espressione era una di educata ma illeggibile sorpresa.

‹‹Senatore Organa,›› offrì Padmé, sperando che l’uso della vocazione formale rendesse la sua presenza lì più tollerabile. Si sentiva molto come una bambina che si fosse intrufolata in un luogo dove non sarebbe dovuta andare, come una cena da grandi in cui i piccoli non erano ammessi, o una cucina in cui le era stato vietato di entrare, perché la torta della festa era stata sfornata e la guarnizione di crema temeva le sue ditate da bambina.

‹‹Tutto questo è… inaspettato.››

L’espressione lasciò entrambi un po’ indifferenti, e per qualche istante non fecero altro che guardarsi.

Era più difficile di quanto si fosse immaginata. Un conto era stato immaginare quel momento, le parole che avrebbe dovuto dire, e le parole che si sarebbe dovuta aspettare; un conto era averlo di fronte, l’uomo che aveva conosciuto per sei anni e con cui aveva trovato un completo allineamento ideologico, così raro tra i politici, e speciale quando a loro si era unita Mon Mothma.

‹‹Posso entrare?››

‹‹Si accomodi, senatrice Amidala.››

Si scostò e lasciò che Padmé scivolasse nell’ufficio, identico a come lo aveva visto l’ultima volta. Per qualche istante non seppe bene se potesse sedersi o fosse un gesto di imperdonabile arroganza, così rimase lì, ritta in piedi, finché Bail non le indicò senza parlare il divano. Poi il senatore si sedette sulla poltrona di fronte a lei, bisbigliò qualche parola al droide protocollare, e lo guardò allontanarsi cigolando prima di rivolgere la sua completa attenzione a Padmé.

‹‹Siete sparita a lungo dai radar,›› disse Bail. ‹‹Non c’era maniera di contattarvi. Un peccato, un peccato…››

Come le accadeva raramente, le mani di Padmé erano terribilmente sudate; infastidita, cercava di asciugarsele discretamente sul vestito, e tormentava una pellicina sull’unghia con pollice e indice dell’altra mano.

‹‹Non sono più una senatrice. Né vorrei esserlo, viste le circostanze.››

Avrebbe voluto dirgli: guardami, Bail – sono Padmé, la Padmé di sempre, non sono una spia, una traditrice, puoi fidarti di me. Sono stata io a liberare Obi-Wan, non l’ho denunciato per due volte, e non l’avrei fatto per mille volte, e non ho denunciato te anche se so da mesi che hai dato ausilio ad un Jedi, o forse più di uno. Ma non aveva il coraggio di parlare. La lingua le si era impastata.

Il droide ritornò con un vassoio e due alti bicchieri da cocktail, pieni di una bevanda violetta. Era il vino liquoroso delle serre di Mandalore: Padmé ne riconobbe l’odore dolce e sciropposo nell’aria, e la lingua le si contrasse nell’anticipazione del gusto appena tannico che le invase il palato quando ne prese un sorso. Bail la scrutò al di sopra dell’orlo del suo bicchiere.

‹‹Mi sono rifugiata in patria,›› spiegò Padmé, abbassando il bicchiere. ‹‹Coruscant mi era diventata insopportabile. E poi, con due bambini piccoli, avevo bisogno di sfuggire allo… allo scrutinio, credo.››

‹‹Stanno bene, i bambini?››

‹‹Molto. Credo che voi lo sappiate bene, senatore.››

L’aveva detto. Si guardarono negli occhi di nuovo, ognuno intrappolato nel silenzio pregno di sottintesi. Per qualche istante, Padmé sentì letteralmente solo il lievissimo, impercettibile pulsare della scheda di memoria del droide accanto a Bail, il brusio di una vita meccanica.

‹‹Bail,›› quasi implorò alla fine, ‹‹apprezzerei moltissimo se potessimo cenare insieme, e discutere tranquillamente, una di queste sere. Stasera, magari, o domani. Ti prego, Bail.››

Lasciò che fossero i suoi occhi a terminare il suo discorso. Sì, era disposta a spiegare tutto. Le circostanze del suo matrimonio con Anakin, la sua disperazione quando aveva saputo del tradimento di Anakin, la sua debolezza, la sua vergogna, la sua paura: ogni cosa, lei l’avrebbe spiegata con dovizia di dettagli, se fosse significato ottenere indietro un po’ di quella stima e quella fiducia di cui aveva goduto ai buoni occhi di Bail, e Mon, e tutti gli altri che erano stati suoi alleati. Aveva bisogno che qualcuno si fidasse di nuovo di lei.

‹‹E Skywalker?››

Padmé arrossì. ‹‹Lui non c’è.››

Non seppe mai se in quel momento si vergognò di più per l’aver visto nuovamente crollare sulle sue spalle tutta l’infamia della sua vita recente, o per non essere nemmeno riuscita a pronunciare il nome di suo marito. Il vino tra le sue mani era diventato caldo, ma le sue mani si erano asciugate.

Bail non parlò per qualche istante. Sembrò considerare l’offerta, sorseggiando dal suo bicchiere. Infine lo posò sul tavolino.

‹‹Accetto,›› disse. ‹‹A domani, Padmé. Ci sono tante cose da discutere.››

Il sorriso di Padmé sarebbe stato in grado di illuminare tutta quella stanza. 

 

 

 

‹‹Quello che volete fare è illegale.››

La voce nasale di Apailana era secca ed austera, ma non scevra di una certa piacevolezza. Era una voce appropriata ad un persona intelligente, e Anakin non dubitava che la regina, sotto gli strati del trucco tradizionale, lo fosse. Inoltre, era una voce che riteneva ancora un po’ del timbro da ragazzina che doveva avere nella vita di tutti i giorni la persona sotto alla maschera. Quanti anni aveva, dopotutto? Dodici, tredici forse. Era difficile indovinare le età delle ragazzine che i naboo eleggevano loro sovrane.

La sovrana indossava un lungo abito di broccato blu, con grandi spalle quadrate ricamate d’argento. Sui suoi capelli poggiava un grosso copricapo – sicuramente ispirato a Shiraya, dea della luna, o perlomeno così credeva Anakin ricordando le poche e frammentarie lezioni di mitologia naboo che Padmé gli aveva impartito – e il viso era di un perfetto biancore, ornato da due punti grigi sulle guance, simbolo di simmetria, e una cicatrice della memoria sul labbro inferiore, a sempiterno ricordo dei martiri della Grande Guerra.

Le loro vere personalità annullate sotto trucco e vestiti quando in veste ufficiale, le regine dovevano essere tele intonse da cui potesse sorridere al suo popolo la dea Maya.

‹‹E’ solo un controllo, Sua Altezza,›› rispose impassibile Anakin.

‹‹Per quale motivo dovrei accettarlo, generale Skywalker?››

‹‹Perché il popolo dell’impero lo vuole.››

Il volto di Apailana si contrasse in una smorfia di disapprovazione.

‹‹Non vi smentite.›› E spense.

E per il resto della notte, e per molto tempo a venire, Anakin si chiese se si fosse riferita all’impero in generale, o proprio a lui, Anakin Skywalker, e ai fantasmi che ancora alitavano sul suo collo ogni volta che si guardava allo specchio.

 

Era facile credere che la Storia avesse un fluire circolare, quando gli eventi continuavano a ripetersi. Mentre guardava fuori dal grande schermo panoramico di una delle sale di comando, confortato dall’anonimo e indistinto rumore di venti ufficiali che si scambiavano commenti e coordinate tecniche, Anakin pensò a come, in tredici anni, fossero cambiate le cose. Un tempo era stato Nute Gunray ad essere nella sua posizione: a guardare fuori da uno schermo e contemplare il globo pacifico di Naboo mentre decine di caccia volavano verso di esso con lo scopo di invaderlo.

Certo, le circostanze potevano essere un po’ cambiate – potevano esserci dei dettagli che facevano saltare i parallelismi, come il fatto che l’impero era nel giusto, stavolta– ma la sostanza era più o meno la stessa; e lui, Anakin, era ora il nemico del palazzo di Naboo, perché quel palazzo aveva lasciato che un Jedi – quel Jedi – vi posasse il suo piede e ponesse a rischio la sua vita. Avrebbe dovuto ucciderlo quando aveva potuto. Quel pensiero, assieme a tutti gli altri che si portava dietro da mesi, costituiva ora il rumore di sottofondo del suo tempo diurno e notturno.

‹‹Pensieroso, generale Skywalker?››

Anakin si voltò per esaminare i volti del neo-eletto Moff Tarkin e dell’ammiraglio Yularen, che indossava la sua solita espressione di vaga disapprovazione nei suoi confronti. Il solo modo in cui loro portavano la divisa, mentre Anakin si atteneva alle sue vesti tradizionali di monaco, parlava chiaro delle differenze che intercorrevano tra i loro mondi.

‹‹Non particolarmente. E’ disdicevole.››

Tarkin fece spallucce. ‹‹Cose che capitano quando i governi non sanno qual è il loro posto.››

Anakin non rispose. Si sentiva infastidito dalla presenza di quei due uomini, o forse dal fatto che quei due uomini volessero parlargli. Sempre di più, Anakin registrava una certa insofferenza al confronto con uomini che non avessero il suo potere – sempre di più il possesso della Forza, in un universo in cui non c’era altro che una sola persona con cui condividerlo, rappresentava per lui il discriminante tra chi era interessante ascoltare e chi no. Non riusciva a prendere sul serio qualcuno, quando sapeva di poter strozzare impunemente quella persona con un solo, delicatissimo gesto delle dita.

‹‹Vedrete che finirà tutto in un paio di giorni,›› disse l’ammiraglio Yularen. ‹‹Apailana è una testa calda, ma è solo una ragazzina. Che stravaganti, i naboo.›› E scosse la testa, per esprimere tutta la sua disapprovazione da uomo di Scipio, che quel genere di bambinate non le capiva.

Tarkin studiò discretamente l’espressione di Anakin, con quei suoi occhi piccoli ma tremendamente intelligenti.

Anakin ignorò quel commento, e non distolse lo sguardo dallo sfrecciare veloce dei fighter che si lanciavano nell’inchiostro dello spazio, verso la luminosa esosfera di Naboo.

 

 

 

Padmé si svegliò di soprassalto, si dimenò, cieca e stordita, nel letto un paio di volte mentre il datapad squillava come una sirena nelle sue orecchie e la luce del display squarciava il buio riposante della camera da letto. Per qualche istante lottò contro il velo del sonno che continuava ad offuscarle il cervello, infine recuperò le coordinate mentali e si lanciò incespicando contro il piccolo elemento incriminato che giaceva urlante sul comò della biancheria.

Allarmata e ancora mezza addormentata Padmé pigiò il pulsante della chiamata e attese una frazione di secondo prima che davanti ai suoi occhi comparisse il volto allarmato di sua madre.

‹‹Padmé! Oh Padmé! Non sai ancora nulla? Come non lo sai? Il palazzo, il palazzo è stato occupato!››

 

 

*

 

N/A: Quasi un mese che non aggiorno? Sto perdendo colpi. E’ che questo è stato un capitolo incredibilmente difficile da scrivere. Non so nemmeno perché. Ogni volta che mi mettevo a scrivere tutta piena di buona volontà, semplicemente le parole non venivano. E forse è anche colpa del ritorno alla scuola, e delle lezioni di violoncello :) Quindi mi scuso e spero che vi piaccia. I successivi capitoli dovrebbero arrivare molto più velocemente, agli dei piacendo.

Per la serie cose random, ora ho un Livejournal in cui archiviare tutta la mia fan fiction su Star Wars e scrivere cose relative all’universo SW (ad esempio i miei commenti sugli episodi della serie The Clone Wars). Temo che il mio entusiasmo nello scribacchiare drabbles e storielle sulla GFFA mi faccia apparire un po’ una spammer su questi lidi purtroppo un po’ solitari! Quindi sul LJ dovreste trovare altri dei miei parti mentali (il link è nella pagina dell’autrice).

 

 

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Capitolo 11
*** Undici. ***


capitolo 11

Ecco qui il nuovo capitolo! Impegni vari mi tengono lontana dalla tastiera e rallentano l’uscita di questi capitoli, ma proseguo spedita (ad esempio, il capitolo dodici è praticamente finito, anche se devo un po' limarlo).  Spero che questo capitolo piaccia anche a voi, cari lettori!

Ne approfitto per ringraziare tutti quelli che hanno inserito questa storia tra le preferite e le seguite. Mi date un gran piacere e una bella spinta a cercare di affrettarmi :)

Kairi_Skywalker: grazie grazie grazie. Sono tanto lusingata (eufemismo, a dire la verità) - fin troppo devo dire ^^. spero tanto che i prossimi capitoli continuino a piacerti. Le recensioni fanno sempre piacere :)

 

 

________Undici__________

 

 

 

‹‹I vostri soldati hanno perquisito già abbastanza il nostro palazzo. Dubito che questo sia, come dite, il trattamento riservato a “molti governi nella Galassia”, e in ogni caso ciò non giustificherebbe quest’umiliazione. State terrorizzando la popolazione, generale Skywalker, e questo è inaccettabile!››

‹‹Il nostro controllo è terminato, Sua Maestà. Non abbiamo trovato nulla di ulteriormente compromettente.››

Per quanto ormai fosse diventato il suo ruolo ufficiale nella gerarchia imperiale, Anakin non era tagliato per fare il supremo inquisitore. Di questo se n’era accorto già ai tempi della guerra, per via della sua goffa sbrigatività e la facile ira che lo coglieva quando il soggetto non collaborava all’istante (anche se era sempre stato orgoglioso del fatto che, prima o poi, tutti i personaggi da lui interrogati collaboravano). La sua impulsività e il suo scarso autocontrollo lo rendevano uno scarso sostituto di veri e propri inquisitori, come il Moff Tarkin, il quale, con gli occhi piccoli e intelligenti e il naso affilato, riusciva sempre a dargli la sgradevole impressione di stare esaminandolo. Tarkin, come l'imperatore, dopotutto, era un perfetto esempio di uomo paziente.

L’ammiraglio Yularen aveva detto che Apailana era una testa calda. Dopo le  brevi ma intense conversazioni tenute con la regina, Anakin gli credeva. Anche se solo tredicenne, la giovane Thabet era una dura, con i suoi occhi grandi, scuri ma freddi come pietre, gli angoli delle labbra stirati in una smorfia quasi permanente, e quella voce nasale da aristocratica, colorata ai margini da piccole stonature da adolescente. I suoi discorsi erano infiocchettati a dovere, e non si guardava dal lanciare frecciate all'indirizzo di Anakin e dell'Impero; il suo tono aveva assunto, nel corso delle quarantotto ore da quando il palazzo era stato assediato, sfumature sempre più marcate di democratica indignazione.

Più che guardare lei, per quanto i dettagli del suo enorme copricapo meritassero una più attenta disamina, Anakin osservava il panorama oltre la grande finestra a vetri dietro le spalle della regina. La riconosceva: ricordava perfettamente la visuale che si estendeva oltre quella finestra, quando la regina Amidala si era premurata, ancora nell'abito della vittoria, di mostrargli quanto fosse bello lo spettacolo della natura. Ricordava il fiume Solleu, le sue anse che andavano a perdersi tra le colline…

Ne provava una vergognosa nostalgia. Il suo compito era stare lì, su quella base, ad aspettare i poco ispirati report che provenivano dalle truppe dislocate a terra, e attendere il momento giusto per terminare quella faccenda (non troppo presto, non troppo tardi). La Base gli era congeniale, ma lo spazio era freddo, e non c’era alcun colore né dentro la Base, né fuori di essa. Il sole non era i raggi che riscaldavano le pareti del palazzo di Naboo, e illuminavano un cielo azzurro: il sole era una luminosa palla di plasma luminoso che bruciava indifferente nel cielo color pece;  non c'erano amici, né facce conosciute, e non c'erano i gemelli, i suoi figli, lontani migliaia di anni luce, nella torre in cui Padmé li aveva rinchiusi.

‹‹Faccio fatica a comprendere cosa steste cercando in primo luogo. Non abbiamo mai offerto protezione a dei Jedi. Il vostro è un sopruso ingiustificato.››

‹‹Devo ricordarvi che l’impero agisce nella più totale legalità, Sua Maestà,›› replicò, urbano. ‹‹Ad ogni modo, non dovete preoccuparvi per la popolazione. Non intendiamo arrecare altri disturbi ai naboo. Ce ne andremo al più presto.››

Apailana parve sorpresa. La ragazza era un discreto pezzo di ghiaccio, come gli abiti che indossava, tutti grigi, blu artici. Le emozioni erano una vista rara in quel paio di occhi.

‹‹Stento a credere che la questione si risolva così rapidamente.››

Anakin la guardò direttamente negli occhi. ‹‹Temo non si risolverà tanto rapidamente anche per voi.››

‹‹Cosa intendete, generale?››

‹‹Perdonatemi se rispondo a mia volta con una domanda, ma vi ricorda qualcosa il nome di Obi-Wan Kenobi?››

Il nome gli lasciò un cattivo sapore sulla lingua, come se avesse avuto la sfortuna di trovare nell’insalata l’unica bacca di jaffa, piccola, nera ed amarissima. E ultimamente quel sapore lo aveva ritrovato sulla lingua più di una volta, sempre più di frequente, come se Obi-Wan, giorno per giorno, avesse ripreso la  sua consistenza materiale. Non era più un fantasma in esilio, non era più un pezzo del passato, per sempre relegato alla sua primissima giovinezza: no, era l’ombra sulle scale della villa di Naboo, era il Jedi venuto a vendicare l’intero Ordine, era l’uomo che aveva – non riusciva a togliersi dalla mente quel dubbio, quel terribile sospetto, che gli ammorbava l’esistenza – sedotto Padmé, l'uomo che l'aveva convinta a tradirlo. Obi-Wan era presente, era lì, sempre, con lui. Ma sapeva che un giorno lo avrebbe raggiunto.

‹‹No, generale.››

‹‹Risposta sbagliata.››

 

 

 

 

A Coruscant era già l'ora del crepuscolo. Dalla rampa di partenza del complesso residenziale si poteva quasi vedere il vento dell’autunno, carico dell’odore del freddo; correva tra i grattacieli, bussava alle grandi finestre panoramiche degli attici, s'infilava tra i vari e variopinti cittadini della capitale galattica. Il traffico, dopo la breve diminuzione del pomeriggio, accellerava verso le sue frenetiche vette notturne. 

Coordinando un piccolo gruppetto di persone e droidi, Padmé sostava accanto al suo skiff. 

‹‹Sali su, 3PO,›› comandò dolcemente Padmé. ‹‹Sono sicura che Dormé troverà qualche degna mansione per te.››

Il droide parve rassicurato e s’avviò dietro a R2, sparendo nel corpo della nave.

Mentre i motori si riscaldavano, Padmé osservò per qualche istante la silhouette della città, coccolando tra le braccia il fagotto del piccolo Luke, che allo scadere del suo quarto mese era diventato bello e grasso come il neonato divino dei dipinti religiosi di Kishar. I suoi folti capelli biondi le solleticavano il mento.

‹‹Ora visiteremo Alderaan, piccolino, un pianeta bellissimo. Ci vivono molti nostri cari amici..››

Sorrise. ‹‹Potrai giocare con la principessina…››

Si voltò e imboccò la rampa della sua astronave. Il portello si richiuse dietro di lei, e nel giro di un minuto la grande nave si sollevo da terra in una nuvoletta di micropolvere e scomparve velocemente nel cielo della sera in arrivo.

 

 

 

Apailana era un po’ impallidita. Una vaga sfumatura di giallo era affiorata sulla sua pelle per natura olivastra, e si era mescolata al bianco impossibile del cerone. Pure nelle sclere dei suoi occhi si era affacciata un’ombra di malattia, come un improvviso ittero di angoscia.

‹‹Sicuramente non penserete che la nostra base orbitante possa sorvegliare ogni centimetro quadrato del nostro spazio aereo e interplanetario. I nostri satelliti sorvegliano solo una sezione ristretta del nostro pianeta.›› Strinse più forte i bracciali della sua poltrona. ‹‹Le ricordo che nemmeno Coruscant è in grado di controllare tutto il suo traffico. Se così fosse, non sarebbe la patria d’elezione di tutti i farabutti della Galassia.››

Un altro degli insulti infantili di quella ragazzina. La sua spregiudicatezza era una qualità che Anakin tutto sommato ammirava, un po' come si ammirano anche le più scellerate dimostrazioni di coraggio. 

‹‹Se non di bloccare il vostro traffico illegale, sicuramente è capace di inviare messaggi compromettenti a stazioni fantasma nei pressi di Nubia. Sappiamo tutto. Le telecomunicazioni delle agenzie amministrative di vari pianeti sono sotto controllo, l’intelligenza imperiale sorveglia tutti i segnali che escono da questo palazzo, Vostra Maestà, già da qualche tempo. Siete stata piuttosto ingenua, Apailana. Vuole che le mostri il suo ologramma?››

Ci fu un momento di silenzio.

Sarebbe andata così: nel giro di ventiquattro ore, i cloni avrebbero preso in custodia la regina e l’avrebbero portata sulla Base Orbitante. Si sarebbe dovuta firmare qualche scartoffia pseudo-burocratica, e ovviamente i naboo sarebbero stati informati di ciò che era successo, ovviamente enfatizzando l’angolo dell’alto tradimento della regina, nei confronti di Naboo, dell’Impero e del benevolente imperatore. A quel punto, Tarkin o chi per lui – uno magari dei tanti ufficiali che si ammassavano tra i corridoi della Base, ognuno con le sue mostrine conseguite chissà dove, perché Anakin era praticamente sicuro di non aver visto quasi nessuno di loro in battaglia – l’avrebbe interrogata, e ne avrebbe estratto una terribile confessione, e se anche non fosse riuscito ad estrargliela – nell’improbabile caso che la tortura si dimostrasse inefficace – il risultato sarebbe stato lo stesso. Ritirati i soldati, tolti i blocchi e ricollegato il pianeta e il sistema alla rete dell’Holonet, l’impero avrebbe annunciato con toni di mesta compunzione che una traditrice altolocata dell’impero era stata individuata: la benemerita Apailana, regina di Naboo, popolo natio dello stesso imperatore. Vi sarebbe stata la necessaria ed auspicabile deflagrazione mediatica – un’altra a tutte quelle che l’impero stava sapientemente orchestrando dal momento della sua nascita – e finalmente le casalinghe borghesi, dovunque esse fossero, avrebbero potuto utilizzare bocche – o equivalenti apparati fonatori – per commentare a piacere quel disdicevole episodio.

Tutta la scena, dal momento in cui sarebbe stata arrestata (lei, espressione stoica, copricapo luttuoso) al momento in cui il prodotto finale mediatico sarebbe arrivato nei salotti dei cittadini (l’eccitazione quasi lubrica che dopo cinque mesi ancora pervadeva tutto quanto), si srotolò davanti agli occhi visionari di Anakin, mentre tamburellava con le mani sulla superficie metallica della sua scrivania e aspettava che la pallida, emaciata reginetta rispondesse all’accusa.

‹‹Non ho mai conosciuto, né aiutato, il Maestro Jedi Obi-Wan Kenobi. Non so cosa ne sia stato di lui dopo il massacro dei Jedi -››

Il movimento brusco del collo quasi gli provocò uno strappo. Fu gelido. ‹‹La giusta punizione per il loro tradimento.››

‹‹Il loro indiscriminato massacro,›› disse lei. ‹‹Non posso aiutarvi, temo.››

‹‹L’interrogatorio che vi aspetta vi farà cambiare idea…››

‹‹Non temo i criminali, generale Skywalker: le vostre minacce non hanno alcuna presa su di me. Mi chiedo come faccia la nostra Amidala ad essersi associata a voi.››

La menzione del nome, e poi partì qualcosa nel suo cervello, come lo scricchiolio sinistro di una trappola che scatta. Amidala, Obi-Wan Kenobi, Apailana, tutti personaggi che si facevano beffe di lui, che osavano farlo, pensando di godere di qualche impunità. Lo stomaco gli si contorse in una stretta scomoda.

‹‹Lasci Amidala fuori da tutto questo, Apailana,›› ringhiò. Le sue mani si chiusero in due pugni sul tavolo. ‹‹Mi dica dov’è Obi-Wan Kenobi adesso. Se lei collaborasse, c’è la possibilità che l’impero si riveli pietoso -››

‹‹Mi rifiuto di -››

‹‹Voi non potete rifiutarvi, voi non potete ingannarmi! Voi sapete dov’è Obi-Wan Kenobi – voi sapete chi lo sta proteggendo!››

Apailana rimase zitta e immobile come una statua.

Poi, dopo qualche istante, parlò. ‹‹Il vostro è un problema personale con Kenobi. Non mi riguarda, generale. Salutate la signora Naberrie da parte mia.››

Ci poteva scommettere che era un problema personale. 

La Base diventò un luogo buio, tremendo, sferzato dal vento. Gli bruciarono le guance, gli bruciò la lingua, e non riuscì più a distinguere la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto. I guanti foderarono le nocche tese all’estremo, la mano metallica che scricchiolava appena –

Dall’altro lato dello schermo, la regina boccheggiò. Il rumore acquoso della voce e della saliva che ribollivano in gola gli arrivò nel momento in cui la vide portarsi le dita al collo e graffiarselo, come se stesse cercando di strappare via una mano invisibile. Chinò la testa all’indietro, così che il copricapo sbatté contro l’alto schienale della poltrona e si rovesciò con un tonfo sul marmo rosa. Accorsero delle guardie afferrandosi i cappelli perché non cascassero; qualcuno urlò qualcosa, ci fu chi andò a chiamare un medico. Gli occhi di Apailana furono così sorpresi, così vivaci (così diversi da com’erano di solito) che Anakin rimase quasi imbambolato davanti a quel bizzarro, e terribilmente familiare spettacolo, prima che la sorpresa lo colpisse e spalancasse le mani che non sapeva nemmeno di aver stretto in un pugno.

Nell’ufficio, la regina ricominciò a respirare.

Le guardie la tennero stretta, come se fosse una bambola. Parlavano a voce alta, sussurravano parole d’incoraggiamento.

‹‹Sua Maestà, cosa -››

‹‹Si è sentita male, si è sentita male!››

‹‹Dov’è il medico?››

Solo una delle guardie, un ragazzo discretamente brufoloso, ebbe in quei momenti concitati la perspicacia di guardare nello schermo. Le sue pupille s’assottigliarono in fessure e parve capire più di quanto potesse ragionevolmente immaginare. Più tardi, Anakin si chiese cosa esattamente avesse pensato in quel momento, e soprattutto quale fosse stato lo spettacolo dall'altro lato dello schermo.

‹‹Questa comunicazione è finita, generale,›› disse rabbioso, premette un pulsante e lo schermo si spense. L’ufficio scomparve, la regina con esso, e le finestre, il Solleu, il sole del mattino, il fantasma di Amidala e pure Obi-Wan.

Anakin era stupito.

Aprì i palmi delle mani davanti a sé, cercando di scovare nelle loro linee e nei loro cavi la spiegazione di quello che era successo.

Influenzare a distanza, a centinaia di chilometri di distanza, oltre le barriere dello spazio, dell’atmosfera. Il potere di usare la Forza contro qualcuno tanto lontano da essere visibile solo mediante uno schermo. Non aveva mai nemmeno provato ad agire in quel modo, convinto dell’impossibilità di quell’azione; quel tipo di poteri erano sempre stati raggruppati da -  Kenobi - sotto la poco esauriente etichetta di conoscenze inutili e pericolose per un Jedi. Le sue domande di bambino un tempo erano state fermate da quelle spiegazioni. Ma allora com’era possibile che fosse riuscito a realizzare tutto ciò senza avere mai nemmeno provato a farlo?

Forse non era poi tanto bizzarro. Dopotutto, crescere nella Forza era un atto che non accadeva per pratica, ma per mera comprensione. 

L’abilità nell’uso della spada laser s’accresceva con la pratica – innumerevoli ore trascorse bendati ad indirizzare fendenti ad una piccola sfera dispettosa, lunghi duelli e giorni di allenamento in condizioni sempre più difficili, pesi e pioggia e percorsi scoscesi. I metodi per aumentare la precisione nel combattimento erano innumerevoli; i saggi che descrivevano le forme di combattimento erano vari, lunghi, e intessuti di commenti maturati nella millenaria storia dei Jedi.

Ma il potere – quell’elusiva sostanza di cui tutti erano affamati, Jedi, Sith, ed esseri comuni – arrivava in un altro modo, un modo su cui non era possibile costruire una teoria. I progressi arrivavano con la consapevolezza. Coordinazione e forza muscolare erano semplici da ottenere con i dovuti esercizi, e infaticabile ripetizione; ma la consapevolezza del proprio potenziale arrivava a un prezzo ben maggiore: il prezzo di tante lezioni, tanti rimproveri; tanti successi e tanti fallimenti. 

Come tante cose nella vita, i risultati venivano solo quando non si cercavano.

I risvolti di quella nuova  scoperta erano elettrizzanti.

Era tanto potente da soffocare – uccidere? – qualcuno tanto lontano da lui?

Massaggiandosi le mani, quella di ossa, muscoli e  tendini, e quella di cavi e giunture di titanio, Anakin ascoltò la propria eccitazione ondeggiare nella Forza attorno a lui.

 

 

 

‹‹Padrona, stiamo arrivando,›› la informò 3PO, manovrando la cloche di comando. ‹‹Uscita dall’iperguida in cinque… quattro… tre… due… uno -››

Le luci fluorescenti dell’iperguida vennero risucchiate dallo spazio, e davanti allo schermo della cabina di pilotaggio apparve il globo verde e blu di Alderaan. I bianchi e i crema dei finimenti e dei sedili parvero essere illuminati dal bagliore azzurrino emanato dal pianeta.

Padmé premette il pulsante d’accensione dell’unità olografica. Una miniatura del senatore Organa apparve, mani giunte dietro la schiena.

‹‹Siamo arrivati, Bail.››

‹‹Bene, Padmé. Ti stiamo aspettando.››

 

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