Il Nuovo Ordine di nuria (/viewuser.php?uid=97040)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto Primo - Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***
Capitolo 4: *** Quattro. ***
Capitolo 5: *** Cinque. ***
Capitolo 6: *** Sei. ***
Capitolo 7: *** Sette. ***
Capitolo 8: *** Atto Secondo - Otto. ***
Capitolo 9: *** Nove. ***
Capitolo 10: *** Dieci. ***
Capitolo 11: *** Undici. ***
Capitolo 1 *** Atto Primo - Uno. ***
Il Nuovo Ordine
Uno
Tutti
s'aspettavano che sarebbero arrivate altre incrociatrici, e invece da
Coruscant
arrivò un'intera luna grigia, che galleggiava nell'etere buio dello
spazio
carica di minacce senza nome.
A bordo,
l'imperatore incappucciato aspettò che i
suoi soldati - perché a lui tutti avevano giurato fin dalla culla
eterna
fedeltà - sfilassero all'interno della nuova, letale base spaziale di
ultima
generazione, un'arma capace di distruggere un intero pianeta con un
fascio di
luce terribile. S'informò con i suoi generali sulla condizione delle
truppe,
sulle perdite e sui feriti e poi aspettò che il suo apprendista
sbarcasse
all'interno di uno degli hangar.
Il caccia di
Anakin ruppe l'atmosfera e si ritrovò
nel buio senza fine a quello che sembrava un niente da una nuova luna
sbucata
attorno all'orbita di Generis. Pareva una luna in tutto e per tutto,
decorata
com'era da un grosso cratere, ma la sua corazza liscia a grandi placche
tradiva
la sua natura artificiale. A vedere di rado i progetti gli era parsa
una base
dalla forma originale, una stravaganza degli ingegneri; ora vedeva un
pallone
immenso, un'eccitante follia che non aveva precedenti nella storia. Gli
venne
una quasi irrefrenabile voglia di sostare lì a mezz'aria e osservare
quell'abominio,
ma seppe che non era possibile. S'avviò quindi dove gli veniva
indicato, verso
la bocca nera di uno degli hangar che correvano affiancati come tante
celle
all’equatore della sfera.
Passò con un
brivido vicino all'immenso cratere, al
centro del quale s'estendeva la temibile lente del superlaser.
Viaggiando
vicino alla superficie liscia della sfera apparivano migliaia di
minuscole luci
dalle finestrelle, puntini bianchi e gialli e rossi.
La
bocca aperta dell’hangar lo
risucchiò. Dietro il suo caccia si chiusero all'istante i portelloni e
parcheggiò nell'ambiente enorme e sconosciuto. Uscì dall’abitacolo e
alla sua
sinistra da un portellone sbucarono degli ufficiali in divisa verde e
dei cloni
coi caschi in mano in un curioso comitato di benvenuto.
‹‹Generale
Skywalker, benvenuto sulla Base
Orbitante Prima.››
‹‹L'imperatore
è qui?››
Uno degli
ufficiali, con una targhetta appuntata al
petto che leggeva 'Lee', annuì e parlò con tono trepidante.
‹‹Vi sta
aspettando, generale.››
Anakin aveva
letto i progetti della base, e mentre
passeggiava per i suoi corridoi ben illuminati, un non piccolo
progresso
rispetto all'aria cupa che di solito regnava nelle navi e nelle basi
spaziali,
gli pareva di conoscerla già. Sapeva della sua divisione interna: dei
due
emisferi, il settentrionale, dedicato per lo più all'armamentario e
alla
mastodontica arma laser, e il meridionale, dove si trovavano le
cittadelle per
le truppe e altri armamentari; conosceva le ventiquattro sezioni
superficiali,
gli ottantaquattro livelli e i duecentocinquantasette sottolivelli in
cui era
divisa, ognuno scrupolosamente etichettato e tenuto di guardia da
droidi di
ultima generazione; sapeva dell’indescrivibile potenziale distruttivo
della
base, e mentre viaggiava attraverso i viali a bordo di navette di
trasporto e
ascensori velocissimi verso la sua destinazione, l'ufficio
dell'imperatore, non
potè ignorare un curioso prurito in ognuna delle sue cellule. Provava
una
strana, smodata eccitazione nell'osservare quella macchina di morte dal
suo
interno, sentendosi padrone e comandante.
Al polo
settentrionale e al polo meridionale si
trovavano gli smisurati quartieri di comando, in cui viaggiava una
folla di
varia umanità in divisa e armatura, e cloni a mai finire. A bordo tutti
coloro
che contavano erano umani: l’imperatore non nascondeva la sua
preferenza per i
membri della propria specie.
L'ufficiale
Lee lo condusse con precisione
attraverso il complesso reticolo di vie e corridoi mentre salivano su,
verso il
polo settentrionale. Sulla via, gli mostrò gli ambienti che erano stati
assegnati a lui, direttamente sotto a quelli dell’imperatore. Descrisse
come un
agente immobiliare i comfort che avrebbe trovato al suo interno,
parendo tutto
orgoglioso delle meraviglie della base su cui era stato stazionato.
Un giorno
avrebbe dovuto portarci Padmé, pensò con
ironia morbidamente amara mentre sentiva la crescente oscurità
dell'aria lì
dentro, a dispetto della sua vivace illuminazione. Si chiese se sarebbe
sempre
stato così illuminato, come non era mai stata altra base, riflettendo
sui costi
e sulle necessità di mantenere illuminata giorno quella che sembrava la
stragrande maggioranza degli ambienti; il sottufficiale Lee rispose
come se
avesse potuto scorgere nel suo cervello il dubbio. Parlò con un certo
livello
di confidenza, come se Anakin gli avesse implicitamente garantito la
sua
attenzione e il suo rispetto. I capelli di Lee, biondicci e un po'
arricciati,
cadevano flosci sulla fronte e gli davano un'aria di impenitente
gioventù. La
divisa faceva a pugni con il suo aspetto vivace. Anakin si chiese
quando aveva
smesso di sentirsi come i suoi coetanei.
‹‹Tutta
questa luce, devo confessarvi, generale
Skywalker, mi spiazza. Nelle navi d'addestramento non c'erano tutte
queste
belle lucette, ma i tecnici mi hanno detto che non sarà sempre così.
Questo è
il viaggio inaugurale, per così dire, quindi vogliono fare le cose per
bene e
in grande, con tutti i crismi. Non mi dispiace, qui è tutto nuovo e
moderno. Fa
piacere vedere bene le cose, per una volta.››
Anakin non
rispose, perso tra i suoi pensieri, e il
sottufficiale Lee, pur accigliandosi per una frazione di secondo, non
disse
altro finché non furono davanti al portello automatico che dava agli
appartamenti dell'imperatore. Lì fece un passo indietro e fece un cenno
al
droide dorato che s'avvicinò a loro.
‹‹Questo è il
droide maggiordomo dell'imperatore,
l'unico che conosce la password. Cambia ogni trenta secondi. Io non ho
il
permesso di rimanere qui. Arrivederci, generale Skywalker.››
E poi sparì
da dove erano venuti, tutto impettito.
Il
droide inserì una propria appendice
in un minuscolo foro della parete, tanto piccolo da essere rimasto
inosservato
all'analisi veloce di Anakin, che assorbì l'androne illuminato, le
pareti alla
moda rivestite di quadrati di pelle imbottiti color crema, la
pavimentazione
bianca e lucida. Il droide fece un piccolo fischio, e il portello
s'aprì
automaticamente con un piccolo sfogo d'aria, lasciando intravedere una
grande
sala di forma circolare, alla cui estremità, dal lato opposto di
Anakin,
s'apriva sullo spazio una lunga finestra d'acciaio trasparente, da
destra a
sinistra.
Vi era al
centro della sala una grande piattaforma
in metallo per oloproiezioni di forma circolare, circondata da un
congresso di poltrone;
oltre, di fronte alla grande finestra, c'era una scrivania imponente di
legno
scuro, con un'unica grande poltrona dietro. Solo dopo che ebbe
riconosciuto gli
interni della sala Anakin s'accorse che c'era della musica strumentale
in
sottofondo, e un gradevole odore di nuovo e lussuoso.
Sentì il suo
Maestro ben prima di ascoltare la sua
voce.
‹‹Ti stavo
aspettando, Darth Vader,›› biascicò
l'imperatore scendendo dal soppalco del piano superiore, con le vesti
scure e
pesanti che strisciavano dietro di lui.
Il suo
ingresso scatenò in Anakin due sentimenti
familiari, soggezione mista a un senso di competizione latente, come il
fuoco
sotto una coltre di cenere. Ogni movimento dell'imperatore gli pareva
uno
specchio del futuro. Pensò a cosa sarebbe successo se avesse estratto
la spada
in quel momento e attaccato.
‹‹Ho eseguito
gli ordini come voluto da lei. Ecco
l'arma dell'altra Jedi. Era una padawan.››
E posò la
spada laser di Milena Ong sul tavolo
delle oloproiezioni. Gli balenarono in mente gli occhi chiari della
Pantorana,
e poi sparirono. Rimase soltanto il volto bianco e repellente del suo
Maestro
con gli occhi illuminati di un osceno piacere.
‹‹Ben fatto,
Darth Vader. La nostra pulizia
prosegue. Un giorno, un giorno vicino, questa Galassia sarà libera
dall'immondizia Jedi.››
‹‹Sì,
Maestro.››
L’imperatore
fece un ampio gesto del braccio ad
indicare i dintorni.
‹‹Spero che
la nostra piccola base sia di tuo
gradimento.››
Anakin annuì,
ficcando il suo sguardo nelle distese
senza fondo dello spazio oltre la finestra. Da quel lato il pianeta di
Generis
era invisibile, e l'unico panorama erano le mille e mille stelle
incastonate
nel buio che splendevano come tante lucciole selvatiche nei campi
d'estate la
notte. Alcune parevano del tutto ferme, altre parevano lampeggiare; ed
erano
tutte a migliaia di anni luce, brucianti e morte ed esplose, singole o
in
ammassi di splendide nebule. Trovarsi di nuovo nello spazio era una
sensazione
rassicurante. C’erano poche cose che Anakin amasse di più.
Sul tavolo
delle oloproiezioni comparve un
ufficiale, in colori e qualità sorprendenti. Era evidentemente uno dei
lussi
dell’imperatore. ‹‹Ci prepariamo al salto nell'iperspazio, Sua
Altezza.››
‹‹Bene.››
E prima
ancora che uno dei due Sith potesse aprir
bocca per riprendere la loro conversazione, Anakin sentì coi suoi sensi
raffinati il leggerissimo, impercettibile vibrare dell'iperguida, come
se sotto
i suoi piedi stesse viaggiando uno sciame immenso di formiche; poi
nella
finestra si dipinsero nello spazio di un battito di ciglia fasci di
terribili
luci bianche e blu, che si componevano e scomponevano tra di loro a
formare
fiammelle e lapilli di pura velocità superiore alla luce; e lo spazio
non c'era
più, ma solo quello psichedelico tunnel di luci che facevano male agli
occhi e
alla testa. Anakin aveva sempre amato quelle luci, come manifesto di
tutto ciò
che era la sua vita, cambiamento, avventura e dinamismo; ma
l'imperatore
premette un pulsante e la finestra s'oscurò del tutto.
Il brusco
cambiamento di panorama ricordò ad Anakin
più pressanti conversazioni da essere tenute.
‹‹Maestro,
desideravo parlarvi personalmente di
qualcosa che ho estratto da Tavrak. Riguarda il Senato.››
‹‹Prendi pure
una sedia.››
Raccontò
all'imperatore ciò che aveva biascicato il
pazzo sotto la subdola tortura della mente, degli aiuti del Senato ai
ribelli,
ma non osò avanzare le proprie ipotesi. L'imperatore ascoltò ciò che
aveva da
dire con un'espressione di moderato disappunto, come se la questione
non fosse
nè sorprendente né grave, ma meramente un inconveniente già
preventivato.
Quando parlò, infine, usò una voce profonda e pacata, come se stesse
discutendo
del tempo.
‹‹Evidentemente,››
disse, caricando di sarcasmo
l'avverbio, ‹‹è finalmente giunto il momento per qualche arresto
importante in
Senato.››
Anakin annuì.
‹‹Lo pensavo anch'io.››
E volle
aggiungere che non c’era da fidarsi dei
politici, ma si morse la lingua.
‹‹Temo che al
Senato s’annidino pericolose sacche
di resistenza,›› continuò l’imperatore con tono svagato, ‹‹politicanti
che non
hanno ancora compreso quale sia il loro nuovo posto.››
‹‹Ma
Maestro…non può semplicemente sciogliere il
Senato, e liberarsi definitivamente di loro?››
‹‹Pazienza,
Darth Vader, pazienza. Non sono cose da
fare su due piedi. Dobbiamo dare tempo all’opinione pubblica di
arrivare alle
nostre conclusioni, convincendoli con…dolcezza. In realtà, il Senato è
un
organismo innocuo, se liberato di certi parassiti.››
‹‹Concordo,
Maestro.››
Gli occhi del
vecchio divennero pungenti.
‹‹Spero che
la senatrice Amidala sia arrivata a più
miti consigli.››
Anakin
rispose con prontezza, usando l’inflessione
impersonale che adottava quando doveva discutere della moglie con il
suo
Maestro.
‹‹Certamente,
Maestro. Mia moglie sta imparando ad
apprezzare il mio impegno. La mia missione. La maternità ha…influito
positivamente su di lei.››
L’imperatore
non disse nulla e chiese del vino ad
un droide protocollare che attendeva alla parete. Il droide s’affrettò,
in
rispettoso silenzio, a versare in due calici un vino rosso rubino che
pareva
sangue spillato da un’arteria pulsante.
‹‹Favorisci,
apprendista?››
Anakin non
beveva alcolici per principio. Al Tempio
non erano ammessi, e dannazione a lui se non riusciva a liberarsi da
quegli
stupidi precetti. Ma gli occhi del suo Maestro lo sfidavano.
‹‹Grazie.››
Il vino era
amaro e dolce insieme e non gli
piaceva. Le sue papille protestarono al contatto con il liquido fresco
ed ebbe
l’impulso di chiudere gli occhi e sfregare la lingua al palato come un
bambino
costretto a mandar giù una medicina sgradevole. Invece, schioccò
insieme le
labbra come aveva visto fare ad altri, sperando di essere un buon
attore.
‹‹Sono
soddisfatto del tuo operato, Darth Vader.
Hai qualche desiderio?››
Era un
curioso rapporto, quello instaurato tra lui
e il suo Maestro. Anakin aveva la continua impressione che il suo
Maestro
cercasse in ogni modo di stuzzicare il suo desiderio di possedere
oggetti, e si
dava in ampie profusioni di promesse che pure avrebbe ben mantenuto se
Anakin
non avesse rifiutato; aveva l'impressione che tutto ciò facesse parte
di un
piano per assicurarsi la lealtà del suo apprendista, con le lusinghe di
un'esistenza opulenta. Ma Anakin non peccava di avidità materiali.
‹‹Vorrei
avere qualche settimana di congedo.››
‹‹Da passare
con la tua famiglia?››
L'espressione
dell'imperatore mantenne il suo alone
di contenuto disappunto.
‹‹Non più di
due settimane. Il tuo posto è a
Coruscant.››
‹‹Sì,
Maestro.››
Anakin
terminò il suo vino.
‹‹E non
dovresti lasciare che il tuo attaccamento alla
senatrice Amidala comprometta il tuo cammino.››
Le parole
sarebbero potute essere state pronunciate
da qualsiasi Jedi, e il pensiero fece quasi sorridere Anakin. Il suo
Maestro
definiva il suo matrimonio un semplice 'attaccamento': il dettaglio lo
sorprese
e lo riempì di un'onda nera di dispiacere. Provò, per la prima volta in
mesi,
una sensazione di profondo disagio.
‹‹Il tuo
desiderio di trascorrere del tempo con le
persone alle quali sei talmente attaccato è legittimo, mio giovane
apprendista,›› continuò l'imperatore, con un tono marginalmente più
conciliatorio, come se stesse istruendo un bambino, ‹‹ma devi
considerare la
carne della quale sei fatto, il tuo potere. Il tuo destino. È tutto
alla
portata della tua mano ma...›› Serrò le labbra per un momento, e i suoi
occhi,
nella gomma bianca e rugosa che era il suo viso sfigurato, parvero come
di
fuoco, ‹‹...ma ci vuole concentrazione, e studio continuo. La Forza
è un'amante scostante, difficile, capricciosa. Ci vuole tempo,
dedizione,
carattere per dominarla. Ci vuole raziocinio. Noialtri siamo impegnati
in un
matrimonio ben più impegnativo con essa, capisci, Darth Vader?
Dilettati finché
ne hai voglia con la senatrice Padmé, ma sappi a chi devi la tua
massima
fedeltà. Sappi qual è la tua strada. Sappi ciò di cui sei fatto.››
‹‹A volte è
difficile, Maestro.››
‹‹Non devi
lasciare che qualcosa, o qualcuno, ti
distragga. Ci sono emozioni che un uomo grande deve rifiutare, come la
pietà e
la compassione e l’eccessivo attaccamento. Sono emozioni da deboli. Mi
chiedo
se tu non lo abbia ancora capito. Allora capiscilo adesso: solo i forti
sopravvivono, solo i forti meritano di vivere, solo i forti meritano di
dominare i deboli. Un uomo forte controlla la passione e la usa per
diventare
più potente. Un uomo debole si fa controllare da essa. Hai molto da
imparare,
ma se segui la giusta strada un giorno sarai grande.››
Anakin annuì.
‹‹Hai il tuo
permesso, Vader. Ora va'.››
Anakin s'alzò
senza dire una parola e lasciò l'appartamento
dell'imperatore, sentendo gli occhi del suo Maestro ficcati sulla sua
schiena
come punte di bastoni aguzzi anche dopo che fu fuori dal suo campo
visivo.
Percorse al
ritroso le strade che aveva già visto
con il sottufficiale Lee, mentre alla confusione dentro di lui si
sostituiva un
sentimento misto e frustrante, amplificato solamente da quella coltre
fumosa
che gli entrava nei polmoni, come se il potere oscuro del suo Maestro
potesse
entrare dentro di lui dalle narici e mischiarsi con il suo spirito in
una
combinazione pestifera. Scene casuali della sua vita recente
s'affastellarono
nella sua mente come ricordi di un'altra vita, in cui poteva guardare
con
distacco ciò ch'era successo, e ogni volta che vedeva le proprie mani
colpire –
e come colpivano! - il fiato gli vorticava in petto come un piccolo
uragano che
gli toglieva il respiro. Era uno dei suoi soliti, strani attacchi - e
la sua
intensità era dettata soltanto dal nuovo vis-à-vis con quell'uomo,
l'uomo nel
quale nasceva e finiva tutto, e, forse, la prossima riunione con Padmé:
che era
sua moglie, e madre dei suoi figli, e non un semplice 'attaccamento'.
Ebbe il tempo
giusto di entrare nei suoi
appartamenti prima di finire ansimante contro la porta, inchiodato ad
essa
dalla vista improvvisa, violenta ed ipnotica, del tunnel
dell'iperspazio alla
grande finestra non oscurata della sua sala, analoga ma di dimensioni
inferiori
a quella imperiale. Dapprima cercò di schermare i propri occhi dalla
luce
abbagliante: appoggiò una mano agli occhi e s'accorse che gli bruciava
la
fronte. Immediatamente ritirò via la mano e girò il capo; solo la sua
guancia
era esposta alla luce e la schiena era ancora attaccata al portello.
Chiuse gli
occhi ansimando.
Sappi qual è
la tua strada. Sappi ciò di cosa sei fatto.
E in sé sentì
bruciare qualcosa che faceva paura,
senza nome e senza descrizione. Mai come in quel momento, nella stanza
buia
inondata dall’immensità caleidoscopica dell’altra dimensione, Anakin
sentì
d’essere qualcosa d’eccezionale che mai avrebbe trovato replica. Sentì
in
ognuna delle sue cellule di essere il Prescelto di una profezia
millenaria. E
per la prima volta nella sua vita lasciò che i suoi pensieri
scivolassero
laddove mai aveva osato lasciarsi scivolare: il suo misterioso
concepimento, il
padre che non c’era mai stato, il suo legame biologico, ben oltre
l’eccezionale, con la Forza. La
sua carne parve dissolversi sotto i proiettili di luce, e rimase
soltanto lui
che cercava di schermarsi dal blu e dal bianco e dagli anni luce che
scorrevano
fuori dalla finestra. Sentì, mai come allora, di essere il Figlio, e le
voci e
le profezie erano tutte vere.
Sappi ciò di
cosa sei fatto.
E Anakin
sentì di essere lo Spazio, quella base,
quel tavolo, tutto. Era quello suo Padre? L’immensità insostenibile
dell’Essere
e di tutto ciò che esisteva dentro di lui, fuori di lui, in tutte le
dimensioni, in tutte le realtà? La Forza
mistica che teneva unito ogni singolo atomo in quella Galassia? Gli
orizzonti
di potere, crudo e sconosciuto, che gli si aprirono davanti agli occhi
come
illuminati da un lampo gli fecero vorticare la testa.
Un giorno
sarai grande.
Biliardi di
biliardi di vita brulicavano ovunque,
in migliaia di specie, in migliaia di razze, in migliaia di etnie, e le
culture
sfumavano l’una nell’altra in ogni pianeta, e si spandevano oltre i
confini
delle loro atmosfere come spore di piante affidate al vento. Fuori da
quella
base c’era migliaia di migliaia di pianeti civilizzati, e in ogni
emisfero
c’erano città, deserti, oceani, foreste e valli e montagne che
pulsavano di una
musica misteriosa (e lui era quella musica!). I pianeti formavano
sistemi che
orbitavano attorno a milioni di soli, di stelle; e c’erano ammassi e
nebule che
facevano innamorare e piangere quando apparivano all’orizzonte con i
loro
colori usciti dai sogni più sfrontati di un artista a decorare il buio
più cupo
e silenzioso; supernove che sembravano fiori sbocciati in un campo
notturno;
buchi neri tremendi dalle singolarità inesplorate che pulsavano e
facevano male
come colpi di una frusta invisibile.
Voleva tutto,
e non voleva niente. Sentiva in sé
l’insostenibile grandezza divina delle sue origini e l’insopportabile
effimerità del corpo in cui era rinchiuso. Nella sua brama di potere
che gli
strappava gli organi pezzo a pezzo si sentiva osceno e ridicolo. Un re
sbeffeggiato dalla sua nascita, un principe intrappolato per sempre
nelle vesti
di un insetto.
Le luci
lottarono per tenerlo prigioniero del loro
incanto, ma presto l’onda di esaltazione mistica di Anakin declinò e
infine
s’infranse contro gli scogli di sé stesso, del suo senso di colpa,
della sua
solitudine, della sua mortificazione; si scontrò con ciò che in lui non
era né
grande né meraviglioso ma misero e schifoso: le sue paure, le sue
insicurezze,
le sue inadeguatezze, i suoi crimini; e seppe di essere abietto.
La luce fu
insopportabile, e lui troppo debole. Si
lanciò contro la piastra dei comandi sul tavolo delle oloproiezioni,
premendo
alla cieca come se gli avessero gettato acido negli occhi e in qualche
modo
riuscì a far oscurare la grande finestra: lo spettacolo d’indaco, nero,
violetto e bianco spumeggiante terminò e Anakin rimase al buio.
S’accorse che
stava ansimando, e gli faceva male il
petto e gli prudeva la gola come se avesse corso per centinaia di
metri. Si ripiegò
sul tavolo e appoggiò la guancia calda sulla lastra fredda. Una bava
spessa gli
colò dalla bocca sul tavolo e sentì di essere prossimo al vomito.
La stanza si
riempì di volti muti. C’erano sempre
quei bambini in prima linea, sempre loro…Provò una cocente vergogna: le
guance
divennero di fuoco e le lacrime lava ad ustionargli le mani con cui si
tappava
gli occhi.
Al buio,
tormentato dai suoi demoni senza nome, si
sentì più solo e disperatamente perso di come si fosse mai sentito. Era
sporco
e disgustoso, in preda a mille conati senza mai riuscire a vomitare
tutta
quella melma di cui era pieno come un sacco.
Oh, era già
pazzo!
Per
festeggiare la liberazione di Naboo dalla tragica oppressione della
Federazione
del Commercio l’allora neo-eletto Supremo Cancelliere Palpatine aveva
ordinato
l’acquisto di numerose casse del più pregiato vino rosso naboo,
specificando di
volerlo acquistare ancora in maturazione. Il conte Menes, proprietario
dei
vitigni, gli assicurò che quel vino già lungamente invecchiato, tempo
una
decina d’anni, sarebbe diventato il nettare di cui si favoleggiava
lungamente
in giro per la Galassia;
ed era un nettare assai superiore al generico buon gusto dei vini
alderaaniani,
checché ne dicessero i membri dell’Associazione Enologica di Coruscant
(chiaramente a favore del pianeta del Nucleo a sfavore di un pianeta
come
Naboo, geograficamente più marginale – e poi ‘tutti sanno che il
presidente
dell’Associazione è cugino della regina Breha, lei mi capisce’).
Tempo tredici
anni, l’investimento del Cancelliere
era diventata la bevanda pregiata nei calici dell’Imperatore: austero
ma
amabile, scevro da asprezze, con il più delicato retrogusto di legno
severo e,
forse, violette. Era un vino adeguato ai giorni trionfali.
Per prima
cosa, l’imperatore meditò sulle azioni da
intraprendere in Senato, convenendo con se stesso che i tempi erano
maturi per
la necessaria cernita già eseguita, ad esempio, tra le forze armate che
non
erano costituite dai cloni del cacciatore di taglie Jango Fett. Pensò
ai capi d’accusa,
agli ordini di cattura e ai costosi processi che avrebbe dovuto montare
per
risolvere favorevolmente quella questione. Si risolse di trattare la
questione
quando sarebbe arrivato a Coruscant.
Quindi,
ripensò alla situazione del suo apprendista
e del suo matrimonio con la senatrice Amidala. Non aveva dubbi che
lasciare in
vita l’ex-senatrice costituiva un fattore di rischio per quella
raffinata
costruzione che era il suo successo, ma ad ogni modo sarebbe stato
semplice
liberarsi di lei e di almeno uno dei due bambini, se non di entrambi.
Da quando
erano nati i giovani Skywalker, infatti, lo aveva colto un improvviso
languore:
il sospetto, la curiosità, del potenziale dei due infanti. Le
prospettive erano
allettanti, ma vi erano rischi connessi che l’imperatore non sapeva
ancora di
voler affrontare.
Ad ogni modo,
con la morte della moglie, il suo
apprendista gli sarebbe stato fedele interamente.
Tuttavia,
c’era stato un buon motivo per aspettare.
Far assassinare la donna all’improvviso avrebbe probabilmente causato
nel suo
apprendista una sciocca depressione o qualche simile reazione
controproducente,
se non un attaccamento maggiore al ricordo della defunta. Sarebbe
invece stato
maggiormente produttivo ed utile cercare la maniera – o indurla - di
rendere
Darth Vader più o meno direttamente partecipe nella morte della sua
donna, così
da scatenare in lui tutte quelle emozioni negative di cui un Sith si
nutriva.
Ma non c’era da aver grande fretta. L’occasione si sarebbe presentata
al
momento giusto, e lui, l’imperatore, l’avrebbe colta.
Era
sicuramente un maestro nel cogliere le
occasioni favorevoli, o, meglio, a farle verificare.
Non era stato
forse lui solo a far verificare la
grande vendetta dei Sith?
Per mille
anni i Sith, di Maestro in apprendista,
avevano studiato le ragioni della loro caduta e allo stesso tempo
avevano
intessuto il piano della vittoria: a lui, Palpatine, era spettato
tirare le
fila, e oh, quale meravigliosa trama ne era uscita!
La
rivelazione gli era arrivata lentamente, come
durante il sonno, tanto che poi non avrebbe potuto distinguere un prima
o un
dopo il possesso di quella nozione che, dopo molti anni, lo avrebbe
portato al
potere supremo; era una rivelazione semplice: la maniera per vincere i
Jedi era
non farli comportare da Jedi.
Ricordare la
sua impresa era sempre qualcosa di
gradito, anche al rischio di indulgere nella vanità.
I Jedi li
aveva sparsi per la Galassia
dietro ad un gonfalone, e aveva dato loro titoli militari, mostrine,
responsabilità ed incarichi. Li aveva messi a capo di una guerra, e
aveva fatto
diventare i pacifisti generali. La beata cecità in cui erano piombati
in mille
anni di tranquillità sarebbe stata esasperata dalla nuova paura, la
paura di
perdere, e quello sarebbe stato il momento in cui avrebbe colpito, come
il
serpente velenoso che morde le zampe ad una bestia molte volte più
grande.
Skywalker non
sarebbe stato necessario: la vendetta
dei Sith si sarebbe svolta con o senza la sua partecipazione, ma era
stato
quasi divertente veder scivolare dalla presa dei Jedi il loro Prescelto.
Un Prescelto
che era arrivato tra le loro braccia
in maniera fortuita, senza che avessero dovuto cercarlo. Aveva dieci,
nato da
una schiava su un pianeta dell’Orlo Esterno controllato dal crimine
organizzato, e aveva un potere eccezionale che li aveva confusi e
impauriti.
Non si erano fidati di lui fin dall’inizio, Palpatine lo sapeva. Aveva
sentito
nel corso degli anni i lamenti del ragazzo quando ricordava la prima
umiliazione
che gli avevano inflitto. Parlava del Concilio riunito attorno a lui,
delle
loro domande e dei loro esami; e poi parlava dei loro occhi freddi e
delle loro
voci impietose e di come si era posto la domanda cruciale: dov’è la
compassione
che predicano di avere? Il giovane era arrivato ben vicino ai motivi
della
disfatta. E così i Jedi avevano il loro Prescelto, ma non quello che
s’erano
aspettati, né quello che avevano desiderato. Stolti!, che avevano
creduto di
poter decidere secondo i loro termini ciò che la Forza
avrebbe deciso con i propri! E quando il giovane Skywalker aveva
chiesto aiuto,
i Jedi non avevano ascoltato, ma risbobinato ciò che avevano ripetuto a
migliaia di altri Jedi nella loro storia: i loro soliti precetti, di
mantener
la calma, di liberarsi dalle emozioni, di controllare i sentimenti.
Quando il
giovane Skywalker aveva chiesto aiuto,
l’unico ad averlo ascoltato era stato lui, il Cancelliere.
Ripensandoci,
l’istruzione dei Jedi su Skywalker
non era stata del tutto fallimentare. Durante le loro molte
conversazioni il
suo apprendista era sembrato sinceramente convinto dei precetti dei
Jedi, e
orgoglioso fino al midollo di far parte dell’Ordine. Non aveva dubbi
che senza
il proprio input Skywalker sarebbe stato felice di continuare la sua
esistenza
tra i Jedi, pur sopportando i loro oltraggi. Fino all’ultimo,
dopotutto, il
giovane s’era comportato da vero Jedi: aveva denunciato la presenza di
un Sith
a capo della Repubblica, e, per l’ennesima volta, gli era stato detto
di
rimanere indietro.
L’imperatore,
a volte, si chiedeva se Windu non
avesse provato, oltre a dare sfogo all’evidente sete di potere che
pasceva nel
cuore, di usurpare il ruolo di Skywalker nell’antica profezia. Chissà
se s’era
spinto fino a quel punto.
Ma ciò non
importava. Era più interessante notare,
ad esempio, come Skywalker si fosse dimostrato un Jedi davvero fino a
un minuto
prima di essere nominato Sith. Aveva ricordato al suo Maestro il
diritto ad un
giusto processo del Cancelliere, vecchio e disarmato, e aveva
incontrato di
nuovo un rifiuto; quando ormai disperava – e che disperazione, vedere
la chiave
della salvezza della propria moglie sul punto di essere ammazzato! –
ecco che
aveva fatto ciò che più caratteristico di un Jedi ci potesse essere:
difendere
un indifeso.
Oh, tutta
quella storia era di una deliziosa ironia!
E ora sentiva
un cupo turbinio provenire dal suo
apprendista, un grido soffocato, una lacerazione nel tessuto stesso
della
Forza. Sentiva il suo conflitto e il suo dolore, e conosceva
perfettamente tutte
le esaltanti sfumature che lo stavano facendo a pezzi. Riusciva ad
immaginarlo
in mezzo a spasmi soffocati, mentre veniva inghiottito da ciò che c’era
di cupo
nel suo animo.
Finì il suo
vino.
Sorrise.
__________
padme
undomiel.
Wow.
Questa volta davvero non ci sono parole per
descrivere il capitolo: è così particolare, così oscuro, così ... Sith
che
credo di non averne mai visti di uguali. Forse era l'atmosfera
creatasi, forse
il senso sempre crescente di vittoria del male, forse perché, ancora
una volta,
tutto sembra andare secondo i piani di Palpatine, è stato uno dei
capitoli più
intensi di questa storia.
La cosa
più interessante è questa
totale confusione su chi siano davvero i buoni, e su chi i cattivi. Non
credo di
sbagliarmi, se considero l'imperatore l'unico davvero malvagio in
questa
vicenda ... ma gli altri? Sono, in fondo, solo delle vittime. Vittime
delle
proprie passioni, che un male più grande ha sfruttato per i propri
scopi. Si
può considerare un esempio di questa terribile verità anche l'ufficiale
Lee, in
un certo senso. Sembra così convinto che l'impero porterà solo luce per
la Galassia
da non vedere l'oscurità che sempre più li sta inghiottendo, da parlare
quasi
con reverenza di questa temibile stazione spaziale grande come una
luna, da
ritenere importante discutere di cose futili come l'illuminazione
generale
invece della portata distruttiva di questa nuova invenzione
dell'Imperatore.
E
arriviamo, ancora una volta, ad
Anakin. Anakin che sente comunque forte il fascino del potere,
amplificato fino
a limiti impensabili dalla nuova potenza dell'Impero. Anakin che guarda
con
disprezzo mal celato il suo nuovo mentore, sfidandolo come lui sfida il
suo
allievo. Anakin che si sente, infine, deluso dal comportamento comunque
limitante di Palpatine, che sminuisce il suo amore per Padmé come
qualunque
Jedi avrebbe fatto. E poi Anakin, che sa che il potere è a portata di
mano, ma
sa di essersi macchiato per sempre, di essere indegno, di essere
perseguitato
dai suoi ricordi. E quest'angoscia, amplificata dall'immagine
straziante dei
bambini che ha trucidato, lo porta ancora una volta al limite della
ragione. Un
tormento, insomma, che è difficile da comprendere appieno, ma ancora di
più da
trattare: un tormento reale, di un'anima buona corrotta dall'oscurità,
che si
ribella, nonostante tutto, ai suoi gesti, e che ancora può provare
senso di
colpa.
Ma la cosa
più terribile di questo gran
tormento è che è stato completamente previsto e voluto da Palpatine.
Che non
aspettava altro. Che brinda alla sua vittoria con il vino più pregiato,
calcolando la completa resa del suo allievo e la morte di sua moglie e
dei suoi
figli. Ancora una volta, l'ombra alimenta i suoi cupi piani, che sanno
solo di
morte della libertà, di dittatura, e di completa perdizione per il
Prescelto.
Insomma,
un capitolo perfettamente
riuscito. Hai davvero trasmesso tantissimo, e credo che tu sia riuscita
ad
analizzare bene anche un personaggio complicato come Palpatine, impresa
di per
sé quasi impensabile. Bravissima, non vedo l'ora di leggere il seguito!
Magari
posso sperare in un nuovo incontro tra Anakin e Padmé? :)
Alla
prossima, Padme Undomiel ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Due. ***
Due
Il pianeta di
Naboo
era un grande globo verde e blu sospeso nel buio profondo e l'atmosfera
appariva come un velo che all’orizzonte diventava albescente, e sotto
di essa,
sotto gli strati di soffici, sparsi cirri, si stagliavano i profili dei
verdi
continenti. Un lato offriva il proprio volto al sole, e il blu degli
oceani era
scintillante e magnifico; l’altro era già oscurato dalla notte. Tutta
Naboo
produceva nella Forza la propria impronta misteriosa.
Era lì, nel
lato
buio, che Anakin cercava la propria casa. Penetrata l'esosfera,
l’altitudine
calò presto, e dopo un quarto d’ora dall’aver penetrato l’atmosfera
naboo
Anakin già percorreva a velocità sostenuta il cielo basso sulle pianure
e gli
altopiani erbosi che a lui offrivano i loro steli familiari,
ondeggianti nella
brezza in disegni fruscianti d'ombre e sprazzi di luce. Gli ci volle
quasi
un’ora di viaggio prima che le montagne e le colline di Varykino
oscurassero
con le loro cime il cielo stellato che aveva lasciato da poco. Anche da
lontano
il lago luccicava. Delle due lune di Naboo solamente Tashmetoo si
specchiava
nelle acque; Nanna1 brillava nel cielo, poco più luminosa di una stella
qualunque.
Anakin
sorrise.
Istintivamente alzò una mano per togliersi dalla fronte i capelli
biondi ed
arricciati dall’umidità che gli si attaccavano alla fronte. Ora sentiva
il
caldo dell’estate naboo.
Perse tempo
con le
guardie ai cancelli della proprietà. I cloni lo salutarono con
deferenza, e gli
diedero il loro benvenuto, poi si premurarono ad assicurargli che
avevano
tenuto ottima vigilia della proprietà ed erano sempre stati “ad un
fischio
dalla signora Padmé”. Anakin li ringraziò per il loro servizio e disse
loro che
per quella notte potevano dormire tutti insieme senza tenere altre
vigilie, e
poi li guardò incamminarsi insieme verso la cascina in cui Padmé li
aveva
sistemati. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, guardando oltre
l'acqua e
verso l'isola in mezzo al lago, più o meno di fronte a lui in linea
d'aria.
S'imbarcò su
una
delle gondole alla battigia, e iniziò la traversata del lago. Ad ogni
metro che
passava si sentiva più impaurito dall'oscurità silenziosa
dell'isoletta, e
prese a ricordare altre volte in cui aveva effettuato quella
traversata. Certo,
le circostanze erano state diverse: ma non era stato sempre felicissimo
di
tornare lì, la loro oasi protetta dal resto della galassia? Invece
questa volta
sentiva una tremenda agitazione. Il cuore gli batteva un ritmo
forsennato
contro la cassa toracica e il respiro gli si inceppava a tratti, come
se
soffrisse d'asma. Cercò di calmarsi, provando anche a meditare
velocemente, ma
s'accorse presto che era troppo turbato per concentrarsi. Quindi,
abbandonata qualsiasi
pretesa di calma, si sporse sul bordo dell'imbarcazione e provò la
forte,
fredda brezza che gli gonfiava i capelli. Ogni tanto, guardava in
basso, nello
specchio d'acqua, e il suo riflesso lo guardava indietro con la bocca
stretta
in una smorfia.
Gli sarebbe
piaciuto,
d’un tratto, sentirsi pieno di cose meravigliose ed entusiasmo. Salire
le scale
due a due, tre a tre, entrare in casa, fermarsi in mezzo alla sala
grande e
annunciare a gran voce: sono tornato. E quando Padmé sarebbe stata lì
con lui,
sorridere e abbracciarla e dirle che era tornato un uomo nuovo, che non
l’avrebbe mai più fatta soffrire, che per loro stava davvero iniziando
una
nuova vita, che la lontananza lo aveva fatto riflettere e ora sapeva
esattamente doveva voleva portarla. E lei, ascoltando le sue parole
pronunciate
con la passione del ventenne che era stato, non lo avrebbe più lasciato
andare,
e i suoi occhi scuri lo avrebbero guardato dal basso in su tutti
lucenti, come
ambra illuminata dai raggi del sole. Questo era lo scenario che i suoi
sogni
gli avevano riproposto tutte le volte che era riuscito ad
addormentarsi, e,
anche se occasionalmente cambiavano dei dettagli, la sostanza
rimaneva
sempre quella: lui che ritornava, e lei che era sinceramente felice di
averlo
di nuovo tra le braccia.
Lo scenario
attorno a
lui, le montagnole boschive, il lago scuro e la luna e il suono del
motore, non
fecero altro che esagerare la sua improvvisa percezione di essere non
nella
realtà, ma all’improvviso in una sua fantasia. Aveva desiderato tanto
quel
momento che ora il ritorno vero gli pareva essere proprio quello, una
fantasia,
e la cosa lo turbava. Quaranta giorni non erano stati la separazione
più lunga
che avesse dovuto sopportare da sua moglie, e i cinque lunghi mesi
passati
nell’Orlo Esterno erano ancora vividi nella sua memoria; eppure quella
riunione
sembrava speciale.
In un certo
senso,
sentiva che quella era la loro occasione per essere felici. Quello che
era
successo era successo, avevano raggiunto il fondo, avevano fatto la
loro dura
risalita, avevano avuto più di un mese per stare lontani e riflettere e
ora
potevano ricominciare da capo. Se lei - se tutti e due avessero
abbassato le
loro difese, come Anakin si sentiva pronto a fare, era certo che
sarebbero
stati felici. Avevano superato la tempesta, e il peggio era dietro di
loro:
davanti a sé vedeva i felici campi prosperi e soleggiati, pieni di agio
e
serenità, che avrebbe potuto darle in dono.
Fu così che
Anakin,
tra una genuina trepidazione, e un inconfessato timore, trascorse il
breve
viaggio, accostando con dolcezza gli speroni rocciosi del lato
dell’isoletta
fino al piccolo molo informale, dal quale una scalinata portava alla
terrazza
panoramica dove s'era sposato. Guardando in su, notò che non vi erano
luci
accese, né alcun rumore dall'interno della villa. Tuttavia, e arrivò
come una
silenziosa rassicurazione, poteva captare nell’aria la loro presenza,
perfettamente
affine alla quiete che pervadeva l’intero paesaggio lacustre.
Le aveva
scritto un
messaggio dicendole che sarebbe tornato quella notte. Non aveva
ricevuto
risposte. Ora, mentre scrutava nella sala buia dalla terrazza,
gli pareva
di essere stato dimenticato.
Gli vennero
in mente
altri momenti e altre riunioni. In una tempesta di immagini
lampeggianti,
scorse tre anni di sotterfugi, e gli parve di aver capito qualcosa
d'importante
sulla sua vita: che quelli della guerra erano stati tre anni duri e
pieni di
scomodità, incertezze e paure, ma erano stati anni felici, in cui le
riunioni
erano occasioni di pura estasi sulla terra. Ora non avevano nessuno da
cui
nascondersi, ma i benvenuti, a quanto pareva, non erano diventati più
calorosi.
Entrò in casa
e accese
le luci.
Tutto era più
o meno
come se lo ricordava, con la tinta delicata delle pareti, i tappeti
pregiati, i
mobili di legno scuro, i pochi, lineari soprammobili che parlavano del
gusto di
Padmé in una sintesi di tradizionalismo e modernismo. Vi erano ancora i
cuscini
imbottiti, e l’angolo degli strumenti musicali, con quell’arpa
grandiosa e i
liuti intagliati e suonati dal nonno di Padmé, che era stato un famoso
concertista. Un giorno, dopo aver suonato per lui l’arpa, gli aveva
raccontato
l’affascinante vita di suo nonno, e Anakin, nella sua solita passione
di
scoprire quanto più potesse sul suo amore, aveva assorbito ogni parola
tanto
bene che avrebbe potuto snocciolarle a memoria.
Si mise in
mezzo alla
stanza e si chiese dove fossero sua moglie e i suoi bambini. Era
tornato – era
tornato! – e non c’era stato nessuno a salutarlo. Si era aspettato che
Padmé
sarebbe rimasta sveglia finché non fosse stato a casa, ma con un moto
di
malessere si rese contò che il suo desiderio era stata un’altra delle
sue fantasticherie.
Ormai avrebbe potuto tenerne un archivio, con le etichette appropriate:
fantasie dell’eroe al ritorno, fantasie della moglie comprensiva,
fantasie dei
figli prodigio (quelle erano le più variegate, viaggiavano attraverso
gli anni
e innumerevoli possibilità), fantasie della famiglia felice, e così di
seguito.
Un enorme, anzi, gigantesco archivio di tutti quei desideri ingenui,
alcune
volte anche innocenti, che erano diventati il carburante per la sua
nostalgia.
A star lì in
mezzo
alla stanza, tutto solo, l’impressione di essere in qualche specie di
sogno
s’intensificò, e non riuscì a muovere un passo. Era come uno di quei
sogni dove
si vorrebbe correre e i piedi rimangono incollati al suolo. I suoi
occhi fecero
il viaggio degli oggetti nella sala, soffermandosi su dettagli
disparati. Notò
gli intarsi sui tavolini, i dettagli dei quadri appesi alle pareti,
alzò il
viso e osservò l’affresco sul soffitto, al quale non aveva mai dedicato
abbastanza attenzione; abbassò il viso e osservò la storia intessuta
nel
tappeto, motivi folkloristici tipici della regione e gli parve che se
si fosse
acclimatato per bene, forse la delusione di trovare Padmé addormentata
nel loro
letto non sarebbe stata tanto bruciante. Sarebbe entrato in camera,
avrebbe
visto la sua forma distesa sul letto, col viso tutto coperto dai
riccioli, e si
sarebbe steso lì accanto a lei, aspettando che arrivasse il mattino.
Ci fu un
rumore da
qualche parte, e ad esso fece eco una voce.
‹‹Anakin!››
La grande
porta a due
battenti che conduceva alle altre sale e stanze si spalancò e Padmé
apparve
sulla soglia, come se si fosse materializzata lì dall’etere invisibile
dell’universo. Indossava una veste da notte elegante color avorio tutta
ricamata in fantasie delicate e i capelli erano nascosti dal lungo velo
che
fluiva fino ai piedi. Il suo viso era di una sfolgorante,
insopportabile
bellezza.
‹‹Oh,
Anakin…››
Corse da lei
e le
strinse la vita ripromettendosi che non l’avrebbe mai lasciata, mai.
Non sapeva
di cosa odorasse esattamente, ma era celestiale. Ora gli pareva di
essersi
dimenticato di cosa fosse mai odorata. Ma finalmente i suoi occhi scuri
lo
guardavano, dal basso in su, tutti lucenti; e le sue mani fresche gli
accarezzavano la guancia e grattavano la corta barba. Poi Padmé s’alzò
sulle
punte e lo baciò.
Gli era
successo
poche volte di sentirsi così totalmente trasportato da un bacio in un
altro
luogo e in un'altra era, ma avrebbe potuto giurare che era nel deserto
e stava
soffocando per il caldo. E fu per uno strano fenomeno della percezione
che
all’improvviso le lacrime di Padmé sul suo collo sembravano stille
d’acqua
venute a salvargli la vita. Poi avrebbe potuto giurare che in realtà
nel
deserto c’erano tutti e due, come soldatini mandati ad un
fronte sabbioso.
Erano tutti e due infelici ed emotivamente esausti, e Anakin sentì con
chiarezza, per l’ennesima volta, di essere profondamente inferiore alla
creatura gentile che gli stava concedendo il suo conforto, e, in
silenzio, il
suo perdono. Il bacio finì e l’abbraccio continuò oltre, come se fosse
la forma
di saluto più onesta che potessero regalarsi. Gli sarebbe anche andato
di
piangere, ma gli occhi gli si erano seccati del tutto. Poi nemmeno
Padmé
pianse, e rimase lì, tra le sue braccia, scossa da singulti forti e
secchi.
‹‹Sono a
casa. Sono
davvero a casa.››
Padmé gli
offrì un
sorriso timido, e poi sorrise un po’ di più. I suoi occhi parevano
voler
parlare, ma Anakin non riusciva a capire.
‹‹Quanto mi
sei
mancata.››
E di nuovo la
strinse
e affondò il viso nell’incavo del suo collo e chiuse gli occhi,
cercando di
memorizzare quell'odore singolare per scongiurare il pericolo di
dimenticarselo.
‹‹I bambini.
Muoio
dalla voglia di vederli. Sono stati quaranta giorni di tortura.››
‹‹Ho parlato
loro di
te tutti i giorni. Tutti quanti.››
E glielo
disse con
una specie di tenera timidezza, come se fosse un fiore che offriva i
suoi
petali al sole di prima mattina. Anakin si chinò e la baciò di nuovo.
Poi Padmé
si districò dal loro abbraccio, gli prese la mano e lo portò tra i
corridoi e
su per le scale, verso la stanza dei bambini.
Anakin la
seguì in
uno strano stupore, perché d’un tratto non gli pareva di essere davvero
lì, o,
forse, di star guardando se stesso dall’esterno, come in un sogno. Non
riusciva
ad uscire dalla sua condizione, e, come spesso succede in uno stato
alterato
della coscienza, non riusciva a concentrarsi su altro che non fosse un
dettaglio casuale, in questo caso il velo leggero di Padmé che
svolazzava
dietro di lei, come se fosse davvero un angelo, uno di quelli che
abitavano
sulle lune di Iego. Quando furono davanti alle doppie porte della
nursery,
Padmé si fermò e disse con una voce che traboccava d’orgoglio e che
pareva
stranamente fuori luogo nell’atmosfera delicata e sognante tra loro:
‹‹Sono
così grandi, adesso. Sono dei piccoli bantha. In una settimana – due
settimane,
ecco, sono cresciuti così tanto. Crescono davvero a vista d’occhio.
Loro…››
Poi chinò il
capo e
non disse nulla.
Oltre le
porte c’era
la sala dei bambini, che era un trionfo del buon gusto di sua moglie.
Il
mobilio intarsiato era di colore scuro e intenso, le pareti e i
tessuti, delle
tende, del baldacchino e delle fodere, un dolce avorio. Per terra c’era
un
nuovo acquisto, un largo tappeto di lana pregiata; alle pareti degli
abat-jour
davano in una sontuosa luce gialla. Di fronte alle porte, s’aprivano
sulla
notte due finestre, e oltre s’intravedevano i puntini luminosi delle
stelle.
Poco scostata dal centro della sala, speculare alla chaise
longue e alle due poltrone dall’altro lato del tappeto, vi
era la culla rotonda sormontata dal baldacchino, un trionfo elegante di
seta.
Non era stata così grandiosa quando era andato via.
Dentro la
culla, i
suoi bambini erano svegli.
‹‹Questa è
una
novità. Ormai dormono tutta la notte…››
Luke e Leia
lo
guardavano con i loro grossi occhi luminosi e un’espressione di netta
confusione. Li aveva visti sì e no una decina di volte, tante quante
aveva
conversato con la loro madre, o forse meno, e ora che li aveva davanti
agli
occhi vide quant’era tangibile la loro metamorfosi. I loro volti erano
promesse
di quello che sarebbero stati un giorno, passati gli anni. I gemelli
erano più
o meno delle stesse dimensioni, anche se il volto di Luke era più
rotondo di
quello della sorella; avevano la stessa sfumatura della carnagione, che
favoriva lui sull’incarnato esotico di Padmé; Luke aveva buffe ciocche
di
capelli bianchissimi e occhi azzurri, Leia una singola ciocca di
capelli
castani chiari e occhi scuri. Ma mentre gli occhi di Luke erano calme
pozze e
serene, quelli enormi della sorella nascondevano insondabili
profondità. La sua
bambina, realizzò Anakin in quel momento, mentre la guardava per la
prima volta
dopo più di cinque settimane, era destinata, forse più di suo fratello,
a
diventare qualcuno di grande ed importante, come sua madre prima di
lei. Sentì
l’eco di qualcosa di spiacevole dentro di sé, e si rimproverò per aver
proiettato sui suoi bambini quelle mute aspirazioni che sentiva.
Ricordandosi
di dover
in qualche modo iniziare un contatto con i suoi figli, abbassò una mano
nella
culla e passò la sua mano tra i radi capelli sulla testa di Leia. Con
due dita
tracciò la morbida fontanella, poi scese fino al braccio paffuto, e
prese nella
sua la manina della bimba, sentendo la terrificante fragilità di quelle
piccole
falangi.
‹‹Come sono
diversi,›› disse alla fine, perché sentiva gli occhi di Padmé scavare
un buco
sul suo profilo. ‹‹Mi ricordavo due – neonati. E guarda quanti capelli
che
hanno adesso, guarda quanti. E sono…davvero grandi. Sì.››
‹‹Prendili in
braccio. Sono calmi. Secondo me ti hanno riconosciuto.››
Guardò prima
il volto
dolce di Padmé e i suoi occhi pieni di incoraggiamento, e poi il volto
e gli
occhi dei suoi bambini. E quando non potè prenderli, per motivi che gli
rodevano il cuore e di cui non poteva parlare, guardò di nuovo Padmé e
vide che
il suo sorriso era diventato tirato. Dopo qualche istante neanche gli
angoli
degli occhi stavano sorridendo, e alla fine non sorrise più. Abbassò il
viso e
sembrava volesse nascondere le lacrime.
Anakin fece
un passo
indietro.
‹‹Non
posso,›› fu
tutto quello che riuscì a gracchiare.
Padmé,
d’impeto, gli
circondò la vita con le braccia e gli baciò la spalla. ‹‹Andrà meglio.
Ora
siamo tutti…››
‹‹…spiazzati…››
‹‹Sì. Siamo
tutti
spiazzati.›› Gli offrì un altro sorriso timido. ‹‹È così bello che tu
sia
tornato.››
Anakin
sentiva che
era dibattuta, e che desiderava parlare e sapere. Eppure nessuno dei
due, per
qualche motivo, aveva il coraggio di parlare davvero. Si sentiva sporco
e
stanco, e, nonostante avesse solo ventitré anni, si sentiva anche
vecchio. Era
esasperante: si sentiva lento, debole, come se le sue ossa stessero per
cedere
sotto le sollecitazioni di quattro, cinque volte i suoi anni, e il suo
cervello
iniziasse a cedere sotto i colpi del tempo.
Padmé tra le
sue
braccia era delicata e sofisticata come lo era sempre stata. Per lei
Anakin non
provava più né sfiducia, né irritazione, né rabbia. D’un tratto voleva
solo
proteggerla dalla melma che teneva dentro di sé.
E poi voleva
solo
riposarsi. Se non riusciva a trovare un accordo con se stesso, che
forse lo
avrebbe eluso per sempre, e se non riusciva ad esprimere a Padmé ai
bambini
tutta la gioia pura ed esilarante che provava nell’averli ritrovati,
se,
insomma, non riusciva ad essere il padre e il marito che sarebbe dovuto
essere,
almeno avrebbe trovato conforto nel chiudere gli occhi – forse lì,
finalmente a
casa, avrebbe riacquistato il lusso di una notte intera di sonno. Ma se
lui era
deluso, altrettanto doveva essere Padmé, che nascondeva le lacrime
nella sua
giacca.
Erano andati
a
dormire in silenzio e in silenzio Padmé s’era addormentata mentre gli
accarezzava la mano, via via con minore intensità man mano che il sonno
la
prendeva. Fu solo dopo qualche ora che, a notte fonda, constatata la
reticenza
del sonno a venire a trovarlo, Anakin s’alzò, infilò il guanto sul suo
arto
meccanico e uscì dalla stanza. Camminò per un po’ tra i corridoi,
aprendo di
tanto in tanto le porte per controllare se le numerose stanze e sale
della
villa fossero rimaste le stesse; visitò le torri, pensò di uscire tra i
giardini e invece finì nella stanza dei bambini.
Stavolta
dormivano.
Sedendosi
accanto
alla culla, Anakin si chiese se l’avessero davvero riconosciuto o se
fossero
stati invece turbati dall’improvvisa presenza di uno sconosciuto che
allungava
le mani su di loro e li accarezzava come se li conoscesse.
Nella Forza
la loro
presenza era delicata e serena, ma sempre pulsante. Erano potentissimi
piccoli
bebè, che un giorno sarebbero stati utenti splendidi della Forza e
avrebbero
illuminato l’universo con il loro singolare potere. Ma non erano
soltanto
pensieri di potere quelli che corsero nella mente di Anakin mentre
contemplava
i suoi bambini. Dopo poco non pensò più al loro futuro, ma al presente
che
avevano modellato sul volto: cercò nei loro lineamenti dove si
rassomigliassero, e dove differissero (e, a dirla tutta, non
s’assomigliavano
granché); poi cercò dove s’assomigliassero a lui, e dove a Padmé, e gli
parve
d’intravedere in Leia già qualcosa della madre, e in Luke qualcosa di
Jobal (ma
forse erano solo giochi di luce); e studiò la maniera in cui la luce
soffusa
dell’abat-jour accarezzava i loro volti, i piccoli menti, le guance
rotonde, le
labbra schiuse e un po’ umide, i nasi piccoli, le ciglia lunghissime e
le
fronti ampie e arrotondate.
E
all’improvviso
sentì qualcosa dentro di sé feroce e bellissimo, identico a ciò che
aveva
provato quando li aveva visti nascere. La timidezza fu dissolta, e
nella stanza
di colpo si respirò un’altra atmosfera, almeno per lui di pace e
ritrovata
amicizia. Era a casa, ed era con i suoi bambini, che con lui
condividevano il
segreto della Forza. Se ci pensava con abbastanza intensità, riusciva a
convincersi che forse la sua vita non era poi troppo tragica, ma teneva
in
serbo per lui molte, felici novità.
Gli venne
all’improvviso la fantasia di parlare con loro, e, senza nemmeno
accorgersene,
la prima lingua che usò fu l’huttese. Delle lingue che parlava, quella
era
stata la prima, per motivi che avrebbe preferito dimenticare: era
l’unica
lingua tollerata alla corte di Gardulla, e la prevalente a Mos Espa;
per tutta
la sua vita Anakin era spesso ricorso all’huttese in momenti
inaspettati. Ma
Gardulla fu presto cancellata dalla sua mente e rimasero soltanto le
sue
confessioni in lingua straniera ai suoi bambini. Si chiese se fosse il
caso di
parlare loro sempre in huttese, se non fosse proprio un bel regalo
farli
crescere bilingui. Glielo chiese anche, ma i bambini continuarono il
loro
pacifico sonnecchiare.
‹‹Uma ji
muna,››
sussurrò. ‹‹Chok chok.››
Luke mosse il
braccio
e si accarezzò la guancia con un movimento un po’ scoordinato, che
sembrava si
fosse dato un piccolo pugno. Rimise a posto il braccino e nel farlo
diede un
colpo alla sorella, che dalla sua placida posizione sul fianco si
spostò sulla
pancia. Anakin si ricordò di aver sentito o letto da qualche parte che
gli
infanti non dovevano essere lasciati dormire sulla pancia, e si premurò
di
spostare la bambina di nuovo supina. La piccola arricciò il naso come
se
infastidita e…
‹‹Wan chuba
hoohah takmeka
Huttasa?››
Era Padmé.
Parlò camminando verso di lui con gli occhi assonnati. Gli
poggiò le mani
sulle spalle. Erano calde, e morbide come la sua voce.
‹‹Come mai
sei
sveglio?››
Lo sentì
parlare in
huttese dall’altro lato della porta e la sua mente volò verso i giorni
di
Tatooine e le ore regali passate a perfezionare la pronuncia di cinque
lingue
straniere.
‹‹Uma ji
muna, chok
chok,›› gli sentì dire, e significava “vi voglio tanto, tanto bene”.
S’appoggiò
alle porte
e aprì quanto più delicatamente potesse, e parlò in huttese.
‹‹Perché gli
parli in
huttese?››
Anakin parve
preso
alla sprovvista, ma i suoi lineamenti si ricomposero in fretta in una
maschera
di malinconia. Gli andò vicino e gli poggiò le mani sulle spalle. Erano
piene
di nodi duri che chiedevano di essere massaggiati.
‹‹Come mai
sei
sveglio?››
Anakin si
rilassò
contro le sue mani.
‹‹Dovevo
venire da
loro. Ancora – ancora non riesco a credere di essere tornato.Un giorno
fa ero
su Generis, e faceva un freddo da cani. C’è l’inverno lì. E oggi ci
sono trenta
parsec di distanza, e sono a casa, con te e con loro. È strano,
capisci? Non mi
ero mai sentito così.››
‹‹Stai
invecchiando.››
Anakin rise,
ma c’era
un’ombra di nervosismo nella sua voce. La sua mano guantata accarezzava
un po’
distrattamente le gambe di Luke, che dormiva con le braccia stese sopra
la
testa, come un uomo che si arrende.
‹‹Stavo…››
ricominciò
Anakin con un po’ d’incertezza, ‹‹…stavo pensando che sono davvero
belli.
Voglio dire, sono diventati più belli da quando li ho lasciati. Sono
cambiati
così tanto, e io non l’ho visto. Non va bene…››
Padmé
s’abbassò
dietro di lui, incrociando le mani sul suo petto e posandogli un bacio
sulla
guancia. I suoi capelli secchi le pungevano la guancia. Aveva bisogno
di
tagliarli; da tempo, un mese almeno, avevano superato la lunghezza che
le
piaceva, ed ora erano duri e stopposi. Odoravano di shampoo in polvere,
di
quelli che facevano a pezzi i capelli. Scoprì che quel dettaglio le
faceva
tenerezza.
‹‹Loro non se
lo
ricorderanno nemmeno. So che sono felici che tu sia tornato. È quello
che
conta, dopotutto.››
Anakin rimase
zitto,
e Padmé fissò il movimento lento e continuo delle sue dita che
massaggiavano
con delicatezza la gamba paffuta di Luke. Il bambino non sembrava
accorgersene,
e continuava a dormire indisturbato. Dapprima le sembrò che ci fosse
decisamente qualcosa di sbagliato, ma solo dopo un po’ d’osservazione
s’accorse
che ciò che non quadrava era quel guanto di pelle nera contro la pelle
rosea
del neonato. Era un irrazionale pugno nell’occhio.
‹‹Perché
porti il
guanto?››
‹‹Non è
umana…››
Mosse un po’
in aria
la mano, girandola e flettendo le dita.
‹‹Non
importa.››
Padmé gli
sfilò via
il guanto e lui la lasciò fare. Quell’arto Anakin l’aveva ritoccato
innumerevoli volte, facendolo diventare dalla scarna appendice
droidoscheletrica che gli era stata attaccata tre anni prima un
sostituto
dall’aspetto più umano e più minaccioso. Legamenti neri di metallo
coprivano,
pelle scintillante e dura, le scarne dita e il fascio di cavi e nervi
robotici.
Non aveva mai voluto applicarvi la carne e la pelle sintetica
disponibili, che
avrebbero reso il suo braccio indistinguibile da uno vero (“Non è da
Jedi
badare a cose come l’aspetto esteriore,” aveva detto, e non aveva mai
avuto
ripensamenti).
‹‹Sei il loro
padre,
e a loro non importa. Non è fredda,›› disse, facendo combaciare i loro
polpastrelli, ‹‹non è pesante…›› e appoggiò le palme insieme, ‹‹…non è
rigida…››
E poi le
sembrava di
star parlando d’altro, ma non riuscì ad inseguire quel pensiero che
notò
l’altra mano, quella di carne, che stringeva tanto forte il bordo della
culla
da essere sbiancata. Anakin era una corda tesa, e la sua posa seduta
era
all’improvviso marziale e innaturale.
‹‹Che
succede,
Anakin?››
Lui si
districò dalla
presa larga di Padmé, s’alzò e fece qualche passo. Si fermò e si girò.
Troppo
alto e spesso di muscoli, ma con i capelli biondi che s’arricciavano
alle punte
e gli cadevano sulla fronte e gli occhi blu grandi, pareva qualcosa che
Padmé
non aveva visto mai prima; e si accorse che non poteva più operare
nessun
confronto con un bambino o un ragazzino, ora che i loro bambini erano
tra di
loro. Pareva al lato opposto di quello spettro: una creatura familiare
eppure
misteriosa. C’era qualcosa di tangibile che pulsava attorno a lui.
C’erano
volte in cui anche lei poteva credere di essere sensibile alla Forza,
tanto era
netta la sensazione.
‹‹Non lo so,
Padmé. È
questo il problema. La mia vita mi è uscita di mano, la mia testa pure.
So solo
che se continuo così io impazzisco.››
A quelle
parole Padmé
dipinse nella sua testa i più orribili scenari, e nel mezzo c’era
sempre lui
che distribuiva morte come un tempo distribuiva sicurezza. Erano le
strane
immagini che l’assalivano di tanto in tanto e che lei ricacciava negli
angoli
più reconditi della sua mente. S’immaginò Anakin che ammazzava
innocenti e
andava a congresso con il suo nuovo Maestro. Se li immaginava attorno
ad un
tavolo, con gli occhi torvi e le mani stese su documenti che ogni
giorno
conficcavano in maggior profondità la bara della libertà. Il suo
rimorso le
pareva tinto di terribili delitti.
‹‹Cos’hai
fatto
quando eri lì? Io non so nulla.››
Anakin
rispose con
tono spazientito, come se non fosse la domanda giusta da porre.
‹‹Non è
quello il
punto. Non è quello che faccio io – è quello che succede attorno a me.
Quello
che faccio io non è mai abbastanza comunque.››
‹‹Non riesco
a
capirti…››
Si passò una
mano tra
i capelli, abbassò il volto; e quando lo rialzò pareva sconfitto da
forze
troppo grandi per essere nemmeno elencate.
‹‹Non è colpa
tua,››
disse. ‹‹Non riesco a capirlo nemmeno io. So solo che qualunque cosa io
faccia,
non è mai abbastanza. Non sento mai di aver completato qualcosa; è come
se
fossi sempre a metà. Che io faccia o non faccia qualcosa, di solito è
del tutto
irrilevante. E io sono stanco di questo.››
Disse
quell’ultima
frase con un che di sinistro nella voce, ma Padmé non lo interruppe.
‹‹Vorrei che
le cose
fossero più semplici,›› concluse con ingenuità. Guardò verso la culla,
in due
guizzi improvvisi dei suoi occhi scuri. Poi guardò lei, come se si
aspettasse
qualcosa; e nella sua posa c’era un misto peculiare di impazienza e
arrendevolezza.
Qualunque
cosa Padmé
gli avesse detto in quel momento avrebbe incontrato qualche rifiuto o
impenetrabile muro, perché lo conosceva abbastanza ormai da sapere che
in quei
momenti non c’era maniera di prenderlo: il suo spirito selvaggio era
ben oltre
le parole, i consigli e professioni di compassione. Pur tentennando,
Padmé
s’alzò e andò da Anakin, che ad ogni momento pareva affondare di più
nel
tappeto lanoso, gli prese le mani, quella vera e ruvida e quella finta
e dura e
s’appoggiò tutta al corpo di lui. Districato l’intreccio di mani, le
sue
braccia trovarono presto la via della sua vita, e a tutti e due parve
che le
cose si fossero sistemate almeno un po’.
Poi in
qualche modo
(a Padmé pareva che fosse cresciuto un altro paio di centimetri da
quando
l’aveva visto l’ultima volta) Anakin s’abbassò profondamente e la baciò
con una
certa gentilezza. Poi, quando ebbe adorato le sue labbra, passò a
infiorare il
resto del suo viso con baci leggeri.
‹‹Ti amo.››
Sentirlo dopo
quasi
quattro mesi le fece girare la testa in maniera quasi spiacevole, e poi
le fece
venir voglia di piangere, ma non per la felicità.
‹‹Ma tu non
devi dire
niente adesso. Non devi dire proprio nulla. Voglio che tu me lo dica,
se lo
senti,›› la precisazione arrivò a mezza voce, e il resto delle parole
in un
fiume libero, ‹‹quando – ricordi quando mi hai detto che mi vedevi e ti
sentivi
scoppiare il petto e le ginocchia ti tremavano…e avevi la testa
leggera…ed ero
io a fartelo? Dicevi che ti sentivi male…Te lo ricordi?››
Padmé si
ricordò del
giorno in cui glielo aveva detto: le venne in mente il letto del suo
vecchio
appartamento, e loro due illuminati dal sole indiscreto dell’alba di un
giorno
di riposo, in un intreccio goffo di braccia, gambe e capelli. Lei
rideva un po’
ubriaca di baci, e lui la guardava come se non avesse mai visto niente
di più
bello. E poi lei guardava nei suoi occhi blugrigi e diceva quelle
parole con il
più pigro e sincero sorriso della sua vita, sentendosi senza dubbio
sulla cima
dell’universo; e lui rispondeva con uno di quei baci che facevano
girare la
testa. Sì, se lo ricordava.
‹‹Voglio che
tu me lo
dica quando ti sentirai così, di nuovo…Puoi farlo?››
Quando Padmé
annuì,
Anakin le prese il viso tra le mani e le accarezzò le guance, spargendo
dappertutto l’umidità delle lacrime che le uscivano dagli occhi. Poi la
baciò
di nuovo e se non felice, sembrava essersi calmato. Era quello il
momento in
cui Anakin era tornato dalla sua missione, non prima.
In qualche
modo
riuscirono ad uscire dalla stanza dei bambini, continuando ad
allontanarsi e
riavvicinarsi, scambiandosi baci dovunque potessero far poggiare le
labbra.
Anakin non era più tanto cupo, ma continuava ad esserci un anomalo
nervosismo
nei suoi gesti; Padmé si sentiva infiammata e un po’ si vergognava a
mostrarsi
tanto ansiosa di raggiungere il letto. Quando incrociavano gli sguardi,
gli
occhi di lui bruciavano di qualcosa che non era solo passione; gli
occhi di lei
cercavano di evitare lo scrutinio dei suoi, e si chiudevano contro la
sua
pelle.
Mai come
allora Padmé
sentiva tutto il peso della responsabilità di ristabilire il loro
fragile
contatto e rassicurare entrambi che ora che era tornato avevano
l’opportunità
di ricreare le loro vite. Ora si sentiva ricca di una conoscenza che
aveva
colto il buio mese prima della nascita dei gemelli e che aveva maturato
quel
mese di lontananza: che Anakin nonostante non fosse più, e
probabilmente non
sarebbe mai più stato, quello del quale si era innamorata anni prima,
rimaneva
padrone del suo cuore, e con sé lo portava ovunque andasse, rendendola
tacita
complice di tutto ciò che faceva. Chiunque fosse Anakin adesso, e
qualunque
cosa avesse fatto, Padmé amava ancora: e ciò era insieme la sua colpa e
il suo
fallimento. Forse era cambiata, forse era diventata una vigliacca, e
forse lo
era sempre stata: sapeva solo che se avesse saputo davvero ne sarebbe
morta.
Non voleva sentire, né sapere: buio, luce, male, bene, lei prendeva
tutto,
almeno quella notte, almeno lì.
Sprofondarono
sul
letto e stavolta non in silenzio. Anakin fu disperatamente gentile e
freneticamente desideroso di adorare tutto il suo corpo. Le disse che
gli
faceva piacere che non avesse ancora perso tutti i chili della
gravidanza, che
amava le nuove curve e che non l’avrebbe mai più lasciata. I suoi
abbracci
furono soffocanti, e la sua pelle era bollente e odorava di caldo. Il
nervosismo e l’incomunicabilità di prima divennero uno scostante,
brutale
attacco sui sensi di Padmé. Le lenzuola s’appiccicavano, davano
fastidio. Padmé
sentiva la testa girare e il petto espandersi in cerca d’aria fresca.
Dopo, si
lasciò
abbandonata su di lui, mentre le sue dita disegnavano cerchi sulla
pelle della
sua schiena. Era entrato ed uscito dal sonno un paio di volte, ma i
suoi occhi
continuavano a spalancarsi come se davanti ai suoi occhi apparissero
paralizzanti incubi notturni. Forse s’addormentò anche lei, non ne era
sicura:
ma ad un tratto sentì gli occhi di Anakin fissi sulla sua testa, e
quando alzò
il viso e poggiò qualche bacio sul petto s’accorse d’avere ragione.
Anakin aveva
gli
occhi lucidi e con la voce un po’ spezzata da un’improvvisa emozione le
disse
che avrebbe messo a posto le cose, che avrebbe sistemato tutto. Le
ripeté che
l’amava, che tutto quello che faceva lo faceva per la loro famiglia,
perché per
lui non contava altro che lei e i bambini. Lo diceva con una foga così
assoluta
che poi a Padmé parve che un po’ stesse cercando di convincere se
stesso, ma
non disse nulla e continuò a spargere qualche bacio qua e là, in un
languore
sonnacchioso.
Stava forse
scivolando di nuovo nel sonno, mentre si lasciava cullare e rassicurare
dalle
parole di Anakin, che delle parole la scossero.
‹‹Aiutami,
Padmé.
Stai con me. Stai sempre con me.››
Il tono con
cui le
disse era distante, come se sognasse, ma gli occhi erano aperti e
disperati.
Nel buio erano come due voragini che la chiamavano. Padmé si sporse in
avanti
per baciargli le labbra di nuovo.
I primi raggi
del
sole all’alba fecero capolino tra le tende leggere, a salutare il nuovo
giorno.
___________________
1. Tashmetu è
nella mitologia accadica la consorte del
dio della cultura e della saggezza Nabu, che ha ispirato il nome del
pianeta;
Nanna è il dio mesopotamico della luna.
padme
undomiel. Ho cercato di
immaginare
più volte la possibile riunione della famiglia Skywalker, così come un
nuovo
confronto tra Anakin e Padmé, ma ti giuro, uno sviluppo del genere non
me lo
sarei mai aspettato. Sarò ripetitiva, probabilmente, ma ancora una
volta mi
sembra che l'analisi introspettiva di questi personaggi -così come
l'amore per
loro che traspare da ogni parola che spendi nel raccontare le loro
vicende- sia
insuperabile. E insuperabilmente dolce, anche se estremamente difficile
e
combattuta. Assistere a quest'altalenarsi di sensazioni, a questi
sentimenti
contrastanti di avvicinamento/allontanamento che da sempre
caratterizzano
questa storia ma che in questo capitolo sono più evidenti che mai, è
sempre
interessante, talvolta anche straziante, soprattutto per chi, come me,
ama
questa coppia e non chiederebbe altro che un momento di conforto per
loro.
Ancora una volta noto che il punto forte della tua storia è quello di
passare
da un sentimento all'altro senza mai apparire irreale. E così, da un
clima
quasi surreale di attesa, aspettativa e speranza di un Anakin che torna
a casa
e che non sa se sarà accolto come ai vecchi tempi, né se Padmé lo
aspetterà
sveglio e lo guarderà ancora con lo stesso calore di un tempo, si passa
a
un'esitante, timida scena di contenuta felicità quando Padmé corre da
lui, lo
bacia e lo stringe forte. Eppure, si avverte ancora un senso di
incompletezza,
perché non osano parlarsi, fingono ancora che tutto sia come un tempo,
che
Anakin non abbia ucciso né soffocato la libertà nella Galassia. Finché
l'impossibilità di Anakin a prendere in braccio i suoi figli non
abbatte le
maschere, non rivela ad entrambi quanto i tempi siano cambiati, quanto
il
tormento di lui sia sempre presente come un'ombra opprimente, pronto a
frapporsi tra lui e i bambini. E qui il senso di tristezza e delusione
delle
lacrime sconfitte di Padmé quasi soffoca ogni cosa, e il lettore non
può
esserne immune.
Eppure, la tenerezza che Anakin prova quando parla ai gemelli in
Huttese -forse
in un tentativo di creare un legame ancora più forte con Luke e Leia
tramite le
sue esperienze passate- è capace di rimarginare, in parte, le ferite.
Tenerezza
che sembra venire oscurata all'improvviso dal tentativo di Padmé di
sapere ciò
che lui ha fatto su Generis, per poi essere più forte che mai nel
momento in
cui quel "ti amo" non pretende una risposta immediata quanto falsa,
ma sa aspettare momenti migliori. Momenti come quel ricordo conservato
con la
stessa cura di un gioiello prezioso, semplice ma importante, ora che
Padmé non
riesce a trovare maniera per esprimergli quello che lei prova.
E la scena finale? Intensa, in ogni senso. Nella volontà di lei di non
guardarlo negli occhi, quasi come fosse spaventata dall'oscurità che
incupisce
il suo sguardo. Nel loro momento di intimità, in cui Anakin ha bisogno
di lei,
del suo sostegno, della sua purezza, del suo amore. Nella richiesta
disperata
di lui, così angosciata e toccante da non poter lasciare indifferente.
E
nell'alba che sorge piano oltre le tende, pronta a salutare ancora i
due
amanti, il cui amore ancora persiste, nonostante tutto.
Non credo di avere altre parole per descrivere il momento meraviglioso
che hai
creato ... posso solo dirti che questa storia diventa sempre più bella.
E grazie
per le emozioni che regali ai lettori.
Un bacio,
Padme Undomiel ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Tre. ***
Tre
‹‹Sono
stanco di andare
in missione,›› le confessò Anakin la mattina dopo, sfiorandole le
labbra con un
dito. Poi s’alzò su un gomito per guardarla meglio, con gli occhi molto
chiari
ed intensi nel sole brillante del mattino. ‹‹Voglio rimanere con te e i
bambini.››
Quelle parole
le fecero ricordare di decine d’altre
volte in cui le aveva ripetute. Le circostanze erano più o meno sempre
le
stesse: il ritorno da una missione difficile, molta stanchezza emotiva
ed un
letto. Anakin in quelle occasioni riscopriva il lato romantico del suo
carattere e si dilungava in simpatiche, romantiche fantasticherie, che
includevano sempre una sua strabiliante ribellione all’Ordine. Si
sforzò di
prodursi in un mezzo sorriso.
‹‹Non devi
andare da nessuna parte, adesso.››
Un largo
sorriso pigro s’allargò sul volto di
Anakin.
‹‹Giusto. Da
nessuna parte.››
Si chinò e le
diede un bacio, poi ritornò supino,
con aria pensosa. Le prese la mano, intrecciò le loro dita e alzò in
alto le
loro mani unite, tra di loro, guardando quel monumento a loro con occhi
seri.
Padmé sapeva
di non sbagliare se avesse detto che
entrambi erano in preda ad una certa mestizia. Non era che non fossero
felici,
perché lo erano; era solo che quello stato di silenziosa, estatica
felicità in
cui s’erano ritrovati la sera prima non era una condizione naturale per
gli
esseri umani, né poteva essere sopportata troppo a lungo, sicché
entrambi erano
ritornati a quello che era diventato il loro umore naturale: lui, ad
una quieta
contemplazione di ciò che lo circondava esternata in una leggera ruga
tra gli
occhi; lei, alla sua ormai familiare malinconia. Non era esattamente
quello che
avrebbe voluto fosse la loro prima mattina insieme dopo tanti giorni di
lontananza, ma non era del tutto spiacevole. Forse erano ancora tutti e
due un
po’ timidi.
Per
stemperare quell’atmosfera un po’ troppo
quieta, Padmé parlò, passandogli una mano tra i capelli lunghi e
stopposi ed
esagerando comicamente la sua inflessione: ‹‹Ti devo tagliare questi
capelli.
Hai un terribile bisogno di un taglio, devi
credermi, caro. È
stata la prima cosa che ho visto quando sei entrato.››
Anakin
scoppiò a ridere, come non rideva da secoli.
Era una risata sincera, di quelle che nascono dal diaframma e
contorcono il
viso in una smorfia d’allegria. Il suo riso risuonò in tutta la stanza,
e Padmé
s’accorse in quel momento di quanto le fosse mancato quel suono nella
sua vita,
perché, pensandoci, non si ricordava l’ultima volta in cui lo avesse
sentito
ridere in quel modo. Quasi ebbe la tentazione di dirgli di non smettere
di
ridere, o di fare qualcosa di ridicolo per sollecitare un altro scoppio
di
ilarità. Ma non fece nulla, e rimase lì, godendosi il calore del corpo
di
Anakin e la frescura delle federe di seta.
Aveva già
dato da mangiare ai bambini, aveva
passato con loro qualche minuto, aveva incaricato 3PO di stare attento
che non
succedesse nulla di strano in camera e poi era ritornata nel suo
santuario:
aveva un altro paio d’ore di riposo prima di dover scender giù. Aveva
intenzione di preparare un buon pranzo per Anakin: avrebbe cucinato
tutti i
suoi piatti preferiti. Mentre s’addormentava, pensò che avrebbe anche
potuto
preparare il pane dei cinque fiori, la sua specialità.
E doveva
dirgli qualcosa d’importante. La notte
prima aveva preso la sua decisione, ed era troppo tardi per cambiare
idea.
Tutto quello che stava facendo in quel momento, essere carina,
comprensiva,
amorevole e apparentemente dimentica di tutto quello che era passato
tra di
loro (ed erano passate molte cose), tutto ciò non
era che la
dimostrazione di ciò che comportava quella decisione.
‹‹Ani,
ascoltami. Non voglio parlare di Atrivis.
Quello che è successo lì rimane lì. Se tu volessi parlarmi di qualcosa
in
particolare io ti ascolterò, ne parleremo quanto ne vuoi. Ma se non
vuoi io lo
accetto.›› Provò un moto di disgusto verso se stessa che le bruciò la
gola, ma
continuò a parlare. ‹‹M’importa solo che tu sia a casa, sano e salvo,
con me e
i bambini. Dobbiamo pensare a noi.››
E negli occhi
di Anakin apparve un’ombra di così
totale gratitudine, così grande felicità che Padmé potè quasi
convincersi di
aver appena fatto la cosa giusta. Poi alla gratitudine e alla felicità
si
mescolarono altre cose: e se Padmé era una buona lettrice degli occhi
del marito
avrebbe potuto affermare con certezza che c’era anche una punta di
amarezza.
La loro
conversazione non potè continuare, perché
la voce allarmata di 3PO giunse dal piccolo monitor sul comodino,
informandoli
che Luke (“oh che cosa spaventosa, sentite come si lamenta,
povero piccolo
padroncino!”) stava di nuovo piangendo. Padmé spiegò ad
Anakin che il
piccolo stava per mettere su il primo dentino, ed entrambi si
sbrigarono a
lasciare il letto e quell’importante confessione dietro di loro.
Nella stanza
dei bambini, Luke stava dando prova
dei suoi polmoni, mentre Leia lo osservava con le labbra strette e già
tremanti. Ma bastò che Anakin lo prendesse in braccio perché si
calmasse
all’istante e riprendesse, più pacificamente, a prodursi in sommessi
singhiozzi
e sfregarsi un dito paffuto sulle gengive. Anakin sorrise e la guardò.
‹‹Hai
ragione,›› rispose, come se la conversazione
fosse continuata ininterrotta fino a quel momento.
Padmé annuì,
e, siccome all’improvviso non aveva
davvero voglia di parlare, si chinò e prese dalla culla Leia, che la
ricompensò
con un grosso, umido sorriso. Le posò un bacio sulla tempia e odorò
quel buon
profumo di neonato, di latte, sapone alle rose e olio essenziale,
sapendo che
Anakin la stava ancora guardando con quel misto di ammirazione,
gratitudine e
compassione di prima.
In sua
difesa, Padmé avrebbe voluto dire soltanto
una cosa alla sua bambina: che con quelle parole di prima aveva fatto
esattamente quello che doveva fare per garantire a lei e a suo fratello
una
vita felice. Una delle grandi tragedie della vita umana era proprio
che, prima
o poi, la vita trovava sempre il modo di farti fare un compromesso che
ti
avrebbe tormentato tutto il resto della tua esistenza. Prima o poi,
tutti
dovevano fare un passo indietro, chinare la testa e sopportare un male
nella
speranza, o l’illusione, di un bene maggiore: e in questo caso
l’illusione era
avere una vita tranquilla, accanto all’uomo che si ama. Di compromessi,
Anakin
ne aveva fatti anche di terribili, e lei lo sapeva. Padmé, di
compromessi, ne
aveva accettati pochi, e mai nella sua vita privata. Aveva sempre
saputo che la
cosa più preziosa che un uomo potesse avere erano i pochi centimetri
cubici tra
le orecchie, e quando svendevi anche quelli potevi finalmente dire di
essere
stato sconfitto e ripararti in un angolo a leccarti le ferite. Ma ora
Padmé era
una madre, e con ciò veniva la sconcertante scoperta che d’un tratto i
centimetri cubici più importanti della tua vita e i più preziosi non
erano
quelli in mezzo alle tue orecchie, ma quelli in mezzo alle orecchie dei
tuoi
bambini: proprio lì, tra le tempie bionde e profumate della sua
bambina. Per
dare loro la felicità, Padmé sapeva di dover essere serena: una madre
malinconica, arrabbiata, impaurita ed impotente cosa avrebbe potuto
dare loro,
se non una lunga sequela di vacui momenti di infelicità? E non sarebbe
stato
ancora peggio separarli fisicamente dal padre che li amava? E se uno
svendeva
almeno un po’ della propria onestà intellettuale per i propri bambini,
non era
forse un’azione giustificabile? Nessuno che avesse mai provato cosa
significava
amare un figlio (provare quell’amore disperato per qualcuno che era
parte di
te, scoprire di vivere per quei sorrisi) avrebbe potuto biasimarla.
Quindi cosa
importava se Padmé sentiva d’aver appena ucciso un’altra parte di se
stessa,
abbassando la testa e dicendo di non voler sapere: quello che stava
facendo era
un investimento, in favore dei suoi bambini, in favore della sua
famiglia, in
favore, anche, di Anakin, che le si era avvicinato e le aveva posato un
bacio
gentile sulla guancia.
Il
giorno seguente e quello dopo
ancora furono giorni idilliaci, come Padmé non se ne ricordava da mesi
e come
ne aveva sempre sognati dal momento in cui aveva saputo di aspettare un
bambino. Stare lì, con Anakin e i bambini, a trascorrere momenti
rilassanti
senza sentire sul collo il fiato di una missione in arrivo,
semplicemente a
godersi la reciproca compagnia in un’atmosfera di dolcezza: era così
che si era
sempre sognata la sua maternità.
Le sue dame
di compagnia, oltre alla servitù,
vivevano in un piccolo, elegante edificio separato dalla villa più
interno
all’isola e ai giardini, sicché la famiglia Skywalker era sola che si
rilassava
dopo cena su una delle terrazze, dalla quale una scalinata portava ai
giardini
della villa. Su un tavolo elegante in ferro battuto giacevano i resti
della
loro cena, piatti in porcellana e bicchieri di cristallo con i
rimasugli di un
tenero arrosto e frittelle di mele. Tra i piatti e i bicchieri c’era
una
candela ancora accesa, una brocca per l’acqua e un vaso per l’olio
d’oliva
preferito di Anakin. Il grammofono, montato in un angolo, spandeva un
successo
di musica popolare, dove la voce calda di un crooner
faceva da
contrappunto ad una coinvolgente orchestra jazz con qualche assolo di
tromba,
come andava di moda a Corellia.
Padmé si era
stesa sul divano, lasciando che una
gamba le penzolasse dal bordo seguendo il ritmo della musica; Anakin,
con i
capelli decisamente più corti dopo che Padmé s’era preoccupata di
sistemarglieli,
era seduto per terra, sotto di lei, e i bambini erano svegli e pimpanti
su un
paio di materassini appoggiati al pavimento.
‹‹Padmé,
voglio insegnare loro l’huttese,›› disse
Anakin con un’espressione seria dopo un po’ che conversavano con
leggerezza di
questo e di quello.
‹‹Così mi
togli il piacere di iscriverli alla
Scuola Reale di Huttese,›› protestò Padmé. ‹‹Iniziano i corsi quando i
bambini
hanno tre anni, quindi si è obbligati a iscriverli quando hanno tre
mesi. E
danno loro queste uniformi carine, sono davvero adorabili.››
‹‹Un costume
da lumaca o cosa?››
Padmé rise in
direzione del cielo stellato. ‹‹Ma
no, è una divisa tutta carina. I maschietti portano i pantaloncini e i
mocassini, mentre le bambine un vestitino blu chiaro tutto elegante. E
quando
hanno dieci anni li portano in gita a Nal Hutta.››
‹‹E tutto ciò
per imparare la lingua di qualche
gasteropodo criminale -››
‹‹…oppure la
seconda lingua più influente di questa
Galassia.››
Anakin non
replicò e allungò un dito a Luke per il
diletto del bambino, che l’afferrò e se lo portò in bocca, cercando di
trovare
un po’ di conforto mordicchiandolo. Dopo poco il dito di Anakin fu
ricoperto
dalla bava del bambino, che in compenso offrì un sorriso e un acuto,
allegro
strillo di soddisfazione.
‹‹Piuttosto,
tu dove hai imparato l’huttese? Lo
parli quasi senza accento. Me lo sono sempre chiesto ma non te l’ho mai
domandato.››
Padmé
sbadigliò. ‹‹Essere una regina non è facile.
Ero costituzionalmente obbligata ad imparare alla perfezione almeno tre
delle
lingue ufficiali riconosciute dalla Repubblica, e avevo i migliori
tutori e
insegnanti di dizione di tutta Naboo. Si fanno le cose in grande quando
sei a
capo di un pianeta.››
Omise di aver
avuto una storia, quando aveva
diciotto anni, col suo insegnante di huttese: un ragazzo di venticinque
anni,
di nome Mohan, figlio dell’ambasciatore di Naboo a Nal Hutta; giovane,
carino e
simpatico che era riuscito a vedere sotto la facciata di Amidala grazie
alla
sua spiccata sensibilità, e il resto lo avevano fatto lezioni supplementari
di huttese a sera tarda. Se n’era andato un giorno, e Padmé aveva
sempre
sospettato – anche se non aveva mai avuto delle prove – che nella sua
improvvisa partenza per Coruscant a sbrigare chissà quali faccende, ci
fosse
stato lo zampino del consigliere Sio Bibble, il quale – dopo il suo
sedicesimo
compleanno - aveva sempre dimostrato una quasi inquietante paranoia nei
confronti di qualunque uomo giovane le si fosse mai avvicinato.
‹‹Deve essere
stato interessante, avere tutte
quelle materie.››
Per il
divertimento di Anakin, Padmé allora gli
raccontò com’erano state davvero le cose. Le materie obbligatorie al
Palazzo
Reale erano otto: matematica, biologia, storia, filosofia, letteratura,
xenolinguistica, astrogeografia e studi della politica, e i suoi
progressi in
ciascuna venivano trasmessi al popolo in maniera a metà tra l’ufficiale
e
l’informale una volta all’anno, tanto che alcuni sudditi zelanti
s’offrivano
via lettera di aiutarla in qualsiasi materia capitasse che non fosse
riuscita a
raggiungere il massimo del punteggio negli esami. Oltre alle materie
obbligatorie, ad ogni regina era richiesto un livello di conoscenza
approfondito delle danze tradizionali naboo, alcune delle quali aveva
dovuto
eseguire personalmente, e sotto il peso degli imponenti abiti
cerimoniali, ai
ricevimenti danzanti a palazzo; inoltre la sua tutrice generale, la
signora
Maíbe, insisteva su un sufficiente grado di abilità nel suonare l’arpa
e il
flauto naboo, su una perfetta conoscenza dell’etichetta di corte,
dell’arte
della composizione scritta, e, in misura minore, su un’infarinatura
decente in
botanica ed architettura, l’ultima delle quali era, fortunatamente, una
passione che Padmé condivideva dall’infanzia con il padre. Il
curriculum
accademico reale era disegnato per una carica di quattro anni, sicché
una
giovane regina, una volta abituati gli occhi allo sfarzo di corte,
veniva
rinchiusa nella tradizionale Sala dello Studio, una stanza rotonda
collegata
alla smisurata biblioteca di palazzo, e da lì poteva sperare di uscire
solamente durante gli incarichi amministrativi, le sedute di consiglio
settimanali, i giorni festivi, le visite al popolo e le vacanze del
mese di
Arah Abu, nel cuore dell’estate. Quando era stata rieletta, i pedagoghi
di
corte non s’erano scoraggiati, e la possibilità di lasciar riposare la
povera
Amidala non era stata nemmeno presa in considerazione: presto avevano
modellato
sulle sue esigenze un nuovo programma avanzato, ma, effettivamente,
assai meno
soffocante di quello della prima carica.
‹‹Ora capisco
perché mi sembra che quegli otto anni
siano volati via in un soffio.››
‹‹Al Tempio
era diverso.›› Padmé, che aveva ancora
un sorriso sulle labbra, smise di sorridere e ritirò le gamba che
teneva
penzoloni; Anakin tirò via il dito dalla bocca di Luke, e per un po’
nella
terrazza non si sentì altro che quella musichetta, con le percussioni,
la
trombetta e il clarinetto che andavano avanti con la loro svelta
melodia da
sala da ballo e le grida indignate di Luke. Dopo un po’, forse
accorgendosi che
non era semplicemente credibile che terminassero la loro conversazione
in quel
modo brusco e forse scosso dalla tremenda cacofonia, Anakin diede di
nuovo il
dito a Luke e ricominciò a parlare a bassa voce.
‹‹Lì ti
insegnavano obbligatoriamente solo storia e
astrogeografia. Tutto il resto era facoltativo. Mi ricordo che c’erano
molti
corsi per ogni possibile materia. Matematica, biologia, filosofia,
quello che
vuoi, loro lo avevano. Ma nessuno aveva davvero voglia di studiare
quelle
materie, perché se avevi il tempo di studiarle voleva dire che nessun
cavaliere
ti aveva preso come padawan. E che senso aveva stare al Tempio se
nessun
maestro ti voleva? Io non ero granché come studente. Mi piacevano
astronomia e
meccanica, ma ero…distratto.››
Anakin non le
aveva mai parlato sugli anni del
Tempio. Sapeva che era rimasto lì tre anni circa dopo che si erano
separati, e
verso i tredici anni aveva iniziato a viaggiare con Obi-Wan per la
galassia. Su
quei tre anni di permanenza al Tempio, il momento in cui,
presumibilmente,
aveva dovuto iniziare a sentirsi un Jedi vero, non aveva mai fatto
parola. Ma
Anakin ricominciò a parlare ancora prima che lei potesse chiedergli
qualcosa,
con un tono strano e secco.
‹‹Non ero
molto popolare. Finché non si sono
abituati alla mia presenza sentivo gli altri bambini, ragazzini,
fissarmi e
bisbigliare. Ero quello strano. Penso che fossero un po’ invidiosi,
perché ero
l’unico ad avere una bella profezia sulle spalle, un potere molto più
grande
del loro e ad essere già un vero padawan, mentre loro cercavano di
farsi notare
dai Maestri. Era tutto molto ridicolo. M’aspettavo – non so,
m’aspettavo che
sarebbero stati gentili con me, che avrebbero avuto un po’ di pazienza,
un po’
di fiducia, qualcosa del genere – ma niente. Mi
sono fatto qualche
rivale e ho fatto a botte e ho rischiato di essere espulso. Alla fine
ho
iniziato a passare tutto il mio tempo con…›› ma non disse il nome.
Padmé capì
dalla maniera in cui aveva terminato il
suo racconto che sarebbe stato meglio cambiare argomento, prima che si
fossero
addentrati troppo lontano nella selva dei loro ricordi. Erano sempre
terreni
instabili, quelli. Poggiando una mano sulla spalla di Anakin, parlò:
‹‹Mi
chiedo invece cosa piacerà loro quando saranno grandi.››
Anakin
rispose col tono monotono che aveva usato
prima. ‹‹Saranno come me. Quando conosci il tuo potere non vuoi fare
altro,
vuoi solo la Forza.
È
un bisogno, come respirare.››
Di nuovo
stavano andando alla deriva verso un
gigantesco, minaccioso scoglio. Padmé aveva sempre saputo che qualunque
figlio
nato dalla loro unione sarebbe stato, prima o poi, addestrato nelle vie
della
Forza. Era non poco rassicurante sapere che i suoi figli, una volta
allenati,
non avrebbero dovuto temer nulla; e poi, nel frattempo i tempi
sarebbero
cambiati e ci sarebbe stata la pace di nuovo. All’epoca pensare al loro
addestramento le aveva fatto venire in mente scene divertenti con
piccole spade
laser che fendevano ingenuamente l’aria, e occhi azzurri tutti eccitati
sotto i
caschi di protezione; ora s’immaginava soltanto una stanza buia, con
Palpatine,
deturpato e maligno, che metteva nelle loro mani vere spade laser,
diceva loro
di fare a pezzi i droidi d’allenamento senza pietà e Anakin che nelle
retrovie
osservava la discesa tra i Sith dei suoi bambini.
‹‹Ah. Ma, non
so…forse qualcuno di loro potrebbe
scoprire di amare la politica, o la musica…››
‹‹Forse.››
Questa volta
fu il turno di Anakin di cambiare
discorso, dopo quasi un minuto intero di silenzio. Si girò verso di lei
e le
prese la mano, come se avesse appena avuto un’idea. Per fortuna, quando
parlò
la sua voce era ritornata più o meno normale.
‹‹Mi
chiedevo, mentre tornavo qui, se ti piacerebbe
rinnovare i nostri voti, al Tempio di Theed. Potremmo fare le cose in
grande,
con i fiori, i cori, tutti gli invitati, la tua famiglia, il
banchetto…Fare le
cose per bene, senza nasconderci…Potremmo farlo fra qualche settimana,
ci
prendiamo una settimana da vacanza, lasciamo Coruscant e…››
‹‹Perché
dovremmo farlo?››
Anakin parve
confuso. ‹‹Pensavo ti sarebbe
piaciuto. La nostra cerimonia è durata dieci minuti, e con noi c’erano
solo 3PO
e R2. Non abbiamo nemmeno avuto una cena di nozze.››
‹‹Non
importa. È stato…›› cercò di trovare le
parole giuste per quello che voleva dirgli, ‹‹è stato molto più bello
di quello
che avevo sognato da bambina. Il fatto che tu fossi lì bastava.
Capisci?
Bastava quello.››
La solitudine
della loro cerimonia non era certo un
punto di demerito, ma anzi di pregio. Cielo, si poteva ricordare
esattamente
l’intensità dei loro sguardi tutto quel giorno, la maniera in cui
s’erano
danzati attorno, il silenzio. Si ricordava quel silenzio assai più
delle
parole: e non lo aveva più ritrovato in quella maniera. All’epoca non
s’erano
nemmeno conosciuti davvero. Ora lo sapeva. Sapevano l’uno dell’altra
quello che
bastava per essersi innamorati, mentre il vero
amore era sopraggiunto
qualche mese dopo, quando un giorno s’era svegliata e s’era accorta che
di lui
aveva sviluppato un tale bisogno da odiare la Repubblica
perché la costringeva a stare senza di lui.
Anakin le
baciò la mano con delicatezza. Chiuse gli
occhi e, all’improvviso, divenne immobile come una statua. Rimase in
quella
strana posizione per qualche lungo istante.
‹‹Anakin?››
Staccò le
labbra dalle sue mani e alzò gli occhi.
‹‹Non è niente.››
‹‹Ho detto
qualcosa di sbagliato?››
Scosse la
testa. ‹‹No, è tutto perfetto.››
‹‹Tutto
perfetto,›› gli fece eco dolcemente Padmé,
chinandosi per baciarlo. E Padmé stava già avendo la mezza idea di
terminare in
fretta la loro sosta in terrazza e trasferire la famiglia all’interno
della
villa, per poter mettere la fine perfetta a quella giornata quando
Anakin
divenne di nuovo di ghiaccio, e in un movimento impossibilmente veloce
s’alzò e
afferrò la spada laser. Per un attimo vi fu il silenzio; poi i gemelli
esplosero in alte grida.
‹‹Anakin cosa
-››
‹‹C’è
qualcuno qui.››
E dal modo in
cui lo disse Padmé ebbe un’idea, una,
vaga, impossibile…Ebbe paura, senza nemmeno sapere razionalmente perché
il
cuore le si fosse gelato in petto. Con la testa annebbiata e gesti
meccanici,
Padmé si alzò dal divano e si chinò sui bambini, cercando di tenere
simultaneamente un occhio sul marito e sui bambini.
‹‹Anakin, non
andare…chiamo le guardie…››
‹‹Prendi la
barca, porta via i bambini da qui. Non
venire per nessun motivo e -››
E poi lo
sentì anche lei, in qualche maniera,
mentre cercava di sollevare entrambi i dimenanti gemelli. Anakin
guardava già
nella direzione giusta.
Sull’ultimo
gradino della scalinata che portava ai
giardini, a meno di otto metri da loro, era comparso un uomo familiare,
in
vesti umili, con capelli e barba folti e rossicci. Aveva le braccia
incrociate
sul petto e pareva essere venuto in pace; li guardava con occhi calmi e
intensi. Padmé non lo vedeva da tre mesi, e pareva che fosse passata
una vita
intera da quel momento. Era lo stesso uomo che aveva detto che Anakin
era un
grosso pericolo da eliminare e che aveva cercato di convincerla a
lasciarlo e
scappare con i bambini per farli diventare, un giorno, nemici del loro
stesso padre.
Ora le pareva tutto assurdo e spaventoso. Si rese conto, in quella
surreale
frazione di secondo, che ora lì, a pochi metri da lei, c’era qualcuno
con il
potere davvero di distruggere la sua vita.
‹‹Porta via i
bambini, Padmé.››
Davanti a
lei, Anakin aveva l’arma sfoderata ed
accesa, e tutto nella maniera in cui si ergeva faceva pensare ad una
fiera
pronta ad attaccare. Con un sussulto d’orrore, Padmé s’accorse che non
aveva
nessuna intenzione di fermarlo.
padme
undomiel.
Ciao
:) sono di nuovo in
ritardo a lasciarti una recensione, me ne rendo conto e mi dispiace. Da
adesso
in poi cercherò di essere più puntuale, promesso. Ma passiamo a
commentare
questo aggiornamento ... Mi ha fatto davvero piacere trovare qui almeno
un po'
di serenità, a discapito di tutto quello che sta succedendo ai due
sposi, e a
discapito della malinconia che sempre permea i loro discorsi. Il
momento tra
loro mi sembra un tentativo di ritagliarsi un attimo di pace in mezzo
al caos
della loro vita, ed è un bisogno estremamente tenero e dolce.
Impossibile non
pensare a Padmé, alla sua responsabilità sempre presente per la sua
famiglia e
i suoi bambini, e al fatto che si sia decisa, infine, a preferire il
quieto
vivere ai continui contrasti ... quindi, in un certo senso, a preferire
la vita
privata e i suoi sentimenti per Anakin e i bambini alla sua etica e
alla sua
vita pubblica. Probabilmente la Padmé
di un
tempo non sarebbe mai scesa a un compromesso del genere, come
giustamente
riconosce anche lei ... è proprio per questo che ho apprezzato sul
serio questo
suo gesto. Ed ho apprezzato anche la reazione di spontanea gratitudine
che
questa decisione ha comportato in Anakin: è come se lasciasse ben
sperare in
una possibile apertura verso sua moglie. Io sono fermamente convinta
che l'unico
modo per salvare Anakin dalle sue tenebre sia fidarsi ancora una volta
di lei,
come in passato: lei è l'unica che può capirlo, amarlo e salvarlo da se
stesso.
Sarebbe davvero bello se momenti dolci come questo non fossero una
eccezione,
ma un qualcosa di costante. Perché fa bene a entrambi, ma anche e
soprattutto
ai bambini, sempre sensibili alla tristezza dei genitori, e che
comunque non
meritano affatto una vita di sofferenze.
La scena del grammofono -posso chiamarla così?- è molto bella,
soprattutto perché
ci dà uno scorcio del passato di Anakin e Padmé che noi non conosciamo,
e
perché è così piena di dettagli e di spiegazioni. E ancora una volta ho
notato
una contrapposizione tra il carattere dei due: mentre l'ex regina di
Naboo era
pronta a sopportare lo stress, e non si lamentava di ciò che aveva,
Anakin mal
sopportava la vita che faceva al Tempio. E mentre il passato di Padmé è
costellato di successi e di ammirazione del popolo, Anakin ricorda
ancora con
rancore la diffidenza degli altri padawan. E forse, l'essere diventato
un Sith
non ha fatto che amplificare la frustrazione che il Prescelto ha sempre
covato
nell'anima verso i Jedi: è naturale che adesso il passato sia visto
solo in
maniera negativa, dimenticando ogni bella esperienza che forse, in
altre
circostanze, sarebbero state ricordate.
E l'ultima scena lascia con il fiato sospeso, sul serio. Un po' perché
uno
scontro tra Obi-Wan e Anakin sembra ormai inevitabile, un po' perché
ora è
Obi-Wan che rompe il precario equilibrio tra Anakin e la sua famiglia.
Può
essere lui il momentaneo pericolo, malgrado tutto quello che lui
significa per
Padmé, e malgrado sia lui, ancora una volta, nel giusto. Come andrà
questo
incontro/scontro aspetto di vederlo con grande ansia. E spero di
leggere il
seguito presto, perché non sto più nella pelle :) ancora bravissima, un
bacione!
Padme Undomiel ;)
VesiSchwartz.
Ta-ta-ta-taaaaaaaan!
Mi sbaglierò, ma l'uomo con i capelli rossicci sembra proprio il nostro
caro e
vecchio Obi-Wan.
Quindi alla fine lo scontro arriva, ma spero che il buon Kenobi abbia
il
buonsenso di non lasciare Anakin affettato (cosa che ho sempre odiato,
in ROTS)
davanti alla moglie e ai gemelli.
Comunque, mi è piaciuta moltissimo la parte in cui descrivi
l'educazione della
regina di Naboo, e la vita al Tempio Jedi.
Rendono tutto molto più reale, e poi scritte da te...è ovvio che siano
capolavori.
Ti faccio moltissimi complimenti (ormai ti sarai stufata di riceverne
in
continuazione, immagino...però quando c'è la bravura... u.u) e aspetto
con
ansia il seguito.
Baci, Vesi
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Quattro. ***
___Quattro___
Anakin si
sentì le viscere diventare acqua. Il
mondo lì attorno non c’era più. Quello che c’era davanti ai suoi occhi,
nell’oscura penombra, era un fantasma: e dannazione se sarebbe dovuto
rimanere
un fantasma per sempre. E i fantasmi non stavano per definizione da
qualche
parte nel passato? Quattro mesi prima per Anakin quell’uomo era morto,
e tra i
morti sarebbe dovuto rimanere. Era stato un patto con sé stesso che
aveva il
sapore di una legge: non si sarebbe nemmeno preso la briga di andare
alla sua
ricerca, pur sapendolo ancora in vita, perché a cosa sarebbe servito,
dopotutto? Perché sforzarsi a cercare ed affrontare quel piccolo,
patetico
uomo? Perché, perché…
Anakin non
vedeva più niente, né sentiva altro che
non fosse il sangue bollente che gli scorreva nelle orecchie. Tutta
quella
scenetta – lui, Padmé, i bambini, la cena sulla terrazzina sul lago,
l’isoletta
felice – cos’erano stati se non il palcoscenico per ciò che stava per
accadere?
Padmé lo
chiamava ma lui l'ignorava, i bambini
piangevano e la musichetta jazz continuava allegramente, sicché la
scena
sarebbe potuta sembrare una cenetta alla quale s’era, all’improvviso,
presentato un ospite non interamente desiderato: una scena di quelle in
cui la
conversazione finisce all’istante, magari perché si stava spettegolando
proprio
su quel convitato, e tutti si scambiano occhiatine nervose e parole di
benvenuto. Nonostante ci fosse rumore, nessuno però parlò; e gli occhi
di
Anakin rimasero fissi su quelli di Obi-Wan, che sostennero l’indagine
silenziosa. E s’accorse che in quattro mesi gli occhi del suo maestro
non erano
cambiati. Lo guardava come aveva sempre fatto – sì, lo guardava con
quel solito
sguardo accondiscendente, come se sapesse qualcosa del quale Anakin non
era
ancora stato messo al corrente. In tredici anni, nulla lo aveva mai
irritato
tanto quanto quello sguardo: e ora, quando pensava ad Obi-Wan, si
ricordava
soltanto di quegli occhi azzurri e quell’espressione un po’ saccente e
un po’
bonaria. Sentì un lampo di soddisfazione nella consapevolezza
improvvisa di
poter togliere dal suo viso qualunque espressione. Obi-Wan quella notte
sarebbe
morto.
Prese
coscienza della voce di Padmé che continuava
a chiamarlo insistentemente; eppure, non riusciva a concentrarsi sulla
sua voce.
Sentiva vaghi richiami, il suo nome, qualche parola bisbigliata ai
bambini, e
soprattutto percepiva la sua agitazione e il suo
timore.
‹‹Buonasera,
Anakin.››
Gli occhi di
Obi-Wan guizzarono alla spada laser
accesa di Anakin, ma non fece un solo gesto per metter mano alla sua.
Quello
era il contegno di un Jedi. Se avesse dovuto dire cos’era cambiato nel
suo
maestro, avrebbe potuto dire che aveva un’aria ancora più serafica di
prima,
greve e solenne, da anziano. E Anakin si rese conto di non capirlo più.
Una
volta gli bastava guardarlo negli occhi per sapere cosa aveva
intenzione di
fare: e quello era il tempo in cui vederlo arrivare riempiva Anakin di
una
piacevole sensazione d’amicizia e anticipazione. Ora vederlo lo aveva
riempito
di una rabbia sorda, e nei suoi occhi non ci leggeva più nulla. Obi-Wan
era
diventato un estraneo. Obi-Wan sarebbe potuto essere chiunque altro, un
passante per la strada, uno dei politici altezzosi, un mendicante,
perché non
era più Obi-Wan ma un Jedi qualunque.
Poi Obi-Wan
parve quasi un po’ imbarazzato, come se
dopo l’ingresso ad effetto non sapesse bene cosa fare. Nel dubbio, i
suoi occhi
superarono Anakin e si soffermarono su Padmé e i gemelli. Anakin
s’affrettò a
parlare.
‹‹Hai ucciso
le mie guardie, per entrare qui?››
‹‹No.››
Finalmente
Padmé gli era venuta accanto, tenendo un
gemello su ogni fianco. Luke e Leia si dimenavano, con le bocche aperte
in urla
di agitazione e le piccole mani chiuse a pugno che colpivano a caso la
madre
con una specie di collera frustrata. Alcune ciocche erano sfuggite
all’elaborata corona di trecce di Padmé, che lo guardava ormai
disperata.
‹‹Anakin…!››
Non aveva
tempo per lei, doveva andarsene, e
andarsene in fretta.
‹‹Padmé,
dannazione, vai via! vai!››
Padmé
sussultò all’udire il suo tono aspro, e
guardò verso Obi-Wan con gli occhi lucidi e febbrili.
Obi-Wan
rispose con una specie di sorriso stanco.
‹‹Ciao, Padmé.››
Padmé rimase
lì ferma, poi guardò di nuovo Anakin e
parve così spaventata e vulnerabile che Anakin avrebbe voluto darle un
bacio in
quel momento e dirle che non doveva temere. Se aveva avuto un
fugacissimo
dubbio, un orrendo sospetto che comprendeva un’immagine di Padmé e
Obi-Wan che
cospiravano insieme durante la sua assenza, esso ora era sparito,
perché in lei
riconosceva il timbro singolare e sincero del terrore.
Quindi, con
più gentilezza, senza distogliere lo
sguardo dal suo avversario, le disse: ‹‹Vai, Padmé. Va tutto bene. Ma
non
tornare per nessun motivo, finché non te lo dico io.››
A quelle
parole Padmé sembrò rinvenirsi, e
s’allontanò a passi incerti dentro la casa, portando con sé i bambini
aggrappati al collo che continuavano con quella loro inarticolata e
struggente
protesta, come se piangessero l’interruzione della serata piacevole e
gli
oscuri eventi futuri.
‹‹Sono bei
bambini. Come si chiamano?››
‹‹Non ho
intenzione di conversare. Non saresti
dovuto venire, Obi-Wan. Questo non è il posto per uno come te.››
E Obi-Wan
ebbe la temerarietà di abbozzare un
piccolo sorriso accondiscendente. ‹‹Qualsiasi luogo è il posto giusto
per un
po’ di giustizia, Anakin.››
A quelle
parole Anakin dovette contenere un afflato
della rabbia muta e improvvisa che provava, chiedendosi con quale
spirito quel
Jedi avesse osato attraversare il lago, arrivare alla casa felice di
Varykino,
il suo santuario, e distruggere la più bella serata
di tarda estate, in
nome di quella relativa giustizia della quale sembrava essersi fatto
campione,
portando nei muscoli del viso per sempre scolpita quell’irritante,
illeggibile
e benevola espressione.
‹‹Oh,
Obi-Wan, vedo che continui a sputare le tue
sentenze morali come al solito. Non cambi mai, eh, Jedi?››
Obi-Wan salì
d’un gradino, e fu quasi allo stesso
livello di Anakin.
‹‹non ti
muovere!››
E Anakin
s’accorse che prima aveva avuto torto,
perché Obi-Wan era cambiato, e ora che un lampo di luce della terrazza
gli
illuminava un lato del volto poteva veder bene cos’era successo alla
fisionomia
del suo vecchio amico: sembrava un vecchio. Non aveva nemmeno
quarant’anni, e
già era pallido e dall’aspetto un po’ curvo e sciupato, con le guance
barbute
più scavate e la pelle che gli s’increspava attorno agli occhi; nei
capelli i
fili bianchi si erano velocemente moltiplicati, la stempiatura s’era
accentuata
e, in generale, pareva che i vestiti gli stesseo parecchio più larghi
di quando
l’aveva visto l’ultima volta. Tutto ciò poteva solo significare che
ammazzarlo
sarebbe stato un lavoro più semplice di quanto si sarebbe potuto
aspettare.
‹‹Obi-Wan,
perché sei venuto qui? Qual è la tua
missione? Non sapevi che non t’avrei offerto un posto a cena?››
‹‹Sono venuto
perché sei il Prescelto,›› rispose
con semplicità Obi-Wan. Ma ora i suoi occhi guardavano nervosamente la
lama
accesa di Anakin che tremolava fremente nell’aria tra loro, e il suo
comportamento sembrava essere cambiato impercettibilmente.
Era arrivato
il momento, perché non c’erano altre
parole da dire; quindi, con altrettanta semplicità, Anakin si lanciò
verso
colui che un tempo era stato il suo Maestro, il suo fratello, il suo
migliore
amico, con l’intenzione chiara di ammazzarlo. Desiderava averlo ai suoi
piedi,
sotto i suoi piedi; desiderava schiacciarlo e fargli sentire tutta la
superiorità del suo potere e del lato oscuro. Non pensò nemmeno ad
assumere una
posizione tradizionale d’attacco, né Obi-Wan pensò ad assumere una
posizione di
difesa, come succedeva nei duelli in cui c’era la volontà di mostrare
all’avversario la propria superiorità tecnica. Le convenzioni, così
come i loro
antichi ruoli, erano ormai ininfluenti.
La lama di
Obi-Wan incontrò la sua e cominciò il
duello.
‹‹Io non
volevo questo, Anakin!›› gridò Obi-Wan
mentre Anakin esplodeva in una macchina di movimento, in cui l’unico
obiettivo
era attaccare, attaccare, attaccare. Obi-Wan si difendeva alla meglio,
parando
i suoi colpi con stolida sicurezza. Il suo Maestro non era mai stato
eccezionale – anzi, il suo Maestro non era mai stato altro che un Jedi
medio,
solido nelle sue abilità, mai straordinario in qualcosa, che era
arrivato
all’Alto Consiglio grazie ai suoi modi ortodossi, la sua docilità e
qualche
missione fortunosa. Obi-Wan era, insomma, mediocre; e mentre combatteva
contro
di lui, la sua mediocrità divenne per Anakin, in un parossismo
incontrollabile
d’odio, un altro perfetto motivo per metter fine a quell’esistenza.
Finirono
sulla terrazza perfettamente illuminata,
così che Anakin poteva vedere oltre le vetrate nella sala immersa nel
tepore
giallo delle lampade. Si chiese dove fosse Padmé in quel momento – se
fosse
ancora in casa, o se avesse ubbidito e fosse già sull’altra riva del
lago…
Obi-Wan non attaccava mai, ma parava i colpi; in lui era ancora
evidente la
volontà di difendersi anziché colpire. Era davvero venuto lì
in missione
diplomatica? E a che scopo? Convertirlo nuovamente alla luce?
Il
pensiero faceva montare ulteriore irritazione nell’animo turbato di
Anakin; e
talvolta, mentre s’incrociavano le lame accadeva la stessa cosa ai loro
sguardi, e in quello di Obi-Wan Anakin vi leggeva una richiesta
silenziosa di
calare le armi e ragionare. Dunque andava così,
quasi fermi sul posto in
una lotta serrata, da un lato il lago scintillante e le ombre scure
delle
montagne boschive; dall’altro i giardini ombrosi della villa,
e su tutto
un piacevole, nostalgico odore di sera d’estate. E se ci fosse stata
altra gente
con Obi-Wan? E se Padmé fosse stata –
Obi-Wan
respinse una sua veloce stoccata diretta al
petto, retrocedette un paio di volte e poi, con un colpo ben riuscito
sfruttò
l’improvvisa, traditrice distrazione di Anakin e lo disarmò, facendo
volare
l’arma in una parabola che sbatté contro la balaustra, e, per sua
fortuna,
rimbalzò sulle mattonelle. Anakin dovette gettarsi indietro, perché
Obi-Wan
estese la spada accesa contro di lui, puntandogliela al petto ansimante.
‹‹E ora?››
sputò Anakin, guardando da terra il suo
vecchio Maestro, sentendo i gomiti feriti dalle mattonelle.
Obi-Wan fece
un passo indietro. ‹‹Dovevo vederti
con i miei occhi, Anakin. Qua non ci sono vincitori, ma se qualcuno ha
ancora
una possibilità, una sola, di fare la cosa giusta, Anakin, quello sei
tu.››
‹‹Io non
sono il Prescelto dei Jedi!›› urlò
Anakin, mentre l’odio puro e scintillante gli contorceva i lineamenti
in una
smorfia di dolore, e prima che Obi-Wan potesse replicare qualcosa
estese la
mano davanti a sé e con una spinta della Forza lo mandò volando
all’indietro,
con violenza tremenda, oltre la terrazza, oltre la scalinata, contro un
paio di
arbusti ornamentali. Immediatamente recuperò la spada laser e corse giù
dalle
scale, verso il suo Maestro, mentre quello si rialzava a fatica dalla
presa
spinosa delle piante; e quando fu da lui, Obi-Wan riuscì a parare un
colpo di
brutale di Anakin, angolato come se fosse un colpo di mazzo alla testa.
Se
solo…! La testa sarebbe rotolata via sull’erba morbida, perfettamente
cauterizzata, come un macabro trofeo! L’immagine gli fece venire
un’ondata di
nausea e la bile gli sobbollì nello stomaco.
‹‹Ah, sei un
pazzo, Obi-Wan!›› urlò Anakin,
continuando il suo attacco, spingendolo oltre i bassi cespugli, nei
prati
eleganti, a calpestar le aiuole rosse e bianche, ‹‹credevi di poter
venire qui
e – e metterti a parlare…come se tu ne avessi il diritto…!››
Le lame
s’incrociarono tra di loro a meno di dieci
centimetri dei rispettivi petti. ‹‹Tu sei un pazzo,
Anakin!››
‹‹Ma combatto
meglio.›› E velocemente fece lo
stesso movimento di Obi-Wan prima, spiazzandolo con una finta leggera,
fatta in
punti di piedi, e sfruttò quel breve attimo di confusione iscritta sul
viso di
Obi-Wan, tra le labbra e la piega in mezzo agli occhi, per usare
un’altra
spinta della Forza e mandarlo a sbattere contro il tronco di un grosso
albero a
cinque metri da loro, e poi di nuovo e un’altra volta ancora, e Obi-Wan
s’afflosciò come se l’avessero sgonfiato, ridicolo, inerme, prima
tronfio e ora
umiliato dalla corteccia dura. La spada laser del suo avversario finì a
qualche
metro da lui, abbandonato nell’erba umida. Anakin la richiamò a sé, ed
era
ancora calda della mano di Obi-Wan.
‹‹Cos’hai da
dire adesso, Obi-Wan?›› chiese Anakin,
tenendo saldamente entrambe le armi accese nelle mani, avvicinandosi a
lui.
‹‹Sei diventato debole, o io sono diventato troppo forte per te.
Scegli.››
E l’albero
sopra Obi-Wan pareva avere al posto
delle foglie mille specchietti che rifrangevano la luce della luna e
oscillavano alla brezza tiepida. Qualcuna cadeva giù, verso il loro
prigioniero.
In quel
momento, arrivarono correndo dalla
salitella in cui digradava dolcemente il giardino una manciata di
guardie
armate, facendo grandi voci. ‹‹Signore! Signore! Siamo qui!›› e ‹‹La
signora
Padmé ci ha avvisati!››.
‹‹È lì,
Padmé? E i bambini?›› chiese Anakin, senza
distogliere lo sguardo dallo spettacolo pietoso del suo maestro che
ansimava e
prendeva bruschi fiati quando cercava di muoversi per le fitte di
dolore.
‹‹Sì,
signore!››
Arrivarono e
gli si misero alle spalle con le
folgoratrici puntate contro il petto di Obi-Wan ma Anakin alzò una
mano.
‹‹Lasciatelo a me. Allontanatevi.››
E quelli
s’allontanarono rispettosamente verso le
aiuole, calpestandole tutte con i loro stivali bianchi e lucidi. Anakin
ritornò
alla sua indisturbata contemplazione del suo vecchio Maestro.
Obi-Wan
pareva ancora disorientato. Quando girò il
volto, Anakin vide che c’era una grossa macchia scura al lato del suo
cranio,
che gli impiastricciava i capelli. ‹‹Anakin…Palpatine ti ha
ingannato…perché
non capisci che – perché non capisci che è solo un
Sith? Nulla di quello
che dice è vero! Lui continuerà a raccontarti menzogne, ti sfrutterà,
fino a
che tu…fino a che tu…oh, Forza, non c’è più nulla…››
‹‹Non importa
quello che fa Palpatine. Fra poco io
sarò l’unico signore dei Sith. Palpatine è l’ultimo ostacolo. Sai una
cosa,
Obi-Wan? Credo che un po’ se l’aspetti, il vecchio,›› continuò Anakin,
all’improvviso divertito dalla nuova direzione degli eventi, ‹‹mi
sfida. Mi provoca.
E sa che io un giorno lo farò fuori.››
‹‹Anakin, tu
-››
Obi-Wan si
piegò su se stesso, scivolando di lato
contro il tronco spesso dell’albero e appoggiò le mani sull’erba,
esponendo la
grandezza della macchia umida al lato della testa. ‹‹Io ti amavo,
Anakin, ti
amavamo tutti…››
Anakin non
sentì niente, e quell’estrema freddezza
turbò anche lui, seppure non lo avrebbe mai confessato ad anima viva.
Invece,
sbuffò e replicò, ‹‹Voi non eravate capaci di
amare.››
Le parole di
Obi-Wan gli arrivavano lontane e
ridicole, come i vaneggiamenti di qualcuno che stava per morire. E per
qualche
motivo, era curioso: d’un tratto voleva davvero sentire quelle ultime
parole di
insegnamento del suo vecchio Maestro, fare l’ultimo carico di menzogne,
e, poi,
colpire mortalmente. Il pensiero di avere Obi-Wan morto, lì sull’erba
del
giardino, sotto un albero luminoso nella luce della luna, lo fece
tremare
tutto.
‹‹Sei
perduto, Jedi.››
‹‹Tu eri un
uomo buono, Anakin, tu – Qui-Gon si
sbaglia!››
Il nome del
suo primo Maestro fece vergognare
Anakin. Non avrebbe voluto provare quel sentimento in particolare, e si
vergognò della sua stessa vergogna, ma non poté evitarlo. Gli parve di
essere
sotto lo scrutinio gentile degli occhi di Qui-Gon. Anakin era
un uomo alto,
eppure Qui-Gon sarebbe stato ancora più alto, e quei pochi centimetri
gli
apparvero, lì al buio, sotto l’albero, come un’ulteriore prova della
grandezza
morale di quell’uomo che sarebbe dovuto essere il suo Maestro. E
s’accorse
della tremenda possibilità che se ci fosse stato Qui-Gon al suo fianco
il suo
destino sarebbe stato del tutto diverso; perché Qui-Gon sarebbe stato
il
Maestro giusto per lui, Qui-Gon avrebbe capito, Qui-Gon…Qui-Gon aveva
sempre
saputo, e lui e Anakin sarebbero stati una coppia formidabile. A
distanza di
tredici anni, quando il cuore di Anakin sembrava ormai totalmente
indurito e
sprezzante nei confronti dell’Ordine, Anakin non poté evitare di
provare un
fremito che sembrava di commozione per quell’uomo alto e grande: e si
rese
conto che tra tutti i Jedi, di lui solo serbava ancora un ricordo
affettuoso.
Ma ora
Obi-Wan avrebbe sentito il potere del lato
oscuro, e avrebbe dovuto capire, finalmente. Sì, avrebbe capito, e poi
sarebbe
morto. Il suo vecchio Maestro sembrò percepire che era arrivato il suo
momento,
rialzò la testa e con uno sforzo si mise in ginocchio davanti al suo
vecchio
padawan.
Prima, Anakin
parlò nuovamente. ‹‹Dimmi perché.
Perché sei venuto qui? Sapevi che sarebbe finita così.››
Obi-Wan
rispose con onestà. ‹‹Perché avevo
speranza. Pensavo, pensavo che forse non avessi perso il mio padawan.
Che forse
c’era qualcosa da fare. Ma non puoi trattare con qualcuno che ha gli
occhi
gialli.››
Ed Anakin
entrò nei pensieri del suo vecchio
Maestro, come ultimo, intimo attacco. Le difese di Obi-Wan erano
calate, e
l’uomo non sembrò nemmeno cercare di resistere. Era una delle prime
tecniche
che venivano insegnate ai bambini del Tempio, e in quel momento Obi-Wan
non
riusciva nemmeno a servirsene: sembrava essersi arreso sotto le sue
mani. Ma
poi Anakin trovò qualcosa, vide qualcosa, che lo fece piombare in uno
stato di
strano sospetto, perché Obi-Wan stava difendendo con tutte le sue forze
un
gruppo di pensieri, come un tesoro. Per contrattaccare l’assalto alla
sua
mente, Obi-Wan riempì la visione di Anakin di migliaia di inutili
immagini di
boschi, montagne, fiumi, giardini ornamentali; poi ci furono stelle, e
infine
pianeti visti da lontano e dune, e Anakin si ritrovò su Tatooine di
nuovo,
mentre viaggiava dentro la barriera della sua vittima. Aumentando la
sua
pressione, Anakin vide qualcosa di più distinto, e infine capì cos’era:
il
palazzo reale di Theed, e lo strascico di una veste regale di seta.
‹‹Theed?››
Poi la mente
di Obi-Wan fu all’improvviso
impenetrabile, e Anakin non indugiò oltre nel suo assalto, non
riconoscendovi
alcun vero vantaggio.
‹‹Non ho
bisogno della tua redenzione. Io ho già
vinto.›› Anakin lo guardò negli occhi, e ci vide una composta
rassegnazione da
eroe, che, per qualche motivo, lo fece infuriare. ‹‹E voglio che tu
capisca
perché morirai. Perché voi – voi avete la colpa.
Voi avete tutta la
colpa. Eravate arroganti, freddi, assetati di potere, e poi siete stati
anche
ciechi ed inutili. Io sto facendo la cosa giusta. Perseguo quello che
mi spetta
di diritto. Io sono il Prescelto della Forza, non il Prescelto dei
Jedi.››
E quella era
la frase più vera che Anakin avesse
mai detto in vita sua. Faceva tutta la differenza dell’universo. Quando
non
aveva nemmeno dieci anni gli era stato detto che era il Prescelto di
un’antica
profezia, che il suo compito sarebbe stato un giorno riportare
l’equilibrio
nella Forza, e ciò, secondo la disciplina con la quale era stato
indottrinato,
significava sterminare i Sith. Ma, a dire il vero, i Jedi non erano mai
stati
felici del Prescelto che era capitato loro, e il Prescelto a sua volta
non era
stato felice degli insegnanti che gli erano stati assegnati: solo che
lui aveva
dieci anni, e i suoi insegnanti erano tutti adulti, e in virtù di ciò
sarebbero
dovuti esser capaci di guardare oltre le loro paure, i loro
preconcetti, e
offrire un aiuto compassionevole – davvero compassionevole!
– al
bambino che Anakin era stato. Cosa aveva ricevuto invece? Aveva
ricevuto sempre
la loro diffidenza, i loro sguardi sospettosi, i bisbiglii degli altri
padawan,
il trattamento pieno di sufficienza dei Maestri e l’aperta ostilità del
maestro
Windu. Nessuno di loro aveva saputo capire ciò che c’era di grandioso
dentro di
lui, si erano ostinati a soffocare il suo talento perché non riuscivano
a
capirlo, e ora, sì, ora lui era libero di perseguire le meraviglie del
suo
talento. Perché mentre i Jedi si umiliavano, negandosi l’assaggio delle
loro
reali potenzialità, i Sith esaltavano se stessi, raggiungendo le vette
di ciò
che un essere senziente talentuoso anelava per natura. Ora era tutto
così
chiaro, così cristallino: e tutto gli diceva che stava facendo la cosa
giusta.
Avrebbe riportato l’equilibrio davvero, in maniere che né i Jedi né i
Sith
avrebbero potuto prevedere.
Obi-Wan
abbassò il capo come se si vergognasse, e
poi lo rialzò lentamente per parlargli.
‹‹Se anche
avevamo delle colpe, Anakin, le abbiamo
ampiamente espiate.›› Quindi la sua voce si tinse di una nuova
determinazione.
‹‹Fallo, Anakin. Uccidimi. Ma sappi che puoi vincere adesso, ma un
giorno sarai
tu ad essere vinto. E quel giorno tu sarai solo, e perderai tutto.››
Oh, pensava
di fare l’eroe. Tutta quella storia
doveva essere per Obi-Wan la delizia del martirio in nome della Giusta
Causa. E
Anakin ebbe una nuova idea, che gli parve all’istante deliziosa.
Avrebbe
ottenuto la grande beffa, e gli parve perfetto. Spense entrambe le
spade.
‹‹Tu non
morirai adesso. Vedo che ti senti come se
avessi trionfato. Pensi di essere un eroe, e che la tua sarà la morte
di un
martire. Pensi che, uccidendoti, ti renderò più forte di quanto tu sia
mai
stato. Quindi decreto, Jedi, che tu avrai un giusto processo.››
Gli occhi di
Obi-Wan si spalancarono in sorpresa.
‹‹Ovviamente
sarai condannato a morte, e prima
sarai torturato. E solo allora, tu morirai. Ma non mi sporcherò le mani
del tuo
sangue.››
Al buio,
inginocchiato e insanguinato, Obi-Wan non
appariva altro che un misero Jedi da quattro soldi, scovato in qualche
mondo
periferico e fatto a pezzi dalla nuova giustizia. La sua confusione era
tanto più
deliziosa, perché ora nei suoi occhi si profilava già il lontano
fantasma di
una morte ben più silenziosa e scura. Obi-Wan finalmente aveva paura, e
il suo
gran finale era stato rovinato.
Anakin fece
un gesto alle guardie che avevano
osservato la scena da lontano. Immediatamente arrivarono, e il suono
dei loro
stivali di gomma sull’erba lo riempì di un innominato fastidio.
Desiderava che
tutto ciò finisse, e finisse in fretta. Non aveva più voglia di sentire
la loro
presenza confusa e ignorante, né voleva vedere il viso sconcertato di
Obi-Wan,
o il suo corpo martoriato dai colpi. Tutto ora gli procurava una
tremenda
nausea: la vista di ciò che lo circondava, l’odore di sera misto a erba
bagnata, il suono del lago, delle foglie che frusciavano, il respiro di
Obi-Wan
che s’inceppava quando le guardie lo presero e lo sollevarono dalle
ascelle
ammanettandolo, la sensazione della brezza tiepida sulla pelle e le
pulsazioni
nella Forza delle guardie e di Obi-Wan.
‹‹Prendetelo.
Chiudetelo nel vostro scantinato e incatenatelo.
Nessuna finestra. Dategli da bere e mettetegli un cerotto. Se ve lo
lasciate
scappare pagherete con la vostra vita, intesi? Vi ammazzo senza
problemi.››
Anakin pensò
ai suoi occhi e al suo stato, e scoprì
di non voler vedere Padmé. Voleva solo stare solo. Padmé si sarebbe
attaccata a
lui, facendogli domande, oppure, ancora peggio, non facendole e
limitandosi ad
osservarlo con quei suoi bellissimi, sospettosi occhi scuri che
parevano ogni
volta aver intenzione di rubargli un segreto.
‹‹Dite a mia
moglie di rimanere lì,›› gridò dietro
alle guardie che già s’allontanavano. Uno dei cloni annuì secco e
proseguì.
Osservò la piccola comitiva scendere giù per la discesa che portava ad
uno
degli attracchi, e poi li vide attraversare il lago, con Obi-Wan messo
in
mezzo, testa bassa fra le spalle. E mentre lo guardava allontanarsi,
Anakin non
riusciva ancora a capire per quale motivo fosse venuto lì. Qual era il
motivo
per quell’apparizione disastrosa? Se non fosse comparso lì, nel suo
giardino,
Anakin non lo avrebbe inseguito per la Galassia. Ma
Obi-Wan si era praticamente consegnato a lui. Voleva forse riprovare a
parlare
con Padmé? O rapire i bambini? O credeva davvero che sarebbero bastate
quattro
chiacchiere attorno ad un tavolino per richiudere la voragine che s’era
aperta
per sempre tra di loro? Era stato tanto ingenuo da credere che bastasse
arrivare portando promesse di pace per riparare i torti, risanare
l’orrore,
curare la rabbia?
Quando
sparirono dietro ad un costone
dell’isoletta, ormai verso riva, Anakin non riuscì a far altro che
pensare a come sarebbe stato splendido il processo per il
primo traditore
Maestro Jedi catturato vivo dell’Impero. Avrebbero potuto farne un bello
spettacolo del
potere, magari una diretta su tutti i canali di trasmissione.
L’imperatore
sarebbe stato soddisfatto, pensò Anakin, con un quasi commovente
desiderio di
piacere, che, nonostante tutti quegli anni, non era ancora riuscito a
scuotersi
di dosso. All’imperatore sarebbe piaciuto. Provò un moto di disgusto
verso
quell’uomo, e poi verso se stesso, perché cos’era Anakin ormai, se non
un
braccio di Palpatine? Gli ultimi minuti incominciarono a girargli nella
testa a
velocità vertiginose, finché Anakin non fu costretto a chinarsi in due:
e così
terminò quella serata, da solo, vomitando.
VesiSchwartz. wow,
che capitolo. Se
devo essere sincera, verso la metà ho seriamente pensato che Anakin
l'avrebbe
ucciso (cosa che poi in effetti fa, in ANH).
Al solito, il capitolo é bellissimo, ma penso che questo sarà il mio
preferito,
per la frase "Io sono il Prescelto della Forza, non dei Jedi!!" Mi ha
molto colpita, aprendomi la porta verso una visione che fino ad adesso
non
avevo mai considerato.
Quindi, oltre ai complimenti, ti ringrazio, perché mi hai dato una
nuova chiave
di riflessione con la quale rivedere la saga.
Vesi
irydionlover93. Santo
cielo...non so
ancora esattamente cosa scrivere perché essendo reduce dalla lettura
tutta d'un
fiato di tutto l'Atto II sono ancora sotto effetto del brainstorming di
emozioni cui mi ha sottoposto la tua storia meravigliosa! Ho visto che
avevi
aggiornato oggi e non mi sono potuta trattenere :)
Devo dirti che adoro il modo in cui scrivi, molto scorrevole e
accattivante,
sei bravissima a entrare nella psicologia dei personaggi...mentre leggo
è come
se li sentissi parlare o li potessi vedere agire davvero! Soprattutto
dipingi
benissimo Anakin e Padmé, e il loro amore troppo grande e strano, i
momenti di
paura e malinconia ma anche quelli di indicibile tenerezza che entrambi
non
possono trattenere nonostante quello che accade ad Anakin *.* ke bello
il
capitolo XXI in questo senso! il mio preferito finora!!
Quello che ammiro molto in questa fic inoltre è che hai approfondito e
dedicato
spazio per i pensieri di un po' tutti i personaggi, ed è davvero
difficile
riuscire ad inquadrare tutti i punti di vista di personaggi complessi
come
quelli di SW! Riferendomi sempre anche a capitoli passati, per esempio
mi è
piaciuto molto come hai reintrodotto il personaggio di Palo (eeh si
presagiva
subito che sarebbe partita qualche dichiarazione prima o poi...:P) e
come hai
trattato i rapporti di Padmé con la famiglia. Ho trovato inoltre
bellissime e
molto commoventi le parti in cui Yoda e Obi-Wan parlano con lo spirito
di
Qui-Gon, molto riuscite davvero...mi piace molto la tua
caratterizzazione di
Obi-Wan, che questa volta ritrova una speranza nella redenzione di
Anakin. E'
così triste vedere quanto quei due siano amici all'inizio di Epi III e
poi,
come scrivi benissimo tu, la voragine incolmabile che si apre tra di
loro...dopo tutto quello che è successo si possono davvero dire due
estranei
purtroppo. Molto intenso il "nuovo" duello tra i due, anche se sul
momento è stato difficile inquadrarli duellare in mezzo al verde di
Naboo
piuttosto che nella vulcanica Mustafar...ma sono assolutamente della
teoria
anti-affettamento pure io, quindi hai tutto il mio appoggio!! solo
spero che
non tutto sia perduto per i prossimi capitoli, perché non mi farai mica
morire
Obi-Wan, VERO???
Purtroppo non potrò più leggere/recensire nelle prossime 2 settimane
perché
sarò confinata al mare senza pc (dannazione ai nonni anti-tecnologici!
:P), ma
sappi che appena torno mi fionderò sulla tua storia! wow, e davvero ti
è
piaciuta la mia fic? mi ha proprio sorpreso leggerlo nelle tue note,
sarò
contentissima di sapere cosa ne pensi, anche perché mi piace tantissimo
come
scrivi! grazie! spero di non avere scritto troppe assurdità ^^
Padme Undomiel. Ed
eccomi qui, pronta
a lasciarti una nuova recensione :) devo dire che questo capitolo mi ha
lasciato una strana sensazione addosso: come se tutto quanto, persino
alcuni
dettagli apparentemente insignificanti, volesse mettere in risalto la
momentanea vittoria del Lato Oscuro su quello Chiaro della Forza. E,
quel che
mi ha fatto stare peggio che mai, una vittoria su ogni fronte di Anakin
su
Obi-Wan. Hai ribaltato completamente il finale di ROTS: nessuna
mutilazione di
arti, nessuna vittoria -sebbene momentanea- dei Jedi, nemmeno più
alcuna
sicurezza di Obi-Wan. Sembra che niente sia più a suo favore: la sua
abituale
gentilezza e i suoi modi garbati sono interrotti dalla furia di uno
scontro, le
sue certezze incrollabili sono confutate dall'odio e dal rancore del
suo ex
padawan, persino i ricordi felici sono mutati e corrotti in qualcosa di
sbagliato. E mentre il combattimento imperversa, e i tentativi di
Obi-Wan di
far ragionare Anakin cadono sempre più nel vuoto, apparendo perfino
completamente inutili, ci si rende conto che tutto è cambiato. Ma qui,
a
differenza del combattimento epico visto nel film, assistiamo a una
scena, a
mio parere, ancora più dolorosa. Perché lì Obi-Wan, sebbene distrutto
dal
dolore, sapeva quello che andava fatto, e appariva forte e stabile
nelle sue
convinzioni; qui, invece, "illuso" dalle speranze su di lui che
Qui-Gon gli aveva instillato, è doppiamente deluso dal non poter
trattare da
"uno che ha gli occhi gialli", ma non solo: sembra che sia anche
stanco, spossato fisicamente. Sembra quasi che abbia fallito in tutto,
perché
Anakin non riesce nemmeno più a considerarlo un maestro meritevole di
addestrarlo come sarebbe stato Qui-Gon. L'ho trovato straziante. E la
cosa che
fa più male è, a fine capitolo, quando accetta con rassegnazione che
Qui-Gon
deve essersi sbagliato sul suo conto.
Eppure, ho rivisto in lui l'Obi-Wan che appare in ANH nella sua
fierezza mentre
afferma che, uccidendolo, non farà che perdere. Mi ha dato speranza,
anche se
tutto, ormai, sembra volgere a suo sfavore. Mi chiedo davvero come farà
a
salvarsi, ora che ha perso tutto ed è nelle mani del nemico.
E Anakin? Malgrado lo voglia sul serio, io non credo che l'abbia
risparmiato
soltanto per infliggergli una pubblica umiliazione. Non vorrei
sbagliarmi, ma
sembra ancora più tormentato che mai -la scena del vomito finale ne è
una prova
più che chiara-, e soprattutto la frase in cui dice che non vuole
essere lui a
sporcarsi le mani del suo sangue mi sembra indicativa. Che ora provi un
rancore
bruciante verso il suo ex maestro, questo è sicuro. Ma addirittura
ucciderlo,
dopo tutti i ricordi che gli sono sovvenuti mentre combattevano ... non
credo
proprio.
Insomma, non nego di essere rimasta davvero attonita a fine
combattimento,
perché non so più cosa pensare. Mi affido agli aggiornamenti per
saperne di
più, e intanto ti rinnovo i complimenti! Chissà, magari andando avanti
con la
storia Obi-Wan riuscirà a non apparire così sconfitto? xD Lo spero sul
serio!
Un bacio
Padme Undomiel :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Cinque. ***
Cinque.
Padmé
trascorse la sua attesa seduta
alla finestra della cascina poderale, gettando ora un occhio sul lago,
ora un
occhio sui bambini adagiati sul letto. Pensò di sedersi accanto a loro,
ma
rifletté che li avrebbe svegliati: e fra tutte le cose delle quali
aveva
bisogno in quel momento, sicuramente non aveva bisogno di due neonati
irritati
da un risveglio improvviso.
Trascorse un
periodo di tempo di ambigua lunghezza:
poteva esser stata mezz’ora come poteva essere stata un’ora intera. Si
scoprì
più volte con le unghie conficcate nei palmi sudati delle mani; un paio
di
volte provò ad affrontare il buio che pervadeva il resto dell’edificio.
Non ne
ebbe mai la determinazione sufficiente, ipnotizzata com’era dal
riflesso lunare
sul lago. Ritornava sempre alla finestra.
Dopo quella
che sembrò una giornata intera, apparve
finalmente lo scafo. Le armature bianche delle guardie luccicavano bene
sotto
le lune. Il cuore le si ghiacciò in petto mentre la barca filava veloce
sul
pelo dell’acqua; poi essa sparì a riva, coperta da una macchia di
boscaglia.
Non poteva
essere successo qualcosa ad Anakin: lo
avrebbe sentito. I grilli non avrebbero continuato a suonare la loro
monotona
melodia, né la quiete notturna avrebbe proseguito tanto indisturbata.
Le stelle
si sarebbero spente, e le lune sarebbero scomparse. Se gli fosse
successo
qualcosa il microcosmo di Varykino lo avrebbe annunciato in qualche
maniera
adeguata e drammatica, e lei ne sarebbe stata la prima testimone.
No, doveva
essere Obi-Wan. Dovette soffocare il
senso di colpa che la chiamava da qualche angolo remoto del suo
cervello. Aveva
desiderato che Anakin lo uccidesse. Per tutta la durata della
sua attesa,
aveva combattuto con quella nozione, opponendovi spiegazioni razionali:
era
stato un attimo, un pensiero istintivo, un sentimento nato dal terrore.
Aveva
perso la testa. Ma cosa avrebbe dovuto fare poi, esattamente? Era solo
una
donna, senza alcun potere, tra due uomini follemente potenti e che si
odiavano;
e per di più doveva difendere i suoi due figli infanti.
Risuonarono
dei passi al piano inferiore e un vocio
indistinto. Immediatamente scattò in piedi, si asciugò le mani sudate
sulla
stoffa leggera del suo abito e dopo un’occhiata incerta ai bambini uscì
dalla
stanza e percorse il corridoio a lunghi passi. Scese le scale buie
appoggiandosi alle pareti e alla ringhiera, quindi attraversò il grosso
salone.
L’ingresso era illuminato, e popolato da un capannello di guardie tutte
uguali.
In mezzo a
loro, una figura cupa, avvolta in vesti
chiare e insanguinate.
Era Obi-Wan.
Quando si
girò a guardarla, Padmé vide la grossa
macchia che aveva sul cranio. ‹‹Cos’è successo?››
Uno dei cloni
le si avvicinò a braccia spalancate,
come se stesse tenendo lontano dalla scena di un delitto un intruso.
‹‹Milady, il
signore ci ha ordinato di dirle di non
ritornare alla villa per il momento…››
‹‹Cosa
significa che non posso ritornare alla villa
per il momento?››
Il clone
parve a disagio. ‹‹Il signor Skywalker non
desidera la vostra pres-››
Padmé sbuffò,
infastidita, oltrepassò l’uomo che le
stava davanti e seguì gli altri che conducevano via Obi-Wan.
‹‹Dove lo
state portando?››
‹‹Il signor
Skywalker ci ha ordinato di
rinchiuderlo nello scantinato fino a nuovo ordine.››
L’angolazione
le permetteva di vedere l’altro lato
della faccia di Obi-Wan: era ricoperta di scuri rigagnoli rossi. Gli
occhi del
suo vecchio amico erano pieni di tristezza.
Non
le servì molto tempo per
comprendere cosa dovesse fare. Le arrivò come un’illuminazione divina,
un
consiglio dall’alto al quale non avrebbe mai potuto disubbidire. Quando
la
videro, le guardie, che fino a quel momento si erano passati bevute
attorno al
tavolo scuotendo solennemente le teste, scattarono in piedi come i
bravi
soldatini che erano e la guardarono un po’ nervosi. Qualcuno farfugliò
una
scusa per il rumore e per l’alcool.
Padmé,
facendo del suo meglio per apparire
innocente e cordiale, si rivolse all’unico clone del quale conosceva il
nome.
‹‹Donnie?››
Quello annuì
e fece un passo avanti con aria
solenne.
‹‹Voglio
ritornare a casa,›› annunciò Padmé,
assumendo un tono gentile ma stringato. ‹‹Vorrei che qualcuno di voi mi
preparasse la barca.››
‹‹Ma -››
‹‹Niente ma.
Mio marito ha bisogno di me in questo
momento. E questa è casa mia.›› Poi soggiunse, curando di mantenere il
suo tono
freddo e professionale: ‹‹Prima di andare, però, desidero parlare con
il
prigioniero. E siccome dubito che ve ne siate occupati, vorrei che
qualcuno di
voi mi portasse un kit di prima emergenza.››
Le guardie si
lanciarono sguardi incerti per qualche
istante, incerti tra il comando del padrone e il comando della padrona.
Alla
fine, Donnie annuì. ‹‹Fate come dice la signora Padmé. Tex, Thorn –
uscite e
assicuratevi che sia tutto pulito lì fuori. Roman, dai un’occhiata ai
bambini.
Milady, vi accompagnerò io. Non c’è da fidarsi.››
‹‹Grazie,
Donnie.›› Gli regalò un sorriso luminoso
e Donnie arrossì farfugliando.
Finalmente le
portarono una cassettina bianca di
tipo militare con il logo rosso dell’esercito, quindi, con un’occhiata
d’intesa
a Donnie, scese giù per il vano angusto e accaldato delle due rampe di
scale,
finché non furono all’improvvisamente fresco disimpegno prima della
cantina,
dove aleggiava uno strano odore di polvere e sporcizia vecchia anni. A
quel
punto, Padmé si girò e gli prese una mano tra le sue. ‹‹Vorrei entrare
da sola.
Si dà il caso che il maestro Kenobi sia un vecchio amico,›› gli disse,
sperando
che quell’amabile confessione rischiarasse i timori della guardia, ‹‹e,
per
favore, dammi la chiave. Non ho intenzione di parlare con qualcuno che
sia
incatenato come un animale, men che meno un vecchio amico. Il pensiero
mi fa
ribrezzo.››
Donnie annuì
con lo sguardo limpido da ogni
sospetto, le allungò la chiavetta liscia e fece un passo indietro.
Padmé spinse
la porta ed entrò nella cantina dal tetto a cupola. Dentro era buio
pesto, e
dovette tastare la parete per qualche istante per trovare
l’interruttore.
La cantina
era un luogo fresco e dall’odore antico
e gradevole, dove impalcature di legno albergavano numerose bottiglie
polverose
del pregiato vino della Maison sur le Lac. Il vino
e il chiuso
spandevano nell’aria un vago sentore di polverosa dolcezza. Non le ci
volle
molto prima di trovare il prigioniero. Era seduto con la schiena
dritta, sulla
panca di pietra che aggettava direttamente dal muro.
‹‹Obi-Wan.››
‹‹Salve,
Padmé,›› disse il prigioniero, infondendo
nella sua voce un accento intriso di leggerezza. ‹‹Spero scuserai il
mio
aspetto impresentabile.››
Padmé gli si
sedette accanto, posò la valigetta ad
un lato e senza dire una parola esaminò con delicatezza l’aspetto del
prigioniero di suo marito. Era sporco di sangue e di terra, e le sue
vesti
erano lacerate in più parti, gli stivali coperti di fango e di erba. Le
ferite
che avevo sul viso e sul cranio parevano dolorose, e una grossa macchia
scura,
una crosta di sangue sopra una lacerazione tumefatta, la guardava
direttamente
negli occhi. Padmé la toccò con delicatezza. Quando si guardò i
polpastrelli,
li vide intrisi di sangue.
‹‹Ahi.››
‹‹Scusami,››
disse Padmé.
‹‹Non è
niente. Un bel colpo. Ne ho una buona
collezione ormai.››
Ci fu un
attimo di silenzio, in cui il tentativo di
sdrammatizzazione di Obi-Wan evaporò e le preoccupazioni di Padmé si
concretizzarono. Ebbene, lo stava facendo davvero. Non aveva
esattamente paura
– o, almeno, non sarebbe stato quello il nome che avrebbe assegnato al
silenzioso incremento del suo battito cardiaco.
‹‹Devo
pulirla. Non ha un bell’aspetto.››
Padmé aprì la
valigetta con un gesto pratico e ne
esaminò il contenuto. Vi era un assortimento di flaconcini, rotoli di
garza
bianca, accessori e strumenti per semplice chirurgia da campo. Sarebbe
stato
più che sufficiente. ‹‹Ho portato qualcosa per curarti,›› - prese un
fiato
prima di proclamare la propria libertà - ‹‹ma
prima, ti libero.››
Gli occhi di
Obi-Wan cercarono nei suoi una
spiegazione. Padmé sorrise, pur prevedendo le conseguenze. Nessuno
disse una
parola.
Infilò la
chiavetta nella sua piccola, tonda
serratura e le manette caddero all’istante in grembo ad Obi-Wan, che
prese a
ruotare i polsi e spiegare le dita. Aveva le mani coperte di piccole
escoriazioni, e i palmi erano infiammati. Le manette erano state
strette troppo
attorno ai polsi e vi avevano lasciati antipatici segni rossi.
‹‹Grazie,››
disse.
‹‹Non mi
aspetto di rimettertele.››
Si
risvegliò in preda ad una tremenda
agitazione. Doveva aver sognato qualcosa di assolutamente terrificante,
perché
si drizzò a sedere con una tale velocità che macchie scure le
comparvero
davanti agli occhi, e, una frazione di secondo dopo, i suoi occhi
vennero
catturati dal bagliore bianco e rosato dell’alba che filtrava dalle
tende
leggere, e ancora brillavano delle piccole stelle bianche nella parte
superiore
della volta scura, ancora notturna. Doveva aver dormito molte ore, una
notte
intera o quasi: ma si sentiva spossata e, ora, infreddolita. Fu solo
allora che
Anakin parlò.
‹‹Sono qui,
Padmé.››
La figura di
suo marito si scostò da una zona
d’ombra fuori dal suo angolo visivo e venne avanti, fino a sedersi sul
letto,
tenendo la mano meccanica esposta e tesa su quella vera. La luce
dell’alba lo
illuminava piacevolmente, rendendolo attraente e romantico; i suoi
occhi
apparivano di una meravigliosa, limpida sfumatura azzurra. Pareva
tranquillo,
eppure non lo era.
Padmé si
portò una mano alla testa. ‹‹Dove sono i
bambini? Ani…››
‹‹Si sono
svegliati, e li ho riportati a casa. Se
ne sta occupando Dormé.››
‹‹Da quant’è
che sei qui?››
Fece
spallucce. ‹‹Qualche ora.››
Rimasero un
po’ in silenzio, mentre la testa di
Padmé continuava a pulsare fastidiosamente e Anakin si guardava le
ginocchia.
Padmé ricordò all’istante ciò che aveva fatto quella notte, ma non
aveva
intenzione di intavolare la discussione, che, a ben vedere, sembrava
stare per
avvicinarsi in maniera del tutto naturale. Fu, infatti, dopo quella
pausa calma
e composta che Anakin, con tono altrettanto cortese, disse: ‹‹Obi-Wan è
fuggito. E io vorrei… io vorrei che tu mi dicessi la verità.›› La
guardò con
occhi pieni di sottesi, ma non ostili. ‹‹Dimmi che non sei stata tu a
farlo
uscire, e io ti crederò.››
Erano quasi
esattamente le parole che aveva
pronunciato lei, mesi prima: ed ora era chiaro che Anakin, che aveva da
qualche
parte appreso una maggiore sofisticazione, era venuto per tormentarla,
con quel
tono garbato e composto, da amico di vecchia data che indulge in
qualche
raccontino da salotto. In silenzio, Padmé si chiese se fosse poi la sua
intenzione davvero offenderla, schernirla, o, forse, usare contro di
lei, con
tenera amarezza, le parole più vulnerabili che avesse mai pronunciato,
nel
periodo più vulnerabile che avesse mai vissuto. E cosa avrebbe dovuto
rispondere?
‹‹Le guardie
mi hanno raccontato che anche tu sei
stata una sua…vittima,›› continuò Anakin, parlando
più alle sue
ginocchia che a lei. ‹‹Che ti ha fatta svenire e che sei stata tu a
trovare
Donnie per terra. Ma non…›› il suo tono divenne quasi fievole, ‹‹…non
credo sia
andata così. Quindi ti sto chiedendo la tua versione dei fatti, così
che
nessuno mi possa incolpare di saltare alle conclusioni.››
E pronunciò
quelle ultime parole con una specie di cupo, ironico disprezzo che le
fece
raggelare il sangue nelle vene.
Padmé lo
guardò, poi guardò le mani che s’era
stretta in grembo, e lo guardò di nuovo, cercando di intuire da quel
profilo
tranquillo e quella schiena girata quale sarebbe stata la sua reazione.
Poi si
ricompose, tirò in fuori il mento e parlò, estraendo dalla sua gola una
voce
che somigliava in maniera preoccupante all’inflessione di Amidala:
‹‹Non c’è
nulla che io possa nasconderti. Lo sapresti comunque, e lo sai che non
c’è
maniera di farti cambiare idea. Quindi che tu mi chieda se io l’abbia
fatto o
no è irrilevante. Secondo te cosa ho fatto?››
A quelle
parole, Anakin si girò verso di lei del
tutto, e aveva negli occhi qualcosa di tremendo. Non era rabbia, né
cattiveria
o malizia: era quasi noia, delusione e vivida angoscia. Con
quell’espressione
ci si sarebbe anche potuti immaginare un piccolo sorriso malinconico, e
Padmé
sapeva che se avesse provato a sorriderle in quel modo sarebbe caduta
in mille
pezzi e avrebbe osato fare una pazzia, chiedergli scusa, rimproverarlo
di non
aver ucciso Obi-Wan lì quando poteva, e averla invece costretta ad
agire contro
di lui. Avrebbe potuto fare di tutto, se lui avesse fatto qualcosa del
genere:
e per questo si vergognava.
‹‹Usi i tuoi
giochetti anche con me. Era tutto un
vostro complotto, vero? Sono stato via un mese, che
dico, un mese e
mezzo,›› disse Anakin, con un tono di voce amaro, ‹‹chissà quante cose
vi siete
potuti dire. Immagino che il piano fosse farmi fuori. Non vi è
riuscita, e
siete stati fortunati, approfittandovi della mia…›› e chiuse
violentemente la
bocca. Non parlò per quasi un minuto. ‹‹Quella scenetta patetica…Era un
bel
piano…Avrei dovuto ammazzarlo lì, quando potevo. Devo ancora imparare
molte
cose, devo dare più ascolto al mio Maestro…Queste sono le cose che si
ottengono
ad essere…ad essere idioti, e…››
‹‹Anakin,
no…››
Anakin scosse
la testa, non curandosi di girarsi
per guardarla.
‹‹Io so che
non dovrei dubitare di te. So che
dovrei fidarmi. Ma non ci riesco più, capisci?›› E
lo disse come se
pronunciare quelle parole lo stesse distruggendo davvero, con la voce
spezzata
da una delusione e un’amarezza così forti da fargli abbassare la testa
in un gesto
di mite malinconia. ‹‹Ogni volta che ti guardo mi chiedo se tu sia
sincera o
meno. È vero quando fai la gentile, quando sei tenera…? O altrimenti,
per cosa
lo fai? A volte sono certo che tu mi ami, e altre volte sono certo che
non ho
mai avuto e non avrò mai la tua totale lealtà. Quando stavo venendo qui
pensavo
-›› - sbuffò - ‹‹pensavo che avremmo potuto ricominciare, che le cose
sarebbero
cambiate, che eri diversa. Bè, che il tempo fa cambiare le cose. Ma
cosa fai al
primo ostacolo? La prima prova, e tu mi tradisci in questa maniera, fai
scappare da sotto il mio naso una persona che era venuta per uccidermi.
Tu sei
diventata una sua complice…››
‹‹Anakin…››
‹‹Io ti amo,
Padmé. Per la Forza,
se
ti amo. Potrei giurare che sono il bastardo più innamorato di questo
mondo. Ma
non posso fidarmi se tu fai queste cose.››
Se tu fai
queste cose significava
salvare una vita, e
Anakin ne parlava come se fosse un crimine. Rimasero in silenzio finché
Padmé
non trovò il coraggio di rispondere, e quando parlò lo fece con un tono
determinato e sincero, che non avrebbe fatto vergognare le donne
impegnate in
politica che era stata; ma non riuscì a guardarlo, preferendo fissare
oltre i
vetri, nel chiarore reso vivido e tremolante dalle sue lacrime.
‹‹Le cose sono
cambiate, Anakin. Ieri mi
pareva di avertelo dimostrato. In questi giorni ho capito che sono
disposta a
sacrificare i miei ideali per te e per i bambini. Credi che lo avrei
fatto se
fossi ancora la persona che ero qualche mese fa? Qualche mese fa non
avrei
nemmeno cercato di giustificarmi. Ma guarda cosa sto facendo. E ti dico
che
anche se sono disposta a…che anche se sono
cambiata, io non sarò mai
d’accordo con l’uccisione di un innocente. Obi-Wan non era venuto qui
per
ucciderti, e tu lo sai. Non potevo lasciare che tu lo portassi al tuo
imperatore come un trofeo, per torturarlo ed ucciderlo come un
criminale.
Almeno in questo, sono la stessa persona di prima,›› - la sua voce si
abbassò
ancora, - ‹‹e la persona di prima è quella della quale ti sei
innamorato, tre anni
fa. Se non ti interessa più, se non sei più innamorato di quella
persona,
allora non vedo perché dovremmo continuare con questo matrimonio.››
Nella stanza
calò un silenzio stupito, perché Padmé
aveva per la prima volta frantumato una premessa che prima non era mai
stata
messa in discussione: che quel matrimonio non prevedeva un’altra fine
che non
fosse la morte di uno di loro due. Il loro amore sarebbe stato per
sempre, il
matrimonio con esso; e se Padmé metteva in dubbio anche quello, cosa
rimaneva?
Anakin, che era di profilo, s’irrigidì ma fece del suo meglio per non
girarsi;
Padmé rimase in silenzio davanti all’enormità di quello che aveva
detto.
Infine, drizzata ancora la schiena, scosso via il sonno e messo nella
sua voce
più coraggio di quanto non ne provasse davvero, parlò di nuovo: ‹‹Per
quello
che mi riguarda, se non credi alle mie parole, credi almeno a quello
che senti.
Tu lo sai che i miei sentimenti sono sinceri.››
Anakin non
disse nulla. Abbassò gli occhi. La sua
calma, così innaturale nell’uomo che era, così fuori luogo, la
inquietava e la
infastidiva insieme; senza riuscire a crederci si ritrovò a desiderare
che
s’alzasse e cominciasse ad urlare e minacciare lei e l’universo di cose
terribili, esprimendo tutta la sua furia, esplodendo di rabbia, così
che fosse
più semplice dire che aveva torto. Ma ora che lo
vedeva così,
così freddo, apatico e silenzioso, non aveva appigli contro di lui: ma
anzi
aveva il terribile, mortale sospetto di esser stata lei in torto, di
aver fatto
qualcosa di male, di averlo tradito davvero, di essere stata lei a
commettere
un crimine, un crimine vile com’era tradire la fiducia di suo marito,
che quei
giorni a casa era stato così gentile, affettuoso e speranzoso. Questa
era la
grande beffa del male, far dubitare ai buoni delle loro buone azioni,
insinuare
dubbi dove dubbi non dovevano essercene, rendere tutto grigio, sia il
bianco
sia il nero. E così due giorni era stato tutto quello che il destino
aveva
concesso loro di felicità, prima di sbattere contro le loro facce la
realtà
delle cose: ovvero che erano ancora diversi, che non c’erano ponti e
che non si
capivano. Era una cosa buona, forse, eppure Padmé si scoprì a
desiderare di
essere cambiata davvero, di poter accettare Anakin così com’era senza
nemmeno
pensare due volte di tradire la sua fiducia; ma era quella la vita di
una
persona libera o di una schiava o peggio? Padmé, di nuovo, non aveva
risposte.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Sei. ***
Sei
Anakin uscì
non
sbattendo nemmeno la porta, camminando a passi pesanti, accaldato,
sentendo una
vena essere sul punto di esplodere, ogni muscolo una corda tesa, ogni
movimento
un’esternazione della sua impotenza. Attraversò il corridoio superando
le
finestre luminose, e quando fu alle scale, che lo invitavano a scendere
giù e
distruggere qualcosa, s’inchiodò. Cercò di riportare sotto controllo il
suo
respiro; inspirò, espirò e dannazione se non si era rammollito, lui,
che ora si
sentiva prossimo ad un collasso per il solo fatto di averla sentita
parlare in
quel modo – no, per l’audacia, la temerarietà, la slealtà che Padmé
aveva
appena dimostrato con quel discorsetto. Cosa era significato, poi? Che
l’amava
– ma fino ad un certo punto, fino al punto in cui lei avrebbe dovuto
compromettere qualcosa di sé stessa. Fino a lì arrivava l’amore di
Padmé. Un
amore che era una bestia volubile, incontrollabile e imprevedibile,
sempre
soggiogato a quel razionale buon senso che sgocciolava da tutte le
parole di
sua moglie. Sì, Padmé era incapace di amare: era fredda, volubile,
ambigua, se
non bipolare; non avrebbe mai esitato a tradirlo, mentre lui aveva
tradito
anche sé stesso per lei; e siccome era così, viziata, idealista, e sì,
non
l’amava nemmeno così tanto (poi come si faceva ad amare qualcuno a
metà, o per
tre quarti, pareva impossibile, eppure…), le cose non sarebbero mai
cambiate,
mentre lui avrebbe continuato a dare la sua vita soltanto per strappare
un
sorriso, per pensare di tenere tra le mani un pezzo dei suoi reali
sentimenti –
era un affronto a tutto quello che era Anakin!
Era forse da
uomo
ridursi a quel fagotto ansimante di nervosismo, tic, tremori, tutto per
i
dispetti di una donna – la sua donna – Padmé, quella donna strana,
sfuggente,
sfuggevole; ogni volta gli pareva d’averla presa, di poter dire: oh,
Padmé, ora
ti conosco, ora so quale sarà la tua prossima mossa; per poi
risvegliarsi e
vederla sfuggire tra le sue dita, come se fosse sabbia, come se fosse
acqua, o
un fantasma.
Era forse da
uomo poi
ridursi in quello stato penoso? Aveva trascorso cinque ore di veglia
notturna
sul corpo di Padmé addormentata, sentendosi il cuore venire lacerato
pezzo a
pezzo dalla rabbia – no, dall’odio, perché poteva giurare di averla
odiata,
odiata come avrebbe potuto odiare Obi-Wan, odiata come non aveva mai
fatto,
quando aveva saputo quello che aveva fatto e aveva sbattuto i pugni
contro il
muro, una, due e tre volte, prima con una mano, poi con l’altra,
dovendosi
accasciare su se stesso quando la mano di carne aveva fatto un suono
sinistro e
gli era sembrato di essersela spaccata; era corso su, nella camera, e
l’aveva
trovata lì, addormentata coi bambini, come se non avesse fatto nulla di
male,
la fronte distesa come se non stesse nemmeno soffrendo di sensi di
colpa, e
avrebbe potuto giurare su tutto ciò che gli era più caro (e purtroppo
comprendeva anche lei) che l’unico motivo per cui non aveva commesso
una
follia, mentre la vista gli si offuscava, il mondo iniziava a girare e
una
nausea acida e sobbollente gli bruciava e fondeva lo stomaco, era stata
la
presenza di Luke e Leia lì accanto a lei, a proteggerla come un
talismano, e il
dettaglio – quel dettaglio! – del ciondolo di japor appoggiato sulla
morbida
curva del seno che gli aveva fatto ricordare del freddo di una nave, e
di quel
gesto – una veste appoggiata sulle spalle, quella gentilezza, oh – e
gli aveva
fatto ricordare di tutto quello che era davvero Padmé per lui, nel bene
e nel
male e oltre quelle due definizioni, finché all’improvviso non aveva
sentito
più niente, se non una lucida, disperata disillusione.
Aveva ragione
il suo
Maestro, ecco tutto, come al solito: Padmé non era che una debolezza.
Finché ci
fosse stata lei, con quei begli occhi scuri, quei lineamenti perfetti,
il suo
sorriso, la curva del suo polso, ecco, finché ci fosse stato tutto ciò
Anakin
avrebbe dovuto subire quei sabotaggi. Lei non avrebbe smesso. E allora
cosa
avrebbe dovuto fare lui?
Ora voleva
sbarazzarsi di lui, dunque – Padmé, che lo aveva tradito, tradito in
favore di
Obi-Wan!
S’appoggiò al
muro
fresco e intonacato di bianco, ne respirò l’essenza di stucco, mentre
voci e
colori e ricordi gli si mescolavano in testa come tendevano sempre a
fare in
quei momenti in cui il mondo sembrava non esistere davvero; desiderò
ardentemente di poter riportare le lancette dell’orologio al giorno
prima, di
annunciare che quella sera avrebbero potuto fare qualcosa invece che
rimanere a
casa, che li avrebbe portati a qualche ristorante a Kadikoy, no, a
Theed (e
poi, perché Obi-Wan aveva pensato a Theed?), anzi, li avrebbe portati
ad Otoh
Gunga, dall’altro lato del pianeta, se solo avesse significato
abbandonare
quella villa prima che Obi-Wan vi ricomparisse!
Era stata una
tale
bella mattina, quella del giorno prima; Padmé era stata immensamente
affettuosa, regalandogli abbracci e baci spontanei e distogliendo gli
occhi
come se fosse all’improvviso timida di riaverlo in casa, sfuggendo e
ritornando
tra le sue braccia in un gioco amoroso che aveva di gran lunga superato
qualsiasi fantasiosa aspettativa di Anakin; avevano giocato con i
bambini, o,
forse, li avevano semplicemente osservati (non c’era nulla, nulla di
meglio di
osservare Luke e Leia), sbocconcellando fette del pane dei Cinque Fiori
con il
miele della tenuta, per poi avere un pranzo all’aria aperta, nel
giardino,
parlando di tutto e di niente con la leggerezza di due freschi
innamorati; il
pomeriggio era stato dolce, passato nel letto in abbracci
inestricabili,
affidati i bambini alle tate, passati in un piacevolmente noioso stato
di
tiepida immobilità, come se la galassia fosse dopotutto destinata a
fermare il
suo corso caotico per permettere a loro di ritrovarsi in pace, e poi
era
arrivata la sera e tutte le sue novità. Sarebbe bastato essere un po’
più intraprendenti,
un po’ meno improvvisamente pigri – sarebbe bastato che Padmé fosse
stata più
fedele, più leale –
Una finestra
andò in
frantumi, i suoi frammenti spargendosi dentro e fuori dalla cascina,
nel vento
caldo che spirava fuori, seguiti poi dai rammenti dell’altra finestra e
dell’altra ancora. Anakin spalancò gli occhi per vedere da dove fosse
arrivato
quel suono agghiacciante (da sempre foriero di cattive notizie),
aggrottò le
sopracciglia allo spettacolo delle finestre rotte e scosse la testa,
d’un
tratto sentendosi come se il suono improvviso lo avesse riscosso da un
brutto
sogno. Sentì nella Forza la sua Padmé; se la immaginava in piedi in
mezzo alla
stanza, pallida e minuta, con la sua corona di trecce sfatta e
scivolata ad un
lato della testa e qualche lacrima a farle luccicare gli occhi scuri,
pozze
infinite di meraviglie traditrici e pericolose, e senza nemmeno
pensarci corse
indietro, spalancò la porta e la trovò lì, più o meno come se l’era
immaginata,
alla finestra e con le mani appoggiate dietro di lei sul davanzale,
pallida e
sul punto di piangere, e tutto quello che Anakin riuscì a dirle, dopo
essere
penetrato in quella stanza come una furia fu: ‹‹Non abbiamo ancora
finito.››
Padmé gli
lanciò
un’occhiata nervosa, e nella Forza vi fu una cacofonia di migliaia di
violini
alti e stridenti. Anakin fece un mezzo passo avanti, aprì e chiuse
la bocca un paio di volte, poi aspettò che parlasse, ma finì che
nessuno
dei due
parlò per un buon minuto, con le bocche sigillate in linee dritte,
piene di
rimprovero da parte di Anakin, e di tesa apprensione da parte di Padmé.
Si
squadrarono in cerca del benché minimo movimento, ma non ce ne furono.
‹‹Perché lo
hai
fatto? Perché lo hai lasciato andare via?›› attaccò Anakin, alzando una
mano,
sentendosi frustrato e impotente e ridicolo perché sapeva di avere gli
occhi
bagnati di lacrime (come una donnetta, come se fosse vulnerabile, lui!
un
Sith!), per poi passarsela tra i capelli, ora corti, morbidi e puliti.
Padmé fece un
passo
avanti e liberò le sue mani dalla presa disperata sul davanzale,
attorcigliandosele all’altezza dell’ombelico in un intrico abbronzato
di ossa
minute.
‹‹Ani - ››
Ora usava il
nome
affettuoso che Anakin permetteva di usare soltanto a lei – perché era
stato il
suo nome quando era stato schiavo: era stato Ani, lo schiavetto, e la
strada
davanti all’officina di Watto era stata un risuonare di “Ani! Ani!
Ani!” e lui
lo aveva odiato. Ora s’accorgeva bene che era il nome adatto, perché
era ancora
uno schiavo di qualcuno. La sua padrona lo guardava con occhi luminosi.
‹‹Cosa ti
saresti
aspettato da me? Pensavi che avrei potuto lasciare un essere umano – un
essere
– morire là sotto, finché tu non ti fossi deciso? Tu lo sai che non
sarei mai
stata capace di agire in quella maniera, perché…››
‹‹Perché va
contro
tutto quello in cui credi, per cui hai lavorato…›› concluse Anakin
scuotendo
una mano. ‹‹La verità è che tu non avevi nessun diritto! Quella era una
faccenda tra me,›› punteggiò le sue esclamazioni con gesti forti della
mano,
‹‹e Obi-Wan! Tu dovevi rimanerne fuori!››
‹‹Non potevo
lasciare
che tu lo uccidessi.››
Anakin sbottò
in una
risata sarcastica, guardandosi attorno e prendendo a passeggiare nella
stanza,
sentendosi come vicino ad una brutta febbre. I vestiti gli si
appiccicavano scomodamente
alla pelle, anche se sentiva brividi gelati corrergli tra i nervi.
Sentiva bene
gli occhi di Padmé su di sé; anche quando le voltava le spalle
conosceva la sua
espressione, pallida e stanca. Desiderava, in maniera quasi
parossistica, che
lei sentisse solo un decimo dell’agitazione nervosa e sfinente che lo
aveva
travolto; desiderava che lei sentisse l’incommensurabile frustrazione
di capire
che ora lo tormentava. Doveva incalzarla, doveva farla cedere, doveva
farla
piangere, e solo allora forse lei avrebbe capito cosa - ‹‹Quindi hai
lasciato
andare l’uomo che ha tentato di uccidermi perché non potevi sopportare
la morte
del tuo oh-così-caro-Obi-Wan…›› poi girò via la testa, rabbioso, colto
da
un’idea tremenda ma sincera, ‹‹perché ora capisco che era davvero un
piano, che
tu mi odi. Tu mi vuoi morto solo perché…perché…ma non importa, importa
soltanto
che il collo del tuo prezioso Obi-››
‹‹Obi-Wan non
importa, Anakin! Non riesci,›› disse lei accorata, avvicinandoglisi
ancora e
schiudendo le braccia nel tentativo di contenere il suo passo furioso,
‹‹non
riesci a capire che non devi, per nessun motivo, macchiarti le mani di
altro
sangue? Anche se indirettamente, tu lo avresti ucciso…Non riesci a
capire che
non ne vale mai la pena, che ogni volta che tu…›› guardò via e deglutì,
‹‹tu
non sei nato per uccidere, tu…››
Anakin si
districò
dalla presa di Padmé con bruschezza.
‹‹Chi lo
dice, Padmé?
Chi mi assicura che questo non è esattamente quello che devo fare? Ma
tu stai
cambiando l’argomento – il problema qui non sono io, ma il fatto che
lui è
venuto qua, a casa mia, parlando di portare giustizia, dicendo che un
giorno la
pagherò – quel pazzo, che non si merita nemmeno l’aria che respira…››
‹‹Allora non
si
merita nemmeno che tu commetta un crimine per lui.›› E di nuovo si
avvicinò a
lui, cingendolo di traverso con le sue braccia magre e calde e
appoggiandogli
la fronte contro il braccio.
Anakin chiuse
gli
occhi. ‹‹Non toccarmi, Padmé. Mi fa -›› ma non trovò le parole.
‹‹Sei tornato
per un
motivo…›› mormorò Padmé rafforzando la presa, con una nota di quieta
esultanza
nella voce. ‹‹Sei tornato per parlare…››
Padmé lo
disgustava.
Sì, lo disgustava. Chi poteva assicurargli che non fosse stata sempre
parte di
un piano? Chi poteva assicurargli che non fosse sempre stata una spia,
una
traditrice? Non c’erano parole davanti al vuoto abissale colmo della
sua
sfiducia. Non voleva guardarla negli occhi – lei, nemmeno, perché
manteneva il
viso schiacciato contro il suo braccio. Non piangeva. Anakin sapeva che
se
avesse provato a rivolgergli uno dei suoi sguardi – quelli che aveva
perfezionato durante tre anni burrascosi di matrimonio – sarebbe
riuscita a
convincerlo del contrario: in un secondo, avrebbe potuto credere di
nuovo che
lei lo amasse, che lui la amasse, e che tutto fosse più o meno a posto
di
nuovo. Rimasero così, in piedi, forse per interi minuti. Dovevano avere
tutta
l’aria di un solenne complesso statuario: un uomo, alto e diritto (se
non
esageratamente impettito) che guardava a terra, e aggrappata a lui una
donna in
lunghe vesti fluenti, col viso affondato nella carne del braccio.
L’immagine lo
riempiva di nausea, eppure, non riusciva a muoversi. Sentiva i muscoli
di
piombo.
‹‹Anakin, è
meglio
così,›› riprese Padmé dopo un’eternità, con voce calma e conciliatoria,
‹‹non
tornerà più. Non ci disturberà più. Io non c’entro nulla – non sarei
mai in
grado di complottare contro di te. Mai.›› Prese ad accarezzargli le
braccia. I
pugni di Anakin si contorsero in spasmi involontari.
‹‹Possiamo
dimenticare quello che è successo. Possiamo davvero ricominciare. Prima
hai
detto che mentre venivi qua pensavi che potessimo ripartire da zero. Lo
pensavo
anche io, esattamente quello. Pensavo che quando saresti venuto,
avremmo potuto
cancellare quello che -›› ma poi fece una pausa, sicuramente stimando
troppo
grandi gli eventi passati per essere liquidati con una frase casuale.
Dopo
qualche istante, ricominciò: ‹‹Noi possiamo farlo davvero, capisci? Da
oggi. So
di aver perso la tua fiducia, ma…››
E Anakin non
poté più
sopportare il contatto fisico con lei, la presa bollente delle sue mani
su di
lui, il suo sguardo sulla guancia, la maniera in cui lei stava
lentamente, ma
con sicurezza, sgomitando per rientrare nelle sue grazie. ‹‹Non
funziona così,
Padmé,›› sbottò, prendendole le mani e spingendole lontano dal suo
corpo. ‹‹Non
funziona così. Io non so più chi sei.››
Glielo disse
mentre
la guardava negli occhi. Poteva vedere se stesso riflesso nelle pupille
castane
della moglie. Le sezioni impercettibili di verde attorno ai bordi
esterni delle
iridi erano luminosissimi in quel momento.
‹‹Potrei
dirlo anche
io.››
Le teneva i
polsi.
Avrebbe potuto spezzarli con un solo gesto. Pensandoci, avrebbe potuto
ucciderla in quel momento. La morte era così facile da dispensare. La
vita no.
C’era qualcosa di profondamente ironico in quella considerazione che
gli
sovvenne mentre guardava le sue mani tenere in una presa di ferro i
polsi di
Padmé. Loro la vita l’avevano dispensata insieme. Ora avrebbe potuto,
spronato
dalla rabbia, ucciderla: spegnere per sempre quegli occhi e non dover
mai più
rischiare un tradimento, un sabotaggio. Il pensiero gli sembrò per un
istante
lucidissimo, una possibilità concreta, un’azione attuabile senza troppi
problemi; poi lei mosse un po’ le mani, scosse un po’ le ossa delicate
del
polso che lui stava tenendo con tanta forza, e Anakin sentì la
pressione
all’interno del suo corpo aumentare a dismisura, come se fosse sul
punto di
esplodere. Sentiva le guance accaldate. Padmé lo guardava con occhi
disperati.
Era così calda e agitata, spaventata davvero eppure fiduciosa. Padmé
era sempre
fiduciosa.
Mai come
allora gli
parve effimera e ridicola la nozione di conoscere davvero qualcuno.
Quando si
poteva realmente dire di conoscere una persona? Soprattutto, era
possibile?
Quando era
arrivato,
Padmé era stata un sogno. Vestita come un angelo, gli era parsa una
donna
nuova, liberata dalle sue manie, dalle sue infelicità, una donna
sinceramente
felice di riaverlo a casa e che lo accettava così com’era. Anakin era
giovane,
ma sapeva che quello stato di quieta beatitudine era impareggiabile; e
gli era
sembrato di aver finalmente capito Padmé. Eppure, erano bastate meno di
due ore
a distruggere tutto e riportarli dov’erano prima. Non si fidavano l’uno
dell’altra, e questo insomma era quanto: due mezzi estranei che
s’amavano. Era
bastato un litigio perché Padmé ricominciasse ad avere paura di lui.
Si poteva
vivere
un’intera vita con qualcuno, per poi svegliarsi un giorno e capire di
non
averlo mai conosciuto. Gli era successo, qualche volta, con Obi-Wan (il
pensiero fece infuriare qualche bellicosa, periferica regione della sua
coscienza): vedere il suo viso segnato prematuramente dalla stanchezza
e
chiedersi se, dopo anni e anni di un rapporto maturato al più stretto
contatto,
conoscesse davvero ogni cavità e anfratto dell’animo del suo Maestro. E
per
quanto sembrasse impossibile, Anakin era sempre stato conscio che in
Obi-Wan,
come in tutti gli altri, c’era qualcosa di elusivo e inafferrabile; un
piccolo
spazio nel cervello irraggiungibile dai conoscenti, privato, esclusivo
al suo
proprietario: la sede di tutte le decisioni più intime e personali,
dove
maturavano i segretissimi piani di ammutinamento, dove si era liberi di
impazzire, dove nascevano le azioni irrazionali che gli altri non
riuscivano a
spiegarsi del tutto. E se c’era questa parte, unica e impossibile da
conoscere,
rimaneva da vedersi quanto si conosceva il resto, la parte visibile del
carattere, la parte che gli altri possono arrivare a conoscere: e
mentre
guardava negli occhi Padmé in quel momento, provando per lei un misto
atroce di
rabbia, delusione e curiosa apatia, gli sembrò di non conoscere poi
tanto bene
nemmeno quella parte visibile.
Dopotutto, in
tre
anni di matrimonio, durante la guerra, avevano trascorso insieme poco
più di
tre mesi. I congedi erano faccende brevi, spesso soste obbligate a
Coruscant
per ripartire l’indomani in direzione di qualche pianeta sperduto; le
vacanze
insieme – seppure Anakin ne avesse proposte decine – erano quasi sempre
state
liquidate da lei, per via di un impegno al Senato, o per via del timore
di
essere scoperti dal Concilio; loro erano le notti, ma non i giorni, se
non
quando la
Senatrice
intratteneva fruttuose visite professionali con il suo amico Jedi; in
quei tre
anni, che pure erano stati felici, non c’erano stati molti pranzi
assieme,
lunghe passeggiate, faccende domestiche svolte insieme; si erano
conosciuti a
frammenti, interrompendo le loro conversazioni per riaprirle, come se
non fosse
successo nulla, due o tre mesi dopo esattamente da dove le avevano
lasciate,
con un po’ di timidezza negli occhi perché quando si rincontravano era
sempre
un po’ come se non si conoscessero del tutto. Erano, quegli attimi di
timidezza, della durata di non più di pochi battiti, e spesso venivano
soffocati
dalle loro improvvise passioni – eppure c’erano, e alla luce di ciò che
era
successo tutti quei mesi prima, Anakin doveva per forza chiedersi se
non
fossero stati i momenti più sinceri della loro relazione.
Non c’erano
parole
per descrivere il vuoto che sentiva in quel momento. Non aveva parole,
né
pensieri, solo un ingarbugliato intrico di tristezze. Non la odiava
nemmeno
più. Anzi, tutto quello che aveva detto suonava estremamente
ragionevole e
coerente. Provava quasi un moto di traditrice gratitudine nei suoi
confronti,
per la quale non sarebbe mai riuscito a trovare le parole; era anche
disposto a
perdonarla, o chiederle scusa, o qualsiasi cosa, se lei glielo avesse
chiesto
in quel momento. Lasciò la presa sui suoi polsi, e avrebbe quasi voluto
chiederle
scusa per il circolo rossastro che le aveva lasciato impresso sulla
pelle, ma
si trattenne. Quando vide quegli occhi scuri illuminarsi di gratitudine
e
sollievo, seppe di amarla ancora.
‹‹L’ho fatto
per
te,›› disse Padmé. ‹‹Voglio che tu ti fidi di me. Io non sono leale al
tuo
imperatore, ma sono leale a te. Non devi mai dubitare di questo.
Ricominciamo
di nuovo. Ce la faremo un giorno.›› La sua voce era gonfia di lacrime.
E lo
abbracciò di
nuovo, stavolta per davvero, schiacciandoglisi contro, tutta piccola,
minuta e
perfetta, e Anakin non ebbe il coraggio di rifiutarla, seppure non
desiderasse
altro contatto fisico. Dentro di sé, non riusciva a considerare altro
se non
quella vibrante, sorda vacuità spaziale che gli aveva occupato il
petto. Non conosceva
Padmé, e in realtà non conosceva nemmeno sé stesso; forse non si era
mai
conosciuto. Si arrendeva in quel momento ai molteplici, incomprensibili
mutamenti del caso e dell’animo; non aveva la forza né d’amare né
d’odiare, e
anche Obi-Wan, con quella sua barbetta rossa e la grossa macchia scura
sulla
testa divennero un incomprensibile geroglifico destinato ad essere
dimenticato.
Forse i morti
a volte
tornavano. Su Tatooine si diceva ai bambini di non avventurarsi di
notte nel
deserto, se non volevano vedere le anime dei morti levarsi nella notte
fredda,
irritate per esser state disturbate. A volte, gli era parso di sentire
sua
madre – come un’ombra che aleggiasse su di lui, attorno a lui. Alcune
volte era
quasi riuscito a sentirne l’odore. I morti forse non erano del tutto
relegati
agli oscuri Paesi dell’oblio. Obi-Wan poteva essere ciò, in quel
momento – un
visitatore notturno, uno spavento di bambino. Poteva esserlo, e Anakin,
mentre
teneva Padmé tra le braccia, poteva scegliere di renderlo tale.
Ma per il
momento
preferì semplicemente chiudere gli occhi e affondare il naso nei
capelli di
Padmé, sentendo che nel vuoto dentro di sé vibravano stringhe armoniose
di un
po’ di stanchezza, qualche pensiero passeggero e galleggiante, un amore
sordo e
distaccato, accompagnato da una morbosa, ma non del tutto spiacevole,
mancanza
di speranza.
VesiSchwartz.
Kalispera!!!
Sei andata in grecia O.o!!!
Che invidia, io ci ho lasciato un pezzetto di cuore quando ci sono
andata in
gita con la mia mitica classe il primo anno del liceo!!!
Spero davvero che ti sia piaciuta, io l'ho trovata meravigliosa!!!
Comunque io non mi posso lamentare, sono appena tornata dall'Irlanda
(che
nostalgia della mia Galway...)...
Ora, passando alle cose serie, il captolo mi piace moltissimo: come
tutte le
volte in cui fai confrontare Anakin e Padmé, riesci nonsocome a far
emergere i
loro veri caratteri - per quanto due personaggi inventati possando
avere un
vero carattere...ma io sono convinta che ce l'abbiano - sicura di non
avere
agganci con un certo George Lucas???
Complimenti e complimentoni. E pensare che io sono sempre stata una
tipa
d'azione, e che in genere i capitoli introspettivi e/o riflessivi non
mi
appassionavano mai più di tanto... XD
baci baci,
Vesi
PS: scusa se non riesco sempre a commentare. lo vorrei, davvero, ma
quest'estate faccio la vagabonda...e quando sono a casa, i miei mi
rompono che
devo finire quella valanga di versioni di latino e greco che mi
aspettano...e
pensare che mi asfissiano già durante l'anno scolastico, sigh!!! ;P
irydionlover93. Come VesiSchwartz, anch'io
non riesco sempre
a recensire (purtroppo!) perché d'estate sono sempre via...a volte
muoversi
così tanto risulta anche stancante! :D
Tuttavia, eccomi qui, in partenza per la Tunisia,
ma senza potermi impedire di commentare
su un altro, splendido capitolo! La storia è sempre più accattivante, e
ora non
so davvero più dove tu voglia andare a finire. In questi due ultimi
capitoli
hai tirato fuori un elemento, per me, di novità assoluta che non credo
di aver
mai trovato in altre ff su Star Wars...in tutte le storie, che Anakin
resti un
Jedi o no, l'amore grande e complicato tra lui e Padmé è sempre, in
tutto
quello che succede, l'unico punto fermo della storia...è sempre lì,
indistruttibile, a lasciare uno spiraglio di speranza e felicità ai
personaggi
(e al lettore)...invece in questi due capitoli per la prima volta l'ho
visto
messo in discussione, e quindi ora sono davvero preoccupata per quello
che
potrà succedere poi!!
Mi è piaciuto molto l'accenno al fatto che Anakin permetta soltanto a
Padmé di
chiamarlo ancora "Ani"...quella era una riflessione a cui non avevo
pensato, e che nella visione ormai distorta su tutto di Anakin
purtroppo calza
alla perfezione :( bellissimo e azzeccatissimo secondo me anche come
hai
descritto la loro relazione durante la Guerra
dei Cloni...il fatto che si conoscessero
pian piano, e che cmq ci fossero sempre quei momenti di improvvisa
timidezza
tra di loro...
bello bello bello!! accidenti al mio viaggio che m'impedirà di
aggiornarmi
regolarmente...terrò le dita incrociate per i miei adorati fino a
settembre!
Buon proseguimento di vacanze, e ancora complimenti!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Sette. ***
Sette.
Il caldo
iniziava a
morire. Riusciva già ad odorare nell’aria i gialli e i bruni
dell’autunno.
Presto la regione sarebbe stata visitata dalla prima folata di vento
autunnale;
l’inverno avrebbe bussato alla porta poco dopo. Ma il lago di Varykino
era
circondato da schiere di austeri sempreverdi che avrebbero resistito
l’attacco
delle stagioni; e l’anno successivo, in primavera o forse d’estate,
sarebbero
stati ancora lì immutati ad aspettarla. Varykino l’avrebbe sempre
aspettata.
I suoi
pensieri
crepuscolari s’attardarono a lungo sulle sfumature degli occhi di
Anakin, sui
cambiamenti impercettibili della sua voce e su quella strana energia
che solo
lui sapeva emanare; le parole della loro discussione si ripeterono
nella sua
mente, ma dopo un po’ non pensò più nemmeno a quello. Il paesaggio
lacustre
cominciò a mutare sotto i suoi occhi. Nel buio tra i fitti alberi
s’andarono ad
infilare ombre minacciose. Era come se stessero nascondendo qualcuno.
Nascondevano
Obi-Wan.
La stava osservando. Era pronto a sbucare da là fuori e distruggere la
sua
vita, stavolta per davvero. O non l’aveva già fatto? Padmé non lo
sapeva
ancora. Com’era stato il rapporto tra lei e il Jedi? Un’amichevole
confidenza,
nient’altro; una fiducia ammantata di affettuosa familiarità. Come sta,
maestro
Kenobi? Chiamami Obi-Wan, Padmé. Non lo aveva saputo nessuno dei due a
quei
tempi che sarebbe finita così. Ma da quando era nato l’impero, erano
complici
di un piano comune. Il piano si chiamava Libertà (o Giustizia, spesso
coincidevano). Erano le guardie in esilio; quelli che avrebbero serbato
il
ricordo del mondo che c’era stato prima, e che un giorno avrebbero
visto il
ritorno della libertà. Ma quando sarebbe successo? E lo avrebbero
visto? Un
giorno la libertà sarebbe ritornata, forse senza le loro firme.
Padmé aveva
fatto
bene. Su questo non c’era alcun dubbio. Non avrebbe mai potuto lasciare
che
Anakin uccidesse Obi-Wan. Non poteva lasciare che un’altra parte di
Anakin
morisse sotto i colpi della sua furia suicida. Questo Anakin non
l’avrebbe mai
capito; e se l’avesse capito lo avrebbe liquidato come i soliti
sentimentalismi
tipici di sua moglie. Sei troppo emotiva, Padmé. No, non lo
sono. Sei
un’idealista, e una sentimentale. Io non sono nessuna delle
due. No,
davvero. Credimi. Ma ti amo per questo. Ti amo. Ti amo.
La vita di
Obi-Wan
era più di un assillo per Anakin: era il suo passato, il fatto che
Anakin sì,
era stato un padawan un tempo. Finché Obi-Wan avesse respirato, ciò
sarebbe
stato impossibile da cancellare. Ogni volta che i suoi pensieri lo
avrebbero
ricondotto ad Obi-Wan, Anakin avrebbe ricordato il suo passato.
Salvandolo,
Padmé aveva salvato il Maestro, Anakin il padawan, se stessa, tutto
quanto. Si
sentiva piena di gioia.
Sorrise
finché non le
fecero male i muscoli del viso, sentendo sulla fronte rotonda gocce di
meravigliosa pioggia profumata di autunno. Si alzò dalla poltrona con
uno
scatto da bambina.
Scusami per
quello
che ho fatto. Ma vedi, ho fatto la cosa giusta. E sono proprio convinta
di
questo. Voglio dire, è lampante che io abbia fatto la cosa giusta, e se
tu ora
sei come sei – bè, è un problema tuo. No? Ho salvato una vita. (Che
l’abbia
salvata da te, è ininfluente). Ho salvato anche te. Anche te. Te.
Corse giù per
il
giardino, superando terrazzine, gradini e praterelli (com’erano
piacevoli le
macchie delle aiuole, quando le si superavano!) e infine la pietra
scura e
umida del molo: quindi si fermò sul bordo, dondolandosi sugli avampiedi
e
recuperando il fiato mentre guardava verso il sole enorme e giallo poco
sopra
l’orizzonte. Quindi chiuse gli occhi e si tuffò nell’acqua sempre
fresca,
sentendosi percorsa da un’elettricità allegra e impenitente. Iniziò a
nuotare
nell’acqua caramellata del tramonto. Pareva proprio caramello, come
quello che
si lasciava scivolare sui dolci freddi. Sua madre, Jobal, aveva la
ricetta di
un meraviglioso semifreddo con salsa al caramello. Se lo sentiva sulla
punta
della lingua, e per quanto avesse provato a farlo mille volte non le
era mai
riuscito di farlo esattamente come veniva a sua madre. Ma Anakin
pensava che
fosse il dolce più buono che avesse mai mangiato. Posso averne altro?
Gli
allenamenti mi lasciano affamato. Potrei mangiare un budino grande
quanto te.
Forse potresti mangiare proprio me. Sono d’accordo.
Attorno a sé
aleggiavano i lembi azzurri della sua veste. Pareva una grande medusa.
Il sole
tramontò sopra di lei, mentre i pensieri fuggivano dalla sua testa. Ora
aveva
la certezza che sarebbe andato tutto bene. Sorsero le due lune. Poi il
lago
iniziò a spumeggiare. Iniziò a ribollire di schizzi e fiotti
impossibili,
finché non fu un’immensa distesa di spuma bianca e scintillante sotto
la luce
lunare; le onde, che ora odoravano di salmastro, s’alzarono minacciose
in
arabeschi scuri, andarono a lambire le montagne, la villa e le
terrazze, e
infine la sommersero, finché il cielo non fu più visibile, e Padmé
seppe che
sì, non c’era via di fuga (da quella vita, dalla sua vita), non c’erano
spiegazioni (Milady, si svegli…), che lei sì ci sarebbe morta…
‹‹Milady.
Milady, si
svegli. Inizia a far fresco. Milady.››
‹‹Voglio
nuotare…aiutami, Anakin…››
Il suono
della
propria voce risvegliò completamente Padmé, che scoprì su di sé la
presenza di
un’accorata Dormé già in vestaglia. Era già notte. Il cielo era nero e
trapunto
di migliaia di stelle. Il lago era perfettamente calmo; lei, asciutta
seppure
infreddolita dalle brezze serali. Dormé le passò uno scialle di lana.
‹‹Sembra già
Arah
Samna,1›› commentò Dormé mestamente.
‹‹E’
tornato?››
Dormé scosse
la testa
e si mise a sedere sul divanetto, ai suoi piedi. Le appoggiò una mano
sul
ginocchio con la sua solita, delicatissima grazia, e con voce gentile
le chiese
ciò che Padmé aveva cercato di evitare tutto il giorno. ‹‹Avete
litigato,
vero?››
Padmé medito
sulla
possibilità di confessarle ciò che era successo la notte prima; eppure,
non
appena i suoi pensieri ritornarono agli eventi della notte prima, e del
mattino
al suo risveglio, un martellante mal di testa, un senso opprimente
d’ansia e un
desiderio confuso ma netto di fuga la invasero, e nella sua bocca le
parole
giuste si rifiutarono di assemblarsi, sicché rimase agitata e
silenziosa e non
poté far altro che annuire. Lo sguardo di Dormé divenne inquisitivo, e
Padmé
cerco nelle scanalature tra le mattonelle la via della fuga.
‹‹Che
peccato. Tutto
andava così bene fino ad ieri. Ma se ne voleste parlare, io, e le
altre, siamo
al vostro servizio, milady.››
Forse furono
queste
parole, o forse la stanchezza nervosa che si sentiva addosso, e
l’atmosfera
ancora sognante in cui era piombata, che composero la confessione che
recitò a
Dormé; una confessione sincera che acquistava in verità via via che
riusciva a
trovare le parole per formularla.
‹‹Questa
volta è
diverso. Io…io credo di essere cambiata, Dormé. Non è che non capisca
la sua rabbia.
Il problema è questo, che la capisco. Se fosse successo a me – se fosse
successo a me, se fossi stata io al suo posto, se lui avesse fatto
quello che
ho fatto io, io sarei infuriata quanto lui. In questo momento, starei
facendo
quello che sta facendo lui. Capisci? Il problema è che io capisco. Io
ho fatto
la cosa giusta, eppure non riesco…›› e in quel momento notò
l’espressione
incuriosita e confusa di Dormé e non fu capace di andare avanti. ‹‹Devi
perdonarmi. Non posso parlartene finché non avrò capito io cosa è
successo. So
solo che anche se ho fatto la cosa giusta, mi sento come se avessi
fatto la
cosa sbagliata, e questo non sarebbe successo qualche mese fa. Ho paura
di star
cambiando. Oh, non lo so nemmeno io di cosa ho paura.››
E rimase in
silenzio.
Anakin era
sparito.
Dopo la loro conversazione, e quella fredda riappacificazione che erano
riusciti a raggiungere grazie alla languida insistenza di Padmé, Anakin
se
n’era andato, aveva scambiato quattro parole tese con le guardie e non
si era
più fatto vedere per il resto della giornata. Se lo immaginava chiuso
nella
rimessa del cascinale, chino sui suoi inesauribili, sempre incompleti
progetti
di meccanica, inseguendo l’illusione di esser capace di riparare ogni
cosa (o,
almeno, un sistema di latta); conosceva perfettamente la ruga tra gli
occhi da
stratego frustrato mentre i pezzi di ferro andavano al loro posto, e
quelli
della sua vita no.
Dormé pareva
all’improvviso
un po’ a disagio. Le due donne rimasero lì sul terrazzino per vari
minuti;
ognuna inseguiva i suoi pensieri segreti. Il piede di Dormé batteva un
ritmo
veloce e silenzioso sul pavimento. Alla fine, Dormé iniziò a parlare,
prima
inceppandosi sulle parole, poi acquisendo sicurezza, e si mise a
raccontarle,
tenendosi tutto il tempo le mani intrecciate sulle ginocchia che, in
sintesi,
Anakin le dava i brividi, anche se giurava che un tempo non era stato
così, e
che era preoccupata per quello che sarebbe potuto succedere se le cose
fossero
andate avanti a quel modo per molto altro tempo. Quindi parve
sul punto
di dire qualcosa – qualcosa di molto grande e importante – ma chiuse
repentina
la bocca, e di nuovo calò tra di loro il silenzio.
‹‹Perché mi
dici
questo?›› chiese Padmé con gentilezza.
‹‹Anakin è…››
Ma non
ebbe il coraggio di terminare il suo pensiero.
‹‹C’è qualche
motivo
per cui mi stai raccontando queste cose?››
Gli occhi di
Dormé
diventarono grandi come piattini, e anche se scosse il capo per dire
no, la
maniera in cui si leccò le labbra disse a Padmé la verità. Prima del
cinque-venticinque2, i rapporti tra Dormé ed
Anakin erano stati
rilassati ed amichevoli, in seguito inesistenti, poi, d’improvviso,
nervosi.
Ora era ad un passo dal sapere perché.
‹‹Dimmi cosa
è
successo, Dormé,›› sussurrò Padmé.
Dormé le
offrì un
sorriso nervoso, si ritrasse un po’ e sembrò insicura sul da farsi;
parve
essere sul punto di andarsene, ma alla fine si lasciò andare contro lo
schienale e tirò un sospiro. Quindi iniziò a parlare a bassa voce.
‹‹E’ successo
quando
voi non c’eravate più, la sera prima che nascessero i gemelli…mi
svegliò. Era
una furia. Ma non ricordo cosa mi ha detto – credo mi abbia
ipnotizzata. Mi
ricordo di essere rinvenuta nell’hangar di 500 Republica. Quando sono
salita
nell’appartamento lui non c’era più.››
‹‹Ti ha fatto
qualcosa?››
Scosse la
testa.
‹‹No. Ma era tanto infuriato. Era spaventoso. Era come una…belva, una
belva
feroce. Non ascoltava ragioni.››
Padmé rilassò
la nuca
e si mise le mani tra i capelli per massaggiarsi lo scalpo con i
polpastrelli.
Avrebbe potuto anche fare a meno di quell’informazione in quel momento;
allo
stesso tempo, non poteva dirsi sorpresa. Era inutile cercare di
convincersi che
fosse una memoria fabbricata dall’immaginazione di Dormé, o che Anakin
non
sarebbe mai stato capace di essere violento; quel piccolo racconto
quadrava
perfettamente con lo stato agitato e ferino in cui Anakin si era
trovato tutto
quei giorni.
‹‹Mi dispiace
che tu
abbia dovuto conoscere quel lato del suo carattere.››
Dormé scosse
il capo.
‹‹Anakin è instabile, milady. Non è normale…››
Quelle parole
avrebbero fatto infuriare Padmé in qualsiasi altra occasione. Se
qualcuno –
chiunque – si fosse mai preso la confidenza di parlare in quel modo di
Anakin
si sarebbe dilungata in un’accorata difesa del marito, perché lei
sapeva che
Anakin non era davvero così. Eppure ora le parole di Dormé registravano
un
silenzio dentro di lei. Non aveva cosa rispondere. Lei stessa non si
sentiva
granché stabile.
Quella sera
Anakin
non tornò. I sogni di Padmé stavolta furono surreali e felici. In una
larga
piazza soleggiata, migliaia di persone s’incontrarono per godere della
bella
luce del sole, ognuno ondeggiando al suono di una musica vivace di
festa; e
Padmé, lì in mezzo a loro, ritrovava la luce che le pareva d’aver perso
tutta
la sua vita. C’era buon cibo sulle tavolate, bambini che giocavano ai
guerrieri, bambine con mille nastri tra i capelli, un odore di fiori e
vino e
musica di fisarmoniche e violini; Luke e Leia avevano quattro o cinque
anni, e
giocavano con la sua bisnonna, Silidar; l’aristocratica, elegantissima,
bionda
Silidar, nata cento anni prima di lei, venuta da Alderaan e per sempre
immortalata nelle rime del poeta Baji Rao. C’erano molti dei suoi
parenti, tra
quei visi festosi, e ognuno aveva belle e pacifiche parole da scambiare
con
lei, e nessuno parlava di imperi galattici, o tempi oscuri.
Furono le
urla dei
gemelli, quelli veri e di soli tre mesi, a richiamarla da quella
celebrazione
della vita; a malincuore, Padmé s’accorse che ora anche le stanze della
villa
di Varykino le parevano una prigione. Quando ebbe calmato i gemelli,
vegliò sul
loro sonno finché non fu l’alba, e Moteé venne qualche minuto
dopo a
vegliare a sua volta su di lei che s’era addormentata; al risveglio, le
disse
che le era sembrato d’aver visto – ma sicuramente si era sbagliata, con
quel
buio che c’era! – ecco, che le era sembrato d’aver visto Anakin nel
giardino.
Glielo disse con un fil di voce ansioso, e solo quando si guardò allo
specchio
Padmé capì il motivo di quelle incertezze: il suo aspetto era
impresentabile.
Vi era poi un
motivo
per quel pallore? Dopotutto, il confronto della mattina precedente non
era
terminato in urla o strozzamenti. Sembrava quasi che avessero raggiunto
una
pacifica, civilissima impasse. Con
tutta probabilità, a spaventarla doveva essere il fatto che le dita di
Anakin
sulla sua pelle, in mezzo a quello svogliato abbraccio che s’erano
scambiati
alla luce dell’alba, erano state gelide, distanti e (ora lo sapeva) fin
troppo
pacifiche. Quando qualcuno come Anakin si comportava in quella maniera
vi era
solo ogni motivo per preoccuparsi ancora di più. L’abbraccio di Anakin
era
stato un affare diplomatico.
L’assenza di
Anakin
era, come al solito, ancora più ingombrante della sua presenza. Vi era,
aggiunto al generale malaise del sapere che tra lei
e Anakin s’era
aperta una nuova, profonda crepa, una vaga inquietudine nata dal non
sapere
dove fosse suo marito in quel momento, o cosa stesse facendo (una
considerazione
resa spaventosa anche dalla consapevolezza del suo immenso potere e del
suo
carattere distruttivo).
A metà
mattina, 3PO
stava leggendo ai bambini una storiella (‹‹E
il grosso parlaan ruggì: “o voi bambini cosa siete venuti a fare nella
dimora del…”
- oh padrona Padmé, mi perdoni per il baccano, era ovviamente voluto a
fine
educativo…potrei citarle ben 4.311 pubblicazioni scientifiche sui
benefici
della lettura espressiva ai bambini in età infant-››) quando
Padmé entrò
per la centesima volta nella nursery, si diresse al confuso involto che
aveva
lasciato su uno scaffale e ne estrasse le due scatolette di metallo che
Obi-Wan
le aveva lasciato quella notte. Ne conosceva ormai a memoria il
contenuto.
In una
brillavano due
cristalli di kiber, più preziosi e luccicanti di diamanti, doni “da
Jedi ad
altri Jedi”; nell’altra, due minuscoli repositori di memoria olografica
la
guardavano accusanti, promettendo di mostrarle tutta la verità di
quello che
era successo al Tempio. Non aveva il coraggio di estrarre dal loro
comodo
cuscinetto i due cristalli, né aveva il coraggio di guardare i due
ologrammi.
Li aveva trovati – momento terribile! – il giorno prima, quand’era
tornata
dalla cascina delle guardie; era rimasta mezz’ora in timida
contemplazione di
quel piccolo, terribile tesoro. Presero a tremarle le dita non appena
le
avvicinò al primo dei chip; e girò il capo istintivamente un paio di
volte
nella direzione dell’ufficio, dove si trovava l’unità di lettura
olografica,
rabbrividendo al solo pensiero di poter prendere quei chip e vederne il
contenuto. No, quelle cose dovevano rimanere lontane dai suoi occhi,
per sempre
sepolte! Non avrebbe mai guardato quegli ologrammi.
Quattro mesi
si
condensarono in un giorno, e il passato sembro alitarle sul collo. Non
erano
passate che poche ore dal momento in cui era morta la repubblica; non
erano
passate che poche ore da quando Anakin era tornato da lei, mutato in
una belva
feroce. Il passato sarebbe sempre stato così. Aveva mai pensato di
poter
dimenticare? Finché ci fosse stato Obi-Wan, anche lei avrebbe dovuto
per sempre
ricordare il passato. E il fallimento di Anakin le appariva mai come
allora lo
specchio del suo proprio fallimento. Se solo lei fosse stata capace di
salvarlo, se solo lei fosse stata capace di prevenire…perché lei
avrebbe
potuto, lei avrebbe dovuto…E
incapace
di fare altro se non perdersi tra i suoi incubi, riavvolse in fretta le
due
scatole e le nascose in una cesta di abiti infantili.
Anakin tornò
quella
sera, il culmine di due dei giorni più surreali e silenziosi della vita
di
Padmé. Riapparve in cucina, con gli occhi che vagavano vacui su ogni
singolo
pezzo di mobilio. La pelle abbronzata non nascondeva il pallore, e
pareva
stanco e rattrappito su sé stesso, come un vecchio. Tutte le domande
che avrebbe
voluto domandargli evaporarono nella sua testa quando lo ebbe davanti,
e provò
un sentimento terribile che somigliava alla pietà.
‹‹Ciao,
Padmé.››
‹‹Anakin…!››
e poi,
con più calma: ‹‹Dove sei stato?›› gli chiese, cercando di mantenere il
tono
della sua voce quanto più leggero ed informale potesse, come se gli
stesse
chiedendo dove fosse andato per un paio d’ore invece che per un paio di
giorni.
Per ribadire la sua totale estraneità ad ogni sospetto, non smise di
mescolare
il brodo. ‹‹I bambini sono di sopra, con Dormé e 3PO…›› aggiunse in
fretta, per
riempire il silenzio.
‹‹Ho comprato
dei
pezzi,›› rispose lui. ‹‹Ora devo andare a farmi un bagno.››
Diede
un’occhiata
alla pentola in cui Padmé cucinava il brodo chiaro, poi afferrò una
mela dal
cesto della frutta e se ne andò. La vista di lui la riempì di angoscia,
così
come il suo andarsene via, il mantello scuro che oscillava dietro di
lui, gli
stivali rumorosi contro il pavimento. Padmé non tentò nemmeno di
seguirlo.
Si svagò
facendo il
bagno ai bambini dopo cena. Iniziò il rituale con Luke, che accettò di
buon
grado di essere svestito e meticolosamente deterso nell’acqua tiepida.
Padmé
aveva appoggiato la piccola vasca per neonati su una delle mensole del
grande
bagno padronale, giusto sotto la finestra da cui si vedevano le stelle,
così
che ogni volta che alzava lo sguardo dal suo bambino vedeva davanti a
sé le
scure montagne attorno al lago e il cielo notturno. Riusciva ad
immaginarsi di
vedere un giorno Luke sfrecciare col suo speeder in quel cielo,
allontanandosi
verso le sue avventure e ridacchiando delle preoccupate premure della
madre.
Avere dei figli non faceva che proiettare i genitori nel futuro.
E allora
iniziavano
le fantasticherie: un giorno sicuramente Luke, come ogni buon figlio,
l’avrebbe
trovata un po’ noiosa, un po’ severa e un po’ troppo apprensiva, mentre
lui non
avrebbe desiderato altro che partire per quel cielo alla velocità della
luce.
Mentre lavava il suo piccolo corpo paffuto, Padmé si meravigliò ancora
una volta
del miracolo della crescita e della maturazione; perché un giorno Luke
sarebbe
stato molto più alto di lei, con folti capelli biondi, bei lineamenti
maschili
e due occhi blu che avrebbero fatto innamorare tutte le donne. E
sarebbe stato
un uomo buono, compassionevole, gentile e amante della vita; sarebbe
stato
Luke, l’onorabile figlio di Padmé Amidala di Naboo.
‹‹A guh,››
articolò
Luke, agitando un po’ le braccine verso di lei e poi regalandole un suo
sorriso.
‹‹A
guh?››
Luke sorrise
e poi
scoppiò a ridere per la prima volta. Non lo aveva mai fatto prima, mai
davvero,
in quella maniera assolutamente autentica e divertita che esponeva al
mondo
l’unico dentino bianchissimo. Padmé posò giù la salvietta, s’asciugò il
viso
dagli schizzi e rise a sua volta. Le loro risate si fusero insieme, la
sinfonia
più meravigliosamente cacofonica dell’Universo: il riso profondo e
senza fiato
di Padmé, e i brevi ma continui ed acuti scoppi di ilarità del piccolo.
Un paio
di smorfie e una linguaccia le valsero un’altra e un’altra sessione
ancora di
risate, e gli sganasciamenti di Luke divennero belluini quando Padmé
prese a
solleticargli lo stomaco.
‹‹Trovi mamma
divertente, eh? Bene. Io non mi sono mai trovata molto divertente.››
Le loro
risate
insieme ebbero il meraviglioso effetto di cancellare dalla sua mente
qualsiasi
preoccupazione. Il mondo non sembrava – non poteva essere – troppo buio
se poi
regalava momenti di tale assoluta, perfetta felicità. Se fino a poco
prima
aveva pensato ad Anakin, ai suoi occhi vuoti, ai chip olografici, alla
fuga di
Obi-Wan, ora tutto ciò le appariva lontano e trascurabile, cancellato
dalla
suprema immanenza della risata di Luke.
Con nuova
energia
Padmé riprese il bagnetto del bambino, sollecitando in lui spontanee
eruzioni
di ubriaca ridarella ogni qual volta lo solleticava; infine lo avvolse
in un
asciugamani, baciò via le gocce d’acqua dal suo viso e massaggiò
secondo
tradizione il suo corpo con gocce d’olio di shuura.
‹‹Ti piace?
Piaceva
anche a me…››
Luke
all’improvviso
divenne agitato, alzò le braccia e le gambe in aria e scosse il capo,
serrando
la bocca e spalancando gli occhi. Quando Padmé alzò il capo e si girò
per
vedere cosa potesse star agitandolo, magari una zanzara o una corrente
d’aria,
registrò immediatamente la presenza di Anakin sulla soglia; eppure,
sorpresa,
non riuscì ad evitare di fare un salto scomposto all’indietro quando
capì chi
era.
‹‹Scusami.
Non
pensavo tu fossi qui.›› Le grosse occhiaie che aveva sotto gli occhi
bastavano
a Padmé per capire che aveva trascorso le ultime ore in discussione col
suo
padrone.
‹‹Devo ancora
fare il
bagno a Leia,›› rispose illogicamente Padmé.
Anakin annuì.
Un
movimento del piede sinistro le indicò che era sul punto di andarsene,
ma il
piede destro continuava a rimanere puntato verso di lei. Come sempre,
Anakin
compariva sugli usci, a metà tra l’andarsene e il venire da lei.
Sarebbe stato
così sempre. Anakin era l’uomo per sempre in bilico.
‹‹Potresti
portarmela? Io ho finito qui con Luke. Se tu lo portassi a letto mi
faresti un
favore.››
La sua voce
sorprese
anche Padmé; Anakin si riscosse dalla sua misteriosa contemplazione e
s’avvicinò a passi timidi a lei e il bambino. Padmé nascose il viso
dietro la
paratia dei suoi capelli, e abbassò lo sguardo sulle sue mani che
finivano di
abbottonare il pigiama di Luke, quindi fece un passo indietro e permise
ad
Anakin di prendere il bambino e portarlo via.
Rimase lì
ferma,
appoggiata alla superficie fredda del marmo mentre curiosava nel buio
fuori
dalla finestra. Una zanzara, una delle ultime per quella stagione,
s’avventò su
di lei ma terminò in fretta spappolata sul marmo, spillando una
quantità oscena
di sangue sul bianco e sul rosa della pietra. Padmé ne ripulì in fretta
il
cadavere.
Anakin tornò
poco
dopo, con Leia in braccio che si tormentava il pugno. Gliel’affidò in
fretta,
facendo sfiorare le loro braccia per il più breve, timido contatto, e
rimase lì
indeciso sul da farsi mentre Padmé la spogliava del suo vestito.
‹‹Potresti
aiutarmi a
farle il bagno,›› offrì Padmé sottovoce. ‹‹Potresti rimanere qui…››
E Anakin non
se ne
andò. Leia s’agitò tutta quando capì cosa la stava aspettando,
scuotendo le
braccia e le gambe e minacciando di piangere lamentosamente non appena
fu a
contatto con l’acqua (che pure era alla temperatura perfetta e
profumata),
rivolgendo quel suo visetto perfetto e gli occhi scuri speranzosi ad
entrambi i
genitori, come se stesse chiedendo loro una spiegazione per quella
tortura.
Spinse via il braccio di Padmé con la manina tre o quattro volte,
finché non
s’arrese al suo destino e lasciò che la madre le pulisse il viso.
‹‹Non è così
male,
no?...›› sussurrò Padmé mentre lasciava scorrere un po’ d’acqua sui
pochi
capelli della bambina. Per qualche momento non ci fu altro suono nel
bagno che
lo sporadico grido di protesta di Leia e il suono della salvietta
intrisa
d’acqua. Da fuori giungevano i rumori della notte: insetti canterini,
il tubare
di uccelli notturni, il suono della fontana nel giardino; e, sopra di
loro, i
passi di un androide domestico che faceva le pulizie. Dopo un po’,
Padmé non
riuscì più a sopportarlo. Posò giù la salvietta, sospirò e si girò per
guardare
in viso Anakin.
‹‹Anakin,
ascolta…››
Lo sguardo
cupo di
lui la fece quasi desistere dal suo intento; il cuore le palpitò in
petto.
All’improvviso voleva dirgli tutto quello che non aveva detto la
mattina prima,
snocciolare il suo accorato discorso, quello che aveva formulato e
ripassato
durante quegli ultimi due giorni e che lo avrebbe convinto senza ombra
di
dubbio della sua onestà. Cos’era Obi-Wan, tra di loro? Cosa importava
quello
che era successo? Era tutto successo in meno di un’ora, e come potevano
sessanta minuti influire sul loro rapporto in quel modo? Era disposta
di nuovo
a chiedergli scusa, qualsiasi cosa, se solo lui avesse ricominciato a
comportarsi come aveva fatto fino a due giorni prima, quando era l’uomo
più
amabile, gentile e…
‹‹Non
parliamone,
d’accordo?›› disse Anakin. ‹‹Non c’è più nulla da dire. Non ho
intenzione di
parlarne. Quello che è successo…››
‹‹Non
possiamo
lasciare quello che è successo in sospeso…››
‹‹Non c’è
nulla in
sospeso,›› replicò lui. ‹‹Abbiamo parlato fin troppo.››
‹‹Ma Anakin…››
Anakin
s’infilò le
mani nei capelli con un gesto di stizza e un’espressione di noia. ‹‹Oh
Padmé,
lasciami in pace, vuoi?››
Le parole di
Anakin
la bruciarono. Forse aveva tirato su aria tra i denti, come si fa
quando ci si
scotta, perché Anakin le lanciò un’occhiata in tralice un po’ sorpresa;
ma
nessuno dei due disse più nulla. Dopo qualche istante, Padmé dovette
mentalmente rimproverarsi, perché i suoi movimenti sul corpo della
bambina
erano diventati sbrigativi e indelicati. Riapparve all’angolo dei suoi
occhi il
bruciore familiare delle lacrime, e proprio quando sentiva di essere
sul punto
di scoppiare a piangere, proprio lì nel bagno sotto gli occhi di Anakin
e Leia
come una qualunque massaia frustrata, Leia la precedette e iniziò a
urlare
tutta la sua insofferenza.
‹‹No, Leia,
no…Perché
fai così? Dopo ti leggo un libro, ti leggo un libro se vuoi…››
La tolse
dall’acqua,
l’avvolse in un asciugamano tiepido e l’asciugò per bene, mormorando
parole di
conforto. Ma era inutile: la bambina si rifiutava di calmarsi. Il suo
visetto
era deformato dalla rabbia. Padmé si sentiva prossima al tracollo, lì
lì per
iniziare a singhiozzare assieme alla figlia e Anakin che fino a quel
momento
era parso a disagio, forse spronato da un’occhiata disperata di Padmé,
s’avvicinò ad entrambe e poggiò la sua mano vera sulla testa della
bambina.
Leia smise subito di piangere.
‹‹Questo…››
disse
Padmé, gesticolando in direzione di Anakin e Leia, ‹‹io non posso
farlo.
Grazie.››
‹‹Lascia che
finisca
io.››
Padmé,
sollevata, si
fece da parte mentre Anakin iniziava a massaggiare la bambina con
l’olio.
Stendeva ogni paffuta piega di pelle e la cospargeva con l’estratto
profumato;
teneva la testa della bambina con la sua destra guantata e la
massaggiava con
la sinistra. C’era qualcosa di profondamente, meravigliosamente intimo
in quel
momento di silenzio. C’era ancora un senso nell’universo, contenuto
nell’eterna, risoluta ammirazione negli occhi di Leia per il padre.
‹‹Anche mia
madre mi
faceva i massaggi con l’olio. Me li fece fino a quando non ebbi tre
anni.››
Anakin non alzò il viso mentre raccontava, ostinandosi ad evitarla.
‹‹Poi
divenni troppo saccente per sopportarli. Ero un piccolo prodigio
saccente. Ma
faceva bene alla pelle, evitava che si seccasse troppo con il caldo, e
la
sabbia…››
Il meticoloso
lavoro
di Anakin alla fine fu concluso. Rivestì Leia ed ebbe la delicatezza di
fare un
fiocco coi due nastri color avorio che completavano la camiciola da
notte della
bambina. Padmé, ora accanto a lui, accarezzò con un dito la guancia
della
piccola.
Nonostante
tra i loro
corpi ci fossero meno di cinque minuti, una sgradevole elettricità
intercorreva
tra di loro, tenendoli opposti e intoccabili. Erano cinque centimetri
incolmabili; ma com’erano vicine le loro mani, sul corpo di Leia! Così
vicine
che se Padmé avesse anche solo allungato un po’ il pollice in basso
avrebbe
incontrato quello di Anakin; eppure, all’improvviso, non aveva voglia
di
scoprire cosa sarebbe successo se l’avesse fatto. Anakin era
intoccabile in
quel momento. Nonostante quello, fu lui a parlare per primo.
‹‹Parto tra
un’ora
per Coruscant. Non voglio obbligarti a venire. Puoi fare quello che
vuoi.››
‹‹Perché
parti
adesso?››
‹‹Devo
discutere di
cose importanti con l’imperatore di persona.››
Padmé non
riuscì a
contenersi. ‹‹Riguarda Obi-Wan? Quello che è successo…?›› Ebbe paura;
nella sua
testa s’affastellarono immagini di una brutale punizione, una terribile
tortura, un grande dolore; s’aggrappò senza saperlo al braccio di
Anakin,
guardando in su, sentendolo più alto e inarrivabile che mai. ‹‹Anakin
no -››
‹‹Il mio
Maestro non
è felice.››
‹‹Ma non
potevi…››
‹‹…mentire?››
Anakin
sorrise cupo. ‹‹Impossibile.››
‹‹Cosa vuole
da te?››
‹‹Parlare.
Soltanto
quello.››
Il suo
sguardo si
fermò da qualche parte tra la finestra e la bambina, che ora pareva
vicina al
sonno, cullata dalla mano grande di Anakin appoggiata delicatamente sul
suo
petto.
‹‹Anakin, e
se…››
Anakin scosse
la
testa. ‹‹Non ti preoccupare. Non dirà nulla su di te. Non ti succederà
nulla.››
‹‹Io sono
preoccupata
per te, Anakin! Quell’uomo è folle, potrebbe…››
Lui parve
quasi
sorpreso dall’agitazione di lei, ma scrollò le spalle, parendo quasi
annoiato
dalle preoccupazioni di Padmé. ‹‹Non mi succederà niente.››
E lo disse
con una
tale tranquillità che Padmé avrebbe quasi potuto credergli. Tutta
quella
faccenda le dava un brutto presentimento. Sarebbe successo qualcosa.
Una catena
d’eventi era stata messa in moto il momento in cui aveva liberato
Obi-Wan delle
sue manette. Volle dire qualcosa ad Anakin, che si era rinfilato il
guanto; ma
stupefatta rimase lì ferma.
‹‹Vuoi che
venga con
te o vuoi che ti lasci in pace?››
Anakin
abbassò lo
sguardo, contemplando il marmo, l’asciugamano e la loro bambina.
‹‹Voglio che
tu venga con me.››
___________________________
1. Naboo è un
luogo
molto esotico. In generale ho applicato a Naboo un’impostazione
sumero-babilonese in tema d astronomia, russa/mediorientale in
toponomastica e
indiana/egiziana in onomastica.
2. Si
riferisce alla
data della fondazione dell’Impero Galattico.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Atto Secondo - Otto. ***
Otto
Alderaan
Qui-Gon gli
apparve davanti agli occhi mentre
meditava, nello stesso luogo in cui l’avevo visto la prima volta. La
penisola
del Re era un canto spiegato di primavera, e proprio lì, tra gli alberi
dai
tronchi coperti di muschio, l’erba folta e le campanule azzurre ecco
che
apparve il suo antico, carissimo maestro. Il tramonto dai colori
delicati era
già passato, e il cielo andava oscurandosi sopra alle fronde fitte del
bosco,
così che la luminescenza del Maestro appariva tanto più accesa,
spargendo i
suoi riflessi sulla Natura che lo circondava. Per quanto straordinaria,
la sua
presenza non stonava con lo sfondo, ma pareva anzi naturale, sensata,
familiare, come se Qui-Gon non fosse un’anima nella Forza ma
un’emanazione delle
piante, dell’acqua e del cielo.
Interrotta la
sua meditazione, Obi-Wan salutò la
figura chiara del Maestro con un groppo in gola.
‹‹Maestro,››
disse. Gli fece eco una specie di
gufo, lontano. Girandosi appena, guardando oltre il lago, Obi-Wan
ricevette uno
scorcio lucido del palazzo di Aldera, accertandosi di essere ancora
nello
stesso luogo di prima; quindi rivolse interamente la sua attenzione al
visitatore.
‹‹Obi-Wan,››
ricambiò Qui-Gon, tenendo le braccia
conserte e un sorriso mite sulle labbra. ‹‹Come stai adesso?››
‹‹Ho fallito
di nuovo,›› commentò cupo Obi-Wan.
‹‹O forse,››
disse Qui-Gon, spostandosi a passo
leggero tra gli alberi, ‹‹non era scritto che tu
avessi successo.››
Obi-Wan non
rispose; invece, rivolse il suo viso al
terreno umido sotto i suoi stivali. Dopo qualche istante di
contemplazione,
Obi-Wan parlò di nuovo, non riuscendo a mascherare il suo rammarico nel
tono
della voce. ‹‹Se sono qui è solo perché Padmé mi ha liberato. Anakin è
esattamente ciò che il nostro Prescelto dovrebbe distruggere – è un
Sith, e non
c’è nulla da -››
‹‹Continui ad
essere fuori strada. Se ti avesse
davvero voluto morto, non saresti qui.››
‹‹Ma-››
Qui-Gon alzò
il braccio, un gesto stranamente
imperioso, al quale Obi-Wan dovette obbedire immediatamente. ‹‹E Anakin
è
il Prescelto. Su questo non vi è dubbio,›› commentò, con un tono
leggero, come
se stesse disquisendo su una questione teologica. ‹‹È lui il vessillo
della
Forza.››
Rimasero in
silenzio entrambi. Qui-Gon si sedette
su un grosso ceppo. Ora che lo incontrava nuovamente, Obi-Wan ne poteva
apprezzare di più la miracolosa presenza: il fantasma era insieme
etereo e
corporeo. I suoi movimenti non avevano peso, eppure imprimeva sul
tronco un
peso reale. Per un istante, si chiese come sarebbe stato avvicinarsi a
lui, o
se fosse anche solo possibile; o come sarebbe stato avvicinare a lui
una mano e
toccarlo. Ricordava bene, a distanza di anni, il tocco leggero della
mano di
Qui-Gon sulla sua spalla; e ora ne sentiva una terribile mancanza. Ma
doveva
ancora parlare, e così fece.
‹‹Ha due
figli. Sono loro la nostra speranza,››
disse Obi-Wan. ‹‹Se noi riuscissimo a prenderli – se noi riuscissimo a
-››
Qui-Gon parlò
brusco. ‹‹Non continuare a parlare in
questo modo. Sprechi il fiato. Luke e Leia, per quanto potenti, non
possono
riportare l’equilibrio. Solo Anakin può compiere la profezia; e lo farà
quando
sarà giunto il suo momento.››
‹‹Ma Qui-Gon,
come possiamo aspettare e guardare
mentre i Sith sono al potere?››
‹‹Pazienza,
Obi-Wan. Uno dei più importanti
precetti dei Jedi. Non ti ha forse detto lo stesso anche il maestro
Yoda?››
A queste
parole, Obi-Wan rimase silenzioso.
L’espressione di Qui-Gon era però serena, gentile, come se stesse
istruendo un
bambino che ancora non riusciva a cogliere esattamente il significato
della
lezione; e allo stesso tempo era estremamente fiduciosa. Seppure avesse
il
corpo, i lineamenti e la voce del suo Maestro, il fantasma davanti ai
suoi
occhi esisteva in una dimensione nella quale l’ansia non trovava posto,
e nemmeno
la tristezza, o il dolore. Intoccabili e felici, erano i morti.
‹‹E io cosa
devo fare allora?››
‹‹Quello che
ti sei scordato di fare tutti questi
giorni,›› rispose Qui-Gon. ‹‹Ascoltare la Forza
vivente. Hai dato troppo ascolto ai tuoi desideri, a ciò che pensavi
fosse
giusto fare, a ciò che pensavi gli altri volessero da te. I tuoi sensi
sono
diventati opachi, grossolani. La mancanza di un Tempio e di un Ordine
non
devono far traballare tutto ciò che ti abbiamo insegnato. Ascolta la Forza,
ascolta ciò che ti suggerisce di fare.››
‹‹Governando
i sensi, la mente e l’intelletto,
cercando la liberazione, libero dai desideri, dalla paura e dalla
rabbia, il
saggio è per sempre libero,1›› recitò
Obi-Wan, sentendosi
vagamente rincuorato dal suono della propria voce.
Qui-Gon
sorrise. ‹‹Sai che sono sempre stato
contrario ai versetti dogmatici del Tempio.››
Non ci hanno
dato grande aiuto, pensò
Obi-Wan con un improvviso
gettito di ribellione.
‹‹Credi?››
chiese Qui-Gon. ‹‹Ho in mente decine di
ragioni, più di quante ti potrei esporre ora. Ho sempre creduto che la Forza,
e il
nostro ruolo, fossero qualcosa di molto più semplice ma non meno
meraviglioso.
Ma tutto questo esula dal vero nocciolo della nostra conversazione.
Lasceremo
le cause e i perché agli storici che verranno dopo di noi, e
rimanderemo questa
conversazione a quando saremo entrambi pronti per sostenerla. Per ora
ti chiedo
soltanto di meditare con costanza e liberarti dalla tua tremenda
agitazione.››
‹‹Lo farò,
Maestro,›› disse Obi-Wan, sentendosi profondamente
grato all’uomo davanti ai suoi occhi.
‹‹Ascolta la Forza
dentro di te, Obi-Wan. Ascolta il suo respiro. Non coincide mai con una
richiesta di vendetta, né con un tentativo di imporre dolore ad
altri,››
sussurrò, mentre iniziava a scomparire e il fogliame dietro di lui
iniziava a
trasparire nella sua stessa essenza luminosa, ‹‹e ricorda: nel
momento della
più buia disperazione verrà un salvatore, e sarà conosciuto come il
figlio dei
soli.››
Coruscant
I suoi occhi
si fissarono spontaneamente su un
dettaglio: il ricamo argentato al fondo del mantello del suo Maestro.
Era una
linea arabescata finissima che correva tutt’attorno al mantello e
pareva
disegnare immortali vedute naturali sul porpora profondo del
broccato. Ad
ogni passo dell’imperatore, il mantello ondeggiava increspandosi e la
linea
cambiava.
‹‹Concentrati,
apprendista.›› Sul volto di
Palpatine si dipinse per un istante una smorfia di disappunto. ‹‹Non
rendere
più complicato tutto questo. Abbiamo perso già abbastanza tempo, e
un’ottima
opportunità. Ad ogni modo, apprezzo che tu mi abbia raccontato la
verità. Allo
stesso modo, tu avresti potuto – scioccamente –
mentire.››
Anakin scosse
la testa. Si era chiesto per quale
motivo avesse confessato tanto facilmente ciò che era successo a Naboo.
Non era
nuovo, dopotutto, al tenere segreti al proprio Maestro; aveva nascosto
con
successo – non aveva nemmeno sentito lo stimolo di confessare – ciò che
era
successo con Milena Ong, la Jedi
che
aveva risparmiato su Generis. Eppure, quando aveva visto il volto
dell’imperatore sullo schermo del suo ufficio a Varykino, qualcosa, una
forza
potente e arcana, aveva fatto scivolare giù dalla sua lingua le parole.
E nel
parlare di Obi-Wan – il Jedi – egli aveva esternato
tutta la sua rabbia,
per poi scoprire di sentirsi meglio, come se un peso gravoso fosse
stato
sollevato dalle sue spalle. E quando aveva finito di narrare
quell’evento,
aveva sentito per qualche istante la meravigliosa tentazione di
raccontare
all’imperatore ogni altra cosa: anche Milena Ong, anche il salvataggio
dei
bambini su Generis, tutti i momenti in cui era stato vulnerabile. Aveva
provato, nel suo stato confuso, nell’agitazione profonda che lo aveva
scombussolato, un meraviglioso desiderio di essere punito, ed era stato
quasi
con animo gioioso che si era avvicinato all’ufficio dell’imperatore
quella
notte, sentendo di essere ad ogni passo più vicino all’abluzione totale
della
sua colpa. E la sua colpa non era stata esattamente lasciar sfuggire
tra le sue
mani un altro Jedi ma quel vago, eppure ammorbante senso di essere
stato
ingannato da Padmé. Quella breve ma intensa conversazione era stata la
più
vicina ad una discussione d’amore che l’imperatore avesse mai
intrattenuto.
Anakin aveva ardentemente desiderato dire al suo Maestro che aveva
avuto
ragione, e per quel vecchio aveva provato un senso di nuvolosa
gratitudine.
Egli aveva
dunque mentito a Padmé. Anche sotto il
più persuasivo degli assalti, Anakin avrebbe saputo resistere ad un
attacco
mentale, ne era sicuro. Era stato lui che consciamente aveva
desiderato, dopo
essersi nutrito per due giorni del proprio stesso veleno, impegnato in
cupe
meditazioni, esporre ciò che era accaduto.
‹‹È
difficile,›› rispose semplicemente Anakin.
La bocca
dell’imperatore divenne una linea sottile
di carne in mezzo alle rughe profonde e grottesche del suo volto.
Avevano
dunque iniziato il loro esercizio da una mezz’ora, e la loro
meditazione
iniziava ad avere effetto. Era stata proposta dall’imperatore in
maniera
assolutamente casuale, come se fosse un altro dei loro soliti esercizi
mentali,
allo scopo di rivedere con maggior chiarezza ciò che era successo
durante il
duello contro il Jedi (ora gli risultava ostico
anche solo pensarne il
nome) e esaminare più lentamente il flusso di pensieri che Anakin era
riuscito
ad intercettare. Nella Forza, avrebbero unito le loro menti: ma perché
ciò
potesse accadere, e Anakin potesse imparare qualcosa, l’imperatore
avrebbe
dovuto pervadere la sua mente con la forza del proprio potere, e Anakin
avrebbe
dovuto difendere se stesso dall’attacco. Così avrebbero raggiunto due
obiettivi
insieme: esporre la tecnica della persuasione con la Forza,
ed
esaminare più attentamente ciò che era successo con il Jedi..
L’imperatore
non aveva fatto nessun riferimento ad
una punizione, né si era dimostrato duro con Anakin; aveva solo
espresso il suo
disappunto con quella ormai familiare espressione, quelle labbra da
rospo
serrate e il mento leggermente sollevato a esporre tutte le grinze del
collo
albino.
‹‹Non sono
soddisfatto, Darth Vader.››
‹‹E’ stata
tutta colpa mia. Non avrei dovuto
lasciare che le guardie lo portassero via. Avrei dovuto essere più
lucido. Non
sono stato lucido,›› disse Anakin, scuotendo la testa con fin troppo
abbandono
mentre guadava le acque profonde e calde della meditazione, ‹‹volevo
solo…non
vederlo più. Non volevo altro che scomparisse. La sua vista mi dava la
nausea.››
L’imperatore
non smise di passeggiare
tranquillamente attorno alla stanza. L’assenza del ricamo argentato
turbò
l’animo di Anakin, il quale fu costretto ad affondare i suoi occhi
nella notte
elettrica al di fuori della finestra. Quella notte pareva stranamente densa,
come se il buio avesse una consistenza diversa da quella che aveva su
Naboo. Si
era forse disabituato a Coruscant. Forse aveva dimenticato com’era
abitare a
quattro chilometri d’altitudine – forse era come quando era arrivato
per la
prima volta a Coruscant ed era stato male per due settimane. Eppure, c’era
qualcosa. Erano scarse e intermittenti le luci vicine al Palazzo
Imperiale;
mentre in lontananza uno dei distretti urbani alla moda appariva
immensamente
luminoso come al solito. Era lì che si muovevano i giovani di
Coruscant, dove
le opportunità erano migliaia, i sogni ancora intatti, tutti,
indifferentemente
dalla specie, drogati dell’essenza metropolitana del mondo del Nucleo.
I
pensieri di Anakin si stirarono fino ad una delle grande vie urbane,
dove
poteva vedere la folla acquistare nei bei negozi, tutti ignari di ciò
che
succedeva all’interno del Palazzo Imperiale.
Per
qualche istante nessuno dei due parlò. Il
silenzio aiutò molto la concentrazione di Anakin, che riuscì a
respingere più
facilmente l’aggressione e riacquistare lucidità, ma fu presto
interrotto dalla
voce, ora stranamente affabile, del Maestro. ‹‹E così, un’altra volta,
la
senatrice Amidala si rivela inaffidabile. Mi chiedo quando accetterai
la
realtà. Oramai è assolutamente lampante.››
Seppure
Anakin avesse ogni intenzione di
protestare, la sua voce al momento di rispondere uscì confusa e
vergognosamente
impotente. Essendosi rifugiato in uno stato alterato della coscienza,
parole e
pensieri gli giungevano da estremamente lontano, come se fossero echi;
e
altrettanto lentamente le sue parole sembravano uscire dalla sua bocca.
‹‹Mia
moglie continua ad avere delle…remore. Tutto questo
è difficile per lei.
Non è abituata a -››
L’imperatore
alzò un braccio. Non aveva bisogno di
alzarlo completamente, né di esporre la mano scarna; gli bastava
semplicemente
dare l’idea del movimento. Fu come se Anakin venisse investito da
un’onda
d’urto. ‹‹Continui a cercare scuse per il suo comportamento, Darth
Vader.›› Si
fermò davanti a lui. Si trovava ora tra Anakin e la finestra e lo
guardava in
pieno viso. Nei suoi occhi gialli guizzò un lampo di astuzia.
‹‹Io…››
‹‹Ti avevo
avvertito, mio apprendista. Tua moglie è
solo un ostacolo.››
Non voleva
più continuare quella seduta. Voleva
alzarsi ed andarsene via. Ora iniziava a sentire freddo, come se nella
stanza
entrassero spifferi gelidi. Non riusciva, però, ad alzarsi; o meglio,
ne
sarebbe anche stato capace, se si fosse lungamente sforzato, ma in
profondità
sentiva di non voler davvero alzarsi. Egli voleva e non voleva
andarsene. Le
parole del Maestro lo avevano ipnotizzato; allo stesso tempo, sentiva
che esse
erano intimamente false.
‹‹Mia moglie
non è l’oggetto di questa
conversazione,›› osò ribattere. Le sue dita iniziarono a tamburellare
contro la
stoffa grezza dei suoi pantaloni. Si grattò un prurito alla caviglia
con la
punta dello stivale dell’altro piede. Distolse lo sguardo
dall’imperatore,
perdendosi nella vastità della megalopoli oltre lo schermo. Sapeva in
che
direzione guardare per scorgere il complesso del suo nuovo
appartamento. Sapeva
che in quel momento Padmé dormiva. Poteva vederla dormire. Aveva i
capelli
sparsi sul cuscino come tanti uccelli selvatici in volo, e i suoi occhi
chiusi
si muovevano sotto le palpebre sottili inseguendo le immagini dei suoi
sogni.
La fronte sbucava appena da sotto la coperta. A Coruscant era già
arrivato
l’autunno con i suoi freddi.
‹‹Concentrati.
Sento che non sei concentrato. Sento
che ti lasci dominare troppo facilmente. Non è la sottomissione quello
che
stiamo trattando oggi, ma la persuasione. Io otterrò da te la tua
sottomissione, alla fine, ma tu devi allontanarmi con quante forze
possibili
fino a quel momento.››
‹‹Non lo
faccio di proposito. Mi risulta difficile
concentrarmi.››
‹‹Smetti di
parlare. Le parole ti distraggono.
Comunica in silenzio.››
Anakin
iniziava a provare una forte stanchezza. Era
ormai come essere aggrappato al bordo di un burrone con le sole dita,
in cui il
precipizio era la voragine scura del potere del suo Maestro, e il
burrone era
la proprietà della sua mente. La voragine lo chiamava con maggiore
intensità
ogni secondo che passava, e l’oscurità del suo fondo pareva alzarsi
verso di
lui, come un’immensa marea nera che nasceva dalle profondità del nucleo
liquido
del pianeta. Lentamente, opporre resistenza era diventato da
auspicabile a
deplorevole: sempre più sentiva il desiderio di lasciarsi andare. No,
opporre
resistenza iniziava a suonare assolutamente assurdo. Perché avrebbe
dovuto
continuare a farlo, se la marea sarebbe arrivata comunque?
‹‹Tua moglie
ha complottato contro di te, con il
Jedi. Ti ha tradito. Ma hanno sottovalutato le tue capacità. Ti
credevano più
debole, più sciocco…››
‹‹Padmé non
mi tradirebbe mai. E lei…lei ha già
fatto molti progressi…lei sta iniziando a capire, sta iniziando ad
accettare…››
‹‹Sei uno
sciocco. La senatrice non cambierà mai. È
troppo ottusa per farlo.›› Poi, quasi con
gentilezza, soggiunse:
‹‹Amidala è fedele alla Repubblica, non a te, Anakin. È una politica, è
capace
di fingere, fingere sempre, mentire sempre, per anni! Tutti i politici
fingono,
tutti i politici mentono!››
La sensazione
di essere solo all’universo con il
suo Maestro andò intensificandosi. Era come un fumo nero e pesante,
che, una
volta entrato nei polmoni, costringeva il respiro in una morsa
soffocante,
eppure non letale. Era come ritrovarsi i polmoni all’improvviso pieni
di un
altro gas, un ossigeno mutato; capace di sostenere la vita, ma a lungo
ineluttabilmente fatale. Come ultima resistenza, s’immerse più
profondamente
nel fiume caldo della sua coscienza. Ora aveva chiuso gli occhi e non
vedeva più
ciò che stava facendo l’imperatore. Non vedeva più nemmeno cosa stesse
succedendo fuori dalla finestra: i palazzi, gli speeder, le luci in
lontananza,
il ricamo sul broccato – era tutto sparito. Eppure, Anakin conosceva
intimamente ogni cosa. Seppure non potesse vederlo con gli occhi,
sapeva
perfettamente dove si trovava l’imperatore (dietro di lui, leggermente
scostato
verso destra, le mani congiunte, gli occhi chiusi e la bocca schiusa),
e sapeva
allo stesso modo cosa succedeva fuori dal Palazzo Imperiale (a
cinquecento
metri da lì, due speeder si erano appena schiantati l’uno contro
l’altro, e il
guidatore che veniva dalla sinistra, un Quarren rossastro, era morto
precipitando nel vuoto). Mentre la Forza
vibrava nel suo cervello, Anakin vedeva e non vedeva.
‹‹Ora, il
silenzio. Voglio che tu mantenga la
concentrazione. Per fare ciò dovrai mantenere il silenzio.››
‹‹Maestro, io
non -››
‹‹Stai
parlando. Invece di usare l’aria per
trasportare il suono, usa la Forza
per
trasportare il pensiero.››
Era
complicato. Anakin si sentiva ormai vicino alla
trance, ed era complicato formulare i propri pensieri; comunicarli in
quella
maniera nuova, poi, pareva impossibile. In un’immensa folla, Anakin si
mise a
cercare la propria voce nella Forza. Gli pareva di essere ad una
stazione della
metropolitana, dove, tra un mare di persone, dovesse cercare un
bambino; e
sgomitava e correva per farsi strada. Eppure, alla fine, ci riuscì. Da
quel
momento in poi, la loro conversazione fu svolta nel più totale silenzio.
Fu preso alla
sprovvista quando l’imperatore
ricominciò a parlare. ‹‹Sbagli a fidarti di lei. Non devi fidarti di
nessuno.
Cos’è la fiducia, se non una debolezza? Siamo soli, Darth Vader. Non
c’è
nessuno di cui fidarsi. Ci siamo solo noi.››
La voce
dell’imperatore assunse una curiosa
qualità. Più profonda, più vibrante, superiore al prodotto reale di
quel
misero, danneggiato apparato fonatorio che era rimasto nel corpo di
quel
vecchio deturpato; era una voce del suo animo, una voce che era dentro
di lui,
la sua voce!
‹‹Non ha
ragionato. Ha fatto un errore d’istinto.
Ha perso la testa.››
‹‹Liberati
dalle false convinzioni! Guarda la
realtà per quella che è…›› e come suonava allettante in quel momento
quell’invito! Come sembrava celare la chiave per risolvere ogni dolore,
ogni
miseria! ‹‹Un piano, un piano ben studiato, in anticipo, per tempo.
Degli
alleati che hanno permesso al Jedi di arrivare al pianeta. Sapeva anche
quando
ti avrebbe trovato. Ragiona, apprendista.››
‹‹Io non mi
fido di lei,›› disse Anakin con un
basso lamento di agonia, ‹‹ma non credo mi voglia uccidere…››
Non lo vedeva
ma sapeva che l’imperatore era lì
accanto a lui. Ne sentiva la presenza come se fosse lui stesso
l’imperatore; ma
in quel momento, Anakin era anche il tavolo, il pavimento, le stelle, i
suoi
stivali, il mantello, le onde elettromagnetiche che si spargevano in
tutto
l’Universo. Niente era riconoscibile ma Anakin conosceva tutto. La sua
concentrazione era assoluta; la sua trance completa. Il pensiero era
vicino
all’annullamento, la difesa completa e disperata.
‹‹Io non mi
fido di lei,›› ripeté con più forza.
‹‹Forse inizi
a capire.››
‹‹Ma non ha
voluto uccidermi. È stato solo un
errore. Non è ancora perfetta. Le serve tempo. Mi serve tempo. Io posso
farla
cambiare.››
‹‹Lei non ti
capirà mai.››
‹‹Lei sta già
cambiando!››
L’imperatore
aveva sorriso.
‹‹Sei tu che
stai cambiando, Darth Vader. Per amore
di quella donna ti stai ingannando. Stai cercando scuse. Liberati da
questa
prigione. Evadi. La libertà che cerchi è alla portata della tua mano.››
L’imperatore gli poggiò una mano sulla spalla. Pareva un gigante.
‹‹Pensa a
come funziona l’amore. Pensa a come funziona l’amicizia. Noi stiamo con
le
persone che ci servono. Non c’è nessun’altra verità. Solo questo. Tu
non le
servi più. Ora sei troppo potente, sei troppo importante, e lei è
troppo…impotente. Tu per lei non sei altro che un problema. Un
pericolo. Una
vergogna. Ora per lei sei solo tutte queste cose.›› La marea nera che
s’alzava
dalla voragine tremolava ad ogni parola e gli lambiva i piedi. Ma ormai
Anakin
non aveva più la forza, né la volontà, di accampare scuse. Le parole
del suo
Maestro risuonavano progressivamente più veritiere e sensate: in alcuni
punti,
Anakin avrebbe quasi desiderato annuire, magari ripetere un punto
importante
del discorso – per poi scoprire di essere troppo remoto dal proprio
corpo, e di
non saper più raggiungere la propria voce. ‹‹E a cosa ti serve lei? Se
hai
bisogno di una donna, puoi averne migliaia. Puoi averle più giovani di
lei,
anche più belle di lei. Puoi avere tutto, Darth Vader. Ma non avrai
niente
finché ci sarà lei. Non avrai niente finché non avrai accettato la Forza
come
unica padrona della tua vita, del tuo essere, la tua sola passione, il
tuo
unico amore!››
‹‹Io non
riesco…io non riesco a pensare…››
‹‹Devi solo
imparare a pensare nella maniera
giusta. Ma ora basta parlare di lei. Confido che questa nostra seduta
ti dia lo
stimolo per continuare le tue riflessioni. Medita profondamente, mio
apprendista. Vedo che hai perso la tua costanza. La meditazione è il
primo
cardine per uno studio fruttuoso. Senza la meditazione, non c’è la Forza:
i
nostri sensi diventano oscurati, fumosi, imprecisi.››
‹‹Sono
diventato indisciplinato.››
‹‹Trascorri
troppo del tuo tempo in allenamento con
i tuoi robot. La vera potenza ci viene dalla mente. Mai dal nostro
corpo. Il
nostro corpo cambia…il nostro corpo peggiora…il nostro corpo decade…››
sussurrò
l’imperatore nella sua testa, ‹‹ma la nostra mente ci rimane fedele.
Non sono i
muscoli che possono governare il talento, ma il cervello. E ora
possiamo
continuare. Impara. Riconosci ogni sensazione. Riconosci il mio metodo.
Non hai
bisogno delle parole. Io ti sto mostrando esattamente come fare. Le tue
energie
fisiche si esauriscono, ma la tua mente cresce. Per imparare il massimo
controllo di sé, bisogna conoscere anche il massimo abbandono di sé.
Ora siamo
uniti, ma non devi temere. Ti puoi fidare di me. Per te non voglio che
il
meglio, Darth Vader.››
Con quelle
parole, Anakin sentì i piedi essere
bagnati dalla marea nera, e allo stesso tempo di essere completamente
immerso
nel fiume della propria coscienza. Infine, la marea continuò ad
alzarsi,
bagnandogli le caviglie, poi risalendo sulle gambe, fino a toccargli
l’ombelico; nel frattempo, imparava a respirare sott’acqua. La marea
ricominciò
a salire, e gli bagnò il petto e il collo, il mento e infine Anakin
dovette
chiudere la bocca e gli occhi. Presto fu ricoperto dal liquido scuro e
viscoso
e lasciò la presa sull’orlo del dirupo, ma, per la sua sorpresa, non
cadde
nell’abisso. La marea lo avvolse semplicemente, come un abbraccio, e
Anakin non
cadde. Nelle sue orecchie risuonava il fluire di correnti subacquee,
bollicine
che esplodevano attorno al suo viso, bollori nascosti. Ora egli era
totalmente
soggiogato.
‹‹In soli
quattro mesi ti ho insegnato più di
quanto il tuo Jedi non avesse fatto in dieci anni. E non siamo che
all’inizio.
I poteri del lato oscuro sono sconfinati. Noi impareremo insieme. Per
te non
desidero che la gloria. Ma servono anni, lunghi anni di studio, di
dedizione,
di passione. Di assoluta devozione.››
‹‹Sì.››
‹‹I Jedi
insegnano che noi non possiamo penetrare
nelle menti altrui. Che ciò è oscuro e non va fatto. Che tutto ciò che
possiamo
fare è captare le emozioni collegate a quei ricordi. Quanto poteva
essere
sconfinata l’ignoranza dei Jedi…I Jedi consideravano la Forza
semplicemente come un’essenza onnipresente, qualcosa da essere trattato
con le
pinze del loro dogmatismo. Ma noi sappiamo a cosa serve la Forza
– noi
sappiamo che la Forza
è uno
strumento. Nella Forza noi possiamo entrare nella
mente. Impara da me
Darth Vader. Impara da me. Io so leggere tutti i tuoi pensieri in
questo
momento. Io posso conoscere ogni tuo ricordo. Noi non abbiamo paura di
essere
ciò che siamo nati per essere. Noi modifichiamo la realtà, noi scaviamo
nella
realtà, noi distruggiamo la realtà e la ricomponiamo così come
desideriamo.
Neanche il più abile dei Saggi Maestri sarebbe capace di fare questo…››
‹‹Siamo
onnipotenti, Maestro…››
‹‹No. Ma se
ci fu qualcuno vicino all’onnipotenza,
egli fu il mio Maestro, Darth Plagueis. Noi apprenderemo insieme, e lo
supereremo. Molti ambiti della Forza rimangono inesplorati. Il suo
mistero è
infinito. Ma noi…noi possiamo esplorarlo. E tu puoi risolverlo. Pensa
alle tue
origini. Il tuo corpo è integro,›› - Anakin ebbe strane immagini,
orrende
immagini, ma non le vide più, ‹‹la tua mente è aperta alla Forza, e non
hai
paura…››
‹‹Io non ho
paura.››
‹‹Ora vedremo
cosa è successo quella notte.
Esamineremo i pensieri di Obi-Wan con più calma, e non tralasceremo
alcun
dettaglio. Non eri lucido quella notte, ma ora possiamo esserlo,
insieme.››
Rividero
insieme le scene di quella notte, come se
stessero scorrendo i fotogrammi di una registrazione. Anakin partecipò
al proprio
ricordo, in quanto era nella mente del proprio sé passato;
l’imperatore,
similmente, pur non avendo una forma esterna nel ricordo partecipò
dentro
Anakin, assieme ad Anakin, come due menti gemelle, perché ora erano
l’uno
dentro l’altro.
Troppo lungo
sarebbe stato raccontare dettaglio per
dettaglio ciò che videro, ma Anakin s’accorse di particolari che non
era
riuscito a considerare in precedenza, come i bagliori di assoluta
disperazione
negli occhi di Obi-Wan, gli incespicamenti del Jedi, la maniera
patetica in cui
si era rialzato la prima volta, ed era quasi ricaduto di nuovo, sul
cespuglio,
come una bestia ferita.
Un odio
profondo e brutale lo colse, mentre lo
guardava. Qualcosa di oscuro e parossistico, uno spasmo di odio
cocente. E
quando lo ebbe ai suoi piedi, vulnerabile e pronto a morire, urlò tutta
la sua
frustrazione non appena il suo Sé passato graziò la vita al Jedi.
Avrebbe
dovuto tagliarlo in due, o trapassargli il cranio, ma – in qualsiasi
modo! -
porre fine a quella vita!
‹‹Sciocco,››
sibilò una voce dentro la sua testa, e
poteva essere la sua come quella dell’imperatore.
Colpire,
colpire, colpire! Ecco cosa avrebbe dovuto
fare! Colpire quando lo aveva lì, sotto le sue mani! La frustrazione lo
tormentava, lo divorava; sentiva sé stesso e la Forza
vibrare di collera. E Padmé! Padmé – come avrebbe mai potuto
perdonarla! Tutto
quello che l’imperatore gli aveva detto era stato vero – tutto, dalla
prima
all’ultima parola, perché era evidente – evidente come Obi-Wan fosse
arrivato
giusto in quel momento, con quell’espressione preparata ad arte; e quel
saluto
a sua moglie, non era forse stato un capolavoro della recitazione?
Quelle
esitazioni di Padmé erano un chiaro segno del loro piano, in quanto
probabilmente avrebbe preferito farlo desistere dall’attacco, così che
Obi-Wan
potesse colpirlo per primo; e non c’era stato un bagliore strano nello
sguardo
di Obi-Wan all’inizio della loro conversazione? Era ovvio, ovvio!
‹‹E ora
espellimi dalla tua mente,›› gli ordinò la
voce, quando Obi-Wan non fu che un punto su una barca sul lago. ‹‹Lotta
contro
di me, combatti il mio potere! Impadronirmi di te è stato fin troppo
semplice,
apprendista, perché ti sei ripiegato in difesa! Non è con
l’annullamento della
mente che puoi difenderti da un attacco, ma con la sua sublimazione!››
‹‹Sono troppo
stanco, Maestro…››
‹‹Non
importa.››
E Anakin
dovette ricominciare a prendere proprietà
del proprio corpo all’interno della marea nera. Ne sentiva la
consistenza
soffice, che lo teneva a galla; ma ora che doveva uscirne, gli pareva
di essere
finito tra le sabbie mobili. Annaspava con estrema difficoltà nella
melma densa
della propria debolezza. Ora si sentiva soffocare. Non si sentiva più a
suo
agio; ora aveva la netta impressione che il suo Maestro si stesse
spostando
nella sua mente, andando ad esaminare altri pensieri. E se avesse
scoperto dei
suoi pensieri strani, i suoi pensieri ribelli – e se avesse anche solo
scorto
quei vaghi, tremuli assilli che non lo lasciavano dormire? Cosa sarebbe
successo se avesse visto i bambini del Tempio, o Milena Ong, o tutti
quei
piccoli atti eversivi che non era riuscito a sopprimere? Venne preso
dal
panico; poi, lentamente, riacquistò possesso di sé, spronato dal
terrore dei
tentacoli della mente del suo Maestro, fino a che non riuscì a
ricordare ciò
che gli era stato insegnato al Tempio.
Ironico usare
una tecnica Jedi, eppure non ne
conosceva altre. Consisteva nell’immaginare un punto, e osservarlo con la
Forza. Concentrandosi
sul punto, ogni pensiero
andava convogliato in quella direzione. Lentamente, il punto si sarebbe
espanso, brillando come un sole: un muro di Forza, uno scudo
impenetrabile, al
quale andava data ogni priorità su ogni altro pensiero, perché non
doveva
esistere alcun altro pensiero. Svuotata la mente, vi sarebbe solo stata
la
protezione della Forza.
‹‹Combattimi!››
Il punto nel
buio, dapprima indistinguibile, iniziò
a brillare. Si trattava di proiezioni: non vi era nulla nella Forza,
non vi era
né il buio, né il punto. Forse non vi era nemmeno lui, né l’imperatore.
Qualsiasi sensazione fisica era annullata, eppure, mille volte
incrementata
mediante il loro particolare sesto senso. Ma presto i pensieri
scomparvero, le
voci scomparvero, il punto crebbe e iniziò a splendere di forme
meravigliose e
colorate, come se fosse apparso nel buio dello spazio una grande
nebulosa, di
quelle che parevano dipinte da abili pittori. Il buio iniziò a
rischiararsi,
come se stesse risalendo dall’abisso verso il pelo dell’acqua. La
pressione
della marea venne meno, ed egli fu in grado di muoversi, o fu la marea
a
scendere di livello. Ogni suo pensiero venne assorbito dal combattere
l’invasione del proprio Maestro, e prima che se ne rendesse davvero
conto fu… libero.
Il mondo
fisico ricominciò ad apparire. La prima
sensazione fu quella della pelle degli stivali sul suo piede. Il
prurito ad una
caviglia. La marea s’abbassò, e si ritrovò saldamente in piedi al bordo
del
precipizio. Il legame s’andava sciogliendo, e l’imperatore non opponeva
resistenza. Percepiva adesso con più chiarezza ogni cosa; i suoi sensi
erano
ritornati vigili, la Forza
era
limpida. E ora poteva vedere. Aprì gli occhi.
Stava
boccheggiando. Gli ci vollero un paio di
minuti per riacquistare la bussola ed abituarsi all’improvvisa,
accecante
vividezza dei colori; e altri li trascorse cercando di recuperare il
respiro,
ed asciugarsi con palmate brusche il collo, il viso e i capelli umidi.
‹‹Eccessivo.
Si direbbe che tu non ti sia mai
allenato in questo campo,›› commentò il suo Maestro.
Anakin si
lasciò affondare contro lo schienale
della poltrona, ancora vagamente ansimando. ‹‹Non l’ho mai fatto così.
Pareva
impossibile…pareva impossibile risalire…››
‹‹Lo sarebbe
potuto essere. Su una mente meno
preparata, un attacco come quello che ho esercitato su di te avrebbe
potuto
produrre la follia. Penetrare una mente è un atto di sopraffazione, un
atto di
violenza. Non è un caso se i Jedi erano estremamente cauti con la
manipolazione
del pensiero.››
Anakin si
spostò sulla poltrona, quindi si dovette
alzare in piedi, preso da una familiare smania di muoversi. Si avvicinò
velocemente alla finestra, e da lì osservò la città in silenzio. La sua
mente
continuava a viaggiare alla velocità di migliaia di anni luce.
‹‹Ma ora
abbiamo questioni più importanti da
trattare,›› disse l’imperatore. ‹‹Un dettaglio importante nei ricordi
del
Jedi.››
‹‹Naboo,››
mormorò Anakin, assente. ‹‹Il palazzo di
Theed.››
‹‹Esattamente.››
‹‹C’era una
donna di fronte al palazzo,›› continuò
Anakin, la sua voce monotona, gli occhi persi da qualche parte nel
globo
luminoso del lontano distretto commerciale. ‹‹Apailana.
Ed era sua la
veste. Ricordo quel pavimento.››
‹‹Inizi a
capire.››
‹‹Potrebbe
essere un vecchio ricordo,›› ribatté
Anakin. ‹‹Non deve essere per forza una prova di…››
L’imperatore
si sedette, del tutto tranquillo.
‹‹Cosa ti dice il tuo istinto?››
‹‹Da un mese
a questa parte l’esosfera di Naboo è
sotto il controllo della base orbitante planetaria e dei suoi
satelliti,››
disse Anakin, inseguendo i suoi pensieri. ‹‹Solo i mezzi militari
autorizzati
possono entrare senza bisogno dell’autorizzazione. Ad ogni veicolo ad
uso
personale viene richiesta l’identificazione dei passeggeri; e i
parametri della
voce e delle impronte dei Jedi sono tutti schedati. E non ci sono
segnalazioni
di ingressi illegali nel pianeta. L’unica maniera in cui può essere
arrivato è
mediante una nave cargo, o una di trasporto passeggeri. Ma come può
aver fatto
ad evitare i controlli…?››
‹‹Oppure è
arrivato con il benestare della BOP,››
concluse l’imperatore. ‹‹Già da un mese ho ordinato ai miei
collaboratori di
esaminare tutte le trasmissioni, su ogni frequenza, lanciate da Naboo
nell’ultimo mese. Non è stato difficile decriptare un messaggio dalla
base
orbitante ad una stazione fantasma vicino Nubia. Si parla molto
chiaramente del
maestro Kenobi e del suo arrivo.›› I suoi occhi erano sgranati e
sorrideva.
‹‹Ho messo sotto controllo le comunicazioni dei governi di altri undici
pianeti
influenti. Le mie orecchie sono ovunque. Gli ordini di cattura per
migliaia di
senatori e politici sono già pronti.››
Fece una
pausa, e riprese con tono placido e
soddisfatto. ‹‹Ho intenzione di inviare i primi ordini di cattura a
partire
dalla metà di questo mese. È arrivato il momento di…agire,››
disse. ‹‹I
lavori su Bes Prime, Min-Ret e le loro lune sono quasi completi. Con un
sistema
interamente convertito in prigione avremo molto più campo d’azione,››
soggiunse, con un’inflessione distaccata e calcolatrice. ‹‹Entro un
mese,
potremo iniziare con le esecuzioni di coloro che verranno colti in
flagrante.
Ripuliremo la questione di Mantooine, ad esempio.››
‹‹E i
senatori? Bail Organa, Mon Mothma…?››
‹‹Sarebbe
controproducente agire contro di loro
adesso. Sicuramente è più conveniente aspettare e valutare i loro
piani. No, è
molto più importante iniziare a far tacere i vecchi alleati…›› disse,
quasi in
un sussurro, ‹‹gente corrotta fino al midollo, insulsi mangiatori a ufo
delle
nostre risorse…disgustosi. Impossibile fidarsi di loro. Molta feccia da
ambedue
le parti, ma col tempo non dovremo preoccuparci di nessuno. Il lavoro
ad ogni
modo è già a buon punto. Durante gli anni della guerra il Senato sono
stati
compiuti grandi progressi in questo senso.››
Anakin
ascoltò le parole del suo Maestro in
silenzio. Alla fine aveva una sola domanda da porre.
‹‹Allora
perché tutto questo? Se lo sapevate, se
sapevate già del Jedi, perché? Perché avete lasciato che venisse a casa
mia,
perché avete lasciato che mi sfidasse…perché…perché non avete già
arrestato
tutti e concluso questa storia? Io non capisco!››
L’imperatore
sorrise. ‹‹Ho atteso tutta la mia vita
adulta per il momento in cui sarei stato imperatore di questa Galassia.
Credi
che non possa aspettare altre settimane, altri mesi? Io ho appreso la
difficile
arte della pazienza, apprendista, un’arte della quale ti devi ancora
appropriare, a quanto vedo.››
‹‹Ma se – a
cosa serviva allora tutto questo? Tutto
questo esercizio? Avevate detto che lo avremmo fatto per vedere se nei
miei
ricordi ci fosse qualche indizio -››
‹‹Perché,
Darth Vader, era assolutamente necessario
per la tua crescita nelle vie dei Sith.››
‹‹È stata una
tortura…››
‹‹È stata una
lezione,›› liquidò l’imperatore, che
ora pareva irritato. ‹‹La strada per diventare un grande Sith è irta di
sofferenza. Non sei che agli inizi, Darth Vader…›› disse in un soffio.
‹‹Ma
osserva quanto importante sia stata questa lezione. E grazie a questa,
nel
futuro potremo esaminare il controllo del pensiero mediante la Forza.
Ti
farò esercitare con uno dei senatori, e quando avremo catturato Kenobi
potrai
sbizzarrirti su di lui.››
E se anche le
spiegazioni del Maestro lo avevano
lasciato insoddisfatto e bruciante di collera, al sentire quella
promessa
qualcosa dentro di lui ruggì e la lingua gli si attaccò al palato. Si
girò di
nuovo verso la città oltre il vetro.
‹‹Tra poco partirai. Andrai su Naboo con
un corpo scelto. Perquisisci l’intero palazzo, interroga la regina,
costringila
a confessare. Non lasceremo alcuna traccia militare, nulla,›› istruì
velocemente l’imperatore. ‹‹L’arresterai e la porterai qui a Coruscant.
Non
possiamo permetterci di passare dalla ragione al torto per gli occhi
dell’opinione pubblica. Non ora.››
Anakin annuì,
brusco.
L’imperatore
dietro di lui s’alzò. Non aveva
bisogno di vederlo per sapere esattamente quale fosse la sua
espressione. Darth
Sidious era soddisfatto. Improvvisamente colto da una domanda, Anakin
si girò
leggermente verso di lui.
‹‹E Padmé?
Nelle trasmissioni, c’era anche lei?››
‹‹No,››
rispose semplicemente il Maestro.
Prima che
uscisse, gli occhi di Anakin catturarono
nuovamente il filo argentato del ricamo, sul bordo del broccato. Ora
parevano
il corsivo in cui era scritta una formula arcana e minacciosa. Il
Maestro uscì
dalla stanza con lentezza, senza fretta. Nulla nel suo passo dava ad
intendere
qualsiasi emozione.
Si girò di
nuovo verso la città. Era esausto,
ancora ansioso, vagamente agitato; sentiva lo stomaco in subbuglio, e
un gran
desiderio di vomitare. Appoggiò la fronte al vetro. E con una
terribile,
gravissima leggerezza il suo occhio venne catturato da quell’edificio.
Il Tempio
ricambiò severo il suo sguardo. Com’era
solenne e triste, quel Tempio che svettava nella notte senza nemmeno
una luce!
La città si era scordata di lui. Il traffico si teneva alla larga dalla
sua
solida imponenza, come se nessuno volesse disturbarne i morti. La vista
turbò
ulteriormente la fantasia eccitata di Anakin, sollevando nella sua
psiche mille
incubi in un secondo, finché non dovette distogliere lo sguardo dalla
sua
antica casa, il suo passato e il suo tormento. Avrebbe voluto demolirlo
tutto,
pietra a pietra.
Il nuovo
appartamento era immerso in una
rinfrescante oscurità, illuminata solamente dai bagliori delle luci che
provenivano dall’esterno. Anakin vi entrò a passo stanco e un po’
furtivo, desiderando
non svegliare Padmé prima di quando sarebbe stato in grado di
affrontare la sua
vista.
Si liberò del
tabarro e, con una certa quiete
domestica, l’appese all’attaccapanni. Quindi andò in cucina e si versò
un
bicchiere di acqua aromatica, e lo andò bevendo mentre passeggiava
nella grande
sala principale, andando a sostare di fronte al grande vetro e gettando
lo
sguardo sulla notte luminosa. Ne sentiva il terribile fascino, e
l’appartamento, per quanto grande e lussuoso, sembrava stringersi
attorno a lui
al ritmo del respiro di Padmé nella Forza.
L’attico, ad
ogni modo, era ancora completamente
vuoto. L’arredamento del precedente appartamento di 500 Republica era
imballato
e riposto nella seconda sala; e già gran parte di esso era stato
venduto o
liquidato. Anche se spoglio, Anakin ne apprezzava l’austerità. Tanto
bello e
lussuoso, l’attico non sembrava aver bisogno di complementi
ornamentali.
Infine, Anakin posò il bicchiere dove poté e salì le scale verso la
camera da letto.
Padmé si
svegliò non appena mise piede in camera.
L’intera stanza odorava ancora di nuovo, e Padmé pareva un’estranea nel
suo
stesso letto, troppo grande e troppo nuovo. Si stiracchiò un po’ e si
mosse
sotto le coperte, alzando una mano ai capelli, i suoi occhi ancora
disorientati
dal sonno. Anakin si sedette sul bordo del letto e procedette a
togliersi gli
stivali. Non aveva davvero voglia di dormire nello stesso letto con lei
– e a
dire il vero non aveva nemmeno voglia di dormire – ma fu un istinto
abituale a
portarlo a compiere quel gesto abituale.
‹‹Mmm,
Anakin…››
Padmé
si mise a sedere e gattonò fino a lui.
Indossava una vestaglia bianca e leggera. Gliel’aveva vista addosso
centinaia
di volte. Era troppo leggera per il freddo che tirava già a Coruscant.
Avrebbe
voluto dirle di coprirsi, ma non lo fece. Padmé gli si avvicinò ancora
di più.
‹‹Cosa ha
fatto?››
‹‹Nulla. È
andato tutto bene. Abbiamo solo
conversato,›› disse, cercando di essere convincente. Poi si riscosse:
non gli
interessava davvero convincerla. Perché avrebbe dovuto farlo, ad ogni
modo? Non
ne vedeva più alcuna utilità. Non era più capace di guardarla come un
tempo.
Tutto quello che vedeva era un dubbio troppo grande, un dolore che non
sarebbe
mai stato lenito.
‹‹Cosa ha
intenzione di fare?››
‹‹Nulla.››
Padmé odorava
di more. Doveva essere un nuovo
sapone. Era piuttosto invitante. Ma quando parlò, la sua voce era piena
di
lacrime e lo faceva infuriare. Le sue piccole mani fredde trovarono le
spalle
di lui e poi il suo viso, obbligandolo a guardarla negli occhi. Anakin
non
oppose resistenza. Al buio gli occhi di Padmé brillavano come diamanti.
‹‹Anakin…››
mormorò lei. ‹‹Anakin…››
Iniziò ad
accarezzargli le guance mentre una
lacrima le rotolò giù dall’angolo dell’occhio, tracciando lo zigomo ed
andando
a perdersi giù, nella mascella. Anakin ne seguì il triste viaggio,
affascinato.
‹‹Ti ha fatto
qualcosa…Lo vedo cosa ti ha fatto…››
disse. ‹‹Anakin…Ani…››
Pareva capace
solamente di ripetere il suo nome
come se fosse una formula magica. Forse si aspettava che chiunque fosse
stato
lui per lei potesse ritornare se solo avesse ripetuto quel nome
abbastanza
volte. Quante aspettative c’erano dietro quelle lacrime! Quante miriadi
di
sogni infranti, di incubi ritornati…Padmé affondò una mano nei suoi
capelli e,
dopo aver abbassato lo sguardo un paio di volte, e averlo rialzato
altrettante,
si slanciò contro di lui e lo baciò. Non gli diede il tempo di
ragionare: in un
secondo le sue mani viaggiarono sulla sua tunica, e le sue labbra sul
suo collo,
e in qualche modo gli si sedette sulle gambe e pretese di spingerlo giù
sul
materasso, mettersi a cavalcioni su di lui e –
Mai Anakin aveva
provato qualcosa del genere
nei suoi confronti: una repulsione nera, un desiderio di starle quanto
più
lontano possibile. Le parole del suo Maestro entrarono di nuovo nel suo
cervello assieme a quella scura, sciropposa sostanza di cui era fatto
il suo
potere, e Anakin non ci vide più.
Afferrò con
forza le braccia di Padmé e la rovesciò
sul letto. Non gli importava se le stava facendo male – sapeva che le
sarebbero
rimasti i segni bluastri della sua rabbia. Le gambe di lei si alzarono
in
difesa dello stomaco, mentre lui le immobilizzava la coscia con il suo
ginocchio; facendo così, la ebbe saldamente sotto il suo controllo.
Avrebbe
voluto fare qualcosa di tremendo, mentre guardava negli occhi
terrorizzati di
Padmé che lo supplicavano al posto della bocca tremante.
‹‹No,
Padmé,›› disse in un soffio da pazzo.
‹‹Stammi lontano. Dannazione, stammi lontano.››
La pelle
delle sue braccia era morbida e le dita di
Anakin vi stavano scavando profonde fosse.
‹‹Per
favore…›› supplicò lei con un filo di voce.
E Anakin la
lasciò andare. Si raddrizzò e scese dal
letto. Lei, presa all’improvviso dalla timidezza, si abbassò la
vestaglia sulle
cosce e si affrettò a rannicchiarsi dall’altro lato del letto. Seduta,
piegò le
ginocchia e vi nascose il viso. Anakin si spostò lontano da lei, fuori
dalla
stanza nel buio del corridoio, premendosi il pugno sulla bocca per
evitare di
urlare. La sentì singhiozzare dall’altra parte della parete, e in quel
momento
capì che il suo posto non era più in quella casa.
_________________
1. Bhavagad
Gita, 5:28
Nota
dell’autrice.: Sì, l’ho fatto. Ho utilizzato
la celeberrima
profezia sul ‘Figlio dei Soli’. Anche se ho l’impressione che qui siamo
tutti
piuttosto ferrati in materia, basti sapere al lettore un po’ meno ossessionato
acculturato che tale profezia della Forza
è comparsa nelle prime due
incarnazioni della sceneggiatura di A New Hope (quando, insomma, Luke
era una ragazza e il mondo di Star Wars era decisamente diverso) per
poi
sparire misteriosamente. Recentemente, è comparso nel mondo del G (o
T-canon)
un Figlio dei Soli, una specie di uccelloide, tale Thi-Sen, in un
episodio de
“The Clone Wars”. Ma siccome io adoro le profezie e il materiale
tagliato di
Star Wars, ecco che la incorporo nella narrativa, uccelloidi di Orto
Plutonia a
parte.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Nove. ***
Nove_______
Coruscant era
il
luogo perfetto in cui perdersi, e se ci fosse impegnati, si poteva star
certi
di non riuscire mai a ritrovarsi. Le sue correnti sotterranee erano
forti, ed
era facile smarrirsi dietro alle luci della notte. Se non si stava
attenti,
Coruscant poteva rubarti anche l’anima, e siccome era allo stesso tempo
un’imponente signora inanellata e una vandala che segue il ritmo della
Necessità lo faceva spesso, e senza scrupoli.
Nel corso
degli anni,
Anakin Skywalker aveva imparato a conoscerla. Aveva percorso vie e
vicoli,
esplorato livelli, fatte amicizie con gli immigrati, gli esuli e gli
emarginati
di risma e provenienza varia, perché, dopotutto, nemmeno lui era mia
riuscito a
scuotersi di dosso quella
sensazione,
quella di essere un immigrato da un pianeta povero, e di appartenere a
quella
tribù di nullatenenti. Alla sua tribù si era sempre unito di notte, il
momento in cui Coruscant, come tutte le città, mostrava la sua vera
anima, che fosse elegante o criminale faceva lo stesso: di giorno
apparteneva al Tempio, ai Maestri e agli altri Jedi, e di quella tribù non si
era mai sentito del tutto parte.
Coruscant era
come
una sinfonia, e Anakin aveva ascoltato tante variazioni della sua
melodia nel
fluire ed incrociarsi dei sentieri di quelli che come lui ne
percorrevano le
vie. C'erano pochi luoghi che riuscissero a risucchiare via da lui le
preoccupazioni come le vie della megalopoli.
Dopo tanti
anni,
nulla era cambiato.
Aveva guidato
a
lungo. La rabbia che gli era nata nel petto in un istante era sbollita
pian
piano e lo aveva lasciato vuoto. Più che guidare, nel quale si sarebbe
previsto un minimo di volontà da parte del guidatore, Anakin aveva
lasciato che
la
Forza lo
guidasse lontano da casa, verso la periferia della Città Galattica, giù
per i
livelli, oltre decine di quartieri.
Alla fine il
suo
occhio era stato catturato da un cartello:
in vendita.
Il palazzo
era un
immenso blocco grigio e quadrato, uno dei tanti. Con il suo tetto
costituiva la
grande pianura di Coruscant, quella dalla quale si alzavano le cime
raffinate
di Coruscant superiore; con le sue pareti costituiva le altezze dei
canyon di
cemento nei quali si spostava il traffico. Le sue fondamenta si
perdevano tra
le colate di cemento che avevano segnato le ere urbanistiche della
metropoli. E
siccome aveva bisogno di un letto, ed era stanco di guidare senza meta,
e non
aveva voglia di affrontare lo staff di un hotel, e aveva voglia di
sentire di possedere qualcosa,
aveva svegliato il
proprietario e concluso l’affare nel giro di cinque minuti.
Il tizio si
era quasi
messo a piangere dall’emozione. Il fatto che Anakin Skywalker lo
avesse scelto
tra migliaia di inserzionisti olografici era bastato a mandarlo in una
piccola
crisi isterica. La sua pelle verdastra era diventata blu acquamarina, e
i
piccoli tentacoli sulla sua testa si erano agitati ad ogni piccolo
trillo della
sua voce pesantemente accentata. Anakin aveva dovuto trattenersi dal
soffocarlo
e farla finita con quell’ometto che insisteva nell’accampare scuse per
i lati
meno brillanti dell’appartamento.
Era venuto
centosessantamila crediti. L’appartamento che aveva appena lasciato,
quello con
il pavimento di pietra, le viste sul Parco della Vittoria, giardino
coperto e
Padmé piangente sul letto, valeva diciotto milioni. Nonostante l’odore
ambiguo
attaccato alle pareti, l’affare era stato concluso in fretta.
Era un po’ un
bene
che dalla finestra non si vedesse altro che il palazzo di fronte e il
traffico
in mezzo. In questo modo non c’era la distrazione di far vagare
l’occhio nel
campo visivo, e scorgere frammenti del Tempio, o l’alone luminoso del
Palazzo
Imperiale. Non sapeva nemmeno esattamente
dove fosse, ma sulla via aveva visto vicino Oceania,
la torre piena d’acqua in cui i membri più facoltosi delle specie
acquatiche
andavano a ritrovare gli habitat dei loro pianeti d’origine. Kit Fisto
lo aveva
invitato qualche volta. Diceva che il luogo era piacevole anche per gli
Umani.
Il ricordo
del
Nautolano lo spiazzò. Ogni tanto arrivavano, quelle piccole
considerazioni. Non
era ancora capace di sopprimerle, o forse non ne aveva voglia, perché
erano talmente insignificanti e illogiche che non meritavano nemmeno
l'attenzione. Erano stralci di
conversazioni, scene illuminate da un lampo repentino di ricordo.
Kit Fisto che
gli
parlava di Oceania, madama Nu che
lo
rimproverava per non aver trovato quello che stava cercando (un
affare sulla guerra civile di Anselm Glee), gli alberi di acacia del
Giardino
dei Profumi e Aayla Secura che si tuffava nella cascata artificiale.
Non c’era nessun calore attaccato ai quei ricordi, nessun colore.
Erano frammenti e cadaveri della sua memoria che si staccavano dalle
loro pareti, come avrebbe potuto fare un po' di stucco tradizionale,
scoprendo il grigiore del muro sottostante.
Forse
funzionava così
anche quando pensava a Padmé. Il pensiero di lei lo aveva seguito
durante la
sua fuga, e ora permeava la sua nuova tana, come se Padmé fosse lì, da
anni. Si
aspettava quasi di vederla spuntare, con i capelli in qualche intricato
sistema
di trecce e gli abiti senatoriali. E sembrava quasi che Luke e Leia
dormissero
tranquilli nella loro cameretta, anche se non c’era che uno stanzino
nel nuovo
appartamento.
Il letto era
ragionevolmente comodo, e per qualche minuto aveva provato a dormire;
ma i suoi
occhi erano rimasti violentemente aperti contro il cuscino, finché non
aveva
dovuto alzarsi e fermarsi davanti alla finestra.
Ora sapeva
che il suo
Maestro aveva sempre avuto ragione. Era assolutamente lampante che gli
ultimi
mesi non erano stati che una finta da parte di Padmé, e che lei e i
Jedi
avevano complottato insieme il suo assassinio. Probabilmente, la loro liaison continuava da molto tempo, fin
dal giorno della nascita dei gemelli, ma ancora più plausibilmente da
prima.
Forse non avevano mai interrotto i loro contatti, ed erano riusciti in
qualche
modo ad aggirare tutte le restrizioni. Dopotutto, Padmé si era
ingegnata con successo
durante la guerra civile per mantenere i contatti con lui; le abilità
acquisite
dovevano esserle tornate utili anche con il Jedi esiliato. Ora riusciva
a
credere facilmente che lei e Kenobi avessero avuto una relazione, che
fosse tutto vero quello che Palpatine gli aveva raccontato, mesi prima.
In fin dei conti, Obi-Wan aveva trascorso molto più tempo di lui a
Coruscant...e poi, e poi, Anakin si sentiva disposto a consumarsi di
rabbia, in qualche modo trovando una sublimazione del proprio dolore
nell'odio.
L’aveva
amata, e
questo era stato il suo errore, ma chi non si sarebbe innamorato di lei?
Padmé era la
donna
più bella di quella Galassia. Parlava bene, sapeva essere schiva come
sfacciata, e anche se non era più regina, della regnante ne deteneva
tutto il
fascino. E c’erano momenti in cui era capace di farlo sentire il re
dell’universo, e altri in cui lo faceva sentire il peggior criminale
che avesse
mai respirato; ma in entrambi i casi riusciva ad essere perfetta.
La sua unica
compagnia erano le parole dell’imperatore, che martellavano nella sua
testa, là dove era più vulnerabile, i
peggiori sospetti. Ed era semplice sapere dov'era più vulnerabile: gli
occhi scuri di Padmé; le parole del suo Maestro andavano ad
appannarli per sempre, e nonostante tutto, Anakin non
era ancora sicuro di
essere capace di rinunciare a quegli occhi.
Sapeva che
non
sarebbe riuscito a resistere. La sua era una battaglia persa in
partenza. Prima o poi, sarebbe sempre ritornato da lei,
nell’odio o nell’amore, sarebbe sempre ritornato da lei.
I suoi occhi
si
spostarono dal traffico fuori al suo riflesso sul vetro. C’era un uomo
dall’espressione illeggibile e gli occhi spenti, un po’ ingobbito. Si
raddrizzò.
L’alba stava arrivando, e la vita non si fermava.
Girando le
spalle
allo schermo panoramico, diede un’occhiata al suo datapad acceso posato
sul
tavolo e si mise al lavoro. C’erano tante cose da leggere, tante da
ascoltare,
e la partenza per Naboo sarebbe stata quel giorno. Se non altro, era un
passo
più vicino alla definitiva cattura di Kenobi.
Coruscant era
la
città d'oro, e gli immigrati che arrivavano dall'Orlo Esterno pensavano
tutti
di essere capaci di rubarne un po', di scrostarlo dai palazzi lussuosi
e
serbarlo per sé e per i propri figli. Ma
Coruscant era anche
la città del dolore, e non c'era oro da essere rubato. Era il luogo
dove
s'incrociavano le più grandi disperazioni della Galassia, era il luogo
dove la
solitudine diventava una malattia tanto più incurabile che da qualsiasi
altra
parte dell'universo.
Nel vetro
della
finestra panoramica, aperta sulle vaste pianure di palazzi e
grattacieli e lucette
scintillanti, Padmé Skywalker osservava con morbosa attenzione se
stessa. Sulle
sue braccia erano già apparsi lividi violetti. Era difficile
convincersi che
fossero segni d'amore; che fossero l'esternazione di un momento,
un'occasione
che non si sarebbe mai più ripetuta, perché, se ci rifletteva, era
l'ultimo di
una serie, e non c'erano più promesse a cui credere.
Mentre quelle
dita
l'avevano stretta non le era sfuggito il bagliore giallo e malato che
aveva
attraversato i suoi occhi, come un dragone che fuggisse veloce nelle
insondabili profondità del blu marino.
Quando la
porta era
stata sbattuta, Padmé aveva scrutato nel buio. Nella consapevolezza di
essere
rimasta sola, aveva cercato nell'oscurità della sua camera da letto una
luce
che la guidasse verso una conclusione logica, una conclusione
accettabile.
Erano seguite ore confuse, fatte di marce serrate su e giù per
l'appartamento,
in cui si era posta molte domande e non aveva trovato risposte.
Erano passati
mesi da quando aveva
visto il giallo, e quello zolfo rancido ora appestava tutto. Appestava
la
camera da letto, il letto, le lenzuola, le pareti, il corridoio, il
salone
elegante; appestava lei, le sue braccia, le sue mani, le sue labbra e
la sua
bocca. Non aveva avuto il coraggio di toccare i suoi bambini per paura
di
essere rifiutata, perché, lo sapeva, Luke e Leia lo avrebbero sentito.
A lei erano
serviti quattro mesi
pieni di rabbia, dolore e speranza per riavere una pallida impressione
dell'uomo di cui si era innamorata. Era stata soffocata, umiliata,
ignorata,
maltrattata e lo aveva lasciato fare, perché lo amava, perché essere
sua
schiava era la schiavitù più dolorosa e dolce e meravigliosa e lei ne
era
totalmente dipendente, e sarebbe stato per sempre così, perché Anakin
era
crudele, e anche quando era oscuro, c'era sempre uno sguardo, una
carezza, e
lei ricadeva ai suoi piedi.
All'imperatore
erano bastate
quattro ore per far evaporare la sua illusione.
La lotta era
troppo impari.
L'amava - e sempre lo avrebbe amato, di questo ne era certa, per sempre
sicura,
perché era un fatto inalienabile, incontestabile, e avrebbe superato la
prova del
tempo, dei millenni, delle ere geologiche, e sarebbe continuato
nell'aldilà e
nell'oblio - ma forse non era abbastanza.
Qualsiasi seduzione promettesse il Lato Oscuro, essa era troppo potente
perché
lei, una donna senza alcun potere, potesse contrastarla, e si odiava
per star
all’improvviso dubitando di quello di cui era stata sempre sicura: che
prima o
poi sarebbe stata capace di riportare indietro Anakin.
Se quella
considerazione svaniva,
allora svaniva la ragione per cui continuava a rimanere al suo fianco.
O forse
no.
Si portò una
mano al petto, e
strinse la collanina col pendente in legno di japor. Era un prezioso
tesoro,
un'inestimabile porta nel tempo e una pietra tombale dei sogni della
sua vita; significava
troppe cose perché potesse anche solo considerarle separatamente.
Era stata una
persona diversa
quando l'aveva ricevuta. Più giovane, più ingenua, ma era stata sicura
dei suoi
ideali, sdegnosa dei compromessi, e infaticabile. La persona di tredici
anni
prima sarebbe stata una madre migliore per Luke e Leia, e il pensiero
bastava
per torturarla.
Nell'altra
mano, teneva il chip
delle registrazioni. Era stato il dono più terribile che le avesse
lasciato Obi-Wan: al suo interno vi era la distruzione dei Jedi, quella
notte al Tempio, l'assassinio di maestri, anziani e bambini.
Entrava
nell'incavo di una mano.
Era nero, e la sua superficie era venata di minuscoli fili dorati a
beneficio
del lettore olografico. Prometteva la terribile libertà della
conoscenza, ma
Padmé non aveva abbastanza coraggio. Non ne sarebbe mai stata capace.
I suoi occhi
avevano trovato il
Palazzo Imperiale. Uno spasmo d'odio la invase al pensiero di quel
vecchio
orrendo, la rabbia contorse il suo viso nel parossismo dell’odio.
Sapeva cosa
doveva fare: qualcosa che avrebbe dovuto fare molto tempo prima.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Dieci. ***
Dieci_____
L’assorta,
meditativa
contemplazione di una Coruscant illuminata dal sole fu interrotta in
malo modo
dalla voce roca di uno dei cloni. Zelante, forse confuso
dall’attardarsi del
generale, il giovane Sixty era venuto ad avvisarlo della prossima
partenza,
calpestando con i suoi stivali di gomma le pozzanghere lasciate dalle
pulizie
mattutine e producendo uno sgradevole squittio di suole bagnate.
‹‹Siamo
pronti,
generale.››
Ed era
rimasto lì,
fermo, in attesa del minimo segno di riconoscimento del generale
Skywalker.
Fresco di
Kamino,
Sixty non poteva ancora conoscere l’animo nebuloso del generale. Gliene
avevano
parlato con toni di leggenda, giù all’accademia: le solite chiacchiere
da
camerati prima di infilarsi nel lettuccio incassato nell’immensa
parete-dormitorio, capace di contenere, uno accanto all’altro, i sonni
di
migliaia e migliaia di cloni. Anakin Skywalker, ottanta chili del
materiale di
cui erano fatte le leggende: passato misterioso, prova d’eroismo a
dieci anni,
carriera da Jedi sfolgorante (“è il più potente di tutti, Sixty,
dovresti
sentire come ne parlano, dannazione”), generale a cinque stelle durante
la
guerra, il primo conflitto a livello galattico dopo novecento anni di
pace
(“quei Separatisti, vorrei ammazzarli uno ad uno”), uomo che aveva
fisicamente
posto fine a quella guerra, per poi diventare il pupillo personale
dell’imperatore.
La sensazione
che si
provava ad avvicinarsi a lui era simile a quella che si sentiva quando
a Kamino
ti mettevano in mano per la prima volta una folgoratrice: la sensazione
di aver
incontrato il proprio destino.
Ma nonostante
il tono
di cupa professionalità che aveva infuso nella sua battuta, nonostante
lo
schiocco preciso quando aveva unito le caviglie da buon soldato,
identiche a
quelle di milioni di altri, Anakin Skywalker lo aveva completamente
ignorato.
La sua
silhouette
atletica stagliata contro lo sfondo dei vicini palazzi della Coruscant
importante, quella che s’affacciava direttamente sui palazzi del
potere, il
generale era totalmente nel suo mondo. Sixty era troppo giovane e
inesperto per
sapere che in quei momenti un Jedi – anche se tecnicamente Skywalker
era un
Jedi che aveva visto la luce abbastanza in tempo da salvare se stesso –
non
andava disturbato. E poi, tutti i veterani lo sapevano, lo avevano
captato
appena il giovane era entrato nella stanza, con quella sensibilità
sociale che
nasce dallo stare tutti insieme, per tutta la vita, in un formicaio
umano:
qualcosa era cambiato nel giovane generale. Si vedeva dal suo passo
nervoso,
dalla maniera in cui i suoi occhi si spostavano sui loro volti come se
non
fosse del tutto soddisfatto, dal
modo
in cui parlava, con periodi spezzati e pause che parevano pulsare di
una rabbia
sotterranea e per ciò tanto più pericolosa.
In quel
momento,
Anakin era preso, forse un po’ fuori luogo, dall’osservazione della
città.
Accettato di dover aumentare il suo contatto con la Forza
– che ad ogni modo non
era mai stato talmente vivido, corporeo – con la meditazione, si era
ricavato
un angolo di solitudine alla soglia dell’hangar, dove l’ombra data dal
tetto
finiva nettamente e iniziava il cemento soleggiato. Aveva provato a
chiudere
gli occhi, così da aumentare la sua concentrazione: ma lo spettacolo da
quell’hangar non era mai stato così,
e chiudere gli occhi pareva un peccato.
L’aria era
così
limpida che dall’hangar 100B del Palazzo Imperiale si vedeva
chiaramente fino a
chilometri di distanza, dove minuscoli edifici grigi e marroni andavano
a
perdersi nella bruma azzurrina dell’orizzonte. Ogni edificio pareva
essere
stato lucidato per essere esposto al pubblico; ogni guglia di
grattacielo
splendeva al sole, perfettamente lustra, nitida: gli attici grattavano
il
ventre chiaro delle nubi, alcuni si perdevano oltre esse. Anche gli
airspeeder
e i taxi e gli aerobus parevano sfrecciare nell’aria in maniera più
elegante,
come se fendessero il freddo dell’autunno con nuova nitidezza. Lo
spettacolo
era di una bellezza abbacinante.
Era come gli
era
stato insegnato: era possibile meditare in ogni luogo, e la mancanza di
stimoli
sensoriali erano preferibili, ma non indispensabili.
Ci fu un
altro,
fastidioso cigolio di suole bagnate.
‹‹Abbiamo
inserito le
coordinate generale,›› disse un altro clone, venuto ad affiancare il
primo. Il
nome di quest’ultimo era Jigster, un tipo dai capelli rossi e un
curioso tic
nervoso alla mascella. ‹‹Siamo pronti a partire -››
‹‹Ho capito,›› ringhiò sottovoce Anakin.
Forse i due
cloni
sentirono il clic metallico del pugno robotico, o forse notarono
l’irrigidimento dei muscoli delle spalle, perché recepirono il
messaggio,
smisero di parlare e fecero un passo indietro. Per qualche istante si
limitarono a fissare un po’ ottusamente la schiena di Anakin, in attesa
di
nuovi ordini.
‹‹Aspettatemi
a
bordo.››
Che cosa si
aspettassero tutti da lui, Anakin non lo sapeva più. Era stanco, e di
pessimo
umore, e aveva sperato che tutti se ne accorgessero e gli dessero lo
spazio di respirare, dannazione,
perché era questo
quello che aveva sempre odiato dello stare in guerra, il fatto che non
ci fosse
mai un solo momento per respirare un po’ d’aria da soli, senza avere
qualcuno
che ti cercasse, o qualcuno che volesse il tuo aiuto, o il tuo parere.
E sì che
forse sul
suo umore influiva la mancanza di sonno, perché quella notte era
passata
insonne e l’intera, strana sessione con l’imperatore si era ripetuta
nella sua
stessa come un olofilm messo in ripetizione automatica. C’era il suo
arrivo, il
suo ingresso nell’ufficio dalla moquette rossa, il panorama sulla città
notturna; poi quell’ “accomodati”, lo sprofondare nella poltrona e poi
nei
recessi della sua testa, e poi quelle parole che si ripetevano, e si
ripetevano
ancora… Era come se quei discorsi fossero diventati una ciste nel suo
cervello,
impossibili da far uscire senza qualche operazione: il problema era che
non
aveva nessuna idea di quale operazione gli servisse.
Non c’era più
tempo,
e fissare il vuoto non dava grandi risultati, così girò le spalle al
vasto
panorama in cui aveva cercato delle risposte e si avviò verso la rampa
d’accesso.
Il suo
proposito,
tante volte segretamente accarezzato nel corso di quei mesi e tante
volte
forzosamente ricacciato indietro, per questo o quel motivo, ora le
appariva
spaventoso.
Dopo una
notte
agitata, il sole era sorto. I suoi raggi indiscreti avevano colto una
Padmé addormentata
al tavolo della cucina, con il viso sepolto tra le braccia conserte.
Accanto
alla sua mano destra, un bicchiere appannato; accanto alla sua testa,
una
bottiglia di vino, discretamente piena.
‹‹Questo
pomeriggio
arriveranno i mobili. Se io dovessi uscire con i bambini, sai cosa devi
fare, vero, 3PO?››
Era con ogni
probabilità la ventesima volta quel mattino che ripeteva quella domanda
e
variazioni monotematiche della stessa, attendendo di cogliere in fallo
il
povero droide protocollare; dopotutto, per quanto 3PO credesse di
essere il più
affidabile dei protocollari, c'era da stare attenti con la sua memoria
e la sua
coordinazione. Forse era arrivato il momento di fare un piccolo
controllo alle
sue sinapsi – Anakin se ne sarebbe occupato, se solo
fosse stato lì.
‹‹Ma certo,
signora
Padmé,›› rispose il droide, con voce offesa. ‹‹Devo indicare ai
lavoratori dove
poggiare i mobili, come segnato da voi sulla piantina
dell’appartamento. E
nell’improbabile eventualità che non sapessi dove mettere un mobile,
chiederò
ai lavoratori di poggiare tutto nella sala famigliare. Padrona Padmé,
onestamente,
queste mansioni potrebbero essere svolte anche da un robot
come R2.››
R2 alzò la
sua cupola
e indirizzò un lungo sibilo minaccioso verso 3PO.
‹‹Oh, che
caratteraccio,›› commentò 3PO, indignato.
Padmé sorrise.
Stava
terminando di
inserire tra i suoi capelli le forcine necessarie a sorreggere
l'acconciatura.
Il risultato era egregio, e non avrebbe sfigurato (troppo) in confronto
con una
scultura della vecchia cara Eirtaé. Era il momento delle rifiniture il
momento
peggiore, quando si dovevano prendere tutte le precauzioni per evitare
che i
due giri di trecce sulla nuca crollassero rovinosamente sulla schiena
‹‹Quando
tornerà
padron Anakin?››
Una forcina
finì
direttamente, e con molta forza, contro lo scalpo.
‹‹Non sono
affari che
ti riguardano, 3PO.››
Abbassò lo
sguardo,
posò via le forcine e si rassettò il busto finemente pieghettato
dell'abito.
Era un lavoro di seta nata nei pregiati bozzoli dei bachi di Alderaan,
fissato
in vita da un largo nastro in tinta e coperto da un soprabito rigido.
Da solo,
riusciva a riportarla indietro al suo vecchio impiego e alla sua
vecchia vita,
come se stesse scorrendo nella cartella del suo datapad tutti i
documenti su
cui aveva impiegato amorevolmente le sue ore per sei anni, o stesse
guardando
all’Holonet il discorso di un qualche senatore.
Ma i discorsi
dei
senatori con i giornalisti diventavano
di giorno in giorno più prevedibili. Si levavano come cori di belati in
direzione del sorriso onnipresente di Palpatine. Ritornare a Coruscant
era
significato immergersi di nuovo nella vita politica di quella Galassia,
e
indignarsi.
L'improvviso
silenzio
nella stanza non fece che amplificare la voce impertinente del senso di
colpa.
‹‹Perdonami, 3PO. Sono stata sgarbata.››
‹‹Oh, non è
niente,
signora Padmé,›› disse il droide.
Provò un
improvviso e
travolgente moto d’affetto per il povero 3PO. La sua esistenza cromata
d’oro
pareva sempre così precaria e bisognosa di rassicurazioni che negli
anni aveva
sviluppato una forma di protezione materna nei suoi confronti. ‹‹Non lo
so
quando torna. Vorrei saperlo anche io.››
L’idea di
dedicare
l’intera mattinata all’accurata preparazione del suo aspetto, in
preparazione
alla sua missione, le era venuta come un sussurro dal passato, con il
timbro e
l’accento di sua madre.
Jobal era
stata parte
del bel mondo della Theed di quaranta anni prima. Figlia di due
personaggi
ugualmente belli e crudeli, era cresciuta in un tipo di società che non
sembrava
mescersi bene con le cupole azzurre e il sabbia rosato dei muri, eppure
ne
faceva incontestabilmente parte. Da ragazzina e giovane donna aveva
assaggiato
la vita mondana delle feste nei palazzi nobili e nelle ville di
campagna, prima
di innamorarsi di un certo giovane Naberrie, sposarlo in una cerimonia
civile
(troppo conformista e da alta società cercare un sacerdote) e fare due
figlie
con lui, delle quali una sarebbe stata regina.
E se anche
aveva dato
una sostanziale moderata alla sua dimestichezza con la mondanità
cittadina, il
suo animo era sempre rimasto quello di una ventenne spensierata che
respirava a
pieni polmoni l’euforia della capitale, sempre nell’annoiata attesa,
magari, di
fare il gran salto ed approdare a Coruscant (non era mai successo). La
sua etica
era rimasta sempre la stessa. Ed era: quando la vita vi butterà giù – e
solo la
dea Yami poteva sapere quante volte sarebbe successo – il migliore
rimedio, se
non altro temporaneo, era afferrare uno specchio, dei trucchi e un bel
vestito,
e lavorare sodo fino a raggiungere un risultato che soddisfacesse
pienamente le
vezzose preferenze dell’occhio. Quelle dei bastoncelli oculari erano
consolazioni passeggere, ma le più semplici da ottenere.
E così Padmé
aveva
fatto.
Passò un velo
di
cipria sulle guance, tracciò il contorno degli occhi: e quando infine
guardò il
proprio riflesso nello specchio, il cuore le si espanse soddisfatto nel
petto e
ringraziò di cuore lo spirito pratico della madre. E in quello specchio
la
Repubblica non era
morta, ma era viva
e vegeta e Padmé era
una delle sue senatrici, sacerdotesse laiche che in quella dimensione
erano
riuscita a salvarla dai piani di un orco.
Fu in quel
momento
che vide Anakin, seduto sul bordo del letto. Aveva la divisa da Jedi
già
infilata, casacca e stivali, e sul volto indossava un sorriso pigro ed
allusivo
da diavolo. Stavolta il suo sorriso conturbante non era un ricordo
della notte
trascorsa insieme, ma un monito: che lei, Padmé, sua moglie, per quanto
si
travestisse da Amidala, non sarebbe più stata la donna di prima,
perché,
quattro mesi prima, aveva chiuso entrambi gli occhi davanti al male.
Avrebbe
per sempre pagato le conseguenze della sua debolezza, e si rese conto
che anche
lei, come lui, aveva di fronte a sé un lungo percorso di redenzione.
Il viso nello
specchio fece una smorfia per contenere il pianto che bruciava dietro
gli
occhi.
Anakin non fu
particolarmente sorpreso quando vide che l’illuminazione sulla Base
Orbitante
Prima era stata abbassata dall’ultima volta che aveva percorso i suoi
corridoi.
Dopo solo una settimana dal suo viaggio inaugurale, il luogo pareva
essere già
stato usurato dal passeggiare dei cloni; spesso e volentieri le luci
alogene
tremolavano come se decine di falene ne oscurassero i raggi altrimenti
continui.
A nessuno
importava
davvero. Il personale di bordo era composto da soldati, ufficiali che
Anakin
nemmeno conosceva (i rinnovi al personale erano stati veloci, e spesso
si
ritrovava ad essere salutato da uomini dei quali non conosceva nemmeno
i nomi)
e un esercito di droidi che si occupavano delle pulizie, della cucina e
della
manutenzione. Ogni tanto, nei corridoi spuntavano scienziati:
ingegneri,
meccanici, tutti riconoscibili dal camice verde fango con un logo
stilizzato
sopra il cuore e il loro sguardo sempre un po’ sopraffatto in quel mare
di
uomini dai visi cupi e gli stivali di gomma.
Camminando
per le sue
vie, scendendo per i suoi ascensori, affacciandosi dai suoi oblunghi
oblò, il
mistero della sua deambulazione per l’etere appariva ancora più
minaccioso. A
volte sembrava bastasse quello per rendere felici coloro che vi
lavoravano
all’interno, quell’enorme arsenale umano e metallico pronto ad essere
sganciato
sul primo obiettivo; la consapevolezza di essere nel ventre di qualcosa
che non
era mai stato tentato prima li riempiva quasi di orgoglio, finché non
s’accorgevano che al suo interno quella luna liscia s’assomigliava ad
un
alveare, e loro non erano altro che i fuchi, intrappolati dentro le
loro
cellette grigie e bianche.
Anakin ne era
affascinato.
Il luogo gli risonava nel petto, come se quella Base fosse nata, con i
suoi
corridoi bui, le sue mille stanze segrete, il delicato sali-e-scendi
degli
ascensori, per ospitarlo. Quell’affinità si staccava dalle pareti a
circondarlo
nel loro secco abbraccio, come se quei corridoi così nuovi stessero a
salutare
il loro figlio più caro.
Il suo passo
tradiva
un certo nervosismo. Dapprima, i cloni si chiesero per quale motivo il
generale
avesse i nervi talmente scoperti.
La missione a
Naboo,
com’era stata prontamente battezzata dai soldati che erano pronti ad
appiccicare l’etichetta ‘missione’ anche al più banale compito di
sorveglianza
di un paio di sassi
nell’Orlo Esterno,
non doveva essere una questione di particolare difficoltà. Naboo non
aveva
nemmeno un esercito: figurarsi se ci sarebbe stata poi un’opposizione.
E,
dopotutto, l’impero si muoveva ancora sulla linea della pace.
Anakin aveva
parlato
loro in toni asciutti, come si conveniva ad un vero generale.
‹‹Avete
ordini
precisi,›› aveva esordito. ‹‹Fase uno. Assoluto controllo del palazzo.
Perquisizione completa e report dettagliato. Tra noi, è altamente
improbabile
che troviate qualcosa degno di nota.››
I nuovi
dettami erano
stati consegnati ad Anakin da Palpatine in persona, quando lo aveva
incontrato
nella mattinata. Il vecchio deforme gli aveva parlato alquanto
vagamente di ciò
che avrebbe dovuto fare, allo stesso tempo liquidando la faccenda e
definendola
assolutamente delicata, e aveva incaricato Anakin di svolgere in tutta
libertà
ciò che avrebbe ritenuto migliore.
‹‹E’ tempo
che tu
acquisisca esperienza di comando assoluto sotto lo stemma
dell’impero,›› aveva
detto Palpatine. ‹‹Vogliamo che il tuo apprendistato sia quanto più
completo
possibile, ovviamente. Hai pieno potere, Darth Vader.››
Poi aveva
dato
l’unico vero ordine. ‹‹Devi rimanere sulla Base Orbitante Prima fino a
quando
non potrai fare altrimenti.›› Con queste poche parole, lo aveva
pressoché
condannato a rimanere rinchiuso tra le mura lisce della Base, ma era
stato
quasi con sorpresa che si era accorto di apprezzare quel luogo più di
quanto
non pensasse.
Parlare con i
capitani era stato curioso, perché li aveva lasciati da così poco che
sembrava
che Mantooine non fosse mai finita, ma che Naboo fosse la stessa
Mantooine e
tutto fosse destinato a ripetersi una,due, dieci, cento volte.
Situazioni,
luoghi, tutto ritornava (tranne le persone: quelle rimanevano per
sempre
accantonate nel passato); tutto non era che una versione di un tema più
antico,
una melodia già sentita, e gli intervalli avevano sempre lo stesso
sapore.
Amaro.
La battaglie
della
Guerra dei Cloni (così come stava già passando alla storia) erano
finite da
meno di sei mesi, e già non erano altro che un ricordo sempre più
indistinto,
con il passare di ogni ora: erano già un’unica grande battaglia
combattuta su
un campo che era allo stesso tempo su Ryloth, su Geonosis, su
Coruscant, su
Kamino, in uno spazio senza coordinate perché lo spazio s’assomigliava
tutto,
ovunque; e i suoi soldati, e i suoi capitani, quelli di un tempo e
quelli che
lo avevano ascoltato mentre li istruiva su ciò che avrebbero dovuto
fare a
Theed, erano sempre gli stessi
anche
se non erano mai le stesse persone; le tecnologie erano tutte
dispiegate in
quell’immensa battaglia, tutti gli arzigogolati aggeggi, uno più
complicato e
inefficace dell’altro, creati dalle menti dei Separatisti. Nulla di
tutto ciò
esisteva più: non c’era più nessun esercito della Repubblica, non
c’erano più
droidi separatisti.
L’unica cosa
che
pareva essere cambiata era lui.
Le mani di
Padmé
s’aggrappavano al volante del suo velivolo come se fossero l’ultimo
appiglio
prima della caduta verso l’infinito. Per quanto fosse uscita con un
progetto
ben sviluppato in mente, quando aveva visto la cupola del Senato tutto
il
coraggio che era riuscita a racimolare era impietosamente venuto a
mancare;
così aveva iniziato a girovagare per il distretto, e in questo modo era
riuscita a perdere due ore del suo tempo.
La giornata
era
perfetta per quello che doveva fare. C’era freddo, ma un freddo
frizzante che
faceva scorrere più veloce il sangue nelle vene, e il sole era forte e
il cielo
blu e limpido. Fu l’incoraggiamento disinteressato di quel sole a farle
ritrovare il coraggio necessario per parcheggiare lo speeder in uno
degli
hangar del palazzo del Senato.
Informalmente,
il
palazzo senatoriale veniva chiamato dai cittadini più smaliziati di
Coruscant
“il Fungo”. Il termine era poco elegante, ma, come Padmé aveva avuto
modo di
scoprire molte volte nel corso della sua carriera, dava spazio a
numerose
battute sulle sparate allucinanti dei politici che ne popolavano le
aule.
Nonostante ciò, la sua vista le aveva riempito il petto di nostalgia.
La cupola
lucida, le
guardie in armatura blu, i mezzi lussuosi dei senatori, e tutto ciò che
aveva
composto lo sfondo della sua vita per sei anni ora le apparvero di
nuovo. Tutto
pareva allo stesso tempo estraneo e familiare. Riconosceva bene i
luoghi e gli
oggetti, e avrebbe potuto giurare di conoscere il nome di un paio delle
guardie
che le avevano chiesto il suo documento di identificazione, ma c’era qualcosa di intangibile, ma non per
questo meno reale, che rendeva tutto piuttosto alieno. Si ricordava
l’hangar
più piccolo, e più affollato; e c’erano state meno guardie agli
ingressi degli
ascensori, e lei, lei non era mai stata così nervosa di essere lì come
in quel
momento.
La prima
volta che
c’era andata aveva avuto sei anni. Ricordava perfettamente le
circostanze di
quel giorno e dei giorni che l’avevano preceduto: ricordava di quanto
tempo
avesse passato a scegliere il vestito perfetto per quel giorno
importante,
quanto avesse fatto i capricci quando aveva scoperto una smagliatura
nei
collant bianchi (sua madre era stata dunque costretta a cercare il paio
perfetto in tutti i negozi di Theed) e come aveva voluto che fosse
esattamente
la sua acconciatura (“Una sola treccia per favore, con questo nastro,
ma da questo lato, non dall’altro,
sennò è
brutto”). Finalmente, la partenza, e poi, per la prima volta,
l’immensità
artificiale di Coruscant.
Quel giorno
l’hangar
era stato pieno di giornalisti che chiedevano l’opinione di Palpatine
(l’influente senatore che aveva portato Naboo, fino ad allora piccolo
mondo
isolato, tra i pianeti influenti della galassia) sulla questione
scottante di
quei giorni. Facevano un gran baccano, e Padmé non capiva perché non
riuscissero a rispettare i turni come le avevano insegnato a scuola, ma
suo
padre le aveva detto, lo avrebbe sempre ricordato, ‹‹Quello
è un sant’uomo››. Si erano poi fermati, e suo padre le aveva
fatto fare la conoscenza del senatore di Rodia, Onaconda Farr; e in
quelle,
mentre perdevano un po’ di tempo davanti agli ascensori, il sant’uomo
l’aveva
notato e le aveva fatto l’occhiolino. Le era piaciuto un sacco, quel
sant’uomo.
Era difficile
credere
che da quel giorno fossero passati più di vent’anni.
Dall’ascensore
più
vicino uscirono due imponenti Chagriani dalla pelle blu e abiti
borgogna.
Intrattenevano una discussione fitta sulla questione del giorno. Quando
la
videro, uno di quelli fece un profondo inchino.
‹‹Milady,››
disse.
‹‹Consigliere
Amedda,›› replicò Padmé, ricambiando a sua volta con un piccolo inchino
rituale.
Le nocche
della mano
destra di Padmé rimasero incollate alla porta anche dopo aver finito di
bussare.
Quale follia!
Non
aveva nessun diritto di stare lì e bussare a quella porta e sperare in
un
benvenuto. Avrebbe fatto meglio ad andarsene immediatamente, prima di
esporsi
ad un’altra umiliazione; forse era ancora in tempo per correre giù per
il
corridoio, sparire dietro alla curva, prendere l’ascensore, ritornare
all’airspeeder e lasciare il Senato e tutta quella piccola avventura in
cui si
era voluta cacciare perché… perché era stanca, e triste, ed era chiaro che non aveva ragionato
chiaramente e ora ne avrebbe pagato le conseguenze.
Dapprima, le
sembrò
che non ci fosse nessuno, lì dentro. Dall’altro lato della porta non ci
furono
segnali di vita. Durante tutta l’eterna, agonizzante attesa nella testa
di
Padmé si rincorsero varie fantasie, una più catastrofica dell’altra,
nelle
quali aveva cercato – con un certo voluttuoso masochismo – una
punizione alla
temerarietà che l’aveva portata davanti a quell’ufficio.
In una,
veniva
neutralizzata con paroline sarcastiche e frecciate all’indirizzo suo e
soprattutto di suo marito: la conclusione era che le veniva detto,
chiaro e
tondo, che non c’era modo di fidarsi veramente di lei, non dopo quello
che
aveva fatto, e che qualunque valore avesse avuto ora esso era per
sempre
perduto. In un’altra –
‹‹Oh.››
Bail Organa,
il suo
vecchio amico ed alleato, si parò davanti a lei per la prima volta in
quattro
mesi. Era esattamente lo stesso di sempre, con i capelli impomatati e
l’accurata barbetta sul mento e sul labbro superiore; di più, indossava
un
completo familiare, divisa e pesante mantello di lana fino al suolo,
che gli
aveva visto addosso decine di volte. La sua espressione era una di
educata ma
illeggibile sorpresa.
‹‹Senatore
Organa,››
offrì Padmé, sperando che l’uso della vocazione formale rendesse la sua
presenza lì più tollerabile. Si
sentiva molto come una bambina che si fosse intrufolata in un luogo
dove non
sarebbe dovuta andare, come una cena da grandi in cui i piccoli non
erano
ammessi, o una cucina in cui le era stato vietato di entrare, perché la
torta
della festa era stata sfornata e la guarnizione di crema temeva le sue
ditate
da bambina.
‹‹Tutto
questo è…
inaspettato.››
L’espressione
lasciò
entrambi un po’ indifferenti, e per qualche istante non fecero altro
che
guardarsi.
Era più
difficile di
quanto si fosse immaginata. Un conto era stato immaginare quel momento,
le
parole che avrebbe dovuto dire, e le parole che si sarebbe dovuta
aspettare; un
conto era averlo di fronte, l’uomo che aveva conosciuto per sei anni e
con cui
aveva trovato un completo allineamento ideologico, così raro tra i
politici, e
speciale quando a loro si era unita Mon Mothma.
‹‹Posso
entrare?››
‹‹Si
accomodi,
senatrice Amidala.››
Si scostò e
lasciò
che Padmé scivolasse nell’ufficio, identico a come lo aveva visto
l’ultima
volta. Per qualche istante non seppe bene se potesse sedersi o fosse un
gesto
di imperdonabile arroganza, così rimase lì, ritta in piedi, finché Bail
non le
indicò senza parlare il divano. Poi il senatore si sedette sulla
poltrona di
fronte a lei, bisbigliò qualche parola al droide protocollare, e lo
guardò allontanarsi
cigolando prima di rivolgere la sua completa attenzione a Padmé.
‹‹Siete
sparita a
lungo dai radar,›› disse Bail. ‹‹Non c’era maniera di contattarvi. Un
peccato,
un peccato…››
Come le
accadeva
raramente, le mani di Padmé erano terribilmente sudate; infastidita,
cercava di
asciugarsele discretamente sul vestito, e tormentava una pellicina
sull’unghia
con pollice e indice dell’altra mano.
‹‹Non sono
più una
senatrice. Né vorrei esserlo, viste le circostanze.››
Avrebbe
voluto
dirgli: guardami, Bail – sono
Padmé, la
Padmé di sempre, non sono
una spia, una traditrice, puoi fidarti di me. Sono stata io a liberare
Obi-Wan,
non l’ho denunciato per due volte,
e
non l’avrei fatto per mille volte, e non ho denunciato te anche se so
da mesi
che hai dato ausilio ad un Jedi, o forse più di uno. Ma non aveva il
coraggio
di parlare. La lingua le si era impastata.
Il droide
ritornò con
un vassoio e due alti bicchieri da cocktail, pieni di una bevanda
violetta. Era
il vino liquoroso delle serre di Mandalore: Padmé ne riconobbe l’odore
dolce e
sciropposo nell’aria, e la lingua le si contrasse nell’anticipazione
del gusto
appena tannico che le invase il palato quando ne prese un sorso. Bail
la scrutò
al di sopra dell’orlo del suo bicchiere.
‹‹Mi sono
rifugiata
in patria,›› spiegò Padmé, abbassando il bicchiere. ‹‹Coruscant mi era
diventata insopportabile. E poi, con due bambini piccoli, avevo bisogno
di
sfuggire allo… allo scrutinio, credo.››
‹‹Stanno
bene, i
bambini?››
‹‹Molto.
Credo che
voi lo sappiate bene, senatore.››
L’aveva
detto. Si
guardarono negli occhi di nuovo, ognuno intrappolato nel silenzio
pregno di
sottintesi. Per qualche istante, Padmé sentì letteralmente solo il
lievissimo,
impercettibile pulsare della scheda di memoria del droide accanto a
Bail, il
brusio di una vita meccanica.
‹‹Bail,›› quasi implorò alla fine,
‹‹apprezzerei moltissimo se potessimo cenare insieme, e discutere
tranquillamente, una di queste sere. Stasera, magari, o domani. Ti prego, Bail.››
Lasciò che
fossero i
suoi occhi a terminare il suo discorso. Sì, era disposta a spiegare
tutto. Le
circostanze del suo matrimonio con Anakin, la sua disperazione quando
aveva
saputo del tradimento di Anakin, la sua debolezza, la sua vergogna, la
sua
paura: ogni cosa, lei l’avrebbe spiegata con dovizia di dettagli, se
fosse
significato ottenere indietro un po’ di quella stima e quella fiducia
di cui
aveva goduto ai buoni occhi di Bail, e Mon, e tutti gli altri che erano
stati
suoi alleati. Aveva bisogno che
qualcuno si fidasse di nuovo di lei.
‹‹E Skywalker?››
Padmé
arrossì. ‹‹Lui
non c’è.››
Non seppe mai
se in
quel momento si vergognò di più per l’aver visto nuovamente crollare
sulle sue
spalle tutta l’infamia della sua vita recente, o per non essere nemmeno
riuscita a pronunciare il nome di suo marito. Il vino tra le sue mani
era
diventato caldo, ma le sue mani si erano asciugate.
Bail non
parlò per
qualche istante. Sembrò considerare l’offerta, sorseggiando dal suo
bicchiere.
Infine lo posò sul tavolino.
‹‹Accetto,››
disse.
‹‹A domani, Padmé. Ci sono tante cose da discutere.››
Il sorriso di
Padmé
sarebbe stato in grado di illuminare tutta quella stanza.
‹‹Quello che
volete
fare è illegale.››
La voce
nasale di
Apailana era secca ed austera, ma non scevra di una certa piacevolezza.
Era una
voce appropriata ad un persona intelligente, e Anakin non dubitava che
la
regina, sotto gli strati del trucco tradizionale, lo fosse. Inoltre,
era una
voce che riteneva ancora un po’ del timbro da ragazzina che doveva
avere nella
vita di tutti i giorni la persona sotto alla maschera. Quanti anni
aveva,
dopotutto? Dodici, tredici forse. Era difficile indovinare le età delle
ragazzine che i naboo eleggevano loro sovrane.
La sovrana
indossava
un lungo abito di broccato blu, con grandi spalle quadrate ricamate
d’argento. Sui
suoi capelli poggiava un grosso copricapo – sicuramente ispirato a
Shiraya, dea
della luna, o perlomeno così credeva Anakin ricordando le poche e
frammentarie
lezioni di mitologia naboo che Padmé gli aveva impartito – e il viso
era di un
perfetto biancore, ornato da due punti grigi sulle guance, simbolo di
simmetria, e una cicatrice della memoria sul labbro inferiore, a
sempiterno
ricordo dei martiri della Grande Guerra.
Le loro vere
personalità annullate sotto trucco e vestiti quando in veste ufficiale,
le
regine dovevano essere tele intonse da cui potesse sorridere al suo
popolo la
dea Maya.
‹‹E’ solo un
controllo, Sua Altezza,›› rispose impassibile Anakin.
‹‹Per quale
motivo
dovrei accettarlo, generale Skywalker?››
‹‹Perché il
popolo
dell’impero lo vuole.››
Il volto di
Apailana
si contrasse in una smorfia di disapprovazione.
‹‹Non vi
smentite.››
E spense.
E per il
resto della
notte, e per molto tempo a venire, Anakin si chiese se si fosse
riferita
all’impero in generale, o proprio a lui, Anakin Skywalker, e ai
fantasmi che
ancora alitavano sul suo collo ogni volta che si guardava allo specchio.
Era facile
credere
che la
Storia
avesse un fluire circolare, quando gli eventi continuavano a ripetersi.
Mentre
guardava fuori dal grande schermo panoramico di una delle sale di
comando,
confortato dall’anonimo e indistinto rumore di venti ufficiali che si
scambiavano commenti e coordinate tecniche, Anakin pensò a come, in
tredici
anni, fossero cambiate le cose. Un tempo era stato Nute Gunray ad
essere nella
sua posizione: a guardare fuori da uno schermo e contemplare il globo
pacifico
di Naboo mentre decine di caccia volavano verso di esso con lo scopo di
invaderlo.
Certo, le
circostanze
potevano essere un po’ cambiate – potevano esserci dei dettagli che
facevano
saltare i parallelismi, come il fatto che l’impero era nel giusto, stavolta– ma la sostanza era più
o meno la stessa; e lui,
Anakin, era ora il nemico del palazzo di Naboo, perché quel palazzo
aveva
lasciato che un Jedi – quel Jedi –
vi
posasse il suo piede e ponesse a rischio la sua vita. Avrebbe dovuto
ucciderlo
quando aveva potuto. Quel pensiero, assieme a tutti gli altri che si
portava
dietro da mesi, costituiva ora il rumore di sottofondo del suo tempo
diurno e
notturno.
‹‹Pensieroso,
generale Skywalker?››
Anakin si
voltò per
esaminare i volti del neo-eletto Moff Tarkin e dell’ammiraglio Yularen,
che
indossava la sua solita espressione di vaga disapprovazione nei suoi
confronti.
Il solo modo in cui loro portavano la divisa, mentre Anakin si atteneva
alle
sue vesti tradizionali di monaco, parlava chiaro delle differenze che
intercorrevano tra i loro mondi.
‹‹Non
particolarmente. E’ disdicevole.››
Tarkin fece
spallucce. ‹‹Cose che capitano quando i governi non sanno qual è il
loro
posto.››
Anakin non
rispose.
Si sentiva infastidito dalla presenza di quei due uomini, o forse dal
fatto che
quei due uomini volessero parlargli.
Sempre di più, Anakin registrava una certa insofferenza al confronto
con uomini
che non avessero il suo potere – sempre di più il possesso della Forza,
in un
universo in cui non c’era altro che una sola persona con cui
condividerlo,
rappresentava per lui il discriminante tra chi era interessante
ascoltare e chi
no. Non riusciva a prendere sul serio qualcuno, quando sapeva di poter
strozzare
impunemente quella persona con un solo, delicatissimo gesto delle dita.
‹‹Vedrete che
finirà
tutto in un paio di giorni,›› disse l’ammiraglio Yularen. ‹‹Apailana è
una
testa calda, ma è solo una ragazzina. Che stravaganti, i naboo.›› E
scosse la
testa, per esprimere tutta la sua disapprovazione da uomo di Scipio,
che quel
genere di bambinate non le capiva.
Tarkin studiò
discretamente l’espressione di Anakin, con quei suoi occhi piccoli ma
tremendamente intelligenti.
Anakin ignorò
quel
commento, e non distolse lo sguardo dallo sfrecciare veloce dei fighter
che si
lanciavano nell’inchiostro dello spazio, verso la luminosa esosfera di
Naboo.
Padmé si
svegliò di
soprassalto, si dimenò, cieca e stordita, nel letto un paio di volte
mentre il
datapad squillava come una sirena nelle sue orecchie e la luce del
display
squarciava il buio riposante della camera da letto. Per qualche istante
lottò
contro il velo del sonno che continuava ad offuscarle il cervello,
infine
recuperò le coordinate mentali e si lanciò incespicando contro il
piccolo
elemento incriminato che giaceva urlante sul comò della biancheria.
Allarmata e
ancora
mezza addormentata Padmé pigiò il pulsante della chiamata e attese una
frazione
di secondo prima che davanti ai suoi occhi comparisse il volto
allarmato di sua
madre.
‹‹Padmé! Oh
Padmé!
Non sai ancora nulla? Come non lo sai? Il palazzo, il palazzo è stato
occupato!››
*
N/A: Quasi un mese che
non aggiorno? Sto perdendo colpi. E’ che questo è stato un capitolo
incredibilmente difficile da scrivere. Non so nemmeno perché. Ogni
volta che mi
mettevo a scrivere tutta piena di buona volontà, semplicemente le
parole non
venivano. E forse è anche colpa del ritorno alla scuola, e delle
lezioni di
violoncello :) Quindi mi scuso e spero che vi piaccia. I successivi
capitoli
dovrebbero arrivare molto più velocemente, agli dei piacendo.
Per la serie cose
random, ora ho un Livejournal in cui archiviare tutta la mia fan
fiction su
Star Wars e scrivere cose relative all’universo SW (ad esempio i miei
commenti
sugli episodi della serie The Clone Wars). Temo che il mio entusiasmo
nello
scribacchiare drabbles e storielle sulla GFFA mi faccia apparire un po’
una
spammer su questi lidi purtroppo un po’ solitari! Quindi sul LJ
dovreste
trovare altri dei miei parti mentali (il link è nella pagina
dell’autrice).
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Undici. ***
capitolo 11
Ecco
qui
il nuovo capitolo! Impegni vari mi tengono lontana dalla tastiera e
rallentano
l’uscita di questi capitoli, ma proseguo spedita (ad esempio, il
capitolo dodici è praticamente finito, anche se devo un po' limarlo). Spero che questo capitolo
piaccia anche a voi,
cari lettori!
Ne
approfitto per ringraziare tutti quelli che hanno inserito questa
storia tra le
preferite e le seguite. Mi date un gran piacere e una bella spinta a
cercare di
affrettarmi :)
Kairi_Skywalker:
grazie grazie
grazie. Sono tanto lusingata (eufemismo, a dire la verità) - fin troppo
devo dire ^^. spero tanto che i
prossimi capitoli continuino a piacerti. Le recensioni fanno sempre
piacere :)
________Undici__________
‹‹I vostri
soldati
hanno perquisito già abbastanza il nostro palazzo. Dubito che questo
sia, come
dite, il trattamento riservato a “molti governi nella Galassia”, e in
ogni caso
ciò non giustificherebbe quest’umiliazione. State terrorizzando la
popolazione,
generale Skywalker, e questo è inaccettabile!››
‹‹Il nostro
controllo
è terminato, Sua Maestà. Non abbiamo trovato nulla di ulteriormente
compromettente.››
Per quanto
ormai
fosse diventato il suo ruolo ufficiale nella gerarchia imperiale,
Anakin non
era tagliato per fare il supremo inquisitore. Di questo se n’era
accorto già ai tempi
della guerra, per via della sua goffa sbrigatività e la facile ira che
lo
coglieva quando il soggetto non collaborava all’istante (anche se era
sempre
stato orgoglioso del fatto che, prima o
poi, tutti i personaggi da lui interrogati collaboravano).
La sua impulsività e il suo scarso autocontrollo lo rendevano uno
scarso sostituto di veri e propri inquisitori, come il Moff Tarkin, il
quale, con gli occhi piccoli e intelligenti e il naso affilato,
riusciva sempre a dargli la sgradevole impressione di stare
esaminandolo. Tarkin, come l'imperatore, dopotutto, era un perfetto
esempio di uomo paziente.
L’ammiraglio
Yularen
aveva detto che Apailana era una testa calda. Dopo le
brevi
ma intense conversazioni tenute con la
regina, Anakin gli credeva. Anche se solo tredicenne, la giovane Thabet
era una dura, con i suoi
occhi grandi, scuri ma freddi come pietre, gli angoli delle labbra
stirati in
una smorfia quasi permanente, e quella voce nasale da aristocratica,
colorata
ai margini da piccole stonature da adolescente. I suoi discorsi erano
infiocchettati a dovere, e non si guardava dal lanciare frecciate
all'indirizzo di Anakin e dell'Impero; il suo tono aveva assunto, nel
corso delle quarantotto ore da quando il palazzo era stato assediato,
sfumature sempre più marcate di democratica indignazione.
Più
che guardare lei,
per quanto i dettagli del suo enorme copricapo meritassero una più
attenta
disamina, Anakin osservava il panorama oltre la grande finestra a vetri
dietro
le spalle della regina. La riconosceva: ricordava perfettamente la
visuale che
si estendeva oltre quella finestra, quando la regina Amidala si era
premurata, ancora nell'abito della vittoria, di mostrargli quanto fosse
bello lo spettacolo della natura. Ricordava il fiume
Solleu, le sue anse che andavano a perdersi tra le colline…
Ne provava
una vergognosa nostalgia. Il suo compito era stare lì, su quella base,
ad aspettare i poco
ispirati report che provenivano dalle truppe dislocate a terra, e
attendere il
momento giusto per terminare quella faccenda (non troppo presto, non
troppo tardi). La
Base gli era congeniale, ma
lo spazio era freddo, e non c’era alcun colore né dentro la Base,
né fuori di essa. Il
sole non era i raggi che riscaldavano le pareti del palazzo di Naboo, e
illuminavano un cielo azzurro: il sole era una luminosa palla di plasma
luminoso che bruciava indifferente nel cielo color
pece; non
c'erano amici, né facce conosciute, e non c'erano i gemelli, i suoi
figli, lontani migliaia di anni luce, nella torre in cui Padmé li aveva
rinchiusi.
‹‹Faccio
fatica a
comprendere cosa steste cercando in primo luogo. Non abbiamo mai
offerto
protezione a dei Jedi. Il vostro è un sopruso ingiustificato.››
‹‹Devo
ricordarvi che
l’impero agisce nella più totale legalità, Sua Maestà,›› replicò,
urbano. ‹‹Ad
ogni modo, non dovete preoccuparvi per la popolazione. Non intendiamo
arrecare
altri disturbi ai naboo. Ce ne andremo al più presto.››
Apailana
parve
sorpresa. La ragazza era un discreto pezzo di ghiaccio, come gli abiti
che
indossava, tutti grigi, blu artici. Le emozioni erano una vista rara in
quel paio di occhi.
‹‹Stento a
credere che
la questione si risolva così rapidamente.››
Anakin la
guardò
direttamente negli occhi. ‹‹Temo non si risolverà tanto rapidamente
anche per
voi.››
‹‹Cosa
intendete,
generale?››
‹‹Perdonatemi
se
rispondo a mia volta con una domanda, ma vi ricorda qualcosa il nome di
Obi-Wan Kenobi?››
Il nome gli
lasciò un
cattivo sapore sulla lingua, come se avesse avuto la sfortuna di
trovare
nell’insalata l’unica bacca di jaffa, piccola, nera ed amarissima. E
ultimamente quel sapore lo aveva ritrovato sulla lingua più di una
volta,
sempre più di frequente, come se Obi-Wan, giorno per giorno, avesse
ripreso
la sua consistenza
materiale. Non era
più un fantasma in esilio, non era più un pezzo del passato, per sempre
relegato alla sua primissima giovinezza: no, era l’ombra sulle scale
della villa
di Naboo, era il Jedi venuto a vendicare l’intero Ordine, era l’uomo
che aveva
– non riusciva a togliersi dalla mente quel dubbio, quel terribile
sospetto,
che gli ammorbava l’esistenza – sedotto
Padmé, l'uomo che l'aveva convinta a tradirlo.
Obi-Wan era presente, era lì, sempre, con lui. Ma sapeva che un
giorno lo avrebbe raggiunto.
‹‹No,
generale.››
‹‹Risposta
sbagliata.››
A
Coruscant era già l'ora del crepuscolo. Dalla rampa di partenza del
complesso residenziale si poteva quasi vedere il vento
dell’autunno, carico dell’odore del freddo; correva tra i grattacieli,
bussava alle grandi finestre panoramiche degli attici, s'infilava tra i
vari e variopinti cittadini della capitale galattica. Il traffico, dopo
la breve diminuzione del pomeriggio, accellerava verso le sue
frenetiche vette notturne.
Coordinando
un piccolo gruppetto di persone e droidi, Padmé sostava accanto al suo
skiff.
‹‹Sali su,
3PO,››
comandò dolcemente Padmé. ‹‹Sono sicura che Dormé troverà qualche degna
mansione per te.››
Il droide
parve
rassicurato e s’avviò dietro a R2, sparendo nel corpo della
nave.
Mentre i
motori si
riscaldavano, Padmé osservò per qualche istante la silhouette della
città,
coccolando tra le braccia il fagotto del piccolo Luke, che allo scadere
del suo
quarto mese era diventato bello e grasso come il neonato divino dei
dipinti
religiosi di Kishar. I suoi folti capelli biondi le solleticavano il
mento.
‹‹Ora
visiteremo
Alderaan, piccolino, un pianeta bellissimo. Ci vivono molti nostri cari
amici..››
Sorrise.
‹‹Potrai
giocare con la principessina…››
Si voltò e
imboccò la
rampa della sua astronave. Il portello si richiuse dietro di lei, e nel
giro di
un minuto la grande nave si sollevo da terra in una nuvoletta di
micropolvere e
scomparve velocemente nel cielo della sera in arrivo.
Apailana era
un po’
impallidita. Una vaga sfumatura di giallo era affiorata sulla sua pelle
per
natura olivastra, e si era mescolata al bianco impossibile del cerone.
Pure
nelle sclere dei suoi occhi si era affacciata un’ombra di malattia,
come un
improvviso ittero di angoscia.
‹‹Sicuramente
non
penserete che la nostra base orbitante possa sorvegliare ogni
centimetro
quadrato del nostro spazio aereo e interplanetario. I nostri satelliti
sorvegliano solo una sezione ristretta del nostro pianeta.›› Strinse
più forte
i bracciali della sua poltrona. ‹‹Le ricordo che nemmeno Coruscant è in
grado
di controllare tutto il suo traffico. Se così fosse, non sarebbe la
patria
d’elezione di tutti i farabutti della Galassia.››
Un altro
degli insulti infantili di quella ragazzina. La sua spregiudicatezza
era una qualità che Anakin tutto sommato ammirava, un po' come si
ammirano anche le più scellerate dimostrazioni di coraggio.
‹‹Se non di
bloccare
il vostro traffico illegale, sicuramente è capace di inviare messaggi
compromettenti a stazioni fantasma nei pressi di Nubia. Sappiamo tutto.
Le telecomunicazioni
delle agenzie amministrative di vari pianeti sono sotto controllo,
l’intelligenza imperiale sorveglia tutti i segnali che escono da questo
palazzo, Vostra Maestà, già da qualche tempo. Siete stata piuttosto
ingenua, Apailana. Vuole che le mostri il suo
ologramma?››
Ci fu un
momento di
silenzio.
Sarebbe
andata così:
nel giro di ventiquattro ore, i cloni avrebbero preso in custodia la
regina e
l’avrebbero portata sulla Base Orbitante. Si sarebbe dovuta firmare
qualche
scartoffia pseudo-burocratica, e ovviamente i naboo sarebbero stati
informati
di ciò che era successo, ovviamente enfatizzando l’angolo dell’alto
tradimento
della regina, nei confronti di Naboo, dell’Impero e del benevolente
imperatore.
A quel punto, Tarkin o chi per lui – uno magari dei tanti ufficiali che
si
ammassavano tra i corridoi della Base, ognuno con le sue mostrine
conseguite
chissà dove, perché Anakin era praticamente sicuro di non aver visto
quasi
nessuno di loro in battaglia – l’avrebbe interrogata, e ne avrebbe
estratto una
terribile confessione, e se anche non fosse riuscito ad estrargliela –
nell’improbabile caso che la tortura si dimostrasse inefficace – il
risultato
sarebbe stato lo stesso. Ritirati i soldati, tolti i blocchi e
ricollegato il
pianeta e il sistema alla rete dell’Holonet, l’impero avrebbe
annunciato con
toni di mesta compunzione che una traditrice altolocata dell’impero era
stata
individuata: la benemerita Apailana, regina di Naboo, popolo natio
dello stesso
imperatore. Vi sarebbe stata la necessaria ed auspicabile deflagrazione
mediatica – un’altra a tutte quelle che l’impero stava sapientemente
orchestrando dal momento della sua nascita – e finalmente le casalinghe
borghesi, dovunque esse fossero, avrebbero potuto utilizzare bocche – o
equivalenti apparati fonatori – per commentare a piacere quel
disdicevole
episodio.
Tutta la
scena, dal
momento in cui sarebbe stata arrestata (lei, espressione stoica,
copricapo
luttuoso) al momento in cui il prodotto finale mediatico sarebbe
arrivato nei
salotti dei cittadini (l’eccitazione quasi lubrica che dopo cinque mesi
ancora
pervadeva tutto quanto), si srotolò davanti agli occhi visionari di
Anakin,
mentre tamburellava con le mani sulla superficie metallica della sua
scrivania
e aspettava che la pallida, emaciata reginetta rispondesse all’accusa.
‹‹Non ho mai
conosciuto, né aiutato, il Maestro Jedi Obi-Wan Kenobi. Non so cosa ne
sia
stato di lui dopo il massacro dei Jedi -››
Il movimento
brusco del collo quasi gli provocò uno strappo. Fu gelido. ‹‹La
giusta punizione
per il loro tradimento.››
‹‹Il loro
indiscriminato massacro,››
disse lei. ‹‹Non posso aiutarvi, temo.››
‹‹L’interrogatorio
che vi aspetta vi farà cambiare idea…››
‹‹Non temo i
criminali, generale Skywalker: le vostre minacce non hanno alcuna presa
su di
me. Mi chiedo come faccia la nostra Amidala ad essersi associata a voi.››
La menzione
del nome,
e poi partì qualcosa nel suo cervello, come lo scricchiolio sinistro di
una
trappola che scatta. Amidala,
Obi-Wan Kenobi,
Apailana,
tutti personaggi che si
facevano beffe di lui, che osavano farlo, pensando di godere di qualche
impunità. Lo stomaco gli si contorse in una stretta scomoda.
‹‹Lasci Amidala fuori da tutto questo,
Apailana,›› ringhiò. Le sue mani si chiusero in due pugni sul tavolo.
‹‹Mi dica
dov’è Obi-Wan Kenobi adesso. Se lei collaborasse, c’è la possibilità
che
l’impero si riveli pietoso -››
‹‹Mi rifiuto
di -››
‹‹Voi non potete
rifiutarvi, voi non potete ingannarmi! Voi sapete dov’è Obi-Wan Kenobi
– voi
sapete chi lo sta proteggendo!››
Apailana
rimase zitta
e immobile come una statua.
Poi, dopo
qualche
istante, parlò. ‹‹Il vostro è un problema personale con Kenobi. Non mi
riguarda, generale. Salutate la signora Naberrie da parte mia.››
Ci poteva
scommettere che era un problema personale.
La Base diventò un
luogo buio, tremendo,
sferzato dal vento. Gli bruciarono le guance, gli bruciò la lingua, e
non
riuscì più a distinguere la destra dalla sinistra, il sopra dal sotto.
I guanti
foderarono le nocche tese all’estremo, la mano metallica che
scricchiolava
appena –
Dall’altro
lato dello
schermo, la regina boccheggiò. Il rumore acquoso della voce e della
saliva che
ribollivano in gola gli arrivò nel momento in cui la vide portarsi le
dita al
collo e graffiarselo, come se stesse cercando di strappare via una mano
invisibile. Chinò la testa all’indietro, così che il copricapo sbatté
contro
l’alto schienale della poltrona e si rovesciò con un tonfo sul marmo
rosa.
Accorsero delle guardie afferrandosi i cappelli perché non cascassero;
qualcuno
urlò qualcosa, ci fu chi andò a chiamare un medico. Gli occhi di
Apailana
furono così sorpresi, così vivaci (così diversi da com’erano di solito)
che
Anakin rimase quasi imbambolato davanti a quel bizzarro, e
terribilmente
familiare spettacolo, prima che la sorpresa lo colpisse e spalancasse
le mani
che non sapeva nemmeno di aver stretto in un pugno.
Nell’ufficio,
la
regina ricominciò a respirare.
Le guardie la
tennero
stretta, come se fosse una bambola. Parlavano a voce alta, sussurravano
parole
d’incoraggiamento.
‹‹Sua Maestà,
cosa -››
‹‹Si è
sentita male,
si è sentita male!››
‹‹Dov’è il
medico?››
Solo una
delle
guardie, un ragazzo discretamente brufoloso, ebbe in quei momenti
concitati la
perspicacia di guardare nello schermo. Le sue pupille s’assottigliarono
in fessure e parve capire più di quanto potesse ragionevolmente
immaginare. Più tardi, Anakin si chiese cosa esattamente avesse pensato
in quel momento, e soprattutto quale fosse stato lo spettacolo
dall'altro lato dello schermo.
‹‹Questa
comunicazione è finita, generale,›› disse rabbioso, premette un
pulsante e lo
schermo si spense. L’ufficio scomparve, la regina con esso, e le
finestre, il
Solleu, il sole del mattino, il fantasma di Amidala e pure Obi-Wan.
Anakin era
stupito.
Aprì i palmi
delle
mani davanti a sé, cercando di scovare nelle loro linee e nei loro cavi
la
spiegazione di quello che era successo.
Influenzare a
distanza, a centinaia di chilometri di distanza, oltre le barriere
dello
spazio, dell’atmosfera. Il potere di usare la Forza
contro qualcuno tanto lontano da essere
visibile solo mediante uno schermo. Non aveva mai nemmeno provato ad
agire in
quel modo, convinto dell’impossibilità di quell’azione; quel tipo di
poteri erano sempre stati raggruppati da - Kenobi -
sotto la poco esauriente etichetta di conoscenze inutili e pericolose
per un Jedi. Le sue domande di bambino un tempo
erano state fermate da quelle spiegazioni. Ma allora com’era possibile
che fosse riuscito a realizzare tutto ciò senza avere mai nemmeno provato a farlo?
Forse non era
poi
tanto bizzarro. Dopotutto, crescere nella Forza era un atto che non
accadeva per pratica, ma per mera comprensione.
L’abilità
nell’uso
della spada laser s’accresceva con la pratica – innumerevoli ore
trascorse
bendati ad indirizzare fendenti ad una piccola sfera dispettosa, lunghi
duelli
e giorni di allenamento in condizioni sempre più difficili, pesi e
pioggia e percorsi scoscesi. I metodi per
aumentare la precisione nel combattimento erano innumerevoli; i saggi
che descrivevano le forme di
combattimento erano vari, lunghi, e intessuti di commenti maturati
nella millenaria storia dei Jedi.
Ma il potere –
quell’elusiva sostanza di cui tutti erano affamati, Jedi, Sith, ed
esseri
comuni – arrivava in un altro modo, un modo su cui non era possibile
costruire
una teoria. I progressi arrivavano con la consapevolezza.
Coordinazione e forza muscolare erano semplici da ottenere con i dovuti
esercizi, e infaticabile ripetizione; ma la consapevolezza del proprio
potenziale arrivava a un prezzo ben maggiore: il prezzo di tante
lezioni, tanti
rimproveri; tanti successi e tanti fallimenti.
Come tante
cose nella
vita, i risultati venivano solo quando non si cercavano.
I risvolti di
quella nuova scoperta erano elettrizzanti.
Era tanto
potente da
soffocare – uccidere? – qualcuno tanto lontano da lui?
Massaggiandosi
le mani, quella di ossa, muscoli e tendini, e quella di cavi
e giunture di titanio, Anakin ascoltò la propria eccitazione ondeggiare
nella Forza attorno a lui.
‹‹Padrona,
stiamo
arrivando,›› la informò 3PO, manovrando la cloche di comando. ‹‹Uscita
dall’iperguida in cinque… quattro… tre… due… uno -››
Le luci
fluorescenti
dell’iperguida vennero risucchiate dallo spazio, e davanti allo schermo
della
cabina di pilotaggio apparve il globo verde e blu di Alderaan. I
bianchi e i crema dei finimenti e dei sedili parvero essere illuminati
dal bagliore azzurrino emanato dal pianeta.
Padmé
premette il
pulsante d’accensione dell’unità olografica. Una miniatura del senatore
Organa apparve, mani giunte dietro la schiena.
‹‹Siamo
arrivati,
Bail.››
‹‹Bene,
Padmé. Ti
stiamo aspettando.››
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=550728
|