Il Dischiudersi di un Fiore di Piccolo Fiore del Deserto (/viewuser.php?uid=90924)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 6: *** Quinto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Citazione scelta: 3. Il dolore penetra
nell'intestino.
Personaggi e Pairig:
Sono tutti di mia invenzione. Il personaggio di Azumamaro era il pg di
un gdr del mio ragazzo che mi ha dato il permesso di prendere. Minako e
Michiko sono solo mie.
Note ed eventuali
dell'autore: I personaggi come già detto sono
tutti di mia invenzione, così come la storia.
L’unica cosa da aggiungere è che la frase: La
freccia venne rilasciata come il dischiudersi di un fiore, è
ispirata a un sito di Kyudo, ossia l’arte del tiro con
l’arco giapponese: http://www.tuttocina.it/fdo/kyudo.htm
Il
Dischiudersi di un Fiore
Prologo
« Vedi Minako-chan,
per eseguire un buon tiro non devi fermarti a guardare il semplice
bersaglio, ma mirare oltre. Non lasciarti bloccare dalle cose terrene,
o dai troppi pensieri, devi riuscire ad andare oltre a tutto questo.
Solo entrando in perfetta sintonia con il tuo spirito, lo sentirai
volare con la freccia. »
Queste erano le parole di mio padre, quando da bambina cercava di
insegnarmi la sacra arte del tiro con l’arco. Per noi
orientali non si trattava unicamente di un semplice gioco, ma era
qualcosa che ci legava al “divino” e, solo entrando
in perfetta armonia con il nostro spirito, si poteva realizzare un tiro
perfetto.
Allora ero solo una bambina di dieci anni e non riuscivo a comprendere
in modo chiaro che cosa volesse dire con quelle parole.
Avevo iniziato sin dalla prima infanzia a essere allenata da mio padre,
Michio-Sama, un uomo di grande saggezza, capace di usare
l’arco alla perfezione, conoscendone ogni segreto.
Il suo desiderio era di trasmettere il suo sapere al figlio maschio, ma
i Kami, i nostri Dei, non furono d’accordo.
Mia madre, Matsu-san, riuscì a dare alla luce soltanto tre
figlie femmine, con grande rammarico di mio padre. Non ci odiava, ma
era ben visibile sul suo volto lo sconforto per non avere nessuno cui
insegnare tutto ciò che sapeva.
Mia madre era afflitta quanto lui, lo amava così tanto e si
struggeva nel non essere stata capace di partorire un erede maschio,
ma, alla mia nascita, era già troppo in là con
gli anni per provarci ancora.
E così, mentre le mie due sorelle maggiori, Asami e Ryoko,
furono prese in un Okiya per diventare delle splendide Geishe, io fui
designata come l’erede cui consegnare quell’immenso
sapere che mio padre non voleva far disperdere nel vento come sabbia.
______________________________________
Angolo "Autrice"
Questa long fic
partecipa al Contest
"Le Sette Barriere Psichiche", di May8Rose. I risultati
non sono ancora stati espressi, ma avendo avuto il permesso, inizio a
postarla, ogni qual volta che posso.
Mi sta particolarmente
a cuore, perchè amo i personaggi che ritraggo, e spero che
possa piacervi :)
A presto.
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Capitolo 2 *** Primo Capitolo ***
Primo
Capitolo
In un primo tempo non riuscivo a comprendere il motivo esatto per cui
io dovessi essere allevata in maniera diversa dalle mie sorelle, ma man
a mano che crescevo, mi sentii pervadere da una sensazione di grande
orgoglio per essere stata scelta a tal fine.
Le lezioni erano dure, ma mi permettevano di rafforzare il mio
carattere.
Mio padre poteva sembrare severo con me, ma ogni volta che lo guardavo
in quegli immensi occhi color pece, notavo la sua gioia, il suo
orgoglio e l’affetto che provava per me, la sua figlia
prediletta.
Gli anni passarono in fretta e,
anch’io maturai, divenendo una bella ragazza di venticinque
anni, appena più alta delle mie coetanee. I miei capelli
scuri si erano allungati come i rami dei salici, ma io ero solita
tenerli legati alla maniera maschile.
Potevo apparire graziosa e avvenente, se non fossi vestita sovente come
un uomo e avessi avuto la grazia delle Geishe, che proprio non mi
apparteneva. Questo non voleva dire che fossi una persona grezza, ma al
semplice guardarmi, si poteva ben comprendere che non ero una ragazza
come tutte le altre. In fondo, ero stata allevata quasi come un uomo.
La cosa più sorprendente, che aveva stupito tutti sin dalla
nascita, erano i miei occhi: erano scuri come la notte, ma screziati
del colore delle viole. Di certo, non passavo inosservata.
In molti mi avevano fatto proposte di matrimonio, ma l’unico
uomo che riuscivo ad amare veramente era mio padre. E, inoltre, avevamo
un sogno. Un sogno che io dovevo realizzare, per farlo essere ancora
più orgoglioso di me.
Incurante delle risatine di scherno che
le mie sorelle, ormai divenute Geishe di rinomata importanza, mi
rivolgevano, avanzavo a testa alta, sicura di me e orgogliosa del mio
essere.
Ero diventata quello che sognava da sempre mio padre: una perfetta
arciera, che ora si apprestava a recarsi nella città
imperiale per accedere tra le fila dell’esercito, guidato
dall’onorevole Shogun, Azumamaro Mushanokoji Watanabe, un
uomo altero e freddo, capace di uccidere chi solo dimostrasse di andare
contro i suoi ordini, o quelli dell’imperatore, o osasse
profanare con male parole il nome degli Antenati, ai quali era
profondamente devoto. Oltre a ciò, aveva un notevole
carisma, impossibile da non notare. O almeno queste erano le voci che
giungevano di lui al mio villaggio.
« Non credere a tutte le voci
che senti sul conto dello Shogun, Minako-san. È un uomo che
rispetta le sacre leggi e gli antenati. Un uomo giusto, che a volte
è costretto a essere un po’ duro, ma se non
dimostrasse di avere carattere, carisma e autorità, sarebbe
difficile poter mantenere così a lungo quel ruolo di
notevole importanza, da essere al pari con l’Imperatore
stesso.
Lui lo sa bene ed è per tal guisa che a volte può
usare metodi un po’ duri e apparentemente incomprensibili.
Servono a rafforzare i suoi soldati, che spesso devono mettere da parte
le proprie paure per affrontare i tanti pericoli che infestano il
regno, al fine di difendere sia la popolazione sia il divino
imperatore. Se ti dico questo, è perché
io… l’ho conosciuto. » di fronte a
quell’ultima frase, nei suoi occhi scuri comparve una luce
intensa, mentre io rimasi di sasso, completamente sorpresa da una
rivelazione simile.
Lui, mio padre, conosceva l’onorevole Shogun?
Avrei voluto chiedergli di più sul loro incontro, ma lui
m’impedì di far domandare, riprendendo parola.
« Va da lui, figlia mia, ma non lasciare che il tuo cuore sia
soggiogato dalla paura. Rispetta le leggi, gli ordini, i nostri sacri
antenati e vedrai che la vita militare non sarà poi tanto
dura. Io ti ho insegnato molto, ma lui potrà renderti
migliore. Segui le sue parole, è un uomo ancor
più saggio di me. » fece una piccola pausa,
prendendo poi tra le mani una scatola di legno, dalla quale ne estrasse
una pergamena.
« Consegna questa mia lettera all’onorevole Shogun
e ricorda sempre tutto ciò che ti ho insegnato, mio
splendido orgoglio. Va, e che i Kami veglino su di te e ti sappiano
sempre guidare in questo nuovo cammino che ti troverai a percorrere.
»
Dopo avermi consegnato la pergamena, mi baciò sulla fronte.
Sentii affiorare delle lacrime, ma prontamente le ricacciai indietro,
per non apparire fragile.
Salutai anche mia madre, che aggiunse la sua benedizione a quella di
mio padre, e poi iniziai il mio viaggio, diretta al mio nuovo destino.
Mi voltai per un solo istante, osservando la scena che mi si presentava
davanti: mia madre con gli occhi colmi di lacrime, affondava il viso
nel petto di mio padre, che la cingeva a sé, come per
rincuorarla, ma il suo sguardo era rivolto a me. Non avrei potuto mai
dimenticarlo: in quell’oscurità risplendeva una
strana luce. Lui era orgoglioso di me ed io avrei fatto di tutto per
dimostrargli quanto avevo appreso e qual era il mio valore, non volendo
deluderlo.
Tornai a girarmi e, sistemando meglio l’arco e la faretra
sulle spalle, ripresi il cammino, lungo la strada che mi avrebbe
condotto di fronte allo Shogun in persona.
___________________________________________
Ecco
qui il primo capitolo. Ancora non c'è molto, anche se alla
fine non sarà una storia troppo movimentata,
bensì più profonda, basata sulle emozioni. Ma non
dico altro, per non lasciar trasparire troppo. I prossimi saranno un
pò più lunghi :)
Questa
storia nasce su ispirazione di giocate effettuate da me e il mio
fidanzato su un gdr, ed io l'ho "romanzata" un poco, per aderirla
meglio alla citazione presa.
Buona lettura
kuasta:
Grazie
per la recensione, e sono contenta che dall'introduzione e dal prologo
la mia storia ti abbia colpita. Non so come pensi che debba andare, ma
spero di non deluderti. :)
Ayumi
Yoshida:
Grazie per la recensione e crepi il lupo. Spero che continuando a
leggere possa continuare a piacerti. :) un bacio!In Bocca al Lupo
anche a te per il contest!
Grazie a chi
la legge, chi l'ha inserita tra le seguite e tra le ricordate!
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Capitolo 3 *** Secondo Capitolo ***
Secondo
Capitolo
Dopo giorni di cammino, arrivai infine alla città imperiale,
che in un primo tempo mi lasciò notevolmente spaesata. Una
giovane ragazza di un piccolo paese non era avvezza a passeggiare con
tranquillità lungo le strade di quell’immensa
città. Scrutavo tutto con pura curiosità,
restando affascinata dalla vitalità delle persone, dal cibo
squisito che s’intravedeva nei vari chioschi lungo le strade,
e splendide Geishe con vari kimoni dai colori sgargianti, che
sorridevano divertite o forse imbarazzate quando gli uomini le
guardavano con interesse. Tuttavia, era la presenza dei soldati, nelle
loro particolari armature, che mi lasciava più affascinata:
un giorno, forse quel giorno stesso, sarei diventata una di loro.
Non potevo
nascondere l’ansia che mi pervadeva l’animo nel
dover trovarmi al cospetto dello Shogun in persona, ma ricordando le
parole di mio padre, fui spronata a continuare, arrivando al Castello e
recandomi, infine, laddove alloggiava l’esercito imperiale.
Notai la
presenza di numerosi giovani, tutti armati, altri con vere e proprie
katane al fianco, segno tangibile del loro grado. Erano sicuramente dei
Samurai. Restai per qualche istante imbambolata a guardarli, con la
più completa ammirazione. Un gruppo di esploratori, dedussi
osservandoli con meticolosa attenzione, stavano marciando diretti
chissà dove, mentre un altro gruppo tentava di rientrare.
Scossi il capo, dopo qualche attimo, per poi addentrarmi nel luogo,
fermandomi al cospetto di due Bushi armati che vigilavano
l’ingresso.
Prima di
poter parlare, notai i due battere un colpo secco alla porta chiusa con
le loro spade, forse per richiamare qualcuno; e, infatti, poco dopo
spuntò fuori una recluta, almeno da quanto potei dedurre,
che per poco non fu travolta dal gruppo di esploratori che stavano
facendo il loro ingresso. Cercai di non sorridere, per non sembrare
sgarbata, ma anche perché m’immaginai al suo
posto: se lo Shogun mi avesse presa, avrei potuto fare quella fine.
Dopo essere
riuscito a “liberarsi”, mi si avvicinò,
incrociò le braccia al petto prima di chinarsi, poi mi
rivolse parola:
«
Benvenuta, il Generale è nella sala di addestramento a
sovrintendere di persona, ma è sempre disponibile a ricevere
le persone che lo contattino. »
Senza
aspettare una mia risposta, iniziò a camminare invitandomi a
seguirlo. I due piantoni all’entrata mi lasciarono passare, e
così, silenziosa seguii la mia “guida”
verso la sala d’addestramento, mentre tentavo di dominare
ancora quell’agitazione crescente per l’incontro
con lo Shogun.
Già
prima di accedere alla sala, sentii una voce autoritaria e decisa
impartire ordini precisi ai vari soldati, ciò nonostante
frenai l’agitazione, respirando un poco per rilassarmi, e
oltrepassai la porta, donando una prima panoramica al luogo. Era
un’ampia sala, con tutti gli armamenti e strumenti utili ad
apprendere le tecniche del combattimento con ogni genere di arma. Lungo
le pareti erano affisse armi di ogni genere, ma in particolare
soffermai lo sguardo sui lunghi e splendidi archi e, per un attimo, una
forte emozione al pensiero di poterne usare uno, un giorno,
s’impossessò di me.
«
Venerabile Shogun, è appena arrivata l’aspirante
Minako. »
Le parole
della recluta distolsero la mia attenzione dall’arma che
più prediligevo e mi spinse a soffermare lo sguardo sulla
figura dello Shogun: era un uomo di media statura, completamente
pelato, con dei baffi scuri. Gli occhi erano profondamente scuri e
seri, e di fronte a quell’aura importante che mostrava, io mi
sentii piccola, piccola, e una parte di me sarebbe voluta scappare via,
ma le parole di mio padre riecheggiarono nella mia mente, e mi
spronarono a farmi coraggio. Mi avvicinai ancora di qualche passo, per
poi inchinarmi profondamente al suo cospetto.
«
Konbanwa Venerabile Shogun. » proferii in tono abbastanza
sicuro, ma rispettoso. Rimasi chinata, finché lui non mi
disse di alzarmi, sebbene cercassi di non guardarlo dritto negli occhi,
per una questione di puro rispetto e reverenza.
Lui
congedò la recluta e poi mi diede appena uno sguardo, prima
di rivolgermi saluto.
«
Konbanwa »
Tornò
poi a dare attenzione ai suoi soldati, mentre io rimasi silenziosa al
mio posto, senza interferire in alcun modo. Dopo qualche minuto,
tornò a ridarmi la più completa attenzione.
«
Così vuoi entrare nell'Esercito. Posso insegnarti un mondo
dove chiunque ti trovi per strada, saprà che sei persona da
rispettare e da temere allo stesso tempo...» sentii i suoi
occhi fissarmi e mi ritrovai ad alzare lo sguardo per incrociarli. Mi
sentivo un poco in soggezione, seppure lo ammirassi.
«
Sì, è mio desiderio entrare nell'esercito, per
mettermi al tuo servizio e a quello nel nostro Venerabile Imperatore.
» cercai di mantenere un tono sicuro, senza la minima
esitazione, per non mostrarmi fragile. « Sarebbe per me un
onore e un gran piacere trarre insegnamenti da te, sempre se mi
reputerai una persona idonea ad entrare tra le fila
dell’esercito imperiale. » tornai a tacere, per non
sembrare una di troppe parole. Mio padre mi aveva insegnato a
rispondere in modo chiaro e non troppo logorroico.
Lui non
mostrò alcuna emozione particolare, ma prese a camminare,
invitandomi poi a seguirlo, cosa che prontamente eseguii.
«
Hai mai usato un’arma prima di oggi? » mi
domandò.
«
Sì. Mio padre mi ha insegnato a usare l'Arco, sin da
bambina. Ed è proprio questo il mio sogno, entrare
nell'esercito, magari per diventare Arciera... Non sarebbe solo il mio
desiderio, ma anche quello di mio padre. E non voglio deluderlo.
» risposi.
«
Arco. Eccellente arma! Più di una volta in guerra, gli
arcieri hanno permesso di vincere una battaglia! »
esclamò austero, per poi mutare espressione di colpo e
fissarmi in maniera quasi insistente. Tuttavia cercai di non scompormi,
e attesi la sua seguente domanda.
«
Sei pronta a dare la vita per il tuo Imperatore? Prenditi il tempo che
occorrerà per questa risposta, poiché da essa
dipenderà il tuo futuro... » mi sorrise, ma
emanava una crudeltà che per un attimo mi
scoraggiò. Tuttavia continuai a fissarlo, per dargli modo di
capire che non mi lasciavo abbattere da un semplice sorriso crudele, o
parole pericolose.
«
Sì, sono pronta a farlo. Sono pronta a fare del mio meglio,
per proteggere il nostro Imperatore e queste terre che mi hanno dato la
vita. Anche a costo di perderla. E' questo che mi è stato
insegnato, questo che voglio fare. » nessun tentennamento nel
mio tono di voce, sicurissima di ciò che avevo appena
proferito, poiché sin da bambina tale era stata la mia
educazione e ero cresciuta con pensieri e credi ben precisi, che non
potevo mutare con un semplice soffio di vento.
Mi
guardò per diversi istanti in silenzio, come se volesse
scrutarmi sin nelle profondità del mio animo. Probabilmente
voleva capire la mia sincerità e, quando ne fu convinto,
riprese a dire:
«
Bene Minako-san... da oggi, sei ufficialmente Recluta dell'Esercito
Imperiale! » fiero, deciso.
A quelle
parole, non riuscii a trattenere un sorriso. Ero orgogliosa di me e
desiderosa di apprendere quanto più possibile da un uomo con
un tale carisma, per il quale provavo anche una forte ammirazione.
«
Ti ringrazio di avermi dato questa possibilità e
farò del mio meglio per non deluderti mai. »
proferii, per poi chinarmi di nuovo profondamente. La gioia era grande,
ma volevo trattenerla per quando lo avrei detto a mio padre.
«
Non mi devi ringraziare ancora. Adesso, viene la parte più
difficile: l'addestramento. Avrai un istruttore, ma di tanto in tanto
sarò io di persona a controllare la tua abilità.
» a quelle parole mi limitai ad annuire, mentre continuavo a
camminare al suo fianco. Lui di tanto in tanto osservava
l’operato dei suoi soldati, intervenendo quando poteva.
«
Domani stesso inizierai il tuo addestramento. Dovrai imparare a usare
ogni arma, anche se ho intuito la tua particolare predilezione per
l’arco. Per questo ti chiedo, vorrai iniziare subito a
mostrarmi la tua abilità con l’arco, o preferisci
iniziare il vero e proprio addestramento con la spada? »
tornò a fissare i suoi occhi nei miei, ed io prontamente
risposi:
«
Preferirei l'arco, cosi magari potrai aiutarmi a migliorare quel che so
e ho imparato. Se per te va bene. »
«
Così sia, partiremo con l’arco. Fatti trovare qui,
domani, e, se dimostrerai di saper apprendere al meglio le lezioni e
far tesoro di ogni minimo insegnamento, vedrai che la promozione
arriverà presto. »
Annuii di
nuovo, lasciando affiorare un lieve sorriso sulle labbra.
«
Mi impegnerò al massimo, Venerabile Shogun,
poiché non voglio deludere né te, né
mio padre. » chinai appena il capo, prima di estrarre la
lettera di mio padre da una tasca del lungo kimono blu che indossavo.
« Mio padre mi chiede di consegnarti questa. »
aggiunsi, prima di tenderla verso di lui. Lui la prese tra le sue mani
e, dopo averla srotolata, iniziò a leggerla con interesse.
Notai l’accenno di un sorriso sul suo volto, non appena lesse
il nome di mio padre.
«
Michio-san. Tuo padre. » mormorò appena, tornando
a rivolgermi lo sguardo e per un attimo notai che la sua espressione si
era un poco distesa. « Lo conosco bene. » aggiunse
e riprese a camminare. « Fu anni fa, quando ancora ero
Sottufficiale, durante una spedizione, fummo vittime di un'imboscata.
Ci salvò l'arrivo di alcuni contadini, capitanati da Michio.
Ci aiutarono a vincere quella battaglia e da allora, tuo padre
è l'unica persona ancora in vita che possa usare il mio nome
Azumamaro. »
Di fronte a
quella storia fui pervasa da un profondo senso di orgoglio e
ammirazione verso l’uomo che per lunghi anni mi aveva
insegnato tutto ciò che conoscevo. Mio padre, un uomo
meraviglioso, capace di salvare lo Shogun stesso. Un suo amico. Mi
ritrovai a sorridere, mentre i miei occhi s’illuminarono di
colpo.
«
Mio padre è un uomo meraviglioso, sempre pronto a lottare
per aiutare l'imperatore e le persone che vivono qui. Sono orgogliosa
di sapere di avere un padre amico del Grande Shogun » osai
proferire, ma in risposta, notai un altro sorriso illuminare il volto
di quell’uomo apparentemente austero e temibile.
«
Tuo padre è forse il solo vero amico che io abbia ancora...
» chinò appena il capo, per poi continuare
« Non ti preoccupare, se vali solo la metà di tuo
padre, hai la stoffa per fare carriera!»
Le mie gote
si accesero lievemente a tali parole. Lo Shogun credeva molto nelle mie
capacità ed io non potevo deluderlo assolutamente.
Nell’osservarlo meglio, provai una strana sensazione, forse
dovuta alla mia completa ammirazione nei suoi riguardi.
«
Avrò modo di dimostrarti quello che valgo. Voglio farlo, per
dimostrare a mio padre che può contare sull'unica figlia che
ha scelto questa strada, il suo sogno.» ribattei. Lui si
fermò di nuovo, osservando per qualche istante
l’esterno da una finestra. Gocce di pioggia battevano sul
vetro e per qualche istante restammo in silenzio, come ad ascoltare
quel suono.
«
Bene. Riposati ora Minako-san, puoi dormire qui o dove alloggiavi
prima, se hai piacere. Domani stesso inizieremo il tuo addestramento.
» concluse così il suo dire, mentre io mi chinavo
ancora una volta profondamente dinnanzi a lui, per poi avanzare verso
l’uscita della sala grande, osservando per
un’ultima volta il luogo dove da quel giorno in avanti avrei
vissuto.
Quella sera
stessa scrissi a mio padre per renderlo partecipe del buon esito del
colloquio. Mi sentivo orgogliosa di me e volevo lottare con tutta me
stessa per dimostrare agli altri, ma soprattutto a me stessa, quel che
valevo realmente e diventare, forse un giorno, un’arciera
importante.
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Capitolo 4 *** Terzo Capitolo ***
Terzo Capitolo
Essere una recluta dell’esercito imperiale non significava
rimanere a poltrire a lungo, anzi, ben presto dovetti svegliarmi e,
dopo essermi preparata – indossando un kimono molto semplice
e scuro, sopra delle braghe anch’esse scure - mi diressi
verso la sala comune, dove si sarebbe tenuta la mia prima vera lezione.
Per essere la
prima volta, non ero molto agitata. Dovevo dimostrare ciò di
cui ero capace con l’arco e, essendo ormai diventato quasi il
prolungamento del mio braccio, mi sentivo sicura.
Ciò
che forse mi turbava un poco era lo Shogun, la potente aurea che
aleggiava intorno a lui. Lo temevo ma allo stesso tempo ne ero
fortemente attratta. Lo rispettavo profondamente e per lui avevo una
totale ammirazione.
Giunta alla
grande sala d’addestramento notai la presenza di molti
soldati già nel pieno dell’allenamento: chi
combatteva a colpi di spada o di lancia, altri che provavano a tirar
con l’arco. In un’area vi erano degli esploratori
esperti che si curavano di insegnare agli aspiranti tutte le varie
tecniche per conoscere le strade, le trappole, i veleni e
quant’altro ancora potesse servire per la loro corretta
formazione.
Non sapevo
bene come muovermi, fino a quando un soldato, dall’aria
piuttosto austera, mi rivolse parola:
«
Il Venerabile Shogun ti attende. Ti prego di seguirmi. »
freddo, distaccato, come un soldato doveva essere.
M’invitò
dunque a seguirlo e, senza attendere un solo attimo, raggiunsi il punto
esatto in cui si trovava il Generale.
«
Konnichiwa, Venerabile Shogun. » proferii, incrociando poi le
braccia al petto, chinando il busto in un perfetto inchino.
«
Konnichiwa, Minako-san. » replicò, guardandomi con
sguardo neutro. « Se sei pronta, possiamo iniziare subito con
la lezione ».
Annuii,
sfilando l’arco che tenevo sulla spalla destra.
«
Sono pronta, Venerabile Shogun. »
Sul suo viso
non comparve nessun sorriso, ormai aveva visto quella scena fin troppe
volte e non poteva concedersi a grandi emozioni.
«
Bene. Dimostrami ciò che sai fare. » si
fermò per un attimo, rivolgendo lo sguardo verso un
manichino vicino a un muro, a pochi metri dal punti in cui ci
trovavamo.
«
Cerca di colpirlo al cuore. Immagina che sia un tuo nemico e ricorda
tutte le regole che Michio-san ti ha insegnato. »
Il nome di
mio padre mi diede un’ulteriore spinta a fare del mio meglio.
Non risposi nulla, limitandomi a chinare appena il capo in segno di
assenso. Poi, cercai di trovare la corretta concentrazione. I consigli
di mio padre riaffiorarono nella mia mente per qualche istante, poi
tacquero di colpo per lasciare il posto al silenzio più
totale.
Immaginai di
essere sola, con il mio arco, dinanzi al mio nemico. Intorno a me il
rumore provocato dal cozzare del ferro e dell’acciaio delle
armi, le voci autoritarie dei samurai, e le urla di altri soldati, si
disciolsero nell’aria e da essa furono portate via, lontano,
molto lontano, così da non deconcentrarmi minimamente.
Sentivo addosso lo sguardo penetrante dello Shogun, tuttavia cercavo di
non pensarci, consapevole di non dover lasciarmi distrarre
assolutamente dal benché minimo sentimento, altrimenti il
tiro non sarebbe stato perfetto.
Iniziai a
cercare la corretta posizione: gambe distanziate, piede destro poco
davanti al sinistro. Con le mani sfiorai l’arco, per poi
stringerlo con la dovuta decisione, non troppo piano per non farlo
scivolare, ma neanche troppo forte.
Trassi
profondi respiri, cercando di chetare ogni singola parte del mio corpo.
Lo Shogun
rimase per lo più silenzioso, perfettamente immobile al mio
fianco. Si limitò di tanto in tanto a dettar qualche piccolo
consiglio, che io prontamente adottai.
Non appena
raggiunsi la corretta posizione del corpo e la perfetta concentrazione,
estrassi una freccia ponendola poi sull’arco, in modo da far
combaciare la punta con la parte in legno, tenuta con la mano sinistra
e la “coda” con la corda, tenuta con la mano destra.
Tesi la corda
quel tanto che bastava e cercai di focalizzare il mio bersaglio; ma poi
ricordai le parole di mio padre:
bisogna
mirare oltre il bersaglio…
…e
mi concentrai sul mio spirito. Il mio viso era completamente rilassato,
non una smorfia e neanche una leggera tensione sembrava esserci in me.
Quando mi sentii finalmente pronta, trattenni il respiro e lasciai
partire la freccia che, dopo una breve tratto nell’aria,
sibilante si conficcò nell’addome del manichino.
Non avevo colpito il cuore, ma era lo stesso un buon tiro, no? Allo
Shogun, ovviamente, spettava la decisione.
Mi voltai
verso di lui, e vidi il suo viso illuminarsi. Non compresi bene il
motivo, ma il mio cuore iniziò a martellare violentemente
nel petto.
Lui si
voltò verso di me, dopo aver osservato attentamente il
procedere della mia prestazione, e disse:
«
Complimenti! Non hai preso il cuore, ma hai un’ottima
tecnica. Hai davvero preso da tuo padre. »
Le sue parole
fecero pulsare con più foga il mio orgoglio. Avere un buon
giudizio dallo Shogun e migliorare per raggiungere la perfezione, era
sempre stato il mio scopo di vita. Mio e di mio padre, naturalmente.
Tornai a
rilassarmi e a riacquistare una posizione più normale,
riportando l’arco basso.
«
Ti ringrazio Shogun-sama. » chinai appena il capo.
« sono felice di sentire queste parole. »
«
L’arco non è mai stata la mia arma prediletta,
difatti è quella in cui forse pecco di più.
» ammise, lasciandomi un poco spaesata. « io
combatto con lei. » aggiunse, per poi sfiorare sia con la
mano destra sia con lo sguardo la Katana che teneva stretta alla vita.
La osservai con attenzione. Quelle armi erano di una bellezza
estasiante, eppure io amavo profondamente il mio arco. Semplice,
silenzioso ma letale, se saputo usare correttamente.
«
E’ una bellissima arma, la più nobile.
Sfortunatamente però, io non sono capace di usare
spade… e tantomeno un’arma così
superba. » ammisi, abbassando lo sguardo scuro con quelle
particolari sfumature viola.
Mi sorrise
lievemente, tornando poi ad interessarsi del bersaglio.
«
Osserva adesso come si usa una Katana allora. » detto
ciò, estrasse con agilità la katana dalla fodera,
roteandola più volte tra le mani. Si pose in posizione di
guardia, proprio di fronte al suo “avversario”,
l’arma ben salda tra le mani. Lo sguardo vigile. Il piede
destro era posto più indietro rispetto al sinistro, flesse
le ginocchia, e strinse ancor più forte quell’arma
superba. Uno strano spirito lo avvolse, e mi sembrò di
scorgere la forza e l’attacco di un leone, quando, nel
momento più opportuno balzò sulla sua
“preda”, alzando l’arma e facendola poi
scivolare rapidamente dall’alto in basso, tagliando il
manichino dalla spalla sinistra all’anca, al fianco destro.
Osservai il
tutto, mantenendo il più assoluto silenzio. Mi ritrovai
quasi a trattenere il respiro, notando con quale agilità lui
riuscì a mettere fuori gioco il suo avversario, seppure
immobile, e provai ad immaginarlo in un campo di battaglia. Lo Shogun
era formidabile. Il mio cuore prese di nuovo a battere con
più forza.
Preso da una
foga, iniziò a combattere contro un altro manichino,
scalfendolo sulle gambe, poi tornò ad avvicinarsi a me,
seppure il suo sguardo si perdesse ad ammirare la lama della sua
katana. Un sorriso trionfante e pieno di orgoglio sul volto. Poi, i
suoi occhi scuri, si soffermarono sui miei.
«
Ora facciamo una prova. » aggiunse, rinfoderando la katana,
per poi prendere due spade di legno, usate per le reclute, e donarne
una a me. Prontamente lasciai con cura l’arco a terra,
afferrando la spada. La osservai con attenzione, prima di stringere
l’impugnatura saldamente, con entrambe le mani. Ma qui, la
paura e l’insicurezza mi avvolsero. Ero in un ambito diverso
dal mio. Non avevo mai usato una spada.
«
Mettiti dinanzi a me, distanziata di alcuni passi. E poi osserva
attentamente i movimenti che faccio io, ed esegui » aggiunse.
Mi sentivo un
po’ impacciata, tuttavia, osservai con assoluta
meticolosità i suoi movimenti e feci altrettanto: piede
destro dietro al sinistro e più aperto, ginocchia flesse,
spada ben salda tenuta con entrambe le mani e rivolta verso
l’avversario.
Mi
guardò, annuendo nel vedere che avevo eseguito, seppure con
un po’ di incertezza, quanto detto, e poi aggiunse:
«
Colpiscimi. » freddo. Tagliente. Spalancai occhi e bocca di
fronte a quell’ordine. Dovevo davvero colpirlo? Ma come
dovevo fare? E poi, proprio contro di lui? Sentivo la paura avvolgermi,
ma poi lui continuò:
«
Non verrai valutata per questo, è solo per saggiare da che
punto dobbiamo partire. »
Non potevo
ritirarmi. Se volevo diventare un perfetto soldato, dovevo iniziare da
qualche parte, ed imparare ad usare tutte le armi, pur prediligendo il
mio caro amato arco. Annuii, e cercai di studiare per bene il mio
avversario. Sentii il mio cuore battere più forte, e trassi
dei profondi respiri come per chetarlo. Dovevo rilassarmi. Nel momento
in cui mi sentivo più calma, avanzai di un passo, cercando
di colpirlo con il primo colpo che mi venisse in mente: un affondo, un
colpo dritto sullo Shogun, davanti a me.
Lui
sembrò sorridere, come capendo perfettamente ciò
che volessi fare. Ruotò sul piede destro, e alzò
la spada, in modo tale da frenare il mio colpo e deviarlo, con mio
avvilimento.
« A
quanto pare dovrò insegnarti molte cose. Ma, so che ce la
faremo insieme. Tu vuoi imparare? » domanda retorica la sua.
Ero perfettamente consapevole che la risposta era solo una. Tornai ben
dritta, e risposi:
«
Voglio imparare, ovviamente. Voglio saper usare tutte le armi, e trarre
ogni genere d’insegnamento da te, Venerabile Shogun.
» proferii sicura.
«
Bene, ora posa pure la spada, e vieni con me. » mi
ordinò, ed io prontamente eseguii il tutto.
Si diresse in
un angolo della gran sala, laddove erano posti vari generi di armi.
«
Ti consegno il Tanto imperiale, l’arma delle reclute, e
quindi la tua arma. Non appena sarai promossa, potrò
consegnarti la Naginata, e quando sarai una perfetta arciera, avrai uno
degli archi imperiali, tutto per te. »
Spostai lo
sguardo da lui, alla nuova arma, che presi tra le mani, osservandola
con attenzione. Non sapevo bene che dire e quindi preferii rimanere in
silenzio per alcuni attimi.
«
Ti ringrazio Shogun Sama. »
«
Ora puoi riposarti, domani continueremo l’addestramento. Sono
sicuro che riuscirò a farti diventare un’ottima
combattente. »
«
Mi impegnerò molto per diventarlo. » Chinai il
capo, stringendo nella mano destra il tanto, come una nuova reliquia,
oltre al mio arco. « Grazie per la lezione. »
Subito dopo
prendemmo strade diverse. La prima lezione era stata fatta e,
nonostante la stanchezza e il primo esito negativo con la spada, mi
sentivo soddisfatta.
Un senso di
spossatezza mi colse e, non appena mi sdraiai sul mio futon, sprofondai
in un sonno profondo.
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Ringrazio tutti coloro che leggono, e quei pochi che l'hanno
inserita tra le seguite e le ricordate :)
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Capitolo 5 *** Quarto Capitolo ***
Quarto Capitolo
Quella notte
sognai molto.
In un primo
momento erano sogni confusi, immagini, colori, sfumature diverse si
amalgamavano e scioglievano continuamente. Mi agitai nel sonno,
tuttavia cercai di fare un profondo respiro, per ritrovare un poco di
quiete.
Quelle
macchie di colore, dapprima insignificanti, iniziarono a fondersi
insieme, rappresentando in quell’immensa oscurità
che il sonno ti lascia, delle forme… che solo dopo qualche
momento, capii essere umane.
C’ero
io in un lungo corridoio del castello, proprio nel lato in cui
alloggiavano i soldati. Ero vestita come il giorno prima – un
semplice kimono scuro – e avevo con me l’arco e la
faretra a tracolla. I miei lunghi capelli color dell’onice
erano raccolti alla maniera maschile, con un semplice bastoncino a
tenerli fermi in una sorta di toppa alta; neanche un sottile filo scuro
sfuggiva a quell’acconciatura. Perfetta. O meglio, un
perfetto soldato.
Camminavo
lentamente, diretta non sapevo neanche io bene dove, fino a quando non
notai la me del sogno ferma dinanzi alla porta della stanza del
Venerabile Shogun.
Non sapevo
perché ero lì, probabilmente perché
lui mi aveva semplicemente chiamata. Non vi erano samurai a guardia
della porta, lasciandomi un poco perplessa. Forse era l’unica
differenza con la realtà, il resto era fin troppo nitido,
così perfetto nei dettagli, che mi stupì.
Vedevo le mie
labbra muoversi: « Sono qui, Venerabile Shogun. »
e, ben presto, arrivava l’alta voce del mio generale, che mi
invitava a farmi avanti.
Non aspettai
neanche il minimo istante, e, lasciata scorrere la porta di lato, mi
intrufolai all’interno – naturalmente indossavo
solo dei tabi bianchi – e subito mi inginocchiai di fronte
alla sua presenza, senza ancora rivolgergli lo sguardo.
Lui sedeva
con le gambe incrociate sopra il suo futon ancora spiegato e non
riuscendo a scorgerlo, sentii solo la sua voce pacata rivolgermi ancora
parola.
«
Benvenuta Minako-san. Ti stavo aspettando. Puoi alzare il tuo sguardo
ora. »
Annuii con il
capo, per poi fare un altro piccolo inchino semplicemente con il busto,
essendomi inginocchiata a terra, e sollevai lo sguardo, non accennando
ad alzarmi o sedermi meglio.
«
Sono al tuo servizio, Shogun-sama » proferii, gentilmente e
sottomessa a lui. Soffermai il mio particolare sguardo scuro, dalle
sfumature violacee su di lui, e per un attimo fu il silenzio. Potevo
sentire solo il mio cuore battere all’impazzata, come a causa
di una paura improvvisa.
Ma non stava
succedendo assolutamente nulla di grave, anzi, lui mi sorrideva. Sentii
le labbra secche, la gola che ardeva come infiammata, il cuore
palpitante, e una sensazione particolare, indescrivibile e mai provata
prima all’intestino: come se tanti piccoli esseri volessero
volteggiare all’interno del mio corpo, e io non riuscissi a
trattenere il battito incessante delle loro piccole ali colorate.
Farfalle. Sì, sembravano essere come farfalle.
Un sogno
insolito, di certo.
Non riuscivo
a spiccicare parola, nonostante ci provassi più volte, ma
alla fine desistetti. Lui continuava a sorridermi, come mai fatto
prima. Le sue labbra, sotto quella leggera peluria, erano rivolte verso
l’alto, come una piccola mezza luna. I suoi occhi scuri
sembravano riflettere una luce particolare, che mi rapiva e mi faceva
provare qualcosa che mai il mio cuore aveva provato.
Sapevo nel
profondo che era meglio distogliere subito lo sguardo, non era
opportuno fissarlo in maniera così sconsiderata, era lo
Shogun, ed io una semplice recluta che doveva solo seguire le sue
parole, i suoi ordini, e chinare il capo. Devota.
Ma
ecco… io non ci riuscivo.
Era come se
una forza invisibile mi spingesse a guardarlo; in un primo momento
pensavo che la mia fosse solo una sana, tranquilla, ammirazione per un
uomo tanto importante e saggio, ma poi…
…
pian piano la consapevolezza si faceva strada, rivelando al mio cuore e
a me stessa, che quello che provavo non era solo ammirazione. Sin dal
primo momento che lo avevo visto, il mio cuore aveva preso a pulsare in
maniera strana. Pensavo che fosse per la paura e l’emozione
di trovarmi dinanzi a un uomo simile, che tante volte in tutti questi
anni, mio padre aveva decantato, per le sue gesta, per il suo potere,
per la sua saggezza.
Ma io, o
forse è meglio dire la Minako del sogno, non vedeva
più lo Shogun, bensì l’uomo. Un uomo
molto più grande di me, il cui viso, segnato dagli anni e
dalle tante vicende tristi o meno tristi che lo avevano colpito, ora
era disteso in un sorriso amorevole, che mi punse dentro.
Quello che
provavo era molto di più di una semplice ammirazione.
Io
lo … amavo.
Di fronte a quella sensazione mi risvegliai di colpo.
Probabilmente non potevo lasciare andare avanti un sogno simile. No.
Era già un grande peccato provare qualcosa di simile. Era lo
Shogun, il mio Generale, il pari dell’imperatore, ed io ero
solo un’umile recluta che aspirava a divenire
un’importante arciera, come era nel volere di mio padre e nel
mio.
Portai le
mani al viso, coprendomi gli occhi. Sentivo ancora il cuore battere
troppo forte. Avrei voluto premere come un pulsante invisibile per
chetarlo, ma non era ovviamente possibile.
Allontanai
poi le mani e mi alzai, seduta. Iniziai a trarre profondi respiri, che
potevano permettermi di ritrovare un poco di quella
tranquillità perduta, a causa del sogno.
Dovevo
calmarmi. Era solo un semplice sogno, nulla di più.
Per Azumamaro
Mushanokoji Watanabe io provavo solo una profondissima stima e
rispetto. E basta.
Quando mi
sentii sufficientemente calma, presi una bacinella d’acqua
per sciacquarmi il viso. Mi aspettava un’altra giornata di
allenamento, per dimostrare il mio valore, e comprendere nuove
tecniche.
Mi vestii
rapidamente, con il solito kimono semplice, nero; una volta legati con
cura i capelli, affinché neanche una ciocca mi ricadesse sul
viso, presi l’arco e la faretra, e, lasciata scivolare la
porta di lato, mi addentrai nel corridoio che portava alla sala
d’addestramento.
Cercai di
scacciar via quei malsani pensieri e concentrarmi unicamente sul mio
“lavoro”, sul mio obiettivo. Volevo diventare una
vera arciera e avrei fatto di tutto per dimostrare di esserne capace.
Quando entrai
nella sala, diversi soldati si stavano già allenando e,
vagando con lo sguardo, notai che lui era lì.
Bastò
un semplice sguardo per far affiorare di nuovo tutte quelle emozioni
che credevo assopite. Sentivo il mio cuore pulsare di nuovo con
più foga, mentre speravo intensamente di non arrossire, non
in sua presenza. Non volevo apparire sciocca. Non volevo che lui
sapesse di questa debolezza, che non dovevo provare. Io, che nella mia
vita avevo amato un solo uomo – mio padre -, ora mi ero
innamorata proprio di una persona che non avrei mai potuto avere.
Proprio in
quel momento, di fronte a quella consapevolezza, sentii come una fitta
allo stomaco, anzi, più in profondità, verso
l’intestino. Sentivo affiorare un dolore molto forte, che per
un attimo mi spinse a posare una mano, con la mera speranza di
alleviarlo.
Che pensiero
sciocco. Cosa mi stava succedendo?
Lottai contro
quelle sensazioni, cercando di cacciarle indietro. No. Dovevo apparire
seria, risoluta, tranquilla, pronta per un altro allenamento. Ero un
soldato, non una fragile donna, che corre dietro all’amore.
Adottai la
stessa tecnica di poco prima e trovai un poco di sollievo nel respirare
più volte. Infine, avanzai di qualche passo e, quando
ritrovai il suo sguardo su di me, per un attimo l’immagine di
lui sorridente nel sogno, comparì al posto del suo viso
austero e serio.
Deglutii a
vuoto, e poi, allo scopo di cacciare una tale visione, chinai il busto,
guardando così il pavimento, e non lui.
«
Konnichiwa, Venerabile Shogun » proferii, sebbene sentissi la
mia voce troppo fievole, e la cosa mi irritava. Non dovevo lasciarmi
andare dai sentimenti.
«
Minako–San, infine sei giunta. Leggo in te un tale nervosismo
che non riesco a comprendere. Ti faccio forse così paura,
come a tutti coloro che quasi tremano dinnanzi a me? O forse hai
ripensamenti sul tuo scopo qui? » la sua voce aveva un tono
neutro. Non si sbilanciava mai troppo nelle emozioni, cosa che dovevo
assolutamente imparare anch’io.
«
Mio Shogun-sama, io ho una profonda ammirazione per te, e non
è la paura che scorgi nei miei occhi. » mi fermai
un attimo, alzando appena il busto, ma tenendo lo sguardo ancor basso.
« No, non ho ripensamenti… voglio diventare quello
per cui sono nata: un’arciera. » il mio tono
però non riuscì a convincere neanche me.
Lui rimase
silenzioso per alcuni istanti, portando una mano ad accarezzarsi la
lieve peluria sopra le labbra, pensieroso.
Capii che
naturalmente non era un uomo così sciocco da credere alle
mie parole; parole cui io stessa non sentivo totalmente veritiere. Che
cosa mi stava succedendo?
Tuttavia,
dopo qualche istante di assoluto silenzio – durante il quale
il suo sguardo non si allontanò da me, mettendomi a disagio
– riprese a parlare, riportando le braccia lungo i fianchi.
«
Io posso aprire una porta, ma sei tu a doverla varcare. »
disse, con un tono enigmatico, e poi tra noi fu di nuovo il silenzio.
Prese a camminare, voltando lo sguardo verso gli altri soldati che si
allenavano. Io sollevai il mio, scrutandolo, e ancora una volta, al sol
guardarlo, una fitta all’intestino mi colse, lasciandomi
senza fiato e senza parole. Avrei voluto reagire, ma qualcosa mi
frenava. Mi sentivo così sciocca, così misera.
Ma i miei
pensieri furono bloccati di nuovo dalle sue parole.
«
Prendi il tuo arco, Minako-san. Voglio allenarti ora, in modo da
perfezionare il tuo stile, se è davvero tuo desiderio
diventare una vera arciera, forte, tenace e utile in battaglia. Potrai
così aiutare egualmente l'Imperatore e la tua terra
qualunque sia il futuro che ti è stato creato » il
suo tono era come al solito austero. Un ordine chiaro e tondo.
Quelle
parole. Lui cosa aveva capito? Era riuscito a scorgere dentro il mio
animo? Era riuscito a capire cosa provavo, meglio di me?
L’unica
cosa che potei fare in quel momento era chinar il capo e assecondare il
suo ordine. Si diresse verso il terrazzo senza più guardarmi
neanche una volta. Io prontamente lo seguii, senza dire una parola. Mi
sentivo confusa. Non avevo mai provato qualcosa di simile e non sapevo
come gestire quella situazione per me nuova. Avevo paura che parlando
avrei potuto mostrare qualcosa. Restai zitta e, quando lui si
fermò, anch’io feci altrettanto.
Una volta sul
terrazzo, protese il suo braccio ad indicare un albero del giardino
sotto di noi, io seguii la traiettoria indicatami e osservai con
attenzione l’albero, inarcando tuttavia le sopracciglia non
capendo.
«
Osserva. Vedrai che al suo fianco c’è un sasso.
»
Cercai di
affinare meglio la vista, e una volta individuato il mio obiettivo,
annuii.
«
Colpiscilo. » mi ordinò, rapido, secco.
Io deglutii,
non comprendendo come potesse vedere in me questa perfetta arciera.
Forse riservava troppo fiducia in me e, se da un lato la cosa mi
rendeva colma di orgoglio, dall’altra avevo paura di fallire.
Il fallimento era forse la cosa che più temevo.
Ciò nonostante, ancora una volta, non dissi neanche una
parola, bensì impugnai l’arco con la mano destra,
assumendo la posizione più adatta: piedi distanziati, il
destro più avanti del sinistro, peso del corpo distribuito
egualmente su entrambi. Cercai di rilassare tutto il mio corpo,
allontanando ogni pensiero dalla mia testa: e, dopo un poco, ci
riuscii. O almeno così sembrava. Restai seria, fissando il
mio obiettivo e, nel momento in cui mi sentivo più
rilassata, sfilai una freccia che posi sull’arco. Con la mano
sinistra impugnai la parte in legno, con la destra la freccia e la
corda. Trassi un profondo respiro e chiusi gli occhi per qualche
istante. Cercai di concentrarmi unicamente su di me, il prolungamento
del mio braccio – ossia l’arco e la freccia -, e il
mio obiettivo – il sasso -. Dovevo raggiungere un rapporto
completo con il mio spirito.
Quando mi
sentii abbastanza pronta, riaprii gli occhi, e scagliai la freccia: ma
proprio un attimo prima che partisse, il dolore all’intestino
si fece più prepotente. Un’unica grande fitta, che
mi distolse dall’obiettivo. Involontariamente spostai
all’ultimo l’arco, e la freccia, sibilante, ricadde
proprio nel punto accanto al sasso. Un colpo molto buono, ma non avevo
fatto centro.
In
quell’attimo tutte le mie convinzioni vennero meno.
L’immagine di mio padre si palesò dinanzi ai miei
occhi: il suo viso appariva ancora più solcato da rughe e i
suoi occhi erano colmi di delusione. Mi fissava ed io sentii come una
fitta sbriciolarmi il cuore. Avrei voluto gridare, avrei voluto
implorargli di perdonarmi. Avrei voluto promettere ancora ed ancora che
sarei migliorata. Per lui, per non deluderlo. Ma non riuscii a fare
nulla e in brevi istanti la sua immagine venne meno, spazzata via da
una fievole aria, ingannatrice.
Lottai per
reprimere le lacrime, sebbene sentissi i miei occhi bruciare. Mi morsi
il labbro inferiore, lasciando scivolare il braccio sinistro inerte
lungo il fianco, stringendo tuttavia, con poca forza l’arco.
Abbassai lo sguardo ed attesi la punizione che mi avrebbe forse
inflitto lo Shogun.
«
La tua mente non deve pensare al sasso che devi colpire, ma alla
freccia che è parte di te e del tuo braccio. Vedila come un
prolungamento naturale, una parte della tua mano che può
saltare e spiccare il volo fino al bersaglio che vuoi colpire.
» le sue parole mi entrarono dentro, ma erano frasi
che avevo più volte sentito da mio padre, e fino a quel
momento avevo fatto mie. Non avevo mai sbagliato un tiro, se non le
prime volte. E il pensiero di sbagliare ora mi uccideva. Forse avrei
dovuto rispondere, ma non ci riuscivo, e così lui aggiunse
altro.
«
Esistono sette barriere psichiche che possono influenzare negativamente
il tiro. Devi comprendere quale di queste ti blocca, Minako-san, ed
abbatterla. » sollevai lo sguardo ed incontrai il suo. Quegli
occhi color pece mi fissavano e mi analizzavano. Eppure non sembrava
furioso come temevo. Sembravano gli occhi di mio padre quando da
piccola m’insegnava tutto. Un padre, già. Solo
questo poteva essere per me lo Shogun. « E’
l’ansia che ti ha impedito di fare un tiro ottimale? O forse
la felicità? O la paura? O la rabbia? O il…
dolore? »
Il dolore.
All’udire quella parola, provai un’altra fitta
intensa all’intestino. Con la mano libera sfiorai appena nel
punto esatto in cui avvertivo dolore, e spalancai gli occhi quando la
realtà, che avevo voluto tacere fino a quel momento, si
affacciò prepotentemente dinanzi ai miei occhi.
Io
provavo dolore.
Era questo a
bloccarmi, ad impedirmi di congiungermi completamente con il mio
spirito. Io provavo dolore perché ero innamorata dello
Shogun, e non provavo per lui soltanto pura ammirazione.
Io provavo
amore.
Un sentimento
che fino ad ora non avevo mai conosciuto per un uomo, che non fosse mio
padre. Ma era un amore che non poteva esistere. Io non ero nulla, lui
era lo Shogun. Io ai suoi occhi apparivo solo come una figlia e una
recluta. Nulla di più. E ciò mi provocava un
dolore enorme che non riuscivo a gestire.
La
consapevolezza che non sarei più riuscita a realizzare il
sogno mio e di mio padre si fece presente ed io mi sforzai ancora di
non piangere.
«
Io… » sentii la mia voce quasi spezzata e cercai
di schiarirmela per poi riprendere a parlare « credo che ho
bisogno un po’ di tempo per analizzare il mio spirito
e… capire. Poi ti potrò dare una risposta. Se
è possibile, Venerabile Shogun, chiedo il permesso di
ritirarmi, per iniziare da subito a comprendere ciò che mi
accade. » chinai il capo, cercando di resistere ancora un
poco per non dar mostra di una visione straziante e debole proprio
dinanzi a lui. Attesi, ma l’attesa fu breve.
«
Vai pure, Minako-san. Vedrai che saprai trovare la forza in te, e la
risposta alle tue domande. » mi disse, e accennò
un sorriso: quello di un padre che dimostra un piccolo cenno di affetto
per una figlia. Prima che la fitta di dolore potesse di nuovo colpirmi
ed annientarmi, chinai il busto per effettuare un corretto inchino e,
velocemente, mi allontanai diretta alla mia stanza.
Avevo bisogno
di restare sola per pensare e… piangere, finalmente.
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Capitolo 6 *** Quinto Capitolo ***
Quinto
Capitolo
Passai gran parte della
giornata nella mia stanza. Lo Shogun, probabilmente, mi aveva compresa
e voleva lasciarmi un po’ da sola, per riflettere.
Essere un soldato dell’esercito imperiale era un
ruolo molto importante, da non sottovalutare e la scelta di rimanere
doveva essere chiara e decisa. Sapevo perfettamente che non mi avrebbe
concesso altre possibilità.
Forse si comportava così con me,
perché ero la figlia del suo migliore amico, o magari
perché somigliavo molto a sua figlia, in fin dei conti avevo
quasi la medesima età.
Atsuko, questo il suo nome, aveva deciso di seguire le orme
del padre, ma diventando un perfetto bushi, amando lei in particolare
le spade.
Io l’arciera, lei la spadaccina.
Se non fossi stata bloccata da quella nuova consapevolezza
che mi lacerava dentro, probabilmente avrei potuto diventarle amica e,
sostenendoci insieme, avremmo contribuito ad apportare valore
all’esercito.
Ma ora, quei pensieri mi sembravano così irreali,
così confusi.
Era veramente quello il mio vero desiderio? Oppure volevo
unicamente dimostrare qualcosa a mio padre ed essere quel figlio
maschio che i Kami non gli avevano riservato?
Era sinceramente triste farsi domande simili, ma dovevo. Io
dovevo realmente capire cosa mi stava succedendo e fare la mia scelta,
entro un giorno. Ero conscia che lo Shogun mi stava dimostrando molto,
ma che la sua pazienza non sarebbe durata a lungo.
Dopo aver consumato le mie lacrime, mi alzai dal cuscino sul
quale ero sprofondata, e cercai di ricompormi un poco. Sistemai meglio
i capelli, legandoli con cura sulla nuca, e mi asciugai il viso. Decisi
di dirigermi un poco fuori; probabilmente una passeggiata mi avrebbe
aiutata a schiarirmi le idee. Forse sarei potuto andare a trovare i
miei zii, che gestivano una taverna, nei dintorni, ma no, sentivo il
bisogno di rimanere completamente sola, per non permettere a nessuno di
sviare i miei pensieri. Dovevo farmi domande e trovare le dovute
risposte.
Iniziai a camminare, con calma, lungo un sentiero che
portava a un piccolo laghetto, con orchidee e alberi di ciliegi
tutt’intorno. Era la primavera, e quei dolci petali delle
tonalità del rosa e del bianco ricadevano sul manto erboso,
e uno di essi scivolò sulla mia spalla destra. Fermai il mio
incedere e presi quel petalo tra le mani, delicata, e mi fermai ad
osservarlo un poco.
Era così bello. Così soffice al tatto.
Così delicato e fragile. Sarebbe bastato stringerlo
più forte tra le dita, per rovinarlo.
Così mi sentivo: come un fragile petalo di
ciliegio, continuamente colpito dal vento, sul culmine di frantumarsi
del tutto.
Fino a quel momento mi sentivo forte, sicura, certa delle
mie decisioni. Ed ora?
Ora io non sapevo più nulla. Se non che amavo
Azumamaro Mushanokoji Watanabe, ma che dovevo dimenticare ben presto
quel sentimento, perché tra noi non era possibile nessun
rapporto, al di fuori di quello tra una recluta e il suo capo.
Sospirai e lasciai scivolare a terra quel petalo e di nuovo
ripresi ad avanzare, fermandomi proprio nei pressi del piccolo
laghetto, al cui centro spiccava un bellissimo fior di loto dalle
sfumature del rosa e del viola. Rimasi per qualche istante ad
osservarlo, e mi concentrai unicamente su cotanta bellezza, simbolo
della vita stessa.
Mi abbassai, poi, per sfiorare appena l’acqua con
due dita della mano destra. Guardai le piccole linee che andavano ad
increspare quella superficie prima piatta.
In quel momento mi sentii davvero sola.
Volevo parlare con mia madre, o comunque con
un’amica. Ma, mi accorsi solo in quel momento che io,
effettivamente, non avevo amiche.
Avevo passato tutta la mia vita a seguire lezioni su
lezioni, per affinare la mia tecnica con l’arco ed ora non
riuscivo neanche a fare un tiro perfetto. Ero un vero disastro.
Sentii affiorare, come se la memoria volesse farsi beffe di
me, le risate derisorie delle mie sorelle. Loro erano state inviate
presso un’okiya, ed ora avevano raggiunto il loro scopo:
erano entrambe delle perfette Geishe, delicate e perfette nelle
movenze, raffinate, educate, brave in ogni genere di arte, anche se
ovviamente, entrambe risaltavano per qualche arte in particolare: Asami
era un’ottima danzatrice, molti uomini restavano incantati
dai suoi movimenti e dall’armonia che riusciva a creare
semplicemente muovendo i ventagli. Ryoko, invece, amava il canto e
sapeva suonare perfettamente diversi strumenti, in modo particolare lo
shamisen; con la sua abilità riusciva ad attrarre, anche
lei, l’attenzione di tutti gli uomini su di lei.
Loro erano perfette, avevano raggiunto la loro massima
aspirazione, ciò che sin da bambine erano state chiamate ad
essere. Ed io?
Io non ero nulla.
Mi sentivo un involucro vuoto, senza sostanza.
L’aria mi sferzò sul viso. Le lacrime
ripresero a scendere.
Non riuscii a trattenerle ancora. Mi sentivo così
triste.
Soffermai lo sguardo su quell’acqua cristallina
sotto di me e, nel momento in cui vi si riflesse la mia figura, non
riuscii quasi a riconoscere quel viso stravolto e solcato da lacrime
copiose, che quasi mai avevo versato fino a quel momento.
Dovevo essere un uomo. Eppure il mio lato femminile e
fragile aveva preso il soppravvento e non riuscivo più a
gestirlo.
« Padre… padre mio. Perdonami se puoi,
ma io non riesco a diventare una vera arciera dell’esercito
imperiale, come tu hai sempre sognato per me. Mi dispiace. Ci ho
provato, ci ho creduto, lo volevo. Ma non riesco ad abbattere questa
barriera. Ogni volta che lo vedo, avverto delle fitte, qui, al basso
ventre. Lo amo, ma non lo posso avere. E questa consapevolezza mi
dilania, mi distrugge, mi abbatte. Non riesco a raggiungere il corretto
contatto con il mio spirito e, così facendo, non
riuscirò mai a fare il tiro perfetto. Io lo amo. E provo
dolore. Un dolore indescrivibile a parole. Perché sacri Kami
avete deciso questo per me? Miei antenati è questa la mia
strada? Soffrire, non raggiungere i miei scopi, deludere mio
padre… » il discorso era completamente sussurrato.
Ero sola, ma non potevo permettere che i miei pensieri sussurrati al
vento potessero raggiungere orecchie indiscrete. No. Avrei causato solo
altri scandali più vergognosi.
Portai una manica del kimono scuro a detergere le lacrime e
mi rialzai ben dritta. Il sole stava quasi per tramontare ormai ed era
giunto il momento di tornare nella mia stanza.
Avanzai lenta, guardandomi intorno con uno sguardo spento,
vuoto, vacuo, senza vivo interesse per ciò che vedevo, fino
a raggiungere infine la meta finale: la mia stanza.
Posai e dispiegai sul pavimento il futon, e mi distesi
sopra. Per molto tempo non riuscii a prendere minimamente sonno. Troppi
i pensieri che si arrovellarono nella mia testa. Troppe le
preoccupazioni. Troppa la voglia di lottare contro quel sentimento che
mi aveva arrecato dolore e portata a star così male.
Dopo non so quanto tempo per l’esattezza,
finalmente riuscii ad addormentarmi. Ma il mio sonno fu invaso da una
serie di sogni confusi, che aumentarono ulteriormente il mio disagio.
Una serie di immagini scorrevano una dietro l’altra, per poi
ripetersi continuamente.
Vedevo la delusione sul volto di mio padre. Lo sguardo serio
di mia madre, forse l’unica a capirmi. Le risate derisorie
delle mie sorelle. La me stessa che provava in continuazione a
scagliare la freccia, ma sempre con cattivo esito.
E infine il suo viso.
Lo Shogun che mi sorrideva.
Il mio cuore che batteva.
Il dolore che m’invadeva l’intestino,
per poi riversarsi sul cuore.
Al mio risveglio, presi la mia decisione.
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Capitolo 7 *** Sesto Capitolo ***
Sesto
Capitolo
Quel nuovo mattino, nonostante i raggi di un tiepido sole filtrassero
attraverso la finestra della mia stanza, io non ci vedevo nulla di
buono.
Avevo preso
la mia decisione, eppure era complicato attuarla. Ma dovevo.
Non potevo
più ingannare lo Shogun, mio padre, ma soprattutto me stessa.
Mi vestii
lentamente, sistemando meglio il kimono di un marrone scuro con
semplici rifiniture sul giallo, come una serie di ghirigori senza senso
che sfioravano la schiena. Legai un obi dorato alla vita, e vi fissai
all’interno il Tanto imperiale che mi era stato consegnato
dopo la mia prima lezione. Raccolsi i miei lunghissimi capelli
d’ebano con una coda alta, in una maniera forse
più femminile.
Una volta
pronta, mi soffermai qualche istante davanti allo specchio e quello che
vidi era una donna con uno sguardo fermo e deciso, i cui tratti
apparivano severi, rigidi, ma i suoi profondo occhi scuri dalle
sfumature violacee erano spenti, vuoti, annegati in un mare di profonda
tristezza e delusione.
Scossi il
capo, non permettendomi di piangere ancora, e afferrai l’arco
e la faretra, amati compagni, che fissai sulla spalla. Feci scivolare
di lato la porta e mi accinsi a percorrere tutto il corridoio che
conduceva alla sala d’addestramento. E’
lì che avrei incontrato lo Shogun, ne ero certa.
Una volta
giunta a destinazione, iniziai a guardarmi intorno. Lasciai spaziare il
mio sguardo lungo tutto il perimetro dell’area, osservando i
soldati che si allenavano continuamente, desiderosi di dimostrare il
loro valore e rispettare il loro giuramento, cosa che io non avevo,
infine, fatto.
Sospirai al
pensiero e ripresi a guardarmi in giro. Mi soffermai in particolare su
una parete sulla quale erano affissi gli archi imperiali, in dotazione
a coloro che, una volta superato il periodo da recluta, decidevano di
diventare dei veri e propri arcieri. Erano lunghi e di un legno chiaro
e pregiato, e provai una fitta al cuore al solo pensare che uno di
quelli potesse essere mio.
Avanzai di
qualche passo, fino a raggiungere il terrazzo, dove non sarei stata
d’intralcio ai vari addestramenti che si stavano svolgendo.
Respirai un poco d’aria e, quando tornai a voltarmi, subito
il mio sguardo incrociò il suo.
Il mio cuore
prese immediatamente a battere più forte nel petto, temevo
che potesse essere udito da tutti, ma soprattutto da lui, e sarebbe
stato terribile! Non doveva accadere, quindi cercai di fare un altro
profondo respiro, ma non si può comandare al cuore,
purtroppo.
Non appena
lui mi vide, si avvicinò con fare stanco verso di me. Al
battere incessante del mio cuore, si aggiunse una fitta tremenda al
basso ventre, all’intestino, che mi spinse a posarvi sopra
una mano con la mera speranza di alleviare tanto dolore.
Nell’osservarlo
meglio, restai allibita: appariva più vecchio e
più stanco, quasi fragile, seppure potesse sembrare una cosa
priva di senso. Il grande Shogun, austero e imperioso, capace di
uccidere con pochi colpi, ora sembrava un uomo troppo stremato, come se
il peso del suo ruolo e delle sue decisioni lo avessero abbattuto di
colpo e non riuscisse più a sostenerlo con le sue sole
spalle.
Mi faceva
male vederlo così, in quel momento avvertivo il bisogno di
aiutarlo, di abbracciarlo come per alleviare un poco quella sofferenza
che sembrava provare e alleggerire un poco il carico che portava.
Ma, trattenni
immediatamente l’impulso, sapevo bene, infatti, che
ciò non era possibile.
Lui si
fermò a pochi passi da me, mi guardò serio e allo
stesso tempo stanco e poi mi rivolse parola:
«
Konnichiwa Minako-san. » un semplice saluto, prima di sedersi
a terra, ignorando tutto e tutti. « Sono troppo vecchio
ormai, ho fatto il mio tempo…» non mi
guardò minimamente, ma si limitò ad osservare
dinanzi a sé, un punto non ben decifrato nella stanza.
Le sue parole
mi apparvero incomprensibili: cosa voleva dire? Lui troppo vecchio?
Perché si sentiva così? Mi fece cenno di sedermi
accanto a lui e subito obbedii, pur rimanendo un poco discostata da
lui, per non sfiorarlo minimamente.
«
Cosa vuoi dire, mio Shogun? » proferii a bassa voce,
assecondando il suo tono usato, e non smisi mai di guardarlo, ignorando
il dolore che avvertivo, troppo preoccupata per lui.
«
Un mese fa ho condannato a morte un uomo senza prove; dovevo trovare un
colpevole di omicidio, e lui era perfetto. Poco fa ho interrogato un
uomo che ha cercato di uccidermi e l'ho lasciato andare,
perché non ho più voglia di uccidere...
» si fermò qualche istante, soffermando poi i suoi
occhi pece su di me ed io non distolsi il mio sguardo. Sentivo che
aveva bisogno di sfogarsi e, pur non capendo perché avesse
scelto proprio me, mi sentii lusingata e felice, ma allo stesso tempo
provavo una tal sofferenza nel vederlo così e mi sentivo
incapace di aiutarlo. « Per troppo tempo sono stato Shogun,
troppo a lungo ho dovuto prendere decisioni, stabilire chi doveva
vivere e chi morire, ucciso in battaglia, difeso questi luoghi e il
divino imperatore, ma ora sono stanco. » sorrise tristemente
e poi il suo sguardo oltrepassò la mia stessa figura,
facendosi lontano, come se sognasse ad occhi aperti « vorrei
avere qualche amico, vedere mio figlio un uomo che cavalca, e mia
figlia una perfetta Geisha. ».
Non riuscii a
parlare. Avrei voluto stringere le sue mani alle mie e fargli forza,
fargli capire che io c’ero per lui e, se avesse voluto, ci
sarei sempre stata. Ma per lui ero solo la figlia del suo migliore
amico no? Probabilmente solo una bambina ai suoi occhi.
«
E’… è così triste vederti
così. Sentire che lo Shogun, l’uomo che ammiro di
più al mondo… » e che amo
– avrei voluto aggiungere « … dica tali
parole. Forse è solo un momento, forse, se mi è
concesso dirlo, hai soltanto bisogno di riposare, per poi tornare ad
essere lo Shogun che eri e che sei ancora nel profondo. » non
sapevo se potevo rivolgermi così a lui, ma volevo dire
qualcosa, giacché a gesti non era possibile far nulla.
Lui scosse il
capo e poi posò una mano sulla mia spalla, ed io mi trovai a
sussultare un attimo. Una miriade di sensazioni mi avvolse a quel
semplice contatto. L’amore ed il dolore si fondevano insieme
e non sapevo se sentirmi male o bene.
«
Sai cosa penso di questo posto, Minako? Credo che sia ora di
rinnovarlo, forse è venuto il momento di lasciare il mio
posto a un altro venerabile Shogun. » allontanò la
mano dalla mia spalla, nonostante una voce dentro di me gridasse per
sentire ancora quel semplice, innocente, tocco, e poi sembrò
di nuovo perdersi nei suoi sogni.
«
L'ho sognata... la Cascata di Gelsomini, il fiore perfetto finalmente
trovato. » la sua voce sembrò un semplice
sussurro, come la voce del vento. « mia figlia che lo riceve
e viene mandata al Castello per la cena ed io che sorrido e mi
addormento per sempre... »
Quelle parole
erano terribili. Perché mi parlava così?
Perché si rivolgeva in questo modo proprio a me?
Perché pensava così presto alla morte?
Non riuscii
più a trattenermi: i miei occhi si fecero lucidi e lacrime
vi si addensarono. Lo guardai ancora e, incurante di tutto e tutti, pur
mantenendo un tono basso, presi parola:
«
Perché parlare di rinnovamento ora? Ci sei tu, un grande
Shogun. Colui che mi ha accolta qui e mi ha insegnato tanto. Colui per
il quale sin da bambina ho provato una profonda ammirazione. Colui che
tutti lo venerano e di cui tutti parlano. Guarda quei soldati, guarda
come si allenano. Loro vogliono seguire le tue orme, diventare dei
perfetti uomini d’arme come te, pieni di onore,
lealtà, rispetto, orgoglio. Lottano per diventare uomini.
Lottano per amore della propria terra, del proprio imperatore, ma anche
di te, dello Shogun che insegna loro a vivere, oltre che combattere.
» le lacrime iniziarono a scorrere dai miei occhi, non
riuscendo più a trattenerle. « Ti prego
Shogun-sama non parlare della tua morte. Come starà tua
figlia? Credi che tua moglie e tuo figlio sarebbero felici di sentirti
parlare così, se fossero ancora qui? Come faranno qui senza
una persona valida come te al comando del glorioso esercito imperiale?
» e come
starò io senza di te? Altro pensiero da tenere
nascosto. « E’ triste vederti così,
davvero tanto. E mi risulta ancora più difficile dirti la
mia decisione. »
Sembrò
non ascoltarmi, seppure mi guardasse intensamente. Non smisi di
piangere, anche se mi sentivo fragile e sciocca, ma le sue parole mi
avevano notevolmente turbata e non potevo rimanere in silenzio a
guardare. Dopo qualche secondo di silenzio, interrotto solo dal rumore
delle spade, dalle urla dei soldati e dalle mie lacrime capricciose,
disse:
«
Cosa devi dirmi Minako-san? Sei arrivata dunque alla tua decisione?
»
Annuii,
asciugando poi le lacrime con la manica destra del kimono.
«
La decisione è stata presa. Ci ho pensato a lungo, per un
intero giorno, valutando i pro e i contro e, alla fine, ho capito che
non posso più ingannare né te, né mio
padre, né me stessa. Mi sento triste nel doverti dire
ciò, ma ho deciso di non restare qui. Non è
questa la mia strada ed io non sarò mai un vero soldato.
» abbassai per un attimo lo sguardo, poi ripresi. «
mi dispiace dirti ciò, so che ti deluderò, come
ho deluso profondamente me stessa e come deluderò mio padre
vedendomi tornare tanto presto. Ma qui non mi trovo bene, non
è questo il mio posto. E’ venuto per me il tempo
di partire: tornare da mio padre o forse andare altrove,
chissà. Amo l’arco, è ormai parte di me
stessa, e continuerò sempre ad usarlo, ma non posso divenire
arciera dell’esercito imperiale. » nonostante la
tristezza, la delusione, il dolore e le lacrime, il mio tono era deciso
e il mio sguardo tornò a soffermarsi su Azumamaro che mi
fissava a sua volta.
«
Non posso dire di essere felice di questa tua decisione,
però se questa è la tua strada che gli antenati
ti proteggano sempre. » mi disse, sfiorando con lo sguardo il
mio viso, per poi lasciarlo ricadere sul tanto che spuntava
dall’obi stretto alla mia vita.
«
Ti ringrazio mio Shogun. » non so perché
continuavo a rivolgermi così a lui, mio. Lui non sarebbe mai
stato mio. Poi sfilai il Tanto che avevo all’obi e glielo
porsi. « quindi devo ridarti questo. Non sono meritevole di
portarlo ancora con me ».
Lui lo prese
tra le sua mani, senza dire una parola. Temevo che mi cacciasse in malo
modo e invece…
Rimasi ad
osservarlo in silenzio, attendendo una sua parola, il suo congedo. Non
potevo alzarmi e andarmene di mio libero arbitrio.
Lui
osservò con cura il Tanto, muovendolo tra le sue mani, poi
lo sentii sussurrare.
« I
fiori… »
Inarcai le
sopracciglia non capendo che volesse dire, ma poco dopo riprese:
«
Ho visto il fiore perfetto venticinque anni fa e lo sposai. Dicono che
nel nostro Impero, non ci si può sposare per amore, ma io lo
feci… » quelle parole mi trafiggevano
l’anima ed il dolore aumentò, ma rimasi di sasso
nel vedere ciò che stava per fare: puntò il Tanto
al suo stomaco, con la parte affilata e tagliente, e iniziò
a dare una leggera pressione, non così esagerata da
trafiggersi, ma delle piccole gocce di sangue uscirono dalla
lacerazione.
Allarmata
quasi mi ritrovai a gridare un « NO! », mentre,
incurante di tutte le etichette da rispettare, allungai le mie mani nel
tentativo di allontanare quell’arma da lui. No, non potevo
sopportare di perderlo così. Già non potevo
averlo, ma vederlo morire sarebbe stato ancora più doloroso.
« No, ti prego Shogun-sama. Non fare così, non
devi… ti scongiuro. » sembravo una bambina, mentre
lasciavo scorrere di nuovo quella dannate lacrime e mi sforzavo di
impedirgli di uccidersi.
Lui, a
differenza del mio dolore, mi sorrise ed annuì di fronte al
mio fare. Mi lasciò allontanare quell’arma da lui
e poi, fissandomi, replicò:
«
L’ultima lezione è fatta. » sembrava
quasi commosso nell’osservarmi. « non
morirò così, non temere. » non si
curò affatto della piccola ferita che si era inflitto.
Sarebbe guarita in breve tempo. Si alzò da terra, e si
guardò intorno, prima di rivolgermi ancora sguardo e parola.
«
Saresti stata un’ottima arciera, ti avrei già
promossa. Ma hai preso la tua decisione, ed io non posso far altro che
accettarla. » fece una piccola pausa, e poi concluse
« puoi andare Minako, stasera potrai dormire qui, nel tuo
alloggio. Ma… guarda la strada, un giorno potrai vedere lo
Shogun dietro di te.»
Le sue parole
mi apparvero ancora una volta incomprensibili. Mi avrebbe seguita? E
perché mai? Allontanai ogni pensiero, riservandolo per dopo,
quando sarei stata di nuovo sola ed annuii. Mi alzai da terra e gli
riservai un perfetto inchino. Lui accennò un altro lieve
sorriso, denso di stanchezza forse, e poi si allontanò
scomparendo nei corridoi.
Quella sera
sistemai tutte le mie cose e dormii ancora un’ultima volta
nel mio alloggio.
L’indomani,
con unicamente l’arco, la faretra, e una semplice sacca con
cui ero arrivata, ripresi il cammino verso casa, dove avrei trovato
sicuramente delusione, ma almeno sarei riuscita ad allontanare da me
quel dolore e quel sentimento troppo grande che non potevo provare per
lui.
_________________________________________________________
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo.
Spero che finora vi sia piaciuta. :)
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Capitolo 8 *** Epilogo ***
Epilogo
I giorni divennero
mesi.
La primavera
lasciò il posto alla calda estate, l’estate al
malinconico autunno, e l’autunno al freddo inverno.
Ero tornata a
casa in un giorno di primavera, arco e faretra a tracolla, e una sacca
nella mano sinistra.
Così
ero partita, così tornai.
Come nei miei
più tristi sogni, la mia vista provocò un senso
di profonda delusione negli occhi di mio padre. Vidi il suo sorriso
scemare e farsi improvvisamente più vecchio. Mi
guardò solo per qualche istante, uno sguardo che mi
penetrò fin dentro l’anima e non avrei mai potuto
dimenticare.
Avevo
fallito, miseramente.
Mi fermai a
pochi passi da casa e abbassai lo sguardo, mentre mio padre si
allontanò, sgusciando all’interno e chiudendosi
nella sua stanza.
Mia madre,
invece, mi venne incontro e prese le mie mani tra le sue.
Sollevò la mano destra a carezzarmi il viso e mi spinse a
guardarla. In quel preciso momento in cui i nostri occhi,
così simili e particolari, s’incontrarono, mi
rivolse un caldo sorriso. Lei mi capiva, lo aveva sempre fatto.
Non occorsero
parole, spesso gli sguardi dicono tutto.
Trattenni le
lacrime a forza e deglutii. Lei mi strinse a sé. Una donnina
piccola, in confronto alla mia altezza, che però emanava un
calore profondo.
Solo in quel
momento, accolta in un simile abbraccio, lasciai scivolare qualche
lacrima, per sfogarmi con l’unica persona che non mi
disprezzava, derideva, o altro.
«
Forse è meglio non tornare a casa… non voglio
fargli altro male. Posso trovare un posto dove vivere da
sola… » proposi poco dopo, asciugandomi il viso, e
guardandola negli occhi.
Lei scosse
subito il capo e si accigliò.
«
Sei mia figlia e non ti permetto di andare a vivere da sola, rischiando
di essere beffeggiata da tutti. Lui capirà. Dagli solo un
po’ di tempo. »
Seppur
riluttante, acconsentii e scivolai all’interno della casa,
dietro di lei.
Nei primi
tempi mio padre mi guardava e parlava a malapena. Percepivo la sua
sofferenza, oltre che la delusione. Ero la figlia che più
amava e, non riuscire a parlarmi per puro orgoglio, gli faceva male.
Anch’io
soffrivo.
Amavo mio
padre e vederlo così, mi faceva male.
Il non aver
realizzato il mio sogno, mi faceva male.
E
soprattutto, nonostante la distanza che ora c’era tra me e la
città imperiale, non smettevo di sognare lui. Lo Shogun che
era entrato nel mio cuore. Ciò mi faceva male.
I giorni
passarono ed io tornai ad aiutare i miei genitori nelle faccende
più quotidiane.
Le mie
sorelle, appreso il mio esito fallito, risero di me, ma non
m’importava. Non avevo mai considerato le loro parole, e non
lo avrei di certo fatto ora.
Nei pochi
momenti di libertà, non restavo ad oziare, ma mi recavo in
una piccolo boschetto ad esercitarmi con l’arco. Non aver
realizzato il mio sogno non m’impediva di tenermi allenata e
dimenticare ciò che avevo appreso sin da bambina.
Eppure,
nonostante tutti i miei sforzi di concentrazione, nonostante tentassi
con tutta me stessa di abbattere tutte quelle barriere psichiche e di
entrare in perfetta sintonia con il mio spirito interiore,
c’era sempre qualcosa che m’impediva di compiere il
tiro perfetto.
Sentivo la
sua voce nell’aria, imperiosa, seria… calda.
Vedevo il suo
viso davanti a me. Vedevo il suo sorriso. Vedevo l’ultima
immagine triste di lui, quell’uomo fragile che avrei voluto
stringere tra le mie braccia.
No. Mi era
impossibile dimenticarlo.
Quando
l’amore ti pulsa dentro, scorre in tutto il tuo essere come
un fiume e t’invade completamente, non riesci più
a ragionare, ad opporti, a dire no.
E’
una forza troppo grande di fronte alla quale il più delle
volte, se non sempre, sei costretto ad arrenderti.
Ma, quando
l’amore che provi non può essere ricambiato e sei
costretto a dimenticare, allora lì viene il difficile. E
l’amore si confonde col dolore. Il calore con il gelo.
L’abbraccio con la lama.
Una lama che
colpisce in profondità, che ti ferisce più e
più volte.
Le stagioni cambiarono, ma la mia vita scorreva monotona. Il rapporto
con mio padre rimaneva sempre freddo, sebbene a volte riuscisse a
parlarmi un poco di più.
Io non mi
permettevo di spingerlo a fare di più. Rimasi la figlia
sottomessa e pronta ad aiutare e rispettare i suoi ordini. Lo amavo e
avrei fatto tutto per lui, dopo ciò che gli avevo
crudelmente – anche se involontariamente – arrecato.
Fino a che non giunse l’inverno.
Era molto
rigido, forse uno dei più rigidi che potessi ricordare.
Bianca neve
ricopriva la terra, dove fino a poche settimane prima, vi era un bel
manto erboso.
Mi trovavo
sul retro della casa a prendere della legna, al fine di riscaldare un
poco la casa, quando sentii delle grida di esultanza provenire dal
paese. Mi fermai ad osservare lungo la strada che dalla mia casa
portava al centro, curiosa di capire chi fosse arrivato di
così importante da gettare tanto scompiglio.
Vedevo uomini
ricomporsi per bene e uscire di fretta di casa, donne che, tenendo i
propri pargoli tra le braccia, bisbigliavano sui nuovi arrivati.
Non riuscivo
a percepire bene le loro parole: parlavano di diversi uomini armati e
di una piccola bambina. Ma di più non potei comprendere.
Anche se, avanzando di qualche passo, sentivo diversi sguardi rivolti
verso di me e, subito dopo, altri bisbigli.
Storsi le mie
labbra in una smorfia e lanciai loro un’occhiataccia. Ero
arcistufa di sentire parlare male di me, dopo mesi e mesi.
Pensai di
tornare a casa e lasciare quelle donne alle loro chiacchiere, ma,
proprio nel momento in cui stavo per voltarmi, vidi… i nuovi
arrivati.
Erano cinque
uomini, armati di tutto punto, e tutti avevano almeno una katana,
sintomo del loro essere Samurai. Ma l’uomo al centro, che
teneva per mano una deliziosa bambina – che poteva dimostrare
al massimo dieci anni – aveva un qualcosa di diverso.
Al suo
avanzare, molti paesani s’inchinarono profondamente, come se
fosse una persona di tutto rispetto.
Ero ancora
distante e non potevo vedere con esattezza, ma il mio cuore
iniziò a battere, nel momento esatto in cui quel pomposo
gruppo si avvicinava a … me.
Il mio cuore
lo aveva riconosciuto prima dei miei occhi.
Azumamaro
Mushanokoji Watanabe, lo Shogun, era proprio lì. Ormai
davanti a me.
Presa
dall’emozione e dalla sorpresa lasciai cadere i pezzi di
legna a terra, provocando uno strano trambusto.
Spalancai le
labbra e mi vergognai della mia disattenzione e di come mi presentavo a
lui:
il freddo
difatti aveva reso la mia pelle un poco più screpolata,
così come le labbra, rosate, rovinate su più
punti. I miei lunghi capelli scuri erano scompigliati e lasciati
sciolti. Il kimono che indossavo era di un verde scuro, ma molto
semplice. Un abito quotidiano, in fin dei conti.
Dopo diversi
minuti, riuscii a riprendermi da quella visione e mi chinai
profondamente.
«
Ve- venerabile Shogun… » riuscii appena a
mormorare, con voce spezzata, mentre lacrime impertinenti affiorarono
ben presto nei miei occhi, pungendomi a causa del freddo.
«
Alzati Minako-san, non prostrarti a me, in tal maniera. » la
sua voce era sempre austera, ma allo stesso tempo molto calda. Risposi
subito al suo ordine e sollevai il busto, soffermando poi lo sguardo su
di lui. Ma non riuscii a guardarlo troppo a lungo negli occhi.
«
Lo Shogun infine è giunto. Come puoi vedere ha mantenuto la
sua parola. » a quelle parole ne seguirono altre nella mia
mente. Ricordi… guarda
la strada, un giorno potrai vedere lo Shogun dietro di te.
Era giunto,
sì. Ma cosa ci faceva lì? E soprattutto con
quella bimba mai vista prima?
Non riuscii a
dire una parola, ma spostai lo sguardo sulla piccola che mi
mostrò subito un delizioso sorriso, con tanto di fossette
sulle gote.
Era piccina,
il viso paffutello, sul quale spuntavano due grandi occhi castani, che
mostravano nel profondo una malinconia che non potevo comprendere; un
nasino piccino all’insù, e due labbra a forma di
bocciolo di rosa. I suoi lunghi capelli scuri erano raccolti in due
codine, che la facevano sembrare forse più piccola.
Indossava un elegante kimono giallo, con deliziosi fiorellini rossi, e
un Obi arancione alla vita.
Era
adorabile.
Lei
continuò a sorridermi e poi disse.
«
Così tu sei Minako. Sono tanto felice di conoscerti.
» chinò appena la testolina, poiché con
la manina sinistra ancora stringeva quella dello Shogun. «
mio padre mi ha a lungo parlato di te, come l’arciera
più eccelsa del suo esercito. Mi dispiace non averti mai
vista prima, ma sono curiosa di vedere la tua abilità, tanto
apprezzata e decantata dallo Shogun stesso. »
Il suo modo
di parlare dimostrava una maturità insolita in una bambina
così piccola, eppure la sua voce mostrava una tale dolcezza,
che mi portava quasi a commuovermi ma anche ad arrossire a simili
complimenti.
Le persone
del paese erano tutte lì, ad interessarsi della situazione.
Le donne che prima avevano bisbigliato qualcosa contro di me, ora
spalancarono gli occhi di fronte a un simile discorso ed io mi sentii
orgogliosa.
Prima che
potessi rispondere, fu la volta, ancora una volta, di Azumamaro di
parlare:
«
Esatto Michiko-chan. Lei è Minako-san, l’arciera
più promettente dell’esercito imperiale.
» arrossii ancor di più « e lei
è la mia bambina. Non siamo legati dal sangue, ma non deve
essere per forza questo a legare due anime affini. » lo
guardai notevolmente sorpresa di fronte al nuovo uomo che avevo dinanzi
a me. Lui sorrise alla piccola e lei ricambiò. Erano
profondamente legati e quel rapporto che si era creato, da un lato mi
faceva tenerezza, dall’altro mi faceva provare una sorta di
leggera gelosia.
Lo fissai
ancora qualche istante e mi accorsi che il mio amore per lui non si era
minimamente affievolito, anzi, di fronte a una scena del genere, il
sentimento provato si rafforzò ancora di più e
con sé anche il dolore tornò a torturarmi.
«
Sono lieta di conoscerti piccola Michiko, e sono onorata anche di
vedere te, Venerabile Shogun, proprio nel mio paese. Mio padre
sarà felice di vederti, se ovviamente avrai tempo di
rimanere. » mi rivolsi a loro con gentilezza e sottomissione.
Rivolsi un sorriso delicato prima alla piccola, poi a lui.
Lui mi
guardò intensamente e poi mostrò un altro sorriso
che mi fece smorzare il fiato.
«
Credo che resterò più di una semplice visita.
» non riuscii a decifrare per bene le sue parole, o forse non
volevo. Poi, aggiunse: « Sarò felice di vedere il
mio caro amico Michio e sua moglie. Prego, facci pure strada,
Minako-san. » chinai appena il capo e poi feci per prendere
la legna, ma prima che potessi effettivamente farlo, lui diede ordine a
uno dei samurai al suo servizio di prendere il tutto al mio posto. Non
osai oppormi al suo volere e d'altronde ero anche contenta di non dover
riprendere quel peso. Li condussi, infine, verso la mia casa, dietro
gli sguardi sorpresi ed invidiosi dei membri del villaggio.
«
Padre, madre, c’è una visita importante per voi.
» i miei genitori si trovavano nella cucina: mia madre stava
preparando un tè, mio padre era seduto semplicemente vicino
a un basso tavolino di legno. Quando notarono la presenza di Azumamaro,
della piccola e dei samurai si chinarono profondamente.
Io mi spostai
di lato, permettendo agli “ospiti” di passare.
Ancora una volta, lo shogun parlò:
«
Michio-san, amico mio. Non devi inchinarti a me. Alza il tuo sguardo e
mostrami il tuo volto. Abbiamo molto da dirci, molto da confidarci.
»
Mio padre
alzò lo sguardo e quasi piansi per la commozione nel vederlo
con una tale gioia ed orgoglio sul suo viso, come non vedevo da mesi.
La delusione,
la tristezza e il dolore erano come sfumati, lasciando il posto a un
sorriso tale da illuminargli il viso.
Io rivolsi lo
sguardo a mia madre e lei a me. Un sorriso increspò le
nostre labbra, mentre guardavamo i due amici ritrovati che si
abbracciavano, cosa che non avevo mai visto fare soprattutto dallo
Shogun. La piccola Michiko guardò suo padre e sorrise
contenta, per poi avvicinarsi a me. Mi sfiorò appena la mano
e mi guardò intensamente. Non compresi subito il motivo di
un tale atteggiamento nei miei riguardi, ma da quel momento quel
leggero senso di gelosia nei suo confronti scomparve, e mi ritrovai
incantata da una tale bambina.
*
* *
Dopo l’inverno una nuova primavera
arrivò: gli alberi di ciliegio si riempirono di una
moltitudine di fiori bianchi e rosa che incantavano i sensi. Tornarono
gli uccellini a cinguettare, mentre la bianca neve lasciò di
nuovo il posto a uno splendido manto erboso. I bambini tornarono a
correre per le strade, le donne a cantare, gli uomini a fare altre
attività all’aperto.
Raggiunsi il
piccolo bosco vicino alla mia casa, fino al punto dove sin da bambina
ero solita andare per le lezioni con l’arco.
Ovviamente lo
portavo con me, insieme a un’unica freccia.
Il mio scopo
era riuscire a realizzare il tiro perfetto, ci sarei davvero riuscita?
Mi fermai a
diversi metri di distanza da un albero e lo osservai con la
più completa attenzione. Al centro del busto c’era
una piccola crepa, dove la corteccia era stata tolta, lasciando il
posto a una superficie più liscia e chiara di legno. Era
poco lo spazio. Era difficile riuscirci, ma volevo dimostrare a me
stessa di riuscire ad essere realmente un’arciera perfetta, e
quello era il punto giusto.
Sfilai
l’arco dalla spalla e distanziai i piedi, portando il destro
un poco più avanti rispetto al sinistro e distribuendo il
peso del mio corpo su entrambi.
Feci un
profondo respiro, per poi espirare fuori tutta l’aria e
continuai altre volte, al fine di trovare la più perfetta
concentrazione. I miei occhi non smettevano di guardare il punto da
colpire.
Con la mano
sinistra presi l’impugnatura di legno dell’arco e
con la destra posizionai la freccia, e la tenni fissa sulla corda.
Alzai
l’arco quel che bastava per avere una corretta direzione.
Tesi la corda
senza alcuno sforzo. Non dovevo metterci forza, non dovevo metterci
ardore. Era come una recita teatrale, un ballo: dovevo seguire i
perfetti movimenti e rilassarmi il più possibile. Svuotai la
mia testa da ogni pensiero che potesse influenzare il mio tiro: non
c’era gioia, non c’era dolore, non c’era
ansia, non c’era paura. Nulla.
Entrai il
più possibile in comunione con il mio spirito interiore:
scrutai dentro di me, fino a trovare quella luce dapprima pallida e via
via più intensa, e mi lasciai avvolgere completamente.
Solo a quel
punto, scagliai la freccia.
La freccia venne rilasciata come
il dischiudersi di un fiore. *
Sentii il suo
sibilare, un suono acuto che tuttavia non destava fastidio. Seguii,
immobile, la sua traiettoria, il mio spirito che accompagnava la
freccia, fino al suo obiettivo: si fermò al centro esatto di
quella piccola porzione liscia e chiara di legno.
Non
c’era più dolore che potesse fermarmi.
Non mi
colpiva più con sferzate violente.
Sorrisi,
ritornando infine alla posizione iniziale e abbassando
l’arco.
Il tiro
perfetto, quello che a lungo avevo tanto cercato di compiere, infine
era giunto.
«
Mamma, ce l’hai fatta! Sei l’arciera più
brava di tutti! » una vocina acuta, ma incredibilmente dolce
mi fece tornare alla realtà. Mi voltai e, lasciato
l’arco a terra, presi la mia piccola tra le braccia, la
strinsi a me, e mi lasciai inondare dai suoi adorabili baci.
«
Sì, piccola mia. Ma non ci sarei mai riuscita se non ci
fossi tu, e… il tuo splendido papà. »
Un uomo si
avvicinò a noi e posò una mano sulla mia spalla,
mi rivolse un sorriso che come sempre mi fece sciogliere il cuore ed io
sprofondai il capo sul suo petto, mentre la piccola ci sorrideva,
felice.
Felice come
lo ero io, ora che Michiko ed Azumamaro erano entrati a far parte della
mia vita, divenendo mia figlia e mio marito.
________________________________________________
Ecco quindi
la conclusione di questa storia.
Sfortunatamente
non c'è stata ancora alcuna classifica nel contest, anche se
spero che la giudice si faccia viva presto, visto che ho una gran
voglia di sapere cosa ne pensa a riguardo.
Spero di aver
scaturito in voi delle emozioni, che questa storia vi possa piacere. Da
parte mia, mi sono divertita a scriverla, e ci tengo parecchio,
giacché i personaggi delineati sono parte di me.
La frase
seguita dal simbolo * è stata più o meno ripresa
dal sito di tiro con l'arco giapponese di cui parlavo all'inizio della
storia.
Per il resto,
ringrazio tutti coloro che l'hanno letta, che hanno commentato e che
l'hanno inserita tra le...
Ricordate:
1
- Human_
Seguite:
1
- Ayumi Yoshida
2 -
ELPOTTER
3 -
kalaea
4 -
kuasta
5 -
SuxFrago1212
A presto :)
Ayumi Yoshida:
Ti ho già scritto via mail, ma dopo aver visto i tuoi
commenti non posso non aggiungere qualcosa anche qui. Come hai detto
anche tu, le recensioni delle persone che leggono fanno davvero bene
allo scrittore. E tu non sai quanto le tue parole mi abbiano scaldato
il cuore. Sono una persona molto sensibile, che si commuove per poco, e
ci sei riuscita anche tu. Ti ringrazio di cuore. Mi ha fatto piacere
notare le frasi che più ti hanno emozionata, e che hai
inserito la storia tra le preferite.
Grazie, grazie e ancora grazie di cuore.
In bocca al lupo anche a te per il contest, sono curiosa di leggere la
tua :)
Risultati Contest, Giudicata da Bimba_Chic_Aiko
Correttezza Grammaticale: 9/10
Essenzialmente la grammatica è buona, ma non eccezionale.
Alcuni errori, qua e là, per quanto concerne la
punteggiatura e soprattutto l'uso delle virgole.
Altri, poi, si presentano in alcuni periodi che si articolano in
maniera complicata e rendono difficile la comprensione al lettore.
Stile e Lessico: 9.5/10
Lo stile è semplice, pulito, sobrio.
Nessuna pomposità che non farebbe altro che rallentare la
lettura.
Anzi, lo stile rende ancora più immediata la comprensione,
se così vogliamo chiamarla, già molto accentuata
dall'uso della prima persona.
Entrambe sono caratteristiche che “immettono” il
lettore all'interno del racconto.
Caratterizzazione
Personaggi: 9/10
Come avevo detto per la storia di CoryCory, dare un voto alla
caratterizzazione dei personaggi non è mai facile. E' sempre
molto difficile valutare il carattere dei personaggi che create e
quindi devo limitarmi a farlo in base alle mie percezioni.
Devo ammettere che la figura di Minako mi ha affascinata, molto
più di quella di chiunque altro.
Forse più che lei stessa, mi ha incantata l'aura di rispetto
e reverenza, di orgoglio e dignità che Minako emana tra
queste pagine anche nei piccoli gesti e nelle parole.
All'inizio forse è un po' “statica”, nel
senso che sembra che si susseguano unicamente i soliti sentimenti:
orgoglio, fierezza, coraggio che sono sì i tratti principali
del suo carattere, ma che non sono comunque intervallati da
nessun'altra emozione.
O meglio, è così fino a quando non se ne rende
conto, fino a quando in sogno tutto le è chiaro: non
è solo ammirazione, la sua.
Per il suo Shogun lei prova molto di più. Ed ecco che il
personaggio di Minako si completa e oltre a quello di una guerriera
diventa anche quello di una donna.
E' forse questo che rende davvero innovativa e migliore questa figura.
Originalità:
8.5/10
Come ho già accennato prima, la vera originalità
di questa storia sta nella figura di Minako che è sia
guerriera forte che donna.
Probabilmente il voto sarebbe stato più alto se Minako
avesse accettato fin da subito i suoi sentiementi, senza le remore che
le provacano la sua educazione e il suo desiderio di diventare una
grande arciera.
Ecco, altro fattore positivo: l'idea di un arciere donna in una massa
di soldati uomini. Non una cosa unica, ma all'interno della fic risulta
comunque al di fuori dei normali canoni, soprattutto se si paragona
questa scelta con quella delle sorelle Geishe.
Attinenza: 9/10
Si inizia a parlare di dolore e di intestino verso la 15esima pagina.
Il che va benissimo per una long che, ovviamente, non può
incentrarsi unicamente su questo argomento per tutta la durata del
racconto, a meno di diventare ripetitiva.
E' stato bello vedere l'uso che hai fatto della barriera, usandola per
unire la donna che c'è in Minako al soldato.
E proprio questa barriera crea come un conflitto interiore tra queste
due parti, in un'espediente narrativo di grande intensità.
Voto personale: 4/5
Poi: voto personale.
Se c'è una cosa che mi ha profondamente colpita fin
dall'inizio è la minuziosità delle descrizioni,
la grande capacità e sapienza con cui hai indugiato su
minimi particolari che dipingono lo scenario con sapienti tocchi.
Soprattutto mi ha colpita la descrizione delle
“pose” assunte da Minako e della sua concentrazione
assoluta di fronte al bersaglio.
C'è solo lei, il silenzio e quel manichino: il resto non
è che vuoto.
Una cosa assolutamente fantastica che mi ha dato i brividi, tanto era
intensa la scena.
Se devo essere sincera, la parte che ho preferito in assoluta
è stata l'epilogo, forse perchè è la
parte in cui Minako mette a nudo sé stessa e l'immenso mondo
interiore che si nasconde dietro i suoi occhi così
particolari.
Ed è forse in quest'ultima parte che il titolo assume il suo
pieno significato e sembra modellarsi alla perfezione sulla storia.
Inoltre questo fantomatico epilogo è un susseguirsi di
emozioni diverse che vanno dall'orgoglio paterno all'amore.
E devo dire che, a dispetto di tutto, sono perfettamente bilanciati.
Peccato solo per gli errori di punteggiatura che hanno rallentato un
pochino la lettura, ma brava comunque.
Totale: 49 punti
Il Banner ovviamente sta nel Prologo. :)
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