A Picture's Affair

di elans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il solito prologo ***
Capitolo 2: *** Incidenti ***
Capitolo 3: *** Questione di pittori ***



Capitolo 1
*** Il solito prologo ***


Goodbye Disclaimer: Ho pubblicato questo scritto senza alcuno scopo di lucro (anzi, è già tanto se qualcuno lo leggerà). Con esso non intendo offendere in alcun modo nessuno dei personaggi, né dare una rappresentazione veritiera del loro carattere.


Shelly

Conoscevo Jack Barnes solo di vista, e probabilmente le cose non sarebbero cambiate se non avessi deciso che girare una scena di sesso era una delle cose da fare prima dei vent’anni.

Era il mio primo mese a Cambridge. Avevo appena dato il test d’ingresso per psicopedagogia, e mi stavo dando da fare per entrare nella ΑΩΔ, la confraternita femminile più in vista del college. L’idea di saltellare in top e mutandine coordinate rosa confetto, al grido di “alfa, omega, alfa omega delta”, per nottate intere non mi entusiasmava molto, ma non avevo intenzione di passare cinque anni come “Wendy la sfigata” o qualcosa del genere. Il fatto che Dr House fosse mio zio forse avrebbe un po’ influito sulla mia reputazione, questo dovevo ammetterlo, ma meglio non rischiare.
Era l’una del mattino, ed era appena finita una fase delle selezioni per la confraternita. Io e Julie, mia compagna di corso destinata a diventare la mia migliore amica lì dentro, stavamo festeggiando la nostra ammissione con una birra, quando uno schianto squassò il tranquillo casino del college. In pochi minuti una montagna di curiosi in era radunata in una strada parallela, così ci avvicinammo anche noi. Almeno saremmo state preparate sull’argomento “news e gossip”.
«Che cos’è successo?» chiesi ad uno del terzo anno, che emanava, dall’alto dei suoi quattro metri, una suggestiva puzza di whisky.
«Ma tu non sei quella del Profumo?» biascicò lui per tutta risposta. Ma guarda te se l’unico deficiente del college che aveva visto quel film doveva capitare proprio a me, tra capo e collo.
«Profumo?» domandò Julie. «Oh, Shelly! Meraviglioso! La mia amica è nella pubblicità di un profumo, la mia amica è nella pubblicità di un profumo!» strillò. Julie è un’amica meravigliosa, ma quando si emoziona partono i gridolini e non la ferma più nessuno. «Oh, me la farai vedere, vero?»
«Ah, oh, be’, ehm, un momento, il profumo non-» balbettai, cercando di prendere tempo. «Quella che c’era l’omino che la voleva squartare!» insistette l’essere.
«Squartano? Oh cazzo, Shelly!» esclamò Julie. Ora era mezza isterica. «Che ti hanno fatto? I paparazzi? Li hai denunciati, vero?»
«Ehm, no, deve esserci un errore» chiarii. Se tutto il college avesse scoperto che di cognome facevo Hurd-Wood, niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi dalle battutine sadiche su me e Peter Pan.
«Mh. Strano. Sei proprio identica. Sì, ha fatto un incidente. Jack... ha fatto un incidente» grugnì finalmente lui.
«Jack chi?» intervenni. Un cambio d’argomento era proprio quello che mi serviva.
«Jack Barnes.»
«Mai sentito nominare.»
Jack Barnes era quattro anni più vecchio di me. Studiava qualche materia scientifica difficilissima ed apparteneva ad una confraternita di cui non avevo mai sentito parlare. Pare si divertisse a suonare la chitarra elettrica, ma la metà degli studenti maschi dichiarava di suonare qualcosa di rocchettaro e spaccone. Forse pensavano che facesse più figo.
Fino ad ora, nella mia vita ci sono stati solo tre uomini veramente importanti, e uno di loro è mio padre
(ma questo all'ΑΩΔ non lo devono sapere). Non sono mai riuscita a capire come funzionano (non devono sapere neanche questo).
Mia nonna diceva che se Dio dopo l'uomo ha creato la donna, è stato per cercare di rimediare all'errore. Sono pienamente d'accordo con lei.

Leonard
Ricordavo tutti i volti che avevo dipinto.
Il grande sorriso di un bambino, vero, una volta tanto, perché i bambini sorridono con tutto il volto, non soltanto con la bocca; la pelle di perla di una donna, simile al riflesso della luna nel ghiaccio, e la sua risata scrosciante, una rosa sorta sulla pietra; e infine la mia opera più recente, un giovane ed i suoi occhi luccicanti, come le ultime stelle di un pallido cielo d’inverno.
Ancora un mese e sarebbe cominciato ottobre, e le foglie avrebbero cominciato a cadere sul selciato tra i sussurri, navigando nell’aria malinconica dell’autunno.
Ma quell’anno l’autunno voleva farsi attendere.
Nonostante fosse già cominciato settembre, quella sera faceva un caldo infernale. L’intera popolazione di Landscape si era precipitata nell’unico bar del paesino reclamando un drink qualunque, a patto che fosse gelido. E considerate che Landscape era famosa per i suoi vecchietti e per il loro punch al rum anche a ferragosto. Il vecchio Joe aveva elaborato un nuovo cocktail composto da un po’ d’acqua fredda, mezzo dito di vodka e otto cubetti di ghiaccio. Il nome aveva a che fare con il permafrost (Joe aveva dovuto spiegare cos’era a tutto il locale) e gli orsi polari.
I metereologi avrebbero trovato pane per i loro denti: avrebbero studiato il fenomeno e assicurato che un clima del genere era innaturale, doveva esserci sotto qualcosa, forse l’effetto serra, forse il buco nell’ozono, o altre stronzate da finti ecologisti. Peccato che nessun metereologo si fosse mai interessato a Landscape, il villaggio più piccolo del Regno Unito, a qualche miglio da Londra, e non potevo dar loro torto. Mentre afferravo lo scotch, con quattro cubetti di ghiaccio dentro, urtai con il braccio il block notes ormai quasi finito, che cadde a terra. Per fortuna ne uscì solo qualche vecchio schizzo.
Dal mio angoletto preferito, che per l’appunto si trovava sotto il condizionatore, io disegnavo freneticamente sul mio notes, lo scotch&soda sempre a portata di mano.
Leonard Jacques, quarantadue anni. Artista. Alla sera, soprattutto d’estate, amavo sedermi al bar e cominciare a disegnare i miei sogni ad occhi aperti, che potevano ricalcare perfettamente la realtà o dimenticarla del tutto.
Avevo appena finito di raccogliere le carte, quando qualcuno mi porse alcuni fogli. «Deve aver perso questi» mi disse un signore sulla trentina, più alto di me di almeno una spanna.
Sarebbe stato un modello perfetto per un ritratto, nella sua singolarità: occhi grigi di ghiaccio, lunghe mani pallide, grosso spolverino nero nonostante la temperatura. Lo ringraziai, ma quando mi guardò negli occhi mi corse un brivido di freddo su per la spina dorsale: sembravano vuote perle di vetro.
Per un attimo mi sembrò che nel bar fosse calato un gelo invernale. Abbassai gli occhi sullo schizzo: al posto del bel giovane che avevo dovuto ritrarre, vidi un volto pieno di rughe e...
L’ultima cosa che sentii fu il tonfo sordo di un corpo che piombava a terra.

Becky
Per lasciarmi, Affleck scelse uno dei caffè più eleganti di Soho. Prenotò un tavolo all’aperto, proprio come piaceva a me; accese la candela con un fiammifero che trasse di tasca, cosa che mi faceva impazzire; e si premurò di farci arrivare, a metà pranzo, un vaso di camelie, i miei fiori preferiti. Ordinammo ostriche e un primo di mare, e solo a metà dell’aragosta Affleck soffiò sulla candela e disse: «Rebecca, mi dispiace, è finita.»
Avrei dovuto balbettare (stile pesciolino Dory): Come hai detto, Fernando?
Oppure (stile Guerriera Fantasy Particolarmente Agguerrita Al Secondo Giorno Di Ciclo): Che diavolo stai dicendo, dannato (censura)? Tutta ‘sta sceneggiata per [censura].
O ancora (stile Isabella Swan): Oh ti prego, Ben, non mi lasciare, ho bisogno di te, senza la tua presenza non posso neanche respirare.
Invece, nella mia eterna imbecillità, feci cenno di sì con la testa, schioccai le dita e chiesi: «Cameriere, potrebbe portarci altra acqua minerale?»
«No, Rebecca, intendevo la nostra relazione» chiarì Affleck.
Il cameriere dovette cogliere un lampo di furia omicida nei miei occhi, perché disse: «Certomadame» e se ne andò di corsa.
«La nostra relazione» ripetei.
«Sì. La nostra relazione... per me... è... finita» mormorò il mio nuovo ex fidanzato.
Eccola lì. Nuda e cruda.
«La nostra relazione. Per te. Finita» replicai, tanto per avere più chiaro il concetto.
Lo fissai a lungo. Non sapevo se piangere, urlare istericamente, supplicarlo chiedergli perché con gli occhi iniettati di sangue, esprimere una mia teoria su lui e sua madre o far finta che non me ne importasse niente.
«Vuoi che me ne vada?» chiese Affleck, con dolcezza.
«No» ruggii, scattando in piedi e afferrando la borsetta. «Ora paghi il conto.»
«Madame... l’acqua minerale» mi ricordò quell’idiota del cameriere.
«La venda!» abbaiai.
Quindi mi allontanai al trotto, fingendo di avere ai piedi All Stars e non décollétè tacco quindici, immersa nei miei pensieri.
Ehi, Becks, in fondo è stato un vero gentleman. Ricordi com'era finita l'ultima volta?
L'ultima volta l'hai mollato tu, Becks.
Be', quella prima. Un sms e addio.
Sarebbe stato difficile non accorgersi della coppia che stava arrivando in direzione opposta alla mia, e sullo stesso marciapiedi: li avevo visti insieme almeno ottanta volte in uno dei film preferiti di mia sorella.
Ma io ci riuscii, un po’ perché avevo gli occhi appannati per la rottura del mio fidanzamento e del mio alluce sinistro, un po’ perché mi stavo facendo un film in testa in cui Affleck mi rincorreva cercando di spiegarmi le sue ragioni, io lo abbassavo di dieci centimetri con un calcio alla Chuck Norris e poi lo spingevo a colpi di tacco nel viadotto fognario più vicino. Perciò andai loro addosso come se nulla fosse, provocando così un capitombolo di massa.
«Scusi!» esclamai, quando mi fui resa conto della situazione. «Mi dispiace, io non volevo, avevo altro per la testa...» Cazzo, Becks, hai buttato a terra Bridget Jones!
L’avvocato, l’uomo di Bridget di cui non riuscivo a ricordare il nome, riuscì a tirarci su tutt’e due in una volta sola, anche se giurerei di aver sentito un “crack” al livello della sua schiena.
Seguirono presentazioni.
«Renée Zwellger» disse la donna. Come se ci fosse bisogno di dirlo.
«Ah, sì certo, l’ho vista qualche mese fa in quel film in cui flirta spudorat... voglio dire interpreta un’amica di George Clooney.»
Già. Quel film l'hai visto con Ben, ricordi?
Non-mi-parlare-di-quel-rettile.
Quel rettile era l'uomo della tua vita, Becks. Tu hai russato per tutto il tempo e lui ha fatto finta di non accorgersene. E ti ha anche regalato dei fiori.
Sta' zitta, Becks. Avesse almeno spiegato perché...
Sai, Becks, non è facile sopportare una come te, che parlerebbe dei Beatles e di Oscar Wilde e di Woody Allen tutto il giorno.
«Colin Firth» disse il gentleman, stringendomi la mano. Ebbi un vago flash in cui lui prima baciava Bridget Jones, poi parlava con Tata Matilda. «E lei deve essere Rebecca Hall, giusto?»
«Be', sì. Sono io.»
«Insomma. Mia figlia.»
Come, scusi? Da quand'è che l'omino di Tata Matilda è tuo padre, Becks? «Scusi, non capisco.»
«Sì, mia figlia. Emily Wotton.»
«Emily che?» Ah, bene, è solo matto.
«Il film. Non ricorda?»
«Il film» ripetei inarcando un sopracciglio. Stammi a sentire, ciccio. Quel troglodita - quell'uomo stupendo - mi ha appena mollata, ed io non ho la BENCHE' MINIMA INTENZIONE...
«Dorian Gray» disse l’omino con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
Orrendo sospetto. «Deve scusarmi un momento. ‘Notte!» salutai con un altro sorriso forzato, e ripartii, stavolta al galoppo, verso la casa di mia sorella, all’altro capo di Londra. Finchè non mi si ruppe un tacco.
Certe giornate fanno proprio schifo.

Lucy
Finalmente, a mezzanotte mi lasciai cadere esausta sulla valigia rossa di Abigail. Il nostro letto era pieno di dépliant che illustravano il meraviglioso posto in cui stavamo per eclissarci.
Avevamo prenotato due settimane in Egitto a settembre, per evitare la ressa estiva ed i prezzi vertiginosi dell’alta stagione. Non che ci mancasse di che pagare, ma David era fissato sul risparmio.
Ormai è tutto pronto, mi dicevo, sfogliando distrattamente una brochure. Avremmo alloggiato in un villaggio vacanze favoloso, con spiagge immense e bianchissime, un mare così azzurro da sembrare photoshoppato, palme ovunque e soprattutto piscine, bibite, massaggi, jacuzzi, relax totale.
Già immaginavo la mia giornata-tipo: spaparanzata su una sdraio, sorseggiando Bahama Mama come in Scrubs, ammirando il bagnino fighissimo della piscina e schiodando le chiappe solo per far finta di rassodarle con cinque minuti scarsi di acquagym. Le bambine si sarebbero divertite con le animatrici dalle ore otto alle ore ventitrè. E non ci sarebbe stato nessun amico di David appassionato di surf a mettermi i bastoni tra le ruote: ormai erano già rientrati tutti a casa. Finalmente sarei riuscita a mettere in pratica il nome del famoso cocktail on the beach.
«Sono appena cominciate le due settimane migliori della mia vita» esclamai, correndo ad abbracciare David, sul letto.
«Dobbiamo trovare un modo per inaugurarle» sorrise lui.
Stavamo per lanciarci in uno di quei baci appassionati che solo Brooke e Ridge sanno scambiarsi, quando la disgrazia delle nostre vite ci ricordò della sua presenza con un Riing Riiing particolarmente insistente.
 «Vado io a rispondere» mormorai, con un tono che significava: Aspetta che scopra chi è e vado di persona a spezzargli le gambe.
Quando alzai la cornetta non immaginavo la sciagura che sarebbe partita da quel fossile vintage. «Avete chiamato il numero 0034659872, David e Lucy Hamilton. Purtroppo al momento non siamo raggiungibili, data l’ora assurda della notte...»
«Mrs Hamilton?» mi chiamò la voce di Tamara Romers, vicepresidente dell’ala americana della nostra azienda nonché efferata rompiballe notturna.
«Mrs Romers» sbuffai. «Che c’è a quest’ora della notte?»
«Ma qui sono le tre del pomeriggio!» protestò Tamara.
«Perché ci sono nove ore di differenza, Mrs Romers. Diceva?»
«Oh, Lucy non sai cos’è successo!» squittì Tamara. Non si era mai presa tanta confidenza. «Mi dispiace – mi dispiace davvero tanto!» singhiozzò.
Alzai gli occhi al cielo. «Insomma, che c’è?»
«Abbiamo registrato un calo del 26,89% nella vendita di creme solari!» esclamò Tamara.
E tu mi chiami a mezzanotte per questo? «Tamara» dissi, cercando di mantenere la calma come mi aveva insegnato lo yoga. «L’estate è finita. È ovvio che la gente compra meno creme solari.»
«Sì, sì» piagnucolò lei. «Ma non è tutto! Quei bastardi della Glossy Skin hanno indetto una campagna pubblicitaria mirata ai prodotti autoabbronzanti, e... sta funzionado!»
Forse se l’assecondo... «È terrificante, Mrs Romers. Ora però mi lasci dormire. Domani parto per l’Egitto, sa.»
«Ehm... credo di no, Mrs Hamilton» annunciò la voce da topo di Tamara, tremulando.
«Come, prego?» sibilai.
«Quello che Tamara vuole dire» tuonò il presidente del dipartimento americano, un omone alto tre metri e venti con la brutta abitudine di strappare di mano il telefono a tutti i dipendenti «è che la Silky Dream sta calando lentamente a picco. Quindi, Mrs Hamilton, lei e suo marito dovrete raggiungerci qui a New York al più presto.»
«Cosa?» esclamai. «Non ci penso nemmeno.»
«Mrs Hamilton. C’è bisogno di tutti per aiutare la Silky a tornare a galla. Anche di lei e di suo marito.»
Emisi un gemito soffocato.
«Coraggio, Lucy» squittì Tamara. «Vitto e alloggio li paghiamo noi.»


Paddock
L’orologio a pendolo nel soggiorno segnò la mezzanotte. I suoi rintocchi nuotarono tra i ticchettii dei duecentoventinove orologi della casa, si rincorsero attraverso le stanze deserte, scivolarono sui vecchi tendaggi e si attorcigliarono lungo la balaustra delle scale che portavano al piano superiore.
Poi, non appena il dodicesimo rintocco ebbe rimbombato nella villa, tutto si fermò. I ticchettii delle lancette cessarono, e il pendolo rimase perfettamente immobile. Nel silenzio totale, i passi affannati della padrona per le scale.
«Paddock!» mi chiamò. «Paddock, sta succedendo di nuovo! La storia sta per ripetersi!»





Bene. Se state leggendo queste righe significa che siete riusciti ad arrivare in fondo. Wow!
E' la prima fanfiction che pubblico, anche se non la prima che scrivo, e mi piacerebbe sapere che ne pensate. Una riga di commento per me è più che sufficiente, e decisamente esaltante!
Beh, il finale scenografico potevo anche risparmiarvelo... Ma non ho resistito!

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Capitolo 2
*** Incidenti ***


a
Oliver's pov
Diedi l’ultima occhiata al copione sorseggiando il mio cappuccino. Ero assolutamente soddisfatto. Tutto pronto. Io, Oliver Parker, stavo per trasformare un libro che tutti consideravano una noiosa montagna di cazzate nel thriller che avrebbe appassionato migliaia di giovani, alla faccia di chi ghignava che l’unico Oscar della mia vita sarebbe rimasto Wilde.
«Gwen, per favore, in giornata chiami Jacques, l’artista, e gli chieda se può farmi avere anche quegli schizzi che aveva preparato. Ripensandoci, credo che mi serviranno.»
Non capivo perché un artista così pieno di talento come Jacques non volesse neppure che rendessimo pubblico il suo nome. Aveva dipinto un ritratto meraviglioso, la notorietà che avrebbe acquistato l’avrebbe reso uno degli artisti più famosi degli USA. Ma probabilmente era una di quelle persone a cui non importa un fico secco della fama. Valle a capire.
«Subito, Mr Parker» sorrise la mia segretaria. Era una splendida ragazza sui venticinque, e sfoggiava una cascata di lucenti capelli biondi, anche se il primo particolare che uno notava di lei non era esattamente quello.
Tornò cinque minuti dopo, trafelata, mentre osservavo Los Angeles dalla mia finestra fumando una sigaretta. «Mr Parker» ansimò. «Leonard Jacques... il pittore... è morto. Il suo taccuino di schizzi è scomparso.»
Mi prese un colpo. «Morto? Come, morto?»
«Un infarto. Ieri sera, al bar che frequentava abitualmente» spiegò Gwen con aria da detective di CSI.
«Aveva problemi di cuore? Non me l’aveva detto» riflettei, assorto.
«Infatti pare che fosse sano come un pesce. Oh, Mr Parker, è terribile. Anche mia zia Eloise è morta d’infarto, quando io ero molto piccola. Non mi sono mai ripresa da quel terribile...»
Non la lasciai finire, ma tanto c’era abituata. «Abbiamo bisogno di un altro disegnatore, per la felicità di Ben» bofonchiai. Mi sfuggì un ghigno malvagio. «Già, povera stellina.»
Shelly's pov
Me ne stavo in santa pace a guardare una replica di South Park quando mi arrivò uno squillo di Gwen.
Avevo fatto amicizia con lei al mio provino per un ruolo in Dorian Gray, la strada più veloce per depennare la scena di sesso dalla lista. Allora pensavo che fosse succube di Oliver Parker, il regista. Quello che ancora non sapevo era che tutti diventano succubi di Oliver Parker, non appena lo sentono smattare come solo a lui riesce. (Sono sicura che quel regista, in fondo, sia una brava persona. Ma a volte risulta un tantino insopportabile.)
Comunque, richiamai subito Gwen, che ansimò: «Rachel Hurd-Wood? Sto parlando con Rachel Hurd-Wood?»
«Gwen, respira.»
«Rachel, non sai cos’è successo! Il pittore... il pittore ha avuto un infarto!»
«Quale pittore?» domandai. Non avevo idea di che cosa stesse dicendo.
«Il pittore, quello che ha dipinto Ben. Leonard Jacques.»
«Mai sentito. Quando?»
«Ieri sera, in un bar. Stava disegnando, gli è caduto il taccuino e mentre si rialzava è ripiombato giù di colpo. Non c’è stato nulla da fare.»
«Sai, è strano.»
«Rachel? Io ti dico che un poveraccio è morto d’infarto e tu mi dici che è strano
«Sì. Ieri sera, qui a Cambridge, un ragazzo del quarto anno ha avuto un incidente. Si chiama Jack Barnes.»
«Oh mio Dio. È vivo?»
«Sì, sì. Hanno chiamato i suoi due migliori amici dall’ospedale e hanno detto che sta bene.»
«Un momento. Hai detto Barnes?»
«Sì, Gwen, so cosa vuoi dire, ma se suo fratello fosse Ben lo sapremmo, no? Insomma, non sono nemmeno due settimane che sto qui e già le ragazze dell’ ΑΩΔ mi chiamano tutte Wendy.»
«Oh. E non è bello?»
«No, perché mi ripetono anche che sto con Peter Pan.»
«Bei tempi, quelli del college. Comunque, ti dicevo, quel povero Mr Jacques era sano come un pesce, quindi nessuno si spiega come possa essere morto d’infarto.»
«Forse si è spaventato... a morte» ghignai, ripensando ad uno dei miei horror preferiti.
«Oh, Rachel, non dire così, mi metti paura. E comunque era in un bar, mica sul trenino degli orrori. Una volta Sean, quello stronzo del mio ex, mi ci ha portata perché voleva... hai capito, no? e invece io sono stata tutto il tempo con il cappello sugli occhi e poi l’ho mollato.»
Se fossi un uomo, credo che mi guarderei bene dall’innamorarmi di Gwen. «Puoi dirmi dove abitava questo Leonard Jacques?» chiesi, balzando in piedi.
«Oh, Rachel, che vuoi fare?» ansimò Gwen. Quel tono da vergine addolorata mi stava logorando i nervi.
«Forse aveva un sito. Con l’indirizzo lo trovo prima, su Google. A me piace l’arte, sai?» cinguettai.
Cinque minuti dopo avevo salutato Julie inventando un anticipo della partenza per Los Angeles, avevo ficcato lo zaino nel bagagliaio del mio vecchio Maggiolino ed ero partita per Landscape alla velocità più alta che il motore mi consentiva, e cioè circa ottanta all’ora.
Non l’avrei mai detto a nessuno, ma risolvere un caso alla Sherlock Holmes era un’altra delle voci sulla lista.
Ben's pov
Erano le sette di un monotono mattino londinese, ed io mi stavo trascinando fuori dall’Heathrow Airport di Londra. Ero sfinito dal jet lag e da venticinque messaggi di Georgie (probabilmente quell’esserino diabolico aveva stressato tutta la famiglia a suon di ‘io porto a casa trecentomila dollari e voi non mi fate nemmeno la ricarica, ingrati’ finchè non le avevano regalato SMS senza limiti verso tutti per un mese).
Mi misi in coda dietro un’infermiera che trascinava il carrello della colazione con l’entusiasmo di un tacchino il giorno del Ringraziamento, e finalmente riuscii a raggiungere il letto di Jack.
«Oh povero Jack» gemeva Elizabeth Barnes, eterna mater dolorosa, accasciata sul letto di mio fratello. «Meno male che abbiamo scansato la commozione celebrale. Thomas, dimmi che non è vero. Oh, Benjamin, meno male sei arrivato.»
Mio padre, nel frattempo, mi fissava negli occhi con uno sguardo grave e orgoglioso, tuonando: «Benjamin, non sai quanto ci è preziosa la tua presenza qui, ora.»
«Beh, se avesse avuto l'accortezza di non scolarsi cinque birre prima di mettersi al volante...» osservai in tono piatto. (In realtà ero la persona più sbagliata per fargli la predica, ma...)
Dalla montagna di coperte si levò un dito medio puntato verso di me. «Ehi, non sai quanto mi ha fatto male. Dovrò stare fermo per tre mesi. E poi è stato uno scoiattolo che attraversava la strada, non ero ubriaco» grugnì mio fratello.
Inarcai un sopracciglio. «Uno scoiattolo.»
«È stato uno schianto terribile» asserì qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai automaticamente dicendo: «Ah, salve, sono il fratello di Jack, Ben», senza specificare il cognome perché non mi ricollegassero a “il cretino che si schianta contro un ramo” o “quello che per poco non si fa ammazzare da un re nazista, un nano comunista e una strega anarchica che ce l’han tutti con lui”.
Poi mi accorsi di tendere la mano ad un’enorme copia di un giornale sportivo, da cui uscivano fuori solo due cappellini dell’NBA e due mani. Una era grassoccia, l’altra scheletrica.
Il giornale si abbassò repentinamente ed io mi ritrovai addosso quattro occhi strizzati che mi squadravano dall’alto in basso.
I primi due erano incastonati nel volto rotondo, liscio e roseo di un coetaneo di Jack, che occupava due e mezza delle tre sedie a disposizione dei visitatori. Costui indossava un’enorme felpa nera con il volto raggiante di Homer Simpson, sfoggiava una criniera di capelli neri e irsuti e ruminava incessantemente qualcosa in bocca.
Gli altri due occhi si nascondevano dietro lenti quadrate e spessissime, su un volto appuntito e tempestato di lentiggini che apparteneva all’occupante della restante mezza sedia. Questi emergeva da un’enorme camicia a righe bianche e verdi e si aggiustava in continuazione i capelli rossi che gli piovevano lisci attorno al viso, sottili quasi quanto lui.
«Winston» «James» si presentarono all’unisono, balzando in piedi e stringendomi una mano per uno, per poi ripiombare, sempre in perfetta sincronia, a sedere.
«Se vuoi ti faccio spazio» propose James, quello a pane ed acqua, stringendosi in meno della metà della mezza sedia che gli spettava.
«Ehm, no, grazie, sto bene così» balbettai io. «Siete... amici?»
«Sin dai tempi delle elementari» spiegò Winston. «Ci chiamano “la caciotta e lo stuzzicadenti”. Hohoho! Non è divertente?»
Be’, felice lui. «Assolutamente» asserii con un sorriso sghembo. Se i veri attori ridono e piangono a comando, è meglio che mi dia alle sceneggiature.
«Ehi, Ben, mi ascolti o no?» esclamò Jack.
«Non farci caso, oggi è nevrotico» mi avvertì James.
«Chissà perché» si domandò Winston. Dubbio amletico.
«Benjamin, potremmo fare una chiacchieratina là fuori?» mi chiese mia madre saltellando da un piede all’altro, come sempre quando era nervosa.
«Ma certo, signora! Vada pure! Ci siamo qui noi con il suo Jackie!» assicurò Winston, con un gesto eloquente della mano che si schiacciò sul naso di James.
Mia madre mi trascinò fuori di peso. «Benjamin, suppongo che dopo il tuo successo cinematografico tu non abbia quasi nulla da fare» sorrise.
«Veramente, domani dovrei essere agli Ealing Studios» dissi, con un sorriso ancora più largo del suo.
«Oh, Benjamin. È terribile.»
«E perché?»
«Io e tuo padre abbiamo prenotato le due settimane di vacanza che sognavamo da tanto tempo, su a Rejkiavik, in Islanda.»
«Ah. Bello. E quindi?» balbettai.
«Nel frattempo, pensavamo che casa nostra avrebbe bisogno di una mano di colore. E volevamo cambiare le mattonelle, e fare qualche modifica al soffitto e alla cucina. Tutta la roba di valore è in garage. Insomma, casa nostra non sarà granchè abitabile, in questi giorni. Soprattutto per Jack. Ed è ovvio che al college non può tornare, conciato così. Ha bisogno di assistenza
Sapevo dove voleva andare a parare. «Mi dispiace. Il mio appartamento si trova al settimo piano, ci vogliono ottantadue scalini per arrivarci.»
«Oh, Benjamin. Oh, BENJAMIN. Con tutte le meravigliose ville di quella città, e con tutti i soldi che ti ritrovi, proprio l’appartamento al settimo piano ti dovevi comprare?»
«C’è una bellissima terrazza panoramica.» Captai l’occhiata “figlio degenere uno di questi giorni facciamo il test del DNA”. «Coraggio, ci sarà una soluzione» mi corressi, sfoderando il mio miglior sorriso ammaliatore. Ma su mia madre non funziona neppure quello.
«E quale?»
Mio padre apparve sulla soglia della porta, ci lanciò un’occhiata drammatica e pronunciò il fatidico nome: «Martine.»
 
Abby's  pov
L’avrei dovuto capire subito, io, che c’era qualcosa di strano. Quando mamma Lucy mi ha svegliata, il giorno della partenza per le vacanze che attendevo dall’inizio dell’estate, la mia sveglia con le Winx non mostrava le 6.30, (mamma e papà ci avevano fatto una testa così la sera prima “dovete andare a letto perché domani ci svegliamo prestissimo” e non ci avevano fatto vedere neanche un po’ di tv). La sveglia segnava le 10.25. Ma mamma e papà esagerano sempre, quindi non ci ho fatto tanto caso. Così ho scoperto la catastrofe soltanto alle 10.40, a colazione.
Mamma mi ha messo in mano una mega fetta di pane con la nutella, che è proibitissima, perché mamma dice che fa male perché mi fa diventare grossa come un lottatore di sumo, io i lottatori di sumo li ho visti a Geo&geo, quindi non mangio mai la Nutella, però quella volta mamma ha detto che non mi avrebbe fatto niente e quindi l’ho mangiata.
Poi papà ha aperto il Ripiano Proibito, quello in cui io e Melanie non dobbiamo assolutamente mettere le mani perché altrimenti ci tolgono un mese di tv, che è una cosa brutta, perché rimaniamo indietro con i cartoni delle Winx per un mese e non ci capiamo più nulla, e ha preso una grossa bottiglia quadrata su cui c’era scritto una cosa che aveva a che fare con un certo Jack Daniel e si è versato in un bicchiere una cosa che dal colore sembrava tè, o Coca-cola quando ci butti tanta acqua dentro, una volta la mia amica Katie l’ha fatto e poi faceva schifo.
Ho detto che lo volevo assaggiare, e papà ha detto che non se ne parlava nemmeno, e mamma ha detto una cosa che non ho capito (oh David, non a stomaco vuoto, ti prego), poi ha detto una cosa che ho capito benissimo (Abigail, dammi subito quella bottiglia) e l’ha rimessa a posto, e infine ha incrociato le braccia e ha detto una cosa bruttissima. Ha detto: «Bambine, credo che dovremo rimandare.»
«Che cosa?» ho chiesto io. «Cosa dovremo rimandare?»
«La nostra vacanza in Egitto.»
Io e Melanie siamo state un quarto d’ora a piangere, poi io ho detto: «E quindi si torna a scuola?»
Mamma ha guardato papà e ha sorriso: «Be’, non esattamente, bambine. Dobbiamo decidere il da farsi, però... Mamma e papà non ci saranno, in queste due settimane.»
 
 
Ben's pov
Quando la famiglia Barnes, riunita nell’ospedale, sentì pronunciare quel nome, calò un silenzio da corteo funebre. I due vecchietti che condividevano la stanza con Jack fecero schioccare la dentiera e rimasero in un silenzio religioso.
Winston, che non possedeva la loro saggezza millenaria, chiese: «Chi è Martine?»
Jack ed io gli lanciammo un’occhiata saggia e grave, che avevamo ereditato da nostro padre. «No» lo corressi. «Cosa è Martine.»
Zia Martine è un membro leggendario della nostra famiglia. Da quando mio zio è morto, nel 2000, vive da sola in una cittadina sperduta della California. Dimenticate Hollywood, ville lussuosissime e party fino alle tre del mattino: a Lume non c’è niente. O meglio, ci sono: un negozio di alimentari, che è anche tabaccheria, edicola, farmacia, cartoleria, ufficio informazioni e SkyBox e smercia giocattoli, abiti, articoli da regalo, attrezzi per il fai-da-te e il giardinaggio, scarpe, zaini da trekking, bigiotteria e sacchi a pelo di Hamtaro; un caffè che funge anche da fast-food, autogrill, motel e ristorante di lusso; un ufficio postale che include una libreria; un salone di parrucchiere. Ah, c’è anche un maneggio con un campo di salto a ostacoli e un campo da golf. Non ho mai capito a cosa serva, dato che la popolazione di Lume ha un'età media di centoventidue anni.
Zia Martine riesce a far litigare sempre mia madre e mia cugina Lucy, che adesso si odiano a morte. Inoltre difende il suo orticello a costo della vita: quando io avevo dodici anni e Jack sette si piazzava davanti all’entrata con una scopa di saggina nella mano sinistra ed un forcone nella destra. Per ora ha usato solo la sinistra. Oggi distribuisce alle bambine di Lucy caramelle mou cementificate e dolcetti farciti con spinaci e peperoncino.
«Noi non ti abbandoneremo mai, Jack!» tuonò Winston, scattando in piedi.
«Non-dovete-preoccuparvi-per-me» disse rauco Jack. «Io-starò-bene.»
«Nelle buie foreste del Vietnam» borbottai, alzando gli occhi al cielo.
«Vietnam? Ma non era in Asia?» si chiese Winston.
Non so chi avesse più senso dell’umorismo, tra me e lui. Comunque non riuscii a spiegargli la battuta perché mi cominciò a trillare il telefono in tasca.
«Sì, Mr Parker?» chiesi, senza neanche guardare il numero.
«Guarda che sono Lucy, imbecille» abbaiò mia cugina. 
 
Lucy's pov
«Bob, sei l’unico che può salvarmi.»
«Joan? Cercavo giusto te.»
«Perché?»
«Mio fratello ha avuto la geniale idea di schiantarsi contro un pino, ieri sera, e non sappiamo dove ficcarlo. Prima di chiamare zia Martine, pensavo che voi... magari...»
«Bob, siamo nella... cioccolata. Ti ho chiamato perché pensavo che quell’uccellaccio di tua madre avrebbe potuto tenere Abigail e Melanie per un po’. Insomma, lei è un’arpia, ma mia madre è il diavolo in persona, quindi...»
«Perché? E voi?»
«La Silky Dream ha indetto un giro di conferenze negli USA, e... Be’, Bob, ne va del mio lavoro, e anche di quello di David.»
«Joan... I miei hanno prenotato un viaggio in Islanda.»
«In Islanda? Siamo nella mer...inga, Bob. Oh, dovevamo diventare hippy barboni, e guarda come ci siamo ridotti.»
«Che depravati, Joan.»
«Ma davvero, Bob.»
Silenzio nostalgico. Quando io e Ben eravamo giovani e innocenti, d’estate giù a Lume, passavamo intere nottate sul tetto della casa dei miei, a far casino con le chitarre. Poi mia madre, per punizione, ci costringeva a mungere le mucche, dar da mangiare alle galline, falciare il prato, spazzolare il pony Tappo (facile), la cavalla Lady D. (medio) e lo stallone Bob (difficile) e andare a raccogliere i pomodori.
Purtroppo, però, non avevamo tempo di metterci a rievocare le vecchie avventure. « Ok, riassumiamo. Io e David dobbiamo trovare qualcuno a cui affidare Abby e Mel. Voi dovete trovare qualcuno a cui affidare Jack.  Bob, c’è una sola cosa da fare» decretai.
«Pensi anche tu quello che penso io, Joan?»
«Allora. Jack, Abigail e Melanie si trasferiscono insieme a casa di mia madre.»
«E si aiutano l’un l’altra, scoprendo le meraviglie della collaborazione e vivendo un’esperienza altamente costruttiva.»
«E tu vai là e controlli che non salti niente.»
«Cosa?»
«Lume non dista più di tre quarti d’ora da Los Angeles, in linea d’aria
«Appunto, in linea d'aria. Peccato che non ci siano strade asfaltate per arrivarci, Joan.»
«Però c’è una stazione molto pittoresca.»
«Già, dove passa un treno ogni tre ore.»
«Basta che azzecchi quello giusto. Ascolta, se Jack non è mai stato capace nemmeno di scaldare l'acqua per il tè, figuriamoci ora che ha un braccio ingessato quanto può essere d'aiuto. Abigail ha sette anni, Melanie cinque. E se fosse per mia madre, dormirebbero per terra e mangerebbero solo i pomodori del suo orto. C'è bisogno di una presenza paterna.»
«Ti sembro una presenza paterna?»
«Meglio di nulla.»
«Ma io non posso fare il pendolare Los Angeles-Lume-Los Angeles.»
«Puoi trasferirti lì anche tu. C’è posto. E poi sarà solo per qualche settimana.»
«Così mi distruggi la vita privata.»
«Ma se hai detto che non volevi più vedere una ragazza per sei mesi.»
«Ovvio, Leah mi aveva appena mollato.»
«Veramente l’avevi mollata tu. Bob, abbiamo bisogno di te. Quando avevi bisogno della mia pianola per un concerto, io te l’ho prestata.»
«Ma tra me e una pianola c’è un po’ di differenza.»
«Eddai, Bob. Dentro di te hai già ceduto, solo che sei troppo orgoglioso per dirlo. Tutti i Leone sono così. E poi produrrai tanto karma positivo e raggiungerai prima il Nirvana.»
«Sai, Joan, non ti ho mai sentita sparare così tante cazzate una dopo l’altra.»
«Anch’io ti voglio bene» miagolai, riattaccando.
David mi stava ancora guardando, stravolto. «Bob» balbettò. «BOB?»
Oh, ma perché è così duro di comprendonio? «Ma che hai capito? Hai presente Bob Dylan e Joan Baez?» cercai di spiegare.
«Joan chi?» esclamò lui.
«Se la tua cultura musicale andasse oltre Daddy Cool, lo sapresti. Insomma, sono i nostri soprannomi. Un gioco da bambini. In compenso ho trovato dove scaricare le bambine» annunciai, raggiante.
 
Jack's pov
Partimmo per Lume quel pomeriggio, Ben ed io, appena ebbero finito gli accertamenti. Caciotta e Stuzzicadenti se ne andarono all’ultimo momento, dopo i risultati degli esami. James mi regalò un gioco per computer di nome Super Sterminator Blood&Blood 3D. Disse che gli era stato molto di conforto quando si era rotto una gamba in un truculento incidente in barca a vela. Ben si rifiutò di sentire il racconto dell’incidente. James insistette. Ben lo corruppe con un Kinder Fiesta. James ha sempre avuto fiuto negli affari.
A Winston scappò pure qualche lacrima. «Ci mancherai, Jack» disse.
«Già. Se riesci a totalizzare più di 5000 punti nei primi due livelli hai il bonus»  aggiunse James.
«Di solito quanti punti si riescono a totalizzare?» chiesi. Lo conosco James, io.
«In media 200» disse James con un sorriso di incoraggiamento.
«Ah, ok» dissi io.
Uno dei vantaggi di avere un fratello che fa l’attore è che puoi chiedergli un piccolo prestito quando ti serve. Perciò mamma disse a Ben che non aveva la benchè minima intenzione di lasciare che io viaggiassi su un aereo con trecento persone, pensa un po’ se gli viene un’embolia, no, Benjamin, per favore...
Ben acconsentì, ma stavolta fu lui a farsi corrompere con una Fiesta.
«Fantastico. Non avevo mai viaggiato su un coso privato» esclamai quando fummo a bordo.
«Già, uno di quelli che ogni tanto perdono quota e s’inabissano nel bel mezzo dell’Atlantico» sogghignò Ben lasciandosi cadere sulla poltroncina davanti alla mia. Il suo senso dell’umorismo è sempre stato un po’ più cinico e criptico del mio. Lo ignorai.
«Non c’è un Bacardi?»
«Dopo ieri sera? Ubriacone.»
«Ma una Coca-cola la posso prendere. Voglio una Coca-cola fredda.»
«Dai, Jack, sono stanco, non dormo da...»
«Ma io sto morendo di sete. Non c’è una cameriera o qualcosa del genere?»
«Sì, e poi ci sono una cuoca, un maggiordomo, due colf e un giardiniere.»
«Eddai, Ben. Se tu stessi male io te la porterei, una Coca.»
«E allora portamela, ho mal di testa e sto morendo dal sonno.»
«Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Lois. Lois. Lois. Lois. Mamma. Mamma. Mamma...»
«Se trovo chi ha inventato i Griffin...» bofonchiò Ben. «Comunque questa è a tue spese.»
«Che spilorcio. Hai un aereo superaccessoriato e...»
« Abbiamo anche dello scotch da pacchi.»
«Che palle.»
«E lasciami dormire.»
«Ben?»
«Cosa c’è?»
«È vero che ci saranno anche le figlie di Lucy?»
«Sì, problemi?»
«Io non ho voglia di badare a piccole pesti. Ti sembro nelle condizioni?»
«Neanch’io ho voglia di badare a piccole pesti, eppure sono qui con te.»
«Questa era cattiva, molto cattiva.»
Provo un piacere diabolico nel dare fastidio a Ben. Lui mi risponde a tono sperando che me la prenda e stia zitto, ma io lo so e non voglio perdermi metà del divertimento. I fratelli maggiori esisteranno pure per qualcosa, no?
«Ben?» chiesi, dopo un po’.
Lui mugolò qualcosa.
«Ho fame.»
Lui mugolò qualcosa che suonava come «’iglio di ‘uona ‘onna».
«Non c’è nulla da mangiare qui dentro?»
Ok, sono un po’ crudele. Ma ne avevo tutto il diritto. Dovevo scaricare lo stress.
«Jack, ti prego» bofonchiò Ben.
«Ce l’hai un KitKat?»
Ben tornò cinque minuti dopo con due manga, il Nintendo DS del co-pilota e tutto il contenuto del minibar. Poi sbadigliò, si acciambellò sulla poltroncina, si buttò addosso lo spolverino a mo’ di coperta e chiuse gli occhi. Per un momento pensai di scattargli una foto con il cellulare e metterla su Internet. Invece pensai che ero già stato troppo malvagio, e mi limitai ad alzare al massimo il volume del DS.
Shelly's pov
L’idea di base era che una persona sana come un pesce non può morire d’infarto senza un motivo ben preciso, e parecchio eclatante. Inoltre avrei proprio voluto sapere chi era quel medico idiota che aveva fatto la diagnosi. Insomma: mio zio è il Dottor House, questo dovrà valere pur qualcosa.
Per trovare il paesino ci misi un sacco di tempo. Un passante mi disse che era ovest, un altro che era a nord, un terzo mi assicurò che era a est e un vecchietto mi consigliò di girare sempre a destra. Alla fine andai su Google Maps con il cellulare, spendendo un capitale, e scoprii che si trovava ad ovest. Bene.
Irruppi nel bar battagliera, dopo aver posteggiato a due chilometri dal paese perché il mio maggiolino si rifiutava di affrontare una salita con pendenza 88°. Potevo capirlo. Pensavo di trovare polizia, RIS e investigatori privati. Invece nel locale c’erano solo tre o quattro vecchietti in borghese, una cameriera di mezz’età e un grosso biliardo.
Non appena entrai tutti gli occhi e gli occhiali dei presenti si voltarono verso di me. Probabilmente ero la creatura più giovane che metteva piede in quel luogo da mezzo secolo. Come un Picasso al museo egizio, insomma. Cercai di ignorare l’idea, mi sedetti al bancone e ordinai una cedrata. Silenzio assoluto. «Ho sentito dire che qui, ieri sera, è morto un...»
«Già, un infarto» mi prevenne un vecchietto magro magro con un ghigno sdentato.
Il suo vicino, di età compresa tra i settanta e i centoquindici anni, gli diede di gomito. «Icchè parli di ‘ste cose, John? Lo sai che porta male.»
«Pe’ te, forse, che se passi sotto una scala stai un mese in chiesa a pregare. A me, invece, in questi giochetti non mi ci pigliano» dichiarò John con una punta di orgoglio. «Si chiamava Lionel Jaspers, buon’anima.»
«Ma che dici, stai di fuori come le banderuole, stai!» intervenne un terzo vecchietto, bene in carne e con un’aria da frate assassino. «Si chiamava Leopold Jones, rimbambito.»
«John, Bill, ora basta, però. Mi mettete i brividi» li pregò il signore superstizioso.
«Si chiamava Leonard Jacques, si chiamava, ed era più sano di tutti noi messi insieme» intervenne in tono grave la barista.
«Non potrebbe aver bevuto un po’ troppo?» suggerii.
«Macchè! Si beveva un bicchierino e basta, e basta, mi creda» intervenne il quarto vecchietto, che fino ad allora era rimasto sempre zitto. «Si metteva lì nell’angolo e cominciava a disegnare, e disegnava, e disegnava, e nessuno capiva mai cosa disegnava, a volte erano visi, ma anche bottiglie, e Tom giura di aver visto un disegno in cui Marilyn Monroe, quella di A qualcuno piace caldo...»
«Lo sa chi è Marilyn Monroe, non è mica così smidollata. Vero signorina?» lo interruppe Bill.
«Ma chètati, Grant, facevo così per dire. Per precisare, capito? Tu non precisi mai, e infatti non ci si capisce mai niente, eh. Insomma, Tom giura di aver visto Marilyn Monroe seduta sul bancone, proprio di questo bar qui. Epporco cane, John, lasciami finire. E lo sa con chi parlava Marilyn Monroe? Non ci crederebbe mai. Con la donnina di Sandokan.»
«In realtà non è che siamo proprio sicuri che fosse la donnina di Sandokan. Però sembrava, eh, ed era proprio bellina. Se fossi stato cinquant'anni più giovane...»
«Era un disegno, John, che ci volevi fare con un disegno? Certo che sei strano, pure te.»
«Ehi, ehi, ehi!» strillai, cercando di richiamare l’attenzione. «Sto diventando curiosa. Questi disegni dove sono finiti? Li ha presi la polizia? Quando avranno concluso le indagini, mi piacerebbe darci un’occhiata.»
La risposta dei vecchietti fu unanime: «Boh.»
Perciò decisi di andare in commissariato, ammesso e non concesso che in quel posto dimenticato da Dio ce ne fosse uno.
E lì la cosa cominciò a diventare inquietante.

E così sono arrivata in fondo anche a questo enorme capitolo.
Se siete sopravvissuti, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate... in particolare le critiche. E' troppo dispersivo? Troppo lungo? Ci sono troppi punti di vista? (Eh sì, sono perennemente insicura.)

Infine un soffocante abbraccio virtuale a Beatrix_, che ha avuto la pietà di recensirmi mandandomi in fibrillazione per tre giorni :) Grazie mille!

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Capitolo 3
*** Questione di pittori ***


Becky
In realtà la sera della duplice tragedia non avevo trovato la forza morale per andare a casa di mia sorella Hazel. Alla fine mi ero addormentata vestita sul divano di casa mia, dopo aver singhiozzato alla mia psicoterapeuta, Tabitha, tutta la mia rabbia nei confronti della vita orrenda che mi ritrovavo e bla bla bla bla.
Il mattino dopo, però, ero schizzata in piedi alle sette meno venti ed avevo trascinato in strada Tabitha, che non era stata molto felice di lasciare il suo nascondiglio sotto il termosifone (in quei giorni era spento, ma lei ormai ci si era affezionata) e il suo migliore amico, un orsetto di peluche che lei chiamava Woof.
«Oh santo cielo. Tutto bene, Becky?» aveva biascicato Hazel, sbadigliandomi in faccia, non appena mi aveva aperto la porta.
La sera precedente mi ero preparata alcune alternative a quell’inevitabile domanda:
a) Vedi, Hazel, sono venuta a conoscenza di un dettaglio un po’ bizzarro a proposito della mia carriera (fermo ma cortese, stile Jessica Fletcher).
b) Volevo dirti una cosa ma sul momento non me la ricordo (ancora stile Dory).
c) Confessa, pusillanime, il complotto ordito alle mie spalle! (stile D’Artagnan: di sicuro scenografico e incisivo, ma forse un po’ poco credibile).
La mia furia distruttiva, però, non le aveva rese necessarie. «No che non va tutto bene. Faccio come se fossi a casa mia, lo so» avevo detto, dirigendomi a passo di marcia verso il divanetto patchwork.
La casa di Hazel è arredata con un mix di country style e arte moderna. Ad esempio nella sua cucina, oltre a sedie di legno con zampe intagliate e orologio Hello Kitty, potete trovare un grosso blocco di marmo nero che dovrebbe essere il tavolo. (Ignoro come siano riusciti a trasportare le sue quattro tonnellate di peso al quinto piano di un palazzo, e come l’abbiano fatto passare attraverso un oblò striminzito che funge da finestra.) Nostro fratello Tom ha una sua personale teoria su quest’opera: dice che in realtà è una bara e che una notte ne uscirà fuori Dracula, particolarmente assetato di sangue. Nonostante tutto, Hazel lo trova delizioso.
«Becky, ti prego. Mand-fuori-quel-cane» mi aveva pregato Hazel, inseguendomi. Io avevo ordinato a Tabitha di sedersi proprio in mezzo al suo adoratissimo tappeto. (Si trattava di una macchia informe marrone scuro, progettata per dare alle piante dei piedi l’impressione di affondare nell’humus della foresta amazzonica. Anche se dovevo riconoscere che quel designer dal nome chilometrico ed apparentemente privo di vocali aveva avuto proprio una bella idea, non potei fare a meno di pensare che per fortuna indossavo scarpe chiuse.)
«Hazel» avevo esordito, cercando di contenermi. «Tu sei il mio agente. Sai, una strana creatura che mi da consigli sulla mia carriera.»
«S-sì» aveva balbettato lei. «Allora?»
«Allora sei la persona giusta per spiegarmi chi diavolo è Emily Wotton!»
I muscoli del suo volto si erano rilassati. «Il tuo nuovo personaggio. La figlia di Monsieur Wotton, no?» aveva detto, come se fosse del tutto ovvio.
«Monsieur, eh?» grugnii.
«Eddai, Becky, è uguale. Come fai a non ricordarlo? Dorian Gray si innamora di Emily e si pente di tutto quello che ha fatto e muore per salvarla. O qualcosa del genere.»
«Cosa? Nel libro non c’è scritto niente del genere.»
«Appunto, Becky. Ma questo non è un vecchio testo decrepito, è un film moderno con tematiche moderne
Potete smontarmi tutto, ma non Oscar Wilde.
«Senti, il Ritratto di Dorian Gray non è più vecchio e decrepito di te, e almeno lui non ha la cellulite.» Beccati questo, rosticciana che non sei altro. «E poi il senso della morte di Dorian non è quello, così mi si stravolge mezzo libro, non si può fare, e Wotton una figlia non ce l’ha, porca miseria!»
«Che palle, Becky, è uguale.»
«Ehi, pensa un po’ se nel film di I Love Shopping la mia omonima pazza restasse incinta di uno sconosciuto in un night club di Las Vegas.»
«Rebecca. Ascoltami bene. Sophie Kinsella è la più grande scrittrice di tutti i tempi, e non si tocca. Mica come il tuo decrepito Tolstoj.»
«Ah, certo. Tolstoj.»
«Ma come sei fiscale, eh? Non hanno mica fatto tutti lettere.»
«Infatti. Sophie Kinsella no di certo.»
«REBECCA! Come ti permetti di dire una cosa del genere?»
A quel punto Tabitha si era messa ad abbaiare facendoci una romanzina incredibile. Tabitha sa essere molto severa, quando ce n’è bisogno. Nel frattempo, l’evidenza era venuta a galla nella mia mente. Per entrare a far parte di quel film dovevo aver fatto un provino, firmato un contratto eccetera eccetera. Insomma, era impossibile che non ne sapessi nulla. Neanche Hazel poteva fare così tanto casino.
Così, dopo aver ripreso la calma, Hazel aveva grugnito che un certo Oliver Panzer, o forse Pakkez o magari Pazzek, mi aspettava il giorno dopo a Los Angeles. Mai biglietto aereo fu prenotato con così tanta fretta, né valigia riempita così spudoratamente alla rinfusa.
 
In aereo, mentre sfogliavo il plico di scartoffie con cui Hazel aveva riempito la mia borsa (da sole, quelle cartacce concernenti l’obbrobriosa produzione cinematografica in cui ero rimasta invischiata sfioravano il limite del peso per i bagagli a mano) la prima cosa che mi ero detta era stata: Oh no, altri due Ben. Signore pietà. A primo impulso avrei galoppato verso la cabina di comando, stordito il pilota e riportato l’aereo a Londra. Poi mi ero ricordata che probabilmente avrei avuto tutti i passeggeri sulla coscienza, dato che non avevo idea di come si guidasse quella fottutissima colomba pasquale di metallo.
Comunque il giorno dopo, nonostante un mal di testa cronico, una storta a una caviglia e un umore nero come il petrolio (in realtà non ho un’idea molto precisa del colore del petrolio; ne La gabbianella e il gatto di Sepùlveda è nero, e Sepùlveda mi è sempre rimasto simpatico) riuscii ad arrivare viva e in orario all’appuntamento.
L’omino di Tata Matilda mi si materializzò davanti non appena varcai la soglia.
«Ciao, Rebecca!» esclamò stritolandomi la mano.
«Salve, omin...» cominciai. Poi mi si gelò il sangue.
Oh cazzo.
Com’è che si chiamava?
 
Abby
Il mattino mi svegliai verso le dieci, e ci misi un po’ a capire che ora ero a casa di nonna Martine, e non a Londra. La cameretta non era grande come quella di Londra, e il letto era durissimo e scricchiolava, però mamma e papà si erano dati molto da fare per farcela piacere e perciò non glielo avevo detto. Infatti il giorno prima, anziché partire per l’Egitto come avremmo dovuto, eravamo andati in aereo da mia nonna, a Lume. Poi quella sera, dopo che erano arrivati anche il cugino Ben e il cugino Jack, mamma e papà erano ripartiti per New York, che non so bene se è più giù o più su di Lume però è lontano, ma mamma ci aveva lasciato la Bambola Del Cuore, che si chiama Dorothy e quando la abbracci mamma sa che stai pensando a lei. Almeno, mamma ha sempre detto così. Papà e mamma avevano anche sistemato i nostri vestiti nell’armadio e avevano attaccato su un’anta un cartello con scritto Abigail, che sarei io, e sull’altra uno con scritto Melanie, che sarebbe mia sorella, e così lei non può toccare niente del mio e non litighiamo. (In teoria.)
Anche il mio bis-cugino Ben aveva attaccato al suo armadio un cartello. C’era scritto Giù le zampe e sotto Comprendi, Jack? e non capisco, perché lui si chiama Ben (per suo fratello) o Bob (per mamma), non Giù le zampe o Comprendi, Jack. Comunque, anche se non ho scoperto perché mamma lo chiama Bob, ho notato che Ben somigliava molto, ma veramente molto al principe Caspian, il protagonista di un film che avevo visto il mese prima, solo che Caspian nel film si era fatto la barba e lui no, e secondo me è meglio senza, però non gliel’ho detto perché forse si offendeva.
Poi, siccome ci capivo poco, papà mi ha spiegato tutta una serie di cose sui film e sul fatto che Ben, che poi è Bob, che poi è Caspian, anche se sembra Caspian non è il vero Caspian anche se nel film è Caspian. A quel punto mi faceva talmente male la testa che ho rinunciato a capire e ho pensato che l’avrei chiesto a Ben il giorno dopo, solo che Ben il giorno dopo, e cioè quello di cui sto parlando, non c’era.
Mi sono alzata, sono scesa dal letto a castello con attenzione (papà mi aveva fatto una testa così sui letti a castello e su quanto erano pericolosi) e sono andata a curiosare. Melanie dormiva. Il mio bis-cugino Jack dormiva, e della grossa. Nel letto del mio bis-cugino Ben non c’era Ben, ma c’era un libro che parlava di un ritratto e di un signore che diceva a un altro signore di aver conosciuto un signore che era molto bello e simpatico, però siccome il signore a cui il signore che parlava stava parlando era molto antipatico allora il signore che parlava non voleva che il signore che aveva conosciuto conoscesse il signore a cui stava parlando, perché altrimenti sarebbe diventato anche lui (non il signore che parlava, ma il signore che il signore che parlava aveva conosciuto) antipatico. Era una barba immensa, e non c’era nessuna figura. L’ho chiuso subito.
Anche nonna Martine dormiva, e russava, e siccome nonna Martine è tremenda non l’ho svegliata e sono andata in cucina perché avevo fame. Sul tavolo c’erano tre bicchieri con del succo di frutta dentro, quei biscotti lunghi lunghi con le strisce di cioccolato dentro e le scritte in tedesco sopra il pacchetto (credo si chiamino uaffer), e i cruassan. E poi ovviamente c’erano i cucchiai e i tovaglioli, e c’era un biglietto con scritto: Questa è la prima e l’ultima volta. Il succo d’arancia fa schifo, ma non ho trovato nient’altro di potabile. NON bevete l’acqua del rubinetto se non volete che il medico legale vi riscontri una morte per avvelenamento da arsenico. NON toccate la manopola del gas perché visto che non vi conosce potrebbe farvi saltare in aria. ATTENZIONE agli orsetti di gomma, sono lì dal 1964, e alle polpettine ripiene, una volta un gatto è rimasto avvelenato. NON avvicinatevi al cavallo, deve ancora venire l’esorcista. Martine dà per scontato che visto che siete giovani e arzilli diate voi da mangiare al cane e ai quindici gatti. Tanti auguri. Torno verso le sei e mezza, sempre che ci sia un treno. Ben.
P.S. Jack, se ci tieni all’altra gamba non toccare niente delle mie cose. Delle bambine mi fido, ma tu sei malvagio.
Io la mattina bevo sempre il latte caldo con il cioccolato e i Coco Pops, ma anche i uaffer non erano male, anche se Ben aveva ragione sul succo d’arancia.
 
Shelly
«Bene, sudditi. Ricapitoliamo. C’è un pittore sfigatissimo che si chiama Basil Hallward, cioè Ben. Sì, Joe, Ben Chaplin. Con tutte le belle brasiliane che ci sono nel mondo, Basil si fa ossessionare solo da un ragazzetto chiamato Dorian Gray, cioè Ben. Sì, Joe, l’altro Ben. Joe, sei inutile. Insomma, lo conosce e gli fa un ritratto in scala due a uno, più bello dell’originale.»
«Grazie, Oliver.»
«Sta’ zitto, Ben, è un modo di dire. No, non tu, stavo parlando con Ben Barnes. Santa pace. A un certo punto arriva un gran bastardo di nome Henry Wotton, cioè Colin, e comincia a rompere le palle a Dorian perché, diciamocelo, s’è innamorato anche lui.»
«Nel romanzo è un po’ più complicato di così.»
«Oh che rottura, Colin, sto cercando di farla breve. Così Dorian, che è un cretino e gli dà retta, diventa un gran bastardo pure lui e quindi ci va a rimettere solo Basil che lo piglia nel culo, in tutti i sensi, e alla fine Dorian lo ammazza.»
Mi rifiutavo di credere che quello stramaledetto pitecantropo ci avesse fatti venire tutti a Los Angeles soltanto per spiattellarci addosso quel riassunto demenziale.
Oliver Parker ha la rara dote di lasciarti lentamente affondare nel più profondo sconforto, mentre abbaia come uno scaricatore di porto. Colin me l’aveva detto, ma come al solito non lo avevo preso troppo sul serio. E invece, come al solito, aveva ragione.
Rebecca Hall si volse verso di me con aria affranta. «Ho sentito parlare dell’effetto di Wotton su Dorian Gray in diecimila modi, che vanno da “subdolo addomesticamento dell’anima del poverino al suo sadico e cinico volere” a “feroce terrorismo psicologico”. Ma nessuno, dico nessuno, l’aveva mai definito “rompimento di palle”.» Le appoggiai una mano sulla spalla, partecipando silenziosamente al suo dolore.
Ma la tortura non era ancora finita.
Dopo il suo meraviglioso riassunto della trama, Parker si schiarì nervosamente la voce. «Allora. Ci sarebbero un paio di problemini. Gwen, per favore...»
Poi il gentleman si eclissò in bagno.
«Ehm-ehm» pigolò Gwen, con aria persa e spaurita. «Ricordate, vero, che l’inizio delle riprese era fissato per, ehm, la prossima settimana? Bene. La casa di produzione pretende che inizino domani.»
Mi si annodò un'aorta. E quando mi si annoda un'aorta, il lume della mia ragione si affievolisce. Contai fino a dieci, poi fino a venti, ma non funzionò. Scateniamo l’inferno. «Che vuol dire domani?» esclamai, spiccando un balzo di venti metri verso il regista, che nel frattempo aveva timidamente ripreso posto. Ricacciai la solita massa di ricci color miele fuori dal mio campo visivo e continuai: «Ma lei lo sa che questo tegame» indicai me stessa «ha visto quella creatura» puntai il dito a due centimetri dal naso di Ben «solo tre volte prima d’ora, di cui due e mezzo su locandina?»
«Non è colpa mia. E comunque non vedo dove stia il problema, è solo...» balbettò Oliver.
«Esseri disinibiti e depravati» sbuffai la ragazza. E poi, in tono battagliero: «Vado a prendermi un tè freddo.»
A quel punto ci sentirono tutti liberi di disertare.
 
«Okay. Ho capito che per voi esseri disinibiti e depravati» ero molto fiera di questa nuova definizione «non è nulla» esclamai. «Ma io sono una persona seria
Nonostante fossi assolutamente decisa a cancellare la famosa voce dalla lista, non avevo la benchè minima intenzione di spogliarmi davanti a un uomo che avevo visto solo una volta prima di allora. Avevo immaginato che il regista avrebbe organizzato cene a lume di candela per farci simpatizzare eccetera eccetera eccetera. Ma quella visione romantica delle cose non si stava adattando molto bene alla nostra società aggressiva e crudele (mi stupivo di una tale melensa scrupolosità nelle mie riflessioni). Siccome non avevo nessun altro a cui spiattellare tutte le mie lamentele, le spiattellai proprio all’uomo in questione. La mia solita furbizia.
«Benvenuta nel mio mondo» sospirò Ben mentre minacciava la macchinetta del caffè perché gli sganciasse il resto.
«E poi sei vecchio» aggiunsi, facendogli cenno di spostarsi e affibbiando un calcio a quell’aggeggio (il risultato fu che la punta della mia Converse si appiattì leggermente, l’alluce urlò di dolore e l’aggeggio si tenne i soldi).
«Ehi, ho solo ventisette anni.» Ben prese la rincorsa e si schiantò a peso morto contro la macchinetta, che comunque non gli diede il resto.
«Solo ventisette anni? Ma io ne ho diciotto!»
Come stavo dicendo, tutta quella melensa scrupolosità non era da me. Infatti a quel punto la parte intelligente del mio inconscio sbattè contro un muro la parte bacchettona e sbraitò con accento da mafioso: “Rascèll! Vieni ‘ccà. La vogliamo finire o non la vogliamo finire questa lista? Aaaah, ecco. Quinni, datte ndaffare, vabbbbene?”. Poi cominciò a sibilare come Gollum: “Eppoi, di sssssicuro il ppadrrrrone ssssi rricorda del ssssuo vecchio pprrropossssito, eh? Il ssssignor Jerrrrrrrremy... Il sssssingnor Jerrrrrrrremy è sssstato molto catttttivo con il ppadrrrrone. Ppadrrrone adesssssso potrebbe riusssscire a farlo ingelossssire, oh ssssssssssssssssì! Mmmmwahahahahah!”Si bloccò a metà della risata malefica per poi esplodere, come la protagonista di uno di quegli odiosi telefilm per teen-ager (ok, anch’io ero una teen-ager, ma tendevo a dimenticarmene piuttosto spesso): “Ooh, Shelly, e poi è coooosì carino!”
Stranamente, l’ultima argomentazione mi convinse.
Forse la protagonista dell’odioso telefilm per teen-ager non avrebbe approvato che io tentassi di conquistare Ben coalizzandomi con lui contro la macchinetta, ma lo Shelly Style consiste proprio nel farsi venire in mente le più assurde cazzate e metterle in pratica.
«Ah, aspetta, al mio tre.» Prendemmo la rincorsa e ci lanciammo insieme contro quell’affare diabolico. Costui ci guardò con odio, ci bombardò con un chilo di zucchero e cercò di allontanarci con un getto di tè bollente, ma alla fine cedette il malloppo. «Quando due inglesi rivogliono il loro quarto di dollaro, non c’è nulla che possa fermarli» commentai, stremata. «A proposito, sai il pittore che è morto?»
«Quale pittore?» chiese lui intascando il contante.
«Leonard Jacques. Quello che ti ha ritratto.»
«Santo cielo, mi dispiace.» Ehi, sembrava davvero dispiaciuto, cosa rara in quell’affare che chiamano showbiz pensando di essere più al passo coi tempi. Io non capivo più quali erano i tempi con cui stare al passo. «Ma cos’è successo? Un’incidente? Non mi sembrava che avesse malattie...»
«Ecco, è una cosa strana. Sembra che gli sia venuto un infarto al bar, due sere fa. Una cosa strana, molto strana.» Feci una pausa.
Certe volte uno si trova davanti a dilemmi esistenziali di enorme portata. Ad esempio, adesso avrei potuto mettermi a fare un discorso sdolcinato sull’ineluttabilità e la drammaticità del fato e bla, bla, bla, dando l’impressione di essere una donna ormai adulta, sensibile e seria. Oppure avrei potuto raccontargli della mia avventura a Landscape, sembrando probabilmente una pazza scriteriata con troppi telefilm polizieschi in testa.
«Ben?» chiesi, d’un tratto incerta. «E se per caso ti dicessi che sono andata a Landscape, il paesino dell’omino, e...»
Lui mi guardò con un’espressione a metà tra l'interessato e il dubbioso, che trovai allo stesso tempo deliziosa e molto, molto imbarazzante.
«Beeen!» ululò il regista. «Vieni immediatamente quiiii! Si può sapere che...»
Oliver Parker sarà anche un gran rompicoglioni, ma in quel momento avrei voluto ricoprirlo di fiori, baci e Ferrero Rocher, anzichè di cemento armato come dieci minuti prima.
«...e vado a prendere un tè freddo giù al bar» sorrisi, dandomela a gambe.
«Ma... non ne hai uno in mano?» chiese Ben con aria dubbiosa.
Inchiodai a metà corridoio dipingendomi un enorme sorriso sul volto. «Eh... uhmbe’... sì, certo... appunto! Questo fa schifo, quindi ne vado a prendere uno decente. Ci vediamo!»  gridai imboccando di gran carriera la prima porta a sinistra, senza avere la più pallida idea di dove stessi andando.
Credo sia stato un miracolo a evitarmi di precipitare giù dalla balaustra della scala antincendio.
 
Jack
Quando zoppicai in cucina per fare colazione ci trovai la figlia maggiore di Lucy. Doveva avere sei o sette anni. Era seduta al tavolo di fronte ad un pacchetto vuoto di wafer, a tre bustine vuote di croissant e ad un lago di succo d’arancia che gocciolava dalla bottiglia rovesciata e vuota.
«Ciao, Jack» sorrise lei porgendomi un pezzo di croissant sbocconcellato. «Mi dispiace. Purtroppo mi è caduto il succo d’arancia.»
In linea di massima, io ho i nervi saldi. Quella fu l’eccezione che conferma la regola. «L’ho visto che ti è caduto!» urlai. «Ma dico, ti sei bevuta il cervello? Cos’è qui dentro, Apocalypse Now? E i wafer? I biscotti li hai mangiati tutti tu? Cos’hai al posto dello stomaco, una botte? Pulisci subito questo bordello prima che arrivi zia Martine!»
Gli occhi le si rempirono di lacrime.
«Non sei per niente gentile» singhiozzò, passando un foglio di scottex sul succo di frutta e trascinandolo così tutto a terra.
«Be’, provaci tu a venire qui per fare colazione e trovare uno scenario apocalittico! Che vuoi, che pulisca io? In queste condizioni?» esclamai.
«Non l’ho fatto apposta» balbettò lei.
«Che diavolo succede qui?» strillò una voce acutissima dal piano di sopra.
Zia Martine.
Cambiai tono di colpo. «Scusa se sono stato un po’ duro, tu sei solo una bimbetta eccetera eccetera...» sussurrai in fretta.
«Io non sono una bimbetta!» strillò lei, ancora più forte.
«Okay. Okay. Hai ragione. Sei una ragazza bellissima. Scusa se sono stato un po’ duro, le donne non si toccano neanche con un fiore» ricominciai «e ti aiuterei molto volentieri se non avessi tre costole rotte che mi fanno un male da morire, però, per piacere, dovresti pulire questo postrib... voglio dire questo piccolo inconveniente, altrimenti zia Martine ci rovina.»
Mai vista una bambina così tonta (in realtà ho visto poche bambine in vita mia). «Possibile che tu sia così inetta da non riuscire nemmeno a togliere un po’ di questo fottutissimo succ...» sbottai un minuto dopo.
Lei balzò in piedi con uno ruggito felino, ma scivolò sul succo e mi cadde addosso. Io persi l’equilibrio e volai all’indietro, spiaccicandomi dritto dritto sui calli di zia Martine.
 
Becky
Il problema era il seguente. Quel blasfemo d’un Parker, per sottolineare l’ossessione di Basil per Dorian, aveva avuto la straordinaria idea di inserire un’inquadratura dello studio del pittore, pieno di schizzi con il suddetto Dorian. Che genio Ma a quanto pareva il vero pittore, un certo Jacques, era morto, e recuperare i suoi schizzi sarebbe stato un grosso problema. Colin Firth, che ormai avevo soprannominato Mr Matildo Comecazzosichiama, aveva avuto una fulminante illuminazione low-cost, ma le cose non stavano andando esattamente come previsto.
«Fermo lì, Ben. Non ti muovere, se no viene male. Anzi, sposta un po’ il viso. No, dall’altra parte. Ora vai più indietro. E non sorridere come in cartolina, cazzo. Aria assorta e appoggia il mento alla destra. No, facciamo alla sinistra. Ecco, bravo. Con quella ciocca davanti al viso non vedo niente, quindi spostala con la sinistra, però senza mettere la mano davanti al viso che altrimenti mi si scombina tutto. Nooo, ma che fai? Se sposti la mano devo ricalcolare tutto quanto! Ehi, pensi che sia facile?»
« Ben, diciamoci la verità: come attore sei bravissimo, ma come disegnatore fai schifo.»
«Ti vuoi tappare quel forno? Se il vero Dorian Gray fosse stato un granchio attaccato agli zebedei come te, il povero Basil l’avrebbe fatto subito a dadini. Altro che baci appassionati.»
«Ben, ti vedo male» commentò Oliver entrando nella stanza in cui Ben Chaplin, in un bagno di sudore, stava scarabocchiando una creatura oblunga che avrebbe dovuto essere l’omonimo con cui stava bisticciando.
I due Ben sbottarono simultaneamente:
«Vorrei vedere te, a stare quarantacinque minuti con la testa piegata a ottantotto virgola cinque gradi a sinistra, e gli occhi che guardano verso destra!» (Ben Barnes)
«E direi, quell’essere non sta mai un attimo fermo, tra poco lo accoppo!» (Ben Chaplin)
«Ho come la netta impressione che l’idea non stia non stia funzionando molto bene» commentai in tono piatto.
«Guarda» s’intromise Matildo Comecazzosichiama, strappando il lapis dalle mani del disegnatore provetto. «Ben, spostati un po’ più a destra.»
«Macchè, il punto di vista giusto è questo!» abbaiò Ben Chaplin.
«Dicevo all’altro Ben, imbecille» borbottò Matildo/Colin cancellando gli occhi della creatura disegnata.
«Ma così mi rovini tutto il disegno!» protestò Ben Chaplin.
«Be’, non è che ci sia tanto da rovinare» sbuffò Colin. «Ma non hai mai fatto niente in vita tua, eh? Immagina di sezionare la testa di Ben in tre parti orizzontali.»
Ben Barnes emise un brontolio gutturale.
Colin lo ignorò. «Gli occhi sono sul secondo terzo.»
«Non capisci nulla» intervenne Samantha, l’aiuto-regista.. «Devi immaginare di sezionarla in due parti. Gli occhi verrebbero tagliati a metà.»
«Cos’è che volete fare ai miei occhi?» chiese Ben Barnes preoccupato. Lo ignorarono.
«E il naso? Gli vogliamo togliere cinque centimetri, a questo naso?» s’infervorò Colin.
«Diventerò una gargouille» si lamentò Ben Barnes.
«Tutto questo succede perché voi vi affidate a dei canoni vecchi e decrepiti» disse Ben Chaplin. «Invece dovreste far affidamento solo sulla vostra esperienza empirica!»
«Ah, sta’ zitto, Ben» sbuffò Samantha.
«Vedi? È questa chiusura verso le altre opinioni che vi impedisce di creare qualcosa di decente.» (Ben Chaplin)
«Ok, ok, sto zitto. Poi però se viene uno schifo...» (Ben Barnes)
«Beh, allora vieni a farlo tu, se credi che sia facile!» li apostrofò Colin, non so bene chi dei due.
Mentre Ben Chaplin tentava di mettere le mani addosso a Mr Comecazzosichiama, Ben Barnes marciò verso il tavolo da disegno, ma non appena vide il prodotto di quei tre quarti d’ora di fatiche fece un balzo indietro con un’espressione indescrivibile.
«Abbiamo bisogno di un vero disegnatore» osservò il regista. «E di due soprannomi, se no qui mi viene tutto il film all’incontrario. Scattare, Joe.»
Joe era l’aiuto-aiuto-regista. Le sue mansioni, come quelle di Gwen, andavano dall’organizzare un meeting per l’ora successiva a portare il caffè. Poverino.
Mi alzai timidamente dicendo: «Be’, io non è che sono brava, però qualcosa lo so fare...»
«Ti prego, Becky – ti posso chiamare Becky, vero? – credo che possa bastare così» sbuffò Oliver.
In quel momento un gomitolo fluttuante di riccioli biondi spalancò la porta, caracollando sotto quattro casse di tè verde in brick.
«Ma dov’eri sparita?» esclamò Gwen.
Lei sfoderò un sorriso larghissimo. «Et voilà! Io non ho fatto colazione, voi?»
 
Nelle lunghe ore successive passarono davanti ai nostri occhi non uno ma quattro artisti. Verso le due e mezza nella sala eravamo rimasti solo in sei, dai quarantatrè di partenza. C’erano:
- Oliver Parker, clown disoccupato e irascibile che ci intratteneva con barzellette come: “Qual è il cane più buono? Ma il CANnolo! L’hai capita, Becky?”
- Rachel Hurd-Wood, gomitolo parlante che aveva addosso un incredibile argento vivo e chiacchierava con lo stesso fervore di isole della Micronesia, Mozart, chimica farmaceutica, Madonna, shock rock, classici del Cinquecento, DJ francesi, best-seller di Dan Brown, film di Fellini, horror splatter, vestiti d’epoca, cucina francese, bracconieri, pellicce di visone, teoria della relatività, cocktail, puritanesimo, tacchi 25, Dario Argento, baseball, Richard Gere, calcio, statue dell’isola di Pasqua, Froid, jinseng, prostituzione e libri per bambini
- Ben Barnes, anima in pena che cambiava nervosamente posizione sulla sedia ogni tre per due; quando Rachel diceva “e così volevo diventare una biologa marina” lui commentava “eh già, anch’io avrei voluto esserci, al festival di Woodstock”, quando lei buttava lì “avete mai visto Battle Royale?” lui rispondeva “anch’io sto con Amnesty International”
- Ben Chaplin, genio incompreso che si ostinava sulla sua teoria dell’empirismo e non chiudeva un’attimo la bocca; alla fine Rachel lo imbottì di tè verde, e tutti i coloranti-conservanti-acidificanti-esaltatori di sapidità (non so bene cosa siano, questi ultimi, né come si scrivano) contenuti nei tredici brick che gli fece trangugiare lo sedarono
- Gwen, autobotte di caffè che probabilmente era stata sveglia tutta la notte a riordinare le scartoffie del suo capo e adesso quasi non si reggeva in piedi
- la sottoscritta, unico essere normale del gruppo.
Se pensate che fossimo una combriccola già di per sé malmessa, avreste dovuto vedere gli artisti.
Il primo aveva un accento francese – finto – veramente insopportabile e si era calato in testa un basco che gli impediva di vedere qualsiasi cosa che non fosse il pavimento. Si arroccò su una sedia, tirò fuori un block notes a quadretti su cui erano state rovesciate parecchie birre e armeggiò freneticamente con un lapis microscopico in mano per un ora e un quarto. Alla fine ci consegnò due o tre schizzi meravigliosi. Aveva il ritratto il soggetto con dovizia di particolari, sublimi chiaroscuri e anche una certà struggente espressività. Peccato che il soggetto non era Ben, ero io.
Oliver strabuzzò gli occhi e sembrò sul punto di sputare fuoco dalle orecchie; Rachel scappò in corridoio per non ridere; Ben Chaplin grugnì: “ve l’avevo detto” e si chiuse nel mutismo. Io, che sono un’inguaribile romantica, arrossii fino alla punta dei capelli. Mi parve molto poetico che quel Van Gogh squattrinato, nella sua sbornia perenne, avesse deciso di ritrarre proprio me. Forse si era innamorato. Così acquistai i suoi schizzi ad un prezzo più o meno ragionevole e gli diedi un bacio sulla guancia. Non avrei dovuto avvicinarmi così tanto: il suo odore pestilenziale mi mise ko fino alla venuta dell’artista successivo.
Costui era un vecchio d’età indefinibile, col volto seminascosto da un groviglio inestricabile di capelli, baffi e barba. Aveva una voce roca, ma non priva di una certa melodiosità, e non chiudeva un attimo la bocca. (In seguito Oliver osservò, con la sua solita finezza, che “se avuto qualche secolo di meno e le tette sarebbe stato la copia carbone di Rachel”.) Il vecchietto ci spiegò il suo strano metodo di ritirare la parcella: si faceva pagare un tanto all’ora. Poi, mentre si accomodava, ci parlò della satira di Toulouse-Lautrec, delle tahitiane di Gauguin e dell’oscura amicizia tra Rimbaud e Verlaine. Non capivamo cosa cosa c’entrassero i due poeti maledetti con gli schizzi di Ben, ma tutti restammo così affascinati dalla sua saggezza da non accorgerci che erano già passate due ore e lui non aveva nemmeno appoggiato la matita sul foglio.
Dopo di lui venne un giovanotto olivastro, biondo e palestrato che teneva sottobraccio un PC con lo schermo di venti pollici e un’enorme cassetta degli attrezzi in cui erano ammucchiati pennarelli, tempere, pastelli a cera, matite, colori a olio, carboncini e una stampante. Afferrò Ben per le spalle, lo depositò su una sedia, gli raddrizzò la schiena con un gancio destro memorabile e si mise al lavoro. «Sicuro di non volere un dagherrotipo, Mr Parker?» chiese prima di buttarsi a capofitto nel lavoro.
«Ehm, sicurissimo» balbettò il regista, probabilmente convinto che dagherrotipo fosse una specie di malattia o una parolaccia.
Il tizio girò intorno a Ben una decina di volte a velocità da rally annotando velocemente qualcosa sul suo album di schizzi di due metri per cinque. Alla fine ci piantò davanti il dipinto a tempera di un campo di battaglia pieno di sangue. Ai nostri sguardi interrogativi rispose spiegando di aver rappresentato Ben “in una simultaneità di visione, in accordo con le più recenti avanguardie del metodo cubista”.
Oliver perse le staffe: «Ora secondo lei Basil Hallward aveva intenzione di dipingere Dorian Gray secondo il metodo cubista? Fuori dai piedi!»
«Disegnare le orecchie separate da tutto il resto del corpo... lei è un genio!» sorrise Rachel, e si fece autografare la maglietta.
Il quarto signore si proclamò un esperto di estetismo e ci disse subito che secondo lui un buon modo per rappresentare quella corrente letteraria in un film era “adeguare lo schizzo alla stramba sfarzosità del movimento”. Quando Gwen gli chiese di spiegarsi meglio, propose di “disegnare Mr Barnes nelle vesti di un fauno”.
Ben si diede alla fuga e si nascose sul tetto.
 
Jack
Quando vide com’era ridotta la sua cucina, zia Martine diede in escandescenze.
«Fuori di qui! Chi vi ha dato il permesso di entrare nella mia cucina? Oh mio Dio, ma che avete fatto? Jack Arthur Thomas Barnes! Abigail McMillan! Che diavolo vi è saltato in mente? Sparite immediatamente dalla mia vista. Fuori! Ho detto FUORI!»
Fuggimmo. Credo che nessuno, due giorni dopo essersi sfracellato contro un pino, sia mai riuscito a correre così velocemente.
«Jack?» pigolò la piccola Abby. «Prendiamo Melanie e scappiamo di qui.»
Io scoppiai a ridere e lei si mise a piangere di nuovo. «Non mi prendi mai sul serio!» frignò. Dio, quanto odiavo quel tappino col naso a pera.
«SILEEEENZIO!» strillò zia Martine dalla cucina.
Non feci in tempo a calmare la piccola peste, che un’altra mocciosa, ancora più piccola e rumorosa di lei, si abbracciò alla mia gamba ingessata. Emisi un disperato latrato di dolore. «Vi prego, sono troppo giovane e bello per...» mi lamentai, forse a voce un po’ troppo alta. Infatti zia Martine spalancò di nuovo la porta, sbattendomela in faccia, ed esclamò: «Ma proprio non volete capire! Fuori da questa casa!» Ci afferrò per un orecchio (teneva quelli delle pargole con una mano sola) e ci chiuse fuori.
Rimanemmo sul porticato fino all’una e mezza. Abby si era ormai rassegnata al suo destino e sembrava aver recuperato il lume della ragione.
«Facciamo amicizia?» mi propose mentre intrecciava una ghirlanda di margherite.
La mia solita fortuna. Se solo anche Violet Harper, del corso di ingegneria, avesse mai deciso di pormi quella domanda!
«D’accordo» borbottai.
«Ti piace guardare la televisione?» chiese lei.
«Sì, abbastanza» sbuffai.
«E cosa ti piace guardare?»
«Boh, baseball e football, Criminal Minds, CSI: New York...»
«Papà guarda CSI Miami, dice che è l’unico decente, però a noi non ce lo fa vedere.»
«Ma no, è meglio CSI New York!» protestai, indignato.
«Lo penso anch’io» convenne Abby.
«Ma hai detto che non te lo fa vedere!»
«Vabbè.  Io preferisco Winx Club e i documentari sui leoni. Lo sai che hanno fatto anche il film di Winx Club
«Ah sì?»
«Qual è il tuo film preferito?»
«Donnie Darko è meraviglioso.»
«Chi è Donnie Darko?»
«È un ragazzo che ha delle visioni e un giorno un coniglio nero diabolico gli dice che tra poco il mondo finirà.»
«Ah, bello. Che c’è per pranzo?»
«Non ne ho la più pallida idea.»
Per pranzo c’erano le polpettine ripiene. Abby mi sussurrò che secondo lei era meglio non mangiarle, ma non la presi molto sul serio. I risultati per i nostri tre giovani intestini furono devastanti.
Due ore dopo, quando chiesi ad Abby come faceva a sapere che quelle bombe a mano erano pericolose, lei mi disse di averlo letto su un biglietto di Ben quella mattina. Mi si rizzarono i capelli. Il giorno prima avevo chiesto a Ben di ricordarmi quali erano i pericoli di Lume, e lui mi aveva promesso che il giorno dopo avrebbe scritto un biglietto intitolato Manuale di sopravvivenza a Lume per negati.
«Dov’è finito quel biglietto?» mormorai concitato.
«C’era finito tutto il succo sopra. Credo che zia Martine lo abbia buttato via.»
Respirai profondamente. «Okay. Vuol dire che per stasera cuciniamo noi, visto che mi sembra difficile che Ben torni.»
In realtà non avevo la benchè minima idea di come si cucinasse un piatto di pasta, ma sguinzagliai le due pargole nella stanza di Lucy, alla ricerca di un Ricettario di nonna Papera. Poi, quando zia Martine se ne fu andata a rilassarsi sul porticato, scandagliai la cucina. C’erano solo dei pacchetti di pasta un po’ ammuffiti, della carne cruda che emanava un fetore mortale e delle carote di un suggestivo marrone scuro.
Verso le tre del pomeriggio mandai un messaggio a Ben pregandolo di fare la spesa.
 
Becky
Eravamo riusciti a far sloggiare l’ultimo artista con l’aiuto di ottanta dollari, e finalmente ci eravamo accorti che l’ora di pranzo era passata da un bel pezzo, e che noi non avevamo niente nello stomaco.
Rachel si era arrampicata sul tetto per avvertire Ben dello scampato pericolo, ed era tornata proclamando: «Non so voi, ma io ho una fame da lupi.»
Spedimmo Gwen ed Oliver al McDonald (lui perché era il regista e quindi era giusto che pagasse, lei perché non vedevamo l’ora di toglierci dai piedi il suo nervosismo da caffeina). Poi Ben Chaplin sciolse il suo sciopero della parola per bofonchiare: «Sgrunt! Se me l’aveste lasciato fare a me, il disegno, avremmo risparmiato un sacco di tempo e di denaro» dopodichè prese e se ne andò alla macchinetta a prendere una barretta di cereali.
«Prevedo guai» profetizzai. Infatti, mezzo minuto dopo dal corridoio cominciarono a levarsi imprecazioni e schianti sordi.
Mentre Ben Chaplin strillava: «Il-mio-resto!», Rachel abbassò la voce e mormorò: «Ecco, adesso vi sembrerò una deficiente, però tanto mi dovrete sopportare solo per un po’, quindi...»
Ben annuì incuriosito. «Continua.»
«Avete presente Leonard Jacques, quel bastardo che morendo ci ha fatto fare tutto ‘sto casino?» chiese, e senza darci tempo di rispondere riprese: «Stava in un paesino vicino al mio college, un buco che non è nemmeno segnato sulla carta, chiamato Landscape.» Respirò profondamente. «Ci sono stata dopo la sua morte, perché Gwen mi ha detto che questo signor Jacques è morto d’infarto, al bar sotto casa, mentre disegnava sul suo block-notes. Però era più sano di me e voi messi insieme. Allora, mi ci è voluta mezza giornata soltanto ad arrivarci perché nessuno sapeva dove fosse, ma ne è valsa la pena. Sono andata al bar, e sembra che i quattro vecchietti che c’erano non abbiano notato nulla di strano. Però quando ho chiesto dov’erano gli schizzi che aveva disegnato, non mi hanno risposto. Cioè, mi hanno detto di andare alla polizia.»
Stavo cominciando ad appassionarmi alla vicenda. «Ma scusa, cosa c’era di strano in quegli schizzi?» chiesi.
«È questo il punto. Sono andata alla polizia come mi avevano detto, e lì hanno assicurato di non aver trovato nessuno schizzo vicino al cadavere. Cioè, c’era il block-notes, ma erano rimaste poche pagine, ed erano bianche. Ho provato a dirglielo, a quella padella del commissario, che forse qualcuno aveva strappato le pagine con gli schizzi, e lui mi ha mandata via in malo modo ed è andato a rispondere al telefono nell’altra stanza.»
A quel punto, mentre in corridoio Ben Chaplin prendeva a pugni la macchinetta, Rachel ficcò una mano nella borsa ed estrasse alcune fotografie con un sorrisetto malefico.
Diedi loro un’occhiata e rimasi a bocca aperta. «Vorresti dirmi che hai scattato delle foto alle foto del cadavere?» domandai stupefatta.
«He he. La Coolpix non mente» disse lei raggiante, mostrandoci un vecchio catorcio grigiastro, ammaccato e pieno di graffi. «Ha sette anni, lo zoom s’è bloccato, la nostra gatta ha usato il display come tiragraffi e dal vano delle pile a volte esce un po’ d’acqua, da quando quel cretino di mio fratello l’ha buttata nel lavandino per vedere se esplodeva. Ma funziona ancora a meraviglia.» Altro enorme sorriso orgoglioso.
Ben ne aveva presa una e la stava esaminando, cercando di usare il suo bicchiere di tè verde come lente d’ingrandimento. «C’è qualcosa che non torna. Qui, sul collo, cosa c’è?»
Rachel gliela strappò quasi di mano. «Non illuderti, potrebbe essere un difetto della Coolpix» sbuffò.
«Aspetta. Non è che le hai caricate anche sul cellulare?» chiesi. Be’, nessuna persona normale va in giro con foto di un morto nel cellulare. Ma Rachel non apparteneva alla categoria delle persone normali, perciò mi dissi che non c’era nulla di male a chiederglielo.
Infatti lei tirò fuori un iPhone di ultima generazione. «Zumma, zumma» ordinai.
Restammo di nuovo a bocca aperta. «Cos’è?» domandò Ben, strizzando gli occhi.
«Un tatuaggio, direi» ipotizzò Rachel.
«Quest’uomo aveva una rosa tatuata sul collo» mormorai. «Strano. Ti ha mai detto il perché, Ben, mentre posavi?»
«Leonard Jacques non aveva nessun tatuaggio, mi ha detto chiaro e tondo che li disprezzava» sussurrò Ben.
«Crispy Mc Bacon in arrivoooooo!» urlò la voce di Oliver, nel corridoio.


Okay, questo capitolo è l'elogio della pazzia. I'm sorry.

Tutto il casino di queste due settimane mi ha impedito di continuare, ma adesso ci sono... meglio tardi che mai!
Sempre per il casino - scusa, Beatrix_ se ti sfondo un mito - mi sono completamente dimenticata di precisare (non sono così malvagia da ometterlo apposta, malfidati) che quella dell'unico Oscar di Parker non è una mia battuta: glielo hanno detto davvero non so quali critici, a quanto pare! (La mia ammirazione per quel film non va oltre il soggetto e l'attore. C'est la vie.)
Vi siete presi l'incomodo di arrivare fin qui - graaaazie! - quindi adesso, per favore, ditemi quanto e perché vi ha fatto pena questo capitolo con una recensione, che è una delle poche cose ancora gratis, qui in Italia!
Un abbraccio (soprattutto a Beatrix_, che non si è ancora stufata di recensirmi... o almeno spero)!

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