What If..?

di Maggie_Lullaby
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


What If...?

~ Under The Moonlight ~


Alla mia Sweetness <3 senza ragione, solo perchè è lei.

Capitolo 1.

Sii sincero! Sii sincero!

Mostra liberamente al mondo, se non il tuo aspetto peggiore,

per lo meno qualche da cui si possa dedurre il peggio

(Nathaniel Hawthorne; La Lettere scarlatta)


[…] - Diavolo, Joe sta combinando un casino!

Maryl annuì tristemente.

- A casa com'è? Insomma, come sta? Esce spesso con Sasha? Lexi si è chiusa a riccio, non vuole uscire se non per andare a scuola e sta sempre in camera sua, a parte quando esce con Joe, e ne torna sempre distrutta, arrabbiata. Cosa sta combinando quel ragazzo? - domandò con tono supplicante.

Kevin la strinse forte.

- Si sta innamorando di nuovo, credo, e Lexi non è quella ragazza.

Maryl nascose il viso nel suo petto.

- Oddio, Kevin, ma come facciamo? Lexi lo ama dannazione! Lo ama con tutta se stessa e lui si sta innamorando di nuovo di quell'attrice da strapazzo?

Sasha era sempre stata simpatica pure a Maryl, ma ora che rischiava di essere la causa della separazione fra sua sorella e Joe poteva anche dire di detestarla.

- Hanno bisogno di parlare lui e Lexi – rifletté il ventiduenne. - Da soli. - aggiunse vedendo Sasha che stava parlando con Dakota Fanning e Nick con Maggie che parlavano fra di loro, stretti in un abbraccio tenero.

Poi sentirono uno strillo.

Tutti in sala si azzittirono, accorrendo verso il luogo da dove proveniva l'urlo.

Nella testa di Kevin sapeva già chi era stato a gridare.

- Lasciami spiegare... - disse Joe, a bassa voce, mentre Lexi di fronte a lui stava piangendo. Kevin si pietrificò vedendo quell'immagine, era la seconda volta che la vedeva piangere e l'altra occasione era stata quando Nick era stato male, più di sette mesi prima.

- Risparmia il fiato! - ringhiò lei, passandosi una mano sul viso. - Sei soltanto un bugiardo! Non ho più voglia di sentire le tue menzogne, sono stanca!

- Lexi per favore!

- Joseph stai zitto, stai zitto! Sei solo uno stronzo, uno stronzo bugiardo! Non hai fatto che mentirmi in questa ultima settimana!

- Ma non è vero!

- Ah, è così non è vero che sei innamorato di nuovo di Sasha? Che ti stai innamorando di nuovo? Che sei combattuto fra me e lei?!

Joe strabuzzò gli occhi.

- Lexi...

- Alexandra!

Da quanto tempo non gli chiedeva di chiamarlo così? Troppo tempo, non se lo ricordava nemmeno.

- No, ti prego, non farlo, ti supplico – la pregò sotto gli occhi di tutti, sapendo già come sarebbe andata a finire quella discussione.

- Cosa?! Dire la verità? Ammettilo, Joe, a te piace Sasha! Mi sono illusa per tutto questo tempo di poter essere davvero l'unica per te per tutto questo tempo, che davvero tu eri innamorato di me, e invece mi hai detto solo bugie per tutto questo anno! - strillava, strillava come non aveva mai fatto in vita sua.

Maggie si portò una mano alla bocca, mentre Maryl fece per intervenire, ma Kevin la fermò, certo che la rossa non avrebbe gradito.

Joe abbassò il capo.

- Ti prego, ammettilo così possiamo farla finita di dare questo spettacolo – disse Lexi a bassa voce, mentre ancora delle lacrime silenziose le solcavano il viso.

Il ventenne rimase paralizzato qualche istante, combattuto se dire o meno la verità. Non voleva perderla, non voleva.

Quando incrociò gli occhi della sua ragazza, carichi di rabbia e delusione annuì, sconfitto.

Lexi lo sapeva, ne era certa, ma trasalì lo stesso e si portò una mano alla bocca, presa all'improvviso da un forte senso di nausea mentre tutta la folla tratteneva il fiato. In mezzo a loro anche Sasha si portò la mano alla bocca, a metà fra il felice e il senso di colpa che la invadeva per il casino che aveva combinato.

- Bene – disse trattenendo appena un singhiozzo la diciassettenne, togliendosi la mano dal volto. - Ora dimmi qui, ora e subito chi vuoi e per favore non mentire.

Joe strabuzzò gli occhi. Gli chiedeva troppo. Non sapeva decidere, non fra la sua amata ragazza e il primo amore della sua vita.

Il suo silenzio stava durando troppo, se ne accorsero tutti.

- Ti risparmio la fatica di scegliere – proruppe Lexi. - Non voglio più vederti, Joseph – e dette quella parole scappò mentre Joe rimaneva paralizzato.

**

«Alexandra? Alexandra!», strillò François, schioccando le dita davanti agli occhi incredibilmente verdi della venticinquenne. «Muoviti, Alexandra, non abbiamo tempo da perdere!».

La ragazza guardò il suo capo negli occhi, fulminandola.

«Oh, certo, perché c'è così tanta gente 'sta sera», commentò ironicamente accennando al locale quasi vuoto, una punta di acidità nella voce vellutata.

François levò gli occhi al cielo, invocando il Signore.

«Il vostro sarcasmo americano è intollerabile», fece, riducendo le pupille a fessure.

«Perché il vostro francese è davvero meraviglioso», grugnì di rimando la rossa, voltandole le spalle, imprecando in inglese in modo tale che il suo capo non la capisse.

Un po' la rimpiangeva, l'America. Un po' tanto, ad essere sinceri, ma anche la Francia aveva il suo fascino se si escludeva il carattere terribilmente pignolo dei suoi abitanti.

«Vuoi perdere il posto?», la inseguì con la voce François. «Di ragazze come te ne trovo a centinaia in un pomeriggio!».

Alexandra la lasciò parlare, senza voltarsi; sapeva perfettamente che non l'avrebbe mai licenziata, per la semplice paura che potesse dire in giro dei traffici di alcool e droga scorrevano in quel locale all'ora di chiusura.

Sorridendo appena si sedette su una sedia nel retro, afferrando il giornale di quel mattino.

Passò con un'occhiata quasi indifferente i titoli della prima pagina: c'era stata una rapina in una banca lì a Parigi, e i ladri erano fuggiti con la refurtiva; il ritrovamento del cadavere di una ragazza la cui scomparsa era stata denunciata tre anni prima in Italia e un'altra cascata di disgrazie.

Alexandra si grattò la punta del naso e voltò pagina, passando alla politica, non che le importasse ma almeno si sarebbe fatta più o meno un'idea di chi votare alle prossime elezioni.

Lanciò un'occhiata alla data: 23 Dicembre 2017.

Con un sospiro nostalgico lesse i nomi dei candidati alle elezioni presidenziali, degli uomini che avevano abbondantemente superato la sessantina, con vari lifting sul viso da ebeti e dei sorrisi falsi stampati sul volto.

Il voto sarebbe saltato anche quell'anno, probabilmente.

Aprì con forza il proprio armadietto arrugginito e recuperò la propria borsa, infilandoci dentro il quotidiano.

«Ci vediamo domani», disse con tono piatto a François, che si aggirava tra i tavoli vuoti con aria stanca.

La donna la fulminò con i suoi piccoli occhietti.

«Alexandra...», cominciò, alzando la voce.

«E vorrei un anticipo della paga domani, grazie mille», la ignorò tranquillamente la rossa, dirigendosi verso l'uscita e chiudendosi la porta alle spalle con uno scampanellio cupo.

A Parigi nevicava.

Se c'era una cosa che la giovane donna aveva imparato negli ultimi cinque anni che aveva vissuto lì era che la neve, stranamente, le piaceva.

Nulla a che vedere con il caldo e soleggiato sole di Los Angeles, ma anche la città dell'amore innevata aveva il suo fascino.

Con un lievissimo sorriso sentendo un fiocco di neve sciogliersi sulla sua guancia si infilò il proprio basco verde in testa e si strinse nel giubbotto, camminando nella neve sulla strada che correva lungo la Senna.

Teneva il viso basso sui suoi stivali, attenta a non scivolare su una lastra di ghiaccio e avanzò fino a raggiungere la fermata del tram.

Si sedette sulla panchina gelida e si strofinò le mani affusolate contro il tessuto del giubbotto.

«Bonjour mademoiselle», le sorrise ammiccante un uomo dalla pelle scura, con in mano un mazzo di bellissime rose rosse. «Vuole una?», continuò con il suo francese stentato.

Alexandra scosse il capo seccamente e l'uomo si allontanò a capo chino, riprovando con una donna di mezza età poco lontana che si stava trascinando nella neve con un sacchetto della spesa in mano.

Rose. Lei, le rose, non le poteva quasi più vedere, le riportavano alla mente troppi dolci ricordi. Dolci ricordi da seppellire nell'angolo più remoto della sua mente.

Fra due giorni sarebbe stato Natale, e per lei l'ennesimo anno in cui se ne stava in casa da sola a vedersi un film. Niente di romantico o sdolcinato ma più probabilmente un bel thriller o un film horror. Doveva essere uscito da poco il remix del film Panic Room ora che ci pensava.

Il tram, come al solito, era in ritardo di dieci minuti e ormai Alexandra quasi non sentiva la sensibilità alle dita.

Salì con uno sbuffo e si sedette vicino a un finestrino, guardando il paesaggio.

Natale.

Aveva sempre amato il Natale, lei, lo trovava una festa bellissima, piena di gioia, ma negli ultimi anni, con più precisione negli ultimi sette anni, era solo diventato un giorno come un altro da accompagnare con un bicchiere di vino rosso.

Si morse il labbro inferiore, corrucciata, pensando alle sue sorelle. Entrambe avevano tentato per anni di convincerla ad invitarle da loro per quella festa, o si offrivano di invitarla a casa di una delle due per stare insieme, ma Alexandra, puntualmente, rifiutava. Ed è stato così che, oggi come oggi, erano sette anni che le tre sorelle Campbell non si vedevano. Non tutte insieme, per lo meno.

Maggie, un paio di anni prima, si era rifiutata categoricamente di passare il Natale da sola o a casa di loro padre ed Emily e aveva costretto la gemella ad ospitarla per un paio di giorni, durante i quali quasi non si erano parlate.

Maryl, al contrario, si presentava davanti alla porta dell'appartamento della sorella minore implorandola di farla entrare quasi ogni anno. Alexandra le aveva aperto solo una volta, quattro anni prima, e dopo quella visita la maggiore non si era più fatta vedere.

Perse. Erano perse tutte e tre, incapaci di recuperare il rapporto che avevano un tempo, prima che si innamorassero e, di conseguenza, si ferissero per quei tre magnifici ragazzi. Tre fratelli, come loro. Li avevano preso il cuore, trattato con delicatezza e amore per mesi, i più belli delle loro vite, per poi distruggerli.

La rossa scosse il capo, scacciando quei pensieri, e si alzò, scendendo poi dal tram una volta arrivata alla sua fermata, in Avenue de Sufren.

Se di una cosa della sua vita a Parigi era orgogliosa quella era il suo splendido appartamento.

Il bilocale per quanto piccolo e non troppo confortevole era affacciato sulla Torre Eiffel e nei giorni come quelli, in cui il Natale era vicino e la neve cadeva a fiocchi, il panorama diventava ancora più spettacolare.

La ragazza aprì il portone d'ingresso del palazzo con una spallata; erano anni che qualcuno non veniva a passarci dell'olio e ormai la serratura era arrugginita, e salì le scale con calma, ascoltando il rumore dei propri passi sui gradini in marmo.

«Mademoiselle!», la chiamò una voce dal terzo piano. «Madamoiselle Campbéll!».

Alexandra lanciò un'occhiataccia alla donna che la chiamava, Madame Ponthieu, una segretaria che aveva l'abitudine di interessarsi agli affari di tutti gli inquilini del palazzo.

«Madame, un'altra volta», sbuffò la venticinquenne in francese, arricciando il naso sentendo la pronuncia con cui la donna diceva il suo cognome.

«Ma madamoiselle, deve sapere! Conosce madamoiselle Genévieve, no? Non indovinerà mai con chi è tornata a casa l'altra notte, si tratta di...».

«Molto interessante», gracchiò la rossa continuando a salire le scale senza guardare la donna negli occhi. «Ora sono in ritardo, mi scusi», aggiunse, a mo' di scusa.

Prima di smettere totalmente di prestarle attenzione sentì madame Ponthieu borbottare un «americani!» con tono acido.

Alexandra abitava al sesto piano della palazzina e dato che l'ascensore era rotto dall'estate precedente era costretta ogni giorno a farsi tutte le scale a piedi, ma non le dispiaceva, la distraeva da tutti i suoi pensieri.

Infilò le chiavi nella vecchia serratura e la fece scattare, aprendo poi la porta e accendendo subito la luce, dando un'occhiata al piccolo ingresso.

Chiuse la porta e lanciò le chiavi su una mensola lì vicino, appendendo poi il giubbotto all'appendiabiti.

«Alexandra?», la chiamò una voce maschile dal salotto.

La ragazza si pietrificò, riconoscendo la voce. Cosa ci faceva lui in casa sua?

La rossa camminò svelta nel soggiorno e vide un ragazzo biondo, con gli occhi chiari, salutarla con la mano, seduto comodamente sul divano, le gambe accavallate.

«Buonasera», le sorrise Luc.

«Cosa ci fai qui?», ribatté di rimando Alexandra, sfilandosi gli stivali e appoggiandoli vicino alla parete. «Da quando hai le chiavi di questo appartamento?».

Il ragazzo si alzò e le porse una chiave che lei afferrò subito.

«Me l'hai data una settimana fa», spiegò il biondo, tranquillamente. «Mi avevi chiesto di innaffiare le piante finché stavi via per quel weekend a Nizza e non ho più avuto occasione di restituirtele».

«Così hai pensato bene di entrare in casa mia e aspettarmi finché non sarei tornata per darmele?», domandò lei con tono rabbioso.

«Alexandra, sei tu che sei in ritardo», spiegò molto semplicemente Luc. «Dovevamo cenare insieme, ricordi?».

La venticinquenne non si diede la pena di rispondere. Certo che se l'era dimenticato, non ricordava più un appuntamento con un ragazzo da anni.

«Quindi... posso restare?», proseguì il giovane francese, ammiccante.

La padrona di casa annuì appena e gli fece cenno di risedersi.

«Ordino un cinese», spiegò senza aspettare di ricevere consensi. «E apro del vino: bianco o rosso?».

«Bianco», rispose lui, seguendola in cucina.

La ragazza prese il telefono che teneva sempre poggiato sul tavolo e compose il numero, mentre Luc le cingeva la vita con un braccio e lei si irrigidiva.

«Luc...», sibilò.

«Alexandra, queste sono cose che due persone quando stanno insieme fanno, non domande sfuggenti, una telefonata ogni morte di Papa e risposte brusche», spiegò il ragazzo, lasciandola stare.

La rossa si morse il labbro inferiore e non disse nulla. Stare insieme. Le sembravano delle parole così grosse, le erano sembrate adatte solo una volta ed era stato un fiasco totale.

«Ho visto che hai dei nuovi messaggi sulla segretaria», accennò Luc, passandosi una mano tra i capelli. «Non li ho ascoltati, ho solo visto il numero che lampeggiava quando sono arrivato», aggiunse, quando vide l'occhiataccia della sua ragazza.

Alexandra si rilassò e appoggiò il telefono all'orecchio, ordinando a un ristorante cinese le loro ordinazioni.

I due giovani tornarono in salotto, sedendosi sullo stesso divano, ma i più lontani possibile l'uno dall'altra.

«Anche questo Natale starai sola?», chiese Luc, osservando il viso serio della venticinquenne accanto a lui.

«Sì», rispose meccanicamente quella. «Tu vai dalla tua famiglia, no?».

«Veramente no», disse lui. «Speravo di passarlo con te, questo Natale».

La rossa non rispose subito, sembrava particolarmente interessata alla copertina di un libro poggiato sulla libreria dall'altra parte della stanza.

«Passare il Natale assieme non bisognerebbe farlo dopo almeno il sesto mese di relazione?», chiese, socchiudendo gli occhi verdi. «Noi siamo solo al secondo...».

«Quarto», la corresse debolmente Luc.

«Quello che è», sbottò Alexandra. «È troppo presto, non corriamo, magari l'anno prossimo, che dici?».

Il biondo annuì, perfettamente conscio che l'anno dopo a Natale non sarebbero più stati insieme.

«Vai dalla tua famiglia», gli disse la ragazza con tono dolce. «Ti aspettano».

Luc annuì distrattamente e tenne lo sguardo calato.

«Perchè, la tua famiglia non ti aspetta?», osservò dopo qualche minuto di silenzio.

«Come, prego?», chiese la rossa, sperando vivamente di aver capito male.

«La tua famiglia», ripeté il ragazzo con il tono più alto, «non ti aspetta?».

«No», grugnì Alexandra seccamente. «Hanno le loro vite».

«Mi hai sempre detto che...».

«Luc, perché non ti fai i cazzi tuoi, eh?», sibilò la ragazza, alzandosi di scatto. «Non ti deve interessare se parlo con la mia famiglia o meno, se passo il Natale da sola o meno, è la mia vita e faccio quello che voglio io!».

Il ragazzo non batté ciglio nemmeno quando la ragazza, al suono del campanello, andava ad aprire e sbatteva la porta in faccia al fattorino.

«Voglio che tu sia felice», spiegò. Era così difficile da capire?

«Sei in ritardo di sette anni, Luc», lo riprese lei, con una risatina amara. «La mia felicità è scomparsa nella primavera del 2010 a causa di un grande bastardo e di un'attrice cogliona».

«Ma Lexi...», sussurrò Luc.

A quel nome la ragazza si dovette passare una mano sugli occhi per non iniziare a lacrimare, era da anni che non se lo sentiva pronunciare, e insieme a quel suono familiare si mescolarono in lei centinaia di emozioni e di ricordi.

«Non mi chiamare così», lo riprese la rossa. «Lexi non esiste più, è morta sette anni fa. Ora sono Alexandra».

Luc seguì con lo sguardo la giovane donna che apparecchiava passivamente la tavola e gli faceva cenno di sedersi accanto a lei per mangiare.

«Sei un bravo ragazzo, Luc», mormorò Alexandra nel suo orecchio, pescando poi con le bacchette un raviolo al vapore e senza dire quasi più una parola per tutta la serata.


**


Come promesso eccomi di nuovo subito qui con questa mini raccolta. Forse posso immaginare quello che voi possiate pensare una volta letto questo capitolo, ovvero “tutto qui?”, ebbene sì. È tutto qui. Lexi una vita ha provato a farsela di nuovo, ma non c'è riuscita, c'è sempre lo spettro di Joe che aleggia su di lei nonostante non si vedano da sette anni. Lei ora sta con Luc, che la ama, ma lei non ricambia. Luc è un po' come era Ray in Under The Moonlight, solo che questa volta lui la ama davvero, vuole davvero renderla felice, ma Lexi – anche se dice il contrario – in un certo senso vuole che Joe dentro di lei continui a vivere.

Come al solito, non mi so spiegare o.ò

Beh, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo tra qualche giorno con il secondo (:

*Il fotomontaggio verrà aggiunto quando tornerò a Milano, ma vorrei ringraziare moltissimo _Kira_Perly_ per averlo fatto! Grazie, Chiara! :D*

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


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Capitolo 2.

Quando non si è sinceri bisogna fingere,

a forza di fingere si finisce per credere; questo è il principio di ogni fede.

(Alberto Moravia; Gli indifferenti)



[…] - Cosa significava quella canzone? - chiese Maryl, strabuzzando gli occhi lanciando un'occhiata al suo ragazzo.

- Non lo so – ammise lui. - Ma hai visto come si comportavano Maggie e quel ragazzo lì?

- Kevin, al momento non mi interessa, voglio sapere perché mia sorella ha dedicato al suo ragazzo una canzone d'addio e non la loro Fly with me!

- Maryl, non ne ho idea, io... - Kevin alzò lo sguardo. - Ah, ciao Nick.

Il diciassettenne, comparso ansimante dalla porta d'ingresso, quasi inciampò nei suoi stessi piedi rischiando di cadere a terra, ma si aggrappò a una sedia e si resse in piedi, avvicinandosi a Maryl e al fratello maggiore.

- Scusate, mi hanno trattenuto, non sono riuscito ad uscire dallo studio fino a quindici minuti fa, mi sono catapultato qui subito. È già finito lo spettacolo? Maggie dov'è? - chiese tutto d'un fiato, con il fiatone per la corsa.

Maryl e Kevin fecero per dire qualcosa ma la voce di Maggie li interruppe prima che potessero dire alcunché.

- Ciao Nick – disse con tono piatto.

- Maggie – esalò lui. - Mi spiace, sono stato trattenuto, ho provato in tutti i modi di sbrigare la cosa ma non sono riuscito...

La mora scosse il capo, osservando i clienti del locale uscire, anche Blake insieme al padre, probabilmente per parlare con qualche amico.

- Potete aspettare fuori? - chiese lei alla sorella e a Kevin. - Per favore.

Entrambi annuirono e Kevin mise una mano sulla schiena della sua ragazza spingendola dolcemente verso l'uscita.

- Maggie... - riprese Nick, non appena scomparirono dietro la porta.

- Me l'avevi promesso! - lo accusò lei, infiammandosi. - Mi avevi promesso che saresti venuto! Che questa sera saresti stato qui per ascoltare la nostra canzone!

- Mi spiace – disse il ragazzo.

- No! Le tue scuse non mi bastano più, Nicholas, sono stanca di sentire soltanto le tue scuse quando manchi alle tue stesse promesse! - sbottò la diciassettenne, irritata.

- Io volevo esserci! - si difese il ragazzo. - Sono stato trattenuto, Maggie!

- Come sempre – si sfogò la mora.

- Senti – riprese lui, fingendo di non averla sentita - sono certo che la canzone sia piaciuta a tutti, la prossima volta ci sarò, davvero.

- Nicholas, forse non l'hai capito, non ci sarà più una prossima volta! - gridò Maggie, e la sua voce rimbombò nel bar vuoto.

Il cantante rimase immobile qualche istante, poi sbatté le palpebre e strabuzzò gli occhi, confuso.

- Cosa intendi dire? - osò.

La mora abbassò il capo, mordendosi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare.

- Nick – iniziò, - cos'è più importante per te? La musica o io?

- Come puoi chiedermi una cosa simile?! - gridò il ragazzo, infiammandosi subito. - Come?!

- E tu come hai potuto mancare a questo impegno per l'ennesima volta quando mi avevi promesso che ci saresti stato?! - ribatté lei.

- Non mi hai risposto.

- Se per questo nemmeno tu!

Nick non l'aveva mai vista così combattiva. Riconobbe solo una cosa di quella nuova Maggie, lo sguardo e la strana luce che le oscurava gli occhi: la stessa che aveva quando aveva visto lui ed Emma baciarsi.

- Maggie... Io voglio essere sincero, amo entrambe con tutto me stesso, non potrei vivere senza uno di voi – ammise, fissandola negli occhi.

La ragazza si paralizzò.

- Davvero? Entrambe? - scoppiò in una risata senza gioia. - Ho sempre saputo che non avrei mai sostituire la musica, e non ho mai voluto, ad essere sincera, ma da quando hai pubblicato Who I am sembri non avere cinque minuti da dedicarmi!

Si stava sfogando, rivelando quello che si teneva dentro da troppo tempo.

- Non ho cantato Fly with me, questa sera – aggiunse la ragazza, con voce roca. - Per tutto il tempo ho rimandato la canzone, sperando di vederti varcare quella porta, ma non l'hai fatto. - prese un respiro profondo. - Ho cantato Goodbye my lover.

Nick dapprima non comprese ciò che la sua ragazza gli stava dicendo, le sue parole gli sembravano prive di senso, come se stesse parlando un'altra lingua, poi comprese, anche se non voleva crederci. Non era stupido, sapeva cosa Maggie stava per fare.

- Nicholas, voglio una pausa – disse la mora, dopo aver preso un respiro profondo, fissandolo negli occhi mentre i suoi si inumidivano.

Il cantante la fissò senza emettere un verso, mentre qualcosa dentro di lui si spezzava. Il suo cuore.

- Io... non credo di provare per te quello che provavo qualche tempo fa – spiegò. - Ho bisogno di chiarirmi le idee – senza volerlo i suoi pensieri corsero a Blake. Li scacciò come se fossero una mosca fastidiosa.

- Ah – sussurrò Nick, a bassa voce, con il tono roco.

- Già – annuì lei. - Ah.

- È colpa mia – disse lui, parlando quasi fra sé e sé.

Maggie scosse il capo, lottando per trattenere le lacrime che premevano per uscire.

- No, non è vero, è anche colpa mia – disse, sincera, - non sai quanto sia anche colpa mia.

Il ragazzo scoppiò in una risata senza gioia.

- Le ragazze lo dicono sempre quando lasciano qualcuno – mormorò, - per non far sentire troppo in colpa i ragazzi e anche se stesse.

- No, Nick – scosse la testa Maggie. - Io sono sincera.

Due occhi verdi e due cioccolato si incrociarono ancora una volta, inumiditi delle stesse lacrime di dolore, entrambi mentre sentivano un rumore di vetri infranti. I loro cuori.

- Ti aspetterò – disse lui. - Finché non avrai deciso.

- Non farlo, Nicholas – sussurrò la ragazza. - Vivi la tua vita, io proverò a fare lo stesso.

- Non credo di riuscirci senza di te – ammise Nick. Anche senza credo.

Maggie sospirò e si strinse nelle spalle.

- Mi dispiace.

Fece per allontanarsi ma Nick la prese per un braccio e la strinse a sé un'ultima volta, annusando il suo profumo, l'odore della sua pelle e per ultima cosa baciò i suoi capelli.

Maggie rimase immobile, trattenendo ancora una volta dalle lacrime che le sentiva sgorgare.

Una lacrima le scivolò lungo la pelle candida e prima che la potesse nascondere Nick la vide.

- Ciao Nick – sussurrò Maggie, gli diede un bacio su una guancia, un bacio freddo, distaccato, di quelli che di solito lui dava alle sue fan.

- Ciao Maggie – mormorò di rimando lui, ma lei non lo sentì: se n'era già andata.

**

«Se avete lacrime, preparatevi a versarle adesso», citò Maggie Campbell, seduta sulla cattedra della propria aula, guardando negli occhi tutti i suoi ventidue studenti. «Chi sa dirmi chi disse questa frase?».

Gli studenti si lanciarono delle occhiate perplesse; alcuni si grattavano la testa con il beccuccio della penna, altri mordevano nervosamente una matita.

«Nessuno? Dai, ragazzi, l'abbiamo studiato poco tempo fa...», osservò la giovane donna, scostandosi i capelli mori dagli occhi verdi come smeraldi. «Moore?».

Un ragazzo dai ricci mori e gli occhi di cioccolata alzò lo sguardo sulla professoressa, osservandola con un'occhiata profonda.

Come sempre quando vedeva quello sguardo così assurdamente familiare Maggie rabbrividì e si tenne stretta con le mani al bordo della cattedra.

«Come ha detto, prof?», chiese con voce laconica Matthew Moore.

«Chi l'ha detto?», ripeté pazientemente la venticinquenne.

«Un uomo depresso, immagino», sbadigliò il quindicenne, annoiato, e si accese qualche risatina per la classe.

«Mi sapresti dire il nome di questo uomo depresso?», chiese Maggie, ignorando il commento. Sapeva che Matthew conosceva la risposta, doveva solo dirla, smettere di fare l'indifferente.

Gli occhi di Matthew e di Maggie si incrociarono per qualche misero istante.

«Shakespeare», mormorò il ragazzo, abbassando il viso sul suo libro di letteratura.

«Esattamente», sorrise Maggie, radiosa. «William Shakespeare. Chi sa dirmi qualcosa su di lui?».

La mano agile di Clarissa Bolton stava già per scattare in aria quando la campanella suonò e immediatamente ventidue sedie stridettero sul pavimento e tutti gli studenti raccattavano le proprie cose, per uscire dall'aula afosa.

«Matthew, ti fermeresti un istante?», domandò la mora non appena vide la sua massa riccia sfilare davanti alla sua cattedra.

Il ragazzo si fermò e la guardò male per un secondo, salvo tornare indietro salutando con la mano il suo migliore amico, Chad Oliver.

«Devi prendere il pullman per tornare a casa, oggi?», chiese Maggie, facendogli cenno di sedersi pure al primo banco.

«Sì», grugnì Matthew.

«Non ti tratterrò a lungo, allora», annuì la giovane donna. «Volevo solo parlarti qualche minuto perché ho visto che sembri un po' strano, in questo ultimo periodo». Era difficile per lei estraniarsi dalla vita dei propri studenti, con un ragazzo come Matt, poi, era quasi impossibile.

«Al solito, prof», disse lui, passandosi una mano tra i riccioli ribelli. Un gesto così familiare per Maggie che dovette stringere le mani ancora di più alla cattedra: erano così simili...

«Sicuro? Con tuo padre...».

«Prof, mi scusi, devo correre o perdo il treno per tornare a casa», la interruppe bruscamente Matthew, afferrando di nuovo il suo zaino e uscendo dall'aula senza aspettare alcuna risposta.

Maggie chinò il capo, osservandosi le scarpe con aria sconsolata. Le aveva detto che sarebbe tornato a casa in pullman.

Con un sospiro rassegnato infilò nella sua ventiquattr'ore dei compiti in classe e uscì dalla stanza, toccandosi i capelli con aria nervosa.

Sapeva dei problemi a casa che aveva Matthew con suo padre, un alcolizzato che non meritava di essere chiamato “papà”, e cosa gli faceva ogni volta che il figlio lo deludeva in qualche modo. Aveva tentato di convincere Matthew a parlare con la psicologa della scuola ma non aveva mai mostrato segno di volerlo fare e lei non sopportava di vedere quell'espressione spenta su quel bel viso angelico.

Scosse il capo, come per scacciare una mosca fastidiosa, la pensava in quel modo solo perché Matthew e lui erano due gocce d'acqua, quasi. Non riusciva a smettere di pensarlo.

Rivolse un cenno di saluto all'addetto alle pulizie e uscì dalla Washington High School, situata nel centro di Washington D.C.

Si era trasferita lì all'età di diciannove anni, per studiare. Doveva essere una cosa provvisoria mentre, alla fine, era stato un cambiamento definitivo.

A causa della partenza di Maryl per il Giappone si era trasferita per un anno nella periferia di Los Angeles, da una zia che quasi non sapeva nemmeno di avere; tutto pur di non andarsene dalla California e seguire il padre ed Emily a Miami. Avrebbe voluto convincere Lexi a seguirla ma la gemella era stata irremovibile e aveva seguito il padre e la matrigna in Florida.

Concluso il liceo con ottimi voti il padre aveva fatto di tutto per farla ammettere ad Harvard a Boston e i voti l'avevano senza dubbio aiutata, ma non appena aveva messo piede in quell'università aveva fatto dietrofront ed era andata alla stazione. Destinazione: il primo treno che sarebbe partito.

Ed era stato così che si era trovata a Washington D.C. sola, senza un soldo e un posto dove stare, se non fosse stato per Shannon, una ragazza indiana dalle origini inglesi che allora viveva in una casa con una stanza in più, sarebbe tornata ad Harvard strisciando.

Ed era stato così che aveva preso un dottorato in Scienze Economiche e Sociali, si era laureata con ottimi voti e, alla fine, era finita in una scuola di provincia in cui guadagnava una miseria.

Certo, una vita emozionante, avevano detto in molti quando l'avevano ascoltata, ma perché era accaduta? E Maggie aveva raccontato la verità, o almeno una parte. Aveva raccontato che si era innamorata follemente di un ragazzo, l'aveva chiamato Brett, un atleta, e avevano passato insieme i mesi migliori della sua vita, poi lui aveva preso altri impegni, lei era scalata in secondo piano e si erano lasciati.

Il suo nome, in realtà, era Nick Jonas, rock-star di successo, ma era venuta a Washington per dimenticare il passato, non per ricordare.

Arrivata nel parcheggio aprì la sua macchina, la Mini rossa che il padre le aveva regalato per i diciassette anni che aveva fatto arrivare da Los Angeles grazie a Emily, la nuova moglie del padre.

Si sedette sul sedile in pelle, troppo pacchiano per i suoi gusti, e accese il motore, collegando intanto al cellulare l'auricolare e accendendo la radio.

«Giornata meravigliosa, qui a Los Angeles, il sole splende, gli uccellini cantano... Ah, sì, il mondo ha ripreso a girare intorno a me, mi sento molto più sereno, adesso!», commentò lo speaker, con tono beato, facendola sorridere.

«Derek! Non te l'hanno insegnata la modestia?!», sibilò un'altra speaker, con tono divertito.

«Perdonami, Liz, la mode-che?», ma prima che l'altra potesse replicare partì una canzone: To listen to reason, un nuovo pezzo degli American Boys, una nuova teen band che, a quanto pare, faceva impazzire migliaia di adolescenti.

Il loro sound a Maggie non piaceva, ma come poteva non capire tutte le ragazze che li adoravano e dicevano di amarli? C'era passata anche lei, una volta, sette anni prima.

Il suo cellulare prese a vibrare e la ragazza abbassò il volume della radio, accettando la chiamata.

«Pronto?», disse, con un mezzo sorriso.

«Indovina chi si sposa?!», saltò su dall'altra parte del telefono una voce eccitatissima.

«Oh. Mio. Dio».

«Sì! Mi sposo, Mags! Mi sposo!», continuò la ragazza, l'entusiasmo che trapelava da ogni sillaba.

«Shannon, ma è meraviglioso! È fantastico! Finalmente James te l'ha chiesto?!», strillò allegra la mora, fermandosi a un semaforo rosso, ostentando felicità.

«Lo consideri lo stesso “chiedere” se sono stata io a supplicarlo?», rise nervosamente la ventisettenne dall'altra parte dell'apparecchio.

«Shy!».

«Ma lui ha accettato e mi ha detto che me l'avrebbe chiesto lui 'sta sera... è una buona notizia, no?», continuò a parlottare Shannon, ridacchiando.

«È meraviglioso, Shy, sono molto felice per te», sorrise materna Maggie, schiacciando di nuovo l'acceleratore non appena il semaforo divenne verde.

«Grazie! Domani sera usciamo a festeggiare? Oggi non posso, Jimmy ed io festeggiamo a modo nostro», propose maliziosamente l'altra.

«Certo, d'accordo, facciamo alle otto? Dove?», annuì Maggie, svoltando a sinistra, rallentando vedendo che la macchina di fronte a lei si stava quasi per fermare di fronte all'ennesima coda di traffico cittadino.

«Andiamo a mangiare un kebab? Al solito posto?», chiese Shannon.

«Va bene, perfetto. Ci vediamo domani, allora».

«A domani tesoro, un bacio», sorrise l'amica e poco dopo riappese.

Il viso della venticinquenne era ancora increspato in un sorriso. Si passò una mano tra i capelli mori, tagliati corti sopra le spalle. Aveva quel taglio da qualche anno, ormai, ma non si era ancora abituata, era solita avere i capelli lunghi almeno sotto le scapole.

Rimase ferma nel traffico per una decina di minuti, ma negli anni aveva acquisito una discreta conoscenza di quelle strade e sapeva quale vie prendere per evitare le zone meno trafficate.

Abitava in un appartamento trilocale nel pieno centro di Washington D.C., all'ottavo piano. Non si lamentava affatto di quella sistemazione, i vicini non erano troppo rognosi ed era comodo per andare a lavorare, anche in quei giorni in cui nevicava e pioveva costantemente.

Aprì il grosso portone e fece un cenno di saluto al portiere, che ricambiò con un gesto del capo, e si fermò a controllare se fosse arrivata della posta. Non era insolito in quel periodo dell'anno: di certo suo padre, Emily e Daniel le avevano spedito qualcosa da Miami, o da dove erano partiti per le vacanza natalizie. Ormai non sperava più in una lettera di Lexi da anni, mentre Maryl, come al solito, le avrebbe telefonato la mattina di Natale. Presto. Molto presto, considerando il fuso orario tra Washington e Tokyo.

Williams – Campbell.

Sentì un brivido lungo la schiena, e non era per il freddo. Non si era ancora abituata a vedere il suo cognome associato a quello del suo compagno, Edward.

Aprì la cassetta con la propria copia delle chiavi ed estrasse tre buste delle lettere e una cartolina che ritraeva una spiaggia esotica. Fiji. Ovvio.

Mentre si avvicinava all'ascensore e schiacciava il pulsante per chiamarlo diede un'occhiata alle due lettere: due bollette da pagare e una lettera di Daniel per lei. Sorrise istintivamente.

Daniel era il figlio di suo padre ed Emily, che aveva compiuto sei anni da pochissimo tempo e aveva iniziato le elementari solo da pochi mesi, eppure da quando aveva imparato a scrivere non faceva altro che mandarle lettere.

Entrò nell'ascensore e pigiò il tasto dell'ottavo piano, leggendo la cartolina.

Ciao Maggie, come stai? Ti sento poco ultemamente! Siamo alle Figgi, sai? Qui è belissimo! Ti voglio bene, sorellona! Baci! Dan, Emy e Pet

Pochissime righe scritte con la scrittura sbilenca di Daniel, con tanto dei suoi errori di ortografia.

Maggie girò la chiave nella serratura e aprì la pesante porta in legno.

Si affacciava subito nel salotto di casa, ben illuminato dal sole di quell'ora, le finestre che davano sulle strade di fronte e, più in là, un parco in cui Edward andava spesso a correre non appena spuntava il sole.

Non era decorato con sfarzo: in mezzo al soggiorno era posto un divano da tre posti angolato con un altro per due persone, alla parete era appoggiata una televisione.

Edward era un grande appassionato d'arte e le pareti erano ricoperte di copie di quadri e, qua e là, qualche fotografia.

Sospirando si tolse le scarpe e il giubbotto, appoggiando le chiavi su una mensola vicina alla porta e riponendo i propri indumenti nello sgabuzzino.

Appoggiò le due bollette vicino alle chiavi e aprì la lettera di Daniel con un lieve sorriso.

Ciao sorellona,

mi manchi tanto! So che non vuoi partire con noi però vorrei che tu venissi! Andiamo alle Fiji questo Natale, ho visto le foto e sono bellissime, ma per una volta vorrei un Natale con la neve!

Ho ricevuto le foto che mi hai spedito di te e lo zio Ed a casa tua. Voglio venirci anch'io! Quando posso venire?

Sai che Maryl mi chiama spesso ultimamente? Dice che le manco... anche lei mi manca! E anche Lexi! Tu l'hai sentita?

Io la chiamo ma non mi risponde mai... Mi ha chiamato solo una volta qualche settimana fa, ma io voglio sentirvi di più!

Mamma e papà stanno organizzando già un viaggio per il loro settimo anniversario di matrimonio in aprile... posso venire da te mentre loro stanno via? Per favore!

La scuola va benissimo, sai? Vedi che non sto facendo nemmeno un errore? Sono bravo, vero?

A scuola c'è una ragazza simpaticissima che mi piace molto, si chiama Rebecca ed è molto bella! Come le posso dire che mi piace?

Chiamami presto, Maggie!

Ti voglio tanto, tanto, tanto, tanto, bene, sorellona!

Tuo amatissimo fratellino Daniel

p.s. Non è vero che sono bravo a scrivere, ora, è che mamma mi ha aiutato a correggere gli errori che c'erano nell'altro foglio così ho scritto bene qui, ti fa piacere?

La ragazza sorrise materna.

Quel bambino era assolutamente il più dolce che avesse mai conosciuto, e non lo diceva perché era suo fratello.

«Bentornata raggio di sole», disse una voce maschile, cingendole la vita.

Maggie sfiorò con le dita le mani che la abbracciavano.

«Grazie, tesoro. Anche a te», disse, felice. «Sei tornato a casa prima?».

«Sì, ho deciso di prendermi metà giornata libera», ammise Edward, un ventisettenne con i capelli neri corti e profondi occhi blu acceso, decisamente alto e dal fisico scolpito.

«Come mai?», chiese Maggie, prima che il ragazzo calasse le proprie labbra sulle sue e la baciasse dolcemente.

«Buone notizie», spiegò semplicemente, con aria misteriosa.

«Ovvero?», rise la mora, districandosi dal suo abbraccio e andandosi a sedere sul divano trascinando con sé Edward.

Lui prese a giocare con i suoi capelli, annusandole il collo e baciandoglielo con passione, appoggiando poi una mano su una gamba della fidanzata.

«Ed... Ed...», lo richiamò Maggie, irrigidendosi leggermente. «Non ora, dai».

«Perché?», chiese lui, con aria corrucciata.

«Sono stanca e ho tantissime cose da fare, e poi devo...», ma la lingua di Edward che catturava la sua la zittì.

«Beh, allora va bene», commentò il ragazzo, alzandosi con un sorriso tranquillo. «Ma non trovare scuse per questa sera...».

Maggie rise appena, e gli lanciò addosso un cuscino.

Edward era una brava persona: aveva un buon lavoro, figlio di gente per bene che l'avevano accolta in famiglia a braccia aperte, era un ragazzo gentile, dolce, spiritoso. Era tutto questo, ma non era Lui. Lui, l'amore della sua esistenza, la sua anima gemella. Il suo Nicholas. Ma ormai era un ricordo lontano. Non sapeva niente di quel ragazzo da quando si erano lasciati e non aveva fatto nulla per informarsi della sua vita ora: era sposato? I Jonas Brothers erano ancora un gruppo? Aveva una ragazza? Magari già un figlio? Non lo sapeva, e non lo voleva sapere.

Era certa che se avesse conosciuto Edward prima di Lui se ne sarebbe innamorata follemente, sarebbe diventata la sua anima gemella, ma – ora come ora – non avrebbe mai potuto sostituire Nick.

Provava qualcosa per Edward, ovviamente, ma non era l'amore speciale che aveva sognato e avuto. Sapeva che, però, sarebbero rimasti insieme, forse per tutta la vita, avrebbero avuto dei figli e un giorno si sarebbero seduti in giardino, vecchi e rugosi, circondati dai nipoti. Edward sarebbe stato felice, la sua sarebbe stata una vita piena. Maggie, invece, si sarebbe accontentata. Accontentata di un uomo, un lavoro, una vita.

Guardò Edward sorriderle e ricambiò.

Ma, dopotutto, le sue scelte le aveva fatte. Non si poteva tornare indietro. Il suo futuro era lì che la aspettava e lei avrebbe mantenuto quella maschera per tutta la vita, se necessario.

Chissà, magari un giorno avrebbe completamente dimenticato... Nicholas e avrebbe potuto regalare a Edward tutto l'amore di cui aveva bisogno, un amore pieno.

Non restava che aspettare.


Continua...


Buonasera (:

Ebbene sì, aggiornamento veloce anche perché non so quando potrò farlo di nuovo o.ò Spero presto!

Grazie per le 7 persone che hanno commentato lo scorso capitolo, mi avete stupita, sul serio, mi aspettavo al massimo un paio di recensioni!

Questo è uno sprazzo della vita di Maggie, ed è già il penultimo capitolo di questa mini-long.

Uh, nello scorso capitolo me n'ero scordata ma vi avverto che in questa long sono comparse o compariranno un paio di personaggi della mia prossima fic I'm Only Me When I'm With You. Secondo voi, se sono già comparsi, quali sono? Sono curiosa di sapere se avete indovinato *-*

Sì, ora vi lascio i ringraziamenti, vi ho già rotto abbastanza le scatole :D

Melmon: Lexi, come sappiamo, è testarda. Esageratamente testarda. Lei non vuole dimenticare Joe, anche se lo nega, e ha tagliato i ponti anche con le sue sorelle perché le ricordavano troppo la famiglia Jonas e i momenti passati insieme. Spero di essere stata chiara :D Spero, comunque, che questo capitolo ti possa piacere. Un bacio <3

Danger_Dreamer_93: spero sia abbastanza presto :D Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto e spero sia stato lo stesso per questo! Grazie mille per le tue bellissime recensioni! Un bacio <3

Hollie: ahah, senza dubbio lo preferisco anch'io il finale originale, ma ho voluto mostrare anche questo lato che sarebbe potuto accadere (: Grazie mille per i complimenti, sul serio. Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. Un bacio <3

She is Mari: il perchè della loro separazione è spiegato in UtM e, come hai potuto vedere, ho mostrato uno sprazzo anche nel primo capitolo :D Ma noo, povero Luc, mi ci sono affezionata, è un ragazzo intelligente u.u Nono, Joe non è stato con madamoiselle Genevieve (anche se sarebbe interessante xD). Dei Jonas in questa fic non si saprà niente, loro sono la parte che le Campbell che vogliono dimenticare e non vogliono sapere niente delle loro vite. Grazie per i complimenti! *-* Un bacio <3

Who_I_Am: nuova lettrice *___* Sono contenta che tu abbia commentato questa fic! E grazie moltissimo per i bellissimi complimenti! Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo, un bacio! <3

FallInLove: Joe è decisamente Joe, non lo dimenticherò mai io che non lo conosco figuriamoci Lexi xD Anche se è solamente una fiction... Mmh, ma dettagli ù.ù Come ho già detto a She is Mari non ci saranno i Jonas perché, ebbene sì, sono la parte “da dimenticare” per le sorelle Campbell... anche se non ci riescono o.ò Grazie per i complimenti! Un bacio <3

jonas_princess: spero che abbia aggiornato abbastanza presto :D Sono moolto contenta che questo finale alternativo ti piaccia, sul serio! Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo! Un bacio <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.

Ingiustissimo/Amor, perché sì raro/corrispondenti

fai nostri desiri?/onde,perfido, avvien che t'è sì caro/

il discorde voler ch'in due cor miri?

(Ludovico Ariosto; Orlando Furioso)

Maryl sorrise, bussando alla porta di casa Jonas, radiosa, la valigia appoggiata accanto alla porta. Non era nemmeno tornata a casa a poggiarla, era corsa immediatamente da Kevin. Era riuscita finalmente a prendersi un paio di settimane di pausa dall'apprendistato da Dior e aveva preso il primo volo per Los Angeles disponibile.

- Chi è? - domandò una voce femminile dall'altra parte della porta. Maryl sorrise riconoscendola.

- Denise, sono io, Maryl – fece la bionda, sprizzando felicità da tutti i pori.

Quasi non aveva finito di parlare che la donna aveva già aperto, un sorriso raggiante sul viso troppo giovane per una persona di quasi cinquant'anni.

- Maryl – sospirò Denise, stringendola quasi fosse una figlia per lunghi istanti. - Cara, ma come mai sei qui? Entra, entra.

La ventiduenne entrò nell'atrio a lei così familiare. Aveva passato intere giornate in quella casa e il profumo che vagava in ogni stanza le era mancato, suonava un po' come casa.

- Come mai sei qui? - ripeté Denise Jonas, allegramente, facendole strada sino alla cucina e versandole un bicchiere di aranciata.

La signora Jonas l'aveva sempre trattata bene, ma mai come in quel momento. Forse era perché finalmente era tornata da Kevin, forse perché era l'unica Campbell che non aveva ferito uno dei suoi figli.

- Mi sono presa una settimana libera – spiegò, scrollando le spalle. - Maggie e Lexi mi mancavano troppo, e anche i ragazzi – i suoi occhi si illuminarono immediatamente. - Starò una settimana qui e un'altra a Miami.

La mano di Denise, a sentire il nome delle sorelle minore della bionda, ebbe un tremito; cercò di mascherarlo con un finto sorriso, sperando che la ragazza non se ne accorgesse, ma non fu così.

Sospirò, abbassando il capo lentamente.

- Nick e Maggie continuano a non parlarsi? - chiese dispiaciuta, anche se sapeva perfettamente la risposta.

- Sì – rispose. - Non accennano a risolvere le loro divergenze. Maggie mi ha chiamata, però; è una brava ragazza... Mi ha spiegato come mai hanno litigato e come mai si sono lasciati. Credo sia stato per quanto le avevo detto quando Nick stesse male. Avevo seriamente pensato che lei fosse la persona giusta per... - la sua voce si ruppe. - Lasciamo perdere. Mi ha detto che suo padre sta tentando di farla ammettere ad Harvard per quel che penso la ammetteranno di sicuro.

Maryl annuì. Sapeva già tutto.

- E Lexi?

Sulla rossa, al contrario, non aveva notizie. Lexi non la chiamava mai, e rispondeva alle sue telefonate una volta ogni cinque, per poi chiudere dopo pochi minuti: diceva di essere impegnata e di dover studiare. Per quel poco che ne sapeva Maryl, erano tutte bugie.

- Dopo l'incidente non l'ho né più vista né sentita, mi spiace – commentò la signora Jonas. - Ho ricevuto solamente un suo messaggio in segreteria, una sola parola: grazie. Non so a cosa si riferisse.

- Io penso di saperlo... - la interruppe Maryl. - Per averla accolta quasi come una figlia, per essere stata a volte la madre che ci è mancata.

Ricordò le volte in cui le aveva viste ridere davanti a un bicchiere di thé freddo, divertendosi raccontando aneddoti di Joe e, addirittura, svelarsi qualche segreto.

Denise sorrise commossa.

- Se la senti, dille che le voglio bene, per favore.

- Lo farò – promise. - Scusa, sai dirmi dov'è Kevin? - era la domanda che voleva farle da quando era arrivata.

La donna rise alla sua trepidazione.

- È fuori, lo trovi nel parco dietro a casa. Usciva con un'amica.

- Oh, grazie mille – sorrise la bionda. Se c'era una cosa di cui non si preoccupava era che Kevin la potesse tradire, non conosceva persona più fedele e leale di lui.

Uscì di casa più velocemente che potesse, ringraziando il cielo di aver avuto il buon senso di infilarsi un paio di scarpe da ginnastica, un sorriso raggiante sulle labbra rosee e perfette. Nella sua mente era fisso un solo pensiero: stava per rivedere Kevin, lo stava per riabbracciare, stringere, baciare.

Come gli era mancato...

Il parco era semivuoto, quella non era una delle zone più frequentate di Toluca Lake e faceva troppo caldo per uscire e stare al sole, e lo riconobbe subito. Era seduto su una panchina accanto a una bellezza mora, i capelli lunghissimi e lucenti. Maryl poteva vedere loro, ma non il contrario.

Il suo cuore accelerò i battiti quando scorse il profilo di Kevin, uguale a come si erano visti l'ultima volta, forse solo più pallido.

La ragazza parlava tenendo le mani in grembo e giocherellando, ogni tanto, con una collana posata sulla sua canottiera azzurra. Era proprio bella. Ma Maryl non se ne curò, anche se era così Kevin non l'avrebbe mai tradita. Kevin era suo.

Fece un passo avanti, già pronta a gridare il nome del suo ragazzo e iniziare a correre verso di lui per abbracciarlo, come in una scena di un classico film di serie B, quando vide Kevin passare, impacciato, un braccio intorno alle spalle della bellezza in canotta.

La ragazze non parve stupita, o meravigliata, o neanche offesa – doveva sapere di lei, di Maryl, no? - solo compiaciuta e si strinse più a lui, socchiudendo gli occhi e intrecciando una mano con la sua.

La bionda si pietrificò, trattenendo il fiato, mentre il suo cuore sembrava aver smesso di battere.

Non poteva essere possibile. Lei doveva essere un'amica, un'amica importante, magari una cugina, sì, una cugina stretta, magari in un momento difficile. Estremamente complicato.

La “cugina” alzò la testa e fece, pian piano, aderire le proprie labbra a quelle del ragazzo, ora più rigido, nervoso. Si separarono dopo pochi istanti.

Maryl non fece nulla, rimase impassibile ad osservare la scena, il viso una maschera di ghiaccio.

Kevin fece un sorriso nervoso e voltò la testa, incrociando gli occhi ambrati, e glaciali, di Maryl. Si alzò di scatto, chiamandola a gran voce, supplicandola di ascoltarlo, ma lei non ubbidì.

Fu l'ultima volta che si videro.


**


«No, no, Yasunari, ho detto che voglio che quelle benedette stoffe arrivino entro la prossima settimana e non si discute!», disse con tono fermo, parlottando velocemente in giapponese Maryl Campbell, un'affascinante ventinovenne dai ricci capelli biondi lunghi sino a metà schiena e gli occhi dorati.

«Beh, fai partire un nuovo aereo!», continuò implacabile alla risposta del collega oltreoceano. «Ti ho dato un budget, spendilo! E ti avverto, Yasunari, che se quelle stoffe non saranno qui entro lunedì prossimo potrai tranquillamente sgomberare la tua scrivania!», riattaccò prima che l'altro potesse aggiungere alcunché.

Appoggiò l'auricolare nuovo sulla scrivania in vetro e si lasciò cadere sulla sedia girevole in pelle nera, che dava le spalle a un'ampia finestra affacciata sugli alti grattacieli di Tokyo.

«Lavoro con un branco di incompetenti, ecco tutto», sibilò in inglese, grattandosi la punta del naso con un indice affusolato mentre con l'altra mano afferrava delle pratiche e iniziava a leggerle.

Qualcuno bussò alla porta con un tocco leggero.

«Sì?», chiese distratta. «Avanti».

Un uomo tarchiato, vestito con un elegante camicia bianca, una giacca nera in velluto e una cravatta scura fece il suo ingresso nell'ampio studio del suo capo.

«Signorina Campbell», disse in giapponese, con tono solenne. «Il signor Kawabata e il signor Mizuki la attendono, signorina. E c'è una chiamata del signor Jenkins sulla due».

«Faccia entrare il signor Kawabata e il signor Mizuki tra cinque minuti», annuì Maryl, congiungendo le mani. «Al signor Jenkins ci penso io».

L'uomo fece un breve cenno d'assenso con la testa e si congedò, uscendo dalla stanza.

Maryl afferrò la cornetta del telefono e pigiò il tasto 2, avvicinando l'apparecchio all'orecchio.

«Henry, non posso parlare», disse subito, senza salutare.

«Sì, lo so, volevo solo sentirti un attimo», fece paziente l'uomo dall'altra parte del telefono, con tono dolce.

«Mi fa piacere, ma ho un'importante riunione tra pochissimi minuti, è per l'uscita del nuovo numero della rivista quindi non posso parlare. Ci vediamo questa sera a casa», spiegò nervosamente la donna.

«Non lavorerai mica anche domani!», esclamò subito Henry, allibito. «È la vigilia di Natale!».

«Non lo so, Henry! Ora devo andare, ne parliamo 'sta sera. Ti amo», sussurrò velocemente e riattaccando nel momento stesso in cui la porta si apriva e due uomini, uno più alto e l'altro più basso, entrambi giapponesi ed elegantemente vestiti, varcavano la soglia.

«Signor Mizuki, signor Kawabata», li salutò Maryl nella loro lingua, chinando appena il busto in segno di benvenuto.

«Signorina Campbell», ricambiò il signor Mizuki, il più alto. «Siamo felici di essere qui».

«Sono contenta di sentirvelo dire», annuì rigidamente la bionda, indicando ai due soci di accomodarsi sulle due comode sedie davanti alla scrivania e sedendosi sulla propria.

«Se non vi spiace vorrei iniziare subito», aggiunse il signor Kawabata, muovendo concitatamente le mani. «È il giorno prima della Vigilia e ho da fare delle commissioni con la mia famiglia».

A quelle parole lo stomaco di Maryl si attorcigliò e il suo cuore si strinse dolorosamente: anche lei, fino a sette anni prima, andava ancora in cerca del regalo perfetto per i suoi amici il giorno prima della Vigilia di Natale con le sue sorelle, Lexi e Maggie.

«Naturalmente», rispose con un sorriso appena accennato. «Dunque, sto facendo importare da un mio collega della seta egiziana direttamente da Marshalam, dovrebbe essere qui la settimana prossima. Voi a cosa avevate pensato per il nuovo numero?».

Maryl era direttrice da un anno della sede giapponese di Vogue, carica che si era meritata dopo quattro pesanti anni di studio, una laurea in Moda&Design con il massimo dei voti e per aver anteposto la carriera al resto per i suoi primi due anni di studio nell'ufficio. Inizialmente era solamente un'assistente, poi pian piano aveva ricoperto tutte le cariche importanti sino a quella di direttrice. Era la prima persona che raggiungeva quel traguardo in così poco tempo.

«Dunque», iniziò il signor Mizuki, accomodandosi meglio sulla sedia. «noi avevamo pensato di inserire nella rivista almeno una ventina di pagine con gli scatti inediti della Settimana della Moda di New York; invoglierebbe i nostri lettori a comprare la rivista, senza dubbio».

Maryl si morse il labbro inferiore, appuntando quanto detto su un block-notes.

«Abbiamo fatto lo stesso due anni fa», gli ricordò con tranquillità. «Sarebbe utile fare qualcosa di nuovo, di innovativo... Un servizio fotografico, ad esempio, sarei felice di darvi qualche mio vecchio schizzo con dei nuovi abiti».

Era sempre stato il suo sogno quello di diventare stilista, e quando era arrivata in Giappone era sicura che dopo qualche anno di studio lì sarebbe riuscita a realizzare il suo sogno e sarebbe tornata a Los Angeles con una carriera pronta per cominciare e ottime referenziali.

Invece no. Dopo essersi lasciata con Kevin non era più riuscita a prendere una matita in mano per disegnare, ci aveva provato, ma senza successo, ed era stato così che alla fine era finita a fare un lavoro sempre incentrato con la moda, certo, ma a coordinare le pagine di una rivista. Tutto qui. Eppure ci metteva l'anima ugualmente.

«Grazie mille, signorina, ma non ci serve», ribatté seccamente il signor Kawabata. «Il mio collega ed io pensiamo che la scelta della Settima della Moda sia più che appropriata».

«Ma in questo modo i nostri lettori vedranno cose già viste», sibilò Maryl, infiammandosi. «Dobbiamo cambiare, o verremo sorpassati!».

«Che cosa propone, allora?», chiese acidamente Mizuki, guardandola con i suoi occhietti acquosi.

La bionda resse lo sguardo del collega senza tentennamenti.

«Riunione aggiornata», grugnì infine, seccamente. «Ci vediamo il sette Gennaio alla stessa ora e mi aspetto che ognuno di noi abbia delle idee nuove e originali».

Mizuki e Kawabata si alzarono, la salutarono chinando il busto e uscendo dallo studio con andatura veloce.

Maryl scosse il capo e si risedette, riprendendo in mano la pratica che stava leggendo prima dell'arrivo dei due colleghi.

«Signorina Campbell», disse una voce femminile dopo quelli che alla ventinovenne sembrarono pochi istanti.

Maryl alzò lo sguardo e vide la sua segretaria.

«Dimmi Chieko», fece, disinteressata.

«Le volevo chiedere se potevo andare a casa, signorina», disse la segretaria, con tono insicuro.

«Alle cinque?», sbottò la bionda, irritata. Solo perché era quasi Natale non significava che bisognasse tornare a casa sempre prima anche nei giorni di lavoro!

«Sono le otto, Maryl-san», la corresse Chieko.

«Come?!», impallidì la bionda. «Certo, vai Chieko...», aggiunse immediatamente, alzandosi. Si era distratta di nuovo, maledizione!

La segretaria si inchinò e si congedò, uscendo con piccoli passi veloci.

La ventinovenne afferrò la pratica e la infilò nella sua ventiquattr'ore, afferrò il suo giubbotto chiaramente firmato ed uscì anche lei dall'ufficio, spegnendo le luci al suo passaggio.

Henry sarà stato furioso.

Afferrò il suo iPhone e digitò il suo numero, portandoselo poi all'orecchio.

«Maryl!», sbuffò Henry, non appena rispose. «Dove diavolo sei?!».

«Ho perso la concezione del tempo», ammise lei. «Arrivo a casa tra mezz'ora, sto andando a prendere la metropolitana».

Ci fu un attimo di silenzio pesante, poi Henry fece un verso d'assenso.

«Inizio a scaldare la cena», disse. «A tra poco».

«Ciao», sussurrò la riccia e riappese mentre scendeva elegantemente gli scalini sporchi della metro.

Arrivata alla piattaforma dove prendeva il treno per tornare a casa non dovette aspettare molto prima che ne arrivasse uno.

Si infilò le cuffie dell'iPod nelle orecchie e fece partire un pezzo dei Coldplay, sedendosi un sedile freddo e duro.

Odiava prendere il treno, ma usare la macchina a Tokyo, per di più sotto le feste, equivaleva ad un suicidio.

Scese sette fermate dopo e si trovò in una stazione della metropolitana quasi interamente vuota.

Sarebbe riuscita ad arrivare a casa anche un po' prima.

Salì la scalinata e si ritrovò nel mezzo di una serata a Tokyo, piena di luci, colori, rumori e odori.

Con una vecchia canzone di Madonna che la accompagnava attraversò la strada trafficata e si ritrovò davanti a un imponente grattacielo.

Cliccò il tasto del citofono accanto al nome Jenkins – Campbell e aspettò che Henry venisse ad aprirle.

«Sì?», disse la sua voce calma e pacata.

«Sono io», sorrise la riccia. Un rumore di una serratura che scattava ed entrò nell'atrio del palazzo.

«Buongiorno signorina Campbell», sorrise il portiere, chinando il busto in segno di saluto.

Maryl ricambiò e chiamò l'ascensore spegnendo la musica e rimettendo l'iPod in borsa.

Lei e Henry vivevano in un loft elegante al sedicesimo piano del grattacielo, che avevano acquistato insieme due anni prima.

Stavano insieme da quattro anni, e per Maryl era stato il primo ragazzo dopo Kevin. Con Henry si trovava bene, era un bravo ragazzo, dolce, simpatico e la amava. Un uomo a posto.

Si erano conosciuti a una festa dell'azienda di lui a cui Maryl era stata invitata essendo un'amica intima di una delle dipendenti.

Henry era inglese, era nato e cresciuto in Inghilterra ma verso i vent'anni si era trasferito in Giappone per le maggiori possibilità di lavoro che gli proponevano.

La porta di casa era socchiusa e si sentiva l'odore di carne già dal corridoio.

La casa era ricoperta, da ogni parte, di fiori e candele profumate. Non c'era una luce accesa e Maryl seguì la scia di candele, guardando attentamente a terra per non inciampare in qualcosa lasciato a terra. L'odore della carne di prima fu immediatamente sostituito dal profumo di rose fresche, appena sbocciate.

«Tesoro?», chiese la bionda, incerta.

«Sono in cucina», rispose lui e come conferma si sentì un fornello che veniva acceso.

La giovane donna appoggiò il giubbotto sul divano ed entrò in cucina, venendo investita immediatamente dalla luce tenue della candele.

Henry le sorrise con dolcezza, fasciato in uno dei suoi abiti migliori.

«Ben tornata, amore», disse.

Maryl sorrise di rimando e si avvicinò a lui baciandolo mentre lui avvolgeva le braccia intorno alla vita sottile della fidanzata.

«Credevo non arrivassi più», ammise lui. «Stavo per buttare il mio suffle, devi farti perdonare in qualche modo».

«Oh, immagino che avrai qualche idea...», disse la bionda, maliziosa.

«Esattamente», annuì il trentenne, baciandole il collo.

Maryl rise, lanciando la testa indietro.

«Cos'è questa storia?», domandò, perplessa, accennando alle rose e alle candele.

Henry sorrise, mentre le fossette gli incavavano le guance. I capelli scuri erano stranamente spettinati, gli occhi con una strana luce.

«Sorpresa», mormorò nel suo orecchio.

Maryl si irrigidì.

«Odio le sorprese», sbuffò. Era a causa di una di queste che lei e Kevin avevano rotto.

«Ho come l'impressione che ti farò cambiare idea», gongolò Henry.

«Sbagli», ruggì Maryl, trattenendo appena un tono di voce basso.

L'uomo la fissò stranito, senza però eliminare il sorriso dal suo viso.

«Non ne sono sicuro», sussurrò. Si mise una mano in tasca e, lentamente, si inginocchiò a terra.

«Henry...?», deglutì Maryl, basita.

«Maryl Campbell, stiamo insieme da quattro meravigliosi anni, so che tu sei tutto ciò che potrei mai desiderare da una donna e io ti amo. Mi faresti il grandissimo onore di diventare mia moglie?», disse, con tono fermo per controllare l'emozione.

Maryl lo guardò, stranita, senza sapere che dire. Il momento, il luogo, la situazione era perfetta. Era come aveva sempre desiderato, ogni cosa.

Fissò gli occhi imploranti di Henry, che inginocchiato aveva estratto una scatolina di velluto nero e aperta, mostrando un preziosissimo anello d'argento, incastonato di pietre preziose colorate.

Spostò lo sguardo fuori dalla finestra e sospirò.


{Fine}


*Prima di tutto ringrazio Egg___s per il bellissimo fotomontaggio di questo capitolo. Grazie <3*

Ebbene sì, è finita già u.u

Questo è un finale aperto: secondo voi, dopo il tanto tempo che è passato, dopo quello che Maryl ed Hanry hanno vissuto - ma anche Maryl e Kevin – lei accetterà di sposare il nostro aitante aziendale? Sapete una cosa? Non lo so nemmeno io. Sul serio, non ne ho idea, ma sono curiosa di sapere cose ne pensate :D

Grazie per avermi seguito anche in questa avventura!

Ringraziamenti:

Melmon: ooh, ma anch'io sono per gli happy end! Solo che sono in un momento di depressione totale (aspetta di leggere, se lo farai, una mooolto futura long su Joe *risata sadica*). Beh, che dire, grazie per aver letto anche questa fanfiction! Spero che questo capitolo ti sia piaciuto, un bacio <3

She is Mari: ma noo, poveri Luc ed Edward... Mmh, sì, in effetti Edward mi sta più antipatico, uccidilo pure, ma Luc no *abbraccia Luc* lui è il mio tesoro bello! Okay, sclero xD Ooh, avrai già compiuto gli anni quindi AUGURI! *si mette a cantare happy birthday con Nick, Joe e Kevin* Buon compleanno (in ritardo). Grazie per avermi seguita anche qui *-* Un bacio <3

_Kira_Perly_: per prima cosa: come sono andati gli esami? Tutto bene? Spero vivamente di sì! (: Ooh, credevo di avertelo detto *maledetto Alzheimer* o.O Grazie di tutto, un bacio <3


AVVISO: Ho deciso che inizierò a postare I'm Only Me When I'm With You (se internet me lo permette) lunedì 6 Settembre, ovvero lunedì prossimo. Spero leggerete numerosi! Grazie, come sempre, per ogni cosa <3

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