When it rains

di Arts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione - Cadere ***
Capitolo 2: *** Orologi Esplosivi ***
Capitolo 3: *** Morte di un ragazzo-serpente ***
Capitolo 4: *** Non m'importa ciò che non mi riguarda ***
Capitolo 5: *** Fidarsi è sbagliato; ormai l'ho capito. ***
Capitolo 6: *** Per cosa si combatte davvero? ***
Capitolo 7: *** Illusioni ***
Capitolo 8: *** Parodia di un normale interrogatorio ***
Capitolo 9: *** Danza e morte. Oooh, andiamo bene! ***
Capitolo 10: *** Ho un'idea, ma non sarà piacevole. ***



Capitolo 1
*** Introduzione - Cadere ***


 

 Il portellone dell’aereo si era aperto, lasciandoci intravedere un piccolo angolo di cielo azzurro che si andava a tingere di rosso.

Me l’ero chiesto da sola: Hai paura?

Era la mia libertà, tinta di un azzurro cielo. Potevo scegliere: buttarmi in qualcosa di sconosciuto, o rimanere alla mia piccola vita, rinchiusa dentro una campana di vetro. Ma in realtà non avevo scelta: sapevo che la gabbia avrebbe portato solo alla morte.

La risposta era così semplice che mi sembrò ridicola. Come potevo aver paura di cadere, quando avevo una sola possibilità di volare?

E quando caddi, fu come scivolare.

Lasciarsi trasportare dell’aria, leggeri, liberi. Caddi. Lasciai che il vento mi scompigliasse i capelli, con le braccia aperte mentre cadevo sempre più giù.

E gli altri mi presero per pazza. Pazza perché mi lasciavo cadere mentre loro erano già alti, tenendosi goffamente su.

E io no.

Io preferivo cadere. Lasciare che la brezza mi facesse lacrimare gli occhi, e la calda adrenalina del volo mi stringesse lo stomaco in una morsa.

E alla fine, solo alla fine, spalancai le ali, di un rosso leggermente più scuro di quello del cielo, e mi innalzai più in alto delle nuvole stesse.

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice U.U

 

Una piccola presentazione forse ve la devo, no? Forse.

Vabbè, sono una sottospecie di nuova autrice. Questa è solo un piccolo assaggio della storia, diciamo l'introduzione, che vorrei postare qui. Sono graditi commenti, e ovviamente anche critiche.

Se siete curiosi di scoprire la storia, bè, mi dispiace per voi ma anticiperò la trama solamente al primo capitolo che posterò entro domani, o anche stasera.

 

Ringraziò in anticipo chi leggerà, e chi commenterà. =)

 

Bye

Angel

 

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Capitolo 2
*** Orologi Esplosivi ***


 

 

Se c’era qualcosa che odiavo seriamente fare era esattamente ciò che stavo facendo in quel momento. Odio essere costretta a fare qualcosa che non mi piace, ma non è facile evitare di fare il volere degli Addetti all’Istituto e, a meno che non trovassi il modo d’ammazzarli tutti uno per uno, non c’era proprio nessun modo di sottrarmi alle torture di quella mattina.

«Uccidilo », disse l’Addetto guardandomi.

La stanza bianca sembrava essersi rimpicciolita da quando era entrato l’uomo. Eravamo in tre. Io, lui, e quella sottospecie di scimpanzé che si muoveva freneticamente, strillando e correndo da una parte all’altra della stanza come impazzito.

Sapevo che si riferiva allo scimpanzé. Voleva che lo uccidessi. Poi ne sarebbe arrivato un altro e avrei dovuto, che so, ammazzare anche quello e poi un altro, e un altro ancora. Andava avanti così da tutta la mattinata, e ne avevo abbastanza.

«Non ne avete uccisi abbastanza, di scimpanzé? Insomma, che fate se vi finiscono? Sarebbe più istruttivo provare a uccidere una forma di vita meno intelligente, e che quindi potrebbe essere eliminata molto più volentieri, come lei, per esempio», replicai.

Sarcasmo.

Lui non rise. Peccato.

Puntai lo sguardo verso l’uomo, anche sapendo che la sua immagine non era altro che una proiezione. Figuriamoci se un Addetto avrebbe mai corso il rischio di avvicinarsi a qualcuno come me. E faceva bene, perché se avessi potuto l’avrei incenerito.

E visto che gli Addetti non hanno senso dell’umorismo, la proiezione non fece altro che rivolgermi una sguardo truce per poi ripetere: «Uccidilo »

Sì, diciamolo seriamente, mi fai davvero molto paura. Come no. Okay, basta: mi sono stancata di uccidere scimmiette indifese.

Incrociai le braccia e mi girai verso la parete destra della stanza bianca. Sapevo che, anche se non si vedeva dal mio posto, c’era un vetro trasparente lì e ci dovevano essere sei o sette uomini in camicie bianco o da lavoro a guardarmi perplessi.

Era un trucchetto che utilizzavano spesso lì, nella stanza. Uno pensava di trovarsi semplicemente in una stanza completamente bianca – quasi accecante - e invece, a sua insaputa, era rinchiuso fra quattro pareti trasparenti piene di Addetti.

«No», dissi fermamente.

Fu a quel punto che la proiezione scomparve e io pensai, ingenuamente, che per quel giorno si fossero decisi a lasciarmi in pace.

E invece no.

Non successe niente per qualche secondo, se non un leggero ticchettio che mi portò a guardarmi il polso. C’era sempre stato un braccialetto d’identificazione lì. Lo so, perché lo vedo praticamente dalla nascita. Eppure, ora erano comparsi due numeri in rosso sul display che facevano il conto alla rovescia e ogni secondo che passava il rumore di un leggero “biip” rimbalzava fra le pareti.

Nel mio mondo, un piccolo orologio rosso e lampeggiante - mi era sempre sembrato innocuo – che d’un tratto inizia misteriosamente a fare il conto alla rovescia con un piccolo biip a ogni secondo che passa non è per niente una buona cosa.

Segnava 2 minuti esatti. Meno un secondo, due secondi, tre secondi …

Esploderà!, disse una vocina piena di panico nella mia testa. Io la zittì violentemente; non perché non fossi della stessa opinione, ma perché in quel momento avevo bisogno di mantenere il sangue freddo e le vocine piene di panico non aiutavano.

«Esploderà, a meno che tu non decida di fare come ti abbiamo detto. A te la scelta», commentò la proiezione dell’Addetto.

Sarà per l’orgoglio, o per la poco modestia, decidete voi, ma mi convinsi all’istante che fosse tutta una balla. Mancava un minuto e mezzo e io me ne stavo lì, semplicemente a fissare il muro bianco degli Addetti con uno sguardo assassino.

Se gli sguardi potessero uccidere, loro sarebbero stati già morti.

Probabilmente si stavano chiedendo se la mia fosse ingenuità o testardaggine, o tutte e due le cose insieme. Me lo chiedevo anch’io, in realtà. Sapevo solo che quella volta, quell’unica volta, non gli avrei ubbidito e avrei messo fine a tutto.

Basta.

La proiezione mi si avvicinò inarcando un sopraciglio: «Davvero vuoi morire così, mocciosa?».

C’era un che di urgente nella sua voce e questo mi fece capire quanto costava loro perdere un esperimento importante come me, forse anche troppo di quello che potevano sopportare. Erano uomini di scienza dopotutto e perdere me sarebbe come perdere un grosso libro pieno d’informazioni utili e interessanti da cui potevano ancora imparare molto, a mio sfavore.

Guardai lo scimpanzé che d’un tratto si era fermato.

No.

Non avevo intenzione di ucciderlo. Non tanto perché fossi un ambientalista accanita o qualcosa del genere - vista la mia condizione sarebbe stato ridicolo – ma più che altro perché ero stanca di ubbidire, di quella vita, di essere nient’altro che una cavia.

Non avrei fatto come volevano loro oggi, non questa volta, e fu questo pensiero a spingermi a rispondere con decisione all’Addetto.

«Sì», dissi seria, «preferisco morire così che vivere altri due o tre anni solo per fare cavia per voi, luridi imbecilli bastardi».

Non avevo gridato, ma la mia voce sembrò comunque rimbalzare fra le pareti della stanza esattamente come faceva lo squittio dei secondi che passavano. Osservai i minuti che mi restavano. C’era qualcosa che non andava, non c’era qualcuno per cui sarei sopravvissuta. Non c’era niente per cui valesse la pena di restare, ma qualsiasi cosa per fare un dispetto a loro.

Meno dieci, nove, otto, sette…

«NO!», gridò un Addetto«FERMATELA! JEKINS, DISATTIVA IL BRACCIALE! ORA!»

E ancora sei, cinque…

«NO! E’ IMPORTANTE! JEKINS!», tuonarono stavolta due o tre Addetti disordinatamente.

Ma era tardi.

Quattro, tre…

«Ci vediamo». Spalancai le ali lunghe circa quattro metri, e alzai il dito medio verso il muro: il mio ultimo saluto.

Due, uno …

Zero.

E poi, semplicemente, fu il buio.

---- 

 

«Fire! Fire! Svegliati»

«Mhm… sono appena esplosa, lasciami in pace», mugugnai confusamente.

«Ma.. Fire! E’ urgente! Dai, sveglia! Non sei esplosa, okay? Il braccialetto era tutta una balla, quindi, alzati e cammina. James vuole parlarti.»

Mi alzai di botto.

Chi? Cosa? Come? Perché?.

Era stato tutto solo un sogno?

Probabilmente avevo pure parlato nel sonno, quindi Arijane sapeva esattamente cosa avevo sognato. Grandioso, davvero.

Socchiusi gli occhi, infastidita dalle luce fredda delle lampade al neon. La mia stanza poteva essere di tre metri quadrati, con gli unici mobili che erano: una sedia, il letto su cui ero seduta e uno specchio al muro. Nessuna finestra. Poi dite perché odio i posti chiusi a morte.

Provateci voi a vivere qui per quattordici anni, e poi mi raccontate.

Mi stiracchiai e poi, nel mio totale e incredibile stato confusionale mattiniero, mi concentrai sulla ragazzina che mi aveva svegliato.

Era una ragazzina sugli undici anni, pelle chiara, e capelli castano biondi. Arijane, la numero undici. Era una dei venti esperimenti alati dell’Istituto.

Eh, sì, miei cari.

Se in questo momento vi state chiedendo: cosa? In che senso esperimenti alati? Bè, esattamente quello che avete intuito: lei e altri sedici ragazzi hanno le ali. E non perché si sono bevuti Red Bull. Magari fosse per questo; no, decisamente peggio: siamo frutto di esperimenti genetici, metà umani metà uccelli nel mio caso. Ma varia da animale ad animale, cioè da persona a persona.

Molti di noi muoiono.

La maggior parte dopo tempo dalla nascita, e chi sopravvive ha una vita da cavia. Che vi aspettavate quando ho detto Istituto? Una scuola di danza?.

No, tanto per spiegarvi in che situazione si trova certa gente.

«Fire..», mi chiamò Arijane, con le ali sfumate di castano dorato dischiuse per l’impazienza, come se fosse pronta a volare via.

E intendo letteralmente.

«Arijane, hai detto che James mi vuole parlare? Ma poi, scusa, come hai fatto a entrare qui dentro?», chiesi inarcando leggermente le sopraciglia.

«Ho sviluppato un nuovo potere! Riesco a diventare intangibile e così sono passata attraverso la porta. Guarda, tipo così».

Arijane si alzò dalla sedia, chiuse il pugno, tirò indietro il gomito e fece per colpirmi. Non ebbi il tempo di schivare istintivamente che mi ritrovai il gomito di Ari completamente infilato nello stomaco, e il resto dell’avambraccio che fuoriusciva dalla mia schiena.

Non è una bella sensazione. Nessun dolore, più che altro percepivo semplicemente il tocco della ragazzina, come se mi avesse semplicemente appoggiato una mano sulla spalla.

«Grandioso, no?»

Arijane accennò a un sorriso, senza ritrarre il braccio.

«Sì, proprio bellissimo. Ora però togli la mano», commentai.

«Oh, sì, sì … fatto», replicò Arijane senza il minimo imbarazzo, e si affrettò a tirare indietro il braccio. «Credi che se per caso passassi la mano attraverso il collo di qualcuno, e poi tornassi normale di colpo, quello morirebbe? Ci pensi? Che forza!»

«Credo che sì, morirebbe. Quindi evita di dimenticare particolari importanti come, per esempio, il tuo braccio nel mio stomaco o cose del genere.»

Annuì.

Ci mancava solo una bambina fantasma, pensai. Sapevo che probabilmente gli Addetti avevano già messo in atto un modo per disattivare il suo potere, o almeno impedirle di usarlo per fuggire. Ero lì da troppo tempo per non immaginarlo.

Mi andai a guardare allo specchio, lavandomi la faccia con l’unica bacinella d’acqua che avevo a disposizione, poggiata a terra. Dischiusi le ali nello spazio che mi consentiva la mia stanza. Lo specchio rifletté una ragazza alta, esile, dai capelli rossi e selvaggi che le scendevano lungo la schiena, e affusolate e allo stesso tremende ali color ruggine, con le punte delle piume completamente bianche.

Io.

La numero sei, un’altra sopravvissuta ai sadici esperimenti degli Addetti. Uno degli esperimenti riusciti, come avrebbero detto loro. Rabbrividii, ma non dal freddo. Lì non c’era mai freddo, né caldo. La temperatura, all’Istituto, era sempre orrendamente mite.

«James vuole parlarti. E’ importante. Me l’ha detto ieri sera, all’ allenamento, che vuole parlati. Strano, no? Cioè, lui non è un tipo che parla con la gente, no? Insomma non ha mai fatto così, no? Vero? E’ per questo che credo sia importante, capisci?»

Avendo capito soltanto la metà di ciò che aveva detto Ari, tanto aveva parlato in fretta, mi limitai ad annuire in modo serio.

M’infilai il mio pigiama bluastro. Uguale a quello che indossava Arijane e il resto degli esperimenti dell’Istituto. All’Istituto dall’altronde non c’erano colori; tutto era blu, verde, o bianco. Gli stessi colori che avrebbe potuto avere un qualsiasi ospedale.

«Fire? Forse dovrei tornare in camera mia. Presto suonerà la campanella delle sette. Se mi vedessero uscire dalla tua camera, insomma… non voglio avere guai. Io qui …»

«Tu qui? Perché, tu sei mai stata nella mia cella? Io non ti ho mai visto qui, sinceramente», commentai strappandole un sorriso.

«Esatto. Ci vediamo… alla mensa, okay?»

«Okay»

La differenza fra Arijane tangibile e Arijane intangibile stava – ma và? Non l’avevate immaginato – nel colore. Insomma, quando era tangibile Arijane appariva chiara, normale insomma, ma quando era intangibile sembrava come scolorirsi.

Sì, esattamente come un fantasma, o una proiezione: qualcosa di estremamente immateriale. Devo dire che mi fece un po’ impressione vederla attraversare tranquillamente il muro come se niente fosse; della serie: Si, sto passando attraverso un muro, e allora?

Proprio nello stesso momento in cui Arijane scompariva attraverso il muro, la campanella delle sette trillò per tutto l’Istituto.

Le serrature delle porte di ogni stanza scattarono contemporaneamente con un sonoro e familiare click. Con un sospiro, spalancai la porta e uscii fuori nello stretto corridoio dal pavimento di linoleum verde, mettendomi in fila insieme ad altri sedici ragazzi.

Sedici esperimenti riusciti.

No, se ve lo state chiudendo non siamo solo in sedici esperimenti riusciti. Ci fanno uscire in orari diversi per fare allenamento. A gruppi di sedici, tutti diversi tipi di ricombinanti, in modo che se mai ci fosse una ribellione potrebbero bloccarci facilmente.

Continuai a guardare dritto, fissando i capelli biondo sporco del ragazzo che mi stava davanti. Ero l’unica alata lì, e mi misi a osservare il resto dei sedici. Notai un ragazzo-lupo, un ragazzo-scimmia, una ragazza con la pelle maculata come un ghepardo.

E infine, primo della fila, un ragazzo che mi sembrò del tutto normale – niente coda, pelle leopardata, o orecchie pelose o cose del genere –, finché ovviamente non mi accorsi della lingua biforcuta e sottile come quella di un serpente e del sibilo annoiato mentre spalancava la bocca in uno sbadiglio.

Attraversammo il corridoio stretto in una fila ordinata e silenziosa, dove pure il rumore dei nostri passi sembrava sincronizzato. Mi sentivo tanto una carcerata e in fondo lo ero. Libera non lo ero mai stata, e tutto quello che avevo visto del mondo era stato quando avevo dovuto aiutare l’esercito americano e italiano in una battaglia contro il Giappone.

In realtà, del mondo di fuori avevo visto solo la guerra. Niente di più.

Entrammo in una grossa stanza dal pavimento in legno, che assomigliava a una gigantesca palestra di scuola, se non fosse stato che i muri erano tappezzati di ogni tipo di arma, tenute tutte in teche di vetro agganciate al muro, e dotate di ogni tipo di allarme.

Ci disponemmo in fila orizzontale, rigidi e tesi.

Un Addetto e un Cacciatore, quest’ultimo con un sorriso sadico stampato in faccia, si pararono davanti a noi per spiegarci l’allenamento di oggi.

«Oggi niente pesi, e niente corse o cose del genere. Un combattimento, sarà questo l’allenamento di oggi. Con un'unica particolarità: sarà all’ultimo sangue. Siete in troppi nell’Istituto, e abbiamo bisogno solo dei migliori; non ci servono pesi, né esperimenti falliti. Dimostrate che siete degni di rimanere in vita. Chi è inutile si vedrà presto, abbastanza presto»

Grandioso.

Iniziamo bene la giornata.

Iniziò a elencare le coppie. La maggior parte delle quali era senza equilibrio. Esempio: un ragazzo lucertola contro un ragazzo-pantera. Che speranze di vita aveva il primo?. Gli Addetti volevano solo affibbiare a noi il lavoro sporco di uccidere gli inutili e c’erano riusciti.

Così, quando sentì il numero sei, il mio numero, contro il numero ottanta, mi si chiuse lo stomaco. Percorsi velocemente la stanza con gli occhi, alla ricerca del numero ottanta.

E indovinate un po’ chi era l’ottanta? Non lo sapete?

Bene, vi informo che il mio avversario era il ragazzo-serpente che in quello stesso momento mi osservava intensamente con i suoi occhi neri e lucidi.

Con passo lento e misurato si avvicinò a me, mentre tutte le otto coppie sceglievano un area dell’enorme stanza.

Una volta che fummo sistemati ognuno nel proprio spazio comparvero le familiari pareti di vetro scese dal tetto che divisero ogni coppia. Funzionava così. La palestra era divisa in otto spazi, e ogni spazio veniva racchiuso in un piccola stanzetta di vetro.

Questo solo quando c’era qualche combattimento.

Il ragazzo-serpente mi fece un largo sorriso insolente, leccandosi le labbra.

«Dovrei combattere contro di te? Inssshomma che cossa sshei? Un pulcino?», ironizzò alludendo alle mie ali leggermente dischiuse.

Incrociai le braccia al petto, cosa che facevo sempre quando m’incavolavo. «Può essere. E tu che sei? Il gemello del ragazzo lucertola?»

Sorrise ancora, stavolta divertito. «Può essshere».

E in quel minuscolo scambio di battute memorizzai tutte le informazioni possibili su di lui. Dal modo di usare la mano destra intuii che fosse destrimano, aveva un modo di muoversi flessuoso ed estremamente elastico come i serpenti, tanto che mi venne il sospetto che fosse velenoso, come loro.

La campanella suonò, annunciando l’inizio del combattimento.

«Ssshi inizia», sibilò il ragazzo-serpente.

«Già», replicai e feci un sorriso sfacciato e irritante, «Si inizia.»

 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice

 

Ebbene sì, per vostra sfortuna sono tornata.

La storia si incentra su un gruppo di esperimenti alati di un istituto di scienziati, che riesce a fuggire e...

Leggete e saprete! =)

 

Bè, per il resto ho preso qualche spunto da Maximum Ride di James Patterson, ma spero che queste somiglianze con il libro andranno a sparire via vi che andiamo avanti nella storia.

O almeno lo spero.

 

Grazie a Lewaras, che è stata la prima a commentare. Adoro le tue storie su EEP!

Eh sì, so che i sono delle somiglianze fra questo e il libro. Spero riuscirò a mandarle via, ovviamente gradisco che tu me lo abbia fatto notare ^-^

 

Byeee

Angel

 

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Capitolo 3
*** Morte di un ragazzo-serpente ***


 

 

Avete mai visto una persona arrampicarsi su un muro di vetro come un insetto, sibilare e lanciarsi sopra di voi dall’alto in un frazione di secondo?

Bè, io sì: in quel preciso momento.

Schivai agilmente come se avessi una molla sotto i piedi, aiutandomi con un colpo d’ali che mi sbalzò dal lato opposto al ragazzo-serpente che era atterrato sui talloni e in un attimo era saltato a pochi centimetri da me.

Schivai il suo pugno diretto verso il mio stomaco e cercai di colpirlo con un calcio laterale, ma lui era troppo veloce e riuscì a schivare agilmente tornando ad attaccare con una serie di pugni; riuscii a difendermi da un paio, ma poi lui riuscì a colpirmi violentemente sul naso, tanto che ebbi la sensazione che mi si fosse spiaccicato sulla faccia mentre il dolore mi esplodeva in viso.

Probabilmente mi aveva rotto il sette nasale. Imbecille.

Feci un respiro profondo e ignorai il dolore tornando a concentrarmi sulla battaglia. Stava vincendo lui. Era troppo veloce per essere colpito, era questo il suo vantaggio.

Tornò a caricare pugni a raffica, ma stavolta riuscii a evitarlo spostandomi di lato. Con un colpo d’ali riuscii a balzare sopra di lui sferrandogli un altro calcio al mento in cui incanalai tutta la mia forza, facendogli schizzare aggressivamente la testa di lato.

«Occhi… per…occhio, dente… per… dente», gridai e sottolineai ogni parola con un pugno. Il ragazzo-serpente riuscì a fermare solo l’ultimo attacco, bloccandomi il mio polso e fece per rompermi il braccio, ma io fui più veloce e riuscì a tirargli un calcio alle costole che lo lasciò senza fiato.

Dieci punti per me.

Il combattimento procedeva spedito. Lui aveva dalla sua parte la velocità, ma allo stesso tempo era troppo grande e alto per essere agile almeno quanto me, che riuscivo facilmente sgusciare via  da lui ogni volta che avevo bisogno di schivare i suoi attacchi.

Vedete a cosa serve essere più basse dei ragazzi? La stazza non è tutto.

Mi tornò nuovamente addosso. Colpo, difesa, colpo, difesa. Lui colpiva, io mi schivavo o lo bloccavo e la stessa cosa faceva lui.

All’improvviso il ragazzo riuscì a colpirmi allo stomaco, e dovetti mordermi la labbra a sangue per evitare di gridare dal dolore. Fulmineamente, m’immobilizzò con un altro colpo alla spalla e avvicinò le labbra al mio collo. Mi morse. Esatto, mi morse.

Affondò i denti nel mio collo.

Spalancai gli occhi e riuscì a tirargli una ginocchiata, per allontanarlo. Mi tastai il collo con una mano: c’era meno sangue di quanto avessi immaginato, e due piccoli buchi identici a quelli che avrebbe potuto farmi un serpente molto letale.

«Fammi indovinare: sei velenoso?», commentai e nel dirlo mi lanciai nuovamente sopra di lui cercando di colpirlo. No, non avrei perso quella battaglia. Sarebbe morto lui, o saremmo morti insieme. Io non avevo intenzione di morire: non prima di essere scappata da quel posto.

Non sarei morta lì.

E fu questo il pensiero a spingermi ad aumentare la violenza dei colpi, sempre più veloce e forte. Pugni e calci, tanto che a lui risultava sempre più difficile difendersi, bloccarmi, schivare e man mano che le sue difese diventavano impotenti i miei colpi riuscivano ad avere sempre più effetto. Incassò due calci alle costole, e un pugno in faccia, dritto sul naso.

Alla fine il ragazzo-serpente dovette balzare indietro, sulla parete opposta alla mia.

Sorrisi, un sorriso un incazzato, insolente. Lo stesso sorriso del sogno. Spalancai le ali, senza dare segni di muovermi.

«Che c’è, lucertola? Paura?»

«Veramente sto solo aspettando che tu crolli a terra morta avvelenata. E siccome morirai comunque, non vedo perché dovrei farmi prendere a pugni»

«Chi ti ha detto che sarò io a morire? »

Era troppo. Io, morire? Ma quando mai. Sbagliava di grosso, la lucertola. Con un colpo d’ali mi agganciai all’angolo della parenti, premetti i piedi sul muro e mi spinsi nuovamente nel punto in cui era lui. Lui scattò dall’altra parte, ma troppo tardi perché feci in tempo a saltargli addosso bloccandolo a terra. Il primo pugno, in faccia, non mi resi neanche conto di averlo dato io a lui.

Gli altri invece furono del tutto incoscienti. Un pugno dopo l’altro senza neanche capire dove colpivo. Semplicemente per la rabbia mentre il sangue mi filtrava tra le dita, sporcandomi le mani. Rallentai quando iniziai ad avvertire un bruciore indistinto alla spalla e al fianco: il veleno?

Piano, mi tolsi dal corpo del ragazzo-serpente che ormai non era più rigido e teso, ma mollo e incosciente, con gli occhi del tutto aperti e vacui.

Era morto.

Mi guardai le mani sporche di sangue e sembrai riprendermi.

«Mi dispiace», sussurrai, poi mi accostai al corpo e chiusi gli occhi del ragazzo. «Ma io non posso morire, non senza prima essere uscita di qui»

Non sapevo esattamente cosa fosse successo. Sapevo solo che avevo avuto paura ed avevo reagito di conseguenza, come sempre.

Si era trattato di uno scontro alla pari, mi dissi cercando invano di giustificare il mio gesto, lui l’avrebbe fatto pure. Mi ha morso e sarai morta, a meno che non vincessi e gli Addetti decidessero di curarmi. Era la mia unica possibilità, che avrei dovuto fare?

Eppure continuavo a sentirmi sporca, incredibilmente sporca. Quel ragazzo non era una semplice scimmia che correva impazzita per la stanza, e che mi era stato ordinato di uccidere. Era una persona umana, con le mie stesse speranze di libertà.

Una voce continuava a ripetere nella mia testa: L’hai ucciso, l’hai ucciso. Assassina, assassina! Sentii un vuoto nello stomaco e chiusi gli occhi, raggomitolandomi in un angolo della parete di vetro e cercando con successo di trattenere le lacrime.

Mi raggomitolai in silenzio, stringendo le ginocchia al petto, e fissai il ragazzo-serpente, come se fossi in attesa che si alzasse e dichiarasse di aver perso. No. Lui non si sarebbe mai più alzato di lì, e non sarebbe mai più uscito da quella palestra.

Non piansi. Io non piangevo mai.

Con un singulto, mi accorsi che la campanella suonava e mi sforzai di alzarmi, reggendomi mal fermamente sulle gambe. Un Addetto accompagnato da un Cacciatore, uno degli aguzzini della scuola, mi si avvicinò e io gli esposi con voce metallica ciò che era successo: «Mi ha morso. Ho vinto. Mi dovete curare»

L’Addetto annuì.

«Accompagnala in infermeria»

Il Cacciatore mi prese per un braccio, abituato a trascinare la gente più che scortarla, ma io mi scostai violentemente e lanciai uno sguardo alla palestra. In otto aree diverse, giacevano otto corpi diversi e in un angolo vidi il cadavere del ragazzo-pantera e mi accorsi che il ragazzo-lucertola si era accostato a me camminando meccanicamente, lanciò uno sguardo verso il cadavere del numero ottanta, il mio avversario, per poi dedicarmi uno sguardo più gelido della morte stessa.

«Hai ucciso mio fratello», affermò.

Mi venne in mente come un flashback, e sussultai:

«Dovrei combattere contro di te? Inssshomma che cossa sshei? Un pulcino?»,

«Può essere. E tu che sei? Il gemello del ragazzo lucertola?»

Lui aveva sorriso insolentemente, sicuro della sua vittoria:  «Può essshere».

Io non feci niente, mi limitai a ripetere: «Mi dispiace»

Mi lanciò uno sguardo vuoto, stanco almeno quanto il mio: «Anche a me, ma non la passerai liscia», commentò e se ne andò.

In quella palestra erano entrate sedici persone, e ora ne uscivano otto. Mi sentii male, ma mi feci forza. E il resto del tragitto dalla palestra all’infermeria sembrò passare troppo lentamente, mentre, confusa, mi perdevo nei miei pensieri, affogando nel senso di colpa che cercavo, nonostante tutto, di reprimere con tutto il mio orgoglio, senza ottenere grandi risultati.

Se ne andrà mai?, mi chiesi, se ne andrà questa incudine che ho sul petto e che m’impedisce di respirare?

Mi risposi di no. Non ne sarebbe mai andata. E mentre pensavo queste cose mi ritrovai d’improvviso stesa su un letto dell’infermeria, immersa nell’ odore di disinfettante che mi faceva sclerare in modo pazzesco mentre mi iniettavano qualcosa, e l’infermiera mi medicava.

Chiusi gli occhi.

E respirai profondamente.

L’infermiera continuò il suo lavoro tamponando il naso, e fasciando le ferite. Mi sentivo inesistente, così inesistente che neanche il dolore aveva importanza. Perfino il io odio per ospedali, e odore di disinfettante, e addirittura siringhe era annebbiato.

«Bene, è tutto okay. Vai alla mensa, ora», disse l’infermiera

Aprì gli occhi, e guardai la donna.

«No»

Lei s’accigliò.

«No cosa?»

«Non sarà mai più okay. Ora vado alla mensa» 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice

E allora.

Il ragazzo-serpente è andato, ve lo dico. Il vero ragazzo-lingua-biforcuta che darà un casino di problemi a Fire nel corso della storia? 100000 milioni di euro al vincitore... eeeeee sì proprio lui: il ragazzo-lucertola!

Credevate che fossero esseri carini, eh?

Bé, vi sbagliate di grosso.

A me personalmente fanno schifo. Ma non stiamo qui a parlare di lucertole, suvvia.

Bene, per il prossimo capitolo ve lo dico subito, vi aspetta un colpo di cuore perché .... non ve lo dico u.u 

Restano in sospeso le domande: Chi è James? Il ragazzo-lucertola morde? Fire da sempre pugni alle cose quando è seccata o a paura? (Bé, sì, ma si migliorerà con il tempo U.U)

 

 

Risposte ai Commenti

Per Lewaras: Sono felice che Fire ti stia simpatica ^-^ Eh sì, Arijane ha un bellissimo potere, anche se non il mio preferito. James, mi dispiace ma James è riservato al prossimo capitolo. Ti avverto che James non porta mai buone notizie e che, anzi, ogni volta che dice di aver da dire "qualcosa di urgente da dire" si preoccupano tutti xD Comunque, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto.

 

Byeee

Angel

 

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Capitolo 4
*** Non m'importa ciò che non mi riguarda ***



 

James odiava le lampade al neon. Sì, questa era un'altra incredibile caratteristica di quel posto: odiava quella luci intense e fastidiose, perennemente presenti nella sua vita. Impossibili da spegnare: stavano sempre lì a illuminare una realtà che odiava.

Ma d’altronde James avrebbe potuto essere scambiato per un albino, tanto era bianca la sua pelle, se non fosse stato per i capelli nerissimi e gli occhi del medesimo colore e probabilmente l'odio di quella luce intensa poteva derivare da questo.

O forse no, forse odiava semplicemente la luce dell'Istituto, di quella mensa, e della sua vita. Senza nessun motivo. La odiava e basta.

Si guardò intorno.

I cinque ragazzi alati erano dispersi un po’ per tutta la sala mensa Non conosceva bene i loro nomi. In realtà, nonostante fossero della stessa “razza” i ragazzi alati si parlavano appena l’un l’altro, come tutti gli altri ricombinanti che erano lì.

Non che li ci fosse la possibilità di parlare molto: soltanto ieri, per dire un semplice messaggio alla numero undici – che gli pareva si chiamasse Arijane – aveva dovuto faticare sette sottospecie di camici/pigiama, insomma il coso bluastro e deforme che indossava.

Con gli occhi percorse tutta la sala finché non la vide entrare.

Fire.

Era questo il suo nome, un'altra alata.

E poteva dire di conoscerla da tutta una vita, nonostante nel corso di questo tempo le avesse rivolto la parola si è no tre volte.

Certo, conosceva il suo aspetto: esile, capelli rossi, occhi azzurri, lentiggini; e conosceva il suo modo di muoversi, sfidare con sguardo diffidente e duro chiunque si avvicinasse e allo stesso modo trovava familiare quello strano gesto di mettersi le mani ai capelli e mordersi il labbro inferiore se qualcosa la preoccupava.

Insomma, conosceva Fire.

Ma non si era mai avvicinato a lei, se non per comunicarle notizie riguardanti lei e il resto degli alati, esattamente come faceva lei. Per il resto, si guardavano appena, e le poche volte che i loro sguardi si incrociavano nella mensa, c’era sempre qualcuno dei due che, alla fine, ignorando l’orgoglio pungente e spiccato, finiva per distogliere lo sguardo.

Fire percorse la stanza, a grandi passi, osservò intorno e salutò Arijane – l’unica alata con cui sembrava parlare - spostando lo sguardo di tavolo in tavolo, finché i suoi occhi non si fissarono su di lui, su James, seduto su una sedia a un tavolo solitario.

Lo raggiunse velocemente, senza salutarlo, prese posto su una sedia davanti alla sua. La mensa era silenziosa, e l’unico rumore erano le forchette che sbattevano contro i piatti, e le mascelle che masticavano rumorosamente; tutto era controllato dai vigili occhi dei Cacciatori, due per ogni entrata e ogni uscita. Tutto era come sempre, una loro solita “giornata tipo”.

«Allora? Cos’è che mi vedi dire di così urgente da svegliarmi alle sei e mezza, costringere un undicenne ad attraversare un muro e cose del genere? Catastrofi, guerre, epidemie? Qual è la bella notizia di oggi, insomma, visto che parli solo per dire tragedie»

James alzò gli occhi a guardarla, tranquillamente. Era pallida, e una grossa fascia gli avvolgeva il braccio e un grosso cerotto sul collo, in più aveva il naso gonfio e rosso come se solo fosse rotto solo poche ore prima. Il che era possibilissimo.

«Non si saluta più?», commentò il ragazzo inarcando un sopraciglio.

Fire si morse il labbro inferiore, sbuffò e si passò una mano fra i capelli rossi: «Senti, non sono in vena oggi, okay? Sputa la catastrofe di oggi, e in fretta. Ho fame»

«Sei nervosa per caso?»

Sì, si disse James, mi piace farla incavolare. E allora?

«James, dì quello che devi dire»

«Okay, okay», replicò il ragazzo, «Jekins ci vuole vedere, credo che moriremo molto presto e… gli Addetti hanno combinato qualche guaio e ci sarà una guerra, o una catastrofe naturale; non ho capito bene cosa fosse. Contenta ora?»

Fire aveva spalancò gli occhi, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.

«Aspetta, ripeti, Jekins ci vuole vedere?»

 

 

Forse lo state pensando e forse no. E’ mio dovere comunque spiegare una cosa: a me non importa né della morte, né delle catastrofi naturali o delle guerre, o epidemie. E sapete perché? Perché nel mio mondo, qui all’Istituto, la morte, è una cosa banale.

Comune, capite? Succede a tutti. Prima o poi, ad alcuni prima e ad alcuni poi. E la catastrofi naturali? Cavolate. Viviamo dentro un Istituto che è praticamente a prova di qualsiasi cosa, che, dico, solo la fine del mondo potrebbe distruggere.

Il punto della situazione era uno: Jekins ci voleva vedere.

Mi chiedevo cosa intendesse con “voler vedere” noi. E poi a quale “noi” si riferiva? Me e James? Il resto dei ragazzi alati?

Non lo sapevo e se c’è una cosa che odio è proprio quella il non sapere qualcosa che mi riguarda.

E poi James che c’entra con me? Lui è uno piuttosto normale. La cosa buffa è che neanch’io in realtà sapevo cosa fosse esattamente James.

Non aveva ali, né coda e, menomale, neanche lingua biforcuta.

Mi era sempre sembrato umano, ma ero sicura che nascondesse qualcosa. Tutti noi lì nascondevamo qualcosa, sempre: era una delle regole.

Cercai di mostrarmi tranquilla, sicura di me: «Perché ci vuole vedere? Che guaio hanno combinato gli Addetti? E soprattutto, perché dovrebbe riguardarmi?»

«Non t’importa se la guerra distruggerà il resto del mondo?», chiese lui con un mezzo sorriso divertito, scrutandomi con i suoi occhi scuri.

Ricambiai lo sguardo: «Per ora non mi riguarda»

Scrollò le spalle: «Chissà come mai mi aspettavo che avresti risposto così; comunque l’ unica cosa che so è che vuole vedere te, me e altri cinque di cui non conosco il nome», commentò.

«Non sai altro?»

«No, un’ultima cosa: stavolta siamo noi ad avere in mano il destino di tutti»

Ecco, quest’ultima cosa non sapevo se considerarla una cosa buona o una cosa cattiva. Sapevo solo che c’era qualcosa che non andava quel giorno.

Il filo dei miei pensieri venne spezzato da un acuto strillo.

La campanella.

Al suono della campanella di  fine pranzo, sette cacciatori entrarono della porta e reclamarono a gran voce sette numeri, il nome di battesimo di sette ragazzi. La mensa si immobilizzò all’improvviso perché nel nostro mondo ogni volta che sette ragazzi vengono “chiamati” da un Addetto, solitamente non fanno mai più ritorno. Sembrava che il resto dei mutanti fosse già in lutto.

Ci fissavano curiosi.

Il resto dei cinque ragazzi si alzò esitante, erano visibilmente preoccupati. Con uno sguardo veloce abbracciai con gli occhi la fila ordinata che avevamo formato mentre uscivamo piano dalla porta. C’erano due gemelli, una bambina, Arijane, James e indovinate un po’?

Il ragazzo-lucertola, o quello che cavolo era, era l’ultimo a chiudere la fila.

Grandioso.

Eravamo uno strano gruppo, devo dire, uno strano gruppo perfino per me che nella stranezza ci vivevo dalla nascita, praticamente.

Sotto gli sguardi intensi di tutta la mensa, uscimmo fuori, nel corridoio, e le porte della mensa si chiusero di scatto dentro di noi.

Un Cacciatore, lo stesso della Selezione, parlò:

«Siete stati Selezionati. Il dott. Jekins desidera vedervi tutti nell’Ufficio venti. Non avete diritto a parlare, né ha opporvi. E direi che non vi conviene farlo»

«Hai scordato di dire “e ogni cosa che direte potrà essere usata contro di voi”», mormorò Arijane alzando fieramente lo sguardo.

All’improvviso, fui orgogliosa di averle insegnato a opporsi in quel modo.

Il Cacciatore sembrò trafiggerla con gli occhi: «Se non ti squarto ora, è semplicemente perché ci penserà qualcosa di più grosso a farlo per me»

E dopo questa battuta, calò un silenzio intenso, quasi tangibile.

Un silenzio che portava in sé mille paure non dette.

 

 

 

 

 

 

 

Angoletto dell'Autrice

Bene bene, rieccomi qui.

Sì, so cosa state pensando: Ma sta cavolo di notizia quando la dice?! 

E chi era alla fine James? Una semplice mutante; ma la domanda è: che tipo di mutante? Cosa nasconde?

Come mai sono stati chiamati questi sette ragazzi? Qual'è il guaio che hanno combinato gli Addetti?

A Fire davvero non importano le cose che non la riguardano, come il resto della terra, per esempio? O parla così perché non ha mai visto davvero il mondo? 

Il ragazzo-lucertola: buono o cattivo?

 

Ma forse queste domande me le faccio solo io U.U 

Visto che Lewaras non mi permette di spoilerare (Nooooo, devo per forza avere il peluche di Arrow *_____* Lo voglio, lo voglio, lo voglio!) Per saperne di più dovrete aspettare il prossimo capitolo.


E ora non mettiamoci qui a combattere contro le lucertole (lasciate stare -.-'' xD), ecco 
le Risposte ai COMMENTI:

Per Lewaras: Oddio, FirexRagazzo-lucertola proprio no xD E James è un mutante, ma nasconde un segreto che... non ti dico altro U.U Eh sì, il rapporto fra Fire e la lucertola sarà più o meno quello di amici/nemici, che nel corso della storia varierà un pò in modo strano. Ad Arijane ho deciso di dare uno dei ruoli principali (mi stava troppo simpatica xD). Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, nonostante sia un pò incompleto.

Ps. Voglio il peluche di Arrow, eh xD

Per  sweetopheliaLo so, la storia in sé è molto strana, ma è per questo che mi piace. Sono felice che tu abbia commentato e che ti abbia incuriosito ^-^ Per il fatto del ragazzo-serpente, bé, la vita all'Istituto, come fa capire più volte Fire, non è scontata. Il ragazzo-serpente è morto principalmente perché si è cullato anche in parte nella sicurezza di vincere mentre Fire ha avuto dalla sua parte la rabbia, e l'impulsività che spesso la contraddistinguono. Per il resto, rispondendo alla tua domanda: sì, anche i più piccoli sono sottoposti alle selezioni e infatti Fire non è la prima volta che si ritrova a uccidere, soltanto che questa volta, essendo più grande, è più consapevole delle sue azioni e si sente in colpa. Arijane sta simpaticissima anche a me xD 

Per Ako delle Tenebre: Mhm, hai perfettamente ragione. Nei prossimi capitolo cercherò di concentrarmi di più su Fire e sui suoi pensieri. Come vedi in questo capitolo la narrazione è data in mano a James che desidero rendere un personaggio interessante, abbastanza per le sue e con i suoi segreti. La qual cosa non è molto facile, ma ci proverò comunque e sono certa che riuscirò a migliorare con l'aiuto di tutti quelli che commenteranno. Per il fatto di quei verbi "uscii" e "uscì" la regola la so, e che spesso non ci faccio caso e sbaglio come una deficiente. Cercherò di badarci di più anche perchè sono cosciente che rende la narrazione molto più scorrevole. 

Vorrei ringraziare: Lewaras che mi segue dall'inizio della storia, commentando, e che ha aggiunto la storia tra le seguite; Ako delle Tenebre che ha pure aggiunto la storia tre le seguite e che ha commentato. Ringrazio anche sweetophelia che ha commentato. Ringrazio anche tutti quelli che leggono, ma non commentano e che si subiscono le mie "storie" fantasy mezze strambe xD


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Capitolo 5
*** Fidarsi è sbagliato; ormai l'ho capito. ***


 

 

La prima cosa che pensai era che avevo un tremendo mal di testa; la seconda era che c’era un terribile odore di disinfettante.

La terza cosa fu ottenebrata dall’attacco di panico che subii quando mi resi conto delle seguenti cose: 1) Mi trovavo in un laboratorio analisi o qualcosa del genere. 2) Mani, piedi, addome e collo erano legati da cinghie di ferro. 3) Non c’era modo di scappare da quella situazione ed ero completamente, incredibilmente, orrendamente incapace di difendermi.

Quindi, l’attacco di panico era la mia unica opzione.

Ero sola.

Il lettino a cui ero legata era l’unico al centro della stanza.

Poi una piccola e fastidiosa morsa che mi strinse lo stomaco: mancava James e, sopra a tutte queste cose, mancava Arijane.

Mi chiesi dove fosse e le soltanto le possibilità risposte mi fecero venire i brividi. Sapete la piccola morsa allo stomaco che avevo avuto per James? Ecco, quando mi accorsi che mancava Arijane per poco non mi si fermò il cuore e le viscere sembrarono attorcigliarsi e annodarsi.

Okay.

Dovevo stare tranquilla. Niente pensieri negativi. Innanzitutto, com’ero arrivata lì? Ignorando il mal di testa che mi scoppiò in mente come una granata appena provai a tornare indietro con la memoria, cercai di ragione limpidamente. Avevo percorso il corridoio, battutina di Arijane, poi c’era stata una sottospecie di porta e poi il buio completo, e poi mi ero risvegliata lì.

Proprio mentre cercavo di trovare il pezzo mancante della storia, sentii il commento di un Addetto: «Stupida cosa alata! Mi ha morso! Tsk, se non fosse che…». E bla bla bla.

Bene.

Probabilmente io dovevo averlo morso. Questo spiegava perché avevo il collo legato con una cinghia di ferro. Fui contenta di averlo morso, però. Era un bastardo, come tutti gli altri. Sperai sinceramente di avergli fatto più male che potevo.

Nella stanza dovevano esserci tre Addetti e, stranamente, niente Cacciatori. Bè, certo, che danno potevamo fare legati a quel modo?

Gli enormi display che tappezzavano il muro segnavano, a quanto pareva, il nostro battito cardiaco e indicavano un’altra serie di cifre incomprensibili.

Un Addetto si avvicinò a me a passo veloce e mi puntò in faccia una grossa lampada che per poco non mi accecò. Ridussi gli occhi a due fessure e contrassi la mascella cercando di sottrarmi violentemente mentre un ago s’infilava nel mio polso.

«Kuesti kosi! Kome fare loro a chiamare riusciti, io proprio non sapere!», sbottò l’Addetto  con un forte accento tedesco o qualcosa del genere. «Orribile estetica! Funzionalità essere bassa: praticamente creature inutili!», continuò seccato.

«Ha parlato! Siccome, tu sei bello, vero?», ironizzai.

L’Addetto sobbalzò, poi, senza rispondermi, mi lanciò un occhiata di sbieco e prese un altro ago, mi girò con forza il polso destro e mi infilò anche quello nella vena più a fondo di quanto sarebbe servito; strinsi i denti, in modo da non gemere.

Non gli davo la soddisfazione di avermi potuto far male.

Poco, ma sicuro.

«Lei è l’ultima rimasta, no?», chiese un secondo Addetto lanciando un occhiata a gli schermi.

Ci fu qualche secondo di silenzio e immaginai che stessero consultando qualche cosa al computer, poi una voce roca e profonda dichiarò:

 «Sì, ci conviene portarla di là»

Ancora una volta la luce al neon, fredda e intensa, mi colpii gli occhi e uno degli Addetti, che non riuscii a identificare, cercò di mettermi una mascherina collegata a un tubo; spostai la testa di lato ma una mano mi agguantò il mento, immobilizzandomi.

La mascherina mi pizzicò la pelle.

Trattenni il fiato, o almeno ci provai, ma era impossibile.

Tutto iniziò a diventare sfocato. Le luci baluginavano davanti a gli occhi, accecandomi: erano troppo intense e tenere gli occhi aperti era una sforzo enorme, come se le palpebre fossero fatte di piombo. Sentivo confusamente il parlare degli Addetti, ma le loro parole mi apparivano lontane e indecifrabili. Percepivo il mio respiro diventare pesante d’un tratto.

Il battito cardiaco rallentava, piano. Avevo paura di chiudere gli occhi. Odiavo non avere il controllo della situazione, odiavo non potermi difendere. Ma non potevo fare niente e alla fine il torpore mi trascinò in un sonno pesante, forzato e spaventoso.

 

Non percepivo il mio corpo e non ero esattamente cosciente. Non mi sembrava di esistere, al momento. Ero solo un corpo disteso su un lettino, sviscerato da scienziati pazzi con la brama di sapere, conoscere e capire a mio completo sfavore.

Non sapevo cosa mi stessero facendo. Avrei volentieri scambiato l’anestesia, quel tranquillo torpore, con un dolore fitto e intenso, solo per avere la situazione un po’ sotto controllo. E invece mi ritrovavo in balia di mani estranee, del tutto inerme.

Sentivo il metallo freddo tracciare linee invisibili sulla pelle, indolore. All’altezza del cuore, dei reni, e infine dello stomaco.

Aprendo e ricucendo. O almeno ebbi l’impressione che stessero facendo così. Era tutto un concetto estremamente astratto in quel momento. La mia vita, Arijane, James, il branco… tutto inesistente. Riuscivo a concentrarmi su pochi particolari alla volta.

L’arma a doppio taglio di quelle operazione era una sola, in fondo: o morivi, o ti ritrovavi migliorato. Se l’operazione falliva, ti uccidevano scuotendo la testa; al contrario, se riusciti a sopravvivere diventavi un essere migliorato, nuovo, potente.

Oggetto delle Loro curiosità.

Socchiusi gli occhi, poco, e la luce intensa delle lampade mi costrinse a richiuderli. Sei facce circa erano chine su di me.

Provai a muovere le dita delle mani, piano, ma senza risultati. Il mio corpo era decisamente un essere estraneo quanto gli Addetti, al momento.

Evidentemente loro se ne accorsero perché riportarono su di me la mascherina leggermente scostata dalla mia bocca e io persi nuovamente coscienza.

 

 

«Fire»

Qualcuno mi scosse la spalla, bruscamente. Avevo sonno. Gli occhi erano pesanti, ed ero indolenzita. Ogni volta che quel qualcuno mi scuoteva sembrava che la mia pelle si tirasse al massimo, pizzicandomi e bruciando, fino a strapparsi.

Che male, pensai.

«Fire!», mormorò insistentemente una voce maschile, profonda.

Aprii gli occhi.

La sala era buia, vuota e davanti alla lettino su cui disteso stava James, impassibile come sempre. Indossava un paio di jeans e una maglia nera, i capelli erano scompigliati e lo sguardo fisso su di me. Decisamente, qualcosa non quadrava.

Doveva essere notte.

L’unica luce era quella bluastra e fredda dei display accesi dei computer. Un leggero “bip” di un apparecchio accanto al mio lettino interrompeva ritmicamente il silenzio della sala. Non c’erano né Addetti, né Cacciatori in giro, per la prima volta nella mia vita.

«Sei… James?»

«No, guarda, sono babbo natale», sbuffò James, «Certo che sono io. Ora zitta e vestiti. Ti spiego tutto dopo», continuò porgendomi un paio di jeans e una maglietta. Si girò, dandomi le spalle. Le cinghie di ferro erano aperte e riuscii ad alzarmi.

C’erano delle nuove cicatrici sul mio corpo, piccole linee rosate che mi attraversavano disperse sulla mia pelle come strade di un mondo invisibile. Cosa mi avevano fatto? Non lo sapevo, e qualcosa mi diceva che non lo volevo neppure sapere.

Indossai i vestiti che mi aveva portato James; i jeans erano grandi e riuscivo a malapena a tenerli su – mi davano un fastidio tremendo – e la maglietta nera che mi aveva portato mi stava grande e mi arrivava quasi sotto le ginocchia. (fortuna che ora avevo di nuovo slip e reggiseno), con due grandi stappi sulla schiena in cui infilai agilmente le ali.

Sbuffai, irritata.

«To’, questi puoi tenerteli. Mi sono d’intralcio», dissi.

Mi guardò con una faccia strana mentre gli porgevo i jeans, del tutto intenzionata a restare solo con quella maglietta nera come la sua che mi faceva un po’ da camicia da notte per quanto mi stava grande. Non poteva essere di James, decisamente.

Era troppo grande.

«Vuoi stare così?»

«I pantaloni mi danno fastidio. Non riuscirei a correre»

Una volta vestita e libera dalle catene, stirai le braccia e scrocchiai il collo e le dita con soddisfazione, in modo molto poco femminile. Ma d’altronde, quando mai ero stata femminile io?. Ogni gesto che facevo, riacquistavo un po’ di lucidità.

Sbattei le palpebre, decisa a tornare completamente in me. «Tre domande: Dove siamo? Dov’è Arijane? Come cavolo fai a essere qui, James?»

«Non posso rispondere alle ultime due, ma comunque siamo all’ultimo piano dell’edificio. Complimenti, sei entrata nel campo “Analisi”. Ti ritengono un esperimento portentoso e vogliono studiarti»

«E gli altri?»

«Non so sinceramente se abbiano fatto degli esperimenti su di loro»

«James, come hai fatto ad arrivare qui? Insomma, tu non eri legato da cinghie di ferro, o solo su di me sperimentano ‘ste cose?»

James scoprì i denti in un mezzo sorriso di scherno: «Non mi hanno legato, non ne hanno bisogno»

Corrugai le sopraciglia: «Perché?»

Lo sguardo di James si fece cupo:«Perché io sto dalla loro parte, adesso»

Silenzio.

Mi ci volle qualche secondo per assimilare la notizia, e soprattutto, mi dovetti trattenere dal prenderlo per la maglietta e sbatterlo contro il muro richiedendo spiegazioni con la violenza. Un istinto che cercavo di reprimere: dovrei finirla con cose di questo genere.

«Come fai a stare dalla loro parte? Tu sei un esperimento, James, un esperimento! Non puoi stare dalla loro parte! Fino a ieri eri alla mensa, come tutti quanti noi! Dormivi, mangiavi, sopravvivevi come noi!»

«Lo so»

«Speravi, come tutti, di fuggire lontano. Non c’è nessuna differenza fra te e me, nessuna! Insomma, spiegami come mai allora non sei sempre stato con loro e invece stavi con noi e ti trattavano da cani, come tutti noi? Avanti, spiegami!»

Avevo il fiato corto. Parlavo così velocemente che perfino io facevo fatica a capire le mie stesse parole, ma non riuscivo a fermarmi.

James non poteva essere uno di loro. Era sempre stato dalla mia parte, uno di cui, tutto sommato, mi potevo fidare sempre e… poi, capii. Come faceva lui a sapere sempre di tutto? Perché sapeva sempre con esattezza tutto ciò che mi riguardava?

Era, quindi, sempre stato dalla loro parte?

«Sono figlio di un Addetto», sorrise amaramente, «Sono il miglior esperimento dell’Istituto, perfetto. Eppure, questo è l’unico vantaggio di essere il figlio di un Addetto: sono il migliore in tutto, ma non più vantaggi di quanti ne avete voi tutti»

Storsi le labbra in una smorfia: «Chi è tuo padre?»

«Non so quale Addetto sia.»

«Bene. Come mai mi aiuti? Cosa ci guadagni?»

«Cosa ci guadagno ad aiutarti a scappare? Quasi niente»

«Okay, lascia perdere. Perché, allora, pensi che dovrei ancora fidarmi di te?», dissi, seria.

James scrollò le spalle. I suoi occhi color pece, come sempre, era un due pozze scure e inespressive. «Eri legata a un lettino con cinghie di ferro in mano a scienziati pazzi e psicopatici. Credi che potrebbe andare peggio di così anche se ti tradisco?»

Mi scostai i capelli dagli occhi, sbuffando: «Può sempre andare peggio, James. Ormai, dovresti esserne cosciente anche tu»

«Lo so benissimo. Ora, vuoi che ti aiuti a uscire si o no?»

«Prima dobbiamo trovare Arijane e gli altri», dissi con decisione. Ma soprattutto dovevo trovare Arijane. E non mi sarei fermata.

James scosse la testa: «Non abbiamo tempo di salvare Arijane. E comunque gli altri non sopravivrebbero, solo tu e Arijane avreste una possibilità perché volate»

«Perché? Cosa c’è fuori dall’Istituto?»

«Noi lo chiamiamo blackout. E’ difficile da spiegare, lo vedrai da te. Ora, andiamo», mi esortò James.

«Io non mi muovo di qui senza Ari»

James sibilò una parolaccia a mezza voce: «Sei sempre stata così, eh? Capace di ammazzare cento persone in un giorno, eppure rischi di perdere la tua unica occasione di libertà solo per la testardaggine di poter salvare anche un undicenne inutile»

«James, tu non capisci. Puoi dire ciò che vuoi, io vado a cercarla e se vuoi aiutarmi meglio, ma se non vuoi va benissimo: non ho bisogno di te»

«Arijane potrebbe anche essere morta per quanto ne sappiamo! Ascolta me, scappa da sola», ringhiò James.

«No»

«Perché? Che importanza ha lei?»

«Gli l’ho promesso: non sarei mai andata via senza di lei. E se io faccio una promessa, allora è quella. Punto», dissi seria.

Mi girai, correndo verso l’unica uscita – che portava a un corridoio - a una velocità che mi sorprese.

«Non hai detto che volevi aiutarmi? Bene, allora fallo», esclamai prima di girare l’angolo del corridoio, «Sai dove si trova Arijane si o no?»

«Si, lo so»

Rimasto solo per qualche secondo, James sospirò e poi, in uno scatto di rabbia, colpì il muro con un violento pugno. Alcuni pezzi d’intonaco scivolarono sul pavimento. Cercò di calmare il respiro, e tornare calmo e freddamente distaccato come sempre.

Senza risultati.

Volse lo sguardo verso il corridoio buio dove Fire era appena scomparsa. Chiuse gli occhi e si morse il labbro fino a sentire il sangue. Con agilità felina, la seguì lungo il corridoio. Tutto andava come doveva andare. Si chiese se non fosse questo il problema.

 

 

 

 Angolo dell'Autrice

 

Ebbene, suona un pò stano ma ho cambiato del tutto il capitolo. Come molti avrete letto e constato, il capitolo che avevo postato prima era uno schifo. Mi scuso sinceramente, ma non riuscivo ad andare avanti così ho deciso di cambiare. Così, in questo capitolo abbiamo un bel pò di strane informazioni e strane domande: James, un traditore, ma perché? Come mai l'aiuta? Cos'è ha in mente pure lui? Dov'è Arijane? E' viva (speriamo) o no? Bè, lo saprete nei capitoli avvenire xD

Sono un pò giù per ora, con la scuola e tutto il resto credo che presto mi scoppierà il cervello. E anch'io, come Fire, avrò un attacco di panico se non rallento un po' con il ritmo delle cose per ora. Visto che fra poco non mi resta neanche il tempo di mangiare per quanto vado di fretta °-°


Risposte aCommenti:

 Lewaras: Niente coso gigante che squarterà l'allegra combriccola: I'm sorry. O almeno per ora non c'è. I Cacciatori sono degli esperimenti armati che non ragionano: sono stati creati per ubbidire. Immaginali come giganteschi colossi ringhiosi con armi belle potenti in mano 24 su 24 e ti farai un idea xD Per Arrow, mi dichiaro ufficialmente tua socia in affari U.U

Ako: E Jekins, ti starai chiedendo? Bè, tranquilla che Jekins c'è. O almeno c'era quando Fire aveva perso coscienza xD L'incontro con Jekins non c'entra con l'introduzione o almeno in un certo senso no °-° Eh sì, anch'io adoro le cose poetiche ecc xD Ma soprattutto per ora sono innamorata assolutamente di James, o meglio, voglio cercare di renderlo un personaggio interessante e spero di riuscirci anche se non ne sono sicura. Aspetto qualche tuo consiglio, in caso xD Spero che questo capitolo ti sia piaciuto =)

Sweetophelia: Fine del mondo? Forse. Scoprirai leggendo. E Arijane? Non posso dirti se è viva o morta e in realtà non ne ho un idea chiara neanch'io in questo momento xD Anch'io concordo con tutto ciò che dice Fire, anche se spesso lei stessa si dimostra egoista e insensibile. O meglio, insensibile verso tutto ciò che non conosce. Non ha la percezione esatta del mondo, il punto è questo... lei si limita a fissare un obiettivo e non gli ne frega se il mondo cade o crolla, lei non si ferma finché non ottiene ciò che vuole. E' questo che mi piace di lei.

 

Ringrazio Emily Doyle per aver aggiunto la storia tra le seguite. =)

 

Volevo raccomandare per chi ha letto il Capitolo cancellato di non farsi influenzare dalle notizie di quel capitolo in quanto quello non è nient'altro che uno sbaglio e niente di ciò che c'è scritto lì verrà successivamente riportato in questa storia.

 

Ora vado.

Bye bye.

Angel


 

 

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Capitolo 6
*** Per cosa si combatte davvero? ***


 

 

Hai l’impressione che la vita ti stai soltanto prendendo in giro, quando, all’improvviso, ti senti tutto crollare addosso e non vuoi più rialzarti e solo lo sguardo: fiero, orgoglioso, e per la prima volta ferito tradisce l’apparente freddezza che ti  sei creato intorno.

Si, perché io ero forte. E non piangevo stringendo le mani gelide di Arijane nelle mie mani calde e sudaticce, con delicatezza. Non  piangevo fuori, ma dentro di me un tumulto di emozioni minacciava di uccidermi, di annientarmi definitivamente.

Lo spettacolo che mi si poneva davanti era crudele, macabro, orribile. Il suo corpo era riverso su quel familiare lettino, slegato, gli occhi aperti e spenti e le ali dorate, afflosciate, arrivavano quasi a sfiorare il pavimento con alcune piume.

Arijane era morta.

E ora, ero sola. La stanza era buia, silenziosa, piena di lettini vuoti. L’unico occupato è quello di Arijane, che, ora, mi fissava con i suoi occhi spenti ed enormi rivolgendomi un ultimo sguardo pieno di paura e allo stesso tempo coraggio.

Mi accostai al lettino, con la testa accanto alla guancia di Arijane e il mento poggiato sulla superficie ruvida di quella odiosa barella, immersa nell’odore di disinfettante che ora non mi dava solo la nausea, oh no, ero sul punto di vomitare.

Sono forte, mi ripetevo mentalmente, sono forte. Posso farcela, io ce la faccio sempre. In fondo, ero Fire: orgogliosa, ribelle e invincibile. E posso farcela anche stavolta, no?

«Sì», disse improvvisamente la voce di James, «ce la farai anche stavolta».

Sobbalzai.

Avevo davvero parlato ad alta voce?

Scossi la testa.

Ancora una volta, tastai il polso di Ari. Non c’erano segnali di vita. Niente calore, niente era rimasto della sua vita se non cocci della sua esistenza, il suo corpo.

E’ come se avessero rotto lo specchio che rifletteva la mia vita e i cocci fossero caduti nel buio, l’uno lontano dall’altro. E senza quei pezzi lo specchio è rotto e non potrà mai essere ricostruito. Mai. E io non potevo fare niente, stavolta, ero impotente.

Rimasi in silenzio per qualche secondo, poi dissi:

«Ho infranto la mia promessa, James. Non sono riuscita a salvarla, né a portarla via di qui. Sono svenuta al primo colpo in testa prima di entrare qui!», dissi e la mia voce era flebile, insicura, molto più debole di quanto fosse mai stata in quattordici anni.

«Non puoi sempre salvare tutti, Fire. Dovresti saperlo abbastanza bene, ormai. E’ comunque, ci sono voluto dieci Cacciatori per fermarti e una dose di sonnifero e calmanti che sarebbero bastati e avanzati per undici o dodici persone».

Sorrisi amaramente, immersa nel buio: «Ma alla fine c’è l’hanno fatta lo stesso a battermi. Non importa quanto mi oppongo perché, tanto, alla fine, loro vincono sempre»

James, un ombra più scura delle altre, si fece avanti mostrandosi per metà alla luce con un espressione cupa, seria, e uno sguardo intenso.

«No», disse con decisione, «Non sempre», aggiunse quasi sussurrando.

Scossi la testa.

Come poteva essere così ingenuo? Non si accorgeva di quanto fosse inutile continuare a combattere così? E per cosa poi?

Fino a quel momento, tutto ciò per cui avevo combattuto erano le persone a cui volevo bene, la mia libertà, la mia vita. Ma ora che James mi aveva tradito, ora che Arijane era morta, ora che io ero sola ad affrontare un mondo che poteva rivelarsi peggio della prigionia: cosa c'era da fare?

Per cosa combattevo ora?

Non lo sapevo.

James mi si accostò e tolse con delicatezza le mani gelate di Ari dalle mie dita strette in una morsa nervosa. Mi prese per un gomito, e prima che facessi in tempo a scostarmi bruscamente, mi aveva velocemente e facilmente tirato in piedi.

Mi afferrò il polso. Cercai di scostarmi, ma la sua presa era troppo forte. Lui era troppo forte.

«Dobbiamo andare, ora», mi disse.

Annuii.

Mi rimaneva un ultimo obiettivo: uscire di lì.

Lanciai un ultimo, fugace, sguardo ad Arijane e a quella camera lugubre. Ero decisa a non dimenticare e m’impressi con forza quella immagine nella mente. Nei mesi avvenire, sarebbe stato quel ricordo a darmi la forza e la rabbia che servivano per resistere.

Poi, James mi trascinò via da dov’eravamo venuti. Aveva ragione: ora, dovevamo andare via di lì. Per sempre. Ed era ora di combattere, molto più ferocemente di quanto avevo fatto fino a quel momento. Non sapevo per cosa, dove, e soprattutto perché.

Sapevo solo una cosa: me l’avrebbero pagata tutti quelli dell’Istituto, e soprattutto, avrebbero pagato ciò che avevano fatto ad Ari. Era una promessa e stavolta non l’avrei infranta.

 

***

 

Volai nel buio più totale.

Girandomi vidi la tenue luce prodotta dall’Istituto. L’Istituto visto dall’alto non era altro che una piccola base in metallo con delle luci che illuminavano il buio del deserto. Un ombra scura, in contrasto con le luci dell’Istituto, mi guardava dal basso.

James, alla fine, non mi aveva tradito.

Mi aveva liberato e io mi ero lanciata nel volo. Non avevo mai volato, ma mi venne quasi naturale. Sbattevo le ali, bellissime e tremende, e mi sentivo a capo del mondo veleggiando nel vento e lasciandomi trasportare dalla corrente quasi sempre.

Avevo capito soltanto quando ero uscita perché chiamassero quel posto «blackout»: era buio. L’oscurità avvolgeva qualsiasi cosa nel suo abbraccio ed era come se fosse una nebbia, una nebbia nera anziché bianca, ad avvolgere la maggior parte del pianeta.

La luce del sole era ormai diventata una leggenda.

Le uniche fonti di luce elettrica erano le città, rare fonti di vita in quel deserto continuo costituito da sabbia color pece e mare d’inchiostro in cui si era trasformato il mondo. Le città, come me le aveva descritte James, era una ammasso di grattacieli, luci e rumori.

Niente di più.

Avevo le coordinate di una città chiamata SC, o meglio Sin City, nei pressi di una città che una volta doveva essersi chiamata New York.

Nord-nord-est finché non vedevo le luci o qualcosa del genere.

L’unica a cui potessi arrivare prima che arrivasse una tempesta di sabbia, cioè entro un orario che comprendeva le cinque ore di volo alla velocità di 350 chilometri orari che era più o meno il minimo della velocità che potevo raggiungere al momento.  

Una volta che gli Addetti si fossero accorti che mancavo sarebbe stato troppo tardi e la tempesta di sabbia si sarebbe ormai scatenata e, per mia fortuna, era impossibile attraversare a piedi una tempesta di sabbia. Quindi, avrei avuto circa una settimana per scappare.

A sentire James, le tempeste di sabbia duravano come minimo un mese, o anche più.

Tutto andava secondo i piani.

Sospirai.

Inclinai leggermente una ala per cambiare direzione muovendomi verso est. Il vento mi sferzava il viso in ventate gelide e le guancie erano già rosse, quasi quanto il colore delle mie lentiggini sparse per tutto il viso. La mia maglietta faceva ben poco contro quel freddo pungente.

Avevo la pelle d’oca.

Tenevo le braccia aperte quasi come se fossero anch’esse ali. Una volta che le luci dell’Istituto diventarono impossibili da vedere, mi accorsi di quanto fosse strano quel buio in cui il mondo era avvolto. Era come essere ciechi: nero, solo e soltanto nero.

Sapevo solo la direzione in cui andavo, percepivo il vento e il freddo e sentivo il wloooosh nelle mie ali che sbattevano all’unisono, però ero arrivata al punto di non capire se avessi gli occhi aperti o meno. Il nero era l’unica cosa predominante.

Era il colore del cielo, e della terra, era il colore delle stesse stelle.

Probabilmente io stessa ero invisibile avvolta in quel manto scuro.

Sorrisi, nel buio, per quanto il mio sorriso suonasse anche a me malinconico. Odiavo il silenzio di quella notte. Sapevo che Ari avrebbe adorato quel volo notturno, sapevo che sarebbe morta dalla voglia di spezzare il silenzio parlando a raffica.

Il pensiero che non avrei più sentito la voce di quella ragazzina, che fremeva incapace di rispettare i miei silenzi, mi colse come un pugno allo stomaco. Avevo sempre amato il silenzio, mentre Arijane l’aveva sempre odiato con tutte le sue forze.

Lei odiava i miei silenzi.

Riuscivo a immaginarla perfettamente accanto me, in quel momento, fremente e incapace di trattenersi dal scoppiare a parlare così velocemente che, per capirla, ci sarebbe voluto un traduttore. E io avrei sbuffato seccata da quella parlantina.

Ora che quel silenzio era così impenetrabile, avrei dato di tutto per spezzarlo. Eppure Arijane non c’era per farlo, e non ci sarebbe stata mai più.

Così, chiusi gli occhi e misi più forza nel mio volo. Decisa a non perdermi in pensieri inutili. Decisa a non perdermi dentro a ricordi che preferivo non portare mai più in superficie.

 

 

In quello stesso momento, una figura esile apre gli occhi castano dorati e si guarda intorno frastornata, analizzando la stanza buia.

E’ legata e quasi subito la paura inizia a inondarla senza che lei possa fare niente. Non riesce a muoversi e questo la innervosisce. Le fanno male braccia e le gambe, e ogni battito del cuore le provoca un intensa fitta fra le costole, insopportabile.

Respirare fa male, perfino aprire gli occhi è un dolore troppo intenso.

Una voce profonda, maschile le spacca i timpani fin troppo delicati, e la ragazzina sente molto confusamente le sue parole.

«Ari?»

«James», gracchia la ragazzina con la voce flebile, «sto male. Non respiro… Fire, dov’è Fire?», chiede.

«E’ andata via»

Arijane spalanca gli occhi, disperata: «E’ morta?»

«No, è scappata via. Senza di te», risponde James risoluto. Osserva la ragazzina legata nel lettino accanto a quello dove è seduto lui: ha uno sguardo impassibile, freddo, sicuro. Arijane lo guarda bene e non le sembra possibile che menta.

Il dolore sembra aumentare.

«L’hai aiutata tu?»

James annuisce.

«Aveva promesso che non sarebbe andata via senza di me», mormora la ragazzina.

«Non ne ha voluto sapere di venirti a prendere», dice James, «era troppo rischioso e così ha preferito andare via da sola»

«Ma lei aveva detto che…»

«Mentiva», la interrompe James,  «ti ha mentito su tutto. Non ha mai avuto intenzione di salvare anche te. A lei importava solo di sé stessa; mettila così: tu per lei sei morta, da sempre».

Arijane ha così freddo.

Perché al dolore fisico si aggiunse anche un altro dolore, più intenso, quello del tradimento è un veleno forte e pungente che le si diffonde in corpo fin troppo velocemente.

«Io non ti credo!»

James sorride, come se la volesse prendere in giro. E’ un sorriso cattivo, pensa Arijane. Così ipocrita. Come può credergli?

«Lei qui non c’è. E’ andata via senza di te, che tu mi creda o no è così. Tu non le importi»

Arijane non risponde. Non vuole credergli, ma ormai dentro il suo cuore si e’ insediata un ombra scura: quella del dubbio.

«Ho bisogno che tu mi faccia un favore», continua James, indifferente al suo dolore, «quindi, decisamente, mi conviene che tu sia qui. Ho bisogno di te per fare una cosa»

«Cosa? Liberami intanto»

«Prima devi promettere che mi aiuterai», dice James e il suo tono è di scherno, e nuovamente Arijane ha l’impressione che lui la stia soltanto prendendo in giro.

Ma non può fare altro. E così, si ritrova a promettere.

«Okay, ti aiuterò»

Ancora una volta ha l’impressione che nello sguardo di James ci sia un lampo di un emozione a lei sconosciuta. Quello di James, oscuro e impenetrabile, è uno sguardo che le fa paura. E’ come il buio di una notte nel bel mezzo di una bufera silenziosa.

Ha un tono strano, James, quando dice: «Immaginavo che avresti risposto così»

Nel suo cuore, Arijane spera intimamente che sia tutto un brutto incubo.

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice

 

Mi volete ammazzare perchè ad Ari è successo qualcosa allora? Mi sento in colpaaaaaa >_< Non voglio che succeda qualcosa di male a quella piccoletta, ma in realtà sono i miei personaggi che stanno scrivendo questa storia, e io ne ho perso la proprietà e quindi mi faccio le vostre stesse domande. 

Bé, eccovi un capitolo molto strano. James, alla fine, l'ha tradita. O no? E soprattutto Arijane è viva o morta? Sembrerebbe viva, ma noi che ne sappiamo realmente? Lo saprete... leggendo tutta la storia!U.U

 

Risposte aCommenti


A Lewaras: Mhm... bè, non  ai può ancora decidere se James li abbia traditi o no. Insomma, hai visto ciò che ha fatto, no? Non so perché abbia detto ad Ari che a Fire non importava di lei, ma credo che abbia dei piani suoi. A James non importa molto degli altri; A James non è mai importato davvero di nessuno, esattamente come Fire, ma in modo un pò diverso. James non soffre se soffrono gli altri, James riesce a percepire solo il suo dolore e vede quello degli altri in modo distaccato perchè in realtà non ha mai capito cos'è il dolore reale.

Non ha mai provato amore e non ha mai ricevuto, e di conseguenza, è così freddo e non vuole bene a nessuno. Non ha il concetto di "tradire" o no ed è questo ciò che mi fa paura di lui. Lui punta solo a ciò che vuole, e calpesta tutto e tutti per arrivarci. Può sembrare simile a Fire, ma è diversissimo.  Ed Arijane prova a fare la coraggiosa ma in realtà anche lei ha paura, e si vede anche nell'ultima frase, quando spera intimamente che sia tutto un incubo. 

 

A Sweetophelia: E' una trappola... naaaaah, più che altro James vuole fare ciò che gli conviene, come sempre U.U Mi dispiace dirti che la vita di Arijane sarà piuttosto difficile da questo momento in poi >.< E poi è vero, Fire non va (decisamente) in giro gridando a tutti "ti voglio bene" ma tiene molto alle persone che le sono care ed è dispostissima a combattere per loro. In questo momento è abbastanza disorientata e si nota subito. Ha ottenuto la libertà che agognava da tempo ma allo stesso tempo ha perso Ari che era forse l'unica persone a cui teneva veramente. Comunque, James è nato da una madre e un addetto , intendevo questo xD 

Ps. E' veeeeeero, James è bellissimo *-* Capelli scuri, grandi occhi neri, alto e il sorriso irritante che riuscirebbe a far andare in bestia chiunque xD. Anzi, sto cercando un attore che lo rappresenti (tieni a mente che può avere massimo quindici, sedici anni) non è che hai qualche ideaaa?

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Capitolo 7
*** Illusioni ***



 

La città era un immenso intrigo di grattacieli diroccati e cadenti, strade infinite e deserte che si rincorrevano come in un grosso labirinto per le vie della metropoli. New York – Sin City – rappresentava una piccolissima luce che si ostinava a non essere ingoiata dal buio.

Ero accovacciata sui talloni all’estremità del parapetto della terrazza di un grosso grattacielo abbandonato. Avevo ritratto le ali nella schiena, in quelle piccole rientranze ai lati della colonna vertebrale che, a occhio nudo, sarebbero risultate quasi del tutto invisibili e invece riuscivano a “inghiottire” quasi del tutto le mie ali. Con una giacca spessa sopra la maglietta, non si sarebbe notato niente.

Non sapevo molto del mondo esterno, ma una cosa era certa: una ragazza dotata di circa quattro metri di ali, non era una cosa normale. O almeno speravo che non lo fosse. L’ unica cosa che assolutamente non dovevo fare era farmi notare.

Ma avevo l’impressione che se anche in quel momento avessi spalancato le ali volando sulla strada, nessuno mi avrebbe potuto vedere contando che non c’era anima viva. Il silenzio era rotto soltanto dal rumore implacabile del vento, e le luci illuminavano strade completamente vuoti e grattacieli che sembravano completamente abbandonati. Era come se tutti fossero stati spazzati via.

Avevo bisogno di trovare un posto sicuro per riposare, e urgentemente del cibo. Se non mangiavo immediatamente rischiavo di svenire lì.

Balzai in piedi sul parapetto. Sotto di me, tutto appariva infinitamente piccolo. Il vento sembrava spingermi dolcemente giù sferzandomi leggermente i capelli. Ero davvero a capo del mondo, quando stavo lassù mi sentivo terribile e bellissima.

Il vento mi accolse nelle sue braccia e l’adrenalina mi invase lo stomaco mentre mi buttavo giù, appiattendo le ali alla schiena in attesa di spiegarle e intanto la gravità mi attraeva a sé con una forza che avrebbe vinto qualsiasi persona, ma non me.

A circa dieci metri da terra, spiegali le ali e le sbattei più volte, innalzandomi perfettamente.  Fire batte Gravità, uno a zero!

Ripiegai di poco le ali in modo da abbassarmi e poi, una volta giù, cercai di atterrare decentemente ma non feci altro che ruzzolare maldestramente per qualche metro e poi ritrovarmi accucciata in mezzo alla 52th strada. In futuro, avrei dovuto migliorare l’atterraggio.

Mi rialzai.

Il mio primo e assoluto pensiero una volta a terra fu: cibo. E potrò non essere pure molto fine, o non abbastanza cauta, ma, ragazzi, provate a non mangiare per due giorni circa e farvi una volo da un palazzo di oltre duecentoventi piani, e poi ditemi se non avete fame. Avevo l’impressione che il mio stomaco, nel disperato tentativo d’ingerire cibo,si stesse auto-digerendo.

La 52th strada, era, per mio fortuna, un posto decisamente pieno di piccolo ristorantini che davano sulla strada. O meglio, avevo l’impressione che lo fossero, ma non  ne potevo essere sicura visto che, sapete, non conoscevo un cavolo di quel posto.

Le insegne, sulle poche vetrine ancora integre, erano per lo più scritte in strani simboli. Speravo che quei simboli mai visti rappresentassero qualcosa da mangiare. Notai, fra le macerie, un negozio che mi sembrava meno abbandonato degli altri.

Un grosso cartello mezzo scassato per terra, davanti alla soglia senza porta, diceva a grandi caratteri “Sushi”. Era il nome del ristorante?.

Mi avvicinai.

Attraverso la vetrina completamente frantumata, riuscì a intravedere una sala molto grande. Per terra, c’erano macerie e pezzi d’intonaco, i tavoli ribaltati e pezzi di vetro, bicchieri e bottiglie rotte erano sparsi per tutto il pavimento. A destra, più in fondo nel locale, una grosso ripiano bar che sembrava una sottospecie di tavolo da cucina o qualcosa del genere.

Entrai.

Spostai con i piedi un tavolo che occupava l’entrata sfasciata e mi avvicinai al tavolo cautamente. C’era un odore fortissimo di pesce marcio e stantio. Sul tavolo, campeggiava una grossa mannaia da macellaio. Dietro il ripiano, una grossa scaffalatura dov’erano poggiate bottiglie che portavano dei nomi che non avevo tipo: vodka, martini, o qualcosa tipo birra.

Non c’era traccia di cibo.

Sospirai e presi in mano la mannaia da macellaio. Era un grosso coltellaccio, ma non era per niente sporco o arrugginito… aspetta, come faceva a non essere arrugginito? Mi guardai nuovamente intorno e mi accorsi che, nonostante quell’angolo di città fosse distrutto e dappertutto si vedevano macerie e edifici crollati, niente di quello che avevo visto era vecchio.

Tutto era nuovo. Nuovo, ma distrutto. Perfino quelle bottiglie strane e colorare sul ripiano bar avevano un aspetto nuovo, nonostante il ristorante sembrasse essere stato appena colpito da un tornado. Ritornai a guardare il coltello lucido e nuovissimo, se non per il velo sottile di polvere che sembrava essersi depositato sopra, come del resto sembrava avesse fatto con tutto il locale.

Non so perché ma decisi di tenere il coltello: poteva tornare utili avere un arma, o, almeno, qualcosa di affilato e tagliente e possibilmente letale, all’occasione.

 

Non so per quanto vagai per la città alla ricerca di un posto sicuro, di cibo, di un qualsiasi essere umano, insomma di qualcosa; so solo che impiegai molto tempo e pochi risultati, più o meno uguale a tutto i risultati che avevo ottenuto per ora.

Alla fine, mi ero rintanata nella hall di un vecchio hotel a cinque stelle. La grande sala aveva la moquette rossa e molte poltrone e divanetti che, se non fosse stato per la polvere, avrebbero rappresentato per me il paradiso più assoluto.

Dopo aver controllato che la sala fosse completamente deserta, mi ero coricata su un divanetto cautamente, stringendo il manico del coltello da macellaio come se stessi facendo la distorta parodia di una bambina che stringe al petto il suo orsacchiotto.

Inutile dire che mentre risolvevo il problema del sonno e della stanchezza, rimaneva il fatto che il mio stomaco si stesse auto-digerendo dalla fame e che dovevo fare al più presto qualcosa per trovare dell’acqua pulita abbastanza da poterla bere.

E malgrado tutte le preoccupazione e il sospetto e lo smarrimento e la fame, piombai nel sonno più profondo e senza sogni che avessi mai fatto in tutta la mia vita. E com’era prevedibile quel sonno profondo mi portò guai abbastanza seri.

 

Fui svegliata dal rumore delle sirene.  Non so esattamente quanto avessi dormito, ma mi sembrava che fossero stati giorni per quanto le palpebre fossero pesanti e i muscoli contratti e indolenziti. Avevo la sgradevole impressione di essere più stanca di prima.

Mi alzai dal divanetto e mi scrollai di dosso la polvere, sbattendo di poco le ali. Lanciai uno sguardo allarmato alla grossa porta trasparente e girevole dell’hotel dove il panorama della città era decisamente identico a quando mi ero addormentata.

Intanto il rumore di sirene continuava.

Giocherellando nervosamente con il manico del coltello mi avvicinai alla porta girevole, ma fui costretta a ricacciarmi subito indietro per non farmi vedere, appiattendomi sulla parete al lato. Fuori dall’hotel c’erano degli omoni in divisa che sembravano pattugliare le strade.

La mia mente mi suggerii che erano la polizia. Indossavano delle tute nere ed erano alti e grossi, e accanto all’albergo erano posteggiati delle grosse jeep che dovevano essere sicuramente loro. Una luce blu e rossa abbagliante illuminava il piccolo angolo di strada.

Riuscivo a vedere che uno di loro aveva in mano una sottospecie di walkie-talkie e parlava freneticamente, agitando le mani mentre la vena verde che aveva sul collo pulsava. Doveva star gridando ordini a gli altri, ma non riuscivo a distinguere le parole.

Stavo appunto per cercare il modo di uscire di lì senza di essere vista, visto che temevo che avrebbero potuto anche entrare nell’hotel, quando ad un tratto mi sentii cedere le ginocchia. Fu una specie di strappo. Le ginocchia si piegarono quasi non riuscissero a reggere il mio stesso peso e tutte le ossa e la articolazioni iniziarono a farmi male, come se tutte le ossa si stessero frantumando dentro il mio corpo mentre uno strano calore risaliva la spina dorsale facendomi rabbrividire.

E poi, avevo mal di testa. Avevo l’impressione che il cervello mi fosse esplose e si fosse spiaccicato sulle pareti del cranio. Mi portai le mani alla testa e spalancai la bocca in un grido muto, incapace di emettere anche solo un gemito di dolore mentre le ginocchia si piegavano definitivamente e cadevo a terra, appoggiata al muro accanto alla porta girevole.

Appoggiai la mano alla parete, respirando forte. Sentivo parole gridate, stracci di emozioni mi esplodevano in mente e immagini diventavano sempre più chiare e forti e facevano male. Mi premetti le mani sulle orecchie, incapace di capire da dove provenissero quelle immagini, quelle parole, quei pensieri che non erano decisamente i miei, ma quelli di qualcun altro.

Se fossi stata una persona normale, credo che quel “rumore” mi avrebbe annientata. Quelle voci, quelle immagini che non erano mie, erano così forti che avevo l’impressione che qualcuno mi avesse sparato un proiettile in testa con un fucile.

Ma non ero una persona normale, e non potevo permettermi di rimanere lì, ferma, a gemere dal dolore, come, non lo nascondo, morivo dalla voglia di fare. No, io mi preoccupavo che quella specie di “polizia” entrasse lì, e mi trovasse e allora sarebbero stati guai.

Qualcosa mi diceva che cercavano me. Le voci nella mia testa, parlavano di qualcosa di anormale che si aggirava lì intorno. Riuscivo a sentirli; semplicemente chiudendo gli occhi riuscivo a vedere le strada vista da fuori, dagli occhi di qualcun altro, e riuscivo a sentirli parlare.

Sussurri e immagini raccapriccianti si alternavano nella  mia mente.

E’ lì… uccidere, voglio uccidere… mozzare le ali, loro dicono… loro la rivogliono… no uccidere, bisogna solo non farla scappare… uccidere, uccidere…

Erano rivoltanti.

Riuscivo a vedere un essere alato nelle loro menti, nella mia mente, riverso sull’ asfalto, che dormiva profondamente. Le sue ali ero mozzate e posate accanto a lui in un bagno di sangue, i moncherini delle ossa che spuntavano dalla schiena erano stati maciullati. Nella mente di quelle sottospecie di uomini, io ero solo una “cosa” da uccidere, maciullare, trucidare.

Sentivo la loro sete di sangue.

Non capivo chi fossero, non sapevo da dove venissero, ma sapevo una cosa: loro erano a conoscenza della mia esistenza e volevano uccidermi.

Quando provai ad alzare la testa il dolore sembrò affievolirsi. Muovermi mi faceva male. Pensare dovevo concentrarmi su altro. Dovevo pensare a come uscire di lì, e subito anche. I miei pensieri, però, si accalcavano sopra quelli degli uomini.

L’immagine di me riversa a terra senza ali mi fece rabbrividire, ma mi costrinse anche a mettermi ad alzarmi barcollando. Le scale dell’hotel erano bloccate e cadute ed era impossibile risalire anche volando: l’unica uscita era quella principale. Strinsi il manico della mannaia più volte.

Cosa fare?

Ma poi, in quel momento d’esitazione, la porta girevole si mosse. Fu questione di pochi secondi, un uomo entrò. Era alto, senza rughe e aveva un viso adulto, ma la pelle era grigiastra e smorta e l’espressione vuota come quella di un zombie.

Fece due passi nell’atrio, mentre io, appiattita nell’ombra del muro, in un angolo, cercavo di non fiatare e aspettare il momento giusto per attaccare esattamente come un grosso felino che aspetta nascosto nell’ombra che la sua preda si distragga, per poterla colpire alle spalle.

Mi morsi le labbra.

Fu un secondo. Lui si girò e mi vide, ridusse gli occhi a due fessure e spalancò la bocca per gridare, ma prima che potesse emettere anche solo un suono mi lanciai contro di lui e gli piantai il coltello fra le costole una, due, tre volte brutalmente.

La torcia che aveva in mano l’uomo cadde a terra a illuminare la macabra pozza di sangue che si stava espandendo a macchia d’olio sotto il suo corpo che poggiai delicatamente a terra per non fare rumore. Ma era troppo tardi: feci appena in tempo a girarmi e ne vidi entrare altri e altri e immediatamente mi sentii in trappola, braccata e oppressa in quel piccolo atrio.

«E’ lui! La cosa!», sentii gridare.

Avevo la vista annebbiate perché ora che quei cosi erano più vicini i pensieri e le voci nella mia testa erano molto più forti, ma riuscii comunque a vedere tre o quattro uomini entrare nell’atrio con le loro espressioni vuote e quella pelle grigiastra da morto.

Si precipitarono su di me prendendo in mano quelle sottospecie di pistole e i coltelli, ma io ero già scatta verso la porta e mi ero infilata nella porta a vetri il più veloce possibile, tenendomi pronta a dischiudere le ali e a fuggire in volo appena mi fosse stato possibile farlo.

Riuscii a uscire in strada, ma loro furono più veloci e, senza capire come, me li ritrovai davanti. Era come se si muovessero a una velocità molto più forte della mia. Non riuscivo a vederli, ma ecco che mi circondavano in pochi secondi.

Avevano formato un cerchio intorno a me e tutti erano pronti a sparar armi se avessi fatto il minimo accenno a scappare da lì. Non sembravano decisi, sembravano solo… senza espressione, come attoniti in qualche modo. Davvero come zombie.

Stringevo il manico del mio coltello, pronta a colpire, e avevo il fiatone. Le scelte erano due: potevo spalancare le ali e provare a volare via, e sarei stata sicuramente stata mitragliata senza pietà; oppure, potevo stare lì ferma a farmi comunque uccidere, o farmi mozzare le ali come avevo visto nei loro pensieri. Ah, e una altra cosa: i loro pensieri si erano improvvisamente fermati. La mia mente era tornata a limpida – per quanto potesse essere limpida al momento – come sempre.

Bene.

Come sempre, tutte le mie scelte portavano quasi sempre alla morte sicura. Certe cose, alla fine diventano monotone e sapere come sono fatta io ormai, no? Stavo per spalancare le ali e scappare in volo, e nel fallimentare “piano” l’avrei dovuto farei così velocemente che non avrebbero fatto in tempo a sparare, quando sentii delle urla alla fine della strada e, all’improvviso, riuscii a scorgere nei volti della polizia-zombie un lampo di un espressione che riconobbi fin troppo bene: paura.

Successe velocemente, come tutto in quella situazione.

Uno sparo e uno rumore che sembrò strappare il silenzio di quella città bruscamente. Un uomo, nel cerchio, dietro di me, crollò a terra. Era morto. Gli altri, presi da un improvviso panico, abbassarono le pistole. Stavo per mettermi a correre, sfruttando quell’attimo di fortuna sfacciata, quando le grida s’intensificarono e nelle strade si riversarono almeno cento “cose”.

Erano persone dai volti dipinti, indossavano maschere, o avevano il volto coperto. Erano centinaia e venivano da ogni parte. Si lanciarono contro la polizia-zombie come se fossero nemici giurati da secoli. E all’improvviso, spari e grida, sangue e dolore divennero una sola cosa in quella strada.

Mi lanciai in una corsa a perdifiato dall’altra parte della strada, sicura che se avessi volato sarebbe stato più facile notarmi e invece uscire dalla mischia in quel modo sarebbe stato sicuramente meno plateale, quando un dolore acuto, intenso e insopportabile mi colse all’improvviso.

Qualcuno mi aveva colpito.

La pelle bruciava terribilmente come se mi avessero appena gettato del sale su una ferita aperta e profonda. Mi avevano colpito alla scapola sinistra, e avevo l’impressione che il proiettile si fosse conficcato nell’ala adiacente.

Non potevo volare.

Il dolore mi annebbiò la vista nuovamente, ma cercai comunque di muovermi, camminare, allontanarmi da quella mischia di persone in strada che si uccidevano a colpi di pistola e pugnalate alle spalle. Non capivo niente di quello stava succedendo e l’irritante sensazione di aver perso totalmente il controllo delle cose… mi accorsi che la sensazione era vera.

Avevo perso il controllo.

Chiusi gli occhi, gemetti, mi costrinsi a camminare. Potevo arrivare a quel vicolo e cercare un posto sicuro dove ripararmi: dovevo cercare di estrarre il proiettile, fare qualcosa alla ferita e dovevo trovare qualcosa da mangiare assolutamente.

Se perdevo le forze per andare avanti, perdevo anche la vita.

Ma, comicamente, ci pensò qualcos’altro ad attentare alla mia vita, come succedeva sempre. Non che potessi arrivare a una dannatissimo vicolo, come un cazzo di proiettile nella scapola, in santa pace! Un colpo e qualcosa mi sbatté contro il muro.

Aveva una forza sovrumana, o ero io già così debole da non riuscire ad opporre resistenza? Aprì leggermente gli occhi e un volto familiare mi fece mancare il respiro.

I perfetti capelli biondi incorniciano un viso sottile, delicato, in cui spiccavano due enormi occhi nocciola. Un sorriso accennato ed incredibilmente freddo. Le ali castano dorato. Arijane era lì, era tornata e mi teneva per la gola attaccata a un muro.

La sua presa era forte e dolorosa, e le dita stringevano forte sul mio collo tanto che un ulteriore pressione ed ebbi impressione che stesse per spezzarsi. Eppure non mi fregava quasi niente del dolore! Ari era lì! E stava per uccidermi… ma questi erano particolari.

Volevo dire il suo nome, qualsiasi cosa per chiamarla, farla ritornare in sé… per cancellare quell’espressione orribilmente fredda e sadica da quel volto di una bellezza raggelante che, tuttavia, con quell’espressione faceva decisamente paura.

Sbattei le palpebre, in preda al panico cercando con tutte le mie poche forze di togliere le mani della bambina della mia gola. Ma poi, quando il buio sembrava vicino ad accogliermi ancora una volta nella sua stretta letale, vidi che non era Arijane a stringermi, a uccidermi, no. Il volto della bambina si era tramutato in quello di un ragazzo, un uomo dal volto dipinto di colori scuri che mi fissava duramente.

Arijane doveva essere stata solo un'illusione... vero?

«Che cosa sei?», mi chiese gettandomi a terra con forza. Riuscii a vedere nelle sue mani una pistola puntata contro di me.

Non seppi rispondere.

Fa male, pensai debolmente, fa un male cane.

Avrei nuovamente voluto raggomitolarmi e piangere per il dolore e non rialzarmi mai più. Ma ovviamente, avevo un proiettile nella scapola sinistra, c’era un uomo che mi puntava una pistola alla testa, degli zombie che mi volevano fare a pezzi.

Non avevo proprio il tempo di raggomitolarmi a piangere.

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice

Innanzi tutto, scordata il ritardo ma sapete che per ora sono stata molto occupata (Finalmente le vacanzeeeee *_*) Allora, non so... in questo capitolo non ci sono risposte. C'è solo una rapida successione di fatti e cose che non posso spiegare ora, come avrete notato. Le domande di oggi sono: Chi è la zombie-polizia? Fire ha sviluppato il potere di leggere nel pensiero alla Edward Cullen? *me rabbrividisce* (speriamo di no, eh xD) E Arijane? Che fine ha fatto? Davvero è stata solo un'illusione? E James? E chi sono queste persone con la faccia dipinta?

Bè *adoro dirlo* lo saprete nel prossimo capitolo! ù.ù Anche perchè sapete tutti che Lewaras mi ha imposto di non spoilerare. U.U ò.ò 

 

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Ako delle Tenebre: Ho cercato di rivedere la grammatica e l'ortografia... ma siccome lavoro da un pò a questo capitolo, ormai per quante volte l'ho letto non riesco più a notare gli errori quindi se c'è qualcosa che non va.... abbi pietà di me u.u xD Mhm, il buio del mondo... non so da dove mi sia venuto, ma devo dire che ero molto arrabbiata quando scrissi quel pezzo e l'arrabbiatura ha contribuito a creare un atmosfera di "spavento-calma" come la chiamo io. Il "Non sempre" di James nasconde qualcosa, hai ragione tu che come sempre sei molto intuitiva. Non so se questo capitolo ti piaccia, perché, come ho detto prima, non nasconde risposte e scoperte particolari ma è più che altro una successione di persone e fatti sconosciuti e credo che la prima domanda che tutti si pongono, o almeno quella che mi sono posta io mentre scrivevo, è: Cosa è successo al mondo che tutti noi conosciamo?

Lewaras: La fuga di Fire troppo tranquilla? In effetti un pò, ma un motivo c'è... non credi pure tu? :) Ovviamente, James è il tipico personaggio che uno alla fine di chiede... "ma questo ha una multipersonalità o cosa? O.o" Decisamente James è strano, ma questo si è sempre saputo xD E che mi dici di questo capitolo? Bè, non c'è molto da dire in effetti, però mi farebbe comunque piacere sentire un opinione tua ù.ù Ah, e mi hai fatto venire un colpo l'altro giorno quando ho aperto "Brothers kills brothers" e mi sono ritrovata davanti la frase "Appendo la penna al chiodo".. oddio, mi vendicherò di quello scherzo te lo giuro -.- XD

Sweetophelia: Ti ho fatto prendere un colpo con la morte di Ari? Bè, allora ti verrà un infarto quando Ari... no, mi dispiace non posso anticipare niente ù.ù Comunque, James agisce d'egoismo sì, ma credo che stavolta il suo egoismo coinvolga tutti in modo fin troppo diretto, soprattutto Fire. James che capisce che pensare solo a se stessi non paga? Non so se sarà mai possibile una cosa del genere, in fondo James è molto più testardo di chiunque altro, forse tranne Fire, e fargli cambiare un pensiero sarà una cosa decisamente difficile ma possibile... o almeno lo spero. Mi dispiace di averti lasciata ad aspettare tanto questo capitolo, ma come sai, e mi scuso con tutti, non ho avuto molto tempo in questo periodo ma ora sono tornataaa =)

 

 

Bye bye!


 Angel

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Capitolo 8
*** Parodia di un normale interrogatorio ***



 

Arijane si guardò allo specchio per l’ennesima volta e, sempre per l’ennesima volta, si chiese che cosa fosse diventata: chi era quella persona, quella ragazzina, che le rimandava i suoi stessi gesti e le sue stessi espressione dal vetro dello specchio?

Chi era lei?

James non le aveva voluto dire niente. Ormai, Arijane non era più un esperimento: era qualcosa di diverso e come tale era trattata. Aveva una nuova camera, al piano di sopra, più grande e quasi più umana di quelle che l’avevano preceduta.

Diversa, lei era diversa come la camera. Ma in che modo diversa? Continuò a guardarsi allo specchio: l’immagine rifletteva una ragazza sui dodici anni, alta e magra, con dei lunghi capelli biondi come il sole e due grandi occhi nocciola, e una pelle chiara, anzi, chiarissima, quasi bianca. Ecco, la pelle era liscia e vellutata, ma allo stesso tempo era troppo bianca.

Come quella dei morti, si disse lei.

Lo stomaco le si contorse quando pensò al quel paragone. Arijane sapeva solo una cosa della nuova se stessa, una cosa che le faceva paura e allo stesso tempo riuscire quasi a entusiasmarla: lei non poteva più morire. Così aveva detto James.

Ma allo stesso tempo  quando ripensava a se stessa e quelle parole capiva che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in quella frase. Qualcosa dentro di se, la prima volta che James le aveva confidato quelle parole, si era smosso e la sensazione che aveva provato non era stata per niente bella, soprattutto quando gli occhi scuri e imperscrutabili di James l’avevano guardata con intensità e lei aveva avuto l’impressione che lui potesse sentire tutti i suoi pensieri.

Lei non poteva morire.

Una volta, si ricordò con una fitta allo stomaco, aveva chiesto a Fire se loro sarebbero dovuti morire un giorno; le aveva chiesto questo perché Fire quel giorno aveva avuto un combattimento, quel giorno, e per errore aveva ucciso un bambino della sua stessa età, a quel tempo, avevano circa dieci anni – lei ne aveva sette – e le aveva chiesto: «Fire, ma noi dovremo morire un giorno, vero? Come quel bambino lì?»

Fire l’aveva guardata, calma, e le aveva stretto la meno intrecciando le dita con quelle della bambina: «Sì, Ari, noi dovremo morire, un giorno; tutti muoiono, il punto non è quando muoiono, è quello che fanno prima di morire», aveva detto.

Ari l’aveva guardata furiosa e seccata: «Io non voglio morire! Perché dobbiamo morire? Non c’è un modo per non morire?». Sì, perché a lei la morte faceva paura. Perché morire? Faceva male ed era brutto e ci doveva essere per forza un modo per evitarlo.

«No, non credo. Non mi ricordo chi, insomma… qualcuno mi ha detto che c’è solo modo per non morire: rimanere nella memoria delle persone. Ma questo non credo che sia vero: come si a far rivivere qualcuno attraverso la propria memoria? Impossibile»

Eppure, Arijane aveva immagazzinato quella risposta decisa a non dimenticarla mai: c’era un solo modo per non morire, si ripeteva, rimanere nella memoria delle persone. E non le importava quello che diceva Fire perché era troppo tardi: una nuova certezza le si era insediata nel cuore, per quanto stupida e insensata.

Chiuse gli occhi.

La vista le si era appannata per via delle lacrime. Le mancava Fire, ma allo stesso tempo si sentiva delusa e amareggiata dal sua tradimento. Il piccolo petto era scosso dai singhiozzi. Piano, si avvolse nelle sue stesse ali e rimase lì, nel suo bozzolo piumato, a piangere.

Pianse a lungo.

Se ci fosse stata Fire, sicuramente, avrebbe assunto quel suo cipiglio tutto serio e da dura che ormai Arijane conosceva a memoria,  e le avrebbe intimato di non piangere per nessun motivo.  Ma Arijane sapeva che anche se Fire le avesse ordinato bruscamente di non piangere, allo stesso tempo, dopo qualche secondo, si sarebbe poi avvicinata e le avrebbe asciugato le lacrime con il dorso della mano, dolcemente, stringendola in un abbraccio che non suonava per niente materno o dolce visto che Fire non era particolarmente espansiva, ma sarebbe stato comunque l’abbraccio di Fire e, come sempre, l’avrebbe consolata meglio di mille parole.

Dov’era Fire in quel momento?

Alla fine, lei avrebbe saputo cosa fare, cosa dire e, nonostante tutto, Arijane sapeva che avrebbe ancora seguito ciò che le chiedeva Fire, perché una parte di lei sperava ancora che non l’avesse abbandonata; una parte di lei non voleva rimanere sola proprio lì, sull’orlo del baratro.

Aveva paura.

Ora che rischiava di cadere giù e non c’erano più lei o James a salvarla, ora tutti avevano abbandonato le maschere che avevano indossato dalla sua nascita, ora, chi le avrebbe impedito di cadere giù?

 

«Te lo chiedo un’ultima volta, mostro. Che cosa sei esattamente?»

Dolore.

Caldo.

Sudore.

Paura.

Confusione.

La stanza era buia, e si riuscivano a intravedere solo due sedie al centro di essa, illuminate da una lampada scialba appesa al soffitto che, ronzando, produceva una luce intensa e molto più fastidiosa del debole neon a cui ero stata abituata fin dalla nascita.

Il ragazzo che avevo davanti mi fissava. I lineamenti del volto erano duri e quasi aggressivi, la mascella serrata e due paia di occhi scuri, neri come il carbone, inquieti e pericolosi come quelli di un animale selvatico. I capelli erano ricci del colore dell’oro. Mi ricordava un leone. Con il suo sguardo fiero, orgoglioso che riusciva a mettere paura con una sola occhiata.

Ma non a me. Mi avevano bendato la spalla, sussurrando che il proiettile non era rimasto nel mio corpo; e ora mi ritrovavo lì legata a una sedia, nella ridicola parodia di un interrogatorio.  «Ti rispondo un’ultima volta, genio, che non ne ho idea. Ho solo un nome e un numero a identificarmi. Non ho idea del mio vero nome, e figurarsi cosa sono, okay? Mi chiamo Fire, comunque»

«Non m’importa del tuo nome, o del tuo numero o quello che diavolo vuoi. Voglio sapere da dove vieni e, soprattutto, che cosa sono quelle cose che hai sulla schiena»

«Si chiamano ali, al mio paese»

«Al mio paese, le ali ce l’hanno gli uccelli, non le ragazze», ribatté lui. «Fatto sta che ormai le ho proprio viste tutte. E dimmi una cosa, canarino, voli?»

«Attento. L’ultimo che mi ha dato un soprannome è morto», lo informai duramente, continuando a fissarlo con lo stesso sguardo sprezzante che lui mi riservava; mi chiedevo come mai mi guardava con così tanto odio… che gli avevo fatto? Possibile che lì fossero così aggressivi con tutti? Che lì per loro non fossi altro che un'altra nemica, come quegli zombie?

«Per mano tua? Oh andiamo. Quanto puoi pesare? Quaranta chili? Meno? Non avresti la forza nemmeno di battermi a braccio di ferro. E nelle tue condizioni, poi. Sfidi troppo la tua fortuna, ragazzina, è la buona stella non ti salva sempre se azzardi troppo»

Sorrisi di scherno,  un sorriso così amaro che superai perfino lui. «Se esistesse una buona stella allora mi avrebbe parato il culo quando gli Addetti mi hanno fatto trasformato in quello che tu chiami mostro, che non ero neanche nata. Se esistesse una buona stella o se esistesse anche solo la semplicissima fortuna, molte persone non sarebbero dovute morire»

Feci una paura, lo guardai intensamente, infuriata, ripensando ad Ari a cui era toccato il destino peggiore. «Se la fortuna esistesse, o quello che diavolo è, allora io non sarei qui e i veri mostri, quelli che io ho visto per una vita, sarebbero morti ora. Ma non esiste. Niente»

«Hai appena dimostrato che parli troppo sapendo troppo poco, ragazzina», disse lui.

Non risposi in alcun modo, ma mi limitai a guardarlo, cercando di riversare in quell’occhiata tutto il veleno che sembrava scorrermi lungo le vene in quel momento. Come poteva fare quell’espressione? Come se avesse la sola, minima, idea di ciò che io sapevo e che lui, probabilmente, non avrebbe scoperto neanche se avesse vissuto tre volte la sua vita.

«Sei un’arma del Governo?»

 Ebbe il silenzio come risposta.

«Tu non sei di qui. Si vede. Tralasciando le ali, se fossi di qui ormai ti avremmo già sott’occhio da tempo e invece compari ora, senza che nessuno si accorga di niente e combatti contro i fusi di cervello come se fossero tuoi nemici. È un bel rompicapo e con pochi pezzi del puzzle non riusciremo a risolverlo. In fondo, le uniche istituzioni, nel mondo, sono quelle del Governo e la Resistenza. Non c’è molta scelta. O sei una di noi, o sei una di loro. A meno che non ci sia un terzo fattore…»

«Che cosa intendi per Governo?», ripresi finalmente parola.

«E’ impossibile che tu non sappia del Governo, tutti lo sanno. Se sei nel mondo – e ovviamente non sei nata ora – te ne accorgi di come vanno le cose e non credo che le altre città siano molto diverse da questa, quindi smettila di fare l’innocente»

Inarcai un sopraciglio. «E’ possibile che tu sia così stupido da non capire da dove provengo, ma sta sicuro che era in un posto in cui ricevevi ben poche notizie del mondo di fuori»

Lui fece un sorrisetto. «Non sfidarmi, ragazzina. Dammi di nuovo dello stupido e giuro che non ti faccio portare cibo per una settimana. Poco m’importa cosa vuoi sapere tu, sono io qui quello che fa domande e voglio sapere se c’è un terzo fattore»

«C’è sempre un terzo fattore. Probabilmente è l’unico che conosco io. O almeno ciò che ho capito vedendo il quadro completo della situazione. Non posso dirti niente, però, se tu non mi dici ciò che sai tu. Tu, genio, non riusciresti a fare il puzzle»

Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma probabilmente ci fu qualcosa nel mio sguardo che gli fece cambiare idea, perché si limitò a snocciolare una serie d’informazioni dopo l’altra: «Il Governo è una dittatura, ci controlla tutti. Controlla ogni città del mondo, quasi, ormai e in tutte regna l’assoluta proibizioni di qualsiasi cosa senza il permesso di esso»

Wow, sembrava che avesse imparato quel discorso a memoria. Quindi, quella città cos’era esattamente…? «Nonostante, tutto esiste una fazione opposta: noi, i Ribelli al Governo. Le nostre città sono state lasciate in pace alla fine dal Governo dopo che ci siamo infettati del morbo di Campbell. Hai visto quelle persone lì, quella specie di polizia, sono delle persone infette: sono tipo zombie che perdono ogni facoltà mentale e logica. Devono mangiare carne in continuazione, sennò muoiono Il Governo li usa come armi»

«E poi, esiste un terzo fattore, mi dici tu. Il punto è stabilire con chi sta»

Sorrisi amaramente, ora capivo tutto. «Sta con il Governo. Lo chiamano L’Istituzione. E’ un Istituto di Ricerca che ha base sotto terra da quello che so. Lì fanno degli esperimenti, creano armi, discutono di cose importanti, lì è il centro di tutto… credo»

Mi vennero improvvisamente in mente i Cacciatori dell’Istituto: senza logica, senza pietà, capaci solo di eseguire gli ordini. E poi mi venne in mente un’altra cosa: dove finivano le carcasse degli esperimenti morti negli scontri? Rabbrividii. L’immagine raccapricciante di un cacciatore che addentava al collo un esperimento morto mi attraversò la mente.

«Che tipo di esperimenti?», chiese il ragazzo interrompendo il filo dei miei pensieri.

«Cosa?», dissi ripensando all’Istituto. I ricordi mi passavano davanti a gli occhi come flashback troppo veloci per essere messi a fuoco.

«All’Istituto, che tipo di esperimenti fanno?», insistette lui. Mi squadrò sospettosamente da capo a piedi, soffermando lo sguardo sulle mie ali color ruggine.

Gli feci un bel sorriso, che sarebbe risultato amichevole se non lo stessi apertamente prendendo in giro, come se mi stessi divertendo in quella situazione. Lo sguardo che gli rivolsi era freddo come il ghiaccio, quando risposti: «Cose tipo me, hai presente?»

«Cose orribili, insomma», replicò lui e mi fece un sorrisetto di superiorità che sentii di odiare assolutamente con tutto il mio cuore.

Gli lanciai uno sguardo sprezzante. «Non siamo fatti per essere belli, siamo fatti per saper uccidere».

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice

Si, lo so. Sono in ritardo e da questo capito non si capisce un accidente, di nuovo! Praticamente stiamo qui a unire i pezzi del puzzle che sembrano scontati... ma non lo sono per niente xD Aspettate e vedrete ò.ò Mi sono presa una cotta per il biondo dell'interrogatorio, anche se è decisamente troppo irritante, ma almeno non ha la una doppia personalità come James! Oddio, perché nella mia testa tutti i personaggi maschi sono tremendamente belli? T.T Questo complica la situazione a me e anche a Fire, diciamolo! xD 

 

Risposte ai Commenti

A Sweetophelia: Tu hai decisamente inquadrato la situazione per ora. Ma... alcune cose sono ancora da vedere. Io e il resto dei miei amici ci chiediamo cosa Ari sia diventata °_° Si, credo che tocchi a James dircelo, ma lo sapete com'è James... cioè, non contare mai su di lui per avere informazioni chiare xD Ehi, spero comunque che questo capitolo ti sia piaciuto. Comunque, Fire deve avere delle brutte situazioni, ormai è così che le va la vita e credo che sia sia abituata alla grande O.O Cioè, la cosa che mi ha fatto ridere è stata che non aveva imparato a volare neanche da un giorno che già le hanno sparato alla spalla... cioè, diciamocelo, questa è jella xD

 A Lewaras: Non credo che Fire vedrà nella mente delle persone... spero di no! Cioè, anche lei no. Non è che possono essere tutti telepatici, eh! ò.ò (Calippo? XD Oddio, calippo me lo devo scrivere xD) NY disabitata... una specie, diciamo che non ha abitanti molto normali a parte i ribelli. Aaaah, e poi per la questioncina Governo, Resistenza, Istituto... lo so che è tutto molto... ehm... strano O.O Vedrò di far risolvere le cose per meglio, o almeno, spero. 

Una cosa delle cose che so sicuramente è che Arijane svilupperà idee pericolose, appena scoprirà cos'è diventata. Un pò per tutti. Ma soprattutto, voglio far vedere l'Istituto da fuori, il punto è come. Bè, vedrò quello che riesco a fare. Spero che il capitolo ti sia piaciuto =)

 

Bye Bye

 

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Capitolo 9
*** Danza e morte. Oooh, andiamo bene! ***


 

 

Arijane fissava un ragazzino dall’aria emaciata. Dormiva. E lei lo fissava curiosamente. Era notte e lei si era stancata di passare le notti a piangere e visto che comunque non riusciva a dormire e nessuno sembrava dirle niente, Ari passava le nottate vagando per l’Istituto.

Ora, riusciva benissimo a controllare il suo nuovo potere, quello dell’intangibilità. Passava attraverso muri, piani, barriere e porte come se niente fosse.

Per una settimana, di notte, aveva vagato lungo i piani superiori, in modo da poter tornare velocemente alla sua camera se l’avesse scoperta, ma una volta acquistata una maggiore sicurezza, Ari aveva scoperto che i piani inferiori erano i più sicuri e più interessanti per le sue passeggiate.

Non dormiva da giorni, eppure non era per niente stanca. Muoversi l’aiutava a non pensare, mentre solo chiudere gli occhi sembrava spossarla immensamente; i ricordi di Fire, le sue piccole paure, i dubbi, i rumori e le voci dei corridoi la terrorizzavano.

E così eccola a camminare in una stanza mai vista. Era tetra, e non c’era nessun rumore. Non c’erano computer, né attrezzature e Arijane sospettava che in realtà non fosse altro che una gabbia per quel bambino spaparanzato a terra, a dormire.

Arijane percorse pochi passi e si accucciò davanti a lui. Era magro, come tutti là dentro non mangiava sicuramente a sazietà, e della sua stessa altezza. Aveva i capelli di un bel colore castano, con riflessi scuri e la carnagione scura di aveva passato davvero un po’ di tempo nel mondo di fuori. Ai lati del naso aveva qualche lentiggine, e sul suo viso c’erano parecchi lividi.

Arijane si sedette accanto a lui, e raccolse le gambe al petto. All’Istituto non aveva mai visto bambini della sua età se non per brevi periodi di tempo, e solo per combattimenti. I grandi le avevano sempre fatto paura, e i più piccoli erano timidi e i suoi coetanei la vedevano come un nemico, magari quella che, al prossimo allenamento, gli avrebbe eliminati una volta per tutte.

Così, era curiosa in un certo senso.

«Ehi! Chi diavolo sei?». La voce del ragazzino la fece sobbalzare. Scattò all’indietro, per puro istinto. Il ragazzino corrugò le sopraciglia, mentre la bocca si spalancava in una smorfia. Calmandosi, Arijane si accorse di aver dischiuso le ali e si affrettò a farle scomparire.

«Figo! Che forte! Sei uno dei Jolly?», esclamò il ragazzino.

Arijane non aveva la minima idea di che cosa stesse dicendo, quindi si limitò a un laconico. «No»

«Ohio». Il ragazzo si portò una mano alla testa. «Ma dove sono?»

Arijane lo guardò storto. «All’Istituto, no?»

«E cos’è? Hai visto mia sorella April? Ero con lei quando ci hanno attaccati i soldati. Ah. Mi fa male la testa. Ma tu chi sei? Dove sono i Jolly? Che cosa è successo?».

«Mi chiamo Arijane».

«Zackary Larson».

Arijane sgranò gli occhi. «Come?»

«Zackary Larson». Poi, rendendosi conto che il nome era praticamente impronunciabile, aggiunse con un sorriso imbarazzato: «Basta semplicemente Zack».

«Da quando sei qui?»

«Non lo so. E tu? Quando ti hanno catturato?»

«Catturato? Io sono qui da sempre»

«Ah. Io credo che abbiano preso April. Sai come si esce di qui?»

«No», mentì Ari, «Ma posso spiegarti dove sei»

E così glielo spiegò. Gli parlò dei Cacciatori, dei soldati, degli Addetti. Gli disse che cosa facevano lì, degli esperimenti e degli allenamenti e di quando i suoi coetanei gliele davano di santa ragione agli allenamenti – lì Zack aveva commentato che non si  picchiavano le ragazze e le assicurò che se fosse successo di nuovo, l’avrebbe difesa e Ari disse che non c’era bisogno perché lei picchiava bene quanto i ragazzi – e poi gli raccontò persino dei suoi poteri, ma tralasciò il fatto di Fire e James.

Lui si entusiasmò molto. Non sembrava affranto, e nonostante tutto era convinto che ci dovesse essere un modo per uscire di lì e che bisognava solo trovare il momento giusto. Così, visto che nessuno dei due aveva sonno ed Ari gli aveva chiesto cosa c’era di fuori, lui raccontò di suo fratello e sua sorella grandi e di come le città dopo il Virus di Campbell fossero quasi deserte e delle battaglie con i bambini e dei giochi, e delle paure quando i soldati arrivavano in città e tutti dovevano scappare.

Arijane non aveva mai sentito parlare di quei giochi: nascondino, rialzo, acchiappatella, e un due tre stella. Zack disse che nessuno di quei giochi si potevano fare in quel posto visto che non c’era dove nascondersi o scappare e che ne avrebbero dovuto inventare di nuovi.

Come si inventa un gioco?, si chiese Arijane. Non aveva mai giocato a niente in vita sua.

«E di sera ci sono i balli! Mia sorella balla sempre con il suo ragazzo, ma certe volte anche con me. E io ballo con la mia fidanzata. Si balla tutta la notte, una volta facevano anche i fuochi d’artificio, ma ora è già tanto se ce la musica. E’ divertente perché i grandi non possono venire e noi facciamo quello che vogliamo e… beh, questo prima che lanciassero le altre bombe»

Arijane senti una stretta allo stomaco davvero fastidiosa. «Cos’è una fidanzata?»

Zack scrollò le spalle. «Quella con cui ti dai i baci, e ti tieni per mano e cose del genere. Insomma, è una che ti piace; ma certe volte rompono. Di giorno è meglio giocare e quelle vogliono sempre parlare di sentimenti,e  amore, e bla bla bla… dopo un po’ sono noiose!»

«Ah. E chi è la tua … cos’era? Fida-non-mi-ricordo-il-resto?»

«Fi-dan-za-ta. Bé, si chiama Susanne. Ha i capelli biondi come mi piacciono  a me, ma parla troppo e non gioca quasi mai. La chiamiamo Sue. E tu non ce l’hai il fidanzato?»

«No»

«Ma ti piace qualcuno?»

«No»

«Eppure sei carina»

«Ehm, grazie» Più di Sue?, si chiese Arijane. Scosse la testa. Ma che pensava?!

«Sai ballare?»

«Non credo.»

«Tutti sanno ballare», ribatté cocciuto Zack e fece un sorrisetto. Erano seduti uno di fronte all’altra, due mondi completamente diversi messi a confronto. Niente delle loro abitudine si somigliava anche solo vagamente, persino il modo di muoversi.

Zack si muoveva in modo veloce, gesticolava animatamente e nonostante anche Arijane parlasse molto, i suoi modi erano più incerti, più freddi, più controllati. «Vuoi provare? Te lo insegno io», disse all’improvviso Zack scrutandola con gli occhi verdi.

«Co-cosa? Mi vuoi insegnare a ballare?!»

«Certo, tutte le ragazze sanno ballare»

«Ma … a che serve?»

«Boh, così. Io so solo che le ragazze lo fanno… per le festicciole quando avrai un fidanzato, no?» Zack le fece l’occhiolino, si alzò in piedi e la tirò per una mano e Ari sentii le guance colorarsi.  «La tua mano va qui sulla mia spalla, e la mia sul tuo fianco e…ah!»

Zack aveva sfiorato un’ala di Arijane. Ari sobbalzò, imbarazzata le ritrasse. Non si era mai dovuta vergognare delle sue ali, ma fissando la schiena piatta di Zack si sentii incredibilmente inadeguata. Le spalancò ulteriormente in modo da far vedere al ragazzo che cosa aveva sfiorato e Zack le fissò ancora una volta, come se prima non le avesse viste bene e stesse cercando di capire cosa fosse.

«Ali? Sono vere? Posso… toccarle?»

«No»

«Ah, scusa. Quindi, puoi volare?»

«Tecnicamente dovrei saperlo fare, ma non ho mai provato»

«E perché?»

«Beh, non sono mai stata fuori di qui. E il cielo… beh, non l’ho mai visto. Com’è?»

«Blu scuro. Diventa più chiaro di giorno, ma di notte è quasi nero.»

«Mi piacerebbe vederlo»

«Un giorno lo vedrai. Quando uscirò da qui, ti porterò con me e ti farò conoscere tutti i miei amici. Così, magari ci sarà una festa e potrai ballare»

«Oh, certo. Come no»

«Non mi credi?»

Arijane rise piano. «No, per niente. Non mi faccio fregare due volte di seguito». Si allontanò da Zack e d’un tratto si rese conto che non aveva importanza imparare a ballare perché lì la sua vita era segnata. Non c’era niente che le servisse, niente per cui valeva la pena respirare.

Una campana suonò varie volte. Arijane sospirò e soffocò un grido. «La campanella delle sette! Deve andare!», disse. E corse via, attraverso la porta, prima di ricevere anche solo una qualsiasi risposta. «Ciao, Zack!»

Quando si avventurò verso la sua stanza, Arijane si rese conto che era passato molto più tempo del solito. Era quasi l’alba. Chissà cosa sarebbe successo a Zack. Si chiese se l’indomani sera, l’avrebbe trovato lì. L’avrebbero ucciso? Forse.  Le sarebbe dispiaciuto molto: nonostante tutto, le piaceva l’idea d’imparare a ballare.

 

 

Il dubbio? Credo che ci sia solo qualcosa di peggiore: l’attesa. Erano passate esattamente due settimane da quando il biondo mi aveva interrogato e niente era cambiato. Mi trovavo nella stessa stanza di prima, legata saldamente a una sedia e con polsi e caviglie ammanettate.

I giorni si trascinavano lenti, scanditi dal mio respiro lento mentre inspiravo l’aria pesante e dolciastra. La stanza era afosa, calda, e chiusa. La claustrofobia era come un secondo  proiettile arpionavo alle mie viscere, che mi chiudeva lo stomaco.

Il silenzio si ruppe quando passi familiari attraversarono il corridoio, fermandosi dietro la mia porta.

La spalla era ormai continuamente guarita, ma ogni giorno Doc mi faceva visita, rivolgendomi un sorriso gentile che sospettavo nascondesse una voglia di studiarmi, farmi a pezzi, o fare le solite cose che volevano fare gli scienziati all’Istituto.

Ovviamente Doc non era solo, ogni giorni con lui c’era il biondo. Nonostante il viso fosse ripulito da quella maschera di colori scuri che portava in guerra, una nuova maschera fatto d’odio sembrava essere rivolta solo a me, con un espressione accigliata mentre osservava me e Doc.

Sobbalzai, quando la porta si spalancò. C’era troppa luce per tutto che tempo di buio e si girai la testa di lato, irrigidendomi e chiudendo forte gli occhi mentre la mia bocca si dischiudeva in una smorfia di dolore. Doc si affrettò a richiudere la porta.

Era un tipetto basso e tozzo, con i capelli rosso-biondi e molte lentiggini. Aveva un cipiglio cordiale, e sembrava non spazientire neanche quando, rivolgendomi qualche domanda, gli arrivava una risposta volgare o semplicemente un mugugno.

«Buon giorno», mi salutò Doc, poi si girò a guardare il biondo con uno sguardo accigliato e fece un cenno verso di me. Il biondo sbottò qualcosa e fece un cenno veloce con la testa, che assomigliava più a un modo per mandarmi a quel paese che per salutarmi.

Non ricevettero risposta.

«Come va?», continuò Doc in tono gioviale. Poi accorgendosi della domanda stupida da rivolgere a una tizia malconcia e piena di lividi completamente legata a una sedia e al buio da settimane, si affrettò a correggersi: «Come va la spalla? Dolore?»

«Oh, va benissimo Doc!», sibilai fra i denti, «Scherzi? Assolutamente grandiosa, mai sentita meglio! In effetti, stare qui è il sogno della mia vita, grazie». Scoprii i denti in un sorriso di scherno, acidamente, rivolto perlopiù al biondo che ricambiava apertamente le frecciatine.

Doc si parò davanti a me, e io sussultai, e mi trattenni dal ringhiare.

Mentre mi toglieva la bendatura logora dalla spalla per controllare i punti, fremevo di una rabbia illogica. Era sbalordito da quanto le mie ferite si erano rimarginate velocemente. Tanto che dopo qualche giorno avevo solo segni rosa o graffietti reduci di ferite impressionanti.

Il viso di Doc era fin troppo simile a quello degli Addetti, e il solo pensiero mi riempiva di rabbia e frustrazione. Ero volata via dal mio incubo solo per precipitare in un inferno forse ancora più selvaggio e complesso. Chiusi gli occhi e strinsi i pugni.

«Hai finito?», chiese la voce profonda del biondo.

Doc non rispose e continuò a osservare la cicatrice. Non capivo che stesse facendo. Non m’importava. Ora studiava le mie ali, e al suo tocco m’irrigidii, infastidita. «Deve uscire. Fuori. All’aperto», disse a un certo punto Doc con una voce strana, autoritaria.

«Cosa?! Non puoi farla uscire! Ma l’hai vista?», sbottò il biondo.

Aprii gli occhi, e incrociai lo sguardo di Doc. I suoi occhi sembravano velati di compassione. Non capivo. Doc sfiorò qualche punto dietro la mia schiena, e io spostai leggermente le ali. Il biondo si avvicinò velocemente, e Doc gli indicò il mio viso, il collo, le spalle.

«Guarda. Hai presente Clary? E’ uguale»

Rimasi in silenzio,  intenta ad ascoltare ciò che dicevano. Il biondo mi fissava in silenzio, e Doc continuo a parlare spedito. Le sue parole sembrano confuse. Chiusi nuovamente gli occhi, per una volta ero esausta e continuare a dibattersi non aveva senso.

Stare in posti chiusi mi faceva andare nel panico. Sentivo l’aria mancare, e mi sforzai nuovamente di respirare l’aria pesante e dolciastra, quasi assaporandola. Sentì confusamente le ultime parole di Doc. «Morirà. Prima di quello che avevamo previsto»

Un sospiro seccato. «Sarebbe meglio»

Ancora una volta, mi balenò in mente il ricordo dell’ultimo esperimento a cui gli Addetti mi avevano sottoposto e che, per ora, non aveva mostrato nessuna conseguenza. Cosa mi stava succedendo?

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice

Questo capitolo è dedicato alla piccola Arijane. Ce ne saranno molti altri perché vi assicuro che la sua storia non sarà facile, come non lo è stata quella di Fire. So che ho trascurato questa fic, ma state tranquilli che non lo abbandonata e per tutti i ritardi che posso fare cercherò comunque di finirla: non mi piace abbandonare le cose così e sono molto affezionata ai miei personaggi. Ancora non conosciamo ancora il nome del biondo e Zack sarà una assoluta sorpresa per tutti voi.

Zack non lo ancora inquadrato, ma mi è piaciuto da subito. Non so se questo capitolo vi è piaciuto, ma scriverlo mi è piaciuto molto. E dovrete vedere quando Ari imparerà a ballare xD Spero che ci sarete ancora a commentare, perché sentire le vostre recensioni è un piacere per me. Come sempre, niente anticipazioni! :P

 

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sarachan93Il tipo dell'interrogatorio è davvero figo sì :Q___ XD Lo vedrai spesso d'ora in poi. E' il contrario di James, praticamente, a parte che tutti e due sono tremendamente fighi u.u James è più malvagio xD Comunque sono felice che la storia ti sia piaciuta. Sono proprio curiosa di vedere come scrivi tu, quando pubblicherai qualcosa? u.u

sweetopheliaE dovrai aspettare a lungo e mettere insieme i pezzi perché ora nel prossimo capitolo aggiungerò qualche rompicapo. Dico che la storia è incomprensibile perché ancora alcuni particolari la rendono tale, ma sono felice di vedere che almeno tu ci capisci qualcosa xD James non è comparso neanche stavolta... io sono la prima che vorrei picchiarlo per quello che farò nei prossimi capitoli xD Cmq, ti piace il tizio biondo? E Zack? Non è carinissimo? *-* E comunque sì, Ari passerà davvero brutti momenti, ma li supererà. Nonostante tutto, come dice sempre lei, ha preso da Fire xD

 @Valerie_LaichettesPensavi che non l'avrei finita? E invece no, eccomi qui con nuovo capitolo e spero di continuare al più presto u.u Sono felice che la storia ti piaccia e capisco la tua antipatia per James. Lui in effetti è un pò strano, ma ti assicuro che capirai in seguito. Zack e Ari direi che sono i miei personaggi preferiti, e mi dispiace dirti che ci vorrà molto prima che Fire e Ari si rivedano davvero. Fire rivederà Ari molte volte, ma decisamente Ari non è più la stessa di prima, e Fire lo scoprirà in un modo molto triste. Si vedranno, ma l'espressione che uso io è che sono divise da una parete di vetro: si vedono, ma non si toccano mai. Camminano parallele, lungo gli eventi e gli ostacoli. Ti piace questo capitolo? Spero che commenterai ancora. Ps. Trovo la tua storia Princess of Pain, davvero molto molto bella e capace di dare emozioni (sono stata perfino un pò gelosa del tuo modo di scrivere, quindi pensa te xD). Devo trovare il tempo di commentarla, ma volevo dirti che scrivi davvero bene u_u

@Berenike: Contentissima che ti piaccia *-* Sai, credo che sia una delle mie storie più riuscite e spero di riuscire a mandarla bene avanti. Sinceramente la tua storia mi ha incuriosita molto, quindi vedi di aggiornare presto. Il mio modo di scrivere presenta un sacco d'imperfezioni invece e la mia più grande paura è quella di annoiare. Quali sono i tuoi personaggi preferiti? Zack ti piace? *-* Il biondo non è figo? xD Nel prossimo capitolo mi devi assolutamente dire quali sono i tuoi personaggi preferiti u.u

 

Byeeee

Angel

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Capitolo 10
*** Ho un'idea, ma non sarà piacevole. ***


 

 

Ho mai accennato al fatto che quando sei un mostro alato non c’è nessun manuale per come comportarsi? Credo proprio di no. Beh, visto il mondo di fuori era quasi peggio del posto da cui ero venuta e la situazione attuale non era delle migliori, credo che a questo punto sarei già saltata al capitolo: che cacchio faccio quando sono completamente nella merda?

Erano passate poche ore da quando Doc aveva visto qualcosa di sbagliato in me, ma nessuno aveva voluto dire cosa stava succedendo. Si erano semplicemente volatilizzati tutti. C’è qualcosa che gocciola. I secondi erano scanditi da una goccia che si abbatteva a terra, da qualche parte.

Mi ero rimessa del tutto. Le ali si muovevano  bene, anche se ero leggermente indolenzita e i miei sensi erano affinati e attenti, come lo erano sempre stati. Riuscivo a cogliere qualche voce alle volte, e perfino una goccia che cadeva a metri e metri di distanza.

Il tempo era una minaccia.

Quanto tempo sarebbe passato prima che la tempesta di cui aveva parlato James finisse e i Cacciatori tornassero a cercarmi? Poco, pochissimo tempo e molti problemi. Avevo voglia di piangere per la frustrazione e ogni fibra del mio corpo sembrava attorcigliata in un nodo.

Mi alzai in piedi e mi sgranchii per bene la scapole, scrollando le ali. Chiusi gli occhi e rividi i momenti passati la sera prima, nitidi. Avevo l’impressione di essere lo spettatore del film che era la mia vita: non potevo agire per cambiare le cose.

Doc aveva avuto la generosità di liberarmi dalla sedia e io gli avevo fatto un sorriso sincero, poi gli avevo piantato gli occhi in viso. «Mi staresti quasi simpatico», gli avevo detto. Gli leggevo in viso che si aspettava che un ringraziamento; peccato che ringraziare non fosse da me.

Come dire, quando cresci in un laboratorio non ti insegnano l’educazione. Errore numero uno, Doc: mai fidarsi. Questo era per quello sguardo tutto dispiaciuto e del tutto falso; se lo fosse stato davvero, dispiaciuto, mi avrebbe lasciato libera di andarmene.

E invece no.

Mi fissava come in una soap opera. Bene, peggio per lui. In un secondo scattai in piedi e lui emise un lamento strozzato, senza fiato quando la mia ginocchiata lo colpì in pieno stomaco. Ahi! Dovevo aver fatto parecchio male, pensai fissandolo mentre barcollava.

Senza esitare, lo avevo afferrato e buttato di lato, sorpassandolo. «Dicevo: mi staresti quasi simpatico se solo non mi avessi tenuta legata a una sedia per due settimane e non assomigliassi a uno scienziato psicopatico!» aggiunsi mentre mi fiondavo sulla porta, velocissimamente.

Purtroppo andai a ritrovarmi sul petto la canna di un fucile non appena aprii la porta e lo sguardo corrucciato del biondo, Leon, mi trapassò. «Vai da qualche parte?» chiese con un sorriso da troll in viso. Brutto ebete che arriva sempre nei momenti sbagliati!

«Sì, ordino una pizza: la vuoi coi peperoni?» replicai fissandolo in cagnesco.

«Un solo movimento e ti sparo» sibilò lui in risposta.

«Devo dedurre che non vuoi la pizza» ringhiai con un sorriso sardonico in viso.

Era molto più alto di me, ma state pur sicuri che non sembravo per niente indifesa. Lo fissavo molto più in cagnesco di quando avrebbe potuto fare lui. Ero molto più forte, veloce, intelligente di lui. Potevo batterlo … e avevo un cavolo di fucile piantato nello stomaco!

Niente da fare.  Tornai alla realtà: era passato un intero giorno. Dovevo pensare a cosa avrei fatto ora, elaborare un piano o qualcosa per andarmene di lì una volta per tutte.

Sentii  chiaramente dei passi lungo il corridoio e tesi i muscoli. Poi una semplice idea si fece largo nella mia mente. La stanza era buia e grande, per quanto soffocante. Con colpo d’ali riuscii ad arrampicarmi in uno degli angoli della parete, il più buio, incastrandomi fra il muro e il soffitto.

Era impossibile vedermi lì con quel buio.

Era buffo. L’ingegneria genetica mi aveva cacciato in quei guai, e la stessa genetica mi dava le capacità che servivano per superare gli ostacoli; ciò non voleva dire che comunque non li odiassi tutti e non desiderassi per tutti gli Addetti una morte certa.

Tenevo saldamente i piedi sulla parete e le mani sul soffitto, in modo da creare una continua tensione, come avevo visto fare al ragazzo-serpente. Immaginai le espressioni di Leon, Doc e il nuovo uomo, Nathan, quando gli sarei piombata addosso dal nulla. Ma, a parte la vita d'inferno e il continuo rischio di morire e il dolore eccetera eccetera, volare era una vera figata.

Anche riuscendo a disarmarli, non avevo molte probabilità di scappare, anzi, forse, non avevo nessuna. Stupidi. Loro e pure io. Il mio piano era stupido e fallimentare, ma magari per una volta avrei avuto fortuna. L’impotenza era insopportabile: dovevo difendermi.

Qualche volta, mi farò seriamente del male per certe idee geniali che mi vengono.  Sapevo di aver stampato in viso quella mia adorabile espressione da ho-un-idea-ma- non-sarà-piacevole. Gli occhi ridotti a due fessure, e un ghigno alquanto inquietante in viso.

Appunto, qualche volta mi sarei fatta male.

Puntai gli occhi sulla porta, pronta a scattare. Ma non questa volta.

Ebbi un secondo di tempo, poi la porta si spalancò e la luce filtrò. Smorzai il mio respiro, rallentando i battiti del cuore e rilassando un arto alla volta. Il silenzio era assoluto. Doc, e Leon – avevo scoperto il nome del biondo, alla fine – entrarono nella stanza. Con loro, un altro uomo di nome Nathan. Doc aveva in mano una siringa, e Leon e Nathan tennero le armi davanti a loro, sospettosi.

La stanza vuota doveva sembrare minacciosa.

Fissai Doc che teneva la siringa contenente uno strano liquido nerastro che riconobbi subito dal colore; rabbrividii: si chiamava Zenox ed era un farmaco che in piccole dosi confondeva incredibilmente,  mentre in dosi maggiori riusciva a uccidere un qualsiasi soggetto animale.

Lo usavano gli Addetti per poterci sottoporre ad esperimenti mentre eravamo svegli, sebbene del tutto annebbiati e incuranti del dolore. Odiavo il Zenox. Per me la morte aveva il gusto di quel farmaco; non era amaro: era dolce, e appiccicoso.

Ti veniva tanto sonno e il mondo diventava improvvisamente una massa informe di colori e parole che echeggiavano in testa, senza che tu riuscissi a dare un nesso preciso a ciò che ti circondava. La morte era come lo Zenox: avevi solo voglia di andare via.  

Di fermarti, stenderti e smettere di respirare.

Fissai con odio la siringa e feci una smorfia disgustata quando l’odore dolciastro giunse fino me, inondandomi i polmoni  molto più di quanto erano riusciti a fare lo schifoso odore di muffa e stantio che impregnava l’intera stanza. Aprii la bocca, prendendo piccoli respiri.

Mi volevano uccidere? Una siringa piena sarebbe bastato per dire bye bye al mondo per sempre? Non ne avevo idea. Vi chiedete perché non lo sappia? Beh, come dire, non è che mentre mi ficcavano un ago nelle vene pensavo molto a quanto liquido fosse, ma più che altro a cosa fosse.

Fissai il liquido, atterrita, reprimendo i frammenti e i ricordi spaventosi che mi affioravano in mente.

Era passato nemmeno un secondo. Osservai gli uomini meticolosamente, come un predatore che scruta le sue vittime in attesa del momento giusto per scattare; Leon e Nathan puntavano i fucili nel buio, senza vedermi veramente, né illuminarmi con i fasci di luce delle loro torce. E io aspettavo.

Dovevano vedermi. Dovevano farsela sotto in quel secondo e pensare che sarebbero morti. Sì, lo so cosa pensate: Fire la sadica.  Non so cosa avreste fatto voi, ma io sono piuttosto vendicativa. Mi avevano tenuto legata a una sedia per due settimane si o no?

Ora si pagavano i conti!

«Ma dove diavolo è?» ruggì Nathan, ma riuscii a distinguere una punta di terrore nella sua voce. Avevano paura di me, e per una volta io non avevo motivo di andare nel panico. Anzi, potevo batterli e uscire fuori di lì. Sarebbe stato un gioco da ragazzi. Sì, ero quasi riuscita a convincermi.

Quando il fascio di luce mi colpii, i miei occhi brillarono nel buio. Fu allora che il primo sparo squarciò il silenzio accompagnato da un grido, e il proiettile arrivò quasi a sfiorarmi, ma io ero troppo veloce e troppo determinata per loro e tutti i miei sensi erano tornati apposto.

Con un balzo aggraziato, atterrai sui talloni,  di fronte a Leon.

«Te l’avevo detto che saresti stato il primo a essere presto a calci» canticchiai, inclinando leggermente la testa in modo adorabile.  Nathan, dietro di me, puntò il fucile e premette il grilletto, ma io avevo già sferrato un calcio circolare a Leon che lo buttò di lato con macabro crack. Chissà quante costole gli avevo rotto, ma, nel migliore dei casi, due.

Come vi avevo già accennato, sono molto più forte di qualsiasi semplice umano. Uno dei vantaggi di essere una creazione genetica era che il calcio che avrebbe lasciato un altro esperimento del mio livello senza fiato, ma niente di più, ero sicura avesse rotto una o più costole a Leon. Quest’ultimo si accasciò a terra, gemendo e tenendosi le mani strette al petto con forza, mollando il fucile a cui diedi un calcio, per allontanarlo dal ragazzo.

Sentì uno sparo, nel buio. La torcia era caduta lontano, e vidi Doc schiacciato in un angolo e completamente terrorizzato mentre teneva in mano il fucile puntato verso di me, maldestramente, e, in effetti, da come lo teneva sospettavo che non ne avesse mai realmente maneggiato uno. Uhm, noiosi scienziati che non sanno fare niente di pratico!

Mi avvicinai velocemente e Doc sparò un altro colpo; schivai e attaccai con un pugno, sentendo il naso spezzarsi sotto il mio colpo e la testa scattare di lato, in quello stesso momento gli tirai una violenta ginocchiata nello stomaco e lui scivolò seduto lungo il muro, fuori combattimento. Dio, gli umani erano così fragili! Nathan si buttò su di me, atterrandomi e mi caricò un pugno in faccia, sul naso.

Lo fissai trucemente, con una smorfia dura in viso. «Brutta mossa».

Mi aveva appena rotto il naso, ma io non battevo ciglio. Ero abituata al dolore; in un combattimento era ovvio aspettarsi dolore

Nathan non ebbe il tempo di chiedermi che diavolo intendessi dire che la situazione si trovò capovolta. In uno slancio di originalità, gli colpii le orecchie con i palmi aperti delle mani, spaccandogli i timpani, poi mi rialzai e pestai un piede sul suo petto, prima di tirargli un calcio sul fianco. Lui socchiuse gli occhi, incapace anche di gemere dal dolore.

Nella mia testa, stavo facendo un ridicolo balletto della vittoria, nella realtà mi fiondavo verso la porta, lanciandomi lungo i corridoi fiocamente illuminati di quell’orrendo posto, senza la minima idea di dove andare. Libertà, libertà, libertà!

Dovetti tornare indietro due secondi dopo, chiudendo la porta alle mie spalle e sentendo la serratura automatica scattare.

O mio Dio, da quel momento avrei adorato le serrature automatiche!

Beh, no, forse no. Però, mi stavano già più simpatiche. Comunque, avevo circa, ehm, mezz’ora prima che quelli lì dentro rinvenissero e trovassero il modo di uscire.

Incespicai, correndo più velocemente che potevo. Avevo un grande senso dell’orientamento che consisteva nel percorrere i corridoi con l’assurda convinzione che prima o poi avrei per forza dovuto trovare un uscita. Correvo così veloce che i miei piedi a malapena sfioravano il pavimento.

E se mi avessero scoperto e fermato che avrei fatto? Aumentai il passo, terrorizzata dall’idea che dai tunnel potessero spuntare persone e soldati. Potevo affrontare due uomini armati e cavarmela alla grande, e potevo affrontarne anche a dozzine disarmati.

Ma cos’avrei fatto con dozzine di uomini armati?

Corri,  m’imposi. E così feci. I mie piedi magicamente andarono più veloce, e i muscoli si tesero mentre facevo aderire le ali alla schiena. Scappare era nuovamente il mio unico obiettivo. Non mi avrebbero ucciso tanto facilmente, oh no, non me.

Svoltai a sinistra, e poi di nuovo a sinistra e percorsi un lungo corridoio buio. Fissavo il pavimento, analizzando le orme impresse nella polvere. Sorrisi. Le orme sul pavimento sporco erano recenti e quindi percorrendole a ritroso sarei dovuta sbucare davanti all’uscita, o qualcosa del genere.

Svoltai varie volte, a destra e a sinistra, trovandomi di fronte a corridoi e vie che sembravano infinite, ma d’un tratto il pavimento si fece pulito e l’odore di muffa e stantio che impregnava l’aria scemò. Inspirai profondamente, decisa a liberarmi i polmoni dall’odore dolciastro dello Zenox.

Quando una porta metallica mi sbarrò la strada, fissai l’ostacolo con sospetto. Saltellai da un piede all’altro, nervosamente, chiedendomi cosa fare. Era semplicemente una porta in metallo piazzata alla fine di un unico corridoio. E non si apriva.

Analizzai tutto alla ricerca di piccole telecamere o posti dove inserire password. Alla fine, feci un passo avanti, decisa a fare quello che più ritenevo giusto: prendere a pugni quella dannata porta. Feci un micro passo avanti, e un piccolo schermo prima invisibile si illuminò al lato della porta, nel muro.

Ah-ah! Trovato!

Stavo per avvicinarmi, decisa a fare qualcosa, ma il dolore mi colse alla sprovvista. Mi accasciai a terra, stringendomi la testa fra le mani. Il dolore alla testa minacciava di uccidermi, e io mi rannicchiai più forte stringendomi le ali intorno al corpo.

Esattamente com’era successo due settimane prima, il primo giorno a New York.

Frammenti, schemi, equazioni, gridi e parole mi attraversarono il cervello. Le labbra e la gola sembravano fatti carta vetrata, e anche urlare mi avrebbe distrutto. Non potevo muovermi: volevo solo che quel dannato dolore finisse e l’incoscienza mi portasse via.

Mi morsi il labbro, sentendo il sapore del sangue in bocca. Mi strinsi convulsamente, rannicchiandomi ancora con la testa fra le gambe.  D’un tratto, non importava se mi avrebbero trovato o meno: volevo solo morire, nella speranza che il dolore finisse.

Un conato di vomito mi salii in gola e per qualche secondo fui seriamente convinta che avrei rimesso lì, come se potessi semplicemente vomitare quel dolore e buttarlo via. Lacrime brucianti lasciarono scie tiepide sulle mie guance, senza che io riuscissi a trattenerle in qualche modo.

Mi tenevo strette le mani sulla pancia, cercando di resistere.

«Basta» pregai in un sussurro flebile. E il dolore aumentò, per quella parola che sembrò echeggiarmi in mente. Avevo l’impressione che una granata mi fosse esplosa in testa  e il mio cervello si fosse spappolato sulle pareti della mia scatola cranica, ridotto in poltiglia. Cosa c'era che non andava in me?

Quanto ci avrei messo a morire?

Non so quanti minuti ci vollero e quanto restai lì, se furono secondi o anche intere ore, so solo che il dolore se ne andò via, scemò piano lasciando il posto a leggero mal di testa. Il mio respiro restò tremante e sudavo freddo, ma piano piano riuscii a riprendere coscienza e tornare in me, cercando di alzarmi, barcollando. Mi tastai la testa, massaggiandomi le tempie e sobbalzai quando sentii il labbro completamente spaccato.

Mi aspettavo che il dolore sarebbe tornato da un momento all'altro e il mio cervello avrebbe dato forfait, ma non successe niente. Una serie di lettere mi martellavano in testa, e le tempie mi pulsavano: riuscivo a sentire il cuore contrarsi come in una morsa e il sangue pulsare nelle orecchie.

LmNh77O. La combinazione era impressa nella mia mente.

Non ero io quella che allungò una mano nel piccolo schermo accanto alla porta, schiacciando quelle lettere di cui non conoscevo il significato. Osservai il mio corpo agire per me, digitando con estrema sicurezza la password della porta e aspettando in silenzio.

Passò qualche secondo, poi la porta si aprì. Fissai sconcertata la stanza immersa nella penombra, illuminata dalla luce bluastra dei computer in standby, posati su tutte le file di scrivanie che occupavano la stanza. Feci un passo avanti, e la porta si richiuse alle mie spalle.

Che cavolo di posto è questo? Poi un altro pensiero mi colpii: ce l’avevo fatta.

Vediamo quanto sarei riuscita a trovare su di loro, i ribelli. Al secondo passo, avevo già analizzato la stanza, memorizzando le uscite. C’era un'altra porta e finestre con le tapparelle abbassate. Potevo scappare subito, ma non avrei mai saputo cosa stava succedendo.

Attraversai la stanza velocemente, muovendomi in silenzio. Fissai le parete, alla ricerca di telecamere o sistemi di controllo, ma non vidi nulla. I computer, per di più, sembravano parecchio vecchi. Doveva essere una specie di archivio o qualcosa del genere.  Mi sedetti all’ultima scrivania, spostando vari fogli e documenti criptati. Il computer si accese, ronzando leggermente,  ma senza chiedere nessun password.

Dovevano essere convinti che la password alla porta bastasse a proteggere i loro file quindi.

Selezionai DOCUMENTI. La pagina, letteralmente, si riempì d’informazioni, e file e il mio cuore ebbe un tuffo. Alcune erano pagine di giornale, altri erano vecchi attestati, ma tutti i documenti portavano dei nomi familiari. Un’intera cartella portava il nome di «Genetics Institute».

Il mio cuore si strinse in una morsa. Come facevano a sapere dell’Istituto? Perché, allora, mi avevano costretto a snocciolare quelle poche informazioni che, controvoglia, gli avevo rivelato? Mi complimentai con me stessa per non aver detto niente d’importante. La mia paranoia si era rivelata utile.

Il primo documento si aprì, portando con sé una foto di un’isola. La osservai bene, ma la fotografia era sgranata e poco chiara. Un’isola … cosa c’entrava un’isola con l’Istituto? Scorsi la pagina, finché un’altra informazione non attirò la mia attenzione.

Erano coordinate, schermi matematici, e cartine che indicavano punti precisi degli Stati Uniti. Li fissai con attenzione, alla ricerca di risposte. Come avevano fatto ad avere tante informazioni? Andai più giù, e trovai un’altra immagine dell’isola con una piccola didascalia accanto.

Scaresdale. Valle della paura. Isola che attualmente ospita l’Istituto Genetico di ricerca per nuove forme di vita… Mi bloccai lì, ricordando che James aveva detto che solo io e Arijane potevamo tentare la fuga, per le nostre ali. Ora capivo il motivo delle sue parole.

Era un’isola! L’istituto occupava un’intera isola!

Rabbrividii.

Ogni piccola informazione, portava con sé centinaia di domande. Mossi la rotellina del mouse per finire di leggere alcune righe sull’Istituto, e fu in quel momento che sentii un rumore. Sobbalzai, e mi voltai di scatto, sentendo i muscoli tendersi e le ali irrigidirsi.

Arrivava qualcuno. E io dovevo andarmene. Subito. Alzai le tapparelle, e la finestra, osservando dall’alto la 33st street, o quello che era. Con un balzo da … beh, da ragazza uccello quale sono!, saltai sul cornicione della finestra tenendomi in equilibrio sui talloni e spiegai leggermente le ali.

Fuori era buio e la città era distrutta e vuota. Annusai l’aria frizzante e fredda per un secondo, mentre dalla bocca mi uscii una nuvoletta di densa di fiato. Era la prima volta che vedevo il mio fiato formare una nuvoletta da quando all’Istituto si era rotto il riscaldamento, ma ora non avevo tempo di pensare  a …

«Ferma!»

Era una voce femminile, melodiosa e perentoria; avrei potuto darmi la spinta con le gambe e buttarmi fuori dalla finestra in quel  momento, eppure non lo feci. Ogni cellula irrazionale del mio corpo gridava salta!, ma, per una volta, repressi l’istinto e mi girai.

La voce apparteneva a una bellissima ragazza. Poteva avere vent’anni, ed era molto più bassa del mio metro e settanta, ma i lineamenti del viso erano definiti e fieri, gli occhi azzurri brillavano di una luce sconosciuta e una cascava di capelli neri le ricadeva lungo la schiena.

«Ferma», ripeté più lentamente. «Per favore»

Rimasi immobile, senza dire una parola. Inconsapevole di quanto sembrassi pericolosa e selvaggia ai suoi occhi; ero una combinazione ragazza-mutante-uccello-mostro dotata di una forza che le sarebbe stata letale, e molto poco disposta a collaborare. Aveva paura di me. Glielo leggevo in faccia.

«Non guardarmi così» dissi, piantandole gli occhi in viso. «Non è colpa mia se dei pazzi psicopatici si sono messi a giocare con il mio DNA». Stavo per lasciarmi cadere nel vuoto e spalancare le ali, senza aspettare una sua risposta, ma, nuovamente, mi bloccai.

Non rispose, ma la vidi abbassare lo sguardo, imbarazzata.

Ci fu qualche secondo di silenzio. «Perché non ti unisci a noi?», chiese, poi, d’impulso.

Inarcai un sopracciglio. «Perché dovrei farlo?»

«Combatti meglio di chiunque altro. Ci saresti di grande aiuto», continuò lei. «E sai cose che ci servirebbero per fare il quadro completo della situazione e…»

La interruppi, con l’irritante espressione annoiata che stizziva tanto gli Addetti, quando cercavano di convincermi a fare qualcosa di mia volontà e puntualmente fallivano. «Intendevo, dammi un motivo che conviene a me» Sì, non ero proprio la personificazione dell’altruismo.

Si, se mi aspettavate un super eroe che non esita ad aiutare gli altri, allora, beh, avete assolutamente sbagliato persona. O meglio, avrei fatto di tutto per i miei amici – cioè Arijane – ma non avevo intenzione di rischiare la pelle per i nemici, neanche se erano contro l’Istituto.

«Sei sola, non conosci niente di questo posto, e quei tipi dell’Istituto ti troveranno facilmente qui» ribatté la ragazza.

«Certo, e meglio rinchiudermi direttamente in un cella legata a una sedia per il resto delle mia vita? Oh, in effetti,  sarebbe un’ottima idea» dissi, sarcastica, assumendo un tono duro come l'acciaio.

«Non ti rinchiuderemo da nessuna parte. Leon e Nathan sono troppo orgogliosi per chiederti aiuto, ma io so che tu sai molte più cose di noi su Scaresdale e sull’Istituto e ti sto chiedendo di aiutarci. Ti tenevano lì dentro perché avevano paura che scappassi»

Paura fondata, direi. «Chiederlo come persone normali, no?»

«Ci hanno provato, o meglio, Doc lo voleva fare, ma da quel che ha detto hai  “tentato di ucciderlo” quanto ti ha  slegato dalla sedia. Comunque sia, dicevo, tu ci aiuti, e ottieni un riparo, cibo, vestiti e tutto ciò che ti serve»

«Ah, sì? E allora spiegami la siringa di Zenox che volevano iniettarmi, avanti»

Lei sobbalzò e io la scrutai, trucemente curiosa di vedere cos’avrebbe risposto. «Gliel’avevo detto che non era una buona idea, ma continuavano a essere convinti che in stato di confusione avresti parlato», rivelò alla fine con un sospiro. Non le credevo, ma era comunque una spiegazione plausibile. «Allora resti?»

Scossi la testa. «Me ne devo andare fra nemmeno due settimane: quelli dell’Istituto mi cercheranno», replicai prontamente appoggiando una mano sullo stipite della finestra. Lei fece un passo avanti e come avevo già fatto, controllai che non avesse armi.

«Potresti andartene, quando loro verranno. Noi ti copriremmo le spalle»

Era quasi a un metro da me quando mi gettai dalla finestra. Sentii il fischio dell’aria nelle orecchie e l’abbraccio freddo dell’inverno e del vento. Mi girai, allargando le braccia, poi spalancai le ali e sentii il contraccolpo sollevarmi. Poi iniziai a muoverle  su e giù, e mi sollevai facilmente.

Le mie struttura ossea era leggera, fatta per volare. Socchiusi gli occhi, innalzandomi fino alla finestra dell’edificio in apparenza abbandonato dov’era affacciata la ragazza. Lei mi rivolse uno sguardo terrorizzato che mi scombussolò: facevo davvero così … cos’era? Paura? Disgusto?

Inarcai un sopracciglio. «E suppongo che tutto questo sia vero perchè...?» 

Lei mi fissò con un'espressione seria. «Che garanzia potrei darti? Un contratto scritto? Una promessa? Parola d'onore? So che comunque sia non ti fiderai di noi, e noi non ci fideremo di te. Ma noi abbiamo bisogno d'informazioni, e tu ci puoi essere d'aiuto, e noi altrettanto. Mi dispiace dirtelo, ma non mi sembra che tu abbia alternative.»

Scossi la testa. Era un grosso errore, era un grossissimo errore, ma era l’unica cosa da fare. Rassegnata, e con una violenta voglia di spaccare tutto ciò che trovavo e prendere  a pugni qualcosa o qualcuno finii per dire le quattro lettere che mettevano fine alla discussione: «Okay» accettai infine. Perché, per quanto mi desse sui nervi, lei aveva ragione. Potevo vagare senza mai essere davvero libera, o potesco scoprire la verità e togliermi dai piedi il mio passato una volta per tutte.

Non posso credere di averlo detto davvero.

«Okay?» replicò lei, incredula.

«Sì. Vi aiuterò, ma non dormirò là dentro. Ho bisogno di cibo, armi e assolutamente di una doccia», esordii e lei annuì, ascoltandomi. «Non voglio idioti armati intorno quando sono lì dentro e voglio una mappa di quel posto, voglio capire chi siete e come vanno le cose qui, ah, e... le finestre quando ci sono io saranno tutte aperte»

Lei fece un sorriso incerto: «Si può fare»

Io non risposi, immersa nei miei pensieri. E la sua voce mi fece sobbalzare nuovamente, e, scordandomi di battere le ali per qualche secondo, caddi di qualche metro. Lei fece un’espressione preoccupata. «Odio l’altezza, e mi sto trattenendo l’impulso di urlarti di entrare»

Quantomeno questo spiegava l’espressione da sto-per-vomitare che aveva. Feci un sorriso sardonico. «Non lo farei, comunque»

Lei ridacchio, come se capisse. «Mi chiamo Liz»

«Fire»

«Benvenuta fra di noi, Fire», disse e poi sorrise di nuovo. «Tornerai domattina?»

«Uhm, sì» Lei annuì, poi chiuse la finestra e andò via. E io fui improvvisamente sola, ma non libera. Libera è quando ti senti davvero bene. Non quando ti sforzi di non crollare per pura ostinazione.

E’ tutto okay. Calmati, calmati … Calmati, Fire.

Ma non era okay per niente. E io lo sapevo.

La situazione era questa: avevo appena offerto la mia ‘amicizia’ al gruppo di ribelli psicopatici  che mi avevano tenuta rinchiusa in una cella per settimane – tra parentesi, gliela avrei fatta pagare – in cambio di cibo, una doccia e informazioni.

E, forse, mi avrebbero coperto le spalle quando i Cacciatori sarebbero arrivati a New York. Comunque fosse, io per quel giorno sarei già andata via da un pezzo. Sbattei le ali, innalzandomi ancora e osservando dall’alto uno dei tanti edifici all’apparenza diroccato, la base dei ribelli.

E io avrei offerto loro il mio aiuto e ciò che sapevo.

Volai in alto, sempre più in alto. La città non era cambiata: era sempre un piccolo faro nel buio. Volai a lungo, per ore, scendendo in picchiata e lasciandomi cadere solo per sgranchire le ali e provare quel senso di adrenalina che mi scaldava almeno un po’.

Come sempre, la sensazione di poter staccare i piedi da terra quando volevo e volare lontano mi rendeva felice, e scacciava via i pensieri. Le ali erano la mia anomalia e il mio conforto al tempo stesso. Il freddo e il vento gelido mi frustavano  le guancie e i capelli, e io chiusi gli occhi godendomi quella sensazione. Inspirai l’aria fredda come se bastasse a spazzare via a pulirmi da dentro e a scacciare tutti i timori che si affollavano nel mio cuore aspettando il momento giusto per attaccarmi.

Solo a notte fonda, dopo varie ore di volo, mi appostai sul terrazzo di un grattacielo alto quasi duecento piani. Usai alcuni copertoni e varie scatole accatastate lassù per creare un piccolo riparo contro al vento. Poi, mi rannicchiai nel mio rifugio improvvisato, avvolgendomi con le ali in un specie di abbraccio, come facevo sempre.

I ricordi della mia prima notte a New York, quando mi ero trovata intrappolata dentro l’albergo, e delle due settimane in chiusa in un cella al buio e completamente legata, mi avrebbero tenuto lontano dal dormire in posti chiusi per un bel po’ di tempo.

Ehm, diciamo … per tutta la vita?

Sì, ero paranoica ed esagerata. Ma… come dire, se questo serviva a non  lasciarci le penne – sì, ironia da ragazza mutante alata – allora per me  andava più che bene, questo era sicuro. Mi rannicchiai, sperando solo che il mal di testa tipo granata non tornasse a finire il lavoro.

Ripensai all’Istituto, ad Arijane, a James e tutto ciò che potevano avermi fatto. Il mio umore precipitò e il mondo sembrò crollarmi sulle spalle. Scoppiai a piangere, come una bambina, come non avevo mai fatto, rimproverandomi a ogni singulto.

Non riuscivo a fermarmi. E sentivo le lacrime correre lungo le guancie, di nuovo. Le volte che avevo pianto si potevano contare sulle dita di una mano, e ora mi ritrovavo a crollare due volte in un giorno. Se lì ci fosse stata Ari, ero sicura che mi sarei trattenuta, ma … ma Ari non c’era.

Ero sola.

Sentivo un vuoto, all’altezza del petto che non riuscivo a identificare. Mi posai un braccio sugli occhi, sforzandomi di cancellare quei pensieri e dormire. Ma non c’era verso e alla fine mi ritrovai liberamente a pensare ad Ari e ai suoi sorrisini incerti, e a quelle volte che scoppiava a ridere in modo sguainato piegandosi in due dalle risate e ai suoi discorsi infiniti e velocissimi che finivano sempre con lei che ripeteva più lentamente ciò che aveva detto e io che ascoltavo cercando di capirci qualcosa.

Mi mancava. Era come un buco, all'altezza del petto. Una ferita che non si decideva a chiudersi.

Lei non era lì, e non ci sarebbe stata mai più. Lei era morta. Ero io quella viva.

Ero io che dovevo trovare una soluzione a tutto. E, possibilmente, ero che io  dovevo anche farmi una doccia.

 

 

 

 

 

 

Angolo dell'Autrice

Rieccomi con un nuovo capitolo. I ribelli: chi sono in realtà? Non fatevi ingannare: nascondono molto più di quello che vogliono far credere. Che fine hanno fatto Ari e James e Zack? Beh, tranquilli, li rivedrete nel prossimo capitolo. Soprattutto James che, se devo dirlo, è uno dei miei personaggi preferiti dopo Fire e Ari. In effetti, io li amo quasi tutti quindi non è che faccia molto testo, ma comunque! xD Ho riletto questo capitolo più volte e ho motivo di credere che Fire sia abbattuta.

Non ha alternative, se non "fidarsi" dei ribelli (o psicopatici, come li chiama lei) E comunque, nel prossimo capitolo credo che costringerà Doc a dirle che problema ha visto in lei. Ah, finalmente veniamo a conosceva del nome del biondo su cui ho ragionato e ri-ragionato. Leon mi sembra appropriato, ma non chiedetemi perché. Fatto sta che questo capitolo è un capitolo di passaggio, e vi assicuro che la storia deve ancora svilupparsi del tutto (messaggio rivolto a voi che magari credete di aver realmente capito l'intero quadro della situazione: beh, vi sbagliate! u_ù)

Non so dirvi quando posterò il prossimo capitolo, ma penso presto. Non fatevi strane idee quando tardo un pò nel postare: non ho intenzione di abbandonare la storia, solo che tendo a cancellare i capitoli e cambiarli sempre finché il risultato non mi convince del tutto e quest'operazione richiede sempre un bel pò di tempo e molte crisi isteriche in cui vorrei buttare word e il pc fuori dalla finestra xD

* A proposito, alzi la mano chi pensa che Fire sia stata sadica a tirare una ginocchiata a Doc quando l'ha slegata! Nessuno? Bene, e non alzatela perché quella si offende xD Credo che quel particolare sveli molto del carattere di Fire,che, come ha detto James, ucciderebbe ogni persona che osasse mettersi sulla sua strada, ma rischierebbe la vita e ancora peggio, la libertà, per un amico. Come quando ha provato a salvare Ari. 

 

Risposte ai Commenti 

 

 TuttaColpaDelCielo:  Ehi! :)  Dovrai aspettare parecchio per avere qualche rivelazione importante, perché, come vedi, la situazione in cui è precipitato il mondo è davvero particolare, a partire dal fatto che non ci sia più il sole o che comunque non ci c'è una buona fonte di luce. Spiegherò tutto ciò che riguarda il virus di Campbell e il Governo nel prossimo capitolo. Credo che sia ovvio che Fire avrebbe per forza dovuto prestare il suo aiuto alla Resistenza, per orientarsi nel nuovo mondo. Ci sono segreti più grandi che, comunque, riguardano anche la Resistenza e che ovviamente non saprai u.u

Il confronto fra Ari e Zack è stato strano da scrivere. E' stato divertente, lo ammetto, immaginare l'espressione di Arijane mentre ballavano e anche la sua confusione. Volevo che Arijane sperimentasse un briciolo di quello che potrebbe essere una vita normale, parlando con un coetaneo. Arijane è tremendamente affascinata dalla prospettiva di una vita "normale" di cui alla fine non conosce niente.

Diventeranno grandi amici, e questo farà male perché, nella situazione di Ari, gli amici non durano a lungo. Al prossimo capitolo, comunque =)

 Dust_and_Diesel: Ehi, non so come chiamarti xD Va bene semplicemente Dust? u.ù Comunque sia, sono contenta che la storia ti appassioni, davvero. In effetti, le recensioni mi danno sempre un motivo un più per continuare a impegnarmi in questa storia, oltre il profondo affetto che provo per i personaggi. E allora! Torniamo a noi. Osservi bene: Arijane è davvero molto cambiata negli ultimi tempi. Il "tradimento" di Fire l'ha davvero sconvolta, insomma, per lei era una sorella o non saprei. Una figura che c'era sempre stata e con cui aveva stretto un legame profondo che andava oltre l'amicizia.

Gli scambi di battute fra due bambini me li sono dovuti studiare attentamente. In fondo, sono ancora due bambini e Ari è ha visto solo il lato peggiore del mondo con sprazzi di felicità nascosta, trascorsi con Fire in quei pochi minuti in cui riuscivano a stare insieme. Cosa ne pensi di James, a proposito? Sinceramente, provo più simpatia per lui che per il biondo, ma ho l'impressione che per te sia il contrario. Sbaglio?

 Gio26*__________* Non mi fare tutti questi complimenti che finisce che mi monto la testa xD No, dai, non è granché, però è una storia che mi piace scrivere e i personaggi mi fanno ridere e piangere e sembra che certe volte si scrivano la storia da soli (a quel punto inizio a sentirmi inutile u.u T.T xD) Ma comunque, se Dust mi analizza i personaggi, tu sai con chi farli mettere, a quanto pare xD Bene, bene u.u Mi servono persone che pensino alle love story perché io tendo a essere un tipo parecchio allergico alla parola "amore" o meglio odio quando la devono intendere come nei libri di Moccia o cose del genere! O.O 

(Odio Moccia e se ti unisci a me nel buttarlo al rogo, mi fai un piace u.u Programmavo anche di tentare un omicidio nel sonno, ma vedrò di organizzarmi meglio X'D) Comunque, ritornando alla storia. Leon, il biondo, non mi convince molto. Si rivelerà essere davvero un rivale per Fire, ma, come vedere in questo capitolo, Fire (in quanto è stata completamente modificata a livello genetico)  possiede una forza e una tecnica con cui potrebbe batterlo facilmente. Non pensare però che Leon si dia per vinto, in effetti, passerà parecchio tempo prima che i due si sopportino a vicenda.

Cosa succederà poi? Ah, non me lo chiedete perché lo saprete solo a momento debito! Muahahaha XD Sono sadica. Ora vado alla prossima recensione. :)

Bye! Spero di poter leggere una tua recensione a questo capitolo che, nonostante non sia poi così importante, mi piace molto. u.ù

 missdubhe93 : Ma c'è una specie di virus per l'amore-a-prima-vista-verso-il-biondo per caso? XD Quel ragazzo ha riscosso un sacco di successo devo dire O_O Comunque, parlando di cose serie. Anche io amo Fire! *-* E il biondo ... Leon, credo di condividere una specie di antipatia verso di lui da qualche tempo. Non so, ma credo che darà molto filo da torcere a Fire, non solo nel campo del combattimento.

Ovviamente a Leon brucia molto la sconfitta presa da Fire. E immagino! XD Ma sarebbe stato molto inverosimile che lui riuscisse anche solo a farle male, visto la forza e i sensi di Fire. In effetti, quella ragazza è un mito. La stimo u.u Aspetto la tua recensione a questo capitolo, mi raccomando! u.u Okay? =P E poi, voglio proprio vedere cosa penserai del biondo nei prossimi capitoli.

 Valerie_Laichettes: Valerie! Aspettavo la tua recensione! u.u Davvero è fra le tue preferite? *-* Ma comunque, veniamo a noi. Ehm, si sistemerà tutto?... Vedremo. Non sempre le cose vanno bene, e Arijane, in qualsiasi modo, soffrirà molto. Anche lei è cosciente che affezionarsi a Zack è un errore e che, se succedesse qualcosa, starebbe davvero male, ma d'altronde non può farne a meno.

Zack e Ari hanno molto da condividere e, come vedrete, diventeranno amici. E per le ferite di Fire? Beh, non ha pensato al fattore genetico che incide su ogni cosa nella sua vita. E' semplicemente più dotata di qualsiasi essere umano in forza, velocità e agilità. Le sue ferite si rimarginano molto più in fretta e il suo organismo è molto diverso dal nostro, e questo lei lo sa per via delle sue disordinate conoscenze scientifiche che ha assimilato durante il periodo dell'Istituto. E' dotata di ossa più leggere e quindi pesa di meno, è magra e alta, e ha sacche d'aria sotto i polmoni che le permettono di respirare anche ad alte quote esattamente come gli uccelli.

Anche molti altri punti del suo organismo sono diversi, solo che nella storia non l'ho spiegato bene. Ho studiato gli uccelli in modo da rendere tutti più realistico, e cercherò poi di spiegare meglio com'è fatta. E' umana, ma il suo organismo è modificato e quindi è normale che ci sia differenze fra la nostra velocità a rigenerare i tessuti e la sua. So che suona proprio strano, ma dovrebbe essere così xD

Comunque, grazie di avermelo fatto notare: provvederò a far capire meglio. u.u

Se avrò tempo vedrò di correggere gli errori e non ti preoccupare mai di farmi notare qualcosa. Nonostante è brutto riceverle, le critiche negative aiutano molto. E parla una che ne ha ricevute un'infinità. (Una volta mi hanno detto che scrivere non faceva per me O.O)

 Iolyna92: Ehi! *-* Un nuovo lettore, evvai! u.u Comunque, bene. Innanzitutto a me il ragazzo-lucertola piace xD Non so perché, ma mi piace. Certo vuole strappare i polmoni dal petto alla nostra cara Fire, ma mi sta comunque simpatico e non chiedermi perché O.o Un motivo ci sarà... ma non te lo dico! XD E cos'è il mostro che squarterà i ragazzi? Nessun mostro, credo che il Cacciatore si riferisse agli Addetti... ma leggi il prossimo capitolo e capirai u.u

Aspetto le tue prossime recensioni e se c'è qualcosa che non ti piace vedi di dirmelo, okay? =)

 

 

Ora vado!

Byeeee!

 

Ps. Grazie ai tre che hanno messo la storia fra i preferiti e che sono gli stessi che mi regalano grandiose recensioni. Grazie, ragazzi. *-* Grazie anche ai cinque che l'hanno ricordata, e ai quattordici che l'hanno messa fra le seguite! Grazie :)

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