She's Like Me

di A Dream Called Death
(/viewuser.php?uid=107660)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** My Return ***
Capitolo 2: *** Mistake ***
Capitolo 3: *** Girl, You've Blinded My Eyes? ***
Capitolo 4: *** Disappeared ***
Capitolo 5: *** I Looked Down ***
Capitolo 6: *** Illusion ***
Capitolo 7: *** I'm Not Your Darling ***
Capitolo 8: *** I Feel The Death ***
Capitolo 9: *** Don't Cry For Me, Jane ***
Capitolo 10: *** Wrong ***
Capitolo 11: *** My Mind ***
Capitolo 12: *** Last Night ***
Capitolo 13: *** Tears (First Part) ***
Capitolo 14: *** Tears (Second Part) ***
Capitolo 15: *** Distruction ***
Capitolo 16: *** I Died For You ***
Capitolo 17: *** Alone ***
Capitolo 18: *** Jane ***
Capitolo 19: *** The Dream (First Part) ***
Capitolo 20: *** The Dream (Second Part) ***
Capitolo 21: *** Heart ***
Capitolo 22: *** Remember This Time ***
Capitolo 23: *** I Hate You ***
Capitolo 24: *** Goodbye My Lover ***
Capitolo 25: *** Cancer ***
Capitolo 26: *** My Syndrome (First Part) ***
Capitolo 27: *** My Syndrome (Second Part) ***
Capitolo 28: *** Letterbomb ***
Capitolo 29: *** Leave Me ***
Capitolo 30: *** The Nightmare ***
Capitolo 31: *** Crazy, I'm Crazy ***
Capitolo 32: *** The Call ***
Capitolo 33: *** I Love You, Mike ***
Capitolo 34: *** Birmingham (First Part) ***
Capitolo 35: *** Birmingham (Second Part) ***
Capitolo 36: *** Birmingham (Third Part) ***
Capitolo 37: *** Oh, My Little Girl ***
Capitolo 38: *** White ***
Capitolo 39: *** Mother ***
Capitolo 40: *** The White Pages Of My Life (First Part) ***
Capitolo 41: *** The White Pages Of My Life (Second Part) ***
Capitolo 42: *** Life ***
Capitolo 43: *** The New Man ***
Capitolo 44: *** Home ***
Capitolo 45: *** American Idiot ***
Capitolo 46: *** Doubt ***



Capitolo 1
*** My Return ***


We are imperfect.
But I love your imperfection.

Quando mi svegliai, l'aereo stava atterrando.
Eravamo di nuovo a casa, a Berkeley.
Mi girai per vedere cosa stessero facendo gli altri, vidi Trè completamente
spaparanzato sul suo sedile, la testa all'indietro.
Mike teneva una mano accanto al viso, pensieroso.
Non potevo crederci, eravamo di nuovo lì. Ancora una volta.
Quella sera tornai tardi a casa, i ragazzi ci avevano chiesto di passare una
serata in loro compagnia per scambiare quattro chiacchiere bevendo qualche
birra. Trè, entusiasta, accettò subito.
Mike ebbe qualche ripensamento a causa della stanchezza. Ma alla fine,
acconsentì. Io rifiutai, volevo staccare un pò la spina e pensare ad altro.
Avevo tante cose da risolvere e lei avrei risolte quella notte.
La mente era offuscata da mille pensieri. E non mi andava di parlarne.
-Vieni a farti una birra?- mi chiese Trè, speranzoso.
-Andate senza di me. Sono un pò stanco, credo che farò quattro passi
e tornerò a casa-.
insistette. -Non preoccuparti per me, preoccupati delle birre- risposi.
Sorrisi.
-Concordo, non insisterò oltre. Ti chiamo domani per farti sapere di Jack e
del servizio fotografico-.
-Vi conviene muovervi, le birre non aspettano- continuai.
Risero tutti, tranne Mike. Me l'aspettavo.
Lo guardai ed ingaggiamo un breve duello per vedere chi dei due avrebbe
abbassato per primo lo sguardo. Mike era un osso duro, sapevo che non
avrebbe mollato facilmente. Ma anche io non avevo la minima intenzione di
abbassare quel fottutissimo sguardo. Nel bel mezzo della lotta, che ormai
si stava rivelando estremamente dura per quel che mi riguardava, Trè
rivendicò il suo desiderio di avviarsi al primo locale disponibile.
-Emh...mi spiace interrompervi, ma ci sarebbero un bel paio di birrette
e qualche donzella poco vestita ad aspettarmi-.
-Ehi, tieni a freno il pisello!- si intromise Jason, ridendo, appoggiandosi
alla schiena del batterista. Trè fece una smorfia.
-Cazzo, Jason! vuoi sfondarmi da dietro? sei ingrassato circa venti chili
questo mese!-.
- Ma che cazzo dici? Non ho preso un chilo, sei solo invidioso-
Mentre il chitarrista parlava, Trè lo imitava ironicamente per questo si beccò
una pacca sul braccio.
-Ah, no? e quella pancia fottutamente incinta da dove salta fuori?-
-Vacci piano a fanculo. Non sei mica l'anoressico di turno-
Attimo di silenzio. Trè sgranò gli occhi.
-Stai forse insinuando che sono grasso?-
I due scoppiarono a ridere. Non era raro vedere quelle scene, ma ne io ne
gli altri eravamo mai riusciti a capire se facessero sul serio oppure ci prendessero
per il culo. Dalle loro facce, era più probabile che si trattasse della seconda.
Nel frattempo, tra me e Mike la lotta continuava.
-Ci penserò dopo a picchiarti. Cazzo, Mike! Cosa stai aspettando, che
ricostruiscano le torri gemelle?-
Mike si voltò un'altra volta verso di me. E si arrese.
Fecero un cenno e partirono diretti alle macchine.
Rimasi fermo la, indeciso sul da farsi.
Era mezzanotte ed un quarto. Se fossi tornato a casa, probabilmente
avrei dovuto subire un pericoloso attacco di Adrienne, giustamente in
pensiero visto che il mio ritardo aveva superato le cinque ore.
Cazzo.
Adrienne non era mai stata una donna gelosa, ma era sempre stata
irremovibile per quanto riguardava il rispetto degli orari.
Se fossi tornato a casa, probabilmente mi avrebbe cazziato senza
esclusione di colpi. Avevo la certezza, vista la mia ampia conoscenza
delle regole della casa, che a mezzanotte e mezzo Adrienne si sarebbe
recata sicuramente a letto. Se fossi riuscito a non svegliarla, rincasando
dopo quell'ora, avrei avuto almeno la speranza di potermela cavare
quella mattina.
Mi rendeva triste architettare tutti quei piani per sfuggire alle sgridate
di mia moglie, ma in qualche modo dovevo salvare il mio amatissimo
culo. Amavo Adie, era una donna speciale, quasi perfetta.
Di lei mi aveva sempre colpito lo sguardo: così solare, così sereno.
Il suo sorriso mi conquistò. Non era mai stata esageratamente attraente,
nonostante questo ne ero sempre stato un pò geloso.
Mezzanotte e venti minuti.
Dentro di me, avvertii un pizzico di agitazione.
Un brivido mi pervase la schiena.
Lei avrebbe chiamato di lì a poco. L'aveva promesso ed io ci speravo.
Mi tremavano le mani solo al pensiero di risentire la sua voce, e di non
poter tornare indietro.
Se non avesse chiamato?
Se si fosse dimenticata di me?
L'avrei sicuramente chiamata io.
No, dovevo aspettare. Solo aspettare.
Ormai ero abituato a mentire, e un pò mi sentivo in colpa.
La voglia di evadere aveva preso totalmente il sopravvento su di me,
ma stavo bene. Fottutamente bene.
Dopo quella notte era diventato tutto più chiaro.
Non potevo tornare indietro, ormai ci ero dentro fino al collo.
E non potevo nemmeno tornare a casa perchè...
la chiamata che stavo aspettando con ansia, non era di Adrienne.

















Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Mistake ***


Iniziai a camminare lungo la strada, ripensando a ciò che era
successo durante quel mese in Europa.
Tutto quello che era successo.
Per prima cosa, avevo litigato furiosamente con Michael.
Già, Michael. Non più Mike, ora era tornato Michael.
E questo dovrebbe già dare un'idea del mio giramento di
coglioni nei suoi confronti. Una litigata ai limiti dell'immaginazione
ricordo che ci eravamo anche mandati a fanculo.
Era stato Mike il primo a farlo.    
Era la prima volta che sfociava una lite così furibonda tra noi.
Tutto per lei.
  Il destino volle regalarmela, ed io la presi tra le mie braccia
senza pensarci un attimo.
Ci sono persone che ti sconvolgono la vita, rimescolano le
carte, distruggono l'intero puzzle.                                                                                                   
Quel puzzle che avevo costruito con precisione, in un attimo
era andato distrutto e i pezzi si erano sparsi intorno a me,
pronti per essere rimescolati.
Ma in che modo volevo rimescolarli? Avevo costruito muri fatti
di bugie. E quelli non potevano andare distrutti.  
Avevo sempre tenuto la mia vita sotto controllo, ma non avevo
calcolato che una volta di fronte a lei le mie difese sarebbero
crollate in quella maniera. Non così. Non io.
Tutto successe durante quel maledetto tour in Europa, quella
settimana dovevamo esibirci in Inghilterra, a Birmingham.
Arrivammo venerdì, le prove si sarebbero tenute la mattina
dopo quindi ci prendemmo del tempo per farci gli affari
nostri. Mike decise di fare un salto in città, si vestì in tuta
da ginnastica, munito di capello, occhiali da sole e portafoglio.
Io e Trè optammo entrambi per soddisfare un bisogno comune:
mangiare. Ci recammo in un fast food, bene attenti a non farci
riconoscere.
Non sono mai stato un amante dei fast food, ma il mio batterista
mi aveva supplicato di concedergli un hot dog.
Il mio stomaco implorava di essere riempito, così ci mettemmo
a correre come scemi. Dalla fretta, urtai anche una ragazzina.
Iniziammo a chiacchierare davanti ad un mega hot dog (per
Trè) e una misera insalata condita sicuramente con qualche
olio ricavato dal grasso animale (per me, ovviamente).
Non poteva mancare la birra.
Sfortunatamente per me il mio batterista, sbadato quanto bravo
con le percussioni, riuscì a rovesciarmi un'intera bottiglia di
ketchup sulla t-shirt.
Nonostante questo, ci mettemmo a ridere fragorosamente.
Colpa della birra, forse.
Avevo un'enorme fottuta macchia di ketchup sulla maglia
eppure ridevo come un coglione.
Ma quello che mi divertiva di più era il fatto che nessuno di noi,
e per noi intendo uomini adulti e vaccinati con un passato
notevole alle spalle, era in grado di fare una lavatrice senza
allagare la casa. Poi mi venne in mente che Jason era un
casalingo nato, quindi decisi di affidarmi a lui per il lavaggio
dei miei capi.
Quella t-shirt aveva un valore affettivo, mi era stata regalata
da Adrienne ed era impregnata del suo profumo.
Sorrisi pensando a lei e mi ricordai che dovevo chiamarla per
farle sapere del nostro arrivo. Appena uscimmo, Trè mi annunciò
di voler andare in albergo.
-Ehi Big, sono stanco morto. Credo che mi tufferò dritto nel
mondo dei sogni- mi disse.
-Pensavo che fossi d'accordo con Tim per andare a fare spese-
risposi. E con spese si intendeva qualcosa di alcolico.
-Emh... credo che quella faccenda si risolverà questa sera.
Ho in mente di contrastare la comparsa delle occhiaie sotto
ai miei occhi, in questo momento-.
Rise e sbadigliò di nuovo.
Quel giorno era particolarmente stanco, si vedeva.
Lo accompagnai all'albergo e lì ci lasciammo.
-Credo che farò un salto in città, magari in lavanderia-
dissi, ridendo e indicando lo stato della mia maglietta.
Trè rise e si decise a ritirarsi per andare in tana.
In realtà sapevo che Adrienne si sarebbe incazzata se avesse
visto quella t-shirt. Ne ero certo.
Fissai il luogo intorno a me, pensieroso. Non conoscevo bene la
città, mi feci quindi guidare dall'istinto.
Forse già sapevo dove stavo andando, ovvero incontro ad un
qualcosa che non potevo evitare.
Forse già ne avevo una vaga idea.
Decisi di recarmi in un grande magazzino, avevo tutta l'intenzione
di trovare una sostituta alla mia t-shirt perduta.
Ho sempre temuto le reazioni di Adrienne, mi aveva sempre
rimproverato riguardo al fatto che, secondo lei, non tenevo con
cura le mie cose. Soprattutto i regali.
Avrei potuto trovarla ovunque una t-shirt del genere, in qualsiasi
negozio d'abbigliamento, considerando che non costava un occhio
della testa. Eppure andai proprio lì, in quel maledetto negozio.
Mi guardai intorno, non ce n'erano altri in vista.
Ma ero io che avevo scelto lui... oppure lui aveva scelto me?
Così, entrando mi guardai attorno perplesso.
Ecco. Tutto iniziò.
Probabilmente solo una coincidenza.
Probabilmente se non fossimo andati in un fast food, Trè non avrebbe
ordinato un hot dog con il ketchup, non me ne avrebbe rovesciato
un litro addosso e non mi sarei ritrovato lì, in quel preciso istante.
Ma ci ero finito... e questo bastò.
E, spostando i completi che si trovavano sugli attaccapanni, la vidi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Girl, You've Blinded My Eyes? ***


Lei.
Attirò subito il mio sguardo, non so spiegare il motivo.
Forse perchè era sola, distesa sopra ad un enorme tavolo che pareva
quasi una scrivania.
Leggeva un libro.
Il destino, avvolte il destino gioca brutti scherzi. Ti mette in difficoltà.
C'erano tante ragazze dentro quel grande magazzino!
Anche carine, sì. Ben truccate e pettinate.
Eppure... lei fu l'unica che attirò la tua attenzione.
Dicono che la prima impressione non conti niente, per quanto riguardo
i rapporti umani: si può sempre cambiare opinione, le cose non sono
mai come sembrano.
La prima impressione è superficiale.
E allora perchè i battiti del mio cuore stavano accellerando improvvisamente?
La guardai.
Poteva avere al massimo vent'anni. Non sono mai stato un tipo aperto
 verso gli altri, anzi, sono sempre stato per i fatti miei.
Mi piace stare da solo.
Ma quel dannato giorno mi sentivo terribilmente sperduto.
E quella maledetta ragazza mi dava l'idea di essere così sola.
Sola ed indifesa. Forse, arrabbiata.
Come me.
Il fisico poteva ingannare: pareva che avesse dodici anni, ma gli atteggiamenti
non combaciavano con quelli di una ragazzina, quindi dedussi che doveva
sicuramente essere maggiorenne.
Magra, tanto magra. Forse troppo. Notai subito che non era alta.
Probabilmente non era nemmeno bella.
Ma, in quel momento, imbambolato a fissarla dietro ad un attaccapanni,
immaginai come avrebbe potuto essere il suo viso.
Leggeva, cazzo era strana. Chi è che si mette a leggere un libro in un
negozio di abbigliamento? Nessuno.
Forse io, peccato che non mi sia mai piaciuto leggere.
Ma per lei pareva non essere un problema.
Forse per questo motivo, o forse per la voglia di vedere il suo viso,
mi avvicinai cautamente.
Andai più vicino e la vidi, ma non ero pronto ad affrontare ciò che mi
trovai di fronte. Lei aveva lunghi capelli castani che le coprivano la
schiena e un volto che non potrei descrivere con le parole.
Sembrava immersa nella lettura e nonostante le fossi accanto, non mi
degnò di uno sguardo.
-Lettura impegnativa?- chiesi, prendendo coraggio.
Alzò lo sguardo.
Due occhi color ghiaccio, fissi ed inespressivi, probabilmente dimora di
non so quali segreti inconfessabili, si posarono su di me.
Rimasi senza parole. In quel momento forse, mi sarei dovuto allontanare
ma non avevo la forza per farlo.
Mi fissò per qualche interminabile secondo.
Mi sentivo osservato,  provavo un pò di paura al pensiero di ricevere
un suo giudizio poichè non potevo minimamente reggere il confronto
con lei. Era così bella che dovetti abbassare lo sguardo.
Aveva l'aria di una che non si fa avvicinare da estranei, glie lo lessi in
volto. E soprattutto non si fa abbindolare da chi, come me, avrebbe
voluto conoscere i segreti custoditi nei suoi occhi.
Non ero del tutto sicuro che mi avesse riconosciuto.
Forse non conosceva la band.
E forse non sapeva chi ero.
-Parli con me?- chiese.
-Vedi altre persone che leggono?- domandai, senza guardarla negli occhi.
Abbassò lo sguardo.
- Pensavo che quelli come te stessero tutto il tempo a contare i soldi-
disse, con tono altezzoso.
Sapeva chi ero. Sì.
-Non io. Hai mai sentito parlare dei G..-
-So chi sei- rispose seccamente, senza lasciarmi finire.
Era fredda. Tanto fredda.
Pensai di andarmene, ma rimasi lì. Inchiodato accanto a lei.
Sorrisi come uno stupido.
In realtà, ero in imbarazzo. E anche spaventato.
Spaventato? Ma da cosa?
Una ragazza alta un metro e cinquanta cosa avrebbe potuto farmi?
Nulla. Ero curioso di scoprirlo, ma allo stesso tempo intimorito da lei.
Rimasi lì, fermo.
Il fatto che la mia presenza la disturbasse, era un buon motivo per
rimanere. Visto che non demordeva, decisi di provocarla.
Ma rischiavo di farla fuggire. Provai.
-Solo perchè sei bella, non vuol dire che ci voglio provare con te-
Alzò un sopracciglio.
-Non ti conviene, sono una persona estremamente noiosa- rispose.
-Come ti chiami?-
-Puoi chiamarmi come vuoi-. Sempre più fredda.
-Ehi, fai sempre così con le persone chi ti parlano?-
-Oh, no. Non con tutti. Solo con le persone che interrompono la mia
lettura quotidiana e che fanno parte di una punk rock band.
Magari chiamati Green Day... magari proprio il frontman-
replicò lei, scandendo bene le parole ''green day'' e ''frontman''.
-Guarda che il frontman dei Green Day sono solo io-.
Si avvicinò e mi guardo dritto negli occhi.
-Allora me la prenderò solo con te-.
Non so il motivo, ma sorrisi. Lei si alzò e fece per andarsene.
La lasciai andare, sconvolto.
Fui tentato di seguirla, ma...
In quel fottuto momento, mi squillò il telefono e feci la lotta con la
tasca della giacca per tirarlo fuori.
Tremavo.
Era Mike. Risposi.
-Stronzo, dove sei? sono appena tornato in albergo- replicò lui.
-Mi sono trattenuto in città. Come è andata la scampagnata tra le
bancarelle?- chiesi, tentando di sembrare normale.
-Ha portato i suoi frutti. Piuttosto, mi aspettavo di tornare e
trovarti morto dal sonno, invece sei ancora a pascolare in giro!-
rispose ridendo il bassista.
-Ho avuto un contrattempo-.
Lei.
-Capisco, ascolta mi ha chiamato Tim, pare che siamo attesi con gli
organizzatori e compagnia bella. Io me ne tengo alla larga, sei stato tu
a parlare con loro-.
-Hai ragione. Sarebbe meglio che lo chiamassi io- risposi.
-Ora riattacco, ho una chiamata da casa. Tra venti minuti ti voglio qui-.
Così dicendo, riattaccò.
Della ragazza, nessuna traccia. Rimisi il telefono al suo posto all' interno
della tasca, con le mani ancora tremanti.
La cercai con lo sguardo, ma niente.
Quindi, feci per tornare in albergo.
Da dove era saltata fuori quella ragazza?
Pareva irreale. Non sapevo cosa mi avesse attirato di lei.
Forse la sua bellezza struggente, indifesa.
Forse la sua determinazione. Oppure era solo fragilità nascosta?
Volevo scoprire chi fosse, ma sapevo che non l'avrei più rivista.
Mai più.
E ne ero terribilmente dispiaciuto.
Appena uscito da quel negozio, il cuore tornò a battere normalmente.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Disappeared ***


Non chiamai Adrienne.
Mi chiamò lei all'ora di cena.
-Ti sei dimenticato di noi?- chiese, con tono amorevole.
-No, amore. Ho avuto tante cose da fare- dissi, sospirando.
-Lo sai che mi fai preoccupare se non chiami-.
Sempre pacata, sempre dolce. Ma all'occorrenza, sapeva tirar fuori le
unghie. Lo sapevo bene. Era praticamente impossibile affrontare una
discussione con lei ed uscirne del tutto illesi.
Avevo ottenuto il suo perdono due volte, faticando come un dannato.
Per ben due volte era venuta a conoscenza dei miei tradimenti.
-Ti amo- continuò lei.
Sospirai ancora.
Mi sentivo strano, era come se non riuscissi a rispondere,
non riuscissi più a ricambiare le sue parole.
-Anche io e lo sai. Mi dispiace, mi sono dimenticato di chiamarti- dissi,
facendo un enorme sforzo.
-Non ti preoccupare, è tutto apposto. I ragazzi ti salutano-.
Joey e Jakob, mi mancavano da morire.
-Salutameli-.
-Lo farò. Ci sentiamo domani e ricordati di chiamarmi- rispose.
Sorrisi e riattaccai.
Tornai in albergo e andai diretto nella mia camera, solo.
Mi tolsi la giacca e fissai la maglietta.
Quella fottuta maglietta sporca di quel fottuto ketchup.
E quella ragazza...
Avrei voluto rivederla, nonostante mi avesse trattato in quel modo.
Le sue parole, mi avevano turbato profondamente.
Mi avevano quasi scosso l'anima.
Ma non riuscivo a capire il motivo.
In quel preciso istante, Trè varcò la porta della mia camera, tenendo in mano
due Beck's.
-Wow, hai pensato anche a me?- chiesi, sorridendo.
Mi passò una bottiglia di birra.
-Ti sposerei- affermai, ammicando maliziosamente.
-Lo sai che dopo lo dovrai fare per forza?- replicò lui, ridendo di gusto.
Risi anche io.
-Ehi, e la t-shirt?- chiese, indicando la mia maglietta ancora sporca di ketchup
rinsecchito. Non l'avevo cambiata.
Ero entrato in quel negozio con l'intenzione di fregare mia moglie e invece...
ero rimasto fregato io.
Fregato dallo sguardo di una ragazza.
-Irrecuperabile- ammisi.
Mi buttai sul divano.
-Ti vedo un pò strano, oggi. Racconta tutto allo zio Trè, che succede?- domandò
il batterista, bevendo un sorso della sua birra.
Si sedette vicino a me.
-Problemi con la mogliettina?- chiese.
-No, stanchezza. E nervosismo per domenica. Stanotte ho scritto un nuovo
pezzo...-
- Lavori in corso, dunque?-
Sì. La mente attraversò mille pensieri, ma si fermò su uno in particolare.
Quegli occhi dannati, sperduti.
La mia immaginazione fu interrotta dall'arrivo di Mike e Jason, entrambi
addentavano una fetta di pizza.
-E quella, sbruffone?- domandò indignato Trè, rivolgendosi a Mike.
-Hai idea di cosa sia la pizza a domicilio?-
-Sto morendo di fame- replicò il batterista.
- Ti basterebbe alzare il telefono e ordinarne una- si intromise Jason.
-Siete proprio due teste di cazzo!-
Trè si alzò di scatto e uscì, diretto alla sua camera.
Il telefono di Mike squillò all'impazzata, tanto che il bassista ebbe un
sussulto.
-Cazzo! ancora gli organizzatori, non capisco perchè chiamano sempre me!-
replicò, seccato.
- Tu sei l'unico qui dentro che risponde sempre alle chiamate- ammise Jason.
Era vero. Qualsiasi cosa succedesse, di qualsiasi tipo, Mike aveva sempre
il cellulare a portata di mano. Non lo lasciava mai.
Ed era decisamente un bene per il resto della band.
Rispose e si allontanò, come era solito fare quando riceveva una chiamata.
La mia mente era affollata da mille pensieri, ma tutti convergevano nel
ricordo degli occhi della dannata conosciuta poco prima.
Non ne sapevo neppure il nome eppure mi pareva di conoscerla da una vita.
Perchè il suo sguardo mi sembrava così maledettamente perso?
Mike tornò, dopo aver riattaccato.
-Buone notizie. Gli organizzatori vogliono vederci domattina, prima delle
prove con tanto di giornalisti al seguito. Mi dispiace ragazzi, sveglia alle sei
domani-.
Jason fece una smorfia.
- Dunque io opterei per una doccia e poi per una dormita- continuò Mike.
Io e Jason eravamo d'accordo.
Quest'ultimo salutò con un cenno della testa e si diresse verso la porta.
Mike rimase lì, con il telefono in mano.
Mi fissava da capo a piedi. Si sedette sul letto.
-Vieni qui- mi disse.
Sorrisi maliziosamente e mi diressi verso di lui senza obbiettare.
-Che hai? ti vedo strano-
Mi accarezzò il viso, ma io mi persi ancora nel ricordo degli occhi della
ragazza. No, Mike. Non ora, non qui.
-Scusami, sono un pò stanco- ammisi.
-Non fa niente, buonanotte-.
Mi scoccò un veloce bacio sulla guancia, con uno sguardo misto tra il deluso
e l'arreso e andò alla porta.
Feci una doccia veloce e mi spogliai per andare sotto alle lenzuola.
Avvoltò dall'oscurità, fissai il soffitto e pensai all'incontro avvenuto nel grande
magazzino.
Io e lei.
Una ragazza completamente sconosciuta, mai vista prima.
Bella da uccidere.
Bella da ferire.
Pensandoci bene, non ero riuscito a scoprire nemmeno come si chiamasse.
Lei non me l'aveva detto.
''Chiamami come vuoi'', queste erano state le sue parole.
Parole fredde, gelide come i suoi occhi.
Ma non potevo chiamarla come volevo... un nome doveva pur averlo.
Oppure non lo aveva?
... Whatsername?



Questo è il quarto capito della storia, spero che vi piaccia.
Ringranzio infinitamente Franklyn che ha recensito quasi tutti i miei capitoli, sei stata veramente
gentilissima! Poi volevo ringraziare  Rbd per aver recensito l'ultimo capito, mi fa tanto piacere sapere che
la mia storia ti interessa e la seguirai :)
Ed infine mi scuso umilmente con Drunky Bunny per non averla ringraziata della sua recensione nei
capitoli precedenti... :)  Insomma, grazie grazie grazie

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** I Looked Down ***


A svegliarmi quella mattina furono le urla di Trè.
Sbraitava come un pazzo nel corridoio dell'albergo, probabilmente era
in corso una lite furibonda al telefono con l'ex moglie Claudia, sta di fatto
che lo sentivo dalla mia stanza.
Guardai la sveglia: le sei e dieci.
Uscii e lo trovai, in pantaloncini e ciabatte, il viso rosso.
-Che hai da urlare?- chiesi, ancora assonnato.
Fece il giro del corridoio due volte prima di rispondere.
-Ti sembro uno che ha voglia di urlare a quest'ora del mattino?-
-Parla piano! che cazzo succede?-
Prese fiato.
-Solita ramanzina, solite stronzate! perchè non sono mai a casa, perchè
sono spariti duemila dollari dal suo conto in banca... stronzate!-
-Tu tagliale i fondi. Vedrai come cambierà modi di fare- dissi.
-Tu non conosci Claudia. E il fatto è che abitiamo sotto lo stesso tetto,
capisci? Potrebbe decidere di tenermi lontano da nostro figlio...
o peggio ancora!- ribattè il batterista.
-E... cosa sarebbe peggio?- chiesi, infine.
Trè mi fissò, irritato.
-Potrebbe decidere di non prepararmi più la cena! Cazzo!-
Mi aspettavo una risposta del genere e trattenni a stento un sorriso.
Jason ci raggiunse, con lo spazzolino da denti in bocca.
-Cosa cazzo avete da urlare?- domandò, stizzito.
-Non ora, Jason. Ho un giramento di palla che va a duemila!- borbotto
Trè, diriggendosi con passo svelto verso la sua camera.
Cominciata male la giornata. Alle sette partimmo per raggiungere il
posto dove si sarebbe tenuto il nostro concerto, per gli ultimi arrangiamenti
prima delle prove. I giornalisti erano appostati fuori dai cancelli, pronti per
fare le interviste e riprendere lo svolgimento delle nostre prove.
Il caldo era straziante. Abbandonai il resto del gruppo per trovare una
bottiglietta d'acqua fresca.
In realtà, non avevo la minima intenzione di stare con gli altri,
Volevo girare il posto perchè...
C'era qualcosa.
Qualcosa dentro di me che mi supplicava di farlo.
Un voce interiore che mi pregava di andarmene.
Vattene, Billie Joe.  Non è lì che devi stare.
Mi imponeva di lasciarli e di andare altrove.
Una strana sensazione cresceva dentro di me, minuto dopo minuto.
E non ero in grado di fermarla, di riprendermi.
La volevo seguire, a tutti i costi.
E mi si fermò il cuore, appena entrato sotto il tendone.
Che fottuto il destino.
Mi stava sorprendendo ogni giorno di più.
Sgranai gli occhi, non ero certo che la persona che avevo davanti agli occhi
fosse realmente lì. Davanti a me.
Stavo sognando?
Era lei. La ragazza del giorno prima.
La dannata.
Era lì, cazzo.
L'agitazione saliva crudelmente, dentro di me.
Quella voce interiore... Mi aveva condotto a lei?
Era da lei che dovevo andare?
Le guancie arrossirono vistosamente, le mani iniziarono a sudare.
Era lei, intenta nel fotografare gli ultimi ritocchi alla costruizione dell' enorme
palco. Per fortuna, non mi vide.
Pensai per un attimo di tornare indietro.
Ma il desiderio di guardarla negli occhi era più forte del timore, della paura,
persino della morte.
Mi avvicinai, cauto.
Ma poi mi resi contro di avere nulla da dirle, proprio nulla.
Però ero lì. Provavo la sensazione di conoscerla da una vita, eppure l'avevo
incontrata solo il giorno prima.
Ma era bastato così poco tempo per lasciare un segno dentro di me?
Sapevo di coprirmi di ridicolo, ma non mi importava affatto.
-Sei riuscita a leggere quel libro?-
Si voltò di scatto e in quel momento mi accorsi che il labbro inferiore della
sua bocca stava leggermente tremando.
-L'avrei letto, se qualcuno non fosse venuto a disturbarmi- ribattè.
Mi mostrò un sorrisino provocatorio. Tutt'altro che angelico.
-Non volevo disturbarti- dissi.
-Sono un'amante dei rischi, sapevo di trovarti qui oggi. Ed ero pronta ad
incazzarmi nuovamente- continuò lei.
-Allora sei venuta a cercarmi?- chiesi, un pò troppo in fretta.
Ancora quegli occhi, quei maledetti occhi.
E ancora quel dolore... così nascosto, così sfuggente.
Così mio.
-Pensi che io sia venuta per te?-
-Non penso, spero- ammisi.
-Ti darei troppa importanza- sbottò lei.
Sorrise, ma era un sorriso di sfida. Forse voleva giocare per vedere chi di noi due
fosse il più forte. Oppure indossava quella dura corazza solo per proteggersi da me.
Ancora non lo sapevo.
-Insomma, che ci fai qui?- chiesi.
-Sono venuta con mio padre- ammise lei.
-E chi è tuo padre?- continuai.
-E' uno degli organizzatori, si chiama John-.
Lo conoscevo suo padre. E sembrava totalmente l'opposto della figlia.
Ero terribilmente attratto da lei, ma non era un'attrazione normale fra due persone
che si piacciono. La sentivo tremendamente pericolosa.
Avevo quasi paura di lei. Non sapevo se ero ricambiato, il suo viso non lasciava
trasparire nessuna emozione, ne positiva ne negativa.
Di qualunque cosa si trattasse, sapevo già da subito che avrei dovuto stare alla larga
da lei. Ma credevo di non farcela.
-Ma tu chi sei?- chiesi.
-Perchè ti interessa così tanto?-
-Non ne ho idea-.
-Allora lascia perdere, è meglio- disse lei.
-Dimmi come ti chiami, almeno- la supplicai.
-Perchè dovrei farlo?-
-Perchè non dovresti?-
-Non puoi costringermi- ribattè.
Mise via la macchina fotografica, pronta per andarsene.
Ma non l'avrei lasciata fuggire. Un'altra volta, no.
L'afferrai per un braccio e lei si voltò, seccata.
-Voglio sapere il tuo fottuto nome, solo questo. Solo quel nome. Non pretendo niente
da te... Ne un'uscita insieme, ne un pò di sesso dopo il concerto, nulla.
Solo una fottuta parola, solo il tuo nome-.
Incazzata nera, gli occhi le scintillavano dalla rabbia.
-E tu sei solo un fottuto stronzo- replicò lei.
Così dicendo, riuscì a liberarsi dalla presa della mia mano con un'abile mossa
del braccio. Oltre che stronza, anche violenta...
Non poteva piacermi più di così.
Ben presto, venni a sapere che la mia Whatsername, in realtà, un nome lo aveva.
E che nome... Si chiamava Jane. Questo non lo venni a sapere da lei, ma da suo padre.
Con lui avevo un ottimo rapporto, ci eravamo incrociati poco dopo nel backstage.
E gli chiesi della figlia, dovevo sapere.
All' inizio fu spiazzato, ma poi sorrise.
-Ah! Jane. Con il tempo, imparerai a conoscerla-.
-Credo di aver già capito di che pasta sia fatta...-
Mi fissò, sconcertato.
-Di che parli?- chiese.
-Beh, ho idea di non starle molto simpatico. Ci siamo incontrati per caso e...
non fa altro che rispondere male a tutto ciò che le chiedo- ammisi.
-Beh... posso dirti solo una cosa. Conosco bene mia figlia, è una tipa per i fatti
suoi, senza grilli per la testa. E... di solito tratta male solo quelli che le piacciono-.
Rimasi stupito. Allora non era la leonessa che faceva credere di essere.
Nascondeva un lato di se che non voleva far scoprire.
Ne ero certo.
Io quella ragazza dovevo rivederla, in qualche modo.
Avrei fatto di tutto, pur di rivederla.
Anche solo per poco.
Decisi di cercarla, ma dovevo aspettare che se ne andassero tutti.



Ecco il quinto capitolo della storia! :)
Ringrazio tutti quelli che lo leggeranno...
Un grazie in particolare a Rbd che sta seguendo la mia storia con interesse e che ha recensito
anche l'ultimo capitolo, grazie mille :)
E, ovviamente, alla mia adorata Franklyn: cara, ti dedico questo capitolo che contiene il secondo
incontro di Billie con la ragazza senza nome, come la chiami tu :D
Grazie a tutti 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Illusion ***


L'unico mio vero problema erano i ragazzi, Mike in particolare.
Se mi avesse visto con lei, sicuramente sarebbe morto di gelosia, nonostante
la nostra storia fosse finita da un pezzo.
Mike non si era mai rassegnato e non erano rari i momenti in cui provava
a farmi delle avances. Ma tentavo sempre di dissuaderlo, ricordandogli la
promessa fatta tre anni prima. Avevo deciso di troncare con lui, per il bene di
Adrienne. Mike aveva accettato, ma era dura resistere con uno come lui.
Due settimane prima di partire eravamo finiti a letto insieme.
Mi ero ripromesso che non sarebbe più successo.
Eppure era difficile dimenticare tutti i bei momenti passati al suo fianco.
Ma ormai ero deciso.
Dissi ai ragazzi di avere degli impegni, loro insistettero un pò, ma poi si
decisero ad allontanarsi.
Entrai nel backstage e lì vi trovai Jane.
Era seduta, tra le braccia teneva una chitarra più grande di lei.
Stava strimpellando qualche piacevole nota.
Appena mi vide, la posò immediatamente.
Alzò gli occhi e fece uno strano gesto con le braccia, come per difendersi.
Era così piccola.
Ma da dove veniva una creatura del genere?
Era reale?
-Non pensavo che suonassi- dissi, quasi sottovoce.
Mi sedetti vicino a lei e si allontanò un pochino.
-Non sai tante cose di me- rispose.
Sempre quello strano comportamento, un rancore incomprensibile visto che
non ci eravamo mai conosciuti prima di allora. Era quello che mi spingeva a
cercarla?
-So come ti chiami, per cominciare. E so che non sei come vuoi far credere
di essere. Questo so e ora sono qui per te.
-Non sai niente di me- ripetè lei.
-Sei tu che non vuoi farti scoprire...-
Lei si alzò improvvisamente.
-I tipi come te hanno un solo modo per scoprire le persone. Ma non ti preoccupare,
non si arriverà mai a tanto- disse, con tanto di sorrisino di sfida.
-Non chiedo nulla di tutto ciò-.
Si girò e iniziò a fissarmi.
Abbassai lo sguardo.
Provavo sempre un certo imbarazzo quando lei posava gli occhi su di me.
Dovevo trovare il suo punto debole, l'unico che mi avrebbe permesso di smascherarla.
Ma non sapevo quale fosse e lei non aveva la minima intenzione di farmelo
scoprire. Fosse stato per me, sarei uscito immediatamente da quella stanza,
l'avrei mandato a fanculo in tutte le lingue del mondo.
Ma il fatto che iniziavo a detestarla era un brutto segnale.
Già, non ho mai avuto la presunzione di piacere a tutti. Mai.
Ma lei, no. Non poteva sfuggirmi in quella maniera.
Aveva un viso fatto per essere ammirato, una bocca fatta per essere baciata,
dei capelli fatti per essere accarezzati e un corpo... fatto per essere amato.
Peccato che lei non avesse alcuna intenzione di concedermi queste cose.
Tentai con il disinteresse.
-Mi farebbe piacere conversare con te, visto che sei una persona di compagnia,
ma avrei da fare- dissi, con un ampio sorriso.
All'inizio non mi prestò un minimo di attenzione.
Con mio stupore, iniziò a parlare.
-Sai, dicono tane cose di te- disse.
-Ad esempio?- chiesi.
-Beh, dicono che non sai fare nient'altro se non suonare, che sei una persona
spontanea e simpatica e che sei rimasto quello di sempre-.
Strano che mi dicesse tutte quelle cose carine.
Forse aveva capito che l'aria da cattiva non le si addiceva proprio.
-Dicono tante cose di me, ma non mi sono mai analizzato così profondamente-
risposi, rincuorato dalle sue parole.
-...Ma chissà perchè io non credo a nessuna di queste voci- finì lei.
Quell'ultima frase fu dura da parare.
Aveva intenzione di attaccarmi a tutti i costi.
Anche a costo di essere mandata a fanculo, ma io non avevo intenzione di
dargliela vinta.
-Sai, a me invece sono giunte voci su di te. Per cominciare, dicono che sei buona
come il veleno, poi a quanto pare non ti fai abbindolare dagli
sconosciuti di passaggio... e per finire sembra che non ti sono tanto simpatico,
pensa un pò!- 
Mi avvicinai, ero a tre centimetri da lei. Ne sentivo il respiro lieve.
-Ma chissà perchè non credo a nessuna di queste voci- continuai.
Lei mi guardò con un'aria che non prometteva nulla di buono.
Pensai che volesse picchiarmi.
Ma la sua smorfia si trasformò... in un lieve sorriso.
Un bellissimo, fottutissimo sorriso.
Un sorriso che mi tolse il respiro e accese in me un'improvviso senso di benessere.
Magico.
L'avevo in pugno.
-Pensala come ti pare- disse lei.
-La penso sempre come mi pare- ribattei.
Il telefono prese a squillarmi.
Dannazione.
Trè.
-Dimmi, che succede?-
Risposi con tono un pò troppo seccato e Trè se ne accorse.
-Ehi, calma Big! Ti ho chiamato per sapere se rientravi per cena- disse lui.
Guardai Jane.
Lei mi guardò.
-Perchè?- chiesi.
-Perchè con tanta probabilità, io e Jason saremo impegnati alla ricerca di
un parco divertimenti- rispose il batterista.
Afferrato il concetto: quei due sarebbero andati in cerca di qualche signorina
da scopare.
Motivo della chiamata: evitare di telefonare.
-Ho afferrato il concetto!-
-Ti chiederei di venire se non fossi sposato con figli- ridacchiò.
-Sai, Trè... potrei dire lo stesso di te-.
-Ora riattacco. Se mai ti passasse per la testa l'idea di tornare in albergo, non
ci trovi. Mike è andato a fare un giro. Non chiedermi altro- disse.
-Chiamerò Mike per sapere dove si è cacciato- lo rassicurai.
Dopo i saluti, riattaccai. Lei era ancora avanti a me, non si era mossa.
Uno sguardo indecifrabile.
-Pare che io sia solo, stasera- ammisi.
-Mi dispiace-
Mi mostrò un'espressione dispiaciuta. Falsa, ovviamente.
Non mollava.
-Ti va di venire via con me?-
Mi guardò, era scontato ciò che avrebbe risposto.
Ed io già lo sapevo.
Nonostante tutto, speravo che lei potesse lasciarsi andare, darmi fiducia.
-Ho un impegno e anche se non l'avessi non verrei via con te-
Iniziò a mettere apposto le sue cose, doveva andarsene.
Non volevo farla andare via così presto, ma non sapevo come trattenerla.
-Almeno fatti accompagnare fino in centro- la pregai io.
-Me la caverò-.
-Insisto- la presi per un braccio.
-Ascoltami. Lasciami perdere. Te lo chiedo per favore...- disse.
Si staccò da me e assunse uno sguardo un pò esasperato.
Prese la sua tracolla e se ne andò, senza degnarmi di una sola parola.
Mi sedetti.
Avevo combinato un casino, con lei.
Mi ero solo illuso che potesse essere minimamente interessata a me?
Ad uno come me?
Pensai, ripensai.
Ed infine, mi decisi a chiamare Mike.



Questo è il sesto capitolo della storia...
Ringrazio, ovviamente, tutti quelli che lo leggeranno.
Drunky Bunny: Ti ringrazio per la tua rencensione, mi ha fatto tanto piacere! :)
Franklyn: Oh, mia adorata! Mi dispiace di aver svelato il nome della
ragazza, ma non potevo fare altrimenti! :)  so che avresti preferito c ontinuare a chiamarla
''ragazza mistero'' ma... ha un nome poverina e non potevo non svelarlo ad un certo punto!
Comunque, sei sempre gentilissima! grazie mille per le tue recensioni :D

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** I'm Not Your Darling ***


In qualche modo, dovevo togliermela dalla testa.
Al secondo squillo, Mike rispose.
-Dimmi-
-Dove sei?- chiesi.
Silenzio. Forse Mike stava riflettendo.
Probabilmente pensava a cosa rispondere in quel momento.
-Sono andato a prendere una boccata d'aria... perchè?-
-Volevo raggiungerti- affermai.
Un altro silenzio.
-Troviamoci tra mezz'ora in albergo- disse, infine.
-Sì- risposi io.
Riattaccai. Forse non era la cosa giusta da fare. Forse stavo sbagliando.
Ma in quei giorni mi sentivo maledettamente solo.
E avevo bisogno di lui in quel momento.
Avevo un fottuto bisogno di lui sempre, in realtà.
Mezz'ora dopo rientrai in albergo.
Non avevo mangiato e la fame iniziava a farsi sentire.
Trovai Mike in terrazza, stava fumando una sigaretta.
-Pensavo volessi smettere- dissi.
Mike si voltò, continuando a fumare.
-Una qualche volta, me la posso accendere-.
Mi avvicinai a lui, ci guardammo negli occhi.
Senza parole.
Mike si attaccò ai miei fianchi. Inutile dire che ci stavo cascando di nuovo...
Non puoi, Billie Joe.
A casa c'è Adrienne, ci sono i ragazzi.
-Non mi dai un bacio?- chiese Mike.
Io volevo baciarlo.
A modo mio, io amavo Mike.
Mi girai e i pensieri scomparvero.
Ci baciammo e dopo venti minuti ci buttammo nel letto della mia stanza.4
E lì dentro, io ero solo suo. E di nessun altro.
Ma quella mattina, non sfiorai l'argomento con il mio amante.
Lui fece altrettanto.
Il concerto era previsto per quella sera, alle nove. Non ci restava altro che attendere.
L'unico modo per smorzare il nervosismo era bere.
Il mio stato di preoccupazione stava raggiungendo livelli critici così decisi di liberare
la mente facendo un giretto insieme a Trè.
Lascai perdere Mike.
Io e il mio fedele batterista ci recammo nella sala che gli organizzatori ci avevano
assegnato per le prove prima di salire sul palco.
Attaccammo gli amplificatori, ma senza Mike non aveva molto senso provare.
Il bassista ha un ruolo fondamentale all'interno di una band e per mia sfortuna, il mio
bassista me l'ero portato a letto più di una volta.
Trè si decise a chiamarlo, ma stranamente Mike disse di avere impegni con i giornalisti.
-Di che cazzo stai parlando? Noi non siamo stati avvisati per rilasciare delle
interviste!- sbraitava Trè al telefono.
Sentivo Mike rispondere con voce alta, al di là della cornetta.
In realtà, sapevo che voleva tenersi a distanza da me.
Almeno fino al pomeriggio.
-Va bene, va bene. Noi stiamo qui qualche ora, dopo passa perchè ci servi-
sbottò Trè, riattaccando. Era concentrato, nonostante la sera prima avesse fatto chissà
quali cose.
Io avevo solo una gran voglia di rivedere Jane.
Ma non sapevo dove trovarla, ne dove cercarla.
Tirai fuori la mia chitarra e presi a suonare tentando di allentare la tensione.
Ma non riuscivo stranamente a concentrarmi, la mia testa viaggiava su altre frequenze
e non erano certo quelle di American Idiot. Anzi.
Mike arrivò circa un'ora dopo, senza degnarmi di un saluto.
Provammo per due ore.
Ad interromperci fu la chiamata degli organizzatori, ci davano il via per iniziare i
preparativi. Riuscii a farmi dare qualche informazione e venni a sapere che finita la
nostra esibizione, si sarebbe tenuta una cena con tutto lo staff.
Sorrisi sperando che anche Jane e suo padre, avrebbero partecipato.
-Allora?- domandò Trè, impaziente.
-Andiamo a prepararci-
Era ora.
Entrammo in macchina diretti all'albergo, per raccogliere tutte le nostre cose e dirigerci
con le nostre macchine e la sicurezza, sul luogo.
Ero convinto che con molta probabilità avrei incrociato Jane prima della nostra
entrata in scena. Ne ero sicuro, lo sentivo dentro di me.
E questo mi dava una scarica di adrenalina incredibile, anche se ero convinto che il
nostro incontro non avrebbe fruttato niente.
Avevo bisogno di vederla, quella ragazza aveva un qualcosa di inspiegabile che mi
spingeva a cercarla, nel bene e nel male.
Ma mancava poco alla nostra partenza e non ero ancora riuscito ad avere qualcosa di
concreto da lei, se non risposte fredde e arroganti.
Però, non demordevo.
Quel pomeriggio, ci fu una sorpresa.
Ma il mio corpo, la mia mente, il mio cuore erano già pronti a riceverla.
Ed accudirla.
Il destino, ancora una volta, non mi deluse.
Lei era venuta.
Era lì, ed era lì per me.
Ne ero certo, a poco sarebbero servite le smorfie e le parolaccie.
Trè era andato a sistemarsi i capelli e per mia fortuna anche Mike non era in circolazione,
con la scusa di prendersi un caffè.
Mi stavo vestendo, quando il suo viso così incantevolmente diabolico apparve sulla
soglia della porta. All'inizio mi spaventai.
Ma inutile dire che non mi dispiaceva affatto che lei fosse lì, in tutta la sua bellezza.
Con gli occhi fissi su di me.
Con scritto in viso... Billie, sono qui. Sono tua.
Appena mi fu davanti, cercai immediatamente i suoi occhi.
Ed eccoli, come fulmini, di uno colore inspiegabile.
Mi morsi le labbra, lei si tolse alcune ciocche di capelli dal pallido viso.
Non era truccata, appure toglieva il fiato.
-Le porte sono fatte per essere chiuse- disse.
In effetti, avevo lasciato la porta spalancata, ma non era un problema visto che facevano
parte dello staff solo uomini.
-Non avrei mai pensato che entrasse una donna, tantomeno... te-
Sorrise.
-Perchè, cos'hanno le donne come me?- domandò.
Lasciai perdere il fottuto discorso e mi avvicinai a lei, la presi per le braccia.
Rabbrividì.
-Sei la persona più fragile che io abbia mai incontrato... e non ho parole...-
dissi, tutto d'un fiato.
Abbassò lo sguardo.
-Cosa vuoi da me?-
In realtà, a quella domanda non sapevo rispondere.
No, Jane. Non so dirti cosa mi spinge da te.
Ma ero lì, con lei. Solo noi.
-Non so risponderti- dissi, sottovoce.
Abbassai lo sguardo e presi ad allacciarmi i bottoni della camicia.
Poi mi sistemai le maniche, evitando di guardarla.
Mi sentivo in imbarazzo. Lei se ne accorse.
-Che c'è?- chiese.
-Mi metti un pò in imbarazzo- risposi.
Rise.
-Tu in imbarazzo?-
-Tutti possono essere in imbarazzo, e tu mi metti in imbarazzo.
E' per questo che mi sconvolgi, è raro che io mi senta in imbarazzo- risposi.
Mi sembrò che sorridesse, ma non ne ero sicuro.
Era così ambigua che non riuscivo nemmeno a capire se sorridesse o meno.
Ma nonostante il suo comportamente, era adorabile.
Nonostante il suo rancore nei miei confronti, io la vedevo spontanea, vera.
Non era costruita e sebbene tentasse di mentire persino a se stessa, era così
fragile che l'avrei potuta schiacciare con una sola parola.
-Che tipa strana che sei-
-Potrei dire lo stesso- rispose.
-Allora siamo uguali-
Sì, uguali. Forse ''gli opposti si attraggono'' non vale.
Forse tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una persona come noi, che sentiamo
realmente vicina a noi stessi, al nostro modo di fare.
Parte di noi, insomma.
Forse ero solo alla ricerca di me stesso.
-Non credo proprio- disse.
-Io credo di sì-.
Ci guardammo dritto negli occhi per qualche secondo finchè non la presi tra
le braccia. Lei provò a divincolarsi, ma non mollai la presa.
Allora iniziò a tirarmi pugni per difendersi. E urlare.
La baciai sul collo, lei spostò la testa per evitare un possibile bacio sulle labbra.
Nel frattempo le mie braccia stavano diventando sacchi da boxe.



Grazie a tutti quelli che leggeranno questo settimo capitolo :)
Rbd: Mi fa piacere che ti piaccia Jane e anche se recensisci un pò in ritarduccio... non importa, le
tue recensioni mi riempiono il cuore di gioia, grazie!
Drunky Bunny: eh, eh aspetta a dire che la sfida la vincerà Billie! :) eheheh Jane purtroppo o
per fortuna, è un avversario tutt'altro  che facile da battere, lo dimostrerà anche nel prossimo
capitolo, intanto spero ti piaccia questo!
Franklyn: oh oh la mia adorata ( che recensisce sempre questa storiella :D) mi fa tanto piacere che
trovi Billie uno dei più simili a quello vero :)
Beh, inutile dire che sono sempre felice di leggere le tue recensioni!
Grazie grazie

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** I Feel The Death ***


Con tutta la forza che aveva in corpo mi sferrò un calcio sull'inguine.
Una fitta percorse improvvisamente il mio corpo.
Dolore, dolore, dolore.
Fui costretto a lasciarla.
Si ricompose e per tutta risposta mi mollò un ceffone in pieno viso.
Cazzo! Ricordo che mi fece quasi partire il naso.
Avevo voglia di insultarla, prenderla a pugni, picchiarla a sangue.
Lasciarla per terra.
Farle del male, in qualche modo.
E l'avrei fatto. Oh cazzo, se l'avrei fatto!
Lei si fermò, rimase a fissarmi per qualche secondo, ma io ero troppo occupato
a massaggiarmi il corpo ancora dolorante per notare che dai suoi occhi stava
scendendo una fragile lacrima che le rigò il viso stravolto.
Rimasi lì, impalato come un coglione.
Non sapevo che fare, mi sentivo in colpa.
Misi una mano davanti al viso pensando che volesse rincarare la dose, ma non lo fece.
L'unica cosa che fece fu avvicinare il viso alla mia spalla.
E si appoggiò.
Istintivamente l'abbracciai.
Sentivo le sue lacrime bagnarmi la camicia.
Appoggiai il viso sul suo collo e ne odorai intensamente il profumo.
Avvertii una strana sensazione, ma non era piacevole.
Anzi, amara. Sgradevole.
...Sensazione di morte.
Il cuore iniziò a battere più forte.
Morte. Ma perchè la morte?
In quel momento esatto, arrivarono i ragazzi. Trè fece per entrare, ma rimase sulla porta
ad osservare la scena che aveva davanti.
Mike, invece, entrò senza degnarmi di uno sguardo.
Lei si staccò immediatamente da me, ci guardammo negli occhi.
Intanto, il mio cuore era scivolato fino ad arrivare accanto allo stomaco.
Se ne andò, senza dire una parola.
Solo allora Trè si decise ad entrare.
-Abbiamo interrotto qualcosa? Chi era quella figa?- chiese.
-Una ragazza che ho conosciuto- risposi, tentando di sviare l'argomento.
-Nostra fan?- continuò il batterista.
-Sì, non so come sia entrata qui-. Tutte balle.
-E come mai piangeva?-
-Sta attraversando un brutto periodo, me ne ha parlato-.
Mentivo, ma non avevo altra scelta.
Mike era troppo attento, sapevo che non ci sarebbe cascato.
Eppure non disse una parola, si limitò a sbrigare le sue cose.
Sapevo che l'idillio non sarebbe durato a lungo, mi ero già preparato ad affrontarlo.
Infatti, non appena Trè annunciò di andare a mettere qualcosa sotto ai denti, Mike ne
approfittò per attaccare il discorso.
-Vedo che fai conquiste anche qui- disse, gelido.
-Pensavo ti importasse dei nostri fans, ci amano- risposi.
Stavolta, non si trattenne.
-Non prendermi per il culo, Billie. Quella ragazza l'ho vista anche ieri alle prove, stava
fotografando i lavori. Non è una nostra fan e anche se lo fosse, non ti ha chiesto
l'autografo- ribattè.
Mi aveva beccato. Mike era intelligente e non si lasciava mai sfuggire nulla. Ed io lo
conoscevo bene.
-Va bene, è la figlia di uno degli organizzatori. Contento? Non volevo dirtelo-
-E abbracci tutte le figlie degli organizzatori? Credevo avessi una dignità, oltre che
una moglie e due figli, cazzo!- disse, incazzato.
-E un bassista innamorato di me che ora sta morendo di gelosia?- aggiunsi io.
-Ti sbagli. Abbiamo deciso, ormai. O meglio, tu hai deciso! perchè io non ho avuto
voce in capitolo- sbottò.
-Avevamo anche deciso di non riparlarne più- risposi.
-Non sono io che ho tirato fuori il discorso. Per quel che mi riguarda puoi farti
tutte le donnette che trovi in giro, puoi andare con chi cazzo ti pare! Ma non venire
da me a parlare di Adrienne-.
Detto questo, se ne andò.
Sapevo di aver fatto la cosa sbagliata, di aver ferito Mike.
Mi sentivo una merda per questo.
Ma ormai non potevo tornare indietro.
Il danno era fatto. Decisi di domandargli scusa, ero sicuro che mi avrebbe
perdonato.
Quando andai da lui, era impegnato nel sistemarsi i capelli.
Finse indifferenza quando lo salutai.
-Mi dispiace-
-Lo so- rispose.
Mike si guardò allo specchio.
-Sono stato un coglione, prima- aggiunsi.
-Non posso darti torto- ribattè.
-So...che non è facile, ma ti assicuro che non è facile nemmeno per me.
Sapere che non stiamo più insieme, cazzo, mi ferisce!-
-Tu lo hai deciso!- affermò lui.
Aveva ragione, ma non potevo fare altrimenti.
Con Mike le cose andavano avanti da anni, ormai.
Mia moglie ci aveva beccati più di qualche volta in atteggiamenti inequivocabili.
Ma avevo sempre mentito.
-Sai meglio di me che è stata la cosa giusta da fare. Per me, per te, per i nostri
figli. Cazzo, Mike abbiamo dei figli! cosa racconterò a Joey e Jakob? che sono
andato per vent'anni a scopare con il mio bassista? che ho tradito la loro madre
con il mio migliore amico?-
Mike si voltò di scatto.
-Ma che cazzo stai dicendo, Billie? Non ti sei mai fatto scrupoli nella tua vita!
E adesso? adesso sei diventato il santo del quartiere? O forse è quello che vuoi
far credere agli altri? Fai di tutto per ferirmi, cazzo!-
-Non è vero, lo sai! io ti amavo e... ti amo tutt'ora. Ma amo anche Adrienne e
i miei figli. Non posso voltare loro le spalle- dissi, difendendomi.
-Non ti ho chiesto di farlo, ti ho chiesto solo di non prendermi per il culo!-
Non potevo dargli torto. Tre anni prima, avevo preferito la mia famiglia a lui.
E aveva tutte le ragioni per avercela con me.
-Vieni qui- dissi.
Mike si voltò e lentamente si avvicinò.
Lo presi tra le braccia e ci baciammo.
-Io ti amo- gli dissi.
Lui rispose con un bacio che mi tolse il respiro.
Mi prese e mi gettò per terra.


Ecco qui l'ottavo capitolo.
Un enorme grazie alle mie tre recensitrici: Franklyn, Drunky Bunny e Rbd.
Franklyn: Oh, mia adorata (ormai ti chiamo così :D) beh,  lo sai che mi piace essere sadica!
muahahahahah! beh, che ne pensi di questo capitolo? :)
Drunky Bunny: Ecco a te questo ottavo capitolo, lo volevi, no? :)
eccoti accontentata! Spero ti piaccia, dimmi che ne pensi!
Rbd: Ahahahah le tue previsioni su Jane erano esatte! beh, più che gonfiarlo di botte gli
molla un ceffone (ho sentito male per lui!)
Leggi questo capitolo, spero che ti piaccia! :)
Grazie




Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Don't Cry For Me, Jane ***


In quel momento desideravo solo trovarmi sotto di lui.
Volevo farlo l'ultima volta.
L'ultima, solo una. Poi basta.
Ogni volta volevo che fosse l'ultima, ma non riuscivo a mettere una fine
definitiva alla nostra passione.
Ai nostri giochi.
Ogni volta con Mike era come la prima.
Mi piaceva il suo modo di comportarsi con me nel gioco dell'amore, era
così dolce e protettivo nei miei confronti.
Quando finimmo, esausti ed affannati (lui più di me, molto più di me), mi
diede un dolce bacio sulla guancia.
Iniziai a rivestirmi abbastanza in fretta, temevo che gli altri potessero insospettirsi,
vista la nostra prolungata assenza (dovuta a motivi che solo noi sapevamo).
Ma il mio cellulare squillò.
Era Adrienne.
Guardai Mike, si stava infilando i pantaloni.
-Adie?-
-Ciao, tesoro. Come stai?- domandò lei, premurosa come sempre.
-Io sto bene, tu come stai? I ragazzi?-
-Stanno bene, stai tranquillo. Approposito, ho una bella notizia da darti!- iniziò lei,
senza trattenere l'entusiasmo.
-Che succede?- chiesi.
-Veniamo a trovarti la prossima settimana a Berlino, sei contento?-
Sospirai. La presenza di Adrienne, avrebbe sicuramente reso le cose più difficili
di quanto già erano, soprattutto con Mike.
La presenza di Adrienne era scomoda, in quella situazione.
-Ah, beh... sono contento. Quando partite?- chiesi, iniziando a mangiucchiarmi le unghie.
-Martedì abbiamo il volo. Jakob non vede l'ora, non è mai stato in Germania! Mi
chiede in continuazione di te...e poi ci manchi tanto-
-Anche voi mi mancate- dissi.
-Adesso ti lascio, avrai sicuramente da fare lì e non voglio disturbarti. Ti amo-
La salutai e riattaccai.
Il pensiero di rivedere Adrienne, mi rallegrava e intristiva allo stesso tempo.
Dentro di me, mi sentivo perduto. Ormai, ero caduto troppo in basso anche se facevo
di tutto per convincermi del contrario.
Erano vent'anni che mentivo a mia moglie, era diventata quasi una routine fatta
di menzogne e sotterfugi.
Inventavo mille scuse assurde per rifugiarmi tra le braccia di Mike.
Ma quello era il momento di dire basta definitivamente.
Ancora non sapevo dove avrei trovato la forza per allontanarmi da Mike, lui era
diventato il mio mondo, il mio punto fisso. Ci siamo amati dal primo momento, noi due.
Mi sono sempre messo alla ricerca di me stesso, del vero Billie Joe.
E forse l'avevo trovato un pò in Mike...e in Jane. Non volevo farmeli scappare.
Peccato che uno dei due lo conoscevo come le mie tasche, mentre l'altra era
per me un mistero irrisolvibile.
E Adrienne?
Mi sentivo una merda, ma non potevo fare altrimenti.
Avevo bisogno di lei, ma amavo Mike.
Amavo lei, ma avevo bisogno di Mike.
La ruota continuava a girare e non c'era mai una fine.
Non sapevo come allontanare Mike una volta per tutte, limitandomi a frequentarlo
solo come amici e colleghi, non era facile.
Avevo persino pensato di mettere nuovamente incinta Adrienne, sperando che Mike
si mettesse una mano sul cuore, ci avevo anche provato... ma senza successo.
Non era rimasta incinta ed io e Mike eravamo ancora insieme.
Tutti i miei sforzi erano andati a puttane, e dire che le avevo provate tutte per
farlo allontanare da me.
Mike aveva litigato più volte con l'ex moglie Anastasia proprio a causa mia, eppure
non temeva di perdere tutto, come me.
In definitiva, l'unica cosa che riuscii a fare una volta terminata la chiamata di Adrienne,
fu sorridergli. Lui fece altrettando, ma ero sicuro che fosse un sorriso di circostanza.
-Viene qui?- chiese, voltandosi.
-Mercoledì, a Berlino- risposi.
Non disse altro. Nemmeno io.
Non volevo infierire.
Decisi che avevo bisogno di una boccata d'aria fresca così uscii usando le scale
d'emergenza. Mi aspettavo che Trè fosse da qualche parte lì in giro, ma non trovai lui.
Fuori, trovai lei.
Ancora una volta, lei.
In realtà avrei voluto trovarla per sempre, immersa nei suoi pensieri.
Totalmente distante da me e dal resto del mondo.
Mi pareva che fosse diventata ancora più bella, dopo aver pianto.
Forse le lacrime rendevano il suo viso ancora più meraviglioso.
Gli occhi erano lucidi e il naso rosso.
Ma veramente esisteva una bellezza del genere?
Forse era solo frutto della mia mente, non riuscivo a capacitarmi.
Avevo una voglia tremenda di abbracciarla ancora, sentire il contatto con la sua
pelle fredda. Mi faceva venire i brividi.
Ma quella sensazione orribile...
Mi aveva sconvolto, mi tormentava.
L'avrei riconosciuta anche in mezzo ad un milione di persone, con il suo piglio
deciso e lo sguardo dannatamente perso.
E i suoi occhi. Grandi, inespressivi.
Stava fumando una sigaretta.
-Fumare fa male- le dissi, avvicinandomi.
-Voglio farmi del male, allora-
-Mi sono fatto del male per parecchi anni, non è stata una bella esperienza. So cosa
vuol dire... ricominciamo?- chiesi io, sorridendo lievemente.
Non sapevo che risposta mi avrebbe dato, l'unica cosa che fece lei fu... sorridermi.
Allora sì. Allora era tutto chiaro.
Quando mi sorrise capii che lei non era una persona.
Lei era la bellezza in persona.
Una bellezza che mi stregava, da capo a piedi. Avrei fatto di tutto per rivederla.
Sarei andato anche in capo al mondo, per incontrarla.
-Insomma... domani partite-
Quest'ultima sua frase mi riportò alla realtà. Mancava poco.
-Non andiamo lontano, suoneremo a Berlino-
-Berlino è lontano- disse, fissandomi quasi volesse implorarmi di restare.
-Farò di tutto per vederti ancora-
Non sapevo se ne fosse contenta o meno.
-Non credo alle tue parole- disse, gelida come non mai.
Il cuore mi batteva all'impazzata, le mani mi tremavano.
Volevo solo viverla senza pensieri, assaporando quel momento.
-Ma non capisci? tu...-
Non riuscii a finire la frase, non trovavo le parole.
-Io cosa?- sospirò lei.
-Tu sei così... Non trovo le parole per descriverti. Un modo ce l'avrei per...-
Era ovvio. Lei parve non prenderla bene.
-Avrei dovuto immaginarlo! Uno come te...-
Fece per andarsene, ma la trattenni e le appoggiai un dito sulla bocca.
Dovetti toglierlo molto presto, visto che provò a morderlo.
-Ma che cazzo vuoi da me?- strillò lei.
Presi il suo viso tra le mani.
-Io... farei di tutto per non farti soffrire, te lo giuro!- ammisi.
Stavo diventando terribilmente sdolcinato.
-Ma lo stai facendo. Trattenendomi, mi stai facendo del male. Lo vuoi capire?
Lasciami andare, ti prego- mi supplicò lei.
La lasciai.
-Non riesci proprio a vedere il buono che c'è in me, Jane? Ti basi solo su
quello che dice la gente? Non te ne frega un cazzo!-
-Stai solo complicando le cose- disse.
-No, sto solo seguendo il cuore. Ed è l'unica cosa che continuerò a fare- replicai
io, cercando di tranquillizzarmi.
Già, il cuore. Avrebbe dovuto condurmi da Adrienne, a casa mia.
E invece mi portava da tutt'altra parte.
Sapevo già che se Jane si fosse concessa a me... avrei mollato tutto su due piedi.
Era un rischio che mi spaventava, ma che volevo correre.
-Dimenticati che esisto-.
Così dicendo, scomparve dalla mia vista.
Fosse facile, pensai. La sua immagine era fissata ormai nella mia testa.
Il suo viso così candido, ma allo stesso tempo misterioso.
Le sue labbra, che avrei voluto consumare a suon di baci.
Il suo corpo, che avrei voluto esplorare alla ricerca di qualche tatuaggio
nascosto.
Non riuscivo a farmi amare da lei.
Possibile che quella donna mi avesse messo totalmente in crisi?
Ormai era un'ossessione.


Ecco a voi il nono capitolo!
Bene, allora ovviamente ringrazio le mie fedeli recensitrici Franklyn, Drunky Bunny, Rbd e...
una nuova lettrice, Rebel Of Suburbia!
Franklyn: Ti ho vista molto confusa, nell'ultima recensione... beh, chissà che questo capitolo
ti chiarisca un pò le idee, mia adorata! :)
Drunky Bunny: Lo so, lo so... Billie è parecchio strano! Prima vuole una cosa e poi ne vuole un'altra..
o addirittura due nello stesso momento... spero che ti piaccia questo capitolo!
Rbd: Ahahahah! Magari Billie venisse preso a pugni da tutti... :) eheheh un pò di botte, in effetti
se le merita! Comunque, per quanto riguarda la sensazione di morte che Billie prova abbracciando
Jane, la  proverà da qui in poi ogni volta che avrà un contatto anche minimo con lei.
Ha un significato, certo, ma non posso svelarlo ora... dovrò tenerti sulle spine, no? :)
Rebel Of Suburbia: Ehi! Ti ringrazio tantissimo per la tua recensione nel capitolo precedente...
beh, che dire non può che farmi piacere il fatto che hai deciso di seguire la mia storia! :)





Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Wrong ***


Tornai dentro e trovai Trè, seduto sopra un divano.
Visibilmente nervoso.
-L'attesa mi uccide!- affermò, sospirando.
-A chi lo dici...- sospirai, tentando di nascondere il mio stato d'animo a
causa della discussione con Jane.
Ma ciò che provavo era fin troppo evidente.
-Cazzo, Big! Ma come cazzo ti sei vestito?- esclamò il batterista.
Mi guardai.
Merda! Avevo la camicia messa a rovescio, colpa di Mike.
Mi ero vestito in fretta e furia dopo ciò che era successo.
La buttai sul ridere.
-Io e Mike ci abbiamo dato dentro! E mi sono vestito in fretta...-
Trè si mise a ridere di gusto.
Dovevo fingere bene e per farlo avevo bisogno di fare ironia. In realtà,
ciò che avevo detto era vero ma Trè era sempre stato ignaro della reale
relazione tra me ed il bassista. Si rideva e scherzava sull'argomento...
Peccato che in fondo, tutto ciò fosse vero.
Come Adie, anche Trè ci aveva beccati più di qualche volta in atteggiamenti
intimi, ma non aveva mai toccato l'argomento seriamente.
Ciò mi faceva pensare che forse non ci aveva mai riflettuto sopra.
Oppure voleva tenersi fuori da quella storia, visto che sarebbe diventato
nostro complice se, per disgrazia, tutta la faccenda fosse arrivata alle
orecchie di Adrienne.
Non volevo nemmeno pensare a ciò che sarebbe potuto accadere.
Mia moglie mi avrebbe mollato in tronco e non mi avrebbe più permesso
di vedere i miei figli. A poco sarebbero servite le scuse o i mazzi di fiori,
un tradimento durato vent'anni non lo avrebbe mai perdonato.
La conoscevo troppo bene, il perdono non era mai stato il suo forte.
Piuttosto, ancora mi chiedevo come cazzo avevo fatto a non farmi
mai scoprire. Forse perchè io e Mike eravamo sempre stati vigili,
soprattutto in sala di registrazione o in studio.
Trè mi fissò con aria investigativa.
-Ti vedo strano in questi giorni- disse. Aveva ragione.
Non mi sentivo più me stesso, ero dannatamente fuori dal mondo.
Ansioso.
-Più di come sono normalmente?- chiesi.
-Certo, ammetto che il primato rimane a me. Però c'è qualcosa che mi sfugge...-
piantò lo sguardo su un angolo della stanza da lì non lo mosse.
Ogni tanto aveva quei momenti in cui affermava di raggiungere la pace
interiore fissando il vuoto.
-Ehi!- gli sventolai una mano avanti agli occhi e si destò, di scatto.
-Stavo dicendo...?- chiese.
-Che ti sfugge qualcosa- risposi.
-Sì, esatto. Mi sfugge qualcosa, ma il vero problema è che non so con
precisione di che cazzo stavo parlando- ammise.
Lo dicevo sempre: Trè era venuto al mondo per farci ridere con le sue
cazzate. E per diventare il nostro batterista.
A differenza di me e Mike, era sempre stato più in carne.
Ed era una cosa che gli avevo sempre invidiato.
Con lui mi ero sempre sentito a mio agio. Riusciva a farmi ridere in qualsiasi
circostanza, era fatto così. Ed io lo adoravo.
Più di una volta, avevo fantasticato su una possibile storia con lui, ma non
glie ne avevo mai parlato, non mi andava di creare altri casini.
A completare la mia sofferta situazione sentimentale di sarebbe mancata
solo una relazione con Trè!
Dopo avrei potuto veramente dire addio ad Adrienne.
Ma nonostante tutto, mi piaceva sognarlo segretamente.
Così come segretamente sognavo Jane.
Ciò che provavo non potevo descriverlo e non posso farlo tutt'ora.
La sua presenza, mi ipnotizzava.
Tutto il mondo intorno a me, cambiava.
Le persone non esistevano più e l'unico rumore percepibile era il battito
dei nostri cuori.
Il suo cuore.
Avrei voluto strapparglielo dal petto per potermene impossessare.
Avrei voluto inoltrarmi nella sua oscura intimità, con sconvolgente cattiveria.
Stavo delirando?
Ogni pensiero era rivolto a lei.
La notte non c'era che lei, con i suoi fottuti pensieri.
Pensieri che rimbombavano in me.
E sapevo che non mi sarei dato pace... Viva o morta che fosse.
Forse lei non era altro che l'immagine di ciò che volevo che fosse, forse non
era realtà. Forse era solo un dannato sogno che mi perseguitava giorno e
notte.
O forse lei non era altro che me.
Ne più, ne meno. Oppure lei era solo pazzia?
Più andavo avanti, più mi sentivo perso. Mi ero veramente ridotto a quel
livello? Al punto da mettere in discussione tutto ciò che avevo costruito in
tutti quegli anni? Ero davvero disposto a sacrificare la mia famiglia, i miei
figli, la mia vita, la mia dignità ammesso che ne avessi ancora una?
Ero disposto a mandare tutto a puttane?
Forse era solo un capriccio.
Forse da lì a poche settimane, mi sarebbe passata.
Sarei tornato a casa tranquillo e avrei condotto la vita di sempre con mia
moglie ed i miei figli. Sì.
Forse avrei dovuto aspettare che passasse quella brama d'amore per lei.
In fondo che cosa stavo perdendo?
Una donna, solo una donna.
Una donna che non sapevo da dove venisse, ne chi fosse. Di lei conoscevo
solo il fottuto nome.
Non era niente per me.
Praticamente, valeva meno di zero.
Ma... una donna sola, poteva farmi rivivere la mia vita?
Solamente guardandomi negli occhi?
Come poteva farlo, come poteva riuscirci, quella perfetta sconosciuta?
Come poteva, dannazione, farmi sentire così a casa?
Ero nel bel mezzo della mia riflessione, quando Trè mi fece sobbalzare
mollandomi una pacca.
-Ehi cazzo! Mi senti?-
-Sì, ti sento cazzo!- esclamai.
-E allora cosa ti ho appena detto?-
Pensai, ma non l'avevo proprio cagato di striscio.
-Non ti stavo ascoltando- dissi.
-Vedi, cazzo! Non mi ascolti quando parlo. A cosa stavi pensando?-
-A... tante cose. Ho un sacco di pensieri per la testa, in questo momento.
Adrienne, i ragazzi- risposi.
Mi appoggiò una mano sulla spalla.
Avrei voluto confidarmi con lui, ma sarei dovuto partire dalla mia storia
con Mike e non mi andava.
-Non so più che fare, Trè- dissi.
-A cosa ti riferisci?- domandò.
-Non... non lo so. Non lo so, nemmeno io-
Trè divenne improvvisamente serio.
-Non posso darti un consiglio, Big. Non sono in grado di farlo, cazzo, ma...
posso dirti solo una cosa-
-Cosa?- chiesi, impaziente.
Mi puntò un dito sul cuore.
-Usa questo. Usalo, come hai sempre fatto e sono sicuro che... ti dirà lui
cosa fare. E non sarà uno sbaglio-
Sorrisi dolcemente.
Grazie Trè.

Ehi! Eccomi di nuovo qui, per questo nuovo capitolo.
Beh, ormai ne pubblico uno al giorno, lo so che non ne potete più! :D
Ringrazio, come ogni volta, le mie care e fedeli recensitrici!
Franklyn: Mia adorata, non ti preoccupare per le tue recensioni. Mi rendono sempre felice
e poi non le trovo insulse, anzi! Lo so, lo so... Billie è da prendere a pugni! :)
Rbd: Devo ammettere che tu... hai colto realmente la personalità di Jane. E non è facile,
è complicata da capire. Comunque sono curiosa di sapere se ci hai azzeccato su quel
particolare!!! Mmh... mi hai proprio incuriosita!
Drunky Bunny: Ehi ehi, lo so che i capitoli sono sempre troppo corti ma... sono molto pigra
e non ho quasi mai voglia di scrivere! Perdonami :)
Rebel Of Suburbia: Beh, hai ragione. Forse Billie non è disposto a lasciare moglie e
figli per Jane, ma... non è disposto nemmeno a lasciarsela scappare.
Se li vuole tenere tutti, a quanto pare :)
Un'ultima cosa, lo so. Billie qui mente, inganna, ferisce.
E' da prendere a pugni più di qualche volta, ma...
Alla fine sceglierà.



Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** My Mind ***


Rimasi a parlare con Trè per circa un'ora.
Parlammo di tutto, dei nostri pensieri, dei nostri progetti futuri.
Trè aveva intenzione di trascorrere le vacanze in Europa, quell'estate.
Quando mi chiese cosa avessi intenzione di fare, all'inizio non seppi rispondere.
Poi dissi che forse sarei andato in Italia con Adrienne ed i ragazzi.
Ma stavo mentendo.
La vacanze avrei voluto trascorrerle in Inghilterra, proprio in quella città,
non in compagnia di mia moglie ma tra le braccia di un'altra donna.
Ma pensai che non fosse il caso di riferirlo a Trè.
O forse sì?
Mi avrebbe capito ed aiutato?
No. Era meglio non rischiare.
Salimmo sul palco quella sera, alle nove.
Dal backstage sentivo le urla scatenate delle persone che stavano fuori, in attesa.
Posai lo sguardo sui ragazzi in prima fila, piangevano di gioia.
La loro braccia erano alzate sperando di ricevere una carezza.
O anche solo un saluto.
I pugni si levavano in aria.
Gridavano come scellerati.
E tutto ciò era terribilmente piacevole.
Vedevo i ragazzi dietro allungare il collo per poterci vedere.
Riuscivo a leggere sul viso della gente l'ansia che accompagnava quel momento.
L'adrenalina che scoppiava nel cuore.
Saltavano, ridevano.
Non riesco mai a descrivere l'emozione che mi attanaglia lo stomaco, ogni volta che
scalgo su un palco.
Una sensazione unica, che si impossessa di me. In quel momento, mi sento quasi
morire. Ogni volta come se fosse la prima.
E così successe anche quella sera, in mezzo a tutte quelle persone.
Mi chiedevo dove fosse Jane, se fosse lì, in piedi, schiacciata tra la folla.
Lì, per vedere me.
In quel posto così magico, davanti a cinquantamila persone.
Mi chiesi cosa avrebbero potuto pensare di me tutti quei ragazzi, se solo avessero
saputo come stavo conducendo la mia vita. Mi avrebbero ancora amato per ciò
che ero? Oppure mi avrebbero abbandonato?
Nella mia vita non ho mai dato un peso al bene ed al male, per me tutto è sempre
stato relativo. Il giusto può essere sbagliato, a deciderlo sono solo le persone.
Ma in quel periodo, mi sentivo roso dai sensi di colpa.
Nei confronti di Mike, nei confronti di mia moglie.
Nei confronti dei miei fans.
Era ora di mettere in chiaro le cose. Era forse quello il vero Billie Joe? Un uomo
bugiardo, fedifrago, dannatamente perduto?
Oppure c'era ancora una speranza di poter sistemare le cose?
Forse avrei dovuto allontanarmi da tutto ciò che mi faceva soffrire.
Ma cos'era che mi faceva soffrire?
E poi, perchè soffrivo?
Era lo stress del lavoro? Incontravo persone nuove ogni giorno, giravo il mondo
come fosse niente, facevo parte di una delle band più famose sulla terra.
Avevo una bellissima casa, un lavoro che amavo, una famiglia magnifica,
un conto in banca invidiabile. E milioni di fans che avrebbero fatto la fila
per incontrarmi.
Ero famoso e conosciuto, stimato e magari anche invidiato.
E non me ne fregava un cazzo.
Dentro di me, conducevo un' eterna lotta per andare avanti.
Urlavo. Certe notti, mi sentivo morire.
Mi sentivo incatenato ad una sedia, rilegato in fondo ad una stanza buia.
Armstrong, l'ultimo.
Mi sentivo fottutamente solo, anche se circondato da milioni di persone, in
mezzo ad una folla impazzita che urlava il mio nome.
Il mio nome, che significato aveva?
Un'infanzia passata nella merda totale, una terribile solitudine.
Una grande perdita.
Tanta sofferenza che riuscivo a celare dietro un falso sorriso.
Loro mi amavano, ma io amavo me stesso?
Mi volevo bene o mi complicavo solo le cose?
Valeva la pensa vivere nell'angoscia per rincorrere l'immagine di due
dannati occhi? Quegli occhi, ero sicuro di averli già visti prima.
In quella casa, dove ero cresciuto.
Li vedevo ogni dannato giorno, guardandomi allo specchio.
Gli occhi di Jane erano i miei.
Stavo scoppiando, dovevo assolutamente raccontare a qualcuno ciò che
mi stava succedendo. Sì, ma a chi?
Se l'avessi raccontato a Mike, probabilmente avrebbe preso il primo aereo
quella notte stessa, diretto a casa. Mi avrebbe lasciato solo le sue dimissioni
ufficiali. E probabilmente il giorno dopo, preso dalla rabbia, avrebbe raccontato
tutto ad Adrienne, quindi mi sarei trovato anche divorziato.
E senza l'uomo che amavo, ovviamente.
Chi restava, quindi?
Avrei potuto raccontarlo a Trè, in fondo era il miglior confidente che conoscessi.
Ma Trè era ignaro della storia tra me e Mike, avrebbe potuto lasciarsi
scappare il discorso.
Ero solo.
Quella sera, appena rientrammo, tutti sudati dopo tre ore di
concerto, andai diretto nel mio camerino.
E con mia grande sorpresa, fui seguito da Mike. Aveva uno strano sguardo,
ero convinto che volesse parlarmi.
-Devo assolutamente farmi una doccia- dissi, togliendomi la camicia.
Mike si sedette in poltrona.
-Billie... voglio che tu sia sincero con me. In tutti i sensi-
-A cosa ti riferisci?- chiesi.
-Cosa cazzo ti prende? In questi giorni sei maledettamente strano.
Non solo con me, con tutti-
Finsi indifferenza.
-Non so proprio di che cosa stai parlando. E' tutto okay- risposi.
-Da quando siamo arrivati, abbiamo parlato sì e no tre volte. Mi spieghi
che cazzo ti sta passando per la testa? che cazzo succede?- continuò.
La buttai sul ridere.
-Beh, non è che noi due abbiamo mai parlato molto, eh-
Ma lui non rise, anzi.
-Non sto scherzando, Billie. Cosa sta succedendo? Adrienne ha scoperto
qualcosa e ti ha messo alle strette?-
-Non c'entra Adrienne- ribattei.
-E allora spiegami tu qual'è il discorso. Spiegamelo, perchè io non so più che
cazzo pensare, veramente. Hai preso una decisione e siamo d'accordo di
mantenerla, ma non vuol dire che non potremmo più parlare- disse.
Mi girai.
-Ma che cazzo dici? Tu lo sai benissimo che io ti amo. Sei tutto per me, lo sai.
Sai quanto sto male solo al pensiero di non poterti più toccare, baciare.
E lo sai cazzo! Quindi non incazzarti-
Mi faceva male il fatto che Mike non capisse quanto soffrivo per la
fine della nostra storia.
-Ah, non mi devo incazzare? Tu mi pianti in asso dopo vent'anni che stiamo
insieme ed io non mi dovrei incazzare? Mi hai preso forse per il tuo burattino?
Io non sono il coglione di turno che puoi prendere e lasciare quando ti pare,
mettitelo in testa. Non sei il re dell'universo, signor Armstrong. Tre anni fa
hai scoperto di amare tua moglie più di me e mi hai mandato a cagare,
quindi se permetti sì, sono incazzato!- sbottò.
Oddio, oddio, oddio.
Mike non aveva capito un cazzo. Un emerito cazzo.
E ciò mi faceva saltare i nervi.
-Ma che cazzo vuoi, Mike? Vuoi che ti dica che lascerò Adrienne e i ragazzi
per te? Vuoi che ti dica che ci sposeremo e tutti sapranno della nostra storia?-
Dissi, avvicinandomi a lui.
-Se potessi, lo farei- continuai.
Lui rise, ma non perchè fosse divertito.
Voleva provocarmi.
-Questa è solo una stupida, patetica scusa del cazzo! Tu non vuoi lasciare tua
moglie e i tuoi figli, in realtà non vuoi lasciare nemmeno me.
Solo perchè ti fa comodo mettere il culo sopra due sedie, ammettilo cazzo!-
Quello era il momento.
Il momento della verità.
Non sapevo che reazione avrebbe avuto Mike...
Ma le parole uscirono senza preavviso, senza che potessi fermarle.
Uscirono da sole.
-Io, Mike... Ho conosciuto...-
-Chi? Che cazzo stai dicendo?-
-Ho conosciuto una donna...-


Bene, bene!
Rieccomi qua.
Ringrazio ovviamente tutti quelli che leggono la mia storia, anche senza recensire.
E ringrazio ancora di più, chi la recensisce.
Rbd: Lo so, Billie è una tragedia :) però sono certa che sistemerà le cose.
Comunque, non posso dirti niente su quel particolare... però posso dirti altre cose:
innanzittutto, questa storia fa parte di una raccolta. Quando sarà conclusa (perchè
l'ho già terminata, già scritta, devo solo metterla qui :D) ne pubblicherò altre due, che
poi saranno le storie degli altri personaggi.
Ho già scritto anche un Missing Moments su questa storia, non potendo pubblicarlo
qui, lo pubblicherò a parte visto che è un pò... crudo.
Dovrai sopportarmi ancora per moooolto! :)
Rebel Of Suburbia: Cara, visto che ti piace la mia storia, tiè beccati un altro capitolo! :) :)
Dimmi che ne pensi, se vuoi :)
Mi sono accorta che Drunky Bunny e la mia adorata Franklyn sono sparite, però...
sono sicura che si rifaranno vive! (almeno spero) :)
Ah! e come potevo dimenticare la piccola Angie_Nim ( questo soprannome mi
ispira tenerezza, ecco :D) che recensisce anche lei la mia storia! Grazie mille!






Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Last Night ***


Sapevo che sarebbe nata l'apocalisse.
Mike, si bloccò, iniziò a scrutarmi da capo a piedi.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo.
-Ah, allora hai triplicato? Adesso... ami tre persone? E chi è questa
poveraccia che non sa ancora di essere stata usata da te?-
chiese, con un sorrisetto che celava la rabbia.
-Non l'ho usata. L'ho conosciuta per caso- risposi.
-Te la sei scopata? Dimmelo!-
-No, cazzo. Non abbiamo fatto nulla insieme!-
Mike era fuori di testa. Il suo viso aveva preso abbondantemente
colore. Credevo mi mettesse le mani addosso.
-Chi è questa?- chiese.
Non risposi.
-E' la tipa dell'altro giorno, vero? La puttanella che hai abbracciato?-
sbottò, irritato. Aveva perso il controllo.
-Non è una puttanella- risposi.
Mike tentò di ricomporsi.
-Come mai me ne stai parlando? Da tre anni a questa parte, io non
c'entro più un cazzo con le tue scelte sentimentali-.
-Non... non so nemmeno perchè te ne ho parlato, Mike.
Forse perchè non posso continuare a mentirti- risposi, tentando
di tenergli testa.
-Sei innamorato di lei?-
Non sapevo rispondere a quella domanda.
-Allora, cazzo? Sei innamorato?-
-Non lo so, Mike. Non lo so...- risposi.
La sua indignazione cresceva a poco a poco, riuscivo ad intuirlo guardandolo
negli occhi. Voleva sputarmi in faccia.
-Sai che ti dico? Sei proprio uno stronzo, fottiti. Pianti me dopo vent'anni
per dedicarti a tua moglie, che dici di amare alla follia, e poi che fai?-
Aprì le braccia.
-Ti innamori di una puttana conosciuta in Inghilterra?- finì.
-Mike te lo ripeto, non è una puttana!- ribattei a voce alta.
-Ah...e che cos'è? Una santa? Sei solo uno stronzo, vaffanculo!-
Prese le sue cose e si avvicinò alla porta. L'aprì con cattiveria.
-Dì pure agli altri che io non vengo a quella cazzo di cena!-
Così dicendo, se ne andò sbattendo la porta.
Mi buttai in poltrona. Mi sentivo liberato da un peso, ma temevo che Mike
potesse rivelare tutto ad Adrienne. Poco dopo, si precipitarono Trè e i
due Jason, visibilmente increduli.
-Si può sapere che cazzo è successo? Mike è andato via rabbiosamente,
pareva incazzato nero- disse Trè.
-Abbiamo litigato- risposi.
I tre si guardarono.
-E... il motivo?- chiesero in coro.
-Scusatemi, non mi va di parlarne- risposi ancora.
-Beh, come vuoi. Ricordati che tra mezz'ora abbiamo la cena con gli
organizzatori- mi informò Trè.
La cena, cazzo! Me ne ero completamente dimenticato.
-Dov'è che la faranno questa cena?- domandò White a Trè, mentre io
riponevo la mia chitarra al sicuro.
-Sono venuto a sapere da fonti certe che molto probabilmente si
terrà a casa di uno degli organizzatori, John Rosenberg-
Mi sentii sprofondare e lasciai cadere la mia chitarra.
I ragazzi non fecero caso a me e continuarono a parlare.
Oh, cazzo.
John Rosenberg, aveva detto proprio così?
Quel nome mi collegava a tante cose.
Il padre di Jane.
A casa sua, l'avrei rivista sicuramente.
Mi tirai su ed iniziai frettolosamente a raccogliere da terra le mie cose.
Misi il cappello e mi diressi alla porta.
Trè mi fissò sbalordito.
-Ehi, Big! Dobbiamo ancora avvertire i ragazzi per portar via il
resto delle cose!- esclamò.
-Pensateci voi, mi fido. Ci vediamo tra mezz'ora in albergo- risposi.
Me ne andai, diretto all'albergo. Mi feci una doccia e mi cambiai.
Gli altri arrivarono venti minuti dopo.
Arrivammo a casa di John dopo circa mezz'ora, abitava in una
villetta nella cittadina di Redditch, poco distante da Birmingham.
Dopo essere stati accolti dal padrone di casa, con gli ospiti chiacchierammo
un pò del concerto, di come erano andati gli incassi e di quanti biglietti
erano stati venduti. Ricevemmo anche i complimenti.
Poi, venne servito da bene.
Mi guardai intorno, ma non c'era alcuna traccia di Jane.
Cercai di buttare l'occhio sulle scale, che erano poste in fondo alla mia
destra, ma non vidi nulla. Lei non c'era e non ero nemmeno sicuro che
fosse in casa. Forse era uscita.
Ma dove? A quell'ora? Era tardi, mezzanotte passata da un pezzo.
Avevo lo stomaco chiuso e a tavola, non mangiai quasi niente.
A differenza, ovviamente, di Trè e gli altri.
Tirai un sospiro. Trè se ne accorse e si girò.
-Ti senti bene?-
Pensai. Forse avrei dovuto fingere un malore per potermi recare al
piano di sopra. Sta di fatto che dovevo assolutamente vederla.
In un modo o nell'altro.
-Non mi sento molto bene- dissi, ad alta voce.
-Vuoi andare un pò fuori?- chiese John, rivolgendosi a me.
-Mi... servirebbe un bagno- dissi, mentendo.
-I bagni sono al piano di sopra. Se hai bisogno di qualcosa, noi siamo qui-.
In quel momento, il telefono di casa squillò e John si alzò chiedendo
scusa ai presenti.
Lo sentivo parlare al telefono, dalla sala accanto si riusciva a sentire
perfettamente la sua voce.
-Scusi, ma lei chi è? Vuole parlare con mia figlia? chiese, al suo interlocutore.
A quelle parole, la mia concentrazione si soffermò su quella telefonata.
Qualcuno chiedeva di Jane.
-Senta, mia figlia sta riposando in questo momento. Provi a chiamare
domattina- disse.
I presenti continuarono a discutere amorevolmente, ma ormai
non prestavo attenzione più a nessuno, meno che a Trè che mi stava affianco.
-Ho capito, beh, se si tratta di una cosa urgente come dice lei, la
prego di attendere solo un attimo. Vado ad avvertire mia figlia-
Lo vidi percorrere il corridoio per dirigersi al piano di sopra.
Passarono circa dieci minuti, poi tornò a farci compagnia.
Mi alzai dalla sedia e mi diressi al piano di sopra. Un lungo corridoio divideva
le stanze, dritta davanti a me c'era un'enorme terrazza.
Le stanze erano tante e non avevo la minima idea di quale fosse quella
di Jane. Aprii una porta, ma si rivelò essere quella di un bagno.
La richiusi subito e ne aprii un'altra e così feci per altre quattro stanze.
Alla fine, l'unica che rimaneva era quella accanto alla terrazza.
Mi fermai. Doveva essere quella giusta, per forza.
O adesso o mai più, mi dissi.
Tirai un sospiro e anche la maniglia. Aprii piano la porta, la stanza era
buia, dedussi che lei stava dormendo. Richiusi la porta alle mie
spalle.
Avanzai nella stanza, ma non vedendo nulla non riuscivo nemmeno a camminare.
Andai a sbattere contro qualcosa che si trovava per terra.
Cazzo!
Cercai di toccare le pareti fredde... ed arrivai ad una lunga libreria.
Avanzai in avanti, cercando il letto. Ma andai a sbattere contro una finestra.
Mi girai e tastai avanti a me, credevo ci fosse un comodino o qualcosa del genere.
Alla fine, misi le mani su qualcosa di morbido.
Sì, un letto.
Mi avvicinai ancora muovendo il braccio, ma... non c'era nessuno sopra.
Sentii una voce in corridoio.
Cazzò, era Trè. Era venuto a cercarmi.
-Billie, dove sei? Va tutto bene? chiese, con la sua voce stridula.
Non sapevo che fare, non avevo trovato Jane, avevo il mio batterista alle calcagna
ed ero dentro la camera da letto della figlia di uno degli organizzatori del
nostro concerto.
Bene. Il quadro era rassicurante.
Nel frattempo, sentivo sbattere delle porte: Trè iniziava a cercarmi per le stanze.
Cazzissimo!
Decisi di uscire per farlo andare via.
-Eh, Trè... sei venuto a cercarmi?- chiesi, tentando di sembrare naturale.
Chissà dov'era Jane. E se fosse arrivata proprio in quel momento?
-Che fine hai fatto? Va tutto bene?- chiese.
-Certo, certo. E' solo che... dovrei finire di...-
Dovevo fingere bene, per farlo andar via in fretta. Misi una mano sullo stomaco.
Trè mi fissò, ridendo.
-Ah, ho capito. La cacca non aspetta, stai tranquillo e raggiungici di sotto
quando avrai finito- così dicendo, si diresse verso le scale.
Mi fermai a pensare. Dove poteva essere Jane? Non si trovava in nessuna
di quelle stanze. Feci per girarmi e tornare nella camera, quando oltre
la vetrata che chiudeva la terrazza, tappezzata di aiuole, la vidi.
L'avevo trovata.
E ora?
Avevo fissato una serie di cose da dirle, ricordo che mi ero anche preparato
un discorso sensato ben consapevole che me lo sarei presto scordato.
E infatti, non lo ricordavo più. Che cazzo dovevo fare?
Fui tentato di andarmene, tornare di sotto.
Ma poi ero sicuro... di pentirmene.
Era il momento della verità, quello decisivo.
Il giorno dopo sarei partito per Berlino. E addio Jane.
O forse no?
Le mani iniziarono a tremare.
Dovevo andare e parlare.
Misi le mani in tasca, avanzando oltre la porta.
Con passo lento, di piombo.
Ero dietro di lei, fermo, immobile.
Le tappai gli occhi con le mani.
Sobbalzò, ma poi mi toccò fino a salire alle maniche della giacca, per
toccare le braccia.
-Sapevo che saresti venuto-
Cazzo. Tolsi le mani dai suoi occhi e lei si voltò, ancora una volta bellissima.
Quella notte, poi, era ancora più bella o forse così mi sembrava.
Era una mia sensazione.
Mandai a puttane il discorso.
-Volevo vederti, un'ultima volta- dissi.
Non riuscivo a pronunciare quella frase, maledetta frase.
Non potevo farlo, le parole non uscivano da quella fottuta bocca.
Non dissi più nulla, mi limitai a guardarla negli occhi.
Sì, quegli occhi li avevo già visti.
Occhi che hanno pianto all'insaputa di tutti, che nascondono segreti
che nessuno mai saprà.
Così tremendamente infelice, come me.
Erano miei.
-Perchè ti sento fottutamente parte di me? Anzi... ti sento... ME- iniziai.
Mi fissò incredula, silenziosa.
-Mi fai paura. I tuoi occhi mi fanno paura, tutto di te mi fa paura-
Stavo balbettando, ma lei continuava a fissarmi.
-Di cosa stai parlando, Billie?-
-Ma non capisci?-
No, non capiva. Continuava quell'assurdo gioco di sguardi ininterrottamente.
-Jane... in te rivedo me stesso. Amami, ti prego- supplicai.
Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono.
-Non posso- disse.
La presi per le braccia, ma lei non oppose resistenza.
-Perchè no?!-
La strattonai, ma niente.
-Io non ti amo- disse.
La guardai negli occhi.
Stava mentendo... spudoratamente mentendo.
Mentiva persino a se stessa, esattamente come me.
-Tu menti-
-Sei capitato nella mia vita tra capo e collo, ci hai provato con me e ti ho
rifiutato. Cos'altro devo fare per farti smettere?-
-Tu menti!- ripetei io.
-Tu vuoi solo collezionare un nuovo trofeo, Billie- rispose.
La lasciai, presi fiato.
-Basta solo che tu mi dica di andarmene ed io lo farò. Dimmi che vuoi che
me ne vada ed io lo farò, Jane. Te lo giuro. Sparirò per sempre dalla
tua vita-
Mi fermai in attesa della sua risposta, ma lei continuò ad osservarmi
senza dire nemmeno una parola.
Contai i minuti, dentro di me. Poi mi decisi.
-Va bene, Jane. Hai deciso. Addio-
Mi voltai ed iniziai a camminare, diretto verso l'interno della casa.
Ogni passo era un suicidio, poichè speravo che lei mi bloccasse.
Lo speravo con tutte le mie forze.
Mi stavo ammazzando da solo.
Cazzo, bloccami Jane.
Ti prego.
Ti supplico, bloccami.
Sparirò per sempre dalla tua vita, è questo ciò che vuoi?
Dovrò sparire.
Quindi bloccami, ragazza.
Ti prego.
Mi sentivo disintegrare.
Finchè, la sua voce così fragile, non pronunciò altro che poche parole.



Siamo arrivati già al dodicesimo capitolo!
Mmmh... sono proprio curiosa di leggere cosa ne pensano le mie care recensitrici di
questo ( a mio parere) capitolo così lunghino.
Franklyn: Oh, la mia adorata è tornata ed eccola qui! Non ti preoccupare se qualche
volta non hai tempo per recensire, tranquilla! E' solo che pensavo che non ti fosse
piaciuto il capitolo... e comunque sei tornata e mi fa tantoooo piacere! :)
Drunky Bunny: Ehi, hai sempre detto che i capitoli erano troppo corti, beh... questo
mi sembra già più lungo, no? Spero che ti piaccia :)
Rbd: Beh beh! Scommetto che te lo gusterai tutto questo capitolo! :D
Anche a me piace tanto Mike in questo contesto, dimostra di avere carattere e
qui, se posso dire, dimostra di averne anche più del caro Billie!
Rebel Of Suburbia: Eccoti accontentata, la reazione di Mike e il seguito! :D
Angie_Nim: Mi fa tanto piacere che anche tu stia seguendo la mia storia. Grazie
mille per le tue recensioni! Ecco, anche a te, la reazione del nostro caro Mike.






Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Tears (First Part) ***


-Non lasciarmi...-
Due parole.
Due fottute parole che all'improvviso, diedero un senso a tutto.
Un lieve sussurro, che arrivò come un urlo alle mie orecchie.
Avevo sentito bene.
Mi voltai ma non dissi nulla.
-Ti prego, non lasciarmi- ripetè.
Non c'era più nulla da dire, in realtà non c'era nemmeno più nulla
da fare se non correre verso di lei, in preda ad una foga impazzita.
Volevo prenderla, stringermela addosso, tanto da non farla più respirare.
Mi buttai su di lei, le saltai al collo e la presi tra le mie baccia,
totalmente incurante di farle del male. Lei rimase immobile.
Mi fiondai sul suo viso, coprendolo di baci.
La tirai su fino a sollevarla da terra, lei cercò in tutti i modi di
divincolarsi, in tutti i modi provò a sfuggire al mio abbraccio.
Cercò di allontanarmi con le mani.
Non sapevo più chi ero, non mi ricordavo più nulla.
Non ragionavo più.
Avrei voluto urlare, dalla disperazione o dalla gioia non ne avevo la
minima idea. Riuscì a fermarmi.
-Ti prego- ripetè.
-Cosa c'è, Jane?-
-Fermati-
La lasciai, tenendo le mani e le braccia aperte in attesa che lei si
buttasse su di me. Ma niente.
-Perchè cerchi di allontanarmi?Non ti capisco, mi vuoi ma mi allontani-
Non riuscivo a capire il perchè del suo fottuto comportamento, un
costante rifiuto a cui avevo anche fatto l'abitudine, ormai.
Lei non disse più niente, mi guardò.
Guardò oltre la terrazza, poi mi fissò ancora.
Mi fissò per qualche secondo prima di stringermi le braccia al collo e
avvicinare il suo viso al mio.
Mi toccò la bocca con la punta del piccolo naso, sorridendo.
E mi diede un bacio.
Oh cazzo, un bacio che non so dire con esattezza se in quel momento mi
rese fottutamente felice o fottutamente triste.
Un bacio che mi fece vibrare e che mi fece riprovare quella dannata
sensazione malinconica... di morte.
Quella maledetta, assurda, sensazione che pareva quasi essersi impossessata
di me, quel bacio la riportò indietro.
Un bacio solitamente dovrebbe avvicinare di più due persone, ma più
rimanevo incollato alla bocca di Jane e più la sentivo distante da me.
Sola, impaurita. Così persa in se stessa da non accorgersi che al suo fianco
c'ero io, pronto a farla sentire meno sola.
La presi in braccio e con fatica, rientrammo.
La portai diretta in camera e richiusi la porta alle mie spalle.
Anzi, la lasciai semi-chiusa, non feci in tempo a chiuderla del tutto.
Mi gettai sul letto tenendola stretta a me.
Quel suo corpicino così minuto, magro, pallido inziò a poco a poco ad
appartenermi mentre assaporavo il sapore della sua pelle, l'odore dei
suoi capelli sottili. Strinsi le sue mani, così piccole rispetto alle mie.
Mi sentivo rapito da lei.
La buttai sotto di me ed iniziai a baciarle il corpo.
Non capivo più un cazzo, tanto ero preso dall'ebbrezza della sua fredda
carne.
Ero quasi arrivato a poggiare la bocca sotto alle mutandine...
E sentii uno sforzo di vomito.
Mi tirai su, presi fiato.
Provai a mettere una mano dentro, ma prima che potessi arrivare a
ciò che volevo toccare, mi sentii rivoltare lo stomaco.
E una nausea intollerabile.
Ci bloccammo entrambi.
Lei si tirò su, io feci altrettanto.
-Non posso farlo- dissi.
E nella mia testa partirono mille domande. Cosa mi stava succedendo?
L'avevo desiderata tanto, avevo pregato perchè lei potesse amarmi, avevo
pianto per lei. Ed ero disposto anche a coprirmi di ridicolo pur di non
perderla. Eppure, non riuscivo a fare ciò che più desideravo.
Non ci riuscivo.
Mi tremavano le mani solo al pensiero di sfilarle le mutandine o di poggiarvi
la bocca.
Era un'agonia.
Un'agonia senza fine.
Le orecchie iniziarono a fischiarmi.
Non riuscivo a fare l'amore con lei, rabbrividivo all'idea eppure...
sentivo salire il vomito.
Ero terrorizzato, dovevo vomitare.
Lei mi guardò, atterrita.
Sconvolta.
-Non posso amarti, Jane. Non posso. Lo vorrei con ogni fibra del mio corpo,
vorrei fare l'amore con te tutta la notte, fino a domani mattina.
Vorrei consumare questo corpo, ma non posso cazzo!-
Alzai lo sguardo.
Lei piangeva.



Allora, questo capitolo lo divido in due parti.
Questa è la prima, poi pubblicherò la seconda.
Beh, che dire? Ringrazio tutti quelli che lo leggeranno.
E ringrazio come al solito, le mie care recensitrici!
Franklyn: Okay, okay, so che mi ucciderai dopo questo capitolo!  :) E' bello, però,
BANE (Billie/Jane) ahahahah! Credo che li chiamerò così!!!
Rbd: Mmmh... ti ho sconvolta con il capitolo precedente? Mi sa che ti sconvolgerà
anche questo! Almeno spero, dai :)
Drunky Bunny: Oh, anche per te vale la stessa cosa: goditi questo capitolo,
ci ho messo un pò per scriverlo, e fammi sapere che ne pensi! :)
Rebel Of Suburbia: Mi avevi detto che Jane non ti è mai stata particolarmente
simpatica, beh, un pò hai ragione. Non è certo il massimo della simpatia, ma una
volta inquadrata bene, si capiscono molti dei suoi comportamenti!
Leggi questo e dimmi che ne pensi :D
Angie_Nim: Ecco a te il tredicesimo capitolo! Spero ti piaccia e grazie
infinite delle tue recensioni!

Saluto anche Mary17 che ha recensito l'ultimo capitolo :)

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Tears (Second Part) ***


E stavo piangendo anche io.
Senza lacrime, però.
Non potevo, non riuscivo.
Mi spostai i capelli dalla fronte sudata.
-Non posso, Jane. Se ora faccio l'amore con te... domani, tutta
la mia vita sarà rovinata- ripetei.
-Lo so- rispose, mentre una lacrima scorreva sul suo mento.
-Se ora trovassi una risposta a tutte le domande che mi sono
fatto, domani mollerei tutto. E ti porterei via, lontano da qui.
Non posso farlo, non posso cazzo!-
Si asciugò le lacrime con una mano.
Poi la appoggiò sul mio viso. E sorrise.
Questa volta era un fottuto sorriso di gioia.
Sì, gioia.
Era felice, mentre io morivo.
Morivo per lei, per me stesso.
Morivo per noi.
-Questa... è stata la notte più bella della mia vita- disse.
E lo stesso era per me.
Una notte da ricordare e da dimenticare.
Una notte in cui avevo preso delle scelte importanti.
La notte dell'addio.
Una notte in cui avevo disfatto ed amato.
Ero maledettamente felice e maledettamente triste.
Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile tutto ciò.
Rimanemmo a fissarci negli occhi per molto tempo, minuti che
parevano ore. Ma sarei rimastò lì a guardarla anche tutta la vita.
Parlammo del più e del meno.
Così, scoprii tante cose su di lei.
Avrebbe compiuto ventuno anni il ventiquattro di novembre, sua
madre non l'aveva mai conosciuta poichè era stata abbandonata
appena nata. Cresciuta con suo padre.
Quella ragazza era incredibile, riusciva a capire al volo ciò che
pensavo, ciò che volevo dire. E ciò che provavo.
Forse perchè le stesse cose appartenevano a lei.
Mi chiese di mia moglie, sapeva che ero sposato. Lo aveva letto
da qualche parte, in qualche rivista, comunque era risaputo che
fossi sposato.
Ma in quel momento, Adrienne era un pensiero lontano, l'avevo
lasciata a casa. Non c'era.
C'eravamo solo io e lei e questo bastava ad entrambi.
Non sarebbe durato a lungo, però. L'indomani, le avrei detto addio.
Addio, Jane.
Ti amo, ma devo lasciarti.
Devo continuare il mio fottuto giro di concerti per l'Europa.
Ma il mio cuore rimarrà qui, in questa assurda città.
Forse era lei ciò che avevo di più caro al mondo?
Un amore come il nostro non era certo uno di quegli amori con
il finale perfetto. Non era certo un amore con il ''vissero felici e
contenti''. Quello no.
Quell' amore era un tumore. Uccideva.
Tra le sue braccia, tremavo. Dalla felicità o dal dolore, non lo so,
tremavo come una piccola foglia.
Il tempo era scaduto.
Ricordo ogni momento come se fosse ieri, ogni parola detta, ogni
brivido lungo la schiena.
Ogni frase strozzata che non riuscivo a pronunciare, ogni sorriso.
Ogni attimo perso, ogni sensazione.
Il buio di quel giorno.
Il nostro ultimo abbraccio.
L'alba sopra le nostre teste.
Ricordo la partenza per Berlino, quella mattina presto.
Non era una bella giornata, le nubi oscuravano il cielo sopra di noi.
Il sole non c'era, forse anche lui sentiva la sua mancanza.
L'orario esatto in cui decisi di morire. Guardai per un'ultima volta
quella città maledetta, in cui avevo lasciato il cuore.
Ero così stanco...
Stanco di camminare, di parlare.
Persino di suonare.
Avevo solo voglia di andare a dormire e non svegliarmi.
A Berlino, milioni di fans ci stavano aspettando venuti da tutta
la Germania solo per vederci.
Ma io ero stanco, veramente stanco.
Peccato che a nessuno importasse ciò che stavo provando in quel
momento. Avevo lasciato un foglietto attaccato ad un libro, in
camera di Jane, mentre lei dormiva.
Speravo con tutto il cuore che l'avesse trovato, altrimenti non avrebbe
potuto rintracciarmi. Ma in fondo al cuore, ero certo che lei si
sarebbe fatta viva in un modo o nell'altro.
Ricordo l'affanno nel cuore, quando la baciai per salutarla quella notte.
La speranza che l'aveva accompagnato.
L'unica che mi permetteva di andare avanti in quel momento.
Mi sentivo frantumare dall'interno, era come se fossi in preda ad una
violenta crisi epilettica, sudavo come un dannato.
Era come se non esistessi.
Temevo un attacco di panico e presi delle pastiglie per calmarmi.
Nel frattempo, Adrienne era già partita e Mike mi teneva ancora il muso.
Non trovavo modo di fuggire, Jane era sempre fottutamente nella
mia testa. Pensavo a lei in continuazione, non mi dava pace.
Non riuscivo a sorridere, lei mi tormentava.
In fondo, quello era il mio lavoro: ero tenuto ad esibirmi, era mio dovere e
non potevo tirarmi indietro per nessun motivo.
Dovevo sorridere, anche se dentro stavo esplodendo.
Dovevo accettare quel fatto...


Ecco qui la seconda parte del capitolo!
Bene bene, ora aspetto le recensioni delle mie care e fedeli lettrici...
Franklyn: Ti prego, non uccidermi!!! :) leggi questo e poi dimmi... BANE ti ha
fatta sciogliere almeno un pochino? :D
Rbd: Allora sono riuscita a sconvolgerti ancora! :) Beh, questo capitolo sono
sicura che non ti sconvolgerà più di tanto, è quello dell'addio.
Drunky Bunny: Lo so, ora è Billie quello strano... cosa posso dirti? leggi
questo capitolo e fammi sapere! :)
Rebel Of Suburbia: Jane non riesce a starti proprio simpatica, eh??? Quanto
sei cattiva con la mia piccolina! :D chissà che cambierai idea!
lotra: Ciao! Ci sei anche tu? :) mi fa piacere, grazie per la tua recensione!
Ringrazio anche la piccola Angie_Nim che segue la storia

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Distruction ***


Tra me e Mike le cose non andavano bene.
Lui continuava ad ignorarmi ed io ero troppo occupato a tenermi in vita, per
stare dietro a lui.
Litigammo un'ultima volta quella settimana.
La sua gelosia mi mandava totalmente in bestia.
Nonostante questo, tentai di discutere con lui in maniera civile, provando a
spiegargli le mie ragioni, i miei dubbi riguardo alla nostra storia.
Ma non ci fu nulla da fare, Mike continuò ad essere freddo e distaccato nei
miei confronti.
Anzi, mi disse che non mi avrebbe perdonato per ciò che gli avevo fatto.
Pensavo mi amasse, cazzo.
Rimasi in silenzio, non avevo la forza di affrontare un'altra litigata con lui.
Ero lontano da Jane e ai ferri corti con Mike, mi sentivo a pezzi.
Forse, però, me l'ero meritato.
Adrienne arrivò mercoledì, non avevo un bell'aspetto quando la incontrai e
lei se ne accorse. Nonostante tutto, non me ne parlò.
Se mi fossi mostrato distaccato nei suoi confronti, avrebbe potuto insospettirsi.
Rividi i miei figli e solo loro riuscirono a strapparmi un debole sorriso.
Sentivo l'orribile mancanza di Jane salire fino alla gola.
Una sensazione di vuoto che non riuscivo in alcun modo a colmare, in
nessuna maniera.
La sentivo dentro di me, non aveva alcuna intenzione di andarsene.
Non voleva lasciarmi in pace. Era destinato a durare a lungo quell'incubo?
E quel sapore di morte in bocca?
Contavo i giorni, le ore i minuti. E Jane non chiamava.
Il telefono era sempre lì, sopra quel cazzo di comodino.
Ma Jane non chiamava.
Vedevo la speranza scendere giù dal cesso.
E la mia vita scorrere senza che io potessi fare nulla per fermare il tempo.
Guardavo Adrienne e vedevo la donna che avevo sempre amato.
Così bella e forte.
Guardavo i miei figli, i miei due diamanti.
Stavano crescendo, sarebbero diventati presto due uomini.
Guardavo i miei compagni: Mike, Trè, i due Jason.
Con loro mille avventure, mille discussioni, mille risate.
Mike, il mio migliore amico. L'uomo che amavo.
Dio, come mi mancava.
Guardavo la mia vita, così piena ma allo stesso tempo maledettamente
vuota. Avevo tutto ciò che si potesse desiderare...
E allora come mai volevo solo buttarmi giù da un burrone?
Svuotare un caricatore sul cuore?
Ah, era tutto così assurdo.
Maledetto me e maledetto quel grande magazzino.
Mi rendevo sempre più conto che Jane era ormai diventata la più
grande questione irrisolta della mia vita, un grande mistero che non
sarei mai riuscito a svelare, un enorme punto di domanda senza una
degna risposta. Un grande amore che non riusciva in alcun modo a
materializzarsi.
Una grande sofferenza, la mia ferita.
Quella ferita che si vorrebbe medicare usando un cerotto e che
in realtà è stata procurata da un'arma da fuoco.
Ero diventato suo schiavo e lo sarei rimasto a vita.
Ma questo era ciò che volevo.
Distruzione, solo distruzione.
Avevo iniziato a bere regolarmente. Non che di solito non bevessi, anzi,
ma in quella settimana avevo superato il limite.
All'inizio lo facevo per distrarmi, ma una volta passato l'effetto iniziavo
a sentire la mancanza dell'alcol nel sangue.
Solo l'alcol riusciva a non farmi pensare, era mio alleato.
Sapevo anche come non farmi beccare, avevo trovato dei perfetti
nascondigli dove mettere le mie preziose bottigliette.
Approfittavo dell'assenza di Mike e gli altri per tirarle fuori.
Mi avevano salvato la vita e non volevo mollarle.
Andò tutto liscio fino alla notte prima del concerto.
Continuai a bere, pur sapendo che sarebbe finita male.
Aprivo e chiudevo quella fottuta bottiglia.
Finchè non mi accasciai al pavimento, la testa girava.
La mia stanza era un letamaio.
Avevo accatastato tutte le mie cose in un angolo, il letto era disfatto
e le coperte arrotolate per terra. C'erano vetri di bottiglie rotte
sparsi in giro.
Avevo anche pisciato sul pavimento.
Ma non avevo alcuna voglia di sistemare quel merdaio.
I miei capelli erano spettinati, sporchi. Le occhiaie marcate, la
bocca sbavante. Ero orribile.
Tentai di tirarmi su, ma le braccia tremavano, quindi evitai.
Non riuscivo a stare in piedi, ondeggiavo.
Attaccai a ridere come un pazzo, non ero in grado di tenere su
la testa quindi la buttai in avanti continuando a ridere.
La sentivo scoppiare, ma stavo bene.
Per un attimo, Jane aveva abbandonato la mia testa trasferendosi
altrove. Ma sapevo che lei... sarebbe tornata.
Per uccidermi ancora, maledetta stronza.
I rumori mi rimbombavano dentro al cervello.
Chiusi gli occhi, tremante.
Volevo solo dormire, dormire, dormire.
Ma un rumore mi risvegliò all'improvviso dal mio coma.
Bussavano alla porta.
Girai la testa, anche se il collo mi faceva un male cane, tentando di
guardare la sveglia sopra al tavolino.
Le otto e mezza, era tardi.
Credevo che fossero passate solo due ore.
Sentii la voce di Trè.
-Cazzone, è tardi! Apri la porta, Big?-
Non sapevo da quanto tempo fosse lì fuori ad aspettarmi.
Il mal di testa si era fatto più forte, mi alzai dal pavimento e
andai davanti allo specchio.
Cazzo, ero irriconoscibile.
Puzzavo di alcol.
La matita sugli occhi era sbavata fino alle guancie.
I capelli erano tutti spettinati, per aria.
La maglietta bianca era diventata di un colore molto simile alla
merda. Avevo un solo calzino, al piede sinistro.
L'altro era sparito non so dove.
Feci tre volte il giro della stanza ma non lo trovai, così mi tolsi
anche l'altro.
Intanto, Trè continuava a bussare.
-Cazzo, Big? Vuoi aprire la porta? E' tardi, maledetto!-
-Arrivo!- urlai.
Tentai di sistemarmi, mi tolsi la matita da sotto agli occhi, mi
cambiai la maglia, mi pulii la faccia, mi lavai i denti e mi
pettinai i capelli. Ma l'odore non ero in grado di toglierlo.
Con tutta la naturalezza possibile, andai ad aprire.
Trè era già pronto e mi fissava con sguardo seccato.
-Eri morto, per caso? Sono qui fuori da un quarto d'ora, cazzo!-
-Stavo dormendo, scusami- mi scusai.
-Cos'è questa puzza di merda?-
Trè si tappò il naso.
La puzza proveniva dalla mia stanza.
-Ho fatto un pò di casino, ma sistemerò- dissi.
-Per casino, intendi che te la sei fatta sotto?-
Oddio.
-Comunque noi siamo già pronti da un pezzo. Ti aspettiamo di sotto- disse,
allontanandosi senza pensarci due volte.
Una volta sparito l'effetto dell'alcol, l'incubo di Jane tornò a tormentarmi.
Guardai il cielo sopra Berlino, mentre ci trasportavano da una parte
all'altra della città.
Come se fossimo marionette.
La mente girava vorticosamente e non c'era modo di fermarla.


Eccoci qui con un altro capitolo abbastanza triste.
Beh, che dire? So già che le mie care recensitrici lo leggeranno con piacere.
Franklyn: Mia cara, non preoccuparti! La storia non è certo finita qui, anzi!
E' parecchio lunga... dovrai sopportarmi ancora per moooolto tempo! :)
Ecco qui un altro capitolo, conto su di te per farmi sapere cosa ne pensi!
Rbd: Anche a te dico la stessa cosa... tranquilla, la storia non è certo terminata!
Vi farò compagnia ancora per tanto tempo! Ahahahah :)
Drunky Bunny: Davvero Jane è nata lo stesso tuo giorno??? Pensa te, che
coincidenza! :) dai, dai ho sfornato un altro capitoletto per far felice te e
la tua curiosità!!!
Rebel Of Suburbia: Ah, ma allora la nostra cara Jane almeno un pochino
ti è entrata nel cuore? Non aspettavo altro che questo! :)
Angie_Nim: Ahahahah, lo vuoi consolare tu Billie??? :D te lo lascio, dai!
lotra: Ti ho fatta commuovere davvero? E cavolo, non credevo di essere
così brava! Non a questi livelli!
Un bacione a tutte


Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** I Died For You ***


Imploravo pietà.
Uccidetemi, vi prego.
Ogni parola era per me un enorme peso.
Ogni discorso era fottutamente inutile.
I giorni andavano avanti troppo in fretta, non riuscivo più a star dietro a nulla.
Volevo solo che qualcuno mi puntasse una pistola alla tempia.
E sparasse, sparasse con tutta la violenza possibile.
Nessuno si era accorto di niente e non sapevo se fosse un bene.
Ero arrivato al punto di fregarmene di tutto e di tutti, lasciar correre
ogni banale discorso, ogni domanda, persino ogni critica.
Ignoravo i miei compagni.
Finchè non presi una decisione.
O vivere o morire.
Ma per vivere o morire mi serviva una sola cosa.
Sarei rimasto per sempre sul filo di un rasoio?
Quella decisione mi sarebbe costata cara, anzi carissima.
Sarebbe stata la fine? Per me, per noi?
Sapevo di mettere tutto a rischio. Ma a quel punto, non mi restava altro
che rischiare. Dovevo farlo.
Forse non avrei risolto nulla, non sapevo. Ma non mi importava.
Stavo già prendendo le mie cose, nel backstage di quel maledetto concerto
quando incombette Mike.
Fece finta di non vedermi, ma non poteva ignorarmi visto che ero pronto
per andarmene,
Andarmene, lontano da lui.
Ero pronto per andare a casa dell'amore e bussare alla sua porta.
Ti amo, pensai.
Mike si fermò a fissarmi, rigido.
Osservava ogni mio movimento.
-Dove stai andando?- mi chiese allungando le mani lungo i fianchi.
Non risposi, iniziai a vestirmi.
-Ti ho chiesto dove stai andando...- ripetè.
Mi voltai.
-Me ne vado- risposi.
Mike sgranò gli occhi, incredulo.
-Te ne vai? Come sarebbe a dire che te ne vai?-
Scandì ogni singola parola, urtandomi il sistema nervoso.
-Me ne vado, Mike- dissi.
-Cosa? Tu non vai da nessuna parte, cazzo! Fra sei ore abbiamo un'esibizione
e tu la farai-
-Non mi interessa un cazzo dell'esibizione!- sbottai.
-Spero solo che tu stia scherzando...- disse, serio.
-Non sono mai stato più fottutamente serio in tutta la mia vita, Mike.
Ora lasciami andare- risposi, raccogliendo la mia chitarra.
Avanzai verso la porta ma Mike si mise in mezzo, non aveva la minima
intenzione di lasciarmi andare anche a costo di arrivare alle mani.
Sapevo che non era per via del concerto.
Mike non voleva che tornassi in Inghilterra, perchè era lì che stavo andando.
Non voleva che tornassi da Jane.
-Capisco che questo non deve essere un periodo facile per te... lo so.
Ma ti rendi conto di quello che stai facendo? Stai mandando a puttane una
data del tour, cazzo. Farai disperare tutte le persone che sono lì fuori.
E' così che dici di amare quei ragazzi, voltando loro le spalle?- disse lui,
come per rimproverarmi.
Sorrisi schiettamente.
-Mike, a te non frega un cazzo se me ne vado rinunciando all'esibizione
a te importa solo che io non parta per Birmingham! Quindi levati dal cazzo-
-Ma ti rendi conto di quello che dici, cazzo? Stai mandando a puttane
un concerto progettato da mesi per... raggiungere una ragazzetta!
Billie, ma che cazzo ti sta succedendo?- chiese, esasperato.
Abbassai lo sguardo e sentii le guancie divampare. Le lacrime volevano
scendere dai miei occhi, ma le tenni dentro.
Il cuore voleva aprirsi e sputare sangue, tutto il sangue rimasto ingrumato
per così tanto tempo.
-Non lo so cosa mi stia succedendo, Mike. So solo che... che non
posso stare qui. Ti prego, aiutami- dissi, sospirando.
La sua espressione cambiò improvvisamente.
Ora sembrava quasi che provasse compassione per me, che gli
facessi pena.
Oppure fingeva?
-Non so come aiutarti, Billie. So solo che se ora esci da questo camerino
lo rimpiangerai per tutta la vita. Se vai da quella ragazza, sarai rovinato...-
Mi prese il viso tra le mani.
-Per favore. Lasciala perdere! Non lo dico per me, lo dico per te. Dimenticati
di lei, dimenticati che esiste- finì.
Una veloce lacrima scese dai miei occhi e Mike non ci pensò due volte
ad asciugarla.
-Mi sento... perduto, Mike. Non riesco a lasciarla andare- sospirai.
-Non sei solo, cazzo! Ci siamo noi, ci sono io- rispose.
Mi accarezzò il viso, dolce come non era mai stato.
Solo lui era in grado di farmi risalire.
-Billie, dimenticala. Se non lo farai...- non terminò la frase.
Forse, nemmeno lui voleva pensare a ciò che sarebbe potuto accadere.
Ma io sì, ne avevo una vaga idea. Ormai, la sentivo dentro di me.
Era diventata lei la padrona. Rimasi lì, fermo immobile con il viso tra le sue mani.
-Che cos'ho fatto di male? Cosa? Dimmelo- implorai.
-Non lo so, veramente-
-Mi sembra... di morire, giorno dopo giorno. Una morte lenta, una lunga
agonia. Cos'ho fatto di male se l'unico crimine che ho commesso è stato innamorarmi
di una come lei?-
Eh sì, bella domanda. Soprattutto inutile da rivolgere a Mike.
Nessuno poteva aiutarmi, ero fottutamente solo.
La mia malattia non aveva una cura, purtroppo.
Era destinata a durare in eterno?
Tutte le cose hanno una fine, prima o poi.
-Vuoi veramente abbandonare Adrienne, Billie? E i tuoi figli? Non pensi a loro?
Abbiamo superato mille difficoltà, stando uniti. Supereremo anche questa-
Lo guardai, sconvolto.
Era una promessa importante, quella.
Mi stava promettendo di salvarmi la vita ed io non sapevo se l'avrebbe
mantenuta.
-Cosa devo fare, Mike?-
-Posa le tue cose, Billie. Posale ora-
Chiusi gli occhi. Con tutto me stesso in quel momento pregai qualcuno lontano
affinchè potesse aiutarmi, dandomi la forza per posare quella fottuta borsa
che tenevo in mano. Sapevo che era la cosa giusta da fare, sapevo che dovevo
farlo, ma stavo rinunciando all'unica persona sulla faccia della terra per cui avrei
dato la vita.
E questa non è una fottuta esagerazione.
Avrei dato realmente la vita per lei, se solo me l'avesse chiesto.
Non dissi nulla, mi limitai a posare la borsa.
-Ora verrai con me dagli altri. E stasera ci esibiremo- continuò Mike.
-Io...io voglio solo che lei sia felice-
-E lo sarà! Lo sarà solo se tu le starai lontano-
Non potevo fare altro che annuire, annuire, annuire. Tutto ciò che stava dicendo
Mike era tutto fottutamente vero. Ed era proprio questo che mi trucidava il cuore.
Come se andare via fosse facile, per me.
Solo il pensiero di non rivederla più, di rilegarla in fondo ai ricordi... beh, quel
pensiero mi rallentava il respiro.
Con lei avrei sofferto.
Senza di lei avrei sofferto.
Non c'era nessuna via di scampo da lei.
-Dammi un motivo, Billie. Un solo fottuto motivo per cui tu dovresti andare
da lei, oggi. Ed io ti lascerò andare, giuro, non ti fermerò quando uscirai
da quella porta. Ma dammi un fottuto motivo per farlo!-
Voltai lo sguardo.
Adrienne, Mike o Jane?
Mi soffermai su Adrienne, con quanta più lucidità potessi avere.
Era da sempre stata mia moglie, la donna con la quale mi ero sposato e avevo
costruito una famiglia. Con lei accanto, mi sentivo un uomo migliore.
Poi, Mike. Un uomo con cui ero cresciuto insieme e che avevo sempre amato.
L'uomo che in quel momento era davanti a me e non aveva alcuna paura
di mostrarsi per com'era. Non riuscivo ad immaginarmi una vita senza lui.
E poi... Jane. Lei. Paragonata agli altri due pareva quasi insignificante, ma
era lei il mio tormento. Si era insinuata brutalmente nella mia mente.
E nel mio cuore.
Incredibile, in quel momento mi resi conto che solamente lei era riuscita
a darmi ciò che dagli altri due non avevo mai ricevuto.
Solo lei era riuscita a farmi capire chi ero realmente.
Un uomo solo.
Come aveva fatto una donna, sconosciuta, così lontana dal mio mondo,
a farmi scoppiare il cuore guardandomi negli occhi?
-La verità è che... non ci sono motivi. Non trovo il motivo per continuare
a cercarla. Non so chi sia, non so niente- iniziai.
Mike mi fissò attentamente.
-Ma se non so spiegare lei, non so spiegare nemmeno me stesso. So solo che
l'unico modo per mandarla via...-
Non terminai.
Mike scosse la testa, impaziente.
-Qual'è?- chiese.
-Ucciderla...-


Eccomi qui per la centesima volta!
No dai, solo per la sedicesima... eh, cavolo! Mi sembra ieri che ho iniziato a scriverla.
Ovviamente, ringrazio le mie fedelissime lettrici e recensitrici.
Franklyn: Oh mia adorata! Ecco per i tuoi occhioni così curiosi, un nuovo capitolo!
Spero che ti piaccia... :)
Rbd: Lo sai che mi piace sconvolgerti (ihihihihihih :D) e scommetto che le ultime frasi di questo
capitolo ti sconvolgeranno abbastanza!
Rebel Of Suburbia: Spero di aver esaudito in parte i tuoi desideri (non volevi
la pace con Mike? :D) dimmi che ne pensi, se vuoi.
lotra: Ehhhh... non posso dirti se si risolleverà, altrimenti non leggi più la
mia storia!  :P
Ringrazio anche la fedele Drunky Bunny e la piccola Angie_Nim che recensiscono
sempre questa storia!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Alone ***


Mike mi fissò, incredulo.
Evidentemente non era sicuro di aver capito bene.
-Ma che cazzo stai dicendo? Tu stai delirando, Billie- replicò.
Sicuramente non sarei riuscito ad ucciderla.
No, nemmeno se me l'avesse chiesto.
Eppure sapevo che era l'unica soluzione al problema.
O lei, o me.
Lo sentivo, non c'era una parte di me che non fosse convinta che
a quel mondo non potevo starci se lei fosse rimasta viva.
E lo stesso valeva per lei.
Chissà se ci aveva mai pensato, probabilmente lo sentiva.
Lo sentiva dentro.
La nostra vita era legata da un sottile filo indistruttibile che
solo la morte sarebbe stata in grado di spezzare.
-Ora torniamo dagli altri, non puoi isolarti stando qui come un
povero disperato a piangerti addosso. Devi distrarti e reagire-
mi consigliò Mike, prendendomi per un braccio.
Reagire. Distrarmi.
Per me queste due parole comportavano un enorme spreco di
energie, le poche che mi erano rimaste. Anche se mi fossi
distratto l'incubo mi avrebbe perseguitato comunque.
Le ore passarono lente, troppo lente.
I ragazzi ridevano come pazzi, passando dall'argomento ex mogli
all'argomento servizi fotografici. Dovevamo farne uno a Los
Angeles, me ne ero quasi dimenticato.
Ma ormai, stavo dimenticando tutto.
I nostri impegni di lavoro erano passati in secondo piano.
L'unico pensiero ridondante della mia testa era uno e non trovavo
il modo di cacciarlo via.
Chissà dov'era in quel momento.
Stava pensando a me? Mi odiava per averla abbandonata?
Se solo avesse saputo che mi stavo tormentando come un dannato per
lei... Forse mi aveva già dimenticato, forse era già tra le braccia
di un altro. Quel pensiero mi faceva impazzire.
No. O me o nessun altro.
Nessuno le avrebbe dato ciò che ero pronto a darle io.
La mia vita, per lei.
Nessuno.
C'era solo una minima speranza che stesse pensando a me in quel
momento? Eppure, il telefono era ancora lì.
Silenzioso. Di lei, nessuna traccia.
Svanita nel nulla.
Come avevo potuto anche solo pensare che lei, una creatura così
irraggiungibile... potesse volere uno come me? Me?
No, lei no. Era troppo me.
Di fronte a lei tutto il mondo crollava, così come le mie convinzioni.
Io stesso ero crollato.
L'unica convinzione ancora valida era che non ci fosse uomo sulla
faccia della terra che potesse rimanere impassibile di fronte ai
suoi occhi. Come si fa a rimanere indifferenti alla vista del paradiso?
Un paradiso che brucia come un inferno e che vorresti raggiungere
a tutti i costi, anche a costo di morire.
Avevo paura di lei.
Forse stavo realmente delirando, come diceva Mike.
Come si fa a desiderare una persona ma allo stesso tempo averne
una folle paura? Era del tutto... innaturale.
Perchè proprio io, Billie Joe Armstrong? Era questa la punizione
per tutto il male che avevo commesso nella mia vita?
Non stavo forse soffrendo troppo?
Non era forse il momento di alzarsi in piedi e riprendere in mano la
propria vita o quello che ne rimaneva?
Non si poteva ignorare tutto, mandare tutto a farsi fottere?
Era solo una ragazza, cazzo. Una fottutissima ragazza.
Potevo averne milioni di ragazze, tutte diverse, tutte desiderose di
entrare nel mio letto. Una più calda dell'altra.
Lei non era calda.
La prima volta che l'avevo toccata, mi ero accorto che la sua pelle
era stranamente molto fredda rispetto a quella di un qualsiasi
essere umano. Vivo.
E questo mi faceva rabbrividire.
Più pensavo a lei, più avevo una voglia incontrollabile di attaccarmi
un cappio al collo.
Ero stufo, stufo di lei.
Ed ero convinto che se avessi tenuto la mente occupata in un modo
o nell'altro, ben presto ne sarebbe uscita.
-Ehi, Big! Io e White stasera ci daremo da fare con l'inizio dei
festeggiamenti. Tu hai intenzione di stare in albergo con pizza e birra?-
mi chiese Trè.
Ovviamente, era scontato che lui e Jason sarebbero andati a festeggiare
con qualche ragazza disponibile e svestita.
Anche se non capivo esattamente cosa avessero da festeggiare.
-Voi che fate stasera?- continuò Trè rivolgendosi ai presenti.
-Io vado a farmi una birra con Tim e Jason- disse Mike.
-E tu, Big?-
Mi voltai verso Trè, in realtà non avevo minimamente ascoltato
una sola parte del discorso.
-Cosa scusa?- chiesi.
-Ti ho chiesto cosa fai stasera- ripetè lui, un pò seccato.
Guardai Mike e lui ricambiò lo sguardo, come per darmi un appoggio.
-Non lo so- risposi.
-Ti va di venire con noi?-
Fissai Trè e poi Mike, poi fissai nuovamente il batterista.
Mi stava chiedendo di andare a puttane ma in quel momento avevo
altro per la testa. Mike iniziò a toccarsi le mani, lo faceva ogni volta
che si innervosiva.
-Ti ringrazio, ma...-
-Ho capito, vuoi startene rinchiuso a scrivere. Vorrà dire che io e
White ci divertiremo da soli...- concluse.
Sospirai, avvilito.
Mi dispiaceva non fargli compagnia, ma forse non era il caso.
Forse era ancora troppo presto per andare avanti.
Oppure no?
-Dai, vai fuori dai coglioni ora!- ribattè Mike rivolgendosi a Trè
con un sorrisino.
-Me ne vado, me ne vado! Stai tranquillo... Vado a vestirmi, anche
se dopo dovrò spogliarmi!-
Rise istericamente rivolto a Mike poi si alzò in piedi, esaltato.
Prese la sua giacca e fece per andarsene.
Io rimasi lì a guardarlo. Avevo voglia di urlargli dietro tutto quello
che provavo in quel momento. Tutto il malessere che regnava dentro
di me da una settimana. Ma... aprendo la bocca mi accorsi che non
ne veniva fuori alcun suono. Le parole non uscivano, non volevano
essere buttate fuori. Il batterista stava già uscendo da quella
fottuta porta quando, più forte di qualunque altra cosa, la mia voce
risuonò nella stanza.
-Trè, aspetta!- gridai.
Mike e Trè si voltarono verso di me, uno con la giacca in mano e
l'altro con la mano sulla maniglia della porta.
-Che succede, Big?- chiese Trè, quasi spaventato dall'urlo che avevo
lanciato.
-Vengo... vengo anche io, con voi- dissi, tutto d'un fiato.
Trè alzò le braccia e mi sorrise.
Mike, pallido, sgranò gli occhi.
-Va bene, va bene... Stai calmo, Big, non agitarti!- disse, rimasto
ancora un pò sconcertato dalla mia reazione improvvisa.
-Billie, non è una buona idea...- si intromise Mike.
Io non gli risposi, rimasi fermo lì, sopra quel maledetto divano.
Con il viso stravolto.
-Trè, vengo con voi- ripetei.
-Billie, ascoltami...- iniziò il bassista, ma lo bloccai alzando una mano.
-No, dobbiamo andare ora-
Così dicendo, mi diressi verso la porta e uscii senza nemmeno aspettare
Trè, che mi seguì subito dopo.
Non appena salimmo in macchina, capii che i due avevano intenzioni
serie in merito ai festeggiamenti. Il batterista si era informato riguardo
a tutti i locali notturni della città.
Ridacchiavano come pazzi, quei due.
Ma io... io non li ascoltavo. Mi pareva che nemmeno ci fossero dentro
quella fottuta macchina. C'ero solo io.
Ma diamine, non ero solo!
C'era sempre qualcuno con me, dentro di me.
Iniziai a tremare forse a causa del freddo oppure il mal di testa che
mi faceva partire il cervello. Oppure lei, cazzo.
Lei era la causa di tutti i miei mali.
Mi sembrava di stare dentro una lavatrice, un'enorme lavatrice dei
ricordi, sballottato qua e la, con le lacrime agli occhi.
E l'angoscia pronta ad esplodere. E quei due... quei due ridevano,
ridevano, ridevano, parlavano. Totalmente ignari di me.
In continuazione, un vortice senza fine che mi trascinava sempre più
in basso e non potevo evitarlo, non potevo fare nulla e...
-QUANDO MI LASCERAI IN PACE, MALEDETTA?-
Trè e Jason smisero di parlare e si voltarono impauriti verso me.
Mi passai una mano sul viso, le goccie di sudore scendevano dalla
fronte, le labbra tremavano.
Respiravo a fatica e non mi ero accorto nemmeno di aver urlato.
Ero convinto che quelle parole, quelle fottutissime parole, fossero
rimaste nella mia testa soffocate in qualche modo.
E invece le avevo urlate, sputate fuori con tutta la disperazione
tenuta dentro per troppo tempo.
Trè fermò subito la macchina e si voltò verso me.
-Big, ma che ti succede? Stai bene?-
Annuii con la testa.
-Sì... Va tutto bene- risposi, a fatica.
-Sembri sconvolto, sei...-
-Sto bene, Trè!-
-Non stai bene. Guardati, cazzo! Stai tremando...-
Mi girai verso il finestrino, evitando lo sguardo preoccupato dei due.
-Rimetti in moto la macchina- dissi.
-Ti prego, non...-
-Ho detto rimetti in moto questa cazzo di macchina!-
Jason abbassò lo sguardo come un cagnolino impaurito, ma Trè
non mi temeva affatto. Continuò a fissarmi mentre prendevo a
pugni il sedile avanti a me.
-Non rimetto in moto questa fottuta macchina se prima non mi
dici che cazzo ti sta succedendo, Billie!-
Fissai di nuovo fuori dal finestrino.
-Piantala di chiamarmi Billie, non mi hai mai chiamato Billie...-
Stravolto, afferrai la maniglia della portiera ed uscii correndo
come un pazzo per la strada. Quasi senza fiato. Il freddo era
pungente in quella maledetta città.
Mi ero già allontanato parecchio dalla macchina, ma sentivo
in lontananza le urla di Trè.
-DOVE DIAVOLO STAI ANDANDO, BILLIE? CAZZO, TORNA
INDIETRO!-
Non tornai indietro.
Non avevo alcuna intenzione di fermarmi, nemmeno se mi avessero
pregato in ginocchio. Avrei corso a perdifiato fino a perdermi.
Era questo ciò che volevo, essere solamente dimenticato dal
resto del mondo. Da tutti.
Tanto, ormai, mi ero dimenticato persino io di me stesso.
Non avevo la minima idea di dove stavo andando. Non sapevo
dov'ero, le gambe correvano da sole verso una destinazione sconosciuta.
Le lacrime scivolavano sul mio viso, portate via dal vento, le
ciglia umide. I pugni chiusi, il cuore spezzato.
Mi fermai, esausto. Chinai la testa.
Quanta strada avevo fatto? Ero abbastanza distante dal resto del mondo?
Mi voltai non c'era anima viva in giro.
Probabilmente, mi trovavo in mezzo ad una piazza, avanti a me c'era
un'enorme fontana.
Mi raggomitolai ai suoi piedi, disteso sopra ai freddi scalini di marmo.
Infreddolito, stanco.
Mi pareva di sentire la voce di Trè, in lontananza.
Forse era venuto a cercarmi fin lì.
O forse era solo frutto della mia mente.
Misi la testa dentro la giacca per ripararmi dal freddo, ma non ci riuscii.
Mi resi conto che il freddo non proveniva dall'esterno... quel freddo
così pungente, devastante, proveniva da me.
Era dentro di me, sotto la mia pelle.
Mi abbandonai ad un lieve sonno, ma la pace apparente non
durò molto.
Fu interrotta da un suono, un suono continuo.
Lacerante.
Alzai la testa, spossato. Non sapevo da quanto tempo ero fermo lì...
Sentivo quel suono, ma non riuscivo a capire da dove provenisse.
Non era distante da me, sembrava invece che... provenisse da me.
Mi guardai e mi resi conto che era il telefono.
Stava squillando.
Ancora turbato, non ero convinto di essere in grado di intendere e di
volere. Pensai che fosse sicuramente una chiamata di Trè.
Oppure di Mike.
Tastai la tasca dei pantaloni e con grande fatica riuscii a tirarlo
fuori, la mano tremava. Gli occhi erano talmente umidi che non
riuscivo nemmeno a leggere di chi fosse la chiamata.
Forse di Adrienne.
Risposi e portai il telefono all'orecchio.
-Pronto?-
Silenzio, dall'altra parte nessuno rispose.
Rimasi zitto anch'io, per un pò.
-...Pronto?-
Ancora silenzio, un silenzio che non dava segni di vita.
Sospirai lievemente.
Non era Adrienne.
-Ascolta Trè... non ho voglia di scherzare. Quindi rispondi, cazzo!-
dissi, alzando la voce.
Era sicuramente lui, non era raro che facesse quel genere di scherzi.
Ma niente, chi mi aveva chiamato aveva serie intenzioni di
spaventarmi. O farmi girare i coglioni.
O forse, entrambe le cose.
-PRONTO?... Trè, cazzo rispondi!-
Nessun segno di vita.
Nonostante questo, dall'altra parte sentivo qualcosa.
Qualcosa di lieve, delicato.
Sentivo... un respiro.
Iniziai ad agitarmi.
Pensavo ad uno scherzo, un stupido scherzo di merda.
Stavo per chiudere la chiamata, premere quel fottutissimo tasto
rosso, mandare a cagare chiunque fosse stato a chiamarmi.
Volevo terminare quell'assurda chiamata a senso unico, quando
dall'altra parte qualcuno parlò.
-Billie...-
Non l'avevo sentita bene la voce che aveva appena pronunciato
il mio nome, rimisi il telefono all'orecchio con il cuore che
martellava nel petto, il fiato improvvisamente corto.
Dopo circa un minuto di silenzio tombale, fuori e dentro me,
la voce parlò nuovamente.
-Billie... Sono io, Jane-




Eccomi di nuovo qui, giuro che non vedevo l'ora di scrivere questo capitolo!
Ammetto che è un pò più lungo degli altri...
Ora aspetto solo di sapere cosa ne pensano le mie recensitrici adorate!
Franklyn: Lo so, lo so. Riesco già a vedere la tua faccia! Scommetto che
anche tu non vedevi l'ora che arrivasse questo momento! :)
Rbd: Beh dai... Ahahah! Mi ha divertita molto la tua recensione precedente,
mi sono immaginata Billie che suona la chitarra in carcere :D
Comunque, dimmi che ne pensi di questo! :)
Rebel Of Suburbia: Bene bene... vedo che la nostra Jane inizia a piacerti
veramente (almeno così spero) dai dai... ora a quanto parte tornerà in scena!
lotra: Tranquilla, non succederà nulla di spiacevole ( almeno per ora!) :)
Drunky Bunny: L'ultima frase di Billie del capitolo precedente non era
in senso metaforico,  pensava realmente di fare ciò che ha detto...
Beh spero di averti chiarito le idee :)
Angie_Nim: Ti rivogliamo con noiiiiiii! :D

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Jane ***


Un pianto.
Un lungo, fottutissimo pianto senza una fine.
Versai la prima lacrima all'ascolto di quelle tre parole, così cose, così
piene di speranza, che provocarono in me la perdita totale dei sensi.
In quel momento, mi sentivo vuoto.
Privato di me stesso, delle mie emozioni.
Le mie energie erano state completamente risucchiate.
Ero diventato un perfetto automa.
Rimasi zitto circa dieci lunghi minuti, dieci fottuti minuti prima di rendermi
realmente conto che la persona con la quale stavo parlando... era lei.
Trattenni il respiro.
-Billie...?-
Avevo trattenuto il respiro nella speranza di far battere normalmente il
cuore ma poco c'era da fare. Dentro al mio petto, quello martellava
come una bomba pronta ad esplodere.
Era una mitragliatrice.
-Ja-Jane...-
Niente, le parole non uscivano.
Erano bloccate in gola, pronte a soffocarmi.
-Ti prego. Dimmi qualcosa...- disse lei.
Ma cosa potevo dirle se le parole erano praticamente spezzate dalle
lacrime, ferme in gola senza speranza di uscire?
Cosa potevo dire a quella donna?
Non potevo dirle niente, questa era la verità.
Non c'erano parole per dirle quanto stavo provando a cancellarla
dalla mia fottutissima vita... e quanto tristemente fallivo.
Fallivo perchè ogni cosa mi riportava a lei.
-Cosa...cosa vuoi che ti dica, Jane?-
Lei non rispose, la sentii sospirare leggermente quando feci quella domanda.
-Ti prego... non dire così-
Soffocai un'amara risata rotta dalle lacrime.
-Vuoi che t-ti dica che sto male senza di te, Jane?... Vuoi saperlo?-
Vuoi sapere... cosa sono diventato? Come mi sono ridotto? E' questo ciò che vuoi?-
La sentii sospirare un pò più in fretta.
Forse anche lei era sull'orlo del pianto.
La mia angoscia cominciò a salire, temevo che lei potesse interrompere quella
chiamata da un momento all'altro.
-RISPONDI, CAZZO!- urlai, sputando tutta la saliva che avevo in bocca.
-Non fare così...-
-TI HO FATTO UNA FOTTUTA DOMANDA!- urlai ancora.
Ecco come tutta la disperazione di quei giorni stava venendo fuori.
Avevo pensato di sfogarla su Mike, su mia moglie, su Trè... senza pensare che
era su di lei che dovevo realmente scagliarla.
Il suo respiro stava diventando sempre più affannato.
-...Non è ciò che voglio e tu lo sai- rispose lei.
Chiusi gli occhi, disperato.
-Vuoi sapere quanto sto soffrendo... come un cane?-
-Basta, Billie-
-BASTA, COSA?-
-Vorrei... vorrei sapere il perchè mi stai dicendo tutto questo...- disse.
-Se solo tu sapessi quanto sto male, Jane. Se solo tu avessi una... minima fottuta
idea di quello che mi sta accadendo. Beh, riattacheresti immediatamente questo
telefono del cazzo, interromperesti subito questa fottuta chiamata... E...
Presi fiato.
-E cosa?-
-E non sapresti mai che...-
-Che cosa...?-
Svuotai l'aria dai polmoni.
-Non sapresti mai... che io ti...-
-Che tu... COSA?-
-Ti amo? Jane no, io non ti amo. Io non vivo più, è diverso. Non vivo più se mi
stai lontana- dissi, tutto d'un fiato.
-Dimmelo, Billie. Dimmelo guardandomi negli occhi-.
Quelle parole mi fecero ripercorrere noi, la nostra lontananza.
Il nostro incontro.
E i suoi occhi, temevo con tutto me stesso di averli scordati.
E non volevo.
-Se potessi, te lo giuro... Io...-
-Fallo, ora-
-Jane, cazzo! Smettila-
-Sono qui, Billie. Dietro di te-.
Il telefono mi cadde dalle mani.
Cadde come me, anch'io sprofondai con lui in quello stesso istante.
Le gambe tremavano al pensiero di girare quella fottuta testa e guardare cose
ci fosse realmente dietro di me.
Paura, tanta paura.
Ma lei... lei era più forte della paura.
Dovevo farlo, dovevo voltarmi.
Girai la testa, mi guardai alle spalle.
Dietro di me, oltre la fontana sotto alla quale ero appollaiato, alla fine della via
c'era un'enorme chiesa.
La strada si divideva in due.
Alzai il mento per vedere oltre.
No, non era vera.
Non poteva essere vera.
Chiusi gli occhi, li riaprii.
Lo feci per due volte consecutive.
Appoggiata alle mura bianche, dritta in fondo a me in perfetta simbiosi con
l'oscurità c'era lei.
Jane.


Eccomi qui con un altro capitolo.
Questo è abbastanza corto ma devo ammettere che comunque mi piace.
Franklyn: Ciao mia adorata, ecco a te un altro capitolo. Bene bene non aspetto altro che
il tuo commentino! Ti ringrazio ancora per aver prestato attenzione dall'inizio alla mia
storia, sei stata la prima! :)
Rebel Of Suburbia: Mi fa tanto piacere che la storia ti piaccia un mondo. Comunque, non
preoccuparti per Adrienne: ti dico subito che le cose andranno bene per lei in futuro :)
Oh, le mie fedeli recensitrici Rbd, Drunky Bunny e lotra?
Spero, ovviamente, che si rifacciano vive :)
Comunque ringrazio tutti quelli che leggono la mia storia anche senza recensire.
Non mi farebbe dispiacere ricevere qualche commento, vorrei sapere cosa ne pensano
gli altri riguardo alla storia. Ovviamente, sono accettate anche le critiche: siamo tutti
liberi di esprimere un nostro parere personale!





Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** The Dream (First Part) ***


I miei occhi così lucidi, così stanchi di piangere, vivere, sperare
in quel momento mi sembrarono offuscati.
Per un attimo ebbi la sensazione che tutto ciò non fosse reale,
che fosse solo un fottuto sogno, da cui presto mi sarei risvegliato.
Oppure, un fottuto incubo.
Sì perchè lei, Jane, non poteva essere qualcosa di reale, non poteva
esserlo. Poteva essere reale un altro me stesso? Poteva esistere un
secondo Billie Joe Armstrong?
Ed eccola lì, l'altra metà di me, avanzava nella mia direzione senza
staccarmi gli occhi di dosso.
Ma solo lei.
Con passo lento, gli occhi semichiusi, malinconici e talmente
irreali da terrorizzarmi.
Oh, ragazza, io ti amo più di me stesso e tu lo sai.
Ne sei consapevole.
Perchè ora sei qui? Sei venuta per uccidermi... una seconda volta?
Per mettere in atto la seconda parte di questo gioco del destino,
frutto di una casualità sconvolgente che, guardacaso, ha
braccato proprio me.
Sei venuta per dirmi che mi ami, che mi starai vicina, sei venuta
per rassicurarmi? No, Jane.
Io non so più che farmene di me stesso.
Vorrei darti ciò che nessuno al mondo ha mai osato dare ma come
faccio se oramai mi sento così moribondo?
Così privo di senso?
Tu me l'hai portato via ed ora io ne sto pagando le amare conseguenze.
E si fermò qualche metro lontano da me, lo sguardo dritto nei miei
occhi. Nessuno dei due parlò, si mosse, fece qualche gesto.
Rimanemmo lì a guardarci negli occhi, amandoci ancora segretamente.
-Sono qui- furono le sue prime parole.
-Cosa... cosa ci fai qui?-
-Sono qui per lo stesso tuo motivo-
La fissai, ovviamente, senza guardarla negli occhi.
-Sono stufo di questi scherzi del destino- risposi, tentando di
mantenere il controllo.
-Questo non è destino, è volontà-
-Volontà? Volontà, Jane? Ma che cazzo stai dicendo? Io sono stufo
di guardarmi allo specchio e vederti sempre, sono stufo di pensare
a te ogni cazzo di minuto della mia assurda vita, sono stufo di
vivere con l'angoscia di non poterti rivedere...-
Abbassò piano lo sguardo, gli occhi erano sempre in attesa di
un qualcosa che sperava potesse arrivare.
-SONO STUFO, STUFO MARCIO DI AMARTI, JANE!-
Gridai, buttando fuori tutta la rabbia, la frustrazione, il dolore,
persino la gioia di quel momento.
-La mia vità... è distrutta! Lo capisci o no, cazzo? DISTRUTTA! A
causa tua io non so più chi sono! Ho scoperto di non amare più
mia moglie, di non amare più Mike, di non amare più un cazzo
di nessuno su questa fottutissima terra! Nessuno, perchè tu... Tu,
cazzo, sei dannatamente superiore...-
mi fermai, agitato.
Lei alzò lo sguardo, incredula.
-...Dannatamente oltre, dannatamente sopra a tutti-
Sospirò, io feci altrettanto.
-Ed io.. dannatamente ti amo, come non ho mai amato nessuno.
Ti amo come potrei amare me stesso. Perchè tu... sei me-
Era finito, finito tutto. Il mio sfogo, le mie paure, la mia
angoscia. Se n'era tutto andato, portato via dalle ultime parole
come un soffio di vento.
Le sue manine così piccole, deliziose, iniziarono a tremare.
-Dimmi qualcosa, ragazza, ti prego...- dissi, con un filo di voce
ancora tremante.
Lei scrutò il suolo sotto ai suoi piedi una, due, tre volte prima di
posare ancora gli occhi su di me. Mi avvicinai a lei, finalmente,
presi quelle manine così piccole, più gelide del solito, le tenni
strette nelle mie. Ed una sensazione conosciuta, già sentita, già
provata, mi percorse tutto il corpo partendo dalla punta delle
dita arrivando al cuore.
Dannata sensazione di dolore, amarezza, solitudine... di morte.
Era lì, nelle sue mani. Impressa dentro quella gelida carne.
E lei... lei era turbata.
-Non ci riesci proprio, vero?- chiesi.
Continuò a fissarmi.
-Non riesci proprio ad amarmi, Jane?- dissi, scuotendo la testa.
No, lei non poteva amarmi.
Un essere così fuori dal mondo, così solo, sperduto, amareggiato...
Non poteva amare me.
-Io...-
-Tu cosa, Jane?-
-Io vorrei, ma...-
-Ma cosa?-
-NON POSSO!- gridò improvvisamente, attaccandosi alla mia giacca,
scuotendomi e tirandomi, con il volto terrorizzato.
Le sue mani si erano attaccate a me e non avevo modo di fermarle,
tremavano a dismisura.
-Stai calma, ti prego- urlai anch'io, tentando invano di accoglierla
tra le mie braccia. Ma lei continuò ad avvinghiarsi tremante al
mio collo, graffiandomi con le piccole dita.
-Non posso, Billie- ripetè.
Riuscii a fermarla, lei continuò a respirare affannosamente
abbattendo il suo respiro contro il mio viso.
-Io...-
-Non parlare, Jane. Sei sconvolta, non parlare- dissi con dolcezza,
quanta più ne potevo avere.
-Io...voglio-
-Cosa vuoi, amore?-
I suoi occhi si gonfiarono di lacrime quando udì quelle parole così
inaspettate, così soffici. Talmente soffici da attutire il dolore che
provava in quel momento.
-Nessuno... mi aveva mai chiamata così-
-Allora sono il primo-
Mi prese le mani, le strinse talmente forte da farmi del male.
Mi fissò con occhi sbarrati.
-Billie...-
-Cosa c'è? Che ti succede?-
-Billie, portami lì-
-Cosa stai dicendo, amore? lì dove?-
-Lì, dove avete fatto il concerto stasera-
La fissai, interrogativo.
-Perchè vuoi andare lì?- chiesi, accarezzandole i capelli.
Ma riprese a tremare, non appena le feci quella domanda.
-Portami, ti prego!-
Non avevo la minima idea del perchè lei insistesse nel voler andare
in quel posto, così lontano dal centro.
Ma alla fine, andammo.



Ah finalmente siamo arrivati a questo capitolo!
Non vedo l'ora di proseguire, giuro!
Saluto e ringrazio le mie recensitrici e lettrici...
Franklyn: Siamo vicini, molto vicini al missing moments che tanto aspetti...
dovrai pazientare ancora un pò! Comunque, ecco un altro capitolo! Spero ti
piaccia :)
Rbd: Oh, finalmente sei tornata, mi sei mancata e soprattutto mi sono
mancate le tue recensioni! Aspetta, aspetta di sapere cosa accadrà... ahahaha
io lo so già (beh ma quanto sono scema, ho scritto io la storia!)
lotra: Mi ha fatto tanto piacere leggere la tua recensione e sapere che ti faccio
quest'effetto così positivo. Leggi questo capitolo e dimmi che ne pensi :)
Saluto anche Drunky Bunny e Rebel Of Suburbia che seguono la storia e
recensiscono appena possono!
Ah, un'ultima cosa: questo capitolo è più lungo degli altri e, come già fatto
in precedenza, lo divido in due.
Questo è la prima parte.
Buona lettura

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** The Dream (Second Part) ***


Potevo forse dirle di no?
Non esaudire quella sua unica richiesta?
Una richiesta che inizialmente mi era sembrata assurda, una
richiesta che mi aveva letteralmente spiazzato.
Mi chiedevo il motivo per cui Jane volesse recarsi lì con
me, in quel posto ormai desolato, visto che era abbastanza
tardi e la mattina seguente si sarebbe smontata tutta la
baracca.
Mancavano poche ora all'arrivo degli addetti ai lavori.
Mi tenne per mano e salimmo passando dal lungo corridoio
che portava in scena.
Mi guardai intorno, non c'era nessuno.
Anime vive, nemmeno una tranne noi due.
Sentivo un'agitazione inspiegabile arrivare fino alla gola,
forse causata dal contatto con lei.
Lei, che non si era girata un solo attimo verso di me, non
mi aveva degnato di uno sguardo.
Arrivammo sopra al palco, quell'enorme palco.
Guardai il luogo intorno a noi, non c'era proprio nessuno
nemmeno lì.
Mi lasciò la mano e, un pò tremante, si allontanò.
-Perchè... Siamo venuti qui?- mi decisi a chiederle, con voce roca.
Ma lei non diede una risposta a quella mia domanda.
Si allontanò ancora da me, continuando a fissare avanti a se.
Pensierosa come non l'avevo mai vista, totalmente persa
nei suoi affanni.
-Io...- iniziò.
-Perchè mi hai portato qui?- ripetei con voce più ferma.
-Io sento...-
-Cosa senti, Jane?- le chiesi, avanzando lentamente.
-Sento di aver lasciato tutto a metà... con te- disse.
-Cosa stai dicendo?-
Si voltò con gli occhi lucidi ma lo sguardo deciso, sicuro.
-Cosa stai dicendo, Jane?- chiesi ancora, implorando una risposta.
-Lo farò, questa volta sì. Ho deciso-
La guardai, confuso.
-Di cosa stai parlando?-
-Io... voglio sacrificarmi. Voglio farlo, per te. Solo per te-.
La fissai, sgranando gli occhi.
-Ti prego, derubami di ogni ricordo, di ogni cosa. Derubami... di
me stessa...- continuò.
Si avvicinò a me, prendendomi velocemente le mani e stringendole
a se, sul suo piccolo seno. Io rimasi a guardarla con la bocca
spalancata, gli occhi sbarrati.
-Billie... fammi tua, solo questa notte. Solo una volta-
La saliva si bloccò in gola.
Deglutii.
Non riuscivo a parlare, respirare.
Non riuscivo a decidere, talmente ero spiazzato da quella sua
drammatica richiesta.
-Perchè me lo stai chiedendo?-
-Perchè... è giusto così-
Mi premette le mani con più forza sul seno, ma non aveva un
comportamento provocante, sensuale o invitante.
No, lei trasudava angoscia.
-Io... so che sarà la notte più brutta della mia vita-
-Non hai nulla di cui aver paura- dissi, accarezzandole piano
i capelli, cercando di calmarla.
-Io so chè... so già che...- iniziò a tremare, ansimando sull'
orlo del pianto.
La sua era una reazione indubbiamente esagerata.
E sicuramente... nascondeva qualcosa.
Qualcosa che mi spaventava.
-Non credo che tu sia pronta, ragazza-
-Ti prego fammi dimenticare presto questo dolore... e questo giorno-
Quella fu l'ultima cosa che mi disse.
Rimase lì a fissarmi, supplice.
Cosa potevo fare di fronte a tanto turbamento, un turbamento che
sentivo così profondamente mio?
Così profondamente sincero, come le sue parole in quel momento?
Come potevo rinunciare a lei, alla mia vita, alla nostra vita?
Come potevo guardarla negli occhi mentre le sue manine ora così
svelte e tremanti, sfilavano l'unica cosa che in quel momento
la stava proteggendo da me?
Potevo forse non sussurrarle che l'avrei amata con tutte me stesso,
sperando di non ricadere nell'oscura paura che si era impossessata di
me la volta prima?
Potevo forse non perdermi alla vista di lei, improvvisamente
distesa lì, avanti a me? Sopra a quel dannato palco.
Quel palco dove poco prima mi ero esibito solo per dovere.
Un dovere che mi ero imposto di dover seguire per evitare di
cadere ancora più in basso.
Dovevo solo trattenere il terrore, lo stesso che mi fece nuovamente
rivoltare lo stomaco mentre mi adagiavo sopra di lei.
Quel terrore che vidi nei suoi occhi nel momento in cui,
profondamente insicura come era sempre stata, decise di
sacrificarsi.
Un solo sacrificio, il più grande di tutti.



Ohhhhhhh....
Voi, care recensitrici adorate, in questo momento starete pensando:
FINALMENTE!
Franklyn: Eccomi, eccomi! Ed ecco per te la seconda parte del  capitolo che
ho diviso a metà, spero che ti piaccia cara :)
Rbd: Oh ma sei proprio fortunata, sei tornata proprio nel momento più bello!
Eh lo so che sono un pò perfida... ahahaha mi piace tenerti sulle spine :D
Rebel Of Suburbia: Grazie mille per i tuoi continui complimenti,
solo molto contenta che ti piaccia! Beh, che dire? Ecco un altro capitolo!
Drunky Bunny: Anche tu sei di nuovo tra noi (sono molto contenta!) Non
preoccuparti delle tue recensioni, mi fanno sempre piacere! Comunque, ecco
spiegato il perchè della richiesta di Jane :)
Recensitrici adorate, attenzione!
Prossimo appuntamento: Missing Moments.
Posso darvi qualche anticipazione visto che è già pronto: più che erotico è
drammatico (soprattutto la prima parte, ve lo dico subito). Ma sì, vi dico anche
il titolo: Sacrifice.


Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Heart ***


Guardai Jane.
Si stava già rivestendo.
Vista così, in tutta la sua fragilità, seminuda e bianca, mi pareva che fosse
ancora più piccola.
Talmente piccola da potermela mettere addosso, cucirla sopra di me per
poter essere ancora una volta un tutt'uno con lei.
Come lo ero stato qualche attimo prima.
Evitai di ripensare a tutto ciò, solo il pensiero che quella fosse stata
l'unica e ultima volta... mi faceva impazzire.
Ero ancora troppo stravolto da un'emozione inspiegabile, nuova, che non
avevo mai provato nella mia fottuta vita.
La sensazione di conoscere totalmente a fondo una persona, me stesso.
Lei mi procurava i brividi.
Brividi di un'improvvisa malattia che credevo di conoscere da tutti i
punti di vista e che in realtà mi era totalmente sconosciuta.
Una malattia, l'amore.
Un qualcosa di inspiegabile era accaduto tra noi poco prima, un qualcosa
che tutte le parole di questo mondo non potrebbero mai descrivere.
Nemmeno le più ricercate ed accurate.
Perchè una parola, una sola fottuta parola, non può spiegare quanto io
mi fossi sentito sperduto ed impaurito insieme a lei, nessuna parola potrà
mai spiegare cosa si provi a fare l'amore con se stessi.
Non riuscivo a spiegarmelo nemmeno io.
Ma lei... così struggente, così priva di senso, così assurda era realmente
il Billie Joe Armstrong che non potevo minimamente sperare di raggiungere.
Più la guardavo e più mi sentivo privo di ricordi, come se lei volesse,
pretendesse che io cancellassi la mia vita e ripartissi da lì.
Ripartissi da lei.
Mi avvicinai a lei e dolcemente, spontaneamente le sfiorai la schiena.
La sentii rabbrividire.
-Jane... Dimmi la verità-.
Abbassò la testa ma non girò lo sguardo verso di me, forse ancora
incapace di guardarmi negli occhi.
Forse, ancora presa dall'imbarazzo dell'attimo prima.
-Come hai fatto a trovarmi oggi?- chiesi, abbassandomi.
-Sono in viaggio da ieri... Sono arrivata qui e ho trovato l'albergo-.
-Sei andata in albergo?-.
-Sì-.
Oh cazzo.
Sicuramente aveva discusso con Mike, magari l'aveva minacciata.
Anzi, sicuramente.
-Chi... chi ti ha detto dov'ero?- chiesi in fretta.
-Ho chiesto... C'era un ragazzo lì, un ragazzo molto gentile che mi
ha detto dov'eri andato-
Sicuramente lei stava parlando di Tim, dalla descrizione sembrava lui.
-Hai parlato con altri?-
-Beh... ho incontrato il tuo bassista e...-
-COSA?- chiesi, alzando la voce.
Lei rimase ammutolita dalla mia reazione.
-E cosa ti ha detto?- chiesi ancora, cercando di controllarmi.
-Nulla di buono, ecco-.
Dannazione. Adesso sarebbe stata sicuramente la fine.
Avrei già dovuto prepararmi alla grande sfuriata che Mike, molto
probabilmente, stava già maturando in quello stesso momento.
-Ti prego, Jane! Qualunque cosa ti abbia detto Mike... Non devi
prenderla sul serio. Lui... esagera e non sa quello che dice-
-Si preoccupa per te, Billie- rispose.
-Non ho bisogno che la gente si preoccupi per me, non ora. Ora... ho
solo bisogno di sapere...-
-Cosa?-
-Ho bisogno di sapere... Se tutto questo finirà-
Ma lei non rispose.
Continuò a tenere lo sguardo abbassato.
Quell'imbarazzo che ci aveva travolti poco prima continuava a regnare
tra di noi ormai fragilmente incontrastato.
Lieve, ma pur sempre presente.
Non avevamo il coraggio di guardarci noi, due povere anime alla
continua ricerca l'uno dell'altra. Non riuscivamo ad amarci ed odiarci,
tutti i nostri sentimenti erano stati travolti, spazzati via da quell'
incredibile evento avvenuto poco prima, talmente grande da soffocarci.
Annullarci.
Il silenzio, anch'esso regnò tra noi.
Un silenzio che nascondeva molte più cose di quelle già dette, ridette e
risapute. Un silenzio che non acconsentiva ad andarsene, lasciarci soli.
Un silenzio che mi terrorizzava e terrorizzava anche lei.
-Sono molto stanca, Billie- mi disse, tentando di coprirsi in qualche modo.
La presi per mano ed insieme, soli come eravamo giunti, ce ne andammo.
Diretti al mio albergo.
Lungo la strada, silenzio.
Tutta la notte, silenzio.
Un silenzio che trasportava con se una speranza, la stessa che avevo
portato dentro di me in quei giorni senza di lei, la speranza di non
abbandonarla una seconda volta, di poterla tenere con me per il
resto dei miei inutili giorni.
Ma sapevo perfettamente che quella dannata speranza sarebbe svanita
la mattina seguente, svanita nel nulla come lei.
Pronta ad andarsene lontano da me.
Ero cosciente, sapevo esattamente cosa sarebbe successo: la ruota
avrebbe continuato a girare ancora ed ancora, il costante bisogno di
quella ragazza, la mia ragazza, non sarebbe cessato.
I battiti del suo maledetto cuore erano così facilmente percepibili
per me che riuscivo a sentirli anche a chilometri di distanza.
Riuscivo a sentirla dentro me.
E così la sentivo anche accanto a me, distesa sopra quell'enorme
letto, stanca ed assonnata.
Abbracciata a me come fossimo una persona sola, legati da una
sinergia indissolubile.
Ma non provavo felicità.
Non ero felice, non toccavo il cielo con un dito.
Non provavo assolutamente nulla... se non una strana sensazione.
Un senso di vuoto oramai colmato, finalmente colmato.
Il vuoto di me stesso.


Ciao a tutti!
Bene, adorate recensitrici, a quanto pare il missing moment vi è piaciuto!
Sono contenta :)
Franklyn: Le tue parole mi hanno scaldato il cuore, come piccole fiammelle.
Cosa posso dirti? Non ho parole per tutto ciò che mi hai detto.
Posso solo ringraziarti dal profondo del cuore! :)
Rbd: Ecco a te mia cara, un altro capitolo che quasi sicuramente gradirai...
ti ringrazio per aver recensito il missing moment!
lotra: Rispondendo alla tua domanda nella recensione, no il missing moment
non è un'altra storia: fa parte di questa! :)
OrangeMochaFrappuccino: Oh! Ci sei anche tu? Mi fa piacere sapere che
hai letto il missing moment e ti tieni aggiornata sulla mia storia! Grazieeee
409inMyCoffeeMaker: Cosa posso dire di fronte a tutte le tue recensioni?
Cosa posso dirti se non grazie, cara?

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Remember This Time ***


Aprii leggermente gli occhi, ancora un pò preso dal sonno a cui
mi ero abbandonato.
La luce illuminava l'interno della mia stanza d'albergo, il sole
era già alto in cielo. Una luce chiara, mattutina, illuminò il volto
della donna che quella notte aveva dormito al mio fianco.
Una donna che non era mia moglie.
Entrata nella mia vita quella notte stessa, era decisa a non
andarsene più.
Il viso di Jane, prima perso e confuso ora mi appariva sereno,
speranzoso, libero mentre dormiva al mio fianco.
Ora, ragazza, non immagini nemmeno il lungo calvario che ci aspetta.
Affrontare tutte le persone maligne, invidiose che sperano solo
nel nostro male, sarà dura.
Persino per me, che voglio solo proteggerti da questo mondo.
Voglio solo te, adesso.
Non so se riuscirai a seguirmi, starmi accanto, sopportare tutto
ciò che ti attente. E non potrò biasimarti se te ne vorrai andare,
lasciandomi nuovamente così solo e speduto.
Ma ti prego, non farlo.
Non tenermi lontano da te, non un'altra volta.
Non permettere che io impazzisca di nuovo, non adesso che mi
hai donato te stessa ed hai permesso a me, tuo umile servo, di
condividere il tuo immenso dolore, di farlo mio sopportandolo
e vivendolo in religioso silenzio insieme a te.
Non permettere che tutto finisca, non togliere la mia croce.
Questa dannata croce che, per quanto grande che sia, io
voglio portare a qualunque costo.
Qualunque costo.
Perchè preferirei soffrire con te accanto tutta la vita piuttosto che
vivere felicemente un altro singolo fottuto giorno senza te.
Tu, solo tu, ragazza... oramai, ci sei.
Dolci sogni accompagnavano il sonno di Jane e dolci fantasie
prendevano il sopravvento su di me, imbambolato ancora una
volta a fissarla, steso accanto a lei.
Perso in lei.
Ma quella pace non durò molto.
Era destinata a finire, trasformandosi in una sanguinosa guerra,
dal momento in cui udii bussare violentemente alla porta.
Alzai la testa, impaurito dal fatto che tutto quel baccano potesse
turbare il sonno di Jane.
-Billie apri questa cazzo di porta! Aprila subito, cazzo!-
Mike.
Incazzato nero.
Anzi, incazzato nerissimo.
Il cuore iniziò a battere velocemente, sentii il sangue scorrere nelle
vene e l'angoscia annodarmi la gola.
-E' inutile che fingi di non esserci, porca puttana so che ci sei,
cazzo! E so anche... CHE LEI C'E'-
E' la fine, pensai.
La fottuta fine.
Per me, per lei.
Controllare le reazioni di Mike era praticamente impossibile
in quelle situazioni. Era pericoloso, e l'avevo capito dal modo in
cui batteva i pugni sulla porta.
Pareva che volesse abbatterla, come sicuramente voleva abbattere noi.
-Apri questa CAZZO di porta, stronzo! Aprila ho detto!-
Non potevo evitarlo, non avevo via di scampo.
Non potevo fare nulla se non stare lì, evitando di respirare affannosamente,
piangendomi addosso come un bambino con le mani in mano.
Jane si svegliò di soprassalto.
-Billie... che-che succede?- chiese ancora un pò assonnata.
-LO SO COSA STAI FACENDO, CAZZO! Apri o sfondo la porta!-
Jane si voltò terrorizzata verso di me portandosi una mano alla bocca.
Non sapevo che fare.
Nascondere Jane? Scappare?
Oppure affrontare la pericolosa macchina da guerra che stava oltre
la porta?
Ero bloccato, fermo immobile sopra a quel letto.
No, io dovevo farlo.
Dovevo assolutamente porre fine a tutta quella storia che ci aveva
fatti soffrire, dovevo affrontare quello che un tempo era il mio amante.
Dovevo affrontare il mio migliore amico, Mike.
Così, cercando di trovare dentro me una forza che probabilmente
non avevo mai avuto, andai ad aprire la porta.
Jane si alzò dal letto.
Mike era realmente fuori di testa, il volto e le mani rosse.
Entrò nella stanza con passo svelto, lo sguardo che non prometteva
nulla di buono.
Anzi.
Io richiusi la porta alle mie spalle.
Una strana scintilla scoccò nei suoi occhi alla vista di Jane, una
luce li percorse. La luce della gelosia, era la stessa che spingeva Mike
ad odiare Jane con tutto se stesso.



Ciao a tutte!
Eccomi, sono tornata per continuare la storia.
Fortunatamente, sono una persona abbastanza organizzata e riesco sempre ad
avere un pò tempo libero (per fortuna la scuola non mi toglie la voglia di scrivere!)
Beh, passando al capitolo spero che vi piaccia!
409inMyCoffeeMaker: Ehi, cara in due giorni ti sei letta tutti i capitoli della
mia storia, l'hai recensita e mi hai aggiunta tra gli autori preferiti. Che dirti?
Merito forse tutti questi complimenti? :) sono lusingata!
lotra: Cara ecco per te un nuovo capitolo, spero ti piaccia!
OrangeMochaFrappuccino: Grazie ancora per i complimenti, ecco un nuovo
capitolo! Spero ti piaccia, ovviamente :)
Allora, è giusto che io ringrazi anche le mie fedeli recensitrici che mi seguono
fin dall'inizio, ovvero Franklyn, Drunky Bunny, Rbd e Rebel Of Suburbia...
mi mancateeeeeeeee! Tornate presto!
Un saluto anche a Angie_Nim che ha recensito il missing moments!

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** I Hate You ***


-Siete due merde- disse senza troppi giri di parole, staccando
gli occhi da Jane.
-Mike, per favore io...-
-STAI ZITTO TU!- urlò di rimando con uno sguardo che
mi fulminò all'istante.
-Lasciami parlare-
-TI HO DETTO DI TACERE, CAZZO!-
Jane lo fissava con uno sguardo indecifrabile, non
avevo idea di cosa stesse pensando in quel momento
riguardo noi due.
-Devi ascoltarmi...-
-ME NE FOTTO DELLE TUE SPIEGAZIONI!- ribattè lui.
Non c'era modo di controbattere alle accuse, la sua ira
andava oltre tutte le fottute parole che volevo pronunciare
in quel momento.
-E' così che vuoi liberarti di lei, Billie? E' così che dici di
voler ricominciare, riprendere in mano la tua vita, cazzo?-
sbraitò, indicando rabbiosamente Jane.
-Mike per favore, smettila!-
-Smettila un fottuto cazzo, Billie! Ieri sera volevi andare
a tutti i costi a puttane, svagarti in qualche modo, hai
tirato giù il casino assoluto e invece vengo a sapere da
Trè che sei corso via come un pazzo! E poi...-
Si bloccò, osservando Jane.
-...Poi ti trovo qui a scopartela allegramente! Mi fai schifo!-
Il suo disgusto era così evidente da farmi sentire
profondamente una merda.
Una merda nei suoi confronti.
Jane sgranò gli occhi, impietrita, di fronte alle gelide
parole del bassista, girò lo sguardo verso me.
-...E' vero tutto questo?-
-Jane, ti prego...- iniziai io, andando verso di lei per
cercare le sue piccole mani.
-NON PROVARE A TOCCARLA, STRONZO!- strillò Mike
rivolto a me. Ma me ne fregai delle sue intimidazioni,
andai verso Jane nella speranza di poterle spiegare
realmente tutto ciò che era successo in quei giorni.
Ma lei evitò il mio abbraccio, scostandosi e arretrando.
-Jane, ascoltami!-
-Tu... tu mi hai solo presa in giro?- disse, con voce strozzata.
-NO! Non è vero, non ho mai pensato un attimo di
prenderti in giro! Lasciami spiegare, io...-
Mike iniziò a ridere con tono provocatorio.
-Pensavi realmente che lui ti amasse, povera illusa?-
chiese, rivolto a Jane, ridendo ancora.
-Stà zitto, Mike!-
-Tu dici a me di stare zitto? Proprio tu, che non fai altro
che prendere per il culo chiunque ti dimostri interesse?
Mi fai schifo, Billie-.
A quelle parole, Jane andò diretta alla porta con le
lacrime agli occhi.
Le corsi dietro ma Mike mi bloccò afferrandomi per un braccio.
-Dove credi di andare? Hai fatto già abbastanza del
male a tutti noi!-
-Lasciami Mike, cazzo-.
Riuscii a liberarmi nonostante lui mi tenesse con tutte le
sue forze, lo spinsi e uscii correndo da quella fottuta
porta, spostando violentemente Trè che era appena
uscito dalla sua camera.
Lei era corsa via, sconvolta con passo svelto, ma la beccai
sulle scale che portavano al piano di sotto, l'afferrai
con entrambe le mani.
-Jane, aspetta! Dove stai andando?-
-Via! Via da te, sei... Sei solo un fottuto bugiardo! Mi
hai sempre e solo mentito!- replicò lei con le lacrime agli
occhi e la voce rotta dal pianto.
-Non è vero e tu lo sai-.
-Te ne vai... te ne vai a puttane mentre io ti cerco in
lungo ed in largo per la città!- continuò lei.
-Non sono andato a puttane, cazzo!-.
-BUGIARDO!-.
Quella scena mi parve di averla già vissuta, lei iniziò a
schiaffeggiarmi muovendo velocemente le braccia, sconvolta
ed afflitta. Tirò pugni sul viso, sulle braccia, persino
in testa. Qualunque punto del mio corpo era ottimo per
sfogare tutta la sua rabbia.
Ed io volevo che continuasse, solo così avrebbe potuto
perdonarmi.
Ad un certo putno si fermò, lo sguardo totalmente preso
più dalla delusione che dalla rabbia.
-CONTINUA- urlai.
E lei continuò ancora ed ancora, sferrando quanti più
pugni che poteva, caricando ogni singolo colpo come se
solo quello le permettesse di andare avanti sfogando
tutto il suo dolore.
Urlando come una scellerata mentre io, abituato ormai
ad un dolore ben più grande di quello, ben più interno
ed assassino, me ne stavo fermo e silenzioso cercando
di darmi una spiegazione per tutto il male che stavo
causando agli altri e a me stesso.
Lei andò avanti ora strattonandomi e spingendomi con
tutta la forza che aveva in corpo, graffiandomi e
pizzicandomi.
Ma fu fermata da Trè e Jason che si erano precipitati lì,
attirati dalle sue urla. La presero uno per le braccia e
l'altro per i fianchi, tentando di fermare quella sua furia
omicida, ma lei riuscì a colpire anche il batterista
sferrandogli una gomitata in pieno petto.
-JASON, CAZZO! AIUTAMI, TIENILA FERMA, FAI
QUALCOSA CAZZO!-
White si precipitò in aiuto dell'amico afferrando le
gambe di Jane, solo ora lei parve calmarsi.
Smise infatti di dimenare le braccia.
Mi misi in mezzo, spostai subito Jason scagliandolo
contro la parete accanto.
Trè sgranò gli occhi alla vista dei lividi violacei sulle
mie braccia e tentò di riprendersi.
-Ma che cazzo stà succedendo qui? Dimmelo, Billie!
Che cazzo succede?- chiese, mollando Jane che si
attaccò al muro.
Ma io non risposi, andai verso lei.
Tutta la rabbia di prima era scomparsa dal suo viso,
ora rimanevano solo le lacrime da gettare fuori.
E di lacrime ne aveva già scagliate fuori troppe.
La sfuriata dell'attimo prima l'aveva svuotata di
tutto il rancore, la frustrazione, il dolore che
provava dalla notte prima e da molto tempo.
Ora eravamo di nuovo insieme, così persi in noi
stessi da non riconoscerci, sotto lo sguardo incredulo
dei miei due compagni ci abbracciammo dando luogo
ad una scena a dir poco assurda, almeno agli occhi
dei due che ci avevano visti poco prima.
E lei mi strinse, talmente forte da farmi male.
Le sue piccole dita tenevano il mio collo con così tanta
forza che non sapevo da dove potesse provenire.
Ed io non volevo lasciarla.
Trè e Jason fissavano con occhi sbarrati, tuttavia
quasi commossi, la scena avanti a loro.
Non c'erano parole per descriverla, quella scena,
talmente irreale da sembrare una presa per il culo.
-Billie, per favore... Mi spieghi che cazzo sta succedendo?-
continuò a domandare il batterista, con il fiato corto.
Mi staccai da Jane.
-Lo farò... Ma non ora-
Così dicendo, mi alzai ed aiutai Jane a fare altrettanto.
Uscimmo in fretta da lì.
-E adesso... dove stai andando, cazzo? Abbiamo l'aereo
tra due ore!- esclamò Trè.
Non lo ascoltai nemmeno.


Un saluto a tutte!
Ci sono, ci sono non preoccupatevi.
Ho sempre un pò di tempo libero per continuare la storia e quando posso,
mi metto qui a scrivere! Beh, passando al capitolo...
Rbd: Ohhh, sei tornata! Ma lo sai che senza la tua recensione mi sento
perduta? Veramente, ho bisogno di te e di sapere cosa ne pensi! :)
409inMyCoffeeMaker: Mi piacciono molto le tue recensioni, riesci sempre
a cogliere i pensieri dei personaggi e soprattutto hai capito tante cose
di Jane molto importanti. E poi beh, mi fai sempre complimenti! Ma grazieee :)
lotra: Cara, grazie per tutte le bellissime cose che mi dici! Grazie, davvero,
non sono abituata a tanti complimenti, giuro.
Bene, ecco un nuovo capitolo spero che ti piaccia! :)
Drunky Bunny: Tu che mi segui dall'inizio, non posso fare altro che
ringraziarti! Recensisci sempre questa storia e mi fa molto piacere cara!
OrangeMochaFrappuccino: Grazie dei complimenti, mi fa piacere che il
capitolo ti sia piaciuto, ecco a te il capitolo nuovo!
Angie_Nim: Anche la piccolina è tornata!!!! Siamo contente :D
Mi manca la mia Franklyn!!!!


Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Goodbye My Lover ***


Sapevo che quel momento sarebbe arrivato, accompagnato
dal tormento dell'inferno che sicuramente avrei passato
nei giorni successivi.
Sapevo che sarebbe arrivato, quel fottuto momento.
Il momento dell'addio.
Ma perchè?
Perchè tutto era destinato sempre e comunque ad avere
una fine, tranne la mia solitudine?
Perchè tutto quello stava accadento proprio a me?
Perchè ora che stringevo quelle sue manine e la tenevo
stretta a me, mi sentivo sempre fottutamente stanco?
Stanco di dover accettare il corso degli eventi, quel maledetto
lavoro e la mia maledetta vita di merda.
Terribilmente stanco di non potermi ribellare a tutto quello
che avevo costruito con le mie dannate mani.
Ero stanco di cedere, mai avrei voluto perdere Jane.
Ma questo non cambiava la situazione: io ero un fottuto
cantante di una belle band più famose sulla terra.
E lei, una povera ragazzina in cerca d'amore, abbandonata
da tutti. Sola.
Ed ora che mi aveva trovato, finalmente... doveva lasciarmi.
La presi per il braccio, appena arrivammo davanti alla
stazione dove lei avrebbe preso il treno, l'ultimo treno che
me l'avrebbe portata via.
-Jane, ti prego...- la implorai con il fiato corto, travolto
da un'improvvisa angoscia.
L'angoscia di non rivederla mai più.
-Ti supplico... no, non farlo! Ragazza, non prendere quel treno...-
I suoi occhi tornarono lucidi come la notte prima.
La disperazione era tornata in quell'istante esatto, dentro
a quegli occhi riuscivo a coglierla più forte e sanguinante.
-Non chiedermi questo-
-Ragazza...- dissi con voce strozzata.
Ero prossimo alle lacrime ma non potevo piangere.
Si voltò, dandomi le spalle.
Le sue lacrime scesero a terra, le vidi infrangersi sul terreno
così leggere ma allo stesso tempo così pesanti, come se
volessero distruggerlo.
-Lasciami andare-
Scossi la testa.
Probabilmente per supplicarla, convincerla a restare.
Ma sapevo... sapevo che in realtà l'unica persona che stavo
tentando di convincere ero io.
-Non posso lasciarti andare...-
-Lasciami andare, amore-.
Si portò una mano alla bocca, chiuse gli occhi sperando di
nascondere quell'ultima lacrima che stava scendendo.
Ma io la vidi.
Oh, ragazza.
Come puoi chiedermi una cosa simile?
Come puoi desiderare la mia morte, la mia assurda fine?
Mi vuoi vedere morto, stecchito, ucciso dalla mia stessa
sofferenza.
Tu, vuoi vedermi cadavere.
Vuoi vedermi implorare pietà in ginocchio ad un qualche Dio,
vuoi vedermi affogare in un mare di disperazione?
Vuoi udire la mia voce invocare il tuo nome?
Quelle furono le sue ultime parole.
Non la fermai, non riuscii a fermarla.
Amore che parte, non ritornerà.
Non ritornerà da me, quella ragazza.
Colei che mi guardò dal finestrino di un fottuto treno.
Non ritorneranno i suoi occhi straziati dalle troppe lacrime
versate, che mi guardarono quella dannata mattna.
Eppure io le corsi accanto, senza fiato, sbattuto qua e la
dalla folla di persone, rincorrendo un fottuto treno che
sapevo non si sarebbe mai fermato.
Mai.
Poco contava essere Billie Joe Armstrong, amato cantante dei
Green Day, invidiato da mezzo mondo.
Poco contava lì, essere ricco sfondato. Bello e dannato.
Poco contava.
Il treno passa una sola volta ed il mio... l'avevo fottutamente perso.
Le gambe cedettero.
Mi inginocchiai.
Lì, in mezzo a milioni di persone affannate, confuse, frettolose che
mi guardavano come se fossi un poveraccio disgraziato.
Totalmente indifferenti di fronte alla mia atroce pena di morte.
Al limite delle forze, tentai di rialzarmi.
La vista si annebbiò.
Le orecchie fischiarono.
Poi, il buio.


Ciao a tutte, ragazze!
Lo so, questo capitolo sembra chiudere la storia ma... non è così!
Lo dico in particolare alle mie care recensitrici e lettrici.
Rbd: Lo so che non ti perdi un capitolo della storia, cara! E mi fa molto piacere...
Le tue recensioni mi piacciono un sacco, ogni volta mi collego sperando di leggerne
una nuova! Mi piace perchè hai colto perfettamente Jane :)
Angie_Nim: Non aspettavo altro che il tuo ritorno, piccolina (ahahahah :D si lo so,
mi comporto spesso in modo materno, sarà perchè ho una bambina!)
Bene, dimmi che ne pensi di questo!
OrangeMochaFrappuccino: Tu recensisci sempre la mia storia e questo non può
altro che farmi piacere! Grazie mille
Saluto anche 409inMyCoffeeMaker, Drunky Bunny, lotra e la mia adorata Franklyn!
Ragazze, ho notato che alcune di voi fanno difficoltà nel capire Jane, il suo personaggio.
Se volete, nel prossimo capitolo potrei aggiungere una piccola spiegazione per
rendervi più chiaro il personaggio (che, se posso dire, non è facile da inquadrare).
Un saluto a tutte!

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Cancer ***


-Billie!-
Una voce che conoscevo, familiare, urlava il mio nome.
Riuscivo a sentire le parole sconnesse ed insensate.
-Trè chiama qualcuno, cazzo!-
Mi sentii afferrare da un paio di mani che mi strinsero
le spalle, scuotendomi violentemente.
Le conoscevo quelle mani.
Forse, più di chiunque altro le avevo toccate, baciate,
scoperte. Le mani di Mike.
-Che cazzo facciamo adesso?-
-Stà calmo, Mike!-
Tentai di aprire gli occhi e vidi alcune sagome accerchiate
attorno a me.
Mi scrutavano attentamente da capo a piedi, sembravano
terrorizzati e non ne riuscivo ancora a capire il motivo.
Così come non riuscivo a riconoscere bene le due persone
più vicine a me.
Richiusi gli occhi.
Tentai di alzare un braccio, una mano, un qualcosa per
dare loro un segno ma non ci riuscii.
Non riuscivo a muovermi, mi sentivo immobilizzato.
-Trè va a chiamare qualcuno! Chiama Tim, chiama Robert,
chiama un cazzo di qualcuno!-
Sentii questa voce e la riconobbi come quella di Mike.
Non potevo sbagliarmi, era lui.
-Ascolta, Mike per favore! Cerca di calmarti almeno, Jason
è andato ad avvertire altra gente, vedrai che si sarà
trattato solo di un malore-.
-NON SI RIPRENDE, CAZZO!-
-Fagli aria, lascialo respirare...-
Mi sentivo intontito, come sotto l'effetto di qualche droga
pesante. Nonostante questo, i miei occhi riuscirono a
focalizzare molto nitidamente le persone che mi
osservavano. Mike, Trè, seguiti da almeno venti persone
avevano gli occhi puntati su di me.
Ed ero completamente disteso in mezzo alla stazione.
Mi guardai intorno.
Le facce non erano amiche, anzi, mi osservavano con
occhi sbarrati, tentando di trattenere un leggero disgusto
nei miei confronti.
Mi resi conto che non ero in grado di parlare, tentai di
chiamare Mike ma la mia voce non venne fuori.
Provai a toccargli un braccio, alzare una mano ma le
forze ormai mi avevano totalmente abbandonato.
Ero intrappolato in un corpo marcio, fuoriuso, che non
riuscivo a muovere.
Non appena mi vide, Mike fiondò le mani sul mio viso,
accarezzandolo delicatamente, noncurante del fatto che lì
ci fosse anche il batterista.
-Billie...-
-Vedi, che ti avevo detto io? E' stato solo un malore
momentaneo- affermò Trè, accucciandosi.
Guardai i loro volti, quelle facce impaurite che in quel
momento si stavano ponendo domande inutili, alle quali
non avrei mai dato una risposta soddisfacente.
Non avevo risposte da dare, l'unica risposta a tutto quel
dramma, quell'insaziabile male mentale e fisico poteva
darla solo una persona.
E quella persona era troppo lontana da me, forse di
nuovo a casa, dentro al suo letto.
Forse disperata, in lacrime.
Forse si stava aggrappando con tutte le sue forze al
cuscino, stringendo le bianche lenzuola attorno a se per
autoconfortarsi, fingendo di avermi accanto.
Sola...
Tentai di tirarmi su con la poca forza rimasta ma Mike
mi bloccò.
-No, non tirarti su-
-Devo...-
-Stai giù, Billie-
Tentai ancora di rialzarmi ma Mike mi tenne giù ed io
non avevo la forza necessaria per contrastarlo, a malapena
avevo la forza per alzarmi da terra.
-Dai, Mike! Se vuole alzarsi vuol dire che sta bene... Ormai,
abbiamo già perso l'aereo!- si intromise il batterista.
Bravo, Trè.
Voi avete perso l'aereo.
Ed io ho perso Jane.
Siamo pari, quindi, con un'unica differenza: voi non andate
a dormire ogni sera con la voglia di non svegliarvi mai più,
non dovete lottare ogni giorno per continuare a vivere,
non vi guardate allo specchio con la speranza di non riconoscervi.
Voi non amate Jane, cazzo. E non avete la minima fottuta
idea di ciò che provo in questo momento.
Ed è meglio così.
Vi risparmio i miei drammi, cari signori.
Vi risparmio le mie puttanate, le mie frasi senza senso.
Ma non vi risparmio il mio sangue, quello no.
Mike e Trè mi aiutarono ad alzarmi, tenendomi per le braccia.
A fatica riuscii a muovere le gambe sotto di me.
Alla fine, anche se un pò instabile, mi tirai su.
Mi sentivo tremendamente malato, sotto una lente d'ingrandimento,
un fottuto fenomeno da baraccone senza speranza.
No, tutto quello non stava succedendo a me.
Non poteva succedere a me.
Solo la notte prima mi ero sentito così in vita, liberato
finalmente da un enorme macigno posato sul cuore.
Ed in quel momento... in quel momento, mi sentivo sprofondare
ancora di più nel grande baratro di merda dal quale
avevo tentato di scappare, senza riuscirci.
In quel momento avevo riaperto gli occhi scoprendo con mio
grande terrore che tutto ciò era diventato solo un lontano
ricordo. Tutto quello che avevo provato, l'immensità di quella
notte vissuta, era svanito.
Svanito nel nulla... io stesso ero svanito, morto.
Ero morto quella notte stessa, facendo l'amore con lei.
E non sarei tornato mai lo stesso. Mai.
Fottuto me che in quel momento, come rapito da un
qualcosa che nel profondo iniziava a battere violentemente
nella speranza di demolirmi, stavo fissando l'unico treno
in arrivo avanti a noi.
Con lo sguardo smarrito, lo osservavo frenare.
Ed istintivamente, beccato da un pungente istinto che
mi induceva a muovere le gambe, gli andai incontro.
Non so il motivo preciso che mi indusse a continuare a
camminare nella sua direzione, senza voltarmi per guardare
i volti allibiti dei miei compagni.
-Billie, dove stai andando?-
Ma non sentii. Le mie orecchie non percepirono alcun
suono se non l'arrugginito sferragliare delle rotaie.
Un rumore stridulo, meccanico e pungentemente fastidioso
che assomigliava molto al suono della mia anima piangente
in quel momento.
L'anima che dentro stava cercando di aggrapparsi alle
fottute pareti di me stesso, con le affilate unghie si aggrappava
al mio interno, tentando di arrivare in superficie.
Per essere finalmente libera.
Ma io prontamente chiudevo la bocca per non farla scappare,
vagare solitaria alla ricerca dell'introvabile chiave di un
forziere nascosto in fondo al cuore.
Un forziere che violentemente si dimenava in attesa di
essere aperto, ed una chiave... Una chiave appesa al collo
di Jane. Ma quella chiave ormai era andata perduta,
troppo lontana per essere recuperata e quel forziere ora
si sentiva una vecchia rovina, abbandonato ed usato
troppe volte in maniera sbagliata.
Io l'avevo usato in maniera sbagliata, fingendo un amore
verso altri che in realtà doveva solamente colmare il
vuoto del mancato amore verso me stesso.
Io mi sentivo come quel treno, oramai arrivato alla
fine del suo lungo viaggio.
Pronto per essere dimenticato, dichiarato fuoriuso.
-Billie è pericoloso lì, dai- disse Trè distrattamente.
Ma ormai ero troppo vicino all'abisso.
Ormai, sentivo i capelli svolazzare e l'aria violenta
dell'impatto invadermi il viso ed il collo.
Ormai, ero troppo vicino a quel limite.
-BILLIE, ALLONTANATI!- urlarono in coro Mike e Trè.
Ed io avanzavo, noncurante che il suicidio non avrebbe
portato nulla di buono.
Solo sofferenza.
Ero solo, nessun altro con me, oltre quella fottuta riga
che la gente evita sempre di superare.
Mi sentii improvvisamente afferrare da dietro, quattro
mani mi presero le braccia e mi scostarono, facendomi
cadere all'indietro.
-MA SEI IMPAZZITO? CHE CAZZO TI SALTA IN TESTA?-
strillò Mike, schiacciandomi a terra.
Veramente ora ero un fallito.
Non ero riuscivo ad avere Jane.
E nemmeno ad ammazzarmi.


Ciao a tutte!
Ringrazio le mie recensitrici e lettrici che commentano costantemente questa
storia. Grazie veramente!
Rbd: Cara, eccoti un altro capitolo, sono sicura che ti piacerà ( troppi complimenti
mi fai, ti ringrazio sei troppo gentile!)
409inMyCoffeeMaker: Sono lusingata del fatto che tu mi abbia inserito ancora
giorni fa tra gli autori preferiti, spero solo di non ''deluderti''!
OrangeMochaFrappuccino: Ciao, eccoti un nuovo capitolo! Dimmi che ne pensi!
Drunky Bunny: Eccoti qui, devi scusarmi ma oggi non avevo tanta voglia di
scrivere, quindi credo che la spiegazione su Jane la inserirò nel prossimo! :)
lotra: Lo so, lo so. Ogni volta ti fai mille domande perchè ammetto che questa
storia è un pò incasinata! Spero, con il passare dei capitoli, che le cose per
voi lettori si facciano più chiare riguardo a Jane! Un bacio
Angie_Nim: Ciao piccola! Mi fa piacere che ti piaccia molto la mia storia e mi
fa molto piacere leggere le tue recensioni! Comunque sì, ho una bambina di
tre anni (per questo avvolte sono un pò così... tenerosa)
Ringrazio anche la mia adorata Franklyn!
Buona lettura

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** My Syndrome (First Part) ***


Passarono tre giorni.
Tre lunghissimi giorni d'inferno, costantemente seguito dai
miei fedeli e preoccupati compagni.
Mi sorvegliavano di continuo, con la paura che potessi
commettere qualche altra sciocchezza.
Non mi abbandonavano un secondo, nonostante fossi stato
rinchiuso in una dannata stanza d'albergo.
La debolezza fisica e mentale che mi pervase in quei tetri
giorni steso a letto, solo, non accennava ad andarsene.
Mi sentivo ancora più emarginato, rinchiuso in fondo a
quella maledetta stanza buia che si divertiva a prendersi
gioco di me.
Un pazzo disgraziato con la febbre a trentanove gradi,
delirante, abbandonato alla sua malattia.
Ma non volevo consigli, non volevo fottute pacche sulla spalla.
Non mi fregava un cazzo della mia salute.
Quella maledetta malattia era devastante, mi opprimeva
togliendomi il respiro. Una malattia senza cura, la malattia di
Jane: un cancro al cuore che con il passare del tempo si
dilatava, allungandosi e contorcendosi per occupare quanto
più spazio poteva.
Ragazza mia, mi hai lasciato.
Mi hai abbandonato come un cagne rognoso in mezzo ad una
strada ed io, scioccamente, ancora rivivo il tuo dolore come
se fosse ora. Come se fossi qui con me, in questo momento,
pronta a bagnarmi la fronte scottante.
Ed invece... Ancora una volta, crudele come sempre, te ne
sei andata. Ed io non ti sopporto.
Girandomi e rigirandomi dentro quel dannato letto ripensavo
a lei, la sua immagine sempre più nitida mi appariva anche
in sogno mentre il sentimento che speravo potesse morire
così com'era nato, invece, mi implorava di non essere scordato.
Ma come potevo dimenticarmi di lei?
Come potevo allontanare i suoi occhi, che mi avevano pugnalato
una volta e speravo potessero farlo ancora?
Il cuscino, stanco di essere bagnato ogni notte, mi supplicava
di dargli tregua ed il cuore, anch'esso stanco di essere deluso,
mi implorava di essere chiuso una volta per tutte.
Sigillato.
-Come stai?- chiese Mike, entrando nella stanza buia.
Non risposi, girai la testa e la appoggiai piano al cuscino.
Mike si sedette sul letto, accanto a me, toccando le lenzuola.
-Devi riprenderti. Sono tre giorni che sei chiuso qui dentro-
disse, tirando un lungo sospiro.
Chiusi le palpebre per un attimo e mi distesi.
Le parole indifferenti di Mike mi gettavano ancora più in basso,
ondeggiavano nella stanza pronte a ferirmi ancora una volta.
Come se non mi avesse ferito abbastanza con la sua fottuta
gelosia. Era riuscito nel suo intendo ed ora, molto
probabilmente, si sentiva trionfante.
Mentre io morivo.
-Non... non è questo ciò che volevi?-.
-Ma che cazzo dici, Billie?-
-Ha... hai fatto di tutto per allontanarla da me... ed ora ci sei
riuscito. Hai vinto- dissi, sprofondando la testa nel cuscino.
-Io l'ho fatto per te, perchè ti amo!- esclamò Mike, con
tono quasi deluso.
-Lasciami solo-.
-Non puoi ridurti in questo stato, cazzo! Guardati, come sei
diventato... guarda tutte le assurdità che stai commettendo!-
-...Lasciami solo, Mike- ripetei, esausto.
Quest'ultima frase lo zittì.
Forse, anche lui stava iniziando a rendersi conto della
gravità delle mie condizioni fisiche e mentali.
Uscì dalla porta, lasciandomi nuovamente solo.
Ancora una volta moribondo, tormentato dalle mie paure.
L'unica cosa da fare era dormire, sperando che il sonno
(spontaneo oppure forzato) portasse via tutto quel mare
di desolazione che mi circondava.
Ma tutto era inutile, per quanto cercassi di allontanare il
sofferto ricordo della mia Jane, quello mi tornava alla mente
ogni volta che chiudevo gli occhi.
Come un ragno schifoso tesseva fitte ragnatele nel cervello.
Non riuscivo a combattere quello sporco morbo d'amore
che mi legava a lei.
Non ti amo, Jane.
Non ti amo più, cazzo.
Dammi la forza per non amarti, aiutami tu a cancellarti
una volta per tutte.
Non ti amo, amore.



Eccomi tornata (ma non sono stata via molto)
con il nuovo capitolo della storia.
Spero piaccia, personalmente a me piace molto.
Comunque, saluto le mie care lettrici e mando a tutte loro
un bacione :)
In particolare a Rbd, OrangeMochaFrappuccino, Drunky
Bunny, lotra, Angie_Nim e 409inMyCoffeeMaker.
E, ovviamente la mia adorata Franklyn che mi è mancata
tanto e che ora è tornata!
Grazie

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** My Syndrome (Second Part) ***


Quella stessa sera mi alzai dal letto per la prima volta
dopo tre giorni, da dove tirai fuori l'energia per reggermi
in piedi, non so spiegarlo.
Ero pervaso dalla febbre e dalla debolezza.
Forse, la forza di volontà dell'animo mi spinse ad alzarmi
da quel fottuto letto, balcollante.
La prima cosa che feci istintivamente fu fissarmi allo specchio.
Osservai, allibito, l'uomo sconosciuto avanti ai miei occhi.
Non avevo mai subito una tale trasformazione fisica, ero
letteralmente mutato e l'immagine riflessa non produceva
in me alcuna emozione positiva, anzi.
Ero un mostro.
Quel viso sciupato coperto da chiazze di cui non ricordavo
la provenienza, di un colore violaceo, mi ero estraneo.
Impaurito, spostai lo sguardo e mi allontanai.
Non ero io, non potevo essere io quell'uomo.
Avanzai verso la porta e sentii la voce dei miei colleghi
provenire dal corridoio.
Parlavano di me.
Aprii piano la porta per origliare la conversazione.
-Come sta?-
-Peggio di quello che credevo, purtroppo- disse Mike, sospirando.
-Ascolta, primo o poi dovrete spiegarmi che cazzo sta succedendo-
rispose Trè, leggermente innervosito.
Le loro voci erano serie, basse, come se stesso parlando
di un segreto di stato.
-Ti ho già detto che ti spiegherò tutto non appena torneremo
a Berkeley- replicò Mike.
-E cosa diremo agli altri? Non hai pensato a loro? Sicuramente
si staranno chiedendo che cazzo sta succedendo qui!-
-Non ho ancora pensato a questo...-.
-Beh, ti conviene pensarci perchè qua le cose si stanno mettendo
male, ed io voglio sapere che cazzo succede, Mike- ribattè il
batterista alzando la voce.
-Ascoltami Trè, le cose stanno così: non è un momento facile
per nessuno questo. Soprattutto per Billie, quindi evitiamo di
mettere in mezzo i giornalisti-.
-E cosa dirai a lui?-
-Gli dirò la verità, che il tour è stato annullato-.
Richiusi la porta alle mie spalle.
Non stava accadendo a me, doveva sicuramente trattarsi di
un fottuto incubo, o almeno speravo che lo fosse.
Mi gettai a letto sconsolato, stanco, piangente.
Mi avevano tolto Jane ed ora mi stavano togliendo anche il
tour, quel fottuto tour che volevo continuare, che dovevo
continuare nonostante fossi spezzato in due.
Nonostante la mia anima non trovasse più pace.
Le lacrime bagnarono nuovamente il bianco cuscino sopra
al quale avevo pianto ininterrottamente per tre giorni.
Ora, piangevo di nuovo.
Senza tregua, senza speranza mi ero riversato sopra quel
letto e riversavo ancora su di lui tutta la mia sofferenza.
Voltandomi, vidi una cosa che prima non avevo notato.
Dentro alla tasca della giacca.
Spuntava una busta bianca...
Una busta che ero convinto con tutto me stesso di non aver
mai visto prima.
Iniziai a tremare.
Quella busta così bianca, candida, produsse in me una
strana sensazione. E sapevo, con ogni fibra del mio debole
corpo che... si poteva trattare solo di lei.
Sì, Jane.
Sono pronto.
Non posso evitarlo, contro la tua volontà non posso fare nulla.
Dentro di me sapevo esattamente cosa conteneva.
Forse la mia condanna.
Afferrai tremante quella maledetta busta sconosciuta e ne
estrassi una lettera.
Una calligrafia mai vista.
Un messaggio lungo non so quanto.
Parole che mi fecero sprofondare ancora di più nel cuscino.



Eccomi!
Vi avevo promesso già da tempo una piccola spiegazione sul
personaggio di Jane. Ringrazio Franklyn, lotra e OrangeMochaFrappuccino
che hanno recensito il capitolo precedente e anche Rbd, Drunky Bunny,
Angie_Nim e 409inMyCoffeeMaker.
Ho fatto una mia ''recensione'' della storia, spero l'apprezziate.
La letteratura del decadentismo definirebbe Billie un inetto: un personaggio
incapace di vivere, prendere delle decisioni, completamente succube dai
suoi continui errori sentimentali. Non è in grado, quindi, di convinvere
con se stesso ed ogni sua scelta gli procura dolore.
Per quanto riguarda Jane, invece, un personaggio molto più complesso sotto
il profilo psicologio rispetto a Billie, ci sono molte cose da considerare.
All'inizio Jane si presenta come un personaggio freddo, distaccato, disinteressato.
Ma già dai primi dialoghi con il protagonista, un attento lettore riesce a
cogliere la reale importanza e la complessità del personaggio di Jane.
E', in realtà, un personaggio che non solo rispecchia Billie per quello che è
realmente ma che ne riesce ad attirare l'attenzione proprio per la sua diversità.
Ed è proprio questa la sua caratteristica specifica: un mistero che non si potrà
mai capire, se non attraverso gli occhi di Billie. Jane è un personaggio che è
destinato a rimanere inconcepibile nella storia, anche se alcuni lati di lei sono
facilmente comprensibili: una sofferenza che, per quanto celata, viene sempre
a galla. Proprio come gli inetti, quindi, Billie arriva ad allontanare Mike ed
Adrienne, da lui considerati ''sani'' avvicinandosi a Jane, unico verso
personaggio disturbato e malato nella storia. Lei stessa da un'immagine di se
malata: ovvero di una ragazza mai amata da nessuno, chiusa nel suo mondo
blindato e disabitato, pronta a difendersi da tutti chiudendo la sua porta.
Finchè non arriva Billie, che qui viene descritto come un uomo solo, alla
ricerca di se stesso e già dal loro primo incontro tenta in tutti i modi di aprire
quella porta. Eppure, l'amore di Billie per Jane oltre ad essere fin troppo evidente,
è molto più somigliante ad una malattia degenerativa.
Ma poco c'è da fare, alla domanda ''amami'' lei risponde ''non ne sono capace''
e noi dobbiamo crederle, non possiamo non crederle.
Ma chi è realmente Jane? Rispondere seccamente che si tratta della copia sputata
di Billie sarebbe sbagliato. Jane è tutto ciò che gli altri non sono, è tutto ciò che
non è razionale, scontato ed umano.
Si presenta come una bellezza sconvolgente ma analizzandola nel profondo la
sua immagine appare sempre malata: troppo magra, sciupata, pallida.
Eppure, cos'è che la tormenta? Forse Jane è un personaggio ch è realmente
destinato a rimanere incompreso ed allo stesso tempo apprezzato.
Involontariamente (o volontariamente) innesca in Billie un processo spontaneo
di autodistruzione che nemmeno lei sa come fermare. Nel corso della storia,
Jane non fa altro che continuare ad allontanare da se stessa il protagonista,
che si rivela l'unico in grado di cogliere un dolore profondo, nascosto che
va oltre la superficie.
Okay. Non posso dirvi altro ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Letterbomb ***


Con la stessa accuratezza con la quale un ragazzino apre un
atteso pacco di Natale io aprii quella lettera ed iniziai a leggere.
Con gli occhi quasi lucidi osservai di sfuggita le frasi scritte,
impresse come il suo dolore sopra quel foglio bianco, piegato e stropicciato.
Era diventato una spugna, la spugna del dolore: in esso erano impresse le
lacrime della ragazza ed ora... ora chiedevano solo di bagnarmi il cuore.
E le mani.
In silenzio, tuttavia, iniziai a leggere.

Amore..
Cosa vuol dire amore?
Riesci ora a spiegarmi il significato di questa parola?
Proprio tu, che mi hai insegnato a pronunciarla... conosci il suo significato?
Non merito di saperlo e non merito te.
Tu che lotti contro i mostri del mio passato, sempre e comunque tenti di difendermi,
mi hai rapita da me stessa come nessun altro prima.
Ed io te ne sono grata.
Mi chiedi di amarti, ma... io?
L'amore non mi appartiene, mai mi è appartenuto.
E' un mondo parallelo, è una gioia di vivere che non conosco.
Ora io ti scrivo, ma tu non devi rispondermi.
Non rispondere mai.
Non farlo, non buttarti via.
Non buttare via ciò che ti porti dentro per... per me?
Solo per me?
Non andare in fondo a questa storia, non ti servirebbe a nulla.
Io non so lottare, non ho mai saputo farlo.
Troppa è la fragilità che non mi permette di andare avanti, con tutta me stessa ho
cercato di superare un qualcosa che purtroppo è sempre riuscito a sovrastarmi.
Tu mi chiedi di amarti, ma io non ne sono capace.
J.

Un'altra lacrima scesce sul mio viso, tentando di colmare il vuoto
tornato in me, ma era così piccola e fragile che scomparve quasi subito.
Ragazza, tu mi chiedi di non amarti.
Ora, qui, me lo stai chiedendo.
Ma io non ne sono capace e forse non ne sarò mai capace.
Con le mani impazzite afferrai il telefono, dentro alla tasca della giacca.
Girai e rigirai osservando tutti i numeri.
Conosciuti, visti e rivisti.
Chiamati centinai di volte, salvati non so dove.
Non ero pazzo, non potevo ingannarmi.
Certi particolari li ricordavo e sicuramente non erano frutto della malattia.
Ed eccolo, l'ultimo.
Ricordavo di averlo, quella fottuta notte... quel numero.
Sapevo, ero convinto, di averlo ancora.
Mi passai un braccio sulla fronte sudata, bagnata.
Inspirai lentamente, per quanto tentavo di calmarmi l'irrefrenabile ansia
mi arrivava alla gola.
Ora non mi restava altro che premere un fottuto tasto e portare il telefono
all'orecchio, ma... era un gesto così difficile da compiere?
Non avevo la forza necessaria per farlo, ero spossato, stanco ed impaurito.
Ma dovevo farmi corraggio, dovevo affrontare quel demone oscuro.
Non potevo starmene lì, non potevo affogare ancora nella disperazione.
Ero solo un inetto ammalato di vivere?
Oppure potevo finalmente sistemare le cose, prendere una fottuta
decisione, dare una svolta alla mia vita?
Premetti quel tasto, con un'inaspettata autoconvinzione.
Il cuore stesso traboccava di convinzione: dovevo farmi valere, cazzo.
Portare avanti le mie decisioni.
Un rumore metallico mi risuonò nell'orecchio.
Iniziai a mangiarmi le unghie, ferocemente strappavo le pellicine dai
polpastrelli.
Ma niente, nessuna risposta.
Iniziai a battere un piede al pavimento, prima lentamente poi sempre
più veloce: in preda ad un'ansia impazzita, iniziai anche a tamburellare le dita
sul materasso.
I battiti del mio cuore si confondevano con il rumore della mano.
Uno, due, tre.
Rimembravo tutti gli istanti passati nella speranza di trovare qualche frase
concreta da pronunciare come saluto, inutilmente ripensavo al volto della
ragazza e con più forza pestavo quel dannato piede per terra.
Quattro, cinque, sei.
Riattacca, cazzo.
Sei solo un fottuto coglione colto da un'improvvisa insoddisfazione, hai
letto quella maledetta lettere, no? E nonostante tutto, tu... sei ancora qui.
Ancora una volta impugni quel telefono nella speranza di poterle
parlare un'ultima volta.
Inutilmente ti senti rimesso in gioco, speranzoso di poterti salvare.
Ora pesti il piede per terra e conti i secondi dentro di te.
Ormai, non fai altro che attendere: una vita migliore, una dignità, una donna.
Riattacca.
Metti una fine definitiva al vortice di merda nel quale sei crollato a picco,
urla con tutta la tua voce.
Dimentica, se puoi.
Ma riattacca.
Ormai, era troppo tardi.
Ormai... lei mi sentiva.



Ciao a tutte, chiedo scusa per la mia assenza ma ho avuto un pò di cose da fare.
Sono tornata con un nuovo capitolo, spero che vi piaccia.
Ringrazio le lettrici e le recensitrici adorate.
In particolare, OrangeMochaFrappuccino, Rbd, Drunky Bunny e Franklyn!



Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Leave Me ***


Udii degli strani rumori.
Il respiro si bloccò, io mi bloccai.
-...Non ce la faccio, ragazza- dissi buttando avanti la testa.
-Io... non ce la faccio proprio. Ci ho provato, giuro! Lo giuro,
con tutto me stesso ci ho provato... ma non ci riesco!-
Una sofferenza disumana provavo dentro me.
Quelle parole mi costarono care, veramente care.
-Io non ce la faccio, ragazza. Non posso, non posso...-
-Dimentica-.
Scossi la testa, speravo con tutte me stesso di non aver udito
quelle parole, di aver interpretate in maniera sbagliata.
Speravo che fosse solo un fottuto scherzo e che lei avesse
voglia di scherzare prendendosi gioco di me.
Ed invece, la sua voce era ferma.
-Come... come puoi chiedermi questo? Come puoi farlo?
Dopo... dopo tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho passato
e sto passando per te! Vuoi solo il mio male?-.
Ma lei, come poteva rispondere?
La consapevolezza bloccava le parole, le tratteneva in gola
formando un tappo invalicabile.
-Basta-.
-Ma tu chi sei? Come hai fatto, come ci sei riuscita...? Quali sono
i tuoi poteri, eh? Come riesci a farti amare così?-.
Più che una domanda, la mia era un'affermazione.
-Sono solo una ragazza, Billie- rispose.
-Ed io... io sono solo un uomo,Jane-.
Un uomo.
Non contare la vita, la carriera, i soldi o la fama.
Conta il mio sangue: scorre dentro al corpo ed è qui, dentro me.
Dentro questo corpo distrutto.
-Per favore... ti prego, ti scongiuro. Te lo chiedo con tutta me
stessa. Lasciami-.
-NO!- urlai, impazzito, afferrando le sbarre del letto.
-NO, CAZZO- urlai ancora, questa volta togliendomi rabbiosamente
la fede di matrimonio dall'anulare sinistro e scagliandola contro
lo specchio. Questo, si ruppe in mille pezzi.
Afferrai le lenzuola, le gettai a terra.
Presi i cuscini e li buttai in aria, dall'altra parte della stanza.
Afferrai anche la collana, quella maledetta collana regalatami da
mia moglie, me la strappai dal collo.
Fuori controllo.
Volevo uccidere.
-NON PUOI LASCIARMI!-
Sputai.
-Non ti amo...- disse lei, in un sussurro.
-Perchè?-.
-Perchè io... non so amare-.
Mi alzai di scatto, la testa iniziò a girare vorticosamente.
-Io...- sospirai.
In quel momento mi accorsi che lei non c'era più.
Stavo parlando da solo, ormai.
Mi accasciai a terra, il telefono ancora in mano.
L'improvvisa debolezza tornò sovrana in me e le gambe cedettero
nuovamente. Rimasi lì, lo sguardo alto verso il soffitto, chiedendo,
implorando un aiuto che sapevo non sarebbe mai arrivato.
In quell'istante, atterriti, entrarono Mike e Trè.
I loro occhi erano puntati su di me, sgranati.
-Billie, che cazzo succede?- domandò impaurito il batterista.
Ma io non lo sentii nemmeno, continuai a fissare il vuoto
sopra di me.
I due si guardarono.
-Alzati- ordinò Mike.
Scossi leggermente la testa.
-Ti ho detto di alzarti!-
Ma io non mi alzai, Mike avanzò verso di me e con la forza della
sole braccia mi tirò su e mi scosse violentemente.
Io non opposi resistenza.
-ALZATI, CAZZO!- sbraitò il bassista, inviperito, tenendomi per
le spalle e scuotendomi come una pezza.
-Ma lo vedi come ti sei ridotto, cazzo? Ti sei guardato in quel
fottuto specchio?- mi girò il viso, lo puntò contro lo specchio,
tenendomi con forza le tempie.
Mi allontanai, scappando da lui.
-Basta ora, Mike... Stai esagerando- si intromise Trè.
-Smettila di fare la vittima, Billie! Basta, siamo stufi del tuo
vittimismo, delle tue assurdità, cazzo! Piantala di piangere ed
esci da questa fottuta stanza, riprenditi la tua vita!
Porca puttana, hai già fatto del male a troppa gente, ed ora...-
-BASTA! BASTA!- urlai all'improvviso, con le mani tra i capelli,
gli occhi fuori dalle orbite.
Mike si zittì.
-IO... STO MALE, CAZZO!-.
Mi inginocchiai ancora per terra, con le mani strette tra i capelli,
battendo i denti e scuotendo la testa.
I due rimasero ad osservare il mio sfogo.
-Sono stufo! Stufo di questa vita di merda, sono stufo di voi!
Cazzo, sono stufo...-
Le forze in quel momento mi abbandonarono ancora.
Dovetti stendermi per terra, Mike e Trè corsero verso di me.
Mi presero la testa e la tennero alzata.
-Per favore, tirati su!- supplicò Trè.
-Vi prego...-
-Parla! Che hai? Parlaci, siamo qui, siamo qui per te! Ma parla!-.
-Mike, io... Riportami a casa- continuai, chiudendo gli occhi
e respirando a fatica.
Mike mi mise una mano sulla fronte, accarezzandomi.
-Sì, non preoccuparti. Domani torneremo a casa-.


Ecco a voi un altro capitolo della storia...
Ormai, ci siamo! La storia continua ed io, come ogni volta, saluto e
ringrazio le lettrici che la seguono e mando un grande bacio
alle mie commentatrici (se così si può dire) che mi degnano della loro
attenzione e recensiscono assiduamente questa storia.
Tra loro, la mia adorata Franklyn, Rbd, Drunky Bunny ( che mi seguono
dall'inizio) e anche OrangeMochaFrappuccino!

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** The Nightmare ***


-Sei pronto, Big?- mi chiese Trè, afferrando il suo zaino
con entrambe le mani.
Mi allacciai la cintura dei pantaloni.
-Sì- affermai.
-Allora io ti aspetto di sotto- rispose.
-E... le nostre cose?-.
-Tim le ha portate giù, è tutto pronto. Manca solo Mike- disse il
batterista alzando il mento per guardare oltre la mia testa.
Mi girai anch'io.
Mike uscì dalla sua stanza.
-Ti sei deciso? Ci degni della tua fottuta presenza? abbaiò Trè.
-Arrivo, stronzi- replicò Mike, con un mezzo sorriso.
Trè corse avanti, oltre la porte, sorridendo.
Mike, invece, si fermò accanto a me.
-Tesoro...- disse, sorridendomi.
Sorrisi di rimando.
-Tra poco torneremo di nuovo a casa- continuò il mio compagno.
Sospirai e Mike mi strinse il braccio attorno al collo, come se
volesse proteggermi.
Ed io sapevo che voleva proteggermi solo da me stesso e dai miei
continui pensieri che non mi davano pace.
Mi baciò sulla fronte, speranzoso che quel bacio potesse
spazzare via tutte le nostre sofferenze.
Ma non bastava, purtroppo.
Non sarebbero bastati tutti i baci del mondo per allontanare i
miei maledetti pensieri.
E lui lo sapevo, forse anche meglio di me.
Nessuno poteva proteggermi da me stesso, dal mio tormento.
Salimmo in macchina e andammo all'aeroporto, pronti per
prendere il volo privato di ritorno a casa.
Mi sedetti in sala d'attesa, aspettando ansioso i miei compagni
che si erano diretti altrove.
Attorno a me, centinaia di persone con in mano le loro valigie,
attendevano impazienti il loro aereo: nessuno mi prestò attenzione
ed io non ne prestai agli altri.
Seduto lì, recuperando le poche forze che mi erano rimaste in
corpo dopo la malattia, attendevo anch'io impaziente il mio destino.
Quel fottuto destino traditore che mi aveva alzato da terra e
sbattuto nuovamente al suolo nel giro di poche ore, si divertiva a
prendermi per il culo.
Si divertiva nel vedermi soffrire, incatenandomi a quella sedia.
Gli incubi del passato, un passato ormai remoto, tornarono a
perseguitarmi lì dentro.
La folla di persone girava vorticosamente attorno a me, nessuno
pareva essersi accorto della mia presenza.
Io... ancora soffrivo, in realtà.
Ancora soffrivo come un dannato per lei, il suo ricordo.
La mia solitudine più che mai spingeva in basso, fuori sembravo
un uomo normale, forse un pò stanco del suo lavoro.
Ma dentro, morivo lentamente.
La testa tornò a girare.
La buttai indietro, mi stiracchiai, tentando di riprendere
possesso del mio corpo marcio.
Quando la tirai su, posando nuovamente lo sguardo all'interno
della sala, vidi che qualcuno dall'altra parte mi stava osservando.
Non riuscivo a vedere bene chi fosse ma ne distinguevo il
corpicino mingherlino, nascosto.
Un bambino.
Piccolo, anzi, minuscolo.
Biondo e pallido come un lenzuolo, mi fissava.
I suoi occhi, per quanto acerbi ed innocente, conservavano un
lontano dolore che riuscivo a percepire.
Rimanemmo a guardarci negli occhi per qualche attimo, io e
quel ragazzino. Soli.
E con mia grande sorpresa, si incamminò verso di me.
Ne osservai lo scarso abbigliamento: un paio di calzoncini cachi
ed una maglietta sbiadita.
-Ciao- dissi, convincendomi che non parlasse la mia lingua.
-Ciao- rispose lui, fissandomi.
Rimasi fermo, contemplandone la figura.
-Come ti chiami, ragazzo?-
Esitò.
-Non dico queste cose agli sconosciuti-.
Annuii, spontaneamente.
-Hai ragione- risposi, non sapendo cos'altro aggiungere.
-Che ci fai qui?- chiese.
-Io... Sono... Ecco, veramente non lo so-.
-E' strano, però. Sei qui, solo. Vedo la gente correre avanti ed
indietro, aspettando l'aereo. Mentre tu... tu, speri quasi che
il tuo non parta- ammise.
Sbarrai gli occhi.
Cosa voleva dire quel maledetto ragazzino?
Stava realmente alludendo ad un qualcosa di più nascosto?
Che significato celavano le sue parole?
-Come fai a saperlo?- chiesi.
-Sai, avvolte... Mi chiedo come sia possibile-.
-Cosa?-.
-Tutto questo-.
-Di cosa stai parlando?-.
Ma il ragazzino non rispose, rimase lì.
Fermo, spostando lo sguardo da me alla vetrata.
Come se volesse svelarmi un segreto, come se volesse farmi
capire il realte motivo per il quale era arrivato fin lì.
O forse, per parlarmi di me.
Come se solo lui potesse darmi una concreta risposta.
Ed io l'attendevo, in silenzio, come un condannato attende la
sua temuta ora di morte.
Misi una mano sul viso, attendendo una risposta, chiusi gli
occhi di nuovo per assaporare il piacere del buio.
E quando li riaprii, il ragazzino se n'era andato.
Sparito, scomparso nel nulla.
Mi girai, cercandolo.
Ma nulla, se n'era andato con la stessa velocità con la quale
era comparso avanti a me.
Dopo circa due minuti, Trè tornò con in mano una birra.
-Ehi, Big. Ne vuoi una?- domandò.
-No, Trè... Non è che hai per caso visto un ragazzino biondo?-
chiesi, continuando a cercarlo con lo sguardo.
Trè sorrise.
-Se ti riferisci al ragazzo con la madre all'entrata, beh... devo
ammettere che era una gran bella signora, la mamma!-
rise, il batterista.
-No, stavo parlando del ragazzino che era qui, accanto a me-.
-Accanto a te?- domandò Trè, perplesso.
-E' venuto a parlarmi- precisai.
-Non è venuto nessun ragazzino, Big- disse Trè, posando la birra.
-Era qui con me, un attimo fà. Un ragazzino biondo, con una
maglietta e pantaloncini cachi!- sbuffai.
-Billie, per favore. Smettila-.
-Era qui, cazzo!- ribattei.
-Qui non è mai venuto nessun ragazzino! Siamo andati a
mangiare un panino lì avanti e ti ho sempre tenuto d'occhio,
anche da lontano. Non c'è mai stato nessun ragazzino qui...-.



Eccoci qua.
L'incontro con questo ragazzino, ammesso che sia reale o no, è
molto importante nella storia.
Ancora una volta ringrazio le persone che leggono e seguono la
storia, e chi la recensisce ovvero OrangeMochaFrappuccino, Fraklyn,
Drunky Bunny e Rbd.
Grazie.



Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Crazy, I'm Crazy ***


Guardai Trè stizzito.
-Ma che stai dicendo? C'era un ragazzino qui, fino a pochi minuti fa.
Non sono pazzo- replicai.
-Basta, Billie-.
-Ti dico che è la verità, cazzo! Mi hai forse preso per un pazzo
allucinato?- sbottai, inviperito.
In quel momento arrivarono Mike, Tim e alcune guardie del corpo.
Mike mi fissò interrogativo.
-Che succede?- chiese.
-Ora vede anche persone che non esistono!- ribattè Trè, alzandosi.
-Di che state parlando?- domandò il bassista.
-Ascoltami, Trè! Non sono pazzo, va bene? L'ho visto, quel bambino,
era qui avanti a me!-.
-Cos'è, l'amico invisibile per caso?-.
-Basta, ragazzi! Non abbiamo tempo per queste stupidaggini,
mettete da parte i vostri litigi e andiamo a prendere questo maledetto
aereo- sbottò Mike, rivolto al batterista.
Così dicendo, si incamminò verso il check-in, facendoci quasi da
capogruppo. Trè, i ragazzi, Tim e le guardie del corpo lo seguirono
subito dopo, chiacchierando per i fatti loro.
Io afferrai di controvoglia il mio zaino e mi incamminai, continuando
però a fissarmi intorno con la speranza di poter rintracciare il
ragazzino. Ma di lui, nemmeno l'ombra: sembrava essersi
volatilizzato nel nulla e più di fermavo a riflettere su quell'irreale
pensiero e più mi autoconvincevo che non poteva essere tutto
frutto della mia mente malata.
Ero convinto che quel ragazzino fosse reale, impossibile per me
pensare di essere stato ingannato da un'allucinazione o dalla mia
malattia, tutto ciò mi portava a riflettere ancora.
La mente fu dominata da quei pesanti pensieri che la affollavano
e tutte quelle dannate domande convergevano nell'unico quesito
fondamentale: stavo realmente impazzendo?
Era tutto frutto della mia pazzia?
No, non ero pazzo o almeno non lo ero ancora.
Un pizzico di ragione ancora albergava nella mia testa e
sicuramente non mi giocava brutti scherzi come invece voleva
farmi credere Trè.
Erano solo le sue convinzioni riguardo al mio squilibrio mentale,
solo quelle mi ferivano... I ragazzi iniziavano a dubitare di me e
il discorso con il batterista ne era stata la prova decisiva.
Non mi credevano, ormai si erano convinti che fossi solo un
infantile ragazzino in cerca di attenzioni.
Non mi capivano, loro: così presi dalla loro vita, i loro casini
ed i loro problemi, così presi dal lavoro, nel quasi si buttavano
a capofitto.
Così distanti da me e dal mio malessere.
Li sentivo profondamente diversi e non ne riuscivo più a
cogliere l'essenza, era come se fossero cambiati.
Improvvisamente cambiati.
O forse, loro erano rimasti sempre gli stessi...
Forse, l'unico ad essere cambiato ero solo io.
Avanti a me sentivo Trè e Jason discutere allegramente di ciò
che li attendeva una volta rientrati negli Stati Uniti.
Ascoltandoli, dovetti trattenere un misto di disgusto e conati
di vomito che mi stavano pervadendo lo stomaco.
Dio, com'erano amorevoli!
Com'erano terribilmente presi dai loro banali discosi,
concentrati nel scambiarsi aneddoti e consigli, com'erano
brillantemente perfetti, felici... favolosamente sani.
Tutto ciò che li riguardava per me era inconcepibile.
Ascoltavo i loro superficiali discorsi fingendo un interesse
che in realtà non avevo minimamente.
Eppure loro, i miei compagni, i miei colleghi... Loro, non
parevano accorgersi del mio disinteresse, della mia stanchezza.
Proprio mentre mi flagellavo torturandomi con quelle
riflessioni, mi accorsi di essere circondato.
Lì, avanti all'uscita, proprio accanto alle porte.
E i volti che mi circondavano erano per lo più giovani.
Le magliette con i nostri visi spadroneggiavano sui loro petti
ed in quel momento mi resi conto che quella che stavo
provando non era una bella sensazione: vedere lì, tutti quei
ragazzi che urlavano come in preda alle crisi, con la mia
faccia stampata sui vestiti... Mi feriva.
Profondamente.
I loro sorrisi mi ferivano, le loro mani attaccate a me.
Me le ritrovai sul viso, sui capelli, tante mani, troppe mani.
Dapperttutto.
Mi guardai attorno, boccheggiando senz'aria, in mezzo a
tutti quei ragazzi che mi circondavano urlando il mio nome.
Avanzavano verso di me, sempre più esaltati, sempre più
numeroso ed io non potevo fare nient'altro se non tentare
di allontanarmi, divincolandomi come un pazzo.
Ma loro aumentavano ogni secondo, uno dopo l'altro si
avvicinavano a me come belve pronte ad uccidermi.
Più giravo su me stesso nella speranza di poter trovare
una via d'uscita e più ne vedevo altri comparire, minacciosi.
Tentai di guardare sopra la folla di adolescenti, verso
l'uscita, mi accorsi quindi che Mike e gli altri erano stati
scortati fuori a fatica.
Non li vedevo, non riuscivo più a vederli.
E loro, si erano fottutamente dimenticati di me.
Come un disgraziato mi avevano abbandonato lì, al mio destino.
Urlavo, mi sentivo assediato da quelle cento mani che un pò
mi toccavano ed un pò mi ferivano.
Un ragazzo si avvicinò a me, facendosi largo tra la folla.
Con gli occhi sbarrati, piantò le mani sulla mia giacca.
-Billie... Sei proprio tu! Fammi... Fammi un autografo, scrivi
quello che vuoi!-.
Sgranai gli occhi ed in quel momento la testa tremò, cento
voci squillanti mi risuonarono nelle orecchie.
Mi sentii svenire.
L'agitazione salì alle ginocchia e non riuscii a trattenere l'affanno
che iniziò a farsi sentire quando iniziarono ad urlare ancora
una volta il nome della band.
GREEN DAY.
GREEN DAY.
Il senso di oppressione divenne talmente evidente che mi fu
impossibile nasconderlo, a quel punto.
Ma nessuno mi ascoltò, quei ragazzi non prestarono la minima
attenzione al mio viso stravolto.
Sentii la voce di Mike, in lontananza.
-Billie, cazzo! Vieni qui!-.
Ed io non potevo fare nulla se non dimenare le braccia,
tentando di spostare quei visi attaccati al collo con la poca
forza rimasta. Non potevo fare alto che spintonarli qua e la.
Le loro sporche mani mi insanguinavano il viso, il collo, i capelli.
In qualche modo mi sporcavano della loro voglia ed io ero
schifato da loro e dalle loro intenzioni.
Riuscii a farmi spazio tra la folla, spingendo e scalciando
trovai il modo di andarmene e di liberarmi dalla loro presa fatale,
per poi iniziare a correre come un dannato.
-Billie, dove cazzo stai andando? Noi siamo qui!-.
Urlò la voce di Mike alle mie spalle.
Stavo sbagliando totalmente strada, mi stavo dirigendo da
tutt'altra parte rispetto a loro.
Ma non potevo fermarmi, assolutamente.
Non potevo andare in pasto ai cani, dovevo allontanarmi,
continuare a correre dentro a quel maledetto aeroporto.
Passai il metal detector.
Indeciso sul da farsi, mi fermai e girandomi non vidi anima viva,
anche se le voci rimbombavano lontane ma non remote.
Dovevo andarmene da lì, raggiungere i miei compagni.
Passai oltre le sbarre.
Un'assistente di volo mi raggiunse, con passo svelto.
-Scusi, scusi! Lei non può passare- disse questa, seria.
-Ha... ha ragione- dissi, alzando le braccia.
-Dov'è diretto?-.
-Ho un volo privato- risposi, ancora con il fiatone.
-Non può passare qui, quest'aereo parte tra cinque minuti-.
Tentando di non mostrare il mio turbamento causato dalla
corsa appena effettuata, cercai di instaurare un dialogo con
la donna, per non attirare l'attenzione.
-Emh... ah. Ho capito. E... dov'è diretto il volo?- chiesi
distrattamente, guardandomi intorno.
Ma dei ragazzi, nessuna traccia.
Ero riuscito a seminarli.
-E' diretto a Birmingham, in Inghilterra-.


Ciao a tutte!
Eccomi qui, con il trentunesimo capitolo della storia.
Spero che vi piaccia.
Bene, volevo ringraziare Drunky Bunny, Rbd ed OrangeMochaFrappuccino,
che come sempre recensiscono... grazie mille, ragazze.
Volevo ringraziare, inoltre, tutti quelli che la leggono e la seguono.



Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** The Call ***


Birmingham.
Una parola, una città.
Mille ricordi, più o meno intensi... più o meno minacciosi.
Scavalcarono la mia mente, vennero a galla e così rimasero,
come ogni volta.
Impiantati, fermi come sassi.
Ed io, realmente non sapevo che fare, non sapevo cosa dire
alla donna avanti a me, che mi fissava indifferente.
-Si sente bene?- chiese.
Ma io non l'ascoltai.
In quel momento ero ricaduto nuovamente nell'ampia spirale
di morte dal quale ero fuggito un attimo prima.
Ci ero ricaduto.
-Sì... Credo di sì- risposi.
In quell'istante esatto Tim, Chris ed altri ragazzi della squadra
corsero verso di me.
-Armstrong! Ti abbiamo cercato per tutto l'aereoporto, siamo già
pronti per partire e tu che fai? Te ne vai in giro a correre?- domandò
Tim, con un mezzo sorriso, togliendosi il cappello.
Esitai qualche istante.
-Dai, ci conviene andare!- continuò, tirandomi il braccio.
-Sì... Hai ragione- ammisi, lasciandomi trascinare.
Che fretta c'è, Tim? Devi forse tornare da tua moglie, dai tuoi figli?
Devi forse rimandare uno dei tuoi numerosi impegni di lavoro,
oppure ne hai uno talmente urgente da non poter stare qui ad
ascoltarmi urlare?
Che fretta hai di prendere quel dannato aereo?
Scortato dai miei fedeli collaboratori, finalmente (dico finalmente
anche se avrei preferito far esplodere quel maledetto aeroporto)
entrammo nel nostro volo privato.
Mi guardai attorno, nuovamente sperduto.
L'ambiente era sobrio ed i miei compagni erano già seduti.
-Dov'eri finito?- chiese Mike, alzandosi.
-Sono... Mi ero... C'era troppa gente, Mike- risposi, chinando la testa.
-Ti pare modo di scappare, cazzo? Non farlo mai più!- sbottò lui,
tornando a sedersi.
Tim mi indicò il mio posto, accanto a Trè.
Mi lasciai sprofondare, ancora un pò stanco dalla folle corsa.
Sentivo i ragazzi chiacchierare del tour fallito.
-Come andrà a finire questa storia?- domandò White a Trè.
Il batterista rispose con un'alzata di spalle ed un espressione indifferente.
-Per quel che mi riguarda, amico mio, questo maledetto tour si
poteva anche continuare- rispose.
Girai lo sguardo nella sua direzione ma lui non fece altrettanto.
-Non essere idiota, Trè. Alcune cose non vanno sottovalutate e poi
lo riprenderemo il mese prossimo se tutto va bene- sbuffò Mike,
sentendosi preso in causa.
-Scusami, ammetto che la mia totale neutralità nei confronti delle vostre
decisioni mi sorprende ogni giorno di più!- ribattè, seccato.
-Non iniziare, per favore...-.
Il batterista si alzò di scatto dal suo sedile e ci superò.
Io rimasi alquanto stupito dalla sua reazione, ma non ci prestai molta
attenzione e non diedi molto peso alle sue parole.
Continuai a fissare oltre il finestrino.
Mancava poco, veramente poco alla partenza.
L'unica cosa che volevo fare in quel momento era allontanare i pensieri.
Lasciarli lontani, liberi di fluttuare, senza rendermi la vita impossibile.
Non era facile, eppure... Eppure sentivo, percepivo una nuova sensazione.
Ben più forte, ben più chiara e decisa.
Una strana sensazione di forza interiore.
Era come se gli eventi passati, a furia di masticarmi, mi avessero reso
improvvisamente consapevole ed inscalfibile.
Più forte.
Ed io volevo credere in me stesso.
Dopotutto, ne avevo superate di difficoltà.
-Partiamo fra cinque minuti- disse Tim, ma la sua voce fu interrotta dal
suono di un cellulare.
Cazzo, il mio.
Tutti si girarono ed io non potei trattenere l'imbarazzo.
Mi alzai e tentai di tirarlo fuori ma nella tasca della giacca non c'era, mi
tastai ovunque e mi accorsi che il suono proveniva dal mio zaino.
Lo tirai fuori da sotto al sedile.
-Chi è?- mi chiese Mike.
-...Non lo so- risposi, osservando il numero chiamante.
-Magari si tratta di qualche giornalista- suggerì Jason White, distrattamente.
Il prefisso era straniero.
Quando risposi, la voce che parlò era quella di un uomo.
-Pronto?-.
-Billie Joe? Billie Joe Armstrong?-.
Alzai lo sguardo verso Mike e gli altri.
-Chi parla?- chiesi, attirando tutta l'attenzione su di me.
-Sono... Sono John Rosenberg-.
Il cuore sprofondò.
Le mani iniziarono a tremare, come spesso mi capitava.
Era lui.
Suo padre.
Ed io sapevo, che in qualche modo...
Anche se non dovevo...
Non dovevo illudermi che una telefonata me la riportasse.
-Chi è, Billie?- continuò Mike, notando la mia espressione sconvolta.
Io non risposi.
-Billie Joe, mi senti?-
Esitai prima di rispondere, nel frattempo Mike continò a fissarmi.
-Sì... sì, mi dica, che è successo?- chiesi, un pò troppo in fretta,
tentando di nascondere l'agitazione agli altri.
-Billie, ti ho chiamato perchè... Scusa, così all'improvviso, ma...
Non so più che fare, non sapevo chi chiamare e...-.
-CHE CAZZO SUCCEDE?- urlai, alzandomi dal sedile, sotto gli
sguardi dei miei compagni.
-Chi cazzo è, Billie?- sbottò Mike, alzandosi anche lui.
Trattenni il respiro mentre il cuore cominciò a battere ancora più
velocemente, alimentato dall'ansia dalla quale mi ero lasciato prendere.
-Billie... Mia figlia è sparita-.



Ciao a tutte, scusate il ritardo con il quale aggiorno questa storia, ma in questo periodo... Non va, proprio.
La stanchezza inizia a farsi sentire... Si spera in un futuro migliore!
Bene, innanzittutto ringrazio molto chi legge la storia, poi saluto la mia adorata Franklyn che, come sempre,
non si perde un capitolo! Grazie, cara!



Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** I Love You, Mike ***


Sparita.
Sparita.
Chiusi gli occhi un attimo.
Solo una frazione di secondo, per poi riaprirli e ritrovare nuovamente
avanti a me la stessa scena, invariata.
Non era cambiato niente, se non che in quel preciso istante io,
fottuto stronzo, mi sentivo profondamente in colpa.
E non sapevo nemmeno il motivo.
Mi sentivo colpevole.
Il solo colpevole, in tutta quella faccenda.
Scomparsa, lei?
Ma dove, dov'era andata?
Più smarrita di quanto non lo era già nell'anima, come avrebbe fatto
a smarrirsi ancora di più?
Ed io, che stavo lì a compiangermi...
Mentre lei scappava per non essere trovata.
Io che stavo lì a discutere, dentro quel merdoso aereo, mentre
lei chissà dov'era e se era al sicuro.
Tentai di reggermi in piedi ma le ginocchia iniziarono a crollare
tanto che Jason White dovette aiutarmi a stare in piedi.
Mike continuò a fissarmi con la bocca spalancata.
-Billie... Non so più che fare, è sparita nel nulla da qualche giorno.
Sono... Sono disperato- ammise John, con voce rotta.
Io non risposi, mi guardai attorno.
-Stia... Stia calmo, John. Ora... Ora ci penso io, ma lei deve stare
calmo!- dissi, infine, tentando di riprendere il controllo.
Riattaccai subito, ricomponendomi velocemente.
-Chi cazzo era, Billie? Che cazzo stà succedendo, chi era al telefono?-
ringhiò Mike, avanti a me.
-Fai fermare questo aereo-.
Mike e gli altri sgranarono gli occhi ed a stento il bassista riuscì
a restare in piedi, evitando di cadere all'indietro.
-Ma... Ma che cazzo stai dicendo? Fermare l'aereo? Cos'è questa storia,
Billie, dimmi che cazzo stà succedendo! Dimmelo, ora- sbottò Mike,
afferrandomi un braccio di scatto.
-FERMATE QUESTO CAZZO DI AEREO!- urlai, sbattendo la mia
tracolla sopra al sedile.
Ovviamente, Mike, i due Jason, Tim ed i colleghi continuarono a
fissarmi come se fossi un pazzo da ricovero ma nessuno osò ribattere.
Mi aspettavo che Mike tirasse giù il finimondo, ma non lo fece.
Si limitò invece a guardare il resto del gruppo.
-Tim... Dì ai piloti di non partire-.
Dopo un quarto d'ora ci ritrovammo nuovamente nell'aeroporto,
ma senza assistenti: Tim e i ragazzi si allontanarono per mangiare
qualcosa ed io mi ritrovai solo, con Mike e la sua sfuriata.
-Siamo qui. Ho fatto ciò che volevi, ho rimandato la partenza,
ora mi dici che cazzo stà succedendo?- iniziò lui, tenendo la calma
ma continuando a torturarsi le mani.
Dovevo trovare le parole giuste per dirglielo...
Iniziai a camminare.
Più pensavo, meno risolvevo.
Il punto era sempre lo stesso, non c'era modo di sfuggirgli.
-Io... Non c'è tempo, Mike-.
-Chi cazzo era al telefono?- chiese.
-Era... Era John Rosenberg-.
-John Rosenberg? Quel John Rosenberg? Ancora lei? Un'altra
volta Jane?- borbottò.
-Mike, non è come sembra... Lei è sparita, è sparita!-.
-Ma che cazzo stai dicendo?-.
Tentai in tutti i modi di fargli capire la situazione, di parlargli,
spiegargli come stavano le cose, m lui non accennava a venirmi incontro.
In nessun modo.
Preferiva aggredirmi, in qualunque modo.
-Basta, Billie. Piantala con quest'assurda storia, cazzo! Piantala con
queste cazzate! Sei stato moribondo per giorni, hai le allucinazioni,
fai fermare un aereo, ci hai fatti spaventare a morte tutti quanti... E
tutto per raccontarmi questa patetica storiella?- sbottò.
-Non è una storiella, Mike-.
Una scintilla di rabbia comparve nei suoi occhi.
-Tu sei pazzo-.
Quella frase mi fece girare la testa.
Mi credeva pazzo, talmente pazzo da poter racccontare delle
storie così strampalate solo per attirare l'attenzione...
Ed io lo sapevo.
Tutti lo credevano, ormai.
Agli occhi degli altri ero diventato un folle.
Ed io sicuramente non potevo ritenermi poi tanto sano.
-Non sono pazzo, Mike-.
-Ti prego, Billie. Basta. Smettila, ora, o sarò costretto a chiamare Adrienne.
Le racconterò tutto, non vorrei farlo, ma tu non mi lasci altra scelta-.
Lo fissai e caricai in quello sguardo tutto il mio rancore.
-Vuoi chiamare mia moglie? Fallo-.
Afferrai il telefono e glie lo porsi, tenendo il braccio.
Lui non lo prese.
-Fallo, Mike. Chiamala, Adrienne, chiamala ora e raccontale tutto
ciò che mi stà succedendo. Fallo, dille che non l'amo più, dille che
ora so chi sono e non ho più bisogno di lei, dille che amo un'altra donna
e darei la vita per lei-.
Lui non rispose.
-Fallo, Mike. Toglimi questo enorme macigno, prima o poi riuscirò
a togliermelo da solo anche se sarà dura... Ma tu fallo- continuai.
Non prese quel telefono.
Rimase lì, a fissarmi, con gli occhi quasi lucidi.
Stranamente lucidi, per essere suoi.
-Che... Che vuoi fare, Billie?-.
-Cinque giorni. Ti chiedo di darmi solo cinque giorni, non uno di più,
non uno di meno-.
Lui abbassò lo sguardo, pensoso.
-Perchè?- chiese.
-Mi servono cinque dannati giorni... La cercherò e se non la troverò
torneremo in America e questa storia sarà dimenticata-.
Alzò lo sguardo.
-Cosa speri di concludere, eh? Speri di trovarla, riportarla a casa sana
e salva... E poi? Poi cosa succederà, che farai?- chiese, con un tono
di voce più morbido.
-Non lo so, ma... Ma io devo farlo. Devo trovarla, Mike, è sola in una
città che non conosce! Potrebbe succederle qualcosa, potrebbe essere
in pericolo...- ripresi.
Mike sospirò.
Il suo sguardo non era più iracondo.
E ciò significava solo la resa.
-... Cinque giorni, Billie. Hai cinque giorni di tempo, noi staremo
in albergo e partiremo tra cinque giorni esatti. Se non ci sarai, non avrai
una seconda possibilità- sbottò, infine, con la voce ferma e lo
sguardo abbassato per trattenere il controllo.
Sapevo quanto gli costasse mettere da parte l'orgoglio,
ma dopotutto lo stava facendo per me, perchè mi amava.
Sì, lui avrebbe fatto questo ed altro pur di rendermi felice.
Ed io lo sapevo.
Nonostante mi amasse, lui mi stava lasciando andare...
Ed io non potevo non essergli grato, infinitamente grato.
Per tutto ciò che aveva fatto per me, solo ora mi rendevo conto
del suo amore incondizionato nei miei confronti: forse, l'avevo
troppo sottovalutato.
O forse, non avevo mai voluto guardare in faccia la realtà.
Non pronunciai più parola, rimanemmo a fissarci per qualche
secondo visto che nessuno dei due voleva andarsene.
Ma non c'era tempo.
Dovevo trovare Jane il prima possibile.
Evitai di salutare il mio migliore amico, ma fu lui a
parlarmi ancora una volta.
-Billie...- iniziò.
Mi voltai di scatto.
-Sì?-.
-Ti aspetto tra cinque giorni. Ti amo... non deludermi-.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Ma non era quello il momento di piangere.
Voltai lo sguardo e me ne andai.
Appena in tempo: una volta fuori, vennero giù.



Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Birmingham (First Part) ***


Quella stessa sera presi l'aereo per Birmingham.
Il cuore a mille, poco c'era da fare per fermarlo.
Non mi davo pace, il pensiero della sparizione di Jane mi risuonava
come un tuono nell'anima.
Continuavo a pormi sempre le stesse domande.
Perchè?
Tutto per causa mia?
Era stato solo un fottuto errore?
Il mio errore, una stupida maledetta distrazione.
In un attimo tutto era cambiato: la mia vita, tutto quello che ci
girava attorno: tutto era cambiato ed io tristemente fallivo nell'intento
di riportare tutto alla normalità.
Ma d'altronde, cos'è la normalità?
Più mi ponevo domande, meno trovavo risposte.
Continuavo a vaccillare, tra il pensiero fisso della donna che mi
attanagliava il cuore ed il ricordo dell'ormai passato amore per Adrienne.
Non riuscivo a paragonarli, quei due sentimenti.
Era come se non ci fosse termine di paragone tra loro.
Io amavo Jane, lei.
Regnava tra i miei pensieri, il ricordo ancora bruciante della notte
trascorsa a Berlino e la speranza che tutto potesse ripetersi non una,
ma un'infinità di volte.
Ed io l'amavo, Jane.
Atterrai in Inghilterra quella notte e senza pensarci un secondo
mi diressi a casa del padre di Jane.
Non sapevo esattamente cosa dire a quell'uomo.
Come avrebbe reagito all'idea che io, Billie Joe Armstrong, fossi
innamorato di sua figlia? Come avrebbe reagito sapendo che avevo
percorso chilometri e chilometri per lei, solo per lei?
Ancora non sapevo cosa mi attendesse, ma ero convinto più che mai
di portare a termine la mia opera, il mio percorso: avevo cinque giorni
di tempo e sicuramente non li avrei mandati a puttane piangendomi addosso.
Dovevo agire, farmi forza in qualche modo.
Mi diressi a Redditch.
Riconobbi subito la villa dei Rosenberg, non passava di certo
inosservata: le luci erano accese, sicuramente suo padre doveva trovarsi in casa.
Venne, infatti, ad aprirmi poco dopo.
-Billie Joe? Che...che ci fai qui?- chiese, mezzo sconvolto, correndomi
incontro lungo il giardino.
Non potei evitarlo.
Quasi spontaneamente, forse per pietà o appoggio morale, andai verso
di lui e lo abbracciai. Senza un vero motivo, senza un perchè.
Lui scambiò quell'abbraccio per rassicurazione, nonostante tutto lo vivemmo
in religioso silenzio, entrambi chiusi nel nostro acuto ma diverso dolore.
-Io... io sono corso qui, non potevo starmene a guardare- dissi.
-E il tour? Dove sono i tuoi colleghi? E gli assistenti?- chiese, guardandosi attorno.
-Sono rimasti a Berlino, la prego non mi faccia altre domande-.
-Entra pure in casa-.
Annuii.
Entrammo in casa e rividi la stessa identica scena vissuta quell'ultima notte.
Ci recammo in soggiorno e John mi fece accomodare sul divano.
-John... mi dica tutto quello che è successo- dissi.
-Devo dirti la verità, ragazzo?-.
Annuii.
-Sono disperato, non so più cosa fare ne cosa pensare- iniziò lui.
A chi lo dice, pensai.
-Non sa dove potrebbe essere andata?- chiesi.
-Se lo sapessi sarei corso da lei, non credi?-.
Anche questo era dannatamente vero.
Tutto era dannatamente vero.
Cazzo.
-Non potrebbe... non potrebbe essere andata da qualche amico, conoscente o...-.
-Jane non ha amici. Non ne ha mai avuti, gli unici amici che le fanno
compagnia sono i suoi libri- disse John, con gli occhi lucidi.
-Perchè?- chiesi.
Si alzò in piedi ed iniziò a camminare.
-Sai, Billie... Ho portato Jane da vari psichiatri. Specialisti, certo, bravi e di
grande fama... Eppure, nemmeno il più titolato tra loro è riuscito a darmi una
cura per la sua malattia-.
-Una cura?- domandai, guardandolo dritto negli occhi.
Annuì.
-Una cura per cosa?-.
-Per il male di vivere, Billie-.
Sospirai.
-Ha sempre sofferto di questo male. E non me ne ha mai parlato, in realtà...
Non credo che ne avesse mai parlato con nessno-.
Si girò a fissarmi.
-Perchè mi sta dicendo tutto questo?- chiesi.
Sorrise nuovamente, malinconico.
-Billie... devo ritrovarla, se lasciata sola...-.
Ma non finì la frase.
Mi alzai.
-Cosa?- chiesi, subito dopo, attendendo risposta.
-Se lasciata sola, lei... Lei si abbandona a se stessa. Si lascia morire...-.

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Birmingham (Second Part) ***


Sgranai gli occhi, atterrito.
-Cosa... Che vuol dire?-.
Si sedette accanto a me.
-Hai capito bene, Billie. Questo lo scoprii con il passare degli
anni... Tutte le normali azioni che un essere umano compie per
sopravvivere, lei... Se lasciata sola, accidentalmente... Billie,
aiutami. Aiutaci-.
Io rimasi quasi sconvolto dalle sue parole.
Impaurito.
Frasi che d'un tratto mi fecero ripercorrere Jane, la sua malattia.
Ed io, troppo scemo, troppo cieco da non riuscire a vedere lei
ne a sentire il suo grido d'aiuto.
Mi sentivo in colpa.
Profondamente in colpa.
Nei confronti di suo padre, nei suoi stessi confronti.
Mi sentivo un fottuto idiota, in quel momento.
Mi rendevo realmente conto della mia piccolezza.
-Io... io ancora mi chiedo, perchè tutto questo dolore?-.
Lui alzò lo sguardo.
-Questa è esattamente la domanda attorno alla quale ruota
la mia vita- disse, alzando il mento.
Cosa potevo dire a quell'uomo?
Quali altre banali parole potevo pronunciare in quel fottuto
momento mentre lo osservavo piangere silenziosamente?
Un dolore troppo grande da sopportare, chiamato Jane.
Un dolore che continuava a ferire, che non poteva essere
metabolizzato in alcun modo.
-Cosa facciamo, John?- chiesi, sperando di non piangere.
Lui scosse la testa.
-Non lo so, ragazzo. Non so più cosa pensare ne di mia figlia,
ne di me stesso. Sono anni che combatto contro tutti questo
senza trovare una via d'uscita. Jane... per me è sempre stata un
enorme problema. E' sola, povera ragazza, è sola e lo è sempre
stata-.
Mi venne incontro e mi afferrò le mani.
-Perchè sei qui, Billie?- chiese, stringendole.
-Io... Io amo sua figlia, John- affermai, abbassando lo sguardo.
-Hai detto che la ami, Billie. Trovala- mi implorò.
Io lo fissai, profondamente turbato.
-Non ho un posto dove stare questa notte... Potrei dormire qui?-
chiesi, non trovando altro da dire.
Lui annuì.
-Certo, puoi stare qui tutto il tempo che vuoi. Vieni, ti mostro la
stanza- mi disse, allontanando per un attimo i brutti pensieri e
facendomi strada nel corridoio.
Ed in quel momento, trovandomi di fronte ad una scena già
vissuta in precedenza, non so in quale dimensione o fottuto sogno,
mi voltai terrorizzato verso l'uomo, portandomi una mano alla bocca.
Lui mi fissò di rimando.
-Che succede, Billie? Ti senti bene?-.
Io alzai lo sguardo, forse in preda alla consapevolezza ed infine
mi resi conto di quanto ero stato stupido fino a quel momento.
Che stupido.
Avevo sempre saputo...
Sapevo dove si trovava Jane.
Mi ero scervellato come un disgraziato, passando in rassegna i posti
più sconosciuti ed improbabili dove si sarebbe potuta nascondere.
Senza pensare che solo un era il suo vero rifugio.
Il luogo dove l'avevo incontrata la prima volta.
In quel momento, tutto si fece più chiaro...
Era lì.
Doveva essere lì.
Al grande magazzino.
-Devo andare, John!-.


Ciao a tutte! Fortunatamente sono riuscita ad aggiornare ancora la storia questa settimana!
Un bacio grande a chi segue la storia
.

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Birmingham (Third Part) ***


Corsi come un dannato, a piedi, percorrendo
tutto il grande viale della città.
Chilometri mi dividevano da lei ma io sapevo,
sentivo, la percepivo in una qualche maniera.
Non potevo continuare a sperare, dovevo avere delle
basi certe sulle quali muovermi.
Eppure, io sentivo in me una strana sensazione
che mi spingeva a percorrere quella strada e
ritornare lì, dentro quel fottuto grande magazzino.
Sì, lì: arrivai, oltrepassando l'enorme porta d'entrata
accanto alla quale erano ammassate oltre una decina
di persone.
Non badai a loro, scansai uno ad uno gli individui che
mi dividevano dalla mia unica riposta.
Lì dentro, nulla era invariato.
Le luci si abbattevano ancora incontrastate sopra alle
nostre teste, forse l'unico cambiamento lì dentro erano
le fottute stelline di Natale appese al soffitto.
Non badai nemmeno a quello: percorsi uno ad uno
i tre piani del grande magazzino con la speranza di chi
va cercando la propria amata dispersa.
Ma non la trovai, ne al primo, ne al terzo, come al secondo.
No, Jane non c'era lì.
Probabilmente non si trovava nemmeno in uno dei
negozietti che contornavano la zona.
La gente mi osservava, allibita.
Dopottutto, un uomo girovagante con viso sospetto come
il mio non passava di certo inosservato.
Ma nessuno mi fermò durante la mia ricerca e fu certo
un bene per me, talmente preso da non accorgermi di
essere seguito dagli uomini della sicurezza.
Uno di loro mi venne incontro e mi chiese quale fosse
il mio problema, io risposi di trovarmi lì alla ricerca della
donna che amavo.
Costui alzò lo sguardo, se ne andò sorridendomi.
Non lo presi bene, quel sorriso: il sorriso di chi ti sfotte,
ti crede inutile, pallosamente innamorato della tua ragazza.
Me ne fregai altamente, continuai a girare osservando.
Dopo un'ora dentro quel fottuto grande magazzino,
mi arresi.
Cominciai a richiedermi dove avessi sbagliati ancora una
volta e se mai avrei rivisto gli occhi di Jane.
Ed ancora venivo assalito dall'ansia di non rivederla, dalla
paura che fosse stata rapita, ferita, intimorita o quant'altro.
Ero perso nei miei pensieri.
Jane non era lì, eppure io l'avevo sentita.
Certo, anche solo per un attimo ma... In fondo era bastato
un attimo per sconvolgermi la vita, potevo anche fidarmi
della sensazione di un momento?
Mi sentivo un idiota.
Mi feci guidare dall'istinto, di volontà, girai i tacchi e mi
diressi verso una commessa.
-Scusi... Sa dirmi dov'è il bagno?-chiesi.
-Sì, al terzo piano. La porta viola in fondo- rispose questa.
Mi misi a correre lungo la scalinata, investendo i passanti
e tenendo una mano sul viso per non essere riconosciuto.
La porta viola in fondo.
Avanzai con passo di piombo e ci andai davanti.
Tirai la maniglia ed entrai.
Ambiente classico, sei bagni io ogni lato.
Mi accucciai.
Da sotto si riusciva a vedere se dentro vi fosse qualcuno.
Non vi trovai nessuno.
Per un attimo, solo un fottuto attimo...
Io l'ammetto: pensai di andarmene.
Il desiderio di sottrarmi a tutto quell'orrore iniziò a prendere
il suo spazio dentro di me.
Ma un eco più pungente, più interno, mi fece sobbalzare.
Scosso, corsi lì.
Proprio lì.
Non è raro vedere le ragazze chiuse in bagno a piangere.
Non è raro.
Non mi tradì il mio pensiero.
Non mi tradì perchè nell'ultimo
bagno a sinistra, oltre quella porta, raggomitolata morente
sul pavimento c'era lei.
Jane.


Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Oh, My Little Girl ***


Oddio.
Questo fu quello che pensai non appena la vidi.
Seduta lì, sopra quel cesso, con la testa in avanti e lo sguardo
pallido di chi sta per passare a miglior vita.
Le mani...
Le gambe piegate, senza forze, sembravano non fare
nemmeno parte di quel corpo.
Ed io la guardai, quel cadavere che cadavere non era.
Ma molto ci assomigliava.
La guardai e per la prima volta nella mia vita, l'amaro senso del
degrado mi fece venire voglia di ucciderla.
Ucciderla, sì, bastava così poco per ucciderla.
Premerle con lieve forza le mani intorno al collo?
Tapparle naso e bocca contemporaneamente?
Non avrebbe avuto nemmeno la forza di lottare, poverina.
Ed io...
Io non avevo nemmeno la forza per parlare.
Ucciderla, perchè non aveva senso che tutto quel dolore se la
mangiasse viva.
No.
Entrai, contro di lei.
Le tirai su la testa: gli occhi erano chiusi, pareva in stato di coma.
Ma morta non era, anzi.
Aprì gli occhi e si lasciò cadere tra le mie braccia.
-Da quanto non mangi?- chiesi, serio.
Ma lei non rispose, le braccia le scivolarono giù e da
quell'affanno non si riprese.
-Jane, rispondi! Cazzo!- urlai, scostandola.
Lei sospirò ed alzò lo sguardo verso di me.
-Parla- la implorai, nuovamente, scuotendola.
Lei mosse piano le labbra.
Ma non ne fece uscire nemmeno un suono.
Richiuse gli occhi e si lasciò andare nuovamente.
-Jane, guardami! Guardami, cazzo!- ribattei, girandole il viso verso me.
La guardai negli occhi.
Nonostante il suo sforzo, nonostante fosse moribonda, stanza,
straziata, i suoi occhi non erano altro che il riflesso della resistenza
ad un destino già segnato in precedenza, da molto tempo.
Anzi, da sempre.
Nonostante lei si stesse sgretolando lentamente, si fosse ridotta ad un
poco o niente, i suoi occhi la dicevano lunga.
La tirai su nuovamente, le alzai le braccia, la testa, la scossi ancora.
Quegli occhi lugubri, continuarono a fissarmi.
Allucinati, come se chiedessero pietà.
Allora la presi, riuscii ad alzarla.
Aprii la porta e, sotto lo sguardo allibito delle persone lì in mezzo a noi,
la portai fuori dal suo luogo di morte.
Scostai le persone, urlando, scalpitando, con fatica riuscii ad uscire.
Percorsi un pezzo di strada lungo poco meno di dieci metri... ma a me
parvero cento chilometri, con il suo corpo tra le braccia, mentre la
pioggia folle si abbatteva su di noi.
Ed alla fine, cedetti.
Mi buttai a terra, chiedendo aiuto ma nessuno di avvicinò a noi.
Nessuno.
Rimasi lì, con lei, sotto la pioggia battente.
Soli.
Non abbandonarmi, Jane.
No, ti prego.
Non farlo.
Lei alzò gli occhi al cielo.
Il suo viso, gelido, bagnato dalle gocce di pioggia ora andava via via appassendo.
Ed io non potevo fare nulla, impotente com'ero.
Nulla potevo fare se non chiederle di non lasciarmi, ancora.
Gridarle di non lasciarmi ancora.
E ringraziai non so chi, non so quale divinità ( ammesso che ne esista qualcuna)
non so quale anima buona che quel giorno decise di non portarmela via, di
non strapparmela dalle braccia.
Il suo viso si riprese, tornò un leggero colorito roseo sulle sue guancie.
-Uccidimi, Billie- mi disse, respirando ad ogni parola.
-No...No... Come puoi chiedermi una cosa del genere, Jane? Dammi tu la forza
per farlo! Aiutami, dammela questa maledetta forza per ucciderti!- urlai,
premendo la fronte contro il suo viso.
Lei rabbrividì.
-Perchè? Perchè?- domandai.
Alzai la testa.
-Perchè... Tu sei l'unica cosa che io amo in questa vita- disse, chiudendo
gli occhi, nascosti da lacrime nuove.
Billie.
Sai cosa significa perdersi?
Sai cosa vuol dire amore, la conosci questa parola o ti è nuova?
Sai cosa vuol dire morire ascoltando solo poche parole?
Il cuore si apre.
Misteriosamente, si apre: respira, si libera, vuole amare.
Ha un disperato bisogno d'amare.
E quando sa di essere amato a sua volta, quando ha la certezza che dall'altra
parte ce ne sia uno d'uguale pronto a combattere, beh... farà tutto
ciò che è in suo potere pur di appartenergli.
E quando ci riuscirà, quando tutto questo potrà dirsi compiuto, allora questo
cuore inizierà a guarire.
E proprio ora, anche il tuo sbatte le ali.
Ma tu continui a piangere.
Ancora più forte, la tua disperazione si apre, si fa avanti.
E se ne va da quella porta.
La baci, Jane... e ti sembra di rivivere un passato, un presente ed un futuro,
assieme alle mille vite che sai di non aver mai vissuto.
Ma te ne basta una.
Solo una, accanto a lei.



Ecco il nuovo capitolo della storia.

Il nuovo incontro di Billie e Jane...
Spero di aggiornare ancora questa settimana.
Un saluto a tutti, in particolare alle lettrici della storia.








Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** White ***


La ragazza.
Quella ragazza.
E' qui, a pochi passi da me.
Al piano di sopra, stesa sul suo letto... quel bianco, enorme, letto di morte.
Ed io sono qui, perennemente impotente, chiuso, con lo sguardo
rivolto verso l'alto ad aspettare la sentenza.
Solo questo ridondante pensiero nella mente: una mente che pulsa.
Pulsa un solo nome.
Jane.
Andai a sedermi sul divano: ginocchia piegate, mento sulle mani,
occhi stanchi e quasi lucidi.
Ma chi sono io per poter piangere?
Il pianto è nobile e non è concesso a tutti.
Ad interrompere quell'amaro silenzio fu il rumore di pochi passi.
Passi funebri, quasi, che mi vennero incontro.
Mi alzai in piedi, con le mani lunghe sui fianchi.
Il padre della ragazza ed il medico si avvicinarono a me.
Quest'ultimo mi guardò perplesso.
-Come... Come sta?- domandai per primo.
Il dottore scosse garbatamente la testa.
-Temo che la malattia stia peggiorando- affermò, con tono basso.
Lo guardai.
-La prego, lei... Lei deve dirmi, deve aiutarci... Non può lasciarla lì,
così. Che-che dobbiamo fare, dottore?- domandai.
-Jane non mangia da giorni- continuò lui, interrompendomi.
-E' fortemente debilitata. L'unica cosa che possiamo fare è aspettare,
tutto quello che posso dirvi è che si riprenderà, se supererà la notte-.
Dov'è il cuore?
E' caduto.
Non lo trovo.
Ma caduto dove?
Dov'è, come faccio a rintracciarlo, come faccio a prendermi cura di lui?
Come diavolo faccio se quelle parole, come lame, mi feriscono
lacerandomi l'anima, penetrandomi le ossa?
E forse, facendomi sanguinare?
Come faccio io... ad andare avanti senza Jane?
Questa notte, tutte le notti della mia vita?
Come cazzo faccio?
Scossi la testa.
-Dottore, devo vederla-.
-No, signor Armstrong, la prego di stare tranquillo-.
Afferrai le sue mani, le strinsi più forte, attorcigliandole alle mie.
Legandomele al cuore.
Digrignando i denti come una lenta ed inesorabile smorfia di dolore.
Una lacrima scese dall'occhio sinistro.
E bastò.
Quella sola bastò.
-Io... Io devo andare- supplicai.
-L'ho tirata fuori io da quel cesso. Ora devo vederla, sotto un attimo,
solo un minuto. Questa notte potrebbe essere l'ultima-.
Il padre di Jane iniziò a piangere.
Il dottore si tolse gli occhiali.
-Signor Armstrong, signor Rosenberg ascoltatemi- rispose.
Noi ci girammo.
-C'è un'altra cosa che devo dirvi riguardo a Jane. Ho aspettato prima di
dirvela perchè.. mettetevi seduti, prego-.
Io e John ci guardammo e ci sedemmo sul divano.
-Che succede?- domandò John, impaurito.
Il medico sospirò.
-Ho visitato sua figlia, prima. E sono rimasto abbastanza colpito nel notare
un particolare...- continuò.
-Cosa?-.
Lui alzò la mano.
-Non è niente di grave, stia calmo. Anzi. E' qualcosa che non mi sarei mai
aspettato di vedere in sua figlia. Qualcosa che... giuro, io sono rimasto
sorpreso e lo sono tutt'ora nel darvi la notizia-.
Io alzai gli occhi.
Illuminato.
Forse perchè sapevo, immaginavo.
Nutrivo dentro di me che la morte non era l'unica cosa che mi teneva
legato a lei... Non più.
-Signor Rosenberg, Jane aspetta un figlio-.

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Mother ***


Fissai l'uomo avanti a me.
Poi, abbassai lo sguardo.
In una giornata così orrenda, in una notte così tetra, come poteva
quell'ultima frase illuminare l'intera stanza?
Come poteva quel corpicino così fragile, tenermi in vita?
Mi voltai verso John, la sua bocca stava tremando.
Gli occhi anche.
E le parole non uscivano.
Doveva ancora capire, doveva ancora accettare... che non tutto era
perduto, almeno non ancora.
Doveva ancora fare entrare nella sua testa il pensiero che quella sua
figlia malata ora si apprestava ad essere anche una madre malata.
Madre di mio figlio.
Una rosa che sboccia, ecco come riuscii ad immaginare Jane in quel
momento, senza pensare che esattamente in quell'istante si trovava
al piano di sopra, lottando tra la vita e la morte.
Il viso di suo padre, invece, riuscì ad inquietarmi.
-Si sieda, la accompagno- affermò il dottore, trattenendo il braccio
dell'uomo, che improvvisamente si sentì mancare le forze.
-Mia figlia... Non... Non è possibile... Tu? Lei? Ma quando?- domandò,
balbettando, il dito puntato verso di me, lo sguardo di chi non voleva
accusare ma bensì ricevere chiarimenti una volta per tutte.
Abbassai lo sguardo.
Non riuscii a rispondere.
-Non è questo il momento delle spiegazioni, John: sua figlia è malata. Qui
c'è in gioco la vita di Jane e del nascituro. Se mi concede, non può permettersi
di fare dei colpi di testa adesso, quindi si sieda e stia calmo- impose
il dottore con voce ferma e severa.
John riprese lentamente colore in viso.
-Ha ragione, dottore. Credo... credo che andrò a pregare dal
reverendo Edward- affermò John, alzandosi in piedi.
-La accompagno-.
Superai i due uomini mentre proseguivano per uscire di casa.
Gradino dopo gradino, oltre quelle fottute scale, io sentivo la morte
avvicinarsi al piano di sopra.
Ed il corridoio.
Non lo ricordavo così buio.
Quel lungo corridoio che non sapevo dove mi avrebbe condotto.
Arrivai all'ultima, quell'ultima dannata stanza.
La stanza a sinistra.
Le porte di vetro della graziosa terrazza avanti a me non erano spalancate
come le ricordavo l'ultima sera in cui mi ero trovato in quel posto.
Quella notte erano chiuse.
Ed eccomi, davanti a quella porta.
Avrei voluto scappare... ma scappare è troppo semplice.
Lo è sempre stato, per me.
Non potevo farlo perchè se l'avessi fatto nulla di ciò che ero sarebbe cambiato.
Io sarei rimasto Billie.
Billie che cerca Jane, ma non la trova.
Billie che trova Jane, ma ora Jane sta morendo.
E anche Billie.
Billie che ora vorrebbe buttarsi giù da quella terrazza, ma l'unica cosa che lo tiene
in vita è la mancanza di trovare il coraggio per compiere l'azione.
Tirai la maniglia, un odore strano.
Pungente.
Entrai.
La stanza era nell' ombra più totale.
Riuscii a notare l'insolita libreria, pochi libri a terra.
Notai molto disordine: una sedia rovesciata, abiti stesi lungo il cammino.
Ed infine, il letto.
Non era vuoto, come l'ultima volta.
Bianco, perfettamente in sintonia con lei.
Bianco il letto, bianche le lenzuola, bianco il suo vestito.
Di lei riuscivo a scorgere solo i capelli.
Troppo scuri.
Mi avvicinai al letto e mi sedetti.
In realtà, non mi misi a piangere, nemmeno a parlare.
Tra noi regnò un silenzio insormontabile.
Il suo sguardo si posò su di me, ma non disse nulla.
Le notti passano in fretta.
Sfumano, nel silenzio, i pensieri di una giornata passata.
Si placano gli animi, alla ricerca di uno sfogo da questa malinconia.
Il silenzio le fa da padrone.
E, come tutte le notti, anche questa sembra destinata a passare: svanire,
in che modo non ha importanza.
Che Jane la superi o ne sia giovane vittima, la notte passerà comunque.
Inevitabile.
Cosa ne resterà, dunque?
Non lo so.
So solo che quella mattina, mi svegliai accanto a lei.
Jane.
Ed era viva.
Ed a me rimanevano solo quattro giorni.

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** The White Pages Of My Life (First Part) ***


Bianco.
Solo bianco attorno a me.
O almeno, il bianco fu l'unico colore che notai tra le pareti di quella
stanza, appena riuscii a riprendermi dalla stanchezza di quella notte insonne.
Tutti gli altri colori erano irreali.
Insipidi.
Non esistevano più.
Il bianco mi entrò negli occhi.
E da lì non si mosse.
A me quel fottuto colore non era mai piaciuto realmente.
Il bianco porta luce, il bianco porta speranza.
Ed io e la speranza eravamo ai due lati opposti di una stessa strada.
Quel viale dei sogni infranti.
Quella vita così insensata.
Il bianco, l'ho sempre odiato.
Ricordo che quando mia moglie ebbe l'idea di regalarmi un completo bianco,
nonostante valesse l'oro, io lo buttai.
Così.
Senza riflettere.
Quel bianco ora mi perseguita, mi corre dietro.
Il bianco spento del letto, il bianco del suo vestito, il bianco del suo viso.
Nonostante fossero passate ormai le sette e trenta del mattino, Jane era ancora assopita.
Io, al contrario, ero troppo sveglio.
Troppo lucido, per riprendere sonno.
Così mi misi a frugare tra le sue cose.
Quello che più mi colpì fu la libreria, l'ordine con il quale Jane avesse distribuito ogni
cosa: un ordine che non era ben definito.
Era il suo.
Solo suo.
Nonostante io avessi sempre pensato che i libri andassero ordinati in basse alla tipologia,
genere oppure al colore della copertina, i volumi posati su quella libreria davano a
pensare che quello non fosse ordine.
Bensì, caos.
Non era piacevole alla vista, tutto ciò. Anzi.
Dopo pochi secondi, mi resi conto che quel suo modo di porre ordine mi infastidiva.
Mi irritava profondamente.
Aprii un libro.
Una pagina a caso.
Non c'erano numerazioni e le due pagine che mi si presentarono avanti agli occhi...
erano bianche.
Accidenti, pensai.
Con tutte le pagine possibili ed immaginabili, proprio queste mi sono capitate.
Voltai pagina.
Bianca anche quella.
E bianca anche quella dopo, così come quella dopo ancora.
Sfogliai il libro frettolosamente.
Un libro vuoto, mai scritto.
Rimasi alquanto stupito.
Niente autore, niente testo, niente di niente.
Lo rimisi al suo posto e ne afferrai un altro.
Non credetti ai miei occhi.
Bianco anche quello.
Uno dopo l'altro, mi misi a sfogliare tutti i libri presenti in quella maledetta
stanza e con le mani tremanti appresi che nessuno di questi era stato mai scritto.
Nessuna traccia.
Nessun autore.
Libri mai scritti, perchè conservarli così accuratamente?
Non aveva senso.
Mi sedetti sul letto, impietrito.
In quel momento, una mano si posò sulla mia spalla.
Jane era seduta sul letto affianco a me, mi fissava.
-Cosa stai facendo?- domandò, notandomi leggermente sconvolto.
Io scossi la testa.
-Come stai?-.
-Cosa stai facendo?- ripetè lei.
Sospirai.
Lei posò lo sguardo su ciò che tenevo in mano e, senza preavviso, me lo strappò
dalle mani, graffiandomi con le unghie.
Si avvicinò alla libreria ma prima di rimetterlo al proprio posto si accorse che
tutti gli altri accanto erano stati spostati.
Da me, ovviamente.
Fu colta dalla disperazione.
Misi una mano tra i capelli, con sguardo pentito.
-Non volevo toccare le tue cose- ammisi, - ero solo... curioso-.
Lei non si voltò.
-Sono dieci anni che lo cerco-.
-Cosa?-.
Non rispose.
-Cosa cerchi?-.
-L'ordine perfetto-.
Ero allibito.
-Cerchi l'ordine... Per sistemare libri mai scritti?- domandai, alzandomi.
Lei non rispose.
-Mi sento strana- ammise.
Non ero pienamente convinto che Jane sapesse della sua gravidanza, quindi
decisi di rimanere calmo: non potevo certo sbatterle in faccia che avremmo
avuto un figlio nel giro di pochi mesi.
Quella situazione era a dir poco assurda.
Solitamente, sono le donne che dichiarano agli uomini di aspettare un figlio.
In quel caso, invece, ero io a dover dire a Jane ciò che le sarebbe successo.
Ciò che ci sarebbe successo.
Le cose si fanno in due, anche se io e lei siamo uno e basta.
L'altro lato di noi stessi.
Mi accorsi che per quanto cercassi di usare un pizzico di buon senso con lei,
non c'era una seconda via d'uscita: tutto riportava ad un'altra dimensione.
La sua.
Non ho mai capito se lei sapesse la portata delle parole che proferiva, ma ero
sicuro che a quelle stesse parole lei desse un senso.
Non conoscevo esattamente la definizione di normale.
Per me la normalità non è mai esistita.
Eppure lei, riusciva a destabilizzarmi, buttando all' aria anche quei pochi cocci
della mia scellerata visione di normalità.
Mi portava ad accettare quel suo modo di essere, quelle sue parole, quei suoi
gesti inconsulti.
Mi portava ad accettare lei, anche se sapevo che accettandola senza pensare
di poterla cambiare, mandavo a puttane tutta la concezione di me stesso che a
fatica ero riuscito a costruire in quegli anni.
Eppure, io non volevo cambiarla.
Jane era così.
Dannatamente imperfetta.
Dannatamente me.
Avrei sempre voluto rispondere con tono sensato alle sue affermazioni insensate,
ma non ci sono mai riuscito perchè la ragione del mio tormento verso di lei discende
proprio da questo: nonostante quelle maledette frasi fossero insensate, nell' anima
io le sentivo profondamente vere.
Non è vero che tutti muoiono.
Non è vero che l'ultima morte è sempre quella più dolorosa, come non è vero
che di morte ne esiste solamente una.
C'è la morte della fede, la morte della speranza.
La morte dell'anima.
La morte può arrivare molto prima di quello che si possa pensare.
E forse, molte persone già morte dentro nemmeno sanno di esserlo.
Era arrivato il momento di uscire allo scoperto, una volta per tutte.
Era arrivato il momento di mettere in chiaro le cose, posare tutte le carte in tavole
e scoprire, finalmente, chi tra noi due fosse il giocatore più forte di quella partita.
Forse, era il momento di fare chiarezza in quell'oblio.
-Jane, tu chi sei?- domandai, secco.
-Non evitare la domanda, non darmi una riposta che non merito. Dimmi solo chi sei tu-.
La misi di fronte alla sua paura più grande: la verità.
Chi sei?
Ma soprattutto, cosa sei?
Cosa vive dentro di te?
-Sono il passato- affermò.
Mi sedetti sullo sgabello, affianco a lei.
-Sono il presente, sono il futuro. Sono una vita mai vissuta. Non deve importare chi sono,
devi capire cosa sono- continuò.
La fissai, occhi sbarrati.
Silenzio.
-Sono amore vero-.
Mi alzai, feci qualche passo.
Pensai a cosa dirle.
E come dirle...
I miei occhi puntarono il calendario appeso al muro, avanti a me.
In quel momento io avvertii tutto il peso del tempo, che scorreva inesorabile senza
che potessi fermarlo.
I minuti diventarono ore, le ore diventarono giorni.
A me, ne mancavano solo tre ormai.
Tre giorni al fatidico appuntamente con il resto del mio gruppo.
Mike, Trè, i miei amici, i miei collaboratori, i miei parenti, i miei figli, Adrienne...
Il tempo mi parve dilatarsi.
Gli attimi sfuggono.
Non ne avevo più, di tempo.
Era esaurito, ormai.
Dovevo dirle...
Dovevo affrontarla...
-Io devo fare in modo di non perderti mai più. Il tempo scorre. E' tutto troppo veloce...-
dissi, quasi senza saliva in bocca.
-Come?-.
-Ma non l'hai capito? Ti sto chiedendo di sposarmi, ragazza-.


Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** The White Pages Of My Life (Second Part) ***


In quel momento, qualcuno bussò alla porta della camera.
John.
-Billie?-.
I nostri occhi continuarono a fissarsi.
L'eco della mia domanda persisteva ancora nell'aria.
Ma la ragazza non mi rispose.
Rimase in silenzio, chiedendosi probabilmente quale sarebbe stata la
risposta più giusta da dare alla mia folle richiesta.
-Sì?- domandai, verso la porta chiusa.
Guardai la ragazza, non fece alcun cenno.
-Sì- risposi al mio interlocutore.
John aprì lentamente la porta, aspettando alcuni secondi prima di osservare
la stanza (colto forse dall'imbarazzo).
Non notando nulla di strano, aprì completamente la porta, rimanendo sull'uscio.
-Jane!- esclamò, esterrefatto, osservando la figlia in piedi.
Corse da lei, afferrandole le mani.
Stravolto dalla felicità.
-Sei in piedi! Come... Torna a letto!- disse.
Io lo bloccai.
-Sta bene- affermai.
In seguito mi pentii di ciò che avevo appena fatto. In fondo, non avevo alcun
diritto di allontanare John da lei, pur tenendo conto che il figlio di Jane era
anche il mio. Non avevo il diritto di dividere, anche se inconsciamente, padre
e figlia: ma tutto ciò che riguardava lei un pò mi apparteneva.
Ed io ne ero geloso, terribilmente geloso.
-Io...- farfugliò John.
-Lei?- .
-Io sto andando dal reverendo Edward. Mi domandavo se... verresti con me?-
chiese, rivolgendosi al sottoscritto.
Soffocai una gelida risata.
-Io con la religione non ho nulla a che fare. Non ho mai pregato nella mia vita
e non credo che lo farò mai, non fa parte di me- ammisi, schiettamente.
-Vieni con me dal reverendo- ripetè.
Io scossi la testa.
-Non possiamo lasciare Jane da sola in casa, dopo quello che è successo- dissi,
tentando di dissuaderlo dalle sue intenzioni.
-Al piano di sotto c'è la signora Hewitt, la mia vicina: è lei che ha tenuto Jane
quando era piccola, le terrà compagnia in queste ore-.
Non ero pienamente convinto di voler andare: affrontare un demone a mani
nude non era semplice.
Mi arresi, accettando solamente di accompagnare l'uomo.
Salutai Jane e scendemmo le scale.
La Saint Chad's Chattedral è uno dei luoghi culto più importanti nella panoramica
della città: proprio qui operava questo famoso reverendo Edward, molto adorato
dal padre di Jane e dall'intera comunità religiosa.
Affrontare quel prete non mi entusiasmava, anzi, per me voleva dire portare
a galla vecchi rancori.
Non sono mai stato un uomo religioso, l'ho sempre ritenuto un modo assurdo
per sfuggire alla triste realtà della vita. Non riuscivo a trattenere il mio disprezzo
verso quel mondo, così lontano dal mio, così assurdo.
Entrammo.
Seguii John, si dirigeva verso la stanza circolare.
Le immagini che si presentarono avanti a me, aumentarono il mio malessere
del momento: il fatto di trovarmi lì non mi portava tranquillità.
Dalla porta alla nostra destra, venne avanti un uomo.
Alto, capelli grigi, occhiali.
Tutto ciò che mi faceva ricordare l'immagine di un prete.
John gli presentò la mano, con l'altra tenne il cappello.
-John! Mi ha fatto piacere la sua visita di ieri sera, non pensavo che sarebbe venuto
a trovarmi anche questa mattina. O almeno, non così di buon'ora- ammise.
-Ho bisogno di parlarle di Jane...-.
-Come sta sua figlia? Si è ripresa? Cosa la tormenta?-domandò.
John indicò la mia persona.
-Lui è Billie, non si preoccupi se nota un volto familiare in lui, è un personaggio
molto conosciuto- affermò John, sorridendomi.
-E' la prima volta che la incontro, Billie. Sia il benvenuto nella casa del Nostro
Signore- mi disse l'uomo.
Io lo fissai, da capo a piedi, ma il mio sguardo non lasciò intendere nulla.
Mi tese la mano, io non la presi.
-Allora, Billie... vuole seguirmi nelle mie stanze? Ho idea che le abbia molto di
cui discutere-.
-Non ho niente da dirle- ribattei, secco.
Nonostante la mia risposta, il prete si allontanò avvicinandosi alla porta dalla
quale era appena uscito. John, invece, andò a sedersi.
Con passo lento, seguii l'uomo, che mi indicò di raggiungerlo.
Ci trovammo in una stanzetta.
Il prete si sedette, libro alla mano, volgendo lo sguardo avanti a se.
Io mi sedetti al suo fianco, gambe distrattamente accavallate.
-Stia bene a sentirmi, prete- iniziai.
-Non sono venuto qui per ascoltare i suoi fottuti discorsi, se mi trovo qui è solo
per accompagnare il padre della donna che amo. Quindi si tolga dalla mente di
potermi fare da confessore, io non ho niente da dire ne a lei ne al suo Dio-, sbottai,
irritato, tenendo a fatica il filo del discorso.
Padre Edward si tolse gli occhiali.
-Esiste un solo Dio, Billie, per tutti- affermò.
Io iniziai a ridere sonoramente, alzandomi in piedi.
-Ahahah... DI0- urlai, guardandomi attorno, - Dio... dov'è? Lei lo vede, lo ha mai visto?
No, perchè, sa, se così fosse dovrebbe spiegarmi dove si trova questo famoso
''Dio'' o come lo chiamate voi. Sa, io lo odio. Odio tutto ciò che lo riguarda, odio tutto
ciò che lo rappresenta, odio tutti quelli che ne parlano. Odio tutto questo- ammisi,
indicando la stanza.
-Io... Io penso che voi siate solo un branco di smidollati ipocriti illusi. Perchè non
posso essere io, Dio? Non sarei forse più umile, non farei forse più carità? Non aiuterei
forse tante disgraziate famiglie allo sbaraglio? Tante fottute persone miserabili?
Non è forse questo vostro Dio che ha creato questo mondo? Non è forse per colpa
sua che se ne vanno i figli, i padri, i mariti, le mogli?Andiamo, guardiamoci in faccia...
Dio non esiste. E se esistesse... vorrei ammazzarlo-.
Troppo preso dal mio sfogo, non mi resi realmente conto della natura blasfema delle
parole che avevo appena pronunciato, ne tantomeno mi chiesi quale poteva essere
la reazione di quell'uomo di chiesa di fronte ad esse.
Così forti, avevano sorpreso anche me.
Non riuscii però, ad intravedere dell'odio nel suo sguardo.
Tutto ciò mi provocò un ulteriore fastidio.
Avevo appena messo in discussione la sua fede, eppure lui... lui non sembrava esserne
affatto turbato, per nulla sconvolto.
I suoi occhi lasciavano trasparire solo compassione nei miei confronti.
-Me ne vado- sbottai, afferrando la giacca appoggiata alla sedia.
-Io penso invece che tu sia un uomo molto coraggioso-.
Ero ad un passo dalla porta, mi fermai.
-Lei non sa un cazzo di me- ribattei.
-Ci vuole coraggio per fare quello fai, ci vuole ancora più coraggio per essere ciò
che sei. Ma tu, come stai?- domandò.
Non riuscivo a credere alle mie fottute orecchie.
Non volevo credere alle mie fottute orecchie.
Era da tempo che non sentivo pronunciare più quella domanda.
Erano mesi, anni forse, che nessuno si degnava di chiedermi come cazzo stavo.
Alla gente importava solo che io rimanessi una star indiscussa, con molta vita attorno,
nessuno si era mai realmente chiesto come diavolo stavo, cosa pensavo, cosa volevo.
Nessuno.
Ne Mike, ne Trè.
Mia moglie ancor meno.
Bastava solamente che io rimanessi, ai loro occhi, il Billie di sempre: quello carico,
quello che non ha paura di nulla (o meglio, finge di non aver paura), quello che ha
sempre vissuto giorno dopo giorno come se non potesse più vivere l'indomani.
Erano tutti fottutamente convinti che io stessi bene, che avessi ancora voglia di
spaccare il mondo. Questa voglia, in realtà, era venuta a mancarmi già da molto tempo.
Eppure, nessuno se ne era mai accorto.
Avevo l'impressione che nessuno volesse più scavare a fondo nell'anima, per
poter comprendere il forte disagio che accompagnava i miei giorni.
Nessuno, tranne quell'uomo.
Le parole giuste, quali erano?
Da dove dovevo partire? Da Jane, da mio padre?
Oppure dai continui viaggi attorno al mondo che mi affaticavano?
Dalla mia giovane malattia?
-Fino ad un anno fa...- iniziai, posando la giacca, -sapevo chi ero, sapevo tutto. Ora non
so più nulla. Mi guardo allo specchio e fatico a riconoscermi. Non so più chi sono, non
ho più coscienza di me stesso. Tempo fa... credevo di fottere il mondo. Invece, mi sono
accorto che l'unico ad essere fottuto sono stato io. Ho sposato mia moglie molti anni
fa, era la donna della mia vita...-.
Mi sentii crollare.
Le forze mi stavano nuovamente abbandonando.
-Io... Io non sono più l'uomo che sono sempre stato, non sono più l'uomo che credevo
di essere. Tutta la mia vita mi sta opprimendo e la persona che vedo in televisione non
esiste più. Ero convinto di avere tutto ciò che si potesse desiderare, ma ora... ora più
mi guardo indietro più vedo che in realtà non ho nulla. Sto crollando, forse sono già
crollato. Non so più cosa sto facendo, sono vent'anni che tradisco mia moglie con
un uomo... un uomo che viene a casa nostra tutti i dannati giorni. E lei... Lei lo ama come
se fosse suo fratello, cazzo!- urlai.
Mi voltai.
-Guardi, cazzo. Guardi bene. Guardi cosa sono diventato. Ma quale rockstar, ma quale
celebrità! Mi guardi! Non so più riconoscere la realtà... La verità è che io... io sto
morendo-.
Silenzio.
-Ti capis...-.
-NO, LEI NON CAPISCE- urlai, arretrando.
-C'è qualcosa che ami ancora nella tua vita?C'è qualcosa per cui tu ti senta ancora vivo?
Se c'è, devi inseguirla, devi afferrarla perchè solo quella è la tua ancora di salvezza. Se
non hai più voglia di vivere, devi trovare un motivo per farlo. Devi ritrovare te stesso-
affermò l'uomo.
C'era qualcosa che ancora mi teneva in vita.
C'era qualcosa che amavo profondamente.
Ma come potevo amare qualcosa che facesse parte di me, se tutto ciò che detestavo era
proprio la mia immagine? Come potevo provare tanto amore e tanto odio?
-La verità è che io non ho più tempo... arrivederci- dissi, uscendo di scatto dalla porta.
Mi affrettai a percorrere la sala d'uscita senza guardarmi inditro, un pò come avevo
sempre fatto nella mia vita.
Ero sulla strada di casa, quando il telefono maledetto squillò nel taschino.
Pensavo fosse spento.
Non sapevo se rispondere o meno, alla fine pensai che poteva trattarsi anche di Jane.
Quindi risposi.
-Sì?-.
Un attimo di silenzio.
-Big?-.
Trè.
Era da molti giorni che non avevo sue notizie, tuttavia la sua voce era talmente bassa
che stentai a riconoscerla.
-Big! Non posso parlare molto al telefono, solo qualche secondo- ammise il batterista.
-Dove sei?- domandai.
-Rinchiuso dentro uno sgabuzzino dell'albergo, sono in incognito, gli altri non sanno
niente. Mike mi ha fatto promettete che non ti avrei chiamato. Dove sei?-.
Io non risposi.
Mi si gelò il cuore.
-Sono preoccupato, Big... Per te, per noi, per tutto il resto. Qui le cose non vanno bene,
cosa sta succedendo? Perchè siamo rinchiusi in questo fottuto albergo?- continuò.
-Io... Io non so se verrò- ammisi, gelido.
-Cosa significa?-.
-Sto disfacendo tutto, Trè-.
-Cosa vuol dire, Bi...-.
-Vuol dire che mercoledì non tornerò con voi-.
Silenzio.
-Tu... Ma che stai dicendo? Vuoi mandarci tutti a gambe all'aria? Vuoi distruggerci?
Perchè? Cosa sta succedendo, cazzo?- chiese, stizzito, alzando la voce.
-Succede che sto uscendo dal gruppo... e voi dovete dimenticarvi di me-.
Riattaccai il telefono e lo spensi definitivamente.
Fece una brutta fine, a dire il vero.
Il primo cestino incontrato durante il tragitto divenne la sua nuova dimora.
Non avevo altri mezzi per ritornare alla casa di Redditch se non quello di prendere
il treno.
Così feci.
Una volta arrivato, venti minuti dopo, suonai al campanello di casa Rosenberg e ad
aprirmi fu l'anziana signora Hewitt.
-Sì?- domandò con sguardo interrogativo.
-Può andare- ordinai.
-Ma io... Stavamo facendo il thè, io e Jane. Il signor Rosenberg ha detto che...-.
Io la spostai bruscamente al di fuori della porta.
-Molto gentile, arrivederci- dissi, chiudendole la porta in faccia.
Andai nella sala, cercando la ragazza, ma non la trovai.
Era al piano di sopra.
Iniziai a salire le scale.






Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** Life ***


Le sorrisi.
Sorrisi al suo viso, alla candida espressione che lo attraversò non appena mi vide entrare.
L'eco della mia domanda creava un muro attorno a noi, invalicabile.
Chissà cosa stesse pensando lei di me, chissà come avesse appreso il fatto che io
volessi letteralmente buttarmi alle spalle la mia vita passata.
Chissà se mi amava davvero o era solo il folle destino ad aver scelto per lei.
Chissà se già sapeva che quello stesso destino mi aveva imposto di diventare il padre
di suo figlio. Io l'avevo accettato.
Non poteva evitarlo, quel destino.
Qualcosa di grande ci avrebbe travolto, capovolgendoci... e non sapevo se ciò avrebbe
giocato a nostro favore oppure contro.
Non poteva evitarlo, doveva accettare la realtà dei fatti.
E buttarvisi dentro, a capofitto.
-Guardami- ordinai.
-Ti guardo-.
-Non c'è tempo per continuare a rincorrersi. Il tempo per questi giochetti è finito, ragazza.
Svanito. Questo è il momento delle decisioni, io la mia l'ho già presa... Ora spetta a te-.
Lei sbattè le ciglia, per riportare se stessa alla realtà che stava vivendo.
Non rispose.
-Jane!- ripetei, afferrandole un braccio.
-Qualcosa di grande ti succederà- affermai poi, sussurrandole all'orecchio.
I suoi occhi si illuminarono, ma la verità era molto lontana per essere compresa.
D'un tratto emise uno strano verso, come se si fosse svegliata da una sorta di come,
come se improvvisamente avesse compreso le mie parole.
Come se avesse sentito scorrere al suo interno la nostra presenza.
Ma tutto ciò mi parve assurdo.
Non poteva sapere...
Non sapeva.
Iniziò a toccarsi le braccia, il collo, l'addome ed a sospirare affannosamente.
-Calmati!-
-Billie, non posso... Cosa mi succede?-.
-Niente-.
-Billie...-.
-Ascoltami- risposi - Quando succederà... te ne accorgerai. Non ci sono spiegazioni, tu...
tu capirai. Devi solo pensare a rimetterti in piedi, adesso-.
Si alzò, traballante.
-Mi ricordo la prima volta che ti ho vista. Ricordo... ricordo esattamente com'ero vestito,
ricordo quella fottuta maglietta andata perduta in mezzo ai capi da buttare. Ricordo... che
contavo i passi che mi allontanavano dall'albergo. Ricordo... le luci di quel grande
magazzino, ricordo di essere riuscito così bene ad immedesimarmi tra la folla da dimenticare
per un attimo di essere me stesso. Ricordo te, quel tuo sguardo da ragazzina ferita, incazzata.
Ricordo il tuo rifiuto, le tue urla, il tuo rancora verso me, il mio nome, la mia vita. Ma quel
che più ricordo è stata la visione del nostro futuro, quella che mi ha permesso di andare avanti.
Mi è venuta quella stessa notte in albergo, era così assurda. Però è strano, sai... Perchè in quel
sogno non eravamo in due. Eppure... eppure io ci ho creduto, ci ho creduto davvero. E adesso
sono qui, ti amo. E presto, molto presto, quella visione sarà realtà-.
Avevo esaurito le parole, avevo esaurito le scuse.
Lo scontro era finito.
Ora, rimanevano solo le ferite del combattimento e chissà se si sarebbero mai rimarginate.
Chissà se sarei stato un buon padre, chissà se tutto ciò che stavo facendo era giusto.
Ma d'altronde, cos'è il giusto?
Esiste davvero una scelta giusta ed una sbagliata?
Niente è sbagliato se ti rende felice e niente è sbagliato se ciò che fai lo fai con il cuore.
Una cosa sola era certa: non era più Jane, la ragazzina tormentata.
Ora era madre e non poteva sfuggir a se stessa perchè sfuggire a se stessa voleva dire
rinunciare alla rinascita... e per rinascere doveva combattere.
Ma combattere è dura: lo sanno tutto, lo so io, lo sa lei, lo sa il mondo.
E' più facile lasciarsi andare, è più facile dar spazio all'oscurità di noi stessi.
-Ora voglio stare solo, ho una notte difficile avanti a me- dissi, indicandole la porta.
Lei non se lo fece ripetere de volte, uscì dalla stanza trascinando il velo bianco.
22.10.
Questo era l'orario segnato accanto a me.
22.11.
Ecco, un minuto era già passato da quando avevo distolto lo sguardo dalle lancette dell'orologio.
Stavo lì, seduto sul letto, i capelli tra le mani.
La mete ancora troppo offuscata dai tanti interrogativi.
D'un tratto, bussarono alla porta.
John, probabilmente venuto al piano di sopra per domandarmi il motivo della mia assenza
a cena. Bussò una seconda volta ed una terza.
Io non risposi, tantomeno andai ad aprire.
A quel punto, non udendo risposta, probabilmente se ne andò: riuscii a sentire il rumore
delle sue scarpe svanire nel corridoio.
Povero John.
Che ne sapeva dei pensieri che mi albergavano nel cervello?
Poteva immaginare che quella notte sarebbe stata la più importante della mia vita?
L'indomani, verso notte, avrei avuto un aereo.
Un aereo che mi avrebbe riportato a casa, lontano da quella fottuta realtà.
Mi vennero in mente le parole dette a Trè, la mia rabbia, il mio distacco.
Ma che cazzo stavo facendo?
Stavo buttando all'aria vent'anni della mia vita, stavo disfacendo tutto.
Stavo lasciando il gruppo.
Perchè? Perchè ora, mi trovavo costretto a prendere quella maledetta scelta?
Perchè non potevo essere felice?
In altre parole... perchè la vita è una merda?
Avrei voluto nascondermi: scappare, fuggire, tornare, arrendersi, vivere o morire?
Sopravvivere, tutta la vita?
Un altro fottuto giorno? Un'altra fottuta notte? Con o senza Jane?
Ma lei sentiva, dietro quella porta chiusa: lei si raggomitolava nella sua debole figura.
Accantonava, forse, per un attimo l'idea di essere nuovamente abbandonata.
Fingeva di non sapere... ma lei sapeva.
Già sapeva, aveva sempre saputo.
La porta si spalancò.
La paura si estese.
-Vai- disse.
Io rimasi seduto, mani sui capelli, battendo i piedi per terra.
-Non posso-.
-Vai, Billie-.
-No-.
Si avvicinò, stringendo le manichette della maglia, aggrappandosi a quella che credeva
fosse certezza ma che in realtà era solo apparenza.
-Mercoledì, a mezzanotte- sussurrò.
Scossi la testa.
-Mercoledì, alla mezzanotte, il tuo telefono squillerà. E sarò io... ora vattene-.
Mi strattonò, oltrepassandomi, per andare a sedersi sulla poltrona in fondo alla stanza.
Di spalle, sola.
Mi voltai verso la porta, appendendomi alla maniglia.
Ma prima di uscire, la guardai un'ultima volta.
-Mary Jane, non so il perchè ma tu... Tu chiamala Mary Jane- dissi.
Aprii di scatto la porta e la richiusi violentemente.
Un lungo viaggio mi aspettava, ma quello che più mi spaventava era trovare il
coraggio per non ritornare indietro.
Una volta fuori da quella casa, tornavo ad essere Billie Joe Armstrong.
E ciò mi spaventava.
Ciò, mi stava stretto.
Scesi le scale correndo.
Direzione aeroporto.
Direzione Berlino.
Direzioni tutte, tranne quella giusta.
Ma la vita è così: la vita è rinuncia, la vita è una continua lotta tra se stessi e
l'immagine di se stessi.
La mia, non combaciava più con quella reale.
La vita è vita, un attimo prima ti senti in paradiso... e l'attimo dopo stai fuggendo dall'
inferno, diretto verso il niente.
E' il conto dei passi che mi separavano dal mio volo verso la vecchia strada, è il mio
ultimo sguardo furtivo verso la casa di Redditch, è il sospiro affannoso di chi si
sente morire dentro.
La vita è così, va presa o lasciata.
Non c'è un' alternativa, noi questo lo sappiamo, eppure all'aumentare della nostra
consapevolezza aumenta anche il nostro interminabile dolore.
La vita è dura e lo sappiamo, eppure ancora continuiamo a farci del male, ancora continuiamo
a sbatterci la testa contro.
Perchè in realtà se non si rischia non si vive, se non si sente male si è morti.
Per quanto la cercassi, quella dannata alternativa, mi rendevo conto che non ero
io a scegliere, bensì lei. La dannata vita.
Arrivai all'aeroporto di Birmingham verso le due di quella notte.
Mi ritrovai con il biglietto in mano: bello, nuovo, scintillante.
Era il mio biglietto d'uscita di scena e dovevo conservarlo.
Sospirai.
Girandomi, mi accorsi che un ragazzo stava appoggiato ad una colonna.
Mi osservava molto attentamente.
-Scusa, ma tu... Sei Billie Joe?- domandò, con il suo accento inglese.
Io alzai gli occhi.
Grave errore: chiunque mi avrebbe riconosciuto guardandomi negli occhi.
-No, hai sbagliato persona- ammisi, superandolo.
-Ma... hai una somiglianza incredibile con lui!- affermò, posando la sua valigia.
Mi voltai.
-Me lo dicono tutti, ma... credo che Billie Joe Armstrong non sia sfortunato come me-
risposi, lasciando al ragazzo le sue domande.
Me ne andai.

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** The New Man ***


Arrivai all'entrata principale dell'albergo.
Dalla fretta furibonda riuscii quasi ad inciampare sugli scalini
innevati e per poco non caddi all'indietro.
Mi rialzai, appendendomi alla maniglia del portone.
I camerieri nella sala si voltarono a fissarmi con aria confusa,
d'altronde non mi ci volle molto per capirne il motivo: il colore
del mio viso era leggermente violaceo, i capelli spettinati dal
vento e le labbra secche mi rendevano una persona irriconoscibile.
Colpa del freddo pungente e della neve, pensai.
Corsi verso la reception.
-Salve- dissi, tentando di ricompormi.
-Lei è?- domando l'uomo avanti a me, osservandomi.
-Armstrong, i miei colleghi sono rimasti qui qualche giorno in più
del previsto. Sicuramente avrà parlato con il mio assistente, Tim
Baker- risposi, poggiando le mani ai fianchi.
L'uomo aprì un grosso libro ed iniziò a scorrere i nomi con il dito.
Attesi qualche secondo.
-Ah...- disse improvvisamente.
-Può dirmi in che stanze posso trovarli?- chiesi.
-Mi dispiace, signor Armstrong, i suoi colleghi hanno lasciato l'albergo
questa mattina. A quello che mi è stato detto, si sono già recati in
aeroporto-.
Sgranai gli occhi ed il mio sguardo si posò sull'orologio al polso dell'
uomo: erano le cinque del pomeriggio.
Il nostro volo era previsto per quella sera.
Non conoscendo l'orario esatto della partenza, nemmeno correndo come
un razzo sarei riuscito ad arrivare in tempo all'aeroporto.
Sarebbero potuti partire prima, oppure dopo.
Forse erano già partiti.
O forse, non sarebbero partiti più.
Ma quella era un'opzione che avrebbe messo fine a tutte le mie preoccupazioni.
Sarebbe stata la soluzione a tutti i dannati problemi.
Ma i problemi, se si chiamano in questo modo, non hanno soluzioni facili.
Anzi.
Non salutai neppure, le mie gambe presero a correre nuovamente verso
l'uscita, come se fossero percorse da una scossa d'adrenalina improvvisa.
Mi stavo perdendo.
Mi stavo perdendo seriamente.
Non conoscevo la città, Berlino era nuova ai miei occhi americani.
Una città travolta dal gelo invernale di quei mesi, mi parve di riconoscerla.
Mi parve quasi di averla già percorsa una volta, o più volte, nei vicoli
sperduti della mia mente.
Così, correvo a perdifiato, pensando al discorso più opportuno da fare una
volta tornato nel nuovo continente.
Cos'avrei raccontato ad Adrienne?
Adrienne.
Quella donna che attendeva il mio ritorno, abbracciata ai miei figli.
Incurante di tutto ciò che mi era capitato lontano da lei.
Cosa avrei detto a Mike, cosa avrei detto agli altri, ma soprattutto... cosa
avrei raccontato a me stesso?
Un'altra menzogna, un'altra fottuta scusa per tornare a guardarsi negli
occhi come un tempo? Come sarebbero andate a finire  le cose, con che
forza avrei recuperato il mio gruppo, la mia vita, me stesso?
Avevo solo una certezza, in mezzo a tanti dubbi.
Ero partito Billie Joe Armstrong, fottuto frontman di una band conosciuta
in qualsiasi parte del mondo: quel Billie Joe Armstrong, quello che tutti
ricordano per essere troppo se stesso, troppo sincero, troppo grande.
Ed ora quel Billie Joe tornava.
Ma benchè tornasse un uomo fisicamente identico a quello che era partito
(tralasciando gli evidenti segni della mia malattia), in realtà non era lo stesso
uomo. Smisi di correre, sentendo mancare il fiato, quindi iniziai a camminare
velocemente per non perdere il passo.
Mi misi a ridere.
Sì, Dio.
Ridere pensando al fatto che tutti i miei pensieri si accavallassero costantemente
su me stesso, su quello che ero diventato.
Mi avrebbero visto sì, ma avrebbero riconosciuto in me un uomo diverso?
Si sarebbero finalmente accorti della mia sofferenza o avrebbero nuovamente
sviato la realtà rifugiandosi nella mia vecchia immagine?
Avrebbero notato nei miei occhi il riflesso di Jane?
Ma no.
Certo che no.
Jane la vedevo solo io.
Ne intuivo l'essenza.
Ne aspiravo l'anima.
Non potevo sbarazzarmi di lei, perchè... lei è una parte nascosta, adagiata sul
fondale nel quale annego costantemente.
Lei è una parte di me, una parte di tutti noi.
E' il niente, è il tutto.
E' il mistero di me stesso, quello che nessuno riesce a vedere.
Beh, nessuno tranne lei, perchè lei ne è parte.
Si erano già fatte le sei del pomeriggio.
Il tempo sembrava scorrere come granelli di sabbia tra le dita.
Le mie gambe davano segni di cedimento, erano ventiquattr'ore che correvo come
un dannato da un Paese all'altro dell' Europa.
Una volta in America, starai seduto sul divano per circa una settimana, credetti
ordinassero severe le mie gambe.
La stanchezza cominciava a prendere il sopravvento metro dopo metro.
La città era grande, dannazione.
Mai grande quanto il tormento che mi affligeva all'idea di dover incontrare i
miei compagni.
Ancora poco, manca ancora poco.
Una volta arrivato alla stazione centrale, Flughafen, fermai un uomo all'uscita.
-Parla inglese?- domandai, con le poche parole conosciute in tedesco.
Annuì.
-Ascolti, devo andare all'aeroporto- dissi, ansimando.
-La direzione è sbagliata- rispose l'uomo.
-Quanto ci impiegherò per arrivare?-.
-Beh... Guardi, sono circa venti chilometri da qui-.
Venti chilometri.
Venti fottutissimi chilometri.
Era veramente una corsa contro il tempo.
Vedendomi in difficoltà l'uomo mi diede l'indicazione giusta da seguire per
arrivare all'aeroporto entro tarda sera.
Mi consigliò di prendere un autobus.
L'idea di essere nuovamente assalito dalla gente mi fece rinunciare a
quell' alternativa: non potevo correre rischi di alcun gente, non potevo perdere
tempo attendendo impaziente l'arrivo di un maledetto autobus.
I minuti erano contati e preziosi.
La strada era lunga ed io ero stanco, molto stanco.
Ma dovevo continuare quella folle corsa, dovevo raggiungere gli altri.
Avevo preso una decisione.
Non potevo battere la fiacca ed andarmene.
Scossi la testa, fermandomi.
E' la malattia, Billie.
Solo quella.
Ripresi a correre, mordendomi le labbra, tentando di convincere le mie
gambe a proseguire il cammino.
Si era fatto scuro ormai, i chilometri percorsi mi sembravano sempre troppo
pochi e la strada da percorrere ancora molta.
Veramente molta rispetto alla mia capacità di sopportazione.
Eccolo l'aeroporto, in lontananza: attende me, Billie.
Mi attende perchè la decisione l'ho già presa.
Il cammino andava via via accorciandosi.
C'era ancora tempo per tornare indietro? C'era ancora speranza per ritornare
sui miei passi, mandare tutto affanculo, riprendere in mano quella fottuta
realtà? Dov'era la seconda scelta, l'opzione di scorta, l'ultima carta da giocare
per concludere la partita?
Solitamente, ne esiste sempre una.
No, non questa volta.
E mentre spalanco la porta d'ingresso...so che non esiste quella seconda scelta.
Non c'è.
Non è reale.
E' andata svanita, perduta.
Mentre con una gamba tento di andare avanti e con l'altra vorrei tornare indietro,
ecco, che noto in un angolino mezzo illuminato della sala d'attesa i miei compagni.
Le loro valigie, le bibite in mano.
I cuscini sulle sedie, usati probabilmente per un pisolino nell'attesa di partire.
Tim, telefono sempre alla mano.
Chris, Jason e Trè: seduti.
Mike.
Rimasi immobile, come un idiota.
Ciò che vidi mi stupì, provai una certa paura.
Nonostante fossi abituato a vederli tutti i giorni, mi sembrò in quel momento
di vederli realmente per la prima volta nella mia vita.
Quella sera li vidi per la prima volta realemente per ciò che erano.
Tutto, tranne che simili a me.
D'un tratto, Tim posò il telefono e si diresse verso i ragazzi facendo loro
cenno di seguirlo.
Trè e Jason si alzarono per seguirlo.
Mi misi a correre.
Le urla di Trè, alla mia vita, risuonarono lungo i corridoi.
-E' arrivato Armstrong!- urlò Tim verso Chris.
Si voltarono tutti, Mike compreso.
-E cosa aspetti, fallo passare- ribattè Chris.
Tim mi fece segno di seguirlo, passando prima di lui.
I miei compagni si spostarono.
Mi ritrovai faccia a faccia con lui, Mike.
La mia promessa era stata mantenuta.
Nei suoi occhi non riuscii a notare nulla: apatia.
Il velo dell'indifferenza.
Stavamo per recarci al pulmino, senza proferire parola, quando mi sentii
afferrare la manica.
Mike.
Aspettò che i ragazzi si allontanassero di qualche metro.
Il cuore mi battè a mille.
Mi era mancato, molto.
Mi era mancata la sua presenza ed in quel momento mi accorsi che il
suo rancora mi portava solo amarezza.
-Mike...-.
-Sei stato di parola, sei qui. Ma io non perdono. Non perdono ciò che è
successo. Sono sempre stato dannatamente fragile con te ed in questi
giorni ho capito- disse.
-Cos'hai capito?- chiesi, velocemente.
-Sono vent'anni che decido di essere debole. Ora, invece, ho deciso di
essere forte. Sei libero, Billie. Libero da me, libero da noi. Non tornerò
indietro. Tra noi è finita e... quando dico finita intendo finita-.
La parola mi abbandonò.
Mike mi abbandonò.
I nostri ricordi in quell'istante vennero infranti.
Tutto mi sembrò così stupido, senza senso.
Ero solo, nuovamente solo.
E solo, com'ero arrivato, mi apprestavo a ripercorrere il cammino
sorvolando i cieli dell'America.


Cari lettori/lettrici.
Questo capitolo segna la fine del lungo flashback.
La storia riprende dal capitolo 1.
Ringrazio tutte le persone che continuano a leggerla.
A Dream Called Death



Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** Home ***


Jesus of Suburbia, la suoneria che mi avvisava di avere una chiamata in arrivo, interruppe il silenzio attorno a me.
Afferrai saldamente la ringhiera, le mie gambe tremarono ed avvertii un peso enorme sullo stomaco. Richiusi gli occhi, tremante. Poi li riaprii. Avanti a me, il gran viale di Oakland. Tutto attorno alla panchina sulla quale sedevo era avvolto nel silenzio, non c`era anima viva. Guardai l`ora: 00.01.
Afferrai il cellulare, poi lo misi all`orecchio. 
-Jane- dissi.
Silenzio.
Quel fottuto silenzio che uccide lentamente. Mi guardai attorno.
-Sono arrivato. Sono qui- continuai.
Lei sospirò.
-Perchè non parli?- chiesi ancora.
-Non ho niente da dire-.
-Ti prego, non riattaccare...- supplicai io. Continuai a guardare attorno a me, con la paura che qualcuno potesse avvicinarsi.
-Io non so... Non so se ce la farò, Billie. Non so come andrá a finire. Io qui e tu lì..- disse, in un sussurro. -Tu ce la devi fare, ragazza-.
-Questo è troppo. È troppo, Billie...- continuò lei, in un turbine di sospiri senza fine. Pensai che cominciasse a piangere, pensai di piangere con lei. Ma non ci furono lacrime, solo una leggera malinconia, un vento tiepido che mi spettinò i capelli.
-Presto saremo di nuovo insieme, ragazza. Io-io adesso sono partito, dovevo partire, ma tornerò. Tornerò e tu non sarai sola- dissi, confortandola.
-Tu sei famoso, io... Io sono solo una ragazza che ti ha conosciuto. Tu sei ricco, conosciuto da tutti, hai tanti amici. Io no... Io sono sola. Tu sei un uomo, mi hai voluta, mi hai avuta, sempre e solo tu. Io ora sento noi dentro di me. Cos`è successo? Perchè?-.
Rabbrividii.
Cos`era successo? Non lo so. 
Pensavo di essere sempre attento, vigile. Pensavo di essere lucido, ed invece, qualcosa di grande era successo ed io non ero riuscito a controllare nulla, ero stato rapito da un`emozione più grande di me, più grande di tutto: l`emozione di essere il solo ed unico per lei, era stata quella ad avermi fatto impazzire... E perdere ogni controllo di me stesso.
-Cos`è successo? Non è questa la domanda che dobbiamo fare adesso, non qui, non al telefono. Non lontani. Non lo so cos`è successo, ragazza, non voglio nemmeno saperlo. Bisogna accettare questa situazione, noi siamo umani e la natura ha voluto così- ribattei.
-Ragazza, io sono stato costretto a partire e tu lo sai. Sai che mai avrei voluto lasciarti, sai che mai vorrei stare lontano da te. Ora, per favore, raccogli le forze e vai avanti-. Detto questo, le diedi un`indirizzo di posta al quale avrebbe potuto mandare delle lettere. Poteva scrivermi, inviarmi delle fotografie, magari del bambino che cresceva. Le diedi anche il mio indirizzo e-mail privato, quello del quale Adrienne non conosceva l`esistenza. Non ero ferrato con la tecnologia ne con i computer, avevo bisogno di qualcuno che mi spiegasse come e cosa fare; pensai di chiedere aiuto a Trè, che ci capiva sicuramente più di me. Dissi a Jane di non chiamare più quel numero di telefono: ben presto avrei comprato una nuova scheda telefonica, poichè Adrienne avrebbe potuto ascoltare le chiamate oppure prendere in mano il telefono. Da quel momento in poi, da quando avremmo riattaccato, sarebbe partita la fase più difficile della nostra storia: la lontananza era tanta, insormontabile, e noi dovevamo essere abbastanza forti da sopravvivere ad essa senza lasciare che ci schiacciasse. Tutto doveva essere fatto in segreto, io non potevo tralasciare nulla: una telefonata di troppo, un messaggio, una mail, una lettera, qualsiasi cosa, avrebbe potuto insinuare dei dubbi in Adrienne oppure nei miei compagni. Jane rispondeva a ciò che le dicevo con un fragile «va bene» ed io sapevo che in realtà nulla andava bene. Non era così che sarebbero dovute andare le cose, non era così che ci si costruisce una famiglia, a migliaia di chilometri di distanza e senza speranze. Non era così che io avevo immaginato il mio futuro con Jane: pensavo saremmo stati insieme, felici, in una bella casa di campagna. Ed invece, io mi trovavo solo in mezzo al gran viale di Oakland e lei, la mia ragazza, era a casa sua, in Inghilterra. Io ero Billie Joe Armstrong, uno dei rocker più famosi d`America, l`ultimo album pubblicato con il gruppo aveva venduto milioni di dischi; lei, giovane ragazza, era l`altra parte di me. La conoscevo da tre mesi, Jane, e da me aspettava un figlio. O meglio, una figlia, io lo sentivo.
Tutto era diventato pesante, gli eventi si erano susseguiti troppo velocemente ed io non avevo idea di quello che fosse realmente successo e se tutto ciò che stavo provando in quel momento potesse ritenersi la fottuta realtá. Ma cosa diavolo era successo veramente? Idiota, penserete voi, tu sei un uomo e lei una donna; ci sei andato a letto e l`hai messa incinta. Grazie al cazzo, anch`io l`avevo pensato e continuavo a pensarlo, anch`io per un attimo avevo dato colpa solo alla natura. Siamo umani, dannazione, sono cose che succedono. Ma... Ma no, la veritá non era così semplice. Non era così che erano andate le cose: io amavo Jane, più di ogni altra cosa, possibile che quell`amore così forte, così testardo, potesse aver deciso tutto per noi? Possibile che dopo tante sofferenze, l`amore avesse detto "devo vincere io, io vinco sempre"? Così era andata. La veritá è che non eravamo padroni delle nostre vite, qualcosa aveva scelto per noi ed aveva scelto bene. Qualcosa aveva deciso che mai più ci sarebbe stato un Billie ed una Jane ma un insieme di noi e quell`insieme sarebbe diventato più importante di tutto. Qualcosa aveva imposto che ciò accadesse, non era colpa sua, non era colpa mia. Bisognava accettare quella situazione, bisognava andare avanti e guardare oltre perchè le cose non sarebbero cambiate mai più. Non potevano cambiare più. Dovevamo stringere i pugni, un giorno dopo l`altro, affrontare quelle ventiquattro ore pensando che ben presto le cose sarebbero andate meglio, dovevamo andare a dormire ogni notte pensando che il giorno seguente sarebbe stato migliore di quello passato. Dovevamo pensare che ben presto, molto presto, ci saremmo ritrovati ed avremmo potuto ancora una volta riscoprire le emozioni della notte a Berlino. Io non chiedevo altro. Era quello che dovevamo fare: semplicemente andare avanti, voltarci indietro solo per un secondo e ricordare cosa ci aveva spinti fino a quel punto. Dovevamo addormentarci pensando al nostro amore, e sapevo, io sapevo che le notti...erano quelle le più difficili da affrontare. Mi pareva di vederla ancora lì, accanto a me, sotto di me. No, non potevo perdermi ancora nell`abisso dei ricordi, non in quel momento. Io dovevo restare lucido, fermare la mente, non potevo vacillare: se solo uno di noi due si fosse perso nella disperazione o nella rassegnazione, saremmo andati entrambi a gambe all`aria. Non potevo tornare a casa ed in solitudine mettermi a letto, non potevo mostrarmi turbato ne afflitto, non potevo dare segni di cedimento; io dovevo essere quello di una volta, dovevo fingere di essere me stesso. Il vecchio me stesso. Se non l`avessi fatto, qualcuno avrebbe potuto sospettare che qualcosa non andasse bene ed era proprio quello che noi dovevamo evitare, io in particolar modo. Sembrava impossibile, tutta quella situazione pareva così irreale... Quanto era dura in quel momento ammettere di sentirsi dei falliti: possibile che mi sentissi un uomo inutile? Possibile che non riuscissi a ringraziare il cielo per tutto ciò che avevo? No, non ci riuscivo; più mi guardavo indietro, riguardavo tutti quegli anni di carriera, i miei pezzi, le mie celebri esibizioni, e più mi sentivo inutile. Un uomo inutile. Dovevo trovare un senso alla mia vita lontano da quella ragazza e dovevo farlo fin da subito, perchè i mesi successivi sarebbero stati terribilmente senza senso per me, senza lei. I mesi a venire sarebbero stati tetri, avvolti nel buio come quella notte, sarebbero stati i più duri per noi. E sapevo che ne sarebbero passati molti, infiniti, prima di poterla rivedere; quel pensiero mi uccideva. L`idea che lei non fosse lì con me, l`idea di essere così lontani e per chissà quanto tempo, l`idea che non avrei partecipato alla prima visita medica della sua gravidanza e quella pancia...quella pancia e quel seno che sarebbero cresciuti, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, senza che io potessi vederli, beh...no. Non credo esista persona sulla terra che in quel momento provasse ciò che stavo provando. Era ingiusto, maledettamente ingiusto. Era ingiusto quello che stava accadendo, non era così che le cose sarebbero dovute andare.
Si era fatto tardi. 
La strada da percorrere, a piedi, per quanto illuminata, mi parve ancora più buia delle altre notti.
Avevo ancora un pò di tempo per godermi l`aria fresca della notte, ci avrei impiegato quaranta minuti prima di varcare la porta di casa. L`unica cosa che volevo in quel momento era proprio camminare, lentamente, passo dopo passo, per lasciar scorrere i pensieri e liberare la mente prima di ritrovarmi immerso nel caos di casa. Come ci si sente quando si ha la certezza di non dover essere in un determinato posto? Come ci si sente senza l`altra parte di se stessi e senza possibilità effettiva di raggiungerla? Persone a metà, ecco come ci si sente. Ecco come mi sentivo e come in quel preciso istante molto probabilmente si sentivano altre persone nella mia situazione. Persone a metà, forse nemmeno persone. Nel tuo cuore, già debole, regna l`apatia più assoluta. Ti senti impotente, ti senti perso, niente riesce a farti stare bene e per quanto tu possa distrarti ti ritrovi sempre a boccheggiare alla ricerca dell`aria che ti manca nei polmoni. Brutto è sentirsi soli, così soli da doversi guardare attorno e non vedere nulla se non la propria ombra; brutto è sapere, con ogni fibra del proprio corpo, che nessuno possa aiutarti. Brutto è non vedere futuro avanti a se, ne in quel momento ne mai, scavare con le unghie nel terreno dentro se stessi e non trovare gallerie percorribili ma solo frane. Era così fottutamente angosciante quella dannata situazione! Avevo fatto solo casini. Solo fottuti casini, nella mia vita, eppure mi sentivo così innocente, come se nulla dipendesse da me, come se non fossi io ad aver architettato tutti i piani. Era come se qualcosa si muovesse per me, scegliesse per me, mi impedisse di reagire alle situazioni che mi si presentavano davanti. Ma cosa, cazzo? Forse ero io, io e nessun altro. Il casino non era fuori, nessuno architettatava piani ne li metteva in atto, forse il casino era solo dentro di me. Ed io l`avvertivo ma ci convivevo ormai da troppo tempo... Per me non era più casino, era ordine abituale. Sapevo che il problema non era il resto del mondo, mia moglie, Mike, Trè, nessuno di loro... Il problema era io. Il problema era dentro me. Il primo dei miei problemi in quel momento era il campanello di casa, quanto poco tempo avevo impiegato per arrivare alla tranquilla palazzina di Florence Terrance... Davvero poco. Avevo corso? O forse, piú semplicemente, non ero pronto a varcare la porta di casa ne lo sarei stato mai ed era proprio per quel motivo che mi era sembrato di averci impiegato poco tempo per arrivare.
Mi sedetti sulle scale del pianerottolo, dando le spalle alla porta ed osservando la finestra, dalla quale entrava il buio della notte. Trovavo rilassante il fatto di essere lì, da solo, senza nessuno che parlasse o che ascoltasse; qualche volta avevo bisogno di farlo, stare seduto da qualche parte e pensare, pensare alla mia vita, pensare a me stesso. Io stavo bene solo, era una sensazione che avevo sempre provato. Forse, perchè quando stai troppo nella solitudine, per quanto ti impaurisca, finisci con l`accettarla ed averne addirittura bisogno. Io amavo stare solo, avere i miei momenti di solitudine, senza nessuno attorno. Il pensiero che ben presto mi sarei ritrovato accerchiato dalle urla dei miei figli e dalla routine di quella casa, mi angosciava profondamente. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima di rivedere Jane, rivivere le emozioni della notte a Berlino. Chiedevo troppo, dannazione? Non chiedevo mica la luna, solo di rivedere la mia ragazza, una volta e poi un`altra ancora, fare l`amore con lei anche sopra una fottuta panchina, non importava dove ne come, ma solo il quando. Quando? Tra due giorni, due settimane, due mesi? Oppure due anni? Quando avrei rivisto Jane, quando avrei fatto l`amore con lei? Quando avrei provato di nuovo le emozioni di quella maledetta notte a Berlino? Non lo sapevo, io non lo sapevo. Ed era quell`interrogativo ad angosciarmi più di tutto, più del resto. Era quella domanda a risuonarmi nella mente ogni minuto, ogni ora. Non stavo vivendo, no. Quella non era vita, non è così che un uomo di trentaquattro anni poteva vivere. Un uomo a quell`età dovrebbe essere felice, sorridente, soprattutto se si chiama Billie Joe Armstrong, è uno dei leader di un gruppo famoso in tutto il mondo, detta stile e guadagna milioni. Io non mi nascondo di fronte ad un fottuto dito, non l`ho mai fatto ne mai lo faró. Non sono mai stato un ipocrita: ho sempre guadagnato in un giorno ció che una persona comune non guadagna in un anno di lavoro. Ma che cosa potevo farmene di quei fottuti soldi, se non sapevo come spenderli? Aprii il taccuino, guardai le banconote verdi. Poi guardai la carta di credito. Cosa ne avrei fatto di quei soldi? Sì, certo, mi aiutavano a vivere, avrei sistemato Joseph e Jakob per la loro futura vita, avrei pagato l`università o il college, avrei forse anche mantenuto i miei nipoti, figli dei miei figli. Ma io? Io cosa me ne facevo? Non li avrei mai potuti usare per la torta nuziale del mio matrimonio con Jane. Non avrei mai potuto pagare una luna di miele. Non avrei mai potuto acquistare la casa dove saremmo andati a vivere. Non avrei pagato gli studi di mio figlio... A cosa mi servivano, allora? Anche quelli erano soldi a metà. Erano lì perchè mi erano stati dati ma non servivano a nulla, non mi aiutavano. Avrei tanto voluto darli via ed in cambio avere la mia vita... Ma sapevo che non sarebbero bastati ne quelli ne tutti i soldi del mondo: la felicità non si compra.
Tirai fuori le mie sigarette dal taschino, ne accesi una. Il fumo si levò sopra alla mia testa, rimanendo sospeso a mezz`aria. I vicini mi avrebbero fulminato con lo sguardo: non si poteva fumare sulle scale, ne in ascensore ne sui pianerottoli. Ovviamente, io trasgredivo a quella regola e l`avevo sempre fatto: fumo dove cazzo voglio e quando ne ho voglia, quando sento il vuoto. Il vuoto non si può comandare, non sai mai quando e quanto ti sentirai privo di qualcosa. Chiusi gli occhi ed appoggiai la testa sul pavimento freddo, portando la sigaretta alla bocca. 
L`ultima cosa che vidi fu il fumo sopra al mio viso, poi sentii il rumore del tabacco bruciare. 
Poi, la stanchezza prese il sopravvento.

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** American Idiot ***


Ciao a tutti, volevo scusarmi innanzitutto per l'enorme ritardo con il quale posto i nuovi capitoli della storia. In realtà, avevo terminato la fanfiction, ma non mi convincevano alcune parti: quindi l'ho riscritta! Mi scuso, capisco e sono consapevole che la maggior parte dei vecchi lettori probabilmente abbia poca memoria riguardo ai fatti accaduti precedentemente. Per chi non avesse molta voglia di mettersi a rileggere tutti i capitoli, che sono parecchi, ecco qui un breve riassunto di quanto accaduto fino ad adesso nella storia: 

La storia ha come protagonista principale Billie Joe Armstrong, cantante e chitarrista dei Green Day, ed inizia con il suo ritorno nel nuovo continente dopo il tour europeo di American Idiot, durato diversi mesi ma bruscamente interrotto. Trovandosi con i compagni, Billie si incammina verso casa ma non vi fa rientro e da lì ha inizio il lungo flashback che spiega quanto gli è accaduto in Europa ed il motivo per il quale non vuole rientrare subito a casa aspettando la mezzanotte. Viene quindi raccontata dal protagonista l`enorme voglia di evadere dalla solitudine che lo ha portato, nella sua vita, a commettere molteplici errori: il matrimonio con la moglie Adrienne Nesser, ormai scivolato nella monotonia, ed i suoi tradimenti con l`amico e collega di sempre Mike Dirnt, con il quale ha instaurato una relazione da oltre vent`anni, decidendo poi di chiudere ma continuando ad avere con lui rapporti occasionali. Billie, un uomo alla continua ricerca di se stesso, narra una serie di avvenimenti che lo hanno indotto a conoscere Jane Rosenberg, inglese, figlia di un organizzatore di un festival: una donna sola e fortemente disturbata. Fin dal primo incontro con la giovane donna, avvenuto in un centro commerciale, Billie ne rimane molto turbato. Iniziano i preparativi per il festival e l`uomo la rivede, continuando a rimanerne profondamente turbato. Ma Jane non sembra essere portata al dialogo e rifiuta ogni tentativo del protagonista di iniziare una discussione. Questo atteggiamento ossessiona ancora di piú Billie, che comincia a perseguitare la ragazza. Durante una lite i due si abbracciano e Billie ha una brutta sensazione che lo fa allontanare. Troppo preso dal mistero di Jane, Billie trascura Mike, che comincia a nutrire dei sospetti. Alla già complicata situazione si aggiungono sensi di colpa, frustrazione ed enormi dubbi che assillano il protagonista durante tutto il corso della storia. Billie affronta Mike rivelando di essere ossessionato da una donna e questi, geloso, se ne va. Finito il festival, la sera della partenza, tutto il team è invitato a cena nella casa di John Rosenberg, padre di Jane. Billie si reca alla cena con Trè, nella speranza di rivedere la donna. I due si vedono, Jane cede alle pressioni dell`uomo e vanno in camera per fare l`amore ma Billie ha un malore improvviso e non riesce nel suo intento. Passa la notte ed il giorno dopo l`uomo parte per Berlino, dove deve tenere un altro concerto con il gruppo. Inizia per lui una lenta e profonda depressione: la mancanza di Jane si fa sentire, impedendogli di continuare il suo lavoro, arriva anche ad ubriacarsi. Stanco di tutto, una sera decide di recarsi con i colleghi Trè e Jason White in un night club ma al locale non ci arriverà mai: in preda ad una crisi, scende improvvisamente dalla macchina e si allontana dagli altri due. Riceve una chiamata ed è proprio Jane, che gli comunica di essere a pochi passi da lui. I due finalmente si rivedono e si dichiarano il loro amore l`uno per l`altra. A quel punto la donna gli chiede di portarla nel palazzetto dove si è svolto il festival quella sera stessa, Billie acconsente senza capirne il motivo. Una volta arrivati Jane gli rivela di voler fare l`amore lì quindi si spoglia. Lui, sconvolto, acconsente scoprendo così che la ragazza è vergine. Una volta tornati in albergo i due vengono scoperti da Mike che, furioso, si scaglia contro Billie facendo fuggire la donna. 
Billie le corre dietro e tra i due scoppia una lite fisica, alla scena assistono sconvolti anche Trè e Jason White. Billie accompagna Jane alla stazione per prendere il treno e la supplica di non partire ma lei non gli da ascolto e sale. A quel punto Billie ha una perdita di sensi ed un`improvvisa febbre alta che costringe il gruppo a fermare il tour. Avvilito, il cantante si strugge per la sua condizione fisica e mentale. Dopo aver trovato una lettera nella tasca della giacca, chiama Jane al telefono e quest`ultima gli dice di dimenticarla. A quel punto l`uomo chiede ai compagni di tornare in America. Il team quindi organizza il rientro ma Billie ha delle strane allucinazioni e ciò fa preoccupare Trè ed il resto del gruppo, che ormai lo considera sulla via della pazzia. A pochi minuti dalla partenza Billie riceve una telefonata da John Rosenberg che gli comunica la sparizione della figlia. Dopo aver convinto Mike (che pare non sopportare proprio la presenza di Jane nella vita di Billie) a lasciarlo partire per Birmingham, il cantante si fa promettere cinque giorni di tempo per poter ritrovare la giovane. Tornato in Inghilterra e dopo aver parlato con John, Billie improvvisamente capisce di sapere dove si trova la ragazza, riuscendo a portarla in salvo. Jane, moribonda, viene quindi visitata da un medico che fa una sconvolgente scoperta: la giovane è incinta ed il padre del bambino è il cantante. Billie, felice, le chiede di sposarlo ma lei non risponde. Cinque giorni passano velocemente ed il rocker si trova costretto a tornare negli Stati Uniti. Jane soffre ma gli promette che una volta atterrato alla mezzanotte riceverà una telefonata da lei. Lui, tormentato dai dubbi, parte e torna dai compagni: qui viene anche lasciato definitivamente da Mike, che si dichiara stufo della loro storia e dei continui tradimenti. Il flashback termina e la narrazione riparte dal momento in cui Billie, seduto sopra una panchina, attende la tanto desiderata telefonata. Dopo aver parlato con l'amata, Billie fa ritorno a casa e, sfinito, si addormenta sulle scale. 

CAP. 45
American Idiot

Una luce molto forte mi illuminò il viso.
Le palpebre si aprirono.
Dall`oscuritá della notte piombai improvvisamente al chiarore del mattino.
La mia vicina, una donna sui trent`anni, mi osservava dall`uscio di casa.
-Signor Armstrong- disse, con tono quasi di rimprovero.
Non risposi. Mi alzai di scatto, tentando di ricordare dove cazzo ero e soprattutto cosa ci facevo steso sulle scale di casa.
Poi ricordai di aver preso sonno. La schiena era a pezzi e sulle due dita ingiallite della mano destra reggevo un mozzicone di sigaretta.
Non riuscivo a stare in piedi; avevo dormiro malissimo e sicuramente non potevo considerarmi l`uomo più riposato del mondo. Buttai via il mozzicone.
-Ha dormito qui?- chiese ancora la mia vicina. Curioso come i vicini siano le persone più vicine a te nella vita e allo stesso tempo le più distanti. O per lo meno, parlo dei vicini che ho sempre avuto io. Tutte le persone che conoscevo, anche di vista oppure incontrate qualche volta per strada, mi chiamavano per nome. Tutti i vicini, invece, mi avevano sempre chiamato "Signor Armstrong" e non ne so il motivo. 
-Sono stanco, giro il mondo dieci mesi su dodici. Chiamerà la polizia per farmi arrestare?- ribattei. La mia vicina non parve cogliere il mio senso dell`umorismo.
-Non ho detto questo. Solo che devo portare i bambini a scuola e mi sono spaventata- disse, tentando di giustificarsi come poteva. Sì, certo. Fosse stato per loro, i miei vicini, mi avrebbero volentieri sbattuto fuori da quel condominio. Colpa dell`invidia. In quel momento, Adrienne aprì la porta di casa, in camicia da notte.
-Billie!- esclamó, stupefatta.
Io non risposi, rimasi fermo immobile con la mano sulla ringhiera delle scale.
-Cos`è successo? Che ci fai qui? Non ti ho sentito rientrare-.
Sospirai.
-Si è addormentato sulle scale- precisò la vicina. Quanto avrei voluto spaccarle la testa, in quell`istante. Era necessario dire tutto quanto ad Adrienne? Forse voleva farci solo litigare.
Mia moglie si voltò guardandomi, ancora più sorpresa.
-Che cosa?- chiese, stupita.
-Ascolta, non ho voglia di parlare. Ho fatto tardi ieri notte, il volo ha ritardato e se permetti, sono stanco!- replicai, sulla difensiva.
Adrienne non rispose, si spostò dalla porta per farmi entrare.
Mi girai, guardando la vicina.
-E lei... Si faccia un pò i cazzi suoi-ribattei, poi entrai furiosamente in casa chiudendo la porta e dimenticandomi completamente di aver chiuso fuori Adrienne. Quindi, riaprii il portone e senza aspettare, andai in camera da letto. I miei figli erano svegli e si stavano preparando per andare alle lezioni mattutine.
-Ciao papà- mi salutarono in coro, reggendo i loro bicchieri con il succo d`arancia.
-Ciao- risposi.
Adrienne mi seguì.
-Si può sapere cosa ti è preso?- sbottò, innervosita, chiudendosi con le mani la vestaglia che ad ogni passo si apriva vistosamente.
-Sono stanco, Adrienne. Lasciami dormire- ribattei, togliendomi l`orologio.
-Cos`è successo ieri notte? Non mi hai chiamata per...-.
-Adrienne, sono stanco- ripetei.
Lei non rispose, rimase immobile dietro di me con le braccia conserte. Afferrai rabbiosamente le mie sigarette e me ne accesi una, poi la misi sul posacenere accanto a me. Adrienne andò alla porta per controllare dove fossero i nostri figli, poi la chiuse. Lo faceva ogni volta che voleva litigare senza farsi sentire da Joey e Jakob. La conoscevo troppo bene per non saperlo.
-Non ho voglia di parlare, Adrienne. Sono stanco- ripetei per l`ennesima volta, stendendomi a letto e dandole le spalle.
-Dobbiamo parlare, Billie. Si può sapere cosa ti è preso?- chiese, con tono cauto.
-Ero stanco. Ti ripeto, il volo ha tardato- risposi, senza nemmeno guardarla. Questa volta fu lei a sbuffare.
-Ho aspettato fino alle due della notte che tu mi chiamassi. Una telefonata avresti potuto farla-.
-Non ci ho pensato- giustificai.
-Ah, non ci hai pensato? Pensi solo quando ti fa comodo? Capisco che il volo abbia tardato ma...-.
In quel momento, il mio telefono cominciò a squillare. Mi alzai di scatto e lo afferrai, senza prestare la minima attenzione a mia moglie. Fui preso dalla paura.
Paura che potesse essere Jane a chiamare... Proprio in quel momento? Cosa avrei detto ad Adrienne?
Non era Jane.
Era Trè. Tirai un sospiro di sollievo e risposi.
-Sì?-.
-Big, dove sei?-.
-Dove cazzo vuoi che sia? A casa- risposi.
-Big, devi venire questa mattina, dobbiamo parlare con Pat-.
Si riferiva a Pat Magnarella, nostro manager e amico.
Mi alzai di scatto, la schiena emise uno strano rumore.
Non capivo di che cosa stesse parlando, non riuscivo a connettere.
-Cos`è successo?- chiesi.
-Mi ha chiamato poco fa e mi ha detto di passare sulle nove- affermò Trè.
La notizia non mi sorprendeva più di tanto.
-E allora?-.
-E allora mi sembrava preoccupato, Big- continuò Trè, esasperato.
Oh, Cristo santo. Ci mancava anche Trè, ci mancava proprio un`altra persona che arrivasse a dirmi quello che devo fare e come farlo. Ci mancava qualcun altro che mi esasperasse, anche in una triste giornata come quella, nella quale l`unica cosa che avrei voluto fare era mettermi a letto e non pensare a nulla. Tantomeno che a quei fottuti discorsi. Buttai la testa sul cuscino.
-È proprio necessario che io venga?- chiesi.
-Alle nove. Puntuale- precisò Trè, facendo finta di non aver nemmeno sentito la mia domanda.
-Sono stanco, Trè. Dannazione, vorrei andare a letto-.
-Ti ripeto: alle nove-.
Detto questo, riattaccò.
Dannazione.
-Chi era al telefono? Che succede?- chiese Adrienne. Io non le prestai attenzione, mi girai per guardare l`orologio.
Le 8.00.
Avrei fatto in tempo a farmi una doccia e poi partire. Mi alzai velocemente dal letto.
-Billie?- continuò lei.
-Non posso parlare, devo scappare- risposi.
-Che tipo di problemi ci sono?-.
-Di nessun tipo-.
Aprii le ante del mio armadio ed afferrai una maglietta pulita ed un paio di pantaloni neri. Poi presi i calzini. Andai da Adrienne e le diedi un veloce e freddo bacio sulla guancia.
-Ci vediamo dopo- dissi, distrattamente, uscendo dalla camera per andare in bagno.
-Io porto i ragazzi a scuola per le lezioni. Ti lascio la macchina, prendiamo il treno- affermò Adrienne. Io non l`ascoltai neppure.
Chiusi la porta del bagno e mi ritrovai nuovamente solo con i miei pensieri. Riuscivo a sentire da fuori i miei figli parlare ed il rumore delle ante dell`armadio: Adrienne si stava cambiando. Mi spogliai ed entrai in doccia, sotto il getto dell`acqua calda. Mi sentivo in pace, mi sentivo bene. Non pensavo ad altro se non all`acqua calda che in quel momento stava attraversando il mio corpo e si riversava a terra. Pensai a Jane... Cosa stava facendo in quel momento? Non sapevo che ora fosse in Inghilterra, probabilmente era già sera e forse lei si stava preparando per andare a dormire. Ma riusciva a dormire? Io non ci riuscivo. Chissá a cosa pensava quando stringeva quei cuscini, cosa provava dentro di se nel non vedermi accanto a lei, nel girarsi nel letto e non trovarvi nessun altro. E chissá quando avrebbe fatto la visita, chissá cosa le avrebbe detto il medico, chissà se la gravidanza era a rischio, chissà se mio figlio stava bene. Quelle erano le domande che mi ponevo. Troppe. E chissà, soprattutto, chi avrebbe potuto darmi una fottuta risposta a quelle domande. Nessuno. Come sarebbero andate le cose? In quel momento, l`unica cosa importante per me, era avere sue notizie. In primis, notizie sulla sua salute. La cosa più importante era che stesse bene, quella sola cosa contava in quel momento, in mezzo alle tante altre cose. Dovevo mettere in secondo piano la mia enorme tristezza, il peso che mi portavo dentro: dovevo accantonare il pensiero di volerla al mio fianco, solo per un istante, e mettere in primo piano la salute sua e di nostro figlio. Se lei stava bene davvero, non correva pericoli e tutto procedeva per il meglio, sarei stato sollevato ed avrei avuto la forza di andare avanti. In caso contrario, non potevo prevedere la mia reazione. Forse sarei stato preso dalla disperazione, dalla paura di perderla; forse, avrei rischiato un attacco di nervi. Non so cosa sarebbe successo ed onestamente preferivo non pensarci e rasserenarmi. Ma no, sarebbe andato tutto per il meglio. Lei sarebbe stata bene, avrebbe vissuto serenamente la sua gravidanza, avrebbe partorito felice ed in luogo sicuro. Tutto sarebbe andato per il meglio. In quel momento, mi resi conto di avere un altro grande problema: dove avrebbe partorito Jane? Sarei stato con lei nel momento piú importante della nostra vita, oppure sarei stato lontano per lavoro, intento nel proseguire uno dei nostri viaggi? Oh, non lo sapevo. Fui preso dall`ansia.
Ansia di ritrovarmi solo, di svegliarmi una mattina come tante e scoprire di essere nuovamente solo senza di lei. Quell`idea mi uccideva. Avrebbe retto alla lontananza, io avrei retto? Avrebbe retto quel nostro amore? Sì, quello sì, quel nostro amore così grande avrebbe retto e spaccato il mondo, se necessario. L`amore più grande di me, della mia vita, quello avrebbe retto. Noi eravamo stanchi, deboli, disillusi, ma quell`amore no. Era così forte, dannazione, com`è possibile che nel cuore di due persone così insicure possa radicarsi un sentimento così sicuro?
A tutte quelle persone che si chiedono: com`è l`amore, cosa vuol dire amore? Io dico che è meglio non saperlo, è meglio che se ne tengano alla larga, è meglio che si voltino dall`altra parte e facciano finta di niente, continuino a vivere le loro vite sicure. Perchè l`amore non ti risparmia, chiunque tu sia; che tu sia forte o debole ti spazzerá via, spazzerà via qualunque tua certezza come fosse cenere nella polvere. E tu cambierai, non sarai più lo stesso, ti guarderai allo specchio e stenterai a riconoscerti.
Uscii in fretta dalla doccia, afferrando l`asciugamano bianco alla mia sinistra. Percorsi i pochi centimetri che mi dividevano dallo specchio strofinandolo velocemente tra i capelli. Mi guardai allo specchio, nudo.
Dovevo stare calmo. Dovevo tranquillizzarmi.
Cominciai a canticchiare sottovoce. Una volta pronto, andai alla cabina armadio per prepararmi. Sì, Billie. Sì. Non devi fare altro che stare calmo, prepararti, mettere i tuoi bei vestiti, fumare una sigaretta e prendere tra le mani questa nuova e bella giornata invernale. 
Aprii la mano. Nulla. 
La felicità arriverà, vedrai. Questo ripeteva la mia mente, minuto dopo minuto, passo dopo passo. 
Vedrai che troverai qualche sprazzo di felicità anche in questa fottuta vita, anche in questa fottuta città. Anche adesso. Che ne sai, magari stasera vai a dormire e sei felice. Magari non penserai più a Jane, al figlio che aspetti, alla vita che sogni di vivere ma non puoi per cento e più motivi. Non pensi più a ciò che hai fatto di sbagliato nella tua vita, quante volte hai sbagliato, sofferto, mandato a fanculo qualcuno, sei stato mandato a fanculo a tua volta. Non ricordi più chi sei, sei Billie Joe Armstrong, per la miseria! Ti basterebbe sfogliare Rolling Stones per ricordarti chi cazzo sei. Non c'è giornale che non abbia mai messo la tua faccia in prima pagina. Non c'è giornalista che non voglia intervistarti. Non c'è fotografo che non brami di sbatterti in copertina. Ed ora spiegami, Cristo santo, quale fottuto motivo hai per guardarti allo specchio e piangere di te stesso. 
Basta pensare, basta. Ferma la mente. Fermati. 
Devi restare lucido, ricordi? Non puoi vacillare, continua a ripeterlo. Devi guardarti allo specchio, adesso come ogni fottuto giorno di questa vita, guardarti ed essere orgoglioso di ciò che sei. Orgoglioso, dannazione. Non hai neppure una vaga idea di quante persone provino invidia verso di te, verso la tua forza, la tua tenacia, il tuo carattere. Che ne sai di quanti si svegliano alla mattina, faticano e si sbattono per arrivare in ritardo al lavoro, si siedono su quella dannata sedia con in mano le proprie carte e sussurrano "Diamine. Quanto vorrei essere Billie Joe Armstrong". Ma che ne sai Billie, che ne sai di quanti ragazzi hanno sognato anche solo per un'istante di provare ciò che provi tu, una volta finito un concerto, che ne sai della forza che serve per stringere i pugni? 
Tu conosci solo te stesso e forse nemmeno quello. 
Tu conosci solo te, ma non sai buttarti fuori, non sai accettare questa vita e con essa tutti i doni che ti ha dato e che continua a darti. Dovresti essere grato di ciò che hai, di ciò che sei. Ed invece... Non sai cosa sei e di ciò che hai non sai cosa fartene. 
Stai commettendo un grave errore, il più grave di tutti: non sei felice. 
Accesi una sigaretta. 
Ecco. Già meglio. Un pizzico di serenità in più; la salute non ringraziava, ma il vuoto di me stesso decisamente. Si era fatto tardi. Forse era arrivato il momento di partire. 
Era arrivato il momento di affrontare la giornata della resa dei conti, la giornata delle spiegazioni. Perché tutto ciò che era successo era stato tenuto segreto ma si cominciavano a chiedere spiegazioni. Ed io non sapevo cosa dire.
Non sapevo come affrontare, in realtà, quella situazione. Non sapevo come spiegarmi, cosa spiegare esattamente o quali parole usare per districare quella matassa di fatti successi in Europa in quei mesi; non sapevo come iniziare, da cosa iniziare, per dire chiaramente ed in maniera inconfutabile, che mi ero rotto i coglioni. Sì. Io mi ero rotto i coglioni.
Io ne avevo le palle piene di me stesso, del mondo della musica, del mondo dello spettacolo. Ne avevo le palle piene di riempire di parolacce i giornalisti, i conduttori, chiunque mi capitasse sotto tiro. Ero stufo, molto stufo, di fingere di essere chi non ero. Volevo solo, per un attimo, un solo fottuto attimo... Struccarmi.
Volevo solo guardare gli altri negli occhi ed avere, anche solo per un fottuto secondo, bisogno di tutta la gentilezza e comprensione possibili. Volevo, avevo bisogno di essere compreso, di amare, di essere amato, darmi. Chiedevo solo questo, nella vita: solo darmi, dare me stesso, ricevere ed essere grato, essere felice. 
Ma quante poche cose volevo, maledizione... 
Ma quanto semplici erano e quanto era difficile averle, più bramavo per averle e meno le ricevevo. Più volevo essere amato e meno mi amavano. 
Si, indubbiamente ero amato da molte persone, ma non per ciò che sono, non per ciò che ho dentro, non per l'abisso di me stesso... Quello che nessuno può e vuole vedere. 
Quello così difficile da percepire che qualche volta credo non possa avere un fondo.  Mi mancava la mia ragazza. 
Avevo bisogno di lei, amore mio. 
Speravo di guardare al futuro con serenità... Chissà cosa sarebbe successo... 
L'amore avrebbe retto. Ma io no. Non potevo reggere ancora per molto in quella fottuta città. Non potevo reggere ancora per molto senza me stesso.
Non in quel momento, non così, non solo senza nessuno.
Proprio in quel momento, in cui mi ero ritrovato guardando lei... Mi ero perso di nuovo.
E tutto ciò era terribile per me. 
Uscii di casa con la giacca tra le mani.
Scendendo le scale accesi una sigaretta con una mano, con l'altra tenni la giacca ed anche il mazzo di chiavi, tra le quali quelle della macchina. Aprii la portiera ed entrai, riversando le mie cose sul sedile del passeggero al mio fianco. 
Che casino. Era ora di dare una pulita a quella fottuta automobile. Possibile che fosse ridotta in stati così pietosi? Accesi il motore e partii, diretto a San Francisco dai miei compagni.
Durante il viaggio, una quindicina di minuti, accesi distrattamente la radio.
"...E adesso passiamo alle notizie del mondo della musica, scontento tra i fans dei Green Day..."
Prontamente alzai il volume, la cenere della sigaretta cadde sulla mia mano.
-Maledizione!- 
"Scontento nel mondo della musica, come detto poco fa, il trio californiano ha interrotto il tour europeo cominciato lo scorso autunno. Le cause dell'annullamento sono ancora poco chiare, si presuppone possa trattarsi di alcune liti nate all'interno del gruppo" così diceva il giornalista alla radio. 
Rimasi alquanto sconcertato da quell'ultima notizia. Non capivo come potevano essere prese per vere certe cazzate, notizie campate per aria solo per fare scena.
Ne avrei parlato con i ragazzi quanto prima... Bisognava parlare, bisognava sedersi a tavolino e risolvere i nostri problemi. Dal primo all'ultimo. 
Non era importante se il problema fossi io o meno: l'importante era risolvere quei dannati malintesi, sanare lo squarcio profondo che stava dividendo me dagli altri... Uno squarcio che, in quel momento, pensavo potesse portarci al peggio. Perfino allo scioglimento. 
Ero preoccupato, molto preoccupato. Mi sentivo in ansia.
Per i ragazzi, per il gruppo, per Jane... Non mi sentivo tranquillo e più tentavo di riprendere in mano me stesso e più non ci riuscivo, non riuscivo a capacitarmi di come le cose potessero essere andate a rotoli da un momento all'altro. Fino a pochi mesi prima ero convinto di me, della mia vita, di amare quella mia dannata vita ed i suoi ritmi, di amare perfino Mike ed Adrienne... Era bastato l'incontro con Jane per farmi perdere tutto. 
Mike, Adrienne, il mio gruppo, perfino la stima di me stesso.
Ma quella mai l'avevo avuta. 
Aspirai l'ultima boccata di fumo dopodiché gettai la sigaretta fuori dal finestrino. 
Ero quasi arrivato alla nuova sede della PPM, l'agenzia con a capo il nostro manager.
La sede centrale si trova a Los Angeles, West Sunset Boulevard, ma non è l'unica negli USA. 
Anche a San Francisco il mio manager aveva aperto una nuova sede. Altro non è se non enorme edificio dove il mio manager, Pat Magnarella, riceve anche per appuntamenti. Accostai la macchina al solito posto, il mio posto, lo stesso dove la parcheggiavo da anni; accanto al viale pedonale, poco avanti alla porta d'ingresso. Spensi il motore dell'auto. Aprii la portiera e rimasi seduto; chiavi in mano, gamba a penzoloni fuori, sigaretta tra le dita ed accendino. Lungo il vialetto, così come nel parcheggio, non vi era nessuno, del resto ero arrivato con dieci minuti di anticipo. 
Osservai gli alberi della stradina fare da contorno all'intero panorama. I rami spogli, con qualche foglia qua e la non ancora caduta, assomigliavano tanto al mio stato d'animo. Mi sentivo anche io un po' come quegli alberi. Lungo il viale, solo, spoglio.
Non potevo fare a meno di pensare a Jane, a mio figlio. 
Che cazzo stava facendo? 
Il telefono era posato accanto a me, sopra al sedile al mio fianco. 
Era muto. Allungai la mano e lo afferrai. 
Dovevo chiamarla.  Dovevo sentirla. Dovevo sapere.
Non potevo stare li seduto in macchina come un coglione, aspettando gli altri con le mani in mano ed avere la testa da un'altra parte, il pensiero fisso su ciò che lei stava pensando in quel momento. Dovevo chiamarla, dovevo parlare, dovevo fare finta che fosse solo questione di pochi giorni o poche ore; dovevo fingere che le cose andassero bene e fosse tutta una situazione temporanea. 
Temporanea, si. 
Stavo ancora fissando il telefono nella mia mano con lo sguardo perso nel vuoto, quando mi sentii battere forte due dita sulla spalla sinistra. Sobbalzai.
-Chi cazzo é?-
-Chi cazzo vuoi che sia, sono arrivato- affermò il mio batterista con il casco sotto il braccio.
Annuii, posando il telefono.
Trè sorrise, passandosi una mano sugli occhi, visibilmente stanco. 
-Sono morto, Big-affermò.
-Lo dici a me?-.
Questa volta fu lui ad annuire.
Ci fu tra noi un minuto di silenzio o poco più, in quel lasso di tempo la domanda principale nella testa di Tré poteva essere solo una: "Vuoi dirmi adesso, che cazzo è successo in questi due mesi e mezzo?". Mai in altra occasione fui più convinto di leggere nel pensiero del mio batterista. I nostri occhi si incrociarono più volte, lui distolse sempre lo sguardo. Io mai.
Il silenzio cominciò a farsi imbarazzante.
-Ascolta, Big...-. 
Il telefono del batterista cominciò a squillare in quel momento esatto.
Per me fu un enorme sollievo.
-Chi cazzo è?- rispose lui, per nulla alterato. Solito modo di rispondere, era normale.
Silenzio.
-Ah, tesoro, dimmi- disse poi improvvisamente, con un sorriso.
Sua figlia.
Solo Ramona aveva il potere di rendere Trè così innocuo. Quasi tenero. Non che con lei non si incazzasse, anzi. Il più delle volte il rapporto tra i due era altalenante, ma lui l'adorava.
Trè mi fissò per un secondo, come a volermi dire di attendere la conclusione della chiamata di sua figlia. Io non dissi nulla, lui si allontanò poco distante, continuando la         conversazione. Rimasi seduto in macchina una manciata di minuti, due o tre forse, quando dallo specchietto retrovisore vidi Mike arrivare a piedi. Mi voltai improvvisamente, osservandolo. Lui mi fissò un attimo, dopo distolse lo sguardo per continuare la camminata, diretto alla porta.
-Mike, aspetta...- dissi, rimanendo seduto.
Lui si fermò, girandosi verso di me. 
Io guardai Trè, gesticolava al telefono, in lontananza, quindi presi la giacca ed uscii di corsa dalla macchina per raggiungere Il bassista. 
-Mike- continuai, una volta accanto a lui. 
-Dimmi-.
-Ho pensato a quello che hai detto. Mike...-.
-Ragazzi-.
Ci voltammo.
Il nostro assistente Robert Smith, il più anziano tra i nostri collaboratori, ci chiamava dalla porta. Io guardai gli altri, Trè salutò frettolosamente Ramona e riattaccò. 
-Che cazzo ci fai già al lavoro? Non ti eri preso due giorni?- domandò quest'ultimo scherzosamente, con il cellulare ancora in mano.
Robert rise ed uscì dall'edificio per poi accendersi una sigaretta. Io lo imitai.
-Pat è in ufficio?- chiese Mike. Lui annuì.
-Strano che sia arrivato, soprattutto così presto. Di solito il venerdì mattina non c'è mai-.
-Abbiamo una riunione- precisò Mike.
Robert alzó le braccia. Io fumai la mia sigaretta senza proferir parola.
-Va bene. Ho sentito Jason, quando devi portargli la sua roba?- chiese Tré, scrutando le automobile fuori dalla recinzione. Durante un tour capita spesso che la strumentazione o qualche oggetto vada smarrito, stipato in qualche scatolone oppure dimenticato in corriera (non solo attrezzature varie ma anche propriamente gli oggetti personali) un compito secondario degli assistenti è anche quello di riportare le cose al proprietario. Jason aveva perso l'Ipad e alcuni suoi documenti personali.
Robert scosse la testa.
-Non l'ho sentito. Lo chiamerò oggi- rispose.
-Va bene, andiamo- così dicendo, i miei compagni entrarono. Io feci altrettanto, seguendoli. Attraversammo il lungo corridoio dell'ingresso, diretti alle scale a chiocciola. L'ufficio del nostro manager era al piano di sopra. Nessuno di noi tre pronunciò parola e quella era l'esatta immagine di come si stavano mettendo le cose tra di noi; un tempo, eravamo soliti salire quelle scale con bottiglie alla mano oppure uno sopra l'altro facendo i coglioni. Avevamo varcato quelle porte centinaia di volte e tutte le volte comportandoci da idioti (o fingendo di essere sobri). Conoscevamo bene quegli uffici, ci eravamo rincorsi in quei corridoi, ci eravamo divertiti.
Non era mai capitato, a noi tre, di entrare in quel modo. 
In fila indiana, sguardo basso, ognuno con i suoi pensieri.
Per quanto Trè durante il tragitto cercasse di sdrammatizzare il tutto, nessuno di noi riusciva a sentirsi come le altre volte, nessuno riusciva a sentire nell'aria il nostro ritorno. 
Nemmeno noi stessi. Mai era capitato di entrare così, non era quello il nostro modo di entrare, non era così che noi entravamo nella vita degli altri. Non siamo mai entrati a braccia conserte e sguardi funebri. Ma forse quella era solo la previsione, l'immagine che dava il quadro esatto di ciò che stava succedendo. Noi tre divisi, silenziosi, qualcuno provava a riparare come poteva, ma non ci riusciva, qualcun altro fingeva che nulla fosse accaduto. Quello era il quadro esatto di cosa sarebbe successo di li a poco... Non c'era cosa peggiore, non c'erano parole più letali per me se non "Basta. Chiudiamo qui". Non c'era una condanna peggiore se non quella di perdere il mio gruppo, perdere i ragazzi, perdere la band, me stesso. Temevo che ciò sarebbe successo, se non in quei mesi, molto presto. Il gruppo c'è quando i componenti sono in sintonia, in simbiosi: devono vivere insieme, suonare insieme, mangiare insieme, dormire perfino insieme. Il gruppo é il gruppo, si deve pensare alla stessa maniera, i pensieri miei devono essere gli stessi di ognuno degli altri. Potevamo essere un gruppo e non riuscire più nemmeno a parlarci, addirittura a guardarci? Arrivammo al piano di sopra, silenziosi come non mai. Lungo le pareti, sfilavano le numerose foto che Pat aveva scattato con le più grandi celebrità del mondo.
Era molto conosciuto, nonostante questo aveva mantenuto un atteggiamento abbastanza umile, almeno fino a qualche mese prima della nostra partenza. Negli ultimi mesi, c'era stato un cambiamento in lui, dovuto a cosa non lo so, come se stesse organizzando grandi progetti per il futuro oppure come se fosse accaduto qualcosa, (di cui noi, ovviamente, eravamo all'oscuro, come tutte o quasi le questione private di lavoro che il nostro manager aveva con altre persone). Avevamo sempre avuto un buon rapporto con lui, (detto da me, che non sono mai andato d'accordo con un cazzo di nessuno su questa terra), eravamo amici, eravamo in confidenza. Negli ultimi tempi, tuttavia, Pat si era allontanato. 
Avevo notato anche che quell'atteggiamento aveva cominciato a prendere piede dopo l'uscita di American Idiot. 
Ero ben consapevole della pericolosità di American Idiot, del suo contenuto.
Sapevo, sapevamo noi tutti, cosa avrebbe significato produrre quell'album in un momento delicato come quello. American Idiot aveva creato non pochi problemi; tuttavia, personalmente ero abituato ad averne, che qualche svitato fuori di testa venisse a scrivermi a grandi lettere sulla porta di casa "Devi morire", non mi cambiava la vita. Quasi mi divertiva quell'odio nei miei confronti. Ero odiato... Voleva dire che il mio lavoro lo facevo alla grande. 
Non avevo dato molto retta a questi ultimi cambiamenti nelle nostre vite, ero stato sempre molto leggero nel prendere in considerazione certe cose o certi atteggiamenti. Pensavo, cazzo, se qualcuno mi evita avrà i suoi fottuti motivi. 
Avrà una giornata storta. Avrà le palle girate. Ma poteva essere questione di mesi?
Avevo preso troppo alla leggera il distacco del nostro manager. In quel momento si era rivelato l'ago della bilancia. 
E tutto ciò rendeva la situazione ancora più pesante.  Sospirai, visibilmente innervosito. 
I miei compagni non dissero nulla. Riuscivo a scorgere nei loro sguardi la mia stessa preoccupazione, ma anche una nota di rabbia, negli occhi di Mike particolarmente accentuata. Per loro era difficile stare li, sedersi sul divano e dover ammettere di aver fallito miseramente. Si, indubbiamente non si trattava certo di un fallimento irrimediabile: di tour mondiali ne erano state annullati moltissimi da altri artisti prima ancora di noi, non eravamo certo i primi a dover dare quelle spiacevoli notizie. Ma non si trattava di date qualsiasi, non si trattava di eventi qualsiasi; era il tour mondiale più atteso degli ultimi anni. Era il tour che seguiva American Idiot. Era il mio tour. Erano 150 date. Dio solo sa quanti soldi erano andati spesi per metterlo in piedi, quanta energia, quante ore di lavoro, di prove, quanta gente aveva lavorato con noi e per noi... Quante notti insonni avevo passato per creare dei lavori decenti. Era il mio tour, erano i miei pezzi, c'ero io dentro tutto quello. 
Era bastato così poco, troppo poco... Era bastata quella mia dannata malattia per mandare tutto in merda. Era bastata Jane... Per farmi perdere tutto. 
Anche il mio lavoro, anche i miei pezzi, tutto. Non avevo più nulla. Solo i soldi.
Ed in quel momento mi trovavo li, con gli altri due, soli. Stavo andando a dare una delle notizie che mai avrei voluto dare: l'American Idiot tour non si farà. 
Sapevo che Pat sarebbe stato contento di quella notizia; i primi concerti di presentazione dell'album li aveva vissuti con il terrore che qualcuno potesse impugnare la pistola o un revolver e sparare sul palco. 
Io ridevo di quelle sue paure, ma non erano del tutto infondate.
Il mega tour non si farà più. 
Non continuerà.
Basta.
Basta American Idiot, basta Jimmy, basta queste fottute canzoni, basta riempirmi la testa di stronzate per creare due pezzi e poi dover strappare tutte le carte. 
Avrei voluto urlargliele in faccia quelle fottute parole, ma non solo al mio manager, non solo a lui. A Mike, a Tré, persino a Tim, che non c'entrava un cazzo. 
A tutti quelli che mi seguivano.
Mike bussò alla porta dell'ufficio. 
La porta si spalancò improvvisamente e vidi Pat con in mano una copia del Rolling Stones; la teneva alta avanti a noi. 
In prima pagina, le nostre facce.
-Che cazzo è successo?- chiese Mike allibito.
-Ragazzi-.
Noi ci guardammo, poi guardammo il giornale.
-Merda-. 


-Cosa vuol dire?- chiese Mike.
Il nostro manager attraversò lo studio e gettò la rivista sul tavolino basso di vetro. 
Sotto a quella, ce n'erano molte altre, e mi parve di scorgere in ognuna la nostra faccia in copertina. Bene, pensai. Di bene in meglio. 
Guardai Pat, trovandolo visibilmente dimagrito (non che prima fosse grasso, anzi). 
-Ehi- esortò ancora Mike.
L'uomo si sedette sul divano nero ed accese una sigaretta.
Ci fece cenno di seguirlo, quindi entrammo nello studio, chiudendo la porta dietro di noi.
Senza chiedere il permesso, come ero solito fare, accesi una sigaretta anche io.
Mike e Trè si sedettero sulle poltrone, io sul divano accanto a lui. 
-Mesi di lavoro, soldi. Tutto in merda. American Idiot non sta vendendo più, ragazzi, io ve lo dico chiaramente- esclamò Pat, aspirando una boccata di fumo. 
-Sono giorni che non mi lasciano in pace, dannazione. Mi seguono, mi chiedono che cazzo è successo, perché in Europa è andato tutto a puttane. C'é qualcuno che ha scritto che siete stati ammazzati come John Lennon. Questi bastardi mi seguono dappertutto, perfino a casa! Hanno sparato talmente tante stronzate che non so più da che parte iniziare. Questi figli di puttana vogliono rovinarmi-.
Pat sembrava davvero esasperato da quella situazione. 
Uno pensa ai Green Day e pensa a noi tre, ma nessuno può avere la minima idea di quanta gente ci sia dietro di noi, di quante persone lavorino al nostro fianco. Tante.
Dietro ciò che si vede, le copertine, gli album, i concerti, c'è in realtà un enorme lavoro di squadra, un lavoro che sembra sempre troppo lungo ma che alla fine porta i suoi frutti. L'unico inconveniente é che basta una mossa sbagliata di qualcuno per far mandare in aria il lavoro di tutti. Nei lavori di squadra é così. 
Erano stati giorni duri per il nostro manager ma anche per tutti noi.
-Sei troppo preoccupato. Devi stare più tranquillo- disse Tré.
-In questi giorni ho passato l'inferno, Frank- ribatté lui.
-Ehi, aspetta un attimo! Quella in copertina è la mia fottuta faccia, il primo a perderci il culo sono io!- sbottò Trè di rimando.
-State calmi- intervenne Mike, rivolto a Trè. - Pat, ti prego... Capisco che tu sia esasperato, ma non è questo il momento di uscire di testa. Vorrei sapere cosa ti hanno detto-. 
-American Idiot sta andando a picco. Le vendite sono nulle. In vent'anni che faccio questo lavoro non ho mai visto un album andare peggio- rispose il manager, alzandosi in piedi.
Mike scosse la testa.
-Tutto annullato, anche lì. Nessuno vi chiama più. L'album non vende e di andare nelle trasmissioni non se ne parla. I conduttori si cagano sotto-.
-Che cazzo stai dicendo?- 
-La verità sto dicendo. Si, é vero, i primi mesi sono andati bene ma adesso i registri sono questi. I media non hanno preso bene l'abbandono in Europa, nessuno compra più. Vogliamo parlare delle lettere che mi arrivano in redazione?- sbottò.
-Quali lettere?- chiedemmo in coro.
L'uomo sospirò.
-Ma che cazzo ne so, repubblicani, seguaci di Bush...-.
-So bene cosa sono quelle lettere, Pat. Hai idea di quante ne ho ricevute in vent'anni? Gente che mi odia, gente che mi vuole morto. Dio solo sa- ribattè Tré stizzito. -La stai prendendo troppo sul drammatico. Quando abbiamo mandato l'album in produzione sapevamo bene i rischi che si correvano e lo sapevi anche tu. Non puoi andare a genio a tutti, soprattutto quando stai andando controcorrente. Ci hai chiamati qui per dirci che quattro svitati seguaci del coglione ti hanno mandato due letterine?-. 
Silenzio.
-Allora?- insistette Tré, leggermente esasperato. 
Pat sospirò.
-Voglio che chiediate il ritiro di American Idiot- disse, alzando le mani. 
Noi tre ci guardammo, stupiti.
Non ero convinto di aver udito bene le sue parole. 
Non ero convinto di aver compreso l'intero discorso. 
Perché? 
-Ritirare American Idiot? Ma che cazzo stai dicendo?- sbottò Mike mentre Trè dietro di lui scuoteva la testa. 
-Hai capito-. 
-Perchè?-
-Quell'album ha portato solo danni, ragazzi. Qualsiasi tipo di danno che poteva fare l'ha fatto. Riflettete, ragazzi... Avete fallito, capita. Abbiamo fallito insieme, ci abbiamo provato. Bisogna fallire nella vita, si fallisce e ci si reinventa. Ritirate American Idiot e reinventatevi. E lasciate stare la politica- disse, alzandosi in piedi ed andando alla scrivania.
Mike e Trè rimasero letteralmente ammutoliti, come se quanto detto dall'uomo fosse stata una forte pugnalata allo stomaco. Anche per me era così, ma io me lo aspettavo... Già avevo fiutato, nell'aria, la possibilità che ciò accadesse. Giá avevo compreso che il nostro manager stava campando per aria mille scuse; sì, indubbiamente le perdite erano state notevoli, American Idiot nessuno lo comprava più, la gente aveva quasi paura ad acquistarlo. Indubbiamente Pat era preoccupato del lato economico della questione, ma la storia non quadrava. Quello non era il vero motivo per cui voleva ritirare American Idiot.
Chissà che cazzo era successo in quelle settimane, chissà chi cazzo gli aveva parlato e che tipo di lettere aveva ricevuto... 
-Aspetta, aspetta, fammi capire bene...- intervenne Mike. -Tu oggi ci chiami qui per dire di voler ritirare un album, a cui abbiamo lavorato per anni e su cui abbiamo discusso per mesi? Mi stai dicendo questo? Ti sei bevuto il cervello? Ci sono mesi di lavoro lì dentro!-
-Lo dici a me, Mike?- ribatté Pat.
Mike aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse velocemente, cambiando idea.
Io rimasi in silenzio.
-Tu cosa dici Armstrong? Ci sono i tuoi testi lì- chiese Pat, rivolgendosi a me, indicando l'immagine della copertina di American Idiot appesa al muro.
-Dico che American Idiot non si ritira- decretai, infine.
-È il mio album, sono i miei pezzi. Ci sono io lì dentro. E non intendo ritirarlo, non intendo rimangiarmi nulla di quanto ho scritto lì... No, American Idiot rimane dov'è-.
L'attenzione passò su di me. 
Non capivo il perché quando si trattava di American Idiot la gente si riferisse a me nello specifico. Solo a me. Come se fosse l'album della mia vita. Un pò lo era... Anche se in realtà era la vita di Jimmy, ma chiunque mi conosca un po' sa che Jesus of Suburbia non sono altro che io.
American Idiot ero io, era la mia vita, erano le ore di sonno che avevo perso per tirare fuori me stesso... Tirare fuori se stessi non è facile, non è facile mettersi a tavolino e scrivere di se, forse è meglio sedersi su una bella poltroncina e scrivere quattro frasi del cazzo, aggiungere due o tre accordi qua e la, darci un titolo e mandare tutto in produzione assicurandosi un bellissimo disco di platino.
Oh sì, che bello. Che bello fare i coglioni, almeno si piace agli altri e si vende senza dubbi.
Preferivo essere un coglione, ma esserlo a modo mio. Dare voce a me, dare voce ai miei pensieri. Non potevo nascondermi dietro ad un dito per non vedere rovinata la mia carriera. Lo sapevo benissimo, lo sapevamo benissimo quando avevamo deciso di produrre quell'album. Lo sapevo che non sarebbe stato facile, che sarebbero stati mesi duri, probabilmente saremmo stati presi di mira da tutti; dai media, dai fans, dai seguaci repubblicani... Del resto American Idiot muoveva le coscienze di tanta gente.
Non potevo mollare. Ritirare il disco, e poi? Avrei annullato quanto detto fino a quel momento... Avrei annullato me stesso, per piacere agli altri. 
American Idiot era pericoloso e scomodo... Ma era molto più pericoloso essere sottomesso al volere della gente.
-Mi dispiace, Pat... Sei il nostro manager, se siamo qui adesso è anche merito tuo, che ci hai sempre aiutati. Ma non possiamo ritirare quell'album- finii.
-Hai ragione, Billie. Hai ragione, non avrei dovuto chiedervi una cosa del genere. Mi rendo conto che per voi si tratta di cose importanti... Il gruppo, le canzoni, la band... Sono cose essenziali per voi e non avrei dovuto chiedervi questa cosa. Sono io a dovermene andare- disse l'uomo, incupito.
-...A dovertene andare?- chiese Mike. 
-Pat, che stai dicendo?- intervenne Trè.
Io fissai i miei due compagni, dopo guardai il manager.
-Avevo previsto questa risposta da parte vostra, non vi biasimo, forse anche io al posto vostro avrei fatto la stessa cosa. Infatti, ho preparato tutto...-.
Così dicendo, tirò fuori dalla propria cartella nera una decina di fogli bianchi scritti a computer. 
-Cosa sono quelli?-.
-Il contratto lavorativo che ci unisce, ho già firmato la mia parte. La nostra collaborazione finisce qui. Vi ricordo che c'é anche una clausola dove in caso di cessata collaborazione mi riservo la facoltá di escludere il mio nome e quello dell'azienda dal vostro- precisò, girando velocemente i fogli per mostrarci quanto detto.
Non potevo essere più stupito da quel comportamento... Si stava comportando come se ci avesse conosciuti da poche ore, come se fossimo dei perfetti sconosciuti dai quali doveva proteggersi legalmente. Non era l'uomo con il quale avevamo stretto un' amicizia.
-Perchè stai facendo questo? Pensavamo di fidarci di te, pensavamo che tenessi al gruppo. Ed invece te ne stai andando così? Ci mandi tutti a gambe all'aria?- ribattè Trè, immobile. 
-Non vivo per i Green Day, Frank. Sono solo un manager e faccio solo il mio lavoro. La collaborazione con voi non va bene... chiudiamola, allora. Niente di pers...-.
Mi alzai in piedi visibilmente alterato e sferrai un pugno sul tavolo, così forte che pensai si potesse spezzare in due.
-Non dire cazzate!- ringhiai.
-Billie, io...-.
-Chi cazzo é che ti ha minacciato? È per American Idiot? È per questo che vuoi farlo ritirare? Hai paura che qualche fottuto idiota venga ad ammazzarti... oppure ti hanno pagato?- strillai, rosso in viso.
-Nessuno mi ha minacciato... Nessuno... Io me ne sto andando volontariamente-.
-Cazzate!-.
-Che tu ci creda o no, Armstrong. Non importa. Non vivo per i Green Day, anche se tu sei convinto del contrario- rispose, leggermente impaurito.
Io sospirai.
Va bene.
-Eh va bene. Firmiamo. Non ci serve un fottuto cagasotto, ce ne sono già troppi in giro- dissi, afferrando rabbiosamente la penna sopra al tavolo. Firmai su ognuno dei dieci fogli che sigillavano il nostro contratto con Pat, così fecero anche Mike e Trè dopo di me. Una volta che ci furono tutte le firme, afferrai i fogli e li buttai di nuovo sulla scrivania del mio ormai ex manager.
-Andiamocene- dissi, rivolto agli altri due.
Pat rimase in silenzio.
-Quanto a te...- dissi, voltandomi verso di lui. -Non so che cazzo ti sia successo, chi ti abbia minacciato, ed onestamente non me ne frega un cazzo... Ma sappi che non voglio vedere più la tua sporca faccia del cazzo in circolazione, mi sono spiegato?- ringhiai, con il dito puntato verso l'uomo.
Afferrai la maniglia della porta, pronto ad andarmene. 
-Armstrong-.
Mi voltai un'ultima volta, guardandolo negli occhi. 
-American Idiot ti rovinerà, Billie. Buona fortuna-.

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** Doubt ***


"American Idiot ti rovinerà".
Quelle parole mi risuonavano in testa, incutevano paura.
Erano forti, chiare, battevano come pugni chiusi sulle tempie.
Una volta spalancata la porta dell'ingresso, accesi una sigaretta. 
-No, sto bene. Tu fumi come un condannato a morte, un tempo non fumavi così tanto- replicò Trè, rifiutando una sigaretta offerta da me.
-Chissà che cazzo è successo... Chi cazzo l'ha convinto a fare una cazzata simile- disse Mike, pensieroso ma innervosito dopo il dibattito con Magnarella.
-Se ne pentirá... Gli do una settimana. Tempo pochi giorni e farà una chiamata, tornerà come un cagnolino con la coda in mezzo alle gambe- sbottò il batterista.
-No- intervenni io, buttando fuori il fumo dalla bocca.
Mi sedetti sui gradini.
-Si, Big. Sa che ha fatto una cazzata-.
-Non chiamerà, Trè-.
-Come fai a dirlo? Lo conosci Pat, sai che spesso si rimangia ciò che dice-.
-Non questa volta. È finita. Lui era serio, l'ho visto nei suoi occhi-.
Trè scosse la testa.
-Cosa facciamo?- chiese, osservandoci.
-Chiama Tim-.
-Che cazzo c'entra Tim?- ribatté il batterista.
-Digli che abbiamo bisogno di lui, digli di impacchettare le quattro cose di questo pezzo di merda e rispedirgliele indietro. Digli anche che è licenziato- ripresi, gettando il mozzicone di sigaretta a terra.
Tré, che aveva il telefono in mano pronto a chiamare il nostro assistente, si fermò di scatto.
-Licenziato?-.
Io annuii.
-Big... Big, aspetta un secondo, abbiamo bisogno di Tim. Abbiamo bisogno dei ragazzi... Adesso siamo incazzati, molto incazzati, il primo ad essere fottutamente incazzato sono io! Ma non possiamo perdere Tim e i ragazzi, non possiamo mandarli a farsi fottere. Loro sono indispensabili e lo sai anche tu. Timothy Bakernail è il miglior tecnico ed assistente che potesse capitarci, è il miglior caposquadra che io abbia mai conosciuto- disse il batterista.
Sospirai, indeciso sul da farsi.
Perdere Tim e i ragazzi significava perdere una buona parte del nostro gruppo.
Erano delle persone straordinarie, lo sapevo bene, da quando Pat li aveva assunti per assisterci il lavoro della squadra era migliorato. Solitamente il lavoro degli assistenti e dei tecnici musicali dura circa quanto un tour, a meno che gli artisti non chiedano esplicitamente di essere seguiti da quelle specifiche persone anche successivamente. Gli assistenti vengono convocati, quindi assunti dopo un certo periodo di prova, si spostano e lavorano per gli artisti, anche se non sono assunti direttamente da loro bensì dal manager.
A fine contratto, solitamente a fine tour, vengono rimpiazzati da altri.
Tim Baker e compagnia, invece, erano con noi dal 2001.
Cinque fottuti anni. 
Non avevo mai lavorato così bene con nessun altro... Ma non volevo avere più niente a che fare con quel coglione del loro capo.
-Non si possono mandare via i ragazzi, ci troveremo con il culo per terra- intervenne Mike, guardando il batterista; non girò mai lo sguardo verso di me. 
-Eh va bene, non saranno licenziati. A meno che non vogliano andarsene loro, visto che con quel coglione del loro capo abbiamo chiuso- precisai. 
I miei compagni annuirono.
-Che ore sono?- chiese Tré.
-Le dieci, perché?-.
-Devo pranzare con mia figlia più tardi. Spero di arrivare a casa, hanno previsto traffico- rispose Il batterista, afferrando il casco.
-Hai fatto tanto per uscire da Oakland ed ora rimpiangi i bei tempi in cui ti spostavi con la bicicletta?-.
Mike rise della sua stessa domanda. 
-Fottiti tu e la tua città. Vado in bicicletta anche nei dintorni di casa, sperando sempre di non finire in qualche buca che quei fottuti contadini mi fanno trovare lungo la strada. Non tornerei mai in città, sto bene dove sono- ribatté Tré.
Dopo il matrimonio con Claudia ed il divorzio, Trè era rimasto in buoni rapporti con lei, condividendo la casa per il bene del piccolo figlio. Tuttavia, il batterista aveva acquistato da poco una villetta isolata nei pressi della cittadina di Orinda, inizialmente si recava lí nei fine settimana, negli ultimi tempi invece vi si era stabilito definitivamente portando via le sue cose. La proprietà non era facilmente raggiungibile ma a Tré piaceva molto la zona.
Anche a me piaceva la sua dimora e la tranquillità del posto.
-Ciao ragazzi- così dicendo, si mise il caso in testa ed andò via, diretto alla sua moto. Io lo salutai con la mano dopodiché, con Mike, mi incamminai alla macchina.
Nessuno dei due proferì parola.
Pensai di soffocare il silenzio accendendo un'altra sigaretta ma un brutto colpo di tosse improvviso mi fece cambiare idea, tuttavia per pochi secondi.
Attraversai con lui il piccolo vialetto pedonale che mi divideva dalla mia macchina, ben attento a non stargli troppo vicino ne tantomeno a dargli modo di cominciare un discorso.
Il bassista non parlò, non disse nulla, si limitò a camminare ed a curiosare nelle sue tasche, come se fosse alla ricerca di qualcosa; infatti, stava cercando gli occhiali da sole.
Quel silenzio mi infastidiva profondamente.
Non eravamo mai stati così lontani in tutta la nostra vita, così distanti, così assenti.
Ci eravamo sempre parlati, nel bene e nel male.
Avevamo sempre riso, scherzato su tutto e tutti, ci eravamo sempre capiti ed amati alla follia, io e lui: un'unica anima divisa in due, i miei occhi nei suoi, ogni giorno, sempre. 
Era successo qualcosa di molto grande quel maledetto giorno in cui mi aveva guardato la prima volta, mi aveva stretto la mano... Mi ero sentito un pò meno solo, mi ero sentito compreso.
La nostra storia era cambiata e ci aveva trasformati: prima sconosciuti, poi amici, quell'attrazione e la voglia di scoprirsi che si era fatta sempre più forte fino a farci diventare amanti. Infine eravamo arrivati a considerarci quasi come una coppia fissa. 
L'arrivo di Adrienne, la nascita dei miei figli.
I litigi, la gelosia, le incomprensioni, la rabbia, le continue rotture. 
Ed ancora amore, attrazione, la voglia di tornare insieme e di spaccare il mondo.
Un tira e molla senza fine. 
Poi, circa tre anni prima, la rottura definitiva per il bene delle nostre famiglie; quello squarcio così grande, alimentato dall'odio, talmente profondo da non permetterci neppure di pronunciare il nome dell'altro. 
Ero stato io ad allontanare Mike, mai nella mia vita avevo sofferto come in quel momento.
Ero abituato ormai a quei continui tira e molla ma non avrei mai potuto immaginare di arrivare fino a quel punto, il terribile epilogo chiamato indifferenza.
Letale.
Doveva odiarmi, dannazione, ma non fare finta che non esistessi.
Io esistevo, cazzo, ero lì davanti a lui e volevo contare qualcosa.
Afferrai le chiavi della macchina con una mano, con l'altra accesi una sigaretta.
-Prima o poi dovremmo parlarci- dissi, aprendo la portiera dell'auto, mentre Mike mi superava.
Il biondo si voltò di scatto, fingendo di non aver capito.
Mi sedetti in macchina lasciando la portiera aperta.
-Non puoi ignorarmi per sempre- continuai, fumando la sigaretta.
Non ottenni risposta.
Mike continuò a giocare con gli occhiali da sole.
-VUOI RISPONDERMI, CAZZO?- urlai, battendo il pugno sul clacson.
-Stai zitto, vuoi che ti sentano?-.
-Non me ne frega un cazzo- ribattei, ad alta voce.
Girai la chiave, accesi il motore. 
-È solo per il gruppo che sono ancora qui, pensavo l'avessi capito. Le nostre strade si sono divise già da molto tempo, tu hai scelto di seguire la tua. Capita nella vita, oppure pensi che le nostre debbano stare legate a tutti i costi? Ho già passato troppo tempo dietro a questa storia. Ora guarderò avanti, andiamo avanti e basta-.
I nostri occhi si incrociarono.
L'emozione mi travolse nuovamente, era sempre quella, era sempre la stessa.
Non potevo guardare Mike e rimanere impassibile, non era normale, non ero io.
-Tornerai, Mike, lo sai anche tu-.
Lui sorrise leggermente, scuotendo la testa.
-No-.
-Quello che ci unisce è più forte di quello che ci divide-.
-La vita è più forte, Billie-.
-La tua vita sono io, ammettilo. Ammetti che lo pensi anche tu, non puoi far altro che guardarti indietro e vedere solo me, nient'altro che me-.
-Devo credere che sei anche presuntuoso se veramente pensi una cosa simile-.
-Lo sono-.
Mike alzò le braccia.  
-Non ti capisco, sai, non ti ho mai capito. Vuoi stare con me, vuoi stare con tua moglie. Sei geloso perché ho trovato una donna, fai di tutto perché tra me e lei finisca. Però continui la tua vita, continui ad addormentarti tutte le sere accanto ad Adrienne. Intanto vuoi stare con me, dici di amarmi, dici che non esiste vita senza di me. Guarda cos'ho fatto per te, guarda quante ne ho passate, quanto tempo ho perso. Ti fai scopare da uno, ti fai scopare da un'altra. Poi un giorno torno a casa e dopo vent'anni vengo scaricato senza una fottuta spiegazione, così, perché dici di voler stare con tua moglie. Però torni a letto con me, devo ammettere che hai coerenza. Dopo tutto questo, incontri una ragazzina malata e vai fuori di testa, probabilmente ti ha fatto scoprire che in questo fottuto mondo c'è qualcuno più malato di te, quindi te la scopi giusto perché non si può lasciare nulla di intentato, interrompi un tour e ci fai tornare a casa. Ora, alla fine di tutto, Billie... Ma che cazzo vuoi dalla vita?-.
Cosa volevo dalla fottuta vita? 
Magari l'avessi saputo.
Avrei fatto di tutto pur di riuscire a dare una risposta a quella domanda.
Mike era esasperato, era furioso, la sua pazienza aveva superato il limite.
Non avrei mai pensato che ci sarebbero voluti vent'anni prima di vederlo mandare tutto a fanculo. Vent'anni, cazzo, mica pochi giorni.
Forse anche io avevo sopportato troppo e per troppo tempo.
Forse aveva ragione lui, ero solo un fottuto indeciso, uno che non sa cosa vuole, uno che dice una cosa ma nella sua testa ne pensa un'altra... E magari le desidera tutte e due.
Ero così, ero un fottuto idiota, ma era di quel fottuto idiota che Mike si era innamorato.
Era l'incertezza, l'indecisione, i dubbi che facevano parte di me che gli avevano preso la mente. Era di quei fottuti difetti che lui si era fottutamente perso, non di certo delle mie qualità. 
-Ecco, vedi, non sai rispondere. Sono vent'anni che non sai rispondere- continuò Mike. 
-Non posso dirti cosa voglio, è vero, non l'ho mai saputo. Ma posso dirti cosa non voglio. Non voglio perdere il nostro rapporto, Mike. Non voglio perderti: come persona, come amico, come tutto- risposi, tentando di fare luce in mezzo a quella confusione.
-Mi hai già perso, Billie, ma tanto tempo fa. Da quando ho capito che non cambierai mai: sei fatto di dubbi. Sei una casa fatta di legno, Billie, dove nessuno può vivere tranquillo: sembra solida se la guardi da fuori, potrà anche riparare da piccoli colpi di vento, ma alla prima forte tempesta crollerà-.
Silenzio.
-Scordati Mike Pritchard, quel ragazzo che qualche tempo fa hai conosciuto. Non esiste più, per te sarò il bassista, ecco. Uno con cui devi suonare. Sarò solo questo. Basterà andare d'accordo almeno quando siamo in scena, dovrò fingere di ridere quando spari una delle tue coglionate, come al solito, almeno quello. Così, tanto per mostrare agli altri che siamo i soliti coglioni di sempre. Nella vita avrai la mia indifferenza. Ma non devi stare qui a crogiolarti nel dolore di avermi perso, te ne farai una ragione, come sono convinto che probabilmente sia già successo. Mi hai perso, Billie e non c'è nulla che tu possa fare per tornare indietro, forse solo cambiare te stesso. Ma sappiamo entrambi che non accadrà mai-.
Detto questo, il biondo se ne andò voltandomi le spalle. 
Rimasi fermo dentro la mia macchina, immobile come una statua. 
La sigaretta tra le mani si era già consumata da un pezzo ma ero rimasto talmente rapito dagli occhi di Mike, dalla durezza dei suoi sguardi, che non me ne ero nemmeno accorto.
Non c'era modo di sanare i nostri conflitti.
Forse avrei dovuto lasciar perdere, continuare la mia vita senza di lui.
La verità è che nemmeno io sapevo cosa volevo: era difficile, in quel caso, dire esattamente in che ruolo volevo avere Mike nella mia vita. 
Il nostro legame aveva subito talmente tante trasformazioni che neppure io riuscivo a definire esattamente di cosa si trattasse quella nostra storia ne riuscivo a dire con certezza quali fossero i miei sentimenti per quell'uomo. 
Forse non riuscivo a definirlo perché Mike era tutto e lo era sempre stato.
Il tutto non è definibile, esiste e basta. 
Con il motore della macchina ancora acceso, mi persi nel fissare le spalle del biondo che, lentamente, si stava allontanando fino a sparire completamente dalla mia vista.
Avrei dovuto rincorrerlo, fermarlo, urlargli in faccia il mio dolore e la mia sofferenza.
Quello che era appena accaduto non era niente in confronto a ciò che sarebbe successo di lì a poco. 
Ero solo, chiuso dentro una macchina, tutti gli altri erano lontani.
Troppo lontani, oramai quasi irraggiungibili. 
L'auto di Jason White si parcheggiò accanto alla mia.
-Ciao, Billie- mi salutò il mio amico, con la mano alzata, scendendo.
Non lo ascoltai neppure. 
Improvvisamente innervosito dopo il litigio con il mio ex amante, mi misi a trafficare furiosamente tra le mie cose alla ricerca delle sigarette.
Con i nervi a fior di pelle, ingranai la marcia.
-Ehi- ripeté Jason due volte, avvicinandosi per mostrare la sua presenza. -Mi senti?-.
-Jason, vaffanculo!- sbraitai, infilandomi la sigaretta tra le labbra.
Partii, sgommando con le ruote della macchina sulla strada di sassi.
L'immagine della smorfia di Jason, un misto tra lo stupore e l'indignazione, mi accompagnò per il resto del tragitto. 
 
 
Mi fermai in una caffetteria poco distante da casa.
Volevo prendere un caffè in santa pace.
-Sí?-.
-Ciao, come stai?- chiese la voce al telefono.
Era un' amica. 
-Bene. Sono al Thornhill. Sto prendendo un caffè, raggiungimi-.
Dopo cinque minuti ci trovammo e chiacchierammo un pò. Con i miei amici non parlavo mai delle questioni riguardanti il gruppo, a loro non importava.
Una volta usciti a fumare una sigaretta, a raggiungerci fu un altro nostro amico, Paul. 
Nessuna parola riguardo i concerti, nessuna parola riguardo il tour annullato miseramente.
Con loro ero in pace, lontano dai riflettori: non dovevo dare spiegazioni e sapevo che non mi avrebbero fatto domande, a meno che non fossi stato io a volermi confidare. 
Una telefonata interruppe la nostra conversazione, questa volta a squillare era il telefono per le chiamate di lavoro. In pochi avevano quel numero telefonico. 
-Dimmi-.
Trè.
-Che cazzo é successo con Jason?-. 
Osservai Lizeanne e Paul e dissi loro che mi sarei allontanato un attimo dalla caffetteria.
Attraversai la strada.
-Allora?- insistette il batterista.
-Niente-.
-L'hai mandato a farsi fottere, eri fottutamente serio-.
-Capita. Chi te l'hai detto?-
-Cristo santo, si può sapere cosa ti prende?- chiese, ignorando la mia domanda.
-Posso mandare a farsi fottere chiunque e Jason non se la deve prendere. Posso scoppiare, anche io sono umano- risposi.
-Ultimamente ti infastidisci troppo spesso. Uno può anche incazzarsi nella vita, Billie, soprattutto dopo tutti i sacrifici che sta facendo quel ragazzo-.
-Billie? Sei dannatamente serio, allora-.
Mai e per nessuno motivo Trè mi chiamava per nome.
Solo nei momenti di estrema serietà oppure di rabbia.
Si trattava della prima opzione ma non era da escludere che potesse trattarsi anche di un insieme di quelle due cose. 
-Sono serio. Capisco che tu sia incazzato per la storia di Pat, il primo ad esserlo sono io. Ma non puoi girarti e mandare a fanculo chiunque, gruppo compreso. Se hai un momento di nervosismo, risolvitelo da te. Inutile creare delle questioni-.
-Io non creo nessuna fottuta questione. Siete troppo seri. Non è colpa mia se Jason prende tutto troppo seriamente e non ride una cazzo di volta. Posso avere un momento di nervosismo e volermi sfogare con il mondo, qual'è il problema? Ti mando a fanculo? Bene, ridi, sbattitene, mandami a fanculo, ma non stare zitto- ribattei, guardandomi attorno.
-Sta facendo dei turni impossibili, sta girando il mondo dalla mattina alla sera, viene sbattuto da un albergo all'altro, ha dovuto tenere una memoria di ferro e i nervi saldi per stare dietro a tre coglioni come noi. Vuoi riconoscergli un pò di merito?- sbottò il batterista.
-Trè, io voglio bene a quel ragazzo-.
-Ecco, allora vedi di non perderlo-.
-Nessuno vuole perderlo- replicai. 
-Ti conviene tenertelo stretto, se non vuoi che giri i tacchi e se ne vada. Ci stava già pensando una volta, ma per una cosa o per l'altra ci ha ripensato. Non voglio che uno se ne vada dal gruppo. Lascia stare i ragazzi; Tim, Jason e tutti gli altri- ribatté lui.
Jason White era sempre stato un amico per me, fin dai tempi in cui eravamo ragazzi. 
Ero stato io stesso a portarlo nel gruppo, facendolo integrare come secondo chitarrista nella band. Jason aveva legato moltissimo con Trè, tra i due era nata una forte amicizia, ormai si ritenevano inseparabili. Penso che White non si fosse legato in quel modo con nessun altro, me compreso. L'amicizia tra i due era più forte di tutto; alle volte ero arrivato perfino a chiedermi se fossero diventati anche amanti, ammetto di averci pensato.
Sapevo che erano solo mie fantasie: non si erano mai dichiarati aperti alla scoperta dell'attrazione verso lo stesso sesso. In poche parole nessuno dei due, che io sapessi, aveva mai avuto delle storie con gli uomini.
Ma niente era da escludere, tutto può cambiare nella vita: avevo sempre pensato che fare sesso con le donne fosse la cosa più bella del mondo... Questo prima di provare con gli uomini.
Non che fossi andato con alcun uomo al di fuori di Mike, a dire il vero.
Nella mia vita avevo avuto rapporti sessuali solo con lui.
Non ho mai capito esattamente se considerarlo "uomo" oppure "magnifica entità con membro maschile". Insomma, anche se Mike fosse stato una donna, un transessuale e che più ne ha più ne metta, io avrei provato verso di lui la stessa identica attrazione.
A prescindere da ciò che aveva tra le gambe. Non ho mai saputo, quindi, se definirmi esattamente "bisessuale" oppure semplicemente "innamorato di Mike".
Non era mia intenzione avere un dibattito con il batterista, non ne avevo la voglia ne la forza. Quei tempi, quelli dei dibattiti, delle litigate e delle incomprensioni, erano finiti da un bel pezzo.
Era ora di mettermi in luce, dovevamo lasciare da parte quelle stronzate.
Le cose non stavano andando bene: io mi ero allontanato progressivamente dagli altri, non era colpa solo della malattia oppure di Jane, la colpa era anche mia, di me stesso.
Forse mi ero solamente accorto che le cose si erano protratte troppo a lungo; per troppo tempo avevo finto di stare bene, così come avevano fatto anche gli altri. Non solo io mi ero staccato dal gruppo, poiché anche Trè cominciava a nutrire del risentimento; non essere messo a conoscenza dei fatti, soprattutto quelli riguardanti il tour, lo rendeva rancoroso e distaccato. 
Aveva cominciato ad evitare Mike, forse per via delle numerose litigate che in passato erano scoppiate tra i due a causa dei loro caratteri molto forti.
D'altro canto, il batterista con me invece continuava a tenere lo stesso rapporto di prima anche se negli ultimi tempi avevo notato in lui un cambiamento.
Era come se Trè volesse urlarmi in faccia qualcosa ma non trovasse il coraggio di farlo.
Sempre al fianco del batterista c'era Jason White.
Dall'altra parte, Mike andava d'accordo con il resto del gruppo, in particolare con Tim ed i miei assistenti, con i quali usciva abitualmente. I due Jason, entrambi sideman, avevano un buon rapporto, ma non quando si trattava di doversi schierare da una parte o dall'altra dei poli. Al centro di questi, esattamente in mezzo, c'ero io. Quasi tutti avevano intenzione di mantenere con me un buon rapporto di amicizia. Solo in quel momento mi misi a pensare a questi schieramenti e quasi mi venne da ridere; dannazione, stavamo parlando del gruppo, eravamo così preoccupati che andasse tutto in merda, eravamo così presi dal salvaguardare quel nostro legame lavorativo ( ed anche personale)... E poi alla fine? Che cazzo eravamo? Sicuramente non un gruppo. Potevamo considerarci tante persone che suonavano insieme e giravano il mondo, ma sicuramente non potevamo ritenerci il gruppo unito di una volta. Eravamo piuttosto un gruppo formato da tanti piccoli gruppetti. Non era forse meglio, alla luce dei fatti, dividersi davvero? 
Quella possibilità mi fece venire un nodo in gola. 
Forse avrei dovuto accettare le numerose proposte ricevute in quegli anni, ovvero dei contratti da solista? Avrei avuto successo, probabilmente avrei messo in ombra i problemi che il gruppo mi stava creando in quel periodo, in particolare American Idiot. 
No. Ma che cazzo stavo dicendo, ma che stavo pensando. 
Che cazzo mi passava per la testa? Mi parve un' idea bizzarra... e dire che non ero nemmeno ubriaco.
-Devo andare. Sono con amici- dissi.
-Tira fuori quel fottuto telefono e chiama Jason. Il numero ce l'hai. Lo inviti a bere una birra e vi fate quattro chiacchiere seduti al tavolino. Parlate, discutete, scannatevi se necessario, anche se non credo succederà mai a meno che non sia tu il primo a farlo. Con quello lì non si litiga, è vietato litigare. Sai quante volte ci ho provato?- disse Trè, con una voce così seria che non mi parve nemmeno la sua. 
Impossibile litigare con Jason White, l'avevo imparato con il passare degli anni.
Jason non litigava, non sbraitava, non diceva nulla.
Era sempre stato introverso, buono e riservato; era quello il suo carattere.
Non aveva mai perso la pazienza, cosa abbastanza insolita quando si ha a che fare con altri tre come noi. Assicuro che stare al mio fianco anche un solo giorno comporta un notevole dispendio di vaffanculo. 
Ovviamente Trè sapeva già che non avrei mai fatto quanto mi aveva appena detto. 
Se anche solo per un attimo, nella sua testa, avesse pensato il contrario, avrebbe significato che in tutti quegli anni non aveva capito nulla di me.
-Ciao-.
Riattaccai. Attraversai la strada e salutai i miei amici quindi me ne andai, salendo in macchina. Percorsi pochi metri correndo ed accesi una sigaretta fermandomi ad un semaforo.
Il sole caldo di mezzogiorno batteva sulla mia faccia.
Afferrai gli occhiali scuri.
In una mezz'ora feci un sacco di commissioni; per prima cosa, comprai una nuova scheda telefonica, quella che avrei usato per chiamare Jane in Inghilterra. In pochi minuti mi fu subito attiva e pensai di fare una chiamata alla ragazza per comunicarglielo.
Cambiai idea, l'avrei fatto nel pomeriggio. Non potevo cominciare una conversazione sapendo che probabilmente si sarebbe protratta almeno fino a quel pomeriggio, tante erano le cose da dire alla mia dolce ragazza. No. Non potevo far insospettire Adrienne: non vedendomi tornare a casa avrebbe telefonato. Solitamente chiamavo mia moglie verso quell'ora, a meno che non avessi impegni improrogabili che non mi permettessero di telefonare. Ma Adrienne sapeva che non avevo impegni in giornata, se non il colloquio mattutino con Magnarella. Sapeva anche che non dovevo vedermi con i ragazzi. 
Era il mio giorno libero, per così dire. 
Chiamai Adrienne.
-Ciao- rispose. 
-I bambini?-.
-A lezione-.
A causa degli impegni con il gruppo, raramente ero andato a prendere i miei figli a scuola. 
Si era sempre occupata di tutto Adrienne.
Dovevo solo esserle grato per come mandava avanti la famiglia. 
Adrienne era una mamma eccezionale, Jane lo sarebbe stata altrettanto?
-Sei a casa?- chiesi, girando il volante dell'auto con una mano.
-No, sarò a casa tra poco. Mangiamo?- chiese.
-Va bene. Vuoi che prenda qualcosa?-.
-Magari stasera- rispose Adrienne.
Riattaccai. Mi misi per un secondo a pensare al mio matrimonio, tentando di ricordare ciò che avevo provato quando le avevo infilato l'anello al dito. Non eravamo molto sobri all'epoca, ma ricordo quel momento con molta lucidità. L'avevo guardata negli occhi, credendo fermamente di amarla dal profondo del cuore. Erano passati giorni, mesi, anni ed io l'avevo sempre amata, avevo riposto in quel nostro sentimento tutte le mie speranze per il futuro. Avevo fatto di quell'amore per Adrienne quasi un punto fisso. Quasi.
L'amore che un tempo ci aveva così tanto legati, nel bene e nel male, si era poi 
affievolito fino a scomparire. Le nostre giornate, prima piene di felicità e di tenerezza, si erano fatte grigie e monotone. Un tempo ci parlavamo, io ed Adrienne, passavamo anche tutto il pomeriggio a conversare di ciò che si provava, delle emozioni, dei progetti, oppure semplicemente di come era andata la nostra giornata. Mi ricordo i bei pomeriggi passati all'ombra degli alberi nel parco, quando ancora ero un ragazzo e lei pure, solo con un pò più di buonsenso di me. Quei pomeriggi erano lontani, molto lontani, di noi due e della nostra bella storia erano rimasti solo i ricordi. Adesso eravamo così; distanti, freddi, senza voglia ne tempo di parlarci, addirittura di guardarci.
Parcheggiai la macchina fuori casa e scesi. 
Ad aprirmi fu mia moglie.
Non ci salutammo, le passai accanto senza dire una parola, solo un leggero sorriso.
Adrienne era ai fornelli, vidi la piccola pentola sopra al fuoco dal corridoio, ma oltrepassai la sala ed andai in camera per cambiarmi. Non lasciavo mai la porta della camera aperta quando dovevo andare alla cabina armadio, anche se in casa c'era solo mia moglie; infatti, una volta entrato, socchiusi la porta. Andai alla cabina e con le dita cominciai a sbottonarmi la camicia. 
-Billie...-.
La voce di Adrienne ruppe il silenzio. Non mi voltai a guardarla, continuai a svestirmi. 
-Billie, possiamo parlare?- chiese lei, avanzando verso di me.
-Va bene- risposi. 
-Che succede? È per i ragazzi?-.
-No, Adie- dissi.
-Perchè?-.
-Non chiedermi nulla. Non oggi-.
-Io non ti capisco, Billie. Non ti capisco davvero. So bene che ci sono dei problemi tra di voi, ma non credo che questo sia un buon motivo per non parlarne con me- affermò lei, affranta.
Mi tolsi la camicia.
-Abbiamo dei problemi, tutti i gruppi ne hanno, li risolveremo. Tu non devi preoccuparti, devi pensare alle tue cose- risposi.
-Mi manchi, Billie- così dicendo si avvicinò a me, afferrando i miei fianchi.
Mi accarezzò le spalle e mi baciò dolcemente con aria materna. Conoscevo bene Adrienne, era in cerca di attenzioni da parte mia ma sapevo che quel suo modo di toccarmi stava a significare solamente una cosa; voleva fare l'amore. 
Fui preso dal panico. 
Avevo tentato in tutti i modi di rimandare quel momento, il momento in cui Adrienne avrebbe richiesto di avere nuovamente un'intimità, la stessa che avevamo perso da qualche mese a quella parte. Sí, perché io non avevo rapporti con mia moglie da circa quattro o cinque mesi, dal momento in cui lei aveva scoperto di non essere incinta ed i miei piani per allontanare definitivamente Mike erano andati in fumo. L'ansia mi attanagliò il petto; sentii una forte pressione che non mi permise quasi di respirare.  
Sapevo con ogni fibra del mio corpo che mai e per nessun motivo al mondo sarei riuscito ad avere un rapporto con lei. Non perché disprezzassi Adrienne come persona oppure fisicamente come donna: mi era sempre piaciuta, avevo sempre adorato i suoi tratti ed il suo modo di fare. Non era una questione personale.
Non potevo pensare di spogliarmi, buttarmi a letto e stare con mia moglie.
Sarebbe stato uno stupido movimento meccanico ed al solo fine di procurare in lei il piacere che da tempo non provava più. Non era possibile sovrastare la potenza delle sensazioni che il rapporto avuto con Jane mi aveva inflitto, non potevo pensare di poter provare la stessa cosa penetrando un'altra donna che non fosse la ragazza.
No, non era quello che volevo. Non volevo stare con Adrienne.
Le sue mani che risalivano il mio corpo mi infastidivano, distruggendomi l'anima. Erano come lame che lentamente mi stavano uccidendo. 
Non volevo tradire Jane, non potevo farlo, non potevo tradire la notte a Berlino.
Se solo ripensavo alle emozioni fortissime che quella notte mi aveva lasciato sulla pelle, mi sentivo mancare il fiato. La mia emozione si era unita a quella di Jane, così come la nostra solitudine ed il nostro dolore, e solo da lì era nato qualcosa di grande ed indescrivibile, più grande di noi, più grande di tutto: nostro figlio. 
Quelle immagini erano così vive nella mia mente, mi passavano davanti in continuazione. 
Per un attimo le avevo perse di vista, a causa della tensione che in quei giorni mi aveva sconvolto, ma il tocco delle mani di Adrienne mi aveva riportato per un solo attimo a quella notte a Berlino, ricordandomi pochi piccoli particolari. 
Il piccolo ventre della ragazza, scoperto, con al centro l'ombelico.
Le pallide braccia che avevo afferrato per costringerla ad immobilizzarsi, in contrasto con i capelli scuri che, nel frenetico tentativo di averla mia per la prima volta, mi ero ritrovato tra le labbra. Le unghie che mi avevano graffiato una mano. 
Le gambe, tra le mie, il fastidioso scricchiolio del pavimento sotto alla schiena.
Le sue urla di dolore, le mie urla di piacere. 
Il bianco di Jane contro l'ombra della notte. 
Aprii gli occhi, lucidi, osservandomi la mano sinistra. Il segno del graffio era lì.
Terrorizzato, allontanai Adrienne.
-Billie, che succede?-.
Tentai di riprendermi. Non dovevo portare mia moglie ad avere dei sospetti.
-Niente- risposi, con il fiato corto.
Lei smise di toccarmi, mi sentii leggermente meglio. Il suo sguardo era un misto di delusione e di sgomento. Non era arrabbiata, semplicemente delusa.
Forse anche preoccupata per me.
-Billie... Sono mesi che non stiamo insieme- disse, appoggiandomi una mano sul collo.
-Adrienne, ti prego... Ti prego-.
Con fermezza, afferrai le sue mani, nell'estremo tentativo di liberarmi dalla sua morsa d'affetto. 
Lo sguardo di mia moglie si fece più duro e l'aria dolce di prima svanì completamente.
-Sono mesi che non mi cerchi più. Da quel maledetto test di gravidanza-.
Scossi negativamente la testa ma non risposi.
-Non rispondi?-. 
-Non é colpa tua- tentai di giustificarmi. 
-È per quel test? È perché non sono rimasta incinta?-.
Senza volerlo, Adrienne mi aveva appena fornito una valida scusa.
Mia moglie, infatti, pensava che io fossi contrariato per il fatto che lei non riuscisse a rimanere incinta. Del tutto ignara, invece, che i pensieri nella mia testa erano ben altri.
Un figlio lo aspettavo già, ma non certo da lei.
Da lei non avevo intenzione di averne altri.
-Sì-.
-Non devi tenerti tutto dentro. Lo so che sei arrabbiato perché non abbiamo avuto quel bambino, ma se non stiamo insieme come puoi pensare che succeda? Mi dispiace... Ma non voglio che questa cosa ci faccia allontanare. Io ti amo-.
-Non ci allontaneremo. Ma forse è un troppo presto per provare di nuovo... Forse é il caso di aspettare ancora un pò-.
Le giustificazioni reggevano.
-Hai ragione- acconsentì lei. Silenziosamente, ricominciai a svestirmi. Adrienne si sedette sul letto e, come se non fosse successo nulla, spostò l'attenzione su ciò che aveva fatto in quella giornata, sui suoi impegni e sulla cena con le amiche che l'aspettava l'indomani sera.
-Domani stai tu a casa con i ragazzi?- mi chiese, sistemando le cose sopra al tavolino.
-Va bene-.
Afferrai un maglioncino nero di lana e me lo misi addosso.
-Billie, mi è venuta in mente una cosa; ho guardato nella valigia e non ho trovato la tua maglietta bianca. Dove l'hai messa?-.
Mi sentii gelare. 
Era sporca di ketchup, stropicciata e buttata in un sacchetto in fondo ad una piccola borsa che avevo messo in soffitta. Era l'unico posto dove sapevo che Adrienne non l'avrebbe mai trovata. 
-Non so dove sia, ero convinto di averla messa in valigia- affermai, mentendo.
-Non c'è, non l'ho trovata-.
Non sapevo cosa rispondere, ero in difficoltà. Dovevo giocare bene le mie carte.
-Può essere che l'abbia dimenticata da qualche parte. Chiamerò Tim- affermai, con tono deciso; Adrienne annuì, cambiando argomento.
Lei parlava, ma io non l'ascoltavo. Ero troppo impegnato nel piegare i miei vestiti e pulirmi le scarpe. Avevo sistemato nuovamente le mie cose nella cabina, le stesse che qualche mese prima mi ero portato via per cominciare il tour. Poche cose, quelle essenziali.
-Va bene, vado a mangiare- disse mia moglie, alzandosi dal letto.
La salutai, dicendole che non l'avrei raggiunta.
Ero stanco, dovevo riposare.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=554899