A Good Year

di harinezumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo uno ***
Capitolo 2: *** capitolo due ***
Capitolo 3: *** capitolo tre ***
Capitolo 4: *** capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** capitolo sei ***
Capitolo 7: *** capitolo sette ***
Capitolo 8: *** capitolo otto ***
Capitolo 9: *** capitolo nove ***



Capitolo 1
*** capitolo uno ***



capitolo uno – in cui si viene a conoscenza di Mr. Kirkland

 

{qualche vendemmia fa – Francia}

Un ragazzino dagli scarmigliati capelli color paglia sta seduto sulla sedia da giardino in ferro, dondolando le gambe che non toccano terra. Ogni tanto aggrotta le folte sopracciglia, osservando con aria sempre più nervosa la scacchiera sul tavolo davanti a lui e i pezzi che vi sono disposti sopra.

Annoiato da tutto quel pensare alla prossima mossa da fare, alza gli occhi sulla sedia vuota di colui che fino a poco prima stava giocando a sacchi contro di lui. È entrato a prendere da bere, quel suo zio che non si cura affatto dei suoi dieci anni, e gli offre sempre il vino; probabilmente si è stufato di aspettare che il ragazzino faccia la sua mossa, rimandata in continuazione perché è ormai imminente la sua sconfitta.

Il viale della villa dello zio è vuoto e solitario, ma tra gli alberi che lo costeggiano spira sempre dolcemente il vento. È un buon posto per mettersi a giocare a sacchi, a pochi passi dalla porta di servizio della cucina.

Il ragazzino sbircia proprio all’interno della cucina, cercando con gli occhi lo zio. Vedendo che è sparito verso l’atrio, prende curioso il sigaro che ha lasciato nel posacenere, e se lo posa sulle labbra, senza tuttavia inspirare. Un’altra occhiata alla porta e allunga la mano verso un pedone avversario della scacchiera, spostandolo.

Fa appena in tempo a barare in quella maniera spudorata e a riposare il sigaro al suo posto, che lo zio è tornato, e gli allunga due bottiglie, entrambe di vino rosso, perché scelga.

«Visto che è la tua ultima notte qui, Arthur, pensavo di stappare qualcosa di speciale» spiega Henry, lanciando solo uno sguardo alla scacchiera, ma senza dire una parola a proposito del pedone spostato.

«Bandol» indica Arthur, con decisione, toccando con l’indice una delle due bottiglie.

«Ottima scelta» afferma lo zio Henry. «È un vino davvero forte…». E parte con uno dei suoi aneddoti. Allo zio piace raccontare aneddoti, e parlare in quella maniera studiata.

Arthur già si aspetta la morale di tutta la faccenda, che arriva puntualmente, mentre lui finge di essere ancora concentrato sulla scacchiera e beve ogni tanto sorsi dal calice che gli è stato offerto.

«Arthur, ti ho mai detto perché faccio il vino?»

«Ma non sei tu a farlo, zio Henry. È quel tale Vargas».

«In Francia, è il proprietario terriero che fa il vino. E mi piace farlo perché il vino è assolutamente incapace di mentire». Piccola pausa ad effetto, tipica di Henry, mentre i suoi occhi si fissano su quelli del nipote, ora che è di nuovo seduto davanti a lui. «Ora che sai perché amo così tanto il vino… non c’è qualcosa che vorresti dirmi?»

Arthur ignora il riferimento alla loro partita a sacchi, e sorride innocentemente, sorseggiando un altro po’ di vino e successivamente posando il calice. Sporgendosi sul tavolino, prende il proprio cavallo e lo sposta davanti al re, alzando poi gli occhi sullo zio. «Sì. Scacco matto».

«Che piccolo bastardo!»

 

{molte vendemmie dopo – Inghilterra, a Londra}

Quel tipo in completo nero, auricolari e microfono non somigliava affatto al ragazzino degli scacchi, mentre era intento a spronare con parole seccate ogni singola persona nell’ufficio. Il suo assistente, giovane e inesperto per quanto diligente, continuava a seguirlo da una scrivania all’altra, tenendo tra le mani fasci di carte e libri, assieme ai due cellulari di Arthur Kirkland.

«Il segreto della ricchezza, mezzeseghe… è lo stesso della commedia» affermò Arthur, salito sul soppalco dove si trovava il suo ufficio di broker, sopra a quelli degli impiegati, ai quali ora parlava in un tentativo di incoraggiamento. «… i tempi».

«Siamo a 115.10…» squittì ansiosamente l’assistente di Arthur con la sua vocina bassa e tremula, osservando preoccupato il monitor appeso sulla parete dall’altra parte dell’ufficio.

«Non ancora, Alf» rispose stancamente il signor Kirkland, appoggiandosi con le mani alla balaustra e fissando il monitor a sua volta, incurante del fatto che tutti aspettavano ansiosamente un suo ordine.

«Perché continui a chiamarmi Alf? Il mio nome è Matthew…» mormorò l’assistente, con un tono all’inizio un po’ contrariato, ma via via affievolendo la voce e abbassando lo sguardo. Era leggermente più basso di Arthur, aveva i capelli biondi con un buffo ciuffo sulla testa e gli occhi azzurri; gli scivolavano in continuazione gli occhiali dal naso, e nonostante tutti lo maltrattassero e ignorassero era docile come un agnellino.

«Non ho tempo adesso, Alf…» lo liquidò infatti Arthur con un gesto stizzito della mano.

 «Siamo a 116.10… la gente comincia a comprare…» balbettò Matthew, che aveva scaricato il suo carico di roba sulla scrivania di Arthur e leggeva lo schermo del computer. Ma non ebbe il coraggio di aggiungere altro.

«Ok, vendi» disse all’improvviso Arthur.

Immediatamente, l’ufficio si riempì di urla e squilli di telefono, mentre la maggior parte degli impiegati si alzava in piedi e cominciava a vendere le azioni, gesticolando. Fu solo quella sera che quel brusio si acquietò, quando tutto l’ufficio si ritrovò attorno ad Arthur, mentre qualcuno stappava addirittura lo champagne.

«Congratulazioni, abbiamo fatto uno spettacolare mucchio di soldi a spese altrui!» esclamò allegramente Arthur, salito in piedi su una delle scrivanie, mentre gli impiegati lo acclamavano. «Ricordatevi… vincere non è tutto…».

Un coro di voci finì la frase con lui: «… è l’unica cosa».

Già, vincere era diventata la ragione di vita di Arthur Kirkland. Amava la sensazione di potere quando giocava in quel modo con i titoli azionari, amava il fatto che la gente lo trovasse temibile e spaventoso, per quanto stronzo e senza amici. Gli affari sembravano essere l’unica cosa che lo interessasse: non aveva nemmeno una fidanzata, perché non aveva tempo né voglia per una cosa del genere; a quel tipo di cose pensavano più gli stupidi francesi.

Lui recitava la parte di un dannato gentleman, e insieme era una di quelle persone che ti fregano e ti guardano annegare nella disperazione con il sorriso in faccia.

***

«Sono pronto per le e-mail dei fan» esclamò allegramente Arthur, entrando nel suo lussuoso ufficio e chiudendo la porta vetrata dietro di sé. Si sedette mollemente sul divano, attendendo che Matthew prendesse parola, mentre quello impacciato si aggiustava gli occhiali.

«Ehm… questa dice che sei un bastardo» mormorò l’assistente leggendo il foglio, in piedi davanti a lui. «Questa che dovresti bruciare all’inferno… anche quest’altra… questa dice “muori”. Ah, questa dice “sei il mio eroe”!»

«Chi la manda?» chiese Arthur, sorpreso, smettendo di compiacersi per gli insulti che gli venivano rivolti, che avevano come unico effetto quello di far accrescere la sua stima in sé.

«Il tuo avvocato».

«S-senti Arthur, quest’altra viene dalla Francia» mormorò dopo un po’ Matthew, con gli occhi fissi sull’ultimo foglio di e-mail stampate. «Credo che dovresti leggerla da te…» continuò, passandolo al proprio capo con aria assolutamente afflitta.

Arthur lo prese tra le mani, lanciando al suo emotivo assistente un’occhiata perplessa. Ma quando lesse ciò che c’era scritto nella lettera gli si seccò la gola ed impallidì visibilmente, mentre non ascoltava più Matthew biascicare con quella sua vocina che certo non si confaceva ad un uomo. Tornò a sentirci quando ormai quel discorso era giunto alla fine.

«… sembra che tuo zio non abbia scritto un altro testamento in questi vent’anni, così hai ereditato la sua proprietà, in quanto ad unico parente stretto. Il notaio francese ci ha messo un mese per rendersene conto e avvertirti…»

«Il che è tipico di quei mangiarane» reagì finalmente Arthur, con uno sbuffo stizzito. «Dovrei decisamente vendere tutto, anche il vigneto. Va bene, che dovrei fare?»

«Hai un appuntamento con il notaio francese alle tre di domani pomeriggio. T-ti ho prenotato un aereo».

«Kenny!» esclamò Arthur, alzandosi in piedi e arrossendo immediatamente per la rabbia. Come aveva osato quella parodia di assistente? «Non ho intenzione di andare in Francia, mi sembra evidente che ho molto da fare qui e…»

«M-ma hai ereditato ogni cosa… e non volevi bene a tuo zio? Quando gli hai parlato l’ultima volta?» cercò di chiedere l’assistente, ignorando ancora una volta il fatto che il suo capo non si fosse ricordato il suo nome.

«Certo che gli volevo bene!» sbottò Arthur, come se il solo confessarlo fosse una cosa spregevole. «Ma non ci rivolgevamo la parola da molto tempo».

«E perché mai?»

Arthur sospirò, passandosi una mano sul viso ed avvicinandosi alle vetrate dell’ufficio, al quarto piano, per guardare giù. «Ha probabilmente a che vedere con il fatto che sono diventato uno stronzo».

«Quanto grande è questa tenuta? Posso cominciare a cercare degli acquirenti mentre tu sei via!» si affrettò a cambiare argomento Matthew, decisamente poco convinto che tirare fuori i buoni sentimenti di Arthur fosse una cosa positiva.

«Sono undici ettari… c’è il parco, il vigneto, la piscina…» mormorò il suo capo, senza togliere gli occhi dall’affollata strada londinese sotto di loro.

«Lascia fare a me! Vedrai, non dovrai preoccuparti d’altro che di fare questo viaggio, ci metterai un giorno al massimo» disse con entusiasmo Matthew.

 

 

____________________

*non uccidetemi*

salve a tutti (cioè buon sonno a voi che avete il buonsenso di dormire)! ho deciso di inserire questa storia nella notte e nel buio, perché in verità l’idea mi ha preso parecchio, ma non so com’è venuta e ho il terrore di farla leggere °-° quindi è probabile che prima di mattina ci ripensi ed elimini tutto xD

per il titolo ho mantenuto quello inglese “A Good Year”, in italiano s’intitola “Un’ottima annata”. mi scuso in anticipo se per qualcuno rovinerò quel bel film ç_ç

questo più che un capitolo è un breve prologo (infatti non succede una cippa); ho cercato di attenermi alla trama e alle scene del film, tranne per il finale che ho stravolto completamente a mio piacimento (per dei motivi validi eh u.u). è possibile che i personaggi risultino un po’ OC, ma conosco Hetalia appena da un mese e comunque spero di essere giustificata, li ho sballottati in un AU é.è

per quanto riguarda la scena di Arthur che vende le azioni (o almeno credo siano tali) °-° ehm… io non so come funzioni il mondo della finanziaria, ho scritto tutto a casaccio.

un’altra cosa che devo dire è che non ho nessunissima esperienza in scene yaoi a raiting alto u.u’ perciò ho messo arancione, spero che non me ne vogliate se non riuscirò a fare un granché.  

beh che dire ancora, buonanotte e sogni d’oro a tutti :D

harinezumi

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Capitolo 2
*** capitolo due ***


 

capitolo due – in cui Arthur viaggia in una cassa verdognola

 

Arthur uscì con aria seccata dalla porta girevole dell’aeroporto di Avignon, alzando gli occhi sul parcheggio davanti a sé. Erano tutte auto nuove con targa e guida all’europea, prenotate da uomini d’affari in viaggio quale era lui; proprio per questo erano più che altro grosse Audi o Mercedes, ed Arthur non si sarebbe mai aspettato di arrivare al suo parcheggio numerato e di trovarvi una Smart color pisello.

Rimase a fissarla a bocca aperta per un po’, senza capire se quella fosse la realtà o un incubo, poi telefonò immediatamente a Matthew.

«Idiota!! Che razza di auto mi hai preso?!» gli sbraitò al telefono, mentre l’assistente cercava di squittirgli delle scuse in proposito.

Arthur era riuscito a salire in macchina, nonostante fosse poco più grande di un cassonetto, ma per quanto ci provasse non capiva come spegnere lo stereo, che come se non bastasse era bloccato su un programma radio il cui cronista parlava in forbito francese.

Cercò anche di prenderlo calci, dopo che si fu liberato del cellulare, dato che le scuse di Matthew lo avevano fatto infuriare ancora di più.

«Oh, andiamo, non esiste…» strillò, quando il volume dello stereo prese ad alzarsi da solo nel mezzo di una canzone. E non trovava nemmeno un’uscita dal dannato parcheggio dell’aeroporto, aveva la sensazione di essere passato almeno un milione di volte a tutti gli stop e non riusciva a capire un accidenti di cosa dicessero i cartelli.

Cercava di seguire le istruzioni riportate da Matthew su una cartina per raggiungere la villa, ma non riusciva a leggere i nomi delle strade con chiarezza, essendo impegnato a reggere la mappa sul volante e a guidare. Fu più di una volta sul punto di gettarla fuori dal finestrino, che teneva aperto come il lunotto sul tettuccio, dato che faceva piuttosto caldo a girare le stradine di campagna in cui si era perso.

Ad un certo punto, notò un gruppo di ciclisti a lato della strada, e con un sorrisino demoniaco alzò il braccio facendolo sbucare dal tettuccio, il dito medio alzato.

«Louis Armstrong!*» urlò contro ai francesi, che presero immediatamente ad insultarlo pesantemente, mentre sfrecciava via con il braccio bellamente sollevato.

Si arrese dal cercare pochi minuti dopo, fermandosi ad un incrocio deserto per l’ennesima volta. Aveva probabilmente perso l’appuntamento con il notaio nel suo girare a vuoto per la campagna francese; così telefonò nuovamente a Matthew.

«Devi aiutarmi» gli disse, in tono molto conciliante nonostante si ricordasse ancora in che auto del cavolo lo aveva spedito via l’assistente. «Usa il tuo GPS… il mio spiega schifosamente in francese e la radio non si spegne, ci parla sopra! E sposta il mio appuntamento con il notaio a domani».

«Ti fermerai lì per la notte? D’accordo, ora gira a destra…» mormorò diligentemente Matthew, seguendo probabilmente il percorso di Arthur dal proprio iPhone.

«Non vedo alternative! Chissà perché ho la sensazione che sia tutta colpa tua, ho seguito le TUE istruzioni!»

«Ehm… o-ora gira di nuovo a destra, dovrebbe essere in quella via dove sei, una laterale…»

***

Arthur non credeva che sarebbe riuscito a notare la famosa laterale di Matthew, una specie di sentiero allargato con a fianco un cartello nascosto dalle erbacce. Lo sorpassò prima di fare retromarcia, invitato dal GPS francese, che solo in quel momento servì a qualcosa.

Con un sospiro di sollievo, di lì a cinque minuti aveva parcheggiato lungo il viale alberato della villa di zio Henry, che troneggiava immersa nel verde su un vigneto. Il sole stava tramontando, rendendo quel piccolo pezzo di campagna francese meraviglioso e sterminato agli occhi di Arthur, abituato alla freddezza delle strade di Londra.

Il cielo era arancione e il sole stava sparendo dietro alle collinette verdi, quasi totalmente prive di abitazioni. C’era profumo di terra e gli uccelli cinguettavano tra le fronde, mosse dal familiare vento che Arthur ricordava così bene.

Proprio perché incantato da quella visione, non entrò subito in casa, prese soltanto le chiavi che aveva chiesto gli fossero lasciate sotto una pietra. Si mise in cammino per il parco, rimasto in camicia dato che la giacca del completo l’aveva abbandonata in auto, e si sorprese a ricordare tutto ciò che aveva vissuto in quel giardino assieme ad Henry.

Salì sul trampolino della piscina ora vuota e piena di melma e sterpi, molleggiandosi un paio di volte; fece visita al campo da tennis, gli sembrava quasi di sentire lo zio dirgli, dopo la sua sconfitta, “non è importante vincere sempre, l’importante è non perdere troppo spesso”. Si ritrovò a passeggiare lungo i vigneti, sfiorandone le foglie con una mano e un sorriso sulle labbra.

Si chinò, afferrando una manciata di terra sotto ad una delle vigne, ed annusandola. Starnutì immediatamente, gettando via quella robaccia con un’espressione disgustata, quando una voce lo sorprese, parlando da dietro di lui.

«C’è il fertilizzante, imbecille».

I suoi occhi si spostarono dietro di sé, su di un ragazzo bassino che lo fissava, il volto abbronzato sporco di terra e un’espressione imbronciata sul viso. Aveva gli occhi scuri, ambrati e penetranti e un buffo ciuffo di capelli castani arricciato che gli spuntava sulla fronte. Sicuramente era più giovane di Arthur, e aveva tutta l’aria di un povero straccione, luridi com’erano i suoi abiti.

«Non puoi essere Vargas…» mormorò Arthur, senza prestare troppa attenzione all’insulto che gli era stato rivolto (lo aveva capito anche se non era nella sua lingua), tanto era sorpreso.

«Ed invece sono proprio io! Chi saresti? E che cazzo ci fai qui?» sbottò il ragazzo in un inglese stentato. Prima si era rivolto a lui in un francese altrettanto stentato.

«Sono Kirkland. Pensavo di passare qui la notte».

Il ragazzo emise uno sbuffo seccato. «Non bighellonare per le mie vigne, idiota! Sono il nipote di Vargas, che si occupava della produzione del vino quando tu sei stato qui. Mi avevano avvertito che saresti arrivato».

«Come ti chiami? Ah, e conoscevi mio zio?» chiese Arthur, sentendosi subito dopo piuttosto idiota a porre una domanda simile. Anche il ragazzo sembrò pensarlo, e le sue sopracciglia si aggrottarono.

«Mi pare evidente che lo conoscevo! Ma voi inglesi siete tardi o cosa? Mi chiamo Lovino» rispose, presentandosi visibilmente controvoglia. «Io e quel povero idiota di Antonio ci prendiamo cura del vigneto e della casa. A dire la verità, qui ci sto solo io perché il bastardo preferisce fare la cameriera e rassettare».

«Ah! Mi ricordo di Antonio!» esclamò Arthur. «Dov’è adesso?» chiese, sperando di liberarsi di quel ragazzino, troppo irascibile per i suoi gusti. Era certo poi che dall’espressione di Lovino la voglia di fuggire fosse lontano reciproca.

Vide l’altro arrossire fino alla punta dei capelli e abbassare lo sguardo, restando in silenzio per un po’. «E che m’importa!!» gridò inaspettatamente il ragazzo alla fine, girando i tacchi e correndo via, lasciandolo solo e imbambolato.

«Ho fatto soltanto una domanda…» mormorò Arthur, mentre seguiva confuso con gli occhi Lovino che spariva dietro la villa. Ricordava che il signor Vargas abitava in una casetta poco distante, collegata alla tenuta da un sentiero, un breve tratto di strada; ma non aveva molta voglia di seguire quel ragazzino così ostile, così tornò sui suoi passi.

Con un sospiro, notò che si era macchiato la camicia di terra, e la tolse con stizza, gettandola sul letto di quella che era stata la stanza di Henry. Era ancora tutto come lo zio l’aveva lasciato, c’era persino un bigliettino sul tavolo della cucina per lui. Probabilmente era stato Antonio scriverlo e a lasciare per lui una cena molto migliore di quella che si sarebbe potuto preparare da solo.

Gli fece una certa impressione dormire alla villa, e per quanto stanco fosse non riuscì ad addormentarsi per parecchio tempo. Continuava a fissare il soffitto, sperando di poter fuggire presto da quella tortura. Non avrebbe ammesso neppure a sé stesso quanto quel luogo gli fosse mancato.

***

La mattina Arthur si svegliò molto più allegro del giorno prima, perché quello era il giorno in cui avrebbe detto addio per sempre ai troppi ricordi che lo avevano tormentato fino a notte inoltrata. Con un sorriso enorme, nonostante nessuno potesse vederlo, scese in cucina e cominciò a cercare del tè.

Purtroppo per lui sembrava che lo zio Henry fosse un caffeinomane incallito, perché c’erano unicamente pacchetti di quella bevanda in ogni sportello della cucina in cui aveva guardato, ma di tè neanche l’ombra.

Arthur cominciò a inveire pesantemente contro la cucina, gettando sul tavolo tutte le inutili moke e macinacaffè che riusciva a trovare. Si arrese solo quando, aprendo il frigorifero, vide che era rimasta almeno una bottiglia di latte.

Senza nemmeno leggere la data di scadenza, cominciò a berlo a canna, quando qualcuno dietro di lui lanciò un urlo di gioia. Ovviamente ad Arthur andò di traverso tutto ciò che stava bevendo e si versò anche il resto del latte in faccia, mentre sbattendo le palpebre e tossendo si voltava verso la causa del suo soffocamento.

«Arthur! Sono così felice di vederti!!» esclamò il ragazzo abbronzato che era appena entrato in cucina. Quando lo aveva visto, aveva lasciato immediatamente la cassa di pomodori che reggeva tra le mani ed era corso ad abbracciarlo, dando all’inglese giusto il tempo di riconoscerlo.

Mentre Arthur cercava di divincolarsi gentilmente dalla presa di Antonio, quello continuò a dire quanto fosse felice di averlo lì, che Lovino non era per niente carino con lui e dopo la dipartita di Henry si era sentito così solo… fortunatamente Arthur sarebbe rimasto con loro adesso! Etc etc; da parte sua, Arthur aveva balbettato soltanto qualche parola di circostanza, e tirò un sospiro di sollievo quando Antonio decise di preparargli la colazione.

Era esattamente come se lo ricordava, a parte il fatto che era cresciuto in altezza; aveva ancora quei capelli castani e spettinati, quegli enormi occhi verdi e un’espressione da bambino sempre stampata sulla faccia.

«Mi parlavi di Lovino prima… Quel ragazzino si occupa veramente di tutto il vigneto adesso? Che fine ha fatto suo nonno?» domandò Arthur, una volta che si fu seduto fuori a fare colazione, nel medesimo tavolino dove tanto tempo fa giocava a scacchi con lo zio. In qualche strana maniera, Antonio aveva trovato il tè e ora gliene aveva servita una bella tazza fumante.

«Nonno Vargas? Nessuno sa dove sia. Lovino è italiano, è arrivato poco dopo che tu sei tornato in Inghilterra» spiegò allegramente Antonio, legandosi una bandana alla fronte e impugnando una scopa, parlandogli dalla porta della cucina. Sembrava trovare divertente il mettere in ordine quella villa enorme. «È così carino quando vuole! Ma immagino ti abbia trattato in maniera improponibile appena ti ha visto. È fatto così».

«Sta ancora nella casa del nonno?»

«Si, tutto solo, pensa! Ogni tanto vado a trovarlo, ma rifiuta il mio aiuto… da quando i miei sono tornati in Spagna, io sto con un ragazzo in paese».

Arthur rabbrividì, sperando ardentemente di aver capito male. Certo Antonio non era il tipo che si faceva problemi a parlare di tutto, ma lui di certo avrebbe preferito non conoscere certi… particolari privati.

«È così gentile da farmi abitare con lui, anche se ha sempre molto da fare con il suo bistrot… non ha nemmeno il tempo per trovarsi qualcuno!» rise Antonio, fugando i dubbi di Arthur, che sospirò di sollievo. «Anche se credo sia gay».

Arthur cercò di non soffocarsi di nuovo con il tè, ma fortunatamente conversazione con Antonio s’interruppe lì, quando il suo cellulare squillò. «P-pronto?» chiese l’inglese, senza fiato.

«Ah! Ehm, ti volevo dire che il capo ha chiesto di vederti, questo pomeriggio alle cinque» balbettò la voce di Matthew, come sempre fin troppo timido e nervoso. «Dovresti farcela, l’appuntamento con il notaio è alle undici di questa mattina, perciò hai ancora più di un’ora…»

Arthur, che fino a quel momento era stato a sentire con pazienza anche se si trattava di Matthew, lo interruppe con orrore. «L’appuntamento è all’ora tua o ora mia?»

Dall’altro capo del telefono si allungò un silenzio inquietamente. Poi, l’assistente si schiarì la voce timidamente, rispondendo con un filo di voce: «Ora tua…».**

«Cazzo! Matthew!» sbraitò Arthur, sbattendogli il telefono in faccia e alzandosi in piedi di scatto per raggiungere la camera di zio Henry ed infilarsi i vestiti in fretta, tanto che per poco non si mise i pantaloni al contrario. Ignorando Antonio che gli aveva posto una domanda, uscì di casa e si mise alla guida della sua Smart-pisello, premendo l’acceleratore a tavoletta.

Matthew osò richiamarlo proprio mentre cercava di rintracciare la strada per il paesino vicino alla villa di Henry, balbettando qualcosa a proposito di un enologo per controllare il vigneto e di foto della tenuta che intendeva utilizzare per la vendita. Arthur cercò di scrivere l’e-mail alla quale inviarle e nel contempo guardare la strada, ma la sua impresa fallì miseramente.

Il cellulare gli cadde di mano finendo sul tappeto del sedile del passeggero, così con un poco elegante «Cazzo!», Arthur si chinò ad afferrarlo, dato che il tratto di strada era rettilineo e non prospettava di finire fuori strada.

Non aveva notato il ragazzo in bici che arrivava dalla parte opposta della stretta stradina di campagna. Quel tipo fischiettava allegro, in occhiali da sole e con tanto di jeans e camicia aperta svolazzante attorno ai suoi fianchi. Aveva i capelli biondi lunghi sulle spalle e un’espressione totalmente priva di pensieri, almeno finché non vide la Smart di Arthur venirgli addosso.

Il suo braccio andò pesantemente a sbattere contro uno degli specchietti, e il ragazzo perse il controllo del manubrio, finendo fuori strada ad una velocità strabiliante, senza nemmeno avere il tempo di sorprendersi per cotanta idiozia mostrata dal suo investitore, che non si stava nemmeno fermando a soccorrerlo.

Arthur infatti rialzò la testa solo quando fu almeno cento metri più in là, stringendo vittorioso il cellulare tra le mani e ignaro del francese steso a terra sul fieno poco più indietro che lo malediva in un sacco di modi coloriti.  

Certo non si sarebbe scordato facilmente di quel pisello verdognolo che l’aveva quasi ammazzato.

***

Arthur era ancora abbastanza seccato quando parcheggiò davanti allo studio del notaio, ma era riuscito ad arrivare in ritardo di soltanto pochi minuti. Non si era affatto aspettato di trovare una donna ad aprirgli, ed in più che lei stessa si rivelasse essere il notaio.

Era molto giovane e molto carina, e nonostante fosse vestita con una certa professionalità, Arthur non mancò di notare gli eleganti tatuaggi che aveva intorno alle caviglie.

E quella lì sarebbe un notaio?, pensò, alzando un sopracciglio, ma rimase ad ascoltare tutto quello che lei aveva da dire. L’unico punto che gli stava veramente a cuore era comunque come vendere il prima possibile la villa di Henry ed andarsene da quei ricordi per sempre.

«Lei sa, naturalmente, che la famiglia Vargas coltiva quel vigneto da più di trent’anni, producendo il vino della tenuta…» disse ad un certo punto la donna, risvegliando Arthur dai suoi pensieri piuttosto poco raffinati sulla sua scollatura. «Cosa intende fare a proposito?»

«Non m’interessa che Lovino Vargas mantenga il suo lavoro, se è questo che intende. Voglio soltanto vendere… in questi casi si consegna agli interessati una liquidazione» sbottò Arthur, fissandola ora negli occhi, cinico e lapidario.

La donna si sistemò gli occhiali sul naso, senza commentare. Eppure Arthur ebbe la sensazione che lei si stesse facendo un’opinione ben poco nobile di lui; del resto, quello che contava di più era soltanto tornare a casa il prima possibile. «Abbiamo finito, quindi» gli rispose, con un sorriso glaciale.

***

 Arthur gettò con uno sbuffo la propria valigia nel portabagagli di quella che si spacciava per un’auto, tornando indietro per chiudere la porta della villa a chiave. Purtroppo per lui, s’imbatté in Lovino prima di poter entrare in macchina.

Il ragazzo veniva di corsa dal vigneto e attirò la sua attenzione con un «Ehi! Fermati, bastardo» poco gentile, ma che costrinse Arthur a fermarsi e a voltarsi verso di lui.

«Vuoi vendere La Siroque***?» domandò Lovino, con il fiato corto, fermandosi fremente a pochi passi da lui.

«Le notizie corrono veloci…» fu tutta la risposta di Arthur, che aprì lo sportello dell’auto.

«Ehi, non provare a scappare! Non è questo che tuo zio avrebbe voluto!» Lovino si avvicinò ancora, ma l’inglese era già salito in macchina e aveva richiuso la portiera. «Io amo questo posto, amo far crescere le viti… Non pensi a me?! E ad Antonio, l’unico posto dove può stare è qui! I suoi genitori non lo possono neppure mandare ad un’università decente e… sarà costretto a tornare in Spagna…». Il tono di Lovino si era curiosamente fatto emotivo nel nominare Antonio, e il ragazzo si era aggrappato al vetro del finestrino mezzo aperto, ma Arthur sbuffò soltanto.

«Senti, ho intenzione di darvi dei soldi…» mormorò, mettendo in moto con aria seccata.

«Pensi di andartene da qui e toglierci tutto questo così?» urlò Lovino, staccandosi finalmente dall’auto e tirando un calcio ad uno dei pneumatici, rosso in volto.

«Spiacente. Ci vediamo» rispose con un sorriso Arthur, inforcando gli occhiali da sole e partendo.

Fu soltanto quando si ricordò delle foto che doveva scattare per la vendita della tenuta che frenò bruscamente, sbuffando con rassegnazione e raccogliendo il cellulare, uscendo di nuovo dall’auto. Lovino fortunatamente si era già levato dai piedi nel tempo che ci aveva messo a percorrere il viale fino in fondo.

Cominciò a scattare foto a caso con il suo iPhone, cercando di essere almeno in parte artistico nei suoi scatti, che però restavano comunque penosi. In particolare, se le foto del parco erano accettabili, quelle della villa erano orrende.

Ma da trampolino della piscina c’era sempre stata un’ottima visuale della facciata della casa, così Arthur vi salì sopra, sollevato di essersi ricordato quella trovata. Non fece caso allo scricchiolio che si sentì provenire dall’asse, era troppo impegnato ad trovare una buona inquadratura.

Il trampolino si spezzò proprio quando stava per fare un passo verso la “terra ferma”, lasciandolo cadere con un rovinoso schianto a faccia in giù nello strato di melma che popolava la piscina vuota.

Arthur ci mise un po’ per rendersi conto di cos’era successo, era stato sul punto di perdere seriamente i sensi per quello scherzo che gli era stato giocato da quel dannato trampolino. Ma si sentì decisamente più male quando vide che non c’era nessuna scaletta intorno per farlo uscire da quella prigione; i bordi della piscina, del resto, erano troppo in alto perché lui riuscisse anche solo a sfiorarli.

E il cellulare?, si ricordò con un barlume di speranza negli occhi.

Il cellulare era volato sul bordo della piscina e non dava cenno di cadervi all’interno, per quando spuntasse leggermente. Arthur imprecò. Sentiva che il telefono stava vibrando per una chiamata, ma comunque non sarebbe bastato per sbilanciarlo e farlo finire nella piscina.

Probabilmente era Matthew a telefonare, preoccupato che prendesse l’aereo; e Arthur temeva che l’avrebbe perso veramente, visto che nessuno aveva sentito le sue grida e non si sentiva certo tanto atletico da arrampicarsi lungo una viscida parete verticalmente, per quanto disperatamente ci provasse.

Rimanere intrappolato, però, gli sembrava decisamente una prospettiva peggiore che non prendere un aereo.

***

Arthur si risvegliò dalla sua disperazione quando sentì una voce schiarirsi sopra di sé. Alzò gli occhi, che andarono a posarsi su un ragazzo biondo dagli occhi celesti, che lo osservava con sufficienza e le braccia incrociate. Si trattenne dal chiedergli se fosse un parente di Lovino, a guardarlo così.

Dopo qualche attimo che si fissavano, Arthur, stizzito, si decise a parlare: «Oh, non si preoccupi per me. Sono l’addetto alla piscina! Mi intrappolo qui ogni giovedì, non serve salvarmi!»

Allargò le braccia con un sorrisino ironico, mostrando lo spettacolo dei suoi vestiti ormai sudici. Ma il ragazzo a bordo piscina non sembrava aver intenzione di parlare; per quanto irritante Arthur trovasse il suo comportamento, doveva ammettere che aveva un bel viso. E la camicia bianca che aveva indosso era quasi trasparente, non lasciava un granché all’immaginazione mentre il vento la teneva premuta sul petto del ragazzo.

L’inglese si riscosse in fretta da quei pensieri, ricordandosi improvvisamente che quel dannato tizio non lo stava aiutando per niente.

«È tua quella lavatrice verde parcheggiata accanto alla strada****?» domandò soltanto il biondino, squadrandolo con quello che sembrava un po’ troppo astio per un primo incontro. Aveva uno spiccato accento francese, con tanto di “r” leggermente moscia, ma gli si era rivolto in inglese.

«Come? Si…» mormorò Arthur, dimenticandosi di chiedere aiuto da quanto lo aveva sorpreso quella domanda.

«Capisco». Arthur cominciava seriamente ad arrabbiarsi per quell’espressione indignata sul volto del francese, che si avvicinò ai rubinetti della piscina, tornando un’ultima volta a rivolgersi all’inglese. «Sai nuotare?»

«Eh? Ma sei stupido? Certo che so nuotare…» fece appena in tempo a dire Arthur, quando quello gli lanciò un sorrisetto e aprì il rubinetto dell’acqua.

Senza pensare poi a godersi lo spettacolo, si voltò e tornò sui suoi passi, ignorando gli strepiti di Arthur che era appena finito sotto uno dei potenti getti d’acqua. Ci sarebbero volute probabilmente delle ore, ma per quanto bagnato come un pulcino sarebbe uscito da quella dannata piscina.

***

Arthur aveva speso tutto il considerevole tempo che aveva impiegato la piscina a riempirsi per inventarsi stupidi giochi. Spruzzava con la bocca getti d’acqua qua e là, tenendosi appena a galla. Fu un sollievo per lui riuscire ad afferrare il bordo della piscina e uscire, solo per stendersi spossato sul prato.

Chi diavolo era quello stupido francese che aveva tentato di ucciderlo?! Ma soprattutto, in che modo avrebbe spiegato al suo capo perché non era venuto all’appuntamento?

Sconsolato, prese il cellulare che stava ancora fieramente a bordo piscina e telefonò a Matthew, che lo informò che era stato sospeso per una settimana intera.

Fantastico. Avrebbe dovuto passare una settimana tra killer francesi per quanto sexy e quell’italiano così scorbutico, che già lo odiava di brutto per la faccenda della vigna… non che Antonio fosse una compagnia migliore, con quella sua esuberanza. E poi Arthur avrebbe dovuto tenersi tutti quei ricordi con zio Henry così vicini per tutto quel tempo.

Sarebbe stata la settimana peggiore della sua vita.

 

 

* questa scena c’è nel film e io la considero splendida xD Louis Armstrong, per chi non lo sapesse, è un ciclista americano che ha vinto il Tour de France diverse volte (e immagino non sia molto onorevole per i francesi che uno dei più importanti Tour ciclistici europei sia stato vinto da un americano!!).

** qui Arthur si arrabbia perché in Inghilterra sarebbero ancora circa le dieci, mentre in Francia sono già le undici per via del fuso orario. so che non c’era bisogno di questa precisazione, ma io continuavo a confondermi leggendo questo pezzo, quindi mi scuso se si rivela sbagliato °-° io e i fusi orari non ci capiamo.

*** La Siroque è il nome della villa di Henry nel film :D

**** non ho saputo resistere a fare questo commento idiota xD “lavatrice” è il termine che utilizzano di solito i conduttori del programma Top Gear per definire le auto di questo tipo *-*

 

 

____________________

ecco il secondo capitolo! mi scuso per lo stile così veloce nello scrivere u.u’ dovrò rivederlo. ma il problema principale mentre lo stendevo è stato quello di non allungare le cose :) in quanto voglio scrivere meno di dieci capitoli!

prima di tutto, due precisazioni:

so che a Lovino in realtà hanno dato 22 anni circa (quindi solo uno in meno di Arthur!), ma in questa storia avrà la stessa età di Feliciano, quindi è plausibile che Arthur pensi a lui come un “ragazzino”. Lovino inoltre è estremamente OC per quanto riguarda il suo rapporto con Arthur: anche se è molto orgoglioso, in Hetalia non si sogna mai di contraddire Inghilterra, ma qui purtroppo era necessario ^^

sono abbastanza perplessa anche sul comportamento di Arthur, comunque più avanti credo di aver scritto un po’ meglio, quindi anche il suo personaggio si sistema (e poi il mio beta non mi ha ancora corretto nulla perché è pigro u.u’ perciò questa è ancora la propria bozza della storia xD – aggiunta ora causa esami imminenti)..

volevo ringraziare chi ha letto il prologo e soprattutto rispondere *-*

to Ichibanme_Arisu: grazie mille della recensione :D poi.. n-no no, non è affatto una UsUk *cerca con gli occhi delle vie di fuga*.. a parte gli scherzi, la fine non l’ho del tutto scritta e sono ancora combattuta xD si vedrà! intanto direi che puoi goderti la stronzaggine di Arthur ancora a lungo u.u

that’s all folks!

harinezumi

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Capitolo 3
*** capitolo tre ***


 

capitolo tre – in cui arriva il cugino dall’America

 

Arthur aprì gli occhi, cercando di ricordare gli eventi del giorno prima mentre sbatteva le palpebre. Era caduto in piscina, era stato quasi annegato e anche quasi licenziato. Si voltò verso la finestra a fianco a letto, da cui entrava un piccolo spiraglio di luce. Dal cestino lì accanto si sentiva ancora l’odore pungente della lavanda, che Arthur aveva tolto dal suo contenitore balcone, non capendone lo scopo.

Con un sospiro, si alzò a sedere, rendendosi conto di non avere altro di suo con cui vestirsi se non la biancheria; fortunatamente ai piedi del letto aveva messo la vestaglia a righe di zio Henry. La indossò con aria assonnata e svogliata, prima di spalancare gli occhi per qualcosa che aveva visto muoversi sul pavimento.

Ci mise poco a mettere a fuoco due scorpioni, poi si alzò in piedi suo letto, prendendo ad urlare.

«Scorpioni!! Ci sono gli scorpioni!» gridava, senza riuscire a trattenersi, appiattendosi contro al muro come un animale condotto al macello.

Nella stanza accorse Antonio, con il completo di Arthur ben rassettato e pulito in mano su un attaccapanni. Cercò di calmare l’inglese e di farlo scendere dal letto, ma alla fine l’unico modo in cui ottenne il suo silenzio fu schiacciando gli scorpioni a colpi di vestito, che poi restituì al proprietario con un sorriso.

«Non ci sono più. Ti pregherei di non togliere la lavanda!» esclamò Antonio, ignorando l’occhiata disgustata di Arthur al proprio completo che reggeva sulla gruccia tra il pollice e l’indice. Antonio recuperò la lavanda dal cestino e la mise sul davanzale, per poi uscire con un sorriso, fischiettando.

Arthur scese lentamente dal letto, rabbrividendo e gettando il più lontano possibile il proprio abito. Piuttosto che indossare poltiglia di scorpione preferiva scegliere dall’armadio di Henry qualche vestito, sebbene la taglia non fosse proprio la sua. Si presentò in cucina con dei pantaloni color cachi tenuti su a stento da una cintura e una camicia in cui sembrava navigare; ma Antonio ebbe l’accortezza di non scoppiare a ridere, quando l’inglese gli lanciò uno sguardo di fuoco in risposta ad un piccolo sorrisino.

«Lovino mi aveva detto che te n’eri andato» cercò di fare conversazione il ragazzo, mettendo davanti ad Arthur sul tavolo una tazza di tè.

«Rimarrò qui una settimana, per un motivo o per l’altro…».

«Ah si? Sono contento! Penso che ti rilasserai parecchio, ora hai anche riempito la piscina!»

Arthur lo incenerì con lo sguardo. «In verità potrei cominciare a fare qualche lavoretto alla villa. Non mi sembra esattamente in forma, e mi piacerebbe venderla integra» disse, alzando un sopracciglio quando vide una gallina entrare in cucina ed avviarsi beccando per terra verso la lavanderia.

«Dici? Sono sicuro che Lovino sarebbe felice di aiutarti! Io farò il possibile» rispose Antonio, allegro come sempre. Eppure, Arthur aveva la sensazione che alla parola “venderla” un’ombra fosse passata sul viso di Antonio. Del resto lui non aveva tempo, nemmeno per sentirsi in colpa, voleva solo tornare al suo confortante lavoro privo di sensibilità.

«Io non sono tanto sicuro che Lovino sarebbe felice» ribatté Arthur, ma Antonio non lo ascoltò, continuando a parlare della villa e di quanto lavoro facesse ogni mattina per cancellare le impronte di fango che Lovino lasciava ovunque.

L’inglese ebbe qualche difficoltà a liberarsi del loquace spagnolo, e tirò un sospiro di sollievo quando si trovò in garage, nel silenzio che tanto amava. Lo zio non si risparmiava mai nulla, pensò con un sorriso: lì stava parcheggiato un trattore Lamborghini e, sotto un telo, una Harley Davidson rossa fiammante.

Trovò da qualche parte nel mare di cianfrusaglie che stavano accatastate in giro un pennello e della vernice bianca, così si adoperò per preparare una miscela; tuttavia continuava a lanciare sguardi incuriositi alla moto, che alla fine, memore della sua adolescenza, inforcò e condusse fuori dalla villa *.

Arthur si divertì per un po’ a girare per la campagna in Harley Davidson, però al suo ritorno notò che qualcuno gli aveva prontamente fregato il pennello e il colore che aveva preparato prima. Stizzito, mise il cavalletto alla moto, dirigendosi verso il vigneto con l’aria di chi sta quasi per sputare vampate di fuoco.

«Lovino!» gridò, quando vide il ragazzino comodamente appollaiato sotto un albero a mangiare un pomodoro, affiancato dal secchio con il colore e il pennello. «Restituiscimelo subito! Mi serve». Si fermò davanti a lui, trattenendosi dall’ucciderlo con le proprie mani.

«Questo?» domandò innocentemente l’altro, prendendo il secchio dal manico e sollevandolo leggermente da terra. «È mio e lo devo usare proprio ora».

«E per fare che cosa?!»

Lovino alzò le spalle, come se quella non fosse una questione rilevante; era evidente che stava solo mettendo i bastoni tra le ruote ad Arthur, e sostenne il suo sguardo con fare battagliero, senza nessuna intenzione di cedere.

«D’accordo, senti questa» sospirò alla fine Arthur, sforzandosi di non sembrare troppo aggressivo e di assumere un tono conciliante. «Se tu mi aiuti a rimettere a posto la villa, io mi assicurerò che i prossimi padroni di casa non ti buttino fuori dalla vigna».

Lovino fece un sorrisetto vittorioso. «Capisco. Uhm, non mi serve più» affermò, alzandosi in piedi e gettando il secchio del colore addosso ad Arthur, che ebbe l’accortezza di prenderlo, anche se una buona parte della vernice gli finì addosso.  

Tuttavia, proprio quando stava per cominciare ad inveire contro Lovino, quello sputò sopra alla mano destra e gliela porse.

«Che schifo» riuscì soltanto a dire Arthur.

«È la stretta di mano dei francesi» spiegò Lovino con un’alzata di spalle e quello che sembrava un ghigno.

Arthur si sputò sulla mano con rassegnazione e strinse quella del ragazzo, che si voltò soddisfatto per recuperare il pennello a terra, mormorando però tra sé: «Inglese di merda».

Quasi nello stesso istante, Arthur aveva sibilato: «Stupidi mangiarane», rivolto mentalmente a tutti i francesi che inventavano quei metodi così poco galanti per stringere patti. **

***

«Arthur! C’è una persona alla porta!» gridò Antonio all’improvviso, facendo quasi scivolare Arthur giù dalla scala.

Stava dipingendo di bianco l’atrio della villa, aiutando da un riluttante Lovino. Si voltò a guardare Antonio, appena entrato. Lo spagnolo indossava persino un grembiule da cucina con i coniglietti, e Arthur si augurò che non fosse arrivato un ospite importante, che l’aveva visto conciato così.

«Una persona?» domandò perplesso, senza accennare a scendere dalla scala.

«Una persona» rispose Antonio, senza fornire nessuna informazione in più e trotterellando via fischiettando.

Arthur sbuffò, scendendo a terra e lanciando il pennello tra le mani di Lovino, per dirigersi alla porta, tutto sporco di vernice bianca da capo a piedi e in più in pantaloncini e maglietta, una tenuta improponibile per lui.

Quando si affacciò alla porta d’ingresso, sgranò gli occhi nel vedere un ragazzo alto e biondo, che osservava con aria affascinata gli alberi del viale. Quando si voltò verso di lui, vide che portava gli occhiali e aveva le iridi blu cielo, oltre che a un sorriso stampato sul volto. Portava uno zaino sulle spalle e una canottiera sopra ad una camicia verde a quadri. Sembrava il tipico giovane che alloggia agli ostelli.

«Bonjour!» esclamò il ragazzo, in un francese pessimo.

«L’unico paese che stride i denti in quella maniera è l’America» fu tutta la risposta di Arthur, che lo osservò con aria di sufficienza da capo a piedi. Il tutto per nascondere la strana emozione che lo aveva preso nel trovarsi davanti quel ragazzo così… carino. Possibile che da quando fosse in Francia non facesse altro che pensare a quello? Prima la notaia, poi il francese, ora questo…

«Oh, parli l’inglese! Meno male, non ne potevo più di spiegarmi a gesti!» esclamò il ragazzo, visibilmente sollevato.

«Cosa posso fare per te?» domandò Arthur, sforzandosi di sembrare gentile.

«Sono Alfred Jones. Sto cercando Mr Kirkland!»

«L’hai trovato».

Alfred sgranò gli occhi a quell’affermazione, soffermandosi a guardare Arthur da capo a piedi molto poco educatamente, a bocca aperta. «Ma tu sei troppo giovane!»

«Potrei pensare la stessa cosa di te! Che idiozie vai dicendo?» chiese Arthur, irritato. Non capiva perché avrebbe dovuto apparire un vecchio alla porta, del tutto dimentico che la casa era sua da appena un mese.

«Ah!» mormorò Alfred, riscuotendosi e guardandolo finalmente negli occhi. «No, intendevo che sei troppo giovane per essere mio padre. Henry Kirkland è mio padre» spiegò con un sorriso, tirando fuori dal taschino della camicia una foto spiegazzata e porgendogliela.

Arthur la prese tra le mani, cercando di far lavorare il cervello dopo quella rivelazione. C’era sul zio Henry, accanto ad un auto, sul cui cofano stava seduta una donna. «Sarebbe tua madre?» domandò, con voce strozzata, passando di nuovo la foto ad Alfred, come se la volesse vedere il meno possibile.

«Si! È stata scattata dove vivo, in California» rispose Alfred, allargando il suo sorriso. «Allora, potrei parlare con Mr Kirkland? Oh, e tu sei un suo parente, vero?»

«Si…» disse Arthur in un filo di voce. «Il nipote. Alfred…» sussurrò, puntando gli occhi a terra e cercando nella sua mente le parole corrette per comunicargli quello che lui stesso aveva saputo da pochi giorni. «Alfred, Henry…».

Il sorriso scomparve dal volto dell’americano, mentre si mordicchiava il labbro. «È morto» concluse la frase per Arthur, esibendo solo allora un sorriso tirato, quando l’altro tornò a guardarlo dispiaciuto.

«Sarei felice di offrirti una tazza di tè» mormorò Arthur.

Alfred annuì soltanto, cercando visibilmente di dimostrarsi molto meno deluso di quanto non fosse in realtà. Fu quando si sedettero fuori, sul tavolino accanto alla cucina, che ad Arthur venne in mente un’orribile verità.

Alfred somigliava in maniera impressionante ad Henry. Alfred era il figlio di Henry, non stava dicendo fesserie. E soprattutto, se avesse reclamato ciò che gli spettava di diritto, la villa e il vigneto sarebbero stati suoi, anche se sembrava troppo stupido per accampare pretese del genere. Sicuramente, Arthur aveva bisogno di liberarsi di lui il prima possibile, nonostante fosse davvero molto carino.

Si alzò all’improvviso dalla propria sedia, incontrando lo sguardo perplesso di Alfred.

«Scusa, mi sono ricordato che ho un impegno abbastanza importante in paese. Tu… sta qui, torno subito… Antonio ti mostrerà una stanza dove puoi stare stanotte» balbettò con una certa fretta Arthur, cercando nelle tasche del pantaloncini le chiavi dell’auto.

Antonio, lì per servire il tè, fece un sorriso. «Ah si! Devi per forza stare qui con noi!»

«D-d’accordo, allora…» disse Alfred, senza capire il comportamento dell’inglese, che già gli sembrava un tipo nevrotico. Però forse poteva rivelarsi simpatico a lungo andare, rifletté mentre lo seguiva con lo sguardo quando corse lungo il viale per raggiungere quella buffa Smart verde pisello.

***

Arthur era salito in auto dalla parte sbagliata rispetto al volante, non riuscendo ad abituarsi alla guida a sinistra, il che lo aveva fatto imprecare già un certo numero di volte, e ora sfrecciava agitato verso il paese, deciso ad incontrare la notaia per chiarire alla svelta quella situazione. Poco gli importava di essere ricoperto da capo a piedi di vernice.

Però, quando uscì dall’ufficio del notaio, aveva un’aria doppiamente sconsolata e spersa rispetto a quando era entrato. Come pensava, per quei mangiarane francesi non contava che il figlio fosse legittimo o meno, tutti avevano diritto all’eredità dei genitori; il consiglio della stangona bionda che si spacciava per consulente era quello di trattare Alfred nel modo più gentile possibile.

«E io dovrei essere gentile…» sbottò Arthur, aprendo la portiera dell’auto per tornare alla villa, quando notò un volto a lui fin troppo familiare spuntare da una delle finestre sopra il ristorante vicino al quale aveva parcheggiato. Era quel dannato francese che aveva tentato di affogarlo.

«Ehi! Giovanna d’Arco!» gli urlò, furioso al solo ricordo della piscina, sbattendo la portiera e avvicinandosi sotto alla finestra aperta al primo piano.

Il ragazzo biondo sembrò non capire che stesse succedendo, ma quando posò gli occhi su Arthur anche il suo volto s’infiammò d’ira. «Oh, è Jacques Cousteau!» gridò di rimando, attirando immediatamente l’attenzione degli avventori del ristorante.

Poi, sparì dalla finestra, ed Arthur pensò che quel codardo di francese probabilmente era andato a nascondersi. Così, si rivolse ancora all’auto, bollendo di rabbia.

Ma qualcuno lo costrinse a voltarsi afferrandogli una spalla pochi secondi più tardi, e l’inglese si trovò davanti il biondo a torso completamente nudo e in boxer, particolare che non aveva notato quando l’aveva visto alla finestra.

Arthur però si riprese in fretta da quella visione affatto spiacevole e non lo lasciò parlare: «Hai tentato di annegarmi!»

«E tu mi hai investito con quella lavatrice!» strillò il francese, indicando la Smart alle loro spalle.

«Di che diavolo stai parlando?!» chiese Arthur, per la prima volta distratto da tutto l’odio che provava verso quel tipo, sorpreso e incurante del fatto che decine di occhi li fissavano dai tavoli all’aperto del bistrot.

«Hai tentato di investirmi lungo la strada che porta alla Siroque! Guidavi con il telefono in mano, imbecille inglese!» gridò il ragazzo, portando finalmente all’attenzione di Arthur un vistoso ematoma violaceo sul suo fianco. «Se cerchi di uccidermi, io uccido te, mi hai capito?» sbottò, voltandosi e lasciandolo imbambolato sul posto, tornando in casa e imprecando a bassa voce in francese.

Arthur si sentì a dir poco in imbarazzo, sotto gli sguardi attenti dei clienti del ristorante, così, rosso in viso, si affrettò a salire in auto e a ripartire, cercando di non ricordare che il francese che trovava così attraente gli era stato di fronte mezzo nudo solo un attimo prima.

***

Antonio vide Arthur rientrare alla villa con un’espressione buia sul volto e dirigersi direttamente in camera sua, così si affrettò a seguirlo, quantomeno per aggiornarlo sulla situazione.

«Ho lasciato che Alfred si prendesse la stanza degli ospiti, è sempre pronta… mi ha detto di essere il figlio di Henry! Infatti hanno davvero lo stesso naso!» ciarlò felice, inseguendo Arthur lungo il corridoio. «Ora sta visitando un po’ il vigneto, spero che Lovino non lo incontri… forse avrei dovuto avvertirlo…»

«Antonio» chiamò però l’inglese, sedendosi stancamente sul letto ed interrompendolo. «Oggi sono passato… si insomma sono passato al ristorante» cominciò Arthur, arrossendo immediatamente, un po’ più di quanto avrebbe voluto.

«Si chiama Francis Bonnefoy» rispose Antonio ad una domanda che nemmeno era stata posta, con una velocità sorprendente, mentre un sorriso gli fioriva sulle labbra. All’espressione sbalordita di Arthur, non riuscì a trattenersi dal ridere, mentre l’altro passava velocemente ad incenerirlo con lo sguardo. «Le voci corrono in fretta. E poi sei diventato l’eroe di ogni ragazzina, l’hai fatto uscire di casa praticamente nudo».

«C-cosa?» balbettò Arthur, ormai paralizzato dall’imbarazzo.

«È il tipo con cui divido l’appartamento, possiede quel bistrot così carino in paese» spiegò Antonio, pazientemente, come se stesse parlando ad un idiota, cosa che Arthur non mancò di notare. «Se sei interessato a lui, ti dico subito che non so un granché sulla sua vita, eccetto il fatto che è cresciuto qui intorno».

«Interessato? Come sarebbe a dire?» borbottò Arthur, ma fu più forte di lui continuare il discorso.  «Se è cresciuto qui intorno forse l’ho già incontrato…».

«Ho sentito che una volta si divertiva spesso a cambiare partner, ma adesso non accetta più di uscire con nessuno. Dev’essere perché è stato insieme ad un inglese per due anni, prima che io arrivassi. Si sono lasciati molto male, perciò non me ne parla mai…». Antonio alzò le spalle, appoggiandosi allo stipite della porta aperta. «Non che non abbia pretendenti, ovvio. Ma ora si occupa solo di lavoro».

«Quindi è solo, a parte te».

Antonio rise. «Arthur, non ti consiglio veramente di provarci con Francis Bonnefoy».

E ignorò bellamente le proteste di Arthur, continuando a ridere, mentre quello ripeteva, a sé stesso più che altro, che di quel dannato francese non gli importava un bel niente.

***

«Lovino, giochiamo» disse Arthur, prendendo due vecchie racchette di legno da terra e lanciandone una all’italiano. Quello la prese al volo, storcendo il naso, ma probabilmente non si sarebbe mai tirato indietro a quella sfida dato che provava un odio sincero verso l’inglese.

Quel pomeriggio avevano appena finito di sistemare il vecchio campo da tennis di terra rossa, rifinendo le linee bianche e cambiando la rete.

Senza dire una parola, Lovino si mise in battuta e fissò Arthur dall’altra parte del campo, storcendo il naso. Tirò la palla piuttosto forte, ma l’inglese riuscì facilmente a parlarla e a rispondere al colpo. Sebbene tutta la partita si stesse svolgendo in perfetta parità, l’italiano dopo un po’ cominciò a sembrare nettamente in difficoltà, il che fece crescere il divertimento di Arthur.

Al match point, l’inglese lo guardò con aria di superiorità mentre Lovino si scacciava con uno sbuffo il ciuffo dalla fronte; poi Arthur fece un ace che finì dritto sulla faccia del ragazzo, che cadde all’indietro dopo aver barcollato per un attimo con aria confusa.

«Che cazzo fai, brutto scemo?!» strillò, seduto a terra e reggendosi il naso sanguinante tra le mani.

Arthur si sforzò di non ridere, si sforzò tantissimo, ma non riuscì nel suo intento, piegandosi in due dalle risate al faccino imbronciato di Lovino, che non gli era mai sembrato così innocuo e bambino. «Dai, vai a chiedere ad Antonio che ti dia qualche fazzoletto…» cercò di consolarlo, vedendo che le lacrime –di rabbia più che altro- cominciavano a salire agli occhi dell’altro.

«Io… io… SEI UN BASTARDO!!» fu solo in grado di urlare Lovino, alzandosi in piedi di scatto e correndo via, sotto lo sguardo perplesso di Arthur. Si sentiva abbastanza un fratello maggiore che aveva giocato un brutto scherzo al minore; tuttavia non aveva mancato di notare che Lovino si comportava in maniera molto strana se si trattava di Antonio.

Lovino si fermò con il fiatone, appoggiando una mano al muro accanto alla porta della cucina, rendendosi conto troppo tardi che stava facendo esattamente quello che gli aveva detto l’inglese, correndo da Antonio. Infatti lo spagnolo era appena spuntato nel cortile con una gallina starnazzante tra le braccia, che lasciò rovinare a terra con un «Ah!», appena vide Lovino accanto a sé.

«Cos’è successo? Ti sei fatto male?» domandò, agitandosi immediatamente e afferrando il polso di Lovino, in un tentativo di togliere la mano che gli copriva ancora il naso.

«No» sbuffò stizzito l’altro, scacciandolo come poteva e distogliendo lo sguardo.

«Stai sanguinando» obbiettò Antonio, staccandogli finalmente la mano dal volto ed esaminando la botta rossastra sul suo naso, ancora sanguinante nonostante non fosse nulla di grave. «Oh, Lovino, ti avevo detto di non arrampicarti sugli alberi e di non maneggiare quei bastoni in maniera così agitata, poi è ovvio che ti fai male…»

«Ma è stato quell’inglese bastardo!» esclamò Lovino, per niente contento di tutte quelle attenzioni. Le mani di Antonio sul suo volto glielo facevano andare in fiamme in pochi secondi. «E comunque voglio solo un fazzoletto pulito! Dammelo e torna a fare il tuo lavoro, imbecille».

Antonio sorrise, anche se certo non veniva trattato un granché bene. «Che carino, Lovino! Sei venuto da me perché mi prenda cura di te!» affermò all’improvviso, stritolando un attimo dopo il ragazzo tra le braccia e ignorando le sue proteste sempre più acute.

«Metti giù le mani, razza di pervertito! Mi fai male!»

«Vieni!» decise con fermezza Antonio, liberandolo dal suo abbraccio ed afferrandogli una mano, per trascinarlo in cucina e farlo sedere a forza su una sedia. Con un panno bagnato, prese a pulirgli il viso, senza smettere di rimproverarlo, eppure con un tono decisamente affettuoso. «Hai tutte le mani sporche, Lovino… non è per nulla igienico. E hai della paglia tra i capelli, accidenti…»

Lovino era bordeaux e riusciva a pronunciare insulti soltanto a mezza voce, cercando di non incontrare mai con gli occhi lo sguardo così pieno d’affetto di Antonio.

«Mi fai così preoccupare, sempre solo per tutto il giorno là fuori, potresti farti cadere il trattore addosso e nessuno verrebbe a liberarti…»***

«Che idiozie vai dicendo, bastardo…» mormorò Lovino, gli occhi fissi stolidamente sul pavimento e le guance ormai viola.

«Lovino, vedi non farti più male, non farmi preoccupare».

«E che vuoi che me ne freghi se tu ti preoccupi!»

Antonio a quel punto gli passò inaspettatamente una mano dietro la schiena, chinandosi per mettere l’altro braccio sotto le sue ginocchia, ma si fermò dal sollevarlo quando Lovino urlò, terrorizzato.

«Che cazzo stai facendo?!» gridò, alzando lo sguardo atterrito su di lui e aggrappandosi alla sua camicia, tenendosi di nuovo il naso chiuso con l’altra mano, perché una nuova ondata di sangue aveva preso ad uscire.

«Devi stenderti e tenere la testa inclinata, così starai subito meglio!» gli spiegò dolcemente Antonio, che dopo quell’attimo di esitazione l’aveva davvero preso in braccio, e si dirigeva tranquillamente verso una delle camere in disuso, per stenderlo su un letto a due piazze. «Ti prenderò del ghiaccio… e un asciugamano, così non sporcherai nulla. Tieni la testa in giù!» gli raccomandò, uscendo e lasciandolo di traverso sul letto, con il testa che spuntava dal bordo.

«Che brutto deficiente…» gemette Lovino, ignorando il fatto che il suo cuore stesse battendo all’impazzata. Quando vide Antonio rientrare, gli balzò in gola.

Quello si sedette a terra con le gambe incrociate accanto alla sua testa, senza mancare di sorridere. Gli appoggiò dolcemente un impacco ghiacciato sul naso. «Apprezzo molto che tu stia facendo tutto questo per farci restare alla tenuta… ci metti così tanta passione, devi proprio essere legato alle tue vigne!»

«Si… alle vigne…» borbottò Lovino, stando bene attento a non guardarlo mai. «Senti, ma non ha smesso di sanguinare? Voglio andarmene».

«No… però io conosco un modo per farlo smettere! Non ti muovere!» esclamò Antonio, mentre il suo sguardo si illuminava. Si alzò in piedi, sparendo alla visuale ridotta di Lovino, che non potendo sollevare il volto si agitò terribilmente a quel gesto. Non capiva nemmeno se l’altro fosse uscito dalla stanza.

S’irrigidì immediatamente quando sentì il fruscio delle coperte e qualcuno salire sul materasso, spaventandosi tanto che scordò le parole di Antonio e alzò la testa, gli occhi sgranati. Il ghiaccio si schiantò con un tonfo sul pavimento. «Che ca…» mormorò.

Le sue labbra finirono contro quelle di Antonio, salito sopra di lui in silenzio, con il volto tanto vicino al suo che fu praticamente impossibile evitare quel contatto. Ma sembrava che fosse proprio ciò che lo spagnolo aveva in mente, perché, senza incontrare resistenza da parte di Lovino –troppo sconvolto persino per chiudere gli occhi-, gli fece schiudere le labbra con movimenti studiati della propria lingua, infilandola lentamente nella sua bocca.

Lovino gemette, sentendo a malapena dall’agitazione una mano dell’altro infilarsi sotto la propria camicia e accarezzargli la pelle con quei polpastrelli ruvidi di cui, non lo avrebbe mai ammesso, aveva sempre amato il contatto. Passò una mano dietro la nuca di Antonio, avvicinando il suo viso al proprio possessivamente e prolungando quel bacio.

Tuttavia non ci mise molto a ritrovare la ragione, perché non appena sentì la risatina di Antonio a quel suo gesto, usò la stressa mano per afferrargli i capelli e staccarlo da sé con uno strattone, furioso. Antonio finì steso accanto a lui sul letto, con un gridolino di dolore.

«Che cazzo pensi di fare, stupido pervertito!» gridò Lovino tirandosi a sedere, mentre il naso annaffiava di nuovo di sangue la camicia.

Antonio rideva apertamente adesso, ma usò tutto il buonsenso che gli restava per scivolare giù dal letto e spingere Lovino a stendersi. «Ti prego, stai calmo! Non voglio avere la tua morte per dissanguamento sulla coscienza». Gli tenne delicatamente la testa in giù, recuperando il ghiaccio da terra.

Si sedette di nuovo a terra, docile, rimanendo in silenzio a fissare gli occhi di Lovino per dei lunghi minuti, sorridente. L’italiano adesso ricambiava il suo sguardo, più che altro con rabbia, anche se era ancora rosso in viso.

«Come mai il signor Kirkland ti ha picchiato?» domandò dopo un po’ lo spagnolo, perplesso, mentre strappava dei piccoli rotolini di carta assorbente che aveva recuperato per tamponare le narici di Lovino. Non sospettava che la causa di quell’improvvisa emorragia era solo in parte dovuta alla botta, per il resto era opera del suo tocco caldo sulla pelle di Lovino, quasi paralizzato sul letto ormai al solo ricordo.

«Non mi ha affatto picchiato! Mi… ha lanciato una palla in faccia mentre giocavamo a tennis».

«Ah, e chi ha vinto?» esclamò Antonio con un sorriso, con il solo risultato di guadagnarsi un’occhiataccia da Lovino.

«Chi cavolo ha vinto secondo te, idiota?! Guarda come mi ha ridotto quell’inglese di merda!!»

 

 

* non avevo molta voglia di spiegare troppo questa frase nel testo; comunque Arthur in Hetalia ha un passato piuttosto turbolento da pirata, che potrebbe tradursi qui in una passione giovanile per giubbotti di pelle e motociclette.. à la Fonzie.

** questa scena è così “hetaliana” nel film! non potevo non metterla, anche se Lovino è italiano e non francese D: ripeto che Lovino è un po’ OOC in questa situazione u.u’ ma in fondo il suo attaccamento per la villa è dato anche da Antonio, e di solito Lovino trova coraggio e poteri soprannaturali quando si tratta di Antonio xD perciò potrebbe tenere testa ad Arthur!

*** muahahah non mi stanco mai di citare cose inutili xD in una puntata de I Simpson, Homer ha una fattoria e finisce sotto il trattore un numero imprecisato di volte!! quindi vedi Lovino, Antonio ha ragione a preoccuparsi u.ù

 

 

____________________

ecco il terzo capitolo, con un ritardo mostruoso :D

eh già, perché devo dare l’annuncio che per questa fic ho un blocco dello scrittore pazzesco, e che non ho buttato giù neanche una parola dal capitolo sei in poi. la finirò perché non sia mai che lasci un incompiuta, ma farò abbastanza fatica ad aggiornare velocemente..

in ogni caso ringrazio chi ha letto questi miseri capitoli ^^ mi fa sempre tantissimo piacere!!

 

to Yuri_e_Momoka: cioè, sogno o son desta? °-° una recensione da una delle scrittrici di “Encyclopedic Crisis” vale come centomilaaa! ho letto la vostra fic da poco (l’ho trovata intera, gioia delle gioie) e devo dire che è una delle migliori che ho visto finora (però magari se la pianto di dirlo qui e vado a recensirla è meglio xD). ti ringrazio tanto per i complimenti, e prometto che se arriverà alla fine non diventerà UsUk (anche il mio pairing preferito rimane FrUk) :° sono super commossa, davvero!

 

harinezumi

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Capitolo 4
*** capitolo quattro ***


 

capitolo quattro – in cui Arthur ottiene un appuntamento

 


La sera, per la prima volta privo di vernice bianca addosso, Arthur scese dalle scale del primo piano della villa, fermandosi di botto alla vista di Antonio che accendeva due candele sul tavolo apparecchiato nella sala da pranzo. Scese gli ultimi gradini, avvicinandosi dubbioso.

«Antonio…» cominciò, osservando attentamente com’era stato apparecchiato per la cena per due, mentre un suo sopracciglio si alzava pericolosamente verso l’alto. Antonio aveva preso il servizio e le posate buoni e dei tovaglioli di pizzo, senza contare i calici e le candele in candelabri d’argento. Sembrava veramente di essere in un romantico ristorantino francese al primo appuntamento, ecco perché dovette Arthur schiarirsi la voce, impendendo che gli uscisse troppo strozzata: «È mio cugino. Magari è… un po’ eccessivo?».

«Affatto» esclamò Antonio, voltandosi verso di lui e smettendo di ammirare con soddisfazione il suo operato. «Metà degli aristocratici francesi hanno liaison con i loro cugini».

«Si, e questo spiega molte cose» ribatté Arthur irritato, cercando immediatamente di spegnere le candele non appena Antonio fu tornato in cucina.

Ma quando vide Alfred scendere le scale e notarlo rivolgendogli un sorriso, il cuore gli balzò alla gola e sentì improvvisamente il bisogno di sparire dalla stanza. Balbettò qualcosa a proposito di una bottiglia di vino e si defilò verso le cantine, riprendendo a respirare solo quando sentì il profumo familiare del mosto che ribolliva nelle enormi botti.

Si avvicinò al portabottiglie di legno che ricopriva tutta una parete dell’immensa cantina/laboratorio, cercando con gli occhi un vino che avrebbe potuto riconoscere. In quell’estate dei suoi dieci anni gli erano state insegnate da zio Henry parecchie cose sulla qualità del vino che non era più riuscito a dimenticare, nonostante l’arte culinaria non fosse decisamente il suo forte.

Appoggiò due bottiglie che aveva scelto sul tavolino della cantina costituito da una botte rovesciata, aprendole entrambe ed annusando il loro contenuto. Prima, prese un sorso dal calice che si era portato dietro del vino prodotto dal suo vigneto, sputando tutto immediatamente a terra.

Sapeva di sabbia. «Che diavolo sta facendo Lovino con quell’uva?» si domandò a bassa voce, leggendo l’etichetta e sperando che fosse solo un caso isolato.

Fortunatamente parevano esserci anche diverse bottiglie dell’altro vino, “Coin Perdu”, con un’etichetta molto più anonima che recava appena il nome ed i gradi. Quando Arthur lo assaggiò, aspettandosi il peggio, rimase piacevolmente sorpreso, ma non riuscì a capire da chi venisse prodotto.

Perciò versò il contenuto della prima bottiglia nel primo tombino che individuò a terra, portando così con sé solo l’altra, e risalì le scale della cantina per tornare in sala da pranzo. *

***

«Oh, eccoti!» esclamò allegramente Alfred, già seduto a tavola quando Arthur tornò dalla cucina.

«Ho pensato di farti assaggiare del vino» si scusò Arthur per il ritardo, sedendosi accanto a lui e notando con orrore che Antonio era riuscito ad accendere di nuovo le candele. Con un sospiro, riempì il proprio bicchiere e quello di Alfred, pensando che era sen’altro meglio ubriacarsi per sfuggire all’umiliazione di essere stato combinato con il proprio cugino.

«Uhm, è buono» sentenziò l’americano, dopo appena un sorso. «Molto buono. Sai, io in California ho lavorato in un vigneto una volta, aiutavo a fare la vendemmia assieme ad alcuni amici!»

«In California fanno succhi di frutta, non vino».

«Non è affatto vero!» s’imbronciò Alfred, punto nel vivo del suo orgoglio patriottico. «L’America fa degli ottimi vini, siete voi europei a snobbarli di continuo senza capire che la nostra è arte. Ma in questa bottiglia non c’è scritto praticamente nulla!»

Reggeva in mano il Coin Perdu, studiandone attentamente ogni centimetro, e alla fine la riposò di nuovo sul tavolo, con aria delusa.

«Uhm, Henry amava le cose misteriose» mormorò distrattamente Arthur, lanciando a sua volta un’occhiata all’etichetta praticamente deserta e stringendosi nelle spalle. Non si rese conto per un po’ di aver nominato il padre di Alfred, ma dall’espressione che il ragazzo gli fece era evidente che l’unica cosa che voleva in quel momento era parlare di Henry. «Ad esempio» continuò allora, «amava l’Inghilterra, però viveva in Francia. E amava le donne, ma non ne ha mai avuta una di stabile. Amava anche l’avventura, eppure tutte le avventure con lui che ricordo le ho vissute in questa casa».

«Oh. Suppongo che per lui mia madre non sia stata molto importante» mormorò Alfred, dopo un attimo di silenzio.

Arthur, vedendo il volto di Alfred rabbuiarsi, si rese pericolosamente conto di ciò che aveva appena detto sulle donne di zio Henry, e cercò subito di tornare sui suoi passi, cominciando però a balbettare: «Ehm, io… mi disp…».  

Non fece a tempo a finire la frase che Alfred lo spiazzò esibendo un enorme sorriso ed esclamando: «Beh, non si mangia? Sto morendo di fame! Avete degli hamburger in questa casa?»

Mentre Arthur cercava di comprendere a fondo le parole pregne di un’acuta idiozia e insensibilità che aveva appena sentito, comparve dalla cucina Antonio che cominciò a spiegare con aria afflitta che no, non avevano hamburger e che avrebbero dovuto accontentarsi della pasta, perché Lovino teneva solo quello in casa da quando era disabitata…

***

 Alla fine della cena, se tale si poteva chiamare, Arthur aveva imparato un po’ meglio a capire Alfred, realizzando che aveva a che vedere con una specie di esaltato. Quel ragazzo era un totale disastro: aveva cominciato ad affermare a voce molto alta quanto l’Europa fosse anticaglia, specialmente l’Inghilterra e la Francia, paesi così noiosi per lui, da una parte non sapevano cucinare e gli mancavano i suoi McDonald’s, dall’altra cucinavano fin troppo bene e si esprimevano in maniera troppo complicata. Era molto rumoroso e parlava proprio quando meno gli veniva richiesto, solitamente di sé stesso e di quanto dovessero compatirlo tutti perché si trovava in mezzo alla gentaglia del Vecchio Continente.

Arthur non pensò nemmeno di ricordargli che lui era inglese; probabilmente non avrebbe fatto differenza e comunque quel modo di fare così espansivo e diverso da ciò con cui era abituato ad avere a che fare lo affascinava parecchio. Senza contare che Alfred era veramente un bel ragazzo, nonostante gli occhiali e quell’aria da idiota che fin troppo spesso esibiva.

Quando arrivò per dessert del gelato, in particolare, Arthur pensò per un attimo di vederlo svenire per l’emozione, ma Alfred lo sorprese in un’altra maniera, scivolando giù dalla propria sedia e schiantandosi a terra, come se non fosse riuscito nemmeno a rimanere seduto. Anche se credeva di aver inquadrato il tipo, il ragazzo lo sorprendeva molto con certe sue uscite, più o meno idiote.

«Io torno di sopra» lo informò alla fine della cena, posando la coppetta di gelato ormai vuota e spazzolata accuratamente sul tavolo. «Ho intenzione di finire di leggere Morte a Venezia».

«Morte a Venezia?» domandò Arthur, perplesso. Alfred non gli sembrava affatto un tipo molto profondo, e quel libro aveva un registro un po’ troppo difficile, e una trama studiata…

«Si! È strabiliante, l’ho trovato in una delle librerie che ci sono di sopra» rispose Alfred, allargando il suo sorriso ed alzandosi da tavola. «Appena ne leggo una frase cado immediatamente addormentato! È una benedizione contro il fuso orario sballato!» concluse, dirigendosi allegramente verso le scale. «Buonanotte!»

«Ah… ecco» mormorò Arthur a bassa voce, compresi i veri motivi della lettura “impegnata” dell’altro. «Buonanotte!» gli augurò, ad alta voce, cercando perlomeno di sorridergli.

In quel momento, gli squillò il cellulare dalla tasca, facendolo sobbalzare. Rispose sovrappensiero, ancora con gli occhi fissi sulla rampa delle scale che Alfred aveva appena salito. Dall’altro capo della cornetta, Matthew diceva in maniera concitata qualcosa su un enologo, ma Arthur non gli prestò alcuna attenzione, anche se per motivi diversi dal solito.

«Charlie…» mormorò alla fine, le prime parole che pronunciava oltre a “pronto”. Matthew si interruppe subito, anche se quello non era affatto il suo nome. «Che tu sappia, è illegale farsi il proprio cugino?» Se si fosse reso conto di avere pronunciato quella frase ad alta voce, probabilmente non sarebbe più uscito da sotto il letto per il resto della sua vita, ma considerava Matthew alla stregua di un fantasma nella sua testa.

«Ehm… eh? C-cosa?» balbettò soltanto quello, venendo ovviamente totalmente ignorato.

***

Ancora immerso in strani pensieri su suo cugino, il tardo pomeriggio del giorno dopo Arthur salì in auto, dirigendosi in paese. Incontrando per strada gli stessi ciclisti di un paio di giorni prima, alzò di nuovo il dito medio fuori dal finestrino, urlando a pieni polmoni: «Louis Armstrong!»

Stava cominciando a riflettere un po’ troppo su Alfred ultimamente, così aveva ben pensato di svagarsi un po’. Qualunque cosa pensassero i francesi sui propri cugini, lui non era quel tipo di persona.

Ma non aveva fatto i conti con la sua sfortuna, perché parcheggiò di nuovo di fronte al bistrot di Francis senza pensarci, rimanendo per un attimo imbambolato a guardare i tavolini pieni del ristorante e ad ascoltare il chiacchiericcio dei clienti.

Uscì dall’auto, appoggiandosi ad essa ed osservando lo spettacolo silenziosamente. Dopo un po’, comparve anche Francis, che aveva tutta l’aria di essere sull’orlo di una crisi di nervi. Sembrava che qualcuno gli avesse spostato delle composizioni floreali e fatto un pasticcio con le prenotazioni, così si trovava a scusarsi con due clienti inferociti che non parlavano una parola di francese, probabilmente turisti americani, marito e moglie.

Arthur non poté fare a meno di notare che nessuno raccoglieva le ordinazioni degli altri clienti, dato che ad alcuni tavoli tenevano costantemente il braccio sollevato per attirare l’attenzione dell’unica cameriera presente oltre a Francis.

Si avvicinò di più al locale, accostandosi con aria annoiata al piccolo bancone esterno dove era appoggiato il registro delle prenotazioni, da cui Francis alzò gli occhi pochi secondi dopo, notando la sua presenza.

«Spero che abbiate un menù molto soddisfacente, perché il servizio è pessimo» mormorò con un ghigno Arthur, notando con piacere che l’espressione del francese si faceva mano a mano più disperata nel realizzare che lui era lì.

«Monsieur, sono troppo occupato per ignorarla…» sbottò, tornando a scarabocchiare qualcosa sul registro, cercando probabilmente di far quadrare le prenotazioni.

«Dove sono tutti i tuoi camerieri?» domandò però Arthur, sinceramente interessato.

«Senti, ho da fare anche senza fermarmi a giocare con te. McDonald’s è ad Avignon e fish & chips a Marseille. Allez» sbottò Francis, facendo il gesto di scacciarlo, chiaramente più seccato di prima, chiudendo il registro e sparendo dentro al ristorante.

Ma Arthur riuscì a raccattare un grembiule chiedendolo all’altra cameriera, che accettò il suo aiuto di buon grado, mettendosi a servire ai tavoli e dimostrando persino una certa esperienza. Francis lo guardava con aria dubbiosa, ma non gli disse nulla finché non ebbero quasi uno scontro frontale entrando ed uscendo dalla cucina.

«Che stai facendo, Angleterre?» domandò il francese, osservando dall’alto in basso il grembiule di Arthur e storcendo il naso.

«Non ti preoccupare, l’ho già fatto prima per pagarmi l’università… non mi sembra che si stiano lamentando» rispose con un sorrisetto di superiorità Arthur, anche se non aveva ancora ben compreso perché avrebbe dovuto aiutare Francis, a parte il senso di colpa. Comunque, molti meno clienti tenevano il braccio alzato adesso, e la maggior parte erano stati serviti.

«D’accordo, puoi stare qui» lo liquidò Francis, con una certa urgenza, dato che uno degli chef gli aveva appena detto qualcosa in francese a proposito dei gamberetti finiti. «Ma ricorda, se ci sono lamentele, in Francia il cliente ha sempre torto» aggiunse, sparendo verso il magazzino.

Poco dopo, Francis si bloccò quasi a bocca aperta, quando vide la coppia di i turisti americani di poco prima sistemati al tavolo corretto da Arthur, che li serviva in inglese, spiegando diligentemente in che cosa consistevano i piatti del menù.

Ma quando la donna richiese qualcosa come: «pancetta tagliata a cubetti nell’insalata», Arthur con un sorriso largo e falsamente cortese le prese il listino dalle mani, requisendo anche quello di suo marito.

«C’è McDonald’s ad Avignon e fish & chips a Marseille» spiegò educatamente ai due, invitandoli verso l’uscita con un gesto della mano. «Allez». Ovviamente gli americani s’indignarono parecchio, ma lasciarono il ristorante.

Quella scena strappò una risata a Francis, che involontariamente sorrise quando Arthur subito dopo gli lanciò un’occhiata. Il resto della serata, proprio grazie all’inglese, si rivelò molto tranquillo e il livello di stress di Francis scese quasi a livelli umani, fino a quando finalmente non fu ora di chiudere.

Aspettò che Arthur finisse di sollevare le sedie sui tavoli, appoggiato con i gomiti al bancone del bar, sorreggendo la testa con le mani e continuando ad osservare i movimenti dell’altro con una rinnovata curiosità.

«Queste sono le tue mance» lo informò, quando finalmente Arthur si sedette su uno sgabello di fronte a lui, con un sospiro. Si era tolto il grembiule, e lo aveva posato sopra la superficie del bancone. Francis gli aveva versato davanti una scatoletta, contenente in verità diverse banconote e spiccioli. «Grazie per l’aiuto… e sei licenziato».

«Antonio mi ha detto che sei cresciuto qui» disse invece Arthur, incassando il colpo. «Io ci ho passato un’estate… mi chiedo se non ti abbia già incontrato».

«Se è successo, spero di essere stato orribile» rispose candidamente Francis, senza fugare i suoi dubbi, ma sorridendo solo malignamente.

«Non ti riesce proprio di ringraziarmi?» domandò Arthur, irritandosi.

«Hai cercato di investirmi. Prendo questa serata come risarcimento… ma non basta» sbuffò Francis, prendendo a giocherellare con una ciocca dei propri capelli, attorcigliandola all’indice. Accennò con il capo al mucchietto di soldi sul bancone. «Hai appena guadagnato abbastanza per portarmi fuori a cena, come minimo».

«A un appuntamento?» chiese Arthur, dopo un po’, tradendo la propria insicurezza nel tono di voce. Antonio gli aveva raccontato che Francis non era più uscito con nessuno da anni. E lo stava chiedendo a lui? Come se quello stupido francese potesse anche solo piacergli… già…

«È semplicemente la seconda parte del mio indennizzo, esci con me o devo ricordarti che mi hai quasi ucciso…».

«Non occorre» ringhiò Arthur, scaldandosi in fretta e dimenticando tutti i pensieri che lo portavano a farsi piacere Francis.

«Allora, è un si o un no?» domandò l’altro, senza scomporsi e fissandolo con insistenza.

Arthur strette bene attento a non guardarlo negli occhi, ma preferì concentrarsi sul legno del bancone, così almeno non si notava quanto fosse arrossito. «Va bene. Lunedì sera alle otto, ti vengo a prendere qui» mormorò alla fine. Senza dire più una parola, afferrò i soldi davanti a sé ed uscì dal ristorante, sentendo a malapena dall’imbarazzo Francis che gli augurava una buona notte dietro di sé.

***

La mattina dopo, Arthur venne svegliato dalle urla di Alfred, che gridava qualcosa sugli scorpioni. Pochi minuti dopo, sentì Antonio correre per il corridoio e qualche colpo sordo, poi lo spagnolo che borbottava di tenere la lavanda sui davanzali.

Arthur non poté fare a meno di ridere sotto i baffi, anche se pochi giorni prima era stato vittima della medesima scenetta. Comunque, se non fosse stato quell’evento a svegliarlo, l’avrebbe fatto il suo cellulare, perché prese a squillare come sempre nel momento meno opportuno, quando si stava infilando una maglietta.

Incastrato tra la stoffa, Arthur rispose con un “pronto” soffocato, solo per apprendere che Matthew aveva deciso di venire di persona per controllare le condizioni della villa l’indomani. Lo liquidò in fretta, dirigendosi verso lo studio di Henry per cercare di riordinare anche i documenti dello zio, una delle faccende che aveva deciso di lasciare per ultima.

Ricordava benissimo come ogni tanto avesse falsificato la firma dello zio negli assegni da pagare, semplicemente perché Henry lo considerava uno dei tanti giochi educativi da fare con lui. Era persino proprio bravo, non si poteva davvero notare la differenza.

«Pare che in realtà il piccolo Lovino abbia un cuore tenero» lo informò Antonio, del tutto preso a spazzare il pavimento lì intorno, ma entrato nello studio per aprire la finestra.

Arthur si riscosse dalla lettura di alcune carte, alzando di scatto la testa sull’altro, confuso.

Antonio gli sorrise, stringendo a sé la scopa che aveva tra le mani e fissando il vuoto con aria sognante. «In un modo o nell’altro mi ha detto che mi vuole al suo fianco. E ora mi trasferisco da lui! Non è magnifico, il mio Lovino?» domandò, completamente esaltato, tanto che ad Arthur parve di scorgere inquietanti scintille brillanti nei suoi occhi.

«E-ehm… certo…» rispose, senza sapere bene che dire in quella circostanza. Non capiva specialmente come Antonio non si sentisse affatto in imbarazzo a dire una cosa del genere.

«Ho pensato che sarebbe d’obbligo festeggiare la nostra convivenza con una cena! Quindi ti prego, verresti a cena da noi stasera? Mi faresti davvero felice!» continuò Antonio.

Nonostante qualcosa dentro la sua testa gli stesse dicendo di rifiutare in maniera categorica, Arthur annuì senza pensarci, facendo letteralmente sciogliere lo spagnolo di entusiasmo davanti ai suoi occhi.

***

«Benvenuto!» esclamò Antonio, quando quella sera aprì la porta di casa Vargas, alla quale Arthur aveva appena bussato.

Per non si sa quale ragione, nel piccolo giardinetto dell’abitazione c’erano lucine colorante nella stessa quantità di come ce ne sarebbero state a Natale; e anche un fenicottero da giardino che si illuminava al neon. Arthur era rimasto abbastanza perplesso, ma si sforzò di sorridere ad Antonio, anche se si sentiva un po’ confuso da tutte quelle luci a sera inoltrata.

La casina dei Vargas somigliava molto ad un piccolo cottage inglese, la si raggiungeva dalla villa percorrendo un pezzo di strada tra i vigneti ed un altro su un sentierino, perché anch’essa era stata costruita in aperta campagna. Fu subito chiaro ad Arthur che Antonio aveva una certa familiarità con quella casa e quella cucina, mentre lo ascoltava parlare seduto al tavolo, con lui che finiva di cucinare.

«Credo che il giardino sia molto meglio così! Lovino si ostina a non tenere nulla in ordine, così ci ho pensato io… che ne pensi?» chiese inaspettatamente ad un certo punto Antonio, voltandosi verso di lui dal fornello.

«Ehm…» cominciò Arthur, fortunatamente per lui interrotto da qualcuno che spalancò la porta d’ingresso, ben visibile dalla cucina.

«Sono arrivato!» esclamò Alfred, al che Antonio si affrettò allegramente da lui sulla soglia per salutarlo. L’americano non aveva i soliti vestiti dimessi, ma un completo quasi elegante, se lui ovviamente non l’avesse abbinato con un paio di All Stars e se si fosse messo la cravatta.

Quella visione strappò ad Arthur un sorriso, mentre si riprometteva mentalmente, quasi senza rendersene conto, che avrebbe dovuto insegnare a quel ragazzo come vestirsi. Lovino comparve poco dopo, risultando quasi irriconoscibile dal momento che si era lavato il viso. Non sembrava troppo contento di avere ospiti a cena, ma aiutò Antonio quasi senza fiatare, mentre portavano i piatti in tavola, apparecchiata all’esterno.

«Ho conosciuto un vecchio in paese, l’altro giorno, che sa parlare il provenzale» disse Antonio, nel bel mezzo di uno dei suoi discorsi, mentre li serviva. «Anche se conosco il francese non sono davvero riuscito a capire una parola di quello che mi ha detto! È proprio vero quel che si dice, che ora il provenzale viene parlato solo dai poeti e dai sodomiti».

Arthur quasi si soffocò con l’acqua che stava bevendo, tossendo e lanciando un’occhiataccia ad Antonio. Possibile che ogni volta che apriva bocca si finisse sempre su quell’argomento?

Ma a peggiorare la situazione ci pensò Lovino, esibendo un’aria stranamente sorpresa e guardando lo spagnolo. «Che cosa sono i sodomiti?» domandò, perplesso, mostrando una genuina curiosità in quella domanda.

Antonio sorrise e ricambiò il suo sguardo teneramente, come se si stesse rivolgendo ad un cucciolo. Si avvicinò a lui, per chinarsi e dargli un bacio sulla fronte, incurante del fatto che Arthur ed Alfred fossero lì e che Lovino fosse arrossito all’istante. «Te lo spiego stanotte».

A quel punto, l’italiano abbassò gli occhi sul suo piatto, quasi in lacrime e tremante per l’imbarazzo e la rabbia, cosa che ovviamente Antonio sembrò non notare.

«Questa cena è ottima!» quasi gridò Arthur, nel disperato tentativo di cambiare argomento, anche se Alfred non sembrava turbato da quello che era appena successo. «Sono tutti cibi francesi, Antonio?»

«Si, quello che stai mangiando ora è cinghiale» affermò l’altro, finalmente sedutosi al suo posto. «Ci sarebbe anche del vino, è quello prodotto alla Siroque…» continuò, indicando la familiare bottiglia sul tavolo.

Eppure, quando Arthur lo assaggiò per la seconda volta, si dovette trattenere dal risputarlo tutto nel bicchiere, e lo inghiottì a fatica. D’istinto, guardò verso Lovino, il responsabile di quel vino orribile, ma l’altro gli rivolse solo un sorrisetto per nulla amichevole. Forse faceva apposta, a fargli bere le bottiglie più schifose; ma era molto probabile che invece tutto il vino prodotto alla tenuta avesse quel sapore.

Ben presto però Arthur scoprì che quel vino poteva anche fare schifo, ma era ottimo per ubriacarsi. Prima che potesse rendersene conto, aveva la vista annebbiata e la testa aveva preso a girargli, così era costretto a tenerla dritta appoggiandola ad una mano, il gomito che si puntellava sulla tovaglia.

In tutto quel disastro e Antonio che parlava candidamente ad Alfred della sua vita sessuale con Lovino, si sorprese a pensare alla possibilità di rimanere lì per sempre. Ora che Henry era di nuovo nella sua vita era tutto così tranquillo, tanto che se avesse smesso di tormentarsi troppo con i pensieri sulla vendita della villa probabilmente sarebbe stato davvero bene lì. L’unico problema era Alfred. Alfred era il padrone legittimo di tutto ciò che lo avrebbe potuto rendere felice.

E quell’idiota non sapeva fare altro che mangiare e parlare a sproposito, anche adesso, quando spiegava quanto Arthur fosse buffo mentre cercava di cambiare le assi di uno scalino rotto. Lo aveva osservato mentre si tirava il martello sulle dita e spandeva chiodi ovunque, rimanendo anche intrappolato con un piede incastrato nella rampa delle scale.

Per quanto l’americano potesse piacergli, anche se era uno stupido arrogante narcisista, non era disposto a cedergli l’unica casa che avesse mai avuto.

«Ehi, Antonio, dimmi» esclamò all’improvviso, cercando di raddrizzarsi sulla sedia e guardando fisso Alfred. «Cosa ti fa credere che Alfred sia il figlio di Henry?»

Antonio rimase per un attimo perplesso, ma quando rispose lo fece con un sorriso, come sempre. «Beh, hanno lo stesso naso e fanno la stessa espressione!»

«Oh, il naso è certo una prova inconfutabile» sbottò Arthur ironicamente, bevendo un altro sorso di quel maledetto vino. Senza volerlo minimamente, stava facendo tramutare il bel sorriso di Alfred in un’espressione malinconica. «Ma non ci sono altre prove? Henry ha mai nominato la sua vacanza in California? Andiamo, sono sicuro che l’ultima cosa con cui volesse aver a che fare fossero gli americani…»

«Beh, sai, Arthur» lo interruppe in fretta Antonio, guardando il volto di Alfred di sottecchi, preoccupato. «Alfred assomiglia ad Henry molto più di te…»

Le sue parole ebbero solo il risultato di far irritare Arthur, e anche se non intendevano essere un insulto, lui le prese come tale. «Oh, certo, naturalmente il fatto di averlo conosciuto e di averlo amato come un padre non mi dà alcun diritto di pretendere qualcosa! Dovremmo dare tutto ad Alfred dato che i loro nasi si assomigliano tanto! Proprio un’ottima idea, suggerita dalla cameriera».

«Non intendevo questo…» mormorò lo spagnolo, per la prima volta pallido.

Lovino si era risvegliato dopo una cena estremamente silenziosa e imbarazzata, e guardava Arthur arrabbiato, senza esitare un momento a parlare quando sentì il tono di voce di Antonio. «Non hai nemmeno il diritto di trattare male Antonio! Se hai intenzione di comportarti così, vai a farlo da un’altra parte».

Arthur non sembrò neanche ascoltarlo. «Ma sono curioso, cosa ne pensa il diretto interessato?»

Alfred era stato in silenzio, probabilmente aveva anche lui la capacità di sentirsi in imbarazzo ogni tanto, ma riprese il dono della parola al volo quando venne interpellato. «Io volevo solo conoscere mio padre» sbottò, acidamente, rivolto all’inglese e storcendo il naso. «Che tu ci creda o meno, non ho la mentalità ristretta di voi inglesi, sono capace di provare sentimenti e tutto ciò che volevo ormai non lo posso più ottenere».

Arthur non riuscì a ribattere nulla, nonostante avesse aperto bocca, ma la richiuse quasi subito. Che cosa stava facendo? Ora Alfred era arrabbiato con lui.

L’americano infatti si alzò bruscamente in piedi. «Grazie per la cena» mormorò, prima di girare i tacchi ed attraversare il giardino, diretto al vigneto con passo deciso. Non aspettò minimamente che qualcuno gli rispondesse.

Antonio tolse gentilmente il bicchiere di mano ad Arthur, ricambiando la sua occhiata ancora sbalordita con un sorrisino di scuse. «Credo che per oggi tu abbia bevuto abbastanza».

 

* la faccenda dei vini compare molto prima nel film, ma facendo fatica ad attenermi alla trama in maniera perfetta li introduco qui :D

 

 

____________________

il mio blocco su questa storia si sta lentamente sciogliendo *O* quindi posso tornare ad aggiornare!

mi dispiace un sacco, non ho scritto una scena in cui Lovino ed Antonio si chiariscono dopo quello che è successo.. la storia non parla di loro perciò non ho pensato alle parole che si sono rivolti dopo quel bacio. alla fine hanno semplicemente deciso di convivere in casa Vargas. comunque, questa coppia mi piace molto ç-ç e anche scriverci su.

 

to Aerith1992: sono contenta che ti piaccia, e soprattutto che tu non abbia visto il film xD così te la puoi godere di più, perché purtroppo non ho molta fantasia! grazie mille davvero, alla prossima ^^

to koharuchan: mi fa un sacco piacere che la trovi una storia interessante *-* il film è davvero bello, purtroppo non l’hanno visto in moltissimi, ma te lo consiglio davvero! all’inizio non sapevo davvero che coppia far prevalere, lo ammetto xD ora penso che rimarrà una fruk, in accordo alla trama originale! comunque ti ringrazio tantissimo!!

to Raven_95: wow hai visto il film! spero allora che la storia non ti risulti monotona, perché è spiccicata.. penso che ce la farò a finirla, anche se all’inizio ero in crisi! penso finirà come il film xD alla fine è la mia coppia preferita, anche se in realtà ho scritto ben due versioni >-< ciao ciao, grazie mille!

 

harinezumi

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Capitolo 5
*** capitolo cinque ***


 

capitolo cinque – in cui Alfred perde una scarpa

 


Arthur cercava di non barcollare troppo, mentre tornava alla villa attraverso le file di vigne, sfiorando le foglie degli alberelli con una mano aperta, distrattamente. Teneva lo sguardo basso, e non poteva fare a meno di tornare a biasimarsi ogni pochi secondi per quello che aveva fatto ad Alfred.

Eppure aveva imparato a farsi piacere la presenza di quel ragazzo in casa, che lo sorprendeva con quella sua ingenuità ed allegria da far concorrenza ad Antonio, ed era veramente capace di impuntarsi sulle cose più stupide. Certo quello di poco prima non era il caso: Arthur doveva trovare il modo di scusarsi per la sua insensibilità.

Per poco, mentre pensava sconsolato a come parlare ad Alfred, non inciampò al buio su quella che sembrava una radice a terra, barcollando in equilibrio precario. Solo dopo si accorse che era un piede scalzo, così si chinò a guardare in basso, perplesso, sbilanciandosi così in avanti e andando a finire a terra. Sotto le vigne, a carponi, stava Alfred.

«Che cosa stai facendo?» borbottò Arthur, rinunciando in partenza ad alzarsi dato che il vino stava facendo girare tutto il mondo intorno a lui.

«Ho perso una scarpa» rispose Alfred, ridacchiando leggermente alla dimostrazione dello scarso equilibrio di Arthur.

«Come sarebbe a dire?» grugnì l’inglese, cercando di mettersi a sua volta a carponi per scrutare anche lui intorno, ma senza riuscirci. Alla fine, strisciò ad appoggiarsi con la schiena ad uno dei pali su cui si arrampicavano le viti, rimanendo a guardare Alfred che studiava il terreno intorno.

«Ho perso una scarpa. Reggi bene l’alcol, eh?» rise l’altro, ripetendo pazientemente ed individuando alla fine l’All Star ben incastrata tra i due sassi che l’avevano sfilata dal suo piede. L’afferrò, ma non mancò di osservare Arthur, mentre legava le stringhe. Quello era praticamente in lacrime e scuoteva la testa lentamente come se fosse impazzito, il che divertiva immensamente Alfred, anche se non riusciva a capire come ci si potesse ubriacare tanto.

«Non voglio dividere con nessuno Henry…» mormorò all’improvviso Arthur, proprio mentre Alfred gli passava un suo braccio al collo per aiutarlo ad alzarsi.

«Ma Henry ormai è morto. Non è più importante il fatto che io sia l’unico parente che hai?» domandò, rinunciando per il momento a sollevarlo e guardandolo in volto, anche se quello sfuggiva sempre al suo sguardo, come si vergognasse di non riuscire a controllarsi.

«Proprio perché saresti l’unico… voglio essere sicuro…» rispose Arthur, scuotendo nuovamente la testa e cercando di asciugarsi gli occhi con pesanti manate poco eleganti.

«Capisco. Se la smetti di agitarti ti porto a letto» rise Alfred, moderando però il tono della propria squillante voce per non ferirgli le orecchie, e sollevando di peso l’altro da terra. Ben presto gli fu chiaro che non fosse in grado di camminare, così lo prese in spalla, cercando di non barcollare troppo lungo la via di casa. Però, non riuscì a risparmiarsi qualche risatina e commento ogni tanto. «Sei proprio una frana. Credo di non aver conosciuto nessuno di così maldestro».

«Sta zitto… stupido americano» biascicò Arthur, con la fronte bellamente spalmata su una delle spalle di Alfred, dato che non riusciva a risollevare il capo.

Sorretto da lui gli sembrava quasi di navigare, ma in effetti la situazione non cambiò molto quando venne gettato tra le sue coperte. Il mondo, ad occhi chiusi o aperti, girava di continuo e le orecchie gli ronzavano.

Alfred lo mise con cura sotto le coperte, togliendogli soltanto le scarpe. Arthur aprì gli occhi proprio quando il volto dell’americano era proprio sopra al suo, mentre gli sistemava il lenzuolo, e d’istinto lo afferrò per il colletto della camicia.

Quello gli rivolse un’occhiata sorpresa, mentre veniva costretto con uno strattone da Arthur a chinarsi di più su di lui e a posare le labbra sulle sue. Quando si toccarono in quel bacio, però, Alfred non esitò a ricambiarlo. Giocarono per un po’ con le proprie lingue, mordendosi le labbra a vicenda per dei lunghi momenti silenziosi, in cui si udivano soltanto i loro respiri leggermente affannati. Sembrò per quei minuti che volessero mangiarsi a vicenda, ed Alfred non poté fare a meno di arrampicarsi carponi sul letto sopra all’altro, tanta era la foga di quel bacio.

Tuttavia, appena si staccarono l’uno dall’altro per un istante abbastanza lungo, la mano di Arthur scivolò via dalla sua camicia e l’inglese richiuse le palpebre appena aperte, scivolando all’instante nel sonno.

Alfred non poté fare a meno di sorridere, e scese lentamente dal letto, uscendo dalla stanza.

***

«Bonjour!» fece una voce anche troppo squillante (come quella di un americano di sua conoscenza) alle spalle di Arthur, seduto al tavolino all’aperto a fare colazione.

Si voltò con l’aria di uno a cui il mal di testa è appena peggiorato, e i suoi occhi si posarono su un ragazzo che lo salutava con la mano, arrivando da un auto parcheggiata poco più in là sul viale. Somigliava in maniera impressionante a Lovino, aveva persino un ciuffo simile al suo che gli spuntava da un lato della testa, ma i suoi capelli erano più chiari; per contro, gli occhi erano decisamente di un’ambra più scuro rispetto a quelli dell’italiano.

Dietro di lui, intento a scendere dall’auto, c’era anche un altro ragazzo, biondo e molto più alto, tutto composto e ben pettinato, che scrutò Arthur poco distante con aria dubbiosa, prima di avvicinarsi a lui a sua volta.

«Salve, mi chiamo Feliciano!» esclamò allegramente il primo ragazzo, fermandosi a pochi passi da Arthur e rivolgendogli un sorriso a dir poco raggiante.

«Si?» domandò però l’inglese, alzando un sopracciglio e posando il giornale che stava leggendo sul tavolino, cercando di far notare all’altro che non aveva fornito nessuna spiegazione sul perché si trovasse lì, solo il nome.

«Io e Lud siamo qui per controllare il vino» chiarì allora in fretta Feliciano, allargando il proprio sorriso.

Arthur lo squadrò da capo a piedi, cercando di convincersi che quello potesse somigliare ad un enologo. Sicuramente un tipo così giovane –gli sembrava alla stregua di un dodicenne, nell’aspetto e da come si comportava- non poteva avere una laurea, ed in più, per quanto in abiti di buon gusto, aveva indosso maglietta e jeans, non molto professionali.

Il suo compagno del resto, che li aveva raggiunti silenziosamente, sembrava molto più adatto a somigliare ad uno che sta lavorando, perché almeno aveva la cravatta, così Arthur si rivolse a lui.

«Siete entrambi enologi?» domandò perplesso.

«Sono Ludwig, signor Kirkland» si presentò il biondo, con un forte accento tedesco, porgendogli una mano e nel contempo con l’altra afferrando Feliciano per la maglietta e tirandolo dietro di sé per nasconderlo alla vista. «Questo è il mio assistente, non faccia caso a lui».

Arthur gli strinse la mano, già più sollevato di conoscere qualcuno di normale. «Prego allora, vi accompagno a visitare le cantine e il vigneto». Si alzò in piedi, rendendosi conto di essere ancora in pantofole. «Vado a prendere degli stivali».

«Certamente, la aspettiamo» lo congedò Ludwig, lasciando andare Feliciano che si lamentava solo quando Arthur fu sparito nella porta della cucina. Allora, si rivolse al compagno, sibilando. «Vedi di non fare casino, o mi pentirò di averti portato» gli intimò poco gentilmente.

«E così sono il tuo assistente, Lud?» esclamò entusiasta Feliciano, aggrappandosi ad un suo braccio e cominciando a fare quelle che potevano essere definite fusa, strusciandosi contro la sua spalla.

«Non fare queste scene! Dobbiamo lavorare» sbottò Ludwig, riuscendo a scollarselo di dosso proprio quando Arthur tornò fuori, facendogli un cenno sbrigativo con la mano e accompagnandoli verso le cantine.

In realtà l’inglese sembrò non notare quanto entrambi gli altri due ragazzi s’intendessero poco di vino, mentre quasi si perdevano nel laboratorio, perché era immerso nei cupi pensieri che gli popolavano la mente da quando si era alzato quella mattina. Alfred stava ancora dormendo bellamente, ma lui non aveva bisogno di chiedere conferme per ricordare bene quello che era successo la notte prima: l’aveva baciato.

Arthur si sentiva stupido al solo ricordo di quella scena così imbarazzante. E si era anche addormentato subito dopo, come se davvero fosse tanto ubriaco da non reggere (lo era, ma non considerava una buona cosa dimostrarlo).

Certo, l’americano gli piaceva davvero molto. Gli piacevano le sue risate, il suo sorriso e il suo ciuffo di capelli sulla testa. Gli piaceva persino quando partiva in quarta a spiegare quanto si sentisse patriottico nei confronti del suo amato paese, che pure aveva lasciato per conoscere Henry, soltanto con lo zaino in spalla e un po’ di spiccioli. Ma non gli piaceva in quel senso. Si affannava così tanto a riflettere sul da farsi che praticamente ignorò gli altri due ragazzi per tutto il tempo.

In breve, non notò che Ludwig era palesemente in difficoltà nell’aprire le bottiglie o a prelevare campioni di mosto, e che era Feliciano a fare ogni cosa con straordinaria facilità. Anche quando il biondo assaggiò il vino, rimase a fissare il bicchiere senza capire esattamente cosa avrebbe dovuto dire a quel punto, così il più piccolo venne velocemente in suo aiuto.

«Piquette» affermò, in direzione di Arthur, di nuovo sorridendo. Ma non incontrò un’espressione di comprensione da parte dell’inglese. *

«Magnifico» rispose alla fine Arthur con incertezza, dopo un po’ che sosteneva il suo sguardo, alternandolo a quello di Ludwig che gli pareva stranamente confuso.

«No, no… vuol dire che non è buono» si affrettò a spiegare Feliciano, stringendosi nelle spalle con aria di scuse. «Sa di… come dire…»

«Merda?» domandò dolcemente Arthur, notando che la bottiglia che stringeva tra le mani era effettivamente una di quelle del suo vigneto. «Lo sospettavo».

«Ehm… mi dispiace» mormorò Feliciano.

«Non fa  niente. Avete finito? Potremmo andare a visitare il vigneto adesso, non credo che qui ci sia altro da scoprire».

Ludwig annuì, così Arthur fece strada verso l’uscita e infine li condusse ai campi, passando attraverso il parco. Feliciano gli parve estremamente interessato alla piscina, e disse qualcosa in proposito al compagno, che gli intimò soltanto di stare buono, arrossendo leggermente.

Tuttavia tra le vigne non sembrò andare tanto meglio, perché quando Feliciano le esaminò si esibì in una serie di espressioni che non fecero venire molti dubbi ad Arthur. Probabilmente la vigna non sarebbe stata un punto a favore per vendita della casa, si rassegnò. «È una catastrofe. E guarda questa roba! Che modo di fertilizzare sarebbe? Sembra più un cimitero che un vigneto».

Alla fine, si voltò verso di Arthur, continuando a parlare soltanto a lui mentre Ludwig non spiccicava più verbo. «Uhm…» cominciò, cercando le parole per definire la sua sentenza.

«Allora? Quale sarebbe il verdetto?» domandò Arthur, poco rassicurato dall’espressione dell’altro.

«Uhm… no» rispose Feliciano, scuotendo il capo e guardandosi intorno con aria esageratamente sconsolata. «Insomma. Può considerare l’idea di coltivarci le patate. Vero signor enologo?» domandò con un sorriso a Ludwig, che arrossì e fremette leggermente, probabilmente per non saltargli al collo e ucciderlo.

«Capisco. Beh, grazie» mormorò Arthur, ancora troppo intontito per rendersi conto che c’era qualcosa di strano in quei due.

Li congedò dopo qualche minuto, solo per tornare abbattuto indietro verso il parco, per nulla contento di quella nuova cattiva notizia. In quella maniera non si sarebbe mai liberato di quel posto, sempre che ora lo volesse per davvero. A confonderlo di più di tutto c’erano Francis (non si era scordato il suo appuntamento con l’affascinante francese) e Alfred, quest’ultimo piazzatosi da poco accanto alla piscina.

Stava steso a pancia in giù su una vecchia sedia a sdraio, in costume, e stava leggendo alcuni fogli che doveva aver preso dalla scatola aperta sul bordo della piscina. Arthur ci mise un po’ di tempo per rendersi conto che quelli erano la corrispondenza e i diari di Henry, che con una folata di vento finirono in buona parte dentro l’acqua della piscina.

Ovviamente, l’americano non accennò nemmeno a prenderli, ma sollevò la testa al grido di Arthur che correva in quella direzione, sorridendogli. «Bonjour, coniglio bianco!» lo salutò, entusiasta, sebbene dovesse essere sveglio da nemmeno mezz’ora.

«Che diavolo stai facendo, idiota! Queste sono cose preziose!» esclamò Arthur, afferrando con urgenza il retino per pulire la piscina e cominciando a pescare in fretta i fogli che ancora galleggiavano sull’acqua.

«Sai che papà ha mixato un martini a Winston Churchill? E ha anche ballato con Amelia Earhart nel 1975!» spiegò Alfred, allegramente, tornando a leggere i fogli che teneva in mano, per nulla scosso dall’agitazione di Arthur.

«Considerando che Amelia Earhart è morta negli anni ’30, questa è una delle tipiche esagerazioni di zio Henry» sbottò l’altro, stendendo nel prato ad asciugarsi tutti i fogli che riusciva a recuperare. Si sentiva di nuovo orribilmente in collera con colui che era chiaramente venuto a distruggere tutti i propri bei ricordi –anche fisicamente adesso!. «Vuoi conoscere veramente tuo padre, e non quello che la tua fervida immaginazione sta creando nella tua testa? Henry era un uomo talmente spaventato dal mondo che ha preferito morire qui triste e solo piuttosto che uscire da queste quattro mura…».

Alfred si tirò a sedere, ancora una volta cambiando la sua espressione da bambinone in una molto più arrabbiata e delusa , come la sera prima. «Tutto ciò che ho bisogno di sapere su mio padre è qui» mormorò allora, alzandosi in piedi e gettando le carte che aveva in mano un momento prima nella piscina.

Arthur fermò, arrossendo e rendendosi conto che lo stava trattando di nuovo decisamente male, e stavolta non era nemmeno ubriaco.

«Sai, se questo posto significava tanto per lui, come hai detto tu, sei una persona molto più orribile di quella che credevo anche solo per aver pensato di venderlo» lo raggelò Alfred, il sorriso dolce e amichevole scomparso dal suo volto. «Me ne vado domani».

***

«Che vuoi, Alf?» sbottò Arthur, rispondendo al telefono con quell’espressione, nonostante avesse visto benissimo che il nome sul display del telefono era “Matthew”.

«Ehm… hai dimenticato che dovevo arrivare?» mormorò l’assistente, timidamente.

«Ah… si. Quando arrivi?» chiese Arthur, osservando l’ora all’orologio appeso alla parete, che segnava le sei del pomeriggio.

«Sono già fuori, ecco io… ho bussato ma non mi risponde nessuno. Sei in casa, vero?» pigolò Matthew, rinunciando a sembrare seccato quale era in realtà. Non valeva la pena di arrabbiarsi con il suo capo, tanto quello nel giro di cinque minuti non avrebbe mai ricordato nemmeno il perché.

Arthur non si sprecò a correre troppo per andare alla porta, ma cercò di sorridere all’assistente quando lo vide aspettare sul viale assieme ad una valigia, ancora con il cellulare in mano. «Entra… sai, temo che avrai problemi con la vendita della casa».

«Perché? A me sembra molto bella, penso invece che ci potrai ricavare almeno cinque milioni…»

«Perché a quanto pare Lovino non sa fare il suo lavoro, e per un contratto con lui dovrò tenerlo qui. I nuovi proprietari saranno costretti a tenersi il suo vino! Comunque fai quello che devi, intanto che stai qui puoi prenderti una delle stanze al piano di sopra» spiegò l’inglese, con aria annoiata.

Arthur rimase a discutere di lavoro con Matthew per un po’ di tempo. A quanto pareva i suoi sostituti stavano facendo un bel disastro in sua assenza, e la notizia fece fiorire sulle labbra di Arthur uno dei suoi ormai vecchi sorrisi strafottenti. In altre parole, capì dalle parole del suo assistente che dopo quella settimana avrebbe potuto tornare al lavoro senza problemi, anzi probabilmente l’avrebbero reclamato a gran voce.

Tuttavia, anche il solo pensiero di partire da quella casa riusciva ad abbatterlo. Non avrebbe mai voluto lasciare le cose come stavano, specialmente ora che aveva litigato con Alfred un’altra volta. Più era impegnato a non ascoltare Matthew, che continuava a parlare indisturbato, più si rendeva conto che avrebbe dovuto come minimo scusarsi con l’americano.

Poi quel giorno era anche lunedì, e di lì a poco avrebbe dovuto incontrare Francis in paese. Quel pensiero, che fino alla sera prima lo aveva reso un po’ più allegro, ora lo faceva deprimere come poche cose, infatti appena gli venne in mente cominciò a dare testate alla scrivania dello studio in cui si erano seduti. Matthew ovviamente si agitò, senza capire, chiedendogli terrorizzato se per caso non si sentisse bene.

«Matthew» chiamò all’improvviso Arthur, sollevando la testa. L’assistente non fece in tempo a rallegrarsi per essere stato chiamato con il suo nome, che vide una preoccupante scintilla maliziosa negli occhi del proprio capo. «Dovresti farmi un favore».

«C-che genere di favore?» domandò Matthew, indietreggiando leggermente sulla sedia, inquietato dal sorriso che gli stava rivolgendo Arthur.

«Devi andare di sopra a scusarti con una persona da parte mia. Ho un appuntamento, ma non mi va di lasciarlo solo…» mormorò Arthur, mordicchiandosi il labbro con aria pensierosa, mentre i suoi occhi viaggiavano verso la rampa delle scale che s’intravedeva da una delle due porte aperte dello studio.

«Ma come potrei io… e dove dovresti andare? Hai un appuntamento… con una ragazza?»

Arthur prese le chiavi della Smart dalla tasca dei jeans e cominciò a giocherellare con il portachiavi, la mente che già vagava a pensare che capi di Henry avrebbe potuto indossare quella sera. «Direi che non sono affari tuoi, comunque non è una ragazza. Tu pensa a mio cugino al piano di sopra, io devo prepararmi».

«H-ho capito». Matthew annuiva con foga, anche se sembrava decisamente arrossito da quando Arthur aveva praticamente affermato di avere un appuntamento con un uomo. Del resto lui era l’assistente e non amava fare domande scomode, perciò si limitò ad incassare l’incarico, nonostante andasse molto al di là delle sue competenze.

Arthur non riuscì ad andare a scusarsi di persona con Alfred. Dopotutto, la sua mente aveva bisogno di riflettere su una preoccupazione alla volta; e ora il suo principale problema era quell’appuntamento inaspettato con Francis.

Non poteva negare che fosse un ragazzo molto bello. E chissà per quale motivo, accettando di uscire con lui, gli stava dando tutta quella fiducia, che a quanto pare da tempo non aveva per nessuno, a detta di Antonio. Forse era rimasto colpito dall’inglese, a modo suo.

Certo, anche Arthur aveva capito di esserne piuttosto attratto, vedendolo dal fondo della piscina quel giorno. Ma –da sobrio- non era il tipo di persona che saltava addosso a chiunque trovasse di bell’aspetto, o anche solo interessante. Tuttavia, aveva certamente intenzione di uscire davvero con Francis.

Perché Francis gli ricordava qualcosa… qualcosa che aveva a che vedere con le sue bellissime memorie dell’estate passata alla Siroque. Qualcosa che sicuramente aveva dimenticato.

 

* non ho idea di che cosa voglia dire “piquette”, ma dovrebbe essere qualcosa come “ispido”. è plausibile secondo me che Feliciano se ne intenda un po’ di vino, mentre ovviamente Ludwig è un pesce fuori d’acqua dato che è un birromane xD

 

 

____________________

beh penso di aver aggiornato un po’ più in fretta stavolta, no? questo capitolo è pure corto u.u’ perdonatemi. sono riuscita a scrivere il sesto, quindi sono molto sollevata e felice *-* forse riuscirò a non propinarvi una schifezza totale.

ringrazio molto chi ha letto e soprattutto chi ha lasciato una recensione ^^ potrei mentire e dire che non m’importa nulla, ma mi fa piacere avere riconoscimenti, non ci posso fare nulla xD

 

to Aerith1992: eh già, anch’io picchierei Antonio a volte xD è troppo spontaneo, è imbarazzante per il povero Lovino.. certo in realtà finita la cena gli ha dato il tavolo in testa probabilmente, altro che dimostrazione pratica di sodomia u.u’ io non ho idea di come stia scrivendo xD ma se dici che la storia ti piace sono contenta!! grazie davvero ^^

to Yuri_e_Momoka: un’altra recensione meravigliosa, specialmente per l’ora in cui l’hai scritta ç-ç cioè dopo averla letta sono andata subito a fare una torta dalla felicità *-* (ehm.. già) non devi dirmi queste cose xD poi mi monto la testa e e e.. vi voglio bene, posso sposarti anch’io? ç-ç e voglio specialmente che torniate a scrivere!! ammetto che nonostante ami la fruk è molto difficile scriverci su per me.. veramente complesso! spero che i personaggi migliorino, anche se sono felice che ti piacciano già così ç-ç commossa più che altro. spero ti piaccia fino alla fine.. grazie grazie mille!

harinezumi

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Capitolo 6
*** capitolo sei ***


 

capitolo sei – in cui piove a dirotto

 

«Ehm… c’è nessuno?» mormorò Matthew, timidamente, fermo da mezz’ora davanti alla porta socchiusa.

«Sì?» chiese una voce dalla stanza. Un attimo dopo, Alfred aveva spalancato la porta, posando gli occhi sul ragazzo, perplesso.

«Sono Arthur, un amico di Matthew» balbettò quello, senza quasi un filo di voce. «Cioè… volevo dire, sono Matthew, un amico di Arthur. S-sono il suo assistente».

«Oh, piacere di conoscerti» rispose Alfred, anche se dal suo tono non lo intendeva affatto. Non pareva aver considerato che in quel momento si trovata a torso completamente nudo, intento ad esaminarsi le scottature sulla schiena. Era rimasto un po’ troppo al sole accanto alla piscina, quel pomeriggio. Ma odiava molto di più il fatto di aver litigato con quella testa vuota di Arthur, che continuava a trattarlo come uno scemo. In quel momento, i suoi amici non erano i benvenuti, e nemmeno gli assistenti di nessun genere.

Però quel Matthew gli fece un’isolita pena, sembrava sul punto di svenire da un momento all’altro, quindi forse avrebbe dovuto invitarlo a sedersi. Evidentemente doveva sentirsi schiacciato dalla sua presenza così imponente, e questo pensiero glielo fece stare subito un po’ più simpatico.

«Vieni» lo invitò, lasciando la porta aperta e andandosi a sedere sul letto. «Dovresti darmi una mano. Puoi controllare la mia schiena?» domandò poi, una volta che quel ragazzo così impacciato fu entrato nella stanza. Si guardava intorno con occhi agitati, come se Alfred avesse potuto ucciderlo da un momento all’altro.

«S-sì» mormorò però Matthew, confusamente.

Al che, Alfred sorrise e si stese a pancia in giù sul letto, lasciando che Matthew si avvicinasse ed esaminasse per qualche istante le sue spalle. «Qui in Francia hanno una strana tipologia di sole. In California non mi scottavo mai, assolutamente. Dev’essere un altro inconfondibile segno di quanto gli europei siano poco accoglienti!»

«Ehm, io dovrei…» cominciò Matthew, ma ovviamente Alfred non lo lasciò finire, anzi, continuò a parlare come se lui non esistesse.

«Non so chi si credono di essere, con le loro ricche ville e i loro ricchi zii, non prendono nemmeno in considerazione i legami d’affetto che ci possono essere tra le persone! Sono completamente privi della capacità d’amare, oh si!» sbottò l’americano, anche se probabilmente il suo discorso verteva su una persona in particolare.

«C’è una cosa che Arthur…» cercò di articolare Matthew, visto che l’altro si era fermato a riprendere fiato, ma venne presto interrotto di nuovo.

«Mi ha lasciato qui come se nulla fosse, l’ho sentita la sua moto andarsene via! Che grande idiota! E pensare che fin dal principio non ho mai avuto bisogno della sua presenza, mi deve solo ringraziare». Alfred sbuffò, fissando la testiera del letto, la testa appoggiata alle braccia incrociate sul cuscino. «Se non l’ho buttato fuori dalla villa che mi spetta di diritto è solo perché mi faceva pena. Completamente senza sentimenti».

A quel punto, Matthew sembrava non aver più il coraggio di parlare, perché aveva intuito che probabilmente Alfred era molto sensibile, e doveva soffrire per il litigio che probabilmente aveva avuto con Arthur, forse avrebbe avuto bisogno di qualcuno con cui parlarne ancora per un po’…

«Ah, sei ancora qui? Mi porti un hamburger? Muoio di fame…».

… o forse era così affamato che stava solo parlando a vanvera.

 

***

Francis si era preparato con una certa cura per l’appuntamento con Arthur, ma aveva fatto di tutto per mancare in dei piccoli dettagli e far sembrare che non gli importasse troppo. Però ben presto non aveva dovuto fingere di dimenticarsi di ravviarsi per un momento i capelli o cambiarsi la camicia per l’ennesima volta; anche se aveva lasciato in mano a cinque camerieri il ristorante, aspettare le otto senza far nulla gli metteva addosso un’inquietudine che non poté ignorare.

Quando vide Arthur, appoggiato sulla sua moto parcheggiata accanto alla fontana davanti al ristorante, gli venne un tuffo al cuore, e per poco non lasciò cadere a terra il vassoio che stava portando. Sforzandosi di non guardare il sorrisino che era comparso sulle labbra dell’inglese, concluse l’ordinazione e si levò il grembiule.

Solo allora tornò con gli occhi ad Arthur, che non si era mosso di un millimetro.

Si avvicinò alla fontana, sforzandosi di esibire un’aria arrogante; dopotutto, lui era ancora arrabbiato per l’incidente con il fagiolo verde a quattro ruote, giusto? Giusto. Gli occhi verdi di Arthur non lo attraevano terribilmente, nemmeno un po’.

«Non ricordo se ti ho mai detto che sei carino, per essere un vinofilo francese» gli disse Arthur, cercando persino di mutare la sua espressione in una sorridente. Si sentiva ancora in colpa quando guardava Francis, in fondo lo aveva investito. Anche se lui aveva ampiamente già preso la sua rivincita.

«Credo che tu l’abbia pensato» rispose Francis, con un sorrisetto. «Quando mi hai visto, dalla piscina» aggiunse, all’occhiata perplessa di Arthur.

«Non è per niente vero» borbottò in fretta quello, cercando di non arrossire troppo.

«Sei molto elegante» mormorò Francis, appoggiandosi alla moto accanto a lui.

«Sono tutti i vestiti di Henry. Sai, mio zio». Arthur fece una pausa, incerto. «Ma tu saprai sicuramente chi era, Antonio te lo avrà detto. Amava l’alta sartoria. Ah, ho un regalo per te!» si ricordò all’improvviso, voltandosi verso la moto ed estraendo da una tasca una bottiglia di Coin Perdu, il vino misterioso che aveva trovato in cantina.

«Wow» sussurrò Francis, quando gli venne passata la bottiglia. La tenne in mano, osservando l’etichetta come se si dovesse per forza trattare di un falso. Poi, si voltò verso Arthur, guardandolo sorpreso in volto. «È molto costoso».

«Che t’importa? È un regalo» rispose Arthur, distogliendo in fretta lo sguardo e puntandolo sulla terrazza all’aperto del ristorante, illuminata ancora dal sole che ormai stava tramontando.

«Stai cercando di sedurmi, per caso?» chiese però Francis, con una risatina, senza smettere di fissarlo; la sola sensazione dei suoi occhi sulla pelle stava facendo arrossire di nuovo Arthur, ma lui sembrava esserne solamente divertito e deliziato.

«Per niente! Non farti venire strane idee!» esclamò l’altro, voltandosi all’improvviso verso di lui con aria rabbiosa, ma rimanendo immobile al gesto che Francis fece un attimo dopo.

Con delicatezza, gli aveva portato senza che se ne accorgesse una mano dietro la nuca e, se finora gliel’aveva appena sfiorata, adesso vi posò dolcemente le dita e tutto il palmo, per portare il suo viso più vicino al proprio. Aveva chiuso gli occhi, ed inclinato leggermente a destra il capo; Arthur poteva vedere benissimo il suo volto, illuminato dalla luce arancione del sole che lentamente se ne andava alle loro spalle, perché invece aveva tenuto gli occhi aperti, leggermente sgranati.

Quando le labbra di Francis si posarono sulle sue, però, socchiuse a sua volta le palpebre, ricambiando quel bacio così tenero, che aveva poco a che vedere con i commenti pungenti del francese e il suo astio nei suoi confronti.

Da parte sua, Arthur non avrebbe mai pensato di riuscire a staccarsi da quelle labbra anche dopo un contatto così semplice e dolce, ma quando lo fece e tornò a guardare Francis negli occhi, si stupì a pensare che avrebbe potuto anche viverci, di quei baci.

«Ti va di andare?» gli chiese quello, con un sorriso che su quel bel volto incorniciato dai capelli biondi era semplicemente perfetto.

Si sentì decisamente un idiota quando, al posto di rispondergli, rimase così, ad un palmo dal suo viso, le labbra leggermente dischiuse e incapace di spiccicare una parola.

***

Francis aveva trascinato Arthur, in sua completa balia, fino alla festicciola del paese, che comprendeva un palco all’aperto su un prato e un’orchestra che suonava dal vivo. In qualche modo aveva ottenuto il tavolino del migliore del servizio di ristorante che aveva organizzato una ditta di catering, e vi stava seduto assieme a Arthur, ascoltando la musica.

Ma aveva notato che da un po’ l’inglese aveva occhi più che altro per lui, piuttosto che per il palco poco distante, al di là della lunga fontana del parco. Anche se Arthur era bravissimo a mascherare la sua attrazione: non una sola volta Francis era riuscito a sorprenderlo con lo sguardo su di sé, nonostante sentisse benissimo i suoi occhi puntati costantemente addosso.

«C’è qualcosa di me che dovresti sapere» disse ad un certo punto Francis, sorprendendolo. Si voltò di nuovo verso di lui, stavolta incontrando i suoi occhi verdi. «Se trovo qualcuno che davvero mi piace, divento molto molto esigente» continuò allora.

«Sono onorato» rispose Arthur, beccandosi all’istante un’occhiataccia poco gentile. Evidentemente non aveva finito.

«Sono anche una persona molto molto sospettosa… e davvero irrazionale» proseguì infatti l’altro. «Mi arrabbio facilmente, sono geloso… e lento a perdonare. Tanto perché tu lo sappia».

«Mh» rispose Arthur, prendendo il proprio bicchiere di vino dal tavolo e accostandoselo alle labbra. «Senza offesa, ma prometti di essere una buona serata».

***

«Cavolo, ha cominciato a piovere a dirotto!» sbottò Lovino, mentre correva verso la porta di servizio della cucina. Quando riuscì a rifugiarvisi, scrollò la testa, completamente bagnato da capo a piedi.

Non fece in tempo a cominciare a lamentarsi che Antonio, che l’aveva visto benissimo entrare, lo abbracciò da dietro, stringendoselo contro e suscitando all’istante i suoi strilli. «Oh, Lovi! Sei venuto a trovarmi!»

«Ma che scemenze, stupido bastardo!» ringhiò Lovino, cercando di divincolarsi senza nessun successo. «Non vedi che diluvia?»

«Oh» mormorò Antonio, che apparentemente se n’era accorto solo in quel momento, guardando fuori dalla porta ancora aperta. «È vero! Dovremmo fermarci qui a cenare… che peccato, spero tanto che l’appuntamento di Arthur stia andando bene lo stesso…».

Lovino arrossì di rabbia, riuscendo a liberarsi con uno strattone e cercando nuovamente di uscire nel viale, nonostante questo volesse dire bagnarsi di più. Antonio, però, lo afferrò in tempo per un polso. «Ehi, Lovi! Ma dove vai!» esclamò, sorpreso, cercando di tirarlo verso di sé, ma trovando fiera resistenza nel ragazzino, che pur di non guardarlo strizzava le palpebre, furente.

«Lasciami subito!» gridò, afferrandogli il polso.

«Dimmi che ti prende! Cos’ho fatto?»

«Lo sai benissimo, imbecille!» rispose Lovino, puntandogli addosso due occhi di fuoco. «Parli dello stupido inglese anche quando siamo insieme! Forse ci dovevi uscire tu, con lui!»

Antonio rise, provocando ulteriormente Lovino, che fremeva e aveva tutta l’aria di volergli saltare al collo per strozzarlo da un momento all’altro. «Che cavolo hai da ridere, bastardo! Mollami subito!»

Ma quello sembrò non averlo nemmeno sentito, perché se lo tirò nuovamente contro il petto, abbracciandolo con dolcezza e affondando il volto tra i suoi capelli bagnati e spettinati. «Oh, Lovino, non essere geloso… per me esisti soltanto tu».

«E chi…» balbettò Lovino, completamente immobile e color peperoncino, paralizzato dall’imbarazzo. «Chi… diamine ti vuole! Lasciami, se non vuoi morire! Sul serio, Antonio, vedi di piantala…»

A quel punto, venne zittito dalle labbra dello spagnolo sulle sue; e non l’avrebbe  mai confessato neanche morto, ma era proprio quello che tacitamente gli chiedeva di fare ogni volta che lo faceva arrabbiare così.

***

«Sei stato onesto con me, quindi forse io dovrei esserlo con te» mormorò infine Arthur, con un sorriso, piuttosto fiacco, cosa che a Francis non sfuggì affatto.

La musica dal palco continuava a suonare, e loro non si erano rivolti che poche parole da quel discorso abbastanza strano ed improvvisato che aveva fatto Francis. Arthur non aveva trovato fino a quel momento le parole per rispondergli, perché non era molto bravo in quel genere di discorsi né trovava i momenti adatti per esprimerli.

«Sono cinico. E, mi dicono, anche molto insensibile» sbuffò infatti senza nessuna grazia. I suoi occhi erano risoluti, ma l’inglese aveva un’espressione alquanto divertente, perché risultava molto imbarazzata. Probabilmente, stava per dire una di quelle assurde e melodrammatiche frasi ad effetto che tanto piacevano a Francis, così lui rizzò subito le orecchie, guardandolo con un sorrisetto. «Non sono capace di fidarmi di nessuno» continuò, ignorando il calore che gli si propagava dalle orecchie e andava ad infiammargli il viso.

Ma era tutta colpa di Francis, che era così carino anche mentre lo osservava ascoltando con attenzione.

«L’unica persona che abbia mai amato era mio zio Henry, e negli ultimi dieci anni non gli ho mai rivolto la parola» concluse Arthur, con un’alzata di spalle.

«Parlava spesso di te» fece Francis, continuando a sorridere. «Con un po’ di tristezza. Non era molto felice di averti perso così».

«Lo conoscevi?» domandò Arthur, sorprendendosi.

Francis lo guardò negli occhi con un’aria strana, a metà tra il divertito e il mesto, prima di mettersi a giocare con una rosa infilata nel loro centro tavola. «Era impossibile che non lo conoscessi, vivevo qui».

«Mi chiedo davvero se non ci siamo mai incontrati…» mormorò allora Arthur, più a sé stesso che all’altro, come se stesse cercando di riflettere e ricordare. Ma Francis non gli fornì una risposa, anzi si limitò a sorridere in maniera piuttosto enigmatica.

E in quel momento prese a piovere a dirotto. Francis scoppiò a ridere, mentre Arthur imprecò a voce talmente alta che un cameriere, intento a mettere in salvo dalla pioggia alcune tovaglie, lo guardò scandalizzato. Velocemente, Francis si era alzato ed aveva preso uno degli ombrelloni che fungevano da piccoli gazebo in alcuni tavoli, portandolo sopra a sé ed ad Arthur, ormai in piedi e bagnato come un pulcino.

Ma continuava a ridere, osservando l’inglese che cercava di strizzarsi la giacca e malediva la Francia e i suoi temporali improvvisi (lui, che non avrebbe neanche dovuto aprire bocca sull’argomento), trovandosi sorprendentemente vicino ad Arthur in quel momento, senza averlo premeditato.

Quando anche l’altro si rese conto della loro vicinanza, in piedi, ormai soli, tra i tavoli in cui scrosciava la pioggia, alzò lo sguardo sul suo. Un attimo dopo, Francis lo stava di nuovo baciando.

«Questo posto…» mormorò Arthur, mentre le loro labbra ancora si sfioravano dopo essersi separate. «Lo amo davvero. È intossicante… per nulla al mondo in un qualsiasi altro luogo avrei baciato uno stupido francese come te».

***

Il corpo di Francis era letteralmente appiccicato al suo, una gamba in mezzo a quelle di Arthur e entrambe le mani che andavano a stringere i polsi dell’inglese, spinto contro la parete della stanza. Il francese era molto occupato a mangiargli le labbra, assaporandole a tratti e smettendo di aggredirle con foga, per fermarsi a leccarle piano.

Arthur si sentiva alla stregua di una ragazzina: Francis era in grado di bloccare ogni suo pensiero razionale con quell’atteggiamento a dir poco aggressivo, tanto che gli aveva strappato ben più di un gemito limitandosi a sfiorargli il basso ventre con il proprio. Se c’era una cosa che Arthur odiava, era il dimostrarsi tanto impressionabile davanti ad un francese, ma sembrava che a Francis non potesse importare di meno.

Separò le loro labbra, chinando la testa e andando a mordicchiargli dolcemente il collo, succhiando la pelle ancora bagnata di pioggia; si erano rifugiati dopo pochi minuti dall’inizio dell’acquazzone nell’auto di Arthur, per poi dirigersi alla Siroque. La villa era stata silenziosa, prima del loro arrivo, perché Francis non aveva perso tempo e aveva amabilmente chiesto all’altro dove fosse la sua stanza. Grazie agli efficaci metodi di persuasione del francese, non ci era voluto molto per trovarsi in quella situazione.

Le mani di Francis sciolsero i polsi di Arthur, andando a posarsi prima sulla sua vita e poi, lentamente, sollevarono la camicia dietro la schiena, accarezzando la pelle, che rabbrividì a quel contatto. Arthur lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, completamente ancora inebriato dalla sensazione delle labbra di Francis sul suo collo, le palpebre che fissavano il vuoto socchiuse.

A quel punto si rese conto, con un certo imbarazzo (come se fino a quel momento non ne avesse provato già abbastanza), di essere in balia di Francis dal primo istante in cui avevano chiuso la porta della camera dietro di loro. Non avere il controllo di una situazione del genere feriva profondamente il suo orgoglio, per quanto i suoi ormoni non ne fossero per nulla dispiaciuti.

Così, afferrò letteralmente il volto di Francis tra le mani per sollevarlo, suscitando in lui una vaga sorpresa, e andò ad imprimere con forza le proprie labbra sulle sue. Infilò la propria lingua tra i suoi denti con prepotenza, finché non lo sentì realizzare la situazione e ricambiare, rilassandosi; allora, staccò la schiena dalla parete e lo spinse più vicino al letto, spostando un braccio a cingergli la vita, per far sì che lo stretto contatto tra i loro corpi non si esaurisse.

Ma doveva aver calcolato male le distanze, perché improvvisamente era andato ad inciampare picchiando sul materasso con la gamba che aveva messo avanti; perse l’equilibrio, dato che era già scalzo, finendo letteralmente addosso a Francis, che ricadde sotto di lui sulle coperte. Il loro bacio finì lì, con Arthur che imprecava, cercando di raddrizzarsi sopra al petto dell’altro.

«Come sei divertente, Angleterre» rise Francis di cuore, più divertito che altro dall’espressione furiosa che Arthur gli lanciò subito dopo.

«Come sarebbe a dire, stupido idiota?» cercò di protestare quello infatti, finendo subito per essere zittito da un nuovo bacio.

Francis se lo tolse gentilmente di dosso, andando a farlo scivolare prima su un fianco e fermandosi quando fu sopra di lui a cavalcioni, e interruppe quel bacio soltanto per sfilargli via la camicia, nella quale ovviamente Arthur rimase incastrato, nonostante tutte le sue attenzioni.

«Adorabile, Arthùr» lo prese in giro, una volta che l’inglese fu riuscito a liberarsi dell’indumento tra una bestemmia e l’altra.

Quello lo guardò, rosso in viso per la rabbia e soprattutto l’imbarazzo. Non c’era davvero una visione più bella di quel corpo e quell’atteggiamento così inconsapevolmente sensuale. Francis si chinò sul suo petto, cercando di riprendere da dove aveva interrotto, dato che una mano di Arthur si era stretta tra i suoi capelli e li tirava un po’ troppo, segno inequivocabile di nervosismo.

Lasciò dei piccoli baci lungo la sua pelle, fermandosi soltanto poco sopra alla linea del pantaloni, che presentavano già un notevole rigonfiamento sul cavallo. Francis stavolta ignorò il fatto che la presa sui suoi capelli fosse aumentata, e afferrò con i denti la cerniera dei pantaloni, facendo immediatamente sussultare Arthur quando sentì che la abbassava.

Francis si sollevò nuovamente per andare a sorridergli, approfittando del momento in cui Arthur si distrasse ad osservare i suoi occhi azzurri per slacciare anche il bottone dei pantaloni. Glieli sfilò via senza che l’altro praticamente se ne accorgesse e senza interrompere il contatto visivo, prima di andare a posare le labbra sulle sue, avvicinando di nuovo i loro volti.

Dato che Francis non era più occupato a torturare le sue parti basse anche solo tenendosi nei paraggi, Arthur poté finalmente prendersi una piccola rivincita, approfittandone di quella vicinanza per afferrargli il colletto della camicia e tirarlo ancor più contro di sé, gli occhi serrati e le guance in fiamme. Stava appena cominciando a slacciare i bottoni, che sentì il ginocchio di Francis scivolare sulle coperte ed entrargli in mezzo alle gambe, andando a toccare il suo inguine pulsante, e non poté fare a meno di mugolare nuovamente.

Udì perfettamente la risatina di Francis, nonostante le loro bocche fossero un tutt’uno, il che lo fece irritare non poco, e strappò letteralmente i bottoni rimasti della camicia del francese, sfilandogliela con strattoni poco gentili. Non appena le loro labbra si staccarono, chinò la testa e raggiunse il collo di Francis, mordendolo decisamente troppo forte.

«Ehi, ehi, Arthur! Stiamo lottando o facendo l’amore?» gli domandò il francese, rabbrividendo quando sentì la lingua di Arthur leccargli la pelle.

L’inglese non rispose, ma abbandonò lentamente la presa dei denti, facendo scivolare le proprie mani sui fianchi di Francis e accarezzandoli con più dolcezza, prima di arrivare, mordicchiando e succhiando la pelle, ad uno dei suoi capezzoli, che prese tra i denti e tirò piano.

Finalmente, sentì anche Francis abbandonarsi ad un leggero gemito, ma non sembrava  ancora troppo soddisfatto; le sue mani entrarono con urgenza nei pantaloni e nei boxer dell’altro, trovando prima i suoi fianchi e poi andando a spostarsi senza riserve sulle sue natiche. Fu Francis, inaspettatamente, a separarsi in fretta, inginocchiato a cavalcioni sopra di lui –Arthur ebbe un brivido-, tenendo esattamente i loro inguini a contatto, ma almeno adesso erano percettibilmente in due a trovare quella vicinanza insopportabile.

Francis si slacciò in fretta in pantaloni, sotto lo sguardo perplesso di Arthur, andando a levarli con estrema velocità e lanciandoli dall’altra parte della stanza. Ebbe qualche istante allora, in quel momento, per guardarlo negli occhi e riflettere ancora su ciò che era successo quella sera.

Pensò al sorriso di Francis, agli occhi di Francis, alle sue guance –sì, era riuscito a farlo arrossire!- imporporate, al suo corpo perfetto e candido, che lo desiderava così tanto, al suo profumo così piacevole di fiori.

Arthur non avrebbe trovato parole per descrivere la felicità che stava provando, tanto che, mentre lo sentiva venire dentro di sé, non riuscì a trattenere, tra le palpebre serrate e premute, una lieve lacrima.

 


 

____________________

dev’essere faticoso abbassare una cerniera con i denti °-° è un’idea assolutamente ebete che mi è venuta, tanto tutta la scena è una colossale schifezza xD quindi schifezza più schifezza meno.. u.u’

la mia crisi con questa storia non è finita xD tirerò un sospiro di sollievo quando finirà!! eppure amo l’idea di scriverla.. (mah, stì scrittori hanno sempre idee balzane xD) prometto che aggiornerò più presto che posso, anche perché mancano solo tre capitoli alla fine. mi scuso se il capitolo sembra un po’ OOC.. io ci provo!
 

to Aerith1992: penso che tutti e tre abbiano un talento innato nel litigare in tutti i modi xD sono fatti così! ti ringrazio tantissimo per i complimenti ^^ anche se la FrUk è il mio pairing preferito faccio ancora fatica a scrivere su Hetalia! diciamo che è mooolto confusionario xD grazie davvero, alla prossima spero!

to Julia_Urahara: oh cara, se la mia felicità per aver trovato una tua recensione dovesse esprimersi in espressioni figurative alla Alfred, direi che è grande come l’America ç-ç non sei affatto scema e tutte le tue recensioni mi riempiono di gioia assoluta!! eppure dovrei essere io la tua accolita xD graaazie!

to Arisu Kon: beh, devo dire che la tua recensione è stata il definitivo campanello: finisci questa storiaaa xD e così ho aggiornato! amo la FrUk, però quando ho cominciato a scrivere ammetto che non avevo le idee ben chiare su Hetalia (chi le ha? <-<) ora so che amo Francis e Arthur xD alla fine non cambierò il finale, ma se non hai visto il film per fortuna non sai che significa!! ti ringrazio tanto ^^ ciaooo!

harinezumi

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Capitolo 7
*** capitolo sette ***



 

capitolo sette – in cui finisce l’inchiostro verde


 

Nessuno aveva sentito la macchina parcheggiare al viale della villa verso le una di notte. E nessuno sentì gli strilli provenire dalla camera di Matthew la mattina presto, tantomeno Antonio, impegnato a limonare allegramente con un riluttante Lovino sul tavolo della cucina.

Perciò, Matthew dovette schiacciarseli da solo, gli scorpioni.

Francis si era svegliato al fianco di Arthur, rimanendo a fissarlo mentre dormiva per qualche minuto, finché non ebbe il coraggio di alzarsi. Cercò di non fare troppo rumore, infilandosi la camicia –senza qualche bottone-, i pantaloni e raccattando le proprie scarpe sparse per la stanza. Preferì non metterle, per paura di svegliare Arthur, così si diresse verso la porta silenziosamente.

«Te ne sgattaioli sempre via così, la mattina?» gli domandò improvvisamente l’inglese, evidentemente ben sveglio.

«Credevo dormissi» si giustificò Francis, fermandosi. Si voltò, con aria seccata, tutto per nascondere l’imbarazzo per essere stato colto in flagrante. «Devo andare al lavoro, io non sono in vacanza».

Arthur lo guardò per qualche istante, perplesso. «Che ti prende?»

Francis provò a sorridere. Ci provò davvero, ma tutto ciò che il suo volto lasciò trasparire fu tristezza. Si avvicinò di nuovo lentamente al letto, sedendosi sul bordo e cercando di continuare a guardare Arthur negli occhi. «È stato bello, Angleterre. Ma lo sai perché ho passato la notte con te?» Francis s’interruppe, sorridendo appena allo sconcerto che andava aumentando sul volto di Arthur. «Perché una volta che avrai finito di fare quello che devi fare qui, te ne andrai e non tornerai più. Non c’è un futuro per noi… e c’è una certa sicurezza nel saperlo».

Già, la sicurezza che a Francis era mancata nel rifarsi una vita tutti quegli anni. Sentiva che Arthur invece non avrebbe mai potuto sorprenderlo, infatti non lo fece.

«Potresti aprire un bistrot a Londra» osservò infatti l’inglese, capendo all’istante dove voleva andare a parare, sulla sua imminente uscita di scena dalla campagna francese. Ma nel tono della sua voce non c’era un minimo di speranza, anzi risultò spiacevolmente ironico, anche se evidentemente non ne aveva avuto l’intenzione.

«Mh» fece Francis, allargando il proprio sorriso con amarezza. Si alzò dal letto, lanciandogli un’occhiata assai poco amichevole, esattamente come quando si erano incontrati, pochi giorni prima. «Che cosa tipica del carattere inglese… supporre che io viva in Provenza perché non ho altra scelta».

Arthur non poté non sentirsi ferito a quelle parole, ma cercò di mascherarlo con la sua solita, prorompente, capacità di arrabbiarsi in pochi secondi. «Beh scusa, Francis, se questo posto non si adatta alla mia vita!»

«No» rispose il biondo, con una risatina. Si avviò di nuovo verso la porta, aprendola. Si fermò un’ultima volta per lanciare un’occhiata all’altro, ancora terribilmente malinconica. «È la tua vita che non si adatta a questo posto» mormorò, uscendo.

Già, è la tua vita che non si adatterà mai nemmeno a me. Stupido inglese testardo.

***

Arthur si trovava in giardino, assieme a Matthew, seduto su una delle sdraio sotto un ampio ombrellone. Tanto meglio, perché era da quella mattina che aveva ripreso a piovigginare e non accennava a smettere.

Matthew era impegnato ad andare avanti e indietro, lungo il perimetro delimitato dall’ombrellone, leggendo e rileggendo delle carte che teneva tra le mani, mentre il suo capo era impegnato ad ignorarlo e a fissare il vuoto. «I soldi che ne hai ricavato non sono stati tanto male, nonostante il resoconto dell’enologo» affermò infine, alzando gli occhi dal contratto che una coppia gli aveva presentato da appena poche ore.

Arthur mugugnò qualcosa, senza dare come al solito segno di averlo sentito, e fissando l’acqua della piscina davanti a sé, increspata da piccole goccioline.

«Basta che firmi, e la vendita sarà completa» aggiunse Matthew, raccattando una penna dalla propria tasca e fermandosi davanti a lui, per passargliela assieme ai fogli.

Arthur afferrò il contratto, ponendovi una firma sbilenca piuttosto distrattamente, prima di restituire i fogli a Matthew e tornare a fissare la piscina con aria assente. Sentì che il suo assistente riprendeva a parlare, ma dopo qualche minuto lo interruppe. «Lo sai, Charlie… credo di essere innamorato» mormorò, sentendosi confuso dalle proprie stesse parole.

Matthew, comunque, sembrò esserlo quanto lui. Poi, il suo volto s'illuminò, memore della conversazione con l'americano la notte prima; forse tra lui ed Arthur c'era stato qualcosa, ecco perchè tanto astio. «M-ma… certo, Alfred è carino, anche se è tuo cugino. Mi sembra perfettamente normale…».

«Non sto parlando di Alfred, idiota!» sbottò Arthur, interrompendolo. Già, Alfred gli era totalmente passato di mente dopo la chiacchierata con Francis quella mattina. L’americano davvero non si meritava tanta disattenzione da parte sua. «Sto parlando di… un’altra persona». Di certo non avrebbe ammesso che si trattava di Francis, anche solo davanti a Matthew. Era una cosa di cui si rendeva a malapena conto a sua volta.

«Oh… l’hai conosciuta qui?» domandò Matthew, perplesso. Dopotutto, l’unico appuntamento che Arthur aveva avuto era stato quello della sera prima, e con un uomo. Ma forse era proprio di un altro uomo che stava parlando, pensò arrossendo all’istante fino alla punta dei capelli.

«Stavo pensando… che forse non dovrei vendere la casa» mormorò Arthur, senza rispondere.

«Ma hai appena firmato…» mormorò Matthew, alzando leggermente il foglio con il contratto, in modo che l’altro lo potesse vedere. Arthur però non lo degnò di un’occhiata, ancora del tutto perso a fissare la piscina davanti a sé. «Forse non ti senti bene» osservò alla fine. In effetti, in cinque anni che lavorava per lui, non aveva mai visto il suo capo ridotto così; specialmente se si trattava di soldi.

«Potrei tenere la casa… e venirci per le vacanze, sai…».

«Però tu non fai mai vacanze» fece Matthew, ancora più confuso di un attimo prima. «E hai sempre detto che se hai il tuo lavoro è perché sei riuscito a fregare il tuo capo dopo quindici anni che non andava in vacanza…».

«Già» mormorò Arthur. Qualunque fosse il nome del suo assistente, non poteva negare che avesse ragione.

Però ogni volta che pensava a Francis non riusciva a non sentire un nodo alla gola; non era troppo sicuro che si trattasse di amore, ma sicuramente le parole che il francese gli aveva rivolto quella mattina lo avevano ferito.

Lo facevano sentire un mostro, proprio perché era stato Francis a pronunciarle: dimostrargli che era il genere di persona che lui si aspettava lo infastidiva, lo gettava nella disperazione più totale, e non sapeva perché. Vendere la casa significava dare ragione a Francis, oltre che dire definitivamente addio ai ricordi dell’estate che vi aveva passato durante l’infanzia.

Una parte di lui, poi, sentiva che le due cose erano estremamente collegate, ma non riusciva a capire come Henry potesse essere associato a Francis nella sua testa, dato che non si erano mai incontrati da bambini.

In pratica, rimase seduto a rimuginare per un bel pezzo, senza nemmeno sentire Matthew che balbettava se per caso non si sentisse bene e che aveva un’aria inquietante.

***

Quando Arthur riuscì a riprendersi e a ricominciare a pensare, lasciò che Matthew tornasse alla villa per occuparsi delle ultime scartoffie per fare un ultimo giro del vigneto; sarebbe partito più tardi quel pomeriggio, aveva già un appuntamento con il proprio capo.

Non aveva ancora parlato ad Alfred, ma aveva appreso che aveva intenzione di partire prima di lui. In fondo, era meglio così, dato che non era più Arthur il proprietario della casa; ed era meglio che lui e suo cugino non rimanessero in contatto, dato che in fondo, oltre a quel luogo, nulla li avrebbe mai accomunati.

Mentre Arthur si rabbuiava ulteriormente a quei pensieri, sentì la voce di Lovino imprecare poco più in là nelle vigne, e si diresse verso la sua direzione, tanto per salutare anche se non era entusiasta all’idea di farlo. Piovigginava ancora, ma non vi fece caso, tanto quel tempo era consono all’umore che stava provando in quel momento.

Lovino era stranamente più allegro del solito, e quando lo vide si esibì in un sorriso. «E così hai venduto» fu il suo saluto, mentre lo guardava avvicinarsi, intento a potare alcuni rametti.

«Che avrei dovuto fare» sbottò Arthur, irritato da tutto quel buonumore. «Il tuo vino è letteralmente disgustoso. Sembra sabbia».

«Quel vino?» Lovino rise, lasciandolo letteralmente senza parole. Prima che potesse scaldarsi quel tanto che bastava per strozzarlo, però, quello continuò a parlare. «Questo è il Coin Perdu» mormorò, con un sorrisetto vittorioso, accarezzando con teatralità una delle foglie.

«Come… sarebbe a dire?» esclamò Arthur, sgranando gli occhi, perplesso. «L’enologo ha detto… che il campo sarebbe buono solo per coltivarci patate…».

«Mio dio, sei davvero scemo come sembri» rise Lovino di cuore. «Andiamo, non te ne sei accorto? Questa vigna è praticamente perfetta. E l’ “enologo” era mio fratello, imbecille».

Arthur lo guardava, a bocca aperta, senza riuscire a capire come quel piccolo bastardo fosse riuscito a fregarlo in quella maniera. Ed era anche riuscito ad assicurarsi di rimanere lì a lavorare: a lavorare su uno dei vini migliori che avesse mai assaggiato, e anche su uno dei più costosi.

«Abbiamo pensato che se tu avessi creduto che la Siroque non aveva valore, avresti lasciato le cose come stavano…» spiegò Lovino, alzando le spalle, senza riuscire a trattenere un sorriso sulle labbra. Era più che evidente che la costernazione di Arthur lo stava divertendo un mondo.

«Tu e Antonio? Perché non me l’hai detto prima?» chiese quello, indietreggiando di un passo e sbattendo le palpebre, leggermente stordito. «Perché non ti sei fidato di me?»

«Tu ti fideresti di te?» domandò Lovino, con una smorfia. «Antonio non ne sapeva niente. È stato tuo zio a dirmi di fare così… queste vigne sono illegali. Voleva dare a te ogni cosa, ma era preoccupato per cosa ne avresti fatto… diceva che eri un egoista» sibilò, fissandolo con astio. «E infatti faceva bene a non fidarsi. Ma è morto prima di poter decidere».

«Io però… ho già venduto» mormorò Arthur, appoggiandosi ad uno dei pali che sorreggevano le vigne e fissando lo sguardo sui ciottoli sotto di sé. Si sentiva decisamente svuotato: sapere che ciò che aveva temuto che suo zio pensasse di lui non lo rendeva certo felice. Ma ancora più orribile era per lui l’idea di essere riuscito a deluderlo anche dopo la sua morte.

«Allora hai fatto l’unica cosa che Henry temeva avresti fatto» sbottò Lovino, indietreggiando a sua volta, ma per poi voltarsi e allontanarsi da lui. Prima di sparire tra le vigne, però, gli urlò ancora qualcosa, con quel suo tono eternamente arrogante e d’accusa. «Ecco dov’erano i fottuti soldi di Henry, ora goditi la vista e poi levati dai piedi».

Mentre Lovino si allontanava, non poteva fare a meno di sorridere per aver lasciato Arthur in quelle condizioni. Non gli interessava quanto in colpa l’inglesino si potesse sentire: aveva fatto ciò che gli era stato detto, e in più aveva preservato tutto ciò che amava. Nulla gli avrebbe impedito di rimanere alla Siroque, così come nient’altro al mondo avrebbe più potuto portargli via Antonio.

Anche se al solo pensarle, certe cose, si sentiva arrossire, e gli veniva una gran voglia di prendere a calci qualcosa; ma quando vide Antonio poco più in là nel parco, che lo aspettava con uno sorriso larghissimo persino per lui e un ombrello in mano, quella voglia stranamente gli scemò dal petto, e si ritrovò ad avvicinarsi all’altro, arricciando il naso e distogliendo in fretta lo sguardo dal suo.

Si fermò davanti a lui, borbottando appena qualcosa.

«Eh?» domandò Antonio, stupidamente, continuando a sorridere con aria beota.

«Ho detto checcosacifaiqui, imbecille» sibilò Lovino, cercando di ignorare l’ombrello chiuso che Antonio teneva aperto anche sopra alla sua testa, per tenerlo al riparo dalla pioggia.

«Sono venuto a prenderti, perché so che ti piace girare per il vigneto quando piove. Però dovresti stare attento a non prenderti il raffreddore» rispose Antonio, senza notare come al solito quando stesse mettendo in imbarazzo Lovino. Stavolta era comunque in gran parte giustificato, perché intorno in effetti non c’era anima viva.

«E che te ne frega, torna a scopare i tuoi cazzo di pavimenti» sbottò Lovino, cercando di togliere con un gesto brusco l’ombrello da sopra di sé, e per poco non dandoselo in testa a causa tanto maldestro era.

Mentre stava per imprecare ad alta voce, sentì Antonio afferrargli i fianchi, circondandoli con le sue braccia e stringendolo contro il proprio petto. A quel punto, non gli importava molto dove fosse finito l’ombrello.

«Preferisco farlo con te» sentì la voce calda dello spagnolo sussurrargli nell’orecchio, e prestò capì di avere il volto in fiamme.

Mentre Antonio si appropriava delle sue labbra, il corpo fremente di Lovino stava elaborando il metodo più veloce per prendere l’ombrello e darglielo in testa più volte, la voglia di prendere a calci qualcuno improvvisamente tornata –e aumentata-.

***

Arthur tornò in camera sua tirando un calcio ad uno dei comodini e rimanendo di conseguenza per una buona mezz’ora dolorante sul letto, a stringersi un piede imprecando tra i denti.

Non poteva credere a ciò che aveva appena sentito. Suo zio non si fidava di lui, Francis non si fidava di lui. Alfred poi lo considerava un emerito idiota. L’unico che lo trattava con gentilezza sembrava Antonio, ma Antonio non era particolarmente intelligente, né abbastanza cattivo per arrabbiarsi con lui. E non poteva sopportare il fatto che anche Lovino lo avesse trattato in quella maniera, rigirandolo alla fine come gli aveva detto di fare suo zio.

Avrebbe dovuto immaginarselo, che quei ragazzi di nome Feliciano e Ludwig non erano particolarmente ferrati nell’assaggio dei vini, ma la sua stupida testa aveva avuto ben altro a cui pensare quel giorno.

E in più sentì la porta della stanza di Alfred che si chiudeva, mentre i suoi passi si dirigevano al piano di sotto. Bastarono quei pochi rumori per gettarlo ancora di più nello sconforto più totale; evidentemente, l’americano se ne stava andando, ed aveva tutte le ragioni di farlo.

Si alzò lentamente, andando alla finestra. Stando bene attento a non palesare la propria presenza, si affacciò, scrutando da lì la figura di Alfred che attraversava il viale, dirigendosi verso l’entrata alla villa, a piedi, con il suo zaino caricato sulle spalle. Non l’aveva nemmeno salutato; aveva appena smesso di piovere, perciò probabilmente si stava dirigendo in paese per prendere da lì un autobus.

Arthur si mordicchiò il labbro inferiore, rimanendo a fissarlo finché non sparì, e allora prese una decisione.

Scese le scale, dirigendosi nello studio e prendendo il calamaio con l’inchiostro verde, quello con cui Henry scriveva tutte le sue lettere, e afferrando un foglio di carta qualsiasi dalla pila nel cassetto della scrivania, di quelli che usava per la sua corrispondenza.

***

Alfred sbuffò, tirandosi più sulle spalle lo zaino, sollevato dal fatto che a pochi metri di distanza s’intravedesse finalmente la fermata dell’autobus. Non che fosse stanco, ovviamente, ma avrebbe preferito che fosse l’autobus a cercare lui, non il contrario.

Si fermò solo davanti al cartellone degli orari, cominciando a leggere e rendendosi conto che mancava ancora mezz’ora all’arrivo del prossimo autobus. Sospirò, voltando inutilmente gli occhi sulla strada, ma li sgranò quando vide l’auto verdognola di Arthur dirigersi verso la fermata.

Rimase immobile a fissarla finché non parcheggiò esattamente davanti a lui; ma l’inglese, per quanto fosse evidente che era proprio lui che cercava, non accennò ad uscire e rimase a fissarlo negli occhi dal finestrino aperto, decisamente imbarazzato, per qualche minuto.

«Che cosa c’è?» domandò Alfred, perplesso.

«Ti ho portato qualcosa» mormorò Arthur, risvegliato dall’ennesima volta dal coma che sembrava averlo preso. Distolse lo sguardo, andando a raccattare qualcosa dal sedile accanto al suo, per poi passarlo ad Alfred. «Hai dimenticato il tuo libro».

Alfred prese il volume, leggendo il titolo di Morte a Venezia e chiedendosi all’istante perché Arthur gli stesse facendo un regalo del genere. «Già… per il fuso orario» rispose, con un sorrisetto.

«Sì». Arthur ricambiò il suo sorriso. «Alfred… credo davvero che tu abbia il suo stesso naso. E fai anche le stesse espressioni».

Alfred rimase per un attimo interdetto, distogliendo immediatamente gli occhi da quelli dell’altro e riposandoli sul libro. Era consapevole che Arthur si stesse riferendo ad Henry, ma siccome non aveva intenzione di dare a vedere quanto la cosa lo commuovesse, alzò in fretta la testa, tornando a sorridere. «Grazie! Spero che ci vedremo ancora, Arthur».

«Lo spero anch’io. Sono molto contento di averti conosciuto» rispose Arthur, rimettendo il moto l’auto. «Au revoir» lo salutò, lanciandogli appena un’ultima occhiata, prima di ingranare la retromarcia e tornare sulla strada principale, ma non quella che portava alla Siroque.

Alfred se ne accorse, e realizzò che probabilmente anche l’altro se ne stava andando, stava tornando a Londra. Allora decretò, con una risatina, che la sua avventura in Europa era durata poco, ma doveva ammettere che aveva fatto meno schifo di quello che si era immaginato.



 

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ho aggiornato presto, vero? vero? vero? uhm non ho dichiarazioni da fare, se non "non uccidetemi" °-°
ringrazio chi continua a seguire la storia :D mi fa molto piacere. e ovviamente chi recensisce ^^ sono sempre felicissima quando leggo le vostre opinioni!!

to Julia_Urahara: cosplayyy... *bava alla bocca* lasciamo stare xD se il capitolo prima è uscito bene, è merito solo di una persona, lo sappiamo entrambe: nostro signore Francia delle cerniere lampo *-^ grazie tesoro!!

to GinkoKite: wow, ti ringrazio :D sono felice che la storia ti piaccia, e specialmente che hai visto il film ^^ è proprio bello, io poi lo trovo mooolto hetaliano xD spero che la mia mancanza totale di originalità non lo rovini.. intanto grazie ancora ^^

to Aerith1992: non riesco proprio a considerare Arthur una donna isterica °-° cioè, è uno molto abbottonato, non mostra facilmente le sue debolezze (o se lo fa è per imbranataggine).. infatti in questa fic il rapporto tra lui e Francis mi sembra alla pari xD ma magari sbaglio! grazie mille della recensione cara ^^

to Arisu Kon: il mio obbiettivo era proprio quello di farvi restare molto male alla fine del capitolo ^^ (che bastarda) evvai! xD no, è che è la prima scena del genere che scrivo quindi non sono andata fino in fondo! ti ringrazio per i complimenti *-* apprezzo un sacco!

 

harinezumi

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Capitolo 8
*** capitolo otto ***


capitolo otto – in cui Alfred legge Morte a Venezia
 

 

Alfred salì sull’autobus, stringendo ancora tra le mani la copia di Morte a Venezia che Arthur gli aveva passato da poco. Non avrebbe mai capito perché l’inglese si era comportato in maniera così strana nei suoi confronti: sapeva solo che gli sarebbe piaciuto tornare a casa, nella sua amata America, il più presto possibile.

Non che gli fosse dispiaciuto vivere per un po’ in quel posto. Lo aveva trovato esaltante (del resto quando lui si trovava nei paraggi anche il paesino più palloso del mondo si trasformava in un parco divertimenti, a suo dire), ma Arthur si era adoperato talmente tanto per farlo sentire fuori luogo, prima di pentirsene in quel modo, che non gli sembrava avere altra scelta se non quella di tornare a casa.

Sospirando, si sedette in un posto qualsiasi, posando lo zaino nel sedile accanto al suo e preparandosi per il viaggio d’andata all’aeroporto. Forse avrebbe fatto meglio a dormire, tanto pensare a quello che poteva passare per il cervello agli stupidi inglesi non era esattamente il suo forte e non avrebbe portato più a nulla.

Così, prese il libro e lo aprì in un punto a caso, come aveva fatto alla Siroque le prime sere per addormentarsi, e quello si aprì automaticamente in una pagina dove era stato lasciato un più che evidente segnalibro. Era una lettera non sigillata, che Alfred prese curiosamente tra le mani, lasciando perdere subito il sonno e il libro, che gettò sopra lo zaino.

La lettera era scritta con inchiostro verde ed era indirizzata ad Arthur; ma doveva essere stato lui ad avercela lasciata dentro da poco, perché Alfred altrimenti se ne sarebbe accorto prima.

Aprì il foglio contenuto nella busta, notando che portava la data di cinque mesi prima; e la scrittura, lo capì immediatamente dalle letture che aveva fatto sulla sua corrispondenza, era quella di suo padre.
 

Caro Arthur,

So che sono passati molti anni da quando abbiamo parlato l’ultima volta, ma mi sono ritrovato in un piccolo disastro e ho bisogno del tuo aiuto. Il fatto, Arthur, ragazzo mio, è che sto morendo. Lo so perché il dottor Karr, il mio medico, ha smesso di parlarmi della mia salute e ha cominciato a discutere del tempo.

È per questo motivo che tengo a dire a te le mie ultime volontà.

Ho un figlio, il suo nome è Alfred Jones. Purtroppo, non ci siamo mai visti. Il nome di sua madre era Allison. Era una guida turistica in un grazioso vigneto in California.

Arthur, mi piacerebbe che tu lo trovassi, e alla fine, vorrei dargli ciò che gli spetta di diritto. Spero che questa decisione non ferisca i tuoi sentimenti; dato il tuo successo, sono certo che non hai bisogno di nulla. Spero che tu capisca, perché, per me, anche nello stato attuale, la Siroque è un luogo magico e il mio più grande desiderio è che Alfred possa conoscere questa magia. Ci ho pensato a lungo, e, dopotutto, la Siroque è tutto ciò che lascio al mondo.

Il tuo amato zio,
Henry Kirkland.
 

Alfred richiuse la lettera, senza fiato, mentre i suoi occhi vagavano subito al finestrino dell’autobus e realizzavano che non erano ancora partiti. Afferrò lo zaino, alzandosi e buttandoselo sulle spalle, correndo poi di nuovo in strada. Lì in quella lettera c’era inequivocabilmente scritto che suo padre gli aveva lasciato la Siroque.

***

«Ehi, apritemi!» urlò Alfred, battendo per l’ennesima volta il pugno sulla porta della villa di suo padre, finché finalmente un perplesso Antonio non lo accontentò. Alle sue spalle, un ragazzo che non aveva mai visto, un biondino dai capelli leggermente lunghi che se ne stava in disparte.

«Alfred? Pensavo te ne fossi andato» mormorò, sorpreso lo spagnolo, esibendo però come al solito uno dei suoi sorrisi. «Puoi rimanere qui ancora qualche giorno, se hai perso l’autobus! Penso che i nuovi padroni di casa arrivino la settimana prossima, perciò…»

«Dov’è Arthur?» lo interruppe in fretta Alfred, con il respiro affannoso. Correre fin lì con lo zaino in spalla lo aveva sfiancato, e avrebbe certo preferito morire soffocato piuttosto che dimostrarsi così stanco di fronte ad Antonio; però era troppo agitato per pensarci.

«Ah, mi spiace!» esclamò l’altro, grattandosi la testa con aria perplessa. Non gli era parso che Alfred ed Arthur avessero legato un granché, tanto da giustificare quell’improvvisa uscita dell’americano. «È andato via dopo di te… se vuoi è rimasto il suo assistente! Almeno credo che sia il suo assistente… a dire la verità non so bene chi sia» continuò Antonio, pensieroso. «Se gli vuoi parlare è nello studio di Henry, sta sistemando le ultime cose».

«Sì!» esclamò immediatamente Alfred, entrando di prepotenza e scaricando lo zaino sulla soglia della porta; Antonio però era troppo gentile per dirgli qualunque cosa, e rimase a guardarlo con aria inebetita mentre correva verso lo studio.

«Quel ragazzo è il cugino di Arthur?» mormorò Francis, alle sue spalle, appoggiato contro la parete del corridoio. Il suo tono risultava leggermente stanco e malinconico.

«Sì» rispose Antonio, con un piccolo sorriso, afferrando lo zaino di Alfred e mettendoselo in spalla. Capiva bene il motivo dell’espressione dell’amico in quel momento; proprio quando era riuscito a tornare a pensare seriamente a qualcuno, quel qualcuno lo aveva deluso. Anche se Francis non era stupido, e l’aveva capito fin da subito che tipo fosse Arthur. «Vieni, accompagnami a rimettere nella sua stanza la sua roba… penso che rimarrà qui, dopotutto».

Francis si limitò a fare un sorrisetto distratto, staccando la schiena dal muro e seguendo Antonio su per le scale delle camere –inconsapevolmente, erano anche osservati di nascosto da un irritato e geloso Lovino dalla porta della cucina-, entrambi in totale silenzio.

Antonio aveva cercato di consolarlo come poteva, ma Francis aveva la sensazione di non riuscire a liberarsi del pensiero di Arthur. Più ne discuteva con l’amico, più i dubbi lo assalivano; ma non si sarebbe mai piegato al fatto di inseguire l’inglese per il mondo come un cagnolino a causa di un lavoro. Amava la Francia e non l’avrebbe mai lasciata per un uomo. Forse.

Immerso com’era nei suoi pensieri, quasi non si accorse che Antonio gli stava parlando.

«… non vorrei che ti sentissi troppo solo, ecco. Se Alfred è qui per rimanere, non penso gli darà fastidio che ti fermi a dormire qui, ogni tanto… insomma, vorrei che fossi felice».

Francis fece una risatina, commosso dalla dolcezza di Antonio, che pure parlava come se fosse la cosa più naturale del mondo. Stava posando lo zaino accanto al letto di Alfred, mentre lui lo aspettava sulla porta della stanza. «Non ti devi preoccupare per me. Io sto bene».

«Sei abituato a stare con me» rispose però Antonio, sollevando lo sguardo su di lui. Per quanto non fosse una mente particolarmente acuta, in quel momento sembrò davvero serio. «E ora questo bastardo inglese ti ha lasciato andare così. Mi piace Arthur… ma le sue maniere sono indecenti». Mentre parlava, si era avvicinato a lui, afferrandogli una mano quando gli fu davanti, per stringerla tra le proprie. «E tu sei una bella persona, dovresti essere felice».

«Antonio, credo che sia soltanto tu a pensarlo» fece Francis, a suo malgrado divertito.

«Credo lo pensi anche Arthur. Ma sia troppo stupido per capire che avrebbe dovuto rimanere… forse non è in grado di capire cosa vuole il suo cuore» affermò Antonio. S’interruppe comunque bruscamente, perché il discorso stava diventando troppo profondo per i suoi standard, e faticava a stare dietro alle proprie parole.

«Grazie» mormorò allora Francis, con un sorrisetto, capendolo benissimo. Sollevò una mano di Antonio fino al proprio volto grazie alla presa che lo spagnolo aveva mantenuto sulla sua, baciandogliela dolcemente. «Ora è meglio che vada. Sento delle urla provenire da di sotto. Dev’essere il cugino americano».

«Oh, Dio…» gemette Antonio, quando fece caso a sua volta ai toni soavi di Alfred. «Ehm, sai trovare l’uscita, no? Scusa, ci vediamo poi dopo cena, vado a vedere che succede!» esclamò, lasciandogli la mano e schizzando fuori dalla stanza in un istante, salutando appena Francis con un gesto della mano, per correre verso l’ufficio di Henry.

Francis sorrise, debolmente. Ma nessuno aveva il potere di consolarlo quanto Antonio –se non un tipo eccentrico di nome Gilbert che al momento si trovava quasi certamente in qualche bordello di Amsterdam-, e probabilmente, in fin dei conti, non si sarebbe mai potuto sentire meglio di così.

***

 «TU!» gridò Alfred, puntando il dito contro Matthew, che alzò la testa dalla scrivania su cui stava lavorando, perplesso. «Dimmi dov’è andato Arthur!»

«C-come? Il signor Kirkland è in Inghilterra, ovviamente…» rispose Matthew, confuso.

«Bene, ora digli di tornare subito qui!» concluse Alfred in un tono che non ammetteva repliche, puntando le mani sulla scrivania e fissando l’altro con aria decisa.

Matthew non poté fare a meno di pensare che quel ragazzo doveva avere davvero qualche rotella fuori posto (dopotutto era parente di Arthur), a pensare che fossero tutti ai suoi ordini. In ogni modo, non lo disse perché si considerava una persona estremamente educata, ed evitò di pensare agli insulti che gli avrebbe rivolto il suo capo se gli avesse fatto davvero una richiesta del genere. «Ehm, non credo sia possibile… ha appena venduto questa casa».

Tirò un sospiro di sollievo quando vide palesarsi sul volto di Alfred un’espressione velatamente colpita, segno che forse aveva capito qualcosa di quel discorso.

«No!» esclamò però l’americano, distruggendo all’istante tutte le speranze di Matthew di tornare presto al lavoro ed essere lasciato in pace. «Non poteva vendere questa casa, perché è sempre appartenuta a me! È quello che voleva mio padre» disse, trionfante, sbattendo senza grazia sulla scrivania la lettera spiegazzata che teneva in tasca.

«Ho capito, ma… questo…» balbettò Matthew, senza nemmeno osare toccare la lettera –gli occhi di Alfred gli facevano un po’ paura perciò evitava movimenti inconsulti-. «Il signor Kirkland ne è a conoscenza?»

«E chissene importa! Tutto ciò che è appartenuto ad Henry è mio, perché sono suo figlio e questa lettera lo prova!» rispose Alfred, con uno sbuffo. «Quindi voglio che Arthur torni immediatamente qui. Sbrigati a chiamarlo!»

«O-oh». Matthew era confuso, molto confuso.

Mentre Alfred continuava a sparargli ordini a caso, come se fosse diventato anche lui il suo capo, migliaia di pensieri gli affollavano la mente: Arthur lo aveva lasciato deliberatamente in un bel casino, pensò, quando vide la boccetta d’inchiostro verde finita sulla scrivania. Inchiostro con cui era stata sicuramente scritta quella maledetta lettera.

Stavolta lo avrebbe chiamato e gli avrebbe detto esattamente quel che pensava dei suoi stupidi giochi a suo discapito. Forse.

***

«Sembri diverso, Arthur» fece il suo capo, con un sorrisetto, seduto dietro la sua scrivania.

Arthur, invece, stava in piedi davanti a lui, facendo di tutto per non sembrare un alunno convocato dal preside –nell’ufficio di Ivan Braginski c’era solo una seria, la sua; il motivo era che il capo si divertiva molto di più ad avere una posizione di superiorità nei confronti dei suoi dipendenti, e la sua scrivania era anche rialzata da una pedana proprio per questo motivo-.

«Ah sì?» rispose Arthur, lievemente nervoso per quella convocazione, tutto dopo essere stato sospeso per una settimana. «È una sua impressione. Un caffè mi rimetterà in sesto» minimizzò infine.

Ivan si limitò a sorridere, anche se nel suo guardo non c’era nulla che somigliasse alla gentilezza. Però non disse nient’altro sull’argomento, ma indicò l’ampio quadro alle sue spalle, un dipinto impressionista che rappresentava dei girasoli.

«Van Gogh» spiegò, all’occhiata perplessa di Arthur.

«Oh…» mormorò questi, cercando immediatamente di levarsi l’espressione confusa dalla faccia e sostituendola con una accondiscendente. «Spero che abbia una buona cassaforte, in questo caso».

«Non è l’originale». Ivan alzò le spalle, voltando leggermente la sedia di pelle girevole per lanciare un’occhiata a sua volta al quadro. «Quello lo tengo nella mia villa, ben chiuso in un sotterraneo blindato».

Arthur non poté fare a meno di chiedersi quali autorità avessero permesso ad un maniaco come Ivan di costruirsi un caveau sotterraneo, ma evitò di domandarlo a lui, e continuò ad ascoltare con diligenza la fine di quel discorso.

«Ho pagato 200 mila sterline per una copia, è buffo» ridacchiò Ivan, senza tuttavia che Arthur potesse capire cosa c’era di tanto buffo nel buttare via i soldi in quel modo. «L’arte è passione» sembrò quasi rispondergli l’altro, con un’alzata di spalle. «Così come i cavalli, le auto, i soldi…».

«Sono passioni o vizi?» domandò Arthur, mordendosi la lingua un istante dopo. Contraddire il suo capo equivaleva al suicidio; la Francia doveva proprio avergli messo del fumo al posto del cervello.

«Non ho finito di parlare» fece tranquillamente Ivan. Ma il sorriso che gli lanciò fu a dir poco agghiacciante. «Ma non ti preoccupare, tra un po’ sarà il tuo turno. Vorrei capire perché hai lasciato il tuo lavoro per andartene in vacanza».

«Signore, mi dispiace se il mio comportamento le ha causato dei problemi…» cominciò Arthur, in fretta, ma Ivan lo interruppe quasi subito.

«Sei uno dei broker più abili che io abbia mai assunto» gli disse, fissandolo quasi con approvazione. Tuttavia, le sue intenzioni rimasero oscure ad Arthur, finché Ivan non gli passò una lettera. «Accetta le conseguenze delle tue azioni. Hai un’ora».

Arthur chinò la testa in segno di saluto, intuendo che con quell’ultima affermazione Ivan considerava chiuso il discorso, e prese la lettera, certo che contenesse un avviso di licenziamento. Uscì dall’ufficio del suo capo, rabbrividendo leggermente prima di aprire la busta.

Tuttavia, osservò con sorpresa che non era affatto ciò che si aspettava.

Il suo cellulare, che come sempre gli era complice nei momenti cruciali della sua vita –particolarmente concentrati nell’ultima settimana-, decise in quel momento di cominciare a squillare. Arthur rispose quasi subito, se non altro per liberare la mente dal pensiero di ciò che aveva appena letto, che ancora non sapeva classificare come una notizia buona o cattiva.

«Arthur!»

«Oh… ehm, James?» rispose Arthur, cercando di figurarsi perlomeno nella testa l’immagine del suo assistente, ma trovando appena un volto sfocato nei propri ricordi. Però almeno stavolta si era accorto che quella era la sua voce.

«Devi immediatamente tornare in Francia! Alfred è impazzito, sta parlando di tutte le modifiche che vuole fare alla vigna ora che è sua, e Lovino è infuriato… Antonio non mi aiuta per niente, e devo ancora finire di sistemare la faccenda con avvocati e notai!» disse Matthew, con il respiro affannato alla fine, perché aveva detto tutto d’un fiato.

«Mi hanno chiesto di diventare socio dell’azienda» fece semplicemente Arthur, gettando nello sconforto il suo assistente.

 

«Ma come, quindi non torni? Ti prego, devi aiutarmi, torna soltanto per un giorno, per favore!» esclamò Matthew, supplicandolo. Sentiva provenire dalla cucina gli strilli di Lovino che era da quella mattina che tentava di uccidere Alfred con qualunque cosa gli capitasse a tiro. Stava urlando qualcosa a proposito di “hamburger, schifezze da americani”; ovviamente, Antonio non faceva quasi nulla per fermarlo.


«Come sta Francis?» mormorò però Arthur. Si rendeva conto di essere separato dal francese da soli due giorni, ma quel solo pensiero era capace di destabilizzarlo come poche cose. Ovviamente, la cosa lo infastidiva parecchio, eppure non l’aveva trattenuto dal fare quella domanda.

«Eh? Il ragazzo amico di Antonio?» chiese Matthew, che aveva avuto l’occasione di conoscerlo da appena poche ore. «Mi pare stia bene… ma Arthur, hai capito quello che ho detto?»

Arthur stette in silenzio per qualche attimo, osservando il tavolo davanti a sé con aria vacua. «Devo andare, adesso» rispose alla fine, anticipando però le proteste del suo assistente. «Non ti preoccupare di nulla, torna a fare quello che stavi facendo prima».

Senza aspettare che l’altro dicesse qualcosa, riattaccò, improvvisamente consapevole di qualcosa che era stato tenuto come in sospeso nella sua mente per tutto il tempo che era stato in Francia. Il pensiero di Francis, dei loro corpi avvinghiati, gli riportava alla mente qualcosa che aveva totalmente, totalmente rimosso.

Arthur fece un piccolo sorriso, pensando che tutto ciò che avrebbe potuto fare in quel momento si riduceva ad un’unica cosa.

***

«Oh, Arthur! Dà un’occhiata al figlio di Madame Bonnefoy, Francis, mentre io porto sua madre in visita alla villa».

Il ragazzino dai capelli color paglia alza gli occhi dal libro, seccato. Sta steso in costume a pancia in giù su una sdraio accanto alla piscina, e i suoi occhi vagando intorno finché non scorgono lo zio, che gli ha rivolto la parola dal parco.

«Ma devo finire di leggere l’ultimo capitolo di Morte a Venezia!» esclama Arthur, indignato per l’essere stato interrotto in un momento così importante.

Il figlio di Madame Bonnefoy si è avvicinato comunque alla piscina, si è seduto dalla parte opposta a quella di Arthur, su un’amaca, e lo guarda. È un ragazzino molto carino, dai capelli biondi e gli occhi azzurri, ma Arthur è troppo occupato a fissare lo zio con aria di rimprovero per notarlo.

«Dato il titolo del libro, non credo che la fine ti sorprenderà!» gli urla dietro zio Henry, prendendo poi sottobraccio l’avvenente donna che è con lui, incredibilmente giovane per avere già un figlio. Del resto, suo nipote non se ne stupisce; ha imparato presto che i francesi non si fanno scrupoli di nessun genere in amore, nemmeno se si tratta dell’età.

Arthur sente lo zio borbottare qualcosa alla donna a proposito di una visita nella sua stanza, ma è troppo impegnato a sbuffare per capire il significato di quelle parole.

I suoi occhi verdi si spostano con stizza su Francis, che ancora lo sta a fissare con un sorrisino leggero sulle labbra. Si dondola leggermente sull’amaca, come se non si sentisse affatto in colpa per aver costretto Arthur ad interrompere la lettura del suo prezioso libro.

Dopo pochi secondi passati a scrutarsi, poi, fa una cosa che mette subito in agitazione il bambino, alzandosi dall’amaca e sfilandosi senza ritegno i pantaloncini, rimanendo in boxer.

Quei movimenti che fa con il corpo, togliendo anche la maglietta, quella lentezza sensuale che riserva ad ogni tocco, non li fanno sembrare affatto dei gesti adatti a dei ragazzini, anche se loro lo sono. Arthur è a bocca aperta e non riesce a comprendere, confuso, ciò che l’altro ha intenzione di fare, finché Francis non indugia un momento sul bordo della piscina sporgendosi sull’acqua, prima di tuffarsi.

È elegante, aggraziato, anche mentre Arthur scorge la sua figura nuotare sott’acqua ed avvicinarsi sempre di più alla sua sdraio, posizionata proprio accanto alla piscina.

Quando la testa di Francis emerge zuppa a pochi centimetri dal suo volto, Arthur ormai è senza fiato e non riesce a spiegarsi l’assoluta confusione che gli sta popolando la mente. Guarda gli occhi del ragazzino e sente che in quel momento sulla terra non c’è nulla di più bello di quelle sfumature celesti e di quel sorriso gentile.

Poi, Francis posa le labbra sulle sue, in un fugace e tenero attimo.

Prima di abbassarsi di nuovo sul pelo dell’acqua, unisce una mano a coppa, portandola alla bocca, tenendosi aggrappato al bordo della piscina con l’altra. Avvicinando il volto al suo orecchio, gli sussurra delle parole.

Arthur sente le labbra e il volto in fiamme, e vorrebbe davvero uccidere quello stupido ragazzino francese, che si crede di essere chissà chi con tutta la sua avvenenza.

Forse però sulla terra c’è qualcosa di più bello degli occhi di Francis: i suoi baci. 




 

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reduce di una serata all'insegna dello yaoi, eccovi il nuovo capitolo ^^ è il penultimo. so che lo ripeto ogni volta, ma è stato difficile arrivare fin qui xD quindi ringrazio infinitamente i miei lettori e chi ha recensito, rendendomi la personcina più felice del mondo ç-ç


to GinkoKite: Arthur somiglia a Crowe in effetti (cioè, le loro sopracciglia xD)!! scusami se ti ho fatto aspettare con l'aggiornamento, per l'epilogo non ci metterò così tanto. ma questa storia è stata pubblicata a singhiozzo e ho il sospetto che letta tutta insieme sia un pò confusionaria ^^' comunque ti ringrazio tantissimo :D mi fanno davvero piacere tutti i complimenti che mi fai ç-ç

to Yuri_e_Momoka: questa recensione quasi quasi me la ricopio da qualche parte *___* tu che ti credi una stalker, ora capisci dove arriva il mio grado di maniacalità? xD sono felicissima che ti piaccia la mia FrUk, ma mi devo impegnare ancora di più per aumentare le schiere dei loro fan u.u sono troppo poche, e loro sono la coppia più bella di Hetalia :° grazie mille per tutto.. *piange commossa con labbro tremulo*

to Julia_Urahara: devi assolutamente pubblicare qualcosa, così tutto l'impegno che ci metti a commentarmi potrò ricambiarlo <3 Arthur diventa meno stronzo, visto? xD alla fine è quasi romatico (ma è sempre di Arthur che si parla eh..). Alfred è troppo sulle sue per farci qualcosa xD insomma, lui è l'eroe -solitario possibilmente-!! un bacio mia cara, grazie mille ç-ç

to Arisu Kon: eh mi sa che devi aspettare per leggere cos'ha scelto Arthur xD ma diciamo che non sarà stà gran sorpresa, penso xD con gli aggiornamenti ho cercato di impegnarmi, anche se in realtà ho fatto tutto a caso *O* alla prossima, grazie!! :D

 

harinezumi


 

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Capitolo 9
*** capitolo nove ***



capitolo nove – in cui non c’è bisogno di altro tempo

 

 
Quando Arthur rientrò nell’ufficio di Ivan, l’aver preso la sua decisione riuscì persino a farlo sorridere, mentre si trovava al cospetto di quel suo capo dall’aspetto e dai modi terrificanti.

«Mi dica, lei lo vede mai?» domandò, una volta preso un grande respiro.

Ivan lo guardò perplesso, senza capire. «A cosa ti riferisci?» domandò.

«Il quadro vero che tiene nei sotterranei della sua villa… fa dei pellegrinaggi a notte fonda, quando esce di qui, per andarlo ad ammirare un po’?»

«Non capisco dove vuoi arrivare».

Arthur si sorprese moltissimo di sé stesso, ritrovandosi a sorridere ad Ivan con quell’aria spensierata, mentre riponeva la lettera che il suo capo gli aveva appena consegnato sulla scrivania. Senza dire una parola, gli voltò le spalle, aprendo la porta dell’ufficio.

Prima di richiuderla dietro di sé, lanciò un’ultima occhiata a Ivan. «Au revoir» lo salutò, allegramente, uscendo dall’ufficio e lasciando nella stanza un gelo profondo.

***

Quella sera era piena di lavoro al bistrot, come sempre. Ma il padrone del locale sembrava efficiente come al solito, anche se i suoi sorrisi erano certo più rari in quel periodo, e si adoperava a soddisfare ogni richiesta, come se non avesse mai avuto alcun altro problema al mondo.

Però Francis ne aveva di problemi, eccome. Non si pentiva di aver lasciato Arthur in quel modo, ma non poteva dire di esserne felice; anche se forse adesso una vita sarebbe riuscito a farsela, dato che per una volta aveva deciso di essere lui a spezzare un cuore. Eppure sentiva che nemmeno il suo era tutto intero al suo posto.

Quando stava lontano dal chiacchiericcio tranquillizzante di Antonio, il solo soffermarsi troppo a pensare ad Arthur gli faceva salire un nodo alla gola e le lacrime agli occhi. E quello non era normale, proprio per niente; innamorarsi così non era stato da lui.

«Bonjour» mormorò Francis distrattamente, sfilandosi la matita da dietro l’orecchio e fermandosi a prendere l’ennesima ordinazione.

Il cliente seduto sul tavolino davanti a lui abbassò il giornale che stava leggendo, rivelandosi essere Arthur. Il francese non fece una piega, ma la sua mascella si contrasse visibilmente, mentre insultava nella sua testa tutti i santi che conosceva.

«Vorrei ordinare» gli fece Arthur, serafico, ripiegando il giornale e fissandolo negli occhi con la sua solita aria di sfida e un’intensità che costrinse Francis ad abbassare lo sguardo, puntandolo sul blocchetto delle ordinazioni.

«È sicuro di non aver bisogno di più tempo?» domandò, maledicendosi interiormente per aver fatto tremare così tanto il tono della voce. Andiamo adesso, lui che arrossiva? Di fronte a quell’idiota inglese? Si costrinse a tornare a guardarlo.

«No, so… quello che voglio». Arthur continuava a fissarlo, con una sicurezza che di certo non gli era mai appartenuta; ma quelle parole erano vere, per quanto il suo cuore minacciasse di schizzargli fuori dal petto a momenti.

«Beh, allora… che cosa desidera?» chiese Francis, con un lieve colpo di tosse a dissimulare il tono roco che per un attimo aveva assunto. Però, stava indubbiamente stringendo un po’ troppo forte la matita e quasi stritolando il blocchetto; in più, sentiva che non sarebbe nemmeno riuscito a pronunciare qualcosa che non fosse una frase fatta. Arthur sembrava esitare in quel momento, ed era certo che anche lui si sentisse orribilmente in imbarazzo, ma stranamente parlò lo stesso.

«Avete la zuppa?»

Che domanda idiota. La tensione di Francis per un attimo si trasformò in rabbia, il che gli consentì di rispondere, per una volta da quando Arthur era comparso senza vacillare. «Finita».

«Uhm, io ho finito di lavorare giusto otto ore fa. Per sempre. E il pesce?»

«Non ne abbiamo più» sbuffò il francese, cominciando seriamente a pensare che Arthur fosse venuto lì solo per prenderlo in giro.

«Francis, io non so come scusarmi» mormorò però l’altro, con un tono così realmente dispiaciuto che prese Francis in contropiede, facendogli quasi mancare il terreno sotto i piedi. Rimasero a fissarsi, Arthur con un’espressione mortificata e impacciata, Francis che si mordeva la lingua quasi a sangue per trattenere le lacrime.

«N-non farmi perdere tempo» sbottò alla fine, abbassando velocemente lo sguardo, e andando a toccarsi la fronte con una mano, per poi passarla sulla bocca, come esausto. Cercava soltanto di controllare i muscoli del proprio viso, troppo inclini a scoppiare a piangere. Ma perché poi, dannazione? «Scegli qualcosa che abbiamo».

«Mi piacerebbe passare tutta la mia vita con te» mormorò Arthur. Quella dichiarazione lasciò entrambi spiazzati, ma l’inglese non si fermò, lo sguardo fisso sul tavolo. Si alzò in piedi, sorpassando lentamente il tavolo ed avvicinandosi, con le mani che gli tremavano nonostante la decisione che aveva preso. «Con te, una persona irrazionale e sospettosa… con il vizio di essere troppo gelosa e con l’abitudine di litigare per qualsiasi cosa. Assieme ad un luogo che sappia di te».

Francis era interdetto, perché quella era assieme la dichiarazione migliore e peggiore che avesse mai avuto. Perché Arthur stava dicendo tutte quelle cose meravigliose, sì, ma lo stava facendo come se stesse parlando di una mucca scuoiata. Tuttavia, non poté non sorridere lo stesso quando lo sentì bisbigliare durante quella pausa un chiaro: «Allo specchio non faceva così schifo…».

Poi, senza dargli alcun preavviso, ma soprattutto senza darlo a sé stesso, Arthur gli prese il volto tra le mani, baciandolo sulle labbra, nella sua euforia. Non fu un semplice bacio a stampo, se non all’inizio, ma l’inglese prendendo coraggio cercò la lingua dell’altro con la propria, mordendogli un paio di volte dolcemente le labbra quando le dischiuse. Un modo decisamente ottimale, pensò Francis, di dimostrargli la sua redenzione, anche se quando Arthur si staccò aveva assunto lo stesso colore dei pomodori maturi.

«Dunque?» domandò il francese, con un sorrisetto a fior di labbra, e cercando di non ridergli in faccia. L’altro stava cercando di mostrarsi imbronciato e sollevato da quella sua reazione non più ostile, allo stesso tempo, evidentemente nella confusione più totale.

«Pardonne mes lèvres, elles trouvent du plaisir dans les endroits les plus inattendus*» mormorò però Arthur, sorprendendolo di nuovo.

«Oh. Ti ricordi ancora le parole che ti ho detto quella volta in piscina, quando eravamo bambini…».

«Già, e anche tu…». Sembrava sorpreso. Certo, perché Francis non aveva mai dimostrato di ricordarsi di lui, prima di quel momento.

«Si, ma devo ammettere che prima d’ora non ti avevo riconosciuto, Arthur» rispose Francis, con un risolino, ma sorridendo luminoso. Sembrava che tutta la preoccupazione che l’aveva turbato un attimo prima, quando si era avvicinato al tavolo, fosse sparita; in quel momento, allungò le braccia a cingere la vita di Arthur, stringendolo a sé e nascondendo immediatamente il volto nella sua spalla.

«Per un po’ ho avuto paura che non tornassi…» mormorò, in un sussurro appena percettibile. Non voleva certo che l’inglese sentisse il tremolio nella sua voce.

«Perché sei troppo stupido per renderti conto dell’ovvio» ribatté Arthur, infilandogli una mano tra i capelli, accarezzandogli il capo. Poggiò la guancia sulla sua testa, chiudendo gli occhi.

Un po’ stupido si sentiva anche lui, a sorridere in quel modo.

***

Arthur si alzò “presto” quella mattina, verso mezzogiorno. Sentiva delle urla provenire dai dintorni dall’entrata, e considerando quanto distante si trovava la sua stanza dalle cucine, potevano solo essere di Alfred. Colui che gli stava rispondendo, ad altrettanti decibel di altezza, era probabilmente Lovino.

Rotolò fuori dal letto, notando di essere ancora una volta da solo in mezzo alle coperte disfatte, sbuffando annoiato e maledicendo il lavoro di Francis. Si rivestì in fretta, per andare a sedersi, dopo aver sceso barcollando le scale del primo piano e mezzo addormentato, sui gradini del portone della villa.

«Ah, sei qui!» esclamò Lovino, spuntando all’improvviso alle sue spalle, e parandoglisi poi davanti, infuriato. «Quell’idiota non capisce niente di vino!! Io mi faccio mettere i piedi in testa come quel bastardo di Antonio, vedi di dire a tuo cugino di darsi una calmata!»

Arthur annuì, lentamente, senza nemmeno guardarlo. Il sonno lo attanagliava ancora, nonostante l’ora, e sentiva di non avere forze per ascoltare le costanti lamentele di Lovino sul dispotismo di Alfred.

Come se non bastasse, proprio l’americano uscì dalla villa in quel momento. Il ragazzino italiano fece uno strillo isterico che somigliava a “chigi”, correndo via non appena lo vide, e Alfred rimase in piedi accanto ad Arthur, con uno sbuffo.

«È fuori di testa!» sbottò, abbassando gli occhi sul cugino, che si limitò ad annuire stancamente di nuovo. «Oh, Arthur!» esclamò all’improvviso Alfred, dopo un attimo di meraviglioso silenzio. «Ti ho preso dell’inchiostro verde, è sopra alla tua scrivania».

Arthur, senza volerlo, arrossì spalancando gli occhi, mentre a quelle parole sentiva un tuffo al cuore. Era stato così imprudente che persino Alfred aveva scoperto che aveva scritto quella lettera? Ma forse non aveva importanza. In fondo avrebbe comunque potuto prendersi la villa di Henry in qualsiasi momento, dal momento che non vi erano dubbi sul fatto che quella testa vuota fosse figlio del vecchio.

«Grazie» borbottò, stando bene attendo a non incrociare lo sguardo del cugino.

«Perché, chissà, magari ti viene voglia di scrivere una lettera» continuò Alfred, con una risatina, prima di correre dietro a Lovino, probabilmente per sottolineargli le sue richieste assurde come un vino che sapesse lo stesso sapore degli hamburger.

Arthur sospirò di sollievo, finalmente solo, passandosi una mano sugli occhi stanchi. Era tutta colpa di Francis, come sempre; così neanche quella notte aveva dormito un momento, eccetto quando l’altro si era finalmente volatilizzato per andare al lavoro. Il che era accaduto alle sette del mattino, quindi poteva dire di aver appena battuto il suo record di notti in bianco consecutive, che ammontavano a sei; e sì che all’università ne aveva fatta di festa.

«Mon Arthùr, cos’è quella faccia?» disse all’improvviso la sua voce, proveniente dal viale.

L’altro alzò gli occhi, puntandoli sul francese, appena arrivato alla Siroque ovviamente in bicicletta, pur di non dover usare in prestito la stupida lavatrice che l’aveva investito. Francis gli sorrise, scendendo dalla bici con un saltello, assolutamente allegro e senza sembrare stanco nemmeno un po’.

«Io ti detesto» grugnì Arthur, suscitando sorpresa nel francese, che scoppiò a ridere, lasciando la bici appoggiata accanto al muro della villa, e andando a sedersi accanto a lui sul gradino.

«Non è vero» gli rispose, con un sorrisetto, prima di passargli un braccio attorno al collo e appoggiarselo contro.

Arthur, suo malgrado, era talmente stanco che si lasciò scivolare prima sulla spalla di Francis, e subito dopo sul suo grembo, su cui appoggiò la testa, chiudendo gli occhi. «È tutta colpa tua… sono stanco».

«Che ti importa» mormorò Francis, chinandosi su di lui per baciargli una guancia, dolcemente. «Ora sei in vacanza, e ci resterai per sempre».

«Se continua così, torno a lavorare» sbuffò Arthur. «Non ti sopporto più, mi sfinisci».

Per tutta risposta, Francis rise di nuovo, andando a cercargli la mano e stringendogliela. L’altro ricambiò la stretta, nonostante le sue parole, e continuò a rimanere immobile sulle sue ginocchia, mentre il suo respiro si faceva più pensante.

«È ora di pranzo, Arthùr, non addormentarti adesso» gli sussurrò all’orecchio dopo un po’, con tono di voce comunque tranquillo, come se le sue intenzioni non fossero affatto quelle di svegliarlo, ma di peggiorare la situazione. «Sento un profumino venire dalla cucina… di pomodoro in verità… Antonio vizia troppo Lovino».

«Ho capito, adesso mi alzo» mormorò Arthur, senza minimamente eseguire.

«E mi piacerebbe darti ancora lezioni di francese dopo pranzo…» continuò Francis, con quel tono fastidiosamente suadente.

«Io dopo pranzo andrò a letto» sospirò Arthur, sollevandosi lentamente di nuovo a sedere, e cercando di mantenere gli occhi aperti, anche se le sue palpebre rimasero a mezz’asta.

«Mh, e che differenza c’è da quello che ho detto io?» gli domandò Francis con una risatina, per poi andare senza esitazione ad infilargli la lingua in un orecchio, facendolo rabbrividire.

«Francis…» si lamentò Arthur, cercando di piegare di lato il collo per liberarsi da quel supplizio.

Ma l’altro eseguì da solo, senza risparmiarsi però un’occhiata divertita. «Vado ad aiutare Antonio a preparare la tavola. Possiamo mangiare fuori, oggi è una bella giornata… tu intanto dormi e riprendi le forze, mi raccomando. Servono per il sesso pomeridiano».

«Vai a farti fottere» grugnì Arthur, poggiandosi al portone aperto e richiudendo gli occhi. Si maledisse da solo, perché le sue parole rappresentavano esattamente quello che Francis aveva intenzione di fare, e di certo lui non le avrebbe mai prese in altro modo.

Sentì le labbra del francese posarsi sulle sue, ma sorprendentemente si fermarono lì. Con un fruscio, Francis entrò nella villa andando in cucina, lasciandolo solo.

Non gli ci volle molto per cadere nel dormiveglia, cullato dal suono del vento tra gli alberi del viale della Siroque; in quel luogo Alfred aveva preteso che tornasse, e del resto era una proprietà talmente grande che si incontravano di rado e i loro litigi erano ridotti a zero. Chi vi si era praticamente stabilito senza permesso era Francis, sempre intorno ad Arthur come se non potesse più farne a meno. E ad Arthur, alla fine, dispiaceva poco.

L’essersi reso conto di amare Francis era decisamente la cosa migliore che gli era capitata da quando aveva conosciuto Henry. Non aveva importanza quante poche volte fosse in grado di dirlo ad alta voce, in fondo era stato lui a volere la loro relazione, e a Francis questo sembrava bastare.

Si ritrovò a sorridere nel sonno, interrotto un attimo dopo da un lieve bacio sulle labbra. Francis poi gli prese una mano, cercando di tirarlo leggermente in piedi.

«Vieni, è pronto» gli disse, con un sorriso, quando Arthur aprì gli occhi e si ritrovò a fissarlo con aria nuovamente buia.

«Mi ha chiamato Matthew ieri sera. Ha venduto il mio appartamento a Londra… spero tu sia contento» mormorò, con un sospiro.

«Sì. Perché hai capito che la Francia è centomila volte meglio dell’Inghilterra» rispose Francis, sorridendo divertito.

«Questo è da vedere. In giro ci sono un sacco di tipi poco raccomandabili».

Francis scoppiò a ridere, tirandolo in piedi con decisione, ma senza premurarsi di rispondergli. Era evidente a chi si riferisse quel commento. Arthur si alzò controvoglia, condotto letteralmente dall’altro fino al tavolo preparato accanto al parco. Antonio non era ancora nei paraggi, perciò Francis ne approfittò per sedersi e tirarsi in braccio anche l’altro, che emise solo un lieve gemito di protesta, tanto era stanco.

Gli occhi di Francis poi erano dannatamente intensi, mentre lo fissavano con quell’espressione assorta, come se fosse stato convinto di guardare la cosa più bella del mondo. Arthur non poté fare a meno di pensare che era un idiota a pensarla così, mentre il francese stringeva di più le proprie braccia attorno alla sua vita, per far sì che il suo viso si avvicinasse al proprio.

Il bacio che gli diede allora non aveva nulla a che vedere con quelli casti e teneri di un attimo prima, però Arthur si ritrovò a preferirlo a tutto ciò che Francis avrebbe potuto fargli o dirgli in quel momento. Si rese conto improvvisamente che così il sonno era svanito; di quei baci, non avrebbe mai potuto essere stanco.

E nemmeno di quella vita, quando guardava gli occhi blu di Francis, così assorti a fissarlo che pensò che avrebbe fatto meglio a tenerselo stretto per sempre.

«Arthùr… mi… stai facendo male…».

«Stà zitto e muori, rana» grugnì Arthur, stringendogli più forte le braccia al collo e serrando gli occhi, deciso. Come aveva detto, per sempre.
 
 

* “perdona le mie labbra, trovano il piacere nei posti più inaspettati”





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che dire, questo era l'ultimo capitolo ^^ e così è finita la prima storia che io abbia mai scritto su Hetalia. mi scuso tanto se alcune scene sono sembrate OOC, ma ora sono migliorata e scriverò meglio in futuro!! (sì sì, continua a ripetertelo)

ringrazio tantissimo tutti quelli che hanno letto e seguito la storia, vi amo tanto ç-ç e ovviamente amo alla follia coloro che mi hanno dato i loro pareri con tanta gentilezza, grazie mille! mi dispiace di non avere tempo di rispondervi uno per uno, ma sono davvero commossa per chi ha recensito questa storia senza abbandonarla ç-ç è per voi che l'ho conclusa.

alla prossima, se non fuggirete!!! :D

harinezumi

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