Non è vero

di C4rm3l1nd4
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Pain ***
Capitolo 3: *** Ready to re-begin? ***
Capitolo 4: *** The true story: all my fault ***
Capitolo 5: *** Here, again. ***
Capitolo 6: *** The end of the story, the beginning of a new life ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

 

 

Ti odio. Odio tutto di te: il tuo carattere da stronzo, il tuo ghigno, le tue risposte acide e scorputiche. Eppure non posso fare a meno di amarti, di perdermi nei tuoi occhi penetranti, di sciogliermi nel calore del tuo abbraccio.

A volte vorrei avere la forza di dimenticarti, di dimenticare le nostre liti, le discussioni per sciocchezze, le frecciatine, I baci.

Vorrei riuscire a scordarmi tutto e andare avanti con la mia vita.

Mi sei entrato dentro, il tuo nome è inciso sul mio cuore...come vorrei averlo scritto in matita e poter cancellare I miei ricordi con una gomma.

Ma so che per dimenticarti devo distruggere il mio cuore e ricostruirlo pezzo per pezzo. Ne avrò la forza? Ne sarò capace. Chissà...per adesso voglio solo stare qui e pensare a te e nient'altro.”

Rilessi tutto e salvai. In quel periodo scrivevo tutte cose malinconiche e l'ispirazione prendeva sempre il sopravvento. Dovevo sprigarmi a finire quelle storie perchè avevo la certezza che, quando I momenti di dolcezza e felicità avrebbero invaso la mia mente, allora non sarei più riuscita a scrivere cose fredde e dure ma solo paroline dolci d'amore.

Era sempre stato così e così sempre sarà: vado a periodi e di questo non mi vergogno.

La vibrazione del mio cellulare mi distrasse dai miei pensieri.

Pronto?” risposi con voce fredda e dura. Non mi piaceva essere disturbata perchè poi la mia ispirazione andava a farsi benedire e I capitoli uscivano osceni.

Martina? Sono Pietro. Ti ho chiamata per dirti che Giacomo non riuscirà a uscire con te domani. Mi dispiace”. Pietro era il fratello del mio ragazzo. Ci odiavamo a vicenda per questo, appena sentii la sua voce preoccupata e per nulla ironica e sprezzante che mi rivolgeva di solito, un brutto presentimento si insinuò in me.

Perchè me lo dici tu? È successo qualcosa?” chiesi allarmata.

....” Il silenzio fu la risposta che cercavo. No, non di nuovo. Per favore...

Dove?” “All'ospedale. Stanza 503.” e chiuse.

Lasciai tutto come era, mi misi le scarpe e corsi fuori. L'ospedale distava solo qualche minuto da casa mia ma la preoccupazione mi fece sembrare che il tragitto durasse un'eternità.

E, quando finalmente arrivai alla sua stanza, avrei preferito non aver mai riposto a quel cellulare.

Mi dispiace signori, non ce l'ha fatta”.

 

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Capitolo 2
*** Pain ***


PAIN

 

Pain for love

 

 

“Mi dispiace signori, vostro figlio non ce l'ha fatta. Siamo arrivati troppo tardi” disse il dottore.

I singhiozzi della madre di Giacomo riempirono la stanza mentre Pietro sbatteva un pugno contro il muro. Il padre stava zitto, immerso nel suo dolore.

“Il suo fisico era troppo provato e dopo l'ultima volta non ce l'avrebbe fatta. Vi lascio al vostro dolore. Condoglianze” e dicendo così il dottore ci lascio lì.

Nessuno si era accorto della mia presenza, tutti troppo presi dal proprio dolore.

Guardai Giacomo: era così bello. Anche ora, con le labbra viola e la pelle bianca. Niente poteva togliere la bellezza dei suoi tratti, dei suoi capelli neri e dei suoi occhi neri come un pozzo profondo sempre coperti dagli occhiali.

Mi avvicinai piano a lui. Sembrava stesse dormendo...perchè lui STAVA solo dormendo, quello che ha detto il dottore non può essere vero. No, dopo tutto il dolore che avevamo passato insieme non poteva lasciarmi in questo modo, non era giusto.

Gli presi la mano: era terribilmente fredda. Non feci in tempo a sedermi che Pietro mi attaccò: “Come ti permetti di stare qui?! Tu non sei nessuno! È solo colpa tua se è morto! Ha firmato la sua condanna a morte conoscendoti! Ti odio, allontanati da mio fratello!” e mi spinse fuori dalla porta, che chiuse a chiave.

Le sue parole mi colpirono come mille lame...”colpa tua” “ha firmato la sua condanna a morte conoscendoti”...

 

“Hey, Martina, aspetta! Hai dimenticato questo!” urlò Giacomo. Avevo appena finito di fare una lezione intensiva di latino e lui era in classe con me in quel momento. Avevo dimenticato il diario e fortunatamente me lo aveva riportato perchè se no sarebbero stati dolori.

“Grazie mille! Mi hai letteralmente salvato la vita. Se non avessi fatto neanche un compito dubito che sarei sopravvissuta domani! Come posso ringraziarti?” gli dissi, sorridendo gentile.

Conoscevo suo fratello e lo odiavo, speravo che almeno lui non fosse un maniaco, pazzo visionario che se la prende con quelli più piccoli e che crede di essere tanto figo solo perché qualche ragazza dice che è carino.

“Mmmm…direi che un pomeriggio in giro per Cuneo sia abbastanza!” disse, facendomi l’occhiolino. “Ci vediamo sabato. Ciao!” e se ne andò.

“Aspetta! Non ho il tuo numero, come faccio a sapere dove e quando?” urlai correndogli dietro, ma lui ormai era scomparso.

 

Calde lacrime iniziarono a scendere e in poco tempo mi ritrovai singhiozzante a terra, attaccata alla parete vicino alla porta della stanza del mio amore. Era tutta colpa mia. È morto per colpa mia. Non dovevo conoscerlo. Non dovevo parlargli. Non dovevo … non dovevo …

Non so quanto tempo passò, ma dopo un po’ la porta si aprì. Non alzai lo sguardo, non mi mossi di un millimetro, continuai a piangere.

Sentii rumore di passi e dopo qualcuno di sedette accanto a me. Mi mise un braccio attorno alle spalle e io appoggiai la testa al suo petto. Anche questa persona iniziò a piangere, stringendomi a sé. Non ci potevo credere: perché esiste tutto questo dolore? Perché semplicemente non scompare insieme alle lacrime? Sarebbe tutto più facile, tutto più semplice.

E in quel momento mi tornò in mente la storia che stavo scrivendo e mi corressi mentalmente: sarei riuscita a scrivere cose malinconiche per un sacco di tempo, forse per sempre.

Dopo un po’ le lacrime cessarono e i singhiozzi diminuirono fino a scomparire. Tutti e due avevamo cercato di liberarci dal dolore in quel modo ma evidentemente nessuno dei due ci era riuscito.

Alzai lo sguardo e quando vidi Pietro rimasi con la bocca spalancata.

Mi allontanai da lui istintivamente ma  senza smettere di fissare i suoi occhi rossi. E in quel momento capii di essere io la fonte di tutto quel dolore, non Giacomo. In fondo, era colpa mia se era morto, era colpa mia se aveva iniziato una cosa che lo avrebbe portato a lasciare la sua giovane vita, i suoi sogni, le sue speranze.

Pietro si avvicinò e mi abbracciò di nuovo. Stavolta non trovai la forza di staccarmi, non trovavo la forza neanche di respirare.

“Non è colpa tua. Mi dispiace aver detto quelle cose, ero solo arrabbiato. Non è colpa di nessuno…” mi disse con voce dolce.

La sua voce, il fatto che fosse così maturo da ammettere un suo possibile errore, la forza delle sue parole che mi scagionavano da ogni accusa fecero tornare prepotenti le lacrime.

“Sssh. Ti prego, non piangere. Giacomo non vorrebbe tutto questo.” Disse cercando di calmarmi.

Ma non ci riuscì e così passammo tutta la notte lì, con lui che mi stringeva cercando di farmi calmare e io che piangevo disperata, finchè tutto non divenne nero. Ero morta, o almeno così speravo.

 

Ok! Salve a tutti! Ecco il primo capito. Lo so che è un po’ corto ma non posso mica mettere troppo dolore in un solo capitolo!
Tranquilli che non inizieremo a sorridere con questa storia per molto tempo.

Mi raccomando, commentate. Posso anche essere commenti tipo “Mi fa schifo”, non me la prenderei ma vorrei sapere perché. Ho bisogno di migliorare e qualche aiutino potrebbe servire.

Grazie,

C4rm3l1nd4



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Capitolo 3
*** Ready to re-begin? ***



Ready to re-begin?


Street



DUE MESI DOPO …
 
“Martina, è ora di cena! Vieni?” urlò mia madre da dietro la porta, ma, come da due mesi a quella parte, non ottenne risposta.
Due mesi che non vivevo, due mesi che mangiavo solo quando ero costretta o quando stavo male, due mesi che non andavo a scuola.
 Ormai eravamo alla fine di giugno. Sarei stata promossa comunque grazie ai miei voti e alla mia “situazione”.
Da quella sera in ospedale la mia vita era morta con Giacomo. Tutti credevano che fosse solo una cosa momentanea: non parlavo, stavo semplicemente in camera mia senza fare niente tutto il giorno, aspettando di addormentarmi. Ma, dopo tre settimane, tutti avevano capito che la mia non sarebbe stata una situazione che dura poco.
I miei genitori avevano tentato di portarmi da uno psicologo ma mi ero rifiutata, minacciando di tagliarmi le vene con il vetro che potevo rompere dallo specchio. Mi hanno subito lasciata. Qualche volta cercano ancora di fare qualcosa, di cercare di togliermi da questo stato di catatonia ma ormai erano stanchi di lottare.
Sentii mia madre sospirare e i passi che si allontanavano. Quella sera loro sarebbero usciti ma mia madre aveva preparato lo stesso qualcosa, sempre speranzosa di una mia possibile mossa. Ma niente. Sentii la porta d’ingresso battere e dopo la macchina che si allontanava.
Finalmente potevo fare ciò che da settimane pensavo. I miei genitori non erano più usciti di casa, penso per controllare che non facessi niente di stupido, ma dopo due mesi rinchiusi in casa anche loro avevano bisogno di cambiare aria e di allontanarsi dai problemi, da ME.
Mi alzai dal letto e andai in bagno. In bella mostra sul lavandino c’era una lametta da barba di mio padre.
La presi e ammirai l’effetto della luce sulle lame. Sarebbe stata l’ultima cosa che avrei visto e questo non mi dispiaceva. Ero pronta a tornare con il mio amore e nessuno mi avrebbe impedito di farlo. Né i miei genitori, né nessun altro. Finalmente potevo essere felice e scordarmi cosa significava stare male, avere incubi ogni notte, non riuscire più neanche a sorridere.
Tutto sarebbe stato fantastico: ogni giorno sarebbe stata una nuova avventura ma sempre con la stessa, magnifica persona.
Con un sorriso che molti avrebbero definito “da pazza”, ma che era il primo dopo due mesi, avvicinai la lametta la polso sinistro. La feci scorrere lentamente dove si vedevano maggiormente le vene. Non sentii dolore, ma solo un urlo. Proveniva da me? No. Era maschile, era di un uomo.
Però non riuscivo a riconoscerla e pensai fosse tutto causato dalla mia mente, che era messa fin troppo male.
Abbassai lo sguardo sul polso tagliato: usciva un fiume di sangue e vedere tutto quel rosso mi fece girare la testa. Ma non era ancora il momento di svenire: dovevo finire l’opera e poi avrei potuto dormire e sognare Giacomo.
Cercai di prendere con la mano sinistra la lametta, ma ogni movimento mi causava forti fitte al polso. Magari sarei riuscita a prenderla solo con due dita, magari cercando di non muovere il taglio. Ma qualcosa (o qualcuno) me lo impedì. Non feci neanche in tempo a protestare che la vista mi si appannò e caddi all’indietro. Le mie forze ormai mi stavano lasciando e non feci niente quando qualcuno mi fece sdraiare per terra e mi bendò il polso. Poi, persi conoscenza e il mondo finì.
 
Ero morta. Finalmente oserei dire. Un dolore al polso però mi fece pensare. Ero all’inferno? Si, perché ancora non riuscivo a vedere Giacomo. Come per tutti gli innamorati, la propria casa, il proprio paradiso e la proprio famiglia stanno nella persona che si ama e senza di essa tutto scompare. Fa molto clichè, anche io la pensavo così prima, ma da quando ho imparato a conoscere ed amare Giacomo, tutto mi sembra diverso, io sono diversa. E il problema più grande di essere innamorati è che sai che la tua storia prima poi verrà interrotta e allora ti chiedi: sarò in grado di superarlo? Per me la risposta è no. Finalmente morendo mi sono tolta un peso dal cuore. E questo cuore reclama una persona. Forse la stessa che mi sta accarezzando i capelli in questo momento.
Aprii gli occhi. Un momento, come facevo ad aprire gli occhi se ero morta?
“Martina, ti sei svegliata! Cosa diavolo ti è saltato in mente? Tagliarsi le vene? Non vivere più? Chi sei e cosa ne hai fatto della persona che ha fatto innamorare Giacomo?” disse tutto d’un fiato Pietro.
Mi alzai lentamente dal letto e non potei non notare il fatto che lui fosse lì vicino a me e che mi tenesse ancora una mano stretta nella sua.
Ma, appena capii quello che mi aveva detto, cominciai a piangere, ricordandomi del mio bellissimo amore.
 
“Martina, ti dovrei dire una cosa” mi disse Giacomo, dopo che eravamo usciti per la centesima volta. Da quel giorno dopo scuola, ci eravamo scambiati il numero di telefono, l’e-mail e cercavamo di uscire ogni week-end. Mi ero accorta di essermi innamorata di lui da circa una settimana e quella voce seria, il suo sguardo spaventato mi indussero ad avere le farfalle allo stomaco dalla paura. Non mi trovava più simpatica? Aveva capito che mi ero innamorata di lui e voleva rifiutarmi? Non voleva essere più mio amico?
Tutte domande che mi affollarono la mente in meno di un nano secondo. “Certo, sediamoci su quella panchina però!” dissi, cercando di sorridere. Me ne uscì il mio famoso sorriso “da foto”: quello falsissimo che usavo solo quando ero davvero o preoccupata oppure arrabbiata.
Sospirando, mi sedetti e lui fece lo stesso. Dopo qualche secondo però si alzò e iniziò a passeggiare avanti e indietro.
“Hey hey, Jake, mi stai facendo venire il mal di mare! Fermati e dimmi che cosa dovevi dirmi” dissi, prendendogli una mano per fermarlo.
Il contatto con la sua pelle liscia mi fece iniziare a battere forte il cuore. Lui si girò verso di me e si inginocchiò, mettendo le nostre due mani incrociate sul suo ginocchio.
“Marty, non c’è un modo semplice per dirtelo, perciò ne userò uno difficile” disse. Mi venne da ridere per la sua frase ma la sua espressione seria mi fece morire le risate in gola. Cercai di scacciarle deglutendo, ma si aggiunse un nodo in gola grande quanto una casa.
“Martina, ho capito che sei diventata una persona molto importante per me, troppo per essere una semplice amica. Ti amo con tutto me stesso: amo il tuo sorriso, il modo in cui ti copri la faccia quando ti vergogni, la tua corsa sulle punte dei piedi, i tuoi occhi, il fatto che sei un libro aperto. Amo tutto di te e so che anche tu mi ami. Sai, i tuoi occhi a forma di cuoricino si vedevano lontano un miglio…”  disse, ridendo. Ma, quella sua affermazione e quella sua risata mi fecero capire che non era davvero sicuro. E in quel momento non servivano parole per esprimermi. Semplicemente mi inginocchiai e lo baciai. Il nostro primo ma non ultimo bacio.
 
I singhiozzi aumentarono e, quando Pietro cercò di abbracciarmi, lo scansai malamente, scendendo dal letto. Lui fece lo stesso, e quando me lo ritrovai davanti e capii che lui non era nessuno, tutta la mia rabbia si riversò contro di lui e lo iniziai a prendere a pugni sul petto.
“Come ti permetti? Come ti sei permesso di salvarmi? Mi stai rovinando la vita! Io voglio tornare da Giacomo, dall’unica persona che mi abbia mai capito! E ora vattene da casa mia! Non voglio vederti mai più!” urlai, continuando a picchiarlo.
Lui non fece una virgola, aspetto che non avessi più forze nelle braccia e che il mio polso tornasse a fare male.
Quando fui stremata, mi sedetti sul letto. Lui si inginocchiò davanti a me e iniziò a parlare lentamente:
“Stai esagerando. MIO FRATELLO è morto, IL FIGLIO dei miei genitori è morto ma, nonostante ciò, continuiamo a vivere, con lui, PER lui. TU stai sprecando gli anni migliori della tua vita per un ragazzo. Lo ami, ma hai solo quindici anni! Hai tutto il tempo di trovare un’altra persona per vivere.
E ora ti dirò qualcosa che nessuno ti ha mai detto: alza il culo ed esci. Scopri il mondo o giuro che ti prendo a calci nel sedere da qui fino all’Australia! Nessuno ha usato le maniere forti con te, tutti pensavano fosse una cosa passeggera, tutti HANNO pietà di te. Ma io no. Io voglio solo che il ricordo di mio fratello non sia rovinato da una stupida ragazzina che non ha la forza di mangiare un biscotto!”.
Sgranai gli occhi. Nessuno aveva mai osato dirmi quelle parole. Il mio orgoglio, che era sepolto da qualche parte insieme a Giacomo, tornò in vita.
“Tu, brutto bimbominkia troppo cresciuto, come ti permetti di dirmi che sono una stupida ragazzina? Sono  più intelligente e brava di te, e ho la forza di distruggere anche i muri se voglio”  dissi, alzandomi e puntandogli un dito sul petto.
Con un sorrisetto strafottente mi disse: “Bene, allora vestiti. Andiamo a fare un giro per Cuneo. Se fra dieci minuti non sei nella mia macchina, vuol dire che ho ragione” e uscì da camera mia.
Il mio orgoglio in quel momento scalpitava, ma non ero ancora pronta. Non volevo uscire, che fine aveva fatto il mio piano? Sarei dovuta rimanere lì e finire il lavoro. Sarei, condizionale.
E sappiamo tutti che il condizionale non indica cose certe…

 
Ciao a tutti!
Ok, questo capitolo l’ho scritto in 3 giorni perché mi veniva la depressione dopo un po’…
Cosa sceglierà Martina? A me sembra abbastanza ovvio, chissà se anche per voi!
Al prossimo capitolo gente! =)
C4rm3l1nd4

 
LaIKa_XD: grazie mille. Spero che questo capitolo ti sia piaciuto. =)

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Capitolo 4
*** The true story: all my fault ***


The true story: all my fault

 

“Ti amo con tutto me stesso. Non te ne ho parlato prima perchè, vedi, stavi con mio fratello. Non volevo che il nostro rapporto si raffreddasse” disse il protagonista di quella improbabile storia d'amore. Pietro era riuscito a far uscire il mio vero carattere e con quello, anche l'orgoglio. Il dolore per Giacomo c'era, amplificato da quello del polso. Eppure mi era sembrato giusto vestirmi e andare a fare un giro per Cuneo ,andando poi a vedere un film con Pietro, mangiando popcorn e commentando gli avvenimenti.

Con me i cambiamenti veloci ormai erano una norma, ma iniziare la giornata con una depressione mortale e finirla con risate e giochi non era proprio normale.

Nonostante ciò, le parole di Pietro mi avevano colpita nel profondo: lui sapeva quello che provavo ed era riuscito a spronarmi per farmi tornare a vivere.

Durante il viaggio tra casa e cinema iniziammo a parlare seriamente. Ero ancora giovane, amavo Giacomo e lo amo tutt'ora, ma non posso smettere di vivere per lui. A 15 anni le storie finiscono e forse quello tra me e Giacomo non era vero amore. E anche se lui era morto per colpa mia, dovevo capire che Giacomo sapeva pensare e sapeva quello a cui andava in contro.

Iniziare a drogarsi era stata una delle scelte più stupide che ebbe mai fatto. Ricordo ancora quando lo avevo trovato in camera sua, in overdose da eroina. Era accaduto due mesi dopo l'inizio della nostra relazione. Quel giorno avevamo litigato perchè lui era geloso e io volevo passare del tempo con il mio migliore amico. Quando avevo capito l'errore, ero subito andata a casa sua per chiedergli scusa.

 

Giacomo? Sei in camera tua? Ho trovato aperta la...” iniziai a dire, ma mi bloccai appena lo vidi steso per terra.

Urlando gli corsi incontro e vidi una siringa per terra. “Giacomo! Giacomo mi senti? Giacomoooo! Oddio, è morto...nono”. Iniziando a piangere chiamai un'ambulanza, che arrivò 10 minuti dopo. Salii con lui, ma quando vidi il defibrillatore e la flebo, non potei evitare alla mia testa di girare. Odiavo gli aghi e gli ospedali, ma per Giacomo sarei dovuta riuscire a superare queste paure. Così, facendo un bel respiro, gli presi una mano e iniziai a parlargli all'orecchio: “Giacomo, per favore, resisti. Fallo per me, per la tua Tinuzz, ti prego!” e non potei evitare di tornare a piangere.

Le lacrime si intensificarono quando il battito cardiaco del mio amore era scomparso. “Noo, ti prego, ti prego resisti! Ancora due minuti e poi saremo in ospedale! Non mi lasciare, non posso vivere senza di te! Ti prego...ti prego...”. Appoggiai la mia fronte sulla sua, bagnandoli la faccia di lacrime. Quando arrivammo in ospedale, il battito cardiaco era tornato, ma debole. Quasi non si sentiva il rumore della macchina.

In ospedale mi costrinsero a lasciare la mano di Giacomo. Dovevano andare in sala operatoria e io non potevo entrare.

E così passarono tre ore. Tre lunghissime ore, in cui, nel frattempo, erano arrivati i genitori e Pietro, i suoi amici e la mia migliore amica. Dovevo avere un aspetto pietoso, perchè tutti accorsero da me, abbracciandomi e dicendomi che Giacomo ce l'avrebbe fatta, che era un ragazzo forte. No, non era forte se aveva iniziato a drogarsi. E tutti lo sapevano, ma nessuno voleva dire quelle parole.

La sala d'aspetto era un incubo: come quando dovevo fare dei vaccini, l'ansia mi attanagliava lo stomaco. Volevo andarmene in fretta da lì, ma allo stesso tempo avevo paura di entrare in quelle stanze. Perciò, quando un dottore uscì e ci venne incontro, quasi stavo per svenire.

La sua faccia grave sembrava naturale, come se negli anni gli siano capitate molte disgrazie.

Signori, suo figlio era molto provato. Nel suo sangue abbiamo trovato una quantità di eroina che avrebbe potuto uccidere una mucca. Eppure ce l'ha fatta. Non sembrano esserci danni celebrali, ma per un mese o due bisogna tenerlo qui in osservazione. Inoltre, uno psicologo parlerà con lui ogni giorno e gli troveremo una clinica per persone con questo tipo di dipendenze. Adesso, se volete scusarmi, ho dei pazienti da visitare. Potete entrare nella sua stanza, ma non in troppi. Grazie”. Lacrime di felicità uscirono su tutte le facce delle persone presenti. Era vivo, si era salvato! Fui la prima a correre nella sua stanza. Quando entrai lo trovai sveglio e gli andai in contro. Lo baciai per un tempo infinito. “Non farlo mai più. Ti prego, non voglio che mi lasci” gli dissi, con ancora le mie labbra attaccate alle sue. “Ti amo. Ti amo. Ti amo” continuò a ripetere, tra un bacio e l'altro.

Quando ci staccammo, mi sedetti vicino a lui e gli presi la mano libera dalla flebo.

Facendomi improvvisamente seria gli chiesi da quanto tempo si drogava”

 

Nessuno aveva mai saputo quando e perchè Giacomo aveva iniziato a drogarsi, perciò fui restia a continuare il racconto. Sapevo che era tutta colpa mia se aveva iniziato, e avevo paura che Pietro si potesse arrabbiare. Eppure parlai, ne avevo un gran bisogno.

“Ha iniziato a drogarsi dalla prima volta che siamo usciti. Si sentiva inadeguato, diceva che ero troppo bella per perdere tempo con lui e, quando quella sera i suoi amici gli avevano offerto un po' di coca, aveva accettato. Gli avevano assicurato che nessuna ragazza, neanche io, avrebbe potuto resistere al suo fascino. Ci credette e da quel momento iniziò il delirio. Ogni volta che tornava a casa dopo essere uscito con me, sniffava e, quando la cocaina non gli era più sufficiente, aveva iniziato a farsi di eroina.

Ogni volta che litigavamo ne prendeva un po' di più a seconda del tipo di litigio” dissi, cercando di essere più fredda possibile, concentrandomi sul dolore al polso e non su quello al cuore.

Pietro era immobile, non sembrava arrabbiato, ma deluso. La sua faccia era come un libro aperto: potevo vedere la delusione, a tristezza e...e il disgusto. Disgusto per me, per quella ragazza che aveva rovinato e ucciso suo fratello. Le sue mani erano ancora sul volante nonostante fossimo fermi sotto casa mia. Le nocche erano bianche. Quando feci per continuare, una sua domanda mi fermò.

“Il...il giorno che è morto, avevate litigato?” mi chiese, puntando i suoi occhi verdi nei miei.

Sospirai, eppure volevo rispondere. Durante quei due mesi non avevo fatto altro che vivere nel vuoto: nessun ricordo mi passava nella mente. L'unica cosa a cui pensavo era la faccia e il corpo di Giacomo. Ogni ricordo veniva represso perchè portava troppo dolore.

In quel momento però ero pronta. Non ne avevo mai parlato con nessuno, nemmeno con i miei migliori amici, quegli amici che avevo completamento evitato da quel maledettissimo giorno. Chissà se sarebbero riusciti a perdonarmi dopo tutti i problemi che avevo causato. In quel momento però dovevo parlare con Pietro.

“Si, e anche di brutto. Quella sera dovevamo uscire ma i miei genitori mi avevano chiesto se potevo restare a casa perchè loro sarebbero usciti e preferivano avere qualcuno, essendo l'antifurto ancora in riparazione. Quando ho chiamato Giacomo per informarlo, lui si è infuriato: ha iniziato a dire che erano tutte bugie, che non volevo più stare con lui, addirittura che lo stavo tradendo. Ho cercato di farlo ragionare, ma non c'è stato nulla da fare. Allora mi sono arrabbiata anche io, gli ho detto che se non si fidava di me poteva anche andarsi a cercare un'altra ragazza. Ma non ero seria, ero solo accecata dalla rabbia. Lui si è zittito e mi ha chiesto se stavo parlando sul serio. Gli ho detto di no, ma che non sopportavo più la sua gelosia infondata. La sua risposta è stata un “bene” e poi ha attaccato. È stata la peggiore lite di sempre” raccontai, con lo sguardo puntato sulle mie mani. Mi vergognavo, e parecchio.

“Si è mai disintossicato?” chiese allora Pietro, con una voce seria e fredda. “Ovviamente no. Aveva mentito a tutti quanti, anche a me. Ho scoperto qualche giorno prima della sua morte che ancora si drogava. Quando l'ho affrontato lui mi ha detto che era stato solo un momento di debolezza, un momento che è durato sei mesi” risposi.

Non sentendolo più parlare, guardai l'orologio. Erano le undici di sera e sicuramente i miei erano già tornati.

“Beh, grazie di tutto. Mi hai fatta risvegliare e mi hai regalato una bellissima serata. Ci si vede in giro. Ciao” e scesi dalla macchina senza neanche guardarlo.

Sapevo che in quel momento il vecchio odio che provava per me era tornato a galla. Con gli occhi appannati dalle lacrime, causa del senso di colpa, corsi verso il portone di casa mia e cercai le chiavi nella borsa. I miei movimenti erano veloci e tremanti, non riuscivo a vedere niente.

Delle mani bloccarono, con un tocco leggero e fresco, le mie, prima di girarmi e abbracciarmi.

“Non è colpa tua. Non lo è. È colpa di mio fratello, quello stupido si è lasciato influenzare dai suoi amici e dalle sue insicurezze. L'avrebbe fatto con qualsiasi ragazza. Non devi stare male per un idiota come lui. Non se lo merita” disse Pietro, abbracciandomi e sussurrandomi all'orecchio parole dure ma con voce dolce.

Il suo abbraccio mi sembrava diverso da quello di due mesi prima, ma non seppi spiegarmi il perchè.

Quando entra in casa fui assalita dai miei genitori: mia madre piangeva e mio padre sorrideva.

Si erano preoccupati non vedendomi in casa, ma dopo avermi vista di nuovo viva la felicità era entrata nei loro occhi.

Finalmente, quando riuscii ad entrare in casa mia e a toccare il letto, mi addormentai senza più pensieri negativi.

 

Ok, premetto che odiando davvero aghi, ospedali e tutto ciò che li riguarda (comprese varie serie tv) e non sapendo niente di medicina, non vi assicuro che quello che c'è scritto sia esatto. Anzi, sono sicura che non lo sia! Perciò, perdonatemi se ho scritto cavolate assurde, ma il mio intento non è basarmi sulle condizioni cliniche dei vari personaggi, ma sui loro sentimenti.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Noto che non ci sono ancora recensioni, perciò credo che ci saranno ancora uno o due capitoli e l'epilogo. Voglio finire questa storia perchè a nessuno piace, ma non ho intenzione di cancellarla. È una parte di me perciò anche per questo mi dispiace molto che alla gente non piaccia.

Beh, non ce altro da dire.

 

C4rm3l1nd4

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Capitolo 5
*** Here, again. ***


Here, again. 


 


amici




Ok, dovevo calmarmi. Erano pur sempre i miei migliori amici. Non mi avrebbero sbattuto la porta in faccia, vero?

Forse avrei dovuto scegliere un altro momento per affrontarli, magari separatamente. Comunque era troppo tardi. Ormai ero davanti a casa di Ale. Da dentro sentivo il rumore della musica e il vociare dei miei amici. Ogni sabato sera facevamo una piccola festicciola a casa di una persona. Facevamo sempre a giro. Mi chiesi come avevano fatto senza di me. Non erano mai venuti a parlarmi da quando Giacomo era morto e non avevo più loro notizie.

Sapevo che questo non era un comportamento da buoni amici, ma volevo sentir dire dalle loro bocche il perchè.

Sospirando,suonai il campanello. Era l'ora della verità. Ero tornata me da tre giorni, eppure a volte sentivo un dolore al cuore, come se qualcuno lo stesse ricucendo, pronto a darmelo indietro.

La musica e il vociare si fermarono: sentii dei passi e poi la porta si aprì. Di fronte a me stava un attonito Steu. Stefano era uno di quei ragazzi timidi, uno di quelli che parlano solo quando è strettamente necessario. Conoscendolo abbiamo conosciuto un altra persona: pazza, sempre con la battuta pronta, una di quelle che ti aiutano e sanno stare serie ma che sanno quando far divertire.

Il mio Steu, oltre ad essere alto circa un metro e ottanta (un gigante per me, povera ragazza alta uno e cinquantacinque), aveva capelli corti neri e un sorriso contagioso.

Peccato che in quel momento i suoi occhi fossero fuori dalle orbite e la bocca spalancata. “Ciao Steuuuuu!” urlai come al mio solito. Volevo fargli capire che ero di nuovo me, ma lui sembrava morto. Gli sventolai una mano davanti agli occhi, ma non si mosse.

Gli altri, non sentendo niente e non vedendolo arrivare, accorsero preoccupati. “Steu? Chi è alla porta?” chiese Ale, prima di vedermi. Tutti l'avevano seguita e tutti erano rimasti immobili.

Alessandra, chiamata da tutti solo Ale, era una pazza scatenata. Rideva e scherzava sempre (sparando anche un sacco di cavolate) ma, in quei giorni in cui era triste, il suo sorriso non si vedeva per delle ore e lei restava in silenzio, immersa nei suoi pensieri. Era alta quanto me (lo ammetto, un po' di più) ed era fidanzata con Lorenzo, un ragazzo di due anni più vecchi. Stavano insieme da sei mesi ed erano una coppia perfetta.

Vicino ad Ale c'era Anna, vero nome Annamaria. La boss del gruppo, era uno di quei caratteri forti che, di fronte all'amore, si scioglievano inevitabilmente. Quando pensava al suo ragazzo (Paolo), tutto il resto del mondo scompariva. Parlava di lui per ore ed ore, raccontandoci fatti anche venti volte di fila. Eppure noi eravamo contenti di vederla così felice dopo tutto il dolore che aveva passato con suo padre.

Lia e Giada erano quelle leggermente meno pazze. Se le stuzzicavi potevano diventare da manicomio, ma normalmente erano abbastanza calme. Io, Anna, Giada e Lia eravamo le prime ad aver fatto amicizia nella nostra classe e le prime a formare questo gruppo di pazzi scatenati (di cui faceva parte quasi tutta la nostra classe, la bellissima, ormai, V A del Liceo Classico di Cuneo).

Ed eccolo lì, Lorenzo! Non il ragazzo di Ale, era il più truzzo di tutti. Ancora non sappiamo da quando esattamente è iniziata la trasformazione, ma da un po' di tempo vestiva solo capi firmati e ascoltava solo musica house. Io non approvavo quel cambiamento, avendo paura lo trasformasse anche caratterialmente. Per fortuna non è stato così: è sempre il maiale che fa battute a doppio senso e che noi ragazze possiamo picchiare impunemente. Infatti la sua filosofia di vita era: “Non si picchiano le ragazze, per quello ci sono i maschi. Le femmine hanno un altro scopo!”.

E poi, l'ultima arrivata, l'ultima persona normale convertita in pazza: Irene. Irene era quella più calma: faceva sempre i compiti due giorni prima, studiava prendeva sempre nove e non parlava mai più del dovuto. Era una Steu al femminile. Prima dell'incidente di Giacomo però, io e lei avevamo fatto un corso di due settimane di inglese. Da lì è iniziata la trasformazione.

Questi erano i miei bellissimi migliori amici. Naturalmente adoravo tutta la classe, ma con loro c'era un rapporto speciale.

“Ehm...avete finito di ammirarmi o devo regalarvi una mia foto a grandezza naturale?” chiesi, sorridendo impacciata.

Tutti sembrarono ritornati improvvisamente vivi. Però nessuno sorrideva o diceva niente.

“Oooook. Quindi...come state, pazzi? Io bene, non c'era bisogno di chiedere grazie. Mi avete chiesto cosa ci faccio qui? Beh, sono tornata da un lungo viaggio e volevo parlare e vedere i miei migliori amici. Sapete, mi sono mancati tanto. Oooh, anche io vi sono mancata? Che teneriii!”. Il monologo sembrava averli svegliati completamente perchè tutti iniziarono a ridere e ad abbracciarmi.

“Seiii tornataaaa amoreee!” urlà Anna, spaccandomi un timpano essendo stata la prima a saltarmi al collo.

L'abbracciai anche io, ridendo con loro. Dopo di lei arrivarono tutti gli altri: c'era chi mi urlava nelle orecchie, chi mi stritolava, chi mi continuava a baciare le guance, il naso e la fronte.

Dopo mezz'ora di casino fuori dalla casa di Ale, finalmente entrammo. Mi andai a sedere sul divano, sdraiandomi completamente.

“Hey, quello va diviso!” disse ridendo Lia, sedendosi sulla mia pancia. Iniziai a tossire e, tra un colpo di tosse e l'altro, la maledicevo in tutte le lingue che sapevo, alzandomi e lasciandole un po' di spazio.

Finito il mio attacco ( e tutte le risate che ne erano derivate), mi feci seria.

“Ragazzi, perchè non vi ho più visti dalla morte di Giacomo. Non mi avete mai chiamata, non siete mai venuti a spronarmi a rialzarmi come ha fatto Pietro” dissi.

Tutte le loro facce si incupirono. Fu Lore a rispondermi. “Marty, noi ti conosciamo meglio di chiunque altro. La sera della tragedia, ti abbiamo chiamata, ma ha risposto Pietro. Ci ha detto che eri tra le sue braccia e che ti eri addormentata dopo aver pianto per due ore. Abbiamo capito che da quel momento non eri più tu.” disse, alzandosi dalla poltrona e sedendosi per terra davanti a me per stringermi una mano.

“Qualche giorno dopo abbiamo chiamato tua madre. Ci ha spiegato la situazione: dormivi e piangevi sempre, mangiavi e ti lavavi solo se costretta con le maniere forti. Sei stata male più volte a cause del poco cibo ingerito. Non eri più tu.” ripeté Anna.

“Noi ti conosciamo meglio di chiunque altro. Se non vuoi fare qualcosa, nessuno ti può costringere. E anche se la vera Martina non esisteva in quel momento, noi abbiamo potuto solo aspettare questo giorno: il giorno in cui Pietro di avesse salvata e tu saresti tornata da noi” continuò Steu.

Avevano ragione: non li avrei mai ascoltati, probabilmente avrei fatto come se non esistessero anche se fossero stati di fianco a me, prendendomi a pugni.

Dopo non avrei mai potuto sopportare il senso di colpa. Non sopporto chi causa dolore ai miei amici e , se sono io, questo è anche peggio.

“Grazie ragazzi! Ora basta serietà...bisogna fare festaaa!” urlai e alzandomi in piedi, trascinando Lia e Lorenzo con me.

Passammo tutta la serata ridendo e scherzando, ballando, mi raccontarono quello che era accaduto durante il mio periodo di “assenza”.

Quando scoprii che tutte le prof avevano fatto il tifo per me, non potei non essere contenta. Era il primo anno di scuola superiore e io avevo perso i due mesi più importanti: quelli finali. Eppure ero stata promossa a pieni voti, grazie alle interrogazioni che avevo sostenuto ogni settimana.

Erano le tre di notte: i ragazzi erano andati a casa (non si fermavano mai a dormire, volevano lasciarci la nostra privacy) e noi ragazze stavamo mangiando, parlando di ragazzi e cose amorose.

Il dolore per la scomparsa di Giacomo era tornato: anche io volevo lamentarmi della sua gelosia oppure fare la sdolcinata e l'innamorata come stavano facendo Anna e Ale. Eppure vedevo le altre, vedevo come loro erano felici e decisi che non potevo lasciarmi prendere dal dolore e dalla nostalgia: non di nuovo.

Quando tutti si zittirono, Irene fece una domanda poco consona.”Martina, ti piace Pietro? Lui ha una ragazza, ma si è sempre interessato al tuo bene”. In quel momento l'avrei voluta strozzare.

“No. In questi giorni è sempre stato con me, eppure lo vedo più come un fratello. Da quando Francesco è via per l'università, mi mancava qualcuno più grande con cui scherzare e litigare. Poi, non credo di voler un altro ragazzo per ora. Il dolore per Giacomo ancora c'è, ma è poco. A volte, lo so che è stupido, ma mi fa male il cuore e sembra come se qualcuno lo stesse ricucendo. Quando sarò pronta mentalmente e fisicamente, mi lascerò andare. Ora voglio solo rimediare il tempo perduto” confessai.

Tutte mi sorrisero, comprendendo il mio stato d'animo. Fino alle cinque mi chiesero di parlare di ciò che avevo fatto con Pietro e mi venne naturale raccontare anche alcuni aneddoti con Giacomo presente.

Alla fine finimmo tutte per terra addormentate, una con un ginocchio in faccia, l'altra con un braccio sulla gamba.

Eppure al risveglio, nonostante fossi indolenzita e con metà corpo sotto le gambe di Ale, non potevo non essere felice.

Ero realmente tornata e ora che i pazzi erano di nuovo con me, tutto era tornato al suo posto. O quasi.

Infatti, quando tornai a casa, mio padre mi chiamò per darmi una notizia.

Quando entrai nel suo studio, mi guardò colpevole e disse: “Martina, all'inizio di Agosto ci trasferiamo. Sono stato mandato in America”.

 

 

Salveee a tuttiii!!

Lo so, il capitolo è corto, ma volevo mantenermi solo sulla descrizione di questi pazzi. Per vostra informazione, i personaggi sono reali. I nomi anche, non avevo voglia di cambiarli. Anche perchè sono le persone più importanti per me. Non li ho descritti tutti e di alcuni non sentirete mai parlare in questa storia, ma questo solo perchè sono troppi! xD

comunque...grazie alle 5 che hanno la mia storia tra le seguite, a 1 nelle preferite, a tutti i lettori silenziosi e a valespx78 per aver commentato.

Mi spiace averti fatta piangere così tanto! =) Comunque la storia sta prendendo un'altra piega. Diciamo che segue il mio umore e oggi sono particolarmente felice! =)

Al prossimo capitolo,

 

C4rm3l1nd4

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Capitolo 6
*** The end of the story, the beginning of a new life ***


The end of the story, the beginning of a new life

 

 

Mi manchi ogni giorno. Ogni giorno penso al tuo sorriso, alle tue parole. Eppure qualcosa è cambiato, io sono cambiata. Non sono più la bambina spaurita che aspettava la mamma per attraversare. Ora sono una donna indipendente. E lo so che non è passato molto dal diploma e che ho ancora molto lavoro da fare, ma il mio sogno è qui di fronte a me. Non me lo lascerò scappare, non ora che ho quasi raggiunto la mia felicità.

E anche se ci saranno molti ostacoli...

 

Il cellulare cominciò a squillare, distraendomi dalla stesura del mio nuovo libro. Dovevo imparare a spegnerlo quando scrivevo.

Risposi scocciata, sapendo che l'ispirazione non sarebbe tornata molto presto. In quel periodo ero un po' bloccata ma l'editore non poteva aspettare e, se non avessi cosegnato la prima stesura del libro, quella volta non me la sarei scampata.

Che c'è?” risposi. “Martina, vestiti e vieni al New York State Building. Sali sul tetto. Ti do mezz'ora” disse il mio ragazzo al cellulare, chiudendo subito dopo.

Il suo tono non era dei migliori: era freddo e distaccato e questo mi fece preoccupare. Era un anno che stavamo insieme, forse si era stancato di me. Insomma, avevamo tutti e due 22 anni, eravamo ancora giovani per stare solo con una persona, avevamo il mondo davanti a noi.

Decisi di muovermi a prepararmi perchè, nonostante vivessi a dieci minuti di strada dal New York State Building, ogni volta i fan mi bloccavano per chiedermi un autografo. Così, lasciai il portatile aperto sul letto (non mi curai neanche di salvare quel documento, tanto faceva pena) e aprii l'armadio: presi un paio di jeans neri a sigaretta e una maglietta a maniche corte bianche. Coordinai un paio di decoltè nere con un po' di tacco. Corsi in bagno e mi truccai leggermente: misi un po' di matita nera (la mia preferita), mascara e lucidalabbra appena visibile. Mi pettinai i capelli, lasciandoli liberi sulle spalle. Fortunatamente quel giorno non avevo ancora tolto le lenti a contatto, perciò non persi altro tempo prezioso. Infatti, erano già trascorsi dieci minuti.

Presi la borsa con i soldi e le chiavi e uscii di casa in tutta fretta. La strada non era molto affollata: essendo le sette e dieci di sera, tutta la gente era a casa o nei ristoranti a mangiare. Camminai in fretta e quando salii sul tetto di quel magnifico edificio, erano le sette e mezza esatte.

Avevo il fiatone e le gambe mi tremavano. Di fronte a me, di spalle, c'era Sirak, il mio ragazzo. Tutta l'ansia e la preoccupazione che stavo provando scomparvero per lasciare posto alle farfalle allo stomaco. Lo amavo, e parecchio. Nonostante lo vedessi tutti i giorni, non potevo fare a meno di notare ogni volta quanto fosse bello: erano alto e magro. Nonostante ciò, era muscoloso, anche grazie ai molteplici allenamenti di tennis. Infatti, Sirak era il miglior giocatore di tennis di tutto il mondo. Tutti ci invidiavano: io ero una scrittrice famosa e, a soli 22 anni, avevo già pubblicato 4 libri che erano stati primi nella top ten del New York Times per tre settimane di seguito.

E pensare che la prima volta che misi piede in America sette anni prima, odiavo tutto e tutti. Ero appena tornata a vivere, i miei amici mi avevano appena ritrovata e mio padre fu trasferito due mesi dopo. Eppure ero cambiata. Certo, a volte (diciamo anche sempre) facevo la pazza e mi comportavo da bambina. Pensare a come mi ero ridotta per la morte di Giacomo mi faceva ancora soffrire: avevo una cicatrice al polso e al cuore che non sarebbero mai scomparse, ma ne ero contenta. Tutte le ferite aiutano a diventare maturi e più forti, proprio quello che ero.

Sirak si girò appena mi avvicinai. Non stava sorridendo e i suoi occhi nocciola, normalmente caldi e accoglienti, erano oscurati dalla poca luce.

L'ansia che avevo provato poco prima si fece di nuovo strada in me.

Sempre puntuale, vero?” mi disse, cercando di sorridere. Eppure qualcosa lo bloccava, forse il senso di colpa per quello che avrebbe fatto.

Già...anche se un po' di corsa, ce l'ho fatta!” dissi, senza neanche tentare di nascondere i miei sentimenti, che lui capì benissimo. Infatti si avvicinò a me e mi baciò. Qualcosa si mosse in me e non ci misi due secondi a rispondere a quel bacio.

Quando ci staccammo, la preoccupazione e freddezza che avevo letto poco prima erano scomparsi per lasciare spazio ad un sorriso caldo.

Mi prese per mano e mi condusse al davanzale che percorreva il perimetro del palazzo. Mi appoggia con tutte e due le mani e guardai giù: la vista era meravigliosa. C'erano migliaia di luci e a quell' altezza le persone sembravano formichine. Spostai il mio sguardo verso l'alto. Le stelle e la Luna illuminavano il cielo.

Intanto Sirak mi stava abbracciando da dietro. Appoggiai la testa al petto, completamente al sicuro tra le sue braccia.

La prima volta che ti chiesi di uscire, la tua risposta fu 'Neanche per idea, stupido atleta montato!'” sussurrò al mio orecchio, ridendo. Iniziai a ridere anche io al ricordo di quei magnifici tempi. “Non era colpa mia se ti comportavi da atleta super figo ogni volta che mi parlavi! Mi davi sui nervi e ho anche minacciato e tentato di uccidere Lotte per averci fatto incontrare!” gli ricordai, ridendo come una matta.

Lo odiavo con tutto il mio cuore eppure lui non demordeva: mi chiedeva di uscire tre volte al giorno e, dopo un mese di avance, dissi di si per disperazione.

Sirak mi strinse di più a sé. “Volevo fare colpo! Scusa se ti ho amata dal primo momento in cui ti ho vista e tu invece mi hai iniziato ad odiare! Eppure hai ceduto ed è qui che è avvenuto il nostro primo appuntamento. Te lo ricordi?” mi chiese.

Ovvio! Avevi messo un tavolo e due sedie, apparecchiato con bicchieri di cristallo e candele per cenare a lume di candela. Pensavo di morire per il troppo romanticismo. Eppure mi sono divertita. Ma non per il posto, ma perchè mi avevi mostrato il vero Sirak. E poi ci siamo baciati con i fuochi d'artificio in cielo” continuai a raccontare.

Ci credi che è passato esattamente un anno da quel giorno? Eppure ti amo come il primo giorno e oggi ho deciso di dirti qualcosa di importante. Beh, non proprio dirti.” disse.

Mi girai a guardarlo, confusa dalle sue parole. Ma lui mi fece girare e quello che vidi mi fece morire sul posto.

C'erano fuochi d'artificio e questi creavano una frase: “Martina, sposami!”. Lacrime iniziarono a scendere dai miei occhi e in quel momento capii l'agitazione che avevo letto nei suoi occhi: aveva paura che io potessi respingerlo. Non era sicuro dei miei sentimenti per lui forse? Non mi creeva quando gli dicevo che lo amavo? Le lacrime di gioia diventarono di rabbia. Mi girai pronta a prenderlo a schiaffi quando notai che non mi stava più abbracciando. Era inginocchiato con una scatolina aperta in mano. Dentro faceva bella mostra di sé un anello di fidanzamento. Era bellissimo: era d'argento (o forse oro bianco, non me ne intendevo molto) con un diamante al centro. Il diamante non era di dimensioni esagerate, ma era lo stesso bellissimo. Piccoli diamanti lo circondavano e lo facevano brillare di luce riflessa.

Non dissi niente per cinque minuti, non pensavo niente. Mi sembrava di essere tornata indietro negli anni, quando la depressione non mi permetteva neanche di pensare decentemente.

Guardai Sirak: il sorriso che gli aveva illuminato il viso stava scomparendo pian piano. I suoi occhi erano pieni di preoccupazione e ansia.

Mi inginnocchiai piano. Presi l'anello e lo misi al dito. Sirak sospirò felice: non sapeva quello che sarebbe successo di lì a pochi secondi.

Caricai il braccio e gli tirai un schiaffo che gli lasciò il segno rosso della mia mano. Si alzò in fretta, con le mani sulla guancia colpita. Anche io mi alzai, togliendo alcune lacrime dalla mia faccia. Avevo smesso di piangere e non potevo credere che uno dei momenti più belli della mia vita fosse stato rovinato da un'idiota che non si fida di me. Fantastico.

Ma che diavolo ti è preso? Ti sei rincoglionita tutto di un botto? Cosa vuoi fare? Tenere l'anello e lasciarmi?? Fai pure, tanto sto benissimo senza di te!” mi urlò ad un centimetro dalla mia faccia. Aveva lasciato libera la guancia e ora aveva le braccia ai lati del corpo, i pugni stretti.

Risposi con una calma che in realtà non provavo: “Quando sono arrivata, eri preoccupato. Non sapevi se avrei detto di si oppure no. Non ti fidi di me. Ti amo. Cosa provi quando te lo dico? Cosa pensi quando te lo dico? Lo so io. Oddio, questa qua me lo dice tutti i giorni ma so che non lo pensa davvero! Sta con me solo per la mia fama!”.

Lui mi guardò sorpreso e poi scoppiò a ridere. La mia irritazione crebbe ancora di più: lui rideva quando facevo discorsi seri? Idiota di un tennista!

Mi prese il viso tra le mani e mi baciò: non potei fare a meno di rispondere. Quel tennista da strapazzo aveva il potere di farmi sentire in paradiso con una carezza e in inferno con una parola.

Quando si staccò, appoggiò la sua fronte alla mia. “Ero preoccupato che tu mi dicessi 'Sirak, ti amo, ma siamo troppo giovani! Aspettiamo un po', insomma, ho un libro da finire e soldi da fare!'. Ci siamo capiti solo male, amore mio” mi disse, sorridendo.

In quel momento mi sentii un'idiota: IO avevo rovinato uno dei più bei momenti della mia vita. Che idiota che ero.

Sono una scema. Io...io ho rovinato tutto! Scusa amore, scusa, scusa, scusa” dissi, baciandolo ad ogni scusa che dicevo.

Quindi ci sposiamo?” mi chiese. “Ovvio!” risposi.

Mi prese in braccio e iniziò a girare su sé stesso. “Sono felice che tu abbia capito male, almeno quando racconteremo di stasera la gente sentirà qualcosa di originale e non il solito 'Si, oh, ti amo!'” disse il mio futuro marito, mettendomi giù.

Risi e poi lo baciai cercando di trasmettere tutti i sentimenti che stavo provando.

Senti amore, possiamo andare a mangiare? Ho fame!” gli dissi. “Eh te pareva! Ti stavo aspettando!” disse, prendendomi per mano e iniziando a camminare verso le scale.

So che dovrei prendermela ma sono troppo felice” dissi, abbracciandolo.

E così iniziò la mia vita da donna. Tutto ciò che avevo passato, tutte le persone che avevo perso, mia avevano fatta crescere e diventare una persona forte, indipendente e di successo. Avevo trovato il vero amore. Sirak sapeva che Giacomo avrebbe sempre tenuto un posticino nel mio cuore, ma non era geloso. Non avrei mai potuto dimenticare il mio primo amore e, anche se a volte mi sentivo ancora in colpa, guardavo la cicatrice sul mio polso e pensavo a quella sul mio cuore: avevo sofferto abbastanza ed era ora che fossi felice, completamente.

 

Ciao a tutti!

È da tanto che non posto, ma la scuola non mi ha dato tregua. Ecco la fine della mia prima storia pubblicata su EFP: mi sento completa e appagata perchè, nonostante io non abbia ricevuto tanti commenti e successo, ho portato ha termine un progetto di cui sono fiera.

Ringrazio tutti quanti e spero di vedervi con le prossime storie.

Baci,

 

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