A State of Love and Darkness di Angeline Farewell (/viewuser.php?uid=105722)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
A
state of love and
darkness.
17. 07. 2008
La sindrome del foglio bianco colpisce solo chi non
ha niente da dire,
me ne accorgo adesso. Perché ora, forse per la prima volta
in quarantatre anni,
non ho davvero più niente da dire ed il bianco mi circonda e
mi sovrasta.
Mi
dispiace sarebbe troppo scontato e banale,
però forse sono le uniche parole
spendibili: seriamente, mi dispiace. Per la mia bambina, per quella che
sta
arrivando, per l’amore che non sono riuscito a portare
all’altare, per i
quattro santi che mi hanno sopportato e supportato fino ad ora, per
quasi
vent’anni tra alti vertiginosi e bassi disastrosi. Per mia
madre che ne vedrà
andar via un altro, stavolta senza nemmeno essere preparata a dovere.
Nemmeno io ero preparato a dovere.
Vent’anni fa, paradossalmente, lo
sarei stato di più. L’avrei capito meno, ma mi
sarebbe sembrato anche più plausibile. Ma vent’anni fa ero un cazzone come
tutti
quelli della mia generazione, quella X ce l’avevamo stampata
sulla fronte come
un marchio d’idiozia, probabilmente, e morire giovani ci
sembrava un traguardo
più che appetibile.
Però, insomma… Dopo che Kurt
se n’è andato
in quel modo assurdo, un pensierino sul vivere un po’ di
più, a provare a
campare decentemente un po’ di più, io
l’avevo fatto, sul serio. Volevo davvero
invecchiare. Vedere i capelli bianchi, le rughe, la pancia che avanza e
poi
cede del tutto, il respiro che si spezza dopo l’ennesima
uscita sulla tavola
nell’acqua gelata di gennaio. Ci stavo finalmente arrivando,
quel traguardo, a
quarantatre anni, non lo vedi più così lontano, e
a me non faceva paura, dopo
la nascita di Olli avevo cominciato ad accarezzarlo come una meta
ambita. Ero
cresciuto anch’io, insomma.
Invece niente da fare. L’ultima nota mi
si è spezzata in gola a metà,
non credo riuscirò a tirar fuori altro stasera, ed anche per
questo dovrei dire
mi dispiace. In compenso, anche se non sento quasi più
niente, le urla della
folla continuano a raggiungermi. Da dove però, onestamente,
non credo di
saperlo più.
17.
07. 1994
Madeleine
Kelly aveva ventidue
anni e poco tempo a disposizione.
Non
era quel che avresti detto
una bella ragazza, troppo anonima e incolore si mimetizzava nel
grigiore di
Seattle come una goccia di pioggia tra le tante. Eppure, a soli
ventidue anni, Madeleine
aveva già due figli da accudire e soprattutto mantenere. Due
figli che avevano
due padri diversi che non si erano mai premurati nemmeno di conoscerli,
figurarsi di sganciare un solo dollaro per il mantenimento.
Madeleine
era sempre stata una
ragazza chiusa, talmente timida da sembrare praticamente tonta
– e forse un po’ lo era
davvero – e senza
particolari attrattive se non, appunto, quella di essere una ragazza,
una
femmina adolescente. E a Grayland era
già
tantissimo.
Era
una cittadina orribile,
Grayland, grigia come suggeriva il nome, nemmeno il verde dei campi e
del bosco
che la circondava riusciva ad emergere nell’appiattimento
triste di quel
microscopico agglomerato urbano. Ed era piovosa, cupa, povera. Piccola
soprattutto, troppo per contenere qualunque cosa: meno di mille anime
incastrate tra un pezzo ferroso d’oceano e i campi, nemmeno
la statale arrivava
in quel buco.
La
101 si fermava ad Aberdeen,
proseguiva per Raymond, ma nessuno aveva mai pensato fosse necessario
collegare
Grayland al resto dello stato, come se nemmeno fosse parte della
contea. Cittadina inutile, cittadina di
vecchi.
Però
Madeleine era giovane e le
ragazze a Grayland scarseggiavano. Quindi anche la piccola e scialba
Madeleine
Kelly ebbe il suo invito per il ballo di fine anno, ebbe la sua
orchidea
appuntata al polso, il suo vestito di tulle, la foto di rito.
Così come
l’altrettanto rituale sbronza: ricordava vagamente persino il
dolore del
frettoloso rapporto sessuale che era seguito sul retro della palestra,
incastrata tra un rastrello e un mucchio di foglie secche impregnate di
umidità.
Ricordava
molto di più il dolore
lancinante che nove mesi dopo l’aveva costretta ad allargare
le gambe per la
seconda volta in vita sua, stavolta per far venir fuori il frutto di
quella
sveltina inutile.
Madeleine
aveva appena diciotto
anni quando era nato Sean e l’unica cosa che ricordava di
quel giorno era una
radiolina accesa in sala parto che passava una canzone che non aveva
mai
sentito prima, ma sembrava le stesse parlando: sei
ancora viva, no? Nonostante tutto sei ancora viva.
Ryan
era arrivato nemmeno due
anni dopo e neppure di quel rapporto Madeleine aveva grandi ricordi. In
quel
periodo lavorava alla pensione del signor Walsh che da bravo cattolico
qual’era, aveva cristianamente chiuso un occhio sul fatto
fosse una sgualdrina
e l’aveva assunta come cameriera permettendole
così di mantenere un figlio che
non sapeva neppure bene come prendere in braccio: Madeleine aveva una
famiglia,
ma le era proibito persino guardarli in faccia per strada, figurarsi
chiedere sostegno.
Solo sua sorella maggiore aveva tentato di aiutarla passandole qualche
dollaro
quando poteva, ma Madeleine aveva smesso di accettarli quando
– ormai
all’ottavo mese della prima gravidanza – Eileen era
stata ricoverata in ospedale
e ne aveva avuto per una settimana. Era caduta dalle scale, dicevano.
I
Kelly non erano cattive
persone, ma erano poveri, chiusi in una morale cattolica da clan del
secolo
scorso, non si erano mai davvero integrati nel tessuto sociale
americano ed
avevano pochissimi rapporti persino con la piccolissima
comunità irlandese
della cittadina. Una figlia diciottenne che rimane incinta del primo
che capita
era stata una vergogna che non avevano saputo né accettare
né perdonare, quindi
Madeleine era stata completamente dimenticata, cancellata dal clan. E
aveva
dovuto cavarsela da sola.
Ma
Ryan, appunto.
Madeleine
– che era sempre stata chiamata da
tutti solo Madeleine, benché fosse un
nome antiquato e nemmeno comodo da portare: semplicemente, a nessuno
era mai interessato
darle diminutivi affettuosi. – non aveva avuto
altri ragazzi dopo la
nascita di Sean, anzi, i più la ignoravano volutamente, era
diventata ancor più
invisibile a dispetto del seno inaspettatamente sbocciato con la
maternità ed
ai fianchi più generosi e finalmente femminili: ma aveva
diciotto anni ed un
figlio a carico, nessuno si sarebbe imbarcato in una relazione con tali
premesse, tanto più se il soggetto in questione era
Madeleine Kelly, quella
strana, quella stupida, quella che dopo il parto aveva cominciato a
girare con
il walkman perennemente acceso camminando come se il resto del mondo
non
esistesse.
Eppure Ryan era arrivato, era nato in una notte di
mare grosso che
aveva quasi mangiato l’intera spiaggia di Grayland
nell’autunno del
millenovecentonovantatre.
Madeleine
non reggeva l’alcool e
lo sapevano tutti. Ed era tonta, era noto anche quello.
Per
festeggiare la Santa Pasqua,
il signor Walsh organizzava sempre un piccolo ricevimento ed invitava
non solo
i bravi irlandesi cattolici della comunità, ma anche gli altri: Nostro Signore era risorto per
tutti, in fondo.
Era
stato durante la festa nel
marzo di quell’anno che era successo, probabilmente proprio
sulla spiaggia
sulla quale l’aveva sorpresa addormentata l’alta
marea senza mutandine; era
tornata alla pensione coperta di sabbia e con l’abito
fradicio fino alla vita.
Agnes,
l’altra ragazza che di
solito divideva con lei i turni di pulizia delle camere,
l’aveva coperta con il
vecchio Walsh, mentre Sally si era occupata di Sean, che era stato
lavato e
nutrito a dovere, sicuramente meglio di come avrebbe fatto lei.
Le
due ragazze le avevano
ripetutamente chiesto cosa le fosse successo, dove fosse sparita per
così tante
ore, ma Madeleine non aveva saputo rispondere, conscia solo del fatto
che non
avrebbe dovuto bere tutti quei punch durante le pause e di avere un
terribile
mal di testa e la schiena a pezzi.
Poi, il mese successivo, non aveva avuto il ciclo,
e nemmeno quello
dopo.
Ryan
era nato con taglio cesareo a
causa di un’infezione vaginale che aveva preso
chissà come, ma Madeleine non si
era preoccupata più di tanto: sapeva che sarebbe andato
tutto bene, non era mai
stata tanto radiosa come da quando aveva scoperto di essere nuovamente
incinta.
La prova fosse matta, insomma.
In
città tutti, nessuno escluso,
pensavano fosse stupida, una specie di ritardata che ai test
attitudinali aveva
sempre preso punteggi bassissimi, che non riusciva a prendere una
sufficienza
nemmeno in economia domestica e che impiegava tantissimo a capire
quello che le
veniva spiegato. Al liceo, l’assistente sociale
l’aveva convocata nel suo
ufficio un paio di volte, aveva parlato con i suoi genitori, ma si era
arreso
molto presto: a Grayland in fondo non servivano grossi cervelli,
bastavano un
paio di braccia in più per la terra, Madeleine sarebbe stata
perfetta in
quello.
Ma
non le importava cosa dicevano
gli altri, pensassero quel che volevano: lei
sapeva che prima o poi sarebbe successo, sapeva che lui l’avrebbe raggiunta.
Di
nuovo.
Madeleine
non ne aveva mai
parlato con nessuno, era il suo segreto. In realtà non
avrebbe proprio saputo a
chi raccontarlo, non aveva nessuna amica, nemmeno Sally e Agnes lo
erano.
L’aiutavano per compassione, per Sean, perché
anche loro pensavano fosse un po’
tonta, ma avevano abbastanza buon cuore dal non farglielo pesare,
niente di
più. Madeleine era sempre stata sostanzialmente sola anche
prima che la sua
famiglia la mettesse alla porta.
Ma
era cambiato tutto, Ryan era
la prova che aveva ragione, che non si era illusa, che lui
la stava davvero aspettando.
Il
giorno della nascita di Sean, Alive
non era ancora una hit e Pearl Jam
erano solo due parole senza senso, ma le radio dello stato di
Washington erano
attente alle ultime novità della scena locale, soprattutto
quelle della rete
universitaria, per questo Madeleine era riuscita ad ascoltarla anche
lì a
Grayland.
Non
se n’era accorta subito, era
sempre stata lenta in fondo, ma lui
le stava parlando, già allora, mentre spingeva e urlava con
tutte le sue forze
pregando Dio perché la uccidesse lì,
all’istante, tutto pur di smettere di
soffrire in quel modo. Ma era vero, una volta che il bambino
è nato, il dolore
viene dimenticato, nel suo caso però, non era stata la vista
di Sean a farle
dimenticare le sofferenze terribili patite fino a pochi secondi prima:
era
stata la voce filodiffusa in sala che le arrivava attutita, ma potente
e
vischiosa come ambra.
Quella
voce, in quell’istante
orribile in cui si sentiva la spoglia vuota di un insetto,
l’aveva avvolta come
una coperta calda, come un fiume di resina collosa l’aveva
rinchiusa in un
ventre umido e materno dal quale non voleva uscire.
Madeleine
aveva comprato Ten dopo appena una
settimana e dopo due
aveva già quasi consumato il nastro della cassetta. Dopo un mese aveva scritto la prima lettera della
sua vita ed era
cominciato tutto.
Lui non era come veniva presentato in tv,
non era una persona
scostante, non era scorbutico o lunatico o violento. Lui
era dolce e Madeleine lo sapeva bene.
Quando
nel dicembre del 1991 Madeleine
aveva scritto quella lettera, in verità non si aspettava
molto in cambio.
Però,
dopo qualche settimana,
nella cassetta delle lettere aveva trovato qualcosa di diverso dalle
solite
bollette: lui le aveva risposto
davvero.
Così
come poi aveva risposto alla
seconda, alla terza, alla quarta lettera. Passava sempre un
po’ più tempo tra
una risposta e l’altra, ma arrivava.
A
Madeleine sembrava lui la
conoscesse da sempre, ogni volta
sapeva cosa dirle per farla sentire meglio, aveva sempre una parola
gentile.
E non l’aveva mai
chiamata
Madeleine. Per lui, lei era Maddie.
Lui era stata la prima persona a non
usare il suo nome per intero,
il primo ad interessarsi tanto a lei da regalargliene un altro.
Madeleine,
a dispetto dei suoi
disgraziati diciotto anni da ragazza madre, poteva dirsi addirittura
felice,
aveva letto e riletto quei fogli coperti di una scrittura fitta e
minuta fino a
consumarli, fino ad imparare a memoria ogni parola, lei che non era mai
riuscita a ricordare nemmeno le date della guerra di Secessione.
Di
sera, dopo il lavoro, guardava
Sean, lo allattava tenendolo sulle ginocchia come le avevano insegnato
le
infermiere di ostetricia, e silenziosamente sognava che avesse lui come padre.
Eddie aveva degli occhi meravigliosi, Eddie aveva un così bel viso e
una voce così dolce; Eddie
sarebbe stato un padre stupendo
per Sean, sapeva che lui non l’avrebbe mai abbandonato, non
avrebbe mai
abbandonato lei.
Madeleine
nemmeno sapeva chi l’avesse
messa incinta, Josh Kinney – che l’aveva
accompagnata al ballo - si era
immediatamente tirato fuori affermando che, a metà della
festa, l’aveva persa
di vista ed era stato insieme ad Alice Cooper, Sten Meyer e Cathy
Nowak, e i
tre avevano confermato la sua versione. E poi lo sapevano tutti che
Josh l’aveva
invitata solo per non andarci da solo visto che le ragazze
più carine erano già
prese: almeno la tonta non portava gli occhiali o
l’apparecchio per i denti.
Madeleine
non voleva sapere chi
fosse in realtà il padre di Sean, così come non
le interessava chi fosse quello
di Ryan, perché era sicura fosse stato l’oceano a
portarglieli. E l’oceano era lui,
lui che lo cavalcava e lo cantava e
lo viveva.
Non
sapeva bene quando quella
consapevolezza si fosse alla fine impadronita di lei, ma sapeva di non
sbagliarsi,
le prove erano lampanti, non era riuscita a coglierle solo
perché – lo dicevano
tutti, in fondo – era lenta:
ma Eddie l’aveva pazientemente aspettata, l’aveva
meticolosamente istradata, ed
alla fine aveva capito.
La
prova definitiva l’aveva avuta
ascoltando Vs. dopo la nascita di
Ryan, se pure le fosse rimasto qualche dubbio residuo, Eddie si era
premurato
di rassicurarla: Daughter era
stata scritta per lei, Eddie sapeva, Eddie sentiva
tutto quello che sentiva lei. Madeleine aveva ascoltato quella canzone
ed era
scoppiata a piangere, quelle maledette imposte che calavano le
ricordava ancora
perfettamente, ricordava benissimo il rumore secco ed il buio che poi
l’avvolgeva; i panni sporchi vanno
lavati
in famiglia, non occorre altri sappiano.
Era
stata sciocca a non capirlo
prima, stupida ad aver pensato gli occhi chiari di Sean e Ryan avessero
qualcosa a che fare con l’azzurro slavato dei Kelly che
comunque a lei non era
toccato. I suoi bambini erano speciali, erano piccoli principi
concesseli dal Re che stava
richiamando la sua Maddalena.
Ed
Eddie era il re di quell’epoca
senza forma e senza Dio la cui corona era un elmetto arrugginito, la
cui spada
era una matita mezza mangiucchiata.
Per
questo un giorno aveva preso
i bambini, aveva caricato nella sua vecchia macchina i pochi abiti e le
poche
cose che possedeva, e si era diretta a nord, verso Aberdeen, verso la
Statale
che l’avrebbe condotta a lui.
Le
cose non erano andate subito
bene, Seattle era una città enorme, e Madeleine non era mai
davvero uscita da
Grayland se non per la scuola o per fare spese ad Aberdeen o a Raymond.
Aveva
usato i pochi soldi che
aveva risparmiato per le emergenze per prendere in affitto una
squallidissima
camera in un motel nella zona del porto, non esattamente delle
più tranquille,
ma non le importava più di tanto. Anche se le era sempre
stato detto non fosse
esattamente una bellezza, ormai sapeva che gli altri si erano sempre
sbagliati,
perché lui
l’aveva scelta, in fondo,
quindi era speciale. Forse fu quella nuova consapevolezza basata sul
nulla a
darle il coraggio di entrare davvero nelle bettole del porto e delle
zone
limitrofe per cercare un lavoro – uno
qualunque – ed a darle una sicurezza sfacciata che
non passava inosservata.
Ottenne
un lavoro come cameriera
in una birreria poco distante dal motel dove viveva e, facendo i turni
di
notte, poteva permettersi di andare in giro durante il giorno: sapeva
che lui la stava aspettando, ma non
sapeva
ancora come fargli sapere che lei aveva capito, che era pronta,
probabilmente
non gli lasciavano più leggere la posta, perché
erano mesi che non rispondeva
più alle lettere che – puntualmente ogni
mercoledì e venerdì – gli spediva.
Forse la stava mettendo alla prova.
Non
aveva importanza, per il
momento si sarebbe accontentata di accudire i suoi figli raccontando
loro di
quanto fosse meraviglioso il loro papà, di quanto la loro
vita sarebbe stata
perfetta una volta che si fossero riuniti.
Intanto
il
millenovecentonovantaquattro era arrivato con il suo carico di
nevischio sporco
e freddo pungente, portando novità che a Madeleine non erano
piaciute.
Eddie
continuava a giocare con
lei, continuava a non farsi trovare, continuava a farsi vedere in giro
con quella.
E
le sfuggiva, fingeva di non
vederla per strada quando lo incrociava – non molto
– fortuitamente, continuava
a non rispondere alle sue lettere, aveva trasformato la sua casa in una
fortezza.
Eppure
lui lo sapeva, doveva saperlo ormai
che lei era a
Seattle, che era lì per lui.
Sean
stava diventando sempre più
grande e cominciava a chiedere di quando avrebbe potuto conoscere suo
padre e
lei glielo aveva detto, glielo aveva scritto che non sapeva
più cosa rispondere
al loro bambino. Perché continuava a giocare con lei,
perché la metteva ancora
alla prova?
Aveva
fatto tutto quello che
doveva, tutto quello che lui le aveva chiesto costringendola a
decifrare
messaggi sempre più sottili ed ambigui, ma lei aveva capito,
stava crescendo i
suoi figli nel miglior modo possibile, nel culto del loro meraviglioso
padre.
E
aveva continuato ad amarlo ogni
giorno, aveva pregato ogni giorno davanti a quella croce che non
rendeva merito
alla sua bellezza, continuava a preservarsi per lui e per lui soltanto,
stornando le offerte degli avventori del locale in cui lavorava.
Per
quanto si sforzasse non
riusciva a capire.
Intanto
i mesi passavano, quello
stupido di Cobain era stato trovato morto pochi giorni dopo la Santa
Pasqua ed
il mondo ancora non aveva capito che era un falso profeta: era morto il giorno dopo la festa della
Resurrezione, non era un indizio
sufficiente?
Erano
tutti degli stupidi, e
quella era la fine che quel pallone gonfiato si era meritato per aver
detto
quelle cose orribili su Eddie.
Forse era stato proprio Eddie a…
Tremò
a quel pensiero, ma era un
brivido di piacere, quasi il potere del padre dei suoi figli le stesse
nuovamente scivolando dentro.
Forse
anche quello era un segno,
le stava chiedendo di attendere. Avrebbe atteso.
Madeleine
attese fino al tre
giugno del millenovecentonovantaquattro, data in cui il suo mondo
crollò. Eddie
si era sposato con quella. Eddie
l’aveva abbandonata, aveva abbandonato lei e i loro bambini
per un’orrenda
sciacquetta bruna ed aveva osato sbatterglielo in faccia in quel modo
orribile.
Perché lui lo sapeva che lei era
membra
del TenClub, lo sapeva eccome, per quello aveva fatto spedire in
ritardo il
vinile che ogni Natale regalavano ai fans, per poter allegare quella
lettera, voleva dividere il momento con
loro, lui.
Madeleine
Kelly era arrabbiata.
Era furiosa. Madeleine Kelly si tagliò i lunghissimi capelli
rossi quasi a zero,
non voleva più essere una Maddalena da dipinto, e
scoprì di essere di nuovo
brutta. Madeleine Kelly guardò i suoi figli, ma finse di non
cogliere il
bagliore verde acqua negli occhi di Sean, gli occhi di Josh Kinney.
Madeleine Kelly non aveva nessuna intenzione di
rinunciare al padre dei
suoi figli, all’unico accettabile.
Fu
per quello che, un caldo e
appiccicoso pomeriggio di luglio, Madeleine lasciò i bambini
ad una vicina,
prese l’auto e si diresse verso quella che avrebbe dovuto
essere casa sua, non dell’altra.
Non
vollero farla entrare, le
dissero persino che Eddie comunque non
era in casa, che era a Washington con il resto del gruppo, che
c’era la
testimonianza davanti al Congresso e, cosa, non li leggeva i giornali?
A
Madeleine non importava più
nulla dei giornali, non voleva più vedere il suo viso
tramite una foto, la
faceva stare troppo male. Voleva guardarlo in faccia, voleva guardarlo
negli
occhi e trovare il colore di quelli di Sean e Ryan.
Era
tornata indietro solo per
fare inversione ad u, premere l’acceleratore a tavoletta e
cercare di forzare
il cancello d’ingresso.
Forse
le lacrime le avevano
annebbiato la vista, però, perché
sbagliò mira e non fu esattamente il cancello
che divelse.
Almeno
così le dissero qualche
giorno dopo all’ospedale, quando Madeleine si
svegliò coperta di bende e con
dolori atroci in tutto il corpo. Ma nessuno volle credere al suo, di
racconto.
Nessuno volle chiamare Eddie per farlo andare da lei, nessuno le
permise mai
più di rivedere i suoi bambini.
Tutto
quello che per anni le fu
concesso, dal giorno del ricovero in poi, fu di fingere. Fingere di
aver
capito, fingere di sapere di essere malata e di voler guarire, fingere
di aver
superato un’ossessione senza motivo.
Era stato lo stesso Eddie, in fondo, a spiegarle
come uscire da quella
situazione.
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Capitolo 2 *** 2 ***
17.07.2008
Sono passati quasi quindici anni da quel giorno,
dal giorno in cui mi
hai tradita. Sono passati quasi quindici anni dal giorno in cui mi
hanno
rinchiusa tra quattro mura bianche senza nemmeno la consolazione di un
crocifisso. O di un prete. Ma il cappellano dell’ospedale si
era rifiutato di
venire da me dopo i primi colloqui, secondo lui non ero malata.
Ed aveva ragione, io non sono mai stata malata, eri
tu, bastardo, che continuavi a
perseguitarmi anche lì,
anche senza l’utilizzo di televisori, radio e giornali che mi
erano preclusi:
ma io vedevo tuoi segni ovunque, tu
eri ovunque, proprio come diceva la Bibbia.
Lo dissi al cappellano e lui non volle
più venire da me, disse – appunto – che non ero malata, ero
un’indemoniata.
Stupido
prete.
Lui non capiva, esattamente come non capiva
nessuno, Eddie.
Nemmeno tu hai capito, probabilmente,
perché continui a comportarti
come un uomo quando sappiamo benissimo che non sei solo questo. Questo
mondo ti
sta corrompendo, ti sei circondato di peccatori senza morale, mio Dio,
drogati,
punk, omosessuali…
Ma ho seguito il tuo primo consiglio, sono stata
attenta ad ogni
dettaglio. Ci ho messo quasi dieci anni per convincerli, ma alla fine
ci sono
riuscita.
Complimenti
signorina Kelly, lei
ce l’ha fatta, è completamente guarita, raramente
abbiamo riscontrato una
regressione tale nella sindrome di De Clérambault e blah
blah blah.
Ho smesso di ascoltare quel pomposo pallone
gonfiato in camice bianco
immediatamente dopo i complimenti, mi sono dovuta mordere la lingua a
sangue
per non urlare di gioia in faccia a quell’idiota.
Invece mi sono finta mite, arrendevole, grata.
Come mi volevano
loro.
Ho giocato al loro gioco, stando alle loro regole,
ed ho vinto. Sono
fuori, niente più medicine e ronde e infermiere stronze. Il
laccio è
caduto.
Però non so dove sono i nostri bambini,
me li hanno portati via mentre
ero in ospedale per darli in adozione: io, io che sono la
loro madre, secondo loro non sarei stata in
grado di
occuparmene.
Non hanno voluto dirmi dove sono, da chi sono stati
adottati, se stanno
bene.
Non ho mai capito perché non li hanno
piuttosto affidati a te, ma
probabilmente non hai voluto, vero? Perché sei un bugiardo
ed hai buttato via
loro esattamente come hai fatto con me.
Ma non può finire così, non
dopo quello che c’è stato tra noi, non dopo
le notti insonni e i sogni e la musica che hai suonato, lo so, solo per me.
Questa
sera sarò il tuo Getsemani
e finalmente saremo di nuovo insieme.
17.04.1994
Eddie
Vedder aveva creduto di
essere pronto.
Quando
il successo lo aveva raggiunto
e praticamente sepolto aveva quasi ventisette anni, era un uomo adulto,
insomma.
Eddie
Vedder aveva cominciato a
vivere da solo che non aveva ancora sedici anni, pagava le bollette per
conto
suo e non mancava un affitto, era tornato a vivere con sua madre solo
per poter
anche finire il liceo. Non aveva smesso di lavorare, solo che a quel
punto lo
faceva soprattutto per dare qualche agio in più a se stesso
e ai suoi fratelli
minori.
Quando
il successo gli era
arrivato addosso credeva che sarebbe stato semplice maneggiarlo, in
fondo aveva
visto di peggio: mai provato a lavorare
in un drugstore fino alle cinque del mattino per essere poi
puntualmente in
classe alle otto?
Insomma,
aveva vissuto parecchio
per farsi sconvolgere da tanto poco. Ma questo, appunto, lo credeva
lui.
Quando
il successo, quello vero,
quello grosso e urlante, l’aveva raggiunto, Eddie Vedder ne
era rimasto
stupito. Semplicemente quello. Un po’ perché non
se ne aspettava tanto, un po’
perché davanti agli occhi continuavano a passargli in parata
immagini di Bruce
Springsteen e Neil Young e Jim Morrison e Bono Vox e mille altri e non
riusciva
a trovare in se stesso la loro stessa naturalezza, la loro
tranquillità. Il loro
coraggio, forse.
Eddie
credeva sarebbe stato
felice una volta che il disco fosse uscito, a lui piaceva suonare e
cantare su
un palco, gli piaceva sentir urlare ragazzi come lui, guardarli pogare
e
strusciarsi e sentire la nostalgia di giorni nemmeno troppo lontani. La musica era quello, suonarla solo nel
chiuso di uno studio era inutile, andava vissuta.
Ma
il successo aveva troppe facce
che non aveva considerato.
Il
successo era anche un tubo
catodico che ti risucchiava, un microfono nel quale pretendevano tu non
cantassi ma parlassi, era la faccia
di un tizio che ti guardava con sufficienza per poi farti domande
stupide.
Era
la folla che si accalcava
sotto il palco, certo, e quello andava bene. Ma era anche la folla che
ti
circondava in strada mentre andavi a prendere un caffè,
quasi volesse
mangiarti.
La
folla dei concerti aveva un
volto, ne aveva tantissimi e tutti diversi, erano maschi ed erano
femmine ed
erano capelli lunghi e corti, lui riusciva sempre a vederli, aveva
imparato a
guardarli, a cercare i loro occhi e scoprirsi nelle loro pupille. In
strada non
era così: quella folla aveva un volto solo, una voce sola,
era un corpo unico,
era un gigante di carne che cercava il suo Pollicino. Eddie riusciva a
vedere
solo una grande bocca rossa che gli urlava addosso frasi senza senso e
senza
costrutto, frasi in cui il soggetto era sempre un Eddie
Eddie Eddie ripetuto allo stremo, tanto che quel nome non gli
sembrava quasi più il suo. Lo
stavano
mangiando.
Non
era proprio sempre stato
così. Quando avevano cominciato – quando
avevano venduto poco più dei quarantamila dischi che
avrebbero permesso loro di
inciderne un altro – era tutto diverso, MTV
non li aveva ancora scoperti, Rolling
Stone non li aveva ancora scoperti. C’erano riviste
interessate e tv locali,
anche, ovvio, ma tutto era rimasto decisamente underground. Non se ne
chiacchierava troppo oltre le live house, quello era il punto, ed a
loro stava
benissimo anche così.
Allora i fans non facevano paura, non erano ancora
un corpo unico con
mille braccia pronte a strapparti la carne. La tua.
Eddie
si fermava sempre a parlare
con un po’ di ragazzi dopo i concerti, o per strada, o ai
festival. Era
divertente, era bello ascoltarli ed ascoltarsi, sedersi con loro a
prendere una
birra e pensare che andava tutto bene, lui andava bene sul serio, una
volta
tanto. Era bello vederli felici per qualcosa che aveva fatto lui.
Leggeva
ogni singola lettera che
veniva indirizzata al loro neonato fanclub – che
poi era semplicemente il solito magazzino in cui provavano
– e
cercava di rispondere a tutti nel miglior modo possibile.
Perché quei ragazzi
sembravano fidarsi di lui, sembravano sentire quello che sentiva lui e
allora
non poteva lasciarli soli. Sarebbe stato
meno solo anche lui.
Eddie
non ricordava esattamente
quando tutto era cambiato. Il fatto era fosse successo praticamente da
un
giorno all’altro, un giorno suonavano in una live house da
cinquecento persone,
il giorno dopo in sale da cinquemila.
E poi erano stati i cinquantamila del Lollapalooza.
E
volevano loro. Urlavano il loro
nome, il suo nome, tutti insieme. In quel
momento non aveva realizzato davvero cosa sarebbe successo poi, cosa si
stava
muovendo sotto di lui; in quel momento, quando cinquantamila braccia si
erano tese
verso di lui incitandolo a lanciarsi, a fidarsi di loro, lui
l’aveva fatto. Si
era lanciato, si era fatto accogliere da quegli sconosciuti che avevano
continuato ad urlare e a cantare e a sorreggerlo fino a riportarlo sul
palco
perché cantasse ancora la sua follia e la loro.
Ed era stato bellissimo.
L’adrenalina
in circolo gli aveva
impedito di pensare linearmente, gli aveva impedito di guardare davvero
ciò che
stava vedendo e che non avrebbe più visto per anni dopo quel
concerto: aveva
sentito le loro braccia, le loro mani, le loro carni unirsi alla sua,
erano
vivi ed era vivo lui. I cinquantamila del Lollapalooza non erano ancora
diventati un indistinto fiume di carne e sudore senza nome che
reclamava il suo
sangue.
Ma
allora, nell’estate del
millenovecentonovantadue, Eddie ancora si sentiva uno della fossa: avrebbe continuato a sentirsi
così per molto tempo, le avrebbe addirittura prese dai
buttafuori al posto di
qualche incauto fan, ma tutto sarebbe finito entro pochi anni.
Perché
poi era arrivata lei.
Lei era una fan. Lei
era
giovanissima, lei aveva un mucchio
di
problemi e nessuno con cui parlarne. Lei,
però, non ci stava con la testa. E non se n'era accorto
nessuno. Non se n'era
accorto Eddie: l'aveva tratta dal mucchio, come nel mucchio aveva
pescato la
sua lettera e l’aveva letta, riletta e si era sentito male
per lei. Gli dispiaceva davvero.
Così
era cominciata quella
piccola corrispondenza apparentemente innocua.
In
realtà Eddie aveva archiviato
in fretta quella lettera, così come le numerose altre che
erano seguite, perché,
con l’aumento delle vendite e delle posizioni in classifica,
diventava dura
star dietro a tutto. Venivano sballottati come palle da bowling da un
lato
all’altro della Nazione, da un capo all’altro del
mondo, e non sempre era
divertente. E non era divertente perché non riuscivano a
capire, ma nessuno si
prendeva la briga di spiegar loro cosa stesse succedendo.
State andando forte siete in cima al mondo i
ragazzi vi adorano un
altro scatto per il prossimo numero un’altra domanda per i
nostri lettori.
Ma
quante domande avevano da
fare? Quante foto da scattare? Le immagini non trasmettevano musica, ma
loro
erano musicisti. Perché non li lasciavano suonare e cantare
e basta?
Dovete farvi conoscere, se non sanno che facce
avete come vi
riconosceranno?
Dalla
musica.
Le radio hanno fatto il loro tempo, MTV
è il futuro.
Ma
io non ce l’ho MTV.
Il resto del mondo sì.
Era
un mondo senza senso quello.
Ma
andava bene lo stesso, doveva
andare bene, l’avevano scelto loro, l’aveva deciso
lui che voleva cantare,
diventare un musicista. ‘Fanculo
tutto il
resto, giusto?
Potevano
farcela, potevano
resistere, stava andando tutto bene.
Intanto
le cose cambiavano però.
Intanto le luci cominciarono a non spegnersi più, i
microfoni a non
allontanarsi mai.
Durante
il primissimo stadio del
gruppo, Jeff e Eddie avevano cominciato a comporre e a dipingere
insieme: si
erano scoperti diversissimi ed affini, e quell’apparente
controsenso era stato
il terreno creativo che aveva nutrito un’amicizia –
e, per un certo tempo, un attaccamento quasi
infantile da parte di
Eddie – che li avrebbe accompagnati nel corso della
loro esistenza, tra gli
alti e bassi della vita e le asperità dei loro caratteri.
Era
musica che non facevano
ascoltare a nessuno, erano tele che tenevano per loro,
perché era tutto
rovesciato: il silenzio delle notti invernali di Seattle era diventato
la tela su
cui dipingevano le note lunghe e distorte che gli scorrevano nelle
vene, senza
senso e senza ragione, un flusso di coscienza che mutava nel colore di
una
melodia.
Registravano
tutto su nastri
vergini che poi nascondevano tra le pieghe dei borsoni che si portavano
in
tour, o tra gli scatoloni del magazzino-sala prove le cui pareti
tappezzarono
di disegni e polaroid; pochi tratti veloci e nervosi a ridare forma al
viso
spigoloso di Pete Townshed, spruzzi di blu e bianco e verde a ricreare
l’oceano
capriccioso di San Diego e del Messico, pennellate corpose e brunite,
quasi
senza sfumature, per il calvario di uno skater i cui sogni di colore
erano
stati inchiodati ad una croce: questi i frutti delle loro notti
insonni, tra i
fumi acidi di acrilici, oli e diossido di cromo.
Poi
non c’era più stato tempo,
non c’era più stato silenzio da riempire, solo
rumore da coprire con altro
rumore.
Eddie
non era abituato a quei
frastuoni, era abituato al respiro dell’oceano, era abituato
a coprire i rumori
con la musica. Era sempre stato così, fin da quando era
bambino: aveva nove
anni quando aveva scoperto che il tuono della voce di Roger Daltrey
poteva
diventare il perfetto silenzio in cui ripararsi dalla
quotidianità assordante e
litigiosa della sua famiglia.
Ma quando è la musica stessa a dare
origine al rumore, dove ci si può
rifugiare?
Eddie
non lo sapeva e nessuno del
gruppo, nemmeno Jeff, poteva aiutarlo. Neppure Beth ci riusciva sempre,
persino
lei diventava rumore da zittire scavando il fondo di una bottiglia. Non stava andando poi così bene.
Era
il millenovecentonovantatre
quando decisero che avrebbero dato un taglio al superfluo e quindi
niente più
immagini di troppo, niente più fotogrammi a far da cornice
alle loro note.
Niente di niente.
Era
il millenovecentonovantatre
quando Eddie decise che voleva darci un taglio, che, oltre ai capelli,
voleva
far cadere quella fama di cui non capiva i corollari.
Era
il millenovecentonovantatre
quando incontrò due persone che, loro e suo malgrado, si
erano legate a filo
doppio alla sua esistenza.
Incontrò prima Kurt.
In
realtà, quel backstage degli MTV
Music Award del
millenovecentonovantatre, non era stata la loro prima occasione di
conoscersi.
Ma Cobain lo odiava. Eddie sapeva benissimo cosa il cantante dei
Nirvana
pensasse di lui e, nonostante le rassicurazioni di chiunque, tutto quel
rumore
che lo circondava gli impediva di trovare una valida ragione per dargli
torto.
Poi
però, in quei microscopici
corridoi illuminati male, si erano incrociati. Potevano far finta di
niente,
fingere di non vedersi, persino cominciare a litigare dal vivo,
finalmente.
Invece
si erano guardati in
faccia per la prima volta e si erano visti davvero. Kurt si era tinto i
capelli, lo aveva fatto da solo mischiando chissà quanti
colori e sostanze e
non si riusciva a capire cosa avesse sulla testa; Eddie sulla testa
aveva un
caschetto militare di quelli d’acciaio, pesante e compatto.
Kurt stava cercando
di far sciogliere completamente il marcio che aveva in testa, Eddie di
trattenere quel che poteva esserci di buono, evitare che esplodesse
senza
preavviso.
Kurt
e Eddie si erano guardati in
faccia ed avevano visto riflessa nell’altro
l’immagine della loro stessa paura.
Semplicemente quello. Non era divertente.
Poi incontrò Lui.
Pete
Townshed allora aveva quasi
cinquant’anni, era un uomo adulto, un vecchio rocker con cui
il tempo non era
stato particolarmente clemente e non era mai stato una persona facile
con cui
trattare: in fondo se lo ricordavano tutti quello che aveva fatto a
Woodstock.
Ma se uno stronzo qualsiasi, ubriaco fradicio, ti sale sul palco mentre
stai
suonando davanti a cinquecentomila persone tentando di rubarti la
scena, non
c’è messaggio di pace che tenga, ti viene voglia
di spaccare la chitarra in
testa all’idiota in questione. E così aveva
fatto.
Pete
Townshed ovviamente non
poteva saperlo, ma era uno degli uomini che avevano segnato
maggiormente la
crescita di Eddie, facendone quello che era: il bambino che pure era
stato
aveva riascoltato in loop Quadrophenia
fino a cancellare i solchi del vinile. Poi il nastro della cassetta.
Eddie era una creatura di Townshed, Jimmy in carne e sangue.
Quando
Eddie riuscì finalmente ad
incontrare l’uomo che era stato il suo silenzio,
però, non era più
semplicemente la ferita aperta di
cui
aveva parlato Cameron Crowe su Rolling
Stone, era qualcosa di peggio. La ferita si era ulteriormente
slabbrata, si
stava infettando, marciva. Eddie si sentiva marcire da vivo.
Ma
Pete Townshed lo sentì
cantare, lo vide cantare, ed accettò
d’incontrarlo, stoicamente pronto a
sopportare l’adulazione dell’ennesimo fanboy:
quello che ricevette fu
probabilmente il più bel complimento un uomo potesse
ricevere, ma anche il più
grande insulto ad un rocker della sua statura.
“Grazie, mi ha salvato la vita, lei
è stato il mio silenzio.”
Alla
fine di un’intera serata
spesa in chiacchiere piuttosto che a inseguire fiumi di alcol, Pete
Townshed
era rimasto fedele al suo carattere di vecchio rocker inglese e aveva
lasciato
sfogare il ragazzo ancora un po’ prima di zittirlo con un
gesto secco della
mano. Che si era poi tramutato in un ceffone da manuale.
Dire
Eddie ne fosse rimasto
scioccato è poco, ma non fu solo la sorpresa ad impedirgli
di rispondere al
colpo: era Pete Townshed che
l’aveva
appena picchiato, in realtà sul momento stava persino per
ringraziare per
riflesso condizionato.
“Ora
tu la pianti di dire
stronzate, ragazzino, e mi stai a
sentire. Non azzardarti mai più a sputare su quello che hai
tra le mani, perché
è quello che ho anch’io, è quello che
avrà domani un altro ragazzino che vuole
farsi ascoltare. Lascia perdere i corollari, lascia perdere la tv, la
stampa,
gli stronzi che non capiscono un cazzo e vorrebbero dirti dove devi
andare:
solo la musica può dirtelo, ormai ti ha scelto e sei
fregato. Puoi solo
seguirla e vedere dove ti porta, quindi mettiti scarpe comode e corri,
o cammina,
quello che ti pare, ma vai avanti. Quello che tu e i tuoi compagni
state
facendo è troppo bello ed importante perché ti
permetta di tirarti indietro,
quindi cerca un modo per starci dentro, uno qualsiasi, ma sognati di
poter
mollare adesso. La musica è un padrone severo, ma
è l’unica dittatura che vale
la pena di assecondare, fidati.”
Eddie
non avrebbe mai più
dimenticato quelle parole ed il bruciore alla guancia che si era
trasformato
improvvisamente nell’impronta di una carezza. Le avrebbe
sempre portate con sé
come sprone e consolazione in ogni momento della sua esistenza di uomo
e
musicista, erano state la lezione di vita che nessuno dei suoi due
padri si era
mai preoccupato di dargli, e le serbò con cura nella testa e
tra le pagine
macchiate della sua agenda.
Era
il millenovecentonovantatre e
il mondo girava ancora troppo velocemente per i suoi gusti, ma si diede
un’altra possibilità, la diede a se stesso e ai
suoi compagni.
Jeff,
soprattutto, non lo dava a
vedere, ma era tremendamente preoccupato per Eddie, non gli piaceva
quello che
stava succedendo al cantante. Lui era stato un artista, lo era ancora,
la sua
spiccata sensibilità per il colore gli aveva sempre fatto
cogliere le sfumature
più sottili: e gli occhi di Eddie stavano cambiando, avevano
ormai il colore
della pioggia.
Era il colore di Seattle che si era mangiato Andy e
che stava mangiando
Layne, e Cobain.
Non
voleva si mangiasse anche
Eddie.
Ma
il cantante si ostinava a non
voler capire che quel piccolo passo avanti utile a separarlo dalla fossa l’aveva già
fatto, anche suo
malgrado: se sei su un palco a cantare puoi solo diminuire quanto
più possibile
la distanza che ti separa dal pubblico, ma lo scarto ci sarà
sempre. Fosse solo
perché guardi in una direzione diversa rispetto a tutti gli
altri.
Eddie,
però, si era attaccato con
le unghie e con i denti alla sua vecchia vita e non voleva saperne di
vedere
quello scarto, quello spazietto che si era aperto tra lui e la sua fossa. E continuava a leggere tutte
le lettere che arrivavano, e a rispondere, quasi sempre con qualcosa di
più di
due righe di circostanza.
Nessuno
si era accorto subito del
suo disagio, nemmeno Beth: dal primo, decisivo scatto in classifica di Ten, Eddie era sembrato perennemente a
disagio nei suoi stessi vestiti. Eddie,
in fondo, era sempre stato un po’ a disagio nella sua stessa
pelle.
Poi
però, lentamente, quel
disagio, quella rabbia che tramutava in rime e vocalizzi, si era
trasformato in
sospetto, rancore. Paura, forse.
Eddie
non aveva mostrato subito
agli altri le lettere di Maddie.
L’aveva chiamata così, la prima volta che le aveva
risposto, Madeleine gli era
sembrato un nome
inutilmente complicato da portare, soprattutto a diciotto anni.
E
dunque Maddie: solo che lui non
immaginava fosse matta sul serio.
Non
immaginava, soprattutto,
stesse già impazzendo lui e, il dolore che tutti quei
ragazzi così
sfacciatamente gli sbattevano in faccia chiedendogli risposte, fungeva
solo da
spinta finale. Solo pochi colpetti e
sarebbe inesorabilmente caduto.
Madeleine
Kelly rischiò di essere
quell’ultima spinta.
Eddie
ricominciò a non guardare
più la folla urlante sotto il palco. Ricominciò
ad essere nervoso davanti al
microfono, a cercare ossessivamente Jeff o Mike o Stone, persino Dave
con cui
pure era sempre ai ferri corti, durante gli assoli. Le sue incursioni
tra il
pubblico diventarono sempre più rare e veloci: non si fidava più.
Eddie
non sapeva quando era
successo, o come, o perché, ma era successo.
Le
lettere che riceveva da quella
ragazzina di Grayland erano sempre state un po’ strane, un
po’ infantili e
sgrammaticate, ma nulla di eccessivo o allarmante: si sentiva sola, la
sua
famiglia l’aveva abbandonata, aveva un figlio appena nato,
era costretta a
lavorare per un cattolicissimo stronzo che la trattava come una
sgualdrina, se
non erano problemi quelli, chi poteva dire di averne?
Ma
ad un certo punto, quelle
lettere carine e tristi e sconclusionate, erano cambiate in qualcosa di
diverso. Il cambiamento era stato sottile, strisciante, non se
n’era accorto
subito o avrebbe troncato la cosa sul nascere, ovviamente. Ma aveva
decisamente
altri problemi a cui badare, le strane lettere di una ragazzina di
periferia,
per quanto potesse spiacergli per lei, non potevano essere considerate
una
priorità. A volte non riusciva neppure a leggerle tutte o
andavano
semplicemente perse nella marea di missive che giungevano ogni mese in
casella
postale.
Poi
però erano cominciate le
velate accuse. Un po’ se le aspettava, tutti i ragazzi a cui
scriveva, dopo un
po’, lo avevano accusato di essersi montato la testa e
venduto o chissà cosa. E
solo perché magari non aveva risposto ad una lettera o
l’aveva fatto con troppo
ritardo.
Le
accuse di Maddie, però, erano
di natura diversa: non sembrava entrarci la musica, cioè.
Eddie non era
religioso e lo sapevano tutti, ma Maddie aveva cominciato a scrivergli
dei
passi del Vangelo, a chiedere a lui – a
lui! – di spiegarle meglio alcune storie della
Bibbia, ché il parroco di
Grayland non era granché bravo e che avrebbe dovuto
sceglierli meglio.
All’inizio aveva pensato ad un errore, ad uno scherzo,
perfino.
Poi Maddie aveva smesso di chiamarlo Eddie. Ed era
precipitato
nell’incubo.
In
un incubo fatto di guardie del
corpo e muri sempre più alti e spessi, di occhiate furtive
alle spalle, di
sospetti ed angosce.
Certi
giorni aveva paura persino
di mettere il naso fuori di casa, altri rimaneva a dormire in studio
pur di non
uscire una volta di troppo. Altri non riusciva a stare tra quattro
mura, aveva
bisogno di aria, di uscire, di nascondersi altrove, perché
gli occhi di Maddie
– che erano diventati
tutt’uno con quelli
delle telecamere, erano ormai fusi a quelli di chiunque incrociasse per
strada,
senza distinzione di sesso – se li sentiva addosso
ovunque, sembravano
spiarlo in ogni momento.
Beth
aveva tentato di tirarlo via
anche a forza la prima volta che l’aveva trovato rannicchiato
tra la lavatrice
e l’asciugatrice; l’aveva trovato così,
accucciato con le ginocchia al petto e
le mani strette ad un posacenere di vetro a fumare una sigaretta dietro
l’altra, gli occhi rossi e sgranati fissi nel vuoto, seduto
sul freddo
pavimento della lavanderia.
“Qui non possono raggiungermi, almeno qui
dentro non possono vedermi.”
Doveva
farli smettere, tutti
quanti.
Litigò
con Beth e con Jeff e con
tutti nel gruppo, litigò con chiunque la casa discografica
tentò di mandargli
per aggiustare le cose. Non voleva ascoltare nessuno né
essere ascoltato,
voleva solo seguire il consiglio di Townshed senza impazzire: la musica
l’avrebbe seguita e servita per sempre, ma alle sue
condizioni. Lui non era fatto per la
velocità, non poteva
correre.
Seppe
di aver fatto la scelta
giusta – di essersi unito al gruppo
giusto – quando, una volta calmatesi le acque, si
ritrovò davanti Stone,
arrabbiato come l’aveva visto poche volte da che lo
conosceva.
Perché
lui e Jeff avevano
parlato, ne avevano parlato ben prima della sua scena madre, e
sì, erano
d’accordo con lui, le cose stavano andando troppo
velocemente, non avevano
quasi più tempo per fare musica e, cazzo, loro erano
musicisti, se non
riuscivano nemmeno a comporre, allora che senso avevano? Mike non era
molto
contento di quel nuovo corso, ma si sarebbe adattato, a lui bastava gli
lasciassero la sua chitarra e un faretto dozzinale a scaldarlo davanti
ad un
pubblico, uno qualunque: perché lui voleva solo suonare.
Era
stato più difficile con Dave,
a lui quella storia non andava né su né
giù, a lui piacevano le feste, gli
piacevano i riflettori, gli piaceva la fama: era sempre stato
l’unico, tra
loro, ad aver sempre approfittato a piene mani dei vantaggi della
popolarità e
non voleva rinunciarci. Ma Dave era un ragazzino con la fissa delle
donne e
delle armi: poteva capire chi preferiva
colpire con le note e portarsi a letto una chitarra, oltre alla
scontata noiosa fidanzata del liceo?
Quante volte nella storia della musica era successo
che un gruppo sulla
cresta dell’onda decidesse di ritirarsi in buon ordine tra le
retrovie?
Quante volte nella storia della musica era successo
un gruppo sulla
cresta dell’onda si guardasse indietro a quando suonava per
pochi dollari in
brutti locali e non capisse perché, cambiando semplicemente
locale ma non
musica, quei pochi dollari erano diventati improvvisamente troppi?
Era
il
millenovecentonovantaquattro, però, e la storia della musica
era entrata in
un’epoca delirante, aveva deviato su strade che poco o nulla
avevano a che fare
con le note.
Era
il
millenovecentonovantaquattro e Kurt Cobain aveva prima tentato il
suicidio sui
pendii di Roma, per poi riuscirci un mese dopo nella serra di casa sua,
sulle
colline di Seattle.
Era
il millenovecentonovantaquattro
e la musica era stata intossicata per sempre.
Era
il
millenovecentonovantaquattro e Madeleine Kelly, non avendo ricevuto
risposta
alle tante lettere mandate in quell’anno al suo Salvatore,
aveva deciso di
fargli visita di persona, rischiando di uccidere in un colpo solo se
stessa e quel
che rimaneva della sanità mentale di un santino di carne e
sangue.
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Capitolo 3 *** 3 ***
17.07.2008
Che
a Los Angeles il freddo e
l’inverno non arrivino è un luogo comune, una
leggenda metropolitana tra quelle
più facilmente sfatabili, ma che nell’immaginario
collettivo tendono a
radicarsi come una bella metafora della vita: perché Los
Angeles è la città
degli angeli e gli angeli vivono in una perpetua e ricca estate di sole
e
miele, The City of Angels è sinonimo di Hollywood e non sta
bene far
raffreddare le stelle.
Che
Los Angeles sia solo una
città come tante – solo
più grande e
caotica e puzzolente di tante altre – e che
Hollywood fosse nata come una
cittadina-satellite di poveracci, in pochi se lo ricordavano, o
volevano
ricordarlo.
A
Los Angeles arriva il caldo
vero però, perché il deserto è dietro
l’angolo e a volte sembrerebbe voler
mangiare la città.
Il
diciassette luglio del
duemilaotto, il caldo ed il sole di Los Angeles non erano dunque nulla
di
anomalo, solo una bella cornice per le spiagge infinite di una costa
color
crema baciata dalla risacca di un oceano insolitamente dolce. Tanto da
farci
giocare i bambini, magari insegnar loro a nuotare o montare su una
tavola corta
e colorata.
Eddie
aveva imparato a nuotare su
spiagge simili a quella, giocando a rincorrere onde come quelle che ora
sua
figlia si divertiva a evitare e inseguire ridendo. Aveva appena
compiuto
quattro anni ed era la bambina più bella del mondo, sarebbe
sempre stata la
bambina più bella del mondo per qualcuno che veniva definito
icona e santino di
un’epoca capricciosa come la risacca dell’oceano:
Eddie Vedder in quel momento
era solo un padre come tanti che guarda la sua primogenita giocare con
le onde,
che poggia tenero la mano sulla pancia rotonda della sua compagna che
sfoglia
tranquilla una rivista.
Il
diciassette luglio del duemilaotto
era un giorno nato sotto i migliori auspici, perché era
estate, il sole
splendeva sulla Città degli Angeli, entro qualche mese
George Bush sarebbe
stato definitivamente sfanculato e uno scricciolo con gli occhi enormi
ed un
costumino rosa gli era appena caracollato addosso. Piantandogli il
gelato alla
fragola che teneva in mano direttamente nell’ombelico.
Vivian
Gossard aveva poco più di
un anno e tutta l’energia dei poppanti che si sono da poco
liberati del
pannolino e delle costrizioni del box, così come la
strafottenza di chi può
altamente fregarsene delle apparenze, protetta dal’alibi
dell’età
dell’innocenza o di quello che è.
“Vivi,
tesoro, lo zio Ed ora ti
compra un altro gelato, eh? Che i vicini ci guardano e non vorrei
finire come
Michael Jackson. Stone, di’ ma che t’è
saltato in mente, non è troppo piccola
per mangiare un gelato così?”
Il
chitarrista ciabattava ancora
a qualche metro con aria noncurante. Gli occhiali da vista leggermente
ambrati
e i capelli corti e brizzolati lo facevano sembrare un ragioniere in
vacanza
piuttosto che una rockstar da sessanta milioni di dischi: come gli
altri – o forse più
degli altri – nella band,
Stone Gossard era invecchiato in modo pacato e coerente, mettendo su
qualche
chilo dopo i quaranta, fregandosene degli spruzzi bianchi tra i capelli
e delle
montature orrende che riusciva a scegliere per correggere la sua
miopia. Da
ragazzo sembrava un nerd capellone, da adulto il contabile di una
società di
computer e, se qualcuno lo stava degnando di uno sguardo, era solo per
capire perché un bravo
padre di famiglia come
lui si accompagnasse ad un vecchio arnese palesemente tinto e ricoperto
di
tatuaggi.
Non che un tipo simile fosse uno spettacolo anomalo
sulle spiagge
californiane: era l’accostamento che straniva.
“La
vizio un po’ visto che sua
madre non c’è oggi. Ciao Jill.”
Stone
aveva recuperato sua figlia
- che tentava ancora di saltare addosso allo zio
Ed per recuperare la sua pallina di gelato - ed aveva preso a
ripulirla da quello che si era nel mentre spalmata sulla faccia, sulle
braccia,
ovunque.
Mike,
l’arnese tinto, si era
intanto sistemato al sole mite di quel primo
mattino di metà estate sperando di liberarsi da quel pallore
malaticcio che lo
seguiva da qualche giorno, in vista della serata.
Magari avrebbe dovuto dar retta a Duff e farsi una
lampada?
Ma
gli unici ritocchi estetici
che concepiva erano le cicatrici colorate con cui si faceva scolpire
periodicamente, o le tinte sgargianti che vestiva sulla testa: per
l’evento
della serata aveva optato per un classico
biondo fotonico.
“Jeff
ha detto che non viene
stamattina, si è svegliato prima dell’alba per
andare all’Hollenbeck, ma Dori
dovrebbe raggiungerci più tardi.”
Nessuno
gli aveva fatto quella
domanda, ma Mike sapeva che sarebbe arrivata, sapeva che Ed avrebbe
chiesto:
avevano un bel dire ognuno avesse la propria vita fuori dal gruppo e
blah blah
blah, la verità era non riuscissero effettivamente a
scollarsi quando erano in
tour o quando facevano musica, il che voleva dire sempre.
E
Eddie non prendeva bene le
separazioni. Ogni piccolo hiatus del gruppo – tecnicamente si
separavano alla
fine di ogni tour – era una sorta di prova del nove, una
prova di resistenza: chi avrebbe chiamato per
primo? E perché
non lo cercavano?
Sindrome
da abbandono, ecco di
cosa soffriva Eddie Vedder. Altro che sindrome della prima donna,
magari
l’avesse avuta; almeno si sarebbero risparmiati un decennio a
fuggire dalle
telecamere senza riuscire comunque a sottrarsi ai doveri che derivavano
dalla
fama.
Ma
quella era una specie di
riunione di famiglia allargata,
perché Ed aveva ovviamente con sé Jill
– di
nuovo ripiena - e
Olivia, Stone era
con Vivian, Matt e la sua famiglia sarebbero arrivati di lì
a poco – ma con due figli quasi
adolescenti, il
batterista aveva decisamente più problemi di loro per
convincerli a seguirlo in
spiaggia di mattina presto – e la sua Ashley e la
piccola Aussie li
avrebbero raggiunti entro un’ora al massimo. Dai
cinque di partenza, si erano trasformati in un esercito.
E
a Mike stava benissimo, così
come – era sicuro – stava bene a tutti gli altri.
Nessuno di loro era fatto per
la solitudine e nessuno di loro avrebbe scommesso un solo centesimo,
agli
inizi, sulla sopravvivenza tanto del gruppo, come di alcuni di loro.
Ovviamente,
i componenti del
gruppo in lista, erano stati proprio lui e Eddie. Per diverse ragioni,
ma ce
l’avevano scritto in faccia che non avevano
granché voglia di durare: o almeno,
Mike non se ne preoccupava, e Eddie probabilmente non ne era
semplicemente in
grado.
Mike
era della scuola Young: meglio bruciare che
sparire lentamente.
E, cazzo, se aveva seguito il consiglio! Aveva bevuto come una spugna,
scopato
come se non ci fosse un domani, spinto sull’ago come fosse
l’acceleratore della
vita, pensando stupidamente di avere tutto sotto controllo, di poter
smettere
quando voleva.
Poi
Cobain era morto e il mostro
che gli stava mangiando la pancia si era risvegliato e troppe altre
cose erano
successe una dietro l’altra.
Mike
si era ritrovato in un
centro di riabilitazione quasi senza accorgersene, ma fece il bravo
ragazzo e
s’impegnò con tutto se stesso per uscirne pulito.
E in fondo, quei quasi dodici
mesi non furono tanto male, tolte le crisi d’astinenza, e il
vomito, la diarrea
che spesso non riusciva nemmeno a trattenere, e la puzza schifosa del
suo
stesso sudore nonostante le docce continue.
In
quei dodici mesi Mike scoprì
di avere un sacco di amici, cosa che la siringa gli aveva completamente
fatto
dimenticare. Stone lo chiamava praticamente tutti i giorni, per i primi
mesi
aveva ricevuto anche tre o quattro telefonate al giorno dai suoi
compagni di
band e sapeva di poter chiamare ad ogni ora del giorno e della notte:
avevano
sempre risposto.
Mike
scoprì che la dipendenza gli
aveva fatto persino dimenticare della sua chitarra, perché
fu proprio in quel
centro di riabilitazione che – quando
Stone gli riportò la sua bellissima vecchia rossa
– riprese a suonare e
comporre davvero, anche solo per se stesso. Persino Eddie – che aveva maledetto gli eccessi di Dave come
una disgrazia. Ma che era sempre stato indulgente con lui,
chissà perché -
lo aveva chiamato spesso, era andato a trovarlo quando avevano permesso
le
visite, lo aveva abbracciato talmente stretto che aveva avuto paura gli
spezzasse le costole, perché Ed era sempre stato uno
sportivo ed un ragazzetto
stranamente forte, mentre Mike era sempre stato un mucchietto
d’ossa, ed in
quel momento pure in crisi d’astinenza da anfetamine e vodka.
Quando
era ritornato a Seattle
aveva i capelli corti e del colore giusto, aveva messo su almeno dieci
chili ed
aveva in tasca una marea di note e voglia di ritornare in studio con i
suoi
amici: perché era stato lontano dodici mesi, ma non si era
mai sentito più
protetto, amato e vicino ai suoi compagni.
Gli
stessi che ora stavano
discutendo animatamente della serata – ma
quando era arrivato Matt? – lanciando a Mike
pallette di sabbia per
attirare la sua attenzione.
“Mike,
ma che fai dormi?”
“Lasciatemi
in pace, Aussie ieri
notte non ne voleva sapere di addormentarsi, sono stravolto!”
“Oh,
ma povero papino!”
Jeff
Ament aveva quarantacinque
anni ed era un musicista di successo.
Jeff
Ament aveva quarantacinque
anni, era un musicista di successo ed un accanito skater, un ottimo
skater.
Jeff
Ament, però, era anche in
ritardo per il sound-check previsto dopo pranzo, e qualcuno
avrebbe preteso la sua testa.
Si
stiracchiò di nuovo tra le
lenzuola sfatte mentre dalla stanza da bagno Pandora canticchiava sotto
la
doccia una canzonetta popolare, di quelle che i contadini del Montana
cantavano
durante il raccolto a metà del novecento:
così imparava a portarsi a letto un’insegnate
secchiona.
Ridacchiò
guardando di nuovo
l’orologio e pensando che sì, era proprio
l’ora di alzarsi e fare una doccia,
che la giornata stava per cominciare solo in quel momento, nonostante
le
quattro ore passate a fare skate con i ragazzi
dell’Hollenbeck – un paio
di quindicenni lo avevano
addirittura avvicinato, timidissimi, chiedendogli l’autografo
sulle tavole
– e il piacevolissimo bentornato
con
cui l’aveva salutato la sua compagna, perché non
si dice mai di no ad una
scopata post-prandiale.
Il
sound-check sarebbe andato
benissimo, lo sapeva già, quelle canzoni le conoscevano a
menadito, Mike si era
persino allenato per ricreare un paio di mulinelli alla Townshed e
– nemmeno a dirlo. Per quel
nanerottolo
tatuato sembrava le chitarre si piegassero ad eseguire docilmente
qualunque
cosa – gli venivano benissimo, lo stesso Pete si
era congratulato con lui
per non essersi fratturato il pollice destro nemmeno una volta. Al
contrario di
Eddie, che ancora lo prendevano per il culo tutti quanti per quella
volta che
era riuscito quasi a spezzarselo, provandoci: ma
quello non doveva saperlo nessuno, si vergognava più di
quella corsa
al pronto soccorso che della visita alla reception di un albergo con le
chiappe
al vento.
Piluccò
con poca convinzione
qualche chicco d’uva dal cesto di benvenuto ancora nudo come
un verme prima di
dirigersi un po’ sbilenco verso la doccia.
“Dori,
fammi spazio, se non esco
da qui dentro entro venti minuti non avremo mai dei figli!”
Il
Pavillion era già pronto,
tirato a lucido per l’evento della serata.
Erano appena le tre del pomeriggio, mancavano quasi sei ore allo
spettacolo ed
i rodies e i tecnici si affannavano correndo come formichine operose
sistemando
amplificatori, jack e strumentazioni, mettendo in sicurezza transenne e
parapetti. Gi ultimi ritocchi erano sempre i più complicati
e fastidiosi.
Andy
e Wayne guardavano i loro
colleghi dall’alto di un’impalcatura del soffitto
mentre davano le ultime
rifiniture all’illuminazione stroboscopica che avrebbe fatto
da contorno
all’uscita delle star della serata. Erano stanchi e stufi
marci di avvitare e
controllare lampadine e neon colorati, ma il lavoro è lavoro
e, una volta
finito tutto, magari sarebbero riusciti a godersi lo spettacolo da una
visuale
privilegiata, alla faccia del parterre di VIP.
Non
era poi così male lavorare
come tecnici per l’UCLA, l’università
pagava meglio delle solite sale da
concerto ed era decisamente più elastica con il personale.
Lo era un po’ meno
lavorare per le stazioni televisive, ma in California – e soprattutto a Los Angeles - dovevi
fartene una ragione o non
lavoravi per niente.
Wayne
aveva i capelli abbastanza
bianchi da aver visto passare di tutto in quel palazzetto, da Marley
alle finali
dell’NBA, e quella sera avrebbe visto un branco di matricole
leccare il culo a
due vecchi inglesi artritici ed abbastanza onesti da essere per quello
stesso
motivo profondamente antipatici. Possibile che in quella cazzo di VH1
avessero
la fissa per i britannici? Tre speciali, nove gruppi e solo tre di
questi
americani: perché,
l’America non aveva prodotto
della buona musica da onorare?
Onorassero i Beach Boys e i Grateful Dead,
piuttosto.
Andy
la vedeva diversamente, ma
era giovane e ne aveva di musica da ascoltare e vedere
prima di poter discutere con il vecchio Wayne.
Intanto
erano anche cominciati i
sound-checks e i primi musicisti facevano capolino dalle quinte,
ovviamente
vestiti in modo che un qualunque stilista avrebbe definito
semplicemente
atroce, ma che al vecchio tecnico sembrava persino accettabile: almeno non avevano rifilato fighette, per la
serata.
Andy,
che era giovane, quei gruppi li
conosceva, soprattutto alcuni, e si
sarebbe sicuramente divertito quella sera ad ascoltarli,
così come tutti i
trentenni che sarebbero stati in sala insieme ai vecchi ragazzi come
lui.
Mancavano
poco meno di sei ore e
le luci si sarebbero accese davvero, tutte insieme.
Pete
gironzolava per i backstages
come un padre nervoso controllando che i suoi bambini fossero tutti
pronti e in
buona salute: lui nemmeno voleva farla
quella serata.
Pete
Townshed si sentiva vecchio
per quella vita, vecchio per fare musica in quel
modo, soprattutto, ed era sempre stato troppo onesto e troppo
puntiglioso per
anelare a qualcosa di meno della perfezione: e a sessantatre anni
suonati, se
avesse fatto una scivolata sulle ginocchia gli sarebbe di sicuro
partito un
menisco, se non entrambi. Sai che ridere.
Se
aveva accettato era stato per
Roger, che ancora ci teneva a cantare davanti ad un pubblico, e per
quel
pizzico di vanità che non guasta: in fondo erano tutti
lì per onorare due
vecchi inglesi messi pure abbastanza male da sentirli tutti, gli anni
che
avevano addosso.
Alcuni
di quei ragazzi – uomini, santo
cielo, avevano tutti superato
abbondantemente i trent’anni. Erano uomini, era lui ad essere
vecchio. –
che lo guardavano adoranti nemmeno li conosceva, non aveva minimamente
idea di
cosa suonassero e probabilmente nemmeno gli sarebbe piaciuto saperlo.
Tirò un
sospiro di sollievo occhieggiando Eddie in un angolo che chiacchierava
animatamente con O’Brien e Penn, rideva, era rilassato. Erano
tutti parecchio
rilassati. Meglio così: era contento di non dover
più rifilare ceffoni a quella
specie di figlio putativo che a trent’anni suonati ancora si
ritrovava paranoie
da adolescente brufoloso, perché, se non fosse riuscito a
farsi capire dopo la
prima sberla, sarebbe passato direttamente alla chitarra. Pete Townshed non aveva mai preteso di essere un
padre affettuoso.
Li
aveva raggiunti invitandoli a
spostarsi verso il lato del palco, lo spettacolo stava per cominciare e
Grohl avrebbe
attaccato a breve con Young man blues:
il conto alla rovescia era partito.
Pete
poteva anche dirsi soddisfatto,
perché la serata stava andando da Dio e solo la presenza di
Keith e John
avrebbe potuto renderla perfetta, ma nessuno dei due aveva avuto la
pazienza di
aspettare e diventare davvero vecchio. Peggio
per loro.
I
Foo Fighters avevano suonato alla
grande, così come i Flaming Lips e sugli altri meglio
glissare, purtroppo non
era riuscito ad avere l’ultima parola su tutto. Ma tutto
sommato non poteva
lamentarsi, nessuno aveva fatto davvero schifo da farlo vergognare di
aver
scritto quelle canzoni, il che era già una gran cosa.
Però stavano per entrare in scena i suoi
ragazzi.
Roger,
al suo fianco, era
parecchio nervoso, come sempre capitava prima di una serata, fosse o
meno lui a
dover cantare. E poi, guardare Eddie sul palco era un po’
come rivedere se
stessi quasi trent’anni prima, il ragazzo – uomo!
Aveva passato i quaranta, per Dio: possibile fosse tanto vecchio da
considerare
troppo giovane il resto del mondo? – non aveva mai
fatto mistero di essere
un fedele di Daltrey e ne riproduceva le movenze eccessive ogni volta
che ne
aveva occasione.
Alla
prima nota di Love Reign O’er Me
aveva trattenuto il
respiro, Jimmy aveva allacciato le
mani al microfono ed aveva cominciato a piangere sulla sua
identità violata e
finalmente ritrovata. Eddie ringhiava di dolore e felicità,
la sua era
un’epifania violenta come una tempesta tropicale, Mike e
Stone si erano fatti
vento amplificando il tuono dei colpi combinati di Jeff e Matt: era un
uragano
e sembrava davvero di essere bagnati da una pioggia che lavava e
purificava,
mettendo a nudo un’identità da sempre posseduta.
Poi
era successo qualcosa.
Il
gruppo non aveva perso una
nota, l’orchestra di archi aveva continuato a suonare, ma
Eddie aveva smesso di
cantare. Era rimasto fermo, impalato davanti all’asta del
microfono, per
qualche secondo, con un’espressione vagamente perplessa e la
bocca aperta a
cercare un suono che non usciva.
Pete
aveva strabuzzato gli occhi
preoccupato, cercando di vedere, di capire quel che stava succedendo.
Poi
l’aveva visto cadere giù e le urla del pubblico
avevano sostituito quelle di
una sirena triste e della musica e la confusione aveva impedito a
chiunque
persino di preoccuparsi di un uomo con i capelli rossi e gli occhi
nocciola che
rideva e piangeva appollaiato più in alto di tutti, su un
trespolo d’acciaio
che era diventato la sua nuvola ed il suo Paradiso, finchè
non aveva lasciato
cader giù sul pubblico il suo fucile e poi se stessa, una
Maddalena finalmente
in pace pronta a raggiungere il suo Salvatore.
Madeleine Kelly non era sopravvissuta
all’impatto con le poltroncine in
plastica del Pavillion, si era
spezzata la schiena in più punti morendo sul colpo a soli
trentacinque anni.
Nessuno era riuscito a capire come fosse riuscita a
farsi passare per
Andy Kinney, per un uomo, senza destare sospetti, né come
fosse riuscita a
farsi assumere come tecnico. Ma, soprattutto, come fosse riuscita a far
passare
inosservato un fucile.
A discolpa delle risorse umane
dell’ufficio assunzioni dell’UCLA, c’era da dire i suoi documenti
sembrassero
effettivamente veri, così come il suo camuffamento: gli anni
di manicomio
dovevano aver dato il colpo di grazia ad un’avvenenza che in
fondo non aveva
mai posseduto.
Il fucile risultò acquistato
regolarmente su internet con il solito
documento falso appena due mesi prima, appena pochi mesi dopo la fine
del suo
internamento.
Il servizio di sicurezza della struttura fu
duramente messo sotto
accusa per palese negligenza nei controlli e all’inchiesta
del LAPD si affiancò
quella interna del campus.
Harper Moon Margaret Vedder nacque il ventitre
settembre del
duemilaotto senza particolari complicazioni nonostante sua madre avesse
rischiato un aborto spontaneo appena un paio di mesi prima. Ma stava
bene, un
meraviglioso angioletto con gli occhi verdi della mamma e le guance
paffute e
rosee del suo papà.
Che aveva ripreso a scrivere non potendo
più cantare, almeno non
ancora: ma Eddie non era fatto per correre e conosceva il piacere
profondo che
solo una passeggiata – per quanto lunga
– può dare. E, per quella Luna che lo guardava
curiosa, sarebbe tornato ad
intonare la più dolce delle ninnananne.
Eddie Vedder non poteva – e
non voleva -
più permettersi di avere
paura.
End.
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