A State of Love and Darkness

di Angeline Farewell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


A state of love and darkness.

17. 07. 2008

La sindrome del foglio bianco colpisce solo chi non ha niente da dire, me ne accorgo adesso. Perché ora, forse per la prima volta in quarantatre anni, non ho davvero più niente da dire ed il bianco mi circonda e mi sovrasta.

Mi dispiace sarebbe troppo scontato e banale, però forse sono le uniche parole spendibili: seriamente, mi dispiace. Per la mia bambina, per quella che sta arrivando, per l’amore che non sono riuscito a portare all’altare, per i quattro santi che mi hanno sopportato e supportato fino ad ora, per quasi vent’anni tra alti vertiginosi e bassi disastrosi. Per mia madre che ne vedrà andar via un altro, stavolta senza nemmeno essere preparata a dovere.

Nemmeno io ero preparato a dovere. Vent’anni fa, paradossalmente, lo sarei stato di più. L’avrei capito meno, ma mi sarebbe sembrato anche più plausibile. Ma vent’anni fa ero un cazzone come tutti quelli della mia generazione, quella X ce l’avevamo stampata sulla fronte come un marchio d’idiozia, probabilmente, e morire giovani ci sembrava un traguardo più che appetibile.

Però, insomma… Dopo che Kurt se n’è andato in quel modo assurdo, un pensierino sul vivere un po’ di più, a provare a campare decentemente un po’ di più, io l’avevo fatto, sul serio. Volevo davvero invecchiare. Vedere i capelli bianchi, le rughe, la pancia che avanza e poi cede del tutto, il respiro che si spezza dopo l’ennesima uscita sulla tavola nell’acqua gelata di gennaio. Ci stavo finalmente arrivando, quel traguardo, a quarantatre anni, non lo vedi più così lontano, e a me non faceva paura, dopo la nascita di Olli avevo cominciato ad accarezzarlo come una meta ambita. Ero cresciuto anch’io, insomma.

Invece niente da fare. L’ultima nota mi si è spezzata in gola a metà, non credo riuscirò a tirar fuori altro stasera, ed anche per questo dovrei dire mi dispiace. In compenso, anche se non sento quasi più niente, le urla della folla continuano a raggiungermi. Da dove però, onestamente, non credo di saperlo più.

 

17. 07. 1994

Madeleine Kelly aveva ventidue anni e poco tempo a disposizione.

Non era quel che avresti detto una bella ragazza, troppo anonima e incolore si mimetizzava nel grigiore di Seattle come una goccia di pioggia tra le tante. Eppure, a soli ventidue anni, Madeleine aveva già due figli da accudire e soprattutto mantenere. Due figli che avevano due padri diversi che non si erano mai premurati nemmeno di conoscerli, figurarsi di sganciare un solo dollaro per il mantenimento.

Madeleine era sempre stata una ragazza chiusa, talmente timida da sembrare praticamente tonta – e forse un po’ lo era davvero – e senza particolari attrattive se non, appunto, quella di essere una ragazza, una femmina adolescente. E a Grayland era già tantissimo.

Era una cittadina orribile, Grayland, grigia come suggeriva il nome, nemmeno il verde dei campi e del bosco che la circondava riusciva ad emergere nell’appiattimento triste di quel microscopico agglomerato urbano. Ed era piovosa, cupa, povera. Piccola soprattutto, troppo per contenere qualunque cosa: meno di mille anime incastrate tra un pezzo ferroso d’oceano e i campi, nemmeno la statale arrivava in quel buco.

La 101 si fermava ad Aberdeen, proseguiva per Raymond, ma nessuno aveva mai pensato fosse necessario collegare Grayland al resto dello stato, come se nemmeno fosse parte della contea. Cittadina inutile, cittadina di vecchi.

Però Madeleine era giovane e le ragazze a Grayland scarseggiavano. Quindi anche la piccola e scialba Madeleine Kelly ebbe il suo invito per il ballo di fine anno, ebbe la sua orchidea appuntata al polso, il suo vestito di tulle, la foto di rito. Così come l’altrettanto rituale sbronza: ricordava vagamente persino il dolore del frettoloso rapporto sessuale che era seguito sul retro della palestra, incastrata tra un rastrello e un mucchio di foglie secche impregnate di umidità.

Ricordava molto di più il dolore lancinante che nove mesi dopo l’aveva costretta ad allargare le gambe per la seconda volta in vita sua, stavolta per far venir fuori il frutto di quella sveltina inutile.

Madeleine aveva appena diciotto anni quando era nato Sean e l’unica cosa che ricordava di quel giorno era una radiolina accesa in sala parto che passava una canzone che non aveva mai sentito prima, ma sembrava le stesse parlando: sei ancora viva, no? Nonostante tutto sei ancora viva.

Ryan era arrivato nemmeno due anni dopo e neppure di quel rapporto Madeleine aveva grandi ricordi. In quel periodo lavorava alla pensione del signor Walsh che da bravo cattolico qual’era, aveva cristianamente chiuso un occhio sul fatto fosse una sgualdrina e l’aveva assunta come cameriera permettendole così di mantenere un figlio che non sapeva neppure bene come prendere in braccio: Madeleine aveva una famiglia, ma le era proibito persino guardarli in faccia per strada, figurarsi chiedere sostegno. Solo sua sorella maggiore aveva tentato di aiutarla passandole qualche dollaro quando poteva, ma Madeleine aveva smesso di accettarli quando – ormai all’ottavo mese della prima gravidanza – Eileen era stata ricoverata in ospedale e ne aveva avuto per una settimana. Era caduta dalle scale, dicevano.

I Kelly non erano cattive persone, ma erano poveri, chiusi in una morale cattolica da clan del secolo scorso, non si erano mai davvero integrati nel tessuto sociale americano ed avevano pochissimi rapporti persino con la piccolissima comunità irlandese della cittadina. Una figlia diciottenne che rimane incinta del primo che capita era stata una vergogna che non avevano saputo né accettare né perdonare, quindi Madeleine era stata completamente dimenticata, cancellata dal clan. E aveva dovuto cavarsela da sola.

Ma Ryan, appunto.

Madeleine – che era sempre stata chiamata da tutti solo Madeleine, benché fosse un nome antiquato e nemmeno comodo da portare: semplicemente, a nessuno era mai interessato darle diminutivi affettuosi. – non aveva avuto altri ragazzi dopo la nascita di Sean, anzi, i più la ignoravano volutamente, era diventata ancor più invisibile a dispetto del seno inaspettatamente sbocciato con la maternità ed ai fianchi più generosi e finalmente femminili: ma aveva diciotto anni ed un figlio a carico, nessuno si sarebbe imbarcato in una relazione con tali premesse, tanto più se il soggetto in questione era Madeleine Kelly, quella strana, quella stupida, quella che dopo il parto aveva cominciato a girare con il walkman perennemente acceso camminando come se il resto del mondo non esistesse.

Eppure Ryan era arrivato, era nato in una notte di mare grosso che aveva quasi mangiato l’intera spiaggia di Grayland nell’autunno del millenovecentonovantatre.

Madeleine non reggeva l’alcool e lo sapevano tutti. Ed era tonta, era noto anche quello.

Per festeggiare la Santa Pasqua, il signor Walsh organizzava sempre un piccolo ricevimento ed invitava non solo i bravi irlandesi cattolici della comunità, ma anche gli altri: Nostro Signore era risorto per tutti, in fondo.

Era stato durante la festa nel marzo di quell’anno che era successo, probabilmente proprio sulla spiaggia sulla quale l’aveva sorpresa addormentata l’alta marea senza mutandine; era tornata alla pensione coperta di sabbia e con l’abito fradicio fino alla vita.

Agnes, l’altra ragazza che di solito divideva con lei i turni di pulizia delle camere, l’aveva coperta con il vecchio Walsh, mentre Sally si era occupata di Sean, che era stato lavato e nutrito a dovere, sicuramente meglio di come avrebbe fatto lei.

Le due ragazze le avevano ripetutamente chiesto cosa le fosse successo, dove fosse sparita per così tante ore, ma Madeleine non aveva saputo rispondere, conscia solo del fatto che non avrebbe dovuto bere tutti quei punch durante le pause e di avere un terribile mal di testa e la schiena a pezzi.

Poi, il mese successivo, non aveva avuto il ciclo, e nemmeno quello dopo.

Ryan era nato con taglio cesareo a causa di un’infezione vaginale che aveva preso chissà come, ma Madeleine non si era preoccupata più di tanto: sapeva che sarebbe andato tutto bene, non era mai stata tanto radiosa come da quando aveva scoperto di essere nuovamente incinta.

La prova fosse matta, insomma.

In città tutti, nessuno escluso, pensavano fosse stupida, una specie di ritardata che ai test attitudinali aveva sempre preso punteggi bassissimi, che non riusciva a prendere una sufficienza nemmeno in economia domestica e che impiegava tantissimo a capire quello che le veniva spiegato. Al liceo, l’assistente sociale l’aveva convocata nel suo ufficio un paio di volte, aveva parlato con i suoi genitori, ma si era arreso molto presto: a Grayland in fondo non servivano grossi cervelli, bastavano un paio di braccia in più per la terra, Madeleine sarebbe stata perfetta in quello.

Ma non le importava cosa dicevano gli altri, pensassero quel che volevano: lei sapeva che prima o poi sarebbe successo, sapeva che lui l’avrebbe raggiunta.

Di nuovo.

Madeleine non ne aveva mai parlato con nessuno, era il suo segreto. In realtà non avrebbe proprio saputo a chi raccontarlo, non aveva nessuna amica, nemmeno Sally e Agnes lo erano. L’aiutavano per compassione, per Sean, perché anche loro pensavano fosse un po’ tonta, ma avevano abbastanza buon cuore dal non farglielo pesare, niente di più. Madeleine era sempre stata sostanzialmente sola anche prima che la sua famiglia la mettesse alla porta.

Ma era cambiato tutto, Ryan era la prova che aveva ragione, che non si era illusa, che lui la stava davvero aspettando.

Il giorno della nascita di Sean, Alive non era ancora una hit e Pearl Jam erano solo due parole senza senso, ma le radio dello stato di Washington erano attente alle ultime novità della scena locale, soprattutto quelle della rete universitaria, per questo Madeleine era riuscita ad ascoltarla anche lì a Grayland.

Non se n’era accorta subito, era sempre stata lenta in fondo, ma lui le stava parlando, già allora, mentre spingeva e urlava con tutte le sue forze pregando Dio perché la uccidesse lì, all’istante, tutto pur di smettere di soffrire in quel modo. Ma era vero, una volta che il bambino è nato, il dolore viene dimenticato, nel suo caso però, non era stata la vista di Sean a farle dimenticare le sofferenze terribili patite fino a pochi secondi prima: era stata la voce filodiffusa in sala che le arrivava attutita, ma potente e vischiosa come ambra.

Quella voce, in quell’istante orribile in cui si sentiva la spoglia vuota di un insetto, l’aveva avvolta come una coperta calda, come un fiume di resina collosa l’aveva rinchiusa in un ventre umido e materno dal quale non voleva uscire.

Madeleine aveva comprato Ten dopo appena una settimana e dopo due aveva già quasi consumato il nastro della cassetta. Dopo un mese aveva scritto la prima lettera della sua vita ed era cominciato tutto.

Lui non era come veniva presentato in tv, non era una persona scostante, non era scorbutico o lunatico o violento. Lui era dolce e Madeleine lo sapeva bene.

Quando nel dicembre del 1991 Madeleine aveva scritto quella lettera, in verità non si aspettava molto in cambio.

Però, dopo qualche settimana, nella cassetta delle lettere aveva trovato qualcosa di diverso dalle solite bollette: lui le aveva risposto davvero.

Così come poi aveva risposto alla seconda, alla terza, alla quarta lettera. Passava sempre un po’ più tempo tra una risposta e l’altra, ma arrivava.

A Madeleine sembrava lui la conoscesse da sempre, ogni volta sapeva cosa dirle per farla sentire meglio, aveva sempre una parola gentile.

E non l’aveva mai chiamata Madeleine. Per lui, lei era Maddie.

Lui era stata la prima persona a non usare il suo nome per intero, il primo ad interessarsi tanto a lei da regalargliene un altro.

Madeleine, a dispetto dei suoi disgraziati diciotto anni da ragazza madre, poteva dirsi addirittura felice, aveva letto e riletto quei fogli coperti di una scrittura fitta e minuta fino a consumarli, fino ad imparare a memoria ogni parola, lei che non era mai riuscita a ricordare nemmeno le date della guerra di Secessione.

Di sera, dopo il lavoro, guardava Sean, lo allattava tenendolo sulle ginocchia come le avevano insegnato le infermiere di ostetricia, e silenziosamente sognava che avesse lui come padre.

Eddie aveva degli occhi meravigliosi, Eddie aveva un così bel viso e una voce così dolce; Eddie sarebbe stato un padre stupendo per Sean, sapeva che lui non l’avrebbe mai abbandonato, non avrebbe mai abbandonato lei.

Madeleine nemmeno sapeva chi l’avesse messa incinta, Josh Kinney – che l’aveva accompagnata al ballo - si era immediatamente tirato fuori affermando che, a metà della festa, l’aveva persa di vista ed era stato insieme ad Alice Cooper, Sten Meyer e Cathy Nowak, e i tre avevano confermato la sua versione. E poi lo sapevano tutti che Josh l’aveva invitata solo per non andarci da solo visto che le ragazze più carine erano già prese: almeno la tonta non portava gli occhiali o l’apparecchio per i denti.

Madeleine non voleva sapere chi fosse in realtà il padre di Sean, così come non le interessava chi fosse quello di Ryan, perché era sicura fosse stato l’oceano a portarglieli. E l’oceano era lui, lui che lo cavalcava e lo cantava e lo viveva.

Non sapeva bene quando quella consapevolezza si fosse alla fine impadronita di lei, ma sapeva di non sbagliarsi, le prove erano lampanti, non era riuscita a coglierle solo perché – lo dicevano tutti, in fondo – era lenta: ma Eddie l’aveva pazientemente aspettata, l’aveva meticolosamente istradata, ed alla fine aveva capito.

La prova definitiva l’aveva avuta ascoltando Vs. dopo la nascita di Ryan, se pure le fosse rimasto qualche dubbio residuo, Eddie si era premurato di rassicurarla: Daughter era stata scritta per lei, Eddie sapeva, Eddie sentiva tutto quello che sentiva lei. Madeleine aveva ascoltato quella canzone ed era scoppiata a piangere, quelle maledette imposte che calavano le ricordava ancora perfettamente, ricordava benissimo il rumore secco ed il buio che poi l’avvolgeva; i panni sporchi vanno lavati in famiglia, non occorre altri sappiano.

Era stata sciocca a non capirlo prima, stupida ad aver pensato gli occhi chiari di Sean e Ryan avessero qualcosa a che fare con l’azzurro slavato dei Kelly che comunque a lei non era toccato. I suoi bambini erano speciali, erano piccoli principi concesseli dal Re che stava richiamando la sua Maddalena.

Ed Eddie era il re di quell’epoca senza forma e senza Dio la cui corona era un elmetto arrugginito, la cui spada era una matita mezza mangiucchiata.

Per questo un giorno aveva preso i bambini, aveva caricato nella sua vecchia macchina i pochi abiti e le poche cose che possedeva, e si era diretta a nord, verso Aberdeen, verso la Statale che l’avrebbe condotta a lui.

Le cose non erano andate subito bene, Seattle era una città enorme, e Madeleine non era mai davvero uscita da Grayland se non per la scuola o per fare spese ad Aberdeen o a Raymond.

Aveva usato i pochi soldi che aveva risparmiato per le emergenze per prendere in affitto una squallidissima camera in un motel nella zona del porto, non esattamente delle più tranquille, ma non le importava più di tanto. Anche se le era sempre stato detto non fosse esattamente una bellezza, ormai sapeva che gli altri si erano sempre sbagliati, perché lui l’aveva scelta, in fondo, quindi era speciale. Forse fu quella nuova consapevolezza basata sul nulla a darle il coraggio di entrare davvero nelle bettole del porto e delle zone limitrofe per cercare un lavoro – uno qualunque – ed a darle una sicurezza sfacciata che non passava inosservata.

Ottenne un lavoro come cameriera in una birreria poco distante dal motel dove viveva e, facendo i turni di notte, poteva permettersi di andare in giro durante il giorno: sapeva che lui la stava aspettando, ma non sapeva ancora come fargli sapere che lei aveva capito, che era pronta, probabilmente non gli lasciavano più leggere la posta, perché erano mesi che non rispondeva più alle lettere che – puntualmente ogni mercoledì e venerdì – gli spediva.

Forse la stava mettendo alla prova.

Non aveva importanza, per il momento si sarebbe accontentata di accudire i suoi figli raccontando loro di quanto fosse meraviglioso il loro papà, di quanto la loro vita sarebbe stata perfetta una volta che si fossero riuniti.

Intanto il millenovecentonovantaquattro era arrivato con il suo carico di nevischio sporco e freddo pungente, portando novità che a Madeleine non erano piaciute.

Eddie continuava a giocare con lei, continuava a non farsi trovare, continuava a farsi vedere in giro con quella.

E le sfuggiva, fingeva di non vederla per strada quando lo incrociava – non molto – fortuitamente, continuava a non rispondere alle sue lettere, aveva trasformato la sua casa in una fortezza.

Eppure lui lo sapeva, doveva saperlo ormai che lei era a Seattle, che era lì per lui.

Sean stava diventando sempre più grande e cominciava a chiedere di quando avrebbe potuto conoscere suo padre e lei glielo aveva detto, glielo aveva scritto che non sapeva più cosa rispondere al loro bambino. Perché continuava a giocare con lei, perché la metteva ancora alla prova?

Aveva fatto tutto quello che doveva, tutto quello che lui le aveva chiesto costringendola a decifrare messaggi sempre più sottili ed ambigui, ma lei aveva capito, stava crescendo i suoi figli nel miglior modo possibile, nel culto del loro meraviglioso padre.

E aveva continuato ad amarlo ogni giorno, aveva pregato ogni giorno davanti a quella croce che non rendeva merito alla sua bellezza, continuava a preservarsi per lui e per lui soltanto, stornando le offerte degli avventori del locale in cui lavorava.

Per quanto si sforzasse non riusciva a capire. 

Intanto i mesi passavano, quello stupido di Cobain era stato trovato morto pochi giorni dopo la Santa Pasqua ed il mondo ancora non aveva capito che era un falso profeta: era morto il giorno dopo la festa della Resurrezione, non era un indizio sufficiente?

Erano tutti degli stupidi, e quella era la fine che quel pallone gonfiato si era meritato per aver detto quelle cose orribili su Eddie.

Forse era stato proprio Eddie a…

Tremò a quel pensiero, ma era un brivido di piacere, quasi il potere del padre dei suoi figli le stesse nuovamente scivolando dentro.

Forse anche quello era un segno, le stava chiedendo di attendere. Avrebbe atteso.

Madeleine attese fino al tre giugno del millenovecentonovantaquattro, data in cui il suo mondo crollò. Eddie si era sposato con quella. Eddie l’aveva abbandonata, aveva abbandonato lei e i loro bambini per un’orrenda sciacquetta bruna ed aveva osato sbatterglielo in faccia in quel modo orribile. Perché lui lo sapeva che lei era membra del TenClub, lo sapeva eccome, per quello aveva fatto spedire in ritardo il vinile che ogni Natale regalavano ai fans, per poter allegare quella lettera, voleva dividere il momento con loro, lui.

Madeleine Kelly era arrabbiata. Era furiosa. Madeleine Kelly si tagliò i lunghissimi capelli rossi quasi a zero, non voleva più essere una Maddalena da dipinto, e scoprì di essere di nuovo brutta. Madeleine Kelly guardò i suoi figli, ma finse di non cogliere il bagliore verde acqua negli occhi di Sean, gli occhi di Josh Kinney.

Madeleine Kelly non aveva nessuna intenzione di rinunciare al padre dei suoi figli, all’unico accettabile.  

Fu per quello che, un caldo e appiccicoso pomeriggio di luglio, Madeleine lasciò i bambini ad una vicina, prese l’auto e si diresse verso quella che avrebbe dovuto essere casa sua, non dell’altra.

Non vollero farla entrare, le dissero persino che Eddie comunque non era in casa, che era a Washington con il resto del gruppo, che c’era la testimonianza davanti al Congresso e, cosa, non li leggeva i giornali?

A Madeleine non importava più nulla dei giornali, non voleva più vedere il suo viso tramite una foto, la faceva stare troppo male. Voleva guardarlo in faccia, voleva guardarlo negli occhi e trovare il colore di quelli di Sean e Ryan.

Era tornata indietro solo per fare inversione ad u, premere l’acceleratore a tavoletta e cercare di forzare il cancello d’ingresso.

Forse le lacrime le avevano annebbiato la vista, però, perché sbagliò mira e non fu esattamente il cancello che divelse.

Almeno così le dissero qualche giorno dopo all’ospedale, quando Madeleine si svegliò coperta di bende e con dolori atroci in tutto il corpo. Ma nessuno volle credere al suo, di racconto. Nessuno volle chiamare Eddie per farlo andare da lei, nessuno le permise mai più di rivedere i suoi bambini.

Tutto quello che per anni le fu concesso, dal giorno del ricovero in poi, fu di fingere. Fingere di aver capito, fingere di sapere di essere malata e di voler guarire, fingere di aver superato un’ossessione senza motivo.

Era stato lo stesso Eddie, in fondo, a spiegarle come uscire da quella situazione.

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Capitolo 2
*** 2 ***


17.07.2008

Sono passati quasi quindici anni da quel giorno, dal giorno in cui mi hai tradita. Sono passati quasi quindici anni dal giorno in cui mi hanno rinchiusa tra quattro mura bianche senza nemmeno la consolazione di un crocifisso. O di un prete. Ma il cappellano dell’ospedale si era rifiutato di venire da me dopo i primi colloqui, secondo lui non ero malata.

Ed aveva ragione, io non sono mai stata malata, eri tu, bastardo, che continuavi a perseguitarmi anche lì, anche senza l’utilizzo di televisori, radio e giornali che mi erano preclusi: ma io vedevo tuoi segni ovunque, tu eri ovunque, proprio come diceva la Bibbia.

Lo dissi al cappellano e lui non volle più venire da me, disse – appunto – che non ero malata, ero un’indemoniata.

Stupido prete.

Lui non capiva, esattamente come non capiva nessuno, Eddie.

Nemmeno tu hai capito, probabilmente, perché continui a comportarti come un uomo quando sappiamo benissimo che non sei solo questo. Questo mondo ti sta corrompendo, ti sei circondato di peccatori senza morale, mio Dio, drogati, punk, omosessuali…

Ma ho seguito il tuo primo consiglio, sono stata attenta ad ogni dettaglio. Ci ho messo quasi dieci anni per convincerli, ma alla fine ci sono riuscita.

Complimenti signorina Kelly, lei ce l’ha fatta, è completamente guarita, raramente abbiamo riscontrato una regressione tale nella sindrome di De Clérambault e blah blah blah.

Ho smesso di ascoltare quel pomposo pallone gonfiato in camice bianco immediatamente dopo i complimenti, mi sono dovuta mordere la lingua a sangue per non urlare di gioia in faccia a quell’idiota.

Invece mi sono finta mite, arrendevole, grata. Come mi volevano loro.

Ho giocato al loro gioco, stando alle loro regole, ed ho vinto. Sono fuori, niente più medicine e ronde e infermiere stronze. Il laccio è caduto.

Però non so dove sono i nostri bambini, me li hanno portati via mentre ero in ospedale per darli in adozione: io, io che sono la loro madre, secondo loro non sarei stata in grado di occuparmene.

Non hanno voluto dirmi dove sono, da chi sono stati adottati, se stanno bene.

Non ho mai capito perché non li hanno piuttosto affidati a te, ma probabilmente non hai voluto, vero? Perché sei un bugiardo ed hai buttato via loro esattamente come hai fatto con me.

Ma non può finire così, non dopo quello che c’è stato tra noi, non dopo le notti insonni e i sogni e la musica che hai suonato, lo so, solo per me.

Questa sera sarò il tuo Getsemani e finalmente saremo di nuovo insieme.


17.04.1994

Eddie Vedder aveva creduto di essere pronto.

Quando il successo lo aveva raggiunto e praticamente sepolto aveva quasi ventisette anni, era un uomo adulto, insomma.

Eddie Vedder aveva cominciato a vivere da solo che non aveva ancora sedici anni, pagava le bollette per conto suo e non mancava un affitto, era tornato a vivere con sua madre solo per poter anche finire il liceo. Non aveva smesso di lavorare, solo che a quel punto lo faceva soprattutto per dare qualche agio in più a se stesso e ai suoi fratelli minori.

Quando il successo gli era arrivato addosso credeva che sarebbe stato semplice maneggiarlo, in fondo aveva visto di peggio: mai provato a lavorare in un drugstore fino alle cinque del mattino per essere poi puntualmente in classe alle otto?

Insomma, aveva vissuto parecchio per farsi sconvolgere da tanto poco. Ma questo, appunto, lo credeva lui.

Quando il successo, quello vero, quello grosso e urlante, l’aveva raggiunto, Eddie Vedder ne era rimasto stupito. Semplicemente quello. Un po’ perché non se ne aspettava tanto, un po’ perché davanti agli occhi continuavano a passargli in parata immagini di Bruce Springsteen e Neil Young e Jim Morrison e Bono Vox e mille altri e non riusciva a trovare in se stesso la loro stessa naturalezza, la loro tranquillità. Il loro coraggio, forse.

Eddie credeva sarebbe stato felice una volta che il disco fosse uscito, a lui piaceva suonare e cantare su un palco, gli piaceva sentir urlare ragazzi come lui, guardarli pogare e strusciarsi e sentire la nostalgia di giorni nemmeno troppo lontani. La musica era quello, suonarla solo nel chiuso di uno studio era inutile, andava vissuta.

Ma il successo aveva troppe facce che non aveva considerato.

Il successo era anche un tubo catodico che ti risucchiava, un microfono nel quale pretendevano tu non cantassi ma parlassi, era la faccia di un tizio che ti guardava con sufficienza per poi farti domande stupide.

Era la folla che si accalcava sotto il palco, certo, e quello andava bene. Ma era anche la folla che ti circondava in strada mentre andavi a prendere un caffè, quasi volesse mangiarti.

La folla dei concerti aveva un volto, ne aveva tantissimi e tutti diversi, erano maschi ed erano femmine ed erano capelli lunghi e corti, lui riusciva sempre a vederli, aveva imparato a guardarli, a cercare i loro occhi e scoprirsi nelle loro pupille. In strada non era così: quella folla aveva un volto solo, una voce sola, era un corpo unico, era un gigante di carne che cercava il suo Pollicino. Eddie riusciva a vedere solo una grande bocca rossa che gli urlava addosso frasi senza senso e senza costrutto, frasi in cui il soggetto era sempre un Eddie Eddie Eddie ripetuto allo stremo, tanto che quel nome non gli sembrava quasi più il suo. Lo stavano mangiando.

Non era proprio sempre stato così. Quando avevano cominciato – quando avevano venduto poco più dei quarantamila dischi che avrebbero permesso loro di inciderne un altro – era tutto diverso, MTV non li aveva ancora scoperti, Rolling Stone non li aveva ancora scoperti. C’erano riviste interessate e tv locali, anche, ovvio, ma tutto era rimasto decisamente underground. Non se ne chiacchierava troppo oltre le live house, quello era il punto, ed a loro stava benissimo anche così.

Allora i fans non facevano paura, non erano ancora un corpo unico con mille braccia pronte a strapparti la carne. La tua.

Eddie si fermava sempre a parlare con un po’ di ragazzi dopo i concerti, o per strada, o ai festival. Era divertente, era bello ascoltarli ed ascoltarsi, sedersi con loro a prendere una birra e pensare che andava tutto bene, lui andava bene sul serio, una volta tanto. Era bello vederli felici per qualcosa che aveva fatto lui.

Leggeva ogni singola lettera che veniva indirizzata al loro neonato fanclub – che poi era semplicemente il solito magazzino in cui provavano – e cercava di rispondere a tutti nel miglior modo possibile. Perché quei ragazzi sembravano fidarsi di lui, sembravano sentire quello che sentiva lui e allora non poteva lasciarli soli. Sarebbe stato meno solo anche lui.  

Eddie non ricordava esattamente quando tutto era cambiato. Il fatto era fosse successo praticamente da un giorno all’altro, un giorno suonavano in una live house da cinquecento persone, il giorno dopo in sale da cinquemila.

E poi erano stati i cinquantamila del Lollapalooza.

E volevano loro. Urlavano il loro nome, il suo nome, tutti insieme. In quel momento non aveva realizzato davvero cosa sarebbe successo poi, cosa si stava muovendo sotto di lui; in quel momento, quando cinquantamila braccia si erano tese verso di lui incitandolo a lanciarsi, a fidarsi di loro, lui l’aveva fatto. Si era lanciato, si era fatto accogliere da quegli sconosciuti che avevano continuato ad urlare e a cantare e a sorreggerlo fino a riportarlo sul palco perché cantasse ancora la sua follia e la loro.

Ed era stato bellissimo.

L’adrenalina in circolo gli aveva impedito di pensare linearmente, gli aveva impedito di guardare davvero ciò che stava vedendo e che non avrebbe più visto per anni dopo quel concerto: aveva sentito le loro braccia, le loro mani, le loro carni unirsi alla sua, erano vivi ed era vivo lui. I cinquantamila del Lollapalooza non erano ancora diventati un indistinto fiume di carne e sudore senza nome che reclamava il suo sangue.

Ma allora, nell’estate del millenovecentonovantadue, Eddie ancora si sentiva uno della fossa: avrebbe continuato a sentirsi così per molto tempo, le avrebbe addirittura prese dai buttafuori al posto di qualche incauto fan, ma tutto sarebbe finito entro pochi anni.

Perché poi era arrivata lei.

Lei era una fan. Lei era giovanissima, lei aveva un mucchio di problemi e nessuno con cui parlarne. Lei, però, non ci stava con la testa. E non se n'era accorto nessuno. Non se n'era accorto Eddie: l'aveva tratta dal mucchio, come nel mucchio aveva pescato la sua lettera e l’aveva letta, riletta e si era sentito male per lei. Gli dispiaceva davvero.

Così era cominciata quella piccola corrispondenza apparentemente innocua.

In realtà Eddie aveva archiviato in fretta quella lettera, così come le numerose altre che erano seguite, perché, con l’aumento delle vendite e delle posizioni in classifica, diventava dura star dietro a tutto. Venivano sballottati come palle da bowling da un lato all’altro della Nazione, da un capo all’altro del mondo, e non sempre era divertente. E non era divertente perché non riuscivano a capire, ma nessuno si prendeva la briga di spiegar loro cosa stesse succedendo.

State andando forte siete in cima al mondo i ragazzi vi adorano un altro scatto per il prossimo numero un’altra domanda per i nostri lettori.

Ma quante domande avevano da fare? Quante foto da scattare? Le immagini non trasmettevano musica, ma loro erano musicisti. Perché non li lasciavano suonare e cantare e basta?

Dovete farvi conoscere, se non sanno che facce avete come vi riconosceranno?

Dalla musica.

Le radio hanno fatto il loro tempo, MTV è il futuro.

Ma io non ce l’ho MTV.

Il resto del mondo sì.

Era un mondo senza senso quello.

Ma andava bene lo stesso, doveva andare bene, l’avevano scelto loro, l’aveva deciso lui che voleva cantare, diventare un musicista. ‘Fanculo tutto il resto, giusto?

Potevano farcela, potevano resistere, stava andando tutto bene.

Intanto le cose cambiavano però. Intanto le luci cominciarono a non spegnersi più, i microfoni a non allontanarsi mai.

Durante il primissimo stadio del gruppo, Jeff e Eddie avevano cominciato a comporre e a dipingere insieme: si erano scoperti diversissimi ed affini, e quell’apparente controsenso era stato il terreno creativo che aveva nutrito un’amicizia – e, per un certo tempo, un attaccamento quasi infantile da parte di Eddie – che li avrebbe accompagnati nel corso della loro esistenza, tra gli alti e bassi della vita e le asperità dei loro caratteri.

Era musica che non facevano ascoltare a nessuno, erano tele che tenevano per loro, perché era tutto rovesciato: il silenzio delle notti invernali di Seattle era diventato la tela su cui dipingevano le note lunghe e distorte che gli scorrevano nelle vene, senza senso e senza ragione, un flusso di coscienza che mutava nel colore di una melodia.

Registravano tutto su nastri vergini che poi nascondevano tra le pieghe dei borsoni che si portavano in tour, o tra gli scatoloni del magazzino-sala prove le cui pareti tappezzarono di disegni e polaroid; pochi tratti veloci e nervosi a ridare forma al viso spigoloso di Pete Townshed, spruzzi di blu e bianco e verde a ricreare l’oceano capriccioso di San Diego e del Messico, pennellate corpose e brunite, quasi senza sfumature, per il calvario di uno skater i cui sogni di colore erano stati inchiodati ad una croce: questi i frutti delle loro notti insonni, tra i fumi acidi di acrilici, oli e diossido di cromo.

Poi non c’era più stato tempo, non c’era più stato silenzio da riempire, solo rumore da coprire con altro rumore.

Eddie non era abituato a quei frastuoni, era abituato al respiro dell’oceano, era abituato a coprire i rumori con la musica. Era sempre stato così, fin da quando era bambino: aveva nove anni quando aveva scoperto che il tuono della voce di Roger Daltrey poteva diventare il perfetto silenzio in cui ripararsi dalla quotidianità assordante e litigiosa della sua famiglia.

Ma quando è la musica stessa a dare origine al rumore, dove ci si può rifugiare?

Eddie non lo sapeva e nessuno del gruppo, nemmeno Jeff, poteva aiutarlo. Neppure Beth ci riusciva sempre, persino lei diventava rumore da zittire scavando il fondo di una bottiglia. Non stava andando poi così bene.

Era il millenovecentonovantatre quando decisero che avrebbero dato un taglio al superfluo e quindi niente più immagini di troppo, niente più fotogrammi a far da cornice alle loro note. Niente di niente.

Era il millenovecentonovantatre quando Eddie decise che voleva darci un taglio, che, oltre ai capelli, voleva far cadere quella fama di cui non capiva i corollari.

Era il millenovecentonovantatre quando incontrò due persone che, loro e suo malgrado, si erano legate a filo doppio alla sua esistenza.

Incontrò prima Kurt.

In realtà, quel backstage degli MTV Music Award del millenovecentonovantatre, non era stata la loro prima occasione di conoscersi. Ma Cobain lo odiava. Eddie sapeva benissimo cosa il cantante dei Nirvana pensasse di lui e, nonostante le rassicurazioni di chiunque, tutto quel rumore che lo circondava gli impediva di trovare una valida ragione per dargli torto.

Poi però, in quei microscopici corridoi illuminati male, si erano incrociati. Potevano far finta di niente, fingere di non vedersi, persino cominciare a litigare dal vivo, finalmente.

Invece si erano guardati in faccia per la prima volta e si erano visti davvero. Kurt si era tinto i capelli, lo aveva fatto da solo mischiando chissà quanti colori e sostanze e non si riusciva a capire cosa avesse sulla testa; Eddie sulla testa aveva un caschetto militare di quelli d’acciaio, pesante e compatto. Kurt stava cercando di far sciogliere completamente il marcio che aveva in testa, Eddie di trattenere quel che poteva esserci di buono, evitare che esplodesse senza preavviso.

Kurt e Eddie si erano guardati in faccia ed avevano visto riflessa nell’altro l’immagine della loro stessa paura. Semplicemente quello. Non era divertente.

Poi incontrò Lui. 

Pete Townshed allora aveva quasi cinquant’anni, era un uomo adulto, un vecchio rocker con cui il tempo non era stato particolarmente clemente e non era mai stato una persona facile con cui trattare: in fondo se lo ricordavano tutti quello che aveva fatto a Woodstock. Ma se uno stronzo qualsiasi, ubriaco fradicio, ti sale sul palco mentre stai suonando davanti a cinquecentomila persone tentando di rubarti la scena, non c’è messaggio di pace che tenga, ti viene voglia di spaccare la chitarra in testa all’idiota in questione.  E così aveva fatto.

Pete Townshed ovviamente non poteva saperlo, ma era uno degli uomini che avevano segnato maggiormente la crescita di Eddie, facendone quello che era: il bambino che pure era stato aveva riascoltato in loop Quadrophenia fino a cancellare i solchi del vinile. Poi il nastro della cassetta.

Eddie era una creatura di Townshed, Jimmy in carne e sangue.

Quando Eddie riuscì finalmente ad incontrare l’uomo che era stato il suo silenzio, però, non era più semplicemente la ferita aperta di cui aveva parlato Cameron Crowe su Rolling Stone, era qualcosa di peggio. La ferita si era ulteriormente slabbrata, si stava infettando, marciva. Eddie si sentiva marcire da vivo.

Ma Pete Townshed lo sentì cantare, lo vide cantare, ed accettò d’incontrarlo, stoicamente pronto a sopportare l’adulazione dell’ennesimo fanboy: quello che ricevette fu probabilmente il più bel complimento un uomo potesse ricevere, ma anche il più grande insulto ad un rocker della sua statura.

“Grazie, mi ha salvato la vita, lei è stato il mio silenzio.”

Alla fine di un’intera serata spesa in chiacchiere piuttosto che a inseguire fiumi di alcol, Pete Townshed era rimasto fedele al suo carattere di vecchio rocker inglese e aveva lasciato sfogare il ragazzo ancora un po’ prima di zittirlo con un gesto secco della mano. Che si era poi tramutato in un ceffone da manuale.

Dire Eddie ne fosse rimasto scioccato è poco, ma non fu solo la sorpresa ad impedirgli di rispondere al colpo: era Pete Townshed che l’aveva appena picchiato, in realtà sul momento stava persino per ringraziare per riflesso condizionato.

“Ora tu la pianti di dire stronzate, ragazzino, e mi stai a sentire. Non azzardarti mai più a sputare su quello che hai tra le mani, perché è quello che ho anch’io, è quello che avrà domani un altro ragazzino che vuole farsi ascoltare. Lascia perdere i corollari, lascia perdere la tv, la stampa, gli stronzi che non capiscono un cazzo e vorrebbero dirti dove devi andare: solo la musica può dirtelo, ormai ti ha scelto e sei fregato. Puoi solo seguirla e vedere dove ti porta, quindi mettiti scarpe comode e corri, o cammina, quello che ti pare, ma vai avanti. Quello che tu e i tuoi compagni state facendo è troppo bello ed importante perché ti permetta di tirarti indietro, quindi cerca un modo per starci dentro, uno qualsiasi, ma sognati di poter mollare adesso. La musica è un padrone severo, ma è l’unica dittatura che vale la pena di assecondare, fidati.”

Eddie non avrebbe mai più dimenticato quelle parole ed il bruciore alla guancia che si era trasformato improvvisamente nell’impronta di una carezza. Le avrebbe sempre portate con sé come sprone e consolazione in ogni momento della sua esistenza di uomo e musicista, erano state la lezione di vita che nessuno dei suoi due padri si era mai preoccupato di dargli, e le serbò con cura nella testa e tra le pagine macchiate della sua agenda.

Era il millenovecentonovantatre e il mondo girava ancora troppo velocemente per i suoi gusti, ma si diede un’altra possibilità, la diede a se stesso e ai suoi compagni.

Jeff, soprattutto, non lo dava a vedere, ma era tremendamente preoccupato per Eddie, non gli piaceva quello che stava succedendo al cantante. Lui era stato un artista, lo era ancora, la sua spiccata sensibilità per il colore gli aveva sempre fatto cogliere le sfumature più sottili: e gli occhi di Eddie stavano cambiando, avevano ormai il colore della pioggia.

Era il colore di Seattle che si era mangiato Andy e che stava mangiando Layne, e Cobain.

Non voleva si mangiasse anche Eddie.

Ma il cantante si ostinava a non voler capire che quel piccolo passo avanti utile a separarlo dalla fossa l’aveva già fatto, anche suo malgrado: se sei su un palco a cantare puoi solo diminuire quanto più possibile la distanza che ti separa dal pubblico, ma lo scarto ci sarà sempre. Fosse solo perché guardi in una direzione diversa rispetto a tutti gli altri.

Eddie, però, si era attaccato con le unghie e con i denti alla sua vecchia vita e non voleva saperne di vedere quello scarto, quello spazietto che si era aperto tra lui e la sua fossa. E continuava a leggere tutte le lettere che arrivavano, e a rispondere, quasi sempre con qualcosa di più di due righe di circostanza.

Nessuno si era accorto subito del suo disagio, nemmeno Beth: dal primo, decisivo scatto in classifica di Ten, Eddie era sembrato perennemente a disagio nei suoi stessi vestiti. Eddie, in fondo, era sempre stato un po’ a disagio nella sua stessa pelle.

Poi però, lentamente, quel disagio, quella rabbia che tramutava in rime e vocalizzi, si era trasformato in sospetto, rancore. Paura, forse.

Eddie non aveva mostrato subito agli altri le lettere di Maddie. L’aveva chiamata così, la prima volta che le aveva risposto, Madeleine gli era sembrato un nome inutilmente complicato da portare, soprattutto a diciotto anni.

E dunque Maddie: solo che lui non immaginava fosse matta sul serio.

Non immaginava, soprattutto, stesse già impazzendo lui e, il dolore che tutti quei ragazzi così sfacciatamente gli sbattevano in faccia chiedendogli risposte, fungeva solo da spinta finale. Solo pochi colpetti e sarebbe inesorabilmente caduto.

Madeleine Kelly rischiò di essere quell’ultima spinta.

Eddie ricominciò a non guardare più la folla urlante sotto il palco. Ricominciò ad essere nervoso davanti al microfono, a cercare ossessivamente Jeff o Mike o Stone, persino Dave con cui pure era sempre ai ferri corti, durante gli assoli. Le sue incursioni tra il pubblico diventarono sempre più rare e veloci: non si fidava più.

Eddie non sapeva quando era successo, o come, o perché, ma era successo.

Le lettere che riceveva da quella ragazzina di Grayland erano sempre state un po’ strane, un po’ infantili e sgrammaticate, ma nulla di eccessivo o allarmante: si sentiva sola, la sua famiglia l’aveva abbandonata, aveva un figlio appena nato, era costretta a lavorare per un cattolicissimo stronzo che la trattava come una sgualdrina, se non erano problemi quelli, chi poteva dire di averne?

Ma ad un certo punto, quelle lettere carine e tristi e sconclusionate, erano cambiate in qualcosa di diverso. Il cambiamento era stato sottile, strisciante, non se n’era accorto subito o avrebbe troncato la cosa sul nascere, ovviamente. Ma aveva decisamente altri problemi a cui badare, le strane lettere di una ragazzina di periferia, per quanto potesse spiacergli per lei, non potevano essere considerate una priorità. A volte non riusciva neppure a leggerle tutte o andavano semplicemente perse nella marea di missive che giungevano ogni mese in casella postale.

Poi però erano cominciate le velate accuse. Un po’ se le aspettava, tutti i ragazzi a cui scriveva, dopo un po’, lo avevano accusato di essersi montato la testa e venduto o chissà cosa. E solo perché magari non aveva risposto ad una lettera o l’aveva fatto con troppo ritardo.

Le accuse di Maddie, però, erano di natura diversa: non sembrava entrarci la musica, cioè. Eddie non era religioso e lo sapevano tutti, ma Maddie aveva cominciato a scrivergli dei passi del Vangelo, a chiedere a lui – a lui! – di spiegarle meglio alcune storie della Bibbia, ché il parroco di Grayland non era granché bravo e che avrebbe dovuto sceglierli meglio. All’inizio aveva pensato ad un errore, ad uno scherzo, perfino.

Poi Maddie aveva smesso di chiamarlo Eddie. Ed era precipitato nell’incubo.

In un incubo fatto di guardie del corpo e muri sempre più alti e spessi, di occhiate furtive alle spalle, di sospetti ed angosce.

Certi giorni aveva paura persino di mettere il naso fuori di casa, altri rimaneva a dormire in studio pur di non uscire una volta di troppo. Altri non riusciva a stare tra quattro mura, aveva bisogno di aria, di uscire, di nascondersi altrove, perché gli occhi di Maddie – che erano diventati tutt’uno con quelli delle telecamere, erano ormai fusi a quelli di chiunque incrociasse per strada, senza distinzione di sesso – se li sentiva addosso ovunque, sembravano spiarlo in ogni momento.

Beth aveva tentato di tirarlo via anche a forza la prima volta che l’aveva trovato rannicchiato tra la lavatrice e l’asciugatrice; l’aveva trovato così, accucciato con le ginocchia al petto e le mani strette ad un posacenere di vetro a fumare una sigaretta dietro l’altra, gli occhi rossi e sgranati fissi nel vuoto, seduto sul freddo pavimento della lavanderia.

“Qui non possono raggiungermi, almeno qui dentro non possono vedermi.”

Doveva farli smettere, tutti quanti.

Litigò con Beth e con Jeff e con tutti nel gruppo, litigò con chiunque la casa discografica tentò di mandargli per aggiustare le cose. Non voleva ascoltare nessuno né essere ascoltato, voleva solo seguire il consiglio di Townshed senza impazzire: la musica l’avrebbe seguita e servita per sempre, ma alle sue condizioni. Lui non era fatto per la velocità, non poteva correre.

Seppe di aver fatto la scelta giusta – di essersi unito al gruppo giusto – quando, una volta calmatesi le acque, si ritrovò davanti Stone, arrabbiato come l’aveva visto poche volte da che lo conosceva.  

Perché lui e Jeff avevano parlato, ne avevano parlato ben prima della sua scena madre, e sì, erano d’accordo con lui, le cose stavano andando troppo velocemente, non avevano quasi più tempo per fare musica e, cazzo, loro erano musicisti, se non riuscivano nemmeno a comporre, allora che senso avevano? Mike non era molto contento di quel nuovo corso, ma si sarebbe adattato, a lui bastava gli lasciassero la sua chitarra e un faretto dozzinale a scaldarlo davanti ad un pubblico, uno qualunque: perché lui voleva solo suonare.

Era stato più difficile con Dave, a lui quella storia non andava né su né giù, a lui piacevano le feste, gli piacevano i riflettori, gli piaceva la fama: era sempre stato l’unico, tra loro, ad aver sempre approfittato a piene mani dei vantaggi della popolarità e non voleva rinunciarci. Ma Dave era un ragazzino con la fissa delle donne e delle armi: poteva capire chi preferiva colpire con le note e portarsi a letto una chitarra, oltre alla scontata noiosa fidanzata del liceo?

Quante volte nella storia della musica era successo che un gruppo sulla cresta dell’onda decidesse di ritirarsi in buon ordine tra le retrovie?

Quante volte nella storia della musica era successo un gruppo sulla cresta dell’onda si guardasse indietro a quando suonava per pochi dollari in brutti locali e non capisse perché, cambiando semplicemente locale ma non musica, quei pochi dollari erano diventati improvvisamente troppi?

Era il millenovecentonovantaquattro, però, e la storia della musica era entrata in un’epoca delirante, aveva deviato su strade che poco o nulla avevano a che fare con le note.

Era il millenovecentonovantaquattro e Kurt Cobain aveva prima tentato il suicidio sui pendii di Roma, per poi riuscirci un mese dopo nella serra di casa sua, sulle colline di Seattle.

Era il millenovecentonovantaquattro e la musica era stata intossicata per sempre.

Era il millenovecentonovantaquattro e Madeleine Kelly, non avendo ricevuto risposta alle tante lettere mandate in quell’anno al suo Salvatore, aveva deciso di fargli visita di persona, rischiando di uccidere in un colpo solo se stessa e quel che rimaneva della sanità mentale di un santino di carne e sangue.

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Capitolo 3
*** 3 ***


17.07.2008

Che a Los Angeles il freddo e l’inverno non arrivino è un luogo comune, una leggenda metropolitana tra quelle più facilmente sfatabili, ma che nell’immaginario collettivo tendono a radicarsi come una bella metafora della vita: perché Los Angeles è la città degli angeli e gli angeli vivono in una perpetua e ricca estate di sole e miele, The City of Angels è sinonimo di Hollywood e non sta bene far raffreddare le stelle.

Che Los Angeles sia solo una città come tante – solo più grande e caotica e puzzolente di tante altre – e che Hollywood fosse nata come una cittadina-satellite di poveracci, in pochi se lo ricordavano, o volevano ricordarlo.

A Los Angeles arriva il caldo vero però, perché il deserto è dietro l’angolo e a volte sembrerebbe voler mangiare la città.

Il diciassette luglio del duemilaotto, il caldo ed il sole di Los Angeles non erano dunque nulla di anomalo, solo una bella cornice per le spiagge infinite di una costa color crema baciata dalla risacca di un oceano insolitamente dolce. Tanto da farci giocare i bambini, magari insegnar loro a nuotare o montare su una tavola corta e colorata.

Eddie aveva imparato a nuotare su spiagge simili a quella, giocando a rincorrere onde come quelle che ora sua figlia si divertiva a evitare e inseguire ridendo. Aveva appena compiuto quattro anni ed era la bambina più bella del mondo, sarebbe sempre stata la bambina più bella del mondo per qualcuno che veniva definito icona e santino di un’epoca capricciosa come la risacca dell’oceano: Eddie Vedder in quel momento era solo un padre come tanti che guarda la sua primogenita giocare con le onde, che poggia tenero la mano sulla pancia rotonda della sua compagna che sfoglia tranquilla una rivista.

Il diciassette luglio del duemilaotto era un giorno nato sotto i migliori auspici, perché era estate, il sole splendeva sulla Città degli Angeli, entro qualche mese George Bush sarebbe stato definitivamente sfanculato e uno scricciolo con gli occhi enormi ed un costumino rosa gli era appena caracollato addosso. Piantandogli il gelato alla fragola che teneva in mano direttamente nell’ombelico.

Vivian Gossard aveva poco più di un anno e tutta l’energia dei poppanti che si sono da poco liberati del pannolino e delle costrizioni del box, così come la strafottenza di chi può altamente fregarsene delle apparenze, protetta dal’alibi dell’età dell’innocenza o di quello che è.

“Vivi, tesoro, lo zio Ed ora ti compra un altro gelato, eh? Che i vicini ci guardano e non vorrei finire come Michael Jackson. Stone, di’ ma che t’è saltato in mente, non è troppo piccola per mangiare un gelato così?”

Il chitarrista ciabattava ancora a qualche metro con aria noncurante. Gli occhiali da vista leggermente ambrati e i capelli corti e brizzolati lo facevano sembrare un ragioniere in vacanza piuttosto che una rockstar da sessanta milioni di dischi: come gli altri – o forse più degli altri – nella band, Stone Gossard era invecchiato in modo pacato e coerente, mettendo su qualche chilo dopo i quaranta, fregandosene degli spruzzi bianchi tra i capelli e delle montature orrende che riusciva a scegliere per correggere la sua miopia. Da ragazzo sembrava un nerd capellone, da adulto il contabile di una società di computer e, se qualcuno lo stava degnando di uno sguardo, era solo per capire perché un bravo padre di famiglia come lui si accompagnasse ad un vecchio arnese palesemente tinto e ricoperto di tatuaggi.

Non che un tipo simile fosse uno spettacolo anomalo sulle spiagge californiane: era l’accostamento che straniva.

“La vizio un po’ visto che sua madre non c’è oggi. Ciao Jill.”

Stone aveva recuperato sua figlia - che tentava ancora di saltare addosso allo zio Ed per recuperare la sua pallina di gelato - ed aveva preso a ripulirla da quello che si era nel mentre spalmata sulla faccia, sulle braccia, ovunque.

Mike, l’arnese tinto, si era intanto sistemato al sole mite di quel primo mattino di metà estate sperando di liberarsi da quel pallore malaticcio che lo seguiva da qualche giorno, in vista della serata.

Magari avrebbe dovuto dar retta a Duff e farsi una lampada?

Ma gli unici ritocchi estetici che concepiva erano le cicatrici colorate con cui si faceva scolpire periodicamente, o le tinte sgargianti che vestiva sulla testa: per l’evento della serata aveva optato per un classico biondo fotonico.

“Jeff ha detto che non viene stamattina, si è svegliato prima dell’alba per andare all’Hollenbeck, ma Dori dovrebbe raggiungerci più tardi.”

Nessuno gli aveva fatto quella domanda, ma Mike sapeva che sarebbe arrivata, sapeva che Ed avrebbe chiesto: avevano un bel dire ognuno avesse la propria vita fuori dal gruppo e blah blah blah, la verità era non riuscissero effettivamente a scollarsi quando erano in tour o quando facevano musica, il che voleva dire sempre.

E Eddie non prendeva bene le separazioni. Ogni piccolo hiatus del gruppo – tecnicamente si separavano alla fine di ogni tour – era una sorta di prova del nove, una prova di resistenza: chi avrebbe chiamato per primo? E perché non lo cercavano?

Sindrome da abbandono, ecco di cosa soffriva Eddie Vedder. Altro che sindrome della prima donna, magari l’avesse avuta; almeno si sarebbero risparmiati un decennio a fuggire dalle telecamere senza riuscire comunque a sottrarsi ai doveri che derivavano dalla fama.

Ma quella era una specie di riunione di famiglia allargata, perché Ed aveva ovviamente con sé Jill – di nuovo ripiena -  e Olivia, Stone era con Vivian, Matt e la sua famiglia sarebbero arrivati di lì a poco – ma con due figli quasi adolescenti, il batterista aveva decisamente più problemi di loro per convincerli a seguirlo in spiaggia di mattina presto – e la sua Ashley e la piccola Aussie li avrebbero raggiunti entro un’ora al massimo. Dai cinque di partenza, si erano trasformati in un esercito.

E a Mike stava benissimo, così come – era sicuro – stava bene a tutti gli altri. Nessuno di loro era fatto per la solitudine e nessuno di loro avrebbe scommesso un solo centesimo, agli inizi, sulla sopravvivenza tanto del gruppo, come di alcuni di loro.

Ovviamente, i componenti del gruppo in lista, erano stati proprio lui e Eddie. Per diverse ragioni, ma ce l’avevano scritto in faccia che non avevano granché voglia di durare: o almeno, Mike non se ne preoccupava, e Eddie probabilmente non ne era semplicemente in grado.

Mike era della scuola Young: meglio bruciare che sparire lentamente. E, cazzo, se aveva seguito il consiglio! Aveva bevuto come una spugna, scopato come se non ci fosse un domani, spinto sull’ago come fosse l’acceleratore della vita, pensando stupidamente di avere tutto sotto controllo, di poter smettere quando voleva.

Poi Cobain era morto e il mostro che gli stava mangiando la pancia si era risvegliato e troppe altre cose erano successe una dietro l’altra.

Mike si era ritrovato in un centro di riabilitazione quasi senza accorgersene, ma fece il bravo ragazzo e s’impegnò con tutto se stesso per uscirne pulito. E in fondo, quei quasi dodici mesi non furono tanto male, tolte le crisi d’astinenza, e il vomito, la diarrea che spesso non riusciva nemmeno a trattenere, e la puzza schifosa del suo stesso sudore nonostante le docce continue.

In quei dodici mesi Mike scoprì di avere un sacco di amici, cosa che la siringa gli aveva completamente fatto dimenticare. Stone lo chiamava praticamente tutti i giorni, per i primi mesi aveva ricevuto anche tre o quattro telefonate al giorno dai suoi compagni di band e sapeva di poter chiamare ad ogni ora del giorno e della notte: avevano sempre risposto.

Mike scoprì che la dipendenza gli aveva fatto persino dimenticare della sua chitarra, perché fu proprio in quel centro di riabilitazione che – quando Stone gli riportò la sua bellissima vecchia rossa – riprese a suonare e comporre davvero, anche solo per se stesso. Persino Eddie – che aveva maledetto gli eccessi di Dave come una disgrazia. Ma che era sempre stato indulgente con lui, chissà perché - lo aveva chiamato spesso, era andato a trovarlo quando avevano permesso le visite, lo aveva abbracciato talmente stretto che aveva avuto paura gli spezzasse le costole, perché Ed era sempre stato uno sportivo ed un ragazzetto stranamente forte, mentre Mike era sempre stato un mucchietto d’ossa, ed in quel momento pure in crisi d’astinenza da anfetamine e vodka.

Quando era ritornato a Seattle aveva i capelli corti e del colore giusto, aveva messo su almeno dieci chili ed aveva in tasca una marea di note e voglia di ritornare in studio con i suoi amici: perché era stato lontano dodici mesi, ma non si era mai sentito più protetto, amato e vicino ai suoi compagni.

Gli stessi che ora stavano discutendo animatamente della serata – ma quando era arrivato Matt? – lanciando a Mike pallette di sabbia per attirare la sua attenzione.

“Mike, ma che fai dormi?”

“Lasciatemi in pace, Aussie ieri notte non ne voleva sapere di addormentarsi, sono stravolto!”

“Oh, ma povero papino!”

 

Jeff Ament aveva quarantacinque anni ed era un musicista di successo.

Jeff Ament aveva quarantacinque anni, era un musicista di successo ed un accanito skater, un ottimo skater.

Jeff Ament, però, era anche in ritardo per il sound-check previsto dopo pranzo, e qualcuno avrebbe preteso la sua testa.

Si stiracchiò di nuovo tra le lenzuola sfatte mentre dalla stanza da bagno Pandora canticchiava sotto la doccia una canzonetta popolare, di quelle che i contadini del Montana cantavano durante il raccolto a metà del novecento: così imparava a portarsi a letto un’insegnate secchiona.

Ridacchiò guardando di nuovo l’orologio e pensando che sì, era proprio l’ora di alzarsi e fare una doccia, che la giornata stava per cominciare solo in quel momento, nonostante le quattro ore passate a fare skate con i ragazzi dell’Hollenbeck – un paio di quindicenni lo avevano addirittura avvicinato, timidissimi, chiedendogli l’autografo sulle tavole – e il piacevolissimo bentornato con cui l’aveva salutato la sua compagna, perché non si dice mai di no ad una scopata post-prandiale.

Il sound-check sarebbe andato benissimo, lo sapeva già, quelle canzoni le conoscevano a menadito, Mike si era persino allenato per ricreare un paio di mulinelli alla Townshed e – nemmeno a dirlo. Per quel nanerottolo tatuato sembrava le chitarre si piegassero ad eseguire docilmente qualunque cosa – gli venivano benissimo, lo stesso Pete si era congratulato con lui per non essersi fratturato il pollice destro nemmeno una volta. Al contrario di Eddie, che ancora lo prendevano per il culo tutti quanti per quella volta che era riuscito quasi a spezzarselo, provandoci: ma quello non doveva saperlo nessuno, si vergognava più di quella corsa al pronto soccorso che della visita alla reception di un albergo con le chiappe al vento.

Piluccò con poca convinzione qualche chicco d’uva dal cesto di benvenuto ancora nudo come un verme prima di dirigersi un po’ sbilenco verso la doccia.

“Dori, fammi spazio, se non esco da qui dentro entro venti minuti non avremo mai dei figli!”

 

Il Pavillion era già pronto, tirato a lucido per l’evento della serata. Erano appena le tre del pomeriggio, mancavano quasi sei ore allo spettacolo ed i rodies e i tecnici si affannavano correndo come formichine operose sistemando amplificatori, jack e strumentazioni, mettendo in sicurezza transenne e parapetti. Gi ultimi ritocchi erano sempre i più complicati e fastidiosi.

Andy e Wayne guardavano i loro colleghi dall’alto di un’impalcatura del soffitto mentre davano le ultime rifiniture all’illuminazione stroboscopica che avrebbe fatto da contorno all’uscita delle star della serata. Erano stanchi e stufi marci di avvitare e controllare lampadine e neon colorati, ma il lavoro è lavoro e, una volta finito tutto, magari sarebbero riusciti a godersi lo spettacolo da una visuale privilegiata, alla faccia del parterre di VIP.

Non era poi così male lavorare come tecnici per l’UCLA, l’università pagava meglio delle solite sale da concerto ed era decisamente più elastica con il personale. Lo era un po’ meno lavorare per le stazioni televisive, ma in California – e soprattutto a Los Angeles - dovevi fartene una ragione o non lavoravi per niente.

Wayne aveva i capelli abbastanza bianchi da aver visto passare di tutto in quel palazzetto, da Marley alle finali dell’NBA, e quella sera avrebbe visto un branco di matricole leccare il culo a due vecchi inglesi artritici ed abbastanza onesti da essere per quello stesso motivo profondamente antipatici. Possibile che in quella cazzo di VH1 avessero la fissa per i britannici? Tre speciali, nove gruppi e solo tre di questi americani: perché, l’America non aveva prodotto della buona musica da onorare?

Onorassero i Beach Boys e i Grateful Dead, piuttosto.

Andy la vedeva diversamente, ma era giovane e ne aveva di musica da ascoltare e vedere prima di poter discutere con il vecchio Wayne.

Intanto erano anche cominciati i sound-checks e i primi musicisti facevano capolino dalle quinte, ovviamente vestiti in modo che un qualunque stilista avrebbe definito semplicemente atroce, ma che al vecchio tecnico sembrava persino accettabile: almeno non avevano rifilato fighette, per la serata.

Andy, che era giovane, quei gruppi li conosceva, soprattutto alcuni, e si sarebbe sicuramente divertito quella sera ad ascoltarli, così come tutti i trentenni che sarebbero stati in sala insieme ai vecchi ragazzi come lui.

Mancavano poco meno di sei ore e le luci si sarebbero accese davvero, tutte insieme.

 

Pete gironzolava per i backstages come un padre nervoso controllando che i suoi bambini fossero tutti pronti e in buona salute: lui nemmeno voleva farla quella serata.

Pete Townshed si sentiva vecchio per quella vita, vecchio per fare musica in quel modo, soprattutto, ed era sempre stato troppo onesto e troppo puntiglioso per anelare a qualcosa di meno della perfezione: e a sessantatre anni suonati, se avesse fatto una scivolata sulle ginocchia gli sarebbe di sicuro partito un menisco, se non entrambi. Sai che ridere.

Se aveva accettato era stato per Roger, che ancora ci teneva a cantare davanti ad un pubblico, e per quel pizzico di vanità che non guasta: in fondo erano tutti lì per onorare due vecchi inglesi messi pure abbastanza male da sentirli tutti, gli anni che avevano addosso.

Alcuni di quei ragazzi – uomini, santo cielo, avevano tutti superato abbondantemente i trent’anni. Erano uomini, era lui ad essere vecchio. – che lo guardavano adoranti nemmeno li conosceva, non aveva minimamente idea di cosa suonassero e probabilmente nemmeno gli sarebbe piaciuto saperlo. Tirò un sospiro di sollievo occhieggiando Eddie in un angolo che chiacchierava animatamente con O’Brien e Penn, rideva, era rilassato. Erano tutti parecchio rilassati. Meglio così: era contento di non dover più rifilare ceffoni a quella specie di figlio putativo che a trent’anni suonati ancora si ritrovava paranoie da adolescente brufoloso, perché, se non fosse riuscito a farsi capire dopo la prima sberla, sarebbe passato direttamente alla chitarra. Pete Townshed non aveva mai preteso di essere un padre affettuoso.

Li aveva raggiunti invitandoli a spostarsi verso il lato del palco, lo spettacolo stava per cominciare e Grohl avrebbe attaccato a breve con Young man blues: il conto alla rovescia era partito.

Pete poteva anche dirsi soddisfatto, perché la serata stava andando da Dio e solo la presenza di Keith e John avrebbe potuto renderla perfetta, ma nessuno dei due aveva avuto la pazienza di aspettare e diventare davvero vecchio. Peggio per loro.

I Foo Fighters avevano suonato alla grande, così come i Flaming Lips e sugli altri meglio glissare, purtroppo non era riuscito ad avere l’ultima parola su tutto. Ma tutto sommato non poteva lamentarsi, nessuno aveva fatto davvero schifo da farlo vergognare di aver scritto quelle canzoni, il che era già una gran cosa.

Però stavano per entrare in scena i suoi ragazzi.

Roger, al suo fianco, era parecchio nervoso, come sempre capitava prima di una serata, fosse o meno lui a dover cantare. E poi, guardare Eddie sul palco era un po’ come rivedere se stessi quasi trent’anni prima, il ragazzo – uomo! Aveva passato i quaranta, per Dio: possibile fosse tanto vecchio da considerare troppo giovane il resto del mondo? – non aveva mai fatto mistero di essere un fedele di Daltrey e ne riproduceva le movenze eccessive ogni volta che ne aveva occasione.

Alla prima nota di Love Reign O’er Me aveva trattenuto il respiro, Jimmy aveva allacciato le mani al microfono ed aveva cominciato a piangere sulla sua identità violata e finalmente ritrovata. Eddie ringhiava di dolore e felicità, la sua era un’epifania violenta come una tempesta tropicale, Mike e Stone si erano fatti vento amplificando il tuono dei colpi combinati di Jeff e Matt: era un uragano e sembrava davvero di essere bagnati da una pioggia che lavava e purificava, mettendo a nudo un’identità da sempre posseduta.

Poi era successo qualcosa.

Il gruppo non aveva perso una nota, l’orchestra di archi aveva continuato a suonare, ma Eddie aveva smesso di cantare. Era rimasto fermo, impalato davanti all’asta del microfono, per qualche secondo, con un’espressione vagamente perplessa e la bocca aperta a cercare un suono che non usciva.

Pete aveva strabuzzato gli occhi preoccupato, cercando di vedere, di capire quel che stava succedendo. Poi l’aveva visto cadere giù e le urla del pubblico avevano sostituito quelle di una sirena triste e della musica e la confusione aveva impedito a chiunque persino di preoccuparsi di un uomo con i capelli rossi e gli occhi nocciola che rideva e piangeva appollaiato più in alto di tutti, su un trespolo d’acciaio che era diventato la sua nuvola ed il suo Paradiso, finchè non aveva lasciato cader giù sul pubblico il suo fucile e poi se stessa, una Maddalena finalmente in pace pronta a raggiungere il suo Salvatore.

 

Madeleine Kelly non era sopravvissuta all’impatto con le poltroncine in plastica del Pavillion, si era spezzata la schiena in più punti morendo sul colpo a soli trentacinque anni.

Nessuno era riuscito a capire come fosse riuscita a farsi passare per Andy Kinney, per un uomo, senza destare sospetti, né come fosse riuscita a farsi assumere come tecnico. Ma, soprattutto, come fosse riuscita a far passare inosservato un fucile.

A discolpa delle risorse umane dell’ufficio assunzioni dell’UCLA, c’era da dire i suoi documenti sembrassero effettivamente veri, così come il suo camuffamento: gli anni di manicomio dovevano aver dato il colpo di grazia ad un’avvenenza che in fondo non aveva mai posseduto.

Il fucile risultò acquistato regolarmente su internet con il solito documento falso appena due mesi prima, appena pochi mesi dopo la fine del suo internamento.

Il servizio di sicurezza della struttura fu duramente messo sotto accusa per palese negligenza nei controlli e all’inchiesta del LAPD si affiancò quella interna del campus.

Harper Moon Margaret Vedder nacque il ventitre settembre del duemilaotto senza particolari complicazioni nonostante sua madre avesse rischiato un aborto spontaneo appena un paio di mesi prima. Ma stava bene, un meraviglioso angioletto con gli occhi verdi della mamma e le guance paffute e rosee del suo papà.

Che aveva ripreso a scrivere non potendo più cantare, almeno non ancora: ma Eddie non era fatto per correre e conosceva il piacere profondo che solo una passeggiata – per quanto lunga – può dare. E, per quella Luna che lo guardava curiosa, sarebbe tornato ad intonare la più dolce delle ninnananne.  

Eddie Vedder non poteva – e non voleva -  più permettersi di avere paura.

End.

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