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di Stupid Lamb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Ultimo capitolo ***
Capitolo 5: *** Extra - Pro Africa ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il mio cervello va per conto suo, lo giuro

Il mio cervello va per conto suo, lo giuro. Non avevo alcuna idea circa ciò che andrete a leggere, fino a questo pomeriggio. Poi la lampadina si è accesa, e con essa le mie dita.

Chiedo perdono in anticipo per le colossali baggianate che seguiranno.

 

Quattro capitoli, non di più. Spero XD

 

Buona lettura.

 

Capitolo 1

 

“Joe, me ne vado. Mi licenzio.” Tolgo il grembiule e la bandana. Mi avvio alla porta di servizio, lasciando il formaggio sulla griglia.

“Edward, dove pensi di andare?”

“A casa, Joe. Me ne torno a casa,” rispondo, infilando le mie cose in uno zaino.

Joe, il quarantenne grassoccio che mi ha assunto due settimane fa mi guarda come se gli stesse per scoppiare la testa. Si avvicina, e mi appoggia una mano sul petto. “Non puoi fare così, hai delle responsabilità.”

“L’unica responsabilità che ho a questo mondo, Joe, mi aspetta a casa,” gli dico, chiudendo lo zaino.

“E come pensi di sfamarla quella possibilità, eh? Se non lavori, tuo figlio non mangia.”

Punto nel vivo, chiudo gli occhi e trattengo la voglia di dare un pugno all’armadietto.

Mio figlio. E’ per lui che sto facendo tutto questo, è per lui che nell’ultimo anno sono arrivato a fare di tutto, perfino il “cuoco” al fast food di Joe.

“Troverò di meglio, Joe. Grazie per l’opportunità che mi hai dato.. ma questo non è il mio lavoro, non lo è mai stato. Lo sai bene: ho impiegato la prima settimana a memorizzare gli ingredienti dei panini, e ho speso la seconda a bruciarne la metà. Non è il mio lavoro,” ripeto, afferrando il giubbotto dal chiodo appeso alla parete del magazzino.

“Ciao, Joe.”

“Ciao, Edward,” dice, borbottando qualcosa come “Ragazzo… Svogliato… Fannullone…”

Mi chiudo la porta alle spalle, e mi ritrovo in mezzo alla strada. Completamente.

Incluso il lavoro da Joe, nell’ultimo anno ne ho cambiati nove.

Nove lavori: nove opportunità andate a monte.

Perché, si chiederà qualcuno, il Marketing Manager di un’importante società si ritrova a farcire panini da Joe? Semplice: Recessione.

La mia società (o meglio, ex società) è colata a picco un anno fa, trascinando con sé il sottoscritto e altre centinaia di dipendenti. All’inizio, incassato il duro colpo, mi sono rimboccato le maniche ed ho cercato lavoro presso altre aziende, anche di più piccole dimensioni.

Un figlio ed una moglie da mantenere, il mutuo di una casa da catalogo d’arredamento da pagare, una nuova auto: avevo tutto questo sulle spalle, e non mi sono perso d’animo.

Ma si sa, la recessione è un baratro troppo profondo, per cui mi sono dovuto adattare.

Dopo il primo mese di colloqui e annunci andati a vuoto, ho accettato un lavoro presso un piccolo studio di Seattle come contabile. Lavoro completamente diverso da quello del manager, ma mia moglie e mio figlio contavano su di me. Daniel aveva solo tre mesi quando ho perso il lavoro.

Dopo un mese e mezzo sono stato licenziato. La crisi ha colpito anche il piccolo studio, e ovviamente il nuovo arrivato è stato tagliato fuori dal libro paga.

Poco ha importato la mia condizione familiare, poco hanno contato le mie suppliche nei confronti del commercialista: licenziato.

I guai veri e propri sono arrivati dopo un paio di settimane: quando non sono stato in grado di far fronte alle spese del mutuo, e a quelle per la macchina. Io e Tanya avevamo pochi risparmi da parte, e tutti i fondi e le azioni in cui avevamo investito sono colati a picco assieme ai soldi di tanti americani.

I miei genitori e quelli di Tanya ci hanno sostenuto, e sono certo che i miei lo farebbero ancora se sapessero in quali condizioni mi trovo. Circa tre mesi fa – dopo l’ennesima assunzione presso una sala da bowling, come addetto alle pulizie – ho detto loro che le cose avevano iniziato a prendere una buona piega, e che in breve tempo mi sarei rimesso in piedi. Erano entusiasti, e lo ero anch’io, per cui non ho avuto il coraggio di dirgli la verità, quando non solo ho perso il lavoro, ma anche la moglie.

Due mesi fa, Tanya è andata via di casa, lasciando non solo me, ma anche Daniel, il nostro bambino. L’ha fatto subito dopo il suo primo compleanno, che abbiamo passato in compagnia dei miei fratelli, Jasper ed Emmett, tagliando una piccola torta pre-confezionata e bevendo soda da quattro soldi. Non potevamo permetterci molto, e adesso non posso permettermi nulla.

Ho detto addio tempo fa all’auto sportiva, alla casa da catalogo: adesso uso i mezzi pubblici per spostarmi da un capo all’altro della città, e vivo in un piccolo appartamento con due camere, cucina ed un piccolo bagno. Si trova in un quartiere povero della città, ma non tanto povero: sono stato fortunato nella ricerca grazie a Emmett, che vive in zona da qualche anno ed è riuscito non solo a scovare un appartamento, ma anche a farmi pagare una bassa somma di denaro per l’affitto.

Somma di denaro che in questo momento è elevatissima, visto che mi sono appena licenziato.

Perché? si chiederà qualcuno. Hai una casa ed un figlio da mantenere, hai delle responsabilità, come ha detto Joe.

E’ vero, ho delle responsabilità, ma ho anche un peso enorme addosso, e non sono più certo di riuscire a sorreggerlo.

Quando mi sono laureato avevo grandi progetti per il mio futuro e parte di essi erano ormai realizzati: una moglie bella e intelligente; una posizione lavorativa invidiata e molto remunerativa. Avevo tutto.

Nel giro di sei mesi ho perso tutto: lavoro, amici, conoscenze, moglie, casa, macchina.

Mi è rimasto lui, Daniel. Il mio ometto. Cammina, adesso. Ha mosso i primi passi con Jasper ed Emmett, io non c’ero. Ero a tagliare l’erba nel giardino di una villa per 15 dollari l’ora. Un anno fa, guadagnavo 15 dollari non appena mi svegliavo, tanto era elevato il mio stipendio.

Mi sento sconfitto, deluso. Non ho più voglia di rimboccarmi le maniche, anche perché sono talmente messo male che non ho più neppure quelle, le maniche.

I miei fratelli mi aiutano quando e come possono, e i miei genitori sono ancora convinti che tutto vada bene.

Potrei chiedere aiuto a loro, sostegno economico, ma sono troppo orgoglioso per farlo.

Sono anche tanto arrabbiato.

Mia moglie, Tanya, mi ha lasciato. “Non ce la faccio più. Non posso continuare in questo modo.” Questo c’era nel biglietto che ha lasciato sul tavolo la sera in cui è scappata. Nell’ultimo periodo, i litigi fra di noi erano frequenti. Ho imparato presto che pochi soldi = molti litigi. Litigavamo per le cose importanti, ma in particolar modo per quelle che erano e sono delle sciocchezze.

Io ero stanco, affranto e sfiduciato per la mancanza di lavoro, lei lo era perché costretta in una casa più piccola, in un quartiere in cui non conosceva più nessuno. Abbiamo sempre cercato di non far mancare nulla a nostro figlio, ma nell’ultimo periodo Tanya ed io litigavamo anche su quello.

Secondo lei, non facevo abbastanza per guadagnare. Secondo lei, sarei dovuto scendere a compromessi, avrei dovuto fare di tutto pur di portare a casa più soldi.

Ciò che non sapeva, o che forse non riusciva a capire, è che io facevo già di tutto.

In questi dodici mesi ho fatto di tutto: per lei, per Daniel.

E sono arrabbiato perché lei ha scelto la via semplice, la più comoda: è scappata. L’ho cercata dai suoi, ho contattato i nostri vecchi amici, ma nessuno sa niente di lei: è come svanita nel nulla.

A me cosa rimane? Un figlio da crescere, una casa da portare avanti, e un vuoto interiore che diventa sempre più grande, giorno dopo giorno.

Non avevo in mente questo, quando pensavo al mio futuro.

Non avrei mai creduto possibile di ritrovarmi, a 31 anni, in queste condizioni.

 

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*va a nascondersi in una tomba vuota e si ricopre di terriccio umido* <-- Halloween è vicino XD

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Grazie a tutti per i commenti al primo capitolo, e per la fiducia che nutrite sempre nei miei deliri

Grazie a tutti per i commenti al primo capitolo, e per la fiducia che nutrite sempre nei miei deliri. L’idea per questo è nata su Twitter, per cui un grazie speciale va alle ragazze che mi hanno fomentata XD

In molte avete scritto della somiglianza con La ricerca della felicità: posso dirvi con certezza che ‘padre povero e single con figlio da mantenere’ è l’unica somiglianza che troverete.

Ve ne renderete conto in questo capitolo.

 

Buona lettura

 

Capitolo 2

Una settimana dopo

“Daniel, so che le verdure sono disgustose… ma devi mangiarle… andiamo.” Con una mano reggo lui sulle ginocchia, con un’altra cerco di infilargli il cucchiaio in bocca. Alla fine, giocando all’aeroplano, riesco a farcela. Ogni tanto butto l’occhio sul giornale degli annunci di lavoro, ma ciò che leggo è tutto ciò che ho fatto e in cui ho fallito finora.

Quando sento bussare alla porta so già che si tratta di mio fratello Jasper, per cui dico ‘Avanti’ senza scomodarmi.

Jasper si è laureato da poco in legge, e sgobba come associato in un studio di avvocati. E’ il più piccolo di noi, quello più freddo, diplomatico. Qualcuno potrebbe dire che è un difetto, secondo me non lo è.

Al mondo d’oggi, la pelle da elefante è ciò che serve per sopravvivere.

La mia? La mia è pelle sempre più sottile.

“Ehi, Edward…” Jasper mi appoggia la mano sulla spalla, prima di piegarsi fino a raggiungere mio figlio. “Ehilà, campione. Mangia tutto, eh!”

Daniel gli sorride e allunga le braccia per raggiungerlo. Jasper l’afferra, e lascia andare il suo giornale sportivo sul tavolo. “Come va?”

“Bene,” rispondo.

“Hai trovato qualcos’altro?”

“Non ancora, sto cercando,” rispondo, sventolando il giornale degli annunci.

“Te l’ho detto, Edward… se vuoi posso chiedere ad uno dei soci dello studio per un posto come…

“No, Jasper. Ti ringrazio, ma non ne ho bisogno.”

Lui sistema Daniel nel passeggino, pronto a portarlo al parco come fa ogni giorno. “Tuo padre è un testardo, campione… non prendere esempio da lui.”

Imbocca il corridoio, ed appoggia di nuovo la mano sulla mia spalla. “A dopo, Ed.”

“A dopo.”

Dopo aver sistemato la cucina e la cameretta di Daniel, riprendo a sfogliare il giornale, da capo. Percorro col pennarello ogni singolo annuncio. Pescatore in Alaska, sostituto postino a Chicago, babysitter per le ore serali.

Certo, sarebbe fantastico. Io a fare il baby sitter, con l’incombenza di dover chiedere a qualcuno di badare a mio figlio. Non posso chiedere anche questo alla mia famiglia, e non posso disturbare ancora una volta la dirimpettaia, la signora Dwyer: il mese scorso Renée si è offerta di badare a Daniel per un paio di ore e mi ha detto che l’avrebbe rifatto volentieri, ma non posso approfittare della sua disponibilità.

Una volta finiti gli annunci di lavoro, passo a sfogliare distrattamente il giornale sportivo lasciato da Jasper. Mi aggiorno sul campionato di baseball: una volta seguivo diligentemente ogni squadra, scommettevo, viaggiavo con gli amici per andare a vedere le partite. Adesso è già tanto che riesca a sapere i risultati una volta ogni venti giorni.

Alla fine del giornale scorgo, fra i vari trafiletti, un paio di annunci: colf di origini latino-americane e ambosessi per lavoro da casa, ben retribuito.

Ho imparato, negli ultimi tempi, che questo tipo di annuncio nasconde sempre qualcosa di losco. Truffatori che chiedono soldi in cambio di un lavoro inesistente o, peggio ancora, linee erotiche. Osservo meglio l’annuncio, e le parole ‘ben retribuito’ mi fanno gola, lo ammetto. Magari non è un lavoro losco, magari potrei guadagnare davvero qualcosa.

“Chi voglio prendere in giro…”

Lascio il giornale sul tavolo ed esco, cercando di non pensare, cercando invece di sperare.

 

 

Due settimane dopo

“Come sta?” chiede Emmett, affacciandosi nella camera di Daniel.

Io gli sto accanto, guardandolo mentre dorme, in una culla che ormai è troppo piccola per lui. “Meglio, la febbre è scesa,” sussurro, accarezzandogli i capelli chiari. Tendono al biondo, come quelli di Tanya.

In compenso ha i miei occhi, verdi, e il sorriso allegro di mia madre.

Mi alzo dalla sedia e raggiungo Emmett in cucina, afferrando una fetta di pizza dal cartone.

E’ fredda.

“Grazie, Em. Per le medicine… per tutto.”

“Non ringraziarmi. Lo sai che sono sempre a disposizione per te. E per mio nipote.”

Emmett ha un anno in più di me, ed è capo redattore presso un quotidiano di Seattle. Ha scelto la via della gavetta fin da ragazzo, cercando di emanciparsi presto dai nostri genitori. “Per le medicine… non ho detto a papà che erano per te, come mi hai chiesto di fare.”

“Grazie.”

Restiamo in silenzio a fissare la televisione per un’oretta, poi mi saluta e torna al suo appartamento.

Il fondo è vicino, posso sentirlo.

Non sono più in grado di provvedere al mio bambino, e sono troppo testardo ed orgoglioso per tornare dai miei, per chieder loro aiuto.

Forse è giunto il momento di cedere ai famosi compromessi, forse è giunto il momento di tentare qualcosa di losco. O di potenzialmente losco.

Il mattino dopo, alle 8 in punto, compongo il numero di telefono dell’annuncio per il lavoro da casa, quello ben retribuito. Mi risponde una donna, e mi dice che se voglio posso andarne a parlare a quattr’occhi nell’ufficio in centro. Dibatto dentro di me per qualche secondo, e alla fine accetto.

Busso alla porta della signora Dwyer, e lei mi dice che non c’è alcun problema: baderà a Daniel durante la mia assenza.

E’ una donna gentile, simpatica, con un marito più giovane di lei e una figlia che ha iniziato il liceo da poco: la vedo ogni mattina, mentre prende l’autobus sotto casa. L’unico difetto di Renée, a volerne cercare uno, è il fatto che le piace parlare. Tanto.

Spesso – quando ci becchiamo nelle scale – sono costretto ad ascoltarla e a fingere di essere interessato. Mi parla del suo cagnolino, del lavoro di suo marito, e credo che una volta mi abbia perfino detto di avere una figlia più grande. Non ne sono convinto, però: non presto molta attenzione a ciò che dice.

 

Come immaginavo, il lavoro consiste nel rispondere ad una linea erotica. Gli orari sono flessibili, e si è pagati per ogni minuto di conversazione. Numero personale (come sono lontani i tempi in cui possedevo un telefono aziendale) per le chiamate e un computer per gestirle.

Ho accettato? Sì.

La signora non mi ha chiesto un curriculum, non mi ha chiesto dei documenti, non mi ha chiesto niente. Mi ha consigliato di usare un nome fittizio, di non dare mai a nessuno informazioni personali, e di accontentare tutti: clienti contenti, clienti che restano al telefono, clienti che richiamano, più soldi per me. Mi ha dato un portatile, un paio di cuffie da collegare, e una lista fotocopiata di frasi standard da dire per “riscaldare i clienti e metterli a proprio agio.”

Dall’ufficio in centro, lei terrà il conto dei miei minuti, e ogni due settimane andrò a riscuotere la mia paga.

Squallido? Molto.

Ma davvero non so più che fare.

Torno a casa e ringrazio la signora Dwyer per la cortesia.

Una volta solo, accendo il computer e sincronizzo le impostazioni che mi sono state date. Dopo qualche secondo, si apre un pannello chiaro che mi avverte di una chiamata in arrivo. Tremo come un ragazzino, infilo le cuffie e schiaccio Invio, ma la chiamata dura meno di mezzo secondo: chiudo il programma immediatamente, come se potesse scoppiarmi in faccia.

Era una chiamata per me? Cercavano me? Cosa dovrei dire? Era una donna? Un uomo?

La signora mi ha detto che gli uomini ricevono prevalentemente chiamate femminili. Ciò non esclude che potesse trattarsi di un individuo di sesso maschile.

Spengo il computer e lo ripongo nell’armadio, ripromettendomi di provarci a notte fonda.

 

-

 

In camera mia, riaccendo il portatile e mi connetto al programma che da un centralino smista le chiamate ai singoli operatori. Sistemo le cuffie, dotate di microfono, e aspetto.

Rileggo la lista, e decido che il mio nome sarà Mark.

Dopo un paio di minuti arriva la prima (o meglio seconda, contando quella di stamattina) chiamata. Penso a mio figlio, che dorme beato nella camera accanto. Penso ai miei compagni di college. Penso a Tanya.

“Ciao, tesoro… sono Mark,” esordisco, meravigliandomi di quanto la mia voce sia sicura.

“Um… ciao Mark. Mi chiamo Carol…” Osservo la lista, e mi colpisce uno dei punti:tieni viva la conversazione, in particolare con gli insicuri. Non farli riagganciare.

“Ciao Carol… quanti anni hai?”

“18, tu?”

Altro consiglio:non hai mai più di 25 anni. In questo modo piacerai alle giovani e alle meno giovani.

“23 anni, Carol… Ho ventitré anni. Sei a casa, tesoro?”

Mi faccio schifo.

“Sì… come sei, Mark? Ti va di descriverti?”

“Certo, tesoro.” Non ho motivo di mentirle anche sul fisico, per cui mi descrivo per quello che sono in realtà: capelli castani, con qualche striatura rossa; occhi verdi, fisico scolpito (una volta lo era, oggi lo è di meno).

Sei carino…”

“Grazi, Carol…” Sento che siamo arrivati al momento fatidico. Siamo giunti al motivo della sua chiamata, il motivo per cui sono qui, il motivo per cui si chiama linea erotica.

“Mark… dimmi qualcosa…” dice lei, abbassando il tono della voce.

“Cosa vuoi sentirti dire, piccola…” Sospiro e cerco di sembrare coinvolto, ma la realtà è che vorrei chiudere la comunicazione, gettare computer e cuffie dalla finestra e farla finita anche con questa storia.

Ma non posso.

“Non lo so… dimmi qualcosa per farmi eccitare…

Chiudo gli occhi e sospiro di nuovo, prima di riaprirli e concentrarmi sul mio nuovo ‘lavoro’. Ripenso a mio figlio, ed inizio a parlare.

Come consigliato sulla lista, inizio con qualcosa di soft, per intrigare e far riscaldare la cliente. Le chiedo cosa vuole, e lei – minuto dopo minuto – si eccita e diventa più spregiudicata.

Carol mi dice che si sta toccando pensando alla mie dita, io le dico di muoverle e di immaginare che siano le mie. Le dico che la sto baciando, leccando. Le dico ciò che vuole sentirsi dire, fino a che gode. Al telefono. ‘Grazie’ a me.

Durata della chiamata: poco più di 10 minuti. Guadagno netto: 6 dollari.

Il prezzo di una confezione di Aspirina per Daniel.

 

Dieci giorni dopo

“Ciao, Mark… sei stato fantastico anche stasera…

“Sono stato fantastico solo per te, Deborah… ti adoro, buonanotte.”

Chiudo la comunicazione, tolgo le cuffie e le getto sul letto. Spengo il computer, dicendomi che un’ora di telefonate può bastare, almeno per stanotte.

Deborah è una delle tante clienti che chiama appositamente per me. Chiede di Mark, al centralino, perché sembra che Mark sia il suo stallone preferito.

Nell’ultima settimana ho ricevuto molte chiamate, e secondo un rapido calcolo ho guadagnato una cifra che al momento mi sembra stratosferica. So che se accendessi il computer anche di giorno lavorerei e guadagnerei di più, ma non posso fingere di gemere quando Daniel è sveglio, e inoltre di giorno vado comunque in giro alla ricerca di un lavoro ‘normale’.

Non voglio morire facendo l’operatore di una linea erotica.

Le chiamate che mi giungono sono diverse: ragazzine alla prima esperienza, che chiamano in gruppo, sghignazzano e riagganciano dopo aver urlato qualche volgarità nella cornetta; ragazze che mi descrivono nel dettaglio cosa vorrebbero fare col mio sesso, e che non si fanno problemi a farmi sentire il rumore del proprio vibratore. Coppie… persino delle coppie, le quali hanno bisogno della mia voce per fargli compagnia durante l’amplesso.

Grazie al computer, mi rendo conto che tante donne restano in attesa della mia voce, quando sono occupato in precedenti chiamate. Due di essere (entrambe ultra quarantenni) mi hanno chiesto il numero di telefono, e un appuntamento dal vivo, ma ovviamente ho rifiutato.

Ieri poi, ho ricevuto anche la chiamata di un ragazzo, chiaramente gay.

Ho resistito due minuti esatti, quando poi mi ha chiesto di sentire come glielo succhiassi, ho avuto un conato e ho chiuso la comunicazione.

Ho ancora dei limiti.

Non è un lavoro decoroso, o gratificante. Me ne vergogno, infatti nessuno sa cosa faccio.

Ma è il lavoro che fra cinque giorni mi permetterà di rifare la spesa e, forse, di pagare qualche bolletta.

 

 

Un mese dopo

“Cento, duecento, trecento, quattrocento. Ecco a te, Edward.”

“Grazie,” rispondo, raccogliendo i soldi e voltando le spalle.

“Ehi… toglimi una curiosità: cosa gli farai mai alle donne? Chiedono tutte di te, al centralino.”

Sorrido alla signora e scuoto la testa, uscendo in strada.

E’ vero, in molte chiedono di me, e per quanto squallido e triste possa sembrare, mi sono fatto un nome nel mondo delle linee erotiche.

A detta delle mie clienti sono naturale e passionale, e questa sarebbe la chiave di tutto.

Non ho idea di come risulto al telefono, ma sono certo del fatto che fingo con tutte.

Sono una macchina. Una macchina che deve far soldi, per mantenere suo figlio.

Con i soldi in tasca, mi reco prima al supermercato e poi a pagare la bolletta della luce. Non voglio rischiare l’ennesimo richiamo da parte della compagnia elettrica.

Vorrei informarmi sulla possibilità di iscrivere gratuitamente Daniel all’asilo del quartiere: in questo modo avrei più tempo libero, e potrei cercare un altro lavoro. Tuttavia, sono trattenuto dal fatto che mi sento protettivo verso di lui, e non so in che modo potrebbe reagire.

E’ forse troppo piccolo per il nido?

In questi casi sento il bisogno di una donna al mio fianco.

 

Torno a casa ed approfitto dell’assenza di mio figlio (è con Jasper ed Emmett) per accendere il computer  qualche ora prima. In questo modo, posso guadagnare di più.

Le chiamate piovono immediatamente: solite clienti e nuovi numeri.

Rispondo in maniera collaudata, rivolgendomi a tutte con nomignoli e frasi fatte: ormai non seguo più la lista iniziale, ho fatto esperienza.

Le coccolo, le faccio godere. Fingo di godere con loro, anche se nella realtà non sento assolutamente nulla.

Sono una macchina.

Tengo il conto dei minuti, li converto in monete, penso a come impiegarli mentre dico ad una delle tante ragazze cosa vorrei che mi facessero. Le ascolto in silenzio quando vogliono semplicemente essere ascoltate, e nel frattempo sfoglio i giornali con gli annunci di lavoro.

Vado avanti per 3 ore, racimolando una discreta somma di denaro.

Osservo la lista delle chiamate in attesa, e clicco sulla prima in ordine di entrata.

“Ciao, dolcezza… sono Mark,” recito.

“Ciao, Mark. Io sono Bella,” dice lei, e la voce non è solo bassa, ma insicura. Sembra quasi che tremi. E’ alla prima chiamata, è una principiante.

“Ciao, tesoro… cosa vuoi fare stasera?”

“Parlare. Vorrei solo parlare.”

 

---

 

Tadan!

Eccovi Bella.

Come vi sembra EroticEdward?

A me fa tanta tenerezza *___*

 

Il capitolo 3 arriverà dopo il 31 di Vicini, per cui non lo attendete prima della fine di questa settimana :*

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Prima di tutto, sorry per l’errore Mike/Mark

Prima di tutto, sorry per l’errore Mike/Mark. Colpa mia, ho sbagliato a digitare e quando ho riletto non mi sono resa conto dello sbaglio. Spero non abbia creato molta confusione.

A chi l’ha chiesto… sì, i capitoli saranno soltanto 4. L’idea iniziale era quella di una OS, ma come ben sapete (15 Ore docet) la sintesi non mi appartiene.

 

Un grazie immenso a tutti, per commenti, preferenze e supporto :***

 

Capitolo 3

“Ciao, tesoro… cosa vuoi fare stasera?”

“Parlare. Vorrei solo parlare.”

 

“Ok, Bella… di cosa vuoi parlare?” Non è la prima volta che una donna mi chiede di parlare: dopo cinque minuti però, la sua domanda è ‘quanto ce l’hai lungo?’.

“So che… so che è stupido chiamare una linea erotica per sfogarsi, ma ho bisogno di farlo… di sfogarmi.” Parla a voce bassa, fatico a sentirla.

“Va bene, tesoro… sfogati pure, ti ascolto.” Controllo i minuti, e mi rigiro una penna fra le dita.

“La mia vita… la mia vita è un disastro. Vivo con un marito che non amo, che non mi ha mai dato nulla se non una casa, un lavoro ed una posizione sociale. Siamo due perfetti estranei… fra le mura domestiche. Allo studio … allo studio invece fingiamo di essere la coppia dell’anno, uniti e in amore. E’ assurdo, è assurdo che ne parli con te… con un estraneo…”

Stringo i denti, trattenendo uno sbuffo. Controllo i minuti e l’orologio.

“No, Bella… non è assurdo. Puoi dirmi quello che vuoi.”

“Potrei chiedere il divorzio, piantarla con tutto e tutti… ma… non posso. Prima di sposare mio marito ero una semplice studentessa di legge, grazie a lui sono diventata ciò che sono… e non posso… rinunciare a tutto questo.” Sospira, e sembra quasi che pianga. “Non abbiamo figli, lui non ne ha mai voluti. Mi sento chiusa in trappola, a volte, in una gabbia. Vorrei scappare, ma se lo facessi perderei tutto quello che…”

“Sai che c’è… Bella? Io ti invidio.” Getto la penna sul letto, vedendo rosso davanti a me. “Vorrei averlo io il tuo problema… vorrei averlo io un lavoro sicuro e ben pagato, una casa, una vita normale. Vorrei potermi permettere il lusso di chiamare una linea erotica e sfogare i miei problemi da quattro soldi senza invece dovermi preoccupare dei miei problemi: una casa da mandare avanti, un figlio da mantenere. Vorrei averli io i tuoi problemi.” Sfogo su di lei il mio rancore, il mio stress, la mia rabbia.

Lo faccio raccontandole di me, esponendomi come non dovrei fare.

Restiamo in silenzio per qualche secondo, e alla fine taglio la comunicazione, gettando le cuffie a terra e chiudendo il portatile.

Vorrei averli io i suoi problemi. Ricca, con un lavoro che le permette di vivere e non di sopravvivere come faccio io. La sua più grande paura è quella di perdere la posizione sociale. La mia è quella di non poter curare mio figlio se disgraziatamente dovesse tornargli la febbre.

 

Il giorno dopo

“Come sta il mio campione?” Daniel risponde a Jasper in maniera incomprensibile, e gli chiede di essere sollevato in braccio come al solito.

“Dove lo porti?” gli chiedo, notando il completo da lavoro di mio fratello.

“C’è un parco vicino allo studio, andiamo prima lì e poi in ufficio. Le segretarie lo adorano… vero, ometto?” Gli sistema il cappello di lana, e chiude la zip del giubbotto.

“Jasper, non devi. Lavori lì, non puoi rischiare di farti richiamare, o peggio…”

“Non dire sciocchezze. Non rischio nulla. E poi non lo sai che un bambino è una calamita per le ragazze? Dovresti giocarla più spesso la carta del padre single… da quanto tempo non…?”

“Sparisci,” gli intimo, baciando mio figlio e raccomandandogli di fare il bravo.

Trascorro parte della giornata a riordinare casa, parte a consultare annunci e parte ad inviare curriculum attraverso il portatile della linea erotica: ora come ora, ho bisogno di un qualsiasi lavoro, ma non posso sotterrare la mia laurea, le mie fatiche. Invio le mie credenziali a numerose aziende e società che si interessano di pubblicità e di marketing, sperando che mi chiamino per un colloquio.

Jasper torna con Daniel poco prima di cena, e resta con me per metterlo a letto e per fare quattro chiacchiere. “In ufficio tutte le segretarie vanno matte per lui. Oggi perfino la moglie del socio più anziano si è fermata a giocare con Daniel per qualche minuto.”

Mio fratello va via, e io ne approfitto subito per accendere il portatile e iniziare la mia ‘giornata lavorativa’. Non appena avvio il programma della linea erotica, ricevo la chiamata di un nuovo numero. Non ho una buona memoria visiva, ma credo di averlo già visto.

“Ciao, tesoro…”

“Ciao, Mark. Sono.. sono Bella. Ho chiamato ieri… ieri sera.” Stringo di nuovo i denti, e pure gli occhi.

Che diavolo vuole questa donna da me?

“Io… uh… ho chiamato per scusarmi. Spero tu voglia accettare le mie scuse.”

La voce è sempre bassa, e trema.

“Non vedo perché tu debba scusarti,” dico, cercando di non farmi sopraffare di nuovo dalla rabbia e dal rancore.

“Io… non ho pensato, non ho… non avrei dovuto… confidarmi. So bene che esistono problemi ben più gravi dei miei, e so bene che sono una donna fortunata. A volte però… a volte mi capita di sentirmi… di sentirmi sola, e… e ho avuto l’idea più stupida di tutte, chiamare una linea erotica. Avrei dovuto riflettere, pensare che… che… Non lo so, non so a cosa avrei dovuto pensare. So solo che ti sarò sembrata una di quelle casalinghe disperate che non è capace di accontentarsi. Sono stata patetica, e per questo… per questo mi scuso, ecco. Volevo solo dire.. solo dire questo.”

Tiro un profondo respiro. “Va bene,” dico poi. “Non preoccuparti… non… io neppure mi sono comportato in maniera educata, per cui… scusa per i toni che ho usato. Non avrei dovuto.”

“Ok,” dice, e mi sembra quasi di sentirla respirare liberamente.

Resta in silenzio, e io faccio altrettanto.

“Ti va di… di parlarmi di te?”

“Di parlarti di me?!” chiedo, a voce fin troppo alta. “Umh… ok. Mi chiamo Mark, ho 23 anni. I capelli sono…”

“No. Non questo… non mi riferivo a questo. Ti va di parlarmi di te? Se non ho capito male hai… un figlio.”

Non posso dirle queste cose. Non posso parlare della mia vita privata con una completa sconosciuta. Lo vieta l’agenzia, e lo vieta il mio buonsenso. C’è qualcosa, però… qualcosa di strano in lei.

Forse è la sua voce, forse è il modo che ha di parlare, come se fosse perennemente terrorizzata, ma non riesco a vederla come una pazza psicopatica, assatanata o ninfomane.

Quasi certamente è solo una donna sola, che ha bisogno di parlare.

In questo siamo uguali. Sono anch’io solo, e anch’io ho tanto… troppo bisogno di parlare.

“Sì, ho un figlio. Ha compiuto un anno da pochi mesi.”

“Aww… io… beh, come ti ho detto ieri, non ho figli.”

“Tuo marito non ama i bambini?”

“No… mio marito ama soltanto se stesso. E… tua moglie?” chiede. La sua voce è un sussurro. Fatico a comprenderla, ma in un certo senso… mi piace.

“Mia moglie non c’è. E’ andata via.”

“Andata via? Vuoi dire che ha lasciato te ed il bambino?”

“Proprio così.”

“Oh. Mi dispiace, Mark. Non deve essere semplice…”

“Non lo è… a volte vorrei scappare, sai? Oppure tornare per un attimo alla vita che facevo un anno fa. E’ per questo… per questo che ieri ho reagito in quel modo. Un anno fa, Bella, avevo tutto quello che tu hai adesso. La crisi mi ha portato via tutto, e sono costretto a lavorare ad una linea erotica per…” Mi fermo, rendendomi conto di aver detto troppo, di nuovo.

“Mark… tu non hai 23 anni, vero?”

“No. Ne ho 31.” Continuo a dire troppo, maledizione.

“Abbiamo la stessa età,” dice, e mi sembra che sorrida. Non posso esserne certo, perché non vedo il suo viso, ma dal tono della voce mi sembra che lo stia facendo.

Il suo viso… chissà com’è.

“Ad ogni modo… sono io quello che deve scusarsi, adesso. Sono qui per intrattenere i clienti, non per tediarli con i miei problemi.” Osservo la lista di chiamate in attesa, e all’improvviso non ho voglia di rispondere.

Vorrei restare a parlare con Bella. Strano, eh?

“Non scusarti,” dice. “Non sono nata ricca, e non sono estranea alla tua situazione. Sono cresciuta in quartiere povero di Seattle, e non ho avuto molto nella vita…”

Seattle. Qui.

“Per me invece è stato il contrario,” dico, ridendo quasi della buffa situazione. “Mi sono ritrovato povero, dopo una vita di agi.”

“Non ti scoraggiare. E’ vero, questo momento è buio per molti, ma non durerà per sempre. Tu… in cosa… hai una laurea, giusto?”

“Certo. Sono laureato in Marketing Management, specializzato in Pubbliche Relazioni. A quanto pare, però, le mie competenze sono poco utili al giorno d’oggi.”

“Non dire così… non buttarti giù.”

“Non dovrei? Bella, ero il primo della mia classe al college, e adesso… adesso fingo orgasmi per vivere.”

Restiamo al telefono per 72 minuti e 58 secondi. Mi racconta cose interessanti (quelle che riguardano lei) e cose insignificanti (quelle che riguardano suo marito). Mi fa domande, le rispondo… ignorando tutte le regole della linea erotica: dico la verità, tralasciando soltanto di dirle il mio vero nome, e quello di mio figlio.

Mi chiede ancora una volta di Daniel, e gliene parlo come forse non ho mai fatto con nessuno: le racconto di com’è carino, del modo in cui cammina e parla. Lei ride, e mi fa altre domande.

Alla fine, quando le domande sono finite o, forse, quando un certo livello di imbarazzo si è alzato fra di noi, ci diamo la buonanotte. Delle chiamate in attesa non c’è più traccia, segno che le clienti affezionate si sono stancate di aspettare.

Per la prima volta, da quando ho iniziato questo ‘lavoro’, vado a letto senza trasformare i minuti in denaro, senza pensare a come impiegarli.

Per la prima volta, vado a letto pensando ad una cliente, pensando a Bella.

 

 

Due settimane dopo

“Daniel, fai il bravo con lo zio Emmett… d’accordo?”

“Daniel farà il bravo, come sempre. Tu piuttosto… cos’è tutta questa fretta… hai un appuntamento per caso?” Emmett nota che ho fretta, mentre metto lui e mio figlio alla porta, letteralmente.

“Buono shopping natalizio!” grido ad entrambi, sorridendo di sfuggita alla signora Dwyer, che sale le scale con delle buste piene di pacchi regalo.

Rimasto solo, corro in camera ed accendo il computer, in attesa della chiamata di Bella.

Va avanti da quindici giorni; chiama ogni sera, e ogni sera passiamo sempre più tempo a parlare.

A volte noto il suo numero nella lista d’attesa, e affretto le chiamate con le altre clienti.

A volte le ignoro, e salto direttamente alla sua.

A dire il vero, non considero Bella una cliente. Non so in che modo la considero, e non voglio pensarci… ma lei non è una cliente. Non è una di quelle che chiamano per godere, no.

In tutto questo tempo non me l’ha mai chiesto, mai.

Mi chiama, parliamo. Mi chiede di mio figlio, io le chiedo del suo lavoro come avvocato. Mi chiede come va la ricerca di un impiego ‘normale’, le chiedo come vanno le cose con suo marito.

Parliamo, parliamo, parliamo.

Non parlavo in questo modo con una donna da mesi, Tanya inclusa.

Durante una delle nostre conversazioni quotidiane, ho osato e le ho chiesto di descriversi: ha i capelli mossi, castani, e gli occhi marroni. Non è molto alta, ma ho la sensazione (o forse è il desiderio?) che sia una donna ben proporzionata… attraente.

La sua voce lo è: non è più bassa, timorosa. E’ allegra, vispa. Mi saluta con calore, e ride spesso.

Rido anch’io, ed è strano.

Emmett è Jasper hanno notato il mio cambio d’umore, e ho mentito dicendo di aver ricevuto un assegno dall’assistenza sociale, e che quello è il motivo di tanta contentezza. Oltre che a mascherare la mia improvvisa gioia, ho usato la scusa dell’assegno per giustificare la dispensa piena nonostante la mia (secondo loro) disoccupazione.

Ancora nessuna notizia per quanto riguarda le decine di curriculum che ho mandato, e gli annunci stampati sui quotidiani sono ogni giorno uguali a quelli del giorno precedente. Nessuno risponde a quello che ho fatto pubblicare io, ovviamente.

La finestra del programma si illumina, grazie alla chiamata di Bella.

“Bella…” mi affretto a dire, collegando le cuffie.

Dall’altra parte sembra che non ci sia nessuno, ma poi li sento: si tratta di singhiozzi. Singhiozzi sommessi. “Bella… stai bene?” chiedo, e una strana ondata di panico mi trapassa.

Sono improvvisamente preoccupato per lei. “Bella?” ripeto.

“No, non sto bene,” sussurra, singhiozzando.

“Cosa è successo? Ne vuoi… ne vuoi parlare?”

Sospira profondamente quattro o cinque volte, prima di rispondere.

“No, preferisco di no.” Ha certamente litigato con suo marito.

Non mi piace sentirla così. Lei non sta bene, e di riflesso neppure io sto bene.

“Ok… dimmi almeno se c’è qualcosa che posso fare… qualsiasi cosa.” E’ strano che mi senta così coinvolto, così preso da questa donna.

Non la conosco, so poco e niente di lei. Sono un uomo che vive un momento difficilissimo, e che dovrebbe preoccuparsi di mille altre cose, ma adesso… in questo preciso istante… la mia unica preoccupazione è lei, Bella.

“Qualsiasi cosa?” chiede.

“Sì,” dico subito, convinto. “Qualsiasi cosa.”

Sospira di nuovo, profondamente.

“Allora ti chiedo… ti chiedo di… ti chiedo di farmi stare bene. Regalami un attimo di piacere. Ti prego.”

“Bella… uh…” Me l’ha chiesto. Me lo sta chiedendo adesso, per la prima volta.

E per la prima volta io, lo stallone telefonico, mi sento a disagio.

“Per favore…” sussurra. La voce le trema ancora.

Chiudo gli occhi e inspiro per diversi secondi.

“Dove sei adesso?” chiedo.

“In… in camera da letto.”

“Voglio che ti sdrai sul letto, Bella. Fallo per me.” Mantengo gli occhi chiusi, e la immagino.

Penso ai suoi capelli sparpagliati sul cuscino, immagino di poterli toccare.

“Ora voglio che tu faccia una cosa, Bella. Chiudi gli occhi, e pensa alle mie mani sulle tue; le sfiorano, le accarezzano. Puoi sentirle?”

“Sì…” sospira.

“Ti sto accarezzando,” le dico, e nel farlo le mie mani prendono a sfiorare il piumone, alla ricerca delle sue. “Salgo verso l’alto, sulle braccia. Ti accarezzo, ti massaggio. Mi senti? Mi senti, Bella?”

Sospira di nuovo. “Continua…”

“La tua pelle è liscia, morbida. La bacio, mentre con una mano sfioro l’altro braccio. Come ti senti, Bella? Dimmi come…”

“Sto bene… Mark, voglio sentirti. Ho bisogno di sentirti, di toccarti…”

La sua voce è più alta adesso, quasi supplicante.

“Bella, vorrei sentirti anch’io. Vederti… baciarti.” E’ la verità: vorrei conoscerla, sentirla fra le braccia. Non so come sia potuto accadere, non sarebbe mai e poi mai dovuto accadere, ma è successo. Desidero questa donna. Desidero Bella. La desidero anche adesso.

“Mark, baciami.”

“Ti bacio, Bella. Sulle labbra, sul collo. Posso sentire il tuo profumo. E’ dolce, come il miele. E’ meraviglioso… tu sei meravigliosa. Ho voglia di te, Bella. Del tuo corpo, di sentirlo, di adorarlo.”

“Oh, Mark… ti prego, vieni qui. Vieni qui, resta con me. Fai l’amore con me,” sussurra, e mi rendo conto che le sto regalando davvero un attimo di piacere. Non è come con le altre donne, quelle che mi chiedono subito il sesso.

In questo caso si tratta di dolcezza, di pura dolcezza.

Ci sussurriamo parole piene di passione, frasi che rispecchiano i nostri desideri, ciò che vorremmo: i baci, le carezze, i nostri corpi uniti.

Per la prima volta sento qualcosa. Non sono il solo a regalare piacere, ma è anche lei a regalarlo a me. Non fingo, non ho bisogno di fingere, perché sono eccitato sul serio. Raggiungiamo il piacere assieme, e non è una menzogna, è reale. Lei, io, questo momento.

Restiamo in silenzio per mezzo minuto, e sono certo che – così come io ascolto il suo – anche Bella sta ascoltando il mio respiro affannato.

“Io… uh…”

Non so cosa dire, come continuare. Ho paura di sbagliare. Non voglio fare nulla di sbagliato, non voglio… non voglio perderla.

“Grazie,” mormora. “Grazie.”

“Non devi ringraziarmi,” dico. So di averle regalato un attimo di piacere, seppure limitato, ma so di aver provato anch’io del piacere. Breve, virtuale, ma in un certo senso pieno… intenso.

Rimaniamo ancora in silenzio e, dopo il momento in cui ho permesso al cuore e al corpo di prendere il sopravvento, torno a pensare col cervello.

Mi sto facendo condizionare, suggestionare, dal fatto che non ho avuto un rapporto ‘simile’ con una donna da tanto… troppo tempo.

Bella è diversa dalle altre, e probabilmente questo mi influenza troppo.

Ma io sono l’operatore di una linea erotica, squattrinato, con un figlio.

Lei è una donna sposata, ricca, con tanti problemi.

Cosa può nascere da tutto questo?

Mi sento quasi svuotato, scosso. Ascolto il suo respiro attraverso la cuffia, mi sembra quasi di poterla vedere. Mi giro verso la parte vuota del mio letto, l’accarezzo con una mano.

Non può nascere nulla. Nulla.

“Buonanotte, Bella….” Il mio tono di voce somiglia al suo, è basso e probabilmente tremo anch’io.

“Uh… ok… buonanotte, Mark… Mark? Sei ancora lì?”

“Sì,” sussurro, con il cuore in gola.

“Ti voglio bene.”

Chiudo la comunicazione stringendo i denti. “Ti voglio bene anch’io.”

 

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Non mi lanciate sassi, c’è ancora l’ultimo capitolo.

 

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Capitolo 4
*** Ultimo capitolo ***


Eccovi l’ultimo capitolo

Eccovi l’ultimo capitolo.

Una volta conclusa “Vicini”, inizierò a scrivere un racconto mio, un racconto originale che mi gira nella testa da mesi. Per questo motivo non mi sarà possibile continuare/ampliare/approfondire questa mini FF.

Un grazie immenso a tutti coloro che hanno commentato, e anche a coloro che hanno letto in silenzio.

 

Buona lettura.

 

Capitolo 4 – Ultimo Capitolo

 

Una settimana dopo

La Giungla Parlante, L’Orchestra Matta, L’Allegra Fattoria.

La Giungla Parlante, L’Orchestra Matta, L’Allegra Fattoria.

Osservo per l’ennesima volta i libri musicali, cercando di sceglierne uno per Daniel come regalo di Natale. Vorrei comprarglieli tutti, ma a stento posso permettermene uno.

Sono più che convinto che dal resto della mia famiglia Daniel riceverà montagne e montagne di giocattoli, ma è del mio regalo che mi interessa.

Alla fine scelgo L’Orchestra Matta, pago i 15 dollari e mi incammino verso la fermata dell’autobus.

Nevica. Mio figlio è con Jasper, anche oggi. Dovrei lamentarmi per il fatto che lo usa come mascotte per fare colpo sulle ragazze, ma la verità è che sono contento: al suo studio c’è più caldo che a casa mia, e in questo modo mi sento tranquillo.

Natale si avvicina, ed è più triste di quello dell’anno scorso. Allora c’era Tanya con me, adesso sono solo. L’atmosfera natalizia, nel mio appartamento, è ridotta ad un misero alberello addobbato con qualche pallina colorata. Non ho voglia di festeggiare, non ho voglia di gioire. Non ho motivo per farlo.

Una volta arrivato a casa appoggio il giaccone fradicio accanto alla stufetta e vado a nascondere il regalo per Daniel nell’armadio.

Lì, nel solito angolo, c’è il computer.

E’ spento.

Lo è da una settimana, dall’ultima conversazione con Bella.

Non l’ho più riacceso, non ho più ‘lavorato’ da quella volta.

Alla signora dell’agenzia ho mentito, dicendo di avere l’influenza, ma la verità è che ho paura di sentire di nuovo la sua voce. Ho paura di avviare il programma, vedere il suo numero in attesa, e far partire la comunicazione.

Sono un vigliacco.

Dopo quella sera… avremmo dovuto parlare, chiarire. Mi ha detto ‘Ti Voglio Bene’.

Mi manca. Sono uno stupido vigliacco, ma mi manca.

Mi piaceva parlare con lei, ascoltare i suoi racconti e raccontarle di me. Mi mancano le sue domande su Daniel, i suoi incoraggiamenti.

E’ assurdo. Non so nulla di lei. Probabilmente non ha più chiamato la linea erotica, e io ho tenuto il computer spento per un’intera settimana inutilmente. Probabilmente sto ingigantendo tutto.

Osservo il portatile per qualche secondo, e poi chiudo l’armadio.

Cerco di non pensarci, ma è inutile: lo sto facendo da sette giorni. Ripenso alla sua voce, alle sue lacrime. Ripenso al suo respiro affannato, alle sue parole per me.

“Ehilà, paparino! Siamo tornati!” La voce di mio fratello proviene dall’ingresso. Gli vado incontro, e quasi gli strappo Daniel dalle braccia.

“Ciao, amore mio.” Si lascia stringere e baciare, senza fare storie.

Senti, Edward… dovrei parlarti.”

Dimmi, Jazz.”

“So che mi hai detto che non avrei dovuto farlo, e so quanto sei testardo ed orgoglioso, ma oggi ho scoperto che allo studio cercano qualcuno che si occupi di pubbliche relazioni… e… beh, io ho fatto il tuo nome.”

“Che cosa?”

“Sì, Edward… cercano qualcuno che curi la pubblicità per lo studio… sito, stampa, biglietti da visita… non è molto, ma è qualcosa. Ho pensato a te… e… ti aspettano domattina per un colloquio.”

“Jasper, perché l’hai fatto? Sai bene che non ho bisogno di…”

“Oh, davvero?” sbotta. “Non hai bisogno di lavorare? Edward, andiamo! Vivi in un appartamento che… l’altro giorno pioveva dal soffitto! E Daniel? Ci pensi a lui? Non puoi continuare così, devi mettere da parte l’orgoglio e pensare a tuo figlio. Sto solo cercando di darti una mano, non voglio un grazie o altro… voglio solo che domattina metti un completo e ti presenti allo studio. D’accordo?”

“D’accordo.”

Va via dopo un po’, lasciandomi scosso ma allo stesso tempo elettrizzato. Ha ragione, non posso permettere al mio orgoglio di danneggiare mio figlio. E non posso continuare con la linea erotica per sempre.

 

 

Il giorno dopo

Lo studio presso cui lavora Jasper si trova in centro, in un lussuoso grattacielo. Mi presento puntuale, in uno dei completi che fino ad un anno fa utilizzavo quotidianamente. Ho fatto la barba, ho cercato di sistemare alla meglio i capelli.

Sono presentabile.

“Buongiorno,” dico alla receptionist, “mi chiamo Edward Cullen. Sono qui per il colloquio come…”

“Oh, sì… certo! Lei è il papà di Daniel!” esclama lei, scattando dalla sedia. Fa il giro del banco, e viene a stringermi la mano. “E’ un piacere conoscerla, suo figlio è delizioso.”

“Uh… grazie… um… signorina…”

“Brandon. Alice. Alice Brandon,” chiarisce poi, agitandosi tutta.

Alice mi fa attendere su una poltrona di pelle chiara per qualche minuto, e io ne approfitto per sfogliare il curriculum che ho portato, e per ripetere le frasi ad effetto che in genere si usano durante questi incontri: sono propenso a lavorare in squadra, voglio apprendere e crescere nella vostra azienda, bla bla bla.

“Signor Cullen, può andare. Secondo corridoio sulla destra, la porta in fondo. Aro l’attende.”

Ringrazio la receptionist e mi incammino verso lo studio di quello che – a detta di Jasper – è il socio anziano dello studio. Sono agitato, ma mi dico che in fondo si tratta di un lavoro come tutti gli altri, e che probabilmente questo colloquio finirà come tutti gli altri, con un belle faremo sapere’.

Busso, e una voce profonda dall’altro lato della porta mi invita ad entrare.

“Buongiorno,” dico.

Aro è alto, ha passato i 40 anni da un pezzo, e credo si avvicini ai 50. Ha i capelli neri come la pece, macchiati di bianco ai lati. Ha gli occhi piccoli, scuri. Siede alla poltrona con fare tranquillo, ma incute ugualmente timore.

“Signor Cullen! Venga, si accomodi.” Mi siedo su una poltrona scura, davanti alla scrivania. “Devo ammettere di essere un po’ impreparato per questo colloquio… l’idea di chiamarla è stata di suo fratello e di mia moglie, e al momento lei sta… beh, diciamo pure che fra qualche giorno non sarà più mia moglie.” Sorride, ma i suoi occhi restano fissi su di me, freddi.

Sorrido anch’io, un sorriso di circostanza.

“So che avete bisogno di una mano per la promozione dello studio,” gli dico.

“Sì… sì, esatto. Vede, ci stiamo ingrandendo e vogliamo essere in grado di raggiungere sia i nostri clienti che i clienti potenziali… sa cosa intendo, no?

Annuisco. “Certo.” No, non so cosa intende. Agli avvocati non serve il marketing tradizionale. Per gli avvocati il miglior marketing è il passaparola dei clienti soddisfatti, per cui non mi è ben chiaro il motivo per cui sono qui.

Un leggero rumore alla porta lo interrompe mentre sta per riaprire la bocca. “Avanti.”

Evito di voltarmi per non sembrare maleducato, ma riesco comunque a vedere la donna che raggiunge la scrivania di Aro. E’ ben vestita, con dei lunghi capelli castani e il viso tondo. Gli occhi sono gonfi, e rossi. Guarda in basso, si guarda le mani.

“Queste sono le chiavi di casa, e del garage. E della macchina.” Parla a bassa voce, ma riesco a capire ogni singola parola. Mi suona quasi familiare.

Appoggia il grande mazzo di chiavi sul tavolo, e per un attimo si volta verso di me. Si tratta di secondi, ma mi sembra che sorrida.

“Sei proprio convinta?”
“Sì. Torno da mia madre.” Un altro sussurro, che riesco comunque ad afferrare. Mi sento quasi in imbarazzo, testimone di un momento intimo fra Aro e quella che suppongo sia sua moglie.

“Come vuoi,” risponde lui, senza scomporsi.

La donna va via, voltandosi di nuovo verso di me, e di nuovo mi sorride. C’è qualcosa in lei… nel modo in cui mi guarda… è come se la conoscessi, come se conoscessi la sua voce.

Aro ed io continuiamo il colloquio e dopo un’ora, con mia enorme gioia, ottengo il posto di responsabile Marketing del suo studio. Dire che sono felice è poco. Dire che sono estasiato è poco. Ci diamo appuntamento per il giorno dopo, e se potessi salterei in aria dalla gioia.

Un lavoro vero, un lavoro dignitoso. Un lavoro per cui ho studiato.

Quella donna, la moglie di Aro. E’ stata anche sua l’idea.

Devo ringraziarla.

“Signorina Brandon…” La receptionist alza la testa dalla sua scrivania e mi sorride.

“Allora, com’è andata?”

“Oh… bene, è andata bene. Ho avuto il lavoro.”

“Evviva!!! Sono davvero contenta per lei,” dice, e mi sembra sincera. Un po’ troppo esuberante, forse. Ma sincera.

“Senta, uh… vorrei ringraziare la moglie di Aro per avermi proposto per questo lavoro… umh… sa dirmi qual è il suo ufficio?”

“Aww… umh… lei non è più qui, è andata via poco fa…” risponde, rattristandosi. “Bella e Aro stanno divorziando,” aggiunge.

“Bella? La moglie… si… si chiama Bella?”

Annuisce. “Bella. E’ una donna straordinaria… giocava sempre con Daniel, sa?” Si avvicina con fare cospiratorio. “Peccato che suo marito sia un essere spregevole.”

“Grazie,” dico, allontanandomi come se fossi sull’orlo di un burrone. “Ci vediamo.”

Era lei? Era Bella? E’ possibile che fosse lei?

Quante probabilità ci sono che in una città grande come questa esistano due Bella, entrambe avvocato, entrambe sposate con quello che sembra essere un tiranno, entrambe infelici?

Era lei. E’ sempre stata lei.

Sapeva di me? Sapeva che ero io?

Ha unito i punti come ho fatto io adesso, e ha fatto in modo di regalarmi un posto di lavoro?

E’ incredibile. Tutto questo è incredibile.

Dov’è andata? Sua madre.. ha detto che sarebbe andata da sua madre… chi è sua madre?

Come posso cercarla?

Non posso crederci, siamo stati così vicini in quell’ufficio: mi ha sorriso, mi ha guardato. La sua voce, ecco perché mi sembrava familiare.

Era lei. E’ sempre stata lei.

Bella.

Torno a casa, felice per avere finalmente un lavoro, ma in parte sconsolato.

Siamo arrivati a sfiorarci, ma non ci siamo toccati. Non ho capito, non ho inteso che fosse lei.

E probabilmente non la vedrò mai più.

Riponendo il completo elegante nell’armadio, getto lo sguardo sul computer.

Penso a Bella, penso a lei.

E’ bellissima, posso dirlo. Ho visto poco di lei, ma è bellissima, ancora più attraente di come avevo immaginato. Avrà pensato la stessa cosa di me?

Cos’ha pensato?

Come posso fare per rivederla?

Forse potrei chiedere ad Alice, la receptionist… forse tornerà allo studio nei prossimi giorni.

Sento bussare alla porta, e vado ad aprire pensando ancora a Bella.

Quando me la ritrovo davanti, rischio si sentirmi male.

Ha un piatto fra le mani, e le guance rosse. Gli occhi sono meno gonfi di qualche ora fa, ed è ancora più bella.

“Mia madre ha preparato dei biscotti al marzapane… ho pensato che… ho pensato che a Daniel…

Guarda in basso, la voce le trema.

E’ lei.

Vorrei parlare, ma non riesco. Ho un groppo alla gola, e so che se aprissi la bocca non proferirei parola.

Con una mano afferro il piatto e con l’altra afferro lei.

Non penso a nulla quando appoggio le labbra sulle sue.

E’ sempre stata lei. Più vicina di quanto pensassi. Sempre.

Risponde al mio bacio con passione, afferrandomi per i capelli. Si avvicina fino ad abbracciarmi, e si stringe a me con forza.

Dopo qualche secondo, si allontana e prende a strofinare la guancia sulle mia. Continua a stringermi, e io continuo a stringere lei.

“Ricominciamo.” La sua voce, al mio orecchio, è un respiro.

L’adoro.

“Sì. Ricominciamo.”

 

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Fine.

 

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Capitolo 5
*** Extra - Pro Africa ***


A seguito di numerosi messaggi da parte di chi non ha potuto inviare un sms in occasione del “Voi donate, Noi scriviamo” di questa estate, ho deciso di rendere disponibile il mio extra

A seguito di numerosi messaggi da parte di chi non ha potuto inviare un sms in occasione del “Voi donate, Noi scriviamo” di questa estate, ho deciso di rendere disponibile il mio extra. Esso va, con una dedica speciale, a tutti coloro che vorrebbero leggere più di quanto invece possono permettersi. So cosa significa e so che non è bello.

 

Grazie ancora una volta per aver donato, e per aver contribuito a raccogliere fondi per la popolazione africana.

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Questo capitolo parte lì dove finisce la storia principale. Edward apre la porta di casa, si trova

davanti Bella. I due si baciano.

Buona lettura.

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Capitolo 5

 

Edward

“Sì. Ricominciamo.”

Mi allontano da lei quel tanto che basta per farla entrare nel mio appartamento, e

all’improvviso mi rendo conto delle condizioni della mia umilissima dimora. Ogni angolo è pulito,

in ordine, ma vecchio, molto vecchio. E’ un appartamento fatiscente, e io non posso offrirle altro in

questo momento, se non quattro mura fatiscenti, decorate con un quadretto che è qui fin dal mio

arrivo.

Bella è in imbarazzo. Le sue guance sono rosse. Gli occhi bassi.

“Vieni,” le dico prendendola per mano. “Ti mostro la cucina, e ne approfitto per appoggiare

questi sul tavolo.”

Questi sono i biscotti al marzapane che sua madre ha preparato.

Bella mi segue nel breve corridoio, fino alla camera arredata come una cucina. Sedie spaiate,

un tavolo spartano. Ogni cosa è dignitosa, ma non posso fare a meno di sentirmi piccolo di fronte a

lei.

Non dovrebbe essere così. Dovrei essere in grado di offrirle di più. Anche per un breve

attimo come questo.

Bella mi guarda mentre sistemo i biscotti su un ripiano.

Dopo averlo fatto, apro il frigorifero per controllare che ci sia qualcosa da bere. Latte per il

bambino, un paio di birre scadenti.

“Um… vuoi… posso… posso offrirti qualcosa?” Chiudo lo sportello del frigorifero ed apro

quello della dispensa. Anche lì, c’è poco. “Dovrei avere del tè.” Prendo la scatola di tè, ringraziando

gli angeli perché al suo interno vi sono due bustine, le ultime.

“Il tè andrà benissimo,” risponde Bella. “Dov’è Daniel?” chiede guardandosi attorno.

“E’ con mio fratello, Jasper… dovrebbe essere qui fra poco,” dico controllando l’orologio.

Riempio il bollitore e lo metto sul fuoco. Mi giro verso di lei, e dopo un respiro profondo le

parlo.

“Grazie per l’idea del colloquio. So che… so che siete stati tu e Jasper a… ad orchestrare

tutto.”

Lei si avvicina, mi prende le mani. “Com’è andata? Quando sono entrata nell’ufficio di Aro

e ti ho visto…” Abbassa di nuovo gli occhi. La sua voce tradisce grande emozione.

“E’ lui,” dico accarezzando le sue dita. “Tuo marito. E’ lui, è Aro.”

Bella muove il capo in un cenno di assenso.

“Mi ha dato il lavoro,” dico in un soffio.

“Sul serio?” esclama alzando gli occhi sui miei. “Ce l’hai fatta?”

“Sì, comincio domani.”

“Oh, Edward! E’ meraviglioso!” Si alza sulle punte, appoggia le mani sul mio petto e mi

bacia. Un bacio veloce sulle labbra, un bacio che mi fa tremare.

“Grazie. Non so come tu abbia fatto, ma grazie.”

“Grazie a te,” ribatte lei, e vorrei chiederle per cosa mi ringrazia, ma il fischio del bollitore

ci interrompe. Verso l’acqua nelle due tazze – scelgo per me quella col bordo scheggiato – e

zucchero il tè prima di passarne una a Bella. Ci sediamo al tavolo sistemato accanto alla finestra e

per un po’ beviamo il liquido caldo in silenzio.

“Parlare con te mi ha aiutata,” dice lei ad un certo punto. “Molto più che parlare con le mie

amiche… o presunte tali. Ciò che mi hai detto sul mio matrimonio, le parole che hai usato,

Daniel…”

“Daniel? Mio figlio?”

“Proprio così,” annuisce lei con un sorriso. “Vederlo in ufficio così spesso è stato… è un

bambino felice, sai? La sua gioia è evidente. E’ stata una spinta per me.”

Sollevo le sopracciglia, sorpreso. “Una spinta? Daniel è… lui è un bambino. Tutti i bambini

alla sua età sono felici.”

Bella sorride e scuote il capo. “No, Edward. Non tutti lo sono.”

“Sono contento che tu abbia lasciato Aro. Voglio dire… non in quel senso… cioè, anche in

quel…” Wow, bella figura. Complimenti. “Credo che tu abbia fatto la scelta giusta,” riesco a dire

dopo qualche secondo d’impaccio. “Indipendentemente da tutto.”

Indipendentemente da me.

Lei sorride, beve un altro sorso di tè. “Non sarà facile,” riflette. “Avrò bisogno di una casa,

non posso stare con mia madre per sempre; un lavoro, un’auto. Non sarà facile, ma almeno sarò da

sola. Voglio dire,” si corregge subito, “non sarò con lui.”

Sorrido io adesso.

E’ surreale. Se all’inizio mi avessero detto che dilettarmi come intrattenitore telefonico per

donne annoiate e in cerca di divertimento mi avrebbe condotto alla persona che ho di fronte avrei

riso a più non posso.

Surreale. Questa situazione, non lei. Lei è qui. Ed è magica.

Sto per aprire la bocca, quando il suono del campanello mi interrompe.

“E’ Jasper,” le dico. “Ha riportato Daniel.”

Mi affretto a raggiungere la porta d’ingresso. Faccio accomodare mio fratello, il quale ha

mio figlio fra le braccia, e gli chiedo a bassa voce di andare via. “Perché?”

“Perché sì.”

“Ma no. Dimmi almeno com’è andato il colloquio!”

“Abbassa la voce!” ribatto. “Il colloquio è andato bene, ho il posto, grazie. Ora vai. Ti

chiamo domani.”

Jasper vorrebbe farmi altre domande, ma non ci riesce perché lo sbatto letteralmente fuori.

Non saprei come giustificare la presenza di Bella qui, adesso, e soprattutto non saprei

spiegargli come faccio a conoscerla. Né lui né Emmett sanno della linea erotica, e grazie al mio

nuovo lavoro spero che non lo sappiano mai.

“Come stai, ometto?” chiedo a Daniel mentre compio i pochi passi che ci separano dalla

cucina. Lo libero dal piumino e dal cappello proprio quando ci troviamo davanti agli occhi estasiati

di Bella, la quale si alza ed unisce le mani con fare commosso.

“Ciao, Daniel!” esclama.

Lui si guarda attorno, appoggiando una mano sul mio viso, e sorride mostrando quattro denti

da latte.

“Oh, Edward, è un amore!”

“Vuoi… vuoi tenerlo?”

“Posso?”

“Certo.”

Le passo Daniel, il quale non si fa problemi ad andare fra le braccia di Bella, e resto ad

osservarli per un minuto. Lei gli bacia le guance, poi gli parla a bassa voce chiedendogli dove è

stato, cos’ha fatto di bello. Poi si accorge del mio sguardo, e sembra quasi in imbarazzo.

“Scusa…” mormora.

“No,” ribatto. “E’ tutto tuo. Ti spiace se vado un attimo…” indico il resto della casa, ma in

realtà ho bisogno del bagno.

“No, fai pure. Noi due restiamo qui, vero piccolo?”

Dopo aver chiuso a chiave la porta del bagno, mi appoggio ad essa e chiudo gli occhi.

Cosa sta accadendo? Cosa è accaduto alla mia vita nel giro di ventiquattrore? Ieri ero senza

un lavoro, senza speranza, depresso. Oggi mi sento come se potessi ricominciare a mordere il

mondo.

Dipende dal fatto che ho finalmente un posto dignitoso? Un lavoro che mi permetterà di

poter dire cosa faccio senza provare vergogna? Un lavoro che mi consentirà di non nascondermi più

dai miei genitori?

Dipende da Bella? Dal fatto che l’ho ritrovata, e nella maniera più impensabile? Dal fatto

che per tutto questo tempo, è stata sempre presente nella mia vita?

Non lo so. Non lo so.

Lavo le mani, e ne approfitto per gettarmi un po’ d’acqua sul viso. La presenza di Bella

nell’altra stanza mi rende più nervoso del solito.

“Eccomi,” dico facendo ritorno in cucina, ma quando li vedo mi fermo di scatto e resto ad

osservarli.

Bella è seduta su una delle sedie spaiate, e Daniel è ancora fra le sue braccia. Posso vedere

le sue manine attaccate al collo di lei, e posso vedere la mano di Bella accarezzargli la schiena. Ha

gli occhi chiusi.

Mormora qualcosa, una specie di nenia, e lui è tranquillo e rilassato.

Vederli così è strano. L’ennesimo momento surreale. Daniel di solito è a proprio agio con gli

estranei, credo infatti che sia forse troppo piccolo per distinguere fra simpatie ed antipatie. Tuttavia

mi sembra che si stia godendo completamente il tempo con Bella e per me, vederli così, è surreale

ed emozionante al tempo stesso.

Quando faccio un passo in vanti la gomma delle scarpe stride sul pavimento, e Bella riapre

gli occhi. “Ehi!” esclama come se l’avessi spaventata.

“Ehi,” rispondo con un sorriso, andandomi a sedere sulla mia sedia.

Daniel si accorge di me, ma continua a rimanere nella stessa posizione. La piccola testa è

appoggiata sulla spalla di Bella, gli occhi rivolti verso di me. Le braccia sono ancora attaccate al

suo collo.

“E’ sveglio?” sussurra lei.

Annuisco.

“Vuoi che…” e prova a passarmelo, ma io le faccio cenno che non deve preoccuparsi, che

può continuare a tenerlo.

Sarò anche un pazzo (e nell’ultimo periodo credo di averlo ampiamente dimostrato) ma mi

piace osservarli assieme. Lo faccio fino a che Daniel - è pur sempre un bambino - decide di essere

annoiato ed inizia a piagnucolare. Lo prendo dalle braccia di Bella e mi rendo conto che è quasi

l’ora della merenda.

“Devo preparargli il latte,” le dico.

“Oh, certo. Vuoi che giochi un po’ con lui nel frattempo?”

“Grazie.”

Daniel torna con Bella per consentirmi di prendere latte, bottiglia e tutto l’occorrente per la

sua merenda. “Edward, non hai un… un seggiolone?” chiede lei ad un tratto.

Accidenti. “Um… no, no. Ne avevo uno, ma si è rotto e non…” E non ho avuto più la

possibilità di comprarne un altro.

“Ok, ok,” si affretta a dire lei. “Non importa. Daniel ed io ci stiamo divertendo così, vero

piccolo?”

Lui emette qualche suono incomprensibile, Bella ride di gusto, e io mi sento ancora

umiliato, ma più leggero. Non è colpa di Bella se non sono in grado di adempiere a tutti i miei

obblighi come genitore. Non è colpa sua se in parte ho fallito.

“Edward,” mi dice mentre verso il latte nella bottiglia. “La madre di Daniel… hai avuto

notizie di lei?”

“No,” rispondo. “Tanya si è completamente dimenticata di lui.”

Mi volto per andare verso di loro, e gli occhi di Bella sono posati sul viso di Daniel, il quale

rimane seduto in silenzio sulla sue ginocchia.

“Io non potrei mai dimenticarmi di lui,” dice lei. “Né di te,” aggiunge guardando nella mia

direzione.

Daniel beve il suo latte in silenzio. Gli unici rumori che emette sono quelli di soddisfazione

quando il liquido tiepido gli passa nella gola e arriva nello stomaco.

“Pensi di rimanere molto da Renèe?” chiedo a Bella con un groppo alla gola, sperando che

la sua risposta possa darmi in qualche modo sollievo.

“Almeno fino alla fine dell’anno. Ho bisogno di rimettermi in piedi, te l’ho detto, e poi…

poi…”

“Poi?”

“Niente.”

“No, Bella… poi?”

“Niente,” dice con decisione. L’aria serena del suo viso fa spazio all’imbarazzo. Mi viene

accanto e si china su di me per dare un bacio a Daniel. “Sarà meglio che vada. Mia madre si starà

chiedendo che fine abbia fatto.”

Perché vuole andare via? Ho detto o fatto qualcosa? E il nostro ‘Ricominciamo’? Tornerà,

vero?

“Vieni a cena qui,” dico in fretta, senza farle una vera e propria domanda. “Potrei preparare

qualcosa, oppure ordinare due pizze. Vieni a cena qui,” chiedo.

Il suo viso è proprio a pochi centimetri dal mio. Fra di noi, Daniel e i suoi mugolii di

soddisfazione mentre beve il latte.

Il viso di Bella si addolcisce, sorride. “Va bene. A più tardi.”

 

***

 

Quando Bella torna per la cena, Daniel è già nella sua culla a dormire. Lei mi chiede di poterlo

vedere, e io non esito ad aprire la porta dell’angusta cameretta di mio figlio. A Bella sembra non

importare dell’arredamento privo di ogni comodità, di ogni lusso, di ogni colore che si addica ad un

piccolo dell’età di mio figlio. Si avvicina alla culla e lo copre fino al petto, rimanendo incantata dal

suo viso dolcemente intrappolato nel mondo dei sogni.

Ordiniamo due pizze e due birre, e sono felice di potermele permettere. Devo attingere al

piccolo fondo per le emergenze contenuto in un barattolo del caffè, e devo lottare con Bella in

presenza del ragazzo della pizzeria onde evitare che sia lei a pagare.

Fra di noi è ancora lei quella più ricca. Lo dicono i suoi orecchini, lo dicono i suoi capelli

ancora freschi di parrucchiere, lo dicono i suoi vestiti, il suo profumo fruttato.

Ciò nonostante sono io l’uomo, e secondo le buone maniere con cui ho convissuto per tutti

questi anni, è sempre l’uomo a pagare.

Anche quando bisogna prendere i soldi dal fondo per emergenze situato nella dispensa.

Per fortuna Bella non se ne accorge. Ci sediamo sul divano e parliamo mentre consumiamo

la nostra cena. Chiacchiere semplici, nulla di impegnativo. Sua madre, Daniel, i miei fratelli.

Fino a che le pizze finiscono, fino a che finiscono anche le birre.

Ci guardiamo, abbassiamo gli occhi, ci sorridiamo. Non c’è nulla di maturo nei nostri gesti,

soprattutto quando le nostre dita passeggiano nel medesimo posto sullo schienale del divano.

“Posso farti una domanda?” chiedo ad un tratto.

“Sì.”

“Perché hai deciso di aiutarmi dopo che… dopo che io… dopo che non ho più lavorato alla

linea erotica?”

Bella sorride. “A dire il vero ho deciso di aiutarti prima di quella sera. Pensi che lo abbia

fatto perché tu…. Perché noi…”

“No, non sto dicendo questo. Tuttavia è strano, non trovi? Hai deciso di darmi una mano

senza conoscermi davvero. E poi,” chiedo lasciandomi andare alla curiosità, “come hai fatto a

capire che ero proprio io il padre di Daniel? Come hai fatto a collegare tutto? Hai corso un rischio

non indifferente…”

“Un rischio simile a quello che hai corso tu,” replica lei. “Quando mi hai raccontato di tuo

figlio, quando mi hai parlato di te, di tua moglie. L’hai fatto senza conoscermi. Potevo anche essere

una psicopatica, non trovi?”

“No…” rispondo con la voce di un quindicenne. “Io sapevo che… sentivo che… sapevo che

tu eri diversa.”

“E lo sapevo anch’io, Edward. Sapevo che eri e sei diverso. Ho parlato con Jasper, ho

collegato i punti: quanti trentunenni disoccupati con un figlio di nome Daniel esistono a Seattle? Ho

rischiato. E mi è andata bene.”

Non so se è lei ad avvicinarsi o io. Non so chi bacia per primo chi.

So solo che quando le mie labbra si trovano sulle sue, il surreale diventa normale,

spiegabile, realissimo.

“Quando ti ho detto che intendo ricominciare… voglio farlo davvero,” dice lei fra un bacio e

l’altro.

“Lo so,” rispondo accarezzandole il viso. “E’ lo stesso per me.” Bacio le sue guance, gli

occhi, i lobi delle orecchie. “Cosa volevi dirmi prima? Prima di andartene? Ti sei bloccata…”

“Oh.” Abbassa gli occhi, arrossisce.

“Cosa?” Le alzo il viso usando due dita sotto il mento. “Cosa c’è? Cosa volevi dirmi?”

“Niente.”

“Bella.”

“Davvero, Edward. E’ una cosa troppo grande da chiederti… mi prenderesti per matta se lo

facessi, se…”

“Cosa? Cosa vuoi chiedermi?”

Una parte di me accetterebbe qualsiasi sua richiesta adesso.

Bella mi guarda, gli occhi grandi e marroni nei miei. Si morde il labbro inferiore, riflette sul

da farsi.

“E’ accaduto tutto in fretta,” sussurra. “Tu, Daniel, Aro. In questi giorni ho fantasticato

spesso ad occhi aperti, pensando a te e a come potrebbe essere la mia vita se tu… se noi…” Si

allontana e scuote il capo. “E’ una stupidaggine… io… lascia perdere. Lascia perdere, Edward.”

“Non è una stupidaggine, Bella. Dimmelo. Dimmelo.”

Non ho idea di cosa voglia dire, ma ho bisogno di saperlo. E’ come se dalle sue parole possa

derivare qualcosa di buono anche per me.

“Ho pensato,” dice a bassa voce, torturandosi le dita, “che sarebbe bello ricominciare…

insieme. Ricominciare nello stesso luogo, magari. Ho pensato che a me serve un appartamento, e

che con il nuovo lavoro tu avresti potuto cercarne uno più grande, e che insieme avremmo potuto

unire le nostre forze, e…” Si ferma, il respiro le si blocca. “Dio, sono una stupida.” Si copre il viso

con le mani. “Sono proprio una di quelle disperate che chiamano alle linee erotiche,” sussurra. “Io

non ti conosco, tu non conosci me. Non c’è stato nulla fra di noi, e forse non ci sarà mai nulla se

non questo piccolo calore, questi piccoli momenti. Dio,” esclama, “non sono passate neppure dodici

ore dalla prima volta che ci siamo visti…” Si alza dal divano, continua a torturarsi le dita. “E io

sono qui a chiederti di cercare una casa con me. Ho pensato che… ho sognato che potesse… che

potessimo… ho pensato che potesse funzionare, ho pensato alle cose che abbiamo in comune, mi

sono detta che Daniel ha bisogno di un supporto costante, di una papà sereno.” Si ferma di nuovo,

stavolta per osservare i miei occhi spalancati. “Sono una pazza. Devo andarmene.” E fa per avviarsi

alla porta, ma riesco a bloccarla afferrando la sua mano nella mia.

“Bella, calmati.”

“No, no. Devo andarmene. Starai pensando che sono una squilibrata, in fondo non ci

conosciamo, non… non…”

“Ehi… calmati. Respira.” L’attiro a me, ci sediamo di nuovo. “Bella, io non so cosa dire. Di

una cosa sono convinto, però: non sei pazza. Non ci conosciamo neanche da dodici ore, è vero. Io

ho un carico enorme di problemi, e probabilmente lo stesso vale per te: tuo marito, il divorzio. Hai

ragione, Daniel ha bisogno di un padre sereno, di una casa più accogliente, e in fondo ho bisogno

anch’io di determinate cose. Ma in questo momento… non posso lasciare che la mia mente viaggi

troppo lontano. Non sono ancora certo che il lavoro allo studio legale duri per un tempo sufficiente

a rimettermi in piedi. Da un momento all’altro potrei perdere anche quell’impiego, e in quel caso

sarei di nuovo in questa condizione.

“Le tue parole… le tue parole mi danno fiducia, mi rincuorano. Mi danno speranza, Bella.

Perché penso a mia moglie, e poi vedo te. Tu, che non mi conosci, non hai esitato un attimo a

metterti in gioco per me e per mio figlio. Non ti considero una disperata, né una pazza. Sei una

donna speciale,” dico accarezzandole la guancia con i polpastrelli. “E l’idea di ricominciare con

te… l’idea che tu possa frequentare Daniel, l’idea che lui possa darti la spinta necessaria affinché tu

possa riuscire a rialzarti. Tutto questo è allo stesso tempo surreale e magnifico.” Mi fermo, lascio

andare una mezza risata. “Adesso sarai tu a pensare che sono matto.”

“No,” dice accarezzandomi il viso. “No. Hai ragione,” riflette. “Hai ragione. Sai, Edward…

il mio matrimonio è stato costruito sul mio bisogno di evadere da qui, da questo quartiere, e sulle

apparenze da mantenere per compiacere mio marito. Con te, ora, per la prima volta… mi sono

sentita come… ho capito che…”

“Lo so,” dico abbracciandola. “Lo so.”

Restiamo in silenzio per qualche minuto, e so che stiamo entrambi pensando alla stessa cosa.

Esiste un periodo di tempo standard per lasciarsi coinvolgere in questo modo? Esiste un

decalogo da seguire prima di arrivare a dirsi certe cose? Esiste un galateo da seguire per chi

guadagna soldi attraverso una linea erotica e si scopre legato ad una cliente?

Come capire qual è la cosa giusta da fare? Come muoversi?

Come agire, quando la vita che credevi normale non c’è più, e ogni cosa che davi per

scontata è sparita, evaporata, finita?

Tutto cambia. Prospettive, metri di giudizio, sensazioni, idee.

Non ho la più pallida idea di cosa accadrà fra me e Bella. Abbiamo entrambi dei problemi da

affrontare e da risolvere, e un qualcosa che sta nascendo – o forse è già nato – sembra condizionare

i nostri pensieri oltre che i nostri cuori.

Le voglio bene, o forse di più. E’ possibile o è l’ennesimo elemento surreale di questa nuova

vita?

E’ davvero convinta delle sue parole, quando mi chiede di andare a vivere con lei?

Come fare per capirlo? Come fare per essere certo che le cose, da oggi in avanti, andranno

bene? Il mio lavoro sarà duraturo? Lei riuscirà a trovarne un altro? Daniel avrà bisogno di

medicinali costosi? Aro non si stancherà di me? Tanya tornerà ed avanzerà pretese sulla mia vita e

su quella di mio figlio.

Pensare a queste eventualità mi rende insicuro, vuoto dentro. Automaticamente stringo il

corpo di Bella al mio con più forza, e la sua vicinanza riesce a calmarmi, ad infondermi di nuovo

quella speranza di cui ho bisogno, ora più che mai.

In fondo siamo simili, io e lei. Dobbiamo ripartire da zero, o quasi.

Dobbiamo rimboccarci le maniche ed andare avanti, e di certo non lo faremo per l’ultima

volta.

Ma forse può andare meglio se siamo in due. Forse, indipendentemente dai baci, dai piccoli

momenti di calore, da ciò che sento di provare per questa sconosciuta, qualcosa può nascere.

Qualcosa può prender vita fra di noi.

“Voglio riparlarne,” le dico allontanandomi da lei. “Voglio riparlarne. Ho bisogno di

tempo… per il lavoro, per tutto, e anche tu ne hai bisogno, ma voglio riparlarne, Bella. Voglio

prendere in considerazione la tua proposta.”

“Davvero?”

“Davvero.”

Le sorrido, e lei risponde al mio gesto appoggiando il viso sul mio petto.

“Posso lasciare che Daniel sia la mia spinta?”

“Sì che puoi.” Le accarezzo i capelli, la schiena. “Sarà anche la mia.”

E poi, un altro momento surreale. Chiudo gli occhi e vedo noi tre in una casa che non è

questa, in un quartiere che non è questo. Tutto è più luminoso, più bello, meno fatiscente. Il

frigorifero è pieno, dal soffitto non piove. Bella ha Daniel fra le braccia e mi sorride. Io sono

appena rientrato dal lavoro, vado incontro ad entrambi e li abbraccio.

Un sogno? Una possibile realtà? Un’utopia?

Solo il futuro potrà dirmelo.

 

 

Fine

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