La vera storia di un racconto inventato

di Sere88
(/viewuser.php?uid=104907)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Storia ***
Capitolo 2: *** Trasportata con te ***
Capitolo 3: *** Sconvolgi il mio mondo ***
Capitolo 4: *** Non fermarti finchè non ne hai abbastanza ***
Capitolo 5: *** Innamorarsi ***
Capitolo 6: *** P.Y.T. ***
Capitolo 7: *** Il modo in cui mi fai sentire ***
Capitolo 8: *** Qualunque cosa accada ***
Capitolo 9: *** Straniero a Mosca ***



Capitolo 1
*** Storia ***


 

La vera storia di un racconto inventato

Prologo

Quando da bambina scrivevo poesie, non vedevo l’ora che un quaderno finisse per iniziarne uno nuovo.

Con quanta perizia accompagnavo la mia mano nello scorrere della penna, lungo le righe di quella prima pagina immacolata che essendo mancina non potevo fare a meno di pasticciare di inchiostro.

Gioia, emozione, entusiasmo erano i sentimenti che aprivano ogni mio nuovo diario di versi e ne sfogliavano le pagine, e adesso, che appena ricordo quanti anni avessi quando composi la mia ultima poesia, sento una fitta al cuore che mi annuncia che è arrivato il momento di aprire un altro quaderno, nuovo.

Ne ho comprato distrattamente uno di quelli dalla copertina rigida chiusa da un elastico sottile, di un verde carico con sopra stampate delle grandi e lucide fragole rosso acceso.

L’ho acquistato così, senza soffermarmi troppo nella scelta, ma appena fuori dal negozio ho avvertito ingenuamente che lui era lì anche in quella scelta presa alla svelta, in quel verde carico che tanto amo e in quel rosso acceso che tanto adora.

In questo pomeriggio di fine estate mi guardo intorno, e leggo in questa casa semivuota la stessa malinconia che accompagnava l’ultimo giorno nelle vacanze della mia infanzia, quando la casa al mare era stata sgombrata dai bagagli di settimane di sole e di spiaggia e con le lacrime agli occhi, sempre nuove e sempre le stesse, era arrivata l’ora di salutare le amicizie d’ombrellone, sempre nuove e sempre le stesse, alla volta dell’inverno.

I miei pensieri fanno eco nei soffitti alti di queste stanze, loro pure sembrano infastidire il momento solenne in cui aprendo questo diario avverto un’emozione forte, l’emozione di quando sola con te stessa senti che è arrivato il momento di far pace con il tuo passato e di convivere con il tuo presente, in una estenuante lotta alla sopravvivenza che sento di poter combattere solo così, con carta e penna come uniche armi.

Mi devo raccontare una storia e la devo mettere per iscritto, perché una cosa scritta dà il senso del compimento, dell’agito, come a ricordarti che certi momenti li hai vissuti davvero e che la tua vita ha avuto un senso, e di questo senso ho bisogno adesso.

Questa è la storia di un incontro professionale, di una passione difficile da gestire, di un nascondiglio durato due anni, di una amicizia profonda che ne durò venti e un rimpianto che mi accompagnerà per la vita.

È la storia della mia stella.

 Capitolo 1

Mi chiamo Susanna Marie De Matteo; sono nata a Napoli il 29 agosto del 1965, e a quattro anni sapevo che da grande avrei fatto la ballerina.

Sono cresciuta in una famiglia che non rispecchiava proprio i canoni della tradizionale famiglia partenopea degli anni Sessanta.

 Mio padre era Charlie De Matteo, un italo-afroamericano sassofonista nello “Stardust  Jazz Quartet”, uno scanzonato gruppetto di musicisti sognatori, che per un paio di anni vide realizzato un flebile spiraglio di successo.

Nel 1963 mise piede in Italia con il desiderio di conoscere davvero quella terra di cui suo padre parlava nostalgicamente e di cui ancora manteneva la pesante cadenza dialettale con tanto orgoglio. Stanco di pizza e mandolino, di questo paese volle vedere l’arte e decise che come prima tappa Roma sarebbe stata l’ideale. Ma la gita turistica terminò ben presto quando si imbatté in una ragazzetta un po’ svampita e con l’aria trasognata in cui gli parve di veder racchiusa tutta insieme la bellezza dell’Italia. Lunghi capelli neri mossi, occhi blu notte con le venature grigie del marmo e la pelle di un chiarore quasi accecante.

La parentesi italiana di Charlie De Matteo si chiamava Amelia. A vent’anni studiava a Napoli storia dell’arte ed avrebbe volute diventare una pittrice.

Amelia credette di trovare in quel bel ragazzotto mulatto dai lineamenti europei e con l’accento così deliziosamente straniero la sua America, in tutti i sensi. Scappò di casa spinta dalla voglia di emancipazione femminista, dal fascino del musicista straniero, ma soprattutto dal desiderio di liberarsi dalle catene retrograde della sua famiglia. 

Nel 1963 nacque Riccardo; dopo due anni sono arrivata io, Susanna Marie, tentativo mal riuscito di riassumere in un nome Italia e America.

Charlie ed Amelia presero in affitto un basso nella periferia napoletana. Dopo tre anni di convivenza e due figli, nacquero i primi pesanti dissapori tra i due giovani sprovveduti, che spinti dalla passione avevano fatto il passo più lungo della gamba e poco più che ventenni dovettero rinunciare alla loro arte e ai loro sogni per portare avanti la baracca. Lui magazziniere, lei stiratrice in un atelier di abiti da donna nella Napoli bene. Alla frustrazione si aggiunsero le difficoltà economiche e a queste la fuga di mio padre in America.

Questo è quello che mi hanno raccontato, quello che ricordo è invece la forza di mia madre che stanca morta dopo una giornata di lavoro, si metteva china sui libri, perché era in quei libri che leggeva il suo riscatto sociale. Ricordo due bambini cresciuti con affetto e sacrifici e a cui è stata insegnata l’onestà e il rispetto per la vita.

Tre anni dopo la partenza di Charlie, Amelia incontrò un giovane avvocato, Roberto Savarese. Si sposarono dopo soli due mesi, e da quella unione nacquero due gemelli, Edoardo e Lorenzo.

Lei si laureò ed intraprese la carriera di insegnante.

***

Volevo ballare.

La radio e il giradischi erano i miei giocattoli preferiti, ma i soldi scarseggiavano e mia madre inizialmente non poteva permettersi di pagarmi un corso di danza. Quando iniziò ad insegnare ed incontrò Roberto le cose si misero meglio, e così finalmente potetti indossare quelle prime scarpette con i nastri.

La sbarra, i pliè, le diagonali, le punte, il pianoforte, Nurayev, la Fracci e Baryshnikov; era questa la danza che conobbi fino all’età di quindici anni. Poi venne la televisione, le musicassette, i cantanti stranieri e i video clip. Mi si spalancarono le porte di un altro mondo, senza tutù e chignon, un mondo in cui la danza era anche cantata, dove si ballava con i tacchi e un po’ scosciate;  poi c’erano i grandi musical, le compagnie di danza moderna, i provini. Anche io volevo far parte di quel mondo, e ci riuscii.

A diciotto anni feci il mio primo provino; entrai in una compagnia con cui per due anni girai il mondo grazie ad una grande produzione.

Era il 1987 e a 22 anni toccai terra americana.

Corsi e ricorsi storici direbbe qualcuno; quando la storia di una madre diventa per certi aspetti quella di una figlia. Come per mia madre anche io ebbi il mio pezzo di America.

A vent’anni hai la forza di abbattere ogni cosa, ma allo steso tempo ogni cosa ha la forza di abbatterti; talvolta però certi scossoni possono aprirti nuove grandi possibilità umane e professionali.

Brodway, State Teatre.

Sala prove.

Era da un po’ che avevo l’impressione che Bob Stuart mi tenesse d’occhio. Era senza dubbio uno dei migliori direttori artistici in circolazione, ma era anche uno dei più lunatici e presuntuosi uomini del pianeta.

-Susie, ma che cavolo stai combinando!!! Datti una svegliata…andiamo…lo spettacolo è tra qualche giorno, te lo ricordo…

La sua ben nota voce cavernosa era talvolta così profonda da farti rabbrividire; e pensare che fu proprio lui a scegliermi qualche mese prima, durante il casting a Roma.

Perché ce l’ha con me questo?- mi chiedevo terrorizzata al solo pensiero che potesse sentirmi e sbattermi fuori, ma in realtà la risposta a quella domanda la conoscevo già.

Stuart era uno dei più noti coreografi e direttori di compagnia degli anni Ottanta, ma è per qualcos’altro che quell’uomo mi rimarrà impresso nella memoria.

Io, piccola terroncella italiana, svampita e con il desiderio di sbarcare il lunario, fino a quel giorno non sapevo nemmeno cosa significasse la parola “compromesso”, ma poi Bob Stuart volle spiegarmelo chiedendomi di andare a letto con lui in cambio del ruolo da protagonista nel musical su cui stava lavorando. Al mio –No!!!- secco e deciso, che mai avrei creduto di essere capace di  pronunciare con tanta determinazione, senza scomporsi mi congedò con un –Bene! Ne terrò conto…

Dopo due settimane fui sbattuta fuori dalla compagnia, sostituita da una sgallettata che ci aveva visto lungo e si era data a Stuart in cambio di quel posto.

-E che faccio adesso? Dannazioneee!!!!

-Susie, che è successo? Quel porco ci ha riprovato? Dimmi la verità! Gli spacco la faccia stavolta, a costo di farmi licenziare…

Kevin Bloomerg era il mio gigante buono, un omone di colore sulla cinquantina, che da anni accompagnava Stuart nelle sue produzioni come tecnico delle luci. Lo conosceva bene Bob Stuart.

Quando quella sera uscii sconvolta dal suo ufficio con gli occhi sbarrati dopo che egli mi propose quella specie di scambio, come lo definì lui, per poco non gli spaccavo il naso con la porta tanta fu la violenza con cui la spalancai.

-Scusi…sono mortificata…non credevo…mi dispiace…e adesso…Mannagg a miseria!!!- dissi con voce accorata e aggiungendo al mio inglese anche una punta di dialetto napoletano, che accompagnava sempre le mie imprecazioni anche quando stavo lontano da casa.

Kevin stava accovacciato a terra con il naso sanguinante.

–Ma dove cavolo andavi con tutta quella fretta?!!! Le prove sono pure finite…prenditi un calmante ragazzina…così magari eviti di fare danni!

Scoppiai in lacrime e mi accasciai a terra.

–Santo cielo!...Ti senti male?…Mio Dio…è il colmo, a momenti mi spaccavi il naso e tra i due quella che sviene sei tu…

E in quella disperazione, malconcio ma con quel tono buffo che lo contraddistingueva, riuscì a strapparmi un sorriso.

Da quel giorno diventammo grandi amici. A volte durante la pausa pranzo mi fermavo con lui a chiacchierare, e tra fili e riflettori mi raccontava di sua moglie e dei suoi cinque figli, delle sue aspirazioni giovanili. Gli parlai di me, dell’Italia, dei dipinti di mia madre e del sassofono di mio padre, l’unica cosa che lasciò a casa prima della fuga, e di certo non come ricordo ma solo per dimenticanza.

Divenne il mio confidente, l’unica persona sincera con cui potessi parlare in quell’ambiente di prime donne isteriche e pronte a tutto. Gli raccontai della proposta oscena di Bob Stuart, ed ebbi da lui la conferma del fatto che il mio non fosse stato un caso isolato, e che negli anni addietro alcune ragazze addirittura persero il posto in compagnia per questo motivo. Io divenni una di quelle.

-Susie, questo posto ti fa male, cavolo!!! Sono più le volte che piangi che quelle che sorridi da quando ti conosco…Allora racconta…

 Si sedette accanto a me su quelle fredde scalette di ferro, quelle che di solito stanno dietro le quinte, e sui cui gradini a stento entrava il suo sederone.

-Avevi ragione…alla fine mi ha sbattuta fuori a calci nel sedere…e senza uno straccio di valida motivazione, ovviamente. E adesso…???...che faccio adesso? Chiamo mia madre e le dico che forse la prossima volta è meglio se vado a letto con uno sconosciuto?...aiutami Kevin, che devo fare?…E’ ora dei tuoi consigli, quelli a bruciapelo e con il “cuore in mano”, come diciamo a Napoli, e che solo tu mi puoi dare.

Assunse la sua classica posa da oratore tanto buffa, che tirava fuori nel momento in cui mi dispensava i suoi consigli paterni.

–Ascolta, forse ho qualcosa di interessante per te…Che ne pensi dei video clip?

Fece sguardo interrogativo, quasi per sondare il terreno ed assicurarsi di poter centrare nel segno.

–Belli, nuovi, mhmhm…nuovi, da provare…

 –Susie, e dai…io sto dicendo sul serio, che risposta è belli, nuovi, da provare, mica sto parlando dell’ultimo tipo di gelati in commercio…E su…

Riuscì di nuovo ad accendermi un sorriso; in questo è sempre stato un mago.

-Forse tu non ti rendi conto di quello che sto per proporti Susie. È la tua occasione per lavorare con un grande, con un giovane genio della musica…Mia figlia si strapperebbe i capelli se solo lo incontrasse…

-Kevin…guarda non lo so…forse è meglio che lascio perdere…che lascio la danza…l’America e me ne torno a Napoli. Ti ringrazio…Ma forse questo è un segno. La mia strada è un’altra, che ne so…farò la…la…la conducente di autobus…Guarda sono così demotivata che nemmeno…nemmeno se…,che ne so, Michael Jackson mi chiedesse di ballare con lui avrei il coraggio di mettere i piedi su un palco adesso…

-Ah…ok. Se la metti così…la mia proposta è proprio l’ultima cosa che cerchi

-Kevin ma che cerco? non lo so nemmeno io che cerco…Che cerco? Michael Jackson? Andiamo su,  siamo realisti...

-Veramente ti sta cercando lui…

-Ok, credo che la botta che ti diedi qualche mese fa stia dando i suoi effetti ora. Kevin non ti offendere ma secondo me devi farti vedere da qualcuno…Stai delirando…

-Fidati, inizierai a delirare tu quando ti avrò spiegato tutto.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Trasportata con te ***


Capitolo 2

Agosto 1987

Rincorrersi, sfuggirsi...tutto cominciò così, in modo indefinito, impalpabile, irreale come il colore del vento. Ma a quella iniziale brezza leggera seguirono sole rovente, ombra ristoratrice, temporali, tempeste, dolci calori primaverili; seguirono gli anni di una ragazza piena di speranze, una ragazza semplice come un schizzo a matita fatto su un foglio di carta qualsiasi che per caso inciampò nella complessa tela di uomo, intorno a cui la natura seppe dipingere mille preziose sfaccettature, un uomo che tra chiaroscuri e sfumature trasformò l’incerto tratteggio di un profilo di ragazza in un ritratto di donna.

 

***

 

Tutto era pronto, anche le coreografie erano state messe a punto; era arrivato il momento, il mondo doveva essere preparato ad un nuovo grande successo.

Michael Jackson era all’apice della sua fama. Erano gli anni in cui davvero aveva tutto; soldi, successo, Grammy, bellezza e giovinezza; il tutto ovviamente contornato da critiche, illazioni, pettegolezzi da parrucchiere, il prezzo che tocca pagare quando si diventa una delle più grandi star del panorama musicale di tutto il mondo. Ma lui non voleva piegarsi a tutto questo, ed aveva ancora la forza di tentare di vivere una vita normale, o quanto meno fatta anche di svago oltre che di lavoro ossessionato.

Per quella sera volle essere spettatore e non mattatore da palcoscenico.

 -Stasera ho voglia della poltrona di un teatro. Che ne dici Jim? Ti va di vedere uno spettacolo a Brodway stasera?

 Come se poi avesse avuto possibilità di scelta. Jim Gellhorn era pagato per accompagnare Michael Jackson nelle sue uscite semi-pubbliche, per evitare che ad ogni passo venisse calpestato da una folla di fan assatanati. Faceva un po’ di tutto,  guardia del corpo, collaboratore, gli teneva conti, organizzava l’agenda; ma in fondo era anche un buon amico, Mike si fidava di lui.

Si recarono allo State Teatre e ovviamente la loro presenza non passò inosservata. Vennero riservati a lui e al suo gruppo dei posti d’onore. Il tutto fu fatto all’ultimo momento; i membri della compagnia non vennero neanche informati della presenza di quell’illustre spettatore perché Mike chiese esplicitamente agli organizzatori di non dire nulla loro. Per quella sera avrebbe voluto essere uno come tanti; del resto chi si esibisce non viene informato del nome e del cognome di ciascun membro del pubblico, e così fu.

Si aprì il sipario. Lo spettacolo ebbe inizio.

 Non riusciva a rilassarsi; non poteva fare a meno di guardare tutto sottoponendolo alla sua deformazione professionale. Effettivamente i ballerini erano bravi. Buona la dinamica, la sincronicità, la ritmica, ma ad un certo punto si perse. Il suo sguardo divenne tutt’uno con le sinuose, eleganti e allo stesso tempo grintose movenze di una delle ballerine. Faceva una piccola particina da solista e per il resto faceva da corpo di ballo,ma che corpo e che ballo. Magnetismo allo stato puro; faccia pulita, sguardo languido, totalmente assorta nella sua arte. Quella ragazza si offriva al pubblico come non aveva mai visto fare a nessuna, lei si che aveva lo spirito giusto, lei si che dava spettacolo. Ma chi era? Voleva incontrarla per farle i complimenti.

***

Quanto amo il teatro; ogni sua molecola è per me molecola di vita; il sipario pesante e polveroso, l’odore della pece per non scivolare, le quinte…

Prima di uno spettacolo seguo sempre un mio rituale particolare. Mi allontano nell’angolo più recondito del backstage e tra aste, riflettori, parti di scenografia e resti di costumi di scena trovo la mia dimensione. In religioso silenzio massaggio ogni minimo muscolo con accortezza e riscaldo il mio bene più prezioso, i piedi, con la perizia di un artigiano meticoloso. Per un danzatore il corpo è un tempio sacro e la sbarra il suo altare mistico.

Da bambina durante i saggi che preparavo nella scuola in cui ho studiato, in quei piccoli teatri della periferia di Napoli, mentre aspettavo di entrare in scena per esibirmi guardavo in alto verso il soffitto e mi perdevo in quel groviglio di fili e luci colorate. Immaginavo che su quelle alte impalcature camminassero degli spiritelli dispettosi che da lassù guardavano i ballerini in scena e decidevano se farli cadere o farli danzare. E allora poco prima di mettere i piedi sul palco alzavo gli occhi e pregavo intensamente gli spiritelli perché mi permettessero di eseguire bene i miei passi e di far commuovere mamma che era tra il pubblico.

Erano più di dieci anni che non facevo una cosa del genere, ma quella sera sentii forte il richiamo di quel dolce ricordo di infanzia ed allora sorridente ed un po’ sorpresa, prima di entrare in scena gettai un’occhiata al cielo.

Gli spiritelli mi fecero danzare come non avevo mai fatto. Vivevo il mio corpo in tutta la sua energia, sentivo la forza, la pulsione, la delicatezza, la tensione, ma soprattutto mi stavo divertendo.

Terminata la serata, noi della compagnia venimmo avvisati del fatto che tra gli spettatori quella sera c’era Michael Jackson. A quel punto si scatenò il putiferio. Per tutte le ragazze del corpo di ballo iniziò la caccia all’uomo. Volevano incontrarlo…anzi divorarlo direi. Autografo, foto, baci, abbracci e se ci fossero riuscite, anche qualcos’altro. Sapevo che in quel senso ci avrebbero provato tutte.

Nella compagnia non avevo nessuna amica. Tutte assatanate di successo a tutti i costi, pronte a vendersi all’ultimo degli impresari anche per un contratto misero. Sanguisughe, invidiose ed arrampicatrici sociali. Una buona parte di loro era italiana; quelle mi odiavano più di tutte, altro che spirito patriottico, e tutto a causa del fatto che nel casting di Roma Bob Stuart mi scelse per prima, subito, dopo una sola selezione. Ricordo che mi guardò e disse –Perfetta, stavo cercando proprio te…

In quei mesi sempre in giro a parte le chiacchierate con Kevin e le telefonate dall’Italia di Diana, la mia migliore amica da sempre, ero sola, non parlavo con nessuno. Preferivo stare per conto mio, piuttosto che girare a fare la grupie per i locali notturni di mezzo mondo con le altre.

Anche in quell’occasione mi tenni fuori dal mucchio; non mi andava di stare in mezzo a quelle arpie maliziose, e poi io, troppo poco maliziosa, apprezzavo Michael Jackson come artista, anche se effettivamente aveva un fascino fuori dal comune, ma comunque non avevo nessuna intenzione di buttarmi ai suoi piedi come una forsennata mostrandogli la mercanzia a buon prezzo. Avevo qualcosa che si chiamava dignità da rispettare…Ma che vuoi che ne capissero quelle altre.

E poi del resto in quella tale confusione che avrei potuto dirgli…”Salve Mr. Michael Jackson, sono una sua estimatrice dalla sorridente Italia…Volevo sincerarmi con lei per le sue straordinarie doti di cantante, ballerino, performer…ecc…ecc…” In effetti aveva tutto quell’uomo. Chissà se sapeva volare…Ah già…volare no, ma camminare sulla luna si…Era perfetto allora. Lui di certo non aveva niente da dirmi…

E così quella sera dopo lo spettacolo andai in camerino, mi struccai, raccattai la mia roba e in quella confusione di fotografi, ragazzette urlanti e guardie del corpo, sgusciai fuori dal teatro e con il primo taxi presi la strada dell’albergo.

***

Finito lo spettacolo chiese ai suoi collaboratori di incontrare la compagnia; in realtà voleva conoscere lei e dirle quanto avesse apprezzato la sua capacità di tenere il palco e coinvolgere il pubblico.

Si recò con Jim e gli altri del suo staff nei camerini; una folla di fotografi gli bloccava ogni passaggio e la compagnia al gran completo, con tanto di regista, lo accolse calorosamente. Fu strapazzato dalle ragazze ancora con i costumi di scena, tra autografi, foto, sbaciucchiamenti. Tutti che gli dicevano quanto fosse straordinario. Ma in realtà in quel caos ci si era imbattuto non tanto per ricevere complimenti, ma per farne di cuore ad una ragazza, una di loro, ma nessuna di loro in effetti.

-Jim?...Hai capito chi sto cercando…?

 -Si Mike…è la millesima volta che me lo dici…La ragazza mora con i capelli ricci lunghi…Ho capito

 -Jim…

 -Si Mike…

 -Ma non c’è la mia ragazza mora con i capelli ricci lunghi che stavo cercando…

Stava per abbandonare le ricerche.

-Eccola!!!....Ehi…scusa! Santo cielo…Scusate…mi fate passare un attimo- tentava di farsi largo tra la gente-…anzi qualcuno chiami quella ragazza mor…

Nemmeno il tempo di finire la frase che lei gli passò davanti a razzo, uscì dal teatro e si infilò in un taxi. Se l’era fatta scappare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sconvolgi il mio mondo ***


 

Capitolo 3

 

Forse fu solo fortuna, probabilmente mi trovavo solo al momento giusto nel posto giusto; sta di fatto che da quando quel giorno mi alzai dalle scalette buie e nascoste dietro lo scheletro dello State Teatre, la mia vita non fu più la stessa.

Ero pronta a tutto questo? Ero certa di quello che mi sarebbe accaduto di lì a poco? No, la certezza purtroppo non è mai stata la mia compagna di viaggio...

-Allora ragazzina ascoltami bene. Quello che sto per dirti potrebbe farti venire un infarto istantaneo. Sei pronta? -disse Kevin con una faccia seria e quasi preoccupato per la capacità di resistenza delle mie coronarie- Michael Jackson ti sta cercando…Anzi ti spiego meglio… Durante le prove dell’ultimo video che sta preparando, quello che ha a che fare con un film…una cosa del genere, non so bene di che si tratti, comunque una delle ballerine si è fratturata una caviglia. È fuori gioco. Sta cercando una sostituta e in fretta anche. Il suo staff si è rivolto a Bob Stuart, perché pare che Michael sia rimasto soddisfatto del vostro spettacolo che ha visto la settimana scorsa. Voci di corridoio dicono che però stia cercando una in particolare. Non so con sicurezza chi sia, ma il mio sesto senso mi dice che quella sei tu, del resto sul palco quelle quattro sciaquette  te le mangi.

-Kevin andiamo….non diciamo sciocchezze… E poi figurati se quel porco di Stuart non ha già selezionato quelle da mandare al provino con Michael Jackson…e ovviamente io non sono una di quelle…ovviamente! Non facciamoci illusioni…

-Si, ma adesso tu non fai parte più della sua compagnia e sei libera di fare tutti i provini che vuoi…Fidati, so io chi contattare per trovarti un aggancio e poter partecipare al provino. Ho un caro amico che lavorerà come tecnico nel suo staff per il suo primo tour mondiale da solista, una cosa grossa…Fidati…a costo di scomodare anche il padre eterno ti farò andare a quella audizione…

Perplessa e rassegnata mi affidai a Kevin e ai suoi sapienti consigli, del resto che avevo da perdere. Dal quel giorno sarei stata disoccupata.

Los Angeles, 28 agosto 1987.

Notte in bianco, totalmente in bianco; avevo preso sonno all’alba e per di più la sveglia non aveva suonato.

-Dannazioneeee….!!!! Tutte a meeeee!!!! –urlavo disperatamente mentre mi lavavo i denti, mi infilavo i pantaloni e mi preparavo la borsa. Tutto contemporaneamente.

Trafelata e con un aspetto discutibile arrivai a destinazione, anche se con mezz’ora di ritardo. Sentivo di essermi giocata anche questa possibilità ed ero dispiaciuta più per Kevin che per me; sapevo che aveva fatto i salti mortali per fare in modo che potessi esserci anche io quella mattina e come una deficiente avevo buttato all’aria tutti i suoi sacrifici.

Fuori da quella porta presi il coraggio a quattro mani; non avevo altra scelta, entrai.

Dall’ ingresso non si vedeva la scrivania dietro cui era seduto Michael Jackson e gli assistenti alla coreografia. Si vedeva solo un gruppetto di ragazze, tra le quali le solite facce note, come mi aspettavo. Alla porta una tizia bruttina, occhialuta e piena di fogli in mano mi disse con una vocina a mitraglietta che dovevo compilare un modulo con i miei dati. Mi indicò un piccolo tavolino poco lontano su cui mi sarei potuta appoggiare per scrivere.

Feci per avvicinarmi al tavolino quando lo vidi con la coda dell’occhio, e con la penna in una mano e il foglio nell’altra mi impalai a guardarlo come una stupida, con una postura mezza sbilenca per via del borsone pesante che mi pendeva da una spalla.

Camicia rossa, capelli legati.

Era lui.

“Occhi grandi…sorriso appuntito come quello di un joker…una fossetta accennata che gli segna il mento…quel collo erto che esce procace dalla camicia…quelle dita lunghe che tamburellano impazienti sulla scrivania…quelle…Oh Susà!!! Ma la vuoi finire!!! Gli squilibri ormonali oggi non sono ammessi…e un po’ di professionalità e che diamine! Prima ti metti a criticare le tue colleghe e poi te lo spogli con gli occhi…E che miseria…non lo vedi che sei ridicola!?”. Una voce risuonava impetuosa  e severa nella mia mente e mi diceva di farla finita di fissarlo come un’idiota. Ma a quanto pare i risultati furono scarsi.

Lui sembrava insofferente, non riusciva a stare fermo un attimo. Prima metteva le braccia conserte, poi la mano sotto il mento, poi muoveva gambe e piedi come per accennare dei passi. Ad un tratto con la mano destra si toccò leggermente il lobo dell’orecchio sinistro; ruotò la testa verso di me e quegli occhi bruni mi tramortirono come una fucilata.

Con uno scatto brusco tese il braccio nella mia direzione cambiando espressione; sentii una voce… e pensai…”Kevin…ecco l’infarto!!!”

–Perfetta, stavo cercando proprio te!

NO!!!...Così no! anche lui no…Ma che è un’epidemia!?… –dissi fra me e me in una frazione di secondo.

-Dico a te…ehi…la ragazza con il foglio in manoooo… -eclamò facendomi un cenno come per risvegliarmi da quello stato di incoscienza in cui mi trovavo.

Tutte le persone in quella stanza mi guardarono contemporaneamente, allibite.

Al suono di quelle parole mi girai istintivamente indietro; non c’era nessuno. Quando mi rivoltai sussurrai a mezza voce

–Ma chi io??

-Si tu, tu... Finalmente ti ho trovata e questa volta non mi scappi da sotto il naso…

A scappare proprio non ci avevo ancora pensato, ma ad evaporare forse si.

-Ma io veramente non ho neanche ballato Mr. Jackson…non saprei…c..c..cosa…

-Scusami ma tu sei qui per il provino?

-Eeeh si…

-Allora considera come se lo avessi già fatto. Tutte le altre…mi dispiace, ma potete andare…Siete state grandi…ma io cercavo proprio lei…scusate ancora. Comunque lasciate lo stesso i vostri dati al mio collaboratore, potrei ricontattarvi per qualche altro lavoro. Grazie ancora per le belle esibizioni…Ciao a tutte.

Nel giro di un istante si innalzò un vocio di fondo in cui ebbi modo di riconoscere chiaramente la parola “raccomandata” che usciva dalla bocca di tutte le altre ragazze presenti.

Ero sconvolta e non ci stavo capendo un tubo.

-Jim fai uscire tutti per favore, io e lei abbiamo da lavorare…grazie-  disse sorridente.

Jim annuì; fece segno agli altri presenti di abbandonare la sala prove. Tutti andarono via.

Io e lui in quella stanza.

-Ciao, è un piacere incontrarti, sono Michael Jackson- disse con tono colloquiale come fosse l’ultimo degli sconosciuti che mi si presenta ad una festa; mi tese la mano.

Rimasi esitante a due metri da lui, c’era qualcosa che mi teneva le scarpe incollate al pavimento. Poi, come svegliata di soprassalto da uno stato di trans, sillabai qualche parola.

–Ah si…scusi…cioè salve mi chiamo Susie…Anzi… veramente no…

Il suo sguardo interrogativo e quel mezzo sorrisetto malizioso mi fecero intuire che in quel momento avevo assunto tutte le caratteristiche di una perfetta imbecille.

 –Non ti chiami Susie…? È un peccato perché lo trovo un nome delizioso…è così musicale…Susie, Susie, Susie…bello no?

Guardava in alto mentre ripeteva quel nome quasi estasiato. Non avevo mai trovato Susie così entusiasmante fino al quel momento.

-In realtà mi chiamo Susanna Marie… De Matteo, sono italiana

-Che bello…beata te, siete così solari voi... Comunque mica è un problema se ti chiamo Susie?…mi piace davvero non sto scherzando…-mi dissero quelle labbra, che come un sipario si aprirono sul lineare spettacolo di quei denti perfettamente accostati simili ai tasselli di un mosaico, disarmante al punto da  togliermi dieci anni di salute.

–Di dove sei per la precisione?

-Napoli…

-O santo cielo che poesia…Totò, lo adoro…Hai mai visto quel film in cui fa la parte del burattino? Pinocchio?...Come si intitolava?- mi chiese mordendosi il labbro in un modo così sensuale da far uscire fuori dai gangheri anche una suora di clausura e stringendo leggermente gli occhi come per cercare di scavare qualche ricordo recondito nella memoria.

-Eeeeh…”Totò a colori” se non sbaglio…non ne sono sicura però…-sorrisi quasi timorosa di aver detto una sciocchezza.

-Giusto!...brava proprio quello…bello. Comunque torniamo a noi…

Mi stavo iniziando ad ambientare. Quella piacevole digressione partenopea mi aveva messo a mio agio. Mi tolsi la borsa dalla spalla e la poggiai a terra. La salivazione era ripresa; adesso potevo parlare più speditamente.

-Ma lei mi conosce Mr. Jackson?

-Diamoci del tu…In fondo non credo di essere tanto più vecchio di te. Quanti anni hai?

-Ventuno…Anzi…no, che dico…ventidue…domani ventidue…

-Wow domani è il tuo compleanno? Dove lo festeggerai?

-Eh più che  dove forse il problema sarebbe con chi…Qui non conosco nessuno, sono nuova di queste parti…- risposi imbarazzata e sorpresa dal suo modo di fare così informale. Non era esattamente il tipo di persona che avrei immaginato.

-Io sono di queste parti quindi da oggi puoi aggiungermi alla lista dei tuoi conoscenti, se non ti dispiace. Guarda a questa cosa del compleanno credo si possa rimediare, lo festeggi da me…Ti va? La mia casa è grande abbastanza direi…E poi mi piacciono feste anche se non sono abituato a festeggiare i compleanni…

“Eccone un altro!- pensai -Pure lui che ci prova nooo!!!…Che delusione, credevo fosse una persona seria…Certo che ambiente di merda questo, più si alza il livello e peggio è…”

–No guardi…guar..da, ti ringrazio ma non mi sembra il caso- dissi evidentemente a disagio.

-Scusami, penserai che sono un cafone. È comprensibile che tu non voglia festeggiare il tuo compleanno a casa di uno che hai appena conosciuto. Però nulla vieta che uno appena conosciuto possa invitarti a festeggiare il suo di compleanno…Siamo nati lo stesso giorno…

Dopo la mia prima esperienza fallimentare con le avances, quella situazione mi stava mettendo in grave difficoltà. Ero sulla difensiva, ma poi ho razionalizzato e mi sono detta “…ma ti pare che Michael Jackson non ha l’occasione e le conoscenze per portarsi a letto una gnoccolona di top model. Tra tante bellissime donne che incontra nel suo lavoro, figurati se si pregiudica la faccia e la reputazione con una tal dei tali qualsiasi che viene dall’Italia e che non è nessuno...”

E poi quel ragazzo aveva gli occhi buoni, sinceri, puliti. Il mio viso divenne di mille colori; avevo le orecchie in fiamme.

-Va bene, allora se la metti così…accetto l’invito- sorrisi abbassando lo sguardo come per nascondere il timore di aver osato troppo.

-Ok allora perfetto, ci divertiremo vedrai…Ah un’ultima cosa…

-Si…

-Vorrei vederti ballare…Sia chiaro, sei stata presa, ma ti ho visto l’altra sera a teatro. È da quella sera che ho voglia di vederti ballare…

 Erano le 11:30 del mattino del 28 agosto 1987. Quel giorno per la prima volta danzai con tutta la mia passione.

Quel giorno per la prima volta danzai per la mia più grande passione.

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Non fermarti finchè non ne hai abbastanza ***


Capitolo 4

 

Quella mattina mi guardai riflessa nello specchio di un armadio anonimo in una altrettanto anonima stanza d’albergo. Eccomi qui…stessi capelli, stessi occhi, stesse gambe…fuori era tutto come lo avevo lasciato il giorno prima ma dentro si era scatenata una rivoluzione, una sorta di inversione anatomica. Lo stomaco stretto in gola, il cuore che batteva a destra sinistra, nelle mani, nei piedi e nella testa, nelle mie vene niente sangue ma un’emozione acerba fatta di attesa, di aspettative, di  realtà sconosciute, di possibilità.

Ero felice, ma di una felicità ibrida perché nello stesso tempo mi parve essere legata a mille motivazioni e a nessuna in particolare.

Sorrisi  a quell’immagine allo specchio con un ottimismo che ti appartiene solo se sei tanto giovane e sprovveduta come lo ero io allora, e mi preparai ad affrontare questa nuova avventura.

 

Mi disse che alle otto una macchina sarebbe passata a prendermi al mio albergo. Ero pronta già da un’ ora ed agitatissima perché avevo la sensazione che stesse succedendo tutto così troppo in fretta, ma come sulle montagne russe più sentivo di andare veloce e più mi divertivo.

Quella mattina chiamai Kevin  facendolo saltare giù dal letto; erano le sette di mattina quando squillò il suo telefono.

 

-Mamma mia…mi alzo…mi alzo…Ma chi è che a quest’ora già rompe i cogli…-borbottava mentre aveva già la cornetta all’orecchio.

 

-Mi ha presa!!!! Ti rendi conto!!!! Sei un grande, non c’è che dire…Ti adoro…Ma come hai fatto????!!!!!!

 

Gli urlai direttamente nell’orecchio.

 

-Abbassa la voceeee…non sto…cap…non ho capito niente…

 

-Kevin! Mi ha presa nel corpo di ballo…siiii… per il video; ha detto “sei perfetta, non mi scappi…”che ne so…un sacco di cose…Poi il compleanno a casa sua…

 

Ci misi un po’ per formulare una frase di senso compiuto. Una volta calmati i bollenti spiriti, gli raccontai tutto per filo e per segno. A conclusione della telefonata Kevin saltellava come un ragazzino dall’altra parte della cornetta mentre ripeteva alla moglie –Meggie, oggi si festeggia!!!

 

Arrivò il fatidico momento della scelta dell’abito giusto.

“Diana dove seiiii…” , pensai di fronte all’impellente necessità di un consiglio da amica, di quelli belli spassionati che solo una che ti conosce come le sue tasche da diciotto anni ti saprebbe dare.

Dopo la doccia aprii la valigia alla ricerca di qualcosa di decente, ma come succede sempre in questi casi avevo l’impressione di aver portato solo stracci, nulla di adatto ad una serata come quella…Ma che poi…come sarebbe stata quella serata? Non sapevo davvero cosa aspettarmi.

Minigonna? Troppo sfacciata; pantalone? Troppo poco femminile, e in quel marasma che nulla aveva da invidiare al mercato comunale del mercoledì  alla fine trovai qualcosa.

Diana c’aveva messo il suo zampino. Sfoggiai il vestitino più carino che avevo, un suo regalo; un tubino verde pino senza spalline. Indossai un paio di ballerine basse, spennellai leggermente un po’ di trucco e ravvivai la mia  chioma vaporosa al naturale contenendola in una fascia che richiamava il colore del vestito. Ero pronta!

Mi spruzzai al volo un po’ di profumo, anche quello era un regalo della mia migliore amica, il suo preferito; quanto avrei voluto che fosse stata  lì con me in quel momento per condividere con lei quel senso di trepidazione che mi stava divorando.

Prima che partissi per l’America ricordo che mi accompagnò all’aereoporto insieme a mamma e a Roberto.

 

-Tesoro mio questo è per te- mi disse con le lacrime agli occhi- così potrai sentirmi vicina anche se sarai dall’altro capo del mondo.

 

E adesso che dall’altro capo del mondo mi ci trovavo davvero non potevo fare a meno di abbracciarla con il pensiero.

 

Alle otto in punto arrivò lui; anzi l’autista.

 

Altro che festa di compleanno. Io che ero abituata a bicchieri di plastica, Fanta e patatine San Carlo, in quel contesto mi sentivo a disagio ed osservata, nemmeno fossi andata in giro nuda.

Quella sera Mike, il suo staff ed alcuni amici, una quarantina di persone in tutto, si preparavano a festeggiare a scopo propiziatorio l’imminente uscita del suo prossimo disco, prevista per il 31 agosto, l’atmosfera era piuttosto intima e questo non fece che acuire la mia sensazione di inadeguatezza.

 

-Susieee…che bello vederti! Sei uno splendore…

 

 Mi accolse prendendomi per mano e facendomi fare una giravolta.

Non mi aspettavo un benvenuto del genere, immaginavo quelle cose del tipo ti invito però sono troppo vip per darti retta. Ogni giorno dovevo ricredermi su qualcosa riguardo a quell’uomo.

 

-Vieni ti presento qualcuno- disse cingendomi le spalle con un braccio ed accompagnandomi verso il centro di quel grande giardino con piscina dove c’erano gli altri invitati.

 

Fece un cenno ad una ragazza poco distante; si trovava vicino al buffet con un bicchiere in mano ed una tartina in bocca.

 

-Ecco mia sorella…sempre la solita…Janet vieni qui, voglio presentarti una persona!- esclamò con voce squillante.-… è di un anno più piccola di te, devi conoscerla è un personaggio…

 

Dopo poco mi si avvicinò questa ragazza tutta pimpante e con un vestito dai toni sgargianti.

 

-Ciao! Sono Janet, piacere di conoscerti- mi fece con un tono simpatico porgendomi la mano.

 

Si vedeva da un chilometro che era sua sorella, stesso sorrisone, stessi occhi grandi ed espressivi; ebbi subito l’impressione che fosse una ragazza solare e frizzante e successivamente me ne diede la conferma.

 

-Spero che mio fratello non ti abbia già annoiato con i suoi discorsi…talvolta è un po’ pesante…

 

- E tu sei logorroica…-rispose lui dandole scherzosamente una leggera spinta- …vado a prendermi qualcosa da bere, a dopo…Ah… Janet… ti raccomando…

 

-Tranquillo, tranquillo non la rompo mica…vai vai…

 

Conversammo fitto fitto per più di mezz’ora. Mi sentivo a mio agio con lei parlando di tutto; vestiti, fidanzati, gusti musicali, lavoro, Mi raccontò un po’ della sua carriera artistica e da quella conversazione ebbi modo di scoprire che anche lei come il fratello aveva intrapreso presto la professione di cantante e fino ad allora già aveva inciso quattro dischi e qualche esperienza tv. Mi parlò del suo matrimonio all’età di diciotto anni a Las Vegas, del fatto che dovette tenere tutto nascosto alla famiglia e a Michael in particolare…Insomma in poco meno di un’ora chiacchierammo come se ci fossimo conosciute da una vita.

-Ma non starete mica complottando alle mie spalle…?- intervenne Michael dopo un bel po’ che ci vedeva confabulare-… siete state tutto il tempo in disparte…ma che vi dite?

 

-Cose di donne, non puoi capire…- gli rispose Janet buffamente- No…a parte gli scherzi…- proseguì rivolgendomi un sorrisetto malizioso- stavo pensando a quanto deve essere importante questa Susie per averle organizz…

 

Non le diede nemmeno il tempo di completare la frase che lui prontamente le tappò la bocca con una mano.

 

 – Ehm…devi sapere Susie che talvolta mia sorella parla un pochino troppo…- disse rivolgendole un’occhiataccia eloquente che sembrava dire “Sei sempre la solita”.

 

-A questo punto…direi che forse è meglio che tolga il disturbo…mi vado a fare un giretto. Vi lascio soli…Ciao bella è stato un piacere conoscerti -rispose Janet una volta liberatasi da quella specie di bavaglio, mentre indietreggiando con le spalle alzate e le mani avanti in segno di resa gli sussurrava- Scusa, scusa, scusa…

 

Eravamo soli, e quella situazione ambigua ed imbarazzante non mi aiutò nella scelta di qualche comprensibile parola dal mio vocabolario. Ma per fortuna provvide lui a rompere il ghiaccio.

 

- La macchina è arrivata in orario?-

 

-Si si grazie Michael, ma non dovevi, mi sarei arrangiata io…

 

-Ma non dirlo nemmeno per scherzo…figurati se ti facevo venire a piedi…oggi poi che è il tuo compleanno…Ah a proposito – disse alzando leggermente il tono della voce e rivolgendosi agli altri invitati –ragazzi un momento di attenzione…vi presento un altro motivo per cui festeggiare stasera…Susie!!!

 

Erano le mie ginocchia che stavano cedendo o era il terreno sotto i miei piedi che stava sprofondando? Non ne avevo idea, ma in quel momento sarei scomparsa volentieri.

Iniziò ad intonare “Buon compleanno” e gli altri lo seguirono a ruota; si abbassarono le luci ed entrò una torta enorme con la forma dell’Italia con su scritto…

 

“PER FARTI SENTIRE A CASA …TANTI AUGURI LITTLE SUSIE!”

 

 Tutti applaudirono calorosamente e io stavo rischiando un altro infarto, il secondo nel giro di due giorni.

E pensare che questo fu solo un assaggio di quello che Mike è stato per me nel corso di questi anni, grande, dolce ed inaspettato, proprio come quella torta.

Le nostre vite si stavano incrociando ed io mi abbandonai sognante a quell’intreccio di destini.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Innamorarsi ***


Capitolo 5

 

 

Lavorare con lui…che esperienza gratificante!

Vedere all’opera un genio ti lascia grandi insegnamenti e come una spugna cercavo di apprendere da lui ogni cosa. Perfezionista, professionale, ma anche umile e aperto ai consigli dei suoi collaboratori. Era preciso, meticoloso, dimostrava di sapere sempre cosa volesse, ma stimava profondamente le persone che lavoravano con lui ed era sempre disposto ad ascoltare qualche idea buona.

Furono settimane di duro lavoro quelle, ma ricompensate con tanta soddisfazione, del resto non volevo deludere le sue aspettative. Si era fidato di me e di quello che aveva visto quella sera a Broadway, per cui dovevo essere assolutamente all’altezza della situazione.

Quel giorno arrivai sul set piena di entusiasmo, emozione e tanta tremarella.

Noi del corpo di ballo ci riscaldammo e passammo alla sala trucco, poi indossai quello spettacolare costume anni trenta e mi avviai sul set.

I miei occhi vagavano sorpresi tra quelle scenografie così sapientemente d’epoca; tutto lì intorno aveva il sapore di una cosa grandiosa lontana chilometri dagli spettacolini di seconda categoria in cui avevo lavorato, e tra banconi, tavoli e luci il mio sguardo concluse quel gioioso vagabondare su di un’immagine che a stento mi permise di contenere i miei occhi nelle loro orbite.

In uno stato di completo ottundimento la mia fantasia percorse  in repentina discesa un profilo di uomo, fatto di cappello e di ricciolo indisciplinato che faceva capolino su un volto concentrato a produrre genialità, straordinario prologo di un corpo in completo bianco e scarpe con le ghette.

Schiok!

Un pollice ed un medio si incontrarono in un attrito rumoroso proprio dinanzi al mio naso facendomi scattare come un novello soldatino di leva.

 

-Bella? Ce la fai o ti devono far ricoverare?…

 

Samantha; bella, brava, spigliata, smorfiosa, l’unica delle ragazze con cui ballavo a non avermi mai rivolto la parola da quando avevo iniziato a lavorare  con il corpo di ballo di Michael. Mi trovavo bene con il resto dello staff, belle persone e tutti grandi professionisti, ebbi anche modo di fare amicizia con qualcuno di loro, il che fu per me un gran sollievo perché si rivelò la dimostrazione del fatto che rispetto alla mia precedente esperienza lavorativa non ero io ad essere asociale ma erano le altre ad essere stronze. Tuttavia evidentemente anche lì stavo sulle scatole a qualcuno.

 

-Non vedo l’ora di cominciare…Uhhh…finalmente il mio sogno si realizza e il mondo mi vedrà volteggiare con lui stretta stretta…

 

La bella cinguettò quella frase aspettandosi un mio “O santo cielo…come ti invidio…sei bravissima…vorrei essere come te”, ma l’unica cosa carina che sarei stata capace di rivolgerle in quel momento sarebbe stata “Ma vavattenn’ Samà! “.

Sapevamo tutti che fosse una ballerina di talento, aveva già fatto tante esperienze importanti e non mancava occasione di schiaffeggiarle in faccia a chicchessia. Era altezzosa e pesante, ma molto probabilmente la verità era che io rosicavo ed ero troppo orgogliosa per darglielo a vedere.

Eh si, la invidiavo. Lei lo avrebbe accompagnato in una breve ma certamente indimenticabile danza sensuale, io invece sarei stata una qualsiasi tra le altre. Ma poco importava, del resto quello che girammo fu uno dei video clip che ha fatto la storia della musica mondiale, ed io c’ero, un po’ nascosta ma c’ero e questo mi bastava ad essere felice per il resto della mia carriera.

Poco prima di iniziare a girare entrammo tutti in scena per definire meglio le ultime posizioni e le dinamiche dei nostri spostamenti.

Lui si aggirava pensieroso ed assorto, accendendo di tanto in tanto qualche parte del suo corpo con quella danza che si chiama Michael Jackson; si fermava vicino ad uno dei ragazzi, gli diceva qualcosa sulla coreografia, si spostava, raccoglieva le idee, mentre io un angolino ripetevo i miei passi a cui avevo tanto lavorato affinché tutto fosse perfetto.

In una presa delicata ma decisa delle dita mi cinsero il polso come un bracciale, accompagnando il mio corpo in una leggera giravolta che si concluse con mia sorpresa a due centimetri da quel volto che poco prima contemplavo a distanza di due metri.

 

-Variazione sul tema…- disse quel sorriso- tocca a te fare questo giro di giostra…

 

Deglutii a fatica per una serie di motivi; mi sentivo in imbarazzo, non avevo ben capito che cosa avesse in mente, ed i nostri corpi erano pericolosamente ed inaspettatamente incollati.

 

-Questa parte la balli tu con me, ok?

 

Mi limitai ad annuire con il capo, anche perché non sarei stata capace di emettere alcun suono né nella mia lingua madre, che ebbi l’impressione di aver resettato, né in inglese, che invece ebbi l’impressione di non aver nemmeno mai imparato.

Fuori stavo zitta, ma dentro di me si era scatenata la festa di Piedigrotta! I tentativi di contenermi ebbero però vita breve e furono letteralmente assassinati dall’avvicinarsi inviperito di Samantha, ma stavolta non le diedi nemmeno il tempo di sputare i litri di veleno che certamente non vedeva l’ora di riversarmi addosso e le dissi con la più grande faccia da schiaffi che abbia mai potuto fare

 

-Bella? Ce la fai o ti devono far ricoverare?…

 

Backstage.

Durante una pausa, mentre stavo per allontanarmi dal set per andare a bere un sorso d’acqua inciampai sui fili delle luci.  Feci un volo acrobatico che mi lasciò il ricordo di un bel bernoccolo. Caddi ai piedi di Steven, uno dei ballerini, il farfallone del gruppo.  Mi venne in soccorso e con il suo solito tono da piacione buffoncello mi disse

 

–Susie…anche tu sei caduta ai miei piedi…ma che ci faccio io alle donne…

 

Mi sollevò da terra e fece finta di strapparmi un bacio.

Michael osservò la scena e si avvicinò a noi con tono ironico e passo quasi caricaturale. Sembrava non essere ancora uscito dal personaggio del video. Provai una strana sensazione; avevo come l’impressione che nessuno di noi in realtà avesse mai smesso di interpretare quella scena.

 

-Alle altre puoi fare quello che ti pare, ma giù le mani da lei…Susie, are you ok?

 

La ripresa ironica del ritornello della canzone di cui stavamo girando il video, fece scoppiare tutti in una risata fragorosa.

Con un po’ di trucco mi coprirono il bernoccolo, e dopo aver finito di girare Michael ci congedò.

 

-Ok ragazzi, per oggi può bastare! Siete stati grandi! A domani…Dormite e non fate le ore piccole, non vi voglio come zombie…di quelli ne ho abbastanza…

 

Applauso di rito e tutti nei camerini.

Mi stavo cambiando quando bussarono e senza neanche attendere l’avanti si aprì la porta.

Era lui.  

A quel punto mi coprii alla meglio e nell’imbarazzo reciproco.

 

 –Vieni, vieni, scusami…ma…stavo quasi per finire. Hai bisogno di qualcosa?

 

-No, scusami tu…ero solo passato…ok ritorno dopo…

 

-No, no, ho fatto. Sono coperta…Non è che poi qui ci sia tutta sta abbondanza da coprire…

 

Ridemmo entrambi.

 

-Ma dai, non è vero…Dici così solo perché vuoi farti fare i complimenti

 

Si, avevo voglia di un suo complimento.

 

-Non volevo essere sfacciato prima, spero di non averti messa in imbarazzo…

 

-Figurati, ti pare…Stavamo ridendo tutti. Avevo capito che stavi scherzando…

 

Ad un tratto lessi sul suo volto uno strano disagio, divenne scuro in viso aggrottando le sopraciglia.

 

 –Si…ecco appunto…ero venuto proprio per dirti…che…era uno scherzo…insomma…solo uno scherzo…niente di più…

 

Mi girò le spalle e se ne andò lasciando la porta aperta, quasi come se avesse sentito il desiderio irrefrenabile di scappare.

Nei due giorni di prove successivi ci salutammo appena; mi capitò un paio di volte di incrociarlo dietro le quinte e sistematicamente cercò di evitarmi, era imbronciato. Tentai di ignorarlo, per quanto fosse possibile che una persona con quel carisma potesse passare inosservata, ma da ragazza ero una tipetta tosta e non mi andava di essere trattata in quel modo solo perché lui era una star e io una ballerina di fila.

 Decisi di affrontarlo faccia a faccia e anche in quell’occasione ebbe modo di sorprendermi.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** P.Y.T. ***


Capitolo 6


 


Mike era così. Un po’ criptico.
Alle volte avrei tanto desiderato entrare nella sua testa per capirci qualcosa di più.
Insomma, che gli avevo fatto?
Nel giro di pochi giorni era successo di tutto. Lui, uno delle più grandi star del momento vuole me; mi cerca, mi trova; mi accoglie in casa sua come se fossi stata una di famiglia e poi per un nonnulla mi tiene il muso. Non ce la facevo più a tollerare quella situazione, mi sentivo in imbarazzo e non sapevo più come rapportarmi a lui.
Quella conoscenza appena iniziata aveva le ipnotiche sembianze di una scacchiera; lui era un misterioso avversario a cui piacevano gli effetti sorpresa e io invece una povera dilettante che a scacchi non aveva mai giocato. Quel giorno presi coraggio e tentai di fare  la mia mossa, ma lui inaspettatamente mi rispose con uno scacco matto.
Il disco era appena uscito e già aveva ricevuto una valanga di critiche. Mike era nervoso e un po’ preoccupato. Il tour stava per partire e non voleva deludere le aspettative di nessuno, soprattutto quando poi quel nessuno era il mondo intero.
Cercai di ritracciarlo tramite Jim, il suo collaboratore.
 
-Guarda non so se posso passartelo…qua c’è un po’ di caos. Tra mezz’ora abbiamo la conferenza stampa…insomma puoi immaginare come sta…
 
-Si, si certo capisco. Allora cia…
 
-Susie…Susie? Ci sei?
 
Stavo per attaccare quando Mike prese la cornetta del telefono.
 
- Sono io…sto venendo a prenderti., oggi vieni con me…
 
Lui era anche così; se voleva una cosa se la prendeva e basta, talvolta senza nemmeno preoccuparsi di chiederti se una cosa ti andava o meno di farla. Ma ciò che più mi lasciava sconcertata era che quello che sembrava volere ero io, e non appena me ne dava un minimo segnale, anche se prima titubante, poi mi lasciavo travolgere da lui.
Dopo una ventina di minuti la sua macchina era sotto il mio albergo.
Mi sentivo bella carica, avevo intenzione di parlargli a quattrocchi e fargli capire che se anche avevo solo poco più di vent’anni non poteva trattarmi in quel modo, ma non appena entrai in macchina costrinsi Susanna la guerriera a deporre le armi.
Mi accolse con un sguardo agitato, masticando nervosamente una gomma.
 
-Allora, a cosa devo questo invito?- gli dissi con fare ironico come per cogliere l’occasione di chiarirmi con lui.
 
-Te la senti di accompagnarmi alla conferenza stampa?
 
“Tatà…Mossa inaspettata!...E adesso guerriera dei miei stivali che strategia adotterai per far fronte all’imprevisto?” pensai.
 
-Cosa?...I..io…?
 
-…Sono venuto apposta…- rispose per pura cortesia a quella domanda stupidamente retorica.
 
- Ma…ma non saprei…Cioè più che altro non so se sono la persona adatta…Che devo fare? Non ho mai partecipato ad una cosa del genere…
 
-Niente; non devi fare niente…Mi basta vederti lì…
 
I suoi occhi si fecero quasi imploranti e questa cosa mi destabilizzò profondamente.
Quanto doveva essere solo quel ragazzo per chiedere ad una come me, che fondamentalmente ero un’estranea, di sostenerlo in un momento difficile.
 Cercavo di evitare quello sguardo che mi entrava negli occhi con una sincerità quasi invadente; un silenzio pieno di impliciti ci accompagnò lungo quel viaggio che mi lasciò senza scampo. Ormai ero lì, mi voleva vicino, non avevo scelta né tantomeno il coraggio di chiedere qualche spiegazione in merito, non era il momento.
“Ma in che veste vuole che io sia qui? Chi sono io per lui? E lui.. che cosa sta significando per me? “, mi tormentavo di domande mentre il cuore reclamava di uscire dal mio petto.
La limousine su cui viaggiavamo imboccò una strada letteralmente invasa da giornalisti, fotografi e fan piangenti con striscioni.
In quel momento capii davvero che la vita da star non era tutta rose e fiori come può sembrare dall’esterno. Hai ricchezza, agio, fama; ma forse ti manca qualcosa di importante, la serenità. Anche quando sei agitato, preoccupato, quando hai paura, non puoi darlo a vedere. Insomma tutti si aspettano da te grandi sorrisi e strette di mano, quando in realtà in quel momento vorresti sferrare cazzotti alla cieca, oppure startene rintanato in casa per fatti tuoi.
Michael guardò fuori dal finestrino e si mise una mano intorno alle tempie, quasi come per evitare che la testa gli scoppiasse. In quel momento non avrei voluto essere al suo posto.
La macchina accostò e prima di aprire lo sportello si rivolse a me, mi strinse forte la mano che tenevo appoggiata sul sedile e mi disse
 
–Fammi un in bocca al lupo!
 
Quel contatto fu una delle risposte alle mie domande.
Superata la ressa di persone riuscimmo ad entrare nella sala adibita per la conferenza stampa, dove giornalisti muniti di block notes, registratori e microfoni erano acquattati come un branco di iene inferocite pronte ad agguantare la loro preda.
Venni sballottata a destra e a manca, a stento riuscivo a seguirli. Prima di prendere posto lui mi tirò leggermente per la maglietta, l’unico modo per cercare di recuperarci in quel caos infernale. Si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio veloce come un razzo, quasi come se avesse paura che gli altri lo sentissero, o forse che io lo sentissi
 
- Non ti allontanare, rimani dove posso riuscire a vederti…
 
A quel punto restai da sola tra quella gente, io, la maglia ancora stropicciata da quelle mani, la scia del suo profumo e le ultime parole che mi rivolse.
***
 
Alla fine anche quel lupo era crepato.
La conferenza stampa era andata come previsto. Le solite domande insidiose; i soliti riferimenti alla vita privata, ai pettegolezzi. Mike odiava tutto questo, perché a volte la sua arte sembrava quasi passare inosservata rispetto alle stramberie che giravano sul suo conto. Questa cosa lo faceva andare in bestia e allo stesso tempo lo mortificava.
Durante tutta l’intervista me ne ero stata in disparte, in un angolino. Talvolta i nostri occhi sembravano incollarsi come due magneti. In quegli occhi vedevo complicità, conforto, voglia di fuga…e forse iniziavo a leggerci anche qualcos’altro. Cercai di regalargli i sorrisi più rasserenanti che potessi esprimere. Non sapevo cosa altro fare…Anzi forse in quel momento non sapevo proprio niente.
Ero avvolta in un limbo tiepido. Sentivo le orecchie ovattate. A tratti ebbi l’impressione che tutta quella folla chiassosa fosse sparita, che intorno a noi ci fossimo solo noi. Noi due e basta.
 
-Finalmente il calvario è finito…
 
-Te la sei cavata benissimo!!! Sei stato grande!!…- esclamò Jim con voce entusiasta mentre di fretta ci dirigevamo verso la macchina.
Silenziosa, senza proferire parola, li seguivo. In quel macello assordante di persone nessuno di loro si era ancora accorto della mia presenza.
 
–Oh cavolo Jim…dov’è?...Se ne è andata?...ti prego non dirmi che è andata via…
 
-Ma chi?
 
-Susanna!
 
Era la prima volta che pronunciava il mio nome per intero e per giunta con un tono serio e accorato che non conoscevo. Del resto di lui non conoscevo ancora nulla. Sembrava agitato e preoccupato come un papà che aveva smarrito la figlia piccola in un parco giochi. Ricordo che con gli anni questo suo senso di protezione nei miei confronti è rimasto immutato. Forse perché ero lontana da casa, ero sola in un paese che non era il mio, forse perché lui è stato una delle poche cose belle che la vita mi ha riservato. Pareva sentirsi responsabile nei miei confronti.
 
-Sono qua…!- esclamai quasi divertita dalla sua reazione.
 
-Ma che fai ti nascondi? –disse voltandosi di scatto- Mi hai fatto preoccupare. Credevo di averti persa…
 
Allungò il braccio verso di me; gli tesi la mano e le nostre dita si intrecciarono.
Una morsa allo stomaco mi prese d’improvviso.
Ecco…un’altra risposta ai miei dubbiosi punti interrogativi, quella definitiva. Mi stavo innamorando.
Imboccammo la strada del ritorno anzi, una strada senza mai ritorno, lungo il percorso di una vita che tra terremoti, scosse di assestamento ed apparente quiete è stata la mia vita; un insieme di ore, giorni, mesi ed anni che da quel momento furono miei solo a metà. 
 
-Ti va di mangiare qualcosa?
 
-Mhmhm…Michael, veramente ho lo stomaco un po’ chiuso
 
-Ok dai, faccio prendere lo stesso due hamburger…L’appetito vien mangiando…
 
- Ah no guarda…di quelle schifezze ne ho abbastanza. Da quando ho messo piede in America sto per trasformarmi in un hot dog con patatine annesse. Ascolta, mi bastano pasta, pomodorini e un po’ di basilico…fidati ti faccio “arricreà”!
 
-Pasta, pomodori e basilico posso procurarmeli…Ma mi sono perso un passaggio…”Arricreà”?
 
Ecco di nuovo comparire quel sorriso. Era tornato.
Arrivammo a casa.
 
- Aspettami qui solo un secondo, ti vado a prendere una cosa…
 
Attesi qualche minuto impalata all’ingresso.
 
-Guarda che puoi entrare…non ci sono mica i fantasmi qua dentro…- mi disse di ritorno, sorridente come un sole a mezzogiorno.
Avanzò verso di me con indosso un pigiama blu scuro di raso e porgendomene uno simile ma di colore diverso.
 
-Tieni…questo è per te…indossalo…E’ una tradizione di casa mia…
 
- No ma dai Michael…non ti preoccupare, sto benissimo così…
 
-Ti vuoi far pregare? Ok, allora ti prego… anzi no…ti faccio una richiesta ufficiale- esclamò con un vocione solenne gonfiando il petto come fosse un cantante lirico pronto all’acuto finale-…Miss Susie, mi farebbe la gentilezza di indossare questa umile veste in onore delle tradizioni della mia modesta dimora?… Su, per rilassarsi e divertirsi bisogna stare comodi non trovi?…Adoro i piagiami…dai, dai, dai…-
 
In quella veste casalinga, familiare e tremendamente divertente, mi parve di leggere qualcosa di nuovo. Qualcosa che andasse ben oltre la grandezza della notorietà e della fama che lo circondavano, di assai più leggero e fragile della popolarità di un nome come Michael Jackson. Vi lessi qualcosa di pulito ed irresistibile che si chiamava semplicemente  Michael.
Sorrisi compiacente a quella buffa richiesta, non avevo il coraggio di negargliela. A quel ragazzo sentivo di non poter negare nulla ormai, pigiama o non pigiama.
Mi indicò la camera in cui mi sarei potuta cambiare e indossai il pigiama che mi aveva dato, rosso a righe fatto di un raso leggero e profumatissimo.
Mi misi all’opera sfoggiando quel po’ che sapevo di economia domestica, da cui venne fuori un discreto spaghetto, niente di eccezionale ma sicuramente celestiale per il palato notoriamente poco sopraffino degli americani.
 
-Sei una perfetta donna di casa a quanto vedo…- disse divertito mentre mi osservava smanettare tra i fornelli della sua cucina, poggiato di sbieco accanto al lavello.
 
-Eh caro mio…ci si arrangia…Sono una tipa concreta, mi accontento di poco e non sono abituata alle cene di gran lusso…
 
-…per questo mi piaci………- sussurrò lieve voltandosi ad aprire il frigorifero.
 
Mi convinsi di soffrire di allucinazioni uditive e sorvolai su quel commento fatto a mezza voce. “Mantieni la calma e non fare cazzate…Non ha detto quello che hai creduto di sentire…Non fare la bambina demente e ritorna del tuo colorito naturale che di certo non è questo rosso aragosta ustionata…”, mi ripeteva imperativo il mio grillo parlante.
Quella sera cenammo seduti a terra su dei grandi cuscini damascati, alternando un boccone, un sorso di vino e un tiro di dadi al monopoly; dal pavimento passammo poi al divano e concludemmo quella bellissima serata perdendoci con occhi sognanti nella stupenda trama di ”Neverending story”.
Erano le due e mezzo di notte e poco prima della fine del film crollò addormentato.
Sentii la sua testa poggiarsi appesantita sulla mia spalla, il calore del suo respiro accarezzarmi delicatamente l’incavo del collo.
Ero pietrificata. Avevo le mani congelate e il resto del corpo privo di ogni sensibilità.
Il cuore batteva all’impazzata come un tamburo; ebbi l’impressione che il suo suono rimbombasse nell’intera stanza.
Erano circa le tre. Tutte quelle emozioni mi avevano tramortita e così anche i miei occhi si abbandonarono sconfitti alla pesantezza delle palpebre.
Dormii un sonno limpido senza fantasticare chissà quale complesso intreccio onirico come mio solito. Freud diceva che i sogni sono appagamenti camuffati di desideri inconsci, ebbene io quella notte non sognai perché l’unico desiderio che avevo in quel momento era tutt’altro che inconscio e mi respirava accanto in quel groviglio curioso che erano diventati i nostri corpi addormentati su quel divano. Il sogno era lì, in carne ed ossa accanto a me, e paradossalmente coincideva con la pura realtà.
Quel mattino fui svegliata dall’odore del caffè e dallo scroscio della doccia; mi guardai intorno con la testa ancora appoggiata al bracciolo del divano, ero confusa.
Poi realizzai che avevo dormito e pure tanto. Erano le dodici.
Mi alzai avviandomi confusa verso l’unica stanza di cui ricordavo l’ubicazione tra i corridoi intricati della sua casa, uno dei bagni.
La porta era semiaperta. Bussai.
 
-Posso?
 
-Vieni, vieni. Ho finito.
 
Entrai con discrezione. Aveva appena finito la doccia.
Mi accolse un vapore denso e caldo, poi comparve lui, regalandomi una dolce e audace agonia.
Un asciugamano candido gli cingeva la vita poco sotto l’ombelico dal taglio rotondo;  i capelli bagnati gli coprivano parte del viso, cadevano pesanti, corvini, ondulati come di loro natura. Gettai uno sguardo ai suoi piedi; ho sempre avuto una certa fissazione quasi feticista per i piedi. Il mio primo maestro di danza diceva sempre che nei piedi dei ballerini c’è conoscenza…Nei piedi di Michael Jackson c’era l’apoteosi del sapere. Erano belli, affusolati, alla greca, di quelli con il secondo dito leggermente più lungo del primo.
Ero imbarazzata, timorosa, estasiata, felice, eccitata…
 
-Scusami – dissi paonazza in viso mentre indietreggiavo per uscire.
 
-Figurati entra, adesso siamo pari no? Buongiorno…
 
Sorrise e mi venne in mente l’episodio del camerino. In effetti aveva ragione, eravamo pari. Poi si avvicinò baciandomi la fronte.
Si rivolse  allo specchio frizionandosi i capelli con l’asciugamano. Da dietro quelle spalle mi parvero le ampie spianate di una montagna, così consapevoli, così protettive, così forti sebbene rientrassero nelle proporzioni di un fisico non massiccio ma longilineo. Non sembrava minimamente in imbarazzo; era come se fosse una cosa naturalissima che io entrassi nel suo bagno quando era praticamente seminudo.
Mi sentivo le farfalle nello stomaco…10, 100, 1000 farfalle.
Io quell’uomo lo volevo,lo desideravo,e con l’incoscienza dei vent’anni seguii il mio istinto.
Mi avvicinai a lui e gli stinsi le braccia intorno alla vita. Lo abbracciai nel modo più dolce e passionale;  la sua pelle ancora umida e profumatissima mi sfiorava le guance, ma quello che sentivo non era l’odore artificiale di un sapone ma profumo indimenticabile di lui, profumo di uomo. I nostri sguardi si incrociarono nel riflesso dello specchio e ci guardammo per qualche secondo eterno. Non una parola…gli occhi parlavano da sé. Si girò, sicuro ed esitante allo stesso tempo. Le sue mani grandi tra la nuca e il collo mi provocarono un brivido che mi percorse spietato, e delicatamente quasi come se avesse paura di rompermi, quasi come se io fossi di cristallo, mi regalò un bacio vellutato, saporito, dolce, vero, che mi accese di donna ogni minima cellula del corpo.
La mia mente fu azzerata, libera da freni, libera da congetture e preoccupazioni, ma mai come in quel momento imprigionata in una morsa avvolgente ed inebriante al cuore e al corpo di un uomo speciale in quell’incastro naturale creato da Dio.
L’uno nell’altra ci amammo,con ardore, con rispetto, con garbo, con vigore. Quella mattina ci amammo per la prima volta; io e lui come fossimo una cosa sola.
***
 
Era sera inoltrata quando rincasai.
Eravamo stati insieme tutto il giorno tra chiacchiere e amore, e in quelle lunghe ore di spensieratezza ci raccontammo per la prima volta come non ci era mai capitato di fare. Gli parlai di me e della storia della mia famiglia; mi aprii a lui come non avevo fatto mai con nessun uomo al mondo.
Fu il primo anche in questo…Eh si perché per me quel giorno fu il giorno delle prime volte.
Anche se difficile da credere al giorno d’oggi, io a ventidue anni appena compiuti non avevo fatto mai l’amore con nessun uomo.
Erano altri tempi, era gli anni ottanta e io ero una ragazza di provincia, inoltre il mio vissuto familiare mi aveva fatto sviluppare una certa ostilità nei confronti dell’altro sesso e un modo di rapportarmi ai ragazzi un po’ scostante e a volte mascolino, per cui anche se di corteggiatori ammetto di averne sempre avuti, lasciavo loro poche speranze.
Non gli dissi subito che per me era il primo in assoluto, ma senza dubbio i miei tremori, i miei pudori e i miei impacci gli lasciarono intendere tutto. Con un sorriso dolce e consapevole di chi sente la responsabilità di dover trattare con cura una cosa piccola, sensibile e delicata, assecondò di tenerezza la mia vergogna nel lasciare un seno scoperto ai suoi occhi o le piccole censure che imponevo a quei miei gemiti che sapevano di piacere.
Uno “scusa” seguiva maldestro qualche mio piccolo movimento brusco e non calibrato per l’intensità di quegli umori, e un “…tranquilla è tutto apposto…va bene così…” accoglieva premuroso quella mia appena sbocciata femminilità.
Dolcissimo, delicato, protettivo. 
Quando mi trovai sola nella mia stanza d’albergo dopo aver vissuto quell’esplosione di esperienze, dovevo parlarne con qualcuno, avevo bisogno di un consiglio, di un appoggio, o semplicemente di qualcuno pronto ad ascoltarmi.
Diana era la persona adatta.
Telefonai a casa sua e dopo pochi squilli rispose una voce femminile. Dal momento che Diana, sua madre e sua sorella Federica avevano al telefono la stessa identica voce non azzardai nomi e andai sul generico come mio solito.
 
-Ehm…pronto? Casa Ferrante?
 
-E’ certo che è casa Ferrante…Tesoro mio!…da quanto non ti sento, ma non mi riconosci mai oh…Sei incorreggibile…Che si dice là dove tutto sembra più bello?
 
-Diana…non sembra…qua tutto è più bello…da oggi…
 
-Uè…che ventata di ottimismo! Sono contenta…Allora hai iniziato a lavorare con chi sai tu? Come vanno le cose?…Racconta, racconta….
 
-Vanno che me ne sono innamorata Dià…
 
- E vabbè tutte sono innamorate di lui…pure io…Ià sul serio, raccontami qualche novità…
 
- Ti devo parlare di una cosa…
 
-Dici, dici…
 
-Diana, ho fatto l’amore con un ragazzo…
 
Istanti infiniti di silenzio accolsero quella mia rivelazione, seguiti da un boato che mi fece ribaltare dal letto.
 
-Marò Susà…….!!!!!!!!!!!!!!! Ma che stai dicendo?!?!? Finalmenteeeeee…..
 
Finalmente? Eh si, forse aveva ragione, ma non perché fossi riuscita ad andare a letto con qualcuno, ma perché avevo superato la mia omofobia in generale. Quanto meno non lo avevo preso a sberle come in passato mi era capitato con qualche povero sfortunato. 
 
-Embè mi vuoi dire chi è, come si chiama, come è fatto, come lo fa…soprattutto…
 
-Con lui…
 
-…Eh?...Ah…Maaaa…ma lui chi?...non ti seguo…
 
-Dià…con lui lui…
 
Nuovo silenzio.
 
-…Allora, sentimi bene, ti voglio solo dire una cosa amica mia, se stai sparando una cazzata delle tue mi avrai sulla coscienza per il resto della vita. In questo preciso istante sto per passare a miglior vita e non so se avrò il tempo di ascoltare il resto dell’assurdità che mi stai per dire, però ricordati che ti ho voluto bene e che non ho fatto testamento perché non tengo una lira…Adesso posso pure andare a morire…
 
-Dai smettila, dico sul serio…
 
-Anche io Susà…aspetta però ad andare avanti, mi serve acqua e zucchero altrimenti oggi vado a terra…
 
Dopo qualche minuto di profonda respirazione si riprese dall’urto e procedette alle domande di rito.
Volle sapere tutti i particolari, aimè anche i più imbarazzanti; su questi argomenti si divertiva come una matta a mettermi in difficoltà, e non fu facile dare delle risposte alle sue domande, più che altro perché esigeva quasi spiegazioni tecniche che non sarei mai stata capace di darle soprattutto perché non avevo fino ad allora nessuna altra esperienza per fare un confronto.
A me andava bene tutto quello che era successo così come era successo.
La chiacchierata fu lunga, ma dopo non pochi sforzi riuscii a convincerla che Mike era un ragazzo di ventotto anni che come tutti i ragazzi di ventotto anni aveva due braccia, due gambe, due occhi, una bocca, un…e uno solo…e basta. Tutto era normale e tutto era al suo posto, mentre lei lo immaginava come un super eroe venuto dal futuro dai poteri paranormali. Mi dispiacque quasi deludere le sue aspettative, ma la verità era quella e non c’era niente di più straordinario.
 
-Dai Susà… mi vuoi far credere che fare l’amore con lui e stato come farlo con…che ne so…con… Gino il figlio del salumiere? Ma ià…non ci credo proprio…
 
-Se sei innamorata di Gino il figlio del salumiere si, può essere la stessa cosa. Insomma Mike è un ragazzo normale.…
 
 -Ok mi fido…Basta che sei felice tesoro mio bello, per il resto mi va bene tutto, anche il presidente della Repubblica…
 
-No…ti prego Cossiga no!!!
 
Tra preoccupazioni, confessioni e consigli, quella telefonata si concluse con una delle nostre risate, quelle che solo due amiche come noi si sapevano fare. Anche quella volta la mia adorata Diana aveva condiviso con me questo momento a decine di ore di aereo di distanza.
Quella sera mi addormentai felice come non mi capitava da anni.
La mattina dopo mi chiamò mia madre; se lo sentiva che alla sua piccolina era successo qualcosa di straordinario.
Quando le risposi al telefono quasi mi sentii in colpa per non averle telefonato la sera prima. Il mio primo pensiero non fu lei, ma non perché non le volessi bene o non la pensassi, ma perché certe cose alla mamma non le potevo dire, ero riservata. Il nostro rapporto era un po’ particolare, io scappavo, partivo, tornavo, dando per scontato che lei ci fosse sempre, e lei infatti c’era sempre stata in ogni momento di bisogno, sempre pronta a confortarmi e coccolarmi come quando ero bambina. Era una madre attenta, presente, affettuosa, premurosa, era la madre migliore del mondo. E io la davo per scontato.
Non la sentivo dalla mattina del mio compleanno. Dovevo dirle tutto; doveva sapere che la mia vita era cambiata nel giro di qualche giorno; doveva sapere che le favole esistono davvero e che sogni possono realizzarsi.
 
-Mamma?
 
-Susanna! Gioia di mamma…! Ma che fine hai fatto? È da una settimana che sei sparita. Ma perché mi fai stare sempre in pensiero?
 
La sua voce…La sua voce aveva qualcosa di strano. Era flebile ed affaticata.
 
-Mamma ma non ti senti bene? Tutto ok? Dimmi la verità!
 
Qualcosa non andava pensai, ma forse era solo il senso di colpa della sera prima.
 
-Tutto apposto…è stanchezza. Ma piuttosto tu, che hai combinato?
 
-Mamma sono innamorata…
 
Le raccontai tutto, le mie sensazioni; i miei dubbi, tutto. Le parole uscivano come un fiume in piena. Ero al settimo cielo.
Le parlai del tour che stava per partire; avrei accompagnato Mike in questa avventura in giro per il mondo, un avventura grande quanto 15 nazioni e lunga 123 concerti.
Mia madre ascoltò in silenzio prima di intervenire. Aspettò che tutte le mie parole si esaurissero.
Quello che mi disse dopo non era esattamente quello che mi aspettavo. Nonostante tutte le batoste che avesse preso nella sua vita, in fondo la ricordavo una sognatrice, un’ inguaribile romantica…
 
-Susanna…fai attenzione. Non fare il passo più lungo della gamba. Non commettere i miei stessi errori. Quello non è un ragazzo come gli altri, non è il “guagliuncello” del quartiere…Quello là sta in alto…
 
-No mamma, ti giuro, non è come credi. Non è come lo descrivono i giornali e le televisioni. È uno vero, uno genuino che desidera cose semplici…che…
 
-Amore mio, fai quello che ti dice il cuore. Però ricorda, non buttare mai via  i tuoi progetti, non annullare i tuoi desideri per assecondare le sue esigenze a tutti i costi…Rimani te stessa e tieni i piedi per terra.
 
Quelle parole pronunciate quasi con afflizione e affanno mi destarono qualche preoccupazione e placarono i miei impulsi adolescenziali. La sentivo diversa. Non la sentivo lei.
Preoccupazioni da mamma pensai.  

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Il modo in cui mi fai sentire ***


Capitolo 7


Gennaio 1989.
Allo Sports Arena di Los Angeles si concluse un’impresa titanica che in totale contava quasi quattro milioni e mezzo di spettatori in tutto il mondo. Mai nessun artista prima d’ora aveva toccato cifre del genere.
Furono mesi grandi in tutti i sensi. Grande fu il lavoro, grande la fatica, grande il divertimento, grande la passione…Lui fu un GRANDE!
Prima dell’inizio di ogni concerto seguivamo il nostro piccolo rituale scaramantico lontano dai soliti “merda, merda merda!!!” tanto cari  ai teatranti. Mi lasciava un semplice bacio sulla fronte, uno di quei baci fiduciosi e fugaci che si regalano ad un talismano portafortuna, in grado trasmettere da suo corpo al mio in un breve e morbido contatto il bisogno di condivisione, sostegno, fiducia, stima, amore spassionato e spensierato. Bisogni che come stelle piccole e luminose costellavano lo spettacolo di cielo che era il nostro sentimento appena nato.
-Divertiti!...- mi limitavo a rispondere a quella grinta di lucenti capelli corvini che, prima di abbandonarsi all’estasi del suo talento esplosivo, mi lanciava un occhiolino sensuale come la cinta borchiata che gli avvolgeva il bacino dalla ritmica natura, sogno proibito delle ragazze di mezzo mondo. Poi correva via per respirare a pieni polmoni la sua aria dalle milioni di facce diverse che accaldate ed appassionate lo seguivano in ogni paese, quei fan che tanto lo hanno amato.
-Sarò sempre in debito con loro Susie…- mi disse durante uno dei nostri spostamenti mentre con tutto lo staff eravamo diretti in un nuovo continente da colonizzare con il suo genio poliedrico
-…quello che ricevo dal mio  pubblico è  assai più prezioso di ciò che gli offro...Del resto non gli lascio altro che musica e danza, loro invece…Loro si che danno senso alla mia arte Susie…e io vivo grazie a quel senso…
 
-E a me invece?- esclamai buffamente con la vocina infantile di una bimba -…a me che mi dai?
 
-A te do più l’uomo che l’artista…Attenzione però…-disse sorridendo come fosse un avvertimento- l’uomo è molto più noioso…
 
L’uomo e l’artista; scinderli era quasi un’impresa epica. Ma non perché sulla scena della vita reale fosse sempre quel mostro da palcoscenico sicuro e perfetto che appariva al pubblico, anzi; era un uomo con le sue debolezze e le sue fragilità, tanto reali da farlo apparire ai miei occhi così irresistibilmente normale, ma era anche lo stesso uomo che migliaia di donne in tutto il mondo desiderava. Ed io, giovane ed inesperta intrattenitrice di relazioni umane di un certo tipo, mi trovai a fare i conti con il peso di quelle migliaia.
 Accettare in maniera matura e professionale questa cosa non fu facile, lo devo ammettere, perché in fondo ero solo una ragazzetta sprovveduta nata con la danza nel sangue. Compresi presto che se questo era sufficiente a rendermi una ballerina del corpo di ballo di Michael Jackson, non sempre lo era a rendermi la donna di Michael Jackson.
Durante il tour assistetti a centinaia di bagni di folla che lo vedevano risucchiato da mani e braccia strepitanti, e la prima volta che accadde fu una esperienza quasi agghiacciante. Ricordo che prima di conoscerlo, in tv avevano mandato talvolta delle immagini come quelle, ma vedere dal vivo quel delirio umano fu quasi traumatico.
Eravamo appena arrivati e già una nidiata di ragazze svenevoli era appostata sotto il nostro albergo. Viaggiavo su di un’altra macchina che seguiva quella su cui invece si trovavano lui e i suoi collaboratori. Lo vidi scendere con quel sorriso pieno di tutto che faceva accapponare la pelle e dopo qualche secondo era già sepolto sotto una bufera di ormoni impazziti con gli occhi a mandorla. Le guardie del corpo dovettero intervenire energicamente per cercare di strappare Mike da quelle mani, tanto voraci da strattonarlo tirandogli i vestiti. Distante osservavo quella scena come una spettatrice incredula e mi feci spazio tra la folla intrufolandomi in mezzo a ragazze che piangevano disperatamente, che svenivano, che si strappavano i capelli. Che c’entravo io in tutto quello? Come avrei potuto accettare di dover dividere l’uomo che amavo con il resto del mondo? Sarebbe mai stato mio veramente?
Queste domande si spintonavano nel mio cervello come se fossero state a loro volta coinvolte in quella ressa, mentre a fatica cercavo di avvicinarmi all’ingresso dell’albergo. Quando credevo di averlo raggiunto ecco che venivo trascinata dietro da spintoni e gomitate.
Vicina ad un palmo e poi violentemente lontana alcuni metri…Io, lui e i nostri sentimenti ci siamo strattonati in un analogo e delirante marasma di emozioni lungo i nostri anni di condivisione.
 
Durante quei mesi decidemmo di non voler rendere ancora pubblica la nostra storia, quasi come se sentissimo il dovere di proteggerla dal resto del mondo. Non volevamo che venisse inghiottita dai tabloid e dai paparazzi.
Ci amavamo perché stare insieme sembrava la cosa più naturale del mondo. Noi due eravamo il nostro rifugio segreto, lontano dallo stress del lavoro, dei viaggi, delle pretese di tutti.
Avevamo sviluppato un’abilità a sgattaiolare via dalla confusione e da occhi indiscreti e quanto più era difficile e rischioso tanto più ci provavamo gusto. Il desiderio di sfiorarsi, toccarsi, annusarsi in un tempo nascosto ritagliato solo per noi, giovani anime alla scoperta di un sentimento grande come il mondo, ci regalava la scintilla di vita che ci accompagnò durante quei mesi di intenso lavoro e caricandoci di adrenalina dentro e fuori il palco.
Nemmeno il palco infatti fu risparmiato alla micidiale chimica dei nostri corpi, che sapientemente convogliammo in un delizioso binomio scenico.
 Durante la tappa newyorkese del tour avevo la febbre a trentotto e mezzo, non riuscivo a stare in piedi per cui pensammo di sostituirmi in uno dei pezzi, quello che prevedeva che io camminassi sul palco ancheggiando con una minigonna inguinale e che lui mi seguisse. Tutto era stato organizzato per l’occasione, quando poco primo dell’inizio dello spettacolo Mike annunciò un cambio di programma.
Venne a bussarmi in camerino.
 
-Signorina stasera passeggi con me…- mi disse sbucando da dietro la porta.
 
-…Si vede che sei stressato, non ti ricordi più le cose. Già abbiamo provveduto alla sostituzione, non ti preoccupare filerà tutto liscio come sempre…- gli risposi mentre frugavo tra le mie cose alla ricerca di una felpa per coprire quei brividi di freddo non intenzionati a smettere.
 
-No Susie, non esiste! Io quel pezzo lo voglio fare con te, insomma ha senso solo se lo faccio con te, è più vero, viene meglio…Dai…
 
-Mike ma è lo stesso su. Ho la testa in fiamme. Meglio che mi riposo quei cinque minuti, è per il bene dello spettacolo. Non lo faccio certo per pigrizia, ho un febbrone. E poi Tracy va benissimo lo hai detto anche tu ieri.
 
-Si ma poi ci ho ripensato. Tu sei tu…Ho deciso...sono il capo no?- mi disse divertito facendomi un occhiolino.
 
-…Ma dai che cambia, anche lei è una professionista e poi non mi sembra corretto nei suoi confronti dato che è già stata avvisata.
 
-Non farla tanto lunga, non se la prenderà. Io voglio te su quel palco, quindi vedi tu come vuoi metterla. E poi ti dimostrerò che non sarà la stessa cosa…vedrai non te ne farò pentire…
 
Non mi diede il tempo di rispondere e andò via di corsa. Quella piccola sfida che mi aveva lanciato mi lasciò un guizzo di eccitazione che colsi al volo, ma infondo ero tranquillissima perchè credevo di sapere cosa mi aspettasse. E invece mi sbagliavo.
Ammetto che accompagnarlo in quel brano mi divertiva da matti, per cui messo piede sul palco ogni decimo di febbre era svanito.
Tutto stava andando come il previsto, ci avvicinavamo, ci allontanavamo, mi sfiorava, mi strusciavo come da copione, ma quella volta la carica sensuale che di solito faceva da spettacolare cornice alla sua danza e alla sua voce era di una intensità senza pari. Avevamo provato quel pezzo insieme centinaia di volte, ma mai come quella sera lessi nel suo sguardo miliardi di cose poco ortodosse che andavano bel oltre i limiti di quel palcoscenico.
La sua voce a tratti acuta e a tratti graffiata mi fece divampare in un secondo come paglia accanto al fuoco…Quanto ero paglia io…e lui…quanto era fuoco.
La sua bocca proferiva parole dettate da un testo ben scritto, ma che tra le righe mi lanciava pericolosi messaggini subliminali. Voleva dimostrarmi che ne era valsa la pena nonostante la febbre  e io a mia volta gli volli far capire chiaramente quanto avessi apprezzato il suo impegno.
La musica era pronta a suggerirci un avvicinamento; come ad un amo mi impigliai a quegli occhi scuri che sembravano gridare “Fatti avanti ragazza e fammi vedere quello che sai fare…”. Ero vicina abbastanza per sentire le sue mani dire “toccami“ e le sue labbra “baciami”, e prendendolo per il collo della camicia la mia bocca rispose piacevolmente sorpresa a quel richiamo. 
L’episodio produsse un boato di pubblico tra urla invidiose, incitanti ed eccitate per quel colpo di scena. Un analogo boato si produsse dietro le quinte; ma quello che ci toccò sentire non furono applausi scroscianti ma le grida del suo manager. Il cambio di programma venne giudicato una mossa azzardata che comunque avrebbe inciso parecchio sull’immagine pubblica di Michael.
 
-Niente distrazioni ragazzo!...Qua ci sono in gioco soldi, successo e la tua faccia che vale miliardi di dollari…E tu bellezza, trovati qualche altro maschio per calmare i tuoi bollori, Mike non può permettersi di fare cazzate del genere…con una come te poi…Ti avverto, alla prossima stronzata che fai sei fuori, da questo posto e da qualunque altro!
 
Rimasi pietrificata e bruciata da quelle parole fatte di calce viva. Ogni sillaba era uno sputo di cattiveria, ogni occhiata di disprezzo era una mortificazione al mio lavoro, al mio amore per Michael e alla mia dignità. Scappai piangendo nel mio camerino, e tra singhiozzi e disperazione dietro la posta riuscii a sentire la voce di Michael  che si limitò a giustificare l’accaduto presentandolo come una sua idea per fare scena, niente di più.
Dopo pochi minuti vidi strisciare sotto lo spiraglio di porta un bigliettino maltrattato con su scritto “Scusa…”
Era ancora lì fuori quando aprii la porta. Era accovacciato nella stessa posizione che presumibilmente aveva assunto per lasciarmi il foglietto di scuse. Si mise in piedi con uno scatto agile, spalancò la porta ed entrò nella stanza con la voglia di chi vuole scappare da ogni cosa. Prese il mio viso umido di mortificazione tra le sue mani, avvicinò la sua fronte alla mia e parlò con le sue labbra sulle mie, come se quelle parole provenissero dalla sua bocca quanto dalla mia.
 
-Perdonami per tutto quello che significo…perdonami perché sarò un problema, un peso, un incapace…incapace di mettere le mani addosso ad un uomo basso e grasso che ha maltrattato la mia donna in quel modo…Ma ti giuro che non permetterò mai più a nessuno di parlarti così…e ricordati che quello senza di me non vale niente, io senza di lui varrò sempre qualcosa…
 
Un suo bacio fu sufficiente a farmi ingoiare lacrime e dispiacere. Non sarebbe stato facile stargli accanto, ma sarebbe stato letteralmente impossibile impedirmi di farlo. Lo amavo.
 
Tuttavia l’accaduto fece insospettire i membri dello staff i cui pettegolezzi vennero alimentati anche da un altro episodio avvenuto sempre in quei mesi.
Mike di natura era un tipo passionale e alle volte anche un po’ geloso, ma detestava quando glielo facevo notare e cercava in ogni modo di non darlo a vedere, pur non risparmiandosi continue frecciatine ogni qualvolta con un mio comportamento toccavo quel nervo scoperto. A me questo suo lato non dispiaceva affatto, noi italiani siamo “carnali” come si dice dalle mie parti, ma adoravo stuzzicarlo.
Una sera durante il tour terminammo tardissimo le prove. Generalmente eravamo abituati a vederci non appena finivamo di lavorare, quando ognuno tornava in albergo nella propria stanza, ma quella volta lui mi disse che era stanchissimo ed aveva bisogno di farsi una dormita. Non obiettai ovviamente, Mike si dava da fare tutto il giorno ed era comprensibile che la sera fosse stanco morto. Tuttavia io mi sentivo ancora in forma, avevo voglia di fare un giretto, del resto ci trovavamo a Melbourne e l’Australia era da sempre stata il sogno della mia vita, non potevo trovarmi lì e rimanere in albergo. Ricevetti un gentile invito da uno dei ragazzi del corpo di ballo, Fritz, era viennese, un giovanotto dolce e dai modi gentili che stimavo tanto come ballerino; mi stava simpatico, ma niente di che. Quella sera andammo in un locale a bere qualcosa e a svagarci un po’ e tra un bicchiere ed una parola si fece tardissimo; erano le tre e mezza quando rientrammo in albergo.
La mia camera si trovava sullo stesso piano di quella di Mike, cosa che capitava raramente; i membri dello staff venivano sistemati sempre su di un altro piano o in un’altra zona dell’albergo, ma per me venne fatta un eccezione, il che già fece insospettire parecchi. Per non dare troppo nell’occhio fece in modo che anche la costumista venisse messa nella stanza accanto alla mia.
Una volta rientrati, Fritz si offrì di accompagnarmi fino alla mia stanza e rimanemmo lì fuori seduti a terra a chiacchierare per un altro po’. Fin qui niente di strano se non fosse stato per il fatto che eravamo completamente ubriachi e stavamo facendo un casino bestiale. Tra risate incontrollate, spintoni e scemenze varie svegliammo l’intero piano, anzi in realtà svegliammo una delle due uniche persone che dormivano su quel piano, quella sbagliata.
Dopo circa una mezz’ora di baccano  una porta si spalancò impetuosa.
 
-Ma che diamine sta succedendo qua fuori?!?!
 
Mike evidentemente alterato si era scaraventato come una furia nel corridoio. Non è mai stato un tipo particolarmente collerico, tuttavia quelli furono per lui mesi molto faticosi e stressanti sia a livello fisico che psicologico, era teso come una corda di violino  e sentiva proprio il bisogno di dormire, cosa che di per sé non gli riusciva mai facile. Ci guardò sorpreso con gli occhi sgranati.
 
-Bene…a quanto pare mentre io cerco disperatamente di prendere sonno dopo una giornata piena come quella di oggi, c’è qualcuno che ha la forza, il tempo e la “compagnia” per andarsi a divertire…Bravi, bravi, non c’è che dire!
 
 Pronunciò quelle parole con tono amaro e deluso e rientrò nella sua stanza sbattendo la porta. Mi sentivo un lurido vermicello strisciante. Insomma, sapevo quanto fosse stanco e teso in quel periodo, sapevo che aveva difficoltà a dormire e come una stupida mi ero messa fuori alla sua stanza con quel tipo a fare la scema. Ero terribilmente  mortificata. Andai a letto tutta stordita; mi aspettava una mattinata di mal di testa atroce, ma prima di coricarmi mi ripromisi che il giorno seguente gli avrei chiesto scusa.
Come sempre la sua imprevedibilità mi precedette. Dopo quello che era successo  la sera mi sarei aspettata un musone lungo e tanta indifferenza e invece…
Erano le sei.
 
-Bum! Bum! Bum! Bum!-un rumore assordante mi fece sobbalzare dal letto.
 
-Ma chi è a quest’oraaa! Ma vi pare il modo di bussare ad una porta alle sei di mattina!?!?- urlai totalmente rincoglionita, nel tentativo di fermare la stanza che girava.
Aprii la porta con uno scatto nervoso.
 
-Ben svegliata cara!...che visetto disteso che hai, si vede che hai riposato bene stanotte…- mi disse Mike con tono ironico ed una faccia da schiaffi, poggiato allo stipite della porta.
Rimasi per un attimo imbambolata senza dire una parola, del resto avevo intenzione di scusarmi con lui, ero io che stavo in torto, ma quel suo atteggiamento mi fece irritare.
 
-Allora ti sei divertita con il bamboccio di ieri sera?...Ah… complimenti vedo e sento che ti sei data pure all’alcool, puzzi come una bottiglia di Martini!
Mi stavo innervosendo, adesso stava calcando un po’ troppo la mano.
 
-Non ti pare che la stai facendo un pochino lunga Mike?...sembri un siciliano degli anni ’50…datti una calmata…- gli risposi con aria di sufficienza mentre mi spostavo per farlo entrare per evitare che facesse una ennesima scenata nel corridoio.
 
-Che avete fatto?Dove siete andati?Ti ha baciata?...dimmelo se ti ha baciata, lo devo sapere…Anzi non me lo dire…non mi interessa…- disse ansiosamente tappandosi le orecchie.
 
-Ma sei impazzito!!! Oh ma per chi mi hai preso??? Ma che credi che vado con il primo tizio che mi capita davanti…Ma guarda te se per andarmi a prendere una birra devo passare pure per una poco di buono...
 
Gli diedi le spalle, mi aveva offesa. Mi sentivo mortificata per quella che era successo, ma questo non lo autorizzava a trattarmi come una mignotta solo per una uscita di qualche ora, mi pareva troppo.
 
-Ma che credi, che questa per me è una vacanza? Anche io sono stressata, anche io ho bisogno di svagarmi un po’, anche io sono giovane Michael…E che diamine a volte sembri mio nonno…
Quella fu la parola chiave.
Ci guardammo negli occhi con l’espressione di chi non ha più voglia di litigare e scoppiammo a ridere come due bambini. In effetti non è che la parola nonno facesse così ridere, ma quella frase aveva spezzato l’atmosfera di tensione e poi avevamo entrambi voglia di fare pace. A modo nostro.
 
-Vieni qui su…-Mi disse avvicinando il mio viso al suo petto- per oggi basta litigare…Scusa se ho esagerato, ma quando ti ho visto con quello a ridere e scherzare mi sembravi davvero felice. Ho avuto paura Susie, perché so che starmi vicino è difficile, so che non potrò darti quella quotidianità di cui hai bisogno; ho paura di dirti quello che provo veramente, ho paura di dirti che io ormai sento…
 
Rimasi in silenzio, immobile; non volevo che una mia parola o un mio gesto potesse suggerirgli quello che volevo lui dicesse spontaneamente. Lo guardai solo, esitante, in attesa di sentirgli pronunciare quella frase.
 
-…che Ti Amo…come mai nessuno al mondo…come mai nella mia vita…come…
 
Era arrivato il momento, non avevo bisogno di sentire altro. Poggiai l’indice sulle sue labbra per dare tregua a quell’affanno di cuori e parole e un bacio concluse quel dolce tormento. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Qualunque cosa accada ***


Capitolo 8


Tra litigi e riappacificazioni non fu facile gestire la nostra storia in quella situazione, ma le difficoltà facevano  parte del gioco e lo sapevamo fin dall’inizio.
A volte sembravamo due ragazzini quindicenni che si sbaciucchiano di nascosto dai genitori, di questo avevamo bisogno, lui più di me. Era bambino quando iniziò a solcare i primi palchi; non visse infanzia, né gioco, né adolescenza.
-Sei la mia giovinezza spensierata- mi disse una sera nella penombra della mia camera d’albergo- tu sei quello che avrei sempre desiderato e che mi è stato strappato…Sei la mia piccola ragazza normale…
Mi abbracciò forte forte quasi da farmi mancare il respiro, stropicciandomi il viso nel suo collo profumato.
 
-Te ne andrai Susie…?- mi chiese come timoroso di sentire la risposta- …te ne andrai via da me?
 
-No Mike…
 
-Voglio che tu mi dica che è per sempre…Susie…ci devo credere…
 
-Sarà per sempre…Te lo giuro…
 Ci credevo davvero, anche io.
Adorava venirmi a svegliare la mattina, anche perché sono una dormigliona e quindi ho sempre bisogno di essere letteralmente buttata giù dal letto, e un giorno per essere più convincente mi portò anche la colazione in camera.
 
-Sorpresa!!!- disse allegro quando aprii la porta ancora assonnata.
Seduta sul letto sorseggiavo il succo d’arancia che mi aveva portato quando si mise alle mi spalle.
 
-Che fai Mike?
 
-Schhhhh…-mi sussurrò all’orecchio invitandomi al silenzio.
 
Spostò i miei capelli su di un lato e delicatamente iniziò a baciarmi il collo.
 
-Che intenzioni hai Mike?
 
-Schhhh…
 
Prese dalla tasca un foulard e mi coprì gli occhi. Poco dopo senti qualcosa di leggermente freddo cingermi il collo.
 
-Ecco, adesso puoi guardare…
 
 Un ciondolo stupendo pendeva luminoso e pesante al mio collo, un cuore incorniciato di diamanti luccicantissimi come quegli occhi infiniti che mi avevano fatto innamorare. Dietro c’era inciso qualcosa, lo voltai per leggere…”Per sempre…29 agosto 1987” .
 
-Ma perché ?
 
-Perché te lo meriti…Perché sei tu…
 
Ci tenne a spiegarmi il significato di quella data. Non era semplicemente il giorno del nostro compleanno. Mi disse che quella in realtà era la data che segnava il momento in cui aveva capito di aver trovato una persona speciale.
Ricordai quella torta a forma di Italia, il mio imbarazzo, il batticuore; per me quel giorno aveva avuto lo stesso medesimo significato. Lo ribattezzammo il “Nostro Anniversario Di Vita”.
Le mie labbra corsero incontro alle sue come spinte dal desiderio di regalargli a mio volta un cuore, un cuore rosso e pulsante di cui lui era il senso di ogni battito.
Era maledettamente tardi e il tour purtroppo non poteva stare dietro al nostro amoreggiare; lo accompagnai verso la porta ma sembrava non volesse andare via.
 
-Ci vediamo tra un po’, vado a prepararmi…- gli dissi.
 
Sorrise a mezza bocca facendo finta di opporre resistenza e poi quegli occhi, lo sapeva che quegli occhi avevano il potere di capovolgermi dentro e fuori.
 
-La smetti…su…non fare lo scemo è tardissimo…
Lo respingevo buffamente senza troppa convinzione, tanto lo sapevo come andava a finire e non vedevo l’ora che andasse a finire in quel modo.
 
-Dai…solo cinque minuti…- mi disse ironicamente con le mani congiunte come per pregarmi-…e poi lo merito anche io un regalo no?
 
-Mike ma  sono ancora in pigiama…
 
Con un leggero colpo spinse la porta ancora socchiusa e mi prese in braccio.
 
-Facciamo prima…
 
Mi lanciò sul letto facendo quasi rimbalzare il materasso.
 
-Addirittura… tutto questo ardore…?- esclamai maliziosa mentre lui lentamente si avvicinava con uno sguardo che lasciava poco all’immaginazione.
 
-Signorina, ma qualcuno te lo ha mai detto che sono un cattivone?
 
-…Beh negli ultimi mesi in giro non si parla d’altro…ma sai com’è, se non vedo non credo…
 
Lentamente indietreggiavo, mi piaceva questo gioco di sguardi e di movimenti e sapevo che lui adorava rincorrermi per poi farmi cedere alle nostre voglie.
 
-Piccola non mi istigare…potrei essere pericoloso…
 
Scesi dall’altro capo del letto incollata a quell’immensità di iridi scure mentre lui si avvicinava lento.
 
-Uuuhhh che paura…e che mi faresti…?
 
Con un abbraccio sicuro e deciso mi cinse le spalle da dietro, ero un fremito.
 
-Potrei cominciare col mangiarti…a partire da qui…
 
 Morse leggermente il lobo  dell’orecchio.
 
-…per poi passare qui…
 
e sentii i suoi denti sfiorarmi umidi e avidi il collo…
 
-…e ancora qui…
 
Poi la spalla.
 
Quel dolce divorarmi mi procurò un solletico irresistibile e tra risate e pelle d’oca mi piegai a terra. Distesa supina con i gomiti poggiati sulla moquette lo tenevo di fronte, bello e maestoso come un Apollo musagete. Con delicatezza mi sfilò il pantalone del pigiama. In effetti aveva ragione, facevamo prima. Avevo le gambe nude e l’emozione mi fece rabbrividire quasi al punto di tremare. Mi sfiorò leggermente la coscia ed ebbi come l’istinto di serrare le ginocchia, forse ancora per qualche ingenuo residuo di pudicizia, forse perché mi piaceva l’idea di opporre una maliziosa resistenza, o forse perché quella volta mi andava di vederlo un po’ “cattivo”. Ma poi mi bastò cogliere nelle sue mani l’ardore con cui si aprì la camicia e leggere nel suo sguardo il desiderio fisico di noi, che mi concessi estasiata a quella sublime invasione.
Il resto fu amore.
Ma non mancarono momenti di tensione.
 Il tour fu stressantissimo e talvolta si sentiva abbattuto per qualche critica di troppo, fuori forma e fisicamente stremato. Il suo perfezionismo era alle volte deleterio più che migliorativo.
Quando era troppo sotto pressione perdeva di lucidità, vedeva tutto storto, e in quei momenti cercavo di stargli vicino come potevo, ma spesso e volentieri discutevamo per alcuni irritanti guizzi di irascibilità che gli venivano fuori spinti dalla pressione dello stress. Mi rispondeva sgarbatamente nonostante i miei sforzi di comprenderlo e i miei tentativi di essergli di conforto. Ma non mi lasciavo piegare, piuttosto lo lasciavo sbraitare da solo così che sbollisse la rabbia momentanea.
“Mantieni i piedi per terra…rimani sempre te stessa…”
Le parole di mia madre in quei momenti mi risuonavano nella mente, sentenziose.
Ma nonostante tutto quell’uomo trovava sempre il modo di farsi perdonare e non necessariamente con cose eclatanti e regali costosi, sebbene per quelle cose fosse sempre stato portato, ma anche  con la semplicità, con la sincerità. Sapeva chiedere scusa e quando lo faceva gli dicevo- Ecco! È tornato il mio piccolo grande uomo normale…
Quella frase dopo ogni litigio era il segno che pace era stata fatta e allora ci lasciavamo prendere dalle coccole. Accarezzandomi i capelli e massaggiandomi delicatamente le tempie mi raggomitolavo su di lui e lasciavo le sue lunghe dita affusolate sfiorarmi producendo estese ondate di brivido e intrecciandomi sapientemente capelli e pensieri.
 
Il ritorno a casa fu trionfante.
Nel giro di pochi mesi lo accompagnai a decine di premiazioni. Voleva che fossi sempre presente perché sosteneva che quei premi fossero anche un po’ miei dato che gli avevo donato la serenità, la sicurezza, il rispetto e la sollecitudine che gli avevano permesso di fare un buon lavoro. Sinceramente non ricordavo di aver fatto tutto questo; era così naturale per me darmi a lui con tutta me stessa. Non desideravo nessun premio, nessun riconoscimento; la sua felicità era per me la più grande ricompensa.
Un grande successo meritava di essere adeguatamente festeggiato e non appena ebbe modo di rimettersi in sesto dopo lo scombussolamento post-tour, Mike pensò di organizzare una cena con l’intero staff che lo aveva accompagnato in quell’avventura per ringraziare quanti si erano dedicati anima e corpo nella realizzazione di quel progetto. Dal canto mio mi auguravo che quella potesse rivelarsi anche l’occasione migliore per comunicare ufficialmente a tutti della nostra relazione, ne avevo abbastanza di commenti a mezza voce e risatine di quanti avevano ormai sospetti fondati, e poi del resto eravamo giovani, ci volevamo bene, avevamo tutto il diritto di amarci senza nasconderci, no? Ma io, povera ingenua che viveva ancora nel mondo delle favole, non avevo fatto i conti con la dura realtà che spietatamente mi confermava che l’uomo che amavo più di ogni altra cosa non si riteneva ancora detentore di questo diritto.
Quella sera c’erano tutti, ma proprio tutti.
Con i suoi collaboratori mi trovavo bene, ma era con le collaboratrici e seguito che avevo qualche problemino. Ero un tipo geloso, ma a differenza sua lo riconoscevo e di certo non mi facevo problemi a mostrarlo in pubblico.
Quella sera gliene diedi la dimostrazione.
Per amore suo, e perché in fondo all’inizio mi stava bene anche a me, avevo rinunciato a vivere la nostra storia alla luce del sole. Fu uno sforzo sovraumano perchè non ero abituata a questo tipo di cose. Ma adesso che il tour era finito e che potevamo prenderci un momento di relax, non vedevo più ragione alcuna di nasconderci ancora; due anni di latitanza mi sembravano sufficienti.
Mike era costantemente circondato da galline in calore che cercavano di portarselo a letto con una costanza e una devozione quasi ammirevole. E lui, senza essere mai andato oltre, aveva quei modi per sua natura gentili, galanti e disponibili che facevano credere ad ogni donna che lei fosse quella della sua vita, e dovevo riconoscere che questa cosa mi irritava maledettamente.
Rachel, una bionda tettona alta un metro e cinquanta, con dei grandi occhi a palla color nocciola e un viso squadrato,  era l’addetta all’ufficio stampa e alle pubbliche relazioni; non c’è che dire quel ruolo le calzava a pennello. Adorava Mike e lo idolatrava come un dio in terra, rasentando talvolta  il ridicolo.
Sebbene cercassimo di non dare nell’occhio ormai i membri dello staff si erano accorti di me e Mike e delle nostre improvvise sparizioni; Rachel fu la prima e quanto più se ne rendeva conto tanto più faceva la cretina. Mi odiava e mi sfidava.
Fino ad allora c’ero stata alle sue provocazioni e la cosa quasi mi divertita, ma ormai ero esausta di dover fare i conti con quelle punte di nervosismo che mi facevano prudere le mani al punto di volergliele schiaffare in faccia non appena la incontravo. Più di una volta avevo discusso con Mike del caso “Rachel la tettona” come la chiamavo io, forse anche mossa da un tantino di invidia femminile dato che io da ballerina non sono mai stata prosperosa. Appena aprivo l’argomento lui mi prendeva in giro fino allo sfinimento.
 
–Ah e sarei io il siciliano degli anni cinquanta?...-mi diceva ironico- lasciala stare e fidati di me…
 Ma in realtà io di lui mi fidavo, era lei che mi preoccupava.
E così, un po’ per lo stress accumulato a causa di tutti quei mesi di viaggi, un po’ perché nella mia testa ogni tanto frullavano idee nefaste riguardo il mio non essere all’altezza di stare con lui, che durante quella cena raggiunsi il massimo livello di saturazione.
Ero una bomba ad orologeria.
A tavola Rachel si piazzò tra me e lui; c’era da aspettarselo.
All’inizio la lasciai fare, non volevo innervosire Mike con le mie battutine taglienti che di solito accompagnavano ogni occasione di incontro con lei. I miei propositi quella sera erano dei migliori, fino a quando lei non iniziò ad esagerare un po’ troppo per i miei gusti.
… La mano sulla spalla, l’occhietto languido, gli sfiora il viso con una carezza,  gli mette una mano fra i capelli…
Lui era visibilmente imbarazzato per via dell’eccessiva vicinanza di quella scollatura con latteria annessa che Rachel sapientemente gli sventolava sotto il naso; cercava il mio sguardo come per dire “Vedi, sta facendo tutto lei…”, sguardo che puntualmente evitavo facendogli cogliere tutto il mio fastidio. Mike sapeva bene quanto fossi teatrale in ogni mia manifestazione emotiva, sia positiva che negativa e mi conosceva quando ero arrabbiata; in quel momento arrabbiata era un eufemismo. La cosa stava diventando di cattivo gusto, dovevo darci un taglio.
I miei occhi emanavano fiamme.
Rachel indossava un vestitino di lana color panna, piuttosto scollato, che non lasciava nulla all’immaginazione.
Pensai maligna che rosso e panna fossero un bell’abbinamento; feci per allungarmi e versarmi del vino quando, ”del tutto inavvertitamente”, le rovesciai l’intera bottiglia addosso.
Lui  sbarrò gli occhi. Immaginava che nella mia testolina stesse frullando vendetta, ma non credeva che arrivassi a tanto. Non davanti a tutti.
 
-Uh quanto mi dispiace...
 
 Lei mi lanciò un’occhiataccia.
 
-Vado in cucina a prendere qualcosa per asciugare a terra…
 
Mi alzai soddisfatta.
Mike mi seguì a ruota.
 
-Ma ti sei rimbecillita?- mi disse alterato e sbattendo la porta alle sue spalle.
 
Senza neanche voltarmi, mentre frugavo nei cassetti in cerca di uno strofinaccio
 
 –Ce l’hai con me?
 
-La smetti di fare la stupida? Lo so bene che lo hai fatto apposta. Ma ti pare il modo di affrontare le cose questo? Sembri una ragazzina…
 
La pressione mi stava salendo alle stelle; il tornado Susanna era pronto a devastare tutto ciò che le gli fosse capitato davanti.
 
-Bene “Mr. Ho Vinto Tutti I Grammy Di Questa Terra” , adesso la ragazzina sai che fa? Va di là e dice all’intera tavolata in convivio che è stanca di nascondersi e che da due anni sta con un uomo che quasi sembra vergognarsi di dire che la ama e che stanno insieme. Sempre se la ama ancora!
 
-Ah …addirittura stiamo a questo punto. Ma lo sai che tu non hai capito proprio un bel niente? Se non me la sento di rendere la cosa pubblica a mezzo mondo, perché lo sai che non si tratta di chiacchiere di quartiere ma di giornali, paparazzate e schifezze del genere su scala mondiale, lo sai vero? È perché volevo proteggerci, volevo che il nostro rapporto rimanesse una oasi incontaminata…lontana da tutti…dove…
 
-Terra chiama Michael, terra chiama Michael…! Ma dove credi di vivere? Mike non puoi nasconderti in eterno; non puoi scappare dalla realtà solo perché ti fa paura. La vita va affrontata, cazzo! E poi stiamo parlando di amore, il sentimento più antico e bello dell’universo. Ma perché nascondere la propria felicità…perché non…
 
-Perché la cattiveria e l’invidia distruggono ogni cosa…
 
-Mike ma non siamo in un film dove i buoni combattono contro i cattivi e alla fine il bene trionfa. Questa è vita vera…la vita vera è fatta anche di questo; non è chiudendoti in un mondo finto, nascosto, dove tutto sembra perfetto, là fuori cambieranno le cose. Le persone che parleranno male di te ci saranno sempre; è lo show biz Mike, è il prezzo che devi pagare per essere l’uomo più famoso al mondo degli ultimi venti anni…Facevi l’impiegato se non ti andava di stare sulla bocca di tutti, non la pop star…
 
-Ma non capisci che la gente non ha rispetto; è ingorda di pettegolezzi…di…
 
-Ma perché vedi sempre o tutto bianco o tutto nero? Il mondo è fatto di sfumature e tra quelle sfumature ci sono le persone che ti amano e che ti vogliono bene. Non costringerle alla segregazione…permetti a queste persone di amarti alla luce del sole. Permettimi di amarti alla luce del sole…
 
La discussione stava degenerando; abbassammo i toni ma l’amarezza non voleva saperne di abbandonare le alte vette che aveva raggiunto.
 
-Dai, Susie, ne parliamo con calma più tardi…quando se ne vanno via tutti…non è il momento…dai…-disse aprendo leggermente la porta della cucina come per invitarmi a tornare a tavola.
Stava scappando di nuovo.
 
-Tutti…tutti…tutti…!!!! Ne ho abbastanza…E noi?…noi invece?…Sai che ti dico, stasera stai con “tutti”…io me ne vado, scusami ma non sono dello spirito giusto
 
Veloce come un razzo attraversai la sala da pranzo, gli sguardi degli invitati mi seguirono perplessi; presi la borsa e il soprabito e me ne andai.
Il tornado si era abbattuto sull’isoletta sperduta chiamata Mike e Susie, e dietro aveva lasciato solo distruzione.
Mi sentivo uno schifo e la mia testa era un frullatore impazzito di pensieri ambivalenti.
“Ma perché ogni volta che litighiamo così mi sento in colpa? Perché alla fine di ogni discussione lui si trasforma, e dopo aver alzato un po’ la voce diventa quel bimbo triste dagli occhi smarriti? Perché mi sento così male? Sono io la vera causa dei suoi problemi, sono una sciacquetta egocentrica che non capisce un cavolo. Lo voglio tutto per me, voglio che dica al mondo che mi ama, voglio essere al centro dei suoi pensieri, voglio voglio, voglio….Sono una schifosa egoista. Ma forse no…forse lo amo così tanto che sento il bisogno di dirlo all’universo, forse lo sento così mio che il solo pensiero che qualcuno me lo possa strappare via mi uccide. Forse vorrei solo poterlo amare senza restrizioni, poter uscire con lui la sera, mangiare un gelato al parco, fare acquisti a Natale, portarlo in Italia a conoscere la mia famiglia. Forse non sono capace di rapportarmi a lui e al suo essere uno e mille allo stesso tempo, sicuro e deciso nel lavoro, poliedrico e comunicatore sul palco, ardente e puerile in amore, timido, riservato e timoroso con il resto del mondo. Come possono tutte queste cose concentrarsi in un’unica persona”…Non c’era spazio che per questi pensieri nella mia mente.
Forse, forse, forse…Forse avevo preteso troppo dalla vita.
Ma la realtà è che quando ti innamori di quel sorriso pulito, di quegli occhi figli della terra, dell’odore speziato dei suoi capelli, quando conosci a memoria ogni centimetro del suo corpo, quando impari dove soffre di più il solletico e come si lava i denti, quando ti diverti a preparargli la cena e piegargli le camicie, è allora che capisci veramente che se anche non ci fossero stati riflettori, concerti mondiali, premi e miliardi di dollari, quel sorriso, quegli occhi, quei capelli, quel corpo…sarebbero esistiti lo stesso e tu quel ragazzo lo avresti amato comunque.
Quanto più cercavo di razionalizzare la questione tanto più mi sentivo male; era come se dopo una lenta agonia arrivassi a comprendere che forse non potevamo stare insieme e che in realtà io quell’uomo non lo avevo mai capito. E saliva ancora di più il senso di colpa e lo sdegno verso me stessa e l’incapacità di apprezzare che io, Susanna De Matteo, ero la ragazza più fortunata dell’intero pianeta perché stavo con Michael Jackson, la più grande star di tutti i tempi.
Ma ecco, ancora una volta mi stavo sbagliando.
L’unica cosa che proprio non potevo rimproverarmi della nostra relazione era il fatto di non averlo trattato ed idolatrato per il suo essere il re indiscusso della musica; lui con me voleva sentirsi vero, reale, con i suoi pregi e i suoi difetti e con le difficoltà che lo stare insieme poteva comportare. E forse era proprio quel realismo a portarmelo via e a sbattermi in faccia che una come me in fondo con uno come lui non ci poteva stare, in una lotta titanica tra ciò che lui rappresentava per il mondo intero e le esigenze di una piccola ragazza normale.
Stavo male, mi rigiravo freneticamente nel letto.
- Quell’uomo mi ha così assorbito da trasmettermi anche la sua insonnia- pensai.
Intorno a me aleggiava un’aria soffocante. Sentivo le pareti della stanza restringersi ed espandersi freneticamente. Ero avvolta in uno stato di ansia tale da farmi accelerare il battito cardiaco. Non immaginavo che un uomo fosse capace di suscitare in me reazioni psicosomatiche di tale incidenza. Dopo circa due ore Morfeo si abbatté pesante e tormentato sulle mie palpebre.
 
-Mamma mamma voglio una coperta…
 
Era buio e mia madre teneva per mano me bambina mentre camminavamo nei vicoli del centro storico di Napoli. Le strade erano deserte e si sentiva solo il rumore dei nostri passi. Era inverno però indossavamo degli abiti leggeri per cui sentivo molto freddo.
 
-Non ce l’ho, mi dispiace. Ormai non è più compito mio occuparmi di te. D’ora in poi non farò altro che accompagnarti silenziosa.
 
-Ma come mamma? Ho bisogno di te, non sono ancora pronta…
 
-Non è colpa mia gioia di mamma, è il morbo che lo vuole…
 
Ad un tratto un braccio sbuca dal buio di un cancello. La tira, la strattona. Cerco di afferrarla, faccio resistenza, ma non sono abbastanza forte. Quella morsa la tira violenta verso le inferriate, le fa sbattere la testa, le fa male.
 
-Mamma non ce la faccio…mammaaaaaa…aiutatemiiiii vi pregoooooo!!!!!!
 
-E’ il morbo tesoro mio…è il morbo che lo vuole…è il morbo che lo vuole…è il morbo che lo vuole…
 

Squillò il telefono.
 Alzai violentemente la testa dal cuscino. Ero in un bagno di sudore.
Per fortuna era un incubo, era passato, non esisteva. Ma allora perché mi sentivo ancora soffocare? Perché le braccia mi facevano così male? Perché avevo il terrore di aver perso qualcosa?
Al quarto, quinto squillò realizzai che dovevo rispondere.
 
-Susanna?
 
Riconoscevo quella cadenza. Cadenza di casa mia. Era Riccardo, mio fratello.
 
-Riccà? Che è stato?
Mi preoccupai. Iniziai ad agitarmi; qualcosa mi diceva che…qualcosa…
 
-Mamma...mamm…Mamma è morta Susà!
 
Mamma è morta.
Mamma è morta.
Mamma è morta….
…è il morbo che lo vuole…
…è il morbo che lo vuole…
…è il morbo che lo vuole…
 
La cornetta mi cadde dalle mani.
Respiravo affannosamente. Mi dondolavo in maniera compulsiva, la testa mi pulsava…
Come dopo un terremoto, una valanga, uno tsunami. Solo macerie; così mi sentivo dentro.
Il dolore più grande della mia vita.
Piansi al punto da strapparmi gli occhi; urlai di sofferenza perdendo completamente la voce. Non ero più niente.
Chiamai Mike e gli dissi che l’indomani sarei partita con il primo volo per l’Italia per dare l’ultimo eterno saluto alla donna più importante della mia intera vita.
Quella mattina all’aereoporto riconobbi Jim. Accanto a lui appoggiato alla macchina e nascosto da occhiali scuri, berretto e sciarpa fin sotto gli occhi c’era lui. Si era imbacuccato per passare inosservato. Tanto era gennaio, faceva un freddo cane, nessuno ci avrebbe fatto caso.
Per l’ennesima volta si era nascosto. Ma sapevo, quella volta avevo davvero capito…
Quel suo nascondersi aveva il sapore di rispetto, non voleva che anche il mio dolore, il dolore più grande che una figlia possa provare, diventasse una questione di gossip.
Gli corsi incontro gettando le valigie per l’aria.
Mi accolse in un abbraccio amorevole e quasi analgesico. Si tolse gli occhiali lasciando nei miei i suoi occhi carichi di un dolore quasi simbiotico, che colmi di pianto si bagnarono con le lacrime della mia sofferenza. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Straniero a Mosca ***


 Capitolo 9


Dopo la morte di mia madre rimasi in Italia per circa due anni. Avevo bisogno di stare a casa, con la mia famiglia. Eravamo tutti devastati dal dolore ed avevamo bisogno del reciproco conforto per poter andare avanti ed imparare a convivere con la sua ingombrante assenza. Non fu facile.
Un cancro al seno in poco tempo me la portò via a quarantasei anni. Ero tormentata dai sensi di colpa perché sentivo che nel momento del bisogno non le ero stata vicina, non ero stata presente per sostenerla nelle sue sofferenze. Un’egoista presa dalla carriera, dai viaggi; questo fui e non me lo perdonerò mai.
Solo la nascita di mio nipote Giulio, un mese dopo il lutto, ci regalò un po’ di serenità. Giulio era un regalo di mamma dal cielo, lo sapevamo tutti.
In quei due anni non perdemmo mai i contatti e anche se a distanza e preso dai ritmi incontenibili che la sua carriera gli imponeva mi stette accanto, con il conforto di una voce rassicurante che percorreva milioni di chilometri attraverso una cornetta telefonica e con le righe di lunghe lettere su cui quella grafia tanto complessa e tanto scissa come la sua personalità, imprimeva le frasi del suo affetto. Leggevo e rileggevo quotidianamente le sue parole perché tra quei sentieri di inchiostro ritrovavo sprazzi di sollievo lunghi il tempo di alcune pagine.
Verba volant, scripta manent…Mi aggrappavo disperatamente alla saggezza dei latini alla ricerca della conferma che in fondo quelle lettere dimostravano che nel suo cuore c’era ancora spazio per una piccola ragazzetta di provincia senza arte né parte, che non aveva nulla da offrirgli se non il suo amore sviscerato ed incondizionato; ma quelle incomprensioni rimaste sospese, la lontananza, la sua vita che continuava a correre a velocità tripla rispetto alla mia fecero il resto.
Nel nostro rapporto non ci fu mai la tradizionale quotidianità di una coppia normale, né tantomeno potevo pretenderla allora con l’oceano di mezzo; ci sentivamo sporadicamente ma quando accadeva le nostre conversazioni diventavano vere e proprie spremute d’anima e nulla poteva la distanza contro quel legame quasi ancestrale che lui amava definire “di sangue acquisito”. Ma aimè i legami di sangue sono quelli tra fratello e sorella e io di fratelli ne avevo già in abbondanza, lui era altro per me; tuttavia in quel momento della mia vita non ebbi la forza di chiedergli nulla di più, io che fino ad allora sentivo di aver solo preteso incapace di godere pienamente ciò che mi veniva dato.
Perché c’eravamo lasciati?...Domandone da un milione di dollari a cui non ero in grado di dare una risposta concreta, ma quel difficile momento familiare fece passare i miei perché in secondo piano facendo in modo che il senso di colpa che mi lacerava dentro colludesse con l’incapacità di affrontare l’argomento “Noi”. Lui, forse per rispettare il mio lutto o forse perché troppo preso da altro, fece lo stesso e alla fine lasciammo che quel che era rimasto del nostro amore venisse inesorabilmente inghiottito dall’implicito.

26 Novembre 1991.
Lo chiamai non appena seppi del’uscita in Italia del suo ultimo capolavoro discografico. Fu allora che mi propose ti tornare in America per lavorare con lui alla preparazione del prossimo tour. All’inizio fui titubante; cercò di convincermi dicendo che mi avrebbe fatto bene riprendere a lavorare e che lo faceva non solo per risollevarmi il morale ma anche perchè stimava profondamente il mio lavoro quanto io stimavo il suo; la nostra non fu solo una stupenda “amicizia”, ma anche una preziosa e continua occasione di arricchimento professionale.
Non gli diedi subito una risposta, avevo bisogno di rifletterci perchè quella situazione così troppo simile al passato in cui eravamo stati più che semplici amici mi parve una prova troppo ardua da affrontare. Ma il mio cuore mi sfidò a singolar tenzone e dovetti riconoscere che anche se avessi rifiutato quella proposta non avrebbe comunque rinunciato ad infliggermi il suo tormento.
Carpe diem…Mi affidai ancora una volta alle parole degli antichi, convincendomi che almeno quel dannato liceo classico mi era stato utile a qualche cosa, e così colsi quella occasione per ricominciare a vivere e forse anche per riprendermi ciò che fino a qualche anno prima era stato mio.
Mi apprestavo a rimettere piede in terra americana, più insicura e meno speranzosa di quando vi approdai ventunenne.
Prima che partissi mi chiamò dicendomi che avrebbe fatto trovare una limousine in aereoporto al mio arrivo e che per il resto si sarebbe occupato di tutto lui. Quelle parole mi lasciarono perplessa ed emozionata.
Le porte scorrevoli si aprirono al passaggio del mio carrello con i bagagli e non appena vidi l’auto mi prese un fuoco alla bocca dello stomaco.
Mi sentivo una ragazzina stupida.
Perché prendere una limousine se poi dentro quella macchina dovevo starci solo io?
Nessuno c’era lì ad attendermi a parte l’autista, che per quanto fosse una persona simpatica non era proprio colui che desideravo incontrare; venni accolta da un bigliettino solitario poggiato sul sedile che diceva “Anche se non ci sarò per alcuni giorni, vieni a stare da me. Quando torno vorrei trovarti a casa…Bentornata, Michael”.
Me lo aspettavo…niente sarebbe stato più come prima.
L’attesa del suo ritorno fu un misto di strazio, gioia e confusione.
Prima del suo arrivo trascorsi due giorni da sola nella sua sconfinata tenuta, rappresentazione concreta delle fantasie di quel bambino imprigionate nel corpo così terribilmente attraente di un uomo; una casa piena di confort, di lusso, di divertimenti ma che in quelle quarantotto ore fu anche stracolma della sua assenza e di uno stato di sconforto e solitudine che si prendeva gioco di me e della trepidazione con cui attendevo il suo ritorno.
Trascorsi quelle giornate passeggiando tra quei viali immensi con la sola compagnia dei ricordi dei due anni indimenticabili in cui mi dissolsi in lui in una fusione perfetta di corpi e di anime.
Avevo una voglia matta di rincontrarlo, di stringerlo e di tuffarmi nell’odore speciale del suo corpo che invadeva di buono ogni cosa che indossava, toccava, abitava.
Il giorno in cui era previsto il suo ritorno andai a fare shopping, cercavo qualcosa di carino tanto per rendermi presentabile; in fondo non ero poi così diversa da come mi aveva lasciata a parte un paio di chiletti in più e i capelli un tantino più corti, ma avevo tanta voglia di piacergli.
Ebbene si, le cose erano davvero cambiate, qualche anno prima non mi sarei fatta questo tipo di problemi perché ero certa di piacergli sempre.
Mi preparai di tutto punto e attesi in salotto il fatidico momento in cui vedendolo entrare da quella porta avrei perso ogni barlume di razionalità e abbassato ogni difesa mostrandomi in tutta la mia vulnerabilità.
Seduta sul divano in una posa abbandonata, persi i miei occhi nella penombra di quella stanza appena illuminata ad intermittenza dalle luci della tv accesa e che avevo zittito per evitare che disturbasse il flusso dei miei pensieri. Nello spazio intermedio tra fantasia e realtà la mia mente diede forma all’immagine del suo viso dai tratti particolari, quel volto un po’ maschio e un po’ bambino che con una espressione di gratitudine, dolcezza e tenerezza sapeva guardarmi dentro e fuori dopo che i nostri corpi un po’ sudati e un po’ discinti avevano giocato all’amore. Il brivido della nostra prima volta mi percorse in un flashback di eccitazione, richiamando alla mia memoria l’infinito ricordo delle sue parole che come l’ultimo ritocco dell’artista perfezionista resero quel momento un capolavoro senza tempo. “Grazie Susie…- mi sussurrò mentre raggomitolata in lui mi lasciavo cullare dal battito cadenzato del suo petto-…grazie per avermi regalato la tua innocenza…”
Un vocio insistente mi distolse bruscamente dal mio mondo sognante.
Un brulichio di persone e di passi smuoveva il selciato; mi avvicinai alla finestra e guardai fuori. Tre macchine avevano appena parcheggiato nel viale mentre scendevano una, due, tre, quattro, cinque…ma quanta gente ci sta?- pensai mentre nella mia mente si sbiadiva lento il quadretto idilliaco che mi ero costruita: io, lui, una cenetta intima e la voglia di recuperare il tempo perso.
I miei occhi si gettarono in una ricerca convulsa della sua figura tra quelle sagome sconosciute, e quando finalmente lo riconobbi in quella folla sprofondai senza via di scampo in una voragine di piacere doloroso…Lo amavo, lo amavo ancora…purtroppo.
Fu l’ultimo a scendere dall’auto e lentamente si avvicinò all’ingresso intrattenendosi di tanto in tanto a scambiare qualche parola con uno di quei dieci tizi che lo accompagnavano.
Come avrei voluto che quel volto appena nascosto dalla falda del capello, quel collo e quelle spalle, quelle gambe disegnate per assecondare il suo modo particolare di incedere, fossero stati solo elementi della comune anatomia umana e non il ricettacolo delle mie fantasie quotidiane.
Le mani mi iniziarono a sudare.
Salivazione azzerata.
Il cuore…va bè quello me lo ero giocato da un pezzo.
Era finalmente arrivato il momento di riabbracciarlo.
Mi scaraventai alla porta. Aprii.
Spalancai l’uscio con un sorriso che mi circumnavigava il viso e venni accolta da una serie di occhi sconosciuti che risposero con cordiali buonasera, salve, ciao e quant’altro a quell’ apoteosi di denti con fossetta sulla guancia annessa che avevo tatuati sul viso.
Il desiderio di corrergli incontro, di saltargli al collo e di tramortirlo con i baci che avevo riservato solo per lui in quegli anni di lontananza si divertivano a pogare nel mio stomaco come in un concerto metal.
Indifferente dinanzi a quei saluti sconosciuti, mi feci largo tra la gente che affollava l’ingresso per raggiungere Mike poco distante, che di spalle stava parlando con una persona.
Mi avvicinai lentamente così che non si accorgesse di me, e arrivata dietro di lui gli coprii con le mani gli occhi.
Interruppe bruscamente la sua conversazione.
Mi tastò mani e polsi.

-Finalmente sei tornata!-esclamò, e voltandosi mi abbracciò calorosamente baciandomi una guancia.
Mi cinse le spalle con il suo braccio ed entrammo in casa con tutto quel seguito di persone che non avevo ancora ben identificato.
Quella sera non ci fu nessuna cenetta romantica o chiacchierata in intimità, tutt’altro. Come bentornato mi aspettava una vera e propria riunione di lavoro. Eh si, perché tutti quei signori non erano altro che gli organizzatori e parte dello staff che lo avrebbe accompagnato nel tour che lo aspettava, anzi che ci aspettava.
Arrivati in casa procedette con le presentazioni.

-Ragazzi questa è Susie…una mia carissima amica italiana. È stata via per un po’ ma adesso è tornata per darci una mano con il tour…Susie per me è fondamentale, è stata il mio portafortuna e quindi non poteva non accompagnarmi anche in questa avventura e sono certo che anche voi tutti vi troverete benissimo a lavorare con lei…
Non mi diede il tempo di dire una parole, fece tutto da solo “sponsorizzandomi” in maniera ineccepibile.

- E’ una bravissima ballerina con un curriculum fenomenale; viene dalla danza classica, balletto russo, poi Brodway, ha già lavorato con me…insomma sta ragazza è un talento e ci tenevo a presentarvela.

Uno di quei signori intervenne.

- Quindi Mike vuoi farci credere che oltre ad essere così bella è anche brava?- esclamò in modo ironico tra le risatine dei presenti.

Mike si girò verso di me; con una mano si strofinò il mento inclinando un po’ la testa, guardandomi come fossi un quadro appeso alla parete, di quelli che hai in casa da tanto tempo ma che non ti soffermi mai ad osservare.

-Eh si…è bella Susie, lo so che è bella…lo avevo quasi dimenticato…

Buttò lì quella frase con una leggerezza che mi lasciò inebetita. Il Mike che ricordavo io non avrebbe mai fatto certi espliciti apprezzamenti su di me in pubblico, non si sarebbe mai esposto così tanto; arrossendo avrebbe glissato su quella considerazione per evitare di dare nell’occhio, per proteggere quello che c’era tra di noi da sospetti e pettegolezzi. Ma quella naturalezza la diceva lunga sul fatto che ormai non c’era più niente da proteggere e tenere nascosto, o meglio non c’era più niente.
Rimasi senza fiato.
In quel momento compresi la realtà dei fatti. Tutto era cambiato. La sua “piccola ragazza normale”, la sua “giovinezza spensierata” ormai era solo una “carissima amica italiana” di cui aveva dimenticato la bellezza, mentre io, povera illusa, di lui ricordavo ancora tutto.
Quelli che seguirono furono per noi anni di grandi cambiamenti; eravamo cresciuti, probabilmente eravamo diversi rispetto a quando ci conoscemmo, o molto più probabilmente queste furono le uniche giustificazioni che seppi darmi dinanzi al fatto che lui non mi guardava più con gli occhi di prima.
Non per questo ci allontanammo, anzi. Mi feci forza e cercai di affrontare quell’ennesima batosta. Se l’unico modo per stargli vicino era essere una sua carissima amica lo avrei fatto, era il male minore. Non avevo scelta dal momento che il pensiero di stargli lontana mi procurava una sofferenza che in quel momento non mi sentivo di sopportare, e così mio malgrado decisi di indossare quei panni che a lungo mi calzarono stretti.
I primi anni furono i più duri ma allo stesso tempo anche i più felici, perché compresi che la mia vicinanza lo faceva stare bene e a quel punto fui anche pronta a sacrificare il mio amore.
L’ingenuità e la spensieratezza con cui mi confidava i suoi pensieri più intimi mi lasciavano esterrefatta. Quello era davvero un bambino vestito da uomo, senza malizia, senza cattiveria. Ingenuo e spietato come solo i bambini sanno essere. E per questo lo odiavo e lo adoravo.

-Tu per me sei più di un’amica Susie- mi disse una sera facendomi balzare il cuore in gola-…Si ti può sembrare strano quello che sto per dirti, ma io lo penso sul serio…-continuò ridacchiando.
Non capivo dove volesse arrivare.
-…Tu per me non sei nemmeno una sorella Susie…

E più andava avanti meno capivo…

-…Tu sei un vero amicO...- sbarrai gli occhi-… si Susie hai capito bene…cioè io con te posso parlare di tutto tutto, pure di cose che ad una amica donna non diresti mai…Per questo sei speciale, specialissima. Sei bella e materna come solo una donna sa essere, ma sei anche genuina, spontanea e a volte un po’ scurrile come uno scaricatore di porto…

A quel punto misi da parte le mie pretese romantiche da donzella svenevole e non riuscii a trattenermi dal ridere.

- Mike mi stai elegantemente dicendo che sono una “terrona” come si dice da me…

-Eh…non lo so come si dice da te…ma se si dice così allora tu sei la mia “terrona”!

Il tempo e gli altri uomini mi aiutarono a sopportare meglio questo nuovo ruolo nella sua vita; riuscì a conoscere di lui cose che non pensavo esistessero, e se questo era il prezzo da pagare per scoprire le parti più belle e profonde di quel tesoro di persona che era Michael Jackson, non mi pento di averlo pagato anche se questo ha significato soffocare per anni i miei sentimenti.
Ma il destino continuava a fare brutti scherzi cercando a tutti i costi di strapparmi dalla faccia la maschera di confidente tutta affetto fraterno.
“Il matrimonio del mio migliore amico” non è solo il titolo di un film, aimè è quello che mi accadde nel maggio del 1994.
Era arrivato il momento fare i conti con il fatto che purtroppo io non potevo rimanere l’unica donna della sua vita.
Sopravvissi quasi indenne per anni alle costanti dicerie sulle sue presunte storie con tipe ricche e famose, ma il suo primo matrimonio fu una mazzata tra capo e collo.
Mi trovavo in Italia per un breve soggiorno di una settimana in occasione del compleanno del mio nipotino quando ricevetti quella maledetta telefonata. Era Mike che a bruciapelo mi disse che il giorno seguente si sarebbe sposato.
Rischiai di morire con la cornetta ancora attaccata all’orecchio.
Sposato? E me lo dice il giorno prima? Non sapevo cosa pensare.
Adesso le cose si facevano complicate; per quanto io gli potessi stare vicino una moglie è una moglie, dovevo accettarlo.
Quelli furono anni pesantissimi per lui, che resero il suo carattere ancora più difficile e il suo comportamento ancora più imprevedibile e infatti non mancarono litigi, allontanamenti e riappacificazioni a speziare i nostri rapporti; alle volte mi faceva incazzare come una bestia ma poi mi trattenevo dal fare delle discussioni perché sapevo che cosa stava passando e volevo solo essergli d’aiuto e non di intralcio nella sua vita.
Non condivisi parecchie sue scelte di quel periodo, tra cui quella del matrimonio che mi sembrò azzardata, frettolosa e quasi dettata obbligatoriamente dal fatto che poiché lei era la figlia di un defunto mito della musica doveva per forza stare insieme a lui che era un mito della musica vivente. Se non c’è amore non ci si deve sposare e sono convinta che non si amassero. Conoscevo sulla mia pelle il Mike innamorato e sono certa che non fosse quello.
Ma come può una che ha divorziato da qualche mese dopo un matrimonio in cui sono nati anche dei figli, risposarsi così. In questo sono all’antica e sono meridionale in tutto e per tutto, certe cose non le ho mai concepite e Mike sapeva come la pensavo sull’argomento. Era questo il reale motivo per cui non mi disse niente del matrimonio fino al giorno prima.
Lei poi non la tolleravo proprio. Questo fu un altro motivo.
Bella quanto antipatica; finta, anaffettiva e costruita. Così la etichettai in occasione di una nostra discussione accesa, proprio il giorno in cui Mike me la presentò. Come inizio della nostra conoscenza non fu dei migliori.
Pranzammo insieme e a tavola si aprì tutta una questione riguardo le proprie origini e le tradizioni del mio paese. La signorina “sono nata nella bambagia” storse il naso un paio di volte di fronte a delle mie considerazioni, il che mi fece scoppiare come una pentola a pressione. Alzai i tacchi e me ne andai. Mike mi seguì e tentò di convincermi a tornare a tavola, per la qual cosa ebbe anche da ridire con lei. Mi scusai per la mia impulsività che lui conosceva così tanto bene. Lo salutai con un “ci sentiamo”, ma non avrei mai immaginato che mi avrebbe chiamata per darmi quella notizia.
Ebbene, io a quel matrimonio non andai, non ce la potevo fare ad assistere a quella scena.
In quel periodo, nel rispetto di Mike e del suo rapporto con quella donna, tentai di non essere mai eccessivamente invadente e cercai di starmene per conto mio, lontano da lui ma soprattutto lontano da lei, innanzitutto perché non volevo dare ulteriore adito a voci che giravano tra alcuni membri della sua famiglia secondo cui io lo plagiavo e lo raggiravo a mio piacimento, e poi perché non mi andava di pressarlo. Infondo ormai ero solo una cara amica e sulle sue scelte sentimentali non potevo mettere bocca.
Ma a questo provvide la madre.
Lei e Janet erano le uniche persone della famiglia di Mike con le quali avevo dei rapporti più stretti e confidenziali.
Una sera io e Katherine assistemmo ad una discussione telefonica tra Mike e la neo-sposa. Non comprendemmo il motivo della litigata, tuttavia lui apparve particolarmente infastidito e chiuse la comunicazione sbuffando ed imprecando.

-Lo dicevo io che quella donna non me la conta giusta…Non va bene per te Mike, non ce la vedo proprio…-intervenne la madre con tono rassegnato al termine della telefonata.
-Mamma per favore…e finiscila con questa storia! Mi stressi ancora di più di quanto non lo sia già…

-Dai Mike, non la prendere a male…tua madre sta solo dicendo la sua, non rispondere così…Ognuno è libero di pensarla come vuole. Io in merito mi avvalgo della facoltà di non rispondere…-intervenni cercando di placare gli animi.

-Ecco i rinforziii! …Lo so, lo so bene come la pensi…non c’è bisogno che aggiungi altro e che contribuisca anche tu a farmi incazzare…-mi rispose lui infastidito.

-Questa ragazza parla bene Mike. Ha sempre la parola giusta al momento giusto, lei si che ha il senso della famiglia, delle cose di casa... Ma dico io, ma perché non ti sei sposato lei, ormai sono anni che vi conoscete e che vi volete bene, state sempre insieme, lavorate insieme. Mi facevate pure un nipotino ed eravamo tutti più contenti

A quel punto divenni rossa come un peperone e calò il silenzio nella stanza. Io e Mike ci guardammo in un lungo momento di complicità e sorridemmo imbarazzati.
Dovevo uscire da quella impasse e come mio solito non trovai modo migliore per farlo che incasinare ancora di più la situazione. Tentai di metterla sull’ironico.

- Katherine, sa qual è la questione? Suo figlio non mi vuole perché dice che sono uno scaricatore di porto…

-Dice questo? – rispose lei non cogliendo il mio tentativo di fare una battuta- Maleducato, irriverente. Questo ti ho insegnato?...Susie…ascolta i consigli di una che ne sa più di te; lascialo stare quello lì, non capisce niente. Si vede che non ci sono più gli uomini di un tempo. Ma non vede che sei bella come un fiore?

Sorrisi e guardai Mike facendogli una linguaccia. Lui mi ricambiò allo stesso modo. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=564994