Bloody Wishes - Vite parallele

di robrua
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** De Rubre Peregrinatione ***
Capitolo 3: *** In Rubra Aura ***
Capitolo 4: *** Doctor Rubri Inimici Fate ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


PREFAZIONE

Non si scoprono terre nuove senza accettare di perdere di vista,

almeno per un lungo tempo, le terre conosciute

Gide A.

 

Dolore. Infinito dolore e fitte in tutto il corpo. Il sangue che abbandona le vene. Il cuore che pulsa impazzito cercando di compensare la perdita tremenda. Uno squarcio di dieci centimetri tra due costole.

Due proiettili inseriti come chiodi nel ventre. Il nero che prende a coprire la già offuscata patina nei miei occhi.

Lottare. Lottare per sopravvivere. Lottare per amore. Lottare perché lui, l’uomo che amo, si trova in condizioni peggiori delle mie.

Poi, come un incendio, il mio corpo sembra prendere fuoco. E non posso lamentarmi, come se la mia bocca fosse bloccata dall’anestesia.

Ma non è fuoco vero, lo capisco, brucia dall’interno e il cuore pulsa sempre più forte.

-Tra poco sarà tutto finito, voi siete anime buone.- sussurra una flebile voce di bambina, prima che il fuoco diventi insopportabile.

 

 

 

 

 

 

 

Allora, questa è una pazzia nata dalla mente malata di sasita... voi tutti sapete che è pazza, no?

Benissimo, quindi: non partite prevenute, questo è l'avvertimento!

Spero che vi possa piacere e, come è solito della mia amica, vorremmo un minimo di 3 recensioni, altrimenti l'aggiornamento è tra una settimana!

Ciao ragazze,

R&S

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Capitolo 2
*** De Rubre Peregrinatione ***


 

 

 

 

-Forks? Cioè, signora. Mi sta dicendo che noi…- indicai me e Jane –dobbiamo andare a Forks? Perché c’è stato un assassinio? Non ci credo! E perché io e Jane?-

-Sì, a Forks, la cittadina più piovosa dello stato di Washington a ben 120 chilometri da Seattle. E ci andate tu e Jane perché ho bisogno di Cho qui per delle testimonianze, Grace è malata…-

“Errata corrige.” pensai “ Grace era in maternità. Solo che Hightower non lo sapeva… ‘mononucleosi’  le avevano detto.”

 

Non che io credessi che la Hightower non sospettasse niente, anzi, fosse completamente certa che la mia rossa sottoposta avesse seriamente la mononucleosi...

 Trattenni una risata. –e Rigsby non vi sarebbe d’aiuto.-

-E i federali? Non ci possono pensare loro?-

-No! Non possono! Accidenti! Lo capirete sul posto… mi è stato imposto di non dirvi niente! Sei un po’ troppo insistente, agente Lisbon, non è un bene per il tuo curriculum!- girò i tacchi e se ne andò.

“Fantastico!” pensai “Un assassinio a Forks, la cittadina più inutile della storia americana!”

-John.- disse Jane senza staccare gli occhi dalla porta del mio ufficio

-Dici?- chiesi, improvvisamente sbigottita

-Dico.- rispose lui. Si girò e si accasciò sul divano rosso di fronte alla mia scrivania.

Lo guardai, mentre si stiracchiava e sdraiava armoniosamente sul suo posto preferito, era perfetto, cavolo! Maledettamente perfetto e bello, e mi piaceva.

Mi morsi un labbro leggermente, umidificandolo con la lingua, era praticamente spontaneo come gesto, ogni volta che lui non poteva vedermi e si sdraiava sul mio divano.

Io e Patrick ci frequentavamo.

Certo, come si frequentano due adulti disillusi alla vita. Imparavamo a conoscerci, lui sapeva tutto di me e io tentavo di scoprire qualcosa di lui. Andavamo a cena fuori, al cinema, a passeggiare al parco, a teatro e tutte queste cose degne di Jane.

Io l’avevo portato al poligono per insegnargli a sparare, e aveva imparato alla velocità della luce, e a una partita di baseball di mio nipote.

Non ci eravamo mai baciati, né cose simili. Più che altro lui ci considerava amici, solo amici, dato che John era ancora in circolazione e la sua voglia di vendetta era superiore a qualsiasi altro sentimento potesse provare.

Ma non mi dispiaceva più di tanto.

-A che pensi?- mi chiese a un certo punto

-N-Niente, perché?-

-Non è vero che non pensi a niente, non hai mica la testa vuota! Dai, Teresa, dimmelo!- anche se fuori dal lavoro aveva iniziato a chiamarmi con il mio vero nome, ogni volta che pronunciava “Teresa” era un tuffo al cuore.

-Pensavo a quanto ancora Grace può mantenere la bugia della mononucleosi per nascondere alla Hightower il figlio di Wayne…- mentii

-Non era questo, ne sono certo, però è una bella domanda.- portò le mani dietro la nuca, tra la sua testa e il bracciolo –mhm… secondo me prima o poi glielo dicono, e poi… quella stupida regola andrebbe revocata. È ingiusto, due persone che si amano dovrebbero poter stare insieme anche se sono colleghi! Che poi non ho ancora capito perché due colleghi non possono stare insieme! Insomma, di che hanno paura? Che litighino e compromettano l’integrità della squadra?-

-Hai fatto centro, è proprio questo il punto, se si lasciano poi la squadra non ha più l’armonia di prima, non solo, la preoccupazione maggiore è che se, durante un inseguimento, o un qualsiasi cosa possa essere rischioso, uno dei due si fa male l’altro sarebbe propeso ad aiutare l’amante, piuttosto che proseguire la missione.- risposi senza pensarci troppo, ero troppo presa dalla cascata di capelli dorati sul bracciolo del divano.

-Ma non si rende conto di quanta tensione sessuale c’è tra due persone che si amano e che sono costrette a stare lontane pur lavorando tanto vicine?- sospirò teatralmente e io sorrisi , scuotendo il capo –Non ti rendi conto che stress era fino a un mese fa stare accanto a Rigsby o Van Pelt, il loro corpo urlava! Mamma mia! Uff- 

Come potevo trattenermi dal ridere?

-Lo trovi divertente?-

-Sinceramente sì, non credo che i corpi delle persone urlino! Sentiamo un  po’, cosa ti urla il mio corpo al momento?- brutta mossa, bruttissima mossa.

-Bè, in questo preciso istante il tuo corpo mi sta dicendo, molto discretamente, tranquilla, che vorrebbe toccarmi i capelli- avvampai

-Non è vero!-

-Sì che lo è!-

-Invece no!-

-Invece sì!-

-No!-

-Sì!-

-No!-

-No!-

-Sì!- ecco! Lo sapevo, lo sapevo che me la faceva! –va bene, come ti pare, ok?-

-Certo! Guarda che se vuoi puoi!-

Tentazione…

-No, figurati.- dissi, affogandomi tra le pratiche burocratiche sulla scrivania

Io avevo sempre avuto la maledetta sfortuna di innamorarmi degli uomini più sbagliati, Jane era tra questi, anche se non rientrava nelle categorie di “violento, pazzo, stolker, falso, idifferente…” era sbagliato. Era un uomo tormentato che portava continuamente una maschera a difesa dei suoi veri sentimenti.

Un uomo con il cuore a pezzi e il senso di colpa alle stelle. Un uomo che rare volte lasciava cadere la sua maschera di perpetuo giocherellone e che, nonostante tutto, si apriva solo con me.

Un combina guai continuo, che probabilmente non mi avrebbe mai amata.

Ma che era di certo l’uomo più sensibile che conoscessi, oltre che l’unico che mi facesse davvero sentire viva.

Certo, subito dopo veniva Kim, il mio secondo, il mio braccio destro...

Non che Cho fosse di tante parole o chissà che dimostrazioni di affetto, però potevo considerarlo il mio migliore amico, in un certo senso.

Ma Patrick rimaneva un punto fermo, in fondo a tutto, lui restava il centro di un universo impalpabile fatto di soli ricci biondi e occhi azzurri. Certo, quello era il mio universo sentimentale, poi c’era il mio universo lavorativo... e, bé, anche lì non è che Jane avesse un posto secondario.

Mi persi in elucubrazioni animate da mille colori simili a carta pesta che rispecchiavano il mio animo lunatico e ottuso, mentre la penna restava con la punta conficcata nel foglio della pratica Bedstone, creando una macchia di inchiostro sempre più vistosa.

Già, da quando io e Jane uscivamo, pur sempre platonicamente parlando, ero stata costretta –nel vero senso del termine- ad abbandonare le mie amate penne Bik. Perché? Chiaro: “a una donna esile e elegante come te, Teresa, serve una penna che rispecchi la tua forza vitale. Le bik sono squallide, non guardare che le usiamo sempre, ma non rendono l’essenza di una persona. Per te vedo bene questa” aveva detto Jane tirando fuori un astuccino in pelle liscia e lucida, di color marrone chiaro, che conteneva niente meno che  una stilografica con il pennino in palladium -Cioè, non so se rendo bene l'idea: Palladium:migliore dell’oro e più costoso del platino- rifiniture in oro rosa 24 carati con incise, oltre alle iniziali del mio nome, la data della creazione di quella meraviglia a inchiostro e la città di provenienza: Firenze, città dove nacquero il sommo poeta dante e il creatore delle Visconti.

Comunque, per finire la descrizione dell’oggetto che tenevo in mano e sfregavo distrattamente sul foglio candido, impugnatura in resina calcarea (leggesi: una specie di ambra meno preziosa o ricercata, ma altrettanto costosa) di un verde acqua tenue con sfumature che viravano da blu della notte al “verde smeraldino” dei miei occhi, come aveva detto Patrick.

Insomma una signora penna del ’62 da, ovviamente avevo controllato, 1300 dollari.

Al che ero stata tentata di negare cortesemente il regalo, rendendogliela con il maggior garbo possibile... ma, il giorno dopo, l’avevo ritrovata avvolta da un fiocco bianco sulla mia scrivania, insieme a un biglietto

 

 

 

Perché ti alleggerisca le giornate piene di quelle scartoffie che odi, grazie alla penna che hai sempre voluto.

 

Ps. Non provarti a ridarmela perché non avrai pace, la ritroverai sempre sulla tua scrivania!

 

 

 

 

Per chi non avesse capito, ovviamente, il regalo era per il mio compleanno quindi, oltre alla penna avevo ricevuto un vestito lungo a mezza gamba rosso scuro, di raso e seta, stretto in vita e al seno, che si allargava ogni volta che mi giravo o mi muovevo. Bellissimo, sinceramente.

Per coronare un altro sogno, mi aveva portata a un cinema all’aperto, uno di quelli dove le coppie si sbaciucchiano mentre scorre un film…

Bè, io avevo guardato il film, ma avevo gradito molto l’idea... poi, la macchina che aveva scelto per portarmi in giro era davvero meravigliosa! Una decappottabile cabriolet bianca lucida con gli interni di pelle beige e i sedili molto vicini!

Una serata memorabile, senza contare che in un qualche campo verdeggiante c’era ancora il mio pony che mi era stato regalato dalla stessa persona qualche anno prima.

-Lisbon?- mi destai dai miei sogni ad occhi aperti quando una mano mi scosse leggermente la spalla

-uhm… ah! Cho! Sì, dimmi?- dissi, scuotendo piano la testa

-ho saputo che partirete stasera… bé, ti volevo salutare.-

Cavolo, aveva usato quante parole? 9? Record!

-ah, certo, tanto ci vediamo fra un po’ dubito che ci rimarremo molto laggiù! Mi mancherebbe troppo il caldo della california, e la vostra compagnia.-

-Guarda tu che bugiarda!- guardai Jane con disprezzo –Tu odi il sole, ti piace come la pioggia lenisce le tue tensioni, ti piace sentire scrosciare l’acqua sulle finestre e guardare il cielo e le nuvole… però è vero che ti mancheranno loro!-

-Jane. Zitto.- sibilai

-Sono certo che ci rivedremo presto. Capo- disse Cho con un ombra di sorriso sulle labbra. Ci trovava divertenti. Ma, infondo, chi in quel dipartimento non ci trovava esilaranti? Avevo perfino sentito –origliato- i miei sottoposti che parlavano di tensione sessuale e desiderio represso tra me e Jane.

-Ehi capo. non mi torno ingrassata, eh!- guardai il mio gaffe-man di sottoposto con un espressione tra l’esasperato e il divertito

-Farò il possibile, Wayne. Kim?-

-Sì, capo?-

-Per quando torno voglio che il caso Black sia stato chiuso. So di poter contare su te e Rigsby… ah! Mettete in riga al mio posto la sostituta di Grace e, Wayne?-

-Sì, capo?- chiese a capo chino

-Devi dirlo a Hightower. Ormai è irrimediabile, tanto. Al massimo vi dividono sul lavoro… farò di tutto perché quella regola venga revocata ma… scusami, ma proprio “mononucleosi”? e poi, lo sai com’è Grace, a lei piace andare fiera delle cose che fa, soprattutto se nascono dall’amore che prova per te- un risolino mi ricordò mentalmente che volevo uccidere il mio consulente

-Lo farò capo-

-Bene. Jane, alza il culo e muoviti. Vai a fare le valigie, ci vediamo all’aeroporto-

-ti vengo a prendere danvati a casa alle cinque, fatti trovare pronta, ok?-

Mi sorrise, mi sciolsi e sgattaiolò via dagli edifici senza dare il tempo di dire una sola parola a nessuno.

Cavolo quanto era veloce quando si trattava di scappare.

Risi.

Presi la borsa e sistemai le carte sul tavolo. In fondo una “vacanza” nella penisola di Olimpia non era così male. E se c’era John di mezzo il lavoro era praticamente inutile, non si sarebbe fatto trovare neanche morto.

Infilai la giacca e uscii dal mio ufficio, salutando tutti e catapultandomi nell’ascensore, pronta per partire per Washington.

Entrai in casa e feci una doccia calda, e rigenerante, mi vestii con comodi abiti da viaggio e preparai una veloce valigia, infilando tutti i soldi che avevo e tutto ciò che sarebbe potuto servirmi.

Alle cinque in punto Jane suonò al mio campanello e, insieme, chiacchierando, ci dirigemmo verso l’aeroporto centrale di Sacramento, diretti a Seattle. Lì, avremmo preso una macchina a noleggio e saremmo andati fino a Forks.

Forks… la città piovosa e umidiccia con più di 278 giorni di pioggia all’anno.

Però Jane aveva ragione, non è che mi dispiacesse più di tanto andare in un posto che fosse completamente diverso dalla mia città: Sacramento, così luminosa e piena di vita, con le scuole con i metal detector e gli spiazzi pubblici costellati di pattuglie di vigili per controllare che la vita scorresse tranquillamente e non ci fossero problemi.

Forks: un paesino sperduto nel fitto verde delle terre boschive della penisola, con una cappa nebbiosa perennemente presente. E poi faceva freddo, faceva sicuramente freddo laggiù… insomma, era freddo a Sacramento, perché eravamo vicini a Natale, figurarsi laggiù.

-Sta tranquilla, vedrai che ci divertiremo. È una bella cittadina, dopo tutto, Forks!-

-Jane. Fuori. Dalla. Mia. Testa.-

-ah! Adesso sono di nuovo “Jane”-

-Ti prego, Patrick non mi scocciare! Non mi piace volare e non mi piace dove stiamo andando!-

-Lo so che menti…- mi tocco l’angolo delle labbra con un dito e la fronte con un altro -…me lo dice il…-

-Mio corpo, sì, lo so.-

Lui sorrise e mi strinse la mano.

-Vedrai, sarà finita ancora prima di cominciare!-

Non so come, non so perché né, tantomeno so quando, mi addormentai e, potrei giurare, che Jane ci avesse messo lo zampino.

 

 

 

 

chiedo venia a chi aveva letto e recensito, ma mi sono resa conto di aver messo il capitolo non esteso, quindi...

ecco il chap intero!!!

e ribadisco di non potervi promettere aggiornamenti prima di una settimana!

Giuls: no, è prima del prologo, non so se hai mai letto Twilight, ma è il tipico stile della Meyer: la citazione che c'entra con il contesto e la prefazione (non prologo) che narra un avvenimento che deve accadere!

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Capitolo 3
*** In Rubra Aura ***





Sbattei le palpebre infastidita da un irritante lampeggiare, aprii gli occhi e vidi la lucina della cintura di sicurezza che mi illuminava a intervalli, insistente. Ma che ore erano?
Iniziai a rendermi conto di quanta strada avessimo fatto, quando la voce ovattata del pilota mi riempì le orecchie dando un numero ai miei pensieri
-Vi preghiamo di allacciare le cinture di sicurezza. Stiamo per atterrare all’aeroporto di Seattle. Grazie per aver scelto “Air One”.-
Tossì sommessamente tentando di riavviare le corde vocali.
-Buongiorno.-
Sobbalzai leggermente al suono della voce melodiosa e calda di Jane, solo in quel momento mi resi  conto di avere la testa appoggiata alle sua spalla.
Sorrisi alzandomi e mi stiracchiai, guardandolo negli occhi. Increspai le sopracciglia, ricordando l’ipotesi sul come e il perché mi fossi addormentata.
-Quanto ho dormito?- chiesi.
Lo vidi sogghignare e mi accigliai, indispettita.
-Sei ore e mezzo.- rispose beffardo mantenendo il suo sguardo nel mio.
-E tu?-
-Io non ho dormito.- ammise con un sorrisino mesto, spostando lo sguardo verso una hostes –forse dovresti indossare la cintura!- disse poi
Mi ricordai del pressante lampeggiare e diedi ascolto a Patrick.
-Oh, sì, giusto!- dissi tornando a fissarlo –Sei stato tu, vero?-
Mi guardò con quella sua aria da falso innocente.
-A fare cosa?- sgranò gli occhi e aprii la bocca. Fui presa da un risolino.
-A farmi dormire! Mi hai ipnotizzata, vero?-
-Non lo farei mai.- disse, fintamente permaloso.
Fui lì lì per tirargli una sberla sonora, ma mi colpì il fatto di essergli profondamente grata per avermi risparmiato 7 ore d’angoscia.
-Grazie!- dissi sinceramente, abbassando lo sguardo e mordendomi leggermente il labbro inferiore –Ma non entrare mai più nella mia testa!-
-Vedrò che posso fare, Teresa.-
E poi mi sorrise, di quel sorriso che mi abbagliava sempre: beffardo, sghembo, sincero e totalmente, inevitabilmente abbagliante.
Il mio preferito.
Le sue labbra rosse  e carnose erano un richiamo quasi primordiale per il mio corpo.
Mi accorsi che l’aereo stava scendendo in picchiata quando un vuoto d’aria mi fece sentire uno sfarfallio fastidioso nello stomaco. Strinsi le dita attorno al bracciolo del seggiolino fino a sbiancare le nocche, mi irrigidii e chi chiusi gli occhi, contraendo le labbra per reprimere il desiderio di rigetto. Le strinsi talmente tanto da farle sanguinare.
Sentii un lamento soffocato, altre al mio, che mi distrasse. Aprii gli occhi e cominciai a guardarmi intorno succhiando via il sangue dalla ferita.
Una ragazza, seduta qualche posto più avanti dalla parte opposta del mio, mi fissava con sguardo vacuo e profondo...
Aveva gli occhi di un marrone chiarissimo che sembrava molto a un miscuglio tra un topazio e l’ambra, lunghi capelli castani scurissimi e pelle totalmente diafana. Era bellissima, come il ragazzo dai capelli bronzei che le era seduto vicino; le sussurrò qualcosa che non arrivò al mio orecchio e quella mi sorrise, amichevole, io, istintivamente le sorrisi di risposta, poi lei si girò, ancora sorridente, verso di lui.
Interessante coppia, pensai, non avrei dato più di 20 anni a nessuno dei due.
In quel momento l’aereo si fermò e capii che eravamo arrivati, trassi un profondo respiro, rendendomi conto solo in quel momento di averlo trattenuto piuttosto a lungo, tanto che l’aria sibilò entrando nei polmoni.
Infilai il maglione e il giubbotto, la sciarpa e il cappello.
-Tieni i guanti, sei un po’ pallida.- mi disse suadente all’orecchio Patrick.
Ora io mi chiedo come possa essere legale che una persona possa farti venire i languori con la semplice voce e con una frase tanto innocente in una aereo stracolmo di persone. Impossibile.
Scossi la testa. –No, grazie. Guardavo la coppietta di ragazzi seduta... – alzai lo sguardo verso i posti dove prima stavano i due -... non importa.- loro non c’erano già più.
Mi guardò allarmato e mi sorrise, prendendo i nostri bagagli a mano e accompagnandomi verso le scalette per scendere da quello che consideravo un trabiccolo mortale: l’aeroplano.
-So camminare da sola, sai?- sputai con finto astio
-Mi riservo il beneficio del dubbio su questa affermazione... – disse, sorridendo.
Mi guardò il labbro, serio. E corrugò la fronte. –Sai, mi piace moltissimo quando ti mordicchi le labbra, però... non mi piace affatto vederle così martoriate!- affermò come se fosse la cosa più innocua e normale del mondo.
Ma forse ero io che vedevo cose che non esistevano.
Il mio cuore perse parecchi battiti,  e continuai a guardarlo sbalordita e immobile, mentre si avvicinava a me.
Cosa stava facendo? Perché si avvicinava tanto?
Sì, ero io che vedevo cose che non esistevano, ormai ne ero certa.
Si allontanò da me e grattando la gola ricominciò a camminare verso l’aeroporto, cercando qualcosa nello zainetto che portava su una spalla.
-Tieni, spalma questo.- mi disse, porgendomi un tubetto bianco e marroncino che puzzava di Das.
-Grazie.- dissi –Non ne avevo bisogno.- che bugiarda –Sto benissimo.-
Lui non rispose che con una leggera mossa della testa, in segno di diniego e schiocco le dita in mia direzione.
Mi passai la pomata sul labbro, già pronta a dover pazientare per poter prendere un taxi.
Mi parve, infatti, molto strano trovarne uno immediatamente, appena Jane si sporse con un braccio sulla strada, mentre con l’altra mano fischiava.
Fu altrettanto strano non dover avere a che fare con il traffico insistente di Sacramento e percorrere la strada senza difficoltà alcuna.
Poche macchine andavano verso Forks, una Volvo grigio-metallizzato, una bellissima BMW M3 rosso fuoco, guidata da una ragazza bionda bellissima con accanto un ragazzo altrettanto bello, ma molto più piazzato di corporatura. Sui sedili dietro stavano una ragazzina dai capelli neri e arruffati dal vento che rideva mano nella mano con un giovane biondo cenere e l’aria di uno in agonia. Erano tutti felici.
Dietro stava una volante della polizia con le sirene spente e una bella macchina nera dai finestrini oscurati, ma tirati giù, che mostravano un uomo davvero di una bellezza strabiliante che parlava con una donna sorridente con i capelli di bronzo.
Il resto delle macchine non attirava l’attenzione, se non per la loro  strabiliante normalità in confronto a quelle altre.
Dopo aver fatto queste constatazioni per “ammazzare il tempo”, senza curarmene troppo, guardai affascinata il verdeggiante stato che stavamo attraversando, verso nord, per arrivare alla cittadina.
Le nuvole erano sempre più dense e scure, finché non iniziò a cadere una insistente e cullante pioggerella, che riposò i miei sensi.
Non è che mi piacesse più del sole, la pioggia, solo che ogni tanto la gradivo, per il suo potere calmante.
Il solo mi piaceva, ma in California era come un chiodo fisso e i raggi solari mi davano fastidio se duravano più di sei mesi filati.
-Sai, mi sorprende che ti piaccia la pioggia... – ovviamente Jane non poteva fare a meno di “entrarmi nella testa” era più forte di lui -... cosa ti ha spinto a venire a Sacramento, quando potevi restare a San Francisco? Che è decisamente più piovosa.-
-uhm… credo di averlo fatto per sfuggire ai ricordi brutti di mio padre e della mia adolescenza. Odiavo Frisco, anche se è una città meravigliosa. E poi Sacramento mi piace molto.-
-Me lo aspettavo. Sì, Sacramento ti piace, ma c’è troppo sole, giusto?-
-Non è che c’è troppo sole, è che c’è sole troppo a lungo.- dissi con un sorriso
-E qui ti piace.-
Non era una domanda, ma risposi ugualmente.
-Sì, per ora. Anche se scommetto che tra un po’ mi annoierò anche qui. Non mi piacciono le “monostagioni”.-
Sorrise, beffardo.
-Io dico che qui ti piacerà parecchio.- rise, di un qualcosa che non potevo sapere.
-Credo anche io...- mi sistemai meglio sul sedile –A te?-
-A me cosa?- mi chiese, puntandomi negli occhi
-A te piace qui?- dissi scocciata. Che lo chiedeva a fare se lo sapeva benissimo?
-Bé, io ho sempre amato il caldo, il sole, il mare... anche se devo ammettere che al momento è questo clima qui che mi rispecchia maggiormente.- picchiettò le dita sul finestrino, chiaro segno che il discorso si era concluso.
Sospirai e annuii, pensierosa.
Sapevo che lui non avrebbe mai dimenticato la sua famiglia, le sue radici, tutte le sue sofferenze. Ma avevo una qualche speranza che la situazione potesse migliorare.
Non con il tempo, perché di tempo ne era passato molto, ma in qualche modo di sicuro.
Magari mi illudevo che lui un giorno potesse svegliarsi e rendersi conto di essere innamorato di me e potesse magicamente archiviare tutte le sue pene in un angolino remoto del suo cuore.
Innamorato...
Poi parlavo io, io che non sapevo esattamente cosa provavo, non sapevo niente. Ero confusa, affascinata...
Chissà se era amore. Non lo capivo. Io sentivo il cuore battere e il respiro andare sottosopra, sentivo le farfalle nello stomaco, mi sentivo viva, completamente viva.
Ma a volte mi veniva voglia di sparagli, e altre volte non lo sopportavo proprio.
Certo era che i momenti di odio incondizionato nei suoi confronti duravano poco, sostituiti da altri momenti di compassione e pietà.
Ok, sì, ero innamorata, ma quanto? Abbastanza da sopportare tutti i suoi cambi d’umore e le sue incertezze? Abbastanza da sopportare di vederlo logorare nel desiderio di vendetta? Abbastanza da fermarlo se mai avesse avuto la possibilità di uccidere la causa delle sue pene? Abbastanza da avere la forza di sopravvivere se, una volta ucciso John, fosse stato condannato a morte per omicidio volontario e premeditato? Forse sì, forse no.
Comunque ero sicura che fossero domande infondate, io e Jane non saremmo mai arrivati a un punto di non ritorno, come coppia. Non avrebbe permesso a se stesso di fare del male ad un'altra persona, se anche mi avesse amato.
Lui si credeva egoista, e lo era stato, ma adesso non lo era più.    
-Cosa porta una bella coppia come voi in questa città piovosissima?- chiese il tassista, che, molto probabilmente non ce la faceva più a trattenere la curiosità.
Si era sfilato le cuffiette dalle orecchie e l’aveva chiesto.
Risi, possibile che tutti ci vedessero come una coppia?
Non stavamo insieme, cavolo!
Evitai di rispondere, sapendo che tanto Jane mi avrebbe interrotto e avrebbe detto il contrario di ciò che avevo da dire, cioè: “Perché non si fa i cazzi suoi? Io e lui non stiamo insieme.”
Infatti.
-Io e mia moglie siamo molto curiosi di visitare il nostro intero paese e a lei piace molto la pioggia.-
Mi misi una mano sul volto. Questo era uno dei momenti in cui lo odiavo.
-Sì, ma perché Forks...-
-Siamo poliziotti. Non siamo in luna di miele. Non siamo sposati. Guardi la strada!- dissi acida e fulminando con lo sguardo il biondo uomo accanto a me che sorrideva con fare sardonico.
-Mi scusi.-
-Non importa.- dissi, rendendomi conto di essere stata un po’ troppo dura –Quanto manca?-
-Siamo arrivati, vede?- con una mano mi indicò un cartello con su scritto “benvenuti a Forks”
Sotto c’era il numero di abitanti: 3223.
Il nostro hotel era in città e in poco più di cinque minuti scendemmo dal taxi ed entrammo nell’Hall.
Mi sedetti su un divanetto aspettando che Jane finisse di prendere le camere, quando tornò da me gli chiesi la mia chiave.
-Non ho preso due camere, troppo dispendioso e inutile.-
-Tu. Hai. Preso. Una. Camera. Sola?!- chiesi tentando di mantenere la calma –Tu sei pazzo! Come speri che io non abbia un raptus omicida? Potrei tagliarti la gola nel sonno per tutte le cose che mi combini!- gli dissi
-Non lo faresti mai!- affermò, sicuro di se
-È un mio sogno ricorrente!- sputai
Parve avere un momento di esitazione.
-Non è una semplice camera! È una suite con due camere attigue, solo che hanno una porta sola.
Ho scelto quella perché c’è il cucinino, il salottino e due TV al plasma.-
-Hai preso la Suite Presidenziale?- chiesi, stupita
-Più o meno. Ho presto la suite più vicina a quel grado.-
-Avrai speso una sassata! Ripeto, hai qualche serio problema mentale!-
-Può darsi, non mi interessano i soldi, sono solo un mezzo, non una meta.- disse, rabbuiandosi.
-E va bene, vediamo questa superstanza!-
Prendemmo l’ascensore fino al sesto piano, il massimo che potessimo permetterci di trovare nel paese e arrivammo alla camera 601. L’unica del piano.
Mi sentii morire, era ancora peggio di come l’avevo designato!
Entrammo e rimasi deliziata dall’arredamento con colori tenui e chiari che predominavano, e che davano un giusto e piacevole stacco con il verde sgargiante e i colori vivaci dell’esterno. Come aveva detto Patrick c’erano due camere separate da un salotto grande con il cucinino. E, dalla parte opposta alla cucina, sorgeva una grande terrazza coperta. Con dei fiori che penzolavano.
Ara davvero bellissima la vista. Si vedevano le montagne Canadesi e il canale di Olympia, tutti gli alberi altissimi e sgargianti e le case basse e chiare.
Forse non sarebbe stato poi così  male come mi ero aspettata, poteva essere presa come una piacevole vacanza.
Sorrisi e inspirai l’aria fresca e pulita di quel posto magico. Poco importava se John aveva toccato anche le sponde di quel mondo a parte, alieno, per quel che potevo aspettarmi da quel mostro, era già dalla parte opposta degli stati uniti. Sarebbe stato tutto inutile, ma decisamente rilassante.
Inspirai di nuovo e tornai nella mia parte di camera. Avrei fatto una doccia e mi sarei cambiata, prima di andare a visitare il luogo del delitto.







*In Rubra Aura: Latino. "In un aria rossa". Ma il latino è più sintetico e da un, appunto, "aura" di mistero. Non credete?
Speriamo che vi sia piaciuto questo capitolo, non è che ci sia voluto molto a scriverlo, solo che non c'era mai tempo di metterlo!!!
La scuola prende! XD
ciao a tutte
Sasi e Rob. 

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Capitolo 4
*** Doctor Rubri Inimici Fate ***


Doctor Rubri Inimici Fati





Inutile dirlo, immagino, tanto ormai tutto il mondo conosce la modalità di assassinio di John il rosso. Tre colpi alle spalle e taglio alla gola.
Il tutto con la bella ciliegina sulla torta dello smile di sangue della vittima messo in bella vista.
“John è egocentrico, prima vedi lo smile e sai cosa ti aspetta, poi abbassi lo sguardo e c’è il corpo” così aveva detto Jane.
Pur avendo visto la scena già parecchie volte non posso mai dire di riuscire a sopportare la vista delle vittime. Quelle povere donne, la cui vita viene spezzata da un mostro mitomane per il semplice gusto di infondere dolore.
Lui cura la cecità, aveva affermato Rebecca prima di morire, dopo aver ucciso Sam...
Lei lo credeva, e lei stessa era cieca, accecata dalla capacità di persuasione della persona che si fa chiamare John.
I volti delle ragazze, ancora con quello sguardo terrorizzato e i muscoli in tensione, bloccate per sempre in quel momento di morte, mi fanno sempre raggelare il sangue nelle vene e tutto ciò che conosco come stabile nella mia vita crolla inevitabilmente, dondola, sotto il peso di tanta malvagità.
E il mio cuore perde un battito, o anche di più, se solo penso che al posto loro potrei esserci io.
Cosa che, avvicinandomi a Jane, rischia sempre di più di trasformarsi in fatale realtà.
Io odio la morte, fin da quando ero bambina l’ho sempre odiata profondamente e ho sempre sperato di poter esprimere un desiderio, l’unico e solo, poter vivere per sempre con le persone che amo. Bé, ma ero una bambina e quale bambina, che si vede morire la madre, non vorrebbe poterla rivedere e riabbracciare, per sempre?
Sì, insomma, la religione ci insegna che dopo la morte inizia la vita eterna, la vita fatta di essenza e purezza., di anime al fianco di Dio e tutti insieme con le persone amate.
Sì, ma religione significa fede e fede fiducia. Io credo, voglio credere che un giorno che queste povere donne possano avere un riscatto. Come può una persona essere sicura? Io voglio esserlo, e lo sono, a volte, perché così mi è stato insegnato.
Da bambini si crede a moltissime cose...
Alle fate, ai folletti, ai topini dei denti, ai lupi mannari, a Dracula, a Babbo Natale, alla Befana e a tutte quelle cose che i bambini credono fermamente siano vere.
E da grandi, anche se non lo si ammette continuiamo a sognare e a credere in qualcosa che renda la realtà un po’ meno prevedibile.
 
Mi alzai dal cadavere e feci segno al dottore di ricoprire il cadavere.
Jane l’aveva già visto e adesso si muoveva per la stanza con una mano su un fianco e l’altra a massaggiarsi il mento, picchiettando con un dito sulle labbra.
Gli posai una mano sulla spalla, passandogli accanto.
-Andiamo, prendiamo un thè.- gli dissi
-Sì, forse è meglio.- mi rispose, vacuo, schiarendosi la gola.
Lo guardai, mi faceva pietà. In momenti come quello mi sentivo così piccola in confronto all’amore che doveva aver provato nei confronti della moglie e della sua piccola e innocente figlia che mi sarei messa a piangere. Ma non per me, per lui, che aveva perso le due persone a cui forse teneva di più al mondo, e se ne dava la colpa.
Mi sentivo in colpa per come non potessi essergli accanto quanto avrei voluto, non potevo consolarlo o dirgli chissà cosa. Perché in primo luogo lui si sarebbe chiuso maggiormente e io non sapevo proprio come fare.
In quei momenti era un involucro vuoto, non potevi fare niente per riempirlo. Un involucro vuoto e bucato, ferito. Un uomo divorato dalle fiamme.
Logorato dall’interno da una colpa che non è sua, che non lo è più; un uomo che si regge in piedi con il solo desiderio di vendetta, un ombra. Polvere.
Poche volte posso dire di averlo visto in questo stato. Effettivamente la vittima era molto simile a sua moglie, io vidi una foto di Angela nel fascicolo di Jane, quando mi venne affidato da Minelli come consulente. Capelli biondi sbarazzini, tendenti all’ambra, fisicamente scultorea.
La vittima era anche piuttosto giovane. Era come se John avesse voluto ricreare un mix tra la moglie di Patrick e la figlia. La ragazza uccisa avrà avuto sì e no 17 anni... dieci più di Charlotte, dieci meno di Angela.
Quell’uomo era un pazzo sadico.
Secondo Jane la scelta era ricaduta su quella ragazza perché il padre era un trafficante di medicinali di contrabbando, che si arricchiva senza sosta sfruttando la malattia altrui. Ciò che non confessava, però, era di aver perfettamente colto l’allusione alla sua famiglia.
Lavorando per anni con un uomo che legge nel pensiero inizi a interpretare i segni, e il suo modo di porsi, così stanco e vuoto, dava chiaro sfogo a ciò che portava dentro. Un grosso macigno insormontabile.
Sapevo che se ci fossero stati i ragazzi lui non sarebbe stato così giù, o non lo sarebbe stato così vistosamente.
Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Negli ultimi tempi avevo istaurato un rapporto ancora più maturo con la mia squadra, adesso eravamo amici, non solo colleghi.
Ero sicura che Kim mi avrebbe ascoltata, senza commentare o sfruttare la chiamata per cazzatine varie come avrebbe fatto Wayne.
O pettegolezzi come avrebbe fatto Grace. Kim ascoltava, ed era un dato certo. Era la seconda persona con cui Jane era più sincero, dopo di me.
Un uomo mite e sincero, Un uomo piuttosto equilibrato. Kim conosceva/aveva intuito la simpatia spinta che provavo nei confronti del biondo dannato ma non diceva mai niente che potesse imbarazzarmi o potesse farmi male in qualche modo.
Certo, i suoi discorsi erano sempre molto criptici, ma decisamente veritieri e reali.
Ed era sempre pronto ad immolarsi per me o Jane.
“Capo credo sia meglio se va a casa, è stanca. Resto io in ufficio”
E io, come sempre, rispondevo “grazie Kim, ma smettila di chiamarmi capo!”
E lui “Va bene, Teresa”
Ma, sistematicamente, il giorno successivo ero di nuovo “capo”. Aveva un profondo senso di rispetto e educazione, ma era quel che si suol dire “un uomo con gli attributi”
Pensai seriamente di chiamarlo, più tardi, per chiedere informazioni su come andasse in città e raccontare qualche svolgimento. Probabilmente sarebbe stato in grado di dirmi qualche semifrase del tipo “Sono cose passeggere, capo. Tutto passa. Solo alcuni momenti restano.”
Profonde, basilari.
Ma mi bastava alzare lo sguardo sull’uomo dai capelli biondi e scompigliati di fronte a me, per perdere ogni attrattiva verso le possibilità future. E il mio morale si disfaceva come il suo.
La differenza era che tra me e Jane quella ad “avere le palle” ero io. In senso prettamente metaforico.
Sono certa che Jane fosse un uomo meraviglioso prima che la sua famiglia venisse sterminata.
-Non ero la bella persona che credi io fossi.-
Alzai gli occhi al cielo, era incredibile. Ma non ribattei, non era il momento.
-Ero spesso freddo, distaccato. Non ero una persona sentimentale, cosa che sono diventato, ero decisamente troppo sicuro di me stesso. Adesso sono molto più insicuro. Ero pieno di difetti, né più ne meno di quanti ne abbia adesso. Sono solo divesi.-
Ero ancora di qualche passo dietro di lui, quindi lo vidi quando iniziò a sbandare da una parte all’altra della strada. Gli corsi incontro prima che finisse sotto una macchina e lo spostai con uno strattone.
-Ma ti sei rincretinito tutto insieme?!-
Alzai lo sguardo verso i suoi occhi, oltre ad essere offuscati dalle lacrime avevano un qualcosa che non mi convinceva affatto, la pelle del viso aveva un pallore insano e i capelli avevano un aspetto spento. Avevo imparato a osservarlo bene e quello non era un comportamento da Jane.
-Tu non stai bene.- affermai, sorreggendolo
-È solo un po’ di mal di testa, sto benissimo, Teresa.-  ma nel dire l’ultima parola si portò di scatto una mano alla tempia e se la massaggiò, mentre tratteneva un “ahi”
-No, non stai assolutamente benissimo. Non mi svenire, Patrick, per favore, ok? Lo vuoi un tè?-
-Sì, un tè, ok.- lo trascinai fino alla macchina e iniziai a guidare verso l’albergo
Ad un certo punto gli si chiusero gli occhi  e gli cadde la testa sullo sportello.
-Merda!- ansimai
Mi fermai in mezzo alla strada e abbassai il finestrino e mi sporsi verso una donna che passava con un bimbo per mano e le chiesi dove potessi trovare un ospedale vicino.
-La clinica più vicina è a un isolato da qui, accanto alla scuola superiore. Segua questa parallela e giri a destra dopo due semafori, troverà le indicazioni.-
Ringraziai frettolosamente e corsi all’impazzata seguendo le indicazioni della donna, intanto Jane non riprendeva conoscenza.
-Stupida femminuccia, guarda tu che mi combina! Cazzo, Jane, riprenditi, per favore. Apri quei begli occhi cerulei, dai.-
Niente, arrivai davanti alla piccola clinica e parcheggiai con una derapata sull’asfalto bagnato.
Uscii dal mio sportello richiudendolo con uno scatto e girai intorno alla macchina, aprendo lo sportello del passeggero, ma per poco Jane non mi cadde tra le braccia. Pioveva a dirotto. Provai a schiaffeggiarlo, mentre con un braccio tenevo l’ombrello. Niente. Mi venne in mente l’acqua, così chiusi  l’ombrello e glielo aprii di scatto davanti alla faccia. Le goccioline, che gli arrivarono in faccia fredde e con la velocità di un missile lo fecero riprendere un po’.
-Muovi il culo siamo all’ospedale!- gli dissi
-Sì, buona idea. Sai, tutto sommato non sto troppo bene.- rispose e posò una mano sulla mia spalla, per reggersi.
Lo portai dentro l’ospedale e chiesi all’infermiera di farlo sdraiare su un lettino.
La mia richiesta fu esaudita e presto Jane fu portato in una stanza con altre poche persone fondamentalmente sane, prendeva e perdeva conoscenza e io gli tenevo la mano. Tentando di mantenerlo sveglio.
Quando l’infermiera mi disse che si era addormentato e che per il momento non presentava anomalie mi calmai, ma le intimai di farmi avere al più presto il miglior dottore della struttura per Patrick e un aspirina per me, dato che nel frattempo mi era venuta una forte emicrania.
Quando presi la pasticca e fui informata che tra poco più di due ore avrebbe iniziato il suo turno il primario della clinica tirai un sospiro di sollievo e mi concessi un piccolo sonnellino, stringendo e accarezzando la mano a Jane.
Non so quanto dormii, ma fui svegliata da un tocco fresco sulla spalla, leggero.
Sbattei piano le palpebre e aprii gli occhi. Ero sdraiata con la faccia sul braccio di Patrick e mezza cadente dalla sedia.
-Mi scusi se la disturbo, ma mi intralcia il paziente.- dalla voce sembrava che stesse sorridendo
Mi alzai velocemente –Mi scusi.- dissi
Alzai lo sguardo verso il dottore e rimasi sbalordita di riconoscere l’uomo alla guida della macchina nera metallizzata di quando eravamo arrivati a Forks.
Da vicino era davvero spettacolare, affascinante ed estraneo.
I capelli di un biondo quasi inconsistente incorniciavano un viso che sembrava di un'altra epoca, lontano ed fuori dall’ordinario, ma aveva un’aria talmente buona e umanitaria che non potei fare a meno di sorridere. E quegli occhi, color topazio, erano davvero strani.
Sorrisi e gli porsi la mano, per stringergliela.
-Sono Teresa Lisbon, il capo della squadra che indaga sulla donna uccisa qui in città.-
L’uomo mi rese la mano me la strinse, aveva la mano fresca, anche se portava dei guanti da medico.
-Piacere di conoscerla, sono il dottor Carlisle Cullen. Sono felice che la polizia locale possa avere una mano da delle persone esperte.- e mi sorrise
-Bé, questo è un caso analogo, seguiamo John il Rosso da anni, suppongo ne abbia sentito parlare...-
-Sì, spesso. Siete sicuri che sia stato lui.-
-Diciamo che lui...- e indicai Jane -... ha avuto un incontro piuttosto ravvicinato con l’assassino ed ha capacità di osservazione molto utili. Penso che potrebbe aver sentito parlare anche di lui, Patrick Jane.-
Il medico parve pensarci qualche secondo poi sul suo volto passò un ombra di pietà.
-Il sensitivo che ha perso moglie e figlia?-
-Lui.-
Annuì pensoso e poi si avvicinò al lettino dove stava Patrick.
-Allora, signorina Lisbon, mi dica che è successo al suo collega.-
-Non saprei esattamente, stavamo camminando verso la macchina dopo essere stati a visitare la scena del delitto. Aveva mal di testa ed ha iniziato a sbandare, poi mi è svenuto in macchina. Credo che sia dovuto alla somiglianza della vittima con la moglie e la figlia.-
Il bel dottore mi sorrise di nuovo
-Ha mangiato qualcosa?-
Ci pensai
-Credo... sull’aeroplano, siamo arrivati qui verso le quattro, immagino che abbia pranzato, io ho dormito. Quest’uomo ha la dannata facoltà di entrare nella mia testa...-
-Entrare nella sua testa.- sembrava interessato in modo particolare che non riuscivo a concepire.
-Bé, diciamo che è bravo a leggere le persone, e a volte fa dei giochetti mentali come ipnotizzare i sospettati per farli confessare, ma, ecco, secondo me legge nel pensiero… sì, insomma, si fa per dire, non è possibile farlo, però a volte sembra che lui ci riesca davvero…- perché avevo detto tutto ciò? Probabilmente l’effetto ipnosi non se n’era del tutto andato
-Interessante soggetto.- e nel frattempo annuiva.
-Cosa crede che abbia?- chiesi, tornando al discorso principale
Mi guardò comprensivo
-Non si deve preoccupare, credo che il cibo dell’aereo non gli abbia fatto bene e che la vista del cadavere abbia incrementato la sua piccola agonia. Ma si rimetterà.- nel frattempo gli sentiva il polso. Ero stata tanto lamentosa nella domanda? Mi diedi della scema mentalmente.
Jane aprì gli occhi al suo tocco e si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse.
-Liz? Lisbon dove siamo?-
-In ospedale Jane. E sta zitto e fermo che il dottor Cullen  ti sta visitando. Sei un deficiente, perché non mi hai detto che non stavi bene per colpa del cibo dell’aereo?-
In tutta risposta, per conferma, appena nominai il cibo dell’aeroplano si contorse come per reprimere il rigetto.
-Tu e la tua stupida fobia dei dottori!- dissi, incrociando le braccia al petto e guardandolo storto
-No, Teresa, io sono allergico alle regole, non è il problema di dottori.- disse, con quel suo sorriso sghembo mozza fiato.
Non lo degnai di uno sguardo, anche se ero segretamente sollevata dal fatto che si sentisse meglio e che non fosse nulla. Oltre che avesse finalmente riaperto gli occhi e mi avesse fatto rivedere quei pozzi verdazzurri.
-Dottore quanto crede che dovrà rimanere in osservazione?-
-Uhm… credo che non ne abbia bisogno, semmai massimo una notte. Ma se firma la liberatoria può uscire subito.-
Vedendo Jane che già si alzava dal letto gli lanciai un occhiataccia.
-Credo che sia meglio se rimani in osservazione per un'altra oretta, poi ti faccio uscire, devi imparare a smettere di nascondermi le cose! Sei un immaturo!- dissi indicando in modo molto eloquente il letto.
Il dottor Cullen rise ma non si espresse.
Mi posò una mano sulla spalle e mi salutò cordialmente, e salutò anche Jane.
Era un uomo simpatico, molto.
Mi pareva proprio una brava persona, di quelle di cui ci si può fidare.
-Teres...-
-A cuccia! Zitto, fermo e implora perdono. Poi ti libero!-
Alzò le mani al cielo e mi sorrise. Il massiccio peso sul mio cuore si dissolse d’un tratto e mi sentii molto meglio.
La crisi depressiva era passata.
Mi ritrovai a sorridere mio malgrado e mi sedetti sulla sedia accanto a al lettino, stanca.
Avrei dormito solo un altro po’…










*Dottore di un rosso avverso destino (Dite la verità, non rende meglio in latino??)

Un po' in ritardo? No, via... 
Va bene così!
Adesso ci dobbiamo sbrigare a scrivere il prossimo, ma la scuola...
Vabbé, spero vi siate godute Il dottor Cullen! Ciao care, alla prossima!!
S&R

 

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