Al calare delle tenebre. di bubblin_ (/viewuser.php?uid=110089)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Al Calare delle
Tenebre
Come
uno che, per strada deserta
cammina tra paura e
terrore
e, guardandosi
indietro, prosegue
e non volta mai più
la testa
perché sa che un
orrendo demonio
a breve distanza lo
insegue.
[S.T Coleridge]
13 Maggio
1992
Caro Richard,
stiamo partendo.
Io e tua
figlia abbiamo preso questa decisione
dopo che hanno bruciato la casa, con noi dentro. Sono sicuro che siano
stati loro. Non c’è altra spiegazione, i
vandali che si vogliono divertire non vengo nel pieno del bosco per dar
fuoco a
case. Sono loro. Probabilmente
stavano escogitando questo piano da un po’ quindi cerca di non
giustificare
l’accaduto con frasi tipo: “ è stato fatto per ripicca” perché sapevano
che noi eravamo lì dentro. Hanno solo atteso
il momento giusto è tutto è esploso nel fuoco. È da quando i bambini
sono nati
che tentato in qualche modo di ribellarsi e io non posso di certo
rimanere
qui, aggiungermi agli altri Cacciatori
con la speranza di calmare la
rivolta con il rischio che Wendy e i piccoli vengano uccisi. L’idea
che, presto
o tardi, ci saranno due Cacciatori in
più a dare la caccia a tutti loro, deve avergli dato alla testa e hanno
scelto
il modo più facile per toglierseli dai piedi: ammazzarli. Il fuoco deve
esser
stato appiccato dalla stanzetta di Lucy. Non so neanche chi
e come sia riuscito ad entrare
in casa, sta di fatto che la bambina
non è stata toccata, semplicemente è stato dato fuoco alla sua camera
con lei
nella culla. Il fuoco è divampato in un attimo e non ho idea di come,
grazie a
Dio, non sia morta. Wendy ha portato David e Andrew verso il bosco
mentre io
sono entrato nella stanza per prendere Lucy ma è stato come trovarsi
davanti
alla bocca dell’inferno. C’èra fuoco e
fumo ovunque, non riuscivo nemmeno a respirare. Non sentivo nemmeno
Lucy
piangere, per un momento ho creduto che fosse morta, e quando è
crollato il
soffitto ho pensato che fosse la fine. Ma in verità il cemento e i
mattoni mi
hanno aperto un varco nel fuoco e sono riuscita a prenderla e portarla
via, al
sicuro. Era viola in faccia, non respirava nemmeno più, poi
improvvisamente si
è ripresa. Meglio così. A neanche tre mesi di vita ha rischiato di
morire
mentre i suoi fratelli l’hanno scampata per un pelo. Capisci ora perché
partiamo? Ne io ne tua figlia vogliamo far crescere i nostri figli in
un luogo
così, dove a ogni movimento nell’ombra, la paura che qualche demone
sputato
dall’inferno venuto a far del male ai nostri figli ci assalga. Sai bene che dare la caccia a vampiri, demoni
e altri mostri non mi ha mai attratto e sebbene sia stato educato così
fin da
piccolo, non voglio far lo stesso con Andrew e David. Il gene del Cacciatore è qualcosa che hanno nel
sangue sia da parte della mia famiglia che da quella di Wendy, la tua,
è
qualcosa che fa e farà parte di loro per sempre , per questo una volta
cresciuti abbastanza non intendo nascondergli niente di questo segreto,
saranno
sempre al corrente di tutto. Ma, da padre, non posso chiedergli di
rinunciare
alle loro ambizioni per impugnare paletti in legno e d’argento. È come
ordinargli di stare dietro una grande vetrata trasparente a osservare i
sogni
degli altri avverarsi, mentre i loro rimangono dietro a guardare.
Saranno loro
a scegliere il loro futuro.
Ora siamo diretti verso la mia vecchia casa in
Irlanda, dai miei. Reputo che sia un posto molto più sicuro, sebbene
anche i
demoni del posto non tardino a reclamare l’attenzione dei Cacciatori
locali.
Avrai capito perché non ti ho detto tutto questo tramite chiamata:
qualcuno di
loro avrebbe potuto sentire e non voglio rischiare.
Wendy ti
vuole bene, e spero che non ti
rammaricherai per questa decisione. Avrò cura di lei, non temere.
Con stima,
Thomas.
Quando Richard
Anderson lesse le ultime parole di
quella lettera, scritta con calligrafia disordinata, fu colto da un
impeto di
rabbia e dolore così potente da farlo cadere per terra, in ginocchio,
proprio
davanti al camino. Ignorò il male alle ginocchia, coperto da un altro
tipo di
cruccio molto più forte. Si sforzò di non far traboccare le lacrime che
rischiavano di scendere lungo le guance e con un urlò disperato
appallottolò la
lettera, gettando la pallina di carta nel camino. Il foglio di carta
prese
fuoco in un attimo, passando velocemente dal tipico color bianco a un
giallo
sbiadito fino al marrone e poi al grigio, sgretolandosi in cenere e
mischiandosi con i carboni ancora ardenti della legna che scoppiettava.
Solo
dopo aver colto l’ultimo granello di cenere che spariva tra le fiamma
si portò
le mani tremanti sul viso, piangendo sommessamente.
La scena, per tutto
il tempo, venne osservata da
un giovane ragazzo, seduto aggraziatamente su un ramo di un albero poco
lontano
da casa, ai margini del bosco. Dopo aver socchiuso gli occhi,
riducendoli a due
fessure, si guardò intorno circospetto, assicurandosi che nessuna delle
case
vicine avesse luci accese poi, ignorando i quindici metri di altezza su
cui era
sospeso, si buttò giù senza timore, atterrando in modo spaventosamente
aggraziato e disinvolto sulle punte dei piedi, senza produrre nessun
rumore ,
sul prato secco e gelato. Quasi come fosse un animale predatore, si
acquattò un
poco e respirò a pieni polmoni l’aria fredda della notte, in cerca di
qualche
odore. Non captò nulla di anomalo, se non un gruppo di cervi a qualche
chilometro di distanza, verso il William River. Soddisfatto di ciò che
aveva
appena osservato nella casa, sorrise, poi sbuffando – nessuna nuvola di
fiato
gli usci dalla bocca – si incamminò con una camminata flessuosa e
sicura di sé
verso il bosco nero, sparendo nel buio.
Ooook, se siete arrivati fino alla fine senza
avere attacchi di vomito, conati di nausea, giramenti di testa e nei
casi peggiori attacchi al vostro apparato crasso, è un buon segno. =)
Questa sarà una long - fic.
Come
prologo è penosissimo e probabilmente poco chiaro e confuso ma da una
parte volevo che fosse proprio così. L’ho scritto in un momento di
fantasia e dopo che ho riletto tutto, l’idea di scrivere qualcosa mi è
piaciuta più di quanto immaginassi.
Se tutto
questo può interessarvi fatemi sapere che magari posto il seguito. =)
Mi raccomando,
recensite. Please?
Bacio.
Bubblin_
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Prima di tutto i ringraziamenti a
Laudica_2204:
grazie per aver trovato il prologo interessante e x aver reputeto la
storai degna di essere letta. Questo capitolo lo " dedico" a te!! xD
CAPITOLO UNO – QUESTIONE DI
SGUARDI
16
anni
dopo…
12 Settembre 2008
Spalancai
gli occhi di colpo, sobbalzando involontariamente e scattando in
avanti, quasi pronta a scappare. Un uomo stempiato, sulla cinquantina,
seduto accanto a me, mi guardò stupito attraverso i suoi occhiali
spessi come un fondo di bottiglia. Nonostante fossi imbarazzata lo
guardai fisso negli occhi, come a chiedergli che cosa avesse da
guardare. Lui a
disagio scrollò le spalle e ritornò a leggere “ The Irish Times”. Alzai gli occhi al
cielo, infastidita del fatto che la gente si mostrasse sempre così
curiosa, poi con un sospiro mi appoggiai allo schienale del sedile,
guardando fuori dal finestrino. Nonostante cercassi con tutto il cuore
di perdermi nel candore delle nuvole, continuai a pensare all’incubo
che mi aveva fatto svegliare di soprassalto. Sempre lo stesso
soffocante e monotono incubo. Fuoco e fiamme ovunque. E poi del fumo,
così denso da farmi credere che fosse nebbia. Di per se come incubo non
era niente di che, ma erano le sensazione che quel sogno mi dava che mi turbavano.
Andavo a fuoco. Sapevo di andare a fuoco. Il calore
sulla mia pelle era così vivo da darmi l’impressione che fossi
una falò vivente. E
poi il fumo, la parte peggiore. Cercare di respirare, prendere boccate
d’aria e tentare di aprire i polmoni sempre di più ottenendo fiato in
meno. Era più o meno verso quella parte di sogno che mi svegliavo di
soprassalto. In quel momento però mi sarei riaddormentata più che
volentieri, disposta anche a subirmi lo stesso incubo pur di scappare
da ciò che stavo affrontando: partire dall’Irlanda, da casa mia.
Abbandonare la costa frastagliata, il mare, quell’odore di salsedine
che la mattina mi svegliava. Abbandonare gli amici. Abbandonare
Dublino, per andare verso Maddlemburg, nella Virginia dell’ Ovest. Da
mio zio. Non avevo possibilità, non dopo che mia madre neanche un anno
fa era morta in un incidente stradale. Quella scelta me l’avevano
proposta i miei fratelli maggiori, David e Andrew, dopo che eravamo
rimasti soli e senza un vero adulto che badasse su di noi. Secondo la
Legge, in quanto maggiorenni, loro due avrebbero potuto perfettamente
badare a me, la sorellina più piccola, ovviamente mettendo da parte le
loro ambizioni per il futuro, cosa che ne loro ne io eravamo disposti
ad accettare. Ingoiando il boccone amaro avevo aspettato che finisse
l’estate per fare i bagagli e trasferirmi in America, giusto il tempo
di compiere diciottanni ed essere responsabile solo di me stessa, in
modo da poter tornare a casa. In quel momento, uno dei pochi, desiderai
un padre. Sapevo che era sciocco come desiderio, visto che in tutti i
miei quasi diciassette anni di vita non
ne avevo mai desiderato ne voluto – ne
avuto – uno. Non sapevo
nemmeno che faccia avesse e non mi ero mai preoccupata di chiedere chi
fosse; del canto suo mia madre non era molto loquace su quell’argomento: tutto
cio che sapevo e che quando non avevo nemmeno un anno di vita se n’era
andato, lasciandoci soli. Non che fosse un problema visto che le nostre
risorse economiche erano più che imponenti ma di tanto in tanto
capitava anche a me di desiderarne uno. Colta da un improvvisa
sensazione di vuoto chiusi gli occhi permettendomi per un attimo di
versare qualche lacrima.
***
Maddlemburg è una piccola e poetica cittadina fondata verso il 1700 da
alcuni coloni inglesi, tra cui gli antenati della mia famiglia, in una
desolata valle in mezzo ai boschi. Nonostante la posizione isolata e le
dodicimila persone che la popolano, la città è sempre stata
caratteristica, per via dei tipici Quartieri Alti distinti dalle
villette inglesi e per il Vittoriano, un quartiere frequentato
soprattutto dai giovani per via delle strade ricche di vita notturna.
Io, per mia sfortuna non avrei abitato in nessuno dei quartieri: la
grande villa inglese di mio zio Johnny, una volta appartenuta ai miei
nonni, si trovava ai margini del fitto bosco che circondava tutta la
città. Non avevo mai capito perché secoli prima avessero deciso di
costruirla nel bel mezzo del nulla, forse per poter permettere
all’architetto di dar sfogo alla sua idea di maestosità: per quel che
mi ricordavo la villa era magnifica e imponente. E quando i miei nonni
avevano deciso di partire per la Florida, più o meno quando mia madre
ci aveva portato via da quella città, mio zio era stato più che felice
di ereditarla. Era facile andare d’accordo con il fratello di mia madre
– era un uomo solare a cui piaceva divertirsi senza imporre troppe
regole – ma da quando aveva divorziato dalla mia adorabile zia Diana e
dalla mia cunetta Kim, i rapporti si erano tesi, almeno da parte mia.
Nella mia testa mi sembrava di vederripetersi lo stesso
errore che, probabilmente, mio padre aveva fatto con me e con mia
madre. Inoltre quella casa me la vedevo decisamente vuota e enorme,
soprattutto ora che avremmo convissuto solo noi due – non contando le
cameriere che lavoravano per la nostra famiglia. Nonostante i miei
dubbi su quella forzata coabitazione, Johnny si era comportato in modo
impeccabile, una volta venuto a sapere del mio arrivo in città.
Sembrava fargli piacere il fatto che avessi messo da parte i vecchi
rancori che nutrivo verso di lui – cosa che, per la cronaca, non avevo del tutto fatto – per
poter passare un po’ di tempo nella vecchia città natale. Mi aveva già
iscritto a una scuola e si era preoccupato di sistemare al meglio la
cameretta che una volta era appartenuta a mia madre. Proprio mentre
l’aereo atterrava, mi dissi, anche se il termine esatto sarebbe mi imposi, che mi sarei
comportata nella maniere più adatta che una sedicenne potesse fare, in
modo da poter passare serenamente i mesi di purgatorio che mi
attendevano a Maddlemburg. Suonava assurdo perfino alle mie orecchie,
ma stranamente, quando vidi Johnny che mi attendeva all’uscita del
check-in, riuscì a rivolgergli un sorriso fugace, prima che lui mi
stringesse in un soffocante abbraccio. Spiazzata, lasciai le braccia
inerti lungo i fianchi, per poi battergli dei colpetti sulla schiena,
imbarazzata.
« Finalmente
sei arrivata » mi
disse allontanandosi un po’ da me, per potermi guardare.
« Sempre
uguale, sempre più bella. »
Era strano ricordarsi perché gli portavo
rancore, quando si comportava in modo così naturale. Guardarlo mi
ricordava l’infanzia, dove mi divertivo a stargli sulle spalle. Sentii
una sorta di calore, e sorridere questa volta venne in modo molto più
naturale.
« Grazie
zio. Anche tu non sei cambiato molto. »
Johnny mi ricordava gli eterni bellocci,
quegli attori delle serie Tv che si divertivano a fare conquiste in
giro, nonostante avessero alle spalle un bel po’ di anni. Ma in questo
caso, lui come loro, poteva permetterselo: nonostante i quarantacinque
anni passati, mio zio era ancora avvenente, con i capelli color
cioccolato, e
un viso dalla pelle abbronzata, che sembrava non avvertire il peso
delle rughe che cominciavano a spuntare.
« I
tuoi fratelli? »mi domandò, togliendomi dalla mano il
grosso trolley che mi stavo trascinando dietro.
« Stanno
bene. »
Chiedendomi della mia famiglia mi ricordai della sua.
« Kim
ela zia stanno bene? » domandai
titubante, nonostante sapessi che le visite tra lui e sua figlia
fossero molto rare.
Strinse le labbra. « Si,
credo di si », mi rispose, dando conferma ai miei
dubbi.
Cercai di mettere a tacere il fastidio dovuto a quella risposta
seguendo Johnny verso l’uscita. Improvvisamente avverti una strana
sensazione, come se qualcuno mi fissasse. Mi fermai, lasciando Johnny
che continuava a camminare, e mi guardai intorno sempre più confusa,
aspettandomi di vedere qualcuno che mi guardava. Niente. L’aeroporto,
nonostante l’orario notturno, era pieno di persone troppo indaffarate
nei loro lavori per fermarsi a guardare proprio me. Eppure ero convinta che mi stessero guardando.
Testardamente socchiusi gli occhi, come per concentrarmi meglio e
ispezionai un ultima volta l’aeroporto, stavolta con occhiate più
attente. Il mio sguardo si incontrò per un attimo con quello di due
occhi grigi magnetici, che mi catturarono come una calamita. Al posto
di voltarmi come una qualsiasi persona normale, rimasi imbambolata a
fissare il proprietario di quegli occhi, che incuriosito quanto me,
ricambiava le attenzioni. Nonostante fosse a una ventina di metri di
me, riuscivo a cogliere ogni particolare del suo corpo. Dio era
…meraviglioso. Degno di sfilare su una passerella di moda a New York.
Giovane, non dimostrava più di diciannove anni, era alto e magro, ma
comunque muscoloso. Mi sembrava di vedere i muscoli delle braccia
contrarsi sotto le maniche della camicia nera, arrotolata fino ai
gomiti. Il viso era dalla classica forma un po’ squadrata, con i
lineamenti dritti e perfetti, dalla bellezza incontestabile. I nostri
occhi si incrociarono per la seconda volta, e dal suo guardo fremente
notai che anche lui mi aveva squadrato e sembrava avesse apprezzato ciò
che gli era davanti. Con il respiro improvvisamente corto, lo continuai
a fissare con occhiate trasversali, sostenendo il suo sguardo, un po’
coperto dai alcuni ciuffi capelli castani, portati in un taglio un po’
lungo.
Tutto accadde tutto molto velocemente. Un attimo prima stavo
perfettamente bene e un attimo dopo ero piegata in due su me stessa,
con la testa che scoppiava. Mi sembrava di avvertire mille e mille
ultrasuoni nella testa, che si sovrapponevano tra loro. Se una parte
del mio cervello non mi avesse ricordato che mi trovavo in un luogo
pubblico mi sarei messa ad urlare, così mi limitai tenermi la testa tra
le mani e a gemere sotto voce. Il rumore continuava ad aumentava sempre
di più, così come tutti i suoni intorno a me. La testa iniziò a
pulsarmi e dolermi sempre di più e cominciai a pensare che da un
momento all’altro potesse esplodere; strinsi la presa della testa,
nella speranza che la pressione facesse cessare un po’ il dolore.
Sentii la voce allarmata di Johnny di fianco a me.
« Lucy,
Lucy. » La
voce era agitata, e non faceva che irritarmi di più. « Stai
bene? »domandò preoccupato.
Se mi fossi trovata in un'altra situazione, gli avrei risposto con una
battuta sarcastica. Un'altra potente fitta si fece sentire nella mia
testa, le orecchie cominciarono a fischiare, come se qualcuno si
divertisse a passare delle forbici su una lavagna. Gemetti un po’ più
forte. Ecco, adesso esplode,
pensai. D’un tratto silenzio. Non c’era più un rumore, a parte il
classico vociare in sottofondo, tipico dei luoghi affollati. Confusa e
spaventa rimasi ancora piegata su me stessa, senza allentare la presa
sulla testa.
« Ehi! » esclamò
Johnny al mio fianco, « che
ti è preso? »
Rimasi in silenzio, senza rispondere alla sua
domanda, e mi rimisi dritta lentamente, con la paura che un altro
movimento brusco potesse causarmi un'altra di quelle strane fitte alla
testa. Mi voltai a guardarlo, con una lentezza che infastidiva perfino
a me, ancora frastornata . Nella mente contai fino a dieci, per darmi il tempo di riordinare le
idee. C’èra un ragazzo bellissimo, laggiù, appoggiato a una colonna, ci
stavamo guardando e poi…
« E
poi? »mi incitò mio zio.
Lo guardai nuovamente scombussolata. Non mi ero resa conti di aver
parlato a voce alta, ma cercai di non badarci.
« Poi… » mormorai
tra me e me massaggiandomi gli occhi, cercando una scusa abbastanza
convincente da spiegare cosa mi era accaduto. « Ho
incominciato a sentire gli ultra suoni come i pipistrelli!” esclamai.
Johnny mi guardò un attimo incredulo poi mi scoppio a ridere in faccia.
Rimasi scioccata a guardarlo, con una vampata di rabbia che si
diffondeva nel corpo.
« Non
sto scherzano… » mugugnai,
cercando di tenere a freno l’ira. Odiavo quando la gente non mi
prendeva sul serio. « Se
questo è il vostro comitato di benvenuto che avete in città, allora
fareste meglio a rimodernarlo. »
La mia battuta non era niente di che, ma
sembrò divertire ancora di più Johnny. La sua risata però aveva un
suono falso, come se cercasse di mascherare qualcosa. Non stava ridendo
perché trovava divertente quello che mi era successo, al contrario
sembrava crederci ma era come se volesse portare il discorso su un
altro argomento.
« Riferirò », disse ancora sogghignante.
Gli lanciai un sorriso tossico, ancora imbronciata, e mi girai verso il
giovane, cercando di capire cosa avesse messo in moto i rumori e tutto
il resto. Dopo un momento di smarrimento, mi voltai a destra e sinistra
con scatti frenetici. Era sparito. Così come la mia rabbia, sostituita
dall’incredulità. Non c’era traccia del tipo misterioso. Ma era
impossibile. Cavolo, era impossibile che in quei secondi di agonia che
mi avevano sopraffatto, una persona potesse sparire. Johnny si accorse
del mio sguardo, che vagava da un angolo all’altro dell’aeroporto.
« Chi
stai cercando? » mi
domandò, stavolta senza traccia di ironia nella voce.
Riposi continuando a cercare nella folla. « Non
stavo scherzando quando ti ho detto che c’era un ragazzo. Ci siamo
guardati per un po’ e poi improvvisamente… Bum! »
Mi sentivo stupida a dare una spiegazione così pietosa , ma ero sicura
di non aver immaginato niente.
« Bum? » chiese
scettico Johnny.
« Gli
ultrasuoni. » Mi
toccai la fronte, come se non fosse abbastanza chiaro.
« Ah,
giusto…»
Dopo un’ altro momento di silenzio
imbarazzante, si decise a farmi domande sull’accaduto.
« Com’era questo ragazzo? » domandò
improvvisamente avido di sapere.
Il mio sguardo si accese. « Era…
bellissimo» affermai. « Alto,
viso stupendo, capelli castano scuro un po’ scompigliati » dissi,
scuotendo un po’ le mani, come per mimare la sua chioma ribelle. « E
due occhi grigi magnetici. » A
ricordo degli sguardi che mi lanciava, tutt’altro che casti, provai
brividi sulle braccia.
Socchiusi un attimo gli occhi e quando li riaprii l’espressione di mio
zio mi sorprese. Non era più divertita, al contrario sembrava tesa e
nervosa.
« Forza,
sbrigati. Dobbiamo andare » disse,
improvvisamente frenetico.
« Perché? »
Non capivo. Un attimo prima se la rideva come un matto, per un argomento
tutt’altro che divertente, e ora sembrava impaziente di andarsene da lì.
« Perché…
perché…» balbettò,
cercando di trovare una scusa abbastanza convincente.
« Perché
sono già le nove di sera, e guidare al buio non è prudente e… » parlava
talmente in fretta che le parole si rincorrevano da sole. « Ci
vogliono quasi due ore per arrivare a Middlemburg e inoltre presumo che
tu sia stanca. » Concluse
la lista delle scuse con aria trionfante, anche se aveva pronunciato
tutto boccheggiando. In effetti ora che me l’aveva fatto notare, ero
stanca. Il viaggio mi aveva spossata parecchio ma mi limitai a
guardarlo con aria dubbiosa, poi, per evitare polemiche mi limitai a
mormorare un « Ok. »
Johnny sembrava quasi correre verso l’uscita, nonostante fosse a pochi
metri da noi. Io,
dietro di lui, cercavo di stare dietro al suo passo veloce con un
espressione in viso basita. Era impossibile che la semplice descrizione
di un ragazzo avesse potuto far scattare così una persona, spaventarla
a tal punto da farla correre verso l’uscita per dirigersi lontano da
lui. Qualcosa mi puzzava.
Durante il viaggio in macchina, non potendo ammirare il panorama dato
l’orario notturno, mandai un messaggino a David e Andrew, tralasciando
certi particolari, e poi mi misi a pensare all’ accaduto nell’aereo.
Non ne venni a capo. Tutto ciò che era successo, non dimostrava niente.
Alla fine, per non vedermi come una pazza, mi dissi che quel mal di
testa improvviso, era solamente causato dallo stress e dalla stanchezza
del viaggio. Avevo bisogno di aria fresca per calmarmi e schiarire un po’ le idee,
così abbassai il finestrino dell’elegante Mercedes Nera e respirai a
fondo, mentre venivo travolta da quel vento che mi riempiva i
polmoni. Sentire l’odore di pini, tigli e al posto del
classica aria salmastra di Dublino, mi scatenò immediatamente una
tempesta emotiva. Prendere una boccata d’aria si rivelò una pessima
idea. Avrei voluto tanto spalancare la porta dell’auto e scendere,
farmela di corsa fino all’aeroporto e tornarmene a casa. Non mi
importava se ora ero su un autostrada buia e silenziosa, nel bel mezzo
del nulla. Sarei
andata anche su un monopattino se fosse stato necessario. Per un
momento titubai, la mano si era poggiata già sull’apri-porta. Di nuovo
le lacrime minacciarono di cadere, e l’ultima cosa che volevo era
piangere, soprattutto in presenza di Johnny. Sprofondai nel sedile,
tirando su con il naso, pensando a quanto fosse stata stupida
quell’idea. Per i rimanenti minuti di viaggio, passai in rassegna tutti
i nomi delle ultime canzoni estive. Quando arrivammo a Maddlemburg
erano già le undici passate. Le strade erano affollate di bancarelle e
gente e così Johnny, per risparmiarsi il classico traffico per
affollamento deviò per stradine e vicoli, che ci fecero risparmiare
tempo. Una volta attraversato Hawley Boulevard, tipica zona residenziale americana, ci
dirigemmo verso il bosco, imboccando una stradina che conduceva verso
il buio più totale. Sentii nascere l’ansia quando, intravidi da lontano
la tenuta degli Anderson. Solo le luci accese mi permisero di vederla
attraverso il fogliame del fitto bosco. Entrammo con la macchina
attraversando il cancello in ferro battuto, fermandoci proprio davanti
agli scalini che conducevano al piccolo portico e di conseguenza alla
porta di casa. Prima di salirli mi presi tempo per osservare quella
costruzione: dai tratti tipici delle costruzioni Tudor, era enorme e
imponente. I mattoni rossi risaltavano nonostante il buio della notte,
mentre da alcune grandi vetrate usciva una luce soffusa. Mi sembrava di
vedere i grossi lampadari pacchiani appesi al soffitto. Respirai
profondamente quando mi trovai “ faccia a faccia” con il portone.
Rimasi impalata, con lo sguardo fisso sul battente, incapace anche solo
di muovere un solo muscolo. In quel momento mi sembrava impossibile
pensare a come ero riuscita a mantenere la calma in aereo o durante il
viaggio in macchina. Ora, tutto mi sembrava assurdo. Mi sembrava di
essere sott’acqua, di avere le orecchie tappate e di non sentire alcun
rumore. Pensare a canzoncine e balle varie per calmarmi non avrebbe
funzionato. Avevo bussato tante volte a quella porta, ma farlo questa
volta sarebbe stato diverso, sarebbe stato come metter piede in un
campo minato, in un territorio straniero e ostile. Sentivo che quello
non era il mio posto. Mi tremarono leggermente le labbra, mentre
tentavo di parlare, senza emettere alcun verso. Sobbalzai violentemente
quando la porta venne spalancata dall’interno e mi trovai faccia a
faccia con Betty, l’anziana governate. La bolla nella quale mi trovavo
venne improvvisamente bucata; fu come svegliarsi da un sogno. Sbattei
un paio di volte le palpebre per riprendermi.
Dopo un momento di palese sorpresa il viso dell’anziana donna si
distese.
« Signorina
Lucy! » esclamò
con la sua vocetta carica di emozione. « È
arrivata. È così bello riaverla qui con noi. » Balbettai
qualcosa che assomigliavano a ringraziamenti, mentre Betty continuava a
parlare, trascinandomi dentro, con Johnny alle calcagna, e lodandomi
con frasi tipo “ è sempre incantevole” o “ci è tanto mancata” . Troppo
presa a osservare la casa, cercai di ricambiare l’accoglienza da reginetta che mi stava riservando, con
complimenti imbarazzati, seppure sinceri.Ovviamente non
c’erano le cameriere, così dopo che risposi ad alcuni domande sui bei giovanotti che erano diventati i miei
fratelli cercai di lanciare un chiaro segnale sbadigliando. Johnny se ne accorse. « Bene » esordì
sfregandosi le mani « la
tua valigia è in camera, insieme a tutte le altre, che hai fatto
arrivare qualche giorno fa. Direi che dato l’orario sia ora di andare a
dormire. »
« Direi
di sì. »
Buttai giù l’ultimo sorso di succo di frutta che mi era stato offerto,
augurai la buona notte a tutti e mi avviai senza parlare verso le scale.
« Hai
bisogno che ti faccia vedere dov’è la camera? » urlò
Johnny dal piano di sotto, una volta finito il rumore dei miei passi
pesanti sui gradini.
« No » risposi
di rimando. Una volta arrivata in camera, volevo deprimermi in santa
pace, sola e senza disturbi. « Mi
ricordò dov’è. » E come non potrei, dissi a me stessa.
Percorsi il lungo corridoio, fino ad arrivare alla vecchia stanzetta di
mia madre, la più isolata di tutte, quella che dava direttamente sul
retro della casa, verso il bosco. La porta era aperta ma la luce era
chiusa, davanti a me solo il buio. Continuavo a guardare dentro, senza
vedere niente, mentre lacrime silenziose mi bagnavano il viso e l’odore
di violetta, lo stesso odore di cui mia madre profumava, mi inondava.
Il mio stomaco si contorse per il nervosismo. Chiusi gli occhi,
timorosa di guardare, e entrai nella stanza, cercando a tentoni
l’interruttore della luce. Contai mentalmente fino a tre, poi apri
lentamente gli occhi. Mi morsi le labbra, mentre sempre più lacrime
scorrevano lungo il volto. Quella camera l’avevo vista mille volte, e
per altrettante mille volte avevo dormito lì, ma quella era la prima
volte che la vedevo dopo la morte di mia madre.Quasi come se violassi
il suo spazio. mi sentii come uno di quei vermi che strisciando si
insinuavano nei corpi degli animali in putrefazione. Ma stare li tra le
sue cose da una parte mi faceva star bene, mi sentivo bene. Tutto era immobile,
sembrava dirmi che lei non se n’era mai andata. Ma la verità era
un'altra, che io lo volessi si o no. Mi sedetti sul grande letto a due
piazze, asciugando con il dorso della mano, l’acqua che mi bagnava il
viso e mi guardai attorno, con un sorriso triste. Si poteva cogliere da
lontano il gusto raffinato di Wendy Anderson. I mobili erano in stile
classico, color verdino chiaro, che risaltavano con i muri gialli.
L’enorme armadio, che riempiva da solo una parete, aveva le ante
aperte, dentro completamente vuoto. Sentii un nodo alla gola
al pensiero di quando mio zio aveva fatto svuotare gli ultimi vestiti
che mia madre conservava per le visite annuali. Per evitare di andare a
dormire con una dose in più di malinconia e nostalgia, mi concentrai
sulla larga maglietta verde scuro che stavo indossando e poi mi misi
subito a letto. Il
sonno mi colpii come una bomba di cannone. Sentivo pian piano la mentre
svuotarsi e il corpo che si rilassava. Decisi che la cosa migliore era
lasciarsi andare. Fu come cadere in letargo. Quella notte feci un sogno
strano: camminavo per le vie di Maddlemburg e venivo osservata da tutte
le persone che riempivano le stradine. La cosa più inquietante e che
tutti avevano lo stesso colore degli occhi. Quel grigio celestiale mi
accompagnò finche non mi svegliai.
OK di nuovo se siete arrivati alla fine
buon
segno! Questo capitolo è noioso, lungo e non succede niente di che, ma
appunto perché
è il primo capitolo, avevo il
bisogno di introdurre un po’ la storia. Cercherò di modificare i
prossimi in
modo da renderli più interessanti. Se vi è piaciuto fatemi sapere che
non sono
sicura che la cosa possa interessare…
Un bacio,
bubblin_
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Posto il secondo capitolo... che magari può essere piu interessante!!!
A voi i giudizi|
2) RITROVATA
Ancora
imbronciata per essermi da poco svegliata, fissavo attraverso la grande
vetrata
della cucina, che dava sulla facciata destra della casa, il cielo
grigio,
pronto a dare pioggia.
Appallottolata
su una sedia, feci un tiro di sigaretta e lanciai una veloce occhiata
al
cellulare, ansiosa, aspettando che o David o Andrew mi chiamassero.
Poggiai il
mento sulle ginocchia, facendo cadere un po’ di cenere dentro il
bicchiere che
avevo trovato come sostituto del posacenere. Alle mie spalle Betty
lavorava
frenetica ai fornelli, silenziosa.
« Non si fuma
in casa »,
disse la voce
rauca e inconfondibile di Johnny alle mie spalle. Non mi voltai
nemmeno, e
rimasi a guardare il cellulare paziente.
«
Ah no? »,
chiesi fintamente ingenua, continuando comunque a fumare.
«No,
soprattutto nei
miei bicchieri di cristallo.»
«
In casa non c’è un
posacenere » mi giustificai, voltandomi a guardarlo.
Lui
mi rispose con un occhiataccia
che io restituii testardamente. In quel momento squillo il cellulare.
Mi
affrettai a spegnere la sigaretta, ormai
alla fine – buttando il mozzicone nel bicchiere - e risposi
affannosamente al
cellulare.
« Pronto? »
dissi impaziente.
«
Lucy sei
in viva-voce! »
David e Andrew lo strillarono insieme.
«
Mi
mancate tanto. »
Lo dissi con un tono tenero e teatralmente triste, anche se in quel
momento
avevo un groppo alla gola. Sentii l’assoluto bisogno di rimanere sola,
cosi mi
alzai dalla sedia pronta a ritornare in camera mia.
«
è la mezza! Fra poco
si mangia! » mi ricordò Johnny.
«
Non ho fame. »
risposi prima di salire di corsa le scale.
«Come
sta andando?»
chiese Andrew quando mi buttai sul letto.
«
Bene, »
mentii. « Voi?»
«
Mah… più o meno. »
mi rispose David. « Le mura di casa sentono la mancanza della
voce di Billy Joe!»
Alzai
gli occhi al cielo e chiacchierammo per un'altra mezz’ora – parlare in
Gaelico
non faceva che ricordarmi di più quanto la distanza tra noi fosse
immensa - tra
battute e risate. Alla fine della telefonata, dove io mi ero persa in
mille
saluti, avevo gli occhi lucidi. La loro mancanza era insopportabile,
come se
qualcosa mi togliesse lentamente l’aria. Faceva male. Desiderai di
nuovo essere
a Dublino per ridere con loro. Mi asciugai in fretta le lacrime,
guardando la
stanza disordinata. Se mia madre fosse stata li in quel momento
probabilmente
mi avrebbe rimproverato su quanto fosse importante mantenere l’ordine.
Quella
era pur sempre camera sua. Quasi mi sembrò di sentire la sua risata,
cos’
simile alla mia… La sua mancanza era diversa da quella che sentivo
verso i miei
fratelli. Il dolore era diverso. Quel
tipo di male era come fumo: ti si attaccava addosso, ti impregnava la
pelle,
non andava più via. Sebbene a Dublino sentissi in modo spaventoso la
sua
assenza c’era qualcosa qui che non
faceva che amplificare quel dolore. E io sapevo bene perché… Scoppiai a
piangere. Mentre davo sfogo ai miei sentimenti, una parte del mio
cervello mi
ricordò che mi stavo comportando da cretina, visto che sapevo fin
troppo bene
che una volta venuta a Maddlemburg, avrei dovuto fare i conti con
episodi
passati che avevo scelto di non affrontare apertamente. Era sbagliato,
soprattutto in questa situazione, ma
non me ne importava un accidente. Dopo vari minuti di lacrime, cercai
di
riprendermi, raccogliendo i rimasugli di rabbia e sofferenza per
chiuderli in
una parte lontana della mente. Ci avrei pensato in un secondo momento
di quella
giornata, nonostante sentissi l’impulso di uscire e di andarmene,
fregandomene
degli sguardi curiosi di chi mi avrebbe visto correre solo con la mia
maglietta
sbiadita. Decisi che la cosa migliore era concentrarsi sul disastro
colossale
che c’èra in quella stanza. Mi sedetti sul palquè chiaro, e cominciai a
svuotare valigia per valigia, disponendo con cura e ordine i vestiti,
suddividendoli in pile ordinate: jeans, t-shirt, maglioni, felpe. Una
volta
terminato il reparto vestiti, passai alla valigia delle scarpe, che
conteneva
almeno una ventina di paia, tra Converse di ogni genere, paperine,
scarpe con
tacco e stivali, che sistemai nella scarpiera vicino alla biblioteca.
Passai
parecchie ore in questa operazione, togliendo e sistemando gli abiti
negli
armadi, riempiendo i cassetti e le grucce. Poi aprii il grosso baule e
cominciai a svuotarlo, tirarando fuori tutte le cose che mi ero portata
dalla
mia villetta di San Diego: svariati libri, tra cui la collezione di
vari
fantasy preferiti, i pupazzetti che i miei amici mi avevano regalato, i
dischi
musicali e, cosa più importante, tutte le mie fotografie. C’e n’erano a
centinai, raccolte in un grosso album pieno di scritte, per ricordare
ogni singolo
momento. Improvvisamente curiosa, come se non avessi visto un migliaio
di volte
quegli scatti, cominciai a sfogliare quel raccoglitore così pieno di
ricordi,
soffermandomi su immagini più significative. Guardai con rimpianto una
che
ritraeva me e Becky, la mia migliore, intente in smorfie buffe. Sorrisi
amaramente. Avrei tanto voluto chiamarla, ma ora lei era ancora in
Italia per
un viaggio studio, e le chiamate extra-continentali costavano troppo.
Magari
quella sera le avrei mandato un e-mail. Passai ad altre foto, finché
non trovai
quella che mi interessava. La più preziosa di tutto l’album, il mio
tesoro. Una
primo piano. Di me e mia madre. . Così simili ma così diverse. Tutte e
due
bellissime in modi differenti. Io e lei condividevamo lo stesso viso
ovale, dal
mento aguzzo, e la pelle chiara, rosata. A differenza però di una
manciata di
lentiggini che macchiavano la mia pelle, sul naso e sulle guancie.
I
capelli di mia madre erano bruni e lisci, si mischiavano con i miei,
leggermente mossi e castano dorato. Ma la differenze che spiccava di
più, erano
gli occhi. Nonostante tutti e due trasmettessero felicità, gioia,
allegria
c’era una differenza di iridi che sfigurava. I suoi, color nocciola,
rassicuravano, ed erano il ritratti dell’autunno. I miei invece,
nonostante
brillassero di contentezza mettevano in…soggezione. C’era qualcosa, in
quel
verde così acceso, così strano, quasi appartenesse a qualche strano
animale,
che intimoriva sempre. Bellissimi, certo, e molto particolari ma…
diversi. Staccai la foto dall’album, per
poterla mettere
sul comodino, una volta comprata una cornice decente e ripresi a
sistemare.
Dopo che la stanza ebbe raggiunto un accettabile stato di ordine, anche
se
c’erano ancora valigie mezze piene sparse per la stanza, mi alzai e
lanciai uno
sguardo all’orologio digitale, poggiato sul comodino.
Le cinque e mezza. Bene, avevo anche il tempo di
passare da un fioraio. Mi sciacquai velocemente la faccia e mi lavai i
denti,
poi tirai fuori da una valigia un jeans chiaro tutto strappato e una
maglietta
con la bandiera della Gran Bretagna, che avevo comprato durante un
viaggio a
Londra, infilai velocemente le Converse rosse e legai i capelli, che mi
arrivavano oltre i gomiti, in una coda mal fatta, poi mi avviai verso
le scale,
facendomele tutte di corsa.
“Johnny!” urlai, una volta arrivata in salotto.
Ci fu un attimo di silenzio, spezzato subito da
un altro strillo.
“ Sono in cucina!”
Corsi da lui
frettolosa, bloccandomi non appena
notai che stava leggendo un quotidiano, seduto su uno sgabello da bar.
Rimasi
impacciata sulla porta, ancora in imbarazzo per il comportamento
maleducato che
avevo avuto qualche ora prima in giardino. Alzò lo sguardo, con aria
perplessa.
“ Qualche problema?” domandò.
Storsi le labbra. “No.”
Johnny rincorse il mio sguardo, che vagava da una
parte all’altra della stanza,e poi con uno sbuffo chiuse il giornale.
Probabilmente aveva capito.
“ Ti sei vestita.”
Però, che intuito. “ Mi servono le chiavi della
macchina.” Parlai decisa.
“ Per…?”
Gli lanciai
uno sguardo eloquente e aprii un po’
le braccia, come se la risposta fosse ovvia.
Il suo viso, dapprima sorpreso, si allargò subito
in un debole sorriso, che ricambiai. Mi lanciò le chiavi della
Mercedes, che
presi al volo.
“ Riportamela intatta. Non fargli fare la fine
del motorino, per favore.” Disse le
ultime parole con un tono supplichevole.
Scoppiai a ridere al ricordo. “ Avevo quattordici
anni!” mi giustificai. “ È stato l’albero che mi si è buttato davanti!”
Alzò gli occhi al cielo, sempre sorridendo e poi
mi fece cenno di andare.
Rincuorata dal fatto che non se la fosse presa
per prima, gli regalai uno dei miei sorrisi radiosi, che ora mai erano
così
rari.
“ Grazie” mormorai, commossa.
“ Non
preoccuparti.”
Rimanemmo per qualche secondo a guadarci, poi mi
girai e feci per andarmene.
Corsi
fino al garage, dov’era parcheggiata la macchina. Una risata
inaspettata mi
uscì, quando sentì le fuse del motore potente. Uscì sgommando, ansiosa
di
mettere alla prova la Mercedes, per la gioia di mio zio. Uscii in tutta
fretta
dal bosco, sobbalzando a ogni dislivello del terreno, poi ritornai su
Hawley
Boulevard, diretta dall’altra parte della città. Mentre guidavo lanciai
un
occhiata supplichevole al cielo, sperando che reggesse ancora un
pochetto.
Sfrecciai lungo le stradine costeggiate da case tutte uguali, per poi
passare nelle
vecchie vie del centro storico. Il centro città rispecchiava appieno le
caratteristiche di villaggi anglosassoni: le costruzioni erano quasi
tutte in
mattoni a vista, le strade strette e anguste. C’èra anche una piazza
principale, sovrastata da una grossa Cassa Armonica e circondata da un
parco
pieno di piazzette, riempite da anziani, ormai in pensione. Scherzando
mia
madre aveva sempre detto che quello era territorio neutrale, perché poi
Maddlemburg, sembrava spaccarsi in due. Verso la parte nord della
città,c’erano
due quartieri, giudicati dalla gente che abitava a Dalton e Creed -i
quartieri
alti di Maddlemburg- posti malfamati, pieni di gentaglia che passava il
tempo
nei pub o nelle disco. A dirla tutta però, quei posti mi piacevano,
perché,
droga e prostitute a parte, non ribollivano di gente mediocre e
bigotta, che
passava le giornate a spiare da dietro le finestre, per poi raccontare
i
fattacci altrui agli amici durante le partite di golf. Io era da quelle
parti
che mi stavo dirigendo. Afferrai saldamente il volante, le mani sudate,
mentre
uno strano nervosismo prendeva possesso di me. Mi concentrai sulla
strada, e
senza neanche che me ne rendessi conto, ero già arrivata. Il parcheggio
era
stranamente vuoto. Scesi dalla macchina, guardandomi intorno, stranita.
Proprio
davanti al grande cancello in ferro battuto, c’era un fioraio. Mi
fermai e feci
creare una composizione di fiori, enorme ed elegante. Pagai e aprii
titubante
l’inferriata che custodiva il cimitero. Subito davanti a me si pararono
centinaia di lapidi, lugubri e tristi. Stupidamente inquietata, come se
qualcuno di loro potesse farmi male, mi avviai verso quella che cercavo
io,
continuando a guardarmi intorno, come se aspettassi Freddy Kruger
sbucare da
dietro una tomba. Vagai per un po’ – non mi ricordavo che quel posto
fosse così
grande, ma in fondo era l’unico camposanto di Maddleburg - finché non
riconobbi
una massa di alberi secchi. Impaziente e nervosa, affrettai il passo,
fino a
correre e mi imboscai nel sentiero, pieno di rametti e boscaglia, che
portava
nella parte vecchia del cimitero. Le
tombe lì, sembravano rispecchiare il luogo cupo e claustrofobico,
storte e
granitiche, dai colori giallognoli a causa del tempo. Alcune scritte
risultavano addirittura illeggibili, ma riuscii a scorgere date
risalenti
addirittura alla guerra civile. Tutta l’ansia e la paura che provavo
per quel
posto, svanì come fumo nello stesso istante in cui la vidi. Laggiù in
lontananza, nascosta dietro i rami di un salice piangete c’èra una
statua. Enorme,
raffigurava un angelo, dall’espressione avvilita in volto, con le
braccia
incrociate, che stringeva tra le mani una corona di fiori. Nonostante
lo
sguardo fosse vuoto, sembrava fissare una lapide, proprio di fianco a
lui. Mi
avvicinai, con il cuore in gola. Lacrime silenziose e colme di dolore
mi
bagnarono le guance quando mi trovai faccia a faccia con la lapide
bianca, su
cui erano state impresse le lettere che formavano un nome e che si
stavano
stampando nella mia carne, bruciando e facendomi male. La sensazione di
vuoto
ma allo stesso tempo di completezza si fece sentire dentro me, più viva
che
mai. Mi chinai, poggiandomi sulle ginocchia. Strappai con veemenza un
erbaccia
che stava crescendo vicino alla tomba, poi appoggiai con delicatezza il
mazzo
di fiori sul terriccio.
“ Ciao mamma.” Parlai a bassa voce, afona, la
voce carica di emozione.
Scoppiai
a piangere come una bambina, comprendoni la faccia con le mani, quando
mi resi
conto che non avrei ricevuto alcun saluto. Dentro di me si agitava
tutto, le
sensazioni si mescolavano come carte. Rabbia, paura, delusione,
rimpianto,
amore, tormento. Continuai a piangere, odiando il momento in cui mia
madre mi
era stata strappata, come una caramella tra un litigio fra bambini,
senza darmi
il tempo di rendermene conto. Detestando il fatto che, il colpevole che
aveva
manomesso i freni dell’auto, fosse ancora libero di vagare. E
chiedendomi come
avessi fatto a stare tutto questo tempo a Dublino, lontano da lei,
dalla tomba
dov’era sepolta, l’unico posto che mi permetteva davvero
di credere che lei esisteva.
Che l’affetto che mi aveva dato non era frutto della mia
immaginazione.
“
Mamma mi manchi così tanto”, ammisi, asciugandomi le lacrime che
scorrevano
come un diluvio. “ Ti vorrei così tanto con me. Ho ancora bisogno di
te.”
Fissai
la foto che era stata affissa, dove Wendy sorrideva radiosa, e con
amarezza,
sentii la lama di un coltello invisibile, affondare.
“
Sai”, dissi, cercando di riprendermi, “ che quest’anno Becky è andata
in
Europa? Mi aveva invitato ad andare, ma io dovevo organizzarmi per
venire qui…”
Continuai
così, a parlare interrottamente per una decina di minuti, degli ultimi
avvenimenti che mi erano capitati a Dublino, tra la scuola, le
amicizie, finché
un'altra ondata di nostalgia mi assalì. Riuscì a non piangere, e
sforzai i
muscoli del mio viso fino a far nascere un largo sorriso, carico di
tristezza.
Mi sporsi per accarezzare la foto, sentendo i polpastrelli che
bruciavano al
tocco freddo del vetro che proteggeva l’immagine.
“
Ti voglio bene, mamma.”
Mentre
mi mordevo le labbra, nello sforzo di non crollare di nuovo, guardai
l’angelo,
che stava a neanche un metro di distanza da me.
Prenditi cura
di lei, pensai,
inginocchiata
davanti a lui. Poi, con gesti lenti mi alzai, rimanendo per qualche
secondo
immobile, come se avessi paura di cadere, ancora troppo scombussolata.
Emisi un
sospiro di sollievo, quando mi resi conto di stare bene.
Stare li, per quanto fosse doloroso, mi faceva sentire a
casa. Là con lei, io ero a casa. Me
ne andai con ancora il sorriso in volto. Al posto di passare per il
sentiero
che strisciava sul terreno fangoso, che allungava solamente il
percorso, feci
slalom tra le vecchie tombe, ben attenta non sfiorarne una. Era strano
il fatto
che, nonostante fossimo solo all’ otto di settembre, sotto quella
cupola
naturale di foglie e legno, fosse già arrivato l’autunno. Per terra,
crescevano
arbusti mezzi rinsecchiti e la terra cominciava già a riempirsi di
foglie
arancioni. Affrettai il passo, senza un vero motivo, ma inciampai in
una radice
d’albero, uscita dal terreno e coperta dal fogliame. Mi sbucciai un po’
i palmi
delle mani. Imprecando sotto voce, mi rialzai scocciata, togliendo con
gesti
frettolosi la terra che mi aveva sporcato i jeans. Il mio sguardo si
posò su una
croce celtica in pietra, proprio davanti a me.
Era
affascinante, con tutti gli intrecci simbolici che erano stati incisi,
ma c’era
qualcosa che sgomentava, impauriva, sebbene non ne capissi il motivo.
Piuttosto
grande, era color fumo, con muschio che cresceva un po’ ovunque.
Stranamente
attratta, la osservai. I muscoli del corpo si irrigidirono,
immobilizzandomi,
mentre sentivo il petto stringersi in una morsa tale da farmi mancare
l’aria.
Su un braccio della croce, uno dei pochi punti in cui non cresceva
erba, si
allargava una macchia di sangue. Ancora paralizzata, smisi di
respirare,
cercando di udire il minimo rumore, come se aspettassi che qualcuno mi
attaccasse. Il terrore che mi invadeva, mi dava la sensazione di avere
i sensi
più a cuti, mentre facevo vagare lo sguardo con occhiate rapide per il
cimitero. Mi sembrava di udire il mio istinto che mi urlava “SCAPPA!”.
Quando
mi resi conto che non c’era nessuno, a parte i morti seppelliti, cercai
di
calmare il respiro e mi avvicinai cautamente alla croce. Il sangue era
secco,
anche se dal colore ancora rosso acceso si capiva che risaliva non
prima di
quella mattina. Qualcuno che è venuto a
far visita si sarà fatto male, dissi a me stessa, nella speranza di
non
lasciare che il panico prendesse possesso di me. Eppure, se davvero si
fosse
trattato di un incidente - magari
qualcuno cadendo si era sbucciato le mani, come me - un semplice
taglietto non
avrebbe causato tutto quel sangue. Mi guardai intorno, nella speranza
di
capisci qualcosa in più. Poco lontano da me, su un'altra lapide,
un'altra
macchia di sangue. Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata,
mentre
realizzavo che stavolta si trattava di un impronta di una mano. Erano
evidenti
le cinque dita, ben impresse, che poi sembravano strisciare lungo la
lapide.
Qualcuno era stato trascinato via. Ingoiai con fatica la bile che stavo
rischiando di vomitare, mentre cercavo di farmi coraggio e capire che
cosa
fosse successo. Raccolsi tremante uno spesso bastone vicino ai miei
piedi, che
impugnai come una mazza da baseball, pronta a colpire chiunque mi si
fosse
parato davanti. L’istinto continuava ad urlarmi contro, mentre la
coscienza mi
bisbigliava che qualcuno poteva star male o aveva bisogno di aiuto. Con
passi
incerti cominciai ad avvicinarmi, giurandomi che se avessi visto
qualcosa di
troppo, sarei scappata a gambe levate chiamando la polizia. Al diavolo
la
moralità!
Le
macchie di sangue continuavano, si notavano su ogni tre tombe, come
piccoli
indizi da seguire lungo un percorso, che stupidamente seguivo. Mi
tremavano le
gambe, quasi fossi un diapason, mentre mi rendevo conto che mi stavo
avvicinando nella parte dedicata alle tombe di famiglia. Mi bloccai,
insicura e
spaventata all’idea di proseguire, quando davanti a me si pararono
almeno una
ventina di piccoli mausolei, attaccati l’uno all’altro e divisi
soltanto da uno
scalone, che permetteva di raggiungerli, in quanto erano posizionati su
diversi
piani, come casette su una collina. Strinsi ancora più forte il
bastone,
guardandomi intorno con aria circospetta, mentre mi avvicinavo ai piedi
della
gradinata. Di nuovo il terrore più forte, da farmi venire i brividi
alle
braccia e a gelarmi il sangue nelle vene, s’impossessò di me, non
appena una
lunga scia di sangue, segno che qualcuno era stato trascinato su per
quei
gradini, si rese visibile ai miei occhi.
Forza e
coraggio.
Inghiotti
a vuoto, la gola secca per il panico, poi salii con grandi falcate le
scale,
guardandomi a destra e a sinistra per controllare che un pazzo non
sbucasse per
aggredirmi.
Svoltai
senza guardare alla mia destra.
Un
urlo agghiacciante fuoriuscì dalla mia bocca, mentre mi buttavo
istintivamente
all’indietro. Il panico che avevo provato prima era niente in confronto
ai
brividi d’angoscia che si agitavano dentro di me. Atterrita, con lo
sguardo
spalancato, cercavo con gesti frenetici di rialzarmi e di allontanarmi
dal
cadavere di una ragazza, distesa davanti me. Lanciai un altro urlo,
quando
sfiorai con il braccio uno scalino. Arrancai nel disperato tentativo di
rialzarmi, desiderosa di andarmene immediatamente da lì, mentre sentivo
scorrere l’adrenalina in tutto il corpo. Corsi giù per le scale,
continuando a
guardarmi indietro sconvolta da ciò che
avevo appena visto, l’orrore a cui ero stata costretta a vedere. Non
badavo
nemmeno a dove correvo, non dopo l’immagine che si era stampata nei
miei occhi,
fregandomene dei polmoni che scoppiavano e del diaframma che bruciava.
Corsi
ancora più veloce quando scorsi in lontananza il cancello dell’entrata
del
cimitero; mi sembrava di non avvicinarmi mai. Spalancai con forza
l’inferriata,
schiantandomi addosso con forza, poi mi precipitai in macchina, dove mi
rifugiai, chiudendomi dentro. Tremolante, mi scostai i capelli,
appiccicati per
il sudore sulla fronte, e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei
jeans.
Sussultando, composi il numero della polizia.
Dall’altra
parte, rispose una voce annoiata.
“
Sono al Cimitero Comunale di Maddleburg” sussurrai, singhiozzando. “ Ho
trovato
un cadavere. Fate presto.”
OOOK
se vi è piaciuto fatemi sapere cosa ne pensate... è un capitolo che ha
mio parere fa schfio , ma
lascio a voi la scelta. RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEEE
Bacio.
bubblin_
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
OOOOOOOOOOOk, premetto cche
questo è un
capitolo molto lungo in cui non accade niente di che eccetto alla fine!
Ho visto che molte persone leggono
ma non commentano... Sciverei in ogni caso, però sarebbe bello sapere
se ciò che scrivo può piaciere a qualcuno.
14
Settembre 2008
3) CONFESSIONE
Fissavo, ancora
sdraiata nel letto, reduce da una
notte insonne, il soffitto della cameretta, mentre prendevo
profonde boccate d’aria, cercando di
calmarmi. Un corpo disteso, immobile, contorto in una posizione
innaturale, mi
comparve davanti agli occhi, come un lampo. Affondai la testa nel
cuscino, in
un attimo di shock, riuscendo a trattenere l’urlo che stava nascendo. È passato, tutto finito. Continuai a
ripetere a me stessa quella frase una decina di volte, finché non ebbi
il
coraggio di alzarmi e sedermi a bordo letto. Mi voltai, guardando la
sveglia:
le 6-05. Sbadigliai rumorosamente, troppo stanca per alzarmi davvero.
Mi
risdraiai sul letto. Una scena si ripeté nella mia testa…
I flash
abbaglianti delle macchine fotografiche, e
i colori a intermittenza delle sirene della polizia mi confondevano.
Strizzai
gli occhi, come per risvegliarmi.
Johnny mi avvolgeva le spalle con le sue braccia robuste,
sorreggendomi, mentre io parlavo con un agente.
“ Il corpo è nella
parte dedicata alle tombe di
famiglia” spiegai, balbettando.
“ Hai mai visto
quella ragazza?” chiese un
poliziotto, scrivendo sul taccuino.
“Dio, no!”
esclamai. “ Sono arrivata in città ieri
sera.”dissi, difendendomi.
“Da dove vieni?”
mi chiese. Da lì in poi cominciano
domande svariate che mi riguardavano, a cui risposi con meno impaccio.
Johnny
al mio fianco era stranamente silenzioso, preoccupato. Mi strinse a se
un po’
più forte, come per consolarmi, quando si rincominciò a parlare del
cadavere
della ragazza.
“ Come mai ha
deciso di cercare la ragazza?”. La
voce nasale e il tono maleducato del poliziotto, riuscirono a irritarmi
anche
in un momento come quello. Quella domanda, aveva tutta l’aria di
mettermi in
difficoltà, quasi come se fossi stata io
la colpevole. Ma io non avevo fatto niente.
Raddrizzai le
spalle e risposi. “Non avevo idea
che fosse una ragazza”,dissi stizzita. “ E non avevo idea che avrei
trovato un
morto!”
L’agente fece una
risata gutturale, falsa. “
Signorina, questo è un cimitero!” Lo disse come se questo giustificasse
il
ritrovamento di una persona.
Lo guardai
incredula e offesa, poi risposi con
sarcasmo pesante, fregandomene di apparire maleducata.
“Sa Detective…”
incominciai, bloccando in tempo
mio zio che stava rispondendo, “ di solito i morti stanno sotto terra.”
Alzai
un sopracciglio, con superiorità. “Ma magari sono io che mi sbaglio…”
Un
sorrisetto insolente mi comparve in volto, quando sentii lo schiocco
secco di
denti che si richiudevano di colpo, mentre l’investigatore mi guardava
inviperito.
“ Non ha risposto
alla mia domanda…” mi disse,
poi.
Trassi un profondo
sospiro. “ Ero in visita…”
incominciai, a voce bassa.
“ Presso?” mi
bloccò il poliziotto, con uno
luccichio di ritorsione negli occhi. Stupido
sbirro, pensai.
“ Mia madre”,mi
limitai a rispondere, poi
continuai a parlare, come se non avessi detto niente.
“Stavo tornando
verso la macchina, quando ho visto
del sangue su una croce, e impronte
insanguinate su varie lapidi”, chiarii, mentre un brivido mi percorse
la
schiena, al ricordo. “ Ho creduto che qualcuno si fosse fatto male, e
ho
pensato di aiutarlo. Ma poi ho trovato solamente il cor…” mi fermai non riuscendo a pronunciare la parola. “ La
ragazza”, conclusi.
L’investigatore,
mentre parlavo, non alzò la testa
dal block notes, continuando a prendere appunti, poi, quando ebbi
concluso si
limitò ad andarsene, senza degnarmi di uno sguardo.
“ Bel
caratterino!”, dissi, concedendomi un
sorriso. Johnny, al mio fianco, rise piano della battuta, anche se era
ancora
teso, come se stesse tramando qualcosa.
“ Che c’è ancora?”
gli domandai, con tono di
supplica. In quel momento non avevo voglia di lamentele o discorsi
vari, volevo
solo andare a casa.
“ Hai fatto un bel
gesto, Lucy…”, abbozzò lui. “
Andare a cercare una persona che poteva aver bisogno di aiuto.”
Non mi convinceva,
c’era dell’altro. “ Quindi..?”,
lo incitai.
“ Se per caso ci
fosse stato qualche pazzo che ti
avesse aggredita?”
Sbuffai. “Avevo un
bastone.”
“ Non credo
sarebbe bastato a fermare chiunque ha
fatto quello.” Mi indicò, con
veemenza la salma della ragazza, coperta da un velo bianco, che veniva
trasportato su una barella, verso un ambulanza.
Lo fissai con
astio. “ E allora cosa? Avresti
preferito che mi successe qualcosa, per poi venirmi a dire: te l’avevo
detto?”
Si prese la testa
tra le mani, visibilmente
scosso. “ Dio, no! Vorrei solo che la prossima volta evitassi di
comportarti
come Madre Teresa!”
Gli feci l’eco. “
La prossima volta?” Ero
incredula. “ Cosa ti fa pensare che,” ripetei la sua frase, “ la prossima volta che verrò a
trovare mia madre, troverò un
cadavere?” Lo fermai prima che potesse ribattere. “ Se mi fossi trovata
io,
ferita e mal ridotta come la ragazza, avrei voluto che qualcuno mi
venisse a
cercare per aiutarmi, e non che si fermasse a pensare ai ‘come’ e ai
‘perché’.”
“ La ragazza non
era ferita,” replicò Johnny, con
tono improvvisamente calmo, come se cercasse di farmi ragionare. “ Era
morta.”
Parlava lentamente, come se avesse a che fare con una deficiente.
Incrociai le
braccia, in attesa che continuasse a
parlare.
“ Quella ragazzina
è scomparsa da due settimane”,
mi spiegò, lo sguardo serio. “ I poliziotti la cercano da due
settimane.”
Rimasi un attimo
in silenzio, capendo che cosa
intendesse. La mia testardaggine, alla fine, vinse sul buon senso.
Prima di
andarmene, lo guardai dritto negli occhi.“ Questo non cambia il fatto
che non meritava di rimanere laggiù.”
Mi risvegliai di
colpo, la fronte sudata. Mi ero
addormentata, di nuovo. Riguardai distrattamente la sveglia,
impallidendo quando
lessi l’ora. Cazzo! Mi alzai frenetica, la testa che vorticava
furiosamente,
girando a vuoto nella stanza, senza sapere precisamente
cosa fare. Era il primo giorno di scuola e io ero già in ritardo.
PERFETTO.
Schizzai nel mio bagno, lavandomi velocemente i denti e la faccia. Uno
sguardo
veloce alla specchio mi rese chiaro che i miei capelli erano
impresentabile.
“Tutto grazie alla
doccia di ieri sera”,
bofonchiai tra me e me.
Attaccai
l’arricciacapelli, mentre correvo di
nuovo in camera, per vestirmi. Per fortuna che la notte precedente mi
ero
preparata i vestiti da indossare, altrimenti mi sarei potuta sparare un
colpo
in testa. O farmi aggredire da un maniaco
nel cimitero, per la gioia di Johnny.
Ebbi qualche
difficoltà, a causa della fretta,
nell’infilarmi i jeans a sigaretta che avevo scelto, ma la maglietta a
tre
quarti grigia, che rimaneva morbida e un po’ a sbuffo, lasciandomi una
spalla
scoperta, non mi creò affanni. Corsi di nuovo verso il bagno, dove mi
sistemai
i capelli, rendendoli da arruffati e spettinati a mossi e leggeri.
Agguantai la
cartella mezza vuota, che avevo poggiato sulla sedia a dondolo, e mi
infilai le
ballerine nere. Scesi a tempo record le scale, e una volta in cucina mi
regalai
un sospiro. Un odore tipico dei bar, mi assalì.
“ Buon giorno”,
salutai, la voce ancora un po’
rauca.
Betty, che
trafficava vicino alla caffettiera, mi
rivolse un dolce sorriso, mentre Juliet, che stava bevendo un
cappuccino,
appoggiata al davanzale della finestra, alzò semplicemente lo sguardo,
per
farmi capire che mi aveva visto.
“ Buon giorno,
tesoro” mi accolse, Betty.” Come ti senti?”
Dal tono un po’
incerto, capii che si stava
riferendo a tutta la faccenda nel cimitero.
Storsi in naso,
sperando di non dover rispondere
più a quella domanda. “ Bene.”
Ed era vero. Io
stavo bene. Dovevo stare bene. Il quel momento non
potevo permettermi di aver
paura, o crogiolarmi nel letto, con l’intenzione di non uscire più di
casa. Sicuramente per un po’ di tempo
avrei evitato di andare sola al cimitero, ma non era il caso di
rimanere in uno
stato catatonico per il resto dei miei giorni. Maddlemburg era già il
mio
piccolo inferno personale,non era il caso di aggiungere altri
particolari.
“ Nervosa per il
primo giorno di scuola?”
Quella domanda
riuscì a distrarmi.
“
Un po’…”
ammisi. “Johnny è già in ufficio?” domandai successivamente, dando un
morso a
un croissant, che era sul tavolo.
“ No, cara”, mi
rispose. “ È in salotto.”
Ringraziai, e
continuando a masticare,andai da mio
zio. Appoggiata allo stipite della porta, cercavo di non scoppiare a
ridere,
mentre lo vedevo sfrecciare da una parte all’altra del soggiorno,
raccogliendo
fogli sparsi, su una disordinata scrivania. Guardandolo mi consolavo,
sapendo
che il mio disordine era ereditario.
Tossì, per
attirare la sua attenzione, quando mi
accorsi che non mi aveva ancora notata.
“ Sei in ritardo”,
constatò, senza voltarsi a
salutarmi. Evidentemente mi aveva già visto.
“ Ciao anche a
te”, dissi, risentita.
“ Ciao”, mi
rispose lui, degnandomi di uno
sguardo. “ Sei in ritardo”, mi ripeté.
Dal suo tono di
voce, che cercava di rimanere sul
vago, capii che era ancora arrabbiato per la faccenda di ieri. Decisi
che la
cosa migliore era porre resistenza passiva: ignorare per far passare.
Feci spallucce,
come se la cosa non mi
riguardasse. “ Non ho la macchina…”
Senza guardarmi,
come se qualunque cosa stesse
cercando fosse più importante, mi lanciò le chiavi della sua macchina.
Le
agguantai con una mano.
“ Sul tavolino di
cristallo ci sono dei fogli.
Prendili”, mi ordinò, senza smettere di camminare per la stanza. Ma che
diavolo
stava arrabattando?
Li presi, cercando
di non badare troppo a lui, poi
mi poggiai con le spalle al muro, sfogliandoli.
“ Cosa sono?”
“ Ci dovrebbero
essere dei fogli, con gli orari
giornalieri delle lezioni che dovrai seguire” mi spiegò, mentre io
cercavo gli
scritti in questione. Continuò a parlare. “ C’è anche una piantina
della
scuola, se non riesci a trovare le aule per le lezioni.”
Mi sfrecciò di
fianco, avviandosi verso la porta.
“ Il resto dei fogli, sono dei moduli che devi consegnare ai vari
insegnanti.”
Continuando a
leggere quelle scartoffie, mi
avvicinai verso la porta, che Johnny mi stava tenendo aperta, segretamente sollevata del fatto che mio zio
mi avesse risparmiato un viaggio in segreteria, spazzando via ogni
possibilità
di perdermi per il liceo.
Scendendo i
gradini del portico, mi bloccai. “ Tu
come fai ad andare a lavoro?”
Andò verso il
garage, mentre io continuavo a seguirlo
con lo sguardo.“ Prendo la Harley.”
Dopo un momento di
palese sorpresa, scoppiai a
ridere, immaginandomi la scena.
Ghignai, senza
riuscire a smettere. “ Un avvocato
su una moto. Forte.”
Non accennò ad un
minimo sorriso. Si limitò a
sollevare, scatenando un rumore metallico, la saracinesca del garage. “
La tua
scuola è sulla 7 Strada”, mi spiegò lui, “ Ci sono le indicazioni, se
hai
qualche problema nel trovarla.”
Mi ricordavo
benissimo dove si trovasse quel
posto, era sulla strada per andare verso il cimitero, ma non mi tornava
una
cosa.
“ È quella scuola
pubblica in Centro, vero?”
“ Sì”, mi rispose
confuso. “ Perché?”
“ Bhe...” azzardai
io, cercando di non apparire
impudente, “ mi chiedevo solo come mai non mi avessi iscritto in una
delle
scuola private che ci sono qui in zona.”
Mi guardò
smarrito, come se gli sfuggisse
qualcosa. “ David e Andrew mi hanno detto che non ami molto
quell’ambiente da ‘ricchi perfettini’ “ Parafrasò con
scherno, le parole che usavo io, per etichettare tutti quei boriosi
adolescenti
viziati, che frequentavano le tante scuole private di Dublino. Mia
madre aveva
sempre cercato di allontanarci da quel tipo di ambiente.
Mi lasciai
scappare uno sbuffo di sollievo. I miei
fratelloni andavano fatti santi. “ No, no”, mi affrettai a dire,
correndo verso
la macchina. “ Hai fatto benissimo.”
Salii velocemente
in auto e ingranai la marcia,
partendo. A causa del ritardo – erano già le 7.45 e io alle 8 dovevo
essere a
scuola –oltrepassai un paio di semafori con il rosso e superai
un bel po’ di volte il limite di
velocità imposto.
Come previsto non
faticai a trovare la scuola,
grazie ai cartelli e, soprattutto, a una grande quantità di ragazzi
che, o a
piedi o in macchina andavano verso la mia stessa direzione. Peccato che
io
dentro mi urlavo di prendere il senso opposto e starmene tranquilla a
casa.
Entrai nel parcheggio, affollato di macchine e persone che si
abbracciavano
contenti e felici di ritrovarsi. Strinsi forte il volante, con il cuore
in
gola, mentre cercavo un posto dove parcheggiare la macchina. Una volta
fatto
manovra per posteggiare la macchina, girai le chiavi per spegnere il
motore, e
rimasi impalata a fissare la trombetta disegnata sul clacson, mentre il
nervosismo prendeva possesso di me: potevo sentire lo stomaco
contorcersi,
mentre mille pensieri mi affollavano la mente. Sei in
perfetto orario, mi dissi, nella speranza di calmarmi. Non
hai ancora preso note disciplinari e il
sole splende in cielo. Respirai profondamente. Hai
trovato un cadavere, Lucy. Affermai. Puoi affrontare
qualsiasi cosa. Guardai un ultima volta i
fogli con l’elenco
delle lezioni e la mappa del liceo, con l’intenzione di ricordarmi
tutto, per
evitare di passare il tempo con la cartina in mano, come un piccolo Boy
Scout,
poi scesi dalla macchina. I ragazzi che stavano ammirando la Mercedes
nera e
lucida – era pur sempre una scuola pubblica, e non tutti disponevano di
auto
lussuose – posero in un attimo
l’attenzione su di me. Mi guardavano come se fossi la reincarnazione di
qualche
modella. Mi sistemai nervosamente i capelli dietro le orecchie, tenendo
lo
sguardo fisso davanti a me, mentre mi avvicinavo all’entrata del liceo,
pensando mentalmente a dove avessi la prima lezione, anche se in quel
momento
avrei tanto voluto fumarmi una sigaretta. O magari altro… Alcuni
ragazzi mi
guardarono mentre camminavo per il corridoio, mentre cercavo l’aula di
spagnolo. Mi affrettai a entrare, mentre un professore basso e
piuttosto
grasso, chiudeva la porta.
Consegnai in
fretta il modulo, e mi andai a sedere
nell’unico posto libero, in fondo alla classe.
Una ragazza dai
capelli rosso tiziano, seduta di
fianco a me, mi porse la mano.
“ Tamara”, si
presentò, muovendo cono scatto quasi
impercettibile la testa, per scostare la lunga e compatta frangetta che
le
arriva fino alle sopracciglia.
Le strinsi la
mano. “ Lucy.”
Mi guardò un
secondo, squadrandomi, poi si morse
le labbra.“ Sei nuova”, affermò.
La guardai,
sorpresa. “ Si”, risposi, sorridendo.
“ Come l’hai capito?”
Si avvicinò un po’
, come per confidarmi un segreto.
“ Le ragazze come te, qui non passano inosservate. E inoltre si sente
dall’accento…
Inglese?”
La guardai con un
espressione divertita, poi
distolsi lo sguardo, soffocando le risate. La frase, se non l’avessi
già
sentita, mi avrebbe parecchio infastidito.
“ Non sono una di
quelle che punta a diventare il
capitano delle cheerleader”, le risposi, fissandola dritta negli occhi.
“
Comunque no, Irlandese.”
Ci guardammo per
qualche secondo, come se ci
stessimo testando l’una con l’altra e alla fine Tamara si rilassò,
mostrandomi
un sorriso.
Risi anch’io,
nonostante il professore avesse già
iniziato la lezione. Non seguii con attenzione la spiegazione - le mie
capacità
linguistiche, grazie alla domestica spagnola che lavorava per noi a
Dublino,
erano pari a una persona di madre lingua – così mi limitai a guardare
con
calmala piantina della scuola, o a rispondere ai messaggi dei miei
amici, che
mi domandavano come era iniziato il primo giorno di scuola. Risposi a
tutti con
la stessa frase: a prima impressione, bene. Ma io, meglio di chiunque
altro,
sapevo che le cose potevano cambiare in un attimo. Appena suonò, mi
alzai
svogliatamente, pronta ad avviarmi verso l’aula di matematica, con il
professore Ciccone, che avrei odiato in ogni caso, solo per la materia
che
insegnava. Almeno il cognome prometteva bene.
“
Ehi,
Lucy!”, mi chiamò Tamara.
Mi voltai.
“ Se vuoi a pranzo
ti puoi sedere al tavolo con
me”, mi propose. “ Ci sono anche altri amici.”
La guardai con un
occhiata piena di
gratitudine. “ Certo!” accettai. “
Grazie mille.”
Ci sorridemmo a
vicenda. “ Ti aspetto all’entrata
della mensa, vicino alla macchinetta del caffè” , mi suggerii.
Annui,
ringraziandola un'altra volta, poi sollevata,
me ne andai.
Il resto delle
lezioni proseguii bene, a parte una
mezza figuraccia durante la lezione di matematica, dovuta a una domanda
riguardante le equazioni esponenziali, a cui io avevo risposto con una
faccia
di chi cade dalle nuvole. Conobbi altri ragazzi, tra cui un avvenente e
biondissimo giocatore della squadra di Football, il quale si dimostrò
fin
troppo gentile, cadendo nel ridicolo, che mi propose di pranzare con il
resto
dei suoi compagni di squadra e alcune cheerleader. Mi sforzai per
trovare le
parole giuste, declinando l’offerta on un mezzo sorriso, spiegando che
mi
avevano già invitato. Sembrò parecchio deluso, come se non accettasse
il fatto
di aver ricevuto un due di picche. Gli sorrisi, cercando di essere
convincente.
All’ una e mezza il mio stomaco brontolava, e la voglia di fumare era
diventata
insopportabile. Mentre seguivo il flusso migratorio di ragazzi che
andavano
verso la mensa, giochicchiai un po’ con il piercing alla lingua.
Arrivata al
refettorio, riconobbi in lontananza i capelli rossi di Tamara, che mi
aspettava
come programmato alla macchinetta del caffè. Ci salutammo
contemporaneamente,
per poi ridere imbarazzate.
Indicai l’entrata
della mensa, impaziente di
sedermi e mangiare.
“ Ah, no!”, mi
rispose Tamara. “ Noi non mangiamo
mai nella mensa. Il cibo fa schifo, credimi. Dopo tre anni passati in
sta’
scuola ho imparato un po’ di cose. Vieni fuori.”
Sorrisi divertita,
e sollevata per il fatto che
così avrei potuto fumare. “ Ok, andiamo”, accettai.
Passammo per i
lunghi corridoi, improvvisamente
vuoti, mentre ci dirigevamo all’uscita della scuola. Sentii il
ticchettare
degli alti tacchi di Tamara, che la rendevano alta quanto il mio metro
e
settanta.
“ Allora”,
cominciò lei. “ Da dove vieni?”
“Dublino.”
“ Wow!” esclamò. “
Maddlemburg non può competere,
allora.”
Feci un mezzo
sorriso.” Per un certo verso sono
simili, in quanto a case rurali.”
Uscite da scuola,
ci dirigevo verso il campo da
baseball, piuttosto lontano dal complesso scolastico, verso dei tavoli
in
legno. Tamara blaterava, mentre io mi limitavo ad annuire, senza
ascoltarla
veramente. Tutti i tavoli erano liberi, eccetto uno.
Lo occupavano due
ragazzi. Erano seduti uno
affianco all’altro, intenti a leggere un quotidiano. Il primo aveva i
capelli
biondo cenere, lisci e sistemati in una
perfetta cresta, la pelle abbronzata. Il secondo era il suo opposto:
capelli
corvini e ricciuti, la pelle chiara e pallida. L’unica cose che li
accomunava
era il fisco, asciutto e muscoloso. Mi ricordava un altro
ragazzo...Strinsi i
denti, cercando di scacciare dalla mia mente l’immagine di quei occhi
grigi
color del cielo a novembre, che si fondevano con i miei. Quando i
ragazzi
alzarono lo sguardo dal giornale, rimanendo sbigottiti nel vedere che
con
Tamara c’èra un'altra persona, cercai di sorridere. Ci avvicinammo
ancora un
po’. Il ragazzo biondo, che teneva il giornale, lo chiuse, spostandolo
un po’,
poi incrociò le braccia appoggiandosi al tavolo, inchiodandomi con uno
sguardo
accattivante. Ora mi sentivo davvero in imbarazzo. Ci avvicinammo
ancora,
camminavamo lente. Ero sicura che Tamara potesse sentire la tensione
che
scorreva a piede libero nel mio corpo. “
Ciao”, mormorò con un sorriso seducente il ragazzo biondo, continuando
a
fissarmi dall’alto verso il basso, una volta che fummo uno davanti
all’altro.
Abbassasi per un
secondo lo sguardo, poi sorrisi
goffa. “ Ciao”, salutai.
“ Lucy, lui è
Shane”, precisò Tamara. “ E lui e
Chad”. Indicò il ragazzo dai capelli neri, che mi guadò con aria
annoiata.
“ Dov’è Big- D?”,
chiese Tamara.
“ È andato a
prendere le pizze”, spiegò
distrattamente Shane. “ Allora”, azzardò poi, rivolto a me. “ Sei
nuova, eh.”
Tamara si andò a
sedere vicino a Chad, che stava
pacioccando con il cellulare, poi iniziarono a parlare di qualcosa.
“ Si.” Lo guardai
negli occhi, sperando che la
smettesse di guardarmi, o perlomeno lo facesse in maniera non così
evidente.
Aprii la taschina dello zaino, e tirai fuori il pacchetto di Lucky,
portandomi
alla bocca la sigaretta, mentre i crampi della fame si facevano più
forti.
Quando
accesi la sigaretta, facendo uscire il fumo dal naso, senti Shane che
tratteneva una risata.
Lo guardai con un
espressione che stava a dire “
Che c’è da ridere?”.
“ Ma almeno i tuoi
lo sanno che fumi, bambolina?”
chiese sarcastico, con un espressione arrogante.
Non era la prima
volta che mi davano nomignoli
così, ma sentirmelo dire da una persona con cui non avevo confidenza e
che non
mi conosceva mi irritò. Le mie labbra divennero una linea sottile.
Buttai per
caso, uno sguardo sul tavolo, dov’era poggiata una sigaretta rollata.
La
guardai più attentamente, fino a rendermi conto che non era
esattamente una sigaretta. Shane se ne accorse, e la prese
subito tra le mani, come per nasconderla. Tamara e Chad, mi guardarono,
improvvisamente preoccupati, come se avessi scoperto un loro segreto.
“ I tuoi invece lo
sanno?” chiesi, beffarda. Mi
scoppiò a ridere in faccia, come se fosse divertito del fatto che gli
avessi
risposto in maniera così diretta, poi fece spallucce, e si portò lo
spinello
alla bocca, accendendolo. Tamara e Chad, rimanevano sulla difensiva.
Non volevo
passare come una guastafeste, visto che non lo ero, così cercai di
rassicurarli.
“ State
tranquilli”, dissi. “ Sono muta come una
tomba.”
Shane fece un
tiro, poi mi guardò con
provocazione. “ Vuoi?” mi chiese, tenendo davanti a me la canna.
Alzai un
sopracciglio, poco convinta che dicesse
sul serio. Lui restituì lo sguardo, aspettando. Mi lasciai sfuggire un
sospirò
divertito. Dopo tutti i casini e le cazzate che avevo combinato a
Dublino, non
potevo di certo lasciarmi intimidire da uno stupido e impertinente
ragazzo.
Spostai la sigaretta nella mano destra – sono mancina – e poi gli
sfilai dalla
mano lo spinello. Feci due note, sotto
lo sguardo ammaliato di Shane, poi gli restituii la canna. In quel
momento vidi
arrivare da lontano un ragazzo enorme e ciccione.
“ Big-D!” UrLò
Chad, dando voce ai miei
pensieri. Il volto paffuto del ragazzo,
messo ancora più in evidenzia dai suoi capelli praticamente rasati, che
rendevano la sua testa una sfera, si allargò in un sorriso, mentre
trasportava
con attenzione quattro scatole di pizza. Si mangiava, finalmente!
Spensi la
sigaretta, pestandola, e il mio sguardo si posò sulla prima pagina del
giornale. Rimasi paralizzata, il fumo bloccato in gola. A grossi titoli
si
leggeva:
RITROVATA
MORTA LA RAGAZZA SCOMPARSA
La
polizia sospetta di omicidio.
Dimenticai tutto
il resto, scordandomi della fame
e dei tre ragazzi che mi guardavano incuriositi. Cercando di non farmi
notare,
rimasi in pedi e incominciai a leggere con affanno l’articolo, cercando
di
capire se c’era qualche dettaglio che potesse ricondurre alla persona
che aveva
trovato il cadavere, cioè me. Quando capii che non c’era scritto nulla
al riguardo, sospirai. L’articolo diceva solo
che Amy Smith, il nome della ragazza, dopo due settimane di ricerche,
era morta , a causa di un trauma cranico,
dovuto
a varie lesioni che gli avevano praticamente spappolato il cervelletto;
inoltre
aveva riportato alcune profonde ferite allo stomaco, date da un arma a
doppio
taglio. Si spiegavano le impronte insanguinate. Dopo il ritrovamento
nel
cimitero, la polizia sospettava di omicidio . Ma dai? Sussultai
involontariamente quando Big-D poggiò proprio accanto a me le pizze.
Anche lui
mi squadrò, poi si rilasso in un sorriso benevolo. Prima di porgermi la
mano,
se l’asciugò sulle bermuda di jeans. Sorrisi, divertita.
“ Sono Dennis”, si
presentò. “ Ma puoi chiamarmi
Big-D. L’avrai capito da te il motivo del soprannome” Si indicò.
Sorrisi
intenerita, e gli strinsi la mano” Sono
Lucy.” Chad, si sfregò le mani e dopo
aver mormorato un “ buon appetito” si tuffò su una pizza; venne seguito
a ruota
da Shane e Big-D. Io e Tamara ci scambiammo uno sguardo complice, poi,
dopo
essermi scusata e sentita in colpa, ci dividemmo la sua pizza. Shane,
dopo
essersi reso conto che avevo il piercing alla lingua, cominciò a
tartassarmi di
domande tipo se faceva male e quanto costava. Risposi, anche se avevo
l’impressione che più che l’argomento gli interessasse parlarmi e
basta.
“ Big-D, hai letto
di Amy Smith?” domandò Shane,
con la bocca piena. Rischiai di strozzarmi con la mozzarella.
“ L’hanno
ritrovata morta al cimitero.” Il suo
tono ora, era stranamente serio e concentrato.
Spostai lo sguardo
inconsapevolmente, sentendo una
vampata di strana paura.
“ Merda!” esclamò
Big-D. “ Come è morta?”
Accidenti, di tutti gli argomenti che c’erano – football, il primo
giorno di
scuola – proprio di questo si doveva
parlare? E poi perché erano così interessati? Era una loro compagna?
Scartai
subito l’idea, quando mi ricordai che nell’articolo, c’era scritto che
proveniva da Hampden, uno dei quarti loschi. Era quasi impossibile che
frequentasse quella scuola. Magari gli piacciono le cose macabre,
pensai.
Shane scosse la
testa, in risposta alla domanda di
Big-D. “ L’autopsia dice che è a causa di ferite allo stomaco e trauma
cranico”, sembrava scettico. “ Chissà chi l’ha trovata…” si chiese
distrattamente, masticando un altro pezzo di pizza. Sentii il cuore
battermi
forte nel petto. Le parole uscirono senza che riuscissi a controllarle.
“ Sono stata io”
bisbigliai a occhi bassi,
pentendomene all’istante. Con la coda dell’occhio vidi che tutti
avevano girato
di scatto la testa verso di me. Ormai il danno era fatto. Alzai la
testa,
guardandoli. “ L’ho trovata io.”
Perché glielo
stavo raccontando? Accidenti, avevo
fatto di tutto perché non venisse alla luce e ora lo spiattellavo in
giro.
Sperai che non dicessero nulla, e mi giustificai dicendomi che non
potevo
vivere con l’ansia, ogni qual volta avessero tirato fuori l’argomento.
Inoltre
non mi piaceva mentire, e se lo facevo era per necessità. Continuarono
a
fissarmi, quattro maschere di stupore e incredulità. Alla fine fu
Tamara a
rompere quel silenzio snervante. “ Mi dispiace, Lucy”, disse, triste.
Chad, Shane e
Big-D rimasero a guardarmi, ancora
scioccati, poi si ripresero, lanciandosi sguardi pieni di sottintesi.
Chad
sembrò confermare la mia teoria sugli interessi macabri, quando mi
chiese come
l’avessi trovata. Tutti le attenzioni si ripuntarono su di me.
Stranita,
spiegai del sangue sulla croce e sulle varie lapidi, e poi del
ritrovamento
avvenuto tra i mausolei. Dare queste
spiegazioni a degli estranei mi metteva un po’ in crisi, soprattutto
perché
sembrava che il loro interesse andasse ben oltre la semplice curiosità.
Cinque
minuti prima che la campanella suonasse, dopo aver diviso la spesa per
le pizza
e le bibite, ci alzammo e ci dirigemmo verso la scuola, improvvisamente
silenziosi.
Camminavo affianco a Tamara, a testa bassa, mugugnando tra me e me,
quando
sentii alle mie spalle Chad parlare piano, un bisbiglio tra i denti.
“ Avremmo dovuto
trovarla noi, prima.”
Va beeene! Per
le persone che sono arrivate fino
alla fine, grazie :)
e, bhe fatemi sapere che ve ne pare!!!
RECENSITEEEE, please?
Bacio
bubblin_
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
Solita
storia: grazie alle persone che apriranno questo capitolo e che
leggeranno! Recensite!
Capitolo
che introduce dei…
17 Ottobre
2008
4)
SOSPETTI
Nelle
settimane seguenti andò meglio e peggio.
Andò
meglio
perché pian piano cominciavo ad abituarmi alla vita di Maddlenburg.
Legai un po’
di più con Tamara, che per i primi giorni si rivelò gentile e
simpatica. Ogni
tanto buttava lì qualche domanda su Dublino o su mia madre, sulla vita
che
facevo lì e dopo che le rispondevo tornava a ciarlare dei fatti suoi,
come se
le risposte alle sue domande non le interessassero davvero. Anche Big-D
si
mostrò divertente e simpatico: faceva battute assurde, a cui io mi
aggregavo
sempre, mettendo in mostra il mio lato da buffona. I nostri caratteri
cordiali
si incastravano alla perfezione.
Shane cominciò a farmi una corte spietata,
senza rivelarmelo mai chiaramente. Il suoi modi di fare, che già di per
se
apparivano arroganti e sarcastici, ottennero una dose in più. A pranzo
si
sedeva sempre vicino a me, cercava di parlarmi in tutti i modi, anche
di
argomenti stupidi come la riproduzione degli orsi che avevano dato una
sera su
Discovery Channel. Mi accompagnava tutti i giorni alle lezioni, a costo
di arrivare
in ritardo alla sue, sebbene cercassi in tutti i modi di dissuaderlo.
La cosa
mi inteneriva e lusingava. Ogni tanto, mentre camminavamo per i
corridoi, e
Shane aveva preso il brutto vizio di camminarmi vicinissimo tanto da
avvolgermi
le spalle con le sue braccia contro le mie proteste, avevo scorto lo
sguardo
arroventato di alcune ragazza. Probabilmente erano sue spasimanti, e
Shane era
tipo da averne tante. Con quell’aria spavalda e insolente, senza
contare il suo
aspetto fisico, che andava ben oltre il carino, aveva conquistato il
cuore di
parecchie ragazze. Per non cercare di illuderlo, e evitare di essere
linciata
nel parcheggio della scuola, mi allontanavo e cercavo di tracciare un
confine
che lui puntualmente superava. L’unico di cui non avevo caPito ancora
la
personalità era Chad, che rimaneva eternamente chiuso nel suo guscio
silenzioso. All’inizio pensai che fosse
timido e un po’ impacciato ma quando lo vidi parlottare con diverse
ragazze scartai quell’idea. Chiacchierava con
tutti ma
sembrava si tenesse a distanza da me. A volte lo vedevo lanciarmi
occhiate,
quando pensava che non lo vedessi, per poi mettersi a parlottare fitto
fitto
con Big-D e Chad. Ero sicura che tramassero qualcosa. Non
avevo dimenticato la frase di dubbio
significato, che quel primo giorno di scuola aveva borbottato, per
questo ogni
volta che li vedevo complottare tra di
loro, cercavo di avvicinarmi e capire qualcosa in più. Non volevo
essere presa
per invadente, semplicemente volevo capire se avevo legato con pazzi.
Alla fine
tutto ciò che ero riuscita a capire e che le loro nottate avvenivano
spesso
verso i quartieri non “ raccomandabili”. L’autunno
prese lentamente il possesso della
città. Avevo assistito meravigliata alla lenta e coloratissima
trasformazione
degli alberi, che pian piano avevano mutato il fogliame. La città,
ricca di
vegetazione, a fine settembre era un mix di colori che variava dal
rosso,
all’arancio, dal marrone al giallo. Io e Tamara avevamo organizzato un
paio di
volte uscite dedicate allo shopping, che mi avevano permesso di
ingrossare il mio
abbigliamento invernale, già abbastanza capiente. Per questo non erano
mancate
le litigate con Johnny, non tanto sulla questione “soldi”, visto che li
mettevo
di tasca mia, ma riguardo gli orari che mi erano stati imposti e che
abitualmente sforavo. Sapevo bene che il coprifuoco era un modo per
cercare di tenere a bada il mio tipico vagabondare che a Dublino,
nell’ultimo
periodo, mi aveva portato a conoscere persone non esattamente
raccomandabili,soprattutto dopo la morte di mia madre, ma speravo
capisse che
quel periodo della mia vita era finito. Ovviamente il mio carattere
ribelle non
tardava quasi mai a farsi sentire, ma stavo cercando di limare i
dettagli. Mi
sentivo regolarmente con Becky, che era tornata dall’Italia, e con
alcuni dei
miei amici e ovviamente con David e Andrew. Ero riuscita ad andare a
trovare
Kim e zia Diana, con cui mi divertivo a scherzare e mi ero anche
iscritta alla
migliore scuola di danza classica che c’era in città: solo perché mi
trovavo lì
non voleva dire che avessi abbandonato del tutto l’idea di entrare alla
Royal
Ballet. La direttrice della scuola si era rivelata entusiasta di
me, e non aveva avuto problemi a inserirmi nel corso più alto che
disponevano.
Ottobre iniziò con una cascata di foglie secche e la
scuola portò
con se una valanga di compiti, che eseguivo molto più invogliatamene
all’aperto, spesso su uno dei tavolini di Lee Park. Amavo stare
all’aperto e
lì, in mezzo a quegli alberi fitti, a volte dimenticavo di essere a
chilometri
di distanza da casa mia. Mi imbottivo di felpe e mi avvolgevo nelle mie
sciarpe,
pur di poter passare un po’ di tempo fuori casa. Passavo le ore seduta
a
leggere libri che avevo preso dalla biblioteca che avevamo in casa o a scrivere sul mio vecchio quaderno. Scrivevo
di cose banali, anche solo dell’ effetto che mi faceva ascoltare lo
scorrere
del William River, che passava per il parco fino a sparire nel fitto
bosco. Ogni
tanto capitava che ripensassi al ragazzo misterioso dell’aeroporto. Mi
sentivo
frustrata perché non riuscivo a capacitarmi di quel mal di testa
improvviso che
mi aveva assalito nello stesso istante in cui avevo ricambiato il suo
sguardo.
Mi sentivo sciocca a pensare che fosse state quelle sue magnetiche
occhiate grigie
a causarmi mal di testa e per questo desideravo rivederlo cercando di capire che cosa avesse
scatenato il tutto. Una parte di me
sapeva benissimo che bramavo rivederlo solo per poter osservare ancora
una
volta i suoi lineamenti selvaggi e bellissimi e quegli occhi scuri come
l’acqua
a dicembre. Nonostante i giorni continuassero a passare il suo viso era
l’unico
ricordo che rimaneva perfettamente nitido tra i miei ricordi. Verso
metà
ottobre, a scuola iniziarono a comparire i primi volanti che
annunciavano il
Ballo delle Streghe il trentuno ottobre, meglio detto per i comuni
mortali come
Halloween. Ero molto indecisa se partecipare: Halloween non era
esattamente la
mia festa preferita. Troppi brutti ricordi.
Affrontammo subito la questione a pranzo. Ora mai eravamo
obbligati a
mangiare nella mensa, visto che fuori faceva troppo freddo, ma
preferivo di
gran lunga affrontare il vento spartano piuttosto che trangugiare il
cibo che
davano là. In quella giornata fredda, rimanevo mogia e muta ad
ascoltare i
discorsi dei miei amici, che sembravano stranamente nervosi.
“
Hanno
messo in vendita i biglietti per il ballo di Halloween,” fece presente
Tamara,
dopo un lungo silenzio.
“ Non
abbiamo tanto
tempo per i balli della scuola”, le rispose Chad.
“ Possiamo organizzare qualcos’altro tra di
noi” proposi cauta. “ Di solito voi cosa fate?”
Mi rispose
Big-D, con
il suo solito sorriso. “ Andiamo a ballare nelle discoteche che ci sono
ad
Hampden.”
Hampden era
il quartiere da dove veniva la ragazza trovata morta, pensai.
L’dea di andare a ballare,
dopo un assenza di quasi cinque mesi da un locale, era più forte del
buon
senso. Nonostante le occhiatacce di Chad, ci accordammo per
organizzarci a cercare
un locale di nostro gradimento. Appena uscita da scuola sfreccia subito
in
macchina desiderosa di raggiungere mia madre. Passando davanti a un
edicola che
era sulla strada per il cimitero, lessi una scritta capace di rovinarmi
la
giornata.
NUOVA
RAGAZZA SCOMPARSA, LA POLIZIA
INDAGA
Per quel
che
ricordavo Maddlemburg non era mai stata una città violenta; sapevo che
c’erano
stati problemi con la droga ma gli omicidi in quella città erano
davvero rari. Se
ora qualche maniaco faceva sparire le ragazze, meglio mantenersi caute.
Ripensai
ad Amy Smith, distesa sul suolo. “Speriamo solo che la polizia la trovi
in
fretta”, mormorai tra me e me.
Entrai con
passo
lento nel cimitero, con un grosso mazzo di fiori in una mano e raccogliendo un bastone con l’altra, per
precauzione, poi mi avviai verso l’Angelo di mia madre. Cercai di
trattenere le
lacrime, ma quando sulla sua tomba trovai un altro grosso mazzo,
probabilmente
portato da Johnny, le lasciai scorrere via. Non feci una vera crisi di
pianto,
mi limitai a osservare il bel viso di mia madre e i numeri impressi
sulla
lapide.
17 Ottobre
2007.
Era passato
un anno
da quando era morta.
Mi
rimmaginai il
poliziotto che quel maledetto giorno era venuto a bussare alla porta di
casa
mia, per parlare con i miei fratelli, e sentirlo spiegargli di come la
macchina
che trasportava mia madre si era schianta. I freni avevano ceduto, e
lei era
morta sul colpo. Prima di ritornare lanciai una brevissima occhiata
alla lapide
sul quale avevo visto la macchia di sangue, ma notai che era stata
ripulita.
Durante il viaggio lasciai scorrere la mente, elaborando con cura il
discorso
da fare a Johnny, riguardo la festa di Halloween. Glielo annunciai a
cena,
mentre sorseggiava con calma un bicchiere di vino. Rischiò di
soffocarsi,
mentre il colore del suo viso diventava violaceo. Aspettai che si
riprendesse
con un espressione tranquilla, anche se sapevo benissimo che avrebbe
reagito
così.
“ Non se ne
parla
proprio!” riuscì a ruggire tra un colpo di tosse e l’altro.
Quella
frase fece
andare in fumo i miei piani di mantenere la calma. “Oh, io credo di sì
invece”,
risposi con sfida.
“ È sparita
un'altra
ragazza! Seconde te io dovrei lasciarti andare laggiù?”, domandò
retorico.
Mi
spazientii.” Di
tutte le persone che ci sono in questa città perché deve capitare
qualcosa
proprio a me? E comunque la polizia sta cercando l’assassino…”
“Senti”, mi sibilò Johnny , “ Hampden e
Bellwood sono quartieri pericolosi già di giorno. Ma tu non hai idea di
cosa si
riversi in quelle strade quando cala
il Sole…”
Il tono che
usò era
freddo e glaciale, proprio come il suo sguardo. Era chiaramente
preoccupato e
convinto di cosa diceva. Non capivo del tutto il perché. Riuscii un po’
a
calmarmi, senza però cedere con le mie intenzioni.
Cercai di
farlo
ragionare. Dublino è mille volte più pericolosa,e non mi è mai capitato
niente. Ci saranno anche i miei compagni
di scuola…”
“Chi sono?”
Lo guardai
basita,
chiedendomi se stesse scherzando. Sbuffai quando capii
quell’atteggiamento da
Tribunale dell’Inquisizione era vero. Parlai in fretta, irritata.“
Tamara
Regen, Shane Moyer, Chad Walker e Dennis Turner.”
In un
attimo il suo
comportamento si fece incredibilmente mansueto come se la notizia della
gente
che frequentavo fosse di suo gradimento. Ma era impossibile: mio zio
era un
avvocato, non un impiegato dell’ anagrafe. Non poteva conoscere tutti
gli
abitanti di Maddlemburg, soprattutto dei diciassettenni. Lo guardai,
con lo
sguardo crucciato e sospettoso. Lui fece finta di niente e arricciò le
labbra,
compiaciuto. “Uh, bhe… Siete in tanti effettivamente…” mormorò tra se e
se. “
Ok, puoi andare”, acconsentii dopo un momento di imbarazzante silenzio.
Spalancai gli occhi, mentre dentro la gioia si impossessava di me. Un
sorriso
si allargò sul mio viso.
“ A patto
che…”
riprese subito a parlare, alzando un dito in segno di avvertimento. Mi
bloccai
subito, con un espressione guardigna. “ A patto che tu faccia
attenzione”
concluse , per mio gran sollievo. “
Certo zio”, promisi sorridendo.
“ Non sto
scherzando
Lucy. Quei posti sono davvero
pericolosi”, mi ripeté severo. “ Non sono quel che credi.”
Mi zittii,
sotto il
peso delle sue parole stranamente preoccupate. Perché aveva così paura?
Era
riuscito a rilassarsi quando aveva saputo i nomi delle persone della
mia
compagnia, permettendomi anche di andare a ballare, e ora era di nuovo
lì a
farmi il predicozzo. Non aveva senso. Evitai di ribattere, per scampare
ad
altre discussioni e annuì con la testa ma in qualche modo le sue parole
erano
riuscite a turbarmi.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
Alloraaaaaaaaaaaaa!
Eccomi con il 5 CAPITOLOOOOO. Finalmente Lucy rincontra qualcuno che
aspettava
da tempo… Non voglio dire nulla quindi mi blocco.
Buona
fortuna e non dimenticate di RECENSIREEEEEEEEEEEE!
Bacio
_bubblin
31
Ottobre 2008
5) La
partita
Halloween
arrivò in
fretta. Avevamo trovato una discoteca dove passare la serata e i giusti
vestiti
per il costume previsto dalla serata, che era venuto davvero bene, ed
ero
riuscita a convincere Johnny a spostare il coprifuoco fino alle cinque
di
mattina. Aveva acconsentito solo perché la festa cascava di venerdì,
una vera
fortuna. Quel giorno non potevo non essere felice. Arrivata in cucina
salutai
con più entusiasmo del solito Dominique, l’unica della cameriere che mi
aveva
dato confidenza, poi mi ingozzai velocemente con i cereali e piombai in
macchina, tradizionalmente in ritardo. Chiusi subito lo sportello,
accendendo
velocemente il riscaldamento, mentre i brividi causati dalla fredde
ventata che
mi aveva assalito si attenuavano. Mi strinsi nel mio scarpone caldo,
guardando
un momento la mia villa. Dopo aver passato due interi giorni a
sistemare le
decorazioni insieme a Kim, che si era offerta subito come aiutante, era
davvero
perfetta e inquietante. Arrivata
a scuola feci
una corsa fino all’aula di letteratura inglese, rendendomi conto che la
lezione
era già iniziata. Il professor Roberts sbuffò spazientito, facendomi un
cenno
secco della testa e indicandomi il posto, che mi affrettai a prendere.
Salutai
a bassa voce Chad, seduto vicino a me per poi concentrarmi con
attenzione sulla
lezione conclusiva riguardante Christoper Marlowe. La campanella suonò
giusto
in tempo, evitando di farmi scoppiare la testa
“ Ci
vediamo a pranzo”, lo salutai prima di
avviarmi verso l’aula di storia. Il
resto della lezioni trascorse in modo strascicato e noioso e fu una
liberazione
sedermi al tavolo della mensa per rilassarmi un poco. Mentre prendevo
da
mangiare al bancone, mi accorsi che Tamara e gli altri erano impegnati
in una
conversazione piuttosto animata. Mi avvicinai un po’ preoccupata, ma
poi quando
mi resi conto qual era l’argomento mi rilassai subito.
“
Scusami ma perché non possiamo vederci tutti prima al posto di andare
separati?” strillò Tamara.
“ Non
possiamo!” ripeté esausto Shane. “
Dobbiamo andare in palestra.”
Tamara
sbuffò spazientita mentre io cercavo di
nascondere un ghigno. Constatai che Shane e Chad passavano molte delle
loro
giornate in palestra ad allenarsi. I frutti del loro lavoro si vedevano
ma non eccessivamente: i
muscoli delle loro c’erano ma non erano
pompati o esageratamente evidenti; con tutta probabilità praticavano
boxe. Per
evitare polemiche mi affrettai subito a proporre a Tamara di passare da
me
verso la sera, in modo da prepararci e andare al locale insieme e poi
trovarci
la con gli altri. Accettò con entusiasmo. Finite le lezioni andai a
casa
stranamente stanca, buttandomi a capofitto sul letto. Sonnecchiai per
un po’
poi una volta riposata decisi di ballare un po’, per il gusto di farlo,
nonostante solamente ieri fossi andata a lezione. Dopo essermi
riscaldata scesi le scale andando in
salotto, l’unica stanza munita di stereo, volteggiando senza problemi
sul
palquè della sala. Mi concentrai solamente sul movimento che il mio
corpo mi
diceva di seguire, basandomi solo sulla musica e presa dalla mia
passione non
mi accorsi nemmeno dello scorrere del tempo; in meno di un attimo fu
ora di cena.
Johnny arrivò a cena tardi, scusandosi e spiegandoci che aveva avuto
problemi
con un cliente. Lo rassicurai poi, per lavare via l’odore di sudore
andai a
farmi una doccia. Asciugai e piastrai i capelli, che impiegarono un po’
di
tempo, visto che oramai erano lunghi fino alla vita poi andai ad
accogliere
Tamara, che alle nove esatte arrivò a casa mia.
“
Hai
proprio una bella casa”, si complimentò salendo le scale. “Grazie”
risposi
sorridendo.
Tamara
aveva con se una busta di carta dove
teneva i vestiti per il costume di Halloween, che consisteva in una
minigonna
in jeans e in una camicia da boscaiolo: in pratica Cow Girl, con tanto
di
cappello. Mentre indossavamo i costumi, lei il suo e io il mio, una
moderna “
Cappellaia Matta”, parlammo un po’ dei libri che ci piacevano leggere,
ma
l’argomento si esaurì subito quando mi resi conto che alla mia amica
leggere
non interessava piu di tanto. Ci truccammo pesantemente – in fondo era
Halloween – e poi scendemmo le scale, pronte per la serata. Salutai
Johnny sulla soglia, che mi
lasciò un occhiata molto eloquente, soprattutto quando notà gli stivali
neri
dal tacco vertiginoso, come a dire ricorda
cosa abbiamo stabilito. Sgusciai
nella Ford di Tamara prima che potesse aggiungere altro. Tamara non
guidava
veloce come me, ma per fortuna riuscimmo ad arrivare in tempo davanti
alla
discoteca; trovato un posto per parcheggiare ci accodammo alla fila di
persone
che aspettava di entrare. Cominciammo a preoccuparci quando non vedemmo
arrivare i ragazzi, ma un messaggio mandato da Shane, che mi informava
che
erano entrati da un po’ mi tranquillizzò. Decidemmo di raggiungerli
dopo aver
posato le giacche. La fila sembrava non accorciarsi mai ma una volta
varcata la
soglia, la pazienza ci rivelò una bella sorpresa. Sembrava di stare in
una
specie di girone infernale: la musica a palla che rimbombava nelle
orecchie,
era mischiata alle risate e alle urla delle persone che ballavano
ammucchiate
nella pista da ballo, tutti mascherati da mostri o fatine alate, che
risultavano ancora più inquietanti sotto le luci accese e colorate.
Compiaciuta
accessi una sigaretta quando mi accorsi
che nel locale si poteva fumare. Andammo a posare i cappotti nel
guardaroba, ed
io rimasi con solo addosso i jeans stretti e neri che mi fasciavano le
gambe e
un minuto top a fascia che si limitava a coprirmi il reggiseno e mi
lasciava
schiena, spalle e pancia scoperta. Mentre ci dirigevamo alla cassa a
pagare, in modo da avere già i biglietti per le
consumazioni, un paio di ragazzi ci fecero l’occhiolino; non ci badai. Finalmente dopo tanto tempo però, mi sentii
felice e spensierata, come non accadeva da tempo. Mentre cercavamo
Shane e gli
altri, sentii vibrare il cellulare che avevo lasciato nella tasca dei
pantaloni,
riconoscendo che si trattava di un messaggio. Era Chad.
È successo
un casino venite nel privè rosso.
Andai
in
panico. Si erano picchiati? Qualcuno di loro si era fatto male?
Farfugliai ciò
che avevo letto a Tamara che sembrò sbiancare. Cercai di riprendermi,
usando il
sangue freddo. Respirai profondamente poi parlai decisa. “ Cerchiamo il
privè.”
La presi per il polso, in modo da non perderci facendomi largo tra la
calca di
persone mi avviai verso un lungo corridoio quasi vuoto. Pregai che non
fosse la
strada verso il bagno. Seguii il corridoio, fino a trovarmi davanti a
una porta
socchiusa. Mi sporsi leggermente guardando all’interno sperando di non
trovare
qualcuno intento in atteggiamenti intimi. Occhi che avrei riconosciuto
ovunque,
occhi che furono come un lampo che illuminava un tranquillo cielo
notturno,
squarciando i miei pensieri e facendomi balzare all’indietro si
posarono sui
miei per meno di un attimo. Il cervello andò in black out. Mi appoggiai
alla
parete; non riuscivo a respirare. Sentivo le ginocchia molli e il cuore
battere
all’impazzata. Non c’erano dubbi. Era lui, il ragazzo dell’aeroporto.
“
Lucy!”
esclamò Tamara spaventata.
La
porta si
aprii, facendo scattare immediatamente la mia testa, intimorita e
elettrizzata
allo stesso tempo di vedermi comparire davanti il ragazzo. Big- D , il viso stanco e quasi rassegnato, apparì
sulla soglia. “
Siete arrivate”, disse sospirando.
Preoccupatamene
delusa non accennai a parlare quando lo vidi, al contrario Tamara
farfugliò
veloce: “ Che succede? Vi siete fatti male?”
Big-D fece cenno di no con la testa. “ Venite
dentro e ve lo spieghiamo.” Entrare lì dentro, in quella stanza
stranamente
silenziosa? Lo stomaco si contorse
all’idea. Se quello era veramente il ragazzo che avevo incontrato
all’aeroporto, come mi sarei comportata? Avrei evitato per tutto il
tempo il
suo sguardo per poi arrossire non appena l’avessi incrociato, sembrando
una
bambinetta stupida? Non se ne parlava nemmeno. Egoista! , gridò una voce
dentro di me. Tamara entrò senza paura nella stanza ma io non accennai
a
muovermi. “ Forza, Lucy!”urlò da dentro. Feci una smorfia, poi
sconfitta entrai
a testa alta, sperando di ricompensare un minimo con la figuraccia di
poco
prima. Evitai lo sguardo di tutti, concentrandomi sui particolari della
stanza,
cercando di capirci di più. Spalancai la bocca sorpresa quando mi
accorsi che
si trattava di una sala da poker. Bè,
non proprio: poteva fungere benissimo da piccola discoteca, dati
i pali
da lap dance e il mixer nell’angolo della sala, ma il grande, tondo e
verde
tavolo al centro della stanza non
lasciava spazio ai dubbi. Lasciai cadere
le braccia sui fianchi, mettendo da
parte l’imbarazzo. “ Che succede?”,
chiesi improvvisamente guardinga e sbigottita.
Silenzio.
Tamara al mio fianco cominciò a respirare pesante.
Inghiottii
a
vuoto. “ Che succede?”
Una
risata seducente
e beffarda alle mie spalle mi fece voltare. Un tuffò al cuore si fece
sentire
quando quel viso dai lineamenti
squadrati, che tante volte avevo cercato di ricordare, venne illuminato
da un
sorriso ammaliante e assassino. Arretrai involontariamente di un passo,
impaurita dal fatto che guardandolo troppo intensamente mi sarebbe
accaduta la
stessa sorte dell’aeroporto. La bocca
sottile si mosse quasi impercettibilmente. “Succede”, iniziò il
ragazzo-senza-nome,
“ che il tuo amichetto ha perso a una
partita di poker. E ora deve pagare.” La frase, pronunciata con una
voce ancora
più celestiale della risata aveva un tono duro, che non ammetteva
repliche, ma
anche ironico, come se trovasse divertente la situazione in cui si era
cacciato
il mio… amichetto? Troppo presa a
osservare il suo volto, e dalla reazione che il suo sguardo aveva
scatenato in
me nemmeno un mese fa, non avevo badato
con attenzione alle parole dette con ironia e superficialità. A chi si
riferiva?
Mi voltai per capire, con uno strano presentimento. Nella
stanza, oltre a due uomini massicci e
rasati, probabilmente body guard – o più semplicemente esattori
- c’erano Big-D, in piedi, turbato, Chad,
seduto su un divanetto rosso intento ad
asciugarsi il sudore che gli imperlava la fronte e… Shane, seduto al
suo
fianco, con la testa fra le mani in una posizione sconfortata e
affllita. C’èra
da aspettarselo! pensai stizzita. Chi se non lui poteva scommettere una
cifra
che non poteva permettersi? Vederlo così però mi scatenò una certa pena
e vari ricordi,
mi sembrò di vedere me stessa, quando la mia vita si era fatta un
eterna
scorribanda tra la polizia e me. Nonostante fossi andata giù però non
ero
abituata a rimanerci piu di tanto. Quel senso di solidarietà sempre
presente in
me si fece piu vivo. Non avevo intenzione di squagliarmela, lasciandoli
a
marcire nel casino in cui si erano infilati, ma non potevo neanche
rimanere lì
a guardare senza far nulla. Soprattutto perché non volevo rovinarmi una
bella
serata. Strinsi i denti, tanto da
sentirli scricchiolare, poi voltai la testa d’un lato.
“
Quanto?”,
chiesi inespressiva, cercando di mantenere la calma.
“
Quanto cosa?” ribattè il ragazzo.
“
Quanto si è
giocato?”
“ Ma
che
fai?” bisbigliò Tamara al mio fianco. Le feci cenno con il dito che gli
avrei
spiegato dopo.
“ Millecinquecento dollari.”
Bene,
perfetto, potevo farcela. E in caso di perdita i soldi di certo non mi
mancavano. Sentii l’adrenalina scorrere dentro le vene. Mi sentii
inarrestabile. Mi voltai, stavolta senza arrossire,e guardai dritto in
faccia
quel bellissimo e meraviglioso ragazzo, sentendo il fuoco negli occhi.
Parlai
ammiccando, come a invitarlo, stuzzicarlo. “ Me li gioco. Al tavolo.”
lo
indicai. Lui alzò un sopracciglio scettico. Lo ignorai, continuando. “ Se perdo, oltre a darti i miei soldi ti darò anche quelli di Shane, ma se
vinco, annulli semplicemente il debito. Che te ne pare?” chiesi, una
sfumatura
di trionfo nella voce.
“
No!”
esclamò Shane. Mi voltai stupita, vedendolo arrancare con lunghi passi
verso di
me. “ Sei pazza?”
“
No”, dissi
piano e bassa voce. “ Ti salvo semplicemente il culo.” Che
ingrato!
“
Non sai
giocare a poker!”
“
Questo
l’hai deciso tu!” risposi incollerita. “ Ci sono un bel po’ di cose che
non sia
di me.”
“ Ci
sto!”
urlò dietro di me il ragazzo. Un cenno di sorriso sparì dal mio volto
quando Shane
mi fissò con un espressione
indecifrabile. Ridussi le labbra a una linea sottile, cosa che accadeva
quando
mi sentivo sicura di me stessa.
“ Lucy evita per favore!” mi supplicò, mentre
mi sedevo al tavolo da poker. “ Troveremo una soluzione.”
Mi
voltai a
guardarlo, aveva gli occhi lucidi. Gli
feci un sorriso d’incoraggiamento, mimando a fior di labbra < andrà
tutto
bene>. Shane scosse la testa ansioso. Passai oltre. Il ragazzo era
gia
seduto. Mi affrettai anche io. Un esattore si avvicinò a me, un foglio
e una
penna in mano. Guardai stupita prima lui poi il foglio. E questo cosa
significava? Firmavo una specie di contratto? Il ragazzo fece cenno di
no con la
testa, rivolto al body guard, e il foglio mi sparii dal sotto il naso.
“
Per lo Stato
questa partita non esiste”, mi spiegò tagliente.
“
Perfetto”,
ribattei secca io.
“ Di
solito
le ragazze non giocano e poker. E quelle che lo fanno non giocano
benissimo.”
Lo
fissai
orgogliosa e incredula, capendo dove stesse andando a parare.
Il
body guard
di prima sistemò davanti a me un mucchietto di fiches , poi fece lo
stesso con
il ragazzo.
“
Iniziamo
con le presentazioni”, esordi dopo un momento, trafiggendomi con uno
sguardo
fatale, la voce carica di divertimento, probabilmente per la reazione
di prima.
Improvvisamente mi venne da pensare a quanto Shane e il ragazzo
avessero
caratteri simili. Tutti e due sarcastici e dall’ironia pungente, quasi
si
fossero copiati a vicenda. Anzi, avevo più la sensazione che Shane
avesse copiato il ragazzo, il quale aveva
tutta l’aria di essere inimitabile. “ Io sono Derek.”
“
Lucy”, gli
risposi dopo un secondo momento.
Lui
si lecco
il labbro superiore, quasi come se si stesse preparando a una battuta
di
caccia, e mi sorrise malizioso. Alzai gli occhi al cielo,
infastidita. Sicuramente qadno cercavo
di ricordarlo nella mia mente non lo immaginavo con un carattere così.
Eppure…
Una volta mischiate le carte, il body guard mi distribuì cinque carte
coperte,facendo
lo stesso con Derek.
“
Quanti anni
avresti tu?” domandò, curioso e con una punta di superiorità nella
voce. Mi
irrigidii: di tutte le domande che mi aspettavo di certo questa era
l’ultima.
Se gli avessi detto al verità, e cioè che non avevo neanche diciassette
anni,
si sarebbe tirato indietro, negandomi la possibilità di trovare una
scappatoia?
Cercai di non tradirmi. “ Diciassette.”
“
Sembri più…
giovane.”
Scrocchiai
le
dita, nervosa, poi feci spallucce. “ Tu invece?” domandai sperando di
spostare
i riflettori su di lui.
“
Diciannove.”
Annuì,
un po’
sorpresa che apparisse così giovane. Gli avrei dato ventun’anni se non
di più:
c’era qualcosa in quel viso meraviglioso che aveva l’aria di essere… vissuto. Non vecchio ma come se le esperienze
fatte gli avessero dato un aria più adulta, matura.
“
Iniziamo”,decretò
Derek, distraendomi da quelle riflessioni.
Senza
degnarmi di uno sguardo prese cinque fiches, dal valore di cinquanta
dollari
l’uno e le piazzò al centro del tavolo. Ribattei con il controbuio,
prendendo sette
fiches blu, poi alzai lo sguardo indifferente, aspettando che
continuasse. Il body guard che
faceva da mazziere, una volta finito il round di scommesse eliminò la carta
superiore del deck mettendola coperta sul tavolo, poi ci fece cenno di
guardare
le nostre carte. Un asso di cuori, un dieci di picchè, un cinque e un
nove di
fiori e una regina di quadri. Per ora niente di che. Guardai
Derek cercando ci capire se a lui
fosse andata meglio, ma il suo volto perfetto non tradiva alcuna
emozione…
Durante il corso della
partita, che ebbe alti e bassi -
per quanto le mie mani fossero fortunate, avevo sempre la sensazione
che in
qualche modo le sue lo fossero di più- cercai di ignorare i commentini
denigratori e fastidiosi di Derek, che cercava di distrarmi. Mi sforzai
con tutta
me stessa di non rispondergli.
Sospirai nervosa quando
arrivammo all’ultimo round. Shane
tossì irrequieto dietro di me.
Il mazziere bruciò la
carta superiore sul deck e scoprì la
quinta carta, il river. Iniziò l’ultimo giro di scommesse: oramai il
piatto
aveva raggiunto la somma di
duemilatrecento dollari. Derek lanciò una scommessa di cento
dollari e
io ribattei con la stessa cifra. L’agitazione si scatenò in me quando
Derek
mise due carte coperte a
faccia in su
sul tavolo. Il mio stomaco si contorse, era l’azione decisiva: se Derek
aveva
una combinazione di carte più alta della mia, allora avevo perso. Io
avevo un
Poker: quattro carte dello stesso tipo, il Re, e una diversa, l’otto di
quadri.
Alzai lo sguardo dalle carte per vedere Derek, che combinava le sue
carte
coperte con le cinque carte in comune per creare la migliore mano
possibile.
Un sorriso sghembo e
vittorioso mi fece trasalire quando
abbassò le carte in modo da mostrarmele.
“ Ho vinto, tesoro.” ,
disse fiero.
Il respiro mi si bloccò
in gola. Non ci potevo credere. Se
avessi potuto mi sarei messa ad urlare. La gioia che prese possesso di
me fu
così grande che quasi temetti di esplodere.
Buttai con forza le
carte sul tavolo, un sorriso enorme
sul mio viso.
“ A dire il vero no!”
gli urlai in faccia. Mi misi a
saltare per tutta la stanza, non badando a Shane, Chad e Big- D che si
alzavano
stupefatti per andare a controllare. Avevo vinto! Avevo vinto! Era
tutto quello
che riuscivo a pensare.
Un urlo euforico simile
al mio esplose nella stanza.
Ancora saltellando mi voltai per controllare chi avesse esultato. Delle
braccia
muscolose mi avvolsero facendomi volteggiare.
“ Lucy, hai vinto! Hai
vinto!” gongolò Shane, baciandomi i
capelli.
Lo abbracciai, felice,
sentendo risate trionfanti alle mie
spalle. Dopo un attimo sciolsi l’abbraccio, avvicinandomi al tavolo,
dove
Derek, una maschera di incredulità e sconforto guardava le carte
davanti a se.
“ Poker batte Scala”,
scandii piano.
Lui non rispose,
continuò a tenere lo sguardo basso.
Io proseguii
inarrestabile. Se lo meritava. Per essere
così arrogante e sbruffone e per tutte le volte che aveva gioito nel
vedere
persone perdere contro di lui.
“
Forse dovresti
fare meglio i tuoi conti. Prima di dire che le ragazze non sanno
giocare”
dissi, ripensando alla frase che mi
aveva dedicato prima di iniziare la partita, “ dovresti imparare a
farlo tu.”
Finalmente fece quello
che aspettavo da dopo che l’avevo
visto all’aereoporto: alzò lo sguardo, trafiggendomi con un occhiata
carica di
rancore e umiliazione. I suoi occhi diventarono scuri come il piombo,
capaci di
scatenare una di quelle ondate di paura tali da far spaventare anche un
animale
selvatico. Improvvisamente pensai a
quanto quel viso disumano potesse essere pericoloso. C’èra qualcosa in
lui di
cupo e sinistro. Ignorai i brividi sulle
braccia continuandolo a fissare, aspettando che accadesse qualcosa,
anche solo
un remoto dolore simile a quello accaduto il giorno in cui ero
atterrata a
Maddlemburg. Mi sentii afferrare il polso ma non mi mossi, in attesa.
“ Andiamo, Lucy”, disse
a voce bassa Shane.
Strinsi i pugni
testardamente. Perché non accadeva niente?
Avevo bisogno di una conferma per accertarmi che ciò che era successo
non era
frutto della mia immaginazione o di qualche strana reazione del mio
corpo. A
poco a poco l’espressione furiosa di Derek tornò a essere
apparentemente calma,
per mio grande dispiacere. Le mie aspettative andarono in fumo, quando
lui si voltò
di scattò e sparii dietro una porta con un elegante e sicura camminata.
Non era
accaduto niente.
Mi voltai notando che
eravamo rimasti solo più io e Shane.
“ Si, andiamo”,
mormorai. Shane mi avvolse le spalle con
un braccio com’era solito fare a scuola e mi guidò lungo il corridoio.
Ancora
sconfortata per poco prima non protestai nemmeno.
“ Grazie, Lucy.”
Capii che si riferiva a
prima.
“ Non preoccuparti”, gli
risposi rincominciando ad urlare
a causa della forte musica. “ Voglio bere qualcosa!” esclamai quando ci
avvicinammo al bancone da bar. Avevo bisogno di rilassarmi e
dimenticare quegli
ultimi piacevoli e spiacevoli momenti. In fondo ero venuta lì per
passare un
allegro Halloween e avevo ancora tre consumazioni gratuite.
“ Stavo pensando la
stessa cosa!”, dichiarò Shane con un
sorriso. “ Cosa vuoi?”
Ci pensai un momento.
“ Un Long
Island al Thè!”
“ Aspettami qui! Vado a
prenderlo io!” Mi sorrise quando,
per dargli il bigliettino delle consumazioni, le nostre mani si
toccarono. Sperai non fraintendesse, ma rimasi
lì ad
aspettarlo. Cinque minuti dopo rieccolo con il mio cocktail in mano e
il suo.
Sorseggiamo con calma. Una nuova canzone esplose nelle casse nello
stesso
momento in cui poggiavamo i bicchieri vuoti su un tavolino.
“ Mi concedi questo
ballo?” mi gridò, porgendomi la mano.
Mi sentii
incredibilmente leggera, la testa che vorticava
a mille, ma era una bella sensazione. “ Ma certo!” accettai, con
vocetta
stridula e provocante, stringendogli la mano.
Facendoci largo tra la
calca di persone, tutto divenne
nero.
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
Buona
lettura. :-3
1
Novembre 2008
6
CAPITOLO – SBRONZA
Mi
rigirai nel letto morbido, respirando tranquilla, mentre con gli occhi
ancora
chiusi cercavo a vuoto le lenzuola per
coprirmi. La sensazione di freddo sparì
all’istante una volta sotto le coperte. Soddisfatta, abbracciai il
cuscino con
braccia e gambe, in una posizione contorta, affondandoci
la testa . Un profumo simile a acqua di
colonia, fresco e maschile, mi assalì facendomi sospirare beata. A sentire quel dolce odore, mi
svegliai di colpo, come se avessi ricevuto
una secchiata d’acqua ghiacciata, alzandomi e
rimanendo un attimo immobile, seduta sul materasso, mentre le
vertigini
causate dal movimento brusco si attenuavano. Mi guardai intorno,
smarrita a
preoccupata, mentre gli avvenimenti della sera precedente si facevano
largo tra
i pensieri confusi. Merda!Merda, merda, merda. Cercai di dare un senso
ai
ricordi vaghi, simili a immagini colorate e pieni di rumori, mentre
disperata
mi misi le mani tra i capelli aggrovigliati.
Coprendomi il viso con le mani, cercai di respirare rilassata, nel
tentativo di
calmarmi, mentre sconfortata mi sforzavo di ricordare. Borbottavo
piano, dando
voce ai pensieri. “ Ieri era Halloween.
E io ero in discoteca”, affermai sicura, piantando i pugni nel
materasso. Fissai intensamente un punto
indefinito tra
le lenzuola candide e il piumone scarlatto, cercando di continuare a
parlare,
ma non sapevo cosa dire. Le parole mi
mancavano e per quanto mi sforzassi di ricordare evocavo solo immagini
nere.
Non ricordavo nulla. Niente, vuoto totale. Era come se qualcuno si
fosse rubato
il continuo dei miei pensieri. Un altro pensiero, simile a una
certezza, mi
fece trasalire. Quasi petulante, chiusi di nuovo gli occhi, mentre una
rabbia
cieca mi invadeva. Mi sarei presa volentieri a pugni.
“Perfetto”, dissi sarcastica, con voce
isterica. “ Prima serata in discoteca e mi sono già ubriacata.” Il viso
di
Johnny, distorto dall’ira e la delusione fu come una foto nitida che mi
si parò
davanti, e sentii un ondata di emozioni che probabilmente erano residui
dei
sensi di colpa. Eppure non avevo mal di testa, neanche una minima
traccia di
dolore, come era capitato nelle passate sbronze- ed erano parecchie. Di
nuovo
quella ventata di profumo fresco, dalle fragranze quasi esotiche, mi
riempii le
narici lasciandomi quasi senza fiato e
provocandomi strani brividi sulle braccia. Rimasi paralizzata,
continuando a
respirare quel dolce odore, mentre i contorni della stanza cominciavano
a
vorticare velocemente. Non era la mia camera. Ma non era neanche una
delle
tante stanza che appartenevano a casa mia. Quell’ambiente mi era
completamente
estraneo: le pareti dalle tonalità giallo carico, davano alla camera,
già di
per se enorme, una sensazione dispersiva e allo stesso tempo
claustrofoba,
simile a trovarsi rinchiusi in una grande scatola. I mobili erano in
legno
scuro, così come la testiera del letto. Sobbalzai allarmata quando
notai che su
una sedia vicino al letto spiccava della biancheria femminile.
Involontariamente portai subito le mani sul seno, come per assicurarmi
che
indossassi ancora il mio intimo. Il sollievo di averlo ancora addosso
non durò
che un secondo quando capii che indossavo solamente quello, niente
vestiti.
Cominciai a respirare affannosamente. Dove diavolo ero? Che avevo
combinato? Mi morsi le labbra, nella speranza
di
continuare a ricordare. Sull’orlo di una crisi isterica, cominciai a
temere di
aver passato il resto delle nottata a casa di qualche tizio che avevo
incontrato in discoteca, cosa più che plausibile visto che solo da
ubriaca
potevo aver accettato inviti simili. Cazzo. Bè, a questo punto potevo
consegnarmi da sola agli arresti domiciliari, visto che una volta a
casa non mi
attendeva sorte diversa: il fatto di aver dormito fuori casa senza
avvertire mi sarebbe costata la libertà. Come
spiegarlo
a mio zio? Come giustificarmi e sperare di trovare scappatoia? Stavolta
ero con
le spalle al muro. Sfregandomi gli occhi decisi che avrei elaborato la
scusa in
un secondo momento. Ore era importante cercare di capire dove fossi e
soprattutto
con chi. Per quel che ne sapevo – o ricordavo – potevo anche trovarmi
dall’altra parte del West Virginia. Il fatto di sapermi vestita mi
diede la
minima speranza di non aver passato una notte di fuoco con uno
sconosciuto.
Magari mi ero limitata a dormire nel a casa di qualcuno. O magari era
una lei.
Questo spiegava la biancheria che si trovava sulla sedia. Forse ero in
camera
di Tamara. Sì, magari era proprio così, visto che non avevo mai visto
la sua
casa. Probabilmente mi aveva portato a casa sua proprio perché ero
ubriaca, si
era cambiata e aveva lasciato gli indumenti poggiati su quella sedia.
Ma quel
profumo , che mi infettava le narici, trasudava mascolinità. Era il
classico
profumo che probabilmente avresti immaginato di sentire addosso a dei
modelli.
Con una smorfia in viso, decisi che al cosa migliore era affrontare la
situazione di petto per scoprire la verità, al posto di crogiolarsi nei
dubbi.
Balzai in piedi infretta, cercando di sistemare al meglio le lenzuola,
accorgendomi che hai piedi del letto c’erano i miei pantaloni neri e
poggiata
per terra la mia borsa. Afferrai immediatamente quest’ultima, colta da
un
improvvisa scarica di adrenalina, frugando all’interno per cercare il
cellulare. Imprecai mentalmente quando, una volta tra le miei mani, lo
schermo
, che una volta toccato un tasto, rimase nero. “ No, no. Ti prego”,
implorai,
sperando che si accendesse. Lo schermo continuò a rimanere nero. “
Vaffanculo!”
esclamai arrabbiata, rigettandolo nella borsa. Ora, anche se avessi
voluto avvisare
mio zio non avrei potuto farlo. Mi infilai sconfortata i pantaloni ma
non
trovai il corsetto. Realizzai che erano anche spariti gli stivali. E
ora come
me ne andavo da li? Non potevo girare scalza per la città e tanto meno
sfoggiare il reggiseno rosa in pizzo nero. Maledizione. L’unica
soluzione era
scendere e chiedere al proprietario della cosa dove fossero le mie
cose. Cercai
di alzarmi il più possibile i pantaloni che arrivavano proprio al
limite poi,mordendomi
le labbra, camminai scalza sul tappeto morbido e mi avviai verso al
porta della
stanza aprendola lentamente. Sperai che
il cuore, che mi martellava furiosamente nel petto, non mi
smascherasse. Troppo
preoccupata da ciò che avrei scoperto da lì a poco, non badai
minimamente
all’arredamento della casa mentre scendevo una scala a chiocciola. I
suoni
melodici di una chitarra acustica, che a ogni scalino che scendevo
diventavano
sempre più forti, accompagnavano il mio respiro pesante. Seguendo
il suono delicato delle note sbucai
in un luminoso soggiorno. La luce forte che filtrava dalle finestre mi
fece
socchiudere gli occhi, che si ridussero a due fessure. Mi concentrai su
un
punto della stanza, dove c'era una sagoma dai contorni fin troppo
familiari. La
musica si interruppe. Riuscii a riaprire con molta meno fatica gli
occhi, ora
mai spalancati per la sorpresa, mentre l'uomo - il ragazzo - si
avvicinava.
Alla fine ci ritrovammo faccia a faccia. Anche se non mi fossi mai
ubriacata
sarei stata in grado di riconoscere quel volto maledettamente bello,
dai tratti
meravigliosi e selvaggi. Uno sguardo scaltro, provocatore, accesso da
un guizzo
simile all’argento liquido, che si fondeva con i suoi occhi, percorse il mio corpo, squadrandomi dall’alto
verso il basso. Gli occhi magnifici, quasi quanto quel viso,
indugiarono sul
mio petto, fino a posarsi sulle mie labbra socchiuse.
“
Il vestito di ieri sera non ti rende giustizia.”, affermò il ragazzo
con voce
maliziosa. “ Lo sai vero?”
Un
sorriso fulminino gli balenò sul volto e poi compare una faccia da
poker. Tutto
in un attimo fu molto più chiaro.
Cercai
di insabbiare l’imbarazzo che mi invadeva con un sorriso, poi abbassai
lo
sguardo mentre il suo, grigio, continuava a scrutarmi.
"Ciao,
Derek."
MA LA FANFITION
FA COSì
SCHIFO??? Vedo che le persone leggono ma non commentano… Mi piacerebbe
sapere
che cosa ne pensate…
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
Dopo secoli torno
ad
aggiornare questa fan fiction, giusto in tempo per Halloween!!! Grazie
alle
persone che leggono, che a quanto vedo, non sono poche! Non dimenticate
di
recensire, VI PREGOOOOO! ç_ç
Bacioooooooo!
1
Novembre 2008
7
CAPITOLO - INVITO
“
Ti ricordi il mio nome?”
Il
suo tono falsamente ingenuo mi fece insospettire, ma decisi di
mantenere la
calma e rispondere alla provocazione.
Ammiccai.
“ Tu ti ricordi il mio nome?”, chiesi maliziosa.
Si
lasciò scappare una risatina quasi nervosa poi mi guardò dritto negli
occhi,
usando tutta la potenza del suo sguardo.
“
Ora mi dai un motivo migliore per ricordamelo”, affermò ironico,
avvicinandosi
di un passo verso di me. “ Lucy.”
Mi
irrigidii istantaneamente, e non per il nervosismo. Il tono di voce
seducente,
sottile, con cui pronunciò il mio nome fece andare in tilt il cervello,
nonostante fossi abituata a quel genere di complimenti scritto tra le
righe. Cercai di ignorare la voglia di
avvicinarmi a lui quel tanto che bastava a verificare se anche il suo
corpo
profumasse come quella fragranza che tappava le narici, soffocando
l’istinto con
una certa fatica, per occuparmi di questioni più importanti.
“
Che ci faccio qua, Derek?” chiesi piano.
La
domanda lo colse di sorpresa, poi cercando di non smascherarsi mi
rispose
velocemente.
“
Ti sei leggermente ubriacata!” disse
ironicamente. Lo fulminai con lo sguardo ma lui continuò. “ Inoltre ho
impedito
al tuo amico di fotterti nel cesso
della discoteca. Non credo che tu
fossi molto consenziente.”
Rimasi
ammutolita a fissarlo. Amico? Fottermi?
Nel cesso? Ma di che diavolo
blaterava?
“
Che… che stai dicendo?” balbettai.
“
Quello che ho detto”, mi ribadì lui. “ Tu e Shane eravate in
atteggiamenti
molto, molto intimi. Per essere
precisi la sua lingua ha esplorato molto profondamente la tua bocca,
favore che
poi hai ricambiato.”
“Ah!”
fu tutto ciò che riuscii a dire alla fine. Che altro potevo dire? Che
mi stava
bene? Si, anche. In quel momento sperai che anche Shane si fosse
ubriacato
abbastanza da non ricordarsi nulla. Mi
ripresi quando uno spiffero di aria fredda si scontrò con la mia
schiena nuda.
Solo allora mi ricordai di essere in reggiseno. Un'altra paura mi fece
scattare. In un'altra occasione non mi sarei sentita così a disagio,
tutt’altro
era una persona che in occasioni del genere giocava molto sulla
malizia, ma
c’era qualcosa in Derek che annientava quella parte di me. Mi metteva
in
soggezione. Più lo guardavo e più sentivo del fuoco bruciare in me.
“
Giusto per…” iniziai imbarazzata, non sapendo quale fosse il modo
migliore ed
educato per esprimere le mie preoccupazioni. “ Anche noi eravamo… in..
in
atteggiamenti intimi?”
Derek
mi fissò con espressione che si faceva sempre più divertita man mano che io andavo sempre più in palla. Ero più che
sicura che avesse capito a cosa mi stessi riferendo e sospettai che mettermi in difficoltà fosse un modo
per
vendicarsi dopo figuraccia che gli avevo fatto fare ieri sera.
Evidentemente aspettava che parlassi io.
Avrei
voluto scavarmi una fossa da sola quando dissi: " Abbiamo fatto
sesso?" tutto d'un fiato.
L'espressione
di Derek si fece sempre più vittoriosa e beffarda mentre con passo
lento ma
deciso si avvicinava sempre di più verso di me. "No, ma se vuoi
rimediamo subito!”
Rimasi
ammutolita riflettendo sul senso di quella frase. Mi aveva forse detto
in un
modo un po’ contorto che gli piacevo? Nah, senza contorto: l’invito era
stato
chiarissimo. L’imbarazzo stranamente sembrò evaporare. Cercai di
soffocare la
reazione eloquente del mio corpo mentre la parte felina di
me si schiantava con una potenza.
Annullai
con passo sicuro la distanza tra di noi.
“Rimedieresti davvero?” chiesi con voce bassa e seducente, alzando gli
occhi
per poterlo guardare negli occhi. Non mi ero resa conto che fosse così
alto:
dovevo tenere la testa sempre più in su per guardalo in viso. La mia
reazione
lo sorprese, era evidente. Si era improvvisamente irrigidito, lo
riconoscevo
dai suoi occhi simili all’argento, incredibilmente concentrati nei miei.
“
Tu no?” ribattè alla fine, con voce che cercava di nascondere un
fremito.
Cercai di non lasciarmi distrarre da quel profumo inebriante. Socchiusi
un poco
la bocca, lasciando intravedere la lingua, poi mi alzai in punta di
piedi verso
di lui. Derek rimaneva immobile, scombussolato da quel mio improvviso
cambio di
umore. Il meglio deve ancora venire, pensai tra me e me. Inarcai un po’
la
testa, fino a portarmi a neanche un centimetro di distanza dalla sua
bocca. Mi
avvicinai e…
“
NO!” esclamai allontanandomi brusca, portando i nostri corpi a una
distanza di
sicurezza. “ Non lo
farei.”
Sorrisi
trionfante. Derek ricambiò silenzioso il mio sguardo, senza
trasmettermi
niente. Era padrone di se stesso, non avrei saputo dire quali
sensazioni stesse
provando in quel momento. Avrei detto imbarazzo. Io da parte mia
gongolavo di
soddisfazione per averlo messo nel sacco. Ora non stava a me parlare,
ma quando
Derek lo fece, desiderai che non l’avesse mai fatto.
“
Oh si che lo faresti, tesoro.” Affermò sicuro di se. “ Lo nascondi
sotto quel…”
indicò il mio corpo, sforzandosi di trovare le parole giuste. “… quel
ben di
Dio, ma lo faresti. E lo sai.” Uno dei suoi sorrisi sarcastici e
dominatori gli
balenò in volto.
Mi
sentii sprofondare ma lo congelai con occhiataccia. “ No.”
“
Si.”
“
NO!”
Mi
ri sorrise, sferzante.“ Si, se non fosse così non saresti qui a
discutere con
me e con te stessa.”
Rimasi
a bocca aperta, poi la richiusi di scatto, imbufalita Non era vero!
Aveva
torto! Per quanto fosse fichissimo non avevo di certo intenzione di
andare a
letto con lui. “ Credi a cosa vuoi!”, ringhiai alla fine, per poi
andare a
passo di carica verso la porta. Stupido
idiota! In quel momento, arrabbiata com’era non sapevo che farmene
dell’orgoglio. Sarei uscita di casa anche in reggiseno e scalza se non
fosse
stato per Derek, che in un attimo mi fu dietro, richiudendo senza
sforzo il
portone in legno che avevo aperto e bloccandomi l’uscita con il suo
braccio
muscoloso. Rimasi immobile a fissare i
vetri opachi, troppo scioccata per capire come avesse fatto a
raggiungermi così
in fretta e per di più senza far rumore. Sentivo il suo fiato freddo
sul collo.
Quando lanciai uno sguardo velenoso al braccio, pronta a staccarglielo
a morsi,
Derek parlò pacato, innervosendomi ancora di più.
“
Se proprio devi andartene, perlomeno rivestiti. Oltre a prendere freddo
potresti scatenare la reazione di qualche passante. E oggi non
so se mi va di fare a botte con qualcuno.”
Ignorai
la sua minaccia e digrignai i denti, poi mi voltai riluttante a
guardarlo in
faccia. “ Allora dammeli tu, visto che in camera tua non ci
sono,”ribattei. “
Grazie.”
“
Sono nel bagno!” mi rispose lui, spostandosi e lasciandomi libera di
andare
verso le scale. Lo incenerii con un'altra occhiata poi salii con passo
pesante
le scale. Una volta in camera sua,
cercai velocemente i vestiti, piegati malamente ai piedi del letto,
indossandoli svogliatamente mentre pensavo ancora alle parole che mi
aveva
detto con sicurezza in soggiorno. Se non
fosse così non saresti qui a discutere con me e con te stessa. Come
potevo
farmi influenzare dal parere di un ragazzino di qualche anno più grande
di me,
che a malapena mi conosceva? Solo perché fisicamente era attraente
questo non
giustificava il fatto che si potesse comportare come uno stronzo di
prima
categoria. Io sapevo qual’era la verità, e non era di certo quella. Mi
fiondai
in bagno, cercando di scacciare quei pensieri. Mi specchiai nel grande
specchio
sopra il lavandino, e ovviamente vidi riflesso ciò che mi aspettavo:
una massa di
capelli mezzi lisci e mezzi mossi e tutto il trucco sbavato. Legai i
capelli in
una treccia veloce e pratica poi mi sciacquai la faccia cercando di
portar via
il più trucco possibile e mi limitai ad asciugarmi con
della carta igienica al posto di usare un
asciugamano. Indossai il cappotto, infilai gli stivali e scesi in
fretta le
scale, sotto il ticchettio frenetico dei tacchi, masticando con fatica
i tre
cicles alla menta che avevo trovato in
borsa, usandoli come rimedio allo spazzolino. Non avevo nemmeno
intenzione di
salutare Derek o ringraziarlo, per quel che mi riguardava poteva
benissimo
lasciarmi in atteggiamenti intimi con Shane, sempre che fosse vero.
Finalmente
uscii dalla casa ma mi bloccai sulla soglia,un sorrisetto pietrificato
sulla
bocca. L’aria fresca e frizzante, che profumava ancora di ruggine e
pioggia, mi
fece rabbrividire, mentre fissavo quasi spiritata una moto grande, nera
e
lucida parcheggiata proprio sul vialetto.
Derek trionfante e bellissimo, seduto proprio su quella
meraviglia,
intento e sfregarsi le mani per riscaldarsi da quell’aria fredda, mi
fissava
soddisfatto.
“
Che cosa significa tutto questo?” domandai stizzosa, avvicinandomi a
lui.
“
È’ il mio modo per chiedere scusa,” rispose angelico.
“
Se il tuo modo per chiedere scusa vuol dire andarsi a schiantare contro
un palo
della luce, okey.”
Lui
soffocò una risata, senza badare al tono
acido che avevo usato. “ Veramente volevo chiederti se ti andava di
uscire.”
Gli
risposi dopo un momento di palese sorpresa. “ Ho altro da fare”, dissi
accennando
a un passo nella direzione opposta alla sua.
Il
suo braccio muscoloso e lungo, apparve fulmineo, bloccandomi la strada.
Per un
istante rimasi li a chiedermi se fosse il caso di prendere a morsi la
sua mano
o a tirargli un pugno in testa. Poi feci un sospiro scocciato e mi
voltai a
guardarlo, inviperita. Lui, testardamente, con il braccio libero, mi
porse un
casco che non afferrai. Ci guardammo per dei secondi interminabili e
quasi con
furia, finchè Derek non scatenò su di me la potenza del suo sguardo.
“Di
certo la motivazione del tuo “ no” non è sicuramente perché hai paura
di finire
nei casini con i tuoi,” mi provocò.
Feci
per ribattere, anche se quella era la verità, ma lui mi anticipò.“ Se
fosse
stato così te ne saresti andata da un pezzo. Quindi vedila come un modo
per
chiederti scusa riguardo prima. E inoltre anche se non ti importa,
sappiamo bene
che una volta a casa non uscirai per un bel po’ quindi… a te la scelta.”
Ridussi
gli occhi a una fessura quando lui
riavvicinò il casco alle mie mani. Dove tornare a casa e lo sapevo
bene, come
minimo ero in ritardo di almeno dieci ore. Stare ancora in giro a
gingillare
per un po’ non mi avrebbe ingraziato di sicuro. Sarei stata volentieri
ancora
fuori, per potermi godere gli ultimi istanti di libertà però… stavo per
dire non con Derek ma mi bloccai. Ero davvero
così sicura di non voler montare su quella moto con lui? Pensai alla
prima
volta che l’avevo visto e poi a quel desiderio malsano di rivederlo che
mi
aveva assalito nelle settimane a venire. Ora che finalmente c’e l’avevo
davanti
sarei stata in grado di digli di no e andarmene? Di certo quando
l’avevo visto
non avevo immaginato che disponesse di un carattere così pungente
e vivace ma d’altronde l’irresponsabile
e testarda ragazza che ero, era l’ultima che poteva giudicare le
persone.
“Sento
che mi pentirò di questa decisione” mormorai guardandolo e prendendo il
casco
tra le mani.
Lui
rise e mi sorrise. Un fuoco improvviso divampò in me. Controllati,
mi dissi.
Infilai
con sicurezza il caso, montando dietro di lui. Afferrai saldamente la
felpa che
indossava, cercando però di non accollarmi a lui. La sua risata
fragorosa,
segno che probabilmente aveva capito, venne coperta dal ruggito del
motore appena
acceso. “ Pronta?” mi chiese, quasi frenetico.
Sperai
che riuscisse a sentirmi anche attraverso il casco. “Sì.”
La
moto partì in quarta, facendomi quasi schizzare all’indietro,
nonostante fossi
pronta all’impatto. Con un moto di paura ed eccitazione sorrisi
involontariamente mentre stringevo le gambe contro quelle di Derek,
sentendo
l’aria fredda trapassare il giubbotto leggere, sfrecciando lungo una
strada
costeggiata di case vittoriane ed enormi. Alcune erano fatiscenti e
disabitate,
con travi in legno alle finestre, mentre altre gloriose e bellissime in
confronto, sebbene tutte si distinguessero per i muri esterni scoloriti
e
decadenti. Nella mia mente riconobbi subito quel quartiere, non
esattamente tra
i migliori:il Vittoriano. Fino a meno di cinquant’anni fa, era incluso
nella
parte storica della città ma con l’andare degli anni quella ville erano
state
vendute o cedute dai proprietari agli esalatori dei debiti e scommesse.
Ora mai
a popolarlo era un miscuglio di malavita e persone seriamente
problematiche.
Preferibilmente da evitare. Mentre mi perdevo in quei pensieri mi resi
conto
che non avevo la minima idea di dove Derek mi stesse portando, così un
po’
intimorita cominciai a seguire gli spostamenti della moto. Non
riconoscevo le
viuzze che lui percorreva con sicurezza e facilità, tra palazzi mezzi
distrutti
e pitturati da graffiti colorati e appariscenti, finché non imboccò un
ponticello in legno, procedendo sempre più a nord verso le colline e la
vecchia
stazione, risalendo tornanti e stradine sterrate. Feci mente locale,
cercando
di ricordare se ci fossero negozi o qualsiasi altre cose che non lo
rendessero
un posto appartato, constatando che a parte qualche ristorante di lusso
sfruttato soprattutto da romantici fidanzanti non c’era altro. Aveva
intenzione
di offrirmi la cena? Mentre la moto slittò un poco sotto della ghiaia,
mi chiesi
se era il caso di scendere e tornarmene
a casa. Senza darmi il tempo di prendere una decisione razionale la
moto si
fermò con un brontolio mentre io rimanevo seduta sul retro del veicolo,
guardandomi intorno con circospezione. La diffidenza venne sostituita
in poco
tempo dalla sorpresa, mentre sempre più incredula allentavo lo la presa
ferrea
che esercitavo su Derek. Mi sfilai lentamente il casco per
poter ammirare ancora meglio il panorama,
scendendo
cautamente dalla moto.
“
Grazie”, mormorai distratta a Derek, porgendogli il casco. Mi avviai
sempre più
entusiasta e con lunghi passi, camminando su terra secca e irregolare,
verso un
precipizio. La risata smorzata di Derek, probabilmente dovuta alla mia
reazione, raggiunse le mie orecchie, ma non ci badai. Per potermi
sporgere
ancora un po’ di più, e ammirare meglio il panorama che mi si parava
davanti,
afferrai saldamente il tronco di un pino. Quando raggiunsi la posizione
adeguata aguzzai la vista, mentre un sorriso che partiva da un orecchio
all’altro
mi si stampava in volto. Guardavo dell’altro e con ammirazione, su una
collinetta a metà tra la terra e il cielo, una piccola e caotica
Maddlemburg:avevo vista completo di tutto. Riuscivo a scorgere con fin
troppa
chiarezza il parco grande e immenso che si mischiava con il bosco,
ormai una
macchia vuota e quasi spoglia, i quartieri a Nord che erano
praticamente sotto
i miei piedi, alcuni tra i palazzi più alti del centro, la ferrovia che
attraversava la città e il fiume che la costeggiava. In lontananza si
vedevano
i quartieri a Sud. Se questa era la vista di cui usufruivo guardando in
basso
non potevo dire lo stesso se alzavo gli occhi al cielo, velato di
grigio e
nuvole sparse che coprivano il blu, quasi fossero state una cappa di
fumo. Quel
colore in quel momento mi ricordava una sola cosa, o persona. Le
colline sempre
più alte e ricche di una foresta fino a qualche mese prima rigogliosa,
delimitavano la vallata e circondavano la città, creando una
meravigliosa
gabbia. Tutto era fin troppo stupendo, soprattutto se visto da un punto
intermedio come il mio. Sentii foglie secche sgretolarsi sotto i passi
e poi il
respiro lento e regolare quanto il mio.
“
Sono perdonato?” domandò Derek spezzando il silenzio dopo alcuni
secondi.
Mi
voltai a guardarlo e annuì, con ancora i residui di quel sorriso sulle
labbra.
Lui arricciò il naso e mi sorrise, pizzicando la lingua fra i denti,
soddisfatto da quella risposta. Mi
voltai di nuovo verso il burrone,
continuando a reggermi per sicurezza all’albero.
“
Non sapevo esistesse questo posto.” Mormorai per non spezzare la calma.
“
Lo sanno in pochi.”
“ Andiamo?”
chiese poi di punto in bianco.
Mi
voltai confusa. “ Dove?”
Mi
strizzò l’occhio: “ In un altro posto che conoscono in pochi.”
RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE! |
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