Al calare delle tenebre.

di bubblin_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Al Calare delle Tenebre



Come uno che, per strada deserta
cammina tra paura e terrore
e, guardandosi indietro, prosegue
e non volta mai più la testa
perché sa che un orrendo demonio
a breve distanza lo insegue.
[S.T Coleridge]


13 Maggio 1992

Caro Richard,
stiamo partendo.

Io e tua figlia abbiamo preso questa decisione dopo che hanno bruciato la casa, con noi dentro. Sono sicuro che siano stati loro. Non c’è altra spiegazione, i vandali che si vogliono divertire non vengo nel pieno del bosco per dar fuoco a case. Sono loro. Probabilmente stavano escogitando questo piano da un po’ quindi cerca di non giustificare l’accaduto con frasi tipo: “ è stato fatto per ripicca” perché sapevano che noi eravamo lì dentro. Hanno solo atteso il momento giusto è tutto è esploso nel fuoco. È da quando i bambini sono nati che tentato in qualche modo di ribellarsi e io non posso di certo rimanere qui, aggiungermi agli altri Cacciatori con la speranza di calmare la rivolta con il rischio che Wendy e i piccoli vengano uccisi. L’idea che, presto o tardi, ci saranno due Cacciatori in più a dare la caccia a tutti loro, deve avergli dato alla testa e hanno scelto il modo più facile per toglierseli dai piedi: ammazzarli. Il fuoco deve esser stato appiccato dalla stanzetta di Lucy. Non so neanche chi e come sia riuscito ad entrare in casa, sta di fatto che la bambina non è stata toccata, semplicemente è stato dato fuoco alla sua camera con lei nella culla. Il fuoco è divampato in un attimo e non ho idea di come, grazie a Dio, non sia morta. Wendy ha portato David e Andrew verso il bosco mentre io sono entrato nella stanza per prendere Lucy ma è stato come trovarsi davanti alla bocca dell’inferno. C’èra fuoco e fumo ovunque, non riuscivo nemmeno a respirare. Non sentivo nemmeno Lucy piangere, per un momento ho creduto che fosse morta, e quando è crollato il soffitto ho pensato che fosse la fine. Ma in verità il cemento e i mattoni mi hanno aperto un varco nel fuoco e sono riuscita a prenderla e portarla via, al sicuro. Era viola in faccia, non respirava nemmeno più, poi improvvisamente si è ripresa. Meglio così. A neanche tre mesi di vita ha rischiato di morire mentre i suoi fratelli l’hanno scampata per un pelo. Capisci ora perché partiamo? Ne io ne tua figlia vogliamo far crescere i nostri figli in un luogo così, dove a ogni movimento nell’ombra, la paura che qualche demone sputato dall’inferno venuto a far del male ai nostri figli ci assalga. Sai bene che dare la caccia a vampiri, demoni e altri mostri non mi ha mai attratto e sebbene sia stato educato così fin da piccolo, non voglio far lo stesso con Andrew e David. Il gene del Cacciatore è qualcosa che hanno nel sangue sia da parte della mia famiglia che da quella di Wendy, la tua, è qualcosa che fa e farà parte di loro per sempre , per questo una volta cresciuti abbastanza non intendo nascondergli niente di questo segreto, saranno sempre al corrente di tutto. Ma, da padre, non posso chiedergli di rinunciare alle loro ambizioni per impugnare paletti in legno e d’argento. È come ordinargli di stare dietro una grande vetrata trasparente a osservare i sogni degli altri avverarsi, mentre i loro rimangono dietro a guardare. Saranno loro a scegliere il loro futuro.
Ora siamo diretti verso la mia vecchia casa in Irlanda, dai miei. Reputo che sia un posto molto più sicuro, sebbene anche i demoni del posto non tardino a reclamare l’attenzione dei Cacciatori locali. Avrai capito perché non ti ho detto tutto questo tramite chiamata: qualcuno di loro avrebbe potuto sentire e non voglio rischiare.

Wendy ti vuole bene, e spero che non ti rammaricherai per questa decisione. Avrò cura di lei, non temere.

Con stima,

Thomas.

Quando Richard Anderson lesse le ultime parole di quella lettera, scritta con calligrafia disordinata, fu colto da un impeto di rabbia e dolore così potente da farlo cadere per terra, in ginocchio, proprio davanti al camino. Ignorò il male alle ginocchia, coperto da un altro tipo di cruccio molto più forte. Si sforzò di non far traboccare le lacrime che rischiavano di scendere lungo le guance e con un urlò disperato appallottolò la lettera, gettando la pallina di carta nel camino. Il foglio di carta prese fuoco in un attimo, passando velocemente dal tipico color bianco a un giallo sbiadito fino al marrone e poi al grigio, sgretolandosi in cenere e mischiandosi con i carboni ancora ardenti della legna che scoppiettava. Solo dopo aver colto l’ultimo granello di cenere che spariva tra le fiamma si portò le mani tremanti sul viso, piangendo sommessamente.

La scena, per tutto il tempo, venne osservata da un giovane ragazzo, seduto aggraziatamente su un ramo di un albero poco lontano da casa, ai margini del bosco. Dopo aver socchiuso gli occhi, riducendoli a due fessure, si guardò intorno circospetto, assicurandosi che nessuna delle case vicine avesse luci accese poi, ignorando i quindici metri di altezza su cui era sospeso, si buttò giù senza timore, atterrando in modo spaventosamente aggraziato e disinvolto sulle punte dei piedi, senza produrre nessun rumore , sul prato secco e gelato. Quasi come fosse un animale predatore, si acquattò un poco e respirò a pieni polmoni l’aria fredda della notte, in cerca di qualche odore. Non captò nulla di anomalo, se non un gruppo di cervi a qualche chilometro di distanza, verso il William River. Soddisfatto di ciò che aveva appena osservato nella casa, sorrise, poi sbuffando – nessuna nuvola di fiato gli usci dalla bocca – si incamminò con una camminata flessuosa e sicura di sé verso il bosco nero, sparendo nel buio.

Ooook, se siete arrivati fino alla fine senza avere attacchi di vomito, conati di nausea, giramenti di testa e nei casi peggiori attacchi al vostro apparato crasso, è un buon segno. =)

Questa sarà una long - fic.

Come prologo è penosissimo e probabilmente poco chiaro e confuso ma da una parte volevo che fosse proprio così. L’ho scritto in un momento di fantasia e dopo che ho riletto tutto, l’idea di scrivere qualcosa mi è piaciuta più di quanto immaginassi.

Se tutto questo può interessarvi fatemi sapere che magari posto il seguito. =)

Mi raccomando, recensite. Please?


Bacio.

Bubblin_

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Prima di tutto i ringraziamenti a
Laudica_2204: grazie per aver trovato il prologo interessante e x aver reputeto la storai degna di essere letta. Questo capitolo lo " dedico" a te!! xD


CAPITOLO UNO – QUESTIONE DI SGUARDI

16 anni dopo…

12 Settembre 2008

Spalancai gli occhi di colpo, sobbalzando involontariamente e scattando in avanti, quasi pronta a scappare. Un uomo stempiato, sulla cinquantina, seduto accanto a me, mi guardò stupito attraverso i suoi occhiali spessi come un fondo di bottiglia. Nonostante fossi imbarazzata lo guardai fisso negli occhi, come a chiedergli che cosa avesse da guardare. Lui a disagio scrollò le spalle e ritornò a leggere “ The Irish Times”. Alzai gli occhi al cielo, infastidita del fatto che la gente si mostrasse sempre così curiosa, poi con un sospiro mi appoggiai allo schienale del sedile, guardando fuori dal finestrino. Nonostante cercassi con tutto il cuore di perdermi nel candore delle nuvole, continuai a pensare all’incubo che mi aveva fatto svegliare di soprassalto. Sempre lo stesso soffocante e monotono incubo. Fuoco e fiamme ovunque. E poi del fumo, così denso da farmi credere che fosse nebbia. Di per se come incubo non era niente di che, ma erano le sensazione che quel sogno mi dava che mi turbavano. Andavo a fuoco. Sapevo di andare a fuoco. Il calore sulla mia pelle era così vivo da darmi l’impressione che fossi una falò vivente. E poi il fumo, la parte peggiore. Cercare di respirare, prendere boccate d’aria e tentare di aprire i polmoni sempre di più ottenendo fiato in meno. Era più o meno verso quella parte di sogno che mi svegliavo di soprassalto. In quel momento però mi sarei riaddormentata più che volentieri, disposta anche a subirmi lo stesso incubo pur di scappare da ciò che stavo affrontando: partire dall’Irlanda, da casa mia. Abbandonare la costa frastagliata, il mare, quell’odore di salsedine che la mattina mi svegliava. Abbandonare gli amici. Abbandonare Dublino, per andare verso Maddlemburg, nella Virginia dell’ Ovest. Da mio zio. Non avevo possibilità, non dopo che mia madre neanche un anno fa era morta in un incidente stradale. Quella scelta me l’avevano proposta i miei fratelli maggiori, David e Andrew, dopo che eravamo rimasti soli e senza un vero adulto che badasse su di noi. Secondo la Legge, in quanto maggiorenni, loro due avrebbero potuto perfettamente badare a me, la sorellina più piccola, ovviamente mettendo da parte le loro ambizioni per il futuro, cosa che ne loro ne io eravamo disposti ad accettare. Ingoiando il boccone amaro avevo aspettato che finisse l’estate per fare i bagagli e trasferirmi in America, giusto il tempo di compiere diciottanni ed essere responsabile solo di me stessa, in modo da poter tornare a casa. In quel momento, uno dei pochi, desiderai un padre. Sapevo che era sciocco come desiderio, visto che in tutti i miei quasi diciassette anni di vita non ne avevo mai desiderato ne voluto – ne avuto – uno. Non sapevo nemmeno che faccia avesse e non mi ero mai preoccupata di chiedere chi fosse; del canto suo mia madre non era molto loquace su quell’argomento: tutto cio che sapevo e che quando non avevo nemmeno un anno di vita se n’era andato, lasciandoci soli. Non che fosse un problema visto che le nostre risorse economiche erano più che imponenti ma di tanto in tanto capitava anche a me di desiderarne uno. Colta da un improvvisa sensazione di vuoto chiusi gli occhi permettendomi per un attimo di versare qualche lacrima.

***


Maddlemburg è una piccola e poetica cittadina fondata verso il 1700 da alcuni coloni inglesi, tra cui gli antenati della mia famiglia, in una desolata valle in mezzo ai boschi. Nonostante la posizione isolata e le dodicimila persone che la popolano, la città è sempre stata caratteristica, per via dei tipici Quartieri Alti distinti dalle villette inglesi e per il Vittoriano, un quartiere frequentato soprattutto dai giovani per via delle strade ricche di vita notturna. Io, per mia sfortuna non avrei abitato in nessuno dei quartieri: la grande villa inglese di mio zio Johnny, una volta appartenuta ai miei nonni, si trovava ai margini del fitto bosco che circondava tutta la città. Non avevo mai capito perché secoli prima avessero deciso di costruirla nel bel mezzo del nulla, forse per poter permettere all’architetto di dar sfogo alla sua idea di maestosità: per quel che mi ricordavo la villa era magnifica e imponente. E quando i miei nonni avevano deciso di partire per la Florida, più o meno quando mia madre ci aveva portato via da quella città, mio zio era stato più che felice di ereditarla. Era facile andare d’accordo con il fratello di mia madre – era un uomo solare a cui piaceva divertirsi senza imporre troppe regole – ma da quando aveva divorziato dalla mia adorabile zia Diana e dalla mia cunetta Kim, i rapporti si erano tesi, almeno da parte mia. Nella mia testa mi sembrava di vederripetersi lo stesso errore che, probabilmente, mio padre aveva fatto con me e con mia madre. Inoltre quella casa me la vedevo decisamente vuota e enorme, soprattutto ora che avremmo convissuto solo noi due – non contando le cameriere che lavoravano per la nostra famiglia. Nonostante i miei dubbi su quella forzata coabitazione, Johnny si era comportato in modo impeccabile, una volta venuto a sapere del mio arrivo in città. Sembrava fargli piacere il fatto che avessi messo da parte i vecchi rancori che nutrivo verso di lui – cosa che, per la cronaca, non avevo del tutto fatto – per poter passare un po’ di tempo nella vecchia città natale. Mi aveva già iscritto a una scuola e si era preoccupato di sistemare al meglio la cameretta che una volta era appartenuta a mia madre. Proprio mentre l’aereo atterrava, mi dissi, anche se il termine esatto sarebbe mi imposi, che mi sarei comportata nella maniere più adatta che una sedicenne potesse fare, in modo da poter passare serenamente i mesi di purgatorio che mi attendevano a Maddlemburg. Suonava assurdo perfino alle mie orecchie, ma stranamente, quando vidi Johnny che mi attendeva all’uscita del check-in, riuscì a rivolgergli un sorriso fugace, prima che lui mi stringesse in un soffocante abbraccio. Spiazzata, lasciai le braccia inerti lungo i fianchi, per poi battergli dei colpetti sulla schiena, imbarazzata.

«
Finalmente sei arrivata » mi disse allontanandosi un po’ da me, per potermi guardare.
«
Sempre uguale, sempre più bella. »
Era strano ricordarsi perché gli portavo rancore, quando si comportava in modo così naturale. Guardarlo mi ricordava l’infanzia, dove mi divertivo a stargli sulle spalle. Sentii una sorta di calore, e sorridere questa volta venne in modo molto più naturale.
«
Grazie zio. Anche tu non sei cambiato molto. »
Johnny mi ricordava gli eterni bellocci, quegli attori delle serie Tv che si divertivano a fare conquiste in giro, nonostante avessero alle spalle un bel po’ di anni. Ma in questo caso, lui come loro, poteva permetterselo: nonostante i quarantacinque anni passati, mio zio era ancora avvenente, con i capelli color cioccolato, e un viso dalla pelle abbronzata, che sembrava non avvertire il peso delle rughe che cominciavano a spuntare.
«
I tuoi fratelli? »mi domandò, togliendomi dalla mano il grosso trolley che mi stavo trascinando dietro.
«
Stanno bene. »
Chiedendomi della mia famiglia mi ricordai della sua.

«
Kim ela zia stanno bene? » domandai titubante, nonostante sapessi che le visite tra lui e sua figlia fossero molto rare.
Strinse le labbra.
« Si, credo di si », mi rispose, dando conferma ai miei dubbi.
Cercai di mettere a tacere il fastidio dovuto a quella risposta seguendo Johnny verso l’uscita. Improvvisamente avverti una strana sensazione, come se qualcuno mi fissasse. Mi fermai, lasciando Johnny che continuava a camminare, e mi guardai intorno sempre più confusa, aspettandomi di vedere qualcuno che mi guardava. Niente. L’aeroporto, nonostante l’orario notturno, era pieno di persone troppo indaffarate nei loro lavori per fermarsi a guardare proprio me. Eppure ero convinta che mi stessero guardando. Testardamente socchiusi gli occhi, come per concentrarmi meglio e ispezionai un ultima volta l’aeroporto, stavolta con occhiate più attente. Il mio sguardo si incontrò per un attimo con quello di due occhi grigi magnetici, che mi catturarono come una calamita. Al posto di voltarmi come una qualsiasi persona normale, rimasi imbambolata a fissare il proprietario di quegli occhi, che incuriosito quanto me, ricambiava le attenzioni. Nonostante fosse a una ventina di metri di me, riuscivo a cogliere ogni particolare del suo corpo. Dio era …meraviglioso. Degno di sfilare su una passerella di moda a New York. Giovane, non dimostrava più di diciannove anni, era alto e magro, ma comunque muscoloso. Mi sembrava di vedere i muscoli delle braccia contrarsi sotto le maniche della camicia nera, arrotolata fino ai gomiti. Il viso era dalla classica forma un po’ squadrata, con i lineamenti dritti e perfetti, dalla bellezza incontestabile. I nostri occhi si incrociarono per la seconda volta, e dal suo guardo fremente notai che anche lui mi aveva squadrato e sembrava avesse apprezzato ciò che gli era davanti. Con il respiro improvvisamente corto, lo continuai a fissare con occhiate trasversali, sostenendo il suo sguardo, un po’ coperto dai alcuni ciuffi capelli castani, portati in un taglio un po’ lungo.
Tutto accadde tutto molto velocemente. Un attimo prima stavo perfettamente bene e un attimo dopo ero piegata in due su me stessa, con la testa che scoppiava. Mi sembrava di avvertire mille e mille ultrasuoni nella testa, che si sovrapponevano tra loro. Se una parte del mio cervello non mi avesse ricordato che mi trovavo in un luogo pubblico mi sarei messa ad urlare, così mi limitai tenermi la testa tra le mani e a gemere sotto voce. Il rumore continuava ad aumentava sempre di più, così come tutti i suoni intorno a me. La testa iniziò a pulsarmi e dolermi sempre di più e cominciai a pensare che da un momento all’altro potesse esplodere; strinsi la presa della testa, nella speranza che la pressione facesse cessare un po’ il dolore. Sentii la voce allarmata di Johnny di fianco a me.

«
Lucy, Lucy. » La voce era agitata, e non faceva che irritarmi di più. « Stai bene? »domandò preoccupato.
Se mi fossi trovata in un'altra situazione, gli avrei risposto con una battuta sarcastica. Un'altra potente fitta si fece sentire nella mia testa, le orecchie cominciarono a fischiare, come se qualcuno si divertisse a passare delle forbici su una lavagna. Gemetti un po’ più forte. Ecco, adesso esplode, pensai. D’un tratto silenzio. Non c’era più un rumore, a parte il classico vociare in sottofondo, tipico dei luoghi affollati. Confusa e spaventa rimasi ancora piegata su me stessa, senza allentare la presa sulla testa.

«
Ehi! » esclamò Johnny al mio fianco, « che ti è preso? »
Rimasi in silenzio, senza rispondere alla sua domanda, e mi rimisi dritta lentamente, con la paura che un altro movimento brusco potesse causarmi un'altra di quelle strane fitte alla testa. Mi voltai a guardarlo, con una lentezza che infastidiva perfino a me, ancora frastornata . Nella mente contai fino a dieci, per darmi il tempo di riordinare le idee. C’èra un ragazzo bellissimo, laggiù, appoggiato a una colonna, ci stavamo guardando e poi…
«
E poi? »mi incitò mio zio.
Lo guardai nuovamente scombussolata. Non mi ero resa conti di aver parlato a voce alta, ma cercai di non badarci.

«
Poi… » mormorai tra me e me massaggiandomi gli occhi, cercando una scusa abbastanza convincente da spiegare cosa mi era accaduto. « Ho incominciato a sentire gli ultra suoni come i pipistrelli!” esclamai.
Johnny mi guardò un attimo incredulo poi mi scoppio a ridere in faccia. Rimasi scioccata a guardarlo, con una vampata di rabbia che si diffondeva nel corpo.
« Non sto scherzano… » mugugnai, cercando di tenere a freno l’ira. Odiavo quando la gente non mi prendeva sul serio. « Se questo è il vostro comitato di benvenuto che avete in città, allora fareste meglio a rimodernarlo. »
La mia battuta non era niente di che, ma sembrò divertire ancora di più Johnny. La sua risata però aveva un suono falso, come se cercasse di mascherare qualcosa. Non stava ridendo perché trovava divertente quello che mi era successo, al contrario sembrava crederci ma era come se volesse portare il discorso su un altro argomento.
«
Riferirò », disse ancora sogghignante.
Gli lanciai un sorriso tossico, ancora imbronciata, e mi girai verso il giovane, cercando di capire cosa avesse messo in moto i rumori e tutto il resto. Dopo un momento di smarrimento, mi voltai a destra e sinistra con scatti frenetici. Era sparito. Così come la mia rabbia, sostituita dall’incredulità. Non c’era traccia del tipo misterioso. Ma era impossibile. Cavolo, era impossibile che in quei secondi di agonia che mi avevano sopraffatto, una persona potesse sparire. Johnny si accorse del mio sguardo, che vagava da un angolo all’altro dell’aeroporto.

«
Chi stai cercando? » mi domandò, stavolta senza traccia di ironia nella voce.
Riposi continuando a cercare nella folla.
« Non stavo scherzando quando ti ho detto che c’era un ragazzo. Ci siamo guardati per un po’ e poi improvvisamente… Bum! »
Mi sentivo stupida a dare una spiegazione così pietosa , ma ero sicura di non aver immaginato niente.

«
Bum? » chiese scettico Johnny.
«
Gli ultrasuoni. » Mi toccai la fronte, come se non fosse abbastanza chiaro.
«
Ah, giusto…»
Dopo un’ altro momento di silenzio imbarazzante, si decise a farmi domande sull’accaduto.
«
Com’era questo ragazzo? » domandò improvvisamente avido di sapere.
Il mio sguardo si accese.
« Era… bellissimo» affermai. « Alto, viso stupendo, capelli castano scuro un po’ scompigliati » dissi, scuotendo un po’ le mani, come per mimare la sua chioma ribelle. « E due occhi grigi magnetici. » A ricordo degli sguardi che mi lanciava, tutt’altro che casti, provai brividi sulle braccia.
Socchiusi un attimo gli occhi e quando li riaprii l’espressione di mio zio mi sorprese. Non era più divertita, al contrario sembrava tesa e nervosa.

«
Forza, sbrigati. Dobbiamo andare » disse, improvvisamente frenetico.
«
Perché? »
Non capivo. Un attimo prima se la rideva come un matto, per un argomento tutt’altro che divertente, e ora sembrava impaziente di andarsene da lì.

«
Perché… perché…» balbettò, cercando di trovare una scusa abbastanza convincente.
« Perché sono già le nove di sera, e guidare al buio non è prudente e… » parlava talmente in fretta che le parole si rincorrevano da sole. « Ci vogliono quasi due ore per arrivare a Middlemburg e inoltre presumo che tu sia stanca. » Concluse la lista delle scuse con aria trionfante, anche se aveva pronunciato tutto boccheggiando. In effetti ora che me l’aveva fatto notare, ero stanca. Il viaggio mi aveva spossata parecchio ma mi limitai a guardarlo con aria dubbiosa, poi, per evitare polemiche mi limitai a mormorare un « Ok. »
Johnny sembrava quasi correre verso l’uscita, nonostante fosse a pochi metri da noi. Io, dietro di lui, cercavo di stare dietro al suo passo veloce con un espressione in viso basita. Era impossibile che la semplice descrizione di un ragazzo avesse potuto far scattare così una persona, spaventarla a tal punto da farla correre verso l’uscita per dirigersi lontano da lui. Qualcosa mi puzzava.
Durante il viaggio in macchina, non potendo ammirare il panorama dato l’orario notturno, mandai un messaggino a David e Andrew, tralasciando certi particolari, e poi mi misi a pensare all’ accaduto nell’aereo. Non ne venni a capo. Tutto ciò che era successo, non dimostrava niente. Alla fine, per non vedermi come una pazza, mi dissi che quel mal di testa improvviso, era solamente causato dallo stress e dalla stanchezza del viaggio. Avevo bisogno di aria fresca per calmarmi e schiarire un po’ le idee, così abbassai il finestrino dell’elegante Mercedes Nera e respirai a fondo, mentre venivo travolta da quel vento che mi riempiva i polmoni. Sentire l’odore di pini, tigli e al posto del classica aria salmastra di Dublino, mi scatenò immediatamente una tempesta emotiva. Prendere una boccata d’aria si rivelò una pessima idea. Avrei voluto tanto spalancare la porta dell’auto e scendere, farmela di corsa fino all’aeroporto e tornarmene a casa. Non mi importava se ora ero su un autostrada buia e silenziosa, nel bel mezzo del nulla. Sarei andata anche su un monopattino se fosse stato necessario. Per un momento titubai, la mano si era poggiata già sull’apri-porta. Di nuovo le lacrime minacciarono di cadere, e l’ultima cosa che volevo era piangere, soprattutto in presenza di Johnny. Sprofondai nel sedile, tirando su con il naso, pensando a quanto fosse stata stupida quell’idea. Per i rimanenti minuti di viaggio, passai in rassegna tutti i nomi delle ultime canzoni estive. Quando arrivammo a Maddlemburg erano già le undici passate. Le strade erano affollate di bancarelle e gente e così Johnny, per risparmiarsi il classico traffico per affollamento deviò per stradine e vicoli, che ci fecero risparmiare tempo. Una volta attraversato Hawley Boulevard,
tipica zona residenziale americana, ci dirigemmo verso il bosco, imboccando una stradina che conduceva verso il buio più totale. Sentii nascere l’ansia quando, intravidi da lontano la tenuta degli Anderson. Solo le luci accese mi permisero di vederla attraverso il fogliame del fitto bosco. Entrammo con la macchina attraversando il cancello in ferro battuto, fermandoci proprio davanti agli scalini che conducevano al piccolo portico e di conseguenza alla porta di casa. Prima di salirli mi presi tempo per osservare quella costruzione: dai tratti tipici delle costruzioni Tudor, era enorme e imponente. I mattoni rossi risaltavano nonostante il buio della notte, mentre da alcune grandi vetrate usciva una luce soffusa. Mi sembrava di vedere i grossi lampadari pacchiani appesi al soffitto. Respirai profondamente quando mi trovai “ faccia a faccia” con il portone. Rimasi impalata, con lo sguardo fisso sul battente, incapace anche solo di muovere un solo muscolo. In quel momento mi sembrava impossibile pensare a come ero riuscita a mantenere la calma in aereo o durante il viaggio in macchina. Ora, tutto mi sembrava assurdo. Mi sembrava di essere sott’acqua, di avere le orecchie tappate e di non sentire alcun rumore. Pensare a canzoncine e balle varie per calmarmi non avrebbe funzionato. Avevo bussato tante volte a quella porta, ma farlo questa volta sarebbe stato diverso, sarebbe stato come metter piede in un campo minato, in un territorio straniero e ostile. Sentivo che quello non era il mio posto. Mi tremarono leggermente le labbra, mentre tentavo di parlare, senza emettere alcun verso. Sobbalzai violentemente quando la porta venne spalancata dall’interno e mi trovai faccia a faccia con Betty, l’anziana governate. La bolla nella quale mi trovavo venne improvvisamente bucata; fu come svegliarsi da un sogno. Sbattei un paio di volte le palpebre per riprendermi.
Dopo un momento di palese sorpresa il viso dell’anziana donna si distese.

«
Signorina Lucy! » esclamò con la sua vocetta carica di emozione. « È arrivata. È così bello riaverla qui con noi. » Balbettai qualcosa che assomigliavano a ringraziamenti, mentre Betty continuava a parlare, trascinandomi dentro, con Johnny alle calcagna, e lodandomi con frasi tipo “ è sempre incantevole” o “ci è tanto mancata” . Troppo presa a osservare la casa, cercai di ricambiare l’accoglienza da reginetta che mi stava riservando, con complimenti imbarazzati, seppure sinceri.Ovviamente non c’erano le cameriere, così dopo che risposi ad alcuni domande sui bei giovanotti che erano diventati i miei fratelli cercai di lanciare un chiaro segnale sbadigliando. Johnny se ne accorse. « Bene » esordì sfregandosi le mani « la tua valigia è in camera, insieme a tutte le altre, che hai fatto arrivare qualche giorno fa. Direi che dato l’orario sia ora di andare a dormire. »
«
Direi di sì. »
Buttai giù l’ultimo sorso di succo di frutta che mi era stato offerto, augurai la buona notte a tutti e mi avviai senza parlare verso le scale.

«
Hai bisogno che ti faccia vedere dov’è la camera? » urlò Johnny dal piano di sotto, una volta finito il rumore dei miei passi pesanti sui gradini.
«
No » risposi di rimando. Una volta arrivata in camera, volevo deprimermi in santa pace, sola e senza disturbi. « Mi ricordò dov’è. » E come non potrei, dissi a me stessa.
Percorsi il lungo corridoio, fino ad arrivare alla vecchia stanzetta di mia madre, la più isolata di tutte, quella che dava direttamente sul retro della casa, verso il bosco. La porta era aperta ma la luce era chiusa, davanti a me solo il buio. Continuavo a guardare dentro, senza vedere niente, mentre lacrime silenziose mi bagnavano il viso e l’odore di violetta, lo stesso odore di cui mia madre profumava, mi inondava. Il mio stomaco si contorse per il nervosismo. Chiusi gli occhi, timorosa di guardare, e entrai nella stanza, cercando a tentoni l’interruttore della luce. Contai mentalmente fino a tre, poi apri lentamente gli occhi. Mi morsi le labbra, mentre sempre più lacrime scorrevano lungo il volto. Quella camera l’avevo vista mille volte, e per altrettante mille volte avevo dormito lì, ma quella era la prima volte che la vedevo dopo la morte di mia madre.Quasi come se violassi il suo spazio. mi sentii come uno di quei vermi che strisciando si insinuavano nei corpi degli animali in putrefazione. Ma stare li tra le sue cose da una parte mi faceva star bene, mi sentivo bene. Tutto era immobile, sembrava dirmi che lei non se n’era mai andata. Ma la verità era un'altra, che io lo volessi si o no. Mi sedetti sul grande letto a due piazze, asciugando con il dorso della mano, l’acqua che mi bagnava il viso e mi guardai attorno, con un sorriso triste. Si poteva cogliere da lontano il gusto raffinato di Wendy Anderson. I mobili erano in stile classico, color verdino chiaro, che risaltavano con i muri gialli. L’enorme armadio, che riempiva da solo una parete, aveva le ante aperte, dentro completamente vuoto. Sentii un nodo alla gola al pensiero di quando mio zio aveva fatto svuotare gli ultimi vestiti che mia madre conservava per le visite annuali. Per evitare di andare a dormire con una dose in più di malinconia e nostalgia, mi concentrai sulla larga maglietta verde scuro che stavo indossando e poi mi misi subito a letto. Il sonno mi colpii come una bomba di cannone. Sentivo pian piano la mentre svuotarsi e il corpo che si rilassava. Decisi che la cosa migliore era lasciarsi andare. Fu come cadere in letargo. Quella notte feci un sogno strano: camminavo per le vie di Maddlemburg e venivo osservata da tutte le persone che riempivano le stradine. La cosa più inquietante e che tutti avevano lo stesso colore degli occhi. Quel grigio celestiale mi accompagnò finche non mi svegliai.





OK di nuovo se siete arrivati alla fine buon segno! Questo capitolo è noioso, lungo e non succede niente di che, ma appunto perché è il primo capitolo, avevo il bisogno di introdurre un po’ la storia. Cercherò di modificare i prossimi in modo da renderli più interessanti. Se vi è piaciuto fatemi sapere che non sono sicura che la cosa possa interessare…

Un bacio,

bubblin_

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



Posto il secondo capitolo... che magari può essere piu interessante!!! A voi i giudizi|


2) RITROVATA

Ancora imbronciata per essermi da poco svegliata, fissavo attraverso la grande vetrata della cucina, che dava sulla facciata destra della casa, il cielo grigio, pronto a dare pioggia.
Appallottolata su una sedia, feci un tiro di sigaretta e lanciai una veloce occhiata al cellulare, ansiosa, aspettando che o David o Andrew mi chiamassero. Poggiai il mento sulle ginocchia, facendo cadere un po’ di cenere dentro il bicchiere che avevo trovato come sostituto del posacenere. Alle mie spalle Betty lavorava frenetica ai fornelli, silenziosa.

« Non si fuma in casa », disse la voce rauca e inconfondibile di Johnny alle mie spalle. Non mi voltai nemmeno, e rimasi a guardare il cellulare paziente.
« Ah no? », chiesi fintamente ingenua, continuando comunque a fumare.
«No, soprattutto nei miei bicchieri di cristallo.»
« In casa non c’è un posacenere » mi giustificai, voltandomi a guardarlo.
Lui mi rispose con un occhiataccia che io restituii testardamente. In quel momento squillo il cellulare. Mi affrettai a spegnere la sigaretta, ormai alla fine – buttando il mozzicone nel bicchiere - e risposi affannosamente al cellulare.
«
Pronto? » dissi impaziente.
« Lucy sei in viva-voce! » David e Andrew lo strillarono insieme.
« Mi mancate tanto. » Lo dissi con un tono tenero e teatralmente triste, anche se in quel momento avevo un groppo alla gola. Sentii l’assoluto bisogno di rimanere sola, cosi mi alzai dalla sedia pronta a ritornare in camera mia.
« è la mezza! Fra poco si mangia! » mi ricordò Johnny.
« Non ho fame. » risposi prima di salire di corsa le scale.
«Come sta andando?» chiese Andrew quando mi buttai sul letto.
« Bene, » mentii. « Voi?»
« Mah… più o meno. » mi rispose David. « Le mura di casa sentono la mancanza della voce di Billy Joe!»
Alzai gli occhi al cielo e chiacchierammo per un'altra mezz’ora – parlare in Gaelico non faceva che ricordarmi di più quanto la distanza tra noi fosse immensa - tra battute e risate. Alla fine della telefonata, dove io mi ero persa in mille saluti, avevo gli occhi lucidi. La loro mancanza era insopportabile, come se qualcosa mi togliesse lentamente l’aria. Faceva male. Desiderai di nuovo essere a Dublino per ridere con loro. Mi asciugai in fretta le lacrime, guardando la stanza disordinata. Se mia madre fosse stata li in quel momento probabilmente mi avrebbe rimproverato su quanto fosse importante mantenere l’ordine. Quella era pur sempre camera sua. Quasi mi sembrò di sentire la sua risata, cos’ simile alla mia… La sua mancanza era diversa da quella che sentivo verso i miei fratelli. Il dolore era diverso. Quel tipo di male era come fumo: ti si attaccava addosso, ti impregnava la pelle, non andava più via. Sebbene a Dublino sentissi in modo spaventoso la sua assenza c’era qualcosa qui che non faceva che amplificare quel dolore. E io sapevo bene perché… Scoppiai a piangere. Mentre davo sfogo ai miei sentimenti, una parte del mio cervello mi ricordò che mi stavo comportando da cretina, visto che sapevo fin troppo bene che una volta venuta a Maddlemburg, avrei dovuto fare i conti con episodi passati che avevo scelto di non affrontare apertamente. Era sbagliato, soprattutto in questa situazione, ma non me ne importava un accidente. Dopo vari minuti di lacrime, cercai di riprendermi, raccogliendo i rimasugli di rabbia e sofferenza per chiuderli in una parte lontana della mente. Ci avrei pensato in un secondo momento di quella giornata, nonostante sentissi l’impulso di uscire e di andarmene, fregandomene degli sguardi curiosi di chi mi avrebbe visto correre solo con la mia maglietta sbiadita. Decisi che la cosa migliore era concentrarsi sul disastro colossale che c’èra in quella stanza. Mi sedetti sul palquè chiaro, e cominciai a svuotare valigia per valigia, disponendo con cura e ordine i vestiti, suddividendoli in pile ordinate: jeans, t-shirt, maglioni, felpe. Una volta terminato il reparto vestiti, passai alla valigia delle scarpe, che conteneva almeno una ventina di paia, tra Converse di ogni genere, paperine, scarpe con tacco e stivali, che sistemai nella scarpiera vicino alla biblioteca. Passai parecchie ore in questa operazione, togliendo e sistemando gli abiti negli armadi, riempiendo i cassetti e le grucce. Poi aprii il grosso baule e cominciai a svuotarlo, tirarando fuori tutte le cose che mi ero portata dalla mia villetta di San Diego: svariati libri, tra cui la collezione di vari fantasy preferiti, i pupazzetti che i miei amici mi avevano regalato, i dischi musicali e, cosa più importante, tutte le mie fotografie. C’e n’erano a centinai, raccolte in un grosso album pieno di scritte, per ricordare ogni singolo momento. Improvvisamente curiosa, come se non avessi visto un migliaio di volte quegli scatti, cominciai a sfogliare quel raccoglitore così pieno di ricordi, soffermandomi su immagini più significative. Guardai con rimpianto una che ritraeva me e Becky, la mia migliore, intente in smorfie buffe. Sorrisi amaramente. Avrei tanto voluto chiamarla, ma ora lei era ancora in Italia per un viaggio studio, e le chiamate extra-continentali costavano troppo. Magari quella sera le avrei mandato un e-mail. Passai ad altre foto, finché non trovai quella che mi interessava. La più preziosa di tutto l’album, il mio tesoro. Una primo piano. Di me e mia madre. . Così simili ma così diverse. Tutte e due bellissime in modi differenti. Io e lei condividevamo lo stesso viso ovale, dal mento aguzzo, e la pelle chiara, rosata. A differenza però di una manciata di lentiggini che macchiavano la mia pelle, sul naso e sulle guancie.
I capelli di mia madre erano bruni e lisci, si mischiavano con i miei, leggermente mossi e castano dorato. Ma la differenze che spiccava di più, erano gli occhi. Nonostante tutti e due trasmettessero felicità, gioia, allegria c’era una differenza di iridi che sfigurava. I suoi, color nocciola, rassicuravano, ed erano il ritratti dell’autunno. I miei invece, nonostante brillassero di contentezza mettevano in…soggezione. C’era qualcosa, in quel verde così acceso, così strano, quasi appartenesse a qualche strano animale, che intimoriva sempre. Bellissimi, certo, e molto particolari ma… diversi. Staccai la foto dall’album, per poterla mettere sul comodino, una volta comprata una cornice decente e ripresi a sistemare. Dopo che la stanza ebbe raggiunto un accettabile stato di ordine, anche se c’erano ancora valigie mezze piene sparse per la stanza, mi alzai e lanciai uno sguardo all’orologio digitale, poggiato sul comodino.
Le cinque e mezza. Bene, avevo anche il tempo di passare da un fioraio. Mi sciacquai velocemente la faccia e mi lavai i denti, poi tirai fuori da una valigia un jeans chiaro tutto strappato e una maglietta con la bandiera della Gran Bretagna, che avevo comprato durante un viaggio a Londra, infilai velocemente le Converse rosse e legai i capelli, che mi arrivavano oltre i gomiti, in una coda mal fatta, poi mi avviai verso le scale, facendomele tutte di corsa.
“Johnny!” urlai, una volta arrivata in salotto.
Ci fu un attimo di silenzio, spezzato subito da un altro strillo.
“ Sono in cucina!”

Corsi da lui frettolosa, bloccandomi non appena notai che stava leggendo un quotidiano, seduto su uno sgabello da bar. Rimasi impacciata sulla porta, ancora in imbarazzo per il comportamento maleducato che avevo avuto qualche ora prima in giardino. Alzò lo sguardo, con aria perplessa.
“ Qualche problema?” domandò.
Storsi le labbra. “No.”
Johnny rincorse il mio sguardo, che vagava da una parte all’altra della stanza,e poi con uno sbuffo chiuse il giornale. Probabilmente aveva capito.
“ Ti sei vestita.”
Però, che intuito. “ Mi servono le chiavi della macchina.” Parlai decisa.
“ Per…?”

Gli lanciai uno sguardo eloquente e aprii un po’ le braccia, come se la risposta fosse ovvia.
Il suo viso, dapprima sorpreso, si allargò subito in un debole sorriso, che ricambiai. Mi lanciò le chiavi della Mercedes, che presi al volo.
“ Riportamela intatta. Non fargli fare la fine del motorino, per favore.” Disse le ultime parole con un tono supplichevole.
Scoppiai a ridere al ricordo. “ Avevo quattordici anni!” mi giustificai. “ È stato l’albero che mi si è buttato davanti!”
Alzò gli occhi al cielo, sempre sorridendo e poi mi fece cenno di andare.
Rincuorata dal fatto che non se la fosse presa per prima, gli regalai uno dei miei sorrisi radiosi, che ora mai erano così rari.
“ Grazie” mormorai, commossa.
“ Non preoccuparti.”
Rimanemmo per qualche secondo a guadarci, poi mi girai e feci per andarmene.
Corsi fino al garage, dov’era parcheggiata la macchina. Una risata inaspettata mi uscì, quando sentì le fuse del motore potente. Uscì sgommando, ansiosa di mettere alla prova la Mercedes, per la gioia di mio zio. Uscii in tutta fretta dal bosco, sobbalzando a ogni dislivello del terreno, poi ritornai su Hawley Boulevard, diretta dall’altra parte della città. Mentre guidavo lanciai un occhiata supplichevole al cielo, sperando che reggesse ancora un pochetto. Sfrecciai lungo le stradine costeggiate da case tutte uguali, per poi passare nelle vecchie vie del centro storico. Il centro città rispecchiava appieno le caratteristiche di villaggi anglosassoni: le costruzioni erano quasi tutte in mattoni a vista, le strade strette e anguste. C’èra anche una piazza principale, sovrastata da una grossa Cassa Armonica e circondata da un parco pieno di piazzette, riempite da anziani, ormai in pensione. Scherzando mia madre aveva sempre detto che quello era territorio neutrale, perché poi Maddlemburg, sembrava spaccarsi in due. Verso la parte nord della città,c’erano due quartieri, giudicati dalla gente che abitava a Dalton e Creed -i quartieri alti di Maddlemburg- posti malfamati, pieni di gentaglia che passava il tempo nei pub o nelle disco. A dirla tutta però, quei posti mi piacevano, perché, droga e prostitute a parte, non ribollivano di gente mediocre e bigotta, che passava le giornate a spiare da dietro le finestre, per poi raccontare i fattacci altrui agli amici durante le partite di golf. Io era da quelle parti che mi stavo dirigendo. Afferrai saldamente il volante, le mani sudate, mentre uno strano nervosismo prendeva possesso di me. Mi concentrai sulla strada, e senza neanche che me ne rendessi conto, ero già arrivata. Il parcheggio era stranamente vuoto. Scesi dalla macchina, guardandomi intorno, stranita. Proprio davanti al grande cancello in ferro battuto, c’era un fioraio. Mi fermai e feci creare una composizione di fiori, enorme ed elegante. Pagai e aprii titubante l’inferriata che custodiva il cimitero. Subito davanti a me si pararono centinaia di lapidi, lugubri e tristi. Stupidamente inquietata, come se qualcuno di loro potesse farmi male, mi avviai verso quella che cercavo io, continuando a guardarmi intorno, come se aspettassi Freddy Kruger sbucare da dietro una tomba. Vagai per un po’ – non mi ricordavo che quel posto fosse così grande, ma in fondo era l’unico camposanto di Maddleburg - finché non riconobbi una massa di alberi secchi. Impaziente e nervosa, affrettai il passo, fino a correre e mi imboscai nel sentiero, pieno di rametti e boscaglia, che portava nella parte vecchia del cimitero. Le tombe lì, sembravano rispecchiare il luogo cupo e claustrofobico, storte e granitiche, dai colori giallognoli a causa del tempo. Alcune scritte risultavano addirittura illeggibili, ma riuscii a scorgere date risalenti addirittura alla guerra civile. Tutta l’ansia e la paura che provavo per quel posto, svanì come fumo nello stesso istante in cui la vidi. Laggiù in lontananza, nascosta dietro i rami di un salice piangete c’èra una statua. Enorme, raffigurava un angelo, dall’espressione avvilita in volto, con le braccia incrociate, che stringeva tra le mani una corona di fiori. Nonostante lo sguardo fosse vuoto, sembrava fissare una lapide, proprio di fianco a lui. Mi avvicinai, con il cuore in gola. Lacrime silenziose e colme di dolore mi bagnarono le guance quando mi trovai faccia a faccia con la lapide bianca, su cui erano state impresse le lettere che formavano un nome e che si stavano stampando nella mia carne, bruciando e facendomi male. La sensazione di vuoto ma allo stesso tempo di completezza si fece sentire dentro me, più viva che mai. Mi chinai, poggiandomi sulle ginocchia. Strappai con veemenza un erbaccia che stava crescendo vicino alla tomba, poi appoggiai con delicatezza il mazzo di fiori sul terriccio.
“ Ciao mamma.” Parlai a bassa voce, afona, la voce carica di emozione.
Scoppiai a piangere come una bambina, comprendoni la faccia con le mani, quando mi resi conto che non avrei ricevuto alcun saluto. Dentro di me si agitava tutto, le sensazioni si mescolavano come carte. Rabbia, paura, delusione, rimpianto, amore, tormento. Continuai a piangere, odiando il momento in cui mia madre mi era stata strappata, come una caramella tra un litigio fra bambini, senza darmi il tempo di rendermene conto. Detestando il fatto che, il colpevole che aveva manomesso i freni dell’auto, fosse ancora libero di vagare. E chiedendomi come avessi fatto a stare tutto questo tempo a Dublino, lontano da lei, dalla tomba dov’era sepolta, l’unico posto che mi permetteva davvero di credere che lei esisteva. Che l’affetto che mi aveva dato non era frutto della mia immaginazione.
“ Mamma mi manchi così tanto”, ammisi, asciugandomi le lacrime che scorrevano come un diluvio. “ Ti vorrei così tanto con me. Ho ancora bisogno di te.”
Fissai la foto che era stata affissa, dove Wendy sorrideva radiosa, e con amarezza, sentii la lama di un coltello invisibile, affondare.
“ Sai”, dissi, cercando di riprendermi, “ che quest’anno Becky è andata in Europa? Mi aveva invitato ad andare, ma io dovevo organizzarmi per venire qui…”
Continuai così, a parlare interrottamente per una decina di minuti, degli ultimi avvenimenti che mi erano capitati a Dublino, tra la scuola, le amicizie, finché un'altra ondata di nostalgia mi assalì. Riuscì a non piangere, e sforzai i muscoli del mio viso fino a far nascere un largo sorriso, carico di tristezza. Mi sporsi per accarezzare la foto, sentendo i polpastrelli che bruciavano al tocco freddo del vetro che proteggeva l’immagine.
“ Ti voglio bene, mamma.”
Mentre mi mordevo le labbra, nello sforzo di non crollare di nuovo, guardai l’angelo, che stava a neanche un metro di distanza da me.

Prenditi cura di lei, pensai, inginocchiata davanti a lui. Poi, con gesti lenti mi alzai, rimanendo per qualche secondo immobile, come se avessi paura di cadere, ancora troppo scombussolata. Emisi un sospiro di sollievo, quando mi resi conto di stare bene. Stare li, per quanto fosse doloroso, mi faceva sentire a casa. Là con lei, io ero a casa. Me ne andai con ancora il sorriso in volto. Al posto di passare per il sentiero che strisciava sul terreno fangoso, che allungava solamente il percorso, feci slalom tra le vecchie tombe, ben attenta non sfiorarne una. Era strano il fatto che, nonostante fossimo solo all’ otto di settembre, sotto quella cupola naturale di foglie e legno, fosse già arrivato l’autunno. Per terra, crescevano arbusti mezzi rinsecchiti e la terra cominciava già a riempirsi di foglie arancioni. Affrettai il passo, senza un vero motivo, ma inciampai in una radice d’albero, uscita dal terreno e coperta dal fogliame. Mi sbucciai un po’ i palmi delle mani. Imprecando sotto voce, mi rialzai scocciata, togliendo con gesti frettolosi la terra che mi aveva sporcato i jeans. Il mio sguardo si posò su una croce celtica in pietra, proprio davanti a me.
Era affascinante, con tutti gli intrecci simbolici che erano stati incisi, ma c’era qualcosa che sgomentava, impauriva, sebbene non ne capissi il motivo. Piuttosto grande, era color fumo, con muschio che cresceva un po’ ovunque. Stranamente attratta, la osservai. I muscoli del corpo si irrigidirono, immobilizzandomi, mentre sentivo il petto stringersi in una morsa tale da farmi mancare l’aria. Su un braccio della croce, uno dei pochi punti in cui non cresceva erba, si allargava una macchia di sangue. Ancora paralizzata, smisi di respirare, cercando di udire il minimo rumore, come se aspettassi che qualcuno mi attaccasse. Il terrore che mi invadeva, mi dava la sensazione di avere i sensi più a cuti, mentre facevo vagare lo sguardo con occhiate rapide per il cimitero. Mi sembrava di udire il mio istinto che mi urlava “SCAPPA!”.
Quando mi resi conto che non c’era nessuno, a parte i morti seppelliti, cercai di calmare il respiro e mi avvicinai cautamente alla croce. Il sangue era secco, anche se dal colore ancora rosso acceso si capiva che risaliva non prima di quella mattina. Qualcuno che è venuto a far visita si sarà fatto male, dissi a me stessa, nella speranza di non lasciare che il panico prendesse possesso di me. Eppure, se davvero si fosse trattato di un incidente - magari qualcuno cadendo si era sbucciato le mani, come me - un semplice taglietto non avrebbe causato tutto quel sangue. Mi guardai intorno, nella speranza di capisci qualcosa in più. Poco lontano da me, su un'altra lapide, un'altra macchia di sangue. Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata, mentre realizzavo che stavolta si trattava di un impronta di una mano. Erano evidenti le cinque dita, ben impresse, che poi sembravano strisciare lungo la lapide. Qualcuno era stato trascinato via. Ingoiai con fatica la bile che stavo rischiando di vomitare, mentre cercavo di farmi coraggio e capire che cosa fosse successo. Raccolsi tremante uno spesso bastone vicino ai miei piedi, che impugnai come una mazza da baseball, pronta a colpire chiunque mi si fosse parato davanti. L’istinto continuava ad urlarmi contro, mentre la coscienza mi bisbigliava che qualcuno poteva star male o aveva bisogno di aiuto. Con passi incerti cominciai ad avvicinarmi, giurandomi che se avessi visto qualcosa di troppo, sarei scappata a gambe levate chiamando la polizia. Al diavolo la moralità!
Le macchie di sangue continuavano, si notavano su ogni tre tombe, come piccoli indizi da seguire lungo un percorso, che stupidamente seguivo. Mi tremavano le gambe, quasi fossi un diapason, mentre mi rendevo conto che mi stavo avvicinando nella parte dedicata alle tombe di famiglia. Mi bloccai, insicura e spaventata all’idea di proseguire, quando davanti a me si pararono almeno una ventina di piccoli mausolei, attaccati l’uno all’altro e divisi soltanto da uno scalone, che permetteva di raggiungerli, in quanto erano posizionati su diversi piani, come casette su una collina. Strinsi ancora più forte il bastone, guardandomi intorno con aria circospetta, mentre mi avvicinavo ai piedi della gradinata. Di nuovo il terrore più forte, da farmi venire i brividi alle braccia e a gelarmi il sangue nelle vene, s’impossessò di me, non appena una lunga scia di sangue, segno che qualcuno era stato trascinato su per quei gradini, si rese visibile ai miei occhi.

Forza e coraggio.
Inghiotti a vuoto, la gola secca per il panico, poi salii con grandi falcate le scale, guardandomi a destra e a sinistra per controllare che un pazzo non sbucasse per aggredirmi.
Svoltai senza guardare alla mia destra.
Un urlo agghiacciante fuoriuscì dalla mia bocca, mentre mi buttavo istintivamente all’indietro. Il panico che avevo provato prima era niente in confronto ai brividi d’angoscia che si agitavano dentro di me. Atterrita, con lo sguardo spalancato, cercavo con gesti frenetici di rialzarmi e di allontanarmi dal cadavere di una ragazza, distesa davanti me. Lanciai un altro urlo, quando sfiorai con il braccio uno scalino. Arrancai nel disperato tentativo di rialzarmi, desiderosa di andarmene immediatamente da lì, mentre sentivo scorrere l’adrenalina in tutto il corpo. Corsi giù per le scale, continuando a guardarmi indietro sconvolta da ciò che avevo appena visto, l’orrore a cui ero stata costretta a vedere. Non badavo nemmeno a dove correvo, non dopo l’immagine che si era stampata nei miei occhi, fregandomene dei polmoni che scoppiavano e del diaframma che bruciava. Corsi ancora più veloce quando scorsi in lontananza il cancello dell’entrata del cimitero; mi sembrava di non avvicinarmi mai. Spalancai con forza l’inferriata, schiantandomi addosso con forza, poi mi precipitai in macchina, dove mi rifugiai, chiudendomi dentro. Tremolante, mi scostai i capelli, appiccicati per il sudore sulla fronte, e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei jeans. Sussultando, composi il numero della polizia.
Dall’altra parte, rispose una voce annoiata.
“ Sono al Cimitero Comunale di Maddleburg” sussurrai, singhiozzando. “ Ho trovato un cadavere. Fate presto.”

OOOK se vi è piaciuto fatemi sapere cosa ne pensate... è un capitolo che ha mio parere fa schfio , ma lascio a voi la scelta. RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEEE

Bacio.

bubblin_

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


OOOOOOOOOOOk, premetto cche questo è un capitolo molto lungo in cui non accade niente di che eccetto alla fine!

Ho visto che molte persone leggono ma non commentano... Sciverei in ogni caso, però sarebbe bello sapere se ciò che scrivo può piaciere a qualcuno.

14 Settembre 2008

3) CONFESSIONE

Fissavo, ancora sdraiata nel letto, reduce da una notte insonne, il soffitto della cameretta, mentre prendevo profonde boccate d’aria, cercando di calmarmi. Un corpo disteso, immobile, contorto in una posizione innaturale, mi comparve davanti agli occhi, come un lampo. Affondai la testa nel cuscino, in un attimo di shock, riuscendo a trattenere l’urlo che stava nascendo. È passato, tutto finito. Continuai a ripetere a me stessa quella frase una decina di volte, finché non ebbi il coraggio di alzarmi e sedermi a bordo letto. Mi voltai, guardando la sveglia: le 6-05. Sbadigliai rumorosamente, troppo stanca per alzarmi davvero. Mi risdraiai sul letto. Una scena si ripeté nella mia testa…

I flash abbaglianti delle macchine fotografiche, e i colori a intermittenza delle sirene della polizia mi confondevano. Strizzai gli occhi, come per risvegliarmi.

Johnny mi avvolgeva le spalle con le sue braccia robuste, sorreggendomi, mentre io parlavo con un agente.

“ Il corpo è nella parte dedicata alle tombe di famiglia” spiegai, balbettando.

“ Hai mai visto quella ragazza?” chiese un poliziotto, scrivendo sul taccuino.

“Dio, no!” esclamai. “ Sono arrivata in città ieri sera.”dissi, difendendomi.

“Da dove vieni?” mi chiese. Da lì in poi cominciano domande svariate che mi riguardavano, a cui risposi con meno impaccio. Johnny al mio fianco era stranamente silenzioso, preoccupato. Mi strinse a se un po’ più forte, come per consolarmi, quando si rincominciò a parlare del cadavere della ragazza.

“ Come mai ha deciso di cercare la ragazza?”. La voce nasale e il tono maleducato del poliziotto, riuscirono a irritarmi anche in un momento come quello. Quella domanda, aveva tutta l’aria di mettermi in difficoltà, quasi come se fossi stata io la colpevole. Ma io non avevo fatto niente.

Raddrizzai le spalle e risposi. “Non avevo idea che fosse una ragazza”,dissi stizzita. “ E non avevo idea che avrei trovato un morto!”

L’agente fece una risata gutturale, falsa. “ Signorina, questo è un cimitero!” Lo disse come se questo giustificasse il ritrovamento di una persona.

Lo guardai incredula e offesa, poi risposi con sarcasmo pesante, fregandomene di apparire maleducata.

“Sa Detective…” incominciai, bloccando in tempo mio zio che stava rispondendo, “ di solito i morti stanno sotto terra.” Alzai un sopracciglio, con superiorità. “Ma magari sono io che mi sbaglio…”

Un sorrisetto insolente mi comparve in volto, quando sentii lo schiocco secco di denti che si richiudevano di colpo, mentre l’investigatore mi guardava inviperito.

“ Non ha risposto alla mia domanda…” mi disse, poi.

Trassi un profondo sospiro. “ Ero in visita…” incominciai, a voce bassa.

“ Presso?” mi bloccò il poliziotto, con uno luccichio di ritorsione negli occhi. Stupido sbirro, pensai.

“ Mia madre”,mi limitai a rispondere, poi continuai a parlare, come se non avessi detto niente.

“Stavo tornando verso la macchina, quando ho visto del sangue su una croce, e impronte insanguinate su varie lapidi”, chiarii, mentre un brivido mi percorse la schiena, al ricordo. “ Ho creduto che qualcuno si fosse fatto male, e ho pensato di aiutarlo. Ma poi ho trovato solamente il cor…” mi fermai non riuscendo a pronunciare la parola. “ La ragazza”, conclusi.

L’investigatore, mentre parlavo, non alzò la testa dal block notes, continuando a prendere appunti, poi, quando ebbi concluso si limitò ad andarsene, senza degnarmi di uno sguardo.

“ Bel caratterino!”, dissi, concedendomi un sorriso. Johnny, al mio fianco, rise piano della battuta, anche se era ancora teso, come se stesse tramando qualcosa.

“ Che c’è ancora?” gli domandai, con tono di supplica. In quel momento non avevo voglia di lamentele o discorsi vari, volevo solo andare a casa.

“ Hai fatto un bel gesto, Lucy…”, abbozzò lui. “ Andare a cercare una persona che poteva aver bisogno di aiuto.”

Non mi convinceva, c’era dell’altro. “ Quindi..?”, lo incitai.

“ Se per caso ci fosse stato qualche pazzo che ti avesse aggredita?”

Sbuffai. “Avevo un bastone.”

“ Non credo sarebbe bastato a fermare chiunque ha fatto quello.” Mi indicò, con veemenza la salma della ragazza, coperta da un velo bianco, che veniva trasportato su una barella, verso un ambulanza.

Lo fissai con astio. “ E allora cosa? Avresti preferito che mi successe qualcosa, per poi venirmi a dire: te l’avevo detto?”

Si prese la testa tra le mani, visibilmente scosso. “ Dio, no! Vorrei solo che la prossima volta evitassi di comportarti come Madre Teresa!”

Gli feci l’eco. “ La prossima volta?” Ero incredula. “ Cosa ti fa pensare che,” ripetei la sua frase, “ la prossima volta che verrò a trovare mia madre, troverò un cadavere?” Lo fermai prima che potesse ribattere. “ Se mi fossi trovata io, ferita e mal ridotta come la ragazza, avrei voluto che qualcuno mi venisse a cercare per aiutarmi, e non che si fermasse a pensare ai ‘come’ e ai ‘perché’.”

“ La ragazza non era ferita,” replicò Johnny, con tono improvvisamente calmo, come se cercasse di farmi ragionare. “ Era morta.” Parlava lentamente, come se avesse a che fare con una deficiente.

Incrociai le braccia, in attesa che continuasse a parlare.

“ Quella ragazzina è scomparsa da due settimane”, mi spiegò, lo sguardo serio. “ I poliziotti la cercano da due settimane.

Rimasi un attimo in silenzio, capendo che cosa intendesse. La mia testardaggine, alla fine, vinse sul buon senso. Prima di andarmene, lo guardai dritto negli occhi.“ Questo non cambia il fatto che non meritava di rimanere laggiù.”

Mi risvegliai di colpo, la fronte sudata. Mi ero addormentata, di nuovo. Riguardai distrattamente la sveglia, impallidendo quando lessi l’ora. Cazzo! Mi alzai frenetica, la testa che vorticava furiosamente, girando a vuoto nella stanza, senza sapere precisamente cosa fare. Era il primo giorno di scuola e io ero già in ritardo. PERFETTO. Schizzai nel mio bagno, lavandomi velocemente i denti e la faccia. Uno sguardo veloce alla specchio mi rese chiaro che i miei capelli erano impresentabile.

“Tutto grazie alla doccia di ieri sera”, bofonchiai tra me e me.

Attaccai l’arricciacapelli, mentre correvo di nuovo in camera, per vestirmi. Per fortuna che la notte precedente mi ero preparata i vestiti da indossare, altrimenti mi sarei potuta sparare un colpo in testa. O farmi aggredire da un maniaco nel cimitero, per la gioia di Johnny.

Ebbi qualche difficoltà, a causa della fretta, nell’infilarmi i jeans a sigaretta che avevo scelto, ma la maglietta a tre quarti grigia, che rimaneva morbida e un po’ a sbuffo, lasciandomi una spalla scoperta, non mi creò affanni. Corsi di nuovo verso il bagno, dove mi sistemai i capelli, rendendoli da arruffati e spettinati a mossi e leggeri. Agguantai la cartella mezza vuota, che avevo poggiato sulla sedia a dondolo, e mi infilai le ballerine nere. Scesi a tempo record le scale, e una volta in cucina mi regalai un sospiro. Un odore tipico dei bar, mi assalì.

“ Buon giorno”, salutai, la voce ancora un po’ rauca.

Betty, che trafficava vicino alla caffettiera, mi rivolse un dolce sorriso, mentre Juliet, che stava bevendo un cappuccino, appoggiata al davanzale della finestra, alzò semplicemente lo sguardo, per farmi capire che mi aveva visto.

“ Buon giorno, tesoro” mi accolse, Betty.” Come ti senti?”

Dal tono un po’ incerto, capii che si stava riferendo a tutta la faccenda nel cimitero.

Storsi in naso, sperando di non dover rispondere più a quella domanda. “ Bene.”

Ed era vero. Io stavo bene. Dovevo stare bene. Il quel momento non potevo permettermi di aver paura, o crogiolarmi nel letto, con l’intenzione di non uscire più di casa. Sicuramente per un po’ di tempo avrei evitato di andare sola al cimitero, ma non era il caso di rimanere in uno stato catatonico per il resto dei miei giorni. Maddlemburg era già il mio piccolo inferno personale,non era il caso di aggiungere altri particolari.

“ Nervosa per il primo giorno di scuola?”

Quella domanda riuscì a distrarmi.

“ Un po’…” ammisi. “Johnny è già in ufficio?” domandai successivamente, dando un morso a un croissant, che era sul tavolo.

“ No, cara”, mi rispose. “ È in salotto.”

Ringraziai, e continuando a masticare,andai da mio zio. Appoggiata allo stipite della porta, cercavo di non scoppiare a ridere, mentre lo vedevo sfrecciare da una parte all’altra del soggiorno, raccogliendo fogli sparsi, su una disordinata scrivania. Guardandolo mi consolavo, sapendo che il mio disordine era ereditario.

Tossì, per attirare la sua attenzione, quando mi accorsi che non mi aveva ancora notata.

“ Sei in ritardo”, constatò, senza voltarsi a salutarmi. Evidentemente mi aveva già visto.

“ Ciao anche a te”, dissi, risentita.

“ Ciao”, mi rispose lui, degnandomi di uno sguardo. “ Sei in ritardo”, mi ripeté.

Dal suo tono di voce, che cercava di rimanere sul vago, capii che era ancora arrabbiato per la faccenda di ieri. Decisi che la cosa migliore era porre resistenza passiva: ignorare per far passare.

Feci spallucce, come se la cosa non mi riguardasse. “ Non ho la macchina…”

Senza guardarmi, come se qualunque cosa stesse cercando fosse più importante, mi lanciò le chiavi della sua macchina. Le agguantai con una mano.

“ Sul tavolino di cristallo ci sono dei fogli. Prendili”, mi ordinò, senza smettere di camminare per la stanza. Ma che diavolo stava arrabattando?

Li presi, cercando di non badare troppo a lui, poi mi poggiai con le spalle al muro, sfogliandoli.

“ Cosa sono?”

“ Ci dovrebbero essere dei fogli, con gli orari giornalieri delle lezioni che dovrai seguire” mi spiegò, mentre io cercavo gli scritti in questione. Continuò a parlare. “ C’è anche una piantina della scuola, se non riesci a trovare le aule per le lezioni.”

Mi sfrecciò di fianco, avviandosi verso la porta. “ Il resto dei fogli, sono dei moduli che devi consegnare ai vari insegnanti.”

Continuando a leggere quelle scartoffie, mi avvicinai verso la porta, che Johnny mi stava tenendo aperta, segretamente sollevata del fatto che mio zio mi avesse risparmiato un viaggio in segreteria, spazzando via ogni possibilità di perdermi per il liceo.

Scendendo i gradini del portico, mi bloccai. “ Tu come fai ad andare a lavoro?”

Andò verso il garage, mentre io continuavo a seguirlo con lo sguardo.“ Prendo la Harley.”

Dopo un momento di palese sorpresa, scoppiai a ridere, immaginandomi la scena.

Ghignai, senza riuscire a smettere. “ Un avvocato su una moto. Forte.”

Non accennò ad un minimo sorriso. Si limitò a sollevare, scatenando un rumore metallico, la saracinesca del garage. “ La tua scuola è sulla 7 Strada”, mi spiegò lui, “ Ci sono le indicazioni, se hai qualche problema nel trovarla.”

Mi ricordavo benissimo dove si trovasse quel posto, era sulla strada per andare verso il cimitero, ma non mi tornava una cosa.

“ È quella scuola pubblica in Centro, vero?”

“ Sì”, mi rispose confuso. “ Perché?”

“ Bhe...” azzardai io, cercando di non apparire impudente, “ mi chiedevo solo come mai non mi avessi iscritto in una delle scuola private che ci sono qui in zona.”

Mi guardò smarrito, come se gli sfuggisse qualcosa. “ David e Andrew mi hanno detto che non ami molto quell’ambiente da ‘ricchi perfettini’ “ Parafrasò con scherno, le parole che usavo io, per etichettare tutti quei boriosi adolescenti viziati, che frequentavano le tante scuole private di Dublino. Mia madre aveva sempre cercato di allontanarci da quel tipo di ambiente.

Mi lasciai scappare uno sbuffo di sollievo. I miei fratelloni andavano fatti santi. “ No, no”, mi affrettai a dire, correndo verso la macchina. “ Hai fatto benissimo.”

Salii velocemente in auto e ingranai la marcia, partendo. A causa del ritardo – erano già le 7.45 e io alle 8 dovevo essere a scuola –oltrepassai un paio di semafori con il rosso e superai un bel po’ di volte il limite di velocità imposto.

Come previsto non faticai a trovare la scuola, grazie ai cartelli e, soprattutto, a una grande quantità di ragazzi che, o a piedi o in macchina andavano verso la mia stessa direzione. Peccato che io dentro mi urlavo di prendere il senso opposto e starmene tranquilla a casa. Entrai nel parcheggio, affollato di macchine e persone che si abbracciavano contenti e felici di ritrovarsi. Strinsi forte il volante, con il cuore in gola, mentre cercavo un posto dove parcheggiare la macchina. Una volta fatto manovra per posteggiare la macchina, girai le chiavi per spegnere il motore, e rimasi impalata a fissare la trombetta disegnata sul clacson, mentre il nervosismo prendeva possesso di me: potevo sentire lo stomaco contorcersi, mentre mille pensieri mi affollavano la mente. Sei in perfetto orario, mi dissi, nella speranza di calmarmi. Non hai ancora preso note disciplinari e il sole splende in cielo. Respirai profondamente. Hai trovato un cadavere, Lucy. Affermai. Puoi affrontare qualsiasi cosa. Guardai un ultima volta i fogli con l’elenco delle lezioni e la mappa del liceo, con l’intenzione di ricordarmi tutto, per evitare di passare il tempo con la cartina in mano, come un piccolo Boy Scout, poi scesi dalla macchina. I ragazzi che stavano ammirando la Mercedes nera e lucida – era pur sempre una scuola pubblica, e non tutti disponevano di auto lussuose – posero in un attimo l’attenzione su di me. Mi guardavano come se fossi la reincarnazione di qualche modella. Mi sistemai nervosamente i capelli dietro le orecchie, tenendo lo sguardo fisso davanti a me, mentre mi avvicinavo all’entrata del liceo, pensando mentalmente a dove avessi la prima lezione, anche se in quel momento avrei tanto voluto fumarmi una sigaretta. O magari altro… Alcuni ragazzi mi guardarono mentre camminavo per il corridoio, mentre cercavo l’aula di spagnolo. Mi affrettai a entrare, mentre un professore basso e piuttosto grasso, chiudeva la porta.

Consegnai in fretta il modulo, e mi andai a sedere nell’unico posto libero, in fondo alla classe.

Una ragazza dai capelli rosso tiziano, seduta di fianco a me, mi porse la mano.

“ Tamara”, si presentò, muovendo cono scatto quasi impercettibile la testa, per scostare la lunga e compatta frangetta che le arriva fino alle sopracciglia.

Le strinsi la mano. “ Lucy.”

Mi guardò un secondo, squadrandomi, poi si morse le labbra.“ Sei nuova”, affermò.

La guardai, sorpresa. “ Si”, risposi, sorridendo. “ Come l’hai capito?”

Si avvicinò un po’ , come per confidarmi un segreto. “ Le ragazze come te, qui non passano inosservate. E inoltre si sente dall’accento… Inglese?”

La guardai con un espressione divertita, poi distolsi lo sguardo, soffocando le risate. La frase, se non l’avessi già sentita, mi avrebbe parecchio infastidito.

“ Non sono una di quelle che punta a diventare il capitano delle cheerleader”, le risposi, fissandola dritta negli occhi. “ Comunque no, Irlandese.”

Ci guardammo per qualche secondo, come se ci stessimo testando l’una con l’altra e alla fine Tamara si rilassò, mostrandomi un sorriso.

Risi anch’io, nonostante il professore avesse già iniziato la lezione. Non seguii con attenzione la spiegazione - le mie capacità linguistiche, grazie alla domestica spagnola che lavorava per noi a Dublino, erano pari a una persona di madre lingua – così mi limitai a guardare con calmala piantina della scuola, o a rispondere ai messaggi dei miei amici, che mi domandavano come era iniziato il primo giorno di scuola. Risposi a tutti con la stessa frase: a prima impressione, bene. Ma io, meglio di chiunque altro, sapevo che le cose potevano cambiare in un attimo. Appena suonò, mi alzai svogliatamente, pronta ad avviarmi verso l’aula di matematica, con il professore Ciccone, che avrei odiato in ogni caso, solo per la materia che insegnava. Almeno il cognome prometteva bene.

“ Ehi, Lucy!”, mi chiamò Tamara.

Mi voltai.

“ Se vuoi a pranzo ti puoi sedere al tavolo con me”, mi propose. “ Ci sono anche altri amici.”

La guardai con un occhiata piena di gratitudine. “ Certo!” accettai. “ Grazie mille.”

Ci sorridemmo a vicenda. “ Ti aspetto all’entrata della mensa, vicino alla macchinetta del caffè” , mi suggerii.

Annui, ringraziandola un'altra volta, poi sollevata, me ne andai.

Il resto delle lezioni proseguii bene, a parte una mezza figuraccia durante la lezione di matematica, dovuta a una domanda riguardante le equazioni esponenziali, a cui io avevo risposto con una faccia di chi cade dalle nuvole. Conobbi altri ragazzi, tra cui un avvenente e biondissimo giocatore della squadra di Football, il quale si dimostrò fin troppo gentile, cadendo nel ridicolo, che mi propose di pranzare con il resto dei suoi compagni di squadra e alcune cheerleader. Mi sforzai per trovare le parole giuste, declinando l’offerta on un mezzo sorriso, spiegando che mi avevano già invitato. Sembrò parecchio deluso, come se non accettasse il fatto di aver ricevuto un due di picche. Gli sorrisi, cercando di essere convincente. All’ una e mezza il mio stomaco brontolava, e la voglia di fumare era diventata insopportabile. Mentre seguivo il flusso migratorio di ragazzi che andavano verso la mensa, giochicchiai un po’ con il piercing alla lingua. Arrivata al refettorio, riconobbi in lontananza i capelli rossi di Tamara, che mi aspettava come programmato alla macchinetta del caffè. Ci salutammo contemporaneamente, per poi ridere imbarazzate.

Indicai l’entrata della mensa, impaziente di sedermi e mangiare.

“ Ah, no!”, mi rispose Tamara. “ Noi non mangiamo mai nella mensa. Il cibo fa schifo, credimi. Dopo tre anni passati in sta’ scuola ho imparato un po’ di cose. Vieni fuori.”

Sorrisi divertita, e sollevata per il fatto che così avrei potuto fumare. “ Ok, andiamo”, accettai.

Passammo per i lunghi corridoi, improvvisamente vuoti, mentre ci dirigevamo all’uscita della scuola. Sentii il ticchettare degli alti tacchi di Tamara, che la rendevano alta quanto il mio metro e settanta.

“ Allora”, cominciò lei. “ Da dove vieni?”

“Dublino.”

“ Wow!” esclamò. “ Maddlemburg non può competere, allora.”

Feci un mezzo sorriso.” Per un certo verso sono simili, in quanto a case rurali.”

Uscite da scuola, ci dirigevo verso il campo da baseball, piuttosto lontano dal complesso scolastico, verso dei tavoli in legno. Tamara blaterava, mentre io mi limitavo ad annuire, senza ascoltarla veramente. Tutti i tavoli erano liberi, eccetto uno.

Lo occupavano due ragazzi. Erano seduti uno affianco all’altro, intenti a leggere un quotidiano. Il primo aveva i capelli biondo cenere, lisci e sistemati in una perfetta cresta, la pelle abbronzata. Il secondo era il suo opposto: capelli corvini e ricciuti, la pelle chiara e pallida. L’unica cose che li accomunava era il fisco, asciutto e muscoloso. Mi ricordava un altro ragazzo...Strinsi i denti, cercando di scacciare dalla mia mente l’immagine di quei occhi grigi color del cielo a novembre, che si fondevano con i miei. Quando i ragazzi alzarono lo sguardo dal giornale, rimanendo sbigottiti nel vedere che con Tamara c’èra un'altra persona, cercai di sorridere. Ci avvicinammo ancora un po’. Il ragazzo biondo, che teneva il giornale, lo chiuse, spostandolo un po’, poi incrociò le braccia appoggiandosi al tavolo, inchiodandomi con uno sguardo accattivante. Ora mi sentivo davvero in imbarazzo. Ci avvicinammo ancora, camminavamo lente. Ero sicura che Tamara potesse sentire la tensione che scorreva a piede libero nel mio corpo. “ Ciao”, mormorò con un sorriso seducente il ragazzo biondo, continuando a fissarmi dall’alto verso il basso, una volta che fummo uno davanti all’altro.

Abbassasi per un secondo lo sguardo, poi sorrisi goffa. “ Ciao”, salutai.

“ Lucy, lui è Shane”, precisò Tamara. “ E lui e Chad”. Indicò il ragazzo dai capelli neri, che mi guadò con aria annoiata.

“ Dov’è Big- D?”, chiese Tamara.

“ È andato a prendere le pizze”, spiegò distrattamente Shane. “ Allora”, azzardò poi, rivolto a me. “ Sei nuova, eh.”

Tamara si andò a sedere vicino a Chad, che stava pacioccando con il cellulare, poi iniziarono a parlare di qualcosa.

“ Si.” Lo guardai negli occhi, sperando che la smettesse di guardarmi, o perlomeno lo facesse in maniera non così evidente. Aprii la taschina dello zaino, e tirai fuori il pacchetto di Lucky, portandomi alla bocca la sigaretta, mentre i crampi della fame si facevano più forti.

Quando accesi la sigaretta, facendo uscire il fumo dal naso, senti Shane che tratteneva una risata.

Lo guardai con un espressione che stava a dire “ Che c’è da ridere?”.

“ Ma almeno i tuoi lo sanno che fumi, bambolina?” chiese sarcastico, con un espressione arrogante.

Non era la prima volta che mi davano nomignoli così, ma sentirmelo dire da una persona con cui non avevo confidenza e che non mi conosceva mi irritò. Le mie labbra divennero una linea sottile. Buttai per caso, uno sguardo sul tavolo, dov’era poggiata una sigaretta rollata. La guardai più attentamente, fino a rendermi conto che non era esattamente una sigaretta. Shane se ne accorse, e la prese subito tra le mani, come per nasconderla. Tamara e Chad, mi guardarono, improvvisamente preoccupati, come se avessi scoperto un loro segreto.

“ I tuoi invece lo sanno?” chiesi, beffarda. Mi scoppiò a ridere in faccia, come se fosse divertito del fatto che gli avessi risposto in maniera così diretta, poi fece spallucce, e si portò lo spinello alla bocca, accendendolo. Tamara e Chad, rimanevano sulla difensiva. Non volevo passare come una guastafeste, visto che non lo ero, così cercai di rassicurarli.

“ State tranquilli”, dissi. “ Sono muta come una tomba.”

Shane fece un tiro, poi mi guardò con provocazione. “ Vuoi?” mi chiese, tenendo davanti a me la canna.

Alzai un sopracciglio, poco convinta che dicesse sul serio. Lui restituì lo sguardo, aspettando. Mi lasciai sfuggire un sospirò divertito. Dopo tutti i casini e le cazzate che avevo combinato a Dublino, non potevo di certo lasciarmi intimidire da uno stupido e impertinente ragazzo. Spostai la sigaretta nella mano destra – sono mancina – e poi gli sfilai dalla mano lo spinello. Feci due note, sotto lo sguardo ammaliato di Shane, poi gli restituii la canna. In quel momento vidi arrivare da lontano un ragazzo enorme e ciccione.

“ Big-D!” UrLò Chad, dando voce ai miei pensieri. Il volto paffuto del ragazzo, messo ancora più in evidenzia dai suoi capelli praticamente rasati, che rendevano la sua testa una sfera, si allargò in un sorriso, mentre trasportava con attenzione quattro scatole di pizza. Si mangiava, finalmente! Spensi la sigaretta, pestandola, e il mio sguardo si posò sulla prima pagina del giornale. Rimasi paralizzata, il fumo bloccato in gola. A grossi titoli si leggeva:

RITROVATA MORTA LA RAGAZZA SCOMPARSA

La polizia sospetta di omicidio.

Dimenticai tutto il resto, scordandomi della fame e dei tre ragazzi che mi guardavano incuriositi. Cercando di non farmi notare, rimasi in pedi e incominciai a leggere con affanno l’articolo, cercando di capire se c’era qualche dettaglio che potesse ricondurre alla persona che aveva trovato il cadavere, cioè me. Quando capii che non c’era scritto nulla al riguardo, sospirai. L’articolo diceva solo che Amy Smith, il nome della ragazza, dopo due settimane di ricerche, era morta , a causa di un trauma cranico, dovuto a varie lesioni che gli avevano praticamente spappolato il cervelletto; inoltre aveva riportato alcune profonde ferite allo stomaco, date da un arma a doppio taglio. Si spiegavano le impronte insanguinate. Dopo il ritrovamento nel cimitero, la polizia sospettava di omicidio . Ma dai? Sussultai involontariamente quando Big-D poggiò proprio accanto a me le pizze. Anche lui mi squadrò, poi si rilasso in un sorriso benevolo. Prima di porgermi la mano, se l’asciugò sulle bermuda di jeans. Sorrisi, divertita.

“ Sono Dennis”, si presentò. “ Ma puoi chiamarmi Big-D. L’avrai capito da te il motivo del soprannome” Si indicò.

Sorrisi intenerita, e gli strinsi la mano” Sono Lucy.” Chad, si sfregò le mani e dopo aver mormorato un “ buon appetito” si tuffò su una pizza; venne seguito a ruota da Shane e Big-D. Io e Tamara ci scambiammo uno sguardo complice, poi, dopo essermi scusata e sentita in colpa, ci dividemmo la sua pizza. Shane, dopo essersi reso conto che avevo il piercing alla lingua, cominciò a tartassarmi di domande tipo se faceva male e quanto costava. Risposi, anche se avevo l’impressione che più che l’argomento gli interessasse parlarmi e basta.

“ Big-D, hai letto di Amy Smith?” domandò Shane, con la bocca piena. Rischiai di strozzarmi con la mozzarella.

“ L’hanno ritrovata morta al cimitero.” Il suo tono ora, era stranamente serio e concentrato.

Spostai lo sguardo inconsapevolmente, sentendo una vampata di strana paura.

“ Merda!” esclamò Big-D. “ Come è morta?” Accidenti, di tutti gli argomenti che c’erano – football, il primo giorno di scuola – proprio di questo si doveva parlare? E poi perché erano così interessati? Era una loro compagna? Scartai subito l’idea, quando mi ricordai che nell’articolo, c’era scritto che proveniva da Hampden, uno dei quarti loschi. Era quasi impossibile che frequentasse quella scuola. Magari gli piacciono le cose macabre, pensai.

Shane scosse la testa, in risposta alla domanda di Big-D. “ L’autopsia dice che è a causa di ferite allo stomaco e trauma cranico”, sembrava scettico. “ Chissà chi l’ha trovata…” si chiese distrattamente, masticando un altro pezzo di pizza. Sentii il cuore battermi forte nel petto. Le parole uscirono senza che riuscissi a controllarle.

“ Sono stata io” bisbigliai a occhi bassi, pentendomene all’istante. Con la coda dell’occhio vidi che tutti avevano girato di scatto la testa verso di me. Ormai il danno era fatto. Alzai la testa, guardandoli. “ L’ho trovata io.”

Perché glielo stavo raccontando? Accidenti, avevo fatto di tutto perché non venisse alla luce e ora lo spiattellavo in giro. Sperai che non dicessero nulla, e mi giustificai dicendomi che non potevo vivere con l’ansia, ogni qual volta avessero tirato fuori l’argomento. Inoltre non mi piaceva mentire, e se lo facevo era per necessità. Continuarono a fissarmi, quattro maschere di stupore e incredulità. Alla fine fu Tamara a rompere quel silenzio snervante. “ Mi dispiace, Lucy”, disse, triste.

Chad, Shane e Big-D rimasero a guardarmi, ancora scioccati, poi si ripresero, lanciandosi sguardi pieni di sottintesi. Chad sembrò confermare la mia teoria sugli interessi macabri, quando mi chiese come l’avessi trovata. Tutti le attenzioni si ripuntarono su di me. Stranita, spiegai del sangue sulla croce e sulle varie lapidi, e poi del ritrovamento avvenuto tra i mausolei. Dare queste spiegazioni a degli estranei mi metteva un po’ in crisi, soprattutto perché sembrava che il loro interesse andasse ben oltre la semplice curiosità. Cinque minuti prima che la campanella suonasse, dopo aver diviso la spesa per le pizza e le bibite, ci alzammo e ci dirigemmo verso la scuola, improvvisamente silenziosi. Camminavo affianco a Tamara, a testa bassa, mugugnando tra me e me, quando sentii alle mie spalle Chad parlare piano, un bisbiglio tra i denti.

“ Avremmo dovuto trovarla noi, prima.”

Va beeene! Per le persone che sono arrivate fino alla fine, grazie :) e, bhe fatemi sapere che ve ne pare!!!

RECENSITEEEE, please?

Bacio

bubblin_

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Solita storia: grazie alle persone che apriranno questo capitolo e che leggeranno! Recensite!

Capitolo che introduce dei…

17 Ottobre 2008

4) SOSPETTI

Nelle settimane seguenti andò meglio e peggio.

Andò meglio perché pian piano cominciavo ad abituarmi alla vita di Maddlenburg. Legai un po’ di più con Tamara, che per i primi giorni si rivelò gentile e simpatica. Ogni tanto buttava lì qualche domanda su Dublino o su mia madre, sulla vita che facevo lì e dopo che le rispondevo tornava a ciarlare dei fatti suoi, come se le risposte alle sue domande non le interessassero davvero. Anche Big-D si mostrò divertente e simpatico: faceva battute assurde, a cui io mi aggregavo sempre, mettendo in mostra il mio lato da buffona. I nostri caratteri cordiali si incastravano alla perfezione.

Shane cominciò a farmi una corte spietata, senza rivelarmelo mai chiaramente. Il suoi modi di fare, che già di per se apparivano arroganti e sarcastici, ottennero una dose in più. A pranzo si sedeva sempre vicino a me, cercava di parlarmi in tutti i modi, anche di argomenti stupidi come la riproduzione degli orsi che avevano dato una sera su Discovery Channel. Mi accompagnava tutti i giorni alle lezioni, a costo di arrivare in ritardo alla sue, sebbene cercassi in tutti i modi di dissuaderlo. La cosa mi inteneriva e lusingava. Ogni tanto, mentre camminavamo per i corridoi, e Shane aveva preso il brutto vizio di camminarmi vicinissimo tanto da avvolgermi le spalle con le sue braccia contro le mie proteste, avevo scorto lo sguardo arroventato di alcune ragazza. Probabilmente erano sue spasimanti, e Shane era tipo da averne tante. Con quell’aria spavalda e insolente, senza contare il suo aspetto fisico, che andava ben oltre il carino, aveva conquistato il cuore di parecchie ragazze. Per non cercare di illuderlo, e evitare di essere linciata nel parcheggio della scuola, mi allontanavo e cercavo di tracciare un confine che lui puntualmente superava. L’unico di cui non avevo caPito ancora la personalità era Chad, che rimaneva eternamente chiuso nel suo guscio silenzioso. All’inizio pensai che fosse timido e un po’ impacciato ma quando lo vidi parlottare con diverse ragazze scartai quell’idea. Chiacchierava con tutti ma sembrava si tenesse a distanza da me. A volte lo vedevo lanciarmi occhiate, quando pensava che non lo vedessi, per poi mettersi a parlottare fitto fitto con Big-D e Chad. Ero sicura che tramassero qualcosa. Non avevo dimenticato la frase di dubbio significato, che quel primo giorno di scuola aveva borbottato, per questo ogni volta che li vedevo complottare tra di loro, cercavo di avvicinarmi e capire qualcosa in più. Non volevo essere presa per invadente, semplicemente volevo capire se avevo legato con pazzi. Alla fine tutto ciò che ero riuscita a capire e che le loro nottate avvenivano spesso verso i quartieri non “ raccomandabili”. L’autunno prese lentamente il possesso della città. Avevo assistito meravigliata alla lenta e coloratissima trasformazione degli alberi, che pian piano avevano mutato il fogliame. La città, ricca di vegetazione, a fine settembre era un mix di colori che variava dal rosso, all’arancio, dal marrone al giallo. Io e Tamara avevamo organizzato un paio di volte uscite dedicate allo shopping, che mi avevano permesso di ingrossare il mio abbigliamento invernale, già abbastanza capiente. Per questo non erano mancate le litigate con Johnny, non tanto sulla questione “soldi”, visto che li mettevo di tasca mia, ma riguardo gli orari che mi erano stati imposti e che abitualmente sforavo. Sapevo bene che il coprifuoco era un modo per cercare di tenere a bada il mio tipico vagabondare che a Dublino, nell’ultimo periodo, mi aveva portato a conoscere persone non esattamente raccomandabili,soprattutto dopo la morte di mia madre, ma speravo capisse che quel periodo della mia vita era finito. Ovviamente il mio carattere ribelle non tardava quasi mai a farsi sentire, ma stavo cercando di limare i dettagli. Mi sentivo regolarmente con Becky, che era tornata dall’Italia, e con alcuni dei miei amici e ovviamente con David e Andrew. Ero riuscita ad andare a trovare Kim e zia Diana, con cui mi divertivo a scherzare e mi ero anche iscritta alla migliore scuola di danza classica che c’era in città: solo perché mi trovavo lì non voleva dire che avessi abbandonato del tutto l’idea di entrare alla Royal Ballet. La direttrice della scuola si era rivelata entusiasta di me, e non aveva avuto problemi a inserirmi nel corso più alto che disponevano. Ottobre iniziò con una cascata di foglie secche e la scuola portò con se una valanga di compiti, che eseguivo molto più invogliatamene all’aperto, spesso su uno dei tavolini di Lee Park. Amavo stare all’aperto e lì, in mezzo a quegli alberi fitti, a volte dimenticavo di essere a chilometri di distanza da casa mia. Mi imbottivo di felpe e mi avvolgevo nelle mie sciarpe, pur di poter passare un po’ di tempo fuori casa. Passavo le ore seduta a leggere libri che avevo preso dalla biblioteca che avevamo in casa o a scrivere sul mio vecchio quaderno. Scrivevo di cose banali, anche solo dell’ effetto che mi faceva ascoltare lo scorrere del William River, che passava per il parco fino a sparire nel fitto bosco. Ogni tanto capitava che ripensassi al ragazzo misterioso dell’aeroporto. Mi sentivo frustrata perché non riuscivo a capacitarmi di quel mal di testa improvviso che mi aveva assalito nello stesso istante in cui avevo ricambiato il suo sguardo. Mi sentivo sciocca a pensare che fosse state quelle sue magnetiche occhiate grigie a causarmi mal di testa e per questo desideravo rivederlo cercando di capire che cosa avesse scatenato il tutto. Una parte di me sapeva benissimo che bramavo rivederlo solo per poter osservare ancora una volta i suoi lineamenti selvaggi e bellissimi e quegli occhi scuri come l’acqua a dicembre. Nonostante i giorni continuassero a passare il suo viso era l’unico ricordo che rimaneva perfettamente nitido tra i miei ricordi. Verso metà ottobre, a scuola iniziarono a comparire i primi volanti che annunciavano il Ballo delle Streghe il trentuno ottobre, meglio detto per i comuni mortali come Halloween. Ero molto indecisa se partecipare: Halloween non era esattamente la mia festa preferita. Troppi brutti ricordi. Affrontammo subito la questione a pranzo. Ora mai eravamo obbligati a mangiare nella mensa, visto che fuori faceva troppo freddo, ma preferivo di gran lunga affrontare il vento spartano piuttosto che trangugiare il cibo che davano là. In quella giornata fredda, rimanevo mogia e muta ad ascoltare i discorsi dei miei amici, che sembravano stranamente nervosi.

“ Hanno messo in vendita i biglietti per il ballo di Halloween,” fece presente Tamara, dopo un lungo silenzio.

“ Non abbiamo tanto tempo per i balli della scuola”, le rispose Chad.

“ Possiamo organizzare qualcos’altro tra di noi” proposi cauta. “ Di solito voi cosa fate?”

Mi rispose Big-D, con il suo solito sorriso. “ Andiamo a ballare nelle discoteche che ci sono ad Hampden.”

Hampden era il quartiere da dove veniva la ragazza trovata morta, pensai. L’dea di andare a ballare, dopo un assenza di quasi cinque mesi da un locale, era più forte del buon senso. Nonostante le occhiatacce di Chad, ci accordammo per organizzarci a cercare un locale di nostro gradimento. Appena uscita da scuola sfreccia subito in macchina desiderosa di raggiungere mia madre. Passando davanti a un edicola che era sulla strada per il cimitero, lessi una scritta capace di rovinarmi la giornata.

NUOVA RAGAZZA SCOMPARSA, LA POLIZIA INDAGA

Per quel che ricordavo Maddlemburg non era mai stata una città violenta; sapevo che c’erano stati problemi con la droga ma gli omicidi in quella città erano davvero rari. Se ora qualche maniaco faceva sparire le ragazze, meglio mantenersi caute. Ripensai ad Amy Smith, distesa sul suolo. “Speriamo solo che la polizia la trovi in fretta”, mormorai tra me e me.

Entrai con passo lento nel cimitero, con un grosso mazzo di fiori in una mano e raccogliendo un bastone con l’altra, per precauzione, poi mi avviai verso l’Angelo di mia madre. Cercai di trattenere le lacrime, ma quando sulla sua tomba trovai un altro grosso mazzo, probabilmente portato da Johnny, le lasciai scorrere via. Non feci una vera crisi di pianto, mi limitai a osservare il bel viso di mia madre e i numeri impressi sulla lapide.

17 Ottobre 2007.

Era passato un anno da quando era morta.

Mi rimmaginai il poliziotto che quel maledetto giorno era venuto a bussare alla porta di casa mia, per parlare con i miei fratelli, e sentirlo spiegargli di come la macchina che trasportava mia madre si era schianta. I freni avevano ceduto, e lei era morta sul colpo. Prima di ritornare lanciai una brevissima occhiata alla lapide sul quale avevo visto la macchia di sangue, ma notai che era stata ripulita. Durante il viaggio lasciai scorrere la mente, elaborando con cura il discorso da fare a Johnny, riguardo la festa di Halloween. Glielo annunciai a cena, mentre sorseggiava con calma un bicchiere di vino. Rischiò di soffocarsi, mentre il colore del suo viso diventava violaceo. Aspettai che si riprendesse con un espressione tranquilla, anche se sapevo benissimo che avrebbe reagito così.

“ Non se ne parla proprio!” riuscì a ruggire tra un colpo di tosse e l’altro.

Quella frase fece andare in fumo i miei piani di mantenere la calma. “Oh, io credo di sì invece”, risposi con sfida.

“ È sparita un'altra ragazza! Seconde te io dovrei lasciarti andare laggiù?”, domandò retorico.

Mi spazientii.” Di tutte le persone che ci sono in questa città perché deve capitare qualcosa proprio a me? E comunque la polizia sta cercando l’assassino…”

“Senti”, mi sibilò Johnny , “ Hampden e Bellwood sono quartieri pericolosi già di giorno. Ma tu non hai idea di cosa si riversi in quelle strade quando cala il Sole…”

Il tono che usò era freddo e glaciale, proprio come il suo sguardo. Era chiaramente preoccupato e convinto di cosa diceva. Non capivo del tutto il perché. Riuscii un po’ a calmarmi, senza però cedere con le mie intenzioni.

Cercai di farlo ragionare. Dublino è mille volte più pericolosa,e non mi è mai capitato niente. Ci saranno anche i miei compagni di scuola…”

“Chi sono?”

Lo guardai basita, chiedendomi se stesse scherzando. Sbuffai quando capii quell’atteggiamento da Tribunale dell’Inquisizione era vero. Parlai in fretta, irritata.“ Tamara Regen, Shane Moyer, Chad Walker e Dennis Turner.”

In un attimo il suo comportamento si fece incredibilmente mansueto come se la notizia della gente che frequentavo fosse di suo gradimento. Ma era impossibile: mio zio era un avvocato, non un impiegato dell’ anagrafe. Non poteva conoscere tutti gli abitanti di Maddlemburg, soprattutto dei diciassettenni. Lo guardai, con lo sguardo crucciato e sospettoso. Lui fece finta di niente e arricciò le labbra, compiaciuto. “Uh, bhe… Siete in tanti effettivamente…” mormorò tra se e se. “ Ok, puoi andare”, acconsentii dopo un momento di imbarazzante silenzio. Spalancai gli occhi, mentre dentro la gioia si impossessava di me. Un sorriso si allargò sul mio viso.

“ A patto che…” riprese subito a parlare, alzando un dito in segno di avvertimento. Mi bloccai subito, con un espressione guardigna. “ A patto che tu faccia attenzione” concluse , per mio gran sollievo. “ Certo zio”, promisi sorridendo.

“ Non sto scherzando Lucy. Quei posti sono davvero pericolosi”, mi ripeté severo. “ Non sono quel che credi.”

Mi zittii, sotto il peso delle sue parole stranamente preoccupate. Perché aveva così paura? Era riuscito a rilassarsi quando aveva saputo i nomi delle persone della mia compagnia, permettendomi anche di andare a ballare, e ora era di nuovo lì a farmi il predicozzo. Non aveva senso. Evitai di ribattere, per scampare ad altre discussioni e annuì con la testa ma in qualche modo le sue parole erano riuscite a turbarmi.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Alloraaaaaaaaaaaaa! Eccomi con il 5 CAPITOLOOOOO. Finalmente Lucy rincontra qualcuno che aspettava da tempo… Non voglio dire nulla quindi mi blocco.

Buona fortuna e non dimenticate di RECENSIREEEEEEEEEEEE!

Bacio

_bubblin

31 Ottobre 2008

5) La partita

Halloween arrivò in fretta. Avevamo trovato una discoteca dove passare la serata e i giusti vestiti per il costume previsto dalla serata, che era venuto davvero bene, ed ero riuscita a convincere Johnny a spostare il coprifuoco fino alle cinque di mattina. Aveva acconsentito solo perché la festa cascava di venerdì, una vera fortuna. Quel giorno non potevo non essere felice. Arrivata in cucina salutai con più entusiasmo del solito Dominique, l’unica della cameriere che mi aveva dato confidenza, poi mi ingozzai velocemente con i cereali e piombai in macchina, tradizionalmente in ritardo. Chiusi subito lo sportello, accendendo velocemente il riscaldamento, mentre i brividi causati dalla fredde ventata che mi aveva assalito si attenuavano. Mi strinsi nel mio scarpone caldo, guardando un momento la mia villa. Dopo aver passato due interi giorni a sistemare le decorazioni insieme a Kim, che si era offerta subito come aiutante, era davvero perfetta e inquietante. Arrivata a scuola feci una corsa fino all’aula di letteratura inglese, rendendomi conto che la lezione era già iniziata. Il professor Roberts sbuffò spazientito, facendomi un cenno secco della testa e indicandomi il posto, che mi affrettai a prendere. Salutai a bassa voce Chad, seduto vicino a me per poi concentrarmi con attenzione sulla lezione conclusiva riguardante Christoper Marlowe. La campanella suonò giusto in tempo, evitando di farmi scoppiare la testa

“ Ci vediamo a pranzo”, lo salutai prima di avviarmi verso l’aula di storia. Il resto della lezioni trascorse in modo strascicato e noioso e fu una liberazione sedermi al tavolo della mensa per rilassarmi un poco. Mentre prendevo da mangiare al bancone, mi accorsi che Tamara e gli altri erano impegnati in una conversazione piuttosto animata. Mi avvicinai un po’ preoccupata, ma poi quando mi resi conto qual era l’argomento mi rilassai subito.

“ Scusami ma perché non possiamo vederci tutti prima al posto di andare separati?” strillò Tamara.

“ Non possiamo!” ripeté esausto Shane. “ Dobbiamo andare in palestra.”

Tamara sbuffò spazientita mentre io cercavo di nascondere un ghigno. Constatai che Shane e Chad passavano molte delle loro giornate in palestra ad allenarsi. I frutti del loro lavoro si vedevano ma non eccessivamente: i muscoli delle loro c’erano ma non erano pompati o esageratamente evidenti; con tutta probabilità praticavano boxe. Per evitare polemiche mi affrettai subito a proporre a Tamara di passare da me verso la sera, in modo da prepararci e andare al locale insieme e poi trovarci la con gli altri. Accettò con entusiasmo. Finite le lezioni andai a casa stranamente stanca, buttandomi a capofitto sul letto. Sonnecchiai per un po’ poi una volta riposata decisi di ballare un po’, per il gusto di farlo, nonostante solamente ieri fossi andata a lezione. Dopo essermi riscaldata scesi le scale andando in salotto, l’unica stanza munita di stereo, volteggiando senza problemi sul palquè della sala. Mi concentrai solamente sul movimento che il mio corpo mi diceva di seguire, basandomi solo sulla musica e presa dalla mia passione non mi accorsi nemmeno dello scorrere del tempo; in meno di un attimo fu ora di cena. Johnny arrivò a cena tardi, scusandosi e spiegandoci che aveva avuto problemi con un cliente. Lo rassicurai poi, per lavare via l’odore di sudore andai a farmi una doccia. Asciugai e piastrai i capelli, che impiegarono un po’ di tempo, visto che oramai erano lunghi fino alla vita poi andai ad accogliere Tamara, che alle nove esatte arrivò a casa mia.

“ Hai proprio una bella casa”, si complimentò salendo le scale. “Grazie” risposi sorridendo.

Tamara aveva con se una busta di carta dove teneva i vestiti per il costume di Halloween, che consisteva in una minigonna in jeans e in una camicia da boscaiolo: in pratica Cow Girl, con tanto di cappello. Mentre indossavamo i costumi, lei il suo e io il mio, una moderna “ Cappellaia Matta”, parlammo un po’ dei libri che ci piacevano leggere, ma l’argomento si esaurì subito quando mi resi conto che alla mia amica leggere non interessava piu di tanto. Ci truccammo pesantemente – in fondo era Halloween – e poi scendemmo le scale, pronte per la serata. Salutai Johnny sulla soglia, che mi lasciò un occhiata molto eloquente, soprattutto quando notà gli stivali neri dal tacco vertiginoso, come a dire ricorda cosa abbiamo stabilito. Sgusciai nella Ford di Tamara prima che potesse aggiungere altro. Tamara non guidava veloce come me, ma per fortuna riuscimmo ad arrivare in tempo davanti alla discoteca; trovato un posto per parcheggiare ci accodammo alla fila di persone che aspettava di entrare. Cominciammo a preoccuparci quando non vedemmo arrivare i ragazzi, ma un messaggio mandato da Shane, che mi informava che erano entrati da un po’ mi tranquillizzò. Decidemmo di raggiungerli dopo aver posato le giacche. La fila sembrava non accorciarsi mai ma una volta varcata la soglia, la pazienza ci rivelò una bella sorpresa. Sembrava di stare in una specie di girone infernale: la musica a palla che rimbombava nelle orecchie, era mischiata alle risate e alle urla delle persone che ballavano ammucchiate nella pista da ballo, tutti mascherati da mostri o fatine alate, che risultavano ancora più inquietanti sotto le luci accese e colorate. Compiaciuta accessi una sigaretta quando mi accorsi che nel locale si poteva fumare. Andammo a posare i cappotti nel guardaroba, ed io rimasi con solo addosso i jeans stretti e neri che mi fasciavano le gambe e un minuto top a fascia che si limitava a coprirmi il reggiseno e mi lasciava schiena, spalle e pancia scoperta. Mentre ci dirigevamo alla cassa a pagare, in modo da avere già i biglietti per le consumazioni, un paio di ragazzi ci fecero l’occhiolino; non ci badai. Finalmente dopo tanto tempo però, mi sentii felice e spensierata, come non accadeva da tempo. Mentre cercavamo Shane e gli altri, sentii vibrare il cellulare che avevo lasciato nella tasca dei pantaloni, riconoscendo che si trattava di un messaggio. Era Chad.

È successo un casino venite nel privè rosso.

Andai in panico. Si erano picchiati? Qualcuno di loro si era fatto male? Farfugliai ciò che avevo letto a Tamara che sembrò sbiancare. Cercai di riprendermi, usando il sangue freddo. Respirai profondamente poi parlai decisa. “ Cerchiamo il privè.” La presi per il polso, in modo da non perderci facendomi largo tra la calca di persone mi avviai verso un lungo corridoio quasi vuoto. Pregai che non fosse la strada verso il bagno. Seguii il corridoio, fino a trovarmi davanti a una porta socchiusa. Mi sporsi leggermente guardando all’interno sperando di non trovare qualcuno intento in atteggiamenti intimi. Occhi che avrei riconosciuto ovunque, occhi che furono come un lampo che illuminava un tranquillo cielo notturno, squarciando i miei pensieri e facendomi balzare all’indietro si posarono sui miei per meno di un attimo. Il cervello andò in black out. Mi appoggiai alla parete; non riuscivo a respirare. Sentivo le ginocchia molli e il cuore battere all’impazzata. Non c’erano dubbi. Era lui, il ragazzo dell’aeroporto.

“ Lucy!” esclamò Tamara spaventata.

La porta si aprii, facendo scattare immediatamente la mia testa, intimorita e elettrizzata allo stesso tempo di vedermi comparire davanti il ragazzo. Big- D , il viso stanco e quasi rassegnato, apparì sulla soglia. “ Siete arrivate”, disse sospirando.

Preoccupatamene delusa non accennai a parlare quando lo vidi, al contrario Tamara farfugliò veloce: “ Che succede? Vi siete fatti male?”

Big-D fece cenno di no con la testa. “ Venite dentro e ve lo spieghiamo.” Entrare lì dentro, in quella stanza stranamente silenziosa? Lo stomaco si contorse all’idea. Se quello era veramente il ragazzo che avevo incontrato all’aeroporto, come mi sarei comportata? Avrei evitato per tutto il tempo il suo sguardo per poi arrossire non appena l’avessi incrociato, sembrando una bambinetta stupida? Non se ne parlava nemmeno. Egoista! , gridò una voce dentro di me. Tamara entrò senza paura nella stanza ma io non accennai a muovermi. “ Forza, Lucy!”urlò da dentro. Feci una smorfia, poi sconfitta entrai a testa alta, sperando di ricompensare un minimo con la figuraccia di poco prima. Evitai lo sguardo di tutti, concentrandomi sui particolari della stanza, cercando di capirci di più. Spalancai la bocca sorpresa quando mi accorsi che si trattava di una sala da poker. Bè, non proprio: poteva fungere benissimo da piccola discoteca, dati i pali da lap dance e il mixer nell’angolo della sala, ma il grande, tondo e verde tavolo al centro della stanza non lasciava spazio ai dubbi. Lasciai cadere le braccia sui fianchi, mettendo da parte l’imbarazzo. “ Che succede?”, chiesi improvvisamente guardinga e sbigottita.

Silenzio. Tamara al mio fianco cominciò a respirare pesante.

Inghiottii a vuoto. “ Che succede?”

Una risata seducente e beffarda alle mie spalle mi fece voltare. Un tuffò al cuore si fece sentire quando quel viso dai lineamenti squadrati, che tante volte avevo cercato di ricordare, venne illuminato da un sorriso ammaliante e assassino. Arretrai involontariamente di un passo, impaurita dal fatto che guardandolo troppo intensamente mi sarebbe accaduta la stessa sorte dell’aeroporto. La bocca sottile si mosse quasi impercettibilmente. “Succede”, iniziò il ragazzo-senza-nome, “ che il tuo amichetto ha perso a una partita di poker. E ora deve pagare.” La frase, pronunciata con una voce ancora più celestiale della risata aveva un tono duro, che non ammetteva repliche, ma anche ironico, come se trovasse divertente la situazione in cui si era cacciato il mio… amichetto? Troppo presa a osservare il suo volto, e dalla reazione che il suo sguardo aveva scatenato in me nemmeno un mese fa, non avevo badato con attenzione alle parole dette con ironia e superficialità. A chi si riferiva? Mi voltai per capire, con uno strano presentimento. Nella stanza, oltre a due uomini massicci e rasati, probabilmente body guard – o più semplicemente esattori - c’erano Big-D, in piedi, turbato, Chad, seduto su un divanetto rosso intento ad asciugarsi il sudore che gli imperlava la fronte e… Shane, seduto al suo fianco, con la testa fra le mani in una posizione sconfortata e affllita. C’èra da aspettarselo! pensai stizzita. Chi se non lui poteva scommettere una cifra che non poteva permettersi? Vederlo così però mi scatenò una certa pena e vari ricordi, mi sembrò di vedere me stessa, quando la mia vita si era fatta un eterna scorribanda tra la polizia e me. Nonostante fossi andata giù però non ero abituata a rimanerci piu di tanto. Quel senso di solidarietà sempre presente in me si fece piu vivo. Non avevo intenzione di squagliarmela, lasciandoli a marcire nel casino in cui si erano infilati, ma non potevo neanche rimanere lì a guardare senza far nulla. Soprattutto perché non volevo rovinarmi una bella serata. Strinsi i denti, tanto da sentirli scricchiolare, poi voltai la testa d’un lato.

“ Quanto?”, chiesi inespressiva, cercando di mantenere la calma.

“ Quanto cosa?” ribattè il ragazzo.

“ Quanto si è giocato?”

“ Ma che fai?” bisbigliò Tamara al mio fianco. Le feci cenno con il dito che gli avrei spiegato dopo.

“ Millecinquecento dollari.”

Bene, perfetto, potevo farcela. E in caso di perdita i soldi di certo non mi mancavano. Sentii l’adrenalina scorrere dentro le vene. Mi sentii inarrestabile. Mi voltai, stavolta senza arrossire,e guardai dritto in faccia quel bellissimo e meraviglioso ragazzo, sentendo il fuoco negli occhi. Parlai ammiccando, come a invitarlo, stuzzicarlo. “ Me li gioco. Al tavolo.” lo indicai. Lui alzò un sopracciglio scettico. Lo ignorai, continuando. “ Se perdo, oltre a darti i miei soldi ti darò anche quelli di Shane, ma se vinco, annulli semplicemente il debito. Che te ne pare?” chiesi, una sfumatura di trionfo nella voce.

“ No!” esclamò Shane. Mi voltai stupita, vedendolo arrancare con lunghi passi verso di me. “ Sei pazza?”

“ No”, dissi piano e bassa voce. “ Ti salvo semplicemente il culo.” Che ingrato!

“ Non sai giocare a poker!”

“ Questo l’hai deciso tu!” risposi incollerita. “ Ci sono un bel po’ di cose che non sia di me.”

“ Ci sto!” urlò dietro di me il ragazzo. Un cenno di sorriso sparì dal mio volto quando Shane mi fissò con un espressione indecifrabile. Ridussi le labbra a una linea sottile, cosa che accadeva quando mi sentivo sicura di me stessa.

“ Lucy evita per favore!” mi supplicò, mentre mi sedevo al tavolo da poker. “ Troveremo una soluzione.”

Mi voltai a guardarlo, aveva gli occhi lucidi. Gli feci un sorriso d’incoraggiamento, mimando a fior di labbra < andrà tutto bene>. Shane scosse la testa ansioso. Passai oltre. Il ragazzo era gia seduto. Mi affrettai anche io. Un esattore si avvicinò a me, un foglio e una penna in mano. Guardai stupita prima lui poi il foglio. E questo cosa significava? Firmavo una specie di contratto? Il ragazzo fece cenno di no con la testa, rivolto al body guard, e il foglio mi sparii dal sotto il naso.

“ Per lo Stato questa partita non esiste”, mi spiegò tagliente.

“ Perfetto”, ribattei secca io.

“ Di solito le ragazze non giocano e poker. E quelle che lo fanno non giocano benissimo.”

Lo fissai orgogliosa e incredula, capendo dove stesse andando a parare.

Il body guard di prima sistemò davanti a me un mucchietto di fiches , poi fece lo stesso con il ragazzo.

“ Iniziamo con le presentazioni”, esordi dopo un momento, trafiggendomi con uno sguardo fatale, la voce carica di divertimento, probabilmente per la reazione di prima. Improvvisamente mi venne da pensare a quanto Shane e il ragazzo avessero caratteri simili. Tutti e due sarcastici e dall’ironia pungente, quasi si fossero copiati a vicenda. Anzi, avevo più la sensazione che Shane avesse copiato il ragazzo, il quale aveva tutta l’aria di essere inimitabile. “ Io sono Derek.”

“ Lucy”, gli risposi dopo un secondo momento.

Lui si lecco il labbro superiore, quasi come se si stesse preparando a una battuta di caccia, e mi sorrise malizioso. Alzai gli occhi al cielo, infastidita. Sicuramente qadno cercavo di ricordarlo nella mia mente non lo immaginavo con un carattere così. Eppure… Una volta mischiate le carte, il body guard mi distribuì cinque carte coperte,facendo lo stesso con Derek.

“ Quanti anni avresti tu?” domandò, curioso e con una punta di superiorità nella voce. Mi irrigidii: di tutte le domande che mi aspettavo di certo questa era l’ultima. Se gli avessi detto al verità, e cioè che non avevo neanche diciassette anni, si sarebbe tirato indietro, negandomi la possibilità di trovare una scappatoia? Cercai di non tradirmi. “ Diciassette.”

“ Sembri più… giovane.”

Scrocchiai le dita, nervosa, poi feci spallucce. “ Tu invece?” domandai sperando di spostare i riflettori su di lui.

“ Diciannove.”

Annuì, un po’ sorpresa che apparisse così giovane. Gli avrei dato ventun’anni se non di più: c’era qualcosa in quel viso meraviglioso che aveva l’aria di essere… vissuto. Non vecchio ma come se le esperienze fatte gli avessero dato un aria più adulta, matura.

“ Iniziamo”,decretò Derek, distraendomi da quelle riflessioni.

Senza degnarmi di uno sguardo prese cinque fiches, dal valore di cinquanta dollari l’uno e le piazzò al centro del tavolo. Ribattei con il controbuio, prendendo sette fiches blu, poi alzai lo sguardo indifferente, aspettando che continuasse. Il body guard che faceva da mazziere, una volta finito il round di scommesse eliminò la carta superiore del deck mettendola coperta sul tavolo, poi ci fece cenno di guardare le nostre carte. Un asso di cuori, un dieci di picchè, un cinque e un nove di fiori e una regina di quadri. Per ora niente di che. Guardai Derek cercando ci capire se a lui fosse andata meglio, ma il suo volto perfetto non tradiva alcuna emozione…

Durante il corso della partita, che ebbe alti e bassi - per quanto le mie mani fossero fortunate, avevo sempre la sensazione che in qualche modo le sue lo fossero di più- cercai di ignorare i commentini denigratori e fastidiosi di Derek, che cercava di distrarmi. Mi sforzai con tutta me stessa di non rispondergli.

Sospirai nervosa quando arrivammo all’ultimo round. Shane tossì irrequieto dietro di me.

Il mazziere bruciò la carta superiore sul deck e scoprì la quinta carta, il river. Iniziò l’ultimo giro di scommesse: oramai il piatto aveva raggiunto la somma di duemilatrecento dollari. Derek lanciò una scommessa di cento dollari e io ribattei con la stessa cifra. L’agitazione si scatenò in me quando Derek mise due carte coperte a faccia in su sul tavolo. Il mio stomaco si contorse, era l’azione decisiva: se Derek aveva una combinazione di carte più alta della mia, allora avevo perso. Io avevo un Poker: quattro carte dello stesso tipo, il Re, e una diversa, l’otto di quadri. Alzai lo sguardo dalle carte per vedere Derek, che combinava le sue carte coperte con le cinque carte in comune per creare la migliore mano possibile.

Un sorriso sghembo e vittorioso mi fece trasalire quando abbassò le carte in modo da mostrarmele.

“ Ho vinto, tesoro.” , disse fiero.

Il respiro mi si bloccò in gola. Non ci potevo credere. Se avessi potuto mi sarei messa ad urlare. La gioia che prese possesso di me fu così grande che quasi temetti di esplodere.

Buttai con forza le carte sul tavolo, un sorriso enorme sul mio viso.

“ A dire il vero no!” gli urlai in faccia. Mi misi a saltare per tutta la stanza, non badando a Shane, Chad e Big- D che si alzavano stupefatti per andare a controllare. Avevo vinto! Avevo vinto! Era tutto quello che riuscivo a pensare.

Un urlo euforico simile al mio esplose nella stanza. Ancora saltellando mi voltai per controllare chi avesse esultato. Delle braccia muscolose mi avvolsero facendomi volteggiare.

“ Lucy, hai vinto! Hai vinto!” gongolò Shane, baciandomi i capelli.

Lo abbracciai, felice, sentendo risate trionfanti alle mie spalle. Dopo un attimo sciolsi l’abbraccio, avvicinandomi al tavolo, dove Derek, una maschera di incredulità e sconforto guardava le carte davanti a se.

“ Poker batte Scala”, scandii piano.

Lui non rispose, continuò a tenere lo sguardo basso.

Io proseguii inarrestabile. Se lo meritava. Per essere così arrogante e sbruffone e per tutte le volte che aveva gioito nel vedere persone perdere contro di lui.

“ Forse dovresti fare meglio i tuoi conti. Prima di dire che le ragazze non sanno giocare” dissi, ripensando alla frase che mi aveva dedicato prima di iniziare la partita, “ dovresti imparare a farlo tu.”

Finalmente fece quello che aspettavo da dopo che l’avevo visto all’aereoporto: alzò lo sguardo, trafiggendomi con un occhiata carica di rancore e umiliazione. I suoi occhi diventarono scuri come il piombo, capaci di scatenare una di quelle ondate di paura tali da far spaventare anche un animale selvatico. Improvvisamente pensai a quanto quel viso disumano potesse essere pericoloso. C’èra qualcosa in lui di cupo e sinistro. Ignorai i brividi sulle braccia continuandolo a fissare, aspettando che accadesse qualcosa, anche solo un remoto dolore simile a quello accaduto il giorno in cui ero atterrata a Maddlemburg. Mi sentii afferrare il polso ma non mi mossi, in attesa.

“ Andiamo, Lucy”, disse a voce bassa Shane.

Strinsi i pugni testardamente. Perché non accadeva niente? Avevo bisogno di una conferma per accertarmi che ciò che era successo non era frutto della mia immaginazione o di qualche strana reazione del mio corpo. A poco a poco l’espressione furiosa di Derek tornò a essere apparentemente calma, per mio grande dispiacere. Le mie aspettative andarono in fumo, quando lui si voltò di scattò e sparii dietro una porta con un elegante e sicura camminata. Non era accaduto niente.

Mi voltai notando che eravamo rimasti solo più io e Shane.

“ Si, andiamo”, mormorai. Shane mi avvolse le spalle con un braccio com’era solito fare a scuola e mi guidò lungo il corridoio. Ancora sconfortata per poco prima non protestai nemmeno.

“ Grazie, Lucy.”

Capii che si riferiva a prima.

“ Non preoccuparti”, gli risposi rincominciando ad urlare a causa della forte musica. “ Voglio bere qualcosa!” esclamai quando ci avvicinammo al bancone da bar. Avevo bisogno di rilassarmi e dimenticare quegli ultimi piacevoli e spiacevoli momenti. In fondo ero venuta lì per passare un allegro Halloween e avevo ancora tre consumazioni gratuite.

“ Stavo pensando la stessa cosa!”, dichiarò Shane con un sorriso. “ Cosa vuoi?”

Ci pensai un momento. “ Un Long Island al Thè!”

“ Aspettami qui! Vado a prenderlo io!” Mi sorrise quando, per dargli il bigliettino delle consumazioni, le nostre mani si toccarono. Sperai non fraintendesse, ma rimasi lì ad aspettarlo. Cinque minuti dopo rieccolo con il mio cocktail in mano e il suo. Sorseggiamo con calma. Una nuova canzone esplose nelle casse nello stesso momento in cui poggiavamo i bicchieri vuoti su un tavolino.

“ Mi concedi questo ballo?” mi gridò, porgendomi la mano.

Mi sentii incredibilmente leggera, la testa che vorticava a mille, ma era una bella sensazione. “ Ma certo!” accettai, con vocetta stridula e provocante, stringendogli la mano.

Facendoci largo tra la calca di persone, tutto divenne nero.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Buona lettura. :-3

1 Novembre 2008

6 CAPITOLO – SBRONZA

Mi rigirai nel letto morbido, respirando tranquilla, mentre con gli occhi ancora chiusi cercavo a vuoto le lenzuola per coprirmi. La sensazione di freddo sparì all’istante una volta sotto le coperte. Soddisfatta, abbracciai il cuscino con braccia e gambe, in una posizione contorta, affondandoci la testa . Un profumo simile a acqua di colonia, fresco e maschile, mi assalì facendomi sospirare beata. A sentire quel dolce odore, mi svegliai di colpo, come se avessi ricevuto una secchiata d’acqua ghiacciata, alzandomi e rimanendo un attimo immobile, seduta sul materasso, mentre le vertigini causate dal movimento brusco si attenuavano. Mi guardai intorno, smarrita a preoccupata, mentre gli avvenimenti della sera precedente si facevano largo tra i pensieri confusi. Merda!Merda, merda, merda. Cercai di dare un senso ai ricordi vaghi, simili a immagini colorate e pieni di rumori, mentre disperata mi misi le mani tra i capelli aggrovigliati. Coprendomi il viso con le mani, cercai di respirare rilassata, nel tentativo di calmarmi, mentre sconfortata mi sforzavo di ricordare. Borbottavo piano, dando voce ai pensieri. “ Ieri era Halloween. E io ero in discoteca”, affermai sicura, piantando i pugni nel materasso. Fissai intensamente un punto indefinito tra le lenzuola candide e il piumone scarlatto, cercando di continuare a parlare, ma non sapevo cosa dire. Le parole mi mancavano e per quanto mi sforzassi di ricordare evocavo solo immagini nere. Non ricordavo nulla. Niente, vuoto totale. Era come se qualcuno si fosse rubato il continuo dei miei pensieri. Un altro pensiero, simile a una certezza, mi fece trasalire. Quasi petulante, chiusi di nuovo gli occhi, mentre una rabbia cieca mi invadeva. Mi sarei presa volentieri a pugni. “Perfetto”, dissi sarcastica, con voce isterica. “ Prima serata in discoteca e mi sono già ubriacata.” Il viso di Johnny, distorto dall’ira e la delusione fu come una foto nitida che mi si parò davanti, e sentii un ondata di emozioni che probabilmente erano residui dei sensi di colpa. Eppure non avevo mal di testa, neanche una minima traccia di dolore, come era capitato nelle passate sbronze- ed erano parecchie. Di nuovo quella ventata di profumo fresco, dalle fragranze quasi esotiche, mi riempii le narici lasciandomi quasi senza fiato e provocandomi strani brividi sulle braccia. Rimasi paralizzata, continuando a respirare quel dolce odore, mentre i contorni della stanza cominciavano a vorticare velocemente. Non era la mia camera. Ma non era neanche una delle tante stanza che appartenevano a casa mia. Quell’ambiente mi era completamente estraneo: le pareti dalle tonalità giallo carico, davano alla camera, già di per se enorme, una sensazione dispersiva e allo stesso tempo claustrofoba, simile a trovarsi rinchiusi in una grande scatola. I mobili erano in legno scuro, così come la testiera del letto. Sobbalzai allarmata quando notai che su una sedia vicino al letto spiccava della biancheria femminile. Involontariamente portai subito le mani sul seno, come per assicurarmi che indossassi ancora il mio intimo. Il sollievo di averlo ancora addosso non durò che un secondo quando capii che indossavo solamente quello, niente vestiti. Cominciai a respirare affannosamente. Dove diavolo ero? Che avevo combinato? Mi morsi le labbra, nella speranza di continuare a ricordare. Sull’orlo di una crisi isterica, cominciai a temere di aver passato il resto delle nottata a casa di qualche tizio che avevo incontrato in discoteca, cosa più che plausibile visto che solo da ubriaca potevo aver accettato inviti simili. Cazzo. Bè, a questo punto potevo consegnarmi da sola agli arresti domiciliari, visto che una volta a casa non mi attendeva sorte diversa: il fatto di aver dormito fuori casa senza avvertire mi sarebbe costata la libertà. Come spiegarlo a mio zio? Come giustificarmi e sperare di trovare scappatoia? Stavolta ero con le spalle al muro. Sfregandomi gli occhi decisi che avrei elaborato la scusa in un secondo momento. Ore era importante cercare di capire dove fossi e soprattutto con chi. Per quel che ne sapevo – o ricordavo – potevo anche trovarmi dall’altra parte del West Virginia. Il fatto di sapermi vestita mi diede la minima speranza di non aver passato una notte di fuoco con uno sconosciuto. Magari mi ero limitata a dormire nel a casa di qualcuno. O magari era una lei. Questo spiegava la biancheria che si trovava sulla sedia. Forse ero in camera di Tamara. Sì, magari era proprio così, visto che non avevo mai visto la sua casa. Probabilmente mi aveva portato a casa sua proprio perché ero ubriaca, si era cambiata e aveva lasciato gli indumenti poggiati su quella sedia. Ma quel profumo , che mi infettava le narici, trasudava mascolinità. Era il classico profumo che probabilmente avresti immaginato di sentire addosso a dei modelli. Con una smorfia in viso, decisi che al cosa migliore era affrontare la situazione di petto per scoprire la verità, al posto di crogiolarsi nei dubbi. Balzai in piedi infretta, cercando di sistemare al meglio le lenzuola, accorgendomi che hai piedi del letto c’erano i miei pantaloni neri e poggiata per terra la mia borsa. Afferrai immediatamente quest’ultima, colta da un improvvisa scarica di adrenalina, frugando all’interno per cercare il cellulare. Imprecai mentalmente quando, una volta tra le miei mani, lo schermo , che una volta toccato un tasto, rimase nero. “ No, no. Ti prego”, implorai, sperando che si accendesse. Lo schermo continuò a rimanere nero. “ Vaffanculo!” esclamai arrabbiata, rigettandolo nella borsa. Ora, anche se avessi voluto avvisare mio zio non avrei potuto farlo. Mi infilai sconfortata i pantaloni ma non trovai il corsetto. Realizzai che erano anche spariti gli stivali. E ora come me ne andavo da li? Non potevo girare scalza per la città e tanto meno sfoggiare il reggiseno rosa in pizzo nero. Maledizione. L’unica soluzione era scendere e chiedere al proprietario della cosa dove fossero le mie cose. Cercai di alzarmi il più possibile i pantaloni che arrivavano proprio al limite poi,mordendomi le labbra, camminai scalza sul tappeto morbido e mi avviai verso al porta della stanza aprendola lentamente. Sperai che il cuore, che mi martellava furiosamente nel petto, non mi smascherasse. Troppo preoccupata da ciò che avrei scoperto da lì a poco, non badai minimamente all’arredamento della casa mentre scendevo una scala a chiocciola. I suoni melodici di una chitarra acustica, che a ogni scalino che scendevo diventavano sempre più forti, accompagnavano il mio respiro pesante. Seguendo il suono delicato delle note sbucai in un luminoso soggiorno. La luce forte che filtrava dalle finestre mi fece socchiudere gli occhi, che si ridussero a due fessure. Mi concentrai su un punto della stanza, dove c'era una sagoma dai contorni fin troppo familiari. La musica si interruppe. Riuscii a riaprire con molta meno fatica gli occhi, ora mai spalancati per la sorpresa, mentre l'uomo - il ragazzo - si avvicinava. Alla fine ci ritrovammo faccia a faccia. Anche se non mi fossi mai ubriacata sarei stata in grado di riconoscere quel volto maledettamente bello, dai tratti meravigliosi e selvaggi. Uno sguardo scaltro, provocatore, accesso da un guizzo simile all’argento liquido, che si fondeva con i suoi occhi, percorse il mio corpo, squadrandomi dall’alto verso il basso. Gli occhi magnifici, quasi quanto quel viso, indugiarono sul mio petto, fino a posarsi sulle mie labbra socchiuse.

“ Il vestito di ieri sera non ti rende giustizia.”, affermò il ragazzo con voce maliziosa. “ Lo sai vero?”

Un sorriso fulminino gli balenò sul volto e poi compare una faccia da poker. Tutto in un attimo fu molto più chiaro.

Cercai di insabbiare l’imbarazzo che mi invadeva con un sorriso, poi abbassai lo sguardo mentre il suo, grigio, continuava a scrutarmi.

"Ciao, Derek."

MA LA FANFITION FA COSì SCHIFO??? Vedo che le persone leggono ma non commentano… Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate…

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Dopo secoli torno ad aggiornare questa fan fiction, giusto in tempo per Halloween!!! Grazie alle persone che leggono, che a quanto vedo, non sono poche! Non dimenticate di recensire, VI PREGOOOOO! ç_ç

Bacioooooooo!

1 Novembre 2008

7 CAPITOLO - INVITO

“ Ti ricordi il mio nome?”

Il suo tono falsamente ingenuo mi fece insospettire, ma decisi di mantenere la calma e rispondere alla provocazione.

Ammiccai. “ Tu ti ricordi il mio nome?”, chiesi maliziosa.

Si lasciò scappare una risatina quasi nervosa poi mi guardò dritto negli occhi, usando tutta la potenza del suo sguardo.

“ Ora mi dai un motivo migliore per ricordamelo”, affermò ironico, avvicinandosi di un passo verso di me. “ Lucy.”

Mi irrigidii istantaneamente, e non per il nervosismo. Il tono di voce seducente, sottile, con cui pronunciò il mio nome fece andare in tilt il cervello, nonostante fossi abituata a quel genere di complimenti scritto tra le righe. Cercai di ignorare la voglia di avvicinarmi a lui quel tanto che bastava a verificare se anche il suo corpo profumasse come quella fragranza che tappava le narici, soffocando l’istinto con una certa fatica, per occuparmi di questioni più importanti.

“ Che ci faccio qua, Derek?” chiesi piano.

La domanda lo colse di sorpresa, poi cercando di non smascherarsi mi rispose velocemente.

“ Ti sei leggermente ubriacata!” disse ironicamente. Lo fulminai con lo sguardo ma lui continuò. “ Inoltre ho impedito al tuo amico di fotterti nel cesso della discoteca. Non credo che tu fossi molto consenziente.”

Rimasi ammutolita a fissarlo. Amico? Fottermi? Nel cesso? Ma di che diavolo blaterava?

“ Che… che stai dicendo?” balbettai.

“ Quello che ho detto”, mi ribadì lui. “ Tu e Shane eravate in atteggiamenti molto, molto intimi. Per essere precisi la sua lingua ha esplorato molto profondamente la tua bocca, favore che poi hai ricambiato.”

“Ah!” fu tutto ciò che riuscii a dire alla fine. Che altro potevo dire? Che mi stava bene? Si, anche. In quel momento sperai che anche Shane si fosse ubriacato abbastanza da non ricordarsi nulla. Mi ripresi quando uno spiffero di aria fredda si scontrò con la mia schiena nuda. Solo allora mi ricordai di essere in reggiseno. Un'altra paura mi fece scattare. In un'altra occasione non mi sarei sentita così a disagio, tutt’altro era una persona che in occasioni del genere giocava molto sulla malizia, ma c’era qualcosa in Derek che annientava quella parte di me. Mi metteva in soggezione. Più lo guardavo e più sentivo del fuoco bruciare in me.

“ Giusto per…” iniziai imbarazzata, non sapendo quale fosse il modo migliore ed educato per esprimere le mie preoccupazioni. “ Anche noi eravamo… in.. in atteggiamenti intimi?”

Derek mi fissò con espressione che si faceva sempre più divertita man mano che io andavo sempre più in palla. Ero più che sicura che avesse capito a cosa mi stessi riferendo e sospettai che mettermi in difficoltà fosse un modo per vendicarsi dopo figuraccia che gli avevo fatto fare ieri sera. Evidentemente aspettava che parlassi io.

Avrei voluto scavarmi una fossa da sola quando dissi: " Abbiamo fatto sesso?" tutto d'un fiato.

L'espressione di Derek si fece sempre più vittoriosa e beffarda mentre con passo lento ma deciso si avvicinava sempre di più verso di me. "No, ma se vuoi rimediamo subito!”

Rimasi ammutolita riflettendo sul senso di quella frase. Mi aveva forse detto in un modo un po’ contorto che gli piacevo? Nah, senza contorto: l’invito era stato chiarissimo. L’imbarazzo stranamente sembrò evaporare. Cercai di soffocare la reazione eloquente del mio corpo mentre la parte felina di me si schiantava con una potenza.

Annullai con passo sicuro la distanza tra di noi. “Rimedieresti davvero?” chiesi con voce bassa e seducente, alzando gli occhi per poterlo guardare negli occhi. Non mi ero resa conto che fosse così alto: dovevo tenere la testa sempre più in su per guardalo in viso. La mia reazione lo sorprese, era evidente. Si era improvvisamente irrigidito, lo riconoscevo dai suoi occhi simili all’argento, incredibilmente concentrati nei miei.

“ Tu no?” ribattè alla fine, con voce che cercava di nascondere un fremito. Cercai di non lasciarmi distrarre da quel profumo inebriante. Socchiusi un poco la bocca, lasciando intravedere la lingua, poi mi alzai in punta di piedi verso di lui. Derek rimaneva immobile, scombussolato da quel mio improvviso cambio di umore. Il meglio deve ancora venire, pensai tra me e me. Inarcai un po’ la testa, fino a portarmi a neanche un centimetro di distanza dalla sua bocca. Mi avvicinai e…

“ NO!” esclamai allontanandomi brusca, portando i nostri corpi a una distanza di sicurezza. “ Non lo farei.”

Sorrisi trionfante. Derek ricambiò silenzioso il mio sguardo, senza trasmettermi niente. Era padrone di se stesso, non avrei saputo dire quali sensazioni stesse provando in quel momento. Avrei detto imbarazzo. Io da parte mia gongolavo di soddisfazione per averlo messo nel sacco. Ora non stava a me parlare, ma quando Derek lo fece, desiderai che non l’avesse mai fatto.

“ Oh si che lo faresti, tesoro.” Affermò sicuro di se. “ Lo nascondi sotto quel…” indicò il mio corpo, sforzandosi di trovare le parole giuste. “… quel ben di Dio, ma lo faresti. E lo sai.” Uno dei suoi sorrisi sarcastici e dominatori gli balenò in volto.

Mi sentii sprofondare ma lo congelai con occhiataccia. “ No.”

“ Si.”

“ NO!”

Mi ri sorrise, sferzante.“ Si, se non fosse così non saresti qui a discutere con me e con te stessa.”

Rimasi a bocca aperta, poi la richiusi di scatto, imbufalita Non era vero! Aveva torto! Per quanto fosse fichissimo non avevo di certo intenzione di andare a letto con lui. “ Credi a cosa vuoi!”, ringhiai alla fine, per poi andare a passo di carica verso la porta. Stupido idiota! In quel momento, arrabbiata com’era non sapevo che farmene dell’orgoglio. Sarei uscita di casa anche in reggiseno e scalza se non fosse stato per Derek, che in un attimo mi fu dietro, richiudendo senza sforzo il portone in legno che avevo aperto e bloccandomi l’uscita con il suo braccio muscoloso. Rimasi immobile a fissare i vetri opachi, troppo scioccata per capire come avesse fatto a raggiungermi così in fretta e per di più senza far rumore. Sentivo il suo fiato freddo sul collo. Quando lanciai uno sguardo velenoso al braccio, pronta a staccarglielo a morsi, Derek parlò pacato, innervosendomi ancora di più.

“ Se proprio devi andartene, perlomeno rivestiti. Oltre a prendere freddo potresti scatenare la reazione di qualche passante. E oggi non so se mi va di fare a botte con qualcuno.”

Ignorai la sua minaccia e digrignai i denti, poi mi voltai riluttante a guardarlo in faccia. “ Allora dammeli tu, visto che in camera tua non ci sono,”ribattei. “ Grazie.”

“ Sono nel bagno!” mi rispose lui, spostandosi e lasciandomi libera di andare verso le scale. Lo incenerii con un'altra occhiata poi salii con passo pesante le scale. Una volta in camera sua, cercai velocemente i vestiti, piegati malamente ai piedi del letto, indossandoli svogliatamente mentre pensavo ancora alle parole che mi aveva detto con sicurezza in soggiorno. Se non fosse così non saresti qui a discutere con me e con te stessa. Come potevo farmi influenzare dal parere di un ragazzino di qualche anno più grande di me, che a malapena mi conosceva? Solo perché fisicamente era attraente questo non giustificava il fatto che si potesse comportare come uno stronzo di prima categoria. Io sapevo qual’era la verità, e non era di certo quella. Mi fiondai in bagno, cercando di scacciare quei pensieri. Mi specchiai nel grande specchio sopra il lavandino, e ovviamente vidi riflesso ciò che mi aspettavo: una massa di capelli mezzi lisci e mezzi mossi e tutto il trucco sbavato. Legai i capelli in una treccia veloce e pratica poi mi sciacquai la faccia cercando di portar via il più trucco possibile e mi limitai ad asciugarmi con della carta igienica al posto di usare un asciugamano. Indossai il cappotto, infilai gli stivali e scesi in fretta le scale, sotto il ticchettio frenetico dei tacchi, masticando con fatica i tre cicles alla menta che avevo trovato in borsa, usandoli come rimedio allo spazzolino. Non avevo nemmeno intenzione di salutare Derek o ringraziarlo, per quel che mi riguardava poteva benissimo lasciarmi in atteggiamenti intimi con Shane, sempre che fosse vero. Finalmente uscii dalla casa ma mi bloccai sulla soglia,un sorrisetto pietrificato sulla bocca. L’aria fresca e frizzante, che profumava ancora di ruggine e pioggia, mi fece rabbrividire, mentre fissavo quasi spiritata una moto grande, nera e lucida parcheggiata proprio sul vialetto. Derek trionfante e bellissimo, seduto proprio su quella meraviglia, intento e sfregarsi le mani per riscaldarsi da quell’aria fredda, mi fissava soddisfatto.

“ Che cosa significa tutto questo?” domandai stizzosa, avvicinandomi a lui.

“ È’ il mio modo per chiedere scusa,” rispose angelico.

“ Se il tuo modo per chiedere scusa vuol dire andarsi a schiantare contro un palo della luce, okey.”

Lui soffocò una risata, senza badare al tono acido che avevo usato. “ Veramente volevo chiederti se ti andava di uscire.”

Gli risposi dopo un momento di palese sorpresa. “ Ho altro da fare”, dissi accennando a un passo nella direzione opposta alla sua.

Il suo braccio muscoloso e lungo, apparve fulmineo, bloccandomi la strada. Per un istante rimasi li a chiedermi se fosse il caso di prendere a morsi la sua mano o a tirargli un pugno in testa. Poi feci un sospiro scocciato e mi voltai a guardarlo, inviperita. Lui, testardamente, con il braccio libero, mi porse un casco che non afferrai. Ci guardammo per dei secondi interminabili e quasi con furia, finchè Derek non scatenò su di me la potenza del suo sguardo.

“Di certo la motivazione del tuo “ no” non è sicuramente perché hai paura di finire nei casini con i tuoi,” mi provocò.

Feci per ribattere, anche se quella era la verità, ma lui mi anticipò.“ Se fosse stato così te ne saresti andata da un pezzo. Quindi vedila come un modo per chiederti scusa riguardo prima. E inoltre anche se non ti importa, sappiamo bene che una volta a casa non uscirai per un bel po’ quindi… a te la scelta.”

Ridussi gli occhi a una fessura quando lui riavvicinò il casco alle mie mani. Dove tornare a casa e lo sapevo bene, come minimo ero in ritardo di almeno dieci ore. Stare ancora in giro a gingillare per un po’ non mi avrebbe ingraziato di sicuro. Sarei stata volentieri ancora fuori, per potermi godere gli ultimi istanti di libertà però… stavo per dire non con Derek ma mi bloccai. Ero davvero così sicura di non voler montare su quella moto con lui? Pensai alla prima volta che l’avevo visto e poi a quel desiderio malsano di rivederlo che mi aveva assalito nelle settimane a venire. Ora che finalmente c’e l’avevo davanti sarei stata in grado di digli di no e andarmene? Di certo quando l’avevo visto non avevo immaginato che disponesse di un carattere così pungente e vivace ma d’altronde l’irresponsabile e testarda ragazza che ero, era l’ultima che poteva giudicare le persone.

“Sento che mi pentirò di questa decisione” mormorai guardandolo e prendendo il casco tra le mani.

Lui rise e mi sorrise. Un fuoco improvviso divampò in me. Controllati, mi dissi.

Infilai con sicurezza il caso, montando dietro di lui. Afferrai saldamente la felpa che indossava, cercando però di non accollarmi a lui. La sua risata fragorosa, segno che probabilmente aveva capito, venne coperta dal ruggito del motore appena acceso. “ Pronta?” mi chiese, quasi frenetico.

Sperai che riuscisse a sentirmi anche attraverso il casco. “Sì.”

La moto partì in quarta, facendomi quasi schizzare all’indietro, nonostante fossi pronta all’impatto. Con un moto di paura ed eccitazione sorrisi involontariamente mentre stringevo le gambe contro quelle di Derek, sentendo l’aria fredda trapassare il giubbotto leggere, sfrecciando lungo una strada costeggiata di case vittoriane ed enormi. Alcune erano fatiscenti e disabitate, con travi in legno alle finestre, mentre altre gloriose e bellissime in confronto, sebbene tutte si distinguessero per i muri esterni scoloriti e decadenti. Nella mia mente riconobbi subito quel quartiere, non esattamente tra i migliori:il Vittoriano. Fino a meno di cinquant’anni fa, era incluso nella parte storica della città ma con l’andare degli anni quella ville erano state vendute o cedute dai proprietari agli esalatori dei debiti e scommesse. Ora mai a popolarlo era un miscuglio di malavita e persone seriamente problematiche. Preferibilmente da evitare. Mentre mi perdevo in quei pensieri mi resi conto che non avevo la minima idea di dove Derek mi stesse portando, così un po’ intimorita cominciai a seguire gli spostamenti della moto. Non riconoscevo le viuzze che lui percorreva con sicurezza e facilità, tra palazzi mezzi distrutti e pitturati da graffiti colorati e appariscenti, finché non imboccò un ponticello in legno, procedendo sempre più a nord verso le colline e la vecchia stazione, risalendo tornanti e stradine sterrate. Feci mente locale, cercando di ricordare se ci fossero negozi o qualsiasi altre cose che non lo rendessero un posto appartato, constatando che a parte qualche ristorante di lusso sfruttato soprattutto da romantici fidanzanti non c’era altro. Aveva intenzione di offrirmi la cena? Mentre la moto slittò un poco sotto della ghiaia, mi chiesi se era il caso di scendere e tornarmene a casa. Senza darmi il tempo di prendere una decisione razionale la moto si fermò con un brontolio mentre io rimanevo seduta sul retro del veicolo, guardandomi intorno con circospezione. La diffidenza venne sostituita in poco tempo dalla sorpresa, mentre sempre più incredula allentavo lo la presa ferrea che esercitavo su Derek. Mi sfilai lentamente il casco per poter ammirare ancora meglio il panorama, scendendo cautamente dalla moto.

“ Grazie”, mormorai distratta a Derek, porgendogli il casco. Mi avviai sempre più entusiasta e con lunghi passi, camminando su terra secca e irregolare, verso un precipizio. La risata smorzata di Derek, probabilmente dovuta alla mia reazione, raggiunse le mie orecchie, ma non ci badai. Per potermi sporgere ancora un po’ di più, e ammirare meglio il panorama che mi si parava davanti, afferrai saldamente il tronco di un pino. Quando raggiunsi la posizione adeguata aguzzai la vista, mentre un sorriso che partiva da un orecchio all’altro mi si stampava in volto. Guardavo dell’altro e con ammirazione, su una collinetta a metà tra la terra e il cielo, una piccola e caotica Maddlemburg:avevo vista completo di tutto. Riuscivo a scorgere con fin troppa chiarezza il parco grande e immenso che si mischiava con il bosco, ormai una macchia vuota e quasi spoglia, i quartieri a Nord che erano praticamente sotto i miei piedi, alcuni tra i palazzi più alti del centro, la ferrovia che attraversava la città e il fiume che la costeggiava. In lontananza si vedevano i quartieri a Sud. Se questa era la vista di cui usufruivo guardando in basso non potevo dire lo stesso se alzavo gli occhi al cielo, velato di grigio e nuvole sparse che coprivano il blu, quasi fossero state una cappa di fumo. Quel colore in quel momento mi ricordava una sola cosa, o persona. Le colline sempre più alte e ricche di una foresta fino a qualche mese prima rigogliosa, delimitavano la vallata e circondavano la città, creando una meravigliosa gabbia. Tutto era fin troppo stupendo, soprattutto se visto da un punto intermedio come il mio. Sentii foglie secche sgretolarsi sotto i passi e poi il respiro lento e regolare quanto il mio.

“ Sono perdonato?” domandò Derek spezzando il silenzio dopo alcuni secondi.

Mi voltai a guardarlo e annuì, con ancora i residui di quel sorriso sulle labbra. Lui arricciò il naso e mi sorrise, pizzicando la lingua fra i denti, soddisfatto da quella risposta. Mi voltai di nuovo verso il burrone, continuando a reggermi per sicurezza all’albero.

“ Non sapevo esistesse questo posto.” Mormorai per non spezzare la calma.

“ Lo sanno in pochi.”

“ Andiamo?” chiese poi di punto in bianco.

Mi voltai confusa. “ Dove?”

Mi strizzò l’occhio: “ In un altro posto che conoscono in pochi.”

RECENSITEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE!

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