Tu
prova ad avere un mondo nel cuore {Un matto}
“Si sente che sei tedesco. Quando pronunci certe parole
hai un modo di dirle così duro, come se ti uscissero dai denti senza che tu lo
voglia.”
Non si vede,
ma si sente. Sorrise, compiaciuto,
perché nessuno aveva mai fatto caso alla sua voce, ma prima di tutto al suo
aspetto. Sorrise del talento di Edward ad uscire dagli schemi del resto del
mondo per ogni piccola cosa.
Edward mescolava i rimasugli di panna montana nella
cioccolata, troppo perso ad osservare ogni più piccolo particolare del viso di
Alfons per perdere tempo a bere. La cioccolata l’aveva ordinata per avere dove
tenere le mani; non riusciva semplicemente a tenerle appoggiate sul tavolo,
doveva fare qualcosa. Ai suoi piedi, difatti, giacevano i resti di un
tovagliolo di carta, distrutto nell’attesa, mentre parlava del più e del meno,
di sciocchezze, di suo fratello Al che quel giorno non stava tanto bene.
Alfons arrossì notando come Ed non si curasse di
dissimulare tutto quell’interesse nei suoi confronti; non era per nulla abituato
ad una corte così spudorata. In genere, non era abituato ad avere una corte.
“Davvero? È strano, è così tanto che abito qua.”
Sbatté gli occhi una volta, sorridendo impacciato. Non
gli piacevano le sue origini, cercava di non farle notare; a volte scimmiottava
l’accento inglese un po’ troppo forzatamente, risultando ridicolo – il più
delle volte riusciva ad evitarlo, non tutti hanno lo spirito d’osservazione di
Edward Elric (ed era davvero una fortuna, non era una così bella sensazione
sentirsi nudo di fronte ai suoi occhi; lo era solo con lui). Quando qualcuno
gli faceva notare che, essendo biondo con gli occhi azzurri, alto e vagamente
ben piazzato, era molto difficile nascondersi, rideva accusandolo di lasciarsi
trarre in inganno da facili luoghi comuni.
“Davvero? Da quanto?”
“Almeno dieci anni.”, rispose, convinto che fosse un
lasso di tempo enorme, quasi infinito.
“Ah, è pochissimo per perdere l’accento. Ma stai
tranquillo, è bello. A me piace, è particolare.”, sorrise ancora, “Così, quando
ti cercherò in mezzo alla folla e griderò il tuo nome, e tu farai lo stesso, riuscirò
a riconoscerti fra mille.”
Alfons arrossì nuovamente, concentrandosi sul proprio
riflesso nel the. Faceva così con tutti? Si sentiva una ragazzina al primo
appuntamento col ragazzo più popolare del liceo, quello che sorride sempre a
tutte ma speri sempre che il suo sorriso più bello sia riservato a te, mentre
magari sta solo ammiccando alla tua amica più bella dietro, quella senza
brufoli e il seno già esploso dalla seconda media. Insomma, sentiva un gran
guazzabuglio nel fondo dello stomaco; un gran caldo e un gran casino, che
cercava di nascondere sorridendogli come un beota.
“Sai, se mai mi capitasse di perderti.”
Edward era fantastico. Non c’era altro modo di
definirlo. Era troppo melenso pensare che sapesse sempre come centrarlo diritto
nel cuore? Sì, lo era, ma era anche troppo tardi.
“Oh,
no, tranquillo, non succederebbe mai.”, avrebbe voluto dirgli.
Si sentiva così profondamente innamorato di lui da
essere in bilico su un precipizio, per la paura di non essere ricambiato. Si
sentiva nudo e vergine davanti a lui, era la stessa sensazione fastidiosa di
quando sognava di essere all’improvviso spogliato dei suoi vestiti davanti a
tutta la facoltà. Si era sentito già miracolato quando Ed (l’irraggiungibile
Edward Elric che osservava da così tanto tempo, che sempre da più vicino
analizzava al microscopio e di cui amava ogni più piccola cellula) aveva
accettato di uscire con lui per la prima volta, due mesi prima, che aveva
creduto che tale fortuna non si sarebbe mai più ripetuta – un evento raro come
un allinearsi di tutti i pianeti. Tutte cavolate.
Edward si allungò verso di lui, all’improvviso, sembrava
volesse sussurrargli chissà quale segreto: Heiderich si ritrasse leggermente
indietro. Erano al tavolino fuori da un bar, praticamente in mezzo alla strada,
e sembrava non gli importasse degli sguardi; come se tutti, attorno, fossero
invisibili.
“Ho il naso sporco? Eppure non ho bevuto niente.”
“Cosa?”
“Ti tiri indietro. O sono sporco o sono troppo brutto da
vicino per te, e spero vivamente sia la prima, perché se è la seconda ho troppe
cose da rivalutare.”
“Oddio, no! Cioè no—non sei brutto, e non hai niente sul
naso, e non sei brutto – oddio l’ho già detto, cazzo, sto andando in paranoia
come al solito—”
“Okay, allora adesso” lo baciò, leccandogli le labbra;
aveva bevuto un po’ del suo the, e aveva in bocca la vaniglia dolcissima “stai
zitto. D’accordo?”
A Edward piaceva essere guardato, Alfons se n’era
accorto dalla prima volta che lo aveva incontrato: sapeva di piacere, era
cosciente del suo aspetto e delle sue capacità, e questo lo rendeva vagamente
egocentrico, un po’ vanitoso. Questo si rispecchiava anche durante il sesso;
fremeva di piacere nell’avere i suoi occhi puntati addosso, lo notava dai
brividi che gli facevano tendere il viso quando si accorgeva che Alfons lo
guardava; lo voleva assolutamente, e il suo amante non capiva perché dovesse
specificarlo: nessun essere umano col cervello a posto si sarebbe rifiutato
anche solo per un secondo di guardarlo, ammirarlo.
“Sei bellissimo”, gli ripeteva sulle labbra rosse di
baci mentre spingeva dentro di lui, con le sue gambe sulle spalle. Gli teneva
il bacino alto per entrare in lui più profondamente, per possederlo
completamente.
Gli sfuggì un gemito particolarmente forte quando Edward
cambiò posizione e si impalò su di lui; la luce pallida del tramonto gli faceva
risplendere i capelli dorati, lo rendeva – se possibile – ancora più perfetto.
“Fai piano, o sveglierai Alphonse…”
Il ragazzo annuì; lo tirò per i capelli che gli cadevano
sulle spalle, lo attirò a sé e lo baciò fortissimo, gli strinse il busto e
continuò, leccò il petto e i capezzoli per farlo gemere, per soddisfare lui e
se stesso – vederlo con le dita in bocca, morderle per impedirsi di gridare,
Dio, gli sarebbe bastato questo per venire.
La sua voce ubriacata di piacere lo chiamò, balbettando,
mentre si piegava su di lui e non riusciva a trovare abbastanza fiato neppure
per baciarlo; gli strinse fortissimo la schiena, artigliandogli la pelle con le
unghie. Soffocò l’urlo dell’orgasmo nella piega tra il collo e la spalla, quasi
fondendosi col suo amante.
“Oddio, oddio…”, continuò a gemere
quando anche Alfons venne, respirando forte contro di lui. Si lasciò
abbracciare dolcemente, sfinito; si lasciò baciare tutto il viso, ridacchiando
per il solletico che qualche pelo della barba di Alfons gli faceva.
Quando uscì da lui, Al si sdraiò sul letto,
abbracciandolo, stringendolo a sé, senza smettere mai di baciarlo – ed era
l’unico rumore, anche fuori il mondo sembrava essersi fermato per ascoltarli;
gli leccò le labbra, se le fece leccare, gli accarezzò il corpo – le braccia,
la vita, il bacino, le cosce. Era come accarezzare un sogno.
“Mi fai il solletico.”, sussurrò Edward, allontanandolo
leggermente da sé, sempre sorridendo.
“Me ne sono accorto, ridi…” E sei bellissimo, sai?
“Quant’è che non ti fai la barba?”
“Tre giorni, non ho avuto tempo.”
“Non ti sta bene.”
“Lo credo anch’io. Pensi che potrò farmela qui,
domattina?”
“Penso che te la potrai fare qui per un bel po’. Se
vorrai, ovviamente.”
“Ti pare? Allora domattina andrò a comprare qualcosa…”
“Ci andiamo assieme?”
“D’accordo.”
Bacio.
“Devo anche passare in farmacia per Al. Spero non si sia
svegliato.”
“Deve stare molto molto male
se non ci ha sentito.”
“Dici?”
“Dico.”
“Eppure ho cercato di fare piano…”
Sembrava seriamente preoccupato: forse seriamente era un
termine troppo forte, comunque sembrava preoccupato; un pochino, almeno. Era
quasi tenero.
“Ogni tanto anche Edward Elric fallisce.”
“A quanto pare. Ti dispiace se vado a controllare Al?
Stamattina sembrava davvero messo male.”
“Ma no, che stupido, vai pure.”
“Non vieni?”, con voce da cucciolo abbandonato.
“Ti aspetterò qua caldo e prestante. … che cosa schifosa
che ho detto, scusami!”
La risata di Edward si infranse sulle labbra di
Heiderich come cristallo. “Ti perdono solo se non dici mai più una cosa del
genere.”
“Giuro.”
Si baciarono per suggellare la promessa, come due
bambini.
“Torno subito, mi accerto solo che sia vivo.”
Scese dal letto prendendo i boxer di Heiderich, che gli cadevano
da ogni parte. Alfons rise nella propria mano, per non farsi sentire. Si
ritrovò ad accarezzare la linea dolce in mezzo alla schiena con gli occhi.
Quando Ed tornò lo trovò profondamente addormentato.
Ridacchiò del suo essere cortese perfino mentre dormiva: se ne stava
rannicchiato su un fianco, con le mani abbandonate vicino allo stomaco. Si
infilò sotto le coperte e si appoggiò alla sua schiena, la baciò più volte per
il solo desiderio di sentirlo mugolare. Si addormentò, sereno, facendosi
cullare dal suo tepore.
Quando si alzò, tossì una volta sola, ma forte. La gola
gli faceva male.
"Heide, non stai
bene?" gli chiese Ed, che si svegliò appena sentì rumore.
"Ma niente, credo di avere un po' di
catarro.", rispose tossendo ancora, massaggiandosi la gola. "Devo
aver preso freddo."
"Argh, deve averti
attaccato qualcosa Al. Lui e i suoi virus volanti.”
“Oh, cazzo, allora avrò attaccato qualcosa anche a te…”
“Ma va, non ti preoccupare, io sono d’acciaio. Adesso
volo in farmacia, tu stai tranquillo qua, anzi vuoi che ti scaldi un po' di
latte? A me fa schifo, ce n'è tanto perché lo beve solo Al e ne ho fatto scorta
un paio di giorni fa perché era in promozione, quindi posso scaldartene un po',
pensa che sei il secondo al mondo per cui sconfiggo la mia ripugnanza nei
confronti di quello schifo, considerati fortunato."
"Ma no, ma no, vengo anch'io." Una banale
tosse non poteva di certo impedirgli di stare un altro po' con lui. "E poi
devo comprare un altro paio di cose, dentifricio, spazzolino..."
"Vuoi che vada a recuperarle a casa?"
"Naah, avrei dovuto
comprarli comunque. Se mi lanci la camicia..."
"Se ci tieni tanto."
Ed la prese da un mucchio per terra e gliela lanciò come
una palla da baseball; Al la prese al volo.
"Come diavolo abbiamo fatto a ridurla così
male?"
"Vuoi il resoconto completo, uno schemino o ti basta il riassunto-sunto? Tipo quelli da
dvd."
"Era una domanda retorica."
"Che ne so, potresti soffrire di perdite di memoria
a breve termine. Dai, vestiti che andiamo."
Alfons rise e ubbidì, tirandosi la camicia per cercare
di debellare le pieghe peggiori, e in meno di mezzora erano in strada. Ci
avrebbero messo di meno se non fossero resi conto che era molto meglio lavarsi
e Ed non avesse incominciato a schizzarlo d’acqua – e rincorrerlo per tutta la
casa con quest’unico motivo.
“Non prendiamo la macchina? La farmacia più vicina è a
un chilometro.”
“No, non mi piacciono le macchine. E poi è bello
camminare di mattina presto.”
Edward lo prese sottobraccio; Alfons gli baciò la nuca
con grande familiarità, e per un momento ebbe paura che fosse un gesto troppo
avventato. Ma Ed non gli diede prova di qualche irritazione,anzi ricambiò baciandogli
le labbra.
“Ma poi, tu, come fai a sapere dove si trova la farmacia
più vicina? Abiti da tutt’altra parte.”
“Oh, ci abitavo
quand’ero piccolo, prima che morisse mia madre e io e mio padre ci trovassimo
un appartamento il più lontano possibile dal suo fantasma. Sai, papà credeva a
certe cose.”
Tossì di nuovo.
“Anche nostra madre è morta, quando avevo undici anni, e
ci ha cresciuti la zietta, che non è neppure nostra zia, ma un’amica della
mamma. Poi quando sono stato grande abbastanza ho preso Al e ci siamo
trasferiti qui da soli. Sai, ho sempre lavorato, da quando avevo quattordici
anni, e sono riuscito a mettere via un bel po’ di soldi. Non ho sempre fatto
cose legalissime, ma oh, in un qualche modo dovevo
sopravvivere. Tutto quello che ho voluto, io l’ho ottenuto. Al poi va ancora
alle superiori, ma anche lui lavora sodo. Peccato che sia così cagionevole di
salute, se potesse lavorerebbe molto di più, a sentirlo. Io vorrei che
rimanesse sempre in casa ad aspettarmi, sai, come una brava moglie. È un
desiderio un po’ strano, vero? Però è così. Sai, non so se hai presente la
sensazione di essere un fratello maggiore, ma mi sa di no, ecco, io vedo sempre
Al come piccolo, nonostante ci sia così poca differenza, tre anni non sono
tanti, e vorrei che se ne stesse a casa ad aspettare sempre il mio ritorno,
vorrei essere tanto forte da proteggerlo sempre, qualsiasi cosa succeda. Vorrei
che dipendesse da me e che io riuscissi a procurargli sempre tutto ciò di cui
ha bisogno. Sono un po’ strano, sai. Ma, sai, lui mi chiama fratellone, non
Edward o Ed, fratellone. Come può non fare venire voglia di proteggerlo fino
alla morte, uno che alla sua età ti chiama ancora fratellone?”
Certo che Edward parlava davvero tanto. Sembrava un
fiume in piena, quando cominciava. E come gli brillavano gli occhi, solo a
sentire il nome di Alphonse sulla lingua. Come doveva essere caldo.
“Vivi ancora con tuo padre, Heide?”
“No, è morto quando ho cominciato l’università.
Incidente stradale, come la mamma. Però lei è stata presa sotto perché era
uscita furiosa da casa dopo aver litigato con papà, per la prima volta nel loro
matrimonio. Per questo papà ha voluto fuggire subito da quella casa. Adesso
vivo solo, per forza di cose. Mi ha lasciato un mucchio di soldi in eredità,
così potrai sfruttarmi a dovere. Ma tuo padre?”
“Tu lo sai? Io no. Ho qualche ricordo e mezzo di lui, ma
niente di importante. So che se ne è andato, e tanto mi basta. Fatti suoi. Noi
alla fine siamo cresciuti bene così e stiamo bene così, se un padre dev’essere come lui, beh non me ne faccio un cazzo. Oh, siamo
arrivati. Ah, hanno aperto un supermercato, che strano. Senti, io vado qui e tu
vai a comprarti spazzolino e il resto, okay? Così facciamo prima e torniamo a
casa il prima possibile.”
Gli sfiorò le labbra con le proprie, un contatto rapido
e fragile come un uccellino. Al non riusciva a star dietro alla velocità con
cui Edward si mangiava il tempo, era qualcosa di incredibile - non aveva avuto
il tempo di fare neppure un cenno del capo, dire sì, che era già scomparso dal
suo fianco. Sospirò, si limitò ad ubbidirgli.
Trovò dei regali per lui – un dvd, un libro, un elastico
da ragazza per prenderlo in giro, con un enorme fiore di plastica attaccato – e
velocemente recuperò ciò che gli serviva: spazzolino, deodorante, tre paia di
mutande. Il dentifricio dove cavolo era?
Ripensò a quello che aveva a casa sua, mentalmente li
buttò nel cestino. Sarebbe andato a recuperare abiti più importanti uno di
questi giorni.
In mezzo al supermercato, d’improvviso, come una lampadina
si accese nella sua testa: cosa diavolo stava facendo? Andava a vivere con un
quasi sconosciuto, una decisione presa durante il sesso, lo stava facendo
davvero? Si sentì un idiota, si sentì infantile e stupido, non erano da lui
questi colpi di testa. Non c’era un solo motivo sensato per seguire il proprio
istinto, un desiderio forse dettato dalle endorfine in circolo.
Ci stava davvero andando a vivere? Di lui si diceva che
aveva i piedi ben saldati alla terra, che non era proprio il tipo da colpi di testa;
eppure Ed gli si era impiantato dentro come un desiderio fortissimo, gli aveva
conficcato un chiodo nel centro del petto e lo richiamava a sé come una
calamita, dal primo respiro che avevano condiviso. Era strano, era una
sensazione confusionaria, un piccolo tornado in fondo allo stomaco, un
sentimento viscerale e bollente che razionalmente era impossibile da spiegare,
avrebbe balbettato parole morsicate e frasi lunghissime senza senso se gli
avessero chiesto di esporre le sue ragioni di quella scelta.
Ma andava perfettamente bene così.
Edward era così piccolo sotto di lui, al suo fianco,
sembrava così fragile. Una piuma – un soffio, e sarebbe volato via, si sarebbe
perso nel vento. E al contempo così allegro, così sgargiante come un arcobaleno
brillantissimo. Di certo non sarebbe stato noioso viverci.
Mentalmente mise davanti a sé tutti i pro e i contro:
raccolse in una mano i pro, buttò i contro nel cestino come le sue vecchie
cose. Sorrise, facendosi prendere per scemo da più di una persona, per sorridere
come un ebete davanti allo scaffale dei medicinali. Ah, eccolo lì vicino, lo
stupido dentifricio.
Pagò velocemente, credeva di averlo fatto aspettare
troppo, corse fuori e lo trovò lì con un’espressione preoccupata e arrabbiata.
Batteva il piede per terra, con le braccia incrociate al petto, e sbuffava
guardandosi in giro.
“Ci hai messo troppo!”
Ecco, appunto.
“Scusami Ed, non trovavo quello che mi serviva, sembrava che si fossero
mangiati il dentifricio…”
“Okay, okay, ma ora muoviamoci, dai! Cosa fai lì
impalato, dobbiamo tornare da Al, su!”
Piccolo, fragile, prepotente. Terrorizzato più da uno
starnuto del fratello che dalla bomba atomica.
“Sta bene?”
Lo aveva fatto entrare da solo, Alfons aspettava fuori
dalla porta. Accanto a lui c’era un comodino vecchissimo con un vaso bianco
pieno di fiori finti. Lo avrebbe scambiato per un regalo di una qualche ex
ragazza, se non avessero saputo che ad Al piacevano i fiori, ma visto che erano
sempre fuori entrambi non sarebbe riuscito a prendersi cura dei fiori freschi,
quindi quelli di plastica andavano benissimo, per adesso. Erano molto belli e
realistici, almeno.
Edward continuava a chiedere al suo Al se stava bene, se
almeno stava un po’ meglio, gli diceva che aveva comprato la medicina e che
sarebbe guarito in pochissimo, era una sua parola e doveva credergli. Aveva la
voce chiara, calma, rassicurante. Un perfetto fratello maggiore. Non sentì
nessun fratellino rispondere, ma suppose che stesse troppo male o che avesse la
voce troppo rauca per parlare. Cos’aveva, poi? Ed non glielo aveva detto.
“Sì, sta meglio
di ieri, anche se è sempre messo maluccio. Hai fatto bene a non entrare, visto
che hai già la tosse ti saresti potuto aggravare…”
“Bene. Ma mi spieghi cos’ha?”
“Febbre, tosse, mal di gola, mal di stomaco…
si è preso un brutto virus.”
Ed si diresse in bagno con una pezza in mano, la buttò
nel cesto dei panni sporchi; non c’era stato bisogno di trascinarsi dietro
Alfons, che lo seguiva come un cagnolino ubbidiente. Poteva sentirlo
scodinzolare timido, cercando di non farsi vedere, era perfettamente in linea
col suo carattere. Si girò, sorridendo, si alzò in punta di piedi e lo baciò
forte. “Scendi tu, d’ora in poi, è umiliante dovermi sforzare così tanto per
baciarti.”
“Oh, okay, scusa…”
Era serissimo. Edward scoppiò a ridere; nelle
convulsioni la testa si scontrò contro il petto dell’altro ragazzo. Alzò la
testa per guardarlo: aveva le guance chiazzate di imbarazzo.
“Al, ma sei scemo? D’accordo essere gentile, ma
chiedermi scusa perché sei alto! Non è certo colpa tua.”
Si impose di smettere di ridere. “Vuoi qualcosa?”
Rispondergli che voleva lui gli suonava sfacciato e
imbarazzante, e troppo da film. “Ho sete” fu meglio, e anche una mezza verità.
“Acqua, latte, succo di frutta, the?”
“Latte.”
“Però sappi però che non ti bacio se prima non ti lavi
la bocca.”
Edward amava il suono delle risate che faceva uscire
dalle labbra di Heiderich. Lo rinfrescavano come un fiume di acqua dolce che
leviga le pietre. Lo rilassavano.
Alfons si sedette al tavolo della cucina. Tossì una
volta, e non lo fece più per tutta la serata.
“Senti una cosa, Ed…”
“Sì, Al?”
“A tuo fratello non darà fastidio avere un terzo
incomodo in casa? Essendo stati voi due da soli per tanto tempo, magari…”
“No, a lui non danno fastidio questo genere di cose.”
Heiderich cercò di ignorare come sembrasse sottolineare
che prima di lui c’erano state altre persone.
“Stai tranquillo, poi quando sta meglio te lo presento,
sono sicuro che gli piacerai tanto quanto piaci a me. Cioè, spero un po’ di
meno. Okay dividere tutto come bravi fratelli, ma dividere il fidanzato mi
sembra un po’ troppo.”
Rise nel vedere come Al cercasse di evitare di morire
con il latte di traverso. Quello annaspò, cercando dell’acqua che Ed gli fece
bere dal suo bicchiere, battendogli la mano sulla schiena. Gli baciò poi le
labbra piano, senza smettere mai di guardarlo.
“Il bacio del principe toglierà il pezzo di mela
avvelenata dalla gola della principessa…”
Alfons ancora respirava a fatica, non più per il latte
di traverso ma un po’ per quella sceneggiata e per la sfacciataggine che
mostrava ogni secondo.
“Non ti facevo così…
estroverso, Edward.”, tossì Alfons mentre l’altro gli si sistemava addosso,
sedendosi a gambe larghe sul suo bacino. Gli prese le mani, sistemandosele sui
fianchi.
“Sono un uomo pieno di sorprese.”
Baciò il profilo della mascella, la linea del collo,
incominciando a slacciargli la camicia.
“Sai, la medicina di Al aveva la sonnolenza come
controindicazioni.”, pronunciò tutto serio. “Fortunatamente ne ha dovuta
prendere un sacco…”
Sono
fatto di zucchero, puoi mangiarmi. Puoi succhiarmi avidamente sotto il sole
d’estate o abbracciarmi in una serata d’inverno, leccarmi piano perché non mi
consumi mai. Puoi restarmi dentro per sempre, Alfons.
Edward non era assolutamente dolce, era ruvido al tatto
e lievemente scontroso, quando gli si presentava l’occasione. Eppure Alfons non
poteva pensare altro di lui, mentre piano entrava nel suo corpo, mentre le sue
labbra si schiudevano e dolci come frutti primaverili si tendevano verso di
lui, offrendosi come un bambino puro, appena nato – con la stessa immensa,
profonda, caldissima devozione del neonato che apre gli occhi per la prima
volta sul mondo. Sembrava un territorio inesplorato. Forse si era sbagliato,
forse in quella casa non c’era mai stato nessuno, forse era il primo che
riscaldava le sue mani sempre fredde, il primo a morire ogni secondo per
poterlo toccare con ogni molecola del suo corpo, forse era il primo in tutto.
Non gli importava.
Sono
qui, fra le tue braccia, tra le tue gambe, nella tua bocca, dentro di te in
ogni modo. Posso farmi un nido? Posso rimanerci per sempre? Fammi solo un cenno
del capo, e io rimarrò con te per sempre. Ti offro il mio cuore come tu mi
offri le labbra. Posso rimanere per sempre qui, Edward?
Mormorò un tremolante ti amo, sorprendendo anche se
stesso; Edward spalancò gli occhi.
“Non sono pazzo, te lo giuro.”
“Lo so. Per questo ti ho scelto.”
Heiderich era abituato ad una vita estremamente
regolare, scandita da ritmi sempre uguali: era solito ad alzarsi alle sette
meno un quarto, a fare colazione alle sette in punto, a lavarsi i denti alle
sette e dieci, uscire di casa alle sette e mezza, essere in facoltà alle otto
precise.
Erano due giorni che abitava con Ed. Erano le dieci del
mattino e non aveva ancora toccato mezzo biscotto. Piagnucolò chiedendo a
Edward dove fossero; senza biscotti spalmati di un velo di burro non riusciva
ad iniziare la giornata, protestò quando non riusciva a trovarli. L’altro rise,
tirandoli fuori da dietro la schiena. Voleva il latte, e si alzò dalla sedia
per trovarsi un bicchiere; aprì la credenza e ne prese uno alto di vetro
smerigliato.
“Ah, no!”
“Cosa no?”
“Quelli sono i bicchieri di Al!”
“Dunque?”
“Dunque sono suoi.”
Alfons tradusse la sua voce grossa in preoccupazione,
che non volesse che si prendesse la stessa influenza.
“Come sta Al, a proposito?”, domandò mentre prendeva una
bottiglia del latte già iniziata. Gettò un’occhiata dentro il frigo; era pieno
da scoppiare.
Ed stava uscendo dalla stanza di suo fratello; sospirò:
“Mah, abbastanza bene. Meglio di ieri, ma sempre peggio di quanto sta
normalmente.”
“Mi dispiace.”
“Tranquillo, tra un paio di giorni dovrebbe stare
meglio, così lo conoscerai. Tu come stai? La tua tosse?”
“Uh, sparita.”
Lo aveva imboccato lui, quando aveva dovuto prendere lo
sciroppo, ma solo dopo averlo imbrogliato e avergli fatto bere acqua tonica,
tanto per divertirsi a sentirlo imprecare e vederlo cercare disperatamente
dell’acqua. Ed aveva un senso dell’umorismo non sempre umanamente
comprensibile.
“Bene, così possiamo andare in facoltà.”
Fu come se gli si fosse accesa una lampadina. “Ed, siamo
in ritardo cosmico!”
“Vorrei ricordarti che non siamo alle superiori.”
“E vabbeh, cavolo…”
“Rilassati, su, sei troppo agitato…”
“Ho solo bisogno delle lezioni, Ed.”
“Ma va, sei talmente intelligente…
mi sembri Al, ogni volta che gli dico che potrebbe anche non andare a scuola
quando sta male dice sempre che non può perché deve seguire le lezioni. Dev’essere qualcosa nel vostro nome.”
Ed lo baciò prima che potesse sospirare per l’ossessione
evidente che era suo fratello.
Arrivarono così tardi in facoltà che l’unica cosa che riuscirono
a fare fu scopare in un’aula vuota.
Alfons girava lentamente il cucchiaino nella tazza del
caffè, sbadigliando.
“Mh, Ed, stamattina non
abbiamo lezione, ne approfitto per fare un salto a casa per prendere le cose
che mi mancano, okay?”
Dall’altro lato del tavolo Ed spalancò gli occhi,
spaventato, alzandosi in piedi.
“No!”
Alfons alzò un sopracciglio, guardandolo stupito. “No?”
Lo guardò arrossire, rimettersi a sedere, affondando la
testa nella maglietta. Lasciò liberi solo gli occhi, annacquati, che tutto
guardavano tranne Al. “Scusa, sono un cretino.”
“Perché non dovrei andare, Ed?”
“Perché sono un cretino, smetti di fare domande.”
Edward si mordicchiava le labbra, fissando il fondo
della tazza. Desiderò essere minuscolo e poterci affogare dentro.
“Ed, guarda che ho detto che voglio solo andare a
prendere le mie cose per portarle qui, e questo cosa significa?”
“Non parlarmi come se avessi cinque anni, non sono
deficiente!”
“Da come ti comporti non sembri molto più maturo.”
“Vaffanculo.”
Alfons scoppiò a ridere, alzandosi e andando da lui. Lo
fece alzare, se lo strinse al petto. “Che cretino che sei, guarda che torno
stasera!”
“Okay, okay, okay, d’accordo, ora mollami.”
“No che non ti mollo, idiota che non sei altro…”
Gli baciò tutto il viso – più lui si imbronciava, più
gli veniva voglia di baciarlo. Lui e la sua stupida sindrome dell’abbandono. Lui
non se ne andava. Come poteva andarsene?
“Ti pare che un idiota che si metta a vivere con te dopo
un giorno possa decidere di andarsene?”
“Appunto perché stiamo insieme da così poco che avresti
potuto ripensarci.”
“Quando una decisione è presa, è presa per sempre.”
“Croce sul petto, parola di lupetto?”
“… mai più, Ed.”
“Lo dicevamo sempre io e Al, quando eravamo piccoli.”
“Okay, okay… fammi finire il caffè,
dai che si fredda… facciamo la doccia assieme?”
“Se mi dici così non posso farti finire il caffè.”
Lo spinse sotto il getto d’acqua bollente, si
masturbarono a vicenda e Ed, quando uscirono, si offrì piegandosi sul
lavandino, quando ancora la pelle profumava intensamente di frutti.
Gli faceva così strano stare sulla porta e salutare
Alfons; forse perché aveva davvero paura che non tornasse, forse perché
sembrava suo fratello. Che paragone del cazzo.
Questo non gli impedì il tuffo al cuore, ed avere una
strana sensazione di deja vu.
Come gli sembrava familiare, vedere la schiena di Al che se ne andava.
“Aspetta!”, gli urlò sul pianerottolo.
“Mh?”
Ed lo guardò, sbatté le palpebre e poi scosse la testa.
Era solo una brutta sensazione passeggera, e solo perché lo amava tanto e non
voleva separarsene neppure per un attimo. “Ti amo.”
Alfons gli sorrise, con quel suo modo di fare così
tiepido e dolce. “Anche io.”
Lo
so che mi odierai tantissimo, ma una vicina mi ha visto e mi ha obbligato a
cenare da lei. Perdonami perdonami perdonami! Torno domattina prestissimo, e ti porto trenta
scones di Starbucks. Questo è un giuramento col
sangue! Croce sul petto, parola di lupetto.
Alfons
Se
domani ti lascio entrare in casa, ovviamente.
Incazzatissimo!Ed
Dai,
scusami, i trenta scones di Starbucks non sono
abbastanza per farmi perdonare?
MasterOfScones!Alfons
No.
Ed.
Ah,
la questione è chiusa, non ti faccio entrare.
Ed.
Non
avevo ancora risposto…!
Perplesso!Alfons
Beh,
era tanto per sottolineare la mia volontà.
Non
ti sei neppure firmato!
Alfons
Non gli rispose più agli sms, ma quando Alfons si
presentò davvero con trenta scones e
tre frappuccino al caramello, Edward scoppiò a ridere
e lo obbligò ad imboccarlo per farsi perdonare.
È
strano, folle, magico. Sposiamoci in un bosco. I nostri testimoni saranno
folletti e fate e gnomi. Le sirene intoneranno per noi canti di gioia, inni
alla vita. Bambini grandi un pollice spargeranno petali di margherite
bianchissimi sul nostro cammino. I tuoi sorrisi profumeranno di more e lamponi,
e fragole di bosco. I miei occhi saranno stelle che ti illumineranno il cammino.
Il sole non si limiterà a baciare i tuoi capelli, ma a fondersi con loro, a
intrecciarsi fino a renderti creatura di oro e platino. E io ti sposerò oggi,
domani, ti sposerò per sempre.
Ti
amo.
L’odore del sottobosco, il rumore delle foglie secche
schiacciate e portate dal vento accompagnarono il suo brusco risveglio. Col
busto dritto, cercò di educare i propri occhi al buio, ma senza riuscirci. Tastò
le coperte di fianco a lui, ma trovò solo una conca leggera e calda lì dove
doveva esserci Edward. Non c’era; mormorò contrariato nel non poterlo
abbracciare. Lo chiamò con voce sonnolenta, con tono troppo basso perché
potesse sentirlo, ovunque fosse – la casa era piccola, certamente, un
appartamento all’ultimo piano di una palazzina con ascensore da cinque piani,
in un quartiere calmo, con la camera da letto che aveva muri di mattoni rossi,
ma anche se fosse stato vicino, Ed non lo avrebbe sentito. Se fosse stato un
po’ più sveglio, lo avrebbe cercato per abbracciarlo da dietro e riportarlo
sotto le coperte, per coccolarlo. Decisamente, non era abbastanza sveglio per
farlo. Si limitò a chiamarlo ancora, con una voce un po’ più forte, come se
bastasse quello per chiamarlo a sé. Si riaddormentò solo, e si svegliò all’alba
quando Ed gli infilò le mani gelate sotto la maglia del pigiama, facendolo
urlare.
“Ti giuro, ti giuro, te lo giuro, lunedì te ne porto
quaranta, di scones. Uno per ogni gusto, te lo giuro!”
“Ti odio. Tantissimo. Ti odio da morire.”
“Ed, dai, devo solo andare dalla nonna in Germania
quattro giorni…”
“Ti odio.”
“Ed, dai, è il suo compleanno, è tradizione, non te la prendere…”
“Ti odio comunque.”
“Non mi dirai nient’altro?”
“Ti odio tantissimo.”
“Tesoro, dai, non mi mettere il muso, ho l’aereo fra tre
ore, non voglio partire sapendoti incazzato con me…”
“Oh, lo sono tantissimo, e lo sarò per tutto il tempo
che sarai in Crucconia.”
“Tesoro, ci sentiamo con Skype,
mi porto il netbook dietro, lo sai, poi c’è Al con
te, no? Hai detto che stava un po’ meglio, no? Ti potrai godere un po’ di tempo
con lui…”
“… non l’avevo vista in questa prospettiva, ma continuo
ad odiarti tanto.”
“Tesoro, non fare il bambino, dai…”
“E non chiamarmi tesoro solo per tenermi buono, cazzo!”
“Non lo faccio solo per questo…
mi prometti che fai il bravo anche senza il tuo Alfons?”
“Tsé, starò benissimo, così
potrò vedere il mio amante in pace.”
“… hai davvero un amante?”
“O mio Dio, Al, ma ti pare di crederci davvero?! Certo
che sei proprio scemo…”
“Cosa ridi!”
“Sei un tale cretino, credi a tutte le idiozie che dico…”
“Beh, almeno ti ho fatto ridere…
come ti ho già detto, torno lunedì, verso le dieci di mattina. Spero di
trovarti ad aspettarmi a casa, a letto.”
“Con una frusta.”
“Non mi piacciono certi giochi…”
“Non ho detto che volevo giocare, voglio cavarti la
pelle, solo che adesso non posso farlo perché non ho una frusta, ma vedrò di
procurarmela.”
“Come sei dolce.”
“Come ti meriti.”
“Okay, però ora fuggo, il taxi dovrebbe arrivare a momenti… ti porterò un sacco di regali!”
“È il minimo, animale. E portali anche ad Al.”
Ed,
lo so che mi odierai tantissimo e che dopo questa mail dovrò portarti tutto Starbucks per farmi perdonare, ma qui è in corso una di
quelle tempeste del secolo che non finiscono mai, a quanto dicono i
meteorologi, ma lo sai quanto gonfiano le cose quelli, e comunque gli aeroporti
sono chiusi fino a data da destinarsi, ma dovrebbero essere massimo tre,
quattro giorni… mi dispiace, mi dispiace, mi
dispiace!
Sai,
la nonna ha visto per caso quella foto che ti ho fatto col cellulare mentre
dormivi e hai tutti i capelli sciolti e ti dico che sembri un angelo, no? Cioè,
l’ha vista perché ce l’ho come sfondo nello schermo, ma tu questo non lo
sapevi. Beh, ora lo sai. Ha detto che ho una bellissima fidanzata.
Spero
mi risponderai,
Alfons
Okay,
la tempesta del secolo è finita prima del previsto e domani dovrei tornare a
casa. Venerdì non è lunedì ma è meglio di domenica, no?
Perché
non mi rispondi alle mail? Quella della nonna era uno scherzo…
cioè, lo ha detto davvero, ma te l’ho detto per ridere, non te la sarai presa,
vero?
Ti
amo,
Alfons
(p.s. non sto facendo il lecchino, giuro.)
Questa
è l’ultima mail prima di partire, arrivo verso le dieci in aeroporto e quindi a
casa ci sarò per mezzogiorno, giusto il tempo per portarti a pranzo fuori!
Alfons
(p.s. te lo giuro, non sto davvero facendo il lecchino per
farmi perdonare di essere un fidanzato orrendo)
Fallito.
Voglio i miei quaranta scones.
Ed
“Allora sei innamorato veramente, eh.”
“Eh?”
l bar vicino alla facoltà aveva un’atmosfera intima, che
era un’espressione elegante per dire che era molto piccolo, con i suoi cinque o
sei tavolini al massimo. Alfons, da mezz’ora, stava togliendo pezzi alla sua
brioche senza portarli alla bocca, semplicemente spezzettandola con aria
assente, lasciandola sbriciolare sul tavolo. Nathalie lo guardava sbuffando
ogni tanto, tossì anche, una volta, senza ottenere risultato. Aveva dovuto
pizzicargli il braccio per avere un minimo di attenzione.
“Se sei così assente e rincoglionito c’è un solo motivo,
un uomo.”
“Ma come diavolo—“
“Sai, tu sei uno di quei froci carini che fanno sempre
attenzione alle persone care, eppure non hai ancora notato che mi sono tagliata
i capelli.”
“Beh, Nat, ti sarai tagliata
le punte, come potevo accorgermene…”
“Tesoro, erano lunghi fino al culo, e neri.”
Notò in quel momento che la sua amica aveva un caschetto
color platino ordinatissimo, ovvio segno che dal parrucchiere c’era stata
solamente ieri. Il ragazzo tossicchiò, arrossendo lievemente.
“Oh. Ti stanno molto bene.”
“Grazie, ma non è vero, sono un mostro. Lui chi è?”
Alfons roteò gli occhi.
“Non lo conosci.”
“Certo che lo conosco, io conosco tutto e tutti, ricorda.”,
ghignò accavallando le gambe, poggiando il mento sul palmo di una mano,
fissandolo con sguardo curioso, complice. Non era facile cavare un ragno dal
buco, con lui, ma tentare non nuoce mai.
Alfons aveva sempre una certa remora a parlare di se
stesso, dei propri affetti, soprattutto dei propri uomini; aveva paura che
parlandone, facendo uscire quel che sentiva dalla bocca estirpandolo per un
momento dal suo cuore, quello avrebbe perso un po’ di significato.
“Edward Elric.”
“Uh, sì, lo conosco. Ovvio che lo conosco, tutta la
facoltà lo conosce! Che razza di culo che hai, cazzo. Complimenti.”
Alfons ringraziò come se i complimenti fossero a lui,
sentendosi imbarazzato, come se fosse all’improvviso il centro d’interesse di
un convegno scientifico.
“E… come va con lui?”
Alfons arrossì un attimo, roteò gli occhi e molleggiò un
po’ con la sedia.
“Lo amo. Lo amo davvero.”, sussurrò come se fosse un
segreto di stato, “È terribile, sai, perché sto seriamente prendendo in
considerazione l’idea che… non sia solo un
trasferimento momentaneo. Di prendere casa assieme, sai. Sposarlo, in un
qualche modo. Lo amo, tremendamente. Farei qualsiasi cosa per proteggere lui,
noi, quello che stiamo costruendo. È… davvero, mi
paralizza non riuscire a pensare ad altro che a lui.”
Nathalie sorrise di gusto davanti ad una sincerità così
totale, donatale con innocenza e senza paura.
Poi Al cominciò, piano piano,
quasi sottovoce, a parlare di lui con trasporto – gli raccontò della sua
incredibile intelligenza, dei discorsi che riuscivano ad intavolare fino a
notte fonda e oltre, dai più profondi ai più superficiali – “Una volta ci siamo
addormentati alle otto di mattina perché non riuscivamo a decidere quale fosse
il miglior film della trilogia del Signore degli anelli, e li abbiamo guardati
tutti di fila, mentre un’altra notte l’abbiamo spesa a decidere quale fosse
l’odore migliore del bagnoschiuma, ma guarda che è assurdo, ha sempre la stessa
faccia seria, un’altra ancora…” –, di tante cose
sceme e meravigliose, “Che poi, guarda che caso, abita nello stesso quartiere
dove abitavamo noi da piccoli, solo che io te eravamo al 10 e al 12, lui al 22,
che coincidenza eh? Quando Al starà meglio lo obbligherò a fare qualcosa a
casa, assolutamente.”, del suo infuriarsi per le più piccole cose e del suo
senso enorme della giustizia, tutte le bestemmie che lanciava al televisore
quando una donna veniva uccisa dallo stalker che la
polizia aveva ignorato per mesi, o il bambino investito da un pirata della
strada ubriaco; soprattutto su quest’ultimo, Ed pareva particolarmente
sensibile e incline ad infastidirsi fino alla completa esplosione.
“Poi, sai, è un vero testardo, non c’è niente che non
riesca a fare, quando si impunta. E poi, sai, parla davvero un sacco, a volte è
difficile stare dietro ai suoi discorsi.”
“Anche tu stai parlando moltissimo.”, sorrise Nathalie,
sorseggiando la cioccolata calda. Gli occhi di Alfons si erano sciolti in
primavera, erano più belli del solito.
“Ah, sì, lo so!”, guance rosse, “Però quando parlo seguo
un filo logico, lui non sempre. È divertente, a volte, altre è abbastanza
inquietante.”
“Oh, finalmente ha un difetto, questa straordinaria
creatura di luce divina.”
“Prendi poco per il culo, Lady Gaga
dei poveri.”
Nathalie scoppiò a ridere: non aveva mai sentito Alfons
parlare così, essere così diretto.
“Edward ti fa molto male, caro.”
“Io non credo. Ah, ma poi dovresti vederlo quando parla
di suo fratello. Gli si illumina il viso a giorno, come se avesse un faro
puntato contro. Conosco ormai più lui che me stesso. Alphonse ha fatto questo,
Alphonse ha fatto quest’altro, Alphonse è allergico alla Nutella, Alphonse ha
vinto un concorso di fotografia, fra un po’ Alphonse andrà su Saturno e poi
scoprirà qualche nuovo pianeta e l’esistenza degli alieni che, grazie al suo
etereo e splendente sorriso, desisteranno dal conquistarci e schiavizzarci.”
“Sento della gelosia.”
“Macché, macché!”, rise Alfons, anche se forse un po’
era vero, “È solo un po’ inquietante. Ammetti anche tu che è strano che un
ragazzo sia così entusiasta ed attaccato a suo fratello. Peraltro, io questo
fratello non l’ho neppure mai visto.”
“Eh?”
“Sì, è sempre malato e Ed mi impedisce di stare in
camera con lui, solo perché sono un po’ debole di salute.”
“Che eufemismo.”
“Sì, okay, sono molto debole di salute. Poi non c’è
nessuna foto in casa, dice che è timido…”
“Che strano.”
“Sì, molto.”
Il silenzio che cadde fra i due non durò che qualche
attimo: guardandosi attorno, Nathalie incrociò lo sguardo con quello
azzurrissimo di una ragazza, fuori dalla vetrata pulitissima del bar, che si
dimostrò davvero entusiasta di vederla, tanto da entrare immediatamente nel bar
e avvicinarsi al suo tavolo per salutarla – abbraccio, due baci sulla guancia,
un sorriso smagliante.
“Nathalie, che piacere!”
“Winry, da quanto
tempo non ti si vede in giro!”
“Ho dovuto preparare tre esami di fila, sai ero rimasta
indietro e mi è toccato correre… oddio, ma cosa cazzo
hai fatto ai capelli?!”
“Volevo cambiare un po’…”
“Ti stanno da culo!”
“Oh, qualcuno che me lo dice in faccia, non come quel
lecchino di Alfons.”
Alfons la scrutava curioso; l’aveva già vista, di
sicuro, ma non riusciva a ricordare dove. Era amica di Nathalie, l’aveva vista
a qualche festa? In giro per la città? No, non solo, altrimenti non gli sarebbe
sembrata così familiare.
“Winry, scusa – oh, io sono Alfons Heiderich, molto
piacere.”
Le diede molto cortesemente la mano, stringendo
tiepidamente la sua. Winry sorrise.”Sì?”
“Per caso conosci un certo Edward Elric?”
“Ed?! Certo che lo conosco, era il mio migliore amico, è
da un sacco che non lo vedo!”
Ecco dove l’aveva vista, in alcune foto sfocate
dell’infanzia di Ed. Aveva le stesse guance rotonde e lo stesso modo di
sorridere e illuminarsi.
“Tu lo conosci? Lo vedi? Sai come sta?”
“Oh, sta meravigliosamente, Winry. Ti presento il suo
nuovo ragazzo.”
“Nathalie!”
“Oh, dai, non c’è nessun omofobo che verrà a staccarti
le palle, non c’è nessuno in bar!”
Alfons sbuffò, contrariato. “Tu la prendi sempre troppo
leggermente.”
“E tu troppo pesantemente. Winry, perché non prendi un
caffè con noi? Te lo offro io. Sono così contenta di vederti!”
“Allora lo accetto volentieri.”
Appoggiò la borsa per terra, si tolse la giacca
mettendosela in grembo, con fare molto educato.
“Allora, come sta Ed?”
“Molto bene, è strano che tu non lo veda in facoltà.”
“Oh, non frequento molto, anzi quasi per niente, sono di
fuori. Nathalie e io ci conosciamo per via di amici e locali comuni.”
Parlava di lui con una strana familiarità mista alla
malinconia, come se fosse un’ex ragazza, qualcuno che aveva avuto un grosso
peso nella sua vita. Ne fu geloso, per un attimo.
“Allora studia qua?”
“Sì, e con ottimi voti.”
Nathalie sorrise; si guardò l’orologio al polso e
spalancò gli occhi. “Oddio, è tardissimo, devo filare al lavoro! Winry, giurami
solennemente che mi chiamerai, ora devo proprio fuggire, Al ci sentiamo su MSN,
divertitevi a parlare del vostro amato Edward!”
Raccolse la giacca, andò a pagare e uscì in tutta fretta
dal bar.
“È sempre di fretta, eh?”
“Già…”
Il cameriere portò il caffè a Winry, e per un po’
l’unico rumore fra loro fu il tintinnare del cucchiaino contro la ceramica
delle tazze.
“Non… non sapevo che Ed fosse
gay.”
Ma cosa stava dicendo? Non avrebbe potuto dire qualcosa
di più imbarazzante neppure se si fosse sforzata.
“Eh già…”
Winry arrossì molto di più di quanto era arrossito
Heiderich. “Oddio, scusa, ho detto una cosa terribile!”
Grazie al cielo se ne era resa conto da sola, evitando a
lui l’imbarazzo di cercare di farglielo notare. “Ma niente, tranquilla…”,
le sorrise lui con la sua solita, proverbiale gentilezza.
“Sai, è che sono un po’ agitata quando si parla di Ed…”
Aveva le maniche della maglia lunghissime e se le
tormentava in preda all’imbarazzo, cercando di calmarsi.
Suppose di non voler sapere perché lo fosse, e lasciò
cadere le sue parole.
“Sai, è buffo, ma assomigli tantissimo ad Al, poverino.
Sembri la sua versione molto alta e molto cresciuta.”
“Poverino?”
“Forse piaci ad Ed anche per questo…”
“Aspetta un attimo, cosa significa poverino?”
Winry si mise una mano dietro al collo, distolse lo
sguardo per qualche attimo. Gli occhi si erano fatti umidi, e Alfons non ci
stava più capendo niente. Perché quell’aria da funerale? Stavano parlando di
Alphonse, il fratellino sempre malato, ma vivo di Edward. Cosa c’era di così
tragico? Aveva il cancro, forse? Qualche malattia che gli impediva di crescere?
“Beh, poverino perché non ha mai avuto il tempo di
crescere e diventare bello come te.”
“… cosa?”
“Al è morto in un
incidente stradale quando avevamo dieci anni io e Ed, davanti ai nostri occhi.
Ed non te l’ha detto?”
Lo andò a prendere al lavoro, e Edward ne fu sorpreso, perché
solitamente Al a quell’ora aveva lezione.
“Cosa ci fai qui?”, gli domandò sorridendo, baciandolo
sulle labbra. Non avvertì che Alfons si era leggermente scostato.
“Mh, niente, volevo parlare un
po’ prima di arrivare a casa…”
“Cosa
significa che è morto?! Ed non fa che accudirlo, Al è in casa nostra!”
Winry
spalancò gli occhi, guardandolo. “O mio Dio, ha continuato?”
“Cosa
cazzo significa che ha continuato?! Potresti gentilmente spiegarmi?!”
“Okay,
okay, però stai calmo – che idiozia, scusa, oggi è proprio una giornata
infelice.”
“Di cosa vuoi parlarmi, Al?”, gli domandò, mettendo la
mano nella tasca del suo giaccone, stringendo la sua.
Alfons deglutì più volte. “Di…
di tuo fratello.”
“Mh? Cosa dovresti dirmi di
Al, scusa?”
“Me
lo ricordo come fosse ieri… quando avevamo io e lui
dieci anni, e Al sette, siamo usciti con i nostri genitori per fare la solita
passeggiata domenicale, e niente, Al non ha guardato prima di attraversare. Io
non ho visto perché in quel momento stavo parlando con mio padre, ma ricordo le
urla di Ed, il corpo di Al steso lì, a terra, in una pozza di sangue. È stato
terribile..”
Il
cuore si dimenticò di battergli per un secondo. Qualcuno soffiò nella sua
scatola cranica, nei suoi pensieri, mettendoli in disordine.
“No,
aspetta, tu mi stai dicendo davvero che il fratello di Edward è morto?”
“Sì,
davvero.”
“Oggi sono andato al bar con Nathalie, no?, e ho
incontrato Winry Rockbell…”
“Davvero?! Davvero hai incontrato Winry?! Che bello,
sono secoli che non la vedo! Come sta? Le hai chiesto il numero di telefono?
Quando Al starà meglio possiamo organizzare un’uscita, sarebbe così contento
anche lui di vederla…”
“Oh, lei sta molto bene, ma mi ha raccontato una cosa della… della vostra infanzia.”
“Che cosa? Spero qualcosa di non imbarazzante, e ne ho
fatte tante di cose imbarazzanti, da piccolo. Dai, sono curioso, cosa ti ha
raccontato di bello? Certo che è assurdo, la prima volta che ti vede ti deve
venire a dire certe cose, mah…”
“È… è impossibile, suo fratello vive con noi, Edward non fa
altro che accudirlo, gli compra medicine su medicine e parla di lui così tanto,
della sua scuola, di quello che pensa… è impossibile,
mi stai prendendo in giro, e sappi che è uno scherzo di pessimo gusto.”
Alfons,
sconvolto, stava per andarsene quando Winry lo prese per la manica della
camicia, supplicandolo di restare ad ascoltarla.
“Lo
so, lo so, sembra assurdo ma… ascoltami un attimo, ti
prego… quando è morto Al, per un certo periodo di
tempo Ed diceva di continuare a vederlo, ci chiedeva perché fossimo così in
lutto quando Al era vicino a lui, era ancora vivo. Tutti gli adulti hanno
creduto che fosse per via dello shock, che fosse qualcosa che sarebbe passato
con l’età. Quando giocavamo assieme, mi diceva sempre che Al non c’era perché
stava male, e dormiva nel suo letto perché era più largo. Diceva che dormivano
assieme per farsi caldo l’un l’altro. Poi è morta la madre di Ed e anche i miei
genitori, per cui ci ha cresciuti mia zia. Quando è morta Trisha,
Ed non ha parlato per giorni, si è chiuso in camera e non mangiava niente. Poi
ha ricominciato a dire di vedere Al.”
“No, no, scemo, niente di imbarazzante…”
Come poteva chiedergli“Ed, vedi i fantasmi? Perché, sai, la cosa
mi terrorizza alquanto.” ? Forse era Winry quella un po’ bacata col
cervello.
“E allora che aspetti a dirmelo? Cos’è tutta questa suspance?”
I
vestiti di Al che non c’erano da nessuna parte, ma che Ed assicurava di lavare
quando lui non c’era. Le foto che non si trovavano. Perché Ed non gli faceva
vedere suo fratello?
“Allora
ora mi spieghi perché non lo avete fatto curare, perché avete permesso che
andasse a vivere da solo!”
“Perché
aveva smesso! A questo punto suppongo che fingesse, che facesse finta di vedere
il mondo come lo vedevamo noi per smettere di sentirsi dire di smetterla, che
lo scherzo non era più divertente. Cazzo, lo vedeva davvero Al, ma come
potevamo credere che fosse davvero pazzo? Quando abbiamo iniziato la seconda
media ha smesso di parlarci di Al, eravamo così contente perché sembrava
guarito, anche se non credevamo fosse stato mai davvero malato. Oddio, oddio,
avremmo dovuto starci più attente…”
Alfons,
occhi spalancati e parole che si seccavano sulla lingua, non riusciva a capire
che diavolo stesse succedendo, cosa stava dicendo. Tutti i ricordi e gli odori
e i sapori e le fotografie, tutto mescolato – poi il black
out, perché non riusciva e non voleva credere alla pazzia che stava ascoltando.
“…
d’accordo, d’accordo… io – io devo andare da Edward,
sono stato molto contento di averti conosciuta, ci vediamo.”
Si
alzò di scatto, si mise il cappotto e uscì, sconvolto.
Edward
gli aveva sempre descritto così bene suo fratello che riusciva perfettamente ad
immaginarselo. Vide il viso di Alphonse in ogni passante, mentre correva.
No, non era possibile. Edward non era pazzo, non lo era
assolutamente. Insomma, i pazzi sono gli squilibrati che vivono in un mondo
tutto loro, non vanno all’università con ottimi risultati o cose del genere, e
Edward era così, uno che prendeva ottimi voti e che si impegnava e studiava e
lavorava e nessuno aveva mai e poi mai avuto l’opportunità di pensare che fosse
pazzo. D’accordo, forse si arrabbiava eccessivamente quando gli ricordavano
quanto fosse basso per essere un uomo, ma è un difetto, non un segno di
squilibrio mentale. Era un po’ isterico, ogni tanto. Ma era, appunto,
semplicemente un difetto.
Winry lo aveva preso in giro; succedeva, a volte, che
qualcuno lo facesse per proprio divertimento – era la sua faccia pulita e
ingenua che attirava un certo tipo di attenzioni. Sì, doveva essere per forza
così.
Edward non era pazzo, era solo un po’ morbosamente
attaccato al fratello. Ma era normale, visto che hanno vissuto praticamente da
soli e praticamente sempre attaccati l’uno all’altro, per il padre assente e la
madre passata a miglior vita. Non era pazzo, non lo era assolutamente.
No. No. No.
“Ma niente, di quanto vi divertivate assieme da piccoli
e che le manchi perché è tanto che non ti vede…”
“E ti sembra il caso di farmi venire delle sincopi per
questo, Alfons? Sembrava dovessi dirmi chissà cosa, e poi guardati, sei
talmente pallido che sembra tu abbia visto un fantasma!”
Ed si dimostrava un animale schivo e un po’ rabbioso con
gli estranei, come un gatto selvatico. Con lui, però, era arrivato al livello
di pretendere le coccole dopo il sesso.
Al gli accarezzava piano la schiena, baciandogli la
testa. Intrecciava lunghi fili dorati attorno alle dita, cercando di
concentrarsi su altro che non fossero i pensieri che continuavano a
rimbombargli in testa.
“Ehi, Alfons…”
“Sì?”
“Ti dispiace se vado a controllare Al?”
Eccoti,
servita su un piatto d’argento, la prova del nove.
“No, non mi dispiace…”
Lo baciò piano mentre si alzava.
"Vengo anch’io?”
“Uh?”
“Voglio vedere questo meraviglioso fratello di cui parli
in continuazione. Sono qui da una settimana e non me l’hai ancora permesso,
sembra la principessa tenuta in ostaggio dal padre troppo possessivo.”
“Che paragone osceno.”
“E poi hai detto che oggi stava meglio, non dovrei
rischiare di morire.”
“D’accordo, d’accordo…”
Scese dal letto, si infilò la camicia di Alfons; lui si
dovette accontentare dei pantaloni, che minacciavano di cadere da un momento
all’altro per la mancanza della cintura. “Ma fai piano, se non si è svegliato è
un miracolo, ha il sonno leggero, quindi evitiamo di far rumore in ogni caso,
tanto per stare sicuri.”
Ed passò prima in cucina a prendere una bottiglia
d’acqua gasata e un bicchiere; bussò alla porta di Alphonse, lievemente, e non
si sentì volare una mosca. Entrò nella stanza, aprì la luce, appoggiò bottiglia
e bicchiere sul comodino, sistemò le coperte.
“Guardalo, come dorme beato. Vero che è carinissimo?”
Heiderich sbatté gli occhi una, due, tre volte: per
quante volte aprisse e chiudesse gli occhi, nel letto non c’era nessuno. Lo
toccò: magari il buio lo ingannava, e sentirlo con le dita gli avrebbe
assicurato che Edward non gli stava facendo uno scherzo – lugubre, un po’ di
cattivo gusto, di certo, ma pur sempre uno scherzo. Forse si era davvero messo
d’accordo con Winry.
No, non c’era davvero
nessuno nel letto.
“Edward?”
I suoi occhi, febbricitanti, cominciarono a guardare
ovunque – il piccolo armadio di legno, il comodino con i souvenir della
Germania, il letto in ferro battuto che sembrava così vecchio.
Aveva sul viso una sorta di smorfia sghemba, un sorriso
preoccupato. Senza volerlo, la voce con cui parlò aveva un tono alto; avrebbe
potuto svegliare qualcuno.
"Ssh, Alfons!” dito sulle
labbra e l’altra mano a chiudere la bocca dell’altro “Lo svegl-aah,
lo hai svegliato!” sbuffò, guardando il vuoto con espressione preoccupata. “Al,
Al, su, hai bisogno di dormire, hai ancora la febbre alta... ti ho portato
dell'acqua e il tuo bicchiere preferito... ah, sì, lui è Alfons. È incredibile
come ti assomiglia, vero? Però è meno deboluccio di te, femminuccia."
Rise, ghignando, prendendolo in giro. Sistemò le coperte. "Hai fatto
brutti sogni? Le coperte sono tutte un nodo. Se hai paura, chiamami. Domattina
vado a comprarti di nuovo le medicine, sono quasi finite. Prendo quelle nuove
che mi ha consigliato il dottore, così guarirai subito. Ti lascio dormire.
Buonanotte Al, ti voglio bene." Sorrise nel suo solito modo splendido.
Spinse Alfons fuori dalla camera.
Alfons si sentiva a metà fra il terrorizzato e
l'incredulo: lo guardava, guardava il suo volto tranquillo, osservava quel suo
cicalare come se quello avesse una propria forma materiale: sembrava zucchero
filato, morbido, dolce, inconsistente e appiccicoso al tatto. Guardava la scena
– Ed che parlava, lui che lo ascoltava, la casa piccola ma sufficiente per due,
l’asse di legno palesemente scheggiata che Ed gli aveva indicato appena
entrato; la maniglia di quella camera vuota. Se l’avesse toccata, sarebbe stata
ancora calda.
Allora era davvero pazzo? Winry non gli aveva mentito?
Stava con uno schizzato, uno fuori di testa?
Gli veniva da vomitare – avrebbe voluto farlo solo per
fare uscire dalla bocca e dal cervello tutte quelle informazioni, tutto quello
che aveva visto, qualcosa che andava contro ogni possibilità logica. Aveva la
nausea.
“Al, che hai?”
Oddio,
no, non chiamarmi Al come tuo fratello – cazzo, non chiamarmi affatto, mi viene
davvero da vomitare.
Ma se fosse stato tutto uno scherzo? Qualcosa che
avevano architettato lui e Winry? Gli aveva parlato di suo padre che credeva ai
fantasmi, voleva vedere se era come lui?
“Ed, mi stai prendendo in giro?”
Stava sudando.
“… eh? Al, che stai dicendo? Ti prendo in giro? Riguardo
cosa? Perché queste domande all’improvviso?”
“Ed, cristo, in quella camera non c’è nessuno! Non c’è
tuo fratello, tuo fratello è morto, me lo ha detto Winry, cristo non c’è
nessuno lì dentro!!”
Ed, sconvolgendo Alfons, scoppiò a ridere. “Che stai
dicendo, c’è Al di là! D’accordo che poverino è dimagrito ed è pallido per la
febbre, ma non mi sembra il caso di dire che non c’era nessuno. E poi, per
favore, non urlare, che lo disturbi.”
Rise nervosamente. “No, Edward, non c’è nessuno, non c’è
nessuno, guarda…”
Aprì la porta, accarezzandogli la schiena e indicandogli
le coperte. Le toccò: “Guarda, non c’è ness—“
“Alfons, smettila di toccarlo, lo vuoi svegliare?! Sta
male, cazzo!”
Ed lo spinse fuori, guardandolo rabbioso. “Cos’hai, Al?
Sei impazzito?!”
“Non sono io che sono pazzo, sei tu ad essere fuori di
testa!!”
Edward lo guardava senza capire: cosa gli stava
succedendo? Cosa stava dicendo? Perché diceva quelle cose? Sembrava la mamma, e
sembrava anche la zietta e Winry. Perché voleva fargli male anche lui,
negandogli Al? Loro, tutti loro, sapevano perfettamente come gli fosse
impossibile vivere senza Al, perché facevano di tutto per toglierlo? Non
volevano forse bene anche a lui, al suo fratellino perfetto, a quel suo
fratellino così prezioso e importante? E allora perché facevano tutti così? Non
riusciva a capirlo, e Alfons lo stava spaventando. Lo voleva tradire anche lui?
Dove doveva scappare, per stare in pace con suo fratello?
Alfons andò a recuperare il cellulare nella giacca, lo
accese con dita tremanti e andò in quella camera vuota, fotografando il letto
vuoto. Mostrò la foto a Edward, mettendogliela vicinissimo agli occhi: “Guarda,
è vuoto, quel cazzo di letto è vuoto, non c’è nessuno Edward!”
Il ragazzo guardò lo schermo del cellulare, e sbarrò gli
occhi.
Cos’era quella stanza? Era uguale a quella di Al, ma Al
non c’era. Cominciò a venirgli mal di testa, se la teneva con le mani,
accartocciandosi su se stesso come un foglio bruciato.
L’incidente
l’incidente l’incidente l’incidente il sangue il sangue il sangue il sangue Al Al Al Al
oddio
AL
AL
AL
Black out.
“Non dire stronzate!!”
Si alzò e ad Alfons sembrò che si fosse allungato di
venti centimetri. Prese il vaso e per pochissimo lo mancò, spaccandolo contro
il muro dietro di lui; si bagnò il viso e le guance si graffiarono a causa
delle schegge di ceramica. Rimase immobile a vedere che Ed tornava a ripiegarsi
su se stesso, a tenersi la testa fortissimo con le mani, tanto da credere che
avrebbe trapassato la pelle per prendersi il cervello e sbatterlo per terra.
“Non è vero, non è vero, Al c’è, Al è vivo, Al è sempre
con me, siete voi che siete pazzi e non lo vedete, cosa vi ha fatto di male per
ignorarlo, cosa vi ho fatto di male io per continuare a dirmi così?!”
Alfons, terrorizzato, non muoveva un muscolo e non
faceva altro che scivolare per terra, lungo il muro, impossibilitato a fare
nient’altro che sentire come Edward si muovesse come una furia dentro casa –
ruppe i piatti impilati nel lavandino che attendevano di essere lavati, i
bicchieri, si graffiò le braccia con una forchetta senza grandi risultati, la
abbandonò presto buttando all’aria tutti i cassetti che trovò – continuando ad
urlare fino a farsi sanguinare la gola. Le sue urla gli perforavano timpani e
anima.
“Io l’ho visto crescere, è cresciuto assieme a me, come
fate a dire che non esiste?! Voi tutti volete imbrogliarmi, mi odiate, volete
fottermi Al!! Alphonse è mio e voi volete separarci!! Lui c’è, siete voi che
non lo vedete, siete voi i pazzi, lui è cresciuto con me, lui non mi ha
lasciato un secondo!!”
Continuava a ripetere le stesse frasi come se volesse
convincere se stesso più che gli altri, come se volesse convincersi fino in
fondo.
Tornò dov’era Heiderich, lo prese per il colletto e lo
guardò diritto nelle pupille: “Tu non me lo porterai via, tu non ci separerai,
tu non potrai fare proprio un cazzo!! Perché devo arrivare a fingere che non
esista per lasciarvi in pace?! Cristo, Alfons, perché mi guardi così?! Sembri
Winry quando mi diceva che Al non c’era e io dovevo fingere che fosse vero
perché non piangesse più, ma siete voi che non capite un cazzo, Al c’è e voi
tutti siete fuori di testa!!”
Gli occhi di Alfons sembravano un cielo terrorizzato d’inverno.
Ed avrebbe voluto spaccarlo in due, ammazzarlo,
strappargli i bulbi oculari, farlo in mille pezzi cucinarlo mangiarlo sputarlo
vomitarlo
Ma
Non
Puoi
Farlo
Lui
assomiglia troppo ad Al -----
AL
AL
AL
Ma
non è Al –
Ma
gli somiglia così tanto –
Non
è lui ma non puoi spaccargli le faccia lo ami
Assomiglia
ad Al
AL
AL
AL
Black out.
Fu come se, in quel momento, lo avessero disossato: cadde
su se stesso con un tonfo, svenuto, inerte.
Alfons lo guardò impaurito, terrorizzato – cosa doveva
fare? Rimanere lì con lui, aiutarlo ad uscire da quella confusione che c’era
nel suo cervello, cercando di estirparla come una radice malevola?
Abbandonarlo? Oh, Dio, no, non poteva abbandonarlo. Non poteva portarlo in clinica,
lì non li trattano come esseri umani, sono peggio delle bestie da macello. Non
se la sentiva di chiamare Winry, anche perché neppure lei avrebbe saputo cosa
fare, avrebbe solo contribuito al suo panico. Gli Elric non avevano parenti a
cui chiedere aiuto.
Guardava il suo corpo e sembrava senza vita. Stava
respirando? Avvicinò l’orecchio al naso: era ancora vivo. Tirò un sospiro di
sollievo.
Cosa doveva fare? Svegliarlo? In quale stato mentale si
sarebbe ritrovato al risveglio? Doveva lasciarlo lì, per terra, e aspettare e
basta? Pregò che non si svegliasse per qualche ora, tanto per riprendersi dallo
spavento.
Non poteva farlo uscire di casa, non in quella
condizione. Cosa poteva fare? Cosa? Cosa? Cosa?
Deglutì: forse avrebbe fatto meglio a pulire tutto il
casino che Ed aveva combinato. I pezzi di vetro, dei piatti, i cassetti
rivoltati. Facendo pianissimo, come se avesse paura che anche il fruscio dei
vestiti avrebbe potuto destarlo, prese la scopa e iniziò a togliere di mezzo i
cocci; fra l’altro, Ed avrebbe potuto usarli in maniera impropria, contro di
lui o contro se stesso. Gli tremavano le mani; cercò di tranquillizzarsi.
“È successo solo questa volta, non è mai successo altre
volte, succede a tutti una scenata isterica – okay, lui vede i fantasmi, ma
d’ora in poi sarà calmo perché ci sarò io, non è pericoloso, non mi ha fatto
niente – stai calmo stai calmo stai calmo, andrà tutto bene, andrà tutto bene,
a tutti succede di avere un crollo di nervi – ecco, ha avuto un crollo di
nervi, stai calmo stai calmo stai calmo…”
“Mh, Al…”
Il suo sospirare rimbombò come un urlo. I cocci del
vaso, cazzo, i cocci del vaso. Ma era più importante essere lì con lui quando
avrebbe aperto per bene gli occhi. Gli fu di fianco, ad accarezzargli la testa.
Tremando.
Edward sbatté le palpebre un paio di volte, alzandosi a
sedere.
“Cos’è successo? Perché stavo dormendo sul pavimento? Ci
siamo ubriacati? Non ricordo più niente, ma ho un mal di testa atroce…”
Al spalancò gli occhi, guardandolo. “Non…
ricordi niente?”
“No, niente, ricordo solo di aver dato le medicine a mio
fratello e poi niente… abbiamo bevuto? Mi sembra
l’unica, sennò non capisco…”
Tentò di alzarsi in piedi, porgendo la mano ad Alfons
per farsi aiutare. Aveva le gambe tremolanti, ebbe paura per un attimo di non
riuscire a reggersi, ma per fortuna Alfons era sempre lì per aiutarlo. Si
appoggiò a lui, e riuscì a mettersi dritto e a guardarlo. “Tu non hai mal di
testa? Oddio, Al, che cazzo è successo? Sei tutto graffiato in faccia e – il
vaso di Al! Perché è rotto?!”
Si mise a raccogliere i cocci, quando Alfons lo scostò,
prendendolo per il braccio. “Stai attento, ti fai male.”
“Tu ti sei già fatto male, cosa ti è successo?”
Al deglutì. Aveva avuto un corto circuito? Non ricordava
davvero nulla? “Ci… ci siamo ubriacati, ma io reggo
meglio. Il vaso lo hai rotto tu, ma non è colpa tua, ma dell’alcool.” Si impose
di ridere. “Non sapevo fossi così debole all’alcool, ti fa proprio male… l’alcool…”
Da agitata, la sua voce scemò sino ad essere quasi
impercettibile come un filo di cotone sfibrato.
“Al, cos’hai? Ripeti le stesse cose, sei agitato?”
“No, no, no, sto bene, stai tranquillo…”
“Okay, stai bene, ora andiamo a curarti sti brutti graffi, vieni…”
Quando Ed lo toccò, sentì una folata di vento gelido,
una paura profonda.
“Al, mi spieghi cos’hai? Sei così strano…”
Oddio,
oddio, oddio, io sono strano?
“Scusa, scusa, sto benissimo…”
Ed, in bagno, lo disinfettò e medicò con cura, e Alfons
dovette fare uno sforzo sovrumano per non scappare immediatamente.
No, non poteva assolutamente abbandonarlo. Cos’avrebbe
fatto, senza di lui? Doveva, semplicemente, assecondarlo. Doveva rimanere con
lui. In fondo, cosa poteva fargli di male? Cosa poteva fargli di peggio? Non
avrebbe dovuto innescare altre crisi come quella; quella di cui fortunatamente
non ricordava nulla. Non sarebbe stato difficile.
Non avrebbe più dovuto, semplicemente, contraddirlo.
Se lui vedeva Alphonse, Alphonse esisteva. Semplice e
lineare.
Non c’era nient’altro da fare.
“Al, che minchia ho fatto sul braccio?”, gli chiese
esaminandosi i graffi. “Dio, non dobbiamo assolutamente più bere una goccia di
niente.”
Si svegliò pieno di energie alle sette del mattino.
Saltò fuori dal letto come un giocattolo a molla, si lavò in due minuti e andò
a svegliare Al, scuotendogli il braccio.
“Al, ti offro la colazione, dai dai
svegliati, dobbiamo passare in farmacia e poi voglio fare un giro, dai svegliati…”
Quando Alfons aprì gli occhi e si trovò davanti un
Edward così allegro, così vitale, si convinse che la giornata precedente era
stata solo un brutto sogno.
“D’accordo…” biascicò,
alzandosi e sbadigliando. “Vado a darmi una lavata veloce e sono da te…”
“Sì, sì, che sia veloce davvero però!”
Stancamente si alzò dal letto e si infilò sotto la
doccia, con Ed sul water che canticchiava stralci di canzoni a caso.
“Passiamo prima da Starbucks,
poi in farmacia e poi andiamo al parco? Anzi prima andiamo al supermercato,
compriamo un cestino di vimini e una tovaglia a quadretti e un sacco di roba
per fare un milione di panini, poi andiamo al parco e facciamo un picnic! Anzi,
anzi, Starbucks, farmacia, casa perché devo dare le
medicine ad Al – anzi! Starbucks, farmacia, io torno
a casa per dare le medicine ad Al, sai stanotte ha avuto una crisi ma gli ho
dato qualcosa e ora dorme, ma non è da prendere sotto gamba, comunque poi tu
vai a far la spesa, compiliamo la lista da Starbucks,
e poi andiamo al parco e ci rotoliamo e facciamo l’amore dietro un cespuglio e
torniamo la sera, okay?”
“Okay, okay, però calmati Ed, dai!”
No, non era stato un sogno, cazzo. Si morse il labbro
troppo forte e gemette di dolore, Ed gli chiese cos’era successo e lui gli
disse di essersi morso la lingua, così da farlo scoppiare a ridere. Cos’era
tutta quella euforia? Tutta quella allegria improvvisa? Eppure tutto questo lo
metteva di buonumore, sembrava che non si ricordasse niente di ieri, che stesse
bene. C’era una speranza, in fondo. Forse bisognava aspettare ancora un po’,
qualche mese, qualche anno, e sarebbe guarito. Sì, la speranza c’era ancora.
“Uuh, è che sono coooosì euforico oggi, sto così bene! Allora, ti piace il
piano?”
“Sì, sì, certo che mi piace il piano, scemo, dammi solo
un momento che mi asciugo i capelli ed usciamo.”
“Okay, okay, esci dai!”
Ubbidì e si ritrovò Ed con le braccia spalancate, che
teneva in mano un asciugamano enorme. Rise, si lasciò arrotolare e sfregare, e
metà del suo cervello continuava a pregare che la loro convivenza continuasse
così. In fondo bastava dargli corda, e lui avrebbe avuto il suo Edward per
sempre. Bastava annuire e aiutarlo a curare Alphonse. Non aveva idea di come
avrebbero fatto quando sarebbe guarito,
ma ci avrebbe pensato in seguito.
Al parco, a mangiare panini con maionese, affettato e
mozzarella, pensò che era la giornata migliore che aveva mai trascorso finora –
forse seconda solo a quella in cui avevano fatto l’amore la prima volta, in cui
avevano deciso, con voce muta, di rimanere insieme per sempre. Riuscì a non
pensare a suo fratello, riuscì a guardarlo e non vedere i suoi occhi vuoti ma
pieni di una felicità incontenibile, di una contentezza calda e dolcissima.
Bastava ingannarsi e zittire la voce.
Bastava ignorare quello che era successo, bastava pensare ad altro quando le
sue mani cominciavano a tremare.
“Al, hai freddo?” gli chiedeva Ed quando succedeva,
preoccupato.
“No, sto bene, tranquillo…”, e
lo baciava per zittire tutto il mondo attorno a loro e dentro di lui.
Alfons si svegliò nel mezzo della notte col cuore che
batteva in gola talmente forte che sembrava volesse uscire, madido di sudore,
la maglietta appiccicata al petto. Non ricordava di aver sognato altro che
un’oscurità profonda e angosciante che tentava di inghiottirlo ad ogni respiro.
Strinse le lenzuola fra le dita quasi volesse romperle. Si girò e non trovò Ed
vicino a sé: gli mancò un colpo al cuore. Cos’aveva combinato? Dov’era?
Si alzò in piedi di scatto, allarmato, col sangue che
scorreva mille volte più veloce. Lo chiamò allarmato, sperando fosse ancora in
casa.
“Ed, dove se—”
Quella era una notte chiara di luna piena, senza nuvole,
che illuminava, debole e bianca, la cucina. Illuminava anche Ed che, ad occhi
chiusi, apriva il frigo e svuotava una bottiglia di latte nel lavandino,
insieme alle pastiglie che aveva buttato nel bicchiere di vetro smerigliato,
quello che aveva visto appoggiato sul comodino di Alphonse.
“Alfons, Alfons, svegliati!! Cristo, svegliati, ho
bisogno di te!!”
Era pallido come la neve, e con le mani altrettanto
fredde.
“Al sta male, sta malissimo, non so come fare!!”
Aveva gli occhi rossissimi, sembrava avesse pianto per
ore. Gli si strinse il cuore fino quasi a soffocarlo. Gli faceva così male
vedere il suo ragazzo in quello stato, il suo Ed che sembrava avrebbe preferito
scorticarsi con le proprie mani piuttosto che vedere Al morire.
“C-cos’ha…?”
Come
cazzo muore un fantasma?
“Non lo so, ma sta vomitando da ore, ha anche vomitato
sangue, non capisco cos’abbia, Al devi aiutarmi…”
“Hai… hai provato a chiamare
l’ambulanza…?”
“Mi cade il telefono dalla mano da quanto tremo,
chiamala tu, chiama il dottore, vai a prendere qualcosa, cristo Al sta morendo
cosa posso fare cosa posso fare…”
Scoppiò a piangere così forte che tutto il corpo fu
scosso da un tremore fortissimo, singhiozzò con la stessa disperazione di un
neonato. Alfons, sconvolto per ben altri motivi, lo abbracciò forte, lo strinse
accarezzandogli la schiena, per tranquillizzarlo: “Adesso faccio tutto io, tu
stai con Al e io faccio tutto il resto, non possiamo fare nient’altro che
aspettare, tu stai con lui e tranquillizzalo, andrà tutto bene, adesso chiamo
l’ambulanza, lo portano in ospedale e tutto si risolve…”
“Sì…”, balbettò Ed,
staccandosi. Tornò in camera di Alphonse, si inginocchiò davanti al letto e
strizzò gli occhi, sforzandosi di non piangere. Al dovette far finta di
chiamare l’ambulanza, non sapendo che altro fare. Si buttò in strada per
fingere di precipitarsi dal farmacista. Aveva una tremenda voglia di piangere.
Se fosse davvero morto
cos’avrebbe fatto Ed? Si sarebbe ucciso? Sarebbe impazzito?
Lui era pronto per quest’evenienza?
Si sentì così codardo, così vigliacco. Per la speranza
di una vita con lui aveva bruciato la possibilità di salvarlo da se stesso,
solo perché questo significava staccarlo da lui. Sentiva il petto pesante, la
voglia di piangere e urlare pulsante nelle vene e nelle tempie. Voleva buttarsi
per terra e dare pugni all’asfalto fino a scorticarsi le mani, sanguinare per
scacciare il dolore.
“Alfons?”
Ebbe una scossa nel sentire il suo nome: ma era Winry a
chiamarlo. Cosa diavolo ci faceva lì? Lei lo guardava preoccupata. “Alfons,
stai bene?”
La domanda più inutile nel momento meno adatto della
storia del mondo. Quella ragazza sembrava avere un talento particolare.
“No, no che non sto bene! Ieri Ed ha dato di matto—”
Si tappò la bocca, cos’avrebbe potuto fare?
“Cosa?! Cos’è successo a Ed?!”
Strinse i denti, ma si sentiva talmente male che le
parole superarono le labbra e le fessure tra le dita. “Ha dato di matto, è
esploso, gli ho detto che Al non esisteva e ho fatto una foto al letto vuoto e
lui ha dato completamente di matto ha cominciato a lanciare cose a spaccare
tutto e poi è svenuto e quando si è risvegliato non si ricordava più nulla poi
stamattina mi ha svegliato Al sta morendo Al sta morendo Al sta morendo e
piangeva e singhiozzava e ho dovuto far finta di chiamare l’ambulanza e di
scendere a comprare delle fottutissime stracazzo di medicine per un fantasma
capisci STA MORENDO UN FANTASMA!! Dio Ed sta così male mi fa così male il cuore…”
Si premette i pugni chiusi contro gli occhi per non
scoppiare a piangere, perché non sarebbe servito a nulla. Winry lo guardava
sconvolta, aveva seguito ogni sillaba ma intanto pregava che tutto rimanesse
all’esterno invece di penetrare così dolorosamente in lei.
“Al, Al, calmati, ti prego…”
Lo abbracciò forte perché non le veniva in mente cos’altro
avrebbe potuto fare, ma non servì a granché.
“Winry, porca puttana, ma sai dire solo cose a
sproposito?! Ed è impazzito e tu mi dici di calmarmi?!”
“Innanzitutto non urlare, cazzo!! Siamo in mezzo alla
strada, non mi sembra il caso di sbandierare a tutta la città cosa diavolo sta
succedendo in casa tua!”
Lo spinse in un vicolo. “Ora calmati. È fondamentale
questo, altrimenti non possiamo fare altro. Dobbiamo tornare da Ed e
assicurarci che non combini altro – Cristo, Al, lo so che sto dicendo un mucchio
di stronzate, ma sono in panico quanto te!! Dobbiamo tornare a casa vostra,
sperando di non arrivare troppo tardi. Dov’è che abitate?”
Alfons tirò su col naso, cercò di sopprimere un
singhiozzo sul nascere.
“Qua vicino…”
“Allora andiamo, e intanto chiamo qualcuno, se Al muore
davvero non basteremo noi, noi possiamo solo impedirgli di ammazzarsi ma deve
prenderlo qualcun altro…”
“Non voglio mandarlo in un qualche cazzo di istituto,
merda!”
“Al, cosa cazzo pensi di fare? Di tenerlo con te per
sempre? In questo stato?!”
Alfons si ammutolì, mentre Winry manteneva il sangue
freddo e chiamava qualcuno più competente di loro. Di lui. Pensava davvero di
riuscirci. Forse per puro egoismo.
Si sentì per un attimo lui quello folle.
Alfons andò nel panico quando non riuscì ad aprire la
porta di casa, ma era perché le mani gli tremavano troppo forte, e dovette
farlo lei. Cominciò a ripetersi di stare calmo, che agitarsi non serviva a
nulla, ma era impossibile. I denti battevamo così tanto da fargli male.
Dentro casa non volava una mosca e il silenzio gli colpì
il viso come acqua gelata.
“Ed, dove sei? Ed, ti ho portato le medicine, e guarda
chi ho portato, ho incontrato Winry per strada… Ed,
Al sta meglio? Sento così tanto silenzio…”
Entrarono in camera di Alphonse ed urlarono entrambi
così tanto da fottersi le corde vocali. Alfons non aveva mai visto tanto sangue
scorrere via da un essere umano.
Intorno era tutto bianco. Le mura, le vestaglie dei
pazienti, le loro voci, le loro anime e i loro pensieri. C’era odore di
disinfettante, lievemente fastidioso. Ed se ne stava sulla sedia a rotelle e
guardava il cielo azzurro di fuori, con gli occhi spenti e uno strano sorriso
che, ad una prima occhiata, sembrava felice. Se ne stava sempre lì, immobile, a
creare aloni di respiro sul vetro.
“È di là, alla finestra. Non parla con nessuno, ma è
normale nel suo stato.”
“Grazie.”
I passi di Alfons rimbombarono pesanti. Deglutì,
raggiungendo Ed.
“Ehi, Ed, sono qui…”
“Oh, Al! Eccoti, dov’eri sparito? Mi hai fatto
spaventare!”
Edward girò la sedia a rotelle verso Alfons, che gli
sorrideva. Prese una sedia per poter avere gli occhi alla sua altezza. Com’era
sciupato. Dov’era l’oro scintillante dei suoi capelli, quello vecchio dei suoi
occhi profondissimi? Davanti a lui c’era una copia sbiadita, slavata di quello
che di più aveva mai amato nella sua vita. Il suo Edward così fragile e
tremante.
“Sai, ho fatto un incubo così brutto e reale, sembrava
così vero, ho avuto tanta paura che non fosse un sogno…
sai, tu eri morto quando avevo dieci anni, in un incidente, e io per tutta la
vita ti ho visto crescere anche se eri morto, ero diventato pazzo, e poi
conoscevo uno che ti assomigliava e gli ho voluto subito bene, fino ad amarlo,
siamo anche andati a vivere assieme, ma forse era solo perché ti assomigliava e
inconsciamente cercavo un po’ di sostituirlo a te…
poi lui mi ha detto che non c’eri, sono impazzito ancora e poi di nuovo
normale, poi il tuo fantasma è morto e io volevo morire e mi sono tagliato le
vene perché vivere anche senza il tuo fantasma era insopportabile, ma non mi
sono tagliato per il lungo, in verticale, ma come si vede nei fumetti e nelle
immagini emo su internet, in orizzontale, senza
pensarci, così non sono morto e mi ha portato via l’ambulanza…
ma poi mi sono svegliato, e tu sei con me, Al! Non è meraviglioso essere vivi e
veri?”
Edward continuava a sorridere, baciandogli il viso con
immenso affetto.
“Ehi, Al, perché piangi?”
Quello tirò su col naso, si strofinò gli
occhi con la manica della camicia. “Niente, fratellone, mi fanno piangere i
tuoi incubi…”
“Eh? Ma stai tranquillo, gli incubi arrivano
prima a me così me li mangio e a te arrivano solo bei sogni. Visto che bravo
fratello che sono?”
“Sì… sì, sei un
fratello bravissimo.”
Chiacchierarono a lungo, per tutto il tempo
che poterono. Di cose stupide, di cose futili, di cose felici. Alfons doveva
trattenersi dallo scoppiare a piangere ed abbracciarlo fino ad assorbirlo,
stringerlo a sé per estirpare quella radice malevole, masticarla e sputarla
via, così sarebbe andato tutto bene, come aveva sperato lui. Continuava a
martellargli in testa il dubbio – se non avesse fatto la foto, se non
gliel’avesse mostrata, ora starebbero pranzando assieme, e il fantasma di Al
sarebbe rimasto ad aleggiare per sempre sopra di loro, benedicendoli. Al
sarebbe stata solo un’ombra, qualcosa che non avrebbe mai nuociuto, a nessuno
dei due, a nessuno al mondo. Si sentiva così dannatamente in colpa che a volte
non riusciva a respirare. Sentiva che il dolore di Edward dipendeva solo da
lui, dal suo essere stato idiota, senza cuore, insensibile. Chi era stato, lui,
per rovinare una felicità all’apparenza così perfetta?
Gli stringeva le mani, che erano così secche
e magre, ora. Alzò gli occhi, gli accarezzò gli zigomi sporgenti. Non stava
mangiando nulla. Si nutriva di ricordi.
“Fratellone, ora devo andare…”
“Devi andare a studiare, vero? Studi troppo,
ti ammalerai.”
“Tranquillo, sono sano come un pesce.”
Si alzò dalla sedia, gli girò la schiena.
“Ehi, Al…”
“Sì, fratellone?”
“La prossima volta mi porti gli scones?”
“Tu non
ci credi ai fantasmi, allora?”, gli chiese una volta, come se il discorso fosse
fresco quando invece erano passati giorni, mentre apparecchiava la tavola. Si
voltò a guardarlo, stupito di sentirgli tirare fuori ancora quel discorso.
“No,
no, ci credeva papà, e moltissimo.”
“Poverino,
che infanzia orrenda, una madre morta e un padre pazzo.”
In verità un po’ ci credeva anche lui.
Vagamente, senza farsi prendere eccessivamente – insomma, non credeva che stare
nella loro vecchia casa avrebbe procurato maledizioni o chissà cos’altro a
causa del fantasma insoddisfatto della madre. Insomma, era una credenza
sonnolenta, pigra, insita in lui solo perché era cresciuto con un padre
fissato. Però non si meravigliava quando sognava la madre. Succedeva, ogni
tanto, e gli lasciava un amaro tremendamente malinconico in bocca. Era così
bella nei suoi sogni, sembrava una regina, così elegante e solenne.
Semplicemente si sedeva su una panchina e si batteva la mano sulle gambe,
dicendogli, sorridendo, di appoggiarle la testa in grembo. Riusciva persino a
sentire il suo profumo, e tanto bastava per farlo scoppiare in lacrime, ma
renderlo poi sereno e in pace con se stesso, col mondo. Semplicemente piangeva mentre
lei gli accarezzava i capelli – piangeva per lei e le occasioni perdute e
spezzate, piangeva per quello che lo affliggeva, piangeva perché sentire il suo
profumo così vicino eppure, lo sapeva, irraggiungibile non poteva dare nessun
altro effetto. Ma erano sempre così corte quelle visite da non dargli neppure
il tempo di salutarla a dovere, prima che la vita se lo riprendesse indietro.
Però si stupì quando fu Ed a venirlo a
trovare.
Attorno era sempre tutto bianco. Ma più si
avvicinava a lui, più diventava nero e pesante.
“Ed, che ci fai qui? Tu non sei morto.”
Lui si avvicinava e stava zitto, Alfons
continuava a chiamarlo ma lui era sordo, o non lo ascoltava. Aveva gli occhi
spenti e le braccia che sanguinavano.
“Ed, cosa hai fatto?”
Alfons tentò di afferrargli il braccio, di
sfiorargli la guancia, ma fu tutto inutile, era inconsistente come le nuvole.
“Perdonami.”
“Cosa?”
“Perdonami.”
Si svegliò piangendo e non uscì dal letto
per tutto il giorno, raggomitolandosi su se stesso, sperando che esistessero
davvero notti così lunghe da non finire mai, e che gliene capitasse una in quel
momento.
È aprile e piove fortissimo, come se fosse
una punizione divina. Alfons non stacca gli occhi dalla bara. Non ha preso
l’ombrello, non ha voluto farlo. Non vuole coprirsi da niente.
Il suo Edward è lì, dentro la bara di legno
lucido e scuro. Suicida. Ringrazia che non credesse in Dio; altrimenti sarebbe
andato all’inferno. Lui era un tale testardo che non ci sarebbe finito, lui non
ci credeva, anche se fosse esistito lui avrebbe negato e sarebbe finito da qualche
altra parte.
Non piange, non ce la fa, non adesso. Rimane
tutto bloccato, strozzato nella gola. Ha gli occhi troppo secchi. Si tormenta
le mani, guarda le pochissime persone che sono al funerale ed è sicuro che
nessuna di loro, neppure loro sommati hanno mai amato Edward come lo ha amato
lui. Nemmeno suo padre (chissà dov’è, chissà se sa cos’è successo a suo figlio,
spera che un giorno lo sappia per sentirsi in colpa), nemmeno sua madre.
Nemmeno Al. Nessuno ha voglia di essere in quella bara quanto lui.
Si guarda attorno e adesso è un ammasso di
ombre scure, sfocate, macchie d’inchiostro slavate.
Poi apre le labbra, le parole raschiano
contro la gola e contro il palato perché non parla da giorni.
“Ce l’hai fatta, eh.”
Poi,
sai, è un vero testardo, non c’è niente che non riesca a fare, quando si
impunta.
Gli viene da ridere a questo pensiero.
Scoppia a ridere sovrastando i singhiozzi delle donne presenti.
“Alfons, ti sembra il caso di ridere?!”, gli
grida Winry, scandalizzata.
“Oh, Ed, ce l’hai fatta davvero, ora sei
contento, no? Ce l’hai fatta davvero, sei incredibile, lo sei sempre stato!”
… e poi
conoscevo uno che ti assomigliava e gli ho voluto subito bene, fino ad amarlo,
siamo anche andati a vivere assieme, ma forse era solo perché ti assomigliava e
inconsciamente cercavo un po’ di sostituirlo a te…
Ride e al contempo piange, ride così forte
che nessuno si accorge dei suoi tremori. Gli cedono le gambe, cade per terra,
nel fango, continua a ridere e le lacrime si confondono con la pioggia. O anche
il cielo piange Edward? Dovrebbe essere così felice di averlo con sé.
“Te ne sei andato come volevi, dal tuo Al!
Oh, sei sempre straordinario, Edward, hai voluto Al ed è quello che hai ottenuto…”
Poi,
sai, è un vero testardo, non c’è niente che non riesca a fare, quando si
impunta.
\O/!
Or dunque. A questa piccola ci tengo molto
;_; non saprei cosa dire, oltre a questo xD; beh, è
la mia primissima long (per i miei standard è davvero lunghissima XD) e spero
sia un esperimento ben riuscito >_<;
*sbacia con amore e
trasporto la sua bimba e la Caska per il betareading*
Risposte alle recensioni per Dormono sulla
collina \o/
@Nacchan: se la prima è
triste, questa e la prossima…? *la
sbacia con amore<3*
@Celtic_spirit: wah,
addirittura segnarti profondamente, grazie ;/////;!
@mery_wolf: sì, era proprio l’idea che
volevo dare, quella di una rassegnazione, di una serenità conquistata col tempo
e con la metabolizzazione èwé!
@Lady_Firiel: questo è in assoluto il mio cd
preferito di de André, è uno dei miei preferiti in assoluto, lo amo tantissimo,
spero di non mortificare troppo le sue intenzioni con le fic
XD sono contenta che ti sia piaciuto il mio Ed <3<3
@CaskaLangley: u_u
ho imparato a non lamentarmi, ‘ntipatica. E poi
questa è luuuunga *O* e ci emme cu graffie <33
@Lady Furianera:
grazie, troppi complimenti >///<