La storia della casa sul lago

di ballerinaclassica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***



Capitolo 1
*** Prologo - ***


Quando Arthur Kirkland aveva visto per l'ultima volta l'America, da una di quelle barche enormi che solcavano l'Atlantico, poi l'aveva ricordata verde, sovrastata da un cielo limpido, qualche nuvola sparsa e anche piuttosto sporadica e i gabbiani. Era tornato in Inghilterra nel 1923 aveva continuato con i suoi studi, piacevolmente sorpreso che, nonostante avesse passato una decina di anni in un altro continente, tutto fosse ancora al proprio posto – beh, a parte suo fratello Peter che si era praticamente impossessato della sua camera da letto, quella più grande.
E alla fine tutto era andato come doveva andare. La laurea, la famiglia... E si era perfino innamorato di una canzone uscita nel '18 e chiamata “Over There”. Proprio perché la sua vita sembrava perfetta si era spinto di nuovo così lontano, fino a sfidare di nuovo il mare e a tornare nel nuovo continente, convinto che i suoi sacrifici sarebbero stati premiati, in barba a chi non aveva mai creduto il lui!
Eppure l'America non era affatto come lui la ricordava. E al posto degli alberi, ad una distanza di appena cinque anni, erano apparse le prime ciminiere, al posto dei gabbiani c'erano aloni di fumo grigiastro e il mare sulle coste non era più abbastanza limpido da distinguere con chiarezza ogni singolo sassolino – oppure era la sua vista che stava peggiorando, alle soglie dei trent'anni.
Nonostante ciò, Arthur Kirkland restava convinto che ci fosse un angolo di America (il suo angolo di America) che non era cambiato di una virgola. Era riuscito a sentirlo a pelle, quando aveva poggiato la testa sul finestrino del suo vagone di seconda classe e aveva chiuso gli occhi, fingendo che stesse attraversando per l'ennesima volta la sua bella Cornovaglia.
E in effetti quando aveva varcato la porta di legno della locanda si era reso conto che almeno lì nulla era cambiato. Che il bancone era ancora scheggiato sulla sinistra, vicino al muro, che i tavoli di legno puzzavano un po' di muffa, il pavimento era scuro e qualche asse scricchiolava e il proprietario non era cambiato di una virgola, se si ignoravano i primi capelli bianchi.
Era nel cuore dell'Iowa che Arthur aveva trovato la sua seconda casa, alla quale lentamente si era affezionato e della quale inevitabilmente sentiva la mancanza ogni qual volta tornava a Londra. Nel cuore dell'Iowa aveva trovato i primi amici, erano nati i primi legati e era rimasto un pezzo della sua vita. Tra i fiumi e i boschi che li costeggiavano, sulla riva del lago e nella casetta di legno abbandonata, su quella barchetta malmessa che usava per andare a pesca, per le strade, tra i muri.
Poggiò la valigia su una delle panche che stavano addossate al muro e si sedette lì accanto, inspirando a fondo un odore familiare e chiudendo gli occhi. Tra qualche minuto avrebbe assolutamente dovuto trovare un telefono pubblico – e quindi elemosinare qualche monetina da uno sconosciuto – pur di parlare con sua madre, così ansiosa e con quel terrore che suo figlio finisse sul fondo dell'oceano durante uno dei suoi viaggi. E adesso che ci pensava sarebbe stato un bene anche parlare con Peter e chiedergli con esattezza quale stupido giocattolo americano voleva che gli portasse, dato che l'ultima volta che era tornato a casa con un regalo per suo fratello era stato ricoperto dagli insulti, perché i soldatini poteva benissimo comprarseli in Inghilterra.
Ah, e ovviamente aveva bisogno di un posto in cui restare, e non era troppo sicuro che la locanda, ormai, rispettasse almeno la metà delle norme igieniche. Con un po' di fortuna si sarebbe preso soltanto le piattole. Visto lo strato di polvere che c'era su quel tavolo e la sporcizia del pavimento, non osava immaginare in quali disumane condizioni giacesse abbandonato il bagno. Non aveva nemmeno intenzione di scoprirlo ora, quindi accavallò le gambe e cercò di imporre un minimo di autocontrollo perfino alla sua vescica.
Nonostante ciò era veramente felice di trovarsi lì, nel posto in cui aveva scelto di continuare a vivere. Lui amava l'Inghilterra, eppure c'era una parte del suo cuore che, quando tornava sulla sua isola e riabbracciava i suoi cari, restava oltreoceano, nel paesino più sperduto della contea più sperduta dell'Iowa. Insomma, uno di quei posti dove il numero di capi di bestiame supera di almeno sei volte quello della popolazione, dove un vero uomo indossa un capello da cowboy dall'età di cinque anni – se hai fortuna tua zia te ne regala uno addirittura quando ne hai quattro - e dove tutti conoscono tutti e con ogni probabilità mezzo paese sapeva già che il ragazzo di Londra era tornato.
Magari qualcuno era appena uscito con la sua vecchia e rumorosa automobile. Lo aveva detto al ragazzo dei giornali, che lo aveva detto alla signora all'angolo della strada, che lo aveva detto alla vicina. E così, di casa in casa, la notizia si era sparsa come succedeva a tutte quante le altre.
Il nome di Arthur Kirkland era volato sulla bocca di una dozzina di persone, magari qualcuno lo aveva storpiato, qualcuno addirittura dimenticato. Ma in un modo o nell'altro, nel giro di un paio d'ore tutti avrebbero saputo che lui era tornato in America e che stava per ordinare una birra alla vecchia locanda che c'era vicino la stazione.
«Ehi amico, hai intenzione di rimanere lì impalato ancora a lungo?»
Arthur aprì un solo occhio e rivolse uno sguardo al suo interlocutore. Davanti a lui c'era un ragazzo che arrivava a malapena ai vent'anni, capelli biondi come il grano agitato dal vento e occhi azzurri come l'oceano, un grembiule nero e un po' sgualcito e una maglietta vagamente scolorita che portava il nome di qualche squadra di baseball. Era alto almeno quindici centimetri più di lui e largo almeno il doppio, portava gli occhiali da vista e Arthur si accorse che lo adesso però lo stava fissando.
«Non ero impalato, amico, stavo aspettando un cameriere», gli rispose, cercando di riunire in un'unica frase tutta l'acidità di cui fosse capace.
L'ultima volta che era stato lì il cameriere era un uomo sulla sessantina, che oltretutto aveva problemi di udito e questo ti costringeva a ripetere il tuo ordine per almeno tre volte, se ti andava bene. E ogni volta dovevi usare un tono di voce più alto e più acuto della volta precedente. Arthur non ricordava affatto quel ragazzone, invece. Molto probabilmente il cameriere che gli stava davanti ora all'epoca era uno di quei ragazzi che giocavano ad inseguirsi dietro la locanda, e che ogni tanto potevi vedere correre oltre il vetro opaco della finestra.
«Sta di fatto che ne stavi lì immobile... Che ne so, magari già te lo sei scordato. Com'è che si chiama? Ah, giusto, demenza senile.»
I muscoli della sua fronte si corrugarono quasi involontariamente, Arthur non riuscì a spiegarsi per quale assurdo motivo un totale sconosciuto gli stesse dando del vecchio – tra l'altro senza avere un motivo preciso. Non sembrava abitudine di quel ragazzo chiedersi se un uomo appena arrivato con una valigia pressapoco enorme fosse stanco, probabilmente non aveva perso nemmeno tempo a far caso a quei piccoli particolari.
Arthur lo squadrò di nuovo, sul suo petto c'era appiccicato un pezzo di carta stropicciato e ingiallito e sopra c'era scarabocchiato un “Alfred”, in cui la “L” era veramente troppo grande e in cui la “D” era stata storpiata perché evidentemente quel foglio minuscolo non era abbastanza grande nemmeno per un nome così breve.
«Senti... Alfred, non so che problemi tu abbia, ma mi piacerebbe ordinare e andarmene. Quindi spicciati e fa' il tuo lavoro. E magari evita di aprire bocca se non per darle aria.»
L'espressione di Alfred oscillava tra il confuso e lo scioccato. Abbassò il mento, si guardò il petto e poi la sua attenzione tornò a concentrarsi su Arthur.
«Ehi inglesino, come fai a sapere il mio nome? Sei un agente segreto o cosa?»
Più il tempo passava, più si rendeva conto di quanto la popolazione americana fosse tendenzialmente stupida. Per quanto amasse la loro terra, Arthur non impazziva particolarmente per chi la popolava, anzi. Preferiva le sue passeggiate solitarie o le conversazioni che non si spingevano oltre il “ciao”.
«È scritto lì. Che c'è, non sai leggere?»
Alfred analizzò per un attimo la targhetta che aveva sul petto, dopo di che scoppiò in una risata forse un po' troppo acuta e forse un po' troppo rumorosa per i suoi gusti.
«Ahahahah, giusto, me ne ero completamente dimenticato. Alfred F. Jones!», disse, e mentre leggeva sottolineava con il dito ogni lettera del suo nome.
«Veramente io leggo solo Alfred.»
Il cameriere sembrò rimanere spiazzato, ed effettivamente la sua posizione non era migliorata, ma peggiorata, se possibile. Era palese che Alfred non sapesse leggere, e per quanto Arthur volesse provare a farglielo pesare, sapeva esattamente che in quella zona dell'America e in particolare in quella contea non poteva pretendere di poter parlare con qualche intellettuale che coltivava granturco nel part time.
Il ragazzo aveva poggiato i suoi occhiali da vista sul tavolo, le lenti erano un po' appannate e la montatura non era perfettamente dritta, e staccò il pezzo di carta dal petto. Molto probabilmente adesso avrebbe cercato di far credere ad Arthur che lui sapeva leggere alla perfezione e che quella gaffe era stata dovuta solo e soltanto ad un paio di vecchi occhiali mezzi rotti.
«Senti, Alfred, non preoccuparti e portami una birra», lo liquidò, prima che lui potesse ribattere qualcosa.

Perfino il mulino che c'era sulla sponda est del fiume non era cambiato, forse le pale erano un po' consumate dal tempo e forse le ragnatele erano aumentate. Però la struttura era ancora quella, con il suo tetto cigolante e le travi spezzate, i nidi degli uccelli nascosti in ogni punto disponibile e le oche che poltrivano sulla riva. Era un quadro pressoché magico e Arthur lo aveva sempre adorato quando, qualche anno prima, risaliva il fiume fino ad arrivare a quel lago che ghiacciava d'inverno e che rimpiccioliva durante l'estate. Lì c'era una vecchia casa di legno abbandonata, di quelle che sembravano abitate dal fantasma del lago o da qualche poltergeist, un vecchio villino affiancato ad una stalla mezza diroccata.
La casa sul lago era il posto che Arthur amava di più dopo il mulino e la locanda, era il posto in cui si rifugiava dal mondo esterno e dimenticava perfino l'Inghilterra. Arthur risaliva il fiume col suo bastone da passeggio e una borsa di pelle nera e lisa, andava a sedersi sui gradini mangiati dai tarli della vecchia casa di legno, li sentiva scricchiolare e parlargli, e lì scriveva i suoi racconti.
Erano storie di principi, di maghi e streghe malvagie, storie che non avevano mai un fine, perché inevitabilmente il giorno della partenza arrivava e Arthur si ritrovava costretto a chiudere i suoi quaderni e a lasciarsi alle spalle quel posto segreto.
Quel giorno ricordò di aver portato un sacco di quaderni, tonnellate di inchiostro accuratamente sistemato in valigia e dentro sé l'intenzione di trovare qualcosa che lo costringesse a restare, perché per quanto l'Inghilterra potesse mancargli, Arthur era sicuro che in realtà il suo posto era lì. Magari avrebbe trovato un sentiero comodo per collegare la vecchia casa al mulino, magari sarebbe riuscito a farla ristrutturare, avrebbe avuto un giardino e la stalla sarebbe stata riparata, per vivere sulla sponda del lago che ghiacciava d'inverno.
E probabilmente prima di fare programmi per l'avvenire, Arthur avrebbe dovuto passare a dove pernottare – perché non voleva prendersi le piattole alla locanda, ma non voleva nemmeno trascorrere la notte all'agghiaccio e rischiare di non arrivare vivo alla mattina successiva.
Chiese informazioni ad un paio di persone, di cui un uomo che non sembrò nemmeno capire la sua domanda e lo accusò di avere un accento inglese troppo forte. Gli bastò un'ora per trovare una specie di albergo dall'aria un po' vissuta, in cui scoprì presto che la proprietaria, la cameriera, la donna delle pulizie e la portinaia fossero la stessa persona, una donna sulla sessantina con i capelli che sfumavano dal bianco ad un rossiccio chiaro, la circonferenza abbastanza estesa ed un sorriso cordiale, oltre ad una stretta di mano che gli aveva quasi spezzato le ossa.
La sua stanza affacciava sulla strada principale, proprio come a Londra, ma il profondo abisso che c'era tra l'Iowa e la sua città natale lo fece sorridere. A Londra le auto erano arrivate già da qualche anno, i più ricchi della città ne avevano addirittura due, suo padre ad esempio aveva una Rolls Royce verde bottiglia, che usava per andare ai suoi incontri di lavoro o per portarli al mare qualche fine settimana. Sua madre adorava quell'auto, restare con il finestrino aperto e respirare l'aria pura che c'era fuori città. Suo fratello invece la odiava, dato che non poteva muoversi liberamente o alzarsi come poteva fare in treno. Nemmeno a lui quell'automobile piaceva granché, aveva sempre preferito stare all'aria aperta, come quando andava a far visita a suo nonno e camminava in sua compagnia per ore ed ore, ascoltando decine di storie sui corsari della regina Elisabetta, le avventure di Francis Drake e della sua ciurma, oppure, di sera, storie che parlavano di uova di drago, di terre incantate e di antichi sortilegi.
Lì nell'Iowa le automobili non erano così tante. Per l'esattezza, da quando era arrivato, ne aveva vista soltanto una, parcheggiata (o forse abbandonata) fuori dalla locanda. Una Bour Davis del 1921 che doveva aver avuto la sua storia e che ora era ridotta ad un ammasso di rottami che avrebbe funzionato a malapena.
Appena un'ora dopo qualcuno bussò alla sua porta. Arthur salutò la padrona dell'albergo che reggeva tra le mani un vassoio di legno con il quale portava una tazzina traballante e scheggiata sul manico. Ah, il suo accento inglese qualche volta aveva un vantaggio, la donna doveva aver capito immediatamente da dove provenisse e si era premurata di procurargli del tè. Non gli servì altro, la donna gli disse di lasciare la tazza sul comodino, ci avrebbe pensato lei poi a prenderla e a lavarla e Arthur ne approfittò per farsi una doccia e sistemare la sua roba. Era arrivato più o meno poco dopo l'ora di pranzo, se aveva fortuna e se si dava una mossa forse sarebbero riuscito ad arrivare alla vecchia casa di legno prima che facesse buio. Aveva voglia di salutare di nuovo quei luoghi e vedere se fossero cambiati o meno, se la stalla fosse già crollata o se fosse riuscita a superare con discreto successo tutti quegli inverni, se il lago, ora che la primavera cominciava a farsi strada, fosse ancora mezzo gelato oppure no.
L'acqua della doccia era talmente fredda da costringerlo a saltare in continuazione e ad uscire con una velocità fulminea per avvolgersi nell'asciugamano bianco che stava poggiato su uno sgabello, anche mentre lavava via la schiuma da barba dal viso rischiò di congelarsi le mani e di restare con le dita rigide e serrate attorno alla manopola del lavandino.
Indossò un maglione spesso e un paio di pantaloni scuri, prese la giacca ed il cappello e scese velocemente le scale. Era impaziente di rivedere la vecchia casa.
La strada era quasi deserta, fatta eccezione per un gruppo di ragazzini che inseguivano un pallone rattoppato, riempiendo la via di urla concitate e di risate allegre. Erano circa le cinque del pomeriggio, e la donna dell'albergo gli aveva raccomandato di ritornare entro un paio d'ore al massimo, se non voleva che la sua cena si freddasse. Arthur non aveva fretta, in fin dei conti avrebbe potuto mangiare fuori almeno per quella sera – aveva abbastanza soldi con sé, la maggior parte dei quali erano stati un regalo di uno zio scozzese, ed era comunque certo che mangiare in qualche ristorante della zona (sempre se ce n'erano) non sarebbe stato un problema.
Stava percorrendo la stessa strada di prima, ma ora che la sua valigia era chiusa nella stanza, poteva concentrare la sua attenzione sul paesaggio, sul sentiero che mano a mano che si allontanava dal centro del paese diventava più stretto e più tortuoso, su come le salite fossero metro dopo metro leggermente più ripide, su come i raggi inclinati del sole colpissero in pieno la vegetazione che c'era lì vicino, rendendola di una tinta giallo ambra.
Le pale del mulino erano immobili, soltanto qualche ramo oscillava con il vento. Arthur ascoltava il rumore dell'acqua che scorreva lentamente, le anatre che starnazzavano sopra la sua testa e nel fiume.
Continuò a camminare per una buona mezz'ora, mentre i piedi cominciavano a far male perché i suoi mocassini nuovi di zecca erano veramente inadatti a quel genere di passeggiate. Arthur ignorò completamente i lamenti dei suoi piedi che lo supplicavano di fermarsi sotto la quercia, e sedersi sulle radici che sporgevano dal terreno creando disegni fatti di nodi di legno, o su quel sasso ricoperto in buona parte dal muschio umidiccio, altrimenti andava bene anche il praticello verde, l'importante era riposarsi.
Ma se non voleva tornare con la notte e rischiare di spezzarsi l'osso del collo mentre percorreva nella direzione opposta quel sentiero ripido, doveva darsi una mossa e sopportare. Arthur tirò il cappello sulla testa, cercando di coprirsi le orecchie, fortunatamente c'era ancora abbastanza luce, e il sole emanava ancora abbastanza raggi da concedergli almeno un po' del suo calore quando non si trovava all'ombra di qualche albero.
Quando si rese conto che il paese era ormai lontano, e che era passata circa un'ora da quando aveva intravisto per l'ultima volta il mulino che spariva tra le fronde, Arthur sorrise e pensò tra sé e sé che c'era quasi, magari tra trecento metri l'avrebbe vista, la vecchia casa di legno che era stata costruita vicino al lago, che molto probabilmente era ancora piena di rampicanti. Forse qualche muro aveva ceduto, oppure si erano frantumati i vetri di un altro paio di finestre.
Mentre era a Londra aveva pensato spesso su cosa potesse essere accaduto a quella casa. Dal giorno in cui aveva sentito suo padre parlare della seconda rivoluzione industriale, che Arthur non aveva vissuto di persona, aveva cominciato a temere il peggio. Nel cuore delle città inglesi un paradiso simile a quello sarebbe stato presto trasformato in un grande magazzino, nella migliore delle ipotesi sarebbe diventato la pista di atterraggio per i voli mattutini della RAF. La stessa così si sarebbe verificata nel New England, ma magari l'Iowa era ancora al sicuro – sempre che a quegli americani megalomani non fosse saltata in testa l'idea di costruire una specie di centrale segreta nell'unico posto che valeva la pena vedere – e comunque Arthur non era mai stato fortunato, quindi temeva anche l'opzione che un meteorite fosse caduto dritto sulla vecchia casa di legno, lasciando illeso tutto il resto.
Arthur sollevò il mento, adesso poteva guardare l'inizio della radura che costeggiava il lago. Accelerò il passo, rischiando di inciampare in qualche arbusto, tanta era la voglia di trovarsi ancora al centro di quel luogo. Saltò un sasso, scavalcò un cespuglio verde, e poi lo vide.







Una nuova long-fic, che posto mentre completo gli aggiornamenti delle altre due.
Spero vi piaccia, perché ho avuto miliardi di dubbi mentre la scrivevo. ;___;”
Vorrei dedicarlo a Vasino, dato che mi sono resa conto di non averle mai dedicato nulla. ;_; E quindi questa FanFiction è per lei, che è sempre troppo gentile con me, vagamente stronza, ma quella è un'altra storia.
Ti voglio bene, caccapupù<3
Al prossimo aggiornamento<3

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Sulla riva del lago c'erano appollaiate una dozzina di anatre, nascoste da arbusti rinsecchiti e dalle canne che stavano chine sull'acqua. Le rocce che sporgevano lungo gli argini erano semi coperte dal muschio, e tutto intorno c'era un odore di pioggia, misto a quello del terriccio umido. E Arthur avrebbe riconosciuto l'odore di quel luogo fantastico anche tra un milione di anni o giù di lì.
Più avanti la vecchia casa di legno era ancora intatta, notò con piacere, coperta dai rampicanti e dal muschio, ma intatta. Un uomo stava sulla veranda mezza distrutta e da quello che Arthur riusciva a vedere, aveva un chiodo tra due dita e stava usando il martello contro qualche asse di legno un po' ribelle. La cosa non gli diede particolarmente fastidio, sebbene Arthur avrebbe preferito trovare quel posto vuoto, isolato e silenzioso come al solito, piuttosto che vedere qualcuno che si affannava per tenerlo in piedi, riempiendo la radura con il rumore ritmico del martello che batteva sulle tavole del pavimento.
Mentre si avvicinava all'uomo, che gli dava le spalle e stava chino sul suo lavoro, Arthur cercò qualche scusa da tirar fuori, magari avrebbe potuto dirgli che si sarebbe occupato lui delle riparazioni (o di qualunque altra cosa si trattasse), facendo venire da Londra i migliori architetti e la migliore equipe, o che avrebbe addirittura potuto farlo di persona, se la prima opzione poteva creare disturbo in qualche modo. In un certo senso era geloso di un mucchio di assi di legno umidiccio e mangiato dai tarli, per quanto la cosa potesse risultare ridicola. Arthur aveva coltivato quel luogo nel cuore, rifugiandosi lì soltanto quando era indispensabile, aveva sperato che fosse un posto magico ed irraggiungibile, e vederlo così, con quello sconosciuto che martellava da una parte e dell'altra, trasformò l'atmosfera da onirica a reale e la cosa lo turbò molto, forse anche troppo.
In cuor suo Arthur sapeva bene che, se sperava che quella casa restasse in piedi almeno altri due o tre inverni, allora doveva darsi da fare con la manutenzione, perché altrimenti la prima ventata l'avrebbe buttata giù come se si fosse trattato di un castello di carte.
Mano a mano che però si avvicinava, notava con stupore quanto in realtà quel paradiso si stesse trasformando e provò un senso di malinconia e di inadeguatezza a rendersi conto che era soltanto migliorato, che dal pavimento non sporgevano più le assi di legno sulle quali prima rischiava di inciampare, che le finestre rotte che prima erano chiuse con dei pezzi di cartone ora non erano più rotte, che la parte della casa che stava rivolta verso il lago non era ricoperta da muschio o da macchie di umidità, perché qualcuno si era premurato di pulirla o di sostituire il legno marcio con quello nuovo.
Non sapeva se il merito fosse di quell'uomo o meno, ma era intenzionato a scoprilo al più presto.
«Mi scusi», disse improvvisamente, spuntando alle sue spalle, «Come mai sta riparando questa casa?»
L'uomo, che poi capì essere un ragazzo, sussultò e la sua reazione spaventò Arthur, mentre assieme ad un movimento improvviso, aveva emesso un urlo disumano e a lui sembrò di aver già sentito quella voce da qualche parte...

«Mh...Ti fa molto male?»
«Sì, tanto, tantissimo! È tutta colpa tua, come ti salta in mente di strillare alle spalle della gente?»
«Non ho affatto strillato, bugiardo!»
«Sì che hai strillato, proprio come stai facendo ora, vecchio!»
«Smettila di dire che sono vecchio, ragazzino!»
«E tu smettila di dire che sono un ragazzino, vecchio!»
«Okay, la smetto.»
«Bene, smettila.»
«Benissimo, ho smesso.»
«Meraviglioso.»
Alfred lo guardò con un'espressione imbronciata, mentre rimaneva accovacciato sul pavimento scricchiolante e si stringeva il dito leso tra le mani; a pochi centimetri, il martello era rimasto abbandonato. Arthur si era preso cura di lui soltanto per pochi secondi, perché poi Alfred aveva cominciato a lamentarsi ogni qualvolta lui lo sfiorasse anche solo con la punta delle dita, quindi aveva preferito rinunciare ed evitare che quella voce acuta gli perforasse i timpani.
«Che ci facevi qui?», chiese Arthur all'improvviso.
«Cosa ci facevo
io qui?», Alfred inarcò un sopracciglio, «Io qui voglio viverci, con un po' di sforzi renderò questa casa una reggia.»
Per Arthur quello fu un brutto colpo, ma riuscì ad incassarlo senza che Alfred si accorgesse che il suo cuore aveva quasi saltato un battito.
«Non puoi», gli rispose all'improvviso, senza neanche rendersi conto di averlo detto.
Ed in effetti Alfred non aveva il diritto di andarsene a vivere in un luogo che non gli apparteneva, specialmente se Arthur ne era così geloso. Il solo fatto che Alfred fosse lì quel giorno stava a significare che la casa sul lago non era poi un posto così segreto, e che sarebbe stato possibile per tutti raggiungerlo. Doveva annotare questa cosa nei suoi diari e ricordarsi, il giorno in cui sarebbe stato il legittimo proprietario di quel terreno, di comprare dei cani da guardia.
«E perché scusa?»
Alfred non sembrava intimorito dalle sue parole, ma divertito, esattamente come quando si erano incontrati quello stesso giorno alla locanda, e Arthur era sicuro che tutta quella spavalderia sarebbe sparita presto, esattamente come quando si erano incontrati quello stesso giorno alla locanda e lui gli aveva sbattuto in faccia che era un analfabeta e che analfabeta sarebbe rimasto.
«Perché io ho intenzione di comprare questo posto e di venirci ad abitare.»
Alfred rise, e la sua risata era irrisoria e molto acuta, nelle pareti della camera rimbombò fino a dargli la nausea e a fargli desiderare ardentemente di essere abbastanza grande e grosso per poterlo strangolare con facilità.
«Questa è bella! Si dà il caso che questo terreno fosse di mio padre, e che adesso che lui non c'è più, è diventato tutto mio,
amico
«Sono disposto a comprarlo per cinque... Settecento sterline. È una bella cifra per una casa piena di tarli e un terreno incoltivabile.»
Suo padre si sarebbe cavato gli occhi volentieri e strappato le orecchie, se soltanto avesse saputo in che genere di acquisti suo figlio spendeva i soldi che lui guadagnava duramente, sapeva bene che Arthur non era portato per gli affari, che era un ragazzo capriccioso che non si dava per vinto fino a che non aveva tutto quello che desiderava e quando lo desiderava, era capace di rimanere in mutande e di dare tutti i suoi averi ad un perfetto sconosciuto, di mandare la compagnia in bancarotta e di lasciare la sua famiglia sul lastrico.
Ma Arthur aveva sempre ascoltato le sue ramanzine (che seguivano l'acquisto di qualche vecchio libro per trecentocinquanta misere sterline o qualcosa del genere) annuendo senza capire veramente, aveva imparato a memoria quando era il momento giusto per abbassare la testa, quello per chiedere scusa, o per ripetergli fino alla nausea “sì papà, non lo farò più, papà”. E poi, uscito dallo studio, si ingegnava alla ricerca di qualche nuovo affare, un pezzo di antiquariato, un libro pieno di formule di magia, un vecchio cappello che si diceva essere appartenuto a Francis Drake, ma che in realtà era stato trovato in qualche cantina ammuffita e poi rivenduto come uno strabiliante oggetto degno di museo.
«Mi spiace», disse Alfred dopo averci pensato un po', «Ma ho bisogno di un posto in cui vivere, e preferisco starmene qui e cavarmela da solo piuttosto che continuare a lavorare alla locanda.»
In un certo senso aveva ragione, perfino lui ogni volta si lamentava di dover dipendere da suo padre, dato che si era sempre rifiutato di far stampare i suoi libri e distribuirli in Inghilterra, convinto che non avrebbero avuto successo e che quindi era soltanto una inutile perdita di tempo.
«Ho capito», e questa volte dalle sue parole trasparì un accenno di delusione, «Io me ne torno in albergo, comunque.»
Gli avevano rubato dalle mani l'unica cosa per cui valeva la pena attraversare l'oceano in nave, se l'era visto scivolare via dalle dita come sabbia e non poteva farci niente, perché era sicuro che, anche offrendo di più, Alfred avrebbe sempre rifiutato.
Arthur si alzò in piedi e si sistemò il cappotto, faceva freddo e da qualche spazio tra gli assi della casa entrava una brezza gelida che gli aveva congelato le mani e il naso, era quasi primavera, ma la sera il clima era ancora quello del pieno inverno. Alfred si alzò subito dopo di lui, probabilmente se ne stava per andare tutto soddisfatto della sua mano ferma e dell'autocontrollo che aveva avuto. Invece poggiò una mano sulla spalla di Arthur e lo fermò.
«Non puoi andartene ora», disse, «Fuori è troppo buio e un eroe come me non può permettere che un povero vecchietto cada e si rompa la dentiera.»
«Tu non sei un eroe e io non sono un povero vecchietto, né porto la dentiera», rispose Arthur scostante, e guardandolo male, «Quindi me ne vado.»
La presa di Alfred sulla sua spalla si rafforzò per un attimo, mentre nei suoi occhi celesti Arthur vide un lampo di esitazione.
«E va bene, va' pure. Ma non venire a piangere da me strillando come una donnetta che ti sei sbucciato un ginocchio dopo essere scivolato.»
Arthur non rispose nemmeno, né salutò, il che fu preoccupante visto fino a che punto lui tendesse a esasperare le sue buone maniere, e uscì.
Fuori, come aveva immaginato dalla corrente di vento che circolava per la casa, faceva molto freddo, sentiva il sottofondo dei grilli e il rumore felpato dei suoi passi sull'erba umidiccia e sul terreno fangoso. Arthur sollevò il colletto del cappotto per coprirsi il mento e infilò le mani nelle tasche, sapendo già che tra poco, in quei sentieri ripidi tra le rocce, si sarebbe riscaldato per bene... Oppure sarebbe morto. Il cielo era tranquillo, non c'erano nuvole e sopra di lui si vedevano già le stelle. Percorse qualche metro con il mento rivolto all'insù, non riusciva più a distinguere i rami degli alberi dal cielo buio e non riusciva a vedere oltre una decina di metri, infatti tutto gli sembrò molto più inquietante rispetto a quando era arrivato. Si voltò verso la casa, e vide la superficie della luna specchiarsi sul lago immobile, le stelle scintillare anche nel loro riflesso e poi le due piccole costruzioni ingombrare un pezzo di pianura. Nella casa c'era ancora luce, segno che Alfred aveva intenzione di passare lì la notte, e adesso che Arthur si rendeva conto di quanto fosse buio e di quanto fosse difficile evitare di inciampare nelle radici degli alberi non lo biasimò. Arrivato all'inizio del pensiero pensò che forse doveva soltanto andare lentamente, e che non gli importava di arrivare in albergo nel bel mezzo della notte o quando era già mattina, perché doveva badare ad arrivarci intero. Ma quando dopo appena un paio di metri rischiò di scivolare o di spezzarsi il collo in una caduta magistrale che evitò soltanto con il supporto di un ramo sporgente, Arthur decise che non poteva fare altro che tornare indietro.
Girò i tacchi e guardò di nuovo la casa, con in bocca la consapevolezza amara di doverla dar vinta ad Alfred, dato che era stato costretto ad abbandonare i suoi buoni propositi di andarsene in albergo. E oltretutto aveva davanti tutta la notte in una catapecchia che, per quanto potesse essere bella in primavera, in quel mese era ancora piena di spifferi di vento gelido, con le assi del pavimento scricchiolanti e l'umidità praticamente su tutte le pareti. Adesso che doveva affrontare l'idea di passare una notte assieme a quello zotico di Alfred, Arthur cominciava a vedere soltanto gli aspetti negativi di quello che prima considerava un paradiso.
Sbuffò e bussò un paio di volte, dall'altra parte della porta c'era un silenzio tombale. Alfred gli stava giocando un brutto scherzo, oppure si era già addormentato, in entrambi i casi il suo comportamento non lo avrebbe stupito, dopo tutto Arthur sapeva perfettamente di dover avere a che fare con un ragazzino impertinente e cocciuto, che per di più non sapeva nemmeno leggere e scrivere. Un rumore di passi, di nuovo il silenzio e poi lo scricchiolio della porta che veniva aperta, Arthur si ritrovò a fissare il viso chiaro di Alfred, la sua espressione leggermente spaventata che si trasformava in un ghigno spavaldo.
«Sapevo che saresti tornato», disse dopo qualche secondo di smarrimento totale, gonfiando il petto come se fosse fiero delle sue previsioni che si avveravano, «nessuno sa restare lontano dall'eroe, quando fa buio.»
Arthur inarcò un sopracciglio, il che gli costò molta fatica, visto quanto fosse stanco e quanto fossero pesanti le sue sopracciglia, e continuò a fissarlo in maniera piuttosto scettica. Fino a un attimo prima Alfred sembrava aver visto un fantasma, quando aveva aperto la porta la sua carnagione era pallida come un cencio, quasi inquietante sotto la luce chiara e biancastra della luna. Lui invece, intrepido, aveva affrontato la foresta di notte, e le uniche cose che lo avevano spinto a tornare indietro, e quindi ad affrontare di nuovo quel cataclisma americano che era ben peggiore di lupi o di bestie d'altro genere, erano state il buon senso e il proposito di ritornare in Inghilterra tutto intero, un giorno o l'altro.
Eppure una volta aveva sentito di un tizio che in un terremoto era stato schiacciato sotto le macerie della sua casa, e quando l'avevano tirato fuori aveva tutte le ossa rotte e alcune che sporgevano sotto la pelle in maniera inquietante, e strillava contro tutti i suoi dipendenti affinché lo portassero in ospedale, perché lui stava morendo dal dolore, ma nessuno osava avvicinarsi, sia per paura di peggiorare la situazione, sia perché il padrone era sempre stato piuttosto violento nei loro confronti, e temevano che nonostante le varie fratture lui trovasse la forza di brandire il suo bastone contro di loro e lasciargli qualche livido impresso sulla pelle a memoria di quel giorno. A un certo punto era arrivato un vecchio indiano che lavorava nella sua tenuta, e senza dire una parola, dato che era cieco e sordo e con ogni probabilità anche muto, si era messo a sistemare le ossa del padrone che nel frattempo urlava per il dolore e malediceva a gran voce tutta la sua tribù a partire da lui, per finire ai lattanti ancora attaccati ai seni delle madri. Dopo tre mesi, il padrone passeggiava a cavallo e già frustrava quei mezzadri che oziavano nei campi o li minacciava con colpi di fucile sparati in aria.
Ma Arthur sapeva bene che, se fosse caduto e si fosse rotto tutte le ossa, le possibilità che Alfred andasse a cercarlo da solo nella foresta (al buio) erano remote, e che, se anche Alfred fosse riuscito a trovarlo, lui si sarebbe trovato davanti una sottospecie di cowboy rincitrullito e non un vecchio e saggio indiano, quindi, almeno quando ci fosse soltanto Alfred nelle vicinanze, doveva evitare fratture o incidenti di quel genere, perché conoscendolo non avrebbe potuto fare altro che peggiorare la situazione.
Adesso aveva davanti un sorrisetto un po' scemo, una ciocca di capelli che sfidava la forza di gravità e che lui avrebbe voluto tirare fino a far sanguinare il cervello di quel cretino (sempre che ne avesse uno) e i soliti occhiali mezzi storti.
«Non sono tornato di certo perché avevo paura», rispose Arthur, spostando Alfred in malo modo pur di passare ed entrare in casa, «non volevo sentire le tue urla da femminuccia dopo aver fatto troppa strada, tornare indietro sarebbe stato faticoso», e con questo ricambiò il sorriso di Alfred, che nel frattempo gonfiava le guance senza sapere che cosa rispondere.
Arthur notò una coperta lisa in un angolo della stanza, quello più lontano dalla finestra, e che Alfred aveva provato ad accendere il fuoco, consumando una dose spropositata di cerini senza riuscirci. In effetti faceva freddo, e bastava chiudere la porta perché nella camera ci fosse un buio quasi totale, quindi aveva buone probabilità di rompersi l'osso del collo anche lì dentro, se non trovavano un rimedio al più presto.
«Hai già finito tutti i fiammiferi?», chiese, inginocchiandosi davanti al camino ridotto a uno stato pietoso, perché lo strato di fuliggine era ormai diventato così spesso che era letteralmente impossibile scrostarlo dalle pareti e la cenere vecchia di chissà quanti anni faceva da base ad una legna ancora troppo umida per poter essere bruciata, probabilmente Alfred doveva averla tagliata quello stesso giorno.
«No», mormorò Alfred alle sue spalle, «me ne sono rimasti due.»
Dalla tasca dei pantaloni estrasse una minuscola scatola, in cui stavano sistemati due fiammiferi l'uno accanto all'altro, come se avessero freddo anche loro e stessero quindi cercando il calore reciproco. Alfred si inginocchiò accanto ad Arthur e glieli pose, fissandolo speranzoso. Dal suo atteggiamento, da quei tentativi disperati di accendere una parvenza di fuoco, da quella coperta gettata in quell'angolo, Arthur aveva capito presto che Alfred avesse paura del buio, o di restare da solo in una casa vecchia e desolata, o entrambe le cose. Alfred si fingeva forte, si fingeva quello che non era, ma non riusciva ad ingannare tutti, non lui almeno. In realtà in quel momento gli faceva quasi tenerezza (per quanto un bestione alto quasi due metri e con quella faccia da schiaffi potesse fargli tenerezza), Arthur lo guardava con la coda dell'occhio, mentre muoveva i fiammiferi e prendeva dalla sua vecchia tracolla un pezzo di carta da bruciare. Alfred aveva la lingua tra i denti e le mani serrate in due pugni che ogni tanto sbatteva contro le cosce, sembrava sperare con tutto se stesso che Arthur riuscisse ad accendere quel dannato fuoco, non per riscaldarsi, ma per avere almeno un po' di luce. Non sembrò notare il foglio che Arthur lasciò cadere sul pavimento, interamente scritto con inchiostro blu e con una calligrafia inclinata, elegante e ordinata. In effetti non se ne accorse nemmeno Arthur.
Quando nel camino comparve una piccola fiamma Alfred esultò di gioia, strillando qualcosa sui metodi obsoleti che usava Arthur, che era capace di accendere un fuoco in quel modo soltanto perché data la sua età era piuttosto vicino all'età della pietra. Arthur lo ignorò completamente e poggiò per terra la sua borsa, e si alzò in piedi.
«Dovrebbe durare un paio d'ore circa», disse, e la cosa fece deglutire Alfred e ritirare tutto il suo entusiasmo, «c'è poca legna, non si può fare altro.»
Alfred annuì.
«Va bene,
Artie. Ti posso chiamare Artie? Arthur non mi piace come nome, mi sa di persona antipatica e altezzosa... Anche se, ora che ci penso, tu sei piuttosto antipatico, Artie, e hai la puzza sotto il naso. Sicuro di voler restare qui? Ricorda che non hai nulla da temere, perché c'è l'eroe al tuo fianco, Artie. Tu come vuoi chiamarmi invece? Direi che Mister Jones possa andar bene, o Signor Jones, oppure Padrone, o altrimenti puoi chiamarmi come-»
«Facciamo che scelgo io come chiamarti, okay? Il tuo nuovo nome varierà da cerebroleso a idiota, oppure da svampito a cretino. Ogni tanto però potrei confondermi e chiamarti schifoso zotico, d'accordo? D'accordo.»
Alfred aprì la bocca per ribattere, ma Arthur parlò di nuovo.
«E facciamo che soltanto per questa notte io posso avere metà della casa», disse, prendendo un bastoncino di legno che era rimasto abbandonato accanto al camino, «questa è la mia metà della casa e quella è la tua metà della casa.»
Mentre lo diceva, la punta del bastoncino affondava nello strato di polvere, muffa e altri tipi di sporcizia che affollavano il pavimento, fino a che non si spezzo, e Arthur lo lanciò brutalmente nel fuoco.
«Buonanotte», concluse. E con questo afferrò la coperta che Alfred aveva usato in precedenza e la sistemò alla meno peggio sul pavimento, sdraiandocisi sopra, il più vicino possibile al camino, e usando il suo cappotto come lenzuolo. Sentiva Alfred camminare per la stanza e sbuffare, il rumore di un mobile che veniva aperto e che cigolava per la mancanza di olio e poi di nuovo silenzio. Doveva aver trovato qualche altra coperta da qualche parte e aver imitato Arthur.
Per quanto fosse stanco i rumori della notte non gli permisero di addormentarsi, ma Alfred doveva aver chiuso gli occhi già da un pezzo, perché riusciva a sentire il suo respiro regolare anche se gli dava le spalle. Guardò l'orologio, che segnava appena mezzanotte e sospirò.
Pensava a Peter e a sua madre, al suo vecchio college e alla storia che sognava di scrivere. Era una storia d'amore che, per quanto lui rinnegasse perché trattava un argomento così scontato, si ostinava a voler continuare. Parlava di una silfide, e del mago che viveva nella casa sul lago, ma ogni volta che i due si incontravano e che qualcosa doveva succedere, Arthur smetteva di scrivere. Quando le sue pagine si incentravano sull'amore, lui preferiva cambiare discorso e mettersi a scrivere un saggio sull'Iowa, o qualche racconto di magia ambientato alle radici di un salice piangente. Non era mai riuscito a scrivere sull'amore, forse perché non aveva mai provato in prima persona il privilegio di cui gli innamorati potevano godere. Aveva conosciuto qualche ragazza in qualche pub londinese, le belle ereditiere che gli presentava suo padre, aveva perfino provato a frequentare un paio di uomini, ma alla fine ogni storia si era conclusa allo stesso modo, e Arthur non ne aveva ricavato niente.
Probabilmente non era fatto per avere relazioni durature, oppure era nella sua natura non averne affatto. Arthur se ne convinceva sempre di più ogni giorno che passava, che lui non era tagliato per una vita reale, che la sua vera strada era quella dello scrittore, non di un uomo sposato, che tornava dall'ufficio con la sua automobile elegante e salutava la moglie sulla porta di casa con un bacio sulle labbra, prima di sedersi a tavola.
Mentre ancora ci pensava, e a questo punto si convinceva che non avrebbe mai scritto una sola parola, dato che dal suo cuore non poteva cavarne alcuna emozione, sentì il verso di qualche gufo che doveva essere nascosto proprio tra i rami degli alberi vicini alla casa. Era un rumore piuttosto lugubre, con quella “u” allungava che rimbombava tra le pareti di legno vecchio. Alfred lo sentì come lui, e si spaventò, sussultando nel sonno e svegliandosi. Ritenendolo un'inutile palla al piede già da sveglio, Arthur finse di dormire, perché non aveva il coraggio di intraprendere una conversazione con quello zotico a quell'ora della notte. Ma a dispetto di ogni sua aspettativa (o speranza) sentì il rumore dei passi di Alfred attraverso la stanza, veloci e concitati, era inciampato nella tracolla di Arthur e l'aveva raccolta per portarla con sé. Infine, mentre Arthur continuava a tenere le palpebre abbassate e a rimanere vigile, Alfred si sdraiò alle sue spalle, usando la sua borsa come cuscino.
Se avesse avuto un minimo di amor proprio, Arthur si sarebbe trattenuto dal sussultare e dall'emettere un verso incomprensibile che suscitò la curiosità di Alfred.
«Scusa», sussurrò,
«Non volevo svegliarti...»
Arthur si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse, ma non si mosse. Sentiva il respiro di Alfred contro la sua nuca, e andava lentamente calmandosi.
«Non mi hai svegliato.»
Alfred annuì. Non era più molto stanco, i rumori della notte era bastati a svegliarlo abbastanza da farlo rimanere con gli occhi sbarrati a fissare la sagoma della testa di Arthur e della sue spalle appuntite davanti a lui. Così da vicino la sua figura sembrava meno austera e antipatica di quanto in realtà non fosse, o forse era soltanto un'impressione dovuta al fatto che non lo stesse guardando in faccia.
«Perché dormi qui se hai paura del buio?»
C'erano tante cose che Alfred avrebbe potuto rispondergli, sempre che avesse voluto rispondergli, poteva raccontargli che di notte qualche ladro era solito entrare nelle abitazioni isolate, e anche in quelle semi distrutte, in quel caso, e rubare quel poco che trovava, che temeva che un temporale distruggesse quello che era riuscito a riportare in vita a costo di tanto tempo, di tanto denaro e fatica. Insomma, una bugia qualunque. E invece Alfred rimase in silenzio, ed emise un sospiro caldo che però fece drizzare i capelli sulla nuca di Arthur, infine parlò.
«Se voglio essere indipendente, devo essere forte», disse a bassa voce, «E se voglio essere forte devo affrontare quello che ho davanti e cercare di andare incontro al mio destino. Non so se tu riesci a capirlo... Ma ho bisogno della forza necessaria ad affrontare la mia strada e il mio futuro.»
Probabilmente le parole di Alfred non furono proprio le stesse, ma Arthur le registrò così. Senza fronzoli, senza giri di parole, era il suo pensiero sulla vita, un pensiero comune a molti che però aveva dimostrato in un momento che Alfred era qualcosa di più di un cameriere analfabeta.
Chiuse gli occhi e tenne a mente quella frase, e l'ingenuità con cui Alfred la pronunciò. Arthur non poteva mai immaginare che quelle stesse parole, un giorno, gli avrebbero cambiato la vita.






Forse aggiorno troppo lentamente, dovrei darmi una regolata!
Il problema non è scrivere, ma riuscire ad aprire internet ^^;;;; Infatti ho già molti capitoli pronti, tra cui anche il primo di una nuova long-fiction. :D
Beh, qui allora chiudo e ringrazio
Frances, smary, ichibanme_arisu, ran45, smoke_o, s_theinsanequeen, AlterNeko e eithriadol__ per le loro recensioni. <:

Ps: devo ancora ultimare la trama e sono indecisa se inserire anche Francis. Voi che ne dite?

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