A Year Without Rain

di BBV
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Prigione ***
Capitolo 2: *** Introducing Me ***
Capitolo 3: *** Sconosciuta ***
Capitolo 4: *** Lavoro d'arte ***
Capitolo 5: *** Scommessa ***
Capitolo 6: *** Stanca di te ***
Capitolo 7: *** Fuochi D'artificio ***
Capitolo 8: *** Questo ragazzo, quella ragazza ***
Capitolo 9: *** L'artista ***
Capitolo 10: *** Off The Chain ***
Capitolo 11: *** Come se non ci fosse domani ***
Capitolo 12: *** Buonanotte e Addio ***
Capitolo 13: *** Niente da perdere ***
Capitolo 14: *** Fratelli ***
Capitolo 15: *** Il mondo può aspettare ***
Capitolo 16: *** Liar, Liar ***
Capitolo 17: *** Nata per farti felice ***
Capitolo 18: *** Forse Domani ***
Capitolo 19: *** Un anno senza pioggia ***



Capitolo 1
*** La Prigione ***


Capitolo 1
"La prigione"




Urlare è suggestivo. Quando senti che l’unica cosa che può farti sentire meglio è far cantare le corde vocali, ti rendi conto che urlare è stimolante. Il sogno di ognuno di noi. Per i bambini è normale, per gli adolescenti è uno sfogo, per gli adulti è una follia. Per me, era una normalità sfogarmi follemente.

«Tu non capisci!», sbraitai. «Stiamo parlando del regno dei morti. Un posto che non preferirei neanche alla prigione». Kate proprio non ne voleva sapere di darmi ragione.

«Smettila di essere così melodrammatica. Potresti divertirti lì», cercò di consolarmi con un sorriso, feci finta di rabbrividire e scherzosamente le tirai un pugno sulla spalla. Mia madre fece la sua teatrale entrata in camera con un grosso sorriso stampato in faccia e mi ricordò che era colpa sua tutta quella storia.

«Le valige?», mi domandò.

«Le valige per l’inferno?», dissi avvelenata.

«Tesoro, non credo che una piccola città del Wisconsin possa essere l’inferno», mi rispose a tono. Mia madre mi somigliava molto in fatto di acutezza. Le piaceva essere ironica e usare il sarcasmo. Cose che avevo ereditato direttamente da lei. Solo che io ero una diciottenne facilmente irritabile e lei una trentaseienne con due figli adolescenti.

«Mamma, un posto dimenticato dal mondo è un inferno». Sottolineai mentre mi alzavo dal letto per chiudere l’ultima valigia.

«Bé, almeno non sarai sola », mi consolò Kate. Io e il mio ventenne fratello maggiore ci stavamo trasferendo momentaneamente a Longwood un piccolo paesino del Wisconsin dove viveva mio padre e la sua nuova vita: una moglie e due figlie. Era stata una decisione “famiglia” ma, punto primo: io non ero stata presa neanche in considerazione. Punto secondo: quale famiglia? Conoscevo molto bene il motivo di quella partenza. Si chiamava Victoria Hamilton, o meglio, mi chiamavo Victoria Hamilton. Per mia madre avevo bisogno di cambiare aria, perché rimanendo a New York non facevo altro che prendere strade sbagliate, frequentare le persone sbagliate, dedicarmi alle cose sbagliate, e lì adesso, non c'era più posto per me.

«Oh certo, avrò con me la compagnia di quel fallito di mio fratello». Ne avevo abbastanza della gente che cercava di trovare lati positivi al mio trasferimento temporaneo: loro non dovevano partire.

«Hey signorina, calma! Stai parlando pur sempre di tuo fratello», mi rimproverò la mamma. Shane era ciò che c’era di più simile ad una creatura irritante, egoista e presuntuosa. Era bello, purtroppo per il resto del mondo. Aveva i capelli scuri e due occhi verdi, ereditati dalla mamma. La sua pecca era essere incredibilmente inopportuno. Diceva cose che non doveva, nei momenti meno giusti. Insomma, era un fratello a tutti gli effetti. In un certo senso io gli somigliavo: avevo i capelli scuri, gli occhi però ereditati da mio padre, erano scuri. Avevamo entrambi un carattere…impetuoso. Un buon aggettivo per descrivere due teste calde. Ormai sicura di non avere vie di scampo, mi trascinai per il corridoio con l’ultima valigia. Al piano di sotto, c’era Garrett, il nuovo compagno di mia madre, un uomo troppo buono e onesto per il mondo, Shane, sangue del mio sangue, ultima categoria di intelligenza del genere umano, anche meglio conosciuto come mio fratello maggiore.

«Mostriciattolo, che hai? Non c’è posto per la tua chitarra in valigia?», rise di gusto, con i suoi soliti modi solari e allegri, che in quel momento erano la cosa più snervante che potesse avere.

«Sei un idiota, Shane!», sbraitai furiosa. Oltre il danno anche la beffa.

«Non vedo l’ora di conoscere le nostre sorellastre». E non c’è due senza tre. Mio fratello non aveva coscienza quando si trattava di ragazze, usava la malizia anche nei momenti più inopportuni. Come si può pensare a qualcosa di malizioso quando si parla di due sorelle acquisite e sconosciute?

«Shane, hanno undici e diciotto anni», disse mia madre seguita da Kate.

«Come hai detto che si chiamano?», mi chiese Kate mentre Garrett chiudeva il portabagagli dell’auto.

«Emma e Madison», trattenni una risata. Ma fu inutile perché Shane prese a ripetere i nomi e scoppiammo a ridere. Detestavo mio fratello, se avessi avuto l’occasione di gettarlo da un aereo in volo l’avrei fatto senza esitazioni. Ma era comunque mio fratello e c’era – purtroppo – quell’amore spontaneo che nutrivo per lui che non potevo negare. Sarebbe rimasto l’unico, perché io non avevo altro. Quelle due che mio padre considerava figlie, quella che lui considerava moglie, non avevano alcun legame con me. E mio padre, beh, lui lo aveva perso da molto tempo quel legame.

«Ma che razza di nomi sono?», ed ormai eravamo partiti in quarta.

«Per favore ragazzi non fate fare brutta figura a vostro padre!», ci rimproverò la mamma.

«Saremo due angioletti», Shane cercò di rassicurarla. Ma detto da lui era preoccupante. Arrivato il momento, salutai la mamma e la mia povera Kate.

«Come farò senza di te all’accademia, voce d’usignolo?», i suoi occhi cominciarono a luccicare e capii che era il momento di andare via, prima di cominciare a sentire veramente la tristezza.

«Sopravvivrai», l’abbracciai più forte di quanto mai avessi fatto e salii in macchina, dove Garrett ci avrebbe portati all’aeroporto. Mi sarebbe mancata l'intero stato di New York. Mi sarebbe mancata Kate, la mia prestigiosa New York Academy. Mi voltai a salutare un’ultima volta la mia felicità. In aeroporto passai il tempo ad ascoltare musica.
L’unica cosa che non poteva andare via dalla mia vita. Pensai e ripensai a quello che era successo prima di partire e a quello che sarebbe successo dopo. Era passato troppo tempo da quando avevo visto mio padre l’ultima volta e non ero sicura del modo in cui mi avrebbe guardata. Purtroppo quando perdi la fiducia di qualcuno, la perdi per sempre. Questo è quello che avevo imparato dalla mia famiglia. Okay, detto così sembra che io sia una persona un po’ troppo pessimista. Ma in fondo io sono una finta-pessimista. Mi piace giocare con la fortuna, sfidarla finché non mi porta qualcosa di buono. Se mi porta a qualcosa di buono.


"«Mamma! Non puoi mandarci lì, cosa ti è venuto in mente? Non posso crederci... è per la storia di Evan, vero? Non devo già soffrire abbastanza senza che adesso debba trasferirmi? Come farò con l’accademia?», ero furiosa. Adesso venivo spedita nel Wisconsin perché mi ero chiusa nel mio dolore, perché mia madre mi aveva definito "apatica". Se solo non fosse successo niente…la mia vita non si sarebbe ridotta Ma neanche per sogno sarei andata a Longwood!

«Ti prego Vicky, cerca di capirmi. Se ti lascio qui rischierai di prendere una brutta strada! E' meglio per te», si era giustificata esasperata.

«Mamma non farlo» Ma ormai era inutile, la decisione era stata presa."



Mi risvegliai. «Vicky, hey senti.», la voce di Shane mi riportò sulla terra lasciando che il solito ricordo ridiventasse un velo di trasparenza.

«Non chiamarmi così, sai quanto lo detesto», mi stiracchiai i muscoli, sbadigliai più di una volta. La schiena era a pezzi e a malapena riuscivo a muovere il collo. Tutta colpa dei sedili scomodi.

«Victoria», sottolineò prima di continuare, «Volevo dirti che, anche se proverai ad ammazzarmi durante il soggiorno a Longwood, e io cercherò di renderti ridicola sempre e comunque…so che significa per te questo viaggio, e se vuoi qualcuno con cui parlare…», mantenne il suo tono teso e serio, che non capitava spesso tra le sue labbra.

«No, ti prego, no. Non parlare così, questi momenti sdolcinati lasciali ai film», scherzai. Eppure mi sentii meglio nel sapere che il mio fratellone era con me. D’altronde era colpa mia se adesso stavamo passando dall’altra parte dell’America per chissà quanto tempo.

«Facciamo così…se avrai bisogno di me basterà una frase in codice. Che ne pensi di: “Shane sei bellissimo, il migliore fratello in circolazione”?».

«Preferirei farmi tirare il sangue», risposi ridendo. Papà ci venne a prendere fuori all’aeroporto, in divisa, come da tanto tempo non lo vedevo.

«Vicky, Shane!», ci corse in contro con i suoi modi sempre composti ed eleganti abbracciandoci entrambi come se fossimo due bambini.

«Papà, ti prego non fare così», appena pronunciai quelle parole, mi ricordai mia madre.

«Scusa», si staccò lentamente e prese a fissarci come un padre orgoglioso che rivede i figli dopo tanto tempo. Gli brillavano gli occhi.

«E’ da molto che non ci vediamo ed ho voglia di dirvi molte cose, ma tra un’ora devo lavorare e credo che riuscirò solo a portarvi a casa e presentarvi alle ragazze», alzai gli occhi al cielo ed ignorai le occhiatacce di Shane. Sorridevo a mio padre forzatamente, voltavo il viso ogni volta che lo trovavo a fissarmi, sbuffavo appena se ne usciva con quelle frasi sdolcinata a cui non credevo. Feci per attraversare la strada per dirigermi verso la Mercedes di papà, quando sentii il rombo di un motore e mi voltai giusto in tempo per vedere quanto fosse vicino a me. Una moto – a cui ero incapace di dare un nome tantomeno una marca –mi sfiorò le gambe e per un pelo, non mi investii. Il ragazzo sulla moto, irriconoscibile, si era a malapena accorto di me ed aveva continuato a correre come un pazzo per le strade di Longwood. Che diavolo avevano contro di me, quel giorno? Shane mi tirò per il gomito più spaventato per la reazione che avrei avuto che per il quasi-incidente con la moto, che incurante della mia incolumità si era volatilizzata.

«Tutto bene?», chiese mio padre. Annuii e diedi un calcio carico di energia alla valigia.

«Non posso crederci. Shane qui c’è gente più idiota di te!», sbuffai con i nervi al massimo. In macchina poggiai la testa al finestrino fissando il panorama. Longwood era un bel posto, esteticamente parlando. C’era il mare, il sole e in estate, c’era anche il luna park. Ma essendo un paese minuscolo di poco più che 4500 persone, la gente parlava e parlava, una cosa che io non riuscivo ad accettare. Ero una ragazza di città cresciuta a New York, avevo la mia giustificazione. La casa di papà era a due passi dal mare, grande –molto più della nostra – e soprattutto ariosa. Le finestre grandi e trasparenti lasciavano intravedere il piano terra della casa. E quella trasparenza dava alla casa un aspetto moderno, ma anche molto elegante. Niente a che vedere con gli appartamenti di Manhattan, o i palazzi di New York City. Quando arrivammo finsi uno dei miei migliori sorrisi e mi preparai ad essere la vecchia Victoria.

«Eccovi! Non sapete da quanto tempo aspetto questo momento», Norah, la seconda moglie di papà, era una bella donna. Capelli biondo cenere, occhi grigi, alta con un fisico atletico. Aveva stampato un grosso sorriso sul viso e un espressione di costante beatitudine. Da una parte, era molto simile alla mia mamma: forse era una cosa da mamme. Ci accolse come se fossimo la gioia più grande della sua estate e ci fece entrare. Cominciai ad agitarmi a causa di tutta quella felicità senza senso e presi a fissare il polsino sul braccio sinistro. Gli interni della casa erano formati da un arredamento rigorosamente colorati e gli accessori rigorosamente, bé…colorati. Era palese che in quella casa ci fosse una maggioranza femminile effettivamente eccentrica.

«Emma, Madison, forza scendete!», urlò Norah. «Venite, dovete essere stanchi, lasciate a vostro padre le valige», seguii Norah nel soggiorno seguita da Shane e due ragazze che scendevano le scale. «Eccoci mamma», disse raggiante la prima.

«Emma, Maddie questi sono Shane e Vicky», ci presentò sempre con lo stesso entusiasmo.

«Victoria», la corressi. La ragazza più alta, probabilmente Emma, doveva avere la mia età. Era identica a Norah, bionda e occhi chiari, solo più giovane. La più piccola, Madison aveva gli occhi e i capelli più scuri e un bel sorriso infantile. Due bamboline.

«Ciao», disse Emma. «Com’è andato il viaggio?».

«Bene», rispose immediatamente Shane. «Ragazzi, adesso devo scappare a lavoro, per qualsiasi cosa ci sono Norah e le ragazze. Ci vediamo stasera», mi diede un bacio sulla guancia frettolosamente e scomparve, non mi aveva neanche dato il tempo di scansarmi dal bacio.

«Avete bisogno di una mano?», chiese Emma rivolgendosi a me.

«Puoi dirmi qual è la mia stanza?», chiesi in quel che si chiama modo gentile. Madison ridacchiò e Emma fece segno di seguirla.

«Stanza?», ripeté, «Tu dividerai la camera con me. Sai, la casa è grande, ma in realtà abbiamo solo una camera per gli ospiti e visto che Shane è l’unico ragazzo abbiamo pensato che era meglio darla a lui…», mi spiegò un pò intimidita dal mio sguardo. Scossi la testa più volte.

«Forte…ehm…per caso nella tua camera c’è anche una finestra dove buttarsi?», chiesi pungente.

«Vicky», Shane mi riprese ancora. “Vicky. Vicky. Basta! Io mi chiamo Victoria”, avrei urlato al mondo se i miei problemi non fossero stati altri. Ero a Longwood per dimostrare che ero una persona comune, responsabile e in grado di badare a sé. Avevo diciottoanni e se non riuscivo a dimostrare di avere tutti i requisiti, mi avrebbero rinchiusa da qualche parte. Emma seguita dalla silenziosa Madison, mi mostrò la sua grande e colorata camera. Perlomeno, avevo abbastanza spazio per me. La camera era già attrezzata di un secondo letto sotto la finestra e vicino al baule di peluche. I muri erano tappezzati di foto…di persone sconosciute a me. Ed io che sognavo ancora sui poster di Di Caprio e Jhonny Depp. «Se vuoi togliere qualcosa, non so…se ti da fastidio, fa come se fosse la tua camera», questo, però, non avrebbe dovuto dirlo, o l'avrei presa davvero in parola.

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«Noi andiamo a fare due passi», dissi a Norah. Senza aspettare che rispondesse trascinai fuori Shane con la forza. Ero uscita come una furia da quella casa, per paura di poter avere una crisi di nervi avanti a persone che non conoscevo.
L’aria di Longwood era…estiva. A New York era molto più difficile riuscire a sentire l’estate sulla pelle. Era una città troppo caotica per poter distinguere una stagione dall’altra. In inverno, in estate, in primavera e in autunno, facevo le stesse identiche cose. Non ero affatto abituata ad andare al mare in estate, nei parchi in autunno o in montagna in inverno. Io andavo ovunque, sempre. Camminavamo silenziosi sul lungomare già lontani da casa. Il mare brillava al sole, noi, con quegli abiti così scuri, neri e viola, non passavamo inosservato come mi sarebbe piaciuto. Tutti continuavano a fissarci. Era così evidente che venivamo della città? Nascosi gli occhi tra le ciocche di capelli neri e mi feci piccola vicino a Shane. Arrivati ad una piazzetta affollata, qualcosa catturò la mia attenzione. C’era quella moto. Blue e luccicante Sembrava luccicare lì per me e dire: “distruggimi”.
Lo so, sembra che io soffra di disturbi di personalità, ma in realtà è molto più semplice. Mi piace fare la difficile.

«Hey Shane», indicai il mezzo. «Quella è la moto che mi ha quasi investita», dissi maliziosa. Aspettai qualche secondo per lasciare che la mia testa elaborasse qualcosa. Infatti, la mia testa già stava macchinando, a dispetto della mia coscienza, un modo per riscattare quel irritante incidente. Era stuzzicante.

«Hai una moneta?», disse pensierosa.

«Che vuoi fare, Vic?», domandò serio, preoccupato che io potessi procurarmi qualche problema già dal primo giorno di permanenza. Non ero un tipo a cui piaceva passare i guai, di solito era ai guai che piaceva stare con me. Ero una persona tranquilla, vivevo in un bolla di sapone, ma se qualcuno entrava nella mia bolla di sapone non la lasciavo più uscire.
Veloce e indolore, con un penny piuttosto consumato, rigai lasciando un lunga e stridula striscia, molto evidente, sulla preziosa moto. Era solo un piccolo, insignificante – forse un po’ doloroso – graffio sul blu lucido del motore. Non ero certo soddisfatta di me, rigare una moto cinque minuti dopo essere arrivata in un paese non era una cosa di buone maniera, però…

«Hey! La mia moto!», un grido distolse il mio sguardo e la mia attenzione dall'accurato segno che avevo lasciato sulla moto. Mi voltai lentamente e in modo meccanico, giusto in tempo per capire che l’urlo furioso che veniva da dietro le mie spalle era rivolto a me. Oops.


Fine primo capitolo.



Salve, se state leggendo qui, vuol dire che avete letto il primo capitolo di questa storia e spero che vi sia piaciuto. E' una storia sull'amore, una storia sulla sconvolgente vita che può avere un'adolescente. E' una storia sulla musica, è una storia come le altre che può diventare speciale per qualcuno. Sarebbe un orgoglio sapere se c'è qualcuno a cui è piaciuto, perciò aspetto i vostri giudizi e le vostre critiche. Grazie mille per l'attenzione. BBV

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Capitolo 2
*** Introducing Me ***


Capitolo 2

 "Introducing me"


 



Mai e poi mai avrei pensato di arrivare scontrarmi con un insolente ragazzaccio del posto. La mia idea di soggiorno a Longwood prevedeva una solitudine immensa, tanta musica e poche persone attorno a me. Eppure non ero lì da neanche qualche ora che già stavo per litigare con una persona. Eppure non provai disgusto nel trovarmelo davanti. Eppure…ne ero addirittura catturata. Kate me lo diceva sempre: ero la regina dell’incoerenza bella e buona.

Il ragazzo aveva l’aspetto del classico tipo di un piccolo paese. Una specie di bello del posto, ci avrei giurato. Ma era davvero bello. Era alto una decina di centrimetri in più a me, biondo, aveva due occhi che detestavo solo per essere così perfetti. Blu. Preziosamente e deliziosamente color cielo. 

 

«Si può sapere cosa ti è passato per la testa ragazzina?», il ragazzo mi spinse di lato bruscamente, e toccò con attenzione, la striscia visibile che avevo lasciato sulla sua moto.

 

«Te lo meriti!», presi fiato. «Prima mi hai quasi investita». Arrivati a quel punto, le mie giustificazioni non mi sembravano più così giustificate. E quel ragazzo non sembrava affatto in vena di giocare.

 

«Hey, vacci piano con mia sorella, è solo un graffio», Shane sembrò alterarsi e avanzare di qualche passo, ma non gli avrei permesso di passare i guai per colpa mia, perciò lo fermai subiyo. Il ragazzo, con lo sguardo torvo, si voltò verso Shane, lo fissò qualche minuto poi si guardò intorno come se fosse senza parole. Come se stesse guardando due alieni. Fu la cosa più irritsnte che avessi mai visto nello sguardo di un ragazzo.

 

«Ma da dove venite voi?», sbraitò sdegnato il ragazzo. 

 

«Senti, mi dispiace per il brutto segno, mia sorella è piuttosto… nervosa oggi». Shane, con una calma che non apparteneva neanche a lui,  cercò di colmare la rabbia di quel ragazzo. Non ci vedevo niente di male in quello che avevo fatto. Okay, non era il massimo dell’educazione e della giustizia, ma era solo una moto. Quanto poteva essergli cara?

 

«Non me ne faccio niente delle vostre scuse», gli occhi da blu chiaro del ragazzo si incupirono fino a diventare due pietre scure. La situazione mi stava scivolando dalle mani ed io non sapevo decidermi sul da farsi. La mia testa sbuffò, non doveva essere affatto facile farmi da coscienz, ma poco mi importava, ignorai i pensieri che mi invitavano a scusarmi chiudendo la questione. Io non l'avrei mai fatto.

 

«Smettila di fare il prezioso, è solo una stupida moto», ribadii sotto lo sguardo, ormai sconfitto, di mio fratello. Era evidente che io tentassi di nascondere il disagio e che lui tentasse di non uccidermi.

 

«Adesso basta, chiamo la polizia», appena sentii quelle parole, un po’ arrabbiata e divertita, cercai di nascondere quel pizzico di paura che avevo del cacciarmi nei guai per l'ennesima volta.

 

«Okay, visto che ti trovi, mi passi mio padre?», risposi arrogantemente. La mia frase bloccò a metà il biondino che alzò, lentamente –per la prima volta-, gli occhi su di me. E rimase in silenzio, a fissarmi. Cambiò immediatamente espressione appena mi guardò, sul suo volto si aprì uno strano sorriso.

 

«Come hai detto che ti chiami?», spezzò il silenzio, sfacciato. 

 

«Non te l’ho detto», incrociaci le braccia alzando il viso. «Non è mai stato nei miei interessi dirtelo».

 

«Lo sai che se vuoi evitare dei guai per quello che hai fatto, dovresti almeno provare a convincermi a non farlo…», i suoi toni, da furibondi erano passati a maliziosi e sensuali. Maledettamente affascinante quanto stupido, in quanto credeva veramente che sarei svenuta a terra dall’emozione. L'unico motivo per cui sarei svenuto era il caldo di Longwood, niente di più.

 

«Chiama pure la polizia, lo preferisco», lo sfidai ancora. Era insopportabile cercare di detestare qualcuno che ti attrae in modo così snervante.

 

«Lasciala perdere, sta scherzando», si intromise mio fratello – di cui mi ero veramente dimenticata -,«Sono convinto che mia sorella si scuserà con te, ma non mettiamo in mezzo la legge, okay?». La situazione stava prendendo una piega strana. Mio fratello e quello strano, affascinante quanto irritante ragazzo cominciarono a parlare più tranquillamente, come se fosse scaduto il tempo di rabbia concesso a due maschi della loro età. Chi le capiva quelle cose tra ragazzi?

 

«Sono Nathan», disse il biondo.

 

«Shane», rispose senza più quell'alterazione che prima mi aveva sorpresa.  Quando entrambi si voltarono verso di me, capii che era il mio turno.

 

«Non ho intenzione di dare i miei dati personali ad una persona che mi ha quasi uccisa», borbottai acida.

 

«Tranquilla, non ho bisogno di sapere il tuo nome», mi rispose Nathan, «Non è a quello che mi servi». Era sconvolta dalla sfacciataggine di Nathan, se non fosse stato così maledettamente bello, probabilmente l’avrei schiaffeggiato senza pensarci due volte.

 

Mi avvicinai a lui, sicura di volergli tirare un pugno in faccia e lasciargli il segno, ma venni fermata dalle mani di Shane, proprio quando le mie mani stavano per attaccare quella bella faccia.

«Suscettibile e irritabile?», rise divertito.

 

«Io sono sempre suscettibile e irritabile», urlai ironica.

 

«Scusala di nuovo, Nathan. Deve ancora ambientarsi»,con un unico gesto mi spinse lontano dal biondo con un occhiataccia. Era il momento di calmarsi e ragionare come una persona civile. Eppure come avevo voglia di riempirlo di calci e pugni.

 

«Scherzi a parte», esclamò. «Se non vuoi che ti faccia passare qualche guaio –perché ti assicuro che posso- sarà meglio che mi aiuti a riparare la mia moto», replicò serio portando un dito sul graffio lungo e sottile che aveva cancellato la vernice blu.

 

«Cosa sei, una specie di figlio di papà del luogo?». Alzò gli occhi al cielo più divertito di quanto dovesse, poi riportò i suoi occhi su di me, mi scrutò ancora un po’ in modo insistente e eccessivo, e riprese la parola.

 

«Oh si, avrò proprio bisogno di una mano», avanzò di qualche passo verso di me, in modo inquietante da farmi rabbrividire.

 

«Sicura che non vuoi dirmi il tuo nome?», mormorò ancora una volta, sfidandomi con gli occhi. Voltai le spalle per chiarire il “no”, e per interrompere quello sguardo tenace e forte su di me.

 

«Allora, credo che ti chiamerò sconosciuta. Ti piace?».

 

---------

 

«Te la sei cercata. Glielo devi», mi aveva rimproverata Shane una volta a casa. Eravamo tornati un’ora dopo lo spiacevole incontro con Nathan, il ragazzo che mi aveva quasi investita con la stessa moto che gli avevo rovinato. Lo so, potrei scrivere un libro con quello che ho detto.

 

«Ma se neanche lo conosco, con quale coraggio manderesti la tua piccola sorellina a lavorare con uno sconosciuto che l’ha quasi investita?», mormorai scoraggiata portando le mani alla testa. Sentivo il sangue salire e scendere come in una giostra, in giro per il mio corpo.

 

«Sono convinta che la mia piccola sorellina», rimarcò. «Saprà come cavarsela. Devi solo aiutarlo a riparare la moto, quanto tempo ci vorrà?», mi rassicurò. Sospirai  e ancora arrabbiata seguii la strada verso la mia camera. Anzi, la  camera condivisa con Emma. Quando entrai la stanza non era vuota. Emma era in compagnia di un’altra ragazza dalla carnagione scura e gli occhi chiari, ridevano e mormoravano sottovoce nomi a me sconosciuti, ma si interruppero appena si accorsero della mia presenza e probabilmente anche della mia faccia stravolta.

 

«Hey Victoria, tutto bene?», mi chiesero. Annuii senza particolari cerimonie, gettandomi a peso morto sul materasso coperto da delle lenzuola rosso fuoco. Studiata attentamente, era piuttosto eccentrica come camera: i contrasti tra i colori erano stravaganti. Non fraintendetemi, era forte vedere quegli schizzi di colore, faceva molto “anticonformista” ma…era nuovo per me.

E tu che sei abituata alle pareti bianche, pensai.

 

«Ehm…ti va di fare due chiacchiere?», mi chiese una voce intimorita. Emma e la sua amica erano sedute a gambe incrociate sul suo letto, rivolte verso di me, con due grandi sorrisi amichevoli che mi fecero sentire in colpa. Ero stata così maleducata, specialmente verso Emma. Lei non aveva niente contro di me. Il problema ero io: il fatto che si fosse preso mio padre e che lei potesse crescere con una figura paterna al suo fianco, non l’aiutava, ma non ero così incosciente da prendermela con lei.

 

«Certo», risposi dolcemente mettendomi a gambe incrociate sul mio letto e rivolgendogli un piccolo sorriso che a loro parve come un lascia passare per un inquisizione.

 

«Hai già fatto un giro?», annuii ricordando lo spiacevole incontro con Nathan-bello-quanto-odioso. In un certo senso, mi piaceva ricordare la sua smorfia quando aveva visto l’auto, ma anche l’espressione maliziosa che aveva assunto quando mi aveva guardata.

 

«Non sono andata molto lontano in realtà», spiegai gesticolando. «Io e Shane ci siamo limitati a passeggiare sul lungomare», e ci era bastato.

 

«Hai portato qui il tuo ragazzo?», domandò la ragazza accanto ad Emma, sorpresa.

 

«Uh? No…che schifo. Shane è mio fratello», risi tra il disgusto e il divertimento.

 

«Scusami. Ancora non vi ho presentate. Hilary, lei è Victoria, mia sorella», pronunciò tanto elettrizzata, come se fosse desiderosa di avermi lì con lei. Non aveva neanche la più pallida idea di cosa aveva acquistato.

 

«Wow. Ancora non posso credere che hai una sorella, carina e della tua età. Avrai concorrenza Em». Disse tutto d’un fiato Hilary, elettrizzata.

 

«Smettila Hil», sussurrò Emma, improvvisamente rossa in viso. Risi e mi scusai subito della mia indelicatezza, mentre loro mi seguivano a ruota senza troppi problemi. Mi sentii quasi a mio agio.

 

«E così…vieni dalla Grande Mela?», domandò Hilary con tono calmo a contrasto con i suoi occhi che fremevano per qualche informazione. Mi ero dimenticata della smania di sapere per gli abitanti dei piccoli paesi.

 

«Già, New York», annuii imbarazzata. Non volevo sembrare asociale ma non sapevo che altro aggiungere.

 

«Sei fidanzata?».

 

«Hil, ti prego. Non farle un interrogatorio. E poi che razza di domande fai?», la rimproverò Emma. Mi sentii in dovere di parlare e raccontare qualcosa senza troppe domande.


«No, non più. Per venire qui ho dovuto lasciare il mio ragazzo. Odio questo posto anche se sono qui da meno di ventiquattro ore. Ho un fratello di vent’anni, anche se più che fratello è un idiota patentato senza uno straccio di vita privata. Frequento, anzi frequentavo, la New York Academy, amo le patatine fritte, detesto il mare. Va bene così?», chiesi con troppa enfasi dimostrando di essere infastidita dai gossip. Avevo rovinato di nuovo un tentativo di gentilezza verso gli altri.

«Scusate, sono solo un po’ stanca», aggiunsi. «Sono arrivata qui e ho già avuto un brutto incontro. In realtà non faccio sempre così», sospirai sincera. Era tutta colpa di quella stupida giornata. La partenza, la moto che mi investe, il ragazzo bellissimo che mi minaccia di farmi passare altri guaio oltre a quelli già ho. Non ero stressata senza motivi.

 

«Ehm…tuo fratello è un idiota carino. Oppure un idiota e basta?», chiese a bruciapelo Hilary, sotto lo sguardo intimidatorio dell’amica.

 

«Non c’è bisogno che ti scusi. E’ naturale. Io non avrei mai retto una cosa del genere», mi sorrise Emma. Il giorno dopo avrei dovuto ringraziarla.

 

«Ascolta. Stasera ci sarà una cena un po’ speciale per il vostro arrivo. Non sarà una festa in perfetto stile New York, ma sarà una normale cena senza genitori. Ci saranno alcuni nostri amici che ci terrei a presentare a te e a Shane, sempre se sei d’accordo». Conoscere persone era l’ultima cosa di cui avevo bisogno, ma non avevo il coraggio di rifiutare.

 

 «Certo, perché no?». Qualche minuto dopo mi dissero di volermi lasciare riposare un pò e sistemare le mia valige.

 

Nello stesso momento in cui chiusero la porta della camera, scoppiai a piangere nascondendo il viso sotto un cuscino. Non ero sicura del motivo per cui dal mio viso scendevano vere e proprie lacrime, ma sapevo che non avrei mai avuto una reazione del genere avanti a qualcuno. Durante gli ultimi due mesi avevo passato un bel po’ di guai, avevo trasformato lo stress in una forma di ribellione. Erano successe molte cose, tutte in fretta, senza che me ne potessi rendere conto. Forse Longwood mi avrebbe fatto davvero bene, forse sarei riuscita a riconoscere i miei veri sbagli, forse avrei trovato il coraggio di parlarne con qualcuno.  Era come se avessi perso i miei obbiettivi, ed avevo bisogno di fare la cosa giusta.

 

Quel giorno era stato un completo disastro, ma mia madre mi aveva insegnato a guardare le stelle e continuare ad essere positiva alla faccia della mala sorte, ma le stelle non erano ancora visibili ed ero troppo, troppo stanca per sperare. 

 

«Toc Toc. Posso entrare o sei in intimità?», la voce ovattata di Shane interruppe il mio sogno qualche ora dopo. Avevo dormito tutto il pomeriggio e nonostante mi sentissi indolenzita, non ero più stanca.

 

«Entra Shane», e spalancò la porta senza farselo dire due volte. All’inizio non mi degnò di uno sguardo, troppo impegnato a analizzare la stravagante camera da letto.

 

«Sei capitata proprio bene», sorrise di scherno. «Che ci fai nel letto, vestita ancora così? Non mi starai diventando apatica?», sussurrò spaventato e divertito. Lo guardai con più attenzione e capii perché mi stesse rimproverando. Indossava i suoi jeans migliori, una camicia blu e un gilet grigio, e i capelli perfettamente curati dalla gelatina. 

 

«Devi andare da qualche parte?». Mi rispose con uno sbuffo.

 

«Pensavo che Emma te l’avesse detto», ribadì.

 

«Oh, si. Gli amici», saltai dal letto cercando un orologio che mi desse un orario su cui basarmi. Il cerchiò sulla parete segnava le otto e mezza.

 

«Anche se non lo da a vedere, Emma ci tiene molto. Mi sa che siamo diventati la maggior attrattiva del paese, e chi più di lei può esserne contenta?», rise di gusto. Aveva una capacità a divertirsi ,anche quando era meno opportuno, da invidiare.

 

«Ora dovrò trovare qualcosa da mettermi», Shane alzò di scatto le mani in segno di resa e cominciò ad indietreggiare. «Okay, non contare su di me. E’ arrivato il momento di andare, ci vediamo tra un ora al piano di sotto», esclamò frettolosamente fino a scomparire dalla stanza tanto velocemente quanto era entrato. Bastava parlare di qualcosa di più femminile che si dileguava in pochi secondi neanche avessi invocato il Diavolo in persona. 

 

Maledii, sbuffai più volte verso qualcosa di inesistente, in modo da non sentirmi colpevole verso qualcuno, ma non era così divertente come prendere a parolacce Shane.

Pettinai con cura i capelli lasciandoli sciolti, indossai, senza troppo riguardo, dei pantaloni di raso neri ed una semplice camicia a quadri: non stavo di certo andando al ballo di fine anno, giusto? Sbuffai e pensai a Kate, la mia piccola e indifesa amica e la sua eterna indecisione. Come avrebbe fatto senza di me? Ed io come avrei fatto senza di lei? Già c’era un vuoto nel nostro cuore, se ci si metteva anche la nostra lontananza poi…la nostra amicizia non sarebbe durata. Forse avrei dovuto chiederle di raggiungermi per un weekend, o viceversa. Non potevo permettermi di perdere anche lei.

 

«Vicky, scendi…devi vedere», venni letteralmente rapita da mio fratello in fretta e in furia verso le nove di sera, quando il sole  in piena estate era a malapena tramontato.

 

«Shane ho due gambe anch’io», gli urlai per le scale, irritata dal suo solito comportamento infantile. Dei vent’anni che aveva ne dimostrava solo dieci di cervello.

 

«Bene, spero tu abbia anche due occhi per vedere questo…», mi fece inciampare per l’ultimo scalino e mi indicò il soggiorno, dove c’erano sei ragazzi tra cui Emma e Madison.

 

«Sorella, fratello, venite vi presento i miei amici», prese la mano molto più dolcemente di quanto aveva fatto Shane e raggiungemmo i suoi amici. «Lui è Scott, ma puoi chiamarlo Scotty», diedi la mano ad un ragazzo basso e pallido con un sorriso timido ma un aria decisa. 

 

«Lei invece è Carmen», mi indicò una bella ragazza dalla pelle olivastra, probabilmente di origini messicane. Ci scambiammo un semplice sorriso.

 

«Quest’impicciona invece, già la conosci», Hilary mi fece l’occhiolino e dopo avermi lasciato un bicchiere di carta pieno di coca cola, partì subito in quarta a salutare Shane. Ne avevo contate sei di persone ma esclusa Madison, ne mancava ancora una. Non feci in tempo a girare lo sguardo che Emma mi aveva già lanciato verso un angolino della stanza per presentarmi ancora una persona.

Non importava la reazione, non importavano i miei occhi sbarrati o il mio corpo immobile. Non importava perfino che mi stessi versando la coca cola sulla maglia. Lì c’era Nathan, il ragazzo della moto. Quello importava.

«Mia nuova sorellina, ti presento Nathan. Il mio ragazzo».



Fine Secondo Capitolo.



Ringrazio i commenti, le visite, ringrazio chi ha letto. Il solo pensiero mi eletrizza, perché è molto importante per me che abbiate letto anche solo per curiosità il primo capitolo, e che vi sia piaciuta o anche no. Spero che mi facciate sapere anche il vostro punto di vista e cosa ne pensate di questo inizio della storia. E... non fate caso se a volte vi lascio con una frase senza senso presa da una canzone. Sono fatta così: amo la musica e colgo sempre l'occasione per dimostrarlo.

 


fataflor:
Ciao! Grazie a te, per aver letto questa storia e averla commentata. Si, Vicky è un bel personaggio, e riguardo a Shane, spero che ti sorprenderà, visto che è un bel punto di riferimento e un punto forza per la mia storia! In realtà, sarei felicissima se ti appassionassi a "A Year Without Rain" Fammi sapere se ci riesco! Grazie per i tuoi complimenti, anche sulla mia scrittura!

DreamsBecomeTrue:
Ciao! Grazie mille per il commento che hai lasciato. Sono contenta che tu ti riveda in Vicky e che  ti abbia colpito, perché il personaggio che ho "creato" è davvero forte. Una persona, sotto molti aspetti, davvero invidiabile, ma che prima di riconoscere la sua forza, ne deve combinare ancora tante! Riguardo al suo caratterino, Bé, in un solo capitolo hai già centrato le prima impressioni che può dare.

P.S: Sono contenta che il protagonista maschile ti abbia "colpito" solo dall'immagine.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Sconosciuta ***


 

Capitolo 3
"Sconosciuta"

 



 

Mi aveva spaventato la mia stessa reazione. Non potevo esserci rimasta così male. In realtà si, mi aveva sorpreso scoprire che quel bellissimo e arrogante ragazzo, fosse il bellissimo e arrogante ragazzo di Emma, ma non potevo essere addirittura dispiaciuta per questo, non ce ne era motivo. Ma le cose si complicavano. D’altronde era lui che dovevo aiutare ad aggiustare la moto che gli avevo rovinato, probabilmente conosceva benissimo mio padre, e grazie ad Emma avrebbe potuto sapere il mio nome. Oh diavolo, Vic!, urlai alla me stessa nello specchio del bagno. Mi ero impuntata, peggio di una bambina, che Nathan non dovesse sapere il mio nome, che non dovesse sapere niente di me. In pochi minuti mi aveva già trovato un altro nome molto più interessante. Sconosciuta. E in un certo senso, preferivo rimanere chiusa in un guscio invece di dover ripetere sempre le stesse cose: mi chiamo Victoria, vengo da New York, ho diciotto anni. Per una volta avrei voluto giocare.

 

«Ciao sconosciuta», una grande sorriso beffardo ed arrogante si aprì sul suo volto. Era indiscutibilmente meraviglioso, perché a dispetto del suo atteggiamento presuntuoso, avevo notato in lui un sorriso quasi infantile, dai tratti dolci e angelici. Ma forse era stato solamente un abbaglio.

 

«Nathan, vi conoscete?», gli aveva domandato Emma nascondendo un pizzico di sorpresa.

 

«Non proprio», rispose indifferente con un disprezzo, degno di un ragazzo presuntuoso e freddo.

 

Sembrava meno altezzoso di quanto si fosse presentato quel pomeriggio, con quel sorrisetto da schiaffi e il tono da bambino viziato, nonostante tutto, lui era lì e non ero affatto contenta.
 Mi voltai di scatto lasciando Emma al suo ragazzo, e con passo rallentato raggiunsi Shane, ancora sconvolta. 

 

«Tu lo sapevi?», lo tirai per un gomito portandolo dall’altra parte della stanza, dove non c’era nessuno e potevamo bisbigliare senza essere fissati.

 

«Ah, l’hai visto», sorrise compiaciuto, quasi si stesse divertendo di quell’imbarazzante situazione.

 

«Che coincidenza però, eh? Pare che qualcuno ce l’abbia con te», infierì sulla disastrosa situazione, e trattenne a stento una risatina. Se non fossi stata nei miei panni, anch’io mi sarei divertita di quella situazione.

 

«E tu ovviamente lo trovi divertente», sussurrai sprezzante.

 

«Stai scherzando?», rispose indignato, come se lo avessi veramente offeso con le mie accuse, «Lo trovo meraviglioso».
Stranamente non provai a fare del male a mio fratello, non provai a scappare, non provai a fare niente. Rimasi immobile, in fondo alla stanza come se avessi trovato il modo per apparire invisibile.

Emma chiacchierava tranquillamente con le sue amiche, includendo Shane nei suoi discorsi e naturalmente il mio fratellino ne stava approfittando di quel momento di notorietà che prima o poi sarebbe scomparso come la pioggia in estate. In disparte, come me, era rimasta Madison, con cui non ero riuscita a scambiare neanche una parola dal mio arrivo. Non ero sicura comunque di volerlo fare, perciò dopo essermi assicurata di non essere vista da nessuno, mi nascosi sul portico di casa, dove la luna era ben visibile e le stelle non erano altro che dei puntini su una tela blu. Le stelle, sospirai. Non le guardavo più da una vita, e probabilmente non le avrei mai guardate come facevo una volta, non nello stesso modo, non con le stesse persone.

 

«Non lo trovo giusto», esordì una voce alla mie spalle: femminile e delicata.

«Ciao Madison», le rivolsi un sorriso forzato.

 

«Non credi anche tu che io ho tutto il diritto di fare quello che mi pare in casa mia?», si avvicinò mormorando parole incomprensibilo, conseguenza della  rabbia che le stava accecando gli occhi. Poteva, una dodicenne, essere così arrabbiata?

 

«Ehm, si», deglutii incerta su cosa rispondere: non era il momento per risolvere il problema degli altri. I miei erano fin troppo complicati.

 

«Scusa, forse te ne frega ancor di meno di quanto importi a mia sorella». Con il mio silenzio confermai, a malincuore, quello che aveva detto, e tornai a fissare il mare così vicino a me, così irruente e forte.

 

«Com’è andata questa prima giornata?», mi domandò più cauta, Madison.

 

«Peggio di quanto mi aspettassi», risposi senza troppi scrupoli o esitazioni.

 

«Papà l’aveva detto che tu l’avresti presa diversamente da gli altri». Esclamò senza peli sulla lingua. Feci una smorfia appena disse la parola “papà” infastidita fin troppo da quella confidenza che poteva permettersi quasi più di me. Emma e Madison erano cresciute con mio padre, ma a  conti fatti non avevano alcun legame genetico con lui. Io si. 

 

«Tuo padre non capisce niente», usai un tono basso e scontroso, un tono che di certo non si meritava una bambina di dodici anni. Al contrario però, invece di prendersela, Madison alzò le spalle e fece finta di non avermi sentito.

 

«Longwood non offre molto, in realtà è una noia mortale. Però se non sai che fare vieni da me e ti do delle dritte», affermò con finta presunzione. Alzai gli occhi al cielo, divertita. Da quel momento in poi, sarebbe diventata la più simpatica della famiglia.

 

«Se mai vorrò uscire dalla mia camera, te lo farò sapere», annuì soddisfatta.

 

«Maddie!», un piccolo grido sfocato giunse fino a noi. Madison sbuffò e chiuse gli occhi per un attimo, lì riaprii e mi fece un cenno prima di scomparire in casa. Ma così come Madison entrò in casa, qualcuno né uscì. Roteai gli occhi verso l’alto e ripresi a fissare il mare e la sabbia fredda.

 

«Allora, ragazza senza nome, adesso ne usciamo anche parenti. Non sei contenta?», mi voltai verso di lui cercando di mantenere il mio viso scocciato. Nathan aveva gli occhi più chiari del nocciola che avevo notato quella mattina.

 

«Ora mi metto a piangere», mormorai chiaramente sarcastica.

 

«Sei veramente così acida?», mi domandò come se fosse deluso dai miei modi. Come se si aspettasse un altro tipo di persona. E a me, non dispiaceva affatto deluderlo. Non c’era nessuno particolare motivo per cui avrei dovuto tenerlo in antipatia – oltre al fatto che mi aveva quasi investita e minacciata -, eppure non mi attiravano i suoi atteggiamenti e le sue maniere.

 

«Ventitre ore al giorno», confermai, incrociando la mani.

 

«L’altra ora come sei?», mi domandò con una punta di ironia che nascondeva tanta curiosità.

 

«Perché dovrei dirtelo?», mi voltai con una smorfia di soddisfazione e sfida, lasciandolo lì a sorridere. Non varcai neanche la soglia della porta, per rientrare in casa, che mi sentii stringere un polso all’improvviso e una forte fitta mi attraverso l’intero braccio tanto da lasciarmi scappare un gemito sorpreso.

 

«Che diavolo stai facendo? Lasciami andare», esclamai disorientata dalla reazione che aveva avuto provai a divincolarmi dalla quella presa stretta e decisa, provocandomi solo altro dolore.

 

«Il tuo nome», mormorò come un bambino prepotente, più freddo di prima. Parve una persona totalmente diversa da quell’arrogante e presuntuoso ragazzo del luogo, mi ricordava una persona che non valeva la pena di stare tra i miei ricordi. Per l’ennesima volta strattonai il braccio via da lui che non smetteva di fissarmi negli occhi, gli stessi occhi che stavano cercando di sfuggirgli. Mi accarezzai il polso, controllai che non mi fossi fatta male sul serio, poi lo guardai negli occhi senza abbassare lo sguardo neanche per qualche secondo. 

 

«Ti dirò il mio nome», feci una pausa per sbollire la rabbia improvvisa che aveva preso il posto dello stupore. «Quando sarai ad un passo dalla morte ed io sarò lì con te a godermi la scena», bisbigliai. Nessuno poteva prendermi alla sprovvista e riuscire a spaventarmi senza pagarne le conseguenze. Capii di averlo sorpreso quando vidi i suoi occhi ridursi a due piccole fessure e incupirsi improvvisamente, diventando sempre più minacciosi.

 

«Sarà divertente», giurai di avergli sentitodire, prima di tornare in cucina dagli altri. La sua presa sul mio polso, i suoi occhi nei miei e l’odio che in quel momento avevo provato per lui erano mescolate in un vortice dentro il mio stomaco. Già, Nathan in una giornata, aveva sconvolto la mia permanenza lì, perché qualcosa mi diceva che niente sarebbe stato come me l’aspettavo.

 

«Sei ricomparsa! Stavamo giusto parlando di te…», esordì Emma, richiamando l’attenzione dei suoi amici, mio fratello compreso, su di me che avevo la faccia stanca e pallida. Imbarazzante.

 

«Di me?», dissi di scatto, un po’ troppo preoccupata.

 

«Tranquilla, non stavamo spettegolando su di te. Shane ci ha solo parlato della tua scuola e delle cose forti che fai». Ricominciai a respirare regolarmente.

 

«E’ così eccitante come penso? Cioè …la tua scuola?», mi domandò Carmen, con due occhi spalancati e avidi di curiosità.

 

«La New York Academy? E’ forte, si studiano tante cose, ma non è facile: non sono le solite materie», spiegai.

 

«Quanto ti invidio, dev’essere…», non terminò la frase.

 

«Deprimente, angosciante», una voce che poco prima avevo sentito così vicina e distante, interruppe le parole di Hilary, facendo rimanere tutti a bocca aperta.

 

«Nathan, ma che dici?». Emma confusa, molto di più degli altri, gli si avvicinò con uno sguardo pieno di domande, lasciandogli un bacio leggero e accennato sulle labbra.

 

«Nulla», rispose lui, con gli occhi che fissavano ma non guardavano.

 

La serata volò via da quel momento in poi. Sembrava che le persone mi passassero davanti, le parole corressero veloci, ma che io fossi su una altra stazione radio. Non passò molto tempo che i ragazzi se ne andarono e che mio padre e Norah tornassero a casa giusto in tempo per chiedere com’era andata la giornata.
Uno schifo, gli risposi e andai in camera prima che Shane potesse minacciarmi di morte per essere stata maleducata. Sentivo parlare al piano di sotto, non riuscivo a percepire niente di chiaro, a malapena riconoscevo le voci, ma qualcosa mi diceva che l’argomento ero io. Già immaginavo l’espressione apprensiva di papà che chiedeva a Shane com’era passata questa prima giornata, e Shane, troppo buono per farlo preoccupare gli diceva che era tutto apposto. Prima di andare a dormire mi feci una doccia fredda, evitando di canticchiare come facevo sempre, indossai una canottiera e dei pantaloncini, poi scovai nella mia valigia il mio portatile, e decisi di scrivere un e-mail a vuoto.

 

“Cara Rain, ho deciso che ti chiamerò così d’ora in poi.

Non mi piace tenere diari o essere tanto patetica da dover scrivere in segreto pur di sfogarmi,

ma ho deciso che d’ora in poi appunterò di questa permanenza a Longwood caso mai un giorno vorrò ricordare di queste torture.

Per adesso le uniche tre parole che mi vengono in mente sono “Tornare a casa” ed il resto sono parolacce che non so neanche come si scrivono.

Ed io che credevo che Longwood sarebbe stata la cosa più terribile, cavolo se mi sbagliavo! Mio padre si comporta come se ci avesse cresciuti nel migliore dei modi e ne fosse orgoglioso, la sua nuova famiglia è talmente stravagante e buona nei confronti miei e di Shane che mi hanno fatto venire i sensi di colpa e poi…

C’è una ragazzo, piuttosto strano. Sembra quel tipo di ragazzo abituato ad avere tutto, che si sente in diritto e in dovere di poter pretendere ciò che vuole con un bel sorriso. Quando sono uscita dall’aeroporto ci è mancato poco che non mi investisse con la sua moto.
Non mi pentirò mai di avergliela graffiata, ma non sono sicura del perché…Ah, dimenticavo di dirti che è il ragazzo di Emma, che non sa il mio nome perciò preferisce chiamarmi “sconosciuta”, e mi ha intimato più di una volta ad aiutarlo ad aggiustare quella sua stupida moto. Naturalmente, non lo farò mai. 

Detesto questo giorno, detesto Longwood e la sua gente, detesto quello che mi aspetta, ma…

                                                                                                                        

                                                                                                                                               Vicky.”

 

E bastarono pochi minuti per farmi crollare.

 

                                                                      ---------

 

«Buongiorno». Mi stiracchiai i muscoli e sbadigliai rumorosamente. 

 

«Buongiorno, Madison. Dove sono gli altri?», chiesi afferrando una scatola di cereali poggiata sul bancone, sedendomi sullo sgabello rosso della cucina.

 

«Papà è andato al lavoro, mamma è al centro commerciale con Emma, e Shane è uscito stamattina prestissimo senza dire dove andava», mi spiegò in modo esauriente. Era incredibile come una ragazzina di undici anni potesse notare tutte quelle cose. Io a undici anni neanche mi sarei ricordata dove abitavo.

 

«E tu rimani qui?», le domandai tra un cereale e l’altro, poco interessata ai suoi reali impegni nella vita. Madison aveva solo undici anni, le piaceva pensare di dimostrarne di più, e a me piaceva pensare che non mi avrebbe mai dato fastidio, perché sembrava piuttosto in gamba.

 

«Aspettavo te», disse tranquillamente. Quasi mi affogai con una manciata di cereali rimasti incastrati in gola.

 

«Me?», mi indicai con un dito, convinta di aver capito male.

 

«Facciamo un giro», mi pregò. «Non sono una persona noiosa. O meglio, lo sono per Emma, ma tu sembri diversa da lei e ho bisogno di qualcuno che mi accompagni da Emily, la mia migliore amica», cacciò tutto d’un fiato, aspettandosi chissà quale brutta risposta da me. Sbuffai, perché almeno quello potevo permettermelo, ma non rifiutai l’invito. Non ero ancora abbastanza sveglia per farlo.

«Sei fortunata. Mi hai preso alla sprovvista. Muoviti a prepararti e aspettami in …», non terminai la frase appena mi accorsi che non avevamo un mezzo con cui spostarci.

 

«Papà ci ha lasciato la macchina», annuii e affondai nuovamente la mano nella scatola di cereali. Li avevo finiti.

Un’ora dopo, verso le dieci e mezzo del mattino, quando il sole colpiva forte sui finestrini della Mercedes di papà, io e Madison ci ritrovammo l’una di fianco all’altra. Io con il cappuccio della maglia sui capelli, e lei con una spilla sulla t-shirt rosa confetto. Passavamo per le strade di Longwood, strade per lo più deserte in piena estate. La maggiorparte delle persone popolano le spiagge, mi aveva spiegato Madison, era praticamente impossibile trovare qualcuno in giro per i negozi di Longwood a quell’ora. Mi diede indicazione precise per raggiungere la casa della sua amica Emily, un’altra probabile undicenne a colori. 
Abituati, pensai. E' questo che fanno le sorelle maggiori. E mi sembrava ancora incredibile che dopo diciotto anni da sorella minore, passavo a fare la babysitter ad un'undicenne. Sbuffai tra me e me, seguendo letteralmente le istruzioni di Madison.

 

«Devi attraversare il ponte», davanti a noi c’era un piccolo ponte che dava sul fiume. Era deserto, lungo e inquietante. Una location perfetta per un film dell'orrore.

 

«Hey, quello lì è Nathan», sussultai al suono di quel nome e mi voltai di scatto perdendo per un mini-secondo il controllo dell'auto. Seguii il dito di Madison che, proprio dietro di noi, indicava una moto. Una moto che non era quella che avevo graffiato, una più vecchia e consumata, ma pur sempre una moto. Seguii con lo sguardo il percorso della moto. Ci sorpassò senza problemi fino a fermarsi davanti a noi, tagliandoci la strada. Frenai giusto in tempo per non investire lui e la sua moto. Ma perché diavolo avevo frenato?

 

«Ma che sta facendo? Ci ha tagliato la strada, potevo investirlo!», urlai tra me e me. Nathan sembrava su un altro mondo, non guardò nella nostra direzione neanche per un istante: gettò la sua moto a terra, proprio dove noi dovevamo passare, e si diresse verso i pali di ferro che sorreggevano il ponte. Uscii dalla macchina sbattendo forte la portiera, pronta a dirgliene quattro sul codice della strada, poi mi accorsi che stava per succedere qualcosa di brutto.

 

«Che ti è saltato in mente? Hai visto così hai fatto? Potevi ucciderci», sbraitai contro di lui, che pareva non sentirmi. Gesticolai, ignorando i suoi strani e sospetti movimenti. Improvvisamente, dopo un secondo del mio silenzio, capii ipotizzai le sue intenzioni e le mie braccia e le mie gambe si pietrificarono. La paura mi mozzò il respiro, quando raccolsi n inaspettato coraggio mormorai.

 

«Nathan, stai bene?», riprovai più cauta.

Ma lui non rispondeva. Lo guardai, arrampicarsi sulla recinzione del ponte aggrappandosi con una mano al palo di ferro accanto a lui, con gesti decisi. E guardò la corrente del fiume scorrere velocemente e violentemente chissà dove. Non sapevo quali emozioni provare, mi sentii prima di tutto, vuota. Inutile. Dopo, quando il coraggio tornò a tratti, ripresi la parola.

 

«Hey, puoi scendere da lì? E’ pericoloso», la mia voce cadde di qualche nota e cominciai a tremare. Nel frattempo Nathan mi teneva le spalle, sempre con la testa verso il fiume, e una mano stretta alla palizzata.

 

Dopo un paio di secondi, mormorò convinto. «Io mi butto». La sua voce era bassa e roca, ma non impaurita.

 

«No!», urlai avanzando verso di lui di slancio. Mi guardai attorno, sperando che qualcuno passasse. Era proprio come nelle scene dei film, ma io non riuscivo a comportarmi come una persona sana di mente. Avevo solo un vortice di pensieri che mi dicevano di chiamare qualcuno, di provare a parlargli o di lasciarlo morire per fatti suoi e scappare. Per un attimo pensai a Madison, ancora lì in macchina, attaccata al finestrino con gli stessi occhi di Pinocchio nel paese dei Balocchi, se avesse visto qualcosa…

 

«Avevi detto che se fossi stato ad un passo dalla morte mi avresti detto il tuo nome. Ora lo sono» strillò tutto d’un fiato, perfettamente in tempo per lasciarmi sentire i battiti del cuore accelerare e colpire il mio torace ritmicamente.  

 

«Se non mi dici il tuo nome, io mi butto», strillò ancora, facendomi sobbalzare. Spalancai gli occhi e le labbra contemporaneamente: stava per uccidersi, gettarsi da un ponte e morire tra la corrente di un fiume perché io non gli dicevo il mio nome? Cominciai a credere che quel ragazzo aveva qualche problema mentale ed io non lo sapevo, forse dovevo assecondarlo. E’ così che si fa di solito, no? Provai a respirare inutilmente, annaspando aria. La mia paura era l’unico testimone del mio folle tentativo.

 

«Victoria», gridai con quanto fiato avevo in gola. «Il mio nome è Victoria», chiusi gli occhi per un istante, sperando di non dover vedere morire un’altra persona. Intorno a noi

 

«Victoria», ripeté. «Bel nome, finalmente lo so». Lentamente, con paura, aprii gli occhi aspettandomi il peggio. E invece…

Nathan era proprio di fronte a me, non più sulla staccionata di quel ponte pronto a buttarsi. Aveva uno strano sorriso, gli occhi vispi, e l’aspetto chiaramente fresco. Mi ricordava la stessa espressione del giorno prima, ma io ero troppo confusa per capire che…Nathan mi aveva presa in giro.  Che non aveva alcune intenzione di buttarsi, che non era pazzo, ma solo perfido.

L’improvviso scambio di emozioni tra paura e rabbia divenne incontrollabile e le mie gambe non mantennero il peso. Mi accovacciai a terra, appena mi sentii mancare per un attimo. Tutta quella paura per niente? Per un gioco?

«Stai per svenire?», sentii la voce di Madison raggiungere le mie orecchie sottoforma di acuti incomprensibili. Ti prego non svenire Vicky, mi pregai.

 

«Tu torna in macchina, adesso ce ne andiamo», dal mio tono lento e basso, quasi minaccioso, Madison capii che era meglio obbedire e tornò di corsa in macchina, riattaccandosi al finestrino per vedere il finale della puntata.

 

«Ti sei spaventata così tanto?», domandò divertito, trattenendo una risata tra le labbra. Mi rialzai in piedi, mi avvicinai a lui e raccogliendo tutte le forte in una mano, gli tirai uno schiaffo. Uno di quelli che mi porterebbero in galera solo per la forza con cui l’avevo dato.

 

«Sei violenta». Una persona violenta. Io? No, l’unica violenza a cui ero abituata era l’auto difesa. Nathan non mi aveva propriamente messo la mani addosso ma mi aveva quasi uccisa di paura fingendo di stare per uccidersi pur di sapere il mio nome. Io da povera ingenua –che non ero- avevo creduto che fosse pazzo e l’avevo assecondato. Ma non era uno psicopatico, tutt’altro. Lo fissai mentre si toccava la guancia rossa e calda e poi si rivolgeva me con uno sguardo molto simile a quello di un omicida. Come poteva avere il coraggio di contraddire quello che gli avevo fatto? Era da stupido non aspettarsi una reazione del genere. Ci mancava solo che mi sarei sciolta ad una follia del genere. Non aveva neanche idea di com’ero.

 

«Ti sei preoccupata per me», disse tra sé con un sorrisetto compiaciuto, ma comunque sorpreso.

 

«Sono arrabbiata, furiosa…sono», cominciai ad inveire contro di lui, ad usare toni sempre più alti e per poco, giuro per poco, non scattai in una crisi isterica. In modo brutale e violento, più di quanto lo fossi stata io, mi afferrò per il gomito e mi spinse verso di lui, bloccandomi in una stretta ferrea. Stringeva le mie braccia con una facilità spaventosa e con una forza esagerata. Evitai di mettere in evidenza le smorfie di dolore ricordandomi di Madison nell’auto, che ci guardava.

 

«Non farlo mai più», sussurrò ad un passo dalle mie labbra. Mandai il viso all’indietro per cercare di allontanarlo per quanto possibile, ma mi teneva stretta con una prepotenza incredibile. Avevo forse toccato il suo orgoglio? Bene, lui aveva scansato il mio.

 

«Tu non prenderti mai più gioco di me», un ultimo strattone e mi liberai dalla sua presa. Per orgoglio ignorai il mio polso dolorante e mi diressi verso l’auto stringendo forte i denti, torturandomi le mani. Non era la smania di poter picchiare qualcuno, dicevo sul serio quando parlavo della non violenza. Ma era il gesto che mi aveva dato su i nervi. Era stato un giochetto veramente crudele, un giochetto che nessuno si era mai curato di farmi.


«Ci vediamo, Victoria».

 

«Và al diavolo», digrignai i denti scossa dalla mia stessa furia.


Nathan scosse la testa divertito, «Il modo in cui l’hai detto è così eccitante che credo che lo farò».

 

Fine Terzo Capitolo.


 


Grazie mille. So che, molto probabilmente lo ripeterò fino alla fine, ma grazie veramente! I vostri commenti sono così divertenti e emozionanti. Ed ogni volta che vedo aumentare le visite cominciò a lanciare inquietanti urletti che spaventano anche la mia sorellina. Perciò, prendetemi sul serio quando vi ringrazio! Spero che la storia di Vicky cominci a intrigarvi, e spero di riuscire a delineare per bene i comportamente i caratteri dei personaggi, in modo da poterli "giustificare".
Alla prossima, adesso vi lascio con un bella frase di una canzone che sto ascoltando in questo momento.

 

 "Cause I can't confess my rock and roll ways. Cause i'm so possesed with the music, the music he plays"


alessi828: Grazie mille per i complimenti! Sono contenta che ti sia piaciuta Vicky, spero che questo capitolo ti piaccia allo stesso modo, se non di più! Fammi sapere….alla prossima!
Twilighterina: Ciao! Che bel nickname che hai! (Lo dico a caso...no, non è vero, sono una fan accanita di Twilight, xD) Ti ringrazio per i complimenti e mi sono piaciute molto le tue aspettative e le tue prime impressioni, è divertente pensare che ti abbia già preso. Spero che anche questo capitolo sia di tuo gradimento. =) Alla prossima!
nicoletta93: Ciao! Spero di non averti fatto aspettare tanto! Spero che ti piaccia anche questo terzo capitolo...Grazie ancora per il tuo commento!
DreamsBecameTrue: Grazie! Già ti piace Nath? Ti ha già conquistata? Beh, non so se con quello che succederà in seguito, ti farà cambiare idea, o ti piacerà ancora di più! Ci saranno tanti equivoci, e tanti battibecchi tra Nathan e Victoria! Saranno l'uno spietato con l'altro...però adesso non voglio dire troppo! Grazie mille per i tuoi simpatici commenti!
fataflor: Ciao Anna! Sei indecisa tra Shane e Nathan? Dipende molto dal tipo di persona che ti piace, però entrambi hanno delle qualità e dei difetti. Sono davvero emozionata, grazie per i complimenti. Davvero ti sta conquistando, questa storia? Mi sembra impossibile...grazie! A Presto!

Shadow_Soul: Ciao! Ti ringrazio per i complimenti, e si…sono stata costretta a cancellare la storia per alcuni motivi. Ma adesso sono qui con Vicky e Nathan e sono contenta che abbia recensito questa storia! Mi fa piacere che Nathan stia riscuotendo tutto questo successo in soli due capitolo. Spero di non deluderti!

P.S: Naturalmente conosco Twilight e ne sono una grandissima fan. Eh si, Hilary è la Jessica del Wisconsin, ma non è detto che possa cambiare in meglio o in peggio!

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Capitolo 4
*** Lavoro d'arte ***


Capitolo 4
"Un lavoro d'arte"

 

«Sicura di star bene?», aveva sussurrato Madison, che anche se non lo dava a vedere, sembrava spaventata dalla mia faccia. Sperai che fosse solo tanto confusa e non abbastanza fantasiosa da aver capito quello che era successo. Fatto sta che non dovevo avere una bella espressione per fare quell'effetto ad una dodicenne.

 

«Benissimo». Avevo sussurrato tra i denti stringendo il volante immaginando di avere il collo di Nathan tra le mani. Capitava spesso che i dettagli e i particolari uscissero fuori solo a conti fatti. Quello che vedevo davanti a me non era la strada stretta, tra gli alberi, di Longwood. Io ero tornata indietro per rivedere tutto daccapo.

Nathan ci aveva tagliato la strada, si era arrampicato su una palizzata ed aveva minacciato di buttarsi se non gli avessi detto il mio nome, tutto per prendermi in giro. Era una specie di benvenuto di Longwood? “Spaventiamo i nuovi arrivati e prendiamoci gioco di loro”? Avrei voluto urlargli addosso quanto per me lui non contasse niente, e quanto i suoi giochetti fossero tanto meschini da dover essere ignorati. E allora perché non fai altro che pensarci? Disse una vocina nella mia testa.

 

«Nathan continua a seguirci», disse. Mi irrigidii involontariamente, sentendo sempre più forti i crampi allo stomaco. Ero così testa che un movimento più fluido mi avrebbefatto male. 
 

«Ignoralo». Fu l’ultima parola che ci scambiai con Madison prima di raggiungere una casa nascosta al confine di Longwood. Bianca e nuova, circondata da un grande giardino: sembrava una di quelle case che si ereditano da secoli e che si rinnovano sempre per tenerle al passo con la moda.

 

«Questa è casa di Emily», Madison sorrise più serena. «Vuoi conoscerla?», domandò speranzosa. In quel momento chiunque mi avesse rivolto la parola non avrebbe goduto certo dei miei bei modi, al contrario, mi avrebbero creduta una persona insolente e scontrosa, e di brutte figure ne avevo fatte già troppe.

 

«E’ meglio di no», ribadii sia con la bocca che con gli occhi. «Magari la prossima volta», le appoggiai una mano sulla testa e le scompigliai i capelli. Mi fece una smorfia di disapprovazione ma in un modo o nell’altro avevo capito di essermi guadagnata la sua simpatia. Ce l’avevo col mondo, era vero, ma Madison mi piaceva. 

Uscii dall’auto e proseguì lentamente verso la porta. Bussò e neanche qualche secondo dopo, venne ad aprirla un ragazza mora che poteva tranquillamente avere la mia età, con un sorriso dolce e -in lontananza- sembrava molto carina.

Per un attimo alzò lo sguardo verso di me e senza traccia di timidezza mi salutò con un gesto della mano prendendomi alla sprovvista. Poi fece entrare Madison e chiuse la porta. Che strana gente, quel pensiero non faceva altro che essere alimentato dalle strane abitudini degli abitanti di Longwood. A New York nessuno si sarebbe sognato di salutare uno sconosciuto, nessuno si sarebbe sognato di fingere di volersi suicidare. Mi maledissi per averci ripensato e alzai le spalle stiracchiandomi i muscoli, indossai i miei occhiali da sole, e feci retromarcia per tornare sulla strada deserta, verso…una meta ignota.

Durante il tragitto ascoltai musica alla radio e presi un pezzo di carta dal cruscotto dell’auto e scovai una penna nascosta nel sedile. Ripensando a Nathan decisi di sfogarmi come diceva sempre Kate: scrivendo, scarabocchiando. Era l’ultimo modo che avrei usato, ma l’alternativa era gridare e non mi conveniva. Sul pezzo di carta appuntai tutto quello che mi venne in mente.

 

«Mentalmente squilibrato». Aveva avuto il coraggio di architettare uno gioco così spregevole per un capriccio.

«Prepotente». In due giorni mi aveva già toccata con la forza. Al solo pensiero mi si infiammarono le guance di vergogna e di rabbia. Posai il foglietto nella tasca dei pantaloncini di jeans, visto che era chiaro che la rabbia non si era sbollita, anzi era aumentata e ripresi la mia passeggiata in auto per Longwood.

Il mio cellulare squillò quando parcheggiai la macchina nella stessa piazza che dava sul mare, dove ero già stata il giorno prima con Shane.

 

«Pronto?», un urlò si elevò dall’altra parte del telefono. Ma chi…

 

«Kate, Rachelle!», feci un sospiro di felicità e sorrisi.

 

«Già! Chi credevi che fossimo? Non mi dire che hai già tanti amici lì», sentii la voce ovattata di Rachelle.

 

«Assolutamente no, sono qui da un giorno e mi sembra di impazzire», sbuffai appoggiando i gomiti al volante e rilassandomi.

 

«Siete a scuola?», mentre litigavano per il telefono sentii un soffocato “no” da parte di Kate. Le immaginai in giro per i corridoi, mentre tutti le fissavano per le loro scenate. 

 

«Siamo andate a trovare Rain», rimasi in silenzio, lasciando che parlasse per me. Rimanemmo un minuto a parlare con il pensiero, un minuto in cui ci dicemmo più di quanto avessimo già detto. Ero così felice di poter aggrapparmi ancora a loro quando mi sentivo completamente persa in quel posto.

 

«Che ne dite di raggiungermi qui il prossimo weekend?», non ci misero molto ad accettare, giurai di aver sentito Rachelle che parlava già di valige. Tipico di lei. Erano due ragazze stupende, così diverse tra loro, che avevo lasciato per andare da mio padre. Kate era buona fin troppo, Rachelle era più forte ma eravamo dipendenti l’una dall’altra. E’ così che ci si sente tra amiche.

 

«Ora dobbiamo tornare a scuola, abbiamo lezione con Mr. Fascino Maturo», mi spiegò Kate. Mr. Fascino Maturo era il nostro professore di canto, era un uomo giovane e molto apprezzato dalla ragazze a scuola, dalle mie amiche in particolare. Ma oltre ad essere un bellissimo uomo dagli occhi grigi e il fisico invidiabile, era un ottimo professore.
 

«Vi voglio bene».

 

«Ci manchi». E senza dire altro, perché noi non ne avevamo bisogno, attaccarono.

 

---------

 

Shane era scomparso. Avevo sperato di poterlo trovare sulla spiaggia, perso tra le note del suo I-pod, ma non c’era traccia di lui. Tutti in spiaggia, alcuni passeggiavano sul lungomare, ma nessuno assomigliava a mio fratello.

 

«Victoria», appena sentii il mio nome mi voltai di scatto. Credevo che fosse Shane, mi ero completamente dimenticata che c’erano altre persone che conoscevano la mia esistenza. Da lontano vidi Emma e Norah che sventolavano le loro mani verso di me. Le raggiunsi prima che gridassero ancora il mio nome e mi facessero scappare via per l’imbarazzo.

 

«Ciao Emma. Norah», le salutai con un cenno della mano, incapace di pensare a qualcosa da dire. Fortuna che a scuola mi imparavano anche a conversare.

 

«Ho accompagnato Madison a casa della sua amica Emily, ero venuta per cercare Shane», annuirono insieme, evidentemente poco interessate alle mie intenzioni.

 

«Prendiamo qualcosa da bere?», con un cenno lento della testa risposi si, docilmente, e le seguii verso uno dei tanti bar della piazzetta, dove tanti ragazzini giocavano, ridevano, urlavano all’uscita dalla spiaggia. Andammo in un chiosco pieno di ragazzi, dal nome “Crash”, prendendo posto in uno dei tavolini vuoti in fondo alla piazza che affacciava proprio sulla spiaggia.

 

«Salve signora Cade, ciao Emma. Cosa prendete?». A malapena riuscimmo a sederci che arrivò subito una ragazza dai capelli scuri ci accolse. Emma e Norah si scambiarono uno sguardo di complicità, molto simile a quello che la mamma ed io ci scambiavamo quando le parole non servivano. Pochi secondi dopo riconobbi la ragazza, come la stessa che mi aveva salutato quella mattina, dalla porta della casa di Emily, l’amica di Madison.

 

«Salve Marnie. Solo un thé per noi, grazie», Norah le rivolse un normale e cordiale saluto. Emma si limitò ad un sorriso più forzato della madre. Era un saluto da semplici conoscenti, perciò, secondo mia prima impressione, non dovevano essere molto amiche.

I pensieri mi distrassero dalla situazione principale, e solo quando sei occhi curiosi presero a fissarmi, mi accorsi di essermi immobilizzata e di non aver spiccicato una parola.Arrossii per l'imbarazzo e proprio quando ripresi la parola, venni interrotta.

 

«Lei è la figlia del Signor Hamilton?», domandò senza traccia di sete di curiosità, al contrario sembrava piuttosto discreta.

 

«Sono io, mi chiamo Victoria». Mi presentai nel suo stesso modo, gentile e cordiale, anche se non fui sicura di essere stata allo stesso modo affabile come lei. Avevo sempre avuto la convinzione di aver scritto in faccia “Pericolo”. Non a caso quand’ero piccola mi chiamavano Danger.

 

«Adesso mi spiego perché hai accompagnato tu Madison, questa mattina. Io sono la sorella di Emily», mi spiegò e solo dopo aver sorriso un’altra volta solo per semplice cortesia ai clienti, mi chiese cosa volessi. Scossi la testa chiedendo solo un bicchiere d’acqua. Il caldo era soffocante quel giorno, e l’acqua era l’unica cosa di cui avevo bisogno in quel momento per non rimanere a bocca asciutta. In tutti i sensi. La ragazza, Marnie, ci lasciò e tornò solo dieci minuti dopo, ma non prima che Norah cominciasse formulare le solite domande di rito, che credevo, le avesse inculcato mio padre:

 

«Come ti sembra Longwood?», senza troppo entusiasmo –non lo stesso che aveva usato lei, perlomeno- risposi che non avevo ancora visto niente di Longwood, ero lì a due soli maledettissimi giorni.

 

«Forse Emma potrebbe portarti in spiaggia, oggi. Sai, ci sono molte persone lì, potresti conoscere i lati positivi di questo piccolo posto».

 

«Mamma, lasciala in pace!», la rimproverò la figlia, che quel giorno, sembrava non avere lo stesso entusiasmo con chui si era presentata. Ma che ne potevo sapere io che la conoscevo da un giorno? Scossi la testa stanca di dover pensare sempre così tanto pur di non parlare. 

«Non c’è bisogno Norah, ci andrò con Shane», esclamai rassicurando il suo povero orgoglio ferito. Anche a me era capitato di rimproverare mia madre, e sapevo che non era la più grande ambizione di una madre. In un certo senso, mi sentii molto vicina ad entrambe le due bionde accanto a me.
Prima che ci potesse essere un altro scambio di parole, Marnie tornò con i due thé e l’acqua. Nel frattempo mi guardai attorno, fissando le persone sedute a rilassarsi davanti a un buon caffè, al gelato o semplicemente davanti una buona dose di chiacchiere gratis. E fu li che lo vidi, ancora una volta. Strisciava tra le persone, con al seguito due ragazzi sconosciuti. E come se avessi appena chiamato la sfortuna al telefono, lo vidi dirigersi verso di noi.

 

«Nate», mi voltai impassibilmente verso Emma, aspettandomi uno di quei grossi sorrisi d’euforia, che il giorno prima aveva mostrato più di una volta. Ma a chiamare Nathan con quel confidenziale nomignolo, era stata Marnie, non la sua ragazza Emma. Quando Nathan fu vicino al nostro tavolo rivolse un piccolo sorriso a Marnie e con una mano le scompigliò ai capelli, come Shane aveva fatto con me molte volte quand’eravamo piccoli. Emma continuava a fissare un punto lontano dietro le mie spalle, con l’intento chiaro di ignorare Nathan.

Mi sembrava di stata catapultata in un telefilm senza un finale di stagione.

 

«Salve signora Cade», Nathan le fece un cenno. Poi, per un attimo il suo sguardo si posò su di me, ma quell’attimo durò anche meno di quanto mi aspettassi o volessi. Le labbra di Nathan si posarono sulla guancia di Emma, che con un espressione scocciata lo scansò. Ormai era chiaro a tutti che era successo qualcosa tra loro. Nathan le sussurrò qualcosa all’orecchio, e Emma, seppur concentrata a stare sulle sue si lasciò scappare un sorriso di imbarazzo. Io si, che conoscevo quel sorriso. Era uno di quei sorrisi che ti mettono in imbarazzo al solo pensiero.

 

«Che ci fate qui?», sentii Marnie chiedere ai ragazzi dietro le spalle di Nathan. Erano due bei ragazzi con un terribile somiglianza che faceva intuire una possibile parentela tra loro. Capelli scuri, occhi scuri, sguardo divertito e fisico atletico. Mi davano l’impressione dei classici giocatori della squadra di basket della scuola.

Proprio come in ogni serie tv che si rispetti.


«Nathan ha detto che doveva parlare con qualcuno», rispose il ragazzo più alto, ma non compresi tutto il loro discorso, perché di colpo abbassarono la voce.

 

«Ho parlato con tuo fratello, Shane», mi voltai di scatto verso Nathan che, attaccato letteralmente dietro la schiena della sua ragazza –con due occhi che dicevano più di quanto gli altri sapessero-, mi stava guardando. «Mi stava giusto parlando della tua disperata ricerca di un lavoro».

 

«Non sapevo che stessi cercando un lavoro», esclamò improvvisamente Norah, che era rimasta in disparte senza emettere suoni.  «Perché non ce l’hai detto?». Feci per parlare e spiegare che non cercavo nessun lavoro ma lui mi precedette.

 

«Guarda caso, in officina ho una moto da riverniciare», affermò, con una compiaciuta conoscenza del male, e no. Io non ero affatto melodrammatica. Un calore improvvisò mi assalì le guance, ed ero quasi del tutto sicura che il caldo estivo non c’entrasse nulla. Era imbarazzo, per le prese in giro che mi stava riservando quel ragazzo, era rabbia, per essere stata una preda così facile, era preoccupazione, perché attiravo guai e problemi come la calamita e il frigorifero.  

Io non la davo vinta a nessuno. 

 

«Va bene, grazie per l’offerta», Marnie e i suoi amici si voltarono sorpresi. Nathan, anche lui stupito, si staccò dal collo di Emma e dopo un istante di silenzio, rispose.

 

«Perché non l’accompagni tu, oggi?», si rivolse a Emma «Così vieni un po’ a farmi visita», le sussurrò abbastanza forte da farlo sentire anche agli altri presenti. Ma neanche il suo tono sensuale, la malizia nelle parole pronunciate, riuscirono a smuovere la bionda di fronte a me.

 

«Io non ci vengo lì», e con un dito lo allontano. Non mi sorprendeva poi tanto che litigassero, Nathan non sembrava una persona sopportabile.

 

«Posso accompagnarlo io. Oggi dovevo andare da Lucas perciò…», Marnie alzò le spalle e mi guardò aspettando un assenso da parte mia. Le sorrisi, perché era la cosa più eccitante che riuscissi a fare in quel momento. Detestavo il pensiero di dover andare incontrare Nathan non accidentalmente.

 

«MARNIE!». Una voce roca e vecchia gridò dal bancone del chiosco il nome di Marnie. Lei si ricompose immediatamente e accortasi di essere ancora a lavoro si scusò con noi e tornò al suo sorriso gentile dietro i tavoli.

 

«Nat, dobbiamo andare», disse il ragazzo più chiaro e più basso, con impazienza: era annoiato e nervoso. Non doveva essere divertente stare ai comodi di un ragazzo viziato e prepotente.

 

«Già, sarà meglio andare. Arrivederci signora Cade», disse lascivamente e mi sorpresi di non vederlo baciarle la mano. «Ciao Victoria». E al contrario di quanto aveva fatto prima, non mi  guardò neanche. Riservò un bacio forzato sulla guancia ad Emma, il cui sforzo di resistere era evidente, e si allontanò con i suoi amici portandosi dietro tutto il mio odio, e sperai, anche un po’ della mia sfortuna.

Norah, bevve l’ultimo sorso di thé, ma la sua bocca sembrava voler scoppiare in parole e domande, vista la sua espressione, ed Emma non sembrava in vena quel giorno.

 

«Emma, c’è qualcosa che non va, tesoro?», domandò preoccupata sua madre quando fu impossibile rimanere in silenzio.

Se avesse scosso la testa e si fosse voltata, avrei saputo che stava realmente male, se invece fosse scoppiata in un fiume di parole, dopo qualche secondo, per spiegare quello che le era successo, avrei saputo che non era poi così grave. Era una tecnica che mi aveva insegnato Shane, e funzionava, il più delle volte.

 

«Ne possiamo parlare a casa?», mormorò scorbutica, e Norah preferì non ribattere.

 

Avevo deciso di aspettare al chiosco un altro po’, quando mamma e figlia Cade decisero di tornare a casa per preparare il pranzo. Cominciai a preoccuparmi per Shane. Di solito non scompariva per molto senza avvisare, non che ci telefonassimo spesso, ma Nathan aveva insinuato di aver parlato con mio fratello e forse non aveva mentito.

 

«Pensierosa?», una voce mi risvegliò dal mio sogno ad occhi aperti. Ero rimasta seduta al mio posto  con lo sguardo fisso e il viso stanco -come un automa- senza smuovere un muscolo. Era chiaro che qualcuno volesse accertarsi che fossi ancora viva.

 

«Già, pensierosa», annuii confermando i suoi dubbi a Marnie, che senza alcun invito si sedette dove una mezz’ora prima c’era stata Emma.

 

«Non devi lavorare?», le chiesi.

 

«Dovrei, ma tra un po’ ho finito e ho tutto il diritto di ignorare il mio dovere», mi spiegò, certa della sua convinzione.

Le persone si erano già dimezzate, d’altronde non molte persone passavano il tempo in un bar all’ora di pranzo. Mi accorsi di non essere l’unica persa nei propri pensieri, anche Marnie, aveva gli occhi puntati verso di me, ma la sua testa sembrava vagare da tutt’altra parte.

 

«Posso farti una domanda?», azzardò. Ed io, senza pensarci troppo, annuii.

 

«Non stai cercando nessun lavoro, vero?», prima corrugai la fronte confusa, poi abbassai lo sguardo senza rispondere.

 

«Ce l’ho scritto in faccia, per caso?».

 

«No, ma…non molte ragazze arrivano a Longwood in estate per lavorare. E anche se tu lo volessi, non accetteresti certo un lavoro in un officina», si giustificò efficientemente. Il suo ragionamento non faceva una piega.

Non potei far altro che sorridere e scompigliarmi i capelli con una mano, per l’imbarazzo.

 

«E’ una storia, noiosa», cercai di evitare l’argomento ridendoci nervosamente su.

 

«Credi che sia più noioso di servire dei tavoli?», alzò le mani mostrandomi l’evidenza: per lei era più interessante perdere tempo che fare il suo lavoro. Ed io le avrei alleviato la fatica.

 

«La moto da riverniciare, di cui parlava Nathan, l’ho rigata io», confessai. Lei spalancò gli occhi attonita. «Non l’ho fatto senza ragione…io…lui mi ha quasi investita, perciò…», cominciai a incespicare con le parole.

 

«Ecco perché improvvisamente cerco un lavoro», conclusi sotto i suoi occhi sbalorditi. Capii subito che per lei, quella storia, doveva essere più interessante di quanto fosse lecito e

Abbandonai la testa sul palmo di una mano, chiudendo gli occhi stanca.

 

Meditò attentamente sulle mie parole e per un po’ non disse niente. Mi torturai le mani, ma non perché mi sentissi sotto giudizio –non avrei permesso a nessuno di giudicarmi-, ma perché mi era ancora più chiara la situazione in cui mi trovavo.

 

«Vuoi sapere la verità? Non è così strano», scosse la testa ondeggiando i suoi capelli scuri.

 

«Tra cinque minuti», si alzò dal tavolino sistemandosi alcune ciocche dei capelli scompigliati.

 

«Aspettami qui fuori, io mi sistemo e andiamo all’officina, ma non avere quella faccia! So che sembra terribile. Ma Nathan sa rendere un lavoro, un lavoro d'arte, basta che tu sia un artista», rise.

Continuavo ad essere sicura che a Longwood la gente fosse strana, Marnie sembrava una ragazza apposto, molto diversa dalle mie amiche, ma con me si era mostrata gentile e meno esuberante degli altri. Era strana, certo,A ma chi non aveva le sue stranezze? Annuii, promettendole di non scappare, e tantomeno di tenere il muso. Non ne valeva la pena, giusto?

Continuavo a ripetermelo anche quando ci trovavamo nella Mercedes di papà diretti verso questa presunta officina dove Nathan mi avrebbe umiliato fino all’ultimo secondo. Non mi scoraggiai, magari Nathan intendeva farmi riparare al danno che avevo  fatto, senza mettersi a provocare il mio sistema nervoso. Ma il ricordo di quella mattina mi catturava ogni volta che  pensavo a lui. Gli avevo tirato uno schiaffo, lo avevo insultato ferendogli l’orgoglio…come potevo aspettarmi che non mi umiliasse? Non glielo avrei lasciato fare. 

 

«Sei stata una fortuna per me, se non mi avessi dato un passaggio, sarei dovuta arrivare fin lì a piedi!», mi disse in tono divertito, indossando gli occhiali da sole.

 

«Lavori anche in quel posto?», le chiesi sorpresa.

 

«No, scherzi? Già è faticoso servire i tavoli al Crash!», gridò sbalordita. «Mio fratello lavora lì con Nathan», ammise vaga e divertita. Avrei voluto avere un minimo della sua leggerezza.

 

 ---------

 

«LUCAS!», un gridò inaspettato uscì dalla bocca di Marnie. Mi coprii istintivamente le orecchie e chiusi gli occhi incapace di decidere se ridere o spaventarmi.

 

«Abbassa la voce, stupida!», un ragazzo entrò nella stanza, coprendosi, come me, le orecchie con le mani. Aveva i capelli scuri come la sorella, ma gli occhi più chiari. Deliziosamente nocciola. Indossava una t-shirt grigia e dei jeans rovinati, in mano teneva un attrezzo che avevo visto usare in un film di paura. Credo che fosse l'arma di ogni delitto. In quel momento persi tutte le mie speranze.

 

«E’ lei?», domandò più cortesemente indicandomi. La mia fama mi precedeva.

 

«Sono io», sputai acida. «Dov’è la moto che mi piacerebbe distruggere?», mormorai a voce più bassa, con ancor più stizza.

 

«Spero che una volta riverniciata, tu non voglio rovinarla di nuovo», una voce mi accolse alla spalle, arrogante e sfacciata. Mi voltai con le braccia incrociate già sapendo chi avrei incontrato con gli occhi.

 

«Vedrò di non correre questo rischio», risposi a tono, incrociando lo sguardo gelato di Nathan. Indossava, come il suo amico, dei jeans rovinati e una t-shirt rossa, al contrario di quella mattina che –ricordavo bene- indossava una camicia celeste e dei pantaloni scuri.

 

«Io sono Lucas», il ragazzo, che identificai come il fratello di Marnie, mi si avvicinò porgendomi la mano più timidamente del suo esordio verso di me. Lo fissai attentamente, con occhi attenti, cercando, da qualche parte, un segno della loro falsità. Dovevo afferrare quella mano e sorridere? Sembrava veramente a disagio.

 

«Ciao. Mi chiamo», cominciai.

 

«Victoria», mi interruppe. «Si chiama Victoria», disse Nathan frettolosamente evidentemente scocciato. Nessuno parlò, ci fu un attimo di silenzio in cui mi sentii fuori luogo, inutile.

 

«Lucas perché non torni a lavorare? E ti porti anche Marnie?». Non sembrava di buon umore. Qualcosa mia attanagliò lo stomaco. Se quand’era di buon umore mi faceva arrabbiare in quel modo, non volevo sapere il modo in cui mi avrebbe trattato se fosse stato di malumore.

 

«Vieni con me», lo seguii senza emettere suoni, con il viso fisso sulla sua schiena perfettamente scolpita, neanche stessi percorrendo il corridoio verso l’inferno, guidata da Caronte.

 


 Fine quarto capitolo.




Ciao care lettrici! Siamo arrivate al quarto capitolo che spero, ovviamente, vi sia piaciuto. Ci sono molti punti da chiarire, e c'è l'entrata in scena di alcuni nuovi personaggi, che sono FONDAMENTALI per questa storia. Ora tocca voi farmi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, di come sta avanzando la storia e dell'entrata in scena di questi nuovi personaggi. E Vicky e Natah...hanno futuro?
Grazie per l'apprezzamento che dedicate a questa storia ad ogni capitolo, s iete degli angeli. Grazie di cuore.

"If you follow your heart, Life is a work of art"


_cindygirl: Ciao! Quando ho letto che di solito non recensisci spesso, mi è venuto un colpo. Cioé...allora è un vero e proprio onore per me! Grazie anche perché la tua recensione è stata esauriente! Ci hai preso proprio in pieno, Victoria ha mille difetti e mille pregi. E' molto complicata anche perché ancora deve conoscersi realmente. Riguardo a Nathan, bé, anch'io adoro Chad, e l'ho trovato perfetto per Nathan.
Eh si, Shane fa venire voglia di avere un fratello come lui (anche se io un fratello già ce l'ho), però, come ogni personaggio. Avrà la sua parte di guai, e ne farà passare anche agli altri! Grazie mille per il tuo commento. Mi è stato molto d'aiuto!
DreamsBecameTrue: Ciao! Il tuo commento mi ha fatto morire dalla risate, mi piacciono le persone che entrano nella storia e già sentono i personaggi. Sono contenta di esserci riuscita con te! Mi diverto un mondo a leggere le tue recensioni perché mi fanno capire che forse, sotto sotto ad ogni capitolo c'è una vena ironica e divertente e che quindi quando scrivo (e quando Vicky narra), non sono poi così pesante. Grazie mille! Alla prossima!
CinziaBella1987: Ciao Cinzia, grazie per i complimenti.  Sono contenta che in generale ti paiccia la trama, perché trovo che sia molto importante, e si, come ho già detto, anch'io adoro Chad Michale Murray, nei panni di Nat! Mi piace il fatto che tu l'abbia definito "un pò psicopatico" anche perché in fondo lo è! O almeno, è questo quello che pensa Victoria. Spero di ritrovarti anche al prossimo capitolo. Ciao! =)
Shadow_Soul: Ciao! Oddio, non voglio che vi venga una crisi di nervi a causa di questa storia. xD Tutte le tue domande avranno una risposta, piano piano, Victoria rivelerà più cose, anche se bisogna rispettare i ritmi della storia, (perché fosse per me, scrivere tutto in un capitolo), Vicky ha bisogno del tempo per raccontare e ricordare, però tieni a mente i particolari che hai colto, perché ti serviranno per capire meglio più tardi. Grazie per le tue considerazioni, non me li merito tutti questo complimenti!
fataflor: Ciao! Ahaha, si la tua è stata la prima recensione in verde speranza. Credo proprio che mi porterà fortuna! L'idea di investire più volte Nathan fino alla morte non è male, sono sicura che Vicky sarebbe stata d'accordo con te, ma forse quando le proprie emozioni sono in subbuglio, confuse, non si riesce a ragionare come si vorrebbe. Grazie di tutto. Al prossimo capitolo!
SweetCherry: Ciao, grazie per i tuoi mille complimenti, soprattutto riguardanti me: mi sento veramente in imbarazzo, dato che delle volte mi dimentico di aver scritto io questa storia, percò non credo di meritare neanche la metà dei vostri complimenti. Ma grazie veramente tante per il complimento sul mio modo di scrivere, mi ha reso la piccola scrittrice più felice del mondo. A presto! =)

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Capitolo 5
*** Scommessa ***


Capitolo 5
"Scommessa"

 


Entrammo in una stanza più piccola della precedente, anche più polverosa. Al centro c’era un grosso lenzuolo che copriva una moto. Forse la moto. A stento si riusciva a ragionare in quel buco simile alla cella di un carcere. Di una cosa ero certa, mi sarei sporcata parecchio, anche solo con la vernice.

 

«Aspettami qui», mi ordinò Nathan, secco e sbrigativo.

 

Aspettai che scomparisse dietro la porta prima di dare un occhiata alla stanza. C’erano tanti attrezzi che non sapevo riconoscere, ma in un angolo, c’erano nascosti anche dei libri. Erano vicino alla porta, di fianco ad un cassonetto. Curioso come posto, quasi insolito, forse si trovavano lì per un motivo ben preciso.

Nascosi le mani nelle tasche dei pantaloncini, cacciai, senza pensarci, un foglietto stropicciato che non riconobbi, lo aprii di con cura, rileggendo il poco che c’era scritto.

 

  • Mentalmente squilibrato
  • Prepotente

E a quella voce aggiunsi con una penna trovata sul uno scaffale:

  • Spaccone

E per l’ultimo, con una grafia ancora più disordinata e frettolosa:

  • Lunatico

 

Ci stavo prendendo gusto a scrivere gli aggettivi che più gradivo su Nathan. Dovevo riconoscere che la tecnica di Kate aveva dato i suoi frutti: tutta la mia furia era stata chiusa in quel pezzo di carta.

Appena sentii dei passi avvicinarsi, rimisi al suo posto il fogliettino stropicciato, riposai la penna sullo scaffale polveroso. Intanto Nathan era tornato con alcuni fogli in mano e un aria scocciata.

 

«Tieni», mi porse i fogli. «Devi firmarli».

 

«Cos’è?», domandai leggendo le prime righe del foglio.

 

«Un piccolo contratto, fatto da me. Devo avere la sicurezza che tu domani ritorni». Disse con tono serio.

 

«Non ho voglia di scherzare», esordii senza pensare neanche per un attimo all’eventualità che stesse dicendo qualcosa di realmente serio.  Quando dal suo sguardo capii che non ci sarebbe stata nessun sorriso di scherno, sbiancai.

 

«Ma che stai dicendo? Io non sono qui per lavorare. Il mio unico compito è riverniciare quella stupida moto a cui tieni tanto!», sbraitai.

Non rispose immediatamente, meditò su qualcosa, e fu la prima volta che lo vidi riflettere prima di parlare.

Rimasi in attesa di una risposta che potesse calmare il caos di emozioni che mi stringeva lo stomaco fino a farmi venire la nausea: una reazione esagerata quanto disgustosa, lo so. 

Senza che potessi prevederlo, avanzò velocemente verso di me e prendendomi in contropiede mi bloccò con le spalle al muro, tenendo le sue mani tese all’altezza della mia testa. Era chiaro che volesse incutermi paura, ma il disagio era l’unica sensazione che mi suscitava. Anche se…forse un po’ mi spaventava la sua vicinanza.

 

«Sono io che non ho voglia di scherzare», mormorò brusco, stanco. I miei occhi, però, non smettevano di guardare le sue labbra così vicine, gli occhi così intesi, il suo corpo quasi attaccato al mio. Di lì a poco avrei cominciato a sudare freddo.

 

«Stai tremando», disse improvvisamente, più calmo, stupito. Ma la vera stupita ero io, che non mi ero accorda di aver iniziato a tremare. I palmi della mani attaccate al muro non stavano ferme, il petto seguiva il respiro con movimenti irregolari. Sembrava che stessi per avere una crisi epilettica. Che razza di reazione avevo? Non mi era mai successo. Nathan sembrava meno arrabbiato, ma continuava a non dare segni di cedimento, le sue mani, il suo corpo erano ancora a pochi centimetri da me.

 

«Va bene», si staccò di colpo, dandomi le spalle. «Giochiamoci il contratto con una scommessa», dichiarò di colpo.

Mi bastava un’altra idiozia per svenire a terra dal mal di testa. Quel ragazzo era seriamente preoccupante, il mio cervello era pieno dei suoi strani cambiamenti di umore, dello stress a cui mi stava sottoponendo da due giorni interi. Forse sarebbe stato tutto più facile se gli avessi lasciato raccontare a mio padre quello che era successo, ma ormai, sembrava troppo tardi.

 

«Una scommessa?», ripetei.

 

«Già, scegli tu la scommessa, io penserò a vincerla», tornò al suo sorriso strafottente, sebbene mi sembrasse più sforzato. Ma dopotutto che ne potevo sapere io?

Per un attimo provai seriamente a pensare ad una scommessa che lui non avrebbe potuto mai vincere, e tutto tornò più chiaro. Mi stava dando carta bianca e quale migliore occasione per svignarsela? Toccava scommettere su qualcosa di schiacciante.

 

«Scommettiamo che riesco a picchiarti a sangue senza sentire i sensi di colpa?», mi uscì spontaneamente.

 

«Questa non la chiamo scommessa, e comunque, riuscirei a farti sentire anche i sensi di colpa»,

 

Decise di ritrattare lui: «Scommettiamo che non riesci ad aggiustare il problema della moto? Sai, ha un piccolo problema alla ruota, dovrei cambiarla… », non terminò la frase che una voce lo interruppe.

 

«Io ce la posso fare!», quella voce arrabbiata ero io. Ma perché non pensi prima di parlare Vicky? Maledissi me stessa.

 

«Perfetto! Se ce la fai, non ci sarà nessun contratto», mi tese la mano chinando il capo imitando un gesto glorioso.

Esitai per più di un minuto a tenderla a mia volta, gelida e tremante com’era. Infatti, ci pensò Nathan ad afferrarmi la mano e a stringerla nella sua, con i suoi modi bruschi.

Mi accorsi di avere la pelle d’oca quando notai le nostre mani combaciare perfettamente, e ignorando i brividi di piacere, finsi che non fosse successo niente.

 

«Sei coraggiosa», disse con tono per niente sorpreso. «Ma il coraggio a volte, è la peggior dote degli ingenui».

 

---------

 

Quando uscii –scombussolata- da quell’officina, fuori c’era il vento. Un vento fresco, che mi scompigliava i capelli, che rilassava i muscoli. Mi piaceva pensare che quel vento fosse stato mandato da qualcuno per me. Era così rilassante che se non avessi avuto la responsabilità di guidare, mi sarei addormentata seduta stante sotto le lievi carezze trasparenti del vento.

Quando tornai a casa, mi accolse il viso scocciato e annoiato di Shane, e trovai pane per i miei denti affamati.

 

«Idiota di un fratello», lo chiamai ad alta voce, non importava che stessi sbraitando come una volgare ragazzaccia del popolo dell’Ottocento. «Che fine hai fatto tutto il giorno?», continuai imperterrita. Riconobbi le mie urla contro Shane come una valvola di sfogo per tutto quello che mi era capitato precedentemente.

 

«Sono cose mie, che non ti devono interessare», mi rispose con un arrogante smorfia sul viso che volentieri gli avrei tolto con un calcio. Ma sarebbe stato poco femminile e sarebbe stato meglio evitare ospedali e centrali di polizia.

 

«Tu non sai cosa mi è successo oggi», attaccai improvvisamente con un tono stridulo e stonato, che il mio professore di canto avrebbe etichettato come il colpo della strega di un cantante. Non avevo più il controllo del mio tono, io che vivevo della mia voce.

 

«Non mi interessa», mi rispose con uno sbuffo così forte da far sobbalzare anche la ciocca di capelli scura che aveva davanti agli occhi. Shane si stava annoiando e lo capii dai suoi occhi semi chiusi e le braccia rilassate sui fianchi. Eppure credevo che si fosse divertito tutto il giorno. Avrei dovuto chiedergli dell’incontro con Nathan? No, finché potevo, avrei evitato quanto più possibile quel nome. 

 

«Ed io non avevo intenzione di dirtelo», gli feci la linguaccia, offesa dal poco interesse che riuscivo a suscitare.

 

«La cena è pronta, se vuoi mangiare vieni a tavola», continuò come se stesse leggendo un copione. Al solo sentire l’odore del cibo, il mio stomacò esultò di gioia e soddisfazione, dato che non avevo mangiato niente per tutto il giorno e la voglia di parlare con Shane scemò nel giro di qualche secondo. Mi diressi in cucina, dove a tavola, mancavamo solo noi. Papà sedeva a capotavola, il suo posto preferito, con l’aria stanca e gli occhi pieni di sonno. Emma e Madison l’una di fronte all’altra stavano discutendo sui vantaggi e gli svantaggi della coca-cola, e Norah comparì dietro le nostre spalle con teglia di ravioli che emanavano un profumo invitante.

 

«Bentornata», mi salutò lasciandosi andare in grosso sorriso. «Spero che ti piaccia quello che ho cucinato», presi posto a sedere di fianco a Madison, fissando Norah che con frenesia ed eccitazione si agitava con le mani in attesa del verdetto. Afferrai la forchetta e l’affondai nel mio piatto di ravioli, poi mangiai il boccone. Il mio stomacò gongolò.

 

«Sono perfetti», annuii accennando un sorriso che era solo una smorfia in confronto al suo.

 

«Vicky ha ragione, Norah», mi voltai verso Shane che, ancora non mi spiego come, era già alla fine del pasto.

 

«Com’è andato la prova del lavoro?», Emma chinò il capo mentre afferrava anche lei l’ultimo boccone con la forchetta. Per poco, però, non sputai il mio.

 

«Stai cercando un lavoro?», mormorò sorpreso mio padre,che sembrava uscito dal come, rianimato solo dalla mia notizia.

 

«Gliel’ho consigliato io, papà», intervenne tempestivamente Shane, con la sua innata sicurezza, salvandomi in corner.

 

«Lavorerà con Nathan», aggiunse Emma bevendo un sorso di coca-cola pieno di cubetti di ghiaccio.  

 

«Oh Nathan», papà sospirò ingoiando quel boccone che gli era rimasto in gola, e riprendendo il suo normale colorito color carne. «Un ottimo ragazzo», aggiunse borbottando. Ma a quel punto, fui io a soffocare e a perdere il mio bianco pallido trasformandolo in un rosso fuoco. Ero l’unica che non era d’accordo sull’ottimo ragazzo? A quanto pare, nessuno si scomodava a contraddire mio padre.

 

«Come è andata oggi a lavoro, papà?», e con una semplice domanda cambiammo argomento, e passammo la serata tra parole gettate all’aria e risate.

Quando fui sul punto di salire in camera per andare a dormire, proprio sulle scale, mi fermai.

 

«Ciao tesoro», disse un voce dietro le mie spalle.

 

«Hey papà», dissi più debolmente, con un semplice cenno della testa.

 

«Ha chiamato tua madre oggi», mi disse. «Mi ha detto che ti salutano tutti i tuoi professori e i tuoi amici», mi sorrise sollevato.

 

«Papà, buonanotte!», Madison interruppe il nostro patetico tentativo di fare conversazione. Si aggrappò al suo braccio e lo strinse forte, regalandogli un grande sorriso. 

Provai un pizzico di fastidio nel vederli insieme, non perché mio padre stava abbracciando una ragazza che effettivamente non era sua figlia, ma perché anche a me, mancava terribilmente poter stare tra le sue braccia senza preoccuparmi di doverlo evitare. Sentirmi sua figlia, non sopportavo di avere questo desiderio.

 

«Va bene, grazie…allora, buonanotte», scossi la testa confusa. Di solito, nei film non succedeva così. Non era stata una discussione tra padre e figlia, sembrava più un imbarazzante rito di passaggio per due sconosciuti.

In camera, afferrai il portatile e aggiornai con un e-mail senza destinatario mentre premevo il tasto play del mio i-pod.

 

“Cara Rain,

il secondo giorno di permanenza è stato peggiore del primo, sotto certi versi.

Shane è scomparso tutto il giorno, lasciandomi sola in balia degli abitanti di Longwood e le loro stranezze. Papà non fa altro che lavorare e scambiare si e no due parole la sera, quasi mi stesse evitando per l’imbarazzo. Nathan, il ragazzo a cui avevo graffiato la moto, mi ha costretta a dirgli il mio nome con l’inganno: fingendo di volersi gettare dal ponte nel fiume. In compenso gli ho tirato uno schiaffo. Mi ha incastrato davanti a Norah ed Emma, costringendomi ad accettare la sua generosa offerta di lavoro nella sua officina, dove si trovava proprio una moto da riverniciare. E’ strano, ma non riesco a ripercorrere la giornata in senso cronologico, alcune cose le ho completamente dimenticate, altre invece si ripetono continuamente nella mia testa senza pausa. Come ricompensa per quello che mi è successo, ho incontrato una ragazza, Marnie, mi sembra una apposto, seppure un po’ strana. E ho conquistato la simpatia di Madison. Mi manca casa mia, il mio stereo ad alto volume, la videocamera con cui facevo stupidi video, il soffitto coperto di stelle di plastica, il microfono sotto il cuscino. Mi manca la mamma. Eppure…credo di potercela fare qui. Un altro giorno sta per cominciare…

 

Vicky.”

 

«Papa don’t preach, I’m in trouble deep», uno strano suono non comune o e tantomeno ricollegabile ad un altro rumore, risuonò per le stanze di casa Hamilton. Il rumore, molto simile al rompersi delle foglie secche in autunno, era la voce di Shane, che come un ladro si era intrufolato in camera, e con lui aveva portato l’aria elettrica della mattina, il sole sui miei occhi chiusi e un grande mal di testa.

 

«Sei un disastro come cantante!», mi lamentai nascondendo la testa sotto il cuscino. Sentii anche Emma mugolare e capii che anche lei non gradiva il canto mattutino di Shane.

 

«Mi dispiace, Norah mi ha detto di svegliare te ed Emma, a qualunque costo», sorrise compiaciuto e riprese nel suo canto stridulo e torturatore.

 

«Ti prego Vicky, fallo smettere!», arrivò basso e lieve il lamento di Emma, anche lei nascosta sotto il cuscino tra le coperte rosa. Sospirai fino a trasformare lo sbuffo in un ringhio infastidito. Nel frattempo, Shane continuava a cantare sulle note di Madonna, indifferente del nostro mal d’orecchie.

 

«*Papa i know you’re going to be upset,

‘cause i was always your little girl

but you should know by now,

I’m not a baby».

Nei miei diciassette anni di vita avevo imparato tutte le tecniche per distruggere mio fratello. Uno di quelli, era giocare la sua stessa carta. Shane credeva che con un po’ di canto stridulo mi avrebbe convinta a scendere dal mio morbido e soffice letto? Bene, io con il mio canto lo avrei convinto ad andarsene.

Tossi per qualche secondo, poi mi decisi a disfarmi del cuscino e delle lenzuola.

 

«Papa don’t preach, I’m in trouble deep, papa don’t preach», gridai quanto più forte possibile, sperai che mi sentissero anche al piano di sotto, mi ero quasi dimenticata di quanto fosse divertente cantare. C’era qualcosa di confortante nel liberare la propria voce, intonata o stonata che fosse e lasciarsi andare. Era eccitante.

 

«…e adesso, se non vuoi che continui così per tutto il giorno –perché sai che posso farlo- esci da questa stanza e lasciaci dormire», lo minacciai. Emma annuii insonnolita ma contenta. Shane scosse la testa, alzò le mani in segno di resa, -suo gesto caratteristico- e scomparve dalla nostra stanza.

 

«Se non avessi troppo sonno, ti ringrazierei», mormorò Emma già nel mondo dei sogni.

«’Notte», dissi in un soffio, prima di guardare l’orario al display del cellulare. Erano le dieci e mezzo.

 

Ma dopo essermi svegliata non riuscii a sonnecchiare più di dieci minuti.

Scesi dal letto ancora una volta, tentando di non fare rumore e svegliare la bella addormentata.

Quel pomeriggio avrei dovuto raggiungere quell’officina ancora una volta e cambiare da sola, la gomma della moto di Nathan per una scommessa. Ero talmente indispettita che non riuscivo a pensare ad una soluzione per non perdere.

 

«Nathan arriva tra un’ora», mi spiegò Lucas, quando arrivai in officina. «Nel frattempo puoi aspettare qui», continuò con tono gentile e garbato.

 

«Grazie», gli feci un cenno con il capo e mi guardai intorno. Non c’erano molte persone oltre a Lucas, solo due uomini adulti che si occupavano delle macchine in religioso silenzio, non come i soliti meccanici rumorosi e rozzi.  

 

«Hey, Lucas?», lo chiamai con un idea stupida per la testa. Lucas si voltò verso di me e alzò le sopracciglia aspettando che parlassi. Vagava tre i miei pensieri l’idea che…

 

«Per caso, sapresti cambiare una ruota della moto?», tentai di essere convincente e sicura nonostante non sapessi di cosa stessi parlando, né tanto meno di cosa avevo bisogno di preciso. In risposta, Lucas mi guardò con sospetto e confusione. Mostrai il mio viso innocente e i miei occhioni spalancati e con un ultimo sforzo, sorridendo, lo convinsi. Ignorai i crampi allo stomaco che mi dicevano che era ingiusto ingannarlo e continuai a sorridere.

 

«Certo, sono qui per questo», risi cercando di moderarmi e lo invitai, con un gesto teatrale, a fare il suo lavoro. Era scorretto, lo sapevo, ma Nathan non aveva chiarito nessuna questione sul gioco sporco.

Scoprimmo la moto dal lenzuolo sporco e notai quando mal fosse ridotta. Il graffio che avevo provocato con una semplice monetina, era ancora evidente sulla vernice blu, ma era, con ogni probabilità, la parte migliore di quel rottame. Ipotizzai che Nathan avesse sfogato la sua rabbia sulla già vittima, motocicletta. Fatto stava che quella ruota, lei la doveva cambiare. Sul viso di Lucas c’era un espressione di disgusto mista a sorpresa e disperazione.

 

«Non sapevo che fosse ridotta così».

Prese a tastare ogni centimetro della motocicletta con una professionalità invidiabile. Provò il manubrio, controllò sul lato sinistro, quella che credevo fosse la frizione, i freni, i comandi, il cambio delle marce. E ad ogni suo movimento non dimenticava di spiegarmi cosa fosse e descriverne la funzione, come se potessi capire tutto in una sola lezione di mezz’ora. Quando cambiò la gomma, stringendo i denti per la fatica, mi rivolse qualche occhiata furtiva, e qualche sorriso accennato. Era sicuro di essere il migliore amico di Nathan? A me lasciava molti dubbi.

 

«E con questo, abbiamo finito», si strofinò le mani sporche e le ripulì ancora sui jeans rovinati. Si voltò verso di me soddisfatto e con un sorriso sfrontato che per un attimo mi ricordò sua sorella Marnie. Mi avvicinai a lui, certa di non essere credibile senza una prova della mia fatica.

 

«Te ne sarò grata a vita. Solo…potresti sporcarmi?», chiesi titubante e incerta di essere stata chiara.

 

«Che cosa?». Soffiò incredulo, e decisi di vuotare tutto il sacco.

 

«Nathan deve credere che sia stata io a cambiare la ruota», mi morsi il labbro inferiore, con il timore che avesse potuto prendersela, perché in fondo, lo stavo usando contro il suo migliore amico.

 

«Okay, non voglio sapere cosa sta succedendo», dichiarò scherzoso, allontanandosi dalla moto con passo forzato e stanco.

 

«Qualsiasi cosa, sono a tua disposizione», alzai le braccia per farle ricadere nuovamente lungo i fianchi, mostrando chiaramente il mio imbarazzo verso di lui. Cominciavo a sentire le conseguenze di quell’azione. Speravo solo che Lucas non scendesse ai livelli del suo amico.

 

«Sta tranquilla, magari un giorno di questi facciamo una passeggiata, ti faccio fare un giro di Longwood», esclamò in tono basso e gentile, rassicurante. Perciò, per quanto l’idea di fare un giro –molto breve- per Longwood non fosse per niente eccitante, mi piacque il modo in cui mi era stato proposto l’invito.

 

«Sai dove trovarmi!», risi, guardandolo scomparire dalla stanza. Eravamo rimasti io e quella moto scoperta dal telo. O almeno, così credevo.

«Subdola e manipolatrice», sobbalzai,  evitando fortunatamente, di urlare dalla paura. Il cuore aveva preso ad accelerare involontariamente, ripresi a respirare solo quando mi accertai che non fosse successo niente di grave. Ero stata solo sorpresa.

 

«Giochi sporco, eh? Occhi dolci al mio amico, e vinci la scommessa. Complimenti». Una voce, quella voce troppo intensa e rilassante per essere fastidiosa, mi aveva colto in flagrante. Mi voltai –con occhi colpevoli- giusto in tempo per incontrare gli occhi forti e duri di Nathan, che non facevano di certo una bella impressione.

 

Presi fiato per parlare, ma non ne uscì niente di più di un sospirò responsabile. «Ehm», fu il verso più simile ad una parola che riuscii a raccogliere tra il mio senso di vergogna e la rabbia.

 

«Che delusione», aggiunse. «Ed io che credevo che fossi diversa», pronunciò le parole con un’asprezza quasi dolorosa, fu incredibile sentirsi in colpa per aver lottato per vincere una battaglia. Forse c’era veramente qualcosa di sbagliato nei miei calcoli, ma il mio orgoglio non mollava.

Cominciavo a farmi condizionare troppo da quel Nathan. Mi lasciavo prendere dai suoi sguardi, mi lasciavo ferire dalle sue parole, mi lasciavo trascinare dalla sua presenza.

Per un attimo smisi di pensare, rivolsi le mie attenzioni al nulla, mi concentrai niente. Avevo bisogno di scappare via, ma non era quello di cui aveva bisogno la mia dignità.

 

«Io ho vinto la scommessa, perché tu non hai dato nessuna regola. Ma sono tanto diversa da rimanere a lavorare qui e riverniciare la tua moto».
L’avevo detto davvero?

 


*Papà so che ti arrabbierai

Perché sono sempre stata la tua piccola

Ma dovresti sapere da adesso

Non sono più una bambina.

 Fine Quarto Capitolo.

 

 

Salve! Se sono arrivata a non veder l'ora di poter aggiornare è soprattutto grazie a voi. Questa volta non scriverò un altro papiro di ringraziamento. Voglio limitarvi a dirvi grazie, come al solito, e a lasciarvi leggere questa storia. Allora, voi che mi dite? 

 

DreamsBecameTrue: Okay okay, forse è un pò colpa mia, se il capitolo vi lascia in sospeso, ma scarico il barile sulla protagonista.  E' Victoria che sceglie quando smettere di parlare. Sono contenta che Lucas ti abbia colpito, non voglio che sia visto come un terzo incomodo anche se potrà sembrarlo. Eh si, al di là delle cose sconce, che probabilmente verranno più in là, e forse anche in officina, Nathan confonde un pò, fa parte del suo compito! Grazie per il tuo simpaticissimo commento! Alla prossima!

CinziaBella1987: Grazie grazie! Sono la persona più felice del mondo se la mia storia ti ha convinto a commentare! Ma come hai detto, veniamo a noi...ebbene si, Lucas è Lucas, Nathan è Nathan, e in questo momento non ci avrai capito niente, lo so. xD Per chiarirti meglio, starà a voi interpretare le situazioni che si verranno a creare, un pò come quella di questo capitolo 4. Davvero odi Emma? Bé, sono punti di vista, e a me piace vederlì tutti! Vediamo cosa ne pensi di questo capitolo. Grazie ancora, al prossimo capitolo!
Shadow_Soul: Ciao, tranquilla, recensisci quando puoi, non avere fretta! Ahaha, vuoi sapere chi è Rain? Bé quello proprio non posso dirtelo, e poi chi ti dice che sia qualcuno? Oh, si hai ragione, ho dato un bel pò di indizi. Fatto sta che hai proprio notato quel piccolo dettaglio, eh? Brava! E grazie perché anche se non posso rispondere personalmente alle domande, mi fa sempre piacere sentire quali sono i vostri dubbi! Ciao! Un bacio!

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Capitolo 6
*** Stanca di te ***


Capitolo 6

“Stanca di te”

 

  

Mio padre, da quando sono nata, non ha fatto altro che ripetermi di stare attenta. La maggiorparte delle volte, si fa l’esatto contrario di quello che un genitore, o un qualsiasi altro essere umano ci ordina ed io non ero mai stata un eccezione, in quel caso, compreso.

A diciassette anni, dopo essermi tagliata con il coltello per un momento di distrazione, non potevo fare altro che dare ragione mentalmente a mio padre.

 

«Ti fa male?», mi domandò Emma preoccupata. Scossi la testa divertita. Un taglio e un po’ di sangue non poteva far male.

 

«Mi sono tagliata a malapena, mi capita sempre. Mia madre si era quasi abituata a pulire le macchie del mio sangue sul pavimento», ma come capii dalla sua espressione, non doveva aver colto il mio umorismo. Emma era stata distratta per tutto il giorno, era evidente il suo tentativo di concentrarsi su qualcosa che la distogliesse dai brutti pensieri. In quei cinque minuti, io ero stata la sua unica distrazione.

 

«Emma, puoi fermarti un attimo? La tua agitazione mi da su i nervi», gesticolai con le mani per attirare la sua attenzione. Lei scosse la testa, come se fosse uscita da un incantesimo, e mi rivolse un occhiata confusa.

 

«Che ho fatto?», si guardò intorno come se a malapena si ricordasse dov’era. Poi tornò su di me rivolgendomi ancora una volta lo sguardo stranito e stralunato.

 

«Sicura di stare bene?», mi avvicinai a lei, ignorando il bruciore del dito graffiato.

 

«Scusami Vic», chiuse gli occhi come per evitare un giramento di testa. Cominciai a preoccuparmi e l’afferrai per i gomiti costringendola a sedersi. In pochi minuti si era capovolta la situazione.

 

«E’ successo qualcosa?».

 

«Nulla di preoccupante. Il solito litigio con Nathan», rabbrividii a sentire il suo nome. «Sono stanca di vederlo comportarsi come un bambino», qualcosa dentro di me esultò. Finalmente qualcuno riconosceva che Nathan era un bambino! E il fatto che fosse la sua ragazza, mi rallegrava ancora di più. Ormai era passata una settimana da quand’ero lì a Longwood ed io e Nathan evitavamo di parlarci, il più grande scambio di parole era stato: “puoi passarmi il pennello grande?”. E non avevo ricevuto neanche una risposta. D’altronde, credevo di preferire quella situazione per una convivenza più gradevole.

 

«Non c’è scusa che lo discolpi», mormorò tra sé, chinando il capo verso il basso.

La guardai sbigottita, cominciando seriamente a pensare che stelle delirando. Quale scusa discolpava Nathan? Improvvisamente il mio interesse per i pettegolezzi divenne la priorità fondamentale: volevo sapere. E a quel pensiero mi vergognai di me stessa.

La discussione con Emma mi lasciò l’amaro in bocca per tutto il giorno. Sentivo di dover sapere cosa intendesse dire.

Sapevo che Nathan fosse qualcosa di più profondo di un ragazzo sfacciato di un piccolo paesino, me l’aveva già dimostrato, ma non capivo cosa si nascondesse dietro i suoi occhi blu, dietro il suo comportamento irritante. Non si nasce irritanti, lo si diventa…! Bé, a parte Shane ovviamente.

 

«Marnie, chi è Nathan?», le domandai un pomeriggio al Crash, durante la sua pausa lavoro. Sapevo di essere indiscreta o  ma Marnie era l’unica che poteva raccontarmi tutto senza farmi troppe domande sul perché volessi sapere tutte quelle cose su Nathan.

 

«E’ una domanda a trabocchetto?», risi mentre sorseggiavo il mio frappé al cioccolato.

«Nessun trabocchetto, solo curiosità», mi giustificai alzando le spalle e mostrando una delle mie migliori facce innocenti e ingenue. Una di quelle espressioni che dicevano “non c’è nessun doppio scopo”. Marnie sembrò convincersi dopo qualche minuto di silenzio, ed esordì con un sorriso prima di cominciare.

 

«Sai, il cognome di Nathan è storico», disse con teatralità, tipico gesto di presa in giro. «Un suo antenato è stato il fondatore di Longwood», rise delle sue stesse parole, trascinando anche me in quel ridicolo scambio di risatine sommesse. Sapevo che i problemi andavano di pari passo. Un antenato della persona che più detestavo, aveva fondato la città che più detestavo. Dovevo aspettarmelo.

 

«E’ tornato qui per l’estate. E’ cresciuto in un collegio per ricchi bambini indisciplinati». Continuò prendendo il mio silenzio come un segno per continuare.

 

«Ci vanno tutti i grandi nomi di Longwood e dintorni. Quel collegio è una vera tortura, hanno regole rigide e orari assurdi, traumatizzano i ragazzi imbottendoli di idee sull’importanza della società e altre stronzate del genere. Per questo, ci sono solo due modi per uscirne: se sei debole finisci per trasformarti in un vegetale senza spina dorsale che vive di quello che gli viene detto. Se sei forte, invece, finisci per diventare come…».

 

«Nathan», conclusi.

 

La storia raccontata da Marnie mi aveva lasciata dubbiosa, con la testa piena di pensieri. Non avrei mai pensato a Nathan in un collegio simile ad un carcere, che si comporta da ribelle: non era proprio quello il segreto che mi aspettavo. Ma forse Emma di riferiva proprio a quella storia quando parlava di giustificazioni, e in un certo senso, riuscivo a capire il suo comportamento. Ma a giustificarlo, mai.

Quando arrivammo in officina, stava parlando con Lucas. La parte più interessante è che tra le loro chiacchiere uscì fuori anche il mio nome.

 

«…Victoria?», fermai Marnie dietro la porta dell’officina, mentre morivo dalla voglia di origliare la loro conversazione. Di beccarli a parlare di me e poi rinfacciarglielo più tardi.

 

«In realtà non è tutto questo granché, è una ragazzina carina e sfrontata. Niente di più», sentii la sua voce scocciata e ovattata e non potei fare a meno di sentirmi ancora una volta, vittima di una presa in giro. Avevo incontrato molte persone spregevoli. Molte delle quali avrebbero riso dei modi meschini di Nathan, eppure con lui non facevo altro che attutire il colpo nel peggiore dei modi.

Marnie rimase in silenzio, forse a disagio e incapace di reggere una situazione come quella, senza commettere qualche errore. La ringraziai con gli occhi per la discrezione e la solidarietà. Poi le feci un cenno, ed entrammo fingendo indifferenza.

 

«Salve ragazzi», esordì Marnie a voce alta e risonante.

 

«Ciao Marnie, ciao Sconosciuta», Nathan usò il suo prevedibile tono canzonatorio cominciando quello che ormai da tempo, sembra uno scontro senza fine. Ma al contrario di come ci si sarebbe aspettato, non avevo una gran voglia di rispondergli, non dopo averlo sentito dire quelle cose. Non che mi importasse del modo in cui mi vedeva, tuttavia perché dare tanta corda a chi mi trovava insignificante? Dopo lo spiacevole momento di imbarazzo di qualche giorno prima, l’ultima cosa di cui avevo bisogno era iniziare un battibecco con lui. 

 

«Ciao», mi rivolsi solo ed esclusivamente a Lucas, accennandogli un sorriso timido. Lui mi rispose con l’occhiolino, un gesto che non sfuggì al suo amico.

 

«Va bene», smorzò la tensione con la sua voce alta e divertita, «Luc, andiamo, devo capire quale smalto mi sta meglio», lo trascinò con la sola forza della braccia, fuori dalla stanza dove ormai lavoravo da una settimana: Marnie era impressionante. In una settimana avevo cercato di capire che tipo di persona era…ma era così strana. Aveva una psicologia tutta sua, delle idee a cui non voleva essere contraddetta. Mi incuriosiva ogni giorno di più.

 

«Bella addormentata, vuoi passarmi quei bulloni e riprendere l’ultima passata di vernice? La voglio splendente», sottolineo in tono duro, pieno di asprezza. Come se fosse lui la persona ferita nell’orgoglio. Fino a prova contraria, io l’avevo sentito dire, davanti al suo migliore amico, che non ero niente di che.

 

«Scusami, riprendo subito», afferrai due bulloni dal banco e con forza glieli consegnai tra le mani, dopodiché ripresi il mio pennello speciale e feci la mia ultima, speravo, passata di blu sulla moto. In una settimana sembrava quasi nuova. Dopo l’aiuto di Lucas per la ruota, la mia riverniciatura e altri cambi di Nathan sembrava più bella di come la ricordassi.

 

«Stasera c’è una festa», mi disse tutto ad un tratto. Non c’era traccia di ironia, né di serietà. Che stesse cercando di…conversare? Dopo avermi presa in giro? «Non è esattamente una festa. E’…una cena. A casa mia. La tua famiglia verrà», sfiorò con le labbra il tono di minaccia che aveva già usato qualche volta, quel tono irritante che ti diceva “vinco sempre io

 

«Verrai stasera?», riprovò indifferente, mentre, apparentemente concentrato, stringeva con forza il secondo bullone.

 

«Tu ci sarai?», risposi con un’altra domanda , che aveva un intenzione diversa da quella che lui credeva.

 

«Naturalmente», dichiarò compiaciuto, alzando la testa in segno di presunzione. Smettemmo entrambi di fare il nostro lavoro e ci guardammo.

 

«Io no», alzai le spalle, mi scostai immediatamente da lui, senza aspettare che mi rispondesse. Che brutto colpo che avevo dato alla sua autostima.

Dovevo smetterla di farmi inseguire dall’orgoglio ferito degli altri.

Senza dare segni di delusione o sconfitta, senza fare quell’espressione dura e antipatica con cui spesso mi scherniva, si avvicinò disinvolto e verso di me. E il mio stupido equilibrio andò a bruciarsi nel momento esatto in cui sorrise. Da quel momento in poi nessun movimento sarebbe stato volontario. Fissai il suo viso avvicinarsi al mio, sentii le sue mani infilarsi nelle tasche dei miei pantaloni, il mio viso si infiammò e più le sue labbra avanzavano, più il respirò mancava. Invece di concludere quella tortura baciandomi, mi sorpassò di qualche centimetro con un sorriso inquietante. Aveva un piccolo foglietto tra le mani, un pezzo di carta piuttosto familiare. Mentre cercavo di collegare quel foglietto al mio foglietto nascosto sempre in tasca, Nathan lo aveva già aperto…e letto.

 

«Hai un elenco di aggettivi con cui definirmi? Mi pensi troppo spesso, più del lecito», catturò una ciocca dei miei capelli e prese a giocarci. Il magnetismo con cui i suoi occhi mi fissavano e mi analizzavano, mi rendevano incapace di parlare o muovermi. Mi neutralizzavano completamente. Un potere che non riuscivo a combattere.

Quando Ghandi ci invitò alla non violenza, parlava anche di Nathan?

 

«Ti è piaciuto il mio schiaffo, Nathan?», mi scostai bruscamente. «Perché mi sembra che tu ne voglia un altro».

 

«Veramente, è da ieri sera che mi chiedo come debba essere un tuo bacio», mantenne il suo sorriso accennato che gli lasciava una fossetta sulla guancia sinistra. Era un modo per prendermi in giro, o parlava sul serio?

 

«Sono un uomo di lussuria», ammise chinando il capo verso di me.

 

«Chiunque può vantarsi di essere un uomo lussurioso, purché si prenda la libertà di dire quello che altri di scandalizzerebbero a pensare», gli risposi poco convinta. Non con la pacatezza e l’equilibro che mi sarebbe piaciuto.

 

«Saccente», ghignò.

 

«Mai sottovalutare una ragazza, il mondo è nelle nostre mani».

 

«In questo caso, non lo farò mai più», alzò le mani in segno di resa, avvicinandosi. Per un attimo arrivai a credere che in un certo modo cercasse una tregua. Ma quando fu abbastanza vicino .e accadde. Le sue labbra, ricaddero perfettamente sulle mie, bloccandomi il respiro. Erano più morbide delle sue occhiatacce dure, più dolci dei suoi occhi gelidi, più invitanti dei suoi atteggiamenti. Venni presa, tutto ad un tratto, da una specie di frenesia, e mi attaccai letteralmente alla su nuca, incapace di staccarmi. Mi vergognai delle emozioni che stavo provando: ero serena, elettrica. Mi sentivo come nuova.

Mi staccai esattamente un minuto dopo, quando mi resi conto di quello che avevo fatto. Come diavolo mi era passato per la testa di lasciarlo fare?

 

«Non dovevi farlo», mi voltai e scivolai via dalla sue braccia riprendendo il controllo del mio respiro, mi allontanai tanto velocemente da lasciarlo interdetto. Poi, raccolsi la borsa e mi dileguai da quella insopportabile officina.

Stavo bene. Il turbamento era durato solo qualche istante, nell’auto avevo già ripreso il controllo senza il bisogno di dover svenire. 

Ma anche se cercavo di essere disinibita e leggera, dentro mi sentivo inquieta e stanca di dover combattere contro le mie emozioni. Tanto vincevano sempre loro.

Perché mi ero lasciata toccare da lui? Stupida Vicky. Non mi facevo mai prendere in giro da qualcuno, e Nathan non aveva nessun particolare potere che mi giustificasse dal cosiddetto “coinvolgimento” in cui mi trovavo.

E poi c’era Emma, magari era tanto sensibile da prendersela facilmente per gli stupidi scherzetti immaturi di Nathan, magari se la sarebbe presa anche con me, se per caso ci avesse visto fare una cosa come quella che era appena accaduta. E tra quei pensieri saggi e decisi, si celava quello che mi terrorizzava di più, la prima riflessione che avevo direttamente censurato nella mia testa, su quel bacio: era stato maledettamente perfetto.

In quel momento, in preda alla confusione e chiusa nell’auto, isolata, chiusi gli occhi e…gridai. Gridai tanto forte da poter sentire vibrare le corde vocali, tanto da provare fastidio e quasi dolore alla gola. Gridavo…ma perché nessuno mi ascoltava?

 

“Cara Rain,

Ho paura. Ho paura di combinare un altro guaio, ho paura di poter fare del male a qualcuno.

Io non voglio che a causa di Nathan succedi una tragedia. Nessuno se lo merita. E’ passata una settimana, che pare un anno intero. Sento sulle spalle un peso più grande di quello che ho. Mi sento così colpevole…perché i guai sceglievano me? Mi sentivo come Nancy in Nightmare.

Nathan non sembrava un individuo di cui fidarsi. Il suo atteggiamento e la sua sfacciata prepotenza non lo rendevano molto simpatico. Eppure, mi è capitato più di una volta di aver trovato in lui, nella luce dei suoi occhi, qualcosa di normale. Qualcosa che giustificasse i suoi modi: come la sua storia, ad esempio.

E’ bastato un maledetto minuto per cambiare tutto.

Rain, è mai possibile che debba sentirmi così? Una volta era tutto più facile. La cosa peggiore è il fatto che io mi crei questi problemi, quando dopotutto non è successo niente.

Sono così stanca. Stanca delle notti insonnie, delle voci che vorticano in giro per la mia testa. E’ ingiusto che fuori provi una cosa, e dentro ne provi un'altra. Io sono UNA persona, perché mi sento così divisa?

Pensavo che tu avessi detto che è facile ascoltare il proprio cuore. Perché tutto questo mi fa arrabbiare così tanto? Voglio tornare ad essere felice.

 

Vicky.

 

«Papà», esordii con un tono decisamente più dolce del solito quella sera, quando decisi che non avrei partecipato alla cena a casa dei Carver. «Non mi sento molto bene», sospirai toccandomi la fronte.

 

«Oh» sospirò dispiaciuto. Sul viso aveva un espressione delusa, quasi amareggiata. Non credevo che potesse rimanerci così male. Era solo una cena, ed io non c’entravo niente, cosa c’era da perdere? A volte mio padre era un enigma senza soluzioni.

 

«Sei sicura?», replicò ancora.

 

«Non me la sento», dichiarai annuendo lentamente. Non stavo del tutto fingendo di sentirmi male, ero molto confusa, e la testa mi girava realmente, solo che il problema non era dovuto all’influenza estiva, ma solamente ai problemi personali. E quella cena era l’ultima cosa che avrei voluto fare. Stesa sul divano, non mi curai molto dell’espressione corrucciata di Shane quando papà se ne andò. Mi pareva poco credibile la sua faccia decisa, e non sarebbe bastata un’accusa di colpevolezza a smuovermi da quella serata tranquilla e solitaria. 

 

«Vicky vestiti, devi venire con noi».

 

«Sul serio Shane, l’ho già detto a papà, non ce la faccio», sbuffai stanca di spiegare tutto a tutti.

 

«Vicky non sto scherzando», continuò improvvisamente arrabbiato. Mi alzai dal divano pigramente e gli risposi con un secco “No”.

 

«Ora tu ti vesti e vieni a quella cena, con noi», minacciò in tono severo, Shane.

 

«Ma ti senti quando parli? Cos’è…vuoi fare il papà che non abbiamo mai avuto?», sputai velenosa, a voce alta. Pochi istanti dopo sentii la guancia arrossarsi e riscaldarsi. Shane mi aveva appena tirato uno schiaffo. Non sentii il minimo dolore, neanche emotivo. Ma non negai a me stessa la sorpresa e la delusione, che ormai erano di casa per me.

 

«Vicky…», la sue espressione era confusa e spaesata, probabilmente non si era reso neanche conto del suo gesto, ma non gli diedi la colpa neanche per un attimo. Shane non meritava il mio odio.

 

«Adesso mi preparo», sussurrai in tono freddo. Shane abbassò la testa e scomparve dalla stanza. Tutto stava andando a rotoli, Shane per la prima volta da quando non avevamo più dieci anni, mi aveva tirato uno schiaffo, e per la prima volta da quando non avevamo più dieci anni, cominciai a credere di averlo meritato. Corsi in camera sotto lo sguardo sbalordito di Emma e Madison, e mi preparai in un quarto d’ora.

A quella cena, definita da Nathan una specie di festa, avrebbe partecipato la mia famiglia, altri invitati e ovviamente la cara -e a me sconosciuta- famiglia Carver.

 

Indossai un tubino nero, molto semplice e lasciai i capelli sciolti, in poche parole mi curai poco del modo in cui mi sarei presentata quella sera: ci tenevo ad essere il più invisibile possibile.

Invisibile. Era una vera e propria contraddizione per me: una ragazza che cerca di vivere di musica, non può permettersi il lusso di essere invisibile, eppure a me piaceva da un pò. 

 

«Hai cambiato idea?», domandò Norah sulla soglia della porta. Mi limitai ad annuire senza accennare sorrisi o modi gentili e mi feci accompagnare dalla silenziosa compagnia di Norah fino all’auto.
Emma, Shane, Madison, papà. C’eravamo tutti.

 

«Allora…andiamo!», papà mise in moto dove rimanemmo per dieci minuti interi prima di arrivare davanti ad una villa nascosta dagli alberi.

Le figure di due persone apparvero prima sfocate, poi sempre più nitide, sulla soglia della porta di quella casetta. 

Papà fermò la macchina e scesero tutti eccitati ed entusiasti. Come se stessimo andando ad un concerto dei Muse.

La donna, che ipotizzai, fosse la signora Carver, era una donna alta e più giovane di quanto immaginassi. Il padre aveva un aria più severa e composta, ma non meno gentile. La prima impressione era molto più buona di quella che aveva dato il figlio.

 

«Richard, Norah, benvenuti!», la donna ci accolse con modi solenni e molto eleganti, per un attimo mi sentii fuori luogo e di più. Norah e le sue figlie erano perfettamente preparate e a modo, Shane e papà si comportavano da perfetti gentiluomini, ma io?

Entrammo in casa, prima delle dovute presentazioni, per mia grandissima fortuna.

 

«Jolie, chiama Nathan», ordinò cordialmente la donna ad una giovane cameriera. Quella villa, vista da dentro, era molto più bella di quanto si potesse ipotizzare. Non era colorata come quella di papà, ma manteneva colori chiari e leggeri, i mobili non erano messi a caso, e lo stile mi ricordava quello dell’Inghilterra vittoriana. Rimasi a bocca aperta ancora per un minuto, poi smisi di ammirare la casa, quando trovai Emma a fissarmi con sguardo curioso e imposi a me stessa un atteggiamento più fine.

 

«Venite pure nel soggiorno», continuò accomodante ma distaccata, la signora Carver. Ci guardò per qualche secondo, poi passò a sorridere impercettibilmente agli altri.

 

«Kayla, loro sono i miei figli Shane e Victoria», papà, ci aveva presentato con un orgoglio del tutto inutile e sprecato. Neanche stesse presentando il re e la regina di Inghilterra: il suo comportamento delle volte era veramente strano. Mi evitava ma andava fiero di me quando c’era bisogno di mostrarmi agli altri. Forse perché gli altri non sapevano

 

«Oh si, Nathan mi ha già parlato di voi», esordii con voce roca, il signor Carver senza sbilanciarsi in particolari sorrisi o inutili cordialità. Mi sembrava una persona piuttosto riservata, cercai attentamente Nathan nei tratti o nei gesti dei suoi genitori. Ma la loro cordialità e la loro apparente calma, non lasciava traccia dell’irruente e inquietante figlio. La madre di Nathan era un po’ più fredda e altezzosa nei nostri confronti nonostante mi avevano dato impressione completamente diverse, ma tutto sommato, era quello il tipo di trattamento che volevo mi riservassero. Cordialità e niente più. Come avrei voluto che loro figlio adottasse lo stesso comportamento.

Lo stesso attraente figlio, che ci raggiunse nel soggiorno qualche secondo dopo, annoiato e stanco. Mi domandai perché con tutti quei soldi, lavorasse in un officina? Segno di indipendenza? 

 

«Buonasera», salutò con un cenno tutti, affiancando la sua ragazza qualche istante dopo. Le lasciò un bacio sulle labbra, e capì che qualsiasi diverbio ci fosse stato tra loro, si era risolto. Risolto con un bacio nascosto tra me e lui. Il pensiero mi rese ancora più imbarazzante e desiderosa di diventare invisibile. Li guardai scambiarsi qualche parola nell’orecchio, qualche sorriso, un altro bacio ancora, più appassionato. Nel frattempo si erano tutti sistemati a tavola pronti per una serata in compagni e una buona cena. Ed io? Ero pronta a quella serata?

Quando Emma decise di staccarsi da lui, una volta sola mi guardò, anzi mi scannerizzò dalla testa i piedi: per il resto della serata non mi degnò di uno sguardo, non mi rivolse la parola. Qualcuno aveva espresso il mio desiderio, ero diventata invisibile per lui. Ma perché continuavo a essere inquieta?

Verso metà serata ci raggiunsero Lucas e Marnie, con i loro genitori, due persone adorabili e divertenti. Furono le persone che apprezzai di più. I signori Miller fecero più di una domanda –che fossero interessati o no-, Lucas parlò di football con Shane per un po’, finché Madison non costrinse mio fratello a fare un gioco di intelligenza. Passai la maggiorparte del tempo con Marnie ed Emma, a cui non importava del mio strano silenzio.

Dopo aver cenato, io e Marnie uscimmo fuori per prenderci una boccata d’aria. Non mi stavo divertendo, ma la situazione doveva ancora diventare tragica. Ed in quel momento, sbucarono fuori, Lucas e Nathan, come se a chiamarli fosse stata la mia sfortuna maligna.

 

«Ehy, Victoria», Lucas mi lanciò un gridò d’attenzione. «Bel vestito», mi fece, ancora una volta, l’occhiolino tenendo un sorriso divertito, uno di quei bei sorrisi che non puoi non accettare. Mi limitai più timidamente a rispondergli con un cenno del capo.

Quando ci passarono affianco, e Nathan mi fissò negli occhi, abbassai immediatamente lo sguardo, come se mi fossi scottata con il fuoco. Eppure mi maledii per averlo fatto: nessuno poteva farmi abbassare gli occhi.

 

«Fai proprio bene», disse lui inaspettatamente. «A voltarti quando passo. Non capisco come tutti si siano lasciati incantare da te. Perfino tu Lucas, che sei il mio migliore amico, sei caduto ai suoi piedi», sibilò stizzito. Era perfettamente uscito fuori il suo sdegno, il suo disgusto, e Lucas né rimase spiazzato. 

 

«Da quand’è che sei così perfido?», lo rimproverò Marnie. Avrei volentieri risposto: “da sempre”, ma forse non era proprio il caso. Era stato così velenoso, che neanche i suoi amici avrebbero potuto nascondere il suo comportamento.

 

«Da quando conosco questo guaio ambulante», sputò sprezzante. Se credevo che mi considerasse solo insignificante, adesso ero sicura che ero molto di peggio per lui. L’unica certezza che mi mancava era l’autocontrollo fisico.

 

«Adesso smettila, stai veramente esagerando!», gridò Lucas, per la prima volta con il viso irrigidito. Forse non litigava spesso con il suo migliore amico, fatto sta che lo stava affrontando per me. Lucas afferrò per il gomito l’amico, con sguardo interrogativo.

 

«Oh, povero Lucas, si è preso una cotta per la nuova ragazza dai mille misteri. Un po’ troppo scontato», lo schernì ancora una volta. Se non fossi stata sicura della sua sobrietà, avremmo tutti sospettato che fosse ubriaco.

 

«Che sta succedendo?». Ad aggiungersi alla patetica scenetta arrivò Emma che a tutto poteva partecipare, tranne che a quel gioco di disprezzo. Per paura che potesse lanciare un’altra frecciatina, scoppiai letteralmente…non in lacrime, non in scintille di rabbia. Decisi semplicemente che era il momento di smetterla, andandomene. Voltai le spalle al resto delle presone, -non importava chi fosse-.

Non stavo scappando, o perlomeno lo facevo con dignità, ignorando Nathan.

Uscii da quella casa senza che nessuno se ne accorgesse, a passi veloci e silenziosi, scappando via dai problemi, camminando e non guidando, pensando e non parlando. Spostandomi da qualche parte, dove pensare non era una colpa: la spiaggia. Quale posto migliore?

Il mare era nero, la sabbia era scura e fredda, ma il rumore delle onde, la morbidezza della sabbia tre le mani, era impagabile. Passai una buona mezz’ora seduta sulla riva della spiaggia, bagnandomi i piedi, sporcandomi il vestito nero, scompigliandomi i capelli scuri. Poi dietro di me sentii dei passi regolati e piccoli, e mi voltai convinta che chiunque fosse, era lì per me. Infatti mi ritrovai davanti Marnie.

 

«Non voglio essere compatita da nessuno», ripresi a fissare il mare, a pochi passi dalle vere e proprie lacrime.

 

«Perfetto». Asserì. «Perché non ho voglia di farlo», ammise facendomi l’occhiolino. Si sedette esattamente accanto a me, incrociando le gambe e tenendo lo sguardo fisso sul mio profilo, incurante del suo vestito corto e i tacchi vertiginosi.

 

«Non credevo che la situazione tra voi fosse così critica», replicò con attenzione dopo aver aspettato un po’, in silenzio. 

Capii che era il momento di dirlo a qualcuno, e chi meglio di Marnie? Forse lei, avrebbe potuto risolvere uno dei miei tanti problemi. Spostai i capelli all’indietro con fare nervoso, e abbassai la testa. Volevo un solo, piccolo, attimo di pace. Chiedevo così tanto?

 

«Io…proprio non capisco perché si comporta così con me», forzai le parole, le scandii per bene.

 

«Hai provato a chiederglielo?», usò lo stesso tono ribadendo, una cosa così ovvia, che mi vergognai di averla ignorata. Sembrava più facile di quanto volessi, detto in quel modo.  Provare ad affrontare a parole e fatti, faccia a faccia, occhi negli occhi, Nathan? Forse…

Fine Sesto Capitolo.




Non posso crederci, giuro che mi brillano gli occhi ad ogni visita, ad ogni aggiunta nei preferiti o seguiti, ad ogni commento. Spero che voi continuiate ad apprezzare ogni capitolo, e che vi sia piaciuto questo piccolo scorcio di passato su Nathan. So che ci sono molte domande a cui rispondere, ma voglio solo dirvi che avrete le risposte al tempo giusto, e che con tutto il cuore prego che non vi deludano. Mi rendete orgogliosa. Vi ringrazio tanto per il sostegno, Bbv.

"Because you show me, how to believe..."



DreamsBecameTrue: Ahah, bé hai ragione, una promessa non si ritira! E Vicky non lo farà. Non c'è bisogno di una risposta da parte di Nate, il suo comportamento in questo capitolo, ti farà capire tutto. Spero che ti abbia colpito il modo in cui ho fatto andare le cose, ci tengo tanto *_* Ciao, e grazie!
MMiles: Ciao! Grazie per aver trovato comunque il tempo per recensirmi, nonostante i tuoi impegni. Sono contenta che Vicky ti piaccia così tanto perché credo che sia molto importante che ci sia un legame tra il lettore e i personaggi! Grazie anche per i complimenti riguardo alla scelta del personaggio, vuol dire che ci ho centrato! xD Non voglio che tu impazzisca per insieme a loro! Grazie mille, alla prossima!
P.S: Per le corna di Emma, bé ... ci sarò tempo e modo di fargliele! xD
CinziaBella87: Tu dici che Vicky si brucierà con le proprie mani? Fammi sapere quando sarà cenere perché vuol dire che hai centrato! Anche perché come hai detto tu Lucas sembra la via più semplice e più giusta! Si vedrà...comunque, a me piace leggere queste recensione fatte di getto, non c'è bisogno che tu pensi a cosa scrivermi, scrivi quello che pensi e basta. Mille volte grazie!
Shadow_Soul: WOW! Grazie per avermi scritto la tua frase preferita! E' stupendo che ti abbia colpito, sono contenta!!! E spero che, visto che volevi conoscere meglio Nathan, che questo piccolo assaggio ti sia piaciuto. Fammi sapere! 
Eklypse: Ciao benvenuta! Grazie mille per i complimenti, mi fa piacere che ti siano piaciuti tutti, anche se mi fa difficile pensare a Nathan solo...ma chissà! Ahaha. Ancora grazie per i complimenti!

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Capitolo 7
*** Fuochi D'artificio ***


Capitolo 7

“Fuochi d'artificio”


Tornammo a villa Carver verso le undici e mezza di sera. Mi era bastata un’ora a calmare la frustrazione grazie all’aiuto di Marnie. Non aveva fatto niente di particolare, mi aveva semplicemente capita, ed ero pronta a chiarire tutto, perché con una soluzione semplice e diretta avremmo chiuso la questione. Se Nathan aveva qualcosa contro di me, che andasse oltre la presa in giro, era giusto che me lo dicesse.

Mi ripresentai davanti a lui quando fu finalmente solo, lasciandolo a bocca aperta. Non si aspettava che ritornassi, e sapevo che era curioso di sapere cosa ci facessi di nuovo lì. La sua ragazza si era volatilizzata, gli adulti conversavano nel salone, e Marnie si era aggiunta a Shane e Lucas dopo avermi augurato buona fortuna. Avevo trovato Nathan sul portico di casa, ben nascosto dagli altri, in silenzio, pensieroso. I capelli chiari gli coprivano gli occhi, le labbra erano serrate e mi parve quasi un reato dover aprire bocca.

 

«Nathan, possiamo parlare un attimo?», pronunciai lentamente, riacquistando la sicurezza di cui alcune volte mi privava. Non avevo la più pallida idea di cosa dirgli, ma forse la cosa migliore sarebbe stata parlare a vanvera, tirare a caso parole senza senso nella speranza di riuscire a dire qualcosa di buono. Scossi la testa per i miei insulsi pensieri, e mi decisi a continuare, sotto il suo sguardo interessato.  

 

«Perché ce l’hai così tanto con me?», esplosi tutto ad un tratto, con un tono più alto di quanto mi aspettassi, più instabile e in tensione di quanto volessi dimostrargli. Avevo una voglia matta di prendere qualcuno a pugni, non necessariamente lui, ma sicuramente per colpa sua. Ogni volta che decidevo di non lasciarlo vincere uno scontro, c'era sempre qualcosa di lui che mi prendeva in controppiede.
Non rispose, e per un attimo ebbi la certezza che stesse attutendo le mie parole, con pazienza.

 

«Sono così stanca dei tuoi giochetti Nathan, se ti stai ancora vendicando per la moto, credimi, è folle, dato che è meglio adesso di quanto lo fosse prima! Perché mi vuoi complicare la vita?», dissi tanto velocemente e con talmente tanta decisione che ebbi il timore di essermi mangiata qualche parola, per la velocità. Ma Nathan continuava a fissarmi come se ancora dovessi cominciare a parlare, come se non mi avesse sentita.  

 

«Allora? Che fai non dici niente?», alzai la voce isterica. Era impossibile che dopo quella serie di incandescenti insulti, non avesse nessuna battuta da dire, niente da controbattere. O magari, era un nuovo stratagemma da testare su di me. Chiusi gli occhi per la confusione.
Se avessi ascoltato i miei pensieri, avrei preso la strada dell’isterismo.

Se avessi dato corda ai suoi gesti, sarei impazzita.

Se avessi lasciato fare alle mie emozione, avrei avuto un infarto a causa della forza dei miei ormoni.

Perlomeno di una cosa ero certa: con lui, qualsiasi cosa avessi fatto, la soluzione sarebbe stata solo la follia.

Gli voltai le spalle decisa ad ignorarlo, senza scappare, questa volta. Avrei aspettato lì’ finché, alla fine, sarebbe passato per codardo. Era tanto idiota da ignorare le mia parole, oppure tanto vigliacco da non affrontarle? Bene, gli avrei fatto tirare fuori, io, il coraggio.

Nel bel mezzo del silenzio accompagnato dal fruscio degli alberi, dalle voci in lontananza degli altri e da una strana atmosfera rilassante, decisi che sarei andata fino in fondo, non avrei più lasciato che i dubbi mi divorassero. Perché niente di tutto quello che mi stava succedendo aveva senso.

Poi, all’improvviso, senza che potessi rendermene conto, senti le sue grandi mani afferrarmi il gomito e portarmi di peso vicino a lui. Insistette affinché i miei occhi si spostassero nei suoi e rimanessero lì, fermi e incatenati ai suoi, con prepotenza.

La sua risposta era quella? Un bacio. Un bacio che mi disorientò così tanto da lasciare solo un lieve ricordo del mio discorso, di quello che avevo intenzione di dire o fare. Sentii sempre più intensamente, il sapore delle sue labbra: salate, piccanti, calde. Niente a che vedere con il venticello che tirava quella sera.

Mi strinsi a lui più forte, violentemente gli morsi le labbra, e continuò a stringere le sue alle mie in una presa di desiderio.

Mi sembrava di sentire i fuochi d'artificio, quelli che non annoiano mai, che non ti danno il tempo di abbassare lo sguardo che ti sorprende con un altro gioco di luci. Ci staccammo l'uno dall'altro, insieme, giusto in tempo.
Inchiodata e incantata dallo sguardo attraente, che cattura. Come conviene alle passioni travolgenti quando si accendono all’improvviso.

 

Se non mi fossi fermata in tempo, non so dove saremmo arrivati. Probabilmente più in là dell’irreparabile. Appena scostati, ci guardammo negli occhi, senza dire una parola, senza muovere un muscolo. Ero scossa io, almeno quanto lo era lui, per la prima volta. E nel suo sguardo lessi qualcosa, che mi preoccupò davvero. 

 

«Il mondo non gira attorno a te, Victoria», e quella volta fu lui a lasciarmi impalata, immobile in preda a mille emozioni molto più gelide del vento e più calde dell’estate.

 

Quella sera stessa inviai due messaggi a Rachelle e Kate: “Credete di farcela a venire per questo weekend?”

 

E la settimana dopo, andai a prendere le mie migliori amiche all’aeroporto.

Avevano subito afferrato l’urgenza del mio messaggio, e per l’intera settimana avevo parlato con loro tenendole aggiornate sul minimo indispensabile. I dettagli li avevo lasciati per il faccia a faccia.

Sarebbero rimaste solo per il weekend, in un hotel vicino Longwood. Un weekend in cui mi avrebbero riportato con i loro ricordi, di nuovo nel mio vecchio mondo.

E intanto erano passate due settimana da quando vivevo lì. Era una soddisfazione essere sopravvissuto tanto, e allo stesso tempo mi pareva così poco.

Quando vidi all’aeroporto le mie due migliori amiche, finalmente dopo una settimana, mi lasciai andare in inquietanti gridolini che spaventarono più di una persona. Eppure non riuscivo a sminuire quel piccolo lampo di luce in quei giorni di nuvole. Rachelle portava con più sforzo, le sue due valige, mentre Kate si era limitata ad un più leggero borsone. Quanto erano belle.  

 

«Non posso credere che sia passata una sola settimana, mi sembri già cresciuta», mormorò Rachelle a due centimetri dal mio orecchio.

Se non fossi stata così contenta e commossa, sarei riuscita a ribattere, e invece preferii rimanere in silenzio, assaporando quell’attimo di felicità che riesce a darti solo l’amicizia. Ci staccammo poco dopo, quando mi resi conto di aver smesso si respirare.

 

Le portai a vedere la casa, poi in spiaggia farneticando cose che non avevano senso, parlando e parlando come se non l’avessi mai fatto in tutta la mia vita. E verso sera, dopo averle presentate a Norah e a papà ci chiudemmo nella camera mia e di Emma -che tra l’altro, non avevo visto per tutto il giorno-, e rimanemmo a parlare prima di mezzanotte.

 

«Spiegaci», Kate mi invitò a seguire il mio discorso, con due occhi che al contrario di quelli di Rachelle, non mettevano soggezione.

 

«Sono qui da due settimane…cioè sono solo quindi giorni che lo conosco e ci siamo presi in giro, ci siamo insultati, io l’ho picchiato e… lui mi ha baciata due volte», biascicai.

 

«E’ quella che si chiama attrazione letale», commentò Rachelle masticando un chew gum .

 

«E’ solo letale, dato che è il ragazzo di Emma, che, se non te ne sei ancora resa conto, è la mia sorellastra», chiarii i punti con una forte punta di acidità mescolata ad ironia.

 

«E allora? Non ti facevi questi problemi una volta», continuò con quel fastidioso rumore di gomma appiccicosa.

 

«Rachelle sei un mostro!», replicò Kate. «E’ la sua sorellastra. E da come ce l’ha descritto, quel ragazzo non sembra una persona molto affidabile», continuò in tono fermo, come solo una ragazza posata e dolce come lei riusciva a fare.

Rachelle rise sommessamente, senza neanche provare a riflettere sulla verità delle sue parole.
Erano così diverse: Kate era il sole, perché dava attenzioni, dava anche quello che non le veniva chiesto. Rachelle era la luna, perché pretendeva le stesse attenzioni, pretendeva qualcosa che a volte il mondo non riesce a darti. Ed io ammiravo entrambi i modi di vivere la vita.

 

«Hai provato a parlargli seriamente?», sottolineò l’ultima parola con dolcezza, senza sforzarmi troppo.

 

«E’ proprio quando ci ho provato che mi ha baciata», fuoriuscì, dalla mia bocca, un lamento basso e lento.

 

«Forte. Quando ce lo farai conoscere?», continuò Rachelle poco delicata e discreta nelle risposte. Era così sfrontata che ci mettevo del tempo ad attutire le sue inequivocabili verità.

 

«Chi dovrebbe farvi conoscere?», la voce di Shane arrivò fino alle nostre orecchie interrompendo la conversazione e riportando un po’ di leggerezza sui nostri visi.

 

Il mio primo pensiero però, fu occupato da Rachelle. L’ultimo anno era stato difficile anche per loro. Erano così felici insieme, avrei potuto giurare di aver visto una Rachelle diversa, quasi più dolce. Shane era per lei, quello che per me non era mai stato nessuno. Prima che iniziassi a frequentare la N.Y.A, ricordavo benissimo gli sguardi che l’intera scuola lanciava a mio fratello e alla mia amica: erano una coppia così “maestosa”. Lei, con quei ricci rossicci e gli occhi chiari, la sua aria altera e elegante, e lui moro, alto, divertente e presuntuoso. Un sogno invidiabile. Eppure l’ultimo anno era diventato un incubo anche per loro. Alla fine il loro legame si sciolse delicatamente fino ad allentarsi definitivamente.

Era stata dura per Rachelle, anche se non coglieva mai occasione per darlo a vedere e ci teneva a precisare che fosse stata lei a rompere la relazione, mentre Shane, al contrario, cercava di non riaprire le piccole ferite che entrambi si erano inflitti.

Ed in quel momento erano lì, nella stessa stanza, a sorridersi come due persone che sapevano di aver condiviso qualcosa, senza rimorsi e rancori.

 

«Ciao Shane», esclamò entusiasta Kate che corse ad abbracciarlo. Molto più moderatamente lo salutò Rachelle, senza però dare segno di alcun imbarazzo. Mi sarebbe piaciuto, un giorno, avere la stessa maturità che mostravano due delle persone più importanti della mia vita.

 

«Allora…Vicky si è già lasciata andare agli insulti? Questa settimana è stata particolarmente nervosetta», mi schernì scompigliandomi i capelli.

 

«Sai com’è! Senza di noi Vicky è un fascio di nervi», spiegò apertamente Kate, con un sorriso a trentadue denti.

 

«Speriamo che questo weekend l’aiuti ad essere meno…suscettibile», mi guardò scherzoso e gli lanciai un’ occhiataccia come risposta. Da quando eravamo lì cercava di non comportarsi da immaturo, bensì di iniziare a fare il fratello maggiore. E  cominciavo a preferirlo quando faceva il bambino petulante.

 

«Scusate, ma per noi è ora di andare in albergo», ci interruppe Kate.

 

«Oh, già! Dobbiamo ancora rubare le saponette dalla stanza».

 

Scossi la testa stanca e divertita, «Vi accompagno».

 

«Quanto credi che sia grande questo posto? Ce la caveremo da sole», mi rimproverò Rachelle sorridendo. Non riusciva proprio a non ridere quando si trattava di me. Diceva che ero proprio buffa, e cominciavo a crederle. Non dovevo sembrare una persona molto seria.

 

«Aspettate, Vicky ha ragione. Lasciate almeno che vi accompagni io», e dopo un po’ della persuasiva insistenza di Shane, si lasciarono convincere e, impotente li accompagnai alla porta. Kate mi lasciò un bacio sulla guancia, Rachelle si limitò ad un grande sorriso e scomparirono in pochi minuti lasciando un lungo silenzio dietro di loro.

Gridai a Shane di portarle sane e salve all’albergo, e mi ritirai in cucina, convinta che non ci fosse nessuno. Eppure Norah era ai fornelli. Guardai l’orologio per accertarmi dell’orario. Era quasi mezzanotte e cosa ci facesse lì, non ne avevo neanche idea. Spostava frettolosamente la farine e altre buste di ingredienti a me sconosciuti e a borbottare fra sé.

 

«Norah?», inclinai il capo verso la sua direzione, aggrottando la fronte.

 

«Perché cucini a quest’ora?».

 

«Oh, ehm…lo faccio sempre quando sono nervosa», spiegò con la stessa velocità con cui si muoveva.

 

«E adesso sei nervosa?», ma mi sembrava piuttosto stupida come domanda perciò, sorvolai e continuai. «E’ successo qualcosa?».

 

«Perché voi adolescenti avete tutti quei problemi?», sbuffò rallentando il ritmo. Mi accigliai e mi accertai che stessa parlando con me. Con Norah ancora non avevo ancora tenuto un vero e proprio discorso, non mi sentivo esattamente a mio agio con lei, non perché mi mettesse in soggezione o perché mi desse brutte intenzioni, solamente non avevo avuto nessun suggestivo momento che mi invogliasse a parlargli.

 

«Di quali problemi adolescenziali stai parlando?».

 

«Il sesso maschile», asserì dandomi le spalle irrigidite. Doveva essere veramente tormentata, dato che non sembrava avere tutta quella esuberanza che da una settimana a quella parte sembrava coinvolgerla. Non potevo già delinearla, ma ero quasi sicura che fosse un po’ come si era sempre dimostrata: una donna allegra e un po’ superficiale all’apparenza, ma magari aveva qualcosa di più profondo. Come ogni adulto. Come ogni mamma.

 

«Oh capisco», annuii. Poggiai il gomito sul tavolo e sprofondai nella sedia sbuffando. Non ero il tipo che aiutava gli altri con facilità, anzi, di solito non ero il tipo che aiutava. Non lo facevo più da molto tempo.

Eppure, delle volte mi sentivo quasi in dovere, quelle volte in cui la mia coscienza mi riportava a galla memorie perse e nascoste. Norah si voltò con sguardo pensieroso,

 

«E’ davvero frustrante non sapere come aiutare la propria figlia sai?», si avvicinò prendendo posto di fronte a me. Sul suo volto c’erano delle piccole rughe d’espressioni ai lati della bocca e ai lati degli occhi, occhi vispi e accessi come a ricordare chiunque li guardasse, che in fondo lei era sempre una bambina. Mi era piaciuto notare quel dettaglio.

Scossi la testa e ripresi ad ascoltarla.

 

«Emma litiga sempre con Nathan», mi spiegò brevemente, e per qualche strano motivo, non mi sorpresi. «E’ così innamorata di quel ragazzo, che gli farebbe da zerbino», sussurrò

 

«Ho paura che soffra», continuò parlando più con se stessa che con me.

 

«Forse dovresti lasciarla soffrire», mi lasciai scappare. Le intenzioni erano quelle, ma forse me l’ero lasciato scappare con troppa facilità.

 

«Ne sai qualcosa vero?»

E mi guardò intensamente. Mi guardò come una che sapeva. Abbassai lo sguardo di conseguenza, e chiusi gli occhi per l’imbarazzo. Non avevo mai preso in considerazione l’eventualità che gli altri sapessero. Mi sentii così stupida e imbarazzata che avrei volentieri chiuso la chiacchierata lì.

 

«Credi di poterle parlare? Non so, darle dei consigli …come fate voi tra adolescenti», la interruppi prima che potesse cominciare a crederci davvero.

 

«Beh, tu potresti aiutarla cominciando a smetterla di chiamarci adolescenti. Ha diciotto anni, Norah», accennai un sorriso. Anche mia madre si ostinava a definirmi una bambina, e anche lei, come Norah, aveva vissuto nel terrore di potermi far soffrire.

All’improvviso un minuscolo pensiero si insinuò nella testa. Pur di non farmi soffrire più, mia madre mi aveva mandato lì. Ero convinta che fosse una punizione e invece in quel momento, mentre Norah continuava a torturarsi le mani e a fissarmi speranzosa, capii che forse Longwood per lei, sarebbe stata la mia salvezza.

 

«Non sono molto brava nel dare consigli», le spiegai con tono più grave.

Vidi i suoi occhi incupirsi e la mia coscienza ribellarsi, così mi ripresi subito, dato che di azioni buone non ne facevo tante e sapevo di averne bisogno ogni tanto.

 

«Ma posso provarci», feci spallucce rassicurandola. Feci un balzo dalla sedia avvicinandomi a lei. In fondo quanto mi sarebbe costato?

 

«Grazie, Victoria, tuo padre aveva ragione», si lasciò scappare. Mi sorrise come se non ci fosse stato bisogno di aggiungere nient’altro. Credeva che io sapessi cosa intendeva dire, ma poche volte le persone mi facevano dei complimenti sinceri, spontanei.

 

«Non sono una bella persona, Norah», sussurrai, presa di colpo da un senso di inquietudine fulminea. Ma non si lasciò condizionare dal mio sguardo, continuò a sorridere delicatamente, cancellando quelle piccole rughe sul viso.

 

«Questo lascialo decidere agli altri».

 

---------

 

Il giorno dopo, mi svegliai presto e con un accenno di sorriso tra le labbra. C’era un lungo e rilassante weekend davanti a me, con le mie amiche, e tanto sole sulla mia pelle.

  

«Andiamo al mare», avevano proposto. Avevo fatto una smorfia di disapprovazione, ma d’altronde capivo le mie amiche: per una volta che c’era il mare, tanto valeva goderselo. Avevo chiamato Marnie aggiornandola su un bel po’ di cose, gli accennai quello che era successo quella sera, dopo il suo consiglio, e le diedi appuntamento in spiaggia.

Ci tenevo che Marnie conoscesse Rachelle e Kate, perciò, per la sfortuna del mio povero subconscio, accettai di mettere un costume e di prendere il sole. Dovevamo ritrovarci tutte lì.

Era troppo presto però, per prepararsi, perciò me la presi con comodo sorseggiando l’acqua sullo sgabello della cucina, alle cinque e mezzo del mattino. La casa era silenziosa, tutti dormivano, tutti tranne Emma: non era tornata a casa quella notte. Non l’avevo sentita rientrare né riuscire, quindi con ogni probabilità era rimasta a dormire da qualche altra parte. Rabbrividii senza alcun motivo, per un solo istante che sembrò durare molto di più.

Nel frattempo un rumore di chiavi attirò la mia attenzione. Mi voltai, aspettando che qualcuno sbucasse da quella porta, più curiosa che spaventata. Quando vidi sbucare una testa bionda, dall’espressione stanca e due lunghe occhiaie sotto gli occhi chiari.

 

«Emma?», mormorai a mezza voce.

 

«Ciao. Ero con Nathan, per favore non dire a nessuno che ho dormito fuori», mi supplicò con gli occhi. Rimasi lì impalata come una ritardata, afferrando la questione solo poco dopo. Scrollai la testa e annuii.

 

«Non ho visto niente», ma a me parve più un tentativo di convincere me stessa, invece di rassicurare lei. Nel frattempo un morso allo stomaco minacciava tanto dolore, ero diventata così incontrollabile, oppure lo ero sempre stata e solo da quando ero a Longwood me ne ero accorta. Emma si avvicinò contenta e mi lasciò un bacio sulla guancia.
Emma Cade sembrava priva di malizia. Era una persona così positiva, che delle volte riusciva a contagiare anche me. Non quella volta però, perché mi si attaccò allo stomaco la strana consapevolezza di aver, anche se involontariamente, tramato contro di lei. D’altronde ero io che avevo baciato due volte il suo ragazzo. Non contavano i dettagli di sfondo. Per giunta, c’erano troppe cose che gli tenevo nascoste, non eravamo certo due sorelle per la pelle, d’altronde ci conoscevamo da due settimane, ma se non cominciavo non ce l'avrei mai fatta.

E’ meglio se ti prepari, pensai scacciando via tutti gli altri pensieri.


Fine Settimo Capitolo.


Salve mie dolci lettrici, com'è andata la vostra settimana? So che sono in ritardo di un giorno (Io pubblico ogni giovedì e oggi e venerdì) ma ho ragioni che la mia testa non conosce xD. Spero che anche questo settimo capitolo vi sia piaciuto. Sto  cercando di fare un vero e proprio lavoro su questi personaggi.
Non chiedetevi perché hanno le loro reazioni o perché fanno quello e non fanno questo. Provate a immagginare di trovarvi nella loro situazione, essere giovani e confusi, sono sicura che capirete meglio questi personaggi.
Perché Nathan ha baciato ben due volte Victoria? Bé, lui non lo sa, non ha piena consapevolezza di sé anche se non lo da a vedere. Crede di sapere come comportarsi, poi se la trova d'avanti e reagisce impulsivamente.
Ora tocca a voi dirmi la vostra, non abbiate paura di essere lunghe, anzi, più parlate più mi fate felice!

"...kiss me on the sidewalk take away the pain..."

CinziaBella1987: La tua teoria non fa un buco nell'acqua, ma dobbiamo vedere cosa ne pensano i diretti interessati...xD! Mi fa piacere vedere che non tutte le opinioni sono le stesse, ad esempio ad alcuni piace Lucas, a te non piace particolarmente, ma magari tra un paio di capitolo il tuo pensiero potrebbe cambiare, chissà! Spero che questa storia non diventi mai noiosa, ma se così fosse, me lo diresti, vero? E mi raccomando non tacere mai, non con me, almeno! Grazie, e alla prossima!
nicoletta93: Ciao, grazie per i complimenti, scusa se ho ritardato di un giorno, mi piacerebbe essere sempre puntuale, ma sia sa che la vita ci chiama! Spero che continuerai a rencesire la storia...grazie ancora! Alla prossima!
Pancake: Ehi, ciao! Bé, ho notato eccome, che ti piace cambiare nick, ma non mi dimentico di te! (E poi se cambiare nick è sintomo di creatività, non credi?) Per ora, come vedi, questa storia continua, sperando di rimanere sempre meravigliosa, come tu l'hai definita (e ti ringrazio tantissimo per questo!). So che Nathan lascia un pò tutti perplessi, ma è anche questo il suo fascino, no? Lui è così engimatico, così difficile da diventare quasi un gioco da risolvere. Mi fa piacere che la parte del diario ti piaccia, perché è in quel momento che si vede la Vicky che un giorno vi mostrerò completamente, una protagonista che ha bisogno di ritornare a essere se stessa. Fammi sapere cosa ne pensi di quest'altro capitolo! Ciao!
DreamsBecameTrue: Ti ho lasciata spiazzata? Non so se è una cosa buona, ma spero che sia in modo positivo! E spero che Lucas continui a piacerti anche dopo...dato che ci saranno un bel pò di cose da risolvere! Ma va bene, ti ringrazio per le tue continue simpatiche recensioni, non manchi mai e mi fai felicissima! Grazie di cuore, ci sentiamo!
fataflor: Ciao, come stai? Non ti preoccupare se non riesci a recensire, quando puoi lo fai, a me fa piacere anche solo il fatto che ti preoccupi di leggerlo! Ahah, qualcuno mi ha detto che Lucas è molte dolce, a qualcun'altro non va a genio, e invece tu hai già deciso, proprio non te lo vuoi far piacere? ahaha, mi hai fatto morire dalle risate, sei decisa! Contentissima che tu abbia recensito, grazie e al prossimo capitolo!
Elly4ever: Ciao, benvenuta! Grazie per i complimenti, sono contenta che ti piaccia il mio modo di scrivere e spero di vedere la tua recensione per questo nuovo capitolo! Fammi sapere se ti è piaciuto! Ciao!!
dragon19: Ciao! Hai proprio ragione, ma non credo di riuscirà mai a capire interamente il carattere di Nathan, spero comunque che ti piaccia come personaggio! Grazie tante per la recensione e per aver letto la storia. Ci sentiamo! =)!

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Capitolo 8
*** Questo ragazzo, quella ragazza ***


Capitolo 8

"Questo ragazzo, quella ragazza" 



«Ti piace questo sole Marnie?», la ragazza castana si ripose immediatamente. «Ma certo che ti piace».

 

Rachelle guardò la mia nuova amica assottigliando gli occhi, e con un sussurro mi chiese: «Ma sta parlando da sola?», mi domandò.

Alzai le spalle e scrollai la testa. Marnie stava parlando tra sé e sé, o forse parlava con il sole che le accarezzava la pelle bianca.

 

«Forse è una moda del posto», rispose Kate per me, incrociando le gambe sul suo telo da spiaggia e afferrando un prodotto per l’abbronzatura. Lei indossava un bikini color oro che addolcivano la sua pelle e si abbinava con i suoi capelli color caramello, al contrario di Rachelle che metteva in mostra un bel bikini blu elettrico, un pò più scuro dei suoi occhi, mentre Marnie aveva scelto un bel verde speranza. 

Il mio costume viola, l’avevo scelto, mentre ad occhi chiusi, non facevo altro che maledire l’idea di essere lì. Ma chi l’avrebbe mai ammesso?

 

«Marnie?», Rachelle la chiamò con una nota di stizza che non prometteva niente di buono. Erano subito entrate in sintonia, senza troppa timidezza o impaccio. Forse era per quella strana aura di Marnie che trascinava con sé chiunque le si avvicinasse.

 

«Non prenderla nel verso sbagliato ma sei strana».

 

Marnie si mise seduta e guardò Rachelle, per poi dirle: «L’ho appena presa nel verso sbagliato».

Io e Kate cercammo di trattenere una risata che evidentemente non piacque né a Rachelle, né a Marnie che ci fulminarono con lo sguardo.

 

«A questo punto credo che la cosa più opportuna sia cambiare argomento», proposi.

 

«Credo anch’io», rispose Marnie, contrariata ma divertita.

 

«Bene, allora parliamo di sono-tanto-bello-da-confondere-Vicky oppure wow-quanto-sono-fico-prendiamo-in-giro-Victoria», disse tutto d’un fiato Rachelle.

 

«Ehi, stiamo parlando di Nathan? Perché sai, ci metti meno tempo a dire il suo nome».

 

«Ma è anche meno divertente», le fece notare la mia amica dai riccioli rossi.  Mi sentivo un di più in quella situazione, nonostante stessero parlando di me e di un mio problema. Forse perché ero tanto confusa da non sapere neanche che posizione prendere. Forse i lunghi nomignoli che Rachelle aveva dato a Nathan, non erano poi così infondati.

 

«Ma lui non ha una ragazza? Dalle mie parti si ha una ragazza perché la si ama», la riflessione di Kate, era  la più logica e anche la più giusta. Ma anche la più sbagliata, se pensavo al bellissimo ragazzo biondo di cui stavamo parlando.

 

«Vuole molto bene ad Emma. Ne è innamorato, a modo suo. Ma dell’amore, quell’amore lui non sa niente», scosse la testa persa in pensieri che neanche io potevo capire. Marnie provava una profonda ammirazione verso Nathan, lo si vedeva dal modo adorabile in cui parlava di lui. Per un attimo mi innamorai di Nathan. Avrei voluto tanto vederlo sotto la prospettiva di Marnie.

 

«Spalanca i tuoi bei occhioni scuri e guarda il mondo per quello che è», intervenne con forza Kate, stupendomi per il tono così dirompente. «Vuoi Nathan? Prenditelo!», alzò la voce di qualche nota.
Forse era il sole che colpiva forte, perché la mia testa girava, e intorno a me vedevo tre ragazze con la stessa folle idea. Io non ero più capace di essere totalmente egoista.

 

«Hey, andate ci piano, stiamo parlando sempre del mio migliore amico», interruppe Marnie. Prendeva il sole ad occhi chiusi, per un attimo avevo addirittura ipotizzato che stesse dormendo, e invece, era molto più attenta di quando pensassi.

 

«Appunto, è il tuo migliore amico. Dicci qualcosa di lui», le chiese Kate, senza insistenza.

 

«Se puoi non indugiare sull’aspetto fisico ancora meglio», aggiunse sotto voce, abbastanza chiaramente però, da farmelo sentire. Marnie non rispose subito, alzò gli occhi dietro le mie spalle, aumentando l’attesa delle mie amiche, che fremevano per una risposta.

 

«Credo che non ci sia un rilevatore di dettagli migliore della vista, Rachelle», e con un mezzo sorriso malizioso, ci fece voltare con un cenno del capo, vero la mia destra, dove in lontananza di scorgevano un gruppo di persone, tra cui Nathan, che ovviamente, spiccava. Con lui, c’era Emma, e al loro seguito scorsi Lucas, i fratelli Tom e Heath, e anche Hilary. Fortunatamente ancora non erano arrivati a noi, e sperai non ci vedessero mai.

 

Tornai a fissare le mie amiche che di certo non indugiavano con lo sguardo. Rachelle fece cadere gli occhiali da sole lungo il profilo del naso, Kate si “limitò” a sorridere in un modo poco casto per i suoi modi.

 

«E’ quello con la bionda?», annuii mordendomi un labbro.

Decisi di distendermi sul telo, afferrando avidamente le cuffie dell’i-pod per scampare da tutto quello che mi aspettava. Dopo il tasto play, ad aspettarmi c’era “Girls Just Wanna Have Fun” . Chiusi gli occhi e…

 

«Credi davvero che bastino due cuffie a nasconderti?», sentii la voce di Marnie sostituirsi alla musica.

La ignorai senza dire una parola. Meno male che c’era la musica ad aiutarmi e a sovrastare tutto il resto con la voce di Cindy Lauper.

 

«Uh, la mia sorellina preferita», la voce di Emma riuscì a sconfiggere anche il mio tentativo di oscurare gli altri rumori. Forse era il ritmo allegro e leggero della canzone, ma il tono di Emma mi parve più alto e spensierato di quanto mi ricordassi. Qualcosa le era andato bene.

Mi tolsi istintivamente gli auricolari quando ormai non potei più nascondermi dietro la musica. Il ritorno degli occhi al sole, mi accecò per un attimo, poi il mio problema principale, diventò un altro.

 

«Credo di essermi persa qualcosa», continuò più calma, alzando le sopracciglia e rivolgendo lo sguardo alle sorridenti Rachelle e Kate.

Davanti a noi, sdraiate e rilassate al sole, c’erano Emma e Hilary, e qualche centimetro dietro, i ragazzi.

Mi alzai di scatto, ignorando il senso di imbarazzo che sentivo nell’essere in costume. Era una cosa stupida, tutti erano mezzi nudi lì, eppure mi irritava essere sotto lo sguardo di così tante persone. Una volta non era così.

 

«Emma, loro sono le mie migliori amiche Rachelle e Kate»

 

Si scambiarono un normale saluto di piacere, e poi entrarono in azione i ragazzi. Lucas, per primo.

«Ciao Victoria», mi sorrise timidamente, facendo sì che io lo ricambiassi dolcemente. Era impossibile non essere gentile con lui.

Intanto Tom e Heath, i due curiosi fratelli, avevano cominciato a chiacchierare apertamente con Marnie che sembrava scocciata da quella situazione, di sicuro lei avrebbe preferito rilassarsi sotto il sole.  

 

«Starete qui per il weekend?», domandò Emma cercando di spezzare il silenzio inutile che si era venuto a creare. Kate annuì senza sforzarsi troppo, poi guardò Nathan, che a sua volta decise di presentarsi. A modo suo, chiaramente.

 

«Sconosciuta, hai chiamato i rinforzi?», mi schernì.
Ogni tanto Nathan riprendeva a chiamarmi sconosciuta, solo per il semplice gusto di attirare la mia attenzione, ipotizzai. Conosceva benissimo il mio nome, delle volte l’aveva anche pronunciato senza nessuna strana intenzione, ma si ostinava a tentare di innervosirmi.

 

«Rinforzi?», ripeté scioccata Kate, presa alla sprovvista da tutta quella maleducazione. Al contrario, Rachelle non si lasciava mai prendere all’improvviso dallo stupore. E infatti, colse la palla al balzo per dedicare al bel biondo dall'aspetto presuntuoso, una della sue pungenti battute.

 

«Sai come li chiamiamo i ragazzi belli e simpatici come te, Nathan?», avrei voluto provare a fermarla ma…«Idioti», affermò maligna. Mannaggia a lei e alla sua impulsività, mai una volta che si trattenesse dal difendere me o Kate.

Nathan sorrise, come se niente lo potesse sorprendere.

 

«Oh, certo. Sei proprio amica di lei».

 

«Smettila Nathan, forza, andiamo», sussurrò Emma, trascinandoselo dietro non prima di aver rivolto un “E’ stato un piacere” alle mie amiche.

Poi, andarono tutti via, tranne Lucas. Mi avvicinai a lui per cortesia e lo vidi portare una mano dietro la nuca, riconobbi quel gesto, come un momento di imbarazzo.

 

«Momento perfetto per godersi il sole, eh?», cominciò. Accordai tutte le idee in fila, e poi annuii.

 

«Il sole può passare. Non è esattamente quello a cui sono abituata», spiegai cercando di apparire il meno sdegnata possibile. Non volevo dare l’impressione della smorfiosa di città. Ci tenevo che Lucas sapesse chi ero veramente, sentivo che della sua gentilezza potevo fidarmi.

 

«Ti va di uscire, stasera?», disse tutto ad un tratto, con tono deciso. «Ti piace il lunapark? Apre sempre durante questo periodo dell’estate e rimane fino ad agosto», mi disse.

 

«Hai detto lunapark?», prima di rispondere pensai involontariamente a Nathan, e mi sentii nuovamente colpevole, la stessa sensazione che avevo sentito quella mattina nei confronti di Emma. Lucas era il migliore amico di Nathan, e mi aveva appena chiesto di uscire con lui, per passare del tempo insieme.

Gettai un’occhiata da lontano, facendo cadere l’occhio sul gruppetto di ragazzi che poco prima si erano fermati davanti a noi. Emma pareva di nuovo allegra, e Nathan non sembrava da meno con il suo braccio intorno alle spalle della sua ragazza. Una di quelle scene da film che davano un senso di pace e leggerezza, che facevano sorridere.

 

«Va bene, ci sto», risposi.

Non accettai perché allo stomaco mi assalì una strana sensazione di tormento e pressione. No, volevo realmente passare del tempo con un bravo ragazzo.

 

---------

 

«Fa una doccia rilassante, tendi muscoli e canta mentre le gocce d’acqua attraversano il suo corpo».

Mi ordinò, tramite telefono, Rachelle. Sentii chiaramente Kate dire “Lasciala in pace, finirà per suicidarsi, così”, e risi impercettibilmente mentre mi chiudevo in bagno.

 

«Sto benissimo, non ho bisogno di rilassare niente. Non sono tesa».

 

«Hai appena detto per tre volte la stessa cosa, non è un buon segno sai?», sentii urlare dalla parte del telefono la voce di Kate. Sbuffai e dopo un saluto frettoloso attaccai infilandomi sotto la doccia.

 

Uscii dalla doccia più rilassata e attiva. Riuscivo addirittura a canticchiare spensierata, tutto grazie ad una lunga doccia calda e serena, nonostante fossimo in piena estate e a Longwood ci fossero quasi quaranta gradi. Pensavo ai lati positivi di quello che mi aspettava: una serata divertente con persone che mi piacevano e tanta musica.  

Sentii la porta aprirsi e rimasi di spalli a litigare con l’accappatoio. Non pensai neanche per un attimo a chi potesse essere entrato nella stanza, diedi per scontato che fosse…

 

«Emma», non mi rispose. «Mi dai una mano a stringere questo asciugamano?», dissi a labbra strette, convincendomi che litigare con quella tela bianca non sarebbe stato divertente, e non avrebbe aiutato i miei nervi riposati. Aspettai che mi rispondesse, ma dalla sua bocca non uscì un soffio. Ero sul punto di pensare che non ci fosse nessuno quando due mani allontanarono le mie dalle due estremità dell’asciugamano e presero il mio posto.

Quando un presentimento mi balenò per la testa, spalancai gli occhi e mi pietrificai. Le due mani strinsero forte la tela –che per poco non mi soffocò-, e con poca delicatezza trasformò le due estremità in un nodo. La persona dietro di me non era Emma.

«Mi piace questo tuo nuovo modo di vestire», la sua voce arrivò lenta e vicina.

 

«Sei un pervertito, vattene», ringhiai a denti stretti contro Nathan..

 

«Mezza-nuda, arrabbiata e imbarazzata? Niente di più sexy», continuò senza un minimo di vergogna.

 

«Lasciami ti prego», mi lamentai. Non avevo intenzione di perdere l’autocontrollo, tanto meno l’accappatoio.

Forse era lo stato di relax in cui mi trovavo, forse era il mio nuovo stile di vita “prendila alla leggera”, ma le mie resistenze non erano molto efficaci e non sembrava che avessi molto voglia di lottare contro di lui. Mi mancava la forza nelle braccia. Forse perché sei troppo occupata a tenerti stretta l’accappatoio, pensò la mia diabolica e poco casta coscienza.

Nathan aveva gli occhi infuocati, occhi che –purtroppo-, riconobbi come occhi pieni di desiderio. Ma quel lampo che attraversava quelle due pietre blu, mi innervosì.

 

«Tu non hai una ragazza? Perché non ti sfoghi con lei?», sbraitai mantenendo comunque, a modo mio, controllo della voce. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era ricevere qualcuno in quella stanza.

 

«Stà zitta», mi chiuse la bocca con un dito.  

 

Sentii le sue mani scorrere sui miei fianchi, mani ardenti che lasciavano una calda scia graffiante, mani troppo veloci che disinibite salivano e scendevano carezzevoli sul mio corpo.

L’asciugamano stava per scivolare via.

Prima che potessi stringerlo ancora di più, le sue labbra erano di nuovo sulle mie. Ancora una volta. Un sapore  che ormai non mi era più nuovo, un sapore che in quei momenti pareva indispensabile.  

Gli mordicchiai il labbro inferiore fino a fargli male, un dolore che ignorò volutamente. Passai a torturargli i capelli con foga. Non sapevo se volessi veramente baciarlo, o provocargli dolore. Ma era tutto come la corrente di un fiume, non ero io che mi comportavo in quel modo, né ero solo trascinata. Vero?

Cercavo di convincermene.  

 

«Ma che diavolo vuoi da me? E per favore, rispondimi questa volta», pronunciai a denti stretti, fissandolo diritto negli occhi, come non avevamo mai fatto. Non ricordavo quel luccichio brillante e liquido che gli colorava gli occhi. Non l’avevo mai notato.

 

«Voglio parlare con te», mormorò come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ci misi qualche secondo ad analizzare la frase. Lo continuavo a guardare come se avesse detto la cosa più assurda e ridicola del mondo.

 

«Bel modo di volermi parlare», mi staccai da lui, come se di colpo il suo corpo bruciasse. Sospirai, già pronta ad ironizzare sulla battuta che mi avrebbe seguito.

 

«Questo non era in programma», e con un gesto secco sminuì l’importanza di quelli che potevano diventare più di semplici baci. Abbassò lo sguardo, ignorandomi lì, ancora gocciolante e con un mini accappatoio arrotolato sul corpo.

 

«Che senso ha? Perché vorresti parlare con me?», mi scappò un sorriso che di divertente aveva poco. Era più un sorriso di incredulità. Non potevo crederci, sta succedendo di nuovo, mi dissi. Aveva ricominciato a prendermi in giro con quelle frasi sconsiderate e insensate, confondendomi le idee con quei sbalzi di umore. Ci mancava solo che facesse un’altra follia.

 

«Esci con me stasera», disse più convinto. Spalancai gli occhi trattenendomi dal ridere. Una risatina amare e stanca, una risatina che avrebbe potuto trasformarsi in molte cose: in rabbia, ad esempio.

 

«Vict…», una voce di bloccò immediatamente, quando entrò nella mia stanza senza bussare. Shane. Ed io e Nathan eravamo abbastanza lontani da non essere scambiati per due passionali amanti innamorati. Che ironia della sorte, era proprio così che volevo essere chiamata dalla mia coscienza?

Ciò non toglieva che io fossi ancora avvolta in un asciugamano, infreddolita, ma con le guance rosse e gli occhi spalancati rivolti a mio fratello. Non avevo idea di come fosse l’espressione sul volto di Nathan.

 

«Nathan, che diavolo ci fai qui?», la voce di mio fratello, diceva tutto dei suoi strani pensieri. Giustamente, per la testa, non gli passavano certo pensieri divertiti o acuti. I suoi occhi si assottigliarono e capii che era il momento di intervenire, ma Nathan mi precedette.

 

«Stavo cercando Emma».

 

«E’ di sotto», spiegò Shane con una nota di disapprovazione e le sopracciaglia inarcate, come se la scusa di Nathan non l’avesse convinto.

 

Se Shane non ci avesse interrotto, non volevo neanche pensare a dove ci saremmo spinti. Non so cosa gli avrei risposto.
Per un 99% avrei risposto con un “no” secco, aggiungendogli un piccante “fottiti”. Eppure a volte, l’un percento è più pericoloso e sleale della maggioranza.

 

«Voglio saperlo?», domandò chiudendo gli occhi in due fessure, come di solito faceva quando era curioso.

 

«Non credo», scossi la testa, incapace di emettere un suono più convinto.

Avrei dovuto sentirmi in imbarazzo dato che mio fratello mi aveva beccata in una stanza, con un minuscolo accappatoio, insieme al ragazzo della nostra sorellastra. Mi sarei dovuta sentire una persona cattiva. Eppure non ci riuscivo.

 

 

“Cara Rain,

che cosa sto facendo? Mi sembra che il mondo stia andando in senso antiorario e io sia l’unica persona che ancora deve cambiare direzione. Stanno tutti bene, nessuno si trova fuori posto, non so come comportarmi. Non è da me.

Nathan. Nathan. Nathan. Quel maledetto ragazzo mi sta sconvolgendo tutto! I miei piani erano: crogiolarmi  nel dolore e nella spaesata e isolata Longwood aspettando che qualcuno mi desse la buona notizia e mi facesse tornare a casa. E invece…sono incastrata in un mezzo lavoro, in due sorelle stravaganti, un padre dispersivo, una nuova strana amica, e soprattutto…sono intrappolata tra due baci ricchi di poco buon senso e passione.
Divertente eh? Visto da questo punto di vista, è quasi assurdo. Io voglio respirare. Nathan è un ostacolo, che io devo scavalcare. Si, è proprio così. Basta affrontarlo di petto, o metterlo a tacere e fargli capire che è meglio cambiare direzione.

Bé..facile a dirsi.

Stamattina la mamma mi ha inviato un e-mail. All’inizio non volevo crederci, lei odia la tecnologia e non in senso figurato, lei litiga letteralmente con il computer –forse perché è l’unico che non può ribattere-, perciò ero sconvolta di ritrovarmi una sua e-mail nella posta elettronica. Almeno fin quando non ha premesso nella lettera, che era stato inviato e scritto da Garrett, da parte sua. Un uomo santo!

Mi ha scritto: “Tutto bene lì?”, come se io avessi potuto rispondergli: “No, voglio tornare a casa!”. Non mi avrebbe ascoltata. Ma perché non faccio altro che deprimermi? Sono veramente così patetica e noiosa?

Probabilmente si.                    

Vicky.”

 

 

«Stasera uscirai con le tue amiche?».

Emma era dall’altro lato della stanza, mentre come me, sceglieva qualcosa dal suo guardaroba, da indossare per il lunapark. Nathan era andato via, e la tensione che avevo cacciato via sotto la doccia, era tornata rendendomi elettrica e nervosa. Il segreto che ora custodivamo io e quella stanza era come un masso di pietra sullo stomaco.

 

«Non proprio», dissi. «Ci saranno anche loro, ma Lucas…», mi bloccai a metà frase, perché proprio non riuscivo a pensare a Lucas o ad Emma, in quel momento. Come potevo reggere quella maledetta situazione? Cioè, mi stavo comportando scorrettamente nei confronti di una ragazza che con me si era sempre esposta nei migliori dei modi.

 

«Oh, non ci posso credere! Esci con Lucas!», urlò prima a denti stretti, per poi lasciarsi andare in una grossa risata che non sembrava avere lo scopo di schernirmi, anche se…

 

«Non esagerare, non usciamo insieme».

 

«Ma Lucas è cotto…sin da quando ti ha visto. Nathan era convinto che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederti di uscire».

Nathan emetteva giudizi su di me con la sua ragazza? Un altro delicatissimo dettaglio che proprio non andava a suo favore. Detestavo che tutti mi parlassero di lui, detestavo che la mia testa bramasse la sua immagine. Sbuffai concentrandomi sui vestiti che avevo. Mi sembravano un ammasso di stoffa inadatta ad un luna park.

Di un abito, non se ne parlava neanche, tanto valeva indossare un paio di jeans ed una t-shirt comoda. Ma che ne avrebbe pensato Lucas? No, era da abolire anche l’idea dei jeans.

 

«Io opterei per dei comodi ma sexy pantaloncini, poi quello che metti sopra farà il suo effetto», mi spiegò Emma, che come se avesse letto i miei pensieri, mi stava indicando un paio di pantaloncini di raso neri, nascosti tra un vestito e una t-shirt.

Non ringraziai ad alta voce Emma, mi limitai a sorriderle sospettosamente, perché ignoravo ancora quell’improvvisa gioia nel sapere che uscivo con Lucas.

 

«Voglio andare sulla ruota panoramica», commentò decisa. «E’ la giostra più ambita, più romantica  più lunga», spiegò afferrando un paio di pantaloni neri e aderenti, una scelta che avrei fatto anch’io.

 

«La ruota panoramica non è una giostra», replicai quasi involontariamente. Cioè…non c’è adrenalina, né divertimento. Ed è inquietante rimanere fermi in aria, a chissà quanti metri da terra…», rabbrividii al solo pensiero. Odiavo le altezze. Non era come la il fastidio che mi creava il sangue, no, era molto peggio. Soffrivo di batofobia, meglio conosciuta come paura delle altezze. Il solo pensiero di qualcosa di alto, o del senso di vuoto, mi rendeva nervosa e fragile. Ci mettevo veramente poco ad entrare in panico. Mia madre era convinta che una fobia non si poteva curare. Con il tempo mi ci ero abituata, ogni essere umano convive con una paura che non può combattere. E poi la ruota panoramica era noiosa.

 

Emma fece spallucce: «Io costringerò Nathan a salirci».

---------

 

«Sei bellissima».

 

Lucas indossava una camicia bianca, con i primi bottoni aperti che lasciavano intravedere un po’ dei suoi pettorali, ed un paio di jeans chiari. I capelli spettinati lo rendevano ancora più carino. Mi ritrovai a sorridergli.

 

«Ti proibisco di farmi altri complimenti stasera»,  lo rimproverai con un grande sorriso, divertita. Avevo la sensazione che mi sarei divertita, che con Lucas, quella serata sarebbe stata una favola.

 

«Mi dispiace, non puoi evitare una cosa così ovvia. La prossima volta non essere così bella se non vuoi che ti facciano complimenti», mi prese per mano e mi accompagno all’auto, con una disinvoltura che non pareva sua. Non ricordavo nessun atteggiamento disinvolto da parte di Lucas, lui era sempre stato gentile, dolce con me, ma mai così deciso. Sorrisi al pensiero che si stesse sforzando per me.

 

«Forza, stasera dobbiamo solo divertirci!».

 

E così fu, all’inizio.
Il lunapark sembrava prendersi metà Longwood per quanto era immenso. La musica era mescolata a grida, risate, parole, al divertimento. C’erano stand pieni di pupazzi colorati, luci provenienti dalle montagne russe e la ruota panoramica. File lunghissime.

«Non credevo che a Longwood ci fosse tanta gente», mormorai stupefatta.

Lucas mi spiegò che non erano solo gli abitanti di quel paesino sperduto ad accorrere al lunapark, anche i paesi nei dintorni vi partecipavano con lo stesso entusiasmo. Per un attimo mi sentii a mio agio dispersa tra più di tre mila persone, tra colori e parole, al fianco di un ragazzo discreto e non invadente.

 

«Sai Victoria, tu qui sei un po’ la ragazza dei misteri», mi confessò.

 

«E’ una cosa positiva o…».

 

«Attrae molti, troppi», si lasciò scappare. Smisi di fissare i colori del lunapark e rivolsi il mio sguardo a Lucas. Una ciocca dei suoi capelli scuri ricadeva perfettamente e in modo lineare sul suo viso dai tratti dolci. Teneva le mani strette nelle tasche dei jeans, e mi chiesi se avesse riavuto il coraggio di prendermi la mano.

Non continuò il discorso, forse si era già pentito del tono irritato che aveva usato, fatto sta che mi rivolse un sorriso e disse:

 

«Corri, dobbiamo arrivare a prendere il posto per il prossimo giro».

 

«Di che parli?», chiesi divertita.

 

«La ruota panoramica», mi sorrise quando gli rivolsi uno degli sguardi più fulminanti che –ci avrei scommesso- avesse mai visto. Lucas non percepì neanche un po’ del mio repentino cambiamento di umore. Ero passata nell’arco di qualche secondo, dall’essere una ragazza felice di essere andata al lunapark con un bel ragazzo, ad una ragazza con un grosso peso sullo stomaco. Non volevo farla difficile, ma allo stesso tempo non mi andava di fare una figuraccia con Lucas: dare di stomaco o sentirsi male su una colorata ruota panoramica il primo giorno del lunapark sarebbe stato come…inaugurare la mia vita piena di figuracce imbarazzanti.

Rabbrividii al pensiero e tornai a guardare Lucas.

 

«Dobbiamo per forza salire lì?», indicai la cime della ruota che già da cinque minuti buoni era fermai in aria. Per quanto le sedie a due, coprissero –perlomeno- la testa, lasciavano il bel panorama di Longwood e dintorni alla vista di chiunque. Terribile, veramente terribile.

 

Non feci in tempo ad obbiettare che Lucas mi aveva già trascinata vicino all’uomo che maneggiava quella cosa. Un uomo sulla quarantina dall’aria simpatica e responsabile, dagli occhi aperti e vispi saluto il ragazzo accanto a me.

 

«Ciao John», Lucas si lasciò dare una pacca sulla spalla dall’uomo, mentre io mi lasciavo prendere dal peso che mi stava divorando lo stomaco. Stupida batofobia.

 

«Lucas, ragazzo mio, sei venuto a fare un giro. E chi è questa bella ragazza?», domandò John rivolgendosi a me. All’inizio temetti di dargli una brutta impressione con l’aspetto che sicuramente avevo assunto.

 

«Sono Victoria, piacere», mormorai. Mi sorrise e indicò le sedie vuote della giostra.

 

«Entrate pure, prima di partire devo aspettare che si riempia tutta la ruota», poi aggiunse. «Buon divertimento».

 

Lucas mi prese per mano e mi fece sedere su quella scomoda finta cabina aperta.

Eravamo tanto vicini da poter scorgere ogni cosa, sperai scorgesse in me abbastanza paura da volersi ritirare e cambiare idea.

 

«Scommetto che ci divertiremo»… io invece avrei scommesso su un’altra cosa. Nel frattempo scorgemmo Marnie tra le folla, con al seguito Kate e Rachelle che si sbracciavano facendo segni incomprensibili e mimando con le labbra parole irriconoscibili. Loro sapevano della mia paura eppure non fecero caso al fatto che avessi il volto pallido e l'espressione costante di un'attrice di film horror. Sopressi un conato di vomito.

 

Ad un certo punto Lucas disse: «Aspettami un attimo qui», e fece per alzarsi ma lo trattenni con la forza della paura.

 

«Deve ancora riempirsi mezza giostra, dico a John di aspettarmi prima di partire, tranquilla Victoria». Mi accarezzò una guancia per poi correre via e raggiungere la sorella. 

Vidi fratello e sorella allontanarsi e discutere di qualcosa, Marnie sembrava molto arrabbiata. Ma non mi importava:  il pensiero di salire in cima e stare lì ferma senza sapere cosa fare, con il solo obbligo di osservare il vuoto…rabbrividii per la seconda volta quella sera. Chiusi gli occhi per cercare di riprendere il controllo di me stessa.

Un minuto circa dopo, sentii uno strano rumore di fianco a me, sobbalzai trattenendomi dall’urlare. Lucas ha ripreso il suo posto, va tutto bene, pensai. Quando aprii gli occhi però non c’era Lucas al mio fianco.

C’era Nathan…occhi fissi sui miei, stretto al mio fianco destro con uno sguardo che, forse per il panico, non riuscii a riconoscere.

E la giostra partì, cominciando a salire.

Fine Ottavo Capitolo.


Buonasera! Oggi è giovedì e ci ritroviamo con un nuono aggiornamento.
Vi ringazio per le lunghe recensioni, per il tempo che dedicate alla storia. Spero di lasciarvi sempre a bocca aperta, di stupirvi e perché no, anche divertirvi. Mi chiedo cosa potrebbe  volere di più, una ragazza che ama scrivere, di lettori che amano la sua storia! Io mi sento sempre soddisfatta quando leggo i vostri commenti. Continuare a farmi sapere cosa ne pensate, grazie per tutto quello che mi dite e per il solo fatto che leggete questa storia! Vi adoro. Goodbye.


CinziaBella1987: Grazie mille per la tua lunga e attenza recensione. Sono contentissima che hai trovato i tempo per scrivere  così tanto per questa storia, spero che non ti deluda mai a questo punto! Mi piace molto il tuo punto di vista, anche a me spiace molto per Emma, ma anche lei avrà quel che si merita! Ma forse non si arriverà mai davvero a un tradimento, chi lo sa? E il ruolo di Lucas può essere interpretato in vari modi...poi tu mi dari secondo te quale sarà! Ti ringrazierò a vita per il tuo sostegno. Grazie! Un bacio, ciao!!

Pancake: Ciao! Sai, non credo di aver sbagliato al darti il via libera per farti parlare, ho adorato tutto quello che hai scritto. Giuro che è mancato poco che non piangessi e mi mettessi ad urlare (perché lo faccio sempre!) dalla commozione! Quello che hai scritto è stato meraviglioso. Ti ringrazio per quello che hai detto sul modo in cui faccio parlare i personaggi, mi lusinga e allo stesso tempo mi fa montare anche la testa xD!
Poi, tornando alla storia, bé, Rachelle e Kate, saranno importanti per Vicky, e per la storia: credo che l'amicizia genuina non debba mai mancare in una storia. Ora sono io a chiederti scusa se mi dilungo troppo. Grazie ancora di tutto, un bacione grandissimo! Bye!
dragon19:  Ciao! Grazie per i complimenti e non ti preoccupare per le domande...sono qui per questo e mi fa piacere che siate così interessate da farmi sentire la vostra teoria. Perciò, bé buona parte della tua teoria è esatta, continua così...xD! Grazie ancora...alla prossima! 
nicoletta93: E' arrivato giovedì e ho aggioranto, allora...che ne dici? Mi raccomando fammi sapere! Al prossimo capitolo!

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Capitolo 9
*** L'artista ***


Capitolo 9
"L'artista"


  

«Io ti chiedo di uscire con me, e tu esci con Lucas?», mi chiese sconvolto.

Mi guardai attorno, troppo occupata a farmi prendere dal panico. Volevo scendere da lì, volevo mettere i piedi per terra e andare anche il più lontano possibile da Nathan che mi rincorreva sempre al momento sbagliato. Volevo non trovarmi in quella maledetta condizione di panico mescolato a nausea e batticuore intenso.

 

«Ti prego Nathan, non ti ci mettere anche tu. Voglio scendere», ignorai il resto. Ignorai che il giro era cominciato, che Lucas era rimasto giù e che con me ci fosse il ragazzo di mia sorella. Ignorai la nostra stretta vicinanza e la brutta situazione in cui mi trovavo. Ero terrorizzata.

Mi voltai lentamente verso Nathan, incurante del mio viso stravolto e della brutta impressione che potevo dargli. Dovevo essere sbiancata, perché l’espressione sfacciata di Nathan tramutò.

 

«Che ti succede?», non risposi, tacevo tremante. Mi guardai attorno ma feci un grosso errore: notai l’altezza a cui eravamo arrivati e spalancai la bocca sul punto di perdere i sensi.  

 

«Voglio scendere», ribadii più forte. Nel frattempo la ruota era già arrivata a molti, troppi, metri da terra, salendo lentamente quasi a voler prolungare il mio senso di nausea. Ero troppo confusa per riuscire a formulare una richiesta d’aiuta, o qualcosa che comunque avesse senso. Dovevo sembrare un misto tra un vegetale o una ragazza traumatizzata, eppure non potevo evitarlo. Tutto intorno a me era più alto.

 

«Guardami», sentii a malapena la voce di fianco a me. Provai a voltarmi lentamente cercando di controllare quella voglia che avevo di chiudere gli occhi e perdere i sensi.

Incontrai gli occhi di Nathan, spalancati e blu, e provai a perdermi dentro a quelle due piccole pietre immense.

 

«Perché diavolo sei salita qui se…Oh, non importa», sbuffò. «Chiudi gli occhi», disse in tono più autoritario, tanto che ubbidii senza obbiettare. Continuavo a sentire sotto di me la giostra che impercettibilmente si muoveva verso l’alto. Ma fin dove dobbiamo arrivare? Pensai.

 

«Respira», un altro ordine che non contestai. Poi ad occhi chiusi, mentre facevo grandi respiri, lo sentii mormorare “E adesso che faccio?”. E finalmente sorrisi, anche se per una frazione di secondo. Stava cercando un modo per tranquillizzarmi? Proprio in quel momento che avrebbe potuto cogliere la mia debolezza per distruggere la mia dignità.

 

«Tu sei un’artista vero?», mi domandò a voce stabile, stringendomi entrambe le mani. Avrei voluto aprire gli occhi per un attimo e vedere il suo sguardo e accertarmi che le mie mani nelle sue non fossero un’immaginazione.

 

«Okay vediamo se ti canto qualcosa…», disse. «...look for the girl with her broken smile, ask her if she wants to stay a while, and she will be loved», urlò fino a strozzarsi. Era terribilmente stonato, e ancora una volta maledii la mia paura che mi teneva gli occhi serrati e non mi lasciava vedere quello spettacolo che doveva essere Nathan mentre cantava.

 

«Oh, smettila con quel lamento. Mi fai venire ancora più mal di testa», gridai tappandomi le orecchie, ma tenendo sempre -come lui mi aveva ordinato- gli occhi serrati. Eppure mi scappò un altro sorriso. Nessuno aveva mai provato a piccoli gesti, e sbagliando, a farmi sentire bene quando andavo in panico.

 

«Se sei riuscita a insultarmi, stai sicuramente meglio», constatò.

Gli sarei stata grata a vita.

 

«Grazie», e aprii gli occhi.

 

«Bentornata tra noi».

Lasciai che la mia attenzione ricadesse di nuovo su di lui, ma le luci, il rumore chiamavano i miei occhi e mi lasciavano un senso di nausea e vuoto.

 

«Guarda me, Victoria», mi indicò i suoi occhi e delicatamente afferrò il mio mento portandola nella sua direzione. «Il giro durerà almeno altri cinque minuti».

 

«Come hai fatto a salire?», sorrise come se si aspettasse che gli facessi quella domanda e avesse una risposta già pronta.

 

«Vi avevo visti salire insieme», disse chiaramente infastidito. «E quando ho visto Lucas scendere, ho lasciato Emma alle sue amiche e sono saltato su minacciando John il licenziamento se non fosse partito subito», spiegò come se stesse recitando un’allegra poesia con innata espressività.

Inarcai le sopracciglia.

 

«Perché sei salito qui su? Ehi, no aspetta…perché potresti licenziare John?», incastrai le parole in un aggroviglio di pause e sospiri confusi. Quel ragazzo era capace di mandare a letto il mio vocabolario.

 

«Questo è tutto mio», dalla mia espressione confusa capì che doveva spiegarsi meglio. «Il lunapark appartiene alla mia famiglia».

 

«Cosa?», gridai, poi, come se mi fosse dimenticata di una cosa, aggiunsi: «E tu avresti avuto il coraggio di …oh», staccai le mani dalle sue e cominciai a tirarmi i capelli in preda all’isteria.

 

«C’è una sola cosa che mi irrita più di questa ruota, e sei tu!».

 

«Calma, stavo scherzando. Non avrei mai licenziato John, mio padre non me l’avrebbe mai permesso», rise di gusto. Un’altra presa in giro da aggiungere alla lista.

Stavo per rispondere che era un idiota fallito senza un briciolo di serietà, ma lui gettò uno sguardo dietro le mie spalle e smise di sorridere.

 

«Dobbiamo scendere», e mi fece notare che eravamo fermi. Tutta quella tortura era finita.

Mi voltai istintivamente quando sentii il mio nome.

 

«Lucas!», gridai con una nota di isteria e mi maledissi per averlo urlato come se fossi stata colta in flagrante. Io non avevo fatto niente.

Nathan mi lanciò una gomitata nel fianco che mi lasciò senza respiro, ma solo quando parlò capii perché l’aveva fatto.

 

«Salire sulla ruota panoramica non è stata una buona idea», cominciò a recitare. «Luc come ti è venuto in mente di scendere e lasciarla sola, proprio quando stava per cominciare il giro?». Nathan si espresse con talmente tanta innata naturalezza, che per un attimo anch’io riuscii a credergli. In aiuto di Nathan, inconsapevolmente, giunse Kate.

 

«Ancora batofobia?», si rivolse al mio viso pallido e al poco equilibrio che mi teneva in piedi. Rachelle ci guardava tutti in modo circospetto, probabilmente stava analizzando la sua nuova teoria, e probabilmente ci avrebbe azzeccato in pieno. Lucas non era convinto della versione naturale e pulita che gli aveva dato Nathan, ma anche se fu così, lasciò perdere.

 

«Mi dispiace, facciamo un giro sulla spiaggia?»,  guardai ancora una volta Kate e Marnie, Rachelle era nascosta dietro le spalle di Nathan.

 

«Dovrete rimandare. Luc mi serve un passaggio, per favore», lo implorò la sorella che parve metterci poco a convincerlo. Marnie era terribilmente tenera quando stringeva i suoi occhi scuri e sollevava il labbro inferiore, per non parlare del fatto che Lucas era troppo sensibile per non crollare immediatamente a quel richiamo di sirena.

 

«Tu come torni a casa?», si rivolse a me guardandomi dispiaciuto.

Non volevo che si preoccupasse di piccolezze e routine che appartenevano a cosa che io di solito detestavo. In tutti gli appuntamenti che avevo avuto non avevo mai lasciato che qualcuno pagasse per me, che mi facesse dei regali, non riuscivo ad accettare che ci fossero così tante regole da rispettare in un occasione che deve essere così naturale.

 

«Ci penso io», si intromise Nathan. Tutti ci voltammo a guardarlo: sembrava serio, teneva la braccia lungo i fianchi e lo sguardo fisso su di me. Non dava segni di cedimento, la sua disinvoltura mi spiazzò. O era incredibilmente stupido o era incredibilmente folle.

 

«Ehm…Vic, fatti accompagnare al nostro albergo, dormi da noi stanotte», Kate per farmi chissà quale segno, per anticipare chissà quale risposta.

 

«Si, accompagnami all’hotel», annuii.

Lucas si lasciò trascinare dalla sorella, ancora molto contrariato. Kate e Rachelle con un cenno ci lasciarono soli dissolvendosi tra la folla di persone. Prima che tra noi ci potesse essere quello che si chiama silenzio imbarazzante, mi venne un dubbio.

 

«Ma, non devi accompagnare anche Emma?», si strinse nelle spalle e fece una smorfia confusa. Ma aveva capito che parlavo della sua ragazza?

 

«Torna con Hilary e Carmen», poi aggiunse. «Andiamo?».

 

---------

 

Riconobbi l’auto con cui mi stava accompagnando: non era la sua, era dei gemelli Tom e Heath. Lui vive di moto forse non ne ha una sua, pensai. Scacciai subito quel pensiero e decisi di mantenermi nella realtà almeno finché non mi avrebbe portata…

 

«Al Riot Hotel», gli diedi indicazioni. Inserì la marcia e sfrecciò via. Nathan guidava senza sforzi, con una destrezza invidiabile. Il silenzio ci accompagnò per tutto il tragitto, il solo sfrecciare delle macchine riusciva a distrarre i miei pensieri dalla continua voglia di guardarlo.

Quando arrivammo davanti all’albergo,  mentre lui spegneva meccanicamente il motore, io mi strofinai le mani per il freddo. L’idea di Emma dei pantaloncini era buona, fino a quando la notte non diventava gelida e non ibernava le gambe, perciò, con grande sforzo, uscii dall’auto.

Con un cenno imbarazzato, salutai Nathan, che mi aveva seguito fino all’ingresso dell’albergo. Non sapevo esattamente cosa dirgli: avrei potuto stare zitta e continuare per la mia strada, oppure avrei potuto dire una di quelle frasi che si dicono giusto per parlare. Poi, incontrai i suoi occhi, vidi lo stesso sguardo forte e deciso, che avevo visto sulla ruota panoramica. Lo sguardo di quel ragazzo che mi aveva aiutato quando mi sentivo chiusa nella mia paura.

 

«Come fai, Nathan?».

 

«A fare cosa?», chiese guardandosi attorno.

Sospirai, indecisa se continuare o lasciar cadere il discorso. Chiusi gli occhi e di seguito inspirai l’aria fresca dell’estate.

 

«Ad arrivare sempre al momento sbagliato, e a farlo diventare il momento giusto», un’altra folata di vento mi avvolse lasciandomi la pelle d’oca. Nel frattempo evitavo di voltarmi e guardarlo.

 

«Per quanto mi piacerebbe dire che tutta opera mia e della mia incredibile bellezza, credo che dipendi dal fatto che non riesco a starti lontano».

Smisi di respirare. Mi pentii di aver aperto gli occhi così presto, perché reggere il suo sguardo non fu facile.

 

Quello che mi irritava di più era che mi dimenticavo troppo facilmente che fosse fidanzato.

Sospirai e deviai verso la sua guancia.

 

«Di questo passo ti innamorerai di me», con una mano mi accarezzò i capelli in modo ipnotico, fissandomi con quegli occhi magnetici, neanche mi stesse facendo un incantesimo, eppure l’effetto sembrava quello, mi stavo incantando, per non dire “incastrando” nei suoi occhi.

 

«Che stai facendo?», spezzai quel filo che teneva i nostri occhi allacciati e mi fissò confuso.

 

«Cosa?».

 

«Non guardarmi più così», dissi sulla difensiva, ma lui continuò a non capire.

 

«Perché come ti guardo?», alzò le mani come se fosse al massimo grado si sforzo con me, e che arrivato a quell’ora non ce la facesse più a sopportare.

 

«Tu stai cercando di incantarmi», mormorai controllando il tono di voce irritato. quando capii di essermi intrappolata da sola arrossii vergognosamente. Sul viso di Nathan era già comparso un sorriso compiaciuto.

 

«E ci sto riuscendo?», scrollai la testa facendogli capire che non gli avrei mai risposto, poi lo mollai senza neanche salutarlo. In cinque minuti ero già nella stanza 605, la stanza di Kate e Rachelle.

Verso mezzanotte, ero sdraiata sul letto matrimoniale, tra Kate e Rachelle che nonostante stessero in silenzio, -ne ero convinta- tenevano le orecchie ben aperte. Da quando erano tornate non avevano fatto domande, né io mi ero spinta ad aprire una discussione.

Non avevo voglia di dire niente, non avevo voglia di spezzare quel silenzio che per noi era mille cose.

 

«Com’è andata stasera?», chiese a bruciapelo Kate. Tenendo gli occhi chiusi mugolai un “molto bene”.

Passai un ‘ora a riflettere a vuoto prima di addormentarmi, ma quando ebbi la prova che Kate stava dormendo –e quella prova era il suo russare-, mi decisi a parlare, senza pensare a cosa dire, per la prima volta. Decisi che era il momento di raccogliere i miei pensieri e concentrarli su questioni che non riguardavano me.

 

«Rachelle, posso chiederti una cosa?», le domandai cauta. Mi guardò curiosa e si limitò ad annuire.

 

«Se avessi potuto continuare la tua storia con Shane», mi bloccai aspettando che attutisse il colpo.

 

«L’avresti fatto? Cioè…ti sei mai pentita di averlo lasciato?», mi schiarii la voce appena mi accorsi dello strano tono che aveva assunto. Fissai, nel buio, Rachelle. Immaginai il suo viso corrucciarsi e poi distendersi.

 

«Vuoi la verità? No», spalancai gli occhi e lei sorrise lievemente. «Vedi, tesoro, ho avuto più di quanto mi aspettassi. Shane è stato più di quanto volessi».

 

«Non posso lamentarmi se non c’è stato il per sempre. Preferisco ricordare la nostra storia come un punto di forza della mia vita, piuttosto che vivere un amore d’apparenza, privo di valori».

 

«Perciò…sei felice?», continuai a domandarle come una bambina.

 

«Chi è felice veramente?», fece una piccola risatina amara e per un attimo il suo viso rifletté un ombra più scura del buio della notte, che la fece sembrare più adulta. «Quando sentirai di essere veramente felice, me lo dirai vero?», aggiunse speranzosa.

 

«Voglio assistere ad un miracolo».

   
                                                                                                                                                                                                                       Fine nono capitolo.



Buonasera mondo!  Nonostante sembrasse impossibile, sono riuscita a pubblicare questo capitolo.
Grazie alla nuova applicazione di EFP troverete le risposte alle vostre recensioni, lì dove mi avete lasciato i vostri commenti. 
Ci ho messo un pò di tempo a scrivere questo capitolo perché ci tenevo che desse il giusto risultato che riuscisse ad emozionare, a farvi anche divertire e a farvi sentire più vicini i personaggi. Se a volte le cose che succederanno saranno completamente diverse da come ve l'aspettavate, non fateci caso, le cose più originali, più uniche, sono le mie preferite!
Vi ringrazio per TUTTO! Non smetterò mai di adorarvi...


"...Nothing compares to you..."

 

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Capitolo 10
*** Off The Chain ***


Capitolo 10

"Off The Chain" 



«Devi conoscere il tuo io interiore», consigliò Kate a Marnie, durante uno dei suoi saggi su “credi in te stessa e sarai bellissima”. La povera Marnie era caduta sotto uno di quei insegnamenti tipici del frutto dell'amore di due figli dei fiori, qual'era Kate.

 

«No, grazie», disse convinta. «Preferisco quello esteriore».

 

Rachelle si volto versò di me, sconcertata. «Sono sempre più convinta che non sia normale».

 

«Sarà anche vero, ma se non fosse per me sareste rimaste tutte a piedi, te compresa signorina Hamilton». La macchina quel giorno serviva a

 

«Dai Marnie, sai che ti adoro», le pizzicai una guancia affettuosamente, sorridendo al vento, che mi scompigliava i capelli. La cosa più bella della porche di Marnie era i tettuccio: con noi in auto, era sempre aperto.

Le ragazze avevano deciso di accompagnarmi all’officina dei Carver prima di andare a fare shopping nell’unico centro commerciale di Longwood. Quella sera Kate e Rachelle sarebbero tornate a New York ed io sarei tornata alle giornate vuote e depresse della prima settimana a nel Wisconsin.

 

«Ciao Luc», salutai allegramente, poi con feci un cenno a Tom e Heath che accerchiavano il bel fratello di Marnie intento a cambiare il motore.

Avevo imparato molto sui motori in quelle settimane sotto lavoro. Non ero ancora in grado di cambiare una ruota ma quelle settimane in officina mi avevano insegnato molto sulla teoria...sulla pratica, c'era ancora molto da fare. 
Entrai nella stanza a cui ero costretta a passare ogni mattina e trovai già Nathan, con sorpresa, guardare con sguardo adorante la moto non più coperta da un telo. Si voltò e mi rivolse un sorriso.

 

«Ascolta, Victoria», cominciò. «Off The Chain è tornata splendere», mi annunciò sorridente ma senza malizia.

Inarcai le sopracciglia confusa e mordendomi il labbro inferiore ripetei: «Off The Chain?».

 

«E’ il suo nome», mi indicò quella che era stata la mia migliore amica durante i pomeriggi estivi di lavoro, quella cara e brillante moto a cui una volta ero stata nemica.

 

«Quella moto ha un nome?», mormorai sbalordita.

 

«Invece di ridere vieni con me, dobbiamo passare a casa mia», disse serio.

 

«Cosa dobbiamo fare?», mi strinsi nelle spalle.

 

«Devo prendere i colori per finire ufficialmente», lanciò un altro sguardo alla sua Off The Chain come se fosse un essere vivente. Avevo due modi per interpretare il suo sguardo: strano o tenero. Optai per una terza interpretazione: inquietante.


«Allora, devo aspettarti in eterno o ti decidi a muovere quelle gambe?», mi urlò facendomi sobbalzare. Scrollai la testa e l seguii in silenzio fuori dall’officina fino ad un’auto. Mi mostrai fin troppo titubante e immediatamente

 

«Sai, anch’io guido un’auto. Non esiste solo la mia moto», presi posto ignorando ogni suo tentativo di aprire un discorso, tanto sapevamo entrambi come sarebbe andato a finire: o l’avrei picchiato, o l’avrei baciato, e nessuna delle due era abbastanza normale. 

 

Arrivammo davanti a villa Carver cinque minuti dopo che Nathan prese la rincorsa con l’auto. Non spiccicammo una parola, se non sbuffi, sospiri, e sguardi con la coda dell’occhio. Era così ridicolo che prima o poi uno dei due sarebbe scoppiato a ridere per il modo in cui ci comportavamo.

La casa era vuota, sempre ordinatissima e ariosa. Nathan non mi fece nessun cenno, ma a causa della mia divorante curiosità mi presi la libertà di seguirlo silenziosamente per le scale.

 

«Nate», disse una voce. Sussultai e portai istintivamente una mano al cuore. Io e Nathan ci voltammo contemporaneamente e vedemmo spuntare la figura decisa e possente del signor Carver. Il padre di Nathan, aveva un aspetto duro e consumato, eppure c’era qualcosa di così elegante nei suoi modi che ricordava quello di suoi figlio. E inoltre il suo viso mi era già familiare, come se lo avessi già visto da qualche parte. Forse avrei dovuto chiedere a Nathan qual'era il lavoro di suo padre.

 

«Come mai qui?», mi lanciò un occhiata non del tutto chiara.

 

«Devo prendere della vernice in camera», disse Nathan. «Per la moto», aggiunse.

Il signor Carver borbottò qualcosa scuotendo la testa, poi sparì nello stesso modo in cui era venuto.
Nel frattempo Nathan era già salito, mi affrettai per raggiungerlo.

Al piano di sopra c’erano tre camere, una doveva essere il bagno, un’altra ipotizzai fosse la sua stanza e non feci in tempo a dare un occhiata all’ultima in fondo che ero già entrata in una stanza dallo sfondo blu, grande e disordinata.

La camera di Nathan Carver.

 

Mi voltai giusto in tempo per vedere Nathan armeggiare con la serratura della porta.

«Che fai?», lo guardai chiudere con forza la porta insistendo con la chiave.

 

«Dato che non riusciamo ad parlare normalmente», disse nascondendo la chiave nell’aderente tasca dei suoi jeans. «Ho pensato che rinchiuderti con l’inganno nella stessa stanza con me, sarebbe stata l’ultima carta da giocare», si strinse nelle spalle come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Spalancai gli occhi, sconvolta, ma non troppo stupita dal suo tranello. Dopotutto non era la prima volta.

«Potrei mettermi ad urlare», minacciai.

 

«Bé, mio padre potrebbe pensare male», disse sorridendo. Arrossi violentemente e senza avere il tempo di controllarmi.

 

«Perché ogni volta che decido di fidarmi di te, me ne pento sempre?», sbuffai tanto da spostare una ciocca di capelli da un lato all’altro.

Nathan incrociò le braccia al petto e si appoggiò sulla porta chiusa a chiave, come una statua da ammirare, un Bronzo di Riace.

 

«Finché non sarò soddisfatto di questo sequestro non aprirò la porta», scosse la testa come un bambino dispettoso.

Per istinto sbattei un piede a terra, come una bambina capricciosa, ma il rumore delle mie scarpe da ginnastica era poco in confronto al rumore che avrei voluto simulare.

Gironzolai per la stanza, mentre i miei occhi non sapevano dove guardare: volevo assimilare quanti più dettagli possibili. Aprii ogni cassetto senza aver paura di mettere le mani in cose private, dato che lui mi aveva…come dire, rinchiusa? Non avevo idea di come fosse la sua espressione in quel momento, ma sperai che non si stesse divertendo come faceva di solito.

Nell’ultimo cassetto di fianco al letto, oltre ad una marea di penne c’era uno spesso fascicolo di fogli fotocopiati. Lo afferrai e sperai che dentro ci fosse qualcosa che potesse fargli pentire di avermi lasciata nella sua stanza. 

Era un copione. Riconoscevo bene quei fascicoli perché a scuola me ne avevano dati tanti e Rachelle ne aveva una collezione intera dei copioni da imparare. L’unica cosa che mi sfuggiva era cosa ci facesse lì.

 

«E così il Nathan Il Grande si cimenta nel teatro», lo schernii senza essere troppo acida. Anche se non l’avrei mai ammesso, quella scoperta mi sorprese piacevolmente, nonostante sentissi che c’era qualcosa sotto: Nathan non sembrava possedere quella che si chiama l’anima dell’artista.

 

In un batter d’occhio mi strappò dalle mani il consistente copione e mi lanciò uno sguardo fulminante. «Questi non sono affari tuoi».

La voce tuonante, il fulmine che gli trapassò gli occhi, mi fecero capire che si sentiva imbarazzato e capii di essermi conquistata una piccola rivincita.

 

Risi sommessamente. «Nathan, non guardarmi così», continuai a ridere divertita del suo sguardo buffo.

 

«E’ per la scuola», mi spiegò sedendosi sul bordo del materasso, fissando con sguardo truce il copione.

 

«Tanto non avevo intenzione di farlo, troverò una scusa», ritornò al suo tipico tono di strafottenza. Portò le mani nei capelli, un modo che trovai estremamente sexy per essere un semplice gesto incosciente.

Nathan sembrava non accorgersi dell’effetto che alcuni piccoli gesti facevano sugli altri. Si focalizzava su aspetti troppo scontati, dell’essere attraente, e non capiva che bastava poco per mostrare il proprio fascino.

 

«Io non ci trovo niente di male».

 

«Lo so», disse stupendomi. «Ma io non sono te».

 

«Ed io non ti ho detto di esserlo», alzai le spalle e provai a fissarlo negli occhi senza abbassare lo sguardo dopo qualche secondo. Mantenemmo gli occhi negli occhi per un po’,

 

«Di che cosa parla?».

 

«Credo…due amici innamorati l’un l’altro sin dall’inizio. Prendono strade diverse e quando lui è sul punto di sposarsi capisce che è lei che vuole, la sua migliore amica. Una sdolcinatezza degna di…come si chiama quello? Will Shakes…qualcosa del genere», mi spiegò in breve senza dare peso alle parole, e per un attimo mi diede l’impressione di non capire quello che mi stava dicendo.

 

«Vuoi dire William Shakespeare?», sorrisi involontariamente, prendendo posto di fianco a lui,

 

«Si, quello. Come vedi, non sei solo tu l’artista».

Era la seconda volta che Nathan si rivolgeva a me in quel modo. Artista. Anche se facevo di tutto per non ammetterlo, nessuno mi aveva mai definito un artista solo perché vivevo d’arte, quel suo punto di vista –anche se lanciato come un dispregiativo- mi piaceva.

 

«Quanti anni hai Nathan?».

 

«Diciannove», pronunciò all’inizio, poi si schiarì la voce e disse: «La scuola dove vado è molto particolare. La frequento da quando avevo dieci anni e quest’anno sarà l’ultimo», terminò con un sospiro di sollievo che mi fece intuire la poca ammirazione che aveva nei confronti della sua scuola.

 

«Che scuola è?», domandai con attenzione.

Marnie mi aveva già raccontato qualcosa della scuola che frequentava Nathan. “Un collegio per ricchi bambini indisciplinati”, l’aveva definito.

 

«E’ una scuola un po’ rigida», notai lo sforzò che usò per sminuire la cosa e capii che Marnie aveva dato giustizia all’impressione che aveva Nathan della scuola che frequentava da quasi dieci anni.

 

«Quest’anno ci saranno gli esami finali, se riesco a passarli potrò finalmente liberarmi di quella tortura», scrollò le spalle e si gettò a peso morto sul materasso. Io rimasi seduta all’estremità del letto, ma mi voltai per guardarlo.

 

«Dovrei come minimo prepararmi per la recita di teatro, ma non ho intenzione di imparare questa robaccia», indicò il testo fra le mani. Sorrisi involontariamente

Non potevo crederci. Io e Nathan stavamo tenendo un discorso senza urlare, picchiarci o assalirci, senza battutine sprezzanti o commenti inadeguati. Stavamo parlando come due amici.

 

«Emma vuole che io ci provi, anche perché potrei giocarmi l’anno…ma è assurdo», scrollò la testa lentamente, dando l’impressione che fosse veramente stanco di quel pensiero.

 

«E’ questo il motivo dei tuoi litigi con lei?», non nascosi la mia curiosità e lui sembrò notarlo.

 

«Non sono affari tuoi», mormorò distogliendo lo sguardo da me. Capii di essere entrata in questioni che non mi appartenevano, ma d’altronde lui mi aveva rinchiusa nella sua stanza, è un mio diritto farmi i fatti suoi.

 

«Cosa vuoi fare fa grande, Nathan?», continuai insistente, rivolgendogli ogni domande che mi passava per la testa. Perlomeno avrebbe capito il significato della parola disperazione.

 

«Tu cosa vorresti fare?», evitò la domanda rivoltandola a me. Accolsi con piacere la sua domanda, sperando che mi avrebbe poi risposto a sua volta.

 

«Vorrei fare tante cose, vorrei essere tante cose…ma voglio che abbia qualcosa a che fare con la musica», asserii, ma non spostai l’argomento su di me.

Aspettai fissandolo, mentre lui, steso sul suo letto continuava a fissare il soffitto, poi ammise.

 

«Il dottore. Vorrei fare il dottore», e lo disse in modo serio, talmente serio che non potevo non credergli.

E inaspettatamente, scoppiai a ridere. A ridere di gusto, apertamente, senza riuscire a trattenermi. Nel frattempo Nathan si alzò dal letto, con l’espressione sconvolta dalla mia reazione. Solo quando notai quanto eravamo vicini, quanto bastasse poco a toccare le sue labbra, quanto le nostre mani erano una sull’altra.

 

«Credi davvero che sia divertente?», ci pensai su con serietà. Poi risposi:

 

«No. Rido perché mi piace».

 

---------

 

Alla fine Nathan mi liberò dopo qualche secondo di distanza dalla mia confessione. Se era rimasto stupito dalla mia improvvisa ilarità di fronte ai suoi progetti, era rimasto ancora più stupito dalla mia sincerità quando gli avevo detto che mi piaceva la sua idea, il suo sogno. Forse nessuno gliel’aveva mai detto.

 

Quando tornammo in officina, dopo un’occhiataccia scocciata da parte di Lucas e cenni da parte di Tom e Heath, Nathan mi affidò il pennelli sottile e la vernice nera.

 

«Ti va di scriverlo tu?», chiese all’improvviso.

 

Risposi con un’altra domanda: «Prima…posso chiederti una cosa?», il suo silenzio mi fece continuare. «Perché proprio “Off The Chain”?».

 

Nathan mi rispose qualche secondo dopo, forse, dopo aver riflettuto su cosa dirmi o se dirmelo. «Tra tutte le moto che potevo avere ho scelto questa. Perché è fuori dalla catena, perché è diversa dalle altre, perché mi piaceva più delle altre anche se era ridotta peggio», mi spiegò con un tono che non aveva niente a che fare con la solita voce divertita e prepotente. Adorai quello sguardo di ammirazione e serenità che vidi riflettersi nei suoi occhi, anche se era solo riferito ad una moto di poco valore.

 

«Allora, diamo un nome a questo gioiello», accennai un sorriso e mi piegai con il pennello per scrivere delicatamente sulla lucida vernice blu, il nome della moto. Il fatto che fosse importante per Nathan fece diventare una semplice scritta, un marchio importante, una responsabilità che aveva affidato a me.

Lentamente e con fare elegante cercai di imitare la scrittura raffinata dell’Ottocento.

Off The Chain era pronta.

 

---------

 

«Io dico che è i Muse non sono niente di che».

 

«Stai scherzando? Sei un insulto alla società», ridemmo ancora una volta, insieme, nonostante ci stessimo insultando come al solito, lo facevamo con più innocenza, accortezza.

 

«Nate!», una voce femminile emerse nello stanzino. Emma arrivò spedita e brillante verso di noi, in particolare verso il suo ragazzo,

 

«Ciao Vic», mi fece un cenno con la mano, poi guardò sognante il suo ragazzo.

 

«Allora, hai ricevuto i miei messaggi?», chiesi abbassando la voce. Mi sentii un di più e sperai che non facessero caso alla mia presenza. Ma riuscii a sentire un rumore pesante contro il muro. Un pugno, probabilmente.

 

«Emma te l’ho già detto, non ho intenzione di prepararmi a recitare. E’ ridicolo. Io non faccio queste cose», mormorò sbalordito. Rimasi lì in silenzio, a passare inutilmente, uno straccio sui freni della moto, quando capii che in quella discussione non c’entravo niente. Mi feci sempre più piccola, sperando di diventare invisibile ai loro occhi. Imbarazzante era l’aggettivo ideale.

 

«Ma perché rischiare, cosa ti costa?», poi aggiunse con foga. «L’hai detto a tua madre?», Emma si stava arrabbiando sul serio. Forse era così che succedeva quando litigavano.

 

La porta si aprì di nuovo e i tratti angelici di Lucas si trasformarono in una smorfia. «Che succede qui?». Nathan guardò il suo migliore amico come se fosse la sua unica ancora di salvezza.

 

«Lucas portamela via prima che mi arrabbi», disse Nathan in tono scherzoso, per alleggerire l’atmosfera. Emma gli tirò un pugno sul torace

 

«Non sei divertente. Delle volte sei proprio un bambino! Sono stanca di cercare di metterti la testa a posto», la bella bionda portò una mano alla fronte e sbuffò, chiaramente seccata. Mi dispiaceva vederla dannarsi per una cosa che, a mio parere, sembrava un caso perso anche solo a pensarlo, ma se Emma credeva in Nathan, doveva pur esserci qualcosa in lui.

 

«Possiamo parlarne dopo, soli?», le sussurrò, evidentemente non abbastanza piano da non farlo sentire a me e Lucas. Emma scrollò la testa allontanandosi dalle possenti braccia di Nathan.

 

«Oh no, non basterà una notte questa volta», disse ad alta voce. Oppure fui io che lo sentii così alto da rimbombarmi nella testa.

 

«Mettiamo un po’ di musica, okay?», annuii e lo guardai accendere lo stereo.

 

---------

 

«Dovete andare per forza?», biascicai.

 

«L’accademia è aperta anche in estate, anche se non è obbligatoria, e sai che noi dobbiamo tenere viva quella scuola! E poi, gli studi vanno pagati…il lavoro non aspetta!», scherzò amaramente Kate stringendomi forte a se.

Rachelle detestava i saluti, per questo, quando ero partita per Longwood non si era fatta vedere: forte com’era, ma non sopportava un arrivederci.

 

«Tienicela d’occhio», con un cenno del capo si rivolse e Marnie, poi mi abbracciò.

 

«Ricorda che puoi avere anche la nostra età, crescere quanto vuoi, ma rimarrai sempre la nostra piccola Vicky», continuò lasciandomi scappare un sorriso. Se avessero continuato così

 

E si allontanarono con le loro valigie e i loro sorrisi, fino a perdersi tra la folla di viaggiatori.

«Shane, riportaci a casa», mio fratello mi mise una mano dietro la schiena e accompagnò me e Marnie a casa.

Durante il viaggio dall’aeroporto a casa,  avevo ascoltato passivamente i battibecchi tra Marnie e Shane, e mi sorpresi della loro confidenza. Quando era successo?

Forse mentre eri occupata a pensare a risolvere sempre i tuoi problemi, disse la mia maligna coscienza.

 

«Non correre così veloce, hai superato gli 80 all’ora! Di questo passo l’auto ci lascerà a piedi», aveva detto Marnie. A Shane mancava poco affinché perdesse il controllo e fermasse l’auto per farla scendere. In un altro momento, quella situazione mi sarebbe parsa addirittura divertente.

 

«Forse se smetti di parlare la mia auto ricomincerà a respirare!», ribadì Shane.

E continuarono finché non fummo davanti a casa di Marnie. Lanciò un cenno disgustato a Shane, e mi mandò un bacio attraverso il finestrino, per poi scomparire dietro la porta.

 

«Quella ragazza è l’unica pecca di questo posto».

«Guarda che caso, io credo sia la mia unica salvezza».

Shane mi scoccò un occhiataccia attraverso lo specchietto retrovisore.

 

«Stai bene?», mi chiese poco dopo, eliminando dal suo viso, l’espressione esasperata che aveva usato con Marnie.

 

«Una meraviglia».

 

«Mi piace questo posto, sai», disse abbassando la voce.

 

«Bene, a me no», ribadii con decisione. Shane alzò le spalle, poi aggiunse. «Ma, cosa c’è che non va?». E la sua domanda mi parve così sincera che mi accorsi solo in quel momento, di aver escluso Shane dalla mia vita come nuova arrivata a Longwood. Mi ero completamente confidata con Rachelle, con Kate e soprattutto con Marnie, che da estranea aveva saputo equilibrare le mie emozioni. Era come se tra me e Shane ci fossero ancora dei buchi sulla tela, che nessuno dei due aveva il coraggio di rattoppare.

 

«Questo posto è troppo stretto per me», scelsi con cura le parole.

 

«No, Vicky», mi contraddì. «E’ il mondo che è troppo stretto per te».

Alzai anch’io le spalle in risposta e guardai la notte scendere fuori dal finestrino, fresca e colorata.

Shane rallentò per parcheggiare nel vialetto, ma non uscì subito.

 

«Non ti preoccupare sorellina, ricordati che ci sono sempre io», spense il motore.

 

«Ed è proprio questo che mi preoccupa», sbuffai. «Il giorno in cui mi affiderò a te, sarò davvero disperata».


Fine Decimo Capitolo.


Buonasera a tutti! E bentornati a questo nuovo "appuntamento" con A Year Without Rain.
Cosa ve ne pare delle piega che sta prendendo la storia? Sono aperta ad ogni tipo di commento, critica negativa o positiva. Mi piace sapere cosa ne pensate a prescindere da tutto. Vicky e Nathan sono molto ostili ai sentimenti che provano l'uno per l'altra, ma è una cosa che non si può combatter, giusto?
P.S: Le risposte ai vostri commenti le trovate sotto le vostre recensioni. Alla prossima =)

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Capitolo 11
*** Come se non ci fosse domani ***


Capitolo 11

“Come se non ci fosse domani”

 



«Fairytale come true only when..Oh, al diavolo!», sbuffai e gettai la penna in aria, con una forza che non mi apparteneva.

 

«E’ inutile, non ci riesco», dissi tra me e me, sbuffando e raccogliendo i capelli corvini in una lunga coda disordinata.

Avevo pensato che magari, dopo sei mesi di astinenza, riprendere una penna in mano sarebbe stato…risanante. Ma niente andava bene, niente sembrava servire.

Era una vera punizione: vivevo in un posto passivo, il purgatorio dove le anime vagavano completamente vuote, senza soffrire. E a quel punto, avrei preferito certamente l’inferno. 

 

«Cos’è che turba la mia dolce compagna di officina?». Riecco Nathan, sempre accompagnato dal suo ghigno malizioso.

 

«Credevo di essere sola», sbuffai. Quella mattina, come tutte le mattine d'altronde, non avevo la minima voglia di essere stuzzicata dai giochetti fastidiosi di un fastidioso ragazzo insopportabile.

 

«Ed io credevo che il mondo fosse un posto migliore, ma ognuno ha da ricredersi», alzò le spalle.

Conoscevo Nathan da un mese circa, ormai, e a malapena mi ero abituata alla sua contorta allegria, alla sua falsa ironia e ai suoi repentini cambiamenti di umore.

Prima di rispondere con una calma e secca risposta, notai Lucas al suo fianco, e mi zittii.

Lucas era sempre gentile e disponibile, ma da quel nostro unico appuntamento al lunapark, aveva cominciato a prendere le distanze, forse in modo troppo inspiegabile per un bell’appuntamento senza lieto fine. Ma non feci niente per sapere cosa pensasse, né cercai di chiedere a qualcuno, erano troppe le persone che avevano problemi con me, perciò la soluzione mi sembrava fregarsene di tutti.

 

«Avete bisogno di me?».

Nathan fece per aprire bocca per dire chissà cosa, quando gli arrivò giusto in tempo il gomito dell’amico nel fianco e si zittì.

 

«Volevamo parlarti di una cosa importante», Lucas prese la parola con un tono così serio che mi spaventò.

 

«Di che cosa si tratta?», mi alzai dal seggiolino su cui mi ero poggiata aspettando che parlassero. Nathan si allontanò dall’amico e appoggiò al muro, incrociando le braccia.

 

Lucas prese un respirò, mentre teneva ancora la smorfia di disapprovazione che aveva suato con Nathan. «Ogni anno a Longwood viene organizzato il falò di mezza estate. C’è musica, abbiamo bisogno di una mano per organizzarlo e sai…».

 

«Avete pensato a me perché sapete che non mi interesserebbe partecipare ad uno stupido falò in spiaggia». Non gli diedi neanche il tempo di annuire speranzosi che scoppiai a ridere. Prima con una risatina più controllata, poi sempre più divertita. Era incredibile come il mondo fosse prevedibile, e come ancora di più potessero esserlo anche due amici imbarazzati.

 

«Te l’avevo detto che ci avrebbe riso in faccia», mormorò Nathan, seccato.

 

«No, avete capito male. Mi va bene. Contate su di me», riuscii a dire tra gli ultimi sorrisi.

 

«Oh, davvero?», sorrise stupito, ma non se lo lasciò ripetere. «Okay, allora… grazie. Ti faremo sapere tutto entro stasera, adesso...ti lasciamo sola», concluse imbarazzato ma allo stesso tempo sollevato.

Fecer per uscire dalla  stanza, poi si accorse che Nathan era rimasto immobile e impassibile e decise di trascinarselo dietro con la forza senza emettere suono.

E tornai ad essere sola. Ad andare indietro  di qualche secondo per rivedere la scena, per soffermarmi sull’espressioni buffe, accattivanti, decise, di Nathan.

 

«You know fairytale don’t come true,

not when it comes to you», canticchiai.

 

E sorrisi, certa di aver riconquistato con un piccolo passo, una fetta di rivincita personale. Avevo appena cantato con una grande sorriso sulla labbra e una semplicità che credevo di aver perso.

Forse il mio soggiorno a Longwood avrebbe prodotto tante canzoni da portarmi dietro a scuola per gli esami. Magari quella stupida vacanza sarebbe servita a qualcosa.

La cosa che più mi spaventava, però, era che la fonte di ispirazione era stata Nathan.
Ci era voluto lui perché ricominciassi a scrivere?

 

---------

Il vento era caldo, il sole stava calando e mentre uscivo dall’officina pensai a come doveva essere la spiaggia in quel momento.

Non mi era mai piaciuta la spiaggia affollata e rumorosa, il mare non si meritava tutto quel trambusto, eppure da quando ero arrivata a Longwood, che aveva solo il mare da offrire, raramente mi ero soffermata, con i piedi nella sabbia, a fissare il l’orizzonte.

Mentre attraversavo le strade tranquilla del paese, mi accorsi, attraverso il finestrino, del deserto che popolava la lunga spiaggia. Mi accorsi del color oro che proveniva dal sole, irradiare e illuminare anche gli scoglie…e fu quella sfumatura di colore a farmi fermare e scendere dall’auto.

 

«Wow», mormorai tra me.

C’era un unico panorama che amavo guardare al tramonto, ed era la mia NY vista dal terrazzo del palazzo dove abitavo. Era l’unico posto su cui potevo fermare il tempo della mia vita, l’unico posto dove la clessidra non scorreva. Ma guardare la naturalezza di quel posto, le forme strane degli scogli, e la tranquillità di un mare così potente mi incantò.
Mi tolsi le scarpe e affondai i piedi nella sabbia, ascoltai il vento fra i miei capelli e chiusi gli occhi, sperando di sentire una voce che mi dicesse…

 

«Ti consiglio di avvicinarti di più al mare». No, non era proprio quello il consiglio che volevo.

Mi voltai di scatto conscia di non essere sola, e vidi Shane.

 

«Disturbo?».

 

«Si...cioè, no, voglio dire…che ci fai qui?», biascicai sorpresa.

Lui non rispose, si sedette sulla spiaggia affondando le mani tra la sabbia color oro brillante e mi invitò a sedermi accanto a lui.

All’inizio esitai, poi presi posto accanto a lui, riprendendo a fissare il mare calmo e rilassante.

 

«Allora, come va?».

 

«Sai, è da una vita che tutti si chiedono se sto bene», mi morsi il labbro, come per trattenermi dal dire che ero stanca di sentirmi rivolgere sempre la stessa domanda. Shane rimase in silenzio come se si aspettasse che continuassi.

 

«Credo di aver detto di star bene una cinquantina di volte, come minimo. E non è vero neanche una volta… », proseguii, stupita dalla mia stessa forza.

 

«E’ compito tuo far  capire agli altri che devono smetterla di chiedertelo», così sarei passata nell’arco di un minuto dall’essere la ragazza che va avanti all’essere la depressa che fingeva. Scrollai la testa per togliermi di dosso il solo pensiero di una scena simile.

 

«Credevo di poter sorridere e andare avanti, fingendo che ogni giorno sarebbe andato sempre meglio», finii la frase con un sospiro involontario.

 

«E allora…come stai realmente?», mi domandò accigliato. Alzai le spalle ancora una volta, quando capii che non sapevo rispondergli.

 

«Inspiro e espiro, non è sempre di questo che si tratta? Vivere la vita ad alta voce», feci un sorriso amaro e alzai le mani in alto come per alleggerire una situazione e coprire ancora una volta le mie sensazioni. Shane mise il suo braccio intorno alle mie spalle e mi attirò a se.

 

«Vivere per sopravvivere, è sbagliato. Vivi come se non ci fosse domani e come se non conoscessi il tuo ieri», mi disse in tono solenne. Sembrava così serio che chiunque lo conoscesse non gli avrebbe creduto, ma io per disperazione, lo feci.

 

«Dove l’hai sentita questa frase?».

 

«Da una vecchia canzone che mi ha fatto ascoltare la tua cara amica Marnie», disse sorridendo.

Ovviamente non avevo pensato neanche per un minuto che Shane avesse potuto partorire un così profondo pensiero.

 

«Che ne dici se adesso torniamo a casa e …», non riuscì a finire la frase che il mio cellulare spessò la lieta armonia che emanava la spiaggia.

 

«Pronto?», risposi voltandomi dall’altro lato.

 

«Vicky, sono Marnie», neanche Shane l’avesse chiamata con il pensiero.

 

«Ehi, che c’è?».

 

«Domani sera fatti trovare in spiaggia verso le sette, dobbiamo cominciare con i preparativi…».

 

«…del falò?».

 

«Esatto. Abbiamo molto lavoro da fare», mi spiegò con il suo tono frettoloso. Appena trovai un po’ di spazio tra le sue chiacchiere, la ringraziai per l’informazione.

 

«Sarò puntuale».

 

«Lo so, ed io ti prometto che ci divertiremo», rise poi chiuse la chiamata. Mi voltai verso Shane che aspettava pazientemente che gli dicessi chi era.

 

«Era la mia cara amica Marnie», dissi trattenendo una piccola risata alla smorfia che fece. Due erano le possibilità: o Shane cominciava davvero a detestarla, o tra loro stava per succedere qualcosa. In entrambi i casi, io non c’entravo niente, e la cosa, in qualche modo, mi rallegrava.  

Tornammo a casa Hamilton/Cade verso l’ora di cena. Tutto si svolse come da un mese a quella parte: una bella cena tranquilla, tra chiacchiere, risate e divertenti aneddoti, ma solo quella sera me ne accorsi veramente.

 

«Bella serata, no?», chiese Shane prima di andare a dormire.
Annuii sorridendo, prima che quella cosa diventasse più sdolcinata di quanto dovesse essere. Dopotutto noi dovevamo detestarci.

 

“Cara Rain,

Non posso guardare avanti finché non riempirò i buchi del mio passato. Ho capito che è arrivato il momento di riprendere il mio posto nel mondo, di vedere il buono da ogni cosa, non mi lascerò scappare più nessun briciolo di felicità.

Ho solo diciassette anni, una vita davanti, e tanta strada da fare.

 

Vicky.

 

 

---------

 

Arrivai in spiaggia alle sette e un minuto, dato che avevo trovato difficile parcheggiare l’auto dopo che una certa moto si era presa metà posto.

Come avevo previsto, metà sabbia era stata oscurata da un palco di legno, mezzo costruito, contornato da un sipario blu e un impianto stereo a sinistra. C’erano sedie e tavoli poggiati a sproposito dietro il palco, una scala che probabilmente sarebbe servita per le luci colorate e i riflettori.

Per un attimo immaginai a come sarebbe diventato tutto: una vera e propria festa di mezza estate supervisionata da quattro ragazzi con diversi scopi.

 

«…Le luci dovremmo spostarle verso l’interno», sentii dire da Marnie appena arrivata.

 

«Smettila di dare ordini, saresti stata meglio a casa!», le rispose il fratello. Mi annunciai sorridente scoprendo Lucas e Nathan intenti a montare l’ultimo pezzo del palco, già stanchi, nonostante quel giorno né loro, né io, avessimo lavorato in officina.

 

«Ehi Vicky, fortuna che sei arrivata», urlo’ Lucas a qualche metro di distanza. «In due non siamo riusciti a fare molto»

 

«Ehi cosa vorresti di…», Marnie non fece in tempo ad inveire contro suo fratello che fu costretta a rispondere al cellulare. Lucas sospirò di sollievo.

 

«Mamma!».

 

«Si…lo so…non ci penso proprio!...Ho detto di no! Si certo e Lucas e’ un play boy», suo fratello fece per avvicinarsi a lei pronto a farle chissà che cosa, ma fortunatamente Nathan lo prese per un braccio e lo riportò al suo posto rivolgendogli uno sguardo che diceva "non fare il bambino", che dal punto di vista di Nathan, sembrava un vero e proprio scherzo di parole. Mi ricordavano me e Shane quando eravamo piccoli, non che quelle cose non le facessimo ancora, ma di solito preferivamo evitarci.

 

Marnie chiuse la chiamata e sbuffò sotto il nostro sguardo divertito. Lucas mi consegnò il mio lavoro: organizzare i tempi della festa e occuparmi della musica.

 

«Se vi dico "famiglia", qual è la prima cosa che pensate?», disse Marnie rimettendo il cellulare nella tasca con i nervi a fior di pelle per chissà quale ragione.

 

Lucas fu fulmineo e rispose: «Non ti bastavo io, mamma?», invocò il cielo. Marnie gli rispose prontamente, con una linguaccia.

 

«Lasciatemi vivere», aggiunse Nathan.

 

«Vi voglio bene, ma a volte non vorrei neanche vedervi», conclusi io e trovai la cosa divertente.

 

«E se vi dico: Amore?», ricominciò Marnie portando la penna dietro l’orecchio e la cartellina tra le braccia incrociate.

 

«Complicità», Lucas.

 

«Passione», Nathan. Alzai lo sguardo verso di lui.

 

«Forza», ribattei.

 

«Prigione», sospirò Marnie. «Assolutamente prigione».

 

Poi, divertita dal gioco che si era venuto a creare, rise eccitata: «E Il vostro libro preferito? Il mio è Piccole Donne».

 

«Piccoli Brividi», rispose Lucas, ricevendo da tutti noi, sguardi accigliati e stupiti.

 

«Il ritratto di Dorian Gray», disse Nathan, indifferente. E ovviamente, uno come Nathan, non poteva non amare un personaggio così simile a lui.

 

«Cime Tempestose», dissi io.
E continuammo così per tutta la serata, ad assecondare i giochetti di Marnie mentre io mi occupavo dell’organizzazione dei tempi e i due ragazzi si spaccavano in due per preparare l’estetica della festa. 

 

 

 Fine Undicesimo Capitolo.





Come avete visto, sono sempre puntuale...per ora.  

Lo faccio solo spinta dal sostegno che mi date leggendo la storia, mettendola tra i preferiti e commentandola come solo voi splendidi lettori sapete fare!

Nei prossimi capitoli ci sarà una svolta, quello che io credo sia un "punto di incontro", un momento che accade in tutte le storie prima o poi, e credo che manchi poco per Nathan e Vicky.

Quello che mi piacerebbe farvi notare è l'importanza di quel piccolo diario di viaggio che Vicky scrive da quando è a Longwood. E' lì che potrete percepire i cambiamenti che subisce inconsciamente. Non succede così un pò a tutti?

Vi adoro. Grazie di cuore. Alla prossima settimana =) 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Buonanotte e Addio ***


Capitolo 12

“Buonanotte e Addio”


 

«Festa-ballo-vestito-YEAH!....Festa-ballo-vestito-YEAH!».
Una cantilena di quattro parole risuonava nella mia testa già da un'ora come i fastidioso ronzio di una zanzara, ma io non potevo uccidere quella zanzara.

Emma continuava a canticchiare fastidiosamente sempre lo stesso motivo da tutta la mattina perche’era troppo emozionata per contenersi, aveva detto.

 

«Emma non credi di esagerare?», le domandò papà verso le dieci di mattino quando neanche lui riuscì più a contenere la sua canzoncina stonata e irritante. Stavamo facendo colazione, e l’aria quel giorno sembrava particolarmente elettrica.

 

«Papà, sei incorreggibile!», gridò la bionda. «Riesci sempre a distruggere un atmosfera così frizzante».

Uscì dalla stanca nello stesso modo in cui era entrata, cantando alla stessa maniera. Papà, già in divisa da lavoro, scosse la testa e guardò in alto, facendo sorridere Madison.

 

«Io suggerisco di metterla in punizione e non farla andare alla festa», disse la dodicenne Cade, mentre passava, sulle sue frittelle, uno strano liquido simile allo sciroppo d’acero. Notai la smorfia di Shane alla vista della disgustosa colazione di Madison e non potei fare altro che comprenderlo.

 

«Per quanto mi piacerebbe darti soddisfazione, non credo che sia giusto, Maddie», le rispose con tono calmo, ripetendo la stessa smorfia di Shane.

Era divertente stare in silenzio e guardarli da lontano: mi sembrò di essere avanti alla pubblicità, dove la famiglia felice era l’assoluta protagonista. Cercai di non vedere solo i lati negativi, in cui io mi sentivo un di più, ma cercai di approfondire il senso di tenerezza che vedevo negli occhi di Norah quando papà andava a lavorare, oppure la complicità che c’era tra lui e la piccola Madison.
Forse non aveva reso me e Shane i figli più felici del mondo, ma in compenso era stato un padre d’oro con Emma e Maddie.

 

«E tu Vicky, hai da fare oggi?», si rivolse a me prima di uscire.

 

Risposi con ancora un boccone di ciambella zuccherata di Norah, in bocca. «Naturalmente. Devo finire di organizzare il falò di cui Emma è così eccitata», dissi con una punta di ironia, che afferrò con un sorriso. Mi scompigliò i capelli, già pieni di nodi, e andò via.

Dopo essermi quasi affogata con il caffè e dopo una sconveniente battuta di Shane sul sesso di prima mattina, mi preparai per affrontare la giornata e renderla indimenticabile per le ragazze di Longwood, dato che, alla fine erano loro quelle veramente eccitate.

 

«Fosse per me, cancellerei questa stupida festa dalla faccia della terra, ma mia madre…», disse Marnie, una volta arrivata in auto. «…ci tiene così tanto».

Risi del suo sarcasmo, e l’abbraccia scherzando sulla sua stretta e ingombrante situazione.

 

«Mi dispiace».

 

«Non è vero. Tu …», gettò un urlò isterico quando vide il mio ghigno. «Ti stai divertendo sui miei drammi!», finse un tono tragico, e a quel punto non ne feci mistero e scoppiai a ridere rumorosamente, facendomi notare dalla curiosa gente che passeggiava per i marciapiedi.

 

«Victoria Hamilton, sei ufficialmente entrata nella mia lista nera», mi puntò un dito contro e di tutta risposta finsi di rabbrividire.

 

«Io mi preoccuperei soprattutto del vestito», mi lanciò un occhiataccia furiosa, e con la stessa espressione mi trascinò nel primo -dei tanti- negozi, che avrebbe distrutto con la sua innata passione.

Passarono esattamente due ore e tredici negozi, quando Marnie uscì soddisfatta con il suo vestito. Nonostante il mio “è stupendo” non fu convinto, lo prese lo stesso. Un abito color arcobaleno, mi piaceva come le stava nella forma e nel taglio, ma i brillantini e i colori troppo forti mi ricordavano New York, ed un vestito come quello che aveva scelto, non l’avrei mai indossato ad una festicciola di paese.
Però i gusti erano gusti, e a Marnie piaceva, fortunatamente, decidere di testa sua.

Il vestito di Emma, che aveva mostrato a tutti i suoi conoscenti circa venti volte al giorno per una settimana intera, era a tinta unita, un blu elettrico e sofisticato, che dava un tono di delicatezza alla sua pelle. Era sfacciata la differenza tra lei e Marnie: una si atteneva a mettere in evidenza senza strafare, l’altra senza alcuna voglia di mettersi in evidenza, eccedeva. Non avrei mai smesso di dirlo…era sempre più strano vivere a Longwood.

Fu grazie a la scelta dei vestiti che capii quanto fosse importante quella festa...un po’ come i Grammy per i cantanti.

 

La fortunata sera arrivò più velocemente di quanto mezza Longwood si aspettasse. Erano le sette quando io e Marnie, cominciammo ad affrettarci, perché eravamo in ritardo e non tutto era apposto.

«Victoria, questo è Marcus il dj. Marcus stasera dovrai seguire le sue indicazioni», disse Nathan, che indossava un paio di jeans scuri e una camicia chiara sotto ad un gilet. Sia lui e Lucas erano perfettamente preparati per partecipare alla festa, così come Marnie si era preparata allo stesso modo per non scatenare la furia dei suoi tradizionalisti genitori. L’unica fuori luogo ero io. 
 

Alzai le spalle e sospirai: «Che la festa cominci!».

 

---------

 

Stava andando tutto bene. Io stavo attenta alle luci, indicavo al dj quando cambiare musica e quando incitare la folla. Lucas e Nathan controllavano chi bevesse e che i fuochi d’artificio fossero pronti per il momento giusto.

 

«E’ arrivato il momento, giovani ragazzi. Tocca a voi rendere felici queste bellissime stelle della notte», gridò il dj abbassando la musica.

 

«Invitate la più bella e portatela sulla pista che tra un po’ vi toccherà danzare e conquistare», disse con il classico tono di un dj maliziosamente fastidioso.

Mentre vigilavo tutto e tutti, con occhi attenti, vidi Lucas, alla mia sinistra, dirigersi verso di me, mentre Nathan mi raggiungeva da destra. Avrei voluto indossare un abito più elegante, essere una come tante, invece che distinguermi sempre indossando degli aderenti pantaloni di raso e una maglia che lasciava intravedere le spalle.

Poi accadde tutto molto velocemente, e sia Nathan che Lucas mi raggiunsero contemporaneamente e due mani si offrirono a me.

Passavano i secondi ed io rimanevo
impalata, a fissare le loro mani che implicitamente mi stavano invitando a ballare. Ero così terrorizzata all'idea di ballare con uno di loro.

Ballare con Lucas sarebbe stato crudele nei suoi confronti, ballare con Nathan sarebbe stato crudele e basta.

«Vicky, Vicky», urlò Marnie da lontano svolazzando con il suo vestito colorato e ricoperto di brillantini, e i capelli perfettamente acconciati, sventolando la mano con agitazione.

 

«Un guaio, un disastro, che facciamo?», disse frettolosamente, tanto che entrambi i ragazzi di fronte a me ritirarono le loro mani di scatto.

 

«Che succede?», le domanda guardandomi intorno, cercando un incendio, una rissa o qualcosa di veramente grave.

 

«Heath ha litigato con Marcus il dj…era ubriaco, ed ecco lui…ci ha mollato», disse con una smorfia che non le si addiceva agli abiti che indossava quella sera.

 

«Chi, Heath?», mi precedette Lucas.

 

«Ma no! Marcus…non abbiamo più un dj!», gridò così tanto che se non ci fosse stata la musica, l’avrebbero sentita tutti.

Guardai il palco vuoto: Marcus il dj, aveva lasciato tutto così com’era, la musica, l’attrezzatura e anche la folla in attesa del cambio di canzone.

 

«Oh sia benedetto Leonardo Di Caprio…Emma!», continuò a gridare Marnie in preda all’isteria, come se dare un tono più agitato alla sua voce, servisse a risolvere i problemi che ci ritrovavamo.

 

Io e Nathan ci voltammo di scatto a guardare Emma, a braccia conserte e con uno sguardo freddo e distaccato da tutta la festa. Bella nel suo vestito corto color blu notte, e i suoi capelli perfettamente arricciati dal clima, sembrava essere con la testa da un’altra parte.

Poi capii che tutto ritornava a noi. Tutto tornava a me, e all’invito implicito che Nathan aveva fatto a me sotto i suoi occhi.

 

Era una di quelle situazione che William Shakespeare avrebbe adorato. Una perfetta tragicommedia a sfondo sociale in cui a me toccava salvare la situazione, a Nathan toccava aggiustarla, poi tutto il resto sarebbe venuto da sé.

Presi un respiro profondo e provai in pochi secondi ad organizzare la situazione, poi mi voltai verso le uniche persone a cui mi potevo affidare.

 

«Okay, ce la possiamo fare», sospirai ancora. «Marnie corri sulla pista, dì a tutti che avranno il loro momento».

 

«Nathan», lo chiamai mentre i suoi pensieri prendevano una via sempre più lontana da quella festa. E in mezzo a quel veloce caos che si era creato avrei voluto fermare il tempo e chiedergli a cosa stesse pensando. «Invita Emma a ballare. Voglio vedere tutti ballare», dissi più fredda e autoritaria. Non avrei ammesso proteste da parte sua, non dopo quello che forse sarebbe successo più tardi.

 

«Lucas, vieni con me», e attraversai lo spazio che mi divideva dalle scalette per il palco.

La mia idea era l’unica e la più stupida che avessi potuto mai pensare, ma se dovevo dare della musica, l’avrei data.

 

Salii sul palco senza che nessuno mi desse attenzioni, seguita da Lucas. Rovistai tra la pila di dischi che Marcus aveva lasciato e niente andava bene per un ballo

 

«Okay…si può fare», dissi tra me e me. Ordinai a Lucas di prendere un microfono e di rimanere vicino all’attrezzatura da dj perché era l’unico strumento che potevo usare.

 

«Che vuoi fare?», mi sussurrò Lucas mentre metteva il microfono in corrente.

 

«Credo di ricordare ancora come si fa», cercai di sorridere seppur nervosamente, lui annuì poco convinto e quel gesto non fece altro che rendermi più indecisa.

Cercando di ignorare me stessa, afferrai il microfono e inserendolo con prontezza nell’asta.

 

«’Sera ragazzi. Il vostro dj purtroppo non si è sentito molto bene», un terremoto di brusii di scatenò tra la folla. «Ma tranquilli… avrete il vostro momento», sospirai. «Questo, non era in programma…», un altro respiro ancora. «Spero che vi piaccia la musica dal vivo».

 

Dissi le ultime parole con una nota di ansia che si amplio verso tutti, neanche il microfono riusciva a nascondere il mio nervosismo.

Nessuno fischiò, nessuno mi tirò la frutta sul viso. Vidi Marnie tirare per un gomito Shane mentre chissà come lo costringeva a portarla sulla pista da ballo, vidi Lucas fissarmi alla mia destra e poi in lontananza, solo e fuori dalla pista da ballo, vidi Nathan.

Non c’erano espressioni sul suo viso, come non c’era neanche la sua ragazza.

Era impossibile distogliere lo sguardo da Nathan è concentrarsi su qualcosa che potesse anche lontanamente essere più affascinante. Riconoscevo ogni giorno il fastidio che mi creava Nathan, ma riconoscevo anche il fastidio che mi creava esserne attratta. Seppure non riuscivo, non volevo e non dovevo neanche pensarlo, sapevo con estrema chiarezza che c’era qualcosa che involontariamente mi ricongiungeva sempre a Nathan. D’altronde non mi ero opposta dopo neanche il secondo bacio, perciò…

Chiusi gli occhi.

 

«*The way you move is like a full-on rainstorm           
And I'm a house of cards


You're the kind of reckless that should send me running
But I kinda know that I won't get far


La voce comandava me stessa, i brividi sulla mia pelle non dipendevano dal vento che mi scompigliava i capelli. Era la mia musica.

Drop everything now, meet me in the pouring rain
Kiss me on the sidewalk, take away the pain


My mind forgets to remind me
You're a bad idea
You touch me once and it's really something
You find I'm even better than you imagined I would be

I'm on my guard for the rest of the world
But with you, I know it's no good

 

Drop everything now, meet me in the pouring rain
Kiss me on the sidewalk, take away the pain
»,

 

E quella notte mi ricordai di quanto fosse bello poter sentire il calore di un palcoscenico, il calore del suono della propria voce alzarsi sempre di più, il calore degli sguardi incantati. Come quello che giurai di aver visto negli occhi di Lucas e nel sorriso di Marnie.

Sorrisi anch’io a mia volta, e capii che tutto si era sistemato per quella sera. Ma, mentre scendevo dal palco, lasciandomi alle spalle quel piacevole senso di soddisfazione che provavo ogni volta grazie alla mia voce, sentii di nuovo quel senso di incompletezza.

Un mini flashback mi ricordò quello che stava per succedere poco prima che si scatenasse l’inferno. Sia Lucas che Nathan mi avevano invitato a ballare. E quell’invito per le ragazze di Longwood valeva più di una proposta di matrimonio. Bé, era proprio quel piccolo dettagli ad inquietarmi di più.

Lasciai quella festa quando fui sicura che tutto fosse controllo. Evitai di parlare con chiunque, Marnie compresa, perché in qualche oscuro modo, mi era venuta la stravagante e odiosa idea di seguire Nathan.

Non mi interessava particolarmente parlargli, anzi, sarei stata ben più felice se non lo avessi mai visto più, ma era inevitabile, per la mia povera testa, chiedergli qualche spiegazioni.

La mia coscienza, invece, era convinta che inventassi solo scuse. Come al solito.

Salii dalla spiaggia, assottigliando gli occhi che al buio vedevano ben poco, e mi guardai attorno nella speranza di scorgere qualcuno.

Eppure sembravo esserci solo io. La patetica Vicky, che quella sera si distingueva per non essere altro che la più inadeguata, non certo per l’eleganza. Io, che senza motivo, rincorrevo un ragazzo di cui mi convincevo non me ne importasse niente. Se non è patetico questo.

E proprio mentre la musica soffocata cambiava giù in spiaggia, proprio mentre mi stavo pentendo di essere salita per seguire Nathan, lo vidi seduto su un muretto. Un leggera pioggerellina estiva, mi sorprese, ma non mi impedì di essere impulsiva e imprudente.

La reazione più logica sarebbe stata girare le spalle e tornare da dov’ero venuta, voltandomi in silenzio, senza creare conseguenze.

Nathan girò lo sguardo verso la mia direzione, ma la trapassò con sguardo impassibile, come se non mi vedesse, come se non ci fossi. Era così bravo da ignorarmi, o davvero non riusciva a vedermi?

Avrei dovuto imparare a smettere di crearmi paranoie, ma non sarebbe stato reale. Tanto valeva fare tutto il guaio, piuttosto che lasciarlo a metà.

 

«Cosa c’è adesso?», disse brusco. «Cos’hai da rimproverarmi?», tuonò con la voce. Capii che lo sguardo impassibile corrispondeva alla sua rabbia. Era davvero scontroso, ed io davvero muta. 

 

«Allora?», continuò, e osservai le sue labbra bagnarsi di pioggia.

Se avessi parlato in quel momento la mia voce mi avrebbe tradita: mi mancava il respiro.

 

«Io…»... bé non era proprio quello il tono con cui avrei sperato di incominciare. Forse usare i giri di parole non sarebbe servito. Forse era meglio andare al dunque.

 

«Perché non hai invitato Emma? E’ lei la tua ragazza», rimarcai con quanta più decisione avevo in gola, l’ultima parola.

 

«Io dovevo invitare la più bella».

E invece di trovare irritante la sua sfrontatezza, arrossii come un’adolescente in preda ai polmoni…quale ero.

 

«Avevo ragione, sai? Sei un’arista», e il suo tono era così calmo e pacato che sospettai fosse ubriaco, anche se i suoi occhi erano della stessa chiara profondità. «Sei proprio una brava cantante».

 

«Grazie», e la mia voce cadde di qualche nota, mi maledii per essere stata così irresponsabilmente stupida e poco equilibrata. Mantenere il controllo era la cosa più difficile da fare con Nathan.

 

«L’hai scritta tu quella canzone?», mi domandò con un accenno di sorriso che minacciò un altro attacco di imbarazzo. Ma non mi lasciai prendere in giro nuovamente dalla mia voce, mi limitai ad annuire.

Nathan era poggiato al muretto, io tenevo le mani fredde nascoste nelle tasche dei jeans e mantenevamo entrambi una stupida distanza che impediva di toccarci. La pioggia, nel frattempo, divenne più insistente.

 

«Com’è che diceva ? Incontriamoci sotto la pioggia scrosciante»,

Nathan avanzò di qualche passo, afferrò una ciocca dei miei capelli scuri e li guardò con occhi quieti: per la prima volta da quella sera mi sembrò di vederlo tranquillo. Ma la sua tranquillità scatenava la mia agitazione: avevo lo sguardo perso, il respiro smorzato e irregolare. Il leggero venticello, che lasciava i brividi sulla mia pelle, era l’unico nostro amico in quel momento di fragile dolcezza, e la pioggia sottile  Per un attimo sperai che Nathan non fosse se stesso, ed io non fossi me.

 

«…baciami sul marciapiede. Porta via il dolore…», continuò come se stesse recitando una poesia. Una poesia incantatrice, ed io ero la vittima di quel sorriso che la sa lunga.

Mi aspettai, per un attimo, di ricevere il bacio sul marciapiede di cui aveva parlato. Ma le sue labbra sfiorarono solo la mia guancia.

 

«Vieni via con me?», mi offrì nuovamente la sua mano, ma quella volta per seguirlo e –in un certo senso- acconsentire a qualcosa di segreto, non mi stava invitando a ballare.

 

«Ho altra scelta?», sospirai.

 

«No», disse secco.

Che potevo fare? Cosa mi dava la forza di rimanere lì, di rifiutare ancora una volta a me stessa di provare. Probabilmente stavo per fare una cosa terribile nei confronti di molte persone. Ma per me? Cosa stavo facendo per me stessa?

Per questa ragione lasciai che la mia mano stringesse la sua e che mi trascinasse chissà dove.

Non importava, ero pur sempre in compagni di un bellissimo ragazzo dai capelli color del grano e gli occhi simile al mare in tempesta.
Ero con Nathan.


Fine Dodicesimo Capitolo.




*Traduzione:
Il modo in cui ti muovi è come una tempesta
ed io sono un castello di carte
Tu sei il tipo di persona spericolata che dovrebbe farmi scappare
Ma è come se sapessi che non andrò lontano.

Ora butta via tutto,
incontriamoci sotto la pioggia scrosciante,
baciami sul marciapiede, porta via il dolore...

La mia mente si dimentica di ricordarmi che sei una cattiva idea.
mi tocchi una volta ed è davvero incredibile:
hai scoperto che sono anche meglio di quanto tu immaginassi.

Sto in guardia dal resto del mondo,
ma con te so che non funzionerà...

Ora butta via tutto,
incontiamoci sotto la pioggia scrosciante,
baciami sul marciapiede, porta via il dolore...



                         ---------


- Buonasera! Allora, sono stata ancora una volta puntuale, giusto? (Non posso crederci!)
Vi ringrazio tantissimo..."A Year Without Rain" ha ricevuto ben 923 visite che per me sono un enorme soddisfazione! Come altrettanto lo sono i vostri numerosi commenti, le preferite e le seguite.
Grazie!
Ma tornando alla storia...okay, ci saranno momenti di tenerezza, ma precederanno solo le parti sexy dei personaggi. E' una mia teoria: si può essere sexy senza saperlo, senza riconoscerlo e Vicky e Nathan saranno una coppia...spero...bollente. per adesso guardateli conoscersi a poco a poco.
E...finalmente Vicky dà valore alle sue qualità di cantante! Spero che voi abbiate provato le stesse emozioni che ci metto io nel descriverla nel suo habitat naturale, che è il palco. Okay, per non occupare troppo del vostro, vi ringrazio ancora e vi lascio. Al prossimo capitolo!

La canzone è "Sparks Fly" di Taylor Swift.
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Capitolo 13
*** Niente da perdere ***


Capitolo 13

“Niente da perdere”




«Posso sapere dove stiamo andando?»
. Cercai di dire mentre la pioggia ci inzuppava da capo a piedi. Era quasi notte fonda, e correvo tra la pioggia scrosciante insieme ad un ragazzo che fino a poco tempo prima avrei, con tanta volontà, soffocato tra le mie mani.

Ma anche se mi stavo lasciando trascinare da lui, non voleva dire che io non avessi ancora dell’astio verso di lui. Al contrario, avevo tanti punti interrogativi da chiarire. Ma lui rendere tutto più difficile, ogni volta, vero?, domandò la mia coscienza.

 

«Dobbiamo trovare un posto dove poterci riparare».

E solo qualche minuto dopo mi resi conto che non stavamo andando a vuoto: Nathan sapeva bene dove andare. Mi fece scavalcare un piccolo recinto, stringendomi la mano in modo che sotto la pioggia, a cui ormai mi stavo abituando, non potessi scivolare. Corremmo così in fretta che non riuscii a guardarmi intorno e a riconoscere qualcosa. Sentii solo l’impatto con un calore improvviso e la fine delle gocce sul mio corpo. Eravamo in un posto coperto.

Mi scostai dal viso i capelli bagnati e gocciolanti, e mi guardai attorno. Ci trovavamo in una piccola casetta, una grande stanza con un divano di fronte ad un camino, privo di un vero e proprio arredamento, e con un’altra porta, che ipotizzai fosse un bagno. La luce era fioca, e il caldo mi ricordava che ero zuppa e infreddolita.

Anche Nathan era completamente bagnato, ma non riuscii a vedere la sua espressione finché non si fermò. Corse velocemente verso il camino e raccolse un paio di pezzi di legno per accenderlo.

 

«Non so se basterà a tenere calda la casa», si accovacciò per accendere una fiamma di fuoco. «Togliti i vestiti».

Alzai le sopracciglia, cercando di sembrare contrariata anche tra i brividi di freddo.

 

«Andiamo, per una volta che non ho pensato male…», si interruppe. «Ho dei vestiti da darti, sta tranquilla».

La fiamma nel camino prese ad alzarsi e Nathan si alzò venendo verso di me.

 

«Per una volta che ti fidi di me, fallo per bene», disse cercando di mantenere, anche lui tra i brividi di freddo, un tono divertito e scherzoso. Non risposi, stringendomi tra le braccia, Nathan afferrò una coperta di lana, dal sofà.

 

«I cellulari non prendono e la pioggia continuerà per almeno altre due ore», continuò stringendo la coperta intorno ai miei vestiti bagnati e strofinandomi la schiena in modo da farmi sentire sollievo. Ero imbarazzata, e forse era quello uno dei motivi per cui evitavo di rispondergli, ma era soprattutto per il freddo.

 

«Siediti sul divano, ti porto una maglia», e corse nello stanzino che credevo fosse un bagno.  Mi sedetti a terra, vicino al camino, guardando le fiamme giocare tra di loro, e immaginando che formassero strane forme di colore rosso.

 

«Questa dovrebbe andarti», disse distogliendo i miei pensieri dalle fiamme, e spostandoli a lui, infreddolito e bagnato esattamente come me. Afferrai titubante la maglia maschile di qualche taglia più grande e la strinsi a me, senza dare cenno di volerla indossare. Nathan sbuffò e si sedette affianco a me, appoggiando la testa all’estremità del divano. Chiuse gli occhi e disse:

 

«Sarà una lunga notte». Sbuffai, e a quel suono, Nathan si risvegliò dai suoi pensieri e avvicinò pericolosamente il suo viso al mio, non lasciandomi la forza di potermi allontanare. Non ero più sicura di tremare per il freddo.

 

«Non riesco a sopportarti, né fare a meno di te», mi accarezzò i capelli con una mano.

 

«Io credevo di non essere niente di che», risposi pungente, spostando lo sguardo sul camino.

 

«Tu non hai capito proprio niente di quello che penso di te, vero?», scosse la testa, con un sorriso amaro. «Non voglio che succeda, non voglio…», qualcosa mi suggerì che stesse per dire…innamorarmi di te. Scacciai subito quel pensiero. Qual'è strano incantesimo mi aveva fatta impazzire? Io non potevo pensare quelle cose.  

 

«Guardami Nathan, guardami davvero, però!», urlai con durezza sicura che nessuno mi avrebbe sentita. Afferrai il viso di Nathan tra le mie mani e lo costrinsi a guardarmi. «Non prendermi in giro».

 

«Non fare la dura con me», scosse la testa rivolgendomi finalmente lo sguardo. Si strofinò le mani e aspettò la mia risposta. Incrociai le braccia, offesa.

 

«Sul serio Vicky, tu leggi Cime Tempestose, scrivi musica ispirandoti a chi ami. Sei in un modo quando ti poni alle persone, e sei un’altra quando canti. La tattica del ghiacciolo non funziona con me».

 

Era così vicino che lo sentivo respirare. E la cosa più destabile di lui era proprio quella sua capacità di spogliarmi con gli occhi dentro. Quel suo strafottente modo di essere così Sherlock Holmes. Scossi nuovamente la testa senza lasciare andare i suoi occhi magnetici.

«Quella non ero io, o adesso non sono me stessa. Forse in tutta la mia vita non lo sono mai stata», sussurrai stupida dalle mie parole. Non credevo di poter dire una cosa così facilmente senza rifletterci troppo su.

 

«Posso dirti una cosa? », mormorò.

 

«Posso impedirtelo?», e lo prese come un si.

 

«Non montarti la testa ma…sono incantato dalla tua voce. Dalla tua spiccata intelligenza, dal tuo sarcasmo. Credevo di poterti prendere in giro, sai? Ma è stato tutto completamente diverto».

 

«Mi piacerebbe anche, sapere cosa pensi tu di me».

Ma invece di rispondergli alzai le spalle, evitando sempre di guardarlo.

Senti la sua mano scendere dalla mia spalla alla mia mano, lentamente, delicatamente.

 

«Puoi guardarmi ti prego?», interruppe il silenzio con tonno seccato.

Scossi la testa, usando la coperta come uno scudo per nascondermi da quello che cercava di dirmi, e cerca di farmi dire.

Probabilmente, scocciato dalla mia reazione, Nathan decise di usare la forza, costringendomi a guardarlo negli occhi e a essere a pochi centimetri dalle sue labbra. Le stesse labbra a cui, sapevo, non avrei mai resistito. Quella notte, nessuno dei due aveva niente da perdere.

E infatti, non gli lasciai dire niente che lo aggredii, assaporando le sue labbra senza esitazioni, mordendogli le labbra come se fosse una necessita, come se fosse il nostro ultimo bacio.

Nathan fece scivolare le mani sui miei fianchi, stringendomi in modo ossessivo.

Passai le mie mani tra i suoi capelli con una forza quasi disperata. Ero fuori controllo, e nonostante tutto, riuscivo a distinguere il giusto dal sbagliato, e per me, in quel momento, era tutto giusto.

Forse perché avevo promesso a me stessa di non lasciarmi scappare più nessuna occasione, di provare a ritrovare un po’ di vita.

Nathan mi tolse la coperta e cercò di alzare un lembo del mio top bagnato. Alzai le mani, lasciando, inconsciamente, che me la togliesse: ero troppo concentrata a succhiargli le labbra avidamente. Dall’avere tre strati di vestiti, mi ritrovai in reggiseno, sopra di lui. Appena mi resi conto di quello che stava per accadere, e del male che avremmo potuto fare, e della situazione in cui ci saremmo incastrati, ritornai in me.

 

«No, ti prego», e trovai non so quale forza, per staccarmi da lui. Mi coprii con la maglia asciutta di Nathan e aspettai che mi guardasse con uno sguardo deluso o arrabbiato perché l’avevo respinto. E invece si sistemò e rimase in silenzio.

Misi la maglia, facendo volare la mente, al di fuori di quella piccola casetta, dove c’era Emma, Marnie, Shane, mio padre, quel mondo che mi andava troppo stretto.

 

«Mi dispiace», sussurrai a mezza voce. Lui scosse la testa e non esitò a rispondermi.

 

«Oh, no Vicky. Non ti dispiacere, ho deciso di voler distruggere la vita a modo mio. Ti confonderò, diventerò parte integrante della tua vita. Nei tuoi occhi si rispecchierà la mia immagine, mi penserai giorno e notte, ti farò impazzire. Te lo prometto Vic», e quella promessa fu la cosa più convincente che gli avessi mai sentito dire. Forse per qualcuno poteva sembrare una minaccia, ma nel modo arrogante e presuntuoso di Nathan era la promessa più dolce dei miei diciotto anni di vita.

 

«Vuoi sapere cosa penso di te?», dissi con un coraggio improvviso. Scaldai le voce e provai a dirglielo a modo mio.

 

«*I love how you walk with your hands in your pockets,  
How you kissed me when I was in the middle of saying something
There's not a day when I don't miss those rude interruptions
».

Sorrise. Niente di più, nessuna parola, nessun suono fuoriuscì dalla sua bocca. Mi invitò a dormire sul divano, mentre lui rimaneva stesso a pancia in su sul pavimento accanto al camino. E passarono solo poche ore di silenzio, in cui, ci giurai, nessuno dei due dormì sul serio.

 

---------

 

«Oh Mio Dio». Un urlò riecheggiò per la stanza, risvegliandomi dal mio tiepido sonno rilassante.

Mi stiracchiai lentamente, mi allungai dimenticandomi del posto in cui mi trovavo e del piccolo divano su cui dormivo. Ancora con gli occhi chiusi, feci un movimento strano e scivolai a terra sul pavimento, o meglio, su chi dormiva sul pavimento. Il petto di Nathan era morbido e caldo, un invito a ritornare a dormire. Eppure c’era stato un urlo…ed io me ne stavo dimenticando. Feci forza sulle braccia, scusandomi con un Nathan assonnato e sorpreso dalla nostra inquietante e imbarazzante posizione. Mi voltai e…

 

«MARNIE!», urlai con voce acuta e stonata, ma non mi mossi dalla posizione in cui stavo. Quando lei, a bocca aperta, continuò a fissarci, mi ricordai di essere stesa sul corpo di Nathan.

 

«Marnie, non è come pensi!», mi alzai di fretta e furia, sistemando i capelli e la maglia rialzata.

 

«Dai tesoro, è inutile evitare l’evidenza», disse Nathan tra uno sbadiglio e l’altro.

Spalancai gli occhi alla sua provocazione e gli gettai la coperta sul volto, con forza e rabbia. Indossavo la sua maglia lunga, mi aveva visto sopra di lui, avevamo passato la notte insieme. Non sarei mai stata abbastanza convincente.

 

«Ehm…non importa, credevo che fosse vuota…di solito Nate non ci porta mai nessuno…io…aspetto in macchina magari, eh?», balbettò con difficoltà e sparì dietro la porta con la stessa velocità e temperanza con cui era entrata a sconvolgere il nostro risveglio.

Scossi la testa preoccupata per i pensieri che in quel momento potevano passare per la testa di Marnie. Lei era creativa, fin troppo, la sua mente andava sempre al di là della realtà e la sua bocca si apriva prima ancora che potesse elaborare il pensiero. In poche parole, Marnie era molto pericolosa sia per me che per Nathan.

 

«E’ assurdo», girai intorno a me stessa, mi diedi qualche schiaffetto sulla guancia e strizzai gli occhi nella speranza di risvegliarmi nel mio letto, sola e senza cosa da dover spiegare o guancie da non far arrossire.

 

«Quel che è fatto è fatto», ripeté con tono assonnato Nathan.

 

«Nathan, non è successo niente», dissi con tono incredulo. Ma quanto ancora avrei dovuto subire prima di non essere più presa in giro? Non bastava il fatto che grazie a lui Marnie credesse a chissà quale presunta relazione clandestina, ma ci scherzava anche su.

Si alzò anche lui in piedi, e dovetti ammettere che quello che mia madre diceva era vero: “la bellezza la si vede di prima mattina”, perché Nathan, era veramente bellissimo.

Scacciai dalla testa quei pensieri smorfiosi e cercai di riprendere un po’ del nervosismo che mi aveva regalato fino a pochi minuti prima.

 

«Che non è successo niente, lo sappiamo solo noi due», disse mentre cercava di infilarsi i pantaloni e sistemarsi la maglietta.

 

«Lì fuori c’è la mia migliore amica che ci ha appena visti in una casetta che conosciamo solo noi due, soli, uno addosso all’altro e non del tutto vestiti. Uh, non puoi neanche immaginare quello che le sta passando per la testa in questo momento», terminò con una nota di soddisfazione che non fece altro che irritare e provocare il mio panico.

 

«Oh certo, ed è proprio questo quello che vuoi vero?», usai un tono pungente e ferito. Mi maledissi mentalmente per non essere stata più indifferente a quella affermazione.

Nathan si avvicinò a me, appoggiò le sua mani sulle mia spalle, poi scese lentamente fino a raccogliere le mie mani e cercare i miei occhi con i suoi.

 

«E se fosse proprio quello che voglio?»

 

«Non lo è», scossi la testa con un sorriso tagliente.

 

«Non credi che siano cambiate un bel po’ di cose da ieri?».

Scostai il viso dalla sua bocca, dandogli le spalle. Avevo voglia di sorridere, perché avevo passato una delle notti più belle della mia estate, avevo voglia di urlare perché probabilmente era stato ingiusto essere felice. Volevo solamente conoscere Nathan, come solo poche volte si era lasciato andare. Qualcosa mi diceva che c’era molto di più sotto quell’ammasso di presunzione e begli occhi.

Non riuscivo a spiegarmelo, forse perché non c’era niente da spiegare.

 

«Ti prego Vicky, non tagliarmi fuori», mi sussurrò debolmente all’orecchio.

Mi strinse la mano per poi lasciarmela qualche istante dopo chiudersi in bagno.

 

---------

 

«Vi avviso che non ho intenzione di farvi alcuna domanda», iniziò con il tono di chi ha ripetuto la stessa frase fino a impararla a memoria come un copione. «Non sarò certo io a forzarvi».

 

«Ovviamente sono l’unica qui, con cui potete parlar…», la interruppi prima che l’uragano Marnie si scatenasse.

 

«Marnie non è successo niente», sbuffai e alzai agli occhi al cielo.

 

«Ed io non stavo insinuando nulla, è solo che…», si bloccò a metà frase.

 

«…che sarà meglio se tieni quella bocca chiusa o rivelerò quel segreto a tutta Longwood», terminò con tono finto-minaccioso sporgendosi a guardare Marnie. Lei spalancò gli occhi come se avesse afferrato il concetto senza il bisogno di replicare.

 

«Non direi mai niente a nessuno, dopotutto non è successo niente, giusto? E poi…tu non lo faresti mai», tolse una mano dal volante per fare un gestaccio a Nathan.

Ridacchiai e la curiosità mi ridiede un po’ di vita.

 

«Di che segreto parla?».

Marnie scosse la testa e contemporaneamente lanciò un’occhiataccia a Nathan che si godeva il sole della mattina, ignorando gli istinti omicida dell’amica.

Lei continuò a guidare con quell’aspetto fiero e orgoglioso che tanto le invidiavo.

 

«Dove ti lascio Nate?».

 

«A casa tua, devo parlare con Lucas», fu l’ultima cosa che disse prima di scendere dalla macchina e salutarci entrambe con un cenno.

Girarci intorno sarebbe stato inutile, quella notte tra me e Nathan era successo qualcosa. Avevo abbassato la guardia, mi ero aperta ad una persona praticamente sconosciuta, dopo così tanto tempo, avevo cantato per lui, anche se non l’avrei mai ammesso esplicitamente neanche a me stessa.  L’avevo detto a Nathan, chi ero, non lo sapevo neanche io.

 

«Okay, adesso possiamo parlare», disse la ragazza dagli occhi vispi e la curiosità a mille, davanti ad una tazza di tè freddo dopo aver accompagnato Nathan a casa sua. Marnie sembrava calma, molto di più di quanto fosse eccitata davanti ad un succulento gossip di paese, e la cosa mi tranquillizzò.

 

«Non c’è niente da…».

 

«Adesso basta!», disse in tono più offeso che annoiato. «Non potete continuare a dirmi la stessa cosa!».

 

«Ma è la è verità!», ribadii gesticolando.

 

«No, Vicky! Non è “niente” quando passi la notte intera insieme ad un ragazzo che dici di detestare».

Non le risposi. Dopotutto aveva ragione, “niente” non era la parola giusta.

 

«Ci sono troppe cose in mezzo, sai? Immagina cosa succederebbe se…», si fermò per un attimo. «…se Emma lo scoprisse…e Lucas? Non voglio che mio fratello soffra…».

 

«Scoprire cosa? Pioveva forte e abbia cercato riparo, basta. Voi non sapete niente di quello che è successo!», alzai la voce preoccupando Marnie, che mi guardò mortificata. Abbassai le mani e lo sguardo, conscia di aver appena tradito me stessa. Quant’era difficile recitare con se stessi?

 

«Scusa».

 

Sbuffai. «Non è vero che non è successo nulla, ma tranquilla, niente è compromesso», risi cercando di sdrammatizzare, ma non mi riuscì bene. Marnie sapeva più di quanto non gli avessimo raccontato, ma non osò continuare senza che fossi io a mettere il discorso in mezzo.

 

Dopo qualche istante di silenzio però, trovai la forza di dire: «Perché stare bene è così sbagliato?».

 

«Tu stai bene?», mi domandò con un tono più basso di quello che ricordavo. Annuii debolmente.

 

«E allora non stai sbagliando affatto». E avrei voluto crederci davvero. Avrei voluto che bastassero quelle parole per lasciarmi andare, ma ci volevo molto di più, e non dipendeva solo da me.

 

 Fine Tredicesimo Capitolo.

 

 

 

 

Okay, non so come scusarmi. Ho saltato alla grande l'appuntamente settimanale! Potete perdonarmi? D'altronde è la prima volta che succede, una volta può passare, no?

Questo capitolo per me è fondamentale. E' qui che si vede la vera essenza dell'uno e dell'altro. E' qui che si può intuire la qualità più bella del rapporto tra Vicky e Nathan: la loro complicità. Stanno imparando a conoscersi dai difetti alle qualità, stanno imparando a riconoscere loro stessi, i veri loro stessi. Spero che anche voi abbiate percepito quello che io avrei voluto regalarvi con questo capitolo.
Vi ringrazio sempre per il vostro sostegno, è incomparabile!
Il prossimo capitolo (che aggiornerò comunque il 23 per farmi perdonare!) sarà l'ultimo capitolo dell'anno 2010, dato che so che la maggiorparte di voi andrà in vacanza o comunque avrà da festeggiare...ma non ne sono sicura! Tenete d'occhio la storia.
Un bacio grandissimo, e buone vacanze!

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Capitolo 14
*** Fratelli ***


Capitolo 14

“Fratelli”

 



Cinque giorni, 5 ore, 12 minuti e una manciata di secondi. Era passato poco tempo da quella notte e a ritorno da casa avevo scoperto molte più cose di quante mi aspettassi o volessi sapere, e fu la piccola Madison a svelarmele.

 

«Shane e Marnie hanno ballato insieme al falò», mi confessò ridendo sommessamente. «Lei lo ha costretto a ballare tutta la notte», mi unii a lei. Avevo visto Marnie trascinare mio fratello sulla pista mentre cantavo e avevo dimenticato quanto fosse stato comico vederli insieme a cercare di essere civili e gentili l’un l’altro. Ero stata così concentrata nel ritornare sul palco in modo dignitoso che mi ero completamente dimenticata del cosiddetto e rinominato “ballo delle debuttanti”.

 

«Emma ha ballato con un ragazzo che non era Nathan, e a lei non sembrava dispiacergli», e tra i mille discorsi lunghi e rapidi di Madison, mi arrivò diritta in faccia, solo quella piccola, e per lei poco importante, informazione sulla mia sorellastra.

 

«Hanno litigato?».

 

«Non ne ho idea, ma quando lui le ha chiesto di ballare, lei si è rifiutata», alzò le spalle come se non capisse quel comportamento. «Forse è un modo per farsi desiderare».

Ma sapevo bene com’era andata la storia: Nathan mi aveva offerto la mano. Quella mano che per Emma significava tutto, e che io avevo rifiutato. Ma se Emma avesse intuito qualcosa?

Scossi la testa rapidamente e con forza. Cosa c’era da intuire? Tra me e Nathan c’era qualcosa di indescrivibile e insulso. Qualcosa che non andava incoraggiato…

 

«Maddie, posso chiederti una cosa?», e aspettai che mi desse il permesso per continuare.

 

«Se dovessi scegliere tra rischiare per la tua felicità o evitare di creare danni…cosa faresti?», e il mio tono titubante e incerto, gli occhi vaghi, non mi aiutarono a mascherare la realtà. Madison parve non trovare molto difficile la domanda, dato che non esitò a rispondermi.

 

«Io penserei a me stessa», asserì subito, convinta. «La mamma dice che la felicità viene dalla cose più rischiose», alzò le spalle, ma vidi con la coda dell’occhio, che mi fissava accigliata e capii che era fin troppo intelligente per lasciarsi scappare quella strana domanda che le avevo rivolto pensierosa.

Non ebbe il tempo di chiedermelo che mi ero già volatilizzata, quando volevo ero così veloce, che la mia vecchia professoressa di Educazione Fisica sarebbe state fiera dei miei progressi.

 

Quando arrivai in officina, convinta di trovare solo Lucas, e al massimo Tom e Heath, entrai senza bussare, fischiettando acutamente.

Non mi aspettavo certo di trovare un altro ragazzo, mai visto a Longwood nelle mie settimane di permanenza, che giocherellava con gli attrezzi e si guardava intorno. No, ero sicura di non aspettarmelo.

Rimasi impalata, vicino alla porta, sorpresa di trovare qualcuno che non avesse niente a che fare con il silenzio di Lucas o il carisma di Nathan. Il ragazzo, che ancora non si era accorto della mia presenza, era alto e abbronzato, i capelli color oro e due occhi il cui colore non riuscivo a vedere, fino a che il suo sguardo non cadde su di me.

Dapprima sembrò sorpreso, poi i suoi occhi si strinsero e le sue labbra si aprirono in un grande sorriso, che mi ricordava qualcosa.

 

«Ehi, ehi chi è questa bella ragazza?», il suo tono di voce alto e pesante, contrastava con il suo aspetto marcato e tipicamente californiano. Ma da dove usciva?

 

«Hai bisogno di qualcosa?», eppure sembrava stupido chiederlo, dato che sarebbe stato più giusto dire “come diavolo sei entrato, e che vuoi?”, ma se c’era qualcosa che aveva imparato grazie a Nathan Carver, era sopportare il nervosismo ed essere gentile anche quando la tua bocca vorrebbe fare a pezzetti la carne di un individuo.

 

«Posso fare io qualcosa per te?».

Quando fu evidente che la tattica della gentilezza verso il prossimo, non funzionava con tutti, fui lieta di poter aprire bocca per riempirlo di insulti, ma non servì il mio ironico vocabolario a mettere a tacere quel ragazzo.

 

«Niente che ti possa piacere, Michael», disse una voce dietro le mie spalle. Nathan guardava con occhi brillanti e forti, il ragazzo dall’aspetto californiano. Non era esattamente lo sguardo che di solito si usava per spaventare qualcuno, ma…forse era un modo per capirsi tra ragazzi.

Mi voltai pronta a raggiungere Nathan e a lasciarmi “salvare” da lui. Non che avessi voglia di fare il gioco della principessa e il principe, ma ogni tanto sarebbe stato bello lasciare il ruolo da maschiaccio e lasciarsi difendere da qualcun’altro. Dopotutto ero stanca di lanciare frecciatine e distruggere l’autostima degli altri. 

Scrollai le spalle. Ma che stavo pensando? Io non sarei mai riuscita a stare zitta e chiudermi in un angolo. Ero troppo…com’è che diceva Shane? Temeraria.

 

«Detesto quando tocchi le mie cose, sai?», il tono confidenziale e privo di rabbia di Nathan mi confuse. C’era forse qualcosa che non capivo? E da quando ero una delle sue cose?

Quello che Nathan aveva chiamato Michael scoppiò in una grossa risata rumorosa e contagiosa. Quel tipo aveva qualcosa di bizzarro e allo stesso tempo familiare, ma neanche concentrarmi su di lui sarebbe servito afar sbollire la rabia offuscata dalla confusione.

 

«Hai ragione, hai sempre detestato i miei modi prepotenti, fratellino».

Spalancai la bocca quasi senza volerlo, afferrai la prima cosa che ritrovai sotto gli occhi, un panno bagnato e rovinato, e lo strinsi tra le mani come se fosse un anti-stress.

 Poi ripetei a mente: Fratellino, fratellino. Michael. Nathan. Michael Carver?


«Come stai, Nate?», continuò con un ghigno divertito Michael, e dopo si aggredirono l’un l’altra, non come si aggrediscono due persone che stanno litigando, ma come due fratelli che sono felici di vedersi dopo tanto tempo, con finti scherzetti, pacche sulla spalla e sorrisi. 

Mi guardai attorno, stordita ancora dalla notizia indiretta che avevo sorprendentemente ricevuto. Mi voltai lentamente e con passi lenti uscii dalla stanza, sicura che tra le risate e la gioia, non si sarebbero preoccupati della mia assenza. E mentre in corridoio riflettevo sulla possibilità delle allucinazioni provocate dal caldo estivo, incontrai Lucas, accigliato.

 

«Tutto bene?», disse.

 

«Nathan ha un fratello?», sussurrai sovrappensiero, ignorando volutamente le domande di Lucas, e rivolgendogliene a mia volta.

 

Lucas strabuzzò gli occhi di scatto, quasi nello stesso modo con cui avevo reagito io. «Michael è qui?», mi domandò sorpreso, con occhi accesi e un grande sorriso luminoso, perfettamente abbinati alla sua limpida aria da ragazzo perfetto.  

 

«Ma non era figlio unico?», mormorai a Lucas.

 

«Michael è un soldato dell’esercito, lavora nell’ambasciata americana in Libano, non c’è mai. Sarà tornato per una licenza», Lucas scrollò le spalle poco stupito.

Indossava la sua solita tuta grigia, rovinata dal lavoro, alcune ciocche di capelli gli ricadevano sul viso, coprendo la forma sottile dei suoi occhi che da tanto tempo cercavano di evitarmi. Nel notare quel dettaglio, capii che era arrivato il momento fare due chiacchiere con il bellissimo ragazzo dallo sguardo dolce.

 

«Usciamo fuori, a prendere una boccata d’aria?», proposi.

Lucas dapprima mi guardo sbigottito, probabilmente per il mio rapido cambiamento di argomento, poi, ancora costernato, annuì.

 

«Però…veramente, io…volevo salutare Michael», disse portando una mano dietro la nuca, imbarazzato.

 

«Lo saluterai dopo, forza!», lo costrinsi ad uscire con me. «Credo che i due fratelli avranno molto da dirsi», conclusi convincendolo definitivamente. Lucas sbuffò senza arrabbiarsi veramente. Il sole colpì il mio viso come una torcia nel buio: accecante. Mi strofinai gli occhi lasciando andare il braccio di Lucas e rallentando il passo.  

Ci sedemmo sulla panchina che affacciava sul mare affollato di gente, fuori dall’officina. Ma si sa, quando il posto è perfetto, l’atmosfera sembra fatta apposta, e proprio in quel momento che mancano le parole.

Lucas estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette, e ne estrasse una, portandola alla bocca seguita dall’accendino.

 

«Ne vuoi una?», mi offrì la sigaretta mentre tirava fuori la prima boccata. Facevano uno strano effetto vedere l’espressione distaccata e annoiata sul suo volto.

 

«Tu fumi?», spalancai la bocca involontariamente, ritrovandomi senza alcuna parole in bocca.

 

«Sono quando sono nervoso», mi spiegò frettolosamente. Mi diede l’impressione di voler evitare una conversazione con me, come se l'ultima delle sue priorità fosse chiarire con me.

 

«E… forse sono io la casa del tuo nervosismo?», tentai mordendomi un labbro. Speravo che rispondesse "Stai scherzando? Io ti adoro", ma sapevo che sarebbe stato ridicolo.

 

«Vicky non ce l’ho con te. Assolutamente», mi spiegò con enfasi. «Ma non puoi neanche pretendere che io gioisca di te e Nathan!», disse con tono più duro, un tono che dalla bocca di Lucas risultò meno fredda di quanto volesse. Mi si strinse il cuore a sentire le sue parole.

Perché non facevo altro che seminare dolore?

 

«Nathan? Che c’entra lui», scossi la testa così rapidamente che prese a girarmi. Non riuscivo ad essere convincente neanche con me stessa, figuriamoci con il migliore amico di Nathan. Okay, forse Lucas era più buono ed ingenuo, ma non avevo mai preso in considerazione l’idea che per essere suo amico, forse aveva anche lui un lato oscuro.

Fece un sorriso che non aveva nulla di rassicurante e disse: «Non credevo che mi pensassi così stupido».

 

«Lucas, tu sei meraviglioso», iniziai. «Saresti perfetto per me», affermai con una dolcezza che non sapevo di possedere.

 

«Ma non sono lui», e prima che potessi contestare, mi azzittì con un gesto della mano.  «Vorrei solo che quello stupido capisse cosa vuole», mormorò guardandosi i piedi, con rabbia.

 

«Ma…», perché dici così?. Avrei voluto dire, e invece rimasi con la bocca prima di parole da versare.

 

«Ciao Lucas!», disse una voce. Ci voltammo entrambi per vedere un uomo, sui cinquant’anni dalla postura perfetta e l’aria rigida e severa, vicino ad un Audi nera metallizzata.

Il padre di Nathan.

 

«Salve Vicky», mi salutò con un sorriso accennato ed educato.

 

Alzai la mano. «Salve Signor Carver», e sorrisi. L’uomo dai capelli brizzolati e l’aria severa ci rivolse un’ultima occhiata prima di entrare in officina. Nonostante come prima impressione, il signor Carver poteva benissimo passare per una persona altera ed irraggiungibile, era, al contrario, un uomo educato e riservato, probabilmente simile ad alcuni aspetti del figlio che non avevo mai visto.

 

«Lucas… che lavoro fa il padre di Nathan?», domandai al ragazzo dai capelli color cioccolato, mentre fissavo l’entrata dell’edificio.

 

«Non lo sai?», mi fissò stupito. «Lui è Robert Carver, il conduttore televisivo della ABC».

Ecco dove l’avevo visto, pensai finalmente in pace con il mio subconscio. Era un conduttore televisivo di una rete conosciutissima, o almeno abbastanza da essere riconosciuta da una ragazza avida di televisione come lo ero io. 

Qualche secondo dopo l’entrata del signor Carver, sbucò il figlio che a me interessava, con un sorriso imbarazzato, diritto verso me e Lucas, che non aveva concluso di certo il discorso nel migliore dei modi.

 

«Che fine avevate fatto?», ci rimproverò Nathan, quasi sollevato di vederci all’aperto e ognuno nei propri spazi.

 

«Vicky mi ha detto di aver conosciuto un altro idiota come te. Ho capito che era Michael, e ho deciso di portarla fuori a riprendersi», disse Lucas, più rilassato, o forse ero troppo presa dal sembrare controllata da non notare la sua buona recitazione.

 

Nathan, mi rivolse un occhiata. «Scusalo, mio fratello è davvero…».

 

«..tuo fratello», asserì con ironia.

Nathan si portò una mano sulla testa, scompigliando i capelli biondi e già disordinati.

 

«Già», uscì dalla sua bocca come un minuscolo e quasi impercettibile sussurro. Cos’era…imbarazzato? No, non lui.

 

Per Nathan in quel momento Lucas non c’era, era invisibile ai suoi occhi, o era abbastanza disinibito e stupido da ignorarlo. Avanzò verso di me, fino ad afferrare la mia mano e stringerla così improvvisamente che non potei evitarlo.

Chiesi a me stessa per non rendermi ulteriormente ridicola: “Mi sta davvero tenendo la mano?”

All’ennesimo sguardo in giù compresi che non erano allucinazioni, era la realtà. La dolorosa realtà.

Quella realtà in cui un gesto che a me poteva sembrare innocuo e deliziosamente gradevole, era una cosa da nascondere, da evitare.

Come poteva essere così ingiusta la realtà? Non c’era niente di più per me? Sospirai.

«Io torno dentro», Lucas non fece altro che fissare la mano di Nathan, stretta nella mia, come se aspettasse di vederle bruciare e diventare cenere, poi con durezza e delusione, si voltò e allontanò nel giro di qualche secondo. E fu in quel momento che capii di non voler avere tutta la colpa. D’altronde…lo stavamo facendo in due, no?
E sfogai tutta la rabbia accumulata sull’unica persona che era riuscito a farmi sorridere e arrabbiare più di una volta nel giro di due mesi.  

 

«Ma sei impazzito? Stamattina ti sei svegliato e hai deciso di fare le cose al contrario? Ti è sembrato divertente prendermi la mano davanti a Lucas?», urlai puntandogli un dito contro con veemenza.

 

«Perché, cosa c’è di così strano? Lucas non è un bambino! Hai mai preso in considerazione la possibilità che io preferisca te ad Emma?», cercò di scavalcare la mia voce senza risultati.

 

«Lo dici con una tale superficialità che ci manca poco che non ti cavi gli occhi con questo». Presi tra le mani il pesante mazzo di chiavi che mi avrebbe fatto entrare in casa, accendere l’auto e lasciare un bel livido sul viso di Nathan. 

 

«Okay, può darsi che io non sappia cosa fare, o magari sono davvero impazzito e sto mandando a rotoli una relazione solo per un capriccio. Ma voglio provare, cavolo! Perché devo ignorare l’attrazione che provo per te, Vicky?», provò ancora una volta, usando una serietà così netta che mi ferì.

 

«Non puoi giocarci su! Emma è la mia sorellastra…e tu sei impossibile!». Biascicai abbassando la voce. Cominciavo a balbettare frasi stupide e insulse, non avevo più teorie e scuse a cui aggrapparmi.

 

«La verità è che tu hai paura. Sei solo una ragazzina codarda terrorizzata all’idea di sbagliare», disse indignato, con una smorfia di disgusto.

 

«Tu non sai niente di me!», abbassai la voce lasciando che tutta la mia frustrazione gli ricadesse addosso come un getto d’acqua gelida. «Non posso lasciarti spezzare il mio cuore», scossi la testa velocemente, come se la sola idea mi terrorizzasse.

 

Le persone a volte si lasciano tentare dai più oscuri e ignoti desideri, a volte si trattengono dal vivere le loro ambizioni finendo per trascurarle.

In entrambi casi la scelta non è mai giusta.

Non potevo prendermi il lusso di scegliere una strada, sarebbe stato un colpo secco.

E ancora una volta lasciai che mi guardasse scappare via, perché chissà per quale motivo, era la cosa che mi riusciva meglio.

Ero sulla soglia della porta, con la sola intenzione di correre per le scale e gettarmi sul letto per piangere, quando sentii le voci di due uomini che parlottavano a bassa voce e con una calma inquietante, nel salotto di casa.

 

«Quindi tu che ne pensi?», disse la voce roca di mio padre.

 

«E’ una ragazza  forte, la più forte che abbia mai conosciuto. E’ caduta, ma si rialzerà e saprà farlo nel modo più fiero. Dopotutto, è mia sorella, no?».

 

«E’ proprio questa la mia preoccupazione», rispose papà. Lo sentii ridacchiare, ma non era veramente divertito. Era uno di quei momenti in cui Shane sapeva essere serio. Era uno di quei momenti in cui l’unico uomo della mia vita diventava lui.

 

Così com’ero entrata, riuscii di casa, correndo.

Ero come una pallina che rimbalzava da un posto all’altro senza mai fermarsi, ero come un anima rinnegata dall’inferno e dal paradiso. Non avevo un posto dove sentirmi al sicuro, era un pensiero che mi veniva rinfacciato dalla mia stessa coscienza, continuamente.

Perché avevo così tanto bisogno di scappare? Correvo da una parte all’altra senza riuscire a capire dov’era che stavo meglio. Nessun posto andava bene per me?

E a quanto pare, non era di certo la mia testa a scegliere la meta, dato che lei non mi avrebbe mai portata da lui.

Cosa ci fai qui? Torna indietro stupida, mi dissi. Ma avevo bisogno di guardare qualcuno che non aveva pietà negli occhi, né comprensione. Io avevo bisogno dell’essere se stesso di Nathan, della sua semplicità negativa e positiva che fosse.
Bussai alla porta della grande villa Carver. Senza che dicessi una sola parola, senza avere di nascondere il brivido causato dal vento, bastò guardarlo quando venne ad aprire.

 

«Ho bisogno di un amico», mormorai tra gli spasmi del freddo estivo. Tremavo come una foglia, un po’ per controllare la mia voglia di piangere, un po’ per il freddo, un po’ per la paura di aver Nathan di fronte a me.

 

«Entra».

 

 

---------

 

 

«Lo so, sembra la scena di un film», ma il mio tentativo di sembrare divertente fallì miseramente. Ero stesa sul letto di Nathan, avvolta in una coperta blu notte, appoggiata su un morbido cuscino.

 

«Se fosse stato un film, adesso non saresti qui». Anche Nathan era steso sul suo letto, tenendo comunque le distanze da me.

 

«Devo pensare al peggio?», alzò un sopracciglio.

 

«No», mormorai così piano che anche lui che era così vicino a me, trovò difficoltà a capire. Non c’era via d’uscita a quella situazione. Faccia a faccia, occhi negli occhi. «E’ solo che dovevo…Forse sto impazzendo», scossi la testa.

 

«Ti ho vista tante volte scappare, ti ho vista arrabbiata e furiosa, eppure non ti ho vista mai piangere», constato con curiosità, come se ci stesse pensando davvero per la prima volta.

 

Alzai le spalle riconoscendo il vero. «Piangerò davanti a qualcuno solo perché vuol dire che terrò a quella persona».

Ma non rise di me, bensì annuì pensieroso.

 

«Adesso, se ti chiedo una cosa, prometti di non arrabbiarti?». La sua voce arrivò alle mie orecchie come le più dolci noti di una canzone. Non ricordavo di averlo mai sentito parlare in quel tono con me. Strinse le sue mani nelle mie e fece in modo che entrambi ci sedessimo all’estremità del suo letto, uno di fronte all’altra. In un’altra occasione, per altre due persone, sarebbe stato il momento perfetto per innamorarsi, per suggellare quello che si ha dentro di sé. Ma con noi era tutto diverso.

 

«Usciresti con me?», strinse gli occhi come per attutire un possibile rifiuto. Quel gesto mi fece sorridere.

 

«Se ti dicessi di no, mi lasceresti in pace?».

 

«No», sorrisi della sua netta risposta. Era così ostinato, ed io ero troppo debole per resistere.

 

«Okay, portami fuori».

 

Lui mi faceva sentire meglio, viva, mi faceva sorridere e arrabbiare. Mi rendeva reale, tirava fuori la mia vera me. Oscurava gli stessi problemi che sembravano provenire dalla nostra situazione. Perché se prima pensavo che non ci fosse niente di male, compresi che in quel momento, tutto si stava complicando.

Mi ero innamorata di Nathan Carver?

 

Fine Quattordicesimo Capitolo.




 
- Riassumo quello che ho da dirvi in dei punti:

1)Vicky è molto più fragile di quanto non dia a vedere. E' dovuta correre in aiuto di una dodicenne per cercare un po’ di conforto.
2)
Ed è arrivato un nuovo personaggio. Michael è solo di passaggio, ma sarà molto importante!
3)
Eh, si…Vicky sta vedendo Nathan in un altro modo, forse quello giusto, forse no. Ma c’è qualcosa che continua a fermarli…

Ora ho bisogno di dirvi solo questo: questo sarà l'ultimo capitolo del 2010. So che può sembrare stupido, ma fa uno stranissimo effetto. Spero di ritrovarvi tutti a gennaio, per cominciare un nuovo anno insieme! Spero che passiate buone feste e che...questo capitolo vi sia piaciuto!
Sono orgogliosa della mia storia, e questo solo grazie a voi che leggete, seguite e commentate!
Grazie di cuore <3
E auguri per tutto!

 

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Capitolo 15
*** Il mondo può aspettare ***


Capitolo 15

“Il mondo può aspettare”

 




Alcuni credono che il mondo sia fuoco, alcuni credono sia ghiaccio.

Alcuni credono nel bene, altri nel male. E poi c’è quella piccola minoranza che non sa in cosa credere se non nelle proprie speranze, nelle piccole cose per alcuni insensate e superficiali. Io credevo nei miei sogni, Nathan credeva nei suoi, Shane, Marnie, papà, Emma credevano nei loro sogni.

Tutti abbiamo bisogno di qualcosa in cui credere.

 

«Qualcuno disse “dove le parole finiscono, inizia la musica”», mormorai ad un passo dal suo viso, stesa sulla sabbia calda e brillante.

Erano passate esattamente ventiquattrore da quand’avevo mollato tutto quello che non comprendesse Nathan. Con l’aiuto di Marnie, avevo appianato le preoccupazioni della mia famiglia, ed ero scappata –questa volta non da sola- sulla spiaggia. Il mare era calmo e il vento lasciava che alcuni granelli di sabbia si posassero sul mio corpo, accarezzato dallo sguardo di Nathan.

Non volevo rimanere sola con me stessa, in quel caso avrei dovuto affrontare i miei pensieri che solo per un attimo, avevo accettato.

 

«Chi l’ha detto?», appoggiò il peso su un gomito e i suoi occhi perforarono i miei in un attimo.  

 

«Non ne ho idea», alzai le spalle. «Ma senti questa voce? Vedi queste labbra?», mi indicai sorridendo.

 

«Un giorno varranno oro», dissi in tono falsamente solenne. Poi scoppiamo in una risata.

Stavamo ridendo, scherzando, fantasticando sul nostro desiderato futuro.

 

«Modesta», chinò il capo e alzò un sopracciglio in un espressione buffa. «Ma che ne dici se per adesso, queste labbra», le sfiorò con le sue. «…le usassi per fare beneficenza?», mormorò malizioso.

Non mi lasciò il  tempo di ribattere che ero già avvinghiata a lui. Le mie mani erano intrecciate avidamente al suo collo, le sue accarezzavano i miei fianchi. Per comportarmi in quel modo con Nathan avevo completamente staccato il cervello dal resto di me. Se solo la mia coscienza avesse avuto il tempo di parlare, mi avrebbe capovolto dei rimorsi che di solito mi coinvolgevano fino a farmi impazzire.

Ero egoista.

Per una maledetta volta, si.

Ero impulsiva.

Come sempre.

Ero felice.

Non ne ero sicura.

 

«Non che mi dispiaccia fare nuove avventure», disse staccandosi dall’ennesimo bacio disperato. «Ma non so se è il caso di togliersi i vestiti», arrossii di colpo, violentemente.

Forse ci eravamo spinti un po’ oltre, dimenticando il posto in cui ci trovavamo.

Non potevo perdere il controllo in una spiaggia. Non potevo perdere il controllo e basta.

 

«Facciamo una passeggiata?», chiesi con il fiato ancora corto e le labbra rosse e gonfie.

Si alzò con un abile balzo, aiutando i miei più goffi movimenti.

 

«Allora signor Carver», gli sfiorai una spalla con la mia. «E’ questa la sua idea di uscita insieme?», lo punzecchiai ironica, ridendo della strana smorfia che le si era formata sul volto.

 

«Cominci a pretendere troppo, sai?», si voltò verso di me, continuando a camminare a passi lenti e misurati, affondando i piedi nella sabbia bollente. «Ma…hai ragione, non è questo il nostro appuntamento», arrossii al solo pensiero della parola.

Da quando diventavo rossa? L’unica occasione in cui arrossivo era a causa di Shane, per rabbia. 

 

«Stasera ti porto a cena fuori».

 

«Che cosa?», balbettai in preda al panico. Lui sorrise della mia espressione scioccata e preoccupata.

 

«Ehi, rilassati. Non ti ho mica chiesto di sposarmi. Non c’è niente di strano», provò a rassicurarmi nonostante il suo immancabile ghigno sulla faccia.

Poi mise il suo braccio intorno a me.

Fu un gesto semplice, probabilmente insignificante per lui. Per me non fu altro che alimentare la fiamma che aveva preso vita a causa sua. Aveva messo il suo braccio intorno alle mie spalle in gesto così tranquillo che per un attimo pensai a come dovesse sentirsi Emma quand’era con Nathan. Anche a lei veniva da sorridere, sempre? Anche lei si sentiva sempre così tranquilla? Si sentiva completamente dipendente da lui?

 

«Stiamo andando con calma, no?», chiese conferma nei miei occhi, stringendomi sempre di più verso di se, rendendo la scena tenera ma ridicola. Sembravamo due timidi ragazzini imbarazzati, cosa che non coincideva con le nostre elettriche personalità.  

 

«Già, con calma», mormorai pensierosa. «Però il mondo gira e noi non possiamo rimanere indietro», pesai con cura le parole, usando una metafora per non ammettere quello che entrambi avevamo paura di sentire ad alta voce.

Sbuffò divertito.

 

«Per un po’, il mondo può aspettare».

 

---------

 

«Allora? Cosa devo dire a tuo padre e a tuo fratello?», mormorò con voce ovattata Marnie al telefono.

Ero nascosta in camera di Nathan, non volevo creargli problemi con i genitori, d’altronde, non doveva essere di certo un sollievo vedere il figlio in giro per casa con una ragazza che non era la sua.

 

«Dì loro che sto tutto il giorno con te», e nonostante stessi convincendo un’amica a mentire per me, non riuscii a trattenere un sorriso.

 

«Sicura?», domandò titubante, con lo stesso tono di un’amica preoccupata. Forse credeva che lo stessi facendo controvoglia, oppure che volessi mandargli messaggi in codice tramite semplici affermazioni, ma la realtà non era niente di tutto questo. Volevo uscire con il ragazzo di mia sorella, all’insaputa di tutti. Era una cosa orribile, e lo sapevo bene, i rimorsi non mancavano di certo. Sentivo un dolore allo stomaco ogni volta che pensavo ad Emma, che non meritava quello che io le stavo facendo.

Tuttavia, anche se poteva apparire come una scusa, non ero in grado di prendere una decisione razionale né giusta.

La giustizia della ragione non è quella del cuore.

«Vicky? Ci sei?».

 

«Scusa Marnie… stavo pensando», sospirai, scuotendo la testa e rilassando i muscoli. Stavo diventando di nuovo un fascio di nervi.

 

«Allora…a domani?», chiese incerta. Annuii come se lei avesse potuto vedermi, poi risposi con un flebile “si”, e riattaccai dopo un saluto cordiale.

Quello sarebbe stato un weekend di sole e caldo bollente, lo si vedeva dal cielo quasi trasparente attraverso la piccola finestra della cameretta di Nathan.

Girovagai intorno senza fissarmi su un particolare oggetto, e a parte il copione stropicciato della recita di Nathan, i miei occhi sfuggivano dai dettagli.

La realtà, era che avevo la terribile paura di incappare in qualche oggetto personale, o in un oggetto che non appartenesse a lui. Perciò, come un radar impassibile mi guardavo intorno annoiata, rendendo più facile ai ricordi di tornare a galla.

 

 

«Allora…com’è la sua stanza?».

«Dopo tutto quello che ci avranno combinato dentro, non credo che abbia notato i dettagli», mormorò sarcastica una ragazza dai lunghi capelli rossicci. Le altre due ragazze risero.

«Non siamo come te e Shane, Rachelle. Noi ci andiamo piano», disse una bionda sbarazzina.

«Vuoi dire che tra voi non è successo niente?».

«Beh no…in realtà dopo tre minuti ci eravamo già strappati tutti i vestiti», arrossì la bionda. Nel frattempo la più piccola delle quattro si perdeva in pensieri sconnessi. Vicky, pensava già alle parole della sua nuova canzone.

«Ancora non ci hai detto com’è… ».

«Se le chiedi un’altra volta della stanza ti tiro questo cuscino in faccia!», Rachelle rimproverò scherzosamente Kate.

«Anche se non è il dettaglio che interessa di più, la stanza di Evan è…maschile!», risero all’unisono.

«Ma dai! Io m i aspettavo gli unicorni rosa!».

 

 

«C’è una bella ragazza pensierosa, qui?», una voce mi riportò al presente. Alla Victoria diciottenne, a Longwood.

Nathan era davanti a me, bello e reale. Con le sopracciglia arcuate e un accenno di sorriso malizioso.

 

«Non mi dire che stavi leggende quel coso?», indicò con il viso disgustato l’ormai dimenticato copione che tenevo tra le mani.

Alzai le spalle ancora turbata dall’improvviso e indesiderato viaggio nel passato emi alzai per restituirglielo.

 

«Tutto bene?». Lo ignorai.

 

«Secondo me, dovresti provarci», mi lanciò un occhiataccia che la diceva lunga sulla simpatia che in quel momento nutriva per me. Alzai le spalle e mi sedetti tenendo il copione stretto tra le mani.

 

«Non ho detto che devi farlo. Però perché privarti… ».

 

«June e Peter», mi interruppe improvvisamente. Alzai le sopracciglia guardandolo di lato. Che stava dicendo?

 

«I protagonisti si chiamano June e Peter», chiarì. «Ma nella mia scuola, sappiamo già chi saranno, perciò non mi creo questi problemi. Lucinda Bayle è la reginetta del club di teatro, mentre Jason Dox è il più sensibile del gruppo. Perché sforzarmi?».

 

 

«Rain ed Evan saranno i protagonisti del musical e saranno loro a cantare la maggiorparte del tempo. Perché dovrei andare incontro ad un inutile umiliazione».

«Perché la tua voce è magnifica e il fatto che Rain e Evan stiano insieme non vuol dire niente», la rassicurò Kate.

 

 

«Quindi l’hai letto», dissi con un tono che cominciava con lo scherno.

Nathan portò una mano dietro la nuca e socchiuse gli occhi. Era in imbarazzo.

 

«Gli ho dato uno sguardo», disse indifferente abbassando lo sguardo e avanzando lentamente. Sorrideva tra sé, rinchiuso in una prigione di pensieri piacevoli dove solo a lui era concesso di rimanerci.

 

Lo provocai pronta a ricevere l’ennesima occhiataccia. «Ti va di provare con me?».

 

«Mi stai chiedendo di recitare con te, qui? Adesso», disse con un tono disgustato tanto quanto il mio era divertito. Annuii divertita.

Era strano come le situazioni si invertissero. Io mi divertivo quando lui era in difficoltà, lui si divertiva quando io ero in difficoltà. Era una sottospecie di rapporto masochista, il nostro.

 

«Ho detto no! Non ci è riuscito Lucas, né Marnie e tantomeno Emma che sa essere molto petulante se ci si mette. Non credo che ci riuscirai anche tu», concluse sicuro della sue parole, con un espressione beffarda.

 

«Tu non conosci i miei termini di persuasione», mi morsi un labbro roteando gli occhi. Sorrise formando una seducente fossetta sulla guancia destra.

E molto lontano dal metodo che lui aveva compreso, mi aggrappai alle sue braccia stringendo la sua maglietta insistentemente.

«Dai! Ti prego, ti prego!», presi un profondo respiro. Ti prego, ti prego, ti prego. Dai fallo per me, dai, dai, dai!», mi fermai solo per prendere un profondo respiro e poi ricominciai fino a che un suo sguardo insistente e minaccioso non mi convinse a smettere.

 

«Ed io che credevo che volessi usare le tue armi di seduzione», alzò le spalle con un espressione tra lo scocciato e l’irritato. «Probabilmente è perché non hai una traccia di femminilità», alzò nuovamente le spalle, questa volta per provocarmi con una delle sue prese in giro.

 

Gli saltai addosso scherzosamente, facendoci atterrare entrambi sul suo letto, uno sopra l’altro. Sempre sorridente, afferrò una ciocca dei miei capelli portandola dietro l’orecchio, e mi sussurrò. «Vuoi ancora recitare?».

 

La voglia di recitare se n’era andata nell’attimo preciso in cui le sue mani avevano toccato le mie. Ma non potevo lasciare che il mio corpo controllasse le mie azioni. «Assolutamente si»

 

Sbuffò e raccolse il copione. «Niente di tutto questo deve uscire dalla mia stanza».

 

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«Come posso provare ad essere qualcuno che detesto?», sbraitò Nathan un’ora dopo aver accettato di provare a leggere il copione. Eravamo seduti sul suo letto a gambe incrociate uno di fronte all’altro e ridacchiavo di tanto in tanto dell’espressione esausta del bellissimo ragazzo dagli occhi blu.

 

«Ti sembra di detestarlo ma in realtà tu e Peter vi somigliate moltissimo».

 

Alzò un sopracciglio. «Ah, si?». Annuii.

 

«Quell’ostinato orgoglio che ti porterà alla follia», feci una pausa. «…l’eleganza», un’altra pausa. «…e quella costante nota di presunzione nella voce e sul viso che vi etichetta subito come degli idioti».

 

Mi aspettai di vedergli il broncio e la finta aria da offeso, oppure di ricevere qualche battutina in risposta, e invece…

«E così…sono elegante?», domandò con un luccichio negli occhi.

Scossi la testa. «E’ l’unica cosa che hai capito di tutto quello che ti ho detto?», e il suo sorriso mi sciolse come gelato al sole.

 

Oh Nathan che mi stai facendo?

 

Nathan gettò sul letto il copione e si stiracchiò emettendo strani versi di stanchezza, solo per attirare l’attenzione e farmi capire che per lui poteva anche finire lì la sua carriera d’attore.

«Tra un’ora usciamo».

 

«Dove?», chiesi soffocando una risata.

 

«Da qualche parte», rispose senza soffocare nessuna risatina ma prendendomi in giro con quegli occhi blu pieni di luce. Si alzò dal letto come se fosse una fatica mentre io rimanevo a fissarlo aspettando che mi dicesse qualcosa di più.

 

«Non ho vestiti da mettermi», sbuffai sistemandomi i capelli con le mani. Erano pieni di nodi, né ricci, né lisci. Un caso perso.

Aspettai pazientemente che Nathan tornasse con la testa da me e quando fui sul punto di urlargli scherzosamente dietro, parole che non si trovavano neanche sul vocabolario, si voltò verso di me.

 

«Non importa come sei vestita», alzò le spalle, mi scompigliò quegli stessi capelli che avevo cercato di sistemare fino a qualche secondo prima, poi uscì dalla stanza.

 

 

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«Non importava com’ero vestita, eh? », dissi in tono di rimprovero imbarazzato, trascurando, per una volta, la mia interminabile ironia. Lui mi sorrise scuotendo la testa. «A me non importa».

Il ristorante era degno dei quartieri più all’avanguardia di New York. Le pareti color verde pastello, i tavoli asimmetrici le persone silenziose nonostante fossero minimo una cinquantina. Era un locale decisamente fuori dal comune.

La cameriera dai capelli rossi e l’aria di chi ha la testa su un’altra lunghezza d’onda ci portò al nostro tavolo affianco ad una famiglia e una coppia più adulta. Nathan ordinò per entrambi mentre io ero rimasta ancora ad occhi aperti a contemplare il magico posto. Alla mia destra, in fondo alla sala, c’era un uomo anziano al pianoforte che suonava quella che una volta trovavo irritante musica da sottofondo.

 

«Vicky?».

 

«Cosa?», risposi riportando lo sguardo su di lui. Aveva un sopracciglio alzato e una mano sotto il mento.

 

«Voglio essere sincero. Posso dirti una cosa?», domandò pensieroso.

 

«Lo diresti comunque, perché mi chiedi il permesso?».

 

Roteò gli occhi e sorrise. «Pura cortesia».

Aspettò un minuto buono prima di parlare.

 

«Hai l’aria di chi è costantemente in linea con due vite diverse», sussurrò lentamente a voce melodiosa.

 

Corrugai la fronte e feci una smorfia con le labbra nascondendo dentro di me quella vocina che dava ragione a Nathan. «Non sei la prima persona che me lo dice».

 

Alzò le spalle indifferente. «Potrei essere il primo a scoprire perché».

Eravamo seduti l’uno di fronte all’altro, silenziosi ma allo stesso tempo rumorosi. Il rumore di qualcosa che alleggiava nell’aria e non era la soffice musica di sottofondo, né

 

«Mettiamola così: penso troppo, penso troppo poco. Sono troppo buona, troppo cattiva. Sono me e poi non sono me», continuai sorridendo della sua espressione fintamente assorta. Come una normale reazione alle mie stupide risposte, era stato amabile il suo tentativo di far finta di aver capito la mia criptica definizione.  

 

«Mi dispiace non volevo confonderti le idee», abbassai lo sguardo e scossi la testa imbarazzata. Mai una volta che riuscissi a mantenere il controllo e evitare le guance rosse.

 

«Non mi hai confuso le idee», scosse la testa in un espressione dolce. «Finché sto per mangiare, niente può confondermi le idee».

Alzai gli occhi su di lui. I capelli scompigliati, perfettamente lisci avevano degli ipnotizzanti fasci di luce tra i capelli dovuti al tenue pallore delle candele nella sala.

Distolsi lo sguardo da Nathan Carver solo quando la cameriera tornò con le ordinazioni e mi sembrò scortese ignorarla. Poi mangiammo tra chiacchiere, sorrisi e divertenti vecchi aneddoti sulla nostra vita.

Normali.

Soli.

Vivi.

---------

 

«Questa serata è stata di vostro gradimento?», mi domandò una volta fuori dal lussuoso ristorante fuori Longwood.

 

«Direi che ci sono stati dei lati positivi …e dei lati negativi», dissi con una nota di derisione nella voce leggera.

 

«E quale sarebbero i lati negativi?». Mi fissò con l’aria sconvolta, con un viso buffo che doveva assomigliare al viso di una persona offesa. Sorrisi.

 

«Bé, sei un pessimo attore, e sopportarti tutto il pomeriggio…», scherzai. Nathan cambiò espressione quando capì che non stavo parlando sul serio.

 

«Io, un pessimo attore?», si indicò il torace spalancando la bocca mentre gli occhi luccicavano e ridevano di per sé. Non l’avevo mai visto così tranquillo, senza traccia di tensione. Ma in realtà, non avevo visto neanche me stessa  così a suo agio, senza preoccupazioni. Nathan si parò davanti a me, impedendomi di camminare.

 

«June», esordì afferrandomi la mano. «Erano lunghe le notti, quando i miei giorni ruotavano intorno a te», mi fissò negli occhi con quello sguardo forte, irresistibile.

 

«Ogni giorno mi chiedo quale versione di te dovrò affrontare», sospirai nelle vesti di June. «Chi sei oggi?», domandai a Peter.

 

«Non so chi sono io, ma so chi siamo noi».

Le mie labbra si aprirono in un grande sorriso, e per una volta fui io ad afferrargli la mano e a stringerla tra le dita.

 

«Andiamo a casa», mormorò a fior di labbra. E giurai che quello non fosse più Peter.

E con quel “andiamo a casa” non mi aspettavo di andare a casa mia dove, affollatissima, tutti aspettavano il mio ritorno senza troppo turbamento. Tantomeno mi aspettavo che mi portasse a casa sua, nella stanza dove aveva portato tutte. Eppure mi meravigliai anche quando mi ritrovai di nuovo di fronte a quella casetta dove eravamo stati la sera del falò.

Poi il mio cervello ebbe un vuoto di qualche secondo. La mia mente si ricollegò quando entrambi eravamo schiacciati su quel divano scomodo l’uno sull’altra. E non importava che fosse uno squallido divano, né che fosse ancora più squallido nei confronti di Emma quello che stessimo facendo, io ne avevo bisogno.

La lingua di Nathan indugiava sul mio collo in un movimento ipnotico, rilassante. Mi voltai in silenzio e comincia a sbottonargli la camicia che aveva premurosamente indossato quella sera per cenare con me. La sua bocca passo a baciarmi le palpebre, i miei occhi chiusi, e la mani mi accarezzavano con un tocco leggero, le braccia.

Nathan si liberò della mia maglietta viola. Mi accarezzò dolcemente il ventre, prima con le dita e poi con le labbra leggere. Lui mi guardava negli occhi come se fossi in grado ammaliarlo, e in cuor mia avrei voluto arrossire al solo pensiero di quello che ci stava succedendo.

E quando ci unimmo, fui totalmente sicura di essermi innamorata di lui.

 

Dall’altra parte di Longwood, però, c’era qualcuno dal cuore spezzato. 

                                                                                                                                                                                                           Fine Quindicesimo Capitolo.


 Com'è che si dice? I'm Back!
 (ho sempre sognato di farlo! xD) Ebbene si, sono tornata, o meglio loro sono tornati per continuare la storia. Spero chevi siate divertite queste vacanze, e ho deciso di aggiornare prima dell'inizio della scuola perché sennò non avrei ricominciato più!
Che dire...non voglio scrivere troppo. Spero di ritrovarvi tutte anche con questo ritorno...è sempre un piacere scrivere e ricevere le vostre risposte.
Un grandissimo saluto. =)

 

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Capitolo 16
*** Liar, Liar ***


Capitolo 1

“Liar, Liar”

La mattina non era mai stata tanto gelida e mai tanto piacevole quanto in quel momento per me. Mi pareva di scorgere gli uccelli volare sull'acqua tiepida e brillante del mare, anche se avevo gli occhi chiusi. Quando aprii gli occhi, ce n’erano già due che mi scrutavano da un bel po’, oltre alla luce fastidiosa e rilassante allo stesso tempo, del sole mattutino di fine estate. Gli occhi blu di Nathan non erano mai stati così chiari da quando lo conoscevo. Luccicavano e le sue labbra erano aperte in un sorriso che aspettava solo me. La testa era appoggiata su un gomito e il suo viso dai tratti dolci e angelici, duri e serrati sembrava scolpito nella cera e modellato da mani esperte. Non c’erano parole per descrivere la semplicità con cui era facile parlare di Nathan. Per non parlare del fatto che come prima immagine mattutina era cosa c’era di più simile al fissare costantemente un poster di James Dean senza mai trovarne un difetto. 

«A che pensi?», mi domandò e tempestivamente risposi senza riflettere. «A James Dean».

«Passi la notte con me, ti svegli nel letto con me… e il primo a cui pensi è James Dean?», disse più stupito che divertito. Probabilmente avevo toccato l’orgoglio di Nathan che alle sei di mattina era più suscettibile del solito.

«Andiamo, non puoi essere geloso di qualcuno che se fosse vivo avrebbe più anni di mio padre», mi divertii a percorrere con un dito il suo petto perfettamente scolpito.

«Non sono geloso. Mai. Di nessuno», portò un dito sulle mie labbra lasciando trasparire nella sua voce quella nota di prepotenza che diceva “non ti dimenticare chi sono”.

Mi alzai anch’io spostando la forza sul gomito, sorridendo della sua corazza sempre pronta a mettersi davanti a chiunque, ma che sembrava non farmi più paura. «Devo tornare a casa prima o poi, o mi daranno per dispersa», sospirai. «E poi anche tu hai da fare oggi, no?». Mi guardò accigliato, confuso e stanco.

«Non devi dire niente ad Emma?», dissi insicura, con una nota di paura, e come se la mia incertezza l’avesse contagiato, di colpo il suo viso si rabbuiò e capì che non era affatto un bel segno.

«Tu non avevi assolutamente intenzione di parlare ad Emma, vero?». La mia voce perse qualche nota. Mi alzai di colpo dal letto, stringendo forte la coperta al petto. Il sole entrava come un unico fascio di luce, nell’unica finestra della casetta sul mare. Ma niente di quell’aria mattutina, calda e leggera mi scalfì. Sentivo freddo e intorno a me vedevo solo buio. 

«Ci vuole del tempo», mormorò abbassando gli occhi, per la prima volta senza quella nota arrogante. 

«No, ci vuole solo coraggio», mormorai a tratti trattenendo quella spietata voglia di singhiozzare senza lacrime. «E tu non ne hai abbastanza», chiusi gli occhi, per ricevere il mio colpo al cuore.

«Vicky aspetta!», sentii la sua mano calda stringermi il polso, e nonostante sapevo mi stesse facendo male, riuscii a strattonare il braccio e a correre in bagno per vestirmi. Appoggiai le mani allo specchio, ignorando i calci alla porta e lasciandomi trasportare ancora una volta dal passato.

 

«Ho capito bene? Sto facendo la parte dell’amante?», urlò la Vicky quindicenne.

«No, Vicky», un testa mora scosse i capelli. «Io voglio stare con te, ma Rain…».

«..lei ti serve per l’apparenza, io invece per il letto?», lei urlò in preda all’isteria. «Hai idea di cosa significhi? Evan io…»

«Smettila di fare la bambina», continuò indifferente Evan.

«Fino a prova contraria sei tu quella che è stata con il ragazzo della sua migliore amica. Adesso ti vengono i rimorsi?». L’aria venne tagliata da un rumore tagliente e deciso. Da uno schiaffo che urlava dolore, il dolore di chi l’aveva sferrato più di chi l’aveva ricevuto. Ma non sarebbe servito a niente. Non erano i soli in quell’aula. Qualcun altro aveva ascoltato la spiegazione. E adesso Rain aveva il cuore spezzato.

 

«Vicky esci da lì, per favore!», la sua voce preoccupata non scalfì neanche per un istante le mie lacrime. Rimasi seduta a terra, aggrappata al lavandino con i gomiti sulle ginocchia e la testa nascosta tra le braccia tremanti.

Quant’era difficile lasciarsi andare, ricevere un colpo al petto prima di scoprire che rilassarsi e lasciarsi trascinare era il primo passo verso il dolore.

«Quanto tempo ancora ci vuole perché tu veda che lei non è me!», urlai dal bagno.

Scrollai la testa eliminando la voglia che avevo di scoppiare a piangere e distruggere ogni capacità di parlare. Ma io ero forte, mi ripetevo. Non avrei perso il controllo per poi pentirmene.

Uscii dal bagno con l’orgoglio ferito di chi non lo ammetterebbe mai. Testa alta e occhi fissi su di lui nonostante sentivo di aver perso la vista, la testa era un vortice di urla, fischi e parole.

Quando sentii di essere pronta a parlare, capii che non era abbastanza un filo incerto di voce. «Sapevo bene che così ti avrei lasciato spezzarmi il cuore», la voce rotta dai singhiozzi irrefrenabili «Speravo solo che facesse meno male».

Avrei voluto evitare la crisi isterica, non era da me fare una scenata da lacrime e urla. E se la mia reazione era stata così esagerata, nel mio cuore sapevo che qualcosa di me avevo regalato a Nathan.

Lui aveva il viso sconvolto – bellissimo – ma distorto da un’espressione di sofferenza che non bastò a calmarmi.

«Vicky, per favore», tentò di bloccarmi per un gomito mentre nella sua voce fuoriusciva un lamento di dolore. Gli stavo facendo del male tanto quanto lui lo stava facendo a me?

«Voglio tornare a casa».

Due sospiri si elevarono dalla silenziosa stanza.

Mezz’ora dopo ci ritrovavamo in un religioso silenzio, a pochi passi dalla casa sul mare di papà. Non volevo che qualcuno mi vedesse in macchina con Nathan, nonostante l’ultima cosa che in quel momento mi creava preoccupazioni era farmi scoprire da qualcuno.

Senza emettere suono, scesi dall’auto e ignorai quello che mi sembrava fosse stato un tentativo di riprendere il discorso da parte del ragazzo biondo la cui presenza mi stava consumando a poco a poco.

«Pronto?», disse una voce pochi minuti dopo. Singhiozzai incurante di preoccupare la persona dall’altro capo del telefono. «Mamma, voglio tornare a casa»

 ---------

«Che significa Kris?», urlò il signor Hamilton a telefono con l’ex signora Hamilton.                                                                                                                                 Aveva il volto corrugato e un espressione mista di confusione e rabbia inespressa. Stava urlando arditamente contro il telefono che rappresentava mia madre e la mia New York.
Era inutile anche solo ipotizzare l’idea che mio padre potesse accettare un mio improvviso ritorno a casa. Come se si fosse legato così tanto a me negli ultimi due mesi da non poterne fare a meno. Eravamo ad agosto, il caldo sembrava l’unica cosa reale e tipica dell’estate.

«Ma perché? Hai fatto così tanto per farla venire qui e adesso ti basta una crisi per intenerirti?», continuò con un tono e delle parole spiazzanti. Era furioso, come se fosse davvero colpa di mia madre.

«Non importa che sia maggiorenne! Ogni cosa ha il suo perché», cominciò a recitare gironzolando con al seguito Norah, preoccupata della sua esagerata reazione.

Io fissavo il pavimento cercando di evitare gli sguardi accusatori di Shane, quelli confusi di Emma e quelli indagatori di Madison.

Pochi minuti dopo papà tornò in sé rivolgendomi la parola in modo più gentile e stanco.  «Puoi preparare pure le valige, te ne torni a New York».

«Ma papà!», gridò Shane facendo sobbalzare la piccola Madison . «E perché poi? Vicky ti prego dì qualcosa!», mi implorò esausto. Forse erano le mie orecchie che sentivano solo quello che una visione distorta gli lasciava sentire, forse era davvero la realtà, eppure tutti mi sembravano tanto confusi e tanto sconcertati dalla mia improvvisa scelta.

Tu non hai lasciato che facessero parte della tua vita. Loro non sanno più chi sei.  

Scrollai le spalle e rimasi a guardare come se stessi dietro le quinte, o meglio ancora come se fossi invisibile.

Shane era rosso dalla rabbia. L’ultima volta che mi era capitato di vederlo in quel modo, era stato quando mi aveva costretto ad andare casa di Nathan. In quei mesi a Longwood era cambiato così tanto, oppure avevo imparato a conoscere un’altra parte di lui.

«Si può sapere che ti è successo?», mormorò secca ma più dolce di Shane.

Emma si raccolse i capelli biondi in una lunga coda e mi guardò accigliata, ma al contrario degli altri sguardi, il suo era più normale. La ringrazia mentalmente per non avere quello sguardo accusatorio o incuriosito che mi circondava per il salotto.

«Io…», cominciai «Mi annoio qui. Anzi, detesto questo posto. Non mi sta aiutando affatto!», urlai giocando il ruolo della ragazza disadattata in cui ero una celebrità. «Credo di poter impazzire se passo un altro giorni di più qui!». 

Shane aprì bocca per rispondere, ma neanche un sussurrò fuoriuscì dalle sue labbra. Abbassai nuovamente la testa, questa volta per attutire il forte dolore che sentivo pulsare a ritmo dei battiti del mio cuore.

«E’ così? Beh, allora vai pure via sorellina», gridò amaramente. «Non mi pare che ci sia qualcuno in particolare a cui mancherebbero i tuoi irritanti capricci», continuò velenoso, e giurai che nei miei pensieri fantasiosi, potessi addirittura vedere il veleno scendergli giù per le labbra e sputarmi parole vere quanto perfide. Lo guardai per verificare quanto realmente credesse a quello che mi stava dicendo. I suoi occhi erano scuri e il viso indurito dalla rabbia. Shane, pensai. Tu non puoi capire.

«Non siate così duri...non sta andando in guerra», esordì Norah con il suo tono flebile e gentile. «Al contrario, prendiamola come una buona scusa per organizzare una festa d'addio», continuò alzando a tratti la voce, ma nessuno, a parte Madison, sembrò darle particolare ascolto. Papà era uscito, Emma aveva acceso la tv e alzato il volume.

«Una festa a cui non parteciperò», disse una voce quando fui a un centimetro dalla porta della mia stanza e potei finalmente dormire.

Quella sera pioveva. Fu grazie al suono sottile della pioggia scrosciante che mi svegliai nel letto, indolenzita e ancora stanca, alle nove di sera. Non avevo mangiato, non avevo parlato più con nessuno da quella mattina. Avevo dormito e basta, mentre le valigie erano aperte all'estremità del letto e aspettavano di essere riempite di ricordi e nuovi vestiti. Aprire gli occhi voleva dire ritornare alla reazione o ritornare al passato. E poi c'era quella piccola parte della mia testa che tornava a Nathan. Lo insultavo, lo picchiavo, mi innamoravo poi tornavo ad insultarlo e continuavo finché non tornavo a dormire. Quei due mesi a Longwood mi avevano dimostrato quanto il tempo non avesse niente a che fare sull'umore delle persone. Mi era capitato di sentirmi uno straccio in un giorno di sole, mi era capitato di sentir il battito del mio cuore proprio durante una tempesta. In quel momento la pioggia per me non era niente. Totalmente insignificante. Gettando un occhiata sul display del cellulare riuscii a leggere l'annuncio di un paio di messaggi da parte dello stesso mittente: Marnie, ed uno addirittura di Lucas. Ma non feci in tempo a rispondere che qualcuno bussò alla porta ed io mi nascosi sotto le coperte. 

«Vicky?», Madison. «Non voglio disturbarti ma...la mamma ha preso sul serio la storia della festa d'addio», sospirò fino a che non sentii la sua voce sempre più vicina. «Ho cercato di fermarla facendole capire che non era il momento giusto ma...con l'aiuto di Emma...».

«Arriva al punto...», gracchiai sotto le coperte.

«Beh, giù in salotto ci sono una decina di persone che aspettano che tu scenda».           

---------

C’era una canzone, ricordai, che si prendeva gioco dei strani casi della vita, della prevedibilità della gente e di come a volte diamo la colpa ad un destino che non fa altro che rimanere a guardare noi che ci cacciamo veramente nei guai. A scuola avevamo analizzato le varie possibilità: o l’autore parlava a vanvera di qualcosa di cui non aveva la minima idea o si era appena liberato di una situazione imbarazzante e ispirato, aveva scritto una canzone. In entrambi i casi, in quel momento, lo invidiavo da morire.

«Non posso scendere, non posso scendere. No, in che situazione mi avete cacciato», cominciai ad imprecare in preda all'isteria sotto lo sguardo spaventato ma comprensivo della mia sorellastra.

«Dimmi chi c'è giù».

Dapprima esitò, poi si convinse. «I soliti», mormorò sottovoce. «Marnie, Lucas, Nathan, Hilary, Carmen, e...ah il fratello di Nathan, Michael». Sbiancai come se fosse anche possibile assumere un colorito più pallido di quello precedente. Scossi la testa in modo frenetico, con una forza tale che la testa cominciò a girare vorticosamente fino a quando solo sedermi fu sollevante.  

«Puoi mandarli via?», chiesi più titubante che speranzosa. Declinò la mia domanda con una scossa della testa.

«Ho detto che l’intenzione era una festa. Ma qui sotto pare che l’unica intenzione che abbiano sia aggredirti e chiederti spiegazioni».

 

Sospirai tremando. «Non mi sei d’aiuto, Madison». Alzò le spalle in risposta avvicinandosi alla finestra che dava sul mare.

 

«Non sarebbe peggio se ti avessi detto una bugia?», si domandò retoricamente. «E comunque pensa al lato positivo: qualunque cosa tu faccia non ne subirai le conseguenze», si scostò dalla finestra e si nuovamente verso la porta, come se avesse programmato gli spostamenti.

 

«Domani andrai via».   E se ne andò.  Hai paura?, mi chiesi al lungo specchio di fronte al letto di Emma. Si. Tremai. Era paura di stare nella stessa stanza con Emma e Nathan. Era il terrore di riaffrontare lo sguardo di Shane e lasciargli guardare nei miei occhi. Era l’orribile  voglia che avevo di rimanere a Longwood ancora un po’. 

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«Shh, eccola», disse una vocina mentre scendevo le scale con una fierezza come scudo, e l’indifferenza come convinzione. Una vera attrice, avrebbe detto qualcuno, eppure ero convinta che prima o poi tutti siamo costretti a diventare attori. Tutti sappiamo mentire. Feci un cenno ai presenti. Hilary che chiacchierava con Carmen e Norah. Shane e Lucas con la stessa espressione confusa fissa su di me e….

Marnie si parò davanti a me e mi trascinò in un angolino prima che gli altri potessero farmi una qualsiasi domanda. Sarebbe stato confortante da una parte, se non avessi saputo cosa mi aspettava con lei.

 «Allora», sospirò. «Quando l’ho saputo sono scoppiata a ridere. Per un attimo ci ho creduto davvero, ho pensato. “Perché?”. Poi ho pensato: “Che motivo avrebbe per farlo?”  Ci sono io, che sono una compagnia alquanto eccelsa. C’è suo fratello, che da quanto mi dice è la parte più importante della sua famiglia. E credevo che ci fosse anche Nathan! Ma sono troppo intelligente e ci ho riflettuto ancora e mi sono detta: “Lei se ne va davvero. E sarà proprio per colpa di uno dei tanti litigi con Nathan. Lei fa sempre così” la sua voce perse una nota, e acquistò un tono più ferito. «Lei se ne va sempre», e sentii una lama invisibile graffiarmi dentro. Avrei preferito un coltellino e un po’ di sangue, invece di dover assistere alla delusione di Marnie al suo inizio ironico e al suo finale infelice.

 

«Tu non sai cosa dici».

 «A me non interessa cosa ti è successo. Il passato è passato, e non credo che tornando a New York per chissà quale stupidaggine tu possa evitare di ripeterlo». Alzò le spalle e scosse la testa nello stesso momento in cui Lucas la chiamava dall’altro lato della stanza.
Fu troppo per me quel silenzio, e così come successe quella prima sera a Longwood, uscii silenziosamente e rapidamente in veranda a guardare le stelle.

 -------- 

«Ti dirò il mio nome, quando sarai ad un passo dalla morte ed io sarò lì con te a godermi la scena». 

 «Sarà divertente».

 «Che ti è saltato in mente? Hai visto così hai fatto? Potevi ucciderci». 

«Hai un elenco di aggettivi con cui definirmi? Mi pensi troppo spesso, più del lecito».

«Ti è piaciuto il mio schiaffo, Nathan?», mi scostai bruscamente. «Perché mi sembra che tu ne voglia un altro».

«Veramente, è da ieri sera che mi chiedo come debba essere un tuo bacio».

 

--- 

Mi accorsi di delle lacrime sul mio volto, solo quando sentii il loro contatto con le labbra. Con una mano le scacciai, in un secondo. Ero così abituata a stare male da non accorgermi quando lo dimostravo? Probabile.

«Dove vai, scappi ancora?». 

Senza distogliere lo sguardo dalle stelle risposi. «Da te? Sempre».

«Se credi che farò di tutto per farti rimanere ti sbagli. Non ho intenzione di muovere un dito».

1 a 0 per Nathan Carver. In risposta scrollai le spalle come se non me ne importasse.

«So che vuoi provarci, ma sei troppo orgoglioso per farlo» e lasciai che la frustrazione coprisse il sarcasmo che avevo tanta voglia di fare.  «E tu non rimarresti comunque», terminò. «Esatto», risposi semplicemente chiudendo gli occhi e lasciandomi cullare dal leggero venticello di quella notte stellata.  

«Bé allora non ti crea problemi se non ci provo neanche», si avvicinò al palo di legno che dava alle scalette e poi alla sabbia scura della spiaggia. Mi spostai e lo affrontai occhi negli occhi, faccia a faccia gesticolando in modo deciso e allo stesso tempo nervoso.

«Vedi, è proprio in questo che sbagli. Devi provarci! Anche solo per farmi vedere se ci tieni o se intendevi veramente farmi passare per la tua amante!», alzai la voce guardandomi intorno con la paura che qualcuno mi sentisse.

«Io lo griderei al mondo, ma dì la verità, sei tu che hai paura…», continuò con durezza. Sapevo quanto gli costasse lasciar cadere la sua grossa corazza e lasciarsi colpire e toccare dentro, eppure si sforzava di dar a vedere che anche la parte del vulnerabile gli riusciva benissimo. 

«Qui a nessuno piacerebbe che noi due stessimo insieme», gridai istericamente. «Ammettilo Nate, passeremmo più tempo a difendere la nostra relazione che a viverla», gridai.  «Io sarei la sgualdrina e tu il ragazzo cattivo», misurai le parole con disgusto e acidità, come se me la stessi prendendo con me stessa e la me stessa al di là dello specchio a malapena mi guardasse.

«Per una volta, dico, per una volta riesci a pensare a te, Vicky?», urlò furioso come se finalmente potesse gridare al mondo qualcosa di estremamente importante. Non l’avevo mai visto così. Bello e arrabbiato. Doloroso e rilassante.

«Non guardare il resto del mondo, non guardare me, guarda te», la voce tornò bassa e dolce, sciogliendo ogni barriera di rabbia che tenevo nascosta dentro di me.  Lui scosse la testa, i tratti del viso sofferenti ma capaci di tener testa anche alla più forte delle emozioni. Il suo sospiro sul mio collo arrivava a tratti, come se stesse dosando la sua voglia di urlare e rompere qualcosa. Le sue mani tremavano o forse erano le mie, non riuscivo a distinguerle.

«Io rifiuto di arrendermi. Tu stai diventando il mio tutto. Non puoi essere così egoista!», si portò le mani tra i capelli come segno di disperazione. Era furioso, ma la sua rabbia era quasi totalmente appianata dalla confusione.

«Smettila di dire così, non sai di cosa stai realmente parlando. Sappiamo entrambi che può finire tutto da un momento all’altro, ed io non posso farlo un’altra volta, non posso distruggermi ancora!».

Nathan mi afferrò senza troppo gentilezza, ma invece di tirarmi degli scossoni o riempirmi di parole come avevo previsto, mi strinse forte fino a farmi perdere le ultime parole che avevo in gola.                                                                                                                                                                                                                   «Viviamo in un mondo bellissimo, che ti sta dando l’opportunità di vivere davvero». Fermai, con la forza della mente, le lacrime che scendevano copiose.                   Questo era per perché tu non piangevi davanti a nessuno, recitò sarcasticamente la mia coscienza.           

Lasciai che per un attimo solo mi abbracciasse, mentre in testa pensavo già a trovare la forza di staccarmi e rimanere lucida. Ma Nathan mi precedette e senza guardarmi, fece una smorfia sorpresa fissando al di là della mie spalle.      

Emma.

«Non posso crederci», scosse la testa mentre dal viso sgorgavano lacrime trasparenti.

«E’ quasi commovente. Sembravate Romeo e Giulietta», continuò in un tono che non le avrei mai associato. Tremava, forse di rabbia o di dolore. Ci fissava come se stesse guardando morire la persona a cui più teneva. Aveva sputato veleno con la forza di poche parole, e pure il suo viso era sconvolto, spaesato e mai come in quel momento pensai di aver ferito qualcuno in modo così diretto. Come una ragazza che viene colpita da un colpo di pistola e se ne rende conto troppo tardi.

La differenza era che, in quel momento, eravamo state colpite in due.

Fine Sedicesimo Capitolo.

Okay, non ho scuse. Sono imperdonabile, ho aspettato più di due settimane per aggiornare perdendo il "ritmo" settimanale della storia. Sarete mai capaci di perdonarmi? Ci siete ancora? Ho avuto davvero lunghi e grossi problemi: il computer, la scuola soprattutto e tutto quello che ne comporta. Ho avuto un periodo da cui credo di esserne felicemente uscita! Spero che non vi siate scordati di Vicky, Nathan & Co. E spero che ritorniate a sostenere la storia. Credo di poter tornare ad aggiornare duna volta alla settimana. Grazie di tutto.

P.S: Manca poco alla fine. =)

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Capitolo 17
*** Nata per farti felice ***


Capitolo 17

“Nata per farti felice”

 

Se ti avessi detto che volevo tornare indietro, l’avresti fatto per me, destino? Probabilmente no. Perché sarei stata la prima, in fondo, a non averlo voluto. E se ti avessi implorato di darmi una mano in quella faccenda, l’avresti fatto? Beh, non credo. Erano guai in cui mi ero cacciata io, dopotutto.

 «Che cosa…squallida», mormorò sbattendo gli occhi ripetutamente. Provai ad avvicinarmi lentamente, non facendo movimenti bruschi, neanche stessi tentando di convincerla a non buttarsi.

 «Ti ho…ti ho trattata come se fossi mia sorella. Non ho dovuto neanche sforzarmi di volerti bene…e tu», scrollò le spalle e portò le mani sul voltò eliminando le ultime tracce di lacrime. Che si stesse preparando per la vera sfuriata?  Nathan rimaneva immobile mentre pensava, magari, a trovare le parole giuste sia per me che per lei, ragionava per cercare la soluzione giusta a quel rompicapo.

 «Aspetta, ascolta prima quello che abbiamo da dirti…».

 «Tu sta’ zitto», mormorò più debolmente rivolgendogli a malapena lo sguardo. «Mi fate schifo», ripeté come se sapesse quanto mi faceva male. Quando fui a pochi passi da lei, neanche le avessi ricordato cos’era successo, ebbe uno scatto improvviso di rabbia e indietreggiò fino a correre verso casa.

 «Emma, fermati!»,gridò Nathan, ma prima che potesse raggiungerla lo fermai per un braccio. «Sono sua sorella», dissi semplicemente prima di rincorrerla.

Senza pensarci troppo la seguii in casa dove spalancò la porta facendo sussultare tutti i presenti. Solo per un attimo il terrore di tutte quelle persone mi fece dimenticare Emma, poi il io sguardo cadde sulla sua figura immobile in quella stanza, il suo viso sconvolto dalla lacrime, e solo dopo mi accorsi che dovevo avere la sua stessa espressione, le sue stesse lacrime e l’aria distrutta. «Puoi dirmi almeno perché?», mi chiese come se non stesse urlando davanti ad altre dieci persone curiose. Mi guardai intorno, respirando affannosamente. «Che razza di ripicca o dispetto era questo?», continuò.

 «No, Emma…non è stata un dispetto», scossi la testa freneticamente. Nel frattempo Nathan mi aveva raggiunto ed era alle mie spalle. Sentivo la sua presenza.

«Ehm…che succede?», chiese una voce che non ebbi la forza di riconoscere.

 

«Se non era un dispetto, cos’era? Dì la verità sei venuta qui già con l’intenzione di rovinarci la vita!», alzò le mani ignorando quello che c’era intorno a lei. Sembrava fuori di testa, una reazione molto più distruttiva di quella che avevo provato ad immaginare.

 «Dopo tutto è proprio la tua specialità vero? Rovinare le persone!».

 

«Ehi, Ehi…calma», Shane si mise in mezzo. Il suo volto era sorpreso, confuso dalla reazione incomprensibile di Emma e anche lui si sentì colpito quanto me…gli ultimi due anni passati con me gli avevano donato un po’ di quello che, purtroppo, avevo dovuto sopportare. «Forza Victoria, dì il motivo per cui ti hanno sbattuta qui», gridò rabbiosa. Temevo che ci mancasse poco che mi aggredisse con un coltello.

 «Emma…», ma la voce che la stava implorando tacitamente di stare zitta, non era la mia. Era stato Shane.

Ed io avevo incominciato a tremare, investita da ricordi ben peggiori dell’essere tradita dal proprio ragazzo, da memorie molto più decisive e potenti dove era impossibile rifletterci e trovare una via d’uscita.

Le braccia sembravano improvvisamente un peso troppo grande da sopportare, le gambe troppo molli per sopravvivere ad un altro movimento. Ero inerte, ed un solo soffio sarebbe bastato per farmi crollare. «Dì a tutti chi sei veramente. Cosa sei stata capace di fare», continuò imperterrita e non riuscii a fermarla quando disse.  «Dopotutto è colpa tua se la tua migliore amica è morta, giusto?».

E bastò quella frase, un paio di sussulti e sguardi puntati su di me per far si che due anni della mia nuova me sfumassero come il gesso sulla lavagna.

 «L’hai detto», mormorai. «Non posso crederci», scossi la testa temendo che potesse staccarsi e andarsene per conto suo. Stavo sognando? C’erano veramente tante persone di fronte a me che mi guardavano sconvolte? Io ero davvero lì? Oppure prima o poi mi sarei svegliata nel mio letto mentre dalla finestra si affacciava uno dei quartieri di New York scoprendo di non essere mai andata a Longwood?

 Emma si voltò per rincorrere le scale risvegliandomi da quei pensieri simili a rune protettive di angeli custodi, ma non la lasciai andare da sola. Me ne fregai di tutto e tutti. Non poteva credere davvero in quello che aveva detto, non potevo lasciarglielo fare.

Rimasi con le spalle alla porta sigillata della nostra camera, dove sentivo i suoi leggeri singhiozzi repressi.

 «Spero che tu soffra almeno quanto sto soffrendo io», mi augurò sotto un pianto distrutto, ma invece di sentirmi dispiaciuta, mi infuriai. E prendendo a calci la porta dissi con le guancie infuocate: «Tu non puoi augurarmi un male che io ho già affrontato».

 

---------

 

Non appena capii che Emma non avrebbe più risposto alle mie urla, troppo presa a piangere a insultarmi, come meritavo, scesi in salotto, senza pensare al fatto di dover affrontare un bel po’ di pressione e i miei problemi. Mi gettai di scatto sull’ultima scala, inciampando. Una mano mi afferrò tempestiva, e non ci fu bisogno di cercare i suoi occhi per capire chi fosse. Avrei dovuto odiarlo? Dopotutto stavo soffrendo più di lui e non era giusto. Ma non era giusto neanche quello che stavo pensando. Probabilmente stava soffrendo quanto me.

Nathan mi tenne stretta la mano senza lasciarmi per un secondo.

Mi voltai a guardare la sala semi buia. Hilary e Carmen non c’erano più e non seppi dire se fosse stato meglio non vederle, o se sarebbero state più d’aiuto nella stanza di Emma che nelle loro case a sparlare di me. Lucas era in disparte accanto a Madison che fissava Shane che nonostante tutto aveva un espressione composta contrastata da quella pensierosa di Marnie.

 Papà sbucò dalla cucina con un espressione che mi ricordò quella dei poliziotti nei film,  quando danno sempre una spiacevole notizia.

«Che le hai fatto, Vicky?», ma il suo tono non era accusatorio, ma deluso, il che fu peggio.

«Io…», cominciai senza prendere fiato. «Devo uscire da qui», mi rivolsi a Nathan.

«Non puoi sempre andartene, rimani qui, parliamone», mormorò in tono di pietà. Mi stava davvero trattando come una ragazza dai mille problemi?

«Tu non capisci, vero?», afferrai il pomello della porta e la aprii. «Tu non capirai mai!».

«E’ mia figlia!», continuò.

«Beh, ti do una notizia: lo sono anch’io. Io sono tua figlia, non lei. Io ho il tuo sangue, il tuo cognome, i tuoi occhi. Non lei», il tono si abbassò di colpo, lasciandomi senza voce. «Ma forse te lo sei dimenticato». Sussurrai e sbattei la porta.

Quando fui a due passi dalla mia macchina mi sentii chiamare e non era il vento.  Non era Shane, non era Nathan, ma Michael Carver. Alto e muscoloso, il californiano dallo sguardo astuto correva verso di me come se fossimo due grandi amici.

«Che vuoi?».

«Lasciati portare ovunque vuoi. So che Nathan lo vorrebbe, adesso però lui ha da fare, perciòvieni con me, facciamo un giro», quel “ha da fare” comportava affrontare la mia famiglia ed Emma. Solo una volta in macchina con suo fratello pensai a che razza di stupida ero stata a lasciarlo da solo, un animale indifeso tra i leoni.

«Che ne dici se parliamo?», tentò quando attraversammo il ponte di Longwood sotto la notte stellata di pieno agosto.

«Non ci conosciamo neanche. Sei qui, da quanto? Due giorni? Non ci siamo neanche presentati per bene. Perché dovrei volerti dire qualcosa?»

Mi ignorò. «Sai, quello che ha detto Emma su…».

«Sulla mia amica morta?», terminai con un tono acido e privo di particolare angoscia. Lui annuì. «Vuoi davvero sentirmi parlare per tutto il tempo?».

«Non ho niente da fare, sai». Soppesai davvero per un attimo l’idea di svuotare il mio cuore in quel momento, con Michael. Prima o poi sarei dovuta tornare a casa e raccontare uno degli scorci del mio cuore alle persone a cui volevo bene, incominciando dal ragazzo che quella stessa notte mi aveva detto, seppure a modo suo, che mi amava.

«Hai fatto tredici, Michael», dicemmo io e la vocina fastidiosa nella mia mente.

«Voglio raccontarti la mia storia».

 --------- 

La raccontare la proprio storia non è mai facile. Chi lo sa se stiamo raccontando la realtà o solo una sfocata immagine di quello che noi crediamo sia la nostra storia?
A Michael raccontai tutto. Su alcuni punti presi più di qualche respiro, su altri mi meravigliai di quanto mi facesse sorridere ricordarli. Ripresi dettagli che speravo di aver cancellato, e frasi che sapevo non sarebbero mai andate via. Cercai di fare un riassunto semplice per non dover dare ulteriori informazioni e ripetere più di una volta.

L’avevo sentito dire mille volte: meglio evitare. Ma non si tratta dei problemi, delle ferite o delle cicatrici che si ricavano dalla vita, non si può vivere sui bordi della strada, bisogna combattere. O almeno così mi sembrava che si dicesse.

E alla fine capii. Raccontare la propria storia era come cantare. Era come salire su un palco gremito di persone, alzare la propria bandiera e gridare “Sono qui. Con la mia bandiera alzata, non lo vedi che ne vale sempre la pena?”. Sorrisi involontariamente. Era la strofa di una nuova canzone?

«Perché ridi?».

«Sono qui da tre mesi e non ho avuto il coraggio di dire tutto questo a nessuno. Nemmeno a mio fratello. E ci ho messo due secondi per vuotare il sacco con te», risposi in una risatina nervosa.

«E inoltre…sto perdendo la voce», e scoppiammo a ridere insieme.

«Posso chiederti perché hai fatto tutto questo», indicai generalmente la macchina con un gesto rapido.

Michael sbuffò stanco. «Torno qui dopo un anno e scopro che c’è una bellissima ragazza di New York cha ha rapito il cuore del mio fratellino nel giro di un estate. Per davvero. Scopro che è una buona amica per due ragazzi d’oro come Marnie e Lucas», si fermò un attimo come per lasciarmi assorbire le sue parole.

«Ero curioso di conoscerti», fece spallucce.
Lo guardai di sottecchi. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, un sorriso curvato in alto e gli occhi ombrati dalla fioca luce della macchina. Ma per me in quel momento irradiava come il sole.

«Sei un tipo strano, Michael».

In risposta alzò le spalle e disse. «Sono un tipo perfetto, il che comprende anche la stranezza».

Scossi la testa con un piccolo sorriso tra le labbra. Si, era il fratello di Nathan. Appoggiai la testa sul finestrino dell’auto fissando il cielo nero della notte. Il rumore del motore dell’auto era quasi rilassante in mezzo al silenzio di Longwood. Non mi chiesi dove stavamo andando, sapevo che Michael avrebbe girato per un po’ senza meta e poi sarebbe tornato a casa, appena io me la sarei sentita.

«Lo ami?», mi chiese a bruciapelo qualche minuto dopo, come solo il degno fratello di Nathan poteva fare. Non risposi e lo prese come un assenso. «Perché non glielo dici allora?», mi domandò come se fosse la cosa più ovvia da fare.

«Perché fa male da morire».

«Beh, l'unica cosa che posso dirti, è che tu sembri nata per renderlo felice. Ed io credi che basti...ma non sono esattamente un tipo famoso per le sdolcinatezze. Probabilmente ho detto una grande cazzata».

Tornammo a casa mezz’ora dopo, quando la stanchezza vinse sulla mia paura di affrontare tutti. Le mani tremavano per il freddo e non più per la paura di fronteggiare Emma. Avevo sbagliato ed era questa la mia unica colpa, avevo sbagliato nel non dirglielo ma non nell'essermi lasciata prendere da Nathan.

 Nathan. Chissà cosa pensava di tutta quella situazione, cosa provava, se in qualche modo aveva capito che non ne valeva più la pena. Sapete, la vita è strana dopotutto. Scesi dall’auto più velocemente di quanto pensassi che le mie gambe fossero capaci, poi mi avvicinai a Michael con estrema lentezza. 

«Che c’è?», mi chiesi esortandomi con le mani ad avanzare.

«Grazie, Michael». Senza dire una parola mi spinse verso la porta mettendo una mano dietro la schiena. 

---------

«Ho bisogno di parlarvi, potete sedervi un momento?». Non scorsi, con la coda dell'occhio, né Emma né Nathan.

Fissai con forza e autoconvinzione ognuna delle persone nel salotto di casa Hamilton. A Marnie e Lucas, e a Madison e Shane, si era aggiunta Norah.  Presi un profondo respiro che sperai non finisse mai e cominciai a parlare occhi negli occhi con il mio piccolo pubblico.

«Volete sapere tutto di me? Okay». Annuii a me stessa. «Due anni fa, la migliore amica Rain, ha avuto un incidente d’auto ed è morta. Morta a causa mia».

«Vic, non è…», lo interruppi.

«Sta’zitto Shane, per favore», lo zittì con un gesto della mano che parve più dolce che indispettito.

«Lei aveva…un ragazzo, Evan. Io ero piccola e… stupida, non credevo che potesse succedere quello che è successo, comunque mi sono innamorata di Evan», poi aggiunsi. «Credo».

«Ero diventata quella che si può definire…la fidanzata segreta…ma andiamo, avevo sedici anni!», feci una pausa. «Quando Rain l’ha scoperto…ho subito messo fine a tutto. Troppo tardi però», alzai gli occhi per guardare quelli di Marnie, grandi e scuri che non mi stavano accusando né mi fissavano inorriditi, e tantomeno traspariva pena dalla sua espressione. Al contrario, ma forse era solo la mia speranza, mi sembrava di scorgere nei suoi occhi un lampo di vittoria, di soddisfazione.

«Una sera, la sera in cui ho litigato con Evan affinché spiegasse a Rain che era stato tutto un terribile sbaglio, la obbligai a salire in auto con lui. Le dissi che avrebbero potuto chiarire facendo una passeggiata, prendendo un pò d’aria. Ma ero confusa e stanca, e sapevo che Evan aveva bevuto in discoteca. La incoraggiai a salire solo dopo che avevamo fatto pace, perché toccava a lui chiarire in quel momento. Ricordo ancora le sue ultime parole prima di salire in macchina...».

«So che non è colpa tua. Ti sei innamorata di lui, capita», alzò le spalle mentre mi stringeva a se.

«Oh, Rain, mi dispiace così tanto»

«Smettila, okay? E’ Evan il vero idiota, ora mi tocca chiudere tutti i rapporti con lui…»

«Dovresti andare con lui, chiarite e poi torni da me, vero?», domandai con gli occhi lucidi e la voce piena di speranza. Il sorriso di Rain si aprì a ventaglio e i suoi occhi brillarono di purezza.

«Certamente. E quando torno…scriviamo una canzone, ti va?».

«Ma lei non è tornata più», la mia voce si chiuse verso la fine con un singhiozza strozzato e solo a quel punto mi accorsi che stavo piangendo a dirotto, silenziosamente, davanti a le persone a cui volevo bene. Dovevo fargli piuttosto pena e mi detestai per quello.

«Evan è andato in prigione per un po’, ma è stato me che tutti hanno odiato. La vita a New York era diventata insostenibile…io sono diventata insostenibile. Perciò sono qui».

Alzai nuovamente la testa per incontrare gli occhi di Shane che guardavano al di sopra delle mie spalle.
Mi voltai quasi di scatto, provocandomi un forte mal di testa. Dietro di me c’erano Nathan e Emma, negli occhi di entrambi c’era dolore, stanchezza, occhiaie forti e scure. Sentivo in gola il sapore di qualcosa di metallico: sangue. Mi stavo mordendo il labbro fino a ferirlo.

«E allora?», cominciò Emma. «Vuoi che muoia anch’io prima di accorgerti che disastro hai combinato?», continuò senza alzare la voce, perché probabilmente non ne aveva più.

Non abbassai gli occhi, al contrario avanzai verso di lei. «Non dico che non mi merito quello che mi stai dicendo», esordì con sincerità. «Ma non ti lascio giudicare la mia vita. Emma, mi dispiace ma tutto quello che ho fatto, non lo reputo un errore».

«Sei una stronza», si mordicchiò il labbro e non ebbi il tempo di allontanarmi che la mia guancia arrossì sulla forma di cinque dita sottili ma forti. E tutti rimanemmo in silenzio, nessuno pensò a darle torto, nessuno pensò ad incitarla. L'idea che fossero solo un pubblico che guardava un film in 3d riuscì ad irritarmi per soli cinque secondi, poi la mia determinazione tornò al pensiero della passeggiata con Norah.

La verità è che avrei voluto urlare. E non urlare come il giorno in cui sono partita da New York per Longwood. Io volevo urlare e piangere e prendere a calci le cose e allo stesso tempo tenerle strette a me. Avrei voluto poter guardare negli occhi mia madre e poterle dire di Nathan, avrei voluto abbracciare Shane e prenderlo in giro sui suoi modi strani, avrei voluto dire a Marnie che per me era stata una manna dal cielo, avrei voluto dire a Rain che la pensavo sempre, avrei voluto dire a Nathan che ero sprofondata sul fondo dell’oceano con lui. Dopotutto, avevo tanto di quel tempo per parlare.

Fine Diciassettesimo Capitolo.

Ebbene si, ecco il diciassettesimo e decisivo capitolo. Finalmente tutto sale a galla! Ora che avete scoperto il segreto di Vicky, cosa pensate?
Ricordate che io vi adoro <3

P.S: Non fate caso all'htlm, con me fa un pò i capricci!

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Capitolo 18
*** Forse Domani ***


Capitolo 18

“Forse domani”

 

Ora che avevo tirato fuori tutta me stessa, quello che volevo e quello che non volevo dire, riuscivo a vedere con chiarezza tutto, da un altro punto di vista.

Forse avrei dovuto dire qualcosa, ma il caldo, il leggero venticello carezzevole sui nostri volti mi impedivano di rovinare un’atmosfera così rilassante.

«La tua vita è…un avventura», rise sommessamente.

Mi lasciai trascinare dalla sua risata. Qualcuno da fuori avrebbe potuto pensare che ci stavamo raccontando barzellette.

Nathan affondò le mani nella sabbia e distese le gambe per poi voltarsi verso di me. Occhi blu accesi.

«Ho parlato con Emma», esordì. «Le ho detto tutto. Dalla moto al falò. E forse ho peggiorato la situazione», alzò gli occhi verso il cielo socchiudendoli alla vista del sole accecante.

«Ora dovrei essere lì con lei…», fece una pausa. «Ma sono troppo egoista da privarmi di un altro minuto con te».

Lo fissai negli occhi alla ricerca di una traccia di impurità che non c’era, cercando qualcosa di sbagliato in quello sguardo che mi desse la forza di fermarlo. Non c’era nulla di sbagliato.

Io, Lui. Noi. Nonostante tutto.

«Tu lo sai che non posso restare, vero?». Deglutii prendendomela con me stessa. Perché trovi il coraggio di parlare solo per dire ciò che non vorresti mai fare?, disse lo scioglilingua nella mia testa. Anche respirare mi veniva terribilmente difficile.

«Non ti posso permettere di andare via, così», sospirò all’inizio. «Ma non posso permettermi di sbarrarti una strada a cui sei destinata», quando il mio cuore fece un tuffo, capii che non era quello che volevo sentirmi dire. Mi sarebbe bastata un “resta” per rimanere rinchiusa a Longwood e essere felice. Ma niente va come vogliamo noi.

«Ascolta Vicky», mi sentii afferrare entrambe le mani con impeto e mi ritrovai ad un centimetro dal suo viso.

«Se ti chiedessi di rimanere, ti perderei». Alzò la voce quasi stesse convincendo più se stesso. «Ho passato la notte ad immaginarci ancora qui…e ho capito che sarebbe il gesto più stupido che possa fare per entrambi. Tu devi diventare una cantante, devi far divertire milioni di persone così come hai fatto in tre mesi con me», strinsi più forte le sue mani ricacciando indietro le lacrime. «Ed io devo realizzare i miei sogni. Trovare la mia strada», la sua voce si incrinò fino a disperdersi.

«Tu devi andare via, io devo andare via», deglutì. «Per adesso non c’è un posto per noi…ma».

«Voglio che tu faccia una cosa per me», disse con più impeto. Mi alzò il mento con due dita e il mio cuore cadde direttamente sul fondo dell’oceano.

--------

Stavo ancora piangendo quando mio padre, con nostra sorpresa e paura, ci raggiunse sulla spiaggia con la sua divisa da lavoro. A nostro favore c’era l’impressione che lui stesse più a disagio di noi. 

«Salve ragazzi», cominciò a bassa voce quasi avesse paura di parlare. Nathan gli fece un cenno, io mi voltai.

Staccando le sue mani dalle mie si mise in piedi lasciandomi vuota. Mi guardo senza nessuna traccia di paura, probabilmente aveva riconosciuto in mio padre una tacita richiesta invisibile all’occhio femminile.

«Ci vediamo dopo». E scompari’ dietro la sabbia.

Nel frattempo papà aveva rimpiazzato Nathan e litigava con la sabbia sulle ginocchia. Per un attimo ebbi paura che cominciasse a inveire contro di me, e invece «Ricordi quanto pioveva a New York quand’eri piccolina?».

«E’ sempre lo stesso», dissi distaccandomi dal tono acido e afferrando una voce più naturale. Papà annuì.

«Eri affascinata dalla pioggia. Rimanevi ore e ore a fissare le gocce cadere nitide e decise… e a volte anche noi, a nostra volta, rimanevamo incantati da te. Sembrava quasi che le volessi contare. E appena la mamma ti diceva che non potevi uscire, perché pioveva, tu correvi alla porta e ti trascinavi sotto la pioggia e ridevi, volteggiavi, raccoglievi le gocce dalle tue mani e poi le guardavi fino a lasciarle scomparire tra le tue dita».

Restai senza parole, a fissarlo. Quello era lo sguardo di mio padre. Mi spaventai della facilità con cui ero riuscita a riconoscerlo. Sognante, malinconico, improvvisamente sembrò invecchiare di cent’anni.

«Te lo sto dicendo, non perché penso che tu sia testarda e impulsiva. Ma perché tu…hai passione. Non correvi sotto la pioggia per farci un dispetto, ma perché non credevi ci fosse niente di sbagliato. E non riuscivamo a farti cambiare idea neanche quando il giorno dopo ti saliva la febbre», rise tra sé. 

«Non voglio che tu pensi che non ti voglia bene. E’ assolutamente impossibile non volertene, sai?».

«E quello che ho fatto a Emma?». Non replicò subito. Soppesò le mie parole, con la probabile intenzione di trovarne altre. Mi voltai per giocare con la sabbia.

«Vedi, l’amore è venti percento testa e ottanta cuore…e si vede che il tuo cuore è da un’altra parte», mormorò improvvisamente con il sorriso di chi la sa lunga sull’argomento. E da quando mio padre sapeva qualcosa dell’amore?

«Hai quel qualcosa di trascinante…non è poi così difficile che Nathan Carver si sia innamorato di te», disse con una tranquillità che mi spiazzò. Appena notò il mio sguardo continuò. «Non lo pensi anche tu?».

«Innamorato?», fu l’unica parola che riuscii a sussurrare a me stessa.

«Come lo chiami tu un ragazzino che affronta tutto quello che è successo fino a ieri sera?»,  ragazzino. Sorrisi del modo che aveva usato mio padre nel parlare di Nathan. Dopotutto sotto gli occhi di un adulto Nathan era davvero poco più che un ragazzino.

Mi limitai a tacere ancora una volta sconvolta dal modo in cui Richard Hamilton era riuscito a radiografare la mia condizione in pochi secondi.

«E’ che non l’avevo mai vista da quel punto di vista», confessai pensierosa.

Era davvero così? Amore.  Era successo tutto così velocemente che non mi ero fermata neanche un attimo a pensare cosa stava nascendo davvero nel mio cuore. O forse avevo paura di aprire quel cassetto. Tuttavia era bastata una semplice parola del capo della polizia di Longwood, meglio conosciuto come mio padre/Signor Hamilton a scatenare in me adrenalina, dubbi, ansia e mille domande confuse, che come vortici formavano cerchi velocissimi davanti ai miei occhi.

Oh papà, pensai.

«E’ così che ci si dovrebbe sentire ad essere tua figlia?». E sorrisi sotto i raggi del sole mattutino.

Passai il resto del pomeriggio nell’auto con Marnie a cercare delle risposte nei nostri silenzi. E quando mi chiese cosa ne pensavo, solo dopo mezz’ora riuscii a spiegarle molto confusamente quello che credevo, uscita da quell’estate.

«Non posso programmarlo. Non posso neanche prevedere come finirà… perché l’amore è imprevedibile…e frustrante…e tragico pure. E bellissimo…ed io non so cos’è», mormorai stanca.

E finché non entrai in salotto quella notte, mi chiesi ancora se il mio era amore. Piansi con Marnie, urlai al mare, chiusi gli occhi al vento. Una domanda così semplice e maledettamente impossibile da rispondere.

«Shane», dissi sorpresa quando vidi mio fratello sdraiato sul divano, pensieroso, al buio.

Mi fece cenno di raggiungerlo sul divano ed io non esitai. Mi distesi poggiando la testa sulle sue ginocchia. «Shane», lo chiamai. Mi rispose con un verso che somigliava ad un “mmm”.

«Mi dispiace per averti rovinato l’estate», dissi accompagnato da uno sbadiglio.

«Oh sorellina, sorellina», Shane prese ad accarezzarmi i capelli in modo ipnotico e usò un tono dolce per spiazzarmi. «Tu mi hai fatto il regalo più bello, quest’estate».

«Mi hai insegnato che anche se sei acido, terribilmente irritante e cammini pure storto, hai qualche speranza. Puoi innamorarti», disse soffocando una grossa risata. Afferrai il cuscino ai miei piedi e glielo tirai in faccia. «Grazie», sussurrai prima di addormentarmi tra le sue braccia.

Forse domani troverò la mia risposta, pensai. Amore?
Piacere, io sono Victoria.

 

Fine Diciottessimo Capitolo.

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Capitolo 19
*** Un anno senza pioggia ***


Capitolo 19

“Un anno senza pioggia”

 

 

Nei giorni successivi all’ultimo incontro con Nathan e precedenti alla mia imminente partenza, avevo cercato di classificare i miei pensieri in due categorie: le cose che “posso cambiare” e le cose che “non posso cambiare”. Ma il fatto che ci stavo provando non voleva dire che ci stessi riuscendo. Dopotutto, cos’è che posso veramente cambiare…e cosa no?

E la sera prima della mia partenza ero ancora lì, sul davanzale della finestra della stanza di Shane, dove da un paio di giorni ero solita passare le mie giornate, fissando ma non guardando veramente quello che c’era fuori. Pensavo troppo, pianificavo troppo. L’ho sempre fatto sin da quand’ero bambina. Ed ancora, quell’estate, ero vittima della mia crescita, della confusione, delle emozioni discordi. Sapevo che non sempre dicevo la cosa giusta al momento giusta o riuscivo a parlare quando avrei dovuto ma era per quello che scrivevo canzoni. Parlavo attraverso lettere aperte e armoniose.  

Ho sempre pensato che la gente non avesse tempo corresse troppo nella vita, senza avere una meta precisa. Io una meta ce l’ho.

 

«Driiin, driiin».

 

«Non ci sono per nessuno», sollevai il cellulare con tono incolore e mi preparai all’ennesima chiamata di mia madre in cui organizzava il mio ritorno e cercava ancora una volta di capire qualcosa in più di quella mia estate. Forse si aspettava che rimanessi di più, come aveva deciso Shane.

 

«Neanche per due vecchie amiche?», urlò Kate. Nonostante mi fossi promessa di non manifestare troppe emozioni con nessuno, sentire la voce di Kate e il sottofondo di Rachelle mi risvegliò per un po’ dal mio coma.

 

«Kat, Elle…!», esclamai sorpresa.

 

«Ti aspettavi qualcun altro? Beh, fottiti…siamo solo noi!», riprese la solita Rachelle. Sorrisi scostandomi dal divano e prendendo a gironzolare per la stanza buia e deserta.

 

«Non sono mai stata così felice di sentirvi», e nonostante fossi davvero piacevolmente sorpresa di risentirle, la mia voce non fu tanto d’accordo, tanto che sentii Rachelle mormorare una parolaccia divertita.

 

«Dico davvero», continuai. «Non vedo l’ora di tornare da voi». Mi portai una mano alla fronte mentre ascoltavo le loro voci e cominciavo a rivedere i lati positivi del ritornare a casa.

 

«Bugiarda al quadrato!», disse, a voce più alta del solito, Kate. «“Non vedo l’ora di tornare da voi”», mi imitò in malo modo Rachelle. Quella ragazza era esasperante.

 

«O non vedi l’ora di andare via da Nathan?», il suo nome fu solo sussurrato, ma il solo sentirlo mi fece perdere un battito e la regolarità del respiro.

 

«Sai, dovresti guardarti alle spalle…c’è qualcuno che ti tradisce intorno a te», dissero ridendo. Non mi misi neanche a pensare a chi avesse potuto aggiornare le mie amiche sulla mia triste e patetica situazione sentimentale/sociale.

 

«Shane!», dicemmo all’unisono. «E’ incredibile. Peggio di una pettegola!».

«Perciò quant’è attendibile la sua storia?», tentò più seria, Kate. Sospirai, senza voglia di dire troppo o troppo poco, decisa a trovare le parole giuste. Ma quante parole potevano descrivere me e Nathan? O quello che provavo? Forse nessuna parola, forse tutto il vocabolario.

 

«Shane ha detto la verità», comincia. «Sono io che non l’ho detta a me stessa», ammisi.

 

«Quindi…ti sei davvero innamorata di lui?», sentii la voce di Rachelle.

 

«Mettiamola così: Elle, ti ricordi quando mi hai detto di voler assistere ad un miracolo?». Non rispose.

 

«Quando sentirai di essere veramente felice, me lo dirai vero?».

 

«Io sono felice».

 

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Una ragazza fissava tranquillamente con una tazza di cioccolato caldo fumante, un paio di valige di fronte a sé. Quella ragazza ero io. Presi un pezzo di carta stracciato, feci la punta della matita con un temperino di plastica verde.

Nei momenti di ispirazione, ognuno fa quello per cui è nato. Il pittore dipinge, lo scrittore scrive, così come il cantante. Tutti hanno bisogno di un ispirazione, di una canzone.

Non avrei mai creduto di innamorarmi nel giro di un estate di un ragazzo come Nathan: arrogante, presuntuoso ma pieno d’amore. Non era decisamente nei miei piani.  

 

“…appunterò di questa permanenza a Longwood caso mai un giorno vorrò ricordare di queste torture”.

 

“Detesto questo giorno, detesto Longwood e la sua gente, detesto quello che mi aspetta, ma…”

 

Il mio primo giorno a Longwood avevo appuntato i miei pensieri nella mia prima pagina di diario.

Sorridevo all’idea di quanto fosse cambiato. Io non detestavo Longwood, al contrario sembrava proprio che quella piccola cittadina del Wisconsin e i suoi abitanti, mi avessero fatto dono di molte cose: l’amicizia, e beh si, anche l’amore.

E alla fine di tutto, non avrei ricordato quell’estate come la peggiore, ma come tre mesi in cui sono cresciuta.

Non feci in tempo a scrivere più di “io credo che…” che qualcuno bussò alla porta della mia stanza facendomi sobbalzare.                                                                                                                           

 Quando andai ad aprire, mi ritrovai di fronte Nathan. «Ti va di fare una passeggiata?», domandò stringendosi nelle spalle con le mani nelle tasche. Era imbarazzato?

 

«Piove?», la mia domanda avrebbe voluto risultare un affermazione, ma in quel momento dimenticai anche il vocabolario.

 

«A me non importa», alzò le spalle.

 

Feci un grosso sorriso e afferrai il cappotto. «Neanche a me».

 

Quando fummo sotto la pioggia mi chiese se non mi dava fastidio le gocce. Scossi la testa pensando che Nathan non sapeva il legame che avevo io con la pioggia. Il resto della passeggiata la passammo in silenzio. Girammo intorno alle gocce fredde e trasparenti, lanciandoci sguardi e nessuna parola. Mi sembrava che cercasse di parlarmi a volte, ma poi si bloccava e rimaneva in silenzio. Se era venuto da me quella sera un motivo c'era. Ma sapevo, anzi ne ero sicura, che se gliel'avessi chiesto, non mi avrebbe risposto.

Nathan era una terribile tortura per il mio subconscio.

 

«C’è un posto preciso dove stiamo andando?».

 

«Sai cos’ho pensato? Che se essere Nathan e Victoria è impossibile, per una sera voglio essere Peter e voglio che tu sia la mia Jude», disse a fatica ad occhi socchiusi e infastiditi dalla pioggia.

 

«Eh… Jude», replicò prima che potessi parlare. «Tu stasera canterai per me!».

La luce della luna illuminala il profilo di Nathan rendendolo etereo. Ma smettila, essere innamorata ti rende davvero così sdolcinata?  Scossi la testa, non era l’essere sdolcinata, ma tutti prima o poi troviamo uno dei lunghi motivi per cui amiamo una persona. Quella notte Nathan mi stava dimostrando il perché di quello sconnesso sentimento che avevo cominciato a provare per lui.

Ma toccava anche a me, giusto? Non volevo lasciargli il ricordo di una ragazza in lacrime all’aeroporto, non volevo che mi prendesse per la ragazza piena di lacrime e dal viso rovinato dalla tristezza. Lui doveva conservare il ricordo della sua Victoria. Era il mio unico bisogno. 

 

«Ah si?», sorrisi. E se non volessi?».

 

«Tu vuoi. Vuoi sempre cantare», mi prese in giro.

 

Quella notte oltre a cantare per lui, gli raccontai le cose più stupide che quell’estate non ero riuscita a dirgli di me. E lui, con un po’ più di fatica si lasciò scavare dentro. Mi raccontò del suo rapporto con i genitori, di come, da piccolo, credeva che suo padre avesse dei cloni che parlavano per lui in tv. Mi raccontò del suo sogno di medico che non facilmente tirava fuori agli altri. Era tutto più semplice ormai.

La pioggia non mi dava più fastidio.

 

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«Mi mancherai tanto Victoria». Norah corse ad abbracciarmi, la mattina seguente, quando fummo all’aeroporto. Mi aveva lasciato detto che Emma mi augurava “buon ritorno a casa” e dal suo tono sincero decisi di credergli.

 

«Grazie Norah, è stato un piacere conoscerti», le dissi stringendola forte. Norah si era rivelata un tipo strano, semplice ma puro. Molto diversa da mia madre, ancora mi erano oscure le strane scelte di mio padre ma, era una brava persona. Quella giusta per mio padre. 

«Maddie!», le accarezzai i capelli e lascia che fosse lei ad abbracciarmi. «Grazie sorellina», le dissi. «Sei stata la mia più grande musa quest’estate e lo sarai ancora, vero?», e asciugandosi le lacrime me lo promise.

 

«Marnie, Lucas», strinsi forte entrambi, lasciando che i miei occhi si inumidissero. Quanto mi rendevano fragili quelle persone? Sembrò un secolo quando mi staccai da loro e salutai, per ultimo, Shane.

 «Dimmi solo una cosa? Perché vuoi rimanere qui?». E anche se sapevo la risposta, mi divertii quando mio fratello si voltò verso Marnie e mi disse. Per lei

«E anche perché più stiamo lontani meglio è per il mondo…», mi lasciò scappare un altro sorriso.

 

«Sei pronta?», mi chiese papà con sguardo dolce. Feci per annuire quando sentii una voce. 

«Aspetta». Nathan apparve dietro le mie spalle, con il fiato corto, per aver corso, indossando una t-shirt nera e dei jeans chiari. I capelli erano ancora scompigliati. Credevo che non mi avrebbe mai raggiunta lì.

 

«Devo dirti una cosa…».

 

«E non potevi dirmela ieri?», dissi ridendo, con la speranza nel cuore, che avesse minimi altre mille cose da dirmi.

 

«Tu tiri fuori il meglio di me, come nessun’altro fa, lo sai? Ed è per questo che…», lo interruppi rapidamente.

 

«Non dirlo ti prego, se lo dicessi non me ne andrei più», scossi la testa per cercare di scacciare il sorriso nervoso comparso sul mio volto. Aggrappai entrambe le mani sulla sua maglia nera, stringendola come se fosse questione di vita.

 

Scosse la testa. «Puoi scordartelo», sospirò. «Non ti lascio prima di avertelo detto».

 

«Ti amo», gridò. Si allontanò da me di pochi centimetri e gridò ancora più forte quelle due paroline. Abbassai lo sguardo più imbarazzata che intimorita. Nell’aeroporto le persone ci ignoravano, ma sentivano. Dopotutto quante scene come quel in quel posto? Addii, arrivederci, bentornata.

 

«L’hai sentito? Io, ti amo», continuò portando le mani alla bocca per ampliare il suono delle sue parole. Mi affrettai a bloccarlo. La gioia più grande era sapere quanto difficile doveva essere stato per lui dirlo, e urlarlo. Conoscendo Nathan ci aveva pensato tutta la notte.

 

«Se ti dico che ti amo anch’io la smetti di urlare?». Scoppiai a ridere tra le lacrime e mi resi conto di averlo detto senza paura. Alzai lo sguardo e vidi i  miei occhi nei suoi, brillare. Fu in quel momento che mi sentii pronta ad andare.

 

«Mi sono innamorato di una ragazza piena d’amore, lei è la cosa migliore che mi sia mai capitata», sussurrò ancora, in modo che potessi sentirlo solo io.  

 

Prima di lasciarmi definitivamente allontanare da lui, mi sussurrò all’orecchio un ultima preghiera. «Torna da me».

Ed io glielo promisi.

 

"Cara Rain,

Ricordi quando ti ho detto che dovevo guardare avanti? Che dovevo riempire i vuoti del mio passato? E’ stata la parte più sensata di tutta l’estate sai? Ne sono successe di cose. Ho ripensato finalmente a te senza dover versare una lacrima, ho trovato dei nuovi amici, una famiglia su cui finalmente contare…mi sono innamorata. Eppure c’è ancora qualcosa da fare…L’ultimo vuoto da riempire è questo diario.

Non posso andare avanti se continuo a scriverti. Se continuo a scriverti non chiuderò mai i conti con le memorie di un passato a cui devo dare le spalle. Questa sarà la mia ultima volta, non l’ultima in cui ti parlerò – non ti farei mai questo -, ma sarà l’ultima volta in cui mi aggrapperò ad un tuo ricordo invece di lasciare che sia tu ad aggrapparti alla mia vita.

Ma voglio che tu sappia, che l’amore è forza, l’amore è potente, pericoloso. Incute paura, dà coraggio. Mette di fronte a scelte che finiscono sempre per ferire qualcuno, ma ne vale sempre la pena. Mi dispiace solo che tu non sia mai stata capace di provare quello che provo io.

Un giorno senza Nathan, è come un anno senza pioggia. Lui è la pioggia che una notte, di piena estate, mi ha avvolto. E’ stata la cosa più bella che sia mai stata mia."

 

Fine...  

 

 

Grazie.
Quant’è piccola questa parola? Quanti significati può assumere? Quanto valore relativo ha per ognuno di noi? Bene, voglio che per un attimo chiudiate gli occhi: immaginiate di essere sul Titanic ad assaporare il vento e l’odoro del mare tra le braccia di Leonardo Di Caprio. Quello è il mio grazie. Un grazie infinito che si tramanderà a chiunque leggerà questa storia. Perché può darsi che abbia aiutato voi come ha fatto con me, o magari abbia alleggerito un momento pesante o vi abbia fatto riflettere.

E ora che sono qui seduta pensando a questa storia, capisco di non aver fatto altro che narrato una storia che non mi appartiene. Non è la mia storia, è la storia di Vicky e Nathan…che non posso lasciare che finisca così. Amo il dramma, sono principalmente una persona molto masochista ma… finché ho le mie illusioni, voglio il lieto fine. La storia, perciò, non è ancora finita...

 

 

 

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