Buio

di WordsLinger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Le prime gocce di pioggia ***
Capitolo 2: *** Silenzio perfetto ***



Capitolo 1
*** Prologo - Le prime gocce di pioggia ***


Cosa importa avere una bella casa, una bella moglie, un'auto sempre pronta a portarti verso le mete da te più ambite? Cosa conta essere sempre sicuri della propria vita, cosa conta svegliarsi ogni mattina, mangiare, bere, cosa conta vivere in una perfetta monotonia quotidiana, quando poi tutto ciò che hai costruito con tanta cura sembra essersi sgretolato, in un solo battito di ciglia, in un attimo talmente duraturo che sembra non voler mai finire? O forse non è lui quello che non vuole finire, sei tu che cerchi di prolungarlo all'infinito. Sì, perchè senti la vita che sta scappando via, e capisci che non puoi sopportare tutto questo.  

Un attimo, soltanto un attimo, ancora un attimo. Quanto dura un attimo? Cosa sta succedendo? Cosa ancora dovrà succedere? Ma soprattutto... cosa è successo in tutto questo tempo? Quanto tempo è passato?

Non ero proprio io quello che credeva in tutto, nei folletti, in babbo natale, nella befana? Ero solo un bimbo. Vorrei esserlo ancora, per poter non rendermi conto dell'orrore che mi circonda. L'orrore. Non quello fittizio del cinema e della letteratura, ma quello di tutti i giorni. Quanti orrori ho visto? Contro quante bestie ho dovuto combattere fin dalla mia nascita?

L'adattarsi al mondo esterno dopo aver passato nove mesi nel caldo liquido amniotico è un vampiro pronto a succhiarti il sangue.

Le prime esperienze scolastiche sono zombie sanguinari, che ti seguono ovunque, di cui hai paura. Sono lenti ma possono raggiungerti. Hanno molti anni di tempo. Vogliono la tua carne.

I primi amori sono bestie innominabili, nate per il solo scopo di rompere il tuo fragile cuore, non ancora pronto a tutto ciò. Non si è mai pronti.

Diventi maggiorenne e diventi, per la società, bestia a tua volta. I tuoi atti non saranno più giustificabili. Le tue azioni riprorevoli e non innocenti. Non sei più un bambino, sei un mostro.

Lo guardo, ora, e non so cosa dire. La guardo, e non so cosa pensare. Canzoni dalla mia adolescenza. Musiche perdute, profumi morti. Un cimitero di emozioni. Vado a celebrarli, di tanto in tanto, accendo un cero alla loro memoria, penso a come sarebbe bello averli ancora qui con me.

Un solo altro bacio, mio amore da sedicenne, un solo altro bacio prima di lasciarti. Me lo concedi, prima di lasciarti per sempre. Voglio toccarti ancora e voglio averti ancora qui con me, ti prego, non te ne andare. Perchè? Dove ho sbagliato? E' tutta colpa mia, è tutta colpa mia. Dannandomi per te. Morendo per te. Per te. La mia vita per te. Non la abbandonare.

Una solo altra parola.

Solo un altro cero da accendere. Solo un altro fiammifero da buttare. Profumo di fiori. Profumo di morte.

Una porta, mentre non riesco a guardare, mentre non riesco a pensare. Una porta dimenticata, una porta serrata, una porta inutile ed una porta indispensabile.

Tante porte si aprono, sempre.

Un amico morto in quel cimitero. Morto davvero, oltre che nella mia mente anche nella vita reale. Posso vedere attraverso i suoi occhi da ventenne la finestra che l'ha portato sull'asfalto freddo di una serata non ancora primaverile. Accendo un certo anche per te. Sentendomi morto ma sperando di essere ancora vivo.

Ed ora la pioggia sta per scendere sul mio cimitero. Ma non laverà via tutti i miei ricordi. Non li purificherà. Non sarà niente di utile. O forse no. Forse sarà solo l'inizio di tutto, solo l'inizio di una nuova vita. Guarderò le tombe e mi chiederò se è servito a qualcosa vivere per poi morire così. Morire fisicamente o morire dentro? Non posso ancora saperlo. Non posso ancora.

Non posso chiederti di più, mi disse il mio amore da sedicenne. Non posso chiederti di più perchè le nostre vite sono troppo distanti e ti ho chiesto fin troppo. Chiedere o non chiedere. Perchè allora me lo stai chiedendo? L'impossibile, l'abbandonarti, il non vederti mai più. Il non vederti mai più come ciò che amo di più al mondo, perchè non ce la potrò più fare. Non così. Non chiedermelo. Non farmi soffrire. No.

Le nuvole si stanno gonfiando ed i miei occhi cadono sempre su quella tomba. Quella del mio amore perduto. Ne dovrò aggiungere un'altra? Dovrò aggiungere la mia? La sua ? Perchè mi faccio tutte queste domande, quando so che in quest'attimo non posso cercare risposte?

Un attimo è una vita, una vita è un attimo. Voglio tornare indietro e voglio rinascere e non voglio diventare il mostro che la società mi ha imposto di essere. Voglio essere libero, ma so che non è possibile. Ora non voglio essere libero.

Devo ripararmi da questa tempesta in arrivo, ma le tombe sono all'aperto. Dovrò bagnarmi, dovrò sentire il gelido dell'acqua piovana sulla mia pelle.

Le prime gocce sulla mia pelle. Sono gelide, non riesco a resistere, ho bisogno di qualcosa per ripararmi, ma cosa? Ho perso tutto, ormai, non ho più niente. Non posso più.

Allora addio mia sposa mai promessa, addio mio sogno mai realizzato, addio ceri spenti e mai più accesi, addio ceri sempre accesi e mai spenti, addio ai nuovi ceri, addio al mio cimetero personale.

Un attimo, soltanto un attimo, ancora un attimo.

Dopo, ci sarà soltanto il buio.

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Capitolo 2
*** Silenzio perfetto ***


Giuseppe aprì gli occhi senza rendersi del tutto conto di dove si trovasse. Si sentiva smarrito, ma fu una sensazione di breve durata. Gli ultimi vapori di un incubo ormai terminato si stavano dissolvendo, e lo squillo della sveglia risuonava sempre più forte nella sua testa. Drin drin drin , e avrebbe voluto avere di nuovo quindici anni, per dire a sua madre che voleva rimanere a letto altri cinque minuti, solo altri cinque minuti. Ma ora, di anni ne aveva il doppio, era sposato, aveva un lavoro, doveva farsi la barba tutte le mattine, e in testa cominciavano ad apparirgli i primi capelli grigi. Perciò no, neanche altri cinque secondi, doveva alzarsi, radersi, lavarsi, bere un caffè e poi via, verso un altro nuovo giorno. Lucy era lì, alla sua destra, sentiva il suo respiro. Con gli occhi chiusi cercò  la sveglia, la spense e si mise a sedere sul letto. Si passò una mano tra i capelli, ed emise un sonoro sbadiglio. Si massaggiò la tempie per qualche secondo, con gli occhi ancora chiusi, mentre nella mente gli risuonava una vecchia filastrocca infantile, che era solito cantare con i suoi amichetti, alle elementari,

Silenzio perfetto,

chi parla ha uno schiaffetto!

Chi dice una parola,

va fuori dalla scuola!

durante le ore scolastiche, per poi sprofondare in lunghi minuti di silenzio, e quando il primo di loro si faceva scappare un colpo di tosse, tutti addosso con gli schiaffetti . Quante volte era tornato a casa pieno di lividi...

Scacciò questi pensieri distrattamente, rendendosi conto che non era certo il momento di ripensare a vecchi (e sciocchi, pensò Giuseppe, come sempre si fa, ricordando l'infanzia, che quando sei diventato adulto sembra per tutti un periodo assurdo, ripieno di parole dette per sbaglio, errori uno dopo l'altro, vergogne che, a pensarci, tornano immediatamente, anche a distanza di decenni) giochi infantili. Aprì gli occhi, e si rese conto di vedere a stento oltre il suo naso. Eppure l'orologio indicava le 6:30. Sbattè le ciglia, si strofinò gli occhi e li riaprì. Ma continuava a vedersi circondato di buio.

Lucy respirava in

(silenzio perfetto)

 silenzio. Si alzò, cercando a tastoni  la tapparella. La trovò, e si accorse che era chiusa. Sorrise, ricordandosi che la sera prima lui e Lucy avevano fatto l'amore, e lei aveva il vizio di voler stare sempre al buio, nei momenti di intimità. Cercò di alzarla, ma era bloccata.

(chi parla ha uno schiaffetto)

“Lucy... hai usato un po' troppo impeto, ieri sera...”, sussurrò sorridendo nel buio. Tuttavia, qualcosa non tornava. Non c'era nessuna traccia di luce, neanche dalle altre stanze. Era comunque un buio ovattato, come capita in certe notti di luna nuova, con i lampioni comunque accesi, la cui luce filtra a fatica attraverso le serrande, dato che, intanto, i suoi occhi si stavano abituando all'oscurità. Si diresse verso il letto, con l'intenzione di svegliare Lucy. Si sedette dalla sua parte, e le accarezzò i capelli.

(chi dice una parola)

“Ehi... Lucy?”, non ricevette risposta. Lei aveva sempre avuto il sonno pesante,

“Lucy...svegliati”, disse, continuando ad accarezzarle i capelli castani, ma lei non accennava a svegliarsi. Continuava a respirare, con un vago sorriso, come se stesse facendo un bel sogno.

(va fuori dalla scuola)

 Giuseppe pensò che non era forse il caso di svegliarla. Si alzò, aprì la porta socchiusa della camera da letto, per andare in bagno. Voleva lavarsi, vestirsi, fare colazione. Soprattutto voleva bere un caffè, sperando di zittire quella maledetta filastrocca, che continuava ad avere in testa, e che andava sempre più veloce. Percorse il breve tratto di corridoio, entrò nel bagno, e si accorse che anche lì la finestra era sbarrata. Orìno senza preoccuparsene, evidentemente Lucy la sera prima voleva davvero il massimo dell'intimità. Dopo aver tirato lo scarico, cercò di aprire la tapparella, trovandola bloccata. Spinse con più forza verso il basso, invano. Tentò di aprire la finestra, ma gli parve di pietra. La radiosveglia sul suo comodino, nella stanza di fianco, ora indicava le 6:33, e Giuseppe cominciava a preoccuparsi.

Con passo svelto, tornò da Lucy. Cercò di nuovo di svegliarla, senza ottenere risultati.Lucy continuava a dormire, senza accennare un risveglio.

Giuseppe decise di controllare anche il resto della casa. Tentò di accendere tutti gli interruttori della luce, ma ricavò solo stitici “clic!”. Dopo il bagno, sulla destra, entrò in cucina. I suoi occhi si erano abituati all'oscurità, e riusciva ad intravedere il tavolo e i fornelli. Tuttavia, anche lì la finestra non accennava ad aprirsi. Il soggiorno era pulito ed ordinato, come sempre. La porta d'entrata, alla fine del corridoio, era sbarrata. La maniglia non girava, come se fosse saldata. Per poco non inciampò nel tappeto posto lì vicino. La maniglia per tirare giù le scale della mansarda sembrava incollata al soffitto. La porta del ripostiglio davanti al bagno era chiusa. Ed era una sfortuna, perchè proprio lì dentro c'era la centralina elettrica, e se semplicemente un temporale notturno avesse fatto saltare l'interruttore principale, il problema era minimo. Ma era solo l'elettricità, il problema? E poi, perchè la radiosveglia continuava a funzionare? Non gli risultava che avesse una batteria interna.

Anche Lucy ha una batteria interna? , cantarono i bambini nella sua testa, sostituendo la frase ad una della filastrocca, che continuavano a ripetere così velocemente da fargli girare la testa. La filatrocca, l'elettricità, la batteria, Lucy, le porte, le finestre...

 Giuseppe scagliò un pugno contro la porta, e la mano gli diventò improvvisamente calda. Si affrettò a tornare ancora da sua moglie. 6:45.

La scosse, le diede leggeri schiaffi sulle guance. Lei non si svegliava. Il rumore della sua mano che sbatteva sulle sue gote echeggiava nelle mura. Si guardò attorno, e tese l'orecchio. Non riusciva a percepire neanche un rumore che non fosse il suo respiro, o quello di Lucy. Un silenzio perfetto. Quello tanto ambito dalle maestre elementari, forse quello per il quale inventarono quella filastrocca. Forse però non immaginavano che sarebbe diventato uno strumento per liberare la violenza sopita di creature sì piccole e ingenue, ma in continuo divenire per presentarsi feroci ad un mondo di leoni, che difficilmente si piegano a piccole bestiole.

La filastrocca continuava ad echeggiargli nella testa. Giuseppe si sedette sul letto, si curvò, poggiando i gomiti sulle ginocchia e tenendosi la testa con le mani.

E' tutto un sogno, continuava a ripetersi, creando strani echi con le voci dei bambini,

( E' tutto un sogno il silenzio perfetto,)

( E' tutto un sogno chi parla è tutto uno schiaffetto,)

( E' tutto un sogno di chi è tutta una parola,)

( E' tutto un sogno di chi va tutto fuori dalla scuola.)

( E' tutto un silenzio perfetto,)

( E' tutto uno schiaffetto,)

( E' tutta una parola,)

( E' tutto fuori. )

( Sono fuori di testa se faccio questi sogni così vividi. )

non aveva mai fatto un sogno così vivido, aveva toccato Lucy, aveva sentito il calore della sua pelle, si era fatto male dando un pugno alla porta del ripostiglio. Se ci fosse stata una fonte di luce, probabilmente avrebbe potuto osservare i capillari rotti sulle sue nocche.

Alzò lo sguardo, e lo posò sul telefono. Perchè non ci aveva pensato prima? Quello non andava ad elettricità. Alzò il ricevitore, se lo portò all'orecchio, ed ascoltò con interesse il silenzio, anche lì. Nè un fruscio, nè il tu tu tu veloce di linea interrotta. Solo silenzio. 6:52.

Lanciò il ricevitore in un angolo, ed ascoltò per la prima volta dal suo risveglio un rumore nuovo: quello della plastica che si crepava a contatto con il muro. Riprese a massaggiarsi le tempie, cercando una spiegazione. Non la trovò. Lucy non si svegliava. Di certo non era morta, il suo respiro tranquillo parlava chiaro. Le luci non si accendevano. Ma questo era il particolare più trascurabile, un qualsiasi guasto avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato, così come il telefono muto. Le finestre e la porta d'ingresso erano sbarrate, e questo era davvero un problema. Di certo, l'ingresso poteva essere stato chiuso dall'esterno. Ma le finestre si aprivano verso l'interno, perciò...

Improvvisamente, ricordò l'incubo che lo aveva fatto svegliare con quella strana sensazione di sbigottimento. Lo ricordò, mentre i bambini ancora stavano cantando, ora filastrocche inesistenti e macabre, di cui non riusciva a capire nemmeno una parola.

 Era da solo in un grande parco, sotto un piccolo gazebo, seduto su delle sedie di plastica. Non pensava a niente. Tuttavia, all'improvviso, aveva sentito un

(temporale oh sì un temporale è troppo forte non riesco a resistergli un temporale non voglio un temporale non voglio morire)

rumore provenire da lontano, che però pareva avvicinarsi. Era allora corso a casa, da Lucy... aveva percorso velocemente il corridoio,

(ed è buio è tutto buio perchè è così buio Lucy dove sei ti prego dimmi dove sei dimmi)

mentre il rumore si avvicinava sempre di più, verso la camera da letto... ma, poco prima di aprire la porta, era stato investito da

(il temporale oh no perchè proprio io perchè)

 quel rumore, o da ciò che lo emetteva. Il mondo era diventato bianco, non sapeva riconoscere se fosse un bianco di luce o un bianco asettico.

(vuoto come un foglio di carta come i fogli vuoti le pagine vuote le pagine bianche il temporale non posso sopportare no non posso non posso)

Poi, si era svegliato.

Ed al bianco dell'incubo era stato sostituito il nero del suo risveglio. 6.56

Questo ricordo non l'aveva certo aiutato. Uno psicologo avrebbe potuto parlargli di complessi di colpa(per cosa, poi?), di metafore di rinascita e di altre stronzate del genere, ma, al momento, non potè ricavarne nessuna utilità pratica. Era imprigionato nella sua stessa casa, e non c'era verso di uscirne. Il mondo esterno pareva congelato, non c'era verso di percepire nient'altro che silenzio, sarebbe stato perciò inutile sbraitare. La sua casa non era del tutto isolata, sì in periferia ma in una zona abbastanza trafficata. Una villetta ad un piano con mansarda, avuta in eredità dai suoi genitori... non una suite, ma lui e Lucy ci vivevano bene.

Continuava a massaggiarsi i lati della fronte con movimenti circolari. Quando un rumore echeggiò con potenza tra le mura, l'orologio digitale indicava le 6:59

Nel silenzio, fu come un boato impossibile da distinguere, eppure così familiare. Un fragore, come un tuono. Giuseppe alzò di scatto la testa, il suo cuore prese a pulsare più velocemente. Dopo il fragore, scricchiolii. Lui guardò Lucy, che pareva immersa in un bel sogno. Si alzò, e procedette a passo lento verso il corridoio. Appena uscito dalla sua stanza, notò che qualcosa era cambiato. La botola per la mansarda si era aperta, il fragore era stato provocato dallo sbattere della scala a pioli sul pavimento, gli scricchiolii provenivano dal legno che si andava assestando.

Una luce soffusa proveniva da sopra. Si guardò attorno, nelle altre stanze la situazione era sempre la stessa, buio e soltanto buio. Nel silenzio, tuttavia, ora poteva distinguere un rumore di sottofondo. Si avviò verso le scale. Tutto ciò era completamente irrazionale, ma non poteva farci niente. Sapeva che doveva andarci. Sapeva che, dopo cinque, lunghissimi, anni, sarebbe dovuto tornare lì.

Salì le scale, lentamente, guardando a terra, per non perdere l'equilibrio. Immaginava cosa accomunava la luce soffusa al ronzio. Quando i pioli finirono, e sentì sotto i suoi piedi l'appoggio saldo del pavimento, alzò la testa. Cumuli di cartoni imballati, ricordi, vecchi ed orribili soprammobili, bomboniere di feste sconosciute. Li avevano chiusi lì dentro lui e Lucy, durante gli anni. Da sempre, non avevano contato niente. Anche ora, erano solo polvere di una vita. Girò la testa a sinistra. E lo guardò. Girò il resto del corpo in quella direzione. Lui era a soli cinque passi di distanza.

Primo passo.

Da quanto tempo non entro qui? Cinque anni? Cosa è successo in tutto questo tempo? Cosa avrei voluto raccontare, ma non l'ho fatto? Perchè ho smesso? Per Elisa? Ho smesso di bere per me stesso. Ma ho smesso di venire qui perchè non ci riuscivo più. Avevo paura di ricominciare a bere. Avevo paura di non saper più andare avanti.

Secondo passo.

Avevo paura. Tanta paura. Ora ne ho ancora di più. Lui è lì. Ma cosa vuole sapere? Cosa desidera da me quella pagina bianca?

Terzo passo.

Quante pagine bianche ho visto nei miei incubi dopo essermi disintossicato dall'alcool? Ecco, ora sono tutte lì. Mi aspettano, insieme, voglio farmi tremare ancora.

Quarto passo.

Non ho più storie dentro di me. Non posso più averne. Non scrivo da troppo tempo. Non posso... non posso...

Quinto passo. I suoi piedi si muovevano spinti da volere proprio. Giuseppe stava cominciando a piangere.

Cosa devo raccontare?

(Racconta ciò che è giusto raccontare. Racconta tutto. Tutto ciò che ha portato alla pagina bianca. Racconta)

Spostò la sedia mentre quella voce aliena continuava a ripetere racconta, racconta, racconta. I bambini avevano improvvisamente smesso di cantare, zittiti da quella voce. Lei non stava cantando. Stava ordinando.

Si sedette, si mise comodo, e guardò la tastiera del suo pc. Su quella tastiera erano nate storie che avevano entusiasmato il pubblico ed inorridito la critica. Su quella tastiera aveva scritto i suoi tre romanzi, ma ormai era tutto finito. Non aveva più trovato nessuna storia. E aveva deciso di arrendersi. Racconta. “Racconta ciò che è giusto raccontare. Racconta tutto ciò che ha portato alla pagina bianca”, aveva detto la voce. Giuseppe non aveva idea di cosa intendesse dire. Ma, in fondo, fino ad una manciata di minuti prima non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovato imprigionato nella sua stessa cosa, impossibilitato dallo svegliare sua moglie, ed ora era lì, davanti ad uno schermo bianco, lo stesso che non avrebbe mai più voluto vedere.

“Le storie vengono sempre da sè. Non c'è bisogno di cercarle”, sussurrò fissando il bianco che aveva davanti, come fissava negli occhi i suoi intervistatori che, forse un millennio prima, gli chiedevano dove trovava le sue idee.

(Racconta la tua storia. E' l'unica cosa giusta da fare)

Ma la sua storia non era venuta da sè. La sua storia era un insieme di sofferenze, di odi, di amori. La sua storia, la sua vita, non era fatta per un romanzo. O forse, c'era una parte di quella storia che era stata spinta più giù, una parte della quale aveva paura, che avrebbe potuto trasformarla in un romanzo, ma era stata sempre censurata.

Non riusciva a trovare nessuna spiegazione sensata a quello che gli stava succedendo. Guardando quel foglio bianco, non gliene importava molto. Cominciò a scrivere. E le parole furono una cascata di portata immane, come una volta, un piacere che non riusciva più ad assaporare da tanto, troppo tempo.

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