Il re dei sogni~

di _hurricane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nausea. ***
Capitolo 2: *** Spine. ***
Capitolo 3: *** Scegliere. ***
Capitolo 4: *** Fame. ***
Capitolo 5: *** Nuvole e rivelazioni. ***
Capitolo 6: *** Falsario. ***
Capitolo 7: *** Perfezione. ***
Capitolo 8: *** Il suono dell'eternità. ***



Capitolo 1
*** Nausea. ***


1. Nausea.

 

Una notte feci un sogno strano. Non che la cosa fosse rara per me: non sono mai stato un tipo che sogna arcobaleni e prati fioriti. Nel sogno ero sott’acqua, sorretto da braccia invisibili. Non riuscivo a vedere niente, riuscivo soltanto a sentire… un bruciore indescrivibile proveniente dal mio stesso corpo… e la sensazione di essere svuotato, contro la mia volontà. Svuotato delle mie emozioni, dei miei ricordi, della mia anima. Poi, sempre nel sogno, aprivo gli occhi e vedevo Sebastian che mi fissava, sconvolto. Mi svegliai nel mio letto, alla villa, e mi resi conto che quello che avevo sognato, in realtà lo avevo vissuto. Per molte notti feci sempre lo stesso incubo… e il bruciore aumentava, e aumentava, e aumentava. Mi svegliavo nel cuore della notte con un urlo incastrato in gola. Poi, per tutto il giorno quell’urlo tentava di uscire dalle mie labbra… nel mezzo di una normale conversazione, nasceva in me un’insana voglia di gridare ‘Perché? Perché non posso morire come tutti gli altri a questo mondo? Che cosa c’è di sbagliato in me?’. Riuscivo a soffocare quell’urlo un secondo dopo, rendendomi conto che, se avessi detto quelle parole, avrei dovuto dare spiegazioni sulla mia intera esistenza, e al pensiero mi veniva la nausea. Così, il resto della giornata passava con questo senso di nausea senza rimedio. Non saprei dire se fosse peggiore quello o la sensazione di soffocamento.

A poco a poco, mi resi conto che soltanto con Sebastian potevo essere me stesso, e che probabilmente era sempre stato così. Davanti a lui non dovevo fingere di mangiare o bere, e potevo lamentarmi per la fame, quella vera, che da quella notte ci accomunerà per sempre. La fame… questo è stato uno dei cambiamenti più strani. Non sentire più la pancia brontolare, non desiderare più i curry-pan di Soma, i dolci prelibati preparati da Sebastian o il thè delle cinque in punto. Quella di adesso… è un po’ difficile da descrivere. E’ una fame lenta, che ti fa quasi agonizzare, ma mai morire. In effetti, credo che sia impossibile per i dem... cioè, per noi, morire di fame. Ah, questo ‘noi’. Sebastian mi avrebbe rimproverato in questo momento; dice che non devo parlare dei demoni come se non fossi uno di loro. E’ soltanto che, non appena dico il ‘noi’, ripenso al bruciore del sogno, e all’urlo incastrato in gola, e alla nausea… tutto insieme. 

Comunque sia, era passato quasi un mese da quando ero tornato alla villa dopo la mia trasformazione. Un giorno, per l’ennesima volta, Finnian mi chiese perché mi ostinassi a mangiare in camera invece che in sala da pranzo… avrei voluto dirgli molto semplicemente ‘Perché non è il caso che tu mi veda bere da tazze vuote e mangiare da piatti vacanti, idiota’, ma invece gli risposi che non avevo fame per via di un senso di nausea. Non del tutto una bugia, dopotutto. Chiusi con forza la porta della mia camera e trovai Sebastian accanto al letto, in piedi, impeccabile come sempre. Sapeva che stavo per dirgli qualcosa di importante, di risoluto; aveva quel suo classico sguardo di chi aspetta in silenzio che si scateni una bufera di parole. In realtà non fu una bufera, perché volevo che la mia decisione sembrasse da adulto, non quella di un adolescente in preda ad una crisi. Perciò dissi tre semplici parole: ‘Ce ne andiamo.’ Avrei dovuto aggiungere ‘Prepara i bagagli, è un ordine’, ma credo che utilizzare il mio marchio per una stupidaggine del genere avrebbe rovinato la serietà del momento. Comunque non ce ne fu bisogno, perché Sebastian uscì dalla stanza senza dire una parola, e tornò dopo pochi minuti con due grossi bauli. Soddisfatto, uscii in giardino, con l’assoluta certezza che la mattina dopo saremmo partiti, via, lontano da tutte le domande, gli sguardi dubbiosi, i pettegolezzi sussurrati sul colore dei miei vestiti e delle mie unghie. Verso dove… quello non lo sapevo nemmeno io.

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Capitolo 2
*** Spine. ***


2. Spine.

 

Quella notte feci il solito incubo, ovviamente. Ero stato un po’ stupido a pensare che avrei smesso di farlo, semplicemente cambiando casa. Ma la cosa non mi fece cambiare idea… anzi, ero sempre più convinto di dovermi allontanare da quel posto pieno di ricordi dolorosi. Finsi di fare colazione in camera, come ogni mattina. Per l’ultima volta, pensai, rincuorato. Uscito dalla stanza, mi accorsi che i membri della servitù mi guardavano allibiti. Credo aspettassero che io dicessi qualcosa, che spiegassi la presenza di una carrozza pronta a partire nello spiazzo davanti la villa. Il massimo che riuscii ad ottenere fu ‘Si, sto partendo’. Stavo tentando di soffocare l’urlo, non potevo certo mettermi a fare comizi. Non contenti, si diressero in fila indiana verso la carrozza per chiedere spiegazioni a Sebastian, intento a sistemare i miei bauli. Mentre mi allontanavo verso il retro della casa, lo sentii dire ‘Non credo che torneremo, il signorino vuole dimenticare’.

Dimenticare! La parola d’ordine della mia vita. Continuavo a ripetermi quella parola tra me e me, mentre percorrevo a grandi passi ogni stanza, facendo in pratica l’esatto contrario: ricordare. Persi più tempo in salotto, sul tappeto davanti al camino; lì c’era troppo da ricordare. Anche se in realtà la mia vera casa, quella in cui i miei genitori erano morti, era stata distrutta molto tempo prima dall’incendio.. Però era stata ricostruita in maniera identica, non so ancora per volere di chi, visto il mio lungo periodo di assenza. Finito il giro della casa, passai al giardino. Mi soffermai sulle rose bianche di cui Sebastian amava prendersi cura, incantato dalla loro purezza. Purezza. Un’altra parola che continuai a ripetermi nella mente, accarezzando i petali candidi… per sbaglio, mi punsi con una spina. Osservai attentamente la ferita sul pollice mentre si rimarginava da sola, il mio sangue ancora più rosso di prima asciugarsi in un lampo. Incuriosito, decisi di prendere un’altra spina e provare a farmi un graffio più grande, sul palmo della mano. Accadde la stessa cosa, e il dolore c’era, ma era lieve, come un pizzicotto. Come quando Elizabeth mi prendeva le guance e me le tirava per strapparmi a forza un sorriso.

Elizabeth. Ecco che cosa avevo dimenticato! L’ultima volta che l’avevo vista, le avevo concesso un ballo, per renderla felice dopo tanto tempo di lontananza. Sapevo che non avrei potuto regalarle l’amore che desiderava – non ci riuscivo da umano, figurarsi adesso – così le avevo voluto donare almeno quello, un ballo. Preso dal panico, mi resi conto che ormai restava troppo poco tempo per convocarla alla villa e salutarla; e poi, a pensarci bene, non era una buona idea. Avrebbe iniziato a piangere, urlare, abbracciarmi ed implorarmi di restare. A quel punto avrei dovuto fare uno sforzo senza precedenti per soffocare l’urlo… così decisi che, se l’avesse saputo da qualcun altro, avrebbe pianto comunque ma alla fine mi avrebbe odiato, e sarebbe stato meglio per tutti. Ancora oggi mi capita di pensare a lei, magari già invaghita di un altro ragazzino; questa volta gentile ed affettuoso, si spera.

Tornai di colpo alla realtà, al palmo della mia mano praticamente intatto. Sebastian mi stava chiamando, era il momento di andare. Strappai un petalo bianco e me lo misi in tasca, con l’ingenuo proposito di avere sempre con me un po’ di purezza, visto che la mia vita ne era sempre stata priva. Arrivato alla carrozza, vi entrai, dando un ultimo sguardo alla villa e poi a Finnian, Tanaka e gli altri. Mi scrutavano con compassione, Finnian e Mairin sull’orlo del pianto, come se Sebastian avesse raccontato loro chissà quali orribili tragedie su di me. Stavo per rimproverarli, ma diedi loro soltanto qualche raccomandazione sulla casa. Potevano farci quello che volevano: viverci, venderla, persino distruggerla, perché io non ci sarei mai più tornato.

Dentro la carrozza calò il silenzio. Sentivo soltanto il rumore degli zoccoli del cavallo, e la voce del cocchiere che di tanto in tanto salutava i passanti e impartiva comandi all'animale. Non sapevo che destinazione Sebastian gli avesse ordinato, e non mi importava. In uno spazio così ristretto, avrei dovuto percepire anche il suono dei nostri respiri, o i battiti dei nostri cuori… forse avrei dovuto portare con me una spina, invece di un petalo, per conficcarmela nel cuore e controllare che stesse battendo ancora. Cullato dal su e giù della carrozza, sentii il mio corpo sprofondare nell’abbraccio del sonno, e sperai di cambiare sogno, per una volta.

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Capitolo 3
*** Scegliere. ***


3. Scegliere.

 

Petali. Petali di rosa bianchi e neri.

Fui piacevolmente sconvolto dalla rarità dell’evento: un mio desiderio si era avverato, avevo fatto un sogno diverso. La mia gioia svanì in fretta, non appena Sebastian mi prese in braccio e mi disse: ‘No signorino, non è un sogno.’ Vedendo la mia espressione improvvisamente delusa, mi sorrise e continuò: ‘In effetti, mi sorprendo ogni volta che la vedo dormire, perché noi demoni non lo facciamo. Forse una parte di lei è ancora umana, in fondo.’ Quella supposizione mi rallegrò. Gli chiesi dove ci trovavamo, e lui mi rispose: ‘Questo è un posto che non si trova sulle mappe, un po’ come l’isola con la panchina di pietra, ricordate? Solo noi ci possiamo arrivare. E’ il posto perfetto per suggellare un patto lasciato in sospeso.’ Non capivo. ‘Quella notte, nel labirinto delle rose, mi avete ordinato di divorare la vostra anima, e avete specificato che sarei stato per sempre il vostro maggiordomo, fino a quando non l’avessi fatto. E io non posso più farlo, lei lo sa bene. Perciò, se è davvero questo quello che desidera, lo ripeta e io obbedirò.’ Stop. In quel momento il mondo, o qualunque fosse il posto in cui eravamo, si fermò. Se è davvero questo quello che desidera’… quindi potrei anche dire di no, pensai sconcertato. L’idea di ritrattare un ordine era assolutamente nuova per me, e ancor di più lo era l’idea di lasciar andare Sebastian. Lasciarlo libero, libero di approfittare del dolore o dell’odio di qualcun altro. Fui inspiegabilmente preso da un senso di gelosia, ma non in senso romantico o sentimentale. Sebastian era il mio maggiordomo, il mio demone; si nutriva del mio odio, della mia vendetta. Al posto del consueto urlo incastrato in gola, avevo un fiume di parole patetiche. ‘No Sebastian, non puoi lasciarmi qui da solo. Cosa farò? Non so nemmeno allacciarmi le scarpe, non so dove andare, non so come sopravvivere adesso che sono come te. No, tu resterai qui, qui con me, a servirmi come hai sempre fatto. E’ cambiato tutto nella nostra vita; non possiamo fare in modo che almeno una cosa resti uguale? Una sola, Sebastian! Ti prego!’. Mi ritrovai a rimpiangere quel dannato urlo, era almeno la metà di tutte quelle parole. Feci un respiro profondo e cercai di darmi un contegno, per apparire deciso, sicuro di me, e soprattutto distaccato.

‘E’ così, Sebastian. Fino a quando non divorerai la mia anima, tu sarai il mio maggiordomo.’

‘Allora lo sarò per l’eternità, signorino’ mi rispose Sebastian, con un’espressione che non avevo mai visto sul suo volto. L’espressione di chi non ha scampo, della frustrazione, del rimpianto. Il senso di colpa mi investì come un treno. Per tutto quel tempo non avevo fatto altro che preoccuparmi di me stesso, senza rendermi conto di quanto lui soffrisse per non aver ottenuto l’anima che gli spettava di diritto. Chissà quanto soffriva, a starmi sempre accanto e desiderare qualcosa di irraggiungibile, inesistente, ma un tempo così vicina. Chissà quanto lo tormentava, il ricordo della mia anima quasi a contatto con il suo corpo, con le sue labbra, prima che Claude Faustus rovinasse tutto. Eppure non aveva mai fatto trapelare nessuna emozione… o forse ero io che non me ne ero interessato abbastanza? Quella domanda iniziò a rimbombare nella mia testa, a martellare tanto da far male. Ma come, potevo essere infilzato da parte a parte senza morire, e non potevo resistere al peso del rimorso? Mi tornarono in mente le parole di Sebastian: ‘Forse una parte di lei è ancora umana, in fondo.’ Ecco la risposta. Sono un demone, ma dormo, sogno, e provo dolore. Posso ancora scegliere che cosa essere: un demone un po’ umano, o un umano un po’ demone. Questa volta lasciai scorrere il fiume di parole: ‘No, Sebastian, non è giusto. Sei libero. La mia vendetta è compiuta, quindi non hai nessun conto in sospeso con me; sono io che ti devo qualcosa, ma entrambi sappiamo che non te la potrò più dare. Perciò spero di sdebitarmi, restituendoti la libertà che meriti. Grazie per non avermi mai tradito, per aver rispettato i miei silenzi, per aver apprezzato il mio coraggio quando per gli altri era solo incoscienza. Grazie per essere stato l’unico che non ha mai avuto pietà di me. Addio, Sebastian. Il contratto è sciolto.’ 

 Sebastian era visibilmente sconvolto; credo che non si aspettasse affatto un discorso del genere. D’un tratto sentii l’occhio destro bruciare lievemente, e mi portai la mano al viso per togliermi la benda, dimenticando che l’avevo tolta da quando eravamo partiti. Ma il bruciore era già svanito, così come il marchio sulla mano di Sebastian; capii che il mio volere era stato rispettato. Guardai Sebastian un’ultima volta, prima di voltarmi e iniziare a camminare verso l’ignoto. Presi il petalo di rosa dalla tasca e lo lasciai andare nel vento, così come avevo fatto con il mio maggiordomo.

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Capitolo 4
*** Fame. ***


4. Fame.

 

Tum, tum, tum. Camminavo su un soffice tappeto di petali, eppure ogni passo mi sembrava pesante come un macigno. Avrei voluto voltarmi ad un certo punto, ma non lo feci, terrorizzato all’idea di vedere Sebastian pazzo di gioia per la mia decisione, o peggio ancora di rendermi conto che se n’era già andato, impaziente di vivere senza di me. Non mi voltai nemmeno quando lo sentii pronunciare le sue due uniche parole: ‘Grazie, signorino.’ Improvvisamente il prato finì, e mi ritrovai davanti ad un baratro roccioso. Il mio istinto da demone (a quanto pare ne avevo uno) mi disse di saltare, per poter tornare al mondo reale. Aspettai un secondo in più, per lasciare a Sebastian il tempo di cambiare idea, per sicurezza. Ma l’unico suono che sentii fu quello del vento, e dei petali che mi sfioravano il viso; tra di loro doveva esserci il mio petalo bianco, perso per sempre. Chiusi gli occhi, e saltai. Senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai nuovamente sulla carrozza, da solo questa volta. Il cocchiere e il cavallo non c’erano più; probabilmente, sorpreso dalla nostra improvvisa assenza, l’uomo si era fermato e con la scusa aveva portato l’animale a rifocillarsi. Decisi che non valeva la pena di aspettare il suo ritorno, d’altronde cosa avrei dovuto dirgli? Io e il mio maggiordomo eravamo in un luogo inesistente che solo i demoni possono raggiungere? Perciò mi allontanai, seguendo un sentiero a casaccio, verso una cittadina sconosciuta. L’importante era non andare a Londra, dove tutti mi conoscevano, dove mi sarei ritrovato a soffocare il mio urlo nel bel mezzo di una pubblica piazza.

 Tum, tum, tum. Di nuovo, ogni passo sembrava interminabile. L’eternità mi apparì di colpo come una condanna senza via d’uscita… avrei vagato per sempre per le campagne inglesi, senza uno scopo? Forse avrei dovuto adeguarmi a ciò che ero diventato, e andare a cercare anime da divorare. Sul momento, rabbrividii al pensiero. Ma in fondo ero curioso di sapere che sensazione si provasse, a saziare una fame così profonda… Camminai per più o meno mezz’ora, anche se non lo saprei dire con certezza; ero deciso a non ragionare più in base al tempo, visto che ne avevo a disposizione una quantità infinita. Ad un certo punto mi corse incontro un contadino, pieno di graffi e lividi, con la casacca infangata e strappata. Gridava ‘Maledetto, infame, imbroglione, carogna!’ e altre imprecazioni che sarebbe meglio non riportare… e altre ancora che non riuscii a capire, probabilmente perché appartenevano al linguaggio del popolo. Deve avercela a morte con qualcuno, pensai… che fosse l’occasione giusta per provare? Mi presi di coraggio e gli corsi anch’io incontro, dicendogli: ‘Scusi, cosa le è successo?’ Mi sembrò assurdo parlare ad un plebeo con così tanta gentilezza, ma volevo prendere come modello Sebastian, la sua classe, la sua capacità di ammaliare con le parole… anche se, a pensarci bene, quando si era trattato di me non ci avevo pensato su due volte, e non avevo avuto bisogno di moine e frasi ad effetto. Anche il contadino fu un po’ sconcertato dalla mia domanda, e dopo avermi osservato dalla testa ai piedi, mi rispose: ‘No, tu sei un nobile, uno sporco nobile come lui! Meglio non raccontare i miei guai ad altri imbroglioni senza scrupoli!’ Feci uno sforzo non indifferente per non prenderlo dal colletto della casacca e gridargli ‘COME TI PERMETTI?!’, ripetendomi che in quel modo non avrei ottenuto nulla. Così pesai attentamente le parole, e gli dissi: ‘No, ti sbagli, io voglio aiutarti. Se hai ricevuto un torto da qualcuno, e vuoi vendicarti, hai trovato la persona giusta. Dimmi cosa vuoi che faccia, e io lo farò… e insieme stipuleremo un contratto.’ Il contadino ovviamente non capì cosa intendevo, e disse: ‘Sei uno di quelli che mandano i loro scagnozzi a uccidere gli altri nobili? Guarda che io non ho niente da darti, a malapena guadagno qualcosa per sfamare la mia famiglia! Non ho denaro, non ho niente!’

‘Non è il denaro, la cosa che mi interessa.’ Senza rendermene conto, la mia voce era diventata incredibilmente persuasiva, come quella di Sebastian. Un tono deciso e allo stesso tempo caldo, avvolgente. Decisamente compiaciuto, continuai: ‘Io voglio… la tua anima. La tua anima in cambio della tua vendetta.’ A quelle parole, sentii un brivido lungo la schiena, la gola che bruciava, e i miei occhi che cambiavano colore, dall’azzurro naturale ad un rosso acceso. Il rosso del sangue, della vendetta, dell’ossessione… Il contadino mi guardava in preda al panico: ‘T-t-t-tu sei un d-d-demone?’ Evidentemente nei paesini giravano leggende popolari non del tutto false, pensai. ‘Allora, cosa vuoi fare? Vuoi continuare a vivere come un mediocre bracciante, maltrattato e oppresso, o vuoi sacrificarti per la tua famiglia e farti giustizia?’ Il contadino restò per un bel po’ di tempo a guardarmi, riflettendo sul da farsi… Sapevo che non dubitava affatto di quello che gli avevo detto; erano bastati gli occhi rosso sangue a convincerlo. Fece un respiro profondo, per non balbettare più, e disse: ‘Il mio padrone mi ha sempre trattato male. Ha sempre preteso il doppio della normale tassa sul raccolto, ogni settimana manda i suoi uomini a prelevare almeno la metà del nostro cibo, e oggi mi ha picchiato perché ho cercato di ribellarmi. Non si rende conto che è solo fortuna la sua, che anche lui poteva essere come me, se il destino l’avesse voluto. Non prova pietà nemmeno per mia figlia, che è malata… pretende che vada a lavorare nei campi anche lei. Se io ti darò quello che vuoi, tu lo ucciderai per me? Lo ucciderai, e farai in modo che tutto ciò che mi ha tolto torni alla mia famiglia?’

La fame iniziò a diventare insopportabile. Sapevo che dalla mia risposta dipendeva tutto, e che se io avessi risposto si, avrei ottenuto un’anima tutta per me, la mia prima anima. Mi leccai le labbra, non riuscii a farne a meno. E risposi: ‘Si, lo farò.’ Il contadino rispose: ‘Allora avrai la mia anima.’ In quello stesso istante, entrambi ci accorgemmo che sul suo petto si stava delineando un cerchio. Al centro aveva una rosa, avvolta da un groviglio di spine. Lo stesso marchio apparve sulla mia mano… ‘Il mio marchio!’ pensai, eccitato. Per un attimo mi sentii in colpa; avevo deciso di essere un umano un po’ demone, non il contrario. Ma quello valeva con Sebastian… adesso che ero rimasto da solo con la mia fame, sentivo il mio lato umano sprofondare verso la parte più nascosta di me stesso. Non era una fame animalesca, una voglia di divorare carne fresca o di cacciare. Era un malsano desiderio di sentirmi… completo, appagato. Improvvisamente capii come si era sentito Sebastian per tutto quel tempo, e lo compatii. Ma lui non doveva fare i conti con la sua dignità, perché non era mai stato umano. Io invece mi sentii meno di niente, una bestia; ma fu solo un attimo. L’attimo dopo, immaginavo già di privare quel contadino della sua meravigliosa anima.

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Capitolo 5
*** Nuvole e rivelazioni. ***


5. Nuvole e rivelazioni.

 

Mi feci spiegare come raggiungere la dimora del nobile e mi incamminai, dopo aver promesso al contadino che quella sera stessa avrebbe riavuto i suoi beni. Non potevo certo ridurmi come Sebastian, a servirlo per chissà quanto tempo… La sola idea di chiamare ‘padrone’ una persona del genere mi nauseava. Avrei potuto correre per chilometri senza fatica, ma la strada da fare non era molta, e io avevo bisogno di tempo per pensare a come uccidere questo Lord Sorrow (dolore). Si faceva chiamare così per incutere timore nei paesani… patetico. Con una pistola a disposizione non avrei avuto alcun problema; non era una cosa nuova per me. Ma pensare di uccidere una persona a mani nude, pensare di esserne fisicamente capace… era inquietante. Poi pensai a Sebastian, a quella sua innata grazia anche nell’uccidere, quell’agilità elegante, felina. Mi augurai di esserne in grado anch’io, e poco dopo, senza avere un piano preciso in mente, mi ritrovai di fronte ad un grande cancello nero con una S in rilievo, dietro il quale si stagliava un lungo viale alberato che conduceva ad una casa molto simile a quella che avevo lasciato. Decisi che sarebbe stato meglio agire col buio, così feci il giro del perimetro della villa e mi accovacciai dietro un cespuglio. Mi distesi sul prato per osservare il cielo; dovevo pur impiegare il tempo in qualche modo, visto che si trattava di un intero pomeriggio. Avevo sempre considerato un passatempo stupido quello di dare un senso alla forma delle nuvole: ‘Sono solo nuvole!’ avevo detto ad Elizabeth un giorno, quando aveva preteso che riconoscessi anch’io una papera, un coniglio o chissà cos’altro. Ma in fondo lì dietro quel cespuglio nessuno mi avrebbe scoperto… così iniziai a scrutare quelle grandi masse bianche nel cielo, sforzandomi di trovare qualche forma riconoscibile. Evidentemente la mia bassa opinione di quel passatempo era sempre dipesa dal fatto che non ne ero per niente capace: la mia immaginazione era decisamente limitata. Risi di me stesso: ero una contraddizione vivente. In un atto di estrema umanità avevo dato la libertà a Sebastian, per poi approfittare delle disgrazie di un contadino e stipulare un contratto; e adesso mi ritrovavo a cercare forme nelle nuvole per ingannare il tempo, prima di uccidere un perfetto sconosciuto in cambio di un’anima umana. Non c’era niente da fare: l’umano e il demone dentro di me sarebbero sempre stati in contrasto, e per quanto mi sforzassi, sentivo di non appartenere a nessuna delle due categorie. Mi sentivo un incrocio, come un cane di razza indefinita. L’unico esemplare di una specie in via d’estinzione. Non mi preoccupava certo l’opinione del resto del mondo; era la mia a preoccuparmi. Questa specie di doppia personalità mi infastidiva.

Questo susseguirsi di pensieri e constatazioni andò avanti per molte ore, tanto che si era fatto buio e non me ne ero quasi accorto. Con un balzo mi ritrovai al di là del muro che circondava la villa, nel giardino. Mi mossi silenziosamente tra le piante perfettamente curate, scrutando le finestre dell’edificio per capire quale fosse quella della camera da letto. Le case dei nobili erano tutte molto simili nella disposizione delle stanze, e solitamente la camera del padrone di casa aveva una finestra più particolare, col balcone. La individuai con facilità e mi accostai al muro, per arrampicarmi fino al balcone ed intrufolarmi. Non sapevo ancora cosa avrei fatto, una volta entrato; pensavo che sarebbe stato meglio agire d’istinto. Con l’agilità di un gatto e l’aderenza di un ragno, arrivai fino al balcone, e forzando leggermente la finestra riuscii ad entrare. In un enorme letto a baldacchino con la consueta S stampata in alto, dormiva la mia vittima. Era un uomo con pochi capelli, abbastanza in carne, visto che ci voleva metà delle lenzuola damascate per coprirlo. E dormiva con una spada accanto al letto… Con molta cautela la tolsi dal fodero, deciso ad utilizzarla per sgozzarlo. Con la mano destra tenevo l’arma, mentre con la sinistra gli presi la testa per tenerla ferma. Ma in quel preciso istante vidi come un lampo, e tutto intorno a me cambiò. Avevo ancora la spada in pugno, ma il letto era sparito. Mi trovavo in un vicolo buio, chissà dove. All’improvviso sentii un urlo dietro di me, e mi voltai… era Lord Sorrow, rannicchiato in un angolo sudicio, che guardava nella mia direzione con gli occhi sbarrati. Sussurrava ‘No, ti prego, no…’ Feci un passo verso di lui e istintivamente si alzò per fuggire. Illuso… lo raggiunsi in un secondo e lo atterrai, la faccia contro la pietra bagnata del vicolo. Gli tirai indietro la testa, e una sensazione di onnipotenza mista ad adrenalina pervase il mio corpo, quando mi resi conto che non riusciva a muovere un singolo muscolo per quanto ero diventato forte. Ancora una volta, ci fu quell’attimo in cui mi sentii un animale in preda alla follia omicida. Ma poi i suoi insulsi piagnucolii mi ricordarono qual era il mio scopo… e senza esitazione, gli tagliai la gola con la sua spada. In una pozza del suo stesso sangue, lo sentii esalare il suo ultimo respiro, e in quell’istante di nuovo un lampo. Ero tornato nella sua camera da letto, e il suo corpo era ancora sotto le lenzuola, come se non fosse successo nulla. Eccetto per gli occhi sbarrati che fissavano il soffitto. A quel punto realizzai: nel momento in cui lo avevo toccato, ero diventato un suo incubo, e poi, nel preciso istante in cui era morto, ero tornato alla realtà. Istintivamente pensai al fatto che soltanto io, tra tutti i demoni, potevo dormire e sognare, perché un tempo ero un umano; così aveva detto Sebastian. Un grande sorriso iniziò ad allungarsi sul mio viso: non ero un incrocio, ero una magnifica eccezione. Un diamante in mezzo a tante comunissime pietre. Non ero né un umano, né un demone: ero il re dei sogni.

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Capitolo 6
*** Falsario. ***


6. Falsario.

 

Ancora inebriato da quella meravigliosa scoperta, mi resi conto che mancava un dettaglio: restituire i beni alla famiglia del contadino, prima di prendermi la sua anima. A quel punto ancora la fame, bruciante, insopportabile. Mi bastava immaginare la scena per rabbrividire di piacere. Mi guardai intorno: nonostante la stanza fosse al buio, riuscivo a percepire ogni singolo contorno. Vidi in un angolo una scrivania ricoperta di scartoffie: atti di proprietà e altri documenti del genere. Che pallone gonfiato: si sentiva così onnipotente e intoccabile da tenere i suoi ‘trofei’ in bella vista, alla portata di chiunque. Ecco a cosa porta l’eccessivo potere, pensai. Il potere… altro tasto dolente. Iniziai a pensare di essere un po’ troppo dipendente dalle mie congetture: di colpo sbucava fuori una parola in una frase e mi ritrovavo a rifletterci sopra per chissà quanto tempo. Ma da un lato era meglio così: avrei saputo come far passare il tempo, il mio eterno tempo. Forse era stato proprio il potere a condurmi alla rovina. Spesso mi ero interrogato su chi dei due, tra me e Sebastian, avesse realmente il potere. Lui sottostava ai miei ordini, è vero, ma io dipendevo da lui. Ogni mia vittoria o fallimento, era frutto del suo operato…. Ma la mia anima era la chiave di tutto. Era lei l’ago della bilancia, e una volta andata perduta, è cambiato tutto. Io ho acquisito tutto il potere, e Sebastian non mi ha più guardato con gli stessi occhi. Non che mi avesse mai guardato come una semplice preda, come io avevo guardato quel contadino… il suo era uno sguardo di contemplazione. Non faceva altro che osservarmi, compiacersi di quanto fossi impudente e arrogante, anche quando lo ero con lui. Bramava per avere la mia anima perché io ero il meglio che avesse mai potuto ottenere, e lui lo sapeva. Senza un’anima, io ero diventato un inutile involucro. Se fossi stato ancora umano, avrei trovato la cosa alquanto crudele, meschina e ingiusta. Ma la mia sfera dei sentimenti ormai oscillava senza senso tra il menefreghismo e la sensibilità, e non riuscivo ad attribuire a Sebastian colpe che non aveva. Anche io, come lui, iniziavo a vedere gli umani come esseri fragili, passeggeri, banderuole soggette al vento delle passioni e delle tentazioni. Anime pure in apparenza, ma involontariamente predisposte a commettere i peccati più inconfessabili, per odio o per amore. Anch’io ero stato così: un umano guidato dal suo stesso odio. Ma è meglio farsi condurre alla rovina dall’odio o dall’amore? Sarebbe stato meglio morire per amore, come Alois Trancy? Quel nome avrebbe dato il via ad una catena infinita di pensieri, così mi imposi di darci un taglio e uscire al più presto da quella stanza. Per fortuna la spada, come il collo di Lord Sorrow, era immacolata; perciò la rimisi con cautela nel suo fodero. Tornai alla scrivania e iniziai a rovistare tra le scartoffie, tra le quali trovai gli atti di proprietà di case, terreni e possedimenti per un valore non indifferente. La scrittura del defunto Lord Sorrow era simile a quella di tanti altri nobili, compresa la mia; decisi che il modo migliore per rendere giustizia alla famiglia del contadino era scrivere un falso testamento. Mi assicurai che non ce ne fosse già uno, dopo di che mi sedetti alla scrivania, e riuscii a recuperare una piuma d’oca, una boccetta di inchiostro e un foglio bianco. Non credo che con i normali sensi da umano sarei riuscito a copiare così bene la calligrafia di un’altra persona. Era come se il mio corpo fosse stato creato per raggiungere la perfezione in ogni sua azione; finalmente mi parve chiaro il motivo per cui Sebastian era sempre perfetto, in cucina come nella lotta. Riflettei un attimo su come era morto Lord Sorrow: io l’avevo sgozzato, ma il suo cadavere era intatto. I medici avrebbero sicuramente pensato ad un malore nel sonno, e non trovando nessun tipo di sostanza nel suo corpo, non avrebbero nemmeno potuto prendere in considerazione l’ipotesi di un avvelenamento. Insomma, la famiglia del contadino non avrebbe dovuto temere alcuna ripercussione… Decisi comunque di dare una motivazione adeguata ad un passaggio di proprietà così singolare, e alla fine scrissi:

‘Se state leggendo questo documento, vuol dire che la tanto temuta morte è sopraggiunta per me. Da molto tempo ormai sento il mio corpo abbandonarmi lentamente, e troppe volte il respiro mi è mancato nel sonno. Perciò ho capito che la morte, prima di avvolgermi nella sua morsa crudele, ha voluto darmi l’opportunità di chiedere perdono per i miei peccati e di porre rimedio ai torti compiuti nel corso della mia travagliata esistenza. Quindi io, Lord Harry Sheridan (avevo letto il suo vero nome in uno dei tanti documenti sulla scrivania), stabilisco qui le mie volontà testamentarie, in pieno possesso delle mie facoltà mentali: predispongo che tutti i miei beni immobili e la metà del mio denaro vadano in eredità a John Mallory, che tanto ho maltrattato in vita, e alla sua famiglia, e che l’altra metà sia equamente divisa tra i miei servitori e braccianti, essendo io privo di prole.

 E che Dio mi perdoni per i miei peccati.

Harry Sheridan.’

 

Rilessi più volte il foglio, e le finte volontà di Lord Sorrow continuavano a sembrarmi poco credibili. Ma in fondo, come mi aveva spiegato il contadino dopo avermi descritto la strada, non c’erano parenti che avrebbero reclamato qualcosa; inoltre avevo fatto in modo di rendere tutti gli altri braccianti contenti, e per giunta avevo permesso a Lord Sorrow di essere ricordato come un misericordioso, un peccatore redento, un benefattore. E io avrei avuto l’anima di John Mallory. Certo, avrei dovuto aspettare la mattina dopo: qualcuno avrebbe ritrovato il cadavere e avrebbe letto il testamento. Il contratto sarebbe stato sciolto non appena la famiglia sarebbe entrata in possesso dei beni di Lord Sorrow: dopo la convocazione dei medici per gli accertamenti, al massimo all’ora di pranzo avrei finalmente ottenuto il mio di pranzo. Soddisfatto, posai la boccetta d’inchiostro e vi misi dentro la piuma: se l’avessi lasciata fuori, chiunque si sarebbe accorto che l’inchiostro sulla punta era fresco e avrebbe potuto insospettirsi. Riguardo al foglio, invece, una volta asciutto lo misi sotto una pila di altri documenti dentro un cassetto; in questo modo, stando una notte al chiuso premuto sotto altri fogli, l’inchiostro non sarebbe sembrato recente. Tutti i casi risolti come ‘cane da guardia della Regina’ erano serviti a qualcosa, alla fine.

Guardai un’ultima volta il cadavere nel letto, la prova tangibile di quello che avevo fatto. Nessuna traccia di rimorso. Eppure l’avevo avuta di fronte all’espressione frustrata di Sebastian, quella stessa mattina. Forse dipendeva dal fatto che improvvisamente capivo di più i demoni che gli umani… I demoni, creature dai bisogni semplici ma in fondo incredibilmente complesse. Sentivo di non conoscere ancora a pieno la loro natura, e di conseguenza di non conoscere nemmeno la mia. Ma quella notte almeno avevo fatto un passo avanti: avevo dato un nome a ciò che ero. Chissà cosa avrebbe detto Sebastian della mia straordinaria capacità… Con questi e mille altri pensieri in testa, uscii dalla finestra e la richiusi perfettamente, come se non fosse mai stata forzata. Chiusi gli occhi, per assaporare la luce della luna che illuminava il balcone e un venticello notturno che con dolcezza mi scompigliò i capelli. Stavolta era il mio lato umano a desiderare di godere di queste piccole e semplici cose del mondo. Un impercettibile pezzetto di quel petalo bianco c’era ancora, dentro di me. Ma quanta purezza poteva esserci nell’uccidere un uomo, per poterne uccidere un altro ancora? Scacciai via dai miei pensieri quel ridicolo interrogativo. Dovevo accettarmi per quello che ero: buio e luce, purezza e oscurità. Scavalcai la ringhiera del balcone e atterrai in giardino. Silenziosamente, così come ero entrato, raggiunsi il muro della villa e lo scavalcai. Le nuvole nel cielo erano state sostituite da una miriade di stelle; avendo dormito abbastanza nella carrozza, non lo feci quella notte. Contemplai quegli astri lontani, sconosciuti come ormai lo ero io ai miei stessi occhi.

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Capitolo 7
*** Perfezione. ***


7. Perfezione.

 

All’arrivo dell’alba, i miei occhi non riuscirono più a restare aperti, quasi consapevoli di quanto la giornata che avrei dovuto affrontare sarebbe stata ricca di eventi. In quel breve lasso di tempo, tra l’alba e il mio risveglio, sognai di essere nuovamente in quel vicolo. Al posto di Lord Sorrow c’era il contadino, che mi guardava atterrito implorando pietà… Mi destai di soprassalto, preoccupato dal fatto che forse la sua famiglia era già stata convocata. Così mi recai all’umile dimora di John Mallory, che si trovava in corrispondenza della villa, ma più ad est. Appostato dietro un albero, notai che c’era movimento all’interno della piccola casupola di legno, così decisi di aspettare che uscisse qualcuno. Il sole era alto nel cielo, e anche senza un riferimento di tempo preciso sapevo che mancava poco ormai. Il cadavere era già stato ritrovato di sicuro. Sentii il rumore della porta che si apriva e vidi John Mallory uscire nell’aia che circondava la sua casa. Era visibilmente preoccupato: andava avanti e indietro come un’anima in pena, infastidendo le oche che iniziarono a starnazzare in tutte le direzioni. Per un attimo incrociò il mio sguardo, e si fermò; evidentemente i miei occhi, senza che me ne accorgessi, erano diventati rossi, impossibili da non vedere tra le fronde quasi inesistenti in quella calda giornata di inizio autunno. Per almeno un minuto rimanemmo a fissarci, senza dire o fare nulla. Lui aveva la faccia di chi sa di non avere scampo, e io probabilmente avevo la faccia di chi non ha intenzione di tirarsi indietro. Ma dovevo ammettere che era stato coraggioso, dopotutto. Avrebbe potuto fuggire lontano o evitare di dirmi dove abitava, anche se entrambe le cose sarebbero state inutili. Invece stava lì, a fissare la morte negli occhi.

Il nostro stato di ‘trance’ fu interrotto dal suono di zoccoli di cavallo che si faceva sempre più vicino; infatti da dietro la curva sterrata sbucò una carrozza, che si fermò precisamente davanti alla sua casa. Tutto come previsto, pensai. Dalla carrozza scese un maggiordomo tutto trafelato: un uomo di mezza età, molto simile a Tanaka. Con un’espressione da funerale chiamò John Mallory, che tentò di fingersi stupito e amareggiato alla notizia che Lord Sorrow era misteriosamente morto nel sonno, quella notte. Non ci riuscì molto bene, a mio parere, ma il maggiordomo era troppo sconvolto e non ci fece caso. Da dietro l’albero non riuscivo a sentire tutto, ma mi bastò qualche frammento per capire: ‘Voi e la vostra famiglia… dimora di Lord Harry Sheridan… la lettura delle sue volontà testamentarie.’ Vidi John Mallory annuire con un’espressione apatica, e rientrare per un attimo in casa. Dopo pochi minuti uscì nuovamente, stavolta insieme alla sua famiglia. La moglie, una donna attraente ma poco curata, con i capelli raccolti in un panno dal colore indefinito e un grembiule impolverato, teneva in braccio una bambina di più o meno dieci anni, scarna e pallida. Dietro di lei, nascosti tra le pieghe della gonna, due bambini con i capelli sporchi, vestiti alla meno peggio con dei pezzi di stoffa rammendati. La donna aveva una faccia tristissima, e non capivo perché; la notizia di essere convocati per la lettura del testamento avrebbe dovuto rallegrarla. Ma appena John Mallory le fece cenno di guardare verso di me, capii: lei lo sapeva già. Scrutò tra il fogliame, gli occhi lucidi e impauriti. Poi si voltò, e io ne approfittai per sussurrare ‘Io ti aspetto qui.’ Il contadino lesse il labbiale e fece un cenno di assenso. Poi tutti insieme salirono sulla carrozza, che si allontanò.

Così rimasi di nuovo solo, a pensare dietro quell’albero spoglio. Pensare a ciò che stavo per fare… era stato proprio un colpo basso, quello della famigliola bisognosa che mi guardava con gli occhi della disperazione. Ma bloccai in tempo i miei sentimenti ‘umani’: ragiona, Ciel. In fondo sarà meglio anche per loro… senza di te, continuerebbero la loro vita misera e insensata. Invece con il sacrificio di quell’uomo, e con il tuo sacrificio, soffriranno per un po’ ma alla fine saranno felici, sereni. Il mio sacrificio… perché in fondo anche io stavo per rinunciare a qualcosa. Non alla mia vita, come John Mallory, ma alla minuscola parte di umanità rimasta dentro di me. E poi dovevo imparare a farlo, presto o tardi. Imparare come saziare quella fame insopportabile. Improvvisamente mi resi conto che non avevo ancora pensato a come avrei fatto, anche perché non ne avevo idea. Ricordavo Sebastian che lentamente si avvicinava al mio viso, ma poi era diventato tutto buio. Mi autoconvinsi che sarei stato in grado di agire d’istinto, ancora una volta. Aspettai pazientemente dietro l’albero fino al ritorno della famiglia.

Una volta scesi dalla carrozza, i coniugi si abbracciarono; la donna piangeva disperata, senza dare alcun peso alla fortuna che le era appena capitata. Insisteva, si dimenava tra le braccia del contadino; sicuramente avrebbe voluto rinunciare a tutto ciò che aveva appena ottenuto, per salvare la vita del suo amato. Ma un patto con un demone è una strada da cui non si torna più indietro. Non sarei stato misericordioso, ormai avevo deciso. Sebastian non lo sarebbe stato con me, e come lui nessun’altro demone al mondo. Ero già un demone a metà, risparmiare la vita a qualcuno sarebbe stato il colpo di grazia per la mia ‘natura’. Avevo deciso di essere un umano un po’ demone, ma mi sembrava di averlo fatto secoli prima… non aveva più importanza ormai, né l’avevano i pianti e le grida di quella donna sconosciuta. Alla fine il contadino riuscì a calmarla; le sussurrò qualcosa all’orecchio, le sciolse i capelli per accarezzarglieli e poi le asciugò le lacrime dal viso. La salutò con dolcezza, e fece lo stesso con i suoi bambini. A quel punto mi costrinsi a volgere lo sguardo altrove, per non rivedere me in quei bambini, per non pensare stupidamente di poter riscattare la mia infanzia perduta con un atto di generosità. I miei genitori sono morti, ma io sono sopravvissuto. Non è colpa mia… non è colpa mia se non riesco a provare compassione. Non riesco, o forse semplicemente non la voglio provare. Mentre continuavo a ripetermi queste parole, di colpo sentii dei passi incerti sul fogliame, dietro di me. Mi voltai: il contadino stava in piedi davanti a me, in attesa del suo destino. Senza dire una parola, gli feci cenno di seguirmi, per inoltrarci ancora di più tra gli alberi ed evitare che qualcuno vedesse. Sentivo il suo respiro affannoso; avrei potuto addirittura toccare la sua paura. Davanti a noi si aprì una piccola radura, e a quel punto mi fermai e mi voltai verso di lui. Mi sembrò così strano dover guardare una persona dal basso, a causa della mia statura, e sapere che quella persona mi temeva come non aveva mai temuto nient’altro in tutta la sua vita. Sapere che io per lui ero letale… un veleno istantaneo, una malattia rapida e incurabile. Si inginocchiò, e mi chiese: ‘Farà male?’. Bella domanda, pensai. Nei suoi occhi terrorizzati vedevo riflessi i miei, rubini liquidi, impazienti e assassini. Ma per un attimo li rividi come erano un tempo: uno azzurro, l’altro irrimediabilmente marchiato dal patto con Sebastian. Rividi me stesso, su quella panchina di pietra, chiedere come sarebbe stato. E rividi il viso di Sebastian, estasiato all’idea, avvicinarsi al mio, sempre di più… Risposi esattamente come aveva fatto lui, non sapendo cos’altro dire: ‘Si, un po’.’ Non potevo permettermi di aggiungere ‘Cercherò di essere il più delicato possibile’, perché sarebbe stata una promessa impossibile da mantenere, vista la mia inesperienza. Lentamente mi abbassai verso il viso del contadino; ormai riuscivo a percepirla, la sua anima. La sentivo scalpitare da dentro il suo corpo, cercare di fuggire… non era docile come lo era stata la mia al cospetto di Sebastian, su quella panchina. Mi avvicinai ancora; poggiai la mano destra, quella marchiata, sul suo petto, mentre con la sinistra gli presi il mento. Ero io ad avere il controllo, su ogni fibra del suo essere. Sentivo il suo cuore palpitare alla velocità della luce, il suo respiro uscire dalla sua bocca per l’ultima volta… sentivo la sua stessa vita rifluire all’interno delle sue vene. Poi un istinto irrefrenabile di stringere la presa: la mano sul petto si avvinghiò al suo marchio, conficcandovi le unghie nere, e quella sul mento scese al collo, e fece altrettanto. Iniziai a stringere sempre di più; il respiro irregolare pian piano svanì, e il petto teso per il dolore si rilassò. Fili d’aria rossi come i miei occhi iniziarono a fuoriuscire dalla sua bocca e dal naso. Li inspirai lentamente, assaporando ogni istante. La fame stava svanendo; al suo posto, una sensazione indescrivibile. Pura estasi, come un minuto di Paradiso prima di sprofondare nelle viscere dell’Inferno. Ovviamente non potevo esserne certo, ma credo fosse come fare l’amore per la prima volta. La sensazione di essere completo, di non aver bisogno di nient’altro… la perfezione.

 

 

La fanfic non è ancora finita, ma volevo spendere due parole su questo capitolo. So che molti avrebbero preferito o immaginato che Ciel risparmiasse l'anima del povero contadino, che scegliesse di vivere da umano il più possibile... Ma a mio parere è impossibile soffocare la propria natura, e per quanto io abbia voluto sottolineare varie volte gli apprezzabili tentativi di Ciel di ritrovare la sua umanità, alla fine ho pensato che fosse più giusto così. Spero che, anche se in disaccordo con la mia opinione, abbiate apprezzato questo nuovo capitolo!

A presto, _hurricane

 

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Capitolo 8
*** Il suono dell'eternità. ***


8. Il suono dell'eternità.

 

Credo fermamente che quel giorno abbia cambiato la mia vita. Un po’ ridicola come cosa da dire per me, visto che non c’è stato giorno che io non abbia dovuto scegliere. Scegliere se vivere o morire, se lasciarmi andare o combattere, se essere un demone o un umano. Sono giunto però alla conclusione che quel giorno fu il più importante di tutti, perché fu la vita a scegliere per me. Mi feci trasportare dal suo flusso eterno, dalla natura delle cose, dalla mia natura. Il mio petalo bianco, il mio tentativo di restare puro, innocente e immacolato, alla fine si era rivelato un’illusione… una costruzione della mia mente, desiderosa di avere sempre e comunque il controllo. E invece, paradossalmente, proprio quando decisi di abbandonarmi a ciò che ero ebbi la sensazione di poter dominare il mondo. Perdendo il controllo del mio corpo, avevo acquisito quello dell’anima del contadino. Era questo il trucco: fidarsi dell’istinto, smettere di pensare, di fare congetture e supposizioni, di porsi inutili domande o abbandonarsi a futili rimorsi. Per la prima volta nella mia vita mi ero sentito in pace con me stesso, proprio nel compiere l’atto più sbagliato, il crimine più grave, il peccato condannato da tutte le morali e le religioni. Ma il punto era che io stesso ero peccato. Il mio essere era in perfetta sintonia con quello che avevo fatto, perciò mi sentivo così bene. E’ come quando una persona inizia un mestiere, e si rende conto di essere nata per farlo. Da quel giorno io sentii di essere nato per tentare le anime a peccare, e poi peccare io stesso. Finalmente non sentivo più il peso opprimente di tutte le mie sensazioni umane: il rimpianto, la compassione, il dolore, il senso di colpa. Il re dei sogni alla fine era riuscito a sconfiggere i suoi incubi.

I giorni seguenti non furono degni di nota. La fame non si fece risentire per un po’, cosa che mi rese incredibilmente tranquillo e rilassato. L’unica pecca alla mia pace dei sensi era il fatto che avevo gli stessi vestiti da troppo tempo; così, al primo corso d’acqua, colsi l’occasione per lavare sia loro che me. Me li sfilai di dosso e li immersi nell’acqua fresca, sfregandoli contro le pietre del basso fondale. Poi li misi ad asciugare sul ramo di un albero vicino, tornai sulla riva e mi lasciai scivolare nell’acqua. La corrente lenta e regolare sbatteva contro il mio petto e accarezzava dolcemente le mie mani, lavando via il peccato dalla mia pelle. Mi sfiorai la mano destra, che fino a pochi giorni prima era marchiata; rimpiansi quel disegno perfetto, che mi ricordava in ogni momento che avevo uno scopo e che rappresentava abbastanza bene ciò che ero: una rosa avvolta dalle sue stesse spine. Un essere in origine puro e delicato, corrotto dalla malvagità maldestramente nascosta dai suoi petali bianchi. Non la malvagità del mondo, ma la malvagità insita nella sua natura. Il bene che si trasforma in male, e il male che si trasforma in bene.

 Erano passati dieci giorni da quando avevo lasciato libero Sebastian, e di tanto in tanto mi domandavo cosa stesse facendo. Chissà quante anime aveva già avvolto nella sua morsa fatale… chissà quante persone erano state ammaliate dal suo viso rassicurante ma allo stesso tempo dannatamente tentatore. Chissà quante persone, come me, si erano servite di lui per dare un senso al loro odio. Avrei voluto vederlo, per raccontargli la mia scoperta nella villa di Lord Sorrow e poi l’esperienza della mia prima anima. Ma forse sarebbe stata una cattiveria, visto che sicuramente avrebbe immaginato me al posto del contadino, e sé stesso al posto mio. Eppure, mi piaceva pensare che sarebbe stato fiero di sapere che ce l’avevo fatta da solo, anche senza di lui che mi vestiva o mi preparava da mangiare. Gli avrei dimostrato che da demone ero molto più indipendente che da umano. La notte di quel decimo giorno mi addormentai sotto le stelle, come sempre. Ma quella notte fu diversa dalle precedenti, perché sognai per la prima volta da quando avevo preso l’anima del contadino. Mi correggo: credevo di sognare, ma non era così. Ero di nuovo nel prato di petali bianchi e neri, avvolto da una brezza leggera che rendeva l’atmosfera surreale, eterea. Chiusi gli occhi, per concentrarmi meglio sul lieve ululato di quel vento fresco e delicato, che faceva danzare intorno a me una miriade di petali.

‘Signorino…’

No, quello non era il vento. Spalancai gli occhi, e il mio respiro si fermò. A una decina di passi da me, Sebastian mi fissava con un sorrisetto compiaciuto stampato sul suo viso perfetto e immutabile. ‘Si, sono proprio io. Vi ho cercato a lungo, sapete? La storia del contadino oppresso che si arricchisce con la morte del padrone, per poi morire subito dopo, beh… è sulla bocca di tutti. Ma soltanto io, tra tutti, ho capito che doveva esserci di mezzo un demone appena nato, inesperto e affamato. Uno che non fa distinzione tra anime mediocri e anime per cui vale la pena lottare e soffrire.’ La mia faccia passò dallo stupore al disappunto: ‘Mi rivedi dopo dieci giorni, e la prima cosa che fai è insultarmi?’ risposi inarcando un sopracciglio. ‘No, signorino, è una semplice constatazione. La fame dei primi tempi è la peggiore, la più difficile da sopportare; il fatto che siate riuscito a resistere, in quei mesi in cui eravamo ancora nella vostra villa, vi rende un demone degno di stima e ammirazione. Non mi sorprende che abbiate approfittato della prima anima dispersa che vi sia capitata a tiro. E’ un peccato però, che lo abbiate fatto senza che lo potessi vedere… sarebbe stato interessante.’ Il sorrisetto era ancora lì, quella smorfia di presunzione che mi aveva sempre dato ai nervi, ma che adesso non mi dispiaceva affatto. Avrebbe voluto vedermi, mentre tentavo di somigliare a lui in ogni mio gesto. Ma nonostante questo bastasse a rendermi felice, volevo sapere dove voleva arrivare con quel discorso. ‘Sebastian… perché siamo di nuovo qui? Perché mi hai cercato?’ ‘Perché ancora una volta voi mi avete sorpreso, signorino. Lo avete fatto quando avete detto di no ad Angela, che voleva cancellare i vostri brutti ricordi nella biblioteca degli shinigami; quando vi siete lasciato cadere dal ponte di Londra, e quando mi avete concesso la vostra anima chiedendomi di farvi più male possibile. Ma mai, mai mi avevate sorpreso quanto quel giorno, su questo stesso prato. Avrei dovuto dirvelo subito, senza permettervi di andare via, ma non sapevo ancora cosa volevo... perché in quei mesi accanto a voi dopo la trasformazione, più volte ho desiderato di uccidervi.’ Calò il silenzio; persino il vento ammutolì, per le mie orecchie. Avrei dovuto aspettarmi una frase del genere… aveva tutto il diritto di odiarmi. Il destino, o più che altro Alois Trancy, aveva beffato entrambi, ma forse più lui che me.

Sebastian si accorse che quella frase mi aveva colpito come una freccia al cuore; sorrise nuovamente, e continuò: ‘Non è più così adesso, se è ciò che state pensando. In quei mesi vi ho odiato, perché non avete pensato nemmeno per un attimo alle conseguenze che la vostra trasformazione aveva avuto su di me. Mi sono sentito profondamente ingannato da voi: dopo che su quell’isola stavate per concedermi la vostra anima senza riserve, sembravate quasi entusiasta di non averlo fatto. E’ vero, vi lamentavate di continuo della fame, o delle domande della gente… Cose futili, per me. Avete speso il vostro tempo a preoccuparvi di questioni superflue, senza mai arrivare al punto: voi siete vivo. Non importa quale sia il motivo, o il modo in cui lo farete: voi siete vivo, adesso. Avete perso la vostra anima, ma l’avreste persa comunque; quindi non siete voi a dovervi lamentare. Pensavo questo, mentre continuavo a svolgere le mie mansioni, come sempre. Pensavo alla vostra anima indifesa su quella fredda panchina, alla benda lentamente sfilata dal vostro viso, ai miei occhi accesi di desiderio... Ma poi, su questo prato, mi avete dimostrato che in fondo anche il mio destino aveva un valore per voi. E pochi giorni dopo, quando ho intuito ciò che siete riuscito a fare senza di me… ho capito che era giunto il momento di tornare.’ Ogni frase era scandita da pause perfette e regolari, come una cantilena ipnotica e ammaliante. ‘Tornare?’ chiesi, desideroso di sapere che non me lo stavo affatto immaginando. ‘Si, signorino. Tornare al vostro fianco, ma non più come maggiordomo. Adesso che sapete cosa si prova ad appropriarsi delle anime umane, potete finalmente comprendermi a pieno. Possiamo vivere alla pari, due creature che si compiacciono della loro natura e vivono in sintonia, nel compiere ciò per cui sono state create.’ Il sorriso che lentamente si allargò sul mio volto fece capire a Sebastian che non c’era bisogno di udire un ‘si’ dalle mie labbra. Si avvicinò, e iniziammo a camminare fianco a fianco, verso il nulla. Di colpo mi fermai: un pensiero stupido, alquanto infantile e capriccioso a dire il vero, fremeva per essere espresso. ‘Cosa c’è?’ mi domandò Sebastian, preoccupato. ‘No, niente… una cosa un po’ stupida.’ ‘Mi piacerebbe saperla: in fondo, non credo di avervi mai sentito ammettere di dover dire qualcosa di poco intelligente.’ Gli lanciai un’occhiataccia delle mie, ma decisi di accontentarlo. ‘Sebastian… pensi che da ora in poi mi chiamerai Ciel?’. ‘No, non credo’ rispose. ‘Chiamarvi signorino mi ricorda in ogni momento quante cose sono stato disposto a fare per la vostra anima, cose di cui non mi pento. Mi ricorda la vostra capacità di tenermi testa, la vostra sfacciataggine e la vostra temerarietà nel provocarmi continuamente col vostro sguardo di sfida. E mi ricorda che sono stato un diavolo di maggiordomo, sempre e comunque.’ ‘Si, lo sei stato’ dissi istintivamente. ‘E io non lo dimenticherò.’ Sebastian mi sorrise, e inaspettatamente esclamò: ‘Oh, quasi dimenticavo! Mi tolga una curiosità, signorino… come ha fatto a uccidere quel vecchio signore, senza destare alcun sospetto?’ ‘Sono il re dei sogni, ecco come! Ma è una storia lunga da raccontare…’ risposi con un sorrisetto vanitoso. ‘Beh, abbiamo così tanto tempo.’

 

Da quel giorno io e Sebastian non ci siamo mai più separati. Viviamo senza preoccuparci del futuro, imparando l’uno dall’altro, ma soprattutto imparando a conoscerci davvero. Tutto mi appare più chiaro e sensato, perché ora vedo con i suoi occhi. Sento di poter avere il mondo nel palmo della mia mano, ogni volta che un’anima si piega indifesa alla mia volontà, e la psiche degli umani non ha più segreti per me. Conosco i loro desideri più profondi, le loro paure più inconfessabili, e li plasmo a mio piacimento. Ma quel ‘signorino’… non riuscirò mai ad abituarmi, perché ogni volta è come se fosse la prima. Una dolce melodia di note mai sentite; un richiamo incantato, come il ricordo di un sogno. Se l’eternità avesse un suono, sono certo che sarebbe quello della voce perfetta di Sebastian, che pronuncia il mio nome.

 

~The End~

 

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