Lumière noire

di BigMistake
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGUE: Masque. ***
Capitolo 2: *** CHAPITRE 1: Pardonnez moi. ***
Capitolo 3: *** CHAPITRE 2: Chez moi. ***
Capitolo 4: *** CHAPITRE 3: La première bataille. ***
Capitolo 5: *** CHAPITRE 4: Vengeance. ***
Capitolo 6: *** CHAPITRE 5: Rencontres. ***
Capitolo 7: *** CHAPITRE 6: L’art de la cour. ***
Capitolo 8: *** CHAPITRE 7: Sous échec. ***
Capitolo 9: *** CHAPITRE 8: Échange de visage. ***
Capitolo 10: *** CHAPITRE 9: Mensonges. ***
Capitolo 11: *** CHAPITRE 10: Qui est le vrai monstre? ***
Capitolo 12: *** CHAPITRE 11: Envie d'un ange. ***
Capitolo 13: *** CHAPITRE 12: Etonner, provoquer. Faire silence. ***
Capitolo 14: *** CHAPITRE 13: Le froid de la mémoire. ***
Capitolo 15: *** CHAPITRE 14: Les deux figures du fantôme. ***
Capitolo 16: *** CHAPITRE 15: La Duperie. ***
Capitolo 17: *** CHAPITRE 16: Mains trempées de sang. ***
Capitolo 18: *** CHAPITRE 17: Cauchemars. ***
Capitolo 19: *** CHAPITRE 18: Au-delà de l'adieu. ***
Capitolo 20: *** ÈPILOGUE: Découvrir d'être vif. ***



Capitolo 1
*** PROLOGUE: Masque. ***


Note dell'autrice: Allora, bonsoir madame e monsieur! Ho preso coraggio e ho scritto questa ff, ammettendo la mia pura ignoranza nel romanzo di Leroux. Sono una maledetta blasfema lo so. Però ho letto molto su di esso prima di iniziare, più per capire la differenza fra il libro ed il musical cinematografico, che amo follemente è il caso di dirlo. Purtroppo sono malata di una maledette vena romanti che m'impedisce di essere obbiettiva. Ho visto il musical per la prima volta un po' di tempo fa (ho amato la versione originale in inglese un po' meno quella in italiano, anche se la nostra lingua risulta molto musicale  per carità!!!) e mi sono innamorata di esso, di quella amara ironia della vita in cui chi vince sempre è il più bello e il più ricco mentre al povero storpio che rimane? Ebbene qui giungo io ...

Iniziamo con il dire che tratterò argomenti molto forti, che mi costringono a passare probabilmente ad un rating rosso (non per Lemon) per non turbare le menti più sensibili. Parlerò anche di Chiesa e Fede, vi avverto non voglio turbare nessuno. Siamo nel periodo in cui Roma è stata strappata al Papa proprio grazie alla Francia, quindi mi è sembrato quasi doveroso far intrecciare la storia con qualche avvenimento legato all'Italia. Non sarà facile e questo mi porterà a dovervi chiedere del tempo fra un capitolo e l'altro. Ovviamente non è una ff storica quindi non sarà incentrata su questo, nè tantomeno un'analisi clinica della condizione della chiesa nel 1871, però la mia new entry sarà legata a quest'aspetto.

PS: Nel frattempo sto portando a conclusione un'altra storia (mancano due capitoli quindi veramente poco) appena finita quella dedicherò ogni mia singola goccia di sangue alla mia ultima bimba se dovesse riscuotere successo.  

Ora passiamo alla storia:

Amo il personaggio di Erik ed ho paura a non rendergli giustizia, per questo sono molto aperta a qualunque giudizio o critica. L'ho studiato, ne ho letto trattati e altre ff e quant'altro e cercherò di disegnarlo come meglio posso seguendo qualsiasi consiglio utile.

Mi sono chiesta per gioco cosa sarebbe accaduto se Erik scoprisse un'anima molto simile alla sua, anch'essa deturpata dal gioco sadico del destino e forse anche più nera con lo stesso carico di sofferenza.

Non è detto che la deformità sia sul viso o sul corpo, potrebbe essere nel cuore un po' come dice la gattamor ... ehm ... pardon ... Christine alla fine del film. E' un'impresa, ve lo assicuro e c'ho pensato e rimurginato prima di riuscire a stendere il prologo e a pubblicarlo. (ah se non l'avete capito io detesto la Daaé, sono crudele lo so che ci posso fare) 

Quindi mi rimetto a voi, fatemi sapere che ne pensate, ve ne prego. Se non dovesse piacere o soddisfare, provvederò a liberare il sito da questo supplizio ^^.

Serva vostra. Mally.

Precisazione tecnica: Le frasi in corsivo rappresentano i pensieri dei personaggi, spero sia tutto fluido e chiaro. Che emozione!...

Vi lascio alla lettura che spero sia buona!!!

 

 

 

Lumière noire

 

PROLOGUE: Masque.

 

«È riuscito a scappare!»

Una frase semplice e lineare, come semplice risultava il gendarme. Era giunto con quella confessione trafelata vestito nella sua bella uniforme, il suo berretto conficcato sul capo come parte di esso, dorati bottoni sul doppio petto bordato e stivali neri imbrattati dal limaccio del fondale del lago sotterraneo a l’Operà Garnier.

Non urlava ai suoi compagni di inseguire il mostro deforme, lo spirito di un teatro reso uomo dalla passione per una eterea cantante dai pizzi e dall’organza. No. Indugiava con la mano sulla maniglia della porta in quell’appartamento disabitato che si affacciava sull’imponente e minaccioso rogo, attendendo che la figura desse anche solo un cenno di vita. Il guanto nero sollevato giocherellava con le dita affusolate, un piccolo vezzo di un fiocco ad adornarle il polso ferreo. Gli occhi scuri puntati alle fiamme non accennavano a disincantarsi. Le era sempre piaciuto guardare il fuoco, osservare come le fiamma languissero su loro stesse, incespicando verso l’alto ad un raggiungimento divino che non avrebbero mai ottenuto.

L’inferno non poteva ambire al Paradiso.

Le dicevano che la pioggia era il pianto degl’Angeli.

Le fiamme erano le urla dei Demoni.

«Malice! Avete sentito cosa ho detto?»

Un profilo, ecco cosa gli concesse. Solo il suo profilo nella penombra aranciata del fuoco. Un camino ardente fatto di anime e laccato con le più splendide bordure.

«Non vi preoccupate nemmeno della mia salute, monsieur? In fondo, fino a qualche momento fa, ero in quel teatro.» non vi era musica in quelle parole spiazzanti e l’uomo retrocesse come colpito da una trave in piena faccia.

«Come?» era sbigottito. Aveva accettato quell’incarico dietro un lauto compenso, il suo stipendio da gendarme non era mai sufficiente da spendere in allegre compagnie e nel gioco d’azzardo. Nessuno però gli aveva detto che avrebbe avuto a che fare con una donna, strana per giunta. Non sapeva se definirla bella: non aveva capelli luminosi come il grano o di un colore che spiccava tra la folla, o gli occhi astrusi di una strega ammaliatrice. Ad una prima visione l’avrebbe detta una donna piuttosto comune, una semplice bellezza mediterranea con le curve burrose e dalla pelle bianca come il latte, liscia e morbida. Eppure aveva quel qualcosa che nessuno sapeva decifrare, un’ombra che scompare nel buio per riapparire alle spalle e pugnalarti come la miseria.

Questo il suo lavoro. Essere invisibile, uniformarsi alla gente per scomparire e ascoltare chi non pensava che una ragazza dai capelli biondo scuri e dagl’occhi castani sinceri, potesse appartenere al proprio lavoro.

«Bene monsieur, è riuscito a scappare e voi siete qui. Quindi deduco che non lo state seguendo, a cosa mi servite?» le sue parole volavano al di sopra dei pensieri. Non si poteva dire che fosse misteriosa, però parlava troppo spesso per enigmi. In realtà era stata la sua sincerità che l’aveva condotta a diventare taciturna e spesso solitaria. All’amante bambina non era concesso dire la verità. 

«Mi spiace madame! Voi non sapete cosa si trova là sotto, è … è un labirinto ed è pieno di trappole. Non avrei potuto cercarlo nemmeno a volerlo …»

«Quindi state chiedendo il mio intervento suppongo?»

«Non so quanto sia indicato, madame. Avevo solo l’ordine di avvertirvi.»

«Avete ragione monsieur …» fu solo allora si voltò ad osservare il gendarme, che docile se ne stava ancora sull’uscio pronto a tornare ai suoi doveri prima che qualcuno si accorgesse della sua assenza. Tutte le mosse erano studiate e calcolate, gli occhi caldi e liquidi potetti da uno strato oscuro di luminosa opalescenza.

«Le Beuf, ma potete chiamarmi Armand madame, se vi fa più piacere.»

Questo ti hanno insegnato Armand? Ad essere gentile con una donna? E sei gentile con le avventure di una notte? Menti a te stesso Armand!

«Monsieur Armand, non è cauto agire subito. Troppi occhi nobili sono puntati sul nostro Angelo caduto, non credete? Non sarebbe poi politicamente corretto!» il vestito rosso ricamato con pizzi neri, con la seta italiana pregiata che scendeva sul crinoline, frusciava. Un rumore simile a quel crepitio che veniva dall’ormai fu Teatro dell’Opera. Il gendarme si mise sull’attenti, precedendo la sortita della dama da quell’appartamento. Galanteria a dettare eccessiva solerzia, oppure avidità come preferiva chiamarla la donna. Rimase vicina all’uomo, di fronte a lui per la precisione, osservando quegl’occhi vuoti, banali e comuni. «In tutta franchezza, Armand. Io odio la politica!» la battuta rimase sospesa, non capiva quella sua sentenza velenosa detta così, alla penombra di un corridoio misero ed appena illuminato. Un sorriso spontaneo poi nacque su quelle labbra accerchiate dai baffi che sembravano appartenere alla propria uniforme, come se per essere uno della gendarmeria bisognasse farsi crescere i peli del labbro. La risata irruppe piano con un limpido scrosciare.

È quella politica che vi da il pane Malice.

Si trovò a pensare. L’ultima formula di un semplice quadro, la pennellata di gran effetto su di un quadro en plain air. Morire con un gemito strozzato, occhi che roteano verso l’alto, la scena che non finisce. Cala il sipario, si spegne il fuoco, si alza l’urlo dell’odio di una donna verso il suo aguzzino.

Ci sono due modi di morire: il primo è quello spirituale, un cuore spezzato nel vagabondare alla ricerca dei sentimenti spenti, il secondo è quello fisico di un gendarme sciocco che si è lasciato allettare dalla sporca pecunia macchiata sempre più dal sangue. Ora era lei ad attendere la scesa al sempiterno riposo, un uomo sorpreso che non aveva molti scopi. Si accasciava come i capelli sciolti e liberi dallo chignon severo che aveva per la prima del Don Giovanni Trionfante.  Il sangue era saettato dalla carotide come uno zampillo, quando con uno scatto secco lo spillone che ne sorreggeva la studiata architettura era accidentalmente finito al centro del collo dell’uomo. Le aveva macchiato il viso e il decolté con quel suo metodo chirurgico di uccidere, quanti maiali avevano fatto la stessa fine e quante autopsie aveva assistito per conoscere i punti vitali.

«Colas!» sussurrò lasciando scivolare il suo fazzoletto candido dalla manica della giacchetta. «Potete uscire!»

Aveva assistito quell’uomo, suo accompagnatore all’evento mondano dal sapore spettrale. Un ruolo o una farsa, come quella appena avvenuta. Pedine che si muovono su di una scacchiera invisibile con la volontà di assorbirne un’altra.

«Ordini, immagino …»

«Ci è andata bene, l’incendio coprirà la morte di questo stupido gendarme!» una professionista, era una professionista che non si scomponeva di fronte alla morte. Anzi, ne sfidava le sorti,  per questo era definita perfetta nel suo lavoro di solito maschile. Ma quanti non si sentivano lusingati da una donna avvenente e libera? Quanti si fidavano del suo letto per poi ritrovarsi con segreti svelati e partite perse con uno scacco matto? Era questo l’uso delle forme del gentil sesso, delicato anche quando il crocifisso che portava al collo si macchiava di sangue, bagnandone poi le labbra in un bacio devoto. «Non possiamo lasciare tracce, contatterai tu i nostri superiori. Io devo capire e portare a termine il nostro compito, che questo inetto non è riuscito a semplificare.»

«Certo, Malice, come volete voi!» Colas, le era sempre piaciuto quel nome. Lo diceva che aveva un non so cosa. Era l’unico che poi non l’aveva definita sgualdrina o traditrice. È di questo che si trattava. Di tradimento alla corona. Quale corona? Quella sacrale che vigeva su di un capo e che inneggiava alla povertà, quando le sue mani erano inanellate da rubini e smeraldi? Uomini che giudicavano secondo il loro auspicio di bene e male? Abiti talari vuoti dei veri sacramenti di un libro scritto da altri uomini? Un sigillo con le chiavi del Paradiso che non concedeva il perdono ai peccatori troppo abbietti?

Forse esistevano mostri e diavoli molto meglio nascosti di quello che la bella gente parigina pensava di poter combattere.

«Ah, Malice!» le mani erano già pronte a prendere il molle cadavere gorgogliante, mentre una signora procedeva alla pulizia del sangue dal pallido volto dell’indifferenza. Ferma, guardando con un lago di oscurità il volto di quell’uomo indaffarato almeno quanto lei. «State attenta!»

«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un  sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»

«Ma quello non è un fantasma, è un uomo spietato!» rise di gusto, rischiando di attirare attenzione scemata dal rogo già diventato passato. Una risata argentina di bambina sul corpo di donna, eterna donna e bambola di porcellana.

«Ed io sono una semplice fanciulla indifesa!» ancora riso «È un uomo, impazzito sì, ma per amore, e come tutti gli uomini pazzi d’amore non pensa con il cervello! Mi dispiace ma non riesco ad apprezzare il suo tanto decantato genio artistico e musicale. Per me rimarrà sempre e solo un ordine. Prendo il pacco e lo consegno con la morte alle spalle … » erano le sue bianche spalle a parlare dalla fine di quel corridoio, lasciando il fazzoletto imbrattato dietro di esse inutilizzabile ormai e da gettare nelle fiamme.

Anche Lucifero era un Angelo. I capelli di seta e le labbra truccate, non vi fanno apparire meno innocente. Avete in comune molto di più con quell’uomo di quello che pensate Lucia.

Riprese allora il suo di lavoro Colas, con il cadavere ad avvolgerlo nel tappeto che era stato imbrattato. Alla macchia sottostante avrebbe pensato dopo. Prima doveva sbarazzarsi del povero gendarme.

«Pour la Sûreté monsieur

 

 

 

Forse temeva di non ricordare. Dovrebbe essere semplice: riempi e svuota, riempi e svuota, riempi e svuota. Così gli avevano insegnato a vivere l’istinto e la sopravvivenza, semplice e banale funzione. Riempi e svuota. Inspira ed espira.

Ricorda sempre di respirare Christine.

Christine.

L’ecatombe di un eco lontana, il suo nome passato sulle bocche di tutte le pettegole di Parigi ed ora già scomparso dalle altisonanti testate. Non era poi così semplice ricordarsi come fare. Riempire una sacca annodata non è facile. Gli importava veramente? E mangiare, era importante?

Quante notti insonni, quanti pasti non consumati, Erik nutrendoti solo della tua musica e del respiro di lei.

Era inspiegabile come non fossero riusciti a trovarlo, stava sotto quel ponte da quanto? Due giorni, forse.

La gendarmeria francese ha perso smalto, vero Erik? Se solo ne avesse avuto.

Il Fantasma non era più con lui, se non come un fastidioso e ridondante ronzio che provava qualche volta a tornare alla carica.

Odiala!

Gli aveva gridato, con le urla della gente che ghermivano le sue sinapsi e quell’orecchio innocente. Non era una melodia, non era musica, era solo il frutto germinato dalla follia di un pazzo.

Un pazzo non amato.

Da nessuno. Avrebbe aggiunto amaramente, aveva il suo alterego un minimo di pietà per non rivelare anche quella di verità.

La pietà non esisteva per il Figlio del Diavolo. O forse sì?

Ti ha tradito anche lei, Christine, Madame Giry, tua madre quando ti ha venduto. Quanto ancora deve spezzarsi il tuo cuore prima che tu te ne liberi.

L’hai amata ed hai sofferto, hai guardato nei suoi grandi occhi ed hai sofferto, ha ascoltato la sua voce e sei stato trascinato via.

Hai bruciato il tuo mondo per lei, non hai più un posto dove andare.

 «Basta! Taci, mostro!»

Mostro. Dov’era il confine fra mostro ed umano, il limite fittizio fra la fantasia geniale di un estro e la realtà brutale del mondo. Il mostro si trovava nel corpo, nella mente, nell’animo di quella creatura ributtante come si vedeva. Il dissenso di una vita macchiata dalla brutalità di un Dio che derideva uno dei suoi figli. Non dovevano forse essere tutti a sua immagine e somiglianza? Dolente disfatta, interno forte e crudele contro il cuore infranto come i vetri di uno specchio sotto i colpi di un candelabro. Bruciava come il suo teatro macabro scenario della sua sconfitta.

Don Juan, sconfitto.

«Amico hai qualche soldo?»

Teneva il capo chino tra le ginocchia, si difendeva il piccolo bambino dagli sputi e dagl’insulti. L’odore pestilenziale dei propri bisogni troppo impellenti per trattenerli fino alla sua ora d’aria, era quasi piacevole in confronto a quello intriso sulla pelle di quell’uomo. Sapeva di miseria, sapeva di stantio e sudore di giornate passate senza che il sapone conoscesse quelle putride membra violente. Vi era l’odore del marcio. Lo stesso del clochard che avanzava speranzoso la mano in cerca di qualche spicciolo per una bottiglia di vino. Gli occhi vitrei di un uomo distrutto si trasformarono in quelli attrattivi e magnetici del Fantasma.

Don Juan, trionfa.

Quel fisico forgiato dalle peripezie che un teatro può nascondere, dalle sartie di un vascello costruito per un palco, dai piccoli furti necessari per vivere poteva solo che incutere terrore. Ed era quello che gli occhi slavati del vagabondo percepivano, un Demonio risorto dagl’inferi pronto a rifarsi su di lui.

Il Diavolo chiuse il pugno che cigolò dopo ore inerti nella sua apatia d’amore, i sonori crack delle dita rendevano il concerto più allentate.

Un angolo era bastato un angolo della bocca sul quel lato deforme a sollevarsi in un ghigno mefistofelico, per far tremare quello strano soggetto dalle scarpe bucate e dal cappotto di lana logoro. Indietreggiava quando Erik avanzava con il suo passo felino da predatore, avvolto da quell’aurea funerea di morte. Il suo corpo esprimeva ogni lato del pericolo: ingegno, forza bruta con cui combattere e l’aspetto aitante di un uomo i cui muscoli tesi si tiravano sotto la pelle bianca. La piaga del suo lato destro sembravo lo scherno della natura contro il disegno divino, metà umano e metà demonio. La voce di un Angelo con cui mietere vittime. La maschera tragica e la maschera comica, il teatrino delle proprie emozioni. Ed era il suo lato destro a beffeggiare lo stesso meschino Dio che gli aveva procurato si tanto dono .

Sono io stesso la maschera. Io sono ancora con te.

«Non porto soldi con me vecchio!» l’altro non aveva parole, tutto era stato ingoiato assieme al groppo di saliva fermato in quel punto esatto fra le corde vocali e l’esofago. Quella pietra traditrice, poi, che lo fece capitombolare sulle magre ossa gracidanti della vecchiaia lo rendeva ancor più indifeso sulla riva della Senna che placida osservava l’opera del Figlio del Diavolo.

«Scusate monsieur pensavo che foste un …»

«Un miserabile, un scialbo vagabondo? Un fetido rifiuto della società come te?» il tuono incontrastato della sue vendetta sul mondo che chiedeva pietà a lui, quando per lui la misericordia era un mero miraggio. Era bastato così poco a far tacere quel poveraccio, svenuto sotto la tensione di un tono così gutturale da sembrar provenire dalle più neri profondità, lambito dal fuoco riarso della rivalsa.

Lo stesso fuoco della passione, Erik. Lo stesso fuoco del tuo teatro.

Prendi in mano il tuo destino e torna nel tuo regno, dove hai tutto quello che ti serve.

 

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Capitolo 2
*** CHAPITRE 1: Pardonnez moi. ***


CHAPITRE UNE: Pardonnez moi.

 

Vedeva il suo sangue freddo vacillare per una volta. Era stata anche lei una marionetta di quel bambino nel paese dei balocchi, l’aveva sfruttata come tramite per il mondo esterno. Scambi epistolari, versamenti bancari delle sue piccole fortune, comprare i beni primari di una sopravvivenza al limite delle belle fiabe orientali.

Ma la colpa batteva i suoi rintocchi sulla coscienza.

Le stava negando di entrare.

Il bambino spaventato che faceva quegli stupidi scherzi agli inservienti, via via sempre più crudi e articolati, per poi ascoltare estasiato le prove dell’orchestra non vi era più. Vi era un uomo. Capace di uccidere. E di fare del male alla sua bambina. Christine.

Cosa ho fatto?

Non sarebbe bastata la mano a pulire la sua faccia, né l’acqua a scrostare la fuliggine del teatro caduto in rovina a causa della sua distaccata comprensione. Lei aveva alimentato un’ossessione deleteria per entrambi, non aveva fermato Erik. Sarebbe stato possibile?

Vuole solo aiutarla a sviluppare il suo talento.

Cieca convinzione che si ripeteva ogni notte, per poter convivere con la consapevolezza della morbosità di una povera creatura di Dio relegata nella più completa solitudine.

«Maman?» la mano di Marguerite si era stretta attorno a quella dell’integerrima Madame Giry, composta e fredda perfino nella commiserazione delle sue colpe. «È molto tardi, io devo andare a dormire!» Fuori dalla finestra il manto oscuro di una notte ancora senza stelle aveva espanso la sua macchia. Quella coperta grigia che nascondeva ogni singolo astro aveva ancora il sentore della cenere e della vernice bruciata dei baldacchini, l’odore acre della carne di coloro che non avevano trovato il giusto appiglio per riemergere dall’oceano di fiamme e dolore. Le sarebbe bastato così poco, solo allungare le braccia ed avvolgerle intorno le spalle della figlia, ma non ebbe il coraggio. Un Angelo biondo, dalle ali di tulle e con le punte ai piedi.

Ricordava quando una bimba la canzonava scimmiottando piroette e jeté, spiccando balzi, ruotando su sé stessa con estenuante determinazione e chiedendo al padre, che dopo poco non ci sarebbe più stato, di farle da porter.

Le prendeva le piccole manine candide e lei, su di una gamba, pretendeva di farla girare. Quante volte l’aveva sgridato di non saperlo fare bene, con quel cipiglio delizioso di una perfetta professionista della danza in miniatura. Madame Giry rimaneva ferma in un angolo, non gustando la scena se non di striscio, senza mostrare alcun sentimento, sistemando le scarpine delle ballerine dell’Opera, l'unico ruolo che le era rimasto da fare quello che le era rimasto. Non interpretrava Giselle e la sua pazzia, non un'Odette che moriva per amore e la sua Shylfide aveva definitivamente perso le sue piccole ali trasparenti per un lavoro da aiuto sarta.

Poteva fare solo questo, sapeva cosa comportava un matrimonio nella sua promettente carriera.

Antoinette, devi scegliere. O la danza, o l’amore!

Una giovane donna sposata non potrà mai fare la ballerina.

Una giovane donna sposata ed incinta non potrà mai fare la ballerina.

Una giovane donna vedova e con una figlia, però, può diventare una coreografa.

Lo aveva ripetuto spesso alle sue allieve, omettendo l’ultima parte per non creare illusioni su quella che era stata solo sfacciata fortuna. Potevano fare tutto quello che volevano: trovarsi ricchi ammiratori, amanti e compagnie. Ma mai dovevano amare qualcuno. Le ballerine dell’Opera devono essere perfette, tutte uguali. Devono muoversi con grazia perfino quando la mattina scendono dal letto, non possono amare e volere una famiglia perché essa sforma il corpo e la mente. L'unico modo in cui il loro corpo poteva cambiare era trasformandolo con forme innaturali: la schiena doveva flettersi come un debole giunco, le sue gambe cercare di sollevarsi sempre più su raggiungendo angolazioni improbabili, i suoi piedi arcuarsi sul gesso che le feriva le dita fino a sanguinare e sul volto non vi doveva essere il dolore e lo sforzo, ma la grazia di muscoli affusolati sulle sue giunture morbide.

Il suo di corpo invece aveva iniziato a cambiare non per raggiungere la perfezione del movimento. Era un rigonfiamento del ventre, assolutamente previsto da Madre Natura, che cresceva assieme alla sua vita all’interno. La piccola Marguerite. Amata al di sopra di ogni altra cosa.

Voglio tenere il bambino e voglio sposarmi!

E se fosse nata con un’imperfezione, una piaga a deturpare la sua bellezza aggraziata, l’avrebbe amata allo stesso modo incondizionato? Avrebbe avuto il rimorso di aver rinunciato alla danza per lei?

Sì, l’avrei amata. Come ho potuto tradirti Erik? Una madre non si comporta così ed io sono stata la figura più vicina ad una madre che tu abbia mai avuto …

Il ricordo di un Erik bambino che le chiedeva di aggiustare il bottone della giacca, così timido ed impacciato anche nelle piccole quotidianità, sovveniva ad ogni ago intriso di afflizione che le si stava piantando nel petto. Gli aveva portato un po’ di pane bianco e del formaggio avvolti nel suo fazzoletto ricamato, nascosti durante la mensa al collegio. Come tutti i giorni li avrebbe lasciati nella Cappella del teatro, un metodo assodato con cui lo riforniva anche di vestiario e altri oggetti che potevano tornargli utili. Quella sera invece l’attese nell’ombra. Antoniette sobbalzò dalla paura, sussultò, ma rimase muta e fredda lasciandogli il tempo di spiegare che non possedeva attrezzi per il cucito e non sapeva come riattaccare il bottone.

Cosa sei diventato ora Erik? Cosa ho sbagliato con te?

«Allora buonanotte Maman!» Meg non avrebbe ottenuto ciò che con la sua muta richiesta stava implorando, forse per una volta dopo le ore terribili passate all’Opera pochi giorni prima, le serviva la madre piuttosto che la coreografa del suo corpo di ballo.  Aveva sperato che il suo muro freddo di austerità crollasse, lasciando trapelare anche solo una delle sue emozioni, anche solo con un piccolo abbraccio. Rimaneva inerme, senza muoversi,  assaggiando mestamente la cena e contemplando il fuoco del camino prima di coricarsi. Poteva nasconderlo a tutti, ingannare persino sé stessa ma non lei, non sua figlia. Le piangeva il cuore, anzi, le sanguinava come Dio solo avrebbe potuto sapere.

Non si stava dando pace. Come poteva dopo che Madame Giry aveva perso due dei suoi figli: Christine ed Erik.

«Buonanotte Marguerite!»avrebbero continuato la loro vita, come dopo la morte di suo padre, facendo finta che tutto fosse solo un sogno, ignorando il passato e come gli eventi fossero mutati. Fece per allontanarsi, ma con sorpresa sentì la voce di sua madre. «Marguerite!»

«Sì, Maman?»

«Domani andrò a trovare tuo padre al cimitero, probabilmente non mi troverai al tuo rientro …» quello spiraglio di speranza era stato richiuso brutalmente dallo sguardo triste e cerchiato dalla stanchezza delle sue notti insonni che le rivolse.

«Quindi nemmeno domani verrete a farci lezione?» lo sforzo di andare avanti una delle due lo stava facendo almeno.

Le ballerine non possono fermarsi, i muscoli non devono perdere allenamento, i piedi devono continuare a sopportare il dolore ed assuefarsi. Chiunque avrebbe fatto carte false per accogliere le Ballerine di Palais Garnier: uno dei nobili  presente in quella notte rischiarata dall’inferno aveva prestato una delle sale della sua villa per permettere loro di continuare a studiare finché non trovassero un’altra compagnia.

«No, madame Blanchard mi ha accordato la sostituzione per ancora due giorni.» Rispose asciutta. «Ora va a dormire … »

«Di nuovo buonanotte…»

Non le faceva bene continuare a guardare il fuoco continuando a ricordare, una punizione che si stava infliggendo da due sere mentre il tempo imparava a scorrere sempre più lentamente. Che strana cosa il tempo: assume diverse forme e colori, passando da un allegretto ad un moderato con la stessa facilità che aveva Erik nel comporre la sua musica.

Forse non esiste una punizione abbastanza dura per me …

Dal piano superiore il debole clangore della porta di Meg non le sovvenne, troppo occupata ad ascoltare il tarlo che le rosicchiava l’animo, e non sentì nemmeno il rumore morbido di qualcosa che venne scaraventato contro il muro. Nemmeno il giuramento di odio eterno proferito all’oscurità della notte.

Meg era arrabbiata. Furiosa.

Contro lei.

La maschera trovata nei sotterranei e custodita nel suo scrittoio d’avorio. Celata agl’occhi struggenti di una madre sofferente.

«Maledetto, ti sei preso la mia migliore amica ed ora mia madre!» era il bisbiglio della giovane ballerina tra le lacrime. «Ti odio, che Dio ti maledica!»

La maschera immobile che giaceva a terra come un ultimo baluardo del suo temibile portatore, l’osservava sbieca. E pensare a quanto terrore incuteva anche il solo pensiero di quel cuoio bianco a celare nient’altro che un uomo folle, il cui solo scopo era far di sé e della sua musa una leggenda nella leggenda.

Forse la sua vera deformità risiedeva nella maschera, che prolungava un desiderio malsano di normalità.

«Non mi fai più così paura, sai?»

I denti delle ballerine non tremano più al solo immaginarti. Non sei nient’altro che una maschera.

Tra le mille gocce di sale che le rigavano le guance, finalmente, nacque un timido sorriso di fiele.

Aveva il sapore amaro di una rivincita, l’agre vittoria della guerra calpestando il cadavere di un’idea terrificante.

Non lasciarmi sola, Christine, ho paura.

Le diceva sempre così quando ancora bambine osavano allontanarsi dal gruppo di allieve per visitare il Teatro. La sua amica non le diceva nulla, nessuna parola di conforto o per neutralizzare quelle sue puerili angosce. Le sorrideva sicura. Anche se Meg non ne era a conoscenza, Christine sapeva che c’era il suo Angelo della Musica a proteggerle.

O a ghermirla tra le sue spire.

Non siamo più quelle bambine Christine.

L’ultimo pensiero rimase nella sua testa, una cantilena strusciata e dolorosa che la condusse al sonno prima ancora di potersene accorgere.

La candela si andava sempre più consumando, cercando con tutta sé stessa di lottare contro il filo delle Parche. La fiamma traballava e si scuoteva ad ogni spiffero, fin quando uno più pesante la costrinse a capitolare.

Si spense.

Il silenzio di un cuore infranto che non batte più.

Hai ragione ad odiarmi, madamoiselle Giry.

«Mi dispiace deluderti petite Giry, Dio mi ha già maledetto!» un sussurro che non voleva disturbare l’orecchio stanco di quella fanciulla. Solo il dorso delle dita a saggiare il piastriccio di lacrime e polvere, un movimento delicato e freddo che fecero mugolare la ragazza come se l’infastidisse la stessa aria che aveva spento la candela. Il visino soffice contratto in una smorfia, bella come la madre sua Salvatrice e sua Sentenza di Condanna. Aveva fatto del male anche a loro, forse fra i colpevoli le più innocenti.

Ricorda, Erik, perché sei venuto.

Madamoiselle Giry dormiva nel suo letto ancora vestita.

Il Fantasma vagava indisturbato nella casa, sollevando da terra la sua pelle.

L’arto mancato del mutilato di guerra.

La maschera era finalmente tornata da lui.

I lineamenti modellati sul volto a riflettere l’immagine perfetta della sua simmetrica sinistra, si adagiarono sulla sua pelle tumefatta. Gli occhi potevano beneficiare di quella visione filtrata della realtà, tutto stava tornando sotto il controllo del Fantasma dell’Opera. L’uomo distrutto per amore doveva sgretolarsi sotto l’imponenza dell’entità che lo specchio stava raffigurando.

Il buio non mi fa più così paura.

L’oscurità non poteva nulla contro due occhi cangianti come quelli di un gatto, a cui occorreva molto meno di un pallido spicchio di luna calante per muoversi fluidi come di giorno. Ora gli occorreva solo qualche abito pulito, qualche piccolo ricordo di Erik che la buona Madame Giry aveva conservato. Si sbagliava.

Madame non era riuscita a salvare quasi nulla alla collera della gente, solo un mantello ed una giacca nera.

S’intona con la tua anima.

Girovagò ancora a lungo fra quelle mura, cercando come un ladro altro che gli appartenesse, quando ad un tratto si trovò faccia a faccia con una porta chiusa. Non esistevano porte chiuse per gli spettri, sapevano muoversi attraverso la materia spostandosi come figure evanescenti di un passato finito.

Eppure quando le sue dita provarono a penetrare nel legno quello che sentì fu la sua rigida resistenza ed il cigolio dei cardini.

Sono ancora un uomo quindi.

L’ironia funerea della Sorte lo portò a beffeggiarsi della sua sciocca intuizione. Non era la maschera a fare di lui il Fantasma, ma la gente che lo guardava in trasparenza. Una bottiglia di vetro vuota. O piena?

«Erik …» chi era a pronunciare nel silenzio irreale della notte? Proveniva da quella stanza socchiusa, da cui gli ultimi scoppiettii di una brace morente facevano da padroni.

La curiosità uccide il gatto!

Doveva darsi ragione e fidarsi per una volta della sua vacillante mente. Arretrò di un passo per dirigersi verso la porta, per una volta voleva fare il galantuomo ed evitare finestre e balconi. Il tallone si posò sul pavimento e con risoluta lentezza gli fece da perno per andarsene dall’ennesimo tradimento. Non aveva previsto una confessione più dolorosa di una stilettata nel petto.

«Erik … perdonami …» ogni suo muscolo si paralizzò, le spalle rigide come il profilo di una montagna erosa dal tempo, le braccia molli lungo i fianchi terminando con due pugni impalliditi dal troppo stringersi. Una furia cieca passò nella sua mente, pronto con la sua velenosa ironia a controbattere a quella preghiera.

Come si permetteva di chiedergli perdono? Poteva valere la parola di una persona proclamata tua amica che indica alla santa inquisizione la tana della strega?

Fu come una scossa, partì dalla bocca dello stomaco e s’irradiò fino al viso. Un tremore in cui era condensato tutto il suo furore di mostro. Si era ripromesso di apparire in quella casa come uno spettro e sparire in maniera altrettanto evanescente, non voleva cedere all’insano desiderio di vendetta contro Madame Giry.

La concessione era quella, la sua misericordia si sarebbe limitata ad un lasciarla stare.

Non possedeva più un cuore in grado di perdonare.

S’inoltrò a grandi falcate verso la porta, spalancandola incurante di farsi sentire. Voleva il perdono? Avrebbe ottenuto soltanto la paura.

Era questo Erik per gli altri, paura.

E per lei sarebbe stato l’ultimo ricordo di lui, per chi non l’aveva mai considerato un mostro lo sarebbe diventato.

Non l’aveva sentito. Madame Giry rimaneva immobile sulla sua poltrona di spalle alla porta, senza nemmeno voltarsi e degnarlo di un maledetto sguardo.

Sei più inesistente di quel che credi, Erik.

 Un passo, due passi ed una mano che mollemente cadeva da un lato come inanimata, cerea ed immobile più del dovuto.

Il Fantasma si trasformò in una statua di sale, inchiodando i suoi  piedi sul legno ricoperto di un elegante tappeto.

Possibile che tu l’abbia uccisa senza muovere un dito?

Non Madame Giry.

Voleva spaventarla ed invece fu lui ad essere terrorizzato.

Sentiva il suo cuore pulsare in ogni anfratto con indicibile violenza, le tempie gli parvero scoppiare, il respiro gli si mozzò in gola. Era un ingrato, l’aveva tradito eppure non voleva che ponesse fine alla sua esistenza per il rimorso.

Lui era solo un mostro, non meritava tanto.

« … Erik …» la sua voce impastata dal sonno lo fece riprendere da quelle sue sconclusionate conclusioni: sta solo dormendo. Raggiunse quella mano accarezzando il braccio dal gomito fino alle dita che cedevano alla forza di gravità creando una conca perfetta. Il pollice e il medio che si cercavano come due amanti desiderosi.

Non irrigidire il polso, ogni fibra del tuo corpo deve essere contratta ma morbida. Devi tenere le mani in questo modo, Marguerite, le dita naturali, rilassate. Devono essere il prolungamento del tuo braccio ed andare oltre la sua linea spingendo l’occhio a guardare lontano.

Era stata una delle prime lezioni di Meg, la posizione delle mani e delle braccia. Come se stessi tenendo un grande mazzo di fiori. E lui era presente anche in quella occasione, in quel frangente intimo di madre e figlia che avrebbe dovuto lasciare solo ed esclusivamente a loro.

Non smettete mai, Madame?

Gliela prese delicatamente sentendo il gelo sulla sua pelle e la condusse insieme all’altra sul suo grembo. Ogni proposito di ira funesta e terrore, era volato via, spento nello stesso tormento che aveva visto nel viso contratto in un sonno scomodo su di una poltroncina del salotto. Non riusciva nemmeno a spostarsi dall’unica mano amica che aveva conosciuto, dolce quando aveva accarezzato il demone della sua faccia. Non aveva mai provato ribrezzo per lui.

Ti ho già fatto male abbastanza, sarà la tua coscienza a non darti pace. Il mio ricordo.

Almeno qualcuno si ricorderà di te, Erik.

Le labbra della donna si contrassero in una smorfia dolorosa, le palpebre presero a stringersi più forti lasciando che una lacrima vincesse sulle sue gote pallide e segnate dalla stanchezza. Un gemito poi le proruppe angosciato, mentre la mano di Erik si ritirava ustionato da quel contatto umano. 

«Erik … perdonami …»

«Io ti perdono … ma tu riuscirai a perdonarti?» aveva risposto senza nemmeno pensare. Doveva lasciare quel luogo immediatamente, non voleva che la compassione lo facesse desistere ancora.

Devi riprendere il tuo regno, non indugiare in altri sciocchi sentimentalismi Erik.

Ma prima un’ultima gentilezza.

Il fuoco del camino si stava spegnendo, la stanza diventava sempre più fredda.

Solo un’ultima premura e poi sarebbe sparito per sempre.

Avrebbe ravvivato la fiamma e se ne sarebbe andato, tutto nel più assoluto silenzio.

Fine dell’indulgenza.

Prese l’attizzatoio con tutte le intenzioni di far presto, ma una macchia gialla attirò il suo sguardo proprio sopra la mensola del focolare. Un foglio, no una busta con il suo nome vergato di nero. La prese e la rigirò tra le mani studiandola in tutto il suo mistero.

Mi attendevi dunque, Madame?

D’un tratto poi la donna si agitò nella sua poltrona, scuotendo le spalle rabbrividite dal freddo crescente. La sua bocca riprese astringersi come il preambolo ad una sinfonia composta nella testa del suo compositore. Avvertiva la sua presenza, era come se sapesse che in quella notte fredda e grigia avrebbe potuto scusarsi.

Aprì gli occhi cercando nell’oscurità il fruscio velato del suo mantello, ma l’unica cosa che avvertì fu un rumore sordo di metallo contro stoffa.

L’attizzatoio giaceva in terra accanto al camino, la lettera era scomparsa e la porta fluttuava come un drappo di velluto toccato da poco.

Sapevo che prima o poi saresti venuto.

Anche a Madame Giry era quindi stato concesso un sorriso quella notte.

 

Note dell'autrice: Buonaseeeera ... A gran sorpresa il primo capitolo ... Ovvio che dovevo far passare Erik da Madame Giry, anche se si è mosso durante la notte e mentre dormivano. Siamo a due giorni dall'incendio, Spero di aver reso le due Giry nel migliore dei modi, personalmente le ho ritenute due grandi nel film. Mi piasevano tanto e ho dedicato loro il capitolo, anche perchè non credo ci saranno nuovamente. Non metto la mano sul fuoco comunque, la mia mente certe volte vaga da sola incontrollata chissà cosa può far cicciare fuori ... ^^

Volevo ringraziare GiulyRedRose per aver messo la storia tra le preferite e averla commentata nel prologo (autrice che tra l'altro apprezzo quindi sono molto più che onorata). Allura allura ... rispondendo alle tue curiosità posso dirti che non ci sei andata molto lontano, ma non è esattamente una "prostituta - assassina" (tranquilla avevo capito in che senso intendevi con il termine prostituta ^^). E poi lasciami dire che la tua considerazione su Erik, cupo e terribile (si a me piace la sua parte più oscura, ma anche quella capace di amare e - piccola anticipazioncina - in questo si scontrerà con qualcuno ghghgh!!!^^), mi ha fatto saltellare felice di qua e di là come una scema con le manine tutte euforiche. Il particolare del vestito era solo per far capire che era elegante perchè si trovava a teatro a guardare il Don Juan, comunque del perchè vogliano Erik si saprà nel prossimo capitolo ghghgh!!! Ah e Christine sono incerta, dipende se farà la brava. Di sicuro la famiglia del caro Roul centrerà, eccome se centrerà muahahah.

Approfitto di questo per dire che ci sarà il fratello di Roul, Philippe de Chagny. In realtà nel romanzo di Leroux muore, ma tanto nel film del 2004 manco lo fanno vedere (io non lo ricordo) quindi io, riferendomi a quello (anche se la caretterizzazione cercherò di mantenere quella del romanzo, ho letto un trattato interessante su di lui), ce lo metto vivo e vegeto. Licenza poetica, muhahahah! 

Non puoi capire poi quanto mi sono schiattata dal ridere alla scenetta Erik/Malice: li ho immaginati tipo Mignolo col Prof che canticchiano la sigla del cartone. Buhahahah!!! Andiamo alla conquista del mondo, Sììììììì! Grande!^^ Bhè spero che commenterai anche questo di capitolo anche se è un po' d'intramezzo ed ancora il vivo della storia non è arrivato. Comunque non temere già dal prossimo vi saranno spiegazioni ... qualcuna ... Me malefica!!!Besitos nina! E grazie ancora!!!^^

Ringrazio tutti coloro che comunque sono passati di qui!!!Mi onorate anche con la vostra presenza nel counter delle visite!!!Azzie a todos!!!

Un bacione la vostra pseudo scrittrice pazza.Mally

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Capitolo 3
*** CHAPITRE 2: Chez moi. ***


 

CHAPITRE DEUX: Chez moi.

 

Palais Garnier si affacciava sull’avenue de l'Opéra a cui donava il nome e tutto sé stesso: la facciata dalle curve voluttuose e sfarzose si snodava tra elaborate statue posticce sistemate nelle nicchie. Le alte e slanciate colonne ioniche a sorreggere il peso del fregio decorato e del timpano dalle linee capricciose rievocando le glorie dei grandi templi del passato, in una rivisitazione ricca di quegl’elementi che lasciavano scorrere più e più epoche. Festoni e putti alati scolpiti nei floridi alto rilievi, condivano l’arte che si venerava al suo interno, cavalli rampanti descrivevano la prestanza scenica di quel gioiello barocco, Angeli dal volto di pietra la mancanza della pietà che in quel piccolo mondo in miniatura vi era.

Qualcosa deturpava la vista di fronte a quel gigante ferito: una grossa macchia di fumo nera che ne sfregiava il lato destro assieme ai segni di un’ustione violenta. Distrutta da chi più la venerava, rendendola simile al suo Re.

Volevi forse giocare a fare Dio, Erik? Volevi dimostrare che ciò crei puoi distruggerlo?

Sapere di essere stato la causa di quelle rovine un tempo splendenti gli acuiva la nausea nei confronti di sé stesso. La cenere dell'Opera era l'unica impronta che aveva lasciato di sé, con una scia di morte e paura infinita con cui spaventare qualche donzella di fronte ad una storia di fantasmi.

Hai ferito le tue creature per nulla Erik. Il tuo teatro. Christine…

No, era stato il mondo a portarlo all’isolamento, all’emarginazione. Il mondo l’aveva reso pazzo, spaventato dalla gente e costretto a spintonare. Il mondo lo aveva trasformato nel Fantasma dell’Opera.

Ed ora il Fantasma sarebbe tornato, riprendendo almeno ciò che gli spettava di diritto.

Passò per gli anfratti, le vie ed i corridoi che circondavano l’Opera e la studiò da ogni angolazione.

Il passaggio che aveva usato per scappare, quel cunicolo dove la sua altezza non poteva erigersi in tutta la sua maestosa eleganza era totalmente deserto.

Non così facile.

Possibile che non lo aspettassero? Che lo credessero morto?

Sembrava gli avessero spianato la strada, sistemando un bel tappeto rosso di velluto sotto i suoi piedi per poter tornare in quello che era ancora il suo regno.

Troppo semplice.

Non hanno mai brillato in lungimiranza Erik, dovresti averlo imparato ormai.

Vero. Ma questo non riduceva il senso di perplessità che quella situazione gridava.

Diventava un’onta alla sua intelligenza: due misere guardie all’entrata del teatro e qualche altra a circondare il palazzo nel perimetro esterno. Offendevano quello che era il suo genio. Possibile che una volta distrutto il regno, il Re non incutesse il giusto rispetto, o il giusto terrore in quelle menti bacate. Incredibile come questi due aspetti vivessero palmo a palmo, divisi dal sottile filo della devozione: rispetto, terrore erano così vicini che talvolta coincidevano. Il Fantasma chiedeva forse troppo nel non essere insultato dalla desolazione e l’abbandono in cui avevano lasciato il suo teatro?

Lo vedevano come Sansone a cui, una volta reciso fin alla radice la sua forza, non avrebbe più potuto combattere come un tempo?

Pensa solo a tornare a casa, Erik. Al resto ti dedicherai dopo.

Per tutta una vita l'avevano sottovalutato e per una volta, volle lasciare tutto all'improvvisazione.

Niente di studiato per percorrere nuovamente la strada di casa.

Incredibile come un uomo, in uno spazio angusto e appena areato, si senta realmente in grado di respirare. Era stato separato da quel luogo soltanto due miseri giorni, eppure la nostalgia che provava era pari a quella di mesi di lontananza. Guardava attorno a sé con gli occhi lucenti di un bambino, consapevole delle sue colpe mentre accarezzava le pareti di pietra con religiosa devozione ricordandone ogni minima scanalatura ed imperfezione, chiedendo scusa a quella che era stata la sua casa per tutta una vita.

Erik avrebbe potuto girare il mondo, cercare un altro posto come il Teatro dell’Opera dove vivere nel ricordo struggente di un amore non corrisposto, ma niente sarebbe stato come Palais Garnier.  Non c’è nessun posto al mondo come casa propria.

Non dovevo fare questo proprio a chi mi ha protetto nel suo caldo abbraccio, l’unico che si è mostrato leale sacrificando la sua stessa vita per coprire la mia fuga. Perdonami, mio mondo.

Ora, nel ventre devastato del suo dominio, divenne dimentico di tutto quello che aveva passato, della possibilità che vi fosse qualcuno pronto ad arrestarlo per i suoi misfatti. Superò la sua prigione dorata percorrendo il dedalo di impalcature, ponti e soppalchi, non diede nemmeno uno sguardo alla camera dei supplizi che aveva progettato con tanto ingegno, venendo letteralmente risucchiato verso il cuore pulsante della struttura, il centro nevralgico dell’arte che aveva avuto luogo fino a due giorni prima. Quasi in uno stato di incoscienza s’arrampicò su scale e corde accidentate, con il rischio che l’incendio l’avesse logorate facendole cedere al suo peso. Passò attraverso botole e segreti custoditi da lui stesso, per alimentare quel senso di irrequietezza che la sua onnisciente presenza creava sbucando dai posti più impensabili.

Come quella sera durante “Il muto”.

L’inizio del suo declino.

Sei entrato in scena da questo balconcino Erik, ti sei esposto eroso dalla tua brama di vedere il tuo genio nel trionfo della tua allieva. Non volevi più sentirti invisibile Erik. Sei arrivato persino a rendere muta una soprano gallina …

Uscendo da quella stessa porticina che dava sulla balaustra, circumnavigante per intero la circonferenza della cupola affrescata da cui centro scendeva in una pioggia di cristalli baluginanti l’incredibile lampadario.

Ora in quella platea non vi erano sfarzose ricche donne imbellettate da ciprie odorose e da astruse acconciature, o i loro accompagnatori che le mostravano come trofei. Tra i palchetti non vi erano binocoli intenti ad osservare più da vicino ballerini e cantanti talentuosi.

Il cimitero dei macabri scheletri delle sedute si stendeva come poveri ed unici superstiti, le suntuose sculture barocche cadute in terra fra di essi in un trionfo di teste bendate e corpi mutilati, tende bruciate e cadenti lasciavano i loro stralci di sporco velluto come sudari di cadaveri antichi. Gli affreschi del soffitto, che un tempo ritraevano un cielo dalle cui nuvole bianche uscivano piccoli angeli dalle ali dorate e con sguardi birichini, erano coperti da una volta oscura ed impenetrabile deformando le espressioni beate in grida di dolore, il sole non vi sarebbe più sorto. Infine, con la sua mastodontica mole, la grande carcassa del lampadario addossata contro la fossa dell’orchestra schiacciando le prime file sembrava un tetro effetto scenico calato alla fine di un opera distruttiva.

L’odore caldo del fuoco, quel misto tossico di vernice, legno e morte, raschiava la gola a monito di chi avesse osato anche solo avvicinarsi alla più cruda ferita inferta. Lasciava senza fiato, senza la speranza che un giorno quel rigolo di sangue si potesse sanare.

Il Figlio del Diavolo ha creato il suo inferno.

Il Fantasma si sentì mancare, le gambe indebolite lo costrinsero ad appoggiarsi alla balaustra fatiscente intorpidito dalla visione di tale spreco o forse per aver inalato ogni sorta di veleno non ancora spurgato. I fumi, poi, sembravano condensarsi invece che diradarsi e contribuivano al forte senso di stordimento che avvertiva nella sua testa oscillante, come dopo un uso sconsiderato di oppio.

Tra le ombre della sua testa iniziarono a danzare i demoni, muovendosi su quel palco mangiato dal fuoco. Erano ballerine in maschera che si muovevano flessuose insieme alle correnti. I loro abiti, dai colori scarlatti e fumosi, si aprivano in ampie ruote di tulle e pizzo sopra le gambe bianche e le scarpette rosse. Intorno ad essi i resti delle scenografie, il ponte che sovrastava pericolante le assi del palco iniziarono ad animarsi come quella notte. I lembi di stoffa serpeggiavano come lingue di fuoco simboleggiando le fiamme della brama carnale, maestra d’amore puro e completo, sensuali e sinuose come le curve del deserto orientale, o come le colline del corpo ardente di una donna.

Tentò di scacciare via quella visione, mentre la musica creativa e geniale del Don Juan incalzava sempre più prepotente. Riecheggiava nel volto smagrito dell’Opera con i suoi accenti potenti e quei ritmi decisi, che trasudavano l’amore e la passione provata per la sua musa ispiratrice.

I ricordi l’assalirono prendendo al collo, strangolandolo. Ed ecco Christine, con la sua bocca capace di dare brividi, la sua voce angelica, il suo sguardo ammaliante che ostentava innocenza e purezza, il profumo della sua pelle d’alabastro, i fluenti ricci che le scendevano come una cascata sulle spalle candide, avvolta nell’abito che lui stesso aveva disegnato per la propria Aminta. Le labbra gli bruciarono ancora, sentì quei delicati petali rosei muoversi sulle sue in quel bacio forzato dal suo ricatto. C’era ancora deposto il suo sapore d’ambrosia divino.

Un bel gioco di Dio quello di donare anche solo per un istante fugace, illusorio, ciò che più anelava. 

Eri venuto per tormentare come un fantasma ed ora sono i fantasmi che tormentano te.

La forza crescente del suo Don Giovanni terminò in un solo battito di ciglia.

La musica, i ballerini, Aminta.

Tutto scomparve.

Tutto scomparve sotto la minaccia di un qualcosa di appuntito contro la sua schiena.

Come era stato stupido. Tutto quell’amore, la commiserazione, ne avevano evidentemente indebolito l’astuzia rendendolo più stolto del damerino nobile che si era preso la sua Christine. Sarebbe stato proprio tipico di Roul de Chagny buttarsi di testa in una trappola. Questo era il vero insulto alla sua intelligenza, l’essersi paragonato a quel pesce senza spina dorsale e con la passione di un blocco di marmo.

Stai diventando anche tu un cavaliere ingessato, Erik?

«Non vi facevo uomo da cliché, monsieur le Fantôme!Il vostro proverbiale genio è evidentemente sopravvalutato, siete stato così sciocco da tornare sul luogo del delitto che, quasi, stento a crederci.» quello che udì lo lasciò di stucco. Tutto si aspettava fuorché una voce femminile, bassa e roca, impostata come se stesse recitando una grande commedia. «Voltatevi!» la potenza con cui si pronunciò ricordava molto degl’ordini del fantasma. Riconosceva bene le persone che detestavano i no, lui stesso odiava che non venissero rispettate le sue garbate indicazioni.

Ubbidì, calcolando ogni suo singolo movimento. Placido come un mare che attende le nuvole all’orizzonte, ruotò su sé stesso. Il lembo del mantello scivolò di lato lasciando intravedere i suoi abiti di scena, quelli che la sera del Don Juan portava con un’eleganza da far tremare le mani. La donna non parve intimidita dall’evidente differenza con quell’uomo che la superava almeno di una spanna in altezza e con le spalle larghe. La sovrastava con tutta la sua prestanza, minaccioso con i suoi occhi terribili e bellissimi a fendere il buio e quel mezzo viso vestito di bianco a disegnare la sua parte mancante. Lei invece aveva solo fatto un passo indietro continuando a puntare il pugnale contro il Fantasma, con la testa inclinata da un lato persa in uno studio approfondito della leggenda che aveva alimentato in tutti quegl'anni.

Troppo spavalda.

Già troppo spavalda e sicura solo perché tra le mani teneva un'arma dalla forgia orientale, di un paese lontano e alla moda a cui lei non sembrava appartenere. E poi quello strano abbigliamento che sulla sua fisionomia graziosa sembrava uno spauracchio, forse per destabilizzarlo, chissà.

Pantaloni su di una donna, una bella donna, dovrebbero lasciare allibiti –almeno chi non è vissuto in un teatro in mezzo alle più assurde bizzarrie – spiazzati da quella che sembra una persona incurante della legge.

Ognuno ha le sue maschere, io sul viso e voi sulle gambe.

Per una volta la fortuna sembrava girare dalla sua, un ottimo inizio della sua nuova vita come fantasma.

Alle spalle amore e misericordia.

Ora poteva tornare a spaventare come un tempo.

Ma non si doveva lasciare ingannare, quella donna era strisciata alle sue spalle e lo teneva apparentemente sotto scacco.

Apparentemente.

«Forse siete voi la sciocca Madame, state minacciando il Fantasma dell’Opera nella sua casa!» era incredibile come cambiasse la sua voce, seguendo l’impulso di plasmarsi sul ruolo del momento. Non possedeva alcuna traccia della disperazione che ancora si trascinava dietro come una zavorra, vi era solo quel tono ipnotico che toccava il tuo animo fino ad eroderlo dall’interno, consumando con poche parole ogni certezza.

Sensuale e trascinante come quello del demonio che vuole portarti verso il peccato.

Gli occhi di quella giovane infatti vacillarono un momento dalla sua posizione di impavida fanciulla di ferro.

Il suono di quella voce poteva farti raggiungere le più alte vette del Paradiso, oppure scaraventarti giù nelle più oscure fornaci degl’Inferi.

In quell’infinitesimale porzione di tempo, appena intravisti nel buio, i suoi occhi si sbarrarono confusi.

Per quel poco Erik vide il timido agnellino spaventato. Un poco che durò ancor meno quando tornò ad essere il lupo dal passo d’argento, che avanzava poggiando di nuovo la punta del suo pugnale al centro dello stomaco, con il mento alto e la giusta fierezza a passarle nel cuore.

«Oh! Davvero? Che paura!Che dite dovrei scappare urlando, oppure mi metto in quell’angolo a tremare? Non è da tutti i giorni incontrare un Fantasma.»

«Come … vi permettete?»Malice gongolava perché la sua strafottenza aveva sortito il giusto effetto voluto. Cercava di neutralizzarlo in quella battaglia mentale che avevano intrapreso, non doveva dimostrare che avesse alcun potere sulla propria volontà.

E lui sembrava infuriato, da quella sfacciataggine ostentata con orgoglio. La stessa che induceva suo padre a segnarle la schiena con il frustino. Bell’ipocrita.

Eccome se era infuriato. Lo vedeva tremare scosso dall’ira incontrollata, con il bisogno impellente di darle una lezione.

Se solo non ci fosse stata quella piccola lama affilata fra di loro, non si sarebbe fatto scrupolo a colpirla. Non gli importava che fosse una donna più debole di lui, gli doveva rispetto.

Non permetterle di prenderti in giro Erik, chi è questa ragazzina insolente per permettersi di sfottere il Fantasma dell’Opera? Non farti mettere i piedi in testa, tutti hanno paura del Fantasma. Hanno visto di cosa sei capace!

«Qualcosa che non va,monsieur le Fantôme? Vi brucia che qualcuno non ha paura di voi, oppure è ancora troppo cocente la vostra delusione amorosa per quella cantante … come si chiamava?»

Questo era decisamente troppo. Lo stava deliberatamente provocando.

Gli insulti su di lui potevano essere persino tollerabili, ma il non ricordare il nome della miglior voce mai udita all’Opera sua personale creazione era veramente troppo. Poi con quale insolenza si stava mostrando a lui, padrone indiscusso del teatro che la stava ospitando. Le avrebbe volentieri strappato quel dito che picchiettava sul mento e cucito le labbra crucciate in un bacio fittizio al proprio pensiero.

Avrebbe conosciuto cosa significava sfidare la furia del Fantasma dell’Opera.

Scattò verso di lei afferrando il polso che teneva l’arma, sperando che la sua presa cedesse con un colpo secco.

Come si sbagliava.

La donna era riuscita ad anticiparlo provando poi ad affondare la sua lama sulla schiena.

E quegli scambi divennero solo il principio di una danza funerea lungo quella stretta balconata. Se ci fossero stati degli spettatori in quella platea vuota e desolata avrebbe visto solo la fluida cappa nera avvolgersi e gonfiarsi in una splendida coreografia con il loro silenzio interrotto solo dai rumori dei loro colpi a crearne il ritmo.

Per quanto volesse, Erik, si sentiva frenato.

Fremeva dalla voglia di zittirla, di prendere quel fine collo da cigno e spezzarlo sotto la sua cruda morsa, eppure si stava limitando a proteggersi. Quando cercava di attaccarsi titubava, incontrava quegl’occhi da cerbiatto accecati da una furia inconsueta, una passione che mai era riuscito a vedere in nessun’altro se non sé stesso.

Le sue movenze, il suo modo leggero ma deciso di fendere il pugnale, anche il semplice corpo a corpo, ricordava il volo di una fenice o l’ondeggiare dei rami pendenti di un salice. Aveva il sapore di un’arte, appresa forse in qualche luogo lontano ed esotico.

Siete sempre più una delusione monsieur, non eravate voi l’efferato assassino dell’Opera?

Doveva solo prendere tempo.

Quello era il suo regno, lì c’erano le sue trappole da dove nessuno poteva sfuggire.

I loro passi si protrassero fino ad un punto cieco dove la balconata e la balaustra s’interrompevano bruscamente per lasciare spazio al vuoto, precipitando in un abisso di polvere e cenere.

Che indicibile fortuna, Erik, guarda dove sei capitato!

Malice sentiva la situazione in pugno, il caro fantasma alle spalle aveva solo il precipizio e null’altro.

Se teneva cara la vita avrebbe dovuto arrendersi.

Siete in trappola, monsieur! Ora non avete scampo.

Entrambi con il respiro contratto per la fatica, i loro petti sussultanti dall’affanno si osservarono in una fase di stallo, Regina contro Re in una lotta all’apparenza impari.

Ma non era il Re ad essere sotto scacco, ma il Signore delle Botole che aveva sempre una via di fuga.

«Arrendetevi e seguitemi senza fiatare, monsieur! Non avete altra scelta!»

Erik l’accontentò nel suo mutismo descritto da un ghigno soddisfatto, ma non si piegò al suo volere. Anzi, con la stessa aria di provocazione che aveva quella donna maligna le fece un cenno: sollevò la mano in sua direzione e con un movimento del dito l’invitò a venire verso di lui.

Malice storse le labbra sorpresa, non si aspettava un simile gesto e di sicuro non lo gradiva.

Si scagliò su di lui senza pensare, odiava profondamente chiunque si prendesse beffa di lei, era come se i suoi trucchetti le si ritorcessero contro.

Non ebbe il tempo in realtà di formulare un pensiero.

Erik si scansò con la stessa rapidità con cui lei l’aveva assalito aprendo una porta a scomparsa sul muro ricurvo della cupola, passando attraverso la parete come un fantasma.

Non aveva perduto la dimestichezza con cui si muoveva attraverso le pedane mobili, volando sui soppalchi.

Un angelo nero nella notte a cui erano cresciute di nuovo le ali.

Ma il rimpiattino con quella strana donna non era finito.

Continuavano a rincorrerlo attraverso quella giungla di corde e assi sospese nel nulla, talvolta trovandola ai lati, altre volte dietro di sé, sempre a debita distanza.

È un gioco pericoloso ragazzina.

Quel viaggio sembrava non finire: scendevano, scendevano sempre più, assumendo le diverse forme che l’oscurità riusciva a donargli, due figure indistinte nel buio. Vi erano scatti e rumori metallici assordanti, il Fantasma si muoveva in piena padronanza dello spazio attraverso pareti divelte e pavimenti che si aprivano ai suoi ordini.

Persino le mura di Palais Garnier rispondevano al suo richiamo.

Malice si stava dimostrando un duro avversario, di sicuro fino ad allora il più meritevole. Riusciva a seguirlo abbastanza agilmente, evitando i diversivi che Erik le poneva di fronte.

Ma ogni gioco trova la sua fine. 

E la fine iniziò quando fu catapultata in un mondo ancora più tetro.

Davanti a lei non vi era che il nulla, persino il Fantasma era stato inghiottito in quelle strane ed irreali tenebre. Un buio nero senza alcun appiglio per potersi sorreggere, si sentiva sommersa in una camera dalle pareti scure e nessuna fonte di luce a rischiararne il cammino.

Non posso essere finita nel nulla!

Rallentò fino quasi a fermarsi. Si muoveva cauta attendendosi da un momento all’altro che le si presentasse alle spalle per colpirla.

Invece a tradirla fu proprio il pavimento che le venne a mancare da sotto i piedi, lasciandola precipitare in un altro posto sconosciuto.

«Questo non vale monsieur!» urlò indispettita una volta rialzata contro il silenzio. Una bambina che fa i capricci e piagnucola risentita.

Clack, clack, clack. Tre singoli suoni metallici. Potevano essere interpretati come dei chiavistelli aperti, disincastrati con qualche meccanismo.

In quel momento, Malice ebbe davvero paura.

Era sempre stato un lavoro come un altro fino ad allora. In fondo le era capitato altre volte di trattare con ladri, assassini, truffatori, folli maniaci. I suoi metodi persuasivi avevano sempre giocato a suo favore e lei era sempre stata una grande osservatrice.

Ma questo andava al di là di ogni sua competenza, quegli specchi che riflettevano innumerevoli volte la sua immagine iniziarono a girare a favore di una luce sbucata dal nulla. Alberi, riflettevano alberi di metallo infinite volte lasciandola spiazzata, una foresta senza sentieri con cui  riuscire a districarsi da quel labirinto.

I corridoi di un gran palazzo, un monsignore genuflesso in preghiera. “Ti sei persa figliola?”

«Che diavolo di posto è questo?»

Sei pura Lucia. È per questo che ti ho voluta, non tua sorella. Tu sei un bianco giglio, il mio giglio.

«Diavolo?» da dove proveniva quella voce: ovunque e da nessuna parte.«Ci siete molto vicina …»

Era braccata, senza via d’uscita, in trappola. Un ultimo bacio al crocifisso, qualunque cosa fosse successa avrebbe almeno lasciato il suo ultimo saluto. Non vi sarebbe stata alcuna redenzione, ciò non la rendeva meno devota a quel simbolo.

Quando le sue labbra sfiorarono il gelido metallo, una grassa risata assordante riecheggiò potente. Troppo potente.

Malice fu costretta a tapparsi le orecchie con le mani, lasciando cadere il suo pugnale e rovinando con le ginocchia in terra.

Guardala ora, indifesa e coricata sul pavimento. Non siete più tanto spavalda!

Non gemeva, non implorava pietà, non tremava. Le avevano insegnato a sopportare il dolore.

Si proteggeva.

 

È il tuo turno Lucia, metti la benda e cercami.

Amava quel gioco da bambina: si bendavano a turno gli occhi e si cercavano nel prato.

Uno dei pochi dolci ricordi d’infanzia. 

Metti anche stanotte la benda e tappati le orecchie con questi Lucia.

Le aveva detto che era un nuovo gioco. Serviva per fare dei sogni più belli che probabilmente avrebbe ricordato.

Bugia: serviva  per non assistere al suo incubo.

Ma la mattina non ricordava mai nulla, le sue notti totalmente oscure. Si sentiva gabbata dalla sua stessa sorella.

Segui la mia voce, segui la mia voce.

La canzonava girandole attorno per confonderla, le sue mani tastavano il vuoto attorno a sé provando a prenderla ma senza riuscirci finendo solo per agitarsi e ridere come un’ossessa quando cadeva a faccia avanti.

Ci vollero alcuni tentativi prima di capire che non doveva procedere a tentoni.

Ferma, immobile doveva prestare attenzione agl’altri sensi.

Non mi piace più giocare a mosca cieca con te, Lucia.

 

Si proteggeva. E rideva.

Rideva, rideva, rideva.

In maniera contagiosa, soffocandosi con le sue stesse risa.

Durante il suo regno aveva visto molte reazioni di fronte al terrore: gente che smetteva di parlare, chi singhiozzava, pianti puerili. Ma quella risata fatta con il cuore, come se tutto fosse realmente un gioco divertente, lo irritava a tal punto che s’avvicinò un po’ troppo.

Malice aveva smesso di ridere e lo aveva afferrato per il mantello.

Lo aveva strattonato avvolgendosi il braccio per destabilizzarlo e farlo cadere.

Molto coraggiosa, glielo concedo.

Ma Erik non cadde: ormai esposto si sbilanciò con il suo peso su di lei ruzzolando per un buon metro sul pavimento liscio quasi fosse un’unica lastra di marmo. Con le gambe era riuscito ad immobilizzarla premendo il ginocchio destro contro la bocca dello stomaco con forza, mentre le sue mani erano impegnate a tenerle i polsi sopra la testa. Come una tigre in gabbia provava a divincolarsi dalla morsa del Fantasma, ma Erik era troppo forte ed il suo peso era opprimente.

Odiava la sua debolezza di donna.

Queste sono le situazioni in cui non ti dovresti cacciare.

«Allora madame, qual buon vento vi porta ad importunare il Fantasma dell’Opera?»

«Ora avete voglia di parlare, monsieur?» rispose piccata con un gemito a morirle sulle labbra, quando la stretta s’intensificò sui suoi polsi e la gamba puntava più affondo sul ventre. Una sabbia mobile umana: più s’agitava e più la sua morsa diveniva salda.

«Non vi hanno insegnato che è maleducato rispondere ad una domanda con una domanda, madame?»

«E a voi non vi hanno insegnato che le donne non si picchiano?»

«Smettetela di prendervi gioco di me, chiaro? Non ho molta voglia di scherzare!»

Ma una mano nell’ombra lo colse impreparato.

L’attenzione del fantasma era tutta sulla ragazza, non pensava che un qualcuno alle sue spalle potesse posargli un fazzolettino dall’odore nauseabondo sul volto. Era forte, si premeva con prepotenza contro il suo naso cercando di fargli inalare quella sostanza che aveva riconosciuto quasi immediatamente: cloroformio. Una nuova diavoleria medica in voga in Europa e capace di provocare stati d’incoscienza molto lunghi.

Non doveva respirare mentre lo trascinavano via.

Doveva togliere quelle mani dalla sua faccia.

Si sentiva debole.

Incredibilmente debole.

Totalmente senza forze.

Buio.

 

«Colas, pensavate d’intervenire quando mi avrebbe uccisa? Ho sentito che ci stavate seguendo! Volevate liberarvi di me?»

Maledetto vigliacco.

Lo spazzino lo chiamavano, per via del suo lavoro a fianco dell’assassino di turno. D'altronde chi meglio di un truffatore poteva creare la giusta scenografia per coprirne le tracce?

 

Note dell'autrice: Bonjour! Lo so vi avevo chiesto tempo ed invece eccomi di nuovo qui! Bhè questi capitoli in effetti sono i più semplici visto che ancora non mi sono addentrata veramente nella storia: in effetti contavo di farlo invece la scena si è prolungata più del dovuto. Lo so, lo so sembra un'americanata ma che ci posso fare se da piccola ho visto un sacco di film d'azione!!! E poi dopo tutte le introspezione volevo un po' di sano moto. Per chi non l'avesse capito la scena è ispirata dalla morte di Bouquet (non so se scrive così, dopo lo controllo ed eventualmente lo correggo) e l'inizio si riferisce più o meno alla illustrazione che fanno vedere al principio nel film  prima del salto temporale.

Allura ci sono due precisazioncine tecniche pratiche:

-il cloroformio venne utilizzato per la prima volta nel 1831 come anestetizzante insieme all'etere per le puerpere e poi in chirurgia. Ho controllato come facevano per vedere se come nei film bastava il fazzoletto ed ho scoperto che si usava una mascherina con un'armatura in metallo a cui si applicava una garza imbevuta dell'anestetizzante di turno.

- Nel 1800 in Francia era in vigore una legge per cui le donne in pubblico non potevano vestirsi da uomo, a meno chè non fossero autorizzate dalla polizia locale. (pensate che è ancora in vigore questa legge, infatti le poliziotte francesi indossano la gonna =_=) Più tardi, verso la fine dell'800, la legge venne modificata permettendo alle donne d'indossare i pantaloni mentre andavano a cavallo.

Il perchè vi fosse così poca sorveglianza .... bhè al prossimo capitolo muhahahah...

Ora passiamo alla recensione:

Ciao Giuly, grazie per assistermi in questo viaggio stramboide e folle. In effetti lo scontro è avvenuto non proprio a colpi di spada, purtroppo la mia povera Malice con la spada non è proprio brava, preferisce armi di piccolo taglio. Basta non dico altro. Ah grazie per la correzione, sinceramente mi era sfuggito ... eh eh^^ Comunque spero anch'io per Erik che abbia altre maschere, di certo io non vado a controllare X_X non voglio scoprirlo ihihih!!! Ah grazie per il nuovo ed intenso capitolo della tua ff, molto bello ... un bacione che scappo!!!

Serva vostra.

Mally.

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Capitolo 4
*** CHAPITRE 3: La première bataille. ***


CHAPITRE TROIS: La première bataille.

 

Silenzio. Un prezioso silenzio.

Raro, intenso ed unico nella sua mente sempre popolata di note danzanti su pentagrammi stampati.

Ormai componevano una sola musica, il grido doloroso della sconfitta.

Da quanto non riusciva a prendere sonno? Due giorni, sì.

Ed era meraviglioso poter dormire senza sognare.

Senza rivedere lo sdegno della gente, il disgusto sui loro volti, l’odio del suo Angelo.

Un ticchettio costante.

Un orologio forse.

Mai si era svegliato chiamato dal sole che ora indisponente gli feriva gli occhi.

Il ricordo sfocato dell’Opera balenava nella sua testa tra le immagini sbiadite delle ultime ore.

Sentiva le narici andare a fuoco, la tosse intervenuta a scacciare quell’orribile sensazione.

Come un turbine improvviso nei suoi pensieri i tasselli del mosaico iniziarono a comporsi.

Quella donna, quel modo di fronteggiarlo a parole e con i fatti. Il suo pugnale dalla lama squadrata, lucida a tal punto da riflettersi persino nell’oscurità.

Il senso di soffocamento di quella mano premuta contro il suo viso a tradimento, il cloroformio, la difficoltà nel liberarsi da quella stretta, il sentirsi in trappola, stordito, un animale liberato solo per far divertire i nobiluomini della campagna parigina.

Un diversivo dalla grigia monotonia di un’esistenza passata tra teiere e pettegolezzi.

Ma non erano aristocratici annoiati.

Erano riusciti a prenderlo di sorpresa, nessun nobile coperta dalla loro triste patina si sarebbe così arrischiato, nonavrebbe strisciato nell'ombra per fronteggiare un nemico pubblico.

Un nobile, armato del suo coraggio cavalleresco da principe delle fiabe, con la sua spada lucente brandita al sole del giorno, lo avrebbe sfidato apertamente davanti agl'occhi di un pubblico in grado solo di battere le proprie mani verso il desiderio di conquista dell'oscuro ignoto.

Non si sarebbe comportato come aveva fatto lui per un'intera esistenza.

Ancora quel ticchettio.

Si era intensificato, il ritmo accelerato aveva iniziato a rimbombare insistente, pungolava le sue orecchie in una tortura straziante.

Cessò ma non per tornare al silenzio.

Un tintinnio prese il suo posto, insieme ad un fruscio metallico inconfondibile.

Ovunque fosse non era solo. Un cucchiaino non si anima come nelle favole per battere contro la porcellana.

Ricordi il motivetto che t’ispirò quel giorno? Un’aria leggera che a Christine piaceva tanto cantare.

Non gli era concesso indugiare oltre, il cuore spezzato non avrebbe retto ad una nuova ondata di rimorsi, doveva svegliarsi e capire quale altro scherzo del Destino gli era stato giocato. Più desisteva, più il suo Angelo tornava a tormentarlo con il suo sorriso celestiale trasfigurato il un urlo di odio.

Desiderava solo riuscire a cancellare quell’espressione, la disperazione da lui stesso causata alla sua creatura.

Non è più tua, Erik.

Christine non odiarmi! Apritevi maledetti occhi!

Ora era la gola a bruciare, qualcosa grattava sulle sue pareti scavando fino all’osso solo per poter uscire.

Si morse la lingua, ma non urlò. Aprì solo le palpebre indolenzite dall'estenuante riposo.

«Bentornato monsieur! Non temete, lo stordimento che sentite svanirà molto presto!» la voce di quella donna infida, con quel suo accento straniero che ora riusciva a notare ben mimetizzato, l’avrebbe pagata cara.

Si era permessa di sfidare il Fantasma dell'Opera, ingannarlo, drogarlo con un qualche complice di cui non poteva conoscere il volto e portarlo in un posto senza tempo e senza nome di cui lui poteva diffidare persino delle pareti. Un luogo decisamente non congeniale per i suoi gusti raffinatamente eccessivi: carta da parati con piccoli decori classici, stucchi bianchi su di un soffitto a cassettoni che ritraeva un motivo geometrico ripetitivo e mobili che possedevano l'aspetto asettico di una vecchia casa di un dottore. Lo stesso letto che l'ospitava, con il suo baldacchino scuro e le sue tende pennellate di un insipido verde lo spingevano a ripudiare la sua nuova condizione di prigionia.

Come ci si sente dall'altra parte, Erik? Questo provavano in tua presenza, nel tuo teatro, ed è per questo che si sono ribbellati. Non è una bella sensazione sentirsi rinchiusi, vero?

La sua carceriera sembrava non aver perso strafottenza: sorseggiava il suo tè in una posa indecorosa, adagiata su di una poltroncina ai piedi del letto in cui era stato evidentemente coricato, con la schiena contro un bracciolo e le gambe lasciate penzolare dall’altra parte, i suoi stivaletti stretti sulle cavaglie da lacci rossi sulla pelle conciata spiccando come strisce sanguigne, una piccola porzione dei polpacci impudicamente esposti da una gonna bigia, di cui un piccolo pizzo scendeva a terra come un drappo di tessuto ancora non toccato da un sarto.

Nel viso l’aria trionfante del Demonio.

Erik voleva cancellarle ogni traccia della sua vittoria sul Fantasma, avesse avuto almeno la decenza di esserne l’artefice.

Puntò i suoi gomiti sul materasso facendo per alzarsi, per poi bloccarsi per un dettaglio che fino ad allora aveva evidentemente trascurato.

Non era la delicatezza della batista a carezzargli la pelle del torace, né il gentile fascio della fusciacca in seta che ancora teneva in vita da quella notte. Pantaloni, stivali e il dolce peso del cuoio sulla martoriata parte destra del viso, tutto sparito. Quello che rimaneva a soffiare sui muscoli tesi era il morbido cotone del lenzuolo bianco con cui era avvolto, celando abilmente il corpo imperioso e denudato dell’uomo.

Vestito da quel sottile strato di stoffa e da uno sguardo che attento lo fissava, lasciando che fosse solo quel leggero movimento delle sue macchie scure a disegnarne i contorni.

Malice conosceva l'anatomia umana molto bene. Ne sapeva osservare con esattezza ogni singolo componete. Le ossa abbracciate dai tessuti, i piccoli vasi pulsanti che irroravano di vita e passioni, gli atti involontari e spontanei che servivano a far muovere la macchina perfetta che il buon Dio aveva creato.

Sapete ragazza, i segreti dell'anatomia appartengono a tre tipi di persone: i medici, le prostitute e gli assassini. 

I suoi occhi si erano posati spesso su diversi corpi, che fossero stati inermi vittime della sua mano o tiepidi amanti del suo letto. Ed il suo di corpo era più volte era stato vittima di sguardi assetati.

Non vergognarti, lasciati guardare bambina mia: non è il più bel capolavoro di Dio l’essere umano?

Aveva visto ogni genere di perdizione, vissuto ogni sua vita come fosse l'ultima donandosi a piccoli peccati ed aveva assaggiato, per dovere, ogni pietanza passata per il palato. Ma mai aveva visto qualcosa di così assurdo.

I tratti marcati del lato sinistro del viso potevano benissimo passare per quelli di un bel volto, dove un sopracciglio scuro disegnava una splendida curva su l’occhio allungato, sotto si stendeva lo zigomo marcato seguita da una mascella nerboruta e virile. Il suo fisico atletico, allenato, incarnava tutti i desideri scabrosi che le signorotte facevano su i loro lavoratori. Dal portamento regale, alto, asciutto ma robusto, ampie spalle che si aprivano su di un petto scolpito, mani curate, morbide, dalle dita lunghe che potevano far sognare in molti e fantasiosi modi.

Chissà se qualche civetta benestante non abbia desiderato, anche per un solo istante prima dello smascheramento, di rifugiarsi fra le tue lenzuola quella sera.

 Il lato destro invece sembrava quello di un’altra persona: la faccia sbieca e gonfia di uno scherzo della Natura veramente di cattivo gusto.

Se Dio si fosse ricordato di quanto sono crudeli le sue creature, forse, non si sarebbe così divertito a crearti.

Magari avrebbe avuto parsimonia nell’intelletto o nelle tue grandi capacità di musicista lasciando che il lato sinistro del viso si rispecchiasse nel destro.

Chissà cosa avresti realmente preferito, materia o sostanza?

Osservare curiosa la sua corporatura prestante mentre dormiva ancora tranquillo, si rivelò molto più difficile del previsto. Da tempo non provava più quell’insana smania, capace di confonderla e renderla meno lucida. Il mistero del Fantasma aveva riacceso in lei nuove sensazioni, riaffiorando attraverso quello strano e morboso interesse che le travolgeva impetuosamente il pensiero.

L'effetto del cloroformio avrebbe attardato ancor di più il suo risveglio, l’unica certezza che aveva nell’istante in cui prese il coraggio di azzardare una mossa. Detestava l’improvvisazione, ma la sua sete di conoscere meglio l’enigmatico spettro di Palais Garnier doveva essere in parte spolverato e molto si poteva apprendere dalle battaglie che lasciavano dei marchi indistinguibili sulla pelle.

Non avrebbe nemmeno avuto bisogno di attardarsi troppo nello scoprire le ferite del suo spirito, in fondo era servito a questo il periodo di osservazione come amavano chiamarlo i suoi superiori.

E poi era di una facilità disarmante analizzare l’animo di quell’uomo.

Guardi il mondo attraverso delle lenti, i tuoi occhi sono trasfigurati al pari della tua faccia.

Invidi il mondo che può vivere alla luce del sole, vuoi che sia il suo fascio luminoso a irrorare le piaghe del tuo volto.

Ma non hai un viso agl’occhi degl’altri, tu non esisti, o meglio, non esistevi.

La tua mente non si è arresa al Fato, ti sei ribellato o avresti fatto da fenomeno da baraccone per tutta la vita.

Ora sei il Fantasma dell’Opera, hai ricevuto tutta l’attenzione che il tuo genio bramava.

Peccato che non ti sia rimasto altro che una voce melodiosa, un amore non corrisposto, un intelletto fuori dal comune.

Sei solo un’anima ferita dall’amore, niente di più e niente di meno.

Ed ora è il momento di capire cosa ti ha portato a diventare Nerone, monsieur le Fantôme. 

Con poco giudizio aveva scostato il lenzuolo, per scoprire qualche punto debole e più sensibile, dove un sussulto nel sogno l’avrebbe colto al tocco della sua mano. Il lembo candido tenuto dalle sue dite scese, scese e scese fino a raggiungere la vita, fermandosi di colpo, colta da un lieve tremore che le impedì di continuare. In altre occasioni non avrebbe permesso che a vincerle fosse il pudore, perduto ormai con l'innocenza molto tempo prima.

Eppure le pagine già scritte, marchiate sotto quel lieve strato di fatica ad imperlargli il petto tornito e fiorente non avevano bisogno di un continuo.

Vi erano piccoli e bianchi segni ramificati ovunque, alcuni più superficiali e altri rossicci sulla pelle bianca.

I segni che aveva mia sorella, i capi pieni di pizzi che le coprivano le braccia tumefatte, i lividi che corrispondevano alle dita. Carezze violente che presto avrebbero preso anche te.

Eravate solo oggetti per lui, le sue bambole di porcellana.

Porcellana di cui non aveva considerato la fragilità.

Colas le diceva di stare attenta alla sua curiosità, non doveva lasciarsi trasportare dai ricordi.

Le diceva anche che forse si assomigliavano, lei ed il Fantasma, Malice non gli credeva.

Ha amato, io non ne sono capace.

Tutto gli provocava un’indicibile collera, la stessa con cui rigettò il lenzuolo sopra di lui per attenderlo.

 Ed aveva aspettato tutto quel tempo, sorseggiando il suo tè con il senso amaro di rivalsa a coprirle il sapore del miele, pronto a balzare fuori in quel preciso istante quando si sarebbe reso conto che davanti a lei, una donna, si trovava completamente nudo.

«Non così presto monsieur, non vorrete farmi arrossire …»

Se Erik non avesse avuto quel galante pudore, si sarebbe protratto ben oltre dal sedersi scoprendosi non più del dovuto. Non gli avevano nemmeno lasciato la maschera, era quella la ragione per cui provava più imbarazzo.

È una prova Erik. Ormai tutti sanno cosa porti sotto la maschera, non farti mettere in soggezione.

Già una prova in cui non avrebbe fallito.

Quella donna cercava di metterlo un gradino più sotto, mostrargli che non era più il potente Fantasma dell’Opera, lasciandolo nudo come un verme, indifeso ed esposto con la sua malformazione contro il suo sguardo curioso.  Aveva quel vezzo dolce, piegava di lato il capo sondandolo, la bocca leggermente dischiusa e le palpebre che seguivano i suoi grandi occhi che trasudavano bellezza allo stato puro. Perché quello non poteva negarlo Erik. Sembravano un mare denso, mistico in cui un uomo avrebbe tranquillamente potuto annegare e, forse, se non fosse stato per quelle iridi eccessivamente intense, non avrebbe potuto considerarsi unica. Piuttosto una banale e comune ragazza che aveva la giovinezza dalla sua. Una giovinezza che non sapeva indicare se vi fosse o meno, una donna che sembrava non avere un'alcuna età precisa.

Una bambina dal viso gentile e dalle forme di un’adulta ed uno sguardo intelligente, furbo, di un qualcuno che sapeva come usarlo.

È questo quindi il tuo scopo: vuoi mettermi a disagio con la sfrontata bellezza del tuo sguardo?

«Credo proprio che io non sia il primo uomo che abbiate visto …» l’aveva pronunciato ancora confuso ed appannato, con la bocca impastata dal sonno forzato, fu solo grato della sua prontezza d’animo a qualsiasi situazione, trovandosi senza imbarazzo alcuno, o remore seduto ora con la schiena contro la testiera del letto ben attento a nascondere solo il necessario.

 Non si scompose nemmeno la donna, nonostante fu sorpresa nel vederlo completamente indifferente alla situazione. Spostò semplicemente gli occhi sul contenuto della sua bella tazza bordata d’oro, tolse il cucchiaino picchiettando raffinatamente e ne bevve un sorso senza emettere alcun suono. Smise persino di dondolare la gamba.

Sorseggiò ancora due volte, allungosi per posare il tutto su di un tavolinetto dietro le sue spalle, dove in precedenza vi era sistemata una teiera panciuta ed una tazza gemella.

«Spero che scusiate la mia maleducazione monsieur, non vi ho offerto del tè. Ne volete?»

Erik odiava quelle false cortesie, come poteva accettare una simile assurdità?

«No, preferirei delle risposte madame!»

La battaglia era iniziata.

«Chi vi dice che non le avrete?» delicatamente i piedi della donna si mossero, scendendo da quella posizione a favore di una postura più ortodossa. «Vi spiace se vi chiamo Erik?» ecco la prima stoccata di Malice, un affondo veloce, disinvolto con cui fargli capire che sapeva molto più di quello che potesse pensare. Lo stupore che poi aveva colto nel viso trasfigurato dell’uomo segnato in maniera irregolare dalla barba di un paio di giorni, le dava decisamente ragione.

«Ora basta: esigo sapere chi siete e come fate a sapere il mio vero nome. Sembra che non vi accorgiate di chi vi state mettendo contro, madame.»

« Madamoiselle, monsieur, se non vi spiace!» precisò con un dito sollevato in aria « Davvero pensate di essere l’unico al mondo capace ad origliare? Non sapete forse che la superbia è uno dei sette vizi capitali?»

Si che lo sai, Erik ma cosa avresti da perdere se sei già condannato all'inferno!

E comunque è stata la cara Madame Giry …»al suono di quel nome afferrò il lenzuolo che lo copriva in un gesto furente ed i suoi muscoli si contrassero in simultanea tendendo la pelle dove giacevano a riposo. La stoffa divenne ancora più sottile sotto quello scatto, guidando gli occhi in un sentiero lascivo di curve rigide al di sotto di essa. Il busto proteso in avanti pronto ad azzannarla, una fiera che si sarebbe ribellata alla prossima provocazione e non sarebbe bastato quello sguardo da cerbiatto a fermarlo.

Vedeva nei suoi occhi di un verde mutevole e così singolare da restarle impresso, un baleno di collera oscura risaltando persino alla sua orribile deformità. «… se l’è lasciato sfuggire durante una nostra piacevole conversazione!»

«Se le avete anche solo torto un capello …» il rumore della stoffa lacerata catalizzò l’attenzione di entrambi.

Avete ancora il coraggio di provare affetto, monsieur?

Malice si alzò con calma quasi irreale raccogliendo distrattamente qualcosa dallo stesso tavolino su cui vi era la teiera, a completo agio in quello spazio dall’odore di nuovo. Avanzava incurante, scostando i capelli dietro le spalle, le braccia tese lungo la vita sottile ed  i fianchi rotondi.

Troppo spavalda.

Giunse al lato destro del letto seguita dagl’occhi attenti del Fantasma.

Attendeva una mossa della donna, azzardata o meno che fosse, qualcosa di irruente ed impavido.

Mai ciò che fece.

Si chinò su suo orecchio carezzando la spalla dell’uomo. Appunto un uomo che non aveva quasi mai avuto veri contatti umani, un uomo che era stato investito dal profumo di una donna solo per pochi istanti. Un uomo che percependo la sua epidermide rovente e il dolce respiro di una fanciulla sul lobo, tremò socchiudendo gli occhi.

Ti sei fatto cogliere per la seconda volta alla sprovvista!

Eppure non riusciva riaprire le palpebre, a scostarla in malo modo come avrebbe voluto fare fin da principio o a scansarsi lui stesso.

 «Non dovete temere monsieur …» Erik non era abituato alla potenza di un sussurro, annichilito dal semplice soffio di poche parole appena percepibile. Amava la musica, le melodie altezzose delle sue opere, giochi di voce che sollevavano con vigore persino la polvere. Vero, aveva sempre bisbigliato all’orecchio di una bambina per insegnarle ad aprire i polmoni ed esprimere la sua arte. Lui era l’unico artefice al teatro dell’Opera, il burattinaio che muoveva i fili dei sui giocattoli, essere in balia dell’energia inebriante di un sussurro non era decisamente nei suoi piani. «Les deux Giry godono entrambe di buona salute e questa, monsieur, è vostra … » solo allora riaprì gli occhi trovando davanti al proprio viso la lettera che gli aveva scritto Madame. La prese, lanciando uno sguardo empio di astio a quella donna che si stava sedendo sul ciglio del letto, se la rigirò tra le mani notando che il sigillo in ceralacca era stranamente ancora illeso. « Suvvia, non prendetevela Erik! I vostri abiti erano sporchi ed un po’ troppo vistosi, teatrali. Ci siamo presi la libertà di lavarli e rammendarli, ma ve li renderemo insieme alle vostre maschere e a quello che siamo riusciti a recuperare nei sotterranei di Palais Garnier.»

«Penso che sia giusto ora che mi diciate cosa sta accadendo, madamoiselle non sono più disposto a sopportare tutto questo!»

Malice rimase in silenzio, caricando con ancor più tensione l’aria già elettrica.

Strinse gli occhi, riprendendo a studiarlo.

Allungò la mano sulla sua gota sinistra, dolcemente, il volto che si trasformava con l’esperienza consumata di un’attrice.

Il dorso di due dita esili che presero ad accarezzarlo con una libertà che non doveva avere.

Ma non era un gesto di affetto solo un toccare con mano.

«Dovreste radervi, Erik, non vi si addice un aspetto trascurato …»

Cosa voleva dimostrare con quella vicinanza? Che non aveva paura del mostro deformato? Che non sarebbe fuggita alla vista ravvicinata di quell’orrore? Non si sarebbe lasciato abbindolare da una tenerezza.

Non un’altra volta!

Altre mani che prendevano il tuo viso, una finta promessa d’amore e l’umiliazione nel tuo trionfo.

Christine non chiedevo altro che amore.

Ti sei lasciato ingannare e ti hanno tradito.

Prese con forza il polso di Malice, piccolo e fragile tra le sue mani da musicista.

Mani con un potere divino che trasformavano suoni in musica ogni notte, mani terribili che avevano segnato il passaggio tra vita e morte di molte persone.

«Vi state prendendo un po’ troppe libertà, madamoiselle»

«Cosa vi infastidisce di più? Essere qui senza sapere il perché, o che io non abbia paura di voi?»

Sta facendo il tuo stesso gioco, Erik. Ed è in vantaggio, ha capito il tuo punto debole. Ti sta colpendo nell’orgoglio.

«Sono molto curiosa di una cosa: di cosa esattamente dovrei aver paura? Il vostro viso o la vostra anima? Sapete tutti hanno le proprie cicatrici monsieur e piaghe e non tutte sono visibili ad occhio nudo. Ad essere sincera io credo di dover fare ammenda di molte più cose di voi …» baciare il Cristo era il suo rituale: una catenella d’oro semplice afferrata da quelle stesse dita che lo avevano accarezzato e che conducevano il delicato ciondolo sulle labbra.

Ricorda, bambina mia, gli Angeli ti guardano dal cielo, controllano come ti comporti. Quando arriva il vescovo, Lucia, devi inchinarti. Bacia il suo anello nel momento in cui ti porgerà la mano, mostrati umile e sottomessa a nostra Santa Madre Chiesa.

Questa volta la lotta non si sarebbe svolta su di una balaustra fatiscente.

Quella invisibile battaglia stava avvenendo su di un morbido materasso in un letto sontuoso, mani nelle mani, occhi negl’occhi. Il loro duello fatto di pause e silenzi computati, una contesa regale tra due lingue capaci di ferire più di una spada, di bisbigli e lievi contatti.

 

«Malice!» il richiamo non li distrasse, immobili come due perfette statue nell’agorà di Atene. «Malice, ora basta! Attendete nell’anticamera, state perdendo di vista i nostri compiti!» niente, nessuno dei due era disposto a cedere per primo. Eppure ad Erik avrebbe dovuto interessare il perché di tanto interesse nei suoi confronti. «È un ordine Malice, vi devo ricordare chi di noi due comanda?»

Un taglio netto, una spada che fende un frutto impietosa.

La loro gerarchia solo per farle capire che lei sarebbe stata sempre un gradino sotto.

Poteva compiere ogni missione con una precisione chirurgica, cambiare le sorti dello stato, ma lei non poteva comandare.

Una donna soggetta agli sbalzi uterini come poteva tenere in mano il potere?

Una donna, una ragazzina, che ha tradito la sua Santa Madre Chiesa per giunta.

 Si liberò Malice dalla stretta di giada di Erik togliendosi dalla portata del suo sguardo, andò incontro a quell’uomo che pareva osservarli sul limitare della porta da chissà quanto. Era alto quasi quanto Erik, un fisico asciutto e forte tenuto evidentemente sotto un costante allenamento, vestito di tutto punto, capelli scuri legati sulla nuca e occhi inespressivi. Sembrava il negativo di quella donna, l’esatto contrario, accentuato dal fatto che ora si trovavano l’uno accanto all’altra.

«Devo ricordarti invece chi dei due fa il lavoro sporco, Balayeur?» Astio misto alla rassegnazione, risentimento. Questo le provocava il rivangare i ruoli fra di loro. Colas non era uno stupido sicuramente, sapeva fare bene il suo mestiere, ma aveva la stessa capacità di comando di un acino d’uva rinsecchito in un grappolo. Quando poi si trattava di sporcarsi realmente, macchiarsi la coscienza con qualcosa di ancor più riprovevole della complicità, lui si tirava indietro. Fra i due lei era il guscio e lui la testa della tartaruga.

Sei e sarai sempre un maledetto vigliacco.

«Non arrabbiatevi con me non sono io che faccio le regole purtroppo …» Un tono stomachevole, cortese in maniera esagerata, con quel fare da galantuomo da nausea che infastidiva persino Malice il più delle volte. Colas poteva essere utile, l’unico che la trattava con un minimo di rispetto, di sicuro era anche l’unico che riusciva a lavorare con lei senza troppi pregiudizi ed il più delle volte la lasciava libera di agire, l’unico che conosceva il suo vero nome, ma questo non lo rendeva meno viscido.

Sopporta chi riesce a sopportare i tuoi sbalzi d’umore.

Ma quanto avrebbe voluto sbattergli in faccia cosa realmente pensava in quel momento, limitandosi ad uscire come le era stato richiesto. Un giorno qualunque ci sarebbe stato modo e tempo, non ora.

«Scusate monsieur!» intervenne ancora con un sorriso da imberbe ragazzino impudente. Il complice sicuramente di quella donna, ad un passo da lui pronto perché il suo collo potesse essere stretto fino a che l’ultimo alito di vita vi fosse passato attraverso.

Se fosse stato possibile, quel viscido verme, era anche più irritante di quella donna.

«Purtroppo Malice ha una strana tendenza al mistero e la sua sincerità esce fuori sempre nel momento sbagliato. Ora, penso che avrete il bisogno impellente di avere delle risposte come stavate dicendo prima alla mia collega. Nel baule … » il piccolo cenno con il mento mentre afferrava il legno delle porte pronto a lasciare la giusta intimità. « … troverete nuovi abiti e qualcosa che sicuramente gradirete. Quindi vi aspetteremo qui, nella stanza accanto.» imprevedibile, strano, spiazzato. Perché ora si mostravano così accondiscendenti concedendo glia dirittura di rivestirsi invece di sfruttare quella situazione a proprio vantaggio? «Ah, monsieur!» richiamò Colas la sua attenzione, forse con troppa veemenza. «Non provate a scappare, le finestre sono chiodate e se tentate di rompere il vetro non esiteremo ad uccidervi. Ricordatevi sempre che tutti siamo utili, ma nessuno è necessario …» ed ora lo stavano nuovamente minacciando chiudendo .

Com’è Erik la tana del leone quando non sei tu il leone?

 

 

 

Indossare un abito per Erik era sempre stato un rito importante. Ogni cosa su di lui doveva cadere a pennello, adagiarsi sul suo corpo per esaltarne i pregi e nascondere i difetti. Inoltre doveva stupire ed incutere timore, dimostrare quanto lui fosse superiore agl’altri. Ossessionato dalla sua grandezza la sua immagine doveva riflettere questo singolo particolare.

Quello che fu costretto ad infilarsi era tutto fuorché ciò che rappresentava il suo gusto, escluso il colore che sembrava esprimere la sua preferenza per il nero.

Ordinario, un onesto uomo d’affari che si affrettava a concludere qualche accordo.

Ci sono ancora io con te, Erik.

Solo la maschera a coprirgli la metà del volto sfregiato da Dio era rimasta a ricordargli chi realmente fosse.

Quando entrò in quel saloncino anticamera della stanza da letto venne quasi assalito da Colas, evidentemente impaziente di giocare con lui al posto della donna.

Hai sentito Erik, lei fa il lavoro sporco, non le interessa di parlare.

«Oh, monsieur, finalmente! Mi spiace per il modo in cui vi abbiamo … diciamo … convocato, ma non credo che ci fossero molte alternative. In fondo siete un fantasma, dico bene?» rise da solo, non apprezzato da nessuno dei due. Malice si era rifugiata seduta su di uno scrittoio, limitrofo alla grande porta a vetri che dava su di una piccola balaustra, con quel abitudinario dondolio nel vuoto delle gambe di cui ora erano visibili solo la punta delle scarpe. Dalle braccia intrecciate usciva una mano a chiudere la bocca rosata, tentando di reprimere al meglio ogni emozione, il viso rivolto all’esterno su cui una malcelata ira aveva preso il posto della strafottenza. «Lasciate che mi presenti: mi chiamo Colas  e lei come avete intuito sicuramente è Malice.»

Un altro di quei manichini Erik.

Non era l’unico dei presenti a pensarlo evidentemente.

Se non fosse stato per quella situazione surreale per Erik, certo avrebbe riso per le occhiate inviperite e gli sbuffi spazientiti di quella donna, era molto divertente. Malice. Strano nome da dare ad una bambina, sembrava coprire qualcos’altro e ben presto Erik l’avrebbe scoperto.

«Bene ora che vi siete presentato, vorrei che mi si chiarisse a quale scopo sono stato convocato.»

Stai calcando le scene Erik. Ti fingi padrone quando ti senti in trappola, perché lo sai che ora sei in loro balia. Com’è essere rapiti Erik? È questo che ha provato Christine dopo il Don Juan? Si è sentita in trappola?

«Non vi facevo un tipo impaziente, ma vi capisco, anch’io non amo i giri di parole …» disse in una finta comprensione per voltarsi anche lui alla finestra con disinvoltura. «Sapete che la Francia sta combattendo contro la Prussia, monsieur? E sapete che l’Imperatore ha praticamente mandato in pasto la nostra nazione, giocando al massacro completamente impreparato?» non attese risposta, si voltò nuovamente a guardare Erik stavolta con sufficienza.  «Pensate che la cosa non dovrebbe interessarvi, immagino. Voi vi siete sempre limitato a gestire il vostro dominio sull’Opera Garnier, l’unica cosa che ritenevate degna di essere considerata n’est pas?»

Ne hai sentito parlare invece, quella giovane che si confidava con una sua compagna del fratello inviato al fronte. Un ragazzo di 20 anni che sarebbe presto tornato menomato o in una bara. Magari con un volto come il tuo. Ti ricordi il disgusto che hai provato, Erik?

«Ci dovrebbe essere un motivo per cui mi dovrebbe interessare ora?»

«Non temete verrà il momento in cui capirete il perché, d’ora in poi, comincerà ad interessarvi. »

Uno sbuffo di nuovo, molto più che eloquente, e Malice si mosse.

Per quanto volesse non si era riuscita a trattenere, prendendo con prepotenza parola.

Ti ricorda qualcuno, Erik?

«Colas, siete sempre il solito melodrammatico. State stancando il nostro ospite forzato e, cosa ben più grave, state annoiando me.» si vedeva che era esasperata, stanca della pantomima che proprio lei aveva iniziato. Una bambina viziata che si tediava di un gioco durato troppo a lungo.

«Monsieur, con la guerra alla Prussia Napoleone III ha firmato lo sfacelo dell’Impero …» riprese Colas come se non l’avessero mai interrotto « … e non è stato il solo. Molti nobili, aristocratici anche appartenenti all’alta borghesia, bramano con la stessa intensità il potere assoluto. Invece di guardare al futuro sembra che la Francia stia ritornando sui suoi passi tradendo gli ideali della Rivoluzione. Il conflitto che stiamo affrontando è solo l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. La Francia non è del suo sovrano, ma del suo popolo ed è ora di guardare a nuovi orizzonti. L’idea di creare una Commune anche a Parigi sta sempre più prendendo piede, la nave questa volta non affonderà con il suo capitano. Purtroppo i nobili non sono molto d’accordo su questo punto e stanno ostacolando in ogni modo la sua formazione.»

«Continuo a non capire cosa vogliate da me.»

Mostrati padrone di te, della Francia non ti deve interessare, nemmeno la morte per tua mano ha mai gravato sulla tua coscienza. Non impietosirti, non lasciarti condizionare dai loro begl’ ideali. Sono istrioni della domenica in piazza.   

La reticenza a comprendere metteva in difficoltà Colas che cercò aiuto.

Fu allora che Malice iniziò a camminare per la stanza con le braccia strette al seno e l’aria scocciata.

Per Erik seguire quello scambio era stato un vero piacere, sembrava condivideva con lei quella stizza nei confronti del portavoce principale. Gli aveva sorprendentemente dato una sorta di soddisfazione il metterlo in imbarazzo o incapace di continuare, il vedergli chiedere supplichevole con i gesti alla donna che poco prima aveva umiliato con quel suo proclamarsi migliore di dargli uno spunto o il prossimo argomento, era stato soddisfacente.

«La Sûreté, immagino che non ne abbiate mai sentito parlare vero?»

«Siamo al servizio dello Stato ed ora allo Stato serve che sia il popolo ad ascendere. Sia io che Malice apparteniamo ad un organo segreto della polizia, se così possiamo definirci, e vi stiamo osservando da tempo monsieur. Sapevamo che dietro al mistero del Fantasma dell’Opera ci potesse essere un uomo, un uomo geniale se mi consentite. In realtà è stata Malice che alle prime indiscrezioni, le prime leggende dette a voce più alta ha iniziato le indagini su di voi -anche se il costro passato rimane comunque molto oscuro-. Vi abbiamo studiato attentamente, le vostre capacità non sono state sfruttate al meglio, qui a Parigi.»

Qualcuno riconosce le tue capacità, Erik? Riconosce il tuo genio nonostante il tuo aspetto? Dovresti indignarti vero, ma non riesci perché ti stanno lodando, vogliono te e non un altro più giovane e piacente. Te per quello che sei, un mostro con tutto il suo bagaglio.

Era tornato un uomo orgoglioso, con il suo ego assoluto e centralizzante.

Era passato da fenomeno da baraccone a genio indiscusso.

E qualcuno in quel mondo che lo aveva ripudiato, anche se non come artista, aveva riconosciuto la potenza del Fantasma.

Sta attento Erik, queste persone sanno come raggirarti.

«Otterrete molto mettendo il vostro genio a disposizione della Sûreté, monsieur, come ad esempio il crollo di tutti i capi d’accusa a vostro carico, con la conseguente possibilità di farvi una nuova vita.»

Era quello che offrivano allora, la libertà? Il non essere braccato dalla gendarmeria e dalla gente come quella notte? Per cosa? Perché tutti possano sputare sul terreno dove cammini? Perché tutti ti disprezzino come hanno sempre fatto?

Che te ne fai Erik della libertà ed una manciata di gloria, se non puoi viverla con l’unica persona che ami?

 Ti stanno offrendo una bugia, Erik, la libertà per il figlio del Diavolo non può esistere.

L’inferno ti attende comunque.

Era sempre lì la voce del Fantasma a ricordare l’essere abbietto che sentiva incombere dentro di sé. Non riusciva ad ignorarne il peso, la sua personale spada si Damocle sospesa con un sottile capello castano che, in vita, si evolveva in delicati riccioli ribelli.

A cosa serve la libertà se non puoi avere Christine?

Un uomo disperato che altro non gli era rimasto che prendersi la testa fra le mani e disperarsi, perché quella l’unica verità dei fatto. Era solo e da tale sarebbe perito. Seppellito dalla solitudine in cui era piombato.

Prima avevi il tuo teatro, la tua musica, ora cosa ti è rimasto?

«Quanto vi sta a cuore la vendetta, Erik?» ora Malice aveva ottenuto tutta l’attenzione su di sé, il tasto da lei sfiorato con la cura maniacale di chi sapeva quali corde pizzicare di un’arpa per poter ottenere i giusti accordi. Ed ora, quei due sguardi che prima si sfidavano come duellanti in una competizione all’ultimo sangue si esaurivano in occhiate complici. Con quella frase aveva steso il primo rigo del trattato di pace.

Un sorriso arrogante a segnarle le labbra piene, malizioso. I suoi occhi scaltri, tronfi e trionfanti riuscivano di nuovo a sfidarlo, a tendergli la spada per imbracciare la propria.

Intesseva l’ordito e la trama con il giusto equilibrio, tendeva la stoffa con forza agguantando l’animo turbato dell’uomo nelle sue debolezze di nuovo.

Il ragno aveva attirato un altro ragno nella sua trappola lasciando la mosca alla sua mercé.

Voleva le due prede.

Stava ad Erik ora a posare le sue zampe affusolate sulle giunture del viscoso tessuto, attento a non inciampare per ritrovarsi a far compagnia alla sua preda.  

«Parlate, avete la mia attenzione!»

 

 

Note dell'autrice: Buona domenica a tutti!!! ^^ Son tornata con questo tormento, mi scuso per la forte presenza di dialoghi ma insomma alcune volte servono. Allura allura, mio Dio quanto è difficile parlare di politica, soprattutto io che la storia l'ho sempre odiata (bella scema X_X).  Siamo quindi entrati nella vera parte difficile ed ecco che la mia fatidica richiesta di pazienza entra prepotentemente in gioco. ^^

Ah perdonate il siparietto Erik nudo ... non so se sarà gradito, ma è stata proprio una cosa voluta in cui doveva esserci il primo vero scontro di queste due menti.

Forse qui vi è sembrato un po' fuori forma, però insomma dopo il cloroformio non si sta un fior fior I think so... -_-

Come avete capito sto cercando di rispettare l'assetto storico di quel periodo: facendo un breve sunto sterile dovremmo essere alla fine del 1870 in piena guerra franco prussiana con Napoleone III come imperatore di Francia e la Comune di Parigi che vuole prendere definitivamente il potere rovesciando l'impero. Nel frattempo, tanto perchè la storia è sempre molto simpatica, l'alta borghesia si schiera a favore degli aristocratici così chi ci va di mezzo sono i poracci sempre più poveri. Insomma il ceto medio se ne va a farsi friggere et voilà che si riprendono i casini. Uaaaaa! Ovviamente spero di non aver detto boiate, in tal caso segnalatemele che provvedrò a correggere.

La Sûreté è un'organizzazione che è esistita davvero, nata nel 1821 che era adibita a spionaggio e alla diminuzione della criminalità. Nascono come servizi segreti per poi diventare un organo federale (l'FBI ha tratto ispirazione dalla Suretè francese per dire. Io gli ho dato una connotazione più stile CIA per farvi capire) ma sotto il regime napoleonico era una vera e propria polizia politica. La cosa divertente che più mi ha ispirato per creare la mia Sureté è stato il loro assoldare vecchi criminali, ladri, truffatori, falsari,(io c'ho infilato pure l'assassina/spia eh eh! che fantasia) e non contava molti appartenenti. Inoltre il fatto che agissero sotto copertura e questo mi ha letterelamente mandato in brodo di giuggiole. Ovviamente io ho un pochino modellato la realtà, per renderla più accattivante (un po' stile merendine nelle pubblicità ^^) . L'ho schierata a favore del popolo proprio perché la polizia si schierò contro i monarchici (oddio non so se mi sono spiegata ho dormito poco ed i concetti si stanno aggroovigliando con la mia materia grigia =_=). 

Il loro interessamento verso Erik c'è perchè mi sono sempre chiesta come fosse possibile che una mente geniale come questa nessuno abbiano mai provato ad accaparrarsela in un qualche modo. Oddio spero che fili il mio ragionamento, so che sono molto contorta e che sto mettendo molta carne al fuoco tra storia introspezione, fantasia.... insomma recensite e fatemi sapere che ne pensate ...

Il giochino di dire madame o madamoiselle è voluto. Il fatto che spesso si debba coprire con qualche identità astrusa fa cambiare il titolo (ricordo che Madame è per le donne sposate e madamoiselle per le signorine nubili) e comunque non è proprio una ragazzina per quel tempo. La mia cara Malice (che si pronuncia malis per chi non lo sapesse ovviamente alla francese ^^) secondo calcoli stimati ha 27 anni, praticamente dieci in più rispetto alla Daaé se non sbagli, anche se ha un'aspetto piuttosto fresco e giovanile. Spero che non la troviate forzata nel contesto, insomma non penso che tutte le donne sono state fanciulline da salvare...

Poi poi poi,passiamo alle recensioni, o meglio alla recensione:

Mia cara GiulyRosaRossa bentornata! che bello che sei subito pronta a commentare! Grazie infinite almeno tu sei qui^^! Devo ammettere che il rapire Erik/Gerry è la proiezione del mio sogno, ihihih!!!^^ Comunque per quanto Erik sia un genio forte ed estremamente affascinante, non può molto se qualcuno usa il cloroformio giusto? Uh a proposito a pro, davvero ti piace l'idea del cloroformio? Io bhè in realtà è la seconda volta che lo uso in una storia, piace molto anche a me ^^ è un ottimo escamotage se devi narcotizzare qualcuno e renderlo un agnellino. Sono mui feliz che ti sia arrivato il senso di decadenza del teatro: esattamente ciò che volevo dare, come se fossero direttamente collegati. Vedi non solo quella notte ha perso Christine ma tutto il suo mondo, che tra l'altro non l'ha mai ripudiato come hanno fatto tutti (compresa madama compassione Christine).Quindi l'unico vero senso di colpa che ha radicato può essere solo nei confronti del teatro. Bene detto ciò passiamo ai tuoi meravigliosi deliri comici XD : mi dispiace ma alla cara Malice è stato affibiato il ruolo di Mignolo, niente Eva o Robin per lei. Sorry, sono solo colleghi, magari ci possiamo inventare un nuovo personaggio della serie e lo mettiamo come aiutante di Mignolo tipo la puntata dei simpson con Pucci il cane surfista doppiato da Homer. Ecco ideone: sarà un terzo topolino con il ciuffo impomatato e si chiamera Pucci!!!!Ziiiiii!!! XD Ora basta con questi deliri!eheheh!!! 

Ovviamente ringrazio tutti e spero che se avete un briciolino di tempo, possiate pensare ad una buon'autrice a cui farebbe un immenso piasere sapere cosa ne pensate!!!

Besitos!!!^^ Serva vostra Mally.

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Capitolo 5
*** CHAPITRE 4: Vengeance. ***


CHAPITRE QUATRE: Vengeance.

 

 

Molte persone si erano avvicendate nelle sorti di Erik e con altrettante poteva dire di aver un conto in sospeso, ma a quella frase solo un nome poteva balenargli in mente.

Questa proprietà è confinante con il terreno di un vostro vecchio “amico”, la famiglia di un certo qualcuno con cui avete un bel conto in sospeso.

I de Chagny possedevano gran parte delle terre immerse nella campagna alla periferia di Parigi, meglio dire quasi tutto.

Ovviamente escluso il vigneto che i Saint – Simon avevano appena acquistato dopo la morte dei vecchi proprietari che non avevano eredi.

Constance e Jean-Baptise Saint – Simon, due fratelli già proprietari terrieri che volevano trasferirsi a Parigi dopo la morte dei genitori in uno sfortunato incidente. Una storia cucita su identità inventate in maniera magistrale, molto simile i conti loro vicini con cui potevano vantare affinità e corredarsi di preziosi documenti che riportavano i sigilli imperiali.

Il conte Philippe de Chagny, fratello maggiore del caro visconte, era un personaggio molto potente ed apparentemente uno dei più accaniti sostenitori dell’Imperatore. Il sospetto che fosse a capo di una delle fazione che ostacolavano la Commune, era nato da delle insistenti voci di corridoio che si aggiravano fra i salotti di Parigi, ma non solo.

Più concreti vi erano i continui scambi di corrispondenza fra qualcuno all'interno della corte di Napoleone III e la villa di de Chagny da prima dello scoppio della guerra.

«Una di queste è stata trasportata nascosta tra le due tele di un quadro. Dilettanti …»

Erano passati parecchi minuti, forse anche un’ora da quando aveva iniziato a denigrare i loro metodi relativi alla segretezza.

Spesso le lettere venivano portate in luoghi pubblici, passando di mano in mano  fino a raggiungere il destinatario finale.

Un metodo che alla Sûreté conoscevano bene, ma con tecniche molto più affinate.

 Così quelle lettere avevano visto café, teatri e anche alcuni bordelli per poter passare inosservate.

«Bene ora conoscete il quadro della situazione, quale sarà la vostra risposta: pensate di aiutarci, Erik?» il modo di concludere così sbrigativamente pratico, con il suo nome pronunciato con lo stesso tono sarcastico con cui parlava a sé stesso era diventato un ritornello familiare. L’esposizione meccanica di fatti, date, scambi sospetti avvenuti nella camera d’albergo di turno annoiava persino Malice stessa unica interlocutrice rimasta a convincere un Erik sempre più prossimo a stringere un accordo con loro. Colas era uscito dalla stanza da un po’, per andare ad accogliere i lavoranti del vigneto e i discreti domestici della loro casa. Stava assumendo i panni di monsieur Saint – Simon.

Il sipario si stava sollevando ed ora c’era solo bisogno di un macchinista capace di muovere le corde giuste e con il coraggio di spezzare quella del grande lampadario di cristallo.

«Non capisco la vostra titubanza: pensate a quali umiliazioni potranno coprire il nome de Chagny quando la Commune salirà al potere. I primi nobili che perderanno i loro privilegi saranno proprio coloro che ostacoleranno il procedere verso l’orizzonte di una nuova Francia. Il passo alla rovina sarà molto … molto … molto breve. Ed ovviamente verrete pagato profumatamente: abbiamo il diritto ad una parte delle somme ricavate dagli eventuali sequestri.»

L’offerta sembrava molto più che gustosa.

Non tanto per le ricchezze promesse. Nella sua vita isolata, anche se non si lasciava sfuggire i lussi della sua paga ingente, ne aveva accumulate abbastanza per potersi garantire per sempre un’esistenza agiata.

Ma a quel cavaliere di carta pesta ora poteva levare i suoi immeritevoli guadagni, magari sottraendogli una parte di quel fascino di cui non possedeva alcuna dote più profonda.

Facile farsi ammirare quando la propria vetrina è un bel viso.

«E chissà magari in uno di questi giorni riuscireste anche a rivedere la vostra bella cantante, Christine …»

L’aveva detto distrattamente, lanciando quel nome in maniera naturale come se stessero parlando del tempo, non sapendo quale tempesta aveva scatenato con il semplice pronunciarlo fra quelle labbra impure.

Credeva che non l’avesse vista alzare quel poco gli occhi per scorgere se la nuova provocazione aveva funzionato.

Dio, come odiava quel suo modo di fare.

Prima quei suoi contatti continui, quel suo fargli sentire il calore del suo corpo da una distanza infinitesimale e dopo il suo disseminare briciole di pane solo per attirarlo esattamente in un vicolo cieco, dove non avrebbe mai voluto negare che ciò che desiderava era solo rivedere il suo Angelo e distruggere lui.

E a lei non pensi, Erik? Cosa le accadrà quando il suo futuro marito cadrà in rovina?

No. A lei non interessò cosa fosse successo al suo maestro, la sua guida, una volta tornata in superficie non pensò all’uomo dietro la maschera che l’aveva amata fin da bambina, accompagnandola nel suo dolore durante nelle notti insonni in cui ricordava la morte del padre, non aveva dimostrato alcuna riconoscenza per averle fatto uno dei più grandi doni: la sua arte.

Era stata una bugiarda ingrata.

Se lo pensi davvero perché non riesci ad odiarla? Perché il tuo cuore scalpita a sentirne il nome?

«Avete già pensato a come entrare in possesso di queste lettere?» interruppe brutalmente i suoi pensieri. Si strappò dallo sguardo spaventato della sua Christine.

Malice sapeva che avrebbe vinto.

Lo aveva pregustato dal momento in cui lo sguardo ferito di quell’uomo nel teatro l’aveva colpita.

Era lo stesso sguardo che alimentava la sua di fiamma.

« Philippe Georges Marie Comte de Chagny è un uomo integerrimo, pieno di virtù, che rasenta la perfezione morale, mettendo davanti sempre i suoi doveri. Ma ha il difetto di subire il fascino di una bella donna e qui subentro io …»

Molte signore dell’alta società ambivano al titolo di contessa e ormai escluso giovane rampollo, ovvero il fratello ribelle che voleva sposare sconvenientemente una cantate, rimaneva solo il testardo scapolo d’oro.

Un uomo che molto amava la bellezza femminile, ma che troppo presto aveva dovuto prendersi cura di una famiglia rinunciando a crearne una totalmente per sé.

Avere due sorelle da maritare, un fratello molto più piccolo da istruire, guidare una casa e gli affari di famiglia ricaduti sul suo capo evidentemente gli impediva di potersi serenamente procacciare una moglie con un buon nome. Così gli anni passavano, le responsabilità invece che calare diventavano più gravose, facendogli prediligere piacevoli compagnie temporanee.

«Volete quindi sedurlo?»

Indignato, forse. Era sempre stato un giudice di quello che vedeva nel suo teatro.

Quando una corista piacente trascinava qualche ricco in un anfratto nascosto.

Quando quel depravato di Buquet spiava i camerini dove le ballerine si cambiavano.

Quando il damerino insidiava la sua Christine, spegnendone la gloria.

Era sempre stato giudice ed esecutore di pena.

Ma ora Erik non sei all’Opera!

«Diciamo che lo distrarrò candidandomi a ruolo di contessa, in modo da potermi insinuare nella sua casa costantemente sorvegliata, per poi aprire la porta di servizio a voi Erik …» pronunciò di nuovo il suo nome, senza alcun timore, trattandolo come ogni altro uomo e calcando la voce con il suo accento palesato solo quando si distraeva. In quei momenti lasciava trapelare le sue origini non francesi.

Italiana, avrebbe riconosciuto le erre dolci, le vocali aperte ed i suoni ammorbiditi anche durante un concerto. Quel melenso modo di strascicare le parole in una specie di cantilena musicale.

Accento che ricordava nell’altezzosa e pretenziosa soprano, accento che rimaneva anche nei suoi ultimi stridenti vocalizzi.

Un’inclinazione che su lei, però, diventava quasi ipnotica, seducente, forse dovuto anche al linguaggio del suo sinuoso corpo, a quel modo di muoversi sfrontato per sedersi dietro la scrivania come se non avesse paura di suscitare in un uomo libidinosi pensieri di lussuria.

 È per questo che vi chiamate Malice?

«Ogni dettaglio  si andrà a delineare secondo come riuscirò a far evolvere il tutto. Per ora studieremo i progetti della tenuta dei de Chagny, faremo alcuni sopralluoghi ...» improvvisamente, come se un illusionista avesse schioccato le dita, era cambiata di nuovo, abbandonando la sua parte da serpente incantatore e appropriandosi di quella da gelida calcolatrice, srotolando sullo scrittoio una pergamena su cui vi era disegnata un’accurata mappa.

Quei mutamenti improvvisi, quel suo balzare da un aspetto all’altro con la facilità con cui si respira, poteva lasciare interdetti.

Fatti coraggio! Certo non saprai più chi sei ad un certo punto, mais c’est la vie!

Le aveva detto Colas al suo primo ruolo da protagonista assoluta, lei con un nome diverso a cui doveva abituarsi a rispondere, l’esperienza a non giocare dalla sua e poco tempo per non soccombere agli eventi.

Quanti anni prima era accaduto? Non lo ricordava. Sette, forse otto o qualche mese di più. Doveva rappresentare una donna libertina, a cui non dispiaceva la compagnia di un uomo parecchio più anziano. Dopo le sue esibizioni divennero altre, diverse e molteplici. Un miscuglio di personalità in un calderone enorme, che la resero una delle più abili trasformiste nel suo campo. Ingannava, giocava con le volontà altrui, li rendeva suoi succubi con pochi piccoli gesti, facendosi desiderare dando solo piccoli assaggi di sé.

Era la seducente Malice? La determinata e calcolatrice assassina? L’abile manipolatrice?

O la piccola Lucia?

Ormai non pensava che quest’ultima si potesse più recuperare. La timida ragazzina era all’interno di quell’accozzaglia eccessivamente affollata e con il suo carattere allegro ed introverso non poteva uscire fuori da sola, né essere fortuitamente ripescata.

Constance, un nuovo nome ed una nuova identità da accettare. Solo quella e nulla più.

«Meglio conosciamo i luoghi dove agire e più sapremo come muoverci, soprattutto noi due Erik. Facendo un breve sunto dei vostri probabili compiti vi troverete a fare quello a cui siete più abituato: origliare, rubare qualche documento, riuscire ad eludere gli inetti dell’esercito.»ormai non lo degnava nemmeno più di uno sguardo, posando i suoi occhi in una interessante contemplazione del tappeto o del soffitto prima di tornare alla mappa distrattamente. «Inoltre, se sarà necessario, devo avere una persona abbastanza priva di scrupoli che intervenga in mio aiuto, nel caso la situazione dovesse precipitare. Mi spiace, ma vi troverete a farmi da ombra personale.»

«Non sembrate avere un estremo bisogno di protezione, madamoiselle.» l’aveva detto per sarcasmo, forse per fare una battuta crudele all’indirizzo di una persona che lo stava decisamente irritando. In realtà voleva solo vedere i suoi occhi fiammeggiare al suo indirizzo, renderli vivi e focosi di rabbia nei suoi confronti, era l’unico modo in cui il suo animo si sentiva pago.

D'altronde doveva solo aspettare il momento opportuno, attendere che quei due ambigui soggetti abbassassero la guardia.

Pazienza Erik, sai che non ti giova cedere all’istinto. Avranno quello che si meritano: per ora prendi ciò che ti offrono …

«Spesso dovrò essere disarmata e, come avete potuto constatare, nel corpo a corpo sono in svantaggio contro un uomo e Colas è troppo un verme per qualsiasi cosa non lo riguardi direttamente.»

«Non vi fidate di lui?» una domanda spontanea stranamente alimentata dalla curiosità e non dallo scetticismo di cui ancora ne era preda. Quando poi Malice aveva alzato il suo sguardo su di lui, smettendo di guardare quelle carte, aveva sentito un nuovo strano sentimento nei suoi confronti.

«Voi vi fidereste di qualcuno che non vi pugnala alle spalle solo per convenienza?»

Intendimento.

Aveva letto la risposta ancor prima che la pronunciasse.

Troppo spavalda, troppo sicura, abile. Un degno avversario.

E per quanto volesse iniziò a provare una sorta di rispetto verso di lei.

Ricordati di non lasciarti ingannare dai suoi occhi. Conosce i tuoi punti deboli, sa come sei sensibile al bello che esso sia in una voce o in uno sguardo. Non farti cogliere di sorpresa dai suoi modi.

«In realtà quest’errore l’avete già compiuto, giusto? Avete abbassato la guardia con qualcuno che ha approfittato della vostra buona fede, umiliandovi.»

Poteva una semplice frase squarciare dal dolore il suo petto e allo stesso tempo farlo montare da una rabbia sempre più incontenibile?

Era scomparso ogni segno di indulgenza, cacciato via dal colpo di spugna inferto con quelle parole taglienti dette con leggerezza della voce con cui erano state pronunciate.

Il tutto in pochi secondi.

L’aveva guidato dalla calma, all’euforia, alla compassione ed infine a battere con forza le mani sul tavolo quasi volesse affondare le dita nel legno.

Ansante con il cuore nel petto che pompava forsennato, gridando al sangue di quella misera ed impudente donna.

Solo per non stringerle il collo, solo perché non doveva ucciderla in quel momento.

Poteva vedere la sua ira scorrere attraverso le vene, notare il sangue aumentare il suo flusso iniettando i suoi occhi di pura collera. Tuttavia su di lei la paura nei confronti di quell’uomo, era al minimo.

Non perché non gliene incutesse, sarebbe stato azzardato affermarlo. Ma perché sapeva che in qualche modo lo aveva in pugno. In quel momento Malice gli era utile e da uomo intelligente qual’era, non avrebbe stroncato sul nascere una qualche possibilità.

Si alzò avvicinando il suo volto a quella maschera pallida, a quel mezzo viso perfetto, rimanendo ad un soffio da lui.

A quella distanza quell’iridi verdi cangianti che le stavano tenendo testa con orgoglio fiero e adirato, le sembrarono diventare di fuoco. Finalmente qualcuno che non gettava le armi prima ancora di iniziare.

Un lavoro che non si sarebbe risolto con la semplicità di un uomo stordito dalle sue tattiche, o le sue interpretazioni di piccola fanciulla indifesa.

La soddisfazione di quella consapevolezza dipinta sulle labbra in un ghigno.

Un semplice angolo della bocca sollevato con scherno, alimentando con la pece l’incendio che divampava incontrollato in quel tempestoso stagno.

«Non fate il Fantasma con me, Erik, per me siete solo un uomo al pari degl’altri …» lo esalò, come aveva fatto in precedenza solo per tastare se quell’effetto fosse dovuto ad un istante di debolezza.

Esattamente quello che si aspettava.

Una paratia fatta di fredda insensibilità si ergeva imponente fra i due.

Fai solo finta di non vedermi, Erik. So che sentiresti il calore umano da una sola persona: hai paura, più di quella che cerchi di inculcare. Hai paura di scoprire che forse quello che provavi era solo un castello di carta, un’ossessione di cui ti credevi padrone senza vedere che ti stava sfuggendo.

Ti sei mai chiesto come ti sei innamorato di una persona che nemmeno sapeva chi eri realmente?

Oh Erik, non sai quanto è fallace l’animo umano …

E anche se te lo neghi sei umano,  fatto di carne e sangue.

«Siete … insopportabile …» stava per perdere il controllo, ora che si sentiva di nuovo padrone del proprio istinto ne stava finendo preda.

La voce, le mani, ogni parte del suo corpo sembrava tremare sotto l’impulso di uccidere quella donna.

Cosa odi più di lei: che sia così calma in tua presenza o che ti ricorda costantemente che sei un mostro senza cuore?

Malice non l’aiutava, sembrava divertirsi a stuzzicare ogni suo punto debole prendendolo alle spalle.

Quella tremenda capacità di essere dannatamente passionale e fredda allo stesso tempo, possibile che Erik provasse una tale repulsione per un fiore così raro.

Un fiore con la sua stessa corolla.

Ti urta essere davanti invece che dietro ad uno specchio, Erik?

Sentì un rumore e vide un movimento tra i loro petti così poco lontani.

Tra le mani teneva un tagliacarte a forma di piccolo stiletto, il manico dorato e la lama affilata solo in punta.

Ma non lo brandiva minaccioso contro il suo collo, bensì glielo stava offrendo.

«Avanti … so che non vi piaccio, e sappiate anche che la cosa è reciproca. Ditemi Erik, non aspettate altro che mettermi a tacere sotto metri di terra, vero? Magari alla fine di tutta questa situazione in cui siete incappato, quando riuscirete a compiere la vostra vendetta contro i de Chagny vorreste liberarvi di me. Ma perché attendere così tanto …» i loro occhi non smettevano di fissarsi, ingaggiando la seconda battaglia di fuoco in poche ore. «Avanti … Prendete il tagliacarte ed affondatelo nella mia gola …»

Non sapeva dove voleva arrivare quella donna, quale era il gioco che aveva intrapreso.

Di solito il suo lavoro non era così divertente.

Arruolavano, finivano la loro missione e fine dei giochi. Prendi, uccidi e continua.

Certo, molti si erano infuriati con i suoi modi, quel suo essere irreprensibile e priva di rimorsi.

Il suo disinteresse per ogni cosa che non  fosse eseguire gli ordini, oppure quella sua smania di dover baciare il crocefisso.

Qualcuno aveva addirittura provato ad allungare le mani, visto il suo ruolo si sentivano autorizzati, altri si tenevano ben alla larga dalla sua cinica spietatezza, ma mai nessuno l’aveva fronteggiata in quel modo.

Si odiavano ed erano praticamente alla pari, due personalità dominanti.

La donna non si aspettava che Erik avesse il coraggio di afferrare il tagliacarte e puntarglielo conto.

Sentì il punto dove la carne si ammorbidiva sopra lo sterno bruciare acuta ed un liquido scivolare lentamente fin nell’incavo dei seni.

La pelle dove la punta era appena affondata era stata recisa, quel ghigno smise finalmente d’incresparle le labbra trasformandosi in un gemito appena percettibile. Il dolore e la sorpresa provata si rispecchiava nei suoi occhi socchiusi appena, per poi tornare a fissarsi con quelli dell’uomo in cui passò la tanta agognata compiacenza.

Erik voleva comandare, non essere comandato.

Lui era il Fantasma dell’Opera.

«Non sfidate troppo la mia pazienza, madamoiselle, potreste pentirvene!»

La voce piacente gustava con languore la minaccia.

Calda, profonda e carezzevole, tremendamente sensuale, quasi a farle sussultare il petto.

E prima che potesse replicare conficcò con potenza il tagliacarte nel legno della scrivania.

Vibrò sotto il colpo infertogli, tremò assestandosi dopo molti interminabili istanti.

Quando il rintocco sordo terminò di riecheggiare, nella stanza rimasero solo i loro respiri concitati e gli sguardi furenti di entrambi.

Sembravano due titani, l’uno di fronte all’altro a cercare di primeggiare con cotanto di sangue versato.

E fu proprio questo a ridestarla dal torpore creato.

Non le era mai piaciuto l'odore del sangue, le ricordava quello di sua sorella in una delle tante notti di indicibile tortura.

Ogni volta si sentiva ovattata, annebbiata non sapendo come definirsi. Ferita. Scossa, perché non si era lasciato intimidire dal suo modo di fare che spesso le aveva spianato la strada. Doveva andarsene e subito.

«Avete qui tutto quello che vi serve, domani mattina faremo un giro di perlustrazione ai confini con la tenuta. La cena verrà servita alle sette, non tollererò un ritardo. Ora se volete scusarmi, devo andare a presentarmi ai domestici come la padrona di casa. Con permesso …»

Stava fuggendo. Perché questo sapeva fare.

Quando non aveva carte da giocare, quando il sangue aveva raggiunto le alte vette della sua mente rendendola disarmata, Malice scappava.

Voltava le spalle con la stessa nonchalance con cui vezzeggiava un politico in vena di confidenze.

E questo voleva, scappare incurante del sangue che le aveva macchiato il pizzo bianco del suo bustino, incurante dello sguardo incattivito dell’uomo, incurante del tumulto che le si stava scatenando nel suo ventre.

Voleva solo uscire da quella stanza, andare lontano.

In quel posto, in mezzo al boschetto nella proprietà dei de Chagny lontano da quella vita, da quella casa, da quell’uomo che le stava facendo riaffiorare i suoi ricordi.

Erik non sapeva che una persona al mondo lo stava invidiando.

Lui, che per tutta una vita era stato logorato dal livore, era diventato oggetto di risentimento.

Non sapete nemmeno quale fortuna avete con la possibilità di realizzare la vostra rivalsa, potrete sentire implorare pietà di chi ha osato strapparvi la vita ed ora osate anche sputare nel piatto in cui mangerete.

Non desiderava nulla oltre quello, dopo avrebbe smesso con quella vita dissoluta e si sarebbe dedicata ad altro fuggendo forse definitivamente da quel mondo che la volle e la pretese quando era ancora una nemica.

A chi si poteva affidare? Chi le avrebbe concesso di ritornare in patria solo per poter applicare le torture imparate durante la sua esperienza alla Sûreté?

Per lei esiliata, nascosta dal governo francese perché utile, la speranza si era eclissata sotto l’ombra di una promessa infranta. Da sciocca ragazzina quale fosse aveva creduto alle loro parole, aveva pensato che quella fosse la soluzione migliore ed aveva donato loro la sua vita. 

Aveva mentito, torturato, ucciso, viaggiato oltre i confini fino al lontano Oriente, oltraggiato Dio infrangendo i suoi sacramenti e i suoi dettami.

E non le avevano nemmeno concesso di sbarcare un giorno, un giorno soltanto.   

Vi siete dimostrata all’altezza, ma non possiamo riportarvi a Roma, non ancora almeno. Avete sangue consacrato sulla coscienza e ci vorrà molto tempo prima che le acque si calmino. E poi vi sono molti altri compiti d'affidarvi e di estrema importanza.

Questo le avevano detto nonostante il suo debito fosse stato pienamente saldato, ma da così tanto tempo da farle dimenticare quale fosse il suo vero io.

Non aveva più nome permanente, non aveva nulla se non la sua vendetta e la sua Fede.

La Fede, una pallida e fioca luce in fondo a quel buio cunicolo perché, per quanto fosse sfiduciata ed amareggiata, per quanto fosse diventata una peccatrice, un demonio, lei aveva mai smesso di amare Dio.

Anche l'Astro del mattino ha amato Dio, ma io non peccherò in superbia nei suoi confronti.

Sapeva che l’avrebbe punita, la sua anima colpevole perennemente riarsa insieme ai reietti ed i peccatori nel girone peggiore, ma aveva anche la certezza che Egli le dovesse un qualcosa.

D'altronde non era stato un sedicente uomo di Dio a condurla verso la perdizione, verso la condanna eterna?

Il Signore non mi negherà il suo sangue, avrò modo di poterlo versare io stessa nella maniera più dolorosa possibile.

Era l’atto finale delle sue preghiere durante il vespro, quando il giorno volgeva al desio e Parigi piombava nel più cupo silenzio. Riempiva allora la sua mente con quel rosario di madreperla ed alla fine, quando finiva il consueto rito come le avevano insegnato fin da bambina, si liberava della sua unica richiesta a Dio.

 

«Le raccomandazioni che mi sono giunte, madame, sono ottime senza alcun dubbio. Tuttavia ci tengo a precisare che la discrezione è di vitale importanza in questa casa. Sapete due fratelli ed un loro amico di vecchia data che gestiscono un vigneto saranno un bel bersaglio per i pettegolezzi dei salotti Parigini, soprattutto perché mia sorella è ancora nubile e vorrebbe trovare un marito dabbene. Non vorrei ci siano ulteriori voci provenienti dalla mia stessa casa e me ne rammaricherei di rovinare le vostre belle referenze con quelle dei vostri lavoranti. Capite cosa intendo, madame Bonnet?»

I Bonnet erano una famiglia impiegati come domestici da generazioni: madame Bonnet era un’ottima governante già da prima di sposare il povero ormai defunto marito, sapeva gestire una casa senza lamentarsi che la sua padrona non vi fosse molto presente, le cameriere ed i cuochi che assumeva erano tutti collaboratori di cui si accertava con indagini che andavano a mirare sulla loro buona fede e, soprattutto, le sue labbra rimanevano serrate su ogni avvenimento della casa in cui lavorava.

Le faccende dei propri signori rimanevano di loro proprietà.

Per questo la Sûreté, o meglio i Saint – Simon, avevano richiesto servizio a quella strana donna dall’aspetto arcigno di una megera delle antiche fiabe, con quella sua crocchia severa che raccoglieva i capelli grigi come un topo, due occhietti piccoli e laccati da una patina di vecchiaia, vestita di nero con abiti da lutto.

«Non deve temere alcun ché in tal senso, monsieur.»

«Bene. I vostri alloggi, insieme a quelli del resto della servitù si trovano nella dependance. Posso annunciare a nome anche di mia sorella, benvenuta a villa Saint – Simon, madame, ci affidiamo alle vostre cure! » disse allargando un sorriso finto, ripagato con un volto impassibile. «Direi quindi che potete andare, madame Bonnet!»

«Con il vostro permesso, monsieur!» educatamente fece un inchino abbassando la testa, per poi prendere la via della porta e dedicarsi a sistemare l’abitazione al meglio. Il suo dovere andava al di sopra di ogni cosa.

Ma mentre stava per uscire Colas notò un drappo di stoffa volare leggiadro su due spalle magre veloce verso le scale.

Si precipitò quasi investendo madame Bonnet verso l’evasione di quella che d’ora in poi sarebbe diventata sua sorella.

«Dove state andando?»

Quando ella si arrestò, non osò nemmeno voltarsi.

«Non sono affari che vi riguardano!» rispose velenosa.

«Non vi permettete, Costance di trattarmi in questo …»Se non fossero stati nel corridoio, davanti alla propria governante e lui nei panni del suo tutore, non si sarebbe mai azzardato a prenderla malamente per un braccio, girando il suo viso a favore.

Quello che vide lo lascio tremendamente scottato, non era decisamente da Malice.

Poteva essere interpretato come una mancanza di rispetto, un modo per dimostrargli che nonostante la loro copertura da mantenere, lei non sarebbe mai stata la tigre in gabbia.

Invece era solo per mascherare gli occhi rigonfi dalle lacrime rabbiose trattenute fra le lunghe ciglia.

Non voleva piangere nemmeno se era per collera e non per tristezza.

«Lasciatemi immediatamente!»

Quelle parole sputate tra i denti agirono come il morso di un aspide sul polso e Colas ritirò la mano.

Malice di suo canto finì di sistemarsi i guanti, tornando con i suoi piccoli passi svelti verso l’esterno, i suoi lunghi cappelli ondeggiavano contro la schiena ad ogni movimento liberi da ogn seccante costrizione.

Un’onda castana che Erik osservava dalla finestra chiodata, sferzare contro il vento di una cavalcata sempre più lontana.

Correva lontana da quella stessa stanza da cui Erik l’aveva fatta fuggire.

Da quando quella maledetta notte aveva perso tutto, aveva in tutti modi cercato di cancellare la sua musica in grado di risvegliare ogni sua paura più profonda, ogni suo rimorso.

Ora che la sua musa era partita per lidi lontani, niente aveva più senso tutto era sempre più vuoto.

Ma quella vittoria che aveva appena ottenuto lo condusse inaspettatamente a canticchiare.

Un motivetto, un’inezia della sua vasta produzione, un semplice sussurro fra le labbra chiuse che inneggiava alla sua conquista. Prese anche a marcare quel ritmo con le dita contro l’imposta, scandendo la melodia con ancor più incisione, anche se rimaneva un qualcosa d’infinitamente amaro a guastargli la bocca.

Sei riuscito a far fuggire anche colei che riesce a fronteggiarti, Erik.

Cercava di ripetersi che era giusto così, che lui non era fatto per stare con gli altri, nessuno lo voleva perché era lui a rifuggire gli altri. Mentiva sé stesso, perché odiava essere considerato come un untore pernicioso di peste, quello che voleva era solo essere accettato come uomo senza la pietà o la paura che guidava chi aveva di fronte.

Per questo ti infastidisce quella donna, perché ti tratta da uomo con normalità, tratta con te come tratta con chiunque altro. Ti guarda senza arretrare, cerca di sedurti con il suo fascino e ti chiama per nome. Ammettilo che godi quando senti il tuo nome sulla bocca di una persona che non sia …

«… madame Giry …»

Un nome che ancora gli bloccò il canto.

Un nome che riusciva a perdonare nonostante avesse indirizzato il visconte alla sua dimora.

Un nome che gli suggeriva cosa gli era più mancato nella sua vita.

Non aveva ancora letto la sua lettera ed almeno una spiegazione gliela doveva.

Erik,

Non sai quanto mi costa scrivere questo nome senza versare almeno una lacrima.

Se non si fosse accomodato su quella poltrona ancora calda del corpo di Malice, probabilmente sarebbe caduto. Sembrava di sentire la voce della direttrice del balletto parlargli dolcemente, tremando dall’emozione crescente di quel confronto.

Era costretto a respirare di tanto in tanto, unendo quella strana sensazione di difficoltà nel trovare l’ossigeno necessario alla lettura sempre più difficoltosa. Si fermava stringendo gli occhi mentre mille chiodi gli si conficcavano nel petto, cercava di trovare il coraggio di andare avanti.

Quella lettera era la sua storia nel teatro, ma da un punto di vista totalmente differente.

Ho cominciato a vedere che il tuo affetto si era trasformato in una insana ossessione, non ho fatto nulla per fermarti, non nemmeno tentato di farti ragionare. Ho scelto la via più facile assecondandoti e ti ho perso.

Vi ho perso.

Si scusava per quello che era accaduto, per la follia che si era impadronita del suo cuore.

Soffre a causa tua, perché sei un mostro ed allontani persino chi ha nutrito un affetto sincero.

Sarebbe stata la sua pena quindi, il rimorso di non averlo fermato per tempo. Per lei era sempre stato solo un bambino maltrattato perché diverso, che non conosceva veramente il confine tra giusto o sbagliato.

Spero che prima o poi lo riesca a capire.

Poi la lettera cambiava, parlava di lei e quello che stava vivendo da quando la sera del Don Juan tutto era finito, o iniziato di come il mondo si stesse scordando chi fosse il Fantasma dell’Opera.

Ieri sono stata all’Opera con Andrè e Firmin, quando i gendarmi sono stati allontanati. Erano increduli, hanno opposto un minimo di resistenza, ma dopo un po’ si sono convinti a lasciare la loro postazione. “Ordini dai vertici” mi hanno risposto. Non ti nascondo che questo mi ha insospettito soprattutto dopo che ho ricevuto la visita di una strana donna.

Era molto affabile ed aveva un viso pulito, tanto che da un primo momento mi aveva quasi ingannata.Ti sembrerà incredibile ma aveva qualcosa nello sguardo, qualcosa che conoscevo già da te, uno strano velo di tristezza che in un qualche modo mi ricordava te.

Ha iniziato a parlarmi del Don Juan e dell’incendio, di come fosse fortuitamente riuscita a scappare.

Quando le sue domande sono diventati insistenti l’ho congedata, ma da allora ho sentito il vento cambiare.

Ho come l’impressione che volesse qualche informazione in più su di te, sul Fantasma e non sembrava una nobildonna in preda al bisogno convulso d’indiscrezioni. Se fosse stata diversamente avrebbe ricercato notizie sfiziose della tua ossessione per Christine, ma la sua curiosità sembrava di tutt’altra natura.

Temo che sia il mio senso di colpa, l’angoscia,  la premura di saperti al sicuro a farmi vedere un complotto contro di te e forse sto vaneggiando finalmente impazzita.

Erik, non ti chiedo di perdonarmi, sarebbe troppo per quanto le mie colpe siano ben oltre quelle che credi.

L’unica cosa di cui ti prego, l’unica cosa che io voglio è che tu stia attento.

Per il resto sappi che io non so se troverò mai pace.

 

Con Sincero  Affetto

Antoinette Giry  

 

Quell’ultima parte l’aveva riletta tre volte, finché la sera non l’aveva costretto a capitolare nel districarsi nella fluida calligrafia di Madame Giry. Dopo tutto quello che era successo, dopo che la sua pazzia l’aveva condotta in rovina, lei cercava ancora di metterlo in guardia, anche se ormai infruttuosamente.

Lo credeva ancora umano.

Non smettete mai nemmeno di sperare, vero Madame?

 

Note dell'autrice: Capitolo di transizione in cui si spiegano un po' di cosine e il risvolto della loro copertura. Capito perchè ho magicamente fatto risorgere Philippe. Chissà se sta realmente tramando contro la Commune, vedremo vedremo. E poi ho deciso Christine ci sarà e siccome sono fortemente buona .... ahhh non vi dico altro comunque vedrò vedrò ...

Dicevo spero che si risollevino un po' le sorti in questo capitolo ed anche che la nostra Malice si sia leggermente addolcita.

Per chi non l'avesse capito il reale nome di Malice è Lucia e l'ho scelto perchè significa Luce splendente (e da questo il titolo della ff, perchè di splendente ha ben poco).Malice è un soprannome con cui l'hanno ribattezzata alla Sureté, immaginate il perché =_=. E viene da Roma ed è molto credente, sa di essere condannata ma non rinuncia a pregare Dio. Vi ricordo che lo Stato Pontificio è caduto allora allora e Roma era fortemente sotto l'influenza del papa (da questo la sua devozione quasi patologica ed assurda il perchè lo scoprirete poi).

A proposito di nomi, Colas invece è il nome del protagonista di uno dei miei balletti preferiti La fille mal gardée che io personalmente consiglio di guardare. E' allegro, giocoso e non muore nessuno (il che è tutto dire visto che nei balletti le protagoniste fanno quasi sempre una brutta fine).

Digressioni a parte passiamo alla mia consueta recensione:

Ma Chere Giuly, sempre contenta dei tuoi commenti. Ohhhhh!!! Erik ti piace (non preoccuparti lui sa sempre come volgere a suo favore le situazioni super ghost!!!^^) me batte le manine tanto felicemente!!! Ho una paura boia di non riuscire a renderlo, soprattutto perchè è molto altalenante come tipo di personaggio. Comunque spero vivamente che la mia storia possa accogliere qualche commentino e seguito in più, ma finché ci sarà anche solo una persona a leggere io scrivo (anche perchè se non metto nero su bianco tutto rischio di scoppiare) ^^.

Sai mi hai appena fatto la domanda del secolo: Erik conosce o no l'amore carnale secondo il mio punto di vista? Se ti dicessi che Erik è secondo me a metà.

Mi spiego meglio: vorrei lasciare che chi legge la pensi come vuole su questa faccenda. Di sicuro lui è carnale come persona (cresciuto prima con gli zingari e ppoi in un teatro, se non ha mai visto nulla del genere doveva avere occhi foderati di prosciutto eh eh), basti sentire le musiche e i balli del Don Juan, come voglia fare sua Christine anche se la rispetta la desidera (innamorato sì ma non scemo) sa cosa è il sesso, il puro erotismo, passione ridotta ad istinto. Ed è propio la sua pura essenza, lui è passione al contrario di CarciofRoul. In lui l'amore fisico sembra si vada a confondere con quello carnale, proprio perchè entrambi li sente quasi totalmente preclusi. Certo non penso che uno come lui sia stato completamente indifferente anche solo alla curiosità di scoprire com'è o come non è il sesso. Però da un lato un uomo innamorato dell'amore come lui avrebbe cercato un letto mercenario? Non saprei veramente, forse sì forse no. 

Quindi riassumendo lui non è molto innocente su questo punto, ma mi mantengo agnostica se l'abbia praticato o meno. Di sicuro ha la passione nel sangue come la musica e avrai modo di vederlo comunque ...

Spero di averti risolto il dubbio, che in realtà non è risolto però meglio di niente no. Ti auguro una notte piena di Erik-sogni!!!Besitos!!!^^

Ringrazio sempre chi mi segue!!!Vi adoro anche se siete in silenzio!!!

Serva vostra!

Mally

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Capitolo 6
*** CHAPITRE 5: Rencontres. ***


CHAPITRE CINQ: Rencontres.

 

«Credo che la scommessa si può dire persa Philippe, il mezzodì è passato ed ancora non vi è traccia del cervo!»

Nessun nobile in Europa che fosse francese, proveniente dalla grigia Inghilterra o dalla fredda Germania non poteva rimanere affascinato dalla caccia. Era indiscutibilmente il loro passatempo migliore, dove poter sfoggiare il nuovo cavallo o il bracco conquistato in una cruenta battaglia con qualche altro aristocratico annoiato.

«Questa volta vostro fratello non ha partecipato alla caccia mensile. Non ha più tempo per gli amici per caso? Oppure la cantante lo sfinisce troppo?» era una battuta detta fra un guanto e l’altro, sistemando il bottone del panciotto con indifferenza, sperando che quella provocazione avesse suscitato la giusta stizza nell’austero conte.

Godevano della sua casa, della sua ospitalità, del suo brandy sbandierando le loro promesse d’amicizia, ma se avessero potuto avrebbero volentieri pugnalato le sue spalle.

E la faccenda di Raoul, lo scalpore scaturito dal Fantasma dell’Opera e la sua promessa sposa, forniva un ottimo pretesto per potersi prendere gioco dello spocchioso conte de Chagny.

Quelle che ne scaturirono più che risate furono dei veri latrati, al pari dei cani che si portavano d’appresso.

Anche se fra le risa divertite, i grugniti sguaiati di quel manipolo di uomini pronti ad esporre un nuovo trofeo sulle mura di qualche casa estiva, vi era un segno di disprezzo e costernazione.

Un debole lamento che cercava di essere nascosto dall’uomo distaccato che si sentiva oggetto dello scherno di tutta la società parigina.

Conosceva molto bene Raoul, nella sua giovane vita aveva sempre cercato d’imbracciare progetti e cause senza un minimo di logica e buonsenso. Davanti ai suoi occhi poteva già vedere il fratello dopo una carriera navale brillante, prendere le redini di quella casa portando con sempre più onore il nome della propria famiglia. Lo vedeva sposato con una donna degna della sua classe sociale, una baronessa oppure una signorina dell’alta borghesia, vedeva i suoi figli eredi della loro fortuna ed infine vedeva i suoi progetti futuri totalmente sfumare dietro i sogni romantici di un fratello scellerato.

Questi maledetti poeti che parlavano di amore e morte, inculcando idee moderne, decisamente prive di raziocinio, stavano facendo accrescere un idea romantica di arte e bellezza forviando da obbiettivi più concreti le giovani menti.

Lo aveva avvertito che la sua decisione di diventare finanziatore dell’Opera Garnier fosse alquanto scriteriata ed azzardata, l’arte non poteva essere una fonte di guadagno sicura visto la mutevolezza della sua natura.

 Ne era sorta una rappresaglia durissima con il risultato di intestardirlo ancora di più. Non l’aveva ascoltato, si era impuntato come un bambino cocciuto che non vuol sentire ragioni ed ora si trovava con nient’altro che un pugno di cenere in mano.

No, non con solo un pugno di cenere, ma con l’amore per una cantante lirica coinvolta in uno degli scandali più chiacchierati in tutta la Francia macchiando il buon nome che con fatica aveva fatto risorgere.

«È ancora bloccato a Parigi: assieme ai direttori artistici vogliono trovare un acquirente per il Teatro.»

«Un’impresa impossibile, chi vuole un teatro distrutto ed infestato dagli spettri! Povero Raoul così ingenuo da farsi abbindolare da due begl’occhi di ragazza!» Altre risate, dure e grette che giungevano alle orecchie dell’irreprensibile conte come unghie su di uno specchio.

«E non solo gli occhi sono belli …»

Tutte quelle allusioni volgari, i gesti che mimavano le candide forme di una donna con intenti libertini, gli occhi avidi che s’inoltravano nelle scollature delle signore con poco rispetto da quegli stessi uomini che si tacciavano per grandi conoscitori delle buone maniere, lo denigravano profondamente.

Perché doveva sopportare tutto questo? In fondo non voleva i loro consensi né, tanto meno, il loro rispetto. E mentre stavano ancora strascinando i loro petti gonfi di pigro gradimento uno dei cani tese il suo corpo in avanti, il tartufo umido a sondare l’aria con un sordo gorgoglio del suo torso, vibrava come una freccia pronta allo scocco. 

Philippe notò lo strano comportamento del segugio ed alzò una mano verso i suoi compagni, intimandogli con quel gesto un po’ di silenzio. Proprio dove il suo muso era diretto, in quel punto indefinito del bosco vi fu un movimento sospetto tra i cespugli.

Due corna ramificate, intricate come i rami secchi di un albero orientale si levarono da terra, sbandierando la presenza della tanto ambita preda agl’occhi dei cacciatori.

Ruminava distratto qualche corteccia, segnando il terreno umido con gli zoccoli. Il suo aspetto regale spiccava maestoso fra gli arbusti più bassi, s’ergeva impettito ed elegante fra tutta quella sterpaglia a fargli da tappeto. I suoi occhi, splendenti anche da quella distanza, brillavano di una luce vivida ed intensa ricolma della sua scaltrezza che gli aveva permesso di sopravvivere di giorno in giorno. Tutti erano rimasti incantati da tale sontuosità espressa da Madre Natura tranne Philippe, che non perse tempo a contemplare lo spettacolare esemplare a cui stavano dando la caccia da mesi.

E poi aveva una scommessa da onorare.

Imbracciò il fucile ponendo il cane tra la spalla ed il braccio, la guancia posata sul legno lontana dal caricatore appena scattato, armandosi velocemente con un sonoro clangore.

Trattenne il respiro al pari degl’altri che attendevano impazienti che sparasse al suo nuovo trofeo da esibire nello studio.

Il dito fremeva sul grilletto attendendo che si centrasse il bersaglio.

Tutto tacque.

Persino gli uccelli, che fino ad allora cantavano allegri ed ignari, si chiusero in un cieco mutismo.

Ogni cosa era il suo posto: il cervo era a tiro e il suo indice iniziò lentamente a premere.

Una manciata d’istanti intercorsero fra lo sparo e ciò che attirò l’attenzione del cervo.

Una macchia scura, il rombo dell'arma ed un nitrito potente che squarciò l’aria, giungendo nel gruppetto eterogeneo di nobili.

Il tonfo di qualcosa che cade e la macchia era sparita tra le ombre del boschetto.

A quel richiamo il bracco scattò abbaiando concitato, seguito in egual misura da Philippe.

«Ma … ma cosa è successo?» disse il grasso oppressore di cavalli, che con la sua mole stava costringendo il povero animale ad un’incredibile sforzo. Nessuno si mosse, tipico dei nobili preoccuparsi dei perché e dei come senza agire sul campo.

 

Malice li considerava un vero e proprio branco: si muovevano in massa per stanare una sola creatura di Dio, indifesa contro le loro pallottole e il fiuto dei loro segugi, impettiti nei loro completi provenienti dalle sagge mani di qualche sarto che vi aveva lavorato sicuramente giorno e notte, consumando la vista al lume di una candela solo perché il ricamo venisse finito per tempo, magari proprio per il mensile appuntamento alla tenuta de Chagny.

Si concesse un ultimo sbuffo vedendo il cane sedersi a qualche passo da lei, accasciata tra le foglie con l’ingombrante vestito con le balze ad intralciarle le gambe scelto proprio per l’occasione.

Da quel momento in poi, da quando mostrò il suo palmo al bracco che l’osservava curioso con quei suoi occhietti vispi inclinando la testa con piccoli scatti lasciando che le orecchie penzolassero inanimate, lei sarebbe stata Constance, la dolce e amabile Constance.

I gusti del conte erano assolutamente prevedibili: amava le belle donne, docili e brave padrone di casa. Magari con un buon capitale a coprirle se non fossero nobili. Il suo carattere si sarebbe trasformato in quello di una mite fanciulla che si era presa cura della casa mentre il fratello era troppo occupato con gli affari di famiglia.

Il bracco si convinse e, ancora con un piccolo sospetto, si avvicinò alla sua mano annusandone le dita.

Si manteneva a distanza, insicuro, analizzando con cura il suo odore.

«Così … bravo … vedi non voglio farti del male …»

Non potrei fare del male ad un’innocente …

La coda del bracco prese ad ondeggiare convulsamente ed il cane permise alla donna di accarezzare dapprima sotto il muso, poi sopra le orecchie quando la sua lingua rasposa aveva preso a lapparle la mano in segno di ringraziamento.

Malice amava i cani il loro impulso ad essere sempre fedeli al proprio padrone, il loro modo di sentire a pelle quando e come fidarsi. Certo i suoi gusti non ricadevano su piccoli esserini pelosi da impacchettare come un dono con coccarde e fiocchetti, amava le razze d’azione piuttosto che quella da compagnia. Esattamente come quel bracco dal muso dolce che sembrava averla presa in simpatia.

Sicuramente sei meglio di Colas.

Il cane venne richiamato da un fischio, con un movimento fluido sollevò il capo e le orecchie morbide.

Malice sentiva la terra sotto di sé vibrare al colpo degli zoccoli, assestarsi quando il cavallo del conte, il primo ad arrivare, si fermò per far scendere il suo proprietario.

«Oh, Mon Dieu! Madame, state bene? Vi siete ferita?»

Premuroso, cortese si precipitò accanto a lei per accertarsi delle sue condizioni.

Gli occhi sperduti della donna vagarono attorno a sé prima di posarsi in quelli cerulei del conte, che di fronte ad essi sembrò bloccarsi stupito. Era ad una distanza così ravvicinata che avrebbe potuto dire di affondare nelle iridi di quella donna, così delicata, spaventata, indifesa che subito il suo senso paterno di protezione prese il sopravvento.

Anche il suo respiro affaticato quel poco da farle sembrare ancor più spaesata e confusa.

Una povera pecorella smarrita. Una pecorella con cui si nascondeva il lupo.

«I- Io credo di stare bene, ho sentito lo sparo, il cavallo mi ha disarcionata e sono caduta …» parlava velocemente, con la mano sul petto cercando di regolarizzare il fiato concitato.

Quali grandi doti drammatiche.

«Ora calmatevi, non avete nulla da temere. Come vi chiamate?»

«Constance Saint –Simon …»

I Saint – Simon. Philippe conosceva bene quel nome.

Lui stesso aveva cercato di acquistare quel vigneto, vedendo un vero investimento su cui poter contare. Si ripeteva che con o senza guerra, il vino si sarebbe bevuto sempre. Persino ora, che fra gli ambienti più alti e non, la supremazia del succo di Bacco veniva pesantemente minacciata dalla Fée Verte.

Purtroppo era stato un breve e sfocato sogno, visto che i fratelli Saint – Simon lo avevano preceduto acquistando il terreno prima di lui. Si era informato su di loro, interessato soprattutto a conoscere un po’ quei misteriosi nuovi inquilini che gli venivano ad abitare accanto ed aveva sentito parlare della bella Constance.

«Madamoiselle Saint – Simon, come siete arrivata nella mia tenuta?»

«Oh! Perdonatemi monsieur, temo di essermi perduta mentre passeggiavo con il mio cavallo …» Si fece cogliere da un lieve gemito ed andò a tastare la sua gamba da sotto i mille strati di stoffa. «La mia caviglia …»

«Vi fa male, madamoiselle?» un versetto debole su di una smorfia, un piccolo tremito delle labbra e la tagliola era appena scattata.

Philippe non si stava nemmeno accorgendo del suo modo insistente di osservare la giovane donna, inebriato forse dal tenue profumo di lavanda che la sua pelle emanava. Decisamente nessuna descrizione le aveva realmente reso giustizia. Il bustino rigido disegnava il suo corpo con ottimo pizzo veneziano ad adornare il lucido raso viola, una scollatura a delineare gli amabili seni e sul petto il suo crocefisso d’argento come pallido riflesso di un incarnato di porcellana come la più fulgida luce della luna. I capelli raccolti lasciavano due ampi boccoli a caderne ai lati, un cappellino sfizioso incastrato sopra di essi insieme ad alcune foglie secche insinuate tra le loro spire.

Il genere di donna che il conte de Chagny prediligeva, semplice con pochi artifici, una bellezza naturale, una bellezza dettata dal fascino dei suoi lineamenti, deliziosa come una pennellata d’acquerello, una fata dei boschi.

«Credo che sia meglio che non la poggiate, vi spiace se …»

Come poter negare una così cortese richiesta, detta nel più sincero dei modi ed in maniera così cavalleresca da far invidia ai racconti medievali? Con un piccolo sforzo la prese fra le sue braccia facendo scivolare un braccio sotto le sue ginocchia ed uno dietro il busto della ragazza, stringendone il corpo contro il proprio petto per mantenere la presa salda.

«Vi accompagno a casa, madamoiselle.» Quella mattina Philippe era uscito convinto di riportare un cervo a casa, con la vincita di una scommessa nella tasca. Il bottino era ben più alto di quello che sperava visto che alle sue spalle vi era aggrappata una fragile fanciulla spaventata e ferita.

Almeno questi erano i toni di scherno rivolti dai suoi compagni di caccia, che ciarlavano sottovoce credendo di non  essere uditi dal conte.

Sciocchi.

Come siete fragili voi uomini.

Nessuno si era accorto di un’ombra che osservava irrequieta la scena, nascosta tra i cespugli a cui una fugace occhiata della donna si era rivolta nel mentre veniva issata sul destriero del cavaliere senza macchia e senza paura.

Una figura oscura con una bianca maschera a nascondere il suo mistero svelato.

 

Dopo la sua cattura Erik non era ancora pronto per prendere una scelta tanto grave: decidere di cancellare ciò che sentiva nel petto, l’amore che ancora lo consumava dall’interno e lasciare libera la bestia che era in lui solo per soddisfare la propria sete di vendetta.

Qualcuno ne avrebbe sofferto, quello stesso qualcuno di cui non riusciva nemmeno a pensare il nome senza sentire una morsa stringere lo stomaco, il contorcersi dei suoi tessuti molli fino a farlo spirare per poi riprendere a fatica ogni piccola funzione vitale.

Amarla significava provare dolore, non amarla era impensabile.

Assurdo se si possedeva ancora un cuore scalpitante ed indipendente, selvaggio ed impossibile da imbrigliare a cui bastava poco per sussultare ancora ed ancora.

Un piccolo rumore o un semplice ricordo.

Mors tua vita mea.

Uccidere definitivamente l’uomo per far vivere il mostro.

Il suo corpo era estraneo a qualsiasi forma di vita che non fosse il suo respiro.

Lento.

Cadenzato.

Solo.

Chiuso nel suo dubbio, nella sua pena, nel suo ritrovato dolore, tra quattro mura erette sopra la sua testa dove si sentiva protetto. La sua esistenza passata in una prigione da lui stesso progettato, non l’aveva abituato ad una vita all’aria aperta.

Quella la consideri vita, Erik? Non hai avuto contatti esterni al di fuori del teatro, non hai mai potuto godere della luce del sole se non filtrata da un vetro, non hai mai guardato oltre il tuo orizzonte fatto dal tendaggio rosso dell’arlecchino. Eri un fantasma, non esistevi per nessuno se non come una presenza molesta che imponeva la sua volontà. Hai forse paura che la vita vera possa ulteriormente ferirti, Erik?

Del tuo regno conosci tutto, sai come muoverti e come sopravvivere.

Tutto ti era famigliare al Teatro dell’Opera.

Ti senti sperduto ora che non ti può più avvolgere con il suo profumo di cera e lacca.

Ed ammettilo quando ti sei svegliato con i raggi del giorno a pizzicarti il viso ti sei sentito vivo.

Sei sicuro di volerti negare una seconda possibilità solo per vigliaccheria?

Di tanto in tanto osservava quelle mappe dispiegate sulla scrivania, invitanti? Molto, perché non si limitavano al loro mero compito anche solo sbirciare su quei lievi segni d’inchiostro possedeva un significato ben più recondito. Accettare le loro condizioni. L’offerta era troppo alta per il prezzo da pagare comunque e la diffidenza era una virtù a cui non si poteva sottrarre troppo facilmente.

Poteva qualche foglio diventare così importante da spaventare un Fantasma o un nobile conte?

Non ricordi le tue di lettere, le minacce vergate cremisi, il volto scarlatto della morte a fermarne il segreto? Quanto può spaventare un misero pezzo di carta, Signore delle Botole?

Ricordati che non sei un uomo Erik, ti hanno trasformato in un mostro molto tempo fa.

Il Figlio del Diavolo non dovrebbe farsi crucci  morali, non te ne sei fatti quando volevi far cedere al ricatto la tua musa, la volevi per te e te la stavi prendendo.

Sarebbe stata pronta a sacrificarsi per il bel visconte,  segregata come tua sposa in un regno di musica e orrore per lui.

Tu saresti stato soltanto un fio da pagare, Erik, il peso di un croce da portare per sempre.

Christine non ti ha mai visto come uomo.

Eri il suo Angelo quando di te conosceva solo la voce.

Sei diventato un Demone quando ha visto il tuo vero volto.

Se prima il tuo omaggio le regalava un sorriso, dopo la rosa rossa listata a lutto lasciava trasparire un segno di terrore. Aveva paura di te, aveva paura di ciò che portava la tua firma e forse ne ha ancora.

È come gli altri, non merita il tuo perdono.

Sei al vero punto di non ritorno.

Quella sera non si azzardò ad uscire da quella camera, né tantomeno a dormire o mangiare.

Una notte intera per conoscere il proprio nemico, una notte passata in compagnia dei propri pensieri che finalmente trovavano un nuovo motivo per affastellarsi li uni negl’altri con moti differenti da quelli che alimentavano l’insonnia d’amore che l’aveva guidato fino ad allora.

La rivincita nei confronti di quel damerino era vicina, un cavaliere imbalsamato che aveva non solo sottratto ogni possibilità di felicità per Erik e la sua musa, ma anche strappato al cielo la voce sublime del suo Angelo.

Tutto a causa sua.

Il suo teatro distrutto, la sua allieva allontanata, il suo cuore spezzato.

Tutto a causa di Raoul de Chagny.

Sarà la vendetta per il tuo mondo e porterà la tua firma, che lo vogliano o no.

La tenuta dei de Chagny era veramente immensa. La villa sormontava una collinetta dove a raggiera si disponevano i campi lavorati dai contadini al servizio dei nobili conti, le stalle con gli innumerevoli destrieri dalle più disparate provenienze ed un boschetto selvatico dove le piccole creature che vi vivevano erano soggette ai divertimenti dei nobili amici del conte.

E fra gli alberi, gli avvallamenti e le strane tendenze di quel terreno vi era una piccola costruzione edificata al confine con il vigneto dei Saint – Simon. Quasi un granello di sabbia in confronto al resto ma che spiccava con un simbolo inequivocabile sul bianco virgineo.

Una croce.

Una goccia di sangue caduta proprio in quel punto.

Irresistibile, passò un polpastrello su quel piccolo dosso liquido, ancora umido e solo parzialmente assorbito dalle fibre della carta.

Una croce ed una delizia. La trovi irritante e stimolante al contempo, ti somiglia te ne sei reso conto più di quanto immagini. Sa che cosa bolle nel tuo sangue, conosce i tuoi desideri più reconditi e li usa a suo piacimento anche quando non c’è. Sapeva già che avresti detto di sì con la vendetta presentata sul piatto d’argento.

Quel sì che hai pronto sulla lingua, quel sì che ti garantirà forse una vera vita al di fuori del tuo teatro.

Un sì che porrà la firma alla completa perdita della tua umanità.

Quella donna ti ha raggirato, è riuscita nel suo scopo.

Tu aiuterai lei e il suo complice come fin da principio si era prefissata.

Peccato che non sa cosa tu riesci realmente a fare, Erik.

Passarono dapprima minuti, poi ore, infine l’intero giorno successivo da quando il Fantasma aveva deciso di aiutare i suoi carcerieri, da quando Erik apprese da Colas, con la leggerezza di cui si parla di futili argomentazioni di conversazione che Malice era svanita dopo il loro diverbio.

«Non mi preoccuperei monsieur, la cara Malice ha un innato senso per la sopravvivenza.» l’aveva accolto nel suo studio mentre in una vetrina armeggiava tra bottiglie di liquori pregiate. Il loro intenso tintinnare era quasi una melodia che stonava con la voce gioviale e invasiva dell’uomo. I suoni che la sua bocca provocava tormentavano il suo orecchio, odiava quella parlantina troppo assidua, il suo cercare sempre di tenere mano alla conversazione anche con inutili argomenti che non  avevano senso. E poi non riusciva a spiegarsi la calma che troneggiava sul suo viso sapendo che la protagonista del loro piano era scomparsa da più di un giorno. Si fidava così ciecamente di lei? «Tornerà solo quando vorrà so per esperienza che è assolutamente inutile cercarla.» Aveva versato distrattamente in due bicchieri bassi ed bombati di cristallo, un liquido oro scuro, denso con un profumo inebriante ed lo porse ad Erik rimanendo ad un passo da lui.

Vuoto. La sua prima impressione era stata ripagata: quell’uomo era vuoto, completamente privo di spina dorsale.

Colas è troppo un verme per qualsiasi cosa non lo riguardi direttamente.

«Che ne dite di brindare al nostro accordo? Questo cognac deve essere un vero nettare per il palato, godetene insieme a me amico mio.»

«Non sono vostro amico.» Lapidario mentre sorseggiava posando le sue labbra rosse sul vetro scaldato dalle sue stesse mani. Dolce di fuoco, mielato e curioso il liquore scese lentamente irrorando la sua gola.

Colas era un vigliacco, opportunista che amava giocare con gli altri. Truffava, giocava d’azzardo e se capitava irretiva giovinette con qualche spicciolo di troppo a pesar nelle loro piccole sacchette di seta.

Un ladro e se ne vantava. Convivere con il suo lato criminale era un semplice svago, nemmeno da considerarsi un lavoro finché non conobbe Malice.

Troppo intelligente per gli italiani.

Leggere di cosa l’aveva portata ad avere contro la Santa Chiesa era stato esilarante per Colas e di tutto si aspettava fuorché quella che era poco più di una ragazza appena in età da marito, condannata a morte tramite ghigliottina in pubblica piazza davanti allo sguardo severo del padre, ad una madre che piangeva solo la notte per non farsi vedere ed una sorella con l’anima spezzata in più parti da quello stesso padre che disconosceva la propria figlia dopo averla venduta per una mensilità gonfiata.

Ricordava i suoi grandi occhi scuri nell’istante in cui si spalancarono, quando lui stesso, accompagnato dalle guardie svizzere e l’opera meno riuscita di Michelangelo, la prelevava per conto della Francia dalla sua cella con indosso l’abito rosa antico che tanto adorava. Il suo vestito preferito strappato in più punti rivelando la candida pelle, sporco in un misto di sangue, polvere e acqua santa, le lacrime che s’impastavano sulle guance cineree e le delicate labbra spaccate dall’umidità della prigione in cui attendeva che Mastro Titta l’aggiungesse al suo lungo elenco di esecuzioni.

Era simile ad un fiore nato su di un sudicio letamaio.

Forse era l’unico ad averla vista fragile anche solo quella volta, con una palesata paura a disegnarle il volto. La paura ora la dimostrava con la freddezza e il raziocinio, la tramutava in forza per potersi proteggere dalle persone che ora approfittavano di lei.

Perfetta per ciò che la Sûreté cercava, il ruolo che ancora mancava all’appello di vecchi galeotti redenti.

Perfetta per irretire con il suo fascino mediterraneo, uccidere con i suoi occhi ammaliatori e punire chi di dovere con la grazia di una farfalla dalle ali spiegate.

Perfetta per trattare con quell’uomo, il Fantasma dell’Opera, oscuro e spietato come la morte. Al suo pari.

Colas la conosceva da tempo immemore. Sapeva che quando Erik sarebbe tornato nelle sue stanze l’avrebbe trovata lì, con il suo ghigno strafottente stampato sulle labbra come timbro indissolubile della propria maschera, seduta in un posto poco consono alle buone maniere.

Era così infatti che Erik la trovò: si era cambiata ed aveva i lunghi capelli raccolti in uno chignon e la pelle profumata di sapone. Lo aspettava seduta sulla scrivania che troneggiava nell’anticamera dove ancora vi erano distese le mappe che lei stessa aveva lasciato e tra le mani teneva una particolare corda con cui giocava.

Non era una corda. Un lungo cavo di seta che scorreva sotto gli occhi attenti di quella donna con un cappio alla sua estremità riversa sulla coscia accanto ad una lustra spada dall’inconfondibile elsa che l’osservava con le sue orbite vuote e le guance scavate di un teschio.

«Bravo Erik, bravissimo.» Dal basso sollevò le palpebre fissandolo intensamente in quel mare burrascoso tinto di verde. Aveva abbandonato lo studio scrupoloso del lazo per dedicarsi completamente al suo interlocutore, il graffio sul petto ancora presente rosso scarlatto adombrato da un colore livido attorno ad esso spiccava sul suo petto bianco catalizzando l’attenzione di chiunque la guardasse. Lo stava di nuovo distraendo senza nemmeno avvicinarsi, una maledetta strega. «State facendo la scelta giusta e non è da tutti. La Francia vi ringrazierà.»

La Malice che in quelle poche ore con cui aveva convissuto era tornata, invadente come un insetto molesto in una giornata afosa.

Il suo corpo formoso e seducente, la sua voce bassa, quei due pozzi scuri color delle nocciole con il sapore dell’autunno e  quella maledettissima arroganza ad aleggiare sulle sue spalle.

È più forte di quello che pensi Erik, ricordalo sempre.

«Non voglio la gratitudine di nessuno, madamoiselle pensavo che questo fosse chiaro.»

«Già voi desiderate solo sedare quel senso di rivalsa che io stessa ho aizzato.» esitava continuando ad esaminare quel magico strumento di morte, quante vite avevano spirato nella sua morsa. Le dita esili accarezzavano l’intreccio non trovandone alcuna imperfezione, con una inesorabile lentezza, le mani esperte di un’amante che conosce i segreti del piacere o di un’assassina. «Gran bell’arma, Erik, mi domando come possa funzionare …»

Non le era bastato averlo denudato, derubato e reso schiavo della vendetta.

Non le era bastato provocarlo in continuazione, cercare una falla o le sue debolezze.

Ora si permetteva persino di toccare i suoi oggetti personali, i suoi strumenti di tortura.

Questo era troppo.

Con poche grandi falcate la raggiunse, sfilandole il lazo e minacciandola chinando la testa sopra il suo viso, bloccandole poi i polsi dietro la schiena per non permetterle di muoversi.

Ti sta destabilizzando, non dovresti desiderarla ma hai bisogno di questo.

La passione è l’aria con cui ti nutri, è l’alito di vita che ti attraversa il corpo.

E questa donna, Malice, è passione non lo negare.

«Non è un gioco, madamoiselle.»

«Il fatto è che ho sempre avuto un debole per le armi esotiche …» sussurrò cercando di sollevarsi di un po’ per accostarsi ancor più pericolosamente. La voce sempre più bassa e gli occhi che saettavano trai suoi e le labbra alla distanza di un soffio. «Avete notato il mio pugnale in teatro … so che così, Erik … sarebbe doveroso da parte vostra mostrarmi come si usa questo magnifico oggetto, non trovate?»

La stava avvolgendo con le braccia, la schiena di lei leggermente inarcata all’indietro, le sue gambe divaricate di poco, gli permisero di avvertire le rotondità delle sue forme schiacciate contro il suo torace, il profumo delicato della sua pelle, il bollore che gli stava affaticando il respiro assieme alla rabbia.

Un miscuglio esplosivo di ira, frustrazione ed attrazione impossibile da evitare, impossibile da comprendere.

Emozioni che nella sua vita aveva provato solo per  lei.

L’unica sua Venere e musa, il suo angelo dalla voce cristallina e celestiale.

Lei la sua Christine che chiedeva di assisterla sempre, lei di cui aveva potuto godere della sua presenza in una notte di musica, lei di cui ne aveva assaporato le labbra bruciando come ferro incandescente sulla sua pelle.

Ma quella donna non era Christine, non poteva in alcun modo turbarlo la sua vicinanza.

Doveva solo ricordare cosa lo aveva reso cieco da rischiare cingendole la vita ed avvicinandosi tanto da poter sentire i loro sospiri mescolarsi, così rasente da cogliere quanto le sue labbra potessero essere morbide.

Sei un uomo, un uomo orribile ma sei un uomo.

Poteva sembrare impossibile per chiunque lo staccarsi con violenza, eppure Erik lo fece.

Una strega incantatrice che lo aveva ubriacato con i suoi sortilegi ed ora lo costringeva a tenersi le tempie.

«Andate via, uscite di qui!» ruggì come un leone ferito e drogato.

L’ultimo attacco, l’ultimo fendente per dire che anche lei aveva le sue carte.

Lui il terrore, lei la seduzione.

Una mano posata sulla spalla e le labbra vellutate posate accanto al suo orecchio mentre si sollevava sulla punta dei piedi per raggiungerlo.

«C’è anche un’altra cosa che amo molto: il sapore del cognac …» ed una risatina di scherno sommessa a farne da ennesima stoccata.

 

Non si sopportavano e la guerra era appena cominciata, ma l’armistizio per una tregua era stato firmato quando entrambi avevano vinto una battaglia. Quella partita non si sarebbe mai conclusa, solo acquietata come avvenne.

Erik e Malice dovevano collaborare al meglio perché loro due erano il fulcro del piano.

Impararono presto a farlo senza troppi indugi, giusto quel paio di settimane utili ad elaborare un modo perché Constance incontrasse in maniera insospettabile Philippe.

Colas era impegnato a mantenere la facciata, evitando i sospetti e mandando avanti l’azienda.

Malice invece procedeva nell’osservazione delle abitudini del conte e dei suoi possedimenti per mutare nella sua compagna perfetta.

Erik ne era diventato l’ombra proprio come richiesto da lei, studiando il miglior modo per poter penetrare in quella lussuosa fortezza.

La sua cavalcata impeccabile e raffinata, gli permise di giungere prima del conte a villa Saint - Simon.

Colas ad aspettarlo sul limitare della porta.

«La farfalla è caduta nel retino.»

 

Note dell'autrice: Arieccomi, allora data l'ora non ho ancora riletto vi giuro che lo farò quindi mi scuso per gli eventuali orrori amici carissimi. E' entrato in scena Philippe amore, sinceramente ho un debole per lui lo ammetto. Cioè Raoul mi dà l'idea di un ragazzino viziato ma il fratellone ha dovuto prendere in mano la sua famiglia per non farla naufragare. Insomma mi sembra uno che ha decisamente polso.

Spiegazioncina tecnica: Dove il carattere si riduce diciamo che è una sorta di Flashback. Erik e Malice iniziano una sorta di attrazione repulsione e qui si spiegano i vari rapporti nascenti.

Non credo che ci sia molto da aggiungere comunque se avete qualche domandina sempre pronta a rispondere. Ps: l'opera meno riuscita di Michelangelo a cui si fa riferimento sono le divise delle guardie svizzere. Mi spiace ma non le ho mai potute vedere. brrr!!!

Recensioni:

Giulia ma ciao!!! Diciamo che ci sei andata vicina, ma non devono uccidere Philippe. Un conto è una guardia corrotta un conto è un nobile Parigino. Erik ovviamente non può essere sicuro, anche se alla fine decide che la vendetta ha un sapore più dolce che il piangersi addosso. Insomma lui è il fantasma dell'Opera e qui in ballo ci sono parecchie cosine. Hai centrato il punto Erik/attenzioni bastarde (definizione azzeccatissima^^): per lui è una cosa inaspettata e nuova e per come me ne sono fatta un'idea non può esserne che attratto. Proprio per il suo idillio d'amore che si era creato ho voluto metterlo di fronte ad una pura voglia carnale, soprattutto dopo che è ferito dall'esperienza con Christine e proprio con qualcuno che gli somiglia. Spero di essere stata originale in tal senso. ^^

Ovviamente di Malice se ne saprà più in là e indovina indovinello chi svelerà ai lettori cosa l'ha portata ad essere così? Piccola anticipazioncina....muahahahah!!!

Per quanto riguarda il tuo dubbio amletico ti ho risposto tramite private, spero ti sia giunta la mia mail^^!!! Ti saluto Bacionissimi!!!^^

 

Ringrazio sempre todos.

Serva vostra Mally!!!

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Capitolo 7
*** CHAPITRE 6: L’art de la cour. ***


Note extra dell'autrice: Buon salve!!! Allora questo capitolo è nato ispirandomi ad una composizione di Chopin di cui consiglio l'ascolto. Non so perché ma mi ricorda molto Erik, mi piacerebbe sapere se anche a voi da questa sensazione. Sarà per la grande varietà di ritmi serrati e le melodie dolci assieme, questo mescolato armonico insomma mi piace sentirlo pensando al nostro Master. Eppure a Chopin questo pezzo non convinceva perchè troppo simile alla Sonata al chiaro di Luna di Ludovico Van. Va buon se volete leggete ascoltando. Vi metto il link:

Fantaisie impromptu

Ci vediamo in fondo pagina!!!

 

CHAPITRE SIX: L’art de la cour.

 

Molto gli era concesso per i suoi servigi da Fantasma.

In casa veniva considerato al pari di Colas o Malice, i domestici si prestavano diligentemente ad sua ogni commissione o richiesta per quanto astrusa fosse, rivolgendosi a lui con tutto il rispetto che gli imponeva la sua figura.

Nella commedia che avevano improntato Erik rappresentava uno strano amico di Colas, o meglio Baptiste, che dopo esser stato sfigurato da un incendio aveva preferito ritirarsi dagli ambienti mondani evitando ogni contatto che non fosse con la Villa ed i suoi abitanti. Inoltre, con la crescente attenzione verso i volti deturpati data dal Fantasma dell’Opera ed il riserbo scaturito dalla delicata situazione, imponeva il silenzio sulla sua presenza dai Saint – Simon.

Nulla veniva lasciato al caso.

La differenza fra organizzazione ed improvvisazione.

La solitudine era sempre stata la sua unica compagnia, il silenzio l’unico suono interrotto dalle note che lui steso creava in armonie complesse ed elevate. La musica l’unica sua amica, autentica e leale sempre anche nei momenti più bui. Occupava ogni spazio del suo tempo, presenziava assieme al pensiero costante dell’amore che ne faceva sempre da sfondo. Giorni interni dispersi nel delirio creativo del suo genio perennemente ispirato da qualsiasi sciocchezza lo cogliesse: il picchiettare delle punte in gesso delle ballerine durante le prove, il languido frusciare del sipario durante la notte preda di un spiffero impertinente, la preghiera di una bimba sussurrata per paura di disturbare gli angeli.

Ogni cosa era suono, musica, melodia.

Tutto quello che lo circondava si riproduceva nella sua mente con le note, ricordandogli cosa scorresse nelle sue vene oltre al sangue.

Arte.

Uno sfregiato orribile creatura maledetta, poteva sublimare la bellezza con la propria arte.

Uno spirito corrotto dalle più cupe nefandezze capace di creare dal nulla opere di una magnificenza illustre.

La tua musica, piacevole condanna di un animo nero.

Concedersi ora alla sua vocazione divina, perché di quello si trattava per chiunque ascoltasse anche la composizione più leggera, era diventato arduo cercando di ritagliare del tempo anche solo per dilettarsi al piano o con il violino per lo più di notte.

Erik covava in segreto un piccolo desiderio fanciullesco. Il poter suonare con la luce del giorno ad inondare la stanza.

Era sciocco, vero, la musica ha sempre il suo grande potere di affinarne l’eccelsa sostanza con cui riempiva l’animo delle persone, ma dopo un’esistenza passata in un’eterna tenebra avere anche solo l’occasione di vedere la vita intorno a sé ammutolirsi per ascoltarlo di sfuggita era diventata una ghiotta fantasia. Un sogno che poteva realizzare ora: con Malice costretta in casa a causa della ferita fasulla alla caviglia che attendeva una mossa del conte, lui non era vincolato a qualche escursione esplorativa dei dintorni o divenire la sua guardia personale.

L’odore delicato della carta si mescolava in armonia con quello agre dell’inchiostro e della polvere, lo stesso che durante la notte percepiva corrodergli la pelle fino a giungere alle ossa, registrato e catalogato come un posto in cui essere in pace. Il sole filtrato attraverso il vetro inondava brillante gli alti scaffali ornati di festoni floreali dipinti d’oro possedendo finalmente una fine. Nel buio gli oggetti si perdevano in un nero illimitato, sollevati da terra fino al soffitto alto in un punto appena percepibile nella densa oscurità di quella stanza impossibile da sconfiggere con il tremolante brillio della fiammella di una candela. Ad Erik, in realtà non serviva nemmeno quella fioca sorgente luminosa. Guardava alla musica con gli occhi della mente, i tasti erano incisi nel suo pensiero incandescenti come un marchio.

L’aria si riempiva di infinite note argentine in un avvicendarsi di ritmi gravi ed acuti, una melodia tormentata che aumentava e rallentava, saliva e scendeva in virtuosismi che lasciavano il fiato bloccarsi in gola.

Prima che arrivasse al pianoforte era un oggetto esanime, oziava svogliato in quella stanza come un semplice arredo al pari di una poltrona o di un tavolino.

Nel momento in cui iniziava a volare sfiorando i tasti d’avorio e d’ebano, quel corpo vuoto, privo di vita aveva acquisito una voce, una musica divina che si sprigionava attraverso il grido del suo musicista. Era una scarica di adrenalina diretta alle proprie sinapsi, un brivido caldo che percorreva il corpo, distaccava la mente dello spettatore fortuito giocando con i suoi pensieri. Trasmetteva passione, dolore, supplizio, amore, allegria tutto racchiuso in suono accostato all’altro e quello che poteva sembrare un semplice motivetto si trasformava in un capolavoro. Appesantiva le palpebre, ipnotico e piacevole, sconvolgente mentre si rievocava il vissuto di chiunque ne usufruisse.

 

Madame Bonnet smise di prestare attenzione alla cameriera che svolgeva i suoi compiti riordinando la casa e si trovò pensare alle navi che giungevano al porto di Marsiglia. Le osservava attraccare alla banchina portando un nuovo carico di avventure e magici incontri. Chissà quali esotici mari avevano stagliato con le loro chiglie, di quali meraviglie erano stati testimoni, posti che lei non avrebbe mai avuto occasione di visitare.

 

Malinconia.

 

Pilar, la giovanissima ragazza al suo servizio, si era trovata nel suo paesino in Spagna: amava danzare nei campi durante la torrida estate, i piedi nudi a calcare la terra suo palcoscenico, Joaquin e la sua chitarra come orchestra. Ma il flamenco non dava il pane e presto il lavoro l’aveva costretta ad allontanarsi fino alla fredda Francia, dove sua cugina le aveva trovato un buon impiego presso madame Bonnet.

 

Nostalgia.

 

Una falena davanti ad una luce non ne sarebbe stata così attratta.

Ricordava il Don Juan come una delle migliori opere che avesse mai ascoltato. La potenza, la forte tensione, la carica opprimente dei colori, i costumi, il trucco, la scenografia, il delirio da cui era stata generata possedeva il sapore speziato della genialità di Erik, curata in ogni particolari da colui che ora stava traducendo poesia in musica.

Quando si sedeva su quello sgabello o impugnava l’archetto, lui stesso diventava musica.

Era lui stesso fatto di musica.

Sgusciò silenziosa all’interno della biblioteca nonostante fosse costretta a poggiarsi  ad un fine bastone e a zoppicare per l’inutile fasciatura al piede che le bloccava l’articolazione.

Doveva solo trovare un punto dove sorreggersi al meglio.

Dalla posizione appena conquistata poteva ammirare le ampie spalle scuotersi in movimenti quasi impercettibili, la testa ciondolare inebriata, le braccia fasciate dalla seta lucida che si spostavano leggiadre come gambe di ballerine e le mani accarezzare i tasti con la delicatezza di un focoso amante.

Le sue affascinanti mani.

Era diventata una piacevole abitudine quella di perdersi ad ammirarne le fattezze, quando non vi erano quei tristi guanti neri di pelle a nasconderle. Odiosi e maledetti guanti. Detestarli era il minimo per la grave privazione che davano alla sua vista. Lunghe ed affusolate dita proporzionate, le nocche appena accennate, palmi esili, fragili ed indistruttibili coperti da un’epidermide dalla soffice consistenza che lei aveva potuto avvertire su di sé solo come minaccia.

Un attimo, il cambio della melodia e tutto si fece buio.

Era di nuovo nella sua camera. Le stanze che condivideva con sua sorella fin dalla nascita.

 

Non togliere la benda Lucia, altrimenti gli Angeli non potranno venire a portarti i sogni.

 

Io volevo vedere gli Angeli, Beatrice. Ho sentito i rumori ed ho pensato che fossero loro.

Ma era solo dal tuo incubo che mi volevi risparmiare, vero sorella mia?

Da allora ho finto di non sapere, di non sentire i tuoi gemiti di dolore soffocati da quelle orribili mani ossute.

Erano le visite notturne del Demonio che mi volevi risparmiare.

Un Demonio sempre pronto a battersi il petto in Chiesa chiedendo perdono a Dio per i suoi peccati.

Un Demonio mascherato da uomo dabbene, che aveva il coraggio di farsi chiamare padre.

Non ti ho protetta Beatrice, ma ho giurato di fronte a Dio che avremo la nostra vendetta.

Lo deve a me, lo deve a te.

 

Amarezza.

 

Le immagini scorrevano veloci, in una sequenza distruttiva degli sguardi vacui di una madre con il suo ostinato silenzio.

La ricordava intenta nel ricamo, senza mai porre un rimprovero qualsiasi cosa facessero le sue figlie. Si sentiva colpevole forse? E poi la quiete si spezzava, il paggio che annunciava l’arrivo del maestro e Beatrice che sorrideva soddisfatta di quella piccola gioia che animava le sue giornate.

Le sue lezioni di piano.

I pochi sorrisi che elargiva erano dedicati alla musica ed alla piccola Lucia. Un angolo di Paradiso nello sfarzoso palazzo infernale di uno dei contabili più fidati degli uomini di Chiesa.

Le mancavano le loro giornate estive lontane da Roma e dal loro padre despota.

Le mancavano i loro infantili giochi.

Le mancava lei ed apparve come in un sogno davanti ai suoi occhi grazie alla musica che fluttuava attorno a sé.

Era così bella la sua Beatrice, con i lunghi capelli dai riflessi ramati e gli occhi scuri, due perle d’ebano sulla pelle d’avorio del suo viso. Sorrideva come faceva durante le sue lezioni di piano.

Un Angelo con le ali spezzate è pur sempre un Angelo.

«Incredibile …» mormorò in un sottile filo di voce.

Il tamburo percosse con violenza il suo petto, il ritmo accelerò ed ogni vaso sanguigno prese a sussultare sotto il martellio affrettato del suo cuore.

 

Gioia.

 

Un impulso irrefrenabile guidò il suo braccio in avanti, pericolando sul pomello d’argento che aveva perso di presa. Voleva solo accarezzare le sue labbra increspate come le ricordava, voleva solo poter sentire il suo respiro di quando restavano abbracciate in una tacita promessa d’affetto eterno, voleva solo che il mare e la terra che le separava si azzerasse così come la condanna che pendeva sulla sua testa.

Il sorriso si spense, Beatrice voltò la testa e scomparve in una nuvola di fumo.

Il rumore di un vaso che s’infrange mentre tentava di non caracollare a terra aggrappata al ligneo profilo del mobile, la cacofonia dei tasti premuti senza una logica che la spaventò oltremodo costringendo una delle sue mani ad afferrare il Cristo che pendeva dal collo.

Sua sorella non era mai stata lì, era solo una chimera della sua mente e, per afferrarla, aveva praticamente investito il tavolino che barcollò facendo cadere il pregiato oggetto di cristallo ormai ridotto in frantumi.

Erik la trovò alle sue spalle affannata, con gli occhi bassi che ammiravano il disastro appena compiuto.

Ben poca cosa in confronto alla brusca interruzione che la sua esecuzione aveva subito.

«Cosa volete?» lo aveva chiesto quasi latrando, il tono irritato.

Le era costata un’immensa fatica sollevare lo sguardo ed incrociarlo con il suo così severo ed arrabbiato che quasi le fece del male. Lo stava apprezzando e lodando nella sua testa e lui le rivolgeva solo l’odio di cui era capace.

Dopotutto avevano imparato a sopportarsi, sembrava quasi che i suoi modi burberi da misantropo si fossero ammorbiditi. Evidentemente era caduta in errore.

Sapeva come ripagarlo a quel punto. Sollevò il sopracciglio, ripiegando di lato l’angolo della bocca verso l’alto mentre con la sua camminata claudicante si avvicinò a lui.

Detestava il suo lato sarcastico e quello avrebbe ottenuto.

«Temete il grande pubblico, Erik? Posso?» chiese indicando il lato della seduta che poteva accogliere tranquillamente un’altra persona.

Replicò con un grugnito incomprensibile, scavando con i gomiti sui tasti bianchi che emisero un rintocco sgraziato, i pugni congiunti contro la fronte solo per trovare la calma che gli era appena stata strappata dall’insolenza incarnata in donna.

«Non credo che cambiereste idea se io fossi contrario, giusto madamoiselle?»

In tutti gli anni condivisi da Colas, lui non era riuscito a capirla lambiccandosi il cervello su che verso girassero le ruote della sua testa. Ad Erik invece era bastato poco per inquadrarla come una bambina dispettosa e capricciosa, sapeva già che quando lui rispondeva alle sue provocazioni lei ne godeva e ogni volta cercava di ignorarla, spesso fallendo miseramente.

Troppo orgoglioso.

La loro era una guerra perpetua a chi dei due perdeva la pazienza per primo.

Ma in quel caso non vi era scherno.

Quello che la musica di Erik aveva provocato in lei l’aveva come intorpidita e, anche se avrebbe voluto rispondere a tono, non vi riuscì. Si limitò a sedersi accanto con il busto contrario e le spalle parallele alle sue, quasi curva mentre si abbracciava cercando di proteggersi da quell’irreale silenzio che si era creato.

«Non so come ci riuscite, ma la vostra musica è sublime …»

Erik ne era a conoscenza.

Erik sapeva quello di cui era capace.

Erik non l’aveva mai sentito dire da nessuno che non fosse sé stesso. Nemmeno Madame Giry, di cui conosceva il pensiero, glielo aveva confidato così apertamente come stava facendo quella donna.

Ma cosa aspettarsi da una come lei? Che leggendo la sua soddisfazione gli rivelasse uno scherzo di cattivo gusto?

«So che non mi credete, ma davvero non avrei voluto interrompervi, colpa della fasciatura troppo stretta che m’impedisce i movimenti. Colas oggi ha decisamente esagerato, credo che non mi passi più il sangue …» s’interruppe così come se stesse parlando più a sé stessa che con qualcuno, la figura di Erik praticamente inesistente, evanescente come un Fantasma l’osservava di sottecchi cercando di capire quale tiro gli stesse giocando, quando sarebbe arrivata a portarlo all’esasperazione.

Non ne era in vena Malice, soprattutto dopo quello che aveva appena vissuto.

«Mi - mia sorella … » un’esitazione, un lieve tremolio della voce per riprendersi immediatamente ma non osava voltarsi per guardarlo. Non sapeva nemmeno perché glielo stesse confidando, forse era una sorta di gratitudine per averle donato quel piccolo barlume di felicità che c’era nel suo passato.

Ad Erik sembrò che gli avessero appena inferto un colpo alla bocca dello stomaco.

Quella donna non era colei che gli teneva testa con fierezza e non si lasciava intimidire nemmeno quando le aveva puntato un coltello alla gola, non poteva essere colei che si avvicinava sfrontata con quello sguardo profondamente languido ricordandogli i suoi istinti animali.

Le braccia che si stringevano sempre più forte sul seno, la mano che cercava il ciondolo d’argento ed il dondolio nervoso che la scuoteva non potevano appartenere alla Malice che conosceva.

Fingeva forse?

Non lasciarle un modo di penetrare nello scudo che sei riuscito ad erigere fra te e lei.

Non lasciarti abbindolare dalla sua falsità.

«Mia sorella amava la musica … » faticava a parlare. «Lei suonava il piano, mi piaceva ascoltarla.»

«Suppongo che fosse molto dotata per destare la vostra attenzione …»

Nemmeno il suo essere così mordace l’aveva ridestata da quell’espressione vacua che aveva assunto. Non gli aveva rivolto risolini sghembi e maligni, non gli aveva risposto in maniera velenosa con quel vezzo di fissarlo con il capo piegato leggermente di lato solo per distrarlo.

No, sorrise in maniera semplice.

Sorrise realmente divertita.   

«No, era completamente negata.»

Mi sbagliavo, anche io ho amato.

Una nuova sensazione era nata in Erik, sempre padrone assoluto di ogni suo sentimento.

Disperazione.

Rancore.

Amore.

Ispirazione.

Ma il disagio risultava difficile da gestire, soprattutto il non mostrarlo apertamente.

Malice sapeva rivelarti il suo pensiero anche attraverso quella maschera fittizia creata, con subdole insinuazioni dette come frasi a caso ma con la casualità di essere sempre nella giusta parte del discorso quel tanto da frustrare il proprio interlocutore, questo sì, sempre pronta in atti di recitazione da gran maestra mai era stata realmente sincera come in quel momento.

Un piccolo spiraglio socchiuso, una lama di luce in una stanza avvolta nell’oscurità , una piccola finestra su quello che era prima di diventare un sicario mercenario dello Stato francese. Prima di questo era stata una ragazza con una sorella che amava il piano. Aveva un passato, come l’aveva lui, coperto dalla foschia più densa che avesse mai visto.

Aveva un passato.

Ti stavi abituando all’idea che al mondo esistesse una persona come te, Erik?

Avresti voluto che ci fosse qualcuno a condividere la tua condanna?

Ammetti a te stesso che la volevi circondata dalla gente e preda della solitudine, sapere che in un angolo sperduto ci fosse una qualsiasi persona capace anche solo di sfiorare la comprensione per quello che hai passato.

Rassegnati Erik. Ha una famiglia, è stata amata da qualcuno.

Tu sei stato rifiutato. È la tua pena Erik e devi scontarla.

L’unico che ti può capire è te stesso.

Umana. Diversa. Una nuova facciata con cui confrontarsi.

Debole.

Forse hai trovato il ferro incandescente su cui battere Erik?

Era, non una, ma L’occasione di mettere in difficoltà quella donna: si presentava come una delle più succulente pietanze servita su di un piatto d’argento. Malice non si era mai esposta in alcun modo, mai aveva solo accennato a qualcosa che le facesse sussultare il petto tradendo i singhiozzi nascenti, mai si sarebbe arrampicata su di un pendio accidentato come il dimostrare affetto per qualcuno.

Un mutare troppo veloce per essere colto immediatamente.

Il coltello veniva puntato su lei.

Il Fantasma stava tornando, più forte per aver individuato il fianco scoperto del suo avversario.

Una donna. Una sorella. Una patria lontana.

«Vostra sorella dov’è ora? È rimasta in Italia?»

Come è riuscito a sapere della mia terra natia?

La prima domanda che si pose, la domanda che veniva ripetuta quasi ossessivamente nella sua mente.

Nessuno aveva mai neanche percepito il suo accento, parlava le lingue da quando era ancora una bambina. Il suo precettore le ripeteva che tutte le brave signorine dovevano conoscere il latino ed il francese correntemente.

Un ottimo insegnate e una predisposizione innata le avevano conferito una completa assimilazione della fonetica, cancellando quasi del tutto l’origine del proprio nome.

Lui vive di suoni, sa cogliere anche le minime variazioni della mia voce, anche quando non mi ascolta.

Erik stava vincendo. Il pallore sul viso era aumentato, la rabbia trasformata in sgomento, gli occhi che all’improvviso avevano perso di vita diventando dolorosamente inconsistenti mentre cercavano di focalizzare quelli dell’uomo sedutole accanto. Almeno così credeva perché quello che riusciva a vedere era solo un’ombra alla vista appannata.

Da quanto non sentiva il nome di una patria neonata come nazione senza avere quel disastroso moto di rimpianto.

Non sapeva il perché si fosse aperta così con lui, non avrebbe voluto, ma la sua lingua non riusciva a tacere quando c’era di mezzo ciò che più la pungeva. Un ago infilato nella gola che ogni qual volta penetrava sempre più a fondo, pizzicandole gli occhi con il sale delle sue lacrime di fiele.

 

Cos’è Erik? Non puoi provare pietà per nessuno e lei non si è mai posta lo scrupolo di ferirti con le sue parole taglienti come lame.

 

Nascondere la propria debolezza, non dargli un’arma con cui può distruggerti.

Non rivelare chi eri prima di incontrarlo, non svelare le tue colpe Lucia.

 

Non lasciarti sopraffare da quegl’occhi in grado di stordirti, non devono diventare necessari come la voce della tua Christine. Non cedere al baratro di nuovo. Gioisci della tua piccola vittoria.

 

Non piangere Lucia, farò piano ed il dolore passa in fretta. Sarai mia, per sempre. Distogli la sua attenzione, non permettergli di entrare in te un’altra volta.

 

Vorresti chiederle perdono, Erik?

 

«Questa fasciatura è troppo stretta! Non riesco più a tollerarla, mi sta letteralmente facendo impazzire!» 

Un diversivo, volgere la conversazioni su altri lidi per poter respirare. Massaggiare la caviglia da sopra la gonna per abbassare lo sguardo e smettere di venire intrappolata dal suo così attento e profondo che catalizzava ogni oggetto attorno a sé divenendone il centro.

Oggi sono sfumati di grigio.

Nonostante i loro scambi, il loro modo di battagliare in ogni situazione, si era soffermata sul particolare che più l’attraeva del viso distorto di Erik. Era diventata una maestra nell’individuare le tonalità che prendevano i limpidi occhi mutevoli del Fantasma dell’Opera, quel verde che cambiava a seconda di cosa nella sua testa sfiorava.

Plumbei quando lei lo irritava o se i suoi tormenti tornavano ad infestargli il pensiero.

Giada le rare volte in cui riusciva a rilassarsi.

Acquamarina, brillanti come la pietra che ispirava il colore, quando pensava alla sua musica o a lei.

«Non capisco perché vi ostinate a portarla, sono passati tre giorni da quando avete avuto il vostro incontro.»

Un nuovo cambio repentino, svelto come un dardo che fende l’aria.

Mostrargli come può essere semplice capire gli altri.

«Il conte verrà qui, credo ormai a momenti. Gli ho solo concesso del tempo per trovare il giusto pretesto.» se avesse avuto i mezzi, una di quelle diavolerie che andavano di moda da qualche decennio, avrebbe volentieri immortalato la sua espressione in quel momento. Il totale scetticismo che si leggeva nei suoi occhi era la riprova di come gli uomini non si rendano conto di agire per schemi, tutto stava a capire quale veniva seguito per poterlo assecondare. Per questo persone come lei, o Erik, che agivano al di fuori di ogni concezione semplicistica di vita, erano considerate mostri. Si trovavano esattamente fuori da ogni immaginabile, imprevedibili come una tempesta bianca, non si muovevano secondo regole, scaturendo nell'altrui pensiero un forte senso d’inquietudine.

«Sembrate un po’ troppo sicura, madamoiselle.»

«Vedete Erik …» la piccola Lucia era tornata al suo cantuccio, pallida e stanca per essere riaffiorata sgomitando per quei pochi istanti. Malice aveva ripreso a troneggiare sulle altre e dietro di lei, Constance aspettava il suo turno, pronta ad entrare in scena. Il suo palcoscenico e il pubblico non attendeva altro. Ma era Malice che si stava accostando sempre più all’uomo fino ad avere tutto il suo torace a contatto con lui, era Malice ad aggrapparsi alla sua spalla posandovi il mento per poter bisbigliare un piccolo segreto, era Malice ad accarezzargli la schiena con la punta delle dita sopra il raso del panciotto, procurando un’impercettibile brivido. «Io so diventare ciò che un uomo desidera, secondo voi perché ho deciso di rivelarmi durante la caccia rischiando una pallottola? Potevo benissimo organizzare un incontro casuale in un café o in quel piccolo bistrot a cui fa visita così spesso. Vi rivelo un piccolo particolare: Philippe non vuole una donna, vuole un cucciolo da proteggere, vuole un bel trofeo con cui fregiarsi alle feste e su cui sfogare una giornata frustrante durante la notte. Non gli serve una compagna, non gli serve una persona. Vuole una bambola inanimata che sa stare in società e sa mantenere una casa pulita per poter far bella figura con i suoi falsi amici. E sapete non è molto diverso da quello che volete voi, da quello che vuole Colas, o Raoul de Chagny. L’essere umano è incredibilmente facile da capire, Erik! Le esigenze di un uomo possono variare veramente di poco, sta alla donna riuscire a comprendere quali tasti toccare lasciando pensare che siete voi a tenere in mano il gioco, quando in realtà siete plasmabili. È questa l’arte del corteggiamento e se volete possiamo scommettere …»

Ed è questo che tu hai cercato di fare con Christine, Erik. Volevi tenerla come una bambola, la tua personale rivincita sul mondo. Non sei così diverso da chi disprezzi …

Durante tutto il discorso non aveva smesso di disegnare ogni piccolo avvallamento della sua carne sotto la stoffa. Per quanto cercasse di mantenersi freddo e scostante, con il fiato che si stringeva in nodi sempre più ferrei, calò le palpebre, forse con l’intento di riprendersi dallo stordimento che stava provando, acuendo invece gli altri sensi come il tatto. Stava subendo quelle provocazioni, completamente annebbiato da quello che aveva avvertito come un desiderio non guidato dal nobile sentimento dell’amore, bramava qualcosa di diverso, più terreno e meno sublimato.  Era da giorni ormai che quella donna non tentava un approccio anche solo simile. Ma troppo a lungo gli era stato negato il contatto umano, una carezza, anche se falsa, a cui non riusciva a restarne totalmente indifferente. E Malice sapeva quanto gradiva anche quando la cacciava in malo modo, magari immaginando che al suo posto ci fosse una ragazza dai lunghi ricci castani e occhi grandi.

«Smettetela …» doveva essere un imposizione, un ordine indissolubile, ma l’inclinazione che aveva assunto somigliava più ad una supplica. Quella che solitamente era un voce forte e prepotente era mutata quel tanto che bastava ad abbozzare un sorriso vittorioso sul viso di Malice che intanto aveva avvicinato le labbra a quelle di Erik accorciando sempre più le distanze.

«Oh, Erik nessuno vi costringe a rimanere qui, potreste scansarvi vi basta pochissimo per sottrarvi alle mie carezze. In fondo sono solo una fanciulla in confronto a voi … » Le parole della donna ribalzavano come un eco, si sentiva stremato, stanvo, sciolto: quella strega sapeva realmente come fare impazzire un uomo.

Un uomo che stai combattendo da quando hai incontrato questa donna. Stai reprimendo i tuoi istinti per cosa Erik? Per Cristine, per la devozione che lei ha calpestato con non curanza scegliendo il visconte? Immagini il suo viso e le sue di labbra a sfiorare con le parole ormai prive di significato, ti neghi che vorresti possederla solo perché temi di tradire il tuo amore.

Ti sei chiesto, Erik, se lei stesse pensando al tradimento compiuto quando, sul tetto dell’Opera, si è dichiarata al damerino?

La sua mente avrebbe voluto prenderla senza esitazioni, sfogare su di lei tutto il diniego che aveva vissuto da parte del mondo.

Il suo cuore sanguinava al solo vedere gli occhi di Christine pieni di paura ed angoscia.

Involontariamente si trovò la bocca dischiusa, soffocando alla ricerca di aria per lo sforzo di rimanere lucido sotto le dolci attenzioni di una mano gentile.

Di nuovo troppo vicina. Serpe infida e maledetta.

Uno spostamento rapido, percepito dal mutamento dell’aria e della temperatura che avvolgeva il suo viso, era ora accanto al lobo a ridere sommessamente prendendosi gioco di lui.

«Siete tutti uguali. Ed io mi annoio facilmente, mon cher ami!»

Non avrebbe ottenuto l’ultima parola, non questa volta. Malice aveva intrapreso un sentiero eccessivamente accidentato ed Erik iniziava davvero ad essere stanco.

Voleva spingerla via, toglierla da posto che si era arrogata con il suo modo di fare. Le mani gli tremarono per sollevarsi ad afferrare le sue spalle.

Deve stare lontana da te!

Ma qualcuno bussò ancor prima che potesse fare qualsiasi cosa.

«Señorita Costance …» la tiepida vocina della giovane cameriera si era incrinata vedendo quella scena di fronte ai suoi occhi. Madame Bonnet le aveva intimato che qualsiasi cosa le fosse capitata di vedere lei avrebbe dovuto fingere che non succedesse, continuando a preoccuparsi esclusivamente dei suoi compiti se voleva mantenere il suo stipendio integro. Per questo si era sforzata di abbassare lo sguardo quando aveva visto la sua padrona avvinghiata al proprio ospite, eppure non poteva fare a meno di pensare a quanto fosse sconveniente tutta quella situazione imporporando così le gote olivastre. Quando poi l’aveva sentita entrare non si era nemmeno degnata di prendere nuovamente le giuste distanze, voltando semplicemente il viso a suo favore. Cosa avrebbe fatto se al suo posto ci fosse stato suo fratello e tutore?

«Oui, Pilar?»

«Il conte de Chagny è nell'atrio e chiede di voi.»

«Bene, fatelo accomodare nel salottino, lo raggiungerò al più presto.» la cameriera fece solo un leggero inchino prima di voltarsi con la fretta del disagio che le stava intrappolando le membra. «Pilar?»

«Sì señorita.»

«Dite a Madame Bonnet di servirci il tè con quelle praline arrivate ieri da Torino. Sono sicura che il conte gradirà questo nostro goloso omaggio …»

Aveva vinto. Non c’era altro d’aggiungere

Il conte stava facendo decisamente il suo gioco e lei aveva appena dimostrato ad Erik che i meccanismi umani erano tutti simili.

Basta offrire ad una persona ciò che desidera per renderla malleabile.

E lui cosa desiderava realmente? Quella domanda tornava sempre più spesso finendo quasi di divenire il suo nuovo assillo.  Era sempre stato convinto di sapere cosa volesse e quando, eppure ora si ritrovava a sentire uno strano freddo quando Malice si era alzata per uscire felice della nuova battaglia giunta a conclusione.

«È un vero peccato che non abbiamo scommesso Erik, ma non sarebbe stato corretto da parte mia sapendo già che avrei avuto la meglio!»

 

 

Note normali dell'autrice: Arieccomi!!! In questo capitolo di passaggio vediamo come il rapporto tra Malice ed Erik si sta facendo sempre più carnale. Questa decisione nasce dal fatto che noi abbiamo visto un Erik pazzo per Amore. Sapete devo confessarvi che io non è che c'è l'ho con Christine poi così tanto(ok abbiamo capito che la sopporti poco), però io davvero non ce la vedevo con Erik almeno nell'Gerald-Erik passione allo stato puro del musical di Webber/ Schumacher. La trovo un po' troppo algida ed impreparata, magari eccessivamente puerile ed anche un pochino noiosa. Invece a me piace che ci sia qualcuno pronto a punzecchiarlo, a stimolarlo, che fosse lei a cercarlo per dargli fastidio come una mosca. Malice di suo canto ne è assolutamente attratta -e chi non lo sarebbe? XD-  lo vede come una sfida, spero che vi piaccia questo incontro scontro continuo fra i due ed anche il fatto che quando lei si trovi in difficoltà usi la seduzione come arma. E' una maschera al pari di quella di Erik. Non dico altro perchè ci sarà modo di conoscerla sempre più a fondo.

Al prossimo vedremo come si svolgeranno le cose con Philippe, piccino scusa ti ho trascurato in questo capitolo *.*!

In questo ho lasciato un po' di spazio anche all'Erik musicista, mi sembrava un doveroso tributo al suo genio. 

Ah volevo dire che ci sarà anche un minuscolo riferimento a Love Never Dies verso la fine (sinceramente a me la trama non convince un granché, non lo so mi sembra veramente poco attinente con il capolavoro precedente - ovviamente è solo la mia opinione ^^ ), molto alla fine e davvero minuscolo però mi sembrava doveroso dirvelo.

Detto ciò Ringrazio tutti coloro che passano di qui anche di sfuggita!

Serva vostra!!!

Mally

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Capitolo 8
*** CHAPITRE 7: Sous échec. ***


CHAPITRE SEPT: Sous échec.  

 

La vita riserva sempre delle sorprese, che siano gradite o meno. Molte volte ci si convince che una condizione in cui si versa sia irreversibile e quindi si cerca di abituarsi a quel tipo di vita che si è disegnato sulla nostra pelle.

Scivoliamo lenti sulle acque degli avvenimenti cercando di non annegare oppure di non trovarsi a sbattere contro qualche accidentato scoglio non sapendo se esso possa rappresentare salvezza o condanna. Potrebbe rivelarsi un appiglio sicuro, un ancora dove la corrente non possa trascinarci più, oppure divenire la causa della nostra rovina con aguzzi spuntoni poco visibili che dilanierebbero le carni dei palmi. Come un albero durante un temporale che potrebbe offrire un buon riparo con rami frondosi se non colpito da un fulmine.

Philippe per questo era sempre stato molto oculato nelle sue scelte e nelle sue decisioni, non desiderava trovarsi sostenuto da qualche roccia puntuta su cui ferirsi soltanto, non quando uno dei suoi servi lo aveva avvisato di aver trovato il cavallo di Madamoiselle Saint – Simon, non aveva resistito e si era precipitato al vigneto. Non aveva delegato ad un biglietto i suoi migliori auguri.

Desiderava farlo lui stesso e si era lasciato avvincere da quella estranea pulsione a rivedere Constance. Non gli era mai capitato che una donna gli tornasse alla mente tanto facilmente, i suoi incontri fortuiti giacevano nell’angolo più remoto dei suoi ricordi giusto quel tanto per riportare a galla date ed eventi in cui aveva conosciuto una fanciulla interessante.

Invece la giovane aveva stuzzicato la sua curiosità ed si era sorpreso a pensarla nei momenti più disparati: la trovava estremamente piacevole sia nell’aspetto che nella sagacia, almeno da quel poco che era riuscito a conversare con lei durante il rientro. Così diversa dal fratello che invece sembrava più un finto sciocco. 

Ed ora che si trovava ad osservare l’ambiente in cui viveva notava anche un certo buon gusto, sobrio ma raffinato. Colori tenui e luminosi, tende leggere, un camino che emergeva dalla parete dove si affacciavano due poltrone tappezzate da sottili ricami di velluto.

«Compte de Chagny è un vero piacere avervi qui …»

Abbandonare una veste per acquisirne un’altra ed ora la fanciulla che si poggiava malamente sul suo provvisorio sostegno era Constance. Malice aveva accentuato la sua camminata claudicante molto prima di entrare in quella stanza, con quei passi pesanti di chi fatica immensamente a camminare voleva annunciare la sua venuta.

Si era permessa qualche istante davanti ad uno specchio mentre percorreva i corridoi della sua nuova abitazione per raggiungere il suo ospite, giusto qualche istante che gli concesse per studiarla nelle sue scelte di casa. Sistemò un ciuffo ribelle nella sua acconciatura semplice, lisciò il suo bustino sistemando infine le pieghe della gonna e finì il tutto con un sospiro profondo.

Per la prima volta durante la sua carriera ebbe come l’impressione che c’era un qualcosa fuori posto, un pensiero di base completamente sbagliato e privo di fondamento che non sapeva identificare. 

È solo una sensazione, sono solo stanca dopo l’ultima volta.

«Madamoiselle Saint – Simon …» gli occhi cristallini di Philippe non riuscivano a sciogliersi dal sottile abbraccio di quelli di Malice, nemmeno quando elegantemente le aveva afferrato il dorso della mano per portarla alle labbra sfiorandone appena la pelle. Eppure ne percepì il sapore dolciastro con il profumo delicato che aveva avvertito fra il più pungenti odori del bosco, una essenza aleatoria ma persistente come una costante indicazione della sua presenza.

«Vi prego monsieur, chiamatemi pure Constance.» persino la sua voce istigava ad un nuovo calore, una capacità di cambiarla assumendo un tono discreto come sussurro, ma chiaro e limpido anche ad una certa distanza.

«Pretendo quindi che voi mi chiamate Philippe, Constance …»

Il gesto di rafforzare la presa sulle sue dita unendo la seconda mano sorprese Malice. Non era la prima volta che un uomo le rivolgesse attenzioni cortesi e educate, ma il dubbio che era sorto improvvisamente tornò a bussare. Abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate teneramente, su quell’abbraccio che stava durando troppo a lungo per non risultare eccessivo per quel poco che si conoscevano.

Aveva quindi ragione il marchio che le era stato impresso sul ventre?

Mi terrete ancora così Philippe, quando vi pugnalerò dopo aver conquistato la vostra fiducia?

«Vogliamo accomodarci, Constance?» non convenzionale, senza dubbio, doversi invitare da solo a sedersi. Ma in fondo la giustificò visto che ancora la ragazza doveva sorreggersi ad un bastone. Non doveva essere facile per lei stare in piedi con la caviglia dolorante. Malice annuì mentre il conte l’allacciava al suo braccio per accompagnarla ed offrire un ulteriore sostegno, intimidita dal primo piede in fallo che aveva messo davvero.

Errore che stava commettendo irreparabilmente. Il volto di Constance stava scemando in un turbinio di quesiti inutili da porsi sul momento e doveva tornare nell’immediato. Aveva però ancora una carta da giocarsi con disinvoltura. Strinse il braccio a cui era disperatamente aggrapata, ondeggiando fino a contrarre il viso in una smorfia, forse anche un po' troppo, quando si era ritrovata sostenuta per un fianco dalla mano contraria. La fatica esposta in un modo trasparente in cui l'aiuto di un cavaliere cortese le stava divenendo necessario, Philippe in un imbarazzo controllato per la sensazione che gli dava l'afferrare la dolce curva del suo corpo.

Patetico.

«Perdonatemi monsieur, ma sembra che il fastidio provocato dalla caviglia mi faccia dimenticare le buone maniere …»

Riprendere in mano la situazione che lentamente aveva rischiato di scivolare. Abilmente aveva ritrovato l’equilibrio della signora che stava interpretando, giocando una delle carte che la rendevano vulnerabile.

«Non dovete preoccuparvi, comprendo benissimo il vostro disagio.» Sistemati lei sul divanetto rococò e lui sulla poltroncina al suo lato poteva ammirare il volto candido della donna. Vederla destreggiarsi nell’ambiente meno selvaggio del salotto era, per il conte de Chagny, un’autentica riprova della sua prima impressione. Ne stava ammirando i gesti, il modo in cui sedeva composta con la schiena perfettamente perpendicolare, il mento alto, le spalle tese e le gambe raccolte il più possibile. Sembrava una regina d’altri tempi, la dama dipinta dal maestro Leonardo che aveva potuto ammirare nell’allora Musée Napoléon , ancora più bella di quel sorriso enigmatico che tanto affascinava.

Lei stessa racchiudeva un sibillino gioco di luci ed ombre.

Rientrava in maniera spaventosa nei suoi canoni e sembrava non sforzarsi di questo.

Se un vestito si adatta perfettamente al proprio corpo è confezionato per te.

Se una donna è il tuo perfetto complementare, potrebbe essere finta.

Forse era anche per questo che Philippe non si era lasciato prontamente avvicinare da nessuna, vedeva così tanta ipocrisia in quegl’incontri casuali e le oppressive attenzioni più al suo titolo che alla sua persona.

Con Constance tutto era diverso e non sapeva assolutamente spiegarselo. Una bellissima donna, forte, decisa, con un ottima istruzione da quello che le sue informazioni rivelavano, che da quando i genitori erano morti si era trasferita da Tours terminando i suoi studi con largo anticipo per aiutare il povero fratello almeno nelle mansione che le competevano attardando invece il costruire un proprio focolare con una propria famiglia.

Una storia già ascoltata alle orecchie di Philippe, che nonostante non potesse rimproverare nulla alle sue sorelle si trovò ad essere invidioso di Jean.

Constance. Si era ripetuto il suo nome in quei giorni molte volte, cercando di scacciarlo i primi tempi temendo che lo stesse troppo distraendo e poi riportandolo ferocemente solo per imprimerselo. Era stata una scintilla scoccata al suo primo sguardo spaesato, l’effetto captante ed accerchiante della sua dolcezza quando accarezzava il cane. Eppure Philippe sentiva qualcosa oltre l’acerba emozione che gli provoca il suo nome, un qualcosa di nascosto, forse terribile, un piccolo campanello d’allarme che si era trovato ad ignorare deliberatamente.

Per una volta dare ragione all’istinto piuttosto che alla ragione.

«Spero che stiate meglio con la vostra caviglia.»

«Molto meglio, ma il medico mi ha detto di tenerla a riposo ancora un po’. Niente più cavalcate selvagge per almeno altre due settimane. Avanti.»

Vennero interrotti dal cigolio della porta che annunciava l’arrivo di madame Bonnet: teneva tra le mani un vassoio con due tazze di porcellana, una teiera ricolma ed un piattino dove vi erano sistemati dei piccoli preziosi incartati con della velina bianca. Una novità assai curiosa che sapeva Malice avrebbe attirato il conte.

Madame Bonnet congedò educatamente prima di sparire al di là della porta.

«Ditemi, monsieur, la vostra è una semplice visita di cortesia?»

Voleva portarlo lentamente a gravitare attorno a lei, Philippe aveva bisogno di esser lasciato bollire assieme ai suoi pensieri e le mosse azzardate non le avrebbero permesso di conquistare la sua fiducia.

Ed i suoi occhi ghiaccio la scrutavano con insistenza, guardavano il moto dei suoi atteggiamenti, ascoltava la cantilena pluricromatica della conversazione vezzeggiandola con piccoli sorrisi soddisfatti.

Malice sapeva benissimo ciò che esercitava, come riusciva ad ingannare facilmente, lo portava inciso su di sé in una perenne rimembranza di ciò che fosse.

 

Volpe.

Il segno nero di una terra lontana, orientaleggiante incisione sulla mia pelle bianca.

Un segno come il tuo Erik, indelebile nonostante si sbiadisca con il tempo.

So che ci osservi, spii il nostro copione improvvisato. Sei oltre la porta che collega alla stanza accanto nascosta dagli stucchi e dalla pittura della parete.

 

«La vostra puledra è stata ritrovata ed ho pensato, con l’occasione, di assicurarmi della vostra salute. Spero non vi dispiaccia …»

«Provo solo un immenso piacere a godere della vostra compagnia, anzi vi dirò di più: se fossi sicura che mi portasse a si piacevoli incontri, mi farei sparere più spesso!» un piacevole senso dell'umorismo aveva sempre attirato l'essere umano.

Perchè essere sempre seri quando la vita è fatta solo di amarezze? Meglio saper sorridere anche delle proprie disgrazie Lucia.

Le ripeteva il suo precettore lo stesso che le aveva insegnato a pensare con la propria testa piuttosto che con quella della famiglia o della società.

Cacciato dopo anni dalla sua casa perchè etichettato come pazzo illuminista e sognatore. Stava inculcando nella precoce mente della virgulta troppe idee moderne, rivoluzionarie non adatte ai progetti che il padre padrone aveva in mente per lei.

Mi volevi silente e remissiva come Beatrice, come la mia signora madre. Ma era troppo tardi, il seme di un senno indipendente era già stato piantato e nè la tempesta nè il generale inverno potevano scalfire le sue radici ormai inculcate nel terreno. E nella primavera di un'Era nuova e rivoluzionaria, io ero sbocciata. 

«Madamoiselle vi sentite bene?»

Perduta in un istante nel vuoto, di nuovo stava scivolando via dalla sua parte. Constance non era poi così forte, o forse era Lucia a richiedere finalmente la sua parte con la giusta prepotenza. Scosse la testa liberandosi di lei almeno quel tanto per riconquistare un debole riso e distogliere lo sguardo dal piccolo scalino invisibile che segnava il pannello mobile.

Sollevò così il piattino invitando il conte a servirsi, osservandolo da sotto le lunghe ciglia.

«Certo monsieur, assaggiate queste gustose praline. Sono confezionate secondo una ricetta torinese, la chiamano Gianduja, come la famosa maschera …»

L’ira, l’accidia, l’avarizia, la superbia, l’invidia.

Peccati che un uomo di virtù riusciva ad opporsi.

Ma il tentar di gola era il primo passo per condurre alla perdizione.

La gola, intima sorella della lussuria, aveva invece delle doti ammalianti per questo ne prediligeva l’uso.

Stimolare l’una poteva solo stuzzicare l’altra.

E questo l’aveva imparato a sue spese, quando quegli stessi giochi venivano usati per comprare il suo silenzio.

Pasticcini deliziosi al miele, soffici torte, panna e canditi, dolci leccornie ed una bocca di bambina golosa. Danari sonanti nelle tasche di chi mi aveva venduta.

Cosa gli aveva procurato la musica di quel maledetto reietto! Ora vacillava ad ogni particolare, si perdeva in ricordi troppo vividi per la sua pazienza, offrivano il suo fianco già aperto da ferite sanguinanti e riversate nelle tazze in cui mesceva quel caldo liquido giallo.

Ricorda che sei una professionista. Una donna padrona del suo corpo, della sua mente.

La tua mente con un acronimo maschile su di un editoriale, una denuncia in campo aperto di cosa eri stata testimone. In fondo non sei sempre stata corrotta. LADL.

«Stavate dicendo che avete ritrovato la mia puledra. Era ancora imbizzarrita?»

«No, si è dimostrata docile e mansueta come un agnellino.»

Quella velata ironia nel modo in cui lo disse lasciava intendere molto altro, una sfumatura sarcastica di come poteva vedere tanto simile una cavalla ad una donna come Constance. Aveva scartato uno dei cioccolatini per poterne assaggiare il delicato e cremoso sapore, lasciando scappare uno sguardo freddo e colmo di malizia che non era riuscito a mantenere. In fondo doveva essere questo per lui, ma ciò non trattene l’insolito moto di disgusto che la costrinse ad affogare nel  calda bevanda ancora fumante. «Piuttosto il più turbato è Baron … non avevo mai assaggiato questi cioccolatini, molto buoni Constance …»

«Baron?» chiese perplessa animata da una nuova sincerità.

«Baron è il mio bracco. Credo si sia ammalato …» Philippe non si aspettava di scuotere quella donna così tanto, con gli occhi resi immensi dallo stupore e la bocca socchiusa incredula. Un’espressione buffa, che gli provocò un lieve risolino impossibile da trattenere cercando di nascondersi anche lui dietro la porcellana della tazza. Si sentiva un po’ bambino nel giocare così, e Dio solo sa quanto potesse piacergli.

«Am - ammalato dite?» lui annuì con un cenno del capo senza andare avanti, vedendo l’adorabile impazienza correre nello sguardo di Constance. «Ebbene?»

«Da quando vi ha incontrata sembra sempre triste, non fa altro che guardare fuori mangiando appena. È rimasto incantato da voi e credo che il suo sia proprio mal di amore … »

Un mutismo perplesso si era stagliato, con un sogghigno divertito di Philippe.

Il tempo esatto di un veloce ragionamento.

Sorrise ed il sorriso si allargò in una risata argentina assieme a quella del conte.

Si scatenarono all’unisono, come un baritono ed una soprano che duettano in motivi diversi ed astrusi, con sapori divergenti, in contrasto.

Il tempo era passato e con esso Philippe aveva dimenticato i doveri da de Chagny che aveva abbandonato, ricordandosene solo al rintocco impietoso del pendolo sulla mensola del camino.

«Devo proprio andare, madamoiselle …» sembrava un condannato a morte al quale aspettavano le ore di solitudine che lo separavano dal boia. In fondo era da tempo che non si sentiva così fuori dai suoi doveri e quasi ne aveva dimenticato le sensazioni: si concedeva alla bella vita, dalle feste in società, agli spettacoli con piccole interruzioni in qualche café o bistrot di Parigi. Ma chiunque frequentasse, dalla più sbarazzina giovinetta al più vecchio amico, gli ricordava sempre il suo ruolo: lui era il conte de Chagny tutore legale dei suoi fratelli e detentore di un titolo di cui ne doveva portare il peso persino nel letto. Quella brevissima ora nel pomeriggio, quell’ora che si doveva concedere per confermare alcuni suoi dubbi, era stata di una semplicità disarmante tanto da fargli dimenticare quanto prossimo fosse il momento della separazione.

I suoi doveri una persecuzione e lei Constance era stata il più piacevole diversivo.

«Non vi alzate, ve ne prego …» disse al primo accenno della donna ad accompagnarlo. Si azzardò perfino a prenderle la mano accarezzandone il dorso. Un gesto ardito, ma che non vedendo rifiutato perpetuò. « … dovete promettermi che l’unico sforzo che  farete è quello di guarire, sempre che abbiate a cuore la salute del mio bracco …»

«Mi sbaglio o questo è un invito?»

Stare al gioco sempre.

Tu lo hai attirato ma è lui a guidare.

Ti viene a trovare e ti invita con una scusa.

Ma io conduco.

«Non vi sbagliate, è un invito!»

«E sia, ma solo per il bene del piccolo Baron!»

Un galante cenno di saluto, labbra sottili che indugiarono qualche istante in più sul dorso della mano e Malice sapeva che ormai non era più la sua caviglia ad essere costretta in una fascia ma quella del conte ferita dalla tagliola che l’aveva catturato.

Ormai era in trappola.

Ritirando le dita avvertì anche una leggerissima resistenza, più salda di quella iniziale.

Intensi scambi di sguardi, malizia di un gioco sull’orlo della seduzione più sottile.

Madame Bonnet richiamata dal campanello dopo aver fatto preparare la carrozza del conte per accompagnarlo alla porta.

I loro passi sempre più lontani, piccoli sordi rintocchi di tacchetti su di un pavimento in legno.

Il cigolio successivo del pannello che si dischiudeva e lasciava apparire un Erik disgustato, con il volto contratto e la mascella serrata.

Sembrava avere un potere Malice, era come se sapesse ogni qual volta dove fosse il suo Fantasma.

Semplice esperienza di una vita vissuta nell’ombra si ripeteva lei, ma per Erik, che sapeva camminare davanti ad una persona senza farsi vedere nonostante la sua stazza degna di ogni rispetto, aveva più la parvenza di un mistico sortilegio.

In un certo qual modo lo spaventava.

«È fatta mon ami!» dal pizzo della poltrona si lasciò cadere all’indietro, le palpebre chiuse, la testa rilassata oltre lo schienale, le gambe si distesero da quel groviglio intorpidito di muscoli. Era stata così impettita, rigida che si sentiva la spina dorsale protestare. Nemmeno le rigide stecche del bustino e i nastri che strozzavano il punto vita riuscirono a sorreggerla dall’improvvisa spossatezza delle sue membra. «Non ho mai faticato così tanto a mantenere un’identità, imparato qualcosa di nuovo, Erik?»

Non aprì gli occhi, sollevando pigramente le braccia sopra la testa per afferrare le forcine tra i capelli. Le prime ciocche capitolarono mollemente oltre le spalle, altre si ripiegarono sul bordo dello schienale ostacolo al loro percorso verticale in caduta. Ma una delle ultime s’insinuò sul virgineo letto del suo petto, solleticando il pizzo della scollatura dove ora fili d’oro s’intrecciavano contro il ricamo lavorato.

Solo quando una cascata di miele cadde pesantemente scossa dalle mani della sua padrona si accasciò sul resto Erik si accorse del viso di Malice. Stremata, come se avesse fatto uno sforzo fisico immane, stava abbassando ogni difesa e, anche se non doveva portarsi una mano sul volto, procedeva nel liberarsi della maschera di Constance, la perfetta Constance. E chissà perché lui la trovava molto più perfetta così, con i lunghi capelli sciolti che cedevano perpendicolari alla gravità del terreno, serici e lisci che si ribellavano in tenere volute verso la fine.

Un’altra cosa che ti ricorda lo specchio, vero Erik ?

Quante volte hai sentito pesare la tua maschera sul viso?

Quante volte avresti solo voluto che ti accettassero per quello che sei?

Mi ami e mi odi solo perché sono il tuo alter ego, solo perché posso nascondere ciò che sei stato.

Ed ora guardi lei con quella stessa espressione che vedevi in uno degli innumerevoli specchi della tua dimora quando ti staccavi da me, con la stanchezza di chi deve sostenere due persone in un corpo solo.

L’uomo ed il Fantasma.

Ma in lei quante ce ne sono, Erik?

Quante ne hai percepite?

E questa donna con i capelli sciolti, rilasciata sul divano come se fosse nella solitudine delle confessioni notturne, quale delle tante è?

«Non sembravate così a disagio, Constance …» un cenno di scherno ripagato con una smorfia di repulsione.

Era quello che ora sentiva, come ogni volta in cui si allontanava dalla finzione. Un lavoratore quando termina la sua giornata, si toglie il grembiule o la divisa per indossare abiti civili, un nobile magari si libera delle proprie chincaglierie per sentire la veste da camera su di sé.

Ma lei, come poteva disfarsi di un’identità?

«Anzi oserei affermare che gradivate anche troppo le attenzioni del conte.» era il suo tono così saccente e infastidito che le fece sollevare il capo in sincronia perfetta con il sopracciglio. Cos’era quel modo di rivolgerle la parola?

«Cos’è, Erik? Siete geloso?» velenosa, aspra come il succo di limone sulla carne viva che brucia. Colas una volta aveva provato a dirle una cosa simile. L’aveva accompagnata in quel viaggio, uno dei suoi amanti che doveva contrattare con un importante mercante del sol levante che la riempiva di complimenti e regali tutti restituiti alla Sûreté con tanto d’interessi. E lui che ancora non aveva capito quanto poteva spingersi oltre con la giovane Lucia, non voleva che si concedesse in modo così solerte al suo lavoro.

Si era ritrovato agonizzante a stringersi l’inguine per il colpo ricevuto.

Voi uomini non sopportate il dolore!

«Non dite sciocchezze, madamoiselle.»

Ti vuoi convincere che è una sciocchezza?

«Bene.» lapidaria con una sola ed unica parola. Non doveva servire ad altro.

Non provarci Erik, non con me. IO non sono mai appartenuta a nessuno.

Non vantate diritti di possesso solo per qualche smanceria che vi concedo. Non sarò mai la tua Christine …

«Comunque siete stato bravo, avete agito perfettamente ed in autonomia. Per quasi due volte ho rischiato di compromettermi. Sarà stata l’emozione: il conte sembra molto intelligente ed è anche un bell’uomo, cosa molto rara nel mio lavoro.  » ancora quel gorgoglio a rimestargli l’animo.

 

Oh Erik, perché ti prendi in giro: stavi spiando la loro conversazione come facevi all’Opera con lei, e temi di porti la giusta domanda. Perchè?

 Lei non ti aveva detto che le serviva la tua presenza, non occorreva che tu assistessi ai primi passi di un vero corteggiamento. Sapevi che quel damerino era lì per Malice, per chiederle qualcosa, un invito, anche solo per vederla.

Non ha bisogno d’ingannare con machiavellici piani articolati su bugie e menzogne, non deva travestirsi da Angelo ed insegnarle ogni cosa a lui più cara.

Gli era bastata una scusa sciocca.

Il cavallo poteva essere riportato da un servo ed ammetti a te stesso che la storia del cane ti ha fatto sbiancare le nocche delle mani a forza di serrarne il pugno. Dio! Come ti ha dato fastidio il modo sfuggente che aveva di prenderle le mani, le carezze di un uomo che esponendo il suo bell’aspetto può permettersi la libertà di toccarla impunemente.

Peccato che fosse così freddo anche nella breve unione delle loro mani e quanto urtava i tuoi nervi ogni istante di più.

Così sbagliato. Malice non è nemmeno lontamente Constance: hai capito che ama il contatto, la passione, le fiamme.

Fuoco e ghiaccio non possono incontrarsi. Ed è questo il conte de Chagny, solo gelo.

Sentivi il logorio delle tue viscere, lo stridere dei tuoi denti chiusi nella morsa di ferro della mandibola. Perché quella donna ti rappresenta, ti ha accettato indipendentemente dal tuo aspetto e ti lusinga con le sue labbra turgide.

 

La ripudio, ma la desidero. Odio che si tocchino le mie cose.

 

Ma lei non è tua, non lo sarà mai come non lo è mai stata Christine che hai amato e continui ad amare incondizionatamente. Non dimenticare la delusione, non dimenticare del vero motivo perché accetti che ti confonda le idee. Domina i tuoi istinti, lei è solo il lasciapassare per la tua vendetta.  

 

«Credo che dobbiate aiutarmi a liberare il mio piede da questa tortura! Non ce la faccio più …»

Riuscirai a dirle di no?

No, anche se era quello che voleva. Il primo pensiero, un arrangiatevi immediato che gli si era stampato in gola pronto a fuoriuscire con impeto per voltarle le spalle e ritornare alla sua musica, invece ricacciato dai suoi passi incerti verso quel divano e seguito dai suoi occhi scuri penetranti.

Era forse un nascosto senso di generosità a guidarlo, oppure un puro istinto?

La sua pelle ed il suo profumo. Le tue mani che sentono il contatto con esse senza che sia lei a comandare. È questo Erik che non riesci a negarti.

La generosità non fa parte di te.

Ciò che ti sta guidando è l’egoismo.

«So che non volete la gratitudine di nessuno, ma avrete la mia dopo questo …» non osava guardarla in viso, odiava vederla esultare per averlo condotto inginocchiato ai suoi piedi mentre, come se stesse effettuando un rituale, le slacciava lo stivaletto scivolando con le sue dita sui lacci dolcemente. Non voleva che lei incontrasse il suo volto perché quello che vi avrebbe letto era il desiderio inconsulto di continuare ben oltre dall’accarezzarle involontariamente il polpaccio sfilandole la scarpa. Salire da sotto la stoffa della gonna solo per sentire le sue gambe tremare ed il suo respiro accelerare ad un tocco audace.

Puoi quindi provare attrazione senza amare, Erik?

Frenarsi, questo si era imposto, perché la sua arma era la seduzione e lui era un gioco.

Non avrebbe retto ad una delusione ulteriore, non avrebbe retto all’indifferenza dopo una notte mercenaria soggiornando nel suo letto, non  avrebbe retto alla sensazione di aver insudiciato ancor di più il suo animo tradendo lo spirito alimentato dall’amore.

Doveva solo rigirare la caviglia alla ricerca del primo capo da dove sciogliere l’intricata fasciatura.

Le dita esangui erano talmente gelide che le sentiva persino attraverso la stoffa.

«Avevate ragione è esageratamente stretta. Rischiavate di perdere una delle dita del piede alla fine della giornata.»

«Parlate così solo perché non avete mai indossato un corsetto!» una battuta. Stava scherzando con lui e non di lui. Di nuovo quel senso di barcollamento, un afflusso troppo veloce del sangue, lo scatto improvviso della sua testa a cercare il segno della menzogna tra le sue labbra. Ma nulla. Era realmente una semplice battuta affine a sé stessa.

Vi state liberando entrambi da altri veli Erik?

Non adesso che il suo orgoglio stava rifiorendo.

Lui era il Fantasma e non si sarebbe lasciato ingannare dalle sue innumerevoli moine, questa consapevolezza lo spinse alla sua alacre ricerca del principio, incastrato ed annodato troppo bene perfino per far passare le sue esili dita nell’avvallamento dell’osso.

Sembra quasi una punizione.

«Utilizzate questo …»

Tra le mani teneva una specie di punteruolo acuminato, il profilo una linea continua che si allargava su ricami incisi e scolpiti, un tralcio di fiori in oro su foglie che sfondavano il legno nero che predominava.

Ricordi quel motivo Erik? Ti minacciava nel buio del Teatro distrutto dalla tua follia.

Il suo pugnale.

Ho sempre avuto un debole per le armi esotiche …

«Kogai …» l’ombra di un significato che non apparteneva nemmeno alle sue vaste conoscenze, la pronuncia dura di una cultura che albeggiava ad est del mondo dove il sole nasceva. Raccontava di una terra lontana, di rispetto nel modo solenne con cui l’aveva articolata.

«Come prego?»

«Questo è un kogai giapponese …» lo afferrò tra due dita cercando di esporlo al meglio sotto il suo sguardo acceso, le sue iridi acquamarina quasi potessero prendere fuoco. Era come se sapesse che quel piccolo e letale oggetto potesse attirare la sua attenzione con tanto ardore.

… anche tu hai un debole per le armi esotiche.

«Le sue dimensioni ridotte e la sua forma lo rendono praticamente un arma di fortuna perfetta: la si può incastrare tra i capelli o portare nascosta nella fascia di un abito o dentro una manica. Apparteneva ad un maestro costruttore di spade, insieme a quel Tanto che avete già avuto l’onore di conoscere Erik.»

«Come ne siete venuta in possesso?»

«Questo non vi riguarda!» dura ed irascibile, una parentesi sbagliata. «Vi spiacerebbe ora finire quello che stavate facendo? Vorrei rinchiudermi nella mia camera prima che ritorni Colas. Quando saprà della visita del conte inizierà a tediarmi con i suoi piani idioti e privi di fondamenta e sinceramente me ne manca la voglia. Lascerò a voi il compito di dirgli che è tutto andato alla perfezione e che sono ad un passo dall’averlo in pugno, contento?»

Il modo in cui si trasformò improvvisamente la faceva tornare passi e passi indietro nel suo trovare una comunione con Erik. Brusca ed assolutamente inopportuna, un nuovo appiglio per l’esasperazione che si provocavano costantemente.

Ed il pendio su cui si stavano arrampicando era reso sempre più ripido e sconnesso.

Ad attenderli la gola di un baratro infinito, in cui l’eco del tonfo del sasso caduto accidentalmente non si sarebbe udito ancora per molto.

 

Note dell'autrice: Buonaseeeeera!!! Le giornate sono sempre più stressanti e per questo oggi mi sono messa a scrivere convulsamente, come una matta. Comunque volevo dirvi che questa storia nasce per mostrare un rapporto fra due persone ferite e vorrei che si affrontasse come il viaggio di Erik attraverso la mente di Malice. Non ci si accorge di quello che realmente viviamo finchè non lo vediamo scritto su di un altro volto. La situazione di Philippe, Colas, Christine, Roul è solo un contorno, per questo di loro ci sono accenni (si ora arriveranno anche il nostro caro Roul e Christine) e saranno solo gli artefici di un susseguirsi di eventi capaci di portare queste due anime a confrontarsi ed aprirsi. Questo perchè voglio dare ad Erik la capacità di superare i suoi "traumi" ed anche a Malice, mia creatura personale con una storia complessisima alle spalle. Ed in più volevo offrir loro una sorta di compagnia che riuscisse in qualche modo a comprendere e lenire quello che hanno passato. Questo era per dirvi della presenza assidua di circostanze in cui sono soli, il loro gioco doloroso alla scoperta del passato di Malice che tra l'altro è un personaggio difficilissimo da gestire, come Erik d'altronde.

Spero che tutta l'introspezione non vi annoi perchè ora si entrerà nel vero vivo.

Il riferimento al Giappone non è casuale: in quel periodo in Europa, soprattutto nell'arte francese,si sviluppa una sorta di ossessione per il Giappone, creando un fenomeno chiamato giapponismo. Ciò ha portato all'incontro fra Malice e questa cultura (che io adoro letteralmente ♥_♥), ma ne sapremo di più.

Anche il gianduiotto è un riferimento storicamente corretto, nato nel 1865 e distribuito da Gianduja in persona nelle piazze torinesi è stato il primo cioccolatino incartato singolarmente.

Detto questo passiamo alla mia perfetta recensionista:

Giuly O mon dieu!!!i tuoi complimenti mi lusingano ... troppo sono senza parole ed il che è tutto dire per me!!!^^ Non contando che l'impressionismo è il mio periodo artistico preferito quindi mi sono sciolta ... o mamma, ok step up!!! Strafelice che il rapporto molto fisico fra i due sia apprezzato: insomma io volevo proprio questa netta differenza con la candida Christine, uno bello scossone per uno come il nostro Erik. E poi finalmente fai il tifo per la mia cucciola!Me occhi a cuoricino!!! Volevo rassicurarti: niente gravidanza di Christine con probabile paternità Fantasmosa (Christine in love never dies è sicura che sia Erik il padre, ma non credo che la genetica fosse molto in voga nel 1880. Quindi, a meno che Raoul non fosse un marito impotente non credo, mi lascia un po' in dubbio questo appiopo di figlio. Questa è la più grande incoerenza che ho riscontrato, per non parlare dei personaggi troppo diversi dagli originali. Mah non lo so, è carino ma secondo me è una storia completamente diversa che non ha molto a che vedere con Il Fantasma dell'Opera) . Comunque il riferimento è veramente piccolo, solo un piccolo prestito con licenza poetica come al solito^^!!!

Per la seduzione definitiva bhè dovrai seguire, mi spiace ...

Lo sapevo che avresti apprezzato il caro Chopin, a lui invece non andava tanto giù sta composizione. Vero un pochino assomiglia ad una parte della Sonata al Chiaro di  Luna però ha una sua personalità spiccata. Va buon la smetto immediatamente se no non la finisco più. Ti mando un bacione fantasmoso tutto per te!!!

Ringrazio sempre tutti quelli che passano di qui per dare un occhiata, comunque per la qualsiasi non esitate e Commentate!

Serva vostra.Mally.

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Capitolo 9
*** CHAPITRE 8: Échange de visage. ***


CHAPITRE HUIT: Échange de visage.

 

Madamoiselle Constance fece visita solo dopo qualche giorno a Philippe de Chagny, il giusto tempo per cui una caviglia slogata potesse passare. Iniziò con una brevissima permanenza alla villa nobiliare, un’apparizione limitata a cogliere la scusante usata dallo stesso conte.

Oh, non posso trattenermi purtroppo … volevo solo sincerarmi della salute di Baron.

Entrando nel suntuoso atrio in effetti era stata accolta dal piccolo bracco emozionato e scodinzolante, festeggiava l’arrivo della donna con guaiti e rantoli di piacere alle carezze ricevute. Constance non temeva di sporcarsi le mani, si fece vedere incurante persino del vestito che indossava quando la firma del fedele amico dell’uomo si stampò sulla gonna chiara.

Non vi scusate monsieur gli abiti si cambiano e si lavano.

Aveva giustificato così il piccolo incidente, sistemando al meglio le pieghe stropicciate dell’abito per l’irruenza gioiosa del cane.

Si accomiatò con la promessa rivolta a Baron di tornare il prima possibile, ma gli occhi puntati dritti in quelli di Philippe.

La coltre di ghiaccio intorno al bel conte si sciolse così pezzo per pezzo, con passeggiate e conversazioni interessanti sui più disparati argomenti. Constance dimostrava di essere una donna acuta, intelligente e molto colta, qualità che attirò persino i suoi amici, quelli che da quando era giunta nella vita del conte non avevano smesso di assillarlo.

Per il piccolo Raoul l’incantevole cantante e per Philippe la bella borghese. Ah, che famiglia fortunata!

Logoravano quella costatazione che perdeva il suo fascino burlesco dal consumo esagerato.

Per Philippe però quel genere di nuova attenzione, quel presentarsi dei suoi amici così all’improvviso solo per spiare se ci fosse o meno madamoiselle Saint – Simon alla dimora dei de Chagny era un'abitudine divenuta una miccia per il suo amor proprio.

Sentiva su di sé l’invidia degl’altri scivolare come olio che andava a cozzare contro le suole delle sue scarpe: il suo ego gradiva quando si complimentavano con Constance inneggiando alla sua bellezza o, ancor meglio, alla sua intelligenza e poi si ritrovavano a storcere la bocca quando pensavano al proprio matrimonio combinato o di convenienza.

Quante volte si erano premurati di ricordargli quanto una moglie può aiutare negl’affari e nella gestione dei propri beni meno materiali, quante volte avevano sottolineato le virtù e i difetti di quelle giovani che elargivano eredi neanche fossero pacchi dono per gli orfani, quante volte si era ritrovato logorato della solitudine della sua casa affogando poi nel letto sfatto della cortigiana più in voga di Parigi.

Gli anni di eremo vissuti in  virtù del suo rango e della sua posizione stavano per essere ripagati tutti.

Constance, la dolce, tenera, forte e caparbia donna si stava insinuando nel suo cuore ed ogni giorno vedeva come anch’ella sembrava essere attratta da lui, non per il suo danaro o per la sua posizione. Lei lo stava conoscendo, lo liberava dei dogmi che si era imposto, i nodi che lo legavano alla sua integerrima figura si stavano sciogliendo ed aveva una persona accanto di cui stava acquisendo sempre più una fiducia cieca.

  

Le volte successive divennero sempre più frequenti, ad ogni occasione cercava di rimanere qualche istante di più divenendo una presenza decisamente assidua.

Dapprima qualche minuto, poi ore ed infine intere mattinate o pomeriggi passati assieme a Philippe momenti preziosi fra documenti, incontri e quant’altro avesse riempito il tempo dell’uomo che si nascondeva dietro il conte de Chagny.

Vi era sempre un istante per Constance, un po’ meno per suo fratello che frequentava solo di riflesso qualche volta rivolgendo appena la parola.

 

  

«Vi ho già detto che ormai non dovete più preoccuparvi»

Agitato era dire poco per lo stato d’animo in cui versava, sembrava sempre più convinto che Malice questa volta si stesse sbagliando. Un errore per lui alquanto grossolano, ed era stato paziente, aveva atteso cercando di ignorare il suo eluderlo ed il suo nascondersi dietro Erik con cui sembrava condividere una sorta di patto di non belligeranza solo ed esclusivamente quando dovevano scappare da lui. Sempre meglio che fare da paciere nei loro noiosi battibecchi.

Troppo sicura.

E lei così tranquilla nel suo passare un leggerissimo foglietto sulla lama del suo pugnale, seduta in terra e circondata da strani strumenti che mai Erik aveva potuto ammirare.

«No, questa volta state azzardando troppo. Vorrei sapere cosa c’è di così indubbio nel…»

Colas era una persona che detestava essere interrotta, ovviamente a Malice questo importava poco, anzi, si divertiva ad irrompere nei suoi discorsi con una risata sommessa o con la frase più inopportuna che le veniva in mente. Non questa volta, che sembrava più lei ad essere infastidita. Ipnotizzava la dedizione maniacale con cui piegava geometricamente e posava il panno, i gesti controllati e cauti come se operasse con barili di polvere da sparo sopra la bocca eruttante di un vulcano, raffinati movimenti devoti che agivano con la sacralità di chi maneggia una reliquia mentre riprendeva l’olio dal aspro effluvio che pizzicava perfino le labbra rivolte in ghigno soddisfatto.

Stava compiendo un rituale, un importante momento in cui loro erano diventati di troppo e le mezze risposte, che elargiva appena, risultavano come un tentativo vano di porre un freno a quel delirante crollo che aveva colto l’instabile omuncolo. Ormai Erik lo definiva così nella sua testa: durante l'intera permanenza al vigneto non era riuscito in alcun modo a riscattarsi da quella opinione, continuando a definire sempre di più la prima impressione come corretta.

«Almeno ditemi cosa vi ha lasciato intendere che Philippe de Chagny sia ancora minimamente interessato a voi!»

Un solo e brevissimo sguardo, un rapido ed intenso passaggio da l’uno all’altro mentre dopo l’ennesima riesamina la lama passava sopra la manica della vestaglia di seta che indossava prima di affondare nel legno del fodero con uno sferragliare metallico ed un sonoro accenno di chiusura.

Tutta quella sfiducia nei suoi confronti cominciava davvero ad offenderla.

Aveva detto loro di non preoccuparsi, che il conte de Chagny aveva delle esigenze diverse, che non voleva semplicemente una concubina e che quindi non si sarebbe comportata da tale. Tutto qui. Non c’era bisogno di sapere altro.

«No, non è necessario.» sintetica, breve nel suo interloquire come se stesse risultando sempre più inutile continuare in quella farsa del gran capo contro il proprio sottoposto.

Con la stessa cura sistemò i suoi strumenti in una scatola foderata e con sopra incisi ideogrammi dal mero significato, si sollevò da terra scivolando il ginocchio in avanti e alzandosi come se fosse composta d’aria, senza alcun peso.

La grazia di una farfalla.

Ingrata cortigiana.

Colas in passato aveva significato la speranza per lei, una sferzata d’aria che colpisce il viso in una prima giornata estiva ed ora era solo il misero verme che sempre era stato, nascosto dietro quelle che erano le leggere gonnelle di un gentil sicario, lui che aveva semplicemente il compito di vigilare e pulire la sua scia di cui lei non doveva preoccuparsi.

Qual è il vero lavoro sporco?

«Fate ciò che riterrete più opportuno Malice, ma se solo …» essere così vicino al suo viso, sibilare ogni singola parola contro la sua faccia lo voleva rendere minaccioso, ma sembrava solo conferirgli una paura sempre più grande, una paura che andava oltre i presenti. « … se solo il benché minimo dettaglio dovesse andare storto ne pagherete le conseguenze … è tutto sotto la vostra responsabilità!»

Non ne era spaventata, non poteva esserlo e sebbene la sovrastasse in altezza.

Si fece avanti gli occhi sottili e spavaldi di chi ha imparato a giostrare le proprie emozioni e a depositarle in fondo al proprio io.

«Oh certo se le cose si fanno complicate la responsabilità è la mia, ma che dite Colas se vi metteste in gioco al mio pari, provando ad infilarvi voi nel letto del conte e prendendo realmente le responsabilità che mi competono …»

Minuta e letale. Davide contro Golia.

«Per Dio, non capite …»

«Non nominate il nome di nostro Signore invano!» ed era quasi un urlo isterico, un punto dolente che non andava toccato. Il dito minaccioso puntato contro il suo naso, la furia a coprire i suoi occhi, l’odio più profondo per quel grave peccato. Perché tutto poteva fare Colas, macchiarsi della complicità con un’assassina, eludere tutti i comandamenti ma non mancare di rispetto al Signore.

Non siamo degni del suo amore.

«Ed ora fuori di qui!» abbassò i toni ma tutto era rimasto in quel freddo modo di congedarsi e nel tonfo sordo della porta sbattuta con violenza contro le spalle ricurve di un uomo spossato.

Offeso, irato Colas non aveva più voglia di combattere.

Era stanco di subire la sua oppressiva ossessione alla perfezione e al ligio comportamento cattolico, escludendo i comandamenti soltanto quando le veniva ordinato dai vertici, stanco di essere continuamente tacciato per uno stupido, uno sciocco o qualsiasi altra cosa le passasse per la mente. La ragazzina raccolta al Forte Sant’Angelo, che pensava di poter plasmare e far diventare un’ottima distrazione era divenuta tutt’altro.  Non aveva alcun rispetto nei suoi confronti, lo calpestava, seviziava e derideva in ogni occasione soprattutto da quando veniva supportata da quel pazzo maniaco ossessionato dalla sua musica. Un’ombra che gli incuteva sempre più timore, un vero Fantasma di cui avvertiva la presenza solo quando le tetre note del violino gracchiavano nelle prime ore notturne, oppure in quegl’incontri fortuiti non voluti assolutamente.

Sapeva benissimo quanto potesse essere utile un uomo che non esiste, lui stesso non esisteva nei documenti se non come la faccia del momento, ma da quando si era unito a loro gli era sembrato che Malice avesse acquisito ancor più indipendenza, troppa.

Dopo il diniego al suo rientro a Roma sembrava essersi calmata, coperta da un sottile strato di apatia ed invece il nuovo giunto aveva fatto risorgere la Malice che lui detestava.

Forte.

Aveva fallito.

Mai come allora fu tanto attratto dal liberarsi di lei, in un modo o nell’altro. Ma come?

La Sûreté non avrebbe accettato un tale affronto, soprattutto perché non poteva più permettersi un piede in fallo. Aveva provato ad abbandonarla al suo destino per non sporcarsi le mani solo una volta e gli era costata cara, molto cara.

Se non fosse tornata probabilmente ora avrebbe ricevuto la liquidazione più proficua da parte della Sûreté : un letto di seta dove condividere una permanenza assidua con vermi, insieme ad un biglietto solo andata per l’Inferno.

Se non fosse stata così indispensabile in ogni stramaledetta occasione.

Se non fosse stato il più conciliante.

Con il gioco dei se fosse riusciva a realizzare solo che non se ne sarebbe mai liberato.

E a lui rimaneva solo la sua condizione di servo.  

Umiliato nel privato fuori da quella porta limite valicabile in rare occasioni.

  

Il Café Le Procope. Un luogo delizioso, accogliente con le sue pareti in pannelli di legno e i divani che si scolpivano come altorilievi dai muri, ritratti e quadri che pendevano su l’intonaco grattato. L’avvicendarsi di paure, gioie, idee veniva letteralmente trasudato dall’aria assieme a tutti i profumi provenienti da ogni angolo. Ed ogni odore era diverso, amabile e allo steso tempo armonioso come una melodia di sensi e sensibilità. L’aroma dello zucchero aleggiava attraverso le parole delle argute discussioni di signorotti ed acculturati dell’epoca, mentre tra i tavolini in ferro battuto all’esterno camerieri impettiti nei loro completi servivano donne sorridenti che si aggrappavano quasi con bisogno al gomito del proprio accompagnatore.

Non Malice che deliziava le sue papille con il freddo contatto con acqua ghiacciata al limone. Era stata lei stessa a chiedere al conte di incontrarsi da Le Procope, nell’anfratto appartato di uno dei posti preferiti della nobiltà parigina così come degli intellettuali.

«Non so come scusarmi …»

Aveva esordito così, senza preamboli, senza troppi alambicchi da cui stillare patetiche raccomandazioni all’uomo che dopo un estenuante corteggiamento si era trovato rifiutato.

«No, siete voi che dovete perdonarmi … sono stato molto avventato e non avrei dovuto, soprattutto con voi madamoiselle Saint - Simon »

Un sorriso, buono, dolce. Era quello che gli avrebbe regalato d’ora in poi.

Una ragazza timorata di Iddio.

«Siamo tornati ai formalismi Philippe o ti devo togliere nuovamente questo vizio?»

«Dovete dirmelo voi …»

 

«L’invito ad uscire valeva anche per voi!»

Gli dava le spalle, perché il voltarsi significava affrontare anche lui.

Non sosteneva più il suo sguardo attento ed indagatore, non sopportava essere ancora il suo oggetto di esamina continua e perspicace. Voleva solo avere un attimo di pace per riflettere, senza sentirsi sconquassata dal suo inquietante mezzo volto bianco.

Eppure se ne stava fermo nell’angolo di cui si era appropriato da quando Colas aveva irrotto nelle sue stanze, disturbandola durante la pulitura mensile del suo Tanto. Non si era nascosto. Non ne aveva bisogno ormai.

Il palco numero 5 era rimasto vuoto.

«Lo so, ma io non sono incline a fare ciò che gli altri vogliono …»

«No, infatti voi fate solo ciò che vi pare, vero Erik?»Di nuovo la sua mole imponente ad un passo dalla sua schiena, un movimento attraverso la stanza silenzioso come un gatto che si muove su di un tappeto di lana.

Persino il rumore lo temeva scappando dai suoi passi leggeri, quasi che invece di camminare fluttuasse. Non solo controllava il Teatro, ogni suono  sembrava rispondere alle sue esigenze divenendo umile servitore.

Ed era così vicino che se Malice avesse appena reclinato la testa all’indietro avrebbe incontrato il suo caldo ed accogliente petto.

«Siete tesa …» il suo sussurro.

«Non vi deve interessare!» immediata e rapida come chi avesse il terrore di scoprirsi troppo.

«Sento la vostra paura … Colas quindi ha ragione a preoccuparsi …» un altro passo quasi a sfiorarla.

«No, io ho … la situazione sotto controllo … »

L’aria divenne pesante all’improvviso sotto la presa che l’attirava contro quel muro di carne e ossa. L’opprimeva come un macigno contro la parete rocciosa della montagna, stringeva le stecche del corsetto contro la morbida pelle dei fianchi.

Un tremito, un gemito spento delle sue labbra e le sue mani l’attanagliarono in una morsa che la fece spirare.

Le stava mancando il respiro, le ciglia strizzate in una smorfia.

«Mi fate male Erik …» sotto la sommessa preghiera le dita dell’uomo si sciolsero dalla sua vita, ma non dal suo corpo.

Era dolore fisico, ma, celato, vi era un oscuro senso di piacere nel sentire le sue mani attraversare con il proprio calore i deboli strati di stoffa ed avvertiva il sentiero che aveva intrapreso la sua mancina con una carezza lungo il busto fino a raggiungere le ossa sporgenti dello sterno.

Su, sempre più su.

Non stringeva ancora in un soffocante abbraccio il suo collo, eppure sotto i suoi nervi in tensione non poteva che provare una strana angoscia.

 La vita è un dono di Dio e solo lui ha il diritto di privarne le sue creature, non voglio peccare di superbia nel togliermela. Rincorro la morte da troppo ormai per non considerarla come un destino incombente …

…  la stretta al mio collo si fa più dura … mi sta togliendo tutto … riesco solo a pensare che forse non sia così malvagio se stringesse ancora … desidero realmente morire?

 «Riconosco le bugie, io non sono il conte madamoiselle …»

Quello che stava accadendo non gli piacque: la voleva combattiva, velenosa, corrosiva con le sue parole acidule.

Non voleva quelle scosse di paura che le facevano vibrare il petto mentre sentiva la vita scivolare via dalle proprie mani.

 Sei finalmente riuscito a spaventarla? Oppure speri che sia trepidazione ciò che la sta scuotendo?

Vuoi dimostrare a te stesso di non essere solo il Fantasma?

Non voi essere esclusivamente un mostro …

 «Philippe ha accettato … il mio invito al Café Procope … sapevo che l’avrebbe fatto …» 

Ormai aveva imparato a conoscerlo, sapeva predire le sue mosse, sapeva che non avrebbe rinunciato ad una seconda possibilità con lei. In quel mese di assidua frequentazione l’aveva intossicato con la sua presenza, reso praticamente dipendente, una grande sbornia convincendolo a lasciare un pochino da parte impegni importanti e concedendo più proroghe a sé stesso.

"Suvvia Philippe, è Domenica! Persino il Signore ha smesso il settimo giorno di creare il mondo."

Un mondo che non sarebbe crollato se per una volta si fosse concesso un  po’ di riposo.

"Sono nato qui e non avevo mai visto questo posto …"

Ci sono sguardi che la natura non riesce mai a ricevere il più delle volte dovuti alla fretta che l’essere umano ha nello stare nel mondo terreno, divenendo solo un breve tratto del grande disegno del Signore. Quel posto, quel piccolo angolo di Paradiso in mezzo ad una radura della tenuta era sempre stato lì: una lieve collinetta, un dosso alla cui cima vi era una grande quercia di chissà quanti anni con tronchi bassi e frondosi, rade ghiande superstiti dall’autunno passato da mesi che pendevano gravando sui sottili ramoscelli, il sole che penetrava giocando con le foglie smeraldine intrufolandosi con i suoi raggi tra le fenditure mosse dalla lieve brezza primaverile che soffiava.

Queste le poche e fugaci pennellate che avevano dipinto un capolavoro en plain air.

"Sapete arrampicarvi sugl’alberi Philippe?"

Felina era riuscita a divincolarsi tra i rami raggiungendo uno dei tronchi più alti su cui in due ci si stava comodi. Ed era stato in quel momento quando perso ad ammirare il sole morente dietro le ombre scure e puntute degl’arbusti che si era arrischiato.

 «Il conte de Chagny ha tentato di baciarmi …»

 "Io devo tornare a casa, si sta facendo buio … "

 «Cosa?»

Un incubo che si ripeteva, una promessa confessata nella notte pensando di essere al sicuro su quel tetto.

Il declino scosceso verso una follia sempre più torbida, un cupo desiderio di possesso.

Lo stesso che ora guidava i suoi gesti disperati: non era una donna spietata dallo sguardo scuro e magnetico a spirare sotto la sua morsa, ma la fanciulla che ancora alimentava i suoi sogni, dagl’occhi spauriti di un cerbiatto ferito.

C’era lei, sempre lei in ogni cosa che lo circondava, in ogni suo pensiero.

Un impulso inconscio di estrema ricerca, convulso e terribile, l’impeto prorompente di un amore disperato ed un cuore infranto come vetro sopra il fuoco.

Ed un de Chagny, uno dei tanti soldatini di stagno, pronto a prendersi gioco del povero storpio.

 Illuso.

Sta accadendo di nuovo.

Ma questa volta la lascerai andare o la porterai con te nel tuo mondo di tenebra?

 «Er- Erik …»

Non era una ragazza da poco sbocciata.

Non era la voce melodiosa del suo Angelo, non era più paragonabile nemmeno ad una voce, neppure ad un bisbiglio.

Ormai era solo un ansimo strozzato, un respiro che non trovava sfogo.

Non era la sua Christine.

Una donna nel fiore degl’anni, dalle labbra esangui e gli occhi arrossati che amava provocarlo persino ora.

Fremeva ad ogni rintocco imperativo e roco contro il lobo.

Gemeva tra le spire letali di una creatura notturna.

Ritmava invano  il suo respiro con il battito regolare che le premeva sulla schiena.

Tu – tum. Tu – tum. Tu – tum.

Il suo rapido, eccitato da quello di Lucia sempre più debolmente incline al silenzio, pronto a tacere sotto quell’aria calda ed infinitamente difficile da incanalare. La testa iniziava il suo lento declino in una nuvola di confusione, soffocando prossima al collasso della lucidità.

Eppure non cercava di strappare il cappio attorno alla sua gola, non si era nemmeno ribellata. Gli bastava solo un braccio per bloccare ogni suo muscolo, solo la sua inquietante imponenza a paralizzarla e le sue dita per poter porre fine alla sua agonia su questa terra.

«Non mi sembravate  così casta da barricarvi in casa per un tentato bacio …»

Lucia avrebbe fatto tutto ciò che gli sarebbe stato detto, silenziosa avrebbe accettato il bacio ed avrebbe lasciato il suo corpo alla mercé di chiunque egli fosse: ubbidienza, come suo padre le aveva imposto.

Malice lo avrebbe invece trascinato alla villa, accogliendolo nel rovente abbraccio della propria carne per lasciarlo impazzire del piacere che poteva procurare anche solo con dolci carezze, sfinendolo a tal punto da poter poi frugare nella sua casa indisturbata.

Non sarebbe avvenuto, non di certo senza la sua fiducia e lui si fidava di Constance, una signorina dabbene che aveva ricevuto istruzione dalle Orsoline a Tours, con un fratello suo tutore, che non gli avrebbe mai permesso di toccarla a tradimento. Lei non avrebbe accettato quel bacio, si sarebbe allontanata garbatamente con una scusa, le guance arrossate e la lusinga negl’occhi di aver fatto breccia nel suo cuore di ghiaccio.

«Io … no … ma … Constance non l’avrebbe lasciato fare ... Dovevo essere coerente … lasciatemi Erik … non respiro»

Era la sua occasione.

Il gioco di nuovo passato a lui.

«Ditelo avanti …» una stretta ad incitarla, una lieve scossa invitandola a condurre la parola fine a tutto questo. «Dillo!»

«T - ti … supplico Erik, la – lasciami … »

Non voglio! Ho rincorso la morte ed ora ad un passo dal baratro mi manca il coraggio.

Quello che avvertì fu solo il calpiticcio provocato dalle sue scarpe per abbandonare la stanza, ma sentiva addosso il sorriso sadico e soddisfatto della sua conquista.

Ed il suo petto si scuoteva ancora ed ancora, sotto gli spasmi ed i colpi di tosse che arrancavano per ritroovare la giusta via.

L’aveva pregato. Si era prostrata in una supplica, richiesta per giunta da quello che era un uomo inesistente solo per provare che ancora aveva un minimo di potere.

E si sentiva violata più di ogni cosa fisica.

Spogliata.

Priva di ogni difesa. 

Ne portava ancora i segni.

Lì seduta accarezzando nascosta la mano del conte, la sua acqua ghiacciata che si scioglieva nello scandire del tempo mentre teneva sul collo l’impronta violacea del Figlio del Diavolo, le dita che avevano premuto contro la sua epiglottide facendola soffocare, un marchio distintivo di un potere ammaliatore che non era morto.

«Non voglio rovinare tutto per un piccolo incidente …»

«Perché allora mi hai evitato? Perché ti sei fatta negare per due intere settimane? Perché sei scappata così?» ne avrebbe portato i segni anche della stretta che le cingeva il polso. Era forte dentro e fuori, ma la sua pelle quasi di cristallo si frantumava ad ogni pressione.«Perché mi hai soggiogato, tenuto stretto con tanto ardore da bruciarmi, ancor più di fiamme vive sulla carne? Perché mi stai facendo questo?» . Una carezza sulla gota arrossata che condusse la mano dietro la nuca tra i capelli chiari intrecciati finemente. Occhi lucidi e empi di tanti significati. Il gesto di avvicinarla abbastanza affinché un sussurro diventasse urlato, nell’attesa di rivelarle cosa il suo cuore gli suggeriva da quando per la prima volta l’aveva incontrata.

«Non capisco cosa intendi …» replicava debolmente, lei Constance, non Lucia né Malice. Constance, doveva essere lei ad ogni costo, nonostante ci fosse quel qualcosa che le gridava dall'interno che c'era, anche evidente, ma quel c'era sembrava sfuggirle in continuazione.

Possono essersi sbagliati?

«Constance …» sospirò come fosse il suo l’aria utile al vibrare delle proprie corde vocali. «Sei diventata la padrona del mio pensiero, delle mie giornate, del mio respiro … questo tempo lontano ha sgretolato ogni mio dubbio, sei così diversa … »  il fiato leggero che si scontrava sulla sua bocca in trepida attesa, vibrando come la tesa corda di un violino contro i crini dell’archetto. Questa volta non sarebbe scappata, dispersa nella contemplazione di un peccato mai avvenuto.

Tentazione di due petali che si muovevano irresistibili accanto al suo viso, la voglia intrepida di dimenticarsi di spazio e tempo per prendere ciò che avrebbe voluto. Doveva solo allungarsi ancora, superare le ultime barriere ben oltre quel lieve sfioramento dei pollici contro la serica pelle della mascella, trarla a sé dischiudendo quel roseo bocciolo tra le sue labbra.

Malice era riuscita nel suo intento.

Un inganno come altri, ma non uguale perché c’era qualcosa di indiscutibilmente diverso.

Dov’era l’errore? Perché sentiva che tutta quella situazione era collegata a lui, a quei segni elegantemente depositati sul suo collo? Perché lo sguardo pieno di trasporto che le stava riservando quell’uomo provocava così tanto rammarico?

«Philippe, non qui, davanti a tutti …»

 «Che ci vedano, non importa …»

Non voleva, Lucia non voleva che profanassero di nuovo il suo tempio.

Non era ciò che desiderava.

Non era chi desiderava.

Stupida. Sciocca e presuntuosa ragazzina, ti sei messa contro di me ed ora ne pagherai le conseguenze.

Ricordava le parole del suo aguzzino, la croce scolpita nel legno massello che guidata dall'adrenaliva colpiva la tempia di quello che aveva giurato di proteggerla sotto il nome di Dio.

Le macchie di sangue mentre colpiva e colpiva fin quando il viso tumefatto e ridotto in poltiglia non aveva più uno sguardo.

L'odioso odore del sangue, indelebile.

Confessi di essere stata posseduta dal Demonio?

Il Demonio aveva posseduto solo sua sorella, nella notte, nella sua casa ed aveva venduto lei ad un assassino vestito di bianco ce si fregiava impunemente di un titolo ecclesiastico.

Eretica.

Condannata.

Sii grata alla Francia, colei che ti ha donato nuova vita.

Il fiotto lavico che le scese per la gola le fece rimembrare per cosa era lì: il suo dovere. Quello era il suo lavoro, lei doveva soltanto distrarre il conte, il diversivo affinché il gioco sporco della nobiltà venisse a galla come un cadavere putrescente.

Doveva aiutare la decadenza di un impero sbagliato, doveva dimostrare quanto era necessaria, doveva divenire degna per un giorno, un giorno soltanto e tornare nella casa dove la notte si consumava l’orrore di sua sorella e dove lei era stata venduta costringendola ad una vita di schiavitù.

Anche ora con l’apparente libertà era schiava, solo il padrone era cambiato.

Tutto per lei. Beatrice.

 Per i ricordi scaturiti dalla musica divina, una musica che ormai era penetrata in ogni anfratto dell'animo. Si era arrischiata, molto più di quello che aveva progettato per la sua vendetta.

Se Colas avesse saputo.

«Philippe …»

Un colpo di tosse, l’attirare l’attenzione dei sue teneri amanti che si stavano scambiando le effusioni sotto lo sguardo di rimprovero dell’anziano cameriere dall’uniforme intonsa. 

Rimprovero, a cui lo scortese sguardo del conte si rivolse con stizza per l’interruzione non voluta.

Un altro bacio sfumato, uno sfizio rimasto in gola.

«Monsieur, scusate l’interruzione ma vostro fratello è arrivato ...»

Note dell'autrice: Chiedo umilmente perdono! Il periodo non è pessimo molto più: lavoro, lavoro, lavoro. Ho dovuto vagabondare per due settimane perchè la mia macchina mi ha abbandonato definitivamente, ho dovuto girare a destra e a manca elemosinando passaggi e aspettando mezzi su mezzi a Roma che chi vi abita sa cosa vuol dire. Ora con l'auto nuova di zecca e fine degli straordinari torno su questi lidi con un capitolo diciamo di passaggio. Guardate un po' chi arriva? Già già Raoul e Chrichri i nostri amati ragazzuoli.

Spero si siano capiti i passaggi delle due scene: la conversazione a tre che poi diventa a due, Erik che quasi ci ammazza l'assassina e Colas che poverino sta diventando di troppo.

Poi Philippe che a evolvere questo rapporto, il café le Procope (esiste davvero è un café storico di Parigidove si mangiavano gelati e sorbetti).

Il rapporto fra Philippe e Constance deve sembrare forzato, è lei che lo sta guidando spero che questo si possa assaporare, a differerenza di quello con Erik che è invece esasperato.

Detto ciò rispondo subito alla recensione:

Ciao Giuly scusa l'attesa. Ammetto che Philippe è ambiguo come personaggio, però credo che hai centrato bene il punto: lui prima di tutto fa i suoi interessi (immagino che sia per questo che ti dà l'idea di viscidume) e Malice dipinge su di essi Constance. Però magari, prima o poi, un de Chagny riscatterà il suo nome chissà ...^^ vedrò come comportarmi. Anche tu ami la cultura giapponese? Woaw O.O. Devo ammettere che il periodo del giapponismo ci cascava a fagiuolo nella mia storia ed ho unito l'utile al dilettevole, ce ne sarà pane per i nostri denti cava!!!^^ Per il qualcosa di più bhè vedrai, di sicuro è troppo presto come hai detto ma tu non demordere. Sta di fatto che entrambi stanno giocando a rimpiattino e qui ho voluto un Erik un pochino più tenebroso. Comunque la storia è tutta incentrata su due personaggi molto simili e che si stanno scoprendo ... quindi segui segui ...^^Detto ciò e concludendo che hai la stessa mia identica visione di Love Never Dies, ti saluto che il lavoro mi attende!!!ghghgh!Besitos nina!smackino!

Ringrazio tutti coloro che leggono e che mi seguono!!!

Serva vostra!

Mally

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Capitolo 10
*** CHAPITRE 9: Mensonges. ***


CHAPITRE NEUF: Mensonges.             

 

 «Almeno hanno avuto il buongusto di separarsi per qualche ora.» evidentemente anche Philippe non saltava dalla gioia per un eventuale presenza di Christine. Sibilava tra i denti come se trattenesse un commento meno cordiale di quello pronunciato. «Non basta lo scalpore del loro matrimonio, le voci che si propagano a macchia d’olio infamando il nostro nome, devono dare spettacolo rimanendo attaccati come due parti indistinte di uno stesso arto. Devo subire abbastanza il declino della Francia, non voglio sentire anche il peso dello scivolare del nostro nome!»

Il sicario avrebbe colto quel debole riferimento, incamerato come suo e tenuto da parte per riferirlo nel rapporto che ogni settimana veniva inviato ai vertici.

Ma c’era un qualcosa che stava mutando, quello stesso qualcosa che la spinse ad ingoiare quel grumo di sabbia raschiando la gola.

«Philippe …» e quello era limone sulle ferite appena inferte: il cercare di placare il conte della sua collera nei confronti del fratello e della sua futura cognata. «Sono solo due giovani innamorati: lascia che la gente mormori di ciò che non comprende, pensa alla felicità di tuo fratello! Non vorresti lo stesso per te, per noi?» Con quella domanda lo stava ponendo di fronte ad un bivio, visto dal suo sguardo vacuo perso nella contemplazione di ciò che gli era stato appena sottoposto: se lei non fosse stata una donna benestante, qualcuno con una posizione sociale molto buona e che le garantiva un futuro, l'avrebbe attratto così tanto? O meglio avrebbe provato anche solo a frequentarla?

Eppure oltre alla sensazione di essere tremendamente in errore, sentiva un’altra cosa ribollire alla bocca dello stomaco.

Lava pronta ad eruttare con la forza delle peggiori calamità.

Difendere lui, di conseguenza difendere lei, faceva parte della compassionevole Constance. Ma Malice ,che conviveva con il dolore di un uomo lacerato, un uomo ferito ed innamorato che chiedeva soltanto un po’ di comprensione, un uomo che aveva rinunciato al suo delirio da affascinante sognatore per permettere loro un magnifico futuro, sentiva solo e soltanto la voglia di raccogliere la semina di cotanto disprezzo costringendo sè stessa ad indurre in  rassegnazione i  conte a cui non rimaneva altro, perché in fondo l’affetto per la sua famiglia era l’unico appiglio che in quegl’anni lo aveva guidato e reso ancor più forte.

Si era alzato, sospirando e sorreggendo i bottoni che chiudevano la sua giacca.

Un modo per stemperare sé stesso, il suo disaccordo nei confronti del nuovo atteggiamento scondiserato del fratello che si faceva strada tra i tavoli agilmente e con un sorriso, chissà quanto sincero, stampato ad arte sulla faccia.

O forse no. Non le era concesso giudicare, anche se non riusciva ad esimersi dal farlo chi era riuscito a distruggere il genio che ogni notte animava la sua casa con le sue mani.

«Raoul, è un piacere rivederti, fratello mio!»era davvero un piacere. Non aveva mai visto gli occhi del conte trasformarsi in tal maniera. Lo osservava come un padre orgoglioso scruta il figlio, l’occhio clinico di chi vuole soltanto assicurarsi ogni bene per la persona che ha davanti. Ogni astio, incomprensione o diatriba nata dal ciarlare della società si era oscurata sotto l’ombra dell’affetto che provava. In fondo quello era lo stesso ragazzino che lo seguiva in ogni impresa con la giusta ammirazione e spirito di emulazione che possedeva, lo stesso che difendeva dai soprusi dei suoi amici, lo stesso che a dodici anni, alla morte dei loro genitori, si era nascosto in un angolo per non farsi vedere piangere da lui. Era sempre lo stesso, indipendente ed orgoglioso, che combatteva solitario nelle sue battaglie grazie anche a Philippe e che si sapeva difendere dalle maldicenze, l'ignoranza, persino dai mostri orrendi delle storie spaventose raccontate sotto le lenzuola nella notte.

Era sempre Raoul.

Quando sono stata guardata così l’ultima volta?

«Anch’io sono felice di rivederti.» si tratteneva, avrebbe voluto slanciarsi in un abbraccio magari, esternare davvero ciò che provava per il fratello maggiore per cui nutriva un profondo rispetto e la deferenza dovuta alla figura che l’aveva cresciuto. Stringeva la sua mano come ad un perfetto estraneo con l’unica differenza di una pacca amichevole sulla spalla contraria. Niente di più e niente di meno. La delusione si era dipinta sul suo volto in un sorriso mesto, le labbra contratte in una smorfia deliberatamente forzata fin quando non s’avvide della donna ancora seduta accanto al fratello.

Le voci che giravano quindi avevano un fondamento.

Philippe quindi stava corteggiando una donna, anche se dai suoi scambi epistolari non era emerso molto più che un nome e qualche piccolo aneddoto.

Ed in effetti, Raoul, non credeva che ci fosse descrizione adatta a quella signorina.

Elegante, certamente, raffinata altresì. Tratti delicati, tipici del rinascimento italiano e due gemme incastonate nel viso a farle da cornice. «Voi dovete essere Constance, ho sentito così parlare di voi che mi sembra di conoscervi.» le aveva preso la mano protesa e sfioratele il dorso con le labbra, l’aveva rilasciata immediatamente.

Una notevole differenza con l’insistenza nel trattenerla di Philippe, tipica di un uomo dagl’occhi presi da tutt’altro.

«Potrei dire lo stesso di voi, visconte, nonché della vostra adorabile fidanzata, non è venuta con voi?» lo chiese lo stesso, gentile e cortese anche se sapeva di aver contrariato il suo conte. La curiosità di rivederla, affrontarla viso a viso scalpitava nel suo petto in maniera insana. Voleva constatare se le sue rimembranze le rendevano giustizia.

La ricordava anche se la notte del Don Jaun aveva avuto risvolti decisamente confusionari.

Era bella.

Strappata da un quadro preraffaellita e catapultata nella sporcizia di Parigi.

Bella e pura come un angelo scolpito nell’avorio.

Era bella, infinitamente bella, tanto che, agl’albori del mondo, avrebbe pagato a caro prezzo l’invidia di qualche divinità pagana.

Si era chiesta come Erik fosse giunto a provare una ossessione così distruttiva per quella che per lei era poco più che una bambina, come un uomo potesse trovare un desiderio logorante a tal punto da radere al suolo tutto quello che aveva posseduto. La risposta l’aveva davanti lampante, scolpita tra i tratti delicati del suo volto in maturazione e la pelle ancora non scalfita dal tempo. Una ninfa, una musa, un Angelo.

Ciò che ho perso il diritto di essere.

I pugni stretti, la calma sull’orlo del disastro, un tremore funesto che le infiammò l’animo dall’interno in una combustione fatta di livore. Un genio usurato da una bella bambina, lo spreco di una mente così affascinate da farle perdere il senso delle cose e la rabbia scaturita dalla consapevolezza che non avrebbe mai provocato tale devozione in nessuno.

Come aveva potuto rifiutare un simile venerazione? Quale donna non si sarebbe sentita lusingata da una tale dimostrazione di amore e dedizione? Quale ingrata creatura non rende omaggio a chi con cura l’ha fatta fiorire dall’intricato boccio dei suoi petali?

Per cosa?

Per un bel viso, danari sonanti?

E lei? Era questo che voleva?

Non voleva diventare il fulgido astro che Erik le avrebbe permesso di divenire? Risplendere di una luce propria sulle note potenti delle composizioni più famose, piuttosto che rimanere nell’ombra, divenendo esclusivamente il pallido riflesso di un nome occlusivo e di un titolo nobiliare?

Perché una creatura incattivita dall’odio e dalla crudeltà umana, non può amare? In nome di cosa? Del buon senso?

Il buon senso non ha mai avuto ragione: Lucia nella sua vita aveva riscontrato come esso e l’infelicità camminassero l’uno di fianco all’altra, spalleggiandosi da bravi amici quali fossero. Era pieno di uomini e donne incastrati nel buon senso, nella ragionevolezza, una vita priva di rischi che li costringevano ad un anonimato della propria esistenza.

Quanto avrebbe voluto avvicinarsi sufficientemente per afferrare il suo pugnale nascosto e sfregiarle il bel viso, legata poi e sballottata di paese in paese mostrandola con epiteti sprezzanti all’inneggio della sua nuova deformità. Come voleva dimostrare cosa aveva provato Erik a divenire soltanto il misero oggetto delle burla e della pura, cruda inettitudine del genere umano.

Cosa mi sta facendo realmente ribbollire il sangue? Cosa? Il suo disprezzo o che lui si sia umiliato a tal punto?

Prostrato ad un amore univoco, un amore che io non avrò mai. Si può amare un oggetto? 

«I preparativi per il matrimonio la stanno impegnando molto ed io non posso aiutarla, questa faccenda del teatro occupa praticamente tutto il mio tempo.» rispose accomodandosi dalla parte opposta del tavolo ridestandola dai suoi voli pindarici.

«Certo capisco!» le era uscito un tono più sommesso. La conversazione tra i due fratelli era passata in cavalleria mentre nella sua testa giaceva il languore dell’acredine.

Erik.

Il suo nome batteva contro la grancassa situata fra le sue sinapsi.

Rivedeva il suo volto sfigurato dalle lacrime, l’impietosa fine dell’uomo austero e spaventoso che aveva terrorizzato Parigi. Il suo potere divenuto il grigio pallore di una vecchia fotografia sbiadita, quando ancora si doveva restare in posa per ore, con strumenti di tortura a sorreggere il capo del malcapitato di turno.

Fin tanto che un particolare attirò il suo udito.

Il cucchiaino divenuto il pennello della poltiglia ormai liquida dall’agre sapore siciliano, le scivolò attirando il silenzio in quel fiume logorroico di confidenze dal guanto di seta tintinnando come una campanella di servizio.

La giovane Christine, da quando il Teatro era stato distrutto non aveva più una dimora.

Soggiornava in un albergo, dando fondo ai risparmi suoi e di suo padre proprio perché non voleva pesare sulle spalle di nessuno. Aveva persino rifiutato l’aiuto di Madame Giry, comprovata oltremodo dal triste destino dell'Opera Garnier, e di certo non poteva soggiornare nella residenza del visconte a Parigi, visto già quanto difficile era la situazione e le insistenti voci che pendevano sulle loro teste.

L’amante del Fantasma. Additavano così alla sua futura moglie.

«Constance? Vi sentite bene?»  un cavaliere senza macchia e senza paura è così che si comporta.

Nemmeno Raoul poteva nascondere la sua soddisfazione, nonostante l’argomento che stavano affrontando lo inquietava: quel tipo di atteggiamento l’aveva visto riservato a lui o alle loro sorelle, mai verso qualcun altro. Certo, le donne sapeva come lusingarle, ma quella premura quel tenero modo di rivolgersi a lei era qualcosa di più.

«Credo ci sia una soluzione, che servirà anche ad acquietare molte delle voci attorno alla bella Christine …»

 

 

La testa ciondolava pesantemente sulla mantella, le labbra che si contorcevano alla moltitudine di pensieri che si affastellavano con prepotenza.

Non può essere. Non io, sarebbe da stupida, sarebbe la prima volta.

 Il viaggio di ritorno da Parigi stava fornendo la giusta solitudine per riflettere. A casa l’attendeva un resoconto nei minimi particolari di ciò che era avvenuto al Café, eppure non riusciva ad articolare bene tutti gli avvenimenti. Si abbattevano alla rinfusa senza un apparente ordine cronologico, l’uno contro l’altro con particolari tutti insignificanti ai suoi occhi. Occhi che sentivano la pesantezza di una giornata troppo lunga e la stanchezza pendere come una spada di Damocle sulle palpebre.

Malice dormiva pochissimo, non perché non ne fosse bisognosa.

Tutt’altro.

Lei amava molto dormire, affondare la testa sul cuscino perdendo conoscenza e svegliarsi la mattina seguente come se la notte fosse volata via tra le ali di gioie e speranze rivelate attraverso i sogni nostalgici di una vita passata.

Ma la sua di notte non veniva animata da leggiadri sogni.

Erano incubi.

Da quando era stata incarcerata a Roma, il suo sonno veniva tormentato da incubi di ogni genere tutti macchiati dello stesso odore. Ogni persona ricorda cose diverse nel sogno: c’è chi ricorda un volto, chi un oggetto, chi dei suoni, melodie, fantasmi ed è vero che nessuno riesce a percepire con l’olfatto certe sensazioni.

Lei si svegliava con l’odore di ruggine a bruciarle le narici, scalciando nel vuoto e senza alcun suono ad articolarne il terrore. Un nodo che racchiudeva tutte le sue paure nate con l’oscurità colei che in realtà l’aiutava più di tutti nei suoi infidi giochi di potere.

E si svegliava sempre, nel buio ventre della notte, accaldata, affaticata con le gambe intorpidite segno d’un intensa attività che non includeva il piacere né suo, né di nessun altro.

Gli incubi avevano sempre un volto, anzi due. Si alternavano con la regolarità di due personaggi su di un copione teatrale ed entrambi avevano il viso trasfigurato dall’aspetto crudele del Demonio.

Questa la ragione per cui obbligava la sua mente a non addormentarsi dopo uno dei suoi intimi incontri di lavoro, almeno evitava di cadere nello stato più profondo eludendo i cancelli dei sogni e rimanendo in un costante dormiveglia che non  le permetteva il giusto riposo.

Il paesaggio al di fuori scorreva veloce, come le immagine nella lanterna magica del vecchio medico che le impartiva lezioni di anatomia anni orsono. Sulla strada battuta la carrozza percepiva ogni deformità del terreno, sobbalzando gravemente ad ogni dosso o avvallamento. Gli alberi che ne rasentavano il ciglio frustavano le proprie fronde in movimento, quasi lei fosse perfettamente immobile al centro dell’universo ed il mondo le vorticasse attorno.

Forse era così.

Da sempre aveva sentito che ogni cosa le correva affianco, le sfuggivano di mano.

Si sentiva la spettatrice inerme della propria vita, una pozza che bisognava scavare troppo a fondo per ritrovarvi l’acqua: in troppi vi avevano attinto, in troppi avevano fagocitato quanto più possibile, spremendo le riserve naturali che lentamente si stavano esaurendo.

Una battuta d’arresto ai suoi pensieri.

I cavalli incitati a fermarsi e le ruote che smettevano di cigolare sotto lo sforzo per percorrere quelle vie.

La porticina dove giaceva uno splendente stemma della finta casata a cui apparteneva dischiusa dal cocchiere che, con la cortesia tipica delle buone maniere, le annunciava di essere arrivati. La sua mano pronta rivolta alla propria padrona la quale l’afferrò con delicatezza.

Fittizio proprio come i disegni su vetro di una lanterna magica.

Strano, si aspettava di veder Colas precipitarsi come un avvoltoio sulla propria preda, carico di domande ed aspettative.

Il deserto invece che l’accolse quasi la fece sospirare mentre la propria carrozza si allontanava verso le stalle liberando la visuale ad altro.

«Abbiamo visite …»

Conosceva molto bene quel tipo di visite: nella sua vita aveva visto avvicendarsi i vari messi con a frequenza con cui una ballerina si cambia abito di scena. La Sûreté non era incline a perdonare i tentativi di tradimento e spesso, molto spesso, gli avidi non sanno resistere alle promesse di qualche fuga di notizie.

Entrando venne accolta dalla solerte madame Bonnet, sempre algida ed impettita nei suoi vestiti con l’odore del lutto e la sua severa crocchia ancorata alla nuca. Le prese il cappello ed il soprabito prima ancora che lei potesse proferire parola.

Si sfilò i guanti, tirando una ad una le dita di stoffa con un lento conto alla rovescia e l'interrogativo su quella carrozza fuori dalla sua dimora.

Gli occhi puntati in quelli della donna, chiedendo muta, severa chi ci fosse nella sua casa.

«Un distinto signore ha chiesto di vostro fratello, madamoiselle.» le rispose come se fosse realmente avvenuta quella domanda.

«Dov’è Baptiste?» chiese allora porgendo i suoi guanti alla governante.

«È con monsieur Masquet a tirar di spada, l’ospite ha detto di non disturbarlo e che avrebbe atteso.»

Prima o poi sarebbe accaduto.

Colas era una persona invidiosa, gelosa e incapace di ragionare quando si trattava di dimostrare le sue capacità.

Erik, invece, narcisistico e vanesio nel suo profondo, raccoglieva ogni sorta di sfida.

A lei non rimaneva che vedersela con  il visitatore, o l’osservatore qual dir si voglia.

«Lo accoglierò io, quindi se non vi spiace …»

«Attende nello studio di vostro fratello madamoiselle. Volete che serva il thè?»

«No, non desidero che si trattenga più del dovuto. Potete continuare le vostre faccende, madame.»

Congedò quindi madame Bonnet, invitandola ulteriormente a non disturbare il suo amatissimo fratello. Anzi a tacere la sua presenza finché le fosse possibile. La governante non volle ulteriori spiegazioni, con un lieve inchino del capo tornò ad occuparsi della casa come il suo dovere le dettava. Avevano molto in comune le due donne: entrambe ligie, discrete osservatrici che conoscevano il proprio posto e cercavano di rispettarlo, anche se Malice faceva fatica in tal senso.

Madame Bonnet, in segreto, ammirava l’altra, anche se le sue stranezza le lasciavano un profondo senso d’inquietudine. Le veniva da giustificarla comunque, era pur sempre una ragazza che aveva perso i genitori e tirata su da un fratello che, di certo, non spiccava per la sua perspicacia.

 

Per Malice il già saperlo privo di sorveglianza nello studio di Colas, dove la maggior parte dei rapporti e degli scambi epistolari avveniva nella più completa segretezza, era fonte di disagio. Inoltre La Sûreté era tendente a non mandare corrieri con leggerezza, ma lui era lì e non per recapitare un messaggio a loro.

E se Colas avesse saputo.

Allora avrebbe avuto la mano in pugno.

Non devo essere avventata.

Come immaginava.

L’uomo, vestito distintamente proprio come aveva preannunciato la governate, era in piedi, dalla parte sbagliata della scrivania, che sbirciava uno dei registi messi sulla scenografia del vigneto.

Il viso aguzzo, tratti sottili ed affilati resi ancor più infidi da un paio di occhialini portati sulla punta del naso. Una calvizia precoce a diradarne la chioma rossiccia, nascosta da un sapiente riporto impomatato da chissà quale grasso. Il cilindro appoggiato sulla poltroncina come se non attendesse altro che andare via il prima possibile. Lo aveva già visto, in altre occasioni, forse uno dei pochi messi a resistere tanto a lungo, e non sembrava essersi accorto della nuova presenza nella stanza.

Bene.

«Devo dire che non attendevamo visite così presto monsieur La Mouche »

La Mouche, la mosca. Chiamato così per le sue capacità di onnipresenza, come il suo aspetto di piccolo uomo subdolo, una mosca appunto. Era questo il suo secondo nome, l’unico a conoscenza di Malice. D’altronde, nel momento in cui si faceva parte di un’organizzazione ombra di sé stessa conoscere i nomi reali diventava una rarità.

Sobbalzò colto alla sprovvista, un bambino trovato con le mani nella marmellata, nel pieno del suo furto d'informazioni.

Un gesto di noto nervosismo.

Si sistemò gli occhiali sorridendo, agitato per divagare al suo atto poco gentile nei confronti di due colleghi e tamponando la fronte con un fazzoletto dispiegato dal taschino con forti colpi fendenti.

Che grande segugio!

Non era quello il suo compito, d’altronde.

Oppure sì?

«Non vi avevo sentito, madamoiselle Malice!» aveva già superato lo scrittoio, ballonzolando nel suo completo forse un po’ troppo stretto. Ora che non era chino sui fogli poteva vedere i poveri bottoni del panciotto strizzarsi nelle asole, pronti a saltare.

Un’arma impropria, che avrebbe potuto cavarle un occhio.

Come al solito Colas le lasciava il lavoro sporco.

«Lo vedo monsieur …» disse sollevando solo un sopracciglio in segno di perplessità. Non sapeva se esserne lusingata o offesa. O si fidavano a tal punto di loro di mandare il più viscido ed infingardo dei messi magari a congratularsi del proprio lavoro, oppure li ritenevano talmente incapaci che persino lui poteva presentarsi di fronte ad un’efferata assassina per recapitarle un messaggio.

Ma vi era la terza opzione: e se non fosse stato così sprovveduto come lasciava credere?

L’unico modo per scoprire le radici di un albero è scavare. Ci sono pochi modi per scavare nella mente di un uomo.

E spesso la strada veniva spianata da un buon cognac, proprio quello che Colas teneva nel mobile dietro la scrivania.

Gli passò accanto scrutandolo ancora.

La temeva.

Le bastava sentire il cambio dell’aria per capire quando un uomo iniziava ad averne seriamente paura. Lo vedeva nei suoi piccoli occhi nascosti dalle lenti e dai ripetuti battiti di ciglia per irrorarli, lo vedeva dal suo pomo d’Adamo abbassarsi e risollevarsi con una lentezza innaturale, come se il boccone fosse eccessivamente grosso.

E questo escludeva la seconda opzione, ma non la terza.

Si era voltata, con grande maestria, esibendo i due bicchieri appena sporcati dal liquido ambrato sorretti dalle sue dita sottili sotto la corolla del tulipano. Ne porse uno all’uomo che cedette dopo appena pochi istanti di esitazione.

Come poter dire di no ad una bella donna dallo sguardo seducente ed enigmatico, che ti porge della pura ambrosia?

«Allora, quale notizia portate monsieur La Mouche? La Commune è scoppiata e noi non serviamo più a nulla?» proferì girandosi nuovamente, la voce carezzevole e morbida così come la curva sinuosa delle sue spalle mentre sfilava la giacca che le copriva il busto con l'aiuto di una sola mano.

Ancora il rumore di un corpo estraneo che penetra nella gola con forza come lava incandescente. Doveva sentirla incombere come la regina oscura della sua volontà, doveva temerla e desiderarla, doveva stordirlo ottenendo da lui ciò che di sua spontanea volontà non avrebbe detto.  Gli occhi di lui puntati ovunque, in ogni parte fagocitando con la foga di un maiale nel suo porcile ogni particolare che poteva cogliere. La vita stretta contro le stecche d’osso, i fianchi armoniosi fino agl’amabili seni dove sentì il suo sguardo indugiare e poi calarsi in quel segno violaceo che trasudava morte sul candido telo steso sul suo collo.

Un domanda si disegnò sul volto dell’uomo, in una matura ruga della fronte.

«No, siete ancora molto utili qui madamoiselle Malice, voi soprattutto. Sapete come state a cuore a tutti noi, nevvero?»

Lo schiocco della lingua sul palato, eloquente come un dissenso urlato. Era utile, punto. Odiava l’idolatria di velli d’oro solo per ingraziarsi le sue capacità.

«So che non ne siete convinta, ma è così. Monsieur Vidocq chiede di voi in continuazione …»

«Immagino come chiede di me, La Mousche …» lo scetticismo sempre più calcato, nonostante si stese sulla chaise longue come Paolina Borghese nella statua del Canova e non era così lontana con la sua pelle pallida e lucida come il marmo, se non fosse stato per i drappi scuri dell’abito che pendevano come tristi sipari dal bordo della poltrona e la coppa tra le sue mani. «Allora a cosa devo credere oggi? All’istinto paterno che guida i nostri vertici oppure siete qui per una vera ragione?»

«Ammetto che sembrate tornata quella di un tempo madamoiselle, la vicinanza con monsieur le Fantôme deve giovarvi alquanto.» La terza opzione si palesò oltremodo, cacciando via ogni dubbio di maschera innocua: ammiccava il piccolo uomo grassoccio, le labbra increspate in un sorrisetto di scherno e le spalle buttate allo schienale della poltroncina dove si era andato a sedere. Molto più sicuro di quello che aveva dato a vedere mentre poggiava il calice sulle sue labbra senza nemmeno assaporare il liquido che vi era contenuto. L'alcool non è amico dell'intelligenza, il fingere di bere lo rendeva molto meno sciocco del suo infido aspetto.«Un po’ meno per Balayeur …»

Colas, piccola conferma di ciò che aveva avvertito già da qualche giorno.

A Malice non spettavano i rapporti e tutte le noie burocratiche a cui erano sottoposti gli agenti ed era il suo compagno a compilare la lettera che a cadenza regolare veniva spedita. Un modo per assicurarsi che le coperture reggevano, un modo per assicurarsi che erano vivi ancora. In quelle lettere stillate seguendo un codice preciso, vi era tutto ciò che accadeva, raccontato nei minimi dettagli.

Sicuramente una di queste riportava come la presenza di Erik avesse condizionato l’atteggiamento del loro sicario preferito.

«Quindi siete qui solo per accertarvi che sia … o meglio, che noi siamo, ancora efficienti giusto La Mouche

«No, non esattamente.» rispose indugiando sull’ultima parola con indecifrabile inclinazione, come se cercasse di lasciarle intuire un qualcosa senza esporsi più di quanto stesse facendo. Quando poi si guardò dietro la schiena in un atto istintivo di protezione, come per assicurarsi di non essere ascoltato, un brivido freddo intercorse lungo la spina dorsale. «Sono qui per consegnare al nostro Balayeur un messaggio.»

«Come avete potuto accertarvi è molto occupato a giocare con il suo nuovo amico …»

L’invito silente della mano di Malice protratta con il palmo verso l’alto, non lasciava spazio a molti dubbi. Eppure l’uomo l’osservò per attimi infiniti, insicuro sul da farsi. I piccoli occhi che saettavano dal palmo al suo viso, con una rapidità quasi convulsa e le palpebre tremarono quando la sua di mano andò al taschino interno della giacca dopo aver posato definitivamente il bicchiere su di un piano.

Eccola.

Lo stemma dei Saint-Simon scolpito nella ceralacca rossa cozzava contro il giallo paglierino della carta ed il suo profumo d’inchiostro, acre e delizioso, l’investì con la forza di un vento del nord quando la sventolò contro la mancina soppesandone il contenuto.

«Mi spiace, ma mi hanno ordinato di consegnarla solo ed esclusivamente al vostro caro fratello … » come punto da milioni di spilli si alzò dalla sedia, colto da un’improvvisa fretta che lasciava intendere quanto si stavano avventurando su di un terreno accidentato. «Credo che tornerò quando avrà smesso di giocare, madamoiselle se non vi spiace …»

«No, affatto monsieur! Conoscete la strada …» aveva intrapreso due passi incespicando da solo con poca disinvoltura, asciugando ancora la fronte imperlata di sudore. Tornava anche lui nella sua parte? Venne interrotto quando quasi aveva raggiunto l’uscio dello studio. «Spero che il vostro soggiorno a Parigi sia di alto gradimento: per il nostro Balayeur  il gioco non finisce mai!»

«Adieu madamoiselle … »Annuì rivolto con la testa verso quella magnifica donna. Una mantide religiosa con le sue zampe giunte in preghiera, la sua forza divoratrice e la sua imperiale postura. Una vera regina con un potere sconfinato, se preso con le giuste precauzioni.

Non si può rinchiudere un insetto in un barattolo di vetro e poi pretendere che sopravviva.

Era questo che le stavano facendo, questo il tiro che le stavano giocando con poca astuzia. Tutto solo per tenerla ancora vincolata  a Vidocq, alla Sûreté.

La Mouche non aveva ritirato la lettera al sicuro nel suo taschino e sembrava non averne alcuna intenzione. Conosceva il suo contenuto, si vedeva dal suo volto contrito e dalle labbra appena accennate ed arricciate sotto il prominente naso. Lui sapeva cosa vi era all’interno. 

Non dovremmo ingannarci fra di noi.

Mosse il primo passo verso l’uscita ed ancora non aveva toccato terra.

L’occhio pronto ed attento della mantide venne catturato da quell’oggetto che si opponeva strenuamente alla sua caduca esistenza, dondolando stancamente fino a placarsi al suolo.

Non poteva essergli caduta, non involontariamente.

Era un invito a leggerne il contenuto?

 

 Vi era uno spiazzo davanti alle stalle.

Due lavoranti si occupavano dei cavalli, mai come quel giorno si erano affrettati a concludere le loro faccende lasciando così deserto un buon raggio, un posto piano privo di grandi irregolarità del terreno ed ombroso, ideale per duellanti dalle armi bianche.

Stridii, schiocchi, clangori metallici riempivano il silenzio che era calato tra loro.

Non una battuta se non il cantare delle loro lame, fischiando melodie disarmoniche nel fendere l’aria sotto l’ottenebrata proiezione delle fronde rigogliose della grande quercia che sorgeva imponente di contro all’entrata.

Ed era lì che Malice, vestita con i suoi abiti orientali e le sue gambe fasciate da pantaloni, che aveva preso ad osservarli, posata con la spalla contro la corteccia. Si era preparata e voleva essere libera di muoversi al meglio.

Doveva essere alle spalle dell’omuncolo, con il sangue a pulsare con la forza devastatrice di un uragano: i grandi occhi iniettati di livore dal basso rivelavano una nuova rabbia, una nuova fiamma ardente che aveva preso a divampare in lei da quando quelle parole scorrevano nella sua testa. Aveva letto e riletto la stessa frase così tante volte che le pareva essere scavata. I lembi della carta stretti troppo a lungo tra le sue dita esili avevano ceduto ed una crepa intensa che correva frenetica per tutta la lunghezza.

La pantomima era iniziata.

Tre lenti battiti, i palmi delle mani che cozzavano sotto un sorriso sadico per elogiare una bravura a cui non aveva fatto nemmeno caso.

Colas vide solo gli occhi di Erik prolungarsi dietro di lui, bloccati in un respiro a mezz’aria.

«Bravi, Bravi, Bravi!» lo aveva detto come dopo la grande scena di uno spettacolo, un elogio dedicato a tutti i più grandi artisti nella lingua musicale del Dolce Stil Novo. «Mi chiedo se ci sia posto anche per me? Che dite Colas, avete abbastanza fegato per misurare le vostre capacità con una piccola donna?»

Un attimo perché Colas aprisse le braccia in un tacito invito a farsi avanti. Un gesto plateale di superiorità, un ghigno che non aveva nulla di terrificante in confronto al volto trasfigurato e furioso dalle delicate fattezze.

Lo stesso attimo necessario ad Erik per comprendere ed indietreggiare prima di essere travolto.

Una furia dalle movenze leggere, battiti di ali di mille farfalle che si avventano suòl campo, contro l'esterrefatto uomo che approcciava solo di difendersi agl’attacchi violenti di Malice quasi senza risultato.

Affondi, montanti, piccoli salti. Volteggiavano al ritmo incalzante di una musica inesistente ad altre orecchie.

L’aveva vista combattere nel suo teatro al buio, l’aveva vista riuscire a tenergli testa con una coreografia letale come lo stesso veleno che le scorreva nelle vene. Ma niente in confronto a quegli scambi che stavano avvenendo.

Una danza elegante, pose e peso bilanciati sugl’arti. La forza mascherata nella grazia di un corpo formato di donna, che poteva ingannare. Il balugino della lama dai sapori lontani che si risvegliava al tocco indiscreto dei piccoli raggi.

Cercava gli affondi, non risparmiava colpi su colpi senza emettere null’altro che gemiti frustrati per non essersi saziata della carne dell’omuncolo.

Può un pugnale avere la meglio sulla spada?

 Può il piccolo Davide sconfiggere Golia? Può una ragazzina denigrare a tal punto Santa Madre Chiesa? Può una dolce fanciulla uccidere un monsignore?

Erik non aveva visto niente di più bello.

Forse solo lei, vero Erik?

Un Angelo di morte a cui ora non pesava di aver le ali strappate. La libertà del volo non le serviva, voleva essere lì in quel momento, in quel luogo.

Le orbite vuote incise nell’acciaio caddero alla vista di quell’Angelo nero, crudele e vendicatore.

Il tempo parve fermarsi all’improvviso.

Colas cadde e rovinò a terra ed il falco pronto fu su di lui.

La minaccia di una lama affilata contro la gola sembrò fargli perdere la spavalderia con cui aveva sfidato Erik in quel pomeriggio primaverile.

«Siete un maledetto bastardo!» la croce dal collo dell’Angelo, il suo amore sconfinato per Dio, era la condanna che lo stava minacciando.

«Questo lo sapevate …» lo scosse lasciando che gli morisse fra le labbra il fremito per la paura di un errore.

«Quando avevate intenzione di dirmelo? Non meritavo nemmeno di saperlo?»

«Non capisco …» Il freddo acciaio del Maestro Murai di Nara premeva sulla giugulare con insistenza fin tanto che i primi capillari esplosero da sotto gli strati di pelle.

Un graffio, un segno, l’odore di sangue con nessun disgusto e solo la voglia di sentirne di più.

«È finito il tempo delle menzogne e delle buone maniere, Colas. Dovete prestare più attenzione alla vostra corrispondenza. Avanti parlate!»

Un tiepido sussurro, una confidenza che sarebbe sfuggita a chiunque.

Erik scoprì in quel preciso istante che anche un Fantasma si può sorprendere e può rimanere attonito, fisso ad ammirare lo sguardo vuoto della Morte.

L’Angelo vendicatore aveva appena dispiegato le ali di pece, non più mozzi moncherini di ciò che era stato. Lei era pronta ad uccidere e fremeva nel farlo, voleva vedere il sangue scorrere a fiumi, stillare come una fontana dai putti alati.

La macabra bellezza di un quadro che ritraeva il virgineo viso ossuto della Mietitrice d'Anime, la letale litania di un requiem che scorreva nelle loro vene, la potenza creativa di una mente che stava vedendo note su note.

L’elegia di fagotti e violini, viole, violoncelli, il gretto suono di ottavini, contralti, flauti, soprani e tenori che si alternavano in botte e risposte che minacciavano con brividi di terrore lo spettatore inerme.

Componeva nonostante non potesse appuntare quello che nella sua testa prendeva vita.

Solo un'altra era stata capace di provocare in lui una tale improvvisa ispirazione.

La tua musa, il tuo Angelo della Musica.

E lei? Cos'è ora? Non è forse un Angelo? Lo strascico del Dio punitivo dell'Antico Testamento.

Un Angelo di Morte ... 

Ogni respiro, ogni cosa trasudava violenza da quella minuta arma umana.

Il Kogai, piccola arma di fortuna che si cela facilmente, metafora di quello che è questa donna. Affascinante analogia.

Si traduceva tutto in una musica grave e spietata come i sibili che dalle bocche dei due contendenti parevano echi di una  lotta fra Diavolo e Acquasanta.

«Cos’altro avete letto nella corrispondenza? Un ordine scomodo, forse il primo a cui non vorrete adempiere? Oppure di come vi sono riuscito a prendere in giro nonstante io sia semplicemente il vostro servo? Ho gabbato l'acuta puttana dei potenti, ma ...» si avvicinò per farsi sentire esclusivamente da lei, che le premeva sempre con meno forza. « ... non la puttana di chi dovrà liberarsi prima o poi, di chi in realtà vorrebbe!»

Un attimo, il silenzio infinitesimale di quell’istante, una distrazione che le stava costando caro, il movimento veloce delle gambe, l’Angelo chiuse le ali su di sé per proteggersi da cotanto veleno.

Una spinta e Malice perse le forze scivolando sulla terra battuta assieme al suo pugnale ormai troppo lontano per essere afferrato.

Ma quando Colas riprese la sua spada il suo fendente venne bloccato a mezz’aria prima che la potesse colpire. Il teschio lo guardava terrificante da sopra le sue dita chiuse in una morsa ferrea. Aveva agito d’istinto, non si riconosceva nemmeno. Eppure Erik aveva seguito senza esitare lo strano impulso a difenderla, a farle da scudo sorprendendo tutti persino sé stesso.

Perché il nero Angelo che aveva visto prima, la fiera selvaggia che s’avventava con la forza che solo l’istinto e la rabbia può donare era sparita sotto la fragile rugiada che era comparsa sulle sue gote. Brillavano turgide e consistenti come cristalli, sotto un pianto nascosto dal muro di capelli che le era calato sul viso.

Stava piangendo di nuovo, debole e stanca di una vita costruita sulle fandonie di un gruppo di pazzi esaltati a cui apparteneva.

Le stava arrivando, dritto al cuore mai come allora: il vero significato di solitudine.

C’è chi è solo e chi si sente solo. Non è vero Erik? È questo quello che si prova ad essere uno spettro, un fantasma?

«Toglietevi di mezzo Fantasma, non è una cosa che vi riguarda!» l’epiteto ridondante riprese su di un’altra voce, ma la risposta che si aspettava non risiedeva in un’altra voce fatale e suadente come quella del Demonio, capace di portare alla stessa follia del proprio baratro.

 Era solo lo stridere di spade, di una nuova minaccia dipinta in occhi grigi come il gelido cielo dell’inverno in cui il verde splendente si disperdeva nella sua valle.

Cosa poteva fare allora se non scappare da quel luogo?

Cosa poteva fare Lucia ora che gridava prepotentemente di uscire allo scoperto?

L’Angelo Nero avrebbe voluto il Paradiso ed invece era solo in un posto ancor più orribile dell’Inferno.

Era nella vita reale. Era nel mondo. Era alla mercé della crudeltà altrui.

Cosa restava all’Angelo Nero  se non le piume scure dei brandelli delle sue ali?

Cosa le restava se non la protezione di un altro Angelo maledetto da Dio?

Note dell'autrice: Che faticaccia!!! Non so che ne è uscito fuori, ma è stato veramente complicato scrivere questo capitolo perchè introduce a quello in cui finalmente sapremo di più sul passato di Malice anche se ci sono indizi sparsi ovunque. Ovviamente è collegato al messaggio che ha letto la piccinina mia. Raoul ha fatto una breve apparizone, un invito del fratello visto che si trovava a Parigi e di sicuro non si sarebbe fatto sfuggire una tale opportunità. Avrei voluto metterci anche Christine, ma in realtà non aveva molto senso avremo modo di vederla non temete. Come ho già detto non esistono ruoli centrali oltre a quello di Malice ed Erik, gli altri sono semplicemente il contorno. Se non si è capito amo fare l'introspezione ^^ ghghgh!

C'è una precisazione tecnica: ho citato Vidocq. E' realmente esistito ed era stato il primo capo della Sureté anche se precedente  di qualche anno al periodo storico che stiamo trattando. Però mi sembrava carino citarlo quindi licenza poetica a gogò!!!^^

Bhè non c'è molto altro da dire! ^^

Ah sì per chiunque voglia dirmi una cosina adesso ho l'opportunità di rispondervi nell'immediato e non dovete aspettare il nuovo capitolo quindi spero di poter usufruire del bellissimo lavoro e delle migliorie che stanno apponendo al sito!!!^^ Vi prego!!!

Con questo volevo comunque ringraziare tutti! e vi mando un bacio fantasmoso tutto per voi che ve lo meritate pure se leggete in silenzio!

Serva vostra.

Malice!

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Capitolo 11
*** CHAPITRE 10: Qui est le vrai monstre? ***


Consiglio Musicale: Se volete potete ascoltare il Lacrymosa dal Requiem di Mozart come sottofondo, è stata la mia colonna sonora per scrivere.

 

CHAPITRE DIX: Qui est le vrai monstre?  

  

Magnificat
anima mea Dominum,

et exultavit spiritus meus
in Deo salutari meo

quia respexit humilitatem ancillae suae …

 

Al tramonto salivano gli scalini della Trinità dei Monti poco lontana dalla sua casa, dal loro inferno fatto di cristalli e vili abbellimenti barocchi. La piccola Lucia aveva già la smania di essere brava in ogni cosa che faceva, uno spirito di competizione nato e vissuto con la sua personalità, fiorito con i giochi e continuato poi quando da ragazza aveva intrapreso una via contraria alla sua educazione.

Nel tragitto ripeteva le preghiere del vespro mano nella mano con la madre che, nonostante le sue proteste di bambina cresciuta, non poteva far altro che tenerla salda al suo fianco e Beatrice che come uno spettro camminava accanto a loro nel mutismo più assoluto.

Ogni volta che entrava in quella Chiesa, tra quelle mura fatte di pietra e legno, si sentiva in qualche modo più sporca.

Colpevole.

 

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

 

L’aveva plagiata a tal punto da farla sentire una Maddalena al centro della piazza, l’aveva costretta a pensare che le pietre scagliate dalle sue parole velenose non fossero del serpente ma le proprie convincendola che ogni suo sbaglio, il suo sgusciare di notte nella loro camera, nel suo letto accanto a quello di Lucia fosse esclusivamente una sua colpa.

 

… deposuit potentes de sede,
et exaltavit humiles;

esurientes implevit bonis,
et divites dimisit inanes.

 

La piccola Lucia non sapeva nulla di tutto questo, lei la notte dormiva ed attendeva che gli Angeli le portassero i sogni più belli.

L’unica sua speranza, l’unica.

Quanto ancora poteva preservare la sua innocenza, quando temeva che  le mire del padre si sarebbero spostate?

Quando lei sarebbe stata troppo grande ed invece Lucia lo sarebbe diventata abbastanza?

Sentiva che era il suo compito di sorella maggiore proteggerla, la sua speranza di salvezza il suo sacrificio, la sua redenzione.

 

“Mi tenti come il Diavolo tentò nostro Signore nel deserto. Ma io sono debole, io non sono il Cristo figlio dell’Onnipotente morto per noi, la mia carne è debole e tu, Beatrice, sei il Demonio!”

 

Un tramonto come tanti altri, il Magnificat ripetuto con solerzia dalla squillante vocina della sorella che non dimenticava una sola parola alla sua tenera età.

Una distrazione della madre e dalla mano sgusciò via verso la piazza trafficata il più delle volte, con la leggerezza assoluta di una infante.

La carrozza che correva velocemente e l’avrebbe sicuramente travolta.

Una madre impietrita ed una sorella che l’aveva tirata via contro il suo petto, sul ciglio della strada.

Quel giorno Beatrice disse a Lucia solo tre parole, tre parole che rimasero marchiate nel suo pensiero.

“Non lasciarmi sola!”

Eppure l’aveva lasciata sola, l’aveva abbandonata quando ancora entrambe non ne erano a conoscenza, quando ancora non sapeva che altri occhi erano puntati sulla bambina ingenua che aspettava i sogni portati dagl’Angeli, quando ancora la sua innocenza non era stata turbata dalla vista dello scempio di un corpo e dal rantolo stomachevole che l’aveva svegliata.

Una duplice violenza.

 

Suscepit Israel, puerum suum,
recordatus misericordiae suae,

sicut locutus est ad patres nostros,
Abraham et semini eius in saecula
. ...

 

Non lasciarmi sola.

Lo ripeteva ogni volta che ne sentiva il bisogno, rivolta al cielo dove sperava fosse osservata almeno di sfuggita, quel tanto che bastasse ad adempiere alla sua promessa urlata a Beatrice mentre veniva portata via verso lidi lontani e solitari.

Ritornerò Beatrice, ritornerò e ti libererò io stessa dal tuo tormento …

Non aveva mantenuto la promessa, non vi era riuscita.

Ed ora Beatrice continuava a piangere su di una tomba vuota senza lapide dove altri corpi inanimati giacevano, non il suo.

Lucia Agata Della Loggia era morta nelle carceri di Castel Sant’Angelo, la notte prima di essere giustiziata all’età di diciotto anni non ancora compiuti.

Fu una giovane guardia svizzera a leggere il comunicato alla famiglia, la mattina stessa che si stavano preparando per assistere alla decapitazione della propria figlia e sorella.

Ed invece si prepararono per identificare il corpo di una ragazza dai capelli castani e il volto tumefatto: irriconoscibile se non fosse stato per il crocefisso in argento che portava al collo, un pendente regalatole dal Monsignore Faralli quando ancora era una bambinetta che ripeteva il Magnificat prima dei vespri.

L’aveva già scelta allora.

Piccola carne fresca da cui il padre sperava di ricavarne qualcosa, non conosceva ancora l'aridità del suo ventre.

“Il Cristo ascolta le tue preghiere, devi solo essergli devota e vedrai che ti aiuterà nel tuo cammino …”

Fede, virtù e carità.

Non si era forse abbandonata completamente a Dio? Non aveva riposto tutta la sua fiducia in Cristo e nello Spirito Santo? Non aveva amato Dio al di sopra di ogni cosa terrena?

Anche questa era diventata una menzogna, una chimera a cui aggrapparsi?

La giacca riposava abbandonata su di una delle vecchie panche gonfiate dall’umidità, il suo spettro illuminato dalla traballante luce di una candela troppo consumata, mentre lLui era rimasto nell’ombra ad osservarla: seduta in terra tra i ruderi dell'operato umano che si avviava alla sua fine, immobile e statica mentre bisbigliava parole in latino.

Non l’aveva seguita, non l’aveva nemmeno cercata.

Sapeva già di trovarla in quella piccola costruzione, una croce su di una cartina ed una macchia di sangue a portarne l’effige. Un rifugio di anime tormentate, una cappella abbandonata con ancora l’umile e scarno mobilio logorato dal tempo. La sua pianta circolare si ergeva come un tamburo di una bassa volta per pochi metri, circondando con le sue pareti quattro panche di cui solo una era rimasta utilizzabile. Le altre erano diventate prolifico terreno fertile per l’edera, che impietosa invadeva ogni spazio, dalla più piccola crepa nel muro fino alla grande statua in legno della Madonna che ormai indossava un vestito fatto di foglie e rami nascondendo lo smalto azzurro quasi del tutto scrostato.

Dietro le sue braccia protese in avanti ed aperte alla misericordia, un'ampia finestra avrebbe dovuto far entrare tenui bagliori colorati di un sole che un tempo non veniva tagliato dal fitto della vegetazione, ma si distendeva libero disegnando il volto di una tenera natività. Invece, ora, solo un ramo di un albero troppo cresciuto penetrava attraverso di essa, deturpando irrispettoso gran parte della testa del Cristo bambino e la gota sinistra della Vergine, mentre le radici distruggevano in un’azione costante quello che allora era stato un mosaico sul pavimento.

Eppure la fiamma che ballava su di un disconnesso candeliere era viva ed impazzava in proiezioni sempre più astruse, le quali ricordavano i mostri oscuri spaventosi dei primi giorni ai sotterranei dell’Opera. Li ricordava ancora, grandi e orribili, ricordava ancora come si riflettevano in ombre scure contro le pareti, muovendosi inanimati come tanti burattini.

Un bambino, seppur Figlio del Diavolo, è pur sempre un bambino.

Il coraggio non gli era mai mancato, no. Mai nemmeno quando aveva affrontato le sue paure infantili, quando cominciò a rubare le prime candele per ricacciarli nell’ombra da cui provenivano, prima che divenissero l’unica sua compagnia nel buio.

Conosceva ogni singolo singhiozzo ascoltato, la disperazione che aveva colto nella solitudine di una cappella abbandonata.

Conosceva tutto quello che Malice stava provando, lui stesso lo aveva sentito sulla sua pelle.

Al rifiuto di sua madre.

Ad ogni frustata inflitta per la semplice ragione di essere diverso.

Mentre diceva per sempre addio a Christine.

Perché?

Era così assurdo.

Come poteva una donna che riusciva ad ottenere tutto con il minimo sforzo essere così simile a lui? Come poteva provare un dolore così forte da costringerla a divenire un’assassina crudele e spietata?

Per lui c’era stato odio e disprezzo, per quello che era, per il suo volto deforme.

Cosa l’aveva trasformata nella mercenaria che l’aveva colto in inganno quel giorno ormai lontano mesi?

«Conoscete la Commedia di Dante Alighieri? Avete letto il Paradiso?» e sapeva anche che il buio non poteva reggere contro la sua capacità di individuarlo sempre ed ovunque, così come il suo sguardo bucava l'oscurità, la scavava come gli occhi di un gatto capaci di sfondare la tenebra più profonda in cui vi era una fanciulla con il capo risollevato vagando alla disperata ricerca di qualcosa attorno a sé, un messaggio, un segno, qualsiasi cosa che le parlasse di Dio, indicandole ancora la sua presenza, che era con lei, che tutto questo fosse uno dei suoi incubi.

No, era peggiore dei suoi incubi e non c’era nulla se non una statua invasa da arbusti e piante riconquistando il posto che era stato strappato.

Ti ricordano gli occhi di Christine che cercavano oltre il buio della cappella per trovare la tua voce, Erik? Ricordi il suo sguardo oltre lo specchio prima che prendesse la tua mano?

Tu sei pronto a compiere il salto?

«Sì …»

«Dopo aver vagato disperso sul mondo terreno, visto le profondità più oscure dell’inferno, la speranza delle anime nel Purgatorio Dante giunge nel regno eterno del Signore, dove finalmente si purifica dai suoi peccati e trova la via della redenzione. Era il modo di mia madre di dirmi che c’era speranza sempre, ma io non sapevo nulla ero troppo bambina, troppo piccola per capire …» un altro passo, in un abisso a lui fino ad ora sconosciuto.

Lo spiraglio che aveva già potuto ammirare un pomeriggio sotto l’effetto ipnotico della sua musica era di nuovo davanti a sé, si materializzò come in sogno con una piccola porta socchiusa, una lama di luce che s’intratteneva tra il suo stipite ed il battente. Non una porta: uno specchio a scrigno, in un camerino dell’Opera, la cui superficie si andava a nascondere nella cornice rivelando un mondo nero ed oscuro in cui si sarebbe nuovamente trascinato e la mano che si protraeva verso di lui non era guantata ed ingannatrice, ma esile, dalla pelle vellutata ed il volto coperto da molte più maschere di quelle che indossava un tempo lui.

Ma le sue si andavano sgretolando.

Avrai il coraggio di varcare quella soglia, Erik? Sopporterai un dolore che non è tuo?

Oltrepassarla significava entrare in un mondo a lui ancor più estraneo, un mondo in cui la sua follia non aveva giustificazioni. Sapeva benissimo che al di là di quello spiraglio, di quella confessione c’era un mondo che apparteneva ad un’altra persona, bella e con il viso perfetto, che aveva avuto una vita distruttiva suo pari e non aveva avuto scampo dalle stesse atrocità che lui aveva vissuto.

Riuscirai a condannarti vedendo il riflesso dei tuoi peccati e le loro ragioni?

Sarai in grado di varcare il suo oblio?   

Ancora un passo, il meno folle di tutta la sua esistenza.

Per la prima volta in vita sua ne fu intimorito.

«Perché non hai lasciato che Colas mi uccidesse …»non rispose. Era attonito davanti a quel soliloquio non riusciva a rendere sensato alcun pensiero. Si scontravano l’uno con l’altro in un marasma catastrofico e nulla era decifrabile, tutto confuso sotto impulsi che non concepiva.

Pensavi che avresti provato pietà solo per te stesso?

«Lo avrebbe fatto, ma tu lo hai fermato …» Placò i singhiozzi con un singolare autocontrollo che tentennò nel tentativo di alzarsi. Movimenti lenti resi ancor più pesanti dalla zavorra che le si era attaccata al collo, trascinandola dappresso a peso morto ancor più evidente quando si voltò verso di lui.

«Non merita di ucciderti.» fu la sua replica secca e perentoria. Lasciava trapelare una convinzione ormai radicata.

L’omuncolo non meritava di ucciderla, approfittando per di più di un suo momento di debolezza come colpendola alle spalle. Lei era l’eroina tragica di un opera grandiosa, la stessa che aveva visto prender forma mentre le sue ali nere da Angelo della Morte si dispiegavano sotto la luminosa lama di un pugnale orientale.

Come ogni eroina meritava la sua lotta apparentemente eterna, il suo conflitto finale con una morte struggente, liberatoria, che avrebbe fatto versare un fiume di lacrime.

Una visone parossistica di quello che la sua mente posizionava come giusto, giudice persino del destino altrui.

«E tu meriti di uccidermi?» Avrebbe potuto Erik, stringere il collo di quella donna, affondare le sue dita nuovamente nella sua carne morbida fino a sentire la sua vita scivolare attraverso i suoi ultimi rantoli.

Avrebbe potuto e lei non si sarebbe ribellata, né avrebbe chiesto pietà.

Anzi, lo stava praticamente pregando a farlo, un invito chiaro e semplice lo stesso che gli porgeva quando si avvicinava intossicandolo con la sua presenza così ingombrante e l’assoluto annientamento del suo sguardo.

È questo quello che vuoi, Erik? Sei disposto ad uccidere l’unica persona che con te sia mai stata sincera? Sei disposto a lasciar tacere la tua anima impersonificata?

Hai per caso paura di guardarle dentro?

Affrontarla, entrare in lei significava confrontarsi con la sua di realtà, giudicare quello che aveva compiuto lei sarebbe divenuto un giudicare coscientemente sé stesso e quella che era stata ritenuta una follia.

«Lui era mio …»

Ingovernabile, doveva sapere. Niente di ragionevole o sensato, lui doveva solo sapere.

Conoscere lei per conoscere sé stesso.

Condannarla per condannarsi.

«Chi?»

Come replica un rantolo infuriato, il suono gutturale del rancore che si avviluppava alla sua gola scoperta dal mento puntato dritto al cielo.

Rivolgeva la sua collera al nulla.

Un nulla che interloquiva muto, un nulla che assumeva il significato di Fede.

Odiava quel crocefisso e tutto ciò che aveva sempre rappresentato.

Odiava sé stessa e la sua vita.

Odiava Erik che l’aveva seguita solo per crogiolarsi di fronte al suo crollo, ridere beffardo sopra la devastazione e le sue macerie. Era lì per cosa se non altro? E l’incalzava a rivelarsi scoprendo le sue falle, le sue pecche magari facendole riaffiorare quando avrebbero ricominciato a litigare come due bambini che si contendevano lo stesso gioco.

Un gioco crudele di morte e tradimento.

I due Angeli che disputano l’accesso negato di un Paradiso che non esisteva per loro.

C’era solo lui che poteva godere del patetico spettacolo che gli stava offrendo. La Malice che tutti temevano, che aveva incastrato le più alte cariche dello Stato, intrufolatasi in ogni corte d’Europa e del mondo, ucciso senza indulgenza alcuna una scia infinita di uomini e donne, che non provava pietà per nessuno distrutta da una lettera.

Tutto il suo operato reso vano da una lettera.

La lettera con le sue parole, la lettera con la notizia che il suo giorno non sarebbe mai arrivato e che avrebbe all’infinito servito un regno che non era il suo, una patria che non riconosceva come propria, un Dio che la stava punendo nel più atroce dei modi.

Lo doveva a lei, lo doveva a Beatrice: io sarei stata la sua Giustizia.

«Immagino che tutto questo sia estremamente soddisfacente, vero Erik?» le distanze diminuirono ulteriormente. Entrambi avanzavano di passo in passo, con la cadenza monotona del crepitio delle foglie secche e del pavimento disarcionato dalle radici. Lei avanzava con una fiamma più reale dell’abbaglio che aveva visto la notte del Don Juan, avanzava come Christine sul ponte mentre le loro voci danzavano in tutto il teatro con la dirompenza di tuoni e fulmini.

Non c'era il suo Angelo, non c'era la sua eterna musa ispiratrice.

E lui, in quel momento non era più il Fantasma, non era il terrore dell’Opera: solo un uomo che ammirava alla luce morente della candela le ombre disegnate dietro di lei, come grandi ali piumate di pece sul manto oscuro di una sera precoce. L’Angelo nero avanza ingraziando la macabra notte fiero e potente, coperto solo del suo orgoglio caduto in pezzi.«Vi credete che non sappia cosa vi ha spinto a seguirmi, di come volevate accertarvi che io stessi soffrendo. Siete molto facile da leggere sapete?»

«Davvero? Cosa vi fa credere di sapere così tanto di me da sapermi leggere?» come poteva saperlo lei, se anche a lui era oscura la ragione per la quale si era ritrovato sui suoi passi? Aveva atteso al vigneto fin tanto che Colas non gli aveva augurato la buonanotte con il ghigno di chi si trova appagato di ciò che era successo, non avevano fatto parola a cena come se la sua assenza non fosse tanto importante. Aveva ascoltato di sfuggita la preoccupazione di Pilar che si confidava con la cuoca in cucina mentre l'aiutava a rigovernare le stoviglie e la cena sprecata.

Aveva  cercato nelle mappe della tenuta la croce che aveva visto quel giorno macchiata ancora del suo sangue, aveva indossato il suo amato mantello e preso uno dei cavalli non per crudeltà, non per stizza. Semplicemente per preoccupazione, perché sapendo di una donna sconvolta, da sola, di notte, nel bosco non avrebbe fatto tacere la sua coscienza.

Una coscienza che si risvegliò come allora, quando al suo posto c’era una bambina che aveva perso il padre.

Una coscienza risvegliata dal suo volto sconvolto, dal suo dolore, dal suo essere così simile a lui.

Ed era questo ad offenderlo di più, il come tutti si fermassero al primo gradino, al suo aspetto, al suo modo di presentarsi così spaventosamente rude.«Allora anche voi vedete solo questo in me? Il mostro che risiede in questa faccia! Il Fantasma dell’Opera … vedete questo e basta … come tutti … »

Sei il solito sognatore illuso.

Ti delude veder riflesso nei suoi occhi ciò che sei, quello che leegi ogni qual volta il tuo viso deturpato si scontra con lo sguardo atterrito della gente.  

Un mostro, di quelli orribili che si nascondono sotto i letti dei bambini per spaventarli.

Ma cosa sei se non il prodotto di ciò che ha costruito la crudeltà delle persone?

Perché ora che sentivi così vicina la possibilità di essere capito, di scoprirti e di scoprire ti trovi di nuovo un muro ancor più forte? Di cosa ti sta accusando questa serpe?

Gli occhi s’arroventarono nel buio come ferri incandescenti, le palpebre si strinsero così come i suoi guanti sulle braccia, poco sotto l’attaccatura delle spalle di Malice che gemette appena, non staccando mai il suo sguardo altero di sfida da quelle iridi tempestose.

Un mare in tempesta, come quel giorno ad Ostia quando vedevo la mia terra allontanarsi per sempre, un sempre che non doveva esistere per soltanto un giorno.

Il Giorno.

Il Giorno della mia vendetta.

Il Giorno che non verrà mai.

«Non mi conoscete, non mi conoscete affatto e come gli altri vi siete fermata al mio aspetto … vedete il mostro questo e basta non è così? NON È COSÌ?» avanzando la trascinò quasi sollevandola da terra e scuotendola come un manichino. Non gemeva, non rispondeva, era il suo viso a parlare per lei.

Non c’era paura, la benché minima ombra.

Solo rabbia. Tanta, infinita e sconfinata rabbia a traboccarle in preda ai tremori.

«Dite di essere un mostro Erik, pensate che io non lo riconosca?» ed ecco le affilate parole che attendevano entrambi, divenire più acuminate di un punteruolo nel penetrare le loro anime distrutte. Era giunto il momento di svelarsi esattamente quando Malice si scrollò di dosso la presa ferrea di Erik e quando lo assalì ulteriormente con una spinta data con tutta la forza che poteva possedere sul petto dell’uomo senza però smuoverlo. «Svegliati Erik, c'è qualcosa di peggiore di noi. Ti sei illuso di essere il crudele Fantasma dell'Opera. Ti dirò una verità assoluta: NON SIAMO NOI I MOSTRI! I veri mostri sono chi ci ha portato ad esserlo …» ed ancora provava a fargli del male, battendo i pugni e digrignando i denti con il vero furore ad impregnarle i tessuti. Interrompeva solo per gesticolare e donare più enfasi alle sue parole, con le mani che disegnavano ampi movimenti teatrali tra un pugno sul petto ed una lacrima incontrollata. «I veri mostri sono quelli che abbandonano i figli accusandoli di essere mostri. I veri mostri sono i padri che fanno della propria figlia l’amante, forzandola a giacere con lui, incolpandola poi di essere il Demonio ... ed una madre che tace consenziente …» batté ancora più violentemente, ma Erik non si scompose. Imperturbabile osservava le mani della donna cozzare contro di sé senza cercare di fermarla. Non era il punto colpito a dolergli, ma qualcos’altro di diverso, nascosto dalla coltre grigia con cui aveva ricoperto il suo cuore. «Il vero mostro è quello stesso padre che non riserva le stesse attenzioni alla secondogenita perché deve rimanere illibata per venderla al ricco monsignore, sperando in un futuro nipote bastardo …»

Non teneva tra le mani un candelabro, non distruggeva gli specchi nascosti nella sua dimora, non radeva al suolo il suo teatro preda delle fiamme. Ma tentava di abbattere lui, con la voce resa stridula dal pianto, il viso gonfio, i capelli a ricaderle sulla fronte e con la forza che andava scemando ad ogni urto. «I veri mostri sono coloro che ti nascondono la morte di quel padre per tenermi vincolata alla Sûreté … e quel Dio che si è preso senza ritegno la mia vendetta stroncando la vita del verme prima che potessi arrivarci …» ogni suo colpo divenne debole, incerto, quasi una carezza. E come il vigore con cui infliggeva i pugni veniva meno, così la sua testa iniziò a pendere verso il basso.

Per vergogna: la vergogna di aver servito la Francia per un scopo e non esservi riuscita, la vergogna di aver perso ogni dignità sotto lo sguardosuperbo del Fantasma, la vergogna di non essere stata in grado di governare la propria vita quando aveva sempre predicato indipendenza.

Si sentiva usata, molto più di quando era stata la protetta del Monsignor Faralli.

 «Non meritava una morte dolce, nel sonno … lui meritava di soffrire come ha fatto soffrire la mia Beatrice …»

Mia sorella amava la musica … mi piaceva ascoltarla.

Era una verità così grande da non essere contenuta in quella cappella abbandonata nel bosco, da non essere contenuta in un cuore straziato che rischiava di esplodere.

Beatrice la sorella che suonava il piano, Beatrice a cui piaceva la musica, Beatrice che ogni notte veniva sporcata dalle ruvide mani del Contabile degli uomini di Chiesa.

«Non lo dovevi a me, Signore Padre Onnipotente … ma dovevi lasciarlo alle mie torture  … era mio …» il respiro montava sopra ogni parola in quelli che sembravano solo vaneggiamenti. Malice stava lasciando la scena, scomparendo dietro il tendaggio rosso del palco immersa nel buio. Restava  dietro le quinte ad osservare la sua Lucia afferrare ogni diritto di cui era stata depredata, sola.

Lucia Della Loggia era ancora viva.

«Era il mio unico desiderio …» non pensava di riuscire più a versare una sola lacrima, ma ancora una volta si stupì di come sul suo corpo non avesse alcun potere. «Non mi rimane più nulla …»

Cosa aveva ora? Il guardare una croce inanimata tra le mani che non rispondeva nemmeno alle sue preghiere? La stessa che era stata su quel cadavere di mendicante e poi era tornata sul suo collo prima che albeggiasse il giorno? L’unica prova che lei fosse morta tra le torture perché non confessava l’eresia?

Era troppo. L’ennesima prova a cui la sua Fede non poté reggere, a cui il suo cuore iniziò realmente a sussultare, in cui lei si sentì perduta.

Allora era vero che il Dio misericordioso non esisteva. Se non per lei avrebbe dovuto farlo per Beatrice, per una vittima, uno dei suoi poveri figli maltrattati che aveva sempre rispettato suo padre carnefice.

«Non ho più niente, NIENTE!» un grido acuto, elevato oltre ogni silenzio oltre ogni rumore crollando sulle ginocchia in un tonfo sordo, di una grancassa stonata e vuota.

Il tintinnio dell’argento che rimbalza più volte prima di trovare  la sua tomba su di un letto di foglie e marmo, le piccole spalle rese ancor più piccole dalla curva che avevano preso verso il terreno, le mani incastrate tra i capelli in un gesto disperato.

Dio si è preso la sua vita senza alcun riguardo per la sua serva devota, senza alcun riguardo per una delle sue figlie più bisognose.

«È morto, mio padre è morto e non sono stata io ad ucciderlo!»

«Malice …»

L’aveva pronunciato così, senza avere altro da dire e non con un intento. Poteva toccarla, sentirla seppur aveva solo osato alzare una mano a mezz’aria, senza avvicinarsi, cercando di raggiungerla dal punto immobile dove i suoi piedi si erano pietrificati. Aveva ascoltato ogni singola parola come se fosse esterno al suo corpo, l’aveva vista colpita, ancora più distrutta.

Si vide in lei.

Soli entrambi, con i volti trasfigurati dall’oblio.

Soli contro il fato, soli contro il mondo, soli con la loro vendetta ed le loro anime calpestate.

Non avevano null’altro che sé stessi.

Lei aveva vissuto con la speranza che il suo odio potesse trovare sfogo.

Lui aveva vissuto con un’illusione d’amore per una vita.

Christine non era la voce che ascoltavi, non era la donna dei tuoi ritratti, non era colei che avrebbe curato il tuo cuore avvelenato dalle ingiustizie.

La Christine che avevi costruito era nella tua mente. Non è mai esistita.

Era la tua Constance.

«No …» era un sussurro, le mani che strofinavano gli occhi cercando di lavare le sue lacrime prima di tornare a guardarlo, con la mancina a sorreggerle il grembo mentre si stava rialzando.«Sapete cosa significa il nome Lucia, Erik?» le sue labbra tremarono quando quel nome s’increspò fra di esse, quasi ne temesse la pronuncia. «È un nome di origine latina che significa luminosa e splendente …»

La cera della candela si consumò oltremodo, permettendo allo stoppino di avere più superficie da ardere.

Come un effetto scenico la luce si fece più alta, illuminando gli occhi lucidi della donna ed il viso che con il raggio aranciato non dimostrava il notevole rossore sulle gote cotte dalle lacrime. C’era solo il baluginio dei suoi occhi scuri, due pozzi infiniti e resi cupi dalle ombre che ancora si animavano alla danza di fuoco del cero.

«Vi sembro luminosa e splendente, Erik?» silenzio.

E la mano che ancora era ferma a mezz’aria trovò il suo posto lungo il fianco. Era quindi questo il suo nome, Lucia?

Non sta forse illuminando il tuo animo nero, Erik?

Non con un faro o con una lanterna dall’ampio cono giallo.

Ma con una luce scura, tetra.

Sta avanzando nella caverna che avete scavato nei vostri petti con una luce tenebrosa che rende il vostro buio ancor più nascosto nell’ombra.

Lei non era la sua musa, non era la voce cristallina di Christine, non era Lei.

Portava con sé altre cose, una vita diversa, una voce diversa.

Aveva un bagaglio di esperienze ed era donna non bambina.

Aveva sofferto, pianto e reagito.

Il nero con il nero.

Lei stessa è una luce buia.

Irradiava oscurità nella sua aura nefanda.

Temibile ed affascinante come un serpente dalle spire mortali e dagl’occhi velenosi.

Guardava gli altri come se gli dovessero qualcosa, sentiva che tutti avessero un debito verso Lucia.

Persino Dio.

Une Lumière Noire.

Questa volta non avrebbe atteso, non avrebbe sperato silenziosamente dietro la maschera di Angelo.

No.

Era quello che desiderava e l’avrebbe preso attraversando con due grandi falcate la distanza che si era creata e prendendole il volto fra le sue mani, calde persino attraverso i guanti, rapendo le sue labbra con violenza.

Vorace come un rapace a cui era da troppo negata la sua preda.

Vorace come l’affamato in tempo di carestia.

Vorace come un assetato di amore a cui era stata strappata ogni possibilità di amare.

Stringeva quella piccola figura tesa e formata contro di sé, il volto dimezzato  sempre più chino per raggiungerla nella sua esigua altezza e nei suoi tentativi di sottrarsi. Nonostante la sua riluttanza, i suoi calci, le sue spinte e i suoi gemiti di protesta la sua ricerca non terminava, provando con sempre più insistenza di assaporare quelle labbra tentatrici, ingannatrici e sincere.

Sentiva i suoi muscoli, resi rigidi dallo sforzo dovuto alla ribbellione, sagomarsi sui suoi impegnati, invece, ad arrogarsi qualcosa che aveva sentito suo dal primo momento che aveva visto ardere i suoi occhi nel buio del suo teatro.

La voleva e l'avrebbe avuta, senza possibilità di scampo a differenza di Lei, che era fuggita lontana.

Lucia non avrebbe cercato la luce, già troppo abituata al buio, non avrebbe cercato l'aria affogando nel suo baratro.

Stringeva forte, l’avvolgeva interamente con il suo di corpo enorme in confronto, tanto che persino la cappa che indossava sembrava abbracciarla.

Ma lei provava a liberarsi, protestava con no decisi e soffocati dallo stesso bacio che l'imprigionava, le braccia tentavano vane di divincolarsi dalla sua morsa possessiva mentre avvertiva il respiro di lui divenire affanno sulla sua pelle. 

Erik percipiva il cuore in tumulto di lei scoppiarle in petto, mentre stringeva e stringeva ancora come un cappio.

Quando però sembrò cedere dischiudendosi anch’ella nella passione con cui la stava travolgendo, la fitta bruciante ed il sapore di ruggine nella sua bocca lo fece arretrare con un grido di sorpresa.

Aveva affondato i denti nel suo labbro inferiore.

Sui suoi guanti il liquido denso e vischioso gli indicava quanto fosse penetrata nella sua carne, abbastanza da ferirlo, abbastanza da volerne ancora.

Ma i loro occhi erano troppo impegnati a cercarsi nel buio, a trovarsi come in un sogno o un incubo in cui i punti di riferimento si disperdono senza possibilità di recuperarli tra gli ansimi di una corsa senza fine.

Tensione.

Frustrazione.

Ansia.

Tutto racchiuso in un bolla dove tempo e spazio sembrarono arrestarsi improvvisamente.

Il mondo non scorreva più troppo velocemente, Malice era scomparsa da dietro le quinte così come Constance, tornate ormai ai loro camerini chiusi a chiave dall’esterno.

Sul palco c’era soltanto Lucia, la donna non più la bambina: quella che aveva lottato contro il mondo della Chiesa, colei che dietro uno pseudonimo aveva raccontato delle Stragi di Perugia sul Piccolo Corriere Nazionale e che per due anni aveva denunciato ogni crimine di cui veniva a conoscenza attraverso la posizione privilegiata di protetta del Monsignor Faralli.

Lucia la donna che quando venne scoperta stava per essere uccisa da quello stesso Monsignore che la definiva la mia protetta. Uno dei pupilli del Cardinale Antonelli, Monsignor Favalli, il quale la desiderava già da quando era ancora nella tenera infanzia, che disse a suo padre di amare la carne freschissima ma che irremovibile avrebbe dovuto attendere la sua giusta maturità.

Lucia colei che prese il crocefisso in legno e lo scagliò contro la sua tempia così tante volte da rendere il suo protettore irriconoscibile e che, per essersi difesa, venne condannata a morte.

Lucia che divenne Malice in Francia solo per arrivare ad un giorno che mai sarebbe venuto, con la rabbia ed il rancore di un Angelo Maledetto.

Lucia che della Santa Martire portava solo il nome.

Perché lei era una donna, vera, non un’illusione che percorreva il suo sentiero a ritroso con la stessa impazienza e la stessa bramosia che aveva sentito Erik mescere nelle sue viscere. Gli venne incontro premendo le mani quasi a far penetrare la sua maschera nelle piaghe del suo viso e assaggiando, senza disgusto alcuno, il sapore del suo sangue con la stessa voracità con cui l’aveva accolta nel suo abbraccio.

E lui era un uomo non un Fantasma che sentiva i loro respiri confondersi affaticati, infrangersi e crollare sotto una passione estremamente carnale a cui entrambi appartenevano. Si arrampicava con la forza della disperazione sulle sue spalle, tenendosi salda al collo di lui mentre le sue mani già vagavano sotto la camicia bianca slabbrata dalla veemenza della loro esplorazione reciproca.

Il suo mantello, la sua giacca ed il suo panciotto vennero scaraventati uno di seguito all’altro in terra scomposti, mescolandosi in un rosa di stoffe diverse e dalle sfumature scure i cui petali non potevano essere ammirati da nessuno.

In loro c’era una nuova forza, impertinente e spudorata, scabrosa agl’occhi del mondo, un mondo che li aveva da sempre denigrati ed umiliati.

Era la loro rivincita.

Forse.

Capitolare al loro istinto, liberarsi del proprio dolore l’uno dentro l’altra, beffeggiarsi di tradimenti e bugie affogando i loro sospiri ed i loro gemiti nudi, stesi in terra tra foglie e detriti in preda alla natura animale dell’essere umano era la loro rivalsa.

Non c’erano maschere, schemi o programmi a cui aggrapparsi.

Non c’erano regole o imposizioni morali da cui nascondersi.

Non c’erano giudici o condanne.

Solo un uomo sfregiato nel volto ed una donna sfregiata nell’anima.

C’era Lucia e un uomo che aveva scelto lei.

C’era Erik ed il suo bisogno di sentire il calore umano di una persona che non lo guardava con disprezzo, ripugnanza o pietà per la sua ingiusta sorte. Lei vedeva Erik l’uomo, non il Fantasma dell’Opera, e lo provocava facendolo impazzire, ricordandogli di essere fatto di carne e sangue, di aver bisogno del calore.Del suo calore, del suo piacere dei gemiti contro la sua spalla e dei fremiti provocati dalle sue labbra mentre affondavano nella tenera pelle dei suoi seni o del suo ventre liscio e piatto.

Aveva bisogno dell’amore anche se fugace come un impulso, del bacio avido preda di una passione passeggera.

Aveva bisogno di qualcuno come lui, che si nascondeva dietro maschere per celare una deformità di cui non aveva nessuna colpa.   

Lei sa come cercare i veri mostri …

Eppure quando la sua mente smise di respirare, quando ciò che sentiva più vicino era il completo abbandono delle forze, quando tutto riprese a muoversi, sotto di sé attraverso la sua maschera, non vide la donna che l'aveva trascinato a terra.

Vide il suo sogno ricorrente, iIl sogno che portava il nome di un’ossessione.

Vide ciò che non avrebbe mai potuto avere.

«Christine …»

 

Note dell'autrice: Ok lo ammetto! Non doveva andare così! Non dovevano "consumare" così presto, ma quando ho iniziato a scrivere questa scena tutto è avvenuto con naturalezza ed i fatti si sono svolti con logica anche perchè ho spostatao alcune pedine della mia scacchiera. Già. Perchè ora ho in mente un finale leggermente diverso da come lo avevo progettato e quindi era ora che doveva accadere ed è stato faticoso e dura scriverne. Almeno spero che sia stato un capitolo gradito ... che fra parentesi non è del tutto finito troverà la sua conclusione nel prossimo.

Spero che il capitolo sia stato abbastanza esaustivo, che parli da sè perchè per me ciò che ho raccontato, seppur di fantasia, mi ha turbata.

Il Monsignor Favalli è di mia invenzione a differenza del Cardinale Antonelli e le Stragi di Perugia, nonché il Piccolo corriere Nazionale, che sono realmente esistiti ed avvenuti.

Se avete domande sono sempre pronta a rispondere, ^^ quindi lascio a voi la parola.

Se volete trovate l'intera preghiera del Magnificat QUI

Ringrazio Giuly Red Rose per la sua assidua presenza.

Serva vostra.

Mally

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Capitolo 12
*** CHAPITRE 11: Envie d'un ange. ***


CHAPITRE ONZE: Envie d'un ange.  

 

 

L’attendeva da più di un’ora. L’attendeva da tre giorni, da quando erano giunti nel cuore della notte al vigneto accolti da un Colas in festa, contento di averla domata in un certo qual senso.

L’attendeva perché tutto quel silenzio sembrava essere piombato troppo precocemente e troppo pesantemente.

L’attendeva perché il tumulto che lo afferrava quando la sua mente tornava a quegl’istanti era un nuovo brivido, bollente, che inspessiva la pelle al ricordo delle delicate labbra di Lucia su di essa.

Lucia.

Un nome, un nome vero reale, come reale era lei ed il suo tocco lieve.

Lucia.

Che lo evitava come gli appestati, che si nascondeva nelle sue stanze, facendo brevi apparizioni per poi scomparire da dietro un porta.

Che quella sera avrebbe incontrato il conte ad una cena. Che avrebbe continuato la sua seduzione gentile, che sarebbe stata desiderata, sfiorata, toccata da pelle non sua, mani nobili che avrebbero vagato sul velluto del suo corpo.

“Bene, bene, bene! La pecorella smarrita è tornata all’ovile.”

Era un lampo continuo di ricordi e frasi, tratti di un passato recente ed ingombrante che traboccava, approfittando di tutto quel vuoto attorno a sé. Si alternavano i momenti alle frasi dell’omuncolo sbiadito, il suo ego sfrontato di quando l’aveva visto arrivare in sella con il profumo di lei ancora intenso sui suoi vestiti.

Ancora per poco avvolta dalle sue braccia.

 

Tic, toc, tic,toc.

 

Vedeva il dorso della mano di Colas passare fuggevolmente sulla gota di Lucia.

Il suo viso ancora provato contorcersi in una smorfia di disgusto e sfuggire inclinandosi leggermente.

Gliele avrebbe volentieri staccate le dita.

Odi quando si toccano le tue cose. Ora più che mai.

E la lingua ancor più volentieri.

“Farete la brava adesso che vi siete … sfogata?”

Non si era lasciato di certo sfuggire il palese guanto che gli era stato lanciato attraverso uno sguardo troppo veloce ed allusivo su ciò che fra loro due era in realtà accaduto.

Incredibilmente, perché Erik non avrebbe mai osato neanche pensare una cosa simile potesse succedere a lui. Ma era uno scrigno, prezioso alquanto, dove tutto doveva rimanere di loro dominio, non rivelarsi alla malizia e alla curiosità di Colas. L'omuncolo stava entrando in un campo che non gli competeva e questa volta, Erik, non si sarebbe limitato ad una sfida amichevole in giardino.

Era entrato in quella cappella, nel loro peccato vissuto alla luce smorzata di una candela completamente consumata, un luogo che gli sarebbe stato per sempre precluso.

Un campo dove non doveva arrischiarsi il caro Colas.

Sciocco, misero, infame.

Avrebbe risposto anche nell’immediato, con la stessa rapidità con cui avevano cominciato a fremergli le mani, se solo non fosse stato fermato dalla voce che lo aveva abbandonato nel silenzio dopo aver rigettato ogni verità appartenutale.

Malice era tornata.

“Per favore Erik, lasciateci soli!”

 

Tic, toc, tic, toc.

 

Solo il perpetuo ticchettio del pendolo sul camino sovrastava quella cappa pesante, che ancora li ricopriva. Si erano concessi solo pochi attimi ancora stretti, con i corpi tra di loro avvinghiati in un abbraccio asfissiante.

Pochi attimi piacevolmente intensi.

Istanti che servivano solo a placarsi, per riprendere quella parte di ragione completamente abbandonata a sé stessa.

Il tempo di raccattare i vestiti, indossarli dandosi le spalle con una rinnovata pudicizia e ritornare alla propria vita, dove Malice conosceva un limite invalicabile che non avrebbe mai solcato.

Un confine che Lucia invece aveva osato ignorare.

Pochi attimi piacevolmente intensi, ma sbagliati.

La lancetta scorreva troppo lentamente per i suoi gusti. Non era mai stato un tipo paziente, capace di aspettare. Un burattinaio dirige, lo spettatore assiste allo spettacolo.

E lui non assisteva.

Mai, ed era già da troppo che rimaneva a guardare, osservando inerme il mutare degl’eventi.

Ubbidiente, troppo ubbidiente.

Detestava il senso d’impotenza, l’apatia che stava stagnando in lui come viscido e putrido limo in uno stagno.

In cosa lo stavano trasformando? In cosa lo stava trasformando?

 

  

Tic, toc, tic, toc.

 

Inquieto, guardava oltre le sue mani giunte sul mento la porta. Il corpo poteva sembrare rilassato così adagiato sulla poltrona con la camicia di batista profumata di bucato aperta sul torace fiorente che si muoveva al suono del placido respiro, le lunghe e tornite gambe fasciate di nero piegate in maniera naturale. Ma nemmeno il suo mezzo volto bianco poteva celare da sotto l’apparente tranquillità, i denti rigidi digrignati furiosamente dietro quelle labbra distese, o i muscoli e le ossa che crepitavano ad ogni minimo spostamento tanto erano inarticolati.

 

Ti inalberi mentre scorre il tempo Erik.

Ti inalberi perché è con lui, il de Chagny.

Ti inalberi perché non vuoi che lui conosca il suo segreto, non vuoi che disegni con le labbra i segni lividi orientali che giacciono sul suo ventre così come hanno fatto le tue.

Non vuoi che si tocchino le tue cose.

 

Non è mia.

 

Allora perché la stai aspettando ancora? Perché nutri ad ogni rintocco il desiderio che quella porta si apra?

Non negare ciò che invece è evidente: la senti tua, forse più di quanto tu abbia sentito tua Christine.

E sei un pazzo, un pazzo che si sta gettando di nuovo in un baratro, un bambino che non ha imparato quanto il fuoco possa scottare.

Non ora con chi non ha indietreggiato nemmeno una volta alla presenza della tua maschera.

Nemmeno davanti a tutti i tuoi mostri.

Nemmeno davanti al Fantasma dell’Opera.  

 

Dlin, Dlin, Dlin.

 

Il pendolo indicò così la terza ora del mattino, prima di riprendere a scandire il tempo con il suo picchiettare tra gl’ingranaggi. La tenebra ancora si avvolgeva salda nel cielo buio, senza stelle. E di lei alcuna traccia.

Ad ogni rintocco avvertiva il fascio di nervi da sotto la sua pelle tendersi sempre di più, corde tenute da piccole chiavi in ottone tirate dalla smania cocente di sapere troppe cose e tutte assieme.

Apriti, maledizione!

 

Tic, toc, tic, toc.

 

Cla – clack …

 

Il pomello della porta scattò, rispondendo al suo richiamo.

Sfinita, visibile persino alla penombra della stanza, ma non per motivazioni banalmente fisiche. Ordinata e composta come la docile Constance, non aveva nulla fuori posto.

L'aspetto illibato di come quando l’aveva vista uscire.  

Si spostò sicura verso una delle lampade vicina ad uno specchio antico, senza curarsi della presenza che, da in fondo alla stanza, continuava ad osservarla.

Era stanca, stanca di tutto, lo si avvertiva dal passo pesante che calcava il pavimento con colpi duri, come se faticasse a sollevare il piede gettandolo a terra appena le forze finivano.

Si guardò allo specchio senza osservarsi. Lì, in quel riflesso poté ammirarla anche Erik, ma lei non scorgeva ciò che gli altri vedevano: c’era solo Lucia con gli occhi ancora cerchiati e gonfi che sembravano sconfinati, i capelli selvaggi a cui cercava di dare un garbo togliendo alcune foglie secche, il viso pallido e scavato come se quelle ore passate a piangere l’avessero risucchiata.

Non era piacente, non era attraente, non era l’infingarda seduttrice.

Ma aveva qualcosa di più del personaggio che indossava ogni mattina.

C’era la Lucia di quella notte, la notte in cui si era aggrappata alla disperazione, a delle spalle forti. La notte in cui non si era sentita sola.

Aveva ancora un briciolo della sua umanità.

“State cambiando, sembrate più compassionevole … non è un bene …”

«Divertita in compagnia del conte?» non fu ciò che disse, ma come lo disse a farle tremare le gambe. Era cupo, sottile, un tono sfumato che non cercava di coprire il sarcasmo. La voce cavernosa, bassa, una battuta detta in un teatro dall’acustica pessima che non presenta imperfezioni, una voce partita dal diaframma che, viaggiando in lui, era divenuta ardente, cromatica, espressiva.

Una voce a cui, se fosse stata colta di sorpresa, probabilmente avrebbe ceduto crollando miseramente cadendo appassita come un fiore reciso.

La raggiunse silente.

Incombeva su di lei come l’ira di una divinità arcana.

La macchia bianca appariva inconfondibile, anche se questa volta il sesto senso che possedeva nel trovarlo si era disperso tra i mille volti di una donna che non sapeva più chi fosse e cosa volesse. Non si girò, rimase a fissarlo dal riflesso nello specchio attendendo la sua mossa.

Aveva fatto tanto per non ritrovarsi da sola con lui, non voleva rischiare ancora.

Eppure, quella piccola parte di lei che ancora cercava inesorabilmente di lottare, ne era soddisfatta. Perché da un lato Malice avrebbe voluto incamerare il colpo, prendere la sua debolezza ed archiviarla tra gli errori da non ripetere, ma Lucia, con la sua voce flebile, il tono appena udibile di un bisbiglio, le stava chiedendo di ascoltarla.

Ignorarla era difficile quando si trovava insieme ad Erik.

«Non dovresti intrufolarti così nelle mie stanze, potrei ucciderti senza neanche guardarti in viso …»

«Dimmi Constance, come spiegherai i segni sul tuo grembo al conte …» una carezza sul suo ventre la fece vibrare come le corde di un violino sotto l’insistente sfrigolio dell’archetto. Provocatorio, sfrontato, la costrinse a cercare spazio in quella infinitesimale distanza creata. L’arte di una tortura mentale che ti conduce alle confessioni più disparate, peggiori persino di quelle che nella sua prigionia aveva avuto l’onore di provare. «Tacerai il suo significato come stai facendo con me …»

Ricordava i segni impressi con l’inchiostro nero su di una pelle bianca, una tecnica antica con cui in oriente amavano dipingere il corpo. Poche linee disegnate sotto l’ombelico, una provocazione.

“Perché volevate parlare del Fantasma dell’Opera a vostra sorella, Malice?”

Perché Erik è come me e perché lui forse potrà avere ciò che io sapevo in cuor mio di non poter avere.  

«Lo vuoi davvero sapere che cosa significa …» sembrava ubriacata dalla sua influenza pressante. Gli occhi ben stretti si chiusero quando sentiva di non poterglielo negare, il capo inclinato da un lato e la bocca dischiusa alla ricerca dell’aria necessaria a sopravvivere, le spalle che tremarono impercettibilmente quando afferrò i lati del mobile che aveva di fronte per sorreggersi sotto la gravità dell’affermativa risposta muta del Fantasma.

 

Hai  ancora il tuo potere. Sono qui, sarò sempre parte di te.

 

«Significa che anch’io sono un Demone, un spirito volpe inquieto, che si trasforma in ciò che vuole e che può nascondersi sotto mentite spoglie. Kitsune!» disse spirando cercando di arrancare con ansimi sempre più profondi. «La Sûreté mi aveva lasciata sola dopo l’uomo impegnato nel commercio di contrabbando mascherato da imprenditore per l’acciaio che stavo seguendo, smascherò il mio doppio gioco. Mi nascosi a Nara dove lo conobbi. Aveva gli occhi sottili ed un viso gentile. Si era invaghito della donna occidentale, di me. Mi regalò un Tanto ed un Kogai. Io non sapevo che li avesse rubati al suo maestro, mi ero limitata ad assecondarlo con qualche moina felice di poter imparare qualcosa di più su questo popolo affascinante. Non conoscevo il Giappone prima di allora, ma con lui, con Izumo, uno dei pochi a sapere qualche parola inglese oltre il giapponese, iniziai ad imparare qualcosa. Fu lui ad insegnarmi l’arte del combattimento. E poi, il gentile ragazzo apprendista, mi tradì. Scoprirono il furto e, piuttosto che confessare il suo reato, accusò me di essere un demonio, una Kitsune, di averlo ingannato ed indotto a rubare per me. Per impedirmi di irretire giovani ragazzi sprovveduti, mi marchiarono come un animale, tatuandomi al centro della mia anima ciò che io stessa confessai: Kitsune. Avevano ragione, io sono un Demone …»

«E lui ti ha ritenuta un DemonioInsistette prepotente, come prepotente era la voglia morbosa di sapere .

Malice tacque, ma aprì gli occhi. A quel gesto Erik seppe che lo aveva sentito e lo stava evitando come gli ultimi giorni.

«Non hai risposto alla mia domanda!»

Comprese.

Comprese che non aveva modo di allontanarsi che se voleva trovare una via di fuga doveva affrontarlo.

Doveva affrontare le sue domande, doveva allontanarlo perché lei non poteva essere di nessuno.

Non era mai stata di nessuno.

Ne era convinta. Almeno fino alla fatidica notte in cui, per sua volontà, aveva ceduto a lui, alla sua anima.

Non posso scappare, ora.

«Non credo di doverti alcuna risposta …» aveva esitato, poco convinta dalle sue stesse bugie.

O dalle bugie che gli altri le riservavano, si nutrivano della sua fiducia continuando a suggere da lei ogni singola stilla di rammarico, odio, frustrazione. La volevano annientata nel corpo e nella mente, una mera macchina di metallo che risponde doverosamente agl’ordini.

Non una persona.

Ma come poteva mentire a sé stessa così? Come poteva separarsi quando lo sentiva così vicino?

Su cosa avrebbe dovuto far leva?

“Non vuole voi …”

L’affermazione di Colas riaffiorava ogni volta che la sua mente pensava che forse, Erik, la vedeva sotto una luce diversa. Un luce debole di candela, la stessa con cui si era addentrato nel suo passato e che le aveva fatto crollare ogni barriera di fronte a qualcuno che come lei aveva imparato a reagire all’odio con altrettanto odio.

“Non vuole voi, chi vorrebbe una mela a cui hanno già dato un morso … ”

Chi vorrebbe una donna che si vende per mestiere, che uccide senza rimorso. Chi vorrebbe una persona incapace ad amare. Nemmeno un Fantasma.

 «Invece mi devi molte risposte …»non era una richiesta, ma un ordine. Era questo il modo per lui di imporre la sua esistenza, quando ancora viveva come un imperativo invisibile, presenza artistica ed inconfondibile in un mondo che l’aveva rinnegato.

“Christine …”

Camminare di spalle su di un terreno accidentato non è mai una cosa saggia e questo Malice lo sapeva molto bene. Lo stava facendo in quel momento aggiungendo un nuovo ostacolo al loro sentirsi, toccarsi carezzevolmente con quello che erano riusciti a condividere, lo aveva fatto quella notte quando si era abbandonata al languido abbraccio di Erik, lo aveva fatto alcuni giorni addietro quando aveva tentato di mettersi in contatto con la sorella.

La buca in cui era incappata e che l'aveva fatta cadere.

La terza lettera intercettata dalla Sûreté in dieci anni , come se non sapesse che anche questo tentativo sarebbe andato in fumo ancor prima di essere attuato.

L’aveva scritta consapevolmente, conoscendo già il destino a cui andava incontro quel pezzo di carta sigillato.

Le piaceva scrivere, tanto.

Il riversare nero su bianco ciò che sentiva parlando dei suoi incontri di quanto iniziasse a pesarle convivere con il fardello di Malice e il suo ruolo così imponente nella sua esistenza. Era una richiesta d’aiuto la sua, verso sé stessa, verso la piccola Lucia che cercava di uscire in qualche modo.

“Questa volta state preoccupando davvero Vidocq, teme di perdere il suo sicario ed io non lo biasimo per la scelta che ha compiuto! Ci sono voluti anni per trovarvi Malice, anni … e per cosa? Malice, quando vi ho presa dal carcere eravate solo agl’albori e già si vedeva in voi il grande potenziale che avete dimostrato in tanto tempo di onorato servizio. Siete disposta a rinunciare ad un mestiere per cui sembrate nata per divenire lo stabile passatempo di un uomo che non vuole voi? Già, non vuole voi, ma come biasimarlo: nessuno vorrebbe una mela a cui hanno già dato un morso … e poi non conviene a nessuno che vi rifiutate a compiere il vostro dovere!”

Sulle spalle sentiva ancora le mani di Colas stringersi dopo la loro conversazione chiarificatrice.

Non l’aveva mai detestato così tanto, nemmeno quando in Giappone l’aveva abbandonata per quasi un anno. Comunque le sue parole avevano sortito il giusto effetto: d'altronde un truffatore deve saper giocare con la dialettica con la stessa arguzia di un borsaiolo che sfila il borsellino ad una bella signora.

L’aveva convinta a rinunciare. A rinunciare alla sua vendetta, ormai priva di ogni scopo, a rinunciare ad avere una vita vera, un’identità che ormai apparteneva ad un cadavere senza Dio e senza nome.

«No, non c’è nulla di cui valga la pena discutere monsieur le Fantôme.»

Erano passi, tanti ed enormi, volti all’indietro.

Così indifferente da sembrare fasulla nel pronunciare il nome che non usava più. L’aveva colpito al volto, proprio da dove la piaga sotto il cuoio bianco aveva iniziato a pulsare mentre la guardava attraverso uno specchio, con un volto che era cambiato radicalmente da quando l’aveva conosciuta.

I tratti gentili e delicati erano scomparsi dietro una maschera di durezza scostante. Pentita di quello che aveva compiuto in una notte così vicina da avergli segnato la pelle e l’anima.

Sembrava gridargli di nuovo Illuso. Lei, che lo chiamava sempre per nome.

Non Angelo o Fantasma. Con lei era stato Erik.

Lei, che lo poneva di fronte all’essere un umano non uno spettro, lei che aveva cercato di convincerlo di non essere un mostro, lei che non era nemmeno voltata per parlagli.

 

Pietà.

Questo l’ha mossa a regalarti qualche spicciolo.

La pietà che leggevi sul volto delle persone che ti guardavano con una smorfia di disgusto, che ti disincantavano su quello che sarebbe stato il tuo futuro dietro le sbarre. La stessa pietà di Christine quando le hai chiesto di guardare oltre il mostro.

Tante belle parole, dette in un momento in cui sembrava incline a confidarsi in cui ti ha donato solo false speranze, perché in realtà nemmeno chi ha toccato il fondo potrebbe volerti.

Perché volere un mostro deturpato in viso?

Un mostro a cui si è donata, non perché fosse ciò che voleva ma solo per la commiserazione di una povera anima come la sua. Ora ti sta trattando come un estraneo, come uno dei tanti a cui ha dato per dovere quell’immenso calore che tu non avresti mai osato sperare di provare.

Non hai bisogno della sua pietà. Non hai bisogno di lei.

Non hai bisogno di nessuno.

Sei solo, come lo sei sempre stato.

 

«Bene  …» disse all’improvviso, dopo una lunga pausa dove i suoi occhi avevano disegnato ogni venatura del legno cercando di trovare la giusta freddezza per incontrare il suo sguardo di giada. Lo sentiva addosso come se la stesse circondando, come se stesse sospirando sul suo collo con il suo fiato piacevolmente caldo e le sue labbra ovunque il corpo le richiamasse.

Di certo, il ricordo di lui sulla sua pelle non l’aiutava. Delle sue mani, forti, decise e delicate che si trovavano ovunque e da nessuna parte. Le sue mani tanto ammirate che avevano utilizzato la loro avida conoscenza da musicista, le sue mani che potevano uccidere ma che, come nemmeno nelle sue fantasie, erano riuscite a donarle un piacere immenso.

Le sue mani setose, che sembravano impazienti e timorose, incerte ed esperte, contraddittorie dietro ogni inibizione che si era andata a nascondere.

Le sue mani che riuscivano a soffocarla persino al ricordo, strozzandole un respiro frustrato quando il corpo ne avvertiva l’inganno della mente.

Le sue mani che non cercavano me, le sue mani che vagavano su un corpo non mio … Christine.

Ma lui voleva di più di un modo titubante di scacciarlo.

Voleva la verità, voleva che gli dicesse quanto lo ripugnasse, quanto le sue parole fossero false e spinte da una compassione stomachevole.

Voleva che confessasse la sua pietà.

Cercò di sfuggirgli, provando a sgattaiolare di lato per non sentirsi così oppressa, il tempo di ricacciare torbidi pensieri lascivi in un angolo oscurato. Tentativo vano perchè ad Erik bastò allungare un braccio sul mobile per bloccarle ogni via di fuga. Gli oggetti depositati su di esso iniziarono a tintinnare fra di loro scossi dall’urto, le sue dita si strinsero così fortemente allo spigolo che con poca pressione avrebbe lasciato il calco sul legno.

Eppure lei non sobbalzò, non si spaventò a quella reazione.

«Abbi il coraggio di guardarmi quando mi parli, Lucia …» ringhiò sul suo collo. Quel nome detto di proposito perché a lei si stava rivolgendo.

Non c’erano Malice, Constance, l’assassina o qualsiasi altra persona risiedesse in quel corpo. E non c’era il Fantasma, il Signore delle Botole o il Figlio del Diavolo.

Lui, Erik, voleva la verità da Lucia.

E la voce ora, era divenuta chiara e limpida, rimbombando nella sua mente non più come un sussurro indistinto.

Hai ancora un cuore. Non sei solo un arido terreno. Puoi ancora avere dei sentimenti.

E una persona che ha conosciuto la fame, non dienega la mela a cui hanno dato un morso ...

Un colpo basso, meschino avrebbe osato definirlo. Questa volta Dio si stava davvero divertendo con lei.

Il gioco era ancora in atto, non si era smorzato sotto il grave errore commesso.

E lei ora doveva dimostrarsi inflessibile e non riusciva.

Osservò il braccio disteso di Erik davanti a sé, seguendolo fino ad incontrare il suo sguardo di rimprovero, stavolta acceso dall’onta che gli stava muovendo.

Eppure non poteva dimenticare, non poteva fare a meno di riportare alla sua mente ciò che invece le rimestava l’anima, le attorcigliava lo stomaco e le faceva logorare ogni singola porzione della sua pazienza divenuta sottile come l’ultima lastra di ghiaccio in una pallida mattina di primavera ancora legata all’inverno.

 “Christine …” 

Ora ricordava il suo nome, ricordava Lucia, una donna che si era abbandonata ad una folata passeggera di passione?

O almeno, quello che lei cercava di definire tale, provando a convincersi che non c’era dell’altro in lei nascosto ad indicarle quanto la turbasse averlo accanto. Quanto l’avesse sorpresa piacevolmente trovarlo lì, ad aspettarla. Quanto avesse provato piacere nel vedere quel minimo interessamento a lei, in una notte scura quando era scappata.

Non è voi che vuole ...

“Christine …” 

Gli occhi castani di Lucia si fermarono nei suoi, cercando di forzarsi nell'ascoltare quel nome.

Erik ebbe un brivido, qualcosa di strano, che lo prese alla gola per l’intensità con cui lo stava osservando. Non si era mai sentito così messo a nudo da qualcuno come da quegl’occhi, penetravano insolenti in lui come due mani che lo privavano della maschera indossata.

Togliendogli il fiato.

E quando Lucia socchiuse le labbra per parlare cercò di concentrarsi su queste, spostando il suo sguardo da quello di lei con piccoli movimenti incerti.

«Io non sono ciò che cerchi, non rischiare una delusione troppo grande ... soprattutto non confondere una notte con una promessa. Io non sarò mai la tua Christine …» 

Era solo un nome per lei, sulla bocca di troppe persone ed ora persino sulla sua.

Le dava addirittura fastidio sentirlo, ormai nauseata dall’eccessiva importanza che le riservavano.

Christine.

L’aveva detto, pronunciato quando si era aperta a lui così tanto che aveva toccato i bassifondi della sua anima.

Quando Lucia gemeva per Erik e lui soltanto.

Quando era in lei.

La innervosiva, troppo. Un piccolo tarlo che aveva iniziato a prendere possesso in lei, un tarlo che doveva uccidere prima ancora che potesse consumare il legno. Ma lui rodeva inesorabile, come l’acqua che cade sulla roccia e con l’azione di secoli ne crea una più grande e più forte. Non doveva provare nulla di tutto quello, non doveva sentirsi seccata.

Purtroppo il negarsi la gelosia che la corrodeva non  lo fermava, continuava a mangiare e mangiare senza riguardo alcuno del pregiato mobile che stava distruggendo.

Ed era un azione lenta e devastante, tanto che riusciva a controllarla appena ora che se ne stava liberando.

Erik amava Christine.

Erik avrebbe voluto Christine.

E lei non sarebbe mai stata l’angelica figura della giovane cantante.

Mai.

Nessuna scenata per questo, nessuno vorrebbe immergere le mani in un acquitrino.

Devo essere ciò che mi chiedono di essere, con altri nome, altre personalità.

Quello che hai avuto durante quella notte era solo la parvenza di ciò che ti aspettassi.

Sono uno strumento e nulla più.

Ora più che mai.

«Quindi è per questo …» non sapeva come continuare. Forse niente lo avrebbe fermato dallo scappare se non lei, il suo viso e i suoi occhi colmi di una rassegnazione che mai le aveva letto fino ad allora.

La stessa che, probabilmente, si poteva leggere nei suoi di occhi mentre per l’ultima volta avrebbe pronunciato il suo amore per Lei.

Amore, perché gli sembrava una parola così sconosciuta, così lontana …

Tutte le sere, nel suo Regno, si era addormentato con la convinzione di conoscere l’amore ed ogni mattina, Erik, aveva aperto gli occhi con la speranza di viverlo appieno. Eppure, ora, non sapeva più cosa volesse dire amare.

Era confuso, come un ragazzino alle prese con i primi sentimenti importanti, non riuscendo a gestirli a causa della scarsa esperienza.

Ma poi qualcosa proruppe nella silente attesa.

Una risata amara a quell’obbiezione, una risata aspra.

Un risata finta.

Si stava forse prendendo gioco di lui?

Tremendamente fasulla.

«Non sei né il primo, né sarai tantomeno l’ultimo a chiamarmi con un altro nome …» era come se un cumolo di neve fosse piombata sul suo corpo, fredda e paralizzante lo stava avviluppando nelle sue volute di ghiaccio.

Né sarai l’ultimo, questa è una realtà contro cui non puoi combattere, Erik. E nemmeno io.

C’erano solo le sue braccia incrociate al petto, i suoi occhi resi esili da un’espressione contrariata e la bocca tirata in una linea retta terribilmente seria.

Non triste o arrabbiata.

Seria.

«… io sono diventata …» deglutì cercando la giusta metafora che la rappresentasse. Cosa meglio del vile contraccambio che serviva a comperare polvere da sparo e gioielli, al pari di una vita o del dolce letto mercenario di una meretrice?  « ... una banconota, una banconota che passa di mano in mano, uno strumento, un mezzo. Un oggetto. Sono stata tante persone in dieci anni, tutte quelle che mi hanno ordinato di essere … in quel momento volevi Christine, sono stata lei. Fine della questione. Non mi offendo, non più ormai, ma ora devo essere solo Constance, non posso farmi distrarre. Siamo troppo vicini per fallire …»

Determinata e fredda, come desideravano.

 ... in quel momento volevi Christine …

Ed i piedi di Erik sentirono che sotto di essi il pavimento sembrava sgretolarsi.

Erik, puoi continuare a negare che l’amore per Christine era solo una chimera?

Un desidero irrealizzabile di un mero sogno?

Puoi affermare con sicurezza che ciò che continui a volere è lei?

Puoi continuare a giocare con i tuoi sentimenti testardi, incaponirti con la stessa caparbietà con cui ti sei convinto di come è l’amore?

Non stai aspettando solo di poter lasciare il pazzo folle innamorato di un idea a Christine?

«Se non potrò avere la mia di vendetta, giuro che avrai la tua Erik!» la veemenza con cui si pronunciò fu scagliata come un duro colpo, difficile da comprendere ma pieno del significato dell’invidia che diceva a sé stessa di provare. Posò delicatamente la mano sulla sua guancia scoperta, frapponendola a loro così poco distanti. «Ma per farlo devo essere concentrata su Constance, devo essere lei in ogni momento. E dovrò essere solo di Philippe de Chagny d’ora in poi, in modo che possiamo assicurare alla giustizia del popolo un deturpatore della libertà, la stessa che ci viene negata. Un de Chagny Erik, capisci di cosa parlo: lo stesso nome di chi ti ha privato del tuo Angelo, della tua gioia, della tua musa!»

Come lei doveva essere algida e spietata, così Erik doveva ritornare per Malice. 

Lo voleva forte e sicuro come l’aveva conosciuto al Teatro dell’Opera. Lo voleva pieno di lui, del suo genio.

Lo voleva accanto e voleva che risorgesse dalle ceneri della sua umiliazione. Dalle ceneri dell’Opera Populaire .

Lucia era la sua alleata, era Erik, il bambino fenomeno da baraccone. Malice, che era stata fino ad allora la sua rivale, rappresentava il Fantasma assassino privo di scrupoli, imperatore del suo Teatro, ed ora era piombata dalla sua parte.

Una maschera difficile da cancellarle sul volto, come lui non riusciva a separarsi da quella fisica.

Una maschera incisa nell’anima.

Passava il pollice con piccole carezze sulla sua guancia perfetta ed i suoi occhi, caldi ed imperscrutabili, saettavano tra quelli di lui e le sue labbra dichiarando un piccolo desiderio inconfessabile. Tacito e muto come il polpastrello che andò a sfiorare la sua bocca, nella silente bramosia di un’attrazione che ormai non aveva molto segreto.

E si trovò a chinarsi di nuovo su di lei, per un attimo.

Un gentile attimo di distrazione, un fremito avvertito quando si trovarono così vicini da sfiorarsi, schiacciandola contro il mobile ansante come se non riuscisse a sopportare il peso opprimente di lui.

Era difficile anche solo respirare, le ciglia si fecero pesanti calando le palpebre stanche, stremate ed incapaci di lottare.

Magari perché non voleva combattere ciò che provocava in lei Erik.

Così perso, non si avvide della mano fresca posata sulla sua guancia scoperta, scivolare lungo il collo fino al suo petto.

«Ti invidio Erik, non sai nemmeno quanto!»

La voce bassa e roca ad un passo da lui, lo fece ridestare dall’intorpidimento. Un segreto uscito come se non fosse premeditato. Una confessione questa volta sincera.

Sentita.

Sua.

Era così vera da bruciare, quasi Erik avesse posato le mani sulla lampada accesa.

La stretta s’intensificò lungo la mascella nerboruta dell’uomo, che strinse i denti quasi istintivamente cercando di porre una certa distanza per non cadere di nuovo in triste tranello del Fato.

Ma Lucia si protese in avanti, spostò addirittura il piede e fu costretta ad arpionarsi ad una qualsiasi cosa pur di non cadere tramortita dall’effetto che ora si trovava subire. 

Scomparve spaventato nel buio di quella notte lasciando un indicibile vuoto davanti a lei che si ritrovò sola.

Totalmente sola.

  

Note dell'autrice: Buonasera fantasmine! Come potevo nel giorno di Santa Lucia non pubblicare? E no! Era prorpio dovuto,inoltre il giorno di nascita della nostra eroina è proprio il 13 dicembre del 1843 quindi tanti auguri alla mia bambina!!! A parte gli scherzi con questo capitolo si conclude la faccenda dello scorso e nel prossimo ci avviamo verso la conclusione. Non so di preciso quanti capitoli si svilupperanno, però diciamo che entriamo in quelli che saranno gli eventi che porteranno alla conclusione.

Per quanto riguarda il tatuaggio che ha Lucia ha sul ventre ha un significato preciso. Inanzitutto per i Giapponesi la sede dell'anima è il ventre (tanto è vero che la forma di suicidio per preservare l'onore o per purificarsi da una colpa,  il famoso harakiri - taglio del ventre che veniva praticato secondo un rituale codificato con un taglio ad L da sinistra verso destra e poi in alto per poi essere decapitati ed evitare al morto di avere un espressione sofferente cosa non prevista nel seppuku una forma di suicidio analoga applicata per le stesse ragioni.)

Il tatuaggio non aveva solo uno scopo ornamentale: specialmente in giappone era considerato un marchio per i criminali anche se veniva fatti in maniera particolare ovvero dovevano coprire quasi totalmente il corpo ecc. Vi rimando a questa pg di Wikipedia per maggiori informazioni sul tatuaggio giapponese molto interessanti QUI.

Ovviamente quello di Lucia non è un vero e prorpio Irezumi, piuttosto un marchio per distinguerla. Questo perchè viene accusata di essere una Kitsune, uno spirito Youkai, anche se in realtà più che essere una Kitsune, ovvero un demone volpe, sarebbe un ibrido o meglio un figlio fra il demone ed un umano un han'yo di kitsune, ho deciso di abbreviare . La leggenda delle Kitsune è molto bella (come tutta la mitologia Giapponese ed Orientale) ma il motivo per cui ho scelto il demone volpe lo potete trovare nelle caratteristiche di tale demone. Ora non mi dilungo perchè la mia ricerca è stata particolarmente interessante ma lunga e più per una cultura personale. Santo Wikipedia ci assiste anche in questo caso e trovate diciamo un bel sunto QUI. Se deciderete di leggerlo capirete il perchè di un demone volpe.^^

Anche lei è stata chiamata figlia del Diavolo in qualche modo come potete vedere, mi piaceva come analogia.

Il Kanji per kitsune è questo  e diciamo che è quello che ha tatuato Malice.

Ovviamente ho adeguato alcune usanze e tradizioni per descrivere la mia storia, però mi sembra doveroso riferirvi la mia ispirazione da cosa è stata scaturita.

Spero che questi piccoli spunti e riferimenti siano graditi.

 

Vi aggiungo qui un piccolo riassunto della vita di Lucia che ho usato come risposta alla recensione di Giuly, in modo che anche chi magari non l'ha vista può beneficiarne:

"Beatrice è la sorella maggiore, ed è lei quella che subisce le violenze dal padre(forse non mi sono soffermata abbastanza su questa faccenda, se vuoi però, e soprattutto hai tempo, nei capitoli precedenti c'erano piccoli riferimenti al fatto che Beatrice proteggesse la nostra eroina dal suo incubo, - vedi metti la benda che gli Angeli ti portano i sogni e bla bla- ovvero dal padre che sgattaiolava nel suo letto accanto a quello di Lucia. Una notte quando ancora era una bambina sente dei rumori e si toglie la benda e vede quello che il padre fa alla sorella e lo sente dirle che Beatrice è il Diavolo). Il padre - se un verme simile possa definirsi padre - non riserva le stesse attenzioni a Lucia solo perchè già da piccola aveva attirato gli occhi del Monsignor Favalli, uno dei pupilli del Cardinale Antonelli (ripeto solo il cardinale è realmente esistito ed è stato lui a dare il via libera per le Stragi di Perugia, un massacro di cui la Chiesa non deve andare fiera. Tra l'altro è stato uno scandalo all'epoca, una delle tante gocce che ha portato alla presa di Roma: le guardie svizzere hanno persino rapinato i turisti che a loro volta hanno denunciato il fatto alla stampa.) che l'avrebbe voluta per sè già da bambina per farci i suoi porci comodi prendendola come protetta (capitava all'epoca che chiamassero le loro amanti protetta). Ma suo padre voleva aspettare che fosse abbastanza "matura" solo perchè sperava di ricevere in dono un bel nipote bastardo(scusa ma non c'è termine più adatto, la storia è piena di figli illeggittimi di papi che prendono potere e vengono aiutati da i loro genitori), quindi la vende letteralmente quando Lucia raggiunge i tredici anni. A quell'età si trasferisce nella residenza del Monsignore e diventa la sua amante, iniziando a mutare inquella che poi sarà Malice. Infatti si lascia convincere che sia tutto normale, riceve di buongrado i regali che le fa (come il crocefisso che porta con sé da sempre) e lei, comunque una ragazzina ingenua, la notte lo lascia libero di farne quello che vuole. Poi arriva il giorno che ascolta la sua prima conversazione politica, a sedici anni, quella relativa alle Stragi di Perugia riesce a trovare documenti, ascolta cose e si mette in contatto con alcuni patriottici che vogliono l'Unità d'Italia. Inizia a scrivere per il Piccolo Corriere Nazionale sotto l'acronimo LADL, spifferando per ben due anni tutti i crimini a cui riesce ad assistere dalla residenza del Monsignor Favalli (grazie a questa attività rivoluzionaria la Sureté la nota).
Ovviamente viene scoperta dal Monsignore che in un impeto di rabbia tenta di ucciderla. Per difendersi riesce a colpirlo con un sopramobile, ma non si ferma per collera o per disperazione fino a ridurre la sua faccia in poltiglia. Viene presa la mattina seguente, incarcerata a Castel Sant'Angelo, torturata per un giorno ed una notte cercando di farle confessare l'eresia (ho immaginato che in un carcere religioso per condannare a morte ci voglia almeno una piccola eresia o una partecipazione demoniaca)ed infine condannata a morte per decapitazione ( la ghigliottina allora piacque molto evidentemente. ^^). Il giorno in cui dovrà essere giustiziata viene prelevata da Colas e portata in Francia, dove diventa Malice la spietata assassina che conosciamo.
Per convincerla le promettono di ottenere una revoca dell'esilio anche per un giorno solo, per permetterle di compiere la sua vendetta, ovvero stecchire il padre, e lei diventa molto più che efficiente nel suo lavoro per ottenere questo "privilegio". Nella lettera scopre che le hanno tenuta nascosta la morte del padre solo per tenerla vincolata, fredda ed efficiente."

Il resto credo che ormai sia storia.

Rigrazio come sempre tutti, ma in particolar modo GiulyRedRose e Sidney Bristow.

Ora mi rimetto a voi. Con tanti bacini pieni di fantasmi Geraldini/Erikucci ...^^

I remain, Gentlemen,. Your obedient servant.

Mally

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Capitolo 13
*** CHAPITRE 12: Etonner, provoquer. Faire silence. ***


CHAPITRE DOUZE: Etonner, provoquer. Faire silence.

   

Chiunque parlasse in quel momento con sé portava notizie nefande dal mondo politico: il conflitto che imperversava a ridosso della Francia stava dando esiti del tutto inauspicabili. Raccontavano di una triste Signora, la Francia abbandonata e sola in una guerra in cui le altre potenze europee non avevano alcuna intenzione d’intingere le proprie mani, nemmeno i cugini Italiani, troppo occupati a unificare piccole porzioni di un Paese costruito a tasselli. L’Imperatore aveva agito troppo precocemente, fiduciando nelle vecchie amicizie ed alleanza date per certe anche in quell'occasione guidando invece il suo impero all'imminente suicidio diplomatico. Assieme ad esso le sconfitte si erano succedute ad una ad una, cadendo come foglie morte sui campi di battaglia. Le truppe erano quasi allo stremo ed i confini minacciati dalla stessa confusione che albergava nella corte mentre il popolo dimostrava la sua esasperazione, con i suoi giovani morti inutilmente al fronte come stendardo.

Napoleone III non aveva ereditato una nazione forte dai suoi illustri natali ma anche un visionario nazionalismo e una cieca voglia di rafforzare il suo di potere, ideologia troppo simile più celebre zio ed invece d'imparare dai suoi errori finì per compirne altri del tutto simili.

L’impero crollava, la mal gestione regnava sovrana facendo scempio degli ideali nati con Rivoluzione del 1798. Gli ideali di cui i francesi andavano orgogliosi, gli ideali  che avevano da sempre rappresentato la fierezza di un popolo pagata più volte con il sangue ottenendo la giusta libertà, gli ideali che aveva letteralmente decapitato l’oppressione e che stavano per essere del tutto calpestati ed ignorati, si avviavano alla riconquista del loro posto nel cuore del popolo.

E la Commune di Parigi era l’ultimo baluardo di un nuovo sentimento chiamato Patria.

Ma a Philippe di tutti i discorsi appena affrontati, era arrivato appena il concetto base a cui aveva il più delle volte annuito. Non gli interessava se non altro che portare a conclusione il continuo ciarlare di quell’uomo, o meglio, dell’effige imperiale che teneva orgogliosamente appuntata sul petto. Il suo pensiero, il suo corpo persino, era tutto proiettato ad altro, ai suoi progetti che rischiavano di sfumare in quel raro pomeriggio soleggiato.

Constance lo stava sicuramente aspettando, puntuale come suo solito. Sicuramente lo avrebbe accolto con uno dei suoi sorrisi raggianti capaci di scaldarlo, gli avrebbe donato un bacio leggerissimo e detto di non preoccuparsi.

Comprensiva.

Era lui a non comprendere perché non avesse ancora terminato quell’incontro sterile e privo ormai di qualsiasi significato. Non lo ascoltava nemmeno più, perché la sua mente era rivolta solo ed esclusivamente al dolce bacio che si erano scambiati sotto lo sguardo indiscreto di una luna birichina. Pallida aveva sorriso all’incontro delicato delle loro labbra, stavolta non interrotto da nessuno. Un piccolo e leggerissimo sfioramento di cui aveva avuto onore di approfondire entro i limiti della decenza.

«Stiamo affondando conte e ci siamo tutti nella barca, anche chi è fuori da questioni politiche. I prussiani sembrano siano quasi alle porte di Parigi e la guerra diventa sempre più … un suicidio …» guardava nel vuoto il conte, sentiva ancora i polpastrelli accarezzare le gote arrossate e calde, il respiro di lei sospendersi nel suo, ed il suo corpo tremare. L’amore rende un uomo troppo vulnerabile. «Avete sentito della sconfitta a Gravelotte?» per qualche istante il suo interlocutore attese una risposta che non arrivò. Pensava che fosse in sovrappensiero per la situazione politica disastrosa, invece teneva i suoi occhi di ghiaccio puntati in avanti persi in chissà quali altre preoccupazioni. «Conte? State ascoltando?»

Vi brucia la poltrona che vi sorregge conte de Chagny?

Il conte non ascoltava, ma c’erano altre orecchie pronte a captare quelle informazioni.

Madamoiselle, il conte la prega di attendere che finisca con il suo ospite. Intanto se volete accomodarvi …

Si era scoperta piacevolmente sorpresa di dover aspettare, come se le fosse stata concessa una pausa di riflessione.

No, non una pausa. Una possibilità.

Niente sarà vanificato.

Basta saper sfruttare le giuste opportunità.

Camminava indisturbata lungo la grande scalinata che conduceva al piano nobile, indifferente come altri giorni, altre mille volte in cui si era avventurata nei labirintici corridoi. Non era inusuale vedere Constance aggirarsi per la ricca Villa, cosa a cui i domestici non badavano se non per dimostrare il giusto rispetto ad un ospite del conte. Un ospite di cui lo stesso Philippe aveva raccomandato di trattare anche con più riguardo rispetto agl’altri. Un ospite che lui avrebbe voluto rendere molto più che un occupante casuale, di passaggio.

Ma Malice, no,  anzi, Lucia avrebbe soltanto voluto concludere.

Divisa.

Divisa fra il ghiaccio ed il fuoco, divisa fra la realtà e la finzione a cui era sempre appartenuta, divisa.

Constance iniziava ad essere troppo ridondante, era divenuto un fastidioso modo di fingere quello d’impersonarla.

Noiosa.

Alla noia non riusciva ad abituarsi, la gabbia che condannava le donne a passatempi ancora più tediosi della noia stessa. Era a causa della noia che spesso veniva punita da bambina, frustrate date dal sottile giunco che serviva a ricordarle quale fosse il suo posto di figlia devota e ubbidiente come i dettami della sua famiglia imponevano.

Doveva seguire l’esempio di sua sorella, di sua madre.

Sua madre.

Colei la quale si nascondeva dietro stanze, che verificava ogni volta quanto potessero essere sottili le mura in pietra della loro antica casa, quanto nulla potessero fare per attutire i singhiozzi soffocati della sua bambina. Singhiozzi che divennero in seguito un silenzio assordante, il silenzio della collera, dell’odio nascente, della rabbia, rotto solo dal rumore sottile di un fischio vibrato dai colpi infertole.

Lucia era una bambina caparbia, intelligente in maniera imbarazzante.

Diversa in maniera totale dalla più remissiva Beatrice. 

Si arrampicava sugl’alberi, correva in giardino, giocava con i figli dei domestici fossero suoi pari distruggendo abiti, illividendo e lacerando la sua pelle. Un comportamento tanto sconsiderato da ritenerla un’avventata che non aveva paura di nulla, nemmeno per la sua vita.

Lottava e combatteva, in una muta guerra che aveva iniziato in tenera età con il suo genitore. Bastarono infatti poche di quelle lezioni per mettersi contro suo padre volontariamente, solo per cercare di stancarlo nella speranza che vedendo il suo sangue rinunciasse ad altro.

Non era poi così lontano dalla verità il vecchio Della Loggia, il timor di Dio inflitto sulla schiena solo per non rischiare di deturpare il suo più cospicuo investimento. Era divenuta una delle sue missioni.

Devi imparare il rispetto Lucia.

Il peggior pazzo è quello che si maschera dietro la buonafede.

Imparerò, padre.

Imparò presto invece a sopportare il dolore, ad ogni colpo più forte, ad ogni cinghiata quando il giunco diverrà troppo esile.

Lucia non si piegava, rimaneva in piedi ed attendeva il colpo.

Una, due, dieci volte a seconda della gravità del suo comportamento.

Il padre, intransigente, pretendeva da lei la giusta indulgenza, impartita con pene corporali di cui anche lui ne faceva largo uso. Lucia sapeva bene cosa nascondeva la gamba dei suoi pantaloni, la cinghia uncinata che mangiava la carne della coscia con costanza, la stessa che aveva obbligato ad indossare a Beatrice per i suoi di peccati.

Questo le faceva sbiancare le nocche.

Se solo Dio glielo avesse concesso, probabilmente, quel cilicio sarebbe stato stretto oggetto di particolari attenzioni, atte a renderlo anche più innocuo.

Da quella notte non era mai riuscita a frenare la cospicua scia di pensieri che coinvolgevano il suo passato. Quella notte in cui la porta che lo teneva ermeticamente isolato era stata scardinata e divelta, eruttando così la marea lavica di supplizi e torture ed ora si ritrovava in balia dell’onda di fuoco che si riversava sul fianco della montagna, inclinando case, costruzioni e coprendo di cenere i visi della gente pietrificati per sempre nella loro quotidianità.

Imparerò ad odiare e a sopportare il dolore.

Non ho mai dimenticato.

Rivedeva in ogni luogo i visi protagonisti dell'ormai ininterrotto fiume di ricordi.

 Il volto di una madre complice con il suo silenzio, il volto di un padre padrone che non aveva insegnato loro ad amare, il volto mesto di sua sorella.

Li ritrovava sempre, costantemente, contribuendo alla sua voglia di scappare definitivamente.

Sempre vivi.

Sempre presenti: quando Madame Bonnet l’aiutava a prepararsi stringendole il corsetto fino a farla spirare, quando Colas cercava d’impartirle ordini ormai totalmente ignorati, mentre osservava la candida facciata neoclassica della villa de Chagny.

E lei che aveva girato il mondo, conosciuto culture, imparato lingue, imparato ad essere la plurisfaccettatura di un ventaglio di persone ed identità, non sarebbe sopravvissuta ad una vita anche solo simile. Magari divenire come una di quelle statue inespressive che si ergevano sulla balaustra della grande terrazza.

O come sua madre, spettro di sé stessa.

Sposata ad un uomo che odiava.

Sposata ad un uomo che si era macchiato dell'eccidio delle sue figlie, senza che lei potesse ribellarsi.

Vivevano in casa come separati, con mansioni che si svolgevano ai lati opposti della propria abitazione e con camere da letto diverse. Fra di loro c’era un contratto e basta.

Piuttosto che ad un vita simile avrebbe vissuto sola, in fondo era ciò che meritava.

Lo aveva decretato suo padre, lo aveva decretato il suo spirito ribelle alle convinzioni che l’avrebbero vista una donna sposata alla sua età, lo aveva decretato Dio con la sterilità del suo ventre in cui, in tanti anni di letti ed effimeri amori, non vi era mai stato accolto il germoglio di una nuova vita.

Non era tempo di ripensamenti. Non era il momento di ricordare la più grave colpa del suo corpo impuro.

Ora doveva limitarsi ad ascoltare, come quel giorno in cui iniziò il suo lento declino.

Il secondo piano della Villa era quasi totalmente occupato da tre stanze limitrofe fra loro. Ognuna di esse accoglieva scrivanie, divani, librerie. Una infatti era la cospicua biblioteca in cui Constance era libera di entrare, dove troneggiava imperioso l’immenso possedimento di scritti che il conte custodiva fra quegli scaffali.

Sembravano variopinte pietre preziose, incastonate tra il legno scuro cesellato come un gioiello. Se si passava un dito nemmeno un granello di polvere avrebbe macchiato il bianco guanto indossato, non avendo il tempo di depositarsi.

Non che il conte fosse un amante di letteratura, ma l’ostentare la propria cultura lo rendeva superiore agl’altri.

Una cura persino eccessiva, maniacale, che Malice apprezzava alquanto da avida lettrice quale fosse. Una mente golosa come la definiva spesso il suo giovane precettore, recettiva e di larghe vedute. In realtà l'unico artefice della sua curiosità era sempre stato lui, il suo maestro che le aveva insegnato a pensare piuttosto che a ragionare per dogmi.

L'odore della carta stampata aveva come un effetto calmante, un anestetico per la sua ormai straripante rabbia ed i suoi sentimenti trabboccanti, il tutto alleggerito da un sospiro rasserenato quando riuscì ad enetrare nella biblioteca che sentiva quasi totalmente sua.

La lettura. L'unica cosa che l'aveva mai appassionata, l'unica a cui mai avrebbe rinunciato.

Ma il tempo dei sollazzi era terminato da una richiesta, troppo esplicita. La Sûreté iniziava a scalpitare, voleva il conte servito su di un piatto d'argento con un contorno a cui lei tentava di non fissarsi. Lo avrebbe avuto, come sempre d'altronde, anche se c'era quella strana sensazione a governarle l'anima, un'intuizione che pungolava il suo sempre controllato raziocinio.

Basta.

Aveva lavorato per giungere fino a quel punto, aveva sudato per prendersi una fiducia totalmente immeritata. Aveva oltrepassato confini, accettato che un uomo la scoprisse per incastrare Philippe e trovarsi indisturbata ora, in quella casa, in quella camera dove tra quei maestosi scaffali ancorati al muro, vi era un prezioso remoto ingegno.

La piccola chiavica si trovava in un punto preciso, dietro la fila di dorsi che si ergevano eretti come tanti soldatini impettiti, si facevano forza del loro reggimento di copertine rigide intessute nelle più disparate forme e colori. I caratteri dorati, i piccoli ornamenti a segnare cornici e titoli delle più eterogenee lingue attutivano quella che un tempo era una grata posizionata ad un quarto della muratura partendo dal basso. Un vecchio modo per ovviare ad una areazione altrimenti troppo occlusiva in una dimora vecchia di decenni. Le pareti antiche non mascheravano quello che un tempo era un errore costruttivo e divenuto totalmente inutile dopo le varie ristrutturazioni attraverso il passaggio del secolo e il surclasso della moda architettonica.

Bucava la parete permettendo il passaggio dell’aria, probabilmente quando quella stessa stanza non esisteva, creando un clima meno torrido in estate. L’aveva notata in uno dei vecchi progetti dove i suoi occhi avevano passato intere notti a stancarsi, fin quando non dimostrava a Colas di aver imparato ogni singolo angolo, ogni singolo cambiamento, mentre bendata ripeteva ad alta voce la disposizione della Villa.

Al centro della stanza studiò approfonditamente ogni parete osservando la disposizione rispetto a finestre e strutture, proiettò nella sua mente ogni sezione, ogni scritto, ogni progetto visionato. Spogliò quella stanza del futile arredamento, contando i passi dalla porta alla finestra, fino agl'altri punti di riferimento. Le quattro mura attendevano solo il suo responso e fu nella terza scaffalatura, al terzo ripiano, al terzo libro disturbato del suo riposo che trovò un piccolo angolo in metallo grigio.

Scostò velocemente gli altri tomi adagiandoli rispettosamente su di una delle scrivanie e presto lo scaffale venne reso totalmente libero.

La grata era coperta da una piccola porticina anch’essa in metallo, sotto un sottile strato di polvere. Un piccolo chiavistello ne assicurava la chiusura e una macchia di ruggine iniziava il suo lento processo di logoramento proprio all’attaccatura del cardine. Probabilmente non veniva oleata da un’infinità di tempo.

Maledetta sfortuna!

Spostò delicatamente il chiavistello cercando di non fare eccessivamente rumore e tentò di aprire la porticina senza risultato. L’ossidazione era molto più radicata del previsto ed opponeva un'altera resistenza contro persino alla testardaggine di una persona come Malice.

Le era rimasta l’unica soluzione, pregando Dio che nessuno dei domestici o il conte stesso la cogliesse in fallo a causa del rumore.

Le serviva solo un martello improvvisato, un oggetto qualsiasi che non esagerasse con il chiasso.

Un fermacarte ad esempio.

Un fermacarte coperto dalla sciarpa che portava al collo per attutire il suono.

Un fermacarte che andò a cozzare contro il kogai sfilato dall’intricata serie di trecce che Pilar le aveva gentilmente acconciato.

Un fermacarte ed un colpo.

Un colpo preciso e ben assestato.

Un altro.

Un altro ancora e la macchia di ruggine lasciò capitolare la polvere sotto di essa.

Un ultimo colpo ed il chiodo all’interno del cardine divenne un inutile inezia.

Le sue mani accolsero la caduta della porticina come un materasso di piume e subito dopo si impegnò a sistemare i libri in modo che nessuno si accorgesse del suo operato e la porticina sotto il tappeto che ricopriva quella stessa scrivania dove vi erano stati adagiati i libri.

 

Conte … che n … vi si…ete mai tanto interes … politica …

Le parole si facevano più chiare appena era tornato a regnare il silenzio, ma erano pur sempre suoni metallici e lontani attutiti dalla stessa porticina ancorata sicuramente dall'altro capo dell'apertura.

Sembra che si stia and … do incontro ad … Riv … zione del 1789. La sto … lle rivol … popolari i pri … egi nobiliari non hanno valore … la testa fi … ce in un c … to di vimini …

Bocconi di un discorso, nulla di definito in maniera assoluta, frasi mangiate dall’eco e dalla sporcizia accumulata nel piccolo canale. Persino gli uccelli campagnoli, che il più delle volte provavano la loro ugola, sembravano aver smesso di cantare per cercare di udire qualcosa in più dal soliloquio dell’ospite il più vissuto come un brusio in cui la voce di Philippe interveniva quasi distrattamente.

Poi, ad un tratto, si concluse con un fruscio, come di carta sfregata tra le mani. Il ticchettio di legno contro legno e qualcosa di argentino che scattava.

Conse … te quest…, è di vitale … portanza.

Un meccanismo, lo stesso rumore di una scatola cinese che cela i segreti che tanto bramava di conoscere.

Ed i discorsi ripresero senza un vero filo logico.

Malice riuscì a capire abbastanza però per sapere come la situazione di Parigi fosse mutata ultimamente.

Molto più di quello che lei credesse.

Molto più di quello che lei sapesse o che le facessero sapere.

Il primo seme del dubbio ha sempre la connotazione di un veloce cambio della brezza, il voltarsi del vento.

«Avanti … non tenevi altro … ditemi chi siete …» si trovò a sussurrare troppo assorta per avvertire l’aria cambiare di direzione e la corrente mutare.

Il lieve tonfo sordo della porta, la serratura che era scattata e qualcuno l’aveva ascoltata parlare con sé stessa.

«Madamoiselle Saint – Simon, cosa ci fate qui?». Una voce giovane, un’intimazione quasi con la sua domanda.

Voltati e sorridi, Constance. Ora!

Si voltò.

Sorrise.

Raoul se stava in piedi pronto ad uscire evidentemente, con la sua marsina allacciata e i guanti incalzati sulle mani.

Solo il giusto sangue freddo, la giusta certezza nelle giuste parole.

Ed il libro che ancora teneva tra le mani le sembrò la Divina Provvidenza che imponeva la sua mano benedetta sopra la sua testa.

«Buongiorno visconte, volevo ingannare il tempo nell'attesa di vostro fratello con una lettura. Spero non vi dispiaccia …»

Raoul si mosse, qualche passo per permettersi di osservarla meglio da sotto quelle ciglia leggermente socchiuse. La fissava insistentemente, guardandole fermo gli occhi, come se cercasse nello specchio dell'anima qualcosa al di là delle sue infingarde parole. Non le piaceva affatto come la stava studiando e come si muoveva, sembrava un serpente che viscido si spostava nello spazio stringato tra due tronchi.

 Era vicinissimo. Quasi poteva sentire il suo fiato sul collo.

Ed aveva come l'impressione che vi fosse scritto tutto sul suo volto. Sentiva la penna muoversi sulla pelle tirata in un sorriso falso del viso, incidere la parola colpevole, gridando apertamente che era una falsa ed una bugiarda.

Le vie di fuga sembrarono scomparire, le pareti chiudersi improvvisamente su di loro, oltre le loro teste.

Raoul continuava a guardarla e lei a sentirsi a disagio, senza però dimostrarlo ormai abituata a sentirsi alle strette. Almeno tentava a mantenere un'espressione neutra, o quello che ne era un abbozzo, concedendosi solo la freddezza di agire tempestivamente nel caso si fosse accorto del suo trucco per ascoltare i discorsi del conte.

Una fiera braccata agisce d’istinto. Esclude la sua mente e diventa un tutt’uno con i suoi artigli o le sue zanne.

Sulla scrivania il suo Kogai.

Sul suo polpaccio ancorato il suo Tanto.

Le pareti le concessero respiro.

Non era in pericolo se aveva con sé i suoi di artigli.

Raoul continuò ad avvicinarsi, cauto, pacato, come se sotto i suoi piedi vi fosse un letto di gusci d’uova e lui tentasse di non romperli. Assottigliò le palpebre quando i suoi occhi chiari si spostarono in basso, tra le sue mani, che strinsero involontariamente la copertina ruvida che vi era ancora racchiusa.

«Non posso che essere contento di qualcuno che sfrutta questa biblioteca, in effetti non sono un lettore accanito. Però ... permettete, madamoiselle?» ancora titubante la docile Constance, gli porse il libro.

Raoul lo prese sfiorando inavvertitamente le mani fredde della donna.

Lei spostò il piede accostandosi alla scrivania.

Il visconte osservava meditabondo il libro.

La mano scivolò sul tappeto, sul piano caldo del legno e tremò.

Tremò.

Tremò a causa della tensione nei muscoli, pronti allo scatto se si fosse accorto della grata forzata alle sue spalle, se si fosse insospettito anche di poco. 

«I dolori del giovane Werther …»

Una lieve smorfia, di stizza, disgusto. Non era evidentemente una lettura di suo gusto. Non era sicura che fosse solo quel motivo e quello sguardo, quel modo di analizzarla continuo era divenuta la più ardua fonte di disagio.

Un’antipatia a pelle.

«Non è una lettura di vostro gradimento, visconte?» chiese quasi soddisfatta che il fato avesse agito proponendogli quel libro.

Ricordava di averlo letto, più di una volta ed aveva amato il protagonista fin da principio.

Colto, raffinato, incapace di apporsi etichette morali.

Un artista, uno scrittore, come in un mondo diverso lei avrebbe provato a diventare.

Un uomo che visse le sue pene d’amore arrivando alla sua completa distruzione.            

Un uomo per sempre deluso, affranto, dall’insicurezza della sua amata.

Un uomo totale, incapace di accontentarsi di una parte del suo cuore.

Erik.

«Sinceramente non saprei decidermi …» il suo sguardo  vagò altresì fra i vari titoli alle spalle della donna come per fuggire da quello appena letto. Si soffermò un attimo troppo rapido perché se ne accorgesse anche Malice.

Così rapido che non destò nemmeno la sua preoccupazione.

Le riconsegnò il libro, increspando leggermente gli angoli delle labbra in un lieve sorriso triste.

La conferma. Non vi era bisogno di altro.

Entrambi vedevano la somiglianza, troppo palese anche per un ragazzo così inesperto da lasciarsi travolgere ancor più nel turbinio dei sentimenti.

Lui un ragazzo, solo un ragazzo molto giovane a cui sarebbe bastato poco per credere nella sua buonafede.

Almeno così pensava Malice.

«Ora che ci penso, visto che mio fratello ne avrà ancora per un po’, perché non fate compagnia con Christine? Sarà felicissima di conoscervi …»

Si pentì immediatamente al fiotto di bile che le si riversò in gola, amaro e crudele accompagnava quel nome ogni volta che ne sentiva anche solo il principio. Non era nulla paragonato al ricordo che possedeva, sembrava quasi atonale il visconte in confronto all’armonia che creava la voce di Erik nel suo modo devoto di parlarne.

Annuì inclinando di poco la testa, accogliendo il libro di nuovo tra le sue mani e nascondendo il kogai nella manica del vestito.

Si ancorò al braccio di Raoul offertole per accompagnarla. E si ritrovò a condividere con lui il breve percorso fino alla veranda del piano inferiore.

Parlarono di frivolezze, parlarono di come Raoul era grato a lei per aver convinto suo fratello ad ospitare Christine.

Parlarono di lei, lei e ancora lei.

E la nausea tornò prepotente nel suo stomaco forzato.

«Vi unirete a noi, visconte?» chiese fermandosi davanti una doppia porta ampia di vetro lavorato, cercando in quel modo di deviare la sua stessa rabbia.

L’uno di fronte all’altra di nuovo ma stavolta sembrava essere più tranquillo il visconte in sua compagnia.

«Spero mi scusiate, ma ero in procinto di uscire e non posso indugiare oltre. Devo tornare a Parigi, a quanto pare abbiamo un acquirente per il teatro …»

Era stato un colpo, vile, come ingoiare vetro.

Non riusciva proprio a scindere lui da tutto il resto. E per una volta si sentiva talmente coinvolta da non poter arginare ciò che stava realmente provando.

Rabbia.

Il teatro dell’Opera, il suo regno.

Una collera incolsuta che regnava sovrana nel suo cuore al solo pensiero che qualcuno potesse calpestare ulteriormente le macerie di quello che era stato il suo impero, a sapere di come si spartissero qualcosa che non era appartenuta a nessuno di quei burattini della società.

Lei stessa ne era un burattino.

La sua fortuna depositata in più conti era basata sui compensi ricavati dagli espropri e dai beni confiscati delle persone che assicurava alla giustizia. E avrebbe spartito con Colas altro denaro alla fine di tutto, denaro che non le apparteneva e che non avevano diritto di appropriarsene.

Ipocrita!

E poi un dubbio, doloroso che le balenò in testa squarciando come un fulmine in cielo.

«Sapete chi sia l’acquirente?» la domanda le uscì involontariamente, una curiosità sputata, incapace a trattenersi. La voce barcollò, la gola emise un lieve gemito strozzato sull’ultima parola pronunciata guadagnandosi di nuovo lo sguardo sospettoso del visconte, il quale si limitò a scuotere il capo in segno di diniego.

Negli occhi della donna sembrò passare un’infinità di pensieri contemporaneamente.

Troppe domande a cui rispondere, troppe. Sapeva anche che di Colas non poteva fidarsi, così come delle sue risposte aleatorie.

Non poteva fidarsi di nessuno tra le file dei suoi presunti colleghi, quelli che si vantavano di essere la sua famiglia.

Qualcuno voleva acquistare il Teatro dell’Opera ridotto in cenere.

Perché ora? Perché quando incalzavano le richieste della Sûreté di concludere il prima possibile la faccenda?

Che avessero già iniziato?

C’era qualcosa di sbagliato, di nuovo quella strana sensazione di essere caduta in errore mentre il visconte bussò alla porta, spazzando con quel gesto una serie d'incertezze che presto sarebbero riaffiorate.

Rispose una voce cristallina, delicata persino nel invitare chiunque vi fosse.

Una voce che provocò un brivido lungo la schiena della donna ed un fremito delle labbra.

E lei, che aveva passato un intera notte a chiedersi cosa una bambina potesse dare ad un uomo compiuto, ebbe la sua risposta.

Aveva semplicemente detto avanti,  e sembrava che mille campanelle avessero preso a suonare a festa con trillanti e gioiosi suoni che si accalcavano alle porte del pensiero.

Sorridi Constance davanti a lei che ti osserva speranzosa, dimentica quella notte, non puoi odiare per una cosa simile una persona  che non conosci.

Prima o poi ti saresti imbattuta in lei, sapevi che ti saresti scontrata con i suoi fantasmi.

E sei stata tu a convincere Philippe a portarla nella sua casa.

Sono stata io a dirgli che sarebbe stato un modo per avere Raoul più vicino e per acquietare almeno in parte le voci che girano a Parigi su suo fratello.

«Raoul pensavo fos ... si uscito ...» ogni pensiero le si era bloccato a metà, trovando al suo braccio una di quelle signore raffinate che spesso aveva visto sedute nei palchi del Teatro dell'Opera. Una bella, giovane donna, con grandi occhi castani che non accennavano a staccarsi da lei.

Christine cercò di sistemare le pieghe del vestito sentendo su di sé lo sguardo penetrante della donna esaminarla, quasi i suoi occhi potessero rivelarsi delle autentiche mani. Ed aveva cercato di schiarirsi la voce per non farla sentire come quella di una bambina un po' troppo cresciuta.

Perché quello si sentiva scontrandosi con il viso di lei.

Era pur sempre la figlia di un violinista, una cantante, una ballerina che proveniva dal dissoluto mondo dello spettacolo dove realtà e finzione trovavano punti estremamente concilianti. Quello in cui si era imbattuta invece era un mondo ostile, incapace di concepire anche il benché minimo errore.

Se solo avesse saputo.

Raoul percepì nella sua futura sposa ogni disagio e sapeva che spettava a lui a scuotere lo stallo creato dall'incontro tra le due. Anche un cieco si sarebbe accorto di come rappresentassero le due antitesi, l'una e l'altra contrapposte.

Constance con le sue vesti di un blu notte intarsiate di giallo sulle sue forme sviluppate, colori che quasi sarebbero sembrati sfrontati su di una qualsiasi altra donna con un portamento meno regale.

Christine avvolta da vaporosa e sottilissima organza chiara, che morbida si adattava al suo corpo ancora acerbo, intimidita che cercava di sistemarsi per fargli fare una figura degna del suo titolo nobiliare.

«Christine, permettimi di presentarti Constance Saint - Simon.»

Malice ricacciò le ostilità appena venne introdotta dal visconte, alzò il suo mento in direzione di quella ragazza che, appena, avvertito la presenza di una ulteriore persona, si trattenne dal lanciarglisi contro.

Era quello il suo nome.

Constance Saint Simon e con esso doveva tornare a pensare soltanto a ciò che più le premeva.

Sei una professionista, comportati da tale.

«Oh, madamoiselle Saint - Simon! Sono onorata di conoscervi ...» timidamente aveva abbassato lo sguardo, le gote si erano ricoperte di una leggerissima fuligine più scura del suo incarnato d'avorio e la voce affievolita senza perdere di splendore.

La donna lasciò il braccio di Raoul avvicinandosi alla bambina timida che aveva di fronte, le prese il mento e lo sollevò.

Bambina, sei una bambina che non ha colpe. Ed io un burattino nelle mani di molti.

Dopo un momento nel quale riuscì a deglutire il misterioso bolo fermato a metà della sua gola, s'impose un'espressione accomodante mentre gli occhi spaesati e confusi della bambina che aveva di fronte osservava la bambola più grande che avesse mai visto.

«E' un peccato che questi splendidi occhi si nascondano dietro la timidezza e chiamami Constance ...» le dita scivolarono dallo spigolo gentile del viso della fanciulla in una piccola carezza, prima di congedarsi definitivamente.

Christine sembrò sciogliersi in quella richiesta guardò di sfuggita Raoul il quale si trovò soddisfatto della sicurezza che aveva appena infuso la donna alla sua futura sposa.

«Scusatemi signore, ma ora devo proprio andare ...» una nuova fretta colse il visconte, forse più impaziente di lasciarle sole e magari far trovare in Costance a Christine una nuova amica. Era stata costretta a tagliare molti dei suoi rapporti decidendo di sposare lui, rapporto già combattuto per la sua natura complessa. La società imponeva molti rigidi comportamenti, non era vista di buon occhio una viscontessa che s'intratteneva con una ballerina o con una direttrice del balletto. Sfiorò con le labbra in un casto bacio la fronte della sua amata e dedicò lo stesso galante trattamento al dorso della mano di Constance. «Aspetterò la vostra opinione sul libro madamoiselle!»

«Non mancherò di farvela avere, allora ...»

Uscì vittorioso e contento, il soldatino che aveva appena ottenuto il suo primo conflitto. Segretamente sperava che un po' della forza di Constance, o qualsiasi cosa fosse ciò che suo fratello aveva notato in lei, s'infondesse in Christine. Dalla sera del Don Juan l'aveva vista cambiata, il suo volto più spento e percepiva le colpe attanagliarla, colpe che lui riteneva non dovesse sentire sue. Non l'avrebbe mai ammesso con Christine, ma ogni giorno desiderava di leggere la notizia di un qualche cadavere trovato con il volto sfigurato a putrefarsi in un angolo di Parigi, pentendosi subito di averlo pensato perché sapeva che ne avrebbe comunque sofferto.

Ma era un uomo, come la persona che aveva cercato di rubargli la sua Christine.

La sua dolce e piccola Lotte il cui suo unico peccato era la genuinità del suo cuore e la sua orba fiducia in chi aveva approfittato di lei, del suo canto per ricoprire un vello d'oro.

Una nuova amicizia, sana e che non poteva ricollegare alla sua vecchia vita non poteva che giovarle.

Ed ora, in quella veranda circondata da vetrate, erano sole finalmente.

Le facce incredibilmente distanti di una stessa medaglia.

Malice ebbe la conferma che i suoi ricordi non la ingannavano. Era bella, molto più che bella e la sua voce era qualcosa che lei non avrebbe neppure sognato.

Bella, come non sarò mai.

Innocente e pura, come non sono mai stata.

Giovane cone non sono più.

Con la musica a cantare per lei.

La musica a risuonare tra le sue labbra vellutate, una voce da Angelo ...

Avvertì il glaciale metallo del suo fido compagno accarezzarle la pelle dell’avambraccio, come la dissoluta mano di Lucifero che ti tenta con allettanti promesse che sai non manterrà. Le suggeriva falsamente quanto facile sarebbe stato il liberarsi di quel nome, quella ossessione piombata anche su lei come una maledizione.

Un freddo gelido che le bruciò di tentazione.

Un sentimento logorante e distruttivo.

Un sentimento che si negava, impossibilitata a crederci per la sua natura.

«Posso sedermi, cara?»

«Certo, madamoi ... scusate ... Constance ...» si corresse immediatamente al bonario sguardo di rammarico che le aveva dedicato la donna. Ed ancora quel brivido caldo lungo la schiena percorrere di nuovo il suo incedere verso il basso. Forse stava avendo l'interpretazione migliore da mesi, una di quelle in cui sei talmente immersa da scordarti chi fossi realmente, ma era macchiata da quel modo di fare che sembra pendere da quel lato sbagliato di lei. Malice era affacciata derisoria al parapetto e lanciava suggerimenti sbagliati alla povera Constance svagata ormai da quella strana presenza.                                 

«E posso chiederti di evitare certi formalismi, mi fanno sentire vecchia. Dammi del tu, te ne sarei infinitamente grata ...»

Quando Constance si sedette Christine ebbe l'impressione di essere un piccolo rospo goffo.

Anni di danza non le avevano dato neanche la metà della leggerezza con cui si muoveva quella donna.

Una leggerezza che possedeva persino nel versare il tè con una grazia e delle movenze che sembravano provenire da una favola esotica.

«È dura non è vero?»

Christine interpretò quella frase come un atto di comprensione, quasi che fosse un input per qualcosa di più confidenziale, colei la quale fosse capace di capire il suo stato d'animo. Si trovò ad annuire senza emettere un solo suono di assenso, nemmeno uno. Era così stanca di sorreggere la maschera da perfetta promessa sposa del visconte.

«Non immagini nemmeno quanto ...»

«Ed invece sì ...» disse Malice quasi con stizza, mentre piegava la teiera sulla tazza lasciando che il suo vapore confondesse quasi la sua affermazione in una nuvola fumosa. La giovane sembrava non capire, sempre più smarrita con gli occhi spalancati di fronte al modello di perfetta signora con cui non riusciva a confrontarsi nemmeno lontanamente, di cui aveva sentito intessere le lodi da parte di più di una persona, di cui poteva ammirare virtù e beltà. «Sono figlia di borghesi arricchiti, sono una donna di quasi trent'anni, non sposata, che vive con il fratello. Un po' fuori dal coro, non è vero? Vedi, mia bella Christine, per quanto i fratelli de Chagny sembrino l'emblema di una nuova nobiltà, è ancora un mondo popolato di vecchi baroni bigotti. Trovare posto in tale mondo che non vuole accettare la diversità è difficile per chi come noi non ha avuto il privilegio di nascere secondo i canoni di una ristretta cerchia di eletti.»

E mentre con un’ironia pungente, amara, Christine sentiva riassunta la loro situazione, si trovò il piattino con il tè vicinissimo, quasi sulle sue mani.

Si accorse di aver sbagliato tutto.

Le frasi, i modi, tutto.

Lei avrebbe dovuto versarle il tè, da ospite avrebbe dovuto porgerle il piattino come Constance stava facendo, invece d'incantarsi con i suoi ipnotici gesti e con le sue parole affilate. Non ricordava nemmeno cosa stesse facendo prima che entrasse.

Il tavolo imbandito da fogli e buste, il calamaio con la penna appoggiato da un lato ed i pensieri volati chissà dove per chissà quanto tempo.

Stava solo facendo disordine.

A cui avrebbe rimediato al più presto, forse compiendo qualcosa di giusto,

«Mi - mi dispiace Constance, perdonami io ...» le piccole mani si muovevano nervose, cercando di raccattare la carta e sistemarla al meglio che poteva. Altre due mani si erano posate sulle sue fermandole.

Gli occhi delle due si scontrarono e le esili spalle della soprano ebbero un sussulto.

Nella parte più remota di sè aveva avvertito ciò che solo lei e pochi altri potevano percepire: due pozze scure in cui annegava il baratro tetro di un mondo oscuro, qualcosa che aveva già sentito dentro di sé, qualcosa che c'era in quella donna più bassa di lei ma che aveva un potere inconfondibile sulla sua volontà.

Lo stesso effetto, della sua voce che continuava a tormentarla, di notte nei suoi più torbidi sogni.

Nessun incubo se non quello del rimorso di aver fatto soffrire ancor di più una creatura di Dio ferita. Non aveva avuto nemmeno la compassione d'infliggergli il colpo di grazia. 

Un senso di smarrimento che fece immediatamente irrigidire la donna, come se avesse colto nel loro scambio muto ogni pensiero della bambina. La stessa vertigine che aveva visto nella direttrice del balletto quando fu lei a scavare nel suo sguardo.

La somiglianza tanto decantata da Colas, diveniva pericolosa. E più Lucia conosceva Erik, più quella piccola infame scalpitante recalcitava ribellandosi a tornare al suo posto, più Malice faticava a tenere alta la guardia e a mascherarsi.

Non vi era cuio a poter nascondere un animo corrotto.

Solo una fittizia dolcezza, una dolcezza fasulla, ma che alla giovane cantante sembrò la più sincera dopo mesi.

«Non devi scusarti con me, non mi piace giudicare e sono piuttosto restia a seguire rigidamente l'etichetta come avrai notato.»

La fiducia di una giovane ingenua.

L’avevano creduta un Demonio in Giappone, ingannatrice e mutevole come lo specchio della luna che cambia la sua faccia ad ogni quarto.

La gente voleva questo da lei.

Ciò avrebbe ottenuto.

Imparerò che l’Inferno è un piccolo mondo. E che non esiste posto peggiore della vita terrena.

Imparerò la rabbia, il rancore, padre.

Imparerò che la speranza non esiste madre.

Mi avete resa incapace di amare, io posso solo odiare.

Ma quello era odio?

Era solo l’istinto alla rivalsa che la spingeva a detestare la Daaé?

Il volerle disegnare con una cicatrice un sorriso perpetuo sul suo viso  perfetto ed intonso, era puro e semplice odio?

No. Non era assolutamente odio.

Gelosia. Pura ed irrefrenabile. Di quelle che non finisce mai di prenderti e percuoterti come la pelle di un tamburo, come l'epicentro del terremoto che si muoveva in lei, nel suo animo, nel suo cuore.

Concentrati.

Era lì grazie a Malice e parlava con lei, si confidava esternando quello che da mesi si tratteneva dal dire.

Era lì e cercava il suo appoggio, ci provava come il rispetto che si vuole ottenere per l’ammirazione nutrita nei confronti di un fratello maggiore. Apriva i suoi bottini, uno ad uno con la complicità che aveva appiccato con decise scintille contro la paglia. Le disse ogni cosa come se in lei fosse riuscita a trovare finalmente una nuova luce, strana, diversa ma la prima oltre a Raoul.

Non so perché ti sto dicendo tutto questo.

Temeva di angustiarla con i suoi tormenti e le sue paure.

Il non essere all’altezza, il non essere abbastanza, il non essere.

Ma poi avevano cambiato il discorso, volto verso cose più gioiose.

Raoul, la felicità che contornava il loro rapporto, nonostante tutto. Nonostante al mondo, disperso per quanto ne sapesse, l’uomo  che le aveva dedicato anima e corpo, a cui aveva sacrificato un’intera vita, che lì’aveva accolta nel tenero abbraccio della sua voce e della sua devozione era distrutto per lei.

Un uomo che ormai veniva cinto dal sangue delle sue ferite morali.

Un uomo che non riusciva a dimenticarla, che tentava con tutte le sue forze di spezzare le catene che gli cingevano il cuore e che, invece, invocava il suo nome possedendone un’altra.

Erik.

Avrebbe dovuto smettere di pensare al suo nome, al suo viso sconvolto e deturpato in ambo le parti a causa sua. Doveva essere quello che all’inizio era: un qualcosa d’indefinito, un compito, nulla più.

Cosa era divenuto invece? L’ultimo appiglio per dare uno scopo ad una vita altrimenti inutile? Un tergiversare? Una distrazione?

Concentrati.

Ripeteva nella sua mente, mentre manteneva un’amabile conversazione con quella ragazza di contro alla fatica che faceva dal rigetto che sentiva montarle nel petto.

Presto avrebbe dovuto congedarsi persino da lui, non poteva - non doveva – concedersi il lusso di affezionarsi ad una persona per quanto miserabilmente vicina fosse stata la sua esistenza.

Fu come masticare sabbia ed ingoiarla senza un sorso d’acqua.

Presto, molto presto non ci sarebbe stato più un lui.

Senza una ragione apparente.

Condannato a causa sua, un bene troppo prezioso, una donna capace di fare salotto mentre sgozza qualche maiale politico.

Concentrati.

I minuti assieme erano volati, almeno per Christine. Il progressivo crescere delle piccole risate a fior di labbra, l’apparente affabilità della donna non facevano altro che spianare la strada.

Tra un sospiro di troppo ed un pensiero volato fuori dalle labbra, l’annuncio che presto avrebbe dovuto organizzare la festa per ufficializzare il proprio fidanzamento senza nemmeno sapere da dove iniziare.

Raoul è tanto fiducioso, ma so che non accetteranno l’invito da parte mia. Sono solo una ballerina e una cantante per loro, gente da disprezzare  …

«E questi sono solo vecchi annoiati, che non hanno altro di meglio da fare che chiacchierare sull’argomento in voga. Passerà anche l’interesse scaturito dall’intera vicenda dietro l’incendio del Teatro dell’Opera»

Non ci sarebbe stato niente di più invitante nel pugnalarla alle spalle quando l'avrebbe creduta un'amica.

Non esiste torturatore più sadico in natura oltre l’uomo.

Non esiste un cacciatore eguagliabile.

Christine il topo, la preda.

Malice il gatto, il cacciatore.

«Hai solo il bisogno di aiuto …»

Il cacciatore sa cosa vuole la sua preda e ne prepara il boccone più ghiotto solo per attirarla a sé.

Il topolino mangia la briciola ignaro, non sente gli occhi gialli illuminarlo.

Ecco che il gatto si accuccia dietro il fieno, si acquatta e respira piano, piano non vuole farsi scoprire.

«… so anche chi potrebbe aiutarti in questa piccola impresa …»

Il topolino si avvicina al suo carnefice, non sa che lo sta aspettando.

Il gatto si nasconde ed ancora attende paziente, non c’è per il topolino, è un Fantasma.

«… io.»

Il topolino non si accorge nemmeno di dove si trova, tenta solo di scappare; il gioco inizia, dolcemente, crudelmente, non per fame, ma per diletto.

Il topolino è rimasto senza parole.

«Certo sempre che tu lo voglia Christine!»

Il gatto ha la sua preda tra le zampe.

Il gatto invece ne ha troppe da spendere.

Lo lascia. Giusto il tempo di fargli credere di essere libero.

«Io, non saprei come ringraziarti. Stai facendo così tanto per me, io veramente non so …»

Lo agguanta nuovamente con i suoi artigli affilati, lo tiene stretto sentendolo muoversi nel tentativo di sfuggirgli.

Il topolino s'inganna facilmente.

«Prima con Philippe, ora con la festa … veramente non so come ringraziarti.»

Lo lascia.

Sorride.

«Ragazza mia, in te vedo molto di me …»

Bugiarda!

«Quando avevo la tua età e mi trovavo di fronte ai tuoi stessi problemi, quando combattevo per farmi accettare, avrei pagato tutta la mia fortuna per avere un buon sostegno. Ma ora, ma chérie, dobbiamo trovare un modo di sorprendere i nostri ospiti e farli tacere definitivamente, oppure fargli parlare di altro.»

Lo riprende.

Fin tanto che perde l’interesse scaturito e il gatto annoiato del gioco lo finisce schiacciandolo definitivamente.

Il corpo del piccolo topolino giace inerme da una parte, divenendo solo carne in putrefazione.

«Hai già qualche idea.»

Ma era troppo presto per questo.

«Sono un vulcano di idee …» Le sue mani sulle sue, nella voce un scia bollente che percorreva il corpo della giovane cantante nella strana sensazione di averla ascoltata per un’intera vita, nello sguardo la malizia di cui portava il nome, occhi menzogneri che offrivano grandi speranze, occhi di una donna ferita.«… ed adesso descrivetemi alla perfezione la Masquerade che c’è stata prima della sera del Don Juan

Note dell'autrice: Salve salvino! Che faticaccia questo capitolo, oltre che il dilungarsi fra tre scene diverse oltre che l'aggiustare a livello temporale la storia (scusate io non ho trovato alcun riferimento ai mesi in cui si svolge il film, quindi ho solo integrato ciò che accadde nel 1870 in Francia. Mi scuso ancora per eventuali errori, ma era necessario un certo adattamento) ci sono le presenze moleste. Allora che dire: diamo il benvenuto alla tro...ehm pardon... alla cantante! Ah mi aspetto i pomodori perchè escluso Colas ci stavano tutti gli antipatici. Oltretutto non vi era neanche un po' di presenza del Master, povero ti ho trascurato. bacino! Comunque se non si fosse capito a Malice non stanno molto simpatici i futuri coniugi DeChagny, chissà come mai eh eh!!!

Christine, per chi non l'avesse capito ora vive alla Villa con Philippe, convinto da Constance. Le vere ragioni per cui l'ha voluta lì sono altre nella mia testa ma lascio a voi l'infausto compito d'indovinare cosa la mia testolina bacata ha partorito.

Oddio penso di aver detto tutto: Ringrazio GiulyRedRose e Sidney Bristow per la loro assidua presenza!

Un bacione a tutti coloro che leggono!

Serva vostra.

Mally!

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Capitolo 14
*** CHAPITRE 13: Le froid de la mémoire. ***


Note dell'autrice extra: Cof! Cof! No, non è un miraggio se ve lo state chiedendo ... sono tornata. Il ritardo è dovuto ad una grave malattia detta morte del computer con conseguente ricerca dei back up dei miei appunti ecc, salvataggio dei capitoli precedenti e successiva sistemazione degli stessi. Avevo scritto anche dei capitoli extra che forse riscriverò in maniera tutta diversa (a meno che non riesco a smontare l'hard disk per tempo). Mi rendo conto che il tempo trascorso vi può aver decisamente scandalizzato (in tema vcon il prox capitolo) però vorrei aiutarvi con un piccolo suntino delle puntate precedenti:

Dopo due giorni dal rogo dell'Opera di Parigi, Erik torna alle macerie del suo teatro dove viene catturato da due loschi figuri, una donna, Malice, ed un uomo, Colas. Entrambi appartengono ad una polizia segreta chiamata La Surete e vogliono coinvolgerlo nella vita politica di Parigi facendo leva sulla sua rivalità con i de Chagny. Infatti Philippe, fratello maggiore di Raoul, sembra sia coinvolto nei complotti imperiali per bloccare l'ascesa della Commune.

Erik si troverà a dover rivaleggiare con una personalità molto simile alla sua impersonificata in Malice. Infatti la mercenaria assassina inizierà con lui un viaggio alla riscoperta di sé stessi ceercando di primeggiare sull'altro, finendo poi in un coinvolgemento sentimentale turbato e poco chiaro fina dall'inizio, soprattutto perchè il fantasma di Christine sembra non voler abbandonare la testa del Fantasma.

Non aiuta la permanenza della giovane cantante alla villa dei de Chagny e la successiva amicizia con Constance - la borghese padrona del vigneto limitrofo alla proprietà del conte de Chagny-, che altri non è Malice.

Penso di aver detto più o meno tutto.

Spero che sia una sorpresa gradita.

Un bacione ci vediamo in fondo.

 

CHAPITRE TREIZE: Le froid de la mémoire. 

 

Se ne stava immobile di fronte a quella porta della quale temeva sempre la risposta, attendendo che quell’attimo infinito passasse incolume. Madame Bonnet le aveva detto di avvertire monsieur Le Masquet e quando aveva provato ad opporsi, il suo sguardo gelido e il suo silenzioso rimprovero le aveva praticamente tagliato l’anima in due parti nette.

Era un evidente, no.

Il pugno esitò. Il violino si evolveva in una sublime catartica opera che da quella stanza espandeva tutta la sua dirompente forza, la sua rabbia, la sua frustrazione.

Alzò di nuovo il pugno con un rinnovato coraggio prima che il tempo concesso dall’esigua pazienza della sua governante si esaurisse miseramente.

Batté tre volte timidamente. Le note sovrastavano la sua presenza, quasi non fosse mai esistita, invadenti, prorompenti come un’onda grossa del mare in tempesta.

Batté di nuovo, con più energia quasi la prima volta fosse stata l’iniziale overture.

Un rumore sordo, secco di silenzio che tagliò l’aria attorno alla piccola ed esile figuretta della ragazza.

Un soffio gelido che le fece raffreddare il sangue e le ossa.

Attendeva un invito, un qualcosa, una voce calda e suadente che sapeva essere terrificante nella sua bellezza irretente.

Mai fare un patto con il Diavolo, subdolo ed infido rinnegatore di Dio.

Vuole sempre qualcosa in cambio. Non lasciare che ti abbindoli con il Cavall Bernat1.

Invece le risposero dei passi, calmi ed eleganti che si avvicinavano calpestando il suolo con indefinito ritmo.

La porta si spalancò quasi di scatto, improvvisamente con la sorpresa che l’atterriva nel cuore.

«Cosa volete?»  interromperlo nei suoi deliri artistici non era auspicabile, benché meno in quell’istante di tripudio delle sue emozioni. Si chiudeva su di lei con quegl’occhi imperscrutabili, ogni cosa parve tremare contro la sua ombra che avanzava minacciosa nel corridoio. La voce adirata, contrita nello sforzo di non urlare.

«Perdonatemi señor!» rispose titubante ed incerta, temendo che ogni sua parola potesse aizzare il fuoco che vedeva ardere nei suoi pallidi occhi, sfiancati dalle molte ore di fronte a fogli, carte ed inchiostro. «ElSeñor Saint - Simon chiede a che pu …»

Non le fece nemmeno finire la frase, la porta ritornò al suo posto dirompendo nel silenzio con un contraccolpo fortissimo al quale Pilar sembrò cedere barcollando sulle proprie gambe.

Ricorda è solo un uomo …

Sì, solo un uomo che amava la musica, che però terrorizzava il cuore di una giovane ingenua preda delle superstizioni. Non era mai stato molto più che scostante, quasi impercettibile con la sua presenza in casa, mai l’aveva offesa direttamente,  ma la sua maschera, quell’inquietante mezzo volto bianco, le incuteva una paura infantile che riusciva a malapena a spiegarsi. Una diffidenza naturale che nacque tra le braccia della madre nella notte, le raccontava di un’antica leggenda della lontana Catalogna.

In terra straniera fredda e piovigginosa si sentiva indifesa.

Avrebbe solo voluto tornarsene ai suoi compiti: spazzare, cucinare, pulire la biancheria. Le sue mansioni e poche altr,e che lei diligentemente svolgeva con operosità ogni giorno sotto lo sguardo arcigno di Madame Bonnet.

Non c’era errore a cui concedersi sotto la sua custodia, aveva visto un’altra cameriera licenziata per aver urtato un tavolinetto con la scopa e sfregiato il delicato legno.

Madamoiselle Álvarez, esigo la massima solerzia quando impartisco un ordine.

Non avrebbe ritentato la sorte e per quanto gli stesse a cuore il suo lavoro, in quel caso decise che il rimbrotto di Madame Bonnet sarebbe stato il male minore, senza realmente accorgersi che orecchie argute erano tese.

Orecchie intente nell’ascoltare i leggeri, timorosi piccoli passi della cameriera allontanarsi.

E lui? Avrebbe potuto ignorare il richiamo della domestica, avrebbe potuto.

Non gli era mai interessato realmente cosa gli stesse accadendo attorno mentre componeva, eppure si era concesso una pausa per risponderle, non lasciando incolume la povera giovane ragazza dalla sua mostruosità.

Riprese l’archetto e il violino e li osservò per lunghissimi istanti, quasi con dolore, seduto a fronte della scultorea scrivania invasa da spartiti disordinati e corretti in più punti.

Lui non aveva mai avuto bisogno di correggere.

Lui non si fermava mai.

Nella sua vita non ricordava di essersi mai concesso il privilegio di interrompere il flusso del fiume in piena della sua creatività, persino il bisogno di mangiare o dormire ricadevano nel dimenticatoio quando la musica prendeva vita nella sua mente.

La musica, il suo unico nutrimento e il suo riposo nella valle desolata immersa nella solitudine di una grotta umida.

Stava forse rinnegando anche la sua unica e vera compagna? La sua aria, il suo respiro, colei che unica gli permetteva di sopravvivere alla magra esistenza a cui era destinato, stava per divenire qualcosa di deleterio?

La sua musica che si divertiva a sfiancarlo, che irrompeva nella sua mente come il turbinio dai mille volti e facce che percorrevano il suo stesso sentiero. Quello stesso vortice di persone, parole, gente ora si era mutato in uno strano senso univoco in cui comparve solo ed esclusivamente un viso.

Aveva bisogno di lei, la sua musa, il suo Angelo della musica.

La sua devozione, la sua arte, ogni suo piccolo alito di vita era dedicato al suo Angelo.

Non l’avrebbe più tradita.

L’aveva rivista: un debole sguardo fuori della finestra e lei era lì all’ingresso principale della casa in cui era ospitato, rivestita di un abito troppo sfarzoso ed articolato per i suoi gusti così genuini e raffinati. Probabilmente un dono che non aveva saputo rifiutare, magari del damerino ingessato.

Così vicina eppure così lontana.

I piedi divennero pietra, i suoi arti le colonne edificate di un antico tempio pagano dove ogni parte del suo corpo era sacrificato all’altare di quello che un tempo avrebbe chiamato una divinazione.

No, non doveva tornare ad allora, ma ancora più indietro.

Doveva pensare a lei, solo e soltanto a lei.

All’ultima volta che sul suo viso aveva visto la tenerezza e l’indulgenza, il loro ultimo istante come Maestro e Allieva.

Lei  bellissima e fragile, avanzava travolta dal desiderio di superare il punto di non ritorno, gli occhi caldi ottenebrati dalla presenza della loro musica che danzava assieme alle gonne scure delle ballerine. La sua pelle di seta sotto le sue dita, il calore del suo corpo schiacciato contro il proprio0, l’autentica sensazione di averla finalmente per sé nella notte infinita nel tenero abbraccio della sua musica. Davanti a loro il pubblico nel critico silenzio dell’attesa, giaceva inerme come un gigante addormentato o incantato dallo splendore delle loro voci.

La sua Aminta.

D’un tratto, tra quelle persone, in uno dei palchi più vicini al proscenio, due scintille brillarono buie. Occhi scuri ed intensi, occhi sconvolgenti, inebrianti, freddi come il ghiaccio e caldi come una mattinata estiva.

Ed era sola.

Il pubblico scomparve, la gente il mormorio tutto svanito come la notte in cui l’incontrò per la prima volta.

Sentì persino sfuggirgli vellutato il corpo della sua Christine.

C’erano solo gli occhi di quella donna elegante ,la cui figura diventava via via più chiara.

La bellezza sconvolgente di uno sguardo, lineamenti dolci e ingannevoli, un vestito rosso di seta che scivolava su curve morbide, piccoli guanti neri ad adornarle le mani, una lacrima che le disegnava il viso con una scia splendente.

C’era lei, sofferente a riversare il suo dolore con le mani avvinghiate alla balaustra.

Illuminata dalle fiamme sempre più alte, ergendo un muro invalicabile oltre il quale anche lei scomparve, mangiata dalle stesse lingue di fuoco che lambivano il suo teatro.

Non riesci a sostituire la sua immagine con quella di Christine, vero Erik?

No. Non si sarebbe fatto prendere da una nuova ossessione, il gioco tremendo di un’utopia sentimentale non avrebbe lasciato che il suo indomabile bisogno prendesse il sopravvento. Doveva smettere e subito.

Ma tutti i suoi tentativi stavano fallendo miseramente sotto un cumulo di macerie.

Maledette donne.

Sembravano infettarlo con il loro infido veleno, entrare nella sua mente governando da regine indiscusse la sua follia, la pazzia che ora gli permetteva di sentire la stoffa dei suoi vestiti impregnati del suo profumo anche se non li aveva toccati, attraversati dal calore delle sue piccole mani, bruciare intensamente percorrendo il dosso delle spalle fin oltre il petto, il collo, dolcemente, provando un piacere ingovernabile.

Un limite, un confine, sempre più sottile, sempre più inesistente, la voglia irrefrenabile di cancellare il passato pur di continuare a godere di quell’attimo di pace sotto la sapiente manovra della seduzione che solcava gli avvallamenti del suo corpo, insinuandosi oltre il bavero della giacca e del panciotto appena un po’ ad ogni leggera passata. Solo per la sua natura effimera poteva permettersi di abbandonare completamente ogni inbizione sotto le sue attenzioni, attraverso quel suo modo di fare spavaldo, coraggioso nell'approcciarsi ad un mostro come lui, un mostro che non conosceva umanità se non dalle sue mani, gli occhi soavemente socchiusi nell’estasi che quel tocco gli sapeva dare, assieme all’agre piacere di una mera illusione.

Lucia.

Lei, la sua Lucia, non era con Erik in quella stanza. Lontana molto più che con le distanze fisiche, si stava preparando all'ennesimo colpo di scena.

Doveva dimenticarla. Doveva soppiantare quell'insulsa, debole, inebriante fantasia.

Il suo corpo sarebbe stato presto di un altro, la sua voce subdola insinuata in un’altra mente.

È per questa ragione che la stai odiando così tanto, per questo vorresti che tutta questa illusione fosse vera.

Sicuro che sia odio?

Impazziva. Impazziva, nel sapere che presto sarebbe stata nelle sue mani.

Impazziva nel pensare al conte in sua dolce compagnia tra le bianche stoffe dei suoi appartamenti, approfittarsi di lei prendere il suo corpo come un oggetto, una custodia vuota di una donna che nemmeno esisteva.

L’avrebbe chiamata Constance.

Come lui l’aveva chiamata Christine.

Si era imposto di non curarsi di quel destino, quel compito a cui sarebbe stata destinata quella notte quando, alla fine di tutto, si sarebbe concessa al lume di una candela, fingere addirittura che non  fosse mai esistita.

Fingere che non gl’importasse di chi sarebbe stata.

Negare dove sarebbe andata.

Dimenticare i propri errori.

La odi come odi me? Come odi te?

Cominci a capire vero, Erik?

Evocare chi fosse lui, il Fantasma dell’Opera.

Rammentare che lui non doveva niente a nessuno, che la sua vita era fondata sulla privazione della normalità, della possibilità di amare e di essere amato per l’errato disegno del suo volto in parte storpiato.

Ricordare che quelle mani erano solo il frutto della sua immaginazione, che le sensazioni, il sentore del tiepido fiato che si stava infrangendo contro la pelle del proprio collo fosse il parto della sua mente malata e logorata.

Un’illusione, un sogno, un desiderio, che non aveva voglia di far terminare e uccider al tempo stesso.

Perché non riesco a svegliarmi?

Non c’era nessuno, nessuno avrebbe osato entrare ed avvicinarsi a lui.

Nessuno tranne l’unica persona che non nutriva alcun timore nei suoi confronti.

«Non dovresti spaventare così i domestici …»

Nessun frutto della sua fervida fantasia.

Nessun gioco goliardico di qualcuno più in alto.

Quelle mani, quella voce, il calore emanato dal suo corpo era concreto.

Si alzò di scatto quasi la investì con le sue movenze, affaticato e sconquassato dalla realtà con cui era penetrata nel suo mondo.

Si alzò e la vide: i capelli sciolti, il corpetto scuro che strizzava il suo busto in bella vista senza vergogna, il viso pulito, lo sguardo smaliziato ed inconfondibile della serpe capace di trascinarlo ovunque lei avesse voluto con poche semplici attenzioni.

Non l’aveva sentita arrivare, non sapeva nemmeno come avesse potuto farlo dopo che aveva chiuso a chiave la porta dall’interno.

La odi ancora, Erik?

La odi perché è entrata ed ha sconvolto le tue certezze?

La odi perché ti spiazza, ti pone in difficoltà, la odi perché è libera e non la puoi controllare?

«Come sei entrata?»

«Ho attraversato le pareti …» plateale: i suoi gesti, la battuta detta con enfasi, la sua ironia velata che lo avevano provocato fino a farlo ruggire di fronte a quella incredibile farsa. «Mon Ami, so essere silenziosa quanto e come voglio e poi dimostri di non conoscere così bene la nostra provvisoria casa. Che peccato …»

Davanti a lui non vi era la Lucia conosciuta nel cuore della notte.

La giostra aveva ripreso a girare e lei si era cambiata d’abito per interpretare l’arcigna assassina.

Era di nuovo Malice con quel suo sguardo accattivante, il sorriso sghembo e l’aria sicura di chi ha il coltello a suo favore.

Da troppo non si erano scontrati con il loro perpetuo gioco, da troppo si stavano abbandonando l’un con l’altra per la paura di rivedere il loro dolore accrescere assieme alle consapevolezze di una vita vissuta inutilmente.

Abbastanza da non sentirsi in grado di controllare nemmeno la situazione, abbastanza che Erik non riuscisse a fermarla se non con qualche secondo di ritardo dallo studiare con sufficienza i suoi spartiti, prenderli fra le mani ed aggiungere confusione al caos.

«È la prima volta che entro qui! Non è molto diversa dalle altre … non so mi aspettavo quasi un fossato con i coccodrilli conoscendoti …»

Doveva cacciarla, prendere il plico di fogli dalla sua riesamina e strapparglieli dalle mani in malo modo, non la voleva in quella stanza, non voleva averla di fronte in quel modo, non voleva che si approfittasse della sua influenza sulla propria volontà. Non voleva che lei gli stuzzicasse il lato combattivo, fiero ed orgoglioso del suo ego.

Non lei, non con lui che la conosceva ormai sotto molti più aspetti di quanti gliene avesse effettivamente mostrati.

«Non sono cose che vi riguardano! Ed ora uscite da qui!» e fu quasi un ringhio imperativo al suo indirizzo.

L’angolo destro della bella bocca si sollevò adagio, torturando la volontà di qualsiasi uomo normale l’avesse visto. Segnava il suo angelico viso con un arco arcigno, menzognero, diafano come il cuoio che Erik portava sulla faccia per nascondere il proprio volto deforme.

Irriverente, provocante, maliarda.

«Non sono cose che m’interessano realmente, caro il mio Fantasma …» Lo superò indifferente al suo ordine. Lo superò guardandosi attorno, come una bambina nel paese dei balocchi, offrendogli le spalle baciate dai morbidi capelli che si muovevano su di esse quasi fossero animati. No, non era lei, non più.

I desideri di Lucia erano ben altri.

«E poi non dovresti trattare così nemmeno me …» era forse amarezza quello che tingeva le sue parole? Proprio quando Erik sembrava essersi arreso nel trovare ancora un briciolo della sua Lucia, era riuscito a leggere del suo lato oscuro nascosto da qualche parte. «Mon cher ami, io sono la soluzione a tutti i tuoi problemi …» La soluzione? No, tutt’altro. Lei era il suo problema. Il più grande, infido, invalicabile problema che avesse mai avuto.

«Non è più una partita fra me e te, Erik! Oggi è il giorno decisivo, non abbiamo possibilità d’errore, se rivuoi la tua libertà, la tua vendetta ...»

Un piccolo passo, un intreccio di dita che correva lungo il filo, fino a scendere nell’incavo al centro del petto di lui, un nuovo percorso sulle docili spalle sovrastate dall'imponenza della sua mole e dai suoi palmi così grandi in confronto alle deboli curve modellate sotto di esse.

Restale vicino.

Troppo vicino.

Vicino, terribilmente crudele, bollente.

Gioca con lei come fa con te, falle sentire ciò che nega come te lo stai negando tu.

Lo sai cosa prova, Erik.

Lo sai perché è lo stesso tumulto che senti su di te,

vibra nel desiderio che hai del nutrirti delle sue labbra, di respirare attraverso il suo respiro.

«Dovresti prepararti Lucia. È la grande serata, giusto?»

Vicina troppo vicina. Ma chi era realmente troppo vicino?

La sua mano dispettosa sul lembo della camicia trascuratamente aperta, sul brivido attraverso cui lo stava soggiogando di nuovo.  

Hai detto che non l’avresti più tradita, la tua Christine ...

O abbandonati definitivamente alla sua saggezza …

«Non devi permetterle di ferirti di nuovo Erik e sarai libero: libero da lei, libero da noi … libero da me …»

Sovrapposta al tormento, alle fiamme di una vivida realizzazione di ciò che è vero, il romanzo triste e sconvolgente di chi è disillusa. Il fascino di ciò che è proibito, inaccessibile come un cuore divenuto di pietra.

Una corazza impossibile da scalfire.

Una barricata da superare.

Forse già superata.

Perché io ho già scelto e la mia scelta ha una sola via d’uscita.

Due morbidi palmi sul proprio viso dimezzato, delicati come petali di rosa sul pelo dell’acqua di una fontana abbandonata.

E i suoi occhi meravigliosi fendevano l’aria divenuta capillare, inutile, uno strano, stranissimo bagliore pallido e translucido come il gioco di un raggio luminoso su di una superficie opacizzata dal tempo e logorata dall’usura.

Un lampo d’apprensione che lo fece indietreggiare, barcollare come ubriacato dal senso d’incompiutezza che sentiva invadergli ogni parte di lui,  sotto il sottile strato di seta del suo sguardo così impropriamente infantile che l’osservava dal basso ad impartirgli una lezione che forse non avrebbe dimenticato, spogliato di quella durezza da cui era caratterizzato durante ogni loro incontro.

«Sarai sufficientemente concentrato stasera, Erik? Ci saranno ricordi dolorosi, dolci occhi castani a distrarti, il suo  profumo nell’aria. Ti sarà così vicina … ed io ho bisogno di …»

Prendi le sue mani, allontanala, prima che pronunci quella sola sillaba che potrebbe farti naufragare.

Tutto da lei, odio, disprezzo, rancore. Ma non quella sillaba.

Si era lasciata scappare troppo.

Luce ed ombra di un animo lacerato dal ricordo più vivido che avesse. Il più recente, il più sofferto.

Lucia.

Christine con il suo sguardo smarrito mentre osservava il vigneto e il suo abbraccio così sincero con una donna che la manovrava come una pedina.

L’aveva spiata per vederla un’altra volta, per quel poco che la nostalgia gli potesse riempire i vuoti lasciati ad una fugace occhiata tra i buchi di una piccola grata d’areazione fasulla.

Le vide una di fronte all’altra.

Conversavano piacevolmente come fossero amiche consumate, come se al mondo non esistessero due visioni della Natura contrastanti.

L’una benefica e l’altra subdola.

Non è cambiata di molto la tua Christine …

Era stato nel salotto che l’aveva ospitata.

Si sbagliava.

Tutto al suo passaggio parlava di lei.

Il cuscino deformato lungo il suo fianco, la tazza del thé abbandonata sul piattino, i fogli dimenticati con piccoli promemoria che Malice le ordinava. Se solo le avesse potuto rivolgere una parola, una soltanto.

Dirle che il suo Angelo vegliava su di lei sempre, che il suo cuore impazziva a saperla anche solo in un’altra stanza.

Un Angelo pronto a sovvertire ogni santa legge del Paradiso.

O dell’Inferno.

«Che Dio abbia pietà di me, Erik per quello che sto facendo a questa povera ragazza ...» L’aveva affiancato mentre osservava la carrozza con sopra l’effige dei de Chagny allontanarsi con la sua aura nefanda di dolore roboante nel suo cuore.

«Sempre alla ricerca di una guida. Il giovane Raoul non potrà sostituirti, ma non ti sto dicendo nulla di nuovo ...»

Non riusciva a dimenticare quelle sue parole, che fossero sincere o meno.

«Ora vede in me quello che eri tu. Pende dalle mie labbra esattamente come pendeva dalle tue. Per quanto sarete lontani, ovunque provi a nascondersi che sia dietro un matrimonio d’amore o tra i salotti di Parigi, lei sarà sempre tua. Non ti avrà amato come uomo, ma di sicuro sei stato il suo punto fermo. È ancora la bambina a cui facevi compagnia nelle veglie notturne, Erik. Un’ingenua bambina che gioca a fare la donna, ma pur sempre troppo infantile per destreggiarsi in un mondo meschino come il nostro.»

Era una bambina. Candida e pura come soffici nuvole in un limpido cielo estivo.

Di questo lui ne era consapevole. Come era consapevole dell'influenza che aveva avuto nella sua esistenza, di come l'aveva in fondo amata proprio per la sua tenera innocenza, la sua cieca fiducia in un amore che lei credeva paterno ed invece nasceva nella passione viscerale di un uomo che in lei vedeva la purezza tra il marcio.

« Ed io ho bisogno di …»

Quella sillaba sarebbe morta così, nella gola della gelosia e del rancore nel tentativo di placare la sua indole di umana misericordia nei confronti di un uomo distrutto almeno quanto lei.

Uomo appunto. Non un mostro o qualsiasi cosa di cui si fosse convinto di essere.

Lui era un uomo.

Un uomo.

Erano finiti i tempi in cui Erik era solo un compito per lei, forse non erano mai iniziati.

Un uomo, si ripeteva.

Ed io cosa sono ora?

Una donna che non poteva influenzare, più forte del ferro, dura come l'acciaio con mani artigliate come quelle di una fiera selvaggia ed in grado di squarciare il ventre.

Una donna in grado di essere debole come un giunco rinsecchito dalla siccità, una donna che era capace di calore e passione, di fredda consapevolezza e d'infinita saggezza.

Di divenire una viscida serpe maledetta. Ma che era mutata in una lastra trasparente, fragile più del cristallo, tagliente come uno dei suoi resti dopo che fosse crollato al suolo.

Che avrebbe desiderato per una volta essere vista come tale.

Non era mai stata la pulzella da salvare, nemmeno quando il suo nome era un altro. La interpretava, la rendeva tale, ma era lei a decidere i chi e i come.

Dirigeva magistralmente le sue personalità esclusa una, che poteva vantare di aver soppresso molto tempo prima finché un giorno non aveva incontrato lui.

«No, non ho bisogno di nulla. Voglio solo che questa storia finisca, che le nostre strade si dividano.» Fu lei a distanziarsi ricercando a vuoto di un crocefisso estirpato dalla pelle lattea del suo petto, allontanandosi abbastanza per respirare ma non per togliersi il senso di torpore delle inibizioni che lasciava al suo passaggio. Un distacco troppo freddo, repentino, il suo sguardo scintillante, rovente come quello di un gatto forastico intento nel difendersi. E di rabbia. Di quelle che si rivolgono principalmente a sé stessi per  non saper governare le proprie reazioni.

Fuori, via, lontano da lui.

Ti credi superiore, Erik? Pensi che io possa abbandonarmi all’ipnotico suono della tua voce roca?

Che mi lasci ingannare così, da un “pivello”?

No, Erik.

Vivo nel mondo reale da prima di te. Questo non è il tuo teatro, non ti scontrerai su di uno scenario ripetutamente visto a più rappresentazioni.

Non ci sarà lo sfarzo ed il lusso fittizio di un sogno.

Nessuna vernice dorata, nessun drappo di elegante velluto rosso.

Dovrai imparare a masticare lame affilate ed ottenere gli scarti di ciò che ti offrono.

Noi stessi siamo gli scarti.

Oggi imparerai che la finzione nella realtà ha un altro sapore, più agre e difficile da deglutire sulla gola ferita.

Imparerai che la Vita, quella al di fuori del tuo mondo protetto ed abbracciato dalle materne membra dell’Arte, ha una connotazione pallida ed emaciata come il volto della Morte.

 

 

Organizzare quella festa per lei significava riaprire vecchie ferite in realtà ancora sanguinanti, ma l’aveva fatto. Aveva seguito alla lettera ciò che una persone più grande ed esperta di lei le aveva suggerito.

Le sue gambe erano ancora troppo incerte per muoversi agilmente come quella che considerava la sua nuova amica.

Meg e quella che considerava una madre purtroppo non le era concesso rivederle se non furtivamente aiutata da Raoul. Non solo per gli impellenti doveri di una futura viscontessa, che non prevedevano l’intrattenersi con una ballerina, personaggi che secondo le leggende metropolitane erano di dubbia moralità, e una direttrice di balletto coinvolta nei crimini del Fantasma dell’Opera, ma anche per il dolore che in forme diverse avvelenava le anime delle tre donne.

Chi per aver perso due figli.

Chi per aver perso una madre ed una sorella.

Chi per  aver perso troppo in una sola notte.

La povera, dolce, ingenua Christine.

Non doveva sforzarsi di essere qualcun’altra. Raoul era sincero quando le diceva che era perfetta anche così, che non doveva cambiare per nessuno, tantomeno per lui.

Eppure, su di sé, sentiva il peso di quel titolo che sembrava si stesse appendendo alla proprie caviglie con una catena indistruttibile. Voleva a tutti i costi che il suo futuro marito non dovesse subire le pene dell’inferno per le sue umili origini. Che bello sarebbe stato in un mondo diverso, in cui titoli nobiliari e mestieri fossero considerati su di una linea retta, in cui fosse solo il loro amore ad importare e non quanto poco denaro una dote potesse portare alla cassaforte della famiglia.

Il giovanissimo visconte in realtà si riteneva un uomo davvero fortunato. L’amava immensamente, non era da tutti godere di un matrimonio per amore. Era certo che sarebbero stati felici, un lusso che il denaro di solito non concedeva.

Lo aveva visto con le sue sorelle, tristi ed annoiate signore costrette a farsi amanti per soddisfare il proprio bisogno d’affetto, ma che in linea con i vincoli familiari si erano trovate patrimoni ingenti con cui continuare la vita agiata che il duro lavoro del fratello contribuiva a portare avanti dopo la morte dei genitori.

Lo aveva visto con Philippe, sposato con il dovere per quasi una vita intera, che aveva riacquistato la serenità solo dopo aver incrociato le strade con la bella Constance.

Lo aveva visto ripetuto in milioni di circostanze: amici, parenti, conoscenti.

Tutti che dietro al matrimonio avevano solo un contratto, un debito da saldare, un credito da riscuotere.

Sì, era decisamente fortunato ad avere la sua Christine.

Per quanto quel rapporto portasse pettegolezzi e lasciasse una scia di bisbigli, quello che a lui importava seriamente era la sua bellissima sposa che nelle sue stanze al terzo piano della villa si preparava per il suo debutto. Sapeva che una volta presentata avrebbe conquistato con il suo carisma innato e la sua tenera timidezza.

Tra la folla di vecchie casacche decrepite e maschere scolpite tra le facce di una nobiltà sempre più borghese l’attendeva impazientemente, mentre distratto ascoltava i frivoli commenti di quegl’uomini con cui il fratello ancora si contornava solo per una piacevole caccia di mese in mese.

«Che ottimo champagne! Non ne assaggiavo di tali nella tua casa dai tempi in cui tuo padre era un ragazzo e più avvezzo alle piccole passioni di un uomo!»

Era davvero ottimo.

Il barone sarà stato anche un uomo viscido e spiacevole, ma era un gran intenditore di vini da quando fu costretto ad aggrapparsi alla bottiglia per sopperire ai suoi guadagni mancati. Ciò non toglieva come ad entrambi i fratelli non piacesse granché la sua compagnia, già sgradita in precedenza, quando frequentava la loro casa nel periodo più florido della sua miserabile esistenza sperperata tra gli sfarzi e i lussi di un meschino commerciante di vite umane. «Già, ma ormai il nostro amico conte diverrà un esperto di vini e liquori! Giusto, Raoul?» Con in testa quel muso di un cavallo poi, sulla sua figura allampanata, dava una sorta di caricatura stirata di un ronzino. «Sembra di sì, tutto a vantaggio degl’amici e della famiglia!» risero grosso. Nella scultorea armatura in cui le membra grassocce esplodevano e il viso incorniciato dall’elmo inequivocabile che richiamava gli antichi eroi romani, il rubicondo ed immancabile marchese, scuoteva la pancia ingombrante, sussultando come un atollo di terra scosso da un violento terremoto, con un movimento che avrebbe divertito anche senza il sonoro clamore della battuta pronunciata dal visconte.

«Porterete vino ed intrattenimento con la graziosa Christine. Ho sentito dire che la sua voce è più bella di quella di Angelo. Purtroppo non ho mai avuto l’onore di poterla ascoltare a teatro. Magari stasera ci delizierà con essa, che ne dite Philippe?» Un mecenate, mancato poeta incapace, che vedeva nelle sue reclute quello che lui non sarebbe mai divenuto. In fondo lui era un uomo dall’animo buono, ma che si era dovuto sempre nascondere dietro quell’aria di diffidente alterigia per difendersi.

«Ne sarei onorato …»

«Invece, quando arriverà la nostra bella vignaiuola?»  La ragione per cui il conte accettasse la vicinanza del barone alla sua casa era una soltanto: onorare la memoria del padre in nome della vecchia amicizia che aveva con lui. Da quando era caduto in disgrazia qualche anno prima- dopo che alcune sue piantagioni di cotone furono distrutte durante la Guerra civile nelle Americhe ed il suo commercio clandestino divenuto impossibile con le nuove leggi sulla tratta degli schiavi – non faceva altro che chiedere prestiti di denaro a Philippe, il quale non si sentiva di negarglieli.

«Presto, mi auspico …»

«Suvvia, conte l’avrete vista solo ieri e già siete così smanioso di incontrarla di nuovo?» Non gli piaceva lo strano e morboso interesse che nutriva nei confronti di Constance: il suo cercarla di continuo, la sua completa disposizione, la sua ambigua  nomea di uomo poco d’onore quando si trattava di allungare le mani su di una donna.

«Scommetto che dopo sposato la penserà diversamente!»

«Propongo un brindisi alle donne prima del matrimonio!» disse all’improvviso il barone alzando il calice di cristallo verso i suoi interlocutori. «Che rimangano il più possibili tali anche dopo!»

«Speranza vana, amico mio!» concluse amaramente il marchese.

Risero ancora tintinnando con il bordo dei loro bicchieri fra il brusio concitato degl’invitati divertiti ed intenti in danze e piacevoli conversazioni, vibrando il delizioso liquido paglierino e perlaceo al suo interno.

Philippe non pensava che con tutte le voci, i sussurri, lo sdegno provocato dalla vicenda che aveva coinvolto Raoul e madamoiselle Daaé  potesse riscuotere un così evidente successo, invece alcun invito era stato rifiutato. Il conte sembrava davvero soddisfatto, orgoglioso di quello che sembrava un piano sociale ben congeniato.

La vita di una notte era ai suoi albori, stordita dall’avvicendarsi dal flusso delle carrozze in una strada battuta e frequentata solo da coloro che erano i suoi abitanti e qualche visita sporadica. C’era una guerra in atto, ma per nelle successive ore le poche persone a cui importava si sarebbero abbandonati agli sfarzi e i futili lussi della mondanità. Erano anni che la suntuosa villa de Chagny non riceveva una festa così maestosa.

Con la morte della madre e le due sorelle ormai maritate, chi avrebbe potuto mai organizzare un tale evento.

Philippe era rimasto folgorato da quanto in poco tempo Christine era riuscita a destreggiarsi in una così delicata e importante mansione, perché si sa come il piacere di balli e vino possano mietere amicizie importanti in quel mondo fatto solo d’apparenza anche se da principio l’idea di trasformare una festa di fidanzamento di un visconte in una volgare masquerade, la temeva.

Invece la provocazione che aveva scaturito, era diventata oggetto di curiosità e ammirazione.

In questo Constance aveva avuto pienamente ragione.

Chissà che non ci fosse proprio la sua firma su quel piccolo miracolo che avevano  adoperato.

Lo scandalo paga bene, ma il non temerlo paga ancora meglio.

Lo aveva convinto con queste parole, così come aveva convinto la titubante Christine.

L’intera sala ricca di festoni fioriti divenne una scultura di sale.

Persino le sfarzose composizioni di fiori che ricadevano a cascata celebrando una primavera infinita ed abbandonata, si mossero come tremanti.

I grandi candelabri scolpiti con putti ed angeli in uno stile tra il barocco ed il neoclassico che sorreggevano le candele traballarono come le fiammelle che alimentavano l’illuminazione quasi irreale.

Un incubo di certo. Un incubo collettivo perché non poteva essere possibile.

Philippe non sapeva ancora a quanto scalpore avrebbe spinto la cara Constance finché tutta la grande sala da ballo della villa si ammutolì.

Di stupore.

Di terrore.

Di orrore.

Tutti conoscevano la leggenda, tutti sapevano cosa accadde mesi prima.

Anche se nessuno osò pronunciare alcuna parola, anche se nessuno ebbe il coraggio di gridare, fuggire o terrorizzarsi, non ci fu una sola mente che si esulò da pensare che quell’uomo fosse davvero un essere ultraterreno.

Era davvero tornato? O solo giocava la suggestione comune di quel rievocare vecchie faccende che lo vedevano come protagonista?

Era uno scherzo forse?

Non accennava ad andarsene, se fosse stato solo un brutto sogno sarebbe dovuto svanire nel nulla così com’era apparso.

Eppure era lì avvolto dal velluto rosso e con gli occhi scavati in uno scheletrico cranio modellato sul suo viso, il suo lungo mantello lo seguiva come un fiume di sangue a cui non sembrava rinunciare.

Il Fantasma dell’Opera era tornato proprio il giorno del fidanzamento di Christine e Raoul.

Forse per vendicare il suo cuore spezzato.

Forse per punire l’onta ricevuta.

Forse.


1) La leggenda del "IL CAVALL BERNAT" viene dal Montserrat in Catalogna.Si racconta che il boscaiolo diceva al cavallo : Cavall Bernat, Cavall Bernat, baixa la llenya al Llobregat", Cavallo Bernat  Cavallo Bernat, porta la legna a Llobregat. Ma chi fa patti col diavolo qualcosa deve dare in cambio. La condizione imposta dal diavolo fu che dopo dieci anni, il boscaiolo doveva restituirgli cavallo con caratteristiche simili.Il boscaiolo diventò ricco con l'aiuto del "Cavall Bernat", ma il giorno che scadevano i dieci anni, il diavolo gli ricordò la promessa che per altro il boscaiolo aveva dimenticato. Davanti a questo, la moglie del boscaiolo temendo il peggio, si mise a pregare la Vergine che accolse le sue preghiere ed una luce intensa illuminò tutto il recinto causando la scomparsa del diavolo e del  "Cavall Bernat". Un'enorme pietra comparve in quel luogo, e tutt'oggi la chiamano la cima del caval bernat. In seguito venne posta anche l'immagine della Moreneta, la Vergine del Montserrat. (fonti: Portal Turismo Hotel - Leggende di Montserrat)

 

Note dell'autrice: Eccoci qui! La suspence è tutto in questo passaggio, non posso che rimandare ulteriori chiarimenti. Non mi sono dilungata molto sulle descrizioni in quanto, il prossimo sarà la liaison di questo e quindi ci sarà qualche particolare in più rispetto a questo.

Vi ringrazio con tanto, tantissimo affetto e vado a mettermi subito all'opera per il prossimo nostro appuntamento.

Il Master ringrazia.

 

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


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Capitolo 15
*** CHAPITRE 14: Les deux figures du fantôme. ***


CHAPITRE QUATORZE: Les deux figures du fantôme. 

 

Orbite scarne e vuote su di un teschio che lasciava scoperta solo da bocca, dal cui fondo brillavano occhi diversi da ciò che ricordava chiunque l’avesse mai visto realmente.

Un abito che cadeva su di un corpo probabilmente smagrito dall’eccessivo consumo della follia, arricchito di ricami dorati impressi sul prezioso scampolo.

Nessuno poteva dimenticare, per quanto assopita la curiosità e celata la leggenda.

Maschere facciali impossibili da nascondere di fronte alla vista suntuosa e terrificante della Morte in persona.

La piccola orchestra smise di suonare.

Le dame coprivano con le mani ammantate o con i ventagli le loro bocche aperte oscenamente dallo stupore.

Alcuni degli uomini avevano già bisbigliato all’oltraggio, la sua presenza un guanto di sfida.

La vista del visconte si era annebbiata.

Lo aveva già combattuto, solo loro due e le spade a rendere giustizia.

E lo avrebbe già represso nel sangue se solo non fosse intervenuta lei.

Pensare che per un po’ credeva di aver provato pietà per le sue disgrazie.

Solo e soltanto menzogne. Le sue grida disperate di andarsene, la sua improvvisa misericordia, persino il suo amore nei confronti di Christine lo aveva reso più umano, in quanto per il visconte quale uomo non sarebbe disposto a rinunciare per vedere la persona amata felice.

Ma lui non amava.

Lui possedeva.

Riteneva Christine una sua creatura, convinto che avendole donato il canto fosse di diritto una proprietà personale, come se l’avesse comprata con la stessa sufficienza con cui si scelgono i tendaggi per la propria dimora.

Falso.

Con l’inganno aveva intessuto la sua tela, con l’eclissi di una dipendenza artificiosa l’aveva vincolata eternamente a sé anche ora che attendeva trepidante il giorno in  cui sarebbe stato Iddio a congiungere le loro mani finché la morte non li avrebbe separati.

Falso.

Il suo stesso personaggio era una mistificazione di un uomo pazzo, che impersonava la Morte vestita di rosso alla maniera del sangue che veniva versato al suo passaggio, come quella sera durante la Masquerade all’Opera Garnier minacciando a spron battuto chiunque lo intralciasse nel suo delirio di onnipotenza artistica, nel vaneggiamento di un’avidità di vite e concetti inaccettabili, i suoi gelidi occhi posati con alterigia su ognuno di loro, spenti e vuoti.

Un bestia selvaggia a cui vengono tagliati i denti, non è di certo meno pericolosa e Raoul sapeva che non andava sottovalutato in alcun modo. Lo aveva fatto, Dio solo sa quanto se ne era pentito.

Ma questa volta lui era pronto.

Aspettava la resa dei conti.

Non sarebbe mai arrivato tanto vicino da poterle sfiorare l’anima attirandola nuovamente tra le sue mortali spire, non  gli avrebbe mai permesso di osare tanto fino a ripresentarsi davanti al suo cospetto, proprio adesso, con Christine che sarebbe arrivata di lì a poco.

Non ora che era così vicino ad averla senza quella malata ossessione che nutriva per lei riaffiorasse come un incubo.

Mai più, come quella notte aveva giurato a sé stesso che la sofferenza di Christine sarebbe terminata con l’abbandono dell’unica figura che potesse tanto avvicinarsi a quella della povera anima di suo padre, arrivando a confondersi con essa.

La mano esitava fremente d’impazienza sull’elsa della spada.

Nessuna pietà, nessun richiamo che potesse fermarlo quando si sarebbe riversato a terra come un verme cercando di riprendere la sua arma e combattere da uomo.

Ma quando stava per avanzare, intento nel farsi valere come uomo d’onore impudicamente oltraggiato ad una festa in suo onore, un’altra mano calò sul suo panciotto, arrestandolo neanche fosse fatta di piombo.

Un gesto che non si aspettava, dalla persona che meno aveva pensato capace di fermarlo quando si trattava del buon nome della famiglia a cui egli stesso apparteneva.

«Aspetta …»

Philippe non riusciva a distogliere lo sguardo da qualcosa di sorprendente, abbacinante come il raggio di una luce innaturale contro il vetro di uno specchio.

E Raoul, sorpreso e tremolante d’attesa, seguì gli occhi spalancati del fratello, incantato forse anche lui dalla dirompente aura di potere del Fantasma.

No, non da quella del Fantasma.

Da quella figura minuta al suo fianco.

Il nero di una coltre notturna senza stelle ad avvicendarsi tra le sue pieghe, avvolgeva il busto sulla candida pelle di porcellana dove delle piume scure dagli occhi impenetrabili di Argo si appoggiavano leggere disegnando i contorni mistilinei del corpo aggraziato di Madamoiselle Saint-Simon. 

I capelli acconciati in una complicata e raffinata impalcatura, ricadevano in parte in ordinati boccoli castani ed i suoi occhi erano coperti da una maschera che disegnava la metà del suo viso per poi svilupparsi in un gioco vaporoso di piume e penne di pavone sopra un sorriso empio.

Era riuscita in ciò che le premeva.

Stupire quella massa informe di uomini e donne senza un perché.

Attirare l’attenzione su di sé, sul suo compagno di quella notte.

Malice e Constance dovevano convivere quella serata, mostrare a tutti di cosa fosse capace senza che se ne accorgessero fino a che non fosse davvero lontana o davanti ad un patibolo tra la folla che incita alla morte dei traditori della patria.

«Complimenti, sembra che il tuo piano funzioni …»

Il gioco aveva appena avuto inizio ed erano già sotto scacco alla prima mossa.

«Ve l’avevo detto che non sanno distinguere uno stallone da una giovenca …» sussurrò ancorando il proprio braccio a quello del suo fiero accompagnatore, elargendo sorrisi ed inchini mentre passavano tra le persone che ancora non si capacitavano di quale affronto proprio lei stesse muovendo nei confronti di Philippe e suo fratello.

«Mi state forse paragonando ad una vacca, Malice?»

«Forse … ma chiamami Constance … qui sono solo una sagace borghese che vede più lungo di ciò che ti vuol far credere …»

Sfilavano come un carro allegorico nel giorno di Carnevale, parlando fra le labbra tirate in una curva falsa come i loro nomi di fronte a tutti i visi contriti dei loro ospiti.

Il passo lento, assaporando il momento spento, in cui una fanfara silenziosa mormorava a quanto si era spinta oltre.

Nessuno lo riconobbe.

Fino a quando ad un passo dal gruppo di nobili con cui i fratelli de Chagny si stavano allietando, richiuse la bocca mantenendo costante il loro contatto visivo ben saldo sulla particolare coppia che aveva creato così tanto scalpore con pochi gesti.

Ma in questo era una maestra.

«Madamoiselle, siete incantevole stasera!» disse il barone interrompendo quella stasi e quel silenzio pesante come un macigno sulle loro teste. «Vi dona il rappresentare un pavone …»

«Vi ringrazio barone! Anche voi siete la rappresentazione più veritiera di un fiero destriero!» inchinò di poco la testa, saettando con lo sguardo fra i suoi interlocutori.

Il marchese era ancora scioccato, la sua bocca ed i suoi occhi da sotto l’elmo completamente sbarrato.

Il barone altresì era invece più intenzionato a sbirciare tra le piume del suo vestito per potersi accorgere di altro. Persino Philippe non sapeva come intervenire, totalmente spiazzato dall’ardire di quella che considerava la propria compagna. E forse, quel stringere di poco le labbra,  quel chiudere impercettibilmente i pugni lungo i fianchi era una chiara nota di strizza.

Oh Philippe! Come siete ingenuo se pensate di potermi tenere come uno dei vostri bracchi!

Non sapete neanche quanto mi state sottovalutando.

Quanto io vi abbia sotto il mio potere.

Raoul teneva la sua spada e fissava ancora incerto il cavaliere  alla sinistra della giovane borghese, forse futura cognata.

Il visconte lo aveva visto da vicino, molto da vicino. E sapeva che i suoi occhi erano piccoli bracieri tra la tortura, ardevano di un fuoco vivo, molto più che in altre mille fucine di lava colante.

Asceta ed ingannatore, che avrebbe potuto portare alla pazzia proprio come le leggende narravano.

Quello non era il Fantasma dell’Opera.

Eppure non riusciva a stare calmo: il sangue ribolliva, gli occhi gli bruciavano per quanto temeva di abbassare anche solo di poco le palpebre per umettarli ed il cuore, la testa, l’anima gli dicevano quanto tutto questo fosse sbagliato.

Fremeva come una bestia che avverte in sé una catastrofe.

«Oh, ma che sbadata! Non vi ho presentato il mio adorato …» quell’adorato strideva sibilato fra i denti, come unghie su di una parete rocciosa. Una finezza a cui nobili e borghesi erano abituati persino fra parenti «… fratello: Jaen Baptiste Saint-Simon …»

Come per incanto, alla pronunzia del nome dell’ospite spaventoso rivelato per un borghese annoiato, fece ripartire musica e danze. La piccola orchestra, organizzata in uno degl’angoli più remoti  della grande sala, cominciò nuovamente la polka appena interrotta e gli ospiti, dapprima spaesati, tornarono ai loro passi dettati da ore ed ore di lezioni che venivano impartite a signorotti e signorine dell’epoca.

«È un piacere conoscere chi fornisce cotanto nettare, monsieur Saint-Simon …»

A Malice non restava che attendere il momento di distrazione, quell’attimo in cui il suo complice avrebbe dovuto lasciare il suo posto andandosi a sostituire a chi realmente poteva fregiarsi di quella posizione di assoluto dominio e terrore.

Il Cerbero distratto dai piccoli dolcetti al miele.1

Alcool e futilità.

Ecco di cosa si nutrivano le gole ingorde della società nobiliare.

Il discorso si disperse fra vini e salotti, bastava così poco a svagarli in fondo. Era sufficiente riunirli tutti in una stanza abbastanza grande per contenerli e donare loro qualche diversivo, diventando così ciechi e sordi per una notte.

Chi in maniera assoluta.

Chi soltanto in parte.

Chi invece veniva accecato da una rabbia inconsueta nei confronti di colei a cui non avrebbe mai pensato di serbare rancore.

«Madamoiselle Saint-Simon, stanno suonando una quadriglia … » interruppe il barone sfilandosi la sua testa equina per consegnarla al marchese con fare altezzoso, mentre questi non se l’aspettava e quasi vi rovesciò il suo vino rischiando di macchiare il costume. «… mi concedereste questo ballo?»

Allungò una mano verso Constance e lei non sapeva come rifiutare galantemente il suo invito, perché, come primo istinto, riportò alla mente il fodero che aveva ancorato a metà polpaccio, in cui il suo Tanto giaceva a riposo.

Un’altra mano intervenne, afferrandole il polso quasi in malo modo, costringendola quindi ad alzarsi se non avesse voluto che glielo spezzasse.

«Perdonate barone, ma questo ballo lo aveva già promesso a me!»

Il suo tono non ammetteva alcuna replica, anche se per qualche istante fra i due uomini vi era una strana aria elettrica, quasi in competizione, fintanto che il barone, con il suo solito ghigno sarcastico e viscido, abbassò il capo senza proferire alcun altra parola, concedendo così il diritto di prelazione al conte.

Ci fu solo un fugace sguardo tra la folla.

Ecco, il momento tanto atteso.

Era ora di dare via alla resa dei conti.

Agire finalmente, dopo mesi in sordina a tramare e costruire quella sera.

Una battaglia silenziosa fra la gente che non mieteva vittime, se non l’amor proprio.

Come se fosse l’oggetto conteso in un gioco.

Come se lei non avesse capacità di intendere e volere.

Un inchino e i primi passi volarono.

Tra uno scambio e l’altro, il conte aveva occhi solo per lei.

Constance.

Non era il solito sguardo trasognato e pieno di affetto.

Era qualcosa di vivido e fiero, una nuova passione piena d’ira che nel conte non le era mai capitato di vedere rimanendo sorpresa.

Piacevolmente sorpresa.

Talvolta non riusciva a distogliere lo sguardo attraverso  le piume del  suo grande ventaglio, anche se non appariva dispiaciuta.

Piuttosto compiaciuta.

E più lui appariva infuriato, più le sue risposte si spezzavano fra i denti, le sue mani sbiancavano, più Constance non si redimeva del suo tremendo sbaglio.

Il conte sperava solo che Christine non le fosse complice, che non l’avesse infettata con questa folle pazzia.

Sicuramente le aveva dato il suo consenso.

Quella ragazza era totalmente incapace di avere polso.

Troppo giovane, se si avesse voluto giustificare, le sue ossa si dovevano ancora formare.

Ed era una marionetta tra le mani di una personalità come Constance, che di fragile aveva solo l’apparenza.

Era pur sempre una donna, eppure, quella donna, aveva osato sfidare lui e il suo buon nome apertamente e davanti ai propri ospiti proprio la sera in cui era deciso di chiedere la sua mano al fratello.

«Cosa mi dovete dire Philippe?»

I suoi grandi occhi scuri osservavano il conte attraverso le ferite della maschera, chiunque l’incrociasse non poteva fare a meno d’incantarsi di fronte a ciò che offrivano.

Ma Philippe era già stato vittima di quello sguardo, ormai lo conosceva e sapeva come dosare la sua attenzione su di esso, affinché il baratro fosse abbastanza lontano da non crollarci dentro; solo Dio sapeva quanto lui volesse lasciarsi cullare ed annegare nell'eterna oscurità di Constance.

«Non credo di doverti dire nulla …»

La loro conversazione era a salti, così come il ballo procedeva loro riuscivano a scambiarsi le proprie battute.

Nessuno prestava caso alle conversazioni altrui.

O, per lo meno, ficcavano il naso con più discrezione possibile.

Sarebbe stato  un succulento pettegolezzo quello del conte adirato con la borghese e magari a breve di nuovo lo scapolo d’oro sulla piazza.

Tutti quegl’angoli di occhi puntati su di loro, sulla danza delle loro labbra, divennero fiamme nel petto del conte, lingue di fuoco che avvolgevano con spire distruttive tutto quello che per diversi mesi aveva creduto fosse reale.

Un sogno infranto dalla sconcertante sfacciataggine con cui aveva osato muovergli un simile affronto.

Nella sua testa rimbombavano già i mormorii, le risate di scherno, le chiacchiere che sarebbero scaturiti e montavano ad ogni giro, ad ogni passo, quando sul volto di lei non pareva scorgere il minimo turbamento.

Bella e distesa alla solita noiosa festa, quando invece l’aveva resa solo un ricettacolo di malelingue.

Danzava leggiadra, come se camminasse su di un letto morbido di nuvole, aggraziata come una piuma che volteggiava nell’aria, indifferente senza neppur il minimo cenno di rammarico.

No, non avrebbe potuto sopportare ancora tutto questo.

Aveva bisogno di parlarle.

Aveva bisogno di sapere da lei il perché.

Aveva la necessità di sentire la limpida voce della dolce Constance implorare il suo perdono.

Almeno questo.

E fu un’azione dettata dall’istinto: il piccolo braccio di lei stretto fra le sue dita, il rumore dei tacchi che arrancavano dietro le sue grandi falcate cadenzate dal furore di un momento.

Trascinata, obbligata con malagrazia a seguirlo.

Non udì alcuna protesta per quel suo comportamento così avventato, la giovane borghese non chiese nemmeno spiegazioni, non disse nulla perché sapeva cosa aveva provocato una tale reazione.

Dietro di lui, dietro quel’uomo a cui aveva plasmato il controllo di sé, non vi era un volto spaventato, ma un ghigno consapevole, una curva maliarda che non era riuscita a trattenere.

Avrebbe riso se solo avesse potuto.

Immaginava gli occhi pallidi del conte trasfigurati dalla rabbia, sentiva come vivi i bisbigli che nella sala e tra i corridoi della grande villa coprivano la musica. Sapeva dove l’avrebbe portata, nella sua mente si levò un grido di vittoria quando il conte sfilò dal taschino della giacca, con un fruscio delizioso, la chiave del suo suntuoso studio.

I suoi passi erano già stati scritti tra le righe del suo disegno, ogni punto, tratto o schizzo veloce erano le tracce che lei aveva precedentemente composto.

La sua personalissima sinfonia.

Tentennò solo qualche istante, quando il conte la spinse ad entrare sgarbatamente nella buia stanza. Constance stanziata al centro, in piedi, contrita e spaventata come non lo era stata mentre saliva le scale divenuta ora la stupita fanciulla non si aspetta di essere trattata con tali orribili maniere, addirittura sdegnata.

Quale grande attrice aveva di fronte e nemmeno un applauso avrebbe potuto ottenere.

«Philippe, perché mi tratti in questo modo?»

Ancora un tratto a dipingere quello che sarebbe stata la rovina di quel conte.

«Mi hai messo in imbarazzo di fronte ai miei ospiti Constance, come hai potuto?»

«I tuoi ospiti? Credevo che questa fosse la festa di fidanzamento di tuo fratello

Ogni traccia di perbenismo, di galanteria, scivolava lentamente dalla persona che era sempre stata Philippe de Chagny. Le sue mani non trovavano pace, i suoi occhi erano ormai resi vorticosi dalla rabbia che, soprattutto, veniva scaturita dalla calma serafica della donna in quella stanza.

Stentava a riconoscerla come la dolce fanciulla dei mesi precedenti.

Appunto, pochi mesi.

L’avevano messo in guardia: troppo presto per donare così a buon mercato la sua fiducia ed infatti era stato tradito.

Un troppo cospicuo patrimonio per non esserne attratta.

«Questa assurda pagliacciata non vi sembra un’offesa al nome della mia famiglia? Una grave mancanza di rispetto soprattutto nei confronti di mio fratello e della sua futura sposa?» Camminò velocemente fino a raggiungere il retro della scrivania che ora li divideva come una paratia protettiva. Il suo respiro divenuto pesante per cercare di contenere almeno in parte il proprio livore.

Troppi anni a reprimere, a riempire la Santa Barbara, che una piccola scintilla riuscì a provocare un’esplosione ben più grande di quello che si potesse pensare.

«E pensi che Christine non sapesse della mia mossa? Oh, sapeva! Sapeva eccome! Anzi, se non fosse stato per lei non avrei potuto riproporre la Masquerade che c’è stata prima del tragico rogo all’Opera. È tutto parte di un messaggio rivolto alle malelingue di cui ti piace adornarti, che speravo avresti compreso …»

Mascherava magistralmente la soddisfazione che aveva nel vedere finalmente della vera passione, l’ira e gli intensi sentimenti bruciare nello sguardo del de Chagny, ma quanto avrebbe voluto elogiarsi di come lo aveva condotto fino a quel punto, dove tutto avrebbe avuto una fine.

Come sono prevedibili gli uomini …

«Un  messaggio?»

Avanzò verso di lui, ad ogni passo sempre più vicina.

Sempre più vicina.

Fino a raggiungerlo.

Fino a protrarsi con i palmi debolmente adagiati sul piano che li divideva.

«Già, non è un’offesa nei tuoi confronti, ma un chiaro messaggio di come i de Chagny non hanno paura del passato, anzi lo sbeffeggiano, lo esorcizzano. Philippe con questa serata stiamo dimostrando come nessun pettegolezzo, cattiveria o qualsiasi Fantasma non può scalfire la tua famiglia e i suoi futuri membri …» Si tolse da lui, lo privò della sua presenza muovendosi flessuosa fino alle grandi imposte che davano sull’enorme terrazza, per poi aprirle completamente. Al conte non resto che seguirla, il sortilegio fatato di un’incantatrice di serpenti, perché questo il suo influsso provocava: il desiderio di sapere, di volere, di avere. «E se il messaggio non viene recepito come tale almeno avranno altro di cui parlare, ad esempio di come madamoiselle Saint – Simon e suo fratello abbiano offeso il povero conte e suo fratello. Per non contare la povera, piccola, ingenua Daaé, che si fidava così tanto dell’avvenente borghese per poi ritrovarsi tradita dalla stessa con questo tiro mancino …»

La fresca brezza del primo autunno si stese sulla sua pelle con un leggero brivido, imbattendosi contro il suo corpo come la risacca del mare contro la banchina di un porto.

Era una bellissima notte.

La notte definitiva.

«Philippe …» disse quando lo sentì abbastanza vicino da poter udire ogni suo trascinato sussurro. « … noi siamo abituati ad essere dei bersagli, ormai io non me ne curo da tempo, ma quella ragazza non lo merita. Preferisco che diventi io oggetto di chiacchiera ed è per questo che ho spostato l’attenzione su di me, non volevo di certo mancarti di rispetto ...» espirò tra le labbra pesantemente, esalando le sue parole stancata dal troppo dispendio delle stesse.

«Questa storia ha dell’assurdo …»

«Dell’assurdo dici?» E si voltò allora a favore del suo interlocutore.  La sua figura disegnata solo da quella fulgida sfera argentea che magicamente faceva risplendere i riflessi verdi del suo abito, così diversa, sicura, cosciente. «Non credi di vivere in un mondo assurdo di suo Philippe? Un mondo dove non si è liberi di amare e vivere al modo più congeniale, non trovi che sia questo assurdo?» I suoi occhi abbacinavano al tocco irriverente dei raggi lunari, come se una lacrima di latte si fosse depositata laddove sorgevano, da un pallido tappeto di velluto risaltato dal pizzo nero della maschera, due pozze calde di acque sulfuree. Apparentemente eterne, oracolari, attraverso cui i millenni avevano attraversato il tempo e lei non se ne fosse curata. Occhi ancor più seducenti, ancor più terribili in una visione mistica di una bellezza appartenuta agl’antichi albori del Rinascimento Italiano. «Eppure siamo qui a discutere su cosa sia giusto o sbagliato, su quello che io ho fatto, su di un ombra del passato che non avanza da tempo ormai, ma che incombe su di noi solo perché è l’assurdità della gente ad alimentarla; vedi Philippe ci sarà sempre un qualcosa di assurdo da fare!»

Non era il bisogno d’aria ad averla guidata fuori.

Un’ombra riflessa sul pavimento che aveva i contorni frastagliati, innaturali, trasportati dal lieve soffio del vento.

Un’ombra che avrebbe riconosciuto ovunque, anche su quel profilo addossata ad una delle statue che adornavano la balaustra.

Ogni cosa era al suo posto.

L’ombra, lei, il conte.

È giunta l’ora!

Ed era diversa da tutte le altre volte.

Sicura, cosciente, fiera amazzone sfinita dalla lotta.  

Come mai l’aveva vista. Come mai si era mostrata.

Il vento si sollevò appena mentre le dita della destra scivolarono abilmente fino alla mano del conte che non ebbe le forze di ritrarsi, carezzandola come un calice fresco dall’odor di vino, strisciando con rinnovata sapienza di un amante esperta lungo il braccio dove vi depositò una lunga scossa di brividi, piacevolmente dolorosi, finché non giunse alla sua gota dove le bastò una lieve pressione per trovarsi avvolta con foga dalle labbra del de Chagny.

Ma c’erano tante mani a muoversi contemporaneamente a quelle assassine di una strega.

Mani bramose, mani di una persona completamente privata di ogni capacità di giudizio, che riversava nel desiderio di lei ogni accenno di rabbia, frustrazione provocate.

Mani rabbiose, che si arpionavano sulla pietra fredda anche attraverso guanti di pelle, con la forza di chi vuole distruggerla.

E le stesse mani che dapprima avevano invitato il conte a prendere ciò che più anelava, si misero alla ricerca dell’unica sicurezza tra le mille coltri di stoffa, sotto il sellino ben ancorato in vita, lì, proprio dove una cinta di cuoio scura stringeva in un abbraccio soffocante il muscolo sopra la caviglia.

Quel tanto che attirò l’attenzione del conte, quando già le sue mani volevano armeggiare con la maschera e con il bustino per liberarsene.

Con ardore.

Con possessione.

Così disgustosamente diverso.

Perchè poco più gli importava di essere rispettoso in quel momento.

Troppa pazzia gli aveva provocato, troppa per essere ancora un gentil'uomo.

Ma c'era quello strano movimento che lo distolse dalla insesata voglia di prenderla senza remore.

«Ma … cosa … ?»

Rapida. Un fugace attimo tra il rendersi conto e l’azione compiuta.

Un  colpo.

I suoi pallidi occhi rivoltati.

Un colpo.

Unico e ben assestato con l’elsa di un pugnale orientale.

Un colpo che non serviva ad uccidere, anche se ne sarebbe stata capace.

Un colpo preciso, sulla tempia, dalla forza ben calcolata, che lo stordì facendolo caracollare ai suoi piedi.

L'unica debolezza dell'uomo.

Ed un pubblico unico, dalla sagoma nera, titanica alla sua avanzata contro lo spettacolo di precisione e freddezza che sapeva di mostrare.

Un colpo solo, una sola persona ad assistervi.

Ma non era il tempo di accoglierlo fra le sue spire.

Nessuna vittima per la Morte Rossa.

Nessuna vittima per l’Angelo Nero.

«Credo che tutte queste emozioni lo abbiano provato, era ora che si facesse un bel sonnellino, non trovi Erik?»

Era lì, accanto a lei così chinata sul corpo esanime del conte, osservando il muoversi delle sue mani inquiete nell’intento di accertarsi di avergli effettivamente fatto perdere i sensi.

«Non dovevi tramortirlo, non era questo il piano.»

«Già, ma non avevo voglia di seguire il piano … Colas ci attende alla collina?» si sollevò dalla sua posizione con un’eleganza che vacillò quando i loro intensi sguardi si scontrarono.

«Sì …»

Era così difficile pensare anche solo qualcosa di razionale di fronte all’abbisso in cui era appena annegata.

Aveva solo una tremenda e perpetua domanda, che continuava a perseguitarla.

 

Come possono averlo confuso? Come?

 

No, non poteva averlo scambiato con quella sbiadita imitazione di un uomo.

Il Fantasma dell’Opera.

Non era un Fantasma.

Era l’oscurità personificata, la paura, il rancore.

Era la passione senza che si muovesse.

La sua aura di sublimata ubriachezza stordiva al pari del dolore, che forse sarebbe stato l’unico antidodo a lui, al suo cappio invisibile con cui riusciva a strangolarti.  

Non c’era nulla di più cupo che quei limpidi occhi, nulla di più tormentato ed inquieto se non nella Morte stessa.

Così invitante che non resistette dall’avvicinarsi per sfiorare titubante il bavero della giacc,a verificando che non fosse uno dei suoi incubi più piacevoli.

In sua completa balia, con le labbra dischiuse perché il respiro non era abbastanza e l’aria pareva scarseggiare persino a cielo aperto, i suoi occhi di giada fissi sul suo viso obbligandola a distogliersi.

E chi mai lo avesse incontrato sapeva di morire in quel baratro burrascoso, quel mare ardente che baluginava attraverso le tenebre.

Come avrebbe voluto morire in quel momento, sprofondare nella sagoma nera che si proiettava sul suo ventre a ridosso della luce lunare che mieteva ombra e oblio come una falce ornata dal rosso velluto del sangue con cui erano intrise le sue vesti.

Confondeva, uccideva anche solo posando il suo sguardo.

Perfetto.

Terrificante.

 

Che Dio abbia misericordia di me …

 

Non poteva esistere un Dio in quell’istante di pura angoscia, mistificata follia che avrebbe preso qualunque cuore, anche quello di una santa mercenaria come lei.

Ma chi era lei in quel preciso momento?

Quale delle tante lei stava prendendo il sopravvento?

No, non avrebbe dovuto lasciare che tutto questo la distraesse.

Non doveva quando era tutto ormai così vicino.

Si ritrasse come era solita fare quando sapeva di aver oltrepassato quel confine.

Almeno tentò.

Erik non voleva.

Istintivo afferrò la sua mano prima che potesse scivolare via dal suo petto.

Altri lunghissimi palpiti di due anime in pena, dannate per sempre.

Ma doveva riprendersi, non era tempo di lasciarsi trasportare dai propri deliri.

 

In fondo è questo che mi distingue da te …

 

«Aiutami a spostarlo, non voglio lasciarlo qui fuori.» Si staccarono, eppure quel contatto aveva lasciato un segno indelebile sulla pelle di entrambi, che fosse protetta o meno. Così come i loro occhi che nonostante la fatica, la forza dimostrata da ambedue nello spostare il corpo inerme del de Chagny, non smisero di cercarsi nel buio. «Sai che sopra questa stanza c’è il tuo Angelo, Erik?»

Lo vide.

Inginocchiato accanto a lei ai piedi del comodo divanetto su cui avevano adagiato il conte.

«La camera al piano superiore corrispondete a questa, potrai orientarti facilmente …»

L’esatto istante in cui pronunciò quella frase, vide il sangue del Fantasma raggelarsi.

Ibernarsi.

Irretirsi fino al punto di bloccare ogni suo movimento.

Non era il momento di grandi silenzi.

Non era l’ora d’infrangere un cuore.

Il suo modo di agire era sempre calcolato e pronto per un suo di piano, superiore persino a quello che aveva pronunciato con Colas in un tiepido pomeriggio di settembre.

Lei aveva in mente qualcos’altro pour le Fantôme.

«Ascoltami Erik, forse sarà la tua ultima occasione per rivederla …» Come poteva, come? Si stava sorprendendo, lei proprio lei che era finita ad odiare quella ragazza solo perché lui l’amava, ora la stava offrendo su di un piatto d’argento. «Puoi muoverti liberamente nella villa esattamente come avevamo progettato e per quanto riguarda le lettere posso cercarle io …»

Malice. No.

Lucia deglutì.

Fu come buttare sale sulla carne viva.

Erik continuava a non muovere un muscolo, se non fosse stato per il respiro affannato e gli occhi sbarrati in maniera innaturale avrebbe giurato che fosse una statua lui stesso.

«Vai da lei, parlale! Forse sarà l’unico modo perché tu possa trovare pace. »

Gli prese una spalla cercando di riscuoterlo.

Finalmente si voltò verso di lei e vide nei suoi occhi una pura sincerità, limpida come il cielo d’estate che aveva ammirato nel suo soggiorno al vigneto.

 

Ti prego, non farmi rimangiare ciò che ho detto.

 

E come se l’avesse udita, Erik si alzò senza pensare.

 

 

Note dell'autrice: E' trascorso tanto tempo, ne sono consapevole ma ero in piena crisi per questa storia molto incerta se continuarla o meno, addirittura ho pensato di cancellarla... temevo che non piacesse molto, purtroppo viene seguita poco eppure in questi giorni mi è arrivata una recensione. Non mi sto a dilungare però mi ha fatto riscoprire il perchè io ami Lumiere Noire, perchè ho iniziato  a scriverla. Ebbene sono di nuovo qua, sperando di avere maggiori consensi.

Vi chiedo scusa, spero solo che il capitolo piaccia e che i prossimi a venire siano altrettanto gustosi.

Comunque non manca molto alla fine.

Ringrazio chi mi segue...

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally

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Capitolo 16
*** CHAPITRE 15: La Duperie. ***


CHAPITRE QUINZE: La Duperie.

 

Non penseranno mai che voi siate realmente il Fantasma dell’Opera, basti che parliate poco e che rimaniate lontano da Christine e Raoul.

 

Forse un tempo era il Fantasma dell’Opera.

Un tempo nemmeno troppo lontano.

Molto era cambiato.

Non si rivolgevano a lui con appellativi quali Mostro, Figlio del Diavolo.

Si appellavano a lui con Monsieur e la deferenza con cui le buone maniere impongono di rivolgersi ad un bravo ed onesto cittadino della bella vita parigina. Era divenuto uno dei tanti, se non fosse stato per la distanza con cui lo schivavano quelle poche persone che era riuscito ad incrociare.

Un altro inchino.

Un altro Bonsoir Monsieur.

Un piccolo assaggio di quella che era la normalità.

 

Non ti piace poi tanto, vero Erik?

Preferisci la paura al rispetto, si ottiene di più.

 

No.

Non molto era cambiato.

Tutto era cambiato.

Una maschera nella maschera.

Lui, che interpretava sé stesso nei panni di un altro.

Quale acume in un tale disegno dalle contorte linee artistiche, quale meravigliosa composizione di vite.

Erano tratti dalle ingegnose volute, fili intessuti in trame sempre più fitte e loro solo le pedine.

Per tutta una vita era stato lui ad essere il giocatore, eppure non poteva far altro che prostrarsi di fronte ad un’arte in cui qualcuno finalmente, di sua pari intelligenza, sembrava averlo superato.

Incredibilmente fiero, sorpreso da non provare rabbia, competizione, delirio.

Non era mai riuscito a vedere Lucia come una persona come le altre.

Era sé stesso, quante volte se l’era ripetuto.

Una versione di lui non deturpata se non nell'anima.

Non riusciva ad accettarlo.

Ogni singola volta che sembrava averla compresa, aver districato i nodi che l’attorniavano, tornavano altri nodi più fitti e difficili da risolvere.

Ed ora questo.

Cosa l’aveva spinta ad avere un tale gesto di misericordia?

 

E se non fosse stata misericordia …

 

Pietà, come sempre.

La stessa pietà che detestava vedere in chiunque si scontrasse, quella stessa pietà che odiava vedere persino in Madame Giry quando l’aveva salvato dalle grinfie della compagnia gitana regalandogli il suo immenso dominio artistico.

 

Pensi che sia stata la pietà a muoverla?

Oh, Erik mi deludi! Lei non prova pietà!

 

Si stava facendo soltanto del male.

Una sofferenza sadica che s’infliggeva come un penitente in cerca di espiazione.

Non bastava la crudeltà della vita, lui stesso doveva affrontare una volta del tutto i suoi fantasmi.

Lui che poteva.

Ecco il perché.

 

Possibile che non vedi la somiglianza?

Non ricordi? Non ricordi proprio?

Non ricordi perché quella notte hai lasciato andare la tua Christine?

Eppure l’hai confessato così apertamente mentre ti spezzava l’anima ed il cuore.

Tu l’hai resa libera di amare chi voleva, di rovinarsi il talento in questa splendente prigione dorata.

Tu hai donato a Christine la libertà perché l’amavi …

E lei ti ha dato questo: il vederla per un’ultima volta.

 

«Taci!»

Ringhiò a sé stesso, o meglio, a quella parte di lui per metà incisa nel cuoio.

Ad ogni passo, ad ogni scalino che lo avvicinava la maschera diveniva più insistente.

Più forte.

Da quanto non sentiva la sua voce penetrarlo come un dardo di fuoco e fiamme? Da quanto restava in sordina intervenendo sporadicamente nella sua completa pazzia?

Era lei.

Sapeva che era vicina.

 

Riuscirai mai a dimenticare il suo nome?

 

Si nutriva di quel folle sentimento che lo coinvolgeva.

E si alternava ritmicamente al suono del tamburo che aveva preso a ripercuotersi in gola.

Perché, perché le aveva dato ascolto?

Era così potente ora che sentiva la sua mente stordirsi, vacillare come se, salendo le scale di quella villa, potesse in qualche modo scalare un montagna, inspirando aria talmente rarefatta da avere gli effluvi dell’alcool.

La sua mano guantata di nero non trovò alcun appiglio se non una balaustra di elegante e semplice fattura. Si sorresse ascoltando due, tre mille voci sovrapposte che bersagliavano con tenacia la sua mente totalmente gonfia dei suoi stessi pensieri affastellati gli uni sugl’altri.

 

Cosa stai facendo realmente? Stai solo andando incontro al tuo più grande fallimento …

 

«Taci ho detto!»

«Monsieur?» agganciato alla realtà dalla flebile voce di una domestica sul limitare di una delle innumerevoli porte che davano sull’ampio corridoio. «Vi sentite bene?»

Lui ancora ansimante, l’osservava con quel suo sguardo di ghiaccio perfino alla poca luce utile solo a potersi destreggiare il minimo possibile. Accennò con il capo sollevandosi in un’aria fiera ed di eccessivo orgoglio.

Non voleva farsi vedere debole.

Di nuovo la sua maschera di altera superiorità che incuteva timore.

E lo vide quel timore balenare negl'occhi stanchi di quella ragazza.

La vide tremare per un attimo, aprire leggermente le labbra sospirando.

Certo, lei non poteva sapere con chi stava parlando, meno degl’altri stupidi commensali.

Era così giovane, quasi una bambina. Aveva gli stessi tratti spigolosi che ricordavano un’acerba ballerina dell’Opera, forse non aveva visto nemmeno la sua tredicesima primavera.

«Cercavo Madamoiselle Daaé?»

Nemmeno un attimo di perplessità passò negl’occhi della cameriera, nemmeno uno.

«È - è ... ancora nelle sue stanze, desiderate che vi annunci?»

Sembrava stizza quella passata negl'occhi della cameriera.

D'altronde di quella ragazza, a cui doveva tutto il rispetto di una servetta alla propria padrona, conosceva ciò che era stata in passato, pochi mesi addietro era stata una cantante immaginava che avesse amici alquanto bizzarri o inquietanti.

Beata ingenuità.

«No, non è necessario.»

Doveva sbarazzarsene velocemente.

Scansarla con eleganza, senza nuocerle, ma oltrepassandola quasi non esistesse.

La sentì persino borbottare qualcosa  sui suoi modi e passare fra le sue labbra una sorta di sospiro di sollievo.

Un piccolo sipario che gli permise di sorridere.

Sorriso che scomparve davanti al battente in legno scuro a cui si trovava di fronte.

La stanza che corrispondeva allo studio da cui proveniva come gli aveva detto lei.

La sua stanza.


Cosa farai? Questo non è il tuo teatro, non puoi comportarti come l’assoluto padrone di tutto …

 

Era vero.

Fuori dalle mura dell’Opera Garnier era una belva ferita, imbavagliata. Chiusa in una gabbia.

Era più libero quando si nascondeva nel buio, acquattato nell’oscurità del palco numero cinque da dove assisteva agli spettacoli che più lo aggradavano.

No, questa volta era diverso.

C’era un motivo preciso per cui si trovava di fronte a quella porta, un motivo in realtà ancora sconosciuto.

 

Vuoi trovare la pace? Sì, ma a quale prezzo? Al tuo cuore che rallenta ad ogni minuto?

 

Chiuse gli occhi

Alzò il pugno incerto.

Le nocche minacciose contro il legno attendevano solo il suo comando.

Un istante, un istante ancora solo per riprendere fiato.

Un istante gravoso, quel infinitesimale lasso di tempo in cui ogni freno o repressione prendono il libero sfogo, trovandosi ad eruttare come un vulcano d’insicurezze e paure.

 

Cosa le dirai? Che ora vuoi rovinarla?

Vuoi leggere ancora il disprezzo nei suoi occhi, vederle sussurrare al suo principe azzurro quanto lo ama prima del gravoso sacrificio a cui l’hai costretta?

Sai di averla vista:l’hai vista annunciare il suo amore al damerino sul sottile filo delle labbra poco prima che le posasse sulle tue.

 

Basta!

Toc-toc

Silenzio.

La maschera finalmente smise di assillarlo.

“Forse sarà l’unico modo perché tu possa trovare pace.”

Ed aveva ragione anche in questo, lungimirante, infernale peccatrice.

«Avanti …»

Era lì, lo attendeva anche se non sapeva chi la cercasse.

Ogni azione successiva fu automatica, nel assenza di rumori più completa.

La sua mano scivolò fino alla maniglia, il pomello roteò praticamente da solo.

I cardini cigolarono appena, ma nella quiete in cui tutto tace poté udire anche i loro lamenti accedendo così nell’anticamera della stanza da letto del suo eterno amore.

La vide.

Di fronte alla finestra osservando la luna, avvolta nel suo splendido abito dalle ampie balze di un candido rosa, gli intricati ricci domati in morbide trecce che ne accorciavano l’effettiva lunghezza carezzandone dolcemente le vergini spalle nivee.

Era già cambiata così tanto.

Sembrava più composta, signorile, adulta.

Una stella fioca della giovinezza che le era passata di fronte, ma ancora imperlata di quella suadente casta ingenuità.

Non si voltò immediatamente, ma fu un eternità per Erik. Un eternità che continuò ancora quando, con quella che sembrava una lentezza studiata, decise di vedere chi era giunto nella sua stanza.

Le pareti si cristallizzarono. Tante, piccole ed infinite pagliuzze gelate che presero possesso di entrambi.

Christine era certa che fosse proprio lui.

Sapeva del fratello di Constance, ma a lei non servivano altre conferme.

L’avrebbe riconosciuto ovunque e distinto anche se milioni di uomini della sua stazza avessero indosso i suoi stessi abiti.

Lei lo conosceva.

Bene.

Oltre quello a cui gli altri si fermavano.

Lei conosceva la sua anima tenebrosa, era entrata nel ventre buio del suo mondo, aveva vissuto la sua musica e ne era rimasta soggiogata, avviluppata alla barca che l’avrebbe fatta naufragare.

Non pensava che sarebbe mai più potuto accadere, eppure ci sperava.

In sordina, lontano da chi ne poteva rimaner ferito, ma voleva che quell’incontro avvenisse.

Quella notte si era consumata troppo in fretta, troppo a caldo.

Voleva avere una seconda possibilità, lontana dalla rabbia, dal rancore, dalla paura che quell’uomo continuava ad incutergli.

Lontana dalla pietà.

Si osservarono entrambi, come quella sera durante la Masquerade, parlando con il solo gioco dello sguardo dai due lati opposti dell’anticamera separati dallo sfarzoso mobilio e oppressi dal soffitto più basso rispetto ai piani inferiori.

Quante infinite e sconfinate parole.

Lui attendendo di udire ancora la sua voce, la sua melodiosa, superlativa, deliziosa voce di giovane donna che delicata lo aveva sfiorato con così tanta grazia che un velo di organza si sarebbe nascosto per la vergogna.

Lei con gli occhi umettati dalle aride lacrime di chi non ne ha più a sufficienza da versare.

«H-ho bisogno di sedermi …» confessò all’improvviso cercando a tentoni il bracciolo di una delle poltroncine. Riuscì a trovarla e a prendervi posto, ma non era sufficiente. «Come hai fatto a…» Non vinceva la pesantezza dei suoi occhi verdi, protetti dalla maschera che lo ritraeva come un teschio. «Non credo che m’importi …»

Perché riusciva ad aprirgli il suo cuore solo se non lo guardava in volto?                

Entrambi avevano una risposta, un’interpretazione alla stessa domanda pronunciata in contemporanea.

Per lei erano i troppi e dolorosi ricordi di una vita passata sotto l’inganno, ma che fu piacevolmente sicura.

Per lui era la rimembranza dell’orrore del suo viso, di come riassumeva ciò che dentro di lui si era distrutto.

Un’altra interminabile pausa in silenzio.

Era dura pronunciare quelle parole: per anni quell’uomo aveva provato per lei un amore strano, contorto, malato che l’aveva resa dipendente. Sì, dipendente e soffocata al tempo stesso, l’aveva logorata, distrutta e trasformata.

Sapeva che doveva staccare da lui quel cordone ombelicale.

Sapeva che quella dipendenza doveva essere recisa. «Sei qui perché non siamo riusciti a dirci davvero addio …»

Il coraggio che aveva cercato, infine, era risieduto in un unico pensiero.

Quella convinzione aveva preso radici che ben salde si erano ancorate fino in fondo al suo pensiero: lei aveva paura di lui, che fosse di nuovo giunto da lei per cercare di riprendersela o quant’altro, anche se non lo mostrava apertamente.

Come biasimarla d'altronde.

Era pur sempre il solito mostro, solo più ferito e arrabbiato di prima, anche se per ragioni diverse che non coinvolgevano quello che era stato il suo primo intenso amore.

Colei che non avrebbe mai dimenticato.

E questo lui avrebbe voluto dirglielo. Voleva a tutti i costi riuscire a pronunciarsi, eppure le parole, il flusso di pensieri che aveva ripreso a vorticare nella sua mente cercando di trovare un filo logico, in quel preciso istante si era celato dietro quella durezza con cui era abituato a trattare.

Sentiva ancora il tradimento logorargli l’animo.

«Sono qui per dirti addio.» lo ripeté quasi afono. Una nota stridente su quell’uomo pazzo e geniale che usurpava i troni con la potenza della sua voce.

«È giusto, ma ne sono ugualmente dispiaciuta.» rassegnata, mollemente abbandonata ad una sorta di tesa fiacchezza, cercava di trovare il giusto preambolo per dire ciò che davvero voleva confessargli. Sollevò quindi i suoi adorabili occhi da cerbiatta, attendendo ancora per assaporare al meglio quel poco tempo che la Grazia era riuscita a concedere loro. «Sembrano siano passati degl’anni … mi sento addosso tutta la stanchezza del tempo che è trascorso dal nostro ultimo incontro …»

«Sarai felice Christine?»

Sarai felice lontana dalla musica?

Avrebbe potuto liquidare con un sì deciso l’incomodo quesito, dire baldanzosa che tutto questo era quello che aveva sempre desiderato, ma per quanto nella sua vita avesse calcato più il proscenio che il pavimento, sapeva di non avere le giuste doti drammatiche per mentire.

E poi ci sarebbe riuscita realmente a mentire proprio a colui che la conosceva meglio?

«Ho una tremenda paura del futuro, è davvero difficile camminare da sola. Da quando non vivo più all'Opera mi sento insicura, indifesa …» non era certa di nulla, questo non lo avrebbe mai soddisfatto se solo non avesse aggiunto ciò che più le premeva. Forse c’era la risposta giusta alla domanda del suo vecchio maestro.

«Non rimpiango la mia scelta, amo Raoul e sono pronta a rinunciare ad una parte di me per avere la mia vita con lui. È giunta l’ora che io cresca …»

La vita a teatro  era stata l'unica vita che aveva mai avuto. Giocare con la finzione, vivere milioni di vite diverse, cantare e ballare come se calcando la scena fosse l'ultima cosa che facesse.

Protetta e contaggiata dal suo spirito, mai si era sentita realmente viva.

Viveva per realizzare lui, la sua arte. Ma lei non era mai realizzata.

Avrebbe provato nostalgia? Tanta, forse infinita.

Ma per amore era pronta a rinunciare persino al sacro fuoco dell'arte.

Lei aveva scelto. Aveva scelto una vita senza la musica.

Erik vide nei suoi occhi la determinazione.

Era quindi questo ciò che voleva, nonostante ne fosse deluso ed amareggiato.

L'avrebbe lasciata libera, come la notte del Don Juan.

«È giunta l’ora che io ti lasci andare …»

La giovane ebbe come un’incredibile sensazione di smarrimento, l’unica consapevolezza con cui non avrebbe voluto confrontarsi realmente. Non si sentiva ancora pronta forse, ma non avrebbe mai incespicato i primi passi attendendo quel momento.

Mai.

Come il pargolo che tentennante si allontana dalla presa salda della propria madre, anche lei ora doveva vivere lontana dalla sua guida, dalla sua voce.

Ricorda sempre di respirare, Christine.

Non dimenticarlo.

Lei inspirò lentamente, lasciando scivolare l’aria fuori in un sospiro come di sollievo.

Un macigno che le si era sollevato dal petto, anche se avrebbe voluto altro tempo ancora.

Invece egli, tiranno, aveva già cominciato a tendere i suoi fili.

 

Fuori, al piano inferiore, c’era qualcuno che aveva premura di raggiungere il Fantasma.

Qualcuno che aveva più paura dei vivi che dei morti a ragion veduta.

Camminava svelta, incurante delle occhiate che le erano state lanciate.

La maschera gettata lungo il corridoio per avere il campo visivo più ampio possibile ed aveva percorso le scale saltando di gradino in gradino. Non aveva bussato.

Era semplicemente entrata in quella bolla dove tempo e spazio apparvero diradati.

Era entrata chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle, poggiandosi trafelata su di essa come ad assicurarsi che fosse serrata nel migliore dei modi. Entrambi la guardarono stupiti, forse adirati per quell’intrusione gratuita.

Christine realizzò solo con qualche secondo di ritardo la scena, sollevandosi dalla sedia come se fosse stata colpita da milioni di spilli e pensando immediatamente un modo per far fuggire Erik il prima possibile.

Se Constance si fosse messa ad urlare, chiunque sarebbe accorso ed avrebbe sicuramente riconsegnato quell’assassino alla giustizia.

No, gli aveva già fatto troppo del male.

«Constance, ti prego non è quello che credi …»

Gli occhi di Malice si spostarono torvi dall’incredula ragazza a quelli di Erik.

Non aveva tempo per eccessive spiegazioni.

«Siamo nei guai!» disse avanzando velocemente verso di lui, ignorando completamente lo sgomento di Christine. «Ci hanno ingannato entrambi!» Erik non capiva, né si pronunciava. Attendeva solo che chiarisse la situazione, il perché di quell’atteggiamento, quella strana rabbia mista all’angoscia che leggeva nei suoi occhi resi vivi da una nuova ulteriore fiamma. «Le lettere sono dei falsi, vogliono incastrare il conte e noi di conseguenza! Non capisco, non capisco!»

«Calmati ora …» le ordinò con quello stesso fare paterno che Christine aveva ascoltato così tante volte.

Lei di suo canto era ancora frastornata da tutto quel trambusto.

Parlavano di lettere, falsi, incastrare il conte.

Non riusciva nemmeno a fare una domanda per schiarirsi le idee.

Sapeva solo che quella donna, Constance, che tanto le si era dimostrata amica, sembrava conoscere il Fantasma dell’Opera. Anzi poteva addirittura permettersi di fulminarlo con lo sguardo senza che lui perdesse il controllo.

«Non capisci, non posso calmarmi!» Malice gesticolava animosamente, ripercorrendo con i propri passi la stessa linea immaginaria ripetutamente, solo per provare a controllare il nervosismo che le attanagliava l’orgoglio irrimediabilmente ferito. Mai si sarebbe aspettata un simile colpo bieco nei suoi confronti. «Dieci anni di onorato servizio! Schifosi bastardi!» Sarcastica, cercava e ricercava quel crocefisso perduto sul seno vuoto, dove ormai non esisteva più quella trepidante rassicurazione. Questo non fece altro che aumentare la sua collera, rendendola ancor più velenosa.

Una macabra ironia della sorte.

«Ecco perché volevano che fossi tu a trovare le lettere, non avresti saputo riconoscere un falso! Invece per me è stata la prima lezione di Vidocq …»

Portò una mano al suo corsetto in un  gesto di stizza.

Da esso sfilò quattro fogli ripiegati su sé stessi buttandoli a terra sdegnata.

Sul loro ventre il sigillo imperiale impresso nella ceralacca, ormai rotto dalla sua curiosità.

«Merde!» Ormai era completamente furiosa. Non riusciva a stare ferma, l’ira le accecava vista e sangue che ora ribolliva come acqua sul fuoco. «Dobbiamo andarcene e presto! Tu devi nasconderti, io …»

«Cosa succede?» la timida voce del Giglio era avanzata titubante, debolmente aveva allungato uno dei suoi petali per sfiorare le ali dell’Angelo che improvvisamente apparve irretito.

Aveva completamente dimenticato di non essere sola.

I suoi occhi saettarono per un momento in quelli di Christine, poi a quelli di Erik, tornando infine a quelli della sempre più smarrita ragazza.

Non avevano il tempo di spiegarle.

Dopo un ultimo sguardo all’uomo diede loro le spalle, massaggiandosi le tempie come cercando con quel gesto di schiarirsi le idee mentre il Fantasma rimaneva cauto, forse troppo mansueto per come lo ricordava Christine.

Era davvero molto cambiato.

E quella donna, ora non sapeva più chi fosse.

«Dobbiamo andare via il prima possibile da qui …»rientrò con i nervi tesi, i muscoli della mascella contratti, con tutte le intenzioni di riprendere le lettere, ma prima che potesse anche solo avvicinarvisi di nuovo la tiepida voce di Christine intervenne.

«Constance, ti prego dimmi cosa sta succedendo …»

Si voltò rapida come una serpe intenta nel mordere qualcuno, l’indice inquisitore puntato contro il petto della cantante che indietreggiò di un passo spaventata.

«Il mio nome non è Constance!» gli occhi furenti, i denti serrati provando a non inveirle contro perché in fondo lei era una vittima suo pari.

Solo che lei non apparteneva a quella categoria.

Lei era l’aguzzino.

Prese le lettere da terra osservandole accuratamente. Le sue dita scivolarono sulla carta ingiallita ad arte laddove la data riportava vecchie notizie di un palazzo in cui probabilmente non erano mai state viste.

Sapevano che il conte riceveva visite dai messi imperiali, come quasi tutti i nobili in vista del resto.

Sarebbe stato utile avere un capro espiatorio, sicuramente.

Poi quell’ordine, quel maledetto ordine a cui non voleva ubbidire.

All’improvviso allungò la mano verso Christine, porgendole le lettere con delicatezza.

«Madamoiselle Daaé, consegnate queste lettere al conte de Chagny non appena si sarà ripreso, lo troverete privo di sensi nel suo studio.» dal corsetto prese anche una chiave che chiuse fra le dita ancora libere della soprano. «Ascoltatemi bene: stanno cercando d’incastrare Philippe de Chagny come traditore del popolo, chi e come non gli è dato sapere. Avvertilo che dovrà perquisire la sua casa e cercare ovunque falsi e documenti che attestino il suo coinvolgimento politico per impedire l’ascesa al potere della Commune. Dovrà distruggere tutto. Lui è in pericolo. Voi tutti siete in pericolo, persino noi due.» per un attimo si volse ad Erik dietro di loro in silenzio, forse troppo preso dal suo di orgoglio per dare a vedere la benché minima preoccupazione. «Allora mi avete sentita Christine?» Lucia la scosse appena, infondo doveva immaginare che avrebbe avuto una sorta di sconquassamento dopo essere piombata così nella sua vita.

La ragazza non osava alzare lo sguardo dalla carta che teneva stretta fra le dita, come se cercasse attraverso quel contatto di capirne l’importanza. Solo quando avvertì le gelide mani della donna che aveva di fronte sulle sue spalle nude, si riprese osservandola con occhi nuovi. Qual’era dunque il suo vero volto?

Poteva fidarsi di quella confidenza che c’era stata fra loro?

Pensava che questa volta ci fosse un’amicizia sincera, invece aveva ottenuto soltanto menzogne.

E le sue di speranze? I suoi progressi?

Le aveva mai qualcuno portato un po’ di rispetto?

«Christine, non ho molto tempo. Dovete dirmi se mi avete capita.»la scosse ancora con più veemenza.

«Lucia, adesso basta!» Erik impartì quell'ordine, con quel suo tono da rimprovero maturo, colmo di una collera controllata in apparenza.

 Incatenati l’un con l’altro.

La Morte che cercava di placare il suo Angelo Vendicatore, una mano posata sulla sua spalla intimandogli di fermarsi, mentre egli tentava di parlare con la purezza di una Povera Innocente.

Erano lì, tre anime di diversa forgia, con bagagli ed esperienze vissute, lontane, contorcendosi in una catena che solo il Destino era stato capace d’intrecciare ed ora si apprestava a disfare.

Annuì, con le lacrime che le si gonfiavano sulle ciglia, mentre Lucia con una carezza gentile cercava di lenire almeno un po’ di quell’infausto dolore.

Quella ragazza stava perdendo troppo per una notte sola.

Ora anche tu hai il cuore spezzato.

«Mi dispiace Christine …»

Le sussurrò prima di essere trascinata da Erik via.

Quando ebbe finalmente il coraggio di affacciarsi non vi era più nessuno.

L’uomo che per lei era stato il padre, la donna che per lei era stata l’amica, entrambi inghiottiti da un cielo limpido, in una notte bellissima di luna piena.

Non le rimaneva molto altro se non un ultimo fugace sguardo.

Il loro ultimo addio.

 

Avrebbe dovuto consegnare Erik.

Impacchettarlo pronto per la gendarmeria.

Preferibilmente vivo le avevano detto, ma anche se fosse stato morto a nessuno sarebbe importato eccessivamente.

Si stava ribellando.

Aveva progettato tutto: il permesso di incontrarla, la sua prossima messinscena.

Non l’avrebbe ucciso alla fine dei giochi, né, tantomeno, catturato se fosse mai stato possibile.

Lei che lo avrebbe lasciato andare fingendo di non essere riuscita a catturarlo, anche se sapeva che non le avrebbero mai creduto. Per una volta voleva fare la cosa giusta.

Solo per una volta.

Ogni cosa scorreva troppo in fretta, svolgendosi ad una velocità a cui si faticava stare dietro.

Era di nuovo stato riscritto tutto.

Lei aveva scoperto le loro carte, quelle nascoste nella manica delle loro belle giacche.

Il conte de Chagny era innocente, come la sua futura compagna.

Nelle lettere lo specificava senza l’alcun minimo dubbio.

"Anche la borghesia vuole il nostro imperatore. Constance Saint- Simon potrà farvi da testimone."

Avrebbero avuto i mezzi per farla passare per chi non era realmente e di Lucia ormai sulla carta non ve ne era più traccia, di quella ragazza pallida e arrabbiata era rimasto solo lo spettro che rimestava la carne di una donna ormai divenuta adulta. Lei aveva lavorato per una truffa ai danni di quel popolo che tanto andavano a proteggere, sarebbe finita in mezzo, sarebbe stata condannata sicuramente.

Ma li aveva scoperti prima che fosse troppo tardi.

Tutto grazie ad un gesto fortuito, un attimo di distrazione che le sarebbe costata cara.

Non avrebbe mai analizzato le lettere se non avesse visto quella maledetta firma, mai si sarebbe fermata a guardare con più attenzione se quel piccolo vezzo di segnare impercettibilmente i suoi lavori non l’avesse tradito.

Lo conosceva troppo bene, conosceva altrettanto il suo modus operandi.

Lei, Erik, i de Chagny.

Tutti vittime dello stesso raggiro.

Perché?

Sapeva bene che Vidocq da qualche tempo era scontento di lei, della sua ribellione. Voleva sbarazzarsi persino della sua Malice. La chiamava così quando la conobbe.

La sua Malice.

Alexandre aveva da sempre avuto una predilezione per lei.

Erano stati addirittura amanti per un brevissimo periodo di tempo, magari per comprarsi quella vendetta tanto attesa quando ancora nel suo cuore era Lucia a cercare di sopraffare la natura nera di quel nome a lei calzato come un guanto.

Da allora Malice non l’aveva più abbandonata.

Gli aveva donato tutto.

La sua innocenza, la sua tenacia, la sua intera esistenza.

E non aveva ricevuto nulla in cambio.

Anzi, era stata gabbata, irrisa probabilmente e chissà cos’altro.

Si stavano prendendo gioco della sua intelligenza, contando sulla fiducia che aveva sempre riposto in lui e nella sua organizzazione. Ora cosa le restava?

Sciocchi.

Non era ancora giunta la sua ora.

Dieci anni.

Si ripeteva ossessivamente.

Dieci anni della mia vita, le mie mani intrise di sangue per loro.

Solo per essere truffata, illusa, tradita.

E Colas parlerà, eccome se parlerà!

Che Dio sia testimone, la pagherà quel mentecatto, la pagherà lui per primo!

La cavalcata dei due Angeli divenne ancor più tetra.

I nitriti nervosi dei cavalli irruppero nel silenzio, incitati di continuo dai talloni sulla loro groppa.

I loro manti ingoiati dall’oscurità, i loro destini intrecciati a quelli dei loro cavalieri.

La Morte nel suo manto di sangue.

Un Angelo dell’Apocalisse assetato di vendetta.

Voleva la guerra, la carestia, la pestilenza e presto si sarebbe abbattuta sugli uomini come traditori.

Colas il loro martire, sacrificato all'altare punitivo della rappresaglia.

Un messaggio chiaro che a lei non avrebbero dovuto farlo, che mai più si sarebbero dovuti avvicinare.

«Devi tornare a Parigi, evita le strade principali e la gendarmeria per quanto possibile.» Si fermarono poco prima di raggiungere la villetta dove alloggiavano fino a quella sera. «Torna all’Opera, lì sarai al sicuro fino al mio arrivo, allora ti spiegherò tutto …»

Una svolta.

La maschera taceva.

E lui per istinto si fidava di lei.

Voleva fidarsi, riscoprendo una pazienza che non sapeva gli appartenesse in alcun modo.

Un nuovo modo di vedere il giusto e lo sbagliato, un nuovo modo di giudicare, perché il mondo fuori dal suo teatro era completamente diverso e lei lo conosceva.

«Cosa farai?»

Le redini salde nelle mani contrarie.

I due Angeli vicini.

Guardavano lontano ad un orizzonte inesistente.

«Io devo sistemare le ultime faccende, questo non dovevano farlo …» si voltò ed in un attimo ogni cosa assunse un vero senso.

Per la prima volta da quella sera si fermò ad osservare il suo viso tirato.

I suoi sconfinati occhi, resi neri dal buio, si confondevano nella notte,  persi in quel fascio di luce bianca che illuminava tutta la proprietà.

Si riflettevano in essi lingue di fuoco rosse, che mangiavano senza ritegno ogni cosa.

Erik vide in lei come l’ira dell’Angelo della Morte era stata scatenata.

La sua rabbia inondava con tremende catastrofi il suo animo.

«E sia …»

«Ti stai ammorbidendo così tanto?»

Lucia sorrise. Ma quel sorriso bieco e amaro di chi ha qualcosa in sospeso che occupa tutta la sua concentrazione.

Eppure quell’angolo della bocca sollevato con un mezzo sbuffo, non gli sembrò così ispido ed insopportabile.

«Forse …»

Smisero di parlare, perché le parole erano diventate di troppo, o forse perché cominciarono a non essere necessarie.

Se avessero potuto guardare nelle loro menti avrebbero scoperto di come i loro pensieri si sovrapponevano coincidendo.

Perfetti,  incastrati come i due pezzi di un vetro infranto.

Tutto il loro senso d’incompiutezza racchiuso in quell’istante d’attesa, in quel silenzio nel nulla che gravava sulle loro teste appeso ad un capello.

Solo i loro sguardi puntati sull'anima di entrambi e la piccola mano di Lucia che salì intrepida fino alla parte martoriata del suo viso.

Lo toccò, insinuando la punta delle dita sotto la maschera delicatamente, risvegliando in lui il Fantasma.

Si ritrasse ad un primo momento, gorgogliando come una bestia ferita e guardando la sua mano come se fosse il bastone con cui veniva sempre picchiato.

La paura infantile che si ripetesse quel gesto, che gli strappasse la maschera di dosso per costringerlo ad allontanarsi, fuggire da lei che, osservando l'orrore del suo volto, provasse quel giusto moto di repulsione.

Ma lei non faceva altro che sentire sui suoi polpastrelli le piaghe che deturpavano il suo volto, toccava il suo viso senza disgusto, senza paura.

Lo vedeva attraverso il tatto e non aveva bisogno di strappargli la maschera.

Diversa da come l'aveva conosciuta.

Ma l'aveva mai conosciuta fino ad allora?

«Cerca solo di stare attento …»

Lei ti sta proteggendo, Erik.

Ascoltala, fidati di lei.

Perché lei è come te …

La osservò montare agilmente a cavallo, allontanarsi lungo il dolce pendio della piccola collina che dava su il vasto campo di viti sarebbero state abbandonate proprio nel loro massimo splendore, la fiera da combattere.

Quella notte per la prima volta si rivolse al suo Dio, quello che lei pregava con devozione.

Gli chiese di proteggerla.

Gli chiese di riportarla a lui.

 

Ogni filare era morto sotto uno spesso strato di desolazione.

I mobili coperti da spesse coperte bianche si ergevano come spettri spaventosi, dalle forme disarticolate e l'aria era ferma, sospesa, quasi stesse creando una fitta coltre di foschia dal nulla che regnava inesorabile in quella casa ormai abbandonata.

Gli ordini erano stati chiari: appena si fossero recati alla festa, la villa sarebbe dovuta rimanere completamente deserta.

Cancellata ogni traccia di vita all'interno.

I Saint - Simon mai esistiti.

La mattina stessa era stato comunicato ai domestici di preparare i propri bagagli, congedati con una lauta ricompensa per il lavoro egregio.

Madame Bonnet provò a protestare, chiedendo se il servizio non fosse stato impeccabile, ma la lettera di referenze che le aveva stillato monsieur Saint-Simon l'aveva placata.

“Lasceremo Parigi domani.”

Ma lui doveva essere lì.

Doveva trovarsi alla villa come concordato, anche se in quell'immenso ed irreale silenzio sembrava celarsi l’inesistenza e basta.

Malice si muoveva felpata.

Non voleva che qualcuno la sentisse.

Volava sui suoi passi mentre percorreva la rampa di scale con calma trattenendo tra le sue mani il pugnale, fremente di affondare nella carne la sua sete di sangue, delizioso banchetto di una vendetta che aveva maturato negl'ultimi mesi.

Gli scalini si divisero, raggiungendo con due curve specchiate il primo piano oltre il quale si trovavano alcune delle stanze dove si poteva nascondere il vile verme.

Ogni porta si aprì lentamente.

Il salottino.

L'aula della musica.

Lo studio.

 

Bang!

 

Un'esplosione terminata nella nebbia.

Le orecchie fischiavano.

Gli occhi si abbassarono.

Il cuore batteva più forte, per poi rallentare.

Tu-tum.

Tu-tum.

Tu-tum.

Un gemito di dolore

Una mano sul ventre, le dita macchiate di sangue.

Il suo sangue.

Il verme la stava aspettando.

 

Note dell'autrice: Buonasera! Sono molto ispirata, forse perchè queste sono le battute finali. Già, mancano due capitoli più l'epilogo (che non so se dividerò in due parti per l'idea che ho!) Sono tornata gente!

In questo capitolo vediamo che Erik si è decisamente placato, questo perchè sta effettivamente evolvendo dallo stato in cui era riversato fino a che rimaneva nel suo teatro vittima dei propri pensieri. Si sta finalmente risolvendo e la vicinanza di Lucia influisce sul suo stato d'animo. Inoltre credo che l'esperienza con Christine, il suo lasciarla andare lo abbia veramente fatto diventare un'altra persona anche se ... bene non dico altro. Certo è che mentre lui trova il controllo più o meno, Lucia/Malice lo sta perdendo fino al culmine alla fine del capitolo.

Spero che la scena si sia abvbastanza compresa e che non sia confusionaria.

L'incontro fra Erik e Christine l'ho voluto asettico, sbrigativo in un certo senso, molto emozionale e distaccato al tempo stesso, proprio in virtù del fatto che lui idealizza Christine e continuerà sempre a farlo. Invece con Malice è stato tutto diverso e forse comincia a capire cosa prova realmente. Quello con Christine sarà sempre un amore platonico, cristallizzato mentre con Lucia è pura passione. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, spero proprio che avrete modo di scrivere due paroline per me ^^.

Con questo credo di aver concluso, spero il capitolo parli per me!

Ringrazio sempre chi mi segue.

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


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Capitolo 17
*** CHAPITRE 16: Mains trempées de sang. ***


 

Note dell'autrice: Tutto questo per dirvi con una nota di sdrammatizzazione che nel prossimo capitolo sono presenti scene di violenza credo abbastanza forti ed esplicite, vi è presente anche una massiccia dose di sangue. Io personalmente non approvo la violenza in alcun modo, né tantomeno la giustifico, non accetto la giustizia privata, ma per il personaggio che ho creato è stato necessario avere a che fare con un tale atto. Spero di non offendere nessuno (il rating rosso c'è praticamente per questo capitolo) e soprattutto spero che comprendiate questo passaggio senza condannarlo. Talvolta è la storia a scriversi e non l'autore a farlo.

Il prossimo capitolo(nonché penultimo) tornerà ad essere più introspettivo e soprattutto sarà completamente dedicato al nostro Master e alla nostra Lucia.

Ringrazio sempre chi mi segue.

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally

CHAPITRE SEIZE: Mains trempées de sang.

Era stato un leggero bruciore all’inizio.

Lieve, quasi impercettibile.
Troppo inaspettato.
Aveva avvertito il proiettile lacerare e penetrare la sua carne, dentro le era rimasto solo un silenzio interrotto dal fischio dell’esplosione, gli occhi che venivano appannati dal sangue e dal suo odore che si propagava prepotentemente nell’aria pizzicandole le narici fino alla testa.

 Pensava di coglierlo di sorpresa, lui non sapeva che era riuscita a scoprire il loro subdolo inganno.
Non poteva sapere che Malice esigeva il suo sangue.
Eppure aspettava che arrivasse per spararle.

Forse era giunta la sua fine, ma non se ne sarebbe andata senza combattere.
Le avevano sparato ma cercava di sorreggersi impugnando la sua arma con tutta la forza che riusciva a racimolare, le spalle curvate per avvertire di meno lo spacco rovente sotto la sua costola.
Ad ogni respiro una fitta, ad ogni movimento vi erano fiamme dilanianti che si divulgavano per tutto il suo corpo come la predica di un prete sul pulpito.
Un dolore crescente, progressivo che viaggiava come mille formiche.
Ma nulla, nulla la poteva fermare dal provare a colpirlo con un urlo frustrato.
Era debole, troppo debole.
Il sangue lavava via il suo vigore, come pioggia che spazza via lacrime tristi versate su di una tomba, e lei, che tentò di infliggergli un fendente in quella porzione di collo scoperta, si ritrovò bloccata, agonizzante ad una distanza infinitesimale dal suo viso.
Malice continuava a divincolarsi, strattonava tra un gemito e il respiro che le si stava facendo via, via più stanco, affaticato.
L’aria non voleva più uscire.
Le dita di Colas le avvolgevano i polsi, strette come delle corde che corrodono la pelle.
Gli bastò un semplice movimento per spingerla via con una forza brutale.
La sua schiena cozzò contro la ringhiera delle scale, il pugnale le cadde oltre la balaustra atterrando sul piano dove giacevano i piedi delle due ulteriori rampe ricurve.
Udì i suoi passi avvicinarsi spavaldi, l’unica cosa che le diede la forza di alzare gli occhi lesi ed appannati verso di lui.
Colas, ormai privato delle inutili suppellettili del suo costume, teneva la pistola ancora calda sulla spalla, disinvolto, sfacciato, fischiettando un motivetto stonato.
Sorrideva beffardo a colei che aveva sempre visto come una minaccia.
Vidocq non sapeva cosa aveva in mente Balayeur,  lui voleva solo uno scalpo non due.
Un cadavere dall’aspetto evanescente di un Fantasma.
Non voleva lei.
Ma Colas era stanco, stanco di averla sempre tra i piedi, stanco del sentirsi considerato inferiore, stanco di osservare la sua ascesa e di venire calpestato dalle sue scarpette lussuose.
Odiava essere battuto da una donna.
La donna che ora gli era davanti, finalmente placata da quella sua perenne collera.
Pensare le era diventato difficile e ancor di più reggersi sulle proprie gambe.
Tremava.
La sofferenza, l’incapacità di governare il suo corpo.
La paura.
Tutto contribuiva a renderla attaccabile.
Se ne stava aggrappata al parapetto cercando una posizione per potersi almeno difendere ed intanto i suoi occhi non smettevano di osservare le mosse di Colas con sprezzo, mentre si azzardava ad accarezzarle il fianco ferito risalendo cautamente lungo la vita sottile.
Una strana gentilezza nel toccarla, qualcosa che preludeva al peggio.
«Non sai da quanto aspetto questo momento …» Le sarebbe bastato così poco per rendere la sua fine meno dolorosa, un attimo d'indulgenza, un minimo di terrore, quel tanto che il suo ego ne fosse ripagato. Se solo si fosse fatta vedere meno sicura, audace, coraggiosa, magari debole come il suo sesso le imponeva.
Aggraziata e morbida come una rosa rossa con la pelle di velluto, dal profumo inebriante che tanto portava alla pazzia un uomo. Quel profumo che sul collo delicato aveva un sapore ancor più prelibato, assassino nel suo stordirti catturandoti in quell’incavo.
Quale spreco.
Lei lo detestava, preferiva addirittura la compagnia di un pazzo assassino storpio alla sua.
Eppure era sempre stato un conquistatore, uno che riusciva ad avere le donne facilmente.
Per lui sarebbe stato uno sfizio, togliersi una curiosità. Non gli interessava altro.
Ma lei no. Era la puttana di tutti, ma non voleva essere la sua, senza nemmeno implicazioni di alcuna sorta.
Lo disprezzava, non lo reputava all’altezza.
Ora chi è all’altezza Malice?
E fu un tutt’uno, la carezza divenne il suo indice affondato nella ferita.
Un gorgoglio l’unico suono che riuscì ad emettere, perché ora, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto urlare.
Il dolore insopportabile divenuto più forte, mentre si erano rotti gli argini del suo sangue. Il corpetto nero ne nascondeva il rosso cupo, ma la macchia umida ne iniziava il decorso segnando al suo passaggio la candida pelle del suo torace.
E Colas poteva sentire sulle sue mani sgorgare quella linfa vitale come una sorgente.
Ne avvertiva la consistenza viscosa, l’acre odore di ruggine e ferro, ne sentì il sapore quando si portò il dito alle labbra tingendole cremisi.
Doveva restare lucida, per quel che poteva.
Doveva andare via, scappare lontano.
Ma quella sua sete di vendetta l’aveva trascinata lì, in quella villa a morire tra le mani di un vile che l’aveva colpita alle spalle.
Colas non meritava tale onore.
Gli occhi di Erik balenarono nel buio della sua mente, da quella sua maschera che gli divideva il volto.
Una folgore baluginante in un ricordo lontano, in una notte che non esistevano né Malice, né il Fantasma dell’Opera.
Quella notte in cui non erano nemmeno due persone, ma una soltanto.
Erano passione, fuoco e collera.
Le sue parole impresse nella sua mente.


Lui non merita di ucciderti.

Aveva ragione.

Lui non ne era degno.
Le serviva un po’ di tempo, giusto per raggiungere il suo pugnale.


Ragiona Lucia, ragiona.

Non dimenticare, non abbandonarti alla confusione.


C’era ancora una possibilità, la sua via d’uscita sempre trascurata.
Il suo piccolo letale amico ben celato tra le spirali dei suoi capelli che caddero quando venne sfilato per essere affondato nella spalla di Colas con la sola forza della disperazione.
Le serviva poco tempo, eppure era diventato così difficile averne ancora.
Ogni gesto rallentato, ogni mossa troppo pesante, non riusciva nemmeno a camminare da sola senza sorreggersi alla ringhiera.
Ed era tutto ovattato, caotico, iniziava a sentirsi davvero troppo spossata.
Ma avrebbe lottato fino al suo ultimo respiro.

Anche quando all'inizio della rampa di scale era stata raggiunta da un sempre più freddo Balayeur e scaraventata giù da un calcio ben assestato alle sue fragili articolazioni. Gettata fra i gradini, scendendo rumorosamente giù, sempre più giù vicino al suo pugnale che eppure le sembrava estremamente lontano, soprattutto perché la mano che aveva osato allungare per prenderlo veniva resa inutilizzabile dalla suola della scarpa che la schiacciava.
Il bambino che risiedeva nel suo animo godeva di tale visione e scese fin da lei quasi trotterellando riprendendo a fischiettare il motivo, mentre con noncuranza si sfilava il Kogai dalla sua spalla.
Proprio colei che tanto era stata altera, ora strisciava in terra sputando sangue.
Quale gioia per lui che poteva approfittare e darle ancor più sofferenza.

  Il labbro inferiore le si era spaccato durante la sua discesa dritta per l’inferno più nero, un altro dolore che sommato agl’altri era divenuto insostenibile, sfiancante.
Sofferenza con il dolore.
«Mi hai fatto male, sai?»
Avvertì solo la sagoma indistinta ed affusolata che cadeva al suolo, il suo tagliare l’aria, l’infrangersi con tintinnio metallico sul pavimento lucido macchiato dal sangue che rigettava dal labbro e dal torace.
Il suo Kogai si focalizzava lentamente attraverso la nebbia dei suoi occhi.
E poi il buio.
Un calcio, dritto nello stomaco.
Sulla ferita.
Avrebbe voluto stendersi supina per ammortizzare il colpo e per placare il soffocamento che le aveva preso alla gola.
Troppa sofferenza.

Il suo corpo si rifiutava di morire, ancora e ancora tossiva per estrarre il grumo che le ostruiva le vie aeree. Un liquido ferroso le bloccava il respiro come una diga invalicabile, in un gorgoglio preoccupante che riuscì ad alleviare solo girandosi sul fianco sinistro ancora intatto.
Ad ogni spasimo un nuovo proiettile le si conficcava nella ferita. Oppure era lo stesso che sembrava si muovesse, che affondasse, che strappasse la carne sempre più dall’interno.
« Tu es ... un bâtard lâche
Combatté a lungo contro quella lacrima che si fece spazio fra le labbra tumefatte.
No, non l’avrebbe vista piangere.
Ma il dolore era troppo e ella vinse sulla sua volontà d’animo ancora così forte da permetterle di insultarlo.
Guardava Colas avvicinarsi e vedeva lui, più vecchio e stanco di come lo ricordava.
Era così che si preparava a picchiarla.
Sguardo severo, occhi come lampade nel buio e una soddisfazione mal celata del godimento che provava nel vederla soffrire.
Non era suo padre: lo riconobbe chino su di lei, mentre le spostava i capelli per avvicinarsi al viso contrito. Malice sentiva il suo fiato caldo dal sapore di cognac riverberarsi contro la pelle resa ancor più sensibile dalla sua sofferenza.
Soffiava nel suo orecchio e non aveva nulla di piacevole, anzi un conato di disgusto si aggiunse al malessere che le indolenziva progressivamente ogni parte del corpo.
«Sono impaziente di vedere la faccia di Vidocq quando saprà della tua morte, peccato che non potrò essere colui che ti ha vendicato, ma non temere: il Fantasma dell’Opera non avrà vita facile con tutta la Sûreté alle calcagna e presto ti raggiungerà …»
Era facile ora, così mansueta.
Poteva avvicinarsi e non essere graffiato dai suoi ruggenti artigli.
La tigre domata e divenuta un agnellino.
Ho sopportato la tortura.
Ho sopportato l'odio di un padre.
Mi ricordo dei miei denti stretti per non urlare.
Non lo farò nemmeno ora.

Un agnellino che di fronte al lupo non avrebbe mai dimostrato un solo straccio di terrore, la benché minima stilla.
Non l'aveva fatto con il Diavolo, non l'avrebbe fatto con un misero verme a cui dimostrò ancora il suo disprezzo con il grumo di sangue che gli sputò sul viso.
E lui, ancor più adirato, si pulì con la manica della camicia guardando alla donna forzatamente prostrata ai suoi piedi con un sorriso sarcastico.
D’altronde chi ne stava uscendo vincitore non era di certo lei.
La tigre non domata doveva essere abbattuta.
«Bene …» disse prima di alzarsi e sollevare il braccio. «Se è questo quello che vuoi …»
Ormai entrambi si trovavano sull’orlo del precipizio, giocando a fare gli equilibristi fra la vita e la morte, eppure Malice non aveva paura.
Per anni aveva visto dall'esterno la sua vita vuota senza mai viverla realmente, un insignificante affaccendarsi di letti e assassinii ed ora non voleva altro che soccombere.
L’aveva aiutato a fuggire.
Questo solo le importava.
E sapeva che Erik era troppo intelligente persino per un’organizzazione a vasta scala come quella a cui era appartenuta.
Lui era un genio.
Per un  istante si era illusa.
Aveva immaginato come potesse essere una vita assieme, troppo folle eppure così attraente, avvolta nel buio lontano da tutto isolati al mondo che crudele li stava rigettando.
L’avrebbe voluta, forse.
O magari sarebbero usciti dal loro guscio.
Ormai non aveva più senso domandarsi nulla.
L’occhio cavo della pistola guardava alla sua testa come ad un succulento banchetto.
«Addio Lucia …»
La fine era vicina.
Il cane tirato all’indietro con il suo latrato.
Chiuse gli occhi con un sorriso e pregò che Lucifero mandasse uno dei suoi Demoni in terra nello stesso girone del padre, perché, in una vita o nell’altra, lei avrebbe potuto godere della sua vendetta.
Attese lo sparo e si aspettò il silenzio o le urla dei dannati.
Invece nulla.
Solo un sibilo di frusta e di nuovo del metallo che cade, che cade, che cade fino a placarsi. Un suono meno aggraziato, pesante, forte.
Riaprì gli occhi e vide la pistola in terra.
Colas aveva le mani incatenate, cercava di opporsi a qualcosa che lo spingeva ad inoltrarsi nel buio.
Riconobbe il suo intreccio di seta, il cappio, la corda tesa che spariva nella tenebra fino alla presenza oscura padrona della sua forza.

Io ho un debole per le armi esotiche ... sarebbe doveroso da parte vostra mostrarmi come si usa questo magnifico oggetto, non trovate? 

Furono interminabili istanti in cui si contrapponevano alla ricerca di chi avrebbe soppresso l’altro.
L’uno gracile seppur in forze, cercava di tirare a sé quella figura tagliata dalla luce che s’insinuava tra le imposte mal sbarrate.
Una montagna vestita di sangue e rabbia.
Le ampie spalle irrigidite dallo sforzo, il petto che si muoveva controllato, la bocca tirata, il teschio che gli disegnava il volto distinguendosi tra i bagliori della luna e il nero della notte, dal cui fondo le fiamme nere del Tartaro sfavillavano incontrollate contro il mare in tempesta che erano i suoi occhi.
I dettagli si disperdevano nell’oblio ma era un’apparizione terrificante e bellissima allo stesso tempo.

Sei venuto a mostrarmelo quindi ...
«Erik …»
Il suono le uscì flebile, impercettibile se non ad un orecchio allenato.
E fu il suo nome appena pronunciato dal quelle labbra tremanti a renderlo ancor più potente.


Vinse attirando la sua vittima oltre il confine.

Vinse perché la Morte era tornata dal suo Angelo.
Legò il lazo al suo gomito accorciando le distanze, lasciandolo inciampare tra i dislivelli delle alzate.
Un passo.
Ancora.
Un altro passo.
Ancora, avvolgendo infine il suo collo con un movimento talmente fluido da risultare inesistente.
Da quella sua posizione Malice poteva vedere il volto del suo "vecchio amico" divenire sempre più paonazzo, colorarsi di un insalubre rossore, le sue braccia muoversi convulse per cercare di liberarsi e le sue mani, ancora sporche del proprio sangue, afferrare inutilmente il cappio che scivolava tra di esse come se fosse ricoperto di sapone mentre si aggrovigliava mortalmente al suo collo.

Guardò la vita scivolare via, verso il baratro, mentre la sua iniziava la risalita affondando le unghie nella roccia.
Erik la vide alzarsi come se fosse impalpabile, uno spettro armato.

Il pugnale da una parte e nell'altra la pistola, in una simbologia esasperata della stessa violenza che stavano vivendo.

La pelle impallidita adornata da scarlatti arabeschi in una composizione di macabri disegni.

Gocce impercettibili che scivolavano sul tappeto.

Quel tuono sordo nel silenzio della notte.

Il roboante suono di uno sparo.

L’aveva ferita.

 

Espia le tue colpe, Erik.
Bagna ancora con il sangue il tuo orgoglio.
Lui ha offeso uno dei tuoi Angeli.

Puniscilo!

Strinse più forte il cappio, voleva sentirlo agonizzare.

Il suo istinto lo guidava, la sua ira scatenata dalla stoffa inumidita e lacera.
Non poteva sopportare di essere arrivato tanto in ritardo.
«No, Erik … non così!»

Quelle parole le aveva già sentite.

Non dalla sua bocca, non così controllate.

E non era qualcun altro sotto il tiro della spada, ma lui stesso minacciato dal ragazzino insolente.

 «Lui è mio!»

Un inversione di ruoli, un nuovo gioco intrapreso. La tigre si era rialzata dal suo torpore, era tornata la crudele assassina che un tempo aveva governato quel corpo.

Quel mostro con cui combatteva, la paura che scaturiva.

Ecco ciò che nascondeva prudentemente sotto la sua maschera.

L’orrore di essere deforme nell’animo, qualcosa di più ripugnante di una semplice alterazione fisica.

Misteriosa, invitante e putrida come lo stesso terreno nero dell’inferno.

 

Ecco il terrore che generavi, ecco il tuo io più oscuro.

Osserva la tetra ombra nei suoi occhi.

Osserva la tua mano di tenebra scatenarsi.

Osservati riflesso nel tuo Angelo Nero ciò che sei stato, ciò che lascerai di te.

Guarda te stesso per un’ultima volta.

 

Il verme incespicò, annaspò cercando di tornare a respirare regolarmente.

Bevve aria, ne fece incetta ma senza mai dissetarsene realmente.

Come le braccia di uno stesso corpo, come una coreografia studiata per anni Erik lasciò la presa  allontanandosi di un passo.

La pistola si sollevò, il cane scattò appena lui fu fuori della sua portata.

Preciso, come solo un colpo ravvicinato poteva essere.

Un primo colpo.

Il ginocchio esplose distorcendosi innaturale, l’osso bianco fuoriuscì scheggiato in una sacca di viscido rossore.

Non era finita ancora.

Gemeva, si dimenava, soddisfaceva la sua sete di rivalsa.

«Speravo che almeno nella morte saresti stato più uomo Colas!»

« MAUDITE! MAUDITE PUTAIN!» Le urla di dolore furono un tutt’uno, l’epopea esaltante di un epilogo drammatico, le si sarebbero potute udire fino ai campi. Ed erano cibo per lei, si nutriva di quel dolore gratuito, di quella tortura.

Ne voleva ancora e ancora, giocando con la sua preda, consumandola lentamente.

«NON POTRAI SCAPPARE! VI TROVERANNO, MORIRETEEE!»

Un secondo colpo, il secondo osso lo fece caracollare contorcendosi come un fuco in terra.

Fredda come il ghiaccio, pallida come la neve.

Gettò la pistola.

Non le erano mai piaciute le armi da fuoco, così impersonali a suo dire.

Doveva essere esemplare, doveva essere grandioso, doveva essere epico.

Doveva essere un'arma bianca a prendersi quella miserabile vita, un'arma nobile come lui non poteva nemmeno anelare ad essere.

Un messaggio chiaro scritto nel sangue e non tinto nell’inchiostro.

Un ultimo crimine, un ultimo peccato per lasciare Malice per sempre.

Così, solo così troverò la mia pace!

Erik indietreggiò ancora, quel tanto che gli permise di guardarle il volto mentre costringeva il verme sui suoi arti distrutti dalle pallottole.

Teneva saldo il suo mento con la mancina, lo carezzava dolcemente con il pollice.

Lo sorreggeva, giocava con lui con un forza inaudita per le sue condizioni.

Rigenerata.
La sua anima sentiva il richiamo del sangue, lo voleva, lo desiderava forse.

Una strana nuova iniezione di energia, come se il suo corpo reagisse al richiamo del suo padrone.
Come se l’Angelo non fosse stato nulla senza la Morte.
Il loro ultimo pasto da bestie infernali.

Il suo sguardo perso negl’occhi del suo complice in quel misfatto.

No.

Le sue mani non dovevano essere macchiate.

Era solo a lei che spettava questo diritto.

E le sue labbra tinte di rosso si mossero veloci contro il suo orecchio, proprio come prima lui stesso aveva fatto.

«Allora, ci vedremo presto all’inferno!»

La lama del pugnale era la sua unica amica.

Su di lei vedeva il suo volto distorto dalle mille emozioni che provava verso sé stessa, verso quello a cui era stata costretta.

Lo vide anche allora mentre scivolava lungo la sua gola e gli occhi della sua vittima girarsi verso l'alto in un asettico riflesso d'argento.

Una rapida visione di quello che non sarebbe stata più.

Perché non voleva più uccidere, non voleva più mentire.
Quello l'ultimo corpo lasciato alla mercé delle iene.
Voleva essere definitivamente libera.

 

 

La notte si era eclissata in un giorno che sembrava non voler regalare nemmeno un po’ di speranza, la sua luce nascosta tra grigie e dense nubi cariche di una pioggia accumulata nelle prime ore del mattino.

Gli invitati ormai erano tornati alla loro noia.

L’annuncio del fidanzamento saltato senza che nessuno chiedesse, senza che a nessuno importasse.

Si sentiva vuoto.

Questo gli aveva lasciato la sua Constance.

Vuoto.

Il petto lacero e ferito, i frantumi di un cuore completamente spezzato in due metà perfette.

Ora si muoveva per la stanza agitato, come se quei morbidi cuscini nascondessero dei vetri taglianti, poi tornava al divanetto su cui l’avevano trovato, per poi rialzarsi ancora come impazzito.

Il collo gli doleva.

Il medico gli aveva confidato che chiunque l’avesse colpito o era un esperto o un inetto che non sapeva uccidere un uomo cogliendolo vilmente alle spalle.

Era stato così sciocco ad averle creduto fin dall’inizio.

Sembrava tutto così pazzesco, folle, ma per quanto ritenesse assurdo tutto ciò che stava vivendo non aveva intenzione di sottovalutare nulla. Aveva ordinato a tutti i suoi domestici, ogni persona fidata al suo servizio, di perquisire la casa da cima a fondo quella mattina oscurata da un’improvvisa tempesta.

Non si era mai sentito così sfruttato.

Così usato.

Così impotente.

Nessuno si era mai permesso di osare tanto.

Sarebbe stato deriso, di sicuro.

Le sue mani si mossero prima che potesse accorgersene.

Le sue braccia protese per spazzare via ogni oggetto dalla scrivania in un gesto colmo della frustrazione accumulata.

Le sue labbra mosse in un respiro affannato, mentre venivano tagliate dai denti.

Pazzo, folle innamorato di un sogno, alla ricerca della moglie perfetta.

E lei lo era, fingendo spudoratamente per ingraziarselo.

Perché, perché mi hai fatto questo?

La porta si aprì.

Oltre di essa Raoul stentava ad entrare, come se avesse paura o fosse scioccato.

Solo ad un’analisi più attenta si accorse delle evidenti macchie rosse sui suoi vestiti, sulle sue mani, imbrattato come se fosse caduto in una pozza di sangue.

«Raoul, cosa ti è successo?»

Non aveva visto in lui uno sguardo tanto terrorizzato nemmeno da bambino.

Lui che era sempre stato un impavido cavaliere coraggioso. Invece quella volta sembrava davvero provato.

Avanzò velocemente fino a raggiungerlo senza curarsi di sporcarsi anch’egli, lo prese per le spalle e lo invitò ad entrare proprio nello scenario in cui era stato la vittima.

«Stento ancora a credere che ciò che ho visto sia vero, Philippe …» disse in un attimo di lucidità.

Il conte impaziente aveva da tempo mille domande che gli si stavano affollando nella testa.

Suo fratello era voluto partire subito alla volta del vigneto dei Saint – Simon, non aveva alcuna intenzione di lasciare intentato nulla. Voleva a tutti i costi fare chiarezza, scoprire le loro vere intenzioni.

Raoul era così impetuoso a volte, il suo cuore così grande da non sopportare alcuna angheria da chiunque fosse fatta.

E la sua fame di giustizia non era mai sazia.

Un giovane che aveva ancora troppo da imparare.

La giustizia purtroppo era un sogno e come tale idealizzato dalle menti come la sua.

La giustizia era un'utopia in un mondo di guadagno e potere.

«Sono entrato nella villa, ma non vi è anima viva …» Nei suoi occhi era così lapalissiana l’incredulità, che un lungo brivido percorse la spina dorsale del conte.

Uno strano calore percepito all’altezza dello stomaco.

«Come immaginavo.»

Raoul superò la soglia richiudendo accuratamente la porta alle sue spalle.

Nessun orecchio innocente doveva percepire quello che si apprestava a raccontare.

«Non è assolutamente come immagini.»

Oltrepassò il fratello cercando di raccogliere i suoi ricordi, ma era difficile, con quello che provava, dare un ordine certo. Da dove iniziare? Come porlo affinché suo fratello non iniziasse seriamente ad essere preoccupato?

Se le stesse persone che avevano fatto questo erano quelle che cercavano d’incastrarlo, tutto sarebbe diventato molto più complicato di come pensassero all’inizio.

Voleva lavarsi via quella confusione massaggiandosi gli occhi e le tempie, ma non poteva con le sue mani ridotte in quello stato pietoso. Il fratello attendeva impaziente.

Lo scrutava come se attraverso il suo sguardo potesse dirgli ciò che la sua voce non osava pronunciare.

«È morta, non è così?»

I loro occhi si scontrarono per un istante, due visi così simili da sembrare il riflesso futuro dell’altro. Sospirò e quel sospiro non era mai sembrato tanto lungo al conte.

Aveva osservato il petto del fratello riempirsi d’aria e sgonfiarsi con il tempo alterato dall’attesa.

Attesa che non riusciva ad ingannare con altri pensieri, un’attesa inutile perché sentiva dentro di sé che conosceva già la risposta nel profondo, ma sperava che lo smentisse, voleva che lo smentisse.

Non poteva capacitarsi eppure non riusciva ad odiarla dopo che Christine gli aveva rivelato ogni sua singola parola.

L’aveva descritta strana, spaventata, fuori si sé.

Non era in lei, non era lei.

E poi quella storia di quanto fosse in pericolo e il suo tentativo di avvertirlo.

Avrebbe voluto solo una spiegazione.

Ma tutto quel sangue, quell’espressione di assoluto smarrimento del fratello, il suo non reggere ad un confronto visivo, sembrava accertare qualcosa che in cuor suo temeva.

«Non lei …»
«Chi allora?»

Così, come i suoi occhi aveva assistito ad un tale scempio, venne colpito dalla stessa immagine di un corpo dormiente seduto composto sopra la prima rampa di scale dell'atrio.

La sua caduta in quella pozza che sembrava sgorgare dallo stesso pavimento, reso impraticabilmente scivoloso.

«Suo fratello, o chiunque fosse. Ho ragion di credere che sia stato barbaramente giustiziato ...»
Le ferite atroci sul quel corpo straziato, lo sguardo vacuo, vuoto, inanimato, la bocca socchiusa ad una più ampia sulla gola quando il capo cadde all'indietro poggiandosi pigramente contro le spalle.
Da fondale scenico parole impresse in calce a caratteri fini, una scrittura elegante, raffinata.
Una scrittura vergata di rosso dalla grazia di mani femminili su di una pergamena fatta di mattoni e pietra.
Je ne serai plus votre!
«Mio Dio ... sei ferito Raoul?» Non erano più soli. La timida presenza di Christine si era affacciata silenziosamente alla stanza. Aveva atteso con ansia il ritorno del suo amato, aveva persino chiesto che fosse avvertita. Quando si avvide del sangue, quando ascoltò la tanto sfortunata sorte del fratello di Constance, non era riuscita più a trattenersi.

Si fece avanti, con i suoi grandi occhi resi splendenti dalle lacrime, ma riuscì a fare solo pochi passi perchè il visconte le si fece già accanto preoccupato di non turbare la sua sensibilità. Non voleva rivedere in lei la disperazione, né tantomeno la paura.
Quanto ancora il suo cuore doveva sopportare i tradimenti di chi le si fingeva amico?
«Non preoccuparti, questo sangue non è mio ... ma è meglio che riposi, non angustiarti più del dovuto. Torna nella tua camera, abbiamo la situazione sotto controllo ...»
Lei non aveva raccontato tutto, non voleva che si trasformasse in una caccia all'uomo.

Questa volta era decisa.

Ma troppo stava mutando, avvertiva il pericolo bruciarle sulla pelle.
Sapeva che era giusto parlare.

Eppure ora temeva ciò che non poteva più tacere.

«No, Raoul. Io forse so dove si trova ora Constance. Ma avremo bisogno di aiuto ...»


Sul volto di sua madre non vedeva l'ombra di un sorriso da tanto tempo ormai, ma quella sera non aveva potuto fare a meno di farlo.
Finalmente.
Tutto quel parapiglia successo durante la lezione, la ballerina finita a gambe all'aria e il suo racconto che aveva donato colore ad un già variopinto quadro erano stati l'incipit a quello che era tornato uno dei suoi momenti con la propria madre.
Quella sera se ne sarebbe stata accucciata sulle sue ginocchia, anche se l'ora di dormire si avvicinava ad ogni momento. Sentiva le sue mani scorrere placide fra i serici fili dorati dei suoi capelli, dolci carezze d'amore davanti alla finestra che si apriva alla strada. Quella era una delle cose che non rimpiangeva della sua vita all'Opera Garnier quando viveva con tutte quelle ballerine e diveniva uguale a loro.

Quel rogo l'aveva privata di un lavoro sicuro, di un'abitazione, di una sorella, eppure in un certo modo si sentiva di dover ringraziare il fuoco per averle dato quel preciso istante.
Ma ora aveva una madre, una finestra ed il mondo reale.
Sapeva di essere amata, ma il dover condividere sua madre con tutte quelle ballerine era per lei un supplizio.
Ormai si era abituata al rumore delle carrozze che di tanto in tanto passavano per la strada, anzi erano diventate una dolce nenia dal canto adorabile. Lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli come piccoli tamburi, il rumore delle ruote di legno contro le lastrine di pietra come flauti, lo schiocco della frusta come i piatti. Il ritmo che esse donavano, assieme alla pioggia che alla fine si era scatenata, le facevano ondeggiare involontariamente il piede.
Lo numerava come i tempi di un balletto, consumando la sua esperienza di ballerina.
Un, due, tre ...

Ma quella carrozza non oltrepassò incurante la sua abitazione.
Fermò il ritmo esattamente di fronte alla sua finestra lasciando in bella mostra l'araldica dei de Chagny.
S'irrigidirono entrambe.
Emozioni contrastanti cominciarono a condensarsi su di loro.
Attesa.
Speranza.
Angoscia.

«Maman, ma quella è …»
Si dedicò solo ad un cenno verso sua figlia che aveva sentito scattare dal proprio grembo.

«Resta qui Meg …»
Non poteva essere Christine,  inutile nutrire in lei false speranze, anche se desiderava intimamente un giorno poterla riabbracciare .
Ma lei non apparteneva più a quel mondo ormai, abbastanza piacevole per essere osservato troppo volgare per essere vissuto.
Ora sarebbe divenuta una tra i tanti nobili tristi, non più la leggiadra soprano capace di far volare le note fin alle più alte vette dell’arte.

La sua voce sepolta per sempre sotto la cenere dell’Opera Populaire.

Non poteva più sperare di rivederla, si auspicava solo che nell’entrare in un teatro, assieme alla nostalgia per il canto e tra i mille tumulti che avrebbe provato, vi fosse anche un piccolo spazio per lei e sua figlia.

Prese lo scialle per ripararsi le spalle e una candela che al primo buio divenne un’ottima amica, avanzando nel piccolo disimpegno della sua casa.

Si concesse un attimo prima di aprire la porta.

«Oui

Non era certa di ciò che vedeva e lo scrosciare incessante della pioggia non faceva che peggiorare la situazione.

Vi era un uomo alto, distinto nel suo completo di velluto blu scurissimo e con il cilindro che lo riparava dall’acquazzone che impietoso si abbatteva su di una Parigi intristita. Il suo viso aveva un nonché di familiare, ma non parve averlo incontrato precedentemente.

«Perdonate l’ora, Madame …» la donna  non accennò a cedere, non si fece da parte. Di natura era sempre stata diffidente. Si limitava ad osservarlo, studiare le sue raffinate mosse, ma che non nascondevano una strana vena di disperazione celata dagl’ottimi e nobili modi. «Sono Philippe de Chagny, Madame Giry, è stata Christine a dirmi che voi potrete aiutarmi.»

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Capitolo 18
*** CHAPITRE 17: Cauchemars. ***


CHAPITRE DIX-SEPT: Cauchemars.

La prima volta che fu messa di fronte alla carne putrefatta non mosse un muscolo, anche se era appena una ragazza quando entrò in quel posto che puzzava di morte.
Osservò solo il viso semi consumato della salma che aveva di fronte.

Equilibrata vedetta di guerra.

La Chiesa sapeva essere un giudice imparziale con la sua condanna pronta di fronte ad un giudizio completamente umano.

Di persone, distrutte e mutilate, ne aveva visto i cadaveri muoversi da ancora vivi.

Tutti credevano che la Santa Inquisizione fosse terminata.

Era solo stata arginata, nessuno avrebbe potuto rivelare quale era il destino di un recluso alla Prigione Santa.
Il medico l’osservava curioso, ricordava bene la sua sorpresa nel vederla così sicura. Si aspettava uno svenimento anche solo per l’odore nauseabondo, un piccolo accenno di timore per la vista dei vermi, ma in lei nulla. Totalmente indifferente.
Solo una freddezza innaturale con cui rivolgeva le sue domande.

Nei sotterranei di Castel Sant’Angelo ho visto cose peggiori …
Le tempestive cure delle varie ferite e il miglior modo di renderle letali nella stessa assurda lezione consumatasi in varie notti.
Vedete Madamoiselle, quest’uomo è morto per un’infezione dopo che è stato colpito da una pallottola.

Ripercorreva i movimenti delle sue mani esperte, come se lo stesse operando da vivo.
L'unica differenza è che lui non può lamentarsi.

Una macabra battuta davanti alla sua osservazione a cui non rise allora reputandola sciocca, ma che invece adesso trovava alquanto esilarante. Le sue labbra s'incresparono in una risata stentata, coperta dal suo solito sarcasmo capace di svegliarsi nei momenti meno opportuni.
Erik la precedeva, le teneva la mano muovendosi attento in quei corridoi strettissimi grazie solo alla sua memoria, fervida come le fantasie di un bambino che torna nei paesi dei balocchi.
Ogni pietra sembrava che acclamasse il suo ritorno, piccole gocce d'umidità impreziosivano i loro volti o iniziavano a cantare al loro passaggio suonando una marcetta cadenzata.
Presto sarebbero arrivati alla cornice dello specchio in frantumi, ormai gli occhi abituati alla tenebra potevano scorgere il  drappo di velluto rosso muoversi allo strano spiffero che s'insinuava in quel passaggio nascosto. Già si poteva  assaporare l'odore di chiuso di quando una casa viene abbandonata per un tempo indefinito.

Si sta lasciando guidare da te nel buio, Erik.

Non nascondere che questa cosa ti piace, ti fa provare la cruenta possessione di qualcosa di nuovo.

Si fida di te. Ma tu sarai capace di darle ciò di cui ha bisogno?

Saprai essere un uomo, Erik? Non un Angelo, uno Spettro o un  Mostro.

Un uomo che fuori da queste mura deve sapere come proteggerla.

 

Si fermò senza che ci fosse un vero motivo.

Aveva sempre protetto la sua Christine. L'aveva protetta all'Ombra della sua stessa leggenda, del suo mito che fra quelle mura era divenuto il padrone eterno di ogni cosa.

Ora non sarebbe stato più così.

Lucia non avrebbe accettato di essere una suppellettile del suo regno, mai.

Non era un idea astratta, non era una voce cristallina nel silenzio della notte.

Lei era vera.

Voleva solo vederla, solo aspettare che il suo sguardo s’infrangesse contro di lui anche nel buio.

Sentirsi ancora in grado di controllare ogni cosa lo riguardasse, compresa lei almeno allora.

Voltandosi non vide null’altro se non il confondersi della  sua pelle sempre più pallida, il suo smorzarsi attraverso l'oscurità.

Era stanca.

Lo percepiva dalla sua stretta sempre più debole, dalle sue dita che si aggrappavano a lui con una cieca disperazione.

Una candela a cui le stavano lentamente aspirando l'ossigeno.
Camminavano da un tempo lungo ed indefinibile, il suo cuore si stava inaridendo.
Dei suoi abiti ormai era rimasto solo una poltiglia di sangue e fango, della sua forza un misero strascico livido pesantemente trascinato. Si era adagiata un  attimo sulla parete, con ancora quella risata a mezza gola che non riusciva a far smettere.
Se non si fosse medicata al più presto, sarebbe morta.
E forse non era una prospettiva tanto lontana.
Lucia questo lo sapeva.

Troppe ore erano trascorse da quando il piombo aveva iniziato ad avvelenarle le vene, troppe poche ore mancavano affinché non le fosse letale. 

Di certo non sarebbe stata il suo peso.

Un cadavere capace di camminare è pur sempre un cadavere.

I suoi occhi cominciavano ad ingannarla con giochi di luce che sapeva non essere reali.

La colpivano improvvisamente come i lampi che aveva visto alle prime luci dell’alba, prima di sparire fra le macerie dell’Opera Garnier.

La lucidità la stava abbandonando. 
I primi tremori della febbre l’avevano colpita a metà strada per Parigi, tra le braccia di Erik che cavalcava senza sosta, ed ora le si ripercuotevano in tutto il suo corpo. Le palpebre da tempo invocavano il siparista di lasciarle calare, chiudersi per trovare il loro riposo eterno in un dolce torpore.

«Ti prego … sono esausta ... lasciami qui ... lascia che riposi solo qualche minuto …»
Il dolore ormai era solo un ricordo.
Non avvertiva nemmeno più i suoi arti e quello era solo l'inizio.
Presto l'avrebbero accolta incubi impossibili da ricacciare, mostri, deliri.
Presto si sarebbe sentita mancare il respiro e tutto avrebbe perso di significato.
Si sarebbe sentita leggera, i suoi piedi non avrebbero toccato più il terreno umidiccio.
E quella salda impalcatura che la sorreggeva sembrava essere fatta di marmo scolpito.

Le sembrava di essere dolcemente cullata, così stretta a lui da percepirne il battito cardiaco per nulla affaticato.
Non come il suo così smorzato, privato della forza di combattere.
Pochi passi e la sua presa divenne leggera, mentre il suo corpo sempre più greve.

La testa finì per crollare posandosi sul suo petto e le braccia mancarono la prima tenuta sul suo collo scivolando l'una pendente davanti a sé e l'altra debolmente adagiata alla sua spalla, ricadendo poi come se lo stesse accarezzando in uno dei suoi sensuali giochi.

Non era voluto. Ma quel tocco, quelle dita che sentiva sfiorare vellutatamente la scapola donavano ad Erik un intenso brivido di piacere.

Quel suo silenzio, quella voce che moriva nel respiro affaticato, lo arrestò neanche fosse fatto di argini. Non riusciva a percepire il suo respiro, troppi tintinnii, troppo buio per vedere il suo petto se si fosse mosso e per un attimo odiò quell'autentica celebrazione del suo mondo.
Ricordava tante cose ed anche quella, letta fra le miriadi di pagine dalle parole altisonanti e difficili da comprendere in un primo momento.
Il piccolo mostro solitario aveva dovuto imparare a curarsi da solo le sue ferite.
Aveva dovuto rubare quei libri ai medici che vivevano all'Opera, leggerli avidamente e guardare le loro figure finché non gli fosse passata la nausea ed assumessero un tono più interessante.
Eppure alcune volte non poté fare tutto da solo.
L'unica persona che l'aveva visto debole e malato.
Che lo aveva nascosto alla crudeltà delle persone e poi all'interno del suo ufficio durante una delle poche volte in cui era stato umano e non un Fantasma.
Accudito come un figlio, nonostante potesse essere suo fratello.
Ora toccava a lui.

«Parlami, non dormire!»

Le sue parole nel petto risuonavano gentili.

Non era un ordine.

Era una preghiera, una richiesta.

Erik non voleva che morisse.

«Sto perdendo molto sangue …»

Sto morendo …

Le sue mani si artigliarono al corpo di lei. Ribolliva fino all’inverosimile, bruciando sulla pelle anche attraverso i vestiti.

Ardeva come un tizzone, un incendio dovuto alla pazzia del suo padrone.

Il suo teatro era bruciato. Non esisteva più.

Lei non avrebbe fatto la sua stessa fine, non di certo quando si apprestava a varcare la soglia oltre la quale la memoria si confondeva fra gli stracci di una vita isolata.

Quasi scivolò per la fretta di raggiungere quell’incavo di roccia, oltre il quale troneggiava il suo grande letto scolpito dalle sue stesse mani.

 

Ti sei troppo abituato alla luce del sole?

 

Il corpo di Lucia sembrava appesantirsi.

Sempre di più, man mano che le forze lo abbandonavano.

«Sapevo che la mia vita sarebbe stata breve …»

 

Perché dopo tutto quello che ti ho fatto non mi lasci andare?

Con Christine lo hai fatto, io non lo merito.

Non hai bisogno di me, non hai bisogno della crudeltà che altri hanno mostrato disprezzandoti.

Non ho paura, Erik. Perché tu sembri provarne?

 

«Non pensare a questo, cerca solo di resistere.»

La sua voce calda e accogliente, il tono grave con cui lo disse diveniva rassicurante tanto che ella si lasciò andare quando venne posata delicatamente sulle coperte fredde e bagnate del suo vecchio giaciglio.

Ebbe un brivido, una reazione che faceva ben sperare, non completamente lasciata all’intorpidimento dei sensi.

Ma temeva, temeva fortemente di rimanere sola con la propria mente febbricitante .

Sola con i suoi incubi.

Erik fece per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne.

Una debole stretta e due grandi occhi castani che nel buio si distinguevano  per la loro nota di paura.

«Do-dove vai? N-non lasciarmi sola …»

Beatrice ho paura del buio, non lasciarmi sola.

«Tornerò subito …»

Aveva bisogno di luce, di un ambiente più accogliente oltre che sicuro.

Di candele il cui stoppino non fosse umido.

Di coperte asciutte.

Di acqua pulita per bollire le garze e gli attrezzi.

Non poteva fare di meglio che cercare tra i vecchi ruderi, i lontani alloggi di ballerine e inservienti.

Si ritrovò bambino, quando quei cunicoli erano un labirinto e le pareti minacciose fiere che riuscivano ad intimorirlo.

Tutto così uguale, tutto ostile come la gente, ingoiato in quei sotterranei da un’eterna notte.

Scale che si avviluppavano su sé stesse con gole sempre più profonde, spaventose statue incise nella pietra, ratti ed insetti.

Doveva avere quelle cose. Le pretendeva per dare quel minimo di dignità alla sua vita.

Tutto iniziò con una burla.

Uno scherzo fatto ad una delle grassocce donne delle pulizie. Una distrazione per i suoi ingenui occhi infantili.

Ma quando dalla fossa dell’orchestra arrivò la Musica il suo mondo cambiò radicalmente.

Non era più minaccioso.

Non c’era posto sconosciuto.

Ogni cosa assunte un colore, una luce che rischiara la mattina donando un infinito calore.

L’Arte, la Musica ed un unico voto.

Quello di elogiarle entrambe, corteggiarle con la sua mente ogni istante, un voto che gli aveva permesso di sopravvivere a quella vita relegata all’umidità fredda di una grotta sotterranea.

Lui unico sacerdote custode di un Tempio. Il suo Teatro.
Ma ora era tutto in declino.

Il suo regno non aveva più splendore.

Era ricaduto nella sua ombra.

L’Ara della Musica era stato profanato, il suo trono divelto.

Il rispetto per l’arte calpestato, un tappeto di fogli e inchiostro in cui la polvere e l’umidità stavano diventando le uniche sovrane, la sua casa divenuta solo lo sfogo della rabbia che aveva provocato e che la luce stava riportando in vita.

 

Quale disprezzo sei stato capace di generare, quale odio.

Vedi Erik, tu sei distruzione.

Tu non potrai mai essere un uomo.

 

«Erik …»

Un debolissimo richiamo.

Era sveglia anche se i suoi occhi erano appena socchiusi. Spenti.

Giaceva sul suo letto come in una tomba crollata nel tempo.

Il suo corpo disteso diveniva sempre più simile alla pietra sacrale di un sarcofago, il petto mosso appena dal respiro, le sue labbra esangui, gonfie e ferite, il suo viso cereo. La testa del cigno era stata abbattuta e abbandonata in un angolo lontano e le sue piume in rovina mostravano il legno crudo sotto il loro manto.

Una vista decadente di un Angelo che muore.

«La febbre sta salendo.»

Al suo tocco la fronte imperlata di sudore era di lava.

Torrido come una duna al pieno sole del deserto.

Ancor più calda.

Eppure il suo corpo veniva scosso da tremendi tremori.

«Va estratto il proiettile prima che l’infezione si propaghi. Sai come fare?»

Sai come fare?

La teoria la conosceva.

Un’incisione, una ricerca e poi chiudere il tutto.

Ma di fronte ad una scelta così importante, un uomo come lui, intelligente, grande conoscitore dell’arte, un erudito, si trovò spaesato e confuso.

Non sapeva cosa risponderle.

Doveva studiare gli attrezzi chirurgici che Lucia si era premurata che avessero.

Lei sapeva di quel momento era preparata.

Ma lui no, non aveva mai messo le mani su di un corpo che non era suo se non per uccidere, ingannare, minacciare.

La sua voce un veicolo di morte.

Eppure ora stava per onorare la vita.

Una mano lo afferrò stancamente prima che si staccasse.

Era una stretta fragile, ma intensa con le loro dita intrecciate e un lieve sorriso a mezza bocca così irrisorio su quel volto bianco ed emaciato.

«Erik, io mi fido di te …»

 

E tu sei pronto ad affidarti a lei?

 

«… ma tu dovrai fidarti di me. Levati la maschera …» un fremito, un’affermazione che mai si sarebbe aspettato.

Una richiesta dura da accettare.

Strappò la sua mano da quella di lei senza alcuna difficoltà, non voleva avere i suoi occhi addosso anche se li sentiva sulle sue spalle appena si era voltato.

Mostrarle il suo aspetto terrificante, come mai poteva desiderare una cosa simile?

 

Di cosa hai veramente paura?

Che vedendo il tuo aspetto si ricordi di quale scelta ha fatto?

Ti ha già visto Erik, sa chi sei e cosa sei.

È ora che comprendi tu stesso di quale natura sei fatto.

 

«Erik?»

 

Lo chiamava con il suo nome.

Sempre con il suo nome.

Come la maschera, come se conoscesse il suo delirio.

Lo chiamava attirandolo sulla riva savia del fiume.

 

Sarai in grado di curarla?
Ti vanti di essere un genio.

Eppure ora sta per morire tra le tue braccia.

Ti sei persino dimenticato di lei per ascoltare me che sono solo il parto malato della tua mente.

 

Lei, come la sua anima.

Lei, che non aveva mai avuto paura del suo aspetto.

Lei, che aveva visto l’uomo dietro il mostro.

Le sue dita si chiusero in un pugno a mezz’aria, ribellandosi alla decisione appena presa.

I suoi occhi chiusi come se fosse doloroso ciò che voleva fare.

Il coraggio sfinito di un essere deforme abituato ad esserlo.

Le sue mani avvolsero la maschera come ragni dalle dieci zampe, sotto i polpastrelli gli avvallamenti di un teschio scolpito nel cuoio.

Si sfilò lentamente.

Mestamente.

E con essa uno strano silenzio sopraggiunse nella sua testa.

Per tutta una vita l’aveva ascoltata, seguita, odiata.

Per tutta una vita si era sentito nudo senza di essa.

Eppure ora, mentre la gettava a terra, non riusciva a sentire altro che una strana leggerezza nel petto.

Ma ora lei stava morendo ed Erik non avrebbe permesso che ciò accadesse alla sua Lumiére Noire.

 

 

L’oppio e l’assenzio non erano stati sufficienti per mitigare il dolore.

Lei stessa ne aveva chiesto una dose inferiore.

Non voglio essere totalmente incosciente, finché posso ti aiuterò Erik ...

Ora dormiva.

Era iniziato come un sonno agitato, in preda agl’incubi.

Un sonno in cui le parole “no, padre!” erano le protagoniste assolute.

Solo una cosa l’aveva placata.

La sua mano esitò lungo la gota, scivolando lentamente sul profilo caldo.

Ancora troppo caldo.

La febbre non le era scesa.

Un movimento dolce, verso di lui, verso la sua carezza, come un gattino bisognoso d’affetto,  come il desiderio infantile di una persona che ogni delicatezza l’aveva vissuta come un ricatto.

Anche nel sonno forzato si ritrovava alla sua ricerca, sempre capace di percepirlo.

Forse questa volta il Fato non si era divertito.

Forse si stava solo aggrappando a degli strani intrecci del Destino.

Forse era solo un illusione, il gioco della sua mente che finiva sempre per convincerlo di avere tutto sotto il suo potere.

Pedina di qualcuno che aveva deciso che loro due, nati sotto cieli diversi un giorno si sarebbero incontrati.

Pedina di sé stesso, rinchiuso in un altro delirio d’amore.

Ma lei, lei non era imprigionabile.

Se l’avesse posta di fronte la scelta avrebbe accettato che lei fuggisse via, lungi da lui per sempre?

 

Lei non è Christine.

Lo sai questo. Non è una bambina che prega nel buio.

Non puoi convincerla che t’appartiene, non puoi rivendicare il suo possesso.

Perché dovrebbe seguirti?

 

No, non vi era alcuna ragione.

Ed avrebbe sofferto di nuovo, il cuore in frantumi come gli specchi che aveva distrutto di sua mano.

Ancora in un cerchio sadico di una giostra da cui non riusciva a scendere.

 

Mai più un’ossessione. Mai più.

E lei lo è già.

Ti piace vero avere un nuovo gioco, Erik?

 

«Non è un gioco, non più ormai.»

C’era molto di più in ballo, anche se non riusciva ancora a spiegarselo.

No, questo no.

Non ancora.

Erano domande troppo dure da affrontare, le ferite aperte che drenavano ancora il veleno lasciato dalla sua Musa.

E la sua vicinanza, il suo delicato respiro, il suo volto disteso mentre riposava tranquilla nonostante tutto quello che aveva passato, non lo aiutavano a respingerla di nuovo.

Il suo viso mai apparso così indulgente e dolce.

Doveva allontanarsi e subito, prima di rimanere preda dei sentimenti.

Non poteva innamorarsi ancora.

Ma nello spostarsi, nello scappare da lei, accadde una cosa che non si aspettava.

Un calcio involontario investendo quella borsa che aveva trasportato la salvezza di lei, o quella che sperava lo fosse.

Cadde, rovesciò ciò che vi era rimasto del suo contenuto.

Alcuni oggetti dalla strana natura medica, la bottiglia di assenzio che rotolò fino all’esterno e un quaderno rilegato di nero.

 

Ostia 1861

Mia cara Beatrice,

Sono su questa nave ed osservo quella lingua di terra dove tu resterai.

Si allontana, sparisce nell'orizzonte da cui mi stanno strappando.

Vorrei tanto essere con te ora, asciugare le tue lacrime sulla mia tomba vuota. Ci sono, anche se non con il corpo, con la mente, con il cuore, con quella parte della mia anima che tu custodisci gelosamente.

Rimembri Beatrice le giornate in campagna? L’estate calda che si incollava ai nostri vestiti leggeri, il tempo delle more selvatiche e della rosa canina, le lunghe passeggiate fino alla spiaggia. Ricordi come eravamo felici in quel periodo dell’anno, lontane da Roma, lontane da lui?

Fallo per me. Ricordami così, con il sorriso di restare tra le tue braccia.

Non piangere, sorella mia. Non valgo le lacrime della tua innocenza strappata …

 

La prima pagina di tante altre, lettere che non erano mai state spedite ad una sorella mai più rivista.

Gli occhi scorrevano veloci sulle parole vergate di nero, avidi di quella realtà di vita.

Parole da un significato nascosto in quella che sembrava una costante richiesta d’aiuto.

L’unico momento in cui lasciava spazio a sé stessa, raccontandosi attraverso la penna in uno squarcio della sua anima che si andava a riflettere sulle pagine ingiallite.

Uno specchio che attraeva le allodole, dall’anonima copertina in pelle nera.

Uno specchio dilaniato e corroso dalla freddezza con cui si tramutava la sua confessione.

Ne fu attirato, anche se non sapeva quale misterioso e prezioso tesoro contenesse.

Una vita nascosta in un diario, un amore morto in patria.

Un'attrice che della vita aveva fatto il suo palcoscenico e il mondo lo scenario su cui esibirsi.

Ma lui era penetrato nel suo di mondo, nella sua sofferenza, senza che la pietà lo cogliesse, senza alcuna benevolenza, senza bussare alla porta che finalmente non offriva più soltanto una lama di luce nell’ombra.

Viaggiò con lei vivendo ogni istante i suoi tormenti descritti con la vitalità di un’emozione.

Visse delle sue delusioni, il martirio di quella sua parte ancora non sopita.

Il suo corpo divenuto veicolo di piacere e di morte.

 

Ho ucciso di nuovo. Non sento più la colpa per quello che ho fatto.

So che ti è stata comunicata la mia morte da almeno alcuni anni, ma in realtà è ad oggi che l’epitaffio dovrebbe rifarsi.

Con oggi, l’Angelo del Mattino ha preso la mia anima spenta, traviata, corrotta, resa schiava del vizio e del peccato prima ancora che mi arrogassi il diritto di prendermi una vita. Sono diventata una sua ancella di sangue. Vedo il mio corpo vuoto comandato dai suoi fili nascosti vagare sulla terra, le mie mani divenire le sue mentre la Francia le reclama.

Ciò che mi accadrà d’ora in poi sarà lontano dallo sguardo della misericordia, non merito indulgenza. Gli Angeli non potranno più portarmi i sogni.

 

Era dentro di lei, oltre quello specchio che aveva tanto avuto paura di valicare.

Lesse per ore di Lucia e del suo dolore. I suoi viaggi, le sue conoscenze, il suo cambiamento nell’indifferenza.

Lesse di quando Malice s’impossessò della sua vita.

Lesse di quando venne assassinata la sua umanità.

 

Sei ancora certo che lei voglia una vita sacrificale come quella a cui la costringeresti?

Segregata ad un’eternità del tuo viso deforme alla ricerca dell’espiazioni dei vostri peccati nell’oblio.

Ora che può concedersi una vita vera.

Non credi sia stanca di vivere nell’ombra?

 

La maschera era tornata a tormentarlo.

Bianca ed offesa si era stesa sulla metà del suo volto con il suo solito cipiglio serio e gravoso.

In essa avvertiva il rancore delle persone sviscerarsi dalle pareti, la loro paura da ogni angolo della sua grotta ad ogni candela accesa.

Di una madre che lo aveva rifiutato, del mondo che l’aveva ricacciato nell’oscurità come un reietto.

Un mondo che si era dimostrato intollerante, privo di ogni carità nei loro confronti.

Un mondo che aveva dimostrato solo disprezzo e rabbia.

Poco si era salvato.

Qualche pergamena, alcuni libri e un baule con la serratura nascosta, una sorta di scatola cinese dalla combinazione impossibile da trovare. Con esso alcuni dei suoi abiti.

Eleganti, raffinati orpelli di stoffa con cui aveva trovato un po’ di serenità nel togliersi di dosso tutto quel sangue.

Il suo sangue.

Ma, nonostante la sua solerzia nel sistemare ciò che era rimasto dalla razzia, tutto assumeva un aspetto ormai decadente.

Sotto le sue dita aveva i resti della vernice dorata delle modanature mangiato dalla muffa.

I suoi disegni calpestati, i suoi figurini abbattuti.

Ogni cosa corrosa dallo sdegno consumato la sera del Don Juan.

Il grande organo, invece, era stato quasi del tutto tramutato in macerie.

Il cuore del vecchio gigante sfigurato spezzato, rendendo ormai il teatro un rudere inanimato.

Le canne sradicate dalle loro sedi in più punti, i tasti saltati come denti mancanti di un bocca invecchiata.

Suonava ancora.

Stonato, ma suonava.

Il più grande dolore di una lacrima versata sulla sua imponente carcassa, un vecchio amico seppellito in quella grotta assieme alle speranze di un sogno cancellato. Un sogno mutato dove la Musica trovava altre evoluzioni, lontana dal suo Altare profanato, lontano da quel posto tramortito dall’odio.

Persone accanite sui resti mortali dell’Arte.

Ma la musica avrebbe continuato a suonare in lui, a vivere come edera su di un tronco.

L’avrebbe consumato lentamente, un cuore che viveva e moriva attraverso le notti insonni costruite di pentagrammi.

Note.

Pause.

Lui sarebbe stato per sempre l’immortalità dell'Arte.

 

La costringerai ad una scelta stavolta, Erik?

 

Era stata questa la sua capacità fin dal primo istante in cui si erano incontrati.

Lo mandava in confusione, lo spingeva verso domande che mai aveva osato porsi.

Lo rendeva malleabile, incantato e interessato a lei anche senza che il fuoco della Musica divampasse.

Non aveva ammirato il suo bel canto, né le sue doti musicali.

Forse non ne possedeva alcuna.

In lei aveva visto un mondo nuovo, una speranza. L’aveva apprezzata per i suoi variopinti aspetti.

Per il suo fascino e la sua limpidezza nella menzogna.

La sua schiettezza.

La sua idea disamorata dell’esistenza a cui si affacciavano sempre come spettatori.

La visione diversa degli stessi occhi.

Vivere una nuova vita, discorde ma simile.

Essere un nuovo uomo.

Essere una nuova donna.

Insieme.

Come nel momento in cui si stese accanto a lei sentendo i suoi incubi affievolirsi, le sue lacrime asciugarsi, il suo dolore placarsi, proteggendola con il suo corpo sentendo la sua mano incatenarsi alla propria intrecciando le dita.

Il suo respiro caldo e regolare come una dolce nenia in un sonno senza sogni, dove entrambi avrebbero finalmente trovato la pace.

Sarai in grado si proteggerla, Erik?

«Sarò al tuo fianco, se tu lo vorrai ...»

 

 

Note dell'autrice: Buondì ^^! Allora, il prossimo capitolo sarà praticamente l'ultimo (ora vedo come si sviluppa se viene parecchio lungo potrei dividerlo) e poi l'epilogo.

Dopo il capitolo precedente volevo mostrarvi l'umanità dei miei protagonisti Lucia nel suo Diario, Erik nel comprendere che forse ha trovato veramente una sorta di pace. E' il mio modo di creare un finale per tutti che sia lieto. 

La strada è ancora lunga, ma ho pensato che accanto ad una persona come Erik ci voleva qualcuno di altrettanto forte.

Comunque sia spero che vi siano piaciuti questi momenti pucciosi.

Piccole spiegazioni tecniche: Ovviamente per proteggersi sono andati nei sotterranei dell'Opera dove ci sono trappole e quant'altro. Sono nella grotta a cui Erik, una volta finito di fare il medico improvvisato, ha dato più o meno una sistemata raccattando oggetti nelle parti ancora in piedi del teatro (l'Opera è gigantesca, l'incendio non può aver colpito tutto, tutto). Lui si sofferma poco in effetti sulla distruzione della sua grotta, proprio perchè comincia a sentire di staccarsi da tutto quello che ora non è più. Ha altro a cui pensare. Spero che condividiate il mio punto di vista.

Con questo spero di aver detto tutto.

Vi ringrazio sempre.

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


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Capitolo 19
*** CHAPITRE 18: Au-delà de l'adieu. ***


CHAPITRE DIX-HUIT: Au-delà de l'adieu.

 

Nei suoi occhi azzurri veniva riflessa la perpetua curva che si sviluppava davanti a loro, il lungo percorso che li attendeva a ridosso di un muro grigio ed impenetrabile da cui i resti di impolverati arazzi si muovevano al respiro del Teatro.

Sembrava un discesa che non aveva fine, fra di loro un silenzio che allungava il cammino.

Poche volte aveva intrapreso quel viaggio fino in fondo.

Poche volte aveva raggiunto il ventre della sua anima tormentata.

Ora non vi erano scuse, doveva farlo, doveva esserci.

Erik, in cosa ti sei cacciato adesso …

Si voltò appena per notare Philippe alla luce della torcia distratto.

Lui aveva insistito nel seguirla.

Lei non avrebbe voluto.

Conosceva troppo bene Erik per ignorare il suo volere e quello era il suo dominio artistico, il suo regno, la sua casa, dove gli estranei non erano benaccetti.

Estranei con un cognome ostile.

Temeva fortemente la sua reazione più di ogni altra cosa, ma sperava che comprendesse.

No, non avrebbe capito.

Era una persona geniale, una grande mente passionale in un corpo sbagliato. Ma era ancora un bambino spaventato, questo lo sapeva bene.

La sua maschera bianca non era l’unica ad essere indossata.

Erik aveva paura degl’altri, aveva paura di non essere accettato.

Aveva paura di venire denigrato nonostante tutto, solo per il suo aspetto.

Eppure al mondo c’erano persone in grado di non fermarsi alla piaga che gli ricopriva il viso.

Lei non l’aveva mai vista.

Guardava ad Erik come quel bambino, mai e poi mai si sarebbe distolta dall’immagine di quel pupazzo strappato dalle sue mani e del bastone che si ripercuoteva sul suo costato con la rabbia che solo un essere infido poteva mettere nei confronti di un innocente.

Questo aveva conosciuto nei primi anni della sua vita.

Solo la violenza di un poco di buono.

E lui si era nutrito di quella fino al loro incontro.

Forse lei avrebbe dovuto stargli più vicino, cercare di crescerlo invece che assecondarlo.

È stata solo colpa mia, solo colpa mia …

Era tardi per le recriminazioni.

Ed intanto, mentre si consumavano le pietre al loro passaggio, il loro tragitto appariva sempre più tenebroso.

Nulla presagiva ad un miglioramento.

E le domande sulla donna che era stata complice del pazzo folle che aveva perpetrato per anni minacce e terrore iniziarono il loro naturale percorso.

Temeva Philippe di essere stato raggirato, portato in quel vicolo cieco per farlo tacere.

Temeva che la vicenda del Fantasma si volesse consumare nuovamente.

Temeva che il Fantasma fosse solo un pretesto.

«Questo posto è un labirinto … Madame siete sicura che questa sia la strada?»

La lunga scala era finita, i loro piedi ora si posavano su di un pavimento in pietra fredda.

Davanti a loro un dedalo di corridoi tutti uguali, segnati da statue e raffigurazioni spettrali, vecchi candelabri e ragnatele sedimentate nel tempo.

Mura su mura in un diabolico intrico.

Pericolosi pertugi che minacciavano i malcapitati avventori, oltre i quali si aprivano stanze  dagli inaspettati trabocchetti, attirando le loro prede con piccoli sotterfugi.

Un tela del ragno intessuta controluce, alla quale nessuno avrebbe resistito.

Nessuno il quale non avesse avuto una guida attenta che con un cenno della testa di diniego avrebbe riportato il malcapitato sulla savia strada. Nessuno che avesse avuto come guida Madame Giry, di cui i segreti di quel posto orrendo erano già stati svelati anni addietro.

 «Non fermatevi monsieur, tenete il vostro braccio al livello degl’occhi e coprite i miei passi come fossero i vostri: se è veramente  come dite, allora è meglio che seguiate le mie indicazioni e pregate che Dio ci assista …»

Scesero, scesero ancora.

Ancora diversi livelli di scale, nicchie, alcune porte a muro.

Tutto sempre più stretto, sempre più soffocante, claustrofobico che a malapena un uomo di buona stazza sarebbe riuscito a passarci.

Come se attraversassero le arterie di un cuore.

Come se stessero entrando nella  sua anima.

Si sentiva la sua aura, indebolita forse, ma sempre con quella sua carica d’indomato dolore.

Persino Philippe, che non l’aveva conosciuto se non tramite la leggenda, sentiva una stretta nel petto, una forza che opprimeva la sua ragione.

Un tacito invito a scappare da quel posto selvaggio e ribelle.

Non avrebbero accolto quell’invito.

Nessuno dei due.

Avrebbero lottato contro il gigante ustionato, ferito.

Avrebbero combattuto contro il suo padrone stanco ed affaticato e, finalmente, sarebbero giunti dove la discesa verso l’inferno si apriva e respirava fino alle sponde di un lago sotterraneo, dalla cui riva s’intravedeva una singolare sagoma scura.

Il conte si chinò su di essa, illuminandola con la torcia il più possibile.

Dall’acqua emergeva una macabra faccia scarnificata adornata da articolate volute barocche di un ottone scuro e caldo oro sbeccato, affondando quella che doveva essere stata un’imbarcazione. L’unica loro possibilità di attraversarlo sfumata dal rudere di una gondola finemente lavorata da mani artigiane.

«Ed ora Madame

I vivi occhi cerulei della donna vacillarono per un momento. Un attimo infinitesimale sul cui viso era passato il dubbio, prima di tornare alla solita impassibilità.

Strano, Philippe non l’aveva vista scomporsi nemmeno per quel roditore che quasi attraversava i propri piedi.

La gelida Dama di Ferro dell’Opera per una volta smarrita.

Eppure la sorpresa non fu l’unica quando si mosse verso la battigia, scivolando cautamente nell’acqua e oltrepassando quel confine liquido che le copriva il corpo fino alla vita.

Senza preoccuparsi delle scarpe o del vestito.

Senza futili motivi a bloccarne il compito.

«Spero che non vi dispiaccia sporcarvi i piedi monsieur …»


Sembrava che le sue membra non avessero mai riposato così tanto.

Un dolce formicolio le percorse mentre le sentiva alleggerirsi lentamente, risvegliarsi dalla quiescenza rinnovate. La sua mente era avvolta dalla confusione, annebbiata dal sonno in cui era pesantemente caduto.
Il rifiorire dal nero più assoluto.

Avvertiva qualcosa muoversi lontano avvicinandosi alla realtà che stava prendendo forma.
Forse non era ancora sveglio del tutto.
C’era qualcosa che nella sua testa aveva preso a suonare.

Piccoli e delicati campanelli dorati.

No, non poteva essere sveglio. Solo restando in quel limbo a metà tra il sogno e il concreto, poteva essere così catturato da una dolce melodia scavata tra i ricordi.
Eppure aveva come la sensazione che a quel quadro mancasse qualcosa.
La soffice sensazione di calore su cui si chiudeva era sparita.
La forma, il profilo delicato che sovrastava rimaneva freddo fra le sue dita.
Le palpebre si aprirono di scatto, interrompendo il magico momento che stava vivendo.

Il suo busto si mosse automaticamente alla sua ricerca, con il terrore nel cuore di non trovarla.
Furioso con  lei perché se ne era andata.
Volatilizzata come la nebbia contro il dominio del sole.
Furioso con sé stesso, perché si era lasciato nuovamente abbindolare dalla gentile pietà che gli aveva sempre dimostrato. Le sue gambe scoprirono presto il loro vigore e lui stesso si disperse per la rapidità con cui si ritrovò di fronte allo specchio d'acqua che gorgogliava ai suoi piedi.
«Perdonami, non avrei voluto svegliarti ...»

Non era andata via.

Se ne stava seduta tra i gradini che confinavano all’ambiente notturno, le spalle contro la parete di roccia ricoperta dai tendaggi impolverati di velluto.

Un leggero sorriso appena accennato agl’angoli della bocca, seguendo attenta la melodia che allegra riecheggiava nella grotta.

Il suo amato carillon.

Fiero, muoveva ritmicamente i piattini d'ottone dai suoni gioiosi. Adorava il rumore cristallino che producevano, il loro tintinnio argentino che seguiva la cadenza della musica così perpetuamente.

Scivolò con calma al suo fianco.

Ed intanto la piccola scimmietta si esibiva per lei e lei soltanto.

Era in piedi da molto, probabilmente.

Sul suo corpo minuto vide ricadere abbondante una sua vecchia vestaglia di seta nera, formando su di esso uno sorta di strano vestito con la coda che nell’ombra sembrava si muovesse sulla sua pelle dal pallore insalubre.

Ma i suoi occhi, nonostante i lividi segni che ne rimarcavano il contorno, sembravano aver ripreso vita.

«Sarai costretto a lasciare la tua casa, Parigi, la Francia. Se non hanno notizie entro due settimane inizieranno a cercarci Erik …»

Aveva ascoltato il proprio nome attraverso quella debole voce una moltitudine di volte.

L’aveva assaporato, sentito, vissuto.

Aveva avvertito il suo cuore battere umanamente nel petto.

Lei sapeva cosa voleva dire vivere per una vita dietro lo stesso inganno, essere ciò che si personificava e, sotto il suo sguardo, non era in dovere di dimostrarsi uomo.

Nella sua grotta, tra le macerie della sua casa, fra i frammenti di specchio che distruggevano il riflesso della realtà, lui non era altro che questo.

Un uomo.

Non era un mostro.

Non era un Fantasma.

Erik.

«Guardati intorno, ormai qui non è rimasto più nulla, Lucia …»

 

Solo i ricordi ed echi lontani inghiottiti dalla decadenza del buio.

C’è solo distruzione e non è una tua colpa.

Non siano noi i mostri.

 

«Lucia …» invece ella pronunciò il suo nome cercando di appropriarsene di nuovo. Uno strano miscuglio tra la nostalgia e l’amarezza di tutto quello che aveva perso, di quella persona che ormai le appariva lontana, lontana.

Lo impastava fra le labbra come un bambino che assapora della marmellata di nascosto.

Davanti allo specchio non vedeva altro che lei, i mille volti che era stata costretta ad indossare uno ad uno.

Alterego passeggeri, piccoli brandelli di una perenne menzogna ai danni di sé stessa.

Un nome che voleva dimenticare. Un nome che le riavrebbe portato il pentimento per un’esistenza brutalmente squartata da una politica spietata.

Un nome che le ricordava l’unica parte di sé che aveva lasciato all’amata sorella.

Era riuscita nel suo intento.

Non era stato più suo, non era più lei.

Malice era diventato un abito troppo comodo da portare.

La sua maschera.

Era lei a tenere insieme le mille facce, lei che cancellava il dolore ed il senso di colpa.

Lei che zittiva la sua coscienza quando si macchiava di sangue.

E ce ne era tanto che scorreva ai suoi piedi, fiumi interi a cui non si era ribellata.

Lo stomaco si contorse fino a provocarle dolore.

Il suo cuore prese a martellarle il petto come impazzito.

Troppo veloce per le sue forze debilitate.

Troppo incontrollato per calmarsi.

La pelle riprese a scottare e l’aria non le parve mai tanto fredda.

Nella sua mente una fitta foschia si stava espandendo, ovattando ogni percezione, facendole mancare il fiato.

«Ho bisogno di sdraiarmi …»

Arrancò con difficoltà sulla parete di roccia con rinnovata premura, le sue gambe divenute di piombo.

Tentò con tutte le sue forze di rimanere sola, indipendente come sempre era stata.

Una donna che riusciva a cavarsi dalle più complicate situazioni senza aiuto alcuno. Come in Giappone, lavorando come sguattera in un okiya dopo essere stata abbandonata da Colas in terra straniera.

Un anno di umiliazioni.

Un anno in cui imparò ad apprezzare la perfezione di quel popolo nonostante le fosse nemico.

Un anno esatto da quando capì che non si poteva scendere a patti con la Sûreté e che l’unica persona affidabile era anche l’unica mente che poteva controllare.

Sé stessa.

 

Chi sarò d’ora in poi?

 

La ragazza che era stata un tempo non la conosceva, non sapeva chi e cosa fosse prima dell’assassina, della mercenaria.

Della meretrice di anime.

Di Lucia ricordava appena l’aspetto fanciullesco e spensierato di una bambina divenuta adulta troppo in fretta ed ora non sapeva nemmeno dove cominciare per ritrovarla.

Presto riconobbe in sé l’orrore di una vita venduta.

A causa di suo padre. A causa del suo incubo.

D’ora in poi nessuna colpa sarebbe ricaduta su altri.

Nessuna.

Malice, la donna che per così tanto tempo era stata sua compagna si sarebbe dissolta assieme al suo passato.

Non sarebbe più stata il suo alibi.

Eppure ora, cercando semplicemente di compiere un azione naturale come l’alzarsi si ritrovò nuovamente ad arrampicarsi alle sue braccia, alle sue spalle.

A lui.

E fu l’unico modo in cui riuscì a trovare l’equilibrio.

L’unico modo in cui smise di vacillare.

 

Cosa stai cercando di dirmi?

 

Uno specchio dalla superficie di giada rifletteva la sua immagine distorta, cambiata in un’altra.

Stentava a capire chi fosse quella donna dallo sguardo perso, insicuro.

Spaventato.

Che si volgeva con orrore a ciò che aveva compiuto davanti all’immenso mare in tempesta dove si trovò a naufragare e soccombere, sotto le onde sempre più impetuose che s’infrangevano impietose contro la sua coscienza.

«Non avrei dovuto, nemmeno davanti a te … » disse con il pianto che le tremava in gola.

La musica si esaurì, rallentando il suo corso.

Morendo nel silenzio del suo sguardo distolto da quel breve concerto.

Rabbuiata all’improvviso, quell’ombra di sorriso scomparso sotto la cascata di capelli disordinati che le ricaddero sul viso appena chinò la testa.

Rammarico.

Era questo quello che provava.

Ma non per cosa aveva fatto, non per come lo aveva fatto.

Solo perché aveva dovuto assistere alla crudeltà con cui uccideva.

Quella punta di piacere che aveva provato nel sentire l’ultimo rantolo.

L’assoluta mancanza di un rimorso nel prendersi ciò che Dio aveva concesso.

«Era il solo modo per difendere te stessa.»

No, non meritava la sua pietà, né tantomeno comprensione.

Non voleva essere vista in quello stato. Non voleva che il suo mostro apparisse.

Lei che aveva visto la sua deformazione fisica, aveva timore di mostrare la propria radicata nel cuore.

Se ne vergognava.

Eppure Erik non voleva privarsi dei suoi occhi, la profondità con cui erano in grado di scavare l’animo.

Voleva sentirli su di sé ora che li poteva ammirare senza che la colpa attanagliasse il suo ventre.

Li guidò a lui, le sue lunghe dita dalla pelle di seta sul mento di lei.

I suoi occhi dalla superlativa bellezza inumana.

I suoi caldi occhi dai colori autunnali, che rifulgevano di una luce propria anche da spossati.

Il mostro che si nutriva di violenza e sangue che l’aveva posseduta non lo spaventava.

Anzi, in un certo qual modo lo affascinava.

Indicava un limite ben preciso oltre il quale chiunque si sarebbe avventurato non avrebbe trovato che distruzione e odio.

Un confine che a lui l’aveva costretto a vivere nei sotterranei dell’Opera Garnier.

Un confine che per lei significava onore.

«Perché, perché dopo tutto quello che ti ho fatto mi giustifichi? Non merito pietà, non merito comprensione, non merito di vivere …»

Una triste lacrima solitaria cadde quando si rese conto che ora forse poteva essere sé stessa la padrona assoluta delle sue azioni. Scese solcando le curve del suo delicato viso su di una scia argentea, scivolando infuocata sulla mano di Erik.

Un pianto che lui avrebbe voluto consolare.

Un pianto interrotto da un rumore assordante.

Il suo rifugio stava per essere violato, la sua tranquillità distrutta di nuovo.

«Cosa succede?»

Il pannello che mimetizzava la grata si scardinò, sollevandosi dall’acqua con la leggerezza di un velo, attraversando il suono delle catene avvolte al meccanismo che li stava proteggendo.

Erik sostenne la breve strada che lo separava dalla riva del lago con grandi falcate, ripercorrendo con la mente ogni trappola pronta ad affrontare questo momento.

Non permesso a nessuno di avvicinarsi abbastanza da potergli strappare le sue fondamenta, non ora.

Chiunque si sarebbe presentato avrebbe assaggiato l’ospitalità del Fantasma e della sua dimora.

Chiunque tranne la persona che intravide fra gli scacchi della grata.

Madame Giry …

Immersa fino alle ginocchia avanzava come poteva attraverso l’acqua, arrancando seppure con la grazia che la contraddistingueva. L’unica donna per cui non riusciva a provare altro che non affetto così come lei nutriva  un rispetto che nessuno aveva osato dimostrargli.

Nemmeno Christine.

Sì, lo rispettava ma, allo stesso tempo, odiava quel suo modo di vivere, odiava vederlo spossato dalla musica che riecheggiava tra le pareti di roccia perché sapeva che il suo genio stesso lo avrebbe prima o poi consumato.

E la mano di Erik si mosse prima che lei lo chiedesse, offrendole aiuto, assistendola mentre si avventurava di nuovo sulla terra fredda del suo covo.

Della sua anima.

«Voi! Dov’è Constance? Cosa le avete fatto?»

L’astio con cui si pronunciò il conte ne palesò la presenza.

Lo vide e non gli piacque.

Madame Giry non si mosse, non ebbe esitazione alcuna.

Aveva superato la frontiera ben oltre a quello che il suo istinto le aveva imposto.

Non come quella notte maledetta che l’aveva segnata per sempre.

Questa volta invece era suo dovere non essere indifferente, anche se Erik non avrebbe capito.

Anche se Meg non riusciva a capire.

“No maman, non farlo! È pericoloso!”

Aveva nelle orecchie ancora la sua supplica accorata, sul braccio stampate le sue dita che cercavano di fermarla, nella sua mente il suo sguardo affranto mentre seguiva il conte fuori dalla loro casa, lo stesso che Erik mascherava con l’orgoglio ferito ed ancora intatto.

Devo farlo, Meg.

Avevano ascoltato insieme la storia del conte, della festa che si sovrapponeva ai ricordi di una passata Masquerade. Meg era lì, accanto a lei ancor più attenta e le teneva la mano quando una lacrima aveva iniziato a solcare il suo viso arandone la pelle con un scia bollente.

Nascosta, subito cacciata dalla sua guancia, ma pur sempre una lacrima calda di compassione e panico.

Non si sarebbe arresa, così come Philippe che ormai li aveva raggiunti.

«Non vi servirà a nulla nascondervi questa volta, io non sono come mio fratello!»

Era totalmente fuori di sé.

Ma il Fantasma non lo temeva.

Guardava a lui come ci si può rivolgere ad un insetto fastidioso, un insetto che aveva osato toccarla.

 

Odi quando si toccano le tue cose, vero Erik?

 

Il pugno al suo fianco non era mai stato tanto stretto, la mandibola serrata tanto da sentirne i denti stridere nel silenzio.

I muscoli del suo corpo rispondevano ad un impulso innato che sembrava controllare appena.

Intraprese un passo.

Le spalle sembrarono allargarsi, gli occhi alimentarsi di un terribile velo di follia.

Arido, secco con quel suo sguardo algido come una lastra di ghiaccio pieno di delusione.

«Vi prego, smettetela! Tutti e due, non siamo qui per farti del male. Vogliamo solo sapere dove è la ragazza.»

Un pugno sullo stomaco.

Tradito, con l’amarezza che fosse stata di nuovo lei l’artefice.

Ma Madame Giry questa volta, non avrebbe semplicemente assistito.

Non si sarebbe fatta da parte, né per paura né per rimorso.

Ci sarebbe stata per lui, uno dei suoi figli.

Gli avrebbe preso la mano.

Lo avrebbe fermato ed obbligato a voltarsi.

«Sono qui! Ora basta …»

Il suo appello sempre debole aveva attirato i loro sguardi.

Philippe stava cercando lei.

Per spiegazioni, per vendicarsi o qualsiasi altra cosa volesse da lei.

Ma solo lei doveva pagare per i suoi peccati anche se faticava a trattenersi dal crollare.

Lucia aveva smesso di sentire le gambe molto prima, osservando come una spettatrice di una scena surreale.

Al primo passo intrapreso con troppa veemenza il fianco parve strapparsi.

Una fitta lancinante la costrinse a piegarsi, sotto al dolore che cercava di ricacciare il più possibile tra i denti, che però non potevano nascondere il grido strozzato che le grattava la gola.

Le bruciava lambendone le pareti, neanche fosse composto di sale.

Fu costretta a sedersi in terra, raggomitolata contro sé stessa quasi potesse rimpiccolirsi.

Quello che vide fu solo il lembo appesantito, fradicio e sporco dell’abito scuro di Madame Giry, il suo passo affrettato e le sue piccole, bianche mani che cercavano di farle assumere una migliore posizione.

«Oh, mon Dieu! Siete ferita!» ascoltò la sua voce, mentre piccole gocce di sudore iniziavano ad imperlarle la fronte. «Questa donna ha bisogno di un medico!»

No, c’era qualcos’altro.

Oltre quella vestaglia, sulla bianca benda che accuratamente le fasciava il busto veniva macchiata di rosso, bagnata del suo sangue.

«Credo che abbiate proprio ragione Madame …»

 

 

Lo aveva visto cambiato, stranamente calmo.

Come se avesse di nuovo uno scopo, una via certa da percorrere.

«È arrivato un messaggio da parte del Conte de Chagny, è tutto pronto per la vostra partenza, domani arriverà la carrozza che vi porterà a Nantes, lì vi attende una nave mercantile che vi ospiterà nel più assoluto segreto …»

Nei giorni passati sempre più velocemente Erik si era dimostrato stranamente accondiscendente.

Era così insolito che lui avesse accettato di buon grado che fosse proprio Philippe de Chagny ad occuparsi dei suoi affari, almeno da quando quella ragazza, Lucia, gli aveva parlato.

Con il conte non erano mancati gli sguardi di sfida, l’un contro l’altro pronti a fronteggiarsi in ogni momento delle sue brevi visite, come se aspettassero entrambi la scintilla per far scoppiare la guerra. Si scontrarono nei silenzi carichi di tensione, nelle parole appena pronunciate, nei latrati che entrambi sembravano emettere come cani tenuti al guinzaglio. Ma era sempre come se ci fosse Lucia tra loro due, anche se non si poteva muovere dal letto fin a nuovo ordine del medico.

L’ira di Erik non del tutto sopita.

L’orgoglio di Philippe sempre accesso e pronto alla rivalsa.

«Bene.»

“Possiamo fidarci di lui, si sente in debito con me perché ho cercato di avvertirlo del raggiro nonostante tutto. Sai, ancora mi chiama Constance …”

L’Erik che aveva raso al suolo il suo teatro, rapito il suo amore per farne sposa era come placato dalle sue parole era come sopito, il suo fuoco domato ma non spento, nei suoi occhi una strana quiete che preannunciava una tempesta che non poteva sfogare.

Forse c’era troppo in ballo, questa volta un qualcosa che con il suo seducente potere non poteva governare e non gli restava altro che affidarsi a qualcuno di così vicino da ammansirlo fino a quel punto.

Era ancora lì, ad osservarlo sul limitare della stanza e a chiedersi quanto fosse coinvolto nei confronti di lei.

Quanto ancora era disposto a soffrire se lo avesse rifiutato.

Non avrebbe voluto ascoltare la loro conversazione, eppure si era ritrovata ad origliare, a spiarli dallo spiraglio della porta che difettosa lasciava aperto, a cercare di capire quale mistico fato aveva fatto intrecciare i loro destini. Lei era diversa, sì, completamente diversa dalla Christine giovane sprovveduta.

Lottava con la forza del suo spirito, lottava per avere ciò che più desiderava.

Conosceva anche il suo aspetto.

Aveva visto le sue mani togliergli la maschera.

“Ho così tanta paura di me stessa che non posso averne anche di te …”

L’aveva lasciata fare, senza orrore, senza che lui le chiedesse il perché.

Le sue dita avevano disegnato ogni piega del suo viso, del suo collo, delle sue spalle.

E lui aveva chiuso gli occhi, si era abbandonato a lei, alle sue parole sussurrate, alla sua richiesta di un abbraccio così semplice e ingenua da chiedersi se fosse una finzione.

Madame Giry continuava a domandarsi se fosse sincera o una semplice strega che lo attirava a sé solo per sfruttare l’unico suo punto debole.

Perché era sicura che Erik sentiva quella donna come sua, una nuova speranza di rompere quella straziante solitudine a cui il suo ripudio nei confronti del proprio aspetto lo aveva costretto. Anche più di quel amore idolatrato verso la giovane soprano, più tangibile, più reale quasi da spaventarla.

Avrebbe dovuto confessargli i suoi dubbi.

Non sarebbe servito a molto, non l’avrebbe ascoltata.

Consigli non ne avrebbe accettati.

Lui era e sarebbe per sempre stato puro istinto.

Presto sarebbe partito per il Nuovo Mondo, l’unica sua salvezza.

Avrebbe rispettato il suo ostinato silenzio, lo avrebbe lasciato ai suoi pensieri immersi nel grigio torpore di una ennesima giornata uggiosa, perché lei non poteva negargli anche solo quello: la possibilità di avere una vita lontano da Parigi, dall’Opera, dal ricordo di Christine. Solo l’aver salvato quella strana donna che giaceva in uno dei poveri letti della sua abitazione, l'essere stata lì in quel preciso istante a dirgli addio sarebbe stato il suo modo di aiutarlo.

“È molto forte, con le giuste cure si riprenderà presto Madame.”

Ed infatti, ad una settimana da quando la stava ospitando, si era sorprendentemente ripresa.

Accettata persino da Meg che si era ritrovata più di una volta a parlarle solo per avere notizie della sua amica. Meg che aveva anche accettato, zittendo il suo dissenso, anche lui solo perchè una volta che se ne fosse andato finalmente sua madre sarebbe tornata quella di un tempo con la coscienza più leggera.

Queste erano state le sue parole per convincere la ballerina.

Sì, era una donna molto forte ed in grado di proteggersi.

Forte e intelligente.

Forte e determinata.

Forte e tremendamente sola.

Proprio come lui, proprio come il ragazzino salvato da una folla inferocita.

Era proprio lei, la donna che chiese di lui pochi giorni dopo che era scappato, quella in cui lo rivide come se lo avesse nuovamente davanti.

Ricordava quel giorno, persa nei suoi occhi adombrati da quel velo di melanconia solitaria che le fece tremare le mani.

Ricordava il suo sguardo, ricordava la stessa sensazione che le provocava sentirsi osservata nel buio.

Simili, quasi in maniera impressionante.

«Antoinette … grazie!»

Stava per andarsene, sparire dai suoi occhi vacui verso il fuoco che si librava tra le mura del camino.

Ed invece i suoi piedi si pietrificarono.

Un suo grazie, un qualcosa che non si sarebbe aspettata.

«Non ringraziarmi Erik, ho sempre voluto il tuo bene, solo questo. Spero solo che lontano da qui tu possa trovare quella normalità che io non sono riuscita a darti …»

Spero solo che questo sia il momento che tu abbia una vita abbastanza normale. Che lei sappia darti quello che qui non hai trovato.

Era giunto il momento per cui il suo incubo terminasse, il buio volgesse definitivamente alla luce.

Una luce che doveva finire per accettarlo anche se lui era da sempre una creatura della notte.

Erik ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse stato convinto ad attraversare la città.

Con lei.

Per lei.

Lei che aveva convinto il Conte de Chagny ad aiutarli organizzando la loro fuga, raccattando il loro denaro.

Lei che riusciva ad abbassare la testa e a fargli accettare che da soli avrebbero esclusivamente allungato i tempi.

Lei che lo stava spingendo ad uscire da un guscio.

L’indomani doveva affrontare l’intera nazione e poi sconfinare oltre l’oceano, sul suolo straniero dove c’era terra vergine su cui costruirsi un futuro diverso.

Gli rimaneva solo il retaggio di un passato morto con il suo teatro.

Lui pronto a rinascere.

Un saluto come un vecchio saltimbanco che lascia il suo palco.

Un inchino alla città che aveva visto solo il Mostro, in tanta bellezza che lui stesso aveva creato.

Parigi.

Una dama dal fascino romantico anche sotto la fitta pioggia che l’attanagliava da più di una settimana ormai. Quelle poche volte in cui aveva avuto il coraggio di uscire era riuscito ad ammirare tutto il suo splendore.

Ricordava ogni cosa mentre passava inosservato tra gli artisti che dipingevano ai lati della strada.

I piccoli bistrot brulicanti di allegre compagnie, le lampade ad olio che perdevano macchiando le pietre al di sotto di esse, le vie deserte di una città che amava e si lasciava amare. Le dolci dichiarazioni, le promesse sincere o meno sussurrate tra le rive della Senna che placida scorreva ai piedi degl’innamorati, silente testimone di una notte che sarebbe stata solo loro.

Pensare che tutto era cominciato lì, in quel salotto dove ora si trovava una notte in cui voleva soltanto tornare alla sua vecchia vita.

Impossibile.

Il Fantasma dell’Opera era sepolto fra le ceneri della distruzione che aveva seminato.

Un saluto oltre l’addio.

 

Note dell'autrice:  Allora, siamo giunti al capitolo finale a quanto pare, o meglio manca solo l'epilogo ... Già Erik va nel Nuovo Mondo con Lucia e ho voluto che fossero proprio Philippe e Madame Giry a spedirceli. Ovviamente questo è il piccolo riferimento a Love Never Dies e prenderò in prestito anche una cosuccia da "Il Fantasma di Manhattan" di Frederick Forsyth (nulla di che, prenderò solo il cognome che lui dà a Erik), anche perchè ripeto non mi aggrada molto come continuo(la versione narrata di Love Never Dies, non mi aggrada il musical e quindi ...).

Spero che il capitolo non vi sembri confusionario, o troppo affrettato.

In realtà deve essere affrettato perchè comunque presto i nostri due eroi verranno braccati.

Come ho già detto Philippe li aiuta perchè in fondo si sente in debito con Lucia perchè l'ha avvertito che lo volevano incastrare, ed un po' è ancora innamorato dell'idea che si era fatto di lei. Spero che questo non sembri forzato ma avevo bisogno di qualcuno di abbastanza influente che potesse muoversi per farli fuggire.

Ovviamente ringrazio sempre tutti, ma rimando ogni saluto all'epilogo.

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


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Capitolo 20
*** ÈPILOGUE: Découvrir d'être vif. ***


ÈPILOGUE: Découvrir d'être vif.

 

Il quadro di una giornata in gran fermento, l’apertura della tanto rinomata stagione con i suoi mille capricci scenografici.

Nuove opere che attendevano il pubblico sempre più indiscreto, affamato di quello che era divenuto un evento a cui in pochi potevano assistere. Una fila interminabile di gente, una coda che arrivava fino all’angolo della strada con somma gioia del abbiente signore che dall’esterno ne ammirava l’estensione.

Il suo più cospicuo investimento.

E pensare che fino a qualche mese prima riteneva l’Opera solo una macchina sfrutta tasche, senza nessun margine di guadagno.

Invece ora, al secondo anno, il profitto si prospettava il triplo rispetto a quello precedente.

Senza contare che trattare con l’amabile Madame Mulheim era assai piacevole.

Tanto piacevole quanto complesso.

Il suo aspetto grazioso nascondevano il suo istinto da spietata e temuta donna d’affari, una rarità in un mondo costruito e retto dagli uomini. Un’arma che in molti aveva tratto in inganno.

Una donna che otteneva sempre ciò che voleva.

Tutto con il minimo sforzo, così come quando aveva ottenuto all’asta quel vecchio rudere. L’aveva pulito, reso splendente, ristrutturato in ogni particolare sotto un’invisibile direzione che prestava progetti dalla genialità assoluta.

E con un impiego di denaro esiguo.

Era lì che la trovava ogni mattina dopo che la carrozza si fosse fermata di fronte al maestoso ingresso dagl’accenni barocchi e neoclassici, con le sue sinuose linee curve e le imponenti statue femminili che ne reggevano il peso, superando lo stuolo d’inservienti che le portavano ogni cosa ritenesse opportuna la sua approvazione.

Uno sciame che ronzava intorno alla propria regina.

Chiunque l’avesse cercata era sicuro che l'astuta Signora dell'Opera si trovasse nel suo Teatro, in cui ogni sforzo veniva ripagato con l’applauso altisonante del pubblico.

In molti dicevano che il monumentale edificio costruito in pochissimo tempo fosse l’esatta copia ridotta dell’Opera di Parigi, altri affermavano che era solo una diceria affinché la pubblicità attirasse ricchi turisti curiosi. E lui, l’eccentrico e misterioso proprietario, che mai si era mostrato apertamente se non in rarissime occasioni alimentava questi pettegolezzi, rendendo la leggenda ancor più viva.

Panem et circenses.

«Buongiorno Signor Schimdt, siete venuto a controllare il vostro denaro? Oppure siete venuto solo ad assistere alle prove?»

Era una donna ammaliante senza dubbio, con lo sguardo arguto e seducente, due grandi occhi mediterranei che sapevano come conquistarsi la benevolenza altrui. Abiti sempre solennemente scuri, ma dalle rifiniture pregiate che indicavano la sua posizione di signora altolocata nonostante fosse in un ambiente ritenuto da sempre meschino.

«No, Madame purtroppo non posso mi attendono alcuni clienti.»

Come non accettare la sua offerta, il soffice dorso della sua mano appena accarezzato dalle rugose labbra da uomo maturo del mite proprietario di fabbriche divenuto un mecenate.

Un libidinoso piacere appena accennato in quella piccola porzione di pelle.

Anche in un semplice gesto, sfilando una ad una le dita dei guanti per poter porgere la mano al suo finanziatore, accennando quel sorriso beffardo e sicuro che le caratterizzava il viso delicato sapeva come coinvolgere le persone che aveva accanto.

Si concedeva solo quel poco per poter godere della compagnia intelligente e raffinata di una persona che si era fatta apprezzare per le sue doti.

Ma era intoccabile, una donna impossibile da affarrare. Fedele ad un'unica persona.

Qualunque uomo avesse tentato di approcciarsi a lei in altri modi, si sarebbe trovato allontanato da molte ragioni.

Un sussurro nel palco in cui soggiornava, il respiro che lento lo invitava ad evitare certi comportamenti, la stessa Madame che declinava ogni profferta di amori clandestini. 

Una delle ragioni ancor più palesi che lei non fosse di nessuno poi era la timida bambolina che le tirava la stoffa dell’abito, cercando di attrarre la sua attenzione.

L’unica cosa che lei temeva le sfuggisse, le venisse strappata da un momento all’altro perché immeritevole di un tale grande dono. Bella come un mattino di primavera appena in boccio, con quelle attente perle d’acquamarina che cambiavano di colore con il gioco luminoso del suo umore, una superficie riflettente sulla sua pelle d’avorio e i lineamenti rinascimentali che ella stessa vedeva nello specchio ogni giorno.

Aveva imparato ad essere tenera, dolce dopo anni di assoluta tortura.

L'aveva imparato con lei, attraverso i suoi giochi, le sue conquiste.

Era cresciuta e si era rafforzata.

Lo specchio di una vita che a lei non era stata concessa, l'amore che lei non aveva avuto eiversato in lei.

La sua dolce bambina.

«Eve, per piacere accompagnala dentro, io vi raggiungo fra un attimo …» La giovane istitutrice rispose immediatamente al suo richiamo, accostandosi discretamente alla bambina che non sembrava avesse intenzione di allontanarsi.

Le teneva accuratamente la schiena invitandola ad ubbidire con la stessa cautela con cui la madre del passerotto spinge il pulcino fuori dal nido.

«Sì, Miss!»

Si convinse, prese la mano della ragazza e la seguì continuando a guardare alle sue spalle finché le fosse possibile, rincuorata dal mormorio incessante della vita teatrale. 

Le donne di servizio erano già a lavoro tra secchi e stracci, affinché ogni marmo brillasse. I macchinisti e gli addetti alla manutenzione serpeggiavano fra le quinte nascosti dai folti tendaggi volando sulle teste di chi sul palco iniziava a provare. Dalla fossa all’esterno si poteva udire gli strumenti accordarsi, mentre i cantanti e i ballerini riscaldavano con gorgheggi e saltelli i loro talenti.

Erano giunte solo nell’atrio semi deserto ed Evelyne già avvertì la piccola figura rilassarsi al suo fianco.

D’altronde, per quella bambina,  era come entrare nella sua casa.

Il ventre caldo e accogliente della musica una grande stanza dei giochi, il suo innato amore per ogni singola nota e il suo talento ereditato così come quella cicatrice che possedeva dalla nascita.

Proprio sotto i lunghi fili di seta castano dorati che si evolvevano in soffici boccoli sulla piccola schiena, si nascondeva un segno che la contraddistingueva. Un taglio rossastro che disegnava la mandibola fino al mento, un’imperfezione solenne, un segno che le ripeteva con orgoglio chi fosse suo padre e le dita di sua madre amavano percepire.

Eppure s’irrigidì di nuovo quando un uomo, incrociando le due nuove giunte, si fermò a fissarle.

Un uomo dai lineamenti puliti, dall’aspetto aguzzo e longilineo di una volpe.

Guance paffute su di un volto magro, disordinati ricci scuri e occhi neri, cangianti, vivi, come se all’interno di essi viaggiasse la sua mente alla velocità di un treno.

Come se la sua intera esistenza dipendesse dall’essere sempre un passo avanti agl’altri.

Si mosse in avanti, il passo sicuro e cauto da predatore, come il Diavolo che assume la forma di lusinga per prendere l’anima del povero innocente. C’era qualcosa in quell’uomo, qualcosa d’indescrivibile, anche se il suo aspetto non tradiva nulla di minaccioso. Eppure Eve sentiva di dover rimanere all’erta, attenta ad ogni sua mossa.

I suoi candidi occhi saettavano convulsamente tra il viso dell'uomo e la bambina che si stringeva con forza alla sua gonna.

Lei istintivamente allungò il braccio cingendo, per quanto possibile, le minute spalle pronta a spingerla lontano, con le sue urla d’allarme boccheggianti nella gola.

L’uomo si fermò, vicino troppo vicino.

«Ma che bella bambina …»

Sorrise furbo, con quello sguardo strano ad illuminargli l’intero volto. Indecifrabile come una sfinge.

Sembrava quasi un ragazzotto borghese nonostante l’aspetto adulto, sempre pronto alla battuta, scanzonato come se non gli importasse di ciò che lo circondava.

Il rigido bastone puntato davanti al volto diffidente della bambina.

La studiava, l’interesse che lo stava cogliendo era al di là della loro comprensione.

Il ritratto riconoscibile di un passato che lui conosceva benissimo.

Che lui aveva amato.

Voleva vederla da un punto di vista privilegiato, voleva scrutare se nei suoi occhi vi risiedesse quella profondità in grado di ucciderti, quel fulgido bagliore che l’aveva stregato anni orsono.

«È vostra figlia?»

Sapeva già la risposta, troppo ovvia per lui che conosceva ogni tratto di lei.

Le sue ginocchia si piegarono.

La ragazza sobbalzò cercando di fare da scudo con il suo corpo, spingendo la piccola dietro di sé.

Lei così spaventata, mentre la piccola non tradiva le sue emozioni.

Dura ed impenetrabile, fiera,orgogliosamente rigida dal momento in cui si era sentita sotto esame.

Come se lo volesse affrontare.

Come se nascondesse il suo istinto connaturato.

«Evelyne!»

Una voce tuonò dal grande ingresso spalancato, riflettendosi in tutto il grande perimetro.

Calda, penetrante, che non aveva alcuna inclinazione se non quella dell’ubbidienza che le era dovuta.

Vi raggiungo fra un attimo …

L’attimo era passato nel tempo di accomiatarsi e lei, impietrita, aveva rivisto la sua vecchia vita piombargli al centro del petto senza nessun rispetto. Quanto era passato dall’ultima volta? Troppi anni per ricordarsi il giorno preciso, troppo pochi per dimenticarne le fattezze.

Era lui.

«Andate dentro, subito!»

Alle sue parole la ragazza raccolse l’ordine come se fosse l’invito ad un the in terrazza, sollevata di non dover subire il peso dell’aria che si era creata attorno alla enigmatica figura di quel signore.

Sentiva la necessità di allontanarsi, la premura.

Persino la corpulenta donna che stava spolverando, prese il suo secchio e la sua scopa cercando impiego altrove.  

Si mosse veloce, non si voleva voltare. Tutto pur di scrollarsi l’inquietudine che avvertiva.

Ma quando i suoi passi affrettati stavano per raggiungere la scalinata d’accesso qualcosa le impresse una forza contraria.

La bambina e la donna si tenevano incatenate tramite gli sguardi.

«Maman?»

Le uscì un soffio, pallido e soffocato in quella sensazione di pena che le stava avvolgendo l’anima innocente.

Era piccola e già con quello spirito arguto da avvertire quando un pericolo era vicino.

Lo stesso istinto che aveva sua madre.

«Vai …»

 

 

Quell’ammasso nero li osservava muto.

Non era solo un angolo buio.

Per nessuno degl’artisti.

Attendevano impazienti un cenno, una risposta alla loro esibizione.

“Vedo con piacere che vi siete ricostruito un vostro piccolo impero, Monsieur …”

Nessuno lo conosceva realmente, nessuno si era tanto avventurato da scoprire il suo aspetto.

Violinisti, cantanti, ballerini, nemmeno i direttori delle varie arti. Persino i suoi giovani allievi non avevano mai potuto vedere il suo volto sempre coperto dall’ombra.

Un’abitudine ormai consolidata.

Non ne conoscevano il viso e solo alcuni avevano avuto il privilegio di ascoltare la sua voce.

Eppure ognuno di loro sentiva i suoi occhi studiarli fin nel profondo, scovare se ciò che veniva alimentata fosse la fiamma della passione e non un mero sogno di vanità e gloria. Perché chiunque avrebbe voluto appartenergli, ma solo alcuni potevano rientrare nella sua ristretta cerchia di eletti.

Una porta che si apriva alle più alte sfere artistiche del mondo.

Una disciplina unica nel suo genere che rendeva la Musica ancor più preziosa.

Dedizione, passione, talento.

E tutti erano un corpo unico, un figlio che cerca costantemente l’approvazione del padre anche contro ogni senso logico, contro ogni ragionevolezza.

Era questo.

Notti intere perso ancora nel turbine della sua Arte.

Apprezzata, amata, voluta.

La sua musica libera e scandalizzante era il giusto sfondo a quello che rappresentava il panorama di una nuova veduta.

Finalmente un mondo pronto ad accertarlo anche così. Ad accontentarlo anche se risiedeva nell'ombra.

E tutto grazie al suo nuovo volto.

Lei rappresentava la sua voce, i suoi ordini, il suo volere.

Ogni particolare curato come se fosse lui stesso a farlo, mentre assisteva dal palco migliore al Gioiello Europeo nella penisola di Coney Island.

Lei era l’unica.

L’unica che conciliava il suo carattere, le sue manie, che lo compiaceva con il suo stesso senso dell’ordine e della perfezione. La sola a poter accedere al palco numero cinque.

Il suo palco.

«Alexandre Vidocq è qui, a Coney Island …»

La vide.

Sconvolta, spaventata.

Poteva udire il suo cuore battere furiosamente sopra i gorgheggi della cantante.

«Pensavo che ci avesse trovati ed invece scopro che sei stato tu ad invitarlo. Dovresti sapere che con la Sûreté non si può scendere a patti. Cosa mi stai nascondendo, Erik?»

Le sue mani tremavano lungo i fianchi, chiudendosi in pugni serrati.

Tornò ad osservare il palco dalla sua poltrona come se quella fosse stata una fastidiosa interruzione.

Il suo sguardo severo baluginava sui suoi artisti, vigilando perennemente su di loro nonostante tutto.

«Non preoccuparti.»

La sua indifferenza era troppo, perfino per lei che sapeva accettare le sue stranezze divenute ormai di ordine giornaliero.

Era troppo perché tutto era in gioco e non più solo la loro vita.

L’ira salì incontrollata, due falcate più lunghe del suo passo, furiose.

Vicina alla sua poltrona, vicina all’unica metà libera del suo viso.

«Era ad un passo da Christine, hai messo in pericolo mia figlia, io …»

Sua figlia.

Era solo sua figlia?

No, non poteva sopportare che si arrogasse questo diritto.

Nessuno poteva farlo, nemmeno lei.

«È anche mia figlia …»

Si sollevò gravando con il peso della sua ombra su di lei, così piccola a confronto da scomparire.

Ma lei restava impettita, altera come un soldato che affronta la battaglia, pronto a ricevere il tanto temuto colpo di grazia.

Fissava i suoi occhi scoccare dardi fiammeggianti sul suo orgoglio divenuto un estenuante muro invalicabile.

«Troppo spesso ti dimentichi di noi per poterlo affermare …» le era uscito, veloce, naturalmente velenoso. Lo aveva colpito nel profondo.

Le sue mancanze, le sue poche attenzioni riservate a brevi momenti, tutte lì, spiattellate in un grido soffocato alla mercé del proprio sguardo.

Madre e figlia unite per racimolare quei pochi pezzetti che concedeva loro.

Lei, per lui, non era più che quei certificati che ne dimostravano la reciproca appartenenza.

Un falso.

Nessun vincolo, nessun legame se non quello lavorativo. La sua personale postina alla stregua, con i servizi che esulavano dai propri compiti quando tornavano nella stessa casa.

No, giurare davanti a Dio di amarsi, sarebbe stata una menzogna.

“Anch’io so riconoscere i falsi, Malice …”

Malice.

Non veniva chiamata così da otto lunghi anni ormai.

Ed invece aveva dovuto sopportare ancora il gravoso carico che quel nome portava con sé.

Il suo passato riaffiorato di nuovo.

La donna che sperava di aver lasciato oltre Oceano.

Non lo sopportava. Non reggeva il confronto con lui, con i suoi occhi, con tutto quello che lei rappresentava.

Non poteva guardare a quell’universo di giada e fondersi con lui.

Ed era stanca di mentire a sé stessa che forse le cose potevano cambiare, trasformarsi, divenire.

Doveva esserci qualcun’altra al suo posto.

Qualcuno che gli riempiva il cuore con la voce melodiosa della sua Arte.

Qualcuno che avrebbe saputo leggere i suoi spartiti e non consegnarli.

Che avrebbe potuto duettare con lui di languide passioni su di un ponte sorretto dal fuoco.

Lei non era una degna sostituta.

«I tuoi ordini.»

Piangeva. Grandi lacrime trattenute invano che le rigarono le gote spennellate di iraconda porpora.

Sì, piangeva.

Perché si era illusa di aver lasciato alle spalle Parigi, il suo orrore.

Si era illusa che lui avesse seppellito il Fantasma. Invece era ancora con loro, con la sua presenza intimidente e il suo sguardo freddo, le sue lunghe gambe e la sua figura resa ancor più imponente dalle spalle larghe ben disegnate.

Dalla sua bianca maschera che non lo abbandonava nemmeno nell’oscura intimità della loro casa.

Malice non avrebbe versato una sola lacrima.

Lucia invece ne era rimasta così ferita da volergli scappare.

«I. Tuoi. Ordini.»

Ogni parola scandita tremante.

Gli occhi già lontani fissati sulla cartelletta adagiata sulla poltrona.

Il palmo della sua mano rivolto nel vuoto ad attendere che si posasse magicamente su di essa.

Il tempo non cura le ferite. Le nasconde.

Il tempo in cui non ricevi una negazione, un segno, quel minimo di rimorso che doveva palesarsi invece squarcia il petto.

Aveva solo serrato le labbra. I suoi muscoli irrigiditi. Il suo sguardo severo e contrito.

La sua maschera facciale uniformata al mezzo volto bianco che si disegnava su di lui asettico, privo d’ogni espressione.

Erik non le avrebbe dimostrato mai che si sbagliava.

No.

Proprio perché non si stava sbagliando.

Tutto per un’informazione.

“Saint Marie, approderà domani nel pomeriggio. Lei sarà qui giusto in tempo per la sua Opera.”

 

 

Un attimo prima non c’era.

Era sicura.

La stanza era chiusa, lo avrebbe giurato. Era stata lei stessa a girare la chiave nella toppa per impedire agl’ammiratori di non intrufolarsi.

Eppure nel camerino della cantante era comparsa la seconda rosa rossa listata di nero che ancora teneva fra le mani.

 “Madame, credo che questo sia per voi …”

Una busta, chiusa ermeticamente.

Il suo simbolo che a chiunque avrebbe incusso timore, ma che lei invece sembrava di conoscere da sempre.

Era quasi confortante.

Un teschio scolpito sulla ceralacca, parole vergate di rosso come se fosse sangue che sgorgava dal quadrato ingiallito della carta.

Ti aspetto sul palco, da sola.

Le loro prime parole dopo un giorno di assoluto e ostinato mutismo. Le prime dopo che lei gli aveva apertamente detto di avergli dato tutta la sua anima, di essere stato una sua marionetta come tanti altri mentre pensava che forse era qualcosa di più.

Si era sempre accontentata di non poter essere amata, di vivere una finzione perenne quando il suo cognome veniva storpiato in quello di lui.

Ed ora forse si sentiva stretta in quel ruolo. Imprigionata.

Le assi venivano appena illuminate dalla lieve penombra delle poche luci ancora presenti.

In piedi, davanti al nulla avvertiva un strano senso di nudità nel trovarsi su di un palco.

La platea deserta sembrava il respiro soffocante di un drago che si udiva al placido silenzio di una notte che volgeva al termine.

L’Opera era stata grandiosa.

Gli applausi lunghi, infiniti, pericolosi.

Le pareti avevano vibrato al loro suono che quasi temeva non reggessero.

Ma lui non ne sembrava totalmente soddisfatto, qualcosa mancava al suo quadro completo.

Sapeva di non essere abbastanza.

Un ripiego.

Era quello a cui poteva aspirare.

Anche se la mattina quando si svegliava e sentiva il calore del suo corpo iniziava a sperare.

Sperava che si accorgesse di lei, anche solo un po'.

No, non l'avrebbe fatto. Nemmeno questa volta.

Non era da lui chiedere scusa. Lei stessa non avrebbe voluto.

La sua bocca era così abituata al sapore amaro, che le sembrava quasi dolce.

Forse si aspettava da lei qualcosa, lì nel suo mondo di tenebra a cui poteva appartenere solo in parte.

Uno scricchiolio nel buio, tra le quinte.

«Erik, sei tu?»

Presto, molto presto lo avrebbe saputo.

Le sue spalle si voltarono prima del suo sguardo.

Lo scricchiolio continuava sempre più amplificato.

Sempre più forte.

Gli occhi faticavano a distinguere la sagoma che ne stava emergendo.

Trasse un respiro che si trattenne nel suo petto.

Non è possibile …

Non era lui.

Una sottile figura minuta avvolta in fine abito di seta, i lunghi capelli raccolti che ai primi e flebili bagliori sprigionavano riflessi ramati su di una pelle nivea e delicata. Il suo volto più maturo non nascondeva la bellezza che ricordava risplendere nelle rarissime occasioni passate.

Erano ancora bambine.

Sedute nei campi a leggere e cantare, librandosi in pensieri alieni che esulavano dalla tristezza della realtà.

«Lucia …»

Ogni parola smorzata in gola, la sua mano che ancora cercava inutilmente la sua croce sul seno spogliato da qualsiasi oggetto non degno. L’emozione calda che dallo stomaco prese a salire, salire sempre più vertiginosamente fino a raggiungere la testa che vorticava nel turbinio d’immagini, ricordi e speranze.

«Beatrice …»

Lente le lacrime iniziarono a sgorgare, zampillando con stille luminose dai loro occhi.

Il loro cammino un riflesso incondizionato.

Le sue bianche mani cercavano di ricordare al tatto ogni lineamento del suo viso, cancellando per sempre il costruito ricordo di una ragazzina irriconoscibile, distesa su quel tavolo dal legno intriso di sangue. Non più.

Ora non più.

Beatrice sapeva che non era lei.

Avrebbero potuto ingannarla su molte cose, ma non su questo.

Lucia, la sua piccola Lucia era viva.

La sua anima ne avvertiva l’essenza, eppure quel giorno aveva confermato il suo nome su quel corpo privo ormai di ogni alito di vita, pur che tutti credessero che fosse lei.

Pur di proteggerla.

Ma c’era qualcosa in lei, qualcosa di disperato e diverso.

Un fiore che stava lentamente appassendo al fiore dei suoi anni.

Qualcosa che sapeva derivare dalla moltitudine di lettere che aveva letto.

Un velo appannato che le ricopriva lo sguardo.

La paura inconscia che tutto questo fosse un sogno e null’altro.

Singhiozzava, incapace di trattenersi. Una bambina a cui le era stato strappato tutto.

L’infanzia, l’amore, l’innocenza.

Tutto.

«Lucia, cosa ti hanno fatto?»

I loro cuori persi in un solo ed unico battito, si percuotevano ferocemente nei loro petti.

Quasi volessero strappare gli abiti.

Quasi volessero sfondare ogni impedimento di ossa, carne e sangue, pur di raggiungersi ancora una volta ed una volta soltanto.

Un abbraccio asfissiante in cui si erano ritrovate nella notte prima che Lucia partisse.

Si erano dette addio quando ancora avevano le esili braccia da bambine spaventate.

Ed ora da donne finalmente ricongiunte.

 

 

Avevi mai visto l’oceano?

Mai, prima di allora in quella sera lontana.

Una nuova vita.

Nuove speranze.

La visuale della città ormai addormentata si stendeva sotto i suoi piedi.

Per una volta nessuna musica. Il mormorio di una notte cullata dal raro stormire dei gabbiani, la loro caccia, il porto in lontananza laddove il cielo si confondeva con il mare creando un gioco di velluto nero e grigio.

Lo incontro di nuovo, eppure oggi mi appare di un confortante infinito.

Un confortante infinito al limitare dell’orizzonte, un quadro dipinto per l’imperatore indiscusso di un regno che non avrebbero più potuto strappargli.

Ma che avrebbe potuto perdere. Tutto.

Stava accadendo, non era mai stato uno stolto. Piuttosto un acuto osservatore.

Stava accadendo come si aspettava dall’insoddisfazione che leggeva sul suo viso, dal rammarico di quando gli chiedeva di tornare nel caldo giaciglio che lo aspettava ogni sera, seducendolo con languide promesse di un amore facile, non tormentato.

Un amore divenuto sano.

Un amore che lui non sapeva gestire, a lui parallelo e che ora credeva non potesse sanarsi facilmente.

Era un rischio conscio.

Un rischio che aveva calcolato, un rischio che avrebbe potuto rovinare i precari equilibri della sua vita.

Stava arrivando la neve.

Tutto era statico, immobile nel plumbeo cielo del primo dicembre.

Solo leggere folate argentine che gli gonfiano il mantello.

Restava in attesa.

L’aria fredda solleticava la pelle. Una sensazione piacevole. Da assaporare.

Come il calore del suo corpo mentre la spiava dormire.

Questa volta no, non sarebbe rimasto a guardare.

Era il suo momento, il suo soltanto.

Anni passati a sorvegliare ogni cosa, a desiderare il completo controllo su di ognuno.

Non era più necessario ora.

Sovrastando dall’alto tetto del suo teatro si sentiva padrone di sé stesso.

Libero.

Libero dalle etichette, dai dogmi, libero dal suo genio sfogato.

Libero della sua maschera.

L’aveva tolta.

Adagiata sulla balaustra lo guardava, pregandolo muta di tornare al suo posto.

Non era più sola.

Conosceva quell’anonima copertina nera chiusa da quel laccio squamato dal tempo.

Lo aveva guidato in quella notte oltre i confini. Gli aveva donato le chiavi per il nuovo mondo.

Conosceva le esili dita che esitavano su di essa.

Stava per prenderla ed indossarla di nuovo.

Così vicina, così avvolgente da sembrargli sicura.

Un gesto naturale, meccanico come il semplice respirare.

Ma le dita, che prima sfioravano il quadernetto, lo bloccarono.

«Sapevo di trovarti qui …»

Era unicamente bella, più bella di come era sempre stata.

Dolcemente trasformata in quello che nascondeva sotto una coltre di fierezza.

Era tornata ad essere sé stessa.

Senza più schermi, senza più dubbi.

I suoi splendidi occhi privati di ogni frivolo vezzo, della furbizia che la caratterizzava, della seduzione che applicava.

Privati della rabbia, della paura, dell’odio.

Libera.

Come lui.

«L’hai tenuta con te tutto questo tempo …»

E non c’erano parola da pronunciare, né recriminazioni.

Ogni cosa si traduceva in quel piccolo oggetto d’argento che era tornato ad adornarle il collo.

La sua croce, il suo amuleto, la sua fede, ogni cosa che le era rimasta di quando si era sentita umana.

L’unica cosa che l’aveva fatta sentire protetta e amata.

Un simbolo di quanto in realtà si stavano nascondendo.

Nessuno dei due l’aveva mai detto.

Nessuno dei due si era sbilanciato.

Nessuno aveva osato esporsi fino dire quelle poche ed intense sillabe.

Forse non esistevano parole adatte. Solo un tenero gioco di labbra che si sfiorano, una pallida carezza che cresceva di passione quando la sua mano si avventurava sulle rossastre curve della sua piaga, sul suo animo maledetto, sul suo cuore che aveva ripreso a battere nel preciso istante in cui l’aveva sentita calda tra le sue braccia.

L’amore, quello vero, era questo dunque.

L’aver desiderato e ottenuto quel bacio senza ricatti o menzogne.

L’aver voluto una vita con lei conquistandola di giorno in giorno.

L’aver osservato insieme i primi fiocchi di neve sciogliersi sulla loro pelle ed imbiancare i primi tetti.

«Christine ne sarà felice …»

 

 

 

Coney Island, 1872

 

Devo chiederti perdono.

Oltre ogni scusa, oltre ogni parola io devo farlo. Devo farlo perché non ci sono stato e tutt’ora fatico a comprendere cosa sia realmente accaduto.

Perdonami.

Ti ho lasciata da sola e non avrei dovuto.

Sono scappato, io che mi sono sempre vantato di non aver paura di niente.

Sono stato un codardo e me ne pento più di ogni altra cosa.

La paura costante che tutto questo avrebbe significato solo altro dolore.

L’aver rovinato un’altra vita.

Due vite.

Sono stato uno stolto, accecato troppo dal mio ego per poter vedere oltre di esso.

Mi pento di tutto.

Della rappresaglia che ti ho mosso, solo perché non capivo.

Il tempo è scaduto, tiranno si è preso la sua parte lasciandomi solo quello necessario a dire “Non ora”.

Sei qui, avvolta dalla calda luce del tramonto.

Canti leggera, in un sussurro una vecchia ninna nanna con quella tua pronuncia che reputavo fastidiosa, il tuo accento che ho imparato ad amare solo perché tuo.

Ti osservo e vedo solo il tuo sorriso estatico.

Una semplice curva che assorbe ogni raggio di luce che entra dalla balconata, che attira il mio sguardo.

Niente mi sembra più bello ora di questo.

Tu non hai mai dubitato, l’hai sempre definito un dono anche se era mio figlio, il figlio dell'orrore che lessi nel viso di mia madre.

Non ci sono stato, mai. Stolto mostro sfigurato dal cuore reso di pietra.

Ho letto la delusione in te ogni giorno.

L’ho letta quando le tue mani accarezzavano dolcemente la curva naturale che cresceva sul tuo corpo armonico e le tua dita percepivano i movimenti di vita che si stavano sviluppando con sempre più prepotenza. Discreta e silenziosa, fingevi di non avere quel rigonfiamento ad impacciarti piacevolmente i movimenti.

Ed io continuavo a restare in disparte, ad irrigidirmi quando tu stessa presi le mani e m’invitasti a sentire quello che percepivi dentro di te.

L’ho fatto, Lucia non sai quante volte.

Tu dormivi.

Accarezzavo di nascosto te e il tuo ventre solo perché ero terrorizzato da cosa poteva nascondere.

Un mostro come me.

Invece, ho dovuto ricredermi.

Mia figlia.

L’hai chiamata Christine. Un ilare gioco con i tuoi sentimenti.

Le hai dato il suo nome così che la potessi amare anche tu.

Ho sempre pensato di sapere cosa vuol dire amare. Sciocco e presuntuoso, mi sono illuso.

Dovresti riposarti, eppure sei qui in questa stanza e non vuoi allontanarti.

La tua volontà di ferro impiegabile a qualsiasi altra, persino alla mia.

Sei riuscita nell’impresa in cui molti hanno fallito.

Hai sconfitto il Fantasma dell’Opera.

Mi hai sconfitto.  

Ora.

Quando hai rivolto quel tuo sorriso a me.

Quando ti sei avvicinata con lei, fragile e piccola fra le tue braccia e fra le mie divenuta di cristallo.

Tu esperta, madre da quando avevi scoperto di esserlo.

Io impacciato e teso, padre solo quando ho sentito il suo pianto entrando nella nostra casa.

Non ci sono stato nemmeno allora.

Non ci sono stato mentre davi alla luce nostra figlia.

Invece ora, sono con te prostrato ai tuoi piedi e alla tua forza.

Lucia, cosa sei stata capace di donarmi dopo quello che hai passato?

Quanto ancora dovrai dimostrarmi che ho un’anima prima che riesca ad accorgermene?

No, non so cosa vuol dire amare, non so nemmeno se io sia capace a farlo realmente.

Ma non chiedermi di starvi lontano, non chiedermi di lasciarti.

Non potrei. Mai.

È difficile, mia Lucia. È difficile guardarmi e reputarmi umano.

Vorrei soltanto che il tempo smettesse di scorrere.

Vorrei non svegliarmi mai dal sogno che finalmente sto vivendo.

Voglio che tutto resti così, con te che cerchi di rassicurarmi attraverso le tue sapienti mani e la bambina che ha allungato le sue dita per prendere la mia maschera.

Forse è come te.

Vorrebbe togliermela per vedermi.

Vorrebbe che almeno con voi non mi nascondessi.

Che mi vedessi come Erik.

Come tu non hai mai smesso di chiamarmi.

Come tu mi hai sempre visto.

Erik.

L’uomo a cui tu hai regalato la vita.

 

 

FINE

 

Note dell'autrice: Snif! Snif! L'ho scritta eccola qui. Non mi sembra vero sinceramente. Un fatica enorme sia nello scrivere sia nel comporre nella mia testa le immagini che ho cercato di restituirvi.

Per chi non avesse capito Vidocq non aveva mai voluto uccidere Lucia (Erik forse un po') ma decide di lasciarli stare perché l'ha sempre rispettata come persona.Oltretutto aiuta Erik a trovare la sorella di Lucia e a farle incontrare. All'inizio avrei voluto scrivere tanto di loro due, quello che si sarebbero raccontate, di Beatrice sposata ad un nobile inglese e felice in Inghilterra, di Lucia che riusciva finalmente a vivere in pace con sé stessa però, come Erik, mi sono sentita in dovere di lasciarle sole. Lo so è stupido sono personaggi inventati però era come il saldare un debito.

Come specificato nel capitolo Erik e Lucia hanno un Teatro a Coney Island (questo è il piccolo accenno di Love Never Dies) -lei lo amministra, contratta con i finanziatori e fa le commissioni, lui è direttore artistico, scenografo e tutto quello che vuole oltre ad esserne proprietario- , hanno preso il nome Mulheim (questo il piccolo accenno de Il Fantasma di Manhattan) e hanno avuto una figlia che Lucia ha voluto chiamare Christine, il suo modo per esorcizzare il suo Fantasma e questa idea mi è venuta in mente con una frase "Così avrò anch'io una Christine da amare." Lucia non pensava che potesse avere figli ovviamente, ma questo è un racconto ed ovviamente il suo corpo si è donato completamente solo quando ha imparato ad amare.

Inoltre, uno dei simboli che più mi è piaciuto descrivere è quello della croce che Lucia ha gettato a terra la sera dei veri mostri. Erik l'ha conservata per molto tempo e l'ha usata come prova per dimostrare alla sorella Beatrice che era viva, assieme al suo diario colmo di lettere indirizzate a lei (una volta rivista le ha riconsegnate alla leggittima proprietaria). Questo secondo me è una enorme dimostrazione d'amore che Erik le ha incoscentemente fatto.

L'ultima parte è una pagina del diario di Lucia scritta dal nostro fantasmone quando è nata Christine. Spero vi sia piaciuto entrare nei suoi sentimenti maturati con tutta questa vicenda.

Ed infine hanno scoperto di amarsi, anche se lo negavano anche ora.

Ho voluto un lieto fine, romantico e spero che apprezziate, comprendiate e vi aggradi.

Per ogni vostra curiosità comunque io sono qui pronta per rispondervi.

 

Ringrazio ogni visitatore, ognuno di voi che ha messo la mia storia tra le seguite e le preferite.

Ringrazio chiunque verrà qui d'ora in poi.

Con questo è tutto gente.

Il master sentitamente ringrazia.

 Io non sarei nulla senza coloro che leggono e condividono con me i miei sogni.Grazie per aver  vissuto con me questa storia, grazie grazie grazie.


I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally

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