Helleborus

di cartacciabianca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: In Anima Vili ***
Capitolo 2: *** Sufficit Diei Malatia Sua ***
Capitolo 3: *** Nemo mortalium omnibus horis sapit ***
Capitolo 4: *** Dies Irae - Parte 1a ***
Capitolo 5: *** Dies Irae - Parte 2a ***
Capitolo 6: *** Dies Irae - Parte 3a ***
Capitolo 7: *** Furor et venia ***
Capitolo 8: *** Vento secondo vei ***



Capitolo 1
*** Prologo: In Anima Vili ***


Helleborus (dal latino, Elleboro) è una long-fiction incentrata sui fatti prettamente “visivi” del trailer di lancio presentato alla E3 2010.
La narrazione – che si colloca poco tempo PRIMA di quel trailer – comprenderà una ventina di capitoli centrali, un prologo e un epilogo.
Saltando la conclusione che Brotherhood non è ancora uscito – e perciò nessuno di noi sa cosa aspettarsi prima o dopo quel beneamato trailer – ho voluto creare un “What If…” tutto mio, caratterizzato da un primo tentativo di assassinio di Cesare/Rodrigo e un presunto fallimento. Pertanto, le scene da me di seguito descritte non ricalcano assolutamente parti del gioco, ma sono frutto della fantasia della sottoscritta. Gli unici spoiler saranno unicamente di carattere storico. :) Amando entrare molto nei dettagli, buona parte della fan fiction vi parrà, sì e mi dispiace dirlo, una pallosa analisi psicologica dei cinque assassini – Ezio compreso.
Non c’è un vero e proprio protagonista. La mia attenzione di narratore esterno cadrà una volta sui nuovi personaggi, una volta sui soggetti di questa immagine [link] ai quali mi sono divertita ad affibbiare dei nomi provvisori, con il cento per cento di certezza che, quando uscirà Brotherhood e scopriremo quelli veri, farò una ‘sìddetta figura di miedda. Ma vabbe’, vorrà dire che chi leggerà questa storia dopo l’uscita del gioco si farà quattro risate! XD
Vorrei ringraziare, per la pazienza dimostrata nel sopportare le mie confessioni, Elkade e manga_darling. Mi sono lamentata con entrambe sulla mia incompetenza nel tenere al guinzaglio la fantasia, quando questa mi sveglia alle 2 di notte con una storia tutta nuova da scrivere.

Dedico la fan fiction, inoltre, a tutti quei fans sfegatati che, come me, non riescono a togliersi dalla mente il personaggio di cui vestiranno i panni nel multigiocatore. (E ve lo dice una che ha provato la Beta ;) Ci becchiamo tutti lì :3

Detto ciò, come Ezio Auditore il suo Requiescat, recito:
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà della Ubisoft (fatta eccezione per il profilo degli Apprendisti ed eventuali nuovi personaggi); questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.







Capitolo I

Prologo: In Anima Vili

“Tu non tentar l’avvelenatore, e il veleno non sarà tentato da te.”


La chiamavano Locusta, come l’avvelenatrice che nel I secolo dopo Cristo servì Agrippina nel suo assalto al trono imperiale. Cesare aveva ordinato che fosse scovata e condotta in Vaticano giusto quella notte. Gli scopi del Valentino erano simili o ancor più subdoli alla madre di Nerone.
La donna, coperta da un pesante mantello di lana e scortata da due guardie a cavallo, giunse nel cortile sotto uno squarto di limpido cielo stellato. La sua figura proporzionata cavalcava all’amazzone un asino picco e tozzo che, pure affiancato da due possenti palafreni rivestiti di cotte da guerra, non si azzardava a fiatare mantenendo lo stesso contegno della padrona. Ella smontò agilmente di sella e s’avviò spedita sulle scale, sapendo già dove dirigersi, pedinata da tre alabardieri.
Cesare si staccò dal balcone e tornò nella stanza illuminata solo da qualche candela. Giunse le mani dietro la schiena e si posizionò al centro del tappeto, in attesa che la sua ospite varcasse la soglia a lui di fronte.
Erano in pochi a conoscerla di persona, ma ancor di meno a permettersi di pronunciarne o raccomandarne i servigi. Durante la sua permanenza a Roma, Cesare ne aveva ignorato l’esistenza come, d’altronde, il basso popolo romano faceva da secoli. Per questo motivo persino il figlio del Papa aveva faticato a rintracciare chi sapesse indicargliela.
Si pensava che fosse la diretta discendente della fattucchiera che aveva miscelato il veleno per Claudio, e che pertanto ne portasse lo stesso nome. In realtà era stata l’ignoranza locale ad affibbiarle quel diritto di sangue, alimentando oltremodo il mito. Tutto ciò che componeva la sua leggenda era stato tramandato per sentito dire. Si sapeva con certezza che la donna abitava fuori dalle Mura Aureliane, lontano da controlli di guardia o vicini spioni. A quel punto le opinioni raccolte dai suoi informatori si ramificavano in più parti: alcuni avevano riferito che viveva in una fetta di campagna abbandonata alla mercé di rovi e d’erbacce, così che nessuno potesse avvicinarvisi facilmente; altri avevano sussurrato ch’era accampata sulle sponde del Tevere, tra rospi e canneti, in un piccolo quartiere paludoso. Nonostante l’infecondità o l’ostilità del terreno, in entrambi i casi, le visioni pubbliche concordavano sul fatto che in qualche arcano modo coltivasse da sé tutti gli ingredienti a lei necessari, piantandone un giorno il seme e cogliendone il giorno dopo la pianta. Il mito, per Cesare, l’aveva alimentato chi sosteneva di averla vista assemblare e smontare a piacimento la sua casa con l’uso della stregoneria.
Sommando il tempo che c’era voluto per trovarla, il Valentino l’aveva attesa per settimane nella stanza che avrebbe ospitato il loro segretissimo incontro; poiché neppure l’Alessandro VI, in quei primi anni del ‘500 Papa e principe d’inganni, o Lucrezia sospettavano che Cesare, figlio per uno e fratello per l’altra, avrebbe ordinato il più infido tra gli omicidi al più insormontabile dei nemici.
Gli anni all’apice del potere erano volati via e la colpa era degli Assassini, che come parassiti si erano impuntati a sabotargli le forze. Se nessuno fosse intervenuto, si sarebbe avviata una discesa lenta e inesorabile, ma Cesare avrebbe fatto qualsiasi cosa per impedire che accadesse.
La sua coscienza di generale di guerra splendeva unicamente dell’idea che, a cose fatte, i suoi alleati l’avrebbero guardato col doppio del rispetto - da non confondere col timore - e i suoi nemici non l’avrebbero guardato affatto. Mai più. Dopo quella e la notte successiva, Cesare avrebbe potuto ammirare dal suo balcone la fuga degli Assassini con la coda tra le gambe. I suoi epocali avversari si sarebbero dispersi per la Romagna come formichine, sul cui formicaio s’era divertito a saltare personalmente. Avrebbe fatto dare loro la caccia in tutt’Italia e all’estero, se necessario, fin quando anche l’ultimo di quegli insetti ammorbanti non fosse perito sotto la suola dei suoi stivali.
Nei minuti che restavano cercò di svuotare la mente, domandandosi semplicemente che aspetto avesse una strega capace di tali nefandezze. S’immaginò di tutto: una vecchia col bastone, un’asiatica con serpenti attorcigliati su polsi e caviglie, un’anziana fattucchiera greca; oppure - l’idea gli strappò un respiro profondo - una piacevolissima e giovane dama dalle forme prorompenti e la lingua biforcuta, come Cesare ne aveva domate poche.
Fu allora che Locusta fece la sua apparizione, sorprendendo il Valentino con quel ghigno ambiguo che la visione di una bella donna gli stampava in faccia. Al contrario, l’impressione che si fece di lei, non appena la vide avvolta in quella mantella pesante, fu di estrema povertà. La lana era grezza, sciupata e scolorita, e le dava inoltre un aspetto gobbo. Il largo cappuccio, opera di un sarto alle prime armi, copriva la maggior parte della piccola testa. Là sotto, azzardò Cesare, poteva nascondersi una capigliatura altrettanto deforme.
La donna gli si posizionò dinnanzi e proferì un mezzo inchino. Quando tornò retta, Cesare si accorse che in altezza li separavano pochi centimetri, mentre guardandola dal balcone gli era parsa una differenza più considerevole. Il Valentino congedò le guardie, dopodiché invitò la sua ospite ad accomodarsi.
La donna rifiutò, impuntandosi al centro della stanza. “Limitatevi ad avanzare la vostra richiesta, mio Signore, senza offrirmi i vostri favori” disse freddamente in un latino stretto e dall’accento nordico.
“Un uomo come me cosa potrebbe volere da una donna come voi?”
Locusta sostenne il suo sguardo ambizioso. “Di che genere e applicazione?”
“Non troppo immediato, con sintomi anomali. Da freccia.”
“Da freccia?” persino Locusta metteva in discussione il suo onore, ma notando il viso del Valentino contorcersi in una smorfia contrariata, impiegò poco a trasfigurare stupore in interesse: “La quantità?”
“Un solo utilizzo.”
“Avventato” commentò la fattucchiera.
“L’affidabilità dei miei uomini non vi riguarda.”
“Fino a quanto sapete contare, mio signore? Per più archi non basterà una sola freccia” ironizzò con un risolino.
Cesare tacque. Se avesse continuato ad essere così irritante l’avrebbe strangolata personalmente. Non gli piaceva che quella donna si ponesse al suo stesso livello, usufruendo di una confidenza non autorizzata. Il Valentino si stava irritando e non poco. “Cosa vi occorre?” domandò direttamente. Era ufficialmente già stufo di quella cagna e voleva togliersela dai piedi il prima possibile.
La fattucchiera recitò una serie d’ingredienti comuni che sulle prime screditarono la sua infallibilità. Per ultimo lasciò il nome di una pianta che guariva, piuttosto che uccidere.
“Salderete il debito del fallimento con la vostra vita,” ringhiò Cesare, “tenetelo a mente.”

La notte successiva Locusta tornò in Vaticano, ma questa volta in buona compagnia.
Si presentò a Cesare con un serpente del deserto dalla testa sottile, bianco, attorcigliato sul braccio. Mostrò la creatura al Valentino dopo averla tenuta nascosta alle guardie di scorta, durante il viaggio, sotto il mantello. Intenzionato a non lasciarsi stupire oltre, Cesare congedò le guardie ordinando che nessuno li disturbasse fino all’alba. Per quell’ora Locusta sarebbe stata fuori dalle Mura Vaticane con il suo mulo carico d’oro, lontano da Roma ma soprattutto dal suo committente.
Quando la donna si fu accomodata al tavolo imbandito, la bestia si srotolò dal suo polso e prese posto autonomamente accanto al resto degli ingredienti. A quel punto la fattucchiera si levò il cappuccio, mostrando un volto raffinato e di pelle chiara. Occhi azzurri e labbra sottili, caratteri tipicamente nordici come i capelli biondi, tagliati cortissimi.
“Quanto tempo ci vorrà?” domandò Cesare, avvicinandosi, meravigliato da tanta bellezza.
Locusta non rispose. Passò in rassegna le piante e gli oli disposti ordinatamente sul tavolo, verificando che fossero tutti quelli da lei richiesti.
Cominciò col tagliare e bollire in un pentolino di rame il “serpente dagli occhi blu” tanto fedele. Nel frattempo ridusse in polvere del muschio e bulbi di narciso, per poi gettare il tutto ad acqua e fuoco.
La professionalità con la quale aveva confezionato l’infuso avrebbe fatto invidia a Lucrezia. L’ultimo ingrediente aggiunto, una pianta dagli enti curativi, Locusta lo trattò con la massima delicatezza, come se fosse stato un prezioso e raro rubino.
Appena fu ultimato, Locusta mostrò al Valentino come applicare il veleno sulla punta di una freccia. Dopodiché si affacciarono entrambi dal balcone della stanza. Puntando una guardia qualunque tra quelle che facevano la ronda nel cortile, Cesare scoccò il dardo avvelenato che colpì solo di striscio il malcapitato.
“E’ sufficiente” lo rasserenò Locusta.
Quando giunsero nel cortile, l’uomo stava per essere soccorso dai compagni allarmati. “Fermi” ordinò Cesare vedendo che qualcuno si apprestava a portarlo via. “Non avvicinatevi, lui non va da nessuna parte” decretò.
Le guardie ammutolirono e, ad un secondo comando, tornarono a fare la ronda ignorando le grida del compagno.
Il soldato, in preda alle vertigini, si dimenava in terra continuando a strillare di essere cieco.
In due ore circa, molto dopo che Cesare aveva già ordinato e assistito alla decapitazione della donna, il veleno di Locusta ebbe effetto e la guardia morì.















.:Angolo d’Autrice:.
La figura misteriosa di Locusta, che la storia degli Imperatori ha macchiato col sangue degli stessi, rimase a lungo nell’ombra del secondo piano. La donna, chiamata prima in causa da Agrippina, ordinando l’avvelenamento del vecchio Imperatore Claudio, avrebbe spianato la strada per figlio di lei, Nerone. Alla dichiarata morte dell’Imperatore, restava da far fuori l’erede legittimo, Britannico. Sempre a questo scopo fu richiesta Locusta. Alla fine Agrippina aveva visto realizzato il suo sogno, prima di sentirsi bruciare la gola dallo stesso veleno confezionato ai parenti. Il figliol prodigo, infatti, non aveva esitato a togliersi di mezzo anche quell’incomodo. Potendo regnare indisturbato, Nerone aveva ripudiato i servigi di Locusta non senza ordinare la sua cattura e la sua esecuzione, affinché nessuno potesse trarne altrettanti servigi e la verità sprofondasse con lei nella tomba.
Il mio Cesare è un po’ il Nerone della situazione :) anche se la storia ce lo dipinge capacissimo di confezionarsi un veleno da solo. In extremis, avrebbe potuto chiedere aiuto alla sorella, direte voi, la cui fama di avvelenatrice si è sospinta nei secoli fino a noi. Ma la figura di Lucrezia, in questa storia, va molto fuori quella che conosciamo noi e probabilmente conosce anche la Ubisoft, per necessità d’intreccio.

Ed eccomi tornata a rompervi le scatole! Avevo annunciato che storie passate, presenti e future avrebbero visto capitoli pubblicati solo al completamento delle stesse, ma la verità è che sono una gran bugiarda! :D Non ho resistito alla tentazione (o al bisogno) di cominciare la pubblicazione di questa storia prima dell’uscita di Brotherhood, così da non dover riscrivere determinati capitoli al fine di farli combaciare al gioco. Non per fare razzia o vantarmene, assolutamente, ma questa storia in particolare per me vale molto più delle altre. Ci sbatto la testa contro tutte le notti, prima di andare a dormire, sognandomene poi una determinata scena o un determinato personaggio. Helleborus è nata, sì e no, circa due mesi fa, quando scoprimmo in grande spoiler e per la prima volta, che Ezio, al suo fianco, avrebbe avuto degli “apprendisti.” Da quel momento la mia fantasia è entrata in una frenetica spirale che sta portandomi verso il più grande sogno mai partorito fino ad ora. Gli aggiornamenti di Helleborus non saranno costanti quanto i miei episodi di vita, ma Helleborus è un pezzo della mia vita :)

Cos'è Helleborus (non) in breve...

Ci sarà qualche sprazzo di storia della famiglia Orsini, un nobile casato romano che rifornì la Chiesa Cattolica di Papi, Vescovi e Cardinali per generazioni. Non furono tutti o in parte fedeli al Papa spagnolo *sorisetto malvagio*.
Le vicende legate a questa famiglia, tra cui l’avversione per i Colonna e il sottomesso/dovuto rispetto ai Borgia, mi hanno colpito molto. Presto scriverò anche un full immersion nella storia della dinastia Orsini, in questi anni Signori rispettivamente di Anguillara, Cerveteri, Oriolo Romano, Ladispoli, Monterotondo, Bracciano, Trevignano ed altri, e la battezzerò come “Le Cronache di Gentil Virginio”.
Il filo principale, sperando che catturi la vostra attenzione, è la storia di come Ezio, nel passaggio da AC II a Brotherhood, capisce che il sostegno del popolo è importante sotto tutti i punti di vista. L’Assassino imparerà dai propri errori e vedrà crescersi ai fianchi amici preziosi, più che veri e propri scagnozzi. Le circostanze spietate – la cecità e il fallimento della missione – fungono solo da cornice all’ideale centrale della fan fiction.
La lotta personale contro Cesare Borgia ha rinchiuso Ezio in quel “cinismo fatale” dei più spietati serial killer – qualcuno ha mai visto Criminal Minds? E per questo motivo, in un primo momento, l’ho immaginato mentre agisce impulsivamente, come una bestia affamata che, di fronte alla preda, non si ferma ad ascoltare le sue supplice di pietà, tantomeno perde tempo a guardarsi le spalle dando tutto troppo per scontato: nessuna trappola, nessun tradimento, nessun veleno… solo tu e il target, nient’altro. Il mio Ezio sarà determinato a tal punto da ignorare addirittura il Credo stesso… vi ricorda qualcuno? ;) Esatto, sto parlando dell’Altair d’inizio game. Ve lo ricordate quello spietato assassino che pur di conseguire il suo obbiettivo – o applicare una vendetta personale – manda a puttane la missione nel Tempio di Salomone con le varie conseguenze? Questo sarà Ezio nella prima parte della mia fan fiction. Poi accadrà qualcosa che lo sconvolgerà quanto basta per farlo tornare sulla retta via.
Pensiero egoistico il mio: pretendere di poter manipolare i personaggi della Ubisoft come pongo, intendo, sporcando di veleno la fama magistrale di Ezio; quale fan accanito tra voi non preferirebbe tirarmi addosso un’accetta piuttosto che proseguire nella lettura? Ma avanti, cos’altro sono le fan fiction se non distorsioni della trama originale? Io ho creato la mia, una da aggiungersi alle tante :) Si capisce che mi manca tanto il cazzuto assassino che fa arrabbiare Malik? :D
Ma tornando ad Ezio…
Per garantire il fallimento alla base della storia, tralascerà ovvi dettagli che invece, i suoi fedeli assistenti, tenderanno a considerare e circoscrivere per lui, pur non potendo ribaltare gli ordini del loro superiore. Ezio, infatti, vi parrà freddo, inconsistente e, da un punto di vista umano, insensibile; un suo adepto lo nominerà addirittura “senza cuore”. Divenuto da poco Maestro degli Assassini, Ezio è solo una parte di quell’uomo determinato, valoroso e fatale che vediamo nel trailer di lancio. L’altra metà saranno i miei nuovi personaggi a donargliela…
Il popolo di Trevignano – frazione di Bracciano, paese stupendo, tutt’ora esistente e celebre per lo storico circolo di vela 3V che frequentò st'estate mio fratello XD – sosterranno la causa degli Assassini non potete nemmeno immaginare quanto, arrivando addirittura a dare la vita per Ezio e i suoi compagni.
I turbolenti anni del primo ‘500 sono caratterizzati dalla fama di potere di un Tiranno e del suo Cardinal Prodigo. Il popolo che vi descriverò vive in una quasi condizione di schiavitù e certo non appoggia il fatto di dover dipendere da un simile “cancro”. Anche quando studiai questa parte di storia alle medie vidi sempre nel Valentino – Cesare Borgia – una figura negativa. Certo, all’epoca ne parlammo ed io me ne interessai pochissimo, ancora tutta presa dalle Crociate, ma ero inconsciamente già schierata con gli Assassini! Ora basta, credo di avervi rotto a sufficienza! XD




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Capitolo 2
*** Sufficit Diei Malatia Sua ***


Helleborus
Capitolo II
Suffucit diei malatia sua
(Ad ogni giorno basta il suo male)


Era un buco di stanza, ma agevole abbastanza da custodire sia la segretezza sia l’importanza del loro incontro. Le pareti si confondevano col soffitto, le finestre sprangate, il pavimento di pietra. Il flebile chiarore di alcune candele era sufficiente a distinguere un tavolo e una mappa geografica distesa su di esso. A tenerne piatti gli angoli c’erano da una parte le scodelle nelle quali colava la cera delle candele, dall’altra uno stocco dalla lama sottile e un’ascia da guerra dal fusto imbottito e l’aria pesante. Spianata per bene sul ripiano e larga tre piedi per quattro, la cartina era una perfetta ricostruzione – molto dettagliata e artigianalmente dipinta – del sestiere storico romano. Era di un papiro non troppo antico, ma ugualmente pregiato e piuttosto spesso, oltremodo resistente agli acciacchi degli anni e agli agenti della polvere. Poteva avere duecento, forse trecento anni quanto essere una banale riproduzione di un esemplare andato perduto. Fatto sta che il talentuoso geografa-artista aveva scelto di esaltarne i monumenti più importanti, ingigantendoli: c’erano il Colosseo, affiancato da un’inserzione latina e la data di costruzione, le Terme e la villa di Nerone, anch’esse seguite da uno specchietto con le rispettive nomine storiche. Il Circo Massimo, il Foro, il Mercato e la Colonna di Traiano, principali punti di riferimento della città. In pompa magna la vecchia e rudimentale Basilica Costantiniana – futura San Pietro – e altri edifici cattolici romani. Il Tevere era un serpente d’argento che stritolava i Sette Colli, la cui fonte e foce si nascondevano timidamente oltre i lati confinanti della mappa. In basso, sulla destra, la Legenda incorniciata d’oro era accompagnata da una temutissima effige: quelli che lo avessero visto per la prima volta, lo avrebbero raccontato a parole come un compasso aperto o come la prima lettera dell’alfabeto latino semplificata; chi ne avesse già udito l’eco delle gesta, invece, l’avrebbe chiamato il Simbolo degli Assassini. Un marchio che raccontava di una guerra tanto antica non poteva essere ignorato, nemmeno così ben camuffato tra i decori arborei che ornavano la cornice della Legenda.
Per degli occhi che non fossero stati abituati all’assenza di luce e al dominio dell’ombra, sarebbe risultato difficile distinguere tre figure disposte attorno al tavolo, sistemato perfettamente al centro dell’angusto locale che aveva tanto l’aria di una cantina abbandonata.
A parlare per primo fu un quarto uomo in disparte, fuori dal cerchio di luce, che meglio condivideva l’intimità della propria ombra: “I Borgia hanno spedito nell’Ade abbastanza innocenti” disse. Tra le labbra solcate da una cicatrice ormai coperta di barba era passato appena un filo di voce severa. “Assicuriamoci di fare un lavoro pulito, questa volta.” Gli abiti scuri e informali gli conferivano l’aspetto elegante e spaventoso di un demone. Seduto in disparte e sopra chissà quale vecchia cassa di vino, Ezio era il meno esposto alla luce delle candele che, invece, prestavano la loro attenzione sul suo contingente personale riunito attorno al tavolo.
Lustrando la sua mazza con della pelle di daino, seduta su un vecchio sgabello e con un gomito appoggiato ad un angolo del ripiano, una seconda figura due volte più massiccia ridacchiò sommessamente. “Tu chiedi troppo, amico mio.”
“Leone, smettila d’insistere”, intervenne un terzo incappucciato di grigio, spezzando il tono ironico del compagno. “Sai bene che non possiamo correre il rischio di esporci” concluse irritato.
Leone arricciò le labbra e ignorò il desiderio di agguantarlo per la gola com’era già successo quella mattina. Lui e Davide si erano punzecchiati fino al mezzogiorno e avevano smesso solo quando Ezio li aveva sorpresi a bisticciare in un vicolo di Trastevere. Il capitano aveva decretato che non ci sarebbero state altre occasioni di mostrare le lame al nemico per nessuno dei due, se il fatto si fosse ripetuto ancora. Persino un innocente dibattito sul Mito di Davide e Golia, all’inizio delle indagini, era stato un buon motivo per accapigliarsi. L’astuzia contro la forza bruta era una delle tante polemiche del giorno, tra quei due.
“Davide ha ragione.”
Ezio e tutto il clan spostarono gli occhi su Adriano, il più fresco tra loro.
Il giovane che aveva parlato esitava se mostrarsi o meno, pensieroso sulle sue e sulle parole appena consumate da Davide. Questi aveva assunto un sorriso sghembo a compiacere se stesso – qualcuno che sosteneva le sue idee c’era ed era anche sveglio da gradirle.
Adriano, appena si fu capacitato di dover proseguire nel proprio intervento, mosse un passo verso il tavolo avvicinandosi alla fonte di luce. Vestiva di un completo grigio fumo: le brache sparivano negli stivali a collo alto, le maniche lunghe, il cappuccio alzato, l’ombra del quale gli mangiava buona parte del volto giovane e aguzzo. Aveva ancora indosso l’uniforme che il suo signore lo aveva costretto ad indossare per quella giornata. “Forse, prima di saltare alla conclusione e pretendere un gesto tanto avventato come sgozzare Cesare in casa sua, penso che dovremmo rivalutare le possibilità, tornare a studiare i suoi spostamenti e garantirci il vantaggio della sorpresa: così facevano gli antichi, e così ci è stato insegnato fin ora” suggerì cercando nel buio gli occhi del suo superiore.
Ezio era una statua sul suo trono nero. Gli occhi che Adriano cercava, diamanti nell’ombra, si ridussero a due fessure. Annuì, intimando al ragazzo di proseguire.
Andando ad esaminare la mappa distesa sotto il suo naso, il giovane interpellato non si lasciò intimidire dal mutismo accorto nel quale si erano chiusi i suoi confratelli. Leone in particolare, con la mente sempre volta all’azione, detestava quel genere di riunioni in cui si facevano tante ciance peggio di un pomeriggio da dame; ma, fortunatamente, almeno quella sera stava nei ranghi e taceva.
 “Dobbiamo sorprenderlo in un luogo appartato”, continuò Adriano seguendo col dito sulla carta un segno d’inchiostro rosso, che indicava il percorso più breve dalla Dimora degli Assassini – loro attuale nascondiglio – alla Basilica di San Pietro.
Stava per aprire bocca di nuovo, quando Davide lo interruppe e, in tono nervoso, recitò per lui: “Ma sì, attacchiamolo alle spalle, magari mentre si scopa l’amante!”.
Nel frattempo Leone, che aveva finito di lucidare la propria arma, appoggiò la mazza sul tavolo accanto all’ascia e allo stocco. “Davide, sei davvero convinto che Cesare consumi le lenzuola nella Chiesa di suo Padre?” ironizzò. Era scontato sapere che Cesare non si faceva quel genere di scrupoli.
Risero tutti tranne uno.
“Basta” la voce di Ezio, vibrante nell’oscurità, ruppe quella futile quanto breve allegria.
Davide, Leone ed Adriano si voltarono a cacciare la sua figura nel buio e la scorsero immobile nella postura fatale di un gatto acquattato tra le casse del vino.
“Per oggi è più che sufficiente” mormorò Ezio alzandosi dal suo trono oscuro. Si avvicinò al tavolo, ma non abbastanza perché la luce delle candele ne mostrasse il volto serio ai compagni. “Riprenderemo questa conversazione domani a mente fresca” disse. Estrasse dalla cintola un pugnale col manico d’argento e lo piantò con grazia e forza assieme sul tavolo, trapassando la carta geografica e buona parte del legno. “Approfittate della mia pazienza per deridere voi stessi… nessuno vi toglie questo sfogo, ma voglio che restiate concentrati” concluse lasciando la cantina.
Dispersi tra le ombre e l’uno più sorpreso dell’altro, nel salottino angusto rimasero solo Davide, Leone ed Adriano; faticavano a distinguere i passi troppo silenziosi del loro signore che saliva le scale di pietra.
Davide era scettico. Il destino di Roma si discuteva quella sera e il Gran Maestro dava congedo con l’unico ordine di tenersi all’erta, ma non lo biasimava se parlava di “mente fresca”. Forse sarebbe stato un bene riprendere la discussione l’indomani, affinché la lucidità giocasse la sua mossa nella partita, ma Davide era lungi dal permettere che andasse speso del tempo proprio quando a loro n’era concesso: la frase ‘il nemico è vulnerabile nel sonno’ si riferisce anche alle macchinazioni possibili solo durante una sua distrazione. Avrebbero dovuto approfittarne finché potevano.
Così Davide, di sua iniziativa, si avvicinò alla cartina e ne studiò a lungo, riflettendo, un settore preciso. Gli altri due, già in procinto di smontare le tende, ne furono incuriositi.
“Al sorgere del sole le guardie in questa zona celebrano il cambio. Mi sembra un momento non buono, bensì ottimo per agire” propose.
Ci fu silenzio solo qualche istante.
“Certo, ma non arriveremmo mai in tempo” commentò Adriano indagando lo sguardo contrariato del compagno Leone.
“Lo scricciolo ha ragione, idiota” esordì quello, arrogante, piazzandosi dall’altro capo del tavolo rispetto a Davide. “Ti ricordo che Cesare ha disposto i suoi sacchi di sterco attorno al giardino” indicò il verde che circondava il punto su cui indugiavano gli occhi di Davide. “Se anche superassimo le fontane, arrivati in piazza ci sguazzeremmo fino al collo nella sua merda” concluse.
Davide lasciò cadere le spalle. “Leone, per favore, le parole.”
Quanto lo infastidivano i termini volgari…
“No, adesso stai zitto e ascolti,” tutt’a un tratto Leone sembrava molto preso dalla discussione, più di quanto non lo fosse stato in precedenza al cospetto del Gran Maestro.
Ogni occasione è buona per prendermi a parolacce… pensò Davide, sospirando.
“Non basterebbero altri venti di noi per sgombrare quella zona e avere il via libera fino alla cattedrale. Se proprio Ezio vuole colpire così presto e noi andare sul sicuro, io propongo di aprirci un varco alle loro spalle, qui. Non oseranno lamentarsi se scavalchiamo i loro terrazzi, perché avranno le gole mozzate prima di poter cantare col gallo!”
“Intanto non possiamo permetterci di scatenare l’anarchia in quel distretto; finiremmo per farci tirare dietro mattoni dalla gente del posto. Di nuovo. E poi, chi ti da il diritto di azzittirmi in questo modo?! Sono un tuo fratello di lama, ma soprattutto un tuo superiore in grado, razza di stolto!”
“Al tuo posto, non tremo quando i gatti rizzano il pelo! Se te la fai sotto per un paio di zappa-terra inferociti, penso che faticherai parecchio a tenertela in culo di fronte alle Guardie Papali!”.
“Rimangiati quello che hai detto. Subito!”
“Ragazzi, non ricomin…”
“Adriano, lascia parlare gli adulti” sottolineò Leone, pungente.
“In tal caso, con chi altri potrei parlare se non me stesso?” schernì Davide.
Il sangue gli ribollì nelle vene, ma Leone si limitò a stringere l’asta della sua mazza – probabilmente resistendo all’impulso di fargliela salire su per il culo. Dopodiché borbottò sotto tono qualche insulto a Davide che Adriano si divertì ad ascoltare. In fine, al termine di una sanguinosa battaglia interiore, ripose l’arma tra la stoffa rossa che gli cingeva i fianchi robusti e lasciò la cantina a grandi passi pesanti.
A quel punto Adriano ringraziò il Cielo, potendo godere di una quiete quasi surreale. Era una di quelle rarissime volte in cui le discussioni tra Davide e Leone non si concludevano in una scazzottata. “Dato lo spazio così stretto, poi, ci sarei andato sicuramente di mezzo pur io…” constatò tra sé e sé.
Davide soffiò sulle candele. “Non so quanto ti convenga gioire” borbottò scoccandogli un’occhiata penetrante attraverso la nuova e fitta oscurità. “Abbiamo deciso una botte di niente! L’hai visto, no? E’ tutta la settimana che va avanti così: sempre nero più della sua ombra. Ha smesso di darci ordini, vuole fare tutto da solo! E questa cosa, dannazione, mi fa saltare i nervi!”
Adriano ci mise un po’ per capire. “Ah, parli del Maestro.”
“E di chi, sennò?”
“…Leone?”
Davide scrollò le spalle. “Non tengo a lui tanto da preoccuparmene. Litigandoci sfamo la mia curiosità di sapere quanto può alimentare la sua stupidaggine. Con quel cervello da gallina che si ritrova ci farà ammazzare tutti quanti” pronunciò accigliato fissando un gradino impreciso delle scale, forse il punto nel quale la sagoma di Leone era scomparsa del tutto alla sua vista. “Piuttosto,” disse voltandosi verso il giovane compagno, “è Messer Ezio a preoccuparmi. Non mi piace come si sta comportando ultimamente. Tu cosa ne pensi?”
Adriano si strinse nelle spalle. Era anche la prima volta che messer Davide gli chiedeva un parere così diretto. Il ragazzo aveva capito dove il suo confratello voleva andare a parare con quella domanda e non lo biasimava poiché erano ragioni che l’avevano spinto in più occasioni, nelle ultime settimane, a dubitare della lucidità del suo signore. “Forse dovremmo lasciarlo in pace; infondo…” esitò, ma Davide sembrava realmente interessato al suo parere; così inghiottì la timidezza. “Il Maestro sta combattendo la sua guerra, e noi la nostra, e penso che le motivazioni di ciascuno non debbano influire su quelle dell’altro. Poiché suoi apprendisti, il nostro unico compito è per l’appunto apprendere. E se questo implica tacere sulle sue, di motivazioni, non mi stupisco. Non siamo tenuti a fare altro, al di fuori dall’ubbidire ad ordini provenienti dalla sua bocca. Dipendiamo dalle sue labbra, ma il Maestro non dipende forzatamente da noi.” Un discorso tanto serio, più o meno logico, non gli era mai uscito di testa. Adriano si meravigliò di se stesso.
E di fatti, a maggior ragione, anche Davide annuì compiaciuto. “Sei sveglio” commentò. “Molto sveglio. Ora capisco che c’è altro per cui ad Ezio piace ascoltare la tua voce da bambino” ridacchiò, facendo arrossire il ragazzo. “Ma anche molto ingenuo” assentì a voce più greve.
Quelle sue ultime parole pesarono come mattoni sulle spalle del giovane Assassino. “Su una cosa però ha ragione:” obbiettò Adriano, un po’ offeso, guardando il compagno mettere ordine sul tavolo. “Dobbiamo concentrarci sulla missione!”
“Almeno noi, vorrai dire, sperando che basti” blaterò Davide per sé.
Adriano lo lasciò andare via senza aggiungere altro. Così, mentre il confratello più anziano abbandonava la cantina e prendeva congedo, il più giovane guardò un’ultima volta il manico dello stiletto conficcato nella cartina e nel legno del tavolo. L’impugnatura d’argento era decorata di un motivo piumato; un becco d’aquila si apriva sull’attaccatura della lama e il manico doveva rappresentarne l’ala distesa. Nessuno aveva o avrebbe osato toccare quel pugnale, la cui punta spariva, inghiottita dal disegno, tra le mura del Vaticano.












.:Angolo d’Autrice:.
Ecco un primo accenno dell’imprudente Ezio di cui vi parlavo, ovvero di quell’uomo mentalmente frustrato che maledice il giorno in cui è andato a farsi degli “amici”, come dice nello Story Trailer.
Se all’inizio della pubblicazione ho stimato una ventina di capitoli, adesso ne ho fissati quasi una trentina. Ancora tutti da stilare, ovvio, poiché quello che avete appena letto l’avevo pronto assieme ai prossimi 10 non so da quanto tempo…
Per adesso ho deciso di mantenere gli “apprendisti” di Ezio nell’anonimato, nell’ombra, insomma. Avrete notato (spero…) pochissime descrizioni fisiche. La cosa è voluta. Un po’ perché, ci tenevo a dirvelo, vi chiedo di non immaginarveli tutti bei giovani ventenni. Nel prossimo capitolo conosceremo Vittorio, il quarto discepolo di Ezio, che ha quasi l’età del Gran Maestro :D Se Adriano si aggira attorno alla diciassettina d’anni, massimo diciotto, Davide e Leone si avvicinano ai trenta (e sì! Ancora litigano come dei bambini!)
Spero di non avervi spaventati con tutto quel popò di considerazioni personali su Helleborus, o annoiati con questo nuovo capitolo. In dolce attesa delle vostre impressioni ^^’

*Colgo l’occasione per ringraziare infinitamente Phantom G, che sta alleviando i cuori di molti scrittori e scrittrici con le sue recensioni piene di lusinghe alle varie nuove storie. Non immagini che colpo all’anima (cit. Ligabue) sia stato per me poter finalmente sbocciare la prima recensione. Ci tenevo molto, ci tengo tutt’ora. Grazie, infinite grazie… sai come sollevare il morale alle scrittrici depresse! XD
*Ringrazio anche Runa Magus per aver aggiunto la fan fiction alle seguite. È un onore.
 

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Capitolo 3
*** Nemo mortalium omnibus horis sapit ***


Helleborus
Capitolo III
Nemo mortalium omnibus horis sapit
(Nessun mortale è saggio a tutte le ore)

Un fortissimo mal di testa l’aveva colpito all’improvviso giusto la mattina precedente, e non se n’era più andato. Vittorio, il quarto assassino che all’alba del prossimo giorno si sarebbe unito ai festeggiamenti, aveva preferito, in via del tutto eccezionale e solo per quella sera, tenersi in disparte ai preparativi tattici discussi nella cantina.
Era certo di non essersi perso granché: Davide, Leone e Adriano avrebbero condiviso con Ezio Auditore, Gran Maestro degli Assassini, le informazioni acciuffate per le strade di Roma durante la giornata. Poi, assieme al loro superiore, avrebbero discusso della strategia vincente in base alle fonti più attendibili.
Liquidare Cesare Borgia e arrivare a Rodrigo, Papa Alessandro VI, non sarebbe stata una passeggiata tra i tetti. Vittorio, e così i suoi confratelli, si erano marchiati la pelle con la parola “prudenza” fin dal primo giorno in cui la Provvidenza li aveva selezionati per affiancare il Gran Maestro nella sua missione. Nessuno aveva detto che estirpare la corruzione dal cuore di Roma sarebbe stato facile, tantomeno privo di sacrifici, uno dei quali – e forse il più snervante – era sopportare quel diavolo di mal di testa!
Prima di congedarsi aveva chiesto se qualcuno degli altri fosse stato disposto a condividere con lui i progetti stabiliti in sua assenza, al termine della seduta nella cantina. Accomodato sul davanzale in pietra a godersi il panorama notturno e l’aria fresca, Vittorio immaginava che sarebbe stato Adriano – il più giovane e disponibile del gruppo – a salire per primo fin lassù, all’unico scopo di narrargli i piani stabiliti per il giorno successivo. La dolcezza di quel ragazzo non aveva fine.
L’avamposto scelto in cui passare la notte non era altro che un rudere di villa romana fuori dalle Mura Serviane, volute da Servio Tullio nel VI secolo a.C. Un tempo doveva essere appartenuta a qualche nobile politico e forse tutt’ora compariva tra i beni ereditari di qualcuno che, a quanto dato a vedere, se ne prendeva ben poca cura. Non essendoci i vetri alle finestre, l’edera – un rampicante mediterraneo molto diffuso sulle coste del Tevere – aveva avuto libero accesso alle stanze interne della villa. Potendo abitare tutte e quattro le pareti senza che nessuno si fosse preso la briga di potarla, divertiva fingersi un qualche affresco decorativo come quelli del da Vinci nel Palazzo Sforzesco di Milano. All’esterno, invece, il fronte colonnato dell’edificio e il cortiletto erano entrambi rigogliosi di una vegetazione selvaggia con felci, siepi e cespugli di rose alti un uomo.
Ridotti a poco più di macerie, alcuni dei monumenti più significativi di Roma si sovrapponevano l’uno sull’altro, come contendendosi la possibilità di ostentare la propria magnificenza col semplice toccare le stelle. Più a sud il Mercato di Traiano e il suo Foro ospitavano ogni giorno centinaia di banchi e mercanti stranieri, a nord l’Arco di Galliano accompagnava i pellegrini che andavano verso l’Esquilino e il Viminale. Non c’era bisogno di sforzarsi per delineare, anche da così lontano, la grandiosità della Cupola di San Pietro. Nonostante le impalcature a nasconderla, svettava nella penombra notturna circondata da luci di palazzi e di chiese.
Chissà se l’indomani mattina sarebbe stata quella la loro destinazione, si chiese Vittorio. Sapeva abbastanza da poter immaginare che i luoghi pratici alle loro intenzioni erano due, date le circostanze: San Pietro o il Pantheon. Quel bizzarro edificio forgiato dalla sovrapposizione di ben tre elementi architettonici – il cilindro, la sfera e la pianta templare greca – era il massimo simbolo della Cristianità ed era lì che Rodrigo Borgia e suo figlio Cesare avrebbero fatto la loro comparsa un giorno di quelli. Ne era certo.
Vittorio si augurava con tutto il cuore che le proprie o le azioni future dei suoi compagni non compromettessero l’integrità della missione. Affiancare il Gran Maestro in una spedizione di così vitale importanza per la Confraternita – e la salvezza di milioni d’innocenti – era al contempo una responsabilità onorevole e un rischio insolubile. Dalle loro decisioni dipendeva il destino della Penisola Italica e del Mondo… solo a pensarci il mal di testa si faceva più forte.
Fu a quel punto che fece la sua comparsa il portavoce tanto atteso.
Vittorio si alzò dal davanzale di pietra e si preparò a salutare il compagno Adriano con un semplice gesto del capo. Ma, quando si accorse che ad essersi presentato sulla soglia era ben altra persona, sbiancò e preferì allungarsi in un inchino. “Maestro…” riuscì solo a mormorare.
“Stai comodo, amico mio” Ezio gli venne incontro muovendosi nella penombra della notte con la grazia di una pantera. Se quell’uomo era diventato un Assassino tanto letale da incutere soggezione nelle menti dei suoi sicari, figuriamo in quelle dei suoi nemici!
“Ti senti meglio?” chiese il figlio di Giovanni fermandosi accanto alla balconata. Per quella e le sere passate, quando il convoglio si riuniva nel quartier generale, sceglieva di sostituire l’uniforme a degli abiti del tutto informali, apparentemente comuni che gli si vedeva addosso di rado: un completo nero, fatta eccezione per il candore della camicia che spuntava dagli spacchi delle maniche. Il farsetto lasciato sbottonato sino all’altezza dello sterno concedeva libero sfogo alla fantasie delle signore che si fossero avventurate sul quel torace scolpito e virile.
“Molto meglio, grazie” annunciò Vittorio con un sorriso grato. “Posso garantirvi che l’indomani le mie forze saranno ristabilite e le mie frecce pronte a servirvi, Maestro.” Non c’era nulla di falso nelle sue parole: sperava briosamente che l’emicrania gli concedesse di godersi al meglio la carneficina dei soldati del Borgia, nonostante avesse ancora bisogno che qualcuno gli illustrasse le strategie di battaglia.
Un curioso bagliore malinconico attraversò gli occhi di Ezio. Per un istante, seppur breve assai, l’immagine di fierezza felina che Vittorio aveva del suo superiore vacillò. Qualcosa turbava il Gran Maestro, ma Vittorio non aveva l’autorità – o forse il coraggio? – necessario per estirpare ad Ezio una confessione. Se non per sfogo, allora per dovere: un dispiacere del cuore può portare fuori strada la spada dell’uomo più capace.
“Abbiamo deciso di colpire nella Basilica” lo informò Ezio lanciando un’occhiata fuori dalla finestra.
Vittorio aveva dato per scontato che lui e gli altri ne avessero discusso. In realtà il Gran Maestro aveva preso quella decisione da solo, piantando il pugnale del suo antenato dritto al bersaglio e squartando una prestigiosa mappa geografica. Ma questo Vittorio non poteva saperlo.
“San Pietro?” ambì chiedere conferma: sarebbe stata una carneficina davvero! Chissà quante guardie avrebbero presenziato attorno all’edificio pur di assicurare la salvaguardia del Pontefice e il suo Cardinal Prodigio ospite presso le grazie del padre!
Dietro al sospiro che tirò Ezio, Vittorio lesse le parole ‘sono stanco, perciò fai meno domande possibili’. Di fatti, poco più tardi il figlio di Giovanni ordinò: “Dammi una cartina. Ti mostro il piano”, con tono affrettato come se volesse concludere al più presto anche quella faccenda.
Vittorio andò verso un angolo della stanza, dove lui e Leone avevano riposto tutto l’equipaggiamento, e si chinò su un baule di legno grande quanto una botte. Facendo scivolare le dita sui perni di metallo che tenevano il legno compatto, individuò la serratura e girò la chiave. Dopodiché, scoperchiando e affondando la mano nel pozzo oscuro che si era creato, vi trasse la mappa che lo aveva guidato per Roma in tutti i mesi trascorsi al fianco del suo Maestro. Richiudendo il baule, porse la pergamena ad Ezio che la distese sul davanzale, poiché la luna crescente era l’unica e sufficiente fonte di luce di cui disponevano. Accendere una candela avrebbe disperso troppo tempo e troppe energie, per un uomo che non dormiva da settimane e Vittorio non pensava a se stesso.
Non era difficile immaginare Ezio Auditore vagabondare solitario per le strade romane, mentre ai suoi segugi concedeva un po’ di riposo. Nelle ultime quattro settimane, il Gran Maestro aveva chiuso un occhio solo per affinare la mira sul bersaglio. La notte, soprattutto, non si dava pace: era convinto di poter assimilare più informazioni da solo, valutando questo e quell’altro, di quand’era circondato da suoi sicari, dei quali, però, non riusciva ugualmente a privarsene per lo meno di giorno. Era diventato un uomo silenzioso, assorto e spesso pensieroso, di poche ma concise e taglienti parole che sapevano come far rizzare i peli sul petto ad ogni suo apprendista. Si era prefisso alcuni obbiettivi particolari che voleva raggiungere senza l’aiuto di nessuno, scansando qualsiasi tipo di compagnia armata. Il rischio al quale desiderava esporsi corrispondeva alla grandezza del proprio dolore. Troppo a lungo i Templari gli avevano lasciato gli artigli piantati nella carne di famiglia, strappandone i pezzi più preziosi. Dopo tali spiacevoli avvenimenti, chiunque, se mai fosse riuscito ad avvicinarsi abbastanza da guardarlo in faccia, avrebbe potuto dire che Ezio Auditore, di fronte ai suoi nemici, era diventato un uomo senza cuore. Se c’erano state volte in cui andava con una donna diversa ogni martedì e giovedì – visitando spesso un particolare bordello veneziano – quei tempi erano politicamente finiti con la morte di Mario Auditore. L’asprezza e l’arroganza con le quali Cesare aveva preteso la vita di suo zio, avevano del tutto risvegliato nel nipote di Mario una bestia assopita e fatale. Gli ultimi tre anni erano stati per Ezio pregni di sacrifici, tutti scontati con un’eguale espressione del viso: risolutezza, determinazione, rigore. Da quando lo conosceva, Vittorio non aveva alcun ricordo di un sorriso che stirasse quelle labbra. E ora, oltre ad essere tremendamente vendicativo e spietato, l’uomo che aveva di fronte e studiava la sua cartina – era possibile che avesse perso la propria!? – gli appariva anche stanco. Forse stanco nel fisico, date le poche e quasi inesistenti ore di sonno concessosi, ma stanco soprattutto nell’anima. Quella che era iniziata come la guerra di qualcun’altro l’aveva trascinato in un pericoloso gioco di potere, del quale Ezio, adesso, era una pedina fondamentale: come Gran Maestro degli Assassini, certo, ma anche come soldato, combattente o semplicemente uomo.
Tracciando col dito la cinta vaticana, Ezio disse: “Tu e Davide sarete sulle Mura, in questo punto” fermò l’indice e mimò una stretta circonferenza. “Cercherò di portare Cesare allo scoperto nei Giardini. Eliminato lui, passerò a Rodrigo. Comunque vadano le cose, io entrerò da solo e Adriano mi seguirà per un tratto. Voglio che ci copriate”.
“E Leone?”
“Di lui non so che farmene. Se lo lasciassi a ruota libera, magari di vedetta, la sua mazza potrebbe ferire o urtare accidentalmente qualcuno. E non credo che tornerebbe indietro a chiedere venia, ma piuttosto a concludere l’opera” ammise con una smorfia.
Vittorio sorrise. Gli piaceva quel genere di sarcasmo sui suoi compagni. Dava colore al legame che li univa, ma, ovviamente… Ezio escluso.
“Potreste congedarlo e richiamare messer Ludovico del Portico. Il mio parente sarebbe entusiasta di prendere parte alla missione, e un arco in più sulla vostra testa vi farà comodo” propose sorridendo. Conosceva bene quel giovane Ludovico; era una sorta di parente acquisito, in realtà un suo stimatissimo vicino, da quando avevano combattuto fianco a fianco per la patria a suon di frecce e corde.
Ezio sembrò ignorare del tutto il suo intervento dando voce ai pensieri più oscuri: “Non voglio che l’omicidio di Borgia passi inosservato, Roma deve sapere chi ha disinfettato e bendato le sue ferite, ma non voglio nemmeno mettervi in pericolo.”
Vittorio era sconcertato: il suo Maestro che parlava di pericolo per i propri sicari era incoerente! Premura verso i suoi scagnozzi? Eh, sì, Ezio doveva essere molto, ma molto stanco, perché ragionava da cane.
“Non sono d’accordo” replicò Vittorio, anche un po’ offeso. “Fino a prova contraria, avete tutto il diritto di mandarci in prima linea, se lo desiderate.”
Ezio inarcò un sopracciglio. “Mi stai giurando fedeltà di fronte a morte certa?”.
“Perché, c’è qualcuno là sotto che non l’ha ancora fatto?” fece Vittorio con finto stupore, indicando le scale e alludendo ai compagni nella cantina.
“Ti sto affibbiando una posizione sopraelevata e al contempo quanto più vicina possibile a me e a Cesare. Dovresti esserne onorato!” sbottò Ezio.
“E lo sono! Però non sembra la soluzione migliore” esordì l’altro imbronciandosi.
“Ma lo è” s’intestardì Ezio.
“Allora non esitate, mio capitano.” Era stufo di replicare gli ordini del suo superiore e altrettanto infastidito dal dovervi dare un giudizio personale. Voleva sapere cosa turbava il Maestro e affiancare a quelle di Ezio le proprie idee che, in un momento di così poca lucidità del suo mentore, avrebbero significato l’unica certezza; ma la cosa sarebbe andata per le lunghe…
Perciò cambiò argomento.
“Come riuscirete ad entrare?” era una follia varcare le soglie del Vaticano senza farsi impiccare.
“Come entrerò io non riguarda altri che Adriano, di voi.”
“D’accordo, ma noi altri? Davide ed io come arriveremo ad appostarci sulle mura?”
Ezio sorrise al ricordo di Michelangelo Buonarroti che litigava con Leonardo di fronte alla Santa Maria degli Angeli. Per evitare che lo scienziato e l’architetto dessero spettacolo con un’allegra scazzottata, e poiché aveva preferito tenersi buono chi stava avendo affari con le parti alte del Vaticano, Ezio era intervenuto personalmente, trascinando via Leonardo e dando a Michelangelo la possibilità di scolpire sul blocco di pietra tanto ambito – motivo del litigio. Leonardo non gliel’avrebbe perdonato: raramente quel genio di uomo si abbandonava a criticare e maledire gli altri e gli avrebbe fatto piacere, per una volta, sopraffare un ragazzino tanto arrogante come Michelangelo. Ezio, trovato il modo di distrarre l’amico con altro, quella sera si era recato nel cantiere del Buonarroti in vesti comuni e aveva portato le scuse soprattutto da parte dell’inventore – che mai, ovviamente, si sarebbe abbassato a tanto. In cambio della cortesia dimostrata, Michelangelo gli aveva rivelato un interessante aneddoto architettonico delle Mura Vaticante, che aveva scoperto lui stesso durante una casuale passeggiata ispiratrice.
“Un nemico di un amico mi ha parlato bene delle mura occidentali” rispose Ezio, risvegliatosi d’un tratto dai ricordi, per acquietare la curiosità del compagno.
Vittorio aggrottò la fronte, che si riempì oltremodo di rughe. “Vi fidate davvero di quest’uomo?”
Un nemico di un amico… si ripeté l’apprendista ancor più scettico.
“Non lo definirei ancora ‘uomo’… ma sì, mi fido quanto basta.”
Vittorio si fece sospettoso. “C’è altro che devo sapere?”
“Sì, una cosa ci sarebbe: vorrei che ti ricordassi di mettere in scarsella un lenzuolo, domani, per quando saremo fuori.”
“Un lenzuolo? E quanto grande?”
“Da brandina andrà benissimo.”
“Sta bene. Ma vi prego, illuminatemi.”
“Adesso non c’è tempo” Ezio gli strinse una spalla con gesto fraterno. “Se la morte di Cesare dovesse costare la vita di qualcuno, voglio che sia la mia.”
Vittorio rabbrividì a quella macabra e disastrosa eventualità. Possibile che Ezio, esalato l’ultimo respiro, volesse farsi avvolgere in un lenzuolo? “Non ditelo nemmeno per scherzo” ribatté. “Domani nessuno di noi pagherà un prezzo così alto. Dubitate forse delle nostre o delle vostre capacità?”
Ezio scosse la testa, lasciò cadere il braccio lungo il fianco e si allontanò dalla finestra. Mosse alcuni passi nel locale, poi si fermò a riflettere. Nel frattempo Vittorio ripiegò la mappa in silenzio e la ripose nel baule, sconcertato.
Aveva ragione chi diceva che Ezio s’era impigrito per la fretta di togliere la vita a qualche Borgia.
Il Maestro tacque a lungo prima di rivolgersi a Vittorio con queste parole: “Non diffido di nulla, a parte di me stesso”
Vittorio sbiancò e per un attimo s’immaginò nel ruolo del lenzuolo che avvolgeva la salma del suo Maestro. Scacciò quei pensieri con una scrollata di spalle.
“Cesare non esiterà ad usare qualsiasi mezzo pur d’intralciare i nostri piani, come ha già fatto in passato.”
“Non capisco cos’è che vi spaventa di più, Maestro”, lo interruppe Vittorio allargando le braccia in un gesto esasperato, ma insieme compatendolo con uno sguardo dispiaciuto. “Se il fatto di non essere riuscito a liberare Caterina da Castel Sant’Angelo prima che lo facesse il francese, o il fatto di non aver ancora piantato le vostre lame nel petto del suo sequestratore.” Fece una pausa. “O magari ambedue le cose!”
Ezio accennò un vaghissimo sorriso, ma impiegò mezzo secondo a distogliere lo sguardo e avviarsi verso le scale. “Vittorio, mi conosci bene abbastanza per poterti rispondere da solo.”











.:Angolo d’Autrice:.
  Scommetto che già odiate Vittorio e i suoi mal di testa… non vi biasimo, ma non prendetevela con lui, poverino, che ne ha sofferte parecchie. Il fatto è occasionale. Mi serviva che fosse estraneo alla riunione nella cantina e non ho trovato una scusa migliore. In realtà lui è un ottimo arciere, il più fedele al Gran Maestro nonché discepolo più anziano. Un po’ la “guardia del corpo” di Ezio Auditore. Nel corso della fan fiction emergeranno la sua come la storia degli altri Apprendisti.
  Seconda cosa: Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti si contesero un pezzo di pietra. Non ricordo né quando, né come e né perché. So solo che lo scultore ne avrebbe fatto il suo capolavoro più noto e che poc’anzi i due artisti non si picchiarono. In realtà il fatto che Ezio sia intervenuto scoprendo dallo scultore un aneddoto interessante delle Mura Vaticane è un po’ arrampicato sugli specchi, lo ammetto umilmente e senza peli sulla lingua… nel senso: studiosi e appassionati, picchiatemi pure, sono qui a posta. Come tutti (spero) sappiamo, Leonardo da Vinci in quegli anni era ospite del Valentino. Invece nella mia storia pare tanto serenamente ancora in contatto con gli Assassini. Perdono anche questo sfregio alla Ubisoft, ma io dovrò pur inventarmi qualcosa per far andare avanti la storia! Sempre nel prossimo capitolo scopriremo il vero e proprio utilizzo del lenzuolo richiesto da Ezio.
  Terzo ed ultimo punto: il rapimento di Caterina Sforza.
Ezio, come sappiamo, è entrato molto in confidenza con la signora di Forlì che, senza spoilerare sulle possibili pieghe del gioco, risulta prigioniera del Valentino dal 1499, quando la sua rocca cedette definitivamente all’assalto delle truppe borgiane. Qualcuno riuscirà a strapparla alle grinfie del Valentino solo due anni dopo, ma la storia (wikipedia – poi vai a scoprire se è vero!) ci racconta che non fu un cappuccio bianco, bensì un certo Yves d'Allègre, giunto a Roma assieme all’esercito di Luigi XII diretto verso il Regno di Napoli. Un possibile alleato degli Assassini? Lo scopriremo tra meno di un mese.
Considerazioni personali?
  Più vado avanti con questa storia e meno mi piace il mio modo di scrivere. Punto ad una pulizia piena, conto di eliminare parole e termini arcaici superflui. Conto soprattutto di catturare al meglio l’attenzione del lettore, e non solo aumentando il rating che, per quello che ho in mente di scrivere più in là, è giusto giallo.
Gli aggiornamenti per Helleborus saranno settimanali o a discrezione dell’autrice, che preferisce anticiparsi un altro capitolo nello stesso momento in cui ne posta uno nuovo per i lettori :)

*Ringrazio tutti i 133 passanti silenziosi . Vi voglio bene anche solo se leggete il titolo del capitolo :)
*M’inchino umilmente alla Divina Josie_n_June per la sua recensione. Dio mio…non credevo che al lettore potesse arrivare tanto di quello che ho scritto. Insomma… ho stilato i profili di ciascun personaggio con coscienziosa consapevolezza, tanto da renderli facilmente afferrabili – e perciò, pensavo, poco originali. Ho creato un Ezio innovativo che io per prima, al parto di questa storia, non sopportavo. Credevo che una tale cura per dettagli storici e magistrali descrizioni ambientali avrebbero schifato anche mio cugino che insegna Storia dell’Arte… ero convinta che questa fan fiction sarebbe collassata nel baratro del dimenticatoio di sezione ed io nella più oscura depressione, quando, tutt’a un tratto, vedo spuntare quel 2… quel 2 misericordioso… e non speravo davvero in un commento tanto complesso e completo. Davvero non so né cosa risponderti e né come ringraziarti… non immagini quanto io sia felice, in questi giorni, solo a causa del tuo commento. E’ stata una secchiata d’acqua gelida nel profondo assopimento della speranza. La stessa cosa è stata sapere che segui Project Delta! A proposito… le mie e le altre quattro mani che lavorano al “progetto” stanno rielaborando il terzo capitolo per la decima volta. E’ probabile che vedremo fin da subito il Soggetto Cacciatore in Sessione entro la fine del mese.
*Ancora grazie ad Enio (adoro l'immagine nel tuo profilo, è una delle più belle a mio parere :) e RunaMagus per aver aggiunto la fan fiction alle seguite :)


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Capitolo 4
*** Dies Irae - Parte 1a ***


Helleborus
Capitolo IV
Dies irae
(Il giorno dell’ira)

Il sole stava tramontando quando Adriano s’issò sul tetto della domus dopo essersi arrampicato sulla facciata posteriore. Spolverandosi le ginocchia, si aggregò ai compagni che si godevano l’ultimo spicchio di cielo diurno, dove Dio stava tingendo pacatamente il suo trono di nuvole con colori mai visti.
Leone controllava l’equipaggiamento forse per la centesima volta: stringeva le cinghie degli stivali, estraeva e saggiava la lealtà dei pugnali da lancio. Ammaccava l’aria del crepuscolo con la propria mazza da guerra, probabilmente tentato dal testarne la potenza frantumando il pergolato del tetto.
Anche Vittorio compieva la stessa azione di sempre, forse per la millesima volta: sfogliava le pagine di un libricino dalla carta antica e sgualcita per via della copertina dispersa. I suoi occhi nascosti all’ombra del cappuccio correvano e godevano tra le righe, come se le parole contenute nel testo fossero la linfa vitale di quell’uomo. Era così che Vittorio sembrava cibare il corpo e la mente. Al suo fianco aveva una curiosa sacca rigonfia…
Davide era seduto in disparte ad una certa altitudine. Rinunciava ad osservare la Città Eterna e a crogiolarsi nell’abbraccio serale, dopo un’intensa giornata lavorativa, insistendo col ripassare gli atti di una strategia inesistente, dettata unicamente dalla sua fantasia. Dopotutto Ezio non si era visto tutto il giorno: si era dileguato quella mattina presto, lasciando indietro con un congedo i suoi apprendisti.
E meno male che stamani avremmo dovuto discutere i dettagli della missione a mente fresca! Studiando un quadrato della carta geografica che aveva ripiegato sulle ginocchia, Davide accumulava lo sconcerto. Mentalmente tracciava su di essa il suo e l’ipotetico percorso dei suoi compagni, preferendo essere preparato all’eventualità di scansare il tragitto del compagno Leone. Poiché era il gran giorno, non avrebbe rischiato di accapigliarsi con Golia su Ponte Mollo!
Adriano sedé accanto a Davide, cercando di non infastidirlo. Lo scricciolo, come lo chiamava Leone, quella mattina era particolarmente nervoso. L’assalto al Vaticano sarebbe stata la sua prima missione onoraria. Era già stato in spedizione varie volte, in altre città italiane, ma l’onore di affiancare il Gran Maestro nella guerra contro i Templari screditava qualsiasi altra spedizione che avesse mai compiuto all’estero. Era bravo a nasconderlo altrui, ma anche lui, uno spietato sicario, temeva il fallimento e la morte. Di quella debolezza, però, se ne faceva una convinzione e una forza ancora più grande: la sua caduta avrebbe garantito l’ascesa della pace, in ogni caso.
Guardando Davide tanto concentrato sulla sua mappa, capì che in un certo senso, con o senza il Maestro ancora e lì presente, la missione era già iniziata. Il silenzio era una preparazione spirituale fondamentale all’interno del loro gruppo. Adriano e i suoi confratelli, chiusi nel rispettoso mutismo che ornava le loro e le gesta del loro condottiero, sarebbero stati solo la cornice del quadro che Ezio avrebbe dipinto, seminando morte e terrore tra i Templari. Spostarsi per le strade facendo tacere anche la propria ombra significava non potersi/doversi permettere di attirare alcun tipo di attenzione. Sarebbero stati muti, assassini addestrati ad uccidere con l’unico fine di salvaguardare l’epopea del Maestro. L’avevano fatto in precedenza, durante le indagini e le imprese dei giorni passati, e non avrebbero mai smesso anche dopo la morte.
Vittorio arricciò il naso e, alzando gli occhi dal suo libricino malridotto, fissò a lungo l’orizzonte.
Pioggia in arrivo, pensò con un sospiro cambiando pagina.
Davide e Adriano condivisero un breve sguardo angosciato. Leone si grattò la schiena con la mazza mentre un ultimo raggio di tramonto gli scavava nell’oscurità del cappuccio. Poi, assieme al mento, nascose dietro al bavero un sorriso inquieto.
Roma si distese sotto la sua coperta di stelle. Il respiro di antichi Dèi dimenticati si abbatté sulle tuniche grigio fumo e bianco spento, risvegliando la lingua di stoffa rossa che cingeva loro i fianchi. Ebbero giusto il tempo di fare gli ultimi controlli, poi, non appena in strada sembrò crearsi un po’ di folla – per lo più pescatori sbronzi, malfattori, ladri o cortigiane – tra le costellazioni si fece più luminosa quella dell’aquila. Il rapace annunciò il suo volo.
Ed Ezio Auditore si gettò nel vuoto.

All’inizio viaggiarono l’uno molto distante dall’altro. Il fattore lontananza, il cercarsi con gli occhi tra i palazzi, garantiva che un presunto intercettatore non indovinasse il loro punto di origine, ovvero il luogo dal quale erano partiti.
La gerarchia voleva che tutti gli assassini fossero a portata del Maestro, ma non era necessario che il Maestro lo fosse per gli assassini. Ezio aveva tutto il diritto di sparire dalla vista dei suoi sicari per poi ricomparire all’improvviso in balia delle circostanze. Il più grande dovere dell’apprendista – diversamente da qualsiasi ladro o mercenario al suo seguito – era quello di rispettare il valore di ciascun ruolo ed entrare in azione al momento opportuno. Il Maestro poteva nascondersi quando e dove voleva; a loro era concesso farlo unicamente per suo ordine, e solo dopo aver adempiuto al motivo del richiamo. Archibugeri, balestrieri e arcieri erano in agguato, pertanto dovevano essere pronti a fare scudo del proprio corpo. Fortunatamente non si rischiava mai di correre quel genere di rischi, sia perché Ezio Auditore non passeggiava da incosciente tra le pattuglie dei suoi avversari, sia perché Ezio Auditore era capace di sbaragliare un esercito pari a quello che aveva attaccato Monteriggioni; se solo Cesare non l’avesse anticipato e indebolito, colpendolo al cuore e strappandogli lo zio, il figlio di Giovanni avrebbe potuto scacciare gli invasori a mani nude…
Quella mattina Vittorio sentiva aumentare la preoccupazione tra i suoi compagni, mentre le impalcature attorno a San Pietro si facevano più vicine. Il piano discusso la sera precedente era una follia: estirpare la sorveglianza dalle Mura Vaticane, sostituirsi alle guardie e addentrarsi nei Giardini Papali. Riempiva la bocca e annacquava d’ansia il cuore. Scegliendo di avventurarsi nei territori nemici, Ezio non avrebbe esitato a fronteggiare tutti i soldati necessari per arrivare in quei benedetti parchi. A Vittorio non era nemmeno chiaro come Ezio avrebbe attirato il toro fuori dal suo recinto. Che si tenesse tanto stretto Adriano non era una novità. Ovunque andasse, il ragazzo doveva essere costantemente sotto la sorveglianza degli altri apprendisti o del Maestro stesso. Forse per sfiducia, forse per premura verso il più giovane, il figlio di Giovanni non lasciava mai solo un pulcino del pollaio.
Quando Assassini e Gran Maestro furono di nuovo uniti sotto una fetta di cielo comune, Vittorio aveva già piantato frecce in gola a due uomini. Davide – preferendo l’astuzia al sangue – si era gettato in un covone di fieno, trascinandovi dentro, poi, una Guardia Papale. Leone, poiché un balestriere nemico l'aveva preso nel mirino, era sfuggito al dardo con una capriola in un cortile privato, abbellito di rose. C’era mancato poco che la donna e il suo amante – lì a farsi la corte sotto la luna – non lo accoltellassero e che lui rispondesse a man armata. Abbandonato il cortile, l’assassino aveva aggirato il balestriere sorprendendolo alle spalle. Aveva fatto ruotare la mazza sperando che quella non fosse l’ultima battuta del giorno.
Adriano era stato affiancato all’improvviso dal suo Maestro mentre camminava sulla strada. Ezio, tra un’ombra e l’altra, gli aveva sussurrato il comando di spostarsi sui tetti e raggiungere Davide prima di arrivare a destinazione. Adriano aveva annuito, ma la figura bianca del suo Maestro – a contrasto con il ricordo di un demone nero che aveva della sera precedente – si era dissolta in quel mare di ombre come miele nel latte.
La fame, la sete e molti altri erano bisogni che aveva imparato ad ignorare fin da bambino, quando passava giornate intere a zappare la terra sotto il cocente sole estivo per racimolare giusto qualche cereale da vendere al mercato. In realtà Adriano ricordava pochissimo del suo passato, ma essendosi sempre prefisso di guardare al futuro non l’aveva mai considerata una
grave mancanza.

Per giungere alle spalle del Vaticano e saggiare con gli occhi l’altezza delle sue mura posteriori, Ezio e gli assassini impiegarono buona parte della nottata. I cinque si erano appartati in un angolo del Borgo, riuscendo ad eludere la sorveglianza che batteva le mura dall’alto dei merli.
In realtà nessuno degli assassini sapeva cosa sarebbe successo o come il Maestro avrebbe oltrepassato quelle mura. C’erano più speranze che una fune piovesse dal cielo e lo issasse oltre la scogliera. Solo verso la mezzanotte, quando la maggior parte delle guardie cittadine sonnecchia o permette che si chiudano un po’ gli occhi, Ezio sembrò condurli dove la sua segreta attenzione era caduta molto tempo prima, mettendo a dura prova la pazienza dei suoi compagni.

“È uno scherzo?” chiese Leone mentre Davide si assicurava che i lembi del lenzuolo – portato da Vittorio – coprissero per bene una lapide incastonata tra la pietra delle mura. La lastra di travertino era larga due per un metro e riportava qualche frase latina riferente alla costruzione della Basilica Costantiniana, scomparsa nel nome di San Pietro con l’assalto del Cattolicesimo sulla città.
“No, affatto. Avanti, colpiscila”, ordinò Ezio indicando prima la mazza che Leone portava al fianco, poi la lapide coperta dal panno, che – ora Vittorio capiva l’assurdità di quella richiesta – avrebbe attutito il suono ma non la forza dell'impatto.
Leone si strinse nelle spalle e acconsentì, pur tremando all’idea che qualcuno li vedesse aprire breccia e li denunciasse. Si guardò attorno e impugnò l’asta a due mani, calcolò per bene la traiettoria e saggiò il peso dell’aria – tutta scena: poteva frantumare il cranio di un uomo ad occhi chiusi. Dopodiché, fece per avventarsi sulla lapide, ma arrestò il colpo a mezz’aria, improvvisamente congelato come una statua ellenistica che raffigura un qualche sport olimpionico greco. Si guardò attorno di nuovo, ma ‘sta volta per studiare le facce sbigottite dei suoi compagni nell’ombra dei loro cappucci: probabilmente Davide, Adriano e Vittorio si chiedevano quale stregoneria avesse frenato il fremente desiderio di Leone di rompere le cose. Quando l’assassino incontrò gli occhi del suo Maestro, ridotti a due fessure, non trattenne un tremore alle gambe avvolte nelle calzamaglie rigate. Avrebbe voluto avvertire il suo superiore di un rischio che Ezio ignorava, ovvero quello di attirare attenzioni indesiderate, ma nessuno si era o avrebbe mai potuto permettersi di disobbedire ad un suo ordine. Però Leone non riusciva a negarsi che Ezio stava davvero cominciando a perdere colpi in fatto di discrezione.
“Siete sicuro?” formulò Leone, incerto, schiarendosi la voce. “Insomma, avete contato quante guardie c’erano al Mausoleo di Augusto la scorsa settimana? E tutte con un ottimo udito! Vuoi che Alessandro non le abbia triplicate attorno al suo letto a baldacchino?! Qui potrebbero essercene almeno un…”
Non gli fu concessa un’altra parola, perché da che era rimasto immobile a ribollire di una rabbia silenziosa per il comando interdetto, Ezio aveva deciso di agire personalmente: strappando la mazza ferrata dalle mani di Leone, impugnò l’asta in un sol palmo e l’abbatté sulla lapide, che si frantumò in cinquanta pezzi dopo quell’unico colpo.
Per una manciata di secondi Roma si cristallizzò nella notte: persino animali, cicalii e fruscii del vento preferirono tacere piuttosto che rispondere al suono della pietra che andava in frantumi tra la stoffa del lenzuolo.
Gli assassini, trattenendo il fiato, non sapevano cosa aspettarsi: da un momento all’altro qualcuno avrebbe riconosciuto l’origine del fracasso e si sarebbe esposto dalla balaustra delle mura puntando la balestra, oppure sarebbe continuato a filare tutto liscio e il Vaticano non avrebbe mai rimpianto la perdita di quella lapide?
Adriano tirò un sospiro di sollievo: era passato un minuto buono e nessuno aveva fiatato.
Leone riebbe indietro la propria mazza senza che il Maestro lo degnasse di uno sguardo. Determinato a condurre e vincere la sua guerra, da solo, se necessario, Ezio nemmeno guardava più in faccia i suoi apprendisti pur di non compromettere la missione. Quello che l’Auditore sbagliava ad ignorare, però, era il fatto che i suoi compagni lo stessero ponendo in allarme quando lui preferiva infischiarsene e agire senza indugio, all’istante: la collera e la vendetta, così prossimo alla meta, lo avevano reso cieco – proprio come i paraocchi dei cavalli da carrozza, che non vedono altro se non il sentiero che calpestano. Forse tutto si stava ripetendo, forse Ezio era tornato ad essere la carne in terra di quello spirito vendicativo che l’aveva condotto al cospetto di Papa Alessandro VI già una volta, in passato. Le sue intenzioni erano cambiate solo all’ultimo, scegliendo di risparmiare la vita a Rodrigo Borgia, e nessuno osava mettere in dubbio che adesso ne stava patendo e rimpiangendo le conseguenze.
Chissà cosa sarebbe diverso oggi se Ezio avesse ucciso il Borgia nella Cripta. Chissà quanti innocenti sarebbero ancora vivi, e chissà quale Papa migliore di quello attuale siederebbe sul Trono di Pietro…
Vittorio scacciò quei pensieri. Doveva mantenersi lucido. Almeno lui.

Mentre Adriano e Davide aiutavano Leone a smantellare le parti intatte della lapide costantiniana, Vittorio, che si era affiancato all’ombra del suo Maestro, sussurrò a voce bassa: “Siete un pazzo, avete rischiato di farci ammazzare; voi compreso. Lo sapete questo, vero?”.
Non aveva idea di come avrebbe reagito il suo Maestro a parole così sfrontate. Solo la notte precedente, all’insegna di una discussione privata, si era preso anche troppe libertà che forse, vuoi per la stanchezza, Ezio non aveva considerato gravi. Ma ora che il Maestro degli Assassini era tornato a vestire gli abiti bianchi di Angelo della Morte, era rischioso osare una simile confidenza. Però Vittorio doveva chiarire, doveva sapere cosa frullava per la testa del suo Maestro, e precederlo nel caso le sue azioni lo avessero spinto troppo oltre. Non avrebbe esitato ad intercettare la traiettoria di una freccia, se questa avesse minacciato il cuore del suo Maestro, ma gli piaceva pensare che tali rischi potevano benissimo essere evitati. Valeva la pena tentare di restituire ad Ezio un po’ del senno perduto.
Le labbra dell’Auditore, unica parte visibile del suo volto e che il cappuccio non celava, si tesero in quello che Vittorio non poté contare come un sorriso, perché assomigliava tanto più ad un ghigno.

Davide cominciò a sudare. Lui e Adriano dovevano raggruppare i detriti nel lenzuolo che Vittorio aveva portato per attutire il colpo della mazza di Leone; dopodiché, forse, avrebbero gettato i resti della lastra nel Tevere, così che nessuno – a parte le pantegane – ne avrebbe rimpianto la mancanza.
Occhio non vede, cuore non duole...
Erano pochi, infatti, a passare per quelle zone del Borgo sia il dì che la notte. Oltre quelle mura invalicabili c’era un regno misterioso che la povera gente di Roma del quartiere di Trastevere, confinante col Borgo, non osava immaginare neppure nei sogni più fecondi. I fasti e il lusso dei Papi presenti, futuri e passati – con tanto della loro arroganza – si annidavano dietro metri di spessa e robustissima pietra vergine. Il cuore della corruzione batteva a poche spanne da chi aveva il potere di sopraffarla…
Vittorio si era immerso nella feccia del popolo in più di un’occasione, vuoi per borseggiare, origliare o captare qualche informazione al nemico là dove la gente si lamentava volentieri dei propri mali col primo passante. In quelle occasioni aveva sentito quanto il popolo soffriva realmente delle sue condizioni e di quanto sarebbe stato disposto a sacrificare pur di veder migliorare il proprio e far precipitare il tenore altrui. Un macellaio di Porta san Paolo si sarebbe volentieri sgozzato come un agnello pasquale se in cambio fosse stato possibile ricevere della grazia per la sua famiglia. La disperazione tra la gente aveva raggiunto i margini, pensò Vittorio.
Roma dormiva beata sotto un magnifico cielo stellato, e loro erano lì a farla a pezzi con una mazza. Che vergogna, si disse Davide, come se qualche ammacco sulle mura potesse aprire il magico Portone dei Sette Ladroni!
Il piano di Ezio era una pazzia, ma lui non aveva l’autorità sufficiente per intercedere le sue richieste. Il ruolo abituale di Davide era quello di tracciare e individuare percorsi alternativi, nascondigli e camuffamenti per il suo Maestro. Era uno stratega e un illusionista. Se al fianco portava legata una poderosa scure che molti avrebbero detto di carta – data la stazza slanciata ma esile del ragazzo – allora meritava a pieno debito il titolo di apprendista assassino. Nonostante quell’arma e qualche freccia avvelenata che andava sempre a buon segno, la pedina che personificava sulla scacchiera era l’alfiere: vicino al suo Signore, ma non troppo da poter origliare le sue conversazioni più intime. Era un consigliere, un acculturato, e fino a qualche tempo prima anche un devoto fedele. Eppure Ezio non si era mai fidato abbastanza né di lui, né di Leone. Forse era l’astio che quei due sperperavano nelle situazioni meno opportune ad alimentare il disappunto del Maestro nei loro confronti. Il ragioniere dovette interrompere il filo dei suoi pensieri bruscamente, quando notò che, dove prima c’era stato qualche blocco di pietra, si era aperto un buio e polveroso passaggio segreto.
Frantumando il silenzioso stupore, il figlio di Giovanni si rivolse all’assassino con le calzamaglie rigate: “Leone, tu resterai di guardai a quest’ingresso.”
L’assassino boccheggiò sconcertato: aveva davvero sperato che quella notte qualche Borgia crepasse con l’acciaio della sua mazza tra i denti.
Ezio non vi fece nemmeno caso e proseguì dettando: “Se tutto va secondo i piani…” s’interruppe, accogliendo anche gli altri discepoli con uno sguardo.
“Ma quali piani?” mugugnò Davide tra sé e sé.
“Se tutto va secondo i piani”, riprese il Maestro scoccandogli un’occhiataccia da sotto il becco del cappuccio, “ci rincontreremo qui a cose fatte. A seconda delle circostanze riassembleremo i resti della lapide con del calcestruzzo o li getteremo nel Tevere. Si vedrà.” Sospirò una breve pausa, poi guardò il passaggio segreto.
“Io per primo. Subito dietro voglio Adriano.”
Il ragazzo annuì.
“Davide a seguire. Quattro tempi di distacco.”
Lo stratega vaneggiò un assenso col capo.
In fine, tutta la fiducia del gran Maestro andò a pesare sulle spalle di un uomo soltanto: “Vittorio chiuderà la fila.”
L’arciere socchiuse gli occhi.

Il Maestro era scomparso attraverso lo stretto cunicolo già da un po’. Per seguirlo, Adriano dovette accovacciarsi e quasi gattonare; non si vedeva nulla oltre le proprie ciglia.
“Un passaggio segreto, mio signore, ma dove conduce?” chiese Adriano tenendosi basso e rannicchiato per non battere la testa. I guanti strusciavano sulle pareti, le ginocchia si alternavano coi talloni a sostenere il peso del corpo.
“Stammi vicino: se nessuno ha rotto quella lapide prima di noi, vuol dire che scoprire dove porta sarà una sorpresa anche per me”, fu la risposta del Maestro quando scomparve dietro il ripiego del passaggio segreto, che compieva una curva a gomito proprio mentre Adriano stava continuando dritto, rischiando di rompersi il naso. Era stato Ezio ad afferrarlo per la manica e a tirarlo nella direzione giusta.
“Ci sei, ragazzo?”
Adriano annuì.
“Preferirei che parlassi.”
Il giovane apprendista si affrettò a rispondere con la voce: “Sì, ci sono.”
Poi il rumore degli stivali del Maestro che si allontanava ebbe la precedenza su qualsivoglia singhiozzo del cuore, che ad Adriano era salito fino in gola. Davanti a sé – forse di qualche metro, forse di qualche centimetro – il Gran Maestro procedeva senza mai guardarsi indietro, benché non ce ne fosse la possibilità per via dello spazio insufficiente anche solo a respirare.

Uno.
“Mi annoierò a morte.”
“Non è un problema mio.”
“Oh, oh, oh, sì che lo è!” rise Leone.
Davide, inginocchiato di fronte al traforo delle mura, sbuffò seccato. Stava rispettando il volere di Ezio, indugiando quattro tempi prima di avventurarsi anch’egli nell’oscuro passaggio segreto, ma sarebbe bastata un’altra parola, e Leone gli avrebbe fatto perdere il conto.
“Dev’essere piuttosto buio là sotto. Attenti a non pestare qualche sterco di pantegana, mi raccomando”, commentò Leone scherzoso, indicando il passaggio con la mazza. Impugnava quell’asta di puro e solidissimo metallo con una mano sola, come se fosse anzi fatta in legno.
“È davvero un peccato ch’io debba starne fuori: chi terrà a bada le Guardie Papali mentre Davide trova un alberello prima di farsela sotto?” sospirò laconico, confidandosi con Vittorio immobile al suo fianco.
Davide irrigidì le spalle. La sua pazienza aveva un limite. Detestava l’umorismo di Leone a priori; se poi gli toccava sorbirsi quel genere d’insulti addirittura durante una missione ufficiale, non sapeva quanto a lungo sarebbe rimasto calmo.
Due.
“Dovremo salire sulle mura”, fu Vittorio a troncare sul nascere un nuovo e fatale battibecco.
“Sulle mura?” s’insospettì Leone.
Quella farse aveva attirato l’attenzione anche di Davide, che però cercava di stare concentrato sul conto alla rovescia.
Vittorio fece scorrere lo sguardo verso l’alto fin quando non incontrò le stelle. C’erano delle guardie appostate in ronda tra i merli, ma fortunatamente il passaggio segreto scoperto da Ezio era troppo scavato tra la pietra, e la loro attuale posizione troppo incanalata tra le ombre. Nel preciso, si erano appostati dove la cinta Vaticana compie un brusco ripiego a gomito, in un angolo convesso di duecentotrenta gradi – geometricamente parlando.
“Sì, sulle mura”, ribadì Vittorio. “Con tutte le probabilità, una volta scoperta la foce di questa galleria, Ez…” s’interruppe all’improvviso. Aggrottò le sopracciglia e, rivolgendosi anche a Davide, chiese: “Non lo sapete?”
“Cosa?” Davide era distratto. Si capiva che seguiva a mala pena qualche parola.
Tre…
“Tu, piuttosto, come lo sai che dobbiamo scalare le mura?” esordì Leone, crucciato.
Vittorio precipitò nel baratro dello sconcerto. “Non ditemi che Ezio…” stentava a crederci. “Di cosa avete discusso l’altra sera nella cantina?” domandò direttamente.
Lo stratega si voltò. “Che razza di domande sono?”
“Scemo, Vittorio non c’era: stava male. Devi raccontare anche a lui che te la fai sotto per du’ zappe e tre oche”, schernì Leone.
“Per favore, ragazzi!” Vittorio richiamò un po’ d’ordine. Il mal di testa stava tornando, e il punzecchiarsi di quei due non aiutava sicuro. “Qual è il piano?”
Davide e Leone si scambiarono una lunga occhiata perplessa. “Qual è il piano?” si chiesero a vicenda. Sorpresi, entrambi alzarono le spalle.
“Tu quale credi che sia?” domandò Leone, serio, al mastro arciere.
Vittorio esitò, guardando prima uno poi l’altro confratello. “Pensavo che anche voi lo sapeste, insomma…” a quel punto tacque non sapendo davvero cosa dire. Tornò a scrutare l’oscurità del passaggio segreto, pensando che Ezio si era divertito di nuovo a fare l’incosciente. Il Gran Maestro stava tirando la corda, il suo comportamento superava i canoni dell’assurdo. Se Vittorio non l’avesse conosciuto da così tanto tempo, avrebbe detto che fosse ubriaco; ma siccome la situazione era andata peggiorando gradualmente, già da parecchie settimane, non poteva trattarsi del buon vecchio vino. No, Ezio era lucidissimo. Anche troppo. C’era un dettaglio molto più piccolo, ma altrettanto rilevante. Ci si comporta come una bestia per centinaia di ragioni, dall’ira all’odio, dal rancore alla vendetta. Forse una parte di queste ci andava di mezzo, ma la giustificazione più subdola, capace di spingere un uomo a muovere guerra in un modo così barbaro, poteva essere solamente una…
“Porca Eva!”
Vittorio sgranò gli occhi, inchiodandoli sullo stratega. Leone sobbalzò.
“Vittorio, perdonami, ma siamo in ritardo”, lo informò Davide, scusandosi miseramente dispiaciuto. Scosse la testa. “Devo aver contato circa il dopp…”
Vittorio si era fiondato nel passaggio segreto prima che Davide avesse potuto concludere la sua confessione. Non voleva arrabbiarsi con lo stratega del gruppo perché si era distratto, sarebbe stato inutile, ma non avrebbe permesso alla provvidenza di mettere troppa distanza tra lui e il Gran Maestro che, nonostante il disguido, si sarebbe sentito autorizzato ugualmente a portare avanti la missione con o senza di loro. Qui qualcuno vuole rischiare il tutto per tutto, pensò Vittorio artigliandosi alla pietra, avanzando alla cieca. Mi sta anche bene, ma Ezio deve smetterla di rischiare da solo!
Dietro di lui, spintonato da Leone, si era aggiunto il giovane Davide. Questi arrancava alle sue spalle maledicendosi in tutte le lingue a lui conosciute, dal catalano al francese, dal dialetto di casa al suadente latino ecclesiastico: Davide non si sarebbe mai perdonato quell’errore di calcolo indicibile, e non pretendeva che altri lo facessero per lui.
Fuori dal recinto del toro, il leone snudava nervosamente la coda e si preparava alla lunga attesa con le zampe incrociate.














.:Angolo d’Autrice:.
Eccoci nel pieno dell’azione. Ezio e i suoi apprendisti si addentrano nelle Mura Vaticane per quella che, attualmente, è questo piccolo foro [link] Ovviamente non sono certa del fatto che all’epoca fosse una “lapide” riportante insegne latine, tanto meno l’ingresso ad un passaggio segreto. Mi sono semplicemente sbizzarrita nell’immaginare cosa fosse quel curioso aneddoto della cinta vaticana che non Michelangelo, ma io scoprii quest’estate andando a trovare un’amica che abita proprio alle spalle del Vaticano, a confine con le mura :)
Ecco svelato l’arcano mistero del lenzuolo…
Mi sorprendo della mia stessa banalità. Da non credere.
In questo capitolo sono stati frequenti i passaggi di POV, seppur molto sottilmente. In un primo momento vediamo Adriano raggiungere i suoi compagni sul tetto del “quartier generale”, poi Davide farsi mille complessi mentali su un piano che, ufficialmente, non esiste; e in fine Vittorio che prevede pioggia. (E pioggia sarà…?)
La scena dell’affronto alla “lapide” è nata come uno sclero… come Ezio, anch’io quel giorno sentivo la voglia di spaccare le cose… era il 29 luglio. Avevo appena scoperto di aver perso il mio peluche preferito con il quale avevo condiviso ben 8 anni della mia breve ed inutile vita… tutte le notti lo piango ancora, ed Helleborus è, in un certo senso, un tributo funerario al mio piccolo Norby (in realtà non aveva un nome… era una riproduzione poco fedele e molto stilizzata di Norberto, il draghetto di Harry Potter e la Pietra Filosofale. Me lo comprò mia madre al Blockbuster quando ancora davano il film sul grande schermo.) Quando ho realizzato che non l’avrei rivisto mai più, i cinque giorni successivi ho avuto 38 di febbre…
No, non sono normale.
Ma di questo a voi non può importare granché, perciò faccio un’ulteriore figura da idiota – cosa che la scrittura di questa fan fiction mi fa sembrare già abbastanza.
I quattro tempi contati da Davide in realtà sono piuttosto veloci. Quella scena in particolare, senza contare la stesura a caratteri e le riflessioni interne dei personaggi, dovrebbe uscire fuori abbastanza svelta. Svelta nel senso che per 4 tempi Ezio non chiedeva un distacco non minore di cinque minuti. E perché? Vi chiederete voi… Ebbene, la vostra schizofrenica scrittrice non ha risposte preferisce rimandare l’argomento dicendo con molta semplicità che l’Ezio della sua storia è prudente, ma nel modo sbagliato.
Spero che abbiate passato un felice Halloween :) ma per quanto mi riguarda covo la speranza di leggere presto i vostri commenti.

*Ancora grazie ad Enio (quando aggiorni Perditae Aedas???) e RunaMagus (se state leggendo questa schifezza, sappiate che perdete tempo! Volate alla sua Bianca come il Peccato) per aver conservato la fan fiction tra le seguite :)
*SophyTheWhiteDragon, semplicemente ti adoro. Mi hai recensito tutti i capitoli e, credimi, per me significa moltissimo e mi da prova di che persona corretta tu sia. Sono la prima a detestare recensioni complessive, farne e averne, s’intende, e so cosa si prova nel fare questo grandissimo sforzo che, un giorno, quando pubblicherai qualcosa di tuo, ricambierò a simile moneta. Sono felicissima che tu segua anche Project Delta. Spero di non deluderti anche lì. Spero di non smontarti un mito se confesso di aver fatto solo 3 mesi di classico, di non ricordare nemmeno la prima declinazione… Perciò tu capisci che quelle stupende frasi Latine non possono essere mie .__. E quanto me ne vergogno! Linciami pure, è un affronto alla materia che sembri amare.
*Josi_n_June. Ci sei ancora. Ci sei sempre! La prima a recensire, la prima a migliorarmi la giornata! Fai bene a credere nella quiete prima della tempesta. Forse ancora nel prossimo capitolo vedremo una pezza di questa “quiete”, però da un punto di vista del tutto inaspettato… non so. Per quanto riguarda alcuni post futuri, stavo pensando addirittura ad una specie di “raccolta” a parte, che comprenderebbe scene con un POV molto particolare, esterno quindi a quello che sono i protagonisti di Helleborus (ovvero Ezio e gli apprendisti.) Dimmi tu cosa ne pensi, siccome mi hai detto di amare il prologo perché riguardava i cattivoni :)

Ecco, a proposito del prossimo capitolo, intendo domandarvi generalmente cosa pensate di una “raccolta” che conterrebbe le scene “non dette”, plausibili o meno riguardanti questa storia…
Vabbe’, basta, sto divagando ed è colpa della stanchezza. E’ circa l’una meno un quarto e c’è pure l’ora legale, perciò è come se fossero le 2 del mattino.
Vi abbandono fiduciosa :)
La vostra umile

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Capitolo 5
*** Dies Irae - Parte 2a ***


Helleborus
Capitolo V
Dies irae 

“Quando c’è puzza di veleno, l’orgoglio scava la fossa.”

Quel cunicolo infernale sfociava proprio nella tana del Diavolo, constatò Adriano. Quando il suo Maestro scoperchiò il ‘tappo’ che impediva loro di salire verso l’alto abbandonando la galleria segreta, Ezio e l’assassino emersero con agilità in mezzo ai prati dei Giardini Papali, precisamente all’altezza del Belvedere. La passeggiata iniziava su una piazzola nascosta dalla vegetazione, nel cui centro, mimetizzato tra i marmorei sfarzi geometrici, c’era il tombino. Il sentiero di mattonato che si diramava per il Giardino aveva anche la funzione idraulica di far scorrere l’acqua piovana dal terrazzo alle fogne.
Adriano si guardò attorno senza credere ai propri occhi: non l’avrebbe mai detto, ma entrare nei domini dei Papi era stata proprio una passeggiata! Magari un po’ stretta, ma di poche fatiche.
Un sorisetto brioso apparve sulle labbra del ragazzo. Quella di Ezio, a confronto, era la maschera delle serietà. Dopo che ebbe richiuso il tombino di cui nessuno avrebbe mai sospettato la possibilità di aprirsi, Adriano seguì l’ombra del suo Maestro confondersi a quelle degli alberi.
I Giardini del Vaticano consistevano in una vasta distesa erbosa meticolosamente curata. Chissà quanti giardinieri ci sarebbero voluti per potare tutte quelle siepi di margherite domestiche, rose e tulipani blu. Se c’era qualcosa che doveva giovare molto ai buoni rapporti tra politici e cattolici, era l’aspetto del giardino nel quale tenere funzioni e discussioni. L’intero colle di Sant’Egidio, abbellito di un frutteto e dei prati voluti da Papa Nicolò III quasi tre secoli prima, era stato a lungo andare méta di meditazione per i religiosi signori. Nonostante l’oscurità notturna, Adriano contò alcuni esemplari da terre lontane che, in altri luoghi e senza una premura costante, sarebbero essiccati poche ore dopo il trapianto. Il prato sotto ai suoi stivali era dei più soffici che avesse mai calpestato. Il profumo intenso e fresco della natura era terribilmente accattivante.
Ezio proseguiva spedito a poche spanne dal suo naso, ed Adriano era la sua ombra.
Per mera fortuna nessuna delle guardie in alto, sparpagliate sui colossali bastioni, li aveva notati. La frazione dei Giardini che stavano attraversando – spostandosi di felce in felce e di tronco in tronco – era troppo lontana sia dai focolari delle torri, sia dagli edifici circostanti. Data la vastità del terreno, ai due Assassini tornò facile eludere quel poco di pigra sorveglianza, poiché avevano raggiunto il perfetto centro dei Parchi senza che nessuno si fosse accorto delle loro ombre di troppo.
Voltandosi nella direzione dalla quale erano venuti, Adriano immaginò Davide e Vittorio che scalavano quelle mura ormai lontanissime. Come avrebbero assicurato loro protezione con una tale distanza? Ezio avanzava facendo strada al suo apprendista senza mai guardarsi alle spalle, potendo facilmente intuire la presenza del ragazzo attaccata alla sua schiena misurando gli spostamenti del vento, che soffiava sui loro cappucci da nord-est…
Si acquattarono sul confine della pineta, dove una buona fetta di prato, un sentiero in pendenza e alcuni gradini precedevano gli Appartamenti. L’ingresso era presieduto da una dozzina di guardie, due delle quali Papali.
“E se Cesare fosse già partito?” domandò Adriano in un sussurro.
Ezio, in equilibrio sui talloni, guardava dritto davanti a sé. “È ancora qui”, disse semplicemente.
Adriano avrebbe voluto chiedere in base a cosa il suo Maestro ne aveva la certezza, ma ingoiò l’intenzione all’istante. Piuttosto seguì lo sguardo dell’Auditore, che si era fissato in particolare su due figure appena emerse dal portone e che venivano, passeggiando, verso di loro.
“È lui?”, domandò l’apprendista col cuore in gola.
“C’è anche Goffredo, ma è disarmato”, riferì Ezio, la cui vista miracolosa spaziava ben oltre quella di un comune mortale.
I due Borgia si avvicinavano alla pineta con indifferenza, seguendo il sentiero della passeggiata. Se la fortuna avesse continuato a pendere per gli Assassini, il gruppo che era partito con una fava sarebbe rientrato al quartier generale prima dell’alba non con due, ma tre grossi piccioni.
“Sta’ pronto.”
Adriano irrigidì i polpacci preparandosi allo scatto. Strinse i pugni e portò indietro il braccio con il meccanismo, saggiandone il peso. Al momento del balzo la sua lama avrebbe trapassato la gola del Borgia più giovane, mentre il Maestro avrebbe compiuto vendetta sull’omicida di suo zio.
Ma improvvisamente le due figure cambiarono direzione: Cesare e Goffredo ripercorsero i propri passi con apparente tranquillità e, giunti ai pressi dell’ingresso, il piccolo Borgia rincasò al coperto. Il premio più ambito scambiava due parole con una Guardia Papale.
Ezio, a pugni serrati e denti stretti, scattò istintivamente in avanti, ma la voce di Adriano lo destò, per un breve istante, dal sortilegio dell’ira.
“Non dovremmo aspettare Davide e Vittorio, Maestro?”, gli ricordò il giovane. “A quest’ora sarebbero dovuti già essere dietro di noi…” constatò voltandosi amareggiato. Alle loro spalle l’oscura pineta inghiottiva ogni cosa. Tornò a guardare il suo superiore. Ezio, indugiando sulla figura di Cesare che ripercorreva – quella volta solo – la passeggiata, fece scattare una delle due lame celate.
“Non c’è più tempo”, sussurrò l’aquila uscendo allo scoperto.

Anche dalla loro attuale posizione non era facile riconoscere e tenere sott’occhio tutti gli edifici che dimoravano nella tenuta vaticana. La stessa Basilica di San Pietro – la cui cappella spariva avvolta dalle impalcature – era una massa ombrosa informe che deturpava una fetta del cielo stellato. Il Palazzo Apostolico, ove risiedevano i Papi e tutta la corte, e le sue preziose Cappelle erano un miraggio tanto distante quanto le guardie di pattuglia tra i merli accanto.
Sulla spalla destra di Vittorio si era arrampicato un maestoso esemplare di Falco Sacro, una rarissima specie di cacciatore versatile, capace di abitare e seguire il suo padrone tra le montagne più fredde e i deserti più torridi. Gli occhi erano due pozzi neri nei quali si specchiava un raggio di luna, il becco ricurvo e gli artigli acuminati ben piantati sulla spallina imbottita della veste di Vittorio. Sulle sue spalle gravava oltremodo il peso di un arco; al fianco quello di una striscia, arma da taglio dalla sottile precisione.
Non era trascorso molto tempo da quando lui e Davide erano saliti sui bastioni. Sorprendere e sostituirsi alle quattro guardie – due delle quali appisolate – era stato facile come bere un bicchier d’acqua. I corpi dei soldati li avevano ammassati contro la balaustra; tra gambali e stivali si era allargata una grossa pozza di sangue, nel quale si riflettevano addirittura le stelle del cielo.
Davide era alle sue spalle, di vedetta verso ovest. Il vecchio fraticello secco che circondava l’esterno delle Mura Vaticane finiva dove cominciava l’agglomerato urbano di bassi edifici. I monumentali edifici romani morivano all’orizzonte così com’erano nati: confusi in un groviglio di luci e ombre indistinte. Dall’altra parte, invece, verso est, i Giardini dei Papi si estendevano a perdita d’occhio tra pinete, campi di rose e margherite invernali.
Una folata di vento freddo spalmò la pelle d’oca sul corpo di Davide. “Riesci a vederli?”, chiese senza voltarsi. Doveva fingersi quella stessa guardia cittadina che aveva pugnalato, mantenendo la posizione per non destare sospetti tra i soldati delle torri vicine.
Vittorio ridusse gli occhi a due fessure studiando una sezione particolare del Giardino. Tacque a lungo prima di rispondere, ma sì, riusciva a vederli.
Adriano e il Maestro, due puntini bianchi nell’oscurità, erano sul confine della pineta. Quando notò che il faccia a faccia col Valentino era già bello che iniziato, batté un colpo sulla spalla di Davide. Questi si voltò, seguì l’indice di Vittorio e rimase a bocca aperta.
“Che facciamo?”, domandò ansioso lo stratega.
Dopo che Vittorio gli ebbe dato un buffetto sul muso, il falco sacro spiccò il volo dalla spalla dell’arciere e scomparve tra le stelle. “Piombiamo lì prima che il destino lanci i suoi dadi truccati”, rispose.
E prima che arrivi la tempesta, aggiunse mentalmente lanciando un’occhiata alla banda di nuvoloni in viaggio da nord-est. Poi si calò giù dalle mura con la stessa fune utilizzata per scalarle.
Prima di seguire Vittorio, lo stratega si affacciò alla balaustra e, come se avesse letto nei pensieri del compagno, scrutò anch’egli l’ormai prossimo temporale. Arricciò il naso, sentendo l’umido pungergli la pelle.
Poi guardò in basso tra la vegetazione dei Giardini. Con l’aiuto della luna che, ancora per poco alta in cielo, rifletteva sulle loro armature, Davide poteva vederli con chiarezza: una dozzina di uomini armati stavano per avventarsi sulla volpe e sul suo cucciolo. Il giovane matador Borgia, sicuro di vincere, non aveva neppure estratto la spada dal fodero.

“Ezio Auditore… Speravo tanto in una tua visita prima della mia partenza”, ghignò il Valentino fermandosi in mezzo al sentiero con le mani giunte dietro la schiena. “E hai portato anche un tuo… discepolo”, constatò dondolandosi sui talloni.
Adriano si era affiancato al suo mentore con la cinquedea in pugno. Aveva perso di vista le Guardie Papali sull’ingresso degli Appartamenti e anche il resto del corpo militare. Doveva mettere all’erta il suo signore, ma rischiava di affrettare le mosse del Valentino, che aveva predisposto una trappola improvvisandola sotto al naso dei suoi inaspettati ospiti.
Il duello tra Cesare ed Ezio era già iniziato, ma a suon di sguardi.
Gli occhi dell’Auditore erano due diamanti nell’ombra del suo cappuccio, splendenti dell’abbaglio lunare sopra alle loro teste. Quelli del Borgia, invece, due maliziosi topazi dorati. In un lungo momento di silenzio, la vecchia aquila e il giovane toro si studiavano scrupolosamente l’un l’altro preparandosi alla vera battaglia.
Adriano guardò il Maestro e capì che le intenzioni del suo superiore erano sempre state lì, a portata di chiunque avesse potuto intravedere la piega malvagia comparsa sulle sue labbra. Ezio voleva ottenere l’occasione di uccidere il suo arcinemico senza che nessuno dei due fosse infastidito da inutili accompagnatori, quali potevano essere irritanti discepoli come maree di eserciti corazzati. La sera precedente aveva ordinato ai suoi apprendisti di compiere quel gesto nel modo più discreto possibile, quand’invece i suoi vecchi compagni lo avrebbero pregato di appendere ad un palo, fuori dalla città, la testa di Rodrigo e suo figlio, affinché anche Roma e la sua gente potessero squartare con gli occhi quella carne putrefatta. Ma Ezio era tornato prigioniero della stessa vendetta personale che, per più di vent’anni, l’aveva guidato a mietere vittime nel pugno della corruzione. Adesso che tutto stava per compiersi, e nella maniera più celere e impensabile, la ruota girava per l’ultima volta; la storia scriveva le sue pagine, il destino si apprestava a lanciare i suoi dadi e la morte contava ormai sulle punte delle dita…
Il ragazzo si voltò: un manipolo di soldati si era schierato silenziosamente alle loro spalle, appostandosi nella stessa pineta dalla quale erano emersi i due Assassini. Armi nei foderi, elmi lucenti. Aspettavano il segnale del loro signore.
Ezio, ignaro, richiamò entrambe le lame dai polsi e formulò a Cesare, sogghignando: “Come ti hanno predetto che saresti morto? Scannato dal popolo o rosicchiato dalle pantegane del Tevere dopo un soggiorno tra le sue correnti? Nonostante immagino già quale dei due lo merita di più, voglio sapere a chi dovrò consegnare il tuo cadavere quando avrò finito io.”
Cesare scoppiò in una fragorosa risata. “Non hai calcolato nemmeno questo, Ezio Auditore, come molto altro di me.” I topazi del Duca Valentino brillavano di una malvagità folle. “Il popolo mi ama”, sottolineò il Borgia.
Ezio serrò i pugni. Quelle parole lo stavano provocando.
 “Gli unici a camminare sugli sputi della gente siete voi, Assassini, che dovunque andiate seminate scompiglio e sconcerto. Il popolo ha scelto di seguire noi quando noi gli abbiamo promesso una certezza. Il popolo ha scelto di seguire ME quando IO ho dimostrato di avere i mezzi per mantenere quella promessa!” si compiaceva. “E il popolo sa bene, Ezio Auditore, che tu non farai altro che mettermi i bastoni fra le ruote.”
Adriano, come il suo Maestro, in un primo momento pensò che il Valentino stesse mentendo, cercando semplicemente un modo per allungare i tempi del loro dialogo. Non poteva dire sul serio… non poteva davvero esserne convinto!
Cesare Borgia aveva sparso scintille tra i Regni d’Italia, aveva messo i Signori più potenti della nazione li uni contro gli altri, portando così alla rovina le terre su cui questi omoni tirchi e presuntuosi si erano fatti battaglia. La fame, la peste e la povertà ancora mietevano le loro vittime nella stessa Capitale!
“Vorrà dire che ti affiderò con egual piacere ai palati dei topi di fogna.”
E anche in mezzo alla tragicità del vero, Ezio tornava a fare sarcasmo da ragazzino.
Cesare ridusse gli occhi a due fessure e riprese a parlare con tono di voce più basso: “Tra poco la gente d’Italia conoscerà un nuovo aspetto di me che mi farà amare più di quanto tu non abbia mai immaginato, Assassino, e tutto questo grazie a te.”
No, il Valentino mentiva… mentiva per sciupare oltremodo il suo nemico, già debole e sprovvisto di aiuti. Se non erano bugie quelle, allora Cesare era uno sciocco e per tutto quel tempo si era convinto di essere qualcun altro…
Perplesso ma furente, Ezio avanzò di un passo.
Tra le fronde della pineta alle loro spalle si spezzò un rametto secco. Il suono mise finalmente in allarme l’Auditore. Adriano era bianco come un… lenzuolo.
Cesare sogghignò. “Ma è un vero peccato che tu e il tuo pulcino non vivrete abbastanza a lungo per vedere tutto questo.”
A quel punto circa una dozzina di archi si tesero nel silenzio della notte.
Erano circondati.
Siamo morti… Adriano ricacciò in gola la disperazione e strinse più forte il manico della cinquedea dentellata.  
Cesare si allontanò camminando all’indietro sul sentiero, senza staccare gli occhi da quelli del suo arcinemico. “Sto creando un mondo perfetto, Assassino, un mondo che mi idolatri come un Dio per quello che faccio e non per quello che sono. Tu, che pretendi l’opposto e mandi al macello i tuoi apprendisti, lo stai facendo male, credimi, molto male.”
Ezio avrebbe voluto saltargli addosso e staccargli a morsi quel suo sorriso beffardo circondato di barba, ma il Gran Maestro sembrava improvvisamente pietrificato accanto al suo discepolo. In Adriano cresceva lo sconcerto, mentre l’oscurità dei giardini inghiottiva la demoniaca figura di Cesare. Egli si dissolse lasciando sospese queste parole: “Sei cieco, Ezio Auditore, lo sei stato e lo sarai sempre.”

Quando Ezio lo spinse via, Adriano perse la cinquedea e fu costretto a gettarsi tra le radici scoperte di un pino mediterraneo. Solo allora, mentre guardava una freccia fare scintille sui bracciali luccicanti del suo Maestro, comprese la gravità dell’intera faccenda, e si maledisse per non essere intervenuto prima e aver fermato quella follia.
“Arcieri! Uccidete gli assassini!” non era stato Cesare a dare voce al comando, ma un essere che, date le circostanze, bisognava affrontare lo stesso.
Adriano fu per drizzarsi in piedi e sfoderare la striscia dal fianco, ma venne preso in contropiede da un dardo che sferzò la corteccia del pino a pochi centimetri dal suo orecchio. La punta metallica era scomparsa nel tronco, la stecca ancora vibrava.
Il ritardo col quale si schierò al fianco del suo Maestro aveva consentito ai nemici di accerchiarli e a qualche altra freccia di giocare al bersaglio coi lembi delle loro vesti bianche. Si capiva che chiunque stesse impugnando un arco non riusciva a tener conto della loro posizione esatta, grazie all’oscurità, ma poiché i proiettili di legno e ferro arrivavano da tutte le parti, era altrettanto difficile schivare i pochi in grado di colpirli. Adriano si aiutava con la lama, intercettando di stoccata quei dardi che il buon udito e gli ottimi riflessi lo aiutavano a precedere. Ezio restò contro la sua schiena giusto pochi istanti, prima di partire alla carica e avventarsi, come un demone assetato, sul corpo di un primo soldato individuato tra le fronde. Dopo di quello perirono molti altri arcieri per grazia delle sue lame e per dono del suo occhio dell’aquila. I gemiti umani si confondevano ai sibili delle frecce, sempre meno frequenti nell’aria notturna. Forse in un modo o nell’altro ne sarebbero usciti indenni, si scoprì a sperare Adriano che, facendo da esca nel centro del prato affinché gli arcieri restanti si concentrassero su di lui, dava al figlio di Giovanni - una bestia famelica assetata di sangue – la possibilità di aggirare gli aggiranti e trafiggerli alle gole.
Improvvisamente i sibili di piume confezionate cessarono e lo stesso silenzio che li aveva accompagnati nell’attraversare buona parte dei Giardini Papali tornò sovrano.
Adriano si voltò a più parti gonfiando e sgonfiandosi d’aria i polmoni con la ferocia della battaglia che gli scorreva nelle vene: non aveva trafitto abbastanza Templari per domare l’ardore che la vista del sangue risvegliava in lui e in chiunque fosse stato addestrato ad uccidere. La fronte imperlata di sudore, le labbra nascoste dietro al bavero; nel complesso, il volto per intero era celato. Solo gli occhi azzurri zampillavano da un lato all’altro del campo visivo, tracciando i confini delle possibili ombre nemiche ancora appostate nei dintorni.
Un’ultima freccia, fatale e concisa, sferzò il cielo stellato andando a piantarsi nell’oscurità oltre la figura di Adriano. Ne seguì un gemito represso e un’imprecazione inconfondibile.
“Maestro!”
No, impossibile! si disse il ragazzo accorrendo in quella direzione. Qualunque fosse il Dio che aveva guidato quella freccia sino alla sua carne, Ezio Auditore non poteva davvero essere stato ferito a tal punto da lasciarsi sfuggire una simile bestemmia.
L’immagine che gli si presentò dinnanzi, mentre il ragazzo rinfoderava l’arma, era inverosimile, mitica quanto le Sfere Celesti o un Grifone delle Montagne.
Raggiunse il suo Maestro nell’istante in cui questi si estraeva l’asticella della freccia dalla spalla. Attorno al foro scavato nella carne, il tessuto della veste si stava macchiando del sacro inchiostro. “Non è nulla…”, si apprestò a dire il ferito gettando via l’arma. Ai suoi piedi c’erano i cadaveri di due guardie papali, delle quali doveva essersi sbarazzato prima d’incassare la freccia in corpo. “Cesare è andato. Goffredo si sarà nascosto da qualche parte”, disse Ezio incamminandosi malfermo. Sembrava faticare a mantenere la schiena dritta. “Dobbiamo raggiungerlo prima che avverta…”.
Non era stato in grado di continuare perché un improvviso infiacchimento delle gambe l’aveva costretto ad aggrapparsi al braccio di Adriano. Questi, prontamente, lo aveva sorretto con tutto il peso di ossa, muscoli, armi e armatura.  
“Vi sentite bene?”, osò chiedere il ragazzo, ma Ezio si scansò da lui preferendo il conforto del tronco di un pino. Si appoggiò ad esso con entrambe le mani. “Benissimo”, sottinse, ma la mascella contratta tradiva le sue parole.
L’età gioca certi scherzi proprio ora? Si chiese Adriano terribilmente in ansia. Un mancamento di quel genere poteva essere dato da due soli fattori: per una stanchezza fisica oppure per del vel…
“Veleno…” mormorò Adriano. “Maestro, la freccia era avvelenata!”, concluse.
“Non dire sciocchezze!”, ruggì Ezio staccandosi dall’albero. Pareva aver riacquistato le forze, ma fu una speranzosa illusione di brevissimi istanti.
Il Maestro mosse una dozzina di passi sul prato, prima correndo ma poi necessitando di rallentare e camminare. Il respiro accelerava, la fronte s’imperlava di sudori freddi, il cuore batteva così forte contro le costole da far male. La ferita alla spalla bruciava e il sangue non la smetteva di allargarsi in una macchia sempre più grande, sbocciando nel candore delle sue vesti come un rosso fiore di campo. Si fermò, poiché i piedi non gli ubbidivano e la vista gli veniva meno.
Non capiva cosa gli stesse succedendo, avrebbe voluto chiamare a sé il giovane apprendista, ma le labbra si socchiusero solo per lasciar passare un sospiro. Alzando un braccio per asciugarsi la fronte sudata, si accorse di tremare e non riuscire a calibrare alcun movimento. Alla fine, ciò che restava dei suoi muscoli non fu più in grado di reggere il peso del corpo.
Il Gran Maestro degli Assassini perse i sensi e crollò nell’erba come un fantoccio dai fili tagliati.

Adriano si gettò al suo fianco, affondando le ginocchia nella terra umida del Giardino. Indugiò a lungo temendo il peggio e non sapendo dove mettere le mani.
E adesso?!…
Si guardò attorno e vide solo la notte, col suo lento e silenzioso scorrere, circondare i loro corpi di un’atmosfera irreale. Era già del tempo che Cesare se n’era andato, e non si era fatta viva una guardia in più oltre a quelle cui aveva lasciato il compito di ucciderli. Ezio aveva sterminato gli arcieri uno ad uno e abbattuto anche le due Sentinelle Papali corazzate…
Ma ora, il Gran Maestro degli Assassini era disteso a pancia sotto nel prato del suo nemico; Adriano avrebbe detto che dormisse se non fosse stato per la posa innaturale di braccia e gambe. La mantella si arricciò da una parte quando un’improvvisa ventata fredda attraversò i domìni dei Papi.
Il ragazzo guardò il cielo.
Le stelle erano scomparse, inghiottite dalla massa di nuvole scure che avevano finalmente raggiunto la Città Eterna. Presto o tardi una tempestosa pioggia invernale si sarebbe riversata nei vicoli e sui tetti di Roma senza pietà per nessuno.
Un tuono poderoso squassò l’aria congelata dei parchi e un bagliore argentato illuminò per un istante l’orizzonte. Fu in quel momento che Adriano vide venire verso di loro, in corsa, altre guardie armate, probabilmente con l’ordine di concludere l’opera. Erano una quindicina e Adriano da solo non avrebbe potuto abbatterne un terzo. Nonostante la consapevolezza della morte, il ragazzo si alzò, impugnò la striscia e si scagliò sui soldati. Trafisse il primo, schivò il fendente di un secondo, disarmò il terzo, ma poi venne sopraffatto dagli altri e costretto a terra, dove ricadde di schiena. La punta della lama che lo minacciava alla gola risalì il mento, tracciò la guancia e andò a scostargli il cappuccio, mostrandogli il volto. L’oscurità notturna faceva il suo gioco, ma il viso pallido e gli occhi azzurri del ragazzo, irrigidito dal terrore, furono comunque alla portata del soldato. “Ma che bel faccino…”, commentò questi sarcastico. “Cesare non ha detto di non fare prigionieri, e sarebbe un peccato gettare un così bel fanciullo nel Tevere assieme a quella vecchia carogna.”
Le altre guardie avevano accerchiato il corpo inerte del Gran Maestro. Due di loro lo disposero a terra in modo tale da poterlo sollevare facilmente per mani e per piedi. Erano pronti ad alzarlo, quando due frecce silenziose e precise si piantarono nelle loro gole. Entrambe ricaddero all’indietro sul prato in una pozza di sangue.
Il soldato che minacciava Adriano ordinò ai suoi uomini restanti di mantenere la posizione e, muovendo di peso il ragazzo, si allontanò sul prato. Il giovane apprendista tentò invano di sottrarsi alla presa dell’Ufficiale Papale, che lo colpì alla testa con l’elsa dello spadone, stordendolo; il ragazzo perse i sensi tra le sue braccia.
Accorsero altre guardie.
Nel frattempo dalla pineta erano emersi Davide e Vittorio. Quest’ultimo incoccava e scoccava con un ritmo impressionante, alla velocità di un mortaio ad ingranaggio. Lo stratega, invece, era avanzato nel bel mezzo della pattuglia e, dopo aver messo l’arco a riposo, stava mietendo vittime tra le fila nemiche con la sua scure leggera. Combatterono come forsennati, entrambi, senza risparmiare munizioni ed energie. Le milizie Vaticane li accerchiavano, moltiplicandosi nell’oscurità della notte. Fu una lunga ed estenuante guerriglia, ma alla fine, pur riportando diversi strappi e acciacchi alle vesti, Davide e Vittorio si liberarono di buona parte delle guardie, e le poche che risparmiarono scapparono via.
Il silenzio, quando giunse, parve un miraggio.
Gonfiando e sgonfiandosi d’aria i polmoni, Vittorio cercava con gli occhi il quarto giovane apprendista. “Adriano!” chiamò voltandosi a più parti.
Un luccichio metallico risaliva frettolosamente la passeggiata.
Vittorio incoccò e prese la mira trattenendo il fiato. Non avrebbe fallito, si disse, perché lui non falliva mai ed Ezio l’aveva scelto tra tanti solo per questo.
Scoccò.
La freccia sibilò nella notte, attraversò una siepe e trovò la carne dell’Ufficiale Papale all’altezza del polpaccio sinistro, che gli schernirei metallici non proteggevano. Era una ferita poco grave, perciò la guardia vaticana riuscì a proseguire la sua ritirata codarda, seppur zoppicando, verso gli Appartamenti dei Borgia.
Vittorio strinse i denti e incoccò di nuovo.
Quella volta mancò il bersaglio di pochissimo, perché l’Ufficiale Papale, che si era trascinato via a peso morto il più giovane degli apprendisti, aveva fatto giusto in tempo a voltare l’angolo.
Senza pensarci due volte, Vittorio cominciò a correre nell’impresa folle d’inseguire Adriano e il suo sequestratore. L’istinto gli diceva di andare, di non fermarsi, uccidere e portare in salvo, vivo, almeno uno dei poveri Angeli caduti quella notte. Scoccò frecce, in corsa, finché non ebbe svuotato la faretra, nella disperata speranza di prendere di nuovo, almeno di striscio, quel fottuto bastardo…
Ma la collera, come aveva condotto alla rovina Ezio Auditore, era riuscito a distrarre anche lui.
Quando si rese conto di non aver più dardi, fece per sguainare la striscia, ma Davide, inginocchiato affianco alla carcassa del Gran Maestro, lo trattenne con un grido e lo implorò di lasciar perdere.
L’Ufficiale Papale era ormai scomparso tra le ombre.
“Vittorio, per Dio, torna indietro!” strillò Davide cercando di sollevare il Gran Maestro, per il cui peso non sarebbe bastato un solo uomo.
Vittorio ripercorse di corsa i suoi passi e aiutò Davide a rivoltare il corpo del Gran Maestro, prima su un fianco e poi disteso di schiena. Una grossa macchia rossa gli deturpava la veste all’altezza della spalla destra, dove il dardo sembrava aver trovato della carne da trafiggere nonostante i robusti spallacci.
“Dobbiamo tornare indietro”, disse Davide.
Vittorio esitò, guardandosi indietro. “Ma Adriano…”
Lo stratega catturò il suo sguardo nel proprio, colmo di dolore, pentimento e rimorso. Con un braccio Davide aveva avvolto la fronte del Maestro, con l’altro solcato il suo petto arrivando al cuore, che, seppur sussurrando, ancora parlava.
“Perciò è vivo…” esultò Vittorio debolmente, sperandolo con tutta la sua anima.
“La freccia che l’ha colpito era avvelenata, ma non riesco a capire di che veleno si tratta. Dobbiamo tornare indietro.” Davide lo guardò dritto negli occhi. “Dobbiamo ritirarci.” Aveva pronunciato quella frase con una tale solennità da sembrare quasi convinto che sarebbe bastato.
“Lui non l’avrebbe voluto”, mormorò Vittorio studiando la profonda oscurità nel cappuccio del Maestro.
Davide boccheggiò incredulo. “Che razza di risposta sarebbe?!” strillò; le lacrime presero a scendergli sulle guance dall’agitazione.
Vittorio non poté replicare: il clangore di armature, l’abbaio di cani e le voci di uomini spezzarono la quiete dei Giardini Papali.
Fu Davide il primo a balzare sui talloni e a caricarsi il braccio sinistro del Maestro sulle spalle. Vittorio si circondò le proprie con quello destro e insieme si gettarono nella pineta.















.:Angolo d’Autrice:.
Oggi (per vostra gioia) non ho intenzione di perdermi in chiacchiere inutili. Diversi fattori hanno interferito con la pubblicazione di questo capitolo, che sarebbe dovuto comparire il martedì trascorso - come mi ha fatto notare SophyTheWhiteDragon in una recensione a Project Delta. Poche e concise parole riferite, genericamente, a tutti i miei lettori:

1.    Dies Irae comprende una 3° parte. *Sono a comoda portata di fucile a canne mozze*

2.    La pubblicazione della raccolta - cui primo capitolo inedito si colloca tra questo e il precedente - vedrà la luce domenica 14/11/2010, verso le 11 di mattina. Il rating previsto, a differenza di Helleborus, è arancione.

3.    Adriano sarà puccioso quanto vi pare, ma è un deficiente; come, d’altronde, tutti i ragazzi italiani compresi nella sua fascia d’età. Avrei dovuto descrivere il suo “sequestro” diversamente, ovvero in maniera più plausibile e meno imbarazzante per lui, ma tra le diverse opzioni che avevo, questa mi è parsa quella più “delicata”. Nella raccolta precedentemente citata è probabile che finirò col pubblicare anche le versioni alternative di questo e i capitoli successivi.

4.    Progetti, scolastici e non, interferiranno col ritmo di pubblicazione, in quanto ho bisogno di essere qualche capitolo avanti rispetto all’ultimo postato.

5.    Con una conclusione tanto tragica, spero di non aver fatto piangere nessuno. Io “drammatico” nei generi l’ho messo. Uomo avvisato…

6.    Da un punto di vista storico: se da una parte, soprattutto a Roma, i Borgia sapevano come farsi odiare, dall'altra il Valentino era riuscito ad abbonarsi molti comuni Italiani. In quel periodo, e per motivi che elencherò non qui, ma nella raccolta, tutta la Romagna lo credeva il salvatore quale si spacciava di essere...

RINGRAZIAMENTI:

*Chiedo in singolo a SophyTheWhiteDragon di evitare certe doppie recensioni inutili. Interferiscono con la consultazione dei commenti più costruttivi per i lettori esterni :) Per il resto, grazie. Lieta che l’aiuto del Michelangelo ti sia gustato ^.^
*Enio, ti ringrazio infinitamente per aver trovato tempo (e coraggio) di leggerti quei capitoli dei quali non vedevo l’ora di conoscere il tuo parere. Noto con piacere che il carattere particolare di Ezio ha smosso curiosità anche su di te. Spero di sentirti presto, sia come lettrice, sia come scrittrice :D
*Rispondo ad Emy_n_Joz… senza sapere con chi, molto chiaramente, sto parlando! XD Ma vabbhé… Apprezzo molto quando dici di aver trovato, nonostante tutto, la carica per leggere il capitolo precedente. E sono così felice che ti sia piaciuto. Ero sicura che con dei cambi di POV tanto frequenti avrei creato parecchia confusione generale, della quale avrebbe risentito, poi, anche questo capitolo. Sì, è così: in Helleborus conosceremo i pensieri di tutti, tranne di lui. Ezio. Entrare nella sua mente è un tabù, me lo sono prefisso fin dalla prima stesura. Volevo proprio creare questa tela bianca sulla quale lo avrebbero dipinto unicamente i suoi Apprendisti attraverso occhi esterni. Ho un po’ toppato nell’ultima parte, quando accenno ad un respiro veloce ed un cuore forsennato, mentre il “veleno” fa il suo effetto lasciando il Maestro moribondo… a parte questo, grazie ancora per i tuoi commenti pieni di cura. Mi dispiace confessare che non prima di dicembre riuscirò a mettermi in pari con i tuoi lavori, ma ricambierò, promesso, ricambierò.
*Grazie anche a PhantomG che, quando arriverà a leggere questo capitolo, non potrà che ribadire quelle cose meravigliose che rendono un’artista fiera del proprio mediocre lavoro. ^^

E in fine…
Grazie a tutti. Grazie davvero, di cuore, di tutto… amo i vostri commenti, mi riempiono di gioia. Grazie per i pareri sinceri sui personaggi, grazie per le note personali e grazie, soprattutto, per la pazienza. Pazienza nel sopportare la logorroica mezza scrittrice quale sono, che sta dilungandosi su particolari più che inutili di una trama già troppo assurda.
Sì, sono un po’ maschilista. Nel gruppo degli Apprendisti di Ezio non c’è nessuna donna, e non ditemi che non vi siete soffermati ad accusarmi di questo almeno un po’! XD Non ho dubbi sul fatto che in Brotherhood (-6!!!) sarà possibile reclutare qualche femmina, ma nella mia storia dico apertamente di aver preferito lasciarle fuori. Sono personalmente un po’ stufa delle protagoniste femminili… dopotutto sono dell’idea che una scrittrice, per dirsi tale, debba saper affrontare la varietà. Ho scavato a fondo nelle menti di questi personaggi, esercitandomi su psicologie complesse che intendo farvi conoscere molto presto; ovvero quando i nostri Assassini si congiungeranno ai miei personaggi originali sulle coste di Bracciano :)

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Capitolo 6
*** Dies Irae - Parte 3a ***


Helleborus
Capitolo VI
Dies Irae

"Dio guarda agli uomini quando si smarriscono, non quando trionfano."

Emersero dalla pineta e si gettarono sul piazzale marmoreo del Belvedere.
Spartendo il peso del Gran Maestro con Davide, Vittorio imprecò. I decori geometrici e i pizzi floreali del pavimento si assomigliavano tutti. Il fato aveva giocato le sue carte con un cielo senza più né luna né stelle e gli abbai dei cani si facevano sempre più prossimi. Dovevano ritrovare la mattonella del passaggio segreto e addentrarvisi prima che fosse troppo tardi.
“Ho lasciato un traccia!” si ricordò Davide che, da bravo stratega, aveva quello e altri vizi. “Aiutami a cercare della stoffa nera”, disse adagiando il Gran Maestro contro la balaustra. Poi s’inginocchiò ad accarezzare la pietra del piazzale e Vittorio lo imitò.
Nel bel mezzo della ricerca li riscosse un ululato tra gli alberi. Ai due Assassini si mozzò il fiato in gola. Alzarono un istante lo sguardo sulla pineta, poi Davide tornò a graffiarsi le mani tastando il terreno con foga. “Dov’è quel tuo fottuto piccione quando serve?!” strillò con lacrime isteriche ad annebbiargli gli occhi.
Se anche il Falco Sacro fosse apparso magicamente sulla spalla del suo padrone, Vittorio dubitava che avrebbe potuto fare molto contro branchi di cani da caccia e dozzine di uomini corazzati.
Senza proferire parola, il mastro arciere rubò le ultime quattro frecce dalla faretra del suo compagno e ne incoccò una. Sollevandosi in piedi, si piazzò nel centro della terrazza e mirò tra gli alberi.
Balenò un lampo, e per un istante l’intera pineta fu invasa di luce. A quel punto Vittorio scoccò, trafiggendo la tempia di un soldato senz’elmo a quasi cento metri di distanza tra le fronde.
Davide aveva provato a non distrarsi, ma la maestria di quell’uomo lo aveva sempre affascinato. Si riscosse e tornò a lavoro, non senza aver gettato prima un’occhiata al Gran Maestro a riposo come un sacco di patate contro la balaustra. La testa coperta dal cappuccio a becco d’aquila gli ricadde di lato, sbilanciando il resto del corpo, che si distese al suolo nel frastuono dell’armatura. La mano del braccio destro, allungato in una posa innaturale, indicò casualmente a Davide della stoffa nera incastrata nel disegno del pavimento. Non sapendo chi o cosa ringraziare, lo stratega si gettò in quella direzione e scoperchiò il passaggio segreto.
“Vittorio!” chiamò il ragazzo calandosi nel tunnel.
Il mastro arciere consumò anche l’ultimo dardo che, per suo dispiacere, aveva indirizzato nelle carni di un bellissimo esemplare Epagneul rischiosamente vicino. Rinfoderò l’arco e voltò i tacchi. Aiutò Davide a calare senza strattoni il Gran Maestro nel cunicolo e in fine, mentre lo stratega trascinava via la carcassa di Ezio facendo posto, Vittorio saltò nella galleria e tirò a sé il “tappo”.
Quando giunsero i cani e i soldati, la geometria del piazzale sembrava non essere mai stata più pulita e perfetta.

“Hai mai pensato di morire così?” ironizzò Davide, col respiro affannato, man a mano che avanzavano nell’oscurità.
Vittorio, ansimando, si limitò a scuotere la testa e mormorare: “Non moriremo.”
L’aria mancava. Passare quel cunicolo già una volta era stato un Inferno. Adesso dovevano pure spingerci attraverso il corpo del Maestro, con una fatica immensa, facendolo strisciare nella polvere. Contavano di ricongiungersi a Leone prima che le guardie e i cani raggiungessero loro.
Erano circa a metà del tunnel e restavano una trentina di metri quando sentirono rimbombare nella roccia l’abbaio dei cani. I segugi spagnoli avevano fiutato l’odore degli Assassini indicando il passaggio segreto alle guardie, che, senza esitazione, sguinzagliarono i cani nella galleria.
I due Apprendisti accelerarono il ritmo della marcia a gattoni. Non appena sentì le unghiette grattare la pietra pochi metri dietro di sé, Vittorio si voltò e portò una mano all’elsa della striscia, che però, dato il diametro del tunnel, gli tornò impossibile impugnare. Allora alzò le ginocchia e bloccò il segugio tra di esse giusto in tempo, prima che questi gli azzannasse la faccia. Il cane abbaiava e ringhiava. La bava e la rabbia si miscelavano tra i denti bianchi e acuminati, schizzando da tutte le parti e imbrattando i calzari grigio fumo dell’Assassino.
“Ammazzalo, ammazzalo!” strillava Davide, terrorizzato. Vittorio gli chiese una freccia, ma lo stratega rispose di avere la faretra vuota. Il mastro arciere, se avesse potuto, avrebbe calciato l’animale per respingerlo o quanto meno preferito per lui una morte veloce; ma poiché gli serrava la gola tra le ginocchia, Vittorio fu costretto a soffocare dolorosamente quella povera bestia. Vide la luce spegnersi nei suoi occhi gonfi e iniettati di sangue; sentì i muscoli dell’animale tendersi in un crescendo e poi rilassarsi all’improvviso tra le sue cosce, che dischiuse lentamente appena fu certo del decesso.

Il tempo era peggiorato, il cielo stellato scomparso e grossi nuvoloni si annunciavano con clamore e prepotenza sopra la sua testa. La tormenta stava passando, ma presto al vento si sarebbe sostituita la pioggia.
Leone, distratto da diversi pensieri, dava le spalle al traforo nelle mura con le braccia conserte. La testa di Davide emerse tra gambe divaricate di Golia, che non appena se ne accorse imprecò e saltò sul posto.
“Il Maestro è ferito, aiutaci, presto!” disse Davide snodandosi agilmente fuori dal cunicolo. Lui e Leone affondarono le mani nell’oscurità e pescarono il cappuccio e gli spallacci. Piantando le unghie nella stoffa e nel metallo, tirarono con tutta la loro forza e finalmente, dopo tante fatiche, le Mura Vaticane partorirono il Gran Maestro degli Assassini.
La figura di Vittorio emerse dal passaggio segreto accompagnata da un lampo. Le divise sua e di Davide erano sporche di sangue, terra e polvere, nonché rovinate da eventuali battaglie. Ma ciò che più allarmò Leone, fu notare il Maestro incosciente e quella grossa macchia purpurea sul candore delle vesti impolverate.
"Adriano?" chiese Leone, pallido. Ignorò l'immensa tristezza di Davide, ma non si sentì più sollevato incrociando gli occhi infinitamente rammaricati di Vittorio, che si sottrasse in fretta da quella muta e drammatica intesa.
Dopo quegli sguardi non ci fu modo di scambiarsi parole, perché le campane del Vaticano presero a suonare destando Roma dal sonno. Nello stesso istante, dalla galleria balzò fuori un mastino da caccia. Pronto di riflessi, Leone lo respinse con una mazzata in pieno muso e la bestia, guaendo, morì sul colpo.
Vittorio nascose la smorfia dietro al bavero mentre aiutava Davide a caricare il Gran Maestro sulla groppa del suo cavallo. Rovesciando i detriti sul prato, lo infagottarono con il lenzuolo che sarebbe servito a celare l’armatura splendente e la veste prestigiosa in un bianco candido e anonimo. I due arcieri erano già in sella, ma Leone tornò indietro e gettò una bomba fumogena nel passaggio segreto. Il petardo esplose in una nuvola di fumo tra guaiti di cani e imprecazioni di soldati, ormai prossimi. Montando in groppa con un balzo e raggiungendo i compagni, Leone sperò che quel diversivo bastasse a dar loro un po’ di vantaggio.

Spronarono quelle povere bestie a quattro zoccoli in una corsa folle per vicoli e stradine secondarie, attraversarono il distretto Vaticano nella disperata impresa di evitare luoghi pubblici e altre pattuglie. L’ombra dei cappucci sui volti, i baveri alzati. Davide era alla testa del gruppo. In mezzo c’era Vittorio che con un braccio assicurava il Gran Maestro alla groppa del cavallo e con l’altra teneva le redini. Leone, di coda, lanciava occhiate continue alle loro spalle.
Temporaneamente certi che niente o nessuno li inseguisse, si fermarono sotto ad un portico buio per fare il punto della situazione.
Davide, respirando affannosamente, valutava la prossima strada da prendere. Vittorio sistemò meglio il corpo del Gran Maestro sulla groppa della bestia affaticata. Di quel passo e con tante guardie appresso, le forze non sarebbero bastate a nessuno per condurli più lontano delle Mura Aureliane.
“Ci serve un piano. Un vero piano”, esordì Leone leggendo il disordine negli occhi dello stratega.
Davide scosse la testa e guardò a terra; tacque a lungo, non sapendo cosa dire.
Vittorio prese parola.
“La freccia che ha colpito Ezio era avvelenata.”
Leone arrossì di collera dietro al bavero. “Veleno… solo un codardo come Cesare potrebbe…” s’interruppe bruscamente, irrigidendosi.
“No”, lo precedette il mastro arciere. “Fortunatamente non ha leso parti vitali ed è solo svenuto, ma per quanto ne sappiamo, e di qualsiasi veleno si tratti, potrebbe aver già completato la sua opera. La priorità è tornare alla villa e…”
“Aspetta,”, lo interruppe Leone, “Carolina è più vicina, portiamolo da lei”, suggerì.
“Che buon momento per fare un salto al bordello di mia sorella!” ringhiò Davide tra le lacrime.
Leone gettò lo sguardo tutt’altra parte, ignorandolo.
Vittorio infierì rivolto ad entrambi: “Carolina saprebbe senza dubbio come curare il Maestro, ma vive in pieno centro e i fantocci di Cesare aspettano solo noi. Suggerisco di allontanarci dalle caserme Papali e trovare un dottore.”
“La fate tanto facile, voi…” lagnò Davide. “Io dico che moriremo tutti ancora prima di vedere l’alba.”
“Grattamose!” Leone alzò gli occhi al cielo.
Ci fu un nuovo lampo, seguito da un tuono poderoso che innervosì i cavalli.
Vittorio, nel gesto di far girare in tondo l’animale per calmarlo, notò un gruppo di guardie addentrarsi nella stradina e venire verso di loro. “Ma per adesso dobbiamo separarci”, disse preparandosi alla corsa.
Leone si era illuminato. “Ottima idea. Dobbiamo confonderli, servono dei diversivi…” rifletté.
Vittorio proseguì: “Io cercherò un medico a Trastevere. Davide, tu scenderai a sud-est, nella zona dei fori. Leone…”
“Io tornerò al Vaticano e farò credere che giriamo ancora da quelle parti”, annunciò il tipo con le calzamaglie a righe; alzandosi sulla sella in un galoppo da corsa, Leone lasciò l’oscurità del portico e attirò tutte le guardie dietro di sé. Il frastuono di zoccoli e voci si perse in lontananza nella notte.
“Vaticano?! Io bacerei per terra, ma Leone è un pazzo se pensa di uscirne vivo una seconda volta!” sbraitò Davide.
“Tutta Roma è in tempesta, perciò noi non lo siamo meno di lui”, mormorò Vittorio dopo aver misurato i battiti al polso del suo Maestro.

Leone se l’era cercate, ma era fiero di avere alle spalle tutti quei soldati incazzati.
Girava e rigirava gli stessi vicoletti del Rione del Borgo ingannando quattro truppe deficienti, ma non appena notò le otto Guardie Papali alle sue spalle, si disse che doveva smetterla di giocare col fuoco e trovarsi un nascondiglio. Ne provò diversi, tra pozzi otturati e covoni di fieno, ma le guardie agili erano sempre un passo troppo avanti e riuscivano a coglierlo sul fatto, vanificando i suoi sforzi. Dovette ammettere che le lezioni di mimetizzazione offerte da Davide all’inizio della loro carriera di Assassini – quand’ancora non si sputtanavano come megere – gli avrebbero fatto comodo ora come ora.

Vittorio smontò e tirò a sé il cavallo verso il medico, che in quel momento stava visitando la gola ad un uomo vestito di stracci. Amareggiato, l’assassino si frappose tra il cerusico e il mendicante, placando il dispetto a quest’ultimo con moneta sonante. Dopodiché sollevò dalla sella e distese il corpo di Ezio sul bancone, imponendosi come cliente e illustrando le dinamiche dei loro guai. Il cerusico, dopo ch’ebbe visitato celermente il Gran Maestro, disse di non avere rimedio per quella miscela impropria; ma diagnosticando un dardo da balestra, affidò a Vittorio un olio anestetico da spalmare sulla ferita che avrebbe alleviato il dolore e rallentato l’effetto del veleno. Disperato, l’apprendista arciere domandò quanto tempo restava, cosa si poteva fare o a chi ci si poteva rivolgere. Il medico scosse la testa con tutta la maschera.
A quel punto un messaggero borgiano a cavallo comparve nel vicolo, li vide e sguainò la spada. Mentre di sua spontanea volontà il mendicante correva ad intralciare la guardia, Vittorio si affrettò a caricare il Gran Maestro sulla groppa del cavallo; rimontò in sella, lanciò al cerusico tutto il denaro che gli restava e, galoppando tra i vicoli malati di Trastevere, mormorò una preghiera per quel povero uomo che ci aveva rimesso letteralmente la testa.

Niente da fare. Dovunque andasse, qualsiasi direzione prendesse, scendere più a sud Castel Sant’Angelo fu impossibile. La guardia cittadina si era sparpagliata lungo il fiume, i ponti affollati da elmetti. Per sopravvivere ed evitare luoghi oltremodo visitati dall’acciaio di armi e armature, lo stratega voltò e rivoltò il cavallo nei vicoli, senza mai interrompere il galoppo, fin quando l’animale non lo ebbe condotto nella zona meno guarnita della città.
Riconobbe Vittorio che, spronando il cavallo, si gettava in una povera stradina di Trastevere assieme al corpo del Maestro. Alle spalle dell’arciere, il messaggero borgiano impugnava le redini in una mano roteando la milanese nell’altra. La distanza che divideva i due cavalli si dimezzava velocemente.
Davide diede di talloni sui fianchi dell’animale e andò incontro alla pattuglia. Come in una giostra tra cavalieri, lui e Vittorio s’incrociarono a metà percorso, ma senza ferirsi. Il destino più cruento toccò al soldato dei Borgia. Quando fu abbastanza vicino, infatti, Davide gli scagliò la scure leggera in piena faccia. Il soldato schizzò via dalla sella; il suo cavallo s’impennò e scappò terrorizzato.
Davide e Vittorio si ritrovarono scambiandosi un sorriso fiero e un assenso. Ma ancor prima che potessero parlarsi, due Guardie Papali su palafreni da guerra, comparse nella piazza, li rimisero in viaggio.
E che viaggio.
Sorpresero Leone alla Porta Aureliana, presidio militare, e dopo di quello non ci sarebbero stati altri incontri piacevoli, perché ormai avevano addosso una dozzina di soldati a cavallo tra capitani e Guardie Papali. Queste, con l’ordine diretto di Cesare, non avrebbero demorso finché non avessero consegnato al loro signore la ciccia degli Apprendisti e il cuore del Gran Maestro su un unico grande piatto d’argento.
Il piano era ufficialmente saltato.
Tornare alla villa o cercare riparo dentro la città erano i modi più veloci per farsi ammazzare. L’unica strada ancora sicura li conduceva fuori dalle mura, nelle campagne settentrionali, tra boschi, sentieri e campi incolti. Riuscirono a farsi largo sulla Via Cassia, desolata e silenziosa in quell’ora della notte, per poi svoltare, oltrepassare la Porta Romana ed imboccare la Clodia. Per un breve tratto seguirono l’Acquedotto Traiano e galopparono a perdifiato per chilometri e chilometri di terreno campestre, viaggiando costantemente in compagnia di lampi, tuoni e Guardie Papali. Il frastuono degli zoccoli sul selciato distruggeva la quiete notturna dei boschi e non diede loro tregua per ore ed ore di sfrenato inseguimento.
Le luci di Roma si persero lontane tra i colli e il Tevere divenne quel serpente, ostile e malvagio, che li scacciava sibilando. La Città Eterna vomitava i suoi patrioti salvatori. Schifando la pace, diceva chiaramente di preferire, per sé, un destino empio e corrotto, lasciando ai suoi marrani un dolce regalo d’addio: manipoli di guardie alle costole.

Lunghe ed estenuanti ore di viaggio avevano provato la resistenza di tutti, destrieri e cavalieri. L’aria secca, nella frenesia della corsa che aveva scatenato il sudore, avrebbe attaccato i polmoni nel giro di una settimana. Quindi, se fossero riusciti a sfuggire alle Guardie di Cesare, il loro, come il destino del Gran Maestro, era comunque segnato.
I tre Apprendisti, più l’incosciente figlio di Giovanni, abbandonarono la strada battuta per darsi in pasto alla foresta; così facendo contavano di seminare, o almeno stanziare, gli inseguitori tra la boscaglia.
Quando neppure la vegetazione ebbe più forma e tutto venne improvvisamente inghiottito da un piatto orizzonte nero, sul loro cammino si distese una spiaggia paludosa. I cavalli rallentarono ad un trotto scomposto: il fango depositato sotto agli zoccoli affaticava oltremodo i muscoli surriscaldati, impedendo di proseguire altrimenti; ma gli Apprendisti furono costretti a frenare i palafreni ugualmente, prima che essi, accecati dalla stanchezza, affondassero nella melma fino ai fianchi.
Davide si lasciò cadere sul collo dell’animale, sfinito, aggrappandosi alla criniera umida. Lagnò una preghiera con un filo di voce.
Pater Noster qui es in cælis / sanctificétur Nomen Tuum… …
Leone guardò Vittorio, che a sua volta guardava alle loro spalle respirando forte.
Niente poteva dire se le Guardie Papali fossero vicine o lontane: braccati e bracconieri vagavano entrambi al buio. Il contatto tra gli uni e gli altri si era spezzato nella foresta, come gli Assassini avevano sperato, ma adesso? Ancora qualche ora e i mastini di Cesare si sarebbero sparpagliati a pattugliare la foresta, e se non fosse stato sufficiente, avrebbero battuto l’intera penisola in una sola notte, se necessario. L’ardore e la determinazione militare delle Guardie Papali le avevano sempre distinte dai comuni convogli borgiani, Roma e tutta la sua corruzione facevano affidamento su quei tori corazzati. A ragion di logica, perciò, non se ne parlava di tornare indietro e combattere: la stanchezza e l’inferiorità numerica avrebbero giocato a loro svantaggio. I cavalli stremati e la mancata conoscenza del territorio – perché c’era da ammetterlo: nessuno degli Apprendisti aveva idea né quanto e né verso dove avessero viaggiato – stavano soffiando sull’ardore della loro resistenza. Dovevano inventarsi qualcosa e alla svelta, o sarebbero morti lì, nel fango, come vermi qualunque.
Advéniat Regnum Tuum / fiat volúntas Tua / sicut in cælo et in terra…
Cercando disperatamente un aiuto della natura attorno a sé, solo allora Vittorio notò un qualcosa che attirò la sua attenzione, nascosto nel canneto poco più avanti. Smontò dalla sella affondando nella melma fino alle ginocchia, ignorò il freddo e corse in quella direzione tirando il suo e il cavallo di Ezio con sé. Sotto lo sguardo sperduto di Davide e quello critico di Leone, Vittorio sfoderò la striscia e potò la vegetazione circostante, rivelando così che nessuna, neppure la più flebile speranza era stata vana.
Arenato sulla spiaggia paludosa, c’era un gozzo a vela latina protetto da un panno.
Quand’ebbe capito le intenzioni del compagno, Leone smontò da cavallo e arrancò con l’acqua alle ginocchia per raggiungerlo. Dimenticandosi del gelo che portava addosso, aiutò Vittorio a liberare l’imbarcazione di legno dal telo. A quel punto i due Apprendisti scoprirono con immensa gioia che la barca era in buone condizioni e grande abbastanza da ospitarli tutti quanti.
“Vuoi metterti a vela prima della tempesta?” domandò Leone al mastro arciere dopo un attimo di esitazione.
Vittorio guardò il compagno negli occhi come per chiedergli se avessero altra scelta, e quella risposta bastò.
Panem nostrum / cotidianum da nobis hódie…
Vi adagiarono per primo il Gran Maestro, e poi le bisacce con le munizioni che tolsero dalle selle.
Riconobbero la vela attorcigliata attorno al boma, ma decisero di non issarla. Piuttosto ringraziarono Dio per aver concesso loro almeno due remi, perché nessuno sarebbe stato capace di manovrare la barca altrimenti.
Non appena Davide fu a bordo, chinato sul Gran Maestro nella premura di controllarne il battito e il respiro, Leone ebbe l’ordine da Vittorio di radunare e poi disperdere i cavalli nella foresta. L’uomo con i calzettoni a righe annuì, rimontò sul suo destriero e sparì nel bosco tirandosi dietro gli altri. Così facendo, si disse Vittorio mentre Davide preparava disordinatamente i remi incastrandogli negli scalmi, avrebbero portato le Guardie Papali fuori strada e guadagnato tempo prezioso per allontanarsi dalla costa.
Et dimítte nobis débita nostra / sicut et nos / dimíttimus debitóribus nostris…
Leone riemerse di corsa dalla foresta e si precipitò ad aiutare Vittorio nelle fatiche di spingere il gozzo, con Davide e il Maestro a bordo, lontano dalla spiaggetta. Non appena lo scafo fu in acqua, i due Assassini continuarono a incalzare la barca fin quando non persero il contatto degli stivali con il fondo ciottoloso. A quel punto diedero un ultimo spintone e si arrampicarono sui bastimenti facendo attenzione a non cappottare l’imbarcazione. In fine, entrambi completamente zuppi e gocciolanti, presero posto in modo tale da bilanciare il peso.
Vittorio al timone di poppa, Davide ai remi sui banchi centrali, Leone alla vedetta di prua come una polena.
Per lunghi minuti regnò un silenzio innaturale.
Il gozzo scivolava cheto lontano dalla costa senza che ancora nessun remo fosse stato calato, la corrente e la spinta iniziale lo accompagnavano a largo con delicata premura.
Uscirono dalla palude e abbandonarono la baia che li aveva protetti dal vento, ora più prepotente. L’oscurità inghiottiva il paesaggio in un orizzonte infinito. Il cielo e le montagne, dopo una schiera di colline e picchi rocciosi, si confondevano l’uno con le altre dando l’illusione di una profondità ostile. L’acqua che li circondava era nera come l’inchiostro e pareva proprio che qualcuno ne avesse rovesciati interi barili.
Davide, in precario equilibrio e teso come un chiodo, cominciò a remare. Nervosamente, mancò l’acqua diverse volte palettando l’aria e riuscì a far rivoltare la barca di centottanta gradi. Lo stratega aveva gli occhi sgranati e tremava come se nell’acqua gelida per spingere il gozzo ci si fosse gettato lui. Era sconvolto, in guerra costante con la realtà e la malvagia sorte che stava piombando loro addosso dal Divino. Davide. Religiosissimo. È in momenti come questi che si dubita su cosa si ha creduto fino ad ora.
Leone, non sapendo se ridere o sbuffare, si allungò verso di lui con un’espressione eloquente e una mano tesa. Lo stratega s’irrigidì d’un tratto e fissò il compagno apprendista come fa il topo al cospetto del grosso micio buono. Ma in fine capì, acconsentì, si alzò barcollando e fece cambio di posto con l’altro. Leone sedé sul banco di mezzo e scaldò le braccia facendole roteare. Davide si accucciò sull’estrema prua e si strinse le ginocchia al petto. Osservò a lungo la naturalezza e la facilità con la quale Leone muoveva i remi in sincronia, prima di rimettersi a pregare a bassa voce.
Vittorio distolse lo sguardo dal panorama e lo puntò a terra, tra i suoi piedi. Proprio là giaceva il Gran Maestro degli Assassini, rannicchiato in posa fetale con il famoso lenzuolo attorcigliato tra le gambe e sul busto. Della semplice stoffa non sarebbe mai bastata per tenerlo caldo, soprattutto sconcia e rovinata come erano le vesti degli altri. Con amarezza, Vittorio si ritrovò a pensare che c’era andato vicino, la sera precedente, quando aveva immaginato l’utilizzo improprio di quel telo…
Una maliziosa goccia di pioggia gli scivolò sulla guancia come una lacrima; l’apprendista scacciò quegli orribili pensieri, ma era inutile cercare di concentrarsi su altro. Vedere il Gran Maestro in quello stato pietoso aveva mescolato molti sentimenti sui volti dei suoi Apprendisti. Un fragoroso pentimento dovuto all’abbandono incondizionato di Adriano, un malsano sconforto che offuscava oltremodo il loro futuro certo e incerto, ma sicuramente un qualcosa che si stava preparando a far vomitare via anche l’ultima stilla di umana speranza. I loro cuori stavano vacillando, cedendo alla tentazione di abbracciare la resa e tutti i benefici che essa poteva offrire: la pace e la serenità che questa vita terrena strappava agli uomini liberi.
E fu con un ultimo boato nel cielo nero che scese la pioggia.

Et ne nos indúcas in tentatiónem / sed líbera nos a malo. / Amen.








.: Angolo d’Autrice :.
Precisamente oggi, Assassin’s Creed Brotherhood compie un mese.
Ma ve li ricordate quei giorni infiniti che sembravano non passare mai? Quando ci domandavamo come avremmo vissuto, in che modo sarebbe cambiato il nostro tenore di vita dopo di lui. Contemporaneamente ci guardavamo avanti e indietro: prima chiedendoci come avessimo fatto a resistere per tutto quel tempo passato, e dopo immaginandoci in un futuro nebuloso e incerto, ancora tutto da scrivere.
E finalmente, eccoci. Perdonate l’assenza e lo spropositato ritardo, ma noi fans ci capiamo, vero?
Vorrei chiedervi a che punto della storia siete, prima di spoilerare quanto e cosa potrà combaciare tra la mia fan fiction e il gioco. Premetto solo che, poiché concepii Helleborus all’albore dei tempi, cercherò di attenermi fedelmente a quella che era la struttura vergine della fan fiction. I riferimenti al gioco, per tanto, saranno pochi, e quei pochi saranno unicamente casuali o storici, per intenderci.
Commento personale al capitolo:
Ho deciso di staccare questo e il successivo in due post differenti, causa motivi d’intreccio e di revisione. Sto aggiungendo e togliendo roba a non finire, niente va mai come vorresti, diceva qualcuno. Sei sempre lì a ritoccare, a puntualizzare dettagli inutili che, bhé, almeno secondo me, sono importanti. Poi non so… sarà questa mia influenza da regista che mi è presa ultimamente.
In tre parole: la grande fuga.
Prospettive per il futuro? Tanti capitoli da rileggere e aggiornare ogni qual volta la mia arte schizofrenica ne sentirà il bisogno. Prossimo aggiornamento previsto durante o dopo le vacanze di Natale.
Con schifoso anticipo,
Auguri di buone feste :)

*Le risposte ai recensori le pubblicherò attraverso il nuovo sistema introdotto da Erika*
Detto ciò, giriamo pagina e continuiamo le nostre vite come nulla fosse :)

EDIT 22/1/2011
Facendo affidamento sui consigli di micho, edito il capitolo VI inglobandovi il VII, revisionato e precedentemente a sé col nome de Interstitium.

.: Angolo d’Autrice :. (2)
Brevemente:
1. L’interstizio è la fessura (stretta o meno, a seconda della raffinatezza dell’opera) tra una tessera e l’altra di un mosaico :) Chi frequenta un qualsiasi anno di Liceo Artistico può confermarlo annuendo :D
2. A parte questo, wow, credo di non avere altro da aggiungere…
Se volete ulteriori spiegazioni o avete notato incoerenze, incomprensioni e quant’altro, segnalatemelo nei commenti. Provvederò rispondendo singolarmente e/o editando queste note per i prossimi lettori :)
Forse alcuni di voi avranno già sbirciato attraverso il collegamento tra il mio accaunt di EFP con quello di DeviantArt, ma eccovi in sede ufficiale alcuni bozzetti di mia mano, finalmente e dopo tanto tempo a marcire nella mia galleria aspettando di arrivare a postare questo capitolo, cui sono tratti :)

Davide
Leone
Vittorio
Ezio

E in più, una chicca per chi non resiste agli spoiler: una sbirciatina ai miei personaggi originali e un ulteriore rafforzamento della trama nel commento :D

Helleborus

Mi dileguo. A presto :)

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Capitolo 7
*** Furor et venia ***


Helleborus
Capitolo VII
Furor et Venia
(Grazia e follia)

Lo squittire di un topolino che curiosava nella sua uniforme lo svegliò, e poco dopo sentì un paio di unghiette fredde graffiargli il pettorale. Adriano ruzzolò su un fianco andando a pesare dolorosamente sulle anche, ma il movimento brusco gli costò una smorfia da maschera veneziana; eppure il sorcio, spaventato, zompò fuori dai suoi vestiti e sgattaiolò nell’oscurità. Quella sudicia bestiolina si era piazzata lì a mangiucchiare il cotone della camicia e sarebbe tornata volentieri ad assaggiare anche dell’altro se il ragazzo avesse abbassato la guardia.
Un rivolo di sangue omai secco gli era colato dalla tempia fino al collo e, dovunque fosse, nessuno si era preso o si sarebbe preso la briga di medicarlo.
Dopo un respiro profondo, Adriano constatò di avere libere mani e caviglie.
Perché non ho usato queste per scacciare quel ratto? Mi sarei risparmiato fatiche e sofferenze inutili...
Tentò di sollevare la testa, ma dalla nuca partì una scossa improvvisa che si diffuse in tutto il corpo. Era paralizzato dal dolore. Ecco perché!, si disse mordendosi la lingua pur di non fiatare e, dopo averli strizzati, aprì gli occhi.
L’orientamento l’aveva abbandonato disteso su un pavimento umido, freddo e cosparso di sterpaglia. Soltanto una delle quattro pareti aveva un piccolo spiraglio sull’esterno, dove era ancora notte e pioveva senza pietà. Oltre le sbarre di quella che aveva tanto l’odore di una cella, si apriva un androne inghiottito dalla penombra. Due fiaccole delimitavano i piedritti di un arco, dopo il quale, sotto una volta a crociera, c’erano un tavolo con tre sedie, una botola e del fieno per terra. Appoggiati sul ripiano alcuni volumi - tra cui una copia della Sacra Bibbia - e una mappa, forse la piantina delle carceri; una coppia di bicchieri di peltro, un otre con del vino rosso, una mela morsa e un coltello da frutta che non era servito, a quanto pareva.
In disparte, nell’angolo dell’anticamera e ammucchiato come spazzatura, Adriano riconobbe tutto il suo equipaggiamento: la sottile striscia di fattura romana e la cinquedea; i coltellini da lancio, l’unica bomba fumogena che entrava nella piccola sacca e il suo meccanismo di lama celata, del quale sentiva la mancanza come se gli avessero amputato un braccio o un’intera gamba… poi il taccuino, i pugnali e la scarsella con gli spiccioli per retribuire possibili informatori. C’era anche lo schizzo di pianta del Vaticano che il ragazzo aveva disegnato a mano libera la sera precendente, nella stanza condivisa con Davide al rifugio. Si era seduto sul letto e ne aveva curato i particolari con l’attenzione di un artista, tutto il giorno, aspettando la notte che avrebbe segnato il destino della Confraternita.
Accompagnati dal boato di un tuono, i ricordi cominciarono a ricostruirsi, diligentemente, nell’ordine cronologico causa effetto, fino all’ultimo atto della tragedia.
Il tramonto dal tetto dell’Isola Tiberina, Roma deserta, la curiosa sacca rigonfia di Vittorio, la lapide costantiniana e il prato verde, soffice, attorno alle Mura Vaticane; il lenzuolo il traforo segreto il Belvedere Cesare Guardie Papali sangue…
Il Maestro avvelenato, la sua e la vita degli Apprendisti nelle mani del Signore.
Si udì una porta sbattere: assieme alla tempesta fecero irruzione nell’anticamera i passi di quattro piedi e due voci maschili.
“Avresti dovuto puntare più in alto ad ogni lancio. Hai perso anche ‘sta sera,” si lamentava il primo, serio ma poco interessato.
“Ma ve l’ho detto! Messer Aurelio, voi non ascoltate: quello spagnolo di merda, Gabriel, l’ha spostato anche ‘sta sera! È un mese che mi alleno con quel bersaglio, fatevelo dire dal ragazzo nuovo, come si chiama… Simone, che prendevo sempre il centro! Viene la Notte delle Sentinelle e, guarda caso, non mi avvicino nemmeno al terzo anello!” ribbatté il secondo.
I due uomini entrarono nel campo visivo del ragazzo e sostarono sotto alla campata. Erano entrambi fradici dall’elmo alla punta degli stivali.
“Allora perché non lo dici a tutti, eh? Perché la prossima settimana non alzi il culo e dici a tutti che Gabriel sposta il piatto?” sbottò l’altro, innervosito, mentre si strizzava il mantello.
Silenzio.
“Fottuta pioggia…” borbottò togliendosi l’elmo da capitano. Svelò un volto marcato dall’arte militare e un taglio cortissimo di capelli scuri, e poi prese a sgrullarsi l’acqua di dosso come un cane bagnato. Tornò rivolto al compagno: “Rosicone, te lo dico io perché: perché nessun altro manca il bersaglio come lo manchi tu e il piatto è sempre nello stesso posto, alla stessa altezza, tutta la settimana!” concluse con arroganza sedendosi al tavolo. “Sei solo un dannatissimo senza palle, e a quelli come te, tra le mie fila, i coglioni glieli facevo spuntare usando le tonsille!”
L’altro richiuse la porta, muto.
In quei brevi secondi di tranquillità, Adriano rifletté:
Nulla scredita l’ipotesi che il Gran Maestro sia morto o stato catturato a sua volta. Leone, Davide e Vittorio potrebbero essere da qualche parte tra queste mura e perciò devo scoprire il più possibile su dove e sono e con chi ho a che fare.
La sua mente da bravo discepolo infiltrato cercava di lavorare, accumulando informazioni. Un’attività inutile e dispendiosa, ma almeno lo teneva impegnato.
Il primo, messer Aurelio - nome che all’Apprendista suonava familiare - aveva un represso accento del nord ed era il più anziano tra le due sentinelle. Rivestito d’argento e di porpora, e con quell’aria da pezzo grosso, era chiaro appartenesse agli alti ranghi tanto che Adriano si chiese fin da subito cosa ci facesse in quella squallida prigione. L’atteggiamento scomposto dei vigilanti professionali se conviene imbruttiva la prestigiosa uniforme borgiana che indossava e tutto il suo ruolo. Si era stravaccato sulla sedia con la fierezza di un grasso leone in pensione.
Adriano serrò la mascella e sentì aumentare vertiginosamente il disprezzo verso quegli sporchi mercenari italici senza etica dipendenti da frustino spagnolo. Quanti ne aveva visti ammazzare la propria gente?
Il secondo armigero, stretto nella sua divisa da Guardia Agile, aveva baffi giovani e si muoveva come un gracile micetto, a confronto. Adriano capì subito che era troppo intimorito dal suo superiore anche solo per sedere allo stesso tavolo.
Guardandosi un po’ attorno, Aurelio aveva adocchiato il meccanismo della lama celata confiscato al prigioniero e si era proteso ad afferrarlo senza muovere le chiappe dalla sedia. Studiò l’oggetto con distacco, l’aria incerta di chi dubita della sua natura e del suo scopo.
“Non avete saputo?” chiese la sentinella Agile, compita. “Abbiamo un ospite speciale,” aggiunse, e lo disse come per vantarsene.
Una malinconia infinita attanagliò lo stomaco di Adriano al sentir pronunciare quelle parole. Niente. A quanto pare sono solo… ma allo stesso tempo rinvigoriva la speranza che qualcuno si fosse salvato e fosse rientrato al Rifugio.
“Sì, ho saputo: mi hanno mandato apposta”, mormorò il Capitano assorto: ora guardava il meccanismo della lama con un insolito rispetto. Poco dopo sorrise apparentemente senza motivo. “Un pesce piccolo… ma ho saputo anche che Sarto si è beccato una freccia in culo per portarlo qua,” ghignò.
Risero entrambi, e finalmente pure il secondo uomo si mise seduto.
Adriano collegò quel nuovo nome, Sarto, allo sfocato ricordo del suo sequestratore: un Ufficiale Papale.
“Adesso sappiamo dove ha lavorato il Diavolo per tutto questo tempo,” commentò Aurelio senza staccare gli occhi dalla lama celata; se la rigirava nella mano come aspettandosi da essa un qualche sortilegio: che il metallo cominciasse a brillare, per esempio, o levitasse tra le sue dita.
“Dove?” domandò l’Agile, al quale era sfuggito il senso della sua osservazione.
La calma negli occhi del Capitano mutò d’un tratto in tempesta. “Nelle tane di questi topi di fogna!” ruggì afferrando un bicchiere di peltro dal tavolo e scagliandolo attraverso la stanza rabbiosamente, dritto nella cella del prigioniero.
Adriano nascose la testa tra i gomiti.
Il bicchiere lisciò le sbarre, cozzò contro la parete di fondo e rotolò ai piedi del giovane che rimase immobile, un tutt’uno con la pietra del pavimento.
L’Agile non disse nulla; si limitò a lasciar sbollentare gli spiriti del suo Capitano guardando tutt’altra parte.
Il ragazzo tenne il naso premuto sui mattoni del pavimento e spalancò gli occhi nell’oscurità delle braccia chiuse.
Aurelio Enrico Pulciani.
Adesso Adriano ricordava.
Due settimane prima lui e Davide, coperti dalle frecce di Vittorio, avevano sventrato la pattuglia del Capitano al Palazzo Lateranense. Tale diversivo aveva consentito al Gran Maestro di agire indisturbato attorno alla Basilica di San Giovanni, ove era entrato scortato da Leone. Ne era valso un fruttuoso interrogatorio al freschissimo Cardinale Diacono Giovanni Colonna, il quale aveva confermato che, la notte dell’attacco, Cesare avrebbe passeggiato dove previsto: in Vaticano.
Adriano se lo ripeté ancora una volta, e ricevette la risposta alle sue domande.
Aurelio Enrico Pulciani.
Ex Capitano della Guardia nel Rione Laterano, degradato a sentinella della Prigione di Castel Sant’Angelo per grazia degli Assassini che avevano decimato i suoi uomini. Era uno spadaccino micidiale, uno dei tanti rettili ammaestrati cui il Valentino si circondava affidando loro volentieri la sorveglianza delle zone calde.
Stentava a immaginare cosa sarebbe stato di lui non appena Aurelio avesse scoperto che era sveglio. Poiché da bravo Templare ce l’aveva a morte con gli Assassini, al Capitano era stata esplicitamente concessa l’autorità di torturare il ragazzo nel modo che preferiva. Perché Adriano sapeva che ci sarebbe stato un interrogatorio. Sapeva che nessuno si sarebbe fatto scrupoli per la sua giovane età, sapeva che non avrebbero esitato ad ammazzarlo e ad appendere la sua testa incappucciata da qualche parte; magari proprio su Ponte Fabricio, alle porte del Rifugio, come ammonimento per chi si stava proclamando salvatore di Roma e sovvertitore dei Borgia.
Adriano sentì la porta aprirsi di nuovo e il frastuono dell’intemperia fare irruzione nell’anticamera. L’attenzione dei due uomini seduti al tavolo volò in quella direzione, fuori dal campo visivo del ragazzo.
“Messer Pulciani, mastro Gabriel vorrebbe conferire con Fenicio Bèrtoli privatamente. È questione di minuti,” esordì una voce estranea, maschile.
Fenicio… la Guardia Agile si chiama Fenico.
“Sta bene,” ammiccò Aurelio al giovane lì affianco.
Fenicio si alzò, si congedò con un inchino e lasciò l’anticamera di corsa. Appena richiuse la porta alle sue spalle, l’atmosfera tornò a farsi silenziosa.
Dalla sua posizione, Ariano poté notare Enrico accigliarsi.
“Mi dispiace, Capitano, ma ho ricevuto l’ordine di non lasciarvi solo col prigioniero,” disse il balestriere fuori dalla visuale dell’assassino. Lo sentì spostarsi  più lontano dal Pulciani di quanto non lo fosse già.
Aurelio sbuffò. “Sai che nuove…”
“Cos’è?” domandò la guardia alludendo alla lama celata nelle mani del Capitano.
Aurelio gliela lanciò con sprezzo, come per liberarsene, e il balestriere l’afferrò al volo tirandosela allo stomaco. Quando capì di cosa si trattava, allontanò immediatamente l’oggetto da sé e lo poggiò sul ripiano.
“Hai la faccia di chi li manderebbe tutti all’Inferno, Simone,” chiosò Aurelio compiaciuto versandosi del vino nell’unico bicchiere rimasto.
Simone, l’ultimo arrivato…
Il ragazzo doveva aver cambiato improvvisamente color di faccia. “Mio padre pattugliava sui tetti di Navona ed era un brav’uomo. Hanno trovato il corpo al cambio della guardia, sgozzato come un cane, pugnalato due volte,” il tono di chi ha rivisto la scena mille volte e infierirebbe altrettanto sui cadaveri dei responsabili.
Aurelio: un sorso di vino. “La sai usare, quella?” chiese.
Il giovane estrasse la balestra dall’astuccio e ne solleticò la scocca, facendola sibilare. “Avrei ereditato il suo mestiere in ogni caso, perciò ho praticato molto sotto la guida del mio vecchio, prima che morisse.” Quando parlò di nuovo, Adriano sentì con chiarezza l’ardore e la determinazione suscitati dalla vendetta…  e in un istante, per associazione, ricordò la rovina che era stata la trasferta in Vaticano.
“Se ne ammazzo uno con la sua balestra, potrò pagargli la tomba che merita,” concluse Simone.
Aurelio non poté replicare, perché qualcuno piombò nell’anticamera dopo aver spalancato la porta. “Gabriel e Fenicio si stanno scannando!” li informò con eccitazione tutt’altro che professionale un’altra guardia, sparendo subito dopo.
Simone non cercò neanche l’approvazione negli occhi del Capitano e si catapultò sotto la pioggia senza pensarci due volte, correndo a sedare la mischia.
Enrico e il prigioniero rimasero soli.
Calò un silenzio pesante,  rotto solo dallo scrosciare della pioggia oltre l’ingresso che né quella guardia, né Simone, uscendo, si erano presi la briga di chiudere.
Adriano respirava piano. Provò a distrarsi concentrandosi sul dovere e sulla sua condizione.
Le guardie del Castello giocano al bersaglio tutte le settimane. Sono sicuro che si scommettono anche le braghe, sotto al naso di Cesare, perciò se riuscissi a trasmettere queste informazioni al Rifugio… e se sopravvivessi fino alla prossima Notte delle Sentinelle, Messer Machiavelli saprebbe che per quell’occasione il corpo di guardia è “distratto”; potrebbe inviare un paio dei suoi, e tirarmi fuori di qui prima che…
Tra un pensiero e un altro Adriano urtò per errore il bicchiere di peltro che giaceva vicino ai suoi piedi e l’oggetto, logicamente, spostandosi produsse rumore.
Adriano si morse a sangue le labbra come punizione. Ogni tentativo di riflettere oltre venne represso nella paura, mentre un liquido caldo e amarognolo che gli scivolò in gola.
La sua copertura era saltata: ora che era cosciente, il prigioniero poteva essere interrogato.
Dopo essere rimasto immobile come una statua, a guardare la pioggia cadere sui corridoi delle mura di Sant’Angelo aldilà della soglia, il Capitano Enrico si alzò con una lentezza straziante e andò a serrare i battenti. Fece due giri di chiave. Dopodiché venne verso la cella del ragazzo.
Adriano chiuse forte le braccia attorno alla testa e si rannicchiò più stretto.
Ogni passo, scandito dal tacco degli schinieri da guerra, tuonava sul pavimento del buio androne ricordando i tamburi di un’esecuzione.
Silenzio.
Lo scampanellio di chiavi.
Chiavistello, cigolio dei cardini.
Uno scatto e la fuga?
No.
Le armi troppo lontane, le ossa troppo deboli.
La resa dei conti.



…prima che sia troppo tardi.




***

Il corpo del Gran Maestro, rannicchiato a poppa, galleggiava su quel sottile strato di acqua piovana che si era raccolta sul fondo dello scafo.
“Davide, quanto manca all’alba?”
Il ragazzo interruppe la sua litania e guardò il cielo con una smorfia, mentre la sottile pioggerella gli cadeva sul volto pallido. “Te lo direi volentieri, Vittorio, ma le nuvole…”
“Inventa una scusa migliore, se non vuoi faticare” ridacchiò Leone dando un colpo di remi più potente.
Davide si accigliò. “Non era una scusa,” disse aggrappandosi al legno del parapetto. “Prova tu a trovare qualche stella, poi dimmi se Orione è tramontato.”
Vittorio s’intromise prima che Leone potesse replicare. Il mastro arciere guardò Davide e offrì le scuse per la sciocca domanda.
Stringendosi nelle spalle, lo stratega tornò alle sue preghiere.  
Ad un tratto, Vittorio fu certo che qualcosa lo avesse sfiorato all’altezza della caviglia. Quando abbassò lo sguardo, vide che la mano sinistra del Gran Maestro era abbandonata vicino al suo stivale, dove Vittorio ricordava di non avercela lasciata.
Mollò il timone all’istante, ma gli altri due se ne accorsero solo quando la barca cominciò a virare insolitamente. Si rannicchiò su di lui e poté sentire con chiarezza il respiro spezzato di Ezio, che iniziava a manifestare delle anomale convulsioni al braccio della spalla ferita.  
Davide venne in suo aiuto scavalcando i banchi e assieme distesero il Gran Maestro su quello alle spalle di Leone.
“Respira più forte, ma non è un buon segno.”
Davide sbiancò visibilmente nel notare le convulsioni dell’arto. I suoi occhi anticiparono la domanda delle sue labbra: “Cosa facciamo?”
“Semplice: torniamo indietro.”
Davide e Vittorio sincronizzarono lo sguardo sulla schiena del loro terzo compagno.
Leone ripeté senza voltarsi: “Torniamo indietro e diamo alle Guardie Papali quello che vogliono.”
“Di cosa parla?” chiese Davide all’arciere.
Pessimo sarcasmo, Leone; davvero pessimo. Vittorio scosse la testa, facendo credere a Davide di aver preferito non capire, e tornò chino sul Maestro.
Gli spasmi al braccio del Maestro cessarono sotto i loro nasi, ma Ezio continuava a respirare con fatica. Provarono a metterlo seduto, appoggiandolo alla balaustra del gozzo, e per alcuni minuti parve migliorare.  
Davide prese il timone, mentre Vittorio andava a medicare la ferita sotto la guida del giovane stratega.
Il mastro arciere scostò la veste e applicò una nuova dose di farmaco sul tampone. L’emorragia era cessata, ma complessivamente Ezio non aveva perso molto sangue. Vittorio non si sforzò nemmeno a immaginare quali oli e quali spezie componessero quella miscela disinfettante datagli dal cerusico trasteverino. Aveva altresì un odore fortissimo di muschio e decomposizione.
Durante tutta la medicazione, il mastro arciere si affidò agli unici sensi del tatto e dell’olfatto. Non sarebbero stati né il buio né quella pioggia puntigliosa ad intralciare la sua premura verso il Gran Maestro. Fosse il destino di Ezio Auditore ormai segnato e diventasse pure quel vecchio gozzo la sua tomba, Vittorio sarebbe morto medicandolo.
E fu in quell’attimo di folle determinazione che il fato lo commiserò ancora una volta.
Il gozzo si fermò oscillando sulla corrente, perché Golia aveva smesso di remare.
“Torniamo indietro,” disse di nuovo Leone.
Esasperato, Davide si alzò. Leone, con grande stupore degli altri due, fece ruotare il remo sinistro nello scalmo e lo colpì dietro al ginocchio con violenza, rimettendolo seduto. Lo stratega cadde sulla prua contorcendosi dal dolore, e per quanto gridava Golia poteva avergli rotto tutta la gamba.
Vittorio era sconcertato. “Leone, cosa…!?”
Questi lo interruppe: “Posso sperare che adesso ti degnerai di ascoltarmi?” chiese. “O devo sempre spaccare qualcosa per attirare un po’ d’attenzione?!.”
“Vaffanculo!” sbraitò Davide alle sue spalle.
Leone si alzò e liberò il remo dallo scalmo, per poi voltarsi e minacciare ancora il compagno. “Ripetilo, se hai le palle!” sibilò.
“Basta, Leone. Adesso stai esagerando,” lo riprese Vittorio col tono serio e canzonatorio del genitore che ricorda al figlio il proprio posto.
Guardando Leone negli occhi, Vittorio si preparò al peggio: l’ncertezza e la paura, impossessate chiaramente di lui, sfogarono come la peste su quel corpo provato. Vittorio avrebbe dovuto prevedere che il prossimo a cedere, dopo Davide e la sua disperazione cattolica, sarebbe stato proprio Leone, e in qualche modo arginarlo da se stesso. Il suo ruolo nel gruppo, dopotutto, era proprio quello: sanare il sanabile.
“Ti ascolto, Leone, ma prima chiedi scusa a Davide e rimettiti seduto.”
L’uomo con i calzettoni a righe fece tutt’altro. Si voltò dalla parte di Vittorio e minacciò anche questi con la pala scheggiata. I muscoli pulsanti, il respiro agitato. “Non dirmi cosa devo fare! Chi ti ha promosso, eh? Lo Spirito Santo?! Lui non credo proprio!” ruggì indicando il Gran Maestro ai piedi del mastro arciere.
Vittorio tacque, inginocchiato sul figlio di Giovanni, pensando a cosa dire.
Leone prese fiato. “Perché siamo qui, Vittorio?” gli domandò. “Per rubare una barca e sperare di arrivare vivi fino a Monteriggioni? Oppure credi davvero che qualche anima pia ci prenda con sé e ci consigli un buon medico? Sai almeno dove siamo? Se questo è il lago di Bracciano come penso che sia, le Guardie di Cesare hanno tutta l’autorità che gli serve per romperci il culo e sbatterseli di nuovo, i reggenti, perché qui, gli Orsini, sono caduti nel ‘98!” concluse con un ringhio.
“Lo so bene,” pronunciò calmo Vittorio, cercando di dissuadere il compagno dall’ira che sembrava diventata una moda. “Ma non hai motivo di comportarti così, di aggredirci; cosa ti abbiamo fatto?”
Si pentì molto presto di aver scelto quelle parole.
Leone avvampò. “Quello è un fottuto incapace,” sbottò puntando Davide con il remo, “e questo una testa di cazzo che ha firmato per tutti noi un posto all’Inferno!” Dio solo sa cosa astené Leone dal calciare il Gran Maestro, disteso ai suoi piedi.
Davide sbiancò. Lui che con Leone ne aveva passati tanti, di litigi, aveva capito che il loro compagno era arrivato a un punto di non ritorno. Quando partivano le parolacce, c’era poco che potessero fare…
Vittorio rimase a lungo immobile, ma appena osò prendere fiato, l’altro sopraggiunse.
“Perciò adesso ascoltami: torniamo indietro, consegniamo questa merda d’uomo alle Guardie Papali e avremo fatto l’unica mossa saggia della giornata.”
Alludeva al Gran Maestro, con disprezzo.
“Bastardo infame… come osi?!” esordì Davide, sconvolto.
“Leone, renditi conto di cosa stai dicendo…” pervenne Vittorio. Il baratro più  profondo che può toccare la disperazione di un uomo è quello della follia. Leone ci era dentro con tutte le scarpe.
“Ragiona con me, Vittorio:” cominciò improvvisamente tranquillo. “Non gli resta molto da vivere, lo sappiamo benissimo, perciò è questione di minuti prima che sia buono solo per i pesci. E i nostri pesci, Vittorio, sono le Guardie che Cesare ci ha incollato alle chiappe. Per come la vedo io, ottenuta anche solo una parte, ma una grossa parte, di quello che cercano, si dimenticheranno del resto e noi saremo liberi di rientrare a Roma indisturbati! Torneremo da messer Machiavelli, arruoleremo nuovi adepti, ci occuperemo della villa. Noi, Vittorio, insieme. In futuro potremo riorganizzarci, tagliare la testa a Cesare, quel figlio di puttana, una volta per tutte. È la cosa giusta, tu sai che è l’unica cosa giusta da fare,” sottolineò, poi parve illuminarsi e si corresse oltremodo: “l’unica che lui ci ordinerebbe di fare… se mai si risvegliasse da questa post-sbronza pietosa,” concluse con dell’altro sarcasmo di pessimo gusto.
Nonostante la sfacciataggine e quella mancanza di rispetto considerevole, Leone era riuscito ad insinuare il dubbio ancora una volta, con la sua dote di politico incompreso. Era una decisione razionale, dopotutto, dovette ammettere Vittorio a se stesso, seppur dettata unicamente dall’istinto di sopravvivenza. Il ragionamento di Leone aveva senso, ma questo perché il sopra citato non era uno stupido, anzi! Il problema di Leone, lo stesso che Davide era troppo orgoglioso di contare come unico e solo, era che usava la sua intelligenza nel modo e nel momento sbagliato.
“Sei con me, fratello?” Leone gli porse un braccio, lieto di farselo stringere, ma Vittorio indugiò guardando oltre la sua figura, dove gli occhi di Davide, infossati e cerchiati dall’angoscia e dal dolore, lo supplicavano come quelli di un cerbiatto ferito. È troppo convinto… devi fare qualcosa, dicevano.
Il mastro arciere prese la sua decisione, a nome del gruppo, e non volle ascoltare altre ragioni.
Agire. Subito. Nel bene della Confraternita.
Con una manovra improvvisa e fulminea, Vittorio strappò il remo dalle mani di Golia e lo incastonò nuovamente nello scalmo, mentre Leone, sorpreso e senza avere il tempo di fermarlo, si gonfiava dalla rabbia.
“Torna al tuo posto e continua a remare,” dettò il mastro arciere. “Non è un consiglio, ma l’ordine di un tuo superiore,” concluse autoritario.
Leone strinse i pugni lungo i fianchi così forte da scrocchiarsi le nocche.
Vittorio riprese il timone. Davide, facendo attenzione a non pesare sul ginocchio indolenzito, tornò seduto sulla prua.
Leone si era impuntato, di nuovo, e stentava ad ubbidire. Quei placidi occhi azzurri che amavano la vita e la guerra allo stesso modo erano diventati specchi della paura e del rancore. I muscoli di tutto il corpo pulsavano gonfi sotto i vestiti pregni di pioggia.
Accadde in una frazione di secondo: salì la prua e scese la poppa. Vittorio non riuscì né a parare né a schivare le nocche di Leone, che gli affondarono nella mascella e lo sbilanciarono all’indietro. Incassato il colpo, Vittorio precipitò dritto in acqua.
Appena il gozzo smise di oscillare, Leone si voltò verso la prua.
“Cristo Santo!” imprecò Davide sporgendosi dalla balaustra con un moto istintivo del quale, però, si pentì in fretta. “Perché?!” domandò poi guardando Leone senza che Vittorio fosse ancora riemerso.
“Perché vi siete rammolliti, e io voglio vivere per farmi ancora tua sorella!”
Lo stratega inorridì, e per qualcosa che non era il dolore alla gamba. “Tu… cosa?”
“Non dirmi che in tutto questo tempo non te l’ha mai detto?” si stupì Leone con un sorriso malvagio. “Ma come? Ho sempre pensato che fosse uno dei motivi per cui mi manderesti volentieri sotto terra.” Si mise seduto, impugnò i remi e iniziò a far ruotare la barca nella direzione dalla quale erano venuti.
“Carolina… la mia Carolina,” mormorò Davide a fior di labbra, sconcertato.
“Da quando ha aperto quel bordello, non è più solo la tua Carolina,” sghignazzò dando la prima remata verso terra.
Davide si guardò indietro, dove era scomparso Vittorio e lo specchio d’acqua s’increspava al cadere dalla pioggia. Si chiese perché aspettare tanto prima di vederlo riaffiorare.
Un paio di braccia emersero all’improvviso e trascinarono Leone in acqua con un gran chiasso. Poi Vittorio si sostituì a lui, rimontando fulmineo sul gozzo.
A quel punto la priorità dello stratega fu non perdere l’equilibrio per via della barca che ondeggiava.
Quando Leone ricomparve e spalancò le fauci per riempirsi d’aria i polmoni, si ritrovò una lama puntata alla tempia.
“Spero che il bagnetto ti abbia schiarito le idee.” Vittorio, l’uniforme tanto appiccicata al corpo da sembrare una seconda pelle e invaso da impercettibili tremori, impugnava saldamente la sua spada romana contro Golia.
Il pelo biondo cenere del leone gli copriva un occhio. L’altro era tornato alla sua solita luce. L’uomo borbottò qualcosa d’incomprensibile, ma alla fine accettò pacificamente la mano tesa di Davide mentre Vittorio si spostava dall’altra parte del gozzo per bilanciare il peso.
Di nuovo a bordo e con i mattoni nei vestiti, Leone prese posto vicino al Gran Maestro, al quale lanciò una breve occhiata pentita. Gettò la testa in avanti e si mise le mani tra i capelli gocciolanti, come il resto. Se pianse, non volle darlo a vedere.
Vittorio lo degnò giusto di uno sguardo, poi, reggendosi all’albero, raggiunse Davide a prua. Il ragazzo si stava massaggiando la gamba ferita e quando si accorse del mastro arciere dietro di sé, si fermò un istante. “Nessuno proverebbe pietà per degli sconosciuti, armati, comparsi dal nulla nel cuore della notte…” mormorò sconsolato, ma dietro quell’affermazione si nascondevano ben altre ragioni di malessere.
“Conosco il cuore di questa gente,” incise Vittorio guardando a nord, dove qualche altro chilometro cubo di acqua li divideva dalla costa abitata. “Ed è simile a quello di ciascuno di noi.”
“Allora Leone non mentiva,” si stupì Davide.
“Su cosa? Che il bastone del pastore è già passato su queste terre? No, Leone ha detto la verità. Bracciano e tutte le sue frazioni portano cicatrici fresche di frustino spagnolo.”
“Perciò… c’è ancora speranza… per noi,” concluse il giovane stratega cercando con gli occhi gialli quelli nel cappuccio di Vittorio.
“Rimettiti a pregare, Davide,” gli suggerì il mastro arciere tornando a poppa; impugnando il timone ordinò a Leone di riprendere i remi almeno per scaldarsi, sempre se non preferisse crepare. Ma Golia fissava qualcosa alle sue spalle e, quando anche Vittorio si voltò, non poté credere ai propri occhi.








.:Angolo d’Autrice:.
Sarà l’estate ormai prossima, oppure la semplice consapevolezza di interrogazioni e compiti in classe ormai alle spalle, ma nuovo capitolo o nuova storia che sia, ho una gran bella faccia tosta a farmi vedere di nuovo qui, con la medesima comparsa annuale dopo mesi d’inattività sia come scrittore che come recensore della sezione. Ogni tanto, sempre più raramente, ho continuato a tenere d’occhio il numero delle storie che…
Ma parlare di cose serie no, eh?
Queste otto pagine e mezza che avrò ritoccato 100 volte, prima di decidermi a postarle, sono la conseguenza del mio modo confusionario di far accadere tante cose tutte assieme, e di non avere pietà alcuna dei miei personaggi, fin troppo protagonisti delle situazioni più assurde.
Intanto, per precisazione e perché mi va di mettervi in testa Aurelio Enrico Pulciani così come l’ho immaginato io, ecco un link ad un mio primo disegno su di lui.
Seguendo, ci tenevo a confessarvi che l’altra versione della cattura di Adriano nei Giardini Papali è andata perduta sul pc di mia madre, che custodiva l’unica copia del file. Perciò, almeno per ora, non sono previsti ulteriori aggiornamenti di Helleborus Niger, la raccolta one-shot/capitoli che fa da Expansion-Pack a questa fan fiction.
La scenata di Leone, con conseguente bagnetto suo e di Vittorio, l’avevo in mente fin dal prologo, quando ho pensato che due galli come loro, su un piccolo e mal conciato gozzo a vela latina, se ne sarebbero stati tutt’altro che nel proprio pollaio. Da una parte voglio dare ragione a Leone, sul fatto che lasciare (più che consegnare – dopotutto non si sarebbero mai permessi di presentarsi personalmente con il Maestro tra le braccia agli spagnoli) la carcassa di Ezio alle guardie, pur in quelle condizioni, avrebbe facilitato loro la fuga. Dall’altra Vittorio ha tutto il diritto di decidere per lui, per Davide e per Ezio, adesso che quest’ultimo è incosciente. Una netta differenza di grado, tra il mastro arciere e Golia l’ho immaginata e speravo che si fosse intuita fin dal II capitolo, quando Ezio e Vittorio discutono negli alloggi di quest’ultimo.
L’ultima precisazione riguarda, come al solito, la costanza nella pubblicazione dei post futuri. Ovviamente, non posso parlare di costanza, ma neanche di aggiornamenti. Helleborus, a differenza di qualsivoglia long-finction che io abbia mai scritto o sulla quale stia tutt’ora sbattendo la testa, è diversa proprio per questo: sto cercando di evitare che diventi uno sfogo, o quanto meno si allontani dall’essere un diario personale del quale, a piccoli assaggi, porto sempre qualcosa in queste note d’autrice.
La verità è che ho meditato a lungo se continuare o meno la pubblicazione, pur potendo rinviare la sospensione della fiction fino al XIV capitolo. E mi rendo conto che, nella seconda eventualità, più che un torto a me stessa avrei finito col coinvolgere i miei carissimi lettori, quei quattro gatti coraggiosi che riescono a decriptare la mia scrittura catatonica e dai quali fa sempre piacere sentirsi criticare piuttosto che lodare :)
Per ora è tutto. Perdonate i banalissimi link alle pagine di wikipedia, ma non ho proprio la forza di commentare personalmente personaggi, date, e luoghi storici.

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Capitolo 8
*** Vento secondo vei ***


Helleborus
Capitolo VIII
Vento secondo vei
(navigare secondo il vento)


Noé, ATTENTO!” si udì gridare ad un tratto.
Qualcosa urtò con violenza lo scafo del gozzo, che s’inclinò col rischio di cappottarsi. Vittorio fu costretto a reggersi al banco di poppa, lo stesso sul quale si era gettato Leone. Il corpo inerte del Gran Maestro scivolò fino a prua, da dove Davide, invece, fece capolino in acqua.
Senza pensarci due volte, Leone si lanciò a soccorrere il compagno e, sporgendosi dalla balaustra, lo afferrò saldamente per un braccio. “Reggiti, idiota!” gridò issandolo con una forza mostruosa nuovamente a bordo. Tremando come non mai, Davide si accovacciò e si strinse le braccia attorno al copro, piantando le unghie nella sua stessa carne. Le labbra gli si erano improvvisamente gonfiate perdendo colore, gli occhi, annegati nella paura, schizzavano fuori dalle orbite.
Vittorio si voltò, dimenticandosi dei compagni, e vide che il timone era andato distrutto nell’impatto tra la poppa del gozzo e la prua di una piccola barchetta. Di questa, le cime lascate liberarono il boma, mandandolo fuori controllo. La vela trapezoidale cominciò a sbattere, schioccando, mentre la pioggia le scivolava magicamente addosso senza impregnarla.
“Francesco, per Dio! Perché ti sei ferm…!”
Alzando lo sguardo, Vittorio incontrò gli occhi azzurri di un ragazzo che si stava risollevando in quel momento dalla balaustra del gozzo, fin dentro al quale l'aveva scaraventato il contraccolpo violento. Ma il giovane non terminò la frase, perché si rese conto di avere di fronte tutt’altra persona.
“E voi chi diavolo siete?” domandò, ritraendosi sorpreso.
Vittorio andò dritto al dunque: “Dovete aiutarci, vi prego, abbiamo un ferito.”
Ci fu un lungo attimo d’esitazione, durante il quale quel ragazzo sembrò valutare ogni ruga visibile sul volto di Vittorio. Distogliendo lo sguardo dall’Assassino, lanciò un’occhiata al corpo del Maestro; in fine si adocchiò intorno, con l’aria di chi sta cercando qualcosa.
Solo allora Vittorio notò un’imbarcazione gemella ferma poco distante. Anche quello scafo era molto piccolo, con la stessa forma di vela, e l’Assassino capì che era stato il suo passeggero a cacciare quel grido di avvertimento un istante prima dell’incidente. “Noé, sei vivo?” gridò costui dal lontano.
Il ragazzo parve ignorarlo, continuando a cercare laborioso intorno a sé. Quando l’ebbe trovato, strizzò e si rimise il berretto in testa; dopodiché si gettò ad afferrare saldamente la balaustra del vecchio gozzo. “Cosa avete detto che vi serve?” chiese calcolando i danni al timone.
Fu con un immensa gioia che Vittorio gustò la sua voce giovane e il tono disponibile. “Un medico,” rispose.
“Ne conosco uno che sarebbe entusiasta di sapere chi è il suo paziente, prima di visitarlo.” Inutile negare che di quei tempi la prudenza non era mai troppa.
Vittorio scrutò l’individuo che aveva di fronte, studiandolo come il ragazzo aveva fatto poco prima con lui.
“Forestieri, ma soprattutto uomini liberi derisi dal destino,” disse pesando le parole.
Il giovane lo squadrò a lungo. “Quanti?” Riusciva a guardare Vittorio in faccia, sotto al cappuccio, ma non a contare con esattezza la gente sul gozzo assieme a lui, oltre al ferito.
“Cin…” iniziò Vittorio, ma s’interruppe scuotendo la testa e guardando a terra. Quella domanda, così freddamente posta, fu una nuova pugnalata nello stomaco per l’abbandono di Adriano. “Quattro,” si corresse.
“Mi spiace, ma se avete fretta, il mio amico ed io possiamo portare solo due persone, e se una di queste dev’essere lui…” sembrava realmente dispiaciuto mentre guardava il Gran Maestro e annotava le sue condizioni.
Vittorio si voltò. “Davide, andrai…”
Prima di concludere, ricordando la gamba indolenzita e vedendolo bagnato e tremolante, Vittorio capì che non sarebbe riuscito a farlo alzare di lì neanche con un piede di porco.
“Va’ tu, Vittorio,” s’intromise Leone, a sorpresa. “Se venisse il momento, saresti tu il più degno tra noi di essergli a fianco.”
Le sue erano state parole di un profondo pentimento e un radicato rispetto, uscite dal cuore, che Vittorio non poté rinnegare. Leone era tornato tra loro.
Il giovane barcaiolo annuì e spostò l’attenzione sull’altra vela gemella. “Francesco! Portati di bolina e parcheggia il tuo culo secco accanto ai signori!” ordinò all’amico.
Mais certainement, mon capitan!” rispose quello riprendendo velocità e preparandosi alla manovra.
“Voi!” il ragazzo richiamò l’attenzione di Davide e Leone. “Mi dispiace per il vostro timone, lo aggiusterò personalmente. Ma per adesso, Se non preferite passare la notte qui, dovrete seguirci verso la costa remando; nel caso ci perdeste, tenete questa. Sapete usarla?” domandò allungandosi per porgere allo stratega un oggettino rotondo estratto dalla fasciatura sulla vita.
Davide lo riconobbe subito e lo assicurò in una bisaccia, stirando un sorriso poco convinto quando il ragazzo gli diede qualche indicazione sulla destinazione.
“Vittorio…” lo strega cercò il suo sguardo, ma il mastro arciere era già affaccendato tra le bisacce.
“Prepariamoci.”
Leone lanciò un’occhiata oltre il parapetto, annotò le due barchette entrambe assicurate al gozzo, ma non riuscì a sorridere mentre divideva, assieme a Vittorio, le bisacce e le armi dal Gran Maestro e le scorte mediche. Tutta la faccenda ancora non lo convinceva, e tutta quell’improvvisa ospitalità era sospetta. Per acquietare il proprio animo indagatore, si disse che in ogni caso aveva già unito la sua alla condanna dei suoi compagni tempo addietro, nel giorno della loro iniziazione.
Il mastro arciere e Golia trasportarono il corpo di Ezio sulla barchetta di Francesco, adagiandolo sul fondo dello scafo tra le reti e le funi, ma in modo da non intralciare i percorsi di quest’ultime. A trasloco completato, la prima barchetta prese il vento e partì.
“Il vostro nome,” chiese Vittorio incontrando per la seconda volta lo sguardo del giovane, poco prima che questi si sistemasse al timone della seconda barchetta.
Quello sorrise e gli porse la mano. “Emanuele, Emanuele Graziato Serraioli. Per servirvi.”
L’assassino accettò la presa e si lasciò aiutare a salire in barca.

Davide e Leone seguirono le vele fin quando poterono, ma dovettero arrendersi e cambiare strategia quando queste scomparvero del tutto inghiottite dalla notte, come il pescatore aveva previsto.
“Tiralo fuori.”
Davide sobbalzò, arrossendo.
“Idiota! L’affare che ti ha dato quel ragazzo, o come si chiama,” sbottò Leone, esasperato. “Dai, tiralo fuori!” Diede un ultimo colpo di remi, poi si fermò ad aspettare che Davide facesse il richiesto.
Lo stratega lo fulminò con un’occhiataccia. “È una bussola,” sottolineò, disprezzando l’ignoranza di quell’uomo ancora una volta. “E continua a remare,” aggiunse dopo aver dato una breve sbirciata, “è la direzione giusta.” Rimise in tasca l’oggetto e non ne volle più sapere.
Leone sbuffò. “Ti pesa tanto tenertela in mano?” Col timone ridotto a brandelli aumentava il rischio che il gozzo scarrocciasse e andasse fuori rotta, perciò sarebbe tornato utile che Davide avesse la bussola sotto agli occhi; ma il ragazzo si era rifiutato con tutto se stesso anche solo di toccarla.
“Perché?” domandò Leone, laconico, continuando a remare come se in realtà non gli importasse.
Davide abbassò la testa, poggiando il mento sul petto. “Non ti riguarda, e non è né il momento né il posto per fare conversazione,” concluse starnutendo.
“Tuo padre ti picchiava da piccolo con una bussola?” ammiccò l’altro.
Davide serrò i pugni. “Se anche fosse?”    
Leone scoppiò in una fragorosa risata.
“Non mi ha picchiato con una bussola, ma è stata l’unica cosa che ha lasciato a me e mia madre prima di sposarsi un’altra.”
Leone inarcò un sopracciglio. “… una bussola.”
“Sì, una bussola!” Davide scattò in piedi gridando, e il gozzo ondeggiò. “Una maledettissima, fottutissima, squallidissima, inutilissima bussola! Disse che aveva un valore di pochi ducati, ma che avrei potuto utilizzarla per trovare le donne facili con cui andare a letto una volta e mai più, come lui aveva fatto con mia madre.”
Leone tacque. Era una storia assurda, alla quale poteva dare peso solo un deficiente come Davide.

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« ! El capitán, por  amor de Dios! Las antorchas están agotando ! » (1)
“Fate tacere quel figlio di buona donna,” fu l’ordine secco dell’uomo in testa al convoglio.
Alla guardia spagnola venne aperta la gola e il suo corpo inerte scivolò giù dalla sella, fino a terra, dove si riversò con lui anche la sua torcia, che, a contatto con la terra bagnata, si spense all’istante.
Il drappello rimase al buio nel giro di pochi minuti, ma l’ultimo lume a cadere fu proprio quello del Capitano, che se ne liberò gettandolo in un cespuglio. Dopodiché la foresta inghiottì le loro ombre, mentre gli unici suoni che tradivano la loro presenza erano gli zoccoli dei cavalli sul selciato umido e i tintinnii di staffe, armi e armature.
Cercare di proseguire oltre fu del tutto inutile. Giravano su loro stessi, lo sapeva. Ma sapeva soprattutto cosa avrebbe raccontato a Cesare quando entrambi, servo e padrone, fossero rientrati a Roma: uno scontro aperto, un’imboscata, magari; dopotutto non era fantasia troppo grande testimoniare qualche gruppo ribelle sul lago di Bracciano. Un’unica bugia avrebbe coperto sia il fallimento, sia l’omicidio di tutte le guardie spagnole che erano partite con lui quella notte. Il Capitano ne aveva ordinato le esecuzioni una dopo l’altra per i motivi più stupidi. L’ultimo giustiziato, c’era da ammetterlo, aveva benevolmente cercato di distoglierlo dalla missione e riportarlo sulla strada di casa. Prima di morire si era lamentato coloritamente della fame, del freddo, del buio e delle zanzare; ma il Capitano si rese conto che sulla storia delle torce avrebbe dovuto prenderlo sul serio.
Fece per dare l’ordine di richiamare i cani, ma si ricordò di aver fatto ammazzare anche gli unici ad avere la loro fiducia. “Stupidi mastini spagnoli…” borbottò voltando il cavallo con un colpo di talloni e una tirata di redini. “Ci ritiriamo!” disse, e partì al trotto.
I cavalli degli altri soldati si allargarono nervosamente per lasciarlo passare. Si affiancò a lui, recuperando terreno, una Guardia Papale che gli parlò in latino.
“Con quale scusa vi arrampicherete sugli specchi, Domenico da Fossalto, quando Roma pretenderà la testa di noi tutti?” sottolineò il suo nome come se fosse pronto a tradirlo in tribunale.
“Voi parlate della mia città o degli invasori che la hanno impunemente sottomessa?” rise triste il Capitano.
La Guardia Pontificia colse il senso dell’allusione che lei stessa aveva fatto. “E’ per l’odio verso Vostra Signoria che avete reciso le gole agli spagnoli della nostra scorta?” lo disse col tono dell’avvocato in voce d’accusa. “Non avete lasciato testimoni, me ne compiaccio, ma…”
“Fate il vostro lavoro, ed io il mio,” chiuse così una discussione che non voleva trasformare in un’udienza.  
“Questo è alto tradimento, Capitano.”
“Ditemi qualcosa che non so, ma fatelo anche per voi stesso. Hià!” Domenico partì al galoppo e tutti i suoi uomini lo imitarono, lasciando indietro la Guardia Papale.
L’armigero Pontificio, ancora sconcertato, richiamò l’attenzione di un cavaliere italico che si aggiustava le armi in spalla. Mostrò lui un sacchetto che gli lasciò pesare sulla sua mano. L’italiano ne rimase colpito e non poco.
“E’ solo metà di quello che ti darò quando avrai finito,” disse masticando il volgare del luogo.
Il soldato fu tutt’orecchi.

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Nonostante i vorticosi giri di corrente che li avevano allontanati l’uno dall’altro, Emanuele e Francesco riuscirono ad orientarsi e a puntare le prue verso la riva. Un’improvvisa ripresa di vento cominciò a tirare le funi, e per una breve illusione le barche acquistarono maggiore velocità; ma il peso di due corpi per scafo e la pioggia crescente erano costantemente lì a ricordar loro l’urgenza di raggiungere la costa.
Accovacciato tra le reti, Vittorio stringeva a sé l’equipaggiamento medico sottratto a Davide prima di imbarcarsi col Serraioli. Gli sarebbe stato utile al cospetto del cerusico che non poteva pagare in altro modo dal baratto.
Messer Capitano Emanuele, tenendo il timone in una mano e la scotta nell’altra, gli lanciava ogni tanto un’occhiata indagatrice; soprattutto adesso che il suo passeggero gli dava le spalle, non si era lasciato sfuggire la spada romana al fianco dell’assassino. Quando lo sguardo cadde anche su arco e faretra, la bocca non poté trattenersi oltre:
“Mercenari,” sentenziò tornando a fissare l’orizzonte, dove la piccola vela del compagno Francesco andava sparendo tra le onde.
Vittorio si schiarì la gola reprimendo un colpo di tosse. “Ve l’ho detto, io e i miei compagni…”
“Non m’interessa chi siete o da dove venite. Dovete solo promettermi che non farete alcun male alla mia gente.”
L’aveva recitato senza intonazione alcuna, quasi di prima lettura da un testo che gli era stato messo sotto agli occhi. Vittorio sgranò i propri e cercò di capire con chi avesse a che fare: un cordiale giovinetto magnanimo o un occasionale alleato? Ad ogni modo, se c’era la possibilità di far visitare il Maestro più affondo e con più calma, non era da lasciarsela sfuggire.
Sigillò quella promessa con un sorriso, ma poco dopo fu costretto a nascondere una smorfia sotto ai baffi, perché un brivido freddo gli salì con artigli di ghiaccio tutte e trentatré le vertebre.
Emanuele se ne accorse. “Resistete, manca poco.”
Il mastro arciere guardò alle proprie spalle cercando di scorgere il gozzo con il resto dei suoi compagni a bordo, ma inutilmente.
“Ora reggetevi e abbassate la testa,” disse ad un tratto il ragazzo, “dobbiamo fare un cambio di mura,” spiegò inoltre assemblando i preliminari della manovra.
Vittorio ubbidì e si schiacciò come meglio poté alla coperta.
Avvertì solo un leggero inclinarsi della barca, che inizialmente rallentò, poi i passi frettolosi di Emanuele che correva sull’altra fiancata a bilanciare il peso, mentre il boma gli lisciava il cappuccio. Non appena il ragazzo cazzò (2) la randa, facendo schioccare la scotta, la vela fu gonfia di vento e con un balzo in avanti la barca riprese a tagliare le onde.
L’assassino approfittò del nuovo percorso in linea retta per sistemarsi più comodo. Si appoggiò con un fianco all’unico albero piantato in mezzo alla coperta, non più larga di dieci spanne. Si aggiustò il cappuccio sul viso, un gesto divenuto naturale ma che fece insospettire oltremodo il suo ospite. Eppure Emanuele non fece altre domande, e Vittorio gliene fu grato. Meno innocenti sapevano chi erano davvero quei quattro incappucciati e meno innocenti sarebbero morti per proteggere o svendere il loro segreto.
Dopo un’altra serie di cambi di mura (3), la piccola imbarcazione si arenò bruscamente sulla spiaggia.
Un agglomerato di poche e povere luci si arrampicava sulla collina di fronte, interrompendosi all’improvviso nella parte alta. C’era un solo focolare, sulla spiaggia, che illuminava lo scafo ad albero nudo di due imbarcazioni più grandi.
“Francesco!” chiamò questi, mollando tutte le funi tenute strette fino ad allora.
Il ragazzo emerse dall’oscurità e venne loro incontro di corsa.
Vittorio balzò agilmente fuori dalla barchetta e lo prese per un braccio. “Lui dov’è? Qualcun altro lo ha visto?” chiese strattonandolo a sé.
Francesco guardò prima lui poi l’amico Emanuele, come per dargli la colpa del livido che avrebbe lasciato quell’uomo sulla sua pelle. “Sul carro della Sabina, dietro le colonne. Mi hanno aiutato Rachele e Corrado, da solo non ce la facevo a sollevarlo,” rispose.
Più preoccupato che mai, Vittorio lasciò andare il ragazzo.
“Bravo, ora chiudi le vele e metti a posto,” disse il Serraioli a Francesco. “Io accompagno Messer…” fece una pausa.
“Vittorio.”
“…Messer Vittorio, da Bea,” concluse Emanuele avviandosi. L’assassino lo imitò.
Francesco si protese a chiudere la vela, ma poco dopo si riscosse e raggiunse l’amico di corsa. “Cosa? Beatrice? Sei impazzito? Non puoi portare due estranei in casa sua così, perché ti va!” lo rimproverò mentre la pioggia gli entrava in bocca.
“Doriano è a Roma ed io non conosco altri dottori, qui!” sbottò Emanuele strizzandosi il capello. “Ora fa’ come ti ho detto, ma sbrigati! La vera tempesta comincerà tra poco, e stare sotto la pioggia non fa bene a nessuno.”
“E che dico agli altri due?” domandò Francesco indicando il lago alle proprie spalle.
Vittorio si sentì chiamato in causa, ma si astené dal parlare quando notò l’espressione crucciata del Serraioli.
Infatti, dopo averci riflettuto un po’ su, Emanuele rispose prontamente: “portali da Martina. Ci vediamo lì.”
Francesco rimase immobile a guardare le sagome di Emanuele e Vittorio scomparire; dopodiché tornò al suo lavoro sulla spiaggia.
Il carro su cui giaceva il Gran Maestro degli Assassini era trainato da una vecchia cavalla nera e lo trovarono dove aveva detto Francesco: dietro una serie di quattro antiche colonne dell’ordine corinzio, che un tempo dovevano essere appartenute ad un edificio andato distrutto. Infatti c’erano ruderi un po’ ovunque, lungo la strada che dalla spiaggia saliva verso il centro abitato.
“Insisto perché sediate al mio, di fianco,” disse il ragazzo.
Vittorio dovette rinunciare a quel principio di idea che aveva di sistemarsi al capezzale del Gran Maestro, sul retro del carro. Non biasimò il giovane Emanuele sulla richiesta, coraggiosamente imposta in modo così esplicito. Al suo posto si sarebbe garantito altrettanto. Montò alla destra del Serraioli, che imbracciò le redini e fece galoppare l’animale senza mezze andature.
“Questa solitamente è la carrozza privata dei nostri pesci,” spiegò il giovane con una punta d’ironia.
Vittorio ripensò alle reti sulle quali si era seduto durante il tragitto in barca. Pur ricordando di averle viste vuote e avendo tante domande da porre, non indagò oltre. Non era il momento, si disse. Piuttosto si voltò più volte a controllare il Maestro, mantenendo un rispettoso e grato silenzio.
Distogliendo l’attenzione dalla stradina sterrata, Emanuele continuava a guardarlo di sottecchi. L’uniforme e il bizzarro cappuccio a becco d’aquila del suo ospite lo incuriosivano sopra ogni dire. Ma pure lui, come Vittorio, non fece ulteriori indagini sulla sua persona, anche se avrebbe voluto. Francesco aveva detto il vero: ci voleva una bella faccia tosta ad accogliere così spensieratamente due completi estranei, di cui uno ferito grave e l’altro armato fino ai denti. L’unica domanda che forse avrebbe dovuto porre, prima di ogni altra, era cosa ci stavano a fare Messer Vittorio e i suoi compagni su quel vecchio gozzo in mezzo al lago. Il resto non importava più, ormai; nobile o mercenario, banchiere o contadino, sguattero o capitano non faceva differenza alcuna: con la Tiara in capo a un Borgia, tutto l’italici populi era condannato allo stesso pietoso destino.




*
1. "Capitano, per l'amor di Dio! Le torce si stanno spegnendo!"
2. S'intende cazzare la scotta, in linguaggio velico, quando il velista tira la fune che tiene tesa, o lascata, la vela.
3. S'intende cambio di mura quando il velista porta la barca ad avere il vento che batte sul fianco opposto dell'imbarcazione. Manovre interessate: strambata e virata.
*



.:Angolo d’Autrice:.
Qualche giorno fa ho risposto alla recensione di Emy_n_Joz al capitolo settimo. In quella risposta, senza freno, ho confessato (a mo’ di elenco della spesa) gli umori che hanno interceduto con la pubblicazione della mia storia. Avendo scritto il tutto di getto e con una sincerità inimitabile, spero non me ne voglia (la suddetta Emy_n_Joz) se riporterò esattamente le mie parole qui sotto, affinché sia di comune informazione.

Risposta alla Recensione di Emy_n_Joz al capitolo VII:

«Finalmente sto avendo un po' di tregua da me stessa per dedicarmi ad EFP, ma non con la stessa costanza di una volta, ahimé.
Era da tempo che volevo rispondere alla tua recensione, soprattutto perché ad un certo punto mi sono sentita come abbandonata dalla storia in sé e dagli stessi personaggi che avevo creato, quasi come se mi avessero voltato le spalle con tutto quello spessore realistico che avevo donato loro. E' stato terribile vederli persino sfumare dalla carta, nei disperati tentativi di tenerli stretti a me con gomma e matita.
Cos'è realmente che mi ha frenato nella pubblicazione? Il fatto, probabilmente, che non avevo più delle solide basi con le quali confrontarmi. Io stessa ho smarrito il concetto di realtà, di vita... Ho dato via troppe parti di me a troppe discipline diverse, e arrivata al momento in cui non avevo più fiato da sprecare, si è rotto... si è rotto anche quel piccolo che mi consolava più di ogni altra cosa: la scrittura.
I capitoli seguenti, fino al XII, li ho sempre avuti e li ho tutt'ora. Da riguardare sicuramente, dopo lo scorrere di questi lunghi mesi in apnea, ma che non ho intenzione di modificare se non solo stilisticamente. La trama c'è, c'è sempre stata ed ha continuato a tormentarmi (fortunatamente) anche quando ero io, la prima, a respingerla, a metterla da parte. Perciò so con certezza quando finirà questa storia. Ma non il tempo che impiegherò a scriverla. E' comunque un'emozione che non ho intenzione di farmi mancare, quella di mettere la parola fine.»

Tutto qui.
Come detto poco fa, ho sentito il bisogno di liberarmi di queste parole ed è stato un lapsus improvviso. Non ho alcuna preferenza di questo genere nei miei recensori, lasciare questa risposta ad Emy è stato del tutto… casuale. Dicendomi “ah, finalmente ho un po’ di tempo per rispondere alle ultime due recensioni non corrisposte”, non immaginavo che sarei finita col parlare di me in quel modo…
Anyway, miei carissimi, spero che la mia ennesima comparsa trimestrale non vi abbia turbato troppo. Prendetevi tutto il tempo che vi serve per leggere anche questo capitolo (partorito un po’ di fretta, all’epoca, ma rivisto più volte nelle ultime settimane.) Vi sarete resi conto da soli che con me potete andare molto calmi nel commentare! XD

Non voglio dilungarmi oltre in altre chiacchiere politiche. Veniamo al capitolo.

Mi ha fatto un immenso piacere scoprire che alla stragrande parte dei miei followers è piaciuta la prima parte del capitolo scorso. In realtà, coinvolgere Adriano direttamente, raccontando della sua prigioni, è un’aggiunta moderna. Agli albori di Helleborus non avevo intenzione di dilungarmi troppo su di lui, nonostante avessi già stampato chiaro in mente il ruolo che avrebbe ricoperto nella confraternita. Perciò vi ringrazio: questo mi ha fatto capire che posso deliberatamente decidere del suo destino. Il mio piano malvagio sta andando a compimento… Muhahahaha!
LOL
Emanuele e Francesco sono i primi abitanti di Trevignano, e anche i primi miei personaggi originali, con cui la banda bassotti ha a che fare. Sono pescatori, spero sia abbastanza chiaro, ma che nelle nottate libere hanno ben altro passatempo del quale parlerò in seguito.
Leone e Davide da soli sul gozzo sono stati un libro aperto, per me! Spero che l’idea possa divertirvi altrettanto.
In fine, vorrei rimandarvi ad un primo abbozzo della scena nel lago, fatto non molto tempo fa. Ve la linko soprattutto per darvi un’immagine più chiara di come mi sono divertita a portare i piccoli Optimist indietro di quattrocento anni! Ahahahah!
A voi: [link]
Sono ben visibili Emanuele e Francesco nelle due barchette. Davide sulla prua del gozzo e Leone piegato a tirare su il Gran Maestro, pronto a metterlo sull’altra imbarcazione.

È tutto, gente.
La vostra poco presente, ma fedele,

cartacciabianca 

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