Four Walls di RubyChubb (/viewuser.php?uid=11150)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Ciao a tutti :)
Sono
a proporvi una storia che ho iniziato a scrivere tantissimo tempo fa.
Spero che vi piaccia. Per scriverla ho preso spunto da alcune
esperienze personali che mi sono fatta soprattutto sul lavoro.
Datemi
un vostro parere, sia negativo che positivo :) Ho cercato di essere
più fedele possibile alla realtà e chiedo scusa in
anticipo se ci saranno delle incongruenze. Mi sono documentata, ma
è probabile che ci siano alcune inesattezze.
Aggiungo
che la storia è di mia invenzione, non ci sono riferimenti a fatti
né a cose accadute e i McFly non mi appartengono. Tutte le
citazioni ad opere altrui [canzoni, libri, film e così via] non
verranno riportate con scopi di lucro, così come questa storia.
A voi! Ruby.
FOUR
WALLS
PROLOGO
If I could
fly like the Queen of the sky
I could not tumble nor fall, I would
picture it all
If I could fly, see the world through my eyes
I
could not stumble nor fail, I could ravage my jail
If I could fly
(If
I Could Fly – Helloween)
I
said maybe you're gonna be the one who saves me
And after all
you're my Wonderwall
(Wonderwall
– Oasis)
Wrong
or Right
Black or White
If I close my eyes it’s all the same
(All
the Same – Sick Puppies)
Secondo
molte teorie socio-psicologiche, l’uomo non è buono, né cattivo.
E’
primariamente essere umano.
Può
essere essenzialmente buono.
Può
essere essenzialmente cattivo.
Può
essere essenzialmente l’uno e l’altro.
Ci
sono uomini incapaci di odiare il prossimo loro più vicino.
Ci
sono uomini privi di senso di colpa.
Ci
sono uomini a cui piace stringere le mani e con le stesse
schiaffeggiarti.
Ogni
luogo della nostra Terra è popolato da uomini, non esistono zone
vergini dalla sua presenza.
Ogni
luogo della nostra Terra è popolato da uomini essenzialmente buoni,
essenzialmente cattivi, essenzialmente buoni e cattivi.
Grandi
concentrazioni di uomini all’interno di un territorio circoscritto
fanno ritenere giusto il pensare che questo stesso assuma la
caratteristica fondamentale che delinea il comportamento umano di
maggioranza.
Quindi,
ci sono luoghi essenzialmente buoni, luoghi essenzialmente cattivi,
luoghi essenzialmente buoni e cattivi.
La
probabilità che individui essenzialmente buoni si ritrovino in
luoghi essenzialmente cattivi è piuttosto alta, e viceversa.
La
probabilità che questi stessi individui assumano caratteristiche non
a loro confacenti è anch’essa piuttosto alta.
Ma
sono solo teorie.
O
no?
***
Unì
le mani al grembo e pregò il Dio in cui non aveva mai creduto. Non
sapeva cosa avrebbe ottenuto da quell’ultima giornata, era entrata
in aula di tribunale senza alcuna speranza a dipingerle un bel
sorriso sul volto. Era ormai troppo tempo che serbava quelle
espressioni felici per i momenti più speciali. Negli altri casi
erano mezzi tagli di circostanza, esibiti per pura casualità o per
necessità. Non sempre il suo essere scostante e facilmente
irritabile era una buona soluzione per vivere la giornata, Meg lo
aveva imparato con il passare del tempo.
La
signorina Dean, il suo avvocato, le dette un piccolo colpo al gomito,
riportando la sua attenzione al piano Terra, ma la sentenza era già
conclusa. Il giudice schioccò il suo martello e si ritirò,
mandandoli tutti in pace. Le poche persone intorno a loro si alzarono
frettolosamente e se ne andarono, nessuno si trattenne con loro due.
“Cosa
ha detto?”, chiese al suo avvocato.
“Non
hai sentito?!”, domandò lei, scandalizzata, nel suo perfetto
tailleur color crema.
“Beh…
No.”, rispose con tranquillità.
La
donna ebbe un fremito di rabbia impaziente, poi si calmò.
“E’
incredibile.”, commentò con stizza, “Ti hanno ridotto di nuovo
la pena e tu non hai sentito il giudice pronunciare la sentenza…”
Meg
sapeva di essere la sua peggiore cliente, ma era lei che i suoi
genitori si potevano permettere, quindi che la smettesse di sputare
sul piatto in cui mangiava da ormai diversi anni a quella parte.
“Perciò…”,
Meg la esortò a parlare.
“Perciò
vista la buona condotta, vista la buona parola messa su di te da
parte del direttore su richiesta del personale che ti segue… E
vista anche una serie di leggi che ho spolverato dal dimenticatoio
per te, da qui a diciotto mesi sei fuori.”
Le
ci vollero molti secondi per digerire la notizia. Prese ogni parola e
la soppesò con la sua bilancia mentale, cercando di comprenderne
ogni significato nascosto e potenzialmente pericoloso.
“Vuoi…
Vuoi dire che…”, balbettò, sbattendo gli occhi.
Sentiva
di avere le vertigini, stava svenendo, aveva bisogno di sedersi e di
bere.
“Ti
hanno ridotto la pena di quattro anni. Ti destineranno ad un
programma per il reinserimento lavorativo e questa è la fine, potrai
tornartene a casa per sempre.”, disse l’avvocato, rudemente e
senza alcun tatto, prendendo la sua borsa ed avviandosi verso
l’uscita dell’aula.
L’agente
Harris, che se n’era rimasta accanto a lei per tutta la durata
della seduta in tribunale, le fece capire con uno sguardo ed un gesto
che era arrivato il momento di tornare da dove era venuta. Anche se
il metallo ai suoi polsi era stretto e le toglieva il sangue alle
mani, anche se la sua divisa era dello stesso colore tetro, anche se
la catena che le fissava le manette alla vita aveva il solito peso,
Meg si sentiva più leggera.
Molto
più leggera.
Un
giorno in più o in meno dentro a quel carcere non faceva ormai molta
differenza per lei, che ormai vi aveva passato tre anni e mezzo della
sua vita per un fatto che aveva commesso con piena e riconosciuta
colpa. Non si era mai dichiarata innocente, la coscienza e l’evidenza
dei fatti non glielo avevano permesso. Un mese in più o in meno,
invece, cominciava a fare sentire il suo peso. Se poi pensava a
quattro anni tagliati tutti d’un colpo, Meg poteva mettersi a
piangere dalla felicità.
E
fu infatti quello che fece.
Camminava
e piangeva, con le mani bloccate all’altezza del bacino non poteva
asciugare le lacrime, ma non le importava. Una volta tornata in
istituto avrebbe chiamato i suoi, a casa, per riferire la notizia.
Non erano venuti: papà si era fatto prendere dalla febbre stagionale
ed il tribunale scatenava in mamma dei violenti attacchi di panico.
Diciotto
mesi e tutto sarebbe finito.
Diciotto
mesi ancora.
________________________
Note
dell'autrice:
lo so che il prologo è veramente poco... Abbiate
pazienza...
Questa è
Meg: http://i235.photobucket.com/albums/ee196/R...y/544092-xs.jpg
Le
canzoni. No scopo di lucro.
If I could fly -
Helloween http://www.youtube.com/watch?v=Pn0_oK69YTA
Wonderwall
- Oasis... C'è bisogno di un video? xD
All the same - Sick
Puppies http://www.youtube.com/watch?v=cs72v-2zjsg
Quest'ultima
canzone, così come tutte quelle dei Sick Puppies, è la colonna
sonora portante della storia, ditutti i capitoli che seguiranno. E'
quella che la ispira.
Il titolo, invece, è preso da un'omonima
canzone degli Staind http://www.youtube.com/watch?v=eag5slJ_yag
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Capitolo 2 *** Capitolo Uno ***
CAPITOLO UNO
Faceva
uno strano effetto sedersi di nuovo davanti ad un banco,
immagazzinata nella terza fila di un’aula piuttosto gremita di
persone. L’ultimo suo giorno di scuola risaliva a molto tempo
prima: Meg non aveva avuto nemmeno il tempo di terminare l’anno
scolastico, la sentenza era stata emessa frettolosamente ed aveva
ottenuto il diploma con un esame dato dietro alle sbarre. Il suo caso
era stato così evidente che gli avvocati non avevano potuto fare
altro che accettare ciò che il giudice aveva sviolinato in prima
seduta, non c’era stato niente da fare, tranne i ricorsi che le
avevano ridotto la pena per buona condotta.
Si
sentiva la più piccola di tutti e doveva proprio esserlo: attorno a
lei detenute donne di ogni età, compreso qualche uomo, cosa che la
fece sentire piuttosto a disagio. Molto probabilmente, data la scarsa
presenza maschile, avevano deciso di accorpare i due generi sessuali,
risparmiando così tempo ma soprattutto denaro.
Meg
aveva scelto quel corso per uno scopo preciso e piuttosto pratico:
dato che nell’ultima e conclusiva sentenza del tribunale il giudice
l’aveva destinata alla frequenza di un programma per il
reinserimento lavorativo, e data anche la scarsa offerta formativa
prevista dal carcere, aveva optato per il corso di giardinaggio di
base ed operatore ortofloricolo. Mamma e papà gestivano da anni un
vivaio, una volta uscita avrebbe potuto trovare una piccola
sistemazione temporanea presso di loro, prima di cercare qualcosa di
meglio. Non aveva mai avuto il pollice verde, ma la necessità faceva
l’uomo capace di adattarsi a qualsiasi situazione… Era così il
proverbio, vero?
Non
si sentiva meno colpevole dei detenuti intorno a lei, eppure una
briciola di lei pensava di esserlo. Tranne i cinque uomini presenti,
provenienti dalla sezione maschile, conosceva tutte quelle donne,
dalla prima all’ultima. Sapeva il loro nome, per quale motivo erano
state confinate lì dentro e se era sano parlare con loro. Un buon
trenta per cento di quelle persone era per lei off limits, la
restante parte le rimaneva indifferente oppure amica. Purtroppo, come
in una scuola, anche il carcere aveva quelle regole di convivenza:
c’era a chi stava sul cazzo, chi non la filava di striscio e c’era
anche chi mangiava con lei.
Meg
sapeva di non essere un tipo simpatico, ma neanche troppo antipatico.
La sua compagna di cella, Rachel, le diceva di essere una dritta, che
nel linguaggio intramurario significava essere una persona tranquilla
e che non rompe troppo le scatole alla prossima sua. Rachel, invece,
si definiva una storta, una che non ci pensava due volte e decideva
sul momento se ficcarti una scarpa su per il culo, obbligandoti a
conservarla lì per almeno sette giorni. Ma Rachel, a differenza di
Meg, aveva quarantadue anni, due palle cubiche, un marito con una
pallottola in mezzo agli occhi e una figlia che molto probabilmente
non sapeva nemmeno che sua madre si trovasse in carcere, dato che era
stata data in affidamento ad una famiglia che viveva in capo
all’Irlanda del Nord.
Lì
dentro ognuna di loro aveva la sua storia tragica.
Lì
dentro ognuna di loro sapeva perché vi si trovava.
Lì
dentro ognuna di loro era dritta o storta e le due fazioni si
equilibravano piuttosto bene, senza fondersi.
Lì
dentro, Meg era una dritta che condivideva la cella con una storta.
Erano
quelle come Rachel a definirla una dritta, mentre le dritte pensavano
che fosse una storta. Non era molto chiaro nemmeno a Meg stessa, ma
l’importante era essere lasciata in pace da entrambi i gruppi,
soprattutto dalle storte. Si sentiva come una secchiona tra i bulli,
per poi essere capace di fare la prepotente con i quattrocchi, ma
quel suo particolare status le evitava tanti problemi. Poteva essere
‘amica’ di Rachel e scansare molti delle complicazioni che le
dritte si trovavano ad affrontare nel loro problematico e burrascoso
rapporto con le storte, ma non ne era del tutto esente.
Quando
nella classe incrociò infatti lo sguardo di una di loro, quella le
si avvicinò e le sussurrò in un orecchio di essere la figlia della
più grande troia che popolava il loro mondo, ma non erano le parole
a farle del male. Erano i pugni nei reni ricevuti nelle docce, quelli
sì che facevano un cazzo di male. Una volta ne aveva presi così
tanti che non era riuscita ad andare in bagno per una settimana:
l’avevano tenuta in infermeria per due giorni.
Era
quella la vita del carcere, aveva fatto tesoro di tanti piccoli e
grandi insegnamenti giorno dopo giorno, custodendoli gelosamente per
tenersi lontana dai guai e non farsi notare troppo, sebbene fosse
inevitabile. Erano solamente trecento donne, le nuove arrivate erano
frequenti ma non quelle di diciotto anni appena compiuti, con i
capelli rossi e una condanna fresca a dieci anni di reclusione. Come
lei molte altre, chi per prostituzione, chi per spaccio, chi per
furto aggravato, ma forse fu il colorito acceso dei suoi capelli ad
attirare l’attenzione su di lei.
Al
tempo erano stati di una tonalità piuttosto riconoscibile, un
arancione decisamente inevitabile da nascondere, ma con il tempo era
sparito.
Stupidi
vani pensieri, si disse Meg.
Si
sentì lo sguardo di uno degli uomini su di sé, tanto che dovette
fargli un eloquente gesto per scrollarselo di dosso ma non fu molto
efficace. Per lei, i detenuti della sezione maschile erano individui
da castrazione chimica obbligatoria, guardavano le donne come se
fossero state le uniche sulla faccia della terra, poi passavano il
tempo a gettare saponette a terra e sfogarsi suoi loro compagni di
cella e di sesso. C’erano pochi giorni all’anno in cui le
capitava di condividere il suo tempo con quegli esseri ed erano
essenzialmente il pranzo di Natale, l’ultimo dell’anno e la
domenica di Pasqua.
I
giorni peggiori, e non per la loro presenza.
La
volontà di sentirsi forzatamente felici e contenti in quei tre
giorni le faceva venire sempre il voltastomaco. Il primo anno aveva
passato le festività a piangere sul suo piatto, lei come molte altre
delle nuove, poi ci aveva fatto l’abitudine. Avrebbe dovuto passare
dieci dei suoi Natale in carcere, doveva solo rassegnarsi ed
attendere. Era sempre stata una ragazza piuttosto paziente e, sebbene
avesse avuto periodi di forte depressione, per il momento stava bene.
La prospettiva di essere presto libera le accorciava le giornate.
E
quella, come i quattro mesi successivi, la passò per quattro ore
seduta dietro ad un banco ad imparare. Docenti giovani e vecchi,
simpatici ed antipatici, insegnarono loro la ciclicità della natura,
la difesa delle piante, la lavorazione del suolo e così via. Prese
appunti, venne esaminata, imparò a far diventare verdastro il suo
pollice bianco. C’erano alunne più brave di lei, gli uomini erano
degli asini, ma non se la cavò male. Una volta alla settimana
venivano portati nell’orto del carcere, uno spazio di quasi un
ettaro circondato dalla striscia finale delle mura, nel quale
avveniva la dimostrazione pratica di quello che era stato loro
insegnato.
All’inizio
del quinto mese scelsero se specializzarsi nella floricoltura o
nell’agricoltura: Meg si stupì, moltissime donne preferirono
dedicarsi alla semina e alla coltivazione degli ortaggi e della
frutta, piuttosto che ai fiori. Molto probabilmente perché la serra
era degna del nome che portava, i fiori erano molto più difficoltosi
da gestire rispetto ad un patata o ad un grappolo d’uva, ed il
corso si protraeva per un mese un mese. Oltretutto, nei mesi
invernali il lavoro agricolo era drasticamente ridotto, mentre in
serra gli impegni andavano avanti ad oltranza.
Meg
pensava al vivaio di famiglia, ne aveva parlato con suo padre e gli
era sembrato piuttosto contento. Non aveva sprizzato gioia da tutti i
pori, in fin dei conti la sua unica figlia era stata messa in
prigione con l’accusa di omicidio, ma nonostante la stanchezza
delle sue risposte e l’usuale freddezza, i rapporti con mamma e
papà erano piuttosto tranquilli. Certo, se n’era dovuta
convincere. Spesso si era trovata a pensare che fosse soltanto il
legame di sangue che teneva vivi i contatti, poi Rachel l’aveva
fatta ragionare, stanca dei suoi lamenti notturni.
“E’
stata una casualità.”, le aveva detto, piuttosto che sentirla
ancora piangere nel sonno, “Sei una persona essenzialmente buona.
Non uno stinco di santo, sei stronza e pure figlia di puttana quando
ti ci impegni, ma non sei cattiva.”
“Nemmeno
tu sei cattiva, Rachel.”, le aveva risposto Meg.
“Ci
vuole un certo coraggio a puntare una pistola sul viso di tuo marito
e premere il grilletto, non penso di essere buona.”
“E
io cosa ho fatto?”, aveva controbattuto.
“Tu
hai fatto l’imbecille.”
Ci
aveva pensato a lungo, poi si era detta che, piuttosto che impazzire,
Rachel doveva aver avuto ragione. Era stata un’imbecille, tutto era
successo per errore, era su quelle stesse basi che si era stabilita
la sua difesa in tribunale. Quindi se i suoi rispondevano alle sue
chiamate, le mandavano i soldi e le cartoline per Natale era perché
avevano chiuso entrambi gli occhi sulla sciagura vivente
rappresentata dalla loro figlia.
Non
sarebbe mai stato come prima, Meg non era più la luce nei loro
occhi. Non le volevano più bene, lo sapeva, era solo una questione
di essere genitori e figlia, ma constatare che comunque non l’avevano
completamente esclusa dalla loro vita l’aveva aiutata nel mantenere
la salute mentale. Passare da essere una ragazza perfettamente
normale e tranquilla, con una buona carriera scolastica e un sacco di
amici in rubrica, al trovarsi segregata dentro quattro mura, di cui
una composta da sbarre di ferro spesso, era stato uno trauma
impossibile da gestire con le sue mani di diciottenne.
***
“Meg,
dormi, per cortesia.”
Non
poté fare a meno di voltarsi di fianco, la brandina scricchiolò
sotto al suo peso e Rachel borbottò ancora.
“Meg,
vuoi un pugno nello stomaco?”, sbraitò la donna, che dormiva nel
letto sotto al suo.
Udirono
entrambe una voce incazzata proveniente dalla cella accanto alla loro
-Meg non seppe riconoscere se fosse appartenuta a quella tossica di
Della o alla pazza isterica di Caroline- le pregò coloritamente di
tapparsi le bocce.
“Fatti
i cazzi tuoi, stronza!”, le rispose subito Meg, “Allora, Meg, ti
decidi a dormire o no?”
La
ragazza sbuffò e tornò supina.
“E’
solo il tuo primo giorno di lavoro, perché ti agiti così tanto!”,
esclamò ancora Rachel.
L’ultima
volta che aveva impiegato la sua manodopera in qualcosa aveva ucciso
un tizio. No, Meg non era affatto nervosa. Il battito del suo cuore
non era accelerato, la frequenza del suo respiro non era a livelli
allarmanti, né le sue mani sudavano freddo. Era il ritratto della
calma.
“Avanti,
dimmi tutto.”, la esortò Rachel, “Parla con mamma tua.”
“Niente,
mi è venuto sonno.”
“Ok,
come vuoi. Mantieni la tua promessa e lasciami dormire, che domani ho
l’udienza per il ricorso.”, la avvertì Rachel.
“Rimarrai
qui a vita…”, sottolineò Meg.
“Lo
so, cosa vuoi che me ne importi.”, disse l’altra, come ogni
volta, “Qua ho un tetto, cibo e riscaldamento d’inverno. Perché
dovrei voler uscire?”
Per
vedere tua figlia, si disse Meg, ma non parlò. L’ultima volta che
lo aveva fatto, Rachel le aveva rifilato uno schiaffo così doloroso
che aveva temuto di perdere un paio di denti. Meglio non metterla di
fronte alle sue debolezze, aveva imparato Meg, non le serviva
qualcuno a rinfacciarle gli errori della sua vita.
“Notte.”
“Notte
notte.”
La
promessa non venne mantenuta, Meg non si addormentò e forse neanche
Rachel, ma non era necessario che se ne accertassero.
***
Due
detenuti senior erano a capo dei gruppi Margherita e Pomodoro,
nomignoli che dividevano rispettivamente coloro che avevano optato
per la floricoltura da quelli che volevano giocare ai contadini.
Erano i loro responsabili, quelli che guidavano i lavori e a cui
tutti loro dovevano fare riferimento. Anche loro avevano frequentato
il corso, ma ben tre anni prima: Meg non conosceva l’uomo a capo
dei Pomodoro, si chiamava Ned ed era un tipo piuttosto
anonimo. Disse sarebbe uscito presto, ebbe piacere di comunicarlo con
la gioia negli occhi.
La
sua capa, invece, si chiamava Daisy e non era un’ironia. Una
margherita a capo delle margherite. Dopo una rapida occhiata, Meg si
chiese quale crimine poteva aver commesso per starsene in carcere:
aveva due gambe così lunghe da sembrare una modella ed il suo viso
era altrettanto bello, il sorriso luminoso.
“Bene,
seguitemi!”, Daisy e Ned chiamarono a rapporto i componenti dei
loro gruppi, che si divisero.
Meg
si mise in cammino verso la serra, insieme ai suoi dieci compagni:
otto donne e due uomini. Insieme a loro le guardie destinate alla
sorveglianza, un uomo ed una donna, a cui Meg non prestò alcuna
attenzione. Era ormai abituata ad essere seguita a vista d’occhio
e, nonostante nei suoi primi tempi fosse quasi caduta in una sorta di
mania di persecuzione, gli agenti di polizia non le facevano più
effetto. Erano come le erbacce nel prato, impossibile liberarsene.
La
porta della serra si aprì e l’impatto con l’atmosfera interna fu
piuttosto forte. Era primavera inoltrata, fuori si respirava un’aria
deliziosamente profumata, mentre lì dentro il caldo e l’ammasso
stridente di essenze diverse le fece girare la testa, tanto che fu
costretta a tapparsi il naso.
“Ci
farai l’abitudine.”, disse Daisy con un bel sorriso amichevole,
“Altrimenti ci sono i fagioli che ti aspettano!”
Risate
e prese di giro. Altro che sorriso amichevole…
La
lezione pratica iniziò e, per prima cosa, ci fu una lunga
interrogazione che toccò tutti loro, nessuno escluso. Daisy si
divertì anche con i due agenti di polizia, che non azzeccarono
nessuna delle risposte e si limitarono a ridacchiare mestamente con i
detenuti, colpevoli di ignoranza. Tutti furono esaminati, solo una
piccola percentuale poté dire di aver fatto una buona impressione su
Daisy e Meg non ne faceva parte.
“Perfetto.”,
disse il loro capo, “Ora vi dividerò in due gruppi: chi è stato
promosso continuerà la lezione con me. Chi è stato bocciato, poterà
tutti i vasi fuori dalla serra per il bagno di sole giornaliero.”
Meg
la maledisse con tutto il cuore.
***
Imparò
presto di non essere sotto l’ala protettrice di Daisy, lei come
altri quattro detenuti: cinque pupilli e cinque asini, che matematica
perfetta. Nella settimana successiva furono tartassati di domande,
messi sotto pressione come se dalle loro risposte fosse valsa la vita
di un condannato a morte, quando invece le uniche a rimetterci
qualcosa erano le loro schiene, che dovevano accollarsi il peso di
quei giganteschi vasi.
Tutti
i giorni.
Oltrettutto,
Daisy aveva stabilito due turni, mattina e pomeriggio. Cinque
componevano la sottosezione Margherita Uno, gli altri erano
confluiti in Margherita Due. Che fantasia. Meg si trovò
insieme a due dei quattro poco sopportati da Daisy: Annelise, la
cinquantenne in menopausa, e Carlos, lo spagnolo pieno di tatuaggi e
di pearcing alle orecchie. Erano stati ripartiti, così da avere
sempre qualcuno pronto a far uscire i vasi, qualcun altro a
rimetterli a posto.
Che
vita fantastica. Meg si chiese quale punizione stesse toccando ai
loro colleghi Pomodori Cattivi… Forse dovevano spalare il concime.
Alla fine della seconda settimana di lavoro le erano venuti i calli
alle mani e la schiena aveva smesso di dolerle, tanto che Rachel tirò
il suo ennesimo respiro di sollievo, non sentendola più lamentarsi
alla notte per la fatica.
Sembrava
non ci fosse stato altro compito per loro che spostare vasi,
innaffiare le piante, controllare la preparazione del compostaggio
-che altro non era che il concime ottenuto dalla fermentazione dei
rifiuti organici prodotti dalle cucine- e redigere una specie di
almanacco mensile in cui elencare tutti i lavori da eseguire
settimana dopo settimana.
Il
morale basso e l’incazzatura alta stava per produrre una sorta di
ammutinamento nelle Margherite Due, tanto che Carlos si era già
proposto per mettere una pastiglia di acido nelle bottiglie d’acqua
delle Margherite Uno, sapeva come recuperare quella droga. Un’altra
caratteristica delle carceri era la costante circolazione di oggetti
e sostanze illegali, usate come moneta di scambio tra i detenuti.
Poteva sembrare un paradosso, ma era la quotidianità e Rachel se ne
intendeva molto più di Meg. C’era dentro, faceva parte di una
sorta di comunione di interessi tra lei e qualche altra detenuta.
Prima
che qualsiasi provvedimento venisse adottato, Daisy parve capire il
loro malumore.
“Bene,
per questo pomeriggio ci occuperemo della potatura delle nostre
rose.”, disse.
Dette
loro le forbici da giardiniere, Meg osservò che erano tutte
numerate, a prova di furto.
“Prendetevi
una pianta.”
Si
sparpagliarono e scelsero.
“I
vostri compagni Margherite Uno vi hanno già preceduto, perché una
prima potatura della rosa va sempre effettuata nel mese di maggio….”,
ed il cervello di Meg si disconnetté immediatamente.
La
voce di Daisy era melodiosa, da ninna nanna, e non le resisteva.
Impiegò il proprio tempo ad osservare la rosa davanti a sé. Il
colore dei boccioli era di un rosa piuttosto intenso, chissà se il
fiore sarebbe rimasto di quel colore per sempre. La pianta era curata
e perfettamente dritta, tenuta ferma da un sostegno in plastica
verde. Si vedeva che era forte, nonostante un paio di foglie
presentassero le piccole morsicature di qualche parassita, ma doveva
essere stato eliminato in tempo.
Una
guizzo più forte nella voce di Daisy la fece sussultare, con il
risultato che la punta del suo dito, che era andato ad intrufolarsi
tra i rami della pianta, si fece male contro una delle tante spine.
“Attenta.”,
la ammonì una voce alle sue spalle.
Non
era quella di Carlos, piuttosto profonda e dall’accento
inconfondibile. Meg fu costretta a voltarsi per capire da chi fosse
provenuta.
“Stai
perdendo la lezione.”, le disse un volto in divisa.
Lo
riconobbe, era l’agente che solitamente era a loro guardia insieme
alla sua collega Evans, del reparto femminile. Meg si portò il medio
alla bocca, nella speranza che potesse far cessare il dolore. Con un
cenno di testa, la guardia la esortò di nuovo a prestare ascolto a
Daisy.
“Grazie,
agente Jones.”, disse prontamente la loro insegnante.
“Continua
pure.”, concluse il tizio.
“Sta
seguendo la lezione con noi?”, domandò Daisy.
Meg
fu certa che la donna stesse per arrossire e sbattere le ciglia per
tre volte, come era solita fare quando si sentiva compiaciuta del
proprio lavoro.
“Potrei
approfittare dei tuoi consigli e farmi bello con mia mamma.”, disse
l’agente.
Da
come pronunciò quelle parole, Meg comprese subito di avere a che
fare con uno zotico agente del nord.
Non
si finiva mai di incontrare della pessima gente in quel carcere.
La
birra era la sua seconda migliore amica. La prima si chiamava… Non
se lo ricordava, era piuttosto ubriaco. La memoria diventava sempre
piuttosto labile quando il tasso alcolico superava i limiti di
guardia, ma non gli importava. Non era lui che avrebbe dovuto guidare
quella sera, Danny si sentiva tranquillo quando si affidava alle mani
altrui. Doppiamente tranquillo, aveva due giorni liberi dal lavoro
davanti a sé, non poteva chiedere di meglio. Li avrebbe passati sul
letto, appollaiato davanti alla tv o appiccicato al culo di qualche
suo amico.
“Un
giorno voglio tenere in mano la tua pistola…”
Si
voltò alla sua destra. Un paio di occhi intensamente blu si
aggrapparono ai suoi ed un sorriso malizioso e furbo si fece strada
nei suoi pensieri.
“Non
sono ancora pronto per determinate esperienze.”, rispose Danny, “E
poi la mia pistola è al sicuro.”
“Dici?”,
insinuarono quegli occhi, “Fammela vedere…”
“Ok!
Basta!”, irruppero altri occhi, di color nocciola, “Piantatela
voi due!”
“Tom
è geloso.”, dichiarò Danny, “Era lui a volere la mia pistola
per primo.”
“Oh,
fottetevi!”, esclamò Tom, alzandosi, “Io voglio andare a casa.”
Danny
si scrollò di dosso Dougie, che insieme a Tom era uno dei suoi amici
più stretti. In quella serata l’unico a mancare era Harry: il
giorno dopo avrebbe dovuto sostenere il suo tanto agognato esame per
l’abilitazione alla professione di avvocato. Doveva essersi
segregato da qualche parte nel suo appartamento a ripassare leggi,
decreti e qualsiasi altra mozione legislativa promossa dal loro
parlamento e dalla cotanto amata Regina Madre.
“Dai,
andiamo.”, disse Dougie, cercando di mettersi in piedi e
barcollando vistosamente, “Credo di averne abbastanza.”
“Anch’io.”,
rispose Danny, seguendolo con notevole fatica, “E non è l’unica
cosa di cui sono stufo.”
“Quali
sarebbero le altre?”, gli chiese Dougie con voce biascicata, con
scarso interesse.
“Il
mio lavoro. Fa schifo.”
“Andiamo!!!”,
li esortò ancora Tom che, per assicurarsi il rispetto della sua
volontà, li prese entrambi per un braccio e li portò fuori dal
locale, “Avresti dovuto capirlo molto tempo fa che non ti piaceva
fare l’agente di polizia penitenziaria!”
“A
me piace!”, lo contraddisse subito, dondolando la testa, “Mi fa
schifo quello che sto facendo adesso…”
“Ah
sì…”, borbottò Dougie, “La serra…”
Uscirono
dal loro pub di fiducia, la porta si chiuse alle loro spalle con un
tonfo e la strada vuota si riempì dello scalpiccio dei loro piedi.
“Sono
allergico alle piante!!!”, gridò improvvisamente Danny, “Le
odio! Mi fanno schifo!!!”
Tom
lo obbligò a sedersi in auto, costringendolo sul sedile posteriore
con un gesto rapido e brusco delle mani. Ce lo spinse, appoggiò le
dita sul suo petto e lo ficcò nella macchina. Dougie ebbe una sorte
migliore: era lievemente più sobrio di lui e fu capace di
accomodarsi senza alcun aiuto.
Pochi
attimi dopo furono in moto sulla via di casa, con Tom che bolliva
come un pentolone a pressione, Dougie che minacciava di vomitare da
un momento all’altro e lui sdraiato sulla poltroncina, un braccio
sugli occhi e la gola secca. Quell’ubriacatura si stava lentamente
risolvendo in un pesante macigno sulle spalle. Una botta triste, come
l’avrebbe chiamata Harry.
Passò
le dita tra i riccioli corti, rimpiangendo gli anni in cui erano
stati lunghi, come i ciuffi ribelli di Dougie e la frangia folta di
Tom. Se li era dovuti tagliare per rispettare il regolamento che
vigeva per tutti gli appartenenti al suo corpo di polizia. Non odiava
affatto il suo lavoro, lo aveva scelto di sua spontanea volontà ed
affrontava la quotidianità con la giusta dose di serenità. C’erano
regole, comportamenti da tenere, contatti da evitare, superiori da
rispettare e turni massacranti da sopportare, ma tutto quello andava
bene a Danny.
Gli
sarebbe piaciuto fare carriera, passare dall’essere un semplice
agente a direttore di un carcere, perché no? Aveva sempre avuto il
pallino di salire in alto e, con la calma e la pazienza di una
formica, aveva presentato la sua domanda di iscrizione al corpo di
polizia, frequentato il relativo corso, ed era stato poi destinato ad
un carcere nel nord della Scozia. Vi aveva lavorato per due anni, poi
lo avevano trasferito a Londra, nell’istituto Holloway, quella
volta come la precedente lontano dalla sua casa natale, nei sobborghi
di Manchester. Adesso erano quasi sei mesi che faceva parte degli
agenti della Holloway.
Lì
dentro vi aveva conosciuto Tom Fletcher, che correntemente lavorava
come secondo cuoco all’interno della grande cucina dell’istituto.
Durante le ore di lavoro, Tom nascondeva il suo ciuffo sotto ad una
retina per capelli che lo rendeva ancora più buffo di quanto non
fosse stato in realtà. Era un tipo piuttosto simpatico, lo aveva
aiutato molto ad ambientarsi, soprattutto in città: il caos e la
frenesia di Londra gli avevano dato alla testa dopo pochi giorni.
Grazie a lui Danny aveva conosciuto Dougie.
Poynter
non era esattamente un bravo ragazzo, come lo avrebbe definito sua
madre. Per lei, infatti, solo chi aveva un buon lavoro, la faccia
rasata ed i capelli corti poteva essere definito una buona persona,
ma Danny lo conosceva, anche se da poco tempo. Passava le sue
giornate nel posto che si pensava a lui meno adatto, dietro al
bancone di una biblioteca a distribuire e catalogare libri; a
guardarlo, Dougie poteva sembrare incapace di allacciarsi le scarpe,
poi tutti rimanevano stupiti nel scoprire che aveva letto il
cinquanta per cento della narrativa presente sugli scaffali polverosi
della biblioteca.
Erano
due settimane che non vedeva Harry, fossilizzato e chino sui suoi
libri. Voleva diventare avvocato, si erano conosciuti in un aula di
tribunale, durante uno processo a cui entrambi avevano partecipato.
Danny come fresco agente della Holloway, Harry come praticante. Si
era aggiunto al trio.
“Scarico
Dougie, tu rimani in auto.”, disse Tom, fermando l’auto al lato
della strada.
“Ok.”,
rispose tossendo.
“Ti
ci chiudo dentro, una sicurezza in più.”
Non
sarebbe fuggito da nessuna parte, non ne avrebbe avuto le forze
fisiche e mentali. Era stanco, voleva solo dormire e riposarsi, farsi
passare la tristezza che lo stava deprimendo. Non sempre le sue
ubriacature finivano in quel modo, capitava raramente.
Nota
mentale: non bere troppo quando non si è sobriamente di buon umore.
Per
carità, non avrebbe avuto alcun problema se non avesse dovuto
passare quattro ore del suo turno da nove a fare la guardia a
detenuti del tutto tranquilli in una fottuta serra, oppure all’aria
aperta, imbottito di antistaminici per tenere a bada la sua allergia
ai pollini dei fiori.
A
parte quello, tutto il resto andava piuttosto bene.
Tom
tornò in auto e imprecò sonoramente.
“Ho
preso una decisione.”, disse Danny, quando percepì il movimento
del mezzo.
“Spara.”,
borbottò il suo amico, del tutto disinteressato.
“Da
grande farò lo scrittore.”, si pronunciò.
Tom
sbuffò una piccola risata. Danny si addormentò pochi attimi dopo.
________________________________
Grazie a quelli che hanno letto e che continueranno a seguire questa storia :)
Ruby
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Capitolo 3 *** Capitolo Due ***
CAPITOLO
DUE
Ormai
aveva imparato a fronteggiare Rachel, sebbene ogni sua parola venisse
detta con la paura a fare da sottofondo.
“Non
me ne frega un cazzo se hai perso la tua maglia buona!”, le disse
Meg, “Io non l’ho presa!”
“E
chi altro può averlo fatto, sentiamo!”, esclamò Rachel, “Non
vedo molti coinquilini in questa fottuta cella!”
“Non
ho mai toccato le tue cose, perché dovrei farlo adesso!”, continuò
Meg in preda all’esasperazione.
Presto
sarebbe tutto finito, si disse, doveva solo starsene calma ed
attendere che Rachel uscisse dalla cella, diretta verso la sua
fottuta attività di rompi-il-cazzo-a-chiunque-ma-non-a-me. Il
succo della questione? La sua compagna di cella si era alzata di
pessimo umore, se l’era rifatta con lei per aver perso la sua
maglietta preferita e non voleva starla a sentire.
“Ridammi
la mia maglia!”, gridò Rachel.
“Signorine,
adesso basta!”, tuonò l’agente Gibson, di turno quella mattina
al loro piano, “Vi sentiamo dal fondo del corridoio!”
“Non
me ne frega un cazzo!”, sbraitò Rachel.
“Modera
i termini!”, ribatté subito l’agente, alterandosi in un attimo.
Quel
rimproverò fu sufficiente a fare calmare Rachel. Meg si chiese per
quale motivo fosse così agitata, da diversi giorni a quella parte
dava in escandescenza ad ogni minimo segno di contatto umano. Volle
dirle che era disposta a darle una mano, ad ascoltarla, ma era troppo
furiosa con lei per porgerle il suo aiuto e se ne andò verso la sala
mensa per fare colazione.
Mangiò
rapidamente, tanto che una volta messo piede in serra l’intenso
profumo dei fiori la nauseò e stette quasi per vomitare, riuscì a
contenersi a stento. La sua faccia pallida preoccupò i colleghi, ma
Meg mascherò tutto con un sorriso e cinque minuti all’aria aperta,
passati in compagnia dell’agente Evans e della sua sigaretta
fumante. Non appena il suo stomaco si fu quietato, Meg riprese posto
all’interno della serra.
“Bene.”,
sentì dire a Daisy, “Oggi passeremo il nostro tempo fuori da
questo ammasso di vetro.”
Così
come ebbe trattenuto la colazione dentro di sé, Meg celò anche la
sua improvvisa gioia.
“Megan,
tu rimarrai dentro.”, Daisy cancellò tutto con quattro parole ed
un sorriso dei suoi, “Puoi pulire?”
Un
attimo di silenzio prima della sua risposta.
“Certo.”
“Perfetto!
Andiamo fuori, che c’è un bel sole!”, disse agli altri.
Lasciò
il passo ai suoi colleghi, che uscirono confortandola con sguardi
compassionevoli.
“Acido
in acqua.”, borbottò Carlos con la sua manona davanti alla bocca,
strappandole un sorrisetto di assenso.
Così,
munita di guanti, camice verdastro e tanta pazienza, si occupò della
serra. Per prima cosa era saggio dedicarsi alle erbe fastidiose che
crescevano senza permesso dentro ai vasi, andando a togliere
nutrimento alle altre piante. Le avrebbe gettate sul pavimento
ricoperto di mattoni rossi in lisca di pesce, che sarebbero stati
puliti per ultimi.
Non
ci volle molto prima che l’agitazione e il cattivo umore
prendessero il pieno controllo di lei. Se ne stava sola, in silenzio,
senza alcuna distrazione a tenerle la mente lontano dalla discussione
con Rachel. Meg doveva assolutamente capire quale fosse il vero
motivo che scatenava in lei tutta quella rabbia, non poteva esserle
utile solo come la valvola di uno sfogo violento, sapeva di avere una
buona capacità di ascolto. L’aveva accusata senza alcuna prova del
furto di uno stupido maglioncino, molto probabilmente le era stato
sottratto in lavanderia, dove fatti del genere erano la quotidianità.
L’aveva trattata come una ladra!
Un
ciuffo di erba più ostinato non si fece strappare facilmente e Meg
concentrò su di esso tutta la sua rabbia, afferrandolo con entrambe
le mani e estirpandolo con forza, tanto che barcollò indietro. La
fermò il grande tavolo al centro della serra, che si mosse e lasciò
tre vasi cadere a terra.
Si
frantumarono, tre bocche di leone si trovarono a contatto con il
pavimento in cotto.
“Merda!”,
gridò Meg, gettando via il ciuffo d’erba.
Osservò
il danno combinato, deducendo che presto si sarebbe riversata su di
lei anche l’incazzatura di Daisy. Si chinò per racimolare i cocci
rotti.
“Fermati!”
Meg
aggrottò la fronte e sporse gli occhi al di sopra della superficie
lignea del tavolo. L’agente si stava avvicinando a grandi passi,
sembrava piuttosto preoccupato.
“Non
toccarli.”, le disse.
Era
quel tizio del nord, come si chiamava? Lo lesse sulla targhetta
appesa alla divisa bluastra: Agente Jones.
“E…
Cosa dovrei fare?”, domandò Meg, tornando in piedi, “Lasciarli
qua a terra?”
“Devi
farlo sotto la mia supervisione.”, le spiegò l’agente.
“Perché?”,
le venne da chiedere ancora.
“Perché
sì.”, tagliò corto lui, “Adesso puoi ripulire tutto.”
Rimase
qualche attimo a fissarlo perplessa: aveva solamente rotto due
vasi e doveva gettarne via i cocci, sistemando le piante altrove.
Ancora stranita per il bizzarro atteggiamento della guardia, Meg andò
a cercare un sacchetto della spazzatura e due terrecotte, sentendosi
gli occhi dell’agente pungerle il collo con insistenza. Si
inginocchiò ancora e, con movimenti grossi, tutti i frammenti
finirono dentro al sacchetto.
L’agitazione
salì alle stelle quando il secondino si offrì di darle una mano.
“Grazie,
ma faccio da sola.”, rispose con stizza.
Lui
non l’ascoltò, quelli della sua specie erano sempre sordi alle
parole pronunciate dagli appartenenti alla razza di cui Meg stessa
faceva parte. Si chinò a terra e si occupò della terra sparsa sul
pavimento.
“Come
si chiamano questi… Questi fiori?”, le domandò.
“Bocca
di leone.”, rispose Meg.
“Bocca
di leone…”, ripeté l’altro, “Speriamo non morda!”
Supponeva
di dover ridere, ma Meg non seppe farlo.
“Ok,
adesso le rimettiamo… Nel vaso nuovo, vero?”, continuò l’agente
Jones.
“Sì.”
Lui
allungò una mano e prese le due terrecotte, riempiendole con un po’
della terra distaccatasi dalle radici dei due fiori.
“Ehm…
Non le dispiace se lo faccio da sola, vero?”, gli disse,
osservandolo sporcarsi le mani di terriccio scuro.
“Oh
sì, fai pure.”, le rispose, “Sono anche allergico a tutte queste
piante.”
“Ecco,
così non le verrà uno shock anafilattico.”, borbottò
sommessamente.
L’agente
si alzò ma non si allontanò, rimanendo in piedi davanti a lei, che
lavorava china sul pavimento. Una volta che il danno fu rimediato e i
due fiori tornarono dentro a nuovi vasi, Meg si alzò. Mosse un passo
verso la scopa e la paletta, ma l’agente la bloccò.
“Devo
chiamare qualcuno che ti perquisisca.”
“Cosa?!?”,
esclamò Meg, “Non ho fatto niente di male!”
Chi
era quello? Cosa voleva da lei? Non gli era bastato romperle le
scatole? Che se ne tornasse alla sezione maschile!
Come
qualche minuto prima, l’agente Jones la ignorò e prese la sua
ricetrasmittente.
“Centrale?
Qui è l’agente Jones. Potreste contattare l’agente Evans e dirle
di venire in serra? Ho bisogno di lei. Passo.”
La
voce metallica e frusciante dell’addetto alle comunicazioni interne
si fece sentire subito.
“Qualche
problema Agente Jones? Passo.”
“Una
detenuta ha rotto un vaso di terracotta, c’è il rischio che possa
essersi impossessata di un frammento tagliente. Non sono autorizzato a perquisirla, dovrebbe farlo
l’agente Evans per me. Passo.”
Ecco
qual era il problema, Meg non c’era arrivata da sola. Era stata
troppo ingenua e l’agente Jones troppo prevenuto nei suoi
confronti. Come poteva esserle utile un coccio? Non aveva nessuno da
ferire o ammazzare, aveva già una persona sulla coscienza ed era
sufficiente. L'agente aveva bisogno della Evans per controllarla,
dato che era severamente proibita la perquisizione di detenuti di
sesso diverso. Non poteva metterle le mani addosso, né a lei sarebbe
piaciuto sentirle.
“Va
bene. La mando subito da voi. Passo e chiudo.”
Passarono
i successivi cinque minuti in silenzio, Meg gli dava volutamente le
spalle facendo finta di occuparsi di altre piante. L’agente Evans
arrivò e, con fare frettoloso, le toccò le gambe e le braccia,
senza approfondire.
“Dovrebbe
impegnarsi di più.”, la consigliò l’altro, “L’ho persa di
vista per pochi secondi ma sono più che sufficienti.”
“Tranquillo,
Jones, è una a posto.”, disse Evans, sorridendo a Meg, “Non ha
mai dato troppi problemi, mi stupirei se iniziasse adesso. Tra un
anno se ne va.”
Bene,
si rallegrò Meg, era giusto che si beccasse quella frecciata ed
andasse a fare il prepotente altrove.
“Oh,
buona fortuna.”, rispose lui, senza scomporsi di un millimetro né
chiederle scusa.
Si
allontanò e tornò a prendere il suo posto vicino all’entrata,
dove molto probabilmente aveva passato tutto il suo tempo senza che
lei, occupata con il suo nervosismo e le erbacce, se ne fosse
accorta.
“Perdonalo.”,
le disse Evans sottovoce, “E’ da poco che è qua e, oltretutto, è
un uomo.”
L’agente
sorrise nel vederla alzare le sopracciglia e scrollare le spalle.
“Avanti,
finisci di pulire.”, le fece con tono più alto e deciso.
L’agente
Evans se ne andò salutando con un gesto formale il suo collega, e
Meg tornò a dividere la serra con quel tizio. Prese scopa e paletta,
con l’intenzione di raggruppare lo sporco e gettarlo via.
“Un
anno e poi sei a casa. Che effetto fa?”
Fece
finta di non averlo sentito. Lui non tornò all’attacco, doveva
aver capito che era meglio desistere.
***
L’aereo
atterrò in perfetto orario ed i passeggeri cercavano di farsi strada
nella folla, tutti muniti di valige con ruote che intralciavano i
passi altri con poco ritegno. Nella massa scorse una testa bruna,
nascosta dietro ad un paio di grandi occhiali da sole e sotto ad un
cappellino da baseball.
Sophie
era tornata.
Danny
allungò un braccio per attirare la sua attenzione e, non appena vide
un sorriso apparire sulla sua bocca, comprese che lo aveva visto. Le
andò incontro tendendole le mani, che subito si unirono dietro alla
sua schiena, sollevandola da terra senza alcuno sforzo, tanto era
leggera.
“Fatto
un buon viaggio?”, chiese subito alla sua fidanzata, dopo averla
riempita di baci.
“E’
stato piuttosto stressante.”, rispose lei, sospirando, “Ma ora
che ho messo piede a terra, sto meglio!”
“Vieni,
andiamo a casa.”, le fece, prendendola per mano, mentre l’altra
afferrò il bagaglio, “Avrai tutto il tempo di scaricare il jet
lag.”
Chiunque
avrebbe potuto capire che Sophie non era inglese: lingua ed aspetto,
accento e pelle olivastra. Era americana, veniva dalla Florida ma
abitava da un paio di anni a Londra, insieme a sua sorella, che aveva
sposato un tipo della City. Si erano conosciuti poco dopo il suo
trasferimento a Holloway, era un’amica di Harry. Sophie
aveva passato le ultime tre settimane dalla sua famiglia, a Tampa, in
Florida, per assistere al matrimonio della cugina, di cui era stata
la damigella d’onore. Danny non si era unito per due motivi:
essenzialmente il lavoro non glielo permetteva ed in aggiunta non
stavano insieme da molto, non volevano affrettare le cose. Gli
sarebbe piaciuto vedere l’America, non c’era mai stato, ma non lo
avrebbe di certo fatto in quella occasione.
Sebbene
avessero avuto modo di tenersi in contatto, il viaggio in macchina fu
speso nel raccontarsi tutto quello che era successo in quelle tre
settimane lontani. Danny seppe così ogni particolare del matrimonio,
dalla prova dei vestiti alla scelta dei cibi, dalla sistemazione del
giardino alla cerimonia vera e propria, svoltasi all’aperto in una
giornata di sole pieno, con le mamme che piangevano e le strette di
mano dei papà. Un tipico matrimonio americano, niente a che vedere
con la tradizione inglese e le lunghe cerimonie in chiesa. Alla gente
d’oltreoceano piaceva esibire le loro possibilità economiche,
beati loro. Se avesse detto a sua mamma di volersi sposare
all’aperto, si sarebbe disperata: il suo unico figlio adorato che
rischiava di prendersi un tipico acquazzone inglese. Impensabile!
“Un
anno e divorzieranno.”, concluse Sophie, “Quanto vuoi
scommetterci?”
“Dici
che accadrà?”, le chiese.
Avrebbe
voluto domandarle qualcos’altro, ma uno starnuto poderoso lo
interruppe.
“Cos’hai?”,
gli chiese subito lei, “Il raffreddore in primavera?”
“No…
E’ solo allergia ai pollini.”, spiegò Danny, prendendo
frettolosamente un fazzoletto e soffiandosi il naso.
“Fatti
una cura.”, lo consigliò Sophie, “Così non ne soffrirai.”
“E’
quello che sto facendo, ma non funziona.”
“Provane
un’altra.”
“E’
colpa del lavoro.”, le disse.
Lei
lo guardò stranito.
“Ti
chiudono in una serra piena di fiori?”, fece Sophie, scoppiando a
ridere per l’assurdità della sua affermazione.
Eppure
aveva avuto ragione.
“Beh…
Sì, è proprio così.”, disse Danny con voce fortemente nasale e
gli occhi infastiditi dal prurito, “Seguo un gruppo di detenuti che
lavora all’aperto e gestisce una serra…”
“Fai
un reclamo e fatti destinare ad un altro lavoro.”, propose Sophie.
Come
se fosse stata la richiesta più semplice del mondo. Era l’ultimo
arrivato, l’ultimo della lista e doveva tenersi i compiti che gli
affidavano, che fossero state ore a contatto con i fiori oppure turni
massacranti nel fine settimana.
“Tenterò.”,
le disse con tono conciliante.
Già
un’altra volta erano caduti in quella discussione. Sophie voleva
esortarlo alla battaglia per i suoi diritti di lavoratore onesto e
fedele al corpo di polizia a cui apparteneva. Lui, che conosceva il
sistema del dare-avere che caratterizzava il rapporto con i suoi
colleghi, sapeva di avere poca esperienza sulle spalle per potersi
permettere uno sfizio del genere. Avevano litigato duramente e Danny
si era fissato una delle sue tante note mentali.
Dare
sempre ragione a Sophie in tema di diritto del lavoro.
“Cosa
ti fanno fare in quella serra?”, chiese lei, osservando il
paesaggio urbano che si estendeva in movimento fuori dal finestrino.
“Niente
di che, devo solo controllare i detenuti che lavorano.”
“Sei
da solo?”, domandò ancora Sophie.
“No,
di solito sono in coppia con un altro agente.”
“Perché
allora non ti fai dare il cambio?”, avanzò lei, “Così puoi
rimanere fuori, mentre quell’altro sta in serra.”
Danny
sospirò.
“Non
ci avevo pensato.”, disse, mentendole.
Evans
voleva starsene all’aperto perché odiava l’odore opprimente
della serra. Lui doveva accontentarsi, era così che funzionava.
“Cosa
faresti senza di me?”, disse Sophie, abbracciandolo e baciandolo su
una guancia, “Come sono i detenuti che stai seguendo?”
“Simpatici.”,
rispose Danny.
“Nessun
assassino tra di loro?”
“Qualcuno.”,
le disse con tranquillità.
Lei
sembrò stupirsene.
“E
perché non li chiudono in cella e buttano via la chiave?”,
esclamò.
“Perché
è probabile che non se lo meritino.”, cercò di rassicurarla.
“Come
fai ad esserne sicuro?”
Danny
non poteva risponderle, avrebbe leso l’etica del suo lavoro.
“Non
posso parlartene, mi dispiace, ma puoi fidarti di me.”, le disse,
“Si stanno riabilitando al lavoro, usciranno nel prossimo anno.”
“La
notizia non mi rende più felice…”, sottolineò lei, tornando
seduta e pensierosa.
Era
il momento di sviare.
“Stasera
ho prenotato in un ristorante niente male.”, la informò, “Ti
leccherai i baffi!”
***
Lunedì.
Meg
odiava i lunedì, erano i giorni peggiori della settimana. Quando era
stata libera non li aveva mai sopportati e da quando era lì dentro
li odiava lo stesso, sebbene non avesse avuto più un motivo
specifico a giustificare quel suo sentimento negativo. Si sentiva di
malumore, più scostante del solito, tanto che augurò
faticosamente il buongiorno a Rachel, la quale non aveva diminuito di
un solo grado la sua carica di rabbia distruttiva. Fece
colazione in silenzio, a capo basso, poi intercettò Annelise,
intravedendo il suo cesto di capelli corti e bianchi, e le si
avvicinò. Era una delle detenute più calme e disponibili di tutto
il carcere, era stata accusata di frode e doveva allo Stato diverse
centinaia di migliaia di sterline, forse anche milioni per quello che
Meg ne sapeva. Colpevole di aver rubato del denaro pubblico, Annelise
aveva una pena sulle spalle lunga il triplo della sua, prima che il
giudice l’avesse ridotta.
“Cosa
ci toccherà fare oggi?”, domandò la donna con retorica.
“Non
saprei.”, rispose Meg con tono sarcastico, “Pulire, strappare
erbacce, zappare…”
“Ho
parlato con qualcuna delle Margherite Uno, dicono che ai due tizi che
stanno con loro tocca sempre la pulitura dei vetri della serra…”,
disse Annelise.
“E
io che mi diverto ad appannarli e scriverci qualche ringraziamento
per Daisy… Ora capisco perché non sono capace di ritrovarli!”,
esclamò Meg ridendo, “Osano cancellarli!”
Anche
Annelise rise insieme a lei.
“Il
nostro Carlos deve farle paura.”, disse poi la donna, “Ammetto
che non mi ispira molta fiducia quel ragazzone, però è simpatico.”
Non
poteva negarlo, aveva pienamente ragione. Doveva essere uno dei pochi
uomini della sezione maschile della Holloway a non meritarsi la
castrazione chimica. Era alto e di pelle scura, capelli piuttosto
lunghi e aspetto poco amichevole, insieme a qualche tatuaggio
discretamente preoccupante, ma doveva avere il ripieno di cioccolata.
Carlos aveva commesso diversi peccati mortali e la sua prospettiva di
lasciare le sbarre era piuttosto profonda, tanto da non vederne la
fine, ma era stato obbligato dal giudice a seguire quel corso,
insieme ad un altro per la gestione della rabbia, in modo tale da
imparare a canalizzare il suo sfogo verso qualcosa di più
produttivo.
La
cura delle piante.
Chi
aveva passato la gioventù in una banda di strada di Barcellona per
poi esportare il suo operato entro i confini del reame inglese aveva
necessariamente bisogno di un corso per vivaista. Insomma, la
Holloway era un posto in cui si incontravano sempre personcine per
bene.
“Secondo
me gli piaci.”, avanzo Meg, con un’occhiata furba alla donna,
“L’ho visto come ti guarda!”
Annelise
scoppiò in una nuova risata, si portò le mani alla bocca e
gorgheggiò.
“Ma
smettila, Megan!”, le disse poi, “Ho cinquantacinque anni, non
venti come te!”
“Ventitre.”,
specificò Meg, “E poi non è mai tardi!”
“Ok,
entrambe abbiamo i nostri scompensi ormonali, ma i miei non sono così
squisitamente sessuali!”
“Per
me quei terremoti sono terminati molto tempo fa.”, disse Meg,
prendendo un elastico nero dalla tasca dei pantaloni e legando i
capelli rossi in una coda di cavallo, come era solita portarli ogni
giorno.
Continuarono
il percorso in silenzio, preferendo lasciar perdere quel discorso, e
si unirono a Carlos ed alle altre componenti delle Margherite Due,
Greta e Jess. Si scambiarono un caldo buongiorno e qualche altra
parola, tutti sembravano poco contenti di quello che li aspettava.
“Oggi
ho la sensazione che non faremo niente di buono.”, disse Carlos, “E
vorrei dormire.”
“A
chi lo dici.”, si accodò subito Meg.
Una
figura distante si mosse, Meg lo riconobbe subito. Si avvicinò a
Carlos.
“Ma
dico, quel tizio non può essere sostituito da un suo collega?”,
gli chiese, riferendosi all’agente Jones, che li osservava da
qualche metro di distanza.
“Perché?”,
domandò Carlos.
“Mi
sta sui nervi.”, si spiegò Meg.
“Io
lo trovo molto più carino degli altri poliziotti!”, disse Greta.
Ninfomane.
Lanciò
un’occhiata di sbieco all’agente, poi tornò da Carlos.
“E’
del nord… Non mi piacciono i tipi del nord dell’Inghilterra.”,
aggiunse alla lista dei difetti, “Hanno un umorismo pessimo.”
“Tutti
voi inglesi avete un senso dell’humor pari a quello di un mammut
appena scongelato, ma non me ne sono mai lamentato!”, disse Carlos,
ridendo e trascinando con sé anche le altre donne.
“Non
puoi far niente per farlo sostituire?”, gli domandò.
“E
perché dovrei?”, Carlo scrollò le spalle, “Non è un
rompipalle.”
“Ah
no?”, sbottò Meg, “Qualche giorno fa ho rotto un vaso ed ha
fatto chiamare la Evans per farmi perquisire!”
“Ragazzaccia
cattiva…”, la canzonò lui, “Con questi capelli rossi…”
Meg
ci rinunciò e rise.
“Avanti!”
La
voce squillante di Daisy richiamò la loro attenzione. L’insegnante
si unì al gruppo, avviando una conversazione programmata per
spengersi nel giro di pochi attimi, ed attesero che l’agente Evans
prendesse il suo posto accanto a Jones. A guardarlo da vicino, Meg
ebbe l’impressione di non essere l’unica ad odiare il lunedì. Il
poliziotto non si era rasato, né aveva una buona cera in generale:
il naso era rosso e gonfio, gli occhi stanchi e si soffiava spesso il
naso.
Era
meglio per lui rinunciare ai festini notturni.
Attese
che il responsabile dei turni lo ricevesse e ci vollero ben
quarantacinque minuti prima che accadesse. Danny passò il suo tempo
leggendo qualche rivista scaduta da mesi, spulciando il suo cappello,
parte fondamentale della sua divisa, e guardando alcune crepe sul
soffitto.
“Prego,
si accomodi.”, lo accolse l’ufficiale Allen, permettendogli di
accomodarsi nel suo ufficio, “Mi scusi per il ritardo ma c’è
sempre l’imprevisto dell’ultimo momento.”
“Nessun
problema, signore.”, rispose Danny con il garbo ed il rispetto che
doveva porgere ad ogni suo superiore.
“Allora,
per quale motivo è qui?”, chiese l’ufficiale, sedendosi sulla
sua comoda poltrona, dietro ad una scrivania di legno e vetro, “Mi
è stato anticipato che vorrebbe essere assegnato ad altri compiti.”
“Beh…
Sì, come può vedere ho qualche problema a svolgere il mio.”
Danny
aveva passato il fine settimana a letto con febbre, mal di gola, naso
chiuso e trachea gonfia, tutto per colpa di quelle dannate ore in
serra. Aveva concluso a stento la serata con Sophie: tutte le portate
del ristorante erano rimaste intoccate ed aveva iniziato a percepire
l’aumento della temperatura del suo corpo ben prima di mettervi
piede, ma aveva nascosto il suo malessere. Poi, quando era stato
palesemente chiaro che gli era possibile mentire ad oltranza, erano
tornati a casa.
Stramaledetti
fiori.
“Mi
spieghi.”, disse l’ufficiale Allen.
“Ecco,
sono stato destinato alla supervisione delle attività di
reinserimento lavorativo. Specificatamente, al gruppo Margherita Due,
che si occupa di vivaistica e floricoltura…”, disse Danny,
sentendo la sua voce roca e più nasale del solito, “Non ho niente
di cui lamentarmi, solo del fatto che ho una… Forte allergia al
polline, signore.”
L’ufficiale
rimase in silenzio, Danny riprese il suo discorso.
“Il
contatto costante con le piante ha effetti collaterali piuttosto evidenti, signore.”
"Si
faccia prescrivere una cura antibiotica.”, disse l’uomo.
A
parte il fatto che gli antibiotici non erano efficaci nel combattere
le allergie, Danny fu costretto a contraddirlo.
“Signore,
la sto seguendo, ma non è efficace.”
“Raddoppi
la dose.”
Assolutamente
no. L’unica volta che aveva avuto quella bella idea si era trovato
con la faccia gonfia e le vene intasate dal cortisone. Mai e mai più.
“Potrei
farlo, ma…”
“Parli
con il medico dell’istituto.”, lo interruppe ancora l’ufficiale
Allen, “Si faccia aiutare da lui.”
“Certamente,
però…”
“La
primavera è un periodo di transizione, sono sicuro che un agente
giovane, forte e sano come lei può superarlo senza alcun problema.”
Fine
della discussione. Con modi garbati e rispettosi, Allen aveva
rifiutato la sua richiesta. Nonostante Danny avesse avuto davvero
bisogno di quella sostituzione, nonostante Sophie gli avesse saturato
la testa di quella convinzione, aveva ricevuto una bocciatura. Si
recò dal medico del carcere, come gli era stato consigliato dal suo
superiore, che per accontentarlo gli aveva concesso di terminare il
turno dopo la visita, dicendogli di rimettersi per il turno del
giorno successivo.
Il
medico lo fece spogliare, Danny rimase nella t-shirt bianca che
solitamente indossava sotto la camicia della divisa, e prese a
visitarlo. Controllò la respirazione, le pulsazioni e la pressione,
la dilatazione della pupilla e i suoi riflessi.
“Beh…
E’ evidente che si tratta di rinite allergica.”, disse poi.
Certamente,
osservò Danny con sarcasmo, ma non si pronunciò. Il dottore gli
chiese di mostrargli quale tipo di antistaminici - e non antibiotici,
come aveva detto il suo superiore- assumesse regolarmente ogni giorno
ed aggiunse anche un’altra pillola. Inoltre, nei casi più gravi…
“Preghi
il Signore.”
Danny
rimase interdetto.
“Funziona?”,
gli chiese, con ironia.
“Chi
lo sa…”, concluse il medico, “Lo dico per scaramanzia.”
E
lo congedò.
***
Meg
alzò gli occhi al cielo e lo vide pieno di nuvole, ma non erano le
previsioni meteorologiche ad interessarla. Se avesse starnutito
ancora, giurò agli angeli che gli avrebbe schiacciato un naso con il
pugno. Nonostante il decimo starnuto dell’agente Jones, decorato
dalle risatine sommesse delle Margherite Due, Meg non mantenne fede
alle sue promesse. Alle loro spalle, il tizio manifestava il suo
malessere con quei continui disturbi: colpi di tosse, soffiate di
naso, ed ogni qualvolta veniva interpellato, parlava con una voce
così nasale da renderlo ancora più ridicolo.
Qual
era il suo problema, si chiedeva Meg, non poteva andarsene in
malattia per qualche giorno? Se era lei a sentirsi male doveva
solamente farlo presente all’agente in servizio al suo piano, che
dava poi notizia a chi di dovere, ed era così esonerata finché il
dottore non la definiva guarita. Perché lui non poteva fare
altrettanto? Disturbava tutta la lezione, non se ne rendeva conto? I
quesiti non avevano risposta, l’agente Jones rimaneva comunque alle
loro spalle, in disparte insieme ad Evans, che si faceva
tranquillamente i fatti suoi.
Per
quel giorno era prevista una lezione sul taglio del verde,
specificatamente degli arbusti. Daisy sembrava sapere tutto sulle
modalità con le quali potare gli alberelli e le siepi, cosa che Meg
supponeva fosse piuttosto semplice: bastava prendere un paio di
forbici da giardiniere, al massimo un seghetto, e la pianta veniva
liberata dai rami parassiti oppure abbellita secondo il gusto. Invece
non era così facile: si doveva controllare il calendario, scegliere
i giorni di luna calante, stare attenti a non…
Insomma,
due palle.
Scegliere
quel corso non era stata una bella idea, se n’era resa conto troppo
tardi. I mesi precedenti, passati dietro ad un banco, erano stati
affrontati aspettando quello che sarebbe successo dopo, sperando che
l’applicazione teorica si sarebbe conciliata con le proprie
aspettative. Invece, il giardinaggio non faceva assolutamente per
lei. Anzi,
era il giardinaggio che aveva in mente Daisy a non confacersi ai suoi
gusti. Per Meg le piante non erano altre vite, come credeva lei, ma
solo… Piante. Esseri verdi dotati di fiorellini, dolci alla vista,
profumati, belli da regalare per un ricorrenza. Nient’altro, solo
piante, dentro le cui vene scorreva clorofilla e non sangue. Era
stupido parlare ai pistilli, confessare ai boccioli i propri attimi
di vita felici, Meg non era capace di conversare con una margherita.
Era
da idioti.
Una
vegetale andava trattato da tale: doveva essere curato, concimato,
innaffiato e così via, ma non si poteva amarlo come avrebbe voluto
Daisy, Meg non riusciva a provare sentimenti buoni verso la vita
verde. Guardava una camelia e pensava a come scacciare via quelle
piccole zecche fastidiose che le rovinavano le foglie, ma non vedeva
in essa una sorellina. Solo Daisy poteva riuscirci, forse per via del
suo nome floreale, ed era altrettanto sicura che Annelise e Carlos la
pensassero come lei. Non poteva affermare lo stesso per Greta e Jess,
comunque non le importava.
Sospirò
ed osservò le forbici da potatura.
Perché
in momenti del genere non pioveva mai?
“Mi
sembra di aver sentito una goccia…”, disse Carlos, stupendola.
Lo
guardarono tutte, aspettando altre parole da lui, che si dimostrò
piuttosto titubante.
“Sì…
Eccone un’altra!”, aggiunse l'uomo, aumentando il tono
convincente.
Stava
mentendo, era ovvio, voleva solo terminare la lezione al più presto.
“Oh!
L’ho sentita anch’io!”, ne approfittò subito Meg, “Proprio
sulla fronte!”
Non
voleva certo farsi scappare un’occasione del genere.
“Sì!
E’ vero!”, si immedesimò Annelise in quello sceneggiato.
“Siete
sicuri?”, chiese Daisy, sporgendo mani e braccia per verificare le
loro affermazioni, “O volete solo concludere la lezione prima del
previsto?”
I
tre bugiardi, colti in fallo, cercarono il sostegno reciproco alla
loro versione dei fatti.
“Sì!
Piove!”, una quarta voce inaspettata si unì al coro.
Il
gruppo scrutò l’agente Jones.
“Piove!”,
esclamò lui ancora, annuendo con cenni secchi della testa.
Gli
occhi rimbalzarono su Daisy.
“Beh…
Se lo dice l’agente Jones, significa che piove davvero.”, disse,
sospirando rassegnata, “Ci vediamo domani, vi congedo.”
Ancora
increduli per l’accaduto, i detenuti temporeggiarono. Meg non
voleva trattenere un sorriso sul volto ma doveva farlo, non voleva
essere palesemente contenta per essersi tolta dalle spalle il peso di
altre noiose ore in compagnia di Daisy e dei suoi perfetti consigli.
La donna si allontanò di qualche passo, portandosi appresso Greta e
Jess, che sembravano interessate nel porgerle domande ad oltranza.
“Cosa…
Cosa facciamo?”, disse Annelise, “Come la passiamo la mattinata?”
“Facciamoci
una birra!”, propose ironicamente Carlos, “Offro io!”
“Che
simpatico!”, tagliò corto l’agente Evans, “Andiamo donne, vi
riporto in sezione.”
“Barreiro,
anche per noi è l’ora di tornare a casa.”, disse Jones,
chiamando Carlos per il suo cognome.
“Casa…
Che magnifica parola.”, disse lo spagnolo, il cui tono doveva
trovarsi a metà strada tra il sarcasmo e l’amara constatazione
della quotidiana verità.
Una
volta tornati al chiuso le Margherite Due si divisero, prendendo
strade diverse. Meg camminava al fianco di Annelise, Daisy e le altre
due donne erano qualche passo più avanti, la Evans alle loro spalle
le osservava con tranquillità. Non era uno dei peggiori agenti della
sezione femminile: sapeva chiudere gli occhi, faceva favori e voltava
le spalle quando non c’era niente da vedere. In compenso, però,
aveva una sorta di libro contabile mentale in cui registrava ogni
fatto, trovando il momento giusto per utilizzarlo a pro suo.
Giungendo alla conclusione, comunque, era una buona agente con una
memoria altrettanto ottima, con cui era meglio non avere troppo a che
fare.
“Meno
male che è finita così.”, disse Annelise, sottovoce, “Oggi non
riuscivo proprio a sopportare Daisy.”
“Non
ne sono mai stata capace.”, le rispose Meg, “Il suo atteggiamento
forzatamente simpatico nei nostri confronti mi stucca. Tu sai perché
è dentro?”
“Non
è una detenuta.”, spiegò Annelise, “O meglio, non lo è più.
Non so per quale motivo continui a bazzicare qua dentro. Fossi in
lei, fuggirei via.”
“A
chi lo dici…”, fece Meg, “Cosa ha combinato per starsene qua?”
“Non
lo so.”, disse l’altra, “Dovrei documentarmi. Agente Evans, ci
può aiutare?”
La
donna si prese la domanda ma non dette alcuna risposta, almeno non
subito. Continuò con il suo passo cadenzato, le mani unite dietro
alla schiena e gli occhi che vagavano qua e là.
“Credo
che abbia fatto parte di un gruppo organizzato…”, disse, una
volta che il suo silenzio si ruppe, “Ma non mi ricordo cosa
combinavano… Ne passa talmente tanta di acqua sotto questi ponti.”
Le
ultime parole rimasero sospese nell’aria, nessuna ebbe voglia di
aggiungere altro. In carcere, le atmosfere tranquille erano facili da
rovinare, bastava un attimo ed ogni più piccolo sorriso veniva
cancellato. Momenti come quello erano quotidiani e frequenti, tanto
che era meglio starsene zitte e lontane dalle altre detenute,
piuttosto che rischiare quelle pause infinite.
“Bene,
cosa avete intenzione di fare?”, disse l’agente.
Si
fermarono anche le restanti donne delle Margherite Due, ancora
insieme a Daisy, attirate dal tono di voce più alto ed autoritario
della Evans.
“Io
vorrei andare in biblioteca.”, disse Meg.
“Ti
documenti sulla lezione?”, le domandò subito Daisy, accompagnata
dal suo sorriso fintamente caldo.
“Certamente…”,
rispose lei, con aria vaga.
Il
suo status di detenuta con buona condotta le apriva molte porte, tra
cui anche quelle della biblioteca. Non era l’unica ad avervi
accesso, moltissime altre sue compagne potevano farlo ma non erano in
molte a dedicarsi alla lettura. A dire il vero, a Meg non piaceva
leggere, i libri non le aprivano porte mentali verso altri mondi
-luoghi liberi-, ma le offrivano la possibilità di passare il
tempo senza essere troppo disturbata. Le persone che frequentavano la
biblioteca, infatti, erano solitamente individui alla ricerca di
qualche informazione utile alla loro situazione legale, oppure
tentavano di ottenere un titolo di studio, o di farsi solo una
cultura.
Usualmente,
Meg prendeva un volume, che fosse stata narrativa o una enciclopedia,
e si metteva a leggerlo oppure a sfogliarlo, senza alcun interesse.
Talvolta le era capitato di imbattersi in qualcosa di coinvolgente,
in storie di avventura o fantascienza che le impedivano di
distogliere gli occhi dalle pagine in bianco e nero, ma erano stati
casi piuttosto rari. Non le piaceva andare troppo oltre con
l’immaginazione, l’impatto con la realtà era più devastante di
uno scontro frontale con un muro di cemento armato.
Ad
ogni modo, una volta che Annelise si unì a Jess e Greta, destinate
alle attività comuni negli spazi aperti a tutte le condannate,
l’agente Evans la accompagnò in biblioteca; l’abbandonò dopo
averla affidata ad i suoi colleghi. Meg girovagò a lungo tra gli
scaffali, tentando di individuare il giusto titolo che le stuzzicasse
la voglia di aprire un nuovo libro, e quella volta dovette faticare
molto. Alla fine, afferrò il quarto volume di un enciclopedia sugli
animali; si sedette vicino ad una finestra e si mise a sfogliarlo.
In
quel modo avrebbe passato le due ore rimanenti, prima di andare a
pranzo.
Inghiottì
l’ennesima pillola di antistaminico e si soffiò il naso. Prese il
collirio e si bagnò gli occhi, che bruciavano da morire. Un’altra
giornata come quella e avrebbe voluto morire. La primavera era la
stagione più lunga di tutto l’anno, almeno per Danny. Attese che
il fastidio alle pupille passasse, poi riprese il suo servizio.
La
finta pioggia inscenata dai detenuti era stata la manna dal cielo per
lui, che ne aveva subito approfittato, sebbene avesse saputo che non
avrebbe ottenuto niente. Invece, contro ogni aspettativa, Daisy si
era piegata e la lezione si era conclusa poco dopo la fine della
prima ora. Erano rientrati al chiuso, con grande sollievo di molti
dei partecipanti, oltre che al suo, e i detenuti si erano divisi.
“Dica,
agente.”, gli si rivolse Carlos, “Perché non se ne va in
malattia? Ha una cera che dovrebbe essere lucidata ben bene…”
Il
tatuaggio della banda di cui lui aveva fatto parte evidenziava
l’avambraccio dello spagnolo, che usava arrotolare le maniche dei
suoi abiti per metterlo in mostra con orgoglio. Due spade ricurve ed
incrociate, un motivo arabeggiante ed una scritta emblematica: ‘hasta
la muerte de mi alma’, fino alla morte della mia anima. La
pelle naturalmente scura dell’uomo, molto più vecchio di lui, gli
ricordava Sophie e la sua abbronzatura. Non
aveva mai dato molto confidenza al detenuto Barreiro, il suo aspetto
gli incuteva un certo timore e lo metteva in guardia da ogni
iniziativa nei propri confronti. Alcune delle signore e signorine
delle Margherite Due non sembravano pensarla come lui, dimostrandosi
invece contente della sua presenza maestosa nel gruppo, che doveva
servire a contro bilanciare Daisy e la sua personalità troppo spesso
fastidiosa anche per Danny.
Da
buon agente, quale pensava di essere, non aveva mai dimostrato alcuna
sorta di paura nei suoi confronti. Addirittura, c’erano state
situazioni in cui l’indole innata di Carlos, quella che l’aveva
condotto lì dentro, era venuta fuori con un’esplosione distruttiva
e Danny non aveva esitato ad imporre la sua divisa e l’autorità
che quella gli dava, sebbene non gli fosse mai piaciuto farlo.
“Quello
che ho mi fa star male qui, come a casa.”, gli rispose con
gentilezza, “Tanto vale passare il mio tempo al lavoro.”
“Saggia
decisione.”, disse Carlos, rafforzando la sua affermazione con un
cenno positivo della testa, “Lasci i permessi per malattia alle
vere influenze.”
“Bravo
Barreiro.”
Volle
concludere lì quella conversazione, ma il detenuto andò avanti.
“E’
allergico alle piante, vero?”, chiese a Danny, che gli camminava a
fianco nei corridoi della sezione maschile.
“Sì,
proprio così.”
Doveva
accompagnarlo fino alla sezione che ospitava i detenuti come lui,
quelli da ‘livello medio’, come la chiamavano i suoi
colleghi nel gergo della polizia locale. Erano cioè ospiti a cui
prestare un po’ più di attenzione rispetto a quelli del livello
basso, ed un po’ meno rispetto a quelli del livello alto.
Carlos era stato tolto dal cosiddetto regime di massima sicurezza,
erano già sette anni che si trovava lì dentro e la giustizia
inglese aveva deciso di premiarlo allargando la stretta del controllo
sulla sua persona, ma apparteneva ancora a coloro a cui bisognava
stare attenti.
“Non
sopportare la primavera è un gran brutto affare…”, disse Carlos,
“Ha provato a chiedere di essere sostituito? Anche se è l’ultimo
arrivato…”
I
puntini di sospensione gli fecero capire cosa aveva sottinteso
Carlos, nient’altro che la verità.
“Hai
capito anche tu.”, rispose Danny.
“Agli
ultimi arrivati sempre i lavori peggiori.”, disse ancora Carlos, “E
non possono nemmeno lamentarsi. Ma voi guardie siete fortunate, non
siete prigionieri. A noi spetta una sorte più triste della vostra,
la prima volta che mettiamo piede qua dentro.”
Stava
parlando troppo per i suoi gusti, ma Danny lo lasciò andare avanti.
Al momento giusto avrebbe tagliato i ponti.
“Deve
essere una palla tenerci d’occhio durante le ore di lezione, non è
così?” continuò Carlos, “Voglio dire, quattro ore ad ascoltare
quella Daisy… Per noi studenti”, e rimarcò la parola con
sarcasmo, “è insopportabile… Chissà per voi, che non avete
nulla a che fare con i suoi consigli di botanica…”
Danny
non si espresse al riguardo: non era saggio dimostrare ad un detenuto
il suo mal sopportare qualche collega, avrebbe sempre potuto
manipolare le sue parole e metterlo nei guai. Se ne rimase in
silenzio, come qualsiasi altro agente di polizia avrebbe fatto, se si
fosse trovato al suo posto.
“Comunque,
mi trovo bene in quel gruppo.”, disse Carlos, “E’ pieno di
persone carine, le signore e signorine delle Margherite Due sono
delle personcine interessanti.”
Anche
Carlos sapeva che era necessario moderare i termini ed i toni quando
parlava con una guardia, tanto che Danny si chiese a cosa fosse
dovuta la sua parlantina così attiva. Era piuttosto probabile che
non avesse avuto alcuno scopo, ma rimase comunque attento alle sue
parole.
“Non
mi pronuncio su chi lecca il culo a Daisy.”, disse Carlos,
riferendosi certamente alle due donne sempre pronte a rispondere alle
domande della capogruppo, “Però la signora Annelise e la ragazzina
sono simpatiche.”
Proseguì
nel suo silenzio.
“Annelise
mi ricorda tanto mia mamma, prima che lasciassi la Spagna e mi
trasferissi qua. Sono proprio identiche.”
Danny
si sforzò di trovare una somiglianza tra Carlos e la detenuta, ma
era troppo anche per la sua fantasia ben sviluppata.
“Mentre
la rossa è così palesemente infastidita da Daisy che è un piacere
osservarla durante la lezione! A volte non mi trattengo dalle risate,
la sua faccia è davvero divertente.”
Come
si chiamava quella ragazza? Maggie? Non ricordava nemmeno il suo
nome, ma ogni volta che la vedeva la associava a quel piccolo
incontro-scontro nella serra, nel quale si era preoccupato che non si
fosse impossessata di qualche coccio dei vasi da lei rotti per recare
danno alle sue compagne di cella. Aveva solo fatto il suo dovere,
agendo nel migliore del modi possibili, ma ovviamente non l’aveva
presa affatto bene.
Uno
dei tanti obiettivi del suo lavoro era assicurare l’incolumità dei
detenuti, impegnandosi nell’individuare ogni causa di possibile
danneggiamento che avrebbero potuto perpetuare nei confronti dei loro
simili, come disse a se stesso, recitando a pappagallo le parole dei
manuali su cui aveva studiato per essere abilitato alla professione.
Quindi, anche se aveva seguito scrupolosamente quelle giuste regole,
si era comunque attratto l’antipatia della detenuta, come era ovvio
che accadesse. Quelli come lei non capivano che i poliziotti
lavoravano per loro, per garantire che lo sconto della loro pena
passasse nel modo più tranquillo possibile, e forse non ci sarebbero
mai arrivati. Lui stesso aveva trovato difficoltà nell’afferrare
quel concetto ed i primi mesi di servizio era stata piuttosto dura
abituarsi a all’idea; poi, una volta fatta esperienza, tutto era
divenuto normale. I detenuti ed i poliziotti vivevano su due mondi
diversi, inconciliabili, ed anche se Danny si impegnava nel proprio
lavoro, mettendosi a loro disposizione, non sarebbero mai stati
riconoscenti. A pensarci bene, se i ruoli fossero stati invertiti, la
sua reazione sarebbe stata la medesima…
Comunque
dovette ammettere, suo malgrado, che Carlos aveva ragione. Spesso
aveva colto quella ragazza con espressioni manifestamente annoiate
che, se fosse stato nei panni di Daisy, si sarebbe infastidito nel
vederla reagire in quel modo alla sua lezione. Ci voleva disciplina,
talvolta, ma lei sembrava non averne più di un po’.
Era
anche molto giovane per trovarsi lì dentro.
“Credo
che abbiate la medesima età.”, disse Carlos, “Lei, agente,
quanti anni ha?”
Era
una domanda del tutto personale, non era autorizzato a rispondere ma
lo fece comunque, non ritenendola pericolosa.
“Ventisei.”,
disse Danny.
“Uhm…
No, lei è più piccola.”, disse Carlos, “Credo sia ventitreenne…
Ma sta qui da quattro anni.”
Danny
non poté evitare di alzare le sopracciglia stupito. Evidentemente,
se si trovava lì dentro da così tanto tempo, nonostante la sua
giovane età, aveva certamente commesso qualcosa di molto grave. Lui
non era un giudice, ma chi l’aveva spedita lì dentro lo era
eccome, ed aveva perciò preso la decisione più giusta.
Altra
nota mentale: capire perché i giovani d’oggi non apprezzano la
vita.
“Bene,
Barreiro, siamo arrivati.”, gli disse, una volta di fronte alle
sbarre che precludevano l’accesso alla sezione di medio livello.
“E’
stato un piacere, agente Jones.”, disse l’altro.
Un
collega di Danny aprì le inferriate e permise al detenuto di
entrare.
“So
che è un buon ascoltatore.”, e gli sorrise un po’.
Danny
ebbe da chiedersi ancora il perché di tutto quello, ma dimenticò
presto quella domanda. Tornò al suo servizio, che si sarebbe
concluso al suonare del mezzogiorno: il suo turno era iniziato alle
quattro di mattina, si sentiva piuttosto stanco ed aveva bisogno di
tornare a casa. Sostituì un suo collega, permettendogli di
allontanarsi prima dal lavoro, e finì di nuovo all’aria aperta,
comunque lontano dai pollini e dalle piante, per trovarsi a
sorvegliare i carcerati nella loro ora d’aria. Il tempo non era dei
migliori ma tutti loro se ne stavano fuori, chi a fare un po’ di
ginnastica, chi a passarsi il pallone, chi a chiacchierare con una
sigaretta in mano.
Pensò
a come avrebbe risolto la sua giornata: dopo un sonnellino
pomeridiano sarebbe passato da Sophie, con la quale avrebbe speso la
serata cenando insieme, a casa di lei. Poi sarebbe tornato a dormire,
per riprendere il lavoro nel giorno seguente. Aveva il turno
pomeridiano, da mezzogiorno fino alle otto. In altre parole, quattro
ore insieme alle Margherite Due, imbottito di antistaminici, e la
restante parte sulle mura, armato, a controllare il perimetro del
carcere.
Doveva
trovare un appiglio, un diversivo, qualcosa che tenesse impegnata la
sua mente. Aveva un pensiero che poteva tornargli utile, una piccola
ancora di salvezza alla quale si poteva aggrappare, concentrandosi e
fantasticando un po'. Era da tempo che scaricava le sue difficoltà
e, non di rado, le sue frustrazioni con un piccolo hobby di cui erano
in pochi a saperne l'esistenza.
Lui,
se stesso e Danny Jones.
Nel
suo appartamento c'era un vecchio pc, lo aveva acquistato con il suo
primo stipendio, raggranellato con i lavoretti estivi molti anni
addietro. Era andato a sostituire una grande quantità di quaderni
colorati e poco funzionali.
Gli
piaceva scrivere.
I
suoi personaggi avevano vissuto molte vite, così tante che nemmeno
lui se le ricordava più. Non era certo sul quando avesse iniziato a
trasformare la sua immaginazione in frasi continue, corrette e piene
di senso, almeno per se stesso. La sua mente era sempre stata
popolata di persone, dai tratti reali o surreali, con le quali aveva
conversato a non finire, ma c'era voluto del tempo prima che
filtrassero una per una dalla sua testa fino alla mano, per finire
tra le sue dita, dove diventavano tangibili.
Danny
si focalizzò sulla sua nuova creazione.
Qualunque
sarebbe stata la fine di quella piccola storia, nessuno vi avrebbe
mai posato gli occhi ed era giusto così.
___________________
Note dell'autrice
Ringrazio Queen, alias Fra, per aver commentato xD allora le McSisters a qualcosa servono! xDDDD
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Capitolo 4 *** Capitolo Tre ***
CAPITOLO
TRE
Come
a volte capitava, Meg chiese a Rachel di asciugarle i capelli. Non
che avesse avuto bisogno di una mano, era perfettamente capace di
farlo da sola, voleva essere soltanto un modo per attaccare bottone. Una volta
che ebbe finito di tamponare la chioma, dopo averla schiumata e
risciacquata nel lavandino della cella, le propose di aiutarla.
“Tra
meno di un’ora vengono i miei a farmi visita… Ti dispiacerebbe
farmi bella?”, le disse, con un po’ di ironia.
Erano
appena tornate dalla colazione ed era sabato, non c’era nessuna
lezione in vista per Meg, soltanto la visita mensile dei suoi
genitori. Non sprizzava gioia da tutti i pori ma era comunque
contenta di vederli.
Rachel
continuò a fumare la sua sigaretta, distesa sulla branda.
“Hey…
Mi hai sentito?”, le fece, ridacchiando.
“Sì,
non sono sorda.”, borbottò l’altra, scocciata, “Comunque no,
fai da sola.”
Meg
incassò la rispostaccia ma non demorse. Era sinceramente stufa del
prolungarsi ad oltranza del pessimo umore di Rachel e voleva avere
una giustificazione. Prese una delle due sedie e si avvicinò a lei.
“Andiamo,
Rachel, lo dici anche tu che sono un incapace con l’asciugacapelli
e la spazzola…”, la stuzzicò.
“Lo
sei, ma non rompermi le palle.”
Tre
settimane passate in quel modo, Meg stava iniziando a preoccuparsi
sul serio. Era il periodo più lungo in cui Rachel si era comportata
stranamente, nei casi precedenti si era limitata ad essere scontrosa
per massimo sette, quindici giorni, ma mai per tre settimane. Doveva
essere una cosa grave.
“Rachel,
per favore…”, le disse.
Usò
il suo tono migliore, quello che a volte era riuscito a penetrare
quella scorza dura che la proteggeva, toccandole il cuore. Non fu
fortunata, Rachel non si intenerì affatto.
“Ascoltami,
bimbetta, lasciami in pace.”, disse, sventolando la mano per
scacciarla, “Asciugati i capelli senza di me.”
Niente,
Rachel era irraggiungibile. Meg si ritrasse: era giusto insistere, ma
al secondo negarsi era meglio tornare sui propri passi e farsi i
fatti propri. Accese l’asciugacapelli e attese che tutta l’acqua
evaporasse, mentre la sua mente lavorava. I motivi per i quali Rachel
poteva diventare così terribilmente intrattabile erano molti, alcuni
li aveva già valutati, ma non sapeva scegliere quale fosse stato il
più realistico.
Se
ci fossero state magagne con le detenute, sarebbe stato sufficiente
osservarla durante l’ora del pranzo o della cena, oppure in una
qualsiasi altra occasione che la vedeva condividere il proprio tempo
con le altre. Meg lo aveva fatto, aveva posto attenzione alla sua
compagna di cella, ma i rapporti sembravano scorrere normalmente;
decise allora di fare qualche domanda in giro, a chi poteva sapere.
Niente. Non era l’unica ad aver notato quel cambio in lei, in molte
erano sbattute contro il malumore di Rachel, che era stata
ripetutamente ripresa dalle guardie per le sue esplosioni
incontrollate di rabbia, tanto che aveva quasi rischiato di finire
per un paio di notti in isolamento. Che avesse avuto problemi con chi
le rimaneva all’esterno? Meg pensò a lungo se indagare o no. Era
più saggio tenere la bocca chiusa.
Mentre
si occupava delle ultime ciocche umide, osservava Rachel fumare
nervosamente la sua sigaretta: le dita che la sorreggevano tremavano
lievemente, mentre l’altro braccio se ne stava sotto la testa.
Fissava le molle della rete sopra di lei e si mordicchiava le labbra.
Meg si arrese. Forse Rachel le avrebbe parlato tra qualche giorno,
sperò che le cose si sarebbero normalizzate al più presto.
I suoi
capelli si erano asciugati e, una volta vista l’ora, si accorse che
mancavano solo pochi minuti all’arrivo dei suoi. Infatti, con una
precisione svizzera, l’agente Morris, di servizio in quella
giornata nella sua sezione, la chiamò.
“Howard,
hai visite.”
Lasciò
la sedia su cui si era accomodata ed attese che la poliziotta le
aprisse la cella. La seguì fino alla stanza delle visite, conosceva
la strada a memoria, e come ogni sabato la trovò un po’
sovraffollata. In molti utilizzavano i fine settimana per incontrare
i propri cari chiusi lì dentro, non soltanto i suoi, che individuò
nell’ultima cabina. La attendevano in piedi e, quando la videro,
alzarono una mano per salutarla.
Si
avvicinò, poi qualcosa la bloccò. Qualcuno.
In
piedi, vicino alla postazione che avrebbe presto occupato, c’era
quel tizio nordico, il rachitico che li teneva d’occhio durante le
lezioni di Daisy. Lo vide fare un cenno nella sua direzione, un
piccolo movimento della testa che doveva significare un saluto, ma
Meg non lo ricambiò. Roteò gli occhi e non gli dette udienza,
sedendosi davanti ai suoi genitori con un pizzico gigante di
nervosismo in più.
Il
vetro antiproiettile la divideva dal mondo vivo, permettendole di
osservarlo senza mai raggiungerlo. Quando era stata libera ed aveva
visto quei film girati dentro le carceri, si era sempre chiesta se
le stanze per le visite fossero state davvero come le
rappresentavano: tanti banchi, uno accanto all’altro, divisi da una
sorta di separatore in plastica dura e scura, con dei telefono appesi
per poter parlare con chi stava al di là del vetro.
Alla
Holloway erano proprio in quel modo.
Prese
la cornetta e la avvicinò all’orecchio.
“Ciao
Megan.”, disse sua madre, Josie, che condivideva quella sorta di
telefono con suo papà, Bent, “Come stai?”
“Bene
mamma, grazie.”, rispose, “E voi?”
“Non
ci lamentiamo troppo.”, rispose suo padre, scrollando le spalle,
“La vita va avanti.”
Rispondeva
sempre così. Doveva essere il suo modo per manifestare la sua
rassegnazione di fronte a ciò che gli era stato messo davanti,
qualcosa che non aveva mai valutato prima, ma che si era trovato suo
malgrado a vivere.
“Dici
bene.”, gli disse Meg, “Come va il lavoro?”
“La
serra continua ad essere piuttosto produttiva.”, disse ancora Bent,
“Ti aspetta.”
Quella
piccola frase la rincuorò ma non poteva farci troppo affidamento. Il
tono di suo padre era stato piatto, senza la minima espressione di
contentezza.
“Come
va il corso che stai frequentando?”, le chiese allora Josie.
“Molto
bene, è interessante.”, mentì spudoratamente.
Con
quell’agente alle spalle non poteva dire la verità, né l’avrebbe
comunque fatto. Doveva dimostrare ai suoi che tornare a casa e
lavorare da loro era quello che voleva, ed in parte era la verità,
lo desiderava con tutto il cuore. L’importante era uscire di lì,
quello che sarebbe successo in seguito lo avrebbe valutato in un
secondo momento.
“Cosa
ti stanno insegnando?”, riprese suo padre, che adorava
smisuratamente il suo lavoro.
“Daisy
è molto capace, ci insegna molte cose.”, disse ancora, ed era la
verità, “Le sue lezioni sono coinvolgenti.”
Altra
bugia bianca.
“Che
cosa hai imparato in questo mese?”
E
finirono a parlare di lavoro, cosa che capitava sempre da quando
aveva detto loro dello sconto sulla pena e del programma di
reinserimento lavorativo. Sua mamma sembrava contenta di tutto
quello, le faceva domande e le parlava con il tono di cui Meg aveva
bisogno, quello che le dimostrava tutta la sua voglia -sebbene
scarsa- di rivederla di nuovo ad abitare le mura di casa. Mancavano
solo dieci mesi,
più o meno.
“Per
il resto, come va?”, chiese ancora sua mamma.
“Beh…
Non c’è male. I giorni scorrono tutti uguali.”
“Ti
senti un po’ meglio?”
Voleva
domandarle se aveva ancora quelle crisi depressive, come nei primi
anni.
“Sì…”,
disse.
Più
che stare bene Meg era stabile, parola che nel gergo medico aveva un
significato ambivalente: stabilmente male, stabilmente bene. Meg si
trovava stabilmente a metà, ma in compenso aveva recuperato molto
sul piano emotivo. Forse sentiva dalla sua parte l’appoggio velato
di Rachel, che quando voleva sapeva farla stare meglio, ma più
probabilmente doveva ringraziare il pensiero di essere ad un passo
dalla libertà. L’idea di tornare libera la eccitava, era chiaro,
ma d’altro canto la riempiva di paure, che ogni giorno la
assillavano un minuto in più rispetto a quello precedente. L’impatto
con il mondo libero, per una detenuta che aveva scontato tutta la sua
pena, o parte di essa, non era mai pienamente positivo.
Due
dita sulla sua spalla la costrinsero a voltarsi. Trovò l’agente
del nord, quello venuto dal freddo polare al confine con la Scozia,
che le fece segno di sbrigarsi, il suo tempo stava per scadere.
“Mi
sa che abbiamo finito.”, disse ai suoi.
Li
osservò meglio, per Meg non era facile guardare i volti dei suoi
genitori per più di qualche frazione di secondo, e li trovò più
vecchi del mese precedente. Il volto fine di Josie era solcato da
qualche ruga in più, il sorriso di suo padre era quasi del tutto
cancellato.
“Va
bene così. “, disse la mamma, “Tra poco sarai a casa.”
“Lo
spero.”, disse Meg.
Si
salutarono con un cenno della mano ed i signori Howard tornarono alla
propria vita. Meg non trovò immediatamente la forza di lasciare la
sua sedia. Con un gesto rapido, cancellò le lacrime che premevano
contro le sue palpebre.
“Devi
alzarti, lo sai.”, le ricordò il palo alle sue spalle.
Meg
prese un profondo respiro e si impose di calmarsi, dopodiché
rispettò la regola e fu in piedi.
“Farò
finta di non aver sentito quelle piccole bugie che hai detto sul
corso che frequentiamo insieme.”, disse ancora l’agente Jones,
sorridendole con cordialità.
Meg,
che aveva mosso il primo dei passi che l’avrebbero portata fuori
dalla stanza, si girò verso di lui. Lo osservò dritto negli occhi,
chiedendosi perché cazzo quel bastardo di un agente di merda non si
chiudeva quella fottuta bocca. Prima di piangere davanti a quello
stronzo, Meg gli mostrò le spalle ed uscì, sbattendosene della
buona educazione.
Fece
finta di stare male, di aver voglia di vomitare, e le dettero il
permesso di starsene in cella, da sola. Rachel doveva essere uscita,
molto probabilmente si trovava in uno degli spazi comuni, forse
fuori, non lo sapeva e non gliene importava. Pianse per molto e
vomitò davvero, tutta la colazione finì dentro al cesso, e saltò
anche il pranzo. Per obbligo, si trovò comunque in mensa come tutte
le altre, ma non prese il suo vassoio, se ne stette seduta a fissare
il linoleum del tavolo senza dire una parola.
Ogni
volta che i suoi venivano a trovarla, Meg reagiva negativamente alla
palese dimostrazione di quanto le cose fossero cambiate. Sì, era
vero che per mantenere la sanità mentale fingeva che i suoi
l’avessero voluta indietro con tutto il cuore, ma non era affatto
così.
Meg faceva buon viso a cattivo gioco.
“Hey!”,
sentì esclamare.
Danny
si voltò, lasciando perdere per un attimo la su auto. Tom si stava
avvicinando a grandi passi e sventolava una mano nella sua direzione.
“Ciao!”,
lo salutò, “Cosa ci fai qua?”
Danny
aveva appena terminato il suo turno, era mezzogiorno passato, e Tom,
che era l’aiuto cuoco nella mensa del carcere, avrebbe dovuto
essere in cucina a preparare il pranzo ai detenuti e non lì fuori,
nel parcheggio del personale.
“Ho
il pomeriggio libero, devo andare a prendere mia sorella Carrie
all’aeroporto.”, gli spiegò, “Ha concluso il suo semestre di
studio all’estero ed i miei non potevano lasciare il lavoro…
Così, vado io.”
“Sta
bene? Si è divertita in Francia?”, gli domandò, contento di
sapere che la piccola Carrie, che aveva conosciuto qualche mese fa,
stava per tornare a casa.
“Glielo
chiederò!”, disse l’altro, passandosi una mano tra i capelli
biondastri, “Sono tre settimane che non la sento.”
“Portale
i miei saluti!”, disse Danny, “E dille che verrò a salutarla!”
“Certamente.”,
rispose Tom, con un sorriso felice sul volto.
“Ci
vediamo!”, lo salutò, ma l’altro sembrò insicuro sul
ricambiare.
“Senti…
Posso chiederti un favore?”
Non
ci pensò due volte: anche se si sentiva fiacco ed il cerchio alla
testa sembrava restringersi dolorosamente, Danny si offrì di
accompagnarlo all’aeroporto. La piccola auto del suo amico si era spenta per
sempre qualche giorno prima ed aveva dovuto rimboccarsi le maniche nella
ricerca di una occasione in qualche concessionario; per il momento
girava sui mezzi pubblici.
“Potevi
dirmelo che sei senza auto.”, gli fece Danny, “Se ci organizzassimo
bene, potremmo venire al lavoro con la mia.”
“No,
non ti preoccupare.”, disse Tom, che prima di chiedere aiuto a
qualsiasi persona preferiva morire, “I collegamenti con l’istituto
non sono male, mi trovo bene anche con gli autobus.”
“Come
vuoi. Se hai bisogno di me, sai come trovarmi.”
“Grazie
Dan.”, rispose l’altro, sempre educato.
Durante
il viaggio, in mezzo al traffico che caratterizzava da sempre la
città di Londra, chiacchierarono del tutto e del di più. Tom, di un
anno più grande, aveva preso un diploma di cuoco: dopo aver lavorato
saltuariamente per mesi nei ristoranti della City, facendosi le ossa
e ricevendo buone lettere di raccomandazione, si era dovuto
accontentare di quel posto in istituto, dove tutto quello che veniva
cucinato aveva lo stesso sapore della portata precedente. Dalle
piccole creazioni ai grandi pentoloni, in carcere c’era poco spazio
per la fantasia, ma almeno quel posto era sicuro e pagato bene.
Contemporaneamente, Tom continuava a frequentare corsi di
aggiornamento, si teneva in contatto con il mondo dei veri ristoranti
e sperava che, prima o poi, la sua grande occasione sarebbe arrivata.
Il suo obiettivo non era cucinare per detenuti a vita, bensì farsi
un nome ed una carriera rispettabile, ma la gavetta e la concorrenza
nel suo settore era dura.
Danny
confidava in lui: nelle volte in cui Tom aveva invitato i suoi amici
e cucinato per loro, tutti erano tornati a
casa con un bel ripieno nello stomaco. Aveva talento per ciò che
faceva, non c’era alcun dubbio. Era un piacere poterlo considerare
un amico, Danny era felice di averlo conosciuto, quella città così
immensa e del tutto differente ai posti in cui era nato e cresciuto
non era mai stata molto cordiale con lui.
“Stasera
starete tutti in famiglia, immagino.”, disse Danny.
“Sì,
ma credo che nel dopo cena potrò liberarmi.”, avanzò Tom,
“Facciamo qualcosa?”
“Certo.”,
fu subito contento di rispondere, “Domani ho il turno pomeridiano.”
“Perfetto!”,
esclamò Tom, “Solito pub?”
“Ovviamente.
Ci penso io ad informare gli altri due.”
“Sophie?”
“Glielo
chiederò.”, disse.
“Perfetto.”,
disse ancora Tom, “Come vanno le cose con lei?”
“Tranquillamente.”,
rispose Danny.
“Non
ho capito ancora quale sia il suo lavoro.”, continuò Tom.
“E’
una ricercatrice.”, gli spiegò, “Sta portando avanti uno studio
su alcune popolazioni europee a rischio di estinzione.”
“Sono
gli animali ad estinguersi… Non i popoli!”, scherzò Tom,
ridendo, “Ad ogni modo, sembra interessante.”
“Sì,
ho letto alcune tesine che ha scritto lei stessa.”
L’aveva
aiutata con la correzione delle bozze, trovandole così piene di
errori ortografici che si era stupito. Una laureata come lei non
poteva certamente permettersi certe sviste, ma Danny non glielo aveva
fatto notare. Si era soltanto permesso di mettere alla sua attenzione
certi sbagli e talvolta si era pure dovuto accontentare di una
rispostaccia. Che cosa ne poteva sapere lui della grammatica, che
non era nemmeno laureato ed aveva concluso il liceo con una votazione
più bassa della media nazionale? Niente, lui non ne sapeva niente.
Sophie non sapeva del suo piccolo segreto, né si era mai soffermata
più del dovuto sulla libreria stracolma che occupava due delle
quattro mura del salotto di Danny.
“Bene…
Convincila a venire, almeno per stasera.”
Danny
temporeggiò, Tom sapeva a cosa si stava riferendo.
“Ci
proverò.”
La
conversazione continuò tranquillamente per la restante parte del
viaggio e, una volta arrivati all’aeroporto trovarono Carrie ad
aspettarli, evidentemente scocciata del loro ritardo. Il traffico
intorno a Gatwick era sempre impossibile da scavalcare, non era come
una staccionata alta mezzo metro, e nonostante le scorciatoie e le
suonate di clacson non avevano potuto fare di meglio. La ragazza,
piena di valige, di baci e sorrisi per entrambi, salì in auto e
chiacchierò ininterrottamente per tutto il ritorno, tanto che il mal
di testa di Danny si intensificò esponenzialmente. Fu comunque un
piacere ascoltare i due fratelli parlarsi, dopo essere stati lontani
per così tanto tempo, e trovò Carrie molto più carina di quando
l’aveva vista per l’ultima volta: non aveva lasciato i suoi
riccioli, ma il suo viso si era assottigliato, era diventata una
donna a tutti gli effetti. Tom, che era spasmodicamente geloso di
lei, avrebbe avuto il suo bel da fare.
Li
accompagnò a casa Fletcher, dove concluse la restante parte del
pomeriggio insieme alla famiglia, approdando nel suo appartamento che
era quasi ora di cena. Prese immediatamente due aspirine, si sdraiò
sul divano e cercò di riposarsi più che poté. La giornata era
stata stressante: il caldo della primavera era stato insopportabile,
aveva dovuto fare a meno della giacca della sua divisa e si era
arrotolato le maniche della camicia ai gomiti. L’agente Evans gli
aveva chiesto se si fosse sentito bene, dato che lei non aveva
sentito tutto quel caldo, ma Danny non se ne era preoccupato: anche i
detenuti non avevano potuto fare a meno di lamentarsi, quindi non era
un suo problema. Non era stata la sua allergia a peggiorare le
condizioni di salute, ma solo la temperatura esterna.
Fu
svegliato dal suono continuo del campanello. Il mal di testa se n’era
andato, la stanchezza persisteva, ma erano le nove e non ebbe dubbio
su chi fosse il suo visitatore: Sophie. Andò ad
aprirle.
“Ti
eri addormentato?”, domandò lei, sulla soglia della porta, “Perché
sono cinque minuti che sono attaccata al campanello.”
“Mi
dispiace…”, le fece, sinceramente in colpa, “Ma non ho potuto
riposare questo pomeriggio.”
Le
permise di entrare e Sophie si accomodò sul divano, scansando la
coperta sotto cui si era concesso quel meritato sonno. Non era di
buon umore, Danny poteva capirlo dall’espressione assente sul suo
viso. Se ne preoccupò subito.
“C’è
qualcosa che non va?”, le chiese, sedendosi vicino a lei ed
abbracciandola.
Aveva
bisogno del suo contatto, del suo corpo.
“No,
lascia stare.”, rispose lei, liberandosi, “Facciamo qualcosa
stasera?”
La
domanda di Sophie fece esplodere qualcosa nella sua testa. Doveva
ancora chiamare Dougie ed Harry! Se ne era
completamente scordato. Ad ogni modo, sarebbe stata la prima cosa che
avrebbe fatto nei prossimi minuti.
“Ti
va di uscire con gli altri?”, le chiese.
“Gli
altri… Chi?”, propose lei una nuova domanda.
“Beh…
Tom e Dougie… Harry.”
Sophie
si prese una manciata di secondi per pensarci.
“Non
possiamo fare qualcosa insieme… Io e te, senza di loro?”, fece,
indossando un paio di occhi tristi.
“Potremmo…
Però…”
“Per
via del tuo lavoro, non ci vediamo mai.”, continuò lei, “Vorrei
passare del tempo con te, senza i tuoi amici.”
Danny
non poté darle torto, Sophie aveva pienamente ragione. I turni, le
sostituzioni con i colleghi, la stanchezza e la sua salute messa a
dura prova dalla primavera restringevano le possibilità di stare con
lei. A Danny sarebbe piaciuto dedicarle tutte le attenzioni che si
meritava, ma non era sempre possibile.
Quello
era diventato uno dei tanti motivi di discussione tra loro.
“Ok…
Dirò che passerò la serata con te.”, le rispose, in parte a
malincuore.
Sophie
gli sorrise e lo baciò, felice della sua rinuncia.
Prese
il telefono e compose velocemente il numero di Tom.
“Hey!”,
rispose subito lui, “Ti
aspettiamo al pub!”
“Non
vengo…”, gli disse, “Rimango con Sophie.”
“Ah…
Va bene.”, disse Tom,
“Come vuoi.”
“Non
ho avvertito Dougie ed Harry…”, lo informò, “Mi sono
dimenticato.”
“Non
ti preoccupare, li ho chiamati quando te ne sei andato. Non mi
ricordavo che ti eri preso l’incombenza, scusami.”
“Macché,
scusami per la dimenticanza… Ci vediamo domani?”
“Certo!”,
rispose l’altro, sempre cordiale, “Divertitevi!”
“Anche
voi…”
Agganciò
la cornetta e rifletté brevemente. Non era mai giusto dare quei
‘bidoni’ ad una delle due parti, ma cosa poteva fare? Era colpa
sua, deludere qualcuno lo riduceva sempre in quel modo.
***
Meg
si mise in fila con il suo vassoio, davanti a lei altre venti
detenute in attesa della propria porzione di pranzo. Si chiese quale
sbobba avrebbe mangiato quel giorno, dato che le cucine del carcere
non erano in grado di espandere le loro creazioni culinarie oltre ai
polpettoni, alle puree di patate ed alla carne dura. Durante i primi
mesi il suo fegato aveva dato segni di rivolta riempiendola di fitte
di dolore, ma a poco a poco si era abituata, lasciandola
definitivamente in pace.
Forse
la direzione stava cercando di decimarli avvelenandoli.
“Non
si può andare un po’ più veloci?”, sentenziò Rachel, alle sue
spalle.
Meg
la ignorò, le altre detenute si voltarono e sbuffarono scocciate.
“Non
sei al ristorante!”, le rispose una di loro.
“Fatti
i cazzi tuoi.”, volle chetarla Rachel, “Hey, Rossa, mi cedi il
tuo posto?”
“Andiamo,
fai la fila come tutti gli altri.”, borbottò Meg, “E stai
buona.”
Rachel
non controbatté, ma continuò ad agitarsi.
“Non
ti ho nemmeno chiesto com’è andata con i tuoi, sabato passato.”,
cercò comunque di parlarle, molto probabilmente per ridurre lo
stress dell’attesa.
Era
trascorsa una settimana ma la visita dei suoi sembrava appartenere a
dieci anni fa. Rachel se ne era ricordata piuttosto presto.
“Bene.”,
le fece, senza aggiungere altro.
“Che
ti hanno detto?”
“Le
solite stronzate.”
Fecero
tre passi avanti.
“Era
l’ora!”, esclamò Rachel, disinteressandosi immediatamente della
sua sorte familiare, “Non voglio morire in fila per mangiare lo
schifo che mi date!”
“Hey,
stronza!”, le si rivolse la detenuta davanti a Megan, “Perché
non ti cheti?”
“Perché
non mi fai venire al tuo posto?”
“Vaffanculo!”
Una
guardia intervenne prima che altre parole volasser tra le due.
“Silenzio!”,
tuonò la donna, “E ordine!”, ma non fu sufficiente.
“Perché
la cucina è così lenta a servirci!”, Rachel chiese spiegazioni,
“Sono ore che siamo in fila, non è giusto!”
L’agente
fece per controbattere, ma una delle loro compagne più avanti la
anticipò.
“Il
personale è ridotto, non te ne sei accorta? Sei cieca per caso?”,
le fece.
Meg
alzò le sopracciglia. Sporse l’occhio verso il bancone della mensa
e non vide la signorina Kelly, la cinquantenne grassoccia, e la sua
collega Deb, che si occupavano di riempire i piatti di dura plastica
bianca per poi porgerli a tutte loro con veloce antipatia. C’era
bensì un ragazzo, un tipo che non aveva mai visto prima, ed era
solo. Meg si chiese chi fosse, dagli abiti che indossava sembrava uno
dei cuochi. Anzi, doveva esserlo: se rifletteva con attenzione, le
sembrava di averlo visto proprio davanti ai fornelli, quando le era
capitato di dare un’occhiata al personale della cucina.
“Ah,
c’è un novellino!”, notò anche Rachel, che non si trattenne,
“Avanti, muoviti!”
Le
sue pressioni scatenarono una salva di proteste, ci fu chi si sollevò
con lei e chi le andò contro, tanto che Meg cercò di ignorare la
confusione tappandosi le orecchie. Continuò a guardarsi intorno,
chiedendosi come mai le due tizie della mensa non si fossero
presentate al lavoro, e vide qualcosa di strano.
C’erano
due uomini a guardia, dall’altra parte della mensa. Due poliziotti
uomini.
Che fine avevano fatto le loro colleghe donne? La sezione interna
femminile era controllata da poliziotte, da donne in divisa, e non da
uomini, e viceversa. Al massimo, Rachel li aveva visti sorvegliare le
mura, oppure durante le celeberrime ore d’aria, quando nel grande
spazio esterno i detenuti uomini e donne erano divisi da due lunghe
reti di ferro, nel mezzo alle quali si trovava un’intercapedine di
tre metri di larghezza per allontanare ogni possibilità di contatto,
ma era molto raro incontrarli al chiuso: la divisione sessuale
perpetuata nei confronti dei detenuti era estesa anche al personale.
I casi in cui questa regola non veniva rispettata si presentavano in
inverno, quando le famose e predette ondate di influenza colpivano
anche i sempreverde poliziotti, ma era comunque molto improbabile che
ci fosse un ammanco di personale tale da richiedere il supporto della
controparte maschile. A Meg non piacevano quei due, così come poco
sopportava la presenza del loro collega durante la lezione di
giardinaggio.
Vista
l’insufficienza delle colleghe donne i due si misero all’azione,
gridando per imporre il silenzio sulla confusione scatenata da
Rachel. Si avvicinarono piuttosto velocemente.
Ma
porca di quella…
Uno
dei due lo conosceva piuttosto bene. Concentrò tutta se
stessa nell’ignorarli entrambi, era quasi impaurita dalla loro
presenza, e fissò la mattonella su cui si trovava. Non mancò però
di tenere la situazione sotto controllo.
“Facciamo
silenzio o no?”, gridò il suo collega, guardando Rachel dritta
negli occhi.
“Voglio
mangiare!”, rispose lei, per niente intimidita, “Perché il
servizio è ridotto?”
“Non
sono affari tuoi. Adesso mettiti in fila e fai silenzio!”
Al
posto di Rachel, Meg non avrebbe avuto il coraggio di fiatare, ma la
sua compagna di cella non era del medesimo avviso.
“E’
mio diritto avere una spiegazione!”, ribatté subito.
“Se
parli ancora, non avrai il tuo pranzo.”, la minacciò l’agente.
“Mi
dica perché e starò zitta!”
La
volontà di Rachel venne sostenuta da moltissime altre detenute, in
coda dietro di lei.
“Non
sono fatti tuoi!”, gridò ancora l’uomo.
Meg
non potè fare a meno di sussultare; chiuse gli occhi e pregò che
tutto finisse al più presto.
Le
urla maschili erano una tortura
per lei.
“Lo
sono!”, proseguì Rachel, scatenando applausi e fischi.
L’atmosfera
da rivolta tacque in un attimo, zittita dalla voce dell’agente
Jones del nord.
“Una
nostra collega ed agente della tua sezione è deceduta ieri sera in
un incidente stradale, stava tornando a casa dopo il servizio.”,
disse, “Parte del personale sta partecipando alle onoranze funebri,
è per questo che ce n’è mancanza. Un po’ di rispetto, per
favore.”
I
secondi che seguirono furono scanditi da un silenzio gelido, così
freddo che Meg rabbrividì. Alzò lo sguardo di poco: l’agente
Jones continuava a fissare Rachel, muta dietro di lei, mentre il suo
collega sembrava in disappunto. Il motivo era evidente: l’agente
più giovane aveva contraddetto l’autorità del più vecchio, riuscendo
contemporaneamente a ripristinare una situazione critica che non era riuscito a risolvere.
In
un attimo fugace, Jones lasciò Rachel e posò gli occhi su Meg, che
rapidamente li riportò a terra.
“Bene.”,
disse lui, tornando sull'altra donna, “Adesso tornatene in fila e mantieni
il silenzio. Non voglio sentire una sola parola.”
Si
allontanò accompagnato dal suo collega, e sotto gli ordini delle
poliziotte ognuna prese la propria porzione di cibo. Meg ebbe il
tempo di chiedersi chi fosse stata la donna morta in quell’incidente,
ma presto avrebbe avuto notizie.
Quando
fu il suo turno, non mancò di ringraziare il ragazzo che l’aveva
servita. Doveva essere scosso anche lui, a vedere dagli occhi
arrossati, molto probabilmente la conosceva.
L’atmosfera
tesa e silenziosa non la aiutò nel mangiare quel pranzo scarso e
insipido. Oltretutto, le toccò un posto vicino a quei due, accanto a
Rachel che si cibò senza fiatare, come le era stato imposto
dall’agente. Meg li aveva entrambi davanti agli occhi, ad un paio
di metri. Aveva guardato l’agente Jones per almeno un paio di
volte, sentendosi la bocca dello stomaco chiudersi. L’aveva
impaurita: lo zotico incapace del nord aveva alzato la voce, carica
del potere che la sua divisa gli dava, ed aveva imposto la sua
autorità. Se fosse stato una donna non avrebbe avuto tutto
quell’effetto negativo su di lei: gli strilli delle poliziotte non
la sfioravano.
Ma
la voce degli uomini sì, con o senza divisa.
Terminò
il pranzo, poco dopo venne l’ora di iniziare quelle stupide lezioni
di floricoltura. Fu allora che comprese a chi fosse capitata la
triste sorte di perdere la vita dopo il turno di lavoro. L’agente
Evans non si presentò, né quella volta, né mai più. Tutte le
Margherite Due passarono le quattro ore mestamente, Meg non fece
nemmeno caso all’agente Jones, che non mancò al suo dovere.
Al
termine, venne concesso loro qualche minuto in ricordo dell’agente.
“Mi
dispiace per Evans.”, disse Carlos, “Era simpatica, mi allungava
le sigarette di nascosto.”
“Già…”,
si accodò Annelise, commossa, “Era una brava donna, aveva un cuore
sotto la divisa.”
“Andiamo...”,
le fece Carlos, passandole un braccio sulle spalle, “Sicuramente
sta meglio lassù che quaggiù. D’altronde, la nostra religione ci
insegna a vivere in attesa della morte, non così?”
“Hai
ragione.”, rispose la donna, asciugando rapidamente le lacrime.
“Aveva
due bimbi.”, aggiunse Jen, “Poveri loro…”
Meg
si trattenne, sopportando tutto senza lasciarsi andare. Non era la
prima morte che affrontava da quando si trovava alla Holloway,
diversi detenuti di ogni sponda, purtroppo, avevano preferito la via
più facile e codarda per uscire da quel posto. Ogni volta era stato
un ritorno al passato per Meg. Sospirò e chiese alla sostituta di
Evans, l’agente Morris, di poterla accompagnare nella sezione. La
donna acconsentì e chiamò a raccolta le detenute.
Non
si sentiva realizzato quando imponeva la sua autorità sui detenuti,
non era quello il suo modo di lavorare, ma spesso e volentieri erano
loro stessi a costringerlo. Era necessario comportarsi duramente con
loro quando la situazione lo richiedeva, ma non sempre alzare la
voce ed urlare era la migliore soluzione. Il suo collega Hills,
infatti, non aveva ottenuto alcunché confrontandosi con quella
detenuta; lui, che aveva semplicemente risposto alla domanda di lei,
non senza aver assunto un tono duro, c’era riuscito. Per questo,
una volta tornato in servizio nella sezione maschile, subito dopo il
pranzo ed il rientro dei colleghi andati a salutare per l’ultima
volta l’agente Evans, Hills non aveva perso tempo per
rimproverarlo, accusandolo di aver sminuito la sua persona davanti
alle carcerate e di averlo messo in ridicolo. Si era scusato,
nonostante avesse voluto ribattere, ma Hills era un agente anziano e
la gerarchia, lì dentro, non era fatta solo dai gradi sulla divisa,
ma anche dall’età. Se ne tornò a casa di malumore, il groppo in
gola fuso in un misto tra rabbia e fastidio. Aveva bisogno di
calmarsi e di sfogarsi, di sedersi davanti al suo pc ed elencare
tutte le parole che gli frullavano in testa su una pagina bianca
elettronica, ma non poteva farlo. Anzi, avrebbe dovuto sfoggiare il
suo migliore sorriso.
Sophie
lo aveva invitato a cena dalla sorella, voleva fargli conoscere la
sua famiglia, o meglio, parte di essa, che viveva nel centro di
Londra. Concluso il suo turno, se ne andò frettolosamente a casa.
Dopo una doccia, si vestì di camicia e cravatta, tanto che gli
sembrò di essere tornato in divisa, ma con un paio di jeans e di
sneakers ai piedi l’effetto svanì. Saltò di nuovo in auto e si
districò tra le vie londinesi, arrivando lievemente in ritardo.
“Ti
stavamo aspettando!”, lo accolse gioiosamente Sophie sulla soglia
della porta.
“Scusami,
ma il traffico fa da padrone in questi posti.”, si spiegò.
Le
porse la bottiglia di buon vino che aveva comprato qualche giorno
prima e di lì a poco conobbe Cynthia, sua sorella, e Gary, il suo
marito inglese. Danny aveva sentito molto parlare di loro e si era
fatto un’idea sui loro volti, che trovò quasi pienamente
rispettata: le due sorelle si somigliavano moltissimo, Cynthia aveva
un viso più spigoloso di Sophie, e Mark era un tipo biondastro dai
lineamenti tipicamente inglesi. Avevano anche un figlio, Gary Junior,
che tutti chiamavano J.J…. Stupidamente, pensò Danny, che poco
sopportava poco quei soprannomi. Aveva sette anni ed era piuttosto
timido, si nascondeva sempre dietro alle gambe fini della zia.
“Avanti,
accomodati pure a tavola.”, gli fece Cynthia.
Lei
e suo marito sembravano tipi cordiali ed alla mano, ma Danny non
riusciva a diminuire la tensione che scorreva continua nei suoi
muscoli. Si sentiva come oppresso, studiato e valutato in ogni sua
mossa, avrebbe preferito sottrarsi a quell’esame ma aveva comunque
voluto accontentare Sophie, che lo aveva pregato di dire di sì a
quella serata con due occhi dolci e grandi. Si sedette accanto alla
sua ragazza, davanti a lui Gary, Cynthia di fronte alla sorella, il
bimbo a capotavola, tenuto sotto controllo dalle due donne.
Iniziarono la cena con dell’ottima pasta al forno.
“Com’è
ovvio che accada”, disse Cynthia, “Sophie ci ha parlato molto di
te.”
“Davvero?”,
fece Danny, evitando di aggiungere la classica frase ‘spero
che abbia detto cose carine sul mio conto’,
supponendo di essere retorico.
“Sì.”,
disse Gary, “Così tanto che ti odiamo già.”
L’espressione
sul suo viso si congelò in un sorriso stupido.
“Andiamo!”,
esclamò Sophie, “Non è vero!”
Scoppiarono
a ridere e Danny si unì, comprendendo lo scherzo.
“Ci
ha detto che sei un poliziotto.”, riprese Gary, “Grazie per
rendere le nostre strade più sicure.”
Notò
ancora la punta sarcastica nelle sue parole, ma non ci fece caso.
“In
che zona di Londra lavori?”
A
Danny venne spontaneo buttare uno sguardo su Sophie, alla sua destra.
Sì, Gary non aveva sbagliato, lui era un poliziotto, ma doveva
esserci un malinteso: lavorava in un carcere, non per le strade.
Oppure era lui ad aver capito male, molto probabilmente gli stavano
chiedendo in quale penitenziario lavorava.
“Beh…
Conoscete Holloway?”, domandò loro.
“E’
dove hanno costruito il nuovo stadio per l’Arsenal, vero?”, disse
Gary, “Sei di servizio in quella zona?”
“Diciamo
di sì.”, disse Danny, “Lavoro nel carcere di Holloway.”
I
due coniugi si guardarono, Danny non seppe interpretare i loro volti,
ma erano certamente stupiti. Sophie non glielo aveva detto? Tornò ad
osservarla, come per chiederle spiegazioni, ma lei era concentrata
sul suo piatto.
“Beh…
Confesso che avevamo entrambi capito un’altra cosa!”, disse
Cynthia, prendendo le redini della conversazione, “Pensavamo fossi
un poliziotto di strada, non che lavorassi in un carcere.”
“Agente
di polizia penitenziaria.”, sottolineò Danny, non senza un certo
orgoglio, “Numero di matricola 973240.”
“E…
Perché questa scelta?”, domandò Gary, “Perché proprio in un
istituto di correzione?”
“Ho
valutato a lungo la possibilità di diventare un vero poliziotto di
strada, ma mi sembrava più interessante quello che sto attualmente
facendo.”, si spiegò Danny, “E poi… Ci sono meno rischi, non
so se mi capite.”
“Certamente.”,
disse Cynthia, “Con le strade che abbiamo oggi… Non esco mai
quando è tramontato il sole.”
Danny
notò che Sophie guardava ancora il suo piatto e se ne chiese il
motivo, ma soprattutto gli sarebbe piaciuto sapere se quel malinteso
era stato voluto oppure no. Suppose la seconda opzione, dato che
comunque la verità sarebbe venuta a galla. Sophie avrebbe potuto non
presentarlo mai alla propria famiglia, solo in quel caso i suoi non
avrebbero mai saputo che lui lavorava in un carcere, pieno di
delinquenti ed assassini.
Era
il suo lavoro e, nonostante tutto, ne andava fiero.
“Holloway
è un carcere duro?”, domandò Gary, che sembrava interessante,
“Voglio dire, le misure che utilizzate sono sufficienti a
correggere i comportamenti dei condannati?”
“Holloway
ha la sua sezione di massima sicurezza.”, parlò Danny, “Le
misure che adottiamo sono sufficienti nel settanta per cento dei
casi, mentre nel tenta per cento, purtroppo, falliamo.”
“Secondo
me sarebbe necessaria una riforma della giustizia.”, disse Cynthia,
“Non sopporto quando alla tv sento parlare di scarcerazioni facili…
Se hai ucciso una persona, ti meriti l’ergastolo, sempre e
comunque.”
“Beh…
Quello che dici è in parte giusto.”, affermò Danny, “Ma ci sono
casi in cui quello che accade va contro la volontà del colpevole,
almeno secondo me…”
“Ma
la vita che uccidi è comunque una vita, appunto.”, continuo la
donna, “Paghi con la tua per quella che hai tolto.”
“Cynthia…”,
Danny sentì la voce flebile di Sophie accanto a lui.
“Quello
americano è Stato in cui ancora vige la pena di morte ed io sono
fermamente contro questo genere di punizione.”, riprese lei, “Ma
penso comunque che un assassino rimarrà assassino per sempre…”
“Cynthia.”
Sophie
alzò il tono della voce, gli occhi si spostarono su di lei,
liberando Danny dal peso del giudizio che si stava formando sulla sua
testa. La situazione si congelò, la sorella minore guardava con
insistenza la maggiore, che trattenne ogni altra parola e bevve il
vino contenuto nel suo bicchiere.
“Tu
guardi i cattivi, vero?”, disse Gary Junior, puntandolo con la sua
forchetta sporca, “Quelli che fanno i cattivi…”
Danny
non seppe cosa rispondere, ci pensò il padre del piccolo.
“Sì,
li tiene lontano da tutti noi.”
J.J.
gli sorrise e annuì teatralmente con un cenno della testolina
bionda.
“E
voi… Cosa fate nella vita?”, chiese Danny ai due coniugi.
Quando
si fosse trovato solo con Sophie, una volta terminata la cena, le
avrebbe chiesto spiegazioni, anche se era certo che fosse stato solo
un suo errore di valutazione. La conversazione andò così avanti:
Danny seppe che Cynthia era un grafico pubblicitario e che molte
delle sue creazioni erano diventati marchi di una certa importanza,
mentre Gary vendeva auto nuove ed usate, possedeva una concessionaria
a qualche isolato da lì. Danny tenne a mente quell’informazione
per Tom, che ancora non aveva raccolto abbastanza denaro per potersi
permettere una macchina nuova di pacca ma che, forse, facendo una
visita alla concessionaria di Gary, avrebbe potuto imbattersi in qualcosa
che poteva adattarsi alle sue tasche. Infine, il bambino andava in
una delle tante scuole private e sembrava piuttosto calmo ed educato,
o forse era solo la sua presenza ad intimidirlo.
Fatto
stava che, una volta terminata la cena, mentre le due donne si
occupavano dei piatti sporchi, Danny si sistemò con il padre nel
soggiorno e Gary Junior con loro, che iniziò un infinito discorso su come la sua
squadra di hockey sul prato era stata sconfitta nell’ultima
partita. Lo ascoltò con attenzione, spesso ridendo e guardando
il padre, che faceva altrettanto ed incoraggiava il figlio nello
sport. Una volta stancatosi, il bambino si dedicò ai suoi camioncini
ed alle costruzioni invisibili sul tappeto della stanza, lasciando i
due adulti a se stessi.
“Sei
stato fortunato.”, disse Gary, “Si è trattenuto.”
“Davvero?”,
gli chiese, stupito.
“Sì,
è un chiacchierone, anche se a prima vista non sembra.”, disse il
padre, “Tale e quale alla madre.”
Danny
non si espresse, avrebbe potuto essere frainteso e non voleva.
“Avevamo
capito che eri un poliziotto di quartiere.”, disse Gary, “Non che
lavorassi nel corpo penitenziario.”
“Oh
no, non ti preoccupare.”, lo tranquillizzò subito, “Sono cose
che succedono.”
Mai,
non succedevano mai,
ma evidentemente c’era una prima volta per tutto.
“Da
quanto lo sei?”, domandò ancora Gary.
“Ormai
sono cinque anni.”, gli spiegò, “Ma lavoro negli istituti solo
da tre.”
“Due
anni di corso… O quello che è.”, notò Gary.
“Sì,
esatto. Mi sembrava di essere tornato a scuola.”
Danny
non si sentiva affatto a suo agio in quella conversazione, non
riusciva a distogliere la mente dal pensiero negativo che molto
probabilmente Gary si stava facendo di lui. Forse si era fatto
influenzare troppo da Cynthia e dalle sue parole dure, ma provò a
cambiare subito discorso.
“Si
vendono bene le auto, oggigiorno?”, gli domandò.
E
Gary non se lo fece dire due volte. Così come il figlioletto,
monopolizzò la chiacchierata ed a Danny andò più che bene. Se ne
intendeva di auto, a modo suo e non tanto quanto l’altro, ma almeno
ci fu un confronto ad armi pari. Quando Sophie apparve sulla soglia
del soggiorno, i due interruppero ogni parola.
Era
arrivato il momento di andarsene a casa.
“Allora?
Ti è piaciuta la mia famiglia?”, gli chiese lei, una volta chiuse
le portiere della sua utilitaria.
“Sì,
sono persone semplici e deliziose.”, le rispose, “Spero di aver
fatto una buona impressione.”
“Certamente.”,
disse Sophie, “Ti hanno apprezzato.”
“Bene…”,
ne volle approfittare per togliersi quel sassolino dalla scarpa,
“Perché a tua sorella non devo rimanere molto simpatico.”
“Oh
no, non ti preoccupare.”, tagliò corto lei, “E’ che ha preso
da nostro padre e lui è un politico, lo sai. Non perde mai
l’occasione per starsene un po’ zitta, a volte.”
“Non
essere così dura nei suoi confronti.”, la riprese, “In fondo,
era un semplice scambio di idee.”
Lei
non rispose, ma in compenso accese lo stereo e lo posizionò su una
stazione radiofonica che trasmetteva un vecchio successo della disco
anni settanta. Stava iniziando a conoscerla bene, quel piccolo gesto
apparentemente insignificante stava bensì a dire ‘non
ne voglio parlare’, ma
Danny non poteva dargliela vinta.
“Io
credo nel mio lavoro.”, le disse, “Le mie convinzioni si fondano
su solide basi, altrimenti non sarei mai potuto diventare un
poliziotto...”, fece una piccola pausa, “Un poliziotto che lavora
in un carcere.”
“Lo
so, Dan.”, si pronunciò Sophie, “Ad ogni modo, mia sorella
chiacchiera tanto ma cucina bene, vero?”
Altra
potente virata.
“Sì,
è davvero una brava cuoca.”, la seguì Danny.
_____________________
Note dell'autrice.
Eccomi, qua, dopo millemila mesi che non pubblico, ringrazio Ciry che con le sue dolcissime parole mi ha spronato :D E ringrazio anche la Fra!
Spero che la storia non vi annoi, so che sembra non succedere niente,
ma se leggete bene stanno accadendo più cose di quanto vi possa
sembrare. Capite, si trovano dentro ad un carcere, non possono esserci
fatti eclatanti e decisamente fuori luogo.
Se vi va, lasciate un commento :) e di nuovo grazie.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quattro ***
Capitolo Quattro - FW
CAPITOLO
QUATTRO
Le
sue mani erano fredde, molto fredde, se ne chiese il perché. Poi se
ne rese conto, la superficie che percepiva sotto le dita non poteva
trasmetterle altro che quella sensazione: era vetro, elemento
inanimato, fragile e resistente al medesimo tempo. Sotto di esso
legno vecchio, pieno di minuscoli fori di tarlo.
Meg
sbatté gli occhi più volte.
Non
aveva la più pallida idea del posto in cui si trovasse, si sentiva
come se fosse stata strappata dalla propria vita per essere gettata
in un luogo nuovo e sconosciuto, agli antipodi del mondo. La testa le
girava vorticosamente, tanto che ebbe un forte senso di nausea:
trattenne il conato, prese un respiro profondo e si impose si
calmarsi. Avrebbe risolto anche quella situazione, ormai era capace
di ovviare ai problemi della sua vita senza il sostegno di nessuno,
quindi doveva solo attendere di realizzare dove si stesse trovando.
Lentamente,
la vista mise a fuoco quello che la circondava.
Vide
il pavimento di parquet sotto ai suoi piedi, qualche ninnolo sul
bancone davanti a lei, poi il luogo assunse rapidamente la sua
naturale profondità tridimensionale e si allargò in ogni direzione.
Meg ebbe altra nausea, si appoggiò alla superficie di vetro ed
attese che la sua mente smettesse di farle quei giochetti idioti.
Si
voltò e quello che trovò non le piacque affatto. Meg portò le mani
alla bocca, stupita e incredula.
Era
nel vecchio negozio di articoli per la casa. Tutto quello che vedeva
era come se lo ricordava: le lampadine alle sue spalle, insieme alle
batterie ed ai piccoli oggetti elettrici ed elettronici. Alla sua
sinistra scaffali pieni di piatti, bicchieri, forchette e di ogni
altro oggetto per la cucina. Davanti a lei stoffe, lenzuola, tovaglie
e tende; sulla sua testa qualche lampadario…
Meg
si toccò, trovandosi reale e viva. Non stava capendo niente di
quello che le succedeva. Alla sua sinistra scorse uno specchio,
quello nel quale era abituata a riflettersi per cercare capelli fuori
posto o trucco sbavato: i suoi capelli erano color carota,
esattamente come tanto tempo fa… O forse li aveva sempre avuti in
quel modo? Non seppe darsi una risposta, non era certa di quello che
la sua mente le suggeriva: aveva la sensazione di vivere il presente,
di essere una ragazza di diciotto anni, di lavorare in quel
negozietto per racimolare qualche soldo e di avere un importante
compito di letteratura da affrontare tra qualche giorno, ma c’era
comunque un fondo di dubbio.
Un
deja-vu? Poteva darsi, i pomeriggi passati in quel buco di negozio
erano tutti uguali.
Sentì
la porta del negozio aprirsi ed il tipico scampanellare segnalare la
presenza di un nuovo cliente. Come se fosse stata un automa
programmato per vendere articoli d’arredamento, sfoderò il suo
migliore sorriso migliore ed accolse il signore.
“Buon
pomeriggio!”, gli disse, “In cosa posso esserle utile?”
“Vorrei
una lampadina, le ho finite.”, disse l’uomo, con tranquillità.
Meg
notò la sua barba lievemente incolta e brizzolata, così come i
capelli che spuntavano sotto al berretto.
“Certo,
mi dice quale voltaggio le serve? E’ per un lampadario o per un
abat-jour?”, gli domandò.
“Duecentoventi.”,
rispose l’uomo seccamente.
“Perfetto.”
Meg
gli dette le spalle e cercò la lampadina giusta per il signore. Ne
individuò tre tipi diversi, ognuna con un suo prezzo, e ne prese
qualcuna per mostrargliele. Si voltò, ma lo spavento le fece cadere
le piccole scatole a terra. Meg si appiattì allo scaffale, in preda
al panico ed al terrore.
L’uomo
le puntava una pistola contro, diretta al cuore, che pulsava
impazzito dentro di lei.
“Svuota
la cassa.”, le disse, “Ed anche la cassaforte.”
Meg
fissava l’arma, non sentiva le sue parole e tremava, incapace di
parlare.
“Dammi
i soldi!”, gridò l’uomo, sporgendosi sul bancone ed afferrandola
per il maglioncino che indossava.
La
strattonò e i fianchi di Meg si scontrarono sulla superficie, tanto
che il dolore la accecò.
“Ti
ho detto di darmi i soldi, puttana!”, urlò ancora, “Muoviti!”
Ma
le grida di panico di Meg lo sovrastarono, e lui si scatenò.
“Piantala!
Muoviti!”
La
spinse contro allo scaffale, scatole di lampadine e cavi elettrici
caddero rovinandole addosso e colpendola ovunque. L’uomo reagì
ancora: prese la cassa e, dopo un paio di pugni e gomitate, la aprì.
I soldi entrarono presto nelle sue tasche, Meg non aveva la capacità
di fermarlo.
Puoi
farlo…
No,
non era possibile, era piantata a terra dalla paura e dal terrore.
Puoi,
e sai come.
L’uomo
tornò a minacciarla con la sua arma e le sue grida.
“Apri
la cassaforte! Ce l’hai davanti agli occhi!”
Meg
piangeva, singhiozzava e mugolava. L’uomo si innervosì e, con un
gesto rapido, sgombrò il bancone, gettando tutto a terra in un colpo
solo. Ninnoli di vetro e plastica si frantumarono contro il
pavimento.
“Sbrigati!”
Puoi
liberarti di lui.
Meg
allungò le dita verso la rotella e, sebbene stessero tremando come
una foglia, riuscì ad aprire il portellone individuando la
combinazione giusta.
“Dammi
tutto quello che c’è dentro!”
C’erano
tante scatole, Meg non sapeva cosa contenessero ma conosceva quella
che l’uomo voleva più di tutte. Si trovava in fondo, dietro a
tutte le altre: quando la prese e la estrasse, quelle caddero e
riversarono il loro contenuto sul parquet.
Prendila.
Gli
occhi di Meg si fermarono sul metallo nero che, uscito da una
scatola, si era fermato vicino ai suoi piedi.
Stringila.
La
mano si avvicinò e toccò il metallo, trovandolo ancora più gelido
del vetro che rivestiva il bancone.
“Muoviti!!!!”,
gridò ancora l’uomo.
Proteggiti.
Le
dita si impossessarono dell’arma. Una volta che il calcio venne
stretto, come la voce nella sua testa le aveva ordinato, la pistola
divenne improvvisamente calda. Si ricordò anche quello che il
proprietario del negozio le aveva detto, qualche settimana prima:
‘Dopo l’ultima rapina,
ho deciso di proteggermi. Ma tu non la devi usare. Mai.’.
Liberatene.
Meg
tremava, era scossa da brividi ovunque, ma riuscì comunque ad
alzarsi. Impugnò la pistola con entrambe le mani, la sentiva così
pesante che non aveva abbastanza forza da sorreggerla con la sola
destra. L’uomo impallidì ed indietreggiò, ma il suo spavento durò
solo pochi secondi.
“Mettila
giù!”, urlò di nuovo.
Si
avvicinò velocemente, Meg lo vide ancora allungare la mano per
scuoterla e spingerla a terra, ma un tonfo sordo e potente la
assordò. Un improvviso odore di bruciato e poi un grido rinnovato,
gli occhi si aprirono e trovarono il buio. Immediatamente luce venne
fatta e percepì ancora quella sensazione di freddo, alle mani.
Anzi,
ai polsi.
“La
signorina Howard ha volutamente”,
sentì dire da una voce lontana, che rimarcò quell’ultima parola,
“impugnato l’arma, puntandola al petto dell’uomo e sparando,
sebbene le fosse stato proibito categoricamente
di farlo”, ci fu una pausa, “come ha testimoniato il suo datore
di lavoro, il signor Bell. Nonostante ciò, ha violato la regola ed
ha sparato, ferendo a morte il rapinatore, il defunto signor Kendara,
lasciando sua moglie e suo figlio privi di un buon padre di
famiglia.”
“Obiezione,
signor giudice!”, disse allora una voce femminile, “Come si può
dire che un rapinatore sia un buon padre di famiglia? E’ una
contraddizione bella e buona!”
Meg
comprese di trovarsi in aula di tribunale, ma la luce era così forte
ed abbagliante da non permetterle di vedere alcunché. In aggiunta,
se prima la sensazione di deja-vu era solo tenue, adesso era quasi
insopportabile.
“Il
signor Kendara”, riprese subito l’odiosa voce precedente, “aveva
perso il lavoro da mesi, era disoccupato e doveva trovare un modo per
sfamare suo figlio, di appena sei mesi!”
“Ma
questo non giustifica…”
Il
giudice interruppe la difesa dell’avvocato di Meg.
“Respingo
la sua obiezione.”, disse, perentoriamente.
Ci
fu del silenzio. Nessuna parola venne più spesa né in sua accusa,
né a difesa, ma la luce era ancora lì, persisteva a toglierle la
vista. Poi qualcun altro parlò.
“Il
tuo caso è perso.”, disse il suo avvocato, la signorina Dean,
“Devi accettare la pena.”
Sentì
un pianto, riconobbe sua madre.
“So
di essere colpevole!”, ribatté allora Meg, istintivamente, “Ma
quello avrebbe potuto uccidermi! L’ho fatto per difesa…”
“La
sua pistola era finta, Meg!”, la zittì l’avvocato, “Chiunque
avrebbe potuto accorgersene, era un giocattolo!”
“Un
giocattolo piuttosto realistico!”, disse ancora Meg.
La
luce si spense, Meg si trovò nell’oscurità più totale. Si fece
prendere dal panico e la sua fronte diventò imperlata di minuscole
gocce di sudore. Si rese conto di essere in un incubo, uno di quelli
che non faceva orma da almeno due anni, ed attese con rassegnazione
che i flash del passato si esaurissero, come era capito in
precedenza. La realizzazione di vivere i ricordi, comunque, non era
sufficiente a farla svegliare: era la sua mente a decidere quando
interrompere la catena.
Rivisse
così le fasi più importanti del suo processo, da quando la
condannarono a dieci anni di reclusione con l’accusa di omicidio
volontario a quando ridussero la pena di un anno in un primo stadio
di ricorso, avvalendosi della buona condotta personale precedente il
fatto. Inoltre, il suo avvocato puntò sulla tesi della difesa
personale e dello stato di panico in cui Meg si era trovata per colpa
di un’arma, seppur finta, puntata contro il viso. Ricordò i
momento peggiori spesi in carcere: le botte ed i soprusi, il cibo
rovesciato a terra, le offese e gli scherzi idioti; le giornate
passate a piangere, la voglia di fuggire. I tentativi… Di
uccidersi, perché no? Ma li aveva solo pensati, era sempre stata
troppo codarda per farlo davvero. Rammentò di come Rachel venne
trasferita nella cella, che prima non condivideva con alcuna
detenuta, e di come lei la difese, una volta, dalle angherie di una
storta.
I
flash durarono con continuità, forse per tutta la notte, e quando
Meg si svegliò le sembrò di aver passato un anno intero sonnambula.
“Hey…
Cosa hai fatto stanotte?”, le fece Rachel, quando la vide in viso,
“Ti hanno camminato sulla faccia? E poi hai mugolato come un
pulcino… Che ti succede?”
“Niente…”,
le rispose, “Brutti sogni…”
“Ah…
Ho capito.”, disse l’altra, “Vedi di rimetterti.”
Non
era la giornata giusta per alzarsi ed andare al lavoro, e non era
colpa della sua allergia primaverile, che il suo corpo stava
combattendo aiutato dai medicinali e dalla sua forza di volontà.
Aveva fatto un brutto sogno, quella notte, un incubo pessimo in cui
si era trovato chiuso dietro alle sbarre di una delle tante celle
della Holloway, mentre fuori i detenuti festeggiavano la rivolta
messa in atto, e lui se ne stava imprigionato per mano loro. Era un
sogno che si presentava con una cadenza incredibile, una volta al
mese disturbava il suo sonno, forse era il caso di andare in cura da
qualche psicologo, oppure da uno psichiatra, per farsi curare.
Entrò
in servizio scacciando ogni pensiero, imponendosi di stare calmo e di
non ritenere quella eventualità come un dato di fatto: in
Inghilterra, un avvenimento del genere non era statisticamente raro,
ma neanche frequente, quindi non doveva preoccuparsene. I detenuti
della Holloway, inoltre, non avevano tendenze riottose e la
sorveglianza stretta su quelli più pericolosi ed a rischio
allontanava tale ipotesi.
Perché
preoccuparsene?
Ecco,
stava già meglio.
“Megan!
Carlos!”
La
voce stizzita ed acuta di Daisy, evidentemente arrabbiata con i due
reclusi, entrò potentemente nelle sue orecchie. Si chiese cosa fosse
successo in quei suoi momenti di assenza cerebrale.
“Mi
avete stufato!”, continuò Daisy, “Andate in serra e pulite le
vetrate!”
“Signorina,
non abbiamo fatto niente!”, rispose Carlos, in sua difesa.
Danny
guardò verso la sua nuova collega, l’agente Morris, che aveva già
conosciuto in precedenza, e le chiese cosa fosse successo.
“Ridevano
durante la lezione.”, gli spiegò, “Perché Daisy si è
rovesciata una brocca d’acqua sui pantaloni.”
Trattenne
qualsiasi risatina, nascondendola sotto i baffi.
“Avanti!”,
esclamò ancora Daisy, “In serra!”
“Ubbidite.”,
rinforzò Morris, “Jones, tienili d’occhio.”
No,
pensò lui, adesso che stava un po’ meglio non poteva farsi
sottoporre a quella tortura un’altra volta.
“Non
è che potresti…”, disse alla collega, “Andarci tu? E’ che
non sto tanto bene…”
“Nemmeno
io.”, gli sorrise lei, beffarda.
“Ok,
non ti preoccupare.”, le rispose, poi si rivolse ai due detenuti
mancanti di rispetto verso la lezione, “Andiamo.”
Li
seguì, osservandoli avvicinarsi a passi lenti verso la serra. Come
loro, Danny non era affatto entusiasta di passare del tempo lì
dentro, ma vi erano stati tutti costretti e non potevano rifiutarsi,
chi per una ragione, chi per un’altra.
“Iniziamo
da fuori o da dentro?”, chiese Carlos.
“Ovviamente
da dentro!”, rispose la ragazza, “Non vedi come sono sporchi
all’esterno?”
Ed
entrò con loro. Subito, l’odore opprimente ed il caldo tropicale
gli serrarono la bocca dello stomaco e, qualche minuto più tardi,
arrivarono i primi starnuti ed i colpi di tosse.
“Agente
Jones…”, gli disse Carlos, che premeva la spugna sui vetri,
seguito dalla ragazza che li asciugava e li lucidava, “La sua
allergia è ogni giorno sempre più terribile.”
“Lo
so.”, gli rispose Danny, “Ma sta migliorando.”
“Dice?”,
fece l’altro, un po’ ironico, “A me non sembra. Lo pensi anche
tu, Meg?”
“Lo
penso, lo penso.”, borbottò lei.
“Preoccupatevi
solo di fare un buon lavoro.”, disse ai due.
Si
guardarono, poi guardarono lui, a qualche metro di distanza. Forse
era stato un po’ troppo duro, ma non aveva l’umore adatto né la
salute per reagire in maniera migliore. Tornarono alla loro
occupazione in silenzio, cosa che lui apprezzò, ma fu solo un
benessere temporaneo.
“Che
cos’hai, Meg?”, le chiese Carlos, “Ti hanno camminato sul
viso?”
La
ragazza rise brevemente.
“Me
lo ha detto anche Rachel, la mia compagna di cella.”, rispose, “Non
ho dormito bene.”
“Si
vede!”, esclamò Carlos, “Mi spaventi ogni volta che ti guardo!”
Risero
ancora insieme, sembravano divertirsi in compagnia dell’altro, come
Danny aveva già avuto modo di notare.
“Perché
hai dormito male?”, le domandò ancora Carlos, “C’è stato
qualche sogno che ti ha disturbato?”
“Sì.”,
rispose lei, “Di quelli che non terminano mai.”
Bizzarro,
pensò Danny, che si era svegliato pessimamente per colpa del
medesimo motivo.
“Uh,
mi dispiace.”, ironizzò Carlos, “La prossima volta datti una
botta in testa, così non correrai il rischio di sognare!”
“Lo
farò.”
“Cosa
hai sognato?”, ripropose lo spagnolo una nuova domanda, sembrava
piuttosto curioso.
“Beh…
“, balbettò l’altra, “Cose vecchie.”
“Indovino.”,
fece l’altro, fermando il suo lavoro, “Hai sognato… Che Daisy
ti imponeva di passare del tempo con me e con l’agente Jones,
chiusa in serra, a pulire le vetrate!”
La
ragazza rise con sincerità, anche Danny non poté evitare di
allungare in su gli angoli della sua bocca.
“Puoi
parlarne.”, riprese poi Carlos, “Sai che sono uno zingaro gitano,
so tutto dei sogni e di come interpretarli.”
“Il
mio non era proprio un sogno.”, precisò Meg, “E comunque non ne
voglio parlare.”
L’uomo
dovette arrendersi alla volontà di Meg. Il lavoro dei due riprese in
silenzio, Danny percepì una sorta di tristezza calare sulle loro
teste, ma poteva anche essere una sua impressione. Dopo quelle
chiacchiere, metà serra era stata pulita.
“Riguarda
quello che ti ha portato qui, vero?”, disse Carlos, dal nulla.
“Esatto.”,
rispose la rossa, “Hai indovinato.”
“Beh,
cara mia.”, fece l’altro, “Rivedere il volto di chi hai ucciso,
anche dopo tanti anni come nel mio caso, è sempre un dolore anche
per me.”
Danny
tese le orecchie, spinto da una curiosità che solitamente non gli
apparteneva. La ragazza sospirò e parve concentrarsi nel lavoro.
“Pensavo
che uno come te fosse abituato.”, gli disse, quasi sottovoce.
“Quando
ero libero, certi pensieri non mi tormentavano.”, rispose lui, “Ma
qua dentro sono diventati un’ossessione.”
“Mi
sembri sano di mente.”
“Anche
tu, ragazzina.”, le sorrise l’altro, “Ma una persona sulla
coscienza non è facile da sopportare, nemmeno per me. Figuriamoci
per te, che sei una persona essenzialmente buona, finita in un luogo
essenzialmente cattivo, popolato da individui del medesimo calibro…”
Danny
aveva finito di stupirsi dei motivi che spingevano la gente a farsi
rinchiudere in prigione, ne aveva sentiti di tutti i colori, ma
c’erano casi particolari in cui doveva sempre ricredersi. Ciò che
aveva imparato sulla ragazza, spifferato da Carlos e catturato con la
curiosità, lo lasciava senza parole, si sentiva amareggiato. Quella
detenuta, Meg, se ne stava in prigione da quando aveva diciotto anni,
evidentemente per aver tolto la vita a qualcuno, sprecando così
tutta la propria con un peccato mortale indicibile a pesarle sulla
testa.
Perché?
Cosa rendeva una persona capace di uccidere un suo simile?
Soprattutto, una persona così giovane, una ragazza apparentemente
brava ed onesta? Invidia, gelosia verso qualcuno? Danny non capiva,
non sapeva come si potesse essere capaci di un gesto così.
“Se
fossi stata davvero essenzialmente buona”, disse la ragazza,
“perché mi trovo qui?”
“Che
domanda retorica e stupida, permettimi di dirtelo!”, esclamò
Carlos, ridendo, “Se finisci in carcere, è perché hai fatto
qualcosa di male. Indipendentemente dalla percentuale di bontà di
cui è fatto il tuo cuore.”
“Non
ho detto di essere innocente.”, replicò lei, “Ma solo di essere
una persona sbagliata capitata nel posto sbagliato, al momento
sbagliato.”
“Sono
rari i casi in cui qualcuno è contemporaneamente prigioniero ed
innocente.”, ribatté Carlos.
“Non
mi sto riferendo alla mia posizione attuale.”, si spiegò ancora
Meg, “Ma a quella che mi ha portato qui.”
“Perdonami
ma non ti seguo.”, la interruppe lo spagnolo.
Nemmeno
Danny la seguiva, tanto che non aveva osato fiatare un pensiero
durante quel dibattito.
“Intendevo
dirti…”, disse la ragazza, lasciando perdere il suo straccio,
“Che se quel giorno avessi rinunciato al mio turno per studiare
letteratura, non sarei qui.”
“Ovvio!”,
esclamò l’altro, “Ma la storia non si fonda sui se e sui ma. E’
questo l’universo parallelo in cui vivi.”
“Ed
infatti mi fa schifo.”, obiettò l’altra, gettando tutto a terra,
“Non dovrei essere qui. Deve esserci stata una sorta di… Di
interruzione temporale del cazzo, o come si chiama, che mi ha
trasportato qua.”
Carlos
interruppe il suo insaponare e si voltò verso di lei.
“Vedi
il lato positivo di tutto questo.”, le fece, raccogliendo lo
straccio e porgendoglielo, “Avresti mai detto che prima o poi ti
saresti trovata chiusa in una serra con due bei maschioni come noi?”
Danny
si vide indicato dalla mano forte e massiccia di Carlos, che
sorrideva e cercava di trascinare anche la ragazza nel divertimento
della sua battuta di spirito. Megan guardò nella sua direzione, gli
schioccò un’occhiata piena di sufficienza.
“Finiamo
il lavoro, oppure la fidanzata di Paperino si incazzerà.”
Prese
lo straccio dalle dita di Carlos e tornò a strofinare. Lo spagnolo
lanciò un occhiolino complice a Danny, che contraccambiò con un
cenno di testa ed un sorriso. Qualsiasi cosa avesse fatto quella Meg,
era evidente che fosse il suo tormento più grande. Le parole che
aveva udito da lei non erano di sincero pentimento verso il suo
crimine, ma di frustrata rassegnazione di fronte a ciò che le era
capitato, e che lei non aveva mai preventivato nella sua vita. Danny
non credeva che i detenuti fossero vittime delle situazioni in cui si
trovavano, non appoggiava la teoria per la quale un individuo
diventava cattivo se immerso in un universo altrettanto cattivo.
Credeva
bensì che tutti gli esseri umani agissero, causando delle naturali
conseguenze, positive o negative. Lei aveva agito, aveva sbagliato e
doveva pagare, volente o nolente, ma soprattutto indipendentemente
dall’età, dall’essenza buona del suo cuore e da tutti i pregi
che possedeva.
Se
non errava, inoltre, sarebbe uscita presto. Quello voleva dire due
cose: che la giustizia avesse fallito e stesse rilasciando qualcuno
che si meritava lo sconto della sua punizione fino all’ultimo
giorno, oppure che il detenuto si fosse pentito seriamente. Non
sapeva quale fosse stato il caso di Meg, gli sarebbe piaciuto
approfondirlo ma, essendo lei una donna e lui un agente uomo, non
rientrava nella sua giurisdizione.
Eppure,
se ci pensava bene, la ragazza si era contraddetta. Aveva dubitato
del suo essere una persona buona, ma poi si era ritenuta vittima di
coincidenze della vita. Affermava di non essere innocente ma
colpevole, e poi accusava una congiunzione astrale sfavorevole.
Che
caso complicato.
***
La
sua mattina era sgombra da ogni tipo di impegno e di lezione. Meg si
trovò nulla facente, chiedendosi come avrebbe potuto passare quella
giornata senza appassire. La prima scelta che le affiorò in mente fu
andarsene in biblioteca, ma non aveva voglia di chinarsi su un
qualsiasi volume. Fuori il sole era così fresco che allungando lo
sguardo oltre l’orizzonte si poteva vedere il mare… Ma quale
mare, borbottò stanca la mente annoiata di Meg, da Holloway si
potevano vedere solo altri edifici, tetti ed antenne a non finire, al
massimo qualche campagna lontana.
Sospirò
e prese la sua decisione, se ne andò in biblioteca.
“Hey!”,
la chiamò subito Annelise, una volta che i secondini all’entrata
del luogo l’ebbero fatta entrare.
Meg
si voltò verso di lei, che passeggiava tra gli scaffali con una pila
di libri tra le braccia.
“Vuoi
che ti venga un’ernia?”, scherzò con lei, “Oppure vuoi farti
una cultura enciclopedica?”
“No!”,
rise l’altra, “Voglio solo aumentare una parte della mia
conoscenza vivaistica.”
Meg
le si avvicinò subito, incuriosita. Stentava a credere a ciò che la
bocca di Annelise le aveva permesso di sentire, ma era sicura di non
aver frainteso alcuna parola. La donna appoggiò i libri su uno dei
tanti lunghi tavoli di legno lucido e Meg si sistemò davanti a lei.
Non pensava che Annelise si sarebbe interessata ad approfondire
alcuni degli aspetti delle loro lezioni quotidiane, ma evidentemente
si era sbagliata.
“Voglio
impegnarmi.”, le spiegò Annelise, vedendola stupita e al contempo
perplessa, “Perché se tra un paio di anni sarò fuori, vorrei
davvero creare qualcosa di buono.”
“Quindi
niente più colpi duri alle casse del fisco?”, ironizzò Meg,
sperando che la donna non fosse troppo suscettibile a quel genere di
battute.
“Beh…
Chissà!”, rispose l’altra, ridendo ancora una volta, “Ma per
il momento, è meglio studiare, dato che non ho nient’altro da
fare.”
Meg
annuì e le strizzò un occhiolino, per darle tutto il suo distaccato
sostegno. Così, la donna aprì il primo volume tra quelli
selezionati e si mise a leggere.
“Dovresti
farlo anche tu.”, borbottò poi Annelise, “Non sei così male
come giardiniera…”
“Grazie.”,
rispose lei, “Ma è perché i miei hanno tuttora un vivaio.”
“Se
hai il verde nei geni, perché sprecarlo facendo innervosire Daisy?”,
domandò Annelise, “Tieni, prendi un libro e studia!”
Tutto
tranne quello.
“Mi
vedo costretta a rifiutare con gentilezza.”, le disse,
restituendole il volume, “Quello che imparo ascoltando Daisy mi
basta ed avanza.”
La
donna si strinse nelle spalle.
“Come
vuoi.”, disse, senza insistere, “E’ la tua scelta.”
Si
rimise sulle sue parole scritte e Meg fu costretta a lasciarla sola,
altrimenti l’avrebbe solamente disturbata. Osservò tutti gli
scaffali, quella volta ancora più distratta delle altre, tanto che
un paio di suoi colleghi uomini -la biblioteca era un luogo unisex,
sebbene fosse piuttosto difficile incontrare detenuti maschi- la
rimproverarono e fu costretta a prendere un libro a caso ed a
sedersi.
George
Orwell.
Fantapolitica,
aveva già letto uno dei suoi lavori e le era piaciuto, perché non
tuffarsi ancora? Aveva macinato qualche capitolo, vedeva solo animali
in rivoluzione, quando una mano si posò sulla sua spalla.
“Mi
ha detto Annelise che eri qui.”
Carlos.
“Hey…
E’ una congiura contro di me?”, scherzò Meg, “Volete tutti
farmi diventare l’asina del corso, mettendovi a studiare
floricoltura alle mie spalle?”
“No,
non mi permetterei mai di lasciarti indossare da sola il cappello con
le orecchione.”, rispose l’altro, “Piuttosto, cosa stai
leggendo?”
Allungò
il suo braccio tatuato ed afferrò una sedia, che usò per
accomodarsi al suo tavolo, sedendosi a cavalcioni su di essa.
“Orwell,
conosci?”, gli disse, mostrandogli la copertina del libro, tutta
stropicciata ed ingiallita.
“Certo
che sì.”, rispose lui, allontanando le parole per leggere meglio.
Meg
lo osservò prendere un paio di occhialetti dalla tasca della sua
camicia quadrettata e spiegazzata ed indossarli. Era comico vedere un
gigante come lui leggere con quegli strani affari sulla punta del
naso, tanto che se ne accorse.
“Non
vedo bene da vicino.”, disse, sorridendole, “E so che sono buffo,
li indosso solo qui per evitare di essere preso in giro.”
“Uno
come te può schiacciare chi lo ridicolizza!”, obiettò Meg, di
nuovo stupita.
L’uomo
la guardò, oltrepassando la montatura fine e nera degli occhiali.
“Ogni
chiacchierata che facciamo mi porta a capire che tu hai un’idea di
me che non mi piace affatto.”, disse, per poi mettersi a sfogliare
il libro, “Oh! La
fattoria degli animali di
Orwell, pensavo ti fossi buttata sul classico 1984.”
Meg
non ascoltò il suo commento, era rimasta male per le parole
precedenti. Carlos notò anche quello.
“Non
ti preoccupare, non sono scocciato.”, la tranquillizzò, “Ormai
sono abituato alla gente, quella che pensa che io sia solo capace di
fare prepotenze sul suo prossimo… Vedrò di farti cambiare idea!”
Le
sorrise e le porse la sua mano destra: Meg mise la propria nella sua,
lasciando che lui l’avvolgesse completamente e la stringesse,
suggellando quel piccolo patto tra loro.
“Adesso
torniamo al libro.”, disse Carlos, porgendoglielo, “A che punto
stai?”
“Gli
animali hanno appena eliminato il signor Jones.”, spiegò Meg, “E
vogliono fondare questa nuova comunità basandosi sulle regole
dettate dal maiale più vecchio, che è morto da poco.”
“Come
vorrebbero chiamare questa nuova società?”, domandò ancora lui.
Meg
riflettè.
“Animalismo.”,
disse poi, certa della risposta.
“Bene!”,
esclamò l’altro, togliendosi gli occhiali, “E non ti sembra di
aver già sentito parlare di questo animalismo?”
“In
che senso?”, Meg non lo capiva.
“Questo
libro”, disse Carlos, indicandolo, “è l’allegoria di un
determinato modello politico di società esistente, non te n’eri
accorta?”
Assolutamente
no, si disse Meg, l’aveva preso solo per un libro di fantasia,
niente più.
“Mi
deludi, ragazzina.”, fece l’altro, “Ti facevo più
intelligente.”
“Fammelo
almeno finire!”, si difese Meg.
“Certo!
Appena lo terminerai, mi piacerebbe davvero poterne discutere con te.
Chissà cosa potremmo capire l’uno dell’altro ragionando sulla
tematica di questo libro!”
Le
stranezze di Carlos si sommavano. Non lo faceva tipo da biblioteca,
né da occhialetti per la lettura, né così ferrato sulla
letteratura inglese di metà secolo. Forse lo aveva davvero
sottovalutato, addirittura completamente frainteso.
“E
poi”, continuò lo spagnolo, con aria sarcastica ma tono basso,
“non prendere in giro l’agente Jones per essere omonimo del
signor Jones creato da Orwell, che viene trucidamente spodestato da
capo della sua fattoria, dopo una rivoluzione guidata da cani e
porci…”
“Ovvio
che, nella mia testa, le due persone coincidevano!”, gli fece,
ridendo.
“Ti
lascio alla lettura.”, disse Carlos, alzandosi, “Sono certo che
ci incontreremo presto per parlarne, mi fido della tua testolina,
anche se è un po’ bacata.”
“Grazie
del sostegno!”, rispose Meg, cacciando fuori la lingua e
salutandolo.
Quando
si fu allontanato, tornò alle vicende della nuova società
animalista, fondendosi tra i personaggi e le loro vicende
rivoluzionarie. Ben presto capì a cosa si stava riferendo Carlos e,
in preda all’impazienza, lo cercò ovunque in biblioteca, ma non ne
trovò traccia. Chiese di lui ad Annelise, ma rispose negativamente,
così come un altro paio di agenti. Lo spagnolo non era un fantasma,
nessuno poteva non averlo notato, ma si disse che molto probabilmente
c’era stato un cambio di turno tra i poliziotti.
Vide
l’ora, erano le sei, tra poco sarebbe stata ora di pranzo, doveva
tornarsene in cella ed attendere che dessero a tutte le detenute il
permesso di recarsi in massa nella mensa.
Accompagnava
Barreiro alla lezione. Danny starnutì e si prese una compressa di
antistaminici: sebbene giugno fosse quasi finito, il lungo contatto
con le piante stava prolungando il suo stato allergico e, con la
sincerità nella mente, ne aveva le palle piene.
“Agente
Jones”, gli disse Carlos, mentre si soffiava il naso, “sa che il
suo cognome è molto comune qua in Inghilterra?”
“Se
non erro ha il secondo posto nella classifica dei cognomi più
diffusi.”, gli spiegò, si era ricordato di averlo letto qualche
anno fa, molto probabilmente la situazione non era cambiata di molto.
“E’
anche un piuttosto anomimo.”, disse l’altro, “Come Smith.”
“Già…”,
rispose Danny, senza interesse.
“Ad
esempio, se fossi uno scrittore”, continuò lo spagnolo, “lo
userei per il mio personaggio.”
“Beh,
allora ti ringrazio per dare al mio cognome tutta questa importanza.”
L’ennesimo
cancello venne aperto, lasciando via libera ad entrambi.
“In
molti hanno fatto come farei io, in prima persona.”, riprese
Carlos, una volta superato quel piccolo posto di blocco tra i diversi
corridoi, “Come Orwell, lo conosce?”
Orwell.
“Intendi
quello del Grande Fratello?”, domandò Danny.
“Esattamente.”
“Sì,
lo conosco, ma non ho mai letto niente di suo.”, fece, chiedendosi
quale fosse lo scopo di quella conversazione.
“Ecco,
uno dei suoi personaggi porta il tuo cognome.”, precisò Carlos,
“Nel romanzo La fattoria degli animali, il padrone si chiama
Signor Jones.”
“Interessante.”
“Gli
animali gli si rivoltano contro e prendono possesso della fattoria,
ma è un personaggio piuttosto significativo.”, approfondì Carlos.
I
suoi pensieri dirottarono verso il suo sogno più brutto, lo aveva
fatto un paio di settimane prima, e si chiese quanto potesse essere
strano il mondo, ma soprattutto pieno di coincidenze. Gli venne quasi
da sorridere: Signor Jones di Orwell e Agente Jones di Holloway che
subivano la medesima fine, distrutti dagli animali e dalle persone
che tenevano in gabbia, l’uno in un libro, l’altro nel sogno.
Bizzarro.
“Questa
coincidenza me l’ha fatta notare Megan.”, aggiunse lo spagnolo,
con aria furba.
Danny
aggrottò la fronte.
“Ah
sì?”, gli chiese, incuriosito, “E cos’altro ti ha fatto
notare?”
“Beh….
Temo di non poterglielo riferire, Agente
Jones.”, si ritrasse Carlos, sottolineando la sua posizione
all’interno del carcere, “Non andrebbe a favore della ragazza.”
“Lo
chiederò direttamente a lei.”
“Non
le faccia capire che le ho riferito qualcosa. Altrimenti quella mi
uccide…”, borbottò Carlos, ridacchiando.
Erano
quasi arrivati, Danny spese quegli ultimi minuti pensando a ciò che
aveva saputo, ma non gli dette molta importanza. Quando poi intravide
la ragazza, che chiacchierava con la detenuta Annelise, la curiosità
tornò a bussargli in testa. Per quel momento decise di lasciar
perdere la questione, l’avrebbe tirata fuori al momento più
opportuno.
Doveva
ammetterlo, la sua curiosità non era del tutto positiva. Non gli
piaceva sapere che qualche detenuto parlava male di lui alle sue
spalle, sebbene fosse un fatto inevitabile, ma non riusciva comunque
ad allontanare il fastidio quando accadeva. Molto probabilmente
quella Megan, o Meg, come la chiamavano tutti solitamente, non aveva
detto niente di ché sul suo conto, ma voleva comunque accertarsene.
Concluse
il suo turno con tranquillità, la lezione fu noiosa come tutte le
altre ed alla fine Danny ne avrebbe saputo più di sua madre sul
conto delle piante, esseri viventi che odiava dal profondo del suo
cuore per tutto il periodo che si estendeva tra il solstizio di
primavera e quello d’estate. Scacciò via ogni malessere fisico e
umorale e, non appena fu a casa, cenò con tranquillità davanti alla
tv. Solo, nel suo appartamento, si prese ogni comodità necessaria
per buttare il lavoro e tutte le sue conseguenze alle spalle, doveva
prepararsi per uscire.
Con
un discreto ritardo, Dougie suonò alla sua porta. Danny lo trovò
sul pianerottolo con sei lattine di birra.
“Perché
le hai portate?”, gli chiese, “Non usciamo?”
“No!”,
esclamò lui, “Ti sembra che sia dell’umore adatto?”
Evidentemente
no, così Danny gli permise di entrare. Si tolse la giacca, seguì il
suo amico dall’aspetto isterico e si accomodò nel suo soggiorno,
attendendo che Dougie gli spiegasse cosa stesse accadendo.
“Ho
bisogno di un avvocato!”, disse lui, “Ne ho bisogno!”
“Chiama
Harry.”, gli disse, tentando di calmarlo, “Ha superato l’esame
e può darti della consulenza su chi contattare… E poi perché vuoi
un avvocato?”
“Gli
devo chiedere cosa mi accade se tento di uccidere la mia vicina di
casa.”, spiegò Dougie, “Voglio sapere se posso difendermi con la
scusa dell’infermità mentale.”
Dougie
e la sua vicina di casa. Quando l’aveva sentita nominare per la
prima volta, aveva pensato ad una vecchiettina sorda che teneva la
televisione a tutto volume, ad una madre con bimbi isterici, una
donna impicciona. Niente di tutto quello: era una studentessa
universitaria loro coetanea che non aveva mai accettato di uscire con
Dougie, che ci provava da almeno due anni. Danny l’aveva
conosciuta, era una bella ragazza e non lo aveva mai negato;
oltretutto gli era sembrata abbastanza fuori di testa per potersene
stare con Dougie, che spesso e volentieri era da manicomio.
L’evidenza era che non lo filava, nemmeno lo salutava quando si
incrociavano sul pianerottolo.
“Perché
dovresti farlo!”, esclamò allora Danny, divertito, “Se morirà,
non potrai uscire con lei in nessun modo!”
“E
allora?”, sbottò l’altro, “Sto meglio adesso, per caso?”
“Dougie,
te lo dico per esperienza. Non pensarle queste cose, neanche
scherzando.”
“Non
ci andrò in prigione.”, lo rassicurò Dougie, “Il giudice mi
darà ragione.”
Danny
posò una mano sulla sua spalla.
“Smettila.”,
gli disse, con tono calmo, “Non sono cose di cui ho piacere
parlarne, quando mi vedi senza divisa.”
“Lo
so, scusami.”
“Usciamo,
allora? Prenderò le birre come un pegno per il disturbo.”
“Certo…”,
borbottò Dougie, “Harry ci aspetta al pub ma non credo che Tom
verrà, dice che non si sente molto bene.”
“Ok,
faremo senza di lui.”
Prese
di nuovo la giacca ed uscì. Si trovava a metà strada per il locale,
quando il suo cellulare squillò. Era Sophie, con la sua chiamata del
dopo cena.
“Hey!
Come va?” le fece.
“Sono
a casa tua, dove sei?”, domandò lei.
Danny
ebbe il presentimento di aver preso qualche decisione sbagliata. Con
un gesto, fece comprendere a Dougie di starsene zitto e di abbassare
il volume dello musica.
“Mi
sono assentato un attimo.”, disse, in attesa di ulteriori
delucidazioni, “Perché?”
“Perché
dovevamo vederci. Oggi dovevo esporre il mio lavoro di ricerca… Non
ti ricordi?”
Sgranò
gli occhi ed incrociò quelli dell’amico. Se n’era completamente
dimenticato, era necessario fare dietrofront.
“Beh…
Scusami, non è stato volontario…”
“Non
ti preoccupare.”, disse Sophie, “Ci sentiamo più tardi, ok?”
“Sophie,
aspetta…”
La
chiamata venne interrotta bruscamente. Aveva combinato un bel guaio,
era ovvio.
“Successo
qualcosa?”, domandò Dougie, accostando l’auto al ciglione della
strada.
“Niente,
andiamo pure al pub.”, rispose Danny.
Appoggiò
il gomito alla sporgenza sulla portiera e guardò fuori dal
finestrino.
“Se
vuoi che ti porti da Sophie…”, avanzò Dougie.
“No,
non ti preoccupare. Si sistemerà presto.”
Non
ne era convinto, ma per il momento era una convinzione confortante.
___________________________
Eccomi qua! :) Spero che il capitolo sia di gradimento. So quanto possa
essere difficile seguire questa storia, così immobile e
inconcludente.... Suvvia, la pianto di fare la piagnona e confido nelle
vostre capacità di comprensione! Soprattutto, di
contestualizzazione dei fatti :)
Cito La fattoria degli animali
di George Orwell per molti motivi: mi piace Orwell, mi piace la
fantapolitica, mi piace il libro, lo sto riportando sul palcoscenico
con il laboratorio teatrale di cui faccio parte... E lo conosco molto a
fondo! Se la mia interpretazione del libro non corrisponde con alla
vostra o a quella del libro, non datemi dell'ignorante :D
Sia questo scritto che 1984 sono stati citati senza scopo di lucro.
Ringrazio chi mi legge e chi mi recensisce! :D
|
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Capitolo 6 *** Capitolo Cinque ***
CAPITOLO
CINQUE
Daisy
li scrutò a lungo, programmando la sua mente
per ciò che aveva promesso. Ognuno aveva alcune piccole buste di
carta con dei
nomi impressi a specificare la natura del loro contenuto: erano semi,
dovevano
essere piantati per permettere loro di attecchire nel terreno caldo di
luglio e
crescere durante l’inverno dentro la serra. Non sapeva
spiegarselo, ma Meg si
sentiva contenta: avrebbe avuto delle piante personali da
coltivare e
curare in proprio, senza l’interferenza di nessuno. Le era
capitato spesso di
lavorare dei fiori in una determinata maniera per poi scoprire che, il
giorno
dopo, Daisy aveva ritoccato il suo operato. Lo trovava piuttosto
frustrante, un
tentativo di dimostrarle quanto la riteneva incapace di imparare i
concetti
fondamentali del lavoro.
Osservò la bustina tra le
sue dita, leggendovi
‘viola del pensiero’.
Quella pianta produceva fiori molto grandi e dai colori sgargianti
che andavano dal bianco al nero puro, ma erano privi di profumo, a
cinque
petali, con il centro scuro oppure giallo, in contrasto con il resto
del fiore.
Le piaceva, per quello l’aveva scelta.
“Allora, avete capito
cosa dovete fare?”, chiese Daisy al gruppo, che rispose con un
lamentoso sì.
Si armarono di vasi, di
terriccio e di pazienza.
“Letto il libro?”, le
chiese Carlos, sistematosi accanto a lei.
“Certamente!”, rispose,
“L'ho finito il giorno stesso.”
“E cosa ne dici?”
Meg affondò le dita nel
suo sacco. La sensazione intensa le tolse le parole per qualche attimo.
La
terra era scura, morbidissima e l'odore era forte ma inaspettatamente
gradevole. Le sembrò di trovarsi nel mezzo di un bosco vergine,
dove la pioggia
aveva bagnato il terreno sotto ai suoi piedi e le piante le
restituivano il
loro vero profumo.
Intanto il
chiacchiericcio degli altri detenuti si levò attorno ai due.
“Beh... Non lo so.”,
disse, una volta ripresa, “Interessante come tematica, ma non
l'ho
gradita.”
“Dici sul serio?”, fece
l'altro stupito.
“Sì... Gli animali, il
fattore, la rivoluzione e la dittatura...”, elencò
monotona, “E poi?”
“E' il significato
politico che deve farti riflettere!”
“Ho riflettuto
abbastanza da capire che non mi è piaciuto.”,
ripeté, “In se stessa la storia
è... Retorica!”
Afferrò con decisione
una buona manciata di terriccio e la sistemò nel suo vaso.
Carlos la imitò.
“La politica è sempre
retorica. Forse sarebbe più corretto da parte tua dire che
è la politica a non
piacerti, invece del romanzo.”
“Può darsi... Ma di
Orwell preferisco '1984'.”
“In sostanza, ci sono
molti punti in comune tra i due libri.”, ribatté Carlos,
“'1984' parla del
controllo sulle masse, della manipolazione dell'uomo e del suo pensiero
attraverso la selezione dell'informazione. Il Grande Fratello non
è altro che
una struttura centralizzata e mistificata che ha la capacità di
incutere timore
ed evitare che l'idea possa svilupparsi apertamente. I maiali della
fattoria si
comportano in una maniera analoga. Sottomettono gli animali con
l'idealizzazione del lavoro...”
La sensazione di essere
osservata punse la nuca di Meg ma non vi prestò molta
attenzione. Si accorse di
aver riempito il vaso a sufficienza.
“Sono pienamente
d'accordo con te.”, disse ancora, “E' solo che trovo 'La
fattoria degli
animali' una novella quasi fine a se stessa, mentre '1984' ha
colto
totalmente il mio interesse. Non sono stata a riflettere sul vero
significato
dei simboli, ma l'ho davvero gradito.”
“Per anni sono stato
appassionato del filone fantapolitico, ho esplorato tutta la
letteratura in
merito. Forse è il mito che è stato costruito attorno
allo scritto, ma non
posso negare che '1984' non perda mai il suo fascino. Vedi,
diventa ogni
giorno sempre più attuale.”, Carlos si prese una pausa,
anche il livello della
terra nel suo vaso era soddisfacente, “Se ci pensi bene, in un
modo o
nell'altro l'informazione è costantemente manipolata.”
Meg ebbe modo di
soppesare le parole. Nel frattempo inserì tre dita nel terriccio
compattato in
punti egualmente distanti tra loro.
“In che senso?”,
chiese,
incuriosita.
“Riportare un fatto è
manipolarlo. Io ti racconto cosa ho fatto oggi e tu passi il messaggio
ad un
altro. Lo riduci, non userai mai le stesse parole che ho detto e
inevitabilmente lo manipoli, anche se non lo fai con cattive
intenzioni. Io
stesso, parlandone a te, do una mia interpretazione del fatto...”
Gli occhi di Meg si
fecero due fessure.
“Dare una brutta notizia
in veste buona, raccontare una bugia bianca, ovviare sul fatto che il
nostro
stile di vita stia distruggendo il mondo... E' manipolazione.”,
continuò
Carlos.
“Intendi dire che, alla
luce di ciò che ha scritto Orwell sul controllo della massa
attraverso la
manipolazione dell'informazione... Si può distorcere la
verità e avere il
potere sul mondo?”
Carlos venne interrotto
da una voce estranea.
“Hai scoperto l'acqua
calda!”
I due si voltarono alla
loro destra.
L'agente Jones sorrideva
con soddisfazione.
Meg lanciò un'occhiata
stranita al suo compagno di discussione letteraria.
E' scemo?
Volle ignorarlo ma
riprese a parlare.
“Intendevo dire...”,
aggiunse
ancora Jones, “E' logico che l'informazione veicoli il potere da
una parte
all'altra della politica. Regolandone il flusso, puoi scatenare le
folle oppure
ammansirle.”
E' scemo.
Meg ne ebbe l'infinita
certezza. Doveva starsene fuori dalla loro conversazione, non era
saggio che
partecipasse.
“Vedi, questa è quella
che chiamo coscienza politica!”, esclamò Carlos ridendo.
Meg scosse la testa,
inserì due semi per ognuno dei buchi e li ricoprì.
Improvvisamente non aveva
più alcun interesse per la conversazione. Certamente
quell'individuo li aveva
ascoltati da cima a fondo, spiando le loro parole come se fossero state
pericolose. Era ovvio che dentro le mura del carcere la privacy era il
bene più
prezioso di cui nessuno poteva disporre
a piacimento, ma lei e Carlos non avevano niente da nascondere.
Stavano semplicemente
scambiandosi opinioni.
Era straziante non avere il
beneficio del dubbio.
“Agente Jones.”, lo
chiamò Carlos, “Lei dovrebbe
starsene dietro ad una cattedra!”
“Preoccupatevi di fare bene
il vostro lavoro.”, li
riprese Daisy, apparsa dal niente nelle loro vicinanze, “E
parlate con la
bocca, non con le mani!”
Li guardò con aria
infastidita per un lunghissimo
attimo, per poi tornarsene dalle sue preferite.
“Non ho capito cosa ci ha
detto.”, fece Carlos.
“Lavorate, è
meglio.”, aggiunse l'agente Jones.
“Ok.”, borbottò
Meg, innervosita fino all'ennesima
potenza.
Prima o poi avrebbe avuto
l'occasione per dirgli
qualcosa di così acido da farlo zittire, e se fosse uscita senza
averlo fatto
non se lo sarebbe mai perdonata. Non era quello il momento, le sue
violette del
pensiero avevano bisogno di tutta la cura possibile.
“Hey, una domanda.”, la
interruppe Carlos, “Se non
erro, prima di mettere il terriccio dentro al vaso è necessario
utilizzare
dell'argilla espansa... E sarebbe addirittura meglio se mescolassimo i
due componenti.”
Un fulmine a ciel sereno la
sconvolse. Era vero,
Carlos aveva ragione, e lei si era dimenticata uno dei primi
insegnamenti di
Daisy. Si doveva permettere alla pianta di crescere in un terreno ben
areato,
era quello lo scopo di mescolarlo con le palline di argilla espansa. Il
suo
lavoro era tutto da rifare.
“Cazzo...”,
sibilò, “E adesso? Ho già piantato i
semi!”
Il suo compagno di corso assunse
una strana
espressione intellettuale, si grattò i capelli neri e lunghi e
scrollò le
spalle.
“Prendi un altro vaso e inizi
da capo.”, disse
ridendo, “Semplice, non credi?”
Nient'affatto, aveva sprecato un
sacco di semi e
nella sua bustina non ne rimanevano molti altri. Non poteva sprecare
quelli che
aveva già piantato ma non sarebbe stato facile recuperarli. Dio,
quanto voleva
sapere che cosa aveva nel cervello da renderla così idiota.
Avrebbe voluto
gettare tutto a terra e imprecare contro tutto e tutti finché
non l'avrebbero
rinchiusa in isolamento per una settimana.
“Dai, non avercela con te
stessa.”, le fece Carlos,
“Anch'io devo rifare tutto.”
“Perché?”, gli
chiese sbuffando, senza alcun
interesse.
“Medesimo errore.
Sbrighiamoci, prima che Daisy se
ne accorga e ce ne faccia vergognare.”
Meg non ebbe idea di cosa Carlos
aveva in mente
quando mosse rapidamente la mano, ma vedere
entrambi i loro vasi cadere a terra e frantumarsi le chiarificò
ogni dubbio. Tutti gli studenti si voltarono, spaventati dal rumore
stridente
dei cocci rotti. Daisy accorse da loro piena di preoccupazione.
“Cosa avete
combinato!”, sbraitò con voce stridula,
“Siete i peggiori del gruppo!”
Memore della sua prima
disavventura, Meg non si
chinò a raccogliere i frammenti di vaso rotto e, non appena si
accorse che
Carlos stava per farlo, gli fece capire di starsene immobile con un
rapido
cenno della testa. Non seppe spiegarselo, né fu capace di
impedirlo, ma i suoi
occhi caddero sull'agente venuto dal freddo del Nord. Era un sorriso
quello
sulle sue labbra? Sì, lo era. Li aveva tenuti d'occhio, sapeva
che cosa avevano
fatto, era a pochi passi da loro, ma non mosse un dito per fermarli,
né per
aiutare Daisy nel ripulire il pavimento.
“Siete dei
disgraziati!”, si lamentò la donna, “Non
metterò una buona parola su di te, quando il direttore mi
convocherà a fine
corso!”
“Beh, non credo di uscire da
qui molto presto!”,
rise Carlos.
“Mi riferivo alla signorina
Megan!”, tagliò subito
Daisy,
Non poteva dichiarare l'odio per
lei in un modo
migliore, pensò Meg, che scosse la testa e si limitò a
sbuffare, come al suo
solito.
“Vado a prendere dei nuovi
vasi.”, disse.
“Saggia decisione!”,
ribatté subito Daisy, “L'unica
nella tua vita!”
Il silenzio divenne tombale,
neanche Carlos ebbe il
coraggio di fiatare. Quel commento cadde nel vuoto per Meg, le
rimbalzò addosso
e si dissolse senza scalfirla minimamente. Daisy doveva avere sempre
l'ultima
parola, era sfiancante starle accanto. Sotto gli occhi di tutti, si
allontanò
dal luogo dell'incidente; pochi attimi dopo il gruppo accorse a dare
una mano
all'insegnante, rendendosi utile nel portare via i cocci, il terriccio
caduto e
ripristinando la situazione al tranquillo status quo. Nessuno dei due
agenti si
preoccupò di controllarli o di perquisirli, come invece era
successo a lei, ma
non ci fece troppo caso. Molto probabilmente quello zoticone avrebbe
avuto
qualcosa da ridire, ma doveva essere stata la sua collega a fargli
cambiare
idea.
Oppure se n'era fregato.
I vasi nuovi se ne stavano al loro
solito posto,
dentro ad un armadietto stracolmo di materiale di ogni genere. Non
appena lo
aprì, si rese conto che avrebbe dovuto spostare almeno un paio
di sacchi di
terra, tre o quattro palette e due dozzine di guanti da lavoro. Ne
aveva
voglia? Assolutamente no. Valutò la situazione, la posizione
degli oggetti e il
loro peso, poteva farcela a prendersi i vasi senza dover perdere tempo
a
togliere il fastidio e poi riporlo.
Si inginocchiò ed
afferrò i vasi per il bordo
esterno, tentando di tirarli a sé e farli uscire. Se ne rimasero
perfettamente
al loro posto, senza spostarsi di un solo millimetro. Convinta di
potercela
fare, Meg non demorse, testarda fino in fondo. Forse doveva prendergli
meglio.
Allungò le mani, nascondendole nel buio dell'armadietto.
Un dolore acuto e profondo, pieno e
caldo.
Meg gridò, ritrasse la mano
in un attimo e la
sensazione si fece ancora più intensa.
Guardò la sua mano,
ricoperta di rosso cupo, di
sangue.
Chiuse gli occhi e si
accasciò a terra.
Il grido della ragazza aveva
risvegliato
l'attenzione di tutti, catturata dalle operazioni di pulitura del
piccolo danno
causato da lei stessa e dal suo compagno di giochi preferito. Danny per
primo
accorse da lei, era il più vicino, e vide subito la macchia
rossa che si
espandeva sul pavimento. Meg era svenuta.
Afferrò subito la sua
ricetrasmittente.
“Centrale, è l'agente
Jones. Una detenuta si è
ferita alla mano, non so quanto è grave ma dobbiamo portarla in
infermeria al
più presto. E' svenuta. Passo.”
Uno sfrigolio.
“Rimani in attesa, agente.”
Gli altri accorsero, chiudendosi
attorno a loro.
Anche Daisy ebbe un mancamento, la sentì iperventilare alle sue
spalle e la sua
collega Morris dovette soccorrerla, aiutata dalle pupille
dell'insegnante.
“Sì è
tagliata.”, disse Carlos accucciandosi, e le
prese la mano, “E non sembra affatto una sciocchezza. Trovate
degli stracci
puliti! E anche l'acqua!”
“Non credo che sia saggio
medicarla.”, si oppose
Danny, “C'è il rischio che si infetti. Ho chiamato la
centrale, devono darci
l'autorizzazione per uscire da qui, arriverà a momenti.”
Il detenuto lo ignorò
completamente. Le altre
donne, alla ricerca frenetica di qualcosa di pulito, portarono un
asciugamano
raccolto nei pressi del lavabo della serra, tutt'altro che fresco di
lavanderia, mentre una di loro offrì una bacinella d'acqua, che
certamente non
aveva mai visitato gli ingranaggi dell'impianto di depurazione.
Carlos tamponò la ferita e
sciacquò via il sangue.
“Fermati!”, Danny lo
bloccò di nuovo, “Ti ho detto
che dobbiamo attendere il via per uscire di qua! Non medicarla!”
Il detenuto si innervosì.
“Mi ascoltami.”,
rispose, “Finora i suoi amici
della centrale non si sono fatti sentire e il taglio è
così profondo che può
vedere le ossa della sua mano... Che cosa vuole fare? Mettersi a
fischiare
l'inno nazionale o aiutarla?”
Avrebbe potuto alzarsi, intimargli
di allontanarsi
e, se si fosse opposto, estrarre la pistola dalla fondina e
minacciarlo, non
aveva alcuna paura di lui. Ma non lo fece. Se ne rimase a guardarlo
mentre si
prendeva cura della mano di Meg con una delicatezza che non sembrava
appartenergli.
“Annelise, portami altra
acqua.”
“Subito.”
Non appena ebbe finito di lavare
via il sangue in
eccesso, fasciò l'arto con la stoffa, stringendo più che
poté.
“Questo dovrebbe servire a
fermare temporaneamente
l'emorragia.”, disse Carlos, “E quest'altro dovrebbe anche
farla risvegliare.”
Prese una manciata d'acqua pulita e
gliela versò
sul viso. Gli occhi di Meg si aprirono, sbattendo velocemente per
un'infinità
di volte.
La ricetrasmittente si mise a
parlare.
“Agente Jones, portate la
detenuta in
infermeria. Il dottore sta arrivando. Passo e chiudo.”
Finalmente, si disse Danny tirando
un sospiro di
sollievo.
“Avanti, mettiti
seduta...”, le disse Carlos,
invitandola ad alzarsi.
Era stordita, sembrava non
comprendere cosa le
fosse successo. Non appena tentò di drizzare la schiena,
aiutandosi con la mano
ferita, il ricordo dovette guizzarle in testa e, senza alcun preavviso,
svenne
di nuovo.
“Mi aiuti.”, gli
ordinò ancora il detenuto, “Non ce
la farà mai a portarla in infermeria da solo.”
Le palpebre scattarono, si aprirono
e la inondarono
di luce bianca. Sapeva di trovarsi su uno dei lettini dell'infermeria,
lo aveva
sospettato fin dal primo momento di conoscenza, e guardò di
sbieco la mano per
controllarne lo stato. Era pronta a svenire di nuovo. La fasciatura era
spessa
ed ampia, così stretta da non permetterle di muovere le dita,
né di percepire
il calore del sangue dentro di esse. Se doveva essere sincera il suo
intero
braccio destro aveva perso ogni collegamento con il resto del suo
corpo, non
soltanto la mano, e sembrava essere morto.
E' l'anestesia, idiota.
Si era tagliata e non sapeva come
era successo. Si
ricordava di Carlos, dei cocci rotti a terra, del tentativo di estrarre
i vasi
dall'armadietto, e poi era venuto il dolore, il rosso cupo ed aveva
perso
conoscenza. E pensare che fino ai diciotto
anni era stata in grado di guardarsi le scene più truculente
dell'ultimi film di paura in circolazione.
Ma tutti cambiano.
Puntò l'unico gomito sano
sul materasso del lettino
e si fece forza, voleva sedersi e uscire da lì al più
presto. Non fu facile, si
sentiva debole e l'anestesia non la aiutava; stava lentamente
dissolvendo il suo
effetto e il dolore iniziava a farsi sentire. Le altre dita andarono a
esplorare la superficie grezza della benda.
“Hey, come stai?”
Scattò sull'attenti e
fissò davanti a sé.
L'agente Jones se ne stava al di
là di una
scrivania bianca ed attendeva una risposta.
“Bene...”, disse
incerta.
“Non ti sforzare
troppo.”, le consigliò, prima di
chinare il capo.
Meg lo osservò scrivere, era
concentrato sul suo
lavoro. Le venne una curiosità impossibile da ignorare.
“Posso sapere cosa sta
facendo?”, gli domandò.
La risposta giusta di una qualsiasi
altra guardia
sarebbe stata 'i cazzi miei',
“Devo stilare un rapporto su
ciò che è accaduto
nella serra.”, spiegò l'agente, “E consegnarlo ai
miei superiori.”
“Non parlerà male di
me, spero.”, ricambiò subito,
un attimo prima che un giramento di testa la costringesse a sdraiarsi
di nuovo.
La schiena cadde con un tonfo sul
materasso, senza
alcuna grazia, e Meg emise un gridolino di dolore soffocato. La testa
era un
vortice, immersa in un turbinio di pessime sensazioni che si stavano
velocemente trasferendo verso il suo addome.
In uno schiocco di dita l'agente
accorse da lei.
“Cos'è stato?”,
le chiese, “Ti senti bene?”
Più che la sua colazione
spingeva sulle pareti
dello stomaco, più che Meg si sforzava di ricacciarla
giù, prendendo profondi
respiri e stringendo i denti.
“Ti chiamo un dottore.”
Afferrò l'agente per un
braccio, stringendolo con
tutta la forza che possedeva. Lo guardò dritto negli occhi,
ignorò la sua
espressione quasi spaventata, non si curò di una sua possibile
reazione
violenta.
“No... Dammi un...”
Un conato più forte di tutti
gli altri, lo
trattenne con le dita sane premute sulla bocca. Libero dalla sua
stretta,
l'agente si guardò intorno, doveva aver capito il pericolo
imminente.
Localizzato il target, corse verso
il cestino della
carta straccia e, appena un attimo prima dell'esplosione, lo dette alla
detenuta. Un secondo di ritardo e uno spettacolo raccapricciante
avrebbe
illuminato la sua giornata. Anzi, l'imminente fine del suo turno. Si
voltò, le dette
la poca privacy di cui poteva disporre, e sopportò i suoi
lamenti.
Con l'aiuto di Carlos, poi di uno
dei suoi
colleghi, l'aveva portata di peso in infermeria, dove l'aveva lasciata
alle
mani del dottore e della sua infermiera. La ragazza era rimasta
incosciente per
tutta la durata della piccola operazione e si era risvegliata circa
un'ora dopo
la conclusione; era stata anestetizzata localmente e, con aghi e filo
chirurgici, la sua ferita era stata chiusa. Non era così grave
come aveva
preannunciato Carlos, nonostante i sei punti che la suturavano da una
parte
all'altra, e il dottore aveva assicurato che, in capo a tre settimane,
sarebbe
rimasta soltanto una piccola cicatrice.
Una in più a segnarla per
sempre.
“Posso andare in bagno o devi
seguirmi fin lì?”
Le tolse le spalle.
La trovò con il cestino in
mano, le labbra coperte
e lo sguardo basso.
“Vai pure.”, le fece.
Tornò a sedersi dietro la
scrivania, aveva il
rapporto da concludere e consegnare nel più breve tempo
possibile. Ne aveva
scritti molti prima di quello, redatti in pochi minuti e recapitati
senza una
minima rilettura, ma mai aveva dovuto fermarsi, prendere
in mano le fila dell'accaduto e riportare tutto in maniera sensata e
reale. Era
stato a lungo a pensare, seduto su quella scomoda sedia con la penna
immobile
tra le dita. Descrivere gli attimi precedenti era stato semplice: dopo
aver
concluso il turno di sorveglianza si era recato alla lezione, insieme
al
detenuto Barreiro. Con l'aiuto dell'agente Morris aveva tenuto sotto
controllo
la serra. Non aveva aggiunto altro, si era fermato al momento di
riportare le
generalità della detenuta ferita. Si chiamava Megan, e poi? Non
ne aveva
idea, non ricordava. E non era quello il
suo problema.
C'era stato qualcosa che non era
andato per il verso
giusto, qualcosa che lo stava facendo riflettere a fondo.
Meg lasciò il bagno e
tornò a sedersi sul letto, le
braccia se ne stavano sistemate sul grembo e la faccia era di un
pallore
preoccupante. La osservò attentamente prima di parlarle.
“Ehm... Potresti dirmi come
ti chiami?”, le chiese.
“Meg...”, rispose
mestamente, “Megan Sarah Howard.”
“Grazie.”
Scrisse le tre parole, Megan
Sarah Howard. E
di nuovo la penna si bloccò. Stropicciò gli occhi, era
stanco e avrebbe voluto
chiudersi nel suo appartamento in compagnia dei suoi pensieri. Aveva
bisogno di
trovare una ragione alle incertezze che si stavano velocemente
solidificando
nella sua testa come mai prima di qualche tempo a quella parte.
“Tutto ok?”, gli chiese
Meg.
Alzò il viso dal foglio.
“Sì.”, le fece.
Doveva terminare quel rapporto e
soltanto allora
avrebbe potuto lasciare il carcere. Era il caso di sbrigarsi.
“Potresti aiutarmi con il
letto?”, domandò ancora
Meg, “Vorrei... Alzare la testata, non riesco a stare
seduta.”
“Certo.”
La aiutò, con quella mano
fasciata non sarebbe
stata in grado di farlo da sola. La accontentò con poco sforzo
e, una volta
accomodati i cuscini, le permise di accomodarsi come meglio voleva,
semi
seduta. La relazione fu di nuovo nelle sue mani di lì a poco.
Rilesse l'ultima frase,
o meglio, il troncone incompiuto.
La detenuta Megan Sarah Howard
“Grazie,
agente.”
“Come sta la mano?”
“Credo che presto avrò
bisogno di un
antidolorifico. Sta iniziando a farmi molto male.”
“Ne hai bisogno adesso?”
La ragazza si fece titubante.
“No... Tra un po'.”
Le abbozzò un sorriso e le
parole del suo rapporto
tornarono davanti ai suoi occhi.
“Non scherzavo prima quando
le ho chiesto se
avrebbe parlato male di me.”, lo interruppe di nuovo.
Danny si vide costretto ad
accantonare
momentaneamente le sue speranze di fare presto un buon ritorno a casa.
“Non ti preoccupare. Sto
soltanto scrivendo cosa
è successo nella serra.”, la
rassicurò.
“Ok...”, e
tentennò, “Ometterà che... Lo abbiamo
fatto di proposito?”
Aggrottò la fronte e
cercò la risposta giusta. Non
poteva dirle che lui stesso aveva coscientemente evitato di riportare
che i due
detenuti avevano tenuto un comportamento poco consono allo svolgersi
delle
lezioni, chiacchierando di politica e letteratura e gettando a a terra
i loro
vasi, per rifare un lavoro partito male sin dall'inizio.
“Vedremo.”, le fece.
“La prego, agente, non lo
scriva...”, insistette
Meg.
“A che scopo?”, ebbe la
curiosità di domandarle.
“Perché... Non
vogliamo fare una... Brutta figura
con la signorina Daisy.”
Era la scusa più rattoppata
e piena di falle del
mondo, Meg se ne accorse di lì a poco. Lo stava pregando
perché voleva evitare
provvedimenti disciplinari, per non macchiare la condotta degli ultimi
mesi di
condanna. Era necessario spenderli senza compiere cazzate, o il
direttore non
avrebbe mai scritto la sua lettera di raccomandazioni, se così
si poteva
chiamare il foglio di buona uscita che veniva dato in mano al detenuto,
prima
di lasciarsi le sbarre alle spalle.
“Ok, non lo
scriverò.”, le disse, “Ma in cambio
devi raccontarmi come hai fatto a ridurti la mano in quello
stato.”
Meg sospirò.
“Non lo so... E' successo e
basta.”, spiegò,
“Prendevo i vasi e mi sono tagliata.”
Era la verità, ma c'era
qualcosa che spuntava tra i
pensieri di Danny. Un dubbio insensato e fuori luogo, ma doveva
sfatarlo.
“Non hai cercato... Di farlo
di proposito?”
“Certo che no!”,
esplose subito Megan, “Non sono
così... Così idiota.”
Lo strano movimento dei suoi occhi,
l'esitazione,
il marcare poco convincente della sua voce. Danny ebbe qualcosa in
più su cui
fermarsi e pensare a lungo.
“Ok.”, si
accontentò.
Ma le parole arrivarono.
La detenuta Megan Sarah Howard si
è accidentalmente procurata una
ferita da
taglio sulla mano destra nell'atto di prelevare dei nuovi vasi
dall'armadietto,
situato nella zona sinistra (rispetto all'entrata) della serra. Ha
perso
conoscenza in seguito alla vista del suo stesso sangue. L'atto non
è stato
intenzionale.
Danny mordicchiò la penna.
Sottolineò la frase.
L'atto non è stato
intenzionale.
Non ne era certo, ma sentiva di
farlo.
E c'era comunque qualcosa di
sbagliato anche in
quello, così come nel non aver dichiarato il falso incidente
inscenato dai due.
“Sei sicuro di star
bene?”, domandò di nuovo Meg.
“Sì... Sì, sto
bene.”, le fece, distrattamente.
“So che non sono fatti
miei...”, la sua voce era
scocciata, “Ma...”
Danny sbuffò sonoramente.
Appoggiò la penna, scostò
i fogli, si tolse il capello e passò le dita tra i capelli.
“E lo sai piuttosto
bene.”, le rispose altrettanto
alterato, “Ti sto facendo un grosso favore, quindi per cortesia
lasciami finire
questa relazione!”
Meg lo fissava con occhi spalancati
ed era
spaventata. Danny non sapeva cosa fare.
Aveva alzato la voce, quasi
gridato, ed era
arrabbiato, fottutamente incazzato per colpa di tutta quella fottuta
situazione, di quella giornata che non avrebbe mai e poi mai dovuto
vivere.
Afferrò di nuovo la sua
biro, firmò la relazione e
si alzò.
La sedia stridette sul pavimento,
la porta sbatté.
Quindici minuti dopo era sulla via
di casa.
Guidava e non sapeva dove stava
andando, la strada
non gli era mai sembrata così sconosciuta. I suoi gesti erano
meccanici, le
marce si ingranavano da sole e i piedi sapevano esattamente quando
premere la
frizione, poi l'acceleratore. I suoi pensieri, invece, erano del tutto
impulsivi, si inseguivano l'uno con l'altro senza sosta, senza alcun
freno. Non
venivano gestiti, selezionati o catalogati tra sensati e non, erano una
pioggia
insistente che lo offuscavano.
Aveva sbagliato tutto, o forse
niente. Non avrebbe
mai dovuto fare quel lavoro, oppure era giusto per lui.
Tutto per uno stupido incidente,
per un taglio
sulla mano di una detenuta, una giovane ragazza rinchiusa lì
dentro per aver
tolto la vita ad un'altra o ad un altro, Danny non sapeva. Tutto per
aver
permesso ad un carcerato come lei di aiutarla, mentre lui, attenendosi
alle
regole, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Quel
taglio non
era mai stato mortale, né avrebbe avuto ripercussioni troppo
gravi, ma era il principio
a disturbarlo.
Il principio derivato dal fatto che
lui, una
guardia, aveva saputo cosa e come farlo, e Carlos, il detenuto, aveva
ignorato
il suo ordine e si era comportato come una qualsiasi altra persona
avrebbe
fatto.
Ma non come l'agente Jones.
Si rese conto che, allo stesso
modo, l'agente Jones
rompeva a suo piacere le regole imposte al suo corpo di polizia. Si
teneva
ligio al dovere quando la situazione glielo imponeva ma se voleva era
capace di
fregarsene, di voltarsi dall'altra parte e far finta di non aver visto.
Avrebbe
potuto segnalare il comportamento scorretto dei detenuti posti sotto la
sua
sorveglianza, ma il rapporto consegnato al suo superiore non menzionava
l'accaduto.
E senza accorgersene in un attimo
quella divisa si
fece soffocante.
Gli piaceva il suo lavoro, credeva
in ciò che
faceva ed era soddisfazione ciò che provava quando andava a
letto ogni sera.
Cosa stava realmente accadendo? Perché? Perché si era
piegato davanti ad un
detenuto? Perché si sentiva in colpa con Megan per essersi
rivolto a lei con
rabbia ingiustificata? Perché a volte riusciva ad essere gentile
con chi
aveva fatto del male agli altri e non si meritava nient'altro che il
suo
disprezzo?
Non si era mai posto quegli
interrogativi.
Adesso sì.
Parcheggiò la sua auto ma le
mani non lasciarono il
volante. Vi appoggiò la testa. Era la stanchezza a causargli
tutti quei
problemi. Era chiaro che il giorno seguente avrebbe cancellato il
ricordo e le
sensazioni negative. I colleghi avevano i suoi stessi atteggiamenti,
misti tra
l'essere permissivo e fortemente severo, ma non avevano alcune
conseguenze
sulla vita privata. Doveva esserci stato qualcosa, un frammento
dell'accaduto a
disturbarlo nel profondo, ed essendo appunto un particolare
infinitamente
piccolo, sarebbe svanito presto.
Scese dall'auto e la chiuse, pronto
ad entrare nel
suo condominio. Salì i piani, infilò le chiavi nella
toppa della serratura.
Aprì la porta.
“Sorpresa!”
Trasalì per lo spavento.
Sophie lo attendeva con un
paio di birre in mano.
Come aveva fatto ad entrare?
“Come... Come hai...”
“La tua vicina di
casa.”, spiegò lei,
interrompendolo, “Mi ha riconosciuto e si è fidata di me.
Le ho detto che avevo
dimenticato le chiavi!”
Il piccolo mistero venne
prontamente svelato ma la
confusione creata dalla sorpresa era difficile da smaltire.
“Perché hai
ritardato?”, chiese Sophie, “Hai
trovato traffico? Ti hanno trattenuto al lavoro?”
Una serie di note mentali gli
misero in bocca la
risposta giusta da darle.
“Sì, sono rimasto...
Imbottigliato a qualche
isolato da qui.”, le disse.
La sua ragazza gli si
avvicinò e, prima di dargli
la birra, lo salutò con un bacio.
“Perché sei entrata
senza aspettarmi?”, le domandò.
Non poteva negarle il fastidio.
Avrebbe preferito
trovarla seduta sugli scalini, come spesso era accaduto. Sophie era una
gran
curiosa, qualità che non riusciva ad apprezzare a pieno,
nonostante fosse stato
l'ingrediente fondamentale del suo lavoro di sociologa ricercatrice.
L'avrebbe
portata lontano, non era da tutti passare ore ed ore in una biblioteca,
in un
archivio, oppure sommersa da dati statistici e demografici per
spolverare un
vecchio indizio utile per il suo progetto universitario. Ma Danny, che
poteva
amare altrettanto la lettura, non era allo stesso modo felice di vedere
il naso
d'altri infilarsi tra i suoi fatti.
Fermo nell'ingresso, poteva
già notare un paio di
stupidi soprammobili posizionati diversamente da come se li ricordava.
Era la
sua mente a ingannarlo, ne era certo, ma dopo quella giornata
così complicata,
l'apparizione felice di Sophie sarebbe
degenerata in un litigio.
Lo sapeva.
“Perché... Ho un
regalo per te! Anzi, due!”,
cinguettò la ragazza dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia,
“Ora chiudi gli
occhi.”
“Ti prego, So-...”
“Chiudi gli occhi!”,
esclamò lei.
“Ho avuto una
giornataccia...”
“Chiudi gli occhi!!!”,
insistette con forza.
Contraddirla non era saggio e Danny
si adeguò.
Abbassò le palpebre.
“Allora?”, le fece.
Sophie lo prese per mano e lo
accompagnò in
soggiorno, preoccupandosi di non farlo sbattere contro gli stipiti
della porta.
Danny avrebbe potuto percorrere quel tragitto nella medesima maniera
ogni santo
giorno della sua vita, non avrebbe avuto bisogno delle sue istruzioni,
ma volle
accontentarla fino in fondo.
“Ora apri...”, disse
Sophie, emozionata, “Ta-dah!”
Le sue mani piccole indicavano un
portatile bianco
con lo schermo illuminato. Se ne stava al posto del suo vecchio
computer fisso,
quel macinatore di kilobite a cui si era affezionato come un cucciolo
di cane.
Ebbe paura.
“Ho pensato che fosse stata
davvero l'ora di
rottamare quel coso.”, disse.
Quel coso.
“Questo è un vero
computer!”, aggiunse sorridendo,
“Ultima generazione, processore nuovo di pacca, il massimo della
memoria fissa
e temporanea... Ne capisco poco di dettagli tecnici, ma questo è
il meglio che
puoi trovare sul mercato!”
E' il meglio.
“Un mio amico mi ha aiutato a
prendere il
vecchietto, ha detto che non si può riutilizzare in alcun
modo.”
Danny fissava quel minuscolo affare
bianco senza
distogliere lo sguardo o sbattere le palpebre.
“Ho fatto un back up di tutti
i tuoi files, li ho
trasferiti nell'altro.”, continuò Sophie.
Sentì le sue guance perdere
tutto il loro colore.
“E mi sono messa a
curiosare... Volevo trovare
qualcosa di compromettente con cui ricattarti!”, e scoppiò
a ridere.
Dannyh stava perdendo la pazienza.
“Sai che alcune delle cose
che ho trovato sono
davvero interessanti?”
Volle sedersi sul suo divano ma non
ebbe la forza
di raggiungerlo. Era troppo lontano.
“Se avessi saputo che ti
piaceva leggere racconti e
libri scaricati dalla rete, ti avrei comprato anche una
stampante.”, notò
intelligentemente, “Alcuni dei testi sono incompiuti, come riesci
a leggerli?
Io non avrei la pazienza di aspettare la conclusione dell'autore!”
Sophie aveva visto. Sophie aveva
letto.
Il divano sembrò
improvvisamente più vicino che mai
e lo accolse in silenzio. Danny osservò l'espressione della sua
ragazza mutare
troppo velocemente.
“Non dici niente?”, gli
chiese Sophie.“Non ti
piace?”
“E' il miglior regalo che
potevi farmi.”, le
rispose in automatico, “Ti ringrazio di cuore.”
Gli occhi di Sophie si illuminarono
e le se labbra
lo baciarono più volte.
“Dillo che sono la ragazza
migliore del mondo!”
Lo ripeté senza alcun
entusiasmo, tentando
disperatamente di essere convincente. La sorpresa non gli
permetteva di
essere se stesso.
“Ho un'altra bellissima
notizia per te.”
La seduta del divano scomparve, si
aprì un varco
ultradimensionale tra la vita reale e quella parallela, un artefatto
costruito
ad arte dalla sua magnifica ragazza americana.
“L'unica cosa che devi fare
è prenderti qualche
giorno di ferie...”
“Mi vuoi portare in
vacanza?”, le domandò.
Ogni atomo di sé
pregò che la risposta sarebbe
stata un sì.
“No, scemo!”,
esclamò.
Gli dette una pacca sul braccio.
“La società
finanziaria creata da mio nonno sta per
aprire una filiale proprio qui, in Inghilterra. In questi giorni stanno
portando a termine gli ultimi accordi contrattuali, nonostante gli
uffici siano
già stati popolati da gran parte degli impiegati, neoassunti o
importati
direttamente dagli States.”
Danny sapeva già quale
sarebbe stata la conclusione
di tutta quella gran bella introduzione. Sophie lo conosceva, aveva
imparato a
farcire di mille parole tutte le notizie più o meno spiacevoli,
certa che
avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Era così che l'avevano
cresciuta i
suoi genitori: una famiglia tanto benestante come la sua era stata in
grado di
darle tutto quello che voleva, accontentandola ogni qual volta era
stato
necessario. I loro insegnamenti avevano creato una persona
intelligente,
generosa e altruista, insieme ad una ben lunga lista di pregi.
A quella si aggiungevano
l'ambizione, la
testardaggine, l'incapacità di incassare un no, grazie.
“Stanno cercando il personale
per il servizio di
sorveglianza, ma ancora non hanno assunto il responsabile. Qualcuno che
abbia
le capacità giuste.”
E, si dava il caso, quella persona
sembrava essere
proprio lui.
“Ti ricordi la cena a casa di
mia sorella? Beh, in
parte è servita anche a questo, a dare una buona immagine di
te... Per
facilitarti le cose. Sei stato ben raccomandato a mio zio, che è
il direttore
della filiale.”
Bene, una semplice cena dai parenti
era stata
trasformata in un colloquio lavorativo.
A sua insaputa.
“Te la sentiresti di fare
questo salto?”, chiese
infine Sophie.
Danny non rispose, rimase a fissare
il posto vuoto
lasciato dal suo vecchio computer, rimpiazzato da un minuscolo aggeggio
biancastro, il cui desktop era completamente diverso dall'altro. La
scrivania
era sgombra, il vecchio schermo catodico e l'unità centrale non
la occupavano
più.
Uno schiocco di dita e il custode
dei suoi segreti
se n'era andato. I suoi scritti erano stati violati, il solo pensiero
lo faceva
rabbrividire. Un altro schiocco di dita e il suo lavoro poteva essere
sostituito senza alcun problema. Il messaggio era chiaro, Sophie si
sentiva
sicura abbastanza da poterlo manipolare. Un nuovo computer, un nuovo
impiego,
li aveva trovati entrambi perché gli voleva bene e si voleva
prendere cura di
lui. Sicuramente quel posto di responsabile del servizio di sicurezza
gli
avrebbe fruttato un sacco di soldi al mese, oltre che ad una carriera
in
rapidissima crescita. Da poliziotto a guardia giurata, un salto nel
vuoto che
sarebbe terminato con una comoda caduta, secondo i piani prestabiliti
di
Sophie.
“Nessun contatto con
detenuti, soltanto un facile
lavoro di coordinamento.”, aggiunse la sua ragazza, “Non
dovrai fare altro che
occuparti di gestire i tuoi uomini... Tutto qui.”
Tutto qui.
Nessun turno, nessun superiore,
nessuna gerarchia
esplicita o implicita.
Nessun detenuto, nessuna pena,
nessuna colpa.
Nessuna attenzione, nessun
guardarsi le spalle,
nessun parlare-non-parlare con gli altri.
Nessuna sezione maschile o
femminile, nessuna
riabilitazione, nessuna serra.
Nessun Carlos, nessuna Megan.
Nessuna disobbedienza agli ordini
da lui impartiti,
nessuna ferita, nessun rapporto da scrivere.
Nessuna riflessione.
Il suo nuovo lavoro avrebbe
cancellato facilmente
tutte le complicazioni e le conseguenze, regalandogli un impiego
“semplice”. Un
posto che, in quel particolare momento, gli faceva salire l'acquolina
in bocca.
Danny si disse che avrebbe potuto provare, congedarsi per un paio di
settimane
e sperimentare. Solo un assaggio, un tentativo che non gli avrebbe
nuociuto, ma
non era certo della risposta.
Mentre i suoi pensieri continuavano
ad
aggrovigliarsi, inciampare su se stessi, morire e rinascere, Sophie
parlava e
parlava. La sua voce melodica gli faceva notare tutti gli aspetti
positivi di
un suo sì. Era ipnotizzante come soltanto lei sapeva esserlo.
“Ok.”, le fece,
stremato, “Mi congederò per tre
settimane.”
Sophie tentennò.
“Vediamo come si metteranno
le cose.”, Danny
continuò “E prenderò una decisione
definitiva.”
La contentezza esplose sul viso
abbronzato della
sua fidanzata.
“Non tornerai dentro la tua
vecchia divisa.”,
disse, “Non la indosserai mai più.”
***
Le gambe di Rachel
penzolavano fuori dal lettino,
la loro padrona ignorava lo scricchiolio odioso delle vecchie giunture
metalliche. Se ne stava ad osservarla senza distogliere gli occhi dalla
sua figura:
era un'altra delle sue mille tattiche utili a farla impazzire, e poi
parlare.
Se Meg aveva un problema era solita
nasconderlo in
se stessa, trattenendo le brutte sensazioni e metabolizzandole
lentamente. La
spiacevole conseguenza del suo comportamento, come Rachel ben sapeva,
era un
sostanziale mutismo, rotto raramente da qualche monosillabo ripetitivo.
In
cambio, la sua compagna di cella si impegnava a disturbarla per tirare
fuori, o
letteralmente estrarre, dalla sua bocca tutto ciò che Meg
nascondeva. Non era
capace di resisterle, né di ritorcerle contro le sue tattiche.
“Rachel, per
cortesia.”, le fece, “Lasciami in
pace.”
L'altra non rispose.
Meg aveva speso tutto il suo fine
settimana nel
pensare alla brutta razione dell'agente Jones. Non era in grado di
affermare
con certezza se fosse risentita, addirittura incazzata nera, oppure se
fosse
impaurita. L'agente era, per appunto, un agente e, in linea di
principio, si
era comportato esattamente come ci si aspettava, ma Meg no lo digeriva.
Lo odiava, ma c'era qualcosa di
diverso.
Meg, per un solo attimo, si era
sentita al suo
stesso pari. In quella dannata infermeria lo aveva visto chino sulla
sua
relazione, immerso in quelli che sembravano tutt'altro che pensieri
piacevoli.
Le era venuto naturale e spontaneo chiedergli come si fosse sentito.
Meg, la
detenuta, aveva chiesto a Jones, l'agente, cosa avesse avuto, come si
fosse
sentito, se bene o male. Da persona a persona, da donna a uomo, da
esseri umani
del tutto uguali.
Lo recitava Orwell, nella fattoria
tutti gli
animali erano uguali agli altri animali, ma qualcuno era sempre
più uguale
degli altri.
E loro non sarebbero mai stati uguali,
Meg
lo sapeva benissimo.
“Credo che con questa mano non mi
sarà semplice
seguire il corso.”, disse.
“Cosa ti ha detto il
dottore?”, domandò allora
Rachel, lasciando il letto.
“Dovrò tenere le bende
per un po', poi toglieranno
i punti e vedranno se sarà il caso di fare riabilitazione.”
“Addirittura?”,
esclamò l'altra, “Non pensavo che
fosse così grave.”
Meg scrollò le spalle.
Forse era il caso di sdraiarsi sul
suo lettino,
chiudere gli occhi ed attendere che l'orologio scoccasse la mezzanotte,
trasformando la domenica in un lunedì. Il weekend era scorso in
modo pessimo,
sperò che la nuova settimana davanti a lei sarebbe stata
lievemente migliore di
quella in conclusione. Soprattutto sperò di avere la giusta
occasione per
prendere quell'idiota di un agente da una parte e riempirlo di calci.
Si trovò di nuovo nel mondo
dell'utopia.
***
Il lunedì arrivò con
tutto il suo carico di
malumore. La ferita le doleva, le bende le rendevano impossibile
utilizzare le
dita e, essendo tutt'altro che mancina, Meg fu costretta a sforzarsi in
ogni
piccola azione quotidiana. Spazzolarsi i capelli, lavarsi i denti,
vestirsi,
fare colazione, tutto con la mano sinistra, goffa e inutile. Le gengive
presero
a sanguinarle, i bottoni non entravano dentro alle asole, il cibo
slittava via
dalle posate. Aveva bisogno di un aiuto e Rachel fu estremamente
contenta di
darglielo. Più che altro, fu estremamente divertita, lei
come tutte le
altre detenute.
La presero in giro, la chiamarono
con migliaia di
soprannomi.
Per la prima volta fu contenta di
andarsene al
corso, lasciandosi alle spalle un pollaio in piena attività.
Meg entrò nella serra in
compagnia di Annelise e
delle altre detenute, nonché dell'agente Morris. Tutte
sembravano preoccuparsi
per lei, per la sua mano, e vollero sapere tutto ciò che il
dottore le aveva
consigliato per una pronta guarigione.
“Niente di che, devo soltanto
tenere le bende.”,
rispose.
“E poi?”,
domandò Annelise.
“E poi mi toglieranno i
punti.”
“Come farai con le
lezioni?”, insistette la donna,
“Non puoi lavorare, infetterai la ferita.”
“Potrei stare ad ascoltare. Prometto che sarò una studentessa
migliore.”,
disse, ponendo la mano infortunata al cuore e alzando la sinistra in
aria,
“E che starò più attenta.”
Annelise alzò le
sopracciglia e sorrise.
Falso.
L'agente Morris intervenne.
“Potrei aiutarti
nell'impresa.”
Meg ebbe un attimo di smarrimento.
“No... Grazie.”, le
rispose, quasi intimorita.
Anche l'agente notò la
strana inflessione della sua
voce. Morris la conosceva, sapeva che, quando Meg voleva, era una
detenuta
dalla lingua lunga, e si era aspettata una controbattuta sarcastica. Le
due si
guardarono, come se il vuoto creatosi dovesse essere riempito in
qualsiasi
modo, da una parola o da una risata, da un gesto.
La stasi del momento venne
interrotta dall'entrata
di Daisy, seguita da Carlos.
Meg prese un profondo respiro e
abbassò gli occhi
al pavimento, pronta a ignorare totalmente l'agente Jones. Non che le dovesse delle scuse per ciò che
aveva
fatto, era fuori dal mondo che accadesse. Lo faceva per principio.
La porta della serra venne chiusa
con un tonfo, i
presenti sussultarono in gruppo.
“Cominciate pure.”
La voce non era quella dell'agente
Jones, era bensì
totalmente diversa, di una tonalità più alta ed aveva un
accento completamente
diverso. Perfetto, si disse Meg: tolto il dente, tolto il dolore. Prese
un
profondo respiro e si liberò della tensione.
“Megan, come va la
mano?”, le domandò Daisy,
avvicinatasi.
“Beh, fa un po' male.”,
le rispose, “Posso seguire
senza problemi, ma non mi è possibile lavorare.”
“Perfetto, starai in coppia
con chi vuoi.”, propose
l'insegnante, “Scegli.”
Senza spendere troppo tempo, Megan
puntò subito il
suo dito su Carlos. Le lezioni sarebbero passate molto più
velocemente in sua
compagnia, ne era certa. Daisy non ne fu contenta.
“Ok.”, disse, roteando
gli occhi, “Stai con
Carlos.”
“E' meglio farle scegliere
un'altra persona.”
Meg si voltò e fissò
gli occhi in quelli del nuovo
agente. Mai visto prima di quella volta. E aveva un'emerita faccia da
stronzo.
“Barreiro non dovrebbe avere
contatti con le
detenute.”, continuò la guardia.
“Andiamo, Penn.”, lo
riprese la sua collega Morris,
“Non ha mai dato fastidio durante le precedenti lezioni.”
“Ci sono delle regole.
Perché non rispettarle?”,
ribatté l'altro.
“Non è saggio creare
tensione in queste
situazioni.”
“Non è saggio creare rapporti
in queste
situazioni.”
Morris si vide costretta a lasciare
la corda e
dargli la vittoria. L'agente Penn si sistemò nelle vicinanze di
Carlos, che per
tutta la lezione dovette starsene ad almeno un metro dalle altre, in
solitario.
Meg ripiegò su Annelise, che era ben contenta di averla con
sé.
__________________
Note dell'autrice.
Vi ringrazio per l'attenzione e per le recensioni :) Spero che continuerete a seguire questa storia!
Tutte le citazioni di questo capitolo, di qualsiasi tipo, non sono state riportate a scopo di lucro.
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