Four Walls

di RubyChubb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ciao a tutti :)
Sono a proporvi una storia che ho iniziato a scrivere tantissimo tempo fa. Spero che vi piaccia. Per scriverla ho preso spunto da alcune esperienze personali che mi sono fatta soprattutto sul lavoro.
Datemi un vostro parere, sia negativo che positivo :) Ho cercato di essere più fedele possibile alla realtà e chiedo scusa in anticipo se ci saranno delle incongruenze. Mi sono documentata, ma è probabile che ci siano alcune inesattezze.
Aggiungo che la storia è di mia invenzione, non ci sono riferimenti a fatti né a cose accadute e i McFly non mi appartengono.  Tutte le citazioni ad opere altrui [canzoni, libri, film e così via] non verranno riportate con scopi di lucro, così come questa storia.

A voi! Ruby.




FOUR WALLS


PROLOGO



If I could fly like the Queen of the sky
I could not tumble nor fall, I would picture it all
If I could fly, see the world through my eyes
I could not stumble nor fail, I could ravage my jail
If I could fly

(If I Could Fly – Helloween)

I said maybe you're gonna be the one who saves me
And after all you're my Wonderwall
(Wonderwall – Oasis)

Wrong or Right
Black or White
If I close my eyes it’s all the same
(All the Same – Sick Puppies)


Secondo molte teorie socio-psicologiche, l’uomo non è buono, né cattivo.
E’ primariamente essere umano.
Può essere essenzialmente buono.
Può essere essenzialmente cattivo.
Può essere essenzialmente l’uno e l’altro.
Ci sono uomini incapaci di odiare il prossimo loro più vicino.
Ci sono uomini privi di senso di colpa.
Ci sono uomini a cui piace stringere le mani e con le stesse schiaffeggiarti.
Ogni luogo della nostra Terra è popolato da uomini, non esistono zone vergini dalla sua presenza.
Ogni luogo della nostra Terra è popolato da uomini essenzialmente buoni, essenzialmente cattivi, essenzialmente buoni e cattivi.
Grandi concentrazioni di uomini all’interno di un territorio circoscritto fanno ritenere giusto il pensare che questo stesso assuma la caratteristica fondamentale che delinea il comportamento umano di maggioranza.
Quindi, ci sono luoghi essenzialmente buoni, luoghi essenzialmente cattivi, luoghi essenzialmente buoni e cattivi.
La probabilità che individui essenzialmente buoni si ritrovino in luoghi essenzialmente cattivi è piuttosto alta, e viceversa.
La probabilità che questi stessi individui assumano caratteristiche non a loro confacenti è anch’essa piuttosto alta.

Ma sono solo teorie.
O no?

***


Unì le mani al grembo e pregò il Dio in cui non aveva mai creduto. Non sapeva cosa avrebbe ottenuto da quell’ultima giornata, era entrata in aula di tribunale senza alcuna speranza a dipingerle un bel sorriso sul volto. Era ormai troppo tempo che serbava quelle espressioni felici per i momenti più speciali. Negli altri casi erano mezzi tagli di circostanza, esibiti per pura casualità o per necessità. Non sempre il suo essere scostante e facilmente irritabile era una buona soluzione per vivere la giornata, Meg lo aveva imparato con il passare del tempo.
La signorina Dean, il suo avvocato, le dette un piccolo colpo al gomito, riportando la sua attenzione al piano Terra, ma la sentenza era già conclusa. Il giudice schioccò il suo martello e si ritirò, mandandoli tutti in pace. Le poche persone intorno a loro si alzarono frettolosamente e se ne andarono, nessuno si trattenne con loro due.
Cosa ha detto?”, chiese al suo avvocato.
Non hai sentito?!”, domandò lei, scandalizzata, nel suo perfetto tailleur color crema.
Beh… No.”, rispose con tranquillità.
La donna ebbe un fremito di rabbia impaziente, poi si calmò.
E’ incredibile.”, commentò con stizza, “Ti hanno ridotto di nuovo la pena e tu non hai sentito il giudice pronunciare la sentenza…”
Meg sapeva di essere la sua peggiore cliente, ma era lei che i suoi genitori si potevano permettere, quindi che la smettesse di sputare sul piatto in cui mangiava da ormai diversi anni a quella parte.
Perciò…”, Meg la esortò a parlare.
Perciò vista la buona condotta, vista la buona parola messa su di te da parte del direttore su richiesta del personale che ti segue… E vista anche una serie di leggi che ho spolverato dal dimenticatoio per te, da qui a diciotto mesi sei fuori.”
Le ci vollero molti secondi per digerire la notizia. Prese ogni parola e la soppesò con la sua bilancia mentale, cercando di comprenderne ogni significato nascosto e potenzialmente pericoloso.
Vuoi… Vuoi dire che…”, balbettò, sbattendo gli occhi.
Sentiva di avere le vertigini, stava svenendo, aveva bisogno di sedersi e di bere.
Ti hanno ridotto la pena di quattro anni. Ti destineranno ad un programma per il reinserimento lavorativo e questa è la fine, potrai tornartene a casa per sempre.”, disse l’avvocato, rudemente e senza alcun tatto, prendendo la sua borsa ed avviandosi verso l’uscita dell’aula.
L’agente Harris, che se n’era rimasta accanto a lei per tutta la durata della seduta in tribunale, le fece capire con uno sguardo ed un gesto che era arrivato il momento di tornare da dove era venuta. Anche se il metallo ai suoi polsi era stretto e le toglieva il sangue alle mani, anche se la sua divisa era dello stesso colore tetro, anche se la catena che le fissava le manette alla vita aveva il solito peso, Meg si sentiva più leggera.
Molto più leggera.
Un giorno in più o in meno dentro a quel carcere non faceva ormai molta differenza per lei, che ormai vi aveva passato tre anni e mezzo della sua vita per un fatto che aveva commesso con piena e riconosciuta colpa. Non si era mai dichiarata innocente, la coscienza e l’evidenza dei fatti non glielo avevano permesso. Un mese in più o in meno, invece, cominciava a fare sentire il suo peso. Se poi pensava a quattro anni tagliati tutti d’un colpo, Meg poteva mettersi a piangere dalla felicità.
E fu infatti quello che fece.
Camminava e piangeva, con le mani bloccate all’altezza del bacino non poteva asciugare le lacrime, ma non le importava. Una volta tornata in istituto avrebbe chiamato i suoi, a casa, per riferire la notizia. Non erano venuti: papà si era fatto prendere dalla febbre stagionale ed il tribunale scatenava in mamma dei violenti attacchi di panico.
Diciotto mesi e tutto sarebbe finito.

Diciotto mesi ancora.

________________________

Note dell'autrice:
lo so che il prologo è veramente poco... Abbiate pazienza...
Questa è Meg: 
http://i235.photobucket.com/albums/ee196/R...y/544092-xs.jpg

Le canzoni. No scopo di lucro.
If I could fly - Helloween 
http://www.youtube.com/watch?v=Pn0_oK69YTA
Wonderwall - Oasis... C'è bisogno di un video? xD
All the same - Sick Puppies 
http://www.youtube.com/watch?v=cs72v-2zjsg
Quest'ultima canzone, così come tutte quelle dei Sick Puppies, è la colonna sonora portante della storia, ditutti i capitoli che seguiranno. E' quella che la ispira.
Il titolo, invece, è preso da un'omonima canzone degli Staind 
http://www.youtube.com/watch?v=eag5slJ_yag

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


CAPITOLO UNO



Faceva uno strano effetto sedersi di nuovo davanti ad un banco, immagazzinata nella terza fila di un’aula piuttosto gremita di persone. L’ultimo suo giorno di scuola risaliva a molto tempo prima: Meg non aveva avuto nemmeno il tempo di terminare l’anno scolastico, la sentenza era stata emessa frettolosamente ed aveva ottenuto il diploma con un esame dato dietro alle sbarre. Il suo caso era stato così evidente che gli avvocati non avevano potuto fare altro che accettare ciò che il giudice aveva sviolinato in prima seduta, non c’era stato niente da fare, tranne i ricorsi che le avevano ridotto la pena per buona condotta.

Si sentiva la più piccola di tutti e doveva proprio esserlo: attorno a lei detenute donne di ogni età, compreso qualche uomo, cosa che la fece sentire piuttosto a disagio. Molto probabilmente, data la scarsa presenza maschile, avevano deciso di accorpare i due generi sessuali, risparmiando così tempo ma soprattutto denaro.
Meg aveva scelto quel corso per uno scopo preciso e piuttosto pratico: dato che nell’ultima e conclusiva sentenza del tribunale il giudice l’aveva destinata alla frequenza di un programma per il reinserimento lavorativo, e data anche la scarsa offerta formativa prevista dal carcere, aveva optato per il corso di giardinaggio di base ed operatore ortofloricolo. Mamma e papà gestivano da anni un vivaio, una volta uscita avrebbe potuto trovare una piccola sistemazione temporanea presso di loro, prima di cercare qualcosa di meglio. Non aveva mai avuto il pollice verde, ma la necessità faceva l’uomo capace di adattarsi a qualsiasi situazione… Era così il proverbio, vero?
Non si sentiva meno colpevole dei detenuti intorno a lei, eppure una briciola di lei pensava di esserlo. Tranne i cinque uomini presenti, provenienti dalla sezione maschile, conosceva tutte quelle donne, dalla prima all’ultima. Sapeva il loro nome, per quale motivo erano state confinate lì dentro e se era sano parlare con loro. Un buon trenta per cento di quelle persone era per lei off limits, la restante parte le rimaneva indifferente oppure amica. Purtroppo, come in una scuola, anche il carcere aveva quelle regole di convivenza: c’era a chi stava sul cazzo, chi non la filava di striscio e c’era anche chi mangiava con lei.
Meg sapeva di non essere un tipo simpatico, ma neanche troppo antipatico. La sua compagna di cella, Rachel, le diceva di essere una dritta, che nel linguaggio intramurario significava essere una persona tranquilla e che non rompe troppo le scatole alla prossima sua. Rachel, invece, si definiva una storta, una che non ci pensava due volte e decideva sul momento se ficcarti una scarpa su per il culo, obbligandoti a conservarla lì per almeno sette giorni. Ma Rachel, a differenza di Meg, aveva quarantadue anni, due palle cubiche, un marito con una pallottola in mezzo agli occhi e una figlia che molto probabilmente non sapeva nemmeno che sua madre si trovasse in carcere, dato che era stata data in affidamento ad una famiglia che viveva in capo all’Irlanda del Nord.
Lì dentro ognuna di loro aveva la sua storia tragica.
Lì dentro ognuna di loro sapeva perché vi si trovava.
Lì dentro ognuna di loro era dritta o storta e le due fazioni si equilibravano piuttosto bene, senza fondersi.
Lì dentro, Meg era una dritta che condivideva la cella con una storta.
Erano quelle come Rachel a definirla una dritta, mentre le dritte pensavano che fosse una storta. Non era molto chiaro nemmeno a Meg stessa, ma l’importante era essere lasciata in pace da entrambi i gruppi, soprattutto dalle storte. Si sentiva come una secchiona tra i bulli, per poi essere capace di fare la prepotente con i quattrocchi, ma quel suo particolare status le evitava tanti problemi. Poteva essere ‘amica’ di Rachel e scansare molti delle complicazioni che le dritte si trovavano ad affrontare nel loro problematico e burrascoso rapporto con le storte, ma non ne era del tutto esente.
Quando nella classe incrociò infatti lo sguardo di una di loro, quella le si avvicinò e le sussurrò in un orecchio di essere la figlia della più grande troia che popolava il loro mondo, ma non erano le parole a farle del male. Erano i pugni nei reni ricevuti nelle docce, quelli sì che facevano un cazzo di male. Una volta ne aveva presi così tanti che non era riuscita ad andare in bagno per una settimana: l’avevano tenuta in infermeria per due giorni.
Era quella la vita del carcere, aveva fatto tesoro di tanti piccoli e grandi insegnamenti giorno dopo giorno, custodendoli gelosamente per tenersi lontana dai guai e non farsi notare troppo, sebbene fosse inevitabile. Erano solamente trecento donne, le nuove arrivate erano frequenti ma non quelle di diciotto anni appena compiuti, con i capelli rossi e una condanna fresca a dieci anni di reclusione. Come lei molte altre, chi per prostituzione, chi per spaccio, chi per furto aggravato, ma forse fu il colorito acceso dei suoi capelli ad attirare l’attenzione su di lei.
Al tempo erano stati di una tonalità piuttosto riconoscibile, un arancione decisamente inevitabile da nascondere, ma con il tempo era sparito.
Stupidi vani pensieri, si disse Meg.
Si sentì lo sguardo di uno degli uomini su di sé, tanto che dovette fargli un eloquente gesto per scrollarselo di dosso ma non fu molto efficace. Per lei, i detenuti della sezione maschile erano individui da castrazione chimica obbligatoria, guardavano le donne come se fossero state le uniche sulla faccia della terra, poi passavano il tempo a gettare saponette a terra e sfogarsi suoi loro compagni di cella e di sesso. C’erano pochi giorni all’anno in cui le capitava di condividere il suo tempo con quegli esseri ed erano essenzialmente il pranzo di Natale, l’ultimo dell’anno e la domenica di Pasqua.
I giorni peggiori, e non per la loro presenza.
La volontà di sentirsi forzatamente felici e contenti in quei tre giorni le faceva venire sempre il voltastomaco. Il primo anno aveva passato le festività a piangere sul suo piatto, lei come molte altre delle nuove, poi ci aveva fatto l’abitudine. Avrebbe dovuto passare dieci dei suoi Natale in carcere, doveva solo rassegnarsi ed attendere. Era sempre stata una ragazza piuttosto paziente e, sebbene avesse avuto periodi di forte depressione, per il momento stava bene. La prospettiva di essere presto libera le accorciava le giornate.
E quella, come i quattro mesi successivi, la passò per quattro ore seduta dietro ad un banco ad imparare. Docenti giovani e vecchi, simpatici ed antipatici, insegnarono loro la ciclicità della natura, la difesa delle piante, la lavorazione del suolo e così via. Prese appunti, venne esaminata, imparò a far diventare verdastro il suo pollice bianco. C’erano alunne più brave di lei, gli uomini erano degli asini, ma non se la cavò male. Una volta alla settimana venivano portati nell’orto del carcere, uno spazio di quasi un ettaro circondato dalla striscia finale delle mura, nel quale avveniva la dimostrazione pratica di quello che era stato loro insegnato.
All’inizio del quinto mese scelsero se specializzarsi nella floricoltura o nell’agricoltura: Meg si stupì, moltissime donne preferirono dedicarsi alla semina e alla coltivazione degli ortaggi e della frutta, piuttosto che ai fiori. Molto probabilmente perché la serra era degna del nome che portava, i fiori erano molto più difficoltosi da gestire rispetto ad un patata o ad un grappolo d’uva, ed il corso si protraeva per un mese un mese. Oltretutto, nei mesi invernali il lavoro agricolo era drasticamente ridotto, mentre in serra gli impegni andavano avanti ad oltranza.
Meg pensava al vivaio di famiglia, ne aveva parlato con suo padre e gli era sembrato piuttosto contento. Non aveva sprizzato gioia da tutti i pori, in fin dei conti la sua unica figlia era stata messa in prigione con l’accusa di omicidio, ma nonostante la stanchezza delle sue risposte e l’usuale freddezza, i rapporti con mamma e papà erano piuttosto tranquilli. Certo, se n’era dovuta convincere. Spesso si era trovata a pensare che fosse soltanto il legame di sangue che teneva vivi i contatti, poi Rachel l’aveva fatta ragionare, stanca dei suoi lamenti notturni.
E’ stata una casualità.”, le aveva detto, piuttosto che sentirla ancora piangere nel sonno, “Sei una persona essenzialmente buona. Non uno stinco di santo, sei stronza e pure figlia di puttana quando ti ci impegni, ma non sei cattiva.”
Nemmeno tu sei cattiva, Rachel.”, le aveva risposto Meg.
Ci vuole un certo coraggio a puntare una pistola sul viso di tuo marito e premere il grilletto, non penso di essere buona.”
E io cosa ho fatto?”, aveva controbattuto.
Tu hai fatto l’imbecille.”
Ci aveva pensato a lungo, poi si era detta che, piuttosto che impazzire, Rachel doveva aver avuto ragione. Era stata un’imbecille, tutto era successo per errore, era su quelle stesse basi che si era stabilita la sua difesa in tribunale. Quindi se i suoi rispondevano alle sue chiamate, le mandavano i soldi e le cartoline per Natale era perché avevano chiuso entrambi gli occhi sulla sciagura vivente rappresentata dalla loro figlia.
Non sarebbe mai stato come prima, Meg non era più la luce nei loro occhi. Non le volevano più bene, lo sapeva, era solo una questione di essere genitori e figlia, ma constatare che comunque non l’avevano completamente esclusa dalla loro vita l’aveva aiutata nel mantenere la salute mentale. Passare da essere una ragazza perfettamente normale e tranquilla, con una buona carriera scolastica e un sacco di amici in rubrica, al trovarsi segregata dentro quattro mura, di cui una composta da sbarre di ferro spesso, era stato uno trauma impossibile da gestire con le sue mani di diciottenne.

***

Meg, dormi, per cortesia.”
Non poté fare a meno di voltarsi di fianco, la brandina scricchiolò sotto al suo peso e Rachel borbottò ancora.
Meg, vuoi un pugno nello stomaco?”, sbraitò la donna, che dormiva nel letto sotto al suo.
Udirono entrambe una voce incazzata proveniente dalla cella accanto alla loro -Meg non seppe riconoscere se fosse appartenuta a quella tossica di Della o alla pazza isterica di Caroline- le pregò coloritamente di tapparsi le bocce.
Fatti i cazzi tuoi, stronza!”, le rispose subito Meg, “Allora, Meg, ti decidi a dormire o no?”
La ragazza sbuffò e tornò supina.
E’ solo il tuo primo giorno di lavoro, perché ti agiti così tanto!”, esclamò ancora Rachel.
L’ultima volta che aveva impiegato la sua manodopera in qualcosa aveva ucciso un tizio. No, Meg non era affatto nervosa. Il battito del suo cuore non era accelerato, la frequenza del suo respiro non era a livelli allarmanti, né le sue mani sudavano freddo. Era il ritratto della calma.
Avanti, dimmi tutto.”, la esortò Rachel, “Parla con mamma tua.”
Niente, mi è venuto sonno.”
Ok, come vuoi. Mantieni la tua promessa e lasciami dormire, che domani ho l’udienza per il ricorso.”, la avvertì Rachel.
Rimarrai qui a vita…”, sottolineò Meg.
Lo so, cosa vuoi che me ne importi.”, disse l’altra, come ogni volta, “Qua ho un tetto, cibo e riscaldamento d’inverno. Perché dovrei voler uscire?”
Per vedere tua figlia, si disse Meg, ma non parlò. L’ultima volta che lo aveva fatto, Rachel le aveva rifilato uno schiaffo così doloroso che aveva temuto di perdere un paio di denti. Meglio non metterla di fronte alle sue debolezze, aveva imparato Meg, non le serviva qualcuno a rinfacciarle gli errori della sua vita.
Notte.”
Notte notte.”
La promessa non venne mantenuta, Meg non si addormentò e forse neanche Rachel, ma non era necessario che se ne accertassero.

***

Due detenuti senior erano a capo dei gruppi Margherita e Pomodoro, nomignoli che dividevano rispettivamente coloro che avevano optato per la floricoltura da quelli che volevano giocare ai contadini. Erano i loro responsabili, quelli che guidavano i lavori e a cui tutti loro dovevano fare riferimento. Anche loro avevano frequentato il corso, ma ben tre anni prima: Meg non conosceva l’uomo a capo dei Pomodoro, si chiamava Ned ed era un tipo piuttosto anonimo. Disse sarebbe uscito presto, ebbe piacere di comunicarlo con la gioia negli occhi.
La sua capa, invece, si chiamava Daisy e non era un’ironia. Una margherita a capo delle margherite. Dopo una rapida occhiata, Meg si chiese quale crimine poteva aver commesso per starsene in carcere: aveva due gambe così lunghe da sembrare una modella ed il suo viso era altrettanto bello, il sorriso luminoso.
Bene, seguitemi!”, Daisy e Ned chiamarono a rapporto i componenti dei loro gruppi, che si divisero.
Meg si mise in cammino verso la serra, insieme ai suoi dieci compagni: otto donne e due uomini. Insieme a loro le guardie destinate alla sorveglianza, un uomo ed una donna, a cui Meg non prestò alcuna attenzione. Era ormai abituata ad essere seguita a vista d’occhio e, nonostante nei suoi primi tempi fosse quasi caduta in una sorta di mania di persecuzione, gli agenti di polizia non le facevano più effetto. Erano come le erbacce nel prato, impossibile liberarsene.
La porta della serra si aprì e l’impatto con l’atmosfera interna fu piuttosto forte. Era primavera inoltrata, fuori si respirava un’aria deliziosamente profumata, mentre lì dentro il caldo e l’ammasso stridente di essenze diverse le fece girare la testa, tanto che fu costretta a tapparsi il naso.
Ci farai l’abitudine.”, disse Daisy con un bel sorriso amichevole, “Altrimenti ci sono i fagioli che ti aspettano!”
Risate e prese di giro. Altro che sorriso amichevole…
La lezione pratica iniziò e, per prima cosa, ci fu una lunga interrogazione che toccò tutti loro, nessuno escluso. Daisy si divertì anche con i due agenti di polizia, che non azzeccarono nessuna delle risposte e si limitarono a ridacchiare mestamente con i detenuti, colpevoli di ignoranza. Tutti furono esaminati, solo una piccola percentuale poté dire di aver fatto una buona impressione su Daisy e Meg non ne faceva parte.
Perfetto.”, disse il loro capo, “Ora vi dividerò in due gruppi: chi è stato promosso continuerà la lezione con me. Chi è stato bocciato, poterà tutti i vasi fuori dalla serra per il bagno di sole giornaliero.”
Meg la maledisse con tutto il cuore.

***

Imparò presto di non essere sotto l’ala protettrice di Daisy, lei come altri quattro detenuti: cinque pupilli e cinque asini, che matematica perfetta. Nella settimana successiva furono tartassati di domande, messi sotto pressione come se dalle loro risposte fosse valsa la vita di un condannato a morte, quando invece le uniche a rimetterci qualcosa erano le loro schiene, che dovevano accollarsi il peso di quei giganteschi vasi.
Tutti i giorni.
Oltrettutto, Daisy aveva stabilito due turni, mattina e pomeriggio. Cinque componevano la sottosezione Margherita Uno, gli altri erano confluiti in Margherita Due. Che fantasia. Meg si trovò insieme a due dei quattro poco sopportati da Daisy: Annelise, la cinquantenne in menopausa, e Carlos, lo spagnolo pieno di tatuaggi e di pearcing alle orecchie. Erano stati ripartiti, così da avere sempre qualcuno pronto a far uscire i vasi, qualcun altro a rimetterli a posto.
Che vita fantastica. Meg si chiese quale punizione stesse toccando ai loro colleghi Pomodori Cattivi… Forse dovevano spalare il concime. Alla fine della seconda settimana di lavoro le erano venuti i calli alle mani e la schiena aveva smesso di dolerle, tanto che Rachel tirò il suo ennesimo respiro di sollievo, non sentendola più lamentarsi alla notte per la fatica.
Sembrava non ci fosse stato altro compito per loro che spostare vasi, innaffiare le piante, controllare la preparazione del compostaggio -che altro non era che il concime ottenuto dalla fermentazione dei rifiuti organici prodotti dalle cucine- e redigere una specie di almanacco mensile in cui elencare tutti i lavori da eseguire settimana dopo settimana.
Il morale basso e l’incazzatura alta stava per produrre una sorta di ammutinamento nelle Margherite Due, tanto che Carlos si era già proposto per mettere una pastiglia di acido nelle bottiglie d’acqua delle Margherite Uno, sapeva come recuperare quella droga. Un’altra caratteristica delle carceri era la costante circolazione di oggetti e sostanze illegali, usate come moneta di scambio tra i detenuti. Poteva sembrare un paradosso, ma era la quotidianità e Rachel se ne intendeva molto più di Meg. C’era dentro, faceva parte di una sorta di comunione di interessi tra lei e qualche altra detenuta.
Prima che qualsiasi provvedimento venisse adottato, Daisy parve capire il loro malumore.
Bene, per questo pomeriggio ci occuperemo della potatura delle nostre rose.”, disse.
Dette loro le forbici da giardiniere, Meg osservò che erano tutte numerate, a prova di furto.
Prendetevi una pianta.”
Si sparpagliarono e scelsero.
I vostri compagni Margherite Uno vi hanno già preceduto, perché una prima potatura della rosa va sempre effettuata nel mese di maggio….”, ed il cervello di Meg si disconnetté immediatamente.
La voce di Daisy era melodiosa, da ninna nanna, e non le resisteva. Impiegò il proprio tempo ad osservare la rosa davanti a sé. Il colore dei boccioli era di un rosa piuttosto intenso, chissà se il fiore sarebbe rimasto di quel colore per sempre. La pianta era curata e perfettamente dritta, tenuta ferma da un sostegno in plastica verde. Si vedeva che era forte, nonostante un paio di foglie presentassero le piccole morsicature di qualche parassita, ma doveva essere stato eliminato in tempo.
Una guizzo più forte nella voce di Daisy la fece sussultare, con il risultato che la punta del suo dito, che era andato ad intrufolarsi tra i rami della pianta, si fece male contro una delle tante spine.
Attenta.”, la ammonì una voce alle sue spalle.
Non era quella di Carlos, piuttosto profonda e dall’accento inconfondibile. Meg fu costretta a voltarsi per capire da chi fosse provenuta.
Stai perdendo la lezione.”, le disse un volto in divisa.
Lo riconobbe, era l’agente che solitamente era a loro guardia insieme alla sua collega Evans, del reparto femminile. Meg si portò il medio alla bocca, nella speranza che potesse far cessare il dolore. Con un cenno di testa, la guardia la esortò di nuovo a prestare ascolto a Daisy.
Grazie, agente Jones.”, disse prontamente la loro insegnante.
Continua pure.”, concluse il tizio.
Sta seguendo la lezione con noi?”, domandò Daisy.
Meg fu certa che la donna stesse per arrossire e sbattere le ciglia per tre volte, come era solita fare quando si sentiva compiaciuta del proprio lavoro.
Potrei approfittare dei tuoi consigli e farmi bello con mia mamma.”, disse l’agente.
Da come pronunciò quelle parole, Meg comprese subito di avere a che fare con uno zotico agente del nord.
Non si finiva mai di incontrare della pessima gente in quel carcere.



La birra era la sua seconda migliore amica. La prima si chiamava… Non se lo ricordava, era piuttosto ubriaco. La memoria diventava sempre piuttosto labile quando il tasso alcolico superava i limiti di guardia, ma non gli importava. Non era lui che avrebbe dovuto guidare quella sera, Danny si sentiva tranquillo quando si affidava alle mani altrui. Doppiamente tranquillo, aveva due giorni liberi dal lavoro davanti a sé, non poteva chiedere di meglio. Li avrebbe passati sul letto, appollaiato davanti alla tv o appiccicato al culo di qualche suo amico.
Un giorno voglio tenere in mano la tua pistola…”
Si voltò alla sua destra. Un paio di occhi intensamente blu si aggrapparono ai suoi ed un sorriso malizioso e furbo si fece strada nei suoi pensieri.
Non sono ancora pronto per determinate esperienze.”, rispose Danny, “E poi la mia pistola è al sicuro.”
Dici?”, insinuarono quegli occhi, “Fammela vedere…”
Ok! Basta!”, irruppero altri occhi, di color nocciola, “Piantatela voi due!”
Tom è geloso.”, dichiarò Danny, “Era lui a volere la mia pistola per primo.”
Oh, fottetevi!”, esclamò Tom, alzandosi, “Io voglio andare a casa.”
Danny si scrollò di dosso Dougie, che insieme a Tom era uno dei suoi amici più stretti. In quella serata l’unico a mancare era Harry: il giorno dopo avrebbe dovuto sostenere il suo tanto agognato esame per l’abilitazione alla professione di avvocato. Doveva essersi segregato da qualche parte nel suo appartamento a ripassare leggi, decreti e qualsiasi altra mozione legislativa promossa dal loro parlamento e dalla cotanto amata Regina Madre.
Dai, andiamo.”, disse Dougie, cercando di mettersi in piedi e barcollando vistosamente, “Credo di averne abbastanza.”
Anch’io.”, rispose Danny, seguendolo con notevole fatica, “E non è l’unica cosa di cui sono stufo.”
Quali sarebbero le altre?”, gli chiese Dougie con voce biascicata, con scarso interesse.
Il mio lavoro. Fa schifo.”
Andiamo!!!”, li esortò ancora Tom che, per assicurarsi il rispetto della sua volontà, li prese entrambi per un braccio e li portò fuori dal locale, “Avresti dovuto capirlo molto tempo fa che non ti piaceva fare l’agente di polizia penitenziaria!”
A me piace!”, lo contraddisse subito, dondolando la testa, “Mi fa schifo quello che sto facendo adesso…”
Ah sì…”, borbottò Dougie, “La serra…”
Uscirono dal loro pub di fiducia, la porta si chiuse alle loro spalle con un tonfo e la strada vuota si riempì dello scalpiccio dei loro piedi.
Sono allergico alle piante!!!”, gridò improvvisamente Danny, “Le odio! Mi fanno schifo!!!”
Tom lo obbligò a sedersi in auto, costringendolo sul sedile posteriore con un gesto rapido e brusco delle mani. Ce lo spinse, appoggiò le dita sul suo petto e lo ficcò nella macchina. Dougie ebbe una sorte migliore: era lievemente più sobrio di lui e fu capace di accomodarsi senza alcun aiuto.
Pochi attimi dopo furono in moto sulla via di casa, con Tom che bolliva come un pentolone a pressione, Dougie che minacciava di vomitare da un momento all’altro e lui sdraiato sulla poltroncina, un braccio sugli occhi e la gola secca. Quell’ubriacatura si stava lentamente risolvendo in un pesante macigno sulle spalle. Una botta triste, come l’avrebbe chiamata Harry.
Passò le dita tra i riccioli corti, rimpiangendo gli anni in cui erano stati lunghi, come i ciuffi ribelli di Dougie e la frangia folta di Tom. Se li era dovuti tagliare per rispettare il regolamento che vigeva per tutti gli appartenenti al suo corpo di polizia. Non odiava affatto il suo lavoro, lo aveva scelto di sua spontanea volontà ed affrontava la quotidianità con la giusta dose di serenità. C’erano regole, comportamenti da tenere, contatti da evitare, superiori da rispettare e turni massacranti da sopportare, ma tutto quello andava bene a Danny.
Gli sarebbe piaciuto fare carriera, passare dall’essere un semplice agente a direttore di un carcere, perché no? Aveva sempre avuto il pallino di salire in alto e, con la calma e la pazienza di una formica, aveva presentato la sua domanda di iscrizione al corpo di polizia, frequentato il relativo corso, ed era stato poi destinato ad un carcere nel nord della Scozia. Vi aveva lavorato per due anni, poi lo avevano trasferito a Londra, nell’istituto Holloway, quella volta come la precedente lontano dalla sua casa natale, nei sobborghi di Manchester. Adesso erano quasi sei mesi che faceva parte degli agenti della Holloway.
Lì dentro vi aveva conosciuto Tom Fletcher, che correntemente lavorava come secondo cuoco all’interno della grande cucina dell’istituto. Durante le ore di lavoro, Tom nascondeva il suo ciuffo sotto ad una retina per capelli che lo rendeva ancora più buffo di quanto non fosse stato in realtà. Era un tipo piuttosto simpatico, lo aveva aiutato molto ad ambientarsi, soprattutto in città: il caos e la frenesia di Londra gli avevano dato alla testa dopo pochi giorni. Grazie a lui Danny aveva conosciuto Dougie.
Poynter non era esattamente un bravo ragazzo, come lo avrebbe definito sua madre. Per lei, infatti, solo chi aveva un buon lavoro, la faccia rasata ed i capelli corti poteva essere definito una buona persona, ma Danny lo conosceva, anche se da poco tempo. Passava le sue giornate nel posto che si pensava a lui meno adatto, dietro al bancone di una biblioteca a distribuire e catalogare libri; a guardarlo, Dougie poteva sembrare incapace di allacciarsi le scarpe, poi tutti rimanevano stupiti nel scoprire che aveva letto il cinquanta per cento della narrativa presente sugli scaffali polverosi della biblioteca.
Erano due settimane che non vedeva Harry, fossilizzato e chino sui suoi libri. Voleva diventare avvocato, si erano conosciuti in un aula di tribunale, durante uno processo a cui entrambi avevano partecipato. Danny come fresco agente della Holloway, Harry come praticante. Si era aggiunto al trio.
Scarico Dougie, tu rimani in auto.”, disse Tom, fermando l’auto al lato della strada.
Ok.”, rispose tossendo.
Ti ci chiudo dentro, una sicurezza in più.”
Non sarebbe fuggito da nessuna parte, non ne avrebbe avuto le forze fisiche e mentali. Era stanco, voleva solo dormire e riposarsi, farsi passare la tristezza che lo stava deprimendo. Non sempre le sue ubriacature finivano in quel modo, capitava raramente.
Nota mentale: non bere troppo quando non si è sobriamente di buon umore.
Per carità, non avrebbe avuto alcun problema se non avesse dovuto passare quattro ore del suo turno da nove a fare la guardia a detenuti del tutto tranquilli in una fottuta serra, oppure all’aria aperta, imbottito di antistaminici per tenere a bada la sua allergia ai pollini dei fiori.
A parte quello, tutto il resto andava piuttosto bene.
Tom tornò in auto e imprecò sonoramente.
Ho preso una decisione.”, disse Danny, quando percepì il movimento del mezzo.
Spara.”, borbottò il suo amico, del tutto disinteressato.
Da grande farò lo scrittore.”, si pronunciò.
Tom sbuffò una piccola risata. Danny si addormentò pochi attimi dopo.


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Grazie a quelli che hanno letto e che continueranno a seguire questa storia :)
Ruby


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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


CAPITOLO DUE


Ormai aveva imparato a fronteggiare Rachel, sebbene ogni sua parola venisse detta con la paura a fare da sottofondo.
“Non me ne frega un cazzo se hai perso la tua maglia buona!”, le disse Meg, “Io non l’ho presa!”
E chi altro può averlo fatto, sentiamo!”, esclamò Rachel, “Non vedo molti coinquilini in questa fottuta cella!”
Non ho mai toccato le tue cose, perché dovrei farlo adesso!”, continuò Meg in preda all’esasperazione. Presto sarebbe tutto finito, si disse, doveva solo starsene calma ed attendere che Rachel uscisse dalla cella, diretta verso la sua fottuta attività di rompi-il-cazzo-a-chiunque-ma-non-a-me. Il succo della questione? La sua compagna di cella si era alzata di pessimo umore, se l’era rifatta con lei per aver perso la sua maglietta preferita e non voleva starla a sentire.
Ridammi la mia maglia!”, gridò Rachel.
Signorine, adesso basta!”, tuonò l’agente Gibson, di turno quella mattina al loro piano, “Vi sentiamo dal fondo del corridoio!”
Non me ne frega un cazzo!”, sbraitò Rachel.
Modera i termini!”, ribatté subito l’agente, alterandosi in un attimo.
Quel rimproverò fu sufficiente a fare calmare Rachel. Meg si chiese per quale motivo fosse così agitata, da diversi giorni a quella parte dava in escandescenza ad ogni minimo segno di contatto umano. Volle dirle che era disposta a darle una mano, ad ascoltarla, ma era troppo furiosa con lei per porgerle il suo aiuto e se ne andò verso la sala mensa per fare colazione. Mangiò rapidamente, tanto che una volta messo piede in serra l’intenso profumo dei fiori la nauseò e stette quasi per vomitare, riuscì a contenersi a stento. La sua faccia pallida preoccupò i colleghi, ma Meg mascherò tutto con un sorriso e cinque minuti all’aria aperta, passati in compagnia dell’agente Evans e della sua sigaretta fumante. Non appena il suo stomaco si fu quietato, Meg riprese posto all’interno della serra.
Bene.”, sentì dire a Daisy, “Oggi passeremo il nostro tempo fuori da questo ammasso di vetro.”

Così come ebbe trattenuto la colazione dentro di sé, Meg celò anche la sua improvvisa gioia.

Megan, tu rimarrai dentro.”, Daisy cancellò tutto con quattro parole ed un sorriso dei suoi, “Puoi pulire?”

Un attimo di silenzio prima della sua risposta.
Certo.”
Perfetto! Andiamo fuori, che c’è un bel sole!”, disse agli altri.
Lasciò il passo ai suoi colleghi, che uscirono confortandola con sguardi compassionevoli.

Acido in acqua.”, borbottò Carlos con la sua manona davanti alla bocca, strappandole un sorrisetto di assenso.
Così, munita di guanti, camice verdastro e tanta pazienza, si occupò della serra. Per prima cosa era saggio dedicarsi alle erbe fastidiose che crescevano senza permesso dentro ai vasi, andando a togliere nutrimento alle altre piante. Le avrebbe gettate sul pavimento ricoperto di mattoni rossi in lisca di pesce, che sarebbero stati puliti per ultimi. Non ci volle molto prima che l’agitazione e il cattivo umore prendessero il pieno controllo di lei. Se ne stava sola, in silenzio, senza alcuna distrazione a tenerle la mente lontano dalla discussione con Rachel. Meg doveva assolutamente capire quale fosse il vero motivo che scatenava in lei tutta quella rabbia, non poteva esserle utile solo come la valvola di uno sfogo violento, sapeva di avere una buona capacità di ascolto. L’aveva accusata senza alcuna prova del furto di uno stupido maglioncino, molto probabilmente le era stato sottratto in lavanderia, dove fatti del genere erano la quotidianità. L’aveva trattata come una ladra!
Un ciuffo di erba più ostinato non si fece strappare facilmente e Meg concentrò su di esso tutta la sua rabbia, afferrandolo con entrambe le mani e estirpandolo con forza, tanto che barcollò indietro. La fermò il grande tavolo al centro della serra, che si mosse e lasciò tre vasi cadere a terra. Si frantumarono, tre bocche di leone si trovarono a contatto con il pavimento in cotto.
Merda!”, gridò Meg, gettando via il ciuffo d’erba.

Osservò il danno combinato, deducendo che presto si sarebbe riversata su di lei anche l’incazzatura di Daisy. Si chinò per racimolare i cocci rotti.

Fermati!”

Meg aggrottò la fronte e sporse gli occhi al di sopra della superficie lignea del tavolo. L’agente si stava avvicinando a grandi passi, sembrava piuttosto preoccupato.

Non toccarli.”, le disse.

Era quel tizio del nord, come si chiamava? Lo lesse sulla targhetta appesa alla divisa bluastra: Agente Jones.

E… Cosa dovrei fare?”, domandò Meg, tornando in piedi, “Lasciarli qua a terra?”
Devi farlo sotto la mia supervisione.”, le spiegò l’agente.

Perché?”, le venne da chiedere ancora.
Perché sì.”, tagliò corto lui, “Adesso puoi ripulire tutto.”
Rimase qualche attimo a fissarlo perplessa: aveva solamente rotto due vasi e doveva gettarne via i cocci, sistemando le piante altrove. Ancora stranita per il bizzarro atteggiamento della guardia, Meg andò a cercare un sacchetto della spazzatura e due terrecotte, sentendosi gli occhi dell’agente pungerle il collo con insistenza. Si inginocchiò ancora e, con movimenti grossi, tutti i frammenti finirono dentro al sacchetto.
L’agitazione salì alle stelle quando il secondino si offrì di darle una mano.
Grazie, ma faccio da sola.”, rispose con stizza.

Lui non l’ascoltò, quelli della sua specie erano sempre sordi alle parole pronunciate dagli appartenenti alla razza di cui Meg stessa faceva parte. Si chinò a terra e si occupò della terra sparsa sul pavimento.

Come si chiamano questi… Questi fiori?”, le domandò.

Bocca di leone.”, rispose Meg.

 Bocca di leone…”, ripeté l’altro, “Speriamo non morda!”
Supponeva di dover ridere, ma Meg non seppe farlo.

Ok, adesso le rimettiamo… Nel vaso nuovo, vero?”, continuò l’agente Jones.
Sì.”
Lui allungò una mano e prese le due terrecotte, riempiendole con un po’ della terra distaccatasi dalle radici dei due fiori.

Ehm… Non le dispiace se lo faccio da sola, vero?”, gli disse, osservandolo sporcarsi le mani di terriccio scuro.
Oh sì, fai pure.”, le rispose, “Sono anche allergico a tutte queste piante.”

Ecco, così non le verrà uno shock anafilattico.”, borbottò sommessamente.
L’agente si alzò ma non si allontanò, rimanendo in piedi davanti a lei, che lavorava china sul pavimento. Una volta che il danno fu rimediato e i due fiori tornarono dentro a nuovi vasi, Meg si alzò. Mosse un passo verso la scopa e la paletta, ma l’agente la bloccò.
Devo chiamare qualcuno che ti perquisisca.”
Cosa?!?”, esclamò Meg, “Non ho fatto niente di male!”
Chi era quello? Cosa voleva da lei? Non gli era bastato romperle le scatole? Che se ne tornasse alla sezione maschile!

Come qualche minuto prima, l’agente Jones la ignorò e prese la sua ricetrasmittente.
Centrale? Qui è l’agente Jones. Potreste contattare l’agente Evans e dirle di venire in serra? Ho bisogno di lei. Passo.”

La voce metallica e frusciante dell’addetto alle comunicazioni interne si fece sentire subito.

Qualche problema Agente Jones? Passo.”
Una detenuta ha rotto un vaso di terracotta, c’è il rischio che possa essersi impossessata di un frammento tagliente. Non sono autorizzato a perquisirla, dovrebbe farlo l’agente Evans per me. Passo.”

Ecco qual era il problema, Meg non c’era arrivata da sola. Era stata troppo ingenua e l’agente Jones troppo prevenuto nei suoi confronti. Come poteva esserle utile un coccio? Non aveva nessuno da ferire o ammazzare, aveva già una persona sulla coscienza ed era sufficiente. L'agente aveva bisogno della Evans per controllarla, dato che era severamente proibita la perquisizione di detenuti di sesso diverso. Non poteva metterle le mani addosso, né a lei sarebbe piaciuto sentirle.
Va bene. La mando subito da voi. Passo e chiudo.”
Passarono i successivi cinque minuti in silenzio, Meg gli dava volutamente le spalle facendo finta di occuparsi di altre piante. L’agente Evans arrivò e, con fare frettoloso, le toccò le gambe e le braccia, senza approfondire.
Dovrebbe impegnarsi di più.”, la consigliò l’altro, “L’ho persa di vista per pochi secondi ma sono più che sufficienti.”
Tranquillo, Jones, è una a posto.”, disse Evans, sorridendo a Meg, “Non ha mai dato troppi problemi, mi stupirei se iniziasse adesso. Tra un anno se ne va.”
Bene, si rallegrò Meg, era giusto che si beccasse quella frecciata ed andasse a fare il prepotente altrove.
Oh, buona fortuna.”, rispose lui, senza scomporsi di un millimetro né chiederle scusa.
Si allontanò e tornò a prendere il suo posto vicino all’entrata, dove molto probabilmente aveva passato tutto il suo tempo senza che lei, occupata con il suo nervosismo e le erbacce, se ne fosse accorta.
Perdonalo.”, le disse Evans sottovoce, “E’ da poco che è qua e, oltretutto, è un uomo.”
L’agente sorrise nel vederla alzare le sopracciglia e scrollare le spalle.
Avanti, finisci di pulire.”, le fece con tono più alto e deciso.
L’agente Evans se ne andò salutando con un gesto formale il suo collega, e Meg tornò a dividere la serra con quel tizio. Prese scopa e paletta, con l’intenzione di raggruppare lo sporco e gettarlo via.
Un anno e poi sei a casa. Che effetto fa?”
Fece finta di non averlo sentito. Lui non tornò all’attacco, doveva aver capito che era meglio desistere.
***
L’aereo atterrò in perfetto orario ed i passeggeri cercavano di farsi strada nella folla, tutti muniti di valige con ruote che intralciavano i passi altri con poco ritegno. Nella massa scorse una testa bruna, nascosta dietro ad un paio di grandi occhiali da sole e sotto ad un cappellino da baseball.
Sophie era tornata.
Danny allungò un braccio per attirare la sua attenzione e, non appena vide un sorriso apparire sulla sua bocca, comprese che lo aveva visto. Le andò incontro tendendole le mani, che subito si unirono dietro alla sua schiena, sollevandola da terra senza alcuno sforzo, tanto era leggera.
Fatto un buon viaggio?”, chiese subito alla sua fidanzata, dopo averla riempita di baci.
E’ stato piuttosto stressante.”, rispose lei, sospirando, “Ma ora che ho messo piede a terra, sto meglio!”
Vieni, andiamo a casa.”, le fece, prendendola per mano, mentre l’altra afferrò il bagaglio, “Avrai tutto il tempo di scaricare il jet lag.”
Chiunque avrebbe potuto capire che Sophie non era inglese: lingua ed aspetto, accento e pelle olivastra. Era americana, veniva dalla Florida ma abitava da un paio di anni a Londra, insieme a sua sorella, che aveva sposato un tipo della City. Si erano conosciuti poco dopo il suo trasferimento a Holloway, era un’amica di Harry. Sophie aveva passato le ultime tre settimane dalla sua famiglia, a Tampa, in Florida, per assistere al matrimonio della cugina, di cui era stata la damigella d’onore. Danny non si era unito per due motivi: essenzialmente il lavoro non glielo permetteva ed in aggiunta non stavano insieme da molto, non volevano affrettare le cose. Gli sarebbe piaciuto vedere l’America, non c’era mai stato, ma non lo avrebbe di certo fatto in quella occasione.
Sebbene avessero avuto modo di tenersi in contatto, il viaggio in macchina fu speso nel raccontarsi tutto quello che era successo in quelle tre settimane lontani. Danny seppe così ogni particolare del matrimonio, dalla prova dei vestiti alla scelta dei cibi, dalla sistemazione del giardino alla cerimonia vera e propria, svoltasi all’aperto in una giornata di sole pieno, con le mamme che piangevano e le strette di mano dei papà. Un tipico matrimonio americano, niente a che vedere con la tradizione inglese e le lunghe cerimonie in chiesa. Alla gente d’oltreoceano piaceva esibire le loro possibilità economiche, beati loro. Se avesse detto a sua mamma di volersi sposare all’aperto, si sarebbe disperata: il suo unico figlio adorato che rischiava di prendersi un tipico acquazzone inglese. Impensabile!
Un anno e divorzieranno.”, concluse Sophie, “Quanto vuoi scommetterci?”
Dici che accadrà?”, le chiese.
Avrebbe voluto domandarle qualcos’altro, ma uno starnuto poderoso lo interruppe.
Cos’hai?”, gli chiese subito lei, “Il raffreddore in primavera?”
No… E’ solo allergia ai pollini.”, spiegò Danny, prendendo frettolosamente un fazzoletto e soffiandosi il naso.
Fatti una cura.”, lo consigliò Sophie, “Così non ne soffrirai.”
E’ quello che sto facendo, ma non funziona.”
Provane un’altra.”
E’ colpa del lavoro.”, le disse.
Lei lo guardò stranito.
Ti chiudono in una serra piena di fiori?”, fece Sophie, scoppiando a ridere per l’assurdità della sua affermazione.
Eppure aveva avuto ragione.
Beh… Sì, è proprio così.”, disse Danny con voce fortemente nasale e gli occhi infastiditi dal prurito, “Seguo un gruppo di detenuti che lavora all’aperto e gestisce una serra…”
Fai un reclamo e fatti destinare ad un altro lavoro.”, propose Sophie.
Come se fosse stata la richiesta più semplice del mondo. Era l’ultimo arrivato, l’ultimo della lista e doveva tenersi i compiti che gli affidavano, che fossero state ore a contatto con i fiori oppure turni massacranti nel fine settimana.
Tenterò.”, le disse con tono conciliante.
Già un’altra volta erano caduti in quella discussione. Sophie voleva esortarlo alla battaglia per i suoi diritti di lavoratore onesto e fedele al corpo di polizia a cui apparteneva. Lui, che conosceva il sistema del dare-avere che caratterizzava il rapporto con i suoi colleghi, sapeva di avere poca esperienza sulle spalle per potersi permettere uno sfizio del genere. Avevano litigato duramente e Danny si era fissato una delle sue tante note mentali.
Dare sempre ragione a Sophie in tema di diritto del lavoro.
Cosa ti fanno fare in quella serra?”, chiese lei, osservando il paesaggio urbano che si estendeva in movimento fuori dal finestrino.
Niente di che, devo solo controllare i detenuti che lavorano.”
Sei da solo?”, domandò ancora Sophie.
No, di solito sono in coppia con un altro agente.”
Perché allora non ti fai dare il cambio?”, avanzò lei, “Così puoi rimanere fuori, mentre quell’altro sta in serra.”
Danny sospirò.
Non ci avevo pensato.”, disse, mentendole.
Evans voleva starsene all’aperto perché odiava l’odore opprimente della serra. Lui doveva accontentarsi, era così che funzionava.
Cosa faresti senza di me?”, disse Sophie, abbracciandolo e baciandolo su una guancia, “Come sono i detenuti che stai seguendo?”
Simpatici.”, rispose Danny.
Nessun assassino tra di loro?”
Qualcuno.”, le disse con tranquillità.
Lei sembrò stupirsene.
E perché non li chiudono in cella e buttano via la chiave?”, esclamò.
Perché è probabile che non se lo meritino.”, cercò di rassicurarla.
Come fai ad esserne sicuro?”
Danny non poteva risponderle, avrebbe leso l’etica del suo lavoro.
Non posso parlartene, mi dispiace, ma puoi fidarti di me.”, le disse, “Si stanno riabilitando al lavoro, usciranno nel prossimo anno.”
La notizia non mi rende più felice…”, sottolineò lei, tornando seduta e pensierosa.
Era il momento di sviare.
Stasera ho prenotato in un ristorante niente male.”, la informò, “Ti leccherai i baffi!”
***

Lunedì.
Meg odiava i lunedì, erano i giorni peggiori della settimana. Quando era stata libera non li aveva mai sopportati e da quando era lì dentro li odiava lo stesso, sebbene non avesse avuto più un motivo specifico a giustificare quel suo sentimento negativo. Si sentiva di malumore, più scostante del solito, tanto che augurò faticosamente il buongiorno a Rachel, la quale non aveva diminuito di un solo grado la sua carica di rabbia distruttiva. Fece colazione in silenzio, a capo basso, poi intercettò Annelise, intravedendo il suo cesto di capelli corti e bianchi, e le si avvicinò. Era una delle detenute più calme e disponibili di tutto il carcere, era stata accusata di frode e doveva allo Stato diverse centinaia di migliaia di sterline, forse anche milioni per quello che Meg ne sapeva. Colpevole di aver rubato del denaro pubblico, Annelise aveva una pena sulle spalle lunga il triplo della sua, prima che il giudice l’avesse ridotta.
Cosa ci toccherà fare oggi?”, domandò la donna con retorica.
Non saprei.”, rispose Meg con tono sarcastico, “Pulire, strappare erbacce, zappare…”
Ho parlato con qualcuna delle Margherite Uno, dicono che ai due tizi che stanno con loro tocca sempre la pulitura dei vetri della serra…”, disse Annelise.
E io che mi diverto ad appannarli e scriverci qualche ringraziamento per Daisy… Ora capisco perché non sono capace di ritrovarli!”, esclamò Meg ridendo, “Osano cancellarli!”
Anche Annelise rise insieme a lei.
Il nostro Carlos deve farle paura.”, disse poi la donna, “Ammetto che non mi ispira molta fiducia quel ragazzone, però è simpatico.”
Non poteva negarlo, aveva pienamente ragione. Doveva essere uno dei pochi uomini della sezione maschile della Holloway a non meritarsi la castrazione chimica. Era alto e di pelle scura, capelli piuttosto lunghi e aspetto poco amichevole, insieme a qualche tatuaggio discretamente preoccupante, ma doveva avere il ripieno di cioccolata. Carlos aveva commesso diversi peccati mortali e la sua prospettiva di lasciare le sbarre era piuttosto profonda, tanto da non vederne la fine, ma era stato obbligato dal giudice a seguire quel corso, insieme ad un altro per la gestione della rabbia, in modo tale da imparare a canalizzare il suo sfogo verso qualcosa di più produttivo.
La cura delle piante.
Chi aveva passato la gioventù in una banda di strada di Barcellona per poi esportare il suo operato entro i confini del reame inglese aveva necessariamente bisogno di un corso per vivaista. Insomma, la Holloway era un posto in cui si incontravano sempre personcine per bene.
Secondo me gli piaci.”, avanzo Meg, con un’occhiata furba alla donna, “L’ho visto come ti guarda!”
Annelise scoppiò in una nuova risata, si portò le mani alla bocca e gorgheggiò.
Ma smettila, Megan!”, le disse poi, “Ho cinquantacinque anni, non venti come te!”
Ventitre.”, specificò Meg, “E poi non è mai tardi!”
Ok, entrambe abbiamo i nostri scompensi ormonali, ma i miei non sono così squisitamente sessuali!”
Per me quei terremoti sono terminati molto tempo fa.”, disse Meg, prendendo un elastico nero dalla tasca dei pantaloni e legando i capelli rossi in una coda di cavallo, come era solita portarli ogni giorno.
Continuarono il percorso in silenzio, preferendo lasciar perdere quel discorso, e si unirono a Carlos ed alle altre componenti delle Margherite Due, Greta e Jess. Si scambiarono un caldo buongiorno e qualche altra parola, tutti sembravano poco contenti di quello che li aspettava.
Oggi ho la sensazione che non faremo niente di buono.”, disse Carlos, “E vorrei dormire.”
A chi lo dici.”, si accodò subito Meg.
Una figura distante si mosse, Meg lo riconobbe subito. Si avvicinò a Carlos.
Ma dico, quel tizio non può essere sostituito da un suo collega?”, gli chiese, riferendosi all’agente Jones, che li osservava da qualche metro di distanza.
Perché?”, domandò Carlos.
Mi sta sui nervi.”, si spiegò Meg.
Io lo trovo molto più carino degli altri poliziotti!”, disse Greta.
Ninfomane.
Lanciò un’occhiata di sbieco all’agente, poi tornò da Carlos.
E’ del nord… Non mi piacciono i tipi del nord dell’Inghilterra.”, aggiunse alla lista dei difetti, “Hanno un umorismo pessimo.”
Tutti voi inglesi avete un senso dell’humor pari a quello di un mammut appena scongelato, ma non me ne sono mai lamentato!”, disse Carlos, ridendo e trascinando con sé anche le altre donne.
Non puoi far niente per farlo sostituire?”, gli domandò.
E perché dovrei?”, Carlo scrollò le spalle, “Non è un rompipalle.”
Ah no?”, sbottò Meg, “Qualche giorno fa ho rotto un vaso ed ha fatto chiamare la Evans per farmi perquisire!”
Ragazzaccia cattiva…”, la canzonò lui, “Con questi capelli rossi…”
Meg ci rinunciò e rise.
Avanti!”
La voce squillante di Daisy richiamò la loro attenzione. L’insegnante si unì al gruppo, avviando una conversazione programmata per spengersi nel giro di pochi attimi, ed attesero che l’agente Evans prendesse il suo posto accanto a Jones. A guardarlo da vicino, Meg ebbe l’impressione di non essere l’unica ad odiare il lunedì. Il poliziotto non si era rasato, né aveva una buona cera in generale: il naso era rosso e gonfio, gli occhi stanchi e si soffiava spesso il naso.
Era meglio per lui rinunciare ai festini notturni.

Attese che il responsabile dei turni lo ricevesse e ci vollero ben quarantacinque minuti prima che accadesse. Danny passò il suo tempo leggendo qualche rivista scaduta da mesi, spulciando il suo cappello, parte fondamentale della sua divisa, e guardando alcune crepe sul soffitto.
Prego, si accomodi.”, lo accolse l’ufficiale Allen, permettendogli di accomodarsi nel suo ufficio, “Mi scusi per il ritardo ma c’è sempre l’imprevisto dell’ultimo momento.”
Nessun problema, signore.”, rispose Danny con il garbo ed il rispetto che doveva porgere ad ogni suo superiore.
Allora, per quale motivo è qui?”, chiese l’ufficiale, sedendosi sulla sua comoda poltrona, dietro ad una scrivania di legno e vetro, “Mi è stato anticipato che vorrebbe essere assegnato ad altri compiti.”
Beh… Sì, come può vedere ho qualche problema a svolgere il mio.”
Danny aveva passato il fine settimana a letto con febbre, mal di gola, naso chiuso e trachea gonfia, tutto per colpa di quelle dannate ore in serra. Aveva concluso a stento la serata con Sophie: tutte le portate del ristorante erano rimaste intoccate ed aveva iniziato a percepire l’aumento della temperatura del suo corpo ben prima di mettervi piede, ma aveva nascosto il suo malessere. Poi, quando era stato palesemente chiaro che gli era possibile mentire ad oltranza, erano tornati a casa.
Stramaledetti fiori.
Mi spieghi.”, disse l’ufficiale Allen.
Ecco, sono stato destinato alla supervisione delle attività di reinserimento lavorativo. Specificatamente, al gruppo Margherita Due, che si occupa di vivaistica e floricoltura…”, disse Danny, sentendo la sua voce roca e più nasale del solito, “Non ho niente di cui lamentarmi, solo del fatto che ho una… Forte allergia al polline, signore.”
L’ufficiale rimase in silenzio, Danny riprese il suo discorso.
Il contatto costante con le piante ha effetti collaterali piuttosto evidenti, signore.”
"Si faccia prescrivere una cura antibiotica.”, disse l’uomo.
A parte il fatto che gli antibiotici non erano efficaci nel combattere le allergie, Danny fu costretto a contraddirlo.
Signore, la sto seguendo, ma non è efficace.”
Raddoppi la dose.”
Assolutamente no. L’unica volta che aveva avuto quella bella idea si era trovato con la faccia gonfia e le vene intasate dal cortisone. Mai e mai più.
Potrei farlo, ma…”
Parli con il medico dell’istituto.”, lo interruppe ancora l’ufficiale Allen, “Si faccia aiutare da lui.”
Certamente, però…”
La primavera è un periodo di transizione, sono sicuro che un agente giovane, forte e sano come lei può superarlo senza alcun problema.”
Fine della discussione. Con modi garbati e rispettosi, Allen aveva rifiutato la sua richiesta. Nonostante Danny avesse avuto davvero bisogno di quella sostituzione, nonostante Sophie gli avesse saturato la testa di quella convinzione, aveva ricevuto una bocciatura. Si recò dal medico del carcere, come gli era stato consigliato dal suo superiore, che per accontentarlo gli aveva concesso di terminare il turno dopo la visita, dicendogli di rimettersi per il turno del giorno successivo.
Il medico lo fece spogliare, Danny rimase nella t-shirt bianca che solitamente indossava sotto la camicia della divisa, e prese a visitarlo. Controllò la respirazione, le pulsazioni e la pressione, la dilatazione della pupilla e i suoi riflessi.
Beh… E’ evidente che si tratta di rinite allergica.”, disse poi.
Certamente, osservò Danny con sarcasmo, ma non si pronunciò. Il dottore gli chiese di mostrargli quale tipo di antistaminici - e non antibiotici, come aveva detto il suo superiore- assumesse regolarmente ogni giorno ed aggiunse anche un’altra pillola. Inoltre, nei casi più gravi…
Preghi il Signore.”
Danny rimase interdetto.
Funziona?”, gli chiese, con ironia.
Chi lo sa…”, concluse il medico, “Lo dico per scaramanzia.”
E lo congedò.
***

Meg alzò gli occhi al cielo e lo vide pieno di nuvole, ma non erano le previsioni meteorologiche ad interessarla. Se avesse starnutito ancora, giurò agli angeli che gli avrebbe schiacciato un naso con il pugno. Nonostante il decimo starnuto dell’agente Jones, decorato dalle risatine sommesse delle Margherite Due, Meg non mantenne fede alle sue promesse. Alle loro spalle, il tizio manifestava il suo malessere con quei continui disturbi: colpi di tosse, soffiate di naso, ed ogni qualvolta veniva interpellato, parlava con una voce così nasale da renderlo ancora più ridicolo.
Qual era il suo problema, si chiedeva Meg, non poteva andarsene in malattia per qualche giorno? Se era lei a sentirsi male doveva solamente farlo presente all’agente in servizio al suo piano, che dava poi notizia a chi di dovere, ed era così esonerata finché il dottore non la definiva guarita. Perché lui non poteva fare altrettanto? Disturbava tutta la lezione, non se ne rendeva conto? I quesiti non avevano risposta, l’agente Jones rimaneva comunque alle loro spalle, in disparte insieme ad Evans, che si faceva tranquillamente i fatti suoi.
Per quel giorno era prevista una lezione sul taglio del verde, specificatamente degli arbusti. Daisy sembrava sapere tutto sulle modalità con le quali potare gli alberelli e le siepi, cosa che Meg supponeva fosse piuttosto semplice: bastava prendere un paio di forbici da giardiniere, al massimo un seghetto, e la pianta veniva liberata dai rami parassiti oppure abbellita secondo il gusto. Invece non era così facile: si doveva controllare il calendario, scegliere i giorni di luna calante, stare attenti a non…
Insomma, due palle.
Scegliere quel corso non era stata una bella idea, se n’era resa conto troppo tardi. I mesi precedenti, passati dietro ad un banco, erano stati affrontati aspettando quello che sarebbe successo dopo, sperando che l’applicazione teorica si sarebbe conciliata con le proprie aspettative. Invece, il giardinaggio non faceva assolutamente per lei. Anzi, era il giardinaggio che aveva in mente Daisy a non confacersi ai suoi gusti. Per Meg le piante non erano altre vite, come credeva lei, ma solo… Piante. Esseri verdi dotati di fiorellini, dolci alla vista, profumati, belli da regalare per un ricorrenza. Nient’altro, solo piante, dentro le cui vene scorreva clorofilla e non sangue. Era stupido parlare ai pistilli, confessare ai boccioli i propri attimi di vita felici, Meg non era capace di conversare con una margherita.
Era da idioti.
Una vegetale andava trattato da tale: doveva essere curato, concimato, innaffiato e così via, ma non si poteva amarlo come avrebbe voluto Daisy, Meg non riusciva a provare sentimenti buoni verso la vita verde. Guardava una camelia e pensava a come scacciare via quelle piccole zecche fastidiose che le rovinavano le foglie, ma non vedeva in essa una sorellina. Solo Daisy poteva riuscirci, forse per via del suo nome floreale, ed era altrettanto sicura che Annelise e Carlos la pensassero come lei. Non poteva affermare lo stesso per Greta e Jess, comunque non le importava.
Sospirò ed osservò le forbici da potatura.
Perché in momenti del genere non pioveva mai?
Mi sembra di aver sentito una goccia…”, disse Carlos, stupendola.
Lo guardarono tutte, aspettando altre parole da lui, che si dimostrò piuttosto titubante.
Sì… Eccone un’altra!”, aggiunse l'uomo, aumentando il tono convincente.
Stava mentendo, era ovvio, voleva solo terminare la lezione al più presto.
Oh! L’ho sentita anch’io!”, ne approfittò subito Meg, “Proprio sulla fronte!”
Non voleva certo farsi scappare un’occasione del genere.
Sì! E’ vero!”, si immedesimò Annelise in quello sceneggiato.
Siete sicuri?”, chiese Daisy, sporgendo mani e braccia per verificare le loro affermazioni, “O volete solo concludere la lezione prima del previsto?”
I tre bugiardi, colti in fallo, cercarono il sostegno reciproco alla loro versione dei fatti.
Sì! Piove!”, una quarta voce inaspettata si unì al coro.
Il gruppo scrutò l’agente Jones.
Piove!”, esclamò lui ancora, annuendo con cenni secchi della testa.
Gli occhi rimbalzarono su Daisy.
Beh… Se lo dice l’agente Jones, significa che piove davvero.”, disse, sospirando rassegnata, “Ci vediamo domani, vi congedo.”
Ancora increduli per l’accaduto, i detenuti temporeggiarono. Meg non voleva trattenere un sorriso sul volto ma doveva farlo, non voleva essere palesemente contenta per essersi tolta dalle spalle il peso di altre noiose ore in compagnia di Daisy e dei suoi perfetti consigli. La donna si allontanò di qualche passo, portandosi appresso Greta e Jess, che sembravano interessate nel porgerle domande ad oltranza.
Cosa… Cosa facciamo?”, disse Annelise, “Come la passiamo la mattinata?”
Facciamoci una birra!”, propose ironicamente Carlos, “Offro io!”
Che simpatico!”, tagliò corto l’agente Evans, “Andiamo donne, vi riporto in sezione.”
Barreiro, anche per noi è l’ora di tornare a casa.”, disse Jones, chiamando Carlos per il suo cognome.
Casa… Che magnifica parola.”, disse lo spagnolo, il cui tono doveva trovarsi a metà strada tra il sarcasmo e l’amara constatazione della quotidiana verità.
Una volta tornati al chiuso le Margherite Due si divisero, prendendo strade diverse. Meg camminava al fianco di Annelise, Daisy e le altre due donne erano qualche passo più avanti, la Evans alle loro spalle le osservava con tranquillità. Non era uno dei peggiori agenti della sezione femminile: sapeva chiudere gli occhi, faceva favori e voltava le spalle quando non c’era niente da vedere. In compenso, però, aveva una sorta di libro contabile mentale in cui registrava ogni fatto, trovando il momento giusto per utilizzarlo a pro suo. Giungendo alla conclusione, comunque, era una buona agente con una memoria altrettanto ottima, con cui era meglio non avere troppo a che fare.
Meno male che è finita così.”, disse Annelise, sottovoce, “Oggi non riuscivo proprio a sopportare Daisy.”
Non ne sono mai stata capace.”, le rispose Meg, “Il suo atteggiamento forzatamente simpatico nei nostri confronti mi stucca. Tu sai perché è dentro?”
Non è una detenuta.”, spiegò Annelise, “O meglio, non lo è più. Non so per quale motivo continui a bazzicare qua dentro. Fossi in lei, fuggirei via.”
A chi lo dici…”, fece Meg, “Cosa ha combinato per starsene qua?”
Non lo so.”, disse l’altra, “Dovrei documentarmi. Agente Evans, ci può aiutare?”
La donna si prese la domanda ma non dette alcuna risposta, almeno non subito. Continuò con il suo passo cadenzato, le mani unite dietro alla schiena e gli occhi che vagavano qua e là.
Credo che abbia fatto parte di un gruppo organizzato…”, disse, una volta che il suo silenzio si ruppe, “Ma non mi ricordo cosa combinavano… Ne passa talmente tanta di acqua sotto questi ponti.”
Le ultime parole rimasero sospese nell’aria, nessuna ebbe voglia di aggiungere altro. In carcere, le atmosfere tranquille erano facili da rovinare, bastava un attimo ed ogni più piccolo sorriso veniva cancellato. Momenti come quello erano quotidiani e frequenti, tanto che era meglio starsene zitte e lontane dalle altre detenute, piuttosto che rischiare quelle pause infinite.
Bene, cosa avete intenzione di fare?”, disse l’agente.
Si fermarono anche le restanti donne delle Margherite Due, ancora insieme a Daisy, attirate dal tono di voce più alto ed autoritario della Evans.
Io vorrei andare in biblioteca.”, disse Meg.
Ti documenti sulla lezione?”, le domandò subito Daisy, accompagnata dal suo sorriso fintamente caldo.
Certamente…”, rispose lei, con aria vaga.
Il suo status di detenuta con buona condotta le apriva molte porte, tra cui anche quelle della biblioteca. Non era l’unica ad avervi accesso, moltissime altre sue compagne potevano farlo ma non erano in molte a dedicarsi alla lettura. A dire il vero, a Meg non piaceva leggere, i libri non le aprivano porte mentali verso altri mondi -luoghi liberi-, ma le offrivano la possibilità di passare il tempo senza essere troppo disturbata. Le persone che frequentavano la biblioteca, infatti, erano solitamente individui alla ricerca di qualche informazione utile alla loro situazione legale, oppure tentavano di ottenere un titolo di studio, o di farsi solo una cultura.
Usualmente, Meg prendeva un volume, che fosse stata narrativa o una enciclopedia, e si metteva a leggerlo oppure a sfogliarlo, senza alcun interesse. Talvolta le era capitato di imbattersi in qualcosa di coinvolgente, in storie di avventura o fantascienza che le impedivano di distogliere gli occhi dalle pagine in bianco e nero, ma erano stati casi piuttosto rari. Non le piaceva andare troppo oltre con l’immaginazione, l’impatto con la realtà era più devastante di uno scontro frontale con un muro di cemento armato.
Ad ogni modo, una volta che Annelise si unì a Jess e Greta, destinate alle attività comuni negli spazi aperti a tutte le condannate, l’agente Evans la accompagnò in biblioteca; l’abbandonò dopo averla affidata ad i suoi colleghi. Meg girovagò a lungo tra gli scaffali, tentando di individuare il giusto titolo che le stuzzicasse la voglia di aprire un nuovo libro, e quella volta dovette faticare molto. Alla fine, afferrò il quarto volume di un enciclopedia sugli animali; si sedette vicino ad una finestra e si mise a sfogliarlo.
In quel modo avrebbe passato le due ore rimanenti, prima di andare a pranzo.



Inghiottì l’ennesima pillola di antistaminico e si soffiò il naso. Prese il collirio e si bagnò gli occhi, che bruciavano da morire. Un’altra giornata come quella e avrebbe voluto morire. La primavera era la stagione più lunga di tutto l’anno, almeno per Danny. Attese che il fastidio alle pupille passasse, poi riprese il suo servizio.
La finta pioggia inscenata dai detenuti era stata la manna dal cielo per lui, che ne aveva subito approfittato, sebbene avesse saputo che non avrebbe ottenuto niente. Invece, contro ogni aspettativa, Daisy si era piegata e la lezione si era conclusa poco dopo la fine della prima ora. Erano rientrati al chiuso, con grande sollievo di molti dei partecipanti, oltre che al suo, e i detenuti si erano divisi.
Dica, agente.”, gli si rivolse Carlos, “Perché non se ne va in malattia? Ha una cera che dovrebbe essere lucidata ben bene…”
Il tatuaggio della banda di cui lui aveva fatto parte evidenziava l’avambraccio dello spagnolo, che usava arrotolare le maniche dei suoi abiti per metterlo in mostra con orgoglio. Due spade ricurve ed incrociate, un motivo arabeggiante ed una scritta emblematica: ‘hasta la muerte de mi alma’, fino alla morte della mia anima. La pelle naturalmente scura dell’uomo, molto più vecchio di lui, gli ricordava Sophie e la sua abbronzatura. Non aveva mai dato molto confidenza al detenuto Barreiro, il suo aspetto gli incuteva un certo timore e lo metteva in guardia da ogni iniziativa nei propri confronti. Alcune delle signore e signorine delle Margherite Due non sembravano pensarla come lui, dimostrandosi invece contente della sua presenza maestosa nel gruppo, che doveva servire a contro bilanciare Daisy e la sua personalità troppo spesso fastidiosa anche per Danny.
Da buon agente, quale pensava di essere, non aveva mai dimostrato alcuna sorta di paura nei suoi confronti. Addirittura, c’erano state situazioni in cui l’indole innata di Carlos, quella che l’aveva condotto lì dentro, era venuta fuori con un’esplosione distruttiva e Danny non aveva esitato ad imporre la sua divisa e l’autorità che quella gli dava, sebbene non gli fosse mai piaciuto farlo.
Quello che ho mi fa star male qui, come a casa.”, gli rispose con gentilezza, “Tanto vale passare il mio tempo al lavoro.”
Saggia decisione.”, disse Carlos, rafforzando la sua affermazione con un cenno positivo della testa, “Lasci i permessi per malattia alle vere influenze.”
Bravo Barreiro.”
Volle concludere lì quella conversazione, ma il detenuto andò avanti.
E’ allergico alle piante, vero?”, chiese a Danny, che gli camminava a fianco nei corridoi della sezione maschile.
Sì, proprio così.”
Doveva accompagnarlo fino alla sezione che ospitava i detenuti come lui, quelli da ‘livello medio’, come la chiamavano i suoi colleghi nel gergo della polizia locale. Erano cioè ospiti a cui prestare un po’ più di attenzione rispetto a quelli del livello basso, ed un po’ meno rispetto a quelli del livello alto. Carlos era stato tolto dal cosiddetto regime di massima sicurezza, erano già sette anni che si trovava lì dentro e la giustizia inglese aveva deciso di premiarlo allargando la stretta del controllo sulla sua persona, ma apparteneva ancora a coloro a cui bisognava stare attenti.
Non sopportare la primavera è un gran brutto affare…”, disse Carlos, “Ha provato a chiedere di essere sostituito? Anche se è l’ultimo arrivato…”
I puntini di sospensione gli fecero capire cosa aveva sottinteso Carlos, nient’altro che la verità.
Hai capito anche tu.”, rispose Danny.
Agli ultimi arrivati sempre i lavori peggiori.”, disse ancora Carlos, “E non possono nemmeno lamentarsi. Ma voi guardie siete fortunate, non siete prigionieri. A noi spetta una sorte più triste della vostra, la prima volta che mettiamo piede qua dentro.”
Stava parlando troppo per i suoi gusti, ma Danny lo lasciò andare avanti. Al momento giusto avrebbe tagliato i ponti.
Deve essere una palla tenerci d’occhio durante le ore di lezione, non è così?” continuò Carlos, “Voglio dire, quattro ore ad ascoltare quella Daisy… Per noi studenti”, e rimarcò la parola con sarcasmo, “è insopportabile… Chissà per voi, che non avete nulla a che fare con i suoi consigli di botanica…”
Danny non si espresse al riguardo: non era saggio dimostrare ad un detenuto il suo mal sopportare qualche collega, avrebbe sempre potuto manipolare le sue parole e metterlo nei guai. Se ne rimase in silenzio, come qualsiasi altro agente di polizia avrebbe fatto, se si fosse trovato al suo posto.
Comunque, mi trovo bene in quel gruppo.”, disse Carlos, “E’ pieno di persone carine, le signore e signorine delle Margherite Due sono delle personcine interessanti.”
Anche Carlos sapeva che era necessario moderare i termini ed i toni quando parlava con una guardia, tanto che Danny si chiese a cosa fosse dovuta la sua parlantina così attiva. Era piuttosto probabile che non avesse avuto alcuno scopo, ma rimase comunque attento alle sue parole.
Non mi pronuncio su chi lecca il culo a Daisy.”, disse Carlos, riferendosi certamente alle due donne sempre pronte a rispondere alle domande della capogruppo, “Però la signora Annelise e la ragazzina sono simpatiche.”
Proseguì nel suo silenzio.
Annelise mi ricorda tanto mia mamma, prima che lasciassi la Spagna e mi trasferissi qua. Sono proprio identiche.”
Danny si sforzò di trovare una somiglianza tra Carlos e la detenuta, ma era troppo anche per la sua fantasia ben sviluppata.
Mentre la rossa è così palesemente infastidita da Daisy che è un piacere osservarla durante la lezione! A volte non mi trattengo dalle risate, la sua faccia è davvero divertente.”
Come si chiamava quella ragazza? Maggie? Non ricordava nemmeno il suo nome, ma ogni volta che la vedeva la associava a quel piccolo incontro-scontro nella serra, nel quale si era preoccupato che non si fosse impossessata di qualche coccio dei vasi da lei rotti per recare danno alle sue compagne di cella. Aveva solo fatto il suo dovere, agendo nel migliore del modi possibili, ma ovviamente non l’aveva presa affatto bene.
Uno dei tanti obiettivi del suo lavoro era assicurare l’incolumità dei detenuti, impegnandosi nell’individuare ogni causa di possibile danneggiamento che avrebbero potuto perpetuare nei confronti dei loro simili, come disse a se stesso, recitando a pappagallo le parole dei manuali su cui aveva studiato per essere abilitato alla professione. Quindi, anche se aveva seguito scrupolosamente quelle giuste regole, si era comunque attratto l’antipatia della detenuta, come era ovvio che accadesse. Quelli come lei non capivano che i poliziotti lavoravano per loro, per garantire che lo sconto della loro pena passasse nel modo più tranquillo possibile, e forse non ci sarebbero mai arrivati. Lui stesso aveva trovato difficoltà nell’afferrare quel concetto ed i primi mesi di servizio era stata piuttosto dura abituarsi a all’idea; poi, una volta fatta esperienza, tutto era divenuto normale. I detenuti ed i poliziotti vivevano su due mondi diversi, inconciliabili, ed anche se Danny si impegnava nel proprio lavoro, mettendosi a loro disposizione, non sarebbero mai stati riconoscenti. A pensarci bene, se i ruoli fossero stati invertiti, la sua reazione sarebbe stata la medesima…
Comunque dovette ammettere, suo malgrado, che Carlos aveva ragione. Spesso aveva colto quella ragazza con espressioni manifestamente annoiate che, se fosse stato nei panni di Daisy, si sarebbe infastidito nel vederla reagire in quel modo alla sua lezione. Ci voleva disciplina, talvolta, ma lei sembrava non averne più di un po’.
Era anche molto giovane per trovarsi lì dentro.
Credo che abbiate la medesima età.”, disse Carlos, “Lei, agente, quanti anni ha?”
Era una domanda del tutto personale, non era autorizzato a rispondere ma lo fece comunque, non ritenendola pericolosa.
Ventisei.”, disse Danny.
Uhm… No, lei è più piccola.”, disse Carlos, “Credo sia ventitreenne… Ma sta qui da quattro anni.”
Danny non poté evitare di alzare le sopracciglia stupito. Evidentemente, se si trovava lì dentro da così tanto tempo, nonostante la sua giovane età, aveva certamente commesso qualcosa di molto grave. Lui non era un giudice, ma chi l’aveva spedita lì dentro lo era eccome, ed aveva perciò preso la decisione più giusta.
Altra nota mentale: capire perché i giovani d’oggi non apprezzano la vita.
Bene, Barreiro, siamo arrivati.”, gli disse, una volta di fronte alle sbarre che precludevano l’accesso alla sezione di medio livello.
E’ stato un piacere, agente Jones.”, disse l’altro.
Un collega di Danny aprì le inferriate e permise al detenuto di entrare.
So che è un buon ascoltatore.”, e gli sorrise un po’.
Danny ebbe da chiedersi ancora il perché di tutto quello, ma dimenticò presto quella domanda. Tornò al suo servizio, che si sarebbe concluso al suonare del mezzogiorno: il suo turno era iniziato alle quattro di mattina, si sentiva piuttosto stanco ed aveva bisogno di tornare a casa. Sostituì un suo collega, permettendogli di allontanarsi prima dal lavoro, e finì di nuovo all’aria aperta, comunque lontano dai pollini e dalle piante, per trovarsi a sorvegliare i carcerati nella loro ora d’aria. Il tempo non era dei migliori ma tutti loro se ne stavano fuori, chi a fare un po’ di ginnastica, chi a passarsi il pallone, chi a chiacchierare con una sigaretta in mano.
Pensò a come avrebbe risolto la sua giornata: dopo un sonnellino pomeridiano sarebbe passato da Sophie, con la quale avrebbe speso la serata cenando insieme, a casa di lei. Poi sarebbe tornato a dormire, per riprendere il lavoro nel giorno seguente. Aveva il turno pomeridiano, da mezzogiorno fino alle otto. In altre parole, quattro ore insieme alle Margherite Due, imbottito di antistaminici, e la restante parte sulle mura, armato, a controllare il perimetro del carcere.
Doveva trovare un appiglio, un diversivo, qualcosa che tenesse impegnata la sua mente. Aveva un pensiero che poteva tornargli utile, una piccola ancora di salvezza alla quale si poteva aggrappare, concentrandosi e fantasticando un po'. Era da tempo che scaricava le sue difficoltà e, non di rado, le sue frustrazioni con un piccolo hobby di cui erano in pochi a saperne l'esistenza.
Lui, se stesso e Danny Jones.
Nel suo appartamento c'era un vecchio pc, lo aveva acquistato con il suo primo stipendio, raggranellato con i lavoretti estivi molti anni addietro. Era andato a sostituire una grande quantità di quaderni colorati e poco funzionali.
Gli piaceva scrivere.
I suoi personaggi avevano vissuto molte vite, così tante che nemmeno lui se le ricordava più. Non era certo sul quando avesse iniziato a trasformare la sua immaginazione in frasi continue, corrette e piene di senso, almeno per se stesso. La sua mente era sempre stata popolata di persone, dai tratti reali o surreali, con le quali aveva conversato a non finire, ma c'era voluto del tempo prima che filtrassero una per una dalla sua testa fino alla mano, per finire tra le sue dita, dove diventavano tangibili.
Danny si focalizzò sulla sua nuova creazione.
Qualunque sarebbe stata la fine di quella piccola storia, nessuno vi avrebbe mai posato gli occhi ed era giusto così.






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Note dell'autrice
Ringrazio Queen, alias Fra, per aver commentato xD allora le McSisters a qualcosa servono! xDDDD

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre ***


CAPITOLO TRE


Come a volte capitava, Meg chiese a Rachel di asciugarle i capelli. Non che avesse avuto bisogno di una mano, era perfettamente capace di farlo da sola, voleva essere soltanto un modo per attaccare bottone. Una volta che ebbe finito di tamponare la chioma, dopo averla schiumata e risciacquata nel lavandino della cella, le propose di aiutarla.
Tra meno di un’ora vengono i miei a farmi visita… Ti dispiacerebbe farmi bella?”, le disse, con un po’ di ironia.
Erano appena tornate dalla colazione ed era sabato, non c’era nessuna lezione in vista per Meg, soltanto la visita mensile dei suoi genitori. Non sprizzava gioia da tutti i pori ma era comunque contenta di vederli.
Rachel continuò a fumare la sua sigaretta, distesa sulla branda.
Hey… Mi hai sentito?”, le fece, ridacchiando.
Sì, non sono sorda.”, borbottò l’altra, scocciata, “Comunque no, fai da sola.”
Meg incassò la rispostaccia ma non demorse. Era sinceramente stufa del prolungarsi ad oltranza del pessimo umore di Rachel e voleva avere una giustificazione. Prese una delle due sedie e si avvicinò a lei.
Andiamo, Rachel, lo dici anche tu che sono un incapace con l’asciugacapelli e la spazzola…”, la stuzzicò.
Lo sei, ma non rompermi le palle.”
Tre settimane passate in quel modo, Meg stava iniziando a preoccuparsi sul serio. Era il periodo più lungo in cui Rachel si era comportata stranamente, nei casi precedenti si era limitata ad essere scontrosa per massimo sette, quindici giorni, ma mai per tre settimane. Doveva essere una cosa grave.
Rachel, per favore…”, le disse.
Usò il suo tono migliore, quello che a volte era riuscito a penetrare quella scorza dura che la proteggeva, toccandole il cuore. Non fu fortunata, Rachel non si intenerì affatto.
Ascoltami, bimbetta, lasciami in pace.”, disse, sventolando la mano per scacciarla, “Asciugati i capelli senza di me.”
Niente, Rachel era irraggiungibile. Meg si ritrasse: era giusto insistere, ma al secondo negarsi era meglio tornare sui propri passi e farsi i fatti propri. Accese l’asciugacapelli e attese che tutta l’acqua evaporasse, mentre la sua mente lavorava. I motivi per i quali Rachel poteva diventare così terribilmente intrattabile erano molti, alcuni li aveva già valutati, ma non sapeva scegliere quale fosse stato il più realistico.
Se ci fossero state magagne con le detenute, sarebbe stato sufficiente osservarla durante l’ora del pranzo o della cena, oppure in una qualsiasi altra occasione che la vedeva condividere il proprio tempo con le altre. Meg lo aveva fatto, aveva posto attenzione alla sua compagna di cella, ma i rapporti sembravano scorrere normalmente; decise allora di fare qualche domanda in giro, a chi poteva sapere. Niente. Non era l’unica ad aver notato quel cambio in lei, in molte erano sbattute contro il malumore di Rachel, che era stata ripetutamente ripresa dalle guardie per le sue esplosioni incontrollate di rabbia, tanto che aveva quasi rischiato di finire per un paio di notti in isolamento. Che avesse avuto problemi con chi le rimaneva all’esterno? Meg pensò a lungo se indagare o no. Era più saggio tenere la bocca chiusa.
Mentre si occupava delle ultime ciocche umide, osservava Rachel fumare nervosamente la sua sigaretta: le dita che la sorreggevano tremavano lievemente, mentre l’altro braccio se ne stava sotto la testa. Fissava le molle della rete sopra di lei e si mordicchiava le labbra. Meg si arrese. Forse Rachel le avrebbe parlato tra qualche giorno, sperò che le cose si sarebbero normalizzate al più presto.
I suoi capelli si erano asciugati e, una volta vista l’ora, si accorse che mancavano solo pochi minuti all’arrivo dei suoi. Infatti, con una precisione svizzera, l’agente Morris, di servizio in quella giornata nella sua sezione, la chiamò.

Howard, hai visite.”
Lasciò la sedia su cui si era accomodata ed attese che la poliziotta le aprisse la cella. La seguì fino alla stanza delle visite, conosceva la strada a memoria, e come ogni sabato la trovò un po’ sovraffollata. In molti utilizzavano i fine settimana per incontrare i propri cari chiusi lì dentro, non soltanto i suoi, che individuò nell’ultima cabina. La attendevano in piedi e, quando la videro, alzarono una mano per salutarla.
Si avvicinò, poi qualcosa la bloccò. Qualcuno.
In piedi, vicino alla postazione che avrebbe presto occupato, c’era quel tizio nordico, il rachitico che li teneva d’occhio durante le lezioni di Daisy. Lo vide fare un cenno nella sua direzione, un piccolo movimento della testa che doveva significare un saluto, ma Meg non lo ricambiò. Roteò gli occhi e non gli dette udienza, sedendosi davanti ai suoi genitori con un pizzico gigante di nervosismo in più.
Il vetro antiproiettile la divideva dal mondo vivo, permettendole di osservarlo senza mai raggiungerlo. Quando era stata libera ed aveva visto quei film girati dentro le carceri, si era sempre chiesta se le stanze per le visite fossero state davvero come le rappresentavano: tanti banchi, uno accanto all’altro, divisi da una sorta di separatore in plastica dura e scura, con dei telefono appesi per poter parlare con chi stava al di là del vetro.
Alla Holloway erano proprio in quel modo.
Prese la cornetta e la avvicinò all’orecchio.
Ciao Megan.”, disse sua madre, Josie, che condivideva quella sorta di telefono con suo papà, Bent, “Come stai?”
Bene mamma, grazie.”, rispose, “E voi?”
Non ci lamentiamo troppo.”, rispose suo padre, scrollando le spalle, “La vita va avanti.”
Rispondeva sempre così. Doveva essere il suo modo per manifestare la sua rassegnazione di fronte a ciò che gli era stato messo davanti, qualcosa che non aveva mai valutato prima, ma che si era trovato suo malgrado a vivere.
Dici bene.”, gli disse Meg, “Come va il lavoro?”
La serra continua ad essere piuttosto produttiva.”, disse ancora Bent, “Ti aspetta.”
Quella piccola frase la rincuorò ma non poteva farci troppo affidamento. Il tono di suo padre era stato piatto, senza la minima espressione di contentezza.
Come va il corso che stai frequentando?”, le chiese allora Josie.
Molto bene, è interessante.”, mentì spudoratamente.
Con quell’agente alle spalle non poteva dire la verità, né l’avrebbe comunque fatto. Doveva dimostrare ai suoi che tornare a casa e lavorare da loro era quello che voleva, ed in parte era la verità, lo desiderava con tutto il cuore. L’importante era uscire di lì, quello che sarebbe successo in seguito lo avrebbe valutato in un secondo momento.
Cosa ti stanno insegnando?”, riprese suo padre, che adorava smisuratamente il suo lavoro.
Daisy è molto capace, ci insegna molte cose.”, disse ancora, ed era la verità, “Le sue lezioni sono coinvolgenti.”
Altra bugia bianca.
Che cosa hai imparato in questo mese?”
E finirono a parlare di lavoro, cosa che capitava sempre da quando aveva detto loro dello sconto sulla pena e del programma di reinserimento lavorativo. Sua mamma sembrava contenta di tutto quello, le faceva domande e le parlava con il tono di cui Meg aveva bisogno, quello che le dimostrava tutta la sua voglia -sebbene scarsa- di rivederla di nuovo ad abitare le mura di casa. Mancavano solo dieci mesi, più o meno.
Per il resto, come va?”, chiese ancora sua mamma.
Beh… Non c’è male. I giorni scorrono tutti uguali.”
Ti senti un po’ meglio?”
Voleva domandarle se aveva ancora quelle crisi depressive, come nei primi anni.
Sì…”, disse.
Più che stare bene Meg era stabile, parola che nel gergo medico aveva un significato ambivalente: stabilmente male, stabilmente bene. Meg si trovava stabilmente a metà, ma in compenso aveva recuperato molto sul piano emotivo. Forse sentiva dalla sua parte l’appoggio velato di Rachel, che quando voleva sapeva farla stare meglio, ma più probabilmente doveva ringraziare il pensiero di essere ad un passo dalla libertà. L’idea di tornare libera la eccitava, era chiaro, ma d’altro canto la riempiva di paure, che ogni giorno la assillavano un minuto in più rispetto a quello precedente. L’impatto con il mondo libero, per una detenuta che aveva scontato tutta la sua pena, o parte di essa, non era mai pienamente positivo.
Due dita sulla sua spalla la costrinsero a voltarsi. Trovò l’agente del nord, quello venuto dal freddo polare al confine con la Scozia, che le fece segno di sbrigarsi, il suo tempo stava per scadere.
Mi sa che abbiamo finito.”, disse ai suoi.
Li osservò meglio, per Meg non era facile guardare i volti dei suoi genitori per più di qualche frazione di secondo, e li trovò più vecchi del mese precedente. Il volto fine di Josie era solcato da qualche ruga in più, il sorriso di suo padre era quasi del tutto cancellato.
Va bene così. “, disse la mamma, “Tra poco sarai a casa.”
Lo spero.”, disse Meg.
Si salutarono con un cenno della mano ed i signori Howard tornarono alla propria vita. Meg non trovò immediatamente la forza di lasciare la sua sedia. Con un gesto rapido, cancellò le lacrime che premevano contro le sue palpebre.
Devi alzarti, lo sai.”, le ricordò il palo alle sue spalle.
Meg prese un profondo respiro e si impose di calmarsi, dopodiché rispettò la regola e fu in piedi.
Farò finta di non aver sentito quelle piccole bugie che hai detto sul corso che frequentiamo insieme.”, disse ancora l’agente Jones, sorridendole con cordialità.
Meg, che aveva mosso il primo dei passi che l’avrebbero portata fuori dalla stanza, si girò verso di lui. Lo osservò dritto negli occhi, chiedendosi perché cazzo quel bastardo di un agente di merda non si chiudeva quella fottuta bocca. Prima di piangere davanti a quello stronzo, Meg gli mostrò le spalle ed uscì, sbattendosene della buona educazione.
Fece finta di stare male, di aver voglia di vomitare, e le dettero il permesso di starsene in cella, da sola. Rachel doveva essere uscita, molto probabilmente si trovava in uno degli spazi comuni, forse fuori, non lo sapeva e non gliene importava. Pianse per molto e vomitò davvero, tutta la colazione finì dentro al cesso, e saltò anche il pranzo. Per obbligo, si trovò comunque in mensa come tutte le altre, ma non prese il suo vassoio, se ne stette seduta a fissare il linoleum del tavolo senza dire una parola.
Ogni volta che i suoi venivano a trovarla, Meg reagiva negativamente alla palese dimostrazione di quanto le cose fossero cambiate. Sì, era vero che per mantenere la sanità mentale fingeva che i suoi l’avessero voluta indietro con tutto il cuore, ma non era affatto così.
Meg faceva buon viso a cattivo gioco.




Hey!”, sentì esclamare.
Danny si voltò, lasciando perdere per un attimo la su auto. Tom si stava avvicinando a grandi passi e sventolava una mano nella sua direzione.
Ciao!”, lo salutò, “Cosa ci fai qua?”
Danny aveva appena terminato il suo turno, era mezzogiorno passato, e Tom, che era l’aiuto cuoco nella mensa del carcere, avrebbe dovuto essere in cucina a preparare il pranzo ai detenuti e non lì fuori, nel parcheggio del personale.
Ho il pomeriggio libero, devo andare a prendere mia sorella Carrie all’aeroporto.”, gli spiegò, “Ha concluso il suo semestre di studio all’estero ed i miei non potevano lasciare il lavoro… Così, vado io.”
Sta bene? Si è divertita in Francia?”, gli domandò, contento di sapere che la piccola Carrie, che aveva conosciuto qualche mese fa, stava per tornare a casa.
Glielo chiederò!”, disse l’altro, passandosi una mano tra i capelli biondastri, “Sono tre settimane che non la sento.”
Portale i miei saluti!”, disse Danny, “E dille che verrò a salutarla!”
Certamente.”, rispose Tom, con un sorriso felice sul volto.
Ci vediamo!”, lo salutò, ma l’altro sembrò insicuro sul ricambiare.
Senti… Posso chiederti un favore?”
Non ci pensò due volte: anche se si sentiva fiacco ed il cerchio alla testa sembrava restringersi dolorosamente, Danny si offrì di accompagnarlo all’aeroporto. La piccola auto del suo amico si era spenta per sempre qualche giorno prima ed aveva dovuto rimboccarsi le maniche nella ricerca di una occasione in qualche concessionario; per il momento girava sui mezzi pubblici.
Potevi dirmelo che sei senza auto.”, gli fece Danny, “Se ci organizzassimo bene, potremmo venire al lavoro con la mia.”
No, non ti preoccupare.”, disse Tom, che prima di chiedere aiuto a qualsiasi persona preferiva morire, “I collegamenti con l’istituto non sono male, mi trovo bene anche con gli autobus.”
Come vuoi. Se hai bisogno di me, sai come trovarmi.”
Grazie Dan.”, rispose l’altro, sempre educato.
Durante il viaggio, in mezzo al traffico che caratterizzava da sempre la città di Londra, chiacchierarono del tutto e del di più. Tom, di un anno più grande, aveva preso un diploma di cuoco: dopo aver lavorato saltuariamente per mesi nei ristoranti della City, facendosi le ossa e ricevendo buone lettere di raccomandazione, si era dovuto accontentare di quel posto in istituto, dove tutto quello che veniva cucinato aveva lo stesso sapore della portata precedente. Dalle piccole creazioni ai grandi pentoloni, in carcere c’era poco spazio per la fantasia, ma almeno quel posto era sicuro e pagato bene. Contemporaneamente, Tom continuava a frequentare corsi di aggiornamento, si teneva in contatto con il mondo dei veri ristoranti e sperava che, prima o poi, la sua grande occasione sarebbe arrivata. Il suo obiettivo non era cucinare per detenuti a vita, bensì farsi un nome ed una carriera rispettabile, ma la gavetta e la concorrenza nel suo settore era dura.
Danny confidava in lui: nelle volte in cui Tom aveva invitato i suoi amici e cucinato per loro, tutti erano tornati a casa con un bel ripieno nello stomaco. Aveva talento per ciò che faceva, non c’era alcun dubbio. Era un piacere poterlo considerare un amico, Danny era felice di averlo conosciuto, quella città così immensa e del tutto differente ai posti in cui era nato e cresciuto non era mai stata molto cordiale con lui.
Stasera starete tutti in famiglia, immagino.”, disse Danny.
Sì, ma credo che nel dopo cena potrò liberarmi.”, avanzò Tom, “Facciamo qualcosa?”
Certo.”, fu subito contento di rispondere, “Domani ho il turno pomeridiano.”
Perfetto!”, esclamò Tom, “Solito pub?”
Ovviamente. Ci penso io ad informare gli altri due.”
Sophie?”
Glielo chiederò.”, disse.
Perfetto.”, disse ancora Tom, “Come vanno le cose con lei?”
Tranquillamente.”, rispose Danny.
Non ho capito ancora quale sia il suo lavoro.”, continuò Tom.
E’ una ricercatrice.”, gli spiegò, “Sta portando avanti uno studio su alcune popolazioni europee a rischio di estinzione.”
Sono gli animali ad estinguersi… Non i popoli!”, scherzò Tom, ridendo, “Ad ogni modo, sembra interessante.”
Sì, ho letto alcune tesine che ha scritto lei stessa.”
L’aveva aiutata con la correzione delle bozze, trovandole così piene di errori ortografici che si era stupito. Una laureata come lei non poteva certamente permettersi certe sviste, ma Danny non glielo aveva fatto notare. Si era soltanto permesso di mettere alla sua attenzione certi sbagli e talvolta si era pure dovuto accontentare di una rispostaccia. Che cosa ne poteva sapere lui della grammatica, che non era nemmeno laureato ed aveva concluso il liceo con una votazione più bassa della media nazionale? Niente, lui non ne sapeva niente. Sophie non sapeva del suo piccolo segreto, né si era mai soffermata più del dovuto sulla libreria stracolma che occupava due delle quattro mura del salotto di Danny.
Bene… Convincila a venire, almeno per stasera.”
Danny temporeggiò, Tom sapeva a cosa si stava riferendo.
Ci proverò.”
La conversazione continuò tranquillamente per la restante parte del viaggio e, una volta arrivati all’aeroporto trovarono Carrie ad aspettarli, evidentemente scocciata del loro ritardo. Il traffico intorno a Gatwick era sempre impossibile da scavalcare, non era come una staccionata alta mezzo metro, e nonostante le scorciatoie e le suonate di clacson non avevano potuto fare di meglio. La ragazza, piena di valige, di baci e sorrisi per entrambi, salì in auto e chiacchierò ininterrottamente per tutto il ritorno, tanto che il mal di testa di Danny si intensificò esponenzialmente. Fu comunque un piacere ascoltare i due fratelli parlarsi, dopo essere stati lontani per così tanto tempo, e trovò Carrie molto più carina di quando l’aveva vista per l’ultima volta: non aveva lasciato i suoi riccioli, ma il suo viso si era assottigliato, era diventata una donna a tutti gli effetti. Tom, che era spasmodicamente geloso di lei, avrebbe avuto il suo bel da fare.
Li accompagnò a casa Fletcher, dove concluse la restante parte del pomeriggio insieme alla famiglia, approdando nel suo appartamento che era quasi ora di cena. Prese immediatamente due aspirine, si sdraiò sul divano e cercò di riposarsi più che poté. La giornata era stata stressante: il caldo della primavera era stato insopportabile, aveva dovuto fare a meno della giacca della sua divisa e si era arrotolato le maniche della camicia ai gomiti. L’agente Evans gli aveva chiesto se si fosse sentito bene, dato che lei non aveva sentito tutto quel caldo, ma Danny non se ne era preoccupato: anche i detenuti non avevano potuto fare a meno di lamentarsi, quindi non era un suo problema. Non era stata la sua allergia a peggiorare le condizioni di salute, ma solo la temperatura esterna.
Fu svegliato dal suono continuo del campanello. Il mal di testa se n’era andato, la stanchezza persisteva, ma erano le nove e non ebbe dubbio su chi fosse il suo visitatore: Sophie. Andò ad aprirle.
Ti eri addormentato?”, domandò lei, sulla soglia della porta, “Perché sono cinque minuti che sono attaccata al campanello.”
Mi dispiace…”, le fece, sinceramente in colpa, “Ma non ho potuto riposare questo pomeriggio.”
Le permise di entrare e Sophie si accomodò sul divano, scansando la coperta sotto cui si era concesso quel meritato sonno. Non era di buon umore, Danny poteva capirlo dall’espressione assente sul suo viso. Se ne preoccupò subito.
C’è qualcosa che non va?”, le chiese, sedendosi vicino a lei ed abbracciandola.
Aveva bisogno del suo contatto, del suo corpo.
No, lascia stare.”, rispose lei, liberandosi, “Facciamo qualcosa stasera?”
La domanda di Sophie fece esplodere qualcosa nella sua testa. Doveva ancora chiamare Dougie ed Harry! Se ne era completamente scordato. Ad ogni modo, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto nei prossimi minuti.
Ti va di uscire con gli altri?”, le chiese.
Gli altri… Chi?”, propose lei una nuova domanda.
Beh… Tom e Dougie… Harry.”
Sophie si prese una manciata di secondi per pensarci.
Non possiamo fare qualcosa insieme… Io e te, senza di loro?”, fece, indossando un paio di occhi tristi.
Potremmo… Però…”
Per via del tuo lavoro, non ci vediamo mai.”, continuò lei, “Vorrei passare del tempo con te, senza i tuoi amici.”
Danny non poté darle torto, Sophie aveva pienamente ragione. I turni, le sostituzioni con i colleghi, la stanchezza e la sua salute messa a dura prova dalla primavera restringevano le possibilità di stare con lei. A Danny sarebbe piaciuto dedicarle tutte le attenzioni che si meritava, ma non era sempre possibile.
Quello era diventato uno dei tanti motivi di discussione tra loro.
Ok… Dirò che passerò la serata con te.”, le rispose, in parte a malincuore.
Sophie gli sorrise e lo baciò, felice della sua rinuncia.
Prese il telefono e compose velocemente il numero di Tom.
Hey!”, rispose subito lui, “Ti aspettiamo al pub!”
Non vengo…”, gli disse, “Rimango con Sophie.”
Ah… Va bene.”, disse Tom, “Come vuoi.”
Non ho avvertito Dougie ed Harry…”, lo informò, “Mi sono dimenticato.”
Non ti preoccupare, li ho chiamati quando te ne sei andato. Non mi ricordavo che ti eri preso l’incombenza, scusami.”
Macché, scusami per la dimenticanza… Ci vediamo domani?”
Certo!”, rispose l’altro, sempre cordiale, “Divertitevi!”
Anche voi…”
Agganciò la cornetta e rifletté brevemente. Non era mai giusto dare quei ‘bidoni’ ad una delle due parti, ma cosa poteva fare? Era colpa sua, deludere qualcuno lo riduceva sempre in quel modo.

***

Meg si mise in fila con il suo vassoio, davanti a lei altre venti detenute in attesa della propria porzione di pranzo. Si chiese quale sbobba avrebbe mangiato quel giorno, dato che le cucine del carcere non erano in grado di espandere le loro creazioni culinarie oltre ai polpettoni, alle puree di patate ed alla carne dura. Durante i primi mesi il suo fegato aveva dato segni di rivolta riempiendola di fitte di dolore, ma a poco a poco si era abituata, lasciandola definitivamente in pace.
Forse la direzione stava cercando di decimarli avvelenandoli.
Non si può andare un po’ più veloci?”, sentenziò Rachel, alle sue spalle.
Meg la ignorò, le altre detenute si voltarono e sbuffarono scocciate.
Non sei al ristorante!”, le rispose una di loro.
Fatti i cazzi tuoi.”, volle chetarla Rachel, “Hey, Rossa, mi cedi il tuo posto?”
Andiamo, fai la fila come tutti gli altri.”, borbottò Meg, “E stai buona.”
Rachel non controbatté, ma continuò ad agitarsi.
Non ti ho nemmeno chiesto com’è andata con i tuoi, sabato passato.”, cercò comunque di parlarle, molto probabilmente per ridurre lo stress dell’attesa.
Era trascorsa una settimana ma la visita dei suoi sembrava appartenere a dieci anni fa. Rachel se ne era ricordata piuttosto presto.
Bene.”, le fece, senza aggiungere altro.
Che ti hanno detto?”
Le solite stronzate.”
Fecero tre passi avanti.
Era l’ora!”, esclamò Rachel, disinteressandosi immediatamente della sua sorte familiare, “Non voglio morire in fila per mangiare lo schifo che mi date!”
Hey, stronza!”, le si rivolse la detenuta davanti a Megan, “Perché non ti cheti?”
Perché non mi fai venire al tuo posto?”
Vaffanculo!”
Una guardia intervenne prima che altre parole volasser tra le due.
Silenzio!”, tuonò la donna, “E ordine!”, ma non fu sufficiente.
Perché la cucina è così lenta a servirci!”, Rachel chiese spiegazioni, “Sono ore che siamo in fila, non è giusto!”
L’agente fece per controbattere, ma una delle loro compagne più avanti la anticipò.
Il personale è ridotto, non te ne sei accorta? Sei cieca per caso?”, le fece.
Meg alzò le sopracciglia. Sporse l’occhio verso il bancone della mensa e non vide la signorina Kelly, la cinquantenne grassoccia, e la sua collega Deb, che si occupavano di riempire i piatti di dura plastica bianca per poi porgerli a tutte loro con veloce antipatia. C’era bensì un ragazzo, un tipo che non aveva mai visto prima, ed era solo. Meg si chiese chi fosse, dagli abiti che indossava sembrava uno dei cuochi. Anzi, doveva esserlo: se rifletteva con attenzione, le sembrava di averlo visto proprio davanti ai fornelli, quando le era capitato di dare un’occhiata al personale della cucina.
Ah, c’è un novellino!”, notò anche Rachel, che non si trattenne, “Avanti, muoviti!”
Le sue pressioni scatenarono una salva di proteste, ci fu chi si sollevò con lei e chi le andò contro, tanto che Meg cercò di ignorare la confusione tappandosi le orecchie. Continuò a guardarsi intorno, chiedendosi come mai le due tizie della mensa non si fossero presentate al lavoro, e vide qualcosa di strano.
C’erano due uomini a guardia, dall’altra parte della mensa. Due poliziotti uomini. Che fine avevano fatto le loro colleghe donne? La sezione interna femminile era controllata da poliziotte, da donne in divisa, e non da uomini, e viceversa. Al massimo, Rachel li aveva visti sorvegliare le mura, oppure durante le celeberrime ore d’aria, quando nel grande spazio esterno i detenuti uomini e donne erano divisi da due lunghe reti di ferro, nel mezzo alle quali si trovava un’intercapedine di tre metri di larghezza per allontanare ogni possibilità di contatto, ma era molto raro incontrarli al chiuso: la divisione sessuale perpetuata nei confronti dei detenuti era estesa anche al personale. I casi in cui questa regola non veniva rispettata si presentavano in inverno, quando le famose e predette ondate di influenza colpivano anche i sempreverde poliziotti, ma era comunque molto improbabile che ci fosse un ammanco di personale tale da richiedere il supporto della controparte maschile. A Meg non piacevano quei due, così come poco sopportava la presenza del loro collega durante la lezione di giardinaggio.
Vista l’insufficienza delle colleghe donne i due si misero all’azione, gridando per imporre il silenzio sulla confusione scatenata da Rachel. Si avvicinarono piuttosto velocemente.
Ma porca di quella…
Uno dei due lo conosceva piuttosto bene. Concentrò tutta se stessa nell’ignorarli entrambi, era quasi impaurita dalla loro presenza, e fissò la mattonella su cui si trovava. Non mancò però di tenere la situazione sotto controllo.
Facciamo silenzio o no?”, gridò il suo collega, guardando Rachel dritta negli occhi.
Voglio mangiare!”, rispose lei, per niente intimidita, “Perché il servizio è ridotto?”
Non sono affari tuoi. Adesso mettiti in fila e fai silenzio!”
Al posto di Rachel, Meg non avrebbe avuto il coraggio di fiatare, ma la sua compagna di cella non era del medesimo avviso.
E’ mio diritto avere una spiegazione!”, ribatté subito.
Se parli ancora, non avrai il tuo pranzo.”, la minacciò l’agente.
Mi dica perché e starò zitta!”
La volontà di Rachel venne sostenuta da moltissime altre detenute, in coda dietro di lei.
Non sono fatti tuoi!”, gridò ancora l’uomo.
Meg non potè fare a meno di sussultare; chiuse gli occhi e pregò che tutto finisse al più presto.
Le urla maschili erano una tortura per lei.
Lo sono!”, proseguì Rachel, scatenando applausi e fischi.
L’atmosfera da rivolta tacque in un attimo, zittita dalla voce dell’agente Jones del nord.
Una nostra collega ed agente della tua sezione è deceduta ieri sera in un incidente stradale, stava tornando a casa dopo il servizio.”, disse, “Parte del personale sta partecipando alle onoranze funebri, è per questo che ce n’è mancanza. Un po’ di rispetto, per favore.”
I secondi che seguirono furono scanditi da un silenzio gelido, così freddo che Meg rabbrividì. Alzò lo sguardo di poco: l’agente Jones continuava a fissare Rachel, muta dietro di lei, mentre il suo collega sembrava in disappunto. Il motivo era evidente: l’agente più giovane aveva contraddetto l’autorità del più vecchio, riuscendo contemporaneamente a ripristinare una situazione critica che non era riuscito a risolvere.
In un attimo
fugace, Jones lasciò Rachel e posò gli occhi su Meg, che rapidamente li riportò a terra.
Bene.”, disse lui, tornando sull'altra donna, “Adesso tornatene in fila e mantieni il silenzio. Non voglio sentire una sola parola.”
Si allontanò accompagnato dal suo collega, e sotto gli ordini delle poliziotte ognuna prese la propria porzione di cibo. Meg ebbe il tempo di chiedersi chi fosse stata la donna morta in quell’incidente, ma presto avrebbe avuto notizie.
Quando fu il suo turno, non mancò di ringraziare il ragazzo che l’aveva servita. Doveva essere scosso anche lui, a vedere dagli occhi arrossati, molto probabilmente la conosceva.
L’atmosfera tesa e silenziosa non la aiutò nel mangiare quel pranzo scarso e insipido. Oltretutto, le toccò un posto vicino a quei due, accanto a Rachel che si cibò senza fiatare, come le era stato imposto dall’agente. Meg li aveva entrambi davanti agli occhi, ad un paio di metri. Aveva guardato l’agente Jones per almeno un paio di volte, sentendosi la bocca dello stomaco chiudersi. L’aveva impaurita: lo zotico incapace del nord aveva alzato la voce, carica del potere che la sua divisa gli dava, ed aveva imposto la sua autorità. Se fosse stato una donna non avrebbe avuto tutto quell’effetto negativo su di lei: gli strilli delle poliziotte non la sfioravano.
Ma la voce degli uomini sì, con o senza divisa.
Terminò il pranzo, poco dopo venne l’ora di iniziare quelle stupide lezioni di floricoltura. Fu allora che comprese a chi fosse capitata la triste sorte di perdere la vita dopo il turno di lavoro. L’agente Evans non si presentò, né quella volta, né mai più. Tutte le Margherite Due passarono le quattro ore mestamente, Meg non fece nemmeno caso all’agente Jones, che non mancò al suo dovere.
Al termine, venne concesso loro qualche minuto in ricordo dell’agente.
Mi dispiace per Evans.”, disse Carlos, “Era simpatica, mi allungava le sigarette di nascosto.”
Già…”, si accodò Annelise, commossa, “Era una brava donna, aveva un cuore sotto la divisa.”
Andiamo...”, le fece Carlos, passandole un braccio sulle spalle, “Sicuramente sta meglio lassù che quaggiù. D’altronde, la nostra religione ci insegna a vivere in attesa della morte, non così?”
Hai ragione.”, rispose la donna, asciugando rapidamente le lacrime.
Aveva due bimbi.”, aggiunse Jen, “Poveri loro…”
Meg si trattenne, sopportando tutto senza lasciarsi andare. Non era la prima morte che affrontava da quando si trovava alla Holloway, diversi detenuti di ogni sponda, purtroppo, avevano preferito la via più facile e codarda per uscire da quel posto. Ogni volta era stato un ritorno al passato per Meg. Sospirò e chiese alla sostituta di Evans, l’agente Morris, di poterla accompagnare nella sezione. La donna acconsentì e chiamò a raccolta le detenute.



Non si sentiva realizzato quando imponeva la sua autorità sui detenuti, non era quello il suo modo di lavorare, ma spesso e volentieri erano loro stessi a costringerlo. Era necessario comportarsi duramente con loro quando la situazione lo richiedeva, ma non sempre alzare la voce ed urlare era la migliore soluzione. Il suo collega Hills, infatti, non aveva ottenuto alcunché confrontandosi con quella detenuta; lui, che aveva semplicemente risposto alla domanda di lei, non senza aver assunto un tono duro, c’era riuscito. Per questo, una volta tornato in servizio nella sezione maschile, subito dopo il pranzo ed il rientro dei colleghi andati a salutare per l’ultima volta l’agente Evans, Hills non aveva perso tempo per rimproverarlo, accusandolo di aver sminuito la sua persona davanti alle carcerate e di averlo messo in ridicolo. Si era scusato, nonostante avesse voluto ribattere, ma Hills era un agente anziano e la gerarchia, lì dentro, non era fatta solo dai gradi sulla divisa, ma anche dall’età. Se ne tornò a casa di malumore, il groppo in gola fuso in un misto tra rabbia e fastidio. Aveva bisogno di calmarsi e di sfogarsi, di sedersi davanti al suo pc ed elencare tutte le parole che gli frullavano in testa su una pagina bianca elettronica, ma non poteva farlo. Anzi, avrebbe dovuto sfoggiare il suo migliore sorriso.
Sophie lo aveva invitato a cena dalla sorella, voleva fargli conoscere la sua famiglia, o meglio, parte di essa, che viveva nel centro di Londra. Concluso il suo turno, se ne andò frettolosamente a casa. Dopo una doccia, si vestì di camicia e cravatta, tanto che gli sembrò di essere tornato in divisa, ma con un paio di jeans e di sneakers ai piedi l’effetto svanì. Saltò di nuovo in auto e si districò tra le vie londinesi, arrivando lievemente in ritardo.
Ti stavamo aspettando!”, lo accolse gioiosamente Sophie sulla soglia della porta.
Scusami, ma il traffico fa da padrone in questi posti.”, si spiegò.
Le porse la bottiglia di buon vino che aveva comprato qualche giorno prima e di lì a poco conobbe Cynthia, sua sorella, e Gary, il suo marito inglese. Danny aveva sentito
molto parlare  di loro e si era fatto un’idea sui loro volti, che trovò quasi pienamente rispettata: le due sorelle si somigliavano moltissimo, Cynthia aveva un viso più spigoloso di Sophie, e Mark era un tipo biondastro dai lineamenti tipicamente inglesi. Avevano anche un figlio, Gary Junior, che tutti chiamavano J.J…. Stupidamente, pensò Danny, che poco sopportava poco quei soprannomi. Aveva sette anni ed era piuttosto timido, si nascondeva sempre dietro alle gambe fini della zia.
Avanti, accomodati pure a tavola.”, gli fece Cynthia.
Lei e suo marito sembravano tipi cordiali ed alla mano, ma Danny non riusciva a diminuire la tensione che scorreva continua nei suoi muscoli. Si sentiva come oppresso, studiato e valutato in ogni sua mossa, avrebbe preferito sottrarsi a quell’esame ma aveva comunque voluto accontentare Sophie, che lo aveva pregato di dire di sì a quella serata con due occhi dolci e grandi. Si sedette accanto alla sua ragazza, davanti a lui Gary, Cynthia di fronte alla sorella, il bimbo a capotavola, tenuto sotto controllo dalle due donne. Iniziarono la cena con dell’ottima pasta al forno.
Com’è ovvio che accada”, disse Cynthia, “Sophie ci ha parlato molto di te.”
Davvero?”, fece Danny, evitando di aggiungere la classica frase ‘spero che abbia detto cose carine sul mio conto’, supponendo di essere retorico.
Sì.”, disse Gary, “Così tanto che ti odiamo già.”
L’espressione sul suo viso si congelò in un sorriso stupido.
Andiamo!”, esclamò Sophie, “Non è vero!”
Scoppiarono a ridere e Danny si unì, comprendendo lo scherzo.
Ci ha detto che sei un poliziotto.”, riprese Gary, “Grazie per rendere le nostre strade più sicure.”
Notò ancora la punta sarcastica nelle sue parole, ma non ci fece caso.
In che zona di Londra lavori?”
A Danny venne spontaneo buttare uno sguardo su Sophie, alla sua destra. Sì, Gary non aveva sbagliato, lui era un poliziotto, ma doveva esserci un malinteso: lavorava in un carcere, non per le strade. Oppure era lui ad aver capito male, molto probabilmente gli stavano chiedendo in quale penitenziario lavorava.
Beh… Conoscete Holloway?”, domandò loro.
E’ dove hanno costruito il nuovo stadio per l’Arsenal, vero?”, disse Gary, “Sei di servizio in quella zona?”
Diciamo di sì.”, disse Danny, “Lavoro nel carcere di Holloway.”
I due coniugi si guardarono, Danny non seppe interpretare i loro volti, ma erano certamente stupiti. Sophie non glielo aveva detto? Tornò ad osservarla, come per chiederle spiegazioni, ma lei era concentrata sul suo piatto.
Beh… Confesso che avevamo entrambi capito un’altra cosa!”, disse Cynthia, prendendo le redini della conversazione, “Pensavamo fossi un poliziotto di strada, non che lavorassi in un carcere.”
Agente di polizia penitenziaria.”, sottolineò Danny, non senza un certo orgoglio, “Numero di matricola 973240.”
E… Perché questa scelta?”, domandò Gary, “Perché proprio in un istituto di correzione?”
Ho valutato a lungo la possibilità di diventare un vero poliziotto di strada, ma mi sembrava più interessante quello che sto attualmente facendo.”, si spiegò Danny, “E poi… Ci sono meno rischi, non so se mi capite.”
Certamente.”, disse Cynthia, “Con le strade che abbiamo oggi… Non esco mai quando è tramontato il sole.”
Danny notò che Sophie guardava ancora il suo piatto e se ne chiese il motivo, ma soprattutto gli sarebbe piaciuto sapere se quel malinteso era stato voluto oppure no. Suppose la seconda opzione, dato che comunque la verità sarebbe venuta a galla. Sophie avrebbe potuto non presentarlo mai alla propria famiglia, solo in quel caso i suoi non avrebbero mai saputo che lui lavorava in un carcere, pieno di delinquenti ed assassini.
Era il suo lavoro e, nonostante tutto, ne andava fiero.
Holloway è un carcere duro?”, domandò Gary, che sembrava interessante, “Voglio dire, le misure che utilizzate sono sufficienti a correggere i comportamenti dei condannati?”
Holloway ha la sua sezione di massima sicurezza.”, parlò Danny, “Le misure che adottiamo sono sufficienti nel settanta per cento dei casi, mentre nel tenta per cento, purtroppo, falliamo.”
Secondo me sarebbe necessaria una riforma della giustizia.”, disse Cynthia, “Non sopporto quando alla tv sento parlare di scarcerazioni facili… Se hai ucciso una persona, ti meriti l’ergastolo, sempre e comunque.”
Beh… Quello che dici è in parte giusto.”, affermò Danny, “Ma ci sono casi in cui quello che accade va contro la volontà del colpevole, almeno secondo me…”
Ma la vita che uccidi è comunque una vita, appunto.”, continuo la donna, “Paghi con la tua per quella che hai tolto.”
Cynthia…”, Danny sentì la voce flebile di Sophie accanto a lui.
Quello americano è Stato in cui ancora vige la pena di morte ed io sono fermamente contro questo genere di punizione.”, riprese lei, “Ma penso comunque che un assassino rimarrà assassino per sempre…”
Cynthia.”
Sophie alzò il tono della voce, gli occhi si spostarono su di lei, liberando Danny dal peso del giudizio che si stava formando sulla sua testa. La situazione si congelò, la sorella minore guardava con insistenza la maggiore, che trattenne ogni altra parola e bevve il vino contenuto nel suo bicchiere.
Tu guardi i cattivi, vero?”, disse Gary Junior, puntandolo con la sua forchetta sporca, “Quelli che fanno i cattivi…”
Danny non seppe cosa rispondere, ci pensò il padre del piccolo.
Sì, li tiene lontano da tutti noi.”
J.J. gli sorrise e annuì teatralmente con un cenno della testolina bionda.
E voi… Cosa fate nella vita?”, chiese Danny ai due coniugi.
Quando si fosse trovato solo con Sophie, una volta terminata la cena, le avrebbe chiesto spiegazioni, anche se era certo che fosse stato solo un suo errore di valutazione. La conversazione andò così avanti: Danny seppe che Cynthia era un grafico pubblicitario e che molte delle sue creazioni erano diventati marchi di una certa importanza, mentre Gary vendeva auto nuove ed usate, possedeva una concessionaria a qualche isolato da lì. Danny tenne a mente quell’informazione per Tom, che ancora non aveva raccolto abbastanza denaro per potersi permettere una macchina nuova di pacca ma che, forse, facendo una visita alla concessionaria di Gary, avrebbe potuto imbattersi in qualcosa che poteva adattarsi alle sue tasche. Infine, il bambino andava in una delle tante scuole private e sembrava piuttosto calmo ed educato, o forse era solo la sua presenza ad intimidirlo.
Fatto stava che, una volta terminata la cena, mentre le due donne si occupavano dei piatti sporchi, Danny si sistemò con il padre nel soggiorno e Gary Junior con loro, che iniziò un infinito discorso su come la sua squadra di hockey sul prato era stata sconfitta nell’ultima partita. Lo ascoltò con attenzione, spesso ridendo e guardando il padre, che faceva altrettanto ed incoraggiava il figlio nello sport. Una volta stancatosi, il bambino si dedicò ai suoi camioncini ed alle costruzioni invisibili sul tappeto della stanza, lasciando i due adulti a se stessi.
Sei stato fortunato.”, disse Gary, “Si è trattenuto.”
Davvero?”, gli chiese, stupito.
Sì, è un chiacchierone, anche se a prima vista non sembra.”, disse il padre, “Tale e quale alla madre.”
Danny non si espresse, avrebbe potuto essere frainteso e non voleva.
Avevamo capito che eri un poliziotto di quartiere.”, disse Gary, “Non che lavorassi nel corpo penitenziario.”
Oh no, non ti preoccupare.”, lo tranquillizzò subito, “Sono cose che succedono.”
Mai, non succedevano mai, ma evidentemente c’era una prima volta per tutto.
Da quanto lo sei?”, domandò ancora Gary.
Ormai sono cinque anni.”, gli spiegò, “Ma lavoro negli istituti solo da tre.”
Due anni di corso… O quello che è.”, notò Gary.
Sì, esatto. Mi sembrava di essere tornato a scuola.”
Danny non si sentiva affatto a suo agio in quella conversazione, non riusciva a distogliere la mente dal pensiero negativo che molto probabilmente Gary si stava facendo di lui. Forse si era fatto influenzare troppo da Cynthia e dalle sue parole dure, ma provò a cambiare subito discorso.
Si vendono bene le auto, oggigiorno?”, gli domandò.
E Gary non se lo fece dire due volte. Così come il figlioletto, monopolizzò la chiacchierata ed a Danny andò più che bene. Se ne intendeva di auto, a modo suo e non tanto quanto l’altro, ma almeno ci fu un confronto ad armi pari. Quando Sophie apparve sulla soglia del soggiorno, i due interruppero ogni parola.
Era arrivato il momento di andarsene a casa.
Allora? Ti è piaciuta la mia famiglia?”, gli chiese lei, una volta chiuse le portiere della sua utilitaria.
Sì, sono persone semplici e deliziose.”, le rispose, “Spero di aver fatto una buona impressione.”
Certamente.”, disse Sophie, “Ti hanno apprezzato.”
Bene…”, ne volle approfittare per togliersi quel sassolino dalla scarpa, “Perché a tua sorella non devo rimanere molto simpatico.”
Oh no, non ti preoccupare.”, tagliò corto lei, “E’ che ha preso da nostro padre e lui è un politico, lo sai. Non perde mai l’occasione per starsene un po’ zitta, a volte.”
Non essere così dura nei suoi confronti.”, la riprese, “In fondo, era un semplice scambio di idee.”
Lei non rispose, ma in compenso accese lo stereo e lo posizionò su una stazione radiofonica che trasmetteva un vecchio successo della disco anni settanta. Stava iniziando a conoscerla bene, quel piccolo gesto apparentemente insignificante stava bensì a dire ‘non ne voglio parlare’, ma Danny non poteva dargliela vinta.
Io credo nel mio lavoro.”, le disse, “Le mie convinzioni si fondano su solide basi, altrimenti non sarei mai potuto diventare un poliziotto...”, fece una piccola pausa, “Un poliziotto che lavora in un carcere.”
Lo so, Dan.”, si pronunciò Sophie, “Ad ogni modo, mia sorella chiacchiera tanto ma cucina bene, vero?”
Altra potente virata.
Sì, è davvero una brava cuoca.”, la seguì Danny.



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Note dell'autrice.

Eccomi, qua, dopo millemila mesi che non pubblico, ringrazio Ciry che con le sue dolcissime parole mi ha spronato :D E ringrazio anche la Fra!

Spero che la storia non vi annoi, so che sembra non succedere niente, ma se leggete bene stanno accadendo più cose di quanto vi possa sembrare. Capite, si trovano dentro ad un carcere, non possono esserci fatti eclatanti e decisamente fuori luogo.
Se vi va, lasciate un commento :) e di nuovo grazie.


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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Capitolo Quattro - FW
CAPITOLO QUATTRO


Le sue mani erano fredde, molto fredde, se ne chiese il perché. Poi se ne rese conto, la superficie che percepiva sotto le dita non poteva trasmetterle altro che quella sensazione: era vetro, elemento inanimato, fragile e resistente al medesimo tempo. Sotto di esso legno vecchio, pieno di minuscoli fori di tarlo.
Meg sbatté gli occhi più volte.
Non aveva la più pallida idea del posto in cui si trovasse, si sentiva come se fosse stata strappata dalla propria vita per essere gettata in un luogo nuovo e sconosciuto, agli antipodi del mondo. La testa le girava vorticosamente, tanto che ebbe un forte senso di nausea: trattenne il conato, prese un respiro profondo e si impose si calmarsi. Avrebbe risolto anche quella situazione, ormai era capace di ovviare ai problemi della sua vita senza il sostegno di nessuno, quindi doveva solo attendere di realizzare dove si stesse trovando.
Lentamente, la vista mise a fuoco quello che la circondava.
Vide il pavimento di parquet sotto ai suoi piedi, qualche ninnolo sul bancone davanti a lei, poi il luogo assunse rapidamente la sua naturale profondità tridimensionale e si allargò in ogni direzione. Meg ebbe altra nausea, si appoggiò alla superficie di vetro ed attese che la sua mente smettesse di farle quei giochetti idioti.
Si voltò e quello che trovò non le piacque affatto. Meg portò le mani alla bocca, stupita e incredula.
Era nel vecchio negozio di articoli per la casa. Tutto quello che vedeva era come se lo ricordava: le lampadine alle sue spalle, insieme alle batterie ed ai piccoli oggetti elettrici ed elettronici. Alla sua sinistra scaffali pieni di piatti, bicchieri, forchette e di ogni altro oggetto per la cucina. Davanti a lei stoffe, lenzuola, tovaglie e tende; sulla sua testa qualche lampadario…
Meg si toccò, trovandosi reale e viva. Non stava capendo niente di quello che le succedeva. Alla sua sinistra scorse uno specchio, quello nel quale era abituata a riflettersi per cercare capelli fuori posto o trucco sbavato: i suoi capelli erano color carota, esattamente come tanto tempo fa… O forse li aveva sempre avuti in quel modo? Non seppe darsi una risposta, non era certa di quello che la sua mente le suggeriva: aveva la sensazione di vivere il presente, di essere una ragazza di diciotto anni, di lavorare in quel negozietto per racimolare qualche soldo e di avere un importante compito di letteratura da affrontare tra qualche giorno, ma c’era comunque un fondo di dubbio.
Un deja-vu? Poteva darsi, i pomeriggi passati in quel buco di negozio erano tutti uguali.
Sentì la porta del negozio aprirsi ed il tipico scampanellare segnalare la presenza di un nuovo cliente. Come se fosse stata un automa programmato per vendere articoli d’arredamento, sfoderò il suo migliore sorriso migliore ed accolse il signore.
Buon pomeriggio!”, gli disse, “In cosa posso esserle utile?”
Vorrei una lampadina, le ho finite.”, disse l’uomo, con tranquillità.
Meg notò la sua barba lievemente incolta e brizzolata, così come i capelli che spuntavano sotto al berretto.
Certo, mi dice quale voltaggio le serve? E’ per un lampadario o per un abat-jour?”, gli domandò.
Duecentoventi.”, rispose l’uomo seccamente.
Perfetto.”
Meg gli dette le spalle e cercò la lampadina giusta per il signore. Ne individuò tre tipi diversi, ognuna con un suo prezzo, e ne prese qualcuna per mostrargliele. Si voltò, ma lo spavento le fece cadere le piccole scatole a terra. Meg si appiattì allo scaffale, in preda al panico ed al terrore.
L’uomo le puntava una pistola contro, diretta al cuore, che pulsava impazzito dentro di lei.
Svuota la cassa.”, le disse, “Ed anche la cassaforte.”
Meg fissava l’arma, non sentiva le sue parole e tremava, incapace di parlare.
Dammi i soldi!”, gridò l’uomo, sporgendosi sul bancone ed afferrandola per il maglioncino che indossava.
La strattonò e i fianchi di Meg si scontrarono sulla superficie, tanto che il dolore la accecò.
Ti ho detto di darmi i soldi, puttana!”, urlò ancora, “Muoviti!”
Ma le grida di panico di Meg lo sovrastarono, e lui si scatenò.
Piantala! Muoviti!”
La spinse contro allo scaffale, scatole di lampadine e cavi elettrici caddero rovinandole addosso e colpendola ovunque. L’uomo reagì ancora: prese la cassa e, dopo un paio di pugni e gomitate, la aprì. I soldi entrarono presto nelle sue tasche, Meg non aveva la capacità di fermarlo.
Puoi farlo…
No, non era possibile, era piantata a terra dalla paura e dal terrore.
Puoi, e sai come.
L’uomo tornò a minacciarla con la sua arma e le sue grida.
Apri la cassaforte! Ce l’hai davanti agli occhi!”
Meg piangeva, singhiozzava e mugolava. L’uomo si innervosì e, con un gesto rapido, sgombrò il bancone, gettando tutto a terra in un colpo solo. Ninnoli di vetro e plastica si frantumarono contro il pavimento.
Sbrigati!”
Puoi liberarti di lui.
Meg allungò le dita verso la rotella e, sebbene stessero tremando come una foglia, riuscì ad aprire il portellone individuando la combinazione giusta.
Dammi tutto quello che c’è dentro!”
C’erano tante scatole, Meg non sapeva cosa contenessero ma conosceva quella che l’uomo voleva più di tutte. Si trovava in fondo, dietro a tutte le altre: quando la prese e la estrasse, quelle caddero e riversarono il loro contenuto sul parquet.
Prendila.
Gli occhi di Meg si fermarono sul metallo nero che, uscito da una scatola, si era fermato vicino ai suoi piedi.
Stringila.
La mano si avvicinò e toccò il metallo, trovandolo ancora più gelido del vetro che rivestiva il bancone.
Muoviti!!!!”, gridò ancora l’uomo.
Proteggiti.
Le dita si impossessarono dell’arma. Una volta che il calcio venne stretto, come la voce nella sua testa le aveva ordinato, la pistola divenne improvvisamente calda. Si ricordò anche quello che il proprietario del negozio le aveva detto, qualche settimana prima: ‘Dopo l’ultima rapina, ho deciso di proteggermi. Ma tu non la devi usare. Mai.’.
Liberatene.
Meg tremava, era scossa da brividi ovunque, ma riuscì comunque ad alzarsi. Impugnò la pistola con entrambe le mani, la sentiva così pesante che non aveva abbastanza forza da sorreggerla con la sola destra. L’uomo impallidì ed indietreggiò, ma il suo spavento durò solo pochi secondi.
Mettila giù!”, urlò di nuovo.
Si avvicinò velocemente, Meg lo vide ancora allungare la mano per scuoterla e spingerla a terra, ma un tonfo sordo e potente la assordò. Un improvviso odore di bruciato e poi un grido rinnovato, gli occhi si aprirono e trovarono il buio. Immediatamente luce venne fatta e percepì ancora quella sensazione di freddo, alle mani.
Anzi, ai polsi.
La signorina Howard ha volutamente”, sentì dire da una voce lontana, che rimarcò quell’ultima parola, “impugnato l’arma, puntandola al petto dell’uomo e sparando, sebbene le fosse stato proibito categoricamente di farlo”, ci fu una pausa, “come ha testimoniato il suo datore di lavoro, il signor Bell. Nonostante ciò, ha violato la regola ed ha sparato, ferendo a morte il rapinatore, il defunto signor Kendara, lasciando sua moglie e suo figlio privi di un buon padre di famiglia.”
Obiezione, signor giudice!”, disse allora una voce femminile, “Come si può dire che un rapinatore sia un buon padre di famiglia? E’ una contraddizione bella e buona!”
Meg comprese di trovarsi in aula di tribunale, ma la luce era così forte ed abbagliante da non permetterle di vedere alcunché. In aggiunta, se prima la sensazione di deja-vu era solo tenue, adesso era quasi insopportabile.
Il signor Kendara”, riprese subito l’odiosa voce precedente, “aveva perso il lavoro da mesi, era disoccupato e doveva trovare un modo per sfamare suo figlio, di appena sei mesi!”
Ma questo non giustifica…”
Il giudice interruppe la difesa dell’avvocato di Meg.
Respingo la sua obiezione.”, disse, perentoriamente.
Ci fu del silenzio. Nessuna parola venne più spesa né in sua accusa, né a difesa, ma la luce era ancora lì, persisteva a toglierle la vista. Poi qualcun altro parlò.
Il tuo caso è perso.”, disse il suo avvocato, la signorina Dean, “Devi accettare la pena.”
Sentì un pianto, riconobbe sua madre.
So di essere colpevole!”, ribatté allora Meg, istintivamente, “Ma quello avrebbe potuto uccidermi! L’ho fatto per difesa…”
La sua pistola era finta, Meg!”, la zittì l’avvocato, “Chiunque avrebbe potuto accorgersene, era un giocattolo!”
Un giocattolo piuttosto realistico!”, disse ancora Meg.
La luce si spense, Meg si trovò nell’oscurità più totale. Si fece prendere dal panico e la sua fronte diventò imperlata di minuscole gocce di sudore. Si rese conto di essere in un incubo, uno di quelli che non faceva orma da almeno due anni, ed attese con rassegnazione che i flash del passato si esaurissero, come era capito in precedenza. La realizzazione di vivere i ricordi, comunque, non era sufficiente a farla svegliare: era la sua mente a decidere quando interrompere la catena.
Rivisse così le fasi più importanti del suo processo, da quando la condannarono a dieci anni di reclusione con l’accusa di omicidio volontario a quando ridussero la pena di un anno in un primo stadio di ricorso, avvalendosi della buona condotta personale precedente il fatto. Inoltre, il suo avvocato puntò sulla tesi della difesa personale e dello stato di panico in cui Meg si era trovata per colpa di un’arma, seppur finta, puntata contro il viso. Ricordò i momento peggiori spesi in carcere: le botte ed i soprusi, il cibo rovesciato a terra, le offese e gli scherzi idioti; le giornate passate a piangere, la voglia di fuggire. I tentativi… Di uccidersi, perché no? Ma li aveva solo pensati, era sempre stata troppo codarda per farlo davvero. Rammentò di come Rachel venne trasferita nella cella, che prima non condivideva con alcuna detenuta, e di come lei la difese, una volta, dalle angherie di una storta.
I flash durarono con continuità, forse per tutta la notte, e quando Meg si svegliò le sembrò di aver passato un anno intero sonnambula.
Hey… Cosa hai fatto stanotte?”, le fece Rachel, quando la vide in viso, “Ti hanno camminato sulla faccia? E poi hai mugolato come un pulcino… Che ti succede?”
Niente…”, le rispose, “Brutti sogni…”
Ah… Ho capito.”, disse l’altra, “Vedi di rimetterti.”



Non era la giornata giusta per alzarsi ed andare al lavoro, e non era colpa della sua allergia primaverile, che il suo corpo stava combattendo aiutato dai medicinali e dalla sua forza di volontà. Aveva fatto un brutto sogno, quella notte, un incubo pessimo in cui si era trovato chiuso dietro alle sbarre di una delle tante celle della Holloway, mentre fuori i detenuti festeggiavano la rivolta messa in atto, e lui se ne stava imprigionato per mano loro. Era un sogno che si presentava con una cadenza incredibile, una volta al mese disturbava il suo sonno, forse era il caso di andare in cura da qualche psicologo, oppure da uno psichiatra, per farsi curare.
Entrò in servizio scacciando ogni pensiero, imponendosi di stare calmo e di non ritenere quella eventualità come un dato di fatto: in Inghilterra, un avvenimento del genere non era statisticamente raro, ma neanche frequente, quindi non doveva preoccuparsene. I detenuti della Holloway, inoltre, non avevano tendenze riottose e la sorveglianza stretta su quelli più pericolosi ed a rischio allontanava tale ipotesi.
Perché preoccuparsene?
Ecco, stava già meglio.
Megan! Carlos!”
La voce stizzita ed acuta di Daisy, evidentemente arrabbiata con i due reclusi, entrò potentemente nelle sue orecchie. Si chiese cosa fosse successo in quei suoi momenti di assenza cerebrale.
Mi avete stufato!”, continuò Daisy, “Andate in serra e pulite le vetrate!”
Signorina, non abbiamo fatto niente!”, rispose Carlos, in sua difesa.
Danny guardò verso la sua nuova collega, l’agente Morris, che aveva già conosciuto in precedenza, e le chiese cosa fosse successo.
Ridevano durante la lezione.”, gli spiegò, “Perché Daisy si è rovesciata una brocca d’acqua sui pantaloni.”
Trattenne qualsiasi risatina, nascondendola sotto i baffi.
Avanti!”, esclamò ancora Daisy, “In serra!”
Ubbidite.”, rinforzò Morris, “Jones, tienili d’occhio.”
No, pensò lui, adesso che stava un po’ meglio non poteva farsi sottoporre a quella tortura un’altra volta.
Non è che potresti…”, disse alla collega, “Andarci tu? E’ che non sto tanto bene…”
Nemmeno io.”, gli sorrise lei, beffarda.
Ok, non ti preoccupare.”, le rispose, poi si rivolse ai due detenuti mancanti di rispetto verso la lezione, “Andiamo.”
Li seguì, osservandoli avvicinarsi a passi lenti verso la serra. Come loro, Danny non era affatto entusiasta di passare del tempo lì dentro, ma vi erano stati tutti costretti e non potevano rifiutarsi, chi per una ragione, chi per un’altra.
Iniziamo da fuori o da dentro?”, chiese Carlos.
Ovviamente da dentro!”, rispose la ragazza, “Non vedi come sono sporchi all’esterno?”
Ed entrò con loro. Subito, l’odore opprimente ed il caldo tropicale gli serrarono la bocca dello stomaco e, qualche minuto più tardi, arrivarono i primi starnuti ed i colpi di tosse.
Agente Jones…”, gli disse Carlos, che premeva la spugna sui vetri, seguito dalla ragazza che li asciugava e li lucidava, “La sua allergia è ogni giorno sempre più terribile.”
Lo so.”, gli rispose Danny, “Ma sta migliorando.”
Dice?”, fece l’altro, un po’ ironico, “A me non sembra. Lo pensi anche tu, Meg?”
Lo penso, lo penso.”, borbottò lei.
Preoccupatevi solo di fare un buon lavoro.”, disse ai due.
Si guardarono, poi guardarono lui, a qualche metro di distanza. Forse era stato un po’ troppo duro, ma non aveva l’umore adatto né la salute per reagire in maniera migliore. Tornarono alla loro occupazione in silenzio, cosa che lui apprezzò, ma fu solo un benessere temporaneo.
Che cos’hai, Meg?”, le chiese Carlos, “Ti hanno camminato sul viso?”
La ragazza rise brevemente.
Me lo ha detto anche Rachel, la mia compagna di cella.”, rispose, “Non ho dormito bene.”
Si vede!”, esclamò Carlos, “Mi spaventi ogni volta che ti guardo!”
Risero ancora insieme, sembravano divertirsi in compagnia dell’altro, come Danny aveva già avuto modo di notare.
Perché hai dormito male?”, le domandò ancora Carlos, “C’è stato qualche sogno che ti ha disturbato?”
Sì.”, rispose lei, “Di quelli che non terminano mai.”
Bizzarro, pensò Danny, che si era svegliato pessimamente per colpa del medesimo motivo.
Uh, mi dispiace.”, ironizzò Carlos, “La prossima volta datti una botta in testa, così non correrai il rischio di sognare!”
Lo farò.”
Cosa hai sognato?”, ripropose lo spagnolo una nuova domanda, sembrava piuttosto curioso.
Beh… “, balbettò l’altra, “Cose vecchie.”
Indovino.”, fece l’altro, fermando il suo lavoro, “Hai sognato… Che Daisy ti imponeva di passare del tempo con me e con l’agente Jones, chiusa in serra, a pulire le vetrate!”
La ragazza rise con sincerità, anche Danny non poté evitare di allungare in su gli angoli della sua bocca.
Puoi parlarne.”, riprese poi Carlos, “Sai che sono uno zingaro gitano, so tutto dei sogni e di come interpretarli.”
Il mio non era proprio un sogno.”, precisò Meg, “E comunque non ne voglio parlare.”
L’uomo dovette arrendersi alla volontà di Meg. Il lavoro dei due riprese in silenzio, Danny percepì una sorta di tristezza calare sulle loro teste, ma poteva anche essere una sua impressione. Dopo quelle chiacchiere, metà serra era stata pulita.
Riguarda quello che ti ha portato qui, vero?”, disse Carlos, dal nulla.
Esatto.”, rispose la rossa, “Hai indovinato.”
Beh, cara mia.”, fece l’altro, “Rivedere il volto di chi hai ucciso, anche dopo tanti anni come nel mio caso, è sempre un dolore anche per me.”
Danny tese le orecchie, spinto da una curiosità che solitamente non gli apparteneva. La ragazza sospirò e parve concentrarsi nel lavoro.
Pensavo che uno come te fosse abituato.”, gli disse, quasi sottovoce.
Quando ero libero, certi pensieri non mi tormentavano.”, rispose lui, “Ma qua dentro sono diventati un’ossessione.”
Mi sembri sano di mente.”
Anche tu, ragazzina.”, le sorrise l’altro, “Ma una persona sulla coscienza non è facile da sopportare, nemmeno per me. Figuriamoci per te, che sei una persona essenzialmente buona, finita in un luogo essenzialmente cattivo, popolato da individui del medesimo calibro…”
Danny aveva finito di stupirsi dei motivi che spingevano la gente a farsi rinchiudere in prigione, ne aveva sentiti di tutti i colori, ma c’erano casi particolari in cui doveva sempre ricredersi. Ciò che aveva imparato sulla ragazza, spifferato da Carlos e catturato con la curiosità, lo lasciava senza parole, si sentiva amareggiato. Quella detenuta, Meg, se ne stava in prigione da quando aveva diciotto anni, evidentemente per aver tolto la vita a qualcuno, sprecando così tutta la propria con un peccato mortale indicibile a pesarle sulla testa.
Perché? Cosa rendeva una persona capace di uccidere un suo simile? Soprattutto, una persona così giovane, una ragazza apparentemente brava ed onesta? Invidia, gelosia verso qualcuno? Danny non capiva, non sapeva come si potesse essere capaci di un gesto così.
Se fossi stata davvero essenzialmente buona”, disse la ragazza, “perché mi trovo qui?”
Che domanda retorica e stupida, permettimi di dirtelo!”, esclamò Carlos, ridendo, “Se finisci in carcere, è perché hai fatto qualcosa di male. Indipendentemente dalla percentuale di bontà di cui è fatto il tuo cuore.”
Non ho detto di essere innocente.”, replicò lei, “Ma solo di essere una persona sbagliata capitata nel posto sbagliato, al momento sbagliato.”
Sono rari i casi in cui qualcuno è contemporaneamente prigioniero ed innocente.”, ribatté Carlos.
Non mi sto riferendo alla mia posizione attuale.”, si spiegò ancora Meg, “Ma a quella che mi ha portato qui.”
Perdonami ma non ti seguo.”, la interruppe lo spagnolo.
Nemmeno Danny la seguiva, tanto che non aveva osato fiatare un pensiero durante quel dibattito.
Intendevo dirti…”, disse la ragazza, lasciando perdere il suo straccio, “Che se quel giorno avessi rinunciato al mio turno per studiare letteratura, non sarei qui.”
Ovvio!”, esclamò l’altro, “Ma la storia non si fonda sui se e sui ma. E’ questo l’universo parallelo in cui vivi.”
Ed infatti mi fa schifo.”, obiettò l’altra, gettando tutto a terra, “Non dovrei essere qui. Deve esserci stata una sorta di… Di interruzione temporale del cazzo, o come si chiama, che mi ha trasportato qua.”
Carlos interruppe il suo insaponare e si voltò verso di lei.
Vedi il lato positivo di tutto questo.”, le fece, raccogliendo lo straccio e porgendoglielo, “Avresti mai detto che prima o poi ti saresti trovata chiusa in una serra con due bei maschioni come noi?”
Danny si vide indicato dalla mano forte e massiccia di Carlos, che sorrideva e cercava di trascinare anche la ragazza nel divertimento della sua battuta di spirito. Megan guardò nella sua direzione, gli schioccò un’occhiata piena di sufficienza.
Finiamo il lavoro, oppure la fidanzata di Paperino si incazzerà.”
Prese lo straccio dalle dita di Carlos e tornò a strofinare. Lo spagnolo lanciò un occhiolino complice a Danny, che contraccambiò con un cenno di testa ed un sorriso. Qualsiasi cosa avesse fatto quella Meg, era evidente che fosse il suo tormento più grande. Le parole che aveva udito da lei non erano di sincero pentimento verso il suo crimine, ma di frustrata rassegnazione di fronte a ciò che le era capitato, e che lei non aveva mai preventivato nella sua vita. Danny non credeva che i detenuti fossero vittime delle situazioni in cui si trovavano, non appoggiava la teoria per la quale un individuo diventava cattivo se immerso in un universo altrettanto cattivo.
Credeva bensì che tutti gli esseri umani agissero, causando delle naturali conseguenze, positive o negative. Lei aveva agito, aveva sbagliato e doveva pagare, volente o nolente, ma soprattutto indipendentemente dall’età, dall’essenza buona del suo cuore e da tutti i pregi che possedeva.
Se non errava, inoltre, sarebbe uscita presto. Quello voleva dire due cose: che la giustizia avesse fallito e stesse rilasciando qualcuno che si meritava lo sconto della sua punizione fino all’ultimo giorno, oppure che il detenuto si fosse pentito seriamente. Non sapeva quale fosse stato il caso di Meg, gli sarebbe piaciuto approfondirlo ma, essendo lei una donna e lui un agente uomo, non rientrava nella sua giurisdizione.
Eppure, se ci pensava bene, la ragazza si era contraddetta. Aveva dubitato del suo essere una persona buona, ma poi si era ritenuta vittima di coincidenze della vita. Affermava di non essere innocente ma colpevole, e poi accusava una congiunzione astrale sfavorevole.
Che caso complicato.

***

La sua mattina era sgombra da ogni tipo di impegno e di lezione. Meg si trovò nulla facente, chiedendosi come avrebbe potuto passare quella giornata senza appassire. La prima scelta che le affiorò in mente fu andarsene in biblioteca, ma non aveva voglia di chinarsi su un qualsiasi volume. Fuori il sole era così fresco che allungando lo sguardo oltre l’orizzonte si poteva vedere il mare… Ma quale mare, borbottò stanca la mente annoiata di Meg, da Holloway si potevano vedere solo altri edifici, tetti ed antenne a non finire, al massimo qualche campagna lontana.
Sospirò e prese la sua decisione, se ne andò in biblioteca.
Hey!”, la chiamò subito Annelise, una volta che i secondini all’entrata del luogo l’ebbero fatta entrare.
Meg si voltò verso di lei, che passeggiava tra gli scaffali con una pila di libri tra le braccia.
Vuoi che ti venga un’ernia?”, scherzò con lei, “Oppure vuoi farti una cultura enciclopedica?”
No!”, rise l’altra, “Voglio solo aumentare una parte della mia conoscenza vivaistica.”
Meg le si avvicinò subito, incuriosita. Stentava a credere a ciò che la bocca di Annelise le aveva permesso di sentire, ma era sicura di non aver frainteso alcuna parola. La donna appoggiò i libri su uno dei tanti lunghi tavoli di legno lucido e Meg si sistemò davanti a lei. Non pensava che Annelise si sarebbe interessata ad approfondire alcuni degli aspetti delle loro lezioni quotidiane, ma evidentemente si era sbagliata.
Voglio impegnarmi.”, le spiegò Annelise, vedendola stupita e al contempo perplessa, “Perché se tra un paio di anni sarò fuori, vorrei davvero creare qualcosa di buono.”
Quindi niente più colpi duri alle casse del fisco?”, ironizzò Meg, sperando che la donna non fosse troppo suscettibile a quel genere di battute.
Beh… Chissà!”, rispose l’altra, ridendo ancora una volta, “Ma per il momento, è meglio studiare, dato che non ho nient’altro da fare.”
Meg annuì e le strizzò un occhiolino, per darle tutto il suo distaccato sostegno. Così, la donna aprì il primo volume tra quelli selezionati e si mise a leggere.
Dovresti farlo anche tu.”, borbottò poi Annelise, “Non sei così male come giardiniera…”
Grazie.”, rispose lei, “Ma è perché i miei hanno tuttora un vivaio.”
Se hai il verde nei geni, perché sprecarlo facendo innervosire Daisy?”, domandò Annelise, “Tieni, prendi un libro e studia!”
Tutto tranne quello.
Mi vedo costretta a rifiutare con gentilezza.”, le disse, restituendole il volume, “Quello che imparo ascoltando Daisy mi basta ed avanza.”
La donna si strinse nelle spalle.
Come vuoi.”, disse, senza insistere, “E’ la tua scelta.”
Si rimise sulle sue parole scritte e Meg fu costretta a lasciarla sola, altrimenti l’avrebbe solamente disturbata. Osservò tutti gli scaffali, quella volta ancora più distratta delle altre, tanto che un paio di suoi colleghi uomini -la biblioteca era un luogo unisex, sebbene fosse piuttosto difficile incontrare detenuti maschi- la rimproverarono e fu costretta a prendere un libro a caso ed a sedersi.
George Orwell.
Fantapolitica, aveva già letto uno dei suoi lavori e le era piaciuto, perché non tuffarsi ancora? Aveva macinato qualche capitolo, vedeva solo animali in rivoluzione, quando una mano si posò sulla sua spalla.
Mi ha detto Annelise che eri qui.”
Carlos.
Hey… E’ una congiura contro di me?”, scherzò Meg, “Volete tutti farmi diventare l’asina del corso, mettendovi a studiare floricoltura alle mie spalle?”
No, non mi permetterei mai di lasciarti indossare da sola il cappello con le orecchione.”, rispose l’altro, “Piuttosto, cosa stai leggendo?”
Allungò il suo braccio tatuato ed afferrò una sedia, che usò per accomodarsi al suo tavolo, sedendosi a cavalcioni su di essa.
Orwell, conosci?”, gli disse, mostrandogli la copertina del libro, tutta stropicciata ed ingiallita.
Certo che sì.”, rispose lui, allontanando le parole per leggere meglio.
Meg lo osservò prendere un paio di occhialetti dalla tasca della sua camicia quadrettata e spiegazzata ed indossarli. Era comico vedere un gigante come lui leggere con quegli strani affari sulla punta del naso, tanto che se ne accorse.
Non vedo bene da vicino.”, disse, sorridendole, “E so che sono buffo, li indosso solo qui per evitare di essere preso in giro.”
Uno come te può schiacciare chi lo ridicolizza!”, obiettò Meg, di nuovo stupita.
L’uomo la guardò, oltrepassando la montatura fine e nera degli occhiali.
Ogni chiacchierata che facciamo mi porta a capire che tu hai un’idea di me che non mi piace affatto.”, disse, per poi mettersi a sfogliare il libro, “Oh! La fattoria degli animali di Orwell, pensavo ti fossi buttata sul classico 1984.”
Meg non ascoltò il suo commento, era rimasta male per le parole precedenti. Carlos notò anche quello.
Non ti preoccupare, non sono scocciato.”, la tranquillizzò, “Ormai sono abituato alla gente, quella che pensa che io sia solo capace di fare prepotenze sul suo prossimo… Vedrò di farti cambiare idea!”
Le sorrise e le porse la sua mano destra: Meg mise la propria nella sua, lasciando che lui l’avvolgesse completamente e la stringesse, suggellando quel piccolo patto tra loro.
Adesso torniamo al libro.”, disse Carlos, porgendoglielo, “A che punto stai?”
Gli animali hanno appena eliminato il signor Jones.”, spiegò Meg, “E vogliono fondare questa nuova comunità basandosi sulle regole dettate dal maiale più vecchio, che è morto da poco.”
Come vorrebbero chiamare questa nuova società?”, domandò ancora lui.
Meg riflettè.
Animalismo.”, disse poi, certa della risposta.
Bene!”, esclamò l’altro, togliendosi gli occhiali, “E non ti sembra di aver già sentito parlare di questo animalismo?”
In che senso?”, Meg non lo capiva.
Questo libro”, disse Carlos, indicandolo, “è l’allegoria di un determinato modello politico di società esistente, non te n’eri accorta?”
Assolutamente no, si disse Meg, l’aveva preso solo per un libro di fantasia, niente più.
Mi deludi, ragazzina.”, fece l’altro, “Ti facevo più intelligente.”
Fammelo almeno finire!”, si difese Meg.
Certo! Appena lo terminerai, mi piacerebbe davvero poterne discutere con te. Chissà cosa potremmo capire l’uno dell’altro ragionando sulla tematica di questo libro!”
Le stranezze di Carlos si sommavano. Non lo faceva tipo da biblioteca, né da occhialetti per la lettura, né così ferrato sulla letteratura inglese di metà secolo. Forse lo aveva davvero sottovalutato, addirittura completamente frainteso.
E poi”, continuò lo spagnolo, con aria sarcastica ma tono basso, “non prendere in giro l’agente Jones per essere omonimo del signor Jones creato da Orwell, che viene trucidamente spodestato da capo della sua fattoria, dopo una rivoluzione guidata da cani e porci…”
Ovvio che, nella mia testa, le due persone coincidevano!”, gli fece, ridendo.
Ti lascio alla lettura.”, disse Carlos, alzandosi, “Sono certo che ci incontreremo presto per parlarne, mi fido della tua testolina, anche se è un po’ bacata.”
Grazie del sostegno!”, rispose Meg, cacciando fuori la lingua e salutandolo.
Quando si fu allontanato, tornò alle vicende della nuova società animalista, fondendosi tra i personaggi e le loro vicende rivoluzionarie. Ben presto capì a cosa si stava riferendo Carlos e, in preda all’impazienza, lo cercò ovunque in biblioteca, ma non ne trovò traccia. Chiese di lui ad Annelise, ma rispose negativamente, così come un altro paio di agenti. Lo spagnolo non era un fantasma, nessuno poteva non averlo notato, ma si disse che molto probabilmente c’era stato un cambio di turno tra i poliziotti.
Vide l’ora, erano le sei, tra poco sarebbe stata ora di pranzo, doveva tornarsene in cella ed attendere che dessero a tutte le detenute il permesso di recarsi in massa nella mensa.


Accompagnava Barreiro alla lezione. Danny starnutì e si prese una compressa di antistaminici: sebbene giugno fosse quasi finito, il lungo contatto con le piante stava prolungando il suo stato allergico e, con la sincerità nella mente, ne aveva le palle piene.
Agente Jones”, gli disse Carlos, mentre si soffiava il naso, “sa che il suo cognome è molto comune qua in Inghilterra?”
Se non erro ha il secondo posto nella classifica dei cognomi più diffusi.”, gli spiegò, si era ricordato di averlo letto qualche anno fa, molto probabilmente la situazione non era cambiata di molto.
E’ anche un piuttosto anomimo.”, disse l’altro, “Come Smith.”
Già…”, rispose Danny, senza interesse.
Ad esempio, se fossi uno scrittore”, continuò lo spagnolo, “lo userei per il mio personaggio.”
Beh, allora ti ringrazio per dare al mio cognome tutta questa importanza.”
L’ennesimo cancello venne aperto, lasciando via libera ad entrambi.
In molti hanno fatto come farei io, in prima persona.”, riprese Carlos, una volta superato quel piccolo posto di blocco tra i diversi corridoi, “Come Orwell, lo conosce?”
Orwell.
Intendi quello del Grande Fratello?”, domandò Danny.
Esattamente.”
Sì, lo conosco, ma non ho mai letto niente di suo.”, fece, chiedendosi quale fosse lo scopo di quella conversazione.
Ecco, uno dei suoi personaggi porta il tuo cognome.”, precisò Carlos, “Nel romanzo La fattoria degli animali, il padrone si chiama Signor Jones.”
Interessante.”
Gli animali gli si rivoltano contro e prendono possesso della fattoria, ma è un personaggio piuttosto significativo.”, approfondì Carlos.
I suoi pensieri dirottarono verso il suo sogno più brutto, lo aveva fatto un paio di settimane prima, e si chiese quanto potesse essere strano il mondo, ma soprattutto pieno di coincidenze. Gli venne quasi da sorridere: Signor Jones di Orwell e Agente Jones di Holloway che subivano la medesima fine, distrutti dagli animali e dalle persone che tenevano in gabbia, l’uno in un libro, l’altro nel sogno.
Bizzarro.
Questa coincidenza me l’ha fatta notare Megan.”, aggiunse lo spagnolo, con aria furba.
Danny aggrottò la fronte.
Ah sì?”, gli chiese, incuriosito, “E cos’altro ti ha fatto notare?”
Beh…. Temo di non poterglielo riferire, Agente Jones.”, si ritrasse Carlos, sottolineando la sua posizione all’interno del carcere, “Non andrebbe a favore della ragazza.”
Lo chiederò direttamente a lei.”
Non le faccia capire che le ho riferito qualcosa. Altrimenti quella mi uccide…”, borbottò Carlos, ridacchiando.
Erano quasi arrivati, Danny spese quegli ultimi minuti pensando a ciò che aveva saputo, ma non gli dette molta importanza. Quando poi intravide la ragazza, che chiacchierava con la detenuta Annelise, la curiosità tornò a bussargli in testa. Per quel momento decise di lasciar perdere la questione, l’avrebbe tirata fuori al momento più opportuno.
Doveva ammetterlo, la sua curiosità non era del tutto positiva. Non gli piaceva sapere che qualche detenuto parlava male di lui alle sue spalle, sebbene fosse un fatto inevitabile, ma non riusciva comunque ad allontanare il fastidio quando accadeva. Molto probabilmente quella Megan, o Meg, come la chiamavano tutti solitamente, non aveva detto niente di ché sul suo conto, ma voleva comunque accertarsene.
Concluse il suo turno con tranquillità, la lezione fu noiosa come tutte le altre ed alla fine Danny ne avrebbe saputo più di sua madre sul conto delle piante, esseri viventi che odiava dal profondo del suo cuore per tutto il periodo che si estendeva tra il solstizio di primavera e quello d’estate. Scacciò via ogni malessere fisico e umorale e, non appena fu a casa, cenò con tranquillità davanti alla tv. Solo, nel suo appartamento, si prese ogni comodità necessaria per buttare il lavoro e tutte le sue conseguenze alle spalle, doveva prepararsi per uscire.
Con un discreto ritardo, Dougie suonò alla sua porta. Danny lo trovò sul pianerottolo con sei lattine di birra.
Perché le hai portate?”, gli chiese, “Non usciamo?”
No!”, esclamò lui, “Ti sembra che sia dell’umore adatto?”
Evidentemente no, così Danny gli permise di entrare. Si tolse la giacca, seguì il suo amico dall’aspetto isterico e si accomodò nel suo soggiorno, attendendo che Dougie gli spiegasse cosa stesse accadendo.
Ho bisogno di un avvocato!”, disse lui, “Ne ho bisogno!”
Chiama Harry.”, gli disse, tentando di calmarlo, “Ha superato l’esame e può darti della consulenza su chi contattare… E poi perché vuoi un avvocato?”
Gli devo chiedere cosa mi accade se tento di uccidere la mia vicina di casa.”, spiegò Dougie, “Voglio sapere se posso difendermi con la scusa dell’infermità mentale.”
Dougie e la sua vicina di casa. Quando l’aveva sentita nominare per la prima volta, aveva pensato ad una vecchiettina sorda che teneva la televisione a tutto volume, ad una madre con bimbi isterici, una donna impicciona. Niente di tutto quello: era una studentessa universitaria loro coetanea che non aveva mai accettato di uscire con Dougie, che ci provava da almeno due anni. Danny l’aveva conosciuta, era una bella ragazza e non lo aveva mai negato; oltretutto gli era sembrata abbastanza fuori di testa per potersene stare con Dougie, che spesso e volentieri era da manicomio. L’evidenza era che non lo filava, nemmeno lo salutava quando si incrociavano sul pianerottolo.
Perché dovresti farlo!”, esclamò allora Danny, divertito, “Se morirà, non potrai uscire con lei in nessun modo!”
E allora?”, sbottò l’altro, “Sto meglio adesso, per caso?”
Dougie, te lo dico per esperienza. Non pensarle queste cose, neanche scherzando.”
Non ci andrò in prigione.”, lo rassicurò Dougie, “Il giudice mi darà ragione.”
Danny posò una mano sulla sua spalla.
Smettila.”, gli disse, con tono calmo, “Non sono cose di cui ho piacere parlarne, quando mi vedi senza divisa.”
Lo so, scusami.”
Usciamo, allora? Prenderò le birre come un pegno per il disturbo.”
Certo…”, borbottò Dougie, “Harry ci aspetta al pub ma non credo che Tom verrà, dice che non si sente molto bene.”
Ok, faremo senza di lui.”
Prese di nuovo la giacca ed uscì. Si trovava a metà strada per il locale, quando il suo cellulare squillò. Era Sophie, con la sua chiamata del dopo cena.
Hey! Come va?” le fece.
Sono a casa tua, dove sei?”, domandò lei.
Danny ebbe il presentimento di aver preso qualche decisione sbagliata. Con un gesto, fece comprendere a Dougie di starsene zitto e di abbassare il volume dello musica.
Mi sono assentato un attimo.”, disse, in attesa di ulteriori delucidazioni, “Perché?”
Perché dovevamo vederci. Oggi dovevo esporre il mio lavoro di ricerca… Non ti ricordi?”
Sgranò gli occhi ed incrociò quelli dell’amico. Se n’era completamente dimenticato, era necessario fare dietrofront.
Beh… Scusami, non è stato volontario…”
Non ti preoccupare.”, disse Sophie, “Ci sentiamo più tardi, ok?”
Sophie, aspetta…”
La chiamata venne interrotta bruscamente. Aveva combinato un bel guaio, era ovvio.
Successo qualcosa?”, domandò Dougie, accostando l’auto al ciglione della strada.
Niente, andiamo pure al pub.”, rispose Danny.
Appoggiò il gomito alla sporgenza sulla portiera e guardò fuori dal finestrino.
Se vuoi che ti porti da Sophie…”, avanzò Dougie.
No, non ti preoccupare. Si sistemerà presto.”
Non ne era convinto, ma per il momento era una convinzione confortante.




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Eccomi qua! :) Spero che il capitolo sia di gradimento. So quanto possa essere difficile seguire questa storia, così immobile e inconcludente.... Suvvia, la pianto di fare la piagnona e confido nelle vostre capacità di comprensione!  Soprattutto, di contestualizzazione dei fatti :)

Cito La fattoria degli animali di  George Orwell per molti motivi: mi piace Orwell, mi piace la fantapolitica, mi piace il libro, lo sto riportando sul palcoscenico con il laboratorio teatrale di cui faccio parte... E lo conosco molto a fondo! Se la mia interpretazione del libro non corrisponde con alla vostra o a quella del libro, non datemi dell'ignorante :D
Sia questo scritto che 1984 sono stati citati senza scopo di lucro.

Ringrazio chi mi legge e chi mi recensisce! :D

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


CAPITOLO CINQUE
 
Daisy li scrutò a lungo, programmando la sua mente per ciò che aveva promesso. Ognuno aveva alcune piccole buste di carta con dei nomi impressi a specificare la natura del loro contenuto: erano semi, dovevano essere piantati per permettere loro di attecchire nel terreno caldo di luglio e crescere durante l’inverno dentro la serra. Non sapeva spiegarselo, ma Meg si sentiva contenta: avrebbe avuto delle piante personali da coltivare e curare in proprio, senza l’interferenza di nessuno. Le era capitato spesso di lavorare dei fiori in una determinata maniera per poi scoprire che, il giorno dopo, Daisy aveva ritoccato il suo operato. Lo trovava piuttosto frustrante, un tentativo di dimostrarle quanto la riteneva incapace di imparare i concetti fondamentali del lavoro.
Osservò la bustina tra le sue dita, leggendovi ‘viola del pensiero’. Quella pianta produceva fiori molto grandi e dai colori sgargianti che andavano dal bianco al nero puro, ma erano privi di profumo, a cinque petali, con il centro scuro oppure giallo, in contrasto con il resto del fiore. Le piaceva, per quello l’aveva scelta.
“Allora, avete capito cosa dovete fare?”, chiese Daisy al gruppo, che rispose con un lamentoso sì.
Si armarono di vasi, di terriccio e di pazienza.
“Letto il libro?”, le chiese Carlos, sistematosi accanto a lei.
“Certamente!”, rispose, “L'ho finito il giorno stesso.”
“E cosa ne dici?”
Meg affondò le dita nel suo sacco. La sensazione intensa le tolse le parole per qualche attimo. La terra era scura, morbidissima e l'odore era forte ma inaspettatamente gradevole. Le sembrò di trovarsi nel mezzo di un bosco vergine, dove la pioggia aveva bagnato il terreno sotto ai suoi piedi e le piante le restituivano il loro vero profumo.
Intanto il chiacchiericcio degli altri detenuti si levò attorno ai due.
“Beh... Non lo so.”, disse, una volta ripresa, “Interessante come tematica, ma non l'ho gradita.”
“Dici sul serio?”, fece l'altro stupito.
“Sì... Gli animali, il fattore, la rivoluzione e la dittatura...”, elencò monotona, “E poi?”
“E' il significato politico che deve farti riflettere!”
“Ho riflettuto abbastanza da capire che non mi è piaciuto.”, ripeté, “In se stessa la storia è... Retorica!”
Afferrò con decisione una buona manciata di terriccio e la sistemò nel suo vaso. Carlos la imitò.
“La politica è sempre retorica. Forse sarebbe più corretto da parte tua dire che è la politica a non piacerti, invece del romanzo.”
“Può darsi... Ma di Orwell preferisco '1984'.”
“In sostanza, ci sono molti punti in comune tra i due libri.”, ribatté Carlos, “'1984' parla del controllo sulle masse, della manipolazione dell'uomo e del suo pensiero attraverso la selezione dell'informazione. Il Grande Fratello non è altro che una struttura centralizzata e mistificata che ha la capacità di incutere timore ed evitare che l'idea possa svilupparsi apertamente. I maiali della fattoria si comportano in una maniera analoga. Sottomettono gli animali con l'idealizzazione del lavoro...”
La sensazione di essere osservata punse la nuca di Meg ma non vi prestò molta attenzione. Si accorse di aver riempito il vaso a sufficienza.
“Sono pienamente d'accordo con te.”, disse ancora, “E' solo che trovo 'La fattoria degli animali' una novella quasi fine a se stessa, mentre '1984' ha colto totalmente il mio interesse. Non sono stata a riflettere sul vero significato dei simboli, ma l'ho davvero gradito.”
“Per anni sono stato appassionato del filone fantapolitico, ho esplorato tutta la letteratura in merito. Forse è il mito che è stato costruito attorno allo scritto, ma non posso negare che '1984' non perda mai il suo fascino. Vedi, diventa ogni giorno sempre più attuale.”, Carlos si prese una pausa, anche il livello della terra nel suo vaso era soddisfacente, “Se ci pensi bene, in un modo o nell'altro l'informazione è costantemente manipolata.”
Meg ebbe modo di soppesare le parole. Nel frattempo inserì tre dita nel terriccio compattato in punti egualmente distanti tra loro.
“In che senso?”, chiese, incuriosita.
“Riportare un fatto è manipolarlo. Io ti racconto cosa ho fatto oggi e tu passi il messaggio ad un altro. Lo riduci, non userai mai le stesse parole che ho detto e inevitabilmente lo manipoli, anche se non lo fai con cattive intenzioni. Io stesso, parlandone a te, do una mia interpretazione del fatto...”
Gli occhi di Meg si fecero due fessure.
“Dare una brutta notizia in veste buona, raccontare una bugia bianca, ovviare sul fatto che il nostro stile di vita stia distruggendo il mondo... E' manipolazione.”, continuò Carlos.
“Intendi dire che, alla luce di ciò che ha scritto Orwell sul controllo della massa attraverso la manipolazione dell'informazione... Si può distorcere la verità e avere il potere sul mondo?”
Carlos venne interrotto da una voce estranea.
“Hai scoperto l'acqua calda!”
I due si voltarono alla loro destra.
L'agente Jones sorrideva con soddisfazione.
Meg lanciò un'occhiata stranita al suo compagno di discussione letteraria.
E' scemo?
Volle ignorarlo ma riprese a parlare.
“Intendevo dire...”, aggiunse ancora Jones, “E' logico che l'informazione veicoli il potere da una parte all'altra della politica. Regolandone il flusso, puoi scatenare le folle oppure ammansirle.”
E' scemo.
Meg ne ebbe l'infinita certezza. Doveva starsene fuori dalla loro conversazione, non era saggio che partecipasse.
“Vedi, questa è quella che chiamo coscienza politica!”, esclamò Carlos ridendo.
Meg scosse la testa, inserì due semi per ognuno dei buchi e li ricoprì. Improvvisamente non aveva più alcun interesse per la conversazione. Certamente quell'individuo li aveva ascoltati da cima a fondo, spiando le loro parole come se fossero state pericolose. Era ovvio che dentro le mura del carcere la privacy era il bene più prezioso di cui nessuno poteva disporre a piacimento, ma lei e Carlos non avevano niente da nascondere. Stavano semplicemente scambiandosi opinioni.
Era straziante non avere il beneficio del dubbio.
“Agente Jones.”, lo chiamò Carlos, “Lei dovrebbe starsene dietro ad una cattedra!”
“Preoccupatevi di fare bene il vostro lavoro.”, li riprese Daisy, apparsa dal niente nelle loro vicinanze, “E parlate con la bocca, non con le mani!”
Li guardò con aria infastidita per un lunghissimo attimo, per poi tornarsene dalle sue preferite.
“Non ho capito cosa ci ha detto.”, fece Carlos.
“Lavorate, è meglio.”, aggiunse l'agente Jones.
“Ok.”, borbottò Meg, innervosita fino all'ennesima potenza.
Prima o poi avrebbe avuto l'occasione per dirgli qualcosa di così acido da farlo zittire, e se fosse uscita senza averlo fatto non se lo sarebbe mai perdonata. Non era quello il momento, le sue violette del pensiero avevano bisogno di tutta la cura possibile.
“Hey, una domanda.”, la interruppe Carlos, “Se non erro, prima di mettere il terriccio dentro al vaso è necessario utilizzare dell'argilla espansa... E sarebbe addirittura meglio se mescolassimo i due componenti.”
Un fulmine a ciel sereno la sconvolse. Era vero, Carlos aveva ragione, e lei si era dimenticata uno dei primi insegnamenti di Daisy. Si doveva permettere alla pianta di crescere in un terreno ben areato, era quello lo scopo di mescolarlo con le palline di argilla espansa. Il suo lavoro era tutto da rifare.
“Cazzo...”, sibilò, “E adesso? Ho già piantato i semi!”
Il suo compagno di corso assunse una strana espressione intellettuale, si grattò i capelli neri e lunghi e scrollò le spalle.
“Prendi un altro vaso e inizi da capo.”, disse ridendo, “Semplice, non credi?”
Nient'affatto, aveva sprecato un sacco di semi e nella sua bustina non ne rimanevano molti altri. Non poteva sprecare quelli che aveva già piantato ma non sarebbe stato facile recuperarli. Dio, quanto voleva sapere che cosa aveva nel cervello da renderla così idiota. Avrebbe voluto gettare tutto a terra e imprecare contro tutto e tutti finché non l'avrebbero rinchiusa in isolamento per una settimana.
“Dai, non avercela con te stessa.”, le fece Carlos, “Anch'io devo rifare tutto.”
“Perché?”, gli chiese sbuffando, senza alcun interesse.
“Medesimo errore. Sbrighiamoci, prima che Daisy se ne accorga e ce ne faccia vergognare.”
Meg non ebbe idea di cosa Carlos aveva in mente quando mosse rapidamente la mano, ma vedere entrambi i loro vasi cadere a terra e frantumarsi le chiarificò ogni dubbio. Tutti gli studenti si voltarono, spaventati dal rumore stridente dei cocci rotti. Daisy accorse da loro piena di preoccupazione.
“Cosa avete combinato!”, sbraitò con voce stridula, “Siete i peggiori del gruppo!”
Memore della sua prima disavventura, Meg non si chinò a raccogliere i frammenti di vaso rotto e, non appena si accorse che Carlos stava per farlo, gli fece capire di starsene immobile con un rapido cenno della testa. Non seppe spiegarselo, né fu capace di impedirlo, ma i suoi occhi caddero sull'agente venuto dal freddo del Nord. Era un sorriso quello sulle sue labbra? Sì, lo era. Li aveva tenuti d'occhio, sapeva che cosa avevano fatto, era a pochi passi da loro, ma non mosse un dito per fermarli, né per aiutare Daisy nel ripulire il pavimento.
“Siete dei disgraziati!”, si lamentò la donna, “Non metterò una buona parola su di te, quando il direttore mi convocherà a fine corso!”
“Beh, non credo di uscire da qui molto presto!”, rise Carlos.
“Mi riferivo alla signorina Megan!”, tagliò subito Daisy,
Non poteva dichiarare l'odio per lei in un modo migliore, pensò Meg, che scosse la testa e si limitò a sbuffare, come al suo solito.
“Vado a prendere dei nuovi vasi.”, disse.
“Saggia decisione!”, ribatté subito Daisy, “L'unica nella tua vita!”
Il silenzio divenne tombale, neanche Carlos ebbe il coraggio di fiatare. Quel commento cadde nel vuoto per Meg, le rimbalzò addosso e si dissolse senza scalfirla minimamente. Daisy doveva avere sempre l'ultima parola, era sfiancante starle accanto. Sotto gli occhi di tutti, si allontanò dal luogo dell'incidente; pochi attimi dopo il gruppo accorse a dare una mano all'insegnante, rendendosi utile nel portare via i cocci, il terriccio caduto e ripristinando la situazione al tranquillo status quo. Nessuno dei due agenti si preoccupò di controllarli o di perquisirli, come invece era successo a lei, ma non ci fece troppo caso. Molto probabilmente quello zoticone avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma doveva essere stata la sua collega a fargli cambiare idea.
Oppure se n'era fregato.
I vasi nuovi se ne stavano al loro solito posto, dentro ad un armadietto stracolmo di materiale di ogni genere. Non appena lo aprì, si rese conto che avrebbe dovuto spostare almeno un paio di sacchi di terra, tre o quattro palette e due dozzine di guanti da lavoro. Ne aveva voglia? Assolutamente no. Valutò la situazione, la posizione degli oggetti e il loro peso, poteva farcela a prendersi i vasi senza dover perdere tempo a togliere il fastidio e poi riporlo.
Si inginocchiò ed afferrò i vasi per il bordo esterno, tentando di tirarli a sé e farli uscire. Se ne rimasero perfettamente al loro posto, senza spostarsi di un solo millimetro. Convinta di potercela fare, Meg non demorse, testarda fino in fondo. Forse doveva prendergli meglio. Allungò le mani, nascondendole nel buio dell'armadietto.
Un dolore acuto e profondo, pieno e caldo.
Meg gridò, ritrasse la mano in un attimo e la sensazione si fece ancora più intensa.
Guardò la sua mano, ricoperta di rosso cupo, di sangue.
Chiuse gli occhi e si accasciò a terra.
 
 
 
Il grido della ragazza aveva risvegliato l'attenzione di tutti, catturata dalle operazioni di pulitura del piccolo danno causato da lei stessa e dal suo compagno di giochi preferito. Danny per primo accorse da lei, era il più vicino, e vide subito la macchia rossa che si espandeva sul pavimento. Meg era svenuta.
Afferrò subito la sua ricetrasmittente.
“Centrale, è l'agente Jones. Una detenuta si è ferita alla mano, non so quanto è grave ma dobbiamo portarla in infermeria al più presto. E' svenuta. Passo.”
Uno sfrigolio.
Rimani in attesa, agente.”
Gli altri accorsero, chiudendosi attorno a loro. Anche Daisy ebbe un mancamento, la sentì iperventilare alle sue spalle e la sua collega Morris dovette soccorrerla, aiutata dalle pupille dell'insegnante.
“Sì è tagliata.”, disse Carlos accucciandosi, e le prese la mano, “E non sembra affatto una sciocchezza. Trovate degli stracci puliti! E anche l'acqua!”
“Non credo che sia saggio medicarla.”, si oppose Danny, “C'è il rischio che si infetti. Ho chiamato la centrale, devono darci l'autorizzazione per uscire da qui, arriverà a momenti.”
Il detenuto lo ignorò completamente. Le altre donne, alla ricerca frenetica di qualcosa di pulito, portarono un asciugamano raccolto nei pressi del lavabo della serra, tutt'altro che fresco di lavanderia, mentre una di loro offrì una bacinella d'acqua, che certamente non aveva mai visitato gli ingranaggi dell'impianto di depurazione.
Carlos tamponò la ferita e sciacquò via il sangue.
“Fermati!”, Danny lo bloccò di nuovo, “Ti ho detto che dobbiamo attendere il via per uscire di qua! Non medicarla!”
Il detenuto si innervosì.
“Mi ascoltami.”, rispose, “Finora i suoi amici della centrale non si sono fatti sentire e il taglio è così profondo che può vedere le ossa della sua mano... Che cosa vuole fare? Mettersi a fischiare l'inno nazionale o aiutarla?”
Avrebbe potuto alzarsi, intimargli di allontanarsi e, se si fosse opposto, estrarre la pistola dalla fondina e minacciarlo, non aveva alcuna paura di lui. Ma non lo fece. Se ne rimase a guardarlo mentre si prendeva cura della mano di Meg con una delicatezza che non sembrava appartenergli.
“Annelise, portami altra acqua.”
“Subito.”
Non appena ebbe finito di lavare via il sangue in eccesso, fasciò l'arto con la stoffa, stringendo più che poté.
“Questo dovrebbe servire a fermare temporaneamente l'emorragia.”, disse Carlos, “E quest'altro dovrebbe anche farla risvegliare.”
Prese una manciata d'acqua pulita e gliela versò sul viso. Gli occhi di Meg si aprirono, sbattendo velocemente per un'infinità di volte.
La ricetrasmittente si mise a parlare.
Agente Jones, portate la detenuta in infermeria. Il dottore sta arrivando. Passo e chiudo.”
Finalmente, si disse Danny tirando un sospiro di sollievo.
“Avanti, mettiti seduta...”, le disse Carlos, invitandola ad alzarsi.
Era stordita, sembrava non comprendere cosa le fosse successo. Non appena tentò di drizzare la schiena, aiutandosi con la mano ferita, il ricordo dovette guizzarle in testa e, senza alcun preavviso, svenne di nuovo.
“Mi aiuti.”, gli ordinò ancora il detenuto, “Non ce la farà mai a portarla in infermeria da solo.”
 
 
 
Le palpebre scattarono, si aprirono e la inondarono di luce bianca. Sapeva di trovarsi su uno dei lettini dell'infermeria, lo aveva sospettato fin dal primo momento di conoscenza, e guardò di sbieco la mano per controllarne lo stato. Era pronta a svenire di nuovo. La fasciatura era spessa ed ampia, così stretta da non permetterle di muovere le dita, né di percepire il calore del sangue dentro di esse. Se doveva essere sincera il suo intero braccio destro aveva perso ogni collegamento con il resto del suo corpo, non soltanto la mano, e sembrava essere morto.
E' l'anestesia, idiota.
Si era tagliata e non sapeva come era successo. Si ricordava di Carlos, dei cocci rotti a terra, del tentativo di estrarre i vasi dall'armadietto, e poi era venuto il dolore, il rosso cupo ed aveva perso conoscenza. E pensare che fino ai diciotto anni era stata in grado di guardarsi le scene più truculente dell'ultimi film di paura in circolazione.
Ma tutti cambiano.
Puntò l'unico gomito sano sul materasso del lettino e si fece forza, voleva sedersi e uscire da lì al più presto. Non fu facile, si sentiva debole e l'anestesia non la aiutava; stava lentamente dissolvendo il suo effetto e il dolore iniziava a farsi sentire. Le altre dita andarono a esplorare la superficie grezza della benda.
“Hey, come stai?”
Scattò sull'attenti e fissò davanti a sé.
L'agente Jones se ne stava al di là di una scrivania bianca ed attendeva una risposta.
“Bene...”, disse incerta.
“Non ti sforzare troppo.”, le consigliò, prima di chinare il capo.
Meg lo osservò scrivere, era concentrato sul suo lavoro. Le venne una curiosità impossibile da ignorare.
“Posso sapere cosa sta facendo?”, gli domandò.
La risposta giusta di una qualsiasi altra guardia sarebbe stata 'i cazzi miei',
“Devo stilare un rapporto su ciò che è accaduto nella serra.”, spiegò l'agente, “E consegnarlo ai miei superiori.”
“Non parlerà male di me, spero.”, ricambiò subito, un attimo prima che un giramento di testa la costringesse a sdraiarsi di nuovo.
La schiena cadde con un tonfo sul materasso, senza alcuna grazia, e Meg emise un gridolino di dolore soffocato. La testa era un vortice, immersa in un turbinio di pessime sensazioni che si stavano velocemente trasferendo verso il suo addome.
In uno schiocco di dita l'agente accorse da lei.
“Cos'è stato?”, le chiese, “Ti senti bene?”
Più che la sua colazione spingeva sulle pareti dello stomaco, più che Meg si sforzava di ricacciarla giù, prendendo profondi respiri e stringendo i denti.
“Ti chiamo un dottore.”
Afferrò l'agente per un braccio, stringendolo con tutta la forza che possedeva. Lo guardò dritto negli occhi, ignorò la sua espressione quasi spaventata, non si curò di una sua possibile reazione violenta.
“No... Dammi un...”
Un conato più forte di tutti gli altri, lo trattenne con le dita sane premute sulla bocca. Libero dalla sua stretta, l'agente si guardò intorno, doveva aver capito il pericolo imminente.
 
 
 
Localizzato il target, corse verso il cestino della carta straccia e, appena un attimo prima dell'esplosione, lo dette alla detenuta. Un secondo di ritardo e uno spettacolo raccapricciante avrebbe illuminato la sua giornata. Anzi, l'imminente fine del suo turno. Si voltò, le dette la poca privacy di cui poteva disporre, e sopportò i suoi lamenti.
Con l'aiuto di Carlos, poi di uno dei suoi colleghi, l'aveva portata di peso in infermeria, dove l'aveva lasciata alle mani del dottore e della sua infermiera. La ragazza era rimasta incosciente per tutta la durata della piccola operazione e si era risvegliata circa un'ora dopo la conclusione; era stata anestetizzata localmente e, con aghi e filo chirurgici, la sua ferita era stata chiusa. Non era così grave come aveva preannunciato Carlos, nonostante i sei punti che la suturavano da una parte all'altra, e il dottore aveva assicurato che, in capo a tre settimane, sarebbe rimasta soltanto una piccola cicatrice.
Una in più a segnarla per sempre.
“Posso andare in bagno o devi seguirmi fin lì?”
Le tolse le spalle.
La trovò con il cestino in mano, le labbra coperte e lo sguardo basso.
“Vai pure.”, le fece.
Tornò a sedersi dietro la scrivania, aveva il rapporto da concludere e consegnare nel più breve tempo possibile. Ne aveva scritti molti prima di quello, redatti in pochi minuti e recapitati senza una minima rilettura, ma mai aveva dovuto fermarsi, prendere in mano le fila dell'accaduto e riportare tutto in maniera sensata e reale. Era stato a lungo a pensare, seduto su quella scomoda sedia con la penna immobile tra le dita. Descrivere gli attimi precedenti era stato semplice: dopo aver concluso il turno di sorveglianza si era recato alla lezione, insieme al detenuto Barreiro. Con l'aiuto dell'agente Morris aveva tenuto sotto controllo la serra. Non aveva aggiunto altro, si era fermato al momento di riportare le generalità della detenuta ferita. Si chiamava Megan, e poi? Non ne aveva idea, non ricordava.  E non era quello il suo problema.
C'era stato qualcosa che non era andato per il verso giusto, qualcosa che lo stava facendo riflettere a fondo.
Meg lasciò il bagno e tornò a sedersi sul letto, le braccia se ne stavano sistemate sul grembo e la faccia era di un pallore preoccupante. La osservò attentamente prima di parlarle.
“Ehm... Potresti dirmi come ti chiami?”, le chiese.
“Meg...”, rispose mestamente, “Megan Sarah Howard.”
“Grazie.”
Scrisse le tre parole, Megan Sarah Howard. E di nuovo la penna si bloccò. Stropicciò gli occhi, era stanco e avrebbe voluto chiudersi nel suo appartamento in compagnia dei suoi pensieri. Aveva bisogno di trovare una ragione alle incertezze che si stavano velocemente solidificando nella sua testa come mai prima di qualche tempo a quella parte.
“Tutto ok?”, gli chiese Meg.
Alzò il viso dal foglio.
“Sì.”, le fece.
Doveva terminare quel rapporto e soltanto allora avrebbe potuto lasciare il carcere. Era il caso di sbrigarsi.
“Potresti aiutarmi con il letto?”, domandò ancora Meg, “Vorrei... Alzare la testata, non riesco a stare seduta.”
“Certo.”
La aiutò, con quella mano fasciata non sarebbe stata in grado di farlo da sola. La accontentò con poco sforzo e, una volta accomodati i cuscini, le permise di accomodarsi come meglio voleva, semi seduta. La relazione fu di nuovo nelle sue mani di lì a poco. Rilesse l'ultima frase, o meglio, il troncone incompiuto.
La detenuta Megan Sarah Howard
 “Grazie, agente.”
“Come sta la mano?”
“Credo che presto avrò bisogno di un antidolorifico. Sta iniziando a farmi molto male.”
“Ne hai bisogno adesso?”
La ragazza si fece titubante.
“No... Tra un po'.”
Le abbozzò un sorriso e le parole del suo rapporto tornarono davanti ai suoi occhi.
“Non scherzavo prima quando le ho chiesto se avrebbe parlato male di me.”, lo interruppe di nuovo.
Danny si vide costretto ad accantonare momentaneamente le sue speranze di fare presto un buon ritorno a casa.
“Non ti preoccupare. Sto soltanto scrivendo cosa è  successo nella serra.”, la rassicurò.
“Ok...”, e tentennò, “Ometterà che... Lo abbiamo fatto di proposito?”
Aggrottò la fronte e cercò la risposta giusta. Non poteva dirle che lui stesso aveva coscientemente evitato di riportare che i due detenuti avevano tenuto un comportamento poco consono allo svolgersi delle lezioni, chiacchierando di politica e letteratura e gettando a a terra i loro vasi, per rifare un lavoro partito male sin dall'inizio.
“Vedremo.”, le fece.
“La prego, agente, non lo scriva...”, insistette Meg.
“A che scopo?”, ebbe la curiosità di domandarle.
“Perché... Non vogliamo fare una... Brutta figura con la signorina Daisy.”
Era la scusa più rattoppata e piena di falle del mondo, Meg se ne accorse di lì a poco. Lo stava pregando perché voleva evitare provvedimenti disciplinari, per non macchiare la condotta degli ultimi mesi di condanna. Era necessario spenderli senza compiere cazzate, o il direttore non avrebbe mai scritto la sua lettera di raccomandazioni, se così si poteva chiamare il foglio di buona uscita che veniva dato in mano al detenuto, prima di lasciarsi le sbarre alle spalle.
“Ok, non lo scriverò.”, le disse, “Ma in cambio devi raccontarmi come hai fatto a ridurti la mano in quello stato.”
Meg sospirò.
“Non lo so... E' successo e basta.”, spiegò, “Prendevo i vasi e mi sono tagliata.”
Era la verità, ma c'era qualcosa che spuntava tra i pensieri di Danny. Un dubbio insensato e fuori luogo, ma doveva sfatarlo.
“Non hai cercato... Di farlo di proposito?”
“Certo che no!”, esplose subito Megan, “Non sono così... Così idiota.”
Lo strano movimento dei suoi occhi, l'esitazione, il marcare poco convincente della sua voce. Danny ebbe qualcosa in più su cui fermarsi e pensare a lungo.
“Ok.”, si accontentò.
Ma le parole arrivarono.
La detenuta Megan Sarah Howard si è  accidentalmente procurata una ferita da taglio sulla mano destra nell'atto di prelevare dei nuovi vasi dall'armadietto, situato nella zona sinistra (rispetto all'entrata) della serra. Ha perso conoscenza in seguito alla vista del suo stesso sangue. L'atto non è stato intenzionale.
Danny mordicchiò la penna. Sottolineò la frase.
L'atto non è stato intenzionale.
Non ne era certo, ma sentiva di farlo.
E c'era comunque qualcosa di sbagliato anche in quello, così come nel non aver dichiarato il falso incidente inscenato dai due.
“Sei sicuro di star bene?”, domandò di nuovo Meg.
“Sì... Sì, sto bene.”, le fece, distrattamente.
“So che non sono fatti miei...”, la sua voce era scocciata, “Ma...”
Danny sbuffò sonoramente. Appoggiò la penna, scostò i fogli, si tolse il capello e passò le dita tra i capelli.
“E lo sai piuttosto bene.”, le rispose altrettanto alterato, “Ti sto facendo un grosso favore, quindi per cortesia lasciami finire questa relazione!”
Meg lo fissava con occhi spalancati ed era spaventata. Danny non sapeva cosa fare.
Aveva alzato la voce, quasi gridato, ed era arrabbiato, fottutamente incazzato per colpa di tutta quella fottuta situazione, di quella giornata che non avrebbe mai e poi mai dovuto vivere.
Afferrò di nuovo la sua biro, firmò la relazione e si alzò.
La sedia stridette sul pavimento, la porta sbatté.
Quindici minuti dopo era sulla via di casa.
Guidava e non sapeva dove stava andando, la strada non gli era mai sembrata così sconosciuta. I suoi gesti erano meccanici, le marce si ingranavano da sole e i piedi sapevano esattamente quando premere la frizione, poi l'acceleratore. I suoi pensieri, invece, erano del tutto impulsivi, si inseguivano l'uno con l'altro senza sosta, senza alcun freno. Non venivano gestiti, selezionati o catalogati tra sensati e non, erano una pioggia insistente che lo offuscavano.
Aveva sbagliato tutto, o forse niente. Non avrebbe mai dovuto fare quel lavoro, oppure era giusto per lui.
Tutto per uno stupido incidente, per un taglio sulla mano di una detenuta, una giovane ragazza rinchiusa lì dentro per aver tolto la vita ad un'altra o ad un altro, Danny non sapeva. Tutto per aver permesso ad un carcerato come lei di aiutarla, mentre lui, attenendosi alle regole, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Quel taglio non era mai stato mortale, né avrebbe avuto ripercussioni troppo gravi, ma era il principio a disturbarlo.
Il principio derivato dal fatto che lui, una guardia, aveva saputo cosa e come farlo, e Carlos, il detenuto, aveva ignorato il suo ordine e si era comportato come una qualsiasi altra persona avrebbe fatto.
Ma non come l'agente Jones.
Si rese conto che, allo stesso modo, l'agente Jones rompeva a suo piacere le regole imposte al suo corpo di polizia. Si teneva ligio al dovere quando la situazione glielo imponeva ma se voleva era capace di fregarsene, di voltarsi dall'altra parte e far finta di non aver visto. Avrebbe potuto segnalare il comportamento scorretto dei detenuti posti sotto la sua sorveglianza, ma il rapporto consegnato al suo superiore non menzionava l'accaduto.
E senza accorgersene in un attimo quella divisa si fece soffocante.
Gli piaceva il suo lavoro, credeva in ciò che faceva ed era soddisfazione ciò che provava quando andava a letto ogni sera. Cosa stava realmente accadendo? Perché? Perché si era piegato davanti ad un detenuto? Perché si sentiva in colpa con Megan per essersi rivolto a lei con rabbia ingiustificata? Perché a volte riusciva ad essere gentile con chi aveva fatto del male agli altri e non si meritava nient'altro che il suo disprezzo?
Non si era mai posto quegli interrogativi.
Adesso sì.
Parcheggiò la sua auto ma le mani non lasciarono il volante. Vi appoggiò la testa. Era la stanchezza a causargli tutti quei problemi. Era chiaro che il giorno seguente avrebbe cancellato il ricordo e le sensazioni negative. I colleghi avevano i suoi stessi atteggiamenti, misti tra l'essere permissivo e fortemente severo, ma non avevano alcune conseguenze sulla vita privata. Doveva esserci stato qualcosa, un frammento dell'accaduto a disturbarlo nel profondo, ed essendo appunto un particolare infinitamente piccolo, sarebbe svanito presto.
Scese dall'auto e la chiuse, pronto ad entrare nel suo condominio. Salì i piani, infilò le chiavi nella toppa della serratura. Aprì la porta.
“Sorpresa!”
Trasalì per lo spavento. Sophie lo attendeva con un paio di birre in mano.
Come aveva fatto ad entrare?
“Come... Come hai...”
“La tua vicina di casa.”, spiegò lei, interrompendolo, “Mi ha riconosciuto e si è fidata di me. Le ho detto che avevo dimenticato le chiavi!”
Il piccolo mistero venne prontamente svelato ma la confusione creata dalla sorpresa era difficile da smaltire.
“Perché hai ritardato?”, chiese Sophie, “Hai trovato traffico? Ti hanno trattenuto al lavoro?”
Una serie di note mentali gli misero in bocca la risposta giusta da darle.
“Sì, sono rimasto... Imbottigliato a qualche isolato da qui.”, le disse.
La sua ragazza gli si avvicinò e, prima di dargli la birra, lo salutò con un bacio.
“Perché sei entrata senza aspettarmi?”, le domandò.
Non poteva negarle il fastidio. Avrebbe preferito trovarla seduta sugli scalini, come spesso era accaduto. Sophie era una gran curiosa, qualità che non riusciva ad apprezzare a pieno, nonostante fosse stato l'ingrediente fondamentale del suo lavoro di sociologa ricercatrice. L'avrebbe portata lontano, non era da tutti passare ore ed ore in una biblioteca, in un archivio, oppure sommersa da dati statistici e demografici per spolverare un vecchio indizio utile per il suo progetto universitario. Ma Danny, che poteva amare altrettanto la lettura, non era allo stesso modo felice di vedere il naso d'altri infilarsi tra i suoi fatti.
Fermo nell'ingresso, poteva già notare un paio di stupidi soprammobili posizionati diversamente da come se li ricordava. Era la sua mente a ingannarlo, ne era certo, ma dopo quella giornata così complicata, l'apparizione felice di Sophie  sarebbe degenerata in un litigio.
Lo sapeva.
“Perché... Ho un regalo per te! Anzi, due!”, cinguettò la ragazza dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia, “Ora chiudi gli occhi.”
“Ti prego, So-...”
“Chiudi gli occhi!”, esclamò lei.
“Ho avuto una giornataccia...”
“Chiudi gli occhi!!!”, insistette con forza.
Contraddirla non era saggio e Danny si adeguò. Abbassò le palpebre.
“Allora?”, le fece.
Sophie lo prese per mano e lo accompagnò in soggiorno, preoccupandosi di non farlo sbattere contro gli stipiti della porta. Danny avrebbe potuto percorrere quel tragitto nella medesima maniera ogni santo giorno della sua vita, non avrebbe avuto bisogno delle sue istruzioni, ma volle accontentarla fino in fondo.
“Ora apri...”, disse Sophie, emozionata, “Ta-dah!”
Le sue mani piccole indicavano un portatile bianco con lo schermo illuminato. Se ne stava al posto del suo vecchio computer fisso, quel macinatore di kilobite a cui si era affezionato come un cucciolo di cane.
Ebbe paura.
“Ho pensato che fosse stata davvero l'ora di rottamare quel coso.”, disse.
Quel coso.
“Questo è un vero computer!”, aggiunse sorridendo, “Ultima generazione, processore nuovo di pacca, il massimo della memoria fissa e temporanea... Ne capisco poco di dettagli tecnici, ma questo è il meglio che puoi trovare sul mercato!”
E' il meglio.
“Un mio amico mi ha aiutato a prendere il vecchietto, ha detto che non si può riutilizzare in alcun modo.”
Danny fissava quel minuscolo affare bianco senza distogliere lo sguardo o sbattere le palpebre.
“Ho fatto un back up di tutti i tuoi files, li ho trasferiti nell'altro.”, continuò Sophie.
Sentì le sue guance perdere tutto il loro colore.
“E mi sono messa a curiosare... Volevo trovare qualcosa di compromettente con cui ricattarti!”, e scoppiò a ridere.
Dannyh stava perdendo la pazienza.
“Sai che alcune delle cose che ho trovato sono davvero interessanti?”
Volle sedersi sul suo divano ma non ebbe la forza di raggiungerlo. Era troppo lontano.
“Se avessi saputo che ti piaceva leggere racconti e libri scaricati dalla rete, ti avrei comprato anche una stampante.”, notò intelligentemente, “Alcuni dei testi sono incompiuti, come riesci a leggerli? Io non avrei la pazienza di aspettare la conclusione dell'autore!”
Sophie aveva visto. Sophie aveva letto.
Il divano sembrò improvvisamente più vicino che mai e lo accolse in silenzio. Danny osservò l'espressione della sua ragazza mutare troppo velocemente.
“Non dici niente?”, gli chiese Sophie.“Non ti piace?”
“E' il miglior regalo che potevi farmi.”, le rispose in automatico, “Ti ringrazio di cuore.”
Gli occhi di Sophie si illuminarono e le se labbra lo baciarono più volte.
“Dillo che sono la ragazza migliore del mondo!”
Lo ripeté senza alcun entusiasmo, tentando disperatamente di essere convincente. La sorpresa non gli permetteva di essere se stesso.
“Ho un'altra bellissima notizia per te.”
La seduta del divano scomparve, si aprì un varco ultradimensionale tra la vita reale e quella parallela, un artefatto costruito ad arte dalla sua magnifica ragazza americana.
“L'unica cosa che devi fare è prenderti qualche giorno di ferie...”
“Mi vuoi portare in vacanza?”, le domandò.
Ogni atomo di sé pregò che la risposta sarebbe stata un sì.
“No, scemo!”, esclamò.
Gli dette una pacca sul braccio.
“La società finanziaria creata da mio nonno sta per aprire una filiale proprio qui, in Inghilterra. In questi giorni stanno portando a termine gli ultimi accordi contrattuali, nonostante gli uffici siano già stati popolati da gran parte degli impiegati, neoassunti o importati direttamente dagli States.”
Danny sapeva già quale sarebbe stata la conclusione di tutta quella gran bella introduzione. Sophie lo conosceva, aveva imparato a farcire di mille parole tutte le notizie più o meno spiacevoli, certa che avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Era così che l'avevano cresciuta i suoi genitori: una famiglia tanto benestante come la sua era stata in grado di darle tutto quello che voleva, accontentandola ogni qual volta era stato necessario. I loro insegnamenti avevano creato una persona intelligente, generosa e altruista, insieme ad una ben lunga lista di pregi.
A quella si aggiungevano l'ambizione, la testardaggine, l'incapacità di incassare un no, grazie.
“Stanno cercando il personale per il servizio di sorveglianza, ma ancora non hanno assunto il responsabile. Qualcuno che abbia le capacità giuste.”
E, si dava il caso, quella persona sembrava essere proprio lui.
“Ti ricordi la cena a casa di mia sorella? Beh, in parte è servita anche a questo, a dare una buona immagine di te... Per facilitarti le cose. Sei stato ben raccomandato a mio zio, che è il direttore della filiale.”
Bene, una semplice cena dai parenti era stata trasformata in un colloquio lavorativo.
A sua insaputa.
“Te la sentiresti di fare questo salto?”, chiese infine Sophie.
Danny non rispose, rimase a fissare il posto vuoto lasciato dal suo vecchio computer, rimpiazzato da un minuscolo aggeggio biancastro, il cui desktop era completamente diverso dall'altro. La scrivania era sgombra, il vecchio schermo catodico e l'unità centrale non la occupavano più.
Uno schiocco di dita e il custode dei suoi segreti se n'era andato. I suoi scritti erano stati violati, il solo pensiero lo faceva rabbrividire. Un altro schiocco di dita e il suo lavoro poteva essere sostituito senza alcun problema. Il messaggio era chiaro, Sophie si sentiva sicura abbastanza da poterlo manipolare. Un nuovo computer, un nuovo impiego, li aveva trovati entrambi perché gli voleva bene e si voleva prendere cura di lui. Sicuramente quel posto di responsabile del servizio di sicurezza gli avrebbe fruttato un sacco di soldi al mese, oltre che ad una carriera in rapidissima crescita. Da poliziotto a guardia giurata, un salto nel vuoto che sarebbe terminato con una comoda caduta, secondo i piani prestabiliti di Sophie.
“Nessun contatto con detenuti, soltanto un facile lavoro di coordinamento.”, aggiunse la sua ragazza, “Non dovrai fare altro che occuparti di gestire i tuoi uomini... Tutto qui.”
Tutto qui.
Nessun turno, nessun superiore, nessuna gerarchia esplicita o implicita.
Nessun detenuto, nessuna pena, nessuna colpa.
Nessuna attenzione, nessun guardarsi le spalle, nessun parlare-non-parlare con gli altri.
Nessuna sezione maschile o femminile, nessuna riabilitazione, nessuna serra.
Nessun Carlos, nessuna Megan.
Nessuna disobbedienza agli ordini da lui impartiti, nessuna ferita, nessun rapporto da scrivere.
Nessuna riflessione.
Il suo nuovo lavoro avrebbe cancellato facilmente tutte le complicazioni e le conseguenze, regalandogli un impiego “semplice”. Un posto che, in quel particolare momento, gli faceva salire l'acquolina in bocca. Danny si disse che avrebbe potuto provare, congedarsi per un paio di settimane e sperimentare. Solo un assaggio, un tentativo che non gli avrebbe nuociuto, ma non era certo della risposta.
Mentre i suoi pensieri continuavano ad aggrovigliarsi, inciampare su se stessi, morire e rinascere, Sophie parlava e parlava. La sua voce melodica gli faceva notare tutti gli aspetti positivi di un suo sì. Era ipnotizzante come soltanto lei sapeva esserlo.
“Ok.”, le fece, stremato, “Mi congederò per tre settimane.”
Sophie tentennò.
“Vediamo come si metteranno le cose.”, Danny continuò “E prenderò una decisione definitiva.”
La contentezza esplose sul viso abbronzato della sua fidanzata.
“Non tornerai dentro la tua vecchia divisa.”, disse, “Non la indosserai mai più.”
 
 
***


Le gambe di Rachel penzolavano fuori dal lettino, la loro padrona ignorava lo scricchiolio odioso delle vecchie giunture metalliche. Se ne stava ad osservarla senza distogliere gli occhi dalla sua figura: era un'altra delle sue mille tattiche utili a farla impazzire, e poi parlare.
Se Meg aveva un problema era solita nasconderlo in se stessa, trattenendo le brutte sensazioni e metabolizzandole lentamente. La spiacevole conseguenza del suo comportamento, come Rachel ben sapeva, era un sostanziale mutismo, rotto raramente da qualche monosillabo ripetitivo. In cambio, la sua compagna di cella si impegnava a disturbarla per tirare fuori, o letteralmente estrarre, dalla sua bocca tutto ciò che Meg nascondeva. Non era capace di resisterle, né di ritorcerle contro le sue tattiche.
“Rachel, per cortesia.”, le fece, “Lasciami in pace.”
L'altra non rispose.
Meg aveva speso tutto il suo fine settimana nel pensare alla brutta razione dell'agente Jones. Non era in grado di affermare con certezza se fosse risentita, addirittura incazzata nera, oppure se fosse impaurita. L'agente era, per appunto, un agente e, in linea di principio, si era comportato esattamente come ci si aspettava, ma Meg no lo digeriva.
Lo odiava, ma c'era qualcosa di diverso.
Meg, per un solo attimo, si era sentita al suo stesso pari. In quella dannata infermeria lo aveva visto chino sulla sua relazione, immerso in quelli che sembravano tutt'altro che pensieri piacevoli. Le era venuto naturale e spontaneo chiedergli come si fosse sentito. Meg, la detenuta, aveva chiesto a Jones, l'agente, cosa avesse avuto, come si fosse sentito, se bene o male. Da persona a persona, da donna a uomo, da esseri umani del tutto uguali.
Lo recitava Orwell, nella fattoria tutti gli animali erano uguali agli altri animali, ma qualcuno era sempre più uguale degli altri.
E loro non sarebbero mai stati uguali, Meg lo sapeva benissimo.
“Credo che con questa mano non mi sarà semplice seguire il corso.”, disse.
“Cosa ti ha detto il dottore?”, domandò allora Rachel, lasciando il letto.
“Dovrò tenere le bende per un po', poi toglieranno i punti e vedranno se sarà il caso di fare riabilitazione.”
“Addirittura?”, esclamò l'altra, “Non pensavo che fosse così grave.”
Meg scrollò le spalle.
Forse era il caso di sdraiarsi sul suo lettino, chiudere gli occhi ed attendere che l'orologio scoccasse la mezzanotte, trasformando la domenica in un lunedì. Il weekend era scorso in modo pessimo, sperò che la nuova settimana davanti a lei sarebbe stata lievemente migliore di quella in conclusione. Soprattutto sperò di avere la giusta occasione per prendere quell'idiota di un agente da una parte e riempirlo di calci.
Si trovò di nuovo nel mondo dell'utopia.
 
 
***
 
Il lunedì arrivò con tutto il suo carico di malumore. La ferita le doleva, le bende le rendevano impossibile utilizzare le dita e, essendo tutt'altro che mancina, Meg fu costretta a sforzarsi in ogni piccola azione quotidiana. Spazzolarsi i capelli, lavarsi i denti, vestirsi, fare colazione, tutto con la mano sinistra, goffa e inutile. Le gengive presero a sanguinarle, i bottoni non entravano dentro alle asole, il cibo slittava via dalle posate. Aveva bisogno di un aiuto e Rachel fu estremamente contenta di darglielo. Più che altro, fu estremamente divertita, lei come tutte le altre detenute.
La presero in giro, la chiamarono con migliaia di soprannomi.
Per la prima volta fu contenta di andarsene al corso, lasciandosi alle spalle un pollaio in piena attività.
Meg entrò nella serra in compagnia di Annelise e delle altre detenute, nonché dell'agente Morris. Tutte sembravano preoccuparsi per lei, per la sua mano, e vollero sapere tutto ciò che il dottore le aveva consigliato per una pronta guarigione.
“Niente di che, devo soltanto tenere le bende.”, rispose.
“E poi?”, domandò Annelise.
“E poi mi toglieranno i punti.”
“Come farai con le lezioni?”, insistette la donna, “Non puoi lavorare, infetterai la ferita.”
“Potrei stare ad ascoltare. Prometto che sarò una studentessa migliore.”, disse, ponendo la mano infortunata al cuore e alzando la sinistra in aria, “E che starò più attenta.”
Annelise alzò le sopracciglia e sorrise.
Falso.
L'agente Morris intervenne.
“Potrei aiutarti nell'impresa.”
Meg ebbe un attimo di smarrimento.
“No... Grazie.”, le rispose, quasi intimorita.
Anche l'agente notò la strana inflessione della sua voce. Morris la conosceva, sapeva che, quando Meg voleva, era una detenuta dalla lingua lunga, e si era aspettata una controbattuta sarcastica. Le due si guardarono, come se il vuoto creatosi dovesse essere riempito in qualsiasi modo, da una parola o da una risata, da un gesto.
La stasi del momento venne interrotta dall'entrata di Daisy, seguita da Carlos.
Meg prese un profondo respiro e abbassò gli occhi al pavimento, pronta a ignorare totalmente l'agente Jones. Non che  le dovesse delle scuse per ciò che aveva fatto, era fuori dal mondo che accadesse. Lo faceva per principio.
La porta della serra venne chiusa con un tonfo, i presenti sussultarono in gruppo.
“Cominciate pure.”
La voce non era quella dell'agente Jones, era bensì totalmente diversa, di una tonalità più alta ed aveva un accento completamente diverso. Perfetto, si disse Meg: tolto il dente, tolto il dolore. Prese un profondo respiro e si liberò della tensione.
“Megan, come va la mano?”, le domandò Daisy, avvicinatasi.
“Beh, fa un po' male.”, le rispose, “Posso seguire senza problemi, ma non mi è possibile lavorare.”
“Perfetto, starai in coppia con chi vuoi.”, propose l'insegnante, “Scegli.”
Senza spendere troppo tempo, Megan puntò subito il suo dito su Carlos. Le lezioni sarebbero passate molto più velocemente in sua compagnia, ne era certa. Daisy non ne fu contenta.
“Ok.”, disse, roteando gli occhi, “Stai con Carlos.”
“E' meglio farle scegliere un'altra persona.”
Meg si voltò e fissò gli occhi in quelli del nuovo agente. Mai visto prima di quella volta. E aveva un'emerita faccia da stronzo.
“Barreiro non dovrebbe avere contatti con le detenute.”, continuò la guardia.
“Andiamo, Penn.”, lo riprese la sua collega Morris, “Non ha mai dato fastidio durante le precedenti lezioni.”
“Ci sono delle regole. Perché non rispettarle?”, ribatté l'altro.
“Non è saggio creare tensione in queste situazioni.”
“Non è saggio creare rapporti in queste situazioni.”
Morris si vide costretta a lasciare la corda e dargli la vittoria. L'agente Penn si sistemò nelle vicinanze di Carlos, che per tutta la lezione dovette starsene ad almeno un metro dalle altre, in solitario. Meg ripiegò su Annelise, che era ben contenta di averla con sé.



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Note dell'autrice.
Vi ringrazio per l'attenzione e per le recensioni :) Spero che continuerete a seguire questa storia!
Tutte le citazioni di questo capitolo, di qualsiasi tipo, non sono state riportate a scopo di lucro.

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