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-I personaggi di “Death Note” appartengono a TsugumiOhba e TakeshiObata, a cui io
sottraggo principalmente L e Watari, promettendo (a
dita incrociate dietro alla schiena) di non strapazzarli troppo. È prevista
l’introduzione anche di altri personaggi dell’opera,
ma vabbè, quando (e se) accadrà sono certa che ve ne
accorgerete J ;
-È
una “Whatif…?” perché la storia è ambientata successivamente al caso Kira ma (ta-dan!) L non muore. Capirete cosa mi sono inventata
per tenere in vita il detective direttamente all’interno della storia, ma vi avviso di non aspettarvi nulla di particolarmente plateale…
mi serviva vivo e ho fatto in modo che non morisse, stop, quindi non
meravigliatevi troppo se non troverete un racconto dettagliato dell’accaduto…
la mia storia si snoderà su altro. E qui passiamo alla
terza premessa;
-Ho
cercato (e cercherò in futuro) di mantenere i
personaggi di TsugumiOhba
e TakeshiObataIC. Non simpatizzo per l’OOC e nella
mia storia farò di tutto (nei limiti del possibile) affinchè
i personaggi sopra citati non subiscano sconvolgimenti che stonino
nettamente con quello che è il carattere originale. Il che vuol dire che in questa storia avverranno sicuramente dei
cambiamenti, chi mi conosce sa che tendo ad “umanizzare” i personaggi che
estrapolo dai fandom per manipolarli nelle mie
storie, ma sa anche che il cambiamento a cui sottopongo i poveri sventurati è
graduale. E qui passiamo alla terza premessa;
-Il
mio scopo è narrare fondamentalmente uno sviluppo, una crescita. E automaticamente un nuovo modo
di vedere le cose. A voi la decisione di seguirmi o meno
in questo pseudo esperimentoJ ;
-Il rating sarà arancione
perché la storia tratterà di temi delicati (motivo che mi spingerà
probabilmente in futuro ad alzarla a rosso, ma ancora non so) … per cui invito tutti coloro che sono facilmente suscettibili
a non accostarsi alla lettura. Ciò non significa che troverete in ogni
capitolo una scena splatter, una scena di sesso e una
scena in cui facciano da padrone tutte le parole poco fini che l’uomo abbia
potuto elaborare. Anche semplicemente il descrivere
una situazione delicata sotto un certo punto di vista può disturbare. Ed mi sento in dovere di avvisarvi che tratterò soprattutto
l’introspezione, quindi… fate voi ;
-Mea
culpa, non sono il tipo di persona affidabile sugli aggiornamenti. La cosa
assolutamente certa è che, qualsiasi lasso di tempo
possa passare, io una storia non l’abbandono (salvo il caso in cui, ahimè, uno Shinigami monello si
metta a scrivere il mio nome sul suo quaderno ^^), quindi l’unica cosa particolarmente seccante che vi possa capitare è
il dover aspettare mesi e mesi per il prossimo aggiornamento *e fu così che
dissuase tutti a leggere la storia*… ‘nsomma, bontà
vostra >__<
Credo sia tutto.
Qualora mi venisse
in mente qualcos’altro non esiterò a farvelo sapere nell’angolo che riserverò
alle “delucidazioni” e ai “ringraziamenti”, a fine capitolo.
Sentitevi liberi di contattarmi ;) e, soprattutto, sentitevi assolutamente liberi di darmi
un parere sincero su ciò che i miei neuroni malati partoriranno xD
Gli occhi verdi scrutarono l’esigua folla
di credenti della messa mattutina abbandonare le panche in rispettoso silenzio.
Alcuni di essi,
prima di uscire, sollevarono ancora una volta gli sguardi verso l’enorme croce
di legno posta alle spalle dell’altare, prodigandosi in riverenti genuflessioni
e accompagnando queste a lenti movimenti della mano, che andavano a definire il
segno della croce.
Solo poche donne restavano ancora, sedute
sulle panche in prima fila, intente a far scorrere i
granelli del rosario tra le mani, elevando talvolta, in coro, accorate
suppliche alla donna di bianco vestita che, dall’alto del ripiano in marmo sulla quale era stata adagiata, rivolgeva gli occhi
verso la croce, alla sua sinistra, in una muta richiesta d’ascolto.
Con un lieve sorriso a
incurvarle le labbra, le dita diafane, in netto contrasto con la manica del
lungo vestito nero dalla quale spuntavano, andarono a chiudersi delicatamente
attorno ai granelli rossi della propria corona.
-Pàternòster, qui es in caelis… -
.
Abbassò il capo, posando lo sguardo su quel
che rimaneva del suo passato, perdendosi in ricordi lontani.
-… fiat volùntas tua… -.
Le mani strinsero con rabbia la piccola
croce che penzolava dalla corona.
-…
nenosindùcas in tentatiònem… - .
Il sarcasmo s’impadronì del suo volto, e
trattenne a stento una risata.
-… libera nos a malo - .
-Amen
– si ritrovò a pronunciare nonostante tutto, reprimendo la rabbia, coprendosi
il volto col velo nero che le ricopriva il capo e alzandosi quando ebbe individuato
il motivo che l’aveva costretta a trovarsi in quel posto, a quell’ora.
Non perdendo di vista l’anziano sacerdote,
avviatosi a svolgere i propri doveri questa volta nel confessionale, si diresse
verso quest’ultimo lentamente, ponderando bene i
passi, esprimendo dentro di sé il desiderio d’impedire ai tacchi delle scarpe
che indossava di non scandire il tempo, come invece sembrava stessero
facendo.
Si fermò, inspirando profondamente, gli
occhi ancora incollati al drappo di velluto viola che decorava il legno scuro
del luogo all’interno del quale si era chiuso il suo obiettivo.
Ce la poteva fare… anche
se questo avrebbe implicato mettersi nuovamente in gioco. Aveva un
pessimo ricordo del ruolo di pedina che si era trovata a ricoprire tempo fa… stavolta sarebbe riuscita a gestire il gioco a suo
vantaggio?
Attese che l’uomo che l’aveva preceduta a
causa della sua voluta lentezza uscisse dal
confessionale, poi vi entrò, trattenendo il fiato.
-In
nomine Patris, etFilii, etSpiritusSàncti - .
-Amen
– si ritrovò a rispondere a bassa voce, scrutando attentamente la figura al di là del sottile divisorio traforato. Non era cambiato
di una virgola nel corso del tempo. I capelli, certo, avevano perso il loro colore
bruno, originario, venendo sostituiti da una
moltitudine di capelli grigi. E le rughe erano un segno evidente dell’età che
avanzava, nonché – forse
– del dolore che doveva avergli scavato dentro per tutto quel tempo.
Chissà se un sacerdote si confessava a sua
volta, si ritrovò a pensare in quel momento. Non s’era mai curata di chiedersi
una cosa simile.
Un mucchio di cose non s’era mai curata di chiedersi, a dire il vero. Quando
le risposte più necessarie e urgenti stentavano a venire a galla, quanta
importanza poteva avere il resto?
-Ho
peccato, Padre –
decise di rispondere dopo il lungo silenzio provenuto dall’altra parte,
ricevendo in risposta un altro lungo momento di silenzio a causa – ne era certa
– del tono marcato che aveva utilizzato per pronunciare l’ultima parola.
-La
misericordia di Dio è infinita, figliola – rispose
l’uomo dopo un po’, non prima di essersi schiarito leggermente la voce.
Si ritrovò a sorridere amaramente,
stringendo i pugni per non lasciare che la collera prendesse il sopravvento.
-Ne
sono consapevole – controbbattè modulando la voce,
cercando di non manifestare nervosismo.
-Confessa
allora i tuoi peccati, figliola, affinché possa assolverti nel nome… - .
-Lei
confessa mai i suoi peccati, Padre? – gli chiese
istintivamente, aspettando pazientemente la risposta dell’uomo, che tardava ad
arrivare probabilmente perchè preso in contropiede. Era realmente
interessata alla risposta.
-Naturalmente…
sono un servo di Dio… e ciò non mi esclude dalla confessione… - .
-Come
tutti i credenti, dunque, teme l’Inferno - .
-Temo
la collera del Signore, e temere questi è più importante di
temere qualunque altra cosa… - .
-Teme
l’uomo? - .
-L’uomo?
– fu la pronta domanda dell’anziano sacerdote.
-L’uomo
non è misericordioso. L’uomo è meschino, abbietto e crudele. Non ha bisogno di mancare di rispetto al Signore per finire all’Inferno, riesce a viverci
tranquillamente qui, sulla Terra, facendone il proprio habitat – rispose tutto
d’un fiato, non riuscendo più a contenersi. – Ma sono
certa che lei lo sappia già. - .
L’agitazione dell’uomo, indipendentemente
dal frequente balbettio sconnesso mormorato, era ormai palpabile.
-Figliola…
il mondo in cui viviamo purtroppo… - .
-È
la terza volta che mi chiama figliola, Padre
– decise dunque d’intervenire nuovamente, ben conscia di quanto sarebbe
avvenuto da lì a poco. – Eppure ricordo nitidamente la sua estrema reticenza
nel volerlo riconoscere, tempo fa - .
Se avesse avuto un
udito più sviluppato, meno umano, sarebbe stata sicura di aver avvertito un
acceleramento del battito cardiaco del suo interlocutore.
-Non
capisco… - .
-Naturalmente – rispose cinicamente,
impedendogli di continuare a parlare. – Anch’io, in
effetti, non capisco. Non capisco che bisogno ci sia stato di farmi fare un
test del dna per dimostrare una cosa palesemente ovvia quando
avevi già deciso di abbandonare me e mia madre… - .
Calma cadenzata. Non credeva
sarebbe riuscita a trattenersi.
Il suo interlocutore aveva ormai smesso di
obiettare, attendendo probabilmente che la spada di Damocle
gli recidesse il capo.
Eppure lei dentro di sé non riusciva a impedirsi di sperare che qualche, seppur piccolo, miracolo potesse accadere…
-Si
sta sbagliando – lo sentì pronunciare dall’altra parte, vedendo tutte le sue aspettative esplodere come una bolla di sapone. Ancora una
volta.
Trattenne il fiato.
-È morta, James –
si costrinse
a dire, sentendo dentro di lei una fitta attraversarle il petto. – L’hanno
uccisa. – continuò, avvertendo la voce affievolirsi a causa del groppo che le si era formato in gola. - Così come uccideranno me –
concluse, lasciando che le prime lacrime le solcassero
il volto contratto in una smorfia di dolore.
Il silenzio calato nel confessionale era
più significativo di qualsiasi parola.
-Ti
prego… - sussurrò, avvicinando la bocca al divisorio,
per fare in modo che la sua voce rotta dai singhiozzi gli arrivasse più nitida.
-Le
ripeto che si sbaglia – fu la fredda risposta. – Non
so lei chi sia… ne di che parla. L’unica cosa che
posso fare per lei è consigliarle di rivolgersi alla polizia se ha problemi di
un certo spessore - .
-Hanno
corrotto tutte le persone alle quali potevo
rivolgermi… - biascicò, tentando di ridare alla voce un tono più fermo.
-Non
è un problema che mi riguarda – fu l’ennesima risposta
lapidaria.
Le gambe le tremarono, mentre un freddo
pungente le attraversò la schiena ricoperta di sudore.
-Sei
solo un lurido figlio di puttana! – urlò, dando un pugno al divisorio. – Che tu possa marcire all’Inferno del tuo patetico dio,
vigliacco! - .
Abbandonò il confessionale velocemente,
mettendosi poi a correre verso il grande portone della
Chiesa, incurante degli sguardi interdetti e sconvolti dei fedeli che stavano
pregando.
A nulla erano valsi quegli anni spesi a
servire il Signore, quell’ultimo gesto gli aveva fatto guadagnare un biglietto di
sola andata per il regno di Lucifero.
-Ave Maria, gratiaplena… -.
Dannata curiosità che l’aveva spinto ad
osservare attraverso il divisorio... aveva distolto lo
sguardo non appena s’era accorto di essere osservato a sua volta.
-…dòminustecum, benedica tu in mulièribus… - .
Ma, per Dio, quei capelli…
-… etbenedìctusfructusvèntristui, Iesus… - .
Rossi… come i suoi!
Senza riuscire ad impedirselo, si ritrovò a
singhiozzare, nascondendo il viso tra le mani.
Contrasse il volto in un’espressione di dolore,
continuando a pregare, piegandosi al suolo consacrato più di quanto già non lo
fosse, incapace di sostenere la visione della croce.
-…
SanctaMaria, materdei, ora pro nobispeccatoribus… - .
Avvertì una delle porte della Chiesa
aprirsi per poi richiudersi delicatamente.
Deciso a concludere
la preghiera, si propose di avvisare successivamente i fedeli o gli eventuali visitatori
che quella non era ora ne di messe ne di visite.
-… nuncet in horamortisnostrae… - .
-Amen!
- .
Riaprì gli occhi, avvertendo un sudore
freddo imperlargli la fronte.
-Amen
– concluse a sua volta, riavvolgendosi la corona del
rosario attorno al polso destro e voltandosi lentamente verso la fonte della
voce.
-Come
va, James? – gli chiese l’uomo biondo gioviale, in
tono puramente sarcastico, allargando il sorriso man mano che vedeva il suo
interlocutore sbiancare.
-Beh,
capisco. Arriviamo quindi al dunque: partendo dal presupposto che grazie ai
dati che possediamo non avresti alcuna possibilità di mentirci e che un tuo
tentativo di farlo ti condurrebbe istantaneamente alla morte, ci aiuti a trovar
pel di carota? - .
Con gli occhi ancora umidi per il pianto
digrignò i denti, realizzando in quel momento cosa aveva fatto.Ma non avrebbe permesso che il suo egoismo procurasse altro
dolore, no.
-Va
all’inferno, Hector! – scandì meticolosamente,
avvicinandosi col volto a quello dell’uomo che aveva davanti.
Fu un attimo.
Una confusione di colori e sensazioni…
rosso e dolore, sgomento, realizzazione…
si condusse una mano al collo prendendo ad annaspare, mentre il corpo, toccando
terra, perdeva sensibilità e gli occhi si chiudevano sulla statua
dell’Immacolata.
***
Aveva perso.
Watari non era
completamente d’accordo con la sua affermazione, in fondo anche Kira aveva perso, dunque il caso poteva dirsi concluso con una pareggio, che non decretava affatto una
sconfitta da parte del detective.
E invece no.
Il non poter dimostrare che LightYagami fosse Kira, per Ryuzaki era stato
inconcepibile a tal punto dall’abbandonarsi al sonno e dal non toccare dolci
per giorni. Uno stato semi depressivo, immaginò Watari,
quando per l’ennesimo giorno fu costretto ad osservare la torta di fragole
appena sottratta di un pezzo che giaceva accanto al giovane, immobile davanti
al proprio mac.
Eppure non riusciva a
dispiacersene.
Dal canto suo, quali che fossero le
conclusioni di Lawliet sul caso, QuillshWammy era infinitamente grato - al cielo, al caso o
al fato che dir si voglia - di aver potuto assistere al sorgere del sole un giorno
in più.
Merito del caso forse. Se quello Shinigami che proteggeva Misa Amane non si fosse accorta
che Light Yagami avesse convinto quest’ultima
ad effettuare un nuovo scambio degli occhi per
potersene servire nuovamente, molto probabilmente non avrebbe mai
scritto il nome del ragazzo sul proprio quaderno, decretandone la morte – sotto
gli occhi scioccati dell’intera squadra investigativa – e scomparendo a sua
volta.
Se gliel’avessero
raccontato tempo prima, evidentemente avrebbe riso al sentirsi raccontare
che – nella recondita eventualità in cui fossero esistite – delle divinità potessero
affezionarsi a degli uomini a tal punto da annullare se stesse, rinunciando
alla propria immortalità.
La smentita era arrivata da Rem, che, per essere assolutamente certa che in futuro Misa
non potesse più essere tentata da se stessa o da qualcun altro ad effettuare lo scambio, aveva bruciato il primo quaderno –
facendo sparire inevitabilmente anche Riuk – e poi
aveva scritto il nome del ragazzo sul proprio, decretando anche la sua fine.
Così facendo erano sparite tutte le prove
che vedevano coinvolto il figlio del sovrintendente Yagami
nel caso Kira, ovvero un
pugno in pieno petto a Ryuzaki.
In merito al quaderno lasciato da Rem, Quillsh s’era premurato di
bruciarlo personalmente non appena Ryuzakine aveva riconosciuta l’inservibilità.
Quando anche l’ultimo
foglio era diventato cenere, non era riuscito a trattenersi dall’asciugarsi gli
angoli degli occhi.
Era finita.
Kira non avrebbe più
mietuto vittime… e lui e Ryuzakieranovivi.
Anche se a giudicare dallo stato in cui in
quel momento riversava il grande detective poteva
dirsi il contrario.
-Ryuzaki - .
Gli occhi d’ossidiana del ragazzo rimasero
incatenati al monitor del pc.
Per nulla scoraggiato, Quillsh
spostò con un solo gesto le pesanti tende che occludevano
la finestra, facendo entrare il sole.
Come immaginava, Lawliet portò una mano a schermarsi gli occhi,
disturbato da quell’improvvisa intrusione nel suo
ambiente cupo.
-Sorry – scherzò
l’anziano inventore, per nulla pentito. MaRyuzaki tenne ostinatamente gli occhi fissi sul monitor del
mac, prendendo a far scorrere velocemente la rotella
del mouse con una mano e piluccando con l’altra un biscotto secco.
-È arrivata la sacher
torte – aggiunseWatari, con un sorriso, attendendo una reazione del
giovane. – L’originale - .
A quel punto Lawliet
sollevò gli occhi.
-Credevo che gli
ordini di pronta spedizione fossero limitati al solo invio di materiale urgente
– constatò acutamente, chiedendosi evidentemente perché non avesse potuto usufruire
di quella fantastica opzione anche in altre circostanze.
-In effetti è così –
rispose solennemente l’uomo. – Ma questa volta ho
ritenuto potessimo permettercelo – aggiunse, ammiccando scherzosamente al
ragazzo.
Quillsh ebbe così modo di vedere - mentre si accingeva a tagliare la prima fetta della
torta austriaca - per la prima volta dopo la conclusione del caso Kira un sorriso – seppur accennato - sul volto stanco del
suo ragazzo.
-Questo
è un paese davvero magnifico – espresse Watari ad
alta voce, guardando attraverso la finestra che dava sugliChampsElysees, mentre un
paio d’occhi neri lo osservavano attentamente, senza che se ne accorgesse.
Inizialmente era rimasto perplesso dallo
scoprire che, lasciato il Giappone, si sarebbero diretti in Europa. Non vi
erano casi di particolare attenzione che li richiamavano ai loro doveri, quindi
vi era almeno il trentacinque per cento di probabilità che quello che si
sarebbero apprestati a fare era un viaggio di piacere.
Ipotesi che, a quanto pareva, risultava corretta. Bizzarra ma corretta. Nonché
assolutamente strana. Se poi di stranezze
si potesse ormai parlare, considerando che l’ordine delle cose era stato
completamente capovolto nel momento in cui gli avevano chiesto di prendere
parte alle indagini sul caso Kira.
Dei della
morte.
Rabbrividii, decidendo di non approfondire
nuovamente i pensieri su quelle assurde creature di cui si era visto costretto
ad accettare l’esistenza.
Per non parlare del Death
Note.
Se da qualche parte
vi era – evidentemente – un mondo popolato da esseri come Riuk
e Rem, quante probabilità v’erano che esistessero
altrettanti mondi paralleli popolati da altrettante creature strane che, da un
momento all’altro, avrebbero potuto tranquillamente decidere di entrare in
contatto con gli esseri umani, stravolgendone l’esistenza?
Non volle pensarci.
Rivolse nuovamente lo sguardo all’uomo,
sorprendendosi della tenacia che dimostrava nell’osservare incessantemente il
paesaggio che gli offriva il decimo piano dell’albergo nel quale soggiornavano.
Qualsiasi altra persona non avrebbe mai fatto caso ai cambiamenti comportamentali di QuillshWammy, ma lui, al
contrario, non avrebbe mai potuto non accorgersene.
Quillsh aveva sempre avuto
l’abitudine di svegliarsi di buon’ora – che il dovere
lo chiamasse o meno – e occuparsi con dovizia della
propria giornata, che poi non si rivelava essere molto diversa dalla giornata
che spettava anche a lui, solo che l’uomo sottoponeva ad una più minuziosa
attenzione i particolari che lo riguardavano.
Il latte nel thè, la t-shirt pulita ogni mattina, i piatti sempre colmi
di qualsiasi suo capriccio. Per non parlare di tutto il resto.Watari era un
assistente impeccabile.
E nulla era cambiato
dall’abbandono del Giappone. O almeno apparentemente.
Quillsh continuava a svegliarsi
di buon’ora, ma molto più presto rispetto a prima,
prendendo puntualmente a consumare la colazione davanti
ad una finestra che dava ad est. Solo quando il sole era ormai spuntato
iniziava la sua giornata, il suo lavoro… ma con una
dedizione maggiore.
Non che prima si
fosse mai comportato in maniera sbrigativa e superficiale.
Le numerose strutture destinate
all’accoglienza di orfani che portavano il suo nome erano
la prova inconfutabile che si trattava concretamente di una persona che amava
il suo lavoro con la stessa passione con cui perseguiva i suoi obiettivi.
La giustizia prima di tutto. Non a caso era
nato L e non a caso aveva deciso di dedicare la sua vita a quest’ultimo,
affinché avesse sempre potuto avere tutto ciò di cui necessitava.
Era piuttosto il modo con cui gli piegava le maglie pulite, le volte che girava il cucchiaino nella tazza, il sorriso che accompagnava puntualmente al buongiorno del mattino…
Sembrava aver trovato un nuovo modo di
vivere.
La risposta al perché era piuttosto ovvia.
Poco prima che Light Yagami
conducesse una mano al proprio petto e si accasciasse
a terra privo di vita, era andato a comunicare a Watari
che v’era il settanta per cento di probabilità che di lì a poco sarebbero morti
entrambi per arresto cardiaco.
Ricordava perfettamente il volto del suo
tutore.
L’espressione
sorpresa di vederlo improvvisamente di fronte a lui, la fronte aggrottata
nell’assorbire la notizia, la mascella serrata nell’apprendere la
realtà dei fatti.
Non ne era sicuro,
ma perfino gli occhi – che mai avevano manifestato un coinvolgimento emotivo in
reazione a ciò che di negativo accadeva all’esterno – in quel momento gli
parvero rabbuiarsi.
Paura, forse.
La stessa paura che l’aveva colto solo dopo che gli occhi vitrei di Light si furono piantati nei suoi, trasmettendogli
l’immagine terrificante di quella che era la morte.
Prima di quel momento, incurante della
sorte che gli sarebbe toccata sicuramente di lì a poco
se Rem non fosse intervenuta, aveva continuato a
pensare a un modo per incastrarlo.
Solo dopo
s’era reso conto del miracolo
avvenuto.
Prima di rendersene conto aveva salutato
professionalmente tutti gli uomini del gruppo d’indagine che avevano deciso di
lavorare al suo fianco, leggendo negli sguardi di ognuno di essi
il riflesso degli occhi vitrei di Light.
Poi s’era condotto –
quasi inconsciamente – una mano al petto, avvertendo il cuore battere,
incredulo.
Era stato allora che era avvenuto qualcosa.
Assorto nei suoi pensieri, non si era
accorto dell’arrivo di Watari. Gli si era messo di
fronte e quando lui aveva sollevato la testa per guardarlo, gli aveva sorriso.
Ma lui non aveva
ricambiato.
-Da
quest’angolazione non è
possibile vedere la TourEiffel
in modo chiaro… - .
Riportò gli occhi sull’uomo, riprendendo a
sorseggiare il caffè.
-Potresti
visitarla – gli propose in uno slancio di pura spontaneità, calcolando successivamente un probabile invito dell’uomo ad
accompagnarlo.
-Ti
va di accompagnarmi? – sentì infatti chiedersi
successivamente, in tono quasi timoroso probabilmente a causa degli
innumerevoli precedenti inviti declinati.
-No
– gli rispose, non lasciandosi sfuggire la sfumatura
di dispiacere che aveva colto Quillsh. – Preferisco dare un’occhiata nei dintorni, se non ti dispiace – aggiunse
subito dopo, sollevandosi dal divano nel quale era sprofondato per rendere
evidente la sua reale intenzione nel volersi schiodare da lì. Motivo per il quale sapeva che Quillsh
non perdeva occasioni d’invitarlo ad uscire. D’altronde era
dall’intervento in ambulanza per salvare Matsuda che…
Afferrò al volo tre biscotti ricoperti di
glassa al cioccolato e li ingurgitò.
Doveva smettere di pensare al caso Kira.
-Ci
vediamo tra un’ora, allora – disseWatari
sorridendo nel suo solito modo conciliante, indossando il suo cappello inglese
e sparendo oltre la porta.
Lawliet si strofinò i
piedi, decisamente seccato di dover fare lo stesso.
Inchiodato sul posto temporeggiò per qualche secondo ma quando vide l’uomo
ritornare indietro e tenergli la porta aperta, invitandolo ad uscire, non potè fare altrimenti.
Delucidazioni:
-Le
parole scritte in corsivo latino appartengono rispettivamente al Padre nostro e
all’Ave Maria, preghiere cristiane, e mi sono state
gentilmente concesse da wikipedia e il web in generale, essendo per me la lingua ostica. Quindi,
qualora trovaste degli errori sapete con chi
prendervela J ;
-Con
“Sorry” (che, per chi non lo sapesse, significa “Mi
dispiace” in inglese) ho voluto giocare un po’ sul fatto che QuillshWammy sia, per l’appunto,
inglese. Chissà che in futuro non mi riprenda lo sghiribizzo
di farlo parlare in lingua madreJJ
Ringraziamenti:
-Nonostante,
com’è naturale che sia, la storia non sia ancora stata recensita mi sento in
dovere di ringraziare tutti coloro che daranno anche
solamente una chance a questo progetto, quindi grazie a te, chiunque tu sia,
per essere arrivato fino a qui. *inchino*
Le previsioni metereologiche
avevano previsto cielo nuvoloso su tutta la regione, ma le leggere schiarite erano state molto probabilmente mal interpretate dai professionisti del settore, dal momento
che una leggera pioggia – inizialmente rada e delicata – ora costringeva al
riparo chiunque non intendesse prendersi un malanno.
Starnutì, maledicendo il cielo per
l’ennesima volta – seppur per ragioni diverse dalle precedenti – portandosi un
dito al naso per impedirsi di replicare il gesto.
-Dannazione…
- esclamò a denti stretti, prendendo a tremare dal freddo e stringendosi nel –
troppo sottile – trench color panna, trasformatosi ora
in una leggera tonalità di grigio, ormai fradicio.
Nonostante le condizioni in cui riversava il soprabito, raccolse i lunghi capelli rossi in
un improvvisato chignon, mettendoli poi al riparo all’interno del bavero,
avvertendo subito dopo innumerevoli gocce d’acqua scorrere senza pietà alcuna
lungo la sua schiena, facendola rabbrividire.
Cercando d’ignorare il freddo, presa ormai
consapevolezza che quel diluviare spietato non si sarebbe placato entro breve,
decise d’incamminarsi, fermandosi poi in prossimità del primo luogo asciutto in
cui si sarebbe imbattuta.
Entrare momentaneamente in qualsiasi locale
era escluso.
Probabilmente a quest’ora
la stavano cercando e chiudersi tra quattro mura equivaleva a mettersi in
trappola, offrirsi su un piatto d’argento.
In realtà era perfettamente consapevole che
anche semplicemente camminare per la strada l’avrebbe esposta al rischio di
essere trovata, quelle non erano certo persone che si facevano
scrupoli a mostrarsi in pubblico…
Ritornatele in
mente gli istanti immediatamente precedenti alla sua fuga, dovette mordersi una mano
per non costringersi ad urlare. Per le lacrime, invece, non potette fare niente.
Si lasciò scivolare a terra, sostenendo il
peso del proprio corpo sulle gambe, andando così a rannicchiarsi in quella che
poteva definirsi una pseudo posizione fetale.
Cos’avrebbe dovuto fare? Possibile che non
vi fosse alcuna via d’uscita in quella situazione?
Si ritrovò a pensare che sì, esisteva una soluzione… l’aveva presa in considerazione diverse
volte durante il suo lungo e tormentato peregrinare… ma puntualmente era giunta
alla stessa conclusione.
Sua madre era morta per proteggerla, non
per vederla penzolare ad una corda attaccata al collo in qualche posto
dimenticato da Dio.
Beh, ammesso che ovunque si trovasse in
quel momento potesse realmente vederla.
Si era vista più volte a riprendere in
considerazione l’ipotesi del suicidio, anche la mattina stessa, in albergo, di
ritorno dall’ennesimo fallimento che credeva potesse
alleviarle un po’ le pene.
Si era avventata contro lo specchio del
bagno, scaraventandogli contro una spazzola che in quel momento non riusciva a
districarle i nodi che le si erano formati nei capelli
– quasi a sottolineare ironicamente la presenza di troppi nodi da sciogliere nella propria vita, si era ritrovata a pensare –
vedendosi poi investire da una raffica di schegge dello stesso, alcune delle
quali erano andate a graffiarle il volto e varie altre zone del corpo.
Ma non riusciva
sopportarlo.
Non riusciva a sopportare l’immagine di quell’inutile
donna, dalla pelle innaturalmente pallida – a causa dello shock, della
trascuratezza e la stanchezza -, gli occhi di un verde spento - simili a quelli
di una bambola - messi in evidenza da delle profonde occhiaie per il poco
dormire e quei capelli rossi.
Chiunque, nel corso del tempo, avesse osato paragonarli a quelli della madre, aveva oltraggiato
spudoratamente quest’ultima, senza alcun ritegno.
EvelyneBrown era una donna dai dolci e delicati tratti del viso
tesi sempre in un sorriso gentile, qualunque fossero
le circostanze che la vedessero coinvolta.
Anche quella mattina
sorrideva.
Lei sapeva che c’era qualcosa che non
andava, l’aveva capito dagli occhi da cui aveva ereditato il colore – sebbene
più chiaro, con appena qualche sfumatura marrone - , a
cui il sorriso, quella volta, non si era esteso.
Nonostante avesse provato a chiederle cosa
le turbasse, protestando quando l’aveva scherzosamente
liquidata con una leggera risata ed un buffetto sulla fronte – che era solita
darle quando non voleva coinvolgerla nei suoi pensieri, spacciandolo per un
gioco –, l’empatia che la legava alla madre aveva fatto scattare un segnale
d’allarme dentro di sè.
Eppure si era limitata a
farsi abbracciare e a ricambiare l’abbraccio che era seguito, forse pensando –
e sperando – si stesse sbagliando. Una muta richiesta al
cielo – a cui tanto si affidava Evelyne – che non era
stata accolta. Come tante altre.
Portò inconsciamente una mano all’interno
della tasca del trench - dove sapeva potesse avvolgere
con le dita l’ultimo ricordo che le rimaneva di sua madre – chiudendo gli occhi,
per rievocarne il ricordo.
Lo stesso ricordo
che l’aveva dissuasa dal condursi al polso quella scheggia di vetro sfuggita
allo specchio, per chiudere gli occhi una volta e per tutte, come aveva visto fare
a lei.
Non seppe identificare in quel momento il
motivo che la costrinse a riaprire gli occhi.
Forse il precipitare incessante della
pioggia, intensificatosi… e di cui lei, stranamente,non subiva i danni.
Sollevò la testa, perplessa, rendendosi
conto solo allora di essere riuscita a ripararsi in prossimità di un negozio,
rannicchiandosi esattamente accanto ad una vetrina di quest’ultimo.
Osservò incuriosita la vetrina espositiva,
arrivando subito alla conclusione che si trattasse di
una pasticceria. Peccato fosse chiusa, si ritrovò a
pensare quando sentì lo stomaco protestare per la lunga assenza di cibo a cui
l’aveva sottoposto. Era riuscita a consumare l’ultimo
pasto decente esattamente prima della fuga.
Ripensandoci, tutto era avvenuto prima della fuga, così come tutto sembrava essersi estinto nel momento esattamente successivo.
Poteva ancora considerarsi vita quella che stava conducendo? E
fino a quando sarebbe durata? Era un countdown snervante che pareva volesse solo e unicamente logorarla prima di condurla al
triste e scontato epilogo al quale era destinata.
Eppure aveva vissuto
giorni in cui la speranza sembrava avesse ripreso vita in lei, un sarcastico
paradosso che la vedeva attendere ciò che invece la maggior parte della popolazione
terrestre scongiurava.
C’era stato un momento in cui s’era messa a
pregare.
Che fosse o meno
quello stesso Dio a cui sua madre rivolgeva puntualmente le sue preghiere, non
lo sapeva, sapeva solo che era venuto un momento in cui s’era ritrovata, per la
prima volta in vita sua, a pregare qualcosa – qualcuno – che andasse contro ogni più ferrea logica dimostrativa.
Kira.
Non era mai stata a favore della pena di
morte. Mai. Gli esecutori capitali non erano poi tanto diversi dai criminali
accusati di omicidio. Togliendo loro la vita, si
macchiavano della stessa colpa, e macchiandosi della
stessa colpa non potevano dirsi migliori di coloro a cui avevano stroncato la
vita.
Non era altro che un circolo vizioso, un cane che si morde la corda.
Lo stesso discorso valeva per Kira e lo stesso supportare quest’ultimo
– lo sapeva – non era altro che un desiderio egoistico spietato. Una speranza.
Ennesima speranza
esplosa come una bolla di sapone nel momento in cui aveva visto estirpare da
questo dio il male dal mondo meno che
dal proprio.
Era caduto prima che potesse giungere a far
giustizia nella sua vita, fermato da
quello che molti consideravano essere la vera
giustizia.
Considerazione che lei non
abbracciava affatto.
Il detective di fama mondiale L poteva senz’altro essere considerato il possessore del più
alto quoziente intellettivo fino ad allora scoperto, senza però doversi
appropriare ingiustamente dell’appellativo che tutti tenevano a fargli calzare,
compreso se stesso.
Non sapeva quanto fossero
veritiere le informazioni che lasciavano trapelare i giornali sul suo conto, ma
stranamente – considerando che solitamente avveniva il contrario – tutti si erano ritrovati a riportare ai
propri lettori la notizia secondo la quale L interveniva solo quando lo riteneva strettamente necessario, occupandosi solo dei casi che lo incuriosivano
particolarmente.
Kira perlomeno non era
selettivo. Per quanto sbagliasse, agendo da spietato
assassino, era sicuramente quello che più si avvicinava al concetto di giustizia in senso ampio, tra i due.
Sospirò, prendendosi la testa tra le mani.
Le sarebbe bastato solo che Kiraavesse fatto sparire dalla
faccia della Terra anche gli assassini di sua madre, invece…
Un fruscio la distrasse dai suoi pensieri,
portandola ad osservare incuriosita – nonché
estremamente all’erta – il punto dal quale era provenuto… sorprendendosi a
dismisura di non essersi accorta, fino a quel momento, di non essere sola.
Al lato opposto del quale si trovava -
protetto dalla grondaia sotto alla quale aveva deciso di ripararsi anche lei,
per giunta nella stessa posizione - vi era uno strano individuo vestito solo
con quella che sembrava essere una semplice t-shirt, bianca, ed un paio di
jeans sbiaditi.
Incredibile di come
non fosse riuscita ad accorgersi della sua presenza. D’accordo che il
cielo funereo aveva fatto sì che il buio calasse molto prima rispetto al solito… ma quella figura sembrava appartenere al buio molto
più di quanto non vi appartenesse l’ombra stessa. Ciò nonostante, sebbene in
altre circostanze un individuo dalla pelle tanto pallida, in netto contrasto
con capelli tanto corvini e dallo sguardo assente avesse potuto incuterle
timore, non riusciva a temerne la presenza.
Inoltre quel
particolare aveva attirato la sua attenzione più di qualunque altra cosa…
chissà che non avesse potuto approfittarne.
-Excuse-moi… excuse-moi, s’il vousplait! – tentò di farsi
udire attraverso lo scrosciare della pioggia battente, riuscendo ad attirare la
sua attenzione al secondo tentativo, venendo investita da un paio d’occhi neri
come la pece, che la distolsero per un attimo da
quello che era il suo iniziale tentativo. – Tu peux
me donner une sigarette? – chiese, sforzandosi di non
osservarlo troppo. Cosa che le risultò alquanto ardua, dal momento che qualunque cosa riguardasse quel tipo sembrava renderlo totalmente singolare.
Come a voler sottolineare
le sue impressioni, il tipo prese ad osservarsi attorno, probabilmente convinto
che non fosse lui il destinatario della domanda, per poi osservarla con
un’espressione alquanto indecifrabile e sporgersi leggermente verso di lei,
ponendo una mano attorno all’orecchio ad indicare che non era riuscito a
sentirla, mentre l’altra mano estrasse dalla bocca… quello che le era parsa
inizialmente una sigaretta.
“Un bon bon… che razza d’idiota!” si ritrovò a pensare
subito dopo, assolutamente incapace di pensare ad un modo per rimediare
all’attenzione inutile che era riuscita ad attirare.
-…Rien – pronunciò a mezza voce, sorridendo imbarazzata e
agitando una mano come ad enfatizzare l’intento, per poi distogliere lo sguardo
dal suo e prendere a fissare nuovamente il vuoto.
Non sapeva quanto fosse
corretta l’idea secondo cui la presenza di una minaccia incombente che gravava
sulla sua testa le avesse acuito i sensi, ad ogni modo si accorse subito dello
spostamento di quello che aveva ribattezzato come tipo strano, sebbene vide solo successivamente una sua mano
tenderle qualcosa, a pochi centimetri dalla sua persona.
Nonostante si fosse avvicinato, era stato
tanto discreto da tenere la distanza necessaria a non invadere lo spazio che si
era creata, andando a posizionarsi sufficientemente
vicino da poterle offrire… un bon bon simile a quello
che stava mangiando.
Non potè
impedirsi di sorridere, sia per la bizzarra peculiarità che
sembrava caratterizzare quella persona, sia per l’ennesima metafora che
sembrava stesse offrendole la vita.
Aveva bisogno sì di zucchero nella sua
vita. Certamente non di un rosa condensato,avvolto attorno ad una stecca di
liquirizia… ma che ci fosse qualcuno che avesse capito di averne estremamente
bisogno bastava a rincuorarla.
-Merçi – rispose garbatamente, guardandolo
negli occhi e sorridendogli sinceramente, recuperando il dolce offertole mentre
il volto del ragazzo assumeva tonalità più scure in prossimità delle gote e lo
sguardo andava ad abbandonare quello della donna.
Lo vide sollevarsi, infilare le mani nelle
tasche dei jeans fradici e rivolgere gli occhi alla
strada. Pensò che dovesse soffrire molto il freddo, a giudicare dalla postura a
cui sembrava si stesse costringendo, anche se non
capiva come il curvare la schiena potesse riscaldarlo.
Il lecca lecca finì improvvisamente a terra, andando a
richiamare l’attenzione di Lawliet, che non riuscì a
comprenderne il motivo.
Quando si voltò, vide gli
occhi spalancati della donna osservare terrorizzati un punto imprecisato di fronte
a lei. Girò velocemente il volto per tentare di capire cosa potesse
averne provocato la reazione, riuscendo a vedere solo un’auto nera attraversare
lentamente la strada di fronte a lui, da cui fece capolino un uomo biondo, con
gli occhiali da sole.
Realizzando in quel
momento tutte le risposte alle domande che si era posto sulla donna dal
primo momento che l’aveva vista, tornò a voltarsi verso il punto in cui l’aveva
lasciata, non trovandovi altro che il bon bon,
abbandonato sul marciapiede.
***
-Perdona
l’urgenza, Ryuzaki, ma ci sono delle cose di cui ti
devo parlare - .
Quillsh sembrava aver
perso tutto il buon’umore
che si era trascinato dietro dal Giappone e la ragione poteva solo consistere
in una brutta notizia pervenuta – si ritrovò a sperare di no, nonostante vi
fosse solo l’un per cento di probabilità - dalla Wammy’s
House.
Prima che formulasse
un’altra percentuale di probabilità inerente a qualche altra ipotesi, si ritrovò
il tavolo sul quale lavorava e consumava i pasti invaso da foto, di cui afferrò
la prima che riuscì ad attirare maggiormente la sua attenzione, adagiandosi poi
sul divano nella solita posizione che gli assicurava il quaranta per cento di
ragionamento in più.
Ritraeva un uomo riverso a terra, in una
pozza di sangue – che da un’analisi più approfondita sembrava essersi dilatata
in prossimità del collo – e con un braccio più esposto rispetto all’altro – sul
quale doveva essere atterrato il corpo durante il cedimento per l’emorragia. La
sua attenzione, però, tornò a focalizzarsi sul braccio più esposto, afferrando
subitamente un’altra foto che mostrasse in posizione
più ravvicinata i suoi sospetti.
L’indice della mano destra – appartenente
al braccio esposto – era insolitamente piegato verso l’alto.
Afferrata una foto successiva, che subito
individuò essere il pezzo mancante del puzzle - se non la ragione per cui Quillsh aveva manifestato tutta quell’urgenza - notò che l’uomo della foto, prima di
morire, doveva aver composto col proprio sangue, in extremis, una lettera, che
grazie ad un ulteriore ingrandimento dei dettagli aveva saputo riconoscere.
Una L.
Afferrò un’altra foto, concentrandosi
questa volta su dettagli estranei al corpo di quella che, al settanta per cento,
era la vittima di un omicidio, prendendo ad analizzare il pavimento sul quale
giaceva che, a primo acchito, capì subito appartenesse
ad una chiesa.
Senza contare che l’abbigliamento dell’uomo
gliel’aveva suggerito dal primo momento, ciò che restava dunque da scoprire era
il motivo che aveva spinto qualcuno ad uccidere un sacerdote. E, prima di tutto, il motivo che sembrava turbare profondamente Quillsh.
Portò gli occhi neri a scrutare l’uomo,
spostandoli poi velocemente sul televisore che in quel momento stava
trasmettendo un notiziario.
-“…
il corpo della donna è stato rinvenuto stamattina. La polizia giapponese non ha
dubbi che si sia trattato di suicidio. L’idol stessa, durante una conferenza
stampa, aveva annunciato il suo ritiro dalle scene a causa di uno stato
depressivo che l’aveva vista più volte protagonista…” - .
Osservò la foto più attentamente, per
assicurarsi che una momentanea distrazione potesse avergli fatto fraintendere
il soggetto del servizio.
Misa Amane era morta.
E doveva esserlo ancor prima di compiere quell’ultimo, disperato gesto che l’avrebbe
resa protagonista dei rotocalchi per l’ultima volta.
Ricordava perfettamente i suoi occhi.
Nessuno probabilmente avrebbe scommesso su
un’attenzione simile da parte sua, mostrandosi sempre così scostante, incurante
e fuori dal mondo, ma ciò che osservava Lawliet appena posava gli occhi su di una persona – che
questa fosse indagata o meno – erano gli occhi.
Nel primo caso poteva
definirsi una cosa naturale, nel secondo si trattava al cento per cento
di deformazione professionale.
Il detto secondo il quale gli occhi fossero lo specchio dell’anima non era una considerazione
sconclusionata. Era dagli occhi che lui si aspettava – e il più delle volte otteneva - sempre un cedimento, una rivelazione.
Marginale, ma pur sempre di una rivelazione
si trattava.
Quella volta, nel modo in cui gli occhi di
Misa osservarono il corpo di Light giacere sul suolo,
spalancandosi terrorizzati e increduli, per poi ridursi a due fessure
inespressive quando ad un suo richiamo il ragazzo non aveva risposto - senza
per giunta versare una lacrima - fu la prova inconfutabile che il cuore
dell’idol aveva smesso di battere come quello della persona che, nonostante
tutto, amava.
Non si accorse di essere rimasto a fissare
gli occhi - allora espressivi - della ragazza, fino a quando
non vide sostituirli ad altri di diverso taglio e colore.
Un colore che riconobbe subito.
Portò un pollice alle labbra
quando sentì che il servizio di cui la giornalista stava parlando
trattava del caso che – ancora per ragioni ignote – si ritrovava tra le mani.
-…
diversi testimoni hanno udito la donna inveire verbalmente contro l’uomo, per
poi vederla uscire di corsa dalla chiesa dove si è
consumato il delitto. È ancora ignota la causa… - .
Era ricercata per omicidio, dunque.
Inutilmente – si ritrovò velocemente a
constatare - per giunta.
Tornò a riconcentrarsi su Quillsh, la cui espressione era – se possibile – più preoccupata
di prima.
-Dobbiamo occuparcene, Ryuzaki
– scandì
improvvisamente, in tono grave. – Ho il dovere d’intervenire
in questo caso – aggiunse, accrescendo la sua curiosità. – Non è un caso
che sei solito trattare, ma ti chiedo di collaborare
ugualmente - .
Non aveva pensato nemmeno
per un attimo di rifiutare, l’espressione grave di Quillsh
era un evidente segnale del coinvolgimento emotivo del suo tutore.
Non rimaneva che fare la domanda più ovvia
e diretta.
-Watari, chi è quella donna? - .
-Mia
nipote. - .
Delucidazioni:
-*Excuse moi… excuse moi, s’ilvous plait! = Mi scusi… mi scusi, per favore!
-*Tu
peux me donner une
sigarette? = Può offrirmi una sigaretta?
-*Rien = Niente/ Nulla/ Come non detto.
-*Merçi = Grazie
Ringraziamenti:
-LirinLawliet: Ciao a te!
^^ Prima d’iniziare a
rispondere alla tua recensione, volevo innanzitutto ringraziarti per aver deciso
di spendere un paio di minuti per farlo J è sempre
emozionante constatare di non passare totalmente inosservati in mezzo ad un
universo in cui navigano autori di un certo spessore *__* Ritornando al motivo
che mi vede a risponderti… parto subito col confessarti che io detesto le
premesse, sono la prima a saltarle e/o a considerarle superflue, nonché
incredibilmente noiose =__= ma, come tu stessa hai scritto all’inizio della recensione
- indovinando J - ho ritenuto necessario inserirla
per una questione di correttezza, nient’altro J.
In merito al
prologo… Woooooow, grazie! Non so che altro
aggiungere tranne che anche per me L è il mio
personaggio preferito ^^’ riguardo
invece il personaggio originale… beh… non so se riuscirò a sorprenderti (a dire
il vero lo spero *__*), io conto comunque sul fatto che tu me lo faccia sapere
;) così come mi faccia sapere se la storia, passo passo,
continui a piacerti J
Grazie mille
ancora!
Ps: Le MattXMello (per quanto infinitamente graziose) sono un
incubo! :O certo che dobbiamo aiutarci a vicenda! xD
Pps: E grazie per aver
commentato per ben DUE volte! :O nonché per aver messo
la mia storia tra le seguite.
-Fe85: Sono riuscita ad attirare una
non-fan di L nonostante la storia sia incentrato suquest’ultimo? Ho capito
bene? °___°
*sviene*
…Grazie! ^ ///^ Grazie
davvero tanto per aver dedicato un po’ del tuo tempo perleggere e commentare la mia storia,
aggiungendola, per giunta, alle seguite! Spero di non deluderti! Alla prossima!
(spero)
Grazie
inoltre a _Elea_ per aggiunto la
storia tra le ricordate J
E grazie a chiunque,
seppur in punta di piedi, sia arrivato fino a qui!
I tacchi delle scarpe nere scamosciate
s’infrangevano sull’asfalto delle strade parigine con la stessa intensità di
una lancetta che scandiva il tempo.
Per quanto fosse particolarmente allenata
nella corsa – suo abituale allenamento mattutino dei vecchi tempi – sapeva che
non sarebbe riuscita a mantenere ancora a lungo quella velocità concessale
dalla fortuna.
Le scarpe che indossava, per quanto basse e
particolarmente comode, mettevano a repentaglio il suo già precario equilibrio,
rallentandone ulteriormente l’andatura.
Aveva avuto l’idea di fermarsi a toglierle,
ma temeva che in quel frangente si fossero potute accorciare le distanze tra
lei e i suoi inseguitori, la cui automobile, sgommando incessantemente quando
si trovava in prossimità della sua locazione, le faceva intendere di star
ancora interpretando il ruolo della volpe in quella folle caccia.
Era chiaro che se non avesse
deciso di sfruttare i vicoletti delle strade
secondarie, attraverso cui le auto potevano difficilmente passare, a quest’ora sarebbe già morta.
Non era astuta quanto l’animale a cui s’era
paragonata, non aveva idea di come poter raggirare
quegli assassini, così come non aveva idea di quanto sarebbe riuscita ancora a
correre.
Assolutamente scoraggiata da tutta quella
serie di circostanze che l’attanagliavano, si fermò.
I polmoni sembravano stessero andando in fiamme, pronti ad esplodere, mentre la gola secca le fece
avvertire l’orribile sensazione di star soffocando.
Espresse il desiderio di finirla lì,
subito, anziché attendere quelli che sarebbero stati gli attimi immediatamente
successivi al rumore fin troppo
familiare che avvertì alle proprie spalle.
-Peccato
ti sia fermata, ci stavamo divertendo – udì pronunciare dalla voce dell’uomo
che le si stava avvicinando lentamente alle spalle,
mentre i rumori secchi procurati dall’inserimento dei proiettili nella pistola
di cui era armato si perdevano nell’aria.
Rimase a contemplare ancora per un attimo
il grigiore della stradina isolata nel quale s’era incautamente infilata, prima
di voltarsi verso il suo inseguitore. Non riuscì a impedirsi
di tremare.
In maniera del tutto inconscia fece un
passo indietro, facendo sì che il ghigno dipinto sul
volto dell’uomo si allargasse ulteriormente.
-T-ti prego… - si ritrovò
a sussurrare con voce tremula, mentre alcune lacrime presero a bagnarle le
guance pallide. Per tutta risposta l’uomo caricò la pistola. –
Hector… t-ti p-prego… - ripetè
con voce rotta, prendendo a singhiozzare sommessamente, abbracciandosi le
spalle nel tentativo di infondersi un po’ di conforto.
Osservava la canna della pistola con
orrore, ricordando in brevi flash gli attimi che avevano condotto sua madre
alla morte.
Rivide rosso ovunque.
-Ehi!
- .
Sobbalzò, rendendosi conto solo in quel
momento di aver chiuso gli occhi, in attesa.
-Che
sta face-… - .
Sentì un rumore assordante squassarle i
timpani e un bruciore provenire dalla sua guancia sinistra.
Hector aveva sparato, ma
non a lei.
Si voltò tremante, lentamente, spalancando
gli occhi orripilata quando concluse che l’ennesimo innocente aveva perso la
vita a causa sua.
Probabilmente un semplice e innocuo
passante che si era ritrovato lì al momento sbagliato.
-Bastardo...
– disse tra le lacrime. – Fottuto
bastardo! – urlò girandosi verso di lui, ritrovandosi ad urlare nuovamente
subito dopo, ma a causa del dolore.
La mano dell’uomo le aveva afferrato i capelli tanto violentemente da farle dimenticare
per un attimo dell’omicidio appena consumatosi alle sue spalle.
Si ritrovò costretta ad osservare gli occhi
di HectorKunz ad una
distanza ridottissima rispetto a quella che era stata solita tenere con l’uomo
tempo addietro, e in quel momento non potè non
correre nuovamente col ricordo alla madre.
Chissà se si era
ritrovata a pensare di essere incappata in uno dei demoni che popolavano
l’inferno nel quale credeva. Non vi era nulla di umano negli occhi di Kunz,
nulla che potesse rievocare anche solo lontanamente i tratti distintivi di un
qualunque essere che potesse essere definito tale.
Per puro paradosso e ironia della vita, il
suo aspetto – al contrario – mostrava tutte le caratteristiche angeliche che potesse
possedere un uomo particolarmente attraente.
I capelli biondi, gli occhi azzurri, i
denti bianchi perfettamente allineati… forse una bellezza un po’ ordinaria, nel
complesso, quanto estremamente agghiacciante.
Ora che aveva modo di osservarlo più da vicino poteva essere assolutamente certa di affermare che
quegli occhi non erano azzurri, ma grigi, di un grigio tanto chiaro da richiamare
il ghiaccio in tutte le sue sfaccettature, trasmettendo un senso di freddo tale
da accapponare la pelle.
Ma un freddo più concreto le si presentò subito dopo, sottoforma di metallo, andando a
percorrerle il profondo solco che le si era aperto precedentemente sulla
guancia.
-Piccola
Kate… - sussurrò dolcemente Kunz,
passandole la canna della pistola sul volto come per carezzarla.
-…Non
osare chiamarmi in quel modo, feccia! – controbbattè
dopo un attimo di smarrimento, sorprendendosi da sola per l’istintiva sagacia
che era riuscita a padroneggiare in un momento del genere.
-Qual
è il codice? – le chiese l’assassino arrivando subito
al dunque, recuperando il suo tono autoritario agghiacciante, particolarmente
infastidito per la reazione inaspettata che aveva avuto la ragazza. Per
incuterle nuovamente terrore le puntò la pistola alla fronte, ricevendo in
cambio uno sguardo tra l’impaurito e lo smarrito.
-C-cos-… - .
-Non
giocare con me, CatherineBrown.
– la interruppe prontamente, imprimendo nella voce nuovamente quella sottile
ironia che era solito caratterizzarlo. – Ho fatto un
buco in testa alla mamma e ho tagliato la gola a papà… - s’interruppe, per assicurarsi che
la donna avesse afferrato il pieno senso dell’ultima frase. Quando
vide il suo volto impallidire ulteriormente e gli occhi spalancarsi a
dismisura, fu certo che avesse afferrato.
-Nulla
m’impedisce di-… - .
Senza sapere come, si ritrovò sbalzata
all’indietro. L’asfalto freddo sotto le sue mani, poggiatesi
sopra per frenare la caduta, a confermarglielo.
Hector sembrava
impazzito.
Gli occhi cerulei si muovevano velocemente,
cercando d’individuare il punto da cui era partito il colpo che l’aveva
disarmato e che contemporaneamente gli aveva sottratto la preda.
Si trattava di un cecchino senz’ombra di
dubbio, si ritrovò a pensare febbrilmente, anche se una parte
di lui si rifiutava di accettarlo.
Ma chi altri avrebbe
mai potuto sparare un colpo centrando in pieno il calcio della pistola che
impugnava, disarmandolo e mancando nettamente il volto della ragazza, a pochi
centimetri di distanza?
Un folle. O uno
che sapeva fare bene il suo mestiere.
Ricordò di avere un’altra pistola nascosta
all’interno della giacca del completo nero che indossava, ma non riuscì ad
estrarla in tempo che sentì qualcosa di pesante colpirlo alle spalle,
sbilanciandolo e facendolo precipitare a terra, su di un fianco.
Da quella posizione riuscì ad intravedere
una moto di grossa cilindrata atterrare davanti a lui e frenare con una
sgommata in prossimità della ragazza, che sembrava essere scioccata quanto lui
da quell’intervento tempestivo,
a tal punto dal non accettare, inizialmente, la mano che il conducente del
motoveicolo le stava tendendo.
Approfittò di quel momento per tentare di
recuperare nuovamente la pistola ed, estrattala dalla giacca, la puntò
esattamente alle spalle dell’intruso.
Se non avesse avuto
il casco, avrebbe puntato direttamente alla testa.
Ma prima ancora di
prendere la mira si vide sfuggire nuovamente l’arma dalle mani, solo che quella
volta il fottuto
cecchino non gli risparmiò l’arto.
Impegnato a controllare i danni che aveva subito la mano, intravide con la coda degli occhi la
moto allontanarsi a gran velocità, insieme alla ragazza.
Catherine non riusciva
ancora a comprendere cosa fosse successo.
Un attimo prima era completamente
in balia di Kunz, l’attimo dopo si ritrovava a
sfrecciare a gran velocità nelle strade di Parigi – alcune delle quale lei, in
quel momento, non ricordava affatto - su una moto guidata da un perfetto sconosciuto.
Il vento freddo della sera le sferzava la
pelle… solo in quel momento si rese conto che aveva smesso di piovere.
Per quanto fosse assolutamente fuori luogo,
non potè far almeno di considerare quello come
l’ennesimo segno, sul quale si
ripromise di ritornare più tardi, in un secondo momento, quando sarebbe stata
assolutamente sicura di essere – anche se solo momentaneamente
– in salvo.
Doveva ancora capire chi si fosse preso la briga di mettersi tanto in pericolo per lei,
l’unica cosa di cui poteva essere certa era che – anche se inizialmente fosse
potuto sembrare il contrario – le forme che era riuscita a individuare, per
puro caso – nell’avvinghiarsi più strettamente possibile al corpo del
conducente, per il timore di cadere – smentivano la supposizione secondo la
quale fosse un maschio.
Presa da quelle innumerevoli
fantasticherie, non riuscì a impedirsi di lanciare un
urlo quando vide affiancarsi alla moto un’auto nera.
-Don’tworry – fu sicura di sentir pronunciare dalla salvatrice.
Non poteva esserne totalmente sicura, il
vento soffiava in maniera incredibilmente forte da confonderla, ma quello che
aveva udito non sembrava essere affatto un accento
inglese, sebbene la donna si fosse espressa in quella lingua. Che semplicemente non sapesse parlare francese?
-D-dove stiamo andando? – si azzardò a
formulare per constatare se le sue supposizioni fossero valide.
La risposta si fece attendere un po’.
-Non
temere – si limitò a replicare la donna, rispondendo positivamente in maniera
implicita alla sua domanda ma non soddisfacendo la sua
seconda curiosità, quella che in realtà le premeva di più.
Dovette accontentarsi di attendere il
prossimo risvolto di quella strana vicenda, mentre
l’auto nera della quale si era tanto spaventata prendeva un’altra direzione,
scomparendo alla sua vista ma ricomparendovi subito dopo, seppur in lontananza.
***
Quillsh abbandonò l’auto
nel parcheggio sotterraneo dell’hotel in cui alloggiava con Lawliet,
facendo poi in modo che i numeri della targa si tramutassero in altri grazie ad
uno dei particolari dispositivi che vantava di aver ideato e progettato.
Quando varcò la soglia della camera del
ragazzo, lo vide raggomitolato nella sua solita posizione davanti al pc, questa volta attento e vigile
come ricordava averlo visto fare tante altre volte.
Lui stesso aveva tenuto a specificargli che
non si trattava di un caso complesso e che, al contrario, se si fosse trattata
di un’altra circostanza gli avrebbe consigliato di lasciar
perdere. Ma quella volta non aveva potuto.
-È
appena rientrata anche Wedy – lo informò Lawliet in quel momento, osservando il motoveicolo della
ladra percorrere lentamente l’area di parcheggio di cui si erano assicurati
l’esclusività, compreso il servizio di sicurezza notturno – composto da telecamere a infrarossi – di cui solo loro potevano
disporre.
Non era stato difficile assicurarsi tutti
quei privilegi in un arco di tempo tanto limitato, ne tantomeno
rintracciare la donna – dal momento che Lawliet ne
ricordava perfettamente la fisionomia, avendola incontrata personalmente per un
caso puramente fortuito poco tempo prima – quanto, invece, organizzare
velocemente, su due piedi, una ricerca che risultasse più fruttuosa di quella
degli uomini che si erano trovati a contrastare.
A questo proposito, Lawliet
si era ritrovato a sorridere divertito nel constatare la fortuna che avevano
avuto nel trovarsi in una città che vantava uno dei più decantati musei del
mondo.
Quando era riuscita a contattarla, Wedy era in procinto di effettuare
un taglio circolare in una delle seicentosessantasei lastre di vetro che
costituivano la piramide del Louvre, per puntare poi
a diversi Delacroix di suo interesse. In cambio della
sua collaborazione, ovviamente, L le aveva garantito la copertura necessaria da
farla allontanare – successivamente al furto – quel
tanto che le bastava per potersi rilassare e godersi in santa pace il frutto
del suo ennesimo furto.
Al contrario, non era
stato affatto facile rintracciare Aiber,
impegnato ad organizzare una mega truffa a danno di
diversi miliardari a Las Vegas. Troppo lontano per poterlo impiegare nel suo
piano, aveva dovuto sostituirlo Watari, propostosi
personalmente al posto del giovane uomo quando aveva
compreso il rischio di perdere tempo.
CatherineBrown era stata tratta in salvo giusto in tempo, anche se
ormai Lawliet era sicuro al quaranta per cento che le
priorità degli uomini dai quali era inseguita non
consistessero nell’ucciderla.
Le ricerche che aveva
svolto sul conto della donna l’avevano condotto ad una delle maggiori famiglie
di spicco dell’alta borghesia tedesca, il cui bilancio annuo – se fosse stato
sottoposto ad un occhio non tanto più attento, quanto più pulito – sarebbe risultato anomalo a primo acchito.
La famiglia Kunz
– dal momento cheCatherine
aveva ereditato il cognome unicamente dalla madre – era coinvolta in
innumerevoli traffici di armi e stupefacenti, egregiamente occultati da diversi
membri delle più alte sfere della società ammanettate – a loro volta – ad
altrettante persone di svariato spessore politico, che potessero garantir loro
l’imputabilità in cambio di svariati favori.
Un circolo sconfinato di corruzione che no,
non l’aveva di certo sorpreso – abituato com’era ad aver a che fare coi criminali della peggior specie - quanto infastidito.
Un bussare alla porta lo
dissuase dal condurre avanti le sue congetture.
-Ciao,
Ryuzaki - .
-Grazie
per la collaborazione, Wedy - .
La donna si tolse finalmente il casco,
liberando una cascata di capelli biondi e salutando con un cenno del capo Watari.
-È
nella stanza accanto, come mi avevi chiesto – si rivolse
a quest’ultimo la donna, vedendolo risponderle con un
sorriso accennato, mentre le sue mani – smessi i guanti da cecchino –
indossavano quelli da semplice maggiordomo, offrendole una fetta di torta alle
fragole che lei tenne a rifiutare con garbo, sorridendo e sollevando una mano
per sottrarsi all’offerta.
-Se
è tutto, andrei - .
-I
Delacroix sono coperti da un fitto sistema di
sorveglianza a infrarossi zigzagato – la informò il
detective, spingendosi in bocca un pasticcino alla crema chantilly mentre con
l’indice e il medio della mano destra si concentrava sulla barra di scorrimento
che gli consentiva di inquadrare totalmente la sala in cui erano i disposti i
quadri di cui parlava.
Wedy
sorrise compiaciuta.
-Ne ero a conoscenza – rispose, dando
una rapida occhiata al monitor su cui era concentrato Ryuzaki
– che doveva aver fatto quelle ricerche per lei, pensò, per ricambiarle
momentaneamente il favore - accingendosi poi ad infilare nuovamente il casco
per abbandonare la stanza e ritornare al suo lavoro. – Così come sono a
conoscenza delle quattro telecamere disposte agli angoli del perimetro
circondante La furia di Medea –.
-Cinque
- .
-Cosa?!
– chiesa la ladra, presa completamente alla sprovvista, avvicinandosi
rapidamente al detective e attendendo che proseguisse.
-Sono
cinque le telecamere che circondano La
furia di Medea - .
-Ma
come… ?- .
-Hanno
attivato la quinta nelle ultime dodici ore. – tenne ad aggiungere rapidamente Ryuzaki, comprendendo le perplessità della donna.
Non l’aveva scelta in
qualità di sua occasionale aiutante per puro caso. Wedy
era una professionista il cui margine di errore
sfiorava – e mai superava – il sette per cento e che la rendeva migliore del
sessanta per cento della cerchia di professionisti del settore di cui avesse
potuto decidere di servirsi.
Doveva aver programmato quel furto da
tempo, se si dimostrava tanto sbalordita.
-È
una misura cautelare aggiuntiva che hanno ritenuto opportuno aggiungere, dal momento che non è la prima volta che il quadro viene
preso di mira – si dilungò nella spiegazione Lawliet,
afferrando un biscotto ricoperto di glassa al cioccolato mentre alle sue spalle
Wedy contraeva il bel viso in una smorfia
d’indignazione.
-Stupidi
dilettanti! – non fece a meno di esclamare riferendosi a quanti, prima di lei, avessero tentato di mettere le mani su ciò a cui aspirava,
fallendo miseramente e procurandole quel problema. Avrebbe dovuto pensare ad
una maniera alternativa di arrivare al suo obiettivo.
-Grazie,
Ryuzaki – aggiunse infine, recuperando un tono calmo
e professionale, dirigendosi a passo svelto verso l’uscita per potersi dedicare
ad un piano B.
-A
presto – le rispose Lawliet col suo tono di voce basso prima che la donna abbandonasse la camera.
Afferrò poi un altro biscotto e si sollevò dal divano per raggiungere la
finestra.
Il cielo plumbeo conferiva a Parigi un
aspetto affascinante per quanto – si ritrovò subito dopo a pensare – surreale.
Dovette distogliere lo sguardo dallo spettacolo che gli si parava davanti per
impedirsi di ritornare con la mente a quanto di più surreale gli fosse poco tempo prima accaduto.
In lontananza un fulmine squarciò con la
propria luce il cielo nero.
Gli occhi neri di Lawliet
si fermarono su Quillsh, indugiando sul riflesso che
il vetro dinanzi a se, striato da lunghe e spesse gocce della pioggia che
riprendeva a precipitare, rimandava dell’uomo. Non riuscendo a spiegarsene il
motivo, gli risultava difficile sostenere la visione
dell’uomo nello stato di profondo smarrimento in cui sembrava riversare. Erano
abbastanza lontani, eppure Ryuzaki riusciva a vedere
distintamente gli occhi chiari del suo tutore scrutare con apprensione la
minuta figura femminile al di là del televisore che
avevano collegato alle telecamere della stanza che occupava, esattamente
accanto alla loro.
-Sei
riuscito a individuare il punto debole dell’organizzazione?
- .
-È
il gestore del commercio oltre frontiera, KurtSchimmer. – gli rispose subito Lawliet.
- Basterà inviargli qualcuno abbastanza abile da fargli credere di volergli
offrire il doppio degli introiti annui che è solito incassare limitandosi a lavorare
con i Kunz. Ho già inviato ad Aiber
tutti i dati di cui necessita, salvo imprevisti
toccherà il suolo germanico tra quarantotto ore. Entro settantadue, l’ottanta
per cento dei Kunz sarà dietro le sbarre - .
QuillshWammy sospirò profondamente.
Lawliet si strofinò i
piedi, avvertendo improvvisamente lo stomaco farsi stranamente pesante.
-In
merito al codice che HectorKunzha chiesto alla ragazza – raggiunse nuovamente il mac su cui era solito lavorare, digitando una serie di
codici per avere accesso ad un’area riservata. – C’è il quarantacinque per
cento di probabilità che si riferisca ad un caveau situato
in Svizzera, di cui era titolare la madre di Catherine
- .
Strofinò nuovamente i piedi tra di loro.
-Evidentemente
è convinto che Catherine possieda la combinazione per
entrare in possesso del contenuto del caveau -.
Lawliet stette in
silenzio, limitandosi ad annuire, cercando di scacciare quella strana
sensazione che sembrava avergli attanagliato il petto.
La pioggia si sostituì alle loro voci,
riempiendo il silenzio che calò tra i due, poco dopo.
-Forse
è il caso che le vada a parlare - .
Lawliet lo vide sparire
poco dopo attraverso la porta, sapendo in anticipo cosa avesse
deciso di fare Quillsh in merito a ciò di cui
avevano parlato prima di mettersi sulle tracce della ragazza.
Non era nella posizione di poter dire se fosse o meno la scelta giusta, era una cosa che spettava
solo e unicamente a Wammy. Nessuno comunque
ne sarebbe mai venuto a conoscenza.
Il coinvolgimento di Aiber serviva a creare una falla tale da far smascherare
l’organizzazione da un membro interno a quest’ultima,
escludendo quindi a priori un ipotetico coinvolgimenti del grande detective L.
V’era dunque l’un per cento di probabilità
che la donna, una volta risoltasi la situazione, fosse stata
creduta nell’eventualità in cui avesse deciso di andare a spifferare in giro di
essere stata aiutata dal detective migliore del mondo.
Non comprendeva dunque, ancora una volta,
il motivo per cui si sentisse tanto turbato.
Distolse lo sguardo spento dalla porta che
aveva varcato ormai da un po’ Watari, voltandosi e
dirigendosi nuovamente verso la finestra.
Nel farlo passò accanto ad una pila di
dolci di svariato genere, ma non se ne curò.
Si ritrovò quasi inconsciamente a sollevare
un braccio e appoggiarlo alla finestra, per poi poggiarci sopra la fronte,
evitando di osservare il proprio riflesso ogni volta che un fulmine tornava a
squarciare il cielo, illuminandolo, facilitandolo quindi nell’impresa.
Chiuse gli occhi, per poi riaprirli e
fissarli sul cielo scuro.
Le campane avevano ripreso a suonare.
Delucidazioni:
-Don’tworry = “Non preoccuparti.”
-Delacroix =artista e pittore francese di fine
settecento/inizio ottocento.
-La furia di Medea =una delle svariate
opere di Delacroix conservate nel Louvre
di Parigi (chiedete a Wikipedia e vi sarà dato).
-Tutto ciò che
concerne la sicurezza per la salvaguardia dei dipinti
all’interno del Louvre di Paris =è inventato xD
non ho la più pallida idea di come funzioni la sicurezza lì dentro, mi sono
concessa una lieve quanto insignificante licenza d’autore ^^
-Wedy e Aiber = rispettivamente
ladra di professione e truffatore, ma immagino che li conosciate già ^^ sono presenti sia
nel manga che nell’anime di Death Note, ordunque non
sono personaggi miei. Qualora voleste dare una spulciatina
sul web per avere più informazioni su questi due fate pure,
ma sappiate che per quanto mi riguarda mi basta che ricordiate di cosa si
occupino ^^’
Ringraziamenti:
-LirinLawliet: Hai inserito la
storia tra le preferite… *____* Grazie infinite! <3 Ti dirò,
è la prima volta che creo un personaggio femminile con questi requisiti,
solitamente le mie povere sventurate son tutte brune
^^ non so perché me la sia immaginata
così… Io solitamente mi concentro sugli occhi. In un’atmosfera che richiama delle tonalità spente e neutre come quelle del
grigio volevo qualcosa che spiccasse… ecco anche la scelta di far indossare
alla protagonista un soprabito bianco (che, per giunta, l’accomuna tanto all’abbigliamento
di L, che indossa una t-shirt candida ^^). Magari tutto questo ti sembrerà – com’è ovvio che sia – un vuoto
farneticare >///< spero solo di aver fatto comprendere – a te come a
chiunque altro stia leggendo la storia – che le mie
scelte, anche le più banali, non sono casuali ^^ per ogni cosa c’è un perché… spero che questo non renda troppo
difficoltosa la comprensione >__>… ad ogni modo, grazie per aver
recensito nuovamente! *___*
Ps: Oh MyGod,
la ff su Saiyuki! xD “Il filo rosso del destino”
presumo ^^ accidenti, grazie! Visto
che hai introdotto l’argomento colgo l’occasione per farti sapere che quella
non è stata abbandonata, ma a lungo andare il mio modo
di scrivere si è trasformato un tantino… non mi riconoscevo più in quello che scrivevo
e siccome tengo molto alla storia (dal momento che è stata la prima storia in
assoluto che abbia deciso di pubblicare su efp) ho
deciso di concedermi una pausa per poterla revisionare e trascriverla
nuovamente, quindi presto o tardi ve la ritroverete di nuovo tra i piedi ^^
-Fe85: Tranquilla, anch’io
non mastico il francese ^^ per la frase – a mio dire - più complessa (quella, per
l’appunto, della sigaretta xD) ho utilizzato uno dei
banalissimi traduttori che mette a disposizione il web ^^’
Io mi chiedo: come
si fa a non adorare Watari? *___* viene
calcolato pochissimo nella storia originale, proprio per questo motivo ho
deciso di coinvolgerlo nella mia… chissà…
Grazie per tutti
questi complimenti ^///^ alla prossima!
-kiriku: Benvenuta! *___*
Grazie per esserti soffermata a leggere la mia ff e
grazie per tutti i complimenti! >///< guarda, ti posso assicurare già da
adesso che non passeranno anni tra un capitolo e l’altro J solitamente ciò mi
capita quando mi metto in testa di scrivere una ff abbastanza lunga, cosa che – almeno provvisoriamente,
chissà che poi non cambi idea! – non ho intenzione di fare con questa. Come
avrai potuto leggere (spero) fondamentalmente L è già
arrivato al nocciolo di tutti i problemi della povera disgraziata a cui s’è
trovato a dare asilo. I capitoli saranno concentrati sul percorso introspettivo
che si ritroveranno a fare un po’ tutti quelli che fino ad ora ho coinvolto… quindi… spero vivamente di non annoiarti
^^’ conto comunque sul fatto che tu,
eventualmente, me lo faccia sapere! Ciao e grazie per aver aggiunto la mia
storia tra le preferite! *___*
Un grazie a GokuMiciaNera per aver aggiunto
la mia storia tra le seguite *inchino* e un grazie immenso,
infine, ai lettori silenziosi che continuano a leggere questo mio bizzarro
parto ^^
Gli occhi verdi di Catherine
s’inabissarono in quelli altrettanto chiari dell’uomo che aveva davanti,
cercando di dare una collocazione sensata a tutto ciò
di cui era venuta a conoscenza negli ultimi interminabili minuti che aveva trascorso
in quel luogo sconosciuto.
Se qualcuno gliel’avesse chiesto, non
avrebbe saputo nemmeno dire quanto tempo fosse trascorso da
quandoquell’anziano signore compito gli si
era presentato, vomitandole addosso tutta quella sconcertante storia.
Quillsh adesso si
ritrovava a dover sostenere uno sguardo smarrito e rammaricato, incapace di
indirizzare quegli occhi vuoti altrove per non avvertire più l’imbarazzante incapacità
di poterle fornire la risposta che, nonostante le condizioni in cui riversasse,
le si poteva leggere tranquillamente, a caratteri
cubitali, sul volto pallido.
Perché?
Estrasse un candido fazzoletto di stoffa da
una tasca dei pantaloni che indossava con movimenti incerti, per poi condurselo
alla fronte, indeciso se distogliere o meno lo sguardo
dalla donna… che sembrava non voler distogliere affatto il proprio dal suo.
-Ho
anche preso in considerazione l’idea di rimandare tutta questa lunga conversazione
ad un momento… migliore -.
Fece una breve pausa, rimpiangendo lo
scarso lessico che in quel momento veniva a presentarglisi
sottoforma di nervosismo, asciugandosi per l’ennesima volta la fronte sudata e
prendendo a stropicciare il fazzoletto.
-Ma
ho creduto che necessitasse di sapere… – concluse,
riportando al loro posto gli occhialini che gli erano scivolati leggermente sul
naso, cercando di captare qualsiasi mutamento nell’immobilità a cui si era
costretta la ragazza, i cui occhi, improvvisamente, andarono a spalancarsi più
di quanto non avessero già fatto. Sintomo che aveva definitivamente assorbito
le informazioni che le erano state fornite.
-È
qui? - .
QuillshWammy sollevò lentamente il capo – precedentemente
abbassato – per focalizzare nuovamente l’attenzione sulla giovane donna, la cui
espressione era mutata, seppur non riusciva bene a identificarne il modo.
Si limitò ad annuire, assolutamente
sorpreso e perplesso del fatto che in quel momento, tra le tante cose di cui le
aveva parlato, potesse essersi concentrata su lui.
-Dove?
– chiese ancora una volta con voce stranamente ferma.
Watari
osservò rapidamente ogni dettaglio della persona che aveva davanti… riscoprendola
completamente innocua.
Quella era una domanda che ne implicava
un’altra.
Una decisione simile poteva essere poco più
compromettente delle informazioni che le aveva dato,
si ritrovò a pensare sollevandosi dalla comoda poltrona di damasco, per farle
strada col classico garbo che lo contraddistingueva.
***
Proprio come aveva immaginato.
Rivolse di poco lo sguardo al monitor da
cui aveva ascoltato tutta la conversazione – o monologo, più che altro – che si
era consumato nella stanza affianco.
Gli occhi erano rimasti ostinatamente
incatenati al cielo buio che gravava su Parigi.
Quando la porta si dischiuse, rivelando la
luce del corridoio contro cui si stagliavano le figure
che si apprestavano ad entrare nella camera, Lawliet
rimase fermo al proprio posto, nella sua posizione ricurva, le mani affondate
nelle tasche dei jeans, lo sguardo semi nascosto dalla chioma disordinata di
capelli corvini che, mai come in quel momento, celavano poco più delle altre
volte la sua espressione nervosa.
Lo stomaco aveva ripreso a stringersi.
QuandoQuillsh si fu messo da parte, discretamente appoggiato allo
stipite della porta color crema, Catherine fece il
suo primo passo nell’ambiente elegante lasciato divorare dall’oscurità.
Avanzò con passo cadenzato, lentamente,
avvertendo i propri tacchi venir attutiti dalla
moquette morbida che sembrava rivestire l’intero pavimento della camera.
Esattamente di fronte a lei una grossa
finestra rettangolare mostrava un paesaggio cupo, illuminato raramente da
qualche fulmine che si stagliava contro il cielo plumbeo, facendo luce per un
attimo su tutto ciò aveva intorno. Compresa quella che
identificò essere una persona.
Strinse i pugni.
Lawliet
osservò la femminile figura longilinea farsi sempre più vicina.
La scarsa illuminazione proveniente dalla
finestra che aveva alle proprie spalle gli consentiva
di avere un’altrettanta scarsa visuale della donna, sebbene ricordasse perfettamente
il suo aspetto. L’unica cosa che differiva dal suo ricordo erano i capelli, che
adesso le ricadevano sulle spalle disordinatamente, come tante sottili e
morbide spirali sfuggite ad un’acconciatura improvvisata.
Quando Catherineavanzò nella camera a tal punto da trovarsi a meno di un
paio di metri di distanza da lui, ebbe modo di considerare che i capelli non
erano l’unica cosa diversa che ricordava.
Non seppe perché ad un certo punto aprì la
bocca per parlare. Non ricordava nemmeno cosa esattamente intendesse
dirle. Ne perché.
Lo schiaffo arrivò forte e inaspettato, a
tal punto che, ancora una volta, si ritrovò nella totale impossibilità di
definire se fosse stato davvero forte come aveva
immaginato o se semplicemente l’essere stato preso in contropiede avesse
costituito per lui uno smacco.
Continuò a rifletterci anche mentre si
appoggiava grossolanamente al divano poco distante da lui e la teiera afferrata
da Watari poco dopo aver chiuso la porta s’infrangeva
al suolo, disgregandosi in tanti piccoli pezzi.
Doveva essere stato preso in contropiede
anche lui a giudicare dall’immobilità a cui si era sottoposto in un primo
momento, nonostante la donna fosse tornata a inveirgli
contro, mostrandogli nuovamente quel paio d’occhi irriconoscibili e
vomitandogli addosso una lunga sequela di parole che inizialmente non afferrò.
-…figlio
di puttana! Figlio di puttana! Lurida giustizia del cazzo!
- .
Chissà se si era resa conto di aver
iniziato a piangere.
Non riusciva a toccarla.
Non riusciva ad allontanarla da se,
nonostante gli avesse afferrato la t-shirt con entrambe le mani e si fosse
messo a scuoterlo violentemente. Riuscì però ad intravedere Quillsh
precipitarsi ad afferrarle la vita con entrambe le braccia e a sollevarla di
peso per allontanarla da lui… poi un’ennesima lunga sequela d’imprecazioni… di farneticazioni.
Non era vero che le aveva distrutto la vita.
Non era stato lui.
Se non fosse
intervenuto, lei sarebbe morta.
E non poteva farci
nulla se adesso la sua vita le sembrava inutile.
Non poteva farci nulla se avrebbe preferito
morire.
Non poteva farci nulla se lei pensava che
il suo intervento non era stato tempestivo.
Né che aveva dovuto attraversare l’inferno
per desiderare comunque la morte.
Né che… Kira era migliore di lui.
Non era vero che se n’era sbattuto.
Lui lavorava continuamente, perennemente, a casi che lei non
immaginava nemmeno.
… non era colpa sua.
Continuarono a rimbombargli nella testa tutte quelle cose anche quando Catherine non ebbe più fiato e forza per continuare.
La vide ruotare gli occhi all’indietro e
cadere come un peso morto con il volto ancora contratto in una maschera feroce,
d’odio, che andò dissipandosi man
mano che perdeva i sensi.
Un profondo senso di negazione si fece
spazio in lui… ma quando provò a scuotere la testa non riuscì a muoversi,
scoprendo di essersi completamente impietrito.
E le campane… le campane non avevano mai
suonato così tanto…
-Lawliet - .
Gli occhi d’ossidiana cercarono subito
quelli del proprio mentore, scoprendovi uno stato d’apprensione che non aveva
mai avuto modo di osservare prima. Solo allora si rese conto della posizione
scomoda che vedeva l’uomo inginocchiato per terra, a sostenere il peso della
donna con un braccio e tenendo il cellulare accanto all’orecchio con l’altro.
-Tra
dieci minuti arriverà l’ambulanza – lo avvertì scandire, probabilmente per
essere certo che recepisse perfettamente. – Devi
occuparti tu di tutto il resto - .
Seppur con una certa
difficoltà, riuscì ad annuire, evitando accuratamente di rivolgere lo sguardo
al corpo immobile della donna.
Così come con una certa difficoltà riuscì a
non lasciar trapelare nulla, attendendo con un’ansia crescente che Quillshabbandonasse la camera,
trascinando con sé la matrice di tutti i suoi mali.
Quando la porta si fu
richiusa con un colpo secco, lasciandolo solo, Lawliett
avanzò – arrancando – verso il divano, riscoprendosene, ad un passo, poco
attratto.
Dato un rapido sguardo ai dolci poggiati
sul tavolo poco distante, si voltò rapidamente dal lato opposto, avvertendo una
fitta lacerante alla bocca dello stomaco.
Kira non
era migliore di L.
Si piegò in due, rigettando sul tappeto
porpora persiano.
***
Quando rinvenne si
ritrovò sorprendentemente adagiato su uno dei divani della sala, coperto da
quello che sembrava essere – a tatto – un lenzuolo.
Provando a muovere le gambe, avvertì
qualcosa impedirgli i movimenti, su cui subito focalizzò la propria vista.
La figura elegante e gentile di Quillsh gli invase la visuale, sostituita subito dopo da
una mano di quest’ultimo, che andò ad
adagiarsi sulla sua fronte.
Lanciò distrattamente uno sguardo al
termometro elettronico che impugnava il suo tutore, poi cercò d’individuare il
punto in cui aveva rigettato prima di perdere i sensi, scoprendolo
sorprendentemente immacolato.
Sospirò pesantemente, conducendosi un
braccio a schermirsi gli occhi, decidendo di restare poi in quella posizione.
Aveva i muscoli intorpiditi.
-Giusto
qualche decimo – affermò la voce di Quillsh poco
dopo. – Vado a prepararti un po’ di thè – aggiunse, abbandonando il divano su cui era sdraiato.
-Mi
dispiace - .
Watari si fermò sulla
soglia della porta, continuando a dargli le spalle.
Non aveva potuto fare a meno di chiudere
gli occhi.
Quelle parole avrebbe
dovuto dirle lui, non Lawliet.
Lawliet si era limitato a
mostrare un’intelligenza fuori dal comune, era stato
lui a creare L.Ed era stato
sempre lui, nel corso del tempo, ad avergli indicato la strada per diventarlo.
Non che non si fosse mai curato di vedere
che tipo di persona ci fosse dietro quella lettera in grassetto dai caratteri
gotici.
Ma non aveva mai
saputo insegnargli a fare lo stesso.
Tentennò sulla porta, voltandosi
lievemente, per un attimo, verso il ragazzo.
Non riuscì ad emettere un solo sibilo.
Vi erano parole giuste per scusarsi per una
vita intera?
Abbassò il capo e abbandonò la camera prima
che una lacrima sfuggisse al suo controllo,
chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Lawliet strinse i denti,
imponendosi autocontrollo.
Anche sua madre aveva
pianto prima di chiudere la porta di casa e abbandonarlo.
Delucidazioni:
-Ogni
riferimento al passato di L è inventato di sana
pianta, non avendo potuto attingerne alcuna informazione in merito attraverso
manga e/o anime. Ho voluto semplicemente che Ellino
avesse una sorta di deja-vù spiacevole che ricollegasse
l’ultimo ricordo della madre a Watari, l’uomo che successivamente ha deciso di prendersi cura di lui,
ridandogli una casa, un affetto, un’identità. L’idea che si è fatto L di Watari è dettato fondamentalmente
dalla confusione esistenziale che sta vivendo il primo. “Doors”,
il titolo del capitolo, sta appunto per “Porte”.
Una porta fa
definitivamente entrare in contatto Catherine con L,
una porta separa Watari dai sensi di colpa che ha nei
confronti di Lawliet, una porta sancisce un distacco,
un abbandono da parte di Watari per Lawliet. Senza contare le innumerevoli
“porte” che si aprono sul passato di ognuno dei protagonisti man mano che
interagiscono tra loro. Qualora qualcosa non vi
sia stato chiaro, chiedete pure tranquillamente, ma sappiate che questo non è
che l’inizio J e che avrete modo di sbrogliare
eventuali dubbi e punti interrogativi più avanti;
-LirinLawliet,
che segue adorabilmente questa storia, nell’ultimo
capitolo, tramite recensione, mi ha posto una domanda interessante: “Ho notato che ti riferisci ad L chiamandolo per cognome,
cioè Lawliet. Come mai?”
Avevo pensato
inizialmente di risponderle nel classico angolo delle recensioni come ho sempre
fatto con chiunque abbia commentato, poi ho pensato che più persone possano essersi poste la stessa domanda, quindi la cosa più
giusta che ho ritenuto fare è inserirvi la risposta nell’angolo
“Delucidazioni”, in modo da rendervene tutti partecipi.
Allora… parto dal
presupposto che la mia risposta si regge su un punto di vista personalissimo,
soggettivo. Il punto è questo: L… non è un nome. È una lettera, un’iniziale.
Certo,
alla fine
sul Death Note Ellino viene fatto fuori (ç__ç)
scrivendo “L Lawliet”, e partendo dal presupposto che
il quaderno della morte necessita del nome e cognome della persona che
s’intende uccidere (più l’averne bene impresso il volto, blablabla…), chiaramente la
spiegazione – com’è giusto che fosse - è passata come la seguente: L è il nome,
Lawliet il cognome.
Ecco, semplicemente
io mi rifiuto di accettarloxD
Come dicevo prima,
“L” non è un nome, è un’iniziale. Gli stessi M e N si
scoprono chiamarsi poi Mello e Near.
Il nome completo di Near in questo momento mi sfugge… ma continuando a riferirci a Mello,
per portare un esempio, si sa che il nome originario sia MihaelKeelh, poi diventato M alla Wammy’s
House in quanto potenziale successore di L.
Non so se sono
stata sufficientemente chiara… ripeto, nulla da contestare a chi crede al
contrario, anzi, ci sarebbe da contestare me per l’aver messo in discussione
quelle che sembrano essere le regole della storia originale xD
Ma, almeno per
quanto mi riguarda, “L” è semplicemente quel carattere in Old London che serve a rappresentare la più grande
mente e il più grande detective del mondo (di Death Note ^^), “Lawliet” è
colui che vi è dietro, la “persona” che lo incarna concretamente.
Per me “L” non è il
nome e “Lawliet” non è il cognome.
Per me “L” sta per:
“L diLawliet”.
Il cognome? Eh…
bella domanda. Per quanto mi riguarda può essere tranquillamente “Wammy” ^^ D’altronde cosa si sa del passato di L? Solo a me è sembrato
che i due geniacci degli autori di Death Note abbiano voluto miticizzare il personaggio del grande
detective prima ancora di sancirne la morte? Vabbè…
questo poi è un altro discorso… che non tocco altrimenti non la finiamo più
.___. Spero solo che il concetto sia chiaro. Anche
perché, credo ve ne sarete accorti, in questa storia giocherò molto nello
“scindere”, nello “smascherare”.
Oh, insomma,
auguri! xD
Ringraziamenti:
-LirinLawliet: Mia cara… perdona
il mostruoso ritardo. Per tutto. Vengo fuori da un
periodo non tanto roseo… e a dirla tutta, non ne vengo nemmeno fuori. Ci sono
ancora dentro quindi perdonami per i ritardi di aggiornamento,
di lettura e recensione delle tue storie (che, ci tengo a specificare, non
intendo leggere per ricambiare… non sono proprio il tipo di fare cose simili
perché la mia natura me lo impedisce xD <- ergo:
se una storia non mi prende, non mi prende… per quanto possa stimare a
prescindere la persona che la scrive). Ritornando alla tua ultima recensione:
anche a me Aiber e Wedy
ricordano Lupin! xD Le citazioni inerenti alle percentuali e ai dolci
a mio parere sono indispensabili, come si fa a descrivere L altrimenti? °___°
spero continuerai a leggermi nonostante i ritardi ^^’ così come spero che la
delucidazione sopra sia servita! Un bacio!;
-Kiriku: Congetture?
Condividile, condividile, condividile! Sono qui per
questo °____° grazie per la recensione, spero alla prossima!;
-Fe85: … il dannato episodio 25. Già. *scoppia a piangere al solo
ricordo* Mmm… posso dirti
che gli avvenimenti nefasti non devono necessariamente incarnarsi in quaderni
della morte e Shingami… quindi… chissà? J Oddio… grazie per
avermi fatto notare quegli errori! “È una misura
cautelare aggiuntiva che hanno ritenuto opportuno aggiungere” è proprio
fantastica .___. *corre a correggere* mi scuso U__u quando
mi ci metto so essere davvero geniale! Non esitare a farmi
notare altri errori qualora li individuassi, io a volte non me ne accorgo
proprio ç__ç nemmeno rileggendo più volte! *s’inchina e chiede scusa* Grazie
mille per la tua recensione! Alla prossima (spero)!
Inoltre volevo ringraziare Shining Aurora, Fe85 e Ciuly
per aver aggiunto questa storia tra le seguite, _Elea_ e LirinLawliet tra
le ricordate, e kiriku tra le preferite J *inchino*
Avrebbe voluto tanto risvegliarsi con
l’odore di caffè che era solito ritemprarle i sensi
prima ancora di essere sorseggiato, l’odore di lavanda che emanavano
i capelli della madre a pochi centimetri dal viso e dolci e vellutate mani a
carezzarle il volto.
Invece, quando riaprì gli
occhi, desiderò ardentemente sprofondare nuovamente nel cinico sogno che
l’aveva accompagnata durante la notte.
Mosse il braccio, riscoprendolo
fastidiosamente pesante, e quando provò a piegarlo fu dissuasa da qualcosa di
freddo che sembrava esserle stato legato all’altezza del gomito.
Nonostante la stanchezza fisica e
psicologica, che ancora perpetravano, non ci mise molto ad accorgersi di avere una flebo ad alimentarla. Con cosa, non ne
aveva idea, ma per essere ancora viva non doveva essere nulla di letale.
Decise di far vagare lo sguardo per la
stanza buia nella quale si trovava ma, a parte la
parete di fronte a lei, completamente spoglia, non riuscì ad individuare nessun
altro particolare.
Richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal
silenzio che regnava nella stanza e dalla luce artificiale dei lampioni che
filtrava dalla finestra lasciata socchiusa.
Dischiuse gli occhi, ricordandosi tutto a un tratto ciò che le era accaduto nelle ultime ore.
Gli occhi di quell’uomo,
quelQuillsh, ritornarono a
farle visita nuovamente, seppur incorporei.
Incredibile.
Avrebbe dovuto immaginarlo? Avrebbe mai potuto immaginarlo?
Non si somigliavano per niente… non almeno
per quanto ricordava.
Lei doveva avergli posto qualche domanda,
se riusciva a ricordare la risposta…
Padri
diversi.
Giusto.
Così poteva quadrare.
Ma poteva credergli?
Beh… come avrebbe fatto altrimenti a
trovarla?
Ma allora perché non
l’aveva cercata prima?
Sua madre era a conoscenza dell’esistenza
di un ipotetico fratello dell’uomo che amava? Se sì,
allora perché, considerando la persona che questi era, non si era rivolta a
lui… ?
No, evidentemente non lo sapeva.
Si morse un labbro, trattenendo l’impulso
di urlare.
La porta della camera venne
aperta delicatamente, attirando la sua attenzione. Un’ombra si mosse silenziosa
per l’ambiente, avvicinandosi cautamente a lei, in direzione della
flebo che l’alimentava.
Non ebbe grandi difficoltà a riconoscerne
il profilo, sebbene l’avesse visto una sola volta.
Quillsh si ritrovò a fare
nuovamente i conti con quegli occhi che tanto l’avevano turbato.
Voltò il capo lentamente, poggiando il
proprio sguardo sulla donna con cautela, come se questa da un momento all’altro
potesse ritrasformarsi nella furia che aveva aggredito Lawliet...
invece scorse solo un paio d’occhi grandi, lucidi e spaventati, spalancati in
un viso pallido tanto piccolo da ricordargli quello di una bambina.
-Siete
ancora nell’albergo dove vi ho fatta condurre in precedenza. – le sussurrò,
avvicinandosele appena per non dover alzare la voce. – Gli uomini che vi hanno inseguita sono ancora in libertà… qui sarete al sicuro. Ve
lo garantisco. – concluse, rivolgendole un tenue sorriso di circostanza per poi
riprendere ad armeggiare con la flebo che alimentava
la donna. Accertatosi che il processo di alimentazione
stesse procedendo bene, fece per allontanarsi con lo stesso silenzioso rispetto
con cui aveva fatto accesso nella camera, ma se ne trovò impedito.
-Per
favore… - .
Quillsh volse nuovamente
il capo verso di lei, sorpreso – e allo stesso tempo angosciato – dall’urgenza
che aveva accompagnato la richiesta della donna. Le fece un cenno di assenso col capo, incoraggiandola a parlare.
-Per
favore… - . Un’altra interruzione.
Immaginando perché incontrasse tanta
difficoltà nell’esprimersi, decise di andarle incontro, avvicinando al letto
una delle sedie che componevano l’arredamento semplice della camera, in modo da
farle intendere di offrirle completa disponibilità.
Vide le sue labbra
tremare leggermente e gli occhi riempirsi nuovamente di lacrime. Si ritrovò a
sospirare nello stesso momento in cui lo fece lei, sentendosi sollevato nel vederla
finalmente prendere coraggio e parlargli.
-Me
lo ripeta… me lo dica ancora una volta… -.
Chiuse gli occhi, accusando il colpo che la
richiesta della donna seppe sortirgli. Poi annuì, donandole un accenno di
sorriso, comprensivo, iniziando a raccontarle tutto da capo.
***
JamesLorraine, nativo britannico, aveva vissuto fino all’età di
diciassette anni in Francia, presso un fratello della madre, mentre questa
rimaneva a Londra a tentare di racimolare un po’ di soldi che in un futuro non
molto lontano – si sperava - avrebbero potuto consentire una vita più dignitosa
a lei e suo figlio, dal momento che il padre del bambino
s’era premurato di sparire dalla circolazione non appena aveva saputo che la
donna era al terzo mese di gravidanza.
O almeno era questo
ciò che avevano rifilato a James.
Era vero che non v’era più stata traccia di
suo padre non appena aveva scoperto della sua esistenza, quanto era vera la
circostanza che vedeva sua madre a lavorare duramente per potersi permettere
uno stile di vita sufficientemente dignitoso.
In fin dei conti – si era ritrovato a
pensare James – la persona che gli aveva parlato di
sua madre non gli aveva mentito. L’omissione d’informazioni, dopotutto, non
poteva considerarsi alla pari di una menzogna, fu per questo motivo che James si ritrovò impossibilitato ad accanirsi nei confronti
dello zio, che si era premurato di allevarlo fino alla maggiore età alla
stregua di un figlio. Sostanzialmente, ciò che lo legava a quel suo parente doveva essere riconoscenza. La rabbia andava
riservata solo alla madre.
Quando, concretizzatasi
l’opportunità, decise d’imbarcarsi e raggiungere il luogo natio, James non immaginava che ad attenderlo vi fosse la
sconcertante rivelazione di avere un fratello. Un fratello maggiore per giunta,
che, al contrario di lui, aveva sempre vissuto con la
madre, e a cui quest’ultima – per quel che allora gli
parve uno strano motivo – aveva sempre finanziato gli studi, lavorando
duramente.
Solo molto più tardi Jamesvenne a conoscenza dell’abissale differenza di Q.I.
che lo differenziava dal fratello, precludendogli l’opportunità di avere una vita
simile alla sua. E saperlo non fece altro che
procurargli un moto di stizza e disgusto, peggiore di quello che l’aveva colto
alla scoperta della verità a lungo taciuta dalla donna che l’aveva messo al
mondo.
Ad ogni modo, non fu molto chiaro come si
evolsero le cose da quel momento.
Quillsh aveva raccontato
di averlo visto solo due volte nel corso della propria vita. Quella
volta e un giorno di vent’anni più tardi.
Evidentemente James
aveva dovuto abbandonare il luogo natio il giorno stesso che vi aveva rimesso
piede, convinto a lasciarsi il passato alle spalle e a cercare l’identità che così tanto a lungo gli era stata negata. Evidentemente era
ritornato in Francia, seppur non più sotto la tutela di quel suo parente, ed
evidentemente era stato lì che si era avvicinato al mondo ecclesiastico,
sebbene – per quanto l’immaginazione potesse galoppare in svariati modi – non
si sapesse esattamente come fossero andati i fatti.
Fatto sta che, a giudicare dal calcolo
approssimativo che si poteva fare sui fatti svoltisi nel corso del tempo, James doveva indossare già gli abiti sacerdotali
quando aveva incontrato per la prima volta EvelyneBrown.
E non v’era bisogno, a quel punto, di molta
fantasia per capire come si fossero susseguite le
cose. Un giorno di luglio di ventiquattro anni prima, Catherine
era venuta alla luce, sotto un cielo che non
prometteva nulla di buono.
James, inutile dirlo,
aveva rifiutato fino allo sfinimento la realtà dei fatti, che lo vedeva padre
di una creatura che da lui, vicario di Cristo, non sarebbe mai dovuta nascere.
Evelyne, dal canto suo,
era pienamente consapevole delle difficoltà a cui sarebbe andata in contro
decidendo di mettere al mondo la creatura che la legava all’uomo di cui si era
irrimediabilmente innamorata. E l’amore, in quanto
irrazionale, l’aveva convinta del fatto che tutto si potesse affrontare e
superare. Ma le cose non erano andate per il verso
giusto.
SamirKunz, il maggior narcotrafficante
dell’est Europa a cui era sposata prima ancora d’incontrare James, non aveva avuto bisogno d’impiegare alcuna forma di
spionaggio e investigazione per capire che la creatura che portava in grembo
non gli apparteneva. Evelyne allora, temendo le sorti
di sua figlia e dell’uomo che amava, lo aveva ucciso, avvelenandolo a
tradimento una sera di ottobre di vent’anni
prima, facendo poi ricadere le colpe su uno dei membri della servitù che era
solito occuparsi dei pasti dell’uomo.
Era corsa da James
di nascosto, in preda al panico, riponendo fiducia
nell’infinita misericordia che avrebbe dovuto caratterizzare la strada che
aveva deciso di seguire, raccontandogli tutto e chiedendogli di prendersi cura
di Catherine.
MaJames aveva negato nuovamente la paternità nei confronti
della bambina, esigendo una prova del DNA che attestasse la veridicità della
versione della donna. Evelyne, tenacemente, non si
era persa d’animo e gliel’aveva fornita, vedendosi
chiudere nuovamente una porta in faccia, a dimostrazione del fatto che l’uomo
che aveva tanto amato non avrebbe fatto altro, nel corso del tempo, che
lavarsene le mani.
Non sapeva che James,
dopo l’ultima volta che aveva visto Evelyne e la
piccola Kate, si era messo sulle tracce del fratello,
di cui aveva sentito a lungo parlare a riprova del fatto dire
che i frutti dei sacrifici della madre erano serviti. Quillsh
vantava di essere uno dei più grandi inventori dell’ultimo decennio.
Una volta risalito al cognome – che
gli aveva fatto chiedere se, a differenza sua, suo padre lo aveva invece
riconosciuto, rendendolo ancora una volta irrimediabilmente più fortunato – era
venuto automaticamente a conoscenza dell’orfanotrofio che aveva fondato a Winchester.
Il che, a rigor di logica, doveva fare di Quillsh una
persona presumibilmente benestante, nonché
sufficientemente adatto a potergli venire in aiuto concretamente.
Una settimana dopo la sconcertante
confessione di Catherine, si era presentato ai cancelli
della Wammy’s House, venendo
ricevuto più velocemente di quanto immaginasse. Si era seduto alla scrivania di
Quillsh e, contrariamente a quanto si potesse immaginare,
aveva preteso senza mezzi termini aiuto materiale.
CheQuillsh, senza mezzi termini, gli aveva rifiutato.
Non perché non
riconoscesse in quell’uomo il fratello minore che
aveva visto quell’unica volta, vent’anni
prima.
Benché le loro strade si fossero separate, al contrario
di James, Quillsh si era
tenuto costantemente informato sulla vita del fratello, forse – riflettè anni dopo – perché inconsciamente dispiaciuto per
l’epilogo che gli era toccato.
Ma lui, che da poco aveva idealizzato il
progetto di provare a rendere il mondo un posto migliore grazie a quelle
piccole, geniali menti che accoglieva nel suo orfanotrofio, non poteva
accettare la condizione di aiutare qualcuno che si fosse
macchiato d’omicidio, anche se quel qualcuno era una donna che – stando
al racconto del fratello – si era macchiata di quel crimine per preservare le
persone che amava.
Allora gli aveva suggerito di contattarla per
convincerla a rivolgersi alla polizia, e a quel punto sarebbe intervenuto lui,
offrendole avvocati e protezione, nonché tutte le garanzie
che solamente con un bel gruzzolo di soldi avrebbe potuto permettersi.
James, chiaramente, dopo
la lunga e dettagliata descrizione che gli aveva fornito in merito alla
famiglia Kunz e alla relativa conseguente
impossibilità da parte della donna ad effettuare una
cosa simile senza incorrere in probabili ritorsioni, non riuscì a non perdere
le staffe.
Quando abbandonò lo
studio di Quillsh, quest’ultimo
dovette ricorrere a degli inservienti per rimettere a posto la stanza lasciata
completamente a soqquadro dal fratello.
Anni più tardi - forse perché richiamato da
quel legame di sangue che sembrava aver rinnegato, col suo rifiuto – Quillsh gli aveva fatto recapitare una lettera presso la
curia nella quale amministrava il suo sacerdozio, informandolo del fatto che,
qualora si fosse trovato seriamente in difficoltà, non avrebbe dovuto fare
altro che rivolgersi adL, senza però dilungarsi nello specificare di che diavolo stesse
parlando.
Jamesaveva
bruciato la lettera, così come aveva bruciato, dentro di sé, l’idea di
avere e di avere avuto, un tempo, un fratello.
Aveva continuato ad esercitare la sua
devozione, trovandosi a pregare il doppio per quelle due anime di cui non aveva
avuto più notizie da quella lontana sera.
Finchè non aveva ricevuto
quella telefonata.
Una voce gracchiante – evidentemente
camuffata – lo aveva informato del ritrovamento di un risultato corrispondente
ad un test del DNA effettuato anni prima, che lo avrebbe
visto morto nel giro di poco tempo.
James non immaginava che
il “poco tempo” concessogli sarebbe scaduto esattamente il giorno dopo, e che
in quel “poco tempo” rimastogli avrebbe rivisto la creatura che vent’anni prima aveva rifiutato di accettare come sua. Così
come non immaginava quanto avesse potuto somigliare
alla donna che – nonostante tutto – si era ritrovato a pensare e ad amare
durante tutto quel tempo.
Nè che l’assassino
inviatogli a stroncargli la vita corrispondesse a quello che immaginava essere
un fedele curioso che giorni prima gli aveva posto delle domande sul proprio
percorso sacerdotale.
Né che si sarebbe
ritrovato a seguire il consiglio del fratello in extremis, scrivendo col
proprio sangue la lettera che sperava, ormai, potesse ritornare utile perlomeno
a Kate.
***
Lawliet si massaggiò la
fronte con la punta delle dita, continuando a piluccare svogliatamente una
fetta di torta alle fragole che non riusciva in alcun modo ad attirare la sua
attenzione.
Perché Quillsh
gli aveva taciuto tutta quella storia fino ad allora?
Se prima o poi si sarebbe palesata l’eventualità di
dover necessariamente intervenire in un caso simile, perché non gliel’aveva
reso noto?
Chiaramente la faccenda
dei Death Note doveva averlo distratto parecchio, senza dubbio. Ma vi
era una scarsissima probabilità che anche i casi precedenti dovessero
averlo distratto a tal punto da fargli ignorare un particolare di quella
portata.
Sollevò gli occhi sul monitor che gli
consentiva d’inquadrare la camera in cui aveva fatto sistemare la ragazza.
Chiaramente, coiKunz ancora
in libertà, era assolutamente fuori discussione tenerla in una comune struttura
ospedaliera.
Avrebbe dovuto pensarci prima di prenotare
una camera nella migliore clinica privata della zona, che Quillsh
aveva prontamente provveduto a disdire.
Era l’ennesimo errore che compieva da quando erano atterrati sul suolo parigino. Cosa diavolo gli stava prendendo? Perché
non riusciva a ragionare e calcolare tutto come suo solito?
Rivolse nuovamente lo sguardo all’immagine
che intrappolava Quillsh e Catherine
nello spazio esiguo del monitor, prima che i suoi pensieri venissero
interrotti dallo squillo del cellulare.
-L
- .
-Qui,
Aiber. Sono sul posto. Attendo istruzioni. - .
Quando mise giù, si
ritrovò a sospirare profondamente.
Era ormai questione di ore.
Gli occhi si spostarono nuovamente sui
soggetti del monitor.
Quillsh stava carezzando i
capelli di Catherine, che aveva il volto nascosto tra
le mani, in lacrime.
Trattenne il respiro, stringendo la
forchetta nella mano.
Prima Aiberavrebbe portato a termine l’incarico, prima tutto sarebbe tornato
alla normalità.
Delucidazioni:
-Il
passato di QuillshWammy,
meglio conosciuto come Watari ^^, come quello di L è inventato di
sana pianta ^^’ Sono consapevole che
non piacerà a tutti… d’altronde siamo (mi ci ficco anch’io in mezzo xD) abituati a vedere il caro Watari
come l’uomo senza macchia che ha cresciuto nientepocodimenoche
L! Come potrebbe una persona simile avere un passato ambiguo, pieno di zone
d’ombra? Ta-dan! Il Watari
della mia storia ha un trascorso turbolento, non a caso il
titolo del capitolo è “Skeletons”, ossia
“Scheletri”. Ho voluto implicitamente riferirmi ai cosiddetti “scheletri
nell’armadio” che ognuno di noi ha, compreso lui J
Ringraziamenti:
-Fe85: Non vi ho fatto
aspettare molto stavolta =) Il trascorrere periodi non troppo felici ha il suo
lato positivoxD come al
solito: occhio, se noti qualche errore fammelo notare! Anche
perché stavolta mi sono cimentata in una spiegazione lunga e abbastanza
dettagliata in cui, quasi sicuramente, deve essermi sfuggito qualche errorino >__< e grazie per la recensione J spero alla
prossima;
-Kiriku: No J non mi offendo se
non vorrai condividere con me le tue congetture J però sappi che mi
farai morire di curiosità! xD
ma è una tua scelta questa, che io rispetto in pieno J quindi don’t worry! =D qui cominciamo ad addentrarci nei meandri del labirinto mentale di L…
chissà che ne verrà fuori xD un bacio;
-LirinLawliet: Sono assolutamente d’accordo, mia cara. In qualunque
modo lo si decida di chiamare, L resta sempre L *___*
Non credo che Catherine sappia di questa peculiarità
di L J e credo che anche qualora ne venisse a
conoscenza, non se ne curerebbe troppo JCatherine è una donna a pezzi a cui è stato portato via
tutto, senza che lei abbia avuto modo di aprire bocca per contestare, dissentire.
La storia che ho fornito sta proprio a sottolineare
questo: lei, tra tutti i fatti brutti e tristi compiuti dalle persone che aveva
attorno – consapevolmente o meno – ha avuto la semplice “colpa” di essere nata.
E qui mi fermo altrimenti ti anticipo troppo U__U (sì, perché inevitabilmente
ti ho dato un piccolo spoiler ^^’). Concludo
ringraziandoti per la recensione articolata che mi hai lasciato nell’ultimo
capitolo e per il fatto di seguirmi ovunque! Mi hai beccata anche nel fandom di Dragon Ball! xD Questa storia ha
dell’incredibile davvero!
Ringrazio inoltre tutte le persone che
hanno aggiunto la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate Jnonché
tutti coloro che decidono di perdere un po’ del loro tempo per leggere (e ne
siete tanti, eh! Fatevi sentire *___*) .
*inchino*
HOPE87
Ps: Ad un occhio
attento non sarà certamente sfuggita la dedica che ho
inserito in cima alla presentazione della storia. YamaMaxwell
è una fanwriter (a mio avviso, bravissima) che ama Death
Note ma che non bazzica molto nel fandom dedicato a
questo capolavoro. Mi è stata concessa (da lei stessa, chiaramente)
l’opportunità di sapere chi vi fosse dietro a questo nickname, scoprendo così l’esistenza di una persona non
solo estremamente fantasiosa, quanto estremamente umana, sotto svariati punti di vista, e con la quale ho scoperto di
avere più cose in comune di quanto potessi mai immaginare.
Sì, evidentemente avrei dovuto inserire la
dedica dall’inizio, ma inizialmente questa idea era
lontana da me. Poi, riflettendo sulla direzione che voglio far prendere alla storia,
mi è venuto da pensare: non posso non dedicargliela.
Ordunque,
ecco sciolti eventuali dubbi che avrebbero potuto coglierviJ
Pps: Ah, visto che ci
sono ^^’
semmai amaste Saiyuki e foste interessati a leggere
qualcosa di carino, ecco a voi la pagina della folle geniale: YamaMaxwell.