~ Redemption ~

di HOPE87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** I. Eyes ***
Capitolo 4: *** II. Lost ***
Capitolo 5: *** III. Doors ***
Capitolo 6: *** IV. Skeletons ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


Premessa

Premessa

 

 

 

-          I personaggi di “Death Note” appartengono a Tsugumi Ohba e Takeshi Obata, a cui io sottraggo principalmente L e Watari, promettendo (a dita incrociate dietro alla schiena) di non strapazzarli troppo. È prevista l’introduzione anche di altri personaggi dell’opera, ma vabbè, quando (e se) accadrà sono certa che ve ne accorgerete J ;

 

-          È una What if…?” perché la storia è ambientata successivamente al caso Kira ma (ta-dan!) L non muore. Capirete cosa mi sono inventata per tenere in vita il detective direttamente all’interno della storia, ma vi avviso di non aspettarvi nulla di particolarmente plateale… mi serviva vivo e ho fatto in modo che non morisse, stop, quindi non meravigliatevi troppo se non troverete un racconto dettagliato dell’accaduto… la mia storia si snoderà su altro. E qui passiamo alla terza premessa;

 

-          Ho cercato (e cercherò in futuro) di mantenere i personaggi di Tsugumi Ohba e Takeshi Obata IC. Non simpatizzo per l’OOC e nella mia storia farò di tutto (nei limiti del possibile) affinchè i personaggi sopra citati non subiscano sconvolgimenti che stonino nettamente con quello che è il carattere originale. Il che vuol dire che in questa storia avverranno sicuramente dei cambiamenti, chi mi conosce sa che tendo ad “umanizzare” i personaggi che estrapolo dai fandom per manipolarli nelle mie storie, ma sa anche che il cambiamento a cui sottopongo i poveri sventurati è graduale. E qui passiamo alla terza premessa;

 

-          Il mio scopo è narrare fondamentalmente uno sviluppo, una crescita. E automaticamente un nuovo modo di vedere le cose. A voi la decisione di seguirmi o meno in questo pseudo esperimento J ;

 

-          Il rating sarà arancione perché la storia tratterà di temi delicati (motivo che mi spingerà probabilmente in futuro ad alzarla a rosso, ma ancora non so) … per cui invito tutti coloro che sono facilmente suscettibili a non accostarsi alla lettura. Ciò non significa che troverete in ogni capitolo una scena splatter, una scena di sesso e una scena in cui facciano da padrone tutte le parole poco fini che l’uomo abbia potuto elaborare. Anche semplicemente il descrivere una situazione delicata sotto un certo punto di vista può disturbare. Ed mi sento in dovere di avvisarvi che tratterò soprattutto l’introspezione, quindi… fate voi ;

 

-          Mea culpa, non sono il tipo di persona affidabile sugli aggiornamenti. La cosa assolutamente certa è che, qualsiasi lasso di tempo possa passare, io una storia non l’abbandono (salvo il caso in cui, ahimè, uno Shinigami monello si metta a scrivere il mio nome sul suo quaderno ^  ^), quindi l’unica cosa particolarmente seccante che vi possa capitare è il dover aspettare mesi e mesi per il prossimo aggiornamento *e fu così che dissuase tutti a leggere la storia*… ‘nsomma, bontà vostra >__<

 

 

 

Credo sia tutto.

Qualora mi venisse in mente qualcos’altro non esiterò a farvelo sapere nell’angolo che riserverò alle “delucidazioni” e ai “ringraziamenti”, a fine capitolo.

Sentitevi liberi di contattarmi ;) e, soprattutto, sentitevi assolutamente liberi di darmi un parere sincero su ciò che i miei neuroni malati partoriranno xD

 

 

 

 

BUONA LETTURA!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HOPE87

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Capitolo 2
*** Prologo ***


I

Prologo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-          In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sàncti - .

-          Amen. - .

Gli occhi verdi scrutarono l’esigua folla di credenti della messa mattutina abbandonare le panche in rispettoso silenzio.

Alcuni di essi, prima di uscire, sollevarono ancora una volta gli sguardi verso l’enorme croce di legno posta alle spalle dell’altare, prodigandosi in riverenti genuflessioni e accompagnando queste a lenti movimenti della mano, che andavano a definire il segno della croce.

Solo poche donne restavano ancora, sedute sulle panche in prima fila, intente a far scorrere i granelli del rosario tra le mani, elevando talvolta, in coro, accorate suppliche alla donna di bianco vestita che, dall’alto del ripiano in marmo sulla quale era stata adagiata, rivolgeva gli occhi verso la croce, alla sua sinistra, in una muta richiesta d’ascolto.

Con un lieve sorriso a incurvarle le labbra, le dita diafane, in netto contrasto con la manica del lungo vestito nero dalla quale spuntavano, andarono a chiudersi delicatamente attorno ai granelli rossi della propria corona.

-          Pàter nòster, qui es in caelis… - .

Abbassò il capo, posando lo sguardo su quel che rimaneva del suo passato, perdendosi in ricordi lontani.

-          … fiat volùntas tua… - .

Le mani strinsero con rabbia la piccola croce che penzolava dalla corona.

-          ne nos indùcas in tentatiònem… - .

Il sarcasmo s’impadronì del suo volto, e trattenne a stento una risata.

-          … libera nos a malo - .

-          Amen – si ritrovò a pronunciare nonostante tutto, reprimendo la rabbia, coprendosi il volto col velo nero che le ricopriva il capo e alzandosi quando ebbe individuato il motivo che l’aveva costretta a trovarsi in quel posto, a quell’ora.

Non perdendo di vista l’anziano sacerdote, avviatosi a svolgere i propri doveri questa volta nel confessionale, si diresse verso quest’ultimo lentamente, ponderando bene i passi, esprimendo dentro di sé il desiderio d’impedire ai tacchi delle scarpe che indossava di non scandire il tempo, come invece sembrava stessero facendo.

Si fermò, inspirando profondamente, gli occhi ancora incollati al drappo di velluto viola che decorava il legno scuro del luogo all’interno del quale si era chiuso il suo obiettivo.

Ce la poteva fare… anche se questo avrebbe implicato mettersi nuovamente in gioco. Aveva un pessimo ricordo del ruolo di pedina che si era trovata a ricoprire tempo fa… stavolta sarebbe riuscita a gestire il gioco a suo vantaggio?

Attese che l’uomo che l’aveva preceduta a causa della sua voluta lentezza uscisse dal confessionale, poi vi entrò, trattenendo il fiato.

-          In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sàncti - .

-          Amen – si ritrovò a rispondere a bassa voce, scrutando attentamente la figura al di là del sottile divisorio traforato. Non era cambiato di una virgola nel corso del tempo. I capelli, certo, avevano perso il loro colore bruno, originario, venendo sostituiti da una moltitudine di capelli grigi. E le rughe erano un segno evidente dell’età che avanzava, nonchéforse – del dolore che doveva avergli scavato dentro per tutto quel tempo.

Chissà se un sacerdote si confessava a sua volta, si ritrovò a pensare in quel momento. Non s’era mai curata di chiedersi una cosa simile.

Un mucchio di cose non s’era mai curata di chiedersi, a dire il vero. Quando le risposte più necessarie e urgenti stentavano a venire a galla, quanta importanza poteva avere il resto?

-          Ho peccato, Padre – decise di rispondere dopo il lungo silenzio provenuto dall’altra parte, ricevendo in risposta un altro lungo momento di silenzio a causa – ne era certa – del tono marcato che aveva utilizzato per pronunciare l’ultima parola.

-          La misericordia di Dio è infinita, figliola – rispose l’uomo dopo un po’, non prima di essersi schiarito leggermente la voce.

Si ritrovò a sorridere amaramente, stringendo i pugni per non lasciare che la collera prendesse il sopravvento.

-          Ne sono consapevole – controbbattè modulando la voce, cercando di non manifestare nervosismo.

-          Confessa allora i tuoi peccati, figliola, affinché possa assolverti nel nome… - .

-          Lei confessa mai i suoi peccati, Padre? – gli chiese istintivamente, aspettando pazientemente la risposta dell’uomo, che tardava ad arrivare probabilmente perchè preso in contropiede. Era realmente interessata alla risposta.

-          Naturalmente… sono un servo di Dio… e ciò non mi esclude dalla confessione… - .

-          Come tutti i credenti, dunque, teme l’Inferno - .

-          Temo la collera del Signore, e temere questi è più importante di temere qualunque altra cosa… - .

-          Teme l’uomo? - .

-          L’uomo? – fu la pronta domanda dell’anziano sacerdote.

-          L’uomo non è misericordioso. L’uomo è meschino, abbietto e crudele. Non ha bisogno di mancare di rispetto al Signore per finire all’Inferno, riesce a viverci tranquillamente qui, sulla Terra, facendone il proprio habitat – rispose tutto d’un fiato, non riuscendo più a contenersi. – Ma sono certa che lei lo sappia già. - .

L’agitazione dell’uomo, indipendentemente dal frequente balbettio sconnesso mormorato, era ormai palpabile.

-          Figliola… il mondo in cui viviamo purtroppo… - .

-          È la terza volta che mi chiama figliola, Padre – decise dunque d’intervenire nuovamente, ben conscia di quanto sarebbe avvenuto da lì a poco. – Eppure ricordo nitidamente la sua estrema reticenza nel volerlo riconoscere, tempo fa - .

Se avesse avuto un udito più sviluppato, meno umano, sarebbe stata sicura di aver avvertito un acceleramento del battito cardiaco del suo interlocutore.

-          Non capisco… - .

-          Naturalmente – rispose cinicamente, impedendogli di continuare a parlare. – Anch’io, in effetti, non capisco. Non capisco che bisogno ci sia stato di farmi fare un test del dna per dimostrare una cosa palesemente ovvia quando avevi già deciso di abbandonare me e mia madre… - .

Calma cadenzata. Non credeva sarebbe riuscita a trattenersi.

Il suo interlocutore aveva ormai smesso di obiettare, attendendo probabilmente che la spada di Damocle gli recidesse il capo.

Eppure lei dentro di sé non riusciva a impedirsi di sperare che qualche, seppur piccolo, miracolo potesse accadere…

-          Si sta sbagliando – lo sentì pronunciare dall’altra parte, vedendo tutte le sue aspettative esplodere come una bolla di sapone. Ancora una volta.

Trattenne il fiato.

-          È morta, James – si costrinse a dire, sentendo dentro di lei una fitta attraversarle il petto. – L’hanno uccisa. – continuò, avvertendo la voce affievolirsi a causa del groppo che le si era formato in gola. - Così come uccideranno me – concluse, lasciando che le prime lacrime le solcassero il volto contratto in una smorfia di dolore.

Il silenzio calato nel confessionale era più significativo di qualsiasi parola.

-          Ti prego… - sussurrò, avvicinando la bocca al divisorio, per fare in modo che la sua voce rotta dai singhiozzi gli arrivasse più nitida.

-          Le ripeto che si sbaglia – fu la fredda risposta. – Non so lei chi sia… ne di che parla. L’unica cosa che posso fare per lei è consigliarle di rivolgersi alla polizia se ha problemi di un certo spessore - .

-          Hanno corrotto tutte le persone alle quali potevo rivolgermi… - biascicò, tentando di ridare alla voce un tono più fermo.

-          Non è un problema che mi riguarda – fu l’ennesima risposta lapidaria.

Le gambe le tremarono, mentre un freddo pungente le attraversò la schiena ricoperta di sudore.

-          Sei solo un lurido figlio di puttana! – urlò, dando un pugno al divisorio. – Che tu possa marcire all’Inferno del tuo patetico dio, vigliacco! - .

Abbandonò il confessionale velocemente, mettendosi poi a correre verso il grande portone della Chiesa, incurante degli sguardi interdetti e sconvolti dei fedeli che stavano pregando.

 

 

A nulla erano valsi quegli anni spesi a servire il Signore, quell’ ultimo gesto gli aveva fatto guadagnare un biglietto di sola andata per il regno di Lucifero.

-   Ave Maria, gratia plena… -.

Dannata curiosità che l’aveva spinto ad osservare attraverso il divisorio... aveva distolto lo sguardo non appena s’era accorto di essere osservato a sua volta.

-          dòminus tecum, benedica tu in mulièribus - .

Ma, per Dio, quei capelli…

-          et benedìctus fructus vèntris tui, Iesus… - .

Rossi… come i suoi!

Senza riuscire ad impedirselo, si ritrovò a singhiozzare, nascondendo il viso tra le mani.

Contrasse il volto in un’espressione di dolore, continuando a pregare, piegandosi al suolo consacrato più di quanto già non lo fosse, incapace di sostenere la visione della croce.

-          Sancta Maria, mater dei, ora pro nobis peccatoribus… - .

Avvertì una delle porte della Chiesa aprirsi per poi richiudersi delicatamente.

Deciso a concludere la preghiera, si propose di avvisare successivamente i fedeli o gli eventuali visitatori che quella non era ora ne di messe ne di visite.

-          nunc et in hora mortis nostrae… - .

-          Amen! - .

Riaprì gli occhi, avvertendo un sudore freddo imperlargli la fronte.

-          Amen – concluse a sua volta, riavvolgendosi la corona del rosario attorno al polso destro e voltandosi lentamente verso la fonte della voce.

-          Come va, James? – gli chiese l’uomo biondo gioviale, in tono puramente sarcastico, allargando il sorriso man mano che vedeva il suo interlocutore sbiancare.

-          Beh, capisco. Arriviamo quindi al dunque: partendo dal presupposto che grazie ai dati che possediamo non avresti alcuna possibilità di mentirci e che un tuo tentativo di farlo ti condurrebbe istantaneamente alla morte, ci aiuti a trovar pel di carota? - .

Con gli occhi ancora umidi per il pianto digrignò i denti, realizzando in quel momento cosa aveva fatto. Ma non avrebbe permesso che il suo egoismo procurasse altro dolore, no.

-          Va all’inferno, Hector! – scandì meticolosamente, avvicinandosi col volto a quello dell’uomo che aveva davanti.

Fu un attimo.

Una confusione di colori e sensazioni… rosso e dolore, sgomento, realizzazione… si condusse una mano al collo prendendo ad annaspare, mentre il corpo, toccando terra, perdeva sensibilità e gli occhi si chiudevano sulla statua dell’Immacolata.

 

 

 

***

 

 

Aveva perso.

Watari non era completamente d’accordo con la sua affermazione, in fondo anche Kira aveva perso, dunque il caso poteva dirsi concluso con una pareggio, che non decretava affatto una sconfitta da parte del detective.

E invece no.

Il non poter dimostrare che Light Yagami fosse Kira, per Ryuzaki era stato inconcepibile a tal punto dall’abbandonarsi al sonno e dal non toccare dolci per giorni. Uno stato semi depressivo, immaginò Watari, quando per l’ennesimo giorno fu costretto ad osservare la torta di fragole appena sottratta di un pezzo che giaceva accanto al giovane, immobile davanti al proprio mac.

Eppure non riusciva a dispiacersene.

Dal canto suo, quali che fossero le conclusioni di Lawliet sul caso, Quillsh Wammy era infinitamente grato - al cielo, al caso o al fato che dir si voglia - di aver potuto assistere al sorgere del sole un giorno in più.

Merito del caso forse. Se quello Shinigami che proteggeva Misa Amane non si fosse accorta che Light Yagami avesse convinto quest’ultima ad effettuare un nuovo scambio degli occhi per potersene servire nuovamente, molto probabilmente non avrebbe mai scritto il nome del ragazzo sul proprio quaderno, decretandone la morte – sotto gli occhi scioccati dell’intera squadra investigativa – e scomparendo a sua volta.

Se gliel’avessero raccontato tempo prima, evidentemente avrebbe riso al sentirsi raccontare che – nella recondita eventualità in cui fossero esistite – delle divinità potessero affezionarsi a degli uomini a tal punto da annullare se stesse, rinunciando alla propria immortalità.

La smentita era arrivata da Rem, che, per essere assolutamente certa che in futuro Misa non potesse più essere tentata da se stessa o da qualcun altro ad effettuare lo scambio, aveva bruciato il primo quaderno – facendo sparire inevitabilmente anche Riuk – e poi aveva scritto il nome del ragazzo sul proprio, decretando anche la sua fine.

Così facendo erano sparite tutte le prove che vedevano coinvolto il figlio del sovrintendente Yagami nel caso Kira, ovvero un pugno in pieno petto a Ryuzaki.

In merito al quaderno lasciato da Rem, Quillsh s’era premurato di bruciarlo personalmente non appena Ryuzaki ne aveva riconosciuta l’inservibilità.

Quando anche l’ultimo foglio era diventato cenere, non era riuscito a trattenersi dall’asciugarsi gli angoli degli occhi.

Era finita.

Kira non avrebbe più mietuto vittime… e lui e Ryuzaki erano vivi.

Anche se a giudicare dallo stato in cui in quel momento riversava il grande detective poteva dirsi il contrario.

-          Ryuzaki - .

Gli occhi d’ossidiana del ragazzo rimasero incatenati al monitor del pc.

Per nulla scoraggiato, Quillsh spostò con un solo gesto le pesanti tende che occludevano la finestra, facendo entrare il sole.

Come immaginava, Lawliet portò una mano a schermarsi gli occhi, disturbato da quell’improvvisa intrusione nel suo ambiente cupo.

-          Sorry – scherzò l’anziano inventore, per nulla pentito. Ma Ryuzaki tenne ostinatamente gli occhi fissi sul monitor del mac, prendendo a far scorrere velocemente la rotella del mouse con una mano e piluccando con l’altra un biscotto secco.

-          È arrivata la sacher torte – aggiunse Watari, con un sorriso, attendendo una reazione del giovane. – L’originale - .

A quel punto Lawliet sollevò gli occhi.

-   Credevo che gli ordini di pronta spedizione fossero limitati al solo invio di materiale urgente – constatò acutamente, chiedendosi evidentemente perché non avesse potuto usufruire di quella fantastica opzione anche in altre circostanze.

-   In effetti è così – rispose solennemente l’uomo. – Ma questa volta ho ritenuto potessimo permettercelo – aggiunse, ammiccando scherzosamente al ragazzo.

Quillsh ebbe così modo di vedere - mentre si accingeva a tagliare la prima fetta della torta austriaca - per la prima volta dopo la conclusione del caso Kira un sorriso – seppur accennato - sul volto stanco del suo ragazzo.

-          Questo è un paese davvero magnifico – espresse Watari ad alta voce, guardando attraverso la finestra che dava sugli Champs Elysees, mentre un paio d’occhi neri lo osservavano attentamente, senza che se ne accorgesse.

Inizialmente era rimasto perplesso dallo scoprire che, lasciato il Giappone, si sarebbero diretti in Europa. Non vi erano casi di particolare attenzione che li richiamavano ai loro doveri, quindi vi era almeno il trentacinque per cento di probabilità che quello che si sarebbero apprestati a fare era un viaggio di piacere.

Ipotesi che, a quanto pareva, risultava corretta. Bizzarra ma corretta. Nonché assolutamente strana. Se poi di stranezze si potesse ormai parlare, considerando che l’ordine delle cose era stato completamente capovolto nel momento in cui gli avevano chiesto di prendere parte alle indagini sul caso Kira.

Dei della morte.

Rabbrividii, decidendo di non approfondire nuovamente i pensieri su quelle assurde creature di cui si era visto costretto ad accettare l’esistenza.

Per non parlare del Death Note.

Se da qualche parte vi era – evidentemente – un mondo popolato da esseri come Riuk e Rem, quante probabilità v’erano che esistessero altrettanti mondi paralleli popolati da altrettante creature strane che, da un momento all’altro, avrebbero potuto tranquillamente decidere di entrare in contatto con gli esseri umani, stravolgendone l’esistenza?

Non volle pensarci.

Rivolse nuovamente lo sguardo all’uomo, sorprendendosi della tenacia che dimostrava nell’osservare incessantemente il paesaggio che gli offriva il decimo piano dell’albergo nel quale soggiornavano.

Qualsiasi altra persona non avrebbe mai fatto caso ai cambiamenti comportamentali di Quillsh Wammy, ma lui, al contrario, non avrebbe mai potuto non accorgersene.

Quillsh aveva sempre avuto l’abitudine di svegliarsi di buon’ora – che il dovere lo chiamasse o meno – e occuparsi con dovizia della propria giornata, che poi non si rivelava essere molto diversa dalla giornata che spettava anche a lui, solo che l’uomo sottoponeva ad una più minuziosa attenzione i particolari che lo riguardavano.

Il latte nel thè, la t-shirt pulita ogni mattina, i piatti sempre colmi di qualsiasi suo capriccio. Per non parlare di tutto il resto.Watari era un assistente impeccabile.

E nulla era cambiato dall’abbandono del Giappone. O almeno apparentemente.

Quillsh continuava a svegliarsi di buon’ora, ma molto più presto rispetto a prima, prendendo puntualmente a consumare la colazione davanti ad una finestra che dava ad est. Solo quando il sole era ormai spuntato iniziava la sua giornata, il suo lavoro… ma con una dedizione maggiore.

Non che prima si fosse mai comportato in maniera sbrigativa e superficiale.

Le numerose strutture destinate all’accoglienza di orfani che portavano il suo nome erano la prova inconfutabile che si trattava concretamente di una persona che amava il suo lavoro con la stessa passione con cui perseguiva i suoi obiettivi.

La giustizia prima di tutto. Non a caso era nato L e non a caso aveva deciso di dedicare la sua vita a quest’ultimo, affinché avesse sempre potuto avere tutto ciò di cui necessitava.

Era piuttosto il modo con cui gli piegava le maglie pulite, le volte che girava il cucchiaino nella tazza, il sorriso che accompagnava puntualmente al buongiorno del mattino…

Sembrava aver trovato un nuovo modo di vivere.

La risposta al perché era piuttosto ovvia.

Poco prima che Light Yagami conducesse una mano al proprio petto e si accasciasse a terra privo di vita, era andato a comunicare a Watari che v’era il settanta per cento di probabilità che di lì a poco sarebbero morti entrambi per arresto cardiaco.

Ricordava perfettamente il volto del suo tutore.

L’espressione sorpresa di vederlo improvvisamente di fronte a lui, la fronte aggrottata nell’assorbire la notizia, la mascella serrata nell’apprendere la realtà dei fatti.

Non ne era sicuro, ma perfino gli occhi – che mai avevano manifestato un coinvolgimento emotivo in reazione a ciò che di negativo accadeva all’esterno – in quel momento gli parvero rabbuiarsi.

Paura, forse.

La stessa paura che l’aveva colto solo dopo che gli occhi vitrei di Light si furono piantati nei suoi, trasmettendogli l’immagine terrificante di quella che era la morte.

Prima di quel momento, incurante della sorte che gli sarebbe toccata sicuramente di lì a poco se Rem non fosse intervenuta, aveva continuato a pensare a un modo per incastrarlo.

Solo dopo s’era reso conto del miracolo avvenuto.

Prima di rendersene conto aveva salutato professionalmente tutti gli uomini del gruppo d’indagine che avevano deciso di lavorare al suo fianco, leggendo negli sguardi di ognuno di essi il riflesso degli occhi vitrei di Light.

Poi s’era condotto – quasi inconsciamente – una mano al petto, avvertendo il cuore battere, incredulo.

Era stato allora che era avvenuto qualcosa.

Assorto nei suoi pensieri, non si era accorto dell’arrivo di Watari. Gli si era messo di fronte e quando lui aveva sollevato la testa per guardarlo, gli aveva sorriso.

Ma lui non aveva ricambiato.

-          Da quest’angolazione non è possibile vedere la Tour Eiffel in modo chiaro… - .

Riportò gli occhi sull’uomo, riprendendo a sorseggiare il caffè.

-          Potresti visitarla – gli propose in uno slancio di pura spontaneità, calcolando successivamente un probabile invito dell’uomo ad accompagnarlo.

-          Ti va di accompagnarmi? – sentì infatti chiedersi successivamente, in tono quasi timoroso probabilmente a causa degli innumerevoli precedenti inviti declinati.

-          No – gli rispose, non lasciandosi sfuggire la sfumatura di dispiacere che aveva colto Quillsh. – Preferisco dare un’occhiata nei dintorni, se non ti dispiace – aggiunse subito dopo, sollevandosi dal divano nel quale era sprofondato per rendere evidente la sua reale intenzione nel volersi schiodare da lì. Motivo per il quale sapeva che Quillsh non perdeva occasioni d’invitarlo ad uscire. D’altronde era dall’intervento in ambulanza per salvare Matsuda che…

Afferrò al volo tre biscotti ricoperti di glassa al cioccolato e li ingurgitò.

Doveva smettere di pensare al caso Kira.

-          Ci vediamo tra un’ora, allora – disse Watari sorridendo nel suo solito modo conciliante, indossando il suo cappello inglese e sparendo oltre la porta.

Lawliet si strofinò i piedi, decisamente seccato di dover fare lo stesso. Inchiodato sul posto temporeggiò per qualche secondo ma quando vide l’uomo ritornare indietro e tenergli la porta aperta, invitandolo ad uscire, non potè fare altrimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          Le parole scritte in corsivo latino appartengono rispettivamente al Padre nostro e all’Ave Maria, preghiere cristiane, e mi sono state gentilmente concesse da wikipedia e il web in generale, essendo per me la lingua ostica. Quindi, qualora trovaste degli errori sapete con chi prendervela J ;

-          Con “Sorry” (che, per chi non lo sapesse, significa “Mi dispiace” in inglese) ho voluto giocare un po’ sul fatto che Quillsh Wammy sia, per l’appunto, inglese. Chissà che in futuro non mi riprenda lo sghiribizzo di farlo parlare in lingua madre J J

 

 

Ringraziamenti:

 

-          Nonostante, com’è naturale che sia, la storia non sia ancora stata recensita mi sento in dovere di ringraziare tutti coloro che daranno anche solamente una chance a questo progetto, quindi grazie a te, chiunque tu sia, per essere arrivato fino a qui. *inchino*

 

 

 

 

 

 

HOPE87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** I. Eyes ***


I

I.

[Eyes ]

 

 

 

 

 

 

Le previsioni metereologiche avevano previsto cielo nuvoloso su tutta la regione, ma le leggere schiarite erano state molto probabilmente mal interpretate dai professionisti del settore, dal momento che una leggera pioggia – inizialmente rada e delicata – ora costringeva al riparo chiunque non intendesse prendersi un malanno.

Starnutì, maledicendo il cielo per l’ennesima volta – seppur per ragioni diverse dalle precedenti – portandosi un dito al naso per impedirsi di replicare il gesto.

-          Dannazione… - esclamò a denti stretti, prendendo a tremare dal freddo e stringendosi nel – troppo sottile – trench color panna, trasformatosi ora in una leggera tonalità di grigio, ormai fradicio.

Nonostante le condizioni in cui riversava il soprabito, raccolse i lunghi capelli rossi in un improvvisato chignon, mettendoli poi al riparo all’interno del bavero, avvertendo subito dopo innumerevoli gocce d’acqua scorrere senza pietà alcuna lungo la sua schiena, facendola rabbrividire.

Cercando d’ignorare il freddo, presa ormai consapevolezza che quel diluviare spietato non si sarebbe placato entro breve, decise d’incamminarsi, fermandosi poi in prossimità del primo luogo asciutto in cui si sarebbe imbattuta.

Entrare momentaneamente in qualsiasi locale era escluso.

Probabilmente a quest’ora la stavano cercando e chiudersi tra quattro mura equivaleva a mettersi in trappola, offrirsi su un piatto d’argento.

In realtà era perfettamente consapevole che anche semplicemente camminare per la strada l’avrebbe esposta al rischio di essere trovata, quelle non erano certo persone che si facevano scrupoli a mostrarsi in pubblico…

Ritornatele in mente gli istanti immediatamente precedenti alla sua fuga, dovette mordersi una mano per non costringersi ad urlare. Per le lacrime, invece, non potette fare niente.

Si lasciò scivolare a terra, sostenendo il peso del proprio corpo sulle gambe, andando così a rannicchiarsi in quella che poteva definirsi una pseudo posizione fetale.

Cos’avrebbe dovuto fare? Possibile che non vi fosse alcuna via d’uscita in quella situazione?

Si ritrovò a pensare che sì, esisteva una soluzione… l’aveva presa in considerazione diverse volte durante il suo lungo e tormentato peregrinare… ma puntualmente era giunta alla stessa conclusione.

Sua madre era morta per proteggerla, non per vederla penzolare ad una corda attaccata al collo in qualche posto dimenticato da Dio.

Beh, ammesso che ovunque si trovasse in quel momento potesse realmente vederla.

Si era vista più volte a riprendere in considerazione l’ipotesi del suicidio, anche la mattina stessa, in albergo, di ritorno dall’ennesimo fallimento che credeva potesse alleviarle un po’ le pene.

Si era avventata contro lo specchio del bagno, scaraventandogli contro una spazzola che in quel momento non riusciva a districarle i nodi che le si erano formati nei capelli – quasi a sottolineare ironicamente la presenza di troppi nodi da sciogliere nella propria vita, si era ritrovata a pensare – vedendosi poi investire da una raffica di schegge dello stesso, alcune delle quali erano andate a graffiarle il volto e varie altre zone del corpo.

Ma non riusciva sopportarlo.

Non riusciva a sopportare l’immagine di quell’inutile donna, dalla pelle innaturalmente pallida – a causa dello shock, della trascuratezza e la stanchezza -, gli occhi di un verde spento - simili a quelli di una bambola - messi in evidenza da delle profonde occhiaie per il poco dormire e quei capelli rossi.

Chiunque, nel corso del tempo, avesse osato paragonarli a quelli della madre, aveva oltraggiato spudoratamente quest’ultima, senza alcun ritegno.

Evelyne Brown era una donna dai dolci e delicati tratti del viso tesi sempre in un sorriso gentile, qualunque fossero le circostanze che la vedessero coinvolta.

Anche quella mattina sorrideva.

Lei sapeva che c’era qualcosa che non andava, l’aveva capito dagli occhi da cui aveva ereditato il colore – sebbene più chiaro, con appena qualche sfumatura marrone - , a cui il sorriso, quella volta, non si era esteso.

Nonostante avesse provato a chiederle cosa le turbasse, protestando quando l’aveva scherzosamente liquidata con una leggera risata ed un buffetto sulla fronte – che era solita darle quando non voleva coinvolgerla nei suoi pensieri, spacciandolo per un gioco –, l’empatia che la legava alla madre aveva fatto scattare un segnale d’allarme dentro di .

Eppure si era limitata a farsi abbracciare e a ricambiare l’abbraccio che era seguito, forse pensando – e sperando – si stesse sbagliando. Una muta richiesta al cielo – a cui tanto si affidava Evelyne – che non era stata accolta. Come tante altre.

Portò inconsciamente una mano all’interno della tasca del trench - dove sapeva potesse avvolgere con le dita l’ultimo ricordo che le rimaneva di sua madre – chiudendo gli occhi, per rievocarne il ricordo.

Lo stesso ricordo che l’aveva dissuasa dal condursi al polso quella scheggia di vetro sfuggita allo specchio, per chiudere gli occhi una volta e per tutte, come aveva visto fare a lei.

Non seppe identificare in quel momento il motivo che la costrinse a riaprire gli occhi.

Forse il precipitare incessante della pioggia, intensificatosi… e di cui lei, stranamente,  non subiva i danni.

Sollevò la testa, perplessa, rendendosi conto solo allora di essere riuscita a ripararsi in prossimità di un negozio, rannicchiandosi esattamente accanto ad una vetrina di quest’ultimo.

Osservò incuriosita la vetrina espositiva, arrivando subito alla conclusione che si trattasse di una pasticceria. Peccato fosse chiusa, si ritrovò a pensare quando sentì lo stomaco protestare per la lunga assenza di cibo a cui l’aveva sottoposto. Era riuscita a consumare l’ultimo pasto decente esattamente prima della fuga.

Ripensandoci, tutto era avvenuto prima della fuga, così come tutto sembrava essersi estinto nel momento esattamente successivo. Poteva ancora considerarsi vita quella che stava conducendo? E fino a quando sarebbe durata? Era un countdown snervante che pareva volesse solo e unicamente logorarla prima di condurla al triste e scontato epilogo al quale era destinata.

Eppure aveva vissuto giorni in cui la speranza sembrava avesse ripreso vita in lei, un sarcastico paradosso che la vedeva attendere ciò che invece la maggior parte della popolazione terrestre scongiurava.

C’era stato un momento in cui s’era messa a pregare.

Che fosse o meno quello stesso Dio a cui sua madre rivolgeva puntualmente le sue preghiere, non lo sapeva, sapeva solo che era venuto un momento in cui s’era ritrovata, per la prima volta in vita sua, a pregare qualcosa – qualcuno – che andasse contro ogni più ferrea logica dimostrativa.

Kira.

Non era mai stata a favore della pena di morte. Mai. Gli esecutori capitali non erano poi tanto diversi dai criminali accusati di omicidio. Togliendo loro la vita, si macchiavano della stessa colpa, e macchiandosi della stessa colpa non potevano dirsi migliori di coloro a cui avevano stroncato la vita.

Non era altro che un circolo vizioso, un cane che si morde la corda.

Lo stesso discorso valeva per Kira e lo stesso supportare quest’ultimo – lo sapeva – non era altro che un desiderio egoistico spietato. Una speranza.

Ennesima speranza esplosa come una bolla di sapone nel momento in cui aveva visto estirpare da questo dio il male dal mondo meno che dal proprio.

Era caduto prima che potesse giungere a far giustizia nella sua vita, fermato da quello che molti consideravano essere la vera giustizia.

Considerazione che lei non abbracciava affatto.

Il detective di fama mondiale L poteva senz’altro essere considerato il possessore del più alto quoziente intellettivo fino ad allora scoperto, senza però doversi appropriare ingiustamente dell’appellativo che tutti tenevano a fargli calzare, compreso se stesso.

Non sapeva quanto fossero veritiere le informazioni che lasciavano trapelare i giornali sul suo conto, ma stranamente – considerando che solitamente avveniva il contrario – tutti si erano ritrovati a riportare ai propri lettori la notizia secondo la quale L interveniva solo quando lo riteneva strettamente necessario, occupandosi solo dei casi che lo incuriosivano particolarmente.

Kira perlomeno non era selettivo. Per quanto sbagliasse, agendo da spietato assassino, era sicuramente quello che più si avvicinava al concetto di giustizia in senso ampio, tra i due.

Sospirò, prendendosi la testa tra le mani.

Le sarebbe bastato solo che Kira avesse fatto sparire dalla faccia della Terra anche gli assassini di sua madre, invece…

Un fruscio la distrasse dai suoi pensieri, portandola ad osservare incuriosita – nonché estremamente all’erta – il punto dal quale era provenuto… sorprendendosi a dismisura di non essersi accorta, fino a quel momento, di non essere sola.

Al lato opposto del quale si trovava - protetto dalla grondaia sotto alla quale aveva deciso di ripararsi anche lei, per giunta nella stessa posizione - vi era uno strano individuo vestito solo con quella che sembrava essere una semplice t-shirt, bianca, ed un paio di jeans sbiaditi.

Incredibile di come non fosse riuscita ad accorgersi della sua presenza. D’accordo che il cielo funereo aveva fatto sì che il buio calasse molto prima rispetto al solito… ma quella figura sembrava appartenere al buio molto più di quanto non vi appartenesse l’ombra stessa. Ciò nonostante, sebbene in altre circostanze un individuo dalla pelle tanto pallida, in netto contrasto con capelli tanto corvini e dallo sguardo assente avesse potuto incuterle timore, non riusciva a temerne la presenza.

Inoltre quel particolare aveva attirato la sua attenzione più di qualunque altra cosa… chissà che non avesse potuto approfittarne.

-          Excuse-moiexcuse-moi, s’il vous plait! – tentò di farsi udire attraverso lo scrosciare della pioggia battente, riuscendo ad attirare la sua attenzione al secondo tentativo, venendo investita da un paio d’occhi neri come la pece, che la distolsero per un attimo da quello che era il suo iniziale tentativo. – Tu peux me donner une sigarette? – chiese, sforzandosi di non osservarlo troppo. Cosa che le risultò alquanto ardua, dal momento che qualunque cosa riguardasse quel tipo sembrava renderlo totalmente singolare.

Come a voler sottolineare le sue impressioni, il tipo prese ad osservarsi attorno, probabilmente convinto che non fosse lui il destinatario della domanda, per poi osservarla con un’espressione alquanto indecifrabile e sporgersi leggermente verso di lei, ponendo una mano attorno all’orecchio ad indicare che non era riuscito a sentirla, mentre l’altra mano estrasse dalla bocca… quello che le era parsa inizialmente una sigaretta.

“Un bon bon… che razza d’idiota!” si ritrovò a pensare subito dopo, assolutamente incapace di pensare ad un modo per rimediare all’attenzione inutile che era riuscita ad attirare.

-          Rien – pronunciò a mezza voce, sorridendo imbarazzata e agitando una mano come ad enfatizzare l’intento, per poi distogliere lo sguardo dal suo e prendere a fissare nuovamente il vuoto.

Non sapeva quanto fosse corretta l’idea secondo cui la presenza di una minaccia incombente che gravava sulla sua testa le avesse acuito i sensi, ad ogni modo si accorse subito dello spostamento di quello che aveva ribattezzato come tipo strano, sebbene vide solo successivamente una sua mano tenderle qualcosa, a pochi centimetri dalla sua persona.

Nonostante si fosse avvicinato, era stato tanto discreto da tenere la distanza necessaria a non invadere lo spazio che si era creata, andando a posizionarsi sufficientemente vicino da poterle offrire… un bon bon simile a quello che stava mangiando.

Non potè impedirsi di sorridere, sia per la bizzarra peculiarità che sembrava caratterizzare quella persona, sia per l’ennesima metafora che sembrava stesse offrendole la vita.

Aveva bisogno sì di zucchero nella sua vita. Certamente non di un rosa condensato,  avvolto attorno ad una stecca di liquirizia… ma che ci fosse qualcuno che avesse capito di averne estremamente bisogno bastava a rincuorarla.

-          Merçi – rispose garbatamente, guardandolo negli occhi e sorridendogli sinceramente, recuperando il dolce offertole mentre il volto del ragazzo assumeva tonalità più scure in prossimità delle gote e lo sguardo andava ad abbandonare quello della donna.

Lo vide sollevarsi, infilare le mani nelle tasche dei jeans fradici e rivolgere gli occhi alla strada. Pensò che dovesse soffrire molto il freddo, a giudicare dalla postura a cui sembrava si stesse costringendo, anche se non capiva come il curvare la schiena potesse riscaldarlo.

 

Il lecca lecca finì improvvisamente a terra, andando a richiamare l’attenzione di Lawliet, che non riuscì a comprenderne il motivo.

Quando si voltò, vide gli occhi spalancati della donna osservare terrorizzati un punto imprecisato di fronte a lei. Girò velocemente il volto per tentare di capire cosa potesse averne provocato la reazione, riuscendo a vedere solo un’auto nera attraversare lentamente la strada di fronte a lui, da cui fece capolino un uomo biondo, con gli occhiali da sole.

Realizzando in quel momento tutte le risposte alle domande che si era posto sulla donna dal primo momento che l’aveva vista, tornò a voltarsi verso il punto in cui l’aveva lasciata, non trovandovi altro che il bon bon, abbandonato sul marciapiede.

 

 

 

***

 

 

 

-          Perdona l’urgenza, Ryuzaki, ma ci sono delle cose di cui ti devo parlare - .

Quillsh sembrava aver perso tutto il buon’umore che si era trascinato dietro dal Giappone e la ragione poteva solo consistere in una brutta notizia pervenuta – si ritrovò a sperare di no, nonostante vi fosse solo l’un per cento di probabilità - dalla Wammy’s House.

Prima che formulasse un’altra percentuale di probabilità inerente a qualche altra ipotesi, si ritrovò il tavolo sul quale lavorava e consumava i pasti invaso da foto, di cui afferrò la prima che riuscì ad attirare maggiormente la sua attenzione, adagiandosi poi sul divano nella solita posizione che gli assicurava il quaranta per cento di ragionamento in più.

Ritraeva un uomo riverso a terra, in una pozza di sangue – che da un’analisi più approfondita sembrava essersi dilatata in prossimità del collo – e con un braccio più esposto rispetto all’altro – sul quale doveva essere atterrato il corpo durante il cedimento per l’emorragia. La sua attenzione, però, tornò a focalizzarsi sul braccio più esposto, afferrando subitamente un’altra foto che mostrasse in posizione più ravvicinata i suoi sospetti.

L’indice della mano destra – appartenente al braccio esposto – era insolitamente piegato verso l’alto.

Afferrata una foto successiva, che subito individuò essere il pezzo mancante del puzzle - se non la ragione per cui Quillsh aveva manifestato tutta quell’urgenza - notò che l’uomo della foto, prima di morire, doveva aver composto col proprio sangue, in extremis, una lettera, che grazie ad un ulteriore ingrandimento dei dettagli aveva saputo riconoscere.

Una L. 

Afferrò un’altra foto, concentrandosi questa volta su dettagli estranei al corpo di quella che, al settanta per cento, era la vittima di un omicidio, prendendo ad analizzare il pavimento sul quale giaceva che, a primo acchito, capì subito appartenesse ad una chiesa.

Senza contare che l’abbigliamento dell’uomo gliel’aveva suggerito dal primo momento, ciò che restava dunque da scoprire era il motivo che aveva spinto qualcuno ad uccidere un sacerdote. E, prima di tutto, il motivo che sembrava turbare profondamente Quillsh.

Portò gli occhi neri a scrutare l’uomo, spostandoli poi velocemente sul televisore che in quel momento stava trasmettendo un notiziario.

-          “… il corpo della donna è stato rinvenuto stamattina. La polizia giapponese non ha dubbi che si sia trattato di suicidio. L’idol stessa, durante una conferenza stampa, aveva annunciato il suo ritiro dalle scene a causa di uno stato depressivo che l’aveva vista più volte protagonista…” - .

Osservò la foto più attentamente, per assicurarsi che una momentanea distrazione potesse avergli fatto fraintendere il soggetto del servizio.

Misa Amane era morta.

E doveva esserlo ancor prima di compiere quell’ultimo, disperato gesto che l’avrebbe resa protagonista dei rotocalchi per l’ultima volta.

Ricordava perfettamente i suoi occhi.

Nessuno probabilmente avrebbe scommesso su un’attenzione simile da parte sua, mostrandosi sempre così scostante, incurante e fuori dal mondo, ma ciò che osservava Lawliet appena posava gli occhi su di una persona – che questa fosse indagata o meno – erano gli occhi.

Nel primo caso poteva definirsi una cosa naturale, nel secondo si trattava al cento per cento di deformazione professionale.

Il detto secondo il quale gli occhi fossero lo specchio dell’anima non era una considerazione sconclusionata. Era dagli occhi che lui si aspettava – e il più delle volte otteneva - sempre un cedimento, una rivelazione.

Marginale, ma pur sempre di una rivelazione si trattava.

Quella volta, nel modo in cui gli occhi di Misa osservarono il corpo di Light giacere sul suolo, spalancandosi terrorizzati e increduli, per poi ridursi a due fessure inespressive quando ad un suo richiamo il ragazzo non aveva risposto - senza per giunta versare una lacrima - fu la prova inconfutabile che il cuore dell’idol aveva smesso di battere come quello della persona che, nonostante tutto, amava.

Non si accorse di essere rimasto a fissare gli occhi - allora espressivi - della ragazza, fino a quando non vide sostituirli ad altri di diverso taglio e colore.

Un colore che riconobbe subito.

Portò un pollice alle labbra quando sentì che il servizio di cui la giornalista stava parlando trattava del caso che – ancora per ragioni ignote – si ritrovava tra le mani.

-          … diversi testimoni hanno udito la donna inveire verbalmente contro l’uomo, per poi vederla uscire di corsa dalla chiesa dove si è consumato il delitto. È ancora ignota la causa… - .

Era ricercata per omicidio, dunque.

Inutilmente – si ritrovò velocemente a constatare - per giunta.

Tornò a riconcentrarsi su Quillsh, la cui espressione era – se possibile – più preoccupata di prima.

-          Dobbiamo occuparcene, Ryuzaki – scandì improvvisamente, in tono grave. – Ho il dovere d’intervenire in questo caso – aggiunse, accrescendo la sua curiosità. – Non è un caso che sei solito trattare, ma ti chiedo di collaborare ugualmente - .

Non aveva pensato nemmeno per un attimo di rifiutare, l’espressione grave di Quillsh era un evidente segnale del coinvolgimento emotivo del suo tutore.

Non rimaneva che fare la domanda più ovvia e diretta.

-          Watari, chi è quella donna? - .

-          Mia nipote. - .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          *Excuse moi… excuse moi, s’il vous plait! = Mi scusi… mi scusi, per favore!

-          *Tu peux me donner une sigarette? = Può offrirmi una sigaretta?

-          *Rien = Niente/ Nulla/ Come non detto.

-          *Merçi = Grazie

 

 

 

Ringraziamenti:

 

-          Lirin Lawliet: Ciao a te! ^  ^ Prima d’iniziare a rispondere alla tua recensione, volevo innanzitutto ringraziarti per aver deciso di spendere un paio di minuti per farlo J è sempre emozionante constatare di non passare totalmente inosservati in mezzo ad un universo in cui navigano autori di un certo spessore *__* Ritornando al motivo che mi vede a risponderti… parto subito col confessarti che io detesto le premesse, sono la prima a saltarle e/o a considerarle superflue, nonché incredibilmente noiose =__= ma, come tu stessa hai scritto all’inizio della recensione - indovinando J - ho ritenuto necessario inserirla per una questione di correttezza, nient’altro J.

In merito al prologo… Woooooow, grazie! Non so che altro aggiungere tranne che anche per me L è il mio personaggio preferito ^  ^’ riguardo invece il personaggio originale… beh… non so se riuscirò a sorprenderti (a dire il vero lo spero *__*), io conto comunque sul fatto che tu me lo faccia sapere ;) così come mi faccia sapere se la storia, passo passo, continui a piacerti J

Grazie mille ancora!

Ps: Le MattXMello (per quanto infinitamente graziose) sono un incubo! :O certo che dobbiamo aiutarci a vicenda! xD

Pps: E grazie per aver commentato per ben DUE volte! :O nonché per aver messo la mia storia tra le seguite.

 

-   Fe85: Sono riuscita ad attirare una non-fan di L nonostante la storia sia incentrato su  quest’ultimo? Ho capito bene? °___°

          *sviene*

          …Grazie! ^ ///^ Grazie davvero tanto per aver dedicato un po’ del tuo tempo per   leggere e commentare la mia storia, aggiungendola, per giunta, alle seguite! Spero di non deluderti! Alla prossima! (spero)

 

 

Grazie inoltre a _Elea_ per aggiunto la storia tra le ricordate J

E grazie a chiunque, seppur in punta di piedi, sia arrivato fino a qui!

 

 

 

 

 

HOPE87

 

 

 

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Capitolo 4
*** II. Lost ***


II

II.

[ Lost ]

 

 

 

 

 

I tacchi delle scarpe nere scamosciate s’infrangevano sull’asfalto delle strade parigine con la stessa intensità di una lancetta che scandiva il tempo.

Per quanto fosse particolarmente allenata nella corsa – suo abituale allenamento mattutino dei vecchi tempi – sapeva che non sarebbe riuscita a mantenere ancora a lungo quella velocità concessale dalla fortuna.

Le scarpe che indossava, per quanto basse e particolarmente comode, mettevano a repentaglio il suo già precario equilibrio, rallentandone ulteriormente l’andatura.

Aveva avuto l’idea di fermarsi a toglierle, ma temeva che in quel frangente si fossero potute accorciare le distanze tra lei e i suoi inseguitori, la cui automobile, sgommando incessantemente quando si trovava in prossimità della sua locazione, le faceva intendere di star ancora interpretando il ruolo della volpe in quella folle caccia.

Era chiaro che se non avesse deciso di sfruttare i vicoletti delle strade secondarie, attraverso cui le auto potevano difficilmente passare, a quest’ora sarebbe già morta.

Non era astuta quanto l’animale a cui s’era paragonata, non aveva idea di come poter raggirare quegli assassini, così come non aveva idea di quanto sarebbe riuscita ancora a correre.

Assolutamente scoraggiata da tutta quella serie di circostanze che l’attanagliavano, si fermò.

I polmoni sembravano stessero andando in fiamme, pronti ad esplodere, mentre la gola secca le fece avvertire l’orribile sensazione di star soffocando.

Espresse il desiderio di finirla lì, subito, anziché attendere quelli che sarebbero stati gli attimi immediatamente successivi al rumore fin troppo familiare che avvertì alle proprie spalle.

-          Peccato ti sia fermata, ci stavamo divertendo – udì pronunciare dalla voce dell’uomo che le si stava avvicinando lentamente alle spalle, mentre i rumori secchi procurati dall’inserimento dei proiettili nella pistola di cui era armato si perdevano nell’aria.

Rimase a contemplare ancora per un attimo il grigiore della stradina isolata nel quale s’era incautamente infilata, prima di voltarsi verso il suo inseguitore. Non riuscì a impedirsi di tremare.

In maniera del tutto inconscia fece un passo indietro, facendo sì che il ghigno dipinto sul volto dell’uomo si allargasse ulteriormente.

-          T-ti prego… - si ritrovò a sussurrare con voce tremula, mentre alcune lacrime presero a bagnarle le guance pallide. Per tutta risposta l’uomo caricò la pistola. Hector… t-ti p-prego… - ripetè con voce rotta, prendendo a singhiozzare sommessamente, abbracciandosi le spalle nel tentativo di infondersi un po’ di conforto.

Osservava la canna della pistola con orrore, ricordando in brevi flash gli attimi che avevano condotto sua madre alla morte.

Rivide rosso ovunque.

-          Ehi! - .

Sobbalzò, rendendosi conto solo in quel momento di aver chiuso gli occhi, in attesa.

-          Che sta face-… - .

Sentì un rumore assordante squassarle i timpani e un bruciore provenire dalla sua guancia sinistra.

Hector aveva sparato, ma non a lei.

Si voltò tremante, lentamente, spalancando gli occhi orripilata quando concluse che l’ennesimo innocente aveva perso la vita a causa sua.

Probabilmente un semplice e innocuo passante che si era ritrovato lì al momento sbagliato.

-          Bastardo... – disse tra le lacrime. – Fottuto bastardo! – urlò girandosi verso di lui, ritrovandosi ad urlare nuovamente subito dopo, ma a causa del dolore.

La mano dell’uomo le aveva afferrato i capelli tanto violentemente da farle dimenticare per un attimo dell’omicidio appena consumatosi alle sue spalle.

Si ritrovò costretta ad osservare gli occhi di Hector Kunz ad una distanza ridottissima rispetto a quella che era stata solita tenere con l’uomo tempo addietro, e in quel momento non potè non correre nuovamente col ricordo alla madre.

Chissà se si era ritrovata a pensare di essere incappata in uno dei demoni che popolavano l’inferno nel quale credeva. Non vi era nulla di umano negli occhi di Kunz, nulla che potesse rievocare anche solo lontanamente i tratti distintivi di un qualunque essere che potesse essere definito tale.

Per puro paradosso e ironia della vita, il suo aspetto – al contrario – mostrava tutte le caratteristiche angeliche che potesse possedere un uomo particolarmente attraente.

I capelli biondi, gli occhi azzurri, i denti bianchi perfettamente allineati… forse una bellezza un po’ ordinaria, nel complesso, quanto estremamente agghiacciante.

Ora che aveva modo di osservarlo più da vicino poteva essere assolutamente certa di affermare che quegli occhi non erano azzurri, ma grigi, di un grigio tanto chiaro da richiamare il ghiaccio in tutte le sue sfaccettature, trasmettendo un senso di freddo tale da accapponare la pelle.

Ma un freddo più concreto le si presentò subito dopo, sottoforma di metallo, andando a percorrerle il profondo solco che le si era aperto precedentemente sulla guancia.

-          Piccola Kate… - sussurrò dolcemente Kunz, passandole la canna della pistola sul volto come per carezzarla.

-          …Non osare chiamarmi in quel modo, feccia! – controbbattè dopo un attimo di smarrimento, sorprendendosi da sola per l’istintiva sagacia che era riuscita a padroneggiare in un momento del genere.

-          Qual è il codice? – le chiese l’assassino arrivando subito al dunque, recuperando il suo tono autoritario agghiacciante, particolarmente infastidito per la reazione inaspettata che aveva avuto la ragazza. Per incuterle nuovamente terrore le puntò la pistola alla fronte, ricevendo in cambio uno sguardo tra l’impaurito e lo smarrito.

-          C-cos-… - .

-          Non giocare con me, Catherine Brown. – la interruppe prontamente, imprimendo nella voce nuovamente quella sottile ironia che era solito caratterizzarlo. – Ho fatto un buco in testa alla mamma e ho tagliato la gola a papà… - s’interruppe, per assicurarsi che la donna avesse afferrato il pieno senso dell’ultima frase. Quando vide il suo volto impallidire ulteriormente e gli occhi spalancarsi a dismisura, fu certo che avesse afferrato.

-          Nulla m’impedisce di-… - .

Senza sapere come, si ritrovò sbalzata all’indietro. L’asfalto freddo sotto le sue mani, poggiatesi sopra per frenare la caduta, a confermarglielo.

 

Hector sembrava impazzito.

Gli occhi cerulei si muovevano velocemente, cercando d’individuare il punto da cui era partito il colpo che l’aveva disarmato e che contemporaneamente gli aveva sottratto la preda.

Si trattava di un cecchino senz’ombra di dubbio, si ritrovò a pensare febbrilmente, anche se una parte di lui si rifiutava di accettarlo.

Ma chi altri avrebbe mai potuto sparare un colpo centrando in pieno il calcio della pistola che impugnava, disarmandolo e mancando nettamente il volto della ragazza, a pochi centimetri di distanza?

Un folle. O uno che sapeva fare bene il suo mestiere.

Ricordò di avere un’altra pistola nascosta all’interno della giacca del completo nero che indossava, ma non riuscì ad estrarla in tempo che sentì qualcosa di pesante colpirlo alle spalle, sbilanciandolo e facendolo precipitare a terra, su di un fianco.

Da quella posizione riuscì ad intravedere una moto di grossa cilindrata atterrare davanti a lui e frenare con una sgommata in prossimità della ragazza, che sembrava essere scioccata quanto lui da quell’intervento tempestivo, a tal punto dal non accettare, inizialmente, la mano che il conducente del motoveicolo le stava tendendo.

Approfittò di quel momento per tentare di recuperare nuovamente la pistola ed, estrattala dalla giacca, la puntò esattamente alle spalle dell’intruso.

Se non avesse avuto il casco, avrebbe puntato direttamente alla testa.

Ma prima ancora di prendere la mira si vide sfuggire nuovamente l’arma dalle mani, solo che quella volta il fottuto cecchino non gli risparmiò l’arto.

Impegnato a controllare i danni che aveva subito la mano, intravide con la coda degli occhi la moto allontanarsi a gran velocità, insieme alla ragazza.

 

Catherine non riusciva ancora a comprendere cosa fosse successo.

Un attimo prima era completamente in balia di Kunz, l’attimo dopo si ritrovava a sfrecciare a gran velocità nelle strade di Parigi – alcune delle quale lei, in quel momento, non ricordava affatto - su una moto guidata da un perfetto sconosciuto.

Il vento freddo della sera le sferzava la pelle… solo in quel momento si rese conto che aveva smesso di piovere.

Per quanto fosse assolutamente fuori luogo, non potè far almeno di considerare quello come l’ennesimo segno, sul quale si ripromise di ritornare più tardi, in un secondo momento, quando sarebbe stata assolutamente sicura di essere – anche se solo momentaneamente – in salvo.

Doveva ancora capire chi si fosse preso la briga di mettersi tanto in pericolo per lei, l’unica cosa di cui poteva essere certa era che – anche se inizialmente fosse potuto sembrare il contrario – le forme che era riuscita a individuare, per puro caso – nell’avvinghiarsi più strettamente possibile al corpo del conducente, per il timore di cadere – smentivano la supposizione secondo la quale fosse un maschio.

Presa da quelle innumerevoli fantasticherie, non riuscì a impedirsi di lanciare un urlo quando vide affiancarsi alla moto un’auto nera.

-          Don’t worry – fu sicura di sentir pronunciare dalla salvatrice.

Non poteva esserne totalmente sicura, il vento soffiava in maniera incredibilmente forte da confonderla, ma quello che aveva udito non sembrava essere affatto un accento inglese, sebbene la donna si fosse espressa in quella lingua. Che semplicemente non sapesse parlare francese?

-          D-dove stiamo andando? – si azzardò a formulare per constatare se le sue supposizioni fossero valide.

La risposta si fece attendere un po’.

-          Non temere – si limitò a replicare la donna, rispondendo positivamente in maniera implicita alla sua domanda ma non soddisfacendo la sua seconda curiosità, quella che in realtà le premeva di più.

Dovette accontentarsi di attendere il prossimo risvolto di quella strana vicenda, mentre l’auto nera della quale si era tanto spaventata prendeva un’altra direzione, scomparendo alla sua vista ma ricomparendovi subito dopo, seppur in lontananza.

 

 

 

***

 

 

 

Quillsh abbandonò l’auto nel parcheggio sotterraneo dell’hotel in cui alloggiava con Lawliet, facendo poi in modo che i numeri della targa si tramutassero in altri grazie ad uno dei particolari dispositivi che vantava di aver ideato e progettato.

Quando varcò la soglia della camera del ragazzo, lo vide raggomitolato nella sua solita posizione davanti al pc, questa volta attento e vigile come ricordava averlo visto fare tante altre volte.

Lui stesso aveva tenuto a specificargli che non si trattava di un caso complesso e che, al contrario, se si fosse trattata di un’altra circostanza gli avrebbe consigliato di lasciar perdere. Ma quella volta non aveva potuto.

-          È appena rientrata anche Wedy – lo informò Lawliet in quel momento, osservando il motoveicolo della ladra percorrere lentamente l’area di parcheggio di cui si erano assicurati l’esclusività, compreso il servizio di sicurezza notturno – composto da telecamere a infrarossi – di cui solo loro potevano disporre.

Non era stato difficile assicurarsi tutti quei privilegi in un arco di tempo tanto limitato, ne tantomeno rintracciare la donna – dal momento che Lawliet ne ricordava perfettamente la fisionomia, avendola incontrata personalmente per un caso puramente fortuito poco tempo prima – quanto, invece, organizzare velocemente, su due piedi, una ricerca che risultasse più fruttuosa di quella degli uomini che si erano trovati a contrastare.

A questo proposito, Lawliet si era ritrovato a sorridere divertito nel constatare la fortuna che avevano avuto nel trovarsi in una città che vantava uno dei più decantati musei del mondo.

Quando era riuscita a contattarla, Wedy era in procinto di effettuare un taglio circolare in una delle seicentosessantasei lastre di vetro che costituivano la piramide del Louvre, per puntare poi a diversi Delacroix di suo interesse. In cambio della sua collaborazione, ovviamente, L le aveva garantito la copertura necessaria da farla allontanare – successivamente al furto – quel tanto che le bastava per potersi rilassare e godersi in santa pace il frutto del suo ennesimo furto.

Al contrario, non era stato affatto facile rintracciare Aiber, impegnato ad organizzare una mega truffa a danno di diversi miliardari a Las Vegas. Troppo lontano per poterlo impiegare nel suo piano, aveva dovuto sostituirlo Watari, propostosi personalmente al posto del giovane uomo quando aveva compreso il rischio di perdere tempo.

Catherine Brown era stata tratta in salvo giusto in tempo, anche se ormai Lawliet era sicuro al quaranta per cento che le priorità degli uomini dai quali era inseguita non consistessero nell’ucciderla.

Le ricerche che aveva svolto sul conto della donna l’avevano condotto ad una delle maggiori famiglie di spicco dell’alta borghesia tedesca, il cui bilancio annuo – se fosse stato sottoposto ad un occhio non tanto più attento, quanto più pulito – sarebbe risultato anomalo a primo acchito.

La famiglia Kunzdal momento che Catherine aveva ereditato il cognome unicamente dalla madre – era coinvolta in innumerevoli traffici di armi e stupefacenti, egregiamente occultati da diversi membri delle più alte sfere della società ammanettate – a loro volta – ad altrettante persone di svariato spessore politico, che potessero garantir loro l’imputabilità in cambio di svariati favori.

Un circolo sconfinato di corruzione che no, non l’aveva di certo sorpreso – abituato com’era ad aver a che fare coi criminali della peggior specie - quanto infastidito.

Un bussare alla porta lo dissuase dal condurre avanti le sue congetture.

-          Ciao, Ryuzaki - .

-          Grazie per la collaborazione, Wedy - .

La donna si tolse finalmente il casco, liberando una cascata di capelli biondi e salutando con un cenno del capo Watari.

-          È nella stanza accanto, come mi avevi chiesto – si rivolse a quest’ultimo la donna, vedendolo risponderle con un sorriso accennato, mentre le sue mani – smessi i guanti da cecchino – indossavano quelli da semplice maggiordomo, offrendole una fetta di torta alle fragole che lei tenne a rifiutare con garbo, sorridendo e sollevando una mano per sottrarsi all’offerta.

-          Se è tutto, andrei - .

-          I Delacroix sono coperti da un fitto sistema di sorveglianza a infrarossi zigzagato – la informò il detective, spingendosi in bocca un pasticcino alla crema chantilly mentre con l’indice e il medio della mano destra si concentrava sulla barra di scorrimento che gli consentiva di inquadrare totalmente la sala in cui erano i disposti i quadri di cui parlava.

Wedy sorrise compiaciuta.

-          Ne ero a conoscenza – rispose, dando una rapida occhiata al monitor su cui era concentrato Ryuzaki – che doveva aver fatto quelle ricerche per lei, pensò, per ricambiarle momentaneamente il favore - accingendosi poi ad infilare nuovamente il casco per abbandonare la stanza e ritornare al suo lavoro. – Così come sono a conoscenza delle quattro telecamere disposte agli angoli del perimetro circondante La furia di Medea – .

-          Cinque - .

-          Cosa?! – chiesa la ladra, presa completamente alla sprovvista, avvicinandosi rapidamente al detective e attendendo che proseguisse.

-          Sono cinque le telecamere che circondano La furia di Medea - .

-          Ma come… ?- .

-          Hanno attivato la quinta nelle ultime dodici ore. – tenne ad aggiungere rapidamente Ryuzaki, comprendendo le perplessità della donna.

Non l’aveva scelta in qualità di sua occasionale aiutante per puro caso. Wedy era una professionista il cui margine di errore sfiorava – e mai superava – il sette per cento e che la rendeva migliore del sessanta per cento della cerchia di professionisti del settore di cui avesse potuto decidere di servirsi.

Doveva aver programmato quel furto da tempo, se si dimostrava tanto sbalordita.

-          È una misura cautelare aggiuntiva che hanno ritenuto opportuno aggiungere, dal momento che non è la prima volta che il quadro viene preso di mira – si dilungò nella spiegazione Lawliet, afferrando un biscotto ricoperto di glassa al cioccolato mentre alle sue spalle Wedy contraeva il bel viso in una smorfia d’indignazione.

-          Stupidi dilettanti! – non fece a meno di esclamare riferendosi a quanti, prima di lei, avessero tentato di mettere le mani su ciò a cui aspirava, fallendo miseramente e procurandole quel problema. Avrebbe dovuto pensare ad una maniera alternativa di arrivare al suo obiettivo.

-          Grazie, Ryuzaki – aggiunse infine, recuperando un tono calmo e professionale, dirigendosi a passo svelto verso l’uscita per potersi dedicare ad un piano B.

-          A presto – le rispose Lawliet col suo tono di voce basso prima che la donna abbandonasse la camera. Afferrò poi un altro biscotto e si sollevò dal divano per raggiungere la finestra.

Il cielo plumbeo conferiva a Parigi un aspetto affascinante per quanto – si ritrovò subito dopo a pensare – surreale. Dovette distogliere lo sguardo dallo spettacolo che gli si parava davanti per impedirsi di ritornare con la mente a quanto di più surreale gli fosse poco tempo prima accaduto.

In lontananza un fulmine squarciò con la propria luce il cielo nero.

Gli occhi neri di Lawliet si fermarono su Quillsh, indugiando sul riflesso che il vetro dinanzi a se, striato da lunghe e spesse gocce della pioggia che riprendeva a precipitare, rimandava dell’uomo. Non riuscendo a spiegarsene il motivo, gli risultava difficile sostenere la visione dell’uomo nello stato di profondo smarrimento in cui sembrava riversare. Erano abbastanza lontani, eppure Ryuzaki riusciva a vedere distintamente gli occhi chiari del suo tutore scrutare con apprensione la minuta figura femminile al di là del televisore che avevano collegato alle telecamere della stanza che occupava, esattamente accanto alla loro.

-          Sei riuscito a individuare il punto debole dell’organizzazione? - .

-          È il gestore del commercio oltre frontiera, Kurt Schimmer. – gli rispose subito Lawliet. - Basterà inviargli qualcuno abbastanza abile da fargli credere di volergli offrire il doppio degli introiti annui che è solito incassare limitandosi a lavorare con i Kunz. Ho già inviato ad Aiber tutti i dati di cui necessita, salvo imprevisti toccherà il suolo germanico tra quarantotto ore. Entro settantadue, l’ottanta per cento dei Kunz sarà dietro le sbarre - .

Quillsh Wammy sospirò profondamente.

Lawliet si strofinò i piedi, avvertendo improvvisamente lo stomaco farsi stranamente pesante.

-          In merito al codice che Hector Kunz ha chiesto alla ragazza – raggiunse nuovamente il mac su cui era solito lavorare, digitando una serie di codici per avere accesso ad un’area riservata. – C’è il quarantacinque per cento di probabilità che si riferisca ad un caveau situato in Svizzera, di cui era titolare la madre di Catherine - .

Strofinò nuovamente i piedi tra di loro.

-          Evidentemente è convinto che Catherine possieda la combinazione per entrare in possesso del contenuto del caveau -.

Lawliet stette in silenzio, limitandosi ad annuire, cercando di scacciare quella strana sensazione che sembrava avergli attanagliato il petto.

La pioggia si sostituì alle loro voci, riempiendo il silenzio che calò tra i due, poco dopo.

-          Forse è il caso che le vada a parlare - .

Lawliet lo vide sparire poco dopo attraverso la porta, sapendo in anticipo cosa avesse deciso di fare Quillsh in merito a ciò di cui avevano parlato prima di mettersi sulle tracce della ragazza.

Non era nella posizione di poter dire se fosse o meno la scelta giusta, era una cosa che spettava solo e unicamente a Wammy. Nessuno comunque ne sarebbe mai venuto a conoscenza.

Il coinvolgimento di Aiber serviva a creare una falla tale da far smascherare l’organizzazione da un membro interno a quest’ultima, escludendo quindi a priori un ipotetico coinvolgimenti del grande detective L.

V’era dunque l’un per cento di probabilità che la donna, una volta risoltasi la situazione, fosse stata creduta nell’eventualità in cui avesse deciso di andare a spifferare in giro di essere stata aiutata dal detective migliore del mondo.

Non comprendeva dunque, ancora una volta, il motivo per cui si sentisse tanto turbato.

Distolse lo sguardo spento dalla porta che aveva varcato ormai da un po’ Watari, voltandosi e dirigendosi nuovamente verso la finestra.

Nel farlo passò accanto ad una pila di dolci di svariato genere, ma non se ne curò.

Si ritrovò quasi inconsciamente a sollevare un braccio e appoggiarlo alla finestra, per poi poggiarci sopra la fronte, evitando di osservare il proprio riflesso ogni volta che un fulmine tornava a squarciare il cielo, illuminandolo, facilitandolo quindi nell’impresa.

Chiuse gli occhi, per poi riaprirli e fissarli sul cielo scuro.

Le campane avevano ripreso a suonare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          Don’t worry = “Non preoccuparti.”

-          Delacroix =  artista e pittore francese di fine settecento/inizio ottocento.

-          La furia di Medea =  una delle svariate opere di Delacroix conservate nel Louvre di Parigi (chiedete a Wikipedia e vi sarà dato).

-          Tutto ciò che concerne la sicurezza per la salvaguardia dei dipinti all’interno del Louvre di Paris =  è inventato xD non ho la più pallida idea di come funzioni la sicurezza lì dentro, mi sono concessa una lieve quanto insignificante licenza d’autore ^  ^

-          Wedy e Aiber = rispettivamente ladra di professione e truffatore, ma immagino che li conosciate già ^  ^ sono presenti sia nel manga che nell’anime di Death Note, ordunque non sono personaggi miei. Qualora voleste dare una spulciatina sul web per avere più informazioni su questi due fate pure, ma sappiate che per quanto mi riguarda mi basta che ricordiate di cosa si occupino ^  ^’

 

 

 

Ringraziamenti:

 

-          Lirin Lawliet: Hai inserito la storia tra le preferite… *____* Grazie infinite! <3 Ti dirò, è la prima volta che creo un personaggio femminile con questi requisiti, solitamente le mie povere sventurate son tutte brune ^  ^ non so perché me la sia immaginata così… Io solitamente mi concentro sugli occhi. In un’atmosfera che richiama delle tonalità spente e neutre come quelle del grigio volevo qualcosa che spiccasse… ecco anche la scelta di far indossare alla protagonista un soprabito bianco (che, per giunta, l’accomuna tanto all’abbigliamento di L, che indossa una t-shirt candida ^  ^). Magari tutto questo ti sembrerà – com’è ovvio che sia – un vuoto farneticare >///< spero solo di aver fatto comprendere – a te come a chiunque altro stia leggendo la storia – che le mie scelte, anche le più banali, non sono casuali ^  ^ per ogni cosa c’è un perché… spero che questo non renda troppo difficoltosa la comprensione >__>… ad ogni modo, grazie per aver recensito nuovamente! *___*

Ps: Oh My God, la ff su Saiyuki! xD “Il filo rosso del destino” presumo ^   ^ accidenti, grazie! Visto che hai introdotto l’argomento colgo l’occasione per farti sapere che quella non è stata abbandonata, ma a lungo andare il mio modo di scrivere si è trasformato un tantino… non mi riconoscevo più in quello che scrivevo e siccome tengo molto alla storia (dal momento che è stata la prima storia in assoluto che abbia deciso di pubblicare su efp) ho deciso di concedermi una pausa per poterla revisionare e trascriverla nuovamente, quindi presto o tardi ve la ritroverete di nuovo tra i piedi ^  ^

 

-          Fe85: Tranquilla, anch’io non mastico il francese ^  ^ per la frase – a mio dire - più complessa (quella, per l’appunto, della sigaretta xD) ho utilizzato uno dei banalissimi traduttori che mette a disposizione il web ^  ^’

Io mi chiedo: come si fa a non adorare Watari? *___* viene calcolato pochissimo nella storia originale, proprio per questo motivo ho deciso di coinvolgerlo nella mia… chissà…

Grazie per tutti questi complimenti ^///^ alla prossima!

 

-          kiriku: Benvenuta! *___* Grazie per esserti soffermata a leggere la mia ff e grazie per tutti i complimenti! >///< guarda, ti posso assicurare già da adesso che non passeranno anni tra un capitolo e l’altro J solitamente ciò mi capita quando mi metto in testa di scrivere una ff abbastanza lunga, cosa che – almeno provvisoriamente, chissà che poi non cambi idea! – non ho intenzione di fare con questa. Come avrai potuto leggere (spero) fondamentalmente L è già arrivato al nocciolo di tutti i problemi della povera disgraziata a cui s’è trovato a dare asilo. I capitoli saranno concentrati sul percorso introspettivo che si ritroveranno a fare un po’ tutti quelli che fino ad ora ho coinvolto… quindi… spero vivamente di non annoiarti ^  ^’ conto comunque sul fatto che tu, eventualmente, me lo faccia sapere! Ciao e grazie per aver aggiunto la mia storia tra le preferite! *___*

 

Un grazie a GokuMiciaNera per aver aggiunto la mia storia tra le seguite *inchino* e un grazie immenso, infine, ai lettori silenziosi che continuano a leggere questo mio bizzarro parto ^   ^

 

 

 

 

HOPE87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** III. Doors ***


III

III.

[ Doors ]

 

 

 

 

 

 

Gli occhi verdi di Catherine s’inabissarono in quelli altrettanto chiari dell’uomo che aveva davanti, cercando di dare una collocazione sensata a tutto ciò di cui era venuta a conoscenza negli ultimi interminabili minuti che aveva trascorso in quel luogo sconosciuto.

Se qualcuno gliel’avesse chiesto, non avrebbe saputo nemmeno dire quanto tempo fosse trascorso da quando quell’anziano signore compito gli si era presentato, vomitandole addosso tutta quella sconcertante storia.

Quillsh adesso si ritrovava a dover sostenere uno sguardo smarrito e rammaricato, incapace di indirizzare quegli occhi vuoti altrove per non avvertire più l’imbarazzante incapacità di poterle fornire la risposta che, nonostante le condizioni in cui riversasse, le si poteva leggere tranquillamente, a caratteri cubitali, sul volto pallido.

Perché?

Estrasse un candido fazzoletto di stoffa da una tasca dei pantaloni che indossava con movimenti incerti, per poi condurselo alla fronte, indeciso se distogliere o meno lo sguardo dalla donna… che sembrava non voler distogliere affatto il proprio dal suo.

-          Ho anche preso in considerazione l’idea di rimandare tutta questa lunga conversazione ad un momento… migliore -.

Fece una breve pausa, rimpiangendo lo scarso lessico che in quel momento veniva a presentarglisi sottoforma di nervosismo, asciugandosi per l’ennesima volta la fronte sudata e prendendo a stropicciare il fazzoletto.

-          Ma ho creduto che necessitasse di sapere… – concluse, riportando al loro posto gli occhialini che gli erano scivolati leggermente sul naso, cercando di captare qualsiasi mutamento nell’immobilità a cui si era costretta la ragazza, i cui occhi, improvvisamente, andarono a spalancarsi più di quanto non avessero già fatto. Sintomo che aveva definitivamente assorbito le informazioni che le erano state fornite.

-          È qui? - .

Quillsh Wammy sollevò lentamente il capo – precedentemente abbassato – per focalizzare nuovamente l’attenzione sulla giovane donna, la cui espressione era mutata, seppur non riusciva bene a identificarne il modo.

Si limitò ad annuire, assolutamente sorpreso e perplesso del fatto che in quel momento, tra le tante cose di cui le aveva parlato, potesse essersi concentrata su lui.

-          Dove? – chiese ancora una volta con voce stranamente ferma.

Watari osservò rapidamente ogni dettaglio della persona che aveva davanti… riscoprendola completamente innocua.

Quella era una domanda che ne implicava un’altra.

Una decisione simile poteva essere poco più compromettente delle informazioni che le aveva dato, si ritrovò a pensare sollevandosi dalla comoda poltrona di damasco, per farle strada col classico garbo che lo contraddistingueva.

 

 

 

***

 

 

 

Proprio come aveva immaginato.

Rivolse di poco lo sguardo al monitor da cui aveva ascoltato tutta la conversazione – o monologo, più che altro – che si era consumato nella stanza affianco.

Gli occhi erano rimasti ostinatamente incatenati al cielo buio che gravava su Parigi.

Quando la porta si dischiuse, rivelando la luce del corridoio contro cui si stagliavano le figure che si apprestavano ad entrare nella camera, Lawliet rimase fermo al proprio posto, nella sua posizione ricurva, le mani affondate nelle tasche dei jeans, lo sguardo semi nascosto dalla chioma disordinata di capelli corvini che, mai come in quel momento, celavano poco più delle altre volte la sua espressione nervosa.

Lo stomaco aveva ripreso a stringersi.

 

 

Quando Quillsh si fu messo da parte, discretamente appoggiato allo stipite della porta color crema, Catherine fece il suo primo passo nell’ambiente elegante lasciato divorare dall’oscurità.

Avanzò con passo cadenzato, lentamente, avvertendo i propri tacchi venir attutiti dalla moquette morbida che sembrava rivestire l’intero pavimento della camera.

Esattamente di fronte a lei una grossa finestra rettangolare mostrava un paesaggio cupo, illuminato raramente da qualche fulmine che si stagliava contro il cielo plumbeo, facendo luce per un attimo su tutto ciò aveva intorno. Compresa quella che identificò essere una persona.

Strinse i pugni.

 

 

Lawliet osservò la femminile figura longilinea farsi sempre più vicina.

La scarsa illuminazione proveniente dalla finestra che aveva alle proprie spalle gli consentiva di avere un’altrettanta scarsa visuale della donna, sebbene ricordasse perfettamente il suo aspetto. L’unica cosa che differiva dal suo ricordo erano i capelli, che adesso le ricadevano sulle spalle disordinatamente, come tante sottili e morbide spirali sfuggite ad un’acconciatura improvvisata.

Quando Catherine avanzò nella camera a tal punto da trovarsi a meno di un paio di metri di distanza da lui, ebbe modo di considerare che i capelli non erano l’unica cosa diversa che ricordava.

Non seppe perché ad un certo punto aprì la bocca per parlare. Non ricordava nemmeno cosa esattamente intendesse dirle. Ne perché.

Lo schiaffo arrivò forte e inaspettato, a tal punto che, ancora una volta, si ritrovò nella totale impossibilità di definire se fosse stato davvero forte come aveva immaginato o se semplicemente l’essere stato preso in contropiede avesse costituito per lui uno smacco.

Continuò a rifletterci anche mentre si appoggiava grossolanamente al divano poco distante da lui e la teiera afferrata da Watari poco dopo aver chiuso la porta s’infrangeva al suolo, disgregandosi in tanti piccoli pezzi.

Doveva essere stato preso in contropiede anche lui a giudicare dall’immobilità a cui si era sottoposto in un primo momento, nonostante la donna fosse tornata a inveirgli contro, mostrandogli nuovamente quel paio d’occhi irriconoscibili e vomitandogli addosso una lunga sequela di parole che inizialmente non afferrò.

-          …figlio di puttana! Figlio di puttana! Lurida giustizia del cazzo! - .

Chissà se si era resa conto di aver iniziato a piangere.

Non riusciva a toccarla.

Non riusciva ad allontanarla da se, nonostante gli avesse afferrato la t-shirt con entrambe le mani e si fosse messo a scuoterlo violentemente. Riuscì però ad intravedere Quillsh precipitarsi ad afferrarle la vita con entrambe le braccia e a sollevarla di peso per allontanarla da lui… poi un’ennesima lunga sequela d’imprecazioni… di farneticazioni.

Non era vero che le aveva distrutto la vita.

Non era stato lui.

Se non fosse intervenuto, lei sarebbe morta.

E non poteva farci nulla se adesso la sua vita le sembrava inutile.

Non poteva farci nulla se avrebbe preferito morire.

Non poteva farci nulla se lei pensava che il suo intervento non era stato tempestivo.

Né che aveva dovuto attraversare l’inferno per desiderare comunque la morte.

che… Kira era migliore di lui.

Non era vero che se n’era sbattuto.

Lui lavorava continuamente, perennemente, a casi che lei non immaginava nemmeno.

… non era colpa sua.

Continuarono a rimbombargli nella testa tutte quelle cose anche quando Catherine non ebbe più fiato e forza per continuare.

La vide ruotare gli occhi all’indietro e cadere come un peso morto con il volto ancora contratto in una maschera feroce, d’odio, che andò dissipandosi man mano che perdeva i sensi.

Un profondo senso di negazione si fece spazio in lui… ma quando provò a scuotere la testa non riuscì a muoversi, scoprendo di essersi completamente impietrito.

E le campane… le campane non avevano mai suonato così tanto

-     Lawliet - .

Gli occhi d’ossidiana cercarono subito quelli del proprio mentore, scoprendovi uno stato d’apprensione che non aveva mai avuto modo di osservare prima. Solo allora si rese conto della posizione scomoda che vedeva l’uomo inginocchiato per terra, a sostenere il peso della donna con un braccio e tenendo il cellulare accanto all’orecchio con l’altro.

-          Tra dieci minuti arriverà l’ambulanza – lo avvertì scandire, probabilmente per essere certo che recepisse perfettamente. – Devi occuparti tu di tutto il resto - .

Seppur con una certa difficoltà, riuscì ad annuire, evitando accuratamente di rivolgere lo sguardo al corpo immobile della donna.

Così come con una certa difficoltà riuscì a non lasciar trapelare nulla, attendendo con un’ansia crescente che Quillsh abbandonasse la camera, trascinando con sé la matrice di tutti i suoi mali.

Quando la porta si fu richiusa con un colpo secco, lasciandolo solo, Lawliett avanzò – arrancando – verso il divano, riscoprendosene, ad un passo, poco attratto.

Dato un rapido sguardo ai dolci poggiati sul tavolo poco distante, si voltò rapidamente dal lato opposto, avvertendo una fitta lacerante alla bocca dello stomaco.

Kira non era migliore di L.

Si piegò in due, rigettando sul tappeto porpora persiano.

 

 

 

***

 

 

 

Quando rinvenne si ritrovò sorprendentemente adagiato su uno dei divani della sala, coperto da quello che sembrava essere – a tatto – un lenzuolo.

Provando a muovere le gambe, avvertì qualcosa impedirgli i movimenti, su cui subito focalizzò la propria vista.

La figura elegante e gentile di Quillsh gli invase la visuale, sostituita subito dopo da una mano di quest’ultimo, che andò ad adagiarsi sulla sua fronte.

Lanciò distrattamente uno sguardo al termometro elettronico che impugnava il suo tutore, poi cercò d’individuare il punto in cui aveva rigettato prima di perdere i sensi, scoprendolo sorprendentemente immacolato.

Sospirò pesantemente, conducendosi un braccio a schermirsi gli occhi, decidendo di restare poi in quella posizione. Aveva i muscoli intorpiditi.

-          Giusto qualche decimo – affermò la voce di Quillsh poco dopo. – Vado a prepararti un po’ di thèaggiunse, abbandonando il divano su cui era sdraiato.

-          Mi dispiace - .

Watari si fermò sulla soglia della porta, continuando a dargli le spalle.

 

 

Non aveva potuto fare a meno di chiudere gli occhi.

Quelle parole avrebbe dovuto dirle lui, non Lawliet.

Lawliet si era limitato a mostrare un’intelligenza fuori dal comune, era stato lui a creare L. Ed era stato sempre lui, nel corso del tempo, ad avergli indicato la strada per diventarlo.

Non che non si fosse mai curato di vedere che tipo di persona ci fosse dietro quella lettera in grassetto dai caratteri gotici.

Ma non aveva mai saputo insegnargli a fare lo stesso.

Tentennò sulla porta, voltandosi lievemente, per un attimo, verso il ragazzo.

Non riuscì ad emettere un solo sibilo.

Vi erano parole giuste per scusarsi per una vita intera?

Abbassò il capo e abbandonò la camera prima che una lacrima sfuggisse al suo controllo, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.

 

 

Lawliet strinse i denti, imponendosi autocontrollo.

Anche sua madre aveva pianto prima di chiudere la porta di casa e abbandonarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          Ogni riferimento al passato di L è inventato di sana pianta, non avendo potuto attingerne alcuna informazione in merito attraverso manga e/o anime. Ho voluto semplicemente che Ellino avesse una sorta di deja-vù spiacevole che ricollegasse l’ultimo ricordo della madre a Watari, l’uomo che successivamente ha deciso di prendersi cura di lui, ridandogli una casa, un affetto, un’identità. L’idea che si è fatto L di Watari è dettato fondamentalmente dalla confusione esistenziale che sta vivendo il primo. “Doors”, il titolo del capitolo, sta appunto per “Porte”.

Una porta fa definitivamente entrare in contatto Catherine con L, una porta separa Watari dai sensi di colpa che ha nei confronti di Lawliet, una porta sancisce un distacco, un abbandono da parte di Watari per Lawliet. Senza contare le innumerevoli “porte” che si aprono sul passato di ognuno dei protagonisti man mano che interagiscono tra loro. Qualora qualcosa non vi sia stato chiaro, chiedete pure tranquillamente, ma sappiate che questo non è che l’inizio J e che avrete modo di sbrogliare eventuali dubbi e punti interrogativi più avanti;

 

-          Lirin Lawliet, che segue adorabilmente questa storia, nell’ultimo capitolo, tramite recensione, mi ha posto una domanda interessante: “Ho notato che ti riferisci ad L chiamandolo per cognome, cioè Lawliet. Come mai?”

Avevo pensato inizialmente di risponderle nel classico angolo delle recensioni come ho sempre fatto con chiunque abbia commentato, poi ho pensato che più persone possano essersi poste la stessa domanda, quindi la cosa più giusta che ho ritenuto fare è inserirvi la risposta nell’angolo “Delucidazioni”, in modo da rendervene tutti partecipi.

Allora… parto dal presupposto che la mia risposta si regge su un punto di vista personalissimo, soggettivo. Il punto è questo: L… non è un nome. È una lettera, un’iniziale.

Certo, alla fine sul Death Note Ellino viene fatto fuori (ç__ç) scrivendo “L Lawliet”, e partendo dal presupposto che il quaderno della morte necessita del nome e cognome della persona che s’intende uccidere (più l’averne bene impresso il volto, bla bla bla…), chiaramente la spiegazione – com’è giusto che fosse - è passata come la seguente: L è il nome, Lawliet il cognome.

Ecco, semplicemente io mi rifiuto di accettarlo xD

Come dicevo prima, “L” non è un nome, è un’iniziale. Gli stessi M e N si scoprono chiamarsi poi Mello e Near. Il nome completo di Near in questo momento mi sfugge… ma continuando a riferirci a Mello, per portare un esempio, si sa che il nome originario sia Mihael Keelh, poi diventato M alla Wammy’s House in quanto potenziale successore di L.

Non so se sono stata sufficientemente chiara… ripeto, nulla da contestare a chi crede al contrario, anzi, ci sarebbe da contestare me per l’aver messo in discussione quelle che sembrano essere le regole della storia originale xD

Ma, almeno per quanto mi riguarda, “L” è semplicemente quel carattere in Old London che serve a rappresentare la più grande mente e il più grande detective del mondo (di Death Note ^  ^), “Lawliet” è colui che vi è dietro, la “persona” che lo incarna concretamente.

Per me “L” non è il nome e “Lawliet” non è il cognome.

Per me “L” sta per: “L di Lawliet”.

Il cognome? Eh… bella domanda. Per quanto mi riguarda può essere tranquillamente “Wammy” ^  ^ D’altronde cosa si sa del passato di L? Solo a me è sembrato che i due geniacci degli autori di Death Note abbiano voluto miticizzare il personaggio del grande detective prima ancora di sancirne la morte? Vabbè… questo poi è un altro discorso… che non tocco altrimenti non la finiamo più .___. Spero solo che il concetto sia chiaro. Anche perché, credo ve ne sarete accorti, in questa storia giocherò molto nello “scindere”, nello “smascherare”.

Oh, insomma, auguri! xD

 

 

 

Ringraziamenti:

 

 

 

-          Lirin Lawliet: Mia cara… perdona il mostruoso ritardo. Per tutto. Vengo fuori da un periodo non tanto roseo… e a dirla tutta, non ne vengo nemmeno fuori. Ci sono ancora dentro quindi perdonami per i ritardi di aggiornamento, di lettura e recensione delle tue storie (che, ci tengo a specificare, non intendo leggere per ricambiare… non sono proprio il tipo di fare cose simili perché la mia natura me lo impedisce xD <- ergo: se una storia non mi prende, non mi prende… per quanto possa stimare a prescindere la persona che la scrive). Ritornando alla tua ultima recensione: anche a me Aiber e Wedy ricordano Lupin! xD Le citazioni inerenti alle percentuali e ai dolci a mio parere sono indispensabili, come si fa a descrivere L altrimenti? °___° spero continuerai a leggermi nonostante i ritardi ^  ^’ così come spero che la delucidazione sopra sia servita! Un bacio!;

 

-          Kiriku: Congetture? Condividile, condividile, condividile! Sono qui per questo °____° grazie per la recensione, spero alla prossima!;

 

-          Fe85: … il dannato episodio 25. Già. *scoppia a piangere al solo ricordo* Mmm… posso dirti che gli avvenimenti nefasti non devono necessariamente incarnarsi in quaderni della morte e Shingami… quindi… chissà? J Oddio… grazie per avermi fatto notare quegli errori! “È una misura cautelare aggiuntiva che hanno ritenuto opportuno aggiungere” è proprio fantastica .___. *corre a correggere* mi scuso U__u quando mi ci metto so essere davvero geniale! Non esitare a farmi notare altri errori qualora li individuassi, io a volte non me ne accorgo proprio ç__ç nemmeno rileggendo più volte! *s’inchina e chiede scusa* Grazie mille per la tua recensione! Alla prossima (spero)!

 

Inoltre volevo ringraziare Shining Aurora, Fe85 e Ciuly per aver aggiunto questa storia tra le seguite, _Elea_ e Lirin Lawliet tra le ricordate, e kiriku tra le preferite J *inchino*

 

 

 

 

HOPE87

 

 

 

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Capitolo 6
*** IV. Skeletons ***


IV

IV.

[ Skeletons ]

 

 

 

 

 

 

Avrebbe voluto tanto risvegliarsi con l’odore di caffè che era solito ritemprarle i sensi prima ancora di essere sorseggiato, l’odore di lavanda che emanavano i capelli della madre a pochi centimetri dal viso e dolci e vellutate mani a carezzarle il volto.

Invece, quando riaprì gli occhi, desiderò ardentemente sprofondare nuovamente nel cinico sogno che l’aveva accompagnata durante la notte.

Mosse il braccio, riscoprendolo fastidiosamente pesante, e quando provò a piegarlo fu dissuasa da qualcosa di freddo che sembrava esserle stato legato all’altezza del gomito.

Nonostante la stanchezza fisica e psicologica, che ancora perpetravano, non ci mise molto ad accorgersi di avere una flebo ad alimentarla. Con cosa, non ne aveva idea, ma per essere ancora viva non doveva essere nulla di letale.

Decise di far vagare lo sguardo per la stanza buia nella quale si trovava ma, a parte la parete di fronte a lei, completamente spoglia, non riuscì ad individuare nessun altro particolare.

Richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal silenzio che regnava nella stanza e dalla luce artificiale dei lampioni che filtrava dalla finestra lasciata socchiusa.

Dischiuse gli occhi, ricordandosi tutto a un tratto ciò che le era accaduto nelle ultime ore.

Gli occhi di quell’uomo, quel Quillsh, ritornarono a farle visita nuovamente, seppur incorporei.

Incredibile.

Avrebbe dovuto immaginarlo? Avrebbe mai potuto immaginarlo?

Non si somigliavano per niente… non almeno per quanto ricordava.

Lei doveva avergli posto qualche domanda, se riusciva a ricordare la risposta…

Padri diversi.

Giusto.

Così poteva quadrare.

Ma poteva credergli?

Beh… come avrebbe fatto altrimenti a trovarla?

Ma allora perché non l’aveva cercata prima?

Sua madre era a conoscenza dell’esistenza di un ipotetico fratello dell’uomo che amava? Se sì, allora perché, considerando la persona che questi era, non si era rivolta a lui… ?

No, evidentemente non lo sapeva.

Si morse un labbro, trattenendo l’impulso di urlare.

La porta della camera venne aperta delicatamente, attirando la sua attenzione. Un’ombra si mosse silenziosa per l’ambiente, avvicinandosi cautamente a lei, in direzione della flebo che l’alimentava.

Non ebbe grandi difficoltà a riconoscerne il profilo, sebbene l’avesse visto una sola volta.

 

 

Quillsh si ritrovò a fare nuovamente i conti con quegli occhi che tanto l’avevano turbato.

Voltò il capo lentamente, poggiando il proprio sguardo sulla donna con cautela, come se questa da un momento all’altro potesse ritrasformarsi nella furia che aveva aggredito Lawliet... invece scorse solo un paio d’occhi grandi, lucidi e spaventati, spalancati in un viso pallido tanto piccolo da ricordargli quello di una bambina.

-          Siete ancora nell’albergo dove vi ho fatta condurre in precedenza. – le sussurrò, avvicinandosele appena per non dover alzare la voce. – Gli uomini che vi hanno inseguita sono ancora in libertà… qui sarete al sicuro. Ve lo garantisco. – concluse, rivolgendole un tenue sorriso di circostanza per poi riprendere ad armeggiare con la flebo che alimentava la donna. Accertatosi che il processo di alimentazione stesse procedendo bene, fece per allontanarsi con lo stesso silenzioso rispetto con cui aveva fatto accesso nella camera, ma se ne trovò impedito.

-          Per favore… - .

Quillsh volse nuovamente il capo verso di lei, sorpreso – e allo stesso tempo angosciato – dall’urgenza che aveva accompagnato la richiesta della donna. Le fece un cenno di assenso col capo, incoraggiandola a parlare.

-          Per favore… - . Un’altra interruzione.

Immaginando perché incontrasse tanta difficoltà nell’esprimersi, decise di andarle incontro, avvicinando al letto una delle sedie che componevano l’arredamento semplice della camera, in modo da farle intendere di offrirle completa disponibilità.

Vide le sue labbra tremare leggermente e gli occhi riempirsi nuovamente di lacrime. Si ritrovò a sospirare nello stesso momento in cui lo fece lei, sentendosi sollevato nel vederla finalmente prendere coraggio e parlargli.

-          Me lo ripeta… me lo dica ancora una volta… -.

Chiuse gli occhi, accusando il colpo che la richiesta della donna seppe sortirgli. Poi annuì, donandole un accenno di sorriso, comprensivo, iniziando a raccontarle tutto da capo.

 

 

 

***

 

 

 

James Lorraine, nativo britannico, aveva vissuto fino all’età di diciassette anni in Francia, presso un fratello della madre, mentre questa rimaneva a Londra a tentare di racimolare un po’ di soldi che in un futuro non molto lontano – si sperava - avrebbero potuto consentire una vita più dignitosa a lei e suo figlio, dal momento che il padre del bambino s’era premurato di sparire dalla circolazione non appena aveva saputo che la donna era al terzo mese di gravidanza.

O almeno era questo ciò che avevano rifilato a James.

Era vero che non v’era più stata traccia di suo padre non appena aveva scoperto della sua esistenza, quanto era vera la circostanza che vedeva sua madre a lavorare duramente per potersi permettere uno stile di vita sufficientemente dignitoso.

In fin dei conti – si era ritrovato a pensare James – la persona che gli aveva parlato di sua madre non gli aveva mentito. L’omissione d’informazioni, dopotutto, non poteva considerarsi alla pari di una menzogna, fu per questo motivo che James si ritrovò impossibilitato ad accanirsi nei confronti dello zio, che si era premurato di allevarlo fino alla maggiore età alla stregua di un figlio. Sostanzialmente, ciò che lo legava a quel suo parente doveva essere riconoscenza. La rabbia andava riservata solo alla madre.

Quando, concretizzatasi l’opportunità, decise d’imbarcarsi e raggiungere il luogo natio, James non immaginava che ad attenderlo vi fosse la sconcertante rivelazione di avere un fratello. Un fratello maggiore per giunta, che, al contrario di lui, aveva sempre vissuto con la madre, e a cui quest’ultima – per quel che allora gli parve uno strano motivo – aveva sempre finanziato gli studi, lavorando duramente.

Solo molto più tardi James venne a conoscenza dell’abissale differenza di Q.I. che lo differenziava dal fratello, precludendogli l’opportunità di avere una vita simile alla sua. E saperlo non fece altro che procurargli un moto di stizza e disgusto, peggiore di quello che l’aveva colto alla scoperta della verità a lungo taciuta dalla donna che l’aveva messo al mondo.

Ad ogni modo, non fu molto chiaro come si evolsero le cose da quel momento.

Quillsh aveva raccontato di averlo visto solo due volte nel corso della propria vita. Quella volta e un giorno di vent’anni più tardi.

Evidentemente James aveva dovuto abbandonare il luogo natio il giorno stesso che vi aveva rimesso piede, convinto a lasciarsi il passato alle spalle e a cercare l’identità che così tanto a lungo gli era stata negata. Evidentemente era ritornato in Francia, seppur non più sotto la tutela di quel suo parente, ed evidentemente era stato lì che si era avvicinato al mondo ecclesiastico, sebbene – per quanto l’immaginazione potesse galoppare in svariati modi – non si sapesse esattamente come fossero andati i fatti.

Fatto sta che, a giudicare dal calcolo approssimativo che si poteva fare sui fatti svoltisi nel corso del tempo, James doveva indossare già gli abiti sacerdotali quando aveva incontrato per la prima volta Evelyne Brown.

E non v’era bisogno, a quel punto, di molta fantasia per capire come si fossero susseguite le cose. Un giorno di luglio di ventiquattro anni prima, Catherine era venuta alla luce, sotto un cielo che non prometteva nulla di buono.

James, inutile dirlo, aveva rifiutato fino allo sfinimento la realtà dei fatti, che lo vedeva padre di una creatura che da lui, vicario di Cristo, non sarebbe mai dovuta nascere.

Evelyne, dal canto suo, era pienamente consapevole delle difficoltà a cui sarebbe andata in contro decidendo di mettere al mondo la creatura che la legava all’uomo di cui si era irrimediabilmente innamorata. E l’amore, in quanto irrazionale, l’aveva convinta del fatto che tutto si potesse affrontare e superare. Ma le cose non erano andate per il verso giusto.

Samir Kunz, il maggior narcotrafficante dell’est Europa a cui era sposata prima ancora d’incontrare James, non aveva avuto bisogno d’impiegare alcuna forma di spionaggio e investigazione per capire che la creatura che portava in grembo non gli apparteneva. Evelyne allora, temendo le sorti di sua figlia e dell’uomo che amava, lo aveva ucciso, avvelenandolo a tradimento una sera di ottobre di vent’anni prima, facendo poi ricadere le colpe su uno dei membri della servitù che era solito occuparsi dei pasti dell’uomo.

Era corsa da James di nascosto, in preda al panico, riponendo fiducia nell’infinita misericordia che avrebbe dovuto caratterizzare la strada che aveva deciso di seguire, raccontandogli tutto e chiedendogli di prendersi cura di Catherine.

Ma James aveva negato nuovamente la paternità nei confronti della bambina, esigendo una prova del DNA che attestasse la veridicità della versione della donna. Evelyne, tenacemente, non si era persa d’animo e gliel’aveva fornita, vedendosi chiudere nuovamente una porta in faccia, a dimostrazione del fatto che l’uomo che aveva tanto amato non avrebbe fatto altro, nel corso del tempo, che lavarsene le mani.

Non sapeva che James, dopo l’ultima volta che aveva visto Evelyne e la piccola Kate, si era messo sulle tracce del fratello, di cui aveva sentito a lungo parlare a riprova del fatto dire che i frutti dei sacrifici della madre erano serviti. Quillsh vantava di essere uno dei più grandi inventori dell’ultimo decennio.

Una volta risalito al cognome – che gli aveva fatto chiedere se, a differenza sua, suo padre lo aveva invece riconosciuto, rendendolo ancora una volta irrimediabilmente più fortunato – era venuto automaticamente a conoscenza dell’orfanotrofio che aveva fondato a Winchester. Il che, a rigor di logica, doveva fare di Quillsh una persona presumibilmente benestante, nonché sufficientemente adatto a potergli venire in aiuto concretamente.

Una settimana dopo la sconcertante confessione di Catherine, si era presentato ai cancelli della Wammy’s House, venendo ricevuto più velocemente di quanto immaginasse. Si era seduto alla scrivania di Quillsh e, contrariamente a quanto si potesse immaginare, aveva preteso senza mezzi termini aiuto materiale.

Che Quillsh, senza mezzi termini, gli aveva rifiutato.

Non perché non riconoscesse in quell’uomo il fratello minore che aveva visto quell’unica volta, vent’anni prima. Benché le loro strade si fossero separate, al contrario di James, Quillsh si era tenuto costantemente informato sulla vita del fratello, forse – riflettè anni dopo – perché inconsciamente dispiaciuto per l’epilogo che gli era toccato.

Ma lui, che da poco aveva idealizzato il progetto di provare a rendere il mondo un posto migliore grazie a quelle piccole, geniali menti che accoglieva nel suo orfanotrofio, non poteva accettare la condizione di aiutare qualcuno che si fosse macchiato d’omicidio, anche se quel qualcuno era una donna che – stando al racconto del fratello – si era macchiata di quel crimine per preservare le persone che amava.

Allora gli aveva suggerito di contattarla per convincerla a rivolgersi alla polizia, e a quel punto sarebbe intervenuto lui, offrendole avvocati e protezione, nonché tutte le garanzie che solamente con un bel gruzzolo di soldi avrebbe potuto permettersi.

James, chiaramente, dopo la lunga e dettagliata descrizione che gli aveva fornito in merito alla famiglia Kunz e alla relativa conseguente impossibilità da parte della donna ad effettuare una cosa simile senza incorrere in probabili ritorsioni, non riuscì a non perdere le staffe.

Quando abbandonò lo studio di Quillsh, quest’ultimo dovette ricorrere a degli inservienti per rimettere a posto la stanza lasciata completamente a soqquadro dal fratello.

Anni più tardi - forse perché richiamato da quel legame di sangue che sembrava aver rinnegato, col suo rifiuto – Quillsh gli aveva fatto recapitare una lettera presso la curia nella quale amministrava il suo sacerdozio, informandolo del fatto che, qualora si fosse trovato seriamente in difficoltà, non avrebbe dovuto fare altro che rivolgersi ad L, senza però dilungarsi nello specificare di che diavolo stesse parlando.

James aveva bruciato la lettera, così come aveva bruciato, dentro di sé, l’idea di avere e di avere avuto, un tempo, un fratello.

Aveva continuato ad esercitare la sua devozione, trovandosi a pregare il doppio per quelle due anime di cui non aveva avuto più notizie da quella lontana sera.

Finchè non aveva ricevuto quella telefonata.

Una voce gracchiante – evidentemente camuffata – lo aveva informato del ritrovamento di un risultato corrispondente ad un test del DNA effettuato anni prima, che lo avrebbe visto morto nel giro di poco tempo.

James non immaginava che il “poco tempo” concessogli sarebbe scaduto esattamente il giorno dopo, e che in quel “poco tempo” rimastogli avrebbe rivisto la creatura che vent’anni prima aveva rifiutato di accettare come sua. Così come non immaginava quanto avesse potuto somigliare alla donna che – nonostante tutto – si era ritrovato a pensare e ad amare durante tutto quel tempo.

che l’assassino inviatogli a stroncargli la vita corrispondesse a quello che immaginava essere un fedele curioso che giorni prima gli aveva posto delle domande sul proprio percorso sacerdotale.

che si sarebbe ritrovato a seguire il consiglio del fratello in extremis, scrivendo col proprio sangue la lettera che sperava, ormai, potesse ritornare utile perlomeno a Kate.

 

 

 

***

 

 

 

Lawliet si massaggiò la fronte con la punta delle dita, continuando a piluccare svogliatamente una fetta di torta alle fragole che non riusciva in alcun modo ad attirare la sua attenzione.

Perché Quillsh gli aveva taciuto tutta quella storia fino ad allora? Se prima o poi si sarebbe palesata l’eventualità di dover necessariamente intervenire in un caso simile, perché non gliel’aveva reso noto?

Chiaramente la faccenda dei Death Note doveva averlo distratto parecchio, senza dubbio. Ma vi era una scarsissima probabilità che anche i casi precedenti dovessero averlo distratto a tal punto da fargli ignorare un particolare di quella portata.

Sollevò gli occhi sul monitor che gli consentiva d’inquadrare la camera in cui aveva fatto sistemare la ragazza. Chiaramente, coi Kunz ancora in libertà, era assolutamente fuori discussione tenerla in una comune struttura ospedaliera.

Avrebbe dovuto pensarci prima di prenotare una camera nella migliore clinica privata della zona, che Quillsh aveva prontamente provveduto a disdire.

Era l’ennesimo errore che compieva da quando erano atterrati sul suolo parigino. Cosa diavolo gli stava prendendo? Perché non riusciva a ragionare e calcolare tutto come suo solito?

Rivolse nuovamente lo sguardo all’immagine che intrappolava Quillsh e Catherine nello spazio esiguo del monitor, prima che i suoi pensieri venissero interrotti dallo squillo del cellulare.

-          L - .

-          Qui, Aiber. Sono sul posto. Attendo istruzioni. - .

Quando mise giù, si ritrovò a sospirare profondamente.

Era ormai questione di ore.

Gli occhi si spostarono nuovamente sui soggetti del monitor.

Quillsh stava carezzando i capelli di Catherine, che aveva il volto nascosto tra le mani, in lacrime.

Trattenne il respiro, stringendo la forchetta nella mano.

Prima Aiber avrebbe portato a termine l’incarico, prima tutto sarebbe tornato alla normalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          Il passato di Quillsh Wammy, meglio conosciuto come Watari ^  ^, come quello di L è inventato di sana pianta ^  ^’ Sono consapevole che non piacerà a tutti… d’altronde siamo (mi ci ficco anch’io in mezzo xD) abituati a vedere il caro Watari come l’uomo senza macchia che ha cresciuto nientepocodimenoche L! Come potrebbe una persona simile avere un passato ambiguo, pieno di zone d’ombra? Ta-dan! Il Watari della mia storia ha un trascorso turbolento, non a caso il titolo del capitolo èSkeletons”, ossia “Scheletri”. Ho voluto implicitamente riferirmi ai cosiddetti “scheletri nell’armadio” che ognuno di noi ha, compreso lui J

 

 

 

Ringraziamenti:

 

 

-          Fe85: Non vi ho fatto aspettare molto stavolta =) Il trascorrere periodi non troppo felici ha il suo lato positivo xD come al solito: occhio, se noti qualche errore fammelo notare! Anche perché stavolta mi sono cimentata in una spiegazione lunga e abbastanza dettagliata in cui, quasi sicuramente, deve essermi sfuggito qualche errorino >__< e grazie per la recensione J spero alla prossima;

-          Kiriku: No J non mi offendo se non vorrai condividere con me le tue congetture J però sappi che mi farai morire di curiosità! xD ma è una tua scelta questa, che io rispetto in pieno J quindi don’t worry! =D qui cominciamo ad addentrarci nei meandri del labirinto mentale di L… chissà che ne verrà fuori xD un bacio;

-          LirinLawliet: Sono assolutamente d’accordo, mia cara. In qualunque modo lo si decida di chiamare, L resta sempre L *___* Non credo che Catherine sappia di questa peculiarità di L J e credo che anche qualora ne venisse a conoscenza, non se ne curerebbe troppo J Catherine è una donna a pezzi a cui è stato portato via tutto, senza che lei abbia avuto modo di aprire bocca per contestare, dissentire. La storia che ho fornito sta proprio a sottolineare questo: lei, tra tutti i fatti brutti e tristi compiuti dalle persone che aveva attorno – consapevolmente o meno – ha avuto la semplice “colpa” di essere nata. E qui mi fermo altrimenti ti anticipo troppo U__U (sì, perché inevitabilmente ti ho dato un piccolo spoiler ^  ^’). Concludo ringraziandoti per la recensione articolata che mi hai lasciato nell’ultimo capitolo e per il fatto di seguirmi ovunque! Mi hai beccata anche nel fandom di Dragon Ball! xD Questa storia ha dell’incredibile davvero!

 

 

Ringrazio inoltre tutte le persone che hanno aggiunto la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate J nonché tutti coloro che decidono di perdere un po’ del loro tempo per leggere (e ne siete tanti, eh! Fatevi sentire *___*) .

*inchino*

 

 

HOPE87

 

 

Ps: Ad un occhio attento non sarà certamente sfuggita la dedica che ho inserito in cima alla presentazione della storia. YamaMaxwell è una fanwriter (a mio avviso, bravissima) che ama Death Note ma che non bazzica molto nel fandom dedicato a questo capolavoro. Mi è stata concessa (da lei stessa, chiaramente) l’opportunità di sapere chi vi fosse dietro a questo nickname, scoprendo così l’esistenza di una persona non solo estremamente fantasiosa, quanto estremamente umana, sotto svariati punti di vista, e con la quale ho scoperto di avere più cose in comune di quanto potessi mai immaginare.

Sì, evidentemente avrei dovuto inserire la dedica dall’inizio, ma inizialmente questa idea era lontana da me. Poi, riflettendo sulla direzione che voglio far prendere alla storia, mi è venuto da pensare: non posso non dedicargliela.

Ordunque, ecco sciolti eventuali dubbi che avrebbero potuto cogliervi J

 

Pps: Ah, visto che ci sono ^  ^’ semmai amaste Saiyuki e foste interessati a leggere qualcosa di carino, ecco a voi la pagina della folle geniale: YamaMaxwell.

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