Il ladro di fotografie

di vincenzoborriello
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Secondo estratto de Il ladro di fotografie ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Non sapevo dove mi trovavo in quel momento. Intorno a me c’era solo il buio, l’oscurità. Ero legato, con le mani dietro la schiena. Avevo un bavaglio sulla bocca e mentre, spaventato, mi dimenavo per cercare di liberarmi. Da lontano, come se provenisse da un’altra stanza, sentii un urlo, un urlo agghiacciante, di terrore, ma anche di dolore lancinante, l’urlo di una donna, poi il silenzio. Il mio pensiero andò subito a Franceen. Passarono diverse ore, durante le quali sembrava fossi solo; neanche il più piccolo rumore percepivo in quel luogo. Dovevo essere stato portato in una zona isolata, forse di campagna. Ad un tratto udii dei passi che, con il trascorrere dei secondi, sembravano sempre più vicini. Contemporaneamente ai passi sentivo degli scricchiolii, come se qualcuno stesse salendo una scala di legno. I passi sembravano quelli di una persona pesante…tum… tum… tum, il rumore mi rimandava alla mente, le percussioni di qualche antico rito tribale il cui incedere separa la sfortunata vittima, dai secondi che mancano alla morte. Sentii un cigolio, come se si aprisse una porta, fuori doveva essere notte, perché non entrava luce. Qualcuno si fermò per qualche istante sull’uscio, poi i pesanti passi con il loro incedere lento e “ritual-tribalesco” ripresero, tum…tum…tum, questa volta accompagnati da un rumore ancora più sinistro. Dal suono sembrava si trattasse dello sfregamento di due coltelli. Ad un tratto sentii qualcosa di freddo, metallico e appuntito, poggiarsi sul mio zigomo, appena sotto l’occhio. L’oggetto, probabilmente una lama accuratamente e sapientemente affilata fino a pochi istanti prima, come una carezza mortale, scese lungo la mia guancia fino a fermarsi sulla gola, all’altezza del pomo d’Adamo. Potevo sentire distintamente il respiro affannato di quell’uomo. La lama vi restò lì per qualche secondo che percepivo come interminabili ore. Poi sentii i passi allontanarsi, tum…tum…tum e la porta chiudersi. Qualcosa gocciolava dalla mia guancia, forse, sangue. La lama, scorrendo sul mio viso doveva avermi graffiato. Non so quanto tempo passò dalla visita del mio carceriere, forse un paio di giorni. Finalmente, mi portò qualcosa da mangiare. Mi tolse il bavaglio, mi liberò le mani, gli chiesi chi era, cosa volesse da me, perché mi faceva tutto questo, ma non disse nulla, non aprì bocca. Mi diede una scodella con dentro della carne; sembrava uno spezzatino. Non so dirlo con precisione perché continuavo ad essere al buio. Il sapore non era dei migliori, ma dopo due giorni di digiuno non badi tanto al sapore delle cose che mangi. Masticando la carne, quasi mi rompevo un dente. C’era qualcosa di duro, di metallico mescolato alla pietanza, qualcosa di forma circolare. Istintivamente sputai quell’oggetto. Finito di mangiare, il mio carceriere mi legò ed imbavagliò nuovamente. Avevo perso completamente la cognizione del tempo; mi ero ormai abituato a quel perenne buio. Fu, quando avevo ormai perso le speranze di uscire vivo di lì, che qualcuno sfondò la porta e finalmente vidi una luce. La polizia mi aveva trovato, fui liberato, ma il vero orrore dovevo ancora vederlo. In terra c’era il cerchietto metallico che avevo sputato. Lo presi e lessi l’incisione al suo interno, “Antony e Franceen – 16 giugno 2008”. Era la fede di mia moglie, ed io avevo mangiato i suoi resti.

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Capitolo 2
*** Secondo estratto de Il ladro di fotografie ***


Parlai con Mary, come se fosse fisicamente presente di fronte a me, pregai per lei; come se quei poveri resti umani, quel corpo senza vita, potesse ascoltarmi. Provai anche un po’ d’orgoglio nel dirle che il suo assassino era stato catturato, perché sapevo che era anche per merito mio, ma fu in quel momento che i sensi di colpa tornarono ad assalirmi, perché ancora non avevo potuto dire lo stesso alla mia Franceen e non sapevo se mai un giorno, avrei potuto farlo. L’idea di finire anch’io seppellito senza che Franceen avesse avuto giustizia, non mi dava pace. Era un chiodo fisso, di notte di giorno, che fossi a lavoro oppure attaccato alla bottiglia. Non esisteva anestetico per quel dolore, quel disagio interiore che se non lo si prova non lo si può capire. L’ansia che ti attanaglia e che ti toglie il respiro, il sudore freddo che come gocce di ghiaccio ti scende dalla fronte ed il cuore che batte all’impazzata. Tutto diventa faticoso, persino respirare…gli sbalzi d’umore che non fanno capire alle persone che tipo sei, come devono comportarsi con te; paradossalmente il peggio è quando ti senti allegro, ed è la paura di perdere quell’allegria che ti fa sprofondare nella tristezza, nella depressione più assoluta. È per questo che ho paura quando sono felice…la felicità mi spaventa perché so che è solo un attimo, un’insignificante frazione della mia vita, l’anticamera della disperazione, è il nulla che prepotentemente bussa alla tua porta, ti avverte del suo arrivo, che sta venendo lì da te per fagocitarti ed a renderti parte del nulla stesso distruggendoti. Appassito come un fiore su di una tomba abbandonata mi trascinavo tra i viali del cimitero, stanco per lavorare, stanco per pensare, esausto per reagire. Il tempo trascorreva inesorabile eppure era tutto fermo, tutto immutabile, nulla cambiava ed io restavo aggrappato al mio passato, ai miei ricordi. Il dolore era l’unica cosa che mi ricordava di essere vivo, svuotato ma vivo, seppur forse, in un senso più che altro meccanicistico, un pezzo di carne, un corpo con un’anima sanguinante che vagava tra altri corpi interrogandomi se fossero più fortunati loro oppure io. Stavo vivendo uno dei miei momenti di peggior depressione, un male oscuro che nel momento stesso in cui sembra svanito, ti ripiomba addosso come un avvoltoio su una carcassa putrescente attratto dal fetore che essa emana. Ero la prigionia della mia anima, un’angusta cella che impediva al mio spirito di ricongiungersi con Franceen in un luogo migliore, e se fosse stato anche l’inferno, non sarebbe potuto essere peggiore di dove mi trovavo. Lo ammetto, pensavo al suicidio, ci pensavo e ci penso spesso. Via di fuga, liberazione, portale per la gioia eterna accanto a Franceen, oppure…oppure semplice vigliaccheria, non lo sapevo e non m’interessava saperlo. Cos’altro avevo se non una tomba su cui riversare le mie lacrime, soffrire come un cane e dannarmi, maledirmi per quello che ho fatto e per quello che non ho fatto. Urlare il mio anatema contro un assassino senza volto, senza nome, e certamente senza umanità. Un mostro; ecco contro chi riversavo il mio odio, chi calamitava la mia rabbia, la mia disperazione. Solo una cosa non mi era chiara, il mostro contro chi urlavo era il carnefice di Franceen oppure io? Io che l’avevo mangiata, io che non ho saputo difenderla, nonostante la promessa fattale dinnanzi a Dio quando al suo dito posi l’anello, pegno del mio eterno amore. Lo ricordo bene quel giorno, com’è ovvio che sia, le gambe che mi tremavano e la voglia di scappare, poi tutte le mie paure svanirono quando dall’altare, avvolta da un fascio di luce, la vidi entrare con il suo abito bianco, accompagnata da suo padre e venire verso di me. Donald, mio suocero, così come Diana, la mamma di Franceen, dal giorno del funerale non mi hanno più rivolto la parola, e quando fanno visita alla loro figliola, io mestamente, me ne sto in disparte. Li capisco, come potrebbero mai guardarmi negli occhi dopo quello che ho fatto?

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