Luna infelice

di Geneviev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Clotho ***
Capitolo 2: *** Lachesis ***
Capitolo 3: *** Atropos ***



Capitolo 1
*** Clotho ***


Luna infelice

 

 

La notte le entrava nei polmoni insieme all’aria che respirava affannosamente. Correva a perdifiato nella foresta, e nulla le rischiarava il cammino. Il cielo nero bucato di stelle se ne stava silenzioso oltre la corte di rami spettrali sopra di lei. Non poteva vedere che tenebre intorno a sé, e quegli occhi bianchi che la seguivano. Aveva braccia e gambe ormai coperte di graffi. Faceva freddo, dalla bocca le uscivano dense nuvolette di vapore, e aveva solo una pelliccia nera sulle spalle, e un vestito di cotonaccio grezzo.

Inciampò nelle bitorzolute radici e si lascò sfuggire un grido incontrollato. Il misero spicchio di luna appeso al cielo si liberò dalle catene delle nubi, un sorriso maligno. Si voltò per un istante, un solo momento per vedere due facce livide, sporche di terra, le zanne scintillare nel buio. L’istinto di sopravvivenza la face alzare e ricominciare a correre, con il panico nel petto.

Vide una casa oltre i tronchi neri degli alberi, in una piccola radura. Si scagliò contro la porta, cercando invano di aprirla, battendo poi i pugni sul legno spesso e segnato.

"Aiuto! Aiutatemi! Aprite vi prego!" urlava disperata. Fece appena in tempo a voltarsi verso la boscaglia per avvertire lo scricchiolare delle foglie sotto il peso di quelle ombre feroci, poi una mano la afferrò per il collo e si ritrovò dentro la casupola con le spalle contro la porta chiusa.

"Chi diamine siete?".

"Tessa" si affrettò a rispondere. Si ritrovò a fissare gli occhi verde chiaro di un ragazzo che era ormai un uomo, il pallido viso affilato incorniciato da nere spirali di capelli, illuminato da una candela.

"Ci sono dei demoni là fuori" balbettò lei, ancora spaventata. Il ragazzo la fissò in volto, terribilmente severo.

"Che demoni?".

"Zanne, hanno delle zanne... e gli occhi... completamente bianchi. Hanno il viso... la pelle del viso... tirata... ".

"Marcia" terminò lui per lei quel susseguirsi incerto di spiegazioni dettate dalla paura. Lei lo fissò terrorizzata. Lui la prese per le spalle e la spostò dalla porta, si diresse verso una credenza e prese un mazzetto di fiori secchi che era appeso a essa. Lo passò sopra la candela e questo si accese di una fiamma azzurra, prima che lo buttasse fuori dalla porta per poi richiuderla a chiave.

Passò un lungo momento di silenzio, in cui entrambi rimasero con le orecchie tese a sentire cosa succedeva. Tessa aveva faticosamente recuperato un respiro abbastanza normale, ma ancora il cuore le pulsava forte nella gola. Il ragazzo poi si voltò a fissarla, avvicinandosi a lei.

"Datemi una buona ragione per non uccidervi" sibilò con cattiveria. La giovane quasi inciampò in una pelle mentre indietreggiava.

"Vi prego... ".

"Quelli erano demoni zombie al servizio del Conte Mael... e voi li avete attirati nella mia terra. Che cosa ci facevate qui?".

"Io... ". Le tremavano le gambe, per la fatica e il terrore, tanto che riusciva a malapena a stare in piedi. Il ragazzo incrociò le braccia al petto.

"Ancora questa barbara usanza di mandare giovani vittime sacrificali nella foresta?". Era una domanda retorica e Tessa abbassò timidamente il capo. Il ragazzo rimase in silenzio a osservarla, studiandola.

"E quella dove l’avete rubata?" chiese lui indicando con un cenno del capo l’unica cosa addosso alla giovane che poteva avere un valore. La pelliccia che portava attorno alle spalle.

"Non l’ho rubata. Me l’ha data mio padre... prima che mi mandassero nella foresta" replicò lei titubante.

"Vostro padre è un uccisore di lupi".

"No. Mio padre è un pastore. Ha solo... difeso il gregge dai lupi affamati dell’inverno". Il ragazzo annuì senza dire nulla.

"Domani mattina dovrete essere fuori da questa casa" sentenziò, avviandosi verso una porta alla sua sinistra che dava accesso a una camera.

"Ma se torno nella foresta, mi uccideranno" protestò subito la ragazza, con le lacrime che le salivano agli occhi.

"Non sono problemi miei".

"Mi avete salvato... " gli fece notare, timorosamente.

"E sto iniziando a pentirmene" disse fissandola freddamente, poi sparì di là della porta. Riapparve dopo poco con una coperta in mano, la superò senza guardarla e gettò ciò che aveva preso sulla panca ricoperta di cuscini sciupati.

"Potete dormire qui". Si diresse nuovamente verso la camera.

"Addio" terminò, sbattendo la porta.

"Grazie... " riuscì lei a sussurrare fra le labbra, troppo tardi e troppo piano.

Quella notte Tessa non riuscì a chiudere occhio, ma si avvolse nella coperta, tenendo la pelliccia sulle spalle. Faceva davvero freddo e presto sarebbe arrivato l’inverno gelido. Non poteva tornare nella foresta all’alba, sapeva che sarebbe morta con le tenebre, se non prima, e non poteva tornare al villaggio perché l’avrebbero linciata. Non aveva più nulla, aveva perduto ogni cosa, ogni certezza e ogni speranza. Non sapeva nemmeno dove si trovasse esattamente, aveva vagato fra gli alberi e i cespugli per chissà quante ore.

La luce del sole già rischiarava il cielo e il ragazzo che l’aveva salvata uscì dalla stanza, l’unica altra stanza della casa oltre a quella in cui si trovava lei.

"Siete ancora qui" commentò con evidente irritazione nella voce profonda. Tessa scattò in piedi.

"Vi prego, io... ".

"Non me ne importa niente di voi, vi avevo detto di andarvene senza farvi rivedere".

"Non posso andare da nessuna parte... vi prego, tenetemi con voi".

"Cosa?" sembrava sinceramente sconcertato.

"Potrei pulirvi la casa, preparare da mangiare... ". Il ragazzo avanzò verso di lei superandola in altezza di diversi centimetri.

"Cosa vi fa credere che mi serviate a qualcosa? Sono vissuto benissimo fino ad ora da solo e così continuerà a essere".

"Vi prego... vi darò la pelliccia" cercò di convincerlo lei, togliendosela dalle spalle per porgerla. "Posso lavare i vostri vestiti, rammendarli... badare alla casa... preparare da mangiare" ripeté nel disperato tentativo di convincerlo. Lui sembrò sorridere, seccato, ma scosse il capo.

"Bene. Allora potete iniziare a pulire la cucina. Ma non dovete toccare quella credenza" spiegò severamente lui, indicando il mobile a cui erano appesi alcuni mazzetti di fiori secchi, e su cui erano poggiati diversi barattoli di legno. "E non dovete entrare nella mia camera se non per nettarla, e soprattutto non dovete fare mai nemmeno una domanda, parlare solo se interpellata". Tessa annuì.

"Se farete qualcosa di sbagliato non esiterò a tagliarvi la gola". Il ragazzo le prese di mano la pelliccia e lei si diresse verso la cucina per tener fede alla parola data.

Il ragazzo le mostrò il fiumiciattolo che scorreva a poco meno di cinque minuti di cammino dalla casa, e i cespugli di bacche e alberi da frutto che si trovavano sul cammino, ma poco o niente si poteva trovare in quel periodo dell’anno. Le provviste erano tenute nella cassapanca accanto al tavolo e nel mobile della cucina, accanto a vecchie bottiglie di vino e di sidro. Lui ammassava la legna, andava a caccia di lepri e pernici e lei cucinava e faceva seccare la carne in vista dell’inverno, cuciva i vestiti e lavorava la maglia. Non parlava mai, come le era stato ordinato, anche se avrebbe tanto desiderato sapere almeno il suo nome.

 

 

... to be continued ...

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Capitolo 2
*** Lachesis ***


...

 

La tempesta batteva sulle finestre spesse pioggia e neve e nell’aria gelida correva l’ululato dei lupi feroci. Erano passati ventuno giorni dal suo arrivo, ed era una notte di ormai inizio inverno. Tessa tremava nel giaciglio fatto di cuscini di paglia, coperte e pellicce, sopra la panca vicino al caminetto.

In quel momento di angoscia e paura decise di infrangere la seconda regola e andò nella stanza, tremante e infreddolita, spaventata dall’ululato del vento che non copriva l’ululato dei lupi. Si avvicinò al letto, dove lui era sopito, osservandolo nella penombra che permetteva la luce creata dalla bufera di neve.

"Signore... " lo richiamò titubante.

"Mmh" fu la mugugnata risposta che ottenne.

"Posso rimanere qui?".

"Sparite immediatamente dalla mia camera" rispose lui, con la voce impastata dal sonno.

"Vi prego".

"Mmh... tappatevi quella bocca e dormite" disse categorico, poco incline a svegliarsi per quella sciocchezza. La ragazza si raggomitolò come un micio sotto le coperte, accanto a lui, e dopo un po’ riuscì ad addormentarsi.

Il mattino la luce debole del giorno imminente che filtrava dai rami e dall’atmosfera invernale rischiarava la stanza e il corpo della ragazza addormentata, i capelli biondi attorno al suo viso, mentre ancora la neve farinosa si abbatteva sulle finestre. Il ragazzo si limitava a fissarla in silenzio.

Era a petto nudo, nonostante il freddo, e la sua pelle era calda. Il suo braccio sinistro era completamente coperto da un’orribile scottatura che gli arrossava la pelle e lo deturpava dalla spalla al polso, e parte del dorso della mano. Si alzò per rivestirsi, ma Tessa si era svegliata a sua volta e lo stava fissando con i grandi occhi color miele.

"Niente domane, e uscite immediatamente dal mio letto" sentenziò freddamente lui, quando tornò a fissarla. La ragazza abbassò timidamente lo sguardo e scivolò fuori dalle lenzuola ruvide.

Quando furono seduti a tavola più tardi, immersi nel solito silenzio solo più teso, Tessa decise che poteva azzardarsi a infrangere la terza promessa fatta per poter rimanere in quella casa.

"Che cosa...?" iniziò, ma non poté finire. La punta del pugnale che si conficcava nel legno del tavolo troncò di netto le sue parole.

"Ho detto niente domande. Sapete che non amo ripetermi" disse freddo come la neve. La ragazza sospirò rabbrividendo.

"Posso almeno sapere il vostro nome?" osò ancora. Lui non rispose, le lanciò un’occhiata sinistra e avendo finito di consumare il pasto si alzò dalla sedia. La giovane non ne rimase turbata, ormai fin troppo abituata a vivere in quel modo. Lo vide sparire nella sua stanza con l’umore cupo di una belva pericolosa e si mise a svolgere le sue faccende. Solo quel pomeriggio il ragazzo riapparve.

"Starò via per tre giorni".

"Cosa? Mi... mi lasciate qui sola... per tre giorni? Perché?" chiese evidentemente turbata.

"Mi pare abbastanza chiaro quello che ho detto" replicò lui freddamente spazientito. Alzò una mano per prenderle il mento fra le dita.

"State diventando disubbidiente". La sua voce era crudele, ma non quanto il suo sguardo. Tessa si sentì dilaniare da quegli occhi verde chiaro. E nonostante quella morsa fosse a suo modo malvagia, non riuscì a non pensare che la sua mano fosse calda.

Uscì dalla porta senza dire nulla, ma quando fu oltre la soglia si voltò a fissarla ancora, mentre lei si avvicinava, attirata da una qualche forza.

"Non uscite da questa casa se non per una ragione più che valida, e di notte rimanete assolutamente chiusa dentro. Chiaro?". La ragazza annuì all’ordine e lo vide incamminarsi fra gli alberi.

Si sentì abbandonata e aveva paura, perché quella notte, gli ululati dei lupi sembravano essere più forti e feroci, così come le due notti seguenti. Era tormentata dal dubbio, dalla curiosità di sapere dove il suo anfitrione se ne fosse andato, e soprattutto se sarebbe tornato davvero. La seconda notte in cui dormì sola nel suo letto, sentì distintamente qualcuno battere, o meglio graffiare alla porta e si rintanò sotto le pellicce tremando, convinta di vivere un incubo, prima che i tuoni iniziassero a distruggere il cielo nero.

La mattina del terzo giorno batterono alla porta, e la voce del ragazzo suonò feroce e stanca allo stesso tempo, mentre le diceva di aprire.

Quando lo fece, si presentò al suo sguardo un ragazzo ormai uomo, dal viso pallido, i vestiti a brandelli e il fianco sinistro insanguinato. Si teneva una mano sulla ferita e barcollò nell’entrare, senza stivali ai piedi, sporco di terriccio.

Tessa lo portò nella sua stanza e si procurò acqua bollente e pezze pulite per medicarlo. Era un evidente morso, forse di un lupo o di un orso, e le zanne della bestia avevano scavato con violenza nella carne. Aveva perso i sensi e la sua pelle scottava. In preda al panico la ragazza decise di infrangere la prima promessa, e rovistò nella credenza nella speranza di trovare qualche unguento o qualche erba medicamentosa. Fortunatamente fra la moltitudine di cose che non sapeva riconoscere e svariati vecchi libri rilegati in pelle, trovò qualcosa di utile. Riuscì a prendersi cura di lui, che sembrava guarire velocemente.

Quando il ragazzo si svegliò dopo tre giorni, si ritrovò nel suo letto, il torso fasciato da bende bianche. Le lenzuola erano macchiate del suo sangue sbiadito e sul comodino accanto a lui c’era una scodella di zuppa ancora calda. La fanciulla era seduta sulla sedia, con una gamba piegata e la testa poggiata al ginocchio, dormiva. Si limitò a fissarla, muto.

Sopraffatto poi dalla fame, si avventò sul pasto. Quando finì si alzò in piedi, nudo come un verme, costatando che il dolore al fianco era minimo e facilmente sopportabile. Si avvicinò alla ragazza per carezzarle i capelli. Il suo delicato viso era pallido, e sfiorandole la fronte si rese conto che aveva poca febbre. Per prendersi cura di lui si era ammalata. La prese in braccio e la portò a letto, adagiandola lontano dalla chiazza rossa.

"Avete la febbre alta" mormorò lei svegliandosi.

"Shhh" le sussurrò lui, posandole l’indice sulle labbra. "Anche voi".

Tessa allungò una mano affusolata, per posarla sulla guancia di lui, la poca barba cresciuta per la trascuratezza. Per un infinito secondo si fissarono negli occhi. E nonostante lui sentisse l’impulso di saziarsi di lei, le accarezzò la mano, prima di andare ad alimentare il fuoco che stava spegnendosi.

La ragazza si risvegliò nel tepore della stanza, si rigirò nel letto e osservò il ragazzo, sdraiato accanto a lei, intento a leggere un libro. Lui si voltò a fissarla e senza dire nulla allungò il braccio sano verso di lei, così che potesse poggiare la testa alla sua spalla.

"Come state?" chiese Tessa, posando delicatamente la mano sulla benda bianca.

"Bene" fu la laconica risposta. Il silenzio tornò a regnare, teso, poiché la ragazza avrebbe voluto parlare, domandare.

"Avete frugato nella credenza" disse lui severamente. La ragazza non rispose, alzò gli occhi per osservarlo in viso, poi tornò a guardare la sua mano che carezzava la fasciatura. Respirò il profumo selvaggio della sua pelle che sapeva di alloro, e che era così piacevolmente calda. Si sentiva bene in quel momento.

"Rulfeus" disse lui. Lei lo fissò con aria interrogativa.

"E’ il mio nome". Tessa lo osservò ancora in viso, poi s’issò per avvicinare le labbra alle sue. Quando le sfiorò, erano calde e buone, si dischiusero per rispondere al suo bacio con eccessiva delicatezza. La mano della ragazza risalì scorrendo sul suo petto, fino a fermarsi al lato del suo collo, le dita che si tuffavano nei suoi capelli neri, e l’emozione del momento cresceva con l’intensità di quel bacio.

Di colpo lui la allontanò da sé, premendole le dita sul braccio tanto forte da farle quasi male. La fissò negli occhi, con occhi freddi e severi e lei non riuscì a reggere quello sguardo.

Il ragazzo si alzò dandole freddamente le spalle, rimanendo immobile fissando a terra, prima di rivestirsi, e lei scivolò fuori dal letto per tornare nell’altra stanza. Non si sentiva ancora molto bene, ma voleva preparare qualcosa per la cena e non pensare a cosa fosse successo. Si poggiò al piano, togliendo il panno dal tozzo di pane raffermo, ma chiuse gli occhi sentendo un moto di nausea sconvolgerle l’equilibrio.

"Tornate a letto". La voce di Rulfeus suonò lontana e severa, ma Tessa non riaprì gli occhi per scoprire dove fosse e come la stesse guardando. Le girava la testa non solo perché la febbre non l’aveva lasciata, ma perché era sconvolta dalle rivelazioni che si palesavano alla sua mente.

"State lontano tre giorni, con la luna piena..." iniziò lei aprendo gli occhi, andando a fissare fuori dalla finestra, le cime degli alberi innevati, colpiti dal sole rosso del tardo meriggio.

"E tornate...". Una morsa ferrea al suo braccio la costrinse bruscamente a voltarsi.

"Non fatevi troppe domane e non datevi alcuna risposta. Non so per quale ragione non vi abbia tagliato la gola il primo giorno che siete arrivata invece di accogliervi in casa mia, ma vi avevo avvertito che se aveste fatto qualcosa di sbagliato non avrei esitato. Ora vi esorto a non fare elucubrazioni su di me". La ragazza era sconvolta e schiuse la bocca per replicare, ma Rulfeus la fermò.

"Vi ringrazio per avermi curato, siete stata gentile e premurosa" aggiunse con un lieve sorriso che pareva quasi un ghigno, tutto fuorché rincuorante, quasi fosse seccato del debito.

"Ma se davvero ci tenete alla vostra vita vi consiglio di non iniziare nemmeno discorsi di cui potreste pentirvi, e soprattutto di obbedire ai miei ordini". La ragazza non fece in tempo a riempire d’aria i polmoni, per rispondergli, stanca di stare in silenzio, che la presa della mano di Rulfeus sul suo braccio si fece dolorosamente più decisa andando a troncare in partenza una frase di cui probabilmente si sarebbe pentita.

"Voi non mi servite a niente. Siete solo l’ultimo rimasuglio di caritatevole generosità che è rimasta in me, non approfittate della buona sorte. Ora andate a letto, non voglio che la vostra malattia intacchi la mia cena" disse categorico e arcigno, prendendo il coltello che sarebbe stato usato per tagliare il pane e conficcando la punta nel ripiano di legno.

Tessa abbassò lo sguardo, muta e immobile, per qualche secondo in balia dello sconforto, poi quando lui le permise di andarsene, tornò in camera.

 

 

... to be continued ...

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Capitolo 3
*** Atropos ***


 

...

 

L’inverno si era agiatamente accomodato sul suo trono, avendo trovato al suo arrivo il paesaggio già imbandito di neve. Le temperature erano rigide, ma il bosco non piangeva di disperazione, solo durante la notte si abitava dei più sinistri rantoli e guaiti.

Tessa aveva preso l’abitudine di dormire nel letto con Rulfeus, ma se possibile erano diventati entrambi più silenziosi di prima. Se la ragazza avesse avuto la forza di alzare lo sguardo avrebbe notato che lui passava molto tempo a fissarla. L’aria era tesa, come se qualcosa incombesse sulle loro vite, come se stessero aspettando qualcosa che mai arrivava.

Arrivò il plenilunio, e come il mese precedente il ragazzo si preparò a lasciare la sua dimora, provvisto di diversi vestiti pesanti e di due lunghi pugnali. Entrambi in quel momento avrebbero voluto esprimere in parole i loro pensieri, ma rimasero in silenzio, finché lui prese il viso della giovane fra le mani e fissò i suoi occhi color miele per un lungo momento.

"Ogni volta, da dieci anni, mi addentro nella foresta senza nulla per cui valga la pena tornare... ma mi rendo conto di aver vigliaccamente sprecato tempo, di non essermi goduto i miei giorni nemmeno quando si è presentata l’occasione" le disse. Tessa lo guardò senza dire nulla, con lo sguardo pieno di languore, prima che il ragazzo si staccasse da lei.

"Tornate" lo pregò afferrandolo per un braccio. Rulfeus annuì, poi le si avvicinò per premerle le labbra sulla fronte.

Tessa sapeva che gli ululati sarebbero stati più crudeli nelle tre notti a venire e si avvolgeva nelle coperte e nella pelliccia davanti al fuoco, pregando, ma il fatto terribile accadde la terza notte.

Qualcuno, qualcosa, continuava a girare attorno alla casa emettendo bassi e minacciosi ringhi, fino a quando non iniziò a colpire le pareti esterne, ruggendo. La ragazza si barricò dentro, sigillando le finestre e la porta con assi di legno. Tremava piangendo in silenzio, fissando l’uscio, sentendo dai suoi latrati affannosi che quella creatura bestiale aveva capito che quello era l’accesso per entrare. E voleva farlo.

Il cuore le sembrò fermarsi quando vide la superficie lignea della porta incrinarsi agli artigli del mostro. La disperazione aveva ormai preso il sopravvento e dopo altri potenti colpi la porta fu abbattuta.

La bestia entrò ruggendo, passando a stento dall’uscio, mostrando le zanne arcuate e affilate, che sembravano esser fatte d’acciaio color avorio. Il muso lungo di un canide in preda all’idrofobia, le orecchie piccole tese all’indietro sulla testa e feroci occhi gialli. Si reggeva sulle zampe posteriori, più corte e magre di quelle anteriori, ed era alta più di due metri. La sua corporatura massiccia era spaventosa. Era ricoperta da una fitta pelliccia scura, quasi nera, all’infuori dell’arto anteriore sinistro, che appariva muscoloso, la pelle ustionata e lucida piena di piaghe fra sporadici peli rovinati.

Fendette l’aria mancandola di poco, i lunghi e acuminati artigli simili a lame sulle zampe che avevano qualcosa di umano. La ragazza urlò terrorizzata cercando di fuggire da quella belva inferocita, mentre le unghie di questa impattavano rumorosamente sul pavimento della casa. La sua massa corporea, per quanto impressionante, gli permetteva comunque gesti fulminei, ma nell’impeto della furia, distrusse tutto ciò che poteva distruggere nel tentativo di sbranare la povera fanciulla, riuscendo a ferirla sulla spalla destra.

Miracolosamente Tessa riuscì a fuggire dalla finestra della camera, mettendosi a correre a perdifiato nella foresta nera come pece, le chiazze argentate della luna piena che a fatica filtravano attraverso i rami. La bestia troppo grossa rimase ostacolata da quello che restava della finestra dopo i suoi colpi, così da permettere un minimo di vantaggio alla sventurata.

La ragazza inciampò e cadde poco distante dalla riva sassosa del fiumiciattolo, le ginocchia ferite piansero sangue sul terriccio bagnato e gelido. Sentiva l’aria buia del bosco densa di rumori inquietanti, e non sapeva se sarebbe stata mangiata da qualcosa che proveniva dietro o davanti a lei, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. In quell’istante, oltre la sponda del fiume, vide distintamente alla luce della luna dei volti deformati, la pelle marcia attorno a occhi bianchi, pronti ad avventarsi su di lei.

La bestia che la stava rincorrendo la superò con un balzo, prendendo fra le mascelle la testa di uno di quei demoni e la divelse dal corpo, che cadde inanimato, e gli altri si scagliarono sul suo corpo enorme, prima di essere sbranati.

Tessa si alzò a fatica e ricominciò a correre, risalendo lo scorrere del fiume, per allontanarsi il più possibile. Inciampò ancora nell’acqua ghiacciata e si abbandonò a un pianto di sconforto, tastandosi la spalla ferita, arrendendosi al fatto che sarebbe morta senza rivedere la luce del sole.

"Povera piccola". Una voce profonda e pacata giunse da un punto molto vicino a dove si trovava. Aprì gli occhi e vide un uomo di fronte a lei, piegato sulle ginocchia. Aveva lunghi capelli biondi e occhi azzurri, tanto chiari da sembrar bianchi, e pelle candida come latte. Aveva un’aria così tranquilla, un atteggiamento sicuro in quell’inferno notturno di belve spietate, e l’aspetto nobile forse conferito dalla giacca rosso scuro.

La aiutò ad alzarsi, e lei non fece in tempo a chiedergli chi fosse, troppo terrorizzata. La bestia che la inseguiva li raggiunse e si fermò a ringhiare ferocemente a poca distanza da loro, con il muso imbrattato di sangue scuro. L’uomo che aveva incontrato si abbandonò a una sommessa risata, gustandosela.

"Che piacere rivederti". La sua voce era diventata così malvagia, che Tessa rabbrividì e fece per allontanarsi da lui, ma la delicata presa che l’uomo esercitava sul suo braccio si fece crudele. La ragazza fissò la belva che sembrava fissare lei, mentre l’uomo scuoteva debolmente la testa.

"Lei è la mia vittima" sussurrò con un che di divertito nel tono, come se la bestia avesse detto qualcosa di comprensibile con il suo ruggito. La ragazza si dimenò nel tentativo di liberarsi, e l’uomo la lasciò solo per stringerle la mano attorno al collo con un gesto fulmineo. In quell’istante la belva si gettò su di lui con le fauci spalancate, ma l’uomo colpì il suo fianco con scioccante potenza da far sbattere la sua carcassa gigantesca contro l’enorme tronco di un albero e farle perdere i sensi con un guaito.

La ragazza si coprì la bocca con le mani, trattenendo un grido fra le labbra fissando la scena esterrefatta, poi fu presa in braccio dall’uomo, avvolta in una morsa ferrea, e fu portata lontano da quel luogo.

L’alba giunse lentamente, gelida come lo stesso inverno che regnava, scoprendo il corpo nudo e bagnato del ragazzo, che era quasi un uomo, steso sulle radici di un abete inzaccherate di neve. Si alzò stordito e dolorante, guardandosi attorno, tenendosi le braccia rabbrividendo.

Conoscendo la foresta come il palmo della sua mano, si accorse di essere più vicino a casa di quanto pensasse. Corse fra i mucchietti bianchi di neve ammassata e i rovi taglienti di ciò che restava dei cespugli. Arrivato alla casa, infreddolito, vide la porta abbattuta, le pareti esterne segnate da profondi tagli paralleli. Si precipitò dentro per vedere cosa fosse successo.

La porta era divelta e ormai solo un insieme di assi fibrose, sugli stipiti erano presenti gli stessi segni inquietanti. All’interno non vi era altro che confusione, il tavolo fracassato a metà, le sedie rotte e rovesciate, le tende strappate, tappeti lacerati. I barattoli che stavano sulla credenza erano a terra, e sul pavimento, insieme ai segni lucidi delle unghiate e alle noci nei cocci del vaso in terracotta, c’erano polveri e spezie, candele spaccate a metà e gocce di sangue.

Gli occhi verdi del ragazzo si allargarono per lo stupore, il terrore. Corse nella camera ma lo spettacolo non cambiava. Quello che rimaneva del letto era un lenzuolo squarciato in diversi punti da cui uscivano paglia e piume, con la spalliera graffiata. C’erano pagine sparse di libri a brandelli, le ante dell’armadio erano sfondate, e la finestra distrutta.

"Tessa!" chiamò, andando a recuperare dei vestiti con cui coprirsi. La cercò con apprensività, chiamandola e frugando in ogni dove. Poi uscì per cercarla nel bosco, invocando il suo nome, ma senza alcun successo.

Quando fece nuovamente buio, tornò verso casa, mesto e sconfitto, senza più voce né speranza, anche se della casa non rimaneva molto di integro, e lui non si era preoccupato minimamente di rassettare. Rimase per un lungo momento a fissare la credenza, la sua immagine riflessa nel vetro spaccato, dietro cui s’intravedevano i pochi barattoli sopravvissuti. Si chiedeva che cosa fosse successo, ed era tormentato. Poi in quel riflesso, dietro le sue spalle, vide l’esile figura di Tessa vestita di bianco, il bel viso carico di angoscia.

Si voltò di scatto, ma non c’era che desolante umidità in quella stanza caotica, illuminata dalla luce lunare che entrava dalle finestre e dalla porta abbattuta. Si passò una mano sul viso spossato, poi si adoperò per sistemare almeno la soglia, rimettendola in verticale. Si avvicinò al camino per accendere il fuoco e si sdraiò in posizione fetale sulle pelli e le coperte ammonticchiate sul pavimento impolverato, poggiando la testa all’unico cuscino della panca che non era stato smembrato, e si addormentò.

"Avevi un’unica occasione di riscattare te stesso e te la sei lasciata sfuggire" gli disse un uomo dal nobile portamento e dall’aspetto barbaro, il viso tondo ornato da una fitta barba color acciaio, come i capelli corti. "Avresti potuto essere felice per una volta, e ti sei limitato a fissarla in silenzio. Non le hai mai detto la verità, ma forse è perché hai sempre cercato di negarla anche a te stesso. Eppure eccoti qui a torturarti l’animo, chiedendoti che fine abbia fatto l’unica persona che abbia mai avuto importanza nella tua vita".

"Che cosa vuoi, padre?" chiese lui con voce carica di strazio.

"Io sono la tua coscienza". Si dissolse come una nuvola di fumo, lasciando dietro di sé solo tenebre e disperazione.

"Siete stato voi!" lo accusò la voce di Tessa, che lo fissava con gli occhi color miele arrossati e pieni di lacrime, mentre si teneva la spalla destra. Non sembrava arrabbiata, quanto più delusa, ma non fece in tempo a replicare in alcun modo.

Diverse paia di mani nere lo afferrarono e lo obbligarono a sdraiarsi su un tavolo, e nulla poteva contro quegli artigli partoriti dal buio, per quanto cercasse di divincolarsi gridando il nome della ragazza che veniva inghiottita dall’ombra. Olio bollente fu riversato sul suo polso sinistro in uno schizzo di gocce ustionanti e un urlo agghiacciante eruppe dalla sua gola, tanto insopportabile era il dolore che saliva dal suo braccio fino alla spalla. Pensava che sarebbe morto, ma in quel momento una risata divertita lo fece tornare al suo stato cosciente. L’uomo dalla giacca rosso scuro, e dai capelli e dagli occhi tanto chiari da sembrar bianchi, lo teneva per la mascella, premendo le fredde dita sulle sue guance.

"Rulfeus, sei solo una pedina nelle mani del destino beffardo" gli disse con tono sommesso e arrogante. Lo lasciò e lui non era più legato a un tavolo, ma era inginocchiato a terra con le catene ai polsi e al collo.

"Che tu sia maledetto, Mael" gli sputò in faccia con sdegno.

"Esattamente come te". L’uomo sorrise con malignità, poi si scostò facendo un gesto plateale, tenendo un braccio teso. Dalle ombre avanzò Tessa, abbellita dall’abito bianco, ed era come se le ombre non volessero lasciarla andare, aggrappandosi a lei come perfidi tentacoli. Mael le circondò le spalle con un braccio e le baciò i capelli biondi, senza staccare gli occhi di ghiaccio dal ragazzo. Tessa si portò le mani al ventre e un fiotto abbondante di sangue le macchiò il vestito colando verso il basso, mentre una linea rossa si disegnava sulla sua spalla destra e dal suo collo iniziava a sgorgare copiosa linfa vitale imbrattandole completamente il petto di lucente liquido rubino.

"Aiutatemi" lo implorò piangendo.

"Tessa!" gridò lui, il corpo teso scattò verso di lei nel desiderio di salvarla, e le catene si spezzarono. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di... ma lei stava morendo dissanguata davanti a lui, troppo velocemente, troppo dolorosamente da poterlo sopportare, da poterlo permettere.

Si svegliò di soprassalto, con il fiato corto e un peso sul petto, la mente ottenebrata da nefandi pensieri, brandelli marcescenti del sogno ancora oltremodo vicino, così orribilmente vivido. Piantò gli occhi verdi sul mucchio di braci incandescenti che indugiavano nel camino, come se fosse paralizzato, poi s’issò, afferrò la pelliccia nera e si precipitò fuori.

Aveva ricominciato a nevicare. Perfette e minuscole strutture candide vorticavano nell’aria gelida, precipitando con lentezza straziante su un terreno sconsolato. La foresta nera era rischiarata dalla luce argentata della luna che la notte precedete era stata piena. A grandi passi Rulfeus si dirigeva verso il centro dell’enorme macchia boscosa, che si faceva sempre più fitta e culla di sempre più temibili creature. Là dove era stato rinchiuso e torturato.

Non fece in tempo a elaborare un piano razionale, nemmeno a ragionare sui fatti con mente lucida, non sapeva cosa stava facendo. Non ebbe nemmeno bisogno di raggiungerla quella lugubre fortezza abbarbicata sui picchi rocciosi in mezzo al burrone che si apriva fra gli alberi.

Tessa era lì, sdraiata nella neve, con la gola squarciata.

Una scia rosso cupo le sporcava la veste bianca e le braccia, scendendo dal collo fino alle cosce, formando una piccola pozza scarlatta sul palmo della mano abbandonata. La sua pelle era tanto cerea da confondersi con la neve, i piedi nudi adagiati su essa. Il viso era candido di morte, coperto da alcune ciocche di capelli inspessiti e scuriti dall’umidità. Le labbra, che erano sempre state rosee, ora erano scomparse, e gli occhi erano chiusi in un perenne sonno.

Il ragazzo si avvicinò a quella macabra visione come se stesse camminando in un incubo, con il respiro pietrificato. S’inginocchiò accanto a quell’angelico pallore imbrattato di troppo sangue, poi allungò una mano per scostarle i capelli dal volto, per accarezzarle con i polpastrelli le guance fredde. Le mise una mano dietro la nuca mentre con l’altra le alzava le spalle per avvicinarla a sé e cingerla in un abbraccio, tenendo il suo corpo morto sulle ginocchia.

Alzò gli occhi verde chiaro verso la luna quasi tonda, che osservava da dietro i rami nudi e neri degli alberi. Sentiva l’ululato del vento dentro di sé, l’eco terrificante del nulla. E rimase immobile, mentre i lupi si avvicinavano cauti, consci e rispettosi di quel dolore muto.

 

 

 

Fine.

Recensite, palese!

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