Soldier's Poem

di manubibi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Conscription ***
Capitolo 2: *** Plymouth ***
Capitolo 3: *** Going To France ***
Capitolo 4: *** First Battle ***
Capitolo 5: *** Death ***
Capitolo 6: *** Black Holes And Revelations ***
Capitolo 7: *** Animal ***
Capitolo 8: *** The Modern Abraham ***



Capitolo 1
*** Conscription ***


“BRITONS – WANTS YOU – JOIN YOUR COUNTRY’S ARMY – GOD SAVE THE KING”

 

Dominic gettò la sigaretta nel posacenere, schiacciandola con forza in segno di disapprovazione.

Quel manifesto era stato stampato anche per lui: alla leva non sfuggiva nessuno, neanche in un paesino insignificante come Teignmouth. Guardò suo zio, che teneva fra le mani quel foglio ingiallito con la faccia baffuta di un personaggio di fantasia che lo indicava direttamente, e glielo mostrava con forte aspettativa e un’espressione che si potrebbe descrivere come “folle”.

-Ragazzo, lo Stato ha bisogno di te! Difendi la reputazione del nostro Paese!

Quello, più o meno, era il ritornello di quei giorni un po’ ovunque, specialmente nelle zone dove il partito laburista era in maggioranza, partito del quale lo zio Albert era, per usare un eufemismo, affezionato.

Il patriottismo fanatico inglese, una piaga sociale.

Dominic sbuffò e alzò gli occhi al cielo con aria frustrata.

-Certo, finché ci vado io è un dovere, giusto?-, replicò con un tono di sfida, ghignando sarcastico.

Zio Albert si accigliò indignato, arrossendo di rabbia.

-Come osi rispondermi così?-, urlò, schiaffeggiandolo con forza.

-Albert!-, ruggì immediatamente il padre, uscendo di casa e prendendolo per il polso. –Non osare mai più alzare le mani su mio figlio!

Dominic tremava di rabbia, con il collo ancora girato di lato per la violenza dello schiaffo e i segni delle dita che cominciavano a disegnarsi in rosso sulla guancia. Più che il dolore bruciava l’umiliazione. Eppure neanche lui, da sempre ribelle e orgoglioso, aveva il coraggio di reagire. Zio Albert era diventato uno dei più importanti esponenti del partito Labour in Devon, quindi portava onore alla famiglia; William invece era considerato la mela marcia, perché la sua impresa di estrazioni minerarie era fallita molti anni prima ed ora era un semplice artigiano, uno come tanti altri. Non portava lustro a nessuno.

Perciò zio Albert si sentì in diritto di assestargli un pugno li berandosi dalla sua presa.

Dominic rimase pietrificato per qualche secondo, poi arrossì allo stesso modo dello zio, i suoi occhi chiari si incendiarono e si gettò contro di lui con un urlo, cercando di colpirlo al viso, ma l’altro fu più veloce e lo bloccò con forza.

La madre, che era accorsa a sua volta, guardava impotente ma chiuse gli occhi mentre suo figlio veniva picchiato con la violenza che solo l’ideologia è in grado di infondere, chiuse gli occhi per non piangere.

-Dom, mi dispiace-, disse William poi, una volta deciso che il ragazzo si sarebbe arruolato.

-Non è colpa vostra, padre-, rispose. Aveva un occhio nero e svariati lividi, ma quello era il meno – la ferita peggiore era dentro di lui, nel suo orgoglio, e bruciava. Ma accettò con rassegnazione il suo destino, di dover partecipare ad una guerra della quale non gli importava nulla. La Gran Bretagna si era infilata nel conflitto quando la Germania aveva invaso il Belgio, stato neutrale e per di più affacciato sulla Manica…troppo vicino.

-Maledetti tedeschi-, mormorò cupamente accendendosi un’altra sigaretta e guardando il cielo scuro fuori dalla finestra.

-Quindi…domani vai ad arruolarti?-, domandò la madre, con la voce che tremava. Solo una madre può capire quanto disperatamente desiderasse che la risposta fosse “no”.

-Cos’altro posso fare, mamma? Se diserto mi vengono a prendere.

Gli fece troppo, troppo male vederla piangere. Non poteva restare lì.

Si girò e si rifugiò in un bosco fuori dal paese, sotto un grande e vecchio albero avvizzito che si ripiegava su sé stesso fino a toccare terra coi rami spogli, sotto il sole di Agosto. Una volta era rigoglioso, e la sua chioma era il perfetto nascondiglio per Dominic, che aveva otto anni e nascondeva in un buco nel tronco tutti i suoi piccoli tesori: monete, conchiglie raccolte sulla spiaggia, pagine di libri, la fionda con i proiettili e altri piccoli oggetti. Infilò una mano nel buco e ne estrasse un vecchio disegno polveroso che ritraeva a tratti infantili tutta la famiglia Howard. C’era anche zio Albert. Quando non era un pazzo fanatico.

Bruciò il disegno guardandolo accartocciarsi impassibile. Quel passato era morto, e ormai anche lui.

Tornò a casa per cena poco dopo, con la stessa espressione vuota e il cuore che batteva solo per necessità biologica, mangiò poco e andò a letto senza una parola.

Quella notte non dormì, la passò tutta a fissare il soffitto cercando di non pensare, ma quello era inevitabile, quello nessuno poteva impedirgli di farlo.

 

Christopher gettò distrattamente a terra l’ennesima bottiglia di whisky, ruttando e grattandosi la pancia con aria assente. Le sei di mattina ed era già ubriaco.

-Oggi vado a…alluolammi-, annunciò con la bocca impastata, e andò a sbattere contro un muro. La madre lo guardava tristemente rassegnata.

-Chris, smettila di bere-, gli disse per l’ennesima volta, ma lui sembrò non sentirla e lei non sembrava aspettarselo.

-…a…arruola…r…mi-, si corresse lui, inciampando sui suoi stessi piedi. Non c’era niente in quella stanza che non girasse, cazzo.

-Vado a tirare via quelle maledette erbacce-, borbottò poi, caracollando verso l’uscita della piccola casetta.

Da quando papà era morto aveva dovuto aiutare la madre a prendersi cura degli altri nove fratelli e di quei maledetti campi che producevano a malapena il cibo necessario a sfamare tutta la famiglia, e le rare volte in cui producevano delle eccedenze il guadagno se lo beveva al pub con “quei quattro porci dei tuoi amici”, come diceva mamma.

Christopher beveva per non farsi toccare dal pensiero che non aveva futuro, non in Inghilterra. Non c’era niente a Teignmouth, nessuna applicazione per la mente. Perché da ubriaco non lo dimostrava, ma sapeva di essere intelligente, di avere delle potenzialità. Quando andava a scuola non aveva nessuna difficoltà di apprendimento, e la cosa peggiore era che a lui piaceva imparare, e gli era piaciuto leggere i pochi libri sui quali era riuscito a mettere mano. Beveva per non pensare a quanto desiderava conoscere.

E invece di usare le mani per sfogliare quei bei libri e toccare la carta ruvida e porosa che pareva tanto confortevole, doveva adoperarle per strappare i frutti della terra. Ma finché l’alcol gli inibiva i sensi poteva fare il bifolco e accettare di andare in guerra.  Forse la morte gli avrebbe dato un po’ di serenità.

Dopo un paio d’ore si asciugò la fronte e rientrò in casa, di nuovo sobrio.

Approfittò della possibilità di lavarsi, perché chissà quando avrebbe avuto la possibilità di farlo, sul fronte.

Poi prese un sacco, lo riempì delle cianfrusaglie necessarie, salutò i fratellini e le sorelline e la madre in lacrime, poi partì col vino che scorreva nelle vene.

 

-Nome?-, abbaiò il Generale McKelley.

-Robert Winston O’Donnell, signore-, rispose prontamente il ragazzo davanti a lui.

-Sei malato?-, continuò l’altro senza guardarlo.

-No, signore.

-C’è altro che dovrei sapere?-, aggiunse il Generale, scrivendo su un registro.

-Non credo, signore.

-D’accordo, vai avanti.

Il ragazzo, camminando a passo marziale, era evidentemente ansioso di combattere.

-Tu?-, chiese il Generale in tono scocciato. Era da tre ore che faceva le stesse fottute tre domande a quei mocciosi.

-Matthew James Bellamy-, rispose con espressione compiaciuta.

Il Generale alzò lo sguardo.

La famiglia Bellamy era un’istituzione non sono a Teignmouth, ma nel Devon e in tutto il sud della Gran Bretagna per i propri meriti militari e per l’impegno politico nel Partito Laburista, anche se ormai con le rivendicazioni della classe lavoratrice non c’entrava più nulla. Matthew era stato educato a disprezzare le classi inferiori, con la loro ignoranza e rozzezza. In pratica, era laburista solo a parole, così come la sua famiglia.

-Ooh, il signorino è un Bellamy, si sente troppo superiore per chiamarmi “signore”-, ringhiò McKelley, sarcastico. Ringhiò letteralmente, e aveva proprio la faccia da mastino, pensò Matthew.

Per qualche istante fu tentato di rispondere a tono, ma decise di comportarsi bene. L’aveva promesso a suo padre.

“Devi fare una buona impressione sul generale McKelley. Se gli piace potrebbe evitarti le prime file al fronte”, gli aveva detto.

-Mi scusi, signore-, rispose ossequiosamente.

-Così va meglio. Hai qualche malattia?-, replicò McKelley rilassandosi.

-No, signore, sono vaccinato-, rispose il ragazzo.

-Buon per te. Levati dai piedi.

Trattenendo l’indignazione, Matthew passò alla stanza successiva per la visita medica.

Dominic, che era dietro di lui, lo fissò disgustato. Quel ragazzo era uno dei “dannati aristocratici con la puzza sotto il naso” che suo padre disprezzava tanto. Il resto della famiglia cercava in tutti i modi di inserirsi nelle upper classes, ma William aveva deciso di rinunciare a quell’assurda scalata sociale. E più di tutti odiava i Bellamy, così come Dominic. Aveva visto troppe volte quel Matthew aggirarsi per Teignmouth guardando tutti dall’alto in basso come lo spocchioso ragazzino viziato che era, vantandosi della villa a Londra coi suoi amici ricchi e pontificando a voce alta sulla lotta sociale per i lavoratori che la sua famiglia conduceva, quando nessuno di loro aveva un vero lavoro. Avrebbe tanto voluto scrollarlo e dirgli che i principini ormai erano figure arcaiche.

-Tu chi sei?-, borbottò McKelley.

-Dominic James Howard, signore-, rispose prudentemente.

-Malattie?

-Penso di no, signore.

-Bene. Altro?

-No, signore-, rispose passandosi la mano fra i capelli castani.

-Allora sparisci anche tu-, sbottò il generale, già puntando il ragazzo successivo.

Dominic si diresse verso la porta dietro il Generale, con aria depressa. Si fece esaminare sbrigativamente dal medico che stabilì che era idoneo. Era dentro. Adesso sono un’arma nelle mani del Governo, pensò lucidamente, e a nessuno di loro importerà se muoio.

 

-Perché quella faccia? Non sei felice di servire il tuo paese?-, gli chiese Bellamy, seduto accanto a lui, con aria sprezzante. Praticamente la solita.

Dominic, incredulo, gli rivolse lo sguardo. “Sta zitto, non rispondere”, si disse, ma poi pensò che quel moccioso meritava una lezione.

-No, Bellamy, anche se so che il tuo paparino adorato ti ha riempito la testa vuota di tutte quelle stronzate patriottiche e so che non puoi capire quanto siano idiote, ma io non sono felice di morire per un Paese che non ha mai fatto niente per me. Io non ho voluto questa guerra, nessuno mi ha chiesto se ero d’accordo, forse la vuole quel partito di cui fai parte solo perché ti fa comodo. Perché a voi non frega assolutamente niente della classe lavoratrice.

Matthew lo fissò boccheggiando, traboccante di altezzosa indignazione.

-Come osi?-, strillò spintonandolo e dimenticando le buone maniere che gli erano state inculcate negli ultimi anni del regno Vittoriano.

“Hai provocato la persona sbagliata, nanetto viziato”, pensò Dominic, che si girò e lo mandò a terra con un solo pugno.

Matthew rotolò giù dal sedile del furgone urlando fra le risate e gli applausi del resto degli arruolati, umiliato e inviperito.

-Mio padre…-, cominciò mentre si rialzava.

-Qui non c’è tuo padre!-, urlò Dominic esasperato, -Qui non sei nessuno, proprio come me! Qui il tuo cognome non conta niente! Qui siamo tutti uguali, lo capisci o no? Sanguineremo e moriremo tutti allo stesso modo!

Matthew pietrificò. Non ci aveva mai pensato. Non aveva mai messo in discussione l’idea che sarebbe tornato a casa su un cavallo rampante sventolando la bandiera inglese fra gli onori, accolto da eroe. Ma forse quella era un’immagine romantica sorpassata. Non aveva pensato che in guerra si muore. Ma quel ragazzo gli aveva messo davanti la realtà, anche se in modo brutale. Non poteva argomentare, perciò rimase in silenzio e si sedette di nuovo, umiliato.

Dominic ghignò. Finalmente gli aveva chiuso quella dannata bocca.

McKelley lo guardò dal sedile anteriore con ghignante soddisfazione: la pensava esattamente allo stesso modo, specialmente perché aveva avuto a che fare con gli altri Bellamy, se possibile ancora peggiori. Ostentavano troppo ed erano falsi.

Ma d’altra parte non era colpa del moccioso se era stato riempito di cazzate. Ognuno è frutto dell’ambiente in cui cresce, come dice Balzac. E Bellamy era cresciuto in un pessimo ambiente.

Ah, ma ora la musica cambierà, pensò.

[Il manifesto della scritta iniziale esisteva davvero XD Comunque ci tengo a sapere se l'esperimento vi può piacere =)]

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Capitolo 2
*** Plymouth ***


 

Intuì che li stavano portando tutti a Plymouth per partire in nave, almeno riconoscendo i luoghi accanto ai quali stavano passando. Mentre gli altri chiacchieravano fra di loro si tastò il viso e sussultò. Si ricordò perché faceva male, incupendo.

-Come mai hai l’occhio nero, amico?-, gli chiese a proposito una voce leggermente roca e giovanile. Dominic alzò lo sguardo e lo osservò: era un ragazzo grosso, di quelli che sarebbero stati buoni per estrarre carbone nell’ impresa di papà. Castano, con gli occhi che da soli bastavano a rassicurarlo sul fatto che fosse un tipo a posto. Non l’aveva mai visto a Teignmouth. Strana cosa, perché lì tutti conoscevano tutti…

-Mio zio mi ha picchiato per costringermi ad arruolarmi-, borbottò.

-Beh, tanto era obbligatorio comunque-, osservò l’altro.

Dominic lo squadrò di nuovo, indispettito.

-Si, ma non sarei venuto senza ribellarmi, o farmi valere-, insistette.

-E che senso ha? Sapevi che in ogni caso alla fine saresti venuto lo stesso-, replicò il ragazzo, cominciando ad innervosirsi. Per lui cacciarsi nei guai quando si poteva evitarlo era pure e semplice stupidità.

-Non so tu, ma io avevo dei motivi per non voler venire!-, esclamò Dominic, consapevole che stavano attirando l’attenzione.

L’altro ragazzo ammutolì per qualche secondo e guardò fuori. Poi tornò a rivolgersi a lui.

-Io ho nove fratelli, e mia madre deve prendersi cura di tutti loro da sola, adesso. E i campi resteranno trascurati se qualcuno non le dà una mano, ma non sarebbe necessario se non mi avessero chiamato.

Dominic annuì.

-Capisco. Scusami.

Il ragazzo sorrise amaramente.

-Tranquillo. Come ti chiami? E perché tuo zio è arrivato a picchiarti?

-Mi chiamo Dominic. Beh, mio zio Albert è un laburista, e pure un pezzo grosso. Non poteva andare in giro sapendo che suo nipote voleva disertare.

-Io mi chiamo Christopher. Ah, i laburisti!-, aggiunse, scoppiando in una grassa risata piena di sarcasmo.

Lui non aveva fede politica, non gli interessava e non si fidava di nessuno di quei bei Lord col loro cappello a cilindro che proclamavano giustizia sociale e libertà.

-Cosa avete contro i laburisti?-, intervenne Matthew, alzandosi in piedi, punto nel vivo.

-Tu sei uno di loro?-, chiese Christopher, cambiando tono. Era aggressivo.

Nel furgone scese il silenzio come un velo ghiacciato.

-Lui è il rampollo dei Bellamy-, spiegò Dominic con indifferenza.

Christopher rimase immobile per qualche istante, poi scattò verso Matthew e lo afferrò per il colletto sollevandolo da terra, mentre il ragazzo urlava spaventato con gli occhi spalancati e agitava i piedi nel vuoto.

-Tu! Maledetto! Dovrei ucciderti!-, ruggì il ragazzone, fuori di sé.

-Cosa ti ho fatto?-, strillò l’altro passando dallo spavento al terrore.

-Tuo padre! Quel porco ha fatto uccidere il mio, piccolo stronzo! Se fosse ancora vivo io a quest’ora sarei un giornalista o uno scrittore! E invece devo fare il contadino!-, urlò mentre lo scrollava a mezz’aria. A metà frase già c’era una decina di compagni che cercavano di fermarlo, ma era troppo grosso e troppo infuriato per riuscirci.

-Capisco, ma non è colpa mia! Io non sono mio padre!-, ululò Matt.

Christopher si fermò, riflettendo. Ma non lo lasciò andare, non ancora.

-Sì, che sei come tuo padre. Voi siete tutti uguali. Vi ho visti, sai? Sempre a girare coi vostri cavalli bianchi e i vostri fucili pronti. E non vi interessa niente di chi muore per colpa vostra, né dei lavoratori.

Matthew sentì che era ingiusto. Lui non aveva mai ucciso nessuno, non era giusto che finisse fra i cattivi.

-Senti, mi dispiace che mio padre abbia fatto questo, ma ti assicuro che io non c’entro niente. E comunque non approvo la maggior parte delle cose che fa e che dice-, confessò.

-Ah, no?-, chiese Dominic, che finora si era goduto la scena, in tono scettico.

Matthew lo fissò, austero e irritato.

-No.

Christopher lo lasciò andare e si grattò la fronte, sconcertato.

-Quand’è così…-, disse, quando il furgone si fermò.

Erano arrivati.

Scesero stiracchiandosi e borbottando assonnati, decisamente poco propensi a farsi urlare ordini nelle orecchie e soprattutto a seguire l’addestramento. Eppure dovevano fare anche questo, strisciare a terra e farlo rapidamente, arrampicarsi e poi dovevano imparare a sparare.

Christopher era piuttosto titibante al pensiero di impugnare una pistola, e quando premette il grilletto quella sparò due volte. Non se l’aspettava, e la lasciò cadere.

-Ragazzo, che problemi hai?-, intervenne McKelley.

-Non…non mi piacciono le armi, signore-, rispose lui arrossendo e raccolse la pistola con cautela, come fosse una tarantola.

-A uno grande e grosso come te? Avanti, figliolo, se non impari a usarla ti ammazzano subito-, rispose il Generale, rivolgendosi per la prima volta ad un soldato in tono paterno. Dopotutto non era così male, il Generale McKelley, quando ci si ricordava di chiamarlo “signore” alla fine di ogni frase.

-Pensa al padre di Bellamy, prima di sparare-, aggiunse.

-Si, signore-, convenne deciso il giovane, puntando al bersaglio. Centrò con precisione chirurgica.

-Bel lavoro-, approvò il Generale. –Forse dovrei piazzarti ai cannoni.

 

Dominic ebbe ancora più netta la sensazione di non essere altro che un’arma e che il suo unico scopo da quel momento in poi sarebbe stato sparare, e questo cozzava con qualcosa dentro di lui – con la sua umanità, forse. Era un contrasto che non poteva ignorare, non riusciva a rimanere impassibile puntando una mitragliatrice ad un bersaglio che domani sarebbe stato un uomo. Magari uno che come lui non aveva deciso di combattere, ma che era lì perché costretto. Uno che aveva una famiglia, una storia, dei desideri. E lui avrebbe dovuto sparare, solo per non morire.

Si guardò attorno nell’accampamento improvvisato: non c’era niente che non fosse fatto di metallo, la caserma non era altro che un cubo di lamiere costruito in poche ore, e le tende scure che riempivano lo spazio attorno a loro erano il dormitorio improvvisato. Tutto gridava aggressivamente “impazienza”. Bisognava sbrigarsi, fare in fretta, il fronte li aspettava. Non c’era tempo per distrarsi o riposare, anche i sacchi per dormire sembravano fatti scomodi deliberatamente, perché i soldati si svegliassero prima la mattina dopo, quando sarebbero saliti sulla nave.

 

Matthew, se possibile, se la passava ancora peggio. Lo scontro con una realtà ostile in cui a nessuno importava di chi fosse era un’esperienza nuova e traumatica. Da subito gli altri soldati lo presero di mira facendogli scherzi piuttosto pesanti fino ad insultarlo a bassa voce, ma in modo che potesse sentirli. Dopotutto l’occasione di prendersela con un riccastro era troppo ghiotta, più di qualche ragazzo aveva una storia simile a quelle di Dominic o Christopher, quindi trovavano giusto sfogarsi su di lui, anche perché era piccolo a gracile, più facile da strapazzare. E il suo ego cominciava a subire drastici ridimensionamenti.

Ad un certo punto uno dei soldati gli puntò un coltello alla gola, e si formò subito un capannello attorno a loro. Era programmato.

-Fammi un pompino, Bellamy-, ghignò, mentre gli altri ridevano malignamente.

Matthew non sapeva nemmeno cosa fosse, non aveva mai sentito una parola simile, essendo vissuto in una campana di vetro per tutta la vita. Ma non doveva essere nulla di buono. Non rispose, pensando ad un modo per scappare.

-Forza, inginocchiati o ti ammazzo-, insistette l’altro, sbottonandosi i pantaloni, e premette la lama sulla sua pelle.

-Cosa…cosa vuoi?-, pigolò Matthew.

-Succhiamelo-, replicò il primo ringhiando, e aprì una leggera ferita sul collo.

Matthew sbiancò e si sentì mancare.

Che cosa?!

-Inginocchiati, ho detto!-, urlò il ragazzo. Non ghignava più.

Matthew obbedì lentamente, al limite del terrore, sentiva le lacrime scorrere sulle guance. Non sapeva quale parte del proprio io gli faceva più male, perché non era mai stato umiliato in un modo tale. Si toccò la gola e il calore del proprio sangue gli ricordò le parole di Dominic.

Sanguiniamo tutti allo stesso modo! …Qui non sei nessuno!”

Capì cosa intendeva.

Il ragazzo, continuando a puntargli il coltello, si abbassò le mutande e si leccò le labbra.

-Avanti, puttanella, fammi godere.

-Smettetela-, esordì una voce.

-Che vuoi?-, scattò, girandosi.

Era Christopher che, nella consapevolezza di essere il più grosso, marciò verso di lui usando lo stesso trucchetto di prenderlo di peso e sollevarlo da terra.

-Ho detto di smetterla-, ripeté con calma.

Il ragazzo impallidì e lasciò cadere il coltello.

Matthew non si alzò, non ancora, tremava troppo. Non riusciva a fermare le lacrime, anzi, scoppiò in singhiozzi isterici come un bambino e si coprì il viso nella vergogna.

-Tu stai dalla parte di questo stronzetto viziato?-, chiese incredulo l’aggressore.

-Come ti chiami?-, gli chiese Christopher.

-David-, rispose, dubbioso.

-David, ti piacerebbe se ti puntassi una pistola e ti dicessi di scoparti tua madre, solo perché sono più forte di te?-, continuò Christopher, con la stessa pacatezza.

David ammutolì.

-Proprio come pensavo-, continuò sorridendo. –Quindi lasciatelo in pace. Non lo sto giustificando, ma è una persona anche lui.

Matthew alzò lo sguardo, stupefatto quasi quanto tutti gli altri. Quel ragazzo aveva tutti i motivi del mondo per odiarlo, eppure l’aveva difeso. Si chiese il perché, ma non riusciva a concepirlo. Lo ferì il fatto che lui non avrebbe mai fatto la stessa cosa.

-Grazie-, riuscì solo a dirgli quando rimasero soli e Christopher gli aveva chiesto come stava.

Lui lo guardò negli occhi con attenzione.

-L’ho fatto solo perché odio i prepotenti. Anche tu lo sei, ma se non fossi intervenuto non sarei stato coerente con me stesso. E poi questo scherzetto è troppo pesante per chiunque-, ammise.

Il discorso non faceva una piega.

-Beh, grazie lo stesso-, ripeté Matthew asciugandosi il viso.

Chris rise.

-Di niente! E, un consiglio, non piangere davanti a loro. Li fai solo divertire di più, anche se lo capisco.

Matthew sorrise timidamente. Forse aveva appena trovato il suo primo amico.

 

[Sì, ho deciso di aggiungere un pò di capitoli oggi. Perché? Perché mi annoiavo, tutto qui. No, non ho scritto capitoli nuovi, sto solo postando quello che c'è già su LJ.

Se ho intenzione di continuarla? Per ora NO. O almeno, vorrei ma non ho l'ispirazione per farlo.

Venendo al capitolo, probabilmente è un pò forte, ma come sa chi ha letto Microcuts, io ed il dramma e la violenza andiamo a braccetto :DDD

Spero vi piaccia.

*prepara gli altri capitoli*]

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Capitolo 3
*** Going To France ***


Patate. Avevano mangiato patate anche a pranzo, e adesso ancora patate. Aveva l’angosciante sensazione che anche il giorno dopo ci sarebbero state patate, a pranzo e cena. E anche il giorno dopo, pranzo e cena. Almeno a colazione non c’erano patate, ma roba normale: uova e pancetta. Dannatissime patate. Sapeva il malefico motivo per cui mangiavano patate. Riempiono in fretta. Ma almeno il mese dopo avrebbero potuto cambiare ingredienti: Purè, formaggio, pane, acqua…perché ovviamente di carne non se ne parl…

-Hai sentito l’ultima su Bellamy?-, sentì chiedere dietro di sé.

Interruppe il filo dei pensieri e tese le orecchie. I due interlocutori si erano seduti accanto a lui. Fece finta di non origliare, abbassando di nuovo lo sguardo sulle sue maledette patate e mangiandole lentamente.

-No. Che è successo?

Appunto. Che avrà combinato di nuovo quell’idiota?

-Hai presente David Stewart, quello…

-Si, lo conosco. Che c’entra?

E’ una testa di rapa, fondamentalmente.

Beh, lui tira fuori il coltello e dice: “E’ da sei mesi che non mi faccio una scopata, sono pieno da scoppiare”, poi va da Bellamy, gli mette il coltello alla gola e dice “fammi un pompino o ti sgozzo”.

Cosa?!

-No! E lui?

-Si è messo a piangere.

-Tipico.

-Aspetta! Poi arriva Christopher, quel coso grosso con una squadra di fratelli, e lo prende di peso convincendolo di avere torto.

-Non ci credo! Wolstenholme che difende Bellamy! Se non vedo non credo!

-Eccoli là, sono allo stesso tavolo.

Dominic alzò lo sguardo, incredulo, eppure vide che era così. Matthew e Christopher mangiavano e chiacchieravano, seduti uno a fianco dell’altro.

Quasi gli cadde la mascella. Altamente improbabile, impossibile!

Che diavolo ci trovava Christopher in quel…per una volta, sul momento non fu in grado di trovare un insulto. Non sapeva perché.

 

-Dom, forse ci siamo sbagliati tutti-, spiegò successivamente Christopher, roteando gli occhi. –Sì, ovvio, è uno stronzo completo, ma lo è perché non ha mai conosciuto altro. Capisci? E’ nato e cresciuto in un mondo che non esiste, è convinto che tutto ruoti attorno a lui perché nessuno gli ha mai spiegato che non è così. Te ne rendi conto se ci parli un po’ assieme. Comunque io credo che ai Bellamy faccia comodo che il loro figlio non sappia un accidenti di come gira il mondo. In ogni caso sta cominciando a capire-, concluse, grattandosi il collo.

Dominic non era stupito, era esterrefatto.

-Sai, non ti davo tutto questo…acume-, commentò. –E poi cosa vuol dire ‘sta cominciando a capire’?

-Cercherò di prenderlo come un complimento-, borbottò l’altro. –Comunque vuol dire che semplicemente Matthew è dotato di intelligenza, anche se tu e quei trogloditi pensate il contrario. Ha cominciato a vedere dopo il tuo discorsetto sul furgone (quando avresti potuto evitare di picchiarlo). E da lì ha cominciato a farsi un paio di domande, sai com’è. Voglio dire, se è arrivato a dire che disapprova suo padre…-, replicò ironico il giovane castano.

Gesù, non sembra assolutamente un contadino.

-Ma tu hai studiato psicologia?-, chiese, sorpreso.

Christopher rise.

-No, ho solo vissuto a lungo con tante persone diverse. E con tanti bambini.  E certo, ho letto qualche libro-, minimizzò. Come sempre, con sequenzialmente pensò a quanti ne avrebbe letti se avesse potuto.

-Senti, ti va di bere qualcosa?-, propose.

Dominic ci pensò su. Ma sì.

-Perché no?-, sorrise.

 

Come sempre, Christopher dal bicchierino consolatorio passò alla damigiana vogliosa di essere bevuta in meno di dieci minuti, finì per ubriacarsi come mai in vita e per vomitare un’ora intera. Quando riversò a terra l’ultimo resto giallastro di bile, cade all’indietro e non si rialzò. All’inizio Dominic pensò che bastava aspettare, ma dopo un po’ lo vide impallidire a vista d’occhio. Si spaventò. Dannazione a lui, non avrebbe dovuto accettare. In verità aveva provato timidamente a fermarlo, ma Christopher era diventato sempre più aggressivo man mano che riempiva i bicchieri. Finché, per l’appunto, non si era ridotto in quello stato.

Che si possa morire di una sbronza?

Non stette a sproloquiare mentalmente sulla risposta, ma corse alla tenda del Sergente Hill, che fortunatamente ancora non dormiva. Era un mastino tale e quale al Generale McKelley.

-Che succede?-, sbottò allarmato il Sergente, intuendo che qualcosa non andava.

-Signore, il soldato Wolstenholme si è ubriacato, signore, si è addormentato e non riesco più a svegliarlo-, spiegò sbrigativamente Dominic, tutto d’un fiato.

-Dannazione, Howard, non dovevi lasciare che si addormentasse!-, imprecò l’uomo, alzandosi e facendosi condurre.

-Non lo sapevo, signore!-, protestò il ragazzo.

Quando arrivarono, Christopher era sveglio, sebbene profondamente intontito e ancora palesemente sbronzo.

Il Sergente squadrò Dominic, ragionevolmente arrabbiato.

-Chris!-, esclamò il giovane, sorpreso.

Christopher guardò qualche centimetro alla sua destra, convinto che fossero in due. Col Sergente, quattro.

-Sto b-bene…sto…-, biascicò, e vomitò di nuovo.

-Accidenti, sei messo male-, commentò Hill. –Howard, portalo in infermeria, passerà la notte lì. E poi vai a dormire.

 

Non ci riuscì, non fino alle due, perlomeno. Fissava il buio, chiedendosi cosa aspettarsi dal giorno dopo. Probabilmente non sarebbero entrati in campo, ma il giorno dopo ancora? Era convinto che l’addestramento era stato sbrigativo, e non pensò che probabilmente i soldati nemici erano esperti quanto lui. Ma la cosa che lo preoccupava di più era che avrebb dovuto affrontare il suo primo omicidio, perché di questo si trattava, dopotutto. Assassinio autorizzato dalla Legislazione. Aveva sentito dire che solo la prima volta è difficile accettare di aver ucciso, poi diventa sempre più facile, fino all’automatismo. Lo trovava orribile, abituarsi alla Morte. E aveva paura di finire per farlo, di uccidere senza pensarci, di diventare una macchina come quelle introdotte dalla Rivoluzione Industriale. Entrambe le cose portavano all’alienazione.

Ma io sono un Uomo.

 

La mattina dopo furono svegliati dal Capitano Ferguson, una figura alta e allampanata, fissato della parola “rigore” e fanatico della guerra – glielo si poteva leggere negli occhi -, che infilò la testa in tutte le tende sbraitando come un pazzo.

-In piedi, Bellamy!-, urlò.

Matthew grugnì e piagnucolò, ma cinque minuti dopo era completamente sveglio e si trovava sulla rampa di imbarco della grande nave francese che era venuta a prenderli. Christopher era di fianco a lui, col suo sacco sulla schiena, mentre qualche metro dietro di loro Dominic si fermò qualche istante a guardare la Patria che era stato costretto ad odiare. Capì che avrebbe fatto in tempo a rimpiangerla.

Qualcuno dietro di lui lo spintonò con malagrazia.

-Forza, ragazzo-, ringhiò Ferguson.

“Idiota, non sei tanto più vecchio di me. Abbassa la cresta”, pensò, ma evitò accuratamente di dirlo.

Una volta dentro ebbero dieci minuti per sistemarsi, poi sarebbero dovuti andare a radunarsi in una grande stanza interna, grigia, rischiarata da una luce fredda e giallastra, e c’erano tante mappe puntellate, oltre alle solide bandiere tricolore. Nazionalismo francese. Non c’era neanche più gusto a commentarlo.

Al centro c’era un grande tavolo pieno di carte e ancora mappe (e ancora bandiere), e intorno un mucchio di sedie che furono occupate quasi subito. Gli altri rimasti in piedi si sedettero a terra, e calò il silenzio mentre il Generale McKelley occupava lo spazio vuoto rimasto. Li osservò tutti. “che spreco. Così tanti, e così giovani”, pensò. Si era già affezionato a qualcuno, come altre volte, e come le altre volte sapeva che gran parte di loro non li avrebbe rivisti più.

-Soldati, vi spiego brevemente alcune cose. Stiamo andando in Francia, dove verremo raggiunti da un plotone alleato francese. Va da sé che con loro vi comporterete bene e non gli ricorderete la sconfitta a Sedan, è stata nel ’70 ed è passato un bel po’ di tempo. E poi a loro brucia ancora, anche se non vogliono ammetterlo.

Risate.

-…Seconda cosa: a scuola vi hanno detto che le battaglie una volta si combattevano lanciandosi come migliaia di coglioni correndo scoperti verso la morte. Proprio perché è una tattica da perdenti, noi non facciamo questo. Staremo in trincea. Vi spiegherò più avanti cos’è e come funziona. Ultima cosa, ma è la più importante, dovrete seguire solo le direttive. Non fate caso alle cazzate che sentirete dire fra di voi, fate solo quello che vi ordinano i vostri superiori. Chiaro?

-Si, signore!-, risposero tutti in coro, e una voce isolata aggiunse:

-Signore, è vero che la guerra sarà breve?

McKelley sospirò.

-A quanto pare sì, Deegan, sembra che sarà una semplice guerra di manovra. Ma non è un buon motivo per fare idiozie.

Dominic notò che aveva stretto il pugno in segno di nervosismo.

Mente. Sta mentendo. Non sarà per niente breve.

Lo intuì istintivamente, ma questo non lo stupì. Strano. Forse nell’inconscio già lo sapeva.

-Se non ci sono altre domande potete ritirarvi. Allo sbarco vi darò altre informazioni-, concluse il Generale.

“Non tutte quelle che vorremo avere, però”, considerò Dominic amaramente, come tanti altri in quella stanza.

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Capitolo 4
*** First Battle ***




Far away, this ship is taking me far away. Far away from the memories of the people who care if I live or die.

Dominic chiuse il taccuino nel quale raccoglieva I propri pensieri in brevi frasi.
-Che fai?-, chiese Christopher, appoggiato allo stipite della porta, ciancicando del tabacco.
-Niente. Mi sto rilassando un po’-, rispose.
-Comunque stiamo arrivando. Non so perché ci abbiano dato delle stanze se sapevano che il viaggio era breve-, osservò l’altro.
-Già. Ti sei ripreso dalla sbronza?-, chiese Dominic, trattenendo un ghigno.
-Sì. A proposito, mi spiace. Non volevo farmi vedere in quello stato…sai, credo di essere in un tunnel senza uscita, con l’alcol. Non posso farne a meno.
-E perché?-, domandò il ragazzo, incuriosito.
Sono affari suoi, idiota!
-Ho una vita insignificante-, rispose Christopher. Il suo sguardo si era spento, e rimase a fissare il vuoto. Non aggiunse altro.
-Non credo che la tua vita sia insignificante solo perché fai un certo lavoro-, commentò Dominic, piegando la testa accigliato.
-Invece sì. Lo so che potrei fare di più, potrei avere un lavoro decente, potrei sfruttare le mie potenzialità, e invece guarda come sono ridotto-, si infervorò il ragazzo.
-Ma non hai perso la tua dignità. Non sei insignificante-, insistette l’altro, scuotendo la testa.
Christopher non rispose, non se ne prese la briga. Quello non capiva, punto. Non puoi spiegare a un borghese cosa significa spaccarsi la schiena per davvero, e invidiare la sua condizione solo perché lui può aspirare a raggiungere gli agi delle classi superiori.
La nave si fermò poco dopo, e uno scalpicciare affrettato comunicò loro che erano arrivati. Raccolsero le loro cose e seguirono il gruppo.
La prima cosa che percepirono fu lo sbalzo di temperatura, non troppo rilevante ma percepibile. Faceva un po’ più caldo. Poi osservarono il paesaggio, sul quale la battaglia aveva lasciato qualche segno, pur se trascurabile: qualche foro di proiettile sulle case, un cratere provocato da una bomba a mano, e tante vanghe abbandonate a terra.
Il cielo grigiastro era minaccioso.
-Lasciamo l’Inghilterra e troviamo pioggia anche qui-, commentò aspramente un soldato.
Matthew aveva altre preoccupazioni. Come le condizioni igieniche. Quanto sarebbe rimasto pulito? Non molto, intuì. E le malattie? Avrebbe fatto prima a morire per un proiettile alla schiena o una lenta malattia? Non osò chiedere.
-Va bene, soldati. Siamo a qualche miglio da Parigi, lì ci impegneremo a difendere la città, qualcun altro andrà alle trincee. Ci accamperemo dietro le linee alleate e daremo loro una mano. Per oggi non credo che faremo molto, ma la maggior parte del lavoro va fatta di sera. La mattina ci sveglieremo alle quattro e mezza o al massimo alle cinque, faremo un’adunata e se non ci attaccano (e solo in quel caso) potremo fare colazione. Al pomeriggio generalmente non ci sarà molto da fare, fino a sera, quando faremo un’altra adunata. Poi ci saranno lavori manuali: riparazioni dei parapetti, sbrigheremo la burocrazia e le staffette entreranno in azione. E poi può essere che organizzeremo assalti notturni.
Tutti ascoltavano in silenzio, abbandonandosi al nervosismo.
-Sentite, il mio dovere è fare in modo che la minor parte possibile di voi muoia, quindi se mi obbedite lo fate solo nel vostro interesse. Se vorrete compiere atti di eroismo o, chiamondolo col suo nome, stupidità, sono affari vostri-, concluse il Generale alzando ancora la voce.
Matthew storse la bocca, non era d’accordo. Bandire l’eroismo significava escludere la gloria. Lo disse a Christopher.
-E tu cosa vorresti? La Medaglia al Valore? Beh, potresti provare a guadagnartela, ma te la darebbero da morto-, rispose lui, perfettamente d’accordo col Generale.

Quella sera, in effetti, non fecero gran ché. Si limitarono a controllare i dintorni e ad esplorare i territori circostanti, oltre ad occuparsi delle attività di svago, o almeno quelle che ci si poteva permettere. Andarono presto a dormire su giacigli improvvisati, ma pochi di loro si addormentarono con facilità. I soldati avevano paura, erano consapevoli di essere inesperti. Alcuni fissarono il cielo insensibile per tutta la notte, e pensavano a quello che si erano lasciati alle spalle. Per mezzanotte, comunque, tutti si erano arresi alla stanchezza.
La mattina dopo fu l’odore di bruciato a svegliarli: i tedeschi avevano appiccato il fuoco alla rimessa, e attorno a loro si vedeva solo fumo nero, e si sentivano solo urla sorprese, ordini furiosi e scoppiettii lontani. Li stavano braccando e uccidendo, quei maledetti crucchi.
Matthew correva su e giù portando secchi d’acqua come il Generale gli aveva sbraitato pochi minuti prima; Dominic invece fu incaricato di prendere le armi e guidare un piccolo gruppo fino alle trincee, dove si stava svolgendo un’altra fase della battaglia.
-Cosa…? Guidare…-, balbettò a mezza voce, incerto.
-Sì, Howard, prendi questi qui e portali alla trincea, muoviti!-, urlò McKelley sbrigativo, afferrando una bomba a mano e lanciandola lontano.
Dominic, sgomento, si girò a guardare i suoi compagni e su tutte le loro facce vide il riflesso della propria espressione.
-D’accordo, ragazzi…andiamo-, disse, cercando di assumere un tono di voce sicuro.
Tutti tremanti e spauriti, si piegarono per evitare quanto possibile le pallottole, e corsero fuori dalla portata del fuoco nemico che ora era un ruggito lontano ma continuo.
-Veloci, ragazzi, la trincea è lì in fondo, non fatevi colpire!-, urlò ansimando fra una parola e l’altra, dopo un’ora di corsa, nel tentativo di incoraggiarli, ma finché egli stesso fosse stato terrorizzato non li avrebbe mai convinti. In qualche modo, comunque, raggiunsero stremati un lunghissimo fosso ad andatura curvilinea, protetto da ambo i lati da improvvisati parapetti di legno e sacchi di sabbia. Dentro c’erano altri soldati inglesi, che li accolsero abbastanza caldamente.
-Siete i rinforzi?-, chiese uno di loro, speranzoso.
Dominic lo guardò: era sporco di terra e sangue, pieno di graffi e sudato. La battaglia era cominciata solo da due giorni.
-Sì, ma per ora ci siamo solo noi. Gli altri dovrebbero arrivare fra poco…
Osservò la trincea: da entrambi i lati si vedeva solo un muro di terra e tavole di legno, interminabile. Sopra, solo il cielo.
Si fece guidare per tutta la lunghezza del cunicolo, approfittando del fatto che c’era una breve tregua. Notò lo sbocco della trincea sotterranea, e che c’erano dei piccoli vicoli dove ci si poteva nascondere aspettando un momento propizio.
-In quanto tempo l’avete scavata?-, chiese, ammirato.
-Non abbiamo fatto altro, praticamente, giorno e notte. Per fortuna c’era il cambio, ma siamo sfiniti lo stesso. Comunque voi dovreste avanzare ancora, noi siamo la retrovia. Fra quattro o cinque giorni daremo il cambio a quelli che stanno combattendo davvero…-, aggiunse sconsolato.
-Oh-, borbottò Dominic, deluso. –Va bene.
Tornò indietro è vide che i suoi compagni si erano stanziati e si stavano rilassando, e non gli piacque dover dire loro che dovevano rimettersi in marcia.
Infatti sbuffarono delusi e lo seguirono di nuovo fuori, sempre piegati e doloranti, con gli zaini sulle spalle, fino alla trincea successiva.
Mentre scendevano nel fosso e Dominic aspettava che tutti fossero al sicuro, il fuoco riprese all’improvviso. Uno di loro fu colpito, e rotolò nella trincea, già morto. Dominic sbiancò e urlò il suo nome, precipitandosi giù. Si storse una caviglia, ma non se ne accorse nemmeno. Non percepiva altro che la vista degli occhi spalancati nel vuoto di un ragazzo che era poco più giovane di lui, il peso di una vita sulle sue spalle. Avrebbe potuto giurare di non ricordare di essersi mai sentito peggio in vita. Fu il suo primo contatto diretto con la Morte, e sarebbe stato un ricordo indelebile.
Furioso, imbracciò il fucile e si sporse arrampicandosi sopra il parapetto, sparando istericamente a caso sulla linea confusa della trincea tedesca. Quando finirono i proiettili corse a recuperare una mitragliatrice. Doveva essere sicuro di farne fuori almeno dieci. Dieci per ogni uomo dei suoi che moriva. Non si accorse di star già agendo come un animale.
Dopo qualche ora di fuoco, interrotto periodicamente da qualche minuto di tensione e silenzio, arrivò il resto del plotone, ricevuto con un lieve sospiro di sollievo. Il Capitano Hill prese le redini del corpo militare. Dimostrò tutta la propria reale inefficienza, basandosi su una strategia vecchia e conosciuta, e sprecando le poche risorse per mettere la battaglia in stallo. Fu Dominic a decidere di farla finita. Si infilò nella trincea sotterranea e percorse qualche centinaio di metri a carponi, spellandosi le mani, col terrore di non riemergere. Sbucò vicino alla trincea nemica, in un punto coperto da un albero superstite. Perfetto.
Aveva portato con sé una bomba a mano, e la lanciò direttamente verso le retrovie tedesche. Funzionò come diversivo: tutti i soldati si voltarono sorpresi e furono falciati dal fuoco inglese. Ghignando Dominic tornò indietro, e quando emerse dal buco si disse che non avrebbe dovuto stupirsi che fossero tutti così sporchi.
Vide il Generale McKelley, furioso, avvicinarsi.
-Howard! Dannazione, che diavolo ti sei messo in testa?-, urlò.
Dominic non capiva.
-Signore, ho…insomma, vedevo che non risolvevamo niente, e…
-Allora non hai sentito il mio inutile discorso di prima! Avevo detto di obbedire agli ordini! E che nessuno deve prendere iniziative per conto proprio! A quanto pare però tu non l’hai capito-, replicò l’uomo ergendosi sopra di lui.
Ma non lo punì, perché dopotutto la sua azione era andata a buon fine. Incredulo, Dominic rimase a guardare un po’ le stelle cercando di capacitarsi del proprio senso di solitudine, poi si addormentò, sfinito.

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Capitolo 5
*** Death ***



Matthew si svegliò fra le macerie, mentre la polvere sollevata dalle esplosioni ancora riempiva l’aria e la rendeva irrespirabile. Scosse la testa, intontito. Poi vide rosso, e si pulì gli occhi in uno scatto infastidito.
Qualcosa l’aveva ferito alla testa, ma non se n’era nemmeno accorto, nella foga. Il sudore e lo sporco formavano un velo caldo e appiccicoso sul suo viso, era disgustoso ma non se ne curò. Vide i pezzi del proprio casco a terra, e capì di essersela vista brutta, oltre a registrare il fatto che senza era molto più vulnerabile.
Accadeva sempre più spesso di subire piccole ma continue sconfitte: l’esercito tedesco sembrava molto più avanzato di loro a livello di tecnologie e piani strategici, inoltre avevano un’organizzazione efficiente, tanto che persino le loro trincee erano pratiche, funzionali e persino abbastanza pulite e confortevoli. Erano fatte per rimanerci, mentre quelle inglesi erano state scavate con il presupposto che sarebbero state usate poco. Ma era da un mese che continuavano allo stesso modo: si svegliavano, sparavano, mangiavano, sparavano, subivano e quei maledetti tedeschi non morivano mai, dannazione.
Quel giorno il Capitano Hill decise di organizzare un assalto notturno.
-Soldati, li prenderemo di sorpresa-, annunciò in tono deciso.
Sarebbe anche ora, pensò Dominic, perché non ci hai pensato prima, genio?
Scosse la testa mentre gli sfuggiva un sibilo.
-Cos’hai, Howard? Vuoi metterti fra le trincee a farti quattro risate?-, minacciò il giovane Capitano avvicinandosi indispettito.
-No, signore-, rispose il ragazzo, irritandosi di doverlo chiamare in quel modo. Incompetente e presuntuoso, il signore.
-Bene, allora stanotte vi sveglierò, e al mio “tre” usciremo tutti dalla trincea, e correremo verso di loro.
-Così possono ammazzarci meglio?-, bisbigliò Dominic. Qualcuno accanto a lui annuì ghignando sarcastico, senza guardarlo. La tensione si accumulò per il resto della giornata, tutti tentavano di nasconderla ma nessuno poteva fare a meno di sentirla crescere, come una nube collettiva che si stava ingrossando ogni ora di più, mentre fumavano e seminavano qualche sporadica raffica, tanto per ingannare il nemico che tutto stava procedendo come al solito.

Christopher aveva soltanto acuito il suo problema. Oltre alla frustrazione personale, c’era il fatto che la vita in battaglia non faceva propriamente per lui. Improvvisamente gli mancava il silenzio dei campi, la freschezza e il sapore di una mela, il calore della terra e i piccoli insetti che correvano sempre sulle sue mani. E la sua famiglia.
D’altra parte quasi gli piaceva il suo ruolo da cecchino: almeno non si trovava in mezzo alla bolgia, e dato che era un tipo grosso non sarebbe convenuto, mandarlo a combattere in campo. E poi con calma e pazienza aspettava e mirava, ed al momento giusto faceva saltare le cervella ad un fottuto tedesco. E poi ad un altro, e un altro ancora, con freddezza ed uno strano compiacimento morboso.
E quando un vago e trascurabile disagio o dispiacere serpeggiava nella sua mente sotto forma di pensieri angosciosi, immediatamente li stordiva e immergeva in più di qualche sorso di gin. Insapore e di pessima qualità, certo, ma finché ne usciva ubriaco andava bene.
Di giorno uccideva e fumava, di sera beveva fino a non reggersi più in piedi e vomitare l’anima, di notte dormiva come un poppante. In pratica, aveva capito subito il meccanismo: estraniarsi, non pensare a nulla quando si levava il suono degli spari e la polvere delle esplosioni. Le crisi di coscienza potevano aspettare: sapeva che lo avrebbero perseguitato per il resto della vita, perché farsi scrupoli ora?
Si rigirò nel suo sacco, rabbrividendo di freddo e borbottando qualcosa con la bocca impastata.

Nello stesso momento, un centinaio di soldati giovani e terrorizzati rabbrividiva fermo sul parapetto. Dominic avrebbe giurato che il suo stomaco si stava sciogliendo, o che una tensione quasi fisica, come una mano nelle sue interiora, stesse stringendo e strappando sadicamente parti del proprio apparato digerente.
Il Capitano Hill guardava l’orologio: forse si chiedeva a che ora i tedeschi fossero soliti addormentarsi. Essendo un tale idiota, era altamente probabile.
Poi notò che aveva alzato lo sguardo, e caricò la mitragliatrice.
-Soldati, pronti-, esclamò Hill alzando la mano e mostrando tre dita.
Dominic scosse la testa, ma si preparò comunque, cercando di mantenere una presa sicura. Non doveva farsi prendere dall’ansia, altrimenti…
-Tre…-, scandì il Capitano abbassando l’anulare.
Tutti i corpi nervosi e tesi si irrigidirono. Ancora brividi nel silenzio pesante.
-Due…-. Abbassò il medio.
Una carneficina. Sarebbe stata una carneficina.
I tedeschi erano svegli e li stavano aspettando coi fucili puntati, come minimo. Sapevano, in qualche modo.
Dominic intuì tutto ciò con lucidità, e lanciò un’occhiata oltre il parapetto per individuare qualche…eccolo.
-…Uno…-, disse Hill, tenendo teatralmente l’indice alzato.
Quant’era stupido. Tutti erano stupidi. Salvate la pelle, quello è un inetto.
Qualcun altro aveva poca fiducia in lui.
-Se ci andasse da solo…-, si lasciò sfuggire un ragazzo poco più giovane di lui.
Provò empatia, e con l’angolo della bocca sussurrò:
-Seguimi.
Con la coda dell’occhio vide che il ragazzo annuiva.
-Andiamo!-, urlò il Capitano puntando l’indice verso il nemico, scavalcò il parapetto e si mise a correre urlando e sparando praticamente a caso come l’invasato che era, gli occhi spalancati ed iniettati di sangue e la bocca piena di quell’urlo animale. Tutti gli altri lo imitarono, presi all’improvviso dalla foga.
Dominic ed Eric – così si chiamava, Eric Ford – seguirono gli altri, pur rimanendo un po’ più indietro. Sempre più soldati si convincevano che quell’azione fosse giusta, e la tensione accumulata spingeva adrenalina in sovrapproduzione nelle loro vene. Dominic per un attimo pensò ironicamente agli indiani contro gli yankee, in battaglie campali in cui erano destinati solo ad essere massacrati.
Da lontano iniziarono gli spari. Qualcuno nella nebbia cadde, e l’urlo del Capitano tacque; Dominic prese Eric per il braccio e lo strattonò, trascinandolo dietro una roccia. Entrambi, ansimando, appoggiarono la schiena e rimasero lì, non c’era altro da fare.
Gli spari si moltiplicarono mentre la notte si riempiva gradualmente di urla. Potevano quasi sentire ogni singolo suono fra i più raccapriccianti, le ossa sotto la pelle che si schiantavano senza vita contro i sassi, le pallottole trapassare le colonne vertebrali e uscire dalla schiena, le teste sbattere contro il terreno. Dominic stringeva convulsamente il braccio del compagno, come se le nocche bianche dovessero strappare la pelle della mano. L’orrore lo inondò di colpo come il mare di Teignmouth nei giorni di tempesta, ed allo stesso modo lui trattenne il respiro. Voleva tapparsi le orecchie e chiudere gli occhi, ma quella stessa angoscia e l’istinto gli dicevano prudentemente di evitarlo, uno strascico di pensiero razionale gli spiegò velocemente che avrebbe dovuto ascoltare tutto, suo malgrado, perché loro avrebbero potuto venire a controllare che non ci fosse nessun sopravvissuto. Perciò le sue orecchie sentivano tutto e si riempivano del pulsare angoscioso delle vene.
Dopo una quantità di tempo indefinita gli spari diminuirono, le ultime urla terrorizzate soffocarono, e i passi si erano dimezzati.
Poco dopo sentirono effettivamente dei passi avvicinarsi, marcati e sicuri. Ma non avevano la lucidità di pensare e il coraggio di muovere un muscolo, solo dentro di loro qualcosa si muoveva. Dominic isolò il battito nelle orecchie dalla gamma dei suoni che sentiva, e si concentrò su quel passo marziale che si avvicinava. Cercò di ignorare il tremito di Eric, lo deconcentrava. Gli strinse più forte il braccio perché si calmasse, aveva paura che la roccia si sarebbe mossa per la violenza di quei brividi. Respirò a fondo, ma silenziosamente, e si appiattì ancora di più, stringendo a sé l’altro ragazzo.
Col buio sembreremo un’altra roccia, si disse, non capiranno che siamo dei superstiti. Stai calmo, andrà tutto bene.
Andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene.
I passi si avvicinavano, e si dirigevano proprio verso di loro. Dominic sentì le orecchie tendersi fisicamente come quelle degli animali, ma sicuramente era solo un’impressione.
Poi Eric vide il primo stivale appoggiarsi al terreno e si immobilizzò, non tremava più. Ma il suo cuore batteva troppo forte, dannazione! E loro non se ne accorgevano, ma com’era possibile? Insomma, erano sordi? Come facevano a non sentire i loro cuori? Eppure battevano così forte da sembrare due tamburi fuori tempo, e loro erano sordi o stupidi.
Passarono oltre, e Dominic li contò. Non erano più di una decina. Non osò sospirare di sollievo, non ancora. Prima o poi sarebbero tornati indietro. Lentamente lui ed Eric si misero bocconi, e strisciarono tenendo il viso premuto a terra, per quanto possibile. Ci misero un sacco di tempo, quasi troppo tempo, prima di raggiungere una macchia di cespugli, ma riuscirono ad infilarvicisi. Entrambi si rannicchiarono fra i rami e le foglie, ed aspettarono. Passarono ore prima che si convincessero che ragionevolmente erano al sicuro.
Arrivò la mattina, ed erano ancora lì, le teste che ciondolavano. Erano stanchi, sfibrati dalla paura e dal sonno. Dominic scrutò la linea nemica, e gli sembrò che fosse tutto tranquillo. Una volta raccolti i residui del proprio coraggio, fece un cenno ed Eric lo seguì mentre procedevano in linea retta, piegati.. Arrivati a qualche metro corsero e si precipitarono nella trincea. Appena toccarono coi piedi per terra nel cunicolo vuoto, tutta la tensione esplose, e scoppiarono entrambi in singhiozzi. Dominic cercava di contenersi, ma l’altro non ci riusciva. Erano sollevati, e non pensavano ad altro. Poi tornò in mente il motivo di tanta paura.
La pressione, le urla, il sangue, gli spari, le ossa, la Morte.

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Capitolo 6
*** Black Holes And Revelations ***


-Siete rimasti in due?-, esclamò incredulo, gli occhi spalancati.

-Si, il nostro Capitano è stato il primo a morire-, rispose Dominic sospirando sollevato.

Lui ed Eric si buttarono a terra fra gli sguardi esterrefatti degli altri soldati, più stressati che stanchi fisicamente.

-E perché siete vivi?-, indagò McKelley col suo sguardo da segugio.

Dominic alzò la testa a fatica e lo fissò.

-Perché noi non ci siamo buttati a pesce fra le pallottole, signore.

Il risentimento era ben percepibile, e il Generale tacque, riflettendo. Aveva fatto male a fidarsi di quel tizio, evidentemente. E aveva bisogno di un nuovo Capitano.

-Cos’è successo?-, chiese una voce sgradevolmente conosciuta.

Dominic si girò puntellandosi sui gomiti.

-Stanotte abbiamo fatto un assalto, e loro l’avevano previsto, non so come…e voi?

-Noi abbiamo fatto tutto il possibile per difendere Parigi, ma sono troppo forti, fra poco credo che la prenderanno-, rispose Matthew, sconsolato, scuotendo la testa e guardando l’orizzonte.

Dominic si trattenne dal commentare.

Ecco, zio, morirò qui. Sei contento, ora?

-Beh, comunque li respingeremo-, esordì Albert Winston, con aria sicura.

-Certo Al. Io invece dico che facciamo prima ad annegarci nella Senna-, replicò Eric in tono disilluso.

-E io non dovrei essere qui-, si lasciò sfuggire Matthew, sospirando con gli occhi chiusi.

-E dove dovresti essere?-, ringhiò Eric. –In ufficio, al sicuro? Perché? Perché il tuo papi è il Capo?-, continuò, in tono aggressivo, irrigidendosi.

Matthew arrossì di rabbia ed aprì la bocca per replicare - ed Eric era pronto a rispondere qualsiasi cosa avesse detto -, ma poi la richiuse e si alzò, voltandosi per andarsene.

Sentì uno scatto fin troppo familiare e si ghiacciò sul posto.

-Dovevi esserci tu con noi nella trincea-, sibilò il diciottenne, fuori di sé. –Dovevi morire tu al posto degli altri.

Aveva un’espressione folle, di qualcuno che non pensa più a quello che dice.

-Basta!-, ruggì il Generale avvicinandosi a grandi passi. –Non voglio risse, qui! Non vi basta passare la giornata a uccidere?

Eric abbassò l’arma lentamente e controvoglia, e quando Matthew si girò sul suo viso vide un’espressione che minacciava che avrebbero continuato il discorsetto. Un’altra volta, ma comunque presto.

 

Dominic si svegliò di soprassalto, svegliato da un rumore di passi, troppo pesante e ingenuo per essere minaccioso, ma non si era mai troppo cauti. Impugnò la pistola e urlò: “chi è?”.

-Fermo, sono io-, esclamò Matthew alzando le mani, accigliato. Ne aveva abbastanza di gente che gli puntava la pistola contro.

Dominic imprecò fra sé e sé.

-Che diavolo vuoi?-, sbottò scuotendo la testa, nervoso.

-Non riesco a dormire, da solo-, cominciò Matthew, e per un po’ gli sembrò davvero un bambino viziato. –Posso dormire sull’altro pagliaio?

Dominic ghignò.

-Certo che ti ci vuole poco per spaventarti-, lo prese in giro.

-Anche tu ti sei spaventato-, osservò l’altro.

Dominic si irritò subito.

-Và a dormire-, borbottò. –Ma ti giuro che se russi o parli nel sonno ti sbatto fuori.

Sperò ardentemente che accadesse, per liberarsene, e Matthew trattenne un sorrisetto.

Il mattino dopo, Dominic inorridì. Non per qualche animale fra le coperte, o magari un cecchino appostato, pronto a colpire.

Matthew dormiva beatamente, abbracciato a lui.

Impulsivo e rude come quel mese l’aveva reso, Dominic lo scrollò con malagrazia, e Matthew si svegliò subito senza passare per l’intontimento mattutino. Notò subito la situazione in cui si era svegliato ed arrossì.

-Oh-, mormorò imbarazzato. –Non so come sia successo…-, pigolò. Perché si era avvinghiato a lui in quel modo? Uno che lo odiava, per giunta.

Dominic lo fissò sconcertato e confuso, con un’aria incerta.

-Andiamo-, disse infine allarmandosi. Gli spari erano già cominciati, anche se sporadici. I due scordarono subito l’accaduto, correndo fuori e caricando le armi con prontezza, in mezzo alla strada ed al quartiere ingrigito dal fumo e già coperto dal fumo. Entro la fine della giornata però avevano perso ancora terreno, ed erano tutti sempre più disillusi e scontenti.

-Sapete a cosa penso? A quante lettere di condoglianze avranno mandato alle famiglie-, disse Christopher sorseggiando il suo solito gin.

-Meglio non pensarci, invece-, ribatté un altro soldato, con un mezzo ghigno sarcastico e stanco.

-Ci sarà qualcosa che loro…insomma, una tecnologia che non conoscono, qualcosa che fa paura…-, suggerì Dominic ansimando esausto. Si passò la mano sul viso. Non aveva mai visto i tedeschi mostrare segni di debolezza o depressione, era incredibile. Stavano sempre dritti e ordinati, e pronti a scattare quando fosse loro richiesto.

 

Nei mesi successivi, se possibile, le cose andarono ancora peggio: nonostante il continuo flusso di rinforzi, era come spegnere un incendio enorme con qualche sporadico secchio d’acqua. Parigi era quasi del tutto invasa, violentata nella sua romantica bellezza dall’Uomo così rude e selvaggio, come una vergine indifesa nelle mani pesanti di un branco di trogloditi animaleschi. E le truppe anglo-francesi non trovavano un modo per uscirne.

Non era tutto. Dal punto di vista soggettivo di Dominic il problema era un altro, psicologico. Continuava a rivedersi davanti Jordan, il ragazzo morto di fronte a lui pochi mesi prima, che l’aveva catapultato di colpo nella dimensione spietata della fatalità, quella che regnava nella loro realtà. E anche di notte lo vedeva gettarsi ripetutamente nella trincea, con sempre maggiore dovizia di particolari, sempre più con orrore.

Non l’aveva evitato. Non sapeva come avrebbe potuto farlo, ma sentiva che avrebbe dovuto. All’improvviso, vide che la scena stava per ripetersi nel presente, con un soggetto diverso…e ora aveva la possibilità di evitarlo. Non sapeva perché fosse così importante, specialmente nel caso di lui; ma il fatto che lo odiasse non gli interessava: non doveva succedere di nuovo.

Comincia a correre col cuore al galoppo, con l’ansia, deve salvarlo, deve

Matthew si sentì scaraventato a terra con violenza urlando, e avverte tutto il peso di un altro uomo sulla schiena.

Girò la testa di scatto con tutto il proposito di cavare gli occhi al bastardo che pure in mezzo ad uno scontro sentiva il bisogno di fargli scherzi e…

Dominic stava ansando sollevato sul suo collo, e dopo qualche secondo si rialzò.

-Che cazzo fai?-, scandì Matthew, ringhiando e alzandosi a sua volta.

Dominic si accigliò offeso, e gli indicò un punto corrispondente alla finestra spaccata di un palazzo mezzo distrutto, nel centro città quasi irriconoscibile e annerito dal fumo.

-Tu…mi hai salvato la vita?-, balbettò stupito l’altro, fissandolo ad occhi spalancati, e per un momento non sentì più i rimbombi, le urla, il sudore su tutto il corpo mischiato al sangue altrui e proprio, ed allo sporco infiltrato da ogni parte; l’odore di bruciato, di metallo, di benzene e di decomposizione; il sapore della polvere e di crudo sulla lingua: tutto perse concretezza di fronte alla sensazione di essere scampati al nulla immediato o preceduto da una lunga agonìa rantolante a terra. E di fronte alla gratitudine, pure se avrebbe preferito doverne a chiunque altro ma non a lui.

Dominic non rispose, avrebbe voluto dirgli per esempio che non si illudesse di essere diventato il suo migliore amico, ma per qualche motivo rimase in silenzio, mascherò l’imbarazzo ricominciando a sparare e ostentando disinteresse per lui.

Matthew rimase a fissarlo, con mille domande per la testa e qualche fenomeno di elettrizzazione nel petto che pulsava di stupore.

 

Christopher invece era in licenza per un paio di settimane a Troyes, un paesino ad un’ora di treno da Parigi, dove non si vedevano effetti tangibili della guerra quanto piuttosto quelli indiretti, mascherati di normalità; dove l’alcol costava proprio poco, che meraviglia; dove il Sole splendeva sui tetti delle case in legno e sulle aiuole di fiori colorati vivacemente. Le viuzze ciottolate portavano ordinatamente alle piazze formicolanti, a chiese di una bellezza gotica tutta francese e anche a cupi bordelli dove il ragazzo trascorreva buona parte del pomeriggio e la sera, in quella pausa dal lavoro, trovando abbondante compagnia e soddisfazione.

C’erano tante bocche calde, mani delicate e ormai esperte, corpi sodi e piacevoli da toccare e dai quali farsi stuzzicare, capelli che solleticandogli il ventre gli facevano venire voglia di passarvi le mani attraverso. Dentro quell’Eden rovente di puttane e lussuria la penombra e l’odore di incenso ne mascheravano lo squallore con un velo di attrattivo senso di mistero; finché non arrivava una lingua qualsiasi fra le sue labbra a cancellare tutte le altre percezioni. Si sdraiava mollemente sul divano morbido e lasciava che una donna o una semplice ragazzina povera e senza alternative si facesse penetrare selvaggiamente in ogni modo possibile, anche se il prurito impenitente non finiva mai.

Dopo quel periodo fu mandato di nuovo a Parigi a cecchinare quei maledetti tedeschi, ma con la ferma intenzione di tornare ad assaggiare ancora e ancora quei corpi tiepidi.

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Capitolo 7
*** Animal ***


Stava piangendo ininterrottamente da almeno mezz’ora, rannicchiato nella trincea ovest, vicina al confine con la Germania, nel buio della notte, fra i fumi dello scontro finito da poco. Tremava cercando di non farsi sentire, perché un uomo non mostra i suoi sentimenti: è da finocchi, Matthew.

-Cosa ti prende, Bellamy?-, grugnì Christopher in tono scocciato. –Non hai proprio imparato, eh?

Il ragazzo non rispose, continuò a mordersi le labbra per cacciare i singhiozzi, per non svegliare qualcun altro.

-Oh, beh, arrangiati…e a proposito, buon Natale-, borbottò in tono sarcastico l’laltro, per poi allontanarsi, spostando corpi morti e carcasse di topi con la testa fracassata, e dopo un po’ si riaddormentò altrove.

Già, bel Natale. 25 Dicembre 1914, Cristo era nato da un’altra parte, per quanto lo riguardava. Lì non c’era.

Quel pomeriggio era stato Matthew a vedere la Morte da vicino, troppo per non rimanere scioccato, e forse per non cambiare visione su quello che credeva fosse il suo mondo.

Un attimo prima Albert Winston gli sta elencando, con sommo orgoglio, tutti i motivi per cui l’Inghilterra è migliore di tutti gli altri paesi, uno sparo rimbomba e l’attimo dopo il ragazzo cade, tace con la bocca nel fango, rantola di dolore e si contorce nell’agonia fino alla morte, come un animale.

Pochi momenti l’avevano riempito di violenza, terrore, angoscia, tutto insieme mescolato, premuto dentro al cuore, stipato con forza sadica dalla mano del destino…aveva  l’impressione che Qualcuno avesse voluto mostrargli da vicino cos’è la morte, cosa provocava in chi stava vicino ad Albert, uno che conosceva – anche se poco – quando moriva.

Piangendo voleva liberarsi di quell’ansia, l’angoscia, quella…rabbia, amarezza, frustrazione, vertigine, paura. E poi? Ancora rabbia. Odio e disillusione. Verso suo padre? O anche più in là, alla Camera dei Lord, o al Re e alla Regina, tutti quelli che avevano approvato la guerra, la carneficina. Anzi, non solo per loro. Odio per i governi degli altri stati e quello stronzo serbo o bosniaco o quello che era. Se non avesse sparato…E poi sentì commiserazione per gli altri soldati. Forse anche loro si sentivano come lui, forse anche loro maledicevano la Storia per averli condotti a quel punto. Forse pensavano le stesse cose, e forse non erano così diversi. Ognuno di loro aveva la propria storia da raccontare, e tutte meritavano di essere ascoltate, o almeno valorizzate. Eppure…eppure a chi se ne stava comodo al caldo, a casa, a leggere i dispacci davanti ad un camino caldo e confortevole, delle loro condizioni non importava. Normale, non vivevano niente direttamente, non potevano fare altro che commentare paciosamente e senza apparente interesse gli ultimi sviluppi, lisciandosi la barba e ordinando “un altro sherry, cara”. Era una scena che aveva già visto. Suo padre usava speculare così, calcolare i profitti in base al lavoro degli altri, e fino a quel momento non aveva mai messo in dubbio che in qualche modo quello fosse l’ordine naturale delle cose. Che i ricchi in qualche modo si meritassero di scampare alle responsabilità, che l’evoluzione della specie si fosse svolta in quel modo perché non c’era un’altra possibilità, perché era…ecco, giusto, non come diceva Rousseau.

Si guardò intorno, e fra le lacrime scoprì che al contrario era tutto così orribilmente sbagliato, così illogico. Eppure era la realtà, se ne accorse in tempo, scansando il pericolo di ricadere nel bovarismo più illusorio. Non poteva sognare altro, poteva solo sperare di sopravvivere.

Smise di piangere dopo qualche altro minuto di angoscia, con le guance calde e la bocca tremante. Guardò le proprie mani sporche e puzzolenti come tutto il resto della trincea – l’odore era nauseabondo, ma finora non se n’era accorto, ci si era abituato – e tirò su col naso. Basta piangere, Matthew, da domani non piangerai più di paura, si disse.

 

Dominic lo stava osservando attentamente da quando aveva sentito svegliandosi i primi singhiozzi, e si era chiesto cosa fosse successo. Nel buio riusciva a distinguere la sua figura minuta tremante, inginocchiata scompostamente, la fronte appoggiata al braccio e il braccio appoggiato al muro di fango e sassi. Non sapeva per quale motivo fosse così sconvolto, ma istintivamente provò un pizzico di tristezza. In fondo, chi lo diceva che anche i ricchi non soffrissero? E se Bellamy, pur essendo uno stronzo viziato, avesse avuto qualcosa di bello dentro di sé? Lui non lo poteva sapere, dopotutto. Lo osservava mostrare palesi segni di debolezza, e se da un lato gli sembrò solo un moccioso, dall’altro provò empatia, perché tutti stavano soffrendo e tutti si erano ridotti a macchine senza un’anima.

 In questo ruolo Christopher ci si ritrovava con sempre più comodità e sempre meno sforzo. Per lui i giorni scorrevano sempre più veloci e sempre meno memorabili, fino a passare giornate intere a sparare e bere solamente, senza scambiare una sola parola con nessuno. Si era trovato in quella situazione…beh, meglio evitare di morire, potendo farlo. E degli altri meglio fregarsene, lui non si sarebbe sicuramente sacrificato per qualcuno che non gli prestava la minima attenzione. Si era convinto del fatto che nella vita vincesse il più forte, ed era fermamente convinto di poterlo essere, che sarebbe tornato a casa illeso, o che magari gli avrebbero dato un’altra licenza a Troyes…
Oh, sì, quella era un'ottima ipotesi.
Prese il fucile e cominciò a lucidarlo.

 

 

 

Appena sveglio si accorse di avere fame, e guardandosi attorno scorse fra il fango, i detriti, pezzi di legno e carcasse di animali morti un sacco che doveva essere pieno di cibo. Con un ghigno soddisfatto lo prese, lo aprì impaziente e cominciò a pescare cibo a caso, ficcandosi in bocca grugnendo quanta più cibarie potesse, non importava se fosse buona o marcia. Gli bastava riempire la pancia, tutto qui.
Mangiando lanciava occhiate paranoiche tutto intorno, per essere sicuro che nessuno puntasse allo stesso cibo, come un topo vecchio e denutrito che divora gli avanzi del padrone di casa senza farsi vedere.
Finito il misero pranzo, si alzò dai liquami del suolo, fiutando qualcosa di insolito. Non l'odore di decomposizione o di merda e sangue mischiato a sudore, ma qualcos'altro, e chi sa cosa? Guardingo, percorse il corridoio in cui si trovava, si arrampicò sul bordo osservando da lontano la prima linea nemica.
Quanti crucchi ammazzerò oggi? canticchiò fra sé e sé, ghignando. Sapeva che godere nella morte altrui non era umano, ma dopotutto cos'era diventato? O meglio, cosa la vita l'aveva costretto a diventare? Esatto, gente, risposta esatta, quindi almeno era coerente. Essere cattivi dopotutto era una necessità, essere bestiali un obbligo. Aveva persino la stazza da cacciatore mortale, quindi perché reprimersi?
Vide una testa spuntare timidamente dal parapetto dell'altra trincea. Caricò la mitragliatrice e ghignando sparò.
Poi accese un sigaro, e si mise a pensare.
Era una fortuna che gli italiani avessero finalmente deciso di dare una mano, tanto indecisi fra appoggiare i cattivi e chi combatteva per il bene dei Popoli. Avevano stanziato quasi tutte le forze sull'Isonzo, a Sud, ma qualcuno era giunto anche al Fronte Occidentale portando un pò di sollievo agli animi già stanchi dei Francesi e degli Inglesi, con la loro inconfondibile goliardia. Inoltre c'era una voce più sussurrata che annunciata fra le file dell'esercito, per paura che potesse rivelarsi una terribile fandonia, solo un'altra propaganda.
Infatti la Russia era un luogo idilliaco. Lì i socialisti stavano davvero prendendo in mano la situazione, loro l'avrebbero fatta vedere ai maledetti ignoti che li mandavano al fronte. La Russia era enorme, ed una fonte di potenziale umano incredibilmente vasta. Qualcuno diceva anche "infinita". E, sempre stando alle indiscrezioni, lo Zar Nicola aveva mandato migliaia di soldati inondando di fredda risoluzione tutta Europa.
Grazie a Dio.
Sarebbero arrivati, e avrebbero spazzato via almeno gli Austriaci invasori. Via, come un soffio di vento. Li avrebbero puniti come l'Angelo della Morte mandato da Dio in persona a punirli delle loro iniquità. Schifosi tedeschi, schifosi Imperiali.
O perlomeno avrebbero dato un aiuto importante all'esercito stanziato da circa un anno sempre sulle stesse posizioni. I Russi avrebbero dato loro la possibilità di sferrare il fottuto attacco decisivo che cercavano, sfioravano gioiosi ad ogni assalto, salvo poi dover tornare al punto di prima, lasciando dietro di sé sempre una scia di cadaveri amici o familiari morti per nulla.
Lui non ci credeva. Aveva sentito queste dicerie, certo, ma anche che l'Impero Russo non se la passava bene, economicamente. Come poteva mandare a loro delle risorse umane essenziali se a malapena riuscivano a sfamarsi? E poi, da quando aveva sentito raccontare la prima volta la favoletta dell'esercito deus-ex-machina ne era passato di tempo. Dov'erano questi nuovi soldati? A Liverpool? Balle, lo sapeva.

La paura in un assalto era controproducente. E lui non ne aveva. Paura di morire? Puah.
Proprio in prima fila, correndo e urlando selvaggiamente, odorava ancora quell'odore strano, ma era troppo occupato a sparare a vista a chiunque per farci caso.
Vedeva solo macchie dello stesso colore sfrecciargli ai lati, macchie rosse e grigie di esplosioni, scie prodotte dai proiettili, ma quando l'odore si fece più forte perse ogni altra percezione.
Era minaccioso, l'istinto del pericolo lo avvisava a più riprese con continui rimescolamenti allo stomaco. Vide i suoi piedi. Legati ad una bomba.
Legati. Petrolio.
Troppotardi.
...No.
...PBOUM.

 

 

Esplose.

E successe tutto in pochi istanti.
Una luce accecante, polvere e pezzi metallici sfrecciarono dal punto di origine del bollore infernale che gli fece scoppiare tutta la gamba, lo sbalzarono all'indietro di qualche metro, ancora incapace di comprendere cos'era successo.
E poi, oh sì, poi arrivò l'onda alta di dolore. Inibì qualsiasi impulso, come se fosse costretto a rimanere fermo subendo quella tortura che non pensava nemmeno potesse esistere. Le ossa sbriciolate. L'insopportabile male lo fece urlare come non si era mai sentito fare in ventiquattro anni di vita, rantolare e strisciare implorando di farla finita, ti prego fammi morire se ci sei. Ti scongiuro. Pianse ruggendo come un animale colpito a tradimento, urlò e scivolò sempre più nell'oblio...con urla, spari, botti sempre più ovattati, il dolore sordo e i sensi gradualmente inibiti, si inabissò fino al buio.
In un attimo di coscienza, secoli o attimi dopo, vide solo il pulviscolo danzare assieme a quell'arto che ormai non poteva più sentire. I raggi di sole agonizzanti nel fumo filtrarono nel grigio e raggiunsero debolmente la sua vista sfocata. A terra strinse le dita fra l'erba. Udiva solo rumori lontanissimi, a chilometri di distanza, la testa pulsava. Pensò che era finita.
L'angoscia si impossessò di lui, e poi cadde, cadde, cadde.
Perse di nuovo i sensi lasciando sconfitto che la testa scivolasse a terra.


La battaglia di Verdun si era rivelata un totale fallimento, di proporzioni apocalittiche per uno spazio così ristretto, con così tanti corpi pressati vicini che si rischiava di colpire un alleato. Migliaia di morti in pochi giorni.
Dominic era stato lì, sempre nelle retrovie, rifiutando di salire di grado come gli sarebbe spettato per natura. In mezzo al fumo, le pallottole che riempivano l'aria quasi quanto la nebbia bianca che li avvolgeva. Fischi di bombe e successive esplosioni, boati assordanti e lui tremava di paura, urlando terrorizzato, gli occhi chiari e fragili spalancati, guizzanti da un punto all'altro, scattando istintivamente quando temeva che qualcuno gli stesse sparando; la mascella che scattava istericamente.
Urla di terrore nel caos, e gemiti morenti di chi era stato colpito. Ogni volta il cuore balzava nella cassa toracica.
Dietro quello che restava del muro portante di una casa trovò Matthew. Rannicchiato con la schiena contro il muro, aveva uno sguardo rabbioso negli occhi. Sembrava che fosse davvero deciso a combattere. Se non per la patria almeno per la sopravvivenza. Per poter almeno sperare di riuscire a difendersi o a proteggere qualcuno.
Almeno uno di loro. Sarebbe già stato tanto.

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Capitolo 8
*** The Modern Abraham ***


 

His purple fingers clutch a large cigar   

Plump, mottled fingers, with a ring or two.  

He rests back in his fat armchair. 

The war   Has made this change in him. 

As he looks through  

His cheque-book with a tragic look he sighs :   

" Disabled Soldiers' Fund " he reads afresh,  

And through his meat-red face peer angry eyes   

The spirit piercing through its mound of flesh.   

 

 

George Bellamy non era felice. Proprio no.

I telegrammi confusi e poco rassicuranti si susseguivano come foglie spazzate dal vento sulla sua scrivania, dispacci che descrivevano sommariamente le perdite in termini di prodotti metallurgici, risorse finanziarie e sintesi dell’andamento delle azioni a Wall Street. Tutto di male in peggio.

E poi quell’invito così stolido da parte dei soliti succhiasangue! 

 

“Siete fieri cittadini di Albione? 

Avete pregato, sperato per la vita dei nostri gloriosi eroi sul suolo di Francia? 

Bla bla bla… Vi preghiamo, con tutta la gratitudine dovuta alla Vostra gentilezza, 

di sostenere  bla bla bla… mutilati di guerra. 

Grazie per la Vostra indubbiamente sensibile attenzione.”

 

Rilesse distrattamente il foglietto, poi lo gettò con noncuranza sul fuoco, certo sperando che nessuno venisse a sapere che a lui non importava poi molto di quei soldati ormai inutili. I suoi soldi per cosa? Per mantenere dei ragazzotti senza gambe che in ogni caso sarebbero sempre stati inutili, e che avrebbero vissuto sulle spalle della società borbottando e lamentandosi della loro situzione? Eppure aveva firmato, l’anno prima, ad una cerimonia ufficiale per salutare l’ennesimo reparto in partenza per il fronte occidentale.

 

They should not ask me to subscribe again !   

Consider me and all that I have done  

I've fought for Britain with my might and main ;   

I make explosives and I gave a son.  

My factory, converted for the fight   

(I do not like to boast of what I've spent),  

Now manufactures gas and dynamite,   

Which only pays me seventy per cent.  

 

 

Lesse anche i resoconti sulla recente spedizione sullo Stretto dei Dardanelli, che sul Times era raccontata come un’avventura graziata da Dio e una riprova dell’eccellenza dell’Intesa, finora sbeffeggiata dagli Imperi Centrali “dei miei stivali”, borbottò. Essendo uno dei pochi meritevoli di sapere, però, riceveva continuamente dispacci e lettere che si riferivano anche indirettamente al completo – o quasi – disastro in atto. 

I soldati stavano cercando disperatamente di salire a riva e poi di arrampicarsi sulle scogliere, sudando e morendo in continuazione, per attaccare il nemico turco che avevano sottovalutato imprudentemente. Maledicevano i Tedeschi che avevano fornito le armi a quel popolo d’infedeli.

Il dirigente sapeva che in mezzo a loro c’era anche Matthew, e non si risparmiava dallo sbandierare a tutto il Devonshire che suo figlio “si sta sacrificando per tutti noi, già”.

-Oh, signor Bellamy, dev’essere fiero di suo figlio! Visto, Thomas? Il figlio del signor Bellamy è lì fuori a difenderci!-, esclamò Mrs. Temples con gli occhi accesi di ammirazione, rivolta al figlio sedicenne che appariva davvero poco interessato, e che si guardava attorno annoiato con la stessa aria aristocratica di Matthew, almeno da come lo ricordavano lì: mento perennemente sollevato dalla naturale superiorità e occhi socchiusi come se a malapena qualsiasi cosa fosse degna di essere guardata. –L’anno prossimo tocca a te, signorino!-, squittì la donna con un largo sorriso sornione.

-Sì, mamma-, borbottò il ragazzo, che sembrava non aver ascoltato una sillaba.

-Bravo, ragazzo-, commentò il signor Bellamy, con un sorriso accondiscendente.

Questa era la prassi: George Bellamy si appollaiava sul suo scranno fino alle cinque circa del pomeriggio, percorreva la distanza dal suo studio fino alla sala da tè del maniero sempre scintillante e piena di opere d’arte preziose risalenti a periodi precedenti il Grande Incendio di Londra, perlomeno; beveva la sua solita e tradizionale bevanda ambrata e svolazzava di nuovo al suo divanetto fra documenti, soldi e lettere ancora sigillate.

Dopodiché rimaneva occupato a stare seduto e al limite a fumare sigari, fino all’ora di cena, e dopo il pasto abbondante passava ancora qualche ora di ozio finché non si ributtava – esausto ma soddisfatto, complessivamente – nel suo letto caldo.

 

 

And if I had ten other sons to send  

I'd make them serve my country to the end,  

So all the neighbours should flock round and say :   

" Oh ! look what Mr. Abraham has done.  

He loves his country in the elder way ;   

Poor gentleman, he's lost another son !"  

 

 

[Giusto, questo è un nuovo capitolo :D Allora, la poesia presente in questo capitolo l'ho studiata l'anno scorso fra le poesie di guerra, non ricordo se è di Sassoon o di Owen (shippabilissimi fra loro <3), ma ho impostato il capitolo proprio su questa poesia, l'ho trovato perfetto XD Per ora ho finito di postare capitoli, prima o poi però mi prenderò del tempo per rileggere tutto e vedere di continuarla. Grazie a chi l'ha letta, apprezzata e a chi mi chiede di continuarla, ogni tanto XD]

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