And we'll be.... a dream

di DafneSky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'altro capo del filo ***
Capitolo 2: *** L'altro capo del filo, dall'altra parte della casa ***
Capitolo 3: *** Dall'altra parte della città. ***



Capitolo 1
*** L'altro capo del filo ***


Dormire senza sognare è come fare un sogno tutto nero. Nero. Nero a destra, nero a sinistra, su e giù. E il silenzio, silenzio da tutte le parti. Ecco perché capii di dormire sognando. Perché era nero ma sentivo la voce di mio padre. Sentivo lo stridio delle gomme sull’asfalto e la voce di lui che gridava: «Mettiti al riparo, Hannes!!!». E poi la luce. Luce rossa e arancione, luce calda. La luce di quando la macchina aveva preso fuoco. Ero così piccolo.
Credo di essere saltato giù dalla macchina un secondo prima dell’esplosione anche se non ricordo bene quel momento. Ricordo di me rannicchiato nella neve, la macchina accartocciata sul ciglio della strada, e la carcassa fumante di mio padre. Ma la luce del fuoco non esplose. Si espanse bruciandomi, girò, e la mia testa iniziò a riempirsi di voci. Mi trovavo al centro di quel vortice, un vortice fatto di ricordi, di momenti, assoli di chitarra, canzoni mai sentite, o sentite troppo spesso. E davanti ai miei occhi si susseguivano immagini sfocate. Sangue, morte, lupi dai denti affilati, la gabbia di uno zoo, occhi. Occhi neri, occhi rossi, occhi color nocciola, occhi azzurri…
«Non ricordare, i bambini hanno il brutto vizio di spifferare tutto»
«Yu! Yu, ti voglio bene»
«Cheese!!! Yu, sorridi»
«Che imbranato!»
«Imparerai a non sottovalutare una quattordicenne, stupido»
Immagini su immagini, voci che si sovrapponevano, e io che non capivo più niente finchè tutto si bloccò. Si fermò sull’immagine dello zoo. Era tutto sfocato, come se stessi indossando delle strane lenti deformanti. Una scimmia sonnacchiosa si aggrappò alle sbarre della gabbia, e quasi contemporaneamente entrò una figura nuova nel mio campo visivo. Una bambina, bassa, capelli corvini lisci e lunghissimi, avvolta in un pesante cappotto nero. Il rumore dei suoi passi mi giunse ovattato. Non capivo, lei non faceva parte dei miei ricordi. Chi era? Teneva lo sguardo basso, le mani nelle tasche, e i suoi occhi azzurri erano cerchiati di matita nera e ombretto grigio scuro. Le labbra erano tinte di un nero pesante e opaco. Una strana ragazzina, me la sarei dovuta ricordare. Lei alzò la testa e puntò gli occhi dritto verso di me:«Imparerai a non sottovalutare una quattordicenne, stupido», esclamò. La sua voce acida e arrabbiata mi fece gelare il sangue nelle vene. Come se mi avesse trafitto. Associai quella voce a un demone. Un incubo, tutto qui.
Aprii gli occhi ansimante, con la fronte imperlata di sudore. Istintivamente presi il mio coniglietto di peluche e me lo infilai nei boxer, con il fiatone e gli occhi spalancati che cercavano di mettere a fuoco la mia stanza, nell’oscurità. Era stato solo un brutto sogno, incredibilmente reale, ma solo un sogno. Mi lasciai ricadere sul materasso sospirando e mi tolsi il peluche dalle mutande, scaraventandolo altrove. Il telefono squillò facendomi sobbalzare, l’orologio segnava le tre di notte. Ormai ero sveglio, perciò posai i piedi a terra sul pavimento gelido, aprii la porta di camera mia e poi raggiunsi il salotto a tentoni. Tastai il muro in cerca dell’interruttore e poi afferrai il telefono cordless buttandomi sul divano e facendomi pure male all’osso sacro.
«Chi è?», domandai con la voce impastata dal sonno, stropicciandomi gli occhi annebbiati. A giudicare dai rumori in camera di Anja e Kiro non si stava ancora dormendo. Scossi la testa infastidito e tornai concentrato sul telefono.
«Tu chi sei?», sbottò la voce di una ragazza. Gelida. Quella voce mi fece rabbrividire.
«Dovrei fartela io questa domanda», osservai un po’ perplesso.
«Cerco Anja», rispose secca la voce al di là del filo.
«Anja sta dormendo». Sì, se Anja dormiva io ero la reginetta rosa delle fate e me la facevo con Campanellino.
«Dorme già alle nove di sera?».
«Tre di notte, sono le tre di notte», cominciavo a spazientirmi. «E tu saresti uno di quei froci che ha appesi in camera? Come vi chiamate? Cincin bazar… Sei quello nano con il naso da ippopotamo, il chiodo che sembra Miss Maglietta Bagnata o quella femminuccia di mio cugino?». Mi dava sui nervi. Deglutii solo per non riempirla delle peggiori parolacce.
«Sono lo scemo con i capelli a strisce rosse», dissi ironico. Lei tacque. Eppure la sua voce l’avevo già sentita.
« Beh, non importa chi sei. Dì a Anja che arrivo domani alle 10 all’aeroporto di Berlino». Mi riattaccò il telefono in faccia e io rimasi con un palmo di naso. Non si era neanche presentata, ma avendo chiesto di Anja e avendo chiamato Strify cugino, potevo ben immaginare chi fosse. Posizionai di nuovo il telefono nella base e guardai il soggiorno pressoché spoglio e intonacato di bianco, indeciso sul da farsi. Non me la sentivo di avvisare Anja proprio mentre lei e Kiro… Però in quel modo nessuno sarebbe andato a prendere sua sorella il giorno dopo. Scossi la testa e andai nel largo corridoio dove si affacciavano le porte delle nostre camere.
Accesi l’interruttore e spensi la luce in salotto sbadigliando. A piedi nudi sul pavimento gelido mi diressi verso l’unica finestra del corridoio, in fondo. Una grande grossa finestra grigia. Grigia come il panorama che di solito appariva oltre il vetro. Scostai le tende bianche e gettai uno sguardo fuori alla città immobile e silenziosa. Ogni rumore, ogni luce dei lampioni, ogni finestra accesa era avvolta nel più ovattato dei silenzi. Dal cielo piovevano come caramelle infiniti fiocchi di neve che andavano a depositarsi lentamente sulle strade deserte di periferia. Il cielo nero mi lasciava il cuore vuoto, come se qualcuno mi stesse liberando di un enorme peso, o me ne stesse caricando. Chiusi di scatto le tende e scossi la testa. Mi sentivo tremendamente confuso dopo quell’incubo. Un incubo che si ripeteva da un mese ormai, tranne che per l’ultima parte. La parte di quella ragazzina spaventosa. Mi misi con le spalle a muro e scivolai al suolo senza dire una parola, accasciandomi e prendendomi la testa fra le mani.
Sfuggivo all’idea che quei sogni significassero qualcosa. La rifiutavo, ma un angolo della mia mente continuava a riproporre quell’ipotesi assurda. Mi alzai stancamente, avevo dormito poco e male, ma non sarei riuscito a riaddormentarmi. E non volevo disturbare Anja, non ero stronzo fino a quel punto. Mi chiusi in bagno una volta nudo e mi infilai sotto la doccia. Fuori doveva fare davvero freddo, in fondo era già il 19 Novembre… E sembrava che la neve avesse tutta l’intenzione di attaccare. Detestavo uscire con un tempo del genere, ma non negavo che la neve fosse uno spettacolo magico e poetico. La verità è che non amavo il freddo e… la neve mi ricordava la notte in cui mio padre morì nell’incidente. Nevicava anche allora. Chiusi la manopola della doccia sospirando, e scarabocchiai con il dito i vetri condensati. Poi li aprii e iniziai ad asciugarmi lentamente, godendomi il calore del vapore che aleggiava per tutto il bagno.
Avevo preso una decisione dettata dall’istinto più che dalla ragione. Senza neanche curarmi di avvolgermi in un asciugamano attraversai il corridoio deserto e entrai in camera mia. Al buio cercai degli abiti puliti e molto pesanti e mi rivestii. Lasciai il letto disfatto, ma mi ci sedetti sopra per infilarmi le scarpe nere, poi sospirai di stanchezza e andai nel soggiorno spegnendo tutte le luci dietro di me. Imbucai la piccola cucina, un angolo ricavato nel soggiorno e separato con una semplice porta scorrevole. La cucina di casa Bizarre era come il resto della casa, spoglia. I mobili erano di un bianco crema che dava l’idea di cucina molto moderna, e anche il tavolo, quadrato, in cui stavamo stretti poteva darti ad occhio la stessa impressione. Ma a parte quello e una grande finestra con la cornice d’acciaio era vuota e desolata. Aprii la dispensa e presi un pacchetto di biscotti al cioccolato. Lo aprii e iniziai a mangiare sedendo scompostamente a tavola. Il ronzio della lampada al neon era l’unico rumore nel giro di miglia, tant’è che potevo contare le macchine che passavano giù in strada fendendo lo spesso strato di neve formatosi sull’asfalto. Poche, pochissime. Soltanto tre.
E mentre mangiavo non pensavo a niente. Tuffavo stanco la mano nel pacchetto, afferravo un dolcetto e poi me lo infilavo in bocca, come in trance. Non mi chiedevo neanche perché mi fosse venuta quell’idea stupida e priva di senso. Sarei dovuto tornare a dormire per recuperare il sonno che quei maledetti incubi mi toglievano. E invece mi limitai a posare il pacchetto mezzo svuotato nella dispensa, a tirare giù la giacca nera dall’attaccapanni, prendere le chiavi della macchina sul mobiletto d’ingresso e uscire dall’appartamento il più silenziosamente possibile.

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Capitolo 2
*** L'altro capo del filo, dall'altra parte della casa ***


Da circa due mesi oramai stavo in allerta. Senza dare nell’occhio, senza comportarmi stranamente, però percepivo qualcosa che non mi piaceva. Le vibrazioni nell’aria emanavano talmente tanta negatività da influenzare i sogni di Yu, nella camera accanto alla mia. Neanche io riuscivo a dormire per la verità. Passavo la notte sui miei libri, escogitando una contromossa al male ignoto che si apprestava a incombere. Prevedevo solo che avrebbe interessato un territorio grande quanto l’intera nazione. Qualcosa si era risvegliato e pensavo anche di sapere cosa. La faccenda mi spaventava. Non sarei riuscito a fermarlo da solo…
Quella notte ero andato a dormire da soli cinque minuti quando un presentimento mi svegliò di soprassalto. Era a Berlino. Mi guardai attorno in preda al panico, nel buio della mia stanza. Nel silenzio riuscii a sentire Yu che oltre la parete che ci divideva gemeva e mugolava nel sonno. Di nuovo gli incubi. Chiusi gli occhi deglutendo e cercai di focalizzare il mio amico nella stanza accanto. Era sempre il solito incubo. Ricordi, vortici, immagini troppo veloci per distinguerle, risate, canzoni. Il caos totale. E poi tutto si fermò. Non era mai successo da quando tentavo di leggere i sogni di Yu, nessuna immagine si era mai fermata abbastanza a lungo per essere focalizzata. Sembrava uno zoo, la gabbia delle scimmie. Una ragazzina completamente vestita di nero mosse qualche passo,pensierosa. Chi era? Magari un ricordo dell’infanzia o dell’adolescenza di Yu.
«Imparerai a non sottovalutare una quattordicenne, stupido». Voce tagliente, brutale, sguardo gelido. Chi era? Notai solo allora un anello d’acciaio al suo dito, raffigurante una runa bianca. Lessi: Giustizia.
Un attimo dopo tutto svanì, Yu si era svegliato e io mi ritrovai ansimante nel letto con la testa che mi scoppiava per lo sforzo enorme appena compiuto. Sentii il telefono squillare, di nuovo il presentimento. Mi misi a sedere sul letto deglutendo a fatica, mentre sentivo i passi di Yu nel corridoio. Rispose al cordless in salotto, per mia fortuna, cosicché riuscii a sgattaiolare in corridoio e ad alzare la cornetta del telefono fisso sul mobiletto vicino al ripostiglio, acquattandomi silenziosamente nell’ombra.
«Chi è?»
«Tu chi sei?»
«Dovrei fartela io questa domanda»
«Cerco Anja»
«Anja sta dormendo»
Gettai un’occhiata alla porta di camera di Kiro e Anja. A giudicare dai rumori non sembrava stessero dormendo, ma immaginai Yu avesse mentito per rispettare la privacy dei nostri amici.
«Dorme già alle nove di sera?»
«Tre di notte, sono le tre di notte».
Perché la ragazzina a telefono sosteneva che fossero le nove di sera? Feci un piccolo calcolo. Meno sei ore, il fuso orario americano. E Anja viveva in America, se non andavo errando.
«E tu saresti uno di quei froci che ha appesi in camera? Come vi chiamate? Cincin bazar… Sei quello nano con il naso da ippopotamo, il chiodo che sembra Miss Maglietta Bagnata o quella femminuccia di mio cugino?».
E chi sarebbe stato questo chiodo che sembrava Miss Maglietta Bagnata?, pensai offeso. Ma non c’era tempo di fare i preziosi, doveva essere la sorella di Anja, senza dubbio.
«Sono lo scemo con i capelli a strisce rosse»
« Beh, non importa chi sei. Dì a Anja che arrivo domani alle 10 all’aeroporto di Berlino».
La pulce odiosa riattaccò il telefono senza neanche salutare, e io la imitai, tornandomene di soppiatto in camera. Non so perché avessi origliato, ma sapevo di aver fatto la cosa giusta. L’arrivo imminente di quella ragazzina aveva qualcosa a che fare con la minaccia che oscurava Berlino, lo sentivo, e sapevo anche dove trovarla. Chiusi silenziosamente la porta e mi misi a spiare dalla serratura tutti i movimenti di Yu. Si diresse dapprima verso la finestra, ma il buco da cui spiavo era troppo piccolo perché io vedessi i suoi movimenti.
Aspettai con il cuore in gola per vari minuti, poi lo vidi passare davanti a me e chiudersi in bagno. Sospirai tornandomene a letto. Perché non si muoveva a dirlo ad Anja? Aveva forse intenzione di lasciare il mio “indizio” all’aeroporto? Sentii l’acqua della doccia iniziare a scrosciare, che intenzioni aveva? Attesi per circa dieci minuti che il rumore dell’acqua cessasse e poi mi appostai nuovamente vicino alla serratura. «Andiamo…», bisbigliai.
Quando uscì era completamente nudo. Arrossii ma subito dopo mi tirai uno schiaffo per tornare lucido, nonostante il sonno. Quando lo vidi ricomparire in corridoio vestito di tutto punto capii finalmente che intenzioni avesse. Sbadigliai e tornai a letto, senza riuscire comunque ad addormentarmi. Dentro di me c’era la necessità di fare del bene, indipendentemente dalla mia volontà. Sarei stato segnato per sempre da quelle quattro rune bianche: Pace, Equilibrio, Potere… e Giustizia.


AU:
Non mi aspettavo subito DUE recensioni!! No, proprio no xD Quindi ringrazio di cuore Kikka e Lucilla per avermi da subito dato fiducia.In realtà io avevo già iniziato a pubblicare questa fan fiction con un altro utente di cui non ricordo la password e che... sembra sparito. EFP non mi manda la mail con la nuova password e mi sono trovata costretta a fare un utente nuovo^^ L'altra ff la cancellai per mancanza di ispirazione dopo lo scioglimento della band, e dopo un brutto periodo durato fino a Giugno, l'ho ripresa e ora è a buon punto sul mio pc ^^ Questo è un capitolo un po' di passaggio... il narratore non è Yu, bensì... chi lo sa xD Ci si può arrivare anche da sole, tranquille^^ Tra qualche giorno posto il capitolo 3 *w*

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Capitolo 3
*** Dall'altra parte della città. ***


Io per Anja farei qualsiasi cosa. Abbiamo avuto le nostre incomprensioni, ma a dirla tutta è stato amore a prima vista. Quando è volata sul cofano della nostra macchina mi è parsa un angelo, ho creduto di avere le allucinazioni. Eppure lei è forte. Si è ripresa la sera stessa e non faceva che guardarmi… E’ una di quelle situazioni in cui ti rendi conto di provare qualcosa e non puoi farci niente, non puoi scappare, e un po’ hai paura ma un po’ dici anche: beh, se le cose stanno così io non mi arrendo prima di lottare. E non ho neanche dovuto lottare parecchio. Quella notte… quella notte non prendevo sonno. Facevo i miei soliti pensieri “impuri” e subito dopo mi vergognavo anche solo di averli formulati dentro di me. Anja è pura, Anja è semplice come una bambina. Ed è per quello che la amavo. E’ per quello che la presi in braccio e la portai nel mio letto, e rimasi a carezzarle i capelli tutta la notte, accanto a lei. E non fu facile tenermi a freno, ma neanche impossibile. Volevo vederla pura per sempre, bella e sorridente. Non dormii quella notte, ma quando lei si svegliò io chiusi gli occhi. Mi vergognavo di averla portata nel mio letto e non volevo darle alcuna spiegazione. Ma non ce ne fu bisogno…
Kiro


Scesi le vecchie scale di marmo, i miei passi riecheggiavano contro le pareti bianche. C’era il silenzio devastante che solo la notte poteva dare. Rampa dopo rampa arrivai al portone principale del palazzo, una pesante soglia di doppio vetro con l’intelaiatura di acciaio.
Girai la maniglia stringendomi nel cappotto nero e uscii nell’aria gelida della notte, posando i piedi sul marciapiede innevato. Sbuffai una nuvoletta di vapore frugando nella tasca in cerca delle chiavi della macchina. La strada adesso non sembrava grande come quando la vedevo dal quinto piano. Era solo una semplice via rinchiusa in mezzo ai palazzi grigi dove le file di lampioni continuavano come lunghi serpenti estendendosi all’orizzonte fino a diventare piccole lucine. Sedetti al posto di guida, inserendo la chiave nel quadro e mettendo in moto. La macchina non aveva le catene, ma la neve era fresca e non si era ancora formato lo strato di ghiaccio sull’asfalto. Le poche tracce di pneumatici lasciate sulla carreggiata si stavano nuovamente ricoprendo. Feci manovra per uscire dal parcheggio e poi partii lentamente alla volta dell’aeroporto. Accesi la radio giusto per non addormentarmi e poi gettai uno sguardo all’orologio: le cinque e mezza. Avevo cinque ore per attraversare la città, arrivare all’aeroporto e informarmi sul luogo dell’arrivo di quella ragazzina di cui tutto sommato non sapevo nemmeno il nome. Uscii dalla strada e imboccai la via per il centro, mentre i tergicristalli tentavano di rimuovere freneticamente lo strato di neve che si formava rapidamente sul parabrezza.
«A tutti gli ascoltatori molto mattinieri auguriamo una bella giornata, anche se la neve causerà molti problemi. Greg, dacci il meteo!».
« Sono previste forti nevicate per tutta la settimana. C’è un’intensa perturbazione atlantica diretta verso il centro dell’Europa, vi consiglio vivamente di tenervi stretti alla vostra sciarpa e cappello perché l’inverno si preannuncia davvero freddo quest’anno!».
«Grazie mille Greg. Brrr… in studio c’è il riscaldamento al massimo e sto morendo ugualmente di freddo!», esclamò la conduttrice radiofonica. Io sbuffai una nuvoletta di vapore stringendo convulsamente il volante. In quella vecchia automobile il riscaldamento si era rotto da un pezzo, l’anno prima Shin si era pure preso la febbre mentre andava a Neumünster da un amico. Andammo là in treno, lo imballammo come un soprammobile in sei piumini imbottiti e lo caricammo di peso in macchina per riportarlo a casa.
Dopo circa due ore arrivai nell’enorme parcheggio dell’aeroporto, poco fuori città. Non era ancora smesso di nevicare, e mi chiesi se gli aerei avessero avuto dei ritardi a causa del maltempo. Aprii lo sportello con le mani congelate e poi lo richiusi violentemente. Mettendomi la mani a coppa davanti alla faccia tentai di alitarci sopra per riscaldarle, ma ormai le muovevo a stento, perciò le infilai nelle tasche della giacca e mi avviai verso l’entrata dell’enorme edificio, arrancando nella neve alta fino ai polpacci. Sentivo i pantaloni bagnarsi. Quando finalmente entrai nell’enorme ambiente dell’aeroporto e fui investito dai potenti getti del riscaldamento mi guardai intorno in cerca di un banco delle informazioni.
«Ehm, mi scusi signorina, vorrei sapere dove atterra il prossimo volo da Los Angeles, e magari anche dove posso trovare un bar», dissi appoggiandomi stancamente al banco informazioni. La ragazza (carina) sorseggiava una tazza di caffè fumante, e premette qualche tasto sul computer.
«Gate 10. Devi prendere quella scalinata a destra e poi trovi le indicazioni. Il bar si trova anche nella sala d’attesa del gate, tranquillo», mi disse sorridendomi, nonostante fosse visibilmente stanca. Feci per girarmi ma lei mi fermò:«Sei Yu dei Cinema Bizarre?», mi chiese. Io annuii, e lei mi sorrise.
«La vostra musica mi piace», si limitò ad ammettere con un sorriso rassicurante. Fantastico, la prima cosa buona della giornata a quanto pareva.
Mi avviai sbadigliando nella direzione indicata dalla ragazza del banco informazioni, senza fretta. Avevo circa due ore e mezzo di tempo prima che la sorella di Anja arrivasse.
Pensai ad Anja, a quant’era bella, e che forse adesso stava dormendo un po’… Abbracciata a quel nano. Mi infastidiva così tanto l’idea, eppure mi ero rassegnato.
Salii le scale e poi svoltai a destra seguendo le indicazioni per il gate 10. La fila che solitamente si faceva all’imbarco a quell’ora era ridotta a pochi uomini e donne d’ufficio in giacca e cravatta con in mano un barattolo di caffè e una ventiquattrore di pelle. Mi misi ad aspettare nella sala d’attesa, pressoché deserta. Il barista non era al banco. Dietro di me, la grande vetrata che dava sulle piste di decollo e d’atterraggio piena di spazzaneve intenti a sgomberarla dal ghiaccio, nonostante il tempo non desse segno di miglioramento. Una settimana intera di neve… che strazio. Mi appoggiai allo schienale della sedia e chiusi gli occhi.
«Il volo 1028 proveniente da Los Angeles sta per atterrare al gate 10. The flight 1028 from Los Angeles is going to arrive at the gate 10»
Mi risvegliai di soprassalto guardandomi attorno allarmato. Il numero delle persone in attesa non era salito di molto. Mi distesi il ciuffo arruffato e poi mi alzai sbirciando fuori dalla vetrata. In lontananza nel cielo innevato, si distingueva appena la sagoma di un aereo. Mi diressi al banco bar:«Scusi, vorrei… mhm… Di che sono ripieni quei cornetti?», domandai indicando dei croissant nella bacheca. L’uomo me li indicò uno a uno indicando i gusti:«Marmellata di fragole, d’albicocca e cioccolata».
«Due all’albicocca per favore», dissi tirando fuori il portafoglio e posando cinque € sul banco. Lui mi imbustò i cornetti e nel frattempo gli altoparlanti avevano annunciato di nuovo lo stesso messaggio. L’aereo ormai vicino planò e atterrò dolcemente sulla pista. Chissà com’era fatta, se contrariamente ai suoi modi odiosi era carina come la sorella… Chissà quanti anni aveva.
Seguii le altre persone che andavano nella sala adiacente. Non era illuminata come l’altra, era chiusa e senza finestre, l’unica fonte di luce erano delle lampade alle pareti. Su un nastro trasportatore iniziarono a scorrere lentamente i bagagli dei passeggeri, solo sei valige in tutto. Iniziai a leggere i cognomi dei proprietari, cercando Lieber.
«Lieber, Lieber, Lieber… », arrivai all’ultimo bagaglio. Un borsone nero dalla forma strana, come se dentro ci fosse stato infilato qualcosa di quadrato. Lessi il nome: Lieber.
«Eccoti qua!», esclamai tirandolo giù dal nastro trasportatore.
«Tu hai l’aria da scemo, e i tuoi capelli sono a strisce rosse». Quella voce alle mie spalle mi fece gelare il sangue nelle vene. Mi girai lentamente, deglutii.
«Che hai da fissare? Dammi il borsone, ci sono cose delicate dentro!», sbottò la ragazzina tirandomi via il bagaglio di mano.
Avvolta in un lungo cappotto di pelle nera da cui spuntavano dei pantaloni a sigaretta, enormi stivali borchiati, entrambi dello stesso colore. Alle dita portava innumerevoli anelli argentati dagli strani simboli e i capelli, nerissimi e lisci erano raccolti in una lunga coda sulla nuca. La lunga frangia nascondeva buona parte degli occhi, di un azzurro glaciale, cerchiati di colori scuri e la bocca distorta in una smorfia antipatica era tinta di un viola tendente al nero. Bassa, una ragazzina minuta dall’aspetto inquietante. Non smettevo più di fissarla aprendo la bocca come per dire qualcosa, e poi richiudendola, come uno stupido.
«Dov’è Anja?», sbuffò lei iniziando a camminare svelta verso l’uscita con il pesante bagaglio in mano, e io tentai di raggiungerla dopo un primo attimo di confusione. Sicuramente mi ero sbagliato, non era lei. Non era la ragazza che avevo sognato quella notte, era impossibile, era…
«Allora, ti decidi a rispondere?», sbottò lei senza neanche voltarsi verso di me.
«Anja dorme», dissi infine trovando il coraggio di risponderle.
«Che carina. Sua sorella arriva dopo un viaggio di quasi nove ore e lei dorme beata», sbuffò.
Non riuscii a comprendere appieno il vero senso di quell’affermazione. Per quanto la sua voce fosse ironica e tagliente ci avevo letto anche un velo di malinconia.
«Sono Yu», mi presentai. Lei mi ignorò, apparentemente.
Uscimmo dall’aeroporto e il vento gelido ci frustò la faccia, ma lei rimaneva impassibile. Stavolta fui io a guidarla attraverso il parcheggio, mentre lei mi seguiva in silenzio camminando in mezzo alla strada ben spalata dalla neve. Dovevano averla ripulita mentre io attendevo che quella strana ragazzina arrivasse. Le aprii lo sportello dei sedili posteriori e lei ci scaraventò il suo bagaglio “delicato”, poi girò intorno alla macchina e si mise a sedere scompostamente sul sedile del passeggero, sbuffando nuvolette di vapore.
«Io comunque sono Ama», aggiunse con voce incolore mentre lasciavamo il parcheggio e tornavamo a Berlino.

«Fermati!»
Inchiodai con la macchina con il rischio di andare fuori strada e colpire i passanti sul marciapiede.
«Ma sei scema??», gridai mentre accostavo. Ama si scaraventò fuori dalla vettura e iniziò a correre per il marciapiede. Eravamo in centro ormai, per circa un’ora non avevamo proferito parola, i nostri occhi erano rimasti incollati ala strada, fino a quell’esclamazione repentina della ragazza. Mi aveva colto talmente di sorpresa che avevo rischiato un incidente, e quella senza dir niente si era fiondata fuori dall’auto.
«Cazzo…», imprecai spazientito e smontai chiudendomi lo sportello dietro con stizza.
«Sta ferma!!!», la rincorsi sul marciapiede innevato, mentre tutti si giravano a guardarci. Quando la raggiunsi lei non si fermò, ma continuò a correre e svoltò in una strada secondaria.
«E’ un vicolo cieco, da quella parte non troverai altro che un pezzo del vecchio muro!», esclamai tentando di fermarla. Lei si bloccò non appena arrivò nel vicolo senza sbocco. Guardò il muro riempito di graffiti davanti a sé con il fiatone, guardandosi attorno spaesata.
«Visto, te l’avevo detto», ansimai.
« E’ stato qui…», sussurrò scuotendo la testa. Io la fissai confuso:«Chi?»
«Fatti gli affari tuoi!», esclamò, girò i tacchi e se ne andò impettita.
«Non ti sopporto!», sbraitai raggiungendola. Non ammettevo che una stupida ragazzina mi trattasse così.
«La cosa è reciproca», replicò lei impassibile. Montammo di nuovo in macchina.
«Si può sapere che ti è preso?», le domandai dopo che mi fui calmato. Lei mi guardò per la prima volta a disagio:«Avevo visto un… mio amico», mentì.
«Non ci credo», replicai.
«Non ha importanza. Tu sei come gli altri, probabilmente non ti accorgerai di niente e la tua vita continuerà in tutta normalità», sospirò. Ero sempre più confuso.
«Non capisco…», ammisi. Lei scosse la testa come se stesse parlando con un totale imbecille e si chiuse nuovamente nel suo silenzio.
«Vuoi andare subito a casa o visitiamo un po’ la città? E’ quasi l’ora di pranzo… a proposito, se hai fame ti avevo preso delle brioches», tentai di smuoverla un po’. Quella ragazzine mi metteva tristezza. Non tanto per il modo di vestire che in sé aveva un certo fascino gotico. Più che altro era il suo sguardo spento, il modo in cui si rannicchiava sul sedile quasi a volersi nascondere, e i momenti in cui la sua maschera di indifferenza cedeva sembrava una bambina indifesa. Continuavo a lanciarle occhiate fugaci, ma lei, immobile, continuava a fissare la strada, mentre scivolavamo silenziosamente attraverso il traffico dell’ora di punta.
«Andiamo a casa», disse alla fine mogia guardandosi intorno in cerca dei croissant. Afferrò il sacchetto e ne tirò fuori un cornetto addentandolo famelica.
«Ne vuoi uno?», mi domandò titubante. Io scossi la testa, lei allora finì il primo con un morso e estrasse anche il secondo dal pacchetto di carta.
«Anja… dì, la verità, non voleva vedermi e adesso sta escogitando un modo per trasferirmi in un albergo il prima possibile», la sua voce per l’ennesima volta ruppe il silenzio.
«Non sa neanche che stai arrivando». Cadde un silenzio imbarazzato.
«Perché non l’hai avvertita?», mi chiese lei perplessa. «Era con il suo ragazzo».
«Ah». Sembrava… quasi sorpresa.
Parcheggiammo sotto il nostro palazzo e lei insistette per portarsi da sola la borsa. Adesso che Berlino si era svegliata neanche la neve che continuava imperterrita a cadere riusciva a smorzare i suoni del traffico.
Aprii il portone e iniziammo a salire le scale immersi nel nostro abituale silenzio. Ama, via via che salivamo si guardava attorno sospettosa, come se stesse cercando qualcosa.
Giunti davanti al portone dell’appartamento parve farsi sempre più confusa. La guardai interrogativo, ma lei si limitò a girare la testa di scatto e a serrare le labbra.
«Eccomi», annunciai sfilando le chiavi dalla toppa e entrando nell’appartamento.
Anja e Strify stavano giocando alla playstation, Romeo sfogliava una rivista e Shin era ai fornelli. Sentivo profumo di torte.



A/U:
Grazie ancora per il commento... spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^ Bye

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