Una catena d'odio...

di scarlett666
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Quando il primo anello prese forma... ***
Capitolo 3: *** Rivalità fraterna... ***
Capitolo 4: *** Germoglia nel sangue la Foglia scarlatta... ***
Capitolo 5: *** La Valle della Fine... ***
Capitolo 6: *** Ti odio, non ti sopporto... ***
Capitolo 7: *** ... ti do la mia vita ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


...la catena degli Uchiha

…la catena degli Uchiha.

 

 

Ebbene, carissimi lettori e lettrici, eccomi innanzi la vostra illustrissima presenza per annunciare l’avvento di un nuovo, sudato, a lungo desiderato e progettato, piuttosto strano ed un poco privo di senso, lavoro della sottoscritta!! Ò.ò 

Tanto per cambiare si tratta di un esperimento, che mi è costato ore ed ore di alacre lavoro di documentazione, insomma una faticaccia immane. Vi prego pertanto di essere clementi e sacrificarvi un pochino sottoponendovi alla lettura di questo…polpettone Uchiha!!

Già-già…ho scritto proprio quel che pensate di aver letto! U-C-H-I-H-A! Ecco a voi la versione “Beautiful” della saga del clan più problematico e contorto di tutta la serie di Kishimoto-sensei.  Cercherò di ripercorrere, partendo dalle origini e dai fondatori, un po’ tutte le vicissitudini ed i punti salienti che lo hanno attraversato, trattando per ogni capitolo un evento particolare di un personaggio appartenente al clan, in ordine più o meno cronologico. Paura,eh?

In ogni caso tranquilli, non rischio di perdermi nel meandri delle loro perverse menti, anche perché da brava boy-scout (non è vero non sono assolutamente una scout ed il mio senso dell’orientamento lascia anche piuttosto desiderare) mi sono premunita di schemino riassuntivo e scaletta. Insomma ho già deciso chi saranno i fortunati protagonisti (che ovviamente non vi rivelo) ed ho anche già stabilito il numero dei capitoli, 15 a partire dal prossimo, che ovviamente sarà il primo.

Dato che questa “cosa” mi impegnerà (anch’io che razza di idee ho in questa testaccia) parecchio, perché sostanzialmente si tratta di un lavoro di ricostruzione di parecchi eventi anche precedenti al manga, ho preso due decisioni:

  • Posterò questa introduzione da sola, e solo successivamente aggiungerò il primo capitolo (che è già pronto), in modo da capire se questa fiction può avere senso e ovviamente seguito. Attenderò quindi un giorno o due per sentire un po’ le vostre opinioni a riguardo
  • Soprattutto i primi capitoli mi costringeranno a svolgere un po’ di ricerche “bibliografiche”, quindi purtroppo gli aggiornamenti non saranno veloci come le altre volte (in ogni caso credo di poter garantire una volta a settimana).

Come precedentemente accennato ogni capitolo è una specie di flash su un evento particolare, crucciale a mio avviso per lo sviluppo dell’intero manga. Un filo conduttore lega ogni singola parte ricollegando fra di loro gli eventi, proprio come in una catena ogni anello è fine a se stesso e si chiude congiungendo l’inizio con la fine, ma a sua volta è agganciato saldamente al precedente ed al successivo, formando una lunga catena d’eventi in districabili fra loro. (o forse in questo caso è più una matassa?) ç.ç

Beh, i collegamenti ed il taglio della narrazione ovviamente sono un mio personale punto di vista, non ho di certo avuto il consenso del mangaka originale, tuttavia gli ultimi capitoli usciti in Giappone mi hanno illuminata parecchio su tutto lo svolgersi della storia…è bello delirare su un clan estinto!!

Ed ora carissimi, vado a farmi la frangetta da Hinata per il cosplay di sabato…Lucca, sto arrivandooo!!

 

P.S. Avverto in anticipo, onde evitare di dimenticarmene in seguito, che spesso, all’interno dei vari capitoli, i dialoghi dei diversi personaggi saranno tratti direttamente dalle vignette del manga, per mantenere il più possibile fedeltà al carattere dei personaggi. Non sarà presente alcuna traccia di OOC, eccezion fatta, ovviamente, per quei soggetti che non sono mai apparsi realmente nella storia.

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Capitolo 2
*** Quando il primo anello prese forma... ***


il primo anello

Salve! 

Eccomi puntuale (avevo detto due giorni giusto?) per la pubblicazione del primo capitolo. Sinceramente il dubbio che l’idea di fondo non sia proprio brillante mi è rimasto, considerando anche il fatto che, a fronte di 41 persone che hanno letto l’introduzione, solamente 2 hanno espresso apertamente il loro parere con un commento (ma io avevo bisogno di voi ç_ç ). Ora, quale sarà il motivo? Non vi interessa, vi siete addormentati già solo leggendo l’intro, siete tutti giustamente di fretta oppure con l’arrivo dell’autunno siete andati già in letargo? I misteri…

Va beh, pazienza! Io non demordo e continuo per la mia strada, sia per chi legge che per la soddisfazione di scrivere in se, convinta di poter catturare la vostra attenzione con il procedere degli eventi…forse!! Altro da dire non ho…ci vediamo in fondo al capitolo!

Buona lettura!!

 

Quando il primo anello prese forma – 1

I figli della leggenda

 

…due, tre, quattro piccoli cerchi concentrici, come minuscole e perfette scatole cinesi di un grigio opalescente parevano racchiudere al loro interno il più grande dei poteri, rendendo magnificenti quegli occhi ipnotici e penetranti. Quasi impossibile sostenerne lo sguardo.

Persino io, figlio primogenito del grande Eremita delle sei vie della trasmigrazione non vi ero mai riuscito, ed ogni giorno scendevo a compromessi con l’incapacità di compiere un gesto apparentemente così semplice ed essenziale come guardare negli occhi il mio stesso padre. Semplicemente ne ero atterrito, il timore e la soggezione m’imprigionavano ogni volta in una morsa capace di togliermi il respiro. La sua fama, il suo sconfinato ed ineguagliabile potere, l’attitudine al comando ed il forte senso della giustizia, tutto in lui contribuiva a renderlo ai miei occhi una figura dalla perfezione intaccabile, degno d’incondizionata ammirazione, il modello al quale tendere al di sopra di ogni aspirazione personale. Ogni giorno, ogni singolo gesto, ogni pensiero costantemente volti ad ottenere un suo gesto d’approvazione, un semplice segno di quell’amore paterno che tanto generosamente elargiva a tutta l’umanità, ad ogni singolo essere vivente di questa sterile terra smarritosi nell’orrore della guerra; non a me, il suo primo figlio, colui che un giorno gli succederà alla guida di questo sconsiderato gregge di anime cieche e spaurite.

Una sconfinata moltitudine di egoisti, gretti individui capaci di parlare di pace, amore e fratellanza solo quando hanno la pancia piena, pronti a scannarsi per un centimetro di terra, piccole menti incapaci di provvedere a se stesse senza condannarsi all’autodistruzione, inadatte alla convivenza pacifica: meri animali con la presunzione di una tanto decantata quanto inesistente intelligenza superiore. Solo una guida decisa, intransigente, dal pugno deciso, può riportare tali bestie all’ordine, addossandosi l’onere di decidere per il loro bene, garantendone la sopravvivenza, ma privandoli necessariamente di ogni sconsiderata libertà. La forza è l’unica soluzione per gli uomini che, solo sottomessi ad una forza superiore, guadagneranno la pace.

Inutili le illusioni, a nulla valgono tutti i bei discorsi sulla forza della perseveranza, della volontà di cambiare, di lottare per potersi finalmente comprendere l’un l’altro, che solo perseguendo la via dell’amore si potrà raggiungere una pace duratura, l’unica e vera pace degna di quel nome. Una comunione d’obiettivi tra le diverse popolazioni, un desiderio di capirsi e venirsi incontro nonostante le apparenti diversità, perché solamente dall’unione e dalla collaborazione nasce la vera forza.

Che pensiero dolce, sembra quasi una dichiarazione d’amore al mondo, ne fratellino?

Si, decisamente solo lui può credere ancora a queste belle favole, quando la realtà che ogni giorno si palesa davanti ai nostri occhi non fa altro che mostrarci odio, invidie, guerre e distrizione. Per carità, voglio bene a mio fratello, ma è proprio senza speranza; presto o tardi si farà molto male, andando a sbattere contro l’evidenza dei fatti e precipitando inesorabilmente dall’alto dei suoi tanto poetici ideali. Quanto più i nostri principi sono nobili ed alti, tanto maggiore sarà il dolore ed il danno subito dall’inevitabile caduta delle speranze.

Non è tagliato per il comando, ed i tempi sono ormai maturi; presto uno di noi dovrà succedere al nostro vecchio padre, il suo verdetto non tarderà a farsi sentire poiché la morte gli è vicina. Quale sarà la scelta è fin troppo facile da intuire.

Destino sereno e predeterminato accettato passivamente o scelta consapevole ma priva di certezze di un percorso comune?

Pacifica assenza di libertà o tumultuosa autodeterminazione?

Controllo sicuro o preannunciato caos?

La concretezza della Forza o l’intangibile sfuggevolezza dell’Amore?

Imponenti colonne di fumo denso e acre avvolgevano in lente spire ogni cosa, soffocando grida strazianti colme di odio e disperazione.

Grotteschi presagi della mia imminente vittoria.

Questa realtà non può che darmi ragione.

Un'impercettibile increspatura delle labbra, la lingua umida che ne delinea con lentezza i contorni con movimenti volutamente studiati, un sorriso bieco e malcelato.

Provo quasi pena.

 

Senza rancore, fratello.

È giunto il momento che io guidi con la Forza questa terra priva di giudizio.

 

 

 

Pallida, lontana ed immobile, questa nuova luna riempie inaspettatamente il cielo notturno, avvolgendo in un bagliore fioco e freddo questa terra sconsiderata, che per la prima volta riluce quasi evanescente, riflettendo di luce fasulla. Sale la nebbia dai campi ormai nudi, densa e opalescente mi ricorda i suoi occhi, ammirati quasi sempre di sfuggita. Ha lasciato tutto a questa terra, dedicando ogni briciola di se stesso alla salvezza di questi uomini, i ninja che in futuro porteranno la pace. Estremo ed imperituro segno del suo amore è questa rassicurante presenza celeste che, ogni notte per i secoli a venire, veglierà silente sul sonno di ognuno di loro, ignari oggetti di tanta devozione.

Racchiuso tra le lunari rocce, giace esanime l’inutile carcassa di Juubi, padre dei demoni, il principe fra le mostruose creature. La sua devastante potenza è ormai decimata, suddivisa in nove frammenti sapientemente dispersi, distribuiti sull’intera area delle potenti terre ninja, in modo da esser più facilmente controllati. Ognuno di loro sigillato all'interno del corpo di un Jinchuruki, uno shinobi prescelto e destinato a governarne la furia. Riunificare un tale potere porterebbe a conseguenze letali, inimmaginabili; mai più nascerà su questa terra altro essere in grado di controllare e sconfiggere una tale potenza, e l'intero universo ninja verrebbe raso a suolo, spazzato via come la fina sabbia del deserto di Suna.

Mh, prevedibile. Come c’era da aspettarsi dal grande Rikudo Sennin, nulla è stato lasciato incompiuto: nemici sconfitti, ordine ristabilito, pace solida e duratura…successore designato.

Ecco il punto esatto in cui la perfezione abbandona il suo tanto articolato disegno.

Il caos, l’indetermitatezza, l’appello ad un’inesistente coscienza e forza d’animo.

Ha scelto l’amore, la comprensione reciproca…ha scelto mio fratello.

Il secondogenito.

Quell’illuso sognatore col sorriso da idiota. Non c’è nulla di divertente nella gestione di un intero mondo di bestie prive del lume d’intelletto. Non serve appellarsi ai bei sentimenti quando i paesi vicini si annegano nel sangue in preda all’istinto. Non ha senso dare libertà di scelta ad un popolo cieco.

Le unghie affondano nel palmi, piccoli solchi sulla pelle ruvida e callosa delle sue mani.

 Che fallito.

Un solo istante, un singolo battito d’ali, e tutto il lavoro del mio tanto stimato quanto stupido padre sarà completamente ed irrimediabilmente vanificato. Finissima cenere che si perderà nell’aria satura dell’odore del sangue, scomparendo nella nebbia. Il troppo amore per queste bieche creature vi ha resi entrambi ciechi come loro, incapaci di vedere all’orizzonte le nefaste conseguenze delle vostre ingenue scelte.

Già avverto, in lontananza, terribili echi di morte e distruzione, un intero mondo che implode e si autodistrugge. Una vita gettata al vento.  Ero io il predestinato,  solo io ho il potere oculare.

Un sinistro stridio di denti serrati fino allo spasmo. E’ rabbia che esplode, furia che dilaga.

Ogni singola fibra del mio essere grida vendetta, per il torto subito, per il cieco odio che lo avvelena, per la rabbia della sconfitta, per la delusione di un figlio tradito. 

Da oggi comincia una nuova era, la mia strada è cambiata. Una strada che percorreranno i miei figli, e i figli dei loro figli, lastricata di sacrificio, dolore e crudeli rinunce, seguendo un destino fatto d’odio ed insaziabile sete di vendetta. Tutte le generazioni a venire saranno contaminate da questo male inarrestabile che li infetterà fin nel profondo dell’anima, oscurando ogni altro sentimento d’amore o comprensione.

Il loro credo ninja sarà sempre e solo il rancore.

Questa è la mia maledizione, fratello.

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 Rikudo Sennin = Eremita dei sei sentieri o delle sei vie della trasmigrazione. (Colui che ha creato tutte le tecniche ninja conosciute, il primo shinobi della storia, nonchè primo possessore del rinnegan.)

Cominciamo bene! ò_ò’

Direi che sin dall’inizio le tematiche principali della raccolta sono ben evidenti…poco originali non credete? Questi Uchiha riescono ad essere noiosi ancora prima di fondare il clan, kukuku!!

Dunque, questo primo capitolo vede protagonisti coloro che hanno dato avvio a tutto…i figli dell’Eremita dei sei sentieri (o delle sei vie della trasmigrazione, come preferite!).

Tenete bene a mente alcune parole chiave perché le ritroverete più avanti…mooolto più avanti.

Si, so di non aver messo i nomi, ma non è colpa mia: non li ho trovati da nessuna parte! Nemmeno sul portale di Naruto di Wikipedia. Mi è sorto quindi il dubbio che in realtà lo stesso Kishimoto non li abbia rivelati affatto! Voi che dite? Sono io che ho preso una clamorosa cantonata? Se qualcuno li conosce me lo faccia presente, pleease.

Bene, ora vi saluto, ci si vede fra una settimana circa!

Hugs  ;D

P.S.

Quel grosso buco sotto il titolo dell’introduzione doveva essere un’immagine dello stemma degli Uchiha, ma qualcosa deve essere andato storto. Ora, io ritento anche questa volta, poiché ho trovato due belle immagini dei fratelli in questione, ma se l’esperimento fallisce, dal prossimo aggiornamento lascio perdere! (Con immenso rammarico perché avevo trovato delle immagini piuttosto calzanti per ogni personaggio. ç_ç )

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Capitolo 3
*** Rivalità fraterna... ***


Fratelli 2

 

 

 

 

Rivalità fraterna – 2

Madara e Izuna

 

 

Uniti, come parti inscindibili di un unico grande disegno.

Fratelli, legati da una vischiosa rivalità di sangue.

Condividere, un’esistenza in due, un destino comune.

Insieme, l’orgoglio dell’intero clan Uchiha.

Un legame che nessun potere, nessuna ambizione o brama di dominio avrebbe potuto spezzare.

Madara e Izuna, così simili e perfetti, così uniti da creare un nuovo e sublime equilibrio, un nuovo concetto di squadra, oltre il limite del potere degli shinobi, oltre il limite del consentito.

Un nuovo potere, nato dal genio fraterno, portatore di distruzione, morte ed inestinguibili sofferenze.

Un destino che allora nessuno poteva prevedere.

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Fin dai primi passi si erano mostrati inseparabili, un invisibile filo rosso li teneva saldamente uniti, impedendo loro di allontanarsi per troppo tempo o grandi distanze.

Due visi paffuti e sorridenti, incorniciati dagli stessi fili d’ebano lucente, le minuscole manine unite già nella culla, gli occhi si cercavano con prepotente necessità: quatto piccoli pozzi senza luna, profondi e magnetici nonostante la tenera età. Gli occhi di due Uchiha, gli stessi che avrebbero mutato brutalmente il tracciato del loro destino, squarciandone il corso, tingendosi col rosso sangue del fratricidio.

Piccoli prodigi, perdere tempo giocando con i compagni era impensabile per loro, poca cosa erano gli stupidi intrattenimenti degli altri bambini, progetti più grandi li attendevano.

Ogni giorno, incessantemente, mettevano alla prova il loro valore;  il susseguirsi delle stagioni, il sole cocente, l’imperversare delle piogge, il gelo della neve, nulla poteva trattenerli dal perseguire il loro obiettivo. Sul campo d’allenamento del clan i due giovani costruivano il loro futuro, correvano incontro al loro destino di grandezza.

Costantemente in competizione, la loro rivalità era segno profondo di un’unione senza pari, le perenni lotte vissute più come una tensione intrinseca al miglioramento, come una lotta con il proprio io interiore. Non due entità in contrasto, nessuna antitesi, ma una sola e potentissima anima guerriera. Un unico shinobi dalla volontà incrollabile: volontà di ferro, volontà di fuoco.

Ciò che si presentava innanzi all’intero clan Uchiha erano ormai due giovani uomini nel pieno del loro vigore, ninja valorosi e fedeli sino all’estremo sacrificio.

Due uomini d’onore.

Nel cuore la stessa passione, negli occhi la stessa fiamma ardente.

Fu così che vennero scelti all’unanimità quale nuova guida; nelle loro mani la fiducia di un intero clan.

La determinazione, l’orgoglio e l’onore di quei due fratelli avrebbe dato loro nuova vita, riportando il nobile e temuto nome degli Uchiha alla sua antica gloria. Gli immani sforzi compiuti in gioventù, le dolorose privazioni dell’infanzia, le profonde ferite che spesso la notte avevano impedito loro il sonno: tutto in quel momento fu pienamente compensato.

L’obiettivo era stato raggiunto.

Tuttavia, dopo un primo fugace attimo di esaltazione, ciò parve non bastare…la sete di potere non si era estinta, l’ultimo traguardo raggiunto giaceva oramai alle loro spalle privo di quel fascino che tanto l’aveva reso desiderabile in un passato fin troppo prossimo. Ah, la bramosia…

…ci si abitua troppo in fretta a guardare in alto, ed una volta raggiunta la vetta si continua a cercare, volgendo gli occhi verso orizzonti sempre nuovi, più lontani e sconosciuti, a volte pericolosi, a volte proibiti.

Insieme erano giunti sino alla cima, la stessa sete di potere li spinse ad andare oltre. Al di la del limite del consentito.

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Lo sharingan ipnotico: potentissima evoluzione dalla capacità innata degli appartenenti al clan Uchiha, lo sharingan. Una volta acquisito dona al suo possessore poteri inimmaginabili, elevandolo al rango di shinobi incontrastabile, dalle abilità formidabili ed invincibile. Innanzi ad una tale potenza concetti come il tempo e lo spazio perdono di significato, persino l’inferno può essere richiamato alla mente delle sue vittime, e fiamme nere inestinguibili bruciano senza sosta.* Un passo decisivo verso la perfezione, il controllo totale delle menti…è l’uomo che diventa divinità.

Così Madara e Izuna pensavano di elevarsi al di sopra dell’intero universo ninja: nulla li avrebbe fermati, sarebbero diventati unici e, finalmente, il clan Uchiha si sarebbe distinto, temibile ed incontrastato, per il coraggio il valore e la forza dei suoi uomini.

Tuttavia ogni cosa in questo fragile universo è retta da un macabro e perverso equilibrio, e nulla è concesso senza richiedere qualcosa in cambio. Come lo Yin e lo Yang, luce  e tenebra, acqua e terra, vento e fuoco, non vi è privilegio che non richieda in seguito un cospicuo pagamento, un tributo di sangue.°

E così anche l’ottenimento di un così affascinante e divino potere affondava le proprie radici nell’orrore, nel vermiglio colore del tradimento, nel vile omicidio. Il desiderio di ottenere tale dono doveva essere tale da renderli disposti a sacrificare qualcosa di estremamente caro, di prezioso: il proprio migliore amico.

Cos’è una misera vita paragonata al Potere? A cosa si riduce il valore del nostro obiettivo, se nel suo lungo e faticoso cammino non richiede qualche doloroso sacrificio? L’importante è rimanere uniti

…e su questo i due fratelli erano sempre stati d’accordo. Nulla avrebbe separato i loro destini, nemmeno questa nuova macchia di sangue sulla coscienza.

Ora erano gli unici, i primi ad aver ottenuto lo sharingan ipnotico, e questo li rendeva gli shinobi più potenti non solo dell’intero clan Uchiha, ma di tutte le terre ninja esistenti. Avrebbero sfruttato questa loro abilità per rendere fulgido il nome della loro casata, innanzi ad un tale splendore gli altri clan non avrebbero potuto far altro che inginocchiarsi e riconoscerne il valore, pregandoli di far loro da guida. Sotto il loro comando l’universo avrebbe riscoperto il significato della vera pace, senza tregue fittizie, patti mai rispettati o vere e proprie imboscate fatte passare per incidenti diplomatici.

Questo nuovo potere donò loro un rinnovato vigore ed una maggiore determinazione nel perseguimento del loro ambizioso obiettivo. I nemici erano molti e le battaglie sembravano non esaurirsi mai, ma nei loro cuori la volontà non vacillava nemmeno innanzi al più insidioso degli ostacoli. Presto l’odore dolciastro e ferroso di sangue putrescente non avrebbe più insidiato le loro narici, e quella terra che tanto amavano non sarebbe mai più stata infestata da corpi in decomposizione di uomini valorosi che, sacrificatisi inutilmente, tornavano per ironia della sorte a far parte della terra, portando a compimento quell’inesorabile spirale discendente che è il ciclo della vita.

Madara combatteva con lo sharingan ipnotico costantemente attivato, sotto il suo sguardo implacabile i nemici cadevano l’uno dopo l’altro come tante pedine sotto il tocco esperto di un saggio giocatore di shogi. Izuna era più cauto, le sue capacità oculari erano forse più acerbe, dovevano ancora raggiungere il pieno sviluppo. Tuttavia non vi era tempo sufficiente per le sperimentazioni, i loro migliori allenamenti avevano luogo sul campo di battaglia, ed ogni miglioramento della tecnica comportava il sacrificio di una vita umana. Un prezzo alto, si, ma una bene superiore muoveva i fili delle loro membra.

Talvolta, la sera, il peso di quella vita opprimeva i loro cuori, rischiando di offuscarne la lucidità e la nitidezza del loro obiettivo.

Forse troppe persone avevano pagato con la vita al fine di raggiungere quella che loro chiamavano pace. Ma infondo…la si poteva poi chiamare pace se raggiunta al prezzo di tanto sangue? Quanti di loro sarebbero rimasti a goderne? La vera pace non doveva forse essere un obiettivo condiviso da tutti, piuttosto che una condizione imposta dall’alto e con la forza delle armi?

Questi erano i pensieri che affollavano sempre più insistentemente la mente di Izuna.

“Fratello, dimmi che non stiamo sbagliando, che la vera pace scaturirà dal nostro polso una volta terminata questa guerra.”

“Certo otouto, non devi aver alcun dubbio.”

Un lieve sorriso andò ad ornare il bel viso del minore, distendendone i tratti e liberandolo dalla preoccupazione. La parole rassicuranti di Madara, quel suo atteggiamento sempre posato e sicuro di se, erano  in grado ogni volta di liberarlo da qualunque turbamento.

“Hai ragione. Porteremo la pace su queste terre, e tutti dovranno rispettare e temete il nome degli Uchiha. Uniti, sempre insieme. Vero aniki?”

“Si.” Sospirò, fissando con insistenza la parete innanzi a se “Potrebbe forse essere altrimenti?”

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L’obiettivo era sempre più vicino, inaspettatamente ad un soffio. Finalmente potevano smettere di pensare ad una possibile pace come ad una meravigliosa quanto lontana ed irrealizzabile utopia; la vittoria era li, ad un passo, meravigliosamente vicina.

“Dannatamente vicina” si lasciò sfuggire in un singulto esasperato Madara, mentre con un gesto brusco del braccio cercava per l’ennesima volta di asciugare il sudore che, scendendo copiosamente dalla fronte, non cessava di colargli sugli occhi, impedendogli ulteriormente la messa a fuoco. Solo lui era in grado di comprendere appieno quale fosse stato il reale prezzo per il raggiungimento di quell’obiettivo.

Da settimane ormai la situazione non faceva che degenerare; in principio si era trattato di semplici e fugaci annebbiamenti, roba di poco conto, facilmente confondibili con banale stanchezza.

Poi, lentamente ed insidiosamente, quei trascurabili flash erano andati trasformandosi in veri e propri offuscamenti della durata di svariati secondi, come se una densa cortina di nebbia si frapponesse tra lui ed i suoi nemici. Infine erano giunti i black-out, inaspettati momenti di buio totale che a lui apparivano interminabili, ed ogni volta lo lasciavano disarmato, completamente indifeso.

In questo stato combattere gli era quasi impossibile, e per non rischiare di abbandonare tutto proprio ad un passo dalla vittoria, in quei non più così rari momenti di tenebra, si era costretto a fare affidamento sugli altri sensi; dopo tutto era pur sempre uno shinobi, lo spirito del guerriero albergava nel suo sangue. Un rumore, il più flebile spostamento d’aria erano sufficienti per orientarsi e per localizzare il nemico, evitarne i colpi e contrattaccare.

Presto tutto sarebbe finito, ed allora avrebbe avuto tutto il tempo necessario per curare i suoi occhi stanchi. Nessuno sospettava, nessuno doveva sospettare, o tutti i suoi piani sarebbero andati in frantumi. Chi avrebbe consegnato il proprio paese, la propria vita nella mani di un cieco? E Izuna, sarebbe rimasto al mio fienco nonostante tutto? Si, di questo potevo essere certo, ma non sarebbe stato più lo stesso. Non più i due imbattibili fratelli Uchiha, bensì il grande Izuna Uchiha ed il suo fratello storpio. La cosa peggiore è che sono più che certo che lui tenterebbe di consolarmi, di non farmi sentire un peso.

Ma io non voglio la sua pietà! Non voglio fare pena, soprattutto a lui.

Io, il grande Madara Uchiha, non sono secondo a nessuno!

…plick…plick…

Un sottile rivolo di sangue prese a scendere lungo l’avambraccio, scorrendo fluido sino al polso e la mano serrata con forza, per poi cadere, poche gocce vermiglie, sul terreno sconnesso, formando presto una piccola pozza fra le zolle umide. Per imporsi un po’ di autocontrollo, in quell’impeto di rabbia si era volutamente trafitto con il kunai. Nonostante la sconsideratezza del gesto, l’esito prefissato non tardò ad arrivare e, come se nulla fosse accaduto, riacquistò tutta la sua proverbiale calma.

No. Decisamente suo fratello non doveva sapere, e non avrebbe mai sospettato nulla. Parola sua.

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Il campo di battaglia era deserto, gelide raffiche di vento l’attraversavano scuotendo senza sosta i rami dei pochi alberi sopravvissuti in quella zona a lungo devastata dalla guerra. L’odore acre della morte saturava l’aria fino a renderla soffocante ed irrespirabile. Nulla pareva ormai in grado di sopravvivere in mezzo a tanta distruzione. Solo il cielo, limpido e stellato, illuminato da una luna che pareva quasi piena, riusciva a donare un po’ di speranza a coloro che, ormai privati di tutto, rivolgevano all’infinito il loro sguardo.

In lontananza, nascosti in un piccolo capanno fatto di legno e fango, avevano trovato rifugio per la notte i due Uchiha, in attesa che una nuova alba inaugurasse ancora un giorno di battaglie e di vittorie, un ulteriore passo avanti verso i loro sogni.

Un silenzio irreale aleggiava nella stanza. Non che solitamente parlassero molto, non avevano mai avuto bisogno di parlare per capirsi al volo; tuttavia quella notte la tensione era palpabile, la consapevolezza di un terribile segreto li separava ogni giorno di più. Izuna non era stupido…

Madara era in piedi accanto alla finestra, scrutava pensieroso il campo di battaglia poco distante. O almeno era ciò che appariva agli occhi di uno spettatore.

“Aniki…”

Fu un attimo.

Il maggiore non fece in tempo a voltare lo sguardo che un forte sibilo gli trafisse orecchio destro. Cos’era stato? Con un rumore sordo un grosso kunai si conficcò prepotentemente nella parere lignea accanto la finestra. A pochi millimetri dalla sua testa. Spalancò gli occhi in preda allo spavento. Non l’aveva visto arrivare. Un leggero strato di sudore cominciò ad imperlargli la fronte. In un battito d’ali realizzò cos’era appena accaduto: suo fratello lo aveva appena messo alla prova lanciandogli un kunai, mancandolo di proposito poiché ormai lo aveva scoperto. Sapeva il suo segreto. Un lungo brivido freddo lo scosse salendo dalla base della schiena sino alla nuca, i peli ritti come un gatto in agguato. Temeva la sua reazione.

“Non l’hai visto arrivare…” Izuna pareva sconvolto, non avrebbe mai voluto una conferma positiva ai sospetti che ormai da giorni nutriva sulle reali condizioni di salute del suo amato fratello. Dall’altra parte della stanza, addossato al muro, tremava come una foglia al vento. “Tu…tu sei…cieco?” la voce spezzata, minacciata dal pianto. Gli occhi umidi, sembravano implorarlo per una smentita, che però sapevano non sarebbe mai arrivata.

“No! Non sono cieco! Sono solo questi maledetti occhi ad essere ormai stanchi, soprattutto la sera. Ma vedrai… ormai manca poco…a breve sarà tutto finito e mi riprenderò del tutto. Bisogna solo avere un po’ di pazienza e…”

“Non dire stronzate!! Non sono stupido! È già da tempo che ti osservo. Potrai anche ingannare quegli stolti dei nostri nemici, ma di certo non pensare di poter fregare tuo fratello.”

Senza nemmeno rendersene conto Izuna si era trovato a pochi passi dal fratello, gli occhi serrati, pieni di lacrime disperate e la gola in fiamme per il troppo urlare. Stava gridando  in faccia a suo fratello. Il suo aniki che si era sacrificato a tal punto per la loro causa da perdere addirittura la vista. Com’era possibile? Ma la cosa peggiore era che dopo una tale rivelazione lui non aveva saputo fare niente di meglio che urlargli in faccia.

D’impeto protese le braccia e si lanciò sul fratello in un abbraccio senza respiro. Si strinse al lui senza ritegno, come quando erano piccoli e uno dei due si feriva in allenamento. Da quanto tempo non erano così vicini? Troppo…decisamente, non ricordava nemmeno. Avvertì lentamente le spalle di Madara sciogliersi e la sue mani salire lentamente lungo la propria schiena; le braccia lo avvolsero quasi delicatamente, quasi trattenute dagli ultimi brandelli del suo spropositato orgoglio. Avvertì il suo capo poggiare sulla spalla destra, la stoffa dell’uniforme inumidirsi appena. Sorrise in quell’abbraccio, dopotutto anche suo fratello ogni tanto mostrava il suo lato umano e debole.

“Non temere. Tutto andrà per il meglio. Ricordi? Non devi aver alcun dubbio.”

Izuna allontanò da se il corpo del fratello  di quel poco necessario per poterlo fissare in volto. Gli occhi di entrambi erano velati dalle lacrime, liquidi pozzi di petrolio più neri della disperazione. Sguardi di comprensione ed affetto per un momento difficile d’umana debolezza.

Ma la verità sta negli occhi di chi la legge. Ed agli occhi annebbiati di Madara quell’affetto e quella comprensione parevano quanto di più simile alla compassione ci fosse al mondo. Commiserazione. Pena. Disonore. Fallimento. Un baratro di vergogna.

In lontananza gli giungevano le parole del fratello, futili discorsi privi di senso, incapaci di scalfire anche solo in minima parte la sua disperazione.

“Ti aiuterò, troveremo una soluzione, insieme come sempre.” Izuna non riusciva ad arrestare quel fiume di parole che sgorgava incessante dalla sua bocca, avvertiva prepotente il bisogno di raddicurare il suo aniki, di fargli sentire la sua vicinanza. Era li per lui, non l’avrebbe mai abbandonato. “…e se il destino avverso non ti permetterà di tornare a vedere, io sarò la tua guida, sarò la tua luce…”

Una pioggia di sillabe senza un senso compiuto continuavano a vorticare nella mente di Madara, contribuendo ad aggravare il crescente nervosismo che si stava lentamente accumulando, accrescendosi in modo esponenziale ad ogni frase del suo stupido otouto.

Perché? Perché non capisci che non ho bisogno della tua pena, della tua commiserazione, della tua pietà? Noi siamo sempre stati sullo stesso livello, non trattarmi come un menomato, io non sono secondo a nessuno!

“…sarò i tuoi occhi!”

In quel turbinare di rabbiosi pensieri, poche parole, un frammento di frase, riuscirono a catturare la sua attenzione, stagliandosi nitide nella sua mente. Sarò i tuoi occhi.

Un’idea, un folle pensiero, fiorì malato all’interno di quella psiche che ormai stava già gradualmente perdendo il lume della ragione.

Si avvicinò lentamente al viso del suo fratellino e posò delicatamente il palmo della mano sulla sua gota fresca, sfiorò quella pelle tanto chiara e pura in una leggera carezza, una silenziosa dichiarazione d’affetto. Izuna sorrise raggiante, tale potere evevano le rare e prezione dimostrazioni d’amore del suo aniki.

Si, hai ragione…sarai i miei occhi.”

Poi la mano salì sino all’occhio, due dita spinsero risolute sulla palpebra, il pollice premuto sotto il bulbo oculare affondò nell’orbita. Fu un attimo. Poi il buio, il nulla.

Il baratro della disperazione per l’uno.

Una nuova rinascita per l’altro.

Per la prima volta non più insieme, ma per un perverso gioco del destino per sempre uniti.

Et voilà!! Ecco a voi questo magnifico secondo assaggio di polpettone Uchiha…ehm…volevo dire, questo magnifico secondo anello della catena degli Uchiha!

Dunque dunque, capitolo più lungo del precedente, direi che salta all’occhio. Credo derivi più che altro dal fatto che più si va avanti e più i personaggi sono presentati da Kishimoto stesso in modo più particolareggiato; di conseguenza ho più dati sui quali basarmi e quindi posso dilungarmi un po’ di più! ^_^

Ma procediamo con ordine. 

Innanzi tutto ringrazio di cuore Dubious3 per la recensione e per i complimenti, un toccasana per la mia (un pò atrofizzata) vena creativa! Non mi aspettavo potesse riscuotere un tale successo, troppo gentile! Più che altro spero che anche questo capitolo sia all'altezza!! Mi raccomando, attendo un tuo parere. ;D

Nel capitolo sono presenti due asterischi differenti:

* Qui mi riferisco ai tre poteri dello sharingan ipnotico fin ora conosciuti, ovvero Amaterasu, Susanoo e Tsukyomi.

° Questo concetto fa riferimento al principio alchimista secondo il quale per ogni “magia” o favore domandato vi è sempre un prezzo da pagare in termini di sacrificio. Più grande è il pridigio e maggiore è la relativa “contropartita”.

Sono presenti alcuni termini giapponesi:

Aniki _ fratello maggiore.

Otouto_ fratello minore.

Shogi_ scacchi giapponesi (per intenderci, quelli con i quali giocavano sempre Shika ed Asuma).

Tornando alla trama. Ho lasciato in sospeso il finale principalmente per due motivi: il primo è che ovviamente la stragrande maggioranza di voi sa già cos’è successo alla fine (Madara ha strappato gli occhi al fratello); ed il secondo è che a mio parere si intuisce comunque anche in questo modo, non credete? Mi sembrava anche più suggestivo… (Potete anche stroncarmi comunque).

Spero di non aver reso Madara OOC, tuttavia nella mia mente si era formata questa ipotesi secondo la quale in principio erano veramente molto uniti, e solo successivamente alla perdita della vista abbia, per così dire, perso completamente il senno! Voi che pensate? Recensite numerosi…

Un bacio e arrivederci alla prossima settimana!! ;D

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Capitolo 4
*** Germoglia nel sangue la Foglia scarlatta... ***


Madara e Hashirama

Madara e Hashirama

 

 

3- Germoglia nel sangue la Foglia scarlatta

 

 

“Da oggi comincia una nuova era, la mia strada è cambiata.

Una strada che percorreranno i miei figli, e i figli dei loro figli, lastricata di sacrificio, dolore e crudeli rinunce, seguendo un destino fatto d’odio ed insaziabile sete di vendetta.

Tutte le generazioni a venire saranno contaminate da questo male inarrestabile che li infetterà fin nel profondo dell’anima, oscurando ogni altro sentimento d’amore o comprensione.

Il loro credo ninja sarà sempre e solo il rancore.

Questa è la mia maledizione, fratello.”

 

Parevano trascorsi secoli dalla tragica notte nella quale cupe parole foriere d’odio e vendetta erano state pronunciate da colui che, con il disperdersi del sangue, aveva dato origine al valoroso clan degli Uchiha, e quella che un tempo era stata l’arte oculare più pura, perfetta e letale, il rinnegan, si era lentamente tramutata nel rosso sharingan: tre nere gocce d’odio in un oceano di sangue e perdizione.

La polvere degli anni si era lentamente depositata su quella maledizione, sotto la grigia patina del tempo tutti parevano aver dimenticato. Persino i più anziani avevano cessato di farneticare a proposito di una secolare maledizione di sangue che perseguitava la casata e che l’avrebbe portata alla distruzione.

Ciò che non sapevano tuttavia, e che non avrebbero potuto immaginare o ipotizzare nemmeno nelle loro più nefaste previsioni era che quel terribile giuramento mai sciolto vegliava nel buio, scrutandoli in silenzio ed aspettando paziente colui che si sarebbe fatto carico dell’adempimento di tale destino.

 

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A poco più di un anno dalla sua rinascita, Madara poteva vedere la sua ascesa farsi inarrestabile.

Nelle grandi terre ninja la situazione era andata gradualmente stabilizzandosi in un modo quasi grottesco, ed alla guerra aperta, cruenta falciatrice di anime, si era sostituita una sottile forma di guerriglia portata avanti da paesi fra loro confinanti che, con futili scuse, ben orditi sotterfugi e non di rado spregevoli trucchi, si tendevano imboscate o, sempre più spesso, ormai indeboliti dalle lunghe battaglie, assoldavano eserciti di shinobi mercenari per combattere al posto loro sotto lauto pagamento.

Piccoli villaggi privi di ninja valorosi ricorrevano quindi ai servigi di guerrieri professionisti, che in questo modo si arricchivano alle loro spalle, traendo profitto da questo falso equilibrio, per nulla intenzionati a favorire il lungo e faticoso cammino verso una riappacificazione fra i differenti clan sparsi sul territorio dei cinque grandi Stati.

Due in particolare erano le casate che si distinguevano in battaglia per la forza ed il valore dei suoi shinobi: gli Uchiha ed i Senju. Il loro nome era talmente conosciuto e la loro abilità di guerrieri talmente grande che con il passare del tempo erano di fatto diventati i clan di shinobi mercenari più famosi e richiesti di tutte le terre ninja. Se un villaggio assoldava gli Uchiha, l’avversario sicuramente avrebbe richiesto l’aiuto dei Senju; se una fazione era appoggiata dai secondi, i primi si offrivano senza esitazioni in supporto della controparte.

Presto la situazione divenne insostenibile, poiché queste battaglie, che in principio dovevano limitarsi a semplici rappresaglie e fugaci imboscate, stavano assumendo sempre di più le proporzioni di vere e proprie grandi guerre ninja, ed i danni erano sempre più devastanti, fino a diventare incalcolabili in termini di vittime, sia fra i civili che fra le file dei due clan perennemente avversari. Il terrore stava tornando, famiglie mutilate e crudelmente trucidare, interi clan pressoché estinti, travolti dalla feroce ondata di violenza delle battaglie. Ancora una volta gli uomini stavano segnando la loro stessa sorte, condannandosi ad una lenta agonia, accecati dal bieco egoismo e soffocati dall’odio.

Le fila di shinobi comandate dagli Uchiha e dai Senju andavano assottigliandosi sempre più, battaglia dopo battaglia, scontro dopo scontro, sino a rimanere con non più di un pugno di uomini per fazione.

Fu allora che Hashirama, generale in capo del clan dei Senju, decise di porre fine a quell’epidemia di morte che la guerra aveva portato con se, proponendo una sorta di armistizio ed un punto d’incontro fra le parti avverse, in modo da arrestare il dilagare dell’odio e della distruzione fra tutti gli shinobi, uomini che in fondo condividevano la stessa natura e gli stessi desideri di pace e di condurre una vita serena.

Un’idea coraggiosa la sua, un gesto intraprendente, innovativo, quasi utopico.

Un’alleanza fra clan allo scopo di creare una fitta rete di villaggi ninja al servizio dei vari Paesi.

Una struttura organizzata all’interno della quale ogni villaggio era legato indissolubilmente agli altri da strette alleanze e patti di collaborazione.

Un progetto complesso ed articolato.

Una promessa concreta di pace duratura.

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“E’ pura follia! ringhiò in modo truce l’agguerrito comandante degli Uchiha, lo sguardo tagliente rivolto ai propri uomini che, all’idea di una via di fuga dall’orrore della guerra, parevano già caldeggiare per una futura alleanza.

“Stanno solo cercando di renderci inoffensivi, di metterci da parte. Quell’incantatore di folle vuole solamente ammansire il mio popolo con false promesse di pace in nome di un’inesistente fratellanza di tutti gli shinobi.”

Non poteva proprio accettare una tale condizione, dopo tante lotte e sacrifici, dover scendere a patti con altri clan, sicuramente inferiori, ed allearsi addirittura con coloro che per anni avevano rappresentato quasi i loro nemici naturali, come il fiero lupo con l’indifeso agnello, il regale leone e l’atletica gazzella, il letale serpente e lo sgraziato rospo. Non era assolutamente fattibile, non era nemmeno degna di essere presa in considerazione una tale folle opzione. Forse avevano intenzione di sovvertire l’ordine delle cose? Erano realmente intenzionati a sconvolgere l’essenza stessa di quel mondo a lungo agognato e tanto duramente conquistato?

Tuttavia la popolazione era stanca, e persino il fiero ed instancabile clan Uchiha sembrava ormai esausto, giunto al punto di non ritorno, dimentico di ogni brama di potere e gloria. L’unica necessità, l’unico spasmodico desiderio era quello di porre fine all’orrore. Basta con le morti, basta col dolore, basta con le madri disperate che in lacrime gridano e piangono l’inutile sacrificio dei loro valorosi figli, piegate sopra una sterile pietra che non saprà mai dove i loro corpi hanno realmente trovato riposto, giacendo esanimi nel fango, calpestati da altri futuri cadaveri, che nonostante la fatica e l’esasperazione si lanciano verso un nemico altrettanto disperato, che non ricordando più il motivo di tanto odio, combatte soltanto per avere salva la vita.

Madara stentava a riconoscere i suoi stessi familiari, il suo clan pareva aver cambiato forma, tramutatosi in un gregge di vili pecore prive di onore ed orgoglio; che vergogna, un’onta terribile per le nobili origini della casata. Ciò nonostante il volere del popolo era più che evidente, la sua decisione come legge; non restava altro che chinare il capo, riporre almeno in parte l’orgoglio, e rassegnarsi a collaborare, almeno fino a quando non fossero stati nuovamente abbastanza forti da prendere il comando.

“…e poi a questo villaggio servirà pure una guida.”

Tutti i più grandi clan aderirono all’ambizioso progetto di Hashirama Senju, e con un inatteso entusiasmo da parte di popolazioni che sino a pochi mesi prima si erano scontrati in futili faide. Non vi erano più avversari, nemici, ma semplicemente un’unione di shinobi, stretti sotto la stessa bandiera di pace e speranza, impegnati nel raggiungimento di un obiettivo comune.

Finalmente avevano compreso la forza della perseveranza, della volontà di cambiare, di lottare per potersi finalmente comprendere l’un l’altro, che solo perseguendo la via dell’amore si potrà raggiungere una pace duratura, l’unica e vera pace degna di quel nome. Una comunione d’obiettivi tra le diverse popolazioni, un desiderio di capirsi e venirsi incontro nonostante le apparenti diversità, perché solamente dall’unione e dalla collaborazione nasce la vera forza.

Un futuro ricco di speranze pareva affacciarsi all’orizzonte, ancora timido, ma tenace e fulgente come il sole che all’alba sorge dall’oceano, sfuggendo all’abbraccio freddo e mortale delle acque.

Cinque furono i villaggi fondati: Sunagakure, Iwagakure, Kirigakure, Kumogakure ed il più grande Konohagakure, ognuno dei quali situati in uno dei cinque più grandi Stati ninja, rispettivamente il Paese del Vento, della Terra, del Fulmine, dell’Acqua ed infine del Fuoco. Ogni villaggio nascosto sarebbe stato l’insediamento ufficiale dei ninja di ogni paese, una sorta di quartier generale di shinobi ben addestrati, fedeli e sempre pronti a proteggere gli abitanti  anche a costo della morte. Ogni villaggio avrebbe avuto un capo, sarebbe stato sotto la guida del ninja più valoroso fra tutti, riconosciuto ed eletto all’unanimità dagli abitanti e dal consiglio degli anziani. Il Kazekage a Suna, lo Tzuchikage ad Iwa, a capo di Kiri il Mizukage, a Kumo il Raikage ed infine l’Hokage alla guida di Konoha.

Entrambi i clan dei Senju e degli Uchiha si erano stabiliti nel paese del Fuoco, all’interno di Konohagakure, il più potente ed esteso villaggio ninja di tutte le Cinque nazioni. Nonostante la diffidenza e le chiare ambizioni di Madara, l’attuazione del progetto sembrava proseguire con l’impegno ed il favore di tutti.

Presto i villaggi furono ultimati, ed il momento dell’elezione dell’Hokage giunse atteso da tutti, ma soprattutto da colui che, solo apparentemente aveva chinato il capo, in attesa dell’occasione propizia per risorgere dalle ceneri del proprio orgoglio e, finalmente, ascendere al potere, guidando non più solo le sorti del suo clan, ma quelle dell’intero villaggio.

A Madara infatti, pareva inconcepibile che gli abitanti potessero eleggere qualcuno che non fosse lui. Innegabilmente nessuno era dotato di una tale attitudine al comando, spirito di sacrificio, dedizione totale alla causa e capacità di prendere decisioni risolute anche in stato di emergenza. Era nato per questo, si era spinto oltre il limite del proibito per questo, aveva sacrificato quanto di più caro al mondo per questo…per placare la sua sete di potere.

Non avrebbe permesso a nessun altro di prendere ciò che gli spettava di diritto. Non avrebbe ceduto il posto ad Hashirama…ad un Senju.

Al solo pensiero gli occhi del capoclan s’infiammano, tingendosi bagliori rossi, stille di fuoco eterno che guizzano sul viso trasfigurato dall’ira. Una smorfia di puro disgusto per quell’opzione e disprezzo per quel nome. “Tzk, che umiliazione!”

Il pensiero si volse inevitabilmente ad Izuna, il povero fratello morto in guerra, all’ardore e l’entusiasmo dei suoi splendidi occhi, al gesto estremo compiuto in onore della loro comune causa.

Era forse per questo che il suo adorato otouto si era sacrificato?

Aveva così inutilmente donato la sua vista e la sua vita?

Per vedere la forza e la magnificenza del suo clan piegarsi sotto la guida di una casata inferiore, di una massa di strani ninja-carpentieri?

Che concentrassero la loro imbarazzante “arte del legno” in attività più utili.

Sì, avrebbero potuto benissimo occuparsi della costruzione del villaggio: strade, abitazioni, edifici curati e di ottima fattura.

Per carità, nulla da obbiettare, quando si trattava di falegnameria i Senju erano sempre i migliori; ma che lasciassero l’arduo compito di governare e guidare le schiere ninja a chi ne fosse realmente in grado…ed in questo gli Uchiha non erano secondi a nessuno.

 

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Sicuramente Madara non aveva fatto bene i suoi calcoli, qualcosa nel suo piano non era stato contemplato, il tradimento del suo stesso clan probabilmente non rientrava fra le variabili considerate.

Eppure l’imprevedibile accadde…e la consapevolezza del verificarsi dell’impensabile lo colpì come un pugno proprio al centro dello stomaco, lasciandolo per diversi secondi completamente incapace di respirare, di voler accettare che persino i discendenti della nobile stirpe Uchiha, il suo stesso sangue, avevano attivamente contribuito all’elezione di Hashirama, all’ascesa di un Senju alla più importante carica non solo di Konoha, ma di tutto l’universo degli shinobi: quella di Hokage.

Tutto era perduto.

Ogni vana speranza gettata al vento, data in pasto ai corvi, che sinistri e gracchianti aleggiavano, volando in cerchio sopra il cielo di Konoha.

Cupo presagio d’imminenti sventure.

E’ troppo, troppo anche per lui.

Colui che ha affrontato le più terribili guerre, sopportato le più atroci sofferenze, che ha rinunciato alla propria infanzia, che ha sacrificato persino il proprio fratello, che ha annullato completamente la propria esistenza votandosi senza riserve alla gloria del proprio clan, con l’unico obiettivo di rendere gli Uchiha la stirpe più temuta e potente mai esistita dalla nascita degli shinobi…

…quest’uomo, innanzi al tradimento della sua stessa famiglia, vedendosi rivolgere le spalle proprio da coloro che un tempo lo avevano eletto loro guida, ponendolo al comando di un intero esercito, si arrende.

Si arrende…e sconfitto se ne va.

Lascia il villaggio al suo destino.

Un destino di morte e distruzione.

E il destino, si sa, è inesorabile ed infallibile.

Madara ne è ben consapevole, e farà in modo che questo destino non muti. Si vestirà di destino egli stesso, sarà la sua mano, il suo braccio dalla lunga falce argentata.

Il destino talvolta può anche cambiare nome…e mutarsi in vendetta.

 

 

 

 

 

Tadaa…eccomi qua!! No…dai…vi prego…ahi…le  sassate no…(Scarlett fugge e va a nascondersi dietro una trincea, probabile residuo di guerra dell’ultima battaglia di qualche Uchiha).

Ok, oggi vi parlo da qui! -.-°  Lo so, avete pienamente ragione ad essere indignati ma…(riprende la sassaiola fra urla ed insulti)…ma no, lasciatemi spiegare!! Insomma, quello che volevo dire è che, se sono più o meno tre settimane che non aggiorno, c’è un motivo più che valido…ve lo giuro! Già, proprio ieri (martedì) ho fatto la prima prova dell’esame di stato per psicologia e quindi è circa un mese che sudo a capo chino sui manuali…chissà com’è andata! Allora…sono perdonata?

Dunque, questo capitolo è mozzato, ne sono dolorosamente consapevole, ma se avessi deciso di racchiudere in un solo capitolo tutta la saga di Madara e Hashiarama, compresa la mitica battaglia nella valle della fine, ne sarebbe uscito un papiro assolutamente illeggibile…troppo!

Ad un occhio attento dovrebbero risultare evidenti le prima citazioni ed i concetti chiave che cominciano a ripetersi…beh, sappiate che da adesso in poi sarà sempre peggio!! Muhauhauha…

Ma non dubitate, per almeno un mesetto gli aggiornamenti dovrebbero tornare regolari, una volta a settimana fra giovedì e venerdì.

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Capitolo 5
*** La Valle della Fine... ***


La valle della fine

La Valle della Fine

 

 5- L'Hokage e il Vendicatore


Fissarono lo sguardo a fondo in quello dell’altro, cercando di carpire le intenzioni più segrete del proprio avversario, riuscendo infine a scorgervi solamente la chiara consapevolezza che quel momento prima o poi sarebbe arrivato.
Non vi era sorpresa degli occhi scuri e profondi di Hashirama Senju, solo un’amara cognizione, una rassegnata accettazione di ciò che quel preciso momento rappresentava e della sconsiderata catena di eventi che proprio in quel luogo li aveva trascinati.
Scrutò le iridi scarlatte del suo nemico, una luce malata illuminava quegli occhi, la più totale perdita di raziocinio mostrava i suoi frutti su quel corpo abusato e portato a forza oltre il limite, in totale assenza di rispetto per se stessi e per la vita.
Madara Uchiha puntava insistentemente lo sguardo innanzi a sé, le palpebre innaturalmente dilatate, i denti scoperti in un ghigno ferino senza dubbio agghiacciante, le narici frementi e le orecchie tese, pronte a catturare il minimo movimento…un viso che di umano pareva avere ben poco. Le gambe lievemente flesse, il busto vistosamente proteso in avanti: una belva pronta per la caccia.
Ormai, in quel corpo rapito dall’inebriante sapore della battaglia, ogni traccia di controllo era completamente sparita, volatilizzatasi nel preciso istante in cui si era trovato a fronteggiare l’avversario in quello che, sapevano entrambi, sarebbe stato il loro ultimo scontro, al termine del quale uno solo avrebbe abbandonato quella valle  sulle proprie gambe.
L’altro ne avrebbe fatto la sua ultima dimora, avrebbe lasciato in quel luogo la propria vita ed il proprio corpo, restituendolo per sempre alla nuda terra.
 
Ancora non riusciva a rendersi conto di come fosse giunto sin li in così poco tempo, poco più di un effimero batter d’ali.
Ripercorrendo mentalmente gli ultimi avvenimenti faticava seriamente  a realizzare cosa in realtà fosse accaduto in quel breve lasso temporale, come se uno dei suoi jutsu gli si fosse rivoltato contro improvvisamente.
L’impressionante velocità dello svolgersi degli eventi era parsa ai suoi occhi, certamente non sprovveduti, come un violento turbinio di polvere e attimi che, al loro caotico passaggio, trascinano incuranti uomini, case, ricordi, pensieri e sentimenti.
Poteva ricordare distintamente l’attimo in cui, con incedere sicuro e sprezzante, aveva varcato le porte del villaggio che lui stesso aveva faticosamente contribuito a costruire, tacendo e sottomettendo il proprio orgoglio per espresso volere del clan; villaggio che lo aveva esiliato, cacciato ignobilmente, rifiutato e tradito. 
 
Nascosto nel fitto della boscaglia, a lungo aveva scrutato ogni mossa della guardie, ogni singolo movimento sospetto, che potesse tradire un possibile stato d’allerta da parte degli abitanti di Konohagakure; al sicuro da sguardi indiscreti attendeva paziente pregustando il momento in cui la sua terribile vendetta si sarebbe compiuta. Con tale intento decise dunque di non affrettare i tempi: presto l’Hokage stesso avrebbe abbassato la guardia, lasciandosi lusingare da quella placida sensazione di quiete che stava lentamente cogliendo ogni singolo shinobi di quelle terre, come una subdola sindrome virale conseguente a quella pace ingenua e solo apparente. Una sorta di piacevole sopore, uno scandaloso ottundimento dei sensi, inaccettabile per dei ninja d’alto livello.
Si era faticosamente preparato, sottoposto ad estenuanti allenamenti per affinare le proprie tecniche, le illimitate potenzialità dello sharingan ipnotico eterno; si rendeva conto che questa volta avrebbe dovuto combattere solo contro un intero villaggio.
Sarebbe stato solo di fronte ad un intero esercito…e fra quelle schiere una moltitudine di occhi di brace lo avrebbero sfidato.
Sì, per la prima volta sarebbe stato veramente solo contro tutti, persino il suo stesso sangue avrebbe lottato per sconfiggerlo, per avere la sua testa una volta per tutte; perché ormai anche quelli del suo clan avevano paura della sua inarrestabile follia, ed inorridivano all’idea di aver per anni idolatrato un tale sanguinario guerrafondaio, di aver custodito e cresciuto in seno una serpe fratricida.
Tuttavia l’apparente situazione di svantaggio sembrava non riuscire nemmeno a scalfire la sua granitica sicurezza; tramava nell’ombra…certo che la fatica e la lunga ricerca avrebbero presto dato i loro dolcissimi e letali frutti.
 
Nessuno lo aveva atteso all’ingresso, i cancelli spalancati offrivano un’invitante panorama di quel ridente villaggio; alcune abitazioni facevano bella mostra di sé, amabilmente circondate da rigogliosi e verdeggianti giardini. La vegetazione lussureggiante rendeva l’insieme piacevole ed accogliente per qualsiasi forestiero di passaggio. In lontananza, posto sulla torre dell’edificio più altro, il kanji del fuoco risplendeva al sole del tramonto, nobile e fiero nel suo rosso  quasi ardente.
 
A tal punto si illudevano di essere al sicuro?
 
Poi tutto si era svolto con una rapidità impressionante
 
Da dietro un’ampia colonna era apparso lui, il primo Hokage con la sua veste ufficiale; avanzava sicuro con passo misurato.
Il lungo mantello candido ondeggiava pigramente facendo risaltare, con gli ultimi raggi del sole, vermiglie lingue di fuoco poste sull’orlo inferiore. L’ampio copricapo celava parzialmente il viso dell’uomo, un’espressione seria e consapevole ne plasmava i tratti.
 
“Ti aspettavo…” disse senza tanti inutili cerimoniali “…sapevo che saresti tornato.”
 
“Vuoi forse la tua vendetta?” parole sprezzanti, di sfida, tuttavia nulla ne tradiva i sentimenti. Il tono neutro di quelle poche e brevissime frasi lo colpì più di mille parole.
 
Era dunque così penosamente prevedibile?
Aveva dunque sprecato tempo prezioso per nulla, mesi in inutili appostamenti ed estenuanti attese?
 
Un profondo senso di vergogna s’impossessò del suo corpo, facendolo tremare dalla rabbia, un denso malessere che dal ventre andava montando sempre più sino a raggiungerlo in viso, avvampandone gli zigomi ed infiammandone lo sguardo.
 
Si era reso ridicolo.
 
Mesi di sacrificio, attesa ed immani sforzi, l’illusione di poter contare su un impeccabile effetto sorpresa…ed il suo avversario era li, solo, alle soglie del villaggio, ad attenderlo impassibile.
 
Come se dalla sua fuga fossero passati poco più di una manciata di giorni.
 
“Accetto la tua sfida, ne raccolgo l’odio e la sete di vendetta. Lasciamo però da parte il villaggio. Questa storia riguarda solo noi due. Tu ed io, adesso, ma lontano da qui.”
 
Le ultime parole uscirono lentamente dalla labbra del Senju, scandite pesantemente come i rintocchi nella cassa di un mortale orologio.
 
Era giunta la loro ora.
 
L’Uchiha  a quelle parole annui con convinzione, ghignando internamente all’ingenuità dell’idea del suo degno avversario.
 
Povero illuso, davvero credeva che una volta uscito vittorioso dallo scontro avrebbe risparmiato quel villaggio di empi traditori?
Quel covo di vili appartenenti al suo ormai ripudiato clan, che avevano preferito la sottomissione alla gloria ed i rispetto per se stessi in cambio di una disonorevole cessazione dei conflitti?
Tzk, fin troppo facile, si era allenato con la previsione di dover affrontare un intero esercito di shinobi di Konoha e quell’ingenuo ora gli offriva la possibilità di uno scontro paritario?
Decisamente le circostanze stavano volgendo dalla sua parte.
 
Inconsciamente portò la lingua a lambire le sottili labbra, alla sola idea dello spargimento di sangue che ne sarebbe seguito. Pregustava soddisfatto la vittoria, la pura gioia che di li a poco lo avrebbe colto ed appagato pienamente.
 
Il sole era ormai calato, lambendo docilmente l’orizzonte coi suoi raggi infuocati, cedendo il passo ad una cupa notte priva di stelle. Grosse nubi cariche di pioggia andavano addensandosi velocemente proprio sopra il villaggio. Il fragore dei tuoni e la violenza dei fulmini avrebbero fatto da cornice alla battaglia della Fine.
 
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Il suo corpo fremeva impaziente, poteva avvertire distintamente l’eccitazione che lo attraversava, percorrendo febbrilmente ogni singola vertebra della sua robusta schiena. L’euforia del combattimento, il rumore del metallo che s’incontra, l’odore penetrante del sangue che cola dalle numerose ferite inferte ad entrambi.
Sì, perché anche il proprio sangue  aveva il sublime potere di eccitarlo, il bruciore penetrante degli squarci sulla pelle l’inebriava, lo coglieva ogni volta con fremiti di piacere, lo faceva sentire vivo.
Per questo era nato e, kami, questo avrebbe continuato a fare finché le gambe lo avrebbero sorretto, finché nei suoi polmoni fosse rimasto un alito di vita.
 
Pochi nemici erano stati in grado di trasmettergli emozioni così forti, di soddisfarlo pienamente…e fra questi senz’altro il migliore era proprio colui che, in quel preciso istante, lo stava aspettando sull’altro lato della cascata, intento a scrutarlo come a volergli leggere nella mente.
 
L’avversario perfetto attendeva paziente a pochi metri da lui; la sua figura possente e tuttavia priva di quello sprezzante orgoglio che al contrario tanto caratterizzava la sua persona, si stagliava fiera incutendo un naturale rispetto; i lunghi capelli corvini lasciati cadere ben oltre le spalle, che il vento soleva far ondeggiare dispettoso, giacevano ora fastidiosamente appiccicati al viso ed al corpo, incollati dalla pioggia che, gelida e pungente, non accennava a scemare, cadendo insistente ormai da ore.
Il paesaggio pareva trasmutato sotto quell’incessante precipitare: la terra polverosa si era andata ricoprendo di uno spesso strato fangoso, insidiando il passo del viandante e rendendo difficile ogni movimento rapido, la foresta ululava e pareva piangere sotto il peso dei rami che, carichi d’acqua piovana, si piegavano pericolosamente sino a spezzarsi e travolgere ogni cosa sotto di sé. La forza della natura pareva voler ammonire coloro che, in cima al grande canyon, si apprestavano a sfidare la morte, incuranti delle acque prepotenti che gonfiavano pericolosamente quel fiume che li divideva.
L’intera vallata piangeva, temendo la sorte dei suoi fondatori.
 
Nell’oscurità più totale si fronteggiavano, fieri portatori d’opposti ideali e complementari universi. Stille di pura passione dall’incastro perfetto.
Bianco e nero che sfericamente turbinano dando forma ad ogni umana emozione.
Intrinsecamente connessi in un perverso gioco di morte e vita, totale completezza e pietoso nulla.
 
Un lampo squarciò l’aria densa e fremente d’attese, l’istantanea visione di quei volti tesi e consapevoli, la luce negli occhi guizzava riflessa specchiandosi nell’altro.
 
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Sottili sbuffi salivano fuggendo in brevi ondate dalle sottili labbra socchiuse; la pelle secca ed arrossata seguiva il repentino entrare ed uscire del respiro condensato, rapido ed affannato nel susseguirsi inarrestabile dei colpi.
 
La pioggia battente fendeva obliqua i loro volti segnati, raffiche taglienti di vento giungevano a tratti, assalendo improvvise ogni cosa, tendendo terribili agguati dal nulla annunciati, colpendo alle spalle con vile ferocia i duri shinobi dal freddo lambiti.
Cento stiletti di ghiaccio affilato colpivano incessantemente gli occhi, la nuca, gli zigomi, le braccia e le mani, come fini aghi sottopelle che, sciogliendosi lungo la schiena in sottili rivoli di liquidi brividi, penetravano nel profondo, legando le stanche membra in una morsa gelida ed implacabile.
Ma nulla è il mero cadere di lacrime celesti innanzi all’incrollabile volontà di chi sente dal proprio profondo di essere nato per quel momento: fuoco e vendetta riscaldano cocenti i corpi infreddoliti dei ninja opponenti, che come in una crudele danza s’incrociano agili e perfetti segnando indelebilmente l’avversario con precise e letali stoccate. Le vesti ormai fradice e lacere rivelano tragiche fioriture scarlatte che rapide paiono sbocciare ed immediatamente sfiorire, sinistri tributi al valoroso nemico, degno avversario di molte battaglie, opposto compagno di guerre non troppo lontane.
 
Con un rapido balzo all’indietro scansò solamente all’ultimo l’ennesimo kunai che, sibilando attraverso l’aria, finì per conficcarsi a fondo nello spesso strato di fango che ormai ricopriva il terreno. Proprio nel corso del precedente scambio Madara non aveva calcolato bene la consistenza del campo di battaglia, perdendo presa con il piede destro a seguito di un atterraggio poco fortunato, finendo per essere colpito di striscio sul fianco da una spessa trave lignea scagliata dall’avversario.
Normalmente gli sarebbe bastato rendersi intangibile per qualche secondo, ma nella situazione nella quale si trovava non era proprio il caso di mettersi a sprecare prezioso chakra inutilmente; ogni goccia risparmiata era di vitale importanza per il suo piano.
Il corso ingrossato della grande cascata imperversava furioso minacciando di esondare, andando a ricoprire e travolgere violento i fragili argini fangosi, ormai cedevoli e stanchi sotto il brutale incedere delle rapide. In tali condizioni era difficile persino rimanere in equilibrio sulla superficie dell’acqua, senza dover considerare l’inevitabile precarietà dei movimenti causata dalle frequenti ondate che scuotevano incessantemente la corrente del fiume. Nonostante l’indubbia abilità dei due shinobi, l’esigenza di rafforzare la presa per garantire un certo equilibrio, aumentando notevolmente la quantità di chakra concentrata sotto le piante dei piedi, sottraeva ad entrambi importanti risorse e riserve d’energia necessarie al combattimento.
 
Conosceva bene le armi del suo avversario, l’abile arte innata del legno che ne contraddistingueva il clan. In diverse occasioni si era dovuto difendere da simili attacchi ed ora, a distanza di anni, dopo innumerevoli ed estenuanti battaglie combattute con onore, poteva senza alcun dubbio affermare di poter bloccare e volgere a suo vantaggio i punti deboli di quell’abilità.
Hashirama era come un libro aperto ai suoi occhi: le tecniche utilizzate, le tattiche di combattimento, le peculiarità e le insicurezze, nulla gli era ormai sconosciuto o difficilmente prevedibile.
Allo stesso tempo era ben consapevole del fatto che nemmeno lui poteva ritenersi imperscrutabile agli acuti sguardi osservatori del proprio avversario; troppo a lungo si erano fronteggiati per evitare quest’inesorabile reciproca conoscenza.
 Erano come due vecchi compagni d’armi, solamente posti su fronti nemici ed inconciliabili.
 
Ma questa volta non avrebbe avuto compagni a sostenerlo, nessuno lo avrebbe soccorso e coperto in caso di difficoltà. Non ci sarebbe stato nessun Uchiha ad acclamarlo. Lo avevano lasciato solo a sostenere con la forza il valore dei suoi ideali, ad affrontare l’angoscia dei proprio fantasmi.
Perché nonostante la ferma convinzione di aver combattuto sempre per una causa giusta, l’assenza di una spalla su cui contare nei momenti critici si faceva sentire inevitabilmente. Accanto a Izuna non aveva mai dubitato, la sua convinzione non aveva mai vacillato, persino nel mezzo della battaglia, la presenza di una forte schiena contro la sua aveva sempre avuto il potere di infondergli coraggio e determinazione.
Ora nulla di tutto questo era rimasto, solo il freddo, i brividi, il sangue che colava copioso sulla fronte…e la forza della disperazione.
Continuava ad aggrapparsi strenuamente a tutto l’odio che era in grado di provare per andare avanti, per vincere, per non crollare, per Izuna.
 
In fondo, forse li avrebbe solo puniti duramente, erano pur sempre il suo clan, la sua famiglia, e lui era sempre stato particolarmente devoto ai familiari, come profondamente devoto era stato al suo amato otuto, che tanto eroicamente si era sacrificato per il bene degli Uchiha, donandogli i suoi stessi occhi.
Sì, probabilmente li avrebbe risparmiati e ripresi con sé, ovviamente non prima di una tangibile prova di fedeltà.
 
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Era il momento.
Ora che fango e sangue si erano ancora un volta mescolati fra loro.
Ora che entrambi, sporchi ed inzuppati, ansimavano sulle opposte rive del fiume.
Ora che il battito furioso di ognuno rimbombava con prepotenza nei timpani dell’atro.
Qualcuno una volta ha detto che ai veri shinobi non servono parole per comprendersi, qualunque sia il motivo o la loro storia, si capiranno istantaneamente nell’esatto momento in cui i loro pugni si scontreranno, colpendo con violenza, connettendoli inevitabilmente per mezzo del filo della rivalità, sottile ed impalpabile ma allo stesso tempo infrangibile, e così continuano a comunicare intuitivamente ogni volta, ad ogni scontro più uniti.
Era il momento di sferrare il suo attacco.
 
Scartando lateralmente per aggirare la spessa barriera di fango che il Senju aveva appena elevato, allungò rapido un braccio e, spalancandone la mano, aprì un varco spazio-temporale proprio alle spalle dell’Hokage, cogliendolo per un attimo impreparato, per poi richiuderlo immediatamente dopo. Hashirama fece appena in tempo a registrare l’accaduto che, recuperato istantaneamente l’equilibrio, in un secondo scattò lontano avvicinandosi pericolosamente all’Uchiha, le mani protese impegnate a comporre sigilli.
La sua mente tuttavia non poteva fare a meno di ritenere strano un simile attacco. Cos’aveva voluto fare? Anche non muovendosi non avrebbe potuto fare altro che privarlo di una misera ciocca di capelli che, essendo terribilmente lunghi, non potevano afe ameno di oscillare ad ogni movimento.
 
Cos’era accaduto?
Perché quel varco così mal posizionato?
Non era da lui sbagliare così palesemente, cosa stava tramando Madara?
 
Hashirama ormai poteva affermare di conoscere bene le capacità di Madara e le potenzialità delle sue tecniche; normalmente con un jutsu del genere avrebbe tranquillamente potuto portargli via un braccio, ed invece…doveva esserci qualcosa sotto, senza alcun dubbio.
 
Perso un tali pensieri si rese conto solo all’ultimo della fitta cortina di fumo che aveva avvolto ogni cosa.
“Kuchiyose no Jutsu!”
Madara, chinato a terra ed ancora visibilmente ansimante, sacrificava una goccia del suo sangue sul sigillo del richiamo. Il peso concentrato sul braccio destro, il petto scosso da brevi singulti sussultava irregolare.
Dal fitto della nebbia, si avvertì prepotente la presenza di un’imponente creatura; qualcosa si stava muovendo diradando le nubi fumose. Due, quattro…nove enormi code di fulvo pelo ondeggiarono fiere nell’aria, grosse zampe morbidamente fasciate affondarono i proprio affilatissimi artigli nel terreno cedevole. Un passo e la terra tremò. Un altro ed un argine crollò, franando sugli alberi spezzati della vallata. Un ghigno ferino, folle e crudele più del suo evocatore, furente e gioioso, riluceva nell’oscurità di quella notte priva di stelle. Le narici fremevano, assaporando dopo tanto tempo il piacevole odore della libertà. Due occhi fendenti, dilatati oltre ogni possibile immaginazione scrutavano con attenzione studiando la preda, deridendone la misera sorte; le pupille vermiglie, tre gocce d’odio puro in un mare di sangue.
Innanzi allo sguardo incredulo di Hashirama si mostrava in tutta la sua fierezza Kyuubi, il demore Volpe, la più potente e crudele delle bestie sigillate dall’Eremita dei sei sentieri.
 
Lo stupore del primo Hokage era palpabile: tutto si sarebbe aspettato da un avversario abile e scaltro come Madara, persino che avesse dato fuoco all’intera vallata con Amaterasu pur di ucciderlo, ma non avrebbe mai creduto possibile che decidesse così sconsideratamente di liberare uno dei leggendari Biiju…il più feroce per giunta.
A tanto giungeva il suo odio e la sua smania di vendetta.
A tal punto desiderava la distruzione di Konoha.
Ad una tale triste traguardo lo aveva spinto la sua follia, la sconsiderata cecità e l’ormai totale perdita di senno.
Aveva sperato fino a quel momento di poter placare la sua ira, di concludere il combattimento senza vittime, risparmiando inutili sacrifici ad un dio nel quale non aveva mai creduto: la vendetta. Tuttavia si era tristemente dovuto ricredere, la sua era stata un’ ingenua speranza, una mera utopia.
 
Dall’altra parte di ciò che rimaneva della cascata, il vendicatore osservava la scena con evidente soddisfazione: lo stupore che si era dipinto sul volto del suo rivale era segno evidente del suo genio. Dopotutto era ancora in grado di stupirlo, coglierlo di sorpresa e quindi batterlo una volta per tutte.
Prendendo posizione rafforzò il controllo su Kyuubi pronto al vero scontro, quello che sarebbe stato l’ultima fase della battaglia e la sua vittoria. Grazie allo Sharingan ipnotico poteva gestire ogni azione di quell’indomabile demone, anche se una tale tecnica gli richiedeva un enorme consumo di chakra. In ogni caso la potenza della Volpe era talmente grande che avrebbe permesso la conclusione di tutto in pochi minuti. Oltre non sarebbe riuscito a spingersi nemmeno lui. Troppo poco tempo aveva avuto per dedicarsi ad un simile addestramento e decisamente troppo era il consumo d’energia, al punto da lasciarlo ogni volta riverso sul terreno, ansante e pressoché privo di forze.
Hashirama scrutava il nemico, cercando disperatamente una via d’uscita che non prevedesse la distruzione di massa.
L’unica possibilità per uscire vivo da quello scontro infernale ed al contempo impedire alla Volpe di raggiungere il villaggio e raderlo a suolo consisteva nel riuscir a controllare temporaneamente il chakra del demone, giusto il tempo per sconfiggere l’Uchiha, e successivamente risigillare la belva in  un nuovo Jinchuuriki.
Per far questo il primo passo era necessariamente depistare Kyuubi, portando la sua attenzione su una copia lignea attraverso la tecnica della sostituzione del corpo. In seguito si sarebbe concentrato su Madara neutralizzando proprio quella sua abilità innata tanto potente quanto in grado di causare danni e sofferenza dalla portata devastante.
Il demone Volpe lanciò un grido cupo, basso e vibrante; l’odore inebriante del sangue giungeva alle sue acute narici come un dolce profumo, la voglia di uccidere, squartare e nutrirsi avidamente di dolore andava crescendo sempre di più sino a divenire insopportabile.
Le code fendevano l’aria sibilando e colpendo duramente il terreno, al loro passaggio interi alberi e gruppi di arbusti venivano sradicati e cadevano al suolo ridotti in frantumi.
Con un agile balzo che fece tremare nuovamente l’intera vallata fu innanzi al primo Hokage; sete e giustizia, istinto animale e saggia determinazione.
Ormai pronto al peggio, protese in avanti il braccio destro, afferrandone il polso con la mano sinistra, sul palmo disteso apparve nitido il kanji della soppressione.
 
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Buio, una densa oscurità piena di nulla.
Il vuoto ovunque: innanzi a me, dietro, nulla sotto i piedi, nero pure il cielo.
Come aver chiuso gli occhi…per sempre.
Brancolava.

Astuto il Senju, non per nulla l’avevano eletto Primo Hokage preferendolo a lui, aveva trovato finalmente il modo per renderlo inoffensivo.
Lo aveva reso cieco.
Ed un Uchiha cieco è un Uchiha morto.
Lui ne sapeva qualcosa.

Un attimo prima poteva vedere Kyuubi colpire in pieno Hashirama con una potente sfera di chakra nero concentrato e mille schegge impazzite scagliarsi nell’aria.
Poi nulla.
Il buio più totale l’aveva avvolto come una coperta polverosa e soffocante, si era posato sui suoi occhi rendendoli inutili e facendogli perdere in controllo sulla Volpe.
Sapeva di essere ancora in quella valle, tuttavia i suoi sensi erano come spenti, resi inutili da un ottundimento generale.
Nessuna luce, nessun odore, nessun suono.
Nemmeno una superficie da toccare. Non riusciva più ad avvertire nemmeno il vento sulla pelle…e la scrosciante pioggia battere sul viso e sulle numerose ferite.
Iniziava, lentamente, ad insinuarsi il dubbio, a farsi strada nella sua mente la consapevolezza della sua fine, che molto probabilmente non sarebbe stato lui ad uscire vivo da quella battaglia. Inaspettatamente stava perdendo, nemmeno l’espediente di Kyuubi aveva funzionato.

Doveva prepararsi alla sconfitta?
Accettare il fallimento?

Abbandonarsi allo sconforto?

Poi un colpo, in pieno stomaco, ma non una spada, non un kunai.
Qualcosa di grosso, nemmeno particolarmente appuntito, non particolarmente affilato.
Tossì, sputò sangue, inveì rivolto al nulla e svenne. Si spense.

E fu il buio della mente.
Oblio dei sensi e della memoria.

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Capitolo 6
*** Ti odio, non ti sopporto... ***


Obito e Kakashi


Obito e Kakashi

 
 

 
5- Ti odio, non ti sopporto…ti do la mia vita.
 
 

 
Correva, come sempre, disperatamente, a perdifiato.
Superava con rapidità le chiome verdeggianti saltando agilmente fra i rami frondosi. Macchie di luce attraversavano saettanti la sua figura che, slanciata in avanti, si affannava in una vera e propria corsa contro il tempo.
“Non va bene!” rantolò nel disperato tentativo di accelerare ulteriormente “Di questo passo stavolta verrò ucciso!”
Dannazione che nervoso.
Possibile che ogni volta fosse la stessa storia?
Un groviglio allo stomaco che non poteva far altro che peggiorare al solo pensiero di chi, con le braccia incrociate e l’aria decisamente seccata, lo stava sicuramente aspettando già da parecchio tempo.
Un caso senza speranza, stava senza alcun dubbio dicendo in quel preciso momento quello spocchioso del suo compagno di team, come se a lui non fosse dato sbagliare. Sempre dannatamente il primo della classe, quello veramente dotato, il genio, quello che avrebbe fatto strada.
Senza contare che oggi avrebbe anche dovuto sopportare quella sua aria di superiorità sprigionarsi da ogni singolo poro ancora di più del solito perché, come se avesse mai potuto dimenticarsene, oggi era quel giorno. Il giorno in cui lui sarebbe stato promosso al grado di jonin.
Ci mancava solo un altro pallone gonfiato fra le fila degli shinobi di Konoha.
Tzk.
Assolutamente ingiusto… ed immeritato.
Mostrò i denti in un’evidente smorfia dettata dal forte disappunto e dalla fatica che, in grosse gocce, gli rigava il volto e gli appiccicava le ciocche alle tempie.
“Chissà se farò in tempo?”
Sì, perché la vera punta di diamante del team, quello che in un futuro nemmeno tanto lontano avrebbe sicuramente brillato per le sue indiscutibili abilità di ninja, che si sarebbe contraddistinto in battaglia per il valore ed il grande coraggio, colui che sarebbe diventato l’eroe di Konoha era lui e lui solo: Obito Uchiha!
Se solo il suo sharingan non si rifiutasse tanto testardamente di comparire.
Ma ora non aveva assolutamente il tempo per perdersi in simili pensieri, la priorità al momento era una sola: correre.
Il più velocemente possibile, anche, o avrebbe rischiato di perdere la faccia pure quella mattina, davanti al ghigno saccente di quel baby-ninja-prodigio sorprendentemente sgodevole ed odioso che era l’Hatake. Ma come faceva a prendersi sempre così dannatamente sul serio?
Uh, non c’era affatto da stupirsi del fatto che alla sua età avesse già i capelli bianchi. A dirla tutta si sarebbe stupito nemmeno, in un giorno non molto lontano, di scoprirsi a fissarlo in viso, trovandovi un bel solco verticale proprio al centro della fronte.
Ah, sì, sarebbe stato proprio bene con le rughe, lo avrebbero fatto apparire tale e quale il vecchio tronfio che era!
 
 
Nuovamente immerso nel pensiero del suo tanto odiato rivale e compagno di team, con un molto poco rassicurante ghigno sul viso, il giovane genin correva incessantemente nella foresta, saltando con notevole agilità da un ramo all’altro dei secolari alberi che circondavano Konohagakure.
Come quasi ogni mattina era diretto al punto d’incontro del suo team e, come quasi ogni mattina, era in terribile ed ingiustificabile ritardo.
 
 
Ormai la radura era poco distante, poteva intravederne la luce accecante attraverso il fitto fogliame della boscaglia. Forse non era poi così tardi, ancora un piccolo sforzo e sarebbe arrivato, magari il sensei non era ancora arrivato, magari aveva avuto un contrattempo…
Dandosi una forte spinta con le gambe, con un ultimo balzo raggiunse il limite della foresta, deciso a planare sul luogo del ritrovo: un’apparizione sicuramente d’effetto. Tuttavia evidentemente qualcosa sfuggì ai suoi calcoli, ed invece di atterrare elegantemente al centro della radura come sarebbe stato confacente ad un membro del suo clan, cadde rovinosamente a terra, strisciando impietosamente sull’erba. Rapito dai suoi mille pensieri non si era accorto di una lunga liana posata proprio sull’ultimo ramo e, agganciandovisi con un piede, si era fatto trascinare a terra senza fare una piega, per finire, muso nel fango, proprio innanzi al suo team.
Alzando il capo vide il suo sensei seduto su una roccia poco lontano, lo sguardo assorto rivolto ad un cielo limpido e privo di nubi.
 
 
“Ho fatto in tempo?” chiese per nulla convinto fra un ansito e l’altro, più per proforma o per dire qualcosa che per reale necessità, data l’evidente presenza di entrambi i suoi compagni di team.
Un figura si stagliò improvvisamente in controluce frapponendosi tra loro “No, Obito, sei in ritardo!” fece notare in un moto di stizza proprio l’Hatake incrociando le braccia al petto.
Le sopracciglia marcatamente arcuate del compagno di squadra esprimevano ampiamente tutto il suo disappunto anche da sole.
“A che ora credevi fosse l’incontro?” chiese con una punta di rassegnazione chinandosi sul malcapitato.
“Se sei a tutti gli effetti un ninja, ci si aspetta che tu segua le regole!”
 
Non credeva alle sue orecchie, Kakashi lo stava sgridando, con tono pacato, se vogliamo anche un po’ esasperato, ma lo stava decisamente sgridando… e tutto questo davanti a Minato-sensei.
Ed ora?
Quale scusa poteva inventare per tamponare questo guaio e non perdere del tutto la faccia davanti al maestro ed a Rin?
Una valida motivazione, ecco, doveva trovare, o meglio, inventare una scusa plausibile per giustificare il proprio ritardo.
“Sì, beh…” prese a gesticolare in maniera piuttosto vistosa quasi alla ricerca della frase giusta ma, evidentemente stava annaspando nel vuoto più totale.

Grattandosi nervosamente la nuca sputò tutto d’un fiato.
“Nel venire qui una vecchia che portava un bagaglio mi ha chiesto indicazioni…” sudava freddo mentre quegli occhi neri ed inespressivi lo fissavano con sufficienza “…poi ho qualcosa in un occhio.”, fece in un ultimo ed infruttuoso tentativo.
“Ok! E’ una bugia, vero?” lo freddò tranquillamente il compagno mentre, con le mani sui fianchi lo guardava severamente dall’alto in basso.
“Ora basta, Kakashi.” lo dissuase con un leggero sorriso Minato che, dalla posizione in cui si trovava, si era voltato per guardare i suoi allievi bisticciare proprio come due bambini troppo cresciuti.
“Obito ha fornito le indicazioni alla vecchietta.”
“Le ho anche portato il bagaglio!” sentenziò convintissimo e tutto soddisfatto il colpevole mentre, ancora seduto a terra, sollevava sulla fronte l’ingombrante maschera arancione.
Enorme ma irrinunciabile, non se ne separava mai.
Boccetta di collirio in una mano, dilatò le palpebre dell’occhio destro con le dita dell’altra e cominciò a versarvi piccole gocce all’interno, strizzandole poi per il lieve bruciore. Una sorta di rituale che ripeteva ormai diverse volte al giorno da un po’ di tempo.
Il tutto mentre il compagno, per nulla soddisfatto dall’indulgenza del loro maestro, cercava di far comprendere le sue ragioni.
 
 
Erano dei giovani ninja ormai, ed allo stato attuale la prospettiva di un conflitto si mostrava all’orizzonte in maniera sempre più concreta. Il tempo dei battibecchi era finito, presto la  guerra li avrebbe messi alla prova, crudele e senza riguardi per le loro giovani vite, ed anche la missione di quel giorno li avrebbe impegnati molto duramente.
Ma ancora Minato non voleva turbare i loro animi, non in quel giorno così importante, e d’altra parte la tranquillità che si respirava in quella verdeggiante radura non poteva essere sciupata. Era una calma preziosa, portava serenità all’animo, colmava lo spirito e donava loro una ragione per andare avanti.
Per questa pace lui combatteva.
Quella era la pace per la quale si impegnava duramente, in essa trovava la forza necessaria a combattere, ogni singolo giorno della sua vita.
 
 
“Lei è troppo indulgente, sensei”, continuò lamentandosi l’Hatake,”non è possibile che Obito incontri ogni volta qualcuno in difficoltà!” Il suo sguardo si fece duro, s’incupì come adombrato da un grande dolore, i pugni stretti lungo il corpo mentre l’intero corpo si irrigidiva in un chiaro segno di malcelata rabbia.
“Coloro che infrangono le norme e le regole sono considerati feccia! Non è così?”

Minato sorrise all’infantile testardaggine del suo giovane allievo, rigido ed intransigente come solo un ragazzino sapeva essere. Cos’avrebbe potuto rispondere? Forse semplici parole avrebbero potuto mutare le sue convinzioni spingendolo ad abbandonare quel suo guscio di serietà ed inquadrata disciplina?
Ancora intento a sfregarsi gli occhi irritati, Obito rispose per lui: “Non hai un briciolo di gentilezza nel tuo cuore? Parli sempre e solo di norme e regole!” precisò con aria indignata volgendo un piccolo broncio in direzione opposta a Kakashi, “per te la cosa più importante è sapersi controllare.”
L’aria si stava decisamente scaldando e Rin, temendo l’ennesimo litigio fra i due, tentò di sedare gli animi con timida convinzione. “Ora smettetela, tutti e due. Siamo nello stesso team.” La sua espressione non dovette risultare particolarmente convincente, ma d’altra parte aveva sempre un certo timore nel mettersi fra loro quando discutevano. Il giovanissimo jonin infatti non desistette affatto e, dandole quasi totalmente le spalle la guardò sfuggente con la coda dell’occhio. “Sei troppo buona con Obito, Rin. E poi, per me, oggi è un giorno importante!”
Rin parve presa decisamente in contropiede e riuscì solamente a balbettare flebilmente “Hai… hai ragione.”
Obito sembrava non capire, li fissava per nulla convinto della situazione, qualcosa gli stava sfuggendo. Qualcosa di importante. Poi di slancio chiese “Cos’è che succedeva oggi?”
“A partire da oggi, Kakashi è un jonin come me.” Lo illuminò il sensei.
Giusto! Come aveva fatto a dimenticarsene così in fretta? In tutto quel trambusto gli era proprio passato di mente. E pensare che giusto pochi minuti fa si rodeva al pensiero del suo ghigno vittorioso, che tra l’altro con quella maschera non avrebbe mai visto.
 
 
“Per poter essere più efficienti ci divideremo in due team”, le parole di Minato lo riscossero dai suoi pensieri ed insieme cominciarono a dirigersi verso il loro obiettivo mentre il maestro proseguiva con i dettagli della missione, “dopotutto Konoha sta affrontando una carenza di shinobi mai vista prima.”
“Ci dividiamo allora?” chiese Obito dietro di lui.
“Sì, esatto. Kakashi sarà il capitano del trio formato con Obito e Rin. Io lavorerò da solo.”
Rin, quasi rassegnata, si girò verso il compagno “Ricordi che ne abbiamo parlato l’altro giorno, Obito… del fatto di prendere a Kakashi un regalo.” Il giovane Uchiha a quelle parole volse il capo risentito, quasi volesse far finta di non aver udito e prese a fissare con astio la nuca del compagno che, non curandosi affatto dei loro discorsi, procedeva a testa alta verso la meta.
“Mi dispiace” borbottò poi fra il dispiaciuto e l’infastidito “non stavo ascoltando”.
Proprio in quel momento Kakashi, che in cima al gruppo pareva non aver ascoltato nemmeno un parola del loro discorso, si voltò lievemente incenerendolo con lo sguardo.

Minato li fece fermare e, rovistando nella sacca ne estrasse un grosso kunai dalla forma piuttosto strana. “Questo è il mio regalo. Un kunai artigianale. E’ pesante ad ha una forma bizzarra, ma una volta che ti ci abitui è facile da usare” e così dicendo, dopo averlo fatto roteare in mano un paio di volte, lo lanciò al proprio allievo che lo afferrò saldamente osservandolo con interesse.
“Grazie.”
Anche Rin estrasse qualcosa dalla sua borsa e, tutta sorridente, lo porse al festeggiato.
“Questo è da parte mia. Ecco! Un kit di pronto soccorso personalizzato. Ho cambiato qualcosina, in modo che sia più facile da usare.”
Kakashi afferrò il pacchetto con una mano ringraziando la kunoichi-medico, mentre, voltandosi verso Obito, porgeva l’altra in evidente attesa.

“C-cos’è quella mano?” Domandò allarmato, spalancando gli occhi decisamente sorpreso da quel gesto. Poi comprese, e corrucciando le sopracciglia in un principio d’ira sbottò: “Non ho niente da darti!”
Innanzi a tutta quell’agitazione il compagno non parve fare una piega, e molto seraficamente lo freddò. “Beh, non importa. Tanto non sarebbe stato niente di utile. Le cose inutili sono solo un impiccio.” A quelle parole Obito esplose letteralmente e puntando il dito gridò, ormai fuori di sé: “Ancora non riesco a capire come abbia fatto tu a diventare jonin!”
“Proprio tu parli?” lo affrontò senza scomporsi.
“Io sono Obito Uchiha del clan Uchiha! Un giorno ti supererò, non appena il mio sharingan si risveglierà!”
Avevano ricominciato, ormai si fronteggiavano fissandosi negli occhi, entrambi con i pugni chiusi ed il capo ben alzato, la fiezza di due shinobi nello sguardo, la cocciutaggine di due marmocchi incapaci di relazionarsi normalmente.
“Voi Uchiha siete tutti guerrieri d’elite, vero?” l’istigò con malcelata ironia “Quindi non dovresti aver bisogno di contare su quello…”
“Come?” La scarsissima capacità di sopportazione dell’Uchiha era già da tempo giunta al suo limite, ed ora lo stava decisamente superando. Adesso era veramente arrabbiato. Come si permetteva di insultare lui ed il suo clan con quella sua brutta faccia da schiaffi? Cosa ne sapeva lui della sua stirpe e della grandezza della sua famiglia? Gliel’avrebbe fatta vedere lui, ma non un giorno, ora, adesso, immediatamente gli sarebbe saltato addosso e…
“Smettetela voi due!” Rin si mise nuovamente in mezzo a loro per dividerli, separali fisicamente con le proprie braccia, le mani appoggiate sul petto di entrambi.
“Posso iniziare a spiegarvi la missione?” li interruppe serio Minato. I tre si voltarono nello stesso momento, sul viso un’espressione seria e concentrata.
 
 
“Siamo vicini al confine.”
Facendo cenno ai sui allevi di avvicinarsi si inginocchiò e stese a terra una grande mappa raffigurante il territorio nemico. Rapidamente i giovani ninja lo raggiunsero e si posizionarono in cerchio attorno ad essa in totale silenzio.
“Capito? E’ questa linea.” Indicò seguendone il percorso con l’indice. “Mostra dove il Paese della Terra sta invadendo Kusagakure. I nostri nemici sono shinobi di Iwagakure, ci è stato riferito che in prima linea ci sarebbero già mille shinobi.”
“Hanno avanzato parecchio dall’ultima volta.” Affermò Obito fissando la sottile linea di confine sulla mappa.
“Il Paese del Fuoco confina con Kusa. Saremmo dovuti intervenire molto tempo fa.” Fece notare amaramente Kakashi.
Anche Rin sembrava piuttosto preoccupata, la situazione era tutt’altro che semplice, innanzi a loro si prospettava con ogni probabilità la missione più difficile e pericolosa che avessero mai affrontato sino a quel momento. “A giudicare dalla mole dell’avanzata devono avere un sistema di rinforzi molto efficace.” rifletté.
“Perciò la nostra missione è questa… il ponte Kannabi.”, continuò il Lampo Giallo, “Sconfiggere il nemico al fronte richiede un considerevole numero di shinobi. Ecco perché degli shinobi come noi, che si occupano di missioni di sabotaggio, sono obbligati a lavorare in piccoli team scelti.”
Rin e Kakashi si scambiarono uno sguardo fugace, poi lui chiese : “Ha detto il ponte? Non era una missione di infiltrazione?” Pareva confuso, il piccolo genio non riusciva ad afferrare il significato delle parole del suo maestro.
Fu allora che Minato chiarì, riassumendo in poche parole, quale fosse l’importantissimo obiettivo di quella missione.
“Team Kakashi, la vostra missione consiste nell’infiltrarvi nel territorio nemico da dietro. Distruggerete quel ponte, che viene usato per il trasporto di viveri e rinforzi ed una volta fatto, vi ritirerete immediatamente.”
I compagni si fissarono negli occhi con determinazione ed annuirono all’unisono.
“E lei, sensei?” domandò Obito.
“Io affronterò il nemico direttamente sul fronte della battaglia. In ogni caso, oggi il vostro capitano è Kakashi. Viaggeremo insieme fino al confine, ma da lì inizierà la vostra missione!”
 
 
Si inoltrarono senza indugi nel fitto della boscaglia, quella foresta in territorio nemico aveva un che di inquietante: enormi alberi secolari svettavano fra l’erba alta filtrando gran parte della luce e rendendo tutto piuttosto cupo. Numerosi uccelli, forse corvi, gracchiavano sinistramente attraversando l’aria, andando a posarsi sui rami infestati da sconosciute forme di vita molto simili a grossi funghi. Avanzare non era affatto un’impresa semplice, soprattutto per dei ninja giovani come loro, il nemico poteva celarsi ai loro occhi fin troppo facilmente. Avanzavano compatti, in formazione serrata, aguzzando lo sguardo con circospezione ad ogni minimo rumore sospetto.
Improvvisamente Kakashi, alla guida del team, si arrestò, facendo cenno agli altri di rimanere immobili con un gesto del braccio; Rin e Obito compresero subito la situazione, allertando i sensi si posero in ascolto silente.
Minato dietro di loro non poté fare a meno di sentirsi orgoglioso dei suoi allievi, si erano subito accorti della presenza di shinobi nemici in agguato fra gli alberi.
Proprio di fronte a loro infatti, al riparo di un grande tronco, un ninja di Iwa li stava osservando dal loro ingresso nella foresta.
“Se ne sono accorti… non sono male.”, pensò seccato fra sé e sé. Cercando di metterne a fuoco i lineamenti concentrò la sua attenzione sul loro caposquadra e, realizzandone l’identità spalancò gli occhi in un moto di allarmato stupore. “Ma quello…” già la paura lo stava cogliendo “No, non può essere… Per ora mi limiterò ad osservare.”

L’oggetto delle sue preoccupazioni si inginocchiò e, con un dito puntato al terreno, chiuse gli occhi concentrandosi profondamente. “Uno… no. State tutti in guardia, ce ne sono venti.” In poco tempo era riuscito a quantificare il numero di nemici in agguato fra i rami. “Anche se probabilmente saranno dei Kage Bunshin.”
“Credo che abbia ragione, sensei… ora li attacco.” Kakashi, acquattato accanto al maestro era deciso a liberarsi delle spie immediatamente. “Può coprirmi?”
“Non essere avventato Kakashi. E’ meglio se tu mi copri le spalle.”
Ma il giovane Jonin pareva non voler ascoltare i consigli del suo maestro e, proseguendo senza indugi, prese a comporre una complicata serie di sigilli.
“Sensei, oggi il capitano sono io! Voglio testare un nuovo jutsu sul quale ho lavorato.” Con la mano destra impugnò saldamente il polso della sinistra e da essa cominciarono a scaturire fasci di saette dal bagliore azzurro, talmente luminosi sa tingere i volti dei compagni che, in quel momento, lo stavano fissando a bocca aperta e con gli occhi sgranati per lo stupore.
“Ecco che arriva. Chidori!”
La luce andava intensificandosi rapidamente, un forte crepitio si diffuse nell’aria.
“Cos’è quel jutsu?”
“Che chakra incredibile!”
Entrambi non riuscivano a credere ai loro occhi.
“Eccomi!”
Tuttavia Minato non era convinto della bontà di quell’idea, Kakashi stava decisamente sottostimando la situazione e, pur non potendo impedirglielo esplicitamente in quanto parigrado, cercò di dissuaderlo ponendogli un braccio davanti, l’espressione grave di già conosce il prevedibile svolgersi degli eventi.
“Non importa quanti sono, con questo jutsu posso abbatterli in un lampo. E’ come il vostro soprannome. E poi…” continuava a fissarlo dritto negli occhi. “Sensei, l’ha detto lei. Al momento il capitano sono io. La regola dice che il team deve obbedire agli ordini del capitano, sensei!”
A quelle parole anche Minato si rassegnò e, ritirando il braccio, lasciò andare il ragazzo che, con un lampo accecante si lanciò immediatamente all’attacco.
 
Era di una velocità impressionante, correva fra gli alberi cercando di identificare la posizione del nemico, il quale non aspettandosi di certo un attacco frontale aveva preso a bersagliarlo con una fitta pioggia di kunai, nel vano tentativo di fermarlo. Una mossa inutile, dato che dalle retrovie Minato gli stava coprendo le spalle intercettando ogni colpo prima che potesse andare a segno.
Tzk, che stupido! Lanciare quei kunai mi ha permesso di localizzare la sua posizione.
Con estrema rapidità raggiunse lo shinobi di Iwa sull’albero dietro al quale si era appostato e lo colpì col chidori. Immediatamente quello scomparve in una nube di fumo.
“Dannazione! E’ un Kage Bunshin.”
Si voltò scrutando nell’ombra senza tuttavia vedere alcun movimento sospetto.
“Passiamo al prossimo allora!” e con un salto abbandonò l’albero ormai squarciato dal combattimento per proseguire la ricerca, nel palmo sinistro le scariche elettriche crepitavano ancora illuminando la sua figura.
Anche Obito e Rin, nel frattempo, stavano perlustrando la zona con circospezione, alla ricerca del ninja-spia. Non era facile orientarsi nell’intrico della foresta e la luce pareva sempre più fievole.
Improvvisamente dal terreno apparve una delle copie nemiche, avvolto da spire di fumo si slanciò su Obito con l’evidente intento di attaccarlo, ma Minato con un rapidissimo colpo di kunai lo dissipò in un istante.
“Non abbassare la guardia!” ammonì il suo allievo che, ancora in preda al panico per l’improvviso attacco annuì quasi con le lacrime agli occhi.
 
Kakashi al contrario pareva inarrestabile, correva a perdifiato da un ramo all’altro distruggendo i cloni del nemico con la sua nuova tecnica. Fissava dritto il suo obiettivo senza alcuna distrazione, era orami giunto al diciottesimo.
Troppo concentrato evidentemente, poiché non si accorse di una lunga lama che da sinistra lo stava attaccando proprio al fianco.
“Vantati poco moccioso!” urlò giunto ormai a pochi centimetri da lui. Kakashi non ebbe nemmeno il tempo di reagire, e sicuramente sarebbe stato ferito gravemente se in un rapidissimo flash il suo sensei non l’avesse affettato per la vita e prontamente allontanato dall’arma, riuscendo in una mirabolante acrobazia facendo perno con la mano proprio sul piede della spia. Purtroppo ciò non risparmiò l’Hatake dall’essere colpito, anche se fortunatamente se la cavò riportando una ferita al braccio piuttosto lieve, quasi di striscio. Bisognava comunque tornare dagli altri, immediatamente.
Appoggiato ad un tronco poco distante lo shinobi di Iwa li spiava cercando di riprendere fiato.
Ho bloccato a malapena l’attacco di quel marmocchio, ma i movimenti del biondo sono…
Credeva di essere in salvo, li osservava al sicuro mentre, radunatisi, si organizzavano probabilmente per un secondo attacco.
Povero illuso.
Quanto si sbagliava.
“L’ho marchiato…”
Minato lasciò andare lo zaino e quando questo toccò terra il suo proprietario non si trovava più accanto ai suoi allievi.
Sfruttando il momento in cui aveva tratto in salvo Kakashi, nel far leva sul piede era riuscito ad apporvi in suo marchio per il teletrasporto ed in quel momento era proprio lì, alle spalle del nemico, con un kunai puntato alla sua gola. Quest’ultimo, preso completamente in contropiede, spalancò gli occhi realizzando finalmente con chi aveva avuto la terribile sfortuna di aver a che fare.

“Non posso crederci… tu sei… il Lampo Giallo di Konoha?” Era atterrito. Puro terrore trasudava da ogni suo poro colando sul viso insieme al sudore che orami impregnava completamente la divisa. “A noi del paese della Terra…” a stento riusciva a pronunciare anche semplici parole “I nostri capi avevano detto di scappare, se ti avessimo incontrato.” Il suo ultimo pensiero fu: “Ora capisco il perché.”
 

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“La ferita di Kakashi è seria…”
Rin stava cercando ormai da un po’ di alleviare il dolore del compagno, nonostante il salvataggio in extremis quel taglio non appariva affatto cosa da poco. Le sue abilità di ninja medico erano ancora piuttosto acerbe, se ne rendeva conto, ma cercava ogni volta di dare il massimo per aiutare gli altri membri del team. Kakashi in particolare era un ninja coraggioso e fortissimo già alla sua età; nonostante il forte dolore che sicuramente in quel momento stava provando, si limitava infatti a stringere lievemente le palpebre, non emettendo nemmeno un lamento.
Minato atterrò accanto a loro proprio in quel momento: “Ci ritireremo e ci riorganizzeremo.”
Obito non poteva credere a quella assurda situazione, avevano veramente rischiato di mandare tutto all’aria, e se avessero fallito la missione sarebbe stata tutta colpa di quel testardo presuntuoso dell’Hatake.
“E tutto perché hai ignorato gli avvertimenti del sensei e sei andato alla carica!” gli gridò dritto in faccia agitando i pugni
Kakashi, ancora seduto a terra ed affidato alle cure di Rin, lo squadrò con sufficienza.
“Non voglio sentire cose del genere. Non da un Uchiha d’elite che poco fa se la faceva sotto dalla paura!” sottolineò pungente.
Fu per Obito una vera stilettata e nuovamente si ritrovò ad arrancare alla disperata ricerca di una motivazione per giustificare agli occhi del suo perfetto ed irritantissimo compagno il suo precedente attacco di codardia.
“Mi-mi è entrata della polvere nell’occhio e ho iniziato a lacrimare, tutto qui!”
Si stava innervosendo troppo, sapeva che non andava  bene, ma la frustrazione del doversi confrontare ogni volta con quel perfetto mini-jonin era ormai divenuta insostenibile.
“Conosci la regola n. 25 del Codice di Condotta degli shinobi? La regola dice che uno shinobi non deve mai versare lacrime!”
“Ehi… smettetela, voi due…” anche Rin non sapeva più che dire, stavano giungendo veramente ad un punto di non ritorno.
“Ora smettetela entrambi.” Minato, che sino a quel momento era rimasto in disparte ad assistere alla scena, nella speranza che da soli capissero quando fermarsi, si decise ad intervenire. Non vi era rabbia nel suo sguardo, ma una serietà severa e quasi cupa, pareva deluso dai suoi allievi, stanco del loro continuo istigarsi e litigare. Uno spettacolo veramente raro ed inquietante, per quegli occhi che da sempre li avevano guardati con serenità ed affetto paterno.
“Kakashi, le norme e le regole sono  senza dubbio importanti, ma non contano solo quelle. Non te l’ho insegnato? A volte è necessario improvvisare contro i nemici.”
Il giovane shinobi, punto nel vivo, distolse lo sguardo e chinò il capo, prendendo a fissarsi le mani che, quasi inerti, sfioravano l’erba.
“Visto, scemo?” rincarò il rivale.
“Obito, ce n’è anche per te!”
Sentendosi richiamare scattò sull’attenti per poi fissare il suo sensei con aria interdetta ad alquanto smarrita.
“E’ impossibile che ti vada povere negli occhi, con quella maschera Se vuoi acquistare sicurezza non limitarti a parlare, agisci.”
Obito incredulo sbattè le palpebre nervosamente come a non voler dar credito ai suoi occhi; deglutì più volte a vuoto. Non aveva mai visto il maestro così serio.
“E un’altra cosa... Kakashi. Non dovresti più usare quel jutsu. Da quel che ho visto, nel tuo attacco ti concentri molto su forza e velocità, ma ti muovi così in fretta da non poter notare il contrattacco dell’avversario. E’ ancora un jutsu imperfetto.”
Kakashi pareva perso.
Tutto l’impegno che aveva messo nel perfezionare la sua tecnica per quell’occasione, dimostrare in quel modo di esser degno del suo grado di jonin, di essere al’altezza del suo sensei… tutto inutile.

Un jutsu imperfetto, gli aveva detto.
Ma Minato non aveva ancora finito.
“Prima di dividerci, vi dirò un’altra cosa. Per uno shinobi, la cosa più importante è il lavoro di squadra.”
 
Obito ancora stingeva i denti, i pugni serrati ed il fantasma della sua viltà che gli avvolgeva lo stomaco in una dolorosa stretta.
Un codardo indegno del suo clan.
Un Uchiha senza valore.
 
Kakashi fuggiva gli sguardi, l’umiliazione e la vergogna erano troppe; le sue regole lo avevano tradito, aveva deluso il suo maestro.
L’orgoglio che sanguinava.
L’orgoglio di un adulto ed il bisogno di accettazione di un bambino.
 
Rin fissava il terreno, mortificata per i compagni e dolorosamente consapevole della sua impotenza.
 
 
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Minato aveva deciso di fare il turno di guardia per primo, in modo da lasciar riposare i ragazzi: il giorno successivo sarebbe stato molto impegnativo e non potevano permettersi di esser stanchi ancora prima di cominciare. Come avevano potuto constatare quello stesso pomeriggio, anche una minia distrazione poteva comportare rischi altissimi per la riuscita della missione, ma soprattutto per la loro incolumità.
Seduto su una grossa formazione rocciosa scrutava di tanto in tanto il cielo, ora l’orizzonte, poi nuovamente la distesa stellata, sensibile al minimo rumore sospetto. I ragazzi dormivano proprio dietro di lui, avvolti nel loro sacchi a pelo.
 
“Sensei…” Obito si era alzato dal suo giaciglio e, stando attento a non svegliare gli altri, silenziosamente aveva raggiunto il suo maestro.
“Cosa c’è?” domandò Minato intuendo subito quali preoccupazioni celava quel velo di tristezza che era sceso sul volto del suo allievo.
“Lo so… che il lavoro di squadra è importante” cominciò pensieroso, “però… Kakashi mi critica sempre per la mia mancanza di disciplina, quindi…” esitò un attimo.
Ciò che stava per confidare era senza dubbio il più grosso peso che il suo cuore aveva dovuto sopportare ed ammetterlo davanti a qualcuno era quanto di più difficile e gravoso avesse mai fatto. “Insomma, io so di essere la pecora nera del prestigioso clan degli Uchiha… e riconosco che Kakashi è un tipo straordinario.” Sospirò nel tentativo di riprendere un attimo fiato, il coraggio gli stava nuovamente sfuggendo fra le dita.
Ma Minato lo precedette, comprendendo perfettamente il significato delle sue parole.
Avevano bisogno di capirsi più a fondo, guardarsi dentro, vedere attraverso le reciproche apparenze ed andare oltre le stupide incomprensioni.
“Kakashi è il figlio di  uno shinobi prodigioso, Hatake Sakumo-san, temuto con il nome di Zanna Bianca di Konoha. Neppure il nome dei tre sannin era tanto temuto. Ha passato la sua infanzia all’ombra di un tale prodigio, quindi immagino che a volte, quando ti da dello scarso, non lo faccia apposta…”
“Zanna Bianca…” questo nome non era nuovo al giovane ninja “E’ vero, ne ho sentito parlare anche io. E’ l’eroe che è morto proteggendo il villaggio. Kakashi non ne ha mai parlato.”
“Fu un grand’uomo, rispettato da tutti al villaggio, e ovviamente anche da Kakashi.”
Poi tacque.
Una lunga pausa piena d’attesa.
Obito attendeva con impazienza pendendo letteralmente dalle labbra del sensei.

“E fu così fino a quell’incidente…”
“Incidente?” Allora aveva percepito bene.
Quella strana tensione nel silenzio non poteva preannunciare nulla di buono.

“Forse non dovrei raccontarti una cosa del genere… ma essendo nello stesso team di Kakashi voglio che tu sappia.”
“Cosa accadde?” Ora era palesemente allarmato, la preoccupazione che già turbava i suoi lineamenti ancora piuttosto infantili si accentuò ulteriormente increspandogli le sopracciglia e la fronte.
“Il padre di Kakashi, Sakumo-sama si tolse la vita dopo esser stato diffamato.”
Un mattone.
Un’enorme pietra cadde in quell’esatto istante sulla sua testa, che aveva preso a vorticare priva di controllo.
“Cinque anni fa” continuò fissando l’orizzonte il sensei “era a capo di una missione difficilissima e si infiltrò in territorio nemico. Dovette fare una scelta. La missione o la vita dei suoi compagni… Ovviamente, secondo le regole del villaggio, la decisione giusta sarebbe stata completare la missione. Invece la sospese e salvò i suoi compagni. Questo causò altre gravi perdite per il Paese del Fuoco e per il villaggio e la colpa ricadde su di lui.”
Obito ascoltava ogni parola sempre più allibito.
“Persino i compagni che aveva salvato lo attaccarono. Quel trauma colpì duramente Sakumo, sia fisicamente che emotivamente. Ed infine… si tolse la vita.”
I’Uchiha sentì addosso il dolore del compagno, chiuse gli occhi e, cominciando a comprenderne le asperità, vide un bambino inerme ed impaurito, tremante innanzi al corpo rannicchiato e senza vita del proprio eroe, di suo padre.
“Da quel momento Kakashi non disse più una parola su suo padre e iniziò ad attenersi rigorosamente ad ogni norma e ad ogni regola.”
Un silenzio grave, pesante rendeva l’aria di quella notte stellata quasi irrespirabile, colmo di dolore, di lacrime mai versate, di insostenibile sofferenza dalla quale fuggire, nascondersi e difendersi. Regole, norme, leggi: barriere solide e concrete dietro alle quali trincerarsi per fuggire i propri fantasmi, per trovare un po’ d’ordine, una ragionevole dose di sicurezza.
“Obito… cerca di capirlo, anche solo un po’. Le intenzioni di Kakashi sono buone.”
 
 
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Il mattino successivo Minato era pronto per partire alla volta del fronte, lasciando ai suoi tre allievi l’incombenza della missione di sabotaggio.
Rin stava diligentemente cambiando i bendaggi della spalla di Kakashi, notando con piacere che le ferita stava rimarginandosi senza complicazioni.
“Sta guarendo bene, però non devi sforzarti troppo, o la ferita si riaprirà.”
 
Giunti in prossimità della linea di confine il sensei lasciò loro le ultime indicazioni :”Da questo punto ci separeremo. Buona fortuna a tutti.”
I tre giovani ninja, allineati di fronte al loro maestro, annuirono all’unisono, pronti a dar prova delle loro abilità. “L’altro giorno il nemico facevo sorveglianza da solo, ma da qui in poi incontreremo dei team. Fate attenzione…”
Da quel punto in poi sarebbe stata ancora più dura, i nemici sarebbero stati più numerosi e difficili da affrontare. La consapevolezza di questo pericolo li fece sobbalzare un attimo, avvertivano il peso e la responsabilità sulle loro spalle.
“Andiamo!” Urlò alzando un braccio al cielo in segno di incoraggiamento.
“Sissignore!” rispose in un’unica voce il neoformato team Kakashi.
 
Oltre la foresta si estendeva un’immensa palude, disseminata di canneti, fango ed insidiose acque stagnanti. Il trio di Konoha correva sicuro evitando le trappole che i nemici di Iwa avevano sparso con furbizia, forti della fiducia che il sensei aveva riposto in loro, pareva che nulla potesse fermarli, procedevano veloci prestando attenzione al minimo movimento sospetto.
Poco lontano, due shinobi-spia osservavano la loro avanzata nascosti da una fila di grosse rocce. L’espressione crudele e le vistose cicatrici che segnavano i loro volti non parevano presagire nulla di buono.
“Ehi, Mahiru è partito per la ricognizione da un bel po’ e non è ancora tornato.”
“Non penserai che quei marmocchi l’abbiano eliminato, vero?” domandò perplesso il ninja dalla voluminosa chioma castana.
“Beh, ora glielo chiedo!” rispose il primo, mentre con la semplice composizione di un sigillo di rese intangibile.
“Ninpou, meisaigakure!”

 
Kakashi, avvertendo un’insolita increspatura nello specchio d’acqua che stavano attraversando, annusò l’aria e subito si arrestò, facendo cenno ai suoi di fare lo stesso. Improvvisamente, dall’alto cominciarono a piovere grossi proiettili di bambù, velocissimi ed affilati come kunai.
Obito, senza perdere tempo si mise in posizione e lanciò una palla di fuoco suprema contro di essi, i quali, incendiandosi, persero velocità e caddero nell’acqua.
“Katon: Gokakyuu no jutsu!”
Nello stesso momento, alle spalle di Rin, uno dei due ninja nemici si stava lentamente avvicinando del tutto indisturbato, mentre tutta l’attenzione di Kakashi e Obito veniva catturata dall’attacco frontale del secondo shinobi che, dotato di due lunghe lame che uscivano dalle maniche si stava avvicinando pericolosamente. Solo all’ultimo si ritrasse, lasciando i due di Konoha decisamente perplessi. Un finto attacco dunque. Ma a quale scopo?
Solo allora avvertirono la presenza di quell’uomo altro e dai lunghi capelli neri che afferrava Rin dopo averla tramortita.
“Ci prendiamo lei.”
Disse ghignando mentre spariva in una nube di fumo insieme al compagni ed alla loro amica.
“Fermo! Maledizione!”
Senza pensare Obito si lanciò subito al loro inseguimento, istintivo, terrorizzato per la sorte della compagna.
“Obito! Non inseguirli!” cercò prontamente di fermalo Kakashi.
Cosa?” berciò allibito il compagno “Ti rendi conto di quello che hai detto?”
“Sì.” Rispose apparentemente calmo e controllato “Noi due continueremo questa missione.”
“E Rin? Che ne sarà di Rin?” gridò esasperato dal comportamento del jonin.
“Rin viene dopo. Il nemico vuole scoprire i nostri piani. Non la uccideranno subito. E per fortuna Rin è un ninja medico, quindi anche se verrà fatta prigioniera, la tratteranno bene, a patto che curi i loro feriti. Il problema sarebbe se il nemico venisse a sapere della nostra strategia. Se ottenessero quelle informazioni aumenterebbero immediatamente la sorveglianza sul ponte, rendendo la nostra missione molto più difficile.”
Obito ormai digrignava i denti dalla rabbia.
Quale razza di egoista dal cuore congelato avrebbe potuto pensarla a quel modo?
Tremava, tanta era la voglia di farlo rinsavire a suon di pugni.

“Stai dando per scontata l’incolumità di Rin basandoti su supposizioni! E se invece fossero dei criminali a cui non frega niente? Ora come ora, salvare Rin è più importante della missione!”
Erano nuovamente l’uno di fronte all’altro, come due mondi opposti, paralleli ed inconciliabili, due visioni incompatibili, cuore e disciplina, impetuosi sentimenti e fredda razionalità.
Lo scontro era inevitabile, la comprensione troppo lontana dai loro cuori.
“Uno shinobi deve essere disposto a sacrificare un compagno per portare a termine la missione. Sono queste le regole.” Perseverava, cieco, nelle proprie convinzioni.
“Non portando a termine questa missione, probabilmente la guerra andrà avanti, e molte altre vite verrebbero sacrificate.”

Obito non riusciva veramente a capacitarsi di come l’Hatake riuscisse ad essere così insensibile nei confronti della loro compagna, preziosa alleata di tante missioni.
“E’ solo una supposizione! E per una cosa del genere, saresti disposto ad abbandonare un compagno, che ha rischiato la vita insieme a te? Quando eravamo feriti Rin ci ha salvato la vita con i suoi ninjutsu medici! Non fosse stato per lei adesso saremmo morti entrambi!”
“Era il compito di Rin.”
In quell’esatto momento Obito scoppiò, e sputò in faccia al compagno tutto il disprezzo che nutriva nel confronti suoi e di tutte le sue stupide regole… colpendolo duramente con un pugno in pieno viso e facendolo volare in terra.
“A conti fatti, non mi piaci per niente!” ansimò in preda all’adrenalia.
“Non mi interessa. Io sono il capitano, tu mi obbedirai. Fine.”
Sibilò Kakashi pulendosi il sangue dal labbro spaccato con la manica della divisa.
“A prescindere dalla situazione, al fine di tenere insieme il team, una persona dà gli ordini. E’ per questo che esiste la regola per la quale i membri del gruppo, devono obbedire al capitano.”
Si sollevò sulle braccia per fissarlo dritto negli occhi.
“Obito, tu non sei abbastanza forte. E’ per questo che hanno scelto me, come capitano di questo team.”
Il compagno si chinò prontamente verso di lui e, afferrandolo per gli spallacci dello zaino, lo sollevò di peso, tutta la rabbia che nutriva nei suoi confronti fiammeggiava ben evidente nei suoi occhi neri.
“Allora perché non provi a salvare Rin?” ringhiò a pochi centimetri dal viso dell’altro “Sei il capitano, dovresti essere abbastanza forte da salvare i tuoi compagni, non è così?”
“Se cedi alle tue emozioni, anche solo per un istante, e fallisci la missione, te ne pentirai in seguito.”
Stupito da un tale ragionamento Obito allentò la presa sul compagno e strinse gli occhi, il viso contratto nella realizzazione del suo stato di impotenza.
“E’ per questo che il codice degli shinobi non consente nessun sentimento. Lo dovresti sapere.”
“Rin…” non riusciva quasi a parlare, forse era del tutti inutile tentar di far capire qualcosa a chi è completamente sordo.
“Rin era preoccupata per la tua salute, per questo ti ha dato quel kit di pronto soccorso. Ha persino cucito un amuleto protettivo al suo interno!” tirò nuovamente a sé il jonin quasi a sollevarlo sulle punte.

“I kit medici ed i ninjutsu medici, sono degli strumenti eccellenti che Konoha ha sviluppato per incrementare la possibilità di successo delle nostre missioni. Però… te l’ho detto ieri, no? Le cose inutili sono solo un impiccio.”
“Le cose inutili?” sibilò fra i denti tirandolo sempre di più.
“Per portare a termine la sua missione, uno shinobi necessita di risorse utili. Cose come le emozioni sono inutili.”
L’aveva perduto.
Quel minimo, sottile ed infinitesimale aggancio, l’aveva perduto.

“Stai dicendo sul serio?” poco più che un sussurro, “Credi davvero in quello che hai detto?”
Kakashi impallidì.
Tutto d’un tratto le sue argomentazioni non gli parvero più così convincenti, lo sguardo tradiva dolore, sofferenza, una tacita supplica.
 
In quel momento vide la schiena di un uomo, ampia, dritta e fiera, le spalle di uno shinobi d’onore dai capelli d’argento, un jonin retto e giusto, le spalle di suo padre. Poi la figura scomparve, si dissolse nel nulla, lasciando dietro di sé un’arma, la stessa Tanto che ora recava sulla schiena un giovanissimo ninja, poco più che un ragazzino, e quel ragazzino non era altri che lui.
 
Tristi ricordi, un antico dolore a lungo soppresso, relegato in un angolo buio della sua mente razionale, organizzata rigidamente in comparti stagni, inattaccabili. Almeno sino ad ora.
Come un’ondata riaffioravano sentimenti e sensazioni che impetuosi travolgevano e demolivano le barriere logiche del suo cuore.
Eppure no, non doveva cedere.
“Sì… ci credo.”
Obito lasciò la presa, rassegnato.
Basta, ormai non ne valeva più la pena, si sarebbe arreso.
“Lascia perdere. Io e te siamo stati come il bianco e il nero fin dal principio. Io vado a salvare Rin.”
E voltandosi, prese ad incamminarsi verso il fitto della boscaglia.

Kakashi tentava ancora di convincerlo dell’inoppugnabilità delle sue ragioni.
“Non capisci niente. Non pensi a cosa può succedere, infrangendo le regole…”
Si fermò, sempre di spalle.
Forse un ultimo tentativo…
 “Io credo che Zanna Bianca sia stato un vero eroe.”
Dietro di lui il giovane jonin rimase impietrito.
Si sarebbe aspettato urla, insulti, un altro pugno forse, ma di certo non quelle parole.
“Di sicuro nel mondo degli shinobi quelli che violano le norme e le regole sono considerati feccia.”
Mentre parlava, lentamente voltò il capo, voleva che le sue parole giungessero dritte fin dentro al compagno, voleva colpirlo nel profondo, imprimergli a fuoco nel petto il suo pensiero.
E proprio lì, nelle profondità del suo animo lacerato, quelle frasi lo incisero indelebilmente, forse squarciando quella cortina che lo rendeva cieco, forse semplicemente legittimando i suoi tormenti.
“Però…” continuò sempre più sicuro l’Uchiha, “quelli che abbandonano i propri compagni, sono peggio della feccia! In ogni caso sarò spazzatura, quindi scelgo di infrangere le regole. E se questo non fa di me un vero shinobi, allora distruggerò questo ideale di shinobi!”
 
Chiusero gli occhi nello stesso momento, insieme si voltarono, e sempre insieme si allontanarono dalla radura, ma in direzioni diverse, opposte ed inconciliabili.
Lentamente e a capo chino, ognuno con i propri fantasmi a gravare sulle fragili spalle.
 
 
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Fine primo tempo! ^,^
 
 
 
 
Ehm, ehm… ebbene sì, sono solo a metà (me tapina, che lavoraccio)!
Seriamente, questo capitolo è stato piacevole da scrivere ma veramente eterno… ho temuto di non uscirne viva.
In realtà le cose che temo sono molte, in primis il fatto che la qualità sia scadentissima.
D’altra parte è la prima volta che scrivo basandomi pari-pari su una puntata dell’anime, per l’esattezza la 119 dello Shippuden.
E’ una filler, ma era veramente perfetta per descrivere la storia di Obito, unico Uchiha veramente ingenuo e di cuore puro, a mio avviso.
Sì, è vero che anche Itachi non è cattivo -per carità, io lo adoro- però dovete darmi atto del fatto che questo Obito è veramente adorabile… fa tanto Naruto.
Infatti il problema principale, oltre ad essere il motivo che mi ha bloccata per un tempo spropositato, è che ad una prima interpretazione, Obito e Kakashi mi sembravano terribilmente simili a Naruto e Sasuke!
Alla fine però credo di esserne venuta a capo, voi che dite?
A me le differenze paiono abbastanza evidenti, dai. *si auto-incoraggia*
Che altro… ci sono come sempre un paio di termini jappi, ma credo che metterò la legenda alla fine della parte finale.
Mi rendo conto che per ora Kakashi sembra abbastanza bastardo (finesse) ma d’altra parte così è, vi assicuro che è tutto fatto in modo da rendere la ff il più realistica possibile.
Persino i dialoghi sono l’esatta trasposizione di quelli dell’anime. Giuro. ^.^’
Detto questo vi saluto, un bacione a tutti ed un forte abbraccio a tutti coloro che seguono, ricordano, preferiscono, ma soprattutto recensiscono.
Un grazie sincero.

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Capitolo 7
*** ... ti do la mia vita ***


6. Kakashi gaiden owari

 


6- Ti odio, non ti sopporto… ti do la mia vita.

 
  A Nejiko e al suo piccolo Mamo-chan

 
Era stanco, esausto, saltava da un ramo all’altro con estrema difficoltà, ad ogni atterraggio la spalla gli doleva terribilmente.
Ma in realtà non era certo quello il dolore più grande.
Gli occhi tradivano la confusione che albergava nella sua mente, le ore di sonno mancato si mostravano in solchi profondi e scuri; oscillava senza meta precisa, privo di paletti, per la prima volta tradito dalle sue stesse imprescindibili regole.
L’ennesima fitta al braccio gli ricordò la stupidità di ciò che stava facendo, quel che aveva avuto il coraggio di dire e, celandosi fra le fronde, si fermò nel vano tentativo di recuperare almeno in parte fiato e forze.
Pensò a Rin, alle sue mani gentili, alla premura che sempre metteva nel curare le loro ferite, ai suoi occhi dolci, grandi ed illuminati da una bellissima luce, quasi vibrante dopo tutto.
Pensò alle sue ultime parole “Sta guarendo bene. Però non devi sforzarti troppo o la ferita si riaprirà.” e si diede dell’idiota per non averla mai ringraziata veramente. Mentiva persino a se stesso: non era un suo dovere curarli ogni volta, non era affatto un suo dovere pensare sempre prima a loro, relegando se stessa in secondo piano, pallida figura di sfondo dall’incommensurabile grandezza d’animo.
Lei era il loro pilastro, aveva ragione Obito, e lui era l’unico a non essersene accorto, ad aver preteso di essere nel giusto, sciocco borioso dagli occhi annebbiati.
Annebbiati, o forse tenuti, sino a quel momento, testardamente chiusi con forza.
 
“Rin ci ha salvato la vita con i suoi ninjutsu medici!” gli aveva gridato il compagno furioso, incredulo, allibito dalla grettezza del suo agire, “Se non fosse stato per lei, adesso saremmo morti entrambi!”
Dolore, affetto, rabbia e disperazione: mille sfumature cangianti, abbaglianti cristalli d’emozione trasparivano dai suoi occhi mentre preda della passione tentava inutilmente di scuoterlo.
“Ora come ora, salvare Rin è più importante della missione!”
Occhi vivi, colmi di quella volontà incrollabile che era il credo di Konoha, la volontà del fuoco si agitava fiera nelle oscure profondità di quello sguardo persino nella disperazione, persino nel momento in cui sceglieva di disubbidire agli ordini del suo capitano per seguire il proprio cuore.
Perché invece i suoi occhi erano così spenti?
Perché l’ardente risoluzione nello sguardo di chi sceglie di tradire?
Perché lui che era nel giusto si sentiva così vuoto e perso?
 
“Kakashi, le norme e le regole sono senza dubbio importanti, Ma non contano solo quelle. Non te l’ho insegnato?”
Le parole del maestro presero a riecheggiare della sua mente confusa, mescolandosi a quelle di Obito. Le regole…
“A volte è necessario improvvisare contro i nemici.”
Impovvisare, ma come?
Com’era possibile agire secondo le regole ed al contempo spezzarle, tradirle, senza smarrire la giusta direzione, senza cadere, senza perdersi?
O perdere se stesso.
 
Agire secondo coscienza, la scelta di pensare liberamente, avere il coraggio di portare avanti le proprie convinzioni fino alla fine, davanti a tutti.
Avere la consapevolezza di poter affrontare il pubblico giudizio a visto scoperto, senza rimorsi né rimpianti, l’animo leggero e la coscienza libera.
Un ninja degno di ammirazione e rispetto, con valori imprescindibili, ma prima di questo un uomo retto, buono, di cui un figlio andrebbe fiero e, prendendolo come esempio di vita, dal basso della sua giovane età griderebbe con emozione: lui è il mio eroe.
E la schiena di suo padre riapparve nuovamente innanzi a lui, nitida ed irraggiungibile allo stesso tempo.
Ecco l’uomo retto che tanto ammirava, la volizione di un uomo giusto, con le sue regole ed i suoi valori. Colui che un tempo, con gli occhi di bambino, aveva tanto ammirato, al quale, con tutto se stesso, avrebbe voluto un giorno assomigliare.
Quante volte aveva allungato le piccole mani nel tentativo di raggiungerlo, anche solo per sfiorare l’immagine del suo eroe, suo padre.
Quante volte aveva immaginato la propria schiena di giovane ninja sovrapposi alla sua, ereditarne la forza, la saggezza ed il cuore, sino a diventare un uomo di cui essere orgogliosi, degno del suo rispetto e del suo amore.
Ora però, ciò che riusciva a scorgere nel lento dipanarsi della nebulosa immagine di quello che era stato uno dei più temuti ninja di Konoha non era la sua immagine: non vi era la stessa Tanto allacciata trasversalmente sulla schiena, non gli stessi capelli d’argento e irsuti, non lo stemma della casata e nemmeno la stessa divisa da jonin.
“Io credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
Ciò che solo in quel momento gli occhi della sua mente erano stati in grado di percepire era l’immagine di un genin dai capelli scuri, ebano, dalla divisa blu e arancio, l’enorme maschera fissata in viso e lo stemma degli Uchiha che capeggiava fiero al centro della schiena dritta mentre, con determinazione, guardava al mondo con entusiastica determinazione ed una traboccante umanità.
“Di sicuro nel mondo degli shinobi quelli che violano le norme sono considerati feccia. Però…” quegli occhi… il fuoco in quegli occhi poteva trapassarlo da parte a parte come il più affilato dei kunai, poteva squarciargli o petto e guardarlo dentro, “quelli che abbandonano i propri compagni sono peggio della feccia.”
Rievocando tali parole sussultò in un improvviso moto di consapevolezza; si sentiva piccolo, minuscolo, insignificante e sperduto nel folto di quell’immensa foresta come dentro di sé.
Chinando il capo provò pena per se stesso.
Non aveva capito nulla.
 
 
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Il covo dei ninja di Iwa era ormai a pochi metri, poteva scorgerne l’antro roccioso dalla sua posizione seminascosta.
“Beccati!” sussurrò impercettibilmente in un moto d’orgoglio, serrando la presa sul manico di un kunai.
 La fitta boscaglia di quel paese inospitale fungeva da perfetta postazione osservativa: senza temere di esser visto poteva infatti controllare tutta la zona circostante e fermarsi un attimo, per riprendere le forze e riorganizzare le idee. Magari strutturare un piano. Non che ne avesse mai architettato uno da solo, ma non era proprio il momento di abbattersi.
Apparentemente non vi era alcuna porta, né un masso, né congegni nascosti per difendere l’entrata da un eventuale attacco nemico, e ciò poteva voler dire solamente che entrambi gli shinobi attendevano giusto dietro l’angolo insieme all’ostaggio.
Obito aveva corso disperatamente in quell’immensa foresta alla ricerca di quel luogo e sperava con tutto se stesso che non fosse ancora accaduto nulla alla sua compagna: se Rin fosse stata ferita o peggio non se lo sarebbe mai perdonato, ma soprattutto non l’avrebbe mai perdonato a colui che ora non sapeva nemmeno più se definire un compagno di squadra. Troppo grande era stata la rabbia nei suoi confronti, troppo cocente la delusione. E sì che, nonostante la sua costante aria boriosa e saccente, l’aveva sempre ammirato per il sangue freddo e l’intelligenza… che abbaglio.
Ma ora non era certo il tempo delle riflessioni e dei rimpianti: doveva agire, ed anche in fretta, se voleva sperare di sottrarre l’amica dalle grinfie di quei ninja senza scrupoli prima che fosse troppo tardi.
“Calma… ce la posso fare!” e nel tentativo di infondersi un po’ di coraggio si schiaffeggiò ripetutamente le guance con entrambe le mani.
Forse un po’ troppo energicamente.
 
 
Un suono lieve, forse un schiocco, sottile ma comunque perfettamente percettibile, soprattutto per l’udito di uno shinobi ben addestrato. Poco più di un silente riecheggiare di vibrazioni e lo sguardo del primo di fa più sottile, entrambi scambiandosi un gesto d’assenso si voltarono verso l’uscita.
“Me ne occuperò io. Nel frattempo, usa il tuo genjutsu su di lei per ottenere le informazioni.”
Detto questo, il ninja più grosso compose brevemente il sigillo della mesaigakure no jutsu e, rendendosi nuovamente intangibile, uscì dalla caverna.
Rin giaceva rannicchiata in un angolo, addossata alla parete, il capo chino e le braccia strettamente legate al busto da una grossa corda. Chissà se era ancora cosciente.
A breve lo shinobi di Iwa avrebbe preso a scandagliare la sua psiche alla ricerca di informazioni strettamente riservate, ancora un passo e avrebbe facilmente sovrastato il corpo minuto della giovane kunoichi.
 
 
Fuori Obito era pronto a scattare ma, nell’esatto istante in cui prendeva posizione, il ninja dai lunghi capelli scuri che avevano affrontato prima gli comparve alle spalle come materializzandosi all’improvviso.
“Dove vai?” tuonò cupo paralizzandolo all’istante.
Col terrore che gli dilatava le pupille ed il respiro mozzato cercò di reagire d’istinto voltandosi rapidamente ma si sentiva come sott’acqua. La testa gli pesava terribilmente ed ogni movimento pareva rallentato e fuori controllo. Persino i suoni gli giungevano come ovattati e lontanissimi. I secondi scorrevano come fotogrammi di un film lento ed esasperante; vide un kunai librarsi nell’aria e fiotti scarlatti sgorgare copiosi invadendogli completamente il campo visivo. Quel sangue... era forse suo?
Poi il corpo imponente dello shinobi perse evidentemente l’equilibrio e, sbilanciandosi all’indietro, prese a cadere dall’alto del tronco, lasciando innanzi a sé una lunga scia densa e vermiglia.
Cos’era accaduto?
Chi, in un battito di ciglia, lo aveva salvato da morte certa?
A chi doveva la propria vita?
“K-Kakashi...”
Non poteva crederci.
Ancora paralizzato, le labbra dischiuse dallo stupore, non riusciva a capacitarsi di ciò che i suoi occhi cercavano di comunicargli: Kakashi era intervenuto all’ultimo momento e tempestivamente aveva fermato il ninja di Iwa ferendolo al petto, piuttosto profondamente anche.
Era balzato fra di loro senza emettere nemmeno un sibilo e, con la precisione che si confà ad un vero jonin aveva sferrato sicuro il suo attacco.
Un singolo fendente, un solo istante.
Ed Obito era ancora immobile, attore passivo, anzi tacito spettatore di quello che avrebbe tranquillamente potuto essere l’ultimo atto della sua breve vita.
Ma non era ancora finita perché, con un rapido salto, il loro avversario aveva già recuperato l’equilibrio ed era atterrato su un ramo dell’albero di fronte, poco più in basso di loro, e pareva evidentemente già pronto per il contrattacco.
Anche il compagno, che non aveva perso il controllo della situazione per un solo istante, era innanzi a lui, in attesa della prossima mossa. L’espressione concentrata sembrava non tradire alcuna emozione che non fosse quella determinazione guerriera e quasi beffarda che sempre lo coglieva nel momenti di battaglia: gli occhi stretti, affilati dal desiderio di sfida, i muscoli contratti e frementi, quasi inebriati dall’adrenalina che a dense ondate si fiutava nell’aria, la mente che veloce elabora strategie, calcola possibilità, considera gli ostacoli e rapida li aggira.
Obito non poteva fare a meno di osservare il proprio compagno di squadra come affascinato ma al contempo tormentato da un vago sentore di inquietudine; forse questo erano in fondo i veri ninja, animali da guerra ben addestrati, e lui non era ancora del tutto convito di voler diventare uno di loro.
Tuttavia si riscosse in fretta, perché il momento non lasciava certo spazio a digressione, né tantomeno a chissà quali profonde riflessioni sulla natura umana e sul suo destino. Osservando la situazione con lucidità non poté comunque fare a meno di rimanere sgomento.
“Kakashi… come mai sei qui?”
Ma… e la missione? Tutto quel discorso sulle priorità, le regole e l’essere ninja? Cosa ci faceva lì con lui se fin da principio aveva detto fin troppo chiaramente che la sua intenzione non era quella di salvare Rin?
“Beh, non posso lasciarlo fare ad uno shinobi frignone come te, non credi?”
Che cosa?
Dunque aveva intenzione di correre in aiuto della loro compagna assieme a lui?
Dunque aveva cambiato idea riguardo alla missione?
Cosa lo aveva convito a mutare le sue convinzioni in maniera tanto rapida da riuscire ad accorrere e raggiungerlo giusto in tempo per salvarlo ancora una volta? Ancora una volta così sicuro di sé e così diverso da lui.
…e tanto per cambiare non aveva perso l’occasione per insultarlo a dargli del frignone, ma in quel momento era troppa la sorpresa e la felicità di vederlo lì, accanto a lui, che decise di soprassedere, per una volta.
Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa ma, completamente in preda all’incredulità, dalle labbra dischiuse non uscì che il suo nome, lievemente sussurrato, come se quello innanzi a lui non fosse altro che un fantasma evanescente.
L’imponente shinobi nemico si era rialzato e scrutava la scena, studiava attentamente quel piccolo ninja che con tanto coraggio aveva avuto l’ardire di coglierlo di sorpresa, ferendolo frontalmente. Non poteva fare a meno di chiedersi chi fosse, poiché la sua immagine gli ricordava terribilmente qualcuno: forse un vecchio nemico, no, qualcosa di più, quasi un guerriero leggendario, forse era…
“Quel capelli bianco argento, quella Lama Bianca del Chakra…” stupore e paura andavano deformando lentamente i già duri lineamenti dell’uomo “non dirmi che sei la Zanna Bianca di Konoha?”
Sudava, gelide gocce gli imperlavano la fronte al solo pensiero di chi poteva essere il suo opponente. E sì che non ricordava fosse così giovane.
“Questo è un ricordo di mio padre.” Sibilò Kakashi a denti stretti.
 
Obito, che osservava la scena a qualche passo dal compagni di squadra, a quelle parole trasalì.
Un ricordo di suo padre… un ricordo.
Non capiva, non riusciva proprio ad afferrare il bandolo di quella matassa tremendamente aggrovigliata di pensieri e sentimenti contrastanti che doveva essere la testa di Kakashi.
Eppure lui stesso aveva detto…
“Per portare a termine la sua missione, uno shinobi necessita di risorse utili. Cose come le emozioni sono inutili.”
Sì, ricordava perfettamente quelle parole che gli erano parse a suo tempo tanto fredde ed arroganti. Come poteva averle pronunciate proprio lui, quando per primo ammetteva di aver conservato l’arma del padre per ricordo e non per mera utilità. Quelli erano sentimenti, gli stessi sentimenti che aveva disprezzato negli altri definendoli inutili zavorre, ed erano forti e strazianti, e parevano urlare costretti dalle catene che il piccolo ninja si era autoimposto per fare ordine dentro se stesso, col penoso risultato di schiacciare tutto creando ancora più confusione e dolore.
Finalmente poteva vedere l’amico sotto un’altra luce, poteva coglierne la sofferenza ed il suo contrasto esistenziale.
“Kakashi, tu…” ma non era quello il tempo né il luogo delle parole.
 
“Capisco. Tu sei il figlio della Zanna Bianca.” Il panico era scomparsa dal suo volto, i tratti ora tirati in un ghigno compiaciuto. “Allora non c’è motivo di aver paura di te.” E per la terza volta, composti i sigilli, scomparve dalla scena.
Era appena cominciata la vera battaglia.
“Lo immaginavo.”
Kakashi era all’erta, i sensi tesi e pronti a captare il minimo segno di movimento; il loro nemico poteva rendersi invisibile, ma non per questo doveva essere impossibile trovarlo.
“Il suo odore è svanito completamente. Dovremo localizzarlo dai suoi più lievi rumori e spostamenti.”
Un passo, un rametto spezzato o un fruscio fra le foglie, un sottile spostamento d’aria: ciò poteva essere sufficiente all’Hatake per identificare la posizione dell’avversario e la provenienza di un suo attacco.
“D-dove?”
Obito era comprensibilmente inquieto, non era sicuro di poter contare sulle stesse abilità sensoriali del compagno, ma tendeva ugualmente le orecchie e si guardava nervosamente attorno, nel tentativo di captare qualche suono sospetto.
Ma il furioso battere del proprio cuore era l’unico suono che riusciva a udire, rimbombava martellante nei timpani lasciandolo privo di difese, impedendogli di avvertine un viscido calpestare di passi che, proprio alle sue spalle, schiacciavano i muschi sulla ruvida corteccia.
“Obito, dietro di te!”
Kakashi, avvertendo l’incedere del nemico, si volse all’improvviso e, gridando all’amico di allontanarsi, si slanciò verso quello che aveva tutta l’apparenza di essere solamente uno spazio vuoto, ma che al contrario era proprio il punto dal quale lo shinobi di Iwa si apprestava ad attaccare. Focalizzandosi sui rapidi spostamenti d’aria era in grado di cogliere la sua posizione, anche se la grande agilità e velocità d’attacco dell’avversario non lo facilitavano di certo nel prevederne con sufficiente sicurezza i movimenti.
Questo gli impedì di accorgersi del grosso kunai che, proprio innanzi a lui, giungeva verticalmente puntando dritto al suo viso.
Come in ogni combattimento non durò che un lungo istante: un fendente mirato e preciso, che dallo zigomo affondò profondamente risalendo sino al sopracciglio, recidendo la palpebra e di conseguenza danneggiando gravemente l’occhio.
Kakashi di tutto questo avvertì solo il bruciore, un immediato e lancinante dolore all’orbita che, insieme all’impatto con l’arma da taglio, gli fecero perdere l’equilibrio precipitandolo a terra mentre la mano destra correva automaticamente a premere su quell’occhio sanguinante e un grido sofferente si librava nell’aria. Liquido scuro colava copioso lungo il braccio mentre, come in preda alle convulsioni, il giovane jonin si contorceva dal dolore. Il volto sconvolto dagli spasmi mostrava, in quegli occhi chiusi e pur dietro la maschera, l’indicibile sofferenza che in quel momento stava provanto.
“Kakashi!”
Obito, in preda al panico, alla vista del compagno così gravemente ferito si chinò su di lui e, chiamandolo, ripetendo il suo nome come una litania, lo prese fra le braccia sollevandone il capo quasi con delicatezza.
“Ehi, Kakashi! Stai bene?”
Nel frattempo, qualche albero più in là, il loro assalitore trovava riparo dietro le felci e, osservandoli a distanza di sicurezza, ammirava soddisfatto il suo operato. Li aveva proprio conciati male, forse aveva persino esagerato, se non fossero stati in guerra si sarebbe sentito quasi in colpa. D’altra parte quelli che si era trovato a fronteggiare erano ninja fin troppo giovani e quindi necessariamente inesperti, anche se, doveva ammetterlo, di erano rivelati maledettamente svegli e bravi, soprattutto quel figlio di Zanna Bianca.
“Anche se è solo un ragazzo non fa male andarci cauti. Me la prenderò con calma.”
 
Kakashi sentiva l’occhio pulsare e gli doleva maledettamente, l’intera testa pareva attraversata da continui flash accecanti che gli procuravano un’indicibile sofferenza ed un cupo ronzio riecheggiava fra le orecchie stordendolo ulteriormente. Stava perdendo troppo sangue: il palmo premuto sull’orbita ne era pieno, il braccio ricoperto, la manica della divisa irrimediabilmente intrisa. Eppure il pensiero era rivolto al nemico, al dovere, alla loro missione.
“Il nostro avversario… ci sa fare.”
Obito tentava di sostenerlo come poteva, avvolgendo il braccio attorno alle sue spalle magre da ragazzino. Cercava di ascoltarlo tendendo l’orecchio, poiché il compagno pareva improvvisamente a corto d’aria, quasi che i polmoni non riuscissero a sostenere il dolore e lo sforzo di quel momento. Parlava piano Kakashi, poco più che un sussurro; rapide boccate d’ossigeno che non riuscivano a colmare il disperato bisogno d’aria spezzavano le sue frasi.
“Ha buttato il kunai impregnato dell’odore del mio sangue.”
Lo ammirava, in quel momento non poteva fare a meno di guardare il suo compagno con occhi colmi d’ammirazione… e lacrime.
Ancora una volta Obito stava cadendo preda delle sue emozioni che, proprio come un fiume in piena gli riempivano il cuore e straripavano da esso fuoriuscendo dai suoi occhi neri. Imperlavano di luce le lunghe ciglia folte e gli annebbiavano lo sguardo.
“Non dirmi che ti è andata altra polvere nell’occhio…” berciò il jonin scoprendosi lentamente la ferita e puntando l’altro occhio dritto nel suoi, “gli shinobi non piangono.”
Tremava ancora piuttosto vistosamente, ma non era per nulla al mondo disposto ad arrendersi.
“Non sono ancora morto. Resta concentrato!”
L’Uchiha annuì e, sollevata la grossa maschera arancione, si asciugò le lacrime con la manica della divisa.
Aveva ragione, anzi avevano ragione, anche Minato-sensei gli aveva ripetuto più volte di non piangere e smetterla di accampare assurde scuse: “E’ impossibile che ti vada polvere negli occhi con quella maschera. Se vuoi acquistare sicurezza non limitarti a parlare, agisci.”
Quale immagine voleva dare di se stesso?
E quale aveva mostrato sino ad ora?
“Sono bravo solo a parole…” si rimproverò rendendosi conto improvvisamente sino a dove lo avevano portato quei suoi stupidi atteggiamenti da codardo “vengo sempre salvato dagli altri. Sono solo un perdente dalla bocca larga. Però…”
Ripensò alle parole pronunciate in quella radura, alla passione che aveva messo in quel breve discorso; credeva con tutto se stesso in ciò che aveva detto e non voleva assolutamente che rischiassero di diventare vane perdendosi per colpa del suo pavido nascondersi e fuggire.
“Io credo che la Zanna Bianca sia stato un vero eroe…”
“Quelli che abbandonano i proprio compagni sono peggio della feccia!”
Si alzò in piedi con rinnovato coraggio, ora sapeva cosa fare, ora aveva un obiettivo: avrebbe onorato quelle parole e quell’uomo, era del suo credo ninja che si trattava e non l’avrebbe tradito per nulla al mondo, anche se si fosse trattato di dare la propria vita.
“Non voglio che quelle parole siano state dette al vento.”
Quale immagine voleva dare di se stesso?
Che tipo di uomo voleva diventare?
Dritto per la prima volta sulle sue sole gambe, fissava con determinazione guerriera innanzi a sé, la volontà del fuoco si agitava con fervore nelle sue iridi scure: non più un bambino spaurito, ma una vero ninja Uchiha, uno shinobi d’onore di Konoha faceva mostra di sé al cospetto di un Kakashi in preda al dolore che si teneva in piedi solo grazie alla sua ferrea forza di volontà. Non avrebbe abbandonato i suoi amici; li avrebbe protetti, difesi e tratti in salvo, perché lui non era feccia.
Avvertiva il nemico avvicinarsi, rapidamente, senza esitazioni e nuovamente alle loro spalle… degno di uno shinobi privo d’onore attaccare sempre di sorpresa, soprattutto se i suoi avversari sono poco più che dei ragazzini.
Riusciva chiaramente a sentirlo.
Percepiva i suoi movimenti con una nitidezza e precisione tale che quasi gli pareva di riuscire a vederlo pur dandogli le spalle.
Lenti, misurati, quasi a rallentatore.
Immobile nella sua posizione eretta poteva distinguere il minimo spostamento d’aria, cogliere il rapido incedere dell’avversario, calcolarne direzione e velocità in un solo istante… e scegliere il momento esatto in cui contrattaccare.
Quasi, ancora un attimo…
Ora.
Un colpo secco, rapido, pulito.
La semplice torsione del busto, le gambe ancora saldamente ancorate alla corteccia, come in una fluida mossa d’arte marziale.
Le mani unite, quasi giunte nella ferrea stretta attorno al kunai, le braccia tese, contratte nello sforzo dell’affondare fra le carni del nemico.
Il viso… oh, quel viso.
Una nuova espressione, sicura, ferma; una volontà rabbiosa e mai vista pareva emergere quasi urlando da quel lineamenti di uomo ancora acerbo. I denti serrati stridevano fra le labbra arricciate, mentre piccoli solchi tradivano la disperazione alla quale si stava aggrappando per non crollare.
La determinazione brillava nei suoi occhi di riflessi sino ad ora sconosciuti e tremendamente vivi; rossi, fulgidi, liquidi. Lambenti lingue di fuoco avevano inghiottito come in un gorgo l’iride picea dell’Uchiha lasciando a languire fra le fiamme due singoli, piccoli segni d’amore nero, simboli di uno sharingan risvegliatosi per proteggere i propri legami.
Nakama.
 
“Com’è possibile?”
Colpito in pieno petto, lo shinobi di Iwa stava rapidamente ricomparendo innanzi ai loro occhi, il corpo statuario adombrava quello minuto del giovane genin.
“Non è possibile che tu riesca a veder…”
Kakashi, alle loro spalle, pareva aver colto cosa realmente stava accadendo in quel momento e in un irrefrenabile moto di stupore cercò di allungare il busto per poter scorgere il volto dell’amico dalla sua posizione seduta.
“Obito, tu…”
Ma non riuscì a finire la frase che il loro avversario, ormai sempre più curvo e chino su se stesso seppure ancora in piedi, fissando incredulo lo sguardo in quei giovani occhi scarlatti e incredibilmente risoluti pronunciava le sue ultime parole e, esalando un singolo respiro pesante, chiudeva gli occhi definitivamente accasciandosi al suolo.
“Questa volta sarò io a proteggere i miei compagni!”
E ritirando il kunai lo ripose nell’apposita tasca, tornando poi in posizione eretta.
Apparentemente composto e sicuro di sé.
 
“Obito, i tuoi occhi…”
Il jonin, ancora immobile nella posizione precedente, osservava il compagno con espressione attonita.
Lo sharingan?
Dunque era questo lo straordinario potere di quell’abilità innata?
L’arte oculare che il clan Uchiha custodiva gelosamente e si tramandava da secoli di generazione in generazione?
“Già, credo che questo sia lo sharingan. Ora sono in grado di vedere gli spostamenti e i flussi di chakra.”
Sì fissava le mani, incredulo; l’espressione quasi assente di chi ancora è riuscito a realizzare ciò che ha appena compiuto, di chi non si è ancora reso conto che due dei suoi più grandi sogni si sono appena realizzati.
Ora aveva lo sharingan, finalmente era un vero Uchiha, shinobi di nobili origini, valoroso e degno del suo clan. Ma soprattutto ora poteva essere fiero di se stesso e del tipo d’uomo che stava diventando: aveva lottato per i suoi compagni, per i suoi amici, ed era riuscito a difenderli nonostante la paura.
Ma la situazione era tutt’altro che risolta, Rin era ancora tenuta in ostaggio e soprattutto Kakashi stava soffrendo le pene dell’inferno per aver cercato di salvarlo. Stringeva convulsamente le dita attorno alla parte lesa, come a cercare di lenirne il dolore; la copiosa emorragia sembrava ormai essersi placata, ma il segno di quella battaglia non sarebbe mai sparito e una profonda cicatrice avrebbe deturpato forse per sempre quel giovane viso.
L’ennesima fitta lo stava scuotendo ed il jonin, per quanto abituato a sopportare stoicamente il dolore, tratteneva a stento le urla, lasciando sfuggire dalle labbra coperte gemiti sottili che, nelle orecchie di Obito, risuonavano strazianti più delle grida di cento ninja avversari.
“Va tutto bene Kakashi?”
L’apprensione traspariva evidente dalle sue parole mentre, avvicinatosi rapidamente, si chinava sull’amico ferito.
“Sì…” rispose a fatica aprendo la piccola sacca legata sul fianco destro.
Pareva aver recuperato la calma, sebbene il lieve tremolio della sua voce lasciava trasparire la sofferenza e l’estremo sforzo che l’Hatake stava affrontando in quel momento.
“A quanto pare ho perso il mio occhio sinistro, ma ho ancora il kit che mi ha dato Rin”, disse estraendo il pacchetto che, solo il giorno precedente, gli aveva donato la compagna, “posso usarlo come primo soccorso.”
Obito lo fissava con ammirazione mentre, ancora scosso a tratti da terribili fitte, provvedeva a fasciarsi il capo coprendo l’occhio ferito; entrambi avevano ora ben chiaro quale fosse il loro obiettivo primario ed avevano già dimostrato di essere disposti a sacrificare la loro stessa vita per portarlo a termine.
“Andremo a salvare Rin immediatamente!”
“D’accordo!”
E scambiandosi uno sguardo complice partirono alla ricerca della compagna.
 
 
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Il suo volto sporco di terra era come una maschera di cera, dentro il vuoto, l’assenza di vita pensante. Pareva persa in un altro universo, un mondo parallelo d’ingannevoli visioni.
Il suo torturatore la sollevò un poco afferrandola per i capelli e tirando con forza.
Non un gemito.
Gli occhi appena socchiusi, vacui e sperduti.
Respirava sottilmente fra le labbra di poco dischiuse; nel profondo delle dolci iridi castane la sua coscienza annegava lentamente in un’oscura illusione.
“Sei davvero resistente.”
Quasi ghignava, compiaciuto di se stesso e del suo grottesco operato, quel ninja privo di scrupoli che ormai da un’ora di accaniva sul corpo e la psiche di Rin, ricavandone un sottile piacere e senso di potere.
Come una vecchia bambola ormai dimenticata in un angolo polveroso della soffitta, le vesti lacere ed il capo riverso, abbandonato lateralmente, fissava il vuoto con due occhi che parevano di vetro. Lucidi, lontani, desolantemente assenti.
Solo il sudore, che in umidi rivoli le colava lungo le tempie ed il collo sottile, ricordava che il piccolo corpo completamente in balia di quell’uomo non era di fragile porcellana, ma di carne e sangue pulsanti.
 
Poi un soffio, dall’ingresso, sbuffi di polvere smossa e rapidi spostamenti. Lievi folate di vento, quasi isolate, troppo brevi per essere naturalmente causate dalle correnti.
L’uomo di Iwa si voltò sinceramente sorpreso: che si trattasse del suo compagno?
Salti leggeri e calibrati, pochi passi silenziosi e fecero il loro ingresso: quattro piedi avvolti nei sandali ninja atterrarono quasi simultaneamente, giovani gambe fasciate nelle divise scure, le bende strettamente avvolte.
Quei due piccoli e fastidiosi shinobi di Konoha erano venuti a riprendersi la loro inutile compagna.
Ciò voleva dire che il suo compagno di team era appena stato sconfitto.
Tuttavia doveva aver venduto cara la pelle: i suoi avversari parevano decisamente provati e quello che fin dal primo momento gli era parso il più forte aveva una spessa fasciatura attorno al capo che andava a coprirgli per intero l’occhio sinistro. Sì, erano conciati piuttosto male, non sarebbe stato troppo difficile sconfiggerli.
Eppure tutta quella determinazione nei loro sguardi… erano proprio dei ragazzini ingenui.
“Siete patetici…” li apostrofò increspando le labbra mentre, quasi pigramente, riconquistava la posizione eretta lasciando in un angolo la sua preda.
Obito non perse tempo e, sfruttando le sue nuove abilità acquisite grazie allo sharingan, scrutò Rin cercando di scoprirne lo stato. Il suo chakra, normalmente canalizzato ordinatamente lungo le vie principali, scorreva come impazzito per tutto il corpo completamente privo di ogni controllo. Appariva come una grossa fiamma scossa dal vento, alimentata e soffocata allo stesso tempo da una forza sconosciuta.
“Il flusso del chakra di Rin è disturbato… circola diversamente da me e te.”
“Sarà per via di qualche genjutsu.” Rispose grave Kakashi, intuendo immediatamente il grave stato nel quale versava la loro compagna. “Non hanno perso tempo per ottenere le informazioni.”
Di fronte a loro lo shinobi dalla capigliatura decisamente bizzarra rise quasi compiaciuto all’idea di chi avrebbe affrontato di lì a qualche istante.
“A quanto pare non siete due semplici marmocchi.”
A quelle parole i due amici presero posizione, pronti ormai all’inevitabile e decisivo scontro: le gambe divaricate e leggermente flesse, le dita serrate, strette sulle impugnature del kunai e della Tanto.
“L’abbiamo già incontrato prima. E’ veloce, fai attenzione!” bisbigliò subito prima di partire all’attacco.
Mentre il loro avversario si avvicinava a grande velocità, seguendo una traiettoria non lineare, proprio come l’altra volta estrasse due lunghe lame dalle maniche, quasi facendole uscire dalle fasciature sui polsi. Obito e Kakashi di separarono, preparando si ad un attacco combinato e, correndo alla stessa velocità, lo raggiunsero lateralmente.
Il ninja di Iwa si lanciò prima sull’Uchiha, unendo le braccia per poi aprirle di colpo tentando un doppio fendente che il giovane riuscì ad evitare agilmente con un rapido salto, mentre da sinistra l’Hatake già si preparava a colpire, vedendo però il proprio colpo subito intercettato e parato scartando di lato. Obito, dopo aver bypassato il nemico con un lungo salto, riatterrò dietro di esso con una rapida capriola e, nuovamente in piedi parava in un istante un nuovo colpo dell’avversario, che nel frattempo aveva girato su se stesso, tenendo ben saldo il proprio kunai con entrambe le mani. Kakashi alle sue spalle era già pronto per colpire nuovamente e così di seguito sino allo sfinimenti, con un affiatamento fra i due giovani ninja tale da farli rassomigliare a kage bunshin originati dallo stesso guerriero.
Una lunga ed estenuante serie di colpi, di affondi inferti e parati senza tregua, fra l’assordante clangore delle lame e le scintille che nello stridere dei metalli si liberavano e sfavillavano sinistre nell’aria ormai povera d’ossigeno.
Obito non era mai stato un genio del corpo a corpo, ma con suo sharingan poteva ritenersi a tutti gli effetti all’altezza del proprio compagno, in grado di prevedere gli attacchi nemici con una frazione di secondo d’anticipo e di rispondervi prontamente. Il ninja di Iwa gli era di nuovo innanzi e, a braccia incrociate, gli si lanciava contro con le lame spiegate. In un istante il genin si chinò indietro, flettendo la schiena quasi sino a raggiungere il pavimenti con il capo e, una volta evitato il colpo, vide chiaramente il momento in cui avrebbe richiuso le braccia, riuscendo con un vigoroso colpo di reni a saltare a mezz’aria per colpirlo con un doppio calcio sulle spalle proprio un attimo prima, rimanendo come sospeso con uno sforzo estremo. Nello stesso istante Kakashi giungeva da dietro il compagno con la Tanto stretta fra le mani alta sopra il proprio capo, pronto a colpire il nemico proprio in pieno viso, atterrandolo, per darsi poi la spinta necessaria a superarlo camminandogli letteralmente sulla schiena.
Senza nemmeno fermarsi a sprecare uno sguardo sull’uomo appena sconfitto, insieme corsero verso la compagna che, ancora legata in un angolo, non pareva dare segni di vita. Inginocchiandosi innanzi a lei, per prima cosa il genin provvide a dissolvere il genjutsu che teneva prigioniera la mente di Rin, formando un semplice sigillo con la mano destra e ordinando il rilascio. La giovane subito si riprese, spalancando i grandi occhi nocciola e fissando grata i suoi salvatori.
“Kakashi… Obito!”
“Siamo qua per te, Rin.”, cercò subito di tranquillizzarla Obito, chino su di lei con la mani appoggiate sulle ginocchia. “Adesso è tutto a posto.”
Ansimavano entrambi piuttosto pesantemente.
A dispetto delle apparenze e nonostante si fosse trattato di un combattimento di pochi minuti, quello scontro li aveva decisamente provati e il sudore colava copioso dal viso di entrambi imperlandone le fonti ed inzuppandone i vestiti.
“Forza, andiamocene subito di qua!” aggiunse velocemente Kakashi guardando il compagno di poco più in alto di lui e, protendendosi verso una Rin stravolta ma nonostante tutto piuttosto sollevata, si dedicò a sciogliere il più in fretta possibile le spesse corde che ancora tenevano legata la compagna di team.
“Bene bene…”
Mentre la giovane si rialzava non senza sforzo, il ninja allo loro spalle si era ripreso e mettendosi in piedi, seppure ancora un po’ a fatica a causa dei colpi ricevuti, fece risuonare la sua voce profonda.
“Insieme non siete male, ma siete comunque dei marmocchi...” , sentenziò sprezzante e con il solito ghigno ad ornare quell’insostenibile faccia da schiaffi che si ritrovava, “e siete in mano al nemico!”
Poi compose tre sigilli e, premendo il palmo aperto sul terreno con il braccio steso, pronunciò il nome di una tecnica di terra: dunque quell’uomo dalle lunghe lame retrattili possedeva un chakra di tipo terra e poteva manipolare tutto quel che si trovava in quel momento sotto i loro piedi, ma anche sopra le loro teste… erano circondati.
Erano fottuti.
“Doton: Iwayado Kuzushi!”
Tutto prese a tremare e a sgretolarsi davanti ai loro occhi: le grandi pietre che formavano il soffitto, i massi accatastati lungo le pareti, continue esplosioni giungevano dall’alto squassando persino il terreno che andava increspandosi come mosso da invisibili radici di sequoie giganti.
I tre giovani ninja guardano esterrefatti la grotta letteralmente sbriciolarsi ad una velocità impressionante proprio davanti ai loro occhi, incapaci di reagire in qualunque modo.
“Oh, no!” si lasciò sfuggire quasi inconsapevolmente Obito.
“Presto usciamo!”
Kakashi fu il primo a realizzare quanto quella situazione fosse potenzialmente fatale per loro e l’assoluta necessità di togliersi di lì il prima possibile.
Si lanciarono in una corsa mozzafiato quasi contro il tempo, mentre tutto attorno a loro cadeva e perdeva forma, tramutandosi in polvere e pezzi di roccia che cadevano con violenza dall’alto senza alcuna possibilità di schivarli volontariamente. Nubi di polvere appestavano l’aria soffocando il respiro ed impedendo la vista; gli occhi lacrimavano nel sovrumano sforzo di mantenere focalizzata l’attenzione su quel singolo spiraglio di luce che pareva sempre più lontano e confuso.
L’unica via di fuga come un miraggio lontano.
Interi blocchi di roccia crollavano al suolo a pochi centimetri dai loro corpi con un fragore stordente e loro, immersi in quell’inferno con la sola idea chiara di fuggire, saltavano forzando i loro stessi limiti fisici nel disperato tentativo di evitarli, ben consci del fatto che se anche uno solo di quei massi li avesse colpiti avrebbe potuto decretare la loro fine.
Ma quella cortina fumosa rea sin troppo densa ed una pietra, per quanto piccola, nella sua inesorabile caduta verso il basso, finì per colpire con violenza il capo di Kakashi, già provato per il combattimento appena concluso e per la profonda ferita all’occhi. Si accasciò al suolo perdendo i sensi e così rimase, con il viso schiacciato nella polvere ed il corpo steso quasi in modo composto. Udendo il rumore dato dall’impatto ed il forte gemito del compagno, Obito e Rin si voltarono immediatamente alla ricerca dell’amico, non riuscendo tuttavia a scorgerlo. Dentro quella grotta stava avverandosi l’apocalisse. L’Uchiha non ebbe esitazioni e, lasciando la kunoichi sola a gridare il nome del jonin fra le lacrime, si precipitò alla ricerca dell’Hatake, trovandolo subito dopo privo di coscienza. Lo prese fra le braccia, provò a scuoterlo, ma a quanto pare il tempo non era dalla loro: non era certo quello il momento adatto per essere sentimentali né tantomeno delicati. Intravvedendo sopra di loro l’ennesima gragnuola di massi lo lanciò lontano, sperando in tal modo con tutto se stesso di riuscire a metterlo in salvo.
Spalancando gli occhi rossi del suo da poco risvegliato e prodigioso sharingan, ebbe giusto qualche istante in più per potersi rendere conto dell’enorme macigno che senza alcuna possibilità di scampo stava per seppellirlo crollandogli addosso.
Poco prima dell’impatto aveva provato ad urlare con tutte le sue forze, ma da quella bocca disperatamente spalancata non era uscito altro che un grido muto.
 
Fu l’ultima cosa che vide, mentre la grotta collassava definitivamente su se stessa, esalando come un pesante respiro, un enorme sbuffo di polvere e ghiaia proprio in faccia al ninja di Iwa che, con aria estremamente soddisfatta, ammirava il suo incredibile ed efficientissimo operato.
“Peccato, una buona fonte d’informazioni  persa…” disse quasi esprimendo un pensiero ad alta voce, le sottili sopracciglia inarcate in un cipiglio d’ironica strafottenza, “va beh, è andata così.” concluse stringendosi nelle spalle con indifferenza.
 
 
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Ogni cosa pareva giacere immobile, senza vita, un panorama angosciante.
Il fumo acre misto alla polvere lento ondeggiava in dense volute, trascinato a fatica da rapide e gelide folate di vento. Gradualmente andava dissipandosi lasciando intravvedere ciò che della grotta era rimasto.
Un impressionante cumulo di massi accatastati l’uno sull’altro in un equilibrio pericolosamente precario, piccoli ciottoli e ghiaia finissima scorrevano fra le crepe ed i pertugi delle rocce in fugaci rivoli petrosi producendo un fruscio crepitante continuo. Come una ciclopica clessidra, dove la sabbia impalpabile scandisce il tempo fugace della distruzione.
Kakashi e Rin giacevano riversi proprio al centro di quel desolante cratere ormai spento che lo shinobi nemico aveva aperto sopra le loro teste senza alcuno sforzo apparente. Una flebile voce prese a chiamarli, riuscendo a riscuoterli pur nello smarrimento.
“State bene ragazzi? Rin… Kakashi…”
Pareva tanto lontana, incredibilmente debole, quasi giungesse da un altro luogo. Bassa, vibrante, stanca.
A fatica si mossero, le braccia quasi intirizzite, le gambe doloranti e pressoché ricoperte di ecchimosi sotto le divise, i volti graffiati e sporchi sino a poco tempo prima affondati nel terreno.
Kakashi alzò il capo a fatica, sollevandosi con estremo sforzo e cautela, prima sui gomiti, poi sulle mani piene di escoriazioni e, seguendo quella voce per cercane la sorgente, si volse con lentezza.
E su ciò che vide il suo cuore si fermò.
Ogni singola cellula e particella del suo essere parve raggelarsi all’istante.
Ciò che il suo occhio destro stava registrano in quel momento non poteva essere realmente accaduto; nemmeno qualche secondo dopo quell’unica iride, sgranata all’inverosimile per l’orrore, pareva accettare anche solo lontanamente l’ipotesi che non fosse ancora svenuto, e che quello non fosse altro che un macabro sogno, un crudele scherzo del suo inconscio.
Obito era a pochi metri da lui, steso a terra.
Poteva vederlo anche da lì.
O meglio, poteva vederne solo la parte sinistra, perché l’intero lato destro era completamente schiacciato.
Il piede, la gamba, il braccio, metà del busto e tutta la parte destra del viso giacevano, celati alla vista, letteralmente sepolti sotto la frana rocciosa alla quale lui e Rin erano miracolosamente scampati.
No, si corresse, lei ne era miracolosamente sfuggita.
Se lui in quel momento era lì ad osservare quello straziante spettacolo e non sdraiato sotto le macerie non lo doveva certo alla sorte, ma a quello stupido e incosciente testardo del compagno di squadra.
Il volto segnato, sporco e pieno di graffi; due sottili rivoli di sangue scorrevano lungo la guancia, uscendo dalle labbra screpolate e socchiuse, scivolavano sul viso come lacrime per poi abbandonarlo in piccole gocce amaranto, dense e silenziose, che cadevano sulla terra riarsa, scomparendo poi fra le crepe.
Nella sua mente udiva le ossa scricchiolare, vedeva la pelle lacerarsi ed i muscoli, in fasci e fibre, staccarsi, strappati con violenza dalle rocce che senz’anima cadevano sul suo amico, colpevole solo di avergli salvato la vita.
“Obito!” gridò senza fiato, incapace di far entrare anche solo un po’ d’ossigeno in quei polmoni schiacciati dal peso della colpa che andava gonfiandosi ad ogni sguardo.
Rin, ancora semisdraiata fra la polvere, aveva preso ad osservare la scena con un’espressione fra l’incredulo e l’inorridito. Fra questi la disperazione, che presto l’avrebbe colta come un’onda irresistibile e distruttrice, cominciava ad insinuarsi  nella sua mente già sconvolta dal dolore. Tremava, stringendo manciate di terra e polvere, trattenendo i singhiozzi che le scuotevano le spalle in spasmi incontrollabili, incapace di muovere il più piccolo muscolo.
Kakashi correva invece, si buttava disperato contro quell’enorme masso che così spietatamente stava schiacciando il suo migliore amico. E spingeva, con tutto se stesso, con tutto il suo peso, quel gracile corpo di giovane ragazzo che, senza esitazione, imprimeva tutta la forza che aveva su quella dannata roccia, spremendo ogni singola riserva d’energia rimastagli. Disperatamente.
Inutilmente.
“Lascia perdere…” la voce di Obito, sotto di lui.
“Va bene così, Kakashi.”
Nessuna inflessione, non c’era disperazione in quelle parole, non un gemito o un’ombra di paura. Bassa, roca e flebile seppur fin troppo chiara e martellante nella testa del jonin, quella voce sapeva di consapevolezza, arrendevolezza forse, di serena accettazione della propria sorte.
Sì, proprio così, Obito pareva sereno e, pur sotto le ferite, il sangue ed il dolore, i lineamenti del suo viso erano distesi e quell’unico occhio fiammeggiante lo guardava quasi con dolcezza, con affetto.
Parlava piano, di gola, con incredibile fatica: dolorosamente evidente era lo sforzo che gli costava pronunciare anche solo quelle poche parole.
“In ogni caso non credo di potermela cavare. Ho tutta la parte destra completamente schiacciata. Non la sento più…”
Ma Kakashi non voleva arrendersi, non voleva ascoltare quelle parole e dare loro credito come se fossero veramente le ultime.
Ancora spingeva, scorticandosi le mani. Persino le vene del collo, visibili da sotto la divisa, parevano scoppiare per il disperato sforzo di quell’impresa.
Tuttavia anch’egli sapeva, nel profondo, che tutti quegli sforzi altro non erano che un patetico estremo tentativo da parte di un bambino testardo di non accettare l’ineluttabilità dei fatti. Si sentiva come preso in una morsa, incapace anche solo di dilatare il petto per incamerare aria. Non respirava, aspirava polvere a singhiozzi, mentre la rabbia rapidamente montava dentro di lui sino ad implodere.
Batté debolmente i pugni sulla roccia, mentre il suo corpo, che in quel momento detestava per la sua completa inutilità, veniva scosso violentemente da brividi, che inarrestabili lo percorrevano interamente.
“No!”
Avrebbe voluto gridare sino a sgolarsi, urlare al mondo la sua disperazione, ma le lacrime, che copiose avevano cominciato a riempirgli gli occhi e rigargli il volto imbrattato di terra e sudore, ridussero il suo dolore a gemiti soffocati, gorgoglii che vibravano nel suo petto come ruggiti strangolati, frustrazione e furore per la propria impotenza, angoscia insopportabile e la morte nel cuore.
Rin, ancora immobile nel suo angolo, aveva portato le mani al viso e, con le gote percorse dalle lacrime, ripeteva fra sé, come in una macabra litania, poche ed inutili parole. Muoveva impercettibilmente il busto, un lento dondolio autistico che avrebbe dovuto consolarla, l’amara consolazione di chi è solo, inerme ed in preda alla disperazione.
“No… non può essere vero… Perché?”
In quello stesso istante Obito fu scosso da un violento tremito e, tossendo a fatica sputò un preoccupante quantità di sangue.
La brutalità di quell’accesso, unito al brillare del rosso vermiglio del fiotto che ne seguì ebbero il potere di riscuotere Rin dal suo stato pressoché catatonico, facendola urlare il nome dell’amico, ma non consentendo ugualmente alle sue gambe di muoversi. Dopo un primo apparente tentativo di protendersi verso di lui voltò il capo, le spalle strette ancora scosse dai fremiti, le mani premute sulla bocca, gli occhi serrati innanzi allo straziante dolore di quella scena.
Non vi era più nulla da fare.
Nessun bell’atto eroico, nemmeno la più grandiosa dimostrazione di coraggio e abilità potevano salvare il loro amico dall’ormai inevitabile fine.
Kakashi cadde in ginocchio ormai privo di forze, come svuotato, privato di tutta quella fredda sicurezza e razionalità che lo aveva contraddistinto sino a quella dannata missione.
Era distrutto.
Coi gomiti a terra tirava pugni privi di forza a quel suolo che gli stava portando via un amico, il più prezioso, quello che aveva saputo catturarlo, scuoterlo e risvegliarlo; le labbra lanciavano, fra i denti serrati, maledizioni contro il cielo e contro se stesso e contro l’intero universo.
“Maledizione!” ripeteva fra i singhiozzi, “Maledizione” urlava in preda ai brividi, “Maledizione!” gemeva il suo animo in frantumi, mentre le lacrime che in tutti quegli anni non aveva versato piovevano come un diluvio bagnando  la fredda terra nemica.
“Se solo…” biasimava se stesso -come poteva non farlo?- era tutta colpa sua, “se solo ti avessi dato ascolto fin da subito e fossi venuto subito qua da Rin, tutto questo non sarebbe mai successo!”
Gemeva e singhiozzava come un bambino, finalmente libero dai suoi paletti, ma un’altra volta col cuore in pezzi. Un pianto violento e disperato, il respiro impedito dai frequenti singulti che lo scuotevano interamente, il volto rigato e contratto, una maschera di dolore.
Rin si era lentamente alzata e, nel silenzio di quella scena straziante, si era avvicinata, inginocchiandosi poi al capezzale di Obito.
Ma Kakashi non pareva essersene reso conto e, come se fosse stato veramente solo, continuò nella sua inesorabile caduta verso l’autodistruzione, disprezzando se stesso ed il suo essere maledettamente cieco ed ottuso.
Stava mettendo in discussione tutto di sé.
Aveva sbagliato ogni cosa.
“Cosa importa essere capitano? O essere diventato jonin?”
Obito aveva ascoltato in silenzio sino a quel momento, respirando a fatica fra le labbra imbrattate da grumi di sangue ormai rappreso. Non pensava affatto che il suo amico fosse stato un cattivo jonin, né un pessimo capitano, ed in proposito aveva ancora qualcosa di lasciato in sospeso.
“Anzi… quasi me ne scordavo…”
Aveva ormai chiuso anche quel singolo occhio rubino, la palpebra pareva non dover rialzarsi più, calando un triste sipario sull’ultima scena della sua vita. Eppure su quel viso non vi era traccia di dolore, non un accenno di turbamento o rammarico; al contrario, un lieve sorriso pareva mitigare quei tratti tanto duramente martoriati. Le labbra distese, socchiuse, dalle estremità leggermente incurvate, finalmente in pace con se stesso.
“Sono stato proprio l’unico a non farti neppure un regalino, per la tua promozione a jonin, Kakashi.”
Il respiro soffiava flebile fra le corde vocali che vibravano ormai stancamente.
Rin, affranta ed impotente, non poteva far altro che guardare Obito spegnarsi lentamente davanti ai suoi occhi, dietro il liquido velo delle lacrime che, prive di ogni freno, continuavano a solcare il suo viso.
“Mi chiedevo… cosa avrei mai potuto regalarti… e poi mi è venuta un’idea.”
Il corpo ormai del tutto insensibile giaceva immobile, quasi inerte. Solo le dita della mano sinistra, lunghe e sottili, si muovevano impercettibilmente e a tratti, i lievi fremiti che ancora la percorrevano con intermittenza, forse null’altro che un riflesso involontario, quasi un riflesso, o forse l’estremo tentativo di andare incontro a colui che per lungo tempo aveva considerato un rivale, ma che solo in quelle ultime ore di era rivelato il più prezioso degli amici.
“Stai tranquillo…”
Kakashi non riusciva a smettere fissarlo, confuso, terrorizzato, mentre la braccia gli scivolavano lungo i fianchi, l’occhio si tingeva di un’infinita tristezza ed i denti, digrignati, stridevano nell’inutile tentativo di coprire quel grido d’inumano dolore che gli stava straziando il cervello.
“non è una cosa inutile da portarti appresso…”
Sollevò la palpebra per l’ultima volta, lentamente, fissando lo sguardo sul compagno.
“Vorrei donarti… il mio sharingan, ecco cosa.”
Sussultarono all’unisono, Kakashi e Rin, come sbalzati da un’auto in corsa, colpiti da un’unica esplosione.
Un tuffo improvviso, centinaia di metri nel vuoto.
“Non mi importa cosa diranno al villaggio, per me sei un grandissimo jonin. In realtà è questo il mio pensiero… quindi accettalo, per favore.”
Ma in quel momento Kakashi non reagiva, come ancorato al terreno, continuava a guardarlo come se già stesse vedendo un fantasma: qualcosa che, seppure innanzi a lui, già non apparteneva più a quel mondo. Rin al contrario probabilmente aveva già colto l’intenzione del compagno e, asciugandosi finalmente il viso e gli occhi arrossati con la manica della divisa, si apprestava già ad seguire le ultime direttive di Obito.
“Rin… con i tuoi ninjutsu medici… prelevami tutto l’occhio e trapianta il mio sharingan al posto dell’occhio sinistro di Kakashi.”
Annuì, pronta a svolgere il proprio dovere di ninja medico, ma soprattutto finalmente disposta ad ogni sacrificio per accontentare l’amico. Risoluta volse il capo verso il jonin e con sguardo serio cominciò a predisporre l’intervento.
“Kakashi, vieni qua. Iniziamo immediatamente.”
Kakashi aveva ripreso a tremare come una foglia, il suo corpo, già piuttosto magro, pareva persino più esile così scosso dai brividi. Sudava freddo, i suoi occhi pregavano affinché tutto quel che stava vivendo fosse in realtà uno stupido scherzo del suo subconscio; il terrore lo teneva ben stretto nella sua morsa raggelante e senza scampo, innanzi a lui la più dura delle scelte che avrebbe mai dovuto compiere.
Accettare quell’occhio tanto potente?
Privare il compagno di una così importante parte di sé proprio nel momento di maggior sofferenza?
Depredarlo in punto di morte?
Accogliere a braccia aperte il sincero dono di un amico?
Esaudire l’ultimo desiderio, l’ultimo gesto di profondo affetto del proprio unico vero amico?
Stringeva convulsamente lembi di divisa nei pugni, il capo ora chinato a terra: forse sparava di trovare risposta fra le crepe di quell’arida terra che si stava portando via Obito.
“Io…” proseguì quasi per convincerlo, “sto per morire… però diventerò il tuo occhio. Vedrò il futuro… attraverso di te.”
Avrebbe voluto, in un ultimo ed estremo tentativo, lenire il dolore ed i sensi di colpa che in quel momento stavano uccidendo lentamente anche Kakashi, fargli sentire che quello non era solo un regalo, ma anche l’unico modo per tenerlo in vita, tenerlo per sempre stretto a sé, parte di se stesso fin nel profondo.
Il jonin parve chiudersi in sé per un istante, per poi annuire con risoluzione, pronto ad affidarsi alle mani capaci della compagna medico.
 
 
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Finalmente aveva terminato. Doveva ammettere che questa volta la missione era stata tutt’altro che facile: a dispetto della giovane età quel team di Konoha gli aveva dato decisamente del filo da torcere e tornare al villaggio con la squadra decimata di certo non gli faceva onore. Ma ora poteva dire con una certa soddisfazione di averli tolti di mezzo una volta per tutte e, come premio per cotale abilità, si sarebbe concesso una pausa prima di riprendere il cammino.
Sedeva a terra, sull’erba; pochi metri dietro le sue spalle le macerie del passato combattimento ancora si assestavano , con rumori ormai sommessi anche se talvolta piuttosto repentini. Beveva da un piccolo thermos dotato di cannuccia, lentamente e producendo un certo fastidioso risucchio: pareva proprio gustarsi l’attimo di pace dopo la vittoria della battaglia.
Poi tutto esplose e, come un vulcano inattivo da tempo immemore, dal centro del grande cumulo fuoriuscirono con una potenza dirompente ghiaia, pietrisco e massi di varie dimensioni, il tutto avvolto da un’acre nube densa e polverosa.
In cima a quel cumulo esploso stava Kakashi, sempre più visibile con il diradarsi della cortina fumosa.
“Che zucconi… siete ancora vivi, eh?” berciò il ninja di Iwa dall’improbabile capigliatura con fare decisamente seccato.
Ma Kakashi non rispose alla provocazione.
Rimase immobile, sulla cima di quella che una volta era stata una grotta, gli occhi chiusi che ancora lacrimavano, mentre la nube di polvere lentamente si faceva sempre più rarefatta.
“Già, ma come dicevo siete marmocchi. Quando mai uno shinobi piange?” non era più tempo di giochi, ora voleva solo sbarazzarsi di quello sciocco ragazzino e tornarsene a casa, “Forza, frignone! Facciamola finita una volta per tutte.”
Veramente voleva fare sul serio?
Bene, Kakashi non aspettava altro e, puntando lo sguardo sull’uomo che aveva ucciso il suo compagno, aprì per la prima volta i suoi occhi diversi e complementari, ora uniti ed inseparabili.
L’occhio destro, grigio, imperscrutabile, profondo e determinato: lo sguardo di Kakashi, jonin acuto e coraggioso, abile stratega e formidabile in battaglia.
L’occhio destro color del sangue, della passione che sempre agitava l’animo di Obito: l’impulsività delle parole e delle azioni, il grande cuore che tutto sopportava e tutti conteneva, l’irruenza dei sentimenti che sgorgavano senza remore come un fiume di lacrime da quell’occhio prodigioso che anticipa alla mente la visione degli eventi, che mostra e rivela misteri, che dona ma brucia e per sempre arderà, nel ricordo e nel dolore di quella cicatrice verticale che più che negli occhi, trafigge nell’animo, brucia dentro.
Piange lo sharingan, ma al suo nuovo proprietario non importa, perché anche quelle lacrime sono un dono prezioso, un’amara lezione d’umanità da tener stretta a sé e non dimenticare mai.
 
 
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La Terza Grande Guerra Ninja.
Grazie al sacrificio di molti shinobi ignoti, questa lunga e sanguinosa guerra  volse al termine. E fece nascere delle leggende, storie di eroi da narrare per generazioni e generazioni.
La Battaglia del Ponte Kannabi…
In quel giorno a Konoha nacquero due eroi, entrambi con proprio sharingan. Il nome di uno di loro venne scolpito su una lapide. L’altro diventerà famoso col nome di  “Kakashi dello Sharingan”. In futuro, l’eco delle sue gesta supererà  i confini della Nazione.
 
 
Una lapide grigia, memoria imperitura d’eroi caduti.
Dei fiori colorati, l’affetto di chi non dimentica l’amico più caro.
Una maschera arancione, difesa di un piccolo uomo dal cuore immenso.
 
 
 
 
 
 
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Eccomi a voi, mortificata per l’immenso ritardo, ma soprattutto prosciugata da questo lavoro. E’ stato uno sforzo immane, bellissimo ma altrettanto faticoso.
Mi sento un po’ vuota, come talvolta ci si può sentire alla fine di una long… peccato che, se poi ci penso, mi rendo conto di non essere nemmeno a metà.
 
Ma procediamo con ordine.
Come qualcuno di sarà accorto, ho fatto terminare il capitolo prima della fine reale dell’episodio. Questo in virtù del fatto che, oltre ad essere ormai esausta, ritenevo più importante focalizzare l’attenzione sul rapporto fra i due, che cresce e matura sino al tragico epilogo nel quale Obito dona l’occhio a Kakashi.
Ora vi torna il motivo per il quale ho inserito questi due capitoli nella catena?
Già, proprio la storia dell’occhio.
Mentre Madara ancora delira convinto che Izuna gli abbia regalato gli occhietti, questo dolcissimo piccolo Uchiha (lo adoro) l’ha fatto per davvero!
E non si dica che tutti gli Uchiha sono pazzi o crudeli!!
 
Io mi sono impegnata parecchio, e spero proprio che questo capitolo piaccia anche a voi, perché mi sono spremuta anche per cercare di darvi il meglio.
In particolare questo “Kakashi Gaiden Special” è dedicato interamente alla mia adorata Nejiko, che instancabilmente mi supporta (e sopporta) anche con i suoi bellissimi video. Tesoro, grazie mille di tutto!
Per quel che riguarda i termini giapponesi, vi prego non insultatemi se non ho la forza per scrivervi qui il significato. Facciamo così, se qualche parola non vi torna chiedetemi pure: vi risponderò con grandissima gioia.
 
Infine una piccola anticipazione sul prossimo capitolo (che arriverà fra almeno 1-2 mesi, conoscendo i miei tempi). Si tratta dell’episodio del secondo attacco della volpe, con la nascita di Naruto e morte dei suoi amati genitori.
 
Un enorme abbraccio a tutti voi ed un grazie infinito a chi, con somma pazienza, non mi ha ancora mandata a quel paese per i miei ritmi improponibili.
Grazie.
*Inchino*
 
Ah, dimenticavo… per chi in questi mesi si fosse giustamente scordato qualche particolare, tutte le parti in grassetto sono interamente tratte dall’anime, ad eccezione di qualche trascurabile adattamento stilistico, opera della sottoscritta.

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