What if...? di _KyRa_ (/viewuser.php?uid=79577)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** One. Bowing to the facts ***
Capitolo 3: *** Two. Fear of the truth ***
Capitolo 4: *** Three. Enigmatic ***
Capitolo 5: *** Four. Metter of knowledge ***
Capitolo 6: *** Five. Further lies ***
Capitolo 7: *** Six. A lift by the enemy ***
Capitolo 8: *** Seven. You'll be a great mum ***
Capitolo 9: *** Eight. First signs ***
Capitolo 10: *** Nine. Risk ***
Capitolo 11: *** Ten. Unexplainable explanations ***
Capitolo 12: *** Eleven. Damned collapse ***
Capitolo 13: *** Twelve. A good reason ***
Capitolo 14: *** Thirteen. Turning point? ***
Capitolo 15: *** Fourteen. Come back to reality ***
Capitolo 16: *** Fifteen. Welcome to Malaysia ***
Capitolo 17: *** Sixteen. Illusion ***
Capitolo 18: *** Seventeen. He'll take care of her ***
Capitolo 19: *** Eighteen. Trembling ***
Capitolo 20: *** Nineteen. Living in clearness ***
Capitolo 21: *** Twenty. You have really disappointed me ***
Capitolo 22: *** Twenty-One. Yielding ***
Capitolo 23: *** Twenty-Two. Fuck you ***
Capitolo 24: *** Epilogue. Is this a goodbye? ***
Capitolo 1 *** Prologue ***
prologue
Prologue.
La
sua immagine riflessa nello specchio le riportava alla mente ciò
che di più duro doveva affrontare nella sua vita; ciò
che di lì a poco le avrebbe stravolto l'esistenza. Sentiva
ancora l'amaro in bocca, sentiva di non essere assolutamente pronta a
tutto quello. Era come se qualcuno la avesse presa di forza, per un
braccio, e posta davanti al suo destino, vedendolo vorticare sempre
più in basso, sempre più nel vuoto, in mezzo al quale
si trovava.
Non
riusciva a risalire; non riusciva a tornare a galla, in quell'oceano
di tormenti, per respirare; aveva bisogno di ossigeno, ma non
riusciva ad ottenerlo, continuando a lottare con se stessa.
I
suoi occhi spenti la fissavano attraverso lo specchio, facendola
sentire per un attimo sotto accusa o sporca di un qualche crimine non
commesso. Si vergognava di se stessa; percepiva la voglia
incontenibile di allungare le mani verso quella sua figura riflessa,
torturandola dal dolore.
Chi
era diventata? Un'estranea ai suoi occhi; non si riconosceva più.
O forse non voleva accettare il fatto che quella persona fosse
proprio lei, ostinandosi a nascondersi dietro una maschera che non le
apparteneva, fatta solo di odio sconfinato.
Non
avrebbe dovuto permettere al destino di decidere per lei. Lei avrebbe
dovuto essere la padrona assoluta delle sue scelte e non aveva
assolutamente bisogno dell'intervento di qualcun altro. Era sempre
stata capace di gestire tutto quanto.
E
allora come mai la situazione le era completamente sfuggita di mano a
quel modo? Perchè si trattava solamente di fesserie: lei non
era davvero in grado di gestire se stessa, non era in grado di
proteggersi, né tanto meno di costruire la strada della sua
vita, piastrella dopo piastrella, come credeva.
I
suoi occhi non tardarono a calare sul suo ventre, facendola sentire
tremendamente in colpa.
Non
era quello che aveva sempre desiderato, non era quello di cui aveva
bisogno in quel momento. Si sentiva ancora una bambina, piccola,
immatura. Come poteva solo lontanamente pensare di compiere un salto
talmente grande da gravare sulla sua intera vita?
Mai
come quella volta si era odiata tanto.
Mai
come quella volta aveva desiderato ardentemente di farsi del male.
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Capitolo 2 *** One. Bowing to the facts ***
bowng to the facts
Chapter
One.
-
Bowing to the facts -
Il
rumore dei suoi passi fu l'unica cosa in grado di udire lungo
quell'infinito corridoio; la cartellina dove teneva tutte le sue
schede era stretta al suo petto, quasi con fare protettivo. Lei era
così: attenta e protettiva con qualunque cosa fosse sua.
Non
tardò molto prima che arrivasse nel suo ufficio. Il buio
l'avvolse e, dopo aver posato alla cieca la cartellina sulla sua
scrivania, raggiunse le finestre per sollevare le persiane,
permettendo alla luce di fare il proprio ingresso in quella stanza.
Aprì un'anta per far sì che un po' d'aria tedesca la
rinfrescasse e successivamente andò a sedersi sulla sua
poltrona in pelle nera. Mentre si accingeva ad aprire la cartellina,
buttò un occhio all'orologio appeso alla parete. Le otto: di
lì a poco sarebbero arrivati i ragazzi, tra cui il suo incubo
ricorrente.
La
sua famiglia non era mai stata molto agiata e di certo non poteva
dire di aver sempre galleggiato nell'oro. Molto modesta, comprendeva
sua madre – una donna di mezza età che faceva la casalinga –
e suo padre, il quale doveva riuscire a far trovare il pane in casa
grazie al solo aiuto del suo sudore. Nonostante questo, Monique non
ne aveva mai risentito. Aveva sempre vissuto nell'assoluta normalità
ed i suoi genitori non le avevano mai fatto mancare nulla. I problemi
però avevano cominciato a sorgere una volta abbandonata la sua
casa nativa, per trasferirsi in un monolocale e vivere da sola.
Iniziava a capire cosa volesse dire lavorare e faticare per
mantenersi, caricarsi di molte responsabilità di cui forse
prima non conosceva nemmeno l'esistenza.
La
fortuna le aveva concesso di trovare un lavoro come traduttrice.
Avendo studiato l'inglese, lo spagnolo, il francese e l'italiano, non
le era rimasto difficile ottenere quel posto a soli vent'anni, per di
più per le ultime persone che avrebbe mai immaginato: i Tokio
Hotel, la band tedesca più famosa del momento.
Con
lei erano sempre stati tutti molto gentili, eccetto uno.
Tom
Kaulitz – chiamato anche “SexGott”, “Gemello Cattivo”, “Sex
Machine” e quant'altro – l'aveva presa in antipatia sin dal primo
giorno e lei non aveva mai perso tempo a capire quale fosse il reale
motivo. Tutto ciò che doveva fare con lui, era non perdere le
staffe, o avrebbe perso anche quell'importante lavoro con la stessa
velocità con cui l'aveva trovato, ed era decisamente l'ultima
cosa di cui aveva bisogno in quel momento.
Ora
la situazione le era sfuggita di mano... Totalmente. Come avrebbe
potuto confessare ai suoi datori di lavoro la realtà che si
era venuta a creare? Il licenziamento sarebbe stato sicuramente
immediato.
Scoprire
di essere incinta, per di più di uno stronzo, era stato come
cadere in un burrone... Cadere, cadere, senza fermarsi mai. La fine
di quel burrone non giungeva e lei continuava a rotolare, giorno dopo
giorno.
Una
cosa era certa: nessuno sarebbe dovuto venire a conoscenza della sua
gravidanza.
«Buon
giorno, Monique!» un Bill raggiante come sempre, fece il suo
allegro ingresso nell'ufficio, facendola bruscamente risvegliare dai
propri pensieri. Le venne automatico portare una mano alla pancia,
come a nascondere un qualcosa che ancora non poteva vedersi.
«Buon
giorno, Bill.» sorrise lei cordialmente, dandosi della stupida
mentalmente e riportando entrambe le mani sulla scrivania.
«Tra
poco arriverà David con tutte le lettere delle fans.» le
riferì. Monique annuì pensierosa. Guardò oltre
le spalle del vocalist e non poté fare a meno di notare che il
suo acerrimo nemico mancava all'appello, assieme a Georg e Gustav.
«Oggi
sei da solo?» domandò piuttosto interessata e
parzialmente sollevata al pensiero di trascorrere una giornata senza
l'ombra inquietante del chitarrista che la teneva sott'occhio ad ogni
minima mossa, pronto a criticare qualunque cosa vedesse fuori posto.
«No
no, adesso gli altri arrivano. Si sono fermati alla macchinetta del
caffè.» rispose gentilmente il moro.
Non
aveva nulla a che fare con suo fratello Tom, e questo Monique
continuava a pensarlo. Erano uno l'opposto dell'altro, nonostante
fossero gemelli. Uno così gentile, generoso, dolce... L'altro
rozzo, egoista e freddo. Poche volte rifletteva sul fatto che forse
quel ragazzo volesse apparire a quel modo ma che in fondo nascondesse
qualcosa di buono, ma ogni volta si trovava costretta a ricredersi.
Improvvisamente
vide i tre ragazzi mancanti fare il loro ingresso nella stanza. Georg
e Gustav la salutarono con il dovuto garbo, come sempre, mentre Tom –
non che questo la sorprendesse – si limitò a grugnire un
“Ciao”, decisamente poco interessato.
Ma
per la prima volta non ne fece una questione personale e non si
lasciò pervadere da ulteriore nervoso: al momento aveva
problemi molto più pesanti di quello.
«Eccomi
qua!» esclamò il manager della band, facendo irruzione
tra di loro: un uomo giovane, di bell'aspetto e perennemente di buon
umore, capace così di fare invidia a chiunque.
Posò
una pila di fogli sulla scrivania di Monique, sorridendole
cordialmente. «Ecco tutte le lettere delle fans. Avrai un bel
da fare, sono il doppio dell'ultima volta.» disse con
entusiasmo, come se questo potesse rallegrare Monique. Quest'ultima
tirò le labbra in un sorriso forzato ed annuì,
fingendosi interessata. «Buon lavoro, allora! Venite ragazzi.»
concluse l'uomo, uscendo dall'ufficio.
«Ci
vediamo più tardi.» le disse Bill, per poi seguire il
passo del manager, assieme agli altri ragazzi.
Di
nuovo sola, sospirò pesantemente, tornando ad accarezzarsi la
pancia. Non voleva un bambino, non poteva averlo. Non era il
momento... Non aveva né i soldi, né il tempo, né
le capacità.
Le
lacrime minacciarono di sgorgare dai propri occhi ma, preso un bel
respiro e deglutendo il magone che le si era venuto a formare in
gola, recuperò la prima lettera, prendendo a leggerla. Accanto
a sé preparò un altro foglio bianco, sul quale scrisse
successivamente la traduzione.
Nel
suo lavoro aveva sempre dato il massimo, come in tutte le cose che
faceva. Si era sempre impegnata fino alla morte e – cosa più
importante – non si era mai lamentata. Come poteva una semplice
creatura arrivare all'improvviso e distruggere quell'equilibrio che
era riuscita a creare nella sua vita? Era troppo giovane ed aveva
ancora tanto – forse troppo – da scoprire nel suo cammino,
attraverso gli occhi infantili di una bambina. Perchè era così
che si sentiva in quel momento: una bambina cresciuta troppo in
fretta; una bambina che presto si sarebbe dovuta prendere cura di un
altro bambino.
La
penna sembrava marcare da sé quelle parole sul foglio. Non vi
stava prestando particolare attenzione e di conseguenza non sapeva se
quello che stava scrivendo potesse racchiudere un qualche senso
logico; ma non riusciva nemmeno a ritrovare la concentrazione ormai
persa.
Un
improvviso tonfo sulla scrivania la fece sobbalzare violentemente,
mentre il cuore prendeva a batterle furiosamente in petto. Quando
sollevò lo sguardo trovò davanti a sé Tom, che
la guardava con sguardo glaciale e disinteressato.
«David
si è dimenticato di darti queste.» le disse freddamente,
alludendo al mucchio di lettere che le aveva buttato malamente sul
tavolo. Monique lo guardò attentamente negli occhi, non
sapendo esattamente che dire.
«Sono
altre lettere che devo tradurre?» domandò accigliata,
sentendo la disperazione montarle dalle dita dei piedi, fino alla
testa.
«Tu
che dici?» rispose sgarbatamente e piuttosto scocciato il
ragazzo. Monique annuì sorpresa. «Non ti paghiamo per
girarti i pollici; dovresti solamente gioire alla vista di così
tanto lavoro.» aggiunse quasi sprezzante. Un brivido di rabbia
scosse Monique.
«Con
tutto il rispetto, Tom... E' David che mi paga.» ribattè,
pentendosene subito dopo, quando vide lo sguardo gelido di Tom
posarsi sulla sua figura, mettendola dannatamente in soggezione.
«Ricordati
che ad un mio schiocco di dita, tu perdi il lavoro, Schmitz. Quindi
attenta a come parli. Ora continua il tuo lavoro.» fu poco più
di un sussurro quello di Tom, a qualche centimetro di distanza dal
viso di Monique che aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo.
Guardò le spalle del moro mentre usciva dalla stanza,
ripetendosi mentalmente che avrebbe dovuto astenersi dal rispondergli
male o dal provocarlo: aveva ragione, ad un suo schiocco di dita,
sarebbe uscita di lì di corsa e questo non poteva
permetterselo. Non ora.
**
Gli
occhi le si chiudevano, reclamando un po' di sana pausa, la sua mano
doleva dal troppo scrivere ed il suo cervello stava letteralmente
andando in panne, per lo sforzo di entrare mentalmente in una lingua
diversa ogni cinque minuti. Si trovò a maledire mentalmente
tutto quel successo che i quattro ragazzi avevano ottenuto,
attorniandosi di infinite fan in preda a crisi ormonali e – doveva
ammetterlo – dotate di una particolare fantasia nel riportare su
carta dichiarazioni d'amore.
Le
mancavano ancora tre lettere ed avrebbe finalmente terminato, per
quella mattina. Erano le undici passate ed il suo turno sarebbe
finito a mezzogiorno.
Aveva
una terribile voglia di correre via di lì. Ogni secondo che
passava lì dentro equivaleva all'ansia – inutile – di
venire scoperta. Temeva che qualcuno venisse a sapere che era
incinta, solamente guardandola negli occhi. Quello era il motivo per
cui si era rifiutata di osservare nelle pupille chiunque, quel
giorno, o almeno per non più di tre secondi.
Quando
finalmente anche l'ultima lettera fu tradotta e la penna venne posata
sulla scrivania, prese a stiracchiarsi sulla poltrona, chiudendo gli
occhi, per poi massaggiarli appena con i polpastrelli. Aveva bisogno
di riposare... Si sentiva eccessivamente stanca; più del
solito, e la cosa la mandava in bestia, conoscendo perfettamente la
causa di quella fastidiosa fiacca.
Prese
i fogli bianchi che le erano avanzati e li ripose nella sua
cartelletta, per poi alzarsi dalla poltrona. Dopo aver riordinato il
tutto, si avviò verso l'uscita del suo ufficio, alla ricerca
di David. Finalmente lo trovò intento ad osservare i suoi
ragazzi suonare all'interno di una stanza insonorizzata, attraverso
il vetro. Monique si fermò alle sue spalle, buttando un occhio
nella stessa direzione: erano tutti straordinariamente concentrati in
ciò che facevano e sembrava che attorno a loro non esistesse
altro.
«Ho
finito.» annunciò poi al manager, senza però
staccare gli occhi dai quattro ragazzi. L'uomo, forse preso alla
sprovvista, voltò di scatto il viso verso di lei, per poi
sorriderle.
«Perfetto,
allora, se vuoi, puoi andare.» le disse, tornando ad osservare
la band.
«D'accordo.
A domani.» rispose lei, dandogli le spalle e prendendo a
camminare lungo il corridoio.
«Ah,
Monique, una cosa.» si sentì richiamare quasi subito dal
manager. Si voltò nuovamente verso di lui e lo vide venirle in
contro. «Come sai, fra tre giorni i ragazzi saranno in Francia
a tenere un'intervista ed un servizio fotografico. Mi serviresti per
l'intervista. Te la senti di venire con noi? È questione di un
giorno. Quello successivo saremo già di ritorno.» le
domandò speranzoso.
Monique
poté avvertire forte e chiaro un brivido di timore lungo la
colonna vertebrale. Quello avrebbe significato dormire fuori casa:
non se la sentiva di abbandonarla in quel momento, per qualunque
motivo. Si fosse sentita male, se ne sarebbero sicuramente accorti
tutti ed a quel punto la verità sarebbe venuta fuori con una
certa ovvietà. Ma come avrebbe potuto giustificare al manager
un suo rifiuto? Non aveva mai declinato una proposta del genere –
che tra l'altro le avrebbe portato in tasca molti soldi – e più
di una volta le era capitato di viaggiare assieme alla band, ma in
circostanze leggermente diverse.
Sospirò
appena e poi annuì.
«Certo.
Verrò.» affermò, non troppo convinta. Questo
parve passare inosservato a David che sorrise raggiante.
«Grazie,
Monique. Allora, ci vediamo domani.» concluse il manager,
voltandole le spalle ed allontanandosi da lei.
Lo
sguardo della ragazza si incupì, mentre tornava a camminare
verso l'uscita dello studio di registrazione.
Aveva
accettato. Era stata una stupida e tutto perchè non aveva il
coraggio di esporsi. Era una gravidanza quella che si stava
preparando ad affrontare, non una partita a carte.
Sbuffò
sonoramente, sbattendo la portiera della sua macchina e si voltò
a guardare il vialetto, mentre ingranava la retromarcia. In pochi
secondi si trovò fuori dal cancello e sulla strada che
l'avrebbe riportata a casa.
**
Sbatté
la porta del monolocale per poi buttare malamente le chiavi sulla
ribaltina, affianco ad essa. Si diresse in cucina, decisa a trovare
qualcosa da mangiare che avrebbe alleviato per lo meno i suoi nervi.
Rovistò maldestramente nella dispensa, impaziente di sentire
del cibo sotto i suoi denti, e ne tirò fuori una busta di
patatine. Sapeva che le avrebbe fatto male e che non avrebbe dovuto
per cause di forza maggiore, ma la fame nervosa chiamava.
Andò
a sedersi sul divano ed accese la televisione, prendendo a cambiare
continuamente canale, non riuscendo a trovarne uno che le
interessasse davvero.
La
verità era che non ne aveva la testa: i suoi pensieri erano
altri e di certo un programma televisivo non l'avrebbe distolta da
essi. Ancora si chiedeva come potesse essere arrivata a quel punto.
La
sua storia con quel bastardo di Christian era cominciata un anno
prima. Lui aveva due anni in più di lei e sin dal primo
momento le aveva fatto credere di provare qualcosa di forte nei suoi
confronti. Lei, da brava ragazza innamorata ed ingenua quale era, gli
aveva creduto. Ovviamente con il passare del tempo, quando aveva
deciso di concedersi totalmente a lui, la loro relazione era andata
avanti solo di quello: sesso. Non esisteva più il dialogo, non
esistevano più i sorrisi, le carezze disinteressate, le
giornate passate a divertirsi, le parole dolci che si erano sempre
detti inizialmente. La sua bella favola si era velocemente
trasformata in un incubo.
L'abitudine
di aspettarlo nel letto, già quasi del tutto priva di vestiti,
alla sera, quando lui tornava tardi dal lavoro, semplicemente per il
fatto che sapeva già come si sarebbe conclusa la nottata. Non
una parola nel mentre. A volte nemmeno la salutava quando rientrava:
si infilava nel letto, avvinghiandosi velocemente a lei, senza prima
preoccuparsi di constatare che non stesse dormendo o non stesse male.
Sfortuna
volle che in una di quelle tante occasioni era riuscito a metterla
incinta. Non che l'avesse fatto di proposito, anzi... Lui odiava il
solo pensiero dei bambini. Per questo motivo, quando due settimane
prima gli aveva riferito di essere incinta, lui aveva deciso di
sparire velocemente dalla sua vita, ritenendo di non essere pronto a
mettere su famiglia a soli ventidue anni.
Ma
neanche lei era pronta: aveva vent'anni. Cosa poteva fare? Anche lei
doveva scappare? Ma pur scappando non avrebbe risolto niente;
quell'esserino sarebbe rimasto nel suo grembo, l'avrebbe seguita
ovunque, pretendendo di venire al mondo.
Soffocò
un singhiozzo, portandosi alla bocca l'ennesimo pugno di patatine,
con violenza.
Improvvisamente
udì il campanello trillare. Sollevò gli occhi al
soffitto, cercando di asciugarsi le lacrime che le si erano
accumulate su di essi e, dopo aver poggiato il sacchetto di patatine
sul tavolino di fronte al divano, camminò velocemente verso la
porta per aprirla. Davanti a sé trovò la figura
sorridente – nascondente però una nota malinconica negli
occhi – della sua migliore amica, Jessica.
Quella
ragazza dai capelli rossi era l'unico appiglio sicuro nella sua vita.
Le era sempre stata vicino nei momenti di bisogno e non aveva esitato
a farlo anche a quell'ultima rivelazione.
«Come
stai?» le chiese retoricamente Jessica, entrando in casa mentre
Monique richiudeva la porta.
«Potrei
stare decisamente meglio.» rispose la mora con sguardo spento,
dirigendosi poi nuovamente al divano, seguita dalla rossa che si
sedette affianco a lei.
«Vedo
che hai trovato il modo di scaricare i nervi.» notò
Jessica, prendendo la busta di patatine e poggiandosela in grembo.
«Devo ricordarti che fa male a lui o lei questa roba?»
continuò, osservandola attentamente. Monique grugnì,
strappandogliela dalle mani.
«Lo
so, ma se permetti devo ancora cercare di entrare nella logica di
essere incinta.» ribattè, riprendendo a mangiare
spasmodicamente, sotto lo sguardo critico di Jessica.
«Dovresti
farlo in fretta. Il primo mese è quasi terminato.» si
premurò di rammentarle la rossa, poggiandosi meglio sullo
schienale del divano. Monique sospirò scocciata e buttò
il sacchetto ormai vuoto sul tavolino.
«Sei
venuta per farmi la paternale? Non ne ho bisogno, grazie, sono già
abbastanza disperata.» disse, alzandosi dal divano per entrare
in cucina a prendere un sacchettino di caramelle gommose. Quando
tornò a sedersi sul divano, Jessica sgranò gli occhi,
strappandole di mano quell'ulteriore attentato alla salute.
«Ma
sei impazzita?! Controllati, Monique! Sei incinta! Incinta! Non so se
ti è chiaro!» le sbraitò contro. Monique sentì
la rabbia farsi velocemente strada dentro di lei, gli occhi pizzicare
e la gola chiudersi a causa di un fastidioso magone.
«Lo
so! Lo so che sono incinta! E credimi, è l'ultima cosa che
volevo capitasse! Non c'è bisogno che continui a ripetermelo,
come se io non l'avessi ancora capito! Mi sta distruggendo la vita,
mi sta rovinando! Vuoi che non me ne sia accorta?!» quelle urla
avevano zittito Jessica, portandola a mordersi la lingua dallo
spavento.
Monique
non voleva qualcuno che le ricordasse quello che stava passando. Lo
stava capendo fin troppo bene e sapeva che non poteva tornare
indietro. Era già di per sé troppo doloroso da
accettare, e sentirsi le prediche dalla sua migliore amica, l'unica
persona in grado di capirla veramente, era piuttosto demoralizzante.
Sentì
le lacrime calde e salate farsi lentamente strada lungo le sue gote
arrossate. Una disperazione incontenibile aveva ormai preso parte
dentro di lei e sarebbe stata dura da scemare. Aveva bisogno del
sostegno di Jessica, quasi quanto l'aria che respirava; e questo non
tardò ad arrivare. La rossa si sporse verso di lei,
prendendosela tra le braccia, per poi sdraiarsi all'indietro sul
divano, lasciando che Monique poggiasse la testa sulla sua spalla per
poter dare libero sfogo al pianto che necessitava di uscire da troppo
tempo. Prese ad accarezzarle lievemente i capelli con una mano,
fissando il vuoto ed ascoltando in silenzio i suoi singhiozzi
disperati.
«Andrà
tutto bene, Monique. Andrà tutto bene perchè io ti
starò sempre vicino.» le sussurrò all'orecchio,
prima di posarle un tenero bacio sulla testa e lasciarla libera di
sfogare il suo dolore.
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Capitolo 3 *** Two. Fear of the truth ***
fear of the truth
Chapter
Two.
-
Fear of the truth -
Gemette,
riportando la testa fuori dal water, per poi andare a sciacquarsi la
bocca al lavandino.
Stava
tranquillamente traducendo delle lettere che le erano state assegnate
nel suo ufficio, quando improvvisamente un senso di nausea l'aveva
colta alla sprovvista, portandola a precipitarsi nel bagno lungo il
corridoio. Aveva sempre avuto paura di vomitare sin da bambina, era
una cosa che la mandava nel panico più totale.
Si
osservò tremante e con le lacrime agli occhi allo specchio,
mentre si passava una mano bagnata sul viso, per poi chiudere l'acqua
ed asciugarsi con il telo poggiato vicino al lavello. Cercò di
assumere un'espressione sicura, per non destare sospetto, ed uscì
dal bagno. Si guardò attorno e corse successivamente verso il
suo ufficio.
Quando
vi entrò, impuntò sui propri piedi, quasi spaventata:
Tom era davanti a lei, al centro della stanza, a darle le spalle. Il
ragazzo doveva aver sentito il suo arrivo perchè si voltò
nella sua direzione, osservandola con la solita freddezza.
«Hai
da fare qui. Vedi di non andartene in giro a distrarti.» la
ammonì, dandole di nuovo la schiena. Monique strinse i pugni
con tutta la forza che possedeva in corpo.
«Io
non mi distraggo.» sussurrò flebilmente, reprimendo la
voglia di prenderlo a pugni. Lui non poteva capire cosa stava
passando. Non poteva decisamente farlo.
Fece
il giro della scrivania per risedersi sulla poltrona, decisa a
rimettersi al lavoro. Il chitarrista, davanti a sé, non
accennava ad andarsene, sfogliando distrattamente alcuni fogli che
riportavano le traduzioni di Monique. Quest'ultima gli lanciava
occhiate furtive, domandandosi quando l'avrebbe fatta respirare. Non
poteva sorvegliarla costantemente a quella maniera.
«Non
ti fidi di quello che faccio?» domandò incauta,
riprendendo a scrivere e senza degnarlo di un ulteriore sguardo. Tom
ripose i fogli sul tavolo e spostò lo sguardo su di lei.
«Non
si sa mai.» rispose incolore, per poi lasciarla nuovamente sola
in quella stanza.
Con
un sospiro pesante, buttò la schiena all'indietro, poggiandosi
stancamente allo schienale imbottito. Le sue dita andarono a sfiorare
distrattamente la pelle del suo ventre, scostando di poco la
maglietta.
La
situazione stava degenerando. Presto i ragazzi e David avrebbero
intuito che in lei vi era qualcosa che non andava e quel problema
sarebbe diventato evidente con l'acquisto di qualche chilo in più.
Si sentiva inchiodata, con le spalle al muro, senza via d'uscita. Era
tutto così complicato e trovare una soluzione non sarebbe
servito a niente, dal momento che non avrebbe mai potuto nascondere
l'evidenza.
Fece
una smorfia di disgusto, sentendo che la nausea non cessava a
svanire, così come il mal di testa. Odiava star male
fisicamente; non poteva sopportarlo.
«Hey,
Monique. Ti vedo piuttosto stanca; prenditi una pausa, dai.» la
voce di Bill aveva fatto capolino in quella stanza, come un fulmine a
ciel sereno. Per questo motivo si affrettò a togliere la mano
dal suo ventre, rimettendosi composta sulla poltrona. Quando sollevò
lo sguardo, un infinito senso di tenerezza e gratitudine la invase:
il vocalist le sorrideva, tenendo in mano una tazza di caffèlatte,
accompagnata da una brioche interamente cosparsa di zucchero a velo.
Prese a boccheggiare, non sapendo che dire. «Spero che ti
piaccia la brioche con la marmellata.» aggiunse posandole la
tazza sulla scrivania e porgendole la brioche avvolta nel tovagliolo.
Si sentiva mortificata: in un altro momento avrebbe sicuramente
apprezzato di più quel meraviglioso gesto. Come poteva dirgli
che la nausea la uccideva e non se la sentiva di mettere nulla sotto
i denti?
«Grazie,
Bill. Sei... Molto gentile.» gli sorrise, adocchiando
ripetutamente quel cornetto e deglutendo più volte ed a fatica
i conati che tornavano a farsi sentire.
«Di
nulla.» rispose il ragazzo, sedendosi sulla scrivania di fronte
a lei ed osservandola attentamente. «Tutto bene?» le
domandò dopo un po', notando il viso sbattuto.
«Sì,
sì.» annuì lei più volte, prendendo poi un
bel respiro per dare il primo piccolo morso alla brioche. Si
trattenne dallo stringere le palpebre con espressione disgustata, per
non offendere Bill, e si affrettò a bere un sorso di caffè.
«No
perchè ti vedo un po' pallida.» continuò il
vocalist.
«Sarà
che non ho dormito molto, stanotte.» mentì lei,
continuando a mangiare con una lentezza ed una fatica disarmanti.
Bill annuì distrattamente. Finalmente Monique terminò
di masticare ed accartocciò il tovagliolo nella sua mano, per
poi finire di bere le ultime gocce di caffè. «Grazie,
Bill.» gli sorrise, riponendo la tazza sulla scrivania e
buttandoci dentro il tovagliolo.
«Di
nulla. Allora, ti lascio al tuo lavoro.» concluse allegro per
poi salutarla ed uscire dalla stanza.
Di
nuovo sola, recuperò velocemente la bottiglietta d'acqua
fresca che aveva portato con sé quella mattina e ne bevve più
di metà in un solo sorso. Scivolando quasi congelata lungo la
sua gola, la portò a chiudere gli occhi infastidita. Quando
sarebbe terminata quella tortura?
**
«Dovresti
prendere l'appuntamento per la prima ecografia, sai?» le
rammentò Jessica che giocherellava distrattamente con la
forchetta sul tavolo, aspettando che anche Monique si sedesse a
tavola per poter mangiare.
Quest'ultima
aveva invitato la rossa a cenare a casa sua: aveva dannatamente
bisogno di compagnia e la sua era sicuramente la migliore.
Finalmente
si sedette di fronte a lei e prese ad infilzare la carne sul piatto.
«No.»
rispose monocorde, senza nemmeno guardarla. Percepì Jessica
immobilizzarsi e fissarla sconcertata.
«Come
no?» le domandò allibita, continuando a mantenere
la forchetta a mezz'aria.
«No.»
ripetè come fosse ovvio Monique, con una scrollata di spalle.
«Dico,
sei impazzita, per caso? Devi farla un'ecografia, diamine! È
importante!» esclamò la rossa quasi scandalizzata.
Monique si incupì ulteriormente, rifiutandosi di sollevare lo
sguardo su Jessica.
Fare
un'ecografia sarebbe stato come ammettere definitivamente che era
incinta e per un qualche strano motivo di codardia voleva continuare
a vivere con la consapevolezza non dimostrata. Voleva forse
racchiudersi nella menzogna, fino a che quei mesi non fossero
effettivamente trascorsi. Fino a quel momento, probabilmente, non
avrebbe mai accettato la sua gravidanza.
«So
bene che è importante ma io non voglio farlo. O almeno non
ora. Cerca di capirmi, Jess... Non è facile per me.»
sussurrò, sollevando finalmente lo sguardo sulla sua amica che
ora la guardava con severità.
«Io
ti capisco eccome, Monique, ma ora penso proprio che tu stia
esagerando e che ti stia comportando da bambina immatura.»
rispose fermamente. Una scossa di indignazione attraversò
Monique che lentamente percepiva la rabbia crescere.
«Credi
che io stia esagerando?! Io sarei la bambina immatura?! Se non te ne
sei accorta, Jessica, io sto lottando con un problema molto più
grande di me, che mi ha sconvolto la vita! Ancora devo finire io
di crescere e devo preoccuparmi che lo faccia anche questa creatura
assieme a me! Ho tutto sulle mie spalle perchè i miei genitori
non devono assolutamente sapere nulla... Ed io starei esagerando?!
Vorrei che solo per un minuto, un fottutissimo minuto, tu potessi
entrare nella mia testa e sentire quello che sto provando. Che razza
di paura bastarda mi attanaglia lo stomaco, giorno e notte! Ma tu non
puoi capire perchè non ci stai passando; ovvio che ti sembra
tutto più facile! Tu pensi che io debba comportarmi come una
normalissima donna incinta?! No, Jessica, mi dispiace ma proprio non
posso!»
Aveva
urlato per tutto il tempo. Le aveva sputato in faccia tutto quello
che pensava, tutto quello di cui aveva mostruosamente paura, tutto
quello che sentiva nel cuore. Aveva sfogato con lei gran parte del
suo dolore, ma non sarebbe bastato. Jessica, per tutto il tempo, era
rimasta in silenzio, ad osservarla con lieve stupore. Non si sarebbe
mai aspettata una reazione del genere, almeno non in quel momento.
Forse aveva sbagliato a scegliere quelle parole da dirle, ma non
poteva fare a meno di pensare il significato che racchiudevano.
La
rossa abbassò lo sguardo sul suo piatto, prendendosi una breve
pausa, per poi parlare di nuovo senza guardarla.
«Scusa...
Forse ho usato le parole sbagliate, me ne rendo conto. Ma tutto ciò
che ti dico, se te lo dico è perchè tengo a te ed
automaticamente tengo al bambino. Non fare quella faccia... Che ti
piaccia o no, ormai questo bambino c'è e tu non puoi farci
nulla. Non ti dico che devi saltare dalla gioia, perchè una
gravidanza a quest'età non la auguro a nessuno. Ma per lo meno
accettalo, Monique. È sangue del tuo sangue... E' un essere
innocente che quando verrà al mondo desidererà di
essere amato dalla sua mamma. Non è colpa sua se si trova nel
tuo grembo, Monique. Come fai a non amarlo?» cercò di
spiegarle con molta calma e con tutta la dolcezza di cui riusciva ad
armarsi. Monique prese una pausa, per poi sospirare appena.
«Semplicemente
perchè è di Christian... Ed io non sono pronta a
diventare madre.» sussurrò freddamente, per poi alzarsi
dalla sedia – con la carne ancora nel piatto – ed uscendo dalla
cucina senza aggiungere altro.
Salì
silenziosamente le scale fino a rintanarsi in camera sua, unico
rifugio sicuro in grado di farla sentire protetta da qualsiasi
pericolo esterno. Adagiò il suo corpo sulle coperte ancora
sfatte e strinse a sé il cuscino, con tutta la forza che
possedeva in corpo. Non appena i suoi occhi si chiusero, rilasciarono
sulla federa calde e salate lacrime, che ormai – da tante notti –
erano state protagoniste del suo malumore.
Quando
la porta della sua stanza si riaprì, non si sorprese. Nemmeno
dopo, quando Jessica si sdraiò affianco a lei, stringendola
fortemente a sé. Per questo motivo non si dimenò nella
sua presa; piuttosto la assecondò e la rafforzò.
Sentì
la mano della sua migliore amica carezzarle lievemente la testa,
mentre sosteneva il suo pianto silenzioso, e ciò la aiutò
a ritrovare la calma, trascinandola lentamente in un sonno profondo.
**
Fosse
stata una nuova collaboratrice, del tutto priva di esperienza, al suo
primo giorno di lavoro, si sarebbe sicuramente scandalizzata nel
constatare la grande quantità di lettere indirizzate a Tom
Kaulitz, da parte di ragazze perennemente arrapate che avevano avuto
il privilegio di passare una notte selvaggia con il
chitarrista. Stando al giudizio di queste ultime, il ragazzo doveva
essere una bomba del sesso estremo e passionale; ma stando allo
scetticismo di Monique su tale argomento, doveva essere un normale
ragazzo che aveva rapporti, non così fuori dal comune.
Il
suo viso si contrasse in una smorfia e passò ad una lettera
indirizzata a Bill, senza dubbio più casta e normale.
Proprio
in quel momento il suo cellulare prese a squillare: sua madre. Già,
erano giorni che non si sentivano... Per la precisione, da prima che
lei scoprisse di essere incinta. L'unica cosa da fare era ignorarla
spudoratamente, anche se la cosa le provocava una fastidiosissima
fitta di dolore al petto. Era affezionata a sua madre, sin da quando
era piccola, ed il non sentirla – o peggio, l'ignorarla – la
faceva stare ancora più male. Non poteva rivelarle di essere
incinta; non ancora.
Presto
il cellulare smise di vibrare e lei poté sospirare rincuorata,
tornando ad occuparsi del suo lavoro.
Distrattamente
prese a pensare ai giorni a venire. L'indomani mattina sarebbe dovuta
partire assieme alla band e a David. Avrebbe dovuto alloggiare in un
albergo assieme a loro e questo la buttava ancora più giù.
Si sarebbero accorti del suo malumore? Si sarebbero accorti che non
si sentiva bene? Le avrebbero fatto domande?
«Hey,
Monique, vieni. C'è tua madre al telefono, dice che non le
rispondi.» le sorrise David, dopo essersi affacciato con la
testa nella stanza.
Monique
non sapeva se apprezzare quel riguardo da parte di David o meno. In
certi momenti avrebbe tanto desiderato trucidarlo con un solo
sguardo, come in quel momento... Ma d'altronde lui non poteva sapere
che aveva ignorato appositamente quelle chiamate.
Non
potendo più negare l'evidenza, si alzò dalla poltrona e
lo seguì. Recuperò la cornetta del telefono fisso dello
studio di registrazione, in mezzo al salotto che dava sul vetro della
stanza dove si trovavano tutti gli strumenti dei ragazzi, e rispose
non troppo convinta.
«Ciao,
tesoro! Come stai? È da un po' che non ti fai sentire!»
Sua
madre, Ester. La donna più solare e dolce che avesse mai avuto
la possibilità di conoscere. Il bene che si volevano a vicenda
era sconfinato e, proprio per lavoro, Monique era stata costretta a
lasciarla sola con suo papà Alfred, per trasferirsi a Berlino,
dalla lontana Amburgo.
«Ciao,
mamma.» sorrise appena, mentre un incredibile senso di
nostalgia prese a diradarsi dentro di lei. «Io sto bene... Tu?»
«Anche
io. L'unica cosa è che mi manchi. Sono tre mesi che non ti fai
vedere. Quando mi vieni a trovare?»
«Non
so, mamma. La situazione qui è un po' complicata. Lo sai che
devo lavorare, ho bisogno di soldi. Non posso permettermi troppe
vacanze.»
«C'è
Lilli che ti cerca, ogni tanto.»
Sorrise
intenerita al pensiero del suo cane – un piccolo Cocker Spaniel,
bianco e nero – che vagava per casa, alla ricerca della sua
padrona. Aveva preso in considerazione di portarla con sé, ma
sua madre ormai si era affezionata a quella piccola palla di pelo e
comunque non avrebbe avuto abbastanza soldi per procurarle da
mangiare: a malapena riusciva a mantenere se stessa.
«Falle
una carezza da parte mia e dille che quando arrivo le porto un osso
nuovo di zecca. Papà come sta?» chiese Monique,
giocherellando con il filo della cornetta.
«Un
po' di acciacchi ogni tanto. Ma è sempre giovane e bello.»
Era incredibile come quei due fossero ancora uniti da un amore tanto
forte. «Tesoro, tu sei sicura di stare bene?»
«Sì...
Perchè?»
«Non
so... Hai una voce strana; ti sento un po' mogia.»
«No,
mamma, tranquilla. È solo la stanchezza, sto lavorando tanto
in questo periodo. Domani sarò anche in Francia per
un'intervista.»
«Oh,
tesoro, che bello! Starò davanti al televisore tutto il
giorno!»
«Mamma,
l'intervista dura un'ora.»
«Non
fa nulla!»
«Come
vuoi. Adesso ti saluto. Appena posso vi vengo a trovare, promesso.»
«D'accordo.
Ti voglio bene.»
«Anch'io,
mamma.»
Riattaccò
e prese un bel respiro, chiudendo gli occhi. Sarebbe dovuta uscire da
quel pasticcio, prima o poi. Non poteva continuare a vivere nelle
menzogne.
Quando
rialzò lo sguardo, sussultò, ritrovandosi di fronte il
chitarrista, intento a scrutarla con la solita espressione severa.
«Tutti
i minuti che perdi verranno scalati dalla tua paga, ti conviene fare
attenzione.» disse freddamente, per poi passarle affianco,
sfiorandola appena con una spalla. Monique si portò
distrattamente la mano sul punto che le aveva toccato e si voltò
a guardarlo con l'ira negli occhi. Dandole le spalle, si accingeva a
camminare con una mano in tasca e l'altra che teneva una bottiglietta
d'acqua, fino a chiudersi nella stanza assieme agli altri per
riprendere a suonare.
Monique
reprimette un grugnito di disapprovazione: Tom era uscito
momentaneamente per prendere quella dannata bottiglietta d'acqua
dalla macchinetta di fronte a lei, ma era sicura che avesse solamente
usato quella scusa per darle ancora il tormento.
Con
lei non tirava fuori stupide frecciatine, quasi scherzose... No. Con
lei era sempre terribilmente glaciale.
Non
sapeva cosa spingesse il ragazzo a comportarsi ad una maniera tanto
cattiva e spudorata nei suoi confronti. Non gli aveva mai risposto
male, non gli aveva mai dato motivo di prenderla in antipatia.
Una
cosa però era certa: non lo sopportava.
**
Sbatté
il cambio di vestiti che aveva preparato per il viaggio in Francia
nel piccolo borsone che poggiava sul suo letto e sbuffò
sonoramente.
Non
riusciva a mandare giù il comportamento di Tom nei suoi
confronti.
Lavorava,
si faceva il culo per guadagnare quei maledetti soldi che portava a
casa per mantenersi; obbediva continuamente alle richieste di
chiunque si trovasse lì dentro, anche se non era propriamente
tenuta a farlo, ed in cambio riceveva un trattamento del genere.
Proprio non riusciva a comprendere il meccanismo che animava
quell'ambigua situazione.
Tutti
erano gentili con lei. Tutti tranne lui.
La
osservava in tutte le sue movenze quasi con odio, come se in una vita
precedente o in un qualsiasi momento in cui la sua mente non era
lucida, gli avesse fatto qualcosa di male.
Com'è
che non riusciva a ricordare un episodio simile? Poteva per lo meno
degnarla di una spiegazione plausibile? Non poteva accettare di
essere trattata a quella maniera, senza nemmeno un chiarimento sul
perchè. Ma presto quel chiarimento glielo avrebbe domandato;
non poteva continuare a beccarsi le pseudo-minacce di Tom,
costringendosi a fare finta di nulla. Anche lei aveva una dignità,
proprio come quella del chitarrista, ed anche lei esigeva rispetto
come lei stessa lo dava agli altri.
Chiuse
quasi con schizofrenia la cerniera e poi buttò il borsone ai
piedi del letto, con poca grazia. Sbatté le mani sul materasso
e si sdraiò pesantemente su di esso.
Poco
dopo si accorse di non aver agito a meraviglia, dato che si ritrovava
inchinata sul water a rimettere anche l'anima. Strinse gli occhi,
mentre le lacrime – le ennesime – colavano lungo le sue guance.
Non
ce la faceva più. Se pensava che era già arrivata al
capolinea della sua pazienza ed era solo all'inizio di tutto quello,
le veniva voglia di buttarsi nel vuoto, dal suo terrazzo.
Si
rialzò, dopo aver tirato l'acqua, ed andò a lavarsi i
denti al lavandino. I suoi occhi erano perennemente fissi nei suoi,
attraverso lo specchio, cercando di scovarvi all'interno una
spiegazione a ciò che le era successo.
Spesso
si fermava a riflettere sulla sua vita, chiedendosi se si fosse
comportata male in determinate occasioni. Quella gravidanza
inaspettata e non voluta era solamente la punizione per un qualcosa
di sbagliato che aveva commesso? Avrebbe tanto voluto saperlo, visto
che la testa le stava andando in fiamme.
Uscì
dal bagno, spegnendo la luce e tornò in camera, dove il suo
letto – spettatore di tanti incubi – la attendeva. Tirò le
coperte, fino a scomparire al di sotto di esse; una lunga notte
insonne la attendeva.
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Capitolo 4 *** Three. Enigmatic ***
enigmatic
Chapter
Three.
-
Enigmatic -
Mai
avrebbe detto, nella sua ancora breve vita, che un domani avrebbe
avuto l'impensabile opportunità di viaggiare su un aereo
privato. Dal momento in cui si era seduta su uno di quei piccoli
sedili in pelle color panna, aveva cominciato a prendere in
considerazione che potesse non trattarsi della realtà. Il solo
fatto che non se lo sarebbe mai potuto permettere, se non fosse stato
per i Tokio Hotel, l'aveva letteralmente mandata nel pallone.
Al
suo fianco, David sfogliava distrattamente un quotidiano,
informandosi su tutto ciò che stava accadendo nella sua amata
Germania; dietro di loro, Georg e Gustav dormivano beatamente l'uno
sulla spalla dell'altro, senza preoccuparsi di smettere di russare, o
per lo meno chiudere le loro bocche, elegantemente spalancate.
Dai sedili anteriori a sé, invece, vedeva sbucare appena la
testa di Bill ed il cappuccio di Tom, seduto affianco a lui.
Quest'ultimo continuava a recitare la parte dell'asociale, mentre le
cuffie che teneva fisse nelle sue orecchie, da un tempo
interminabile, producevano della musica dal gusto piuttosto
discutibile – forse rap. Con gli occhiali da sole calati sul naso,
teneva il viso in direzione del piccolo corridoio, alla sua sinistra:
aveva coraggiosamente ceduto il posto accanto all'oblò
a Bill, vista la sua paura del vuoto. Il vocalist, dal suo canto,
stava distrattamente giocherellando con una ciocca di capelli nera
tra le dita, mentre masticava rumorosamente una cicca e dedicava la
sua mente a chissà quale articolato pensiero.
Monique
era al corrente di quanto in quel periodo i ragazzi non si stessero
concedendo un attimo di tregua nella lavorazione del nuovo album.
Stavano dedicando tutte le loro forze solamente a quello e si chiese
per un momento come potessero tenere, nel frattempo, anche interviste
o servizi fotografici in giro per l'Europa: probabilmente una vita
del genere l'avrebbe presto ammazzata.
«Monique?»
la voce dolce di Bill la risvegliò dai suoi profondi pensieri,
portandola a planare il suo sguardo sul viso del vocalist,
teneramente insinuato tra il suo sedile e quello di suo fratello, per
sorriderle con affetto. «Vieni a fare una partita a carte qui
con me? Mio fratello sta facendo l'orso.» le propose con una
vaga speranza negli occhi. Monique non poté reprimere
anch'ella un sorriso e si alzò dal suo sedile per
accontentarlo. David ritirò a sé le gambe per
permetterle di passare e questa, dopo aver fatto il giro affianco al
chitarrista, si andò a sedere di fronte a Bill.
Per
caso i suoi occhi avevano cercato Tom, il quale continuava a non dare
segni di vita, dietro quegli scuri occhiali da sole. A braccia
conserte, si era stretto nella sua felpa oversize nera, con le gambe
larghe, ostinandosi a tenere le cuffie incollate alle sue orecchie;
la sua testa era pesantemente poggiata al sedile e Monique non riuscì
ad intuire se avesse gli occhi aperti o meno.
Talmente
era assorta, che non si accorse del fatto che Bill aveva già
posizionato le carte sul tavolino a scomparsa, in mezzo a loro. Si
affrettò a recuperare le sue e cercò di concentrarsi
sul gioco, ignorando gli improvvisi – seppur leggeri – conati di
vomito che si erano premurati di tornare a farle visita.
Finchè
la pancia non accennava a crescere – e fortunatamente avrebbe
impiegato un bel po' di tempo per farlo – il problema non si
poneva; o per lo meno, non del tutto. Fortunatamente avrebbe potuto
bearsi di quel tempo determinante per spaccarsi la testa e trovare
una soluzione che l'avrebbe aiutata a non perdere il lavoro. Quella
gravidanza aveva portato con sé l'urgenza maggiore del
guadagno sicuro e non avrebbe potuto ricominciare da zero per farsi
assumere da qualcun altro – magari in un'occupazione che non
sarebbe neanche stata mai all'altezza di quella attuale.
«Hey,
Monique, tocca a te.» la richiamò Bill. La ragazza si
destò nuovamente dalle sue preoccupazioni e buttò una
carta a caso sul tavolino, concedendo un notevole punto al vocalist.
«Sei distratta? Mi hai praticamente regalato il punto.»
commentò nuovamente sorpreso, mentre riprendeva a distribuire
le carte. Monique scosse velocemente la testa, incitandolo con la
mano a continuare.
Ma
ecco che improvvisamente necessitò di andare in bagno...
Ultimamente le succedeva spesso.
«Ehm,
Bill, vado un attimo in bagno. Arrivo subito.» annunciò
la ragazza, del tutto impacciata e temendo che la sua vescica
scoppiasse da un momento all'altro.
«E
ti fidi a lasciarmi le tue carte?» domandò il vocalist
perplesso, con il mazzo a mezz'aria.
«Conto
sulla tua onestà.» sorrise frettolosamente Monique, per
poi correre a chiudersi nel bagnetto. Non riusciva ben a comprendere
come potesse essere così fastidiosa una gravidanza. Stando al
parere di quasi tutte le mamme del mondo, aspettare un bambino doveva
essere una cosa meravigliosa, un così detto “dono della
natura”, che portava pace e serenità.
Da
chi era partita una cazzata simile?
Tirò
l'acqua ed uscì dalla cabina per poter lavarsi le mani al
lavello. Inchiodò sui propri piedi quando vide che
quest'ultimo era già stato occupato dal chitarrista, in cui vi
si stava tranquillamente lavando le mani grandi e venose. Gli
occhiali da sole coprivano ancora i suoi occhi, così come la
sua felpa oversize fasciava il suo corpo snello ma abbastanza
muscoloso.
Restò
ferma ad osservarlo tramite lo specchio di fronte a loro, fino a che
non vide Tom sollevare il capo.
«Che
hai da fissare a quella maniera?» domandò freddamente,
per poi spegnere l'acqua ed asciugarsi le mani affianco. Monique
deglutì il mare di insulti che avrebbe voluto urlargli contro
e riaprì il rubinetto per potersi lavare le mani anche lei.
«Attendevo
semplicemente il mio turno.» rispose senza guardarlo e
concentrandosi esclusivamente sulle sue mani, intente a sfregarsi fra
loro, sotto il getto d'acqua fresca. Il moro le diede le spalle per
avviarsi verso la porta del bagno, ma prima che questa venisse
aperta, Monique decise di richiamare la sua attenzione. «Si può
sapere qual'è il tuo problema con me?» Vide il ragazzo
fermarsi, ma senza voltarsi nella sua direzione. A dire il vero non
era neanche così convinta che la stesse ascoltando. «Mi
ignori in continuazione oppure mi parli con freddezza, come se ti
avessi fatto qualcosa. Vorrei sapere il motivo, se non è
troppo.» spiegò, piuttosto scettica ed incrociando le
braccia al petto per attendere una minima spiegazione da parte del
chitarrista, se quest'ultimo si fosse degnato di accontentarla. Ma
sapeva che non poteva essere così semplice vincere con lui.
«Non
siamo così in confidenza, Schmitz.» si limitò a
risponderle il ragazzo, sempre di spalle, prima di aprire la porta ed
uscire definitivamente da quel bagnetto.
Monique
rimase immobile dov'era, continuando a contemplare il vuoto che la
figura alta ed imponente del chitarrista aveva lasciato. Che razza di
risposta era “Non siamo così in confidenza”?
Per
quanto si sforzasse di capire quel ragazzo, proprio non riusciva ad
arrivare ad una deduzione logica. Per lei era un enigma, un rebus...
Uno di quei tanti che sin da piccola aveva sempre odiato risolvere
perchè le costava troppo tempo prezioso che avrebbe invece
potuto spendere in altri modi, decisamente più costruttivi.
Con
Tom era tutto un mistero e lei non era decisamente portata per la
risoluzione di misteri.
**
La
mancanza di un po' di sano ossigeno nei suoi polmoni, la portò
a domandarsi cosa diavolo l'avesse spinta ad optare per le scale
anziché l'ascensore. Inspirava ed espirava pesantemente,
scortando con sé il borsone che – nonostante le ridotte
dimensioni – sembrò essere lavorato col piombo.
La
sua era una continua sfida con se stessa. Voleva dimostrarsi che
avrebbe potuto fare le stesse cose di prima, quando ancora non era
incinta; che non sarebbe stato di certo un bambino a fermarla, ma si
sbagliava. Aveva sempre odiato la fiacca ed ultimamente sembrava che
quest'ultima non facesse altro che perseguitarla.
Quando
arrivò a destinazione, trovò i Tokio Hotel e David –
assieme al bodyguard, Tobi – appostati in mezzo al corridoio
dell'albergo, per appropriarsi delle stanze.
«Oh,
eccoti, Monique. Pensavamo non arrivassi più.» le
sorrise il manager, porgendole poi la tessera magnetica della sua
stanza. «Sei nella trecentododici.» le riferì di
nuovo. La ragazza si limitò ad annuire, mentre il cuore
tornava lentamente a battere con regolarità nel suo petto.
«Ora andate in stanza a rilassarvi un po'. Tra un'ora ci
troviamo qui.» detto questo, David si ritirò nella sua.
**
«Monique,
dobbiamo andare.» sentì la voce di Gustav piuttosto
lontana, da dietro la porta della sua stanza. Troppo occupata a
rimettere, non aveva nemmeno prestato attenzione all'orologio.
Gemette dopo un ultimo conato e provò a farsi udire dal
batterista il più naturalmente possibile.
«Arrivo!»
più che un normale avviso, pareva una supplica strozzata e
questo non passò inosservato al biondino che aggrottò
le sopracciglia confuso.
«Hey,
stai bene?» domandò cauto.
«Benissimo!
Adesso arrivo!» esclamò nuovamente Monique,
invogliandolo ad allontanarsi dalla porta... Cosa che però non
fece.
«Schmitz,
i tuoi comodi li fai un'altra volta! Abbiamo un'intervista, se non ti
dispiace!» la voce furente di Tom le perforò le orecchie
con violenza e la portò ad alzarsi, come non avesse avuto il
controllo del suo corpo. Sentiva la testa girare, le tempie pulsare e
la nausea non accennare a svanire, ma nonostante tutto fece quello
che il chitarrista le aveva implicitamente ordinato. Quello era il
potere del ragazzo: riuscire a convincerla in qualsiasi situazione.
Monique era solita abbassare il capo davanti a lui, semplicemente
perchè aveva paura. Eppure non avrebbe dovuto: quel ragazzo
aveva la sua stessa età e ciò la mandava in bestia.
Tirò
l'acqua e si andò a sciacquare la bocca: fortunatamente si era
già preparata precedentemente per l'intervista. Prese un bel
respiro ed uscì dalla stanza a sguardo basso. Vide davanti a
sé solamente due paia di piedi, appartenenti al batterista ed
al chitarrista. Non aveva il coraggio di alzare gli occhi su quelle
due figure, temendo che avrebbero capito il suo segreto più
intimo. Lo specchio era stato chiaro con lei, qualche secondo prima:
il suo viso era molto pallido, lambito da delle macchiette violacee
sotto gli occhi, che non sarebbero di certo passate inosservate.
«Che
brutta cera che hai... Sei sicura di riuscire a venire?» le
domandò Georg preoccupato, non appena si era avvicinato
assieme a Bill.
«Cosa
significa? Lei deve venire lo stesso, non può dare forfait
all'ultimo minuto!» intervenne Tom, piuttosto irato.
«Non
vi preoccupate, sto bene.» mentì la ragazza, sforzando
un sorriso e, non appena il manager della band arrivò, si
accinsero tutti quanti ad entrare in ascensore.
L'improvviso
calore, accompagnato a timore, spinse Monique ad alzare appena lo
sguardo permettendole di notare che il chitarrista si trovava ad una
distanza decisamente troppo ravvicinata. Quest'ultimo pareva invece
scocciato per quello stesso futile motivo, così Monique provò
ad allontanarsi appena, per quanto possibile, andando ad urtare la
schiena di Bill con la propria. Mormorò uno “Scusa”
imbarazzato ed abbassò nuovamente lo sguardo. Se prima non
voleva farsi notare dal chitarrista in tutta la sua fragilità
e stupidità, ora poteva tranquillamente mandarsi a benedire da
sola.
**
Non
poté fare a meno di notare che quel giorno l'intervistatrice
rientrava a far parte della ricca categoria da lei definita “Troppo
galline per comprendere che provarci con un ventenne è di gran
lunga umiliante per una quarantenne”. Non riusciva a capire come
potesse una donna matura e con un lavoro determinante e di una certa
importanza tra le mani comportarsi a quella maniera così
spudorata, senza provare un minimo di vergogna.
L'intervista
era cominciata ormai da mezz'ora e Monique non aveva fatto altro che
adocchiare ammiccamenti di pessimo gusto e frasi intrise di doppi
sensi da parte di quella donna francese. Aveva anche cercato con lo
sguardo quello dei ragazzi, ma questi sembravano immuni da tali
provocazioni, come fossero ormai abituati.
Si
accinse a tradurre l'ennesima domanda che quella donna aveva posto
alla band e successivamente la risposta di quest'ultima.
Trovava
il tutto piuttosto noioso: non era la prima volta che assisteva ad
un'intervista e, in tutto quel tempo, aveva ricevuto conferme su
conferme del fatto che le domande fossero sempre le stesse, tra cui
la più odiosa e scontata: “Perchè il nome Tokio
Hotel?”. Ormai avrebbe potuto tranquillamente dare tutte le
risposte, al posto dei ragazzi, ed inoltre era sicura che le fans
avessero voglia di qualcosa di nuovo, per il semplice fatto che già
sapevano vita, morte e miracoli dei loro quattro beniamini tedeschi e
non avevano bisogno di sentirne ancora.
Dopo
qualche domanda qua e là riguardo la realizzazione quasi
portata a termine del nuovo album, che presto avrebbe sfondato in
tutto il mondo, l'intervistatrice si decise a salutare i ragazzi con
una calorosa stretta di mano e dei baci sulle guance di questi,
facendo attenzione a mettere bene in risalto il decoltè non
propriamente giovane ed interessante da vedere, come quello di una
volta. Degnò di un saluto caratterizzato da una buona dose di
enfasi in meno anche Monique e successivamente sparì dalla
loro vista. David richiamò tutti quanti all'attenzione ed
invitò i ragazzi a recarsi nella stanza affianco, quella dove
si sarebbe tenuto il servizio fotografico, mentre Monique si rifugiò
nel corridoio per soddisfare le proprie papille gustative con un po'
di the freddo alla pesca, comprato al baretto affianco.
Si
era ritrovata a percorrere quello stesso corridoio per minuti e
minuti, tenendo saldamente in mano la lattina gelida e gocciolante e
riflettendo su un qualcosa di concreto che potesse fare. Nel mentre,
si era appostata all'entrata della stanza dove si trovavano i Tokio
Hotel, illuminati dai continui scatti della macchina fotografica. Si
era appoggiata allo stipite della porta con la spalla, continuando a
sorseggiare di tanto in tanto il liquido freddo che colava lungo la
sua gola, facendola piacevolmente rabbrividire. Osservò ogni
singola movenza dei ragazzi e del fotografo, mentre accanto a lei
David parlava distrattamente con Saki, senza prestare loro troppa
attenzione. Probabilmente l'abitudine portava a provare quasi
indifferenza per determinate cose.
Scrutò
ogni componente della band, uno ad uno, cercando di scovare le
differenze che li caratterizzavano, i particolari che forse in altri
momenti non si era soffermata a notare... Tutto per semplice noia.
Sussultò
appena, quando il chitarrista pensò bene di sorprenderla con
un'occhiata nella sua direzione e cogliendola in flagrante. Si maledì
mentalmente per aver guardato proprio lui in quell'esatta frazione di
secondo, permettendogli così – forse – di montarsi un poco
la testa, per quanto gli potesse interessare: quel particolare
soggetto era molto incline all'egocentrismo e degnarlo di tutta
quell'attenzione non gli faceva certo bene.
Si
voltò piuttosto seccata e riprese la sua interminabile
camminata lungo quel corridoio, del quale ormai aveva memorizzato
ogni singola crepa e sfumatura.
**
Il
tavolo era molto ampio e di forma circolare, ed ospitava sopra ad
esso ogni tipo di cibo squisito con il quale, in un altro momento,
Monique si sarebbe sicuramente riempita la pancia. La sala da pranzo
dell'albergo era stata liberata appositamente per la band, al riparo
da sguardi indiscreti. Monique era sicura di poter udire ancora le
urla delle fan pazientemente appostate da ore all'entrata
dell'albergo, senza però trarre alcun successo. Più ci
pensava, più sentiva la pena per loro crescere, dovendo così
reprimere la tentazione di farle entrare, solamente per non farle
stare al freddo sino all'indomani mattina, quando assieme ai ragazzi
sarebbe ripartita. Si limitò quindi a prestare attenzione alle
parole di Bill, ignorando quelle urla disperate.
«...
E poi continuava con quegli ammiccamenti; mi si sono rizzati i peli
solo a guardarla.» aveva appena finito di commentare schifato,
riguardo l'intervistatrice, e solo allora Monique si illuminò.
«Ah,
ma allora ve ne siete accorti!» esclamò, come
catapultata di nuovo nella realtà, con la carne a mezz'aria.
«Certo
che ce ne siamo accorti, come non potevamo?» ridacchiò
Georg, masticando voracemente.
«Beh,
vi guardavo e non facevate una piega...» si giustificò
Monique, per poi bere un sorso d'acqua.
«Era
abbastanza ovvio. Ma tu non fai parte di questo mondo e non puoi
capire, quindi non te lo sto neanche a spiegare.»
Monique
aveva irrigidito tutti i muscoli; la mascella era serrata e le vene
perfettamente visibili. Quell'intervento improvviso del chitarrista
l'aveva decisamente spiazzata ed aveva suscitato in lei un pericoloso
istinto omicida che ben presto avrebbe esternato, se in futuro quel
ragazzo non le si fosse rivolto con il dovuto garbo. Quest'ultimo
aveva parlato tenendo gli occhi bassi, sul piatto, con espressione
apparentemente indifferente e continuando a mangiare come nulla
fosse.
Monique
strinse la forchetta in mano, fino a tingere le sue nocche di un
colore biancastro – segno che si stava facendo male. Quasi sentì
le proprie unghie conficcarsi nel palmo della sua mano, quando Bill
decise di rompere quell'improvviso silenzio.
«Che
ne dite se dopo mangiato ce ne andiamo a fumare nel giardino sul
retro? Lì le fans non ci possono vedere.» domandò
con leggero imbarazzo, guardando suo fratello di sottecchi.
Monique
corrugò la fronte: che il vocalist sapesse qualcosa riguardo
il comportamento del chitarrista, che anche lei si sforzava di
capire?
Tom
scrollò le spalle, annuendo distrattamente e continuando a
mangiare la sua insalata.
«Io
me ne andrò a dormire presto, ragazzi. Non fate troppo tardi
anche voi, sennò domani mattina devo venire a buttarvi giù
dal letto di forza.» intervenne David, sorseggiando un ultimo
goccio d'acqua rimasto nel bicchiere.
«Tu
vieni, Monique?» domandò Georg con un sorriso sincero
sul volto. La ragazza annuì lievemente, ancora pensierosa.
Non
riusciva proprio a venire a capo in quella situazione. In più
sembrava proprio che Bill fosse al corrente di un qualcosa che
neanche lei sapeva, ed ora aveva dannatamente voglia di capire,
nonostante ciò non andasse ad intaccare troppo la sua vita
come l'esserino che da qualche settimana ospitava dentro di sé.
Si
toccò il ventre ancora perfettamente piatto, sotto al tavolo,
posandovi una lieve carezza, senza farsi notare dai ragazzi. Quando
sollevò lo sguardo, si accorse che Tom la stava guardando.
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Capitolo 5 *** Four. Metter of knowledge ***
metter of kowledge
Chapter
Four.
-
Metter of knowledge -
Il
muro reso freddo dalla leggera brezza serale francese, a contatto con
la sua schiena, le provocò una piacevole scarica di brividi
lungo la colonna vertebrale. Il cielo scuro, sopra di lei, ospitava
una gran quantità di stelle, rese perfettamente visibili,
grazie all'assenza di ogni nuvola. I suoi piedi, fasciati da scarpe
da ginnastica, erano a contatto con l'erba altrettanto fresca del
giardino, sul retro dell'albergo. Disegnava cerchi invisibili su di
esso con un piede, mentre i suoi occhi vagavano distrattamente verso
l'alto, alla ricerca di un qualcosa che andasse oltre quel blu
infinito.
I
ragazzi erano a qualche passo da lei, intenti a chiacchierare mentre
soddisfacevano i loro sensi con una sigaretta. Gustav era l'unico che
aveva optato per dei polmoni in salute, mantenendo quindi le sue
grosse mani nelle tasche dei suoi pantaloncini e rimanendo in
silenzio, come era solito fare il più delle volte. Bill teneva
tra le dita una sigaretta, con eleganza, poggiato con il bacino ad un
muretto alle sue spalle e parlava con suo fratello, il quale
anch'egli aspirava un po' di fumo, di tanto in tanto, dalla sua
sigaretta, con una mano nella tasca dei suoi jeans oversize. Georg
prestava semplicemente attenzione ai movimenti di Gustav, pensando a
chissà cosa, mentre sedeva sul muretto, a qualche centimetro
di distanza da Bill.
Monique
non poteva fare a meno di osservare quella situazione di fronte a lei
e studiare i quattro ragazzi attentamente. La sua attenzione veniva
catturata spesso dalla figura alta ed imponente del chitarrista,
portandola a vagare con la mente vero l'accaduto di qualche minuto
prima, quando ancora sedevano al tavolo della sala da pranzo. I suoi
comportamenti, ma soprattutto quelli di suo fratello Bill, le erano
parsi a dir poco sospetti e non riusciva a non darvi un certo peso.
Voleva capire se il vocalist fosse effettivamente al corrente di
qualcosa a lei sconosciuto... Quello sguardo enigmatico che si era
scambiato con Tom era stato del tutto strano.
«Hey,
che fai qui da sola?» la voce di Gustav la riportò alla
realtà, facendole voltare appena il capo alla sua sinistra.
Non si era nemmeno accorta dell'avvicinamento del batterista, mentre
era troppa assorta nei suoi pensieri. Sorrise appena, abbassando lo
sguardo per qualche secondo.
«Nulla,
contemplo il vuoto.» rispose gentilmente, stringendosi nelle
spalle.
«Mmm...
Scoperto qualcosa di interessante?» le domandò
scherzoso.
«A
dire il vero sì. Nel vuoto puoi vedere molte più cose
di quanto tu possa credere, fidati.» sorrise la ragazza,
tornando a poggiare la testa all'indietro, sul muro roccioso.
«Perchè
non vieni lì con noi?» le propose successivamente il
ragazzo, piegando leggermente il capo per guardarla in volto con
espressione estremamente dolce sul volto.
«Perchè
qualcuno non gradirebbe la mia presenza.» commentò
con leggerissimo sarcasmo Monique, curvando appena le labbra
all'insù.
«Tom
è un tipo complicato, ma non è cattivo.» Monique
sollevò le sopracciglia con espressione scettica. Non sapeva
il motivo, ma non riusciva a credere fermamente a ciò che il
batterista aveva appena detto. «Fa il buzzurro, l'antipatico e
l'egoista, ma in realtà ha un cuore grande.» continuò
ed a quel punto Monique non seppe trattenere una lieve risata. Le
rimaneva piuttosto difficile concordare sul fatto che egli avesse un
così detto cuore grande. «E' la verità.» le
sorrise il biondino. «Può sembrar strano, ma è
solo questione di conoscenza.» aggiunse.
«Sarà,
ma è lui che non vuole farsi conoscere da me.» scrollò
le spalle la ragazza, dando una veloce occhiata al chitarrista, alle
prese in una conversazione con gli altri due.
«Tu
hai mai provato a farti conoscere da lui?» le domandò
dolcemente. Monique sollevò lo sguardo su di lui, specchiando
i suoi occhi castani in quelli del ragazzo. A tale domanda non seppe
dare risposta; forse perchè effettivamente non aveva mai
provato ad intraprendere un discorso con il chitarrista. Aveva sempre
e solo taciuto di fronte alle sue provocazioni; gli aveva solamente
fatto notare la sua sgarbatezza nei suoi riguardi una volta, ma –
pensandoci – non aveva mai provato a parlare d'altro con lui.
D'altronde come avrebbe mai potuto farlo, visto il suo ripudio per
lei? «Dai, vieni.» le intimò Gustav, invitandola
ad avvicinarsi agli altri. Obbedì a quella richiesta e lo
seguì fino a raggiungere il muretto in marmo bianco.
L'improvviso
irrigidirsi ed il cambio di espressione di Tom non le passarono di
certo inosservati, ma si ostinò a fare finta di nulla,
mantenendo un semplice sorriso sul suo volto.
«Hey,
Monique, vuoi una sigaretta?» le domandò Bill con
estrema ilarità, porgendole il pacchetto.
«No,
grazie, Bill, non fumo.» declinò gentilmente l'invito ed
il vocalist lo infilò nuovamente in tasca. Anche l'avesse
fatto, non avrebbe potuto.
«Domani
si torna alla realtà di tutti i giorni... Cominciavano a
piacermi questo albergo e Parigi.» esortò Georg,
portandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi,
perfettamente piastrata.
«Taci,
io rivoglio il mio letto. Prima mi sono seduto su quello della mia
stanza... E' duro come il marmo.» si lamentò Bill,
sbuffando una boccata di fumo precedentemente inspirata.
«Tu
ti lamenti sempre, Bill.» commentò Gustav, sorridendo
appena.
«No,
mi lamento quando è giusto farlo.» ribattè il
moro, schiacciando la sigaretta sotto al piede.
«Oh,
coglione, non puoi lasciarla per terra. Siamo in un albergo.»
borbottò Tom, raccogliendola con la punta delle dita,
piuttosto schifato, e buttandola successivamente nel bidone della
spazzatura.
«Tu
e le tue manie ambientaliste...» commentò Bill,
sollevando gli occhi al cielo.
«Caso
mai, io e la mia educazione.» ribattè nuovamente il
chitarrista, dopo aver gettato anche la sua sigaretta. Monique
sollevò un sopracciglio, senza farsi notare. Era solo con lei,
allora, che sfoggiava il meglio di sé e della sua non
educazione?
«Monique,
non ci hai mai parlato veramente di te.» disse improvvisamente
Gustav, guardandola con un piccolo sorriso in volto. Sapeva che lo
stava facendo apposta, proprio per il loro precedente discorso.
«Già,
è vero... Perchè non ci racconti un po' di te?»
lo assecondò Georg, accomodandosi meglio su quel muretto.
Monique
aveva sempre odiato parlare di sé, che fosse in bene o in
male, non le era mai piaciuto... Ed ora aveva un'enorme motivazione
in più per non farlo. Ma come poteva dire di no agli occhi
curiosi di Georg?
«Beh,
di me non c'è molto da dire. Da quando lavoro per voi, mi sono
dovuta trasferire qui a Berlino: prima abitavo con i miei ad
Amburgo.» cominciò con un lieve impaccio e con le mani
rifugiate nelle tasche. Quando era nervosa, pregava perchè
avesse delle tasche a disposizione, o avrebbe cominciato a torturarsi
le mani ad ogni parola che pronunciava.
«Vivi
da sola, quindi?» domandò Bill, piuttosto interessato.
«Sì.»
«Ti
mancano i tuoi?»
«Molto
ma, appena posso, li vado a trovare.»
«Tra
l'altro, sei figlia unica vero? Sai, perchè io e Tom, per lo
meno, possiamo sostenerci a vicenda. Quando sentiamo troppa mancanza
dei famigliari, comunque ci diamo sostegno. Immagino che per te sia
più difficile.»
«Beh,
sì, lo è. Ma alla fine ho imparato a farci l'abitudine.
Non serve che mi pianga addosso, non li fa avvicinare.»
«E
non ce l'hai il ragazzo?»
Monique
serrò la mascella, mentre la tempia prendeva a pulsarle
velocemente.
«No.»
sibilò a denti stretti. «Ma ho una migliore amica, che
viene a stare da me molto spesso, per farmi un po' di compagnia.»
decise di cambiare subito discorso, sforzando un sorriso nel pensare
a Jessica.
«Strano
che una bella ragazza come te non abbia il fidanzato.» commentò
Bill quasi perplesso.
«Bill,
che ne dici se andiamo a dormire? David poi si incazza... E' già
l'una.» intervenne per la prima volta Tom in quel discorso. Il
vocalist buttò un occhio al suo orologio da polso e poi annuì.
«Sì,
hai ragione. Beh, Monique, avremo altre occasioni per parlare.»
le sorrise amabilmente il ragazzo. Monique annuì non troppo
convinta e seguì i ragazzi verso l'entrata dell'albergo.
**
Non
riusciva a chiudere occhio. Per sbaglio, quella notte – vista la
mancanza di sonno – aveva acceso la televisione della sua stanza
d'albergo, a volume minimo, e la prima cosa che le era balzata
all'occhio era stata una donna in procinto di partorite. Non poteva
sentire, ma poteva perfettamente osservare il suo volto contratto in
una smorfia di dolore. Aveva guardato qualche secondo quella scena
alquanto macabra con sguardo perso e scandalizzato, fino a che non
ebbe spento velocemente il televisore, alla vista della testa del
bambino che cominciava ad uscire. Non aveva voluto assistere oltre.
Era sempre stata fifona per certe cose e la sua soglia del dolore
l'aveva sempre fregata in molte situazioni.
Così
si era ritrovata nel letto, con due fanali al posto degli occhi, e
con quell'unica immagine impressa nella mente, chiedendosi come mai
avrebbe fatto ad affrontare una cosa simile. La paura aumentava
attimo dopo attimo, così come i suoi battiti cardiaci, ragion
per cui decise di alzarsi dal letto ed aprire silenziosamente la
portafinestra che dava sul balconcino della sua camera. Una bella
boccata d'aria non le avrebbe fatto male.
A
contatto con la brezza fresca rabbrividì, stringendosi con le
sue stesse braccia nel suo semplice pigiama grigio, ma poi un
piacevole senso di sollievo la pervase. Si appoggiò con i
gomiti sulla ringhiera e planò il suo sguardo sul paesaggio
notturno di Parigi: senza dubbio era uno spettacolo degno di essere
visto.
Nella
sua mente apparve, in un lampo, uno schema del suo futuro incombente.
Quel bambino non lo aveva ancora accettato... Forse da una parte
l'aveva già fatto, scegliendo di tenerlo – ma per il
semplice ed unico fatto che non avrebbe mai voluto uccidere una vita
umana; quello non lo avrebbe mai fatto a prescindere. Non riusciva lo
stesso, però, a visualizzarsi nei pesanti panni di madre.
Quella parola le suonava anche troppo stonata, se accostata affianco
al suo nome. A dire il vero non aveva mai pensato di diventare madre
nemmeno in un futuro più lontano; per di più ora si
trovava da sola, nonostante la presenza costante della sua migliore
amica che, era sicura, ci sarebbe sempre stata per darle una mano.
Quando
– per caso – voltò lo sguardo sulla sua destra, per poco
non emise un urlo acuto che sarebbe stato in grado di risvegliare
l'intera città dormiente. Tom era seduto sulla sedia in vimini
del balconcino adiacente, intento a fumare una sigaretta, con una
semplice tuta nera a fasciargli il corpo. Anche lui aveva tutta
l'aria di essersi appena alzato dal letto – anche se qualche attimo
prima di lei – ed aver indossato i primi capi trovati a portata di
mano per non sentire freddo.
Monique
si chiese cosa ci facesse ancora sveglio alle tre di notte, quando
proprio lui, poco prima, aveva intimato ai suoi compagni di tornare
in stanza per dormire, vista l'ora avanzata.
Evidentemente
non si era accorto di lei perchè continuava a fumare come se
nulla fosse, osservando con sguardo perso il paesaggio di fronte a
sé. La ragazza non poté fare a meno di pensare che
preso a quella maniera sembrava quasi un ragazzo dolce e profondo.
Non aveva mai negato di trovarlo piuttosto carino, per quanto
riguardava l'aspetto fisico, ma il suo carattere tremendamente
testardo e scortese l'aveva sempre portata a non vedere altro in lui
che i suoi difetti.
«Se
vuoi, scattami una foto, così te la puoi guardare quanto vuoi
senza infastidire me.» aveva parlato il ragazzo, senza degnarla
di uno sguardo e facendo il tutto come se lei non fosse mai esistita.
Monique, presa alla sprovvista, arrossì violentemente,
reprimendo un pericolosissimo istinto omicida.
Quindi
si era accorto della sua presenza...
«Mi
chiedevo solo cosa ci facessi ancora sveglio, tutto qui.»
borbottò quest'ultima, voltandosi nuovamente verso il
paesaggio di fronte a lei. Rimasero qualche attimo in silenzio, fino
a che Monique non decise di parlare di nuovo. «Non riesci a
dormire?» domandò, scrutandolo appena con la coda
dell'occhio.
«Non
sono affari tuoi.» la liquidò il ragazzo, come sempre.
Monique venne pervasa da mille e più brividi di rabbia, ma
cercò di contenersi. Ricordava perfettamente le parole di
Gustav di quella stessa sera... Tom è un tipo complicato,
ma non è cattivo... Fa il buzzurro, l'antipatico e l'egoista,
ma in realtà ha un cuore grande... E' solo questione di
conoscenza. Doveva darvi ascolto? Ci avrebbe provato, ma la sua
pazienza – comunque – stava arrivando al limite.
Sospirò
appena, distogliendo nuovamente lo sguardo da lui per spremersi su un
qualcosa che potesse dire.
«Sai
cosa penso, Tom?» esortò improvvisamente, d'impulso.
«Non
mi interessa saperlo.» ribattè il ragazzo, ma Monique
agì come se non avesse mai parlato.
«Penso
che tu abbia paura di conoscermi.»
«E
perchè dovrei averne? Non mi interessa fare la tua conoscenza,
tutto qui. Mi sei indifferente.»
«Se
ti fossi del tutto indifferente, non ti comporteresti in modo tanto
scorbutico con me.»
«Ne
sei davvero sicura?» A quella domanda, entrambi si guardarono
per qualche attimo. Lui con sguardo di sfida, penetrante e freddo;
lei più insicura, ma solamente per il fatto che quelle
occhiate cariche di odio la mandavano sempre nel pallone. Non appena
il chitarrista distolse nuovamente lo sguardo, per continuare a
fumare con tranquillità infinita, Monique riprese a respirare.
«Ti consiglio di non essere così presuntuosa, Schmitz.»
disse poi, portando fuori dalle sue labbra carnose e contornate dal
piercing nero una nuvola di fumo grigiastra, ad ogni parola che
pronunciava. Monique si era soffermata sui movimenti leggeri e quasi
sensuali (?) della sua bocca, trovandosi a deglutire più
volte. Come potevano delle labbra così ben fatte sputare tutte
quelle cattiverie con così tanta facilità?
«La
mia non è presunzione. Sto solo cercando di capire i tuoi
strani comportamenti. Non puoi odiarmi, non si può odiare una
persona senza nemmeno conoscerla.» disse Monique, cominciando
ad alterarsi e rendendo così la sua voce più
tremolante. Vide Tom sospirare scocciato e spegnere la sigaretta nel
posacenere accanto a sé, per poi sollevarsi dalla sedia di
vimini. Guardò Monique e si aggiustò il cappuccio della
felpa dietro alle spalle.
«Sai
che ti dico? Mi sono stufato di sentire le tue lamentele.»
disse acido, voltandosi poi in direzione della sua portafinestra e
camminando verso essa, con l'intento di tornare in camera sua a
dormire. «Tu lavori per me, Schmitz, e basta. Non è
scritto da nessuna parte che tra noi debba esserci un qualche
rapporto differente; mettitelo in quella testa dura.» sibilò
freddo, prima di chiudersi la porta in vetro alle spalle e tirare le
tende, per permettergli di sparire dalla vista di Monique.
Quest'ultima reprimette un urlo di ira e tornò in camera a
grandi falcate.
Ci
aveva provato, con lui, e non aveva concluso nulla. Al diavolo le
parole di Gustav: Tom era solamente un bambino egoista.
**
«Sul
serio ti ha risposto così?» lo voce di Jessica
risuonò piuttosto sorpresa e sconcertata attraverso
quell'apparecchio telefonico. Monique continuava a fare avanti e
indietro per la sua camera d'albergo, gesticolando più e più
volte, mentre attendeva che qualcuno la venisse a chiamare per la
partenza.
Aveva
raccontato la conversazione – se così si poteva chiamare –
di quella notte che aveva dovuto tenere con quell'essere spregevole –
detto anche Tom – alla sua migliore amica, in cerca di un
appiglio su cui sfogare la propria rabbia.
Lei
aveva fatto esattamente come le aveva consigliato Gustav: aveva
cercato la conversazione; avrebbe anche provato a farsi conoscere per
quanto possibile, ma Tom aveva troncato sul nascere quell'idea. Per
lo meno lei la forza di volontà ce l'aveva messa ed
aveva anche represso più volte la voglia di prenderlo a pugni.
Più di quello, non sapeva proprio cos'altro dovesse fare. Lui
non voleva instaurare un normalissimo rapporto civile con lei, e lei
di certo non si sarebbe più sforzata di ottenerlo. D'altronde
le interessava così tanto instaurare un rapporto con Tom?
«Sì!
Avrei voluto tirargli una craniata in piena fronte per poi sputargli
in un occhio, ma ha fatto in tempo a rinchiudersi in camera sua...»
rispose Monique, presa dal nervoso. Udì la risata lieve di
Jessica dall'altra parte del telefono e si imbronciò
ulteriormente. «Non c'è niente da ridere.»
obiettò. Improvvisamente sentì bussare alla porta della
stanza.
«Monique?
Sei pronta?» la chiamò David, da dietro essa.
«Sì
eccomi! Ti devo lasciare, Jess, ci vediamo stasera.»
«D'accordo,
a stasera.»
Monique
ripose il cellulare nella tasca dei suoi jeans attillati e, preso il
piccolo borsone, uscì dalla camera. Trovò in corridoio
i quattro ragazzi al completo assieme a David e Tobi, pronti per
ripartire. Lanciò una gelida occhiata a Tom, il quale la
guardava come se mai nulla fosse successo, ma con la solita
freddezza, e seguì il resto del gruppo verso l'ascensore.
Avrebbe
dovuto lasciarsi alle spalle quella vicenda di Parigi e concentrarsi
esclusivamente su se stessa.
**
La
crema alla nocciola stava rinfrescando piacevolmente la sua bocca.
Rannicchiata sul divano, in pigiama, era intenta a ripulire un enorme
cucchiaio ancora interamente ricoperto di gelato. Quale soluzione
migliore se non quella, per sfogare i propri nervi?
Di
fronte a lei, Jessica la osservava con lieve divertimento, spostando
ogni tanto il suo sguardo sulla vaschetta ormai vuota, poggiata sul
tavolino affianco al divano.
«Sei
un pozzo senza fondo. Ormai mi rifiuto di dirti qualunque cosa.»
ridacchiò, poggiando la testa sulla sua mano e continuando ad
osservare la sua migliore amica, piacevolmente soddisfatta da quella
mangiata. Quando Monique ripose il cucchiaio nella vaschetta, si
stravaccò meglio sul divano, sospirando sorridente.
«Ora
sì che sto bene.» commentò la castana, chiudendo
gli occhi.
«Io
comunque mi sono fatta una mia opinione di tutta questa storia.»
esortò Jessica, improvvisamente, rigirandosi tra le dita una
ciocca di capelli.
«Quale?
Che Tom è un buzzurro, egoista, poppante con seri problemi di
egocentrismo e presunzione?» domandò Monique,
schifosamente ironica.
«Apparte
quello.» tagliò corto la rossa. Monique si voltò
verso di lei, attendendo che parlasse. «Non è che è
attratto da te, a dispetto di ciò che vuole dimostrare?»
domandò seriamente. La castana impiegò qualche secondo
per afferrare pienamente il senso logico – se mai l'avesse avuto –
di quella frase, per poi scoppiare a ridere quasi istericamente.
«Noto con piacere che il pensiero ti diverte.» sorrise
Jessica, sollevando un sopracciglio; al che Monique si ricompose.
«E'
semplicemente impossibile. Mi odia dal profondo del cuore e non so il
perchè. Ma comunque non mi interessa più.»
rispose con superficialità, recuperando la vaschetta vuota di
gelato ed incamminandosi verso la cucina per buttarla.
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Capitolo 6 *** Five. Further lies ***
further lies
Chapter
Five.
-
Further lies -
Le
nausee continuavano a darle il tormento, senza sosta. Certo, poteva
ritenersi sollevata per il fatto che fossero notevolmente diminuite
rispetto ai primi tempi, ma ciò non la faceva comunque
sorridere. Lavorare ed alzarsi improvvisamente, di corsa, per andare
a rimettere in bagno, non era esattamente ciò che più
la divertiva fare.
Era
già la seconda volta che un conato l'aveva presa alla
sprovvista quella mattina, facendole mollare a metà il lavoro
su una lettera particolarmente articolata. Qualsiasi odore venisse a
contatto con le sue narici, la mandava fuori di testa. Più
volte si concentrava nel respirare con la bocca, anziché col
naso, pensando che ciò potesse alleviare quella spregevole
sensazione di nausea, ma inutilmente.
Quasi
spezzò a metà la matita che teneva in mano, intenta a
scrivere su un foglio di brutta la prima traduzione di quella lettera
– nel caso avesse dovuto apportarvi modifiche –, per quanto la
sua presa era forte e violenta attorno ad essa.
Il
nervoso la stava attanagliando da troppi giorni ormai e sapeva
perfettamente – nell'angolo più oscuro e remoto della sua
mente – che la causa non era solamente la nausea. Una piccola
percentuale di colpa ricadeva anche su un certo soggetto,
particolarmente simpatico, di nome Tom Kaulitz. Da quella
volta sul balconcino dell'albergo non le aveva mai più rivolto
parola – non che questo stravolgesse particolarmente le loro
abitudini – ma ciò che Monique riteneva più assurdo
era il fatto che il chitarrista non si sprecasse nemmeno a rivolgerle
delle provocazioni o delle cattiverie, alle quali si era sempre
lasciato andare, solo per il gusto di farlo.
Ora
nemmeno quelle. Ora vi era pura e totale indifferenza. E per
la precisione, da cinque giorni.
La
cosa che più le scocciava ammettere era di sentirsi
misteriosamente infastidita dal quel comportamento. Si lamentava
quando arrivava da lei solo per crearle disturbo e comportarsi da
perfetto egoista e cattivo ragazzo – quale apparentemente
dimostrava di essere – ma quell'indifferenza non faceva che
indisporla ulteriormente, senza neanche conoscere il reale motivo.
Ora che la lasciava in pace, avrebbe dovuto tirare un sospiro di
sollievo, invece che rimuginarci troppo su. Non era quello che aveva
sempre voluto, essere lasciata in pace dal chitarrista?
La
ciliegina sulla torta fu la sua entrata nel secondo mese di
gravidanza... E non ancora una fottutissima idea su come avrebbe
potuto mascherare quella situazione. Sapeva che già dal terzo
mese si sarebbe notato un leggero gonfiore del suo ventre. Certo, non
tanto da destare sospetto in tutti gli altri, ma comunque abbastanza
per far calare gli occhi – di chiunque la vedesse – su di esso.
Avrebbero solamente creduto nell'acquisto di qualche chilo in più
per qualche scorpacciata di troppo, era vero. Ma quando anche quel
terzo mese sarebbe passato, accogliendo il quarto e il quinto,
sarebbe stato ancora solo troppo cibo?
**
«Perchè
sei scazzata?» domandò Monique alla sua migliore amica,
quando si rese conto di essere giunta al termine della sua già
scarsa pazienza e di non sopportare più quel silenzio spezzato
solamente da battiti violenti delle loro posate sui piatti.
«Sai
benissimo perchè sono scazzata.» ribattè Jessica,
continuando a torturare quel povero piatto con il solo uso della
forchetta. Monique, seduta di fronte a lei, la osservava in tutte le
sue movenze, senza invece battere ciglio.
«Mi
spiace contraddirti, ma in questo momento proprio mi sfugge.»
ribattè, poggiando entrambe le braccia sul tavolo da pranzo.
«Sei
ormai entrata nel secondo mese e non ancora ti sei degnata di fare
una fottuta ecografia. Ti rendi conto che hai paura di semplicissime
foto?»
«Quelle
semplicissime foto rappresenterebbero la merda di
futuro che mi sono andata a cercare.»
«Ma
come puoi definire merda una cosa del genere? Ma ti senti
almeno quando parli?»
«Sì,
mi sento benissimo e ti ho già ripetuto che non mi servono le
tue ramanzine.»
Detto
questo, Monique si alzò da tavola con il suo piatto per
poggiarlo nel lavandino, con l'intenzione di lavarlo. Non mosse un
muscolo quando sentì la sedia dietro di sé strisciare
rumorosamente contro il pavimento, dei passi affrettati allontanarsi
sempre di più e la porta di casa sua sbattere violentemente.
**
Quei
continui sbalzi d'umore la stavano rendendo sempre più
intrattabile e la discussione avuta con Jessica, la sera prima, ne
era stata un valido esempio. Con il passare delle ore notturne, si
era facilmente resa conto di aver esagerato nel rivolgersi a lei a
quella maniera, ma d'altro canto non poteva fare a meno di portare
avanti le sue idee.
«Monique?»
A quell'improvviso richiamo, la ragazza sollevò il capo dalla
scrivania e trovò quello di Bill, timidamente affacciato nel
suo ufficio. «Scusami se ti disturbo... Volevo sapere se ti
andava di ascoltare una canzone che abbiamo appena terminato. Abbiamo
bisogno del parere di qualcuno prima di registrarla o meno. Sulle
altre siamo andati piuttosto sicuri, ma su questa abbiamo qualche
dubbio.» le spiegò, ostinandosi a starsene oltre la
soglia, come non volesse invadere il territorio di Monique.
Quest'ultima
sorrise calorosamente ed annuì convinta, per poi alzarsi dalla
poltrona e seguire il vocalist verso la stanza insonorizzata, dietro
all'enorme vetro, dal quale li aveva già osservati all'opera,
assieme a David. Al loro ingresso ricevette due enormi e sinceri
sorrisi da parte di Gustav e Georg, mentre Tom – come sempre –
appariva contrariato. Bill la fece accomodare su uno sgabello, di
fronte a loro, e successivamente andò ad appostarsi al
microfono, mentre gli altri ragazzi si preparavano con i propri
strumenti. Tom aveva afferrato la chitarra acustica, per il sollievo
di Monique: non era assolutamente in grado di udire chitarre
elettriche, quel giorno, talmente era frastornata.
Gustav
scandì il tempo, battendo le bacchette fra loro, e qualche
secondo dopo la stanza venne pervasa da una piacevole melodia che
ebbe il potere di rilassare Monique. Aveva un qualcosa di malinconico
ma ciò lo gradiva.
«I
hate my life... I can't... Sit still for one more single day I've...
Been here waiting for... Something to live and die for... » la
voce del vocalist pervase dolcemente le sue orecchie. Quelle parole
entrarono nella sua pelle, una dopo l'altra, quasi indelebili e
dolorose... Eppure così piacevoli al tempo stesso. Quasi trovò
un qualcosa che le accomunasse a lei, ma non sapeva bene cosa. «In
your shadow I can shine...» Bill continuava a cantare ad occhi
chiusi, come rapito da se stesso e da quella canzone. Si trovava in
un mondo tutto suo e non udiva nulla di ciò che gli accadeva
attorno. Monique spostò lo sguardo sul fratello e notò
la stessa espressione rapita, concentrata e quasi triste che lo
caratterizzava. Le dita pizzicavano leggere quelle corde lisce, come
se a malapena le toccassero.
Per
un attimo Monique si estraniò dal resto, continuando a tenere
d'occhio il viso del chitarrista. I suoi occhi socchiusi e persi nel
vuoto di fronte a sé lasciavano trasparire l'amore che il
ragazzo provava per quello strumento... Forse l'unico mezzo con il
quale riusciva ad esternare le proprie emozioni e i propri
sentimenti, non riuscendovi a parole o gesti. Forse Monique doveva
conoscere sul serio quel lato nascosto del ragazzo... Come poteva
essere quella persona la stessa che si divertiva a maltrattarla?
Le
gote le si imporporarono ed il cuore perse un battito quando gli
occhi seri e penetranti del chitarrista si sollevarono su di lei,
scrutandola, scuro in volto. Distolse velocemente i propri, tornando
a concentrarsi sull'esile figura del cantante, senza accorgersi che
la canzone era quasi giunta al termine. Quando ciò avvenne, le
altre tre paia di occhi la cercarono, in attesa di un qualche suo
giudizio.
«E'
bellissima.» soffiò appena la ragazza. Ed era la verità;
era ciò che pensava: quella canzone l'aveva rapita.
«Davvero?»
domandò Bill, come illuminato e con una lieve nota speranzosa
nella voce.
«Certo,
Bill, non vedo perchè dobbiate avere tutti questi dubbi. La
trovo molto profonda, sia in fatto di parole che di musica.»
«Pensi
non ci sia nulla da cambiare?»
«Assolutamente
no. Penso che perderebbe troppo.»
«Grazie
mille, Monique. Ora sono più convinto.»
Monique
sorrise nel vedere l'espressione serena ed entusiasta che aveva preso
parte sul volto di Bill. Sembrava un bambino felice di aver ottenuto
una gustosa caramella come premio per un qualcosa di buono che era
riuscito a combinare. Ed era contenta di essere stata lei ad avergli
regalato quella caramella.
**
Decidere
di tornare per un'intera giornata ad Amburgo, era stata un'idea
dell'ultimo minuto. Le era bastato sentire nuovamente la voce di sua
madre al telefono per rendersi conto che non sarebbe riuscita a far
passare altro tempo, prima di visitare i suoi genitori: ne aveva
bisogno anche lei.
Dopo
il lungo viaggio, si sentì sollevata nello scorgere la sua
casa nativa, svoltato l'ultimo angolo con la sua macchina. Un sorriso
spontaneo e sincero le dipinse il volto, mentre un sospiro di
sollievo attraversò le sue labbra dischiuse. Casa.
Scese
dalla macchina ed attraversò il picciolo vialetto che
l'avrebbe condotta all'entrata. Prese il suo mazzo di chiavi e,
ancora prima che potesse inserire quella serviente nella toppa, la
porta si aprì velocemente, rivelando dietro ad essa una donna
di bell'aspetto, caratterizzata da capelli ed occhi dello stesso
colore di quelli della figlia. Non vi furono tante parole: solo un
abbraccio caloroso, capace di mozzare il fiato.
«Amore,
finalmente sei arrivata!» esclamò la donna, continuando
a stringere Monique fra le sue braccia. Quest'ultima si beò di
quel tanto mancato calore mentre scorse suo padre affacciarsi alle
spalle di Ester e scrutarla con un timido sorriso in volto.
Suo
padre era sempre stato un uomo riservato e tremendamente scrupoloso.
Non aveva mai negato l'affetto a sua figlia, ma era comunque di poche
parole e di poche “tenerezze”. Era sempre Monique a premurarsi di
concedergli un gesto affettuoso, perchè lui si sciogliesse e
lo ricambiasse. Quando la stretta fra Monique e sua madre giunse al
termine, arrivò il turno di Alfred.
«Ciao,
tesoro.» le sussurrò, accarezzandole appena i morbidi
capelli. Improvvisamente, due zampette che cercavano attenzione,
portarono lo sguardo di Monique a deviare verso il pavimento. Lilli
scodinzolava, aggrappata alle sue gambe con le zampe anteriori,
attendendo un saluto.
«Ciao,
piccolina!» esclamò Monique, accucciandosi affianco al
piccolo animale ed accarezzandolo calorosamente. «Guarda cosa
ti ho portato.» le comunicò frugando nella sua borsa e
tirandone fuori un bell'osso nuovo. Il cane prese ad abbaiare, fino a
che la ragazza non glielo porse. Soddisfatta, Lilli trotterellò
dentro casa, mantenendo quel preziosissimo regalo fra i denti.
**
«Tesoro,
ti vedo un po' sbattuta in viso... Sicura che non stai lavorando
troppo?»
Il
tono di sua madre era premuroso e preoccupato, come sempre. Seduti a
tavola, consumavano il delizioso pranzetto preparato da Ester con
tanto amore, in onore dell'arrivo della sua unica figlia.
Monique,
per poco, non si strozzò con l'acqua che aveva appena ingerito
e, dopo aver ripreso un colore di pelle più naturale, alzò
lo sguardo sulla donna seduta affianco a suo marito.
«Non
preoccuparti, sto bene... Lavoro il giusto, per ciò di cui ho
bisogno.» la tranquillizzò Monique, piuttosto tesa.
«Se
hai bisogno di un aiuto, tesoro, sai che possiamo dartelo, anche se
piccolo...»
«No,
mamma, ci manca. Ho vent'anni ed una mia indipendenza. Ho scelto
apposta questo tipo di vita per non gravare più su di voi e
farvi tirare un sospiro di sollievo, anche se leggero.»
«E
infatti ti ringraziamo per questo, ma sul serio, per una volta non
muore nessuno... Basta che mi dici di cosa hai bisogno e vediamo
di...»
«No,
mamma. Sul serio, ti ringrazio ma... No.»
«D'accordo,
come vuoi. Però non strafare con tutto questo lavoro, ti
vogliamo ancora viva tra qualche anno.»
«Grazie
per il pensiero carino.»
Si
scambiarono un sorriso divertito e poi calò nuovamente il
silenzio, fino a che non venne nuovamente interrotto da Ester.
«Christian
come sta? Come mai non è venuto?» sorrise la donna,
ignara di tutto. Monique strinse con tutta la forza che possedeva in
corpo la forchetta che ancora giaceva nella sua mano. A quel nome, un
mucchio di pessimi ricordi le tornarono alla mente come proiettili e
pregò un santo a lei sconosciuto perchè le desse la
forza di rispondere senza infervorarsi.
«Oh
ehm... A dire il vero, ci siamo lasciati.» borbottò,
senza sollevare lo sguardo dal piatto. Le due paia di occhi
improvvisamente puntati sulla sua figura, quasi li sentì
trapassarla senza pietà. «Problemi caratteriali,
insomma. È stata una decisione di comune accordo.» mentì
spudoratamente, prima che uno dei due le chiedesse il motivo di tale
scelta.
«Beh,
mi dispiace... Mi piaceva Christian.» mormorò la donna,
piuttosto cupa in volto. Alfred aveva taciuto tutto il tempo, ma il
suo sguardo non mentiva: Monique sapeva che aveva qualcosa da dirle.
Se sua madre avesse saputo cosa quel ragazzo – che le piaceva
tanto – aveva avuto il coraggio di fare, sicuramente si
sarebbe maledetta per averlo solo pensato.
«Già...
C'è il dolce?!» cambiò discorso la ragazza,
illuminandosi in un sorriso radioso, proprio come quando era piccola.
**
Se
avesse fumato, in quel momento avrebbe tranquillamente alleviato i
suoi tormenti con una bella sigaretta. Sedeva silenziosa sul gradino
di fronte alla porta di casa dei suoi genitori, carezzando
distrattamente il pelo morbido di Lilli – la quale non disprezzava
quelle particolari attenzioni che le venivano riservate ogni qual
volta metteva ben in risalto i suoi occhioni languidi – e
rifletteva sul discorso avvenuto qualche istante prima a tavola,
trovando tutta quella situazione piuttosto snervante.
Un
improvviso e dolce tocco sulla sua spalla sinistra la destò
dai suoi pensieri ed una figura alta e magra si sedette accanto a
lei. Sorrise nell'osservare suo padre che la scrutava attentamente,
come a voler cogliere ogni minimo particolare che il suo sguardo
riuscisse a rilasciare. Il silenzio troneggiò ancora per
qualche minuto, fino a che Alfred non attaccò bottone, come
poche volte succedeva.
«Non
mi è mai piaciuto Christian.» disse con la serenità
più semplice negli occhi. Monique sorrise appena, abbassando
lo sguardo.
«Lo
so.» rispose. «Mi hai sempre detto il contrario per farmi
un piacere... Ma io l'ho sempre saputo che non lo vedevi bene per
me.» continuò, senza distogliere gli occhi dal cane che,
nel frattempo, si era accomodato ai suoi piedi, a zampe all'aria,
permettendole così di prendersi cura della sua pancia nera e
bianca.
«Ti
ho semplicemente lasciato fare. Ho rispettato le tue scelte senza
metterci lingua, perchè... Sapevo che ci saresti arrivata da
sola, prima o poi. Sei una ragazza intelligente.» spiegò
l'uomo, continuando a non guardarla.
«Avrei
voluto capirlo prima.»
«Guarda
il lato positivo. Hai vent'anni, sei giovane. Hai ancora un'intera
vita davanti per trovare l'uomo adatto a te. Non c'è fretta.
Non hai neanche il problema del matrimonio o dei figli di mezzo, dato
che con Christian non è stata tutta questa gran storia,
nonostante sia durata abbastanza.» Monique fissò le mani
sul gradino dove sedeva come a volersi tenere saldamente a terra e
non voler ruzzolare giù per quell'immaginario dirupo che si
era aperto davanti a lei con violenza. Cominciò a sudare
freddo. La vicinanza così pericolosa di suo padre la rendeva
piano piano più nervosa, sapendo di nascondere un problema
molto più grande di lei. Se l'avesse guardato negli occhi,
avrebbe ceduto. Non ce l'avrebbe più fatta a mentire; si
premurò quindi di tenere gli occhi ben lontani da quella che
era la sua figura. Quando Lilli reclamò altre coccole, la
accontentò, deglutendo pesantemente e rimanendo in religioso
silenzio. L'aria si era fatta più tesa, tangibile ed affilata
come una lama... Ma questo poteva avvertirlo solo lei, sulla sua
pelle chiara. «Spero tanto tu riesca a trovare un ragazzo che
ti sappia amare immensamente per quello che sei.» aveva
sussurrato suo padre, con le guance leggermente arrossate. Era la
prima volta che si lasciava andare a “confessioni” così
importanti e profonde con lei e questo Monique non poté fare
altro che apprezzarlo.
«Grazie,
papà.» sorrise la ragazza, guardandolo per la prima
volta in viso, senza nascondere il sorriso sereno che aveva peso
spazio sul suo volto. Alfred ricambiò quello sguardo intriso
di tanti significati e, dopo aver dato due leggere pacche sul
ginocchio di sua figlia, si rialzò dal gradino per rientrare
in casa. Prima che l'uomo varcasse la soglia, Monique si voltò
nella sua direzione, osservandolo dal basso. «Papà?»
richiamò la sua attenzione. L'uomo girò lo sguardo
nella sua direzione, attendendo. «Ti voglio bene.» ammise
Monique, con voce tremolante e con il cuore che minacciava di
sfondarle la cassa toracica. Alfred sembrò inizialmente
sorpreso, ma poi rilassò le sue labbra in un sorriso sincero.
«Anche
io te ne voglio.» rispose, per poi rientrare in casa.
Quello
era decisamente un gran bel passo avanti.
**
La
via del ritorno era buia, illuminata solamente dai pochi fari delle
automobili. Non aveva preso l'autostrada: quella volta aveva
preferito optare per un lungo percorso in mezzo alla campagna, che
l'avrebbe condotta ugualmente a Berlino, anche se in tempi maggiori.
Erano le dieci di sera e probabilmente sarebbe arrivata a casa per
mezzanotte passata.
Il
sonno aveva preso il sopravvento: si sentiva particolarmente spossata
e probabilmente ciò era dato dallo stesso viaggio che aveva
dovuto compiere quella mattina. Il meglio sarebbe stato fermarsi a
dormire a casa dei suoi, come Ester le aveva consigliato, e ripartire
l'indomani mattina, a mente più fresca. Eppure Monique aveva
insistito per andarsene quella sera stessa con la scusa del lavoro.
La verità era che aveva paura di destare sospetto nei suoi
genitori, caso mai si fosse sentita male per un altro dei suoi conati
di vomito improvvisi.
Le
palpebre le si abbassavano sistematicamente, per poi riaprirsi a
piccoli scatti. Si sfregò stancamente gli occhi, cercando
inutilmente di scostare dalla sua vista quell'alone biancastro che si
era venuto a creare davanti a sé.
Soffocò
un urlo una frazione di secondo prima che succedesse l'irreparabile.
Un albero avanzava a gran velocità nella sua direzione, ma
prima che potesse raddrizzare il volante – sfuggitole a causa del
sonno – sentì un doloroso colpo alle braccia, che riconobbe
come l'airbag, ed un tonfo violento che la fece oscillare
pericolosamente avanti e indietro con la schiena. Un immenso fumo
biancastro si levò attorno a sé, cancellandole dalla
vista tutto ciò che aveva attorno.
Prese
a tossire, slacciandosi la cintura e facendosi poi aria per poter
respirarne di pulita, senza successo. Aprì la portiera e scese
barcollante dalla macchina. Fortunatamente non si era fatta nulla, ma
quello era stato un vero miracolo. Si prese i capelli fra le mani
tremanti e cerò subito il cellulare nella tasca dei suoi
jeans. Il muso della macchina era completamente distrutto e
certamente quel rottame non sarebbe stato in grado di riportarla a
casa sana e salva.
Non
poteva chiamare i suoi genitori: come minimo sarebbe venuto loro un
infarto, e aveva deciso che di infarti ne avrebbero già avuti
una volta venuti a scoprire della sua gravidanza... E per quello
c'era tempo.
Digitò
senza pensarci due volte il numero di Jessica ma si demoralizzò
quando sentì che squillava a vuoto: probabilmente era ancora
arrabbiata con lei per la sera della discussione a cena e si
rifiutava di risponderle al telefono, non potendo immaginare cosa le
fosse successo.
Cominciò
a guardarsi attorno disperata. A quell'ora, per quel sentiero, di
macchine non se ne vedevano molte e le uniche che passavano non si
degnavano certamente di fermarsi e prestare soccorso.
Sospirando,
provò a digitare il numero dello studio di registrazione,
pensando che quello potesse essere la sua ultima spiaggia; ma era
decisamente improbabile che i ragazzi si trovassero ancora lì
a quell'ora.
«Pronto?»
la voce di David la risvegliò dalle sue preoccupazioni,
permettendole di scorgere una luce lontana in tutto quel disastro.
«David,
meno male che ci sei.» esclamò la ragazza, rincuorata.
«Sì,
adesso devo uscire e stavo giusto parlando con Tom di un paio di cose
riguardo il nuovo album; c'è qualche problema? Come mai questa
voce?»
«E'
successo un casino. Ho fatto un incidente. Io sto bene, non ti
preoccupare. Ho avuto un abbiocco improvviso e sono andata a sbattere
con la macchina contro un albero. Stavo tornando da casa dei miei,
sono ancora ad Amburgo ed è piuttosto distante da Berlino. Non
so come fare a tornare indietro, sono a piedi e la mia migliore amica
non risponde al telefono...»
«Oh
mio Dio! Contro un albero?! Ma sei sicura di stare bene?!»
«Sì,
David, io sto bene, davvero. Ma la macchina è distrutta e non
so come tornare a casa.»
«Oddio,
tesoro, come ti ho detto, adesso ho un impegno importante, Bill è
a casa e Georg e Gustav lo stesso. Ti mando Tom che è qui
accanto a me.»
«Cosa?!
Ehm, ma no... David, no. Non stare a scomodarlo.»
«Macché
scomodarlo! Dì un po', vorresti restare lì tutta la
notte?! Avanti, dimmi precisamente dove ti trovi e riferirò
tutto a Tom che ti verrà a prendere con la sua macchina. Però
devi pazientare perchè prima del suo arrivo passerà
qualche ora, come sai.»
Monique
si sentì disarmata, con le spalle al muro. Aveva bisogno di
tornare a casa, non poteva effettivamente restare lì per
strada, accanto a quell'albero per tutta la notte, come le aveva
detto David. Ma il pensiero che Tom potesse arrivare da solo la
agitava e soprattutto non era nella posizione migliore per farlo
scomodare a quella maniera. Lo avrebbe tremendamente scocciato, ancor
di più perchè si trattava di lei. Ma d'altro canto era
l'unico aiuto che era riuscita faticosamente a racimolare e non
poteva tirarsi indietro.
Tirò
un lungo sospiro e poi allungò la testa per leggere il
cartello a qualche metro da lei e riferire al manager il nome esatto
della strada dove si trovava.
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Capitolo 7 *** Six. A lift by the enemy ***
a lift by the enemy
Chapter
Six.
-
A lift by the enemy -
Aveva
deciso di attendere l'arrivo del chitarrista rannicchiata sui sedili
posteriori della sua automobile distrutta. Era ormai mezzanotte ed il
clima notturno tedesco non era dei migliori. Così aveva
passato quelle due lunghe ore a cercare un po' di tepore – per
quanto fosse possibile – nella sua macchina.
Si
portò una mano al ventre, domandandosi per qualche attimo se
il bambino fosse in buone condizioni. L'urto era stato forte, ma era
certa di ricordarsi di non aver sentito nulla sbattere contro la
propria pancia.
Improvvisamente,
due fari accecanti le disturbarono la vista – portandola a chiudere
forte gli occhi – fino a che questi non vennero spenti. Allungò
appena il collo per vedere, attraverso il finestrino, chi fosse e,
con un tuffo al cuore, si rese conto che quella Cadillac nera
apparteneva a Tom.
Non
molto dopo, vide proprio il ragazzo scendere da quell'enorme vettura,
decidendo quindi di uscire anche lei allo scoperto. Notò il
moro osservare pensieroso il muso distrutto ed accartocciato della
sua macchina, addosso all'albero, per poi spostare lo sguardo su di
lei, che si sentì subito accusata.
«Ehm...
Ciao.» mormorò Monique, piuttosto impacciata. «Scusa
se ti ho fatto...»
«Sali.»
la interruppe freddamente il chitarrista, dandole poi le spalle e
risalendo in macchina. Monique sospirò amareggiata,
preparandosi psicologicamente ad affrontare due lunghissime ore –
se non di più – di viaggio con il chitarrista.
Una
volta salita, si allacciò la cintura ed attese che Tom
mettesse in moto per ripartire. Finalmente imboccarono di nuovo la
strada ed il silenzio fu l'unico suono – quasi assordante –
udibile in quell'autovettura. Monique osservava tesa il paesaggio del
tutto buio al di fuori dell'auto, fino a che non si accorse che il
chitarrista stava rallentando in direzione del casello autostradale.
Il finestrino del guidatore venne abbassato scorrevolmente per
recuperare il biglietto e poi rialzato per riaccelerare.
Il
buio pesto – spezzato solamente dai fari della Cadillac e dalle
luci delle gallerie, qualora ce ne fossero state –, il rumore lieve
del motore come sottofondo... Erano situazioni che avevano sempre
affascinato Monique. Viaggiare di notte le piaceva; lo trovava quasi
romantico. Ciò la portò a domandarsi se vi
potesse essere cosa più assurda del fatto che si stesse
godendo tutto quello con Tom al suo fianco.
Voltò
appena lo sguardo, senza farsi troppo notare, e lo scrutò con
la coda dell'occhio. La mascella era serrata e quasi tesa, come il
suo collo – dove poteva scorgere il suo pomo d'Adamo piuttosto
pronunciato, fare su e giù di tanto in tanto. Una mano teneva
morbida il volante, con il gomito poggiato sulla portiera, mentre
l'altra giaceva tranquillamente sulla sua gamba: si vedeva che aveva
dimestichezza con la guida. Il viso era serio e concentrato sulla
strada di fronte a sé, e le sue labbra più scure e
carnose venivano raramente inumidite dalla lingua... Quella stessa
lingua che usava tanto bene per infastidirla. Il profilo del suo naso
così dritto e ben fatto. I cornrows poggiavano ordinatamente
in avanti, oltre le spalle, fino a sfiorare i pettorali coperti da
un'enorme maglia grigia, oversize, e da una felpa nera delle stesse
enormi dimensioni. La sua fronte era quasi interamente coperta da una
bandana bianca, legata dietro la nuca a mo di fascia e gli orecchini
neri riuscivano a risplendere sulle sue orecchie, attraverso il buio.
Calò gli occhi sulla mano che riposava sul jeans coprente la
sua gamba e si accorse – forse solo in quel momento – della sua
grandezza: le dita lunghe ed affusolate, e alcune vene a ricoprire il
dorso. Era doloroso ammetterlo, ma la fisionomia di quel ragazzo
combaciava troppo con il suo modello ideale e la cosa la rendeva
ancora più nervosa.
Distolse
lo sguardo dall'analisi approfondita di quel corpo così ostile
nei suoi riguardi e tornò a concentrarsi anche lei sulla
strada, mentre entravano nella terza galleria.
«Apri
il cruscotto.» esortò improvvisamente Tom, facendola
quasi sobbalzare. Quel ragazzo era una perenne sorpresa: non si
poteva mai sapere quando parlasse o quando tacesse. Monique obbedì
e trovò all'interno del cruscotto un piccolo sacchetto di
carta bianca. «David mi ha detto di dartelo.» concluse,
senza guardarla. Monique aprì quel sacchettino e vi trovò
all'interno una bottiglietta d'acqua, accompagnata a due pezzetti di
focaccia e dei tovagliolini.
«Che
carino.» commentò quasi senza accorgersene, pensando al
manager ed alla sua gentilezza con un sorriso. «Ne vuoi una?»
domandò poi, rivolta al chitarrista ed alludendo al secondo
pezzo di focaccia.
«No.»
fu la gelida risposta del ragazzo. Monique non attese neanche quel
tanto agognato grazie – perchè sapeva non sarebbe mai
arrivato – e diede il primo piccolo morso alla sua focaccia. «Vedi
di non sbriciolare in macchina.» la avvertì Tom, con
tono severo ed urtato.
«Sto
facendo cadere le briciole nel sacchetto, Tom, non preoccuparti.»
ribattè la ragazza alquanto scocciata da quell'atteggiamento
poco fiducioso nei suoi confronti. «Non capisco proprio perchè
fai così.» borbottò poi, voltandosi verso il suo
finestrino e continuando a masticare.
«Non
riattaccare.»
«Tranquillo,
tranquillo... Non riattacco più, puoi starne certo.»
Il
silenzio piombò di nuovo in mezzo a loro. Monique non poté
però fare a meno di pensare che qualche parola, comunque, Tom
aveva ricominciato a concedergliela, seppure negativa: era già
un bel passo avanti.
Improvvisamente,
il solito bisogno di correre al bagno si fece sentire, facendola
pervadere velocemente dal panico. Come avrebbe spiegato
quell'imminente urgenza al suo compagno di viaggio? L'avrebbe a dir
poco derisa.
Ma
non appena vide il cartello che avvisava che di lì a poco
avrebbero incontrato un Autogrill, decise di approfittarne,
disperata.
«Tom,
ci possiamo fermare un attimo? Dovrei andare in bagno.» domandò
speranzosa di un primo incredibile gesto di nobile gentilezza da
parte del chitarrista – ergo, speranzosa di un miracolo
impossibile.
«Non
te la puoi tenere ancora un po'? Vorrei fermarmi il meno possibile,
dato che è già mezzanotte e mezza.» disse Tom,
continuando a guidare con apparente tranquillità.
«Ma
comunque ti dovresti fermare dopo... Fermati adesso, è la
stessa cosa. Ti prego, Tom, è urgente.» insistette
Monique, quasi sull'orlo della disperazione, sentendo che la sua
vescica non avrebbe retto ancora per molto. Dannata gravidanza.
«E
va bene! Basta che stai zitta.» sbuffò Tom, altamente
scocciato. Dopo qualche metro accostò fino ad entrare
nell'area di servizio. Parcheggiò l'auto affianco a delle
altre e spense il motore, permettendo a Monique di scendere. «Che
sia una cosa veloce.» le disse ancora, prima che la ragazza
prendesse a correre verso l'entrata dell'Autogrill.
**
Quando
uscì dalla cabina, andò ad aprire l'acqua del lavandino
per immergervi le proprie mani.
Quel
viaggio stava diventando una tortura cinese. Ci fosse stato un altro
tipo di rapporto tra loro, la situazione non sarebbe stata così
fredda ed impacciata. Monique quasi si sentiva i muscoli indolenziti
dalla tensione che l'aveva catturata fino a quel momento. Per quanto
si sforzasse di stare tranquilla, non ci riusciva, poiché
avvertiva lo sguardo gelido di Tom perforarla continuamente,
nonostante non si posasse su di lei.
Sentiva
come il bisogno di essere trattata diversamente da lui, voleva vedere
un sorriso dipingersi su quelle labbra impeccabili, finalmente
rivolto anche a lei.
Si
passò l'acqua fresca sulle gote improvvisamente arrossate e
poi si asciugò con dei fazzoletti di carta.
**
Uscita
dall'Autogrill, trovò Tom poggiato alla macchina con la
schiena, tenente fra le dita una sigaretta, e con una mano rifugiata
nella tasca dei suoi jeans.
«Non
ti vuoi prendere niente?» gli domandò più per
cortesia che per altro.
«Svegliati,
sono Tom Kaulitz. Non mi lascerebbero vivere, lì dentro.»
ribattè il chitarrista, buttando la sigaretta per terra e
schiacciandola con la scarpa firmata Nike.
«Non
c'è nessuno dentro. È tardi.»
Il
ragazzo la scrutò qualche attimo in volto, con il solito
insopportabile distacco, come a volersi assicurare che non mentisse,
e poi scrollò le spalle, camminando verso le scalette.
«Tu
aspetta in macchina.» la ammonì, quando notò con
la coda dell'occhio che Monique lo stava seguendo.
«Non
posso venire anch'io?» domandò la ragazza risentita. Tom
si voltò verso di lei, prendendola in contro piede. Del fumo
bianco fuoriusciva dalle loro bocche socchiuse, a causa dei loro
respiri, che si andava a mescolare quasi con armonia.
Inaspettatamente il cuore di Monique prese a battere all'impazzata.
Poche volte si guardavano realmente negli occhi... Forse mai.
«Devi
comprare qualcosa?» le domandò urtato.
«Ehm...
No.» rispose Monique con un'alzata di spalle, non vedendo dove
si ponesse il problema.
«Allora
– ribadisco – aspetta in macchina, non mi serve la tua
compagnia.» tagliò corto il moro, ricominciando a
camminare e lasciandola lì da sola. Monique represse un
grugnito di disapprovazione e scalciò malamente un po' di
ghiaccio che si era andato ad accumulare affianco alla scaletta.
Imbronciata, strinse le braccia al petto e trottò pesantemente
e sgraziatamente vero la Cadillac. Quando vi entrò, sbattè
con curata violenza la portiera, approfittando dell'assenza di Tom
che non le avrebbe potuto staccare la testa a morsi, non avendo
assistito a quel gesto pericoloso nei confronti della sua
preziosissima bambina.
Accavallò
le gambe, agitando un piede quasi con schizofrenia. Non riusciva a
capirlo. Per lei era un rebus impossibile da risolvere e ci aveva
ormai rinunciato, già da un bel pezzo. Sembrava che la sua
vicinanza gli desse fastidio, che quasi ne avesse paura. Quella non
era indifferenza: se Tom fosse stato indifferente a lei, non si
sarebbe fatto problemi nell'averla affianco... E di questo Monique se
ne convinceva sempre di più. L'unica domande era: “Perchè?”.
Il
rumore della portiera opposta alla sua che si apriva, la risvegliò
dai suoi pensieri e la portò a planare lo sguardo alla sua
sinistra, dove il chitarrista stava rientrando con un sacchettino in
mano, trascinandosi dietro il lieve odore della sigaretta che aveva
fumato qualche attimo prima. Richiuse la portiera e si mise a frugare
all'interno della busta. Ne estrasse una lattina di Coca Cola che
venne subito aperta e portata alle sue labbra. Monique si soffermò
più del dovuto sul suo pomo d'Adamo che si muoveva ad ogni
sorso, fino a che il ragazzo non smise di bere e non ripose la
lattina affianco a sé. Mise in moto la macchina ed imboccò
di nuovo la corsia dell'autostrada.
Il
respiro di Monique era appena accelerato... Il nervoso non la
abbandonava e non l'avrebbe mai fatto finchè non avesse
scoperto quale fosse il problema di Tom con lei.
«Comunque
sei un'irresponsabile.» esortò improvvisamente il
chitarrista, portandola a voltare il proprio sguardo allibito verso
di lui. «Se avevi tanto sonno, potevi dormire dai tuoi, invece
che uscire in strada ed attentare alle vite degli altri e far
scomodare me.» aggiunse scuro in volto. Monique si trovò
a stringere i pugni sulle proprie gambe.
«Se
non ti dispiace, quella che ha rischiato la vita stasera sono stata
io. E ha insistito David per farti venire, io gli avevo anche detto
di no.» ribattè indignata.
«Confermi
comunque ciò che ho detto: potevi rimanere a dormire a casa
dei tuoi, così evitavi tutto questo casino.»
«Tu
non ti devi impicciare in cose che non sai. Possono esserci mille
motivi per cui io non l'abbia fatto.»
«A
me non interessa impicciarmi degli affari tuoi; sei solo tu quella
che si diverte in queste cose.»
«Io
non mi diverto in queste cose, cerco solo di capire dettagli di te
che nessun altro membro della band mi ha negato.»
«Avevi
detto che non avresti riattaccato.»
«Sei
tu che hai tirato nuovamente in ballo il discorso!»
«Ti
ho detto di stare attenta a come ti rivolgi a me, Schmitz, e –
ribadisco – posso licenziarti anche ora.»
«E
sentiamo, se non mi puoi così tanto vedere e dato che sono
mesi che mi minacci con questa storia... Perchè non l'hai
ancora fatto?!»
Monique
si pentì immediatamente di ciò che aveva appena detto,
ammutolendosi in una frazione di secondo e scrutando di sottecchi il
ragazzo. Non doveva giocare col fuoco, non poteva perdere il lavoro.
Con sua enorme sorpresa, Tom non rispose a quella domanda malamente
posta, limitandosi ad osservare la strada di fronte a sé,
senza replicare. Era riuscita a zittire Tom Kaulitz? Si rilassò
sul sedile, riprendendo aria e cercando di far tornare i battiti del
suo cuore ad una velocità più normale.
**
Aprì
di scatto gli occhi, battendo più volte le palpebre e
guardandosi attorno spaesata. Si trovava ancora in macchina, con il
solito buio pesto attorno a lei e con la vista dell'autostrada che
sfrecciava veloce. Si voltò verso la sua sinistra e vide Tom,
ancora intento a guidare, con gli occhi più piccoli del
solito. Probabilmente era stanco. Buttò un occhio all'enorme
Rolex del ragazzo e notò che era l'una e mezza: aveva dormito
mezz'ora. Vide il chitarrista voltarsi una frazione di secondo verso
di lei, giusto per notare che si fosse risvegliata, e poi riporre lo
sguardo sulla strada.
«Scusa,
mi sono addormentata.» mormorò la ragazza,
stropicciandosi appena un occhio.
«Tanto
non mi cambia la vita che tu sia sveglia o meno. Anzi, perchè
non ti rimetti a dormire? Così evito di sentirti parlare.»
le propose il chitarrista con la stessa acidità di uno yogurt
scaduto da mesi. Monique sospirò pesantemente, voltandosi
verso il suo finestrino e scegliendo di non ribattere per non far
scendere il finimondo. Non ne aveva la forza fisica, oltre che
psicologica.
Improvvisamente
sentì le palpitazioni aumentare ed uno sgradevole senso di
vertigine, quando avvertì un forte conato di nausea
raggiungerle la gola. Cominciò a tremare, cercando di
concentrarsi e reprimerlo, ma temeva che avrebbe combinato un
disastro in quella macchina, giocando pericolosamente con
l'autocontrollo del chitarrista.
«Tom,
ti prego, accosta.» disse tremante, facendo dei lunghi sospiri.
Notò con la coda dell'occhio il ragazzo voltarsi verso di lei
accigliato.
«Non
se ne parla.» rispose categorico. «Ma stai male?»
domandò poi freddamente, continuando ad osservarla in quello
stato.
«Fermati
o ti vomito in macchina!» esclamò lei di rimando, in
preda ad una crisi di nervi. Il chitarrista non se lo fece ripetere
ed accostò velocemente in un'area di servizio. Monique aprì
istericamente la portiera e scese a gran velocità, fino a
chinarsi e rimettere. La gola le bruciava e gli occhi le pizzicavano
a causa dell'accumularsi di salate lacrime su di essi. Sentì
la portiera dietro di lei sbattere e dei passi avvicinarsi alla sua
figura. I suoi capelli vennero raccolti all'indietro ed una mano
calda si posò sulla sua fronte.
«Ci
mancava pure che soffrissi la macchina. Dio, ma avrai qualcosa di
positivo?» sentì la voce scocciata di Tom alle sue
spalle, mentre lei non aveva la forza di ribattere, presa dagli
ulteriori conati. Lei non soffriva per niente la macchina... E se
solo il ragazzo avesse saputo il vero motivo...
Finalmente
la nausea cessò e lei si risollevò appena. Il ragazzo
le lasciò i capelli morbidi liberi di ricadere sulle spalle e
si allontanò, tornando alla macchina. Poco dopo si riavvicinò
con la bottiglietta d'acqua che gli aveva dato David, che quasi
lanciò a Monique.
«Grazie.»
borbottò quest'ultima, sorseggiando un po' di quel liquido
fresco ed asciugandosi gli occhi ancora umidi con un dito.
«Di
questo passo torneremo a casa alle otto del mattino...» sbuffò
Tom, poggiandosi con il bacino al guardrail alle sue spalle ed
incrociando le braccia al petto per continuare a tenere d'occhio
Monique.
«Senti,
non è colpa mia.» si difese la ragazza, piuttosto
scocciata, continuando a sorseggiare l'acqua.
«Se
devi vomitare ancora, fallo. Non sali in macchina finchè non
ti senti bene. Con quello che l'ho pagata...»
«Grazie
del pensiero carino...» la voce di Monique sputava sarcasmo da
tutti i pori. «Comunque ora sto bene, possiamo ripartire.»
aggiunse, dandogli poi le spalle per dirigersi verso la macchina.
«Sei
sicura?» sentì la voce sprezzante del chitarrista,
dietro di lei.
«Come
la morte.» tagliò corto la ragazza, richiudendo la
portiera. Vide Tom fare il giro dell'auto e risalire su di essa.
«Manca ancora molto?» si informò Monique, con voce
un po' assonnata, voltandosi verso il chitarrista.
«Sai
leggerli i cartelli?» ribattè annoiato il ragazzo, senza
guardarla.
«Scusa,
ma non vedo nessuno cartello in questo momento, altrimenti non te lo
avrei chiesto, diamine!» sbottò lei, incrociando
nuovamente le braccia al petto e voltandosi dalla parte opposta,
imbronciata. Ci fu un attimo di silenzio, fino a che Tom non parlò
di nuovo.
«Tra
un'ora, massimo un'ora e mezza siamo a Berlino.»
«Bene.»
sibilò Monique a denti stretti, senza girarsi o muovere un
muscolo. Mancava ancora troppo tempo e non era così convinta
di poter reggere oltre quella situazione. Sedere ad una distanza così
ravvicinata da quel ragazzo le pesava e non poco, soprattutto quando
la trattava così male.
Il
silenzio tra loro due proseguì, fino a che Monique non udì
un lieve sbadiglio da parte del ragazzo. Si voltò cauta verso
di lui e lo vide che si passava una mano sugli occhi.
«Vuoi
che guidi io? Il sonno mi è passato.» domandò
inespressiva.
«Piuttosto
mi faccio ammazzare.» ribattè lui scorbutico. Monique
sollevò gli occhi al tettuccio e tornò a concentrarsi
sulla strada. Non apprezzava neanche le poche gentilezze che gli
offriva di tanto in tanto e la cosa la mandava in bestia. «Mi
fermo un attimo o a casa non ci arriviamo più.» sussurrò
il chitarrista, deviando verso un'ennesima area di servizio.
Parcheggiò la macchina a pochi centimetri dal muro roccioso di
fronte a loro e spense il motore. Monique si voltò curiosa
verso di lui e lo vide appoggiare la testa all'indietro sul sedile e
chiudere gli occhi, dopo essersi slacciato la cintura. Decise di
rispettare quella momentanea pace, slacciandosi la cinghia e
rilassandosi anch'ella sul proprio sedile.
Strani
pensieri le attraversarono la mente, osservando i dolci lineamenti
del chitarrista, estremamente rilassato in volto. Sembrava finalmente
privo di qualsiasi arma perennemente puntata addosso a lei; sembrava
debole ed indifeso, ma anche tremendamente dolce e... Protettivo? Non
seppe con esattezza da dove quel termine l'avesse pescato, ma
solamente che aveva raggiunto la sua mente con spontaneità,
senza troppe riflessioni. Non vi era un motivo preciso... La
spontaneità non conosce riflessione. Ed è anche la
verità più cruda e malvagia, alla quale non ci si può
ribellare.
L'istinto
femminile di Monique la portava ad allungare una mano verso il volto
del chitarrista per accarezzarlo con infinita delicatezza e
tenerezza, ma poi si ricordava di cosa quello sguardo apparentemente
dolce celasse. Senza contare che le avrebbe staccato quella mano a
morsi, se solo ci avesse provato.
Decise
di semplificare il tutto voltando il viso davanti a sé, in
modo tale da non osservarlo più. Quasi sentiva il battito
regolare del proprio cuore, per l'intensità di quel silenzio,
e si limitava a dei respiri leggeri, temendo che una respirazione
normale avrebbe fatto troppo rumore fino a disturbare il ragazzo dal
suo momentaneo riposo.
**
Gli
occhi le si sgranarono appena quando notò che si erano fatte
le tre di notte. Si era miserabilmente addormentata anche lei, senza
nemmeno accorgersene. Si voltò alla sua sinistra e vide Tom
accoccolato su se stesso, a braccia conserte e con le labbra
leggermente dischiuse. Respirava profondamente e quasi le dispiaceva
doverlo svegliare.
«Tom?»
sussurrò, per non spaventarlo o svegliarlo bruscamente. «Tom?»
riprovò, ma il ragazzo sembrava completamente assorto nel
sonno più profondo che l'avesse mai travolto. Decise di
allungare una mano tremante verso di lui e gliela posò sulla
spalla. Lo scrollò con infinita delicatezza pronunciando di
nuovo il suo nome, fino a che le palpebre del chitarrista non si
sollevarono appena, mettendo in mostra i suoi stanchi occhi nocciola.
«Tom, sono le tre di notte, abbiamo dormito un sacco.»
disse intimidita. Vide il ragazzo osservarla per qualche secondo
perplesso, come non si ricordasse perchè fosse lì, fino
a che non vide anche i suoi occhi posarsi sulla sua mano ancora
poggiata alla spalla. A quel gesto, Monique la ritrasse di scatto,
come si fosse scottata e si impegnò a non guardarlo.
Quest'ultimo si schiarì la voce e si raddrizzò sul
sedile. Si strofinò un attimo gli occhi, sospirando
stancamente e poi si riallacciò la cintura, dando a Monique
l'impulso di fare la stessa cosa.
**
Quando
Tom accostò la macchina di fronte casa di Monique, erano le
quattro e venti. La ragazza gli aveva riferito ogni tipo di
istruzione per raggiungere il suo appartamento. Quasi la imbarazzava
che Tom lo vedesse anche solo dall'esterno.
«Beh...
Grazie, Tom.» balbettò la ragazza con un lieve rossore
sulle gote, voltandosi verso di lui e notando che la stava guardando.
«Non
l'ho fatto per te. L'ho fatto perchè me l'ha ordinato David.»
ribattè orgoglioso, tornando ad osservare senza interesse la
strada immobile, davanti a sé. Monique sorrise appena,
trovando quella rivelazione quasi dolce.
«Beh,
comunque sei stato gentile.» continuò tranquilla.
«Schmitz,
ho sonno.» si lamentò Tom, passandosi una mano sulla
faccia. Monique annuì e scese dalla macchina per poi
richiudere la portiera. Rabbrividì per la brezza gelida
notturna e, stringendosi nelle spalle, camminò lungo il
vialetto, continuando ad udire silenzio alle sue spalle, con
sorpresa: era convinta che il chitarrista sarebbe subito ripartito.
Infilò le chiavi nel portone ed entrò. Una volta
richiuso alle sue spalle, sentì il motore della Cadillac che
si riaccendeva e si allontanava. Un lieve sorriso prese posto sul suo
volto.
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Capitolo 8 *** Seven. You'll be a great mum ***
you'll be a great mum
Chapter
Seven.
-
You'll be a great mum -
Doveva
ancora riuscire a mettere ben a fuoco il pavimento dove i suoi piedi
si stavano lentamente e stancamente posando. La forza del sonno
arretrato era nettamente superiore a quella mentale, nonostante
quest'ultima cercasse di opporvisi con insuccesso. Aveva dormito sì
e no due ore, prima di alzarsi nuovamente dal letto e recarsi allo
studio di registrazione, pronta – o quasi – per una nuova ed
estenuante giornata di lavoro.
La
prima cosa che le balzò all'occhio fu l'immagine del
chitarrista che non sembrava certamente più sveglio di lei.
Sforzò un piccolo sorriso nella sua direzione, come a
mostrargli ulteriormente la propria gratitudine per la notte
precedente, ma – come previsto – quello rispose con sguardo
truce, fino a voltarsi dalla parte opposta, come se nulla fosse.
Quella volta Monique non la prese male... Sapeva che era stato
comunque gentile con lei, anche se non lo voleva riconoscere e tanto
bastava per capire che quello che frenava il ragazzo era puro e
dannato orgoglio.
Entrò
nel suo ufficio, dove la figura allegra di David le apparve
velocemente davanti agli occhi.
«Monique!
Vedo che Tom ti ha riportato a casa sana e salva!» esclamò
il manager, con un ampio sorriso in volto.
«Sì,
sì. Sana e salva. Guida molto bene, devo dire.»
ridacchiò la ragazza, andando a sedersi sulla sua poltrona. «A
proposito, grazie per le focacce e l'acqua, David, non avresti
dovuto.» si ricordò della gentilezza mostratale da parte
dell'uomo. Quest'ultimo la osservò perplesso, sbattendo le
palpebre qualche secondo.
«Focacce
e acqua?» domandò, credendo di non aver afferrato il
concetto. Monique aggrottò le sopracciglia.
«Sì,
la busta che mi hai fatto avere da Tom. Stanotte!» continuò
la ragazza, chiedendosi con estrema preoccupazione se David soffrisse
già di Alzheimer.
«No,
tesoro, io non gli ho dato nessuna busta. Sono uscito di fretta per
quell'impegno importante di cui ti parlavo. Prima di venirti a
prendere, sarà stato Tom a passare in qualche bar e a
comprarti quelle cose.» spiegò il manager in assoluta
tranquillità, senza sapere che in quel modo la mente di
Monique prendeva a vorticare in una dimensione parallela.
Tom
era stato davvero così premuroso con lei? Le aveva fatto
credere che quel gesto risalisse all'estrema bontà del
manager, mentre invece era stata tutta opera sua.
Monique
sorrise impercettibilmente, stringendosi con le proprie braccia.
Le
piaceva... Quel senso improvviso di protezione e riguardo le
piaceva.
**
Teneva
il dito premuto su quel dannato campanello da circa dieci minuti. A
lungo andare stava infastidendo anche se stessa, ma aveva deciso che
di lì non avrebbe mosso un solo muscolo finchè Jessica
non avesse aperto la porta di casa sua. Non poteva continuare ad
ignorarla per l'eternità, a causa di una stupida ecografia.
Non erano quelli buoni motivi per cui litigare!
Quando
evidentemente anche la rossa arrivò al limite della
sopportazione di quel fracasso, aprì con violenza la porta,
osservando Monique con sguardo inceneritore.
«Hai
finito con questo concerto?! Stare con i Tokio Hotel ti da alla
testa!» esclamò furiosamente la ragazza, senza aprire
interamente quella porta, come avesse timore che Monique potesse
varcarne la soglia.
«Se
ti dava così tanto fastidio potevi venire ad aprire un secolo
fa!» ribattè la mora, infervorandosi appena. Subito
reprimette quell'istinto omicida verso la sua migliore amica,
ricordandosi che aveva raggiunto casa sua con un buon intento e cioè
quello di chiarire, non di ucciderla. Prese un bel respiro, chiudendo
gli occhi e poi ricominciò a parlare con più calma. «Mi
fai entrare?» domandò, guardandola negli occhi.
«Non
avevi detto che non avevi bisogno delle mie ramanzine? Non hai paura
che te ne possa fare altre?» sputò acida Jessica.
«Jess?»
«Che
c'è?»
«Smettila.»
Il
silenzio piombò tra le due, spezzato solamente dai loro
respiri. Jessica scrutò attentamente in volto Monique e poi
decise di parlare di nuovo.
«C'è
solo un modo perchè io la smetta.» annunciò
infastidita, voltando il capo in una direzione che non combaciasse
con quella della sua migliore amica.
«E
sarebbe?» Monique inarcò un sopracciglio con sospetto.
**
«Ricordami
di ucciderti, una volta finito tutto.» sibilò sprezzante
la mora, mentre si ritrovava distesa su un lettino di ospedale, per
attendere l'arrivo della dottoressa che le avrebbe fatto quella
maledetta ecografia. Jessica, seduta accanto a lei, fece un gesto
svogliato con la mano.
«Invece
mi ringrazierai.» ribattè con poco interesse.
«Eccomi
qua, ragazze, scusate l'attesa.» annunciò la donna, una
volta fatto il proprio ingresso nella stanza circondata da enormi e
bianche pareti. A dire il vero era tutto bianco attorno a loro e
Monique cominciava a sentirsi in gabbia. «Allora, vediamo come
cresce questo esserino...» esclamò la dottoressa,
sedendosi affianco a Monique e cominciando a spalmarle una sostanza
schifosamente gelatinosa e fredda sul ventre. La mora sentiva il
ripudio farsi sempre più atroce dentro di lei. Voleva in un
qualche modo assurdo fermare ciò che stava accadendo e che
sapeva da quel giorno avrebbe segnato quelli a venire. Non poteva
vederlo, non doveva.
Non
voleva rendersi davvero conto di quello a cui la sua vita sarebbe
presto andata in contro, non voleva e basta.
«No...»
sussurrò con voce spezzata dall'ansia. Vide gli occhi della
dottoressa posarsi perplessi sui suoi, assieme a quelli di Jessica,
sedutale accanto.
«Come?»
domandò la donna incerta.
«Non...
Non voglio.» Monique continuò a pronunciare frasi
sconnesse, ma Jessica la sovrastò con la voce.
«Faccia
pure, è solo agitata.» intimò alla dottoressa,
che però non sembrava ancora fermamente convinta.
«Tesoro,
l'ecografia non è niente di doloroso o di spaventoso. È
una cosa bellissima perchè potrai finalmente vedere il tuo
bambino che si forma lentamente dentro di te.» cercò di
rassicurarla con voce calda, al che Monique cominciò a
piangere, ripetendo che no, non avrebbe voluto farlo, e voltandosi su
un fianco, in direzione di Jessica, come a cercare sostegno.
«Le
dispiace se le chiedo qualche minuto? O ha altre pazienti in attesa?»
domandò la rossa alla dottoressa. La donna sorrise ed annuì
comprensiva, per poi alzarsi ed abbandonare la stanza poco dopo.
Il
silenzio piombò di nuovo in quella stanza. Ci furono
interminabili secondi in cui Jessica osservava la sua migliore amica,
ancora voltata su un fianco e lo sguardo perso nel vuoto, mentre le
lacrime continuavano a solcare il suo viso triste. «Ce la puoi
fare, Monique. Tu ce la puoi fare a diventare mamma.» la
rassicurò con infinita delicatezza nel tono di voce. Monique
scosse la testa più volte.
«Ma
non voglio.» sibilò stancamente.
«Vuoi
abortire?»
Monique
sollevò lo sguardo su quello della sua migliore amica – a
quella domanda posta con freddezza – e non vi lesse nulla se non
serietà e determinazione. Attendeva una risposta, che quella
fosse stata positiva o negativa non le avrebbe importato; voleva solo
aiutarla a venire a capo in quella situazione complicata.
Voleva
abortire? Era questo che voleva davvero? Uccidere una creatura, pur
di vivere felice e senza preoccupazioni? No, non avrebbe vissuto
felice dopo... Avrebbe vissuto con il tormento che l'avrebbe
perseguitata giorno e notte, per il solo motivo di essere stata lei
l'artefice della perdita di una vita umana.
«No.»
soffiò, abbassando di nuovo lo sguardo e rendendosi lentamente
conto che una scelta l'aveva già presa nel subconscio da un
bel pezzo e che non avrebbe potuto tirarsi indietro.
Jessica
sorrise impercettibilmente a quella risposta. Per quanto Monique
potesse essere testarda riguardo molte cose, non era priva di cuore e
questo lo sapeva bene. Aveva imparato a conoscerla nel corso degli
anni, sia in bene che in male, ed era pronta a mettervi la mano sul
fuoco.
Quel
momento delicato venne interrotto dall'entrata della dottoressa nella
stanza, con un dolce sorriso a lambirle il volto, alla quale bastò
solo uno sguardo di assenso da parte della rossa, per iniziare con
l'ecografia.
**
L'aveva
visto. Aveva visto quell'esserino non ancora del tutto formato e
qualcosa in lei si era smosso. Un'emozione indescrivibile a parole
l'aveva pervasa nel momento in cui i suoi occhi avevano focalizzato
quelle foto... Ed era questo ciò che più la spaventava.
Il cuore aveva preso a batterle forte in petto, nell'attimo in cui la
dottoressa aveva mostrato un sorriso dolce, riferendole che la
creatura, per il momento, stava bene. Si era persino complimentata
con lei, dicendole che si stava comportando in maniera eccelsa,
perchè il piccolo stesse così in salute.
Io
non ho mai fatto nulla pensando a lui, aveva riflettuto Monique a
quelle dichiarazioni. Che possedesse un istinto materno del quale non
era nemmeno a conoscenza?
No...
Decisamente no.
**
Stava
mettendo un po' d'ordine fra le varie schede sullo scaffale del suo
ufficio, appena terminate un paio di traduzioni. Aveva scelto di
rimanervi più a lungo, forse per il semplice fatto che non se
la sentiva di tornare al suo appartamento. Ultimamente casa sua le
dava un senso di affanno e di non libertà, cosa che non le era
mai successa in vita sua.
Eppure
i suoi pensieri, in quel preciso istante, erano completamente rivolti
al chitarrista. Ancora non riusciva a togliersi dalla testa quel
gesto così gentile e premuroso nei suoi riguardi che aveva
fatto, con la speranza di non venire scoperto.
Voleva
disperatamente ringraziarlo, fargli sapere che lei era a conoscenza
di tutto ciò, per una ragione ancora non del tutto nota. Anzi,
per niente nota. Voleva che lui sapesse anche che non ce l'aveva con
lui, nonostante tutto, e che aveva un'incredibile voglia di
conoscerlo e lasciarsi conoscere da lui, come gli altri componenti
della band le avevano permesso.
Doveva
andare a cercarlo? O avrebbe aspettato che si sarebbe fatto vivo lui?
Forse la prima opzione era la più conveniente, visto e
considerato che Tom, con lei, non voleva ancora avere niente a che
fare e che l'evitava come la Peste ogni volta che poteva.
Così
decise di prendere in mano la situazione e, trovato un po' di
coraggio, uscì a grandi falcate dall'ufficio, alla ricerca del
ragazzo.
Ma
che sto facendo... si ritrovò a scuotere la testa
perplessa, chiedendosi cos'avrebbe dimostrato o concluso nel
ringraziarlo. D'altronde lui non voleva che si sapesse ciò che
aveva fatto, no? Perchè dover smascherarlo a tutti i costi?
Non
fece in tempo a voltarsi per tornare all'ufficio che una voce
profonda e ben conosciuta le arrivò alle orecchie come un
fulmine a ciel sereno. Quando sollevò lo sguardo sul
proprietario, notò con un tuffo al cuore che si trattava
proprio del chitarrista.
«Cosa
stai facendo qui in giro? Non dovresti lavorare, Schmitz?» le
domandò algido e scrutandola cupo in volto.
«A
dire il vero ho finito già da un pezzo.» rispose
impacciata Monique.
«E
allora che ci fai ancora qui? Non dovresti tornare a casa?»
«Non...
Non mi va.»
Notò
il ragazzo inarcare un sopracciglio, perplesso: forse quella era
l'unica espressione che non comprendesse l'incazzatura, la
scocciatura o
la tristezza, che gli avesse mai scorto in volto, e ne rimase
quasi affascinata.
«Questo
non è un parco giochi dove puoi stare ogni qual volta tu non
voglia tornare a casa.» le fece notare Tom, tornando ad
adottare il solito tono sprezzante e lo sguardo gelido che la ragazza
odiava.
«Lo
so bene, stavo riordinando i miei scaffali... Non me ne stavo con le
mani in mano.» rispose con tranquillità infinita
Monique. Le frecciatine di Tom non la scomponevano più. Ora
non riusciva più a vedere solamente il marcio in quel ragazzo,
ma semplicemente un tipo molto orgoglioso e geloso – se non
possessivo – dei propri sentimenti. Stava imparando a scoprirlo,
piano piano, e doveva rendersi conto che forse la teoria di Gustav,
riguardo la conoscenza graduale, non era del tutto errata. «Ora
vado però.» sorrise successivamente nel constatare che
ancora una volta Tom pareva sorpreso. Gli diede le spalle e cominciò
a camminare verso l'uscita, sentendo lo sguardo del ragazzo ancora
puntato sulla sua schiena, quando improvvisamente si ricordò
di ciò che voleva fare sin dall'inizio. «Ah...»
esortò tornando a voltarsi verso di lui, anche se ad una
distanza più accentuata. Lui era ancora lì a fissarla,
con le mani in tasca. «Grazie per le focacce e l'acqua, Tom.»
gli sorrise sinceramente e poté scorgere perfettamente il
volto ed il collo del chitarrista irrigidirsi appena.
«Erano
da parte di David, dovresti ringraziare lui.» ribattè
indifferente.
«L'ho
fatto effettivamente, ma lui mi ha detto che è stata un'idea
tua e che lui non c'entra nulla.» continuò Monique,
compiaciuta nel vedere Tom sempre più esterrefatto e colto in
flagrante. «Per cui... Grazie a te.» concluse la
mora, con dolcezza che quasi non riconobbe come sua. Tom fece per
ribattere contrariato ma Monique lo precedette: «A domani,
Tom.» gli sorrise, varcando la soglia dello studio di
registrazione e chiudendosi la porta alle spalle.
**
Si
era resa conto che viaggiare senza macchina era praticamente
impossibile ma anche che i soldi per comprarsene una nuova non
avevano mai sfiorato il suo portafogli nemmeno per sbaglio. Non le
restava altro che chiedere a David di assumerla, oltre che come
traduttrice, anche in qualcos'altro che avrebbe persino potuto
comprendere la “cambia lampadine”, purché le avesse
fruttato qualcosa.
Inoltre,
più la gravidanza andava avanti, più aveva bisogno di
soldi, o non ce l'avrebbe fatta sul serio con tutte le spese che
aveva e che avrebbe dovuto sostenere, trovandosi presto sotto un
ponte, presso un fiume puzzolente, con suo figlio o sua figlia in
braccio ed un branco di cani randagi, affamati e con le pulci,
attorno a loro.
Scosse
la testa, cercando di scacciare quell'orribile prospettiva di vita
dalla sua mente e bussò un paio di volte alla porta
dell'ufficio di David, ricevendo subito dopo una risposta che la
indusse ad aprirla.
David
sedeva alla sua scrivania, intendo a compilare un numero indefinibile
di carte che Monique non si impegnò ad interpretare.
«Hey,
Monique.» la salutò il manager con un ampio sorriso in
volto, non appena sollevò il capo.
«Avrei
bisogno di parlarti.» disse timidamente la ragazza, richiudendo
la porta ed avvicinandosi alla scrivania.
«Certo,
siediti.» le sorrise David, gentilmente. Monique obbedì
a quell'invito ed aspettò qualche secondo prima di riprendere
a parlare: era un argomento delicato e non era nemmeno sicura che
David potesse accoglierlo nella maniera più positiva, quindi
avrebbe dovuto pesare le parole un bel po' di volte prima di esporle.
«Dunque...
Come sai non ho più una macchina. In questi giorni mi sto
spostando con i mezzi pubblici, ma non è il massimo della
comodità. Devo sempre alzarmi dal letto troppe ore prima per
venire a lavorare e diciamo che in questo periodo non me lo potrei
neanche permettere. Comunque... Vorrei far riparare la mia macchina
ma, come sai, le spese a riguardo sono davvero alte e di certo il mio
stipendio non mi basta. Senza contare che arrivo a fine mese sempre
per un pelo perchè ho i soldi contati...»
«Vuoi
un aumento?»
«No!
Cioè... Non senza fare nulla. Vorrei chiederti se ci sarebbe
qualche altro impiego da darmi, oltre a quello di traduttrice...
Giusto per arrotondare un po' le cifre. È un periodo davvero
molto duro, David, e tradurre non mi basta più, purtroppo.»
«Quindi
vorresti un'occupazione anche al pomeriggio?»
«Se
possibile... Sì.»
Vide
David rapito dai suoi pensieri, intento a strofinarsi la penna sul
mento, con fare riflessivo. Evidentemente stava prendendo in
considerazione un certo numero di occupazioni che avrebbe potuto
assegnarle, per scegliere quello più adatto.
«Ti
andrebbe bene qualsiasi cosa, quindi?» indagò ancora
qualche attimo, giusto per essere certo che Monique non si facesse
alcun tipo di problema.
«Qualsiasi,
David, non ha importanza... Ne ho davvero bisogno.» rispose
Monique, speranzosa. Lo vide riflettere ancora qualche secondo, fino
a che non sollevò nuovamente lo sguardo su di lei, forse
illuminato da una nuova idea.
«L'unica
cosa che posso offrirti è questa: occuparti dello studio di
registrazione. Intendo dire, pulire, riordinare... Cose del genere...
Se a te non disturba ovviamente.» le propose David, con una
lieve punta di imbarazzo nella voce. Forse si sentiva in difficoltà
a proporle quel tipo di lavoro, ma lei non poteva che esserne felice
e rincuorata.
«Ma
no che non mi disturba, anzi! Quindi dovrei occuparmi dell'intero
studio di registrazione, comprese le stanze dei ragazzi, quando
rimangono a dormire qui?» si informò Monique. Il manager
annuì. «Posso anche occuparmi della lavanderia, se vuoi.
Cioè, lavare e stirare i vestiti dei ragazzi, sono molto brava
in queste cose.»
David
ridacchiò appena, sorpreso da quell'incredibile voglia di
fare.
«Se
non ti pesa, va bene anche quello.» le sorrise il manager, con
sguardo rassicurante.
«Certo
che no, David. Non so come ringraziarti, davvero!» esclamò
la ragazza, quasi con le lacrime agli occhi. Reprimette l'istinto di
buttarsi addosso a quell'uomo ed abbracciarlo con tutta la forza che
possedeva in corpo: sarebbe stato decisamente poco professionale.
«Figurati,
io ringrazio te. Puoi cominciare da domani... Ora torna pure a casa
che ti vedo stanca.» Era vero: quella notte l'aveva passata
nuovamente in bianco ed il motivo era quella dannata ecografia... Non
riusciva a staccarvi gli occhi di dosso e anche quando l'aveva
infilata nel suo armadio per la disperazione, non era riuscita a
togliersi quell'immagine dalla testa, tanto che aveva tenuto gli
occhi rivolti al soffitto fino a che le prime luci solari non ebbero
fatto capolino nella sua stanza, attraverso la sua finestra. «E
domani parleremo anche del tuo nuovo stipendio.»
«Va
benissimo, David, grazie ancora.»
Monique
si diresse verso la porta dell'ufficio per riaprirla, quando alle sue
spalle sentì di nuovo David parlare.
«Solo
una cosa, Monique... Perchè tutta questa fretta di lavorare il
più possibile?»
Monique
si sentì trapassare da una freccia infuocata.
Perchè
il tempo stava scadendo, e presto non sarebbe più stata sola,
ma in compagnia di un bambino da crescere ed accudire. E se non
avesse trovato in fretta dei lavori sicuri... Non ce l'avrebbe fatta.
«Perchè
non voglio gravare sui miei genitori, David. Voglio vivere giorno per
giorno senza dovermi chiedere se ce la faccio ad arrivare alla fine
del mese.» rispose Monique, prima di ricevere un sorriso
comprensivo da parte del manager, che scomparve subito dopo, dietro
la porta.
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Capitolo 9 *** Eight. First signs ***
first signs
Chapter
Eight.
-
First signs -
«Perchè
mi guardi così?» la voce di Tom risuonò più
dolce e calda del solito. Monique sgranò appena gli occhi,
tremando sul posto e chiedendosi perchè le stesse ponendo
quella domanda e soprattutto in quale modo assurdo lo stesse
guardando, per far sì che lo facesse.
«Perchè
me lo chiedi? Come ti sto...» balbettò, ma venne subito
interrotta dal chitarrista che le ripetè la stessa domanda,
senza staccarle gli occhi di dosso. Erano fissi su di lei, come fosse
incantato, ma non la vedesse realmente. «Non capisco, Tom...»
continuò la ragazza, mentre una strana sensazione la
pervadeva: si sentiva inquieta, in imbarazzo... In seria difficoltà,
e lo sguardo profondo del ragazzo di certo non l'aiutava.
«Cerchi
tante risposte da me, ma sei te quella che deve fare chiarezza in sé
stessa.» parlò di nuovo con voce ferma, tanto che prese
in contro piede Monique.
«Perchè
mi stai dicendo questo?» domandò basita. Il ragazzo non
disse nulla. Semplicemente le si avvicinò con lentezza
disarmante, senza staccare gli occhi perennemente impiantati nei
suoi, e la sorprese con un gesto del tutto inaspettato: la sua mano
grande e calda andò a posarsi sul suo ventre ancora piatto,
donandole una lieve carezza dalla quale mille brividi si propagarono
lungo il corpo inerme della ragazza.
«Fai
chiarezza in te stessa, Monique.»
**
Mentre
camminava lungo il corridoio dello studio di registrazione, a sguardo
basso, la sua mente continuava ad essere invasa da quel sogno che
aveva riempito il suo sonno quella stessa notte.
Non
aveva mai sognato Tom prima di allora e tanto meno si sarebbe mai
immaginata che accadesse.
La
cosa, oltre che sorprenderla, le destava non poca preoccupazione. Si
dice che nei sogni sia il subconscio a parlare... E che esprimano ciò
che la persona desideri ardentemente, quasi senza accorgersene.
Insomma, non era Tom ciò che desiderava ardentemente,
giusto? Era praticamente impossibile.
Senza
contare il fatto che lui stesso le avesse posato quella mano sul suo
ventre, come a volerle far capire che sapeva, invogliandola a non
mentire più.
Doveva
far chiarezza in sé stessa... Che avesse un particolare
significato? Che fossero parole veritiere e si trattasse di un
messaggio?
Non
riuscì a formulare altri pensieri che si ritrovò con il
sedere a terra ed un cumulo di fogli sparsi sul pavimento, tutti
fuoriusciti dalla sua cartellina. Emise un gemito di dolore,
massaggiandosi in modo decisamente poco fine una natica, e quando
sollevò lo sguardo trovò la causa del suo scontro,
davanti a sé: il chitarrista era ancora in piedi, che
l'osservava perplesso, senza battere ciglio o muovere un qualsiasi
altro muscolo.
«Che
stai combinando?» le domandò senza lasciar trapelare
nessuna emozione particolare e continuando ad osservarla dall'alto
del suo metro e ottanta.
Lei
si trovava con il sedere per terra... Che doveva combinare? Decise di
non incaponirsi più di tanto in quei ragionamenti inutili e si
mise in ginocchio a riporre nella cartellina tutti i fogli persi.
Nemmeno
un dannato scusa... Ma ciò non la sorprese più
di tanto. O forse era lei quella a dover chiedere scusa, dato che era
sovrappensiero e camminava senza guardare dove mettesse i piedi?
«Niente.
Stavo andando a mettere a posto la cartellina e poi mi sarei messa a
pulire lo studio.» rispose, continuando a riordinare il tutto e
optando per il silenzio, il quale l'avrebbe portata a compiere
decisamente meno errori.
«Pulire
lo studio?» ripetè Tom ancora più confuso, senza
scomodarsi per prestarle un aiuto e continuando ad osservarla con le
mani in tasca.
«Sì,
sono riuscita a farmi dare un'altra occupazione da David, assieme
alle traduzioni... Sono un po' a corto di denaro.» spiegò
Monique, domandandosi perchè stesse riferendo i suoi problemi
proprio a lui, e rimettendosi in piedi, di fronte al ragazzo, per
guardarlo negli occhi nocciola.
Doveva
ammetterlo... Le facevano un certo effetto.
«Non
te l'ho chiesto il motivo.» disse lui, chinandosi verso il
pavimento.
«Non
ho problemi a dirlo.» ribattè tranquillamente Monique,
mentre Tom tornava di fronte a lei per porgerle un foglio che
evidentemente aveva dimenticato a terra. «Grazie.»
sussurrò afferrandolo e nascondendo la sorpresa per quel gesto
apparentemente gentile, nonostante lo sguardo di Tom fosse sempre lo
stesso: tagliente e distaccato. Ma quella volta vi leggeva una lieve
differenza... Nemmeno lei sapeva dire in cosa quella differenza
consistesse, ma riusciva comunque a notarla.
«Allora
vai a lavorare, Schmitz.» la risvegliò dai propri
pensieri, tornando ad acquisire l'atteggiamento gelido che lo
caratterizzava maggiormente, per poi passarle affianco ed
allontanarsi da lei.
Monique
si chiese quando quel ragazzo l'avrebbe finita con quel dannato
orgoglio, ma non poté fare a meno di sorridere nel pensarlo.
**
Aveva
la fronte imperlata di sudore e la fiacca si stava facendo largo in
lei già da un po', senza un minimo di ritegno, mentre la sua
mano continuava a strofinare un panno bagnato su un mobile posto nel
corridoio dello studio. Sapeva che la fatica si sarebbe triplicata,
da quando aveva fatto quella richiesta a David, ma la necessità
era più importante di qualsiasi altra cosa.
Si
passò il dorso della mano sulla fronte e riprese a strofinare.
«Hey,
Monique, ti prego, fai una pausa, mi viene male solo a guardarti.»
sentì la voce di Georg affianco a lei. Si voltò e gli
sorrise rassicurante.
«Georg,
purtroppo i soldi non vengono dati a chi ozia.» rispose con
tono amorevole.
«Ma
non devi oziare. Una pausa puoi concedertela, no? È da ore che
lavori senza fermarti un attimo.»
Gli
occhi del bassista erano talmente carichi di premura e di affetto che
Monique non ce la fece a dirgli di no.
«D'accordo.»
sorrise la ragazza, posando lo straccio e raddrizzandosi con la
schiena.
«Andiamo
in giardino, ti va?» le propose di nuovo il rosso, scostandosi
appena per farla passare per prima, da bravo gentiluomo. Monique
annuì e si diresse assieme a lui al di fuori dello studio di
registrazione.
Il
sole picchiava con dolcezza sulle solo figure ed un piacevole odore
di erba appena tagliata invase le narici di Monique, alla quale venne
automatico stringersi nelle spalle, compiaciuta. Georg frugò
nelle tasche dei suoi jeans fino a tirarne fuori un pacchetto di
sigarette. Se ne accese una e prese a fumare in silenzio, osservando
di tanto in tanto il cielo stranamente chiaro sopra di loro.
Era
raro vedere un cielo particolarmente limpido a Berlino, eppure quel
giorno il sole sembrava aver messo da parte la propria timidezza, per
mostrarsi finalmente in tutto il suo splendore.
La
ragazza si sentì subito meglio ed anche tremendamente grata a
Georg per averla distratta con quel pensiero così carino.
«A
che punto siete con il nuovo album?» domandò
interessata, sedendosi sui gradini ed avvolgendosi le ginocchia con
le braccia. Georg si appoggiò con la schiena ad un albero lì
accanto, continuando a fumare, e la osservò sorridente.
«A
buon punto. È quasi terminato.» rispose soddisfatto,
aspirando un'altra boccata dalla sigaretta.
«Sono
davvero curiosa di ascoltarlo.» sorrise Monique. Georg la
ringraziò con lo sguardo, fino a che la ragazza non parlò
di nuovo. «Quindi, presto inizierà il nuovo tour...»
«Già,
non vedo l'ora. Abbiamo un sacco di progetti per la testa...
Soprattutto Bill è una scatola straboccante di idee. Per ora
abbiamo solo deciso il nome che daremo a questo tour e cioè
“Humanoid City Tour”.»
«Mi
ispira parecchio.»
«Vero?
Speriamo che faccia lo stesso effetto sulle fans.»
«Le
vostre fans ci saranno sempre a sostenervi, di quello non ti devi
preoccupare.»
«Sì
lo so. Però, sai, a volte ti viene da pensare a certe cose...
Ti siedi e ti metti a fare un resoconto della tua vita. Parti col
chiederti: “Come ci sono arrivato fin qui?”... Fino alla fatidica
domanda: “ Riuscirò a portare avanti tutto questo ancora per
molto?”»
«Ma
certo che ci riuscirai, Georg. Ci riuscirete tutti quanti. Siete
giovani, avete un successo straordinario, una bella presenza ed un
talento notevole. Dire che ce la farete è riduttivo. Se siete
riusciti a gestire tutto quanto fino ad ora, quando eravate più
piccoli ed immaturi, figuriamoci in futuro...»
«Grazie,
Monique... Sei sempre così carina con noi. Persino con quel
buzzurro di Tom.»
Una
risata limpida si levò nel giardino, da parte di tutti e due,
per quell'ultima affermazione.
«Già,
devo dire che la mia pazienza è quasi invidiabile.»
ribattè la mora, in tono scherzoso. Improvvisamente, però,
venne invasa da un nuovo ed assurdo pensiero. Fremeva dalla voglia di
porre una domanda al bassista ma non sapeva quanto potesse convenirle
farlo. Poteva venire fraintesa in qualsiasi modo; Georg poteva
recepire il messaggio nel verso sbagliato. Eppure la voglia di sapere
quasi la ammazzava. Insomma, di lui si poteva fidare, no? «Senti,
Georg... Tom parla mai di me?» quella curiosità era
scivolata attraverso le sue labbra quasi senza rendersene conto, ma
ora ciò di cui aveva più bisogno era una risposta
sincera e soddisfacente. Notò il rosso trattenersi qualche
attimo, osservandola incuriosito e quindi chiarì: «Intendo,
sia in bene che in male.»
Lo
vide scrollare le spalle, aspirando un altro po' di fumo.
«Non
più di tanto. Quasi mai ad essere sincero.» rispose,
grattandosi la nuca e gettando a terra la sigaretta ormai consumata,
per poi spegnerla con la scarpa da ginnastica. Monique non seppe
come, ma quell'affermazione la deluse un poco. Cosa si aspettava? Che
il chitarrista facesse dei lunghi discorsi, mostruosamente
articolati, su di lei? Perchè poi? «Però ti posso
dire che ogni mattina, appena entra in studio, chiede a David se sei
già arrivata.» aggiunse improvvisamente il bassista,
prendendola in contro piede con quella rivelazione, tanto che Monique
si sentì arrossire troppo velocemente. Sollevò
timidamente il viso verso quello di Georg, che le sorrise comprensivo
come se la sapesse tanto lunga o l'avesse colta in flagrante.
«Tranquilla... Non gli dirò che me l'hai chiesto.»
disse in tono rassicurante, facendo in modo che Monique si sentisse
ancora una volta grata a lui per aver capito. «Che ne dici,
rientriamo?» propose successivamente il ragazzo, facendo un
cenno con il capo verso l'entrata. Monique annuì con un
sorriso intimidito e, con le mani in tasca e lo sguardo basso, si
rialzò per seguire il rosso all'interno dello studio.
**
Il
tempo stava passando decisamente troppo in fretta. Il terzo mese era
arrivato quasi all'improvviso e Monique si sentiva estremamente a
disagio.
Davanti
allo specchio del bagno di casa sua, osservava il profilo del suo
corpo. Un lieve gonfiore si andava a formare sul suo basso ventre,
dove la sua mano si era posata per lasciarvi carezze circolari.
Un
gran magone quasi le impediva di respirare e tutto il resto attorno a
lei era fumo... Inesistente. Qualcosa di visibile, di tangibile, che
andava ad affermare la presenza di quell'esserino dentro di sé.
Non era assolutamente pronta ad affrontare tutto ciò, ma ora –
assieme alla paura – stanziava nella sua anima un altro tipo di
sentimento a lei prima sconosciuto: l'emozione.
Più
volte aveva immaginato la sua figura con quella pancia di troppo, ma
mai era riuscita a visualizzarla in maniera così nitida
davanti ai suoi occhi e doveva ammettere che ciò che vedeva
era quasi meglio di ciò che aveva immaginato.
La
verità però, oltre ad essere accettata dalla diretta
interessata, non poteva essere rivelata alle persone che le stavano
vicino. Ragion per cui sul lavello, di fronte a lei, giaceva una
panciera color pece.
La
afferrò per le estremità e se la avvolse attorno al
ventre, stringendo appena, giusto per far sparire quel piccolo
gonfiore. Fece scivolare la maglia larga sopra ad essa e si ammirò
nuovamente allo specchio. Perfettamente piatta, non avrebbe destato
il minimo sospetto, anche se il suo cuore, in fondo, piangeva.
**
La
camera del batterista era senza dubbio la più ordinata fra
quelle dei ragazzi. L'aveva sempre immaginato che quel biondino le
avrebbe dato meno lavoro di tutti gli altri. Entrare in quella stanza
e trovare solamente il letto da rifare, era una gioia per i suoi
occhi scuri. Le maglie erano perfettamente piegate, rintanate nel suo
armadio, così come le scarpe e tutto ciò che
caratterizzasse la stanza di un comune ragazzo.
Se
ne faceva sempre più una ragione: Gustav Schäfer era da
sposare.
«Hey.»
la voce del “marito ideale” risuonò tra quelle pareti,
proprio alle sue spalle, mentre stendeva la federa del cuscino con le
mani. Quando si voltò verso di lui, notò che era
completamente sudato e teneva ancora le bacchette della batteria fra
le dita.
«State
suonando fino alla morte?» sorrise la ragazza, scrutandolo
attentamente.
«E'
Bill che non è mai convinto di nulla e si ostina a ripetere
tutto quanto ogni volta... Ci fa lavorare come dei muli. E poi dice
di non essere il boss...» borbottò Gustav, recuperando
dal suo armadio un asciugamano pulito. «Adesso la principessa
ci ha concesso una pausa.» commentò ancora con
sarcasmo, suscitando una lieve risata in Monique.
«E'
solo un tipo perfezionista e preciso.» disse la ragazza,
continuando a sorridere di buon umore, mentre il ragazzo si passava
il telo sul collo..
«Tritapalle
penso sia il termine più adeguato.»
«State
parlando di me?» domandò sospettoso proprio Bill,
affacciandosi con la testa nella camera del batterista.
«Come
mai ti senti tirato in causa, al termine tritapalle? Coscienza
sporca?» sollevò un sopracciglio Gustav con malizia,
cosa che parve del tutto sorprendente a Monique. Il vocalist, per
tutta risposta, gli mostrò la lingua – ornata dalla pallina
metallica – e poi si rivolse alla ragazza con un sorriso
smagliante, facendo capolino in camera.
«Stavo
pensando...» cominciò il moro.
«Oddio,
Bill ha pensato...» mormorò Gustav preoccupato, credendo
di non essere udito dalle altre due presenze vicine a lui. Bill lo
ignorò spudoratamente, dopo avergli tirato un'occhiataccia, e
poi tornò a sorridere nella direzione di Monique.
«Perchè
stasera non ceni con noi? Sai, io e gli altri abbiamo deciso di
fermarci a dormire per continuare con le prove...»
«Tu
l'hai deciso.» intervenne di nuovo Gustav, cupo in volto.
«Quindi,
siccome mangiamo qui, che ne dici di onorarci con la tua presenza?»
proseguì il vocalist, senza scomporsi all'obiezione del
batterista.
Monique
rabbrividì. Per un qualche strano motivo, la sua mente era
velocemente atterrata di fronte al viso di Tom. Perchè era
sempre presente nei suoi pensieri, ad ogni minima frase?
Rifletté
qualche secondo su quella proposta, fatta con tanto amore e con la
speranza dipinta negli occhi, valutandone i pro e i contro.
Pro:
serata in bella compagnia ed occasione perfetta per dimenticare un
momento tutti i suoi “impicci” e le sue preoccupazioni. Contro:
lo sguardo gelido del chitarrista, perennemente posato sulla sua
figura, che si sarebbe rintanato in una propria cupola fatta di
silenzio e tensione.
Era
proprio necessario che si domandasse anche il motivo per cui,
improvvisamente, tra i “pro” le venne spontaneo aggiungere
“presenza del chitarrista accanto a lei”?
«D'accordo.»
accettò senza riempirsi di altre inutili e confusionarie seghe
mentali: quel ragazzo la stava mandando pericolosamente fuori di
testa. «Grazie.» aggiunse, tirando un sorriso sul suo
volto. Bill si illuminò, contento per quell'ultima
affermazione.
«Perfetto!»
esclamò entusiasta. Successivamente il suo sguardo perplesso
si puntò sulla figura di Monique – e non propriamente sul
suo viso – mentre le sue labbra non lasciarono passare altre
parole. La ragazza si sentì improvvisamente in imbarazzo e
presa in causa, così si affrettò a chiedere
spiegazioni.
«Che
c'è?» domandò con timore.
«Monique....
Scusa se te lo chiedo ma... Ti è cresciuto il seno o sono i
miei occhi che fanno cilecca?» mormorò il vocalist,
senza staccare lo sguardo dal suo decolté.
Un
calore asfissiante si propagò dalle dita dei suoi piedi, sino
alla punta dei suoi capelli ed era convinta che un colore bordeaux
sarebbe stato decisamente troppo chiaro per descrivere quello che era
andato a dipingere il suo viso. Da quando l'angioletto Bill faceva
domande simili?!
«Ma
ti è cascata una tegola in testa, stanotte, mentre dormivi?!
Andiamo a suonare, che è meglio!» esclamò fuori
di sé e piuttosto allibito Gustav, posando le mani sulla
schiena di Bill e spingendolo fuori dalla stanza.
Monique
restò a fissare il vuoto abbandonato dai due ragazzi, con il
respiro accelerato. Si lasciò cadere all'indietro, fino a
sedersi sul letto del batterista, mentre una mano si andava a posare
tremante alla sinistra del suo petto, dal quale il suo cuore
minacciava di fuoriuscire con violenza.
Se
n'era accorto.
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Capitolo 10 *** Nine. Risk ***
risk
Chapter
Nine.
-
Risk -
Non
sapeva nemmeno lei cosa l'avesse spinta a mettere a soqquadro
l'intero armadio. Per la prima volta nella sua vita si era ritrovata
a reclamare dei bei vestiti; quell'esigenza era arriva
all'improvviso, come una scarica elettrica che non avrebbe smesso di
tormentarla fino a che quel vuoto non fosse stato colmato.
Ogni
capo che possedeva, dal più corto al più lungo, dal più
chiaro al più scuro, giaceva sul suo letto, ma nemmeno uno
riusciva a catturare in particolar modo la sua attenzione. Il suo
sguardo volava da uno all'altro, mentre il suo cervello elaborava
contorte immagini di lei fasciata da quei vestiti. Neanche uno le
ispirava un qualcosa di positivo.
Buttò
un occhio all'orologio appeso alla parete e meditò qualche
attimo. Sì, avrebbe fatto in tempo, se si fosse mossa
all'istante.
Lasciò
tutto com'era sul quel lenzuolo disordinato e corse fuori dalla sua
stanza.
In
quei momenti, solo una persona poteva aiutarla.
**
«Vuoi
che ti presti qualcosa da mettere per stasera?» domandò
Jessica, con sguardo a dir poco accigliato. «E da quando ti
poni il problema di cosa metterti?» indagò di nuovo,
mentre la faceva entrare in casa sua.
Monique
aveva preso il primo pullman che aveva visto passare di fronte casa
sua ed aveva raggiunto in fretta e furia quella della sua migliore
amica, sperando che almeno lei potesse aiutarla in quell'enorme
dilemma.
«Semplicemente
mi sono accorta di essere un po' a corto di vestiti belli.»
si difese Monique, cercando di non far notare il lieve rossore che
era andato a dipingerle le gote.
«E
come mai tutta questa smania di averne di belli? Un certo Tom
Kaulitz potrebbe darmi una risposta?» domandò con
malizia la rossa, mentre entrava in camera sua, seguita da Monique.
Quest'ultima inchiodò sui propri piedi e la osservò con
sguardo quasi oltraggiato.
«Ma
che dici?! Tom non c'entra nulla.» ribattè, mentre un
simpatico broncio si appropriò delle sue labbra.
«Oh,
certo, scusa... Vuoi fare colpo su David. Perchè quel pezzo di
fusto di Tom, quando puoi avere il suo manager?» la canzonò
Jessica, senza abbandonare la propria teoria sul chitarrista.
«Smettila
di sfottermi e aiutami!» esclamò Monique, battendo un
piede a terra, non appena si accorse che il viso le stava per andare
in fiamme.
Pezzo
di fusto non era l'esatta definizione che avrebbe dato al
chitarrista, ma il concetto vi si avvicinava molto.
Scosse
la testa, domandandosi come certi pensieri le potessero attraversare
la mente e si concentrò su ciò che Jessica le stava
mostrando.
«Questo
me lo sono messo ad un matrimonio.» spiegò, mettendo in
mostra un bellissimo vestito color celeste, non troppo scollato o
lavorato, molto morbido e di lunghezza media. Monique storse la bocca
e scosse la testa. «Non ti piace?» domandò la
rossa, accigliata.
«Non
è che non mi piace... Mi si vedrebbe troppo il gonfiore alla
pancia. E inoltre ho bisogno di un qualcosa di più accollato
perchè quel raggio X vivente di Bill si è accorto che
mi è cresciuto il seno.» rispose Monique, in un
borbottio. Jessica scoppiò a ridere, riponendo il vestito
nell'armadio. «Non c'è niente da ridere.» commentò
quasi offesa Monique.
«Questo
allora?» domandò Jessica, senza abbandonare il sorriso
impresso sul suo volto.
«Perfetto
per uno striptease.»
«Ma
che dici?! È più accollato dell'altro!»
«Sì
ma quello che ha guadagnato in alto l'ha perso in basso. Mi si
vedrebbero tutte le gambe. È inguinale quel vestito!»
«E
beh? Le gambe ce le hai ancora belle e toniche. Qual'è il
problema?»
«Next!»
Jessica
sbuffò riponendo anche quel capo nell'armadio. Successivamente
recuperò una gonna di jeans ed un maglione nero.
«Che
ne dici di questi, rompipalle?» domandò a Monique. La
mora li osservò attentamente e poi rispose.
«Il
maglione mi piace ma preferirei dei jeans, piuttosto che una gonna.»
«Come
sei antica...» borbottò Jessica, voltandosi verso
l'armadio e cercando dei jeans.
«Non
sono antica. Lo sai benissimo che fino a qualche mese fa mettevo
anche minigonne.» ribattè Monique, osservandola in tutti
i suoi movimenti.
«Ecco,
appunto, non riesco a capire cosa ti abbia fatto cambiare idea... E
non dare la colpa alla gravidanza perchè non si vede ancora
nulla.» Non seppe per quanto tempo ancora stettero davanti a
quell'armadio ma, improvvisamente l'orologio annunciò a
Monique che di lì a poco si sarebbe dovuta trovare allo studio
di registrazione. «Senti, si sta facendo tardi. Decido io come
ti devi vestire, truccare, pettinare e tu accetterai senza repliche.
Muoviamoci!» esclamò Jessica, posando le mani sulle
spalle di Monique e spingendola verso il bagno.
**
La
porta dello studio di registrazione stanziava di fronte a lei in
tutta la sua altezza. Era ferma su quel tappetino di benvenuto da
minuti interminabili e le sue mani continuavano a contorcersi tra
loro.
Jessica
alla fine aveva avuto la meglio ed ora si ritrovava coperta a
malapena dal secondo vestito che aveva rifiutato – quello nero,
inguinale –, nonostante fosse accollato e non lasciasse intravedere
il decoltè. Il suo ventre era perfettamente coperto da
quest'ultimo e nessuno si sarebbe accorto di nulla, ma le sue gambe
erano completamente nude e ciò la metteva particolarmente a
disagio. Aveva paura che fosse troppo, che i ragazzi avrebbero
sospettato che avesse optato per quel vestiario per far colpo su
qualcuno in particolare e non sarebbe stato difficile ipotizzare su
chi, vista la domanda che Monique aveva posto a Georg quel
pomeriggio.
I
suoi occhi erano contornati di un ombretto bianco che sfumava verso
il nero e dalla matita color pece al loro interno. Le ciglia lunghe
erano state perfettamente tirate su in una morbida curva da un buon
mascara e la sua pelle era impregnata di un delicato profumo che le
aveva regalato Jessica per il compleanno. I suoi piedi indossavano
delle scarpe nere con il tacco, che si andavano a legare attorno alla
caviglia con dei laccetti sottili, ed i suoi capelli scuri ricadevano
perfettamente stirati sulle sue spalle nude.
Prese
un bel respiro: erano le otto in punto e non avrebbe più
potuto attendere oltre. Il suo dito, contornato da un sottile anello
in oro bianco, andò a premere il tasto del campanello. Aveva
le chiavi, ma quelle le usava solamente quando doveva lavorare; le
sarebbe parso da maleducati entrare anche quella sera di sua
spontanea volontà, per un semplice invito a cena.
Udì
dei passi veloci al di là della porta, fino a che questa non
venne aperta dall'allegro e pimpante Bill, che la accolse con uno
splendido sorriso sulle labbra. Era perfettamente vestito e truccato
ed un profumo da uomo, particolarmente forte ma gradevole, le invase
piacevolmente le narici.
«Ciao,
Monique! Entra.» esclamò il vocalist, facendole spazio
per passare. Richiuse la porta e, poggiatale una mano sulla schiena,
la guidò in cucina dove gli altri ragazzi la attendevano.
«Come sei bella!» esclamò di nuovo il moro,
osservandola dalla testa ai piedi, proprio mentre facevano il loro
ingresso nella stanza. Monique arrossì, sussurrando un
“Grazie” che forse Bill non aveva neanche udito.
Sentì
presto gli occhi degli altri tre ragazzi posati su di lei e si maledì
immediatamente per aver ceduto al volere di Jessica, sul vestito.
Georg e Gustav la salutarono animatamente, facendole anche loro i
complimenti per quella “trasformazione” mentre Tom si limitò
a salutarla con un cenno del capo, senza però smettere di
farle la radiografia completa del suo corpo.
Dovette
ammettere che la cosa non le dispiacque minimamente, anzi... Le fece
particolarmente piacere.
«Avanti,
sediamoci che è pronto.» annunciò nuovamente
Bill, mentre tutti obbedivano alla sua richiesta. Monique si sedette
accanto a Gustav, mentre di fronte a lei prendeva posto Georg, con al
suo fianco Tom. Bill li raggiunse con un'enorme pentola ed un
mestolo. Si accinse a servirli uno ad uno, cominciando dalla ragazza
per galanteria, per poi riporre il tutto sul bancone alle loro spalle
e sedersi a capotavola, affianco a Monique.
«Bill,
siamo sicuri che questa pasta sia commestibile?» domandò
Gustav dubbioso, mentre girava la forchetta tra gli spaghetti.
«Certo
che lo è, l'ho fatta io!» rispose il vocalist come fosse
ovvio.
«E'
proprio questo che mi preoccupa, se non si era capito.»
commentò di nuovo il batterista.
«Zitto
e mangia!»
Dopo
essersi augurati “Buon appetito”, presero a mangiare. Monique
constatò compiaciuta che ciò che aveva cucinato Bill
era molto più che commestibile: era davvero buono.
«Complimenti,
Bill. È molto buona.» sorrise la ragazza. Bill si
illuminò in un sorriso radioso e le prese la mano per
lasciarvi un bacio dallo schiocco rumoroso.
«Tu
sì che sei da sposare.» disse il moro, riprendendo a
mangiare.
«Per
così poco?» ridacchiò la ragazza, inforcando un
altro po' di spaghetti.
«Tom,
passaci il pane, per favore.» chiese Bill a suo fratello,
dall'altra parte del tavolo. Il chitarrista non rispose – sembrava
piuttosto cupo in volto – e prese il cesto del pane, allungandolo.
Monique distese a sua volta il braccio per prenderlo ed un calore
intenso le percorse tutto il corpo, quando la sua mano andò a
sfiorare quella calda di Tom, che ritrasse immediatamente come fosse
stato scottato. I presenti a tavola sembravano non essersi accorti di
tutto ciò, ma le guance di Monique stavano prendendo ad
imporporarsi e non sarebbero di certo passate inosservate. «Grazie,
Monique.» le sorrise Bill, recuperando il cesto. La ragazza non
rispose; semplicemente portò alla bocca un altro po' di pasta,
a sguardo basso, cercando di calmarsi.
«Monique,
che ne dici se riprendiamo il discorso che abbiamo lasciato a metà,
a Parigi? Non ci hai ancora detto molto di te.» propose
improvvisamente Georg, masticando con poca grazia un boccone appena
inforcato.
Una
sensazione nuovamente sgradevole pervase per l'ennesima volta
Monique.
«Ma
te l'ho detto, Georg... Non c'è molto da dire.» rispose
la ragazza, con un mezzo sorriso in volto.
«Dai,
qualche pettegolezzo sui tuoi vecchi fidanzati. Siamo curiosi.»
intervenne Bill, come una ragazzina in vena di Gossip.
«Inclusi
i dettagli sconci.» le fece l'occhiolino il rosso, mentre Tom
prendeva a tossire convulsamente. Gustav si affrettò a
riempirgli il bicchiere d'acqua, mentre il bassista prese a battergli
una mano sulla schiena. Il chitarrista era diventato bordeaux in
faccia e gli occhi cominciarono a lacrimargli per lo sforzo. Bevve
tutto in un sorso e quando posò il bicchiere sul tavolo,
riprese a mangiare come nulla fosse. «Quindi?» sorrise
nuovamente Georg, nella direzione di Monique.
«Ma
quali dettagli sconci, Hagen!» rise nervosamente quest'ultima.
«Su
su, mettici un po' al corrente. A che età la prima volta?»
le venne in contro Bill.
«Ma
Bill, saranno cazzi suoi?» giunse in difesa della povera
ragazza Gustav.
«Io
lo voglio sapere!» ribattè il vocalist, capriccioso come
un bambino, per poi voltarsi nuovamente verso la ragazza.
Quest'ultima spostò lo sguardo sul volto di tutti i presenti e
notò che tutti la stavano osservando in attesa, compreso Tom,
anche se con espressione meno interessata.
«Ehm,
sedici.» borbottò la ragazza, per poi passarsi il
tovagliolo sulle labbra e riporre la forchetta nel piatto vuoto.
«E
lui quanti anni aveva?» si informò Bill, sempre più
interessato.
«Diciotto.»
«La
mia prima volta è stata uno schifo allucinante.»
intervenne Georg, dopo aver bevuto un sorso d'acqua.
«Questo
perchè sei un incapace, Hobbit.» rispose Tom, con un
sorriso malizioso sul volto. Il primo sorriso che Monique ebbe
l'onore di osservare. Ne rimase semplicemente incantata.
«Senti
tu, Mr. SexGott dei miei calzoni, da quant'è che non scopi?»
lo provocò il rosso, ricevendo subito dopo il tovagliolo del
chitarrista in faccia.
«Non
è colpa mia se siamo sempre rintanati qui dentro.» si
difese Tom, sulle sue. Monique sentiva la faccia andarle a fuoco e
non comprendeva bene il motivo.
Come
mai quell'improvviso senso di sollievo nel sapere che Tom, da un po'
di tempo, non si vedeva con una ragazza?
«Che
brutta l'astinenza, eh?» lo stuzzicò di nuovo Georg,
battendogli una mano sulla spalla con finto fare comprensivo e
compassionevole. Tom se lo scrollò di dosso, tirandogli una
fulminata con lo sguardo. «Ecco perchè sei così
suscettibile in questo periodo. Astinenza da sesso!»
«Hobbit,
finiscila.» lo minacciò per l'ennesima volta il
chitarrista e finalmente il bassista lo lasciò in pace.
«Che
scuola hai frequentato, Monique?» decise di cambiare discorso
Gustav, al suo fianco, osservandola con attenzione ed interesse.
«Linguistico.
Ma tutte le lingue che conosco le ho imparate soprattutto grazie ad
alcuni amici stranieri dei miei genitori.»
«Beata
te. Noi ora mastichiamo un po' di inglese, per forza di cose, ma
siamo sempre un po' impacciati. Soprattutto Tom che, quando prende a
balbettare, non lo ferma più nessuno.» ridacchiò
Bill, osservando piuttosto divertito suo fratello.
«Oh,
ma stasera vi siete messi tutti d'accordo per sfottermi?»
domandò irritato il chitarrista.
«E'
molto divertente, Tomi...» sorrise Bill, poggiando il mento
sulle proprie mani.
**
Georg
cantava da minuti interminabili una melodia a loro sconosciuta,
completamente ubriaco. Dondolava sulla sedia da destra verso
sinistra, mentre la sua mano teneva l'ennesimo bicchiere di Vodka che
Tom aveva furbescamente tirato fuori dal mobile della cucina. Anche
lui aveva bevuto, ma si poteva dire che reggeva l'alcool molto meglio
del bassista. Gustav non aveva toccato neanche un goccio di quel
liquido pericoloso e Bill invece sembrava ridotto alle stesse
condizioni del rosso.
Monique
aveva rifiutato di bere – la gravidanza non glielo avrebbe di
certo permesso – anche se la tentazione era stata forte. Era troppo
tempo che il suo corpo non ingeriva un po' di “sano” alcool e la
mancanza cominciava a farsi sentire.
«Credo
sia arrivato il momento per me di tornare a casa o non riuscirò
a prendere in tempo l'ultimo pullman.» esortò
improvvisamente Monique, dopo aver dato un'occhiata al suo orologio
da polso.
«Come,
come? Vorresti prendere il pullman a quest'ora? Non se ne parla.»
intervenne Gustav, categorico. «Sai quanti uomini inaffidabili
girano da quelle parti a quest'ora?» continuò il
batterista premuroso.
«Ho
capito, Gustav, ma come faccio a tornare a casa? La macchina ancora
non ce l'ho.» rispose la ragazza, domandandosi effettivamente
come avrebbe fatto.
«Ti
fai accompagnare da qualcuno. Esclusi Georg e Bill perchè
stanno dando di matto.» commentò Gustav, scoccando
un'occhiata compassionevole ai due che ora cantavano insieme,
abbracciati. «Tom, perchè non l'accompagni tu? Sei
l'unico che sa già dove abita. Così io mi preoccupo di
mettere a letto questi due cretini.» domandò poi,
voltandosi nella direzione del chitarrista.
«Ma
no...» cercò di ribattere Monique, ma il ragazzo la
spiazzò scrollando le spalle e mormorando un “D'accordo”,
privo di interesse. Lo osservò qualche istante, sbattendo le
palpebre accigliata, fino a che Gustav non parlò di nuovo.
«Perfetto,
allora, vieni che ti accompagno alla porta.» Monique e Tom si
guardarono qualche attimo, per poi uscire dalla cucina insieme. Il
batterista aveva aperto la porta, per poi dare un affettuoso bacio
sulla guancia alla ragazza. «Allora, ci vediamo domani.»
le sorrise il biondo. Monique annuì, ringraziò e poi
seguì Tom fuori dallo studio. La porta alle loro spalle venne
chiusa ed il silenzio tornò a sovrastarli. Monique gli
camminava dietro e non poteva fare a meno di osservare la sua
schiena, così alta ed ampia, proprio come piaceva a lei. Lo
sguardo calò successivamente sulla mano del chitarrista ed un
improvvisa voglia di afferrarla si fece largo dentro di lei.
Era
inutile continuare a negarlo: più quel ragazzo la trattava
male o semplicemente la ignorava, più si sentiva attratta da
lui. Voleva trovare protezione fra le sue braccia o sentirsi
semplicemente sussurrare delle parole carine e rassicuranti da lui,
senza un motivo particolare. Ciò la spaventava parecchio.
Entrarono
nella Cadillac e il ragazzo mise in moto, dopo essersi allacciato la
cintura. Per qualche minuto non parlarono, in cui Monique si
torturava le mani sulle sue gambe nude – tenute timidamente strette
tra di loro, dato che il vestito si alzava ancora di più in
quella posizione – fino a che la ragazza non decise che non avrebbe
potuto sopportare oltre.
«Georg
e Bill erano completamente andati.» ridacchiò appena,
scrutando di sbieco il ragazzo per leggere sul suo volto una
qualsiasi reazione. Quest'ultimo non si scompose, come aveva
immaginato.
«Georg
parte sempre non appena beve qualcosa. Bill non regge niente e
solitamente non perde tempo a bere. Si vede che stasera ha voluto
fare un po' il deficiente.» rispose Tom, sorprendendola. Il
tono non era né brusco, né freddo. Semplicemente privo
di una qualsiasi emozione tangibile: era già un passo avanti;
significava che forse era in vena di instaurare un piccolo dialogo
con lei, tanto per cominciare.
«Però
sono simpatici.» continuò Monique, sperando con tutto il
cuore che quella conversazione potesse continuare ancora per molto.
«L'umorismo
all'Hobbit non manca.» commentò Tom, scrollando le
spalle e senza mai staccare gli occhi dalla strada. «Tu non hai
toccato niente.» affermò successivamente, senza cambiare
espressione in viso.
«Non
posso.» le scappò, ma cercò subito di rimediare:
«Cioè, non potevo perchè poi, se mi fossi
ubriacata, non sarei riuscita a tornare a casa in pullman da sola.»
«Saresti
sul serio tornata in pullman?»
«Non
avevo scelta.»
«Tu
devi avere qualche rotella fuori posto. Vado a prendermi le
sigarette, aspetta un attimo.»
Detto
questo, il chitarrista accostò affianco ad un marciapiede e
scese dalla macchina. Monique lo seguì con lo sguardo fino a
che non lo vide fermarsi ad un distributore automatico.
Tu
devi avere qualche rotella fuori posto. Che fosse un modo brusco
per farle capire che anche lui sarebbe stato in pensiero per lei?
Monique sorrise impercettibilmente. Voleva pensarlo perchè
quell'idea... Le piaceva.
Improvvisamente
vide Tom tornare alla macchina e, una volta a bordo, rimise in moto.
Nemmeno lei seppe quanti minuti spremette il proprio cervello per
partorire un altro buon argomento di cui parlare: forse solo in quel
modo potevano cominciare ad instaurare il così detto rapporto
civile di cui Monique aveva bisogno da tempo.
Purtroppo
però i suoi tentativi vennero presto mandati in fumo nel
momento in cui la Cadillac si fermò davanti casa sua. Non
voleva scendere da quella macchina... Per qualche assurdo motivo,
voleva restare lì dentro e parlare con lui; ne aveva
disperatamente bisogno.
«Cazzo.»
sentì la voce scocciata del chitarrista accanto a sé e
voltò il suo sguardo verso di lui, piuttosto incuriosita. Lo
vide tastarsi la felpa e i jeans, alla ricerca di un qualcosa a lei
sconosciuto.
«Che
succede?» domandò cauta.
«L'accendino...
L'ho dimenticato allo studio. Ho bisogno di fumare una sigaretta.»
rispose, ostinandosi a non guardarla neanche per errore. Solo in quel
momento Monique venne trafitta da un'altra idea improvvisa.
Probabilmente
avrebbe fatto un errore; il chitarrista l'avrebbe derisa o, ancora
peggio, le avrebbe detto di no sostenendo che fosse impazzita, ma la
sua voglia di non allontanarsi da lui – o almeno, non ancora –
continuava a crescere, sempre di più.
Così,
al diavolo la razionalità; quel che sarebbe successo, sarebbe
successo.
«Se
sali a casa mia te ne do uno.»
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Capitolo 11 *** Ten. Unexplainable explanations ***
unexplainable explanations
Chapter
Ten.
-
Unexplainable explanations -
Quando
aprì la porta di casa sua, il cuore minacciava di sfondarle
violentemente il petto. Sentiva la presenza del chitarrista alle sue
spalle; poteva percepirne il respiro rilassato – forse per la prima
volta da quando si trovava da solo con lei. Lo fece passare, facendo
ben attenzione a non sfiorarlo nemmeno con un lembo del suo vestito
corto e richiuse la porta.
«Ehm,
vieni.» lo incitò la ragazza, facendogli strada nella
sua umile e piccola dimora. Il ragazzo le ubbidì, facendo
qualche lento passo in avanti e con le mani nelle tasche dei suoi
jeans, mentre lo sguardo saettava da un punto all'altro, senza
risultare troppo invadente.
Monique
si domandò cosa le fosse passato per la testa, nell'esatto
momento in cui gli aveva proposto di salire in casa sua per un
semplice accendino. Era stata decisamente troppo avventata e il
chitarrista, molto probabilmente, avrebbe creduto che lei volesse
concludere dell'altro con lui. Ma allora, se così poteva
essere, perchè aveva accettato, senza fare una piega?
Il
suo viso era sempre privo di qualsiasi espressione che facesse per lo
meno intuire a Monique quali fossero le sue impressioni su ciò
che gli accadeva attorno, ma questo sembrava non volerle dare
soddisfazione.
La
ragazza entrò nella sua piccola cucina, seguita da lui –
perennemente in silenzio e inespressivo – e prese a frugare in un
cassetto del banco, fino a che non ne tirò fuori un accendino
nero.
«Ecco.»
disse al ragazzo, porgendoglielo e cercando di ignorare i brividi che
si erano protratti lungo il suo corpo nel momento in cui la sua mano
l'aveva sfiorata. «Puoi fumare sul balconcino, se vuoi.»
aggiunse, andando ad aprire la piccola porta finestra che dava sul
minuscolo spazio che poteva essere definito da lei “balconcino”.
Tom la seguì di nuovo, senza dire mezza parola, fino a che non
si ritrovarono entrambi avvolti dalla piacevole brezza serale di
Berlino. Monique gli avvicinò un posacenere, sul tavolino
affianco a loro, e restò in silenzio ad osservarlo mentre si
accendeva – quasi con eleganza – la sigaretta tra le labbra.
Agli
occhi di Monique, tutto ciò che lui faceva pareva elegante, ma
allo stesso tempo intriso della giusta mascolinità che gli si
addiceva solamente guardandolo.
Tirò
la prima boccata di fumo, riponendo l'accendino sul tavolino, e poi
l'espirò leggermente, osservando con sguardo penetrante il
paesaggio di fronte a sé. Berlino di notte era affascinante.
«Grazie
per l'accendino.» esortò improvvisamente il ragazzo,
facendo quasi sobbalzare Monique.
«Oh,
prego.» rispose impacciata, mentre le guance tornavano ad
imporporarsi. Insomma era quella l'emozione che le trasmetteva il
chitarrista? Si sentiva come ai suoi diciassette anni, quando si
prendeva una cotta per un ragazzo del liceo. Percepiva le stesse
emozioni di quel periodo. «Ti... Ti puoi sedere, se vuoi.»
gli propose poi, indicando le due sedie in vimini accanto al
tavolino.
«No,
preferisco stare in piedi.» rifiutò l'invito il ragazzo,
tornando a fumare in silenzio, dopo essersi appoggiato al muro alle
sue spalle. Monique invece era andata a poggiare il bacino sulla
ringhiera, di fronte a lui, cercando di non osservarlo troppo in ogni
suo movimento, o l'avrebbe di sicuro colta in flagrante. Si sentiva
ancora impacciata per quel vestito così corto e aveva quasi
paura che gli occhi del chitarrista fossero perennemente posati sulle
sue gambe nude. Gli lanciò una veloce occhiata e notò
che si sbagliava: lo sguardo di Tom era ancora perso, oltre lei, sul
paesaggio berlinese. «E' piccola casa tua.» esortò
il ragazzo, senza guardarla. Monique restò qualche attimo in
silenzio, chiedendosi se quello fosse un discorso degno di quel nome.
«Beh,
comprendo che tu sia abituato a ben altro ma questo è tutto
ciò che mi posso permettere al mome...»
«Mi
piacciono le case piccole.» la interruppe lui, continuando a
non guardarla. Monique sbattè appena le palpebre,
osservandolo. Era serio, pensieroso... Assorto in un qualcosa che lei
non capiva cosa potesse essere. Avrebbe tanto voluto fare un lungo
viaggio nella sua mente, giusto per capire cosa gli passasse per la
testa ogni qual volta si trovavano insieme. Nel suo subconscio
pregava che lui non fosse davvero infastidito dalla sua presenza ma
che, in qualche modo, l'apprezzasse, come lei inspiegabilmente
apprezzava la sua. La trattava male, o con indifferenza, ma non
poteva non desiderare lo stesso la sua vicinanza: tutto questo la
mandava in paranoia. «Su chi volevi fare colpo con quel
vestito, Schmitz?» domandò improvvisamente Tom,
prendendola in contro piede. La ragazza diventò paonazza in
viso, mentre le gambe presero a tremarle.
Credeva
che non si fosse soffermato troppo sul suo abbigliamento. Era
convinta che non avesse sospettato di nulla, ma evidentemente si era
sbagliata.
«Su
nessuno, Tom.» rispose, cercando di assumere un tono sicuro, ma
senza successo. Per la prima volta lo sguardo di Tom si spostò
sul suo viso e Monique rabbrividì, perdendosi nella profondità
di quegli occhi nocciola.
«Voi
ragazze non vi mettete mai qualcosa di elegante addosso se non è
per fare colpo su qualcuno.» ribattè inaspettatamente il
chitarrista. Si sentiva in trappola e voleva uscirne al più
presto.
«Nel
mio caso, questo vestito non è stato scelto per questo fine.»
rispose, celando il lieve tremore che la stava pervadendo.
Tom
spense la sigaretta nel posacenere, per poi staccarsi dal muro ed
avvicinarsi alla ragazza. Monique sentiva il cuore esploderle ed il
fiato mancarle. In pochi secondi, il chitarrista la affiancò
sulla ringhiera, mantenendo comunque una giusta distanza. Aveva di
nuovo distolto lo sguardo da lei, per tornare a concentrarsi sulla
città notturna. «Bugiarda.» sussurrò
nuovamente, senza guardarla. Monique venne trafitta da una scossa
elettrica lungo la sua colonna vertebrale che la portò a
voltarsi completamente nella direzione del ragazzo.
«Perchè
sei così convinto del contrario? Non puoi sapere cosa mi sia
passato per la testa quando ho messo questo schifoso vestito. Non mi
conosci... Non hai voluto farlo.» ribattè, presa dal
nervoso. Vide le mani del chitarrista stringere la ringhiera, fino a
farsi diventare le nocche bianche.
«Basta
con questa storia. Non puoi capire, Schmitz.» sibilò a
denti stretti, continuando ad osservare il vuoto davanti a sé.
«Perchè
dai per scontato che io non possa capire se neanche provi a
spiegare?!»
«Perchè
non c'è niente da spiegare!»
Tom
si era alzato di scatto dalla ringhiera ed era rientrato in casa, ma
Monique si affrettò a raggiungerlo e afferrargli la manica
della felpa, alle sue spalle.
«Sono
stufa, Tom! Sono stufa del tuo atteggiamento nei miei confronti! Sono
una persona umana, non sono un cane o un oggetto che puoi trattare
come ti pare! Anche io ho dei sentimenti come te!» urlò
la ragazza, sentendo un gran magone farsi spazio nella sua gola. Tom
si voltò di scatto, divincolandosi dalla sua ferrea presa.
«Ed
è proprio per questo che mi tengo alla larga da te!»
ribattè furioso. «Tu ti ostini a non capire! Guardi
solamente in superficie le cose, senza provare ad andare oltre! Tu
vedi in me solamente il ragazzo che ti tratta di merda, che cerca di
mantenere le distanze con te, ma non ti sei mai fermata a riflettere
sul motivo!»
«E
invece è qui che ti sbagli, Tom! Io mi spacco la testa tutti i
santi giorni per capire cosa passi per la tua! Quale sia questo
assurdo motivo che ti spinge a stare alla larga da me, a non voler
instaurare un rapporto civile, come ti ho già chiesto in
passato!»
«E
hai mai provato a darti una risposta?!» Monique non fece in
tempo a riflettere su ciò che le aveva domandato, che il
chitarrista le afferrò le spalle, sbattendola contro le
mensole dietro di lei. Strinse gli occhi per il colpo doloroso che
aveva ricevuto alla colonna vertebrale ed aprì lievemente gli
occhi per accorgersi che Tom – o meglio, le sue labbra – si
trovavano a pochi centimetri dalla sua bocca. Il respiro caldo e
odorante di fumo del ragazzo le lambì il volto, mentre le sue
mani non si staccavano dalle sue spalle tremanti. Si perse ad
osservare gli occhi furenti che la scrutavano come turbati o
tormentati da un qualcosa a lei sconosciuto. Era la prima volta che
si trovava ad una distanza così ravvicinata con lui e la cosa,
oltre che agitarla e spaventarla, le provocava un'immensa scarica di
eccitazione sulla schiena. «La verità è che tu
sei troppo accecata dalla rabbia verso il mio comportamento, per
capire cosa veramente mi passa per la testa.» continuò
il ragazzo, con tono più basso ma penetrante. La sua fronte
era andata ad appoggiarsi su quella di Monique che, nel frattempo,
non riusciva a dire una parola. Le braccia del chitarrista si erano
appoggiate sul ripiano dietro di lei, in modo che la distanza fra
loro fosse rimpicciolita ulteriormente. Monique sentiva i jeans del
ragazzo carezzarle le gambe nude e il suo torace a contatto con il
suo seno coperto dal vestito accollato. Sentiva il fiato mozzato e
l'ansia mischiata a strana eccitazione pervaderla interamente.
Sgranò
gli occhi quando sentì il tocco delle labbra di Tom sulla sua
tempia. Un bacio. Un semplice bacio, intriso di infinita tenerezza
che mai si sarebbe aspettata da lui prima di allora. Il cuore prese a
martellarle più velocemente in petto e per un momento ebbe
paura che potesse venirle un infarto. Dalla tempia, le labbra presero
ad accarezzarla lievemente, fino ad arrivare sulla sua guancia
liscia. Un altro bacio. Monique trattenne il fiato. Sentiva come una
calamita attrarla verso quella bocca lievemente carnosa e
dannatamente peretta, ma questa non arrivava mai dove lei voleva.
Senza
pensarci, voltò il suo capo in direzione di quella meta tanto
ambita, ma il ragazzo le posò delicatamente un dito sulle
labbra, ancora prima che potesse baciarlo come lei desiderava. Lo
vide aprire gli occhi e scrutarla con una strana luce malinconica al
loro interno. Le accarezzò le labbra con quel dito,
osservandole attentamente, per poi posare di nuovo lo sguardo sui
suoi occhi truccati. «Questo è uno dei motivi per cui
devo tenermi alla larga da te, Schmitz.» sussurrò a
qualche millimetro dalla sua bocca. Le diede un lieve bacio sulla
fronte, fino ad allontanarsi definitivamente da lei. Monique percepì
un freddo improvviso ed una sgradevole sensazione di mancanza, quando
sentì il corpo del chitarrista rompere il contatto con il suo
ed un bisogno improvviso di sentirlo ancora più vicino di
prima. La guardò ancora qualche attimo, fino a che non le
diede le spalle per poter uscire da casa sua e abbandonarla di nuovo,
avvolta nel silenzio.
Monique,
restò impalata, dove il ragazzo l'aveva lasciata, per poi
riprendere a respirare, mentre sentiva ancora il suo profumo addosso.
Si portò una mano al petto cercando inutilmente un modo per
calmare i suoi battiti accelerati. Le gambe, ancora tremanti, le
cedettero, fino a farla rovinare a terra.
Ora
la confusione la stava dilaniando... Sempre di più.
**
Tracciò
un'altra riga nera sull'ennesima parola sbagliata che quella penna
aveva marcato sul foglio bianco. Grugnì, portandosi una mano
alla fronte e correggendo di nuovo tutto quanto.
Era
distratta, stava lavorando in maniera deplorevole, come mai le era
capitato in vita sua. Nella sua testa, sentimenti contrastanti
combattevano tra loro: rabbia, emozione, tristezza, curiosità.
Il
chitarrista era riuscito ad abbandonarla con quel mix di sensazioni
che lentamente le stavano divorando il fegato.
Non
poteva accettare tutto ciò: pretendeva delle spiegazioni. Tom
non poteva interrompere la discussione con un semplice “Questo è
uno dei motivi per cui devo tenermi alla larga da te.”. Stava
giocando decisamente troppo sporco e la cosa la mandava letteralmente
in bestia. A cosa si riferiva? Qual'era quel maledetto motivo?
Si
prese la testa con entrambe le mani, stringendo le palpebre e gemendo
dalla confusione.
Non
le era mai capitato di dover affrontare le stranezze di un ragazzo
così enigmatico, in vita sua. Bene o male tutti quanti erano
stati fin troppo chiari con lei, a partire da Christian, ma Tom
poteva essere considerato decisamente un caso patologico. Eppure
sapeva che avrebbe dovuto porre fine a tutto quello: le sue
preoccupazioni si stavano riversando anche sul suo lavoro e sulla
gravidanza e certamente non andava bene.
Improvvisamente
si portò un dito alla tempia, arrossendo impercettibilmente al
solo pensiero che le labbra del chitarrista vi si erano posate con
gentilezza; poi lo passò sulla guancia, poi sulla fronte,
ripercorrendone i brividi provati nella sua mente. Voleva ancora quel
contatto, anche se un nuovo timore si stava impossessando di lei.
Tom
si era scostato, quando aveva tentato di baciarlo sulla bocca. Perchè
glielo aveva impedito?
Le
veniva da piangere; si sentiva inspiegabilmente rifiutata, non
gradita... E voleva tanto comprenderne il motivo.
Un
improvviso rumore di vetri in frantumi la destò dai suoi
pensieri. Sentì delle urla dalla stanza affianco e un brivido
le percorse la colonna vertebrale. Si alzò velocemente dalla
sua poltrona in pelle e corse fuori dal suo ufficio, fino ad arrivare
alla fonte di quel fracasso, dove inchiodò sui propri piedi,
trattenendo il respiro di fronte alla scena che i gemelli le stavano
proponendo: sembravano aver appena terminato una rissa in piena
regola. I suoi occhi si posarono presto sulla mano ferita di Tom,
dalla quale sgorgava un sottile rivolo di sangue – colpa del vetro
frantumato a terra, che Monique non riuscì a riconoscere – e
poi sul volto furente del gemello. Georg tratteneva Tom per le
spalle, mentre Gustav stringeva un lembo della magli del vocalist.
«Ma
che sta succedendo qui dentro?! Siete fuori di testa, per caso?!»
esclamò David, rosso in viso dalla rabbia, facendo irruzione
in quella stanza. «Avete quasi ventun'anni e ancora non avete
imparato a controllare la vostra ira?! Non potete prendervi a botte
ad ogni minima discussione!» continuò fuori di sé.
Tom si scollò violentemente dalla presa di Georg e, con
sguardo truce, uscì dalla stanza a grandi passi. «Si può
sapere che è successo questa volta?» domandò
successivamente il manager a Bill. Il ragazzo lo guardò con il
fuco negli occhi e prese a urlare.
«Chiedilo
a quel malato di mio fratello! È tutto oggi che gli girano i
coglioni e non gli si può dire mezza parola!» detto
questo, uscì anche lui dalla stanza, per poi rifugiarsi in
giardino e sbattere la porta dello studio di registrazione con tutta
la forza che aveva in corpo, tanto che Monique e il resto dei
presenti strinsero le palpebre dal frastuono.
«Georg,
Gustav, ripulite questo macello, per favore.» mormorò
David, cupo in volto, per poi allontanarsi di nuovo e chiudersi nel
suo ufficio. I due ragazzi sospirarono pesantemente, accontentando
quella richiesta in silenzio.
«Cos'è
successo?» domandò timidamente Monique, piegandosi sulle
ginocchia per poterli aiutare con quei piccoli vetri frantumati.
«Tom
è strano. È da stamattina che lo è. È
scorbutico con tutti, non ha voglia di parlare... Non che non sia già
successo altre volte, ma come oggi mai.» rispose Gustav,
recuperando una scopa e una paletta.
«Odio
quando le fa scontare agli altri.» borbottò Georg, dopo
essersi portato una ciocca di capelli rossi dietro a un orecchio. «E
se gli chiedi che cos'ha ti mangia con un solo sguardo.»
aggiunse con fare scocciato.
«Ma
addirittura picchiarsi con Bill?» chiese sempre più
esterrefatta la ragazza.
«Quella
non è una novità. Quando litigano si sa che si lanciano
qualunque cosa capiti loro sottomano, da una parte all'altra della
stanza.» scrollò le spalle il bassista, come fosse una
cosa normale.
Una
volta concluso il loro lavoro, si risollevarono da terra per poter
gettare i pezzi di vetro in un cesto della spazzatura, lì
vicino.
«Grazie,
Monique.» le sorrise Gustav.
«Figurati.»
rispose lei, piuttosto pensierosa. Quando i ragazzi si allontanarono
per raggiungere entrambi mete diverse, girò sui propri piedi,
con l'intenzione – forse assurda – di trovare il chitarrista, per
capirne qualcosa di più. Sapeva perfettamente che si sarebbe
infuriato anche con lei, mandandola in un paese molto lontano, ma la
voglia di sapere batteva qualunque timore.
Salì
le scale che avrebbero portato alle stanze dei ragazzi e, non appena
sentì il suono melodico di una chitarra, lo seguì con
l'udito, facendosi guidare fino a lui. Trovò la porta della
camera del moro socchiusa e vi si avvicinò lentamente, potendo
perfettamente riconoscere quella canzone che stava suonando: “In
your shadow I can shine”. D'altronde era anche l'unica che le
avevano fatto ascoltare e giudicare.
Una
mano tremante si sollevò, fino ad andare a bussare lievemente
sul legno liscio. Sentì la melodia arrestarsi e così
decise di spostare di poco la porta, affacciandosi con il viso. Trovò
il chitarrista seduto sul letto, con la chitarra in grembo e lo
sguardo intriso di infinita malinconia.
«Posso?»
domandò cauta. Non ricevette risposta, così lo prese
per un “Sì” sottinteso. Fece il suo ingresso in quella
stanza e si avvicinò leggermente impacciata al ragazzo, fino a
sedersi sul letto, di fronte a lui. Gli occhi di Tom la studiavano
attentamente, senza dare segno di una qualche espressione più
amichevole, ma ciò non le importava. «Che succede, Tom?»
gli domandò, osservandolo. Lo vide serrare la mascella.
«Non
sono affari tuoi.» le rispose freddamente. Monique si sentì
per un attimo offesa da quella risposta. Credeva che dopo i teneri
baci che le aveva dato la sera prima, anche il suo atteggiamento
sarebbe cambiato nei suoi confronti, cercando di trattarla con più
gentilezza. Decise comunque di convincersi che quella risposta era
stata data dalla rabbia del momento.
Abbassò
lo sguardo sulle sue mani, ancora poggiate alla chitarra e aggrottò
la fronte, notando che quella ferita perdeva ancora del sangue.
«Tom,
stai ancora sanguinando alla mano. Devi disinfettare quel taglio.»
esclamò la mora, sollevandosi velocemente dal materasso.
«No,
Schmitz, stai ferma. Vieni qua.» borbottò il ragazzo,
algido, mentre Monique si era già fiondata al bagno affianco
alla sua stanza per recuperare un po' d'acqua ossigenata, del cotone
ed una piccola garza bianca. Quando tornò da lui, lo trovò
dove l'aveva lasciato, così ci si sedette di nuovo davanti.
«Dammi
la mano.» gli intimò premurosa, allungando la propria.
«Schmitz,
per favore, sto bene, non mi serve tutto questo.» sbuffò
il chitarrista, ma Monique fu più veloce di lui e gli afferrò
delicatamente la mano ferita. Una scarica elettrica si protrasse da
dove la ragazza l'aveva toccato, sino ad ogni cellula del suo corpo e
per un attimo sperò che la stessa sensazione l'avesse provata
lui. Impregnò il discetto di cotone di un po' d'acqua
ossigenata e poi, chiudendo la mano del chitarrista nella propria,
cominciò a tamponarglielo lievemente sul dorso, cercando di
non fargli male. Sentiva un calore piacevole in quella presa e cercò
di concentrarsi solo ed esclusivamente su ciò che stava
facendo, quando improvvisamente la mano del chitarrista strinse di
scatto la sua. «Brucia, cazzo!» esclamò,
stringendo appena anche le palpebre. Gli occhi di Monique si
sollevarono sui suoi, mentre continuava il suo lavoro. Non si sarebbe
mai più voluta staccare da quella presa forte... Le infondeva
sicurezza.
Una
volta finito, però, fu costretta ad abbandonarla, ormai
lievemente sudata, per srotolare la garza. Prese di nuovo la mano del
chitarrista e gliela fasciò con cura, ignorando lo sguardo di
lui, puntato sul suo viso.
«Ecco
fatto.» concluse la mora, osservando il suo lavoro. Tom
ritrasse la mano e voltò lo sguardo in un'altra direzione.
Monique sorrise, sapendo che non l'avrebbe mai ringraziata. «Senti,
Tom... Io ero venuta qui per parlare. Avevo intenzione di chiederti
delle spiegazioni, riguardo ieri sera, ma non lo farò. Almeno
non ora. Hai bisogno di sbollire tutti i nervi che ti porti in corpo
ed io non voglio essere una causa di ulteriore nervoso. Sappi solo
che mi dovrai chiarire molte cose, perchè non mi accontento di
quella frase lasciata in sospeso, dopo quello... Dopo quello che hai
fatto.» disse poi, guardandolo attentamente negli occhi. Lui
rispondeva allo sguardo, con una nota malinconica e pensierosa negli
occhi, ma non rispose. A dire il vero, Monique non attendeva una
risposta.
Si
alzò dal letto e si diresse nuovamente alla porta di quella
stanza, per poi uscire e lasciare il chitarrista pensieroso di nuovo
solo, con la sua chitarra.
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Capitolo 12 *** Eleven. Damned collapse ***
damned collapse
Chapter
Eleven.
-
Damned collapse -
«Io
te l'ho detto e rimango della mia idea: secondo me è preso da
te.» Jessica aveva parlato, per poi portarsi alla bocca la
tazza di tè fumante che teneva in mano, rannicchiata in un
angolo del divano dove sedeva anche Monique, intenta a rigirarsi una
ciocca di capelli attorno al dito indice.
Le
aveva raccontato tutta la vicenda, avvenuta a casa sua, con il
chitarrista, senza tralasciare un minimo dettaglio. Ogni brivido,
ogni stretta, ogni respiro ed ogni sussurro era stato menzionato con
un po' di nostalgia. Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo,
rivivere tutto ciò senza giungere mai alla fine di quella
discussione... Avrebbe ripetuto il tutto all'infinito, fino a
stancarsi.
Ormai
l'aveva ammesso anche a se stessa: Tom le piaceva e non poco.
L'attrazione sia fisica che mentale che provava nei suoi confronti
era troppo forte per poter essere ignorata. Eppure si domandava in
che modo quei sentimenti avrebbero portato ad un buon fine, se il
chitarrista si rifiutava di darle salde certezze.
«Se
gli fossi davvero piaciuta, avrebbe lasciato che lo baciassi, senza
porsi problemi.» mormorò Monique, abbassando lo sguardo
sulle sue gambe incrociate sul divano.
«Ma
cosa ne sai che non si è ritratto per un motivo preciso che
conosce solo lui? Se non gli fossi piaciuta neanche un po', non ti
avrebbe sbattuta al muro, dandoti tutti quei baci, e soprattutto
dicendoti quelle cose.» ribattè Jessica con enfasi.
«Sarà...
Ma tutto questo non mi convince.» borbottò la mora,
poggiando la testa sulla sua mano.
«Chiedigli
spiegazioni.»
«Gli
ho già detto che lo farò. Ma non ho ancora trovato il
momento giusto.»
**
Sospirò
per l'ennesima volta, stendendo quell'odiosa coperta rossa sul letto
del vocalist.
Come
avrebbe potuto trovare un maledetto momento giusto per parlare col
chitarrista, se questo ogni volta che la vedeva svoltava al primo
angolo che trovava o era sempre occupato in qualche lavoro con la
band?
Non
le piaceva essere evitata; era una cosa che aveva sempre odiato sin
da quando piangeva disperata, da bambina, per richiamare l'attenzione
dei suoi genitori, intenti a fare altro e non potendo considerarla
come lei si aspettava. Ora voleva, pretendeva quella
considerazione da parte del chitarrista. D'altronde era lui che li
aveva portati a quella situazione ambigua.
«Hey,
Monique... Hai già rifatto il letto.» commentò
Bill, una volta entrato nella stanza con sguardo piuttosto stanco. La
ragazza si voltò incuriosita verso di lui, mentre lo vedeva
passarsi una mano sul viso.
«Hey,
sei stanco?» domandò retoricamente, dopo aver sistemato
il cuscino.
«Stanotte
non ho chiuso occhio; un mal di stomaco assurdo. E stamattina mi sono
svegliato presto per lavorare su questo album che – sia ringraziato
il Cielo – è quasi finito.» spiegò,
avvicinandosi di qualche passo. «Ora volevo mettermi un po' nel
letto a riposare, dato che ci siamo concessi una pausa. Per quello mi
dispiace che hai appena rifatto il letto.» continuò
osservandola con lieve imbarazzo.
«Oh,
ma stai tranquillo, Bill. Il letto, tanto, va fatto per essere
disfatto di nuovo.» ridacchiò Monique, battendogli una
mano sulla spalla più volte. «Allora, buon riposo.»
gli augurò successivamente, togliendo il disturbo da quella
stanza. Una volta richiusa la porta, sospirò, decidendosi che
quello sarebbe stato il momento adatto per parlare con Tom. Si erano
presi una pausa ed il chitarrista non avrebbe potuto trovare scuse
accettabili per non affrontarla.
Scese
le scale a grandi passi, fino al piano terra, e – dopo essersi
guardata intorno – constatò che il ragazzo doveva essere
uscito in giardino a fumarsi una sigaretta.
Aprì
velocemente la porta dello studio di registrazione, con espressione
già irata, e impuntò sui propri piedi non appena lo
vide fumare in compagnia di Georg. La delusione si impossessò
di lei.
No,
decisamente non poteva parlargli davanti al bassista.
Stava
per richiudere la porta, quando la voce del rosso le trapanò
le orecchie.
«Hey,
Monique! Dove vai? Vieni a farci un po' di compagnia!»
Monique
tornò ad affacciarsi in giardino, solo con il viso, e sorrise
impacciata.
«Ehm,
no, Georg, devo andare a finire di mettere a posto le vostre stanze.»
rispose, stando ben attenta a non guardare negli occhi il
chitarrista. Stava facendo una pessima figura con lui: senza dubbio
pensava che lo stesse addirittura spiando.
Detto
questo, si rifugiò velocemente nello studio di registrazione,
richiudendo la porta. Salì le scale e si recò nella
stanza di Tom – l'unica che ancora non aveva riordinato. Quando vi
entrò, prese un bel respiro. Era assurdo: ogni volta che
varcava la soglia di quella camera sembrava che il profumo del
chitarrista le raggiungesse velocemente le narici, mandandola per un
attimo fuori di testa. Probabilmente era solo una sua impressione, ma
non poteva fare a meno di accorgersene.
Si
avvicinò al letto del ragazzo e trovò su di esso tre
maglie e due paia di jeans da piegare. Afferrò la prima
maglia, cercando di concentrarsi solo ed esclusivamente sul proprio
lavoro, il che voleva dire anche di non far caso al delizioso profumo
che quei capi emanavano.
Chiuse
gli occhi, portandosene uno al viso ed inspirando quell'odore
inebriante, ma subito si trovò ad arrossire. Allontanò
velocemente la maglia e si affrettò a piegarla, domandandosi
come le venisse in mente di fare certe cose imbarazzanti.
Improvvisamente,
mentre si accingeva a piegare il primo paio di jeans, si accorse che
quella stanza stava ospitando un'altra presenza. Quando voltò
il suo sguardo, sobbalzò, portandosi successivamente una mano
al petto per riprendere quel poco d'ossigeno che aveva
momentaneamente perso.
Tom
era appena entrato in camera sua e si era fermato sulla soglia ad
osservarla inespressivo.
Che
avesse voluto trovarla per sua spontanea iniziativa, facilitandole il
compito?
«Ciao.»
borbottò Monique, per poi riabbassare lo sguardo sui jeans e
continuare a stenderli con le mani. Sentì il moro
avvicinarlesi ed il suo cuore cominciò ad accelerare i
battiti.
Stai
calma, si disse mentalmente, continuando a far finta di nulla su
quei dannati e profumatissimi jeans.
«Mi
volevi parlare, prima?» domandò tranquillo il
chitarrista. Monique sentì una scossa scuoterla. Quella
domanda l'aveva infastidita. Come poteva chiederle una cosa così
scontata dopo quello che era successo?
«Se
è per questo, è da giorni che voglio parlarti ma tu sei
piuttosto sfuggente, devo dire.» sputò acida,
continuando a non guardarlo. «E' stato piuttosto divertente
inseguirti per tutto lo studio di registrazione... Mi sembrava di
giocare a...»
«Lascia
stare.» la interruppe, alludendo ai pantaloni che stava
piegando. Lei lo ignorò, continuando nel suo intento. «Lascia
stare.» ripetè lui, poggiandole una mano sulla sua,
dalla quale un calore quasi insopportabile si sprigionò per
tutto il suo corpo. Vi erano stati alcuni secondi in cui si erano
guardati, mentre la stretta di Tom non si allentava, fino a che lui
stesso non decise di interrompere quel contatto visivo, così
come quello fisico. Lo vide grattarsi appena la nuca, e questa volta
agì come lui le aveva chiesto. Posò i jeans sul letto
ed incrociò le braccia al petto, voltandosi interamente verso
di lui. Lo guardò come aspettandosi che lui parlasse. Voleva
attendere; era curiosa di sapere cosa avesse da dirle. «Non ero
ancora pronto per affrontare un certo discorso con te.» ammise,
guardandola appena.
«Io
non mangio la gente.» obiettò la ragazza, senza
abbandonare quella sua posizione, apparentemente sicura di sé.
«Non
è quello il motivo.» sbuffò Tom, distogliendo lo
sguardo.
«E
allora qual'è questo santissimo motivo? Esigo una risposta,
Tom: voglio sapere perchè hai fatto quello che hai fatto a
casa mia, quella sera... E soprattutto cosa voleva dire quella frase
con cui mi hai lasciato come una mammalucca.»
«Schmitz,
io credo che faresti meglio a dimenticare tutto.»
Il
sangue di Monique si raggelò. Per un attimo non lo sentì
più scorrere nelle vene e la cosa le fece mancare il fiato. Si
sentiva un pezzo di marmo, poggiato lì, davanti a lui. E si
sentiva dannatamente stupida.
La
rabbia cominciò a montarle in corpo, mentre il sangue
riprendeva a circolare, ma questa volta a maggior velocità. Il
cuore batteva troppo forte per ridarle quel respiro regolare di cui
tanto aveva bisogno in quel momento.
«Cioè,
tu fai tutte quelle cose ed hai anche il coraggio di venire da me e
dirmi di dimenticare tutto? Forse tu non lo sai, Tom, ma essere una
famosa rockstar non ti da il diritto di comandare la gente a
bacchetta! Non hai il potere di decidere quando e come far avvenire
le cose! Un giorno non mi puoi prendere e sbattere al muro ed un
altro pretendere che io neanche ci pensi! Non hai questo potere,
soprattutto con me! Lavoro per te, è vero, ma se permetti sono
ancora padrona della mia vita e me la gestisco come meglio credo! Non
che un ragazzo della mia stessa età arriva e si permette di
dirmi cosa devo o non devo provare e fare! Mi dispiace per te, Tom,
ma io non dimentico! Almeno non finchè non avrò una
fottuta spiegazione da te!» sputò tutte quelle parole
con la rabbia che fuoriusciva da ogni poro della sua pelle. Il viso
le si era fatto rosso dal nervoso, il respiro le si era accelerato
maggiormente ed un incessante istinto omicida verso il chitarrista la
tormentava con frasi come “Ammazzalo, ce l'hai lì davanti!
Strozzalo con le sue stesse treccine!”. Il chitarrista, in tutto
questo, era rimasto in silenzio, quasi esterrefatto da quella
reazione che mai si sarebbe aspettato dalla ragazza.
Qualche
tempo prima poteva parlarle in una determinata maniera e dettarle
ordini, quando era ovvio che lei non sapesse come reagire e che il
più delle volte abbassasse la testa ed obbedisse, ingoiando
tutto ciò che di più crudo e violento voleva urlargli
contro. Ora era disarmato. La ragazza aveva tirato fuori gli artigli
e di certo questo l'aveva destabilizzato.
«Non
c'è un motivo, Schmitz. In quel momento mi andava di fare
così. Sarà stato il vestito troppo corto... Ed io sono
un maschio, punto.» disse freddamente. Monique sentiva che
presto il telegiornale avrebbe trasmesso la notizia di un “Tom
Kaulitz tragicamente morto dopo una scaricata di craniate in fronte”.
«Il
– il vestito troppo corto.» sussurrò la mora, mentre
la tempia prendeva a pulsarle. «Mi vuoi far credere che quel
dannato vestito sia stato la causa di tutto quello che è
accaduto?! Dio, quanto sei patetico! Sei troppo presuntuoso, troppo
orgoglioso per ammettere che quelle cose tu le abbia fatte per un
motivo più serio!»
«Vedi
di andarci piano con le parole, Schmitz! Ricordati che io ti posso
sempre...»
«Allora
fallo, Tom, cazzo! Licenziami! Dimostrami che hai le palle sotto quei
fottuti pantaloni! Smettila di sottomettere le persone in questo modo
solo per sentirti superiore e sicuro di te! Solo per avere il potere!
Tu non sei nessuno, Tom!»
Il
dolore acuto che le perforò una guancia non era nulla in
confronto a quello che sentiva nel cuore. Del rossore cominciava a
propagarsi sulla sua pelle chiara ma ciò non non le
interessava. Ora la cosa che più la tormentava era solo una:
Tom le aveva dato uno schiaffo.
Come
una furia, si avventò sul chitarrista, mentre le lacrime
prendevano a sgorgare dai suoi occhi pieni d'ira. Lo sguardo di Tom
sembrava scioccato per ciò che egli stesso aveva fatto –
forse pentito – ma in quel momento si preoccupava di difendersi
dagli attacchi della mora, cercando di tenerla ferma per i polsi.
«Sei
uno stronzo, ecco cosa sei! Ed io ancora che perdo tempo con te!»
continuò ad esclamare la ragazza, senza smettere di piangere,
finchè una fitta quasi soffocante al ventre non la fece urlare
di dolore. Le gambe le cedettero e si ritrovò presto fra le
braccia di Tom che l'aveva sorretta per un pelo. Il cuore del
chitarrista galoppava in petto, ma Monique non poteva sentirlo. Quel
dolore lancinante non passava e continuava a farla contorcere e
gemere. Si portò entrambe le mani al ventre, piangendo quasi
istericamente, mentre Tom continuava a sorreggerla impaurito.
«Che
cazzo hai ora?!» esclamò non capendo cosa le stesse
succedendo. La ragazza non rispondeva, continuava a lamentarsi,
piegata su se stessa, così – dopo un'imprecazione – si
abbassò appena, portandole un braccio sulla schiena ed uno
sotto le sue ginocchia. La prese in braccio ed uscì
velocemente dalla stanza.
**
Tom
sedeva in sala d'aspetto da una mezz'ora buona ormai. Le sue gambe,
piegate, continuavano a muoversi a scatti, com'era solito fare quando
era nervoso, mentre le immagini della ragazza continuavano a
passargli davanti agli occhi come treni in corsa.
Dopo
che l'aveva presa in braccio, era svenuta, forse per il dolore. Una
volta, sua madre Simone gli disse che per il dolore si poteva anche
svenire, così si era auto convinto che la ragione fosse
quella. Si era spaventato, doveva ammetterlo e non riusciva a capire
cosa fosse successo alla ragazza.
Improvvisamente
vide uscire una dottoressa dalla stanza dove era stata portata in
fretta Monique e Tom, automaticamente e quasi senza accorgersene, si
alzò dalla sedia per avvicinarsi alla donna.
«Come
– come sta?» chiese un po' impacciato.
«Si
è ripresa ed ora sta dormendo. Le abbiamo dato un calmante per
il dolore.» sorrise appena la dottoressa.
«Che
cos'ha avuto?» si informò di nuovo il chitarrista.
«Probabilmente
un sovraccarico di nervi. Nella sua situazione può succedere e
ci deve stare attenta. Il bambino ne risente molto... Per questo ha
cominciato a sentire quelle fitte al ventre. Probabilmente il piccolo
si “stava ribellando”.» sorrise dolcemente la donna. Tom
aveva gli occhi sgranati; la confusione si stava impadronendo di lui.
Il bambino? Di che piccolo parlava? «Comunque, non si
preoccupi. Vostro figlio sta bene.» gli posò una mano
sulla spalla. Tom la fissò inespressivo. Non riusciva neanche
a sbattere le palpebre o per lo meno spostare la direzione delle sue
pupille. Teneva gli occhi fissi sul viso della dottoressa senza
proferire mezza parola ed una sgradevole sensazione allo stomaco
prese a farsi viva dentro di lui. Quando la donna, con un ultimo
sorriso, gli si allontanò, si sentì pervaso da una
nuova ed inquietante consapevolezza.
**
Quando
aprì gli occhi, il suo cranio sembrò trafitto da un
centinaio di frecce infuocate. Una luce fastidiosa la stava accecando
e ciò non le permetteva di aprire bene gli occhi. Impiegò
qualche secondo per abituarsi a quella “nuova” dimensione
terrestre e osservò il soffitto sopra di lei. Si trovava in un
letto e le pareti attorno a lei erano tutte paurosamente bianche. Un
brivido alla schiena le suggerì che si trovava in un ospedale:
lei gli ospedali li odiava con tutto il cuore.
Come
ci era finita lì? Fece mente locale, cercando di rammentare
cosa fosse accaduto, fino a che l'immagine di lei che si avventava
contro Tom non le riaffiorò alla mente. Deglutì
rumorosamente, chiedendosi dove fosse il chitarrista e cosa fosse
accaduto dopo. Ricordava solo un dolore improvviso, fortissimo –
come forse non l'aveva mai provato in vita sua – e subito dopo il
buio.
«Se
ti stai chiedendo dove ti trovi, la risposta è: in ospedale.»
una voce a lei ormai familiare le arrivò alle orecchie
improvvisamente, facendola quasi sobbalzare. Voltò il viso
alla sua sinistra e con gran stupore notò Tom, seduto sullo
sgabello, accanto a lei. Il suo sguardo era cupo, quasi duro – ma
non più del solito.
Si
sollevò appena per mettersi seduta sul letto, con la schiena
poggiata ai due cuscini alle sue spalle.
«Cosa
mi è successo?» domandò confusa.
«Hai
sentito un dolore al ventre ed hai cominciato ad urlare, fino a che
non mi sei svenuta fra le braccia. Ti ho portato io qui.»
rispose il ragazzo, senza battere ciglio. Sembrava arrabbiato e non
riusciva a capirne il motivo. Non voleva credere che fosse ancora per
la vicenda di qualche attimo prima.
«E...
Il motivo?» domandò cauta.
«Il
motivo per cui io ti ho portato qui o per cui ti sei sentita male?»
chiese il ragazzo con nota scettica che mandò ancora più
in confusione Monique. Perchè faceva così?
«Il
motivo per cui mi sono sentita male.»
«Evidentemente
ti sei incazzata più del dovuto ed il tuo bambino ne ha
risentito.»
Il
gelo si impossessò dell'intero corpo inerme di Monique. Il
Mondo sembrò crollarle addosso in tutta la sua grandezza e in
tutto il suo peso, schiacciandola sempre di più. Il cuore
prese a martellarle in petto senza tregua ed il respiro si spezzò
per lunghi attimi.
Non
può essere, continuava a ripetersi nella mente. Non può
essere, non può essere... No, no, no!
«Come
– come sai del...» balbettò impaurita ma Tom la
precedette alzando appena la voce.
«Dalla
dottoressa! Ecco da chi lo sono venuto a sapere!» il ragazzo si
alzò dalla sedia e prese a fare avanti e indietro per quella
stanza, massaggiandosi le tempie e cercando di calmare il suo respiro
affannato. Monique chiuse gli occhi, prendendosi il viso fra le mani
e maledicendo quella donna. Tom finalmente si fermò, tornando
a guardarla furioso. «Cosa aspettavi a dirlo, Schmitz?!
Soprattutto a David! Avresti atteso di arrivare allo studio con
qualche taglia in più per farci giungere ad una maledetta
conclusione da soli?! Pensavi di fare la furba?!»
«No,
Tom! Non pensavo di fare la furba! Non puoi capire in che situazione
di merda mi trovo!» esclamò la ragazza con le lacrime
agli occhi, ma cercando comunque di non agitarsi più del
dovuto o avrebbe commesso lo stesso precedente errore.
«Tu
hai cercato di mentirci! Ci hai preso in giro!»
«Non
vi ho preso in giro, Tom! Avrei comunque trovato il modo di dirvelo!
Ma io ora non potevo, David mi avrebbe licenziato, non capisci?! Ed
io ho un fottuto bisogno di soldi, non posso rischiare, soprattutto
ora che mi dovrò occupare anche di questo bambino!»
«Sei
una stupida, irresponsabile!»
«Che
cosa?! Io mi sono fatta il culo fino adesso per racimolare quanti più
soldi potevo, fino a chiedere una seconda occupazione a David e tutto
per non ritrovarmi sotto un ponte assieme a mio figlio, ed io sarei
l'irresponsabile?!»
«Certo
che lo sei! Nelle tue condizioni non puoi farlo! È inutile che
fai l'eroina! Sei incinta, accetta la realtà e non puoi
pretendere di lavorare tutte quelle ore!»
«Tom,
ne ho bisogno!»
«Dio,
che... Che faccia tosta che hai avuto, Schmitz!»
«Tom,
non dirlo a David, ti prego!»
Tom
la fulminò con lo sguardo e successivamente le diede le
spalle, incamminandosi velocemente e con rabbia incontrollata alla
porta. «Va' al diavolo, Schmitz.» tutto quello che ancora
le sue labbra sussurrarono, prima che la porta venisse violentemente
sbattuta.
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Capitolo 13 *** Twelve. A good reason ***
a good reason
Chapter
Twelve.
-
A good reason -
«Che
senso ha scappare, me lo spieghi?» domandò Jessica
esterrefatta, mentre Monique riponeva delle magliette e dei pantaloni
in un piccolo borsone.
Aveva
deciso che tornare a casa dai suoi genitori per un po' le avrebbe
fatto bene: in quei giorni aveva accumulato tanto stress e non
giovava di certo né a lei né al bambino. Avrebbe voluto
rimuovere il viso del chitarrista dalla sua mente per un po' e
l'unico modo era mantenervi le distanze. Inoltre il suo licenziamento
poteva essere considerato imminente, dato che David sarebbe venuto a
sapere della sua gravidanza proprio dal ragazzo. Avrebbe
semplicemente accelerato i tempi.
«Non
sto scappando. Sto semplicemente prendendo una pausa.» ribattè
Monique, chiudendo la cerniera del borsone.
«Certo,
quanto hai intenzione di farla durare questa pausa? Non puoi
andartene così: sei senza macchina, sei incinta e
terribilmente cocciuta per capire che non serve a nulla!»
«Tom
deve uscire dalla mia vita per un po'. È colpa sua se vivo
sotto stress.»
«Quindi
è per lui che stai scappando.»
«Per
l'ennesima volta, Jess: io non sto scappando.»
«Sì,
invece! Stai facendo la codarda! Devi imparare ad affrontare le
situazioni invece che evitarle, Monique! Hai vent'anni non due!»
Monique la ignorò e, preso il borsone in mano, camminò
velocemente verso la porta di casa. «Monique!» la
richiamò la rossa con più enfasi. La mora si voltò
un'ultima volta verso la sua migliore amica e, dopo uno sguardo
gelido, uscì di casa. Attese che anche Jessica la seguisse e,
quando questa lo fece contrariata, chiuse la porta a chiave. «Stai
sbagliando.» sentì mormorare, prima di scendere
velocemente le scale del condominio, ignorando quelle parole.
**
Il
corpo di Tom giaceva sgraziatamente su una poltrona dello studio di
registrazione. Fissava un punto nel vuoto, di fronte a sé, e
nel frattempo giocherellava con i suoi cornrows. Attorno a lui, suo
fratello, Georg e Gustav chiacchieravano animatamente, con infinito
entusiasmo: l'album era terminato e presto sarebbe uscito in tutti i
negozi di CD. Ciò implicava la loro partenza per il nuovo
tour, di lì a qualche mese, che ora si stavano impegnando per
organizzare. Non appena una parte del lavoro finiva, facendo credere
che sarebbe arrivato finalmente un po' di riposo, ne arrivava altro
da compiere.
Tom,
quella mattina, non riusciva a gioire o a dimostrare il proprio
entusiasmo – inesistente – come gli altri: la sua mente
continuava a proiettare le immagini della sua discussione, avuta con
Monique, il giorno prima. Riviveva quello schiaffo e non poteva fare
a meno di darsi del coglione... Ma poi tornava a farsi vivo il
ricordo della gravidanza, delle bugie... E tutto svaniva.
«Ragazzi,
oggi Monique non verrà in studio. Mi ha mandato un messaggio:
sua madre sta poco bene ed è dovuta partire per Amburgo.»
esortò David, facendo il suo ingesso in quella stanza. Ciò
attirò l'attenzione del chitarrista che spostò lo
sguardo incuriosito verso di lui.
«Ah,
d'accordo.» annuì perplesso Bill. «Che ha sua
madre?» domandò successivamente.
«Non
lo so, non me l'ha detto.» rispose il manager, grattandosi la
testa.
«Sì,
certo, so io cos'ha sua madre.» commentò Tom, alzandosi
di scatto dal divano ed uscendo in fretta e furia dalla stanza. I
ragazzi si scambiarono occhiate accigliate, non comprendendo lo
strano comportamento del chitarrista in quei giorni.
**
Le
sue dita si insinuavano da sole fra il morbido pelo di Lilli,
comodamente accoccolata sul suo grembo, e il suo sguardo inespressivo
era fisso sulla televisione davanti a sé, intenta a
trasmettere un qualche programma a lei sconosciuto.
La
sua mente vagava altrove e non era difficile immaginare dove.
Insomma, aveva deciso di prendersi quella sorta di pausa per non
dover fronteggiare il chitarrista ogni giorno e ciò non
funzionava perchè quello tornava a tormentarla tra i suoi
pensieri.
Assieme
a lui, vi era David... Che fosse già venuto a sapere dal
chitarrista della gravidanza? Conoscendo Tom, Monique poteva giurare
che l'avesse fatto già da un bel pezzo: era quello il suo
scopo, farla andare via e finalmente – ora che la possibilità
si era presentata – non se la sarebbe lasciata sfuggire. La cosa la
spaventava ma non riusciva a muovere nemmeno un muscolo dalla
stanchezza per tutta quella situazione; dall'impossibilità di
poter fare qualcosa. Non avrebbe potuto concludere nulla, non avrebbe
potuto cambiare le carte in tavola. David l'avrebbe presto licenziata
– ragion per cui il suo cellulare giaceva sul comodino affianco al
divano, in attesa di qualche losca telefonata – e lei avrebbe
dovuto accettarlo, senza minimamente ribellarsi.
«Hey,
ti ho portato un po' di cioccolata calda.» sentì la voce
dolce di sua madre fare il proprio ingresso nel salotto. Sollevò
lo sguardo e la vide davanti a sé, sorridente, con due tazze
di cioccolata fumante. L'odore era davvero invitante. «Avevo
voglia di parlare un po' con te, come ai vecchi tempi, ti va?»
continuò la donna, avvicinandosi al divano e sedendovisi
sopra, di fronte a sua figlia.
Monique
sorrise. Si ricordava perfettamente i pomeriggi passati assieme a sua
madre, sedute sul divano, sotto una calda coperta se ciò
avveniva di sera, con due enormi tazze di cioccolata calda: ottimo
programma per alleviare i dolori.
La
ragazza fece scendere gentilmente Lilli che, dopo un mugolio di
dissenso, si raggomitolò sul tappeto, riprendendo il suo
riposino. Ringraziò Ester e recuperò la tazza bollente.
Prese a girare il cucchiaino al suo interno, soffiandovi di tanto in
tanto, attendendo che divenisse per lo meno tiepida: pelarsi la
lingua, ormai, era diventato il suo hobby.
«Come
va, mamma?» domandò Monique, osservandola con un sorriso
sincero in volto.
«Ah,
non se ne parla, signorina. Qui sei tu quella che deve raccontare,
non io. Forza, forza!»
La
ragazza abbassò lo sguardo, intenerita da quel suo
atteggiamento sempre piacevolmente protettivo ed affettuoso, per poi
tornare a guardare sua madre e risponderle: «Di cosa vorresti
che ti parlassi?»
«Beh,
insomma, com'è la tua situazione a Berlino. Come va il
lavoro... I tuoi amici... Parti da dove vuoi, io ti ascolto.»
«D'accordo.»
acconsentì Monique, raggruppando le gambe sul divano.
«Dunque... A Berlino mi trovo molto bene. È una grande
città, bella e comoda. Diciamo che ho sempre avuto
l'adorazione per queste grandi metropoli, lo sai anche tu. Il lavoro
va a meraviglia, mi sono fatta dare da David anche un'occupazione
pomeridiana, così, per arrotondare un po' le cifre e non
trovarmi al verde nei momenti di necessità. Di amici non ne ho
tanti ma Jessica vale per mille. Insomma, lei c'è sempre per
me e io ci sono sempre per lei. Ci capiamo con un solo sguardo, è
la sorella che non ho mai avuto. Spesso viene a mangiare da me o io
vado a mangiare da lei. Capita anche che ci fermiamo a dormire
insieme. È un rapporto molto solido e stretto e so per certo
che lei non mi abbandonerebbe mai. Me l'ha dimostrato molte volte.»
Ed era vero; il fatto della gravidanza ne era un valido esempio.
«Sì,
mi è sempre piaciuta Jessica, sin dal primo momento che l'hai
portata qui a farmela conoscere. Molto educata... Si vede che ti
vuole bene.» annuì Ester, portandosi poi alle labbra un
altro po' di cioccolata. Monique la imitò e poi tornò a
parlare.
«E
basta, penso non ci sia altro da dire.» concluse, ignorando il
brivido d'ansia che le aveva percorso la colonna vertebrale. Mentire
a sua madre e nasconderle una grande verità, era dura.
«E...
In fatto di ragazzi?» domandò con cautela la donna.
Monique si irrigidì improvvisamente. Odiava quel genere di
discorsi, specialmente se la situazione non era rosa e fiori, come
effettivamente si presentava.
«Non
c'è nulla da dire. Dopo Christian non c'è stato nessun
altro.» rispose vaga, per poi bere un altro po'.
«Beh,
ma ci sarà qualcuno che ti piace?»
Insomma,
dirglielo o non dirglielo? Monique studiò lo sguardo di sua
madre e non poté fare a meno di notare che quell'espressione
veniva da lei adottata quando sapeva qualcosa che andava oltre il
semplice racconto che sua figlia le proponeva, credendo di farla
franca. D'altronde, che male ci sarebbe stato a raccontarle che
effettivamente qualcuno che le piaceva c'era? Ormai l'aveva capito,
sapeva leggerla nel più profondo degli occhi; era sempre stata
un libro aperto per sua madre.
«Beh,
effettivamente qualcuno c'è.» ammise Monique,
terribilmente rossa in viso. Ester battè le mani
ripetutamente, gesto che Monique registrò come molto simile a
quello che adottava Bill in certi momenti. Sorrise.
«Me
lo sentivo! Avanti, voglio i dettagli. Com'è?» domandò
interessata, sporgendosi appena più avanti con la schiena,
come a voler seguire meglio la conversazione.
Uno
stronzo dannatamente bello ed eccitante – nonché motivo del
mio ritorno a casa – che da mesi minaccia di licenziarmi perchè
apparentemente mi odia, che mi tratta male e che mi confonde le idee
riguardo i suoi sentimenti, pensò a primo acchito Monique,
ma poi si rese conto che forse non era la miglior descrizione con cui
poterlo presentare.
«Ehm,
è un bel ragazzo.» borbottò, rifugiandosi dietro
la tazza di cioccolata.
«Pensi
che mi basti? Andiamo, descrivimelo sia fisicamente che
caratterialmente.» insistette la madre. Monique sospirò
sorridendo con lo sguardo perso nel vuoto e, senza nemmeno
accorgersene, prese a parlare con naturalezza, come non fosse stata
lei a farlo.
«Fisicamente
è... Semplicemente perfetto. I suoi occhi sono nocciola, di un
taglio leggermente a mandorla. Il suo sguardo è perennemente
profondo, sembra sempre che ti stia studiando quasi con freddezza, ma
in realtà è solo il suo modo di farti capire che sa che
ci sei. Il naso è leggermente all'insù, ma non troppo.
Dritto, in proporzione con il suo viso. Il suo labbro inferiore è
più carnoso rispetto a quello superiore ed è perforato
da un piercing che, secondo me, gli calza a pennello. È alto,
con un fisico magro – ma non troppo – e caratterizzato di muscoli
non eccessivamente accentuati ma comunque presenti. La sua pelle è
curata e di una lieve abbronzatura naturale che gli conferisce una
bellezza ancora più evidente. Mi hanno rapito le mani: grandi
e forti... Mi farebbero senza dubbio sentire protetta. Il suo sorriso
mi spiazza. A volte viene da chiedermi se sia reale. E non posso fare
a meno di sorridere anche io non appena vedo che lui lo fa. Non è
eccessivamente chiacchierone ma ha sempre la battuta pronta ed il più
delle volte ti diverte. Mi piace perchè vuole sempre fare il
duro, ma se scavi a fondo ti accorgi di quanto in realtà possa
essere fragile e tenero.» Si accorse che il suo cuore stava
galoppando a velocità spropositata. Un fiume di parole. Non
era riuscita a fermarsi e forse non avrebbe neanche voluto farlo: non
aveva mai ammesso tutte quelle cose sul chitarrista e si sentiva
finalmente liberata di un peso che portava gelosamente con sé,
senza volerlo abbandonare, di fronte a nessuno. Non l'aveva mai fatto
semplicemente perchè avrebbe anche dovuto ammettere che Tom le
piaceva e non voleva farselo piacere. Ma trovare Ester lì,
davanti a sé, a guardarla con tutto l'amore che solo una madre
può dare alla propria figlia... Insomma, non era riuscita a
trattenere i propri sentimenti. Ora provava quasi vergogna per ciò
che aveva confessato. Sentiva di essersi lasciata eccessivamente
andare, come fosse stata sola, e la cosa la metteva appena a disagio.
«Oddio, che vergogna.» ridacchiò prendendosi il
viso fra le mani, come fosse stata catapultata solo in quel momento
sulla Terra, di fronte ad Ester. Quest'ultima sorrise, carezzando la
testa a sua figlia.
«Non
devi provare vergogna a dirmi queste cose. Sono contenta che tu senta
tutto questo. Mi sembri davvero presa.» la incoraggiò la
donna.
«Lo
sono.» soffiò Monique malinconicamente, quasi
sorprendendosi di averlo ammesso.
«Come
si chiama?»
«Tom.»
«E
dove l'hai conosciuto?»
«A
dire il vero, lavoro per lui.»
«Ah,
ma è uno dei ragazzi di cui mi parlavi? I ragazzi di David?»
«Eh
già.»
«Sai,
non ce li ho molto presenti, quindi non saprei dove andarmeli a
pescare. Ma, dimmi un po', lui ricambia?»
«E'
questo il punto: non lo so. Insomma, si comporta in modo strano. In
certi momenti mi allontana ma in altri mi cerca e mi trasmette cose
che...» sospirò senza concludere la frase.
«Ai
ragazzi piace confondere, non mi dici nulla di nuovo. Tuo padre non
mi guardava neanche, ai tempi. Quanti pianti...» commentò
Ester con un lieve sorriso sul volto nel ricordare quelle cose. «Ma
io ti dico di stare tranquilla perchè non sempre tutto è
come pare. Può essere che lui ti voglia confondere, che lo
faccia di proposito. Non sembra, ma si divertono, sai? Ovviamente se
da questa persona non vogliono solo una sveltina. Lo fanno se
vogliono qualcosa di più serio.»
A
quelle parole, Monique venne pervasa da una scossa elettrica.
Quell'idea le piaceva: qualcosa di serio... Con Tom? Le pareva quasi
assurdo, ma non le suonava male. Forse stava cominciando a lavorare
troppo di fantasia.
«Grazie.»
sorrise alla madre, la quale ricambiò e le posò un
dolce bacio sui capelli, per poi recuperare le tazze vuote e sparire
in cucina.
**
Si
ricordava perfettamente dove abitava. Sapeva che lì non
l'avrebbe trovata, ma per lo meno avrebbe domandato a qualcuno se
sapesse dove la sua vecchia casa si trovava, con precisione. Quella
sera dell'incidente, era andato di corsa a recuperarla, ma l'aveva
fatto già a qualche chilometro da casa dei suoi genitori e non
poteva di certo immaginare dove questa si trovasse.
Il
fatto che fosse sparita così, ignorando il suo lavoro, lo
mandava semplicemente in bestia. Trovava assurdo che avesse deciso di
scappare a quella maniera e personalmente odiava le persone che lo
facevano. Non poteva accettare di vederla così priva di polso
da nascondere tutte le proprie paure ed incertezze in una valigia e
scappare sul primo pullman passante di fronte casa sua. Non riusciva
a concepirlo.
Quando
accostò con la macchina al marciapiede, diede un'occhiata
verso il palazzo, controllando che ci fosse qualcuno. Si sganciò
la cintura e scese dalla sua Cadillac per incamminarsi verso il
portone. Quando si avvicinò al citofono, trovò il suo
cognome: Schmitz. Se avesse suonato, non sarebbe servito a nulla,
nessuno gli avrebbe risposto.
A
dire il vero non riusciva neanche a comprendere il motivo per cui lo
stesse facendo. D'altronde, che gliene importava se lei non fosse
tornata al lavoro?
«Hey,
cerchi qualcuno?» sentì una voce femminile alle sue
spalle che quasi lo fece sobbalzare. Quando si voltò, trovò
davanti a sé una ragazza dai capelli rossi, piuttosto carina,
che lo guardava incuriosita. Non appena vide i suoi occhi sgranarsi,
deglutì rumorosamente, temendo che fosse un'altra fan
perversamente accanita. «Ma tu sei Tom!» esclamò,
per l'appunto.
«No.»
borbottò stupidamente il ragazzo. Non aveva neanche scelto di
coprirsi adeguatamente il volto, perciò non era difficile
riconoscerlo. Con sua grande sorpresa, la rossa gli sganciò
una pacca sul braccio, piuttosto risentita.
«Non
prendermi in giro, so benissimo che lo sei. Se stai cercando Monique,
non è in casa. Io sono la sua migliore amica, Jessica. Stavo
passando di qui per caso.» allungò successivamente la
mano, in attesa che il chitarrista gliela stringesse. Quest'ultimo la
osservava con sguardo accigliato. Da dove usciva fuori quella ragazza
tutto pepe, che gli riservava tutta quella confidenza, al primo
incontro?
Un
po' esitate gliela strinse e poi iniziò a parlare:
«Effettivamente non sto cercando lei. So che è a casa
dei suoi genitori. Volevo solamente sapere dove si trova
esattamente.»
«Ooh,
e perchè ti interessa?» sorrise con malizia Jessica, a
tal punto che Tom si sentì quasi in imbarazzo.
«Mi
interessa perchè abbiamo bisogno della traduttrice e non
possiamo perderla per dei capricci.» rispose sulla difensiva il
ragazzo.
«Tom,
perchè non le dici che ti piace e basta?»
Il
chitarrista sobbalzò sul posto. Ma insomma, come si permetteva
quella ragazza di parlargli a quella maniera, come lo conoscesse da
una vita?
«Ma
che stai dicendo? Non le devo dire assolutamente nulla, mi serve solo
sapere dove abitano i suoi genitori.» ribattè piuttosto
innervosito.
«Oh,
beh, non è da tutti i ragazzi raggiungere una donzella anche a
chilometri di distanza per riportarla indietro.» continuò
a stuzzicarlo la rossa.
«Senti,
mi sto innervosendo. Lasciamo stare.» sbottò Tom,
dandole le spalle ed accingendosi a raggiungere di nuovo la sua
macchina con le mani rifugiate nelle tasche dei jeans.
«Tieni.»
sentì di nuovo la voce di Jessica, dietro di lui. Voltò
appena il capo, con espressione severa in volto, e notò che la
rossa gli stava porgendo un foglietto con una mano e tenendo una
penna nell'altra. Lo prese incuriosito e notò che vi era
riportato un indirizzo che non aveva mai sentito prima. «La
troverai lì.» gli disse nuovamente.
Sollevò
di nuovo lo sguardo truce su di lei e si intascò il foglietto.
«Grazie.»
borbottò.
«Ha
ragione Monique.» sorrise Jessica. «Sei un buzzurro,
rozzo, poco gentile e decisamente urtante.» pronunciò
quella frase con semplicità e buon umore, come fosse la cosa
più normale da dire ad uno sconosciuto.
«Grazie.»
ripetè il chitarrista, questa volta con sarcasmo.
«Però
hai un cuore d'oro.» concluse la rossa, con tono più
dolce, al che Tom si sorprese. Era davvero strana quella ragazza.
«Buona fortuna, Kaulitz. Ne avrai bisogno, dato che credo non
saprà resistere dallo scaraventarti una sedia in faccia, non
appena ti vedrà.» aggiunse allegramente, prima di dargli
le spalle. Tom non sapeva se ridere dalla semplicità con cui
diceva le cose o preoccuparsi di ciò che effettivamente gli
aveva riferito. Scosse la testa, piuttosto divertito e si incamminò
di nuovo alla macchina. «Ah, Tom.» lo chiamò
ancora la rossa. Spostò lo sguardo su di lei, attendendo che
parlasse. «Dalle un buon motivo per tornare a casa.» gli
sorrise, prima di voltarsi di nuovo e sparire dietro l'angolo.
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Capitolo 14 *** Thirteen. Turning point? ***
turning point?
Chapter
Thirteen.
-
Turning point? -
Quella
mattina Monique si sentiva particolarmente di buon umore. Si era
svegliata nel suo vecchio letto ad una piazza, quello che usava
quando ancora era un'adolescente. Le lenzuola fresche e pulite
giacevano leggere sul suo corpo intorpidito mentre una luce forte ma
piacevole faceva capolino in quella stanza. Portò le braccia
sopra la testa e, inspirando profondamente, stiracchiò i
propri muscoli, sorridendo con naturalezza, cosa che forse non faceva
da un po' di tempo. Si mise seduta sul letto e, strofinandosi un
occhio, prese a cercare il suo orologio sul comodino affianco con lo
sguardo. Le dieci. Sgranò appena gli occhi constatando che per
la prima volta – dopo non sapeva quanto tempo – era riuscita a
dormire in pace e serenità, senza strani pensieri a ronzarle
in testa, preoccupazioni o conati.
Posò
i piedi per terra e si sollevò lentamente dal materasso: i
giramenti di testa erano frequenti, soprattutto al mattino. Uscì
dalla stanza e si intrufolò in bagno, dove si accinse a
lavarsi i denti, farsi una doccia senza lavarsi i capelli e
spazzolarsi con cura. Ultimamente non aveva più avuto molto
tempo per se stessa.
Chiusa
nell'accappatoio bianco, si guardò allo specchio. Tante volte
l'idea di riferire il fatto della gravidanza ai suoi genitori le
attraversava la mente, ma assieme a lei la paura.
Slacciò
appena l'accappatoio per scoprire la sua pancia e si voltò di
profilo. Stava crescendo lentamente, ma sempre di più. Sapeva
che presto sarebbe entrata nel quarto mese e tutto sarebbe stato più
evidente.
Cercò
di ignorare quei pensieri e se lo richiuse, facendo finta di nulla,
per poi uscire dal bagno.
**
Scese
le scale che la condussero al piano inferiore – perfettamente
vestita –, fino a raggiungere la cucina. Suo padre era seduto al
tavolo, intento a sorseggiare un po' di caffè, mentre
sfogliava interessato un quotidiano. Sua madre stava invece
trafficando ai fornelli, dandole le spalle.
«Buon
giorno.» sorrise Monique, proprio come ai vecchi tempi, per poi
schioccare un bacio sulla testa di suo padre e raggiungendo
successivamente Ester, per cingere il suo corpo da dietro con le
braccia e dargliene uno sulla guancia.
«Buon
giorno, tesoro.» rispose la madre, mentre Monique si andava a
sedere affianco ad Alfred che la guardò sorridendo sincero.
«Hai dormito bene?» si informò la donna, sedendosi
di fronte a lei, dopo aver posato sul tavolo le loro tazze di
caffèlatte.
«Benissimo.»
annuì Monique, sorseggiando poi un po' di quella bevanda
calda. Improvvisamente il citofono squillò, annunciando
l'arrivo di un qualche sconosciuto, al di fuori del cancello. «Mmm!»
esclamò Monique, intenta ad ingoiare il caffèlatte.
«Vado io.» Corse alla porta e la aprì, per poi
percorrere il vialetto, fino a raggiungere il cancello. I suoi piedi
impuntarono da soli, il suo respiro si smorzò e il cuore prese
a compiere infinite capovolte nel suo petto.
Non
poteva essere. Com'era arrivato lui lì? Era tutto
sbagliato, non era così che doveva andare!
«Che
– che ci fai tu qui?!» balbettò. Non sapeva se esserne
contenta o irata. Lei si era rifugiata in quel posto per non vederlo
per un po'... E lui si azzardava a sbucare a quel modo, rovinando
tutti i suoi piani?
«Sai,
Schmitz, ho sempre pensato che fossi una gran testa di cavolo.»
commentò Tom, fastidiosamente tranquillo, osservandola come
nulla fosse, con le mani in tasca. Il sangue di Monique ribollì
nelle sue vene ed uno sconcertante tic si appropriò del suo
occhio sinistro.
«Sei
venuto sin qua per dirmi questo?» domandò, cercando di
mantenere la calma, anche se quella stava minacciando di andare a
farsi benedire già da un bel pezzo.
«A
dire il vero no. Mi fai entrare?»
«Ma
anche no!»
«Vedo
che sei molto gentile con gli ospiti.»
«Tu
non sei un ospite! Non te l'ho detto io di venire!»
«Senti,
Schmitz, mi sono fatto tutti questi chilometri di macchina, due ore e
mezza di viaggio per venire qua a parlarti e non accetto un rifiuto.»
«Ma
chi te l'ha chiesto di farlo?!»
«Schmitz.»
Quell'ultimo
borbottio riuscì a convincere Monique, la quale – sbuffando
sonoramente – premette il pulsante per aprire il cancello
automatico. I brividi cominciarono ad impossessarsi del suo corpo ed
il batticuore continuava a tormentarla, mentre vedeva la figura del
chitarrista entrare nel suo territorio ed avvicinarsi sempre di più
a lei, senza staccarle gli occhi di dosso.
«Allora,
che vuoi? Sei venuto a riferirmi di non tornare più in studio
perchè David mi ha già licenziata? O sei venuto a
rompere ancora le palle su quello che hai scoperto?» sputò
acida, senza pensarci due volte.
«Siamo
nervose, oggi?» domandò con sarcasmo il chitarrista.
«E'
la tua presenza ad innervosirmi.»
«Lo
prenderò per un complimento. Non mi inviti ad entrare in
casa?»
«Cos'è
tutta questa voglia di entrare in casa mia?»
«Non
è voglia di entrare in casa tua, è voglia di non
parlare qua fuori come fossi un barbone che non è degno di
entrare nella tua umile dimora.»
«Dimmi
di cosa vuoi parlare.»
«Della
tua situazione.»
«Lavorativa
o privata?»
«Entrambe.»
«Senti,
Tom, se mi devi dire che David mi ha licenziata, muoviti a farlo
perchè non ho voglia di sentire giri di parole, oggi.»
«David
non sa nulla.»
«Oh,
certo, e tu mi vuoi far credere di essere stato così sensibile
da non...»
«Schmitz,
David non sa un cazzo della tua grav...!»
Monique
si scaraventò addosso al ragazzo, coprendogli la bocca con la
mano e guardandosi nervosamente alle spalle, alla ricerca dei suoi
genitori. Il suo cuore minacciava di sfondarle il petto: non poteva
essere scoperta a quella maniera.
Sentiva
le labbra morbide del chitarrista premere contro il suo palmo e ciò
le causava una scarica elettrica da quel punto, per tutto il suo
corpo. Il respiro del ragazzo così vicino. Si staccò
velocemente, prendendo ad aggiustarsi la maglia larga che si era
leggermente sollevata.
«Non
pronunciare quella parola e non farti assolutamente sentire dai
miei.» disse nervosamente, senza guardarlo negli occhi.
«Cosa...
I tuoi genitori non sanno nulla?» domandò Tom
esterrefatto.
«No.»
rispose Monique con freddezza.
«Hey,
Monique, chi era al...» le parole di Ester si interruppero, non
appena vide il ragazzo con sua figlia. «Ehm, ciao.»
sorrise perplessa, non riuscendo a cogliere chi fosse.
«Lui
è Tom, mamma.» le riferì Monique, una volta
voltatasi nella direzione di sua madre, con sguardo eloquente. Ester
parve come illuminata e non impiegò molto prima di sgranare
gli occhi, come avesse appreso un significato che andasse oltre
quella semplice frase.
«Oh...
Oooh! Tom!» esclamò, sorridendo entusiasta. Si avvicinò
velocemente e gli porse la mano. «Piacere di conoscerti, io
sono la mamma di Monique, Ester!» si presentò, mentre il
ragazzo le stringeva la mano.
«Piacere,
signora.» sorrise il chitarrista gentilmente. Monique sollevò
gli occhi al cielo. Possibile che riuscisse ad essere così
educato, quel razza di buzzurro?
«Sei
venuto a trovare Monique?» domandò Ester, con gli occhi
che le brillavano. Probabilmente si stava facendo molti – troppi –
film mentali riguardo loro due.
«Diciamo
di sì.» ridacchiò Tom, nascondendole la verità.
Nonostante fosse una bugia, Monique non poté fare a meno di
arrossire compiaciuta. Proprio in quel momento, vide suo padre
sbucare dalla porta di casa. Fece un cenno di saluto con la mano a
Tom, nonostante non lo conoscesse, ed il chitarrista ricambiò
con un “Salve”.
«Vieni
dentro, non stare qui fuori.» si premurò di farlo
entrare in casa la donna, al che Tom si voltò verso Monique
mostrandole un sorriso che sembrava più una smorfia
soddisfatta. La ragazza lo fulminò con lo sguardo e, dopo aver
sospirato pesantemente, seguì tutta la sua famiglia, più
il ragazzo che le aveva reso la vita un Inferno, dentro casa sua.
Non
appena ebbero varcato la soglia dell'appartamento, Lilli corse verso
di loro, prendendo a saltellare davanti a Tom ed annusando
continuamente i suoi jeans oversize. Monique si stupì nel
vedere il ragazzo sorridere ed abbassarsi appena per carezzare la
cagnolina. Insomma, era solo lei la pietra dello scandalo?
«Devi
ripartire subito?» domandò Ester al chitarrista.
«Beh,
dipende tutto da sua figlia, signora. In ogni caso devo essere allo
studio prima di domani mattina.» rispose Tom.
«Perchè
non ti fermi a pranzare con noi? Sarai stanco ed affamato per il
viaggio e non mi va che tu riparta senza aver messo qualcosa nello
stomaco.»
Monique
avrebbe avuto tanta voglia di prendere per i capelli sua madre. Come
le era saltato in mente di proporgli una cosa simile? Tom a pranzo, a
casa sua e con i suoi genitori? Decisamente non fattibile.
«Beh,
se non è un disturbo...» acconsentì Tom,
intimidito. La mandibola di Monique minacciò di sbattere
contro il pavimento. Aveva accettato?! «La ringrazio.» le
sorrise poi.
«Ma
figurati, è un piacere. E non darmi del lei, mi fa sentire
vecchia. Chiamami Ester.»
«D'accordo,
Ester.»
«Bene,
io vi lascio soli ora.»
Detto
questo, la donna si rifugiò in cucina assieme ad Alfred e
Lilli, facendo in modo che un assordante silenzio si impadronisse di
nuovo dei due ragazzi. Si osservarono di sbieco entrambi, come
imbarazzati.
«Ma
a che gioco stai giocando?» domandò la mora, voltandosi
finalmente nella direzione del chitarrista.
«A
nessuno, perchè?» rispose tranquillamente, osservandola
come se nulla fosse.
«Cos'è
tutta questa gentilezza?» indagò sospetta.
«Fa
così strano vedermi in questo modo con un'estranea?»
«Sì,
permettimelo.» Tom sorrise, soffocando una risatina, e scosse
leggermente la testa. A Monique faceva strano osservarlo a quella
maniera. Troppo tranquillo, gentile e di buon umore. Doveva per forza
esserci qualcos'altro sotto. Scoccò un'occhiata all'orologio
appeso alla parete e, con un tuffo al cuore, constatò che
all'ora di pranzo mancava un'ora e mezza. Cos'avrebbe potuto
combinare con lui in tutto quell'arco di tempo? Non erano amici e di
certo non si sarebbero messi a giocare a dama. «Senti, vieni.»
borbottò prendendo a salire le scale e sentendo i passi di Tom
seguirla alle sue spalle. Cos'altro poteva fare se non invitarlo in
camera sua per parlare? Li avrebbero di certo sentiti i suoi genitori
e non le andava che scoprissero della sua gravidanza in quel modo.
Quando
Monique aprì la porta, si pentì di avervi portato il
chitarrista. Cosa pensava di fare? Cosa l'era saltato in mente?
«E'
camera tua?» domandò tranquillamente il ragazzo,
varcando quella soglia con le mani perennemente rifugiate nelle
tasche dei jeans oversize.
«Sì.»
sussurrò la ragazza, richiudendo la porta alle sue spalle ed
osservandolo diffidente. Tom continuò a guardarsi per un po'
intorno, fino a che non posò lo sguardo su di lei. Accadde
talmente in fretta ed inaspettatamente che si sentì
sussultare. «Allora, di cosa mi volevi parlare?» spezzò
il silenzio la ragazza, andando a sedersi sulla sedia della sua
scrivania, voltata nella direzione del chitarrista che, nel
frattempo, si era seduto sul bordo del suo letto.
«Perchè
sei venuta qui?» domandò il ragazzo, osservandola
attentamente. Quello sguardo la faceva agitare; la concentrazione
veniva in pochi secondi persa ed addio discorso intelligente.
«Avevo
bisogno di staccare un po'.» rispose con una scrollata di
spalle, benché il suo cuore battesse già furioso in
petto.
«Staccare
da cosa?»
«Dalla
situazione che si era venuta a creare. Tu eri furioso e...»
Vide il chitarrista abbassare lo sguardo sulle sue mani riunite in
grembo. Le sembrava pensieroso... O forse pentito? «.. E David
mi avrebbe licenziata. Avevo bisogno di tornare dai miei genitori
per... Trovare un po' di pace.» continuò timidamente.
Tom sollevò nuovamente lo sguardo su di lei, facendola
rabbrividire.
«Te
l'ho detto... A David non ho detto nulla. E per quanto riguarda
quello che è successo in ospedale... Ero furioso perchè
avevi mentito. Ero furioso per il modo in cui lo sono venuto a
sapere.»
«Ma,
Tom... Come volevi venirlo a sapere?»
«Da
te.»
Quel
poco più di un sussurro, accompagnato da uno sguardo profondo
e serio, la fece sentire totalmente fuori luogo in quella stanza.
Sentiva le mani sudarle fastidiosamente, mentre una sgradevole
sensazione di vertigine non le abbandonava lo stomaco. Possibile che
solo la sua presenza le facesse quell'effetto?
«Non
potevo.» mormorò, abbassando lo sguardo sulle proprie
scarpe.
«Per
quanto tempo ancora l'avresti tenuto nascosto? E soprattutto come
puoi tenerlo nascosto ai tuoi genitori? Presto sarà tutto più
evidente. Non so neanche a che mese sei...»
Monique
sorrise impercettibilmente nel vederlo grattarsi la nuca con fare
estremamente e teneramente impacciato.
«Sto
per entrare nel quarto, Tom.» gli riferì con una
dolcezza estranea anche a lei. Da quando si parlavano in quel modo,
senza insultarsi a vicenda? L'atmosfera era totalmente sconosciuta ad
entrambi... Ma maledettamente piacevole.
«Io
non sono pratico di queste cose... Non so neanche quando comincia a
crescere la pancia, non so niente.» borbottò Tom in un
imbarazzo che non gli apparteneva.
«Dal
terzo comincia ad intravedersi qualcosa.» gli venne in contro
Monique. Tom annuì, guardandola di tanto in tanto.
«Non
mi sono mai accorto di nulla.» Monique preferì non
spiegargli il motivo: l'avrebbe presa di nuovo a schiaffi se solo
avesse udito la parola “panciera”. «Ma comunque non puoi
continuare a fingere in questo modo.»
«Tom,
è inutile che ci provi. Non ho alcuna intenzione di dirlo né
a David né ai miei genitori. Verrebbe loro un infarto.»
«Ma
come pensi che reagirebbero invece, se lo venissero a sapere vedendo
il loro nipote già nato e cresciuto? Non pensi che verrebbe
loro un infarto lo stesso?» Monique si appellò qualche
attimo al silenzio, riflettendo. Tom non aveva tutti i torti; ma la
paura non la faceva quasi respirare. La paura di deludere le uniche
persone a lei care, oltre Jessica, apparendo come una poco di buono
che era rimasta incinta per errore.
«Ho
dannatamente paura della loro reazione.» ammise, rossa in viso.
«Che
reazione? Pensi che butterebbero fuori di casa la loro figlia,
incinta? Andiamo, Schmitz...»
«Non
voglio essere per loro una delusione.»
«Non
saresti mai per loro una delusione, perchè ti vogliono bene e
ne vorrebbero anche a lui.»
Un
fastidioso magone cominciò a dare l'allarme nella sua gola,
facendola deglutire a fatica. I suoi occhi presero ad inumidirsi ma
non voleva piangere davanti a Tom. Lei era forte. Eppure, come
potevano delle semplici e piccole lacrime distruggere la
determinazione umana?
Quelle
gocce salate le riempirono gli occhi, non facendole più vedere
nulla e minacciando di scorrere sul suo viso. Sapeva che Tom la stava
guardando, accortosi del suo cambio d'umore; così si portò
entrambe le mani al viso, piena di vergogna.
«Che
situazione di merda.» esclamò a denti stretti, mentre
prendeva a tremare, scossa dal pianto. «Sono un fallimento, un
fallimento totale. Sono stufa.» si sfogò, più con
se stessa che con lui. Continuava a singhiozzare silenziosamente, con
le uniche forze che le erano rimaste, fino a che non sentì un
caldo tocco sui suoi capelli. Sollevò gli occhi bagnati sulla
figura di Tom, in piedi di fronte a lei, che le carezzava lentamente
la testa. La guardava con una sorta di tenerezza nello sguardo ed era
proprio quello che non voleva accadesse. Odiava essere compatita con
tutta se stessa. «Tom, smettila di guardarmi così. Non
ti devo far pena.» esclamò, rifugiando di nuovo il viso
tra le sue mani. Quella del chitarrista scese sul suo braccio e lo
strinse appena per farla alzare dalla sedia. Lo osservò
stranita, mentre la guidava verso il suo corpo, fino a stringerla
forte a sé. Sgranò gli occhi nel vuoto, oltre le spalle
del chitarrista. La stava abbracciando? Aveva dannatamente bisogno di
quelle manifestazioni d'affetto... Finalmente gliele stava
concedendo?
«Sei
una cretina.» le sussurrò, carezzandole la schiena ed i
capelli, ma senza abbandonarla. Monique scoppiò in un pianto
ininterrotto, aggrappandosi con forza alla felpa del chitarrista e
trovando conforto tra quelle braccia così grandi e
rassicuranti, mentre il profumo dei suoi enormi abiti le inebriava i
sensi, facendola sentire per un attimo persa, in un mondo parallelo.
Sfogò tutto quello che vi era da sfogare; tutto quello che
aveva trovato soggiorno nel suo stomaco e nel suo cuore, come un
enorme mattone, troppo pesante per essere trascinato assieme a lei.
Si sentì afferrare il viso inondato di lacrime salate e
guidarlo nella direzione dello sguardo del chitarrista. Con i pollici
le asciugò le lacrime, sorridendole appena. Il suo cuore fece
un balzo. «Scusami per lo schiaffo.» le disse, per la
prima volta, seriamente dispiaciuto. Lo vide avvicinarsi, fino a
posare le labbra sulla sua fronte, lasciandovi un leggero bacio –
cosa che la mandò nuovamente nel pallone –, per poi farle
riappoggiare la testa sul suo petto e tenerla fra le sue braccia.
Chiuse gli occhi, facendosi cullare da quella piacevole sensazione di
accettazione, ripetendosi nella mente che qualcosa stava cambiando.
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Capitolo 15 *** Fourteen. Come back to reality ***
come back to reality
Chapter
Fourteen.
-
Come back to reality -
Non
seppe dire con esattezza quanto tempo fosse trascorso da quando si
era rifugiata fra le braccia di Tom, per sfogare il proprio dolore.
Sapeva solo che era ancora lì e stava dannatamente bene. Il
calore del suo corpo era piacevolmente rilassante ed il suo profumo
la stordiva letteralmente. Le sue continue carezze tra i capelli la
mandavano in confusione, più di quanto già non fosse.
I
suoi singhiozzi erano cessati da un bel pezzo, ma non aveva ancora
trovato il coraggio di abbandonare quel corpo rassicurante.
«Mi
hai inzuppato la maglia, Schmitz.» esortò
improvvisamente Tom, senza muoversi di un muscolo.
«Come
mai non mi sorprende che ricominci a fare lo stronzo?» borbottò
Monique, allontanandosi dalla presa del ragazzo che cominciò a
ridacchiare. Era musica per le sue orecchie: mai era capitato che
ridesse o semplicemente sorridesse con lei e non voleva che smettesse
di farlo; la faceva stare bene.
Tornò
a sedersi sulla sedia asciugandosi le guance ancora leggermente
bagnate, mentre Tom insinuava le mani in tasca abbassando lo sguardo,
come imbarazzato. Che si fosse pentito di ciò che aveva fatto?
«Hai
intenzione di tornare con me, allo studio di registrazione?» le
domandò improvvisamente, sollevando di nuovo lo sguardo,
mentre si sedeva sul materasso, dietro di lui. Monique sospirò
pesantemente, guardandosi le punte delle scarpe.
«Non
lo so.» mormorò, anche se l'idea di un altro viaggio in
macchina con il ragazzo non le dispiaceva affatto.
«Era
una domanda retorica, Schmitz. Io ti riporto a Berlino; sono venuto
per questo. Non faccio i viaggi a vuoto.» la rimbeccò il
chitarrista, ma senza tracce di freddezza nel tono di voce.
«Allora
perchè mi fai le domande se poi ti rispondi da solo?»
chiese scocciata la ragazza.
«Sono
fatto così. Prendere o lasciare.» sorrise beffardo Tom.
«Lascio
volentieri.» mentì Monique, per non dargli
soddisfazione. Improvvisamente sentirono bussare alla porta e,
successivamente, questa venne aperta, rivelando dietro essa il viso
intimidito di Ester.
«Scusate
se vi disturbo, ragazzi, ma è pronto da mangiare.»
sorrise amabilmente. Tom e Monique annuirono, per poi alzarsi e
scendere le scale assieme a lei. Quando entrarono in cucina, un
delizioso profumo di arrosto raggiunse le narici di Monique: andava
matta per quel piatto. Tutto d'un tratto però, un ricordo le
attraversò la mente come un lampo.
«Mamma!»
esclamò talmente forte che fece sobbalzare sia la diretta
interessata, che Tom e suo padre.
«Che
c'è?!» rispose quasi terrorizzata la donna, mentre
apriva il forno.
«Hai
fatto l'arrosto!»
«Sì...
Se la memoria non mi fa cilecca, tu adori l'arrosto.»
«Tom
è vegetariano.»
La
bocca di Ester formò una grande “O” e si voltò ad
osservare il ragazzo, impacciata.
«Davvero,
tesoro?» domandò sorpresa e quasi mortificata. Tom si
portò una mano dietro la nuca, con un sorriso imbarazzato.
«Ehm,
sì, ma non ti preoccupare, Ester.» rispose.
«Oh
no, no, stai tranquillo. Posso fare un po' di verdura o un po' di
pasta!» si affrettò a rimediare la donna, dopo aver
appoggiato la piccola teglia con l'arrosto fumante sul tavolo.
«Ma
no, davvero, non cucinare nulla. Sei hai un po' di insalata, che è
veloce da preparare, mangio volentieri quella.»
La
pelle del chitarrista stava prendendo un colore decisamente più
scuro di quello naturale e Monique se ne accorse, così decise
di venirgli in contro.
«Ti
preparo un po' di insalata con mozzarella, pomodoro e mais.»
disse, voltandosi verso lo scaffale per recuperare il barattolino di
mais. Aprì il frigo e prese la verdura assieme al pomodoro e
alla mozzarella. Ricordava che quando Tom non aveva molta voglia di
preparare qualcosa di troppo impegnativo, gli piaceva mangiare
quello.
«Grazie.»
rispose il ragazzo, sedendosi di fronte al padre di Monique. Quando
tutto fu pronto, Monique poggiò la scodella con l'insalata sul
tavolo, davanti al chitarrista che la ringraziò di nuovo. Non
era decisamente abituata a tutte quelle gentilezze da parte sua ma ne
era piacevolmente scossa. Si appostò sulla sedia affianco a
lui ed Ester si andò a sedere vicino ad Alfred. Dopo essersi
augurati “Buon appetito”, presero tutti a mangiare.
«Mamma,
guarda che torno a Berlino con Tom.» annunciò
improvvisamente Monique.
«Oh!
D'accordo, tesoro.» rispose la donna, forse un po' dispiaciuta.
«Mi raccomando, non strafare con il lavoro. Sei più
pallida del solito.» continuò, osservandola di sbieco.
Sentì gli occhi del chitarrista, affianco, perforarla e la
cosa la fece appena rabbrividire: sapeva cosa stava pensando.
«Non
ti preoccupare, Ester. La terrò d'occhio io.» rispose
Tom, al posto suo. A quell'affermazione si sentì arrossire
pericolosamente. L'idea le piaceva parecchio.
**
Una
buona parte del viaggio l'avevano passata in silenzio, al contrario
di come si sarebbe aspettata. Tom aveva acceso lo stereo della
macchina, su una stazione radio a Monique sconosciuta ma comunque
apprezzata, forse per spezzare quel silenzio imbarazzante. La
ragazza, di tanto in tanto, lo osservava con la coda dell'occhio, per
capire che intenzione avesse, se quella di parlare o tacere fino al
loro arrivo a Berlino. Così, decise di prendere l'iniziativa:
voleva parlare con lui, ora che le cose sembravano andare lentamente
a posto.
«Hey,
che hai?» gli domandò con cautela. Non si poteva mai
sapere quali fossero le sue reazioni; era un ragazzo lunatico.
«Niente,
rifletto.» rispose con una scrollata di spalle il chitarrista,
senza mai staccare gli occhi dalla strada.
«Rifletti
da un'ora.» gli fece notare Monique. Tom si voltò
qualche secondo verso di lei e sorrise divertito, per poi tornare a
concentrarsi sulla guida.
«Stavo
solo pensando a questa situazione e mi chiedevo alcune cose.»
ammise.
«Cioè?»
Monique si sistemò meglio sul sedile, in modo tale da voltarsi
appena nella sua direzione.
«Com'è
successo?» le chiese, voltandosi di nuovo verso di lei per
qualche secondo. Bastò quel piccolo spicchio di tempo per far
sì che il cuore di Monique facesse una capovolta. Non poteva
reagire così ogni volta che il chitarrista la guardava.
«Intendi,
come sono rimasta incinta?» Vide Tom annuire. «Beh, sono
andata a letto con un ragazzo.» sdrammatizzò, al che Tom
le scoccò un'occhiata intrisa di sarcasmo.
«Ma
dai? Pensavo ti fossi montata da sola.» scherzò il
ragazzo, con la sua solita delicatezza. Monique sorrise appena e
decise di prendere a raccontare le cose per filo e per segno, così
com'erano.
«Ero
fidanzata da un anno con un ragazzo di due anni più grande di
me, Christian. Il solo pronunciare il suo nome mi da nausea. Mi aveva
sempre fatto credere che io ero speciale per lui, che provasse
qualcosa di forte per me e invece gli servivo solo per scopare.»
sputò freddamente la ragazza. Tom la osservava di sbieco, di
tanto in tanto, prestando attenzione a quel racconto. «Tornava
a casa che io ero già a letto, pronta per soddisfare di nuovo
i suoi bisogni. Non mi salutava neanche. Si infilava direttamente
sotto le lenzuola, senza dirmi una parola. E ai tempi ne avevo
bisogno; mi sentivo una poco di buono. Solo che non ho mai avuto il
coraggio di lasciarlo. E in una di queste tante volte, sono rimasta
incinta.» continuò.
«Ma...
Voglio dire, non prendevate precauzioni?» intervenne Tom.
«Capitava,
a volte, che non le prendessimo, ma sembrava che lui stesse comunque
attento. Evidentemente, in una di quelle volte, ha sbagliato i
tempi.»
«Coglione.
Io preferisco non rischiare in questo modo. Se non posso non lo
faccio, semplice.»
«A
lui piaceva rischiare.»
«E
non glielo potevi... Insomma, impedire?»
«Non
mi piaceva farlo incazzare... Diventava violento.»
«Ti
ha mai picchiata?»
«E'
successo. Ma mi sono sempre impegnata perchè non accadesse
troppo spesso.»
«E
adesso lui dov'è?»
«Chi
lo sa. Sarà in giro per il mondo a scopare con chi gli pare.
Del bambino non ne vuole sapere. Se l'è filata non appena gli
ho dato la notizia.»
«Ti
ha lasciata da sola?»
Monique
lo guardò per un attimo e si accorse che il suo viso era a dir
poco esterrefatto. Come mai sembrava così sorpreso? Non era la
prima volta che si sentiva di casi simili.
«Ovvio.
È per questo che ho fatto tutto il casino per il lavoro. Dovrò
mantenere il bambino da sola e mi servono soldi.» rispose la
ragazza, studiandolo ancora per qualche secondo. Il chitarrista restò
in silenzio, forse a rimuginare su ciò che Monique gli aveva
detto. «Ma comunque ho Jessica che mi sta molto vicino.»
aggiunse lei, cercando di spezzare quella pesante atmosfera che si
era venuta a creare.
«Ah,
la peperina rossa.» sorrise Tom.
«La
conosci?» inarcò le sopracciglia Monique.
«E'
lei che mi ha dato l'indirizzo dei tuoi.» Monique venne
percorsa da un brivido e un sorriso spontaneo le si dipinse sul
volto. La sua migliore amica aveva fatto questo per lei... L'affetto
che provava nei confronti della rossa non era quantificabile e,
nonostante sapesse che ci sarebbe sempre stata, non la credeva capace
di arrivare a tanto. Quando l'avrebbe rivista, le sarebbe saltata al
collo cospargendola di baci, ovunque capitasse. Era soprattutto
merito suo se ora lei e Tom riuscivano ad avere per lo meno un
dialogo civile. «Schmitz, è vero che le hai detto che
sono un buzzurro, rozzo, poco gentile e decisamente urtante?»
domandò improvvisamente il moro, riportando per filo e per
segno le parole di Jessica, con un sorriso divertito in volto.
Monique sobbalzò sul posto e sentì le gote prenderle
fuoco. Gli aveva davvero detto tutto quello? Dopo i baci, l'avrebbe
presa a testate.
«Deve
essermi sfuggito, una volta.»
**
Era
arrivata da poco a casa. Tom era subito andato via, sostenendo che
aveva delle cose importanti da fare allo studio di registrazione.
Nella sua mente era balenato l'assurdo pensiero di proporgli di
salire a casa sua per offrirgli qualcosa, come ringraziamento per il
passaggio, ma lui l'aveva battuta sul tempo. Sembrava che avesse
intuito l'idea della mora e che avesse voluto evitare tutto quanto.
Perchè? Perchè un momento l'avvicinava e un altro
l'allontanava di nuovo? Era stato gentile con lei, anche quando si
erano salutati; eppure pareva sempre che il chitarrista volesse
comunque mantenere le giuste distanze. Non ne comprendeva il motivo e
la testa sembrava stesse per esploderle da un momento all'altro, così
decise che una bella camomilla non le avrebbe fatto male. Odiava
prendere farmaci, anche per un semplice mal di testa o un mal di
pancia: i metodi naturali erano quelli che preferiva in assoluto.
Improvvisamente,
mentre controllava l'acqua nel pentolino in attesa che bollisse,
sentì suonare il campanello. Aggrottò le sopracciglia:
non aspettava nessuno. Uscì dalla cucina, per raggiungere la
porta di casa ed aprirla. Lì, sul pianerottolo, Jessica le
sorrideva ilare, con le braccia stese, lungo i suoi fianchi. Monique
non ci pensò due volte: ricambiò quel sorriso e le si
buttò al collo, stringendola con tutta la forza che possedeva.
Le braccia della rossa andarono a cingerle il corpo, mentre insieme
indietreggiavano in casa, per richiudere la porta.
«Vedo
che una certa persona ti ha fatto mettere la testa a posto.» le
sussurrò all'orecchio Jessica, con una dolcezza disarmante.
Monique chiuse gli occhi e la strinse ancora più forte.
«Grazie.»
rispose semplicemente, sapendo che non occorrevano altre parole.
**
Si
erano ritrovate a ridere come pazze, sedute su quel divano, che ormai
era diventato il loro nido per le confidenze, con una tazza di
camomilla in mano.
«Io,
uno di questi giorni, ti dovrò ammazzare. Come ti è
saltato in mente di dire a Tom quelle cose?» ridacchiò
Monique, per poi sorseggiare un altro po' della bevanda fumante e
zuccherata.
«Oh,
insomma, mi aveva risposto scorbuticamente. E poi, con quella faccia
da pesce lesso che aveva, non ho resistito.» ribattè
divertita Jessica, mentre riponeva sul tavolino affianco la tazza
ormai vuota. Monique sorrise scuotendo la testa e, dato un ultimo
sorso, la imitò. «Però devo dire che è
stato carino a venirti a cercare. Sembrava un po' intimidito. Secondo
me significa qualcosa. Qual'è il ragazzo che si fa due ore e
mezza di macchina per raggiungere una ragazza, su!» continuò
la rossa. Monique arrossì abbassando lo sguardo sulle sue
gambe incrociate.
«Sì
ma prima sembrava volersene andare a tutti i costi. Non mi ha neanche
dato il tempo di chiedergli se voleva salire, che già se n'era
andato. Sembrava che avesse capito tutto e la cosa mi preoccupa.
Perchè vuole tenere queste maledette distanze da me? Alla
fine, quando sono stata male, lui mi ha abbracciato senza problemi ed
è stato anche dolce con me. Non lo capisco; cambia da un
secondo all'altro.» mormorò mogia.
«Probabilmente
è solo spaventato. Si sente preso da te ed ha paura che la
cosa possa diventare seria. Si slancia in certi momenti, ma poi
riacquista coscienza e si allontana di nuovo.»
«Mi
farà diventare pazza così, però.»
«Amore,
tutti gli uomini fanno diventare pazze, in qualche modo. È la
prassi.»
«Che
prassi di merda.»
Scoppiarono
a ridere, abbandonando tutti i pensieri negativi che cercavano di
affollare le loro menti.
**
Varcare
quella soglia si era rivelato molto più difficile del
previsto. Nonostante Tom le avesse assicurato più volte che
David non sapeva nulla, sentiva comunque un nuovo peso in corpo.
Sapeva che si sarebbe sentita sempre osservata, come giudicata, anche
se non poteva essere possibile. Nessuno sapeva nulla, avrebbe dovuto
accantonare le preoccupazioni;.ma queste tornavano continuamente,
decise a non darle tregua.
Prese
un bel respiro e, finalmente, infilò la chiave nella toppa.
Aprì la porta dello studio di registrazione e si guardò
attorno.
«Buon
giorno.» salutò. Improvvisamente vide David svoltare
l'angolo e sorriderle.
«Buon
giorno, Monique! Tutto bene? Come sta tua madre?» le domandò
premuroso.
«Oh,
bene, bene. Si è ripresa.» mentì, poggiando le
chiavi sulla ribaltina, per poi appendere il cappotto
sull'appendiabiti dell'ingresso. Sembrava tutto tranquillo, al
contrario di come aveva pensato.
«Bene,
sono contento. Se vieni un attimo nel mio ufficio ti devo parlare di
una cosa.»
Quella
fu la frase fatidica; quella che fece scoppiare il cuore in petto a
Monique. Quella che le fece maledire mentalmente il chitarrista per
il fatto che l'aveva ingannata; che le aveva assicurato che non aveva
proferito parola con nessuno riguardo la sua situazione... E invece
era solamente una scusa per farla tornare indietro.
Stupida,
ancora che ti vai a fidare, continuava a ripetersi nella testa,
disperata, mano a mano che si avvicinava a quell'ufficio. Già
vedeva nella sua testa la scena: David che le strappava il contratto
di lavoro davanti agli occhi. Forse nella realtà sarebbe stato
meno brutale, ma era tutto ciò che al momento riusciva a
immaginare.
David
chiuse la porta e la fece sedere sulla sedia di fronte alla sua
scrivania, per poi accomodarsi anche lui al di là di essa.
«Dunque,
ci sarebbe una cosa che ho saputo praticamente ieri.» cominciò
il discorso. Monique sentiva l'irrefrenabile voglia di darsela a
gambe. Non prima di aver strangolato il chitarrista però.
«Sì.»
balbettò la ragazza, in attesa che il discorso prendesse
piega.
«I
ragazzi dovranno tenere delle interviste, dei servizi fotografici e
delle Signing Session in Malesia. So che è lontano e che
richiederebbe un bel po' di giorni ma... Tu saresti disponibile?»
Monique
lo osservò senza fare una piega. Era rimasta semplicemente
paralizzata. Le sue mani stringevano ancora i braccioli della sedia
dal nervoso. Aveva capito bene? Come per magia, riprese a respirare
ma sentì al contempo un disperato bisogno di bere.
«Torno
subito, scusami.» soffiò, alzando un dito e sollevandosi
dalla sedia per uscire da quell'ufficio, sotto lo sguardo sbigottito
del manager.
Quindi
era vero... Tom non aveva mai detto nulla. Per un attimo si sentì
in colpa di averlo anche solo pensato e per non aver riposto fiducia
in lui.
Recuperò
la bottiglietta d'acqua dalla macchinetta e se la portò alle
labbra per bearsi di quel liquido fresco che scese lungo la sua gola
con lentezza. Si sentiva già meglio, nonostante avesse ancora
il cuore scalpitante.
Sentì
un ennesima capriola da parte di quest'ultimo, nel momento in cui
notò proprio Tom svoltare l'angolo, intento a raggiungere
probabilmente la sala insonorizzata, dov'erano riposti gli strumenti.
Le fece un cenno col capo in segno di saluto e, nonostante Monique si
fosse aspettata per lo meno un sorriso, le bastò.
«Sei
meno buzzurro di quanto pensassi, Tom.» gli sorrise. Il
chitarrista la osservò per qualche attimo perplesso: non
poteva immaginare che si riferisse al fatto che aveva mantenuto il
segreto. Senza attendere una risposta, fece di nuovo il suo ingresso
nell'ufficio di David, per poi richiudere la porta e sedersi di
fronte a lui. «Allora... Quando dovremmo partire?»
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Capitolo 16 *** Fifteen. Welcome to Malaysia ***
welcome to malaysia
Chapter
Fifteen.
-
Welcome to Malaysia -
Probabilmente,
partire per la Malesia, nelle sue condizioni, non era stata la scelta
migliore che potesse fare. La aspettavano cinque lunghi giorni in
quella città asiatica. Cinque giorni in cui avrebbe passato il
tempo, oltre a fare il proprio lavoro da brava traduttrice, a pregare
che il bambino non desse qualche problema proprio in quel periodo –
magari anche durante un'intervista. Jessica le aveva raccomandato di
non strafare e di munirsi di ogni tipo di medicina o quant'altro, in
caso di urgenza. La rossa non era tranquilla a riguardo e l'aveva
minacciata di telefonarla ogni giorno, anche se ciò le avesse
prosciugato i soldi dalla scheda telefonica. Monique non aveva potuto
fare altro che acconsentire: vedere la sua migliore amica recuperare
il coltellaccio che usava per tagliare le angurie e puntarglielo
contro con sguardo minaccioso non era stato propriamente allettante.
Sospirò
appena, cambiando canzone dal suo i-pod. Poggiò una tempia sul
vetro dell'oblò e si beò dello splendido paesaggio
sottostante, coperto di tanto in tanto da bianche nuvole, mentre
l'aereo portava lei e il resto della band verso la Malesia.
Era
affascinata da tutto ciò: non aveva mai lasciato casa per
viaggi così lunghi. Se qualcuno le avesse chiesto se fosse mai
andata all'estero, avrebbe risposto “In Francia, per lavoro”. Non
aveva mai varcato i confini della Germania per puro piacere
personale: vi era sempre di mezzo la sua professione. Certo, non le
dispiaceva visitare posti nuovi; però prendersi una bella
vacanza per conto proprio era un'idea che le piaceva parecchio ma
che, per forza di cose, non avrebbe potuto mettere in pratica.
**
Quando
giunsero in Malesia era piuttosto tardi. Il buio si era impossessato
dell'intera città, illuminata solamente da lampioni e negozi
ancora aperti. Monique si guardò attorno estasiata. Le piaceva
quella città. Poteva non essere considerata una New York, ma
era pur sempre affascinante.
Al
suo fianco, Bill continuava a parlottare eccitato, battendo le mani
curate di tanto in tanto, mentre osservavano i malesiani attraverso
il vetro del furgone che li stava portando dritti al loro hotel. Per
puro caso, Monique si fermò ad osservare proprio le mani del
ragazzo e, con una piccolissima e divertente sensazione di invidia,
constatò che le aveva più curate delle sue.
Tom
era seduto sul lato sinistro, affianco al fratello, mentre Georg e
Gustav giacevano di fronte a loro.
Improvvisamente
il furgone nero accostò vicino ad un marciapiede e,
affacciandosi appena, Monique vide davanti a loro un enorme albergo a
cinque stelle, dalla stupenda fisionomia. Le fans urlanti erano già
tutte attorno ad esso, mentre i bodyguard cercavano di tenerle al
loro posto, con qualche difficoltà.
Tobi
aprì la portiera del furgone e, posando una mano sulla testa
di ognuno, fece scendere tutti i componenti della band, assieme a
Monique.
Ormai
Monique si era guadagnata la nomina di “Troia raccomandata”, ma
aveva imparato a non darvi peso. Era abituata a ricevere insulti
ovunque andasse e sfortuna voleva che lei capisse molte lingue
straniere.
Una
volta varcata la soglia dell'hotel – uscita indenne, apparte i suoi
timpani, da quel branco di assatanate – si guardò attorno
estasiata. Il lusso di quel posto era strabiliante; mai le era
capitato di visitarne uno del genere, nemmeno a Parigi, e ne fu
totalmente rapita.
Dopo
che David ebbe risolto alcune pratiche alla reception, fece segno ai
ragazzi di seguirlo verso l'ascensore. Raggiunsero il dodicesimo
piano, dove si estendeva un'elegante moquette rossa lungo tutto il
corridoio.
«Dunque,
tenete le tessere delle vostre stanze. Bill, hai la trecentododici.
Georg, la trecentoquattordici, Gustav la trecentosedici. Tom, la
trecentotredici, io la trecentoquindici e Monique la
trecentodiciassette.» riferì ad ognuno, porgendo la
rispettiva tessera magnetica. Monique si guardò in giro e notò
che le stanze con il numero dispari erano sulla destra e quelle con
il numero pari sulla sinistra. Andò nella prima direzione
assieme a David e Tom, mentre gli altri tre nella parte opposta. «Ci
vediamo più tardi per la cena.» disse il manager prima
di chiudersi nella sua stanza.
**
Il
letto matrimoniale di Monique era totalmente in disordine, sovrastato
da ogni tipo di indumento che aveva maldestramente tirato fuori dalla
sua piccola valigia. Per cinque giorni avrebbe potuto tranquillamente
riporre i propri vestiti nell'armadio.
Stava
cominciando a riordinare il tutto, quando il suo telefono cominciò
a squillare, poggiato sul comodino affianco al letto.
«Jess?»
sorrise, dopo aver visualizzato il nome della rossa sul display.
«Sei
atterrata ancora intera?» domandò prontamente la
ragazza, dalla Germania. Monique non riuscì a soffocare una
lieve risata. La protezione che ogni volta le dimostrava era
adorabile.
«Sì,
non ti preoccupare. La testa è ancora al suo posto.»
rispose, tenendo il cellulare tra l'orecchio e la spalla, e
riprendendo a riporre nell'armadio i suoi vestiti.
«Bene,
che fai?»
«Infilo
tutta la mia roba nell'armadio. Tra un quarto d'ora circa scenderò
a cenare.»
«Il
caso “Buzzurro”?»
«Il
caso “Buzzurro” è rimasto tale e quale a prima. Non ci
siamo scambiati mezza parola. Non mi sembra arrabbiato come al
solito... Solamente sembra voglia starmi lontano, come ti ho detto.»
«Dagli
tempo. Allora ci sentiamo domani, ora esco un pò. Un bacio.»
«Bacio.»
Ripose
il telefono sul comodino e si impegnò per concludere il suo
intento.
Improvvisamente
sentì qualcuno bussare alla porta.
«Hey,
Monique, noi scendiamo a cena, sei pronta?» sentì la
voce di Gustav da dietro essa.
«Sì,
arrivo. Dammi due minuti.» rispose la mora, affrettandosi a
riporre tutto nell'armadio.
«Beh,
io comincio a scendere con gli altri, tanto c'è ancora Tom che
si deve alzare dal letto.»
Monique
reprimette l'istinto di precipitarsi alla porta e strangolare
quell'angioletto biondo: sapeva che lo stava facendo apposta. Da
quando avevano avuto quella conversazione a Parigi, riguardo il
chitarrista e il fatto che si dovessero conoscere meglio, aveva
sempre fatto in modo che lei e il moro si ritrovassero soli.
Non
rispose, anche perchè aveva sentito il batterista allontanarsi
immediatamente – senza neanche concederle il tempo di prendere
fiato – e scosse la testa, piegando ancora qualche maglietta sul
letto. Quando finì di riporre tutto quanto nell'armadio,
richiuse le ante e si posizionò di fronte allo specchio appeso
verticalmente su un lato del muro. Si diede una sistemata ai capelli,
per poi alzare la maglia fino al seno ed aggiustare la panciera, come
meglio poteva.
Era
ormai entrata nel quarto mese e tutti quei tentativi di copertura si
stavano rivelando quasi inutili. Finchè avrebbe funzionato,
avrebbe perseverato, pur rendendosi conto che ciò non avrebbe
agevolato il bambino.
Dopo
essersi ammirata ancora qualche secondo, si voltò e corse
verso la sua valigia, ancora aperta. Ne recuperò il
beauty-case e ne tirò fuori un po' di lucidalabbra. Il cuore
scalpitava al solo pensiero che avrebbe visto il chitarrista, pur
essendoci ormai abituata. Ultimamente si stava accorgendo che voleva
sempre apparire perfetta davanti a lui, per quanto potesse, ed il
solo pensiero le faceva imporporare le gote.
Sospirò,
dopo aver infilato il lucidalabbra nel borsellino, e si voltò
in direzione della porta. Quando uscì dalla stanza, il suo
sguardo si spostò automaticamente sulla destra per vedere se
anche il chitarrista stava uscendo o meno.
«Sono
qui.» sentì proprio la sua voce provenire da sinistra.
Una marea di brividi le percorsero il corpo, mentre si voltava verso
di lui, trovandolo in piedi – in mezzo al corridoio – con le mani
nelle tasche dei suoi jeans oversize. «Gustav mi ha detto di
aspettarti.» aggiunse per poi prendere a camminare con
disinvoltura, seguito dalla mora. Quest'ultima chiuse gli occhi e si
trattenne dal maledire il biondino. Quando entrarono in ascensore e
le ante si furono chiuse, le venne spontaneo trattenere il fiato.
Sentiva i battiti cardiaci rimbombarle nelle orecchie e sapeva
perfettamente che si trattava della vicinanza con il chitarrista.
Quel dannatissimo profumo da uomo, che usava sempre, le stava
inebriando i sensi, facendole perdere per un attimo la cognizione del
tempo e dello spazio. «Come stai?» le chiese
inaspettatamente il ragazzo, facendola quasi sobbalzare. Da quando si
preoccupava di come stesse? «Intendo con lui.»
aggiunse poi alludendo al suo ventre con lo sguardo, facendola
rovinosamente cadere dalla bella e comoda nuvoletta sulla quale stava
viaggiando da qualche secondo.
«Oh,
bene.» rispose un po' amareggiata.
«Non
senti ancora nulla?» si informò di nuovo il ragazzo,
cercando di risultare inutilmente indifferente agli occhi della
ragazza. Quest'ultima si sentì arrossire a quella domanda. Le
faceva strano parlare di quelle cose con un ragazzo, soprattutto se
questo era Tom.
«Ehm,
a dire il vero no.» rispose, abbassando lo sguardo sul suo
ventre.
«Però
per essere al quarto mese non ti si è ingrossata tanto la
pancia. È strano.» commentò successivamente,
osservandola con attenzione, come perplesso. Monique si irrigidì
immediatamente, distogliendo lo sguardo.
«Ehm,
no, non credo. Non lo è.» si affrettò a
ribattere, prendendo a pregare mentalmente che quelle dannate ante si
aprissero in fretta.
«Schmitz,
c'è qualcos'altro che dovrei sapere e non mi hai detto?»
indagò con sospetto.
«Ma
va, hai scoperto tutto quello che c'era da scoprire.» tagliò
corto Monique per poi uscire in fretta e furia dall'ascensore,
seguita da un chitarrista alquanto mal fiducioso.
**
Quando
si erano appartati in giardino, dopo cena, Monique si sentiva
estremamente a disagio. Percepiva lo sguardo accusatore di Tom
perennemente puntato sulla sua figura e sapeva che il motivo era il
suo discorso concluso in maniera poco credibile, in ascensore. Aveva
paura che avesse capito qualcosa, era un ragazzo fin troppo sveglio.
Nonostante in un altro momento gli occhi di Tom posati continuamente
su di lei li avrebbe graditi, ora aveva un bisogno assurdo che questi
venissero immediatamente allontanati.
«Ragazzi,
io me ne vado in camera. Sono un po' stanca.» annunciò
quindi, facendo voltare anche i tre ragazzi rimanenti nella sua
direzione, con le sigarette in bocca, eccetto Gustav.
«Ma
dai, rimani ancora un po' qui con noi.» rispose Bill
dispiaciuto, sputando nel frattempo fuori dalle labbra un po' di
fumo.
«No,
davvero, ragazzi.» rispose Monique, facendo per voltarsi verso
l'entrata, ma le braccia di Georg le circondarono la vita,
sollevandola appena con fare scherzoso.
«Dobbiamo
ancora raccontarci tante cose, signorina, dove credi di andare?»
esclamò il rosso, inconsapevole del fatto che Monique aveva
strizzato gli occhi.
«Georg,
mettila giù!» l'urlo del chitarrista perforò loro
le orecchie, mentre il ragazzo si precipitava a togliere Monique
dalla presa del rosso, la quale si toccava appena la pancia, senza
farsi notare. Il moro posò una mano sopra la sua, sul ventre,
e fulminò Georg con lo sguardo.
«Hey,
Tom, che ti prende? Volevo solo essere giocoso.» mormorò
sorpreso il bassista. Tom si staccò prontamente da Monique per
poi accendersi nervosamente la seconda sigaretta di quella serata.
Monique era rossa in viso per ciò che il ragazzo aveva fatto:
si era preoccupato che Georg potesse farle male, in quel modo. Stava
diventando premuroso, pur non ammettendolo a parole.
«Non
ti preoccupare, Georg, non è successo nulla.» lo
rassicurò la mora, battendogli gentilmente una mano sulla
spalla. «Ora però sarà meglio che me ne vada in
camera, sul serio.» sorrise successivamente, per poi dare la
buona notte a tutti quanti e ritirarsi all'interno dell'albergo.
**
La
mattina seguente, Monique si sentiva particolarmente stordita.
Percepiva la stessa sensazione che doveva sopportare dopo un'intera
serata fatta di alcool e musica a tutto volume, quando ancora se la
poteva concedere. Si strofinò le mani sulle palpebre, cercando
di ignorare il fastidioso mal di testa che si era impossessato di
lei, senza ritegno. Scostò le coperte che giacevano sul suo
corpo intorpidito e scese dal letto lentamente. Un po' sbandante,
riuscì a raggiungere il bagno, dove si specchiò
incuriosita. Aveva il viso più pallido del solito e due grosse
occhiaie glielo solcavano. Quella visione la destabilizzò per
qualche istante, ma poi decise di ignorarla e lavarsi i denti. Si
sciacquò la faccia e successivamente si diresse verso
l'armadio per trovare qualcosa da indossare per la colazione.
Quella
mattina, i ragazzi avrebbero dovuto tenere un'intervista ed
ovviamente lei sarebbe dovuta andare con loro. Non si sentiva per
niente bene e sperava che questo non gravasse sull'intera giornata.
Doveva stare bene, doveva lavorare e non poteva permettersi di
fallire proprio quel giorno. Avrebbe ingoiato il groppone che le
infastidiva la gola ed avrebbe ignorato quello che le attanagliava lo
stomaco.
Una
volta vestita e lavata, uscì dalla sua stanza. Erano le otto e
mezza e, senza ombra di dubbio, i ragazzi la stavano aspettando al
piano inferiore, o anche loro si stavano preparando per scendere.
Lungo il corridoio incrociò la figura di Georg, il quale si
stava dirigendo verso l'ascensore, dandole le spalle.
«Hey,
Hagen.» lo chiamò, sorridendo. Il rosso si voltò
incuriosito verso di lei e ricambiò il sorriso.
«Buon
giorno!» la salutò cordialmente, mentre lei lo
affiancava per entrare assieme a lui in ascensore. Quando le ante si
chiusero, la mora sentì gli occhi del bassista puntati
insistentemente su di lei. In quei giorni ne sentiva decisamente
troppi di occhi addosso. «Ti senti bene, Monique?» le
domandò preoccupato.
«Sì,
perchè?» rispose, osservandolo fintamente incuriosita.
«Sei
un po' pallida.» le fece notare il ragazzo.
«No,
sto bene.» gli sorrise tranquillamente, per poi uscire
dall'ascensore, non appena le ante si aprirono. Ignorò il
capogiro che la prese in contro piede all'improvviso e si incamminò,
fino a raggiungere il tavolo dove erano già seduti tutti gli
altri componenti del gruppo, assieme a David. Li stavano attendendo
pazientemente e non appena li videro, li salutarono – senza
risparmiarsi qualche battuta maliziosa sul fatto che arrivassero
soli.
Monique
fece finta di non aver visto lo sguardo indagatore del chitarrista e
si sedette di fronte a lui, mentre Georg prendeva posto accanto a
lei.
«Non
ne ho voglia di parlare, stamattina.» borbottò Bill,
passandosi stancamente una mano sul viso, al momento struccato.
Monique lo osservò con attenzione e notò solo allora la
notevole somiglianza con suo fratello.
«Oh,
sarebbe la prima volta che non sentiremmo parlare Bill in
un'intervista!» lo canzonò Gustav.
«Perchè
non parli un po' tu, per una volta, al posto mio?» lo fulminò
con lo sguardo il vocalist.
«Tu
sei il così detto Leader della band, quindi parli tu,
con tuo fratello. Io ne faccio volentieri a meno.»
«Ma
se mio fratello si limita a flirtare con le intervistatrici.»
«Se
sono carine, perchè non dovrei farlo? È più
forte di me.» intervenne il chitarrista, mentre i camerieri
portavano ogni tipo di bevanda calda al loro tavolo.
«Sembra
che ci fai sesso, solo con uno sguardo.» ridacchiò
Georg.
«Sono
molto bravo in queste cose, effettivamente.» si vantò il
moro compiaciuto. Monique si sentì arrossire ed un calore che
da un po' di tempo non sentiva le pervase velocemente il corpo.
Era... Eccitazione?!
«Spero
soltanto che quella di oggi non sia una scostumata, come quella di
Parigi. O per lo meno, che lo mettessero uomo, così... Meno
problemi.» commentò Bill, spalmando un po' di marmellata
su una fetta biscottata.
«Sì,
ma non gay.» concluse Georg con la bocca piena.
**
Proprio
come Bill aveva sperato, quel giorno l'intervistatore era un uomo –
un ragazzo, per la precisione – e non apparentemente gay. Era anche
piuttosto simpatico ed aveva instaurato immediatamente con la band un
dialogo fatto di battute e risate. Anche Monique era divertita da
quell'intervista così disinvolta e poco formale a dispetto di
tutte quelle noiose e monotone che aveva dovuto subire altre volte.
Si
era parlato in particolar modo dell'uscita imminente del nuovo album
“Humanoid” - prevista per la settimana successiva –, di tutto
il lavoro che vi era dietro e soprattutto di ciò che le fans
si sarebbero dovute aspettare da esso.
I
Tokio Hotel erano entusiasti di tutto ciò e non vedevano l'ora
che questa loro nuova creazione sfondasse in tutto il mondo. Avevano
voglia di farsi sentire per ciò che erano diventati, per i
progressi che nel corso del tempo avevano fatto con sudore ed amore.
Un
improvviso capogiro, portò Monique a chiudere gli occhi e
tastarsi una tempia; gesto del tutto automatico. Cercò di
concentrarsi ugualmente su ciò che l'intervistatore stava
riferendo ai ragazzi, ma con molta fatica. Nel momento in cui i suoi
occhi si riaprirono, incrociò – con un brivido lungo la
colonna vertebrale – lo sguardo del chitarrista. Quest'ultimo la
stava osservando con una strana preoccupazione; probabilmente
sospettava che si trattasse della gravidanza.
Quando
Monique sentì silenzio attorno a lei, si rese conto che
l'intervistatore aveva finito di parlare e stava attendendo che lei
traducesse ai ragazzi. Si voltò verso di lui e lo vide
scrutarla con un sopracciglio alzato, come a chiedersi cosa stesse
aspettando per parlare alla band.
«Può
ripetere l'ultima frase?» domandò imbarazzata, nella sua
lingua. Il ragazzo si schiarì la voce, buttando uno sguardo
alla telecamera, con fare imbarazzato, e ripeté il tutto.
Monique si voltò verso i Tokio Hotel e riferì loro
tutto quanto.
Il
suo sguardo era quasi vuoto, stanco e del tutto assente e questo Tom
l'aveva notato da un bel pezzo.
Monique
cominciò a sentire l'ansia montarle in corpo: non si sentiva
bene e pregò che quell'intervista finisse al più
presto.
**
Quando
finalmente poté uscire da quella sala rovente – a causa
delle luci fastidiosamente puntate addosso – camminò lungo
il corridoio con un po' di fatica ma abbastanza veloce da raggiungere
in pochi secondi il bagno. Chiuse la porta e si aggrappò con
le mani al lavandino. Tutto intorno a lei continuava a vorticare
senza sosta, dandole anche una sgradevole sensazione di nausea.
Sapeva che non era classica nausea mattutina, quella che non si
faceva più sentire da un bel pezzo, ed era questo che la
destabilizzava. Cosa le stava succedendo?
La
sua fronte era imperlata di sudore, le occhiaie più accentuate
ed il viso sempre più pallido. Si sentiva tremendamente
stanca, forse troppo, ed il suo corpo aveva cominciato a tremare.
Quando
la porta affianco a lei si aprì, si spaventò. Non
appena vide però, attraverso lo specchio, che Tom si era
appostato dietro di lei, per guardarla tramite il vetro, si
rasserenò. Rimasero qualche attimo in silenzio, semplicemente
guardandosi.
«Non
mi sento bene.» balbettò poi Monique, scrutandolo con un
lieve sorriso.
«Ti
ho visto.» rispose seriamente il ragazzo. La prese per le
braccia e la fece voltare delicatamente nella sua direzione ed
appoggiare con il bacino al lavandino. «E' da stamattina che
sei pallida. Cosa ti senti?» le domandò con premura,
senza staccarle le mani di dosso, come avesse paura che potesse
cadere a terra da un momento all'altro.
«Ho
le vertigini.» rispose appena. Tom le portò una mano
alla fronte e le asciugò il lieve sudore che vi si era
formato.
«E
stai anche tremando. Non credi che ti stai stancando troppo? Non
avresti dovuto accettare di venire con noi in Malesia.»
«Tom,
non voglio ancora discutere su questo, ti prego.»
Il
ragazzo stette in silenzio e poi si sporse oltre lei, sovrastandola
col corpo, per aprire il rubinetto alle sue spalle. Quel contatto
infuse piacevole calore lungo la pelle di Monique, la quale chiuse
gli occhi, abbandonando il capo sul petto del chitarrista, quasi
senza accorgersene. Respirò piacevolmente il profumo della sua
felpa.
«Hey,
non svenire, per favore.» mormorò Tom, osservandola
preoccupato, mentre si bagnava la mano sotto l'acqua fredda. Le
sollevò il viso e glielo bagnò delicatamente con essa,
cercando per lo meno di rinfrescarla, per quanto fosse possibile. In
quel momento, Monique rivide in lui la figura di un padre o un
fidanzato premuroso.
I
loro sguardi erano come magnetici. Si osservavano quasi penetrandosi
nell'animo, a vicenda, mentre Tom continuava a lasciarle quelle
carezze sul volto. Il cuore di Monique stava spingendo dolorosamente
e ripetutamente contro il suo petto, mentre il fiato le si stava
smorzando sempre di più.
Aveva
un bisogno atroce di baciarlo. Se solo avesse avuto il coraggio e non
avesse temuto un rifiuto, gli avrebbe preso il viso tra le mani e lo
avrebbe baciato, senza spiegazioni. Ed il respiro profumato del
ragazzo che si infrangeva contro le sue labbra non le era certo
d'aiuto.
«Grazie.»
soffiò appena, osservandolo con tutto l'affetto che aveva nel
cuore. Sentì quasi le gambe cedere quando il ragazzo le
sorrise impercettibilmente, scivolando dalla fronte alla guancia, con
la mano. Lo vide avvicinarsi lentamente, fino a che non le posò
le labbra su una tempia bagnata, producendo un silenzioso schiocco.
«Non
c'è di che.»
|
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Capitolo 17 *** Sixteen. Illusion ***
illusion
Chapter
Sixteen.
-
Illusion -
Lungo
tutto il tragitto per tornare all'albergo, Monique era rimasta in
silenzio. Si sentiva ancora intontita e non aveva nemmeno la forza di
parlare. Tom, accanto a lei, faceva finta di nulla, chiacchierando di
tanto in tanto con gli altri componenti della band; eppure sapeva che
anche lui era teso. Lo sentiva.
**
Quando
si chiuse in camera, tirò un sospiro di sollievo. Non aveva
più voglia di stare in mezzo alla gente. Sentiva solo il
bisogno di stendersi sul letto – magari sentire al telefono Jessica
– e bearsi di un salutare riposo. Erano le undici e mezza e di
scendere a pranzare, di lì ad una mezz'ora circa, non se la
sentiva.
Si
alzò lentamente dal letto, nel momento in cui udì delle
voci distinte nel corridoio, ed aprì la porta della sua
stanza, affacciandosi. David stava parlando con Tobi, probabilmente
riguardo qualche sistema di sicurezza, e non appena la vide, le
sorrise.
«David,
ti volevo dire che io non scendo a pranzo. Sono molto stanca e ho
intenzione di riposarmi un po'.» gli riferì con
apparente tranquillità sia nello sguardo che nel tono di voce.
«Non
ti senti bene?» domandò subito, preoccupato, il manager.
«No,
tranquillo. Ho solo bisogno di dormire. Stanotte non ho chiuso
occhio.» lo rassicurò Monique. L'uomo annuì non
troppo convinto e lasciò che la ragazza si richiudesse in
camera.
Trasse
un profondo respiro e si diresse verso il letto. Si sollevò la
maglietta che portava e si tolse la fastidiosa panciera che stava
cominciando a farle male. Sentiva come se non le permettesse di
respirare in modo adeguato e di certo il bambino ne avrebbe
risentito.
La
poggiò sulla sedia accanto al bagno e poi si immerse nel caldo
tepore delle morbide coperte che in poco tempo l'avvolsero. Chiuse
gli occhi, sorridendo appena. Aveva proprio bisogno di stendersi un
po'.
L'intervento
di Tom in bagno le era stato d'aiuto; per lo meno le vertigini ora
erano scomparse. Aveva solo un po' di mal di testa e un lieve dolore
alla pancia, probabilmente causato dalla costrizione della panciera.
Ripensò
con un po' di nostalgia a quel momento in bagno, diventato
particolarmente intimo. I loro sguardi che si incrociavano come a
volersi dire tante – troppe – cose; il respiro di Tom sul suo
volto, le sue carezze. E l'irrefrenabile voglia di baciarlo.
Anche
in quel momento il ragazzo sembrava l'avesse letta nel pensiero
perchè l'aveva baciata sulla tempia in modo talmente veloce e
spaurito da non passarle inosservato. Doveva capire cosa si
nascondesse dietro quel comportamento così ambiguo. Forse non
era il suo tipo di ragazza? O semplicemente lo spaventava il fatto
che presto avrebbe partorito un bambino?
Mentre
questi strazianti pensieri le affollavano la mente, Morfeo la accolse
fra le sue braccia.
**
Uno
strano rumore giunse alle sue orecchie, facendole lentamente
sollevare le palpebre. Dapprima non capì cosa potesse essere:
il mondo dei sogni era ancora vicino a lei. Quando finalmente aprì
totalmente gli occhi e si diede uno sguardo attorno, capì che
qualcuno stava bussando alla porta. Il timore prese subito possesso
del suo corpo.
Si
sollevò velocemente dal letto – forse troppo – e si portò
una mano alla testa, poggiandosi successivamente al muro con l'altra
per non rovinare a terra.
Dannati
capogiri, pensò mentre si allacciava ad una velocità
sovrumana la panciera attorno al ventre. Si tirò giù la
maglia e spiccò una corsa verso la porta.
Quando
la aprì, dietro essa si rivelò l'estasiante figura di
Tom, che la guardava con quella perenne ed apparente indifferenza.
Cercò di ignorare i propri battiti cardiaci che si ostinavano
a ricordarle quanto fosse agitata nel trovarlo lì davanti a sé
e sorrise timidamente. Abbassando lo sguardo, notò che tra le
sue mani reggeva un piccolo vassoio con un po' di pane e
dell'insalata al suo interno.
«Non
va bene che non mangi nulla, Schmitz.» esortò il
ragazzo, osservandola inespressivo. Monique sospirò e gli fece
segno di entrare. Richiuse la porta e gli diede le spalle per
raggiungere nuovamente il letto.
«Non
ho fame, Tom.» rispose, rannicchiando le gambe al petto. A sua
insaputa, il chitarrista le si sedette accanto, continuando ad
offrirle ciò che le aveva portato.
«Non
me ne frega niente che tu non ne abbia. Lui ne ha.»
insistette, perforandola con lo sguardo. Monique si sentì
rabbrividire: adorava vederlo in quelle vesti premurose; motivo per
cui – con una smorfia – afferrò il vassoio e se lo
appoggiò in grembo. «Stai ancora male?» le domandò
mentre lei si prestava a spezzare un po' di pane.
«Le
vertigini mi sono passate ma ho ancora un po' di mal di pancia e un
forte mal di testa.» rispose la ragazza, per poi masticare un
boccone.
«Non
mi piace che tu abbia mal di pancia. Non sono un esperto di
gravidanze ma so per certo che non è positivo che tu ne abbia.
E poi non hai un filo di pancia e sei al quarto mese; com'è
possibile?»
Monique
si portò alla bocca un po' di insalata, ignorando le capovolte
che il suo stomaco stava facendo. L'avrebbe semplicemente uccisa se
gli avesse spiegato il motivo, non vi era via d'uscita.
«Non
lo so.» sussurrò quasi impercettibilmente, posando il
vassoio sul comodino affianco.
«Non
la finisci?» le domandò Tom, torvo. Monique scosse la
testa, sospirando e si sdraiò appena sul materasso, tenendo la
testa alzata, contro il cuscino. Poggiò le mani sul ventre e
si torturò le dita, osservandole disinteressata. Tom, accanto
a lei, la scrutava pensieroso.
Non
appena vide che il ragazzo allungava timidamente una mano verso il
suo ventre, il suo cuore fece un balzo. Lo fermò velocemente,
con la propria, stringendola appena. Il calore che essa le irradiò,
la fece piacevolmente rabbrividire. Si fosse trovata in un'altra
situazione e in un altro momento in quella stanza, avrebbe
sicuramente concluso con lui qualcosa di concreto.
Non
era il tipo di ragazza che mandava a dire agli altri le cose. Era
sempre stata molto sicura di sé, per niente timorosa di venire
respinta e doveva dire che quel suo modo di fare le aveva sempre
portato soddisfazioni. Ora c'era di mezzo un bambino e la paura di un
rifiuto era più che comprensibile.
Senza
accorgersene, aveva intrecciato le proprie dita con quelle del
chitarrista, accarezzandogliele appena. I loro occhi erano di nuovo
in contatto, ma nessuno dei due voleva muoversi.
«Non
vuoi che ti tocchi la pancia?» chiese perplesso il chitarrista,
forse con una nota dispiaciuta nella voce.
«E'
che... Non c'è niente da sentire.» mormorò la
ragazza con lo sguardo perso. L'altra mano si era lentamente posata
sulla guancia di Tom, carezzandola appena. Uno strano pensiero le
stava attraversando la mente.
Aveva
paura; maledettamente paura.
Il
suo respiro tremava, così come la mano sul suo viso.
Probabilmente il ragazzo lo avvertì, ma non distolse lo
sguardo dai suoi occhi. Sembrava timoroso di un qualcosa a lei
sconosciuto, con una lieve luce malinconica nello sguardo, ma decise
di non pensarci o non avrebbe mai capito.
Si
avvicinò appena al suo volto. I loro respiri si mischiavano
accelerati e Monique sentì il cuore scoppiarle in petto.
Fermati,
stupida, non farlo, continuava a ripeterle la mente... Ma era
decisa a non darle retta per una volta e lasciarsi guidare dal
proprio istinto. Vedeva lo sguardo del chitarrista farsi sempre più
vacuo ed i suoi occhi socchiudersi appena, senza smettere di
guardarla.
Forse
era la volta buona. Forse non l'avrebbe respinta.
Lievemente,
poggiò le labbra sulle sue ed una scossa elettrica la pervase
senza ritegno. Erano morbide, bollenti ed il loro tocco delicato.
Tante volte le aveva immaginate da sfiorare, da mordere, quasi con
vergogna. Ma quel bacio era decisamente superiore a qualsiasi
fantasia.
Sentì
la mano del chitarrista, ancora intrecciata alla sua, tremare appena,
mentre la stringeva poco più forte. Con il braccio gli
circondò delicatamente il collo e lo attirò
maggiormente a sé, esercitando una lieve pressione sulla sua
bocca per far sì che quel bacio diventasse più
profondo.
Tom
si stava lasciando andare e Monique stava letteralmente perdendo i
sensi.
Nel
momento in cui lo sentì sdraiarsi accanto a lei e infilarle
una mano tra i capelli sparsi sul cuscino, non seppe più dire
come riuscisse ancora a respirare. La passionalità che li
travolse la spaventò appena ma le piaceva maledettamente, fino
a che non sentì il chitarrista sospirare affranto sulle sue
labbra, per poi staccarsi velocemente da esse con uno schiocco umido.
«No,
cazzo, no!» esclamò turbato il ragazzo, sedendosi sul
materasso e dandole le spalle con la testa fra le mani.
Monique
si sentì improvvisamente catapultata sulla Terra, mentre il
silenzio aveva preso il proprio spazio in quella stanza, spezzato
solamente dai sospiri accelerati dei due ragazzi. La mora si appoggiò
piano sui gomiti, osservando la schiena del chitarrista con timore.
Perchè stava reagendo a quella maniera?
Si
morse tremante il labbro inferiore e si sedette, continuando a
scrutarlo. Lui, d'altro canto, continuava a tenersi il viso fra le
mani, senza dire mezza parola.
«Tom...
Cosa...» provò timidamente la ragazza, fino a che non
sentì il chitarrista sospirare di nuovo.
«Non
possiamo, cazzo!» esclamò il ragazzo, senza guardarla.
Monique sbattè appena le palpebre, non capendo perchè
stesse dicendo questo.
«Perchè?»
soffiò appena, non riuscendo a frenare il magone che stava
lentamente prendendo piede nella sua gola.
«Perchè
è tutto fottutamente sbagliato! Non posso illuderti con false
speranze!»
Il
mondo sembrò crollarle pesantemente addosso.
Illuderla
con false speranze... Si era solamente illusa che Tom potesse provare
qualcosa per lei? Un semplice bacio non era nulla; almeno, non per
lui. Era stata avventata ed aveva commesso un enorme errore. Odiava
il suo dannato istinto e si sarebbe maledetta per avergli dato corda.
«Quindi...
Mi sono fatta solo film, è questo che stai dicendo.»
mormorò appena, con lo sguardo basso e deluso.
«Non
ho detto questo, cazzo.» rispose il chitarrista, voltandosi
verso di lei con espressione crucciata.
«E
allora cosa?! Sii un po' più chiaro perchè in tutto
questo tempo non hai fatto altro che confondermi le idee!» si
infervorò la ragazza.
«Non
era mia intenzione.»
«E
ora, Tom? Cosa ti passa per quella dannata testa?! Cosa devo fare?
Anche questa volta dovrò fare finta che non sia successo
nulla?!»
Gli
occhi di Monique si riempirono repentinamente di lacrime, contro il
suo volere. Lo sguardo affranto di Tom si posò sul suo.
«Non
volevo ridurti in questo stato.» sussurrò dispiaciuto.
«Ah
no?! Peccato che ci riesci ogni volta!» urlò la ragazza
di rimando, facendo sentire ancora più colpevole il
chitarrista di quanto già non fosse.
«Mi
dispiace.» disse, abbassando lo sguardo sul materasso.
«Vattene.»
rispose freddamente Monique, piangendo in silenzio, con lo sguardo
perso nel vuoto.
«Senti...»
«Vattene,
ti ho detto! Per una volta abbi rispetto per ciò che dico! Per
una sola, maledettissima volta!» La osservò ancora
qualche attimo con la tristezza negli occhi. Cosa faceva ancora fermo
lì? Aveva deciso di farla soffrire maggiormente? Non era già
abbastanza l'umiliazione che le stava facendo provare? «Tom, ti
prego.» mormorò di nuovo Monique, quasi senza forze.
Non
voleva farsi vedere in quelle condizioni da lui; non voleva che
sapesse quanto soffrisse a causa sua. Non voleva passare per quella
debole, ma i suoi desideri se ne stavano tranquillamente andando a
puttane.
Finalmente,
a quell'ultima richiesta, il ragazzo si sollevò dal materasso.
Camminò lentamente verso la porta con sguardo basso e
affranto.
«Sappi
solo che non mi diverto a vederti soffrire così.» disse
senza guardarla – suscitando così ancora più rabbia
nella ragazza – per poi uscire dalla stanza.
Monique
prese a singhiozzare incontrollata. Afferrò il suo cellulare
dal comodino e lo scagliò con violenza contro la parete di
fronte a sé, aprendolo in più pezzi. Si strappò
con rabbia la panciera dal ventre, sentendo di nuovo quel dolore
insopportabile ad esso, e si buttò sul cuscino per stringerlo
con tutta la forza che possedeva.
Si
stava innamorando di uno stronzo.
Di
nuovo.
**
Se
prima era abbastanza eccitata per quel viaggio in Malesia, ora non
vedeva l'ora di tornare a casa, gettarsi fra le braccia di Jessica e
cancellare dalla mente il volto del chitarrista. Sentiva un enorme
peso alla bocca dello stomaco che le impediva anche solamente di
guardarlo negli occhi.
Si
erano ritrovati seduti a tavola, per cena, ed uno strano silenzio
aleggiava attorno a loro. Che il chitarrista avesse già
raccontato ai suoi amici come l'aveva umiliata per l'ennesima volta?
Voleva
andarsene. Voleva alzarsi velocemente da quel tavolo, scappare
dall'hotel e prendere il primo aereo che l'avrebbe riportata in
Germania.
Riusciva
a percepire gli occhi di Tom che, di tanto in tanto, la scrutavano
quasi timidamente. Eppure lei non sentiva nulla, più nulla.
Solo rabbia e voglia di scagliarsi contro di lui per restituirgli
tutto il dolore che le stava facendo provare senza ritegno.
Perchè
si era lasciato andare a quella maniera, se non gliene fregava nulla
di lei? Aveva solamente bisogno di sfogare i propri bisogni e si era
reso conto troppo tardi che lei era incinta?
Strinse
con forza la forchetta che teneva fra le mani, serrando la mascella.
**
Aveva
tanto bisogno di fare una passeggiata, fuori da quell'hotel ed
estraniarsi un po'. Aveva bisogno di staccare un po' la spina o non
si sarebbe ripresa mai più. La figura del chitarrista
perennemente a contatto con i suoi occhi non la aiutava per nulla e
voleva allontanarsene il più possibile.
Quel
pomeriggio, i ragazzi avrebbero tenuto un servizio fotografico e lei
sarebbe stata libera di fare ciò che voleva. Motivo per cui
aveva chiesto a David di poter fare un giro per la Malesia, da sola,
promettendo che avrebbe fatto ritorno per l'ora di cena. A quella
richiesta, il manager aveva acconsentito subito, raccomandandole di
fare attenzione, mentre Tom l'aveva guardata torvo, forse preoccupato
e sicuramente contrario. L'aveva sfidato con un semplice sguardo,
sino ad uscire dall'hotel. Non poteva prenderla in giro a quella
maniera.
Si
strinse nel cappotto e continuò a camminare lungo il
marciapiede, osservando di tanto in tanto le vetrine di alcuni bei
negozi. Aveva voglia di fare un po' di shopping – solitamente
aiutava in quei casi – ma il suo portafoglio non era molto
d'accordo.
Imboccò
un piccolo vicolo, curiosa di sapere cosa ospitasse, quando dei passi
affrettati diventarono sempre più udibili alle sue spalle. Si
voltò perplessa ma non fece in tempo ad inquadrare il viso di
chi apparentemente la stava seguendo che uno di loro – per la
precisione, una ragazza – la scaraventò con le spalle al
muro. Sentì le gambe tremare ed il cuore battere
all'impazzata.
Quando
riaprì gli occhi notò che quattro ragazze, tra cui
quella che ancora la teneva immobile contro la roccia, la fissavano
con odio. Ciò che presto le dissero in malesiano non era
difficile da comprendere. Insulti gratuiti cominciarono a levarsi
nella poca aria di quel vicolo, assieme a schiaffi e pugni sul viso.
Monique non sentiva nemmeno la forza di ripararsi da tali violenze:
semplicemente si circondò il ventre con fare automatico,
sperando che mai e poi mai la colpissero lì e che quell'incubo
terminasse al più presto.
**
Si
sentiva umiliata, ancor più di prima. Era uscita da
quell'hotel per stabilizzarsi, per non pensare al male psicologico
che il chitarrista le aveva fatto provare; ne aveva subito anche di
fisico. Era furiosa, era incredula... Eppure non aveva versato una
lacrima.
Potevano
quelle ragazze essere considerate fans dei Tokio Hotel? Erano dei
mostri, non erano fans. Quello non era amore per la propria band
preferita, era odio puro. Odiare chi sta vicino a ciò che si
ama e fargli del male, vuol dire semplicemente odiare anche ciò
che apparentemente si ama e non rispettarlo.
Non
voleva vedere nessuno, tanto meno lui. Aveva tanta rabbia da
sbollire ed avrebbe dovuto farlo da sola.
Si
guardò allo specchio appeso al muro della sua stanza e non
poté fare altro che provare schifo per quello che vedeva:
lividi e tagli più o meno evidenti sul suo viso. Non poteva in
ogni caso farsi vedere a quella maniera dai ragazzi; le avrebbero
fatto domande su domande, soprattutto David, e non aveva
assolutamente voglia di parlare.
Era
maledettamente combattuta: era proprio quello il momento in cui
avrebbe avuto tanto bisogno della presenza del chitarrista accanto a
lei. Aveva bisogno che la stringesse a sé, che la facesse
sentire protetta ed al sicuro; che le facesse sentire che mai più
nessuno le avrebbe fatto del male. Ma poi le ritornava alla mente
quel bacio e le sue parole... E tutto tornava grigio.
E
proprio mentre stava per entrare in bagno per sciacquare dal suo viso
quei segni che le sarebbero rimasti nel cuore, sentì bussare
alla porta.
|
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Capitolo 18 *** Seventeen. He'll take care of her ***
he'll take care of her
Chapter
Seventeen.
-
He'll take care of her -
Doveva
aprire? Se avesse fatto finta di non esserci, David sarebbe andato su
tutte le furie, chiedendosi dove fosse finita. Probabilmente avrebbe
fatto meglio a non fingere. Ma come avrebbe giustificato i lividi sul
suo volto?
«Chi
è?» domandò tremante. Ci fu qualche istante in
cui poté udire solamente il silenzio, fino a che la voce che
parlò non la fece sobbalzare.
«Tom.»
il suo tono sembrava mortificato, intimidito. Il proprio cuore fu
tutto ciò che riusciva a sentire rimbombarle nelle orecchie.
«Ti prego, aprimi.» parlò di nuovo da dietro la
porta. Monique sospirò appena, avvicinandosi lentamente alla
porta. Non poteva nascondersi in eterno.
Quando
la aprì, alzò lo sguardo freddo sull'alta ed imponente
figura del chitarrista. Aveva uno sguardo spento, dispiaciuto. Il suo
torace era finalmente fasciato da una felpa più stretta, che
metteva in risalto il suo fisico asciutto e leggermente muscoloso. Fu
impossibile per Monique ignorare quei piacevoli brividi che si erano
protratti lungo tutto il suo corpo, nell'osservarlo dalla testa ai
piedi.
«Che
cazzo hai fatto?» fu il seguente sussurro spiazzato e spaurito
del ragazzo, che riportò alla realtà la mora,
ricordandole che era stata precedentemente picchiata e che era ancora
furiosa con lui.
«Shh!»
lo ammonì, facendogli segno di entrare nella sua stanza. Non
avrebbe dovuto farlo... Era ancora tutto troppo complicato per poter
essere affrontato con lucidità. Troppi avvenimenti si erano
scatenati in poco tempo e Monique aveva paura di non avere più
la forza di rivangarli tutti.
Diede
le spalle al chitarrista, andandosi a sedere sul suo letto, per poi
trarre un lungo respiro. Tom le si avvicinò lentamente,
sostando di fronte a lei, come avesse paura che se avesse bruciato
troppo le distanze, gli sarebbe arrivato uno schiaffo in pieno volto.
«Chi
è stato, Schmitz?» le chiese nuovamente, con la sua
solita freddezza. Monique sorrise amaramente. Mai e poi mai sarebbe
riuscita a farlo cambiare. Per quanto dolce potesse dimostrarsi a
volte, la sua indole nei suoi confronti era quella e lei non era in
grado di mutarla. Non rappresentava una figura così importante
nella sua vita per poterlo fare.
«Le
vostre dolci fans, Tom.» rispose scettica, osservandolo
duramente negli occhi. Tom sembrava quasi non riuscire a sostenere
quello sguardo, per la prima volta dopo tutti quei mesi e la cosa non
poté fare altro che compiacerla. Per una volta, aveva lei in
mano la situazione.
«Cosa?»
sgranò gli occhi il ragazzo, scrutandola interdetto.
«Hai
capito bene. Le vostre fans mi si sono avventate addosso e mi hanno
picchiata. Penso sia abbastanza evidente, no?» replicò
Monique, spazientita. La verità era che si sentiva
tremendamente a disagio. Non vedeva l'ora che il chitarrista varcasse
nuovamente la soglia di quella stanza, lasciandola sola con il suo
dolore. Non riusciva a guardarlo negli occhi, ma doveva farlo. Doveva
risultare forte, come era sempre stata nella sua vita difficile, e
non sarebbe stato un ragazzo a mandarle a monte tutte le sue
abitudini.
«Non
ci posso credere... Ma come... Perchè?!» balbettò
il moro incredulo.
«Vallo
a chiedere a loro, Tom.» rispose in tono glaciale la ragazza.
Vide il chitarrista passarsi nervosamente una mano sul viso.
«Era
a questo che non volevo arrivare, cazzo!» esclamò,
dandole le spalle per tirare un pugno alla parete. Monique aggrottò
le sopracciglia: sembrava tormentato, irato, disperato. «Io
lo sapevo che si arrivava anche a questo.» mormorò
nuovamente.
«Che
stai dicendo? Non riesco a capire.» domandò Monique,
senza mostrare troppo interesse.
«Nulla.»
concluse il chitarrista con un sospiro nervoso, per poi voltarsi
nuovamente verso di lei. Le si avvicinò appena e le si
inginocchiò davanti. «Tu stai bene?» le domandò.
«Come
vuoi che stia? Mi sento umiliata!» esclamò lei, anche
piuttosto nervosa che solo ora mostrasse quella sua preoccupazione.
Prima la rifiutava e poi le faceva quelle domande come se nulla fosse
accaduto fra loro. Era una cosa che non riusciva a sopportare perchè,
comunque fosse andata, lei non avrebbe dimenticato.
Vide
gli occhi del chitarrista osservarla comprensivo e la cosa la fece
infervorare ancora di più. Non doveva guardarla a quella
maniera, non con quello sguardo. Non doveva essere compatita da
nessuno, soprattutto da lui.
«E...
Il bambino?» aggiunse il ragazzo timoroso.
«Lui
sta bene.» ribattè Monique, con tono leggermente
infastidito. Restarono in silenzio ad osservarsi attentamente negli
occhi. Monique sentiva un irrefrenabile bisogno di stringerlo forte a
sé, così come di prenderlo a pugni. Non poteva
guardarla a quella maniera, con quel viso così apparentemente
dolce e indifeso. Non poteva.
Trattenne
il fiato, quando vide il ragazzo allungare le mani verso di lei. La
afferrò delicatamente per le braccia e la fece scivolare giù
dal letto, fino a farla rannicchiare in braccio a lui. La abbracciò,
insinuando il viso nei suoi capelli e cullandola appena, mentre il
cuore di Monique faceva le capriole.
Non
pensò oltre; semplicemente afferrò la felpa di Tom e si
accoccolò meglio sul suo petto, mentre lacrime salate
scivolavano lungo il suo viso, in silenzio. Poteva udire
perfettamente i battiti accelerati del chitarrista e capì che
forse non si era fatta dei film. Non voleva credere che lui non
provasse qualcosa per lei, dopo tutto quello che aveva fatto. Che ci
fosse un altro motivo, dietro tutto ciò? Che qualcosa gli
impedisse di lasciarsi andare con lei?
Lo
strinse maggiormente chiudendo gli occhi, mentre le mani del ragazzo
le accarezzavano dolcemente la schiena.
«Mi
dispiace che sia successo tutto questo. Non volevo accadesse.»
le sussurrò all'orecchio, mortificato.
«Alla
fine non è colpa vostra se alcune vostre fans sono delle pazze
psicopatiche. Non potete farci nulla.» mormorò Monique,
stordita dal profumo del ragazzo. Quest'ultimo sorrise malinconico,
stampandole un bacio sulla testa.
«Tu
sei sempre pronta a scusarci, a giustificarci... Anche quando non
dovresti.» sospirò, poggiando una guancia su di essa.
«Perchè
non dovrei? Non sono i vostri cani che sguinzagliate contro chi non
sopportate. Sono tutte loro iniziative e voi non potete esserne al
corrente. E se stai cercando di sentirti in colpa, Tom... Non ci
provare neanche.»
Sentì
la stretta del chitarrista farsi appena più forte ed un
sospiro crucciato arrivarle alle orecchie.
«Io
mi sento in colpa anche per...»
«No.»
«Cosa,
no?»
«Non
sentirti in colpa per quello. Lascia perdere.»
Tom
sospirò di nuovo, senza fermare le carezze con cui era
riuscito a tranquillizzare Monique, prendendo poi a sfiorarle anche i
capelli.
La
mora aveva deciso che non sarebbe più tornata sull'argomento;
le era bastato sentire il cuore di Tom per capire che avrebbe dovuto
comportarsi a quella maniera perchè il cuore è ciò
che di più sincero una persona possiede. Si sarebbe fidata di
quello che aveva sentito. Non avrebbe più provato a farsi
avanti con lui... Se lui avesse voluto, l'avrebbe fatto con lei. Non
era sicura che anche lui provasse dei sentimenti per lei, ma per lo
meno ci sperava.
Improvvisamente,
un brivido di paura le percorse la spina dorsale, nel momento in cui
la mano del chitarrista, per errore, era andata ad insinuarsi al di
sotto della sua maglia. L'aveva sentita fermarsi esattamente su quel
punto. Trattenne il fiato. Ormai, ciò che era fatto, era
fatto.
Come
si era aspettata, il chitarrista la allontanò appena da lui,
senza farla scendere dalle sue gambe, e la osservò aggrottando
le sopracciglia. Abbassò lo sguardo e le sollevò la
maglietta.
Probabilmente,
in quel momento, Monique smise definitivamente di respirare. Vedere
il viso del chitarrista sbiancare non era qualcosa di esattamente
piacevole.
Quando
lui sollevò di nuovo gli occhi sgranati su di lei, temette che
avrebbe concluso il lavoro cominciato dalle malesiane.
«Tu
sei pazza, cazzo!» esclamò il chitarrista, affrettandosi
a toglierle la panciera, senza comunque farle male. Monique prese a
tremare. «Cosa ti è saltato in testa?! Ti rendi conto
che così fai del male al bambino?! Ma dove ti è finito
il cervello?!»
«Tom...»
«No!
Niente Tom! Sei un'irresponsabile! Sai che rischiavi di
ucciderlo, con il passare del tempo?! Stupida!» Restò in
silenzio, colpevole, perchè altro non poteva fare. Pugnalate,
quelle parole. Nient'altro che pugnalate. Vedeva, con la coda
dell'occhio, Tom che stringeva rabbioso quella panciera che l'aveva
effettivamente fatta star male per mesi. Percepiva la sua ira, come
se in quel modo avesse fatto un torto a lui. «Per tutto questo
tempo hai tenuto questa dannata panciera... Non hai pensato alle
conseguenze?! Avrei dovuto immaginarlo nel momento in cui ho notato
che apparentemente non ti cresceva la pancia.» si era calmato,
ma non nascondeva il nervoso che lo stava scuotendo senza ritegno.
«Ho
dovuto farlo.» ribattè mogia Monique.
«Hai
dovuto farlo?! Queste cose non si devono fare, Schmitz! Non ci si
gioca, sono pericolose! È di una vita umana che stiamo
parlando, non di un giocattolo!»
Si
sentiva schifosamente in colpa. Quelle parole pesavano come macigni
su di lei e probabilmente non si sarebbe mai perdonata ciò che
aveva fatto. Quello che la mandava più in bestia era il fatto
che avesse agito con la consapevolezza che ciò non fosse
salutare per il bambino. Si era preoccupata prima di lei e del suo
lavoro. Era una schifosa egoista.
«Io...
Io non so neanche se sono pronta per avere un bambino, Tom. Non so
neanche se lo voglio. Anzi, lo so... Io non lo volevo.»
sussurrò, sedendosi sul freddo pavimento, affianco al ragazzo
che la osservò perplesso. Non si era nemmeno resa conto che
aveva parlato al passato, con quell'ultima frase.
«Come
non sai nemmeno se lo vuoi? È un po' tardi per capirlo,
non trovi?» rispose Tom, cercando di comprendere lo sfogo della
ragazza.
«Insomma,
Tom. A me i bambini neanche piacciono.» ammise, prendendosi la
testa fra le mani. Tom restò qualche attimo in silenzio,
scrutandola accigliato. «Non sono in grado di crescerne uno.
Probabilmente non sarei neanche affettuosa, mi farebbe schifo
cambiargli il pannolino, perderei le staffe se mi svegliasse il suo
pianto durante la notte, uscirei di testa. Forse non sarei nemmeno in
grado di crescerlo, di dargli una buona educazione, di aiutarlo con i
compiti. Tom, non sono in grado di fare la madre!» sbottò
Monique. Probabilmente stava tirando fuori tutto ciò che aveva
tenuto dentro di sé per tutti quei mesi. Nemmeno con Jessica
ne aveva mai avuto la possibilità, dato che la rossa l'avrebbe
semplicemente rimproverata di peccare di immaturità. Ora, lì,
con Tom, seduta per terra, sentiva di poter ammettere tutto quanto e,
anche se lui non le avesse dato una risposta d'aiuto, non le sarebbe
importato. Voleva sfogarsi; solo quello.
«Sai
cosa penso? Che tutte le donne abbiano, chi più chi meno, un
istinto materno. Alcune ce l'hanno più marcato, altre lo
nascondono persino a loro stesse. Forse semplicemente perchè
non lo vogliono tirare fuori. Probabilmente perchè si
sono sempre convinte, come nel tuo caso, che i bambini non faranno
mai parte della loro vita.» esortò il ragazzo, lasciando
Monique di stucco. Tutto si sarebbe aspettata dal chitarrista, ma non
un discorso intriso di tale maturità. «Insomma, voi
donne siete connaturate così... Per dare al mondo i bambini.
Ce l'avete dentro. Forse tu non lo senti ancora, ma sono sicuro che
non appena partorirai e ti appoggeranno quel fagottino sul petto...
Ti sentirai più mamma tu di qualsiasi altra donna.»
Quelle parole arrivarono dritte al cuore di Monique come una scarica
elettrica, mentre un gran magone le si formò in gola. Era
davvero Tom Kaulitz il ragazzo che stava parlando, affianco a lei,
con una mano dietro alla nuca e le gote lievemente rosse? Era davvero
lui a parlare di istinto materno e di bambini? «E poi, andiamo,
anche io dico tanto che non avrò bambini o che li avrò
dai sessant'anni in poi... Ma credi davvero che se avessi mio figlio
tra le braccia, anche domani, non mi scioglierei? Persino io mi
sentirei dannatamente padre... Quindi tu non ti devi preoccupare. E
sono sicuro che saprai comportanti al meglio con lui o lei... Non
avere paura.» concluse senza guardarla, forse per imbarazzo.
Monique non si sarebbe sentita mai all'altezza di rispondere a ciò
che le aveva detto. Era tutto troppo profondo, troppo carino e
perfetto per rispondere anche con un semplice “Grazie”.
Non
disse nulla. Si limitò ad allacciargli le braccia al collo e
respirare a fondo il suo profumo, per sentirsi immediatamente
appagata. Poteva bastare.
**
«Tom,
è una cazzata, ti prego.» si lamentò la mora,
osservando il ragazzo ricurvo verso il suo armadio, alla ricerca di
qualche sua magliettona oversize da prestarle.
«Tu
non te la rimetti quella panciera, Schmitz. Anzi, dopo mangiato,
permettimi di darci fuoco, tanto non ti servirà mai più.»
ribattè il chitarrista, tirando finalmente fuori una maglietta
verde. «Forza, mettitela.» le disse, porgendogliela.
Monique sollevò un sopracciglio.
«Tom,
mi faranno domande su domande.» replicò, afferrandola
per poi rigirarsela fra le mani. Era incredibile come il profumo del
ragazzo stanziasse in ogni suo capo.
«Vuoi
che gli altri non si accorgano del gonfiore? Allora questo è
l'unico modo, dato che le tue magliette, per quanto larghe alcune
possano essere, non ti coprono abbastanza. Quindi, deciditi. O questo
o niente. O la mia maglietta o la verità, Schmitz.»
tagliò corto il moro, incrociando le braccia al petto. Monique
sospirò e si decise: la verità avrebbe dovuto aspettare
ancora un po'. Si incamminò verso il bagno e vi si chiuse
dentro. Si sfilò velocemente la propria maglia e restò
qualche secondo ad osservare il suo ventre. Era più gonfio e
rotondo. Era buffo come, in un certo senso... Le piacesse.
Indossò
la maglietta di Tom, cercando di non rimanere nuovamente stordita
dall'odore, e sorrise notando che le arrivava quasi alle ginocchia.
Era decisamente enorme per lei, ma per lo meno le nascondeva ogni
singola traccia della gravidanza. Recuperò la sua maglia ed
uscì dal bagno.
«A
posto?» domandò Tom, voltandosi nella sua direzione ed
osservandola dalla testa ai piedi. Infine si illuminò in un
sorriso divertito. «Ti dona.» ridacchiò.
**
Gli
occhi puntati pericolosamente e pieni di sospetto sulla sua figura
non furono assolutamente inaspettati. Come aveva previsto, il suo
ingresso nella sala da pranzo, affiancata da Tom e con la sua
maglietta addosso, aveva suscitato abbastanza sospetto sui visi di
chiunque per farla sentire in imbarazzo. Gli occhi dei ragazzi,
compresi quelli di David, slittavano da lei a lui senza sosta,
indubbiamente sospettosi. Monique si sentì subito a disagio ma
con un incoraggiamento di Tom, al suo fianco, riuscirono a prendere
posto al tavolo, vicini, assieme agli altri.
«Monique...
E' una maglietta di Tom, quella?» domandò retoricamente
Bill: sapeva perfettamente quali magliette indossasse suo fratello.
«Sì,
è mia. Gliel'ho prestata perchè le sue le ha lavate
tutte e questa testina non ne ha portate abbastanza con sé, da
casa.» rispose Tom, in aiuto. Monique si sentì subito
rincuorata.
«Già,
ho contato male i giorni, sono sbadata.» sorrise la ragazza,
piuttosto intimidita.
Quella,
senza dubbio, non era la migliore delle scuse che avesse mai tirato
fuori, ma per lo meno aveva messo a tacere ogni tipo di domanda,
nonostante i dubbi su loro due ora permanessero.
**
Da
qualche ora, Monique sentiva uno strano fastidio al ventre che non
seppe classificare se come dolore o altro. Aveva semplicemente deciso
di ignorarlo.
Era
seduta sulla panchina posizionata in giardino, affianco a Gustav, e
si divertiva ad osservare i battibecchi tra i gemelli, di fronte a
loro.
«Lo
sai che toccava a te chiamare mamma!» borbottò Bill,
tenendo fra le dita la sua fidata sigaretta.
«Bill,
ho avuto altri pensieri, non posso ricordarmi sempre tutto! Se mi
dimentico qualcosa, per lo meno, ricordamelo.» ribattè
lamentoso il chitarrista, dopo aver gettato un po' di cenere.
«Eh
certo. Sono sempre io la mente tra noi due.»
«Bill,
smettila di fare la vittima.»
Gustav,
affianco a lei, sospirò.
«Non
la smetterebbero mai.» commentò con un mezzo sorriso,
mentre quella discussione continuava.
«Per
lo meno si tengono occupati, in qualche modo, e non si annoiano.»
sdrammatizzò Monique.
«Come
se non lo fossimo già abbastanza.» ridacchiò il
biondo.
Monique
tornò ad osservare i due ragazzi, mentre Georg parlava
animatamente al telefono a qualche metro di distanza.
Un
immenso calore le attraversò il corpo, nel soffermarsi ad
osservare il chitarrista. Tutto di lui le piaceva: il modo in cui si
esprimeva, il modo in cui gesticolava animatamente quando non
riusciva a dare peso con le parole ad un concetto, il modo in cui
aggrottava le sopracciglia quando sembrava confuso o arrabbiato. I
sospiri nervosi ai quali a volte si lasciava andare, quando non
riusciva ad avere la meglio.
Era
semplicemente incantata da quel ragazzo ed era curioso come tutto
quanto fosse successo in pochi mesi.
Era
proprio vero: le ragazze hanno una certa passione per i maschi che le
trattano apparentemente male. A loro piace complicarsi la vita e così
aveva fatto Monique. Quegli atteggiamenti così distaccati e
scorbutici del ragazzo, l'avevano lentamente attratta a lui, senza
troppe spiegazioni. Il fascino da “cattivo ragazzo” - cosa che in
realtà non era – l'aveva letteralmente stregata. Ed ora non
sapeva più come uscirne. Non poteva immaginare quale fosse la
cosa migliore da fare: la sua testa le diceva di lasciar perdere, che
molto probabilmente lui non si sarebbe piegato con lei e che non
avrebbe avuto speranze; il suo cuore invece insisteva... Più
che altro perchè non ce la faceva ad abbandonare la tenera
idea di lei assieme a lui. Erano fantasie che qualsiasi ragazza con
una buona dose di romanticismo nel sangue si sarebbe fatta.
«Ho
notato che il tuo rapporto con Tom va meglio, ora.» esortò
improvvisamente il batterista, risvegliandola dai propri pensieri.
Monique si voltò verso di lui, con le sopracciglia inarcate –
segno di una persona presa in contro piede – e lo vide sorriderle
dolcemente.
«Oh,
sì. Ora va meglio, andiamo più d'accordo.» annuì
la ragazza, tornando ad osservare i gemelli.
«Te
l'avevo detto che era solo questione di conoscenza e che Tom, alla
fine, è un bravo ragazzo.»
Monique
sorrise nel vuoto.
Sì...
Era un bravo ragazzo.
**
Bussò
un paio di volte alla porta del chitarrista, guardandosi attorno.
Aveva paura che qualcuno la potesse scorgere lì in corridoio
ed al momento aveva rimesso una sua maglietta leggermente più
stretta: avrebbero sicuramente capito tutto se avessero abbassato
solo di poco lo sguardo.
Finalmente
il ragazzo aprì la porta, osservandola accigliato. Monique si
sentì avvampare. Un inebriante profumo di bagnoschiuma le
arrivò alle narici, mentre la splendida figura di Tom coperto
semplicemente da un asciugamano in vita, la mandò su un altro
pianeta, decisamente troppo lontano dalla Terra.
«Sono
venuta a ridarti la maglia.» si sforzò di parlare,
allungandogliela quasi timidamente.
«Ah,
grazie... Vuoi entrare un attimo?» rispose il moro, dopo aver
recuperato il suo indumento. Monique si stupì appena per
quella richiesta ma cercò di non darlo a vedere.
«A
dire il vero non mi sento molto bene.» si strinse nelle spalle.
«Che
hai?» le domandò il chitarrista, aggrottando le
sopracciglia. Monique si portò silenziosamente una mano al
ventre e Tom, capita l'antifona, la prese delicatamente per un
braccio e la fece entrare in stanza. «Sdraiati sul letto, io
arrivo subito.» le riferì, chiudendosi poi in bagno.
Monique
si guardò attorno, scrutando la stanza dove alloggiava
temporaneamente il ragazzo. Era straordinariamente ordinato,
decisamente più di lei, e rimase esterrefatta dal constatarlo.
Non era cosa da tutti i giorni assistere a tale ordine da parte di un
maschio.
Si
avvicinò al letto matrimoniale e vi si stese sopra – come le
era stato detto – dopo essersi tolta le ciabatte. Immerse il viso
nel cuscino ed inspirò a fondo, non riuscendo a trattenersi
dal sorridere. Poggiò successivamente la testa su di esso,
qualche secondo prima che Tom uscisse di nuovo dal bagno, vestito e
profumato. Spense la luce di quella stanzetta comunicante e si
avvicinò a lei. Si sedette dalla parte opposta del materasso e
le diede le spalle per recuperare il telefono. Monique vi buttò
un occhio e notò che stava chiamando la reception.
«Salve,
sono il signor Tom Kaulitz. Potrebbe far portare una tazza di
camomilla alla stanza trecentotredici, per favore? Okay, grazie.»
riattaccò e si voltò nella direzione di Monique che lo
osservava accigliata. «Dovrebbe tranquillizzarti e, se non è
nulla di grave, ti farà passare anche il dolore alla pancia.»
le spiegò.
Un
brivido le percorse la colonna vertebrale, mentre il suo cuore prese
a battere all'impazzata. Perchè doveva assistere a tutta
quella protezione da parte di un ragazzo che non poteva neanche
avere?
«Grazie.»
mormorò lei. Tom le si sedette per bene affianco e le allungò
una mano alla maglietta.
«Posso?»
le domandò osservandola appena negli occhi. Monique, come
rapita, non seppe fare altro che annuire. Così, il chitarrista
le afferrò i lembi di quel capo morbido e li sollevò
lentamente con le mani, fino a poco prima del seno. Le scrutò
il ventre con un sorriso intenerito, fino a posarci successivamente
un palmo, con disarmante delicatezza. «Non senti ancora nulla?»
le domandò cauto, dandole una veloce occhiata, mentre
continuava a sfiorarle il ventre con dolcezza. Monique scosse appena
il capo, pregando che la pelle d'oca che le si era protratta lungo le
braccia, non facesse lo stesso anche sulla sua pancia. «Mi
fa... Strano, tutto questo. È la prima volta che vedo così
da vicino una donna incinta. E... Non avevo mai avuto il coraggio
prima d'ora di fare una cosa simile.» ammise, continuando a
sorridere e sfiorare la sua pelle con i polpastrelli. «Ti rendi
conto che qui dentro c'è un esserino?» sussurrò
di nuovo. Monique si sentì magicamente meglio, anche senza
camomilla. Tom era una sorta di medicina per lei. Le venne automatico
chiudere gli occhi con espressione beata.
Quel
momento così delicato venne interrotto dal repentino bussare
alla porta. I ragazzi si spaventarono, troppo presi dal momento, e si
guardarono qualche secondo spauriti.
«Mettiti
sotto le coperte.» le sussurrò Tom e Monique, dopo
essersi tirata giù la maglietta, fece come le era stato detto,
coprendosi fino al mento, mentre il ragazzo andava ad aprire. Con un
sospiro di sollievo constatò che si trattava del facchino con
la sua tazza di camomilla in mano. Dopo che Tom ebbe ringraziato e
richiuso la porta, si voltò sorridente verso Monique. «Falso
allarme.» disse, porgendole poi la tazza fumante.
**
Monique
sgranò improvvisamente gli occhi, sentendo il fiato corto ed
una lieve patina di sudore sulla sua pelle. Il buio era tutto intorno
a lei e per un momento non si ricordò dove si trovasse. Voltò
lo sguardo alla sua destra e notò che una radio sveglia
lampeggiava il numero tre. Era notte fonda ed un dolore acuto le
perforò il ventre.
Di
nuovo quel fastidio... Non riusciva a spiegarsi come potesse essere
possibile.
Un
sospiro la fece voltare alla sua sinistra e, con un tuffo al cuore,
scorse la figura di Tom distesa accanto a lei che dormiva beatamente.
Non si sfioravano, erano semplicemente vicini, così tanto da
percepire il calore rassicurante del suo corpo. Eppure Monique era
agitata e sudava freddo, senza contare i continui dolori che la
tormentavano. C'era qualcosa che non andava.
«Tom...»
balbettò, mentre una gocciolina di sudore le colava lungo la
tempia e prendeva a tremare. Il chitarrista non diede segno di aver
sentito. «Tom...» riprovò agitata, al che il
ragazzo aprì lentamente gli occhi, fino a posare lo sguardo
assonnato su di lei. Lo vide alzare la testa dal cuscino ed
osservarla perplesso.
«Che
succede?» le domandò preoccupato, posandole una mano sul
braccio umido.
«Non
mi sento bene.»
|
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Capitolo 19 *** Eighteen. Trembling ***
trembling
Chapter
Eighteen.
-
Trembling -
Tom
si stava vestendo alla velocità della luce, mentre Monique
giaceva ancora sul suo letto, respirando affannosamente e tenendosi
una mano al ventre. Il sudore le aveva ricoperto maggiormente il
corpo, mentre il tremore l'aveva presa con più violenza. Tom
aveva chiamato un taxi, nonostante fossero le tre di notte, e si era
affrettato e mettersi addosso qualcosa al volo. Ogni tanto lanciava
un'occhiata alla ragazza, per assicurarsi che non peggiorasse o che
fosse ancora sveglia, mentre la paura lo invadeva sempre di più.
Le corse vicino, affianco al letto e le portò un braccio sotto
le spalle e uno sotto le ginocchia per poi tirarla su di peso. Delle
fastidiose vertigini gli attanagliarono lo stomaco nel momento in cui
la sentì così sudata e tremante.
«Hey,
tranquilla, ti sto portando in ospedale.» le sussurrò,
incamminandosi verso la porta della sua stanza.
«No,
no, no...» continuava a ripetere Monique, quasi delirante, con
sguardo spaventato. Solo allora Tom capì.
«Nessuno
saprà nulla. Ho chiamato apposta un taxi... Ci sono solo io
con te. Solo io.» la rassicurò per poi uscire
silenziosamente in corridoio. Camminò velocemente verso
l'ascensore ed attese nervosamente.
«Tom.»
mormorò la mora, mentre le lacrime presero a solcarle il viso.
«Sono
qui.» rispose il ragazzo con il cuore a mille.
«Ho
paura.»
Tom
la guardò e si sentì stringere dolorosamente lo stomaco
nello scorgere il suo viso così tirato, spaurito e inondato di
lacrime e dolore.
«Non
devi averne. Ci sono io con te. Ti prometto che non ti abbandono,
questa volta.» le disse per poi correre fuori dall'ascensore.
Non si preoccupò nemmeno di accertarsi che fuori dall'hotel
non ci fossero fans. Al momento aveva altri pensieri per la testa.
Adocchiò il taxi, fermo, accanto al marciapiede e si affrettò
a raggiungerlo, tenendo stretta Monique per non farla cadere. Aprì
la portiera posteriore e vi entrò velocemente per poi
richiuderla quasi con violenza. «To the hospital, please.»
riferì immediatamente all'uomo alla guida e questo, senza fare
ulteriori domande, mise in moto. Tom si adagiò per bene
Monique fra le braccia e la cullò, accarezzandole la testa e
cercando di tranquillizzarla. «Tra poco saremo in ospedale,
capito? Stai tranquilla, andrà tutto bene.» ma con
quelle parole stava cercando di auto convincere se stesso, prima di
chiunque altro. Monique chiuse gli occhi, ancora dolorante, ed
appoggiò la testa sul suo petto. Tom non riusciva a vederla
così, era più forte di lui. «Excuse me, sir,
could you go a little faster?» si rivolse al tassista.
«I'm
sorry, boy. There are prohibitions.» rispose con calma l'uomo,
al che il chitarrista si infervorò ancora di più.
«I
don't give a fuck! Do you see this girl?! She's sick! So if you're
not going to squash that damned accelerator, I'm going to report
you!» urlò fuori di sé. Il tassista non se lo
fece ripetere ed obbedì. «I see you got it.»
commentò il chitarrista, tornando a rilassarsi sul sedile.
Doveva
ammettere che le minacce gli erano sempre riuscite.
**
Si
sentiva tanto come quel dannato giorno in cui era venuto a sapere
della gravidanza di Monique dalla dottoressa, per unico e semplice
errore.
Era
di nuovo seduto in sala d'aspetto, con il viso fra le mani ed
un'ansia che mai prima di allora aveva provato; nemmeno prima di un
concerto. Vedere la ragazza in quelle condizioni l'aveva spaventato e
non poco. Aveva una fottuta paura... Per lei e per il bambino. Se non
fosse arrivato in tempo in quel maledetto ospedale non se lo sarebbe
mai perdonato. Dovevano stare bene, entrambi.
«La
signorina Schmitz l'ha portata lei?» chiese improvvisamente un
dottore, nella sua lingua. Tom si alzò velocemente dalla sedia
e lo guardò con la speranza negli occhi. Annuì incerto,
volenteroso di ricevere solamente notizie sulla salute di Monique e
del piccolo. «Ci sono delle complicazioni.» riferì
l'uomo, con tono fastidiosamente professionale. Il cuore di Tom fece
un balzo e per un attimo si sentì quasi svenire.
«Che
tipo di complicazioni?» domandò tremante. Dannati
dottori, sempre troppo vaghi.
«Sta
rischiando un parto precoce. Il piccolo vuole già nascere, per
questo sentiva quei dolori al basso ventre, la ragazza.» spiegò
con calma il dottore. Tom si torturò le mani.
«Ma...
E' solamente al quarto mese, com'è possibile?» chiese
incredulo.
«Purtroppo
sono cose che succedono. Tante volte è colpa dello stress che
il bambino percepisce. La signorina sta lavorando o si sta
affaticando, in questo periodo?» Tom deglutì a fatica e
poi annuì, sentendosi quasi colpevole.
«Lavora.»
ammise.
«Deve
assolutamente smettere. Questi peggioramenti non ci volevano ed ora è
costretta a passare una gravidanza a riposo... Se tutto andrà
bene.»
«C-come
se tutto andrà bene?»
«Purtroppo
non si è ancora certi sulle condizioni del bambino. Se si
riuscirà a calmare la situazione, impedendo che avvenga questo
parto prematuro e se si riuscirà a calmare la madre, andrà
tutto bene. Dipende molto da lei. Se non si riuscirà in questo
intento... Molto probabilmente la ragazza perderà il bambino.»
Tom
avrebbe tanto voluto prendere a pugni quell'uomo dagli occhi a
mandorla. Come poteva dargli una notizia simile, con una tale
tranquillità?
Gli
si era semplicemente raggelato il sangue a quell'ultima ammissione.
Monique
non poteva perdere il bambino, era fuori discussione. Doveva tenere
duro e doveva collaborare, per lui.
«Posso
vederla?» mormorò il ragazzo, pur essendo consapevole
che forse stava chiedendo troppo.
«Ora
no perchè i medici si stanno ancora occupando di lei. Stanno
cercando di eliminare il pericolo. Sono nel bel mezzo di tutto quanto
e non possono essere disturbati. Una volta finito, potrà
vederla.» concluse l'uomo, per poi congedarsi e rientrare nella
stanza dove era assistita Monique.
Tom
si lasciò cadere all'indietro, di nuovo sulla sedia, con lo
sguardo perso nel vuoto. Si sentiva tremare sempre di più,
mentre la paura aumentava.
Cos'avrebbe
fatto se avesse perso il bambino? Come avrebbe potuto prendere quella
notizia se i medici non fossero riusciti a salvare la situazione?
Dovevano assolutamente farcela. Dovevano.
Si
alzò di nuovo dalla sedia e prese a camminare lungo il
corridoio, nervosamente. Se fosse stato credente, avrebbe pregato per
lei e per il bambino. Si sentiva maledettamente attaccato anche a lui
ormai e non poteva sopportare l'idea che morisse. Non avrebbe nemmeno
sopportato di vedere il dolore negli occhi di Monique ad una notizia
simile; perchè per quanto lei potesse sostenere di non essere
pronta a diventare madre, sapeva che teneva al piccolo.
Diede
uno sguardo al Rolex che teneva al polso e notò che si erano
fatte già le quattro meno un quarto di notte e di lì a
qualche ora avrebbe dovuto tenere un'intervista con la sua band. Suo
fratello neanche sapeva dov'era. Probabilmente stava anche dormendo
sonni tranquilli. Ma era giusto così. Aveva promesso alla
ragazza che non ne avrebbe fatto parola con nessuno e doveva
rispettarla.
Ora
l'impresa ardua sarebbe stata un'altra: convincerla a smettere di
lavorare. Era piuttosto cocciuta e non sarebbe stato per niente
facile riuscirvi. Si sarebbe solamente preoccupata dei soldi, cosa da
una parte comprensibile, ma ciò non l'avrebbe resa senz'altro
lucida da capire che tutto quel lavoro e quello stress facevano male
al bambino e quell'ultimo avvenimento ne era stato la prova. Avrebbe
dovuto arrivare ad un compromesso e già nella sua mente stava
balenando un'idea.
**
Era
passata mezz'ora dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio e
finalmente scorse la figura dello stesso medico, di qualche attimo
prima, uscire nuovamente dalla stanza ed andargli in contro. Si
affrettò a raggiungerlo con espressione interrogativa e
preoccupata.
«Ho
una bella notizia da darle. Il piccolo siamo riusciti a fermarlo e la
ragazza si è calmata. Ora è fuori pericolo.» gli
riferì, inespressivo. Tom tirò un sospiro di sollievo,
illuminandosi invece in un radioso sorriso, mentre si passava una
mano sul volto stanco. «Ora è semplicemente senza forze,
è naturale. Stava subendo un vero e proprio travaglio che
siamo riusciti a fermare in tempo. Se vuole, tra cinque minuti può
entrare a vederla.» continuò l'uomo.
«D'accordo,
grazie mille, dottore.» rispose Tom, pieno di gratitudine.
«E'
il mio lavoro.» concluse il medico, per poi dargli le spalle e
sparire lungo il corridoio.
Si
sentiva sollevato come non mai.
**
Era
spossata. Non aveva mai provato tanto dolore in vita sua. Le
goccioline di sudore si stavano lentamente asciugando sul suo viso ed
il suo respiro stava tornando regolare. Ora un solo pensiero
stanziava nella sua mente: voleva vedere Tom. Aveva bisogno della sua
figura vicino a lei. Aveva bisogno che le dicesse che non era
successo nulla; che tutto andava bene. Sentendo per caso le parole
dei medici, credeva di aver capito che la situazione era andata a
posto ma, a dire il vero, non sapeva neanche cos'aveva rischiato.
Improvvisamente
udì bussare alla porta e sperò con tutto il cuore che
si trattasse di lui. Un sorriso enorme le si dipinse in volto, nel
momento in cui constatò che si trattava proprio del
chitarrista. Quest'ultimo le sorrise appena e richiuse la porta, per
poi avvicinarlesi.
«Hey.»
la salutò dolcemente, mentre si sedeva sulla sedia accanto al
letto. «Come ti senti?» le domandò, posandole una
mano sulla fronte umida e facendole poi delle carezze. Monique
sospirò a quel contatto: il primo dolce di cui poteva bearsi,
dopo tutto quel dolore.
«Stanca.
Mi sento come se avessi appena finito di partorire.» mormorò
con voce roca. Vide Tom sorridere intenerito, senza smettere di
coccolarla.
«Beh,
ci sei andata vicino.» sussurrò. Monique aggrottò
le sopracciglia con fare perplesso, così lui spiegò:
«Il dottore mi ha detto che hai rischiato un parto prematuro.
Stavi subendo un vero a proprio travaglio, Schmitz.»
Monique
sgranò gli occhi.
Un
parto prematuro...
«Ma
adesso il bambino?!» domandò con terrore, quasi senza
accorgersene.
«Lui
sta bene, non ti devi preoccupare. Ma sei stata fortunata. A tal
proposito, ora farai quello che ti dico, senza obiettare. Ascoltami
bene: il medico mi ha spiegato che con questo avvenimento, la tua
gravidanza si è andata a complicare. Per questo motivo devi
smettere di lavorare, affaticarti e fare qualunque cosa ti possa
creare stress. Dovresti startene tranquilla, a casa tua, assieme a
qualcuno.»
Monique
pesò qualche attimo quelle parole. Ciò avrebbe voluto
dire trovarsi appesa ad un filo, in fatto di denaro... Avrebbe voluto
dire non avere abbastanza soldi per mantenere un bimbo.
«Ma
io non... Non posso...» balbettò, scuotendo appena la
testa, per quanto le fosse possibile.
«Se
ti riferisci ai soldi, non ti devi preoccupare... Ci penserò
io.» chiarì subito Tom, con risolutezza.
«Che
cosa?! Non se ne parla! Io dei genitori ce li ho!»
«Ma
hai detto che non vuoi gravare su di loro, perchè neanche loro
si trovano in una condizione rosea. Io, invece, non ho problemi di
soldi, come potrai constatare tu stessa, e se ho deciso di farti
questo favore, accetta senza replicare.»
«Ma,
Tom, io non...»
«Schmitz,
non è un consiglio, è un ordine.»
Monique
si zittì, deglutendo a fatica. Tom stava facendo tutto questo
per lei?
«Tom,
io... Non saprei come ripagarti.» disse timidamente.
«Un
modo c'è.» scrollò le spalle lui, mentre
insinuava le dita fra i capelli della mora. «Domani – o
meglio, tra qualche ora – dirai a David della gravidanza e lascerai
il lavoro.» continuò. Monique sgranò gli occhi.
«Tanto lo dovresti fare comunque, prima o poi... E poi ti ho
già detto che con i soldi ti aiuterò io, non appena ne
avrai bisogno.»
Monique
rifletté ancora qualche attimo.
Si
sentiva un'incapace; non avrebbe potuto contare su Tom, non era il
suo ragazzo né tanto meno un suo familiare. Trovava tutto
dannatamente assurdo e da opportunisti. Ma d'altro canto, Tom era
stato chiaro: non avrebbe accettato una risposta negativa. Le aveva
offerto il proprio aiuto con la sincerità più limpida
negli occhi. Le stava dimostrando quanto affetto provasse per lei,
seppur non lo desse a vedere con gesti giornalieri, spontanei.
Probabilmente avrebbe dovuto accettare... Effettivamente voleva che
il bambino stesse bene. Quella gravidanza le aveva sconvolto la vita
e non voleva che fosse fermata a metà del percorso, dopo tutti
i sacrifici – e le cazzate – che aveva fatto. Voleva che in
qualche modo ciò che aveva fatto ritornasse utile.
Sospirando,
annuì appena.
«D'accordo.»
si arrese.
«Finalmente!
Sei difficile da convincere, eh?» sorrise Tom, arricciando una
piccola ciocca di capelli della ragazza attorno al suo dito, con fare
distratto. Monique abbassò lo sguardo, rossa in viso, forse
più per quel gesto che per altro.
«Tom?»
lo richiamò dopo un po'.
«Sì?»
«Una
volta che lascio il lavoro... Voi sparirete?»
Quella
domanda, più che rivolta a tutto il gruppo, aveva lui come
destinatario. Si vergognava troppo per chiedergli una cosa simile,
così aveva deciso di formulare quella domanda da lontano,
girandoci intorno. Vide Tom sorridere, per poi alzarsi dalla sedia ed
avvicinarlesi maggiormente. Si abbassò con il viso verso il
suo, fino a sfiorarle una tempia con la fronte.
«Io
mi prenderò cura di te. Te l'ho promesso in ascensore, no?»
**
Quella
stessa mattina, Tom poteva essere paragonato tranquillamente ad un
vegetale. Aveva dormito pressappoco due ore – forse meno – da
quando era tornato dall'ospedale assieme a Monique, alle cinque. La
ragazza si sentiva tremendamente in colpa a vederlo a quella maniera.
Due
grosse occhiaie stanziavano sul suo viso, così come un pallore
che non gli apparteneva. Le palpebre minacciavano di chiudersi mentre
l'espressione sul suo volto non nascondeva il sonno represso. Come
avrebbe potuto tenere un'intervista in quelle condizioni?
«Ricordati
di dire a David quello che ti ho detto.» erano state le sue
prime parole, rivolte a Monique, non appena l'aveva vista. Poi si era
preoccupato di chiederle come si sentisse, cosa che la fece sorridere
appena.
Aveva
paura di conoscere la reazione del manager. Probabilmente si sarebbe
infuriato per il fatto che glielo avesse tenuto nascosto, quel fatto,
prima ancora della notizia in sé. Avrebbe dovuto pesare ogni
minima parola, articolando un discorso degno di quel nome.
Aveva
stabilito però, con Tom, che gli avrebbe parlato quella sera,
quando tutto sarebbe parso meno movimentato.
Al
momento, gli aveva riferito di non sentirsi per niente bene e di non
poter quindi sostenere quell'intervista. David non l'aveva presa a
male, anzi... Era stato molto comprensivo e le aveva permesso di
riposarsi: una soluzione l'avrebbe trovata.
Monique
aveva precedentemente chiesto al chitarrista se avesse potuto per lo
meno tenere l'ultima intervista, quella mattina; dopotutto sarebbero
ripartiti il giorno seguente. Inutile dire che il ragazzo era stato
categorico con lei. Non se ne parlava: nessuna ultima intervista,
nessun ulteriore sforzo.
Ora
si trovava chiusa in camera sua, in attesa che la band tornasse.
Stravaccata sul suo letto, si scambiava da un bel pò di tempo
messaggi con Jessica, giusto per far scorrere i minuti più in
fretta possibile.
“Insomma,
hai deciso di rivelare tutto?”
Le
aveva scritto la rossa.
“Per
forza. Con Tom è inutile insistere.”
“Ha
fatto più che bene ad essere categorico con te. Sei una testa
calda. Quando te lo dicevo io, di mollare tutto, non sentivi. Ora che
l'ha detto il tuo amore è tutta un'altra cosa =P”
Il
suo viso si colorò repentinamente di un rosso acceso. Ma cosa
andava a blaterare?!
“Macché
mio amore! Se neanche stiamo insieme. E poi, è inutile,
lui non vuole stare con me. Mi sto sempre più convincendo che
non gli interesso nemmeno un po'. Per questo ho deciso di gettare la
spugna e di aspettare un suo gesto, se arriverà. In caso
negativo, non lo aspetterò tutta la vita, questo poco ma
sicuro.”
“Non
avevi detto che non volevi più sentir parlare di uomini per
molto tempo?”
“Infatti
è così. Ma non so perchè, con lui è
totalmente diverso.”
“Forse
perchè ti trasmette quella sicurezza che cercavi e che credevi
di aver perso definitivamente.”
Osservò
il vuoto, constatando che le parole della rossa erano assolutamente
veritiere. Effettivamente lei aveva deciso che gli uomini non
avrebbero più messo piede nella sua vita per molto tempo, dopo
quello che Christian le aveva fatto passare. Tutto questo perchè
aveva perso fiducia nei loro confronti; si era convinta di non
poterla ritrovare più in nessuno. Conoscendo Tom, però,
si era dovuta ricredere.
Tom
rappresentava esattamente il prototipo di ragazzo che cercava:
premuroso, attento, affettuoso ma forte e duro quanto bastava. A
volte timido, timoroso di esprimere le proprie emozioni, ma in grado
di farlo in altri modi, se non a parole.
Le
piaceva... Le piaceva da morire e la cosa la spaventava parecchio,
oltre a farle spuntare un sorriso innocente e puro sul viso. Aveva
paura che quel suo sentimento fosse campato per aria, che non
conoscesse un buon fine. Che non fosse ricambiato, come
effettivamente appariva. Eppure non poteva fare a meno di sentirlo
nel cuore. Probabilmente doveva ancora capire di cosa si trattasse,
ma ciò che più importava era che la faceva stare bene e
che la faceva tornare a sentirsi un'adolescente alla sua prima cotta.
Sensazione
assolutamente deliziosa.
“Sì,
forse è come dici tu. Anzi, sicuramente. Tom mi trasmette
tanta sicurezza.”
“Io
ti auguro che questa cosa vada a buon fine perchè, da quello
che mi dici e da quello che ho potuto constatare io, per quel poco in
cui ci ho parlato, è un bravo ragazzo.”
“Già...
Grazie. Lo spero anche io. Ora ti saluto che tra un po' i ragazzi
dovrebbero essere di ritorno ed io dovrò confessare la Grande
Verità a David. Augurami buona fortuna.”
“Buona
fortuna, tesoro! Ne avrai bisogno!”
“Sempre
molto incoraggiante, te, mi raccomando -.-”
Posò
il cellulare sul comodino e la testa sul cuscino.
Poteva
farcela, non era una stupida... E con l'aiuto di Tom, tutto sarebbe
andato per il meglio.
Si
accarezzò leggermente la pancia, finalmente libera da
costrizioni, ed abbassò lo sguardo su di essa.
«Insieme
ce la faremo, piccolo, alla faccia di tutti quelli che crederanno il
contrario.»
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Capitolo 20 *** Nineteen. Living in clearness ***
iving in clearness
Chapter
Nineteen.
-
Living in clearness -
Il
primo pensiero che le attraversò la mente quella sera, seduta
a tavola, assieme alla band e a David fu “Dattela subito a gambe”.
Un silenzio di tomba aleggiava attorno a loro; tutto perchè
aveva annunciato che aveva qualcosa di molto importante da riferire
loro. Quattro paia di occhi si erano sollevati su di lei, attendendo
incuriositi, mentre Tom – accanto a lei – teneva lo sguardo
basso, consapevole di ciò che avrebbe sentito fuoriuscire
dalle sue labbra.
«Dunque...
Inizio col dire che è una cosa che avrei dovuto riferirvi già
qualche mese fa ma, per forza di cose, non ho potuto farlo. Con gli
ultimi avvenimenti ho capito – o meglio, Tom mi ha fatto capire –
che non avrei potuto nascondere l'evidenza. E... L'evidenza è
questa.» disse Monique per poi alzarsi in piedi e sollevare
appena l'orlo della maglia, per scoprire il suo ventre gonfio. Tutti
quanti avevano abbassato lo sguardo su di esso e non avevano
proferito parola. L'ansia stava montando dentro di lei; non sapeva
che pensare. Sapeva solo che aveva perso il conto di quante volte
aveva deglutito ed aspettava con nervoso una qualsiasi reazione.
«Sei...
Incinta.» mormorò Bill con una strana luce negli occhi.
Monique annuì appena. «Ma è meraviglioso!»
esclamò successivamente il ragazzo, riportando allegria in
quell'aria così tesa. Si alzò dalla sua sedia e, dopo
aver fatto il giro del tavolo, raggiunse Monique per abbracciarla
delicatamente, facendole le congratulazioni. Gustav e Georg lo
seguirono, avvolgendola in una calorosa stretta.
Alla
mora non pareva possibile tale reazione. Per tutto quel tempo si era
ammazzata di complessi, dubbi e timori, quando in realtà
sarebbe bastato così poco.
E
quando rivolse lo sguardo a David, con gioia, notò che
sorrideva.
**
Il
quinto mese era arrivato decisamente troppo in fretta. Tornata dalla
Malesia aveva seguito diligentemente gli ordini – nonostante Tom li
definisse semplici raccomandazioni – del chitarrista.
Doveva
dire che tutto stava andando per il meglio. Da quando aveva smesso di
lavorare, la stanchezza si faceva sentire meno e quei dolori
insopportabili erano completamente svaniti. Ora conosceva unicamente
periodi sereni, passati a chiacchierare con Jessica ed ogni tanto con
i Tokio Hotel, quando li andava a trovare o erano loro ad andare a
trovare lei. Tom la telefonava ogni giorno e, appena poteva, passava
a casa sua, per vedere come procedesse la gravidanza.
Tutte
quelle attenzioni la rendevano felice ma allo stesso tempo non capiva
ancora quali fossero i sentimenti del ragazzo nei suoi confronti.
Provava solo tanto affetto e protezione o qualcosa di più? Non
era ancora riuscita a comprenderlo.
In
fatto di sentimenti, Tom era molto bravo a nascondersi e a mandare
fuori strada la diretta interessata. Al contempo, Monique cercava di
non pensarci troppo e godersi quelle attenzioni e la frequente
presenza del chitarrista nella sua vita. Ora stava bene, era quello
l'importante.
Inoltre
aveva scelto di non conoscere il sesso del bambino o della bambina...
Voleva scoprire tutto quanto il giorno del parto, sarebbe stato
più... Emozionante?
Ancora
si chiedeva come avesse fatto Tom a farle quasi piacere l'idea di
essere incinta. Ora pensava al giorno del parto come un qualcosa di
bello e che non vedeva l'ora che arrivasse... Non come un qualcosa di
spaventoso o quant'altro.
Ora
si sentiva quasi pronta.
**
«Quando
hai intenzione di dirlo ai tuoi?» quella domanda improvvisa
l'aveva presa in contro piede. Stava tranquillamente giocando a carte
con Jessica da qualche minuto e quella curiosità era uscita
dalle sue labbra inaspettatamente. Nemmeno la guardava negli occhi:
continuava a concentrarsi sul gioco, ma volenterosa di sapere. Meditò
ancora qualche attimo, fino a che non rispose, buttando nel frattempo
una carta sul tavolino davanti al divano.
«Non
lo so.» ammise. La rossa sollevò gli occhi sul suo viso.
«Sai...
Fra quattro mesi, il piccolo nasce.» le fece notare con
sarcasmo.
«So
benissimo quando nasce, non c'è bisogno che me lo ricordi.»
ribattè Monique, squadrando tutte le carte in tavola.
«Hai
intenzione di andare a trovare i tuoi direttamente con il bambino o
la bambina in braccio, o hai il buon senso di avvisarli prima?»
«Non
sono cose che si possono dire da un momento all'altro con
leggerezza.»
«Nessuno
infatti ti ha detto di parlarne loro con leggerezza. Non pensi che
cinque mesi di riflessione siano anche troppi?» Monique non
ebbe il tempo di rispondere che il campanello di casa suonò.
«Vado io.» la precedette Jessica, notando che si stava
per alzare. Corse alla porta e la aprì. «Oh, ciao, Tom!»
sorrise cordialmente.
Tom
sorrise divertito dal vedere la rossa davanti ai propri occhi. Ogni
volta che andava a trovare Monique e la incontrava in quella casa, le
loro conversazioni erano fatte di battute e frecciatine. La mora si
divertiva ad ascoltarli prendersi in giro: era contenta di quel tipo
di rapporto che si era venuto a creare tra di loro.
«Ciao.»
rispose il ragazzo, facendo il proprio ingresso, mentre Jessica
chiudeva di nuovo la porta. Voltandosi verso Monique, il ragazzo le
fece un cenno col capo, sorridendo appena, e le si avvicinò.
In mano teneva un sacchetto ma non gli chiese nulla sul contenuto.
«Come stai?» le domandò, sedendosi accanto a lei
sul divano, mentre Jessica si gettava sulla poltrona affianco.
«Come
ieri, Tom, bene.» ridacchiò la mora.
«Oh,
non fare la scocciata, ti fanno piacere tutte queste attenzioni.»
la canzonò Jessica, con sguardo malizioso. Monique sollevò
gli occhi su di lei e, se avesse potuto, avrebbe mandato una scarica
di fulmini a colpirla in quel preciso istante. «D'accordo, io
tolgo il disturbo!» aggiunse divertita la rossa, afferrato il
concetto implicito.
«Ma
no, non andartene perchè sono arrivato io. Magari stavate
parlando.» intervenne Tom dispiaciuto, voltandosi appena verso
di lei che invece si alzava dalla poltrona, sistemandosi la felpa.
«No,
figurati, ho delle cose da fare.» rispose la rossa di
buonissimo umore. Si avvicinò a Monique e le stampò un
bacio sulla guancia. «Ci sentiamo... E rifletti su quello che
ti ho detto, capocciona.» le raccomandò. «Ciao,
Tom!» salutò poi il ragazzo, prima di uscire di casa.
Il
silenzio tornò ad aleggiare in salotto. Monique scambiò
più volte lo sguardo con Tom, sorridendo appena, fino a che il
ragazzo non si decise a parlare.
«Ti
ho portato un paio di cose.» annunciò, recuperando il
sacchetto che aveva portato con sé e prendendo poi a frugarvi
dentro. Monique gli si avvicinò incuriosita e sorpresa. Tom
tirò fuori da esso un piccolo lettore Cd con della cuffie di
media grandezza, per poi poggiarlo al tavolino e riprendere a frugare
nella busta. Monique si accigliò appena, ma lo lasciò
fare. «Et voilà!» esclamò allungando sotto
il naso della mora un album musicale. Quando la ragazza abbassò
lo sguardo, un brivido le attraversò la schiena. «L'abbiamo
finito ed è uscito qualche settimana fa.» spiegò
il ragazzo, mentre lei lo prendeva in mano per osservarlo con
attenzione. Non se lo sarebbe mai aspettato dal chitarrista.
«Bella
la copertina.» sorrise.
«Sarebbe
stata molto più bella se fossi apparso anche io.»
commentò Tom, stravaccandosi meglio sul divano. Monique gli
lanciò un'occhiata scettica e divertita, per poi tornare ad
osservare l'album.
«Grazie,
effettivamente non me lo avevate ancora fatto sentire. Però
non mi serve il lettore, ho lo stereo e....»
«Infatti
quello non è per te.»
«Ah,
no?»
«No.
Ho sentito dire che molte donne incinte fanno ascoltare, con le
cuffie, della musica al figlio... Dicono che fa bene e lo rilassa.
Puoi provare, dato che ne hai bisogno.»
Monique
si era incantata a guardarlo in viso. Era mai possibile che si
facesse venire tutte quelle idee e lei nemmeno ci pensava? Ma
soprattutto, cosa lo portava a fare tutto ciò per lei?
«Tom...
Grazie, non so che dire.» balbettò, rossa in viso.
«Devi
solo provarlo.» scrollò le spalle il chitarrista, per
poi prendere i lembi della sua maglia e sollevarglieli appena. «Hey,
tu, piccolino... Ci sei? Dai, fatti sentire dal SexGott in persona.»
parlò, accostandosi con il viso al ventre. Monique sentì
il cuore batterle all'impazzata. Se il chitarrista lo faceva apposta
per provocarla, avrebbe potuto anche evitare per la sua incolumità
mentale. Eppure non riusciva a non osservare con tenerezza quella
scena così... Perfetta. «Dai, fatti sentire dallo zio
Tom.» continuò il ragazzo, poggiando un orecchio sulla
pelle calda della mora.
«Zio
Tom?» sollevò un sopracciglio Monique, con un ghigno
in volto.
«Dovrò
pur rappresentare qualcuno per questo bambino. Almeno sono sicuro che
il compito di “zio” me lo sono già accaparrato io.»
si giustificò Tom, per poi recuperare il lettore Cd e l'album
dalle mani di Monique. Chiuse il Cd all'interno del lettore e lo
avviò. Successivamente poggiò le cuffie sulla pancia
della ragazza ed attese.
«Mi
sento un po' ridicola.» ridacchiò Monique, imbarazzata
dall'evidente vicinanza del chitarrista.
«Naaah.»
commentò Tom, con un'alzata di spalle.
«Se
mio figlio ascolta la vostra musica, crescerà schizzato.»
«Scherzi?
Crescerà intelligente e talentuoso come il sottoscritto. In
questo modo, gli viene trasmessa tutta la mia bravura.»
«E
perchè non la bravura di Bill?»
«Perchè
la mia manda radiazioni decisamente più forti... Si percepisce
maggiormente.»
Monique
non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Non rideva
per ciò che aveva detto, quanto per l'enfasi e la convinzione
che vi aveva messo nel farlo. Anche il chitarrista si lasciò
andare in una lieve risata, mentre continuava a tenere le cuffie sul
ventre di Monique.
Se
solo in tutta quella situazione, Monique avesse potuto considerarlo
come il suo fidanzato, avrebbe coronato senza dubbio quella magnifica
atmosfera.
Improvvisamente
però si incupì... Prese a riflettere su ciò che
le aveva detto Jessica, qualche minuto prima.
Aveva
perfettamente ragione: i suoi genitori non meritavano di vivere
ancora all'oscuro della sua gravidanza. Ma come avrebbero potuto
prenderla? Ora avrebbero avuto un buon motivo per infervorarsi con
lei, per il semplice fatto che aveva tenuto loro nascosta una
questione così importante e delicata. Non avrebbe comunque
saputo come cavarsela e l'idea di dover affrontare tutto da sola la
spaventava e non poco.
Sollevò
appena lo sguardo sul chitarrista, mordendosi un labbro, pensierosa.
Forse
avrebbe potuto chiedere a lui di accompagnarla? Dopotutto aveva avuto
modo di conoscere i suoi genitori e loro lo avevano preso molto bene.
Forse la tensione si sarebbe alleggerita o forse no. Fatto era che
Monique aveva bisogno di qualcuno che le stesse affianco, qualcuno a
cui aggrapparsi nel momento della verità.
Il
ragazzo si accorse dello sguardo della mora puntato assorto su di lui
e sollevò i propri occhi in quelli di lei.
«Che
c'è?» le chiese dolcemente, mentre con la mano
continuava a tenere le cuffie sul suo ventre.
«Nulla...»
scosse la testa Monique. «Pensavo solo... Che forse ha ragione
Jessica. Devo dirlo ai miei genitori.» concluse, cercando di
mostrarsi risoluta, ma con scarsi risultati. Tom rimase qualche
attimo in silenzio, battendo ripetutamente le ciglia, come perplesso,
e poi sorrise appena.
«Beh,
era ora che ti decidessi.» commentò.
«Sì,
però... Tom, vorrei che tu venissi con me.» sospirò
velocemente la mora. Aveva optato per la schiettezza. Giri di parole
non avrebbero portato a nulla; avrebbero solamente creato più
confusione del necessario. Tom aprì la bocca per parlare ma
non uscì da essa nessun suono. Boccheggiò ancora
qualche secondo e poi si riprese.
«Io?
Perchè io?» domandò accigliato.
«Perchè...
Ho bisogno di qualcuno accanto quando il peggio succederà e...
Mi fido di te. Puoi darmi la forza di affrontare tutto quanto. Ti
prego.»
«Io
posso anche venire, per carità. Lo sai che hai sempre il mio
appoggio. Mi chiedevo solo, perchè non Jessica.»
«So
che sembrerà stupido ed infantile ma... Per una questione di
orgoglio. Lei mi aveva sempre detto di farlo ed io le avevo sempre
risposto di no. Mi scoccia chiederlo a lei di venire con me. Per
tutto il viaggio mi ripeterebbe “Alla fine ho vinto io”.»
Tom
parve riflettervi ancora qualche secondo e poi scrollò le
spalle, emettendo un gran sospiro.
«D'accordo,
ti accompagnerò io.» accettò. Monique si illuminò
in un radioso sorriso e, senza pensarci, gli avvolse le braccia
attorno al collo.
«Grazie,
Tom!» esclamò entusiasta. Tom sorrise appena, chiudendo
gli occhi ed accarezzandole delicatamente la schiena.
«Di
niente.» rispose in un sussurro, per poi darle un bacio sul
collo che segnò Monique come un marchio rovente.
**
Quel
giorno si poteva avvertire parecchia agitazione all'interno dello
studio di registrazione. Tutti lavoravano duramente per far sì
di creare un bello spettacolo per il nuovo tour che avrebbe lasciato
le loro fans a bocca aperta. Le idee non mancavano e forse
abbondavano eccessivamente; il punto era inventare cose fattibili e
non strafare economicamente, nonostante se lo potessero permettere.
Ora
avevano momentaneamente preso una pausa, sfruttata per riunirsi in
giardino e fumare con calma e serenità una sigaretta. Il
lavoro che avrebbero dovuto svolgere sarebbe stato ancora tanto e di
certo un po' di riposo lo meritavano.
Monique
aveva così deciso di andarli a trovare, visto il fatto che
ultimamente aveva avuto possibilità di passare un po' di tempo
solamente con Tom.
«Come
procede il lavoro per questo nuovo tour? State arrivando ad una
conclusione?» fu la domanda spontanea della ragazza, seduta
sulla panchina assieme a Gustav. Tom stava poggiato al tronco
d'albero, fumando con una mano in tasca, Bill lo affiancava, mentre
Georg aveva scelto di sedersi sull'erba fresca.
«Abbiamo
ancora un po' di cose da decidere... Però il progetto è
già piuttosto delineato.» rispose Bill, dopo aver
sputato un po' di fumo.
«E
si sa, a grandi linee, quando il tour avrà inizio?»
«Fra
cinque mesi, circa.»
«Tu
avrai già partorito da un mese, Monique.» rifletté
compiaciuto Georg. «Almeno avrò un mese per godermi la
presenza del piccolo e svolgere il mio ruolo di zio.» continuò,
buttando un po' di cenere.
«Hey!
Quel compito me lo sono già preso io!» intervenne Tom,
piuttosto contrariato.
«Non
vale, anche io voglio essere chiamato “zio”!» esclamò
il vocalist, gonfiando appena le guance ed aggrottando le
sopracciglia. Monique scoppiò a ridere, sinceramente divertita
da quella discussione.
«Facciamo
così, tutti e quattro sarete zii, d'accordo?» cercò
di porre fine a tutto ciò. I ragazzi si scambiarono delle
occhiate poco convinte e poi sbuffarono scrollando le spalle, arresi.
Mi
piacerebbe vedere Tom comportarsi da padre per il piccolo, assieme a
me, formando una bella famiglia.
Monique
sgranò gli occhi nel vuoto e scosse la testa, maledicendosi
per quel pensiero decisamente impossibile da realizzare. Come poteva
solamente immaginare certe cose? Tom non avrebbe mai accetto di
recitare la parte del padre e soprattutto non avrebbe mai accettato
lei in quelle condizioni, come ipotetica fidanzata. Probabilmente
avrebbe dovuto farsene una ragione.
«Se
è maschio lo devi chiamare Bill.» disse il
cantante, con fare quasi ovvio.
«Ma
sei imbecille?» gli domandò Gustav con un sopracciglio
alzato.
«Perchè?
Guarda che Bill è un bellissimo nome.» ribattè
offeso il moro.
«Ma
sarà una decisione di Monique?» commentò Georg,
dopo aver buttato la sigaretta ormai terminata.
«Monique,
dì agli altri che Bill è un bellissimo nome!»
Monique
sbattè qualche attimo le palpebre, indecisa sul da farsi. Era
vero, Bill era un bel nome, ma non voleva chiamare suo figlio a quel
modo.
«Ehm,
sì, è bello... Magari come secondo nome, eh?»
cercò di trovare una soluzione, con un sorrisetto eloquente ed
al tempo stesso imbarazzato. Bill si imbronciò e poi soffiò
un “Va bene”, a braccia conserte.
«Schmitz,
prega che sia una femmina; hai appena firmato la tua condanna.»
parlò Tom, suscitando qualche piccola risata in mezzo al
giardino.
**
Stava
scaldando un po' di minestra ai fornelli, con l'intento di mangiare
qualcosa di leggero e salutare, per poi inoltrarsi nel perfetto Mondo
dei Sogni, vista la sua notevole stanchezza. Più i mesi
passavano, più la pancia cresceva ed al tempo stesso la fatica
aumentava. Pur essendo ancora al quinto mese, ma piuttosto vicina al
sesto, si sentiva fin troppo fiacca. Non vedeva l'ora che il giorno
del parto arrivasse, almeno avrebbe potuto tornare in forma, forte
e... Giovane.
Improvvisamente
il suo cellulare, poggiato sul tavolo della cucina, vibrò
qualche secondo, avvisandola che qualcuno le aveva appena inviato un
messaggio. Immaginò potesse trattarsi di Jessica, così
recuperò il telefono. Un tuffo al cuore la fece quasi cadere a
terra, nel momento in cui notò che il mittente non era
Jessica, bensì Tom.
“Hey,
Schmitz. Domani è il mio giorno libero e stavo pensando che
potrei approfittarne per accompagnarti dai tuoi genitori, visto che
mi avevi chiesto di sostenerti. Beh, se ti va, fammi sapere.”
Ora
sentiva l'aria mancarle.
Così
presto...
Certo,
aveva intenzione di parlare con i suoi genitori riguardo la
gravidanza, ma chissà per quale futile ragione, nella sua
testa aveva sempre pensato che l'avrebbe fatto più in là,
pur non essendoci abbastanza tempo. Forse il suo subconscio sperava
che quel momento non arrivasse mai ed ora che le si proponeva
l'occasione, si sentiva in difficoltà.
Al
diavolo, pensò, digitando sul cellulare la risposta.
“Mi
va... Grazie, Tom.”
Sospirò
attendendo. Aveva fatto la scelta giusta... I suoi genitori non le
avrebbero mai perdonato quell'importante segreto.
“Te
l'avevo promesso. Ti passo a prendere domani mattina alle nove e
mezza, d'accordo? Buona notte.”
Monique
sorrise appena. Era incredibile come quel ragazzo la sorprendesse
ogni giorno di più con quei gesti altruisti e dolci.
“D'accordo...
'Notte.”
Posò
nuovamente il cellulare sul tavolo e si voltò a controllare la
minestra ancora sul fuoco.
Un
sorriso sereno e spontaneo era dipinto sul suo volto.
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Capitolo 21 *** Twenty. You have really disappointed me ***
you have really disappointed me
Chapter
Twenty.
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You have really disappointed me -
Viaggiare
in macchina – ed in particolar modo in autostrada – l'aveva
sempre rilassata. Adorava chiacchierare con la persona di compagnia
che aveva affianco e, per quanto assurdo potesse sembrare, più
lungo il viaggio si prospettava, più possibilità aveva
di divertirsi.
Quella
mattina, però, nulla sembrava prospettarsi – per l'appunto –
come lei tanto avrebbe sperato.
Seduta
in macchina, accanto a Tom, continuava a torturarsi le mani, riunite
in grembo, tenendo lo sguardo fisso sulla strada che sfrecciava
veloce davanti a lei e sotto di lei, senza proferir parola.
Il
chitarrista sembrava aver intuito il disagio della ragazza e spostava
lo sguardo, ad intervalli regolari, da lei all'autostrada.
Improvvisamente sbuffò e, trovata un'area di servizio, vi
accostò con la macchina. Monique aggrottò le
sopracciglia e, non capendo quali fossero le intenzioni del moro, si
voltò accigliata verso di lui.
«Perchè
ti sei fermato?» gli domandò, sbattendo più volte
le palpebre. Tom sospirò nuovamente e, tenendo una mano
poggiata al volante, si voltò nella sua direzione.
«Schmitz,
io non ti porto dai tuoi genitori in queste condizioni. Ti devi
calmare, Cristo santo.» borbottò. Era incredibile come
da dolce ragazzo riuscisse a passare all'essere nuovamente rozzo. Non
l'avrebbe mai ammesso, ma Monique aveva imparato ad adorare quel suo
modo di fare.
«Sembra
facile.» ribattè la mora, voltando lo sguardo di fronte
a sé per osservare le altre macchine che veloci sfrecciavano a
qualche metro da loro.
«Lo
è! Insomma, sembra che tu stia andando in contro a morte
certa!»
«Beh,
come pensi che la possano prendere una notizia del genere?»
«Ti
svegliavi prima, allora!» Monique percepì una scossa
attraversarle la colonna vertebrale. Quella risposta inaspettata,
schietta ed apparentemente fredda l'aveva fatta sentire in colpa e
soprattutto piccola. Tom la rimproverava spesso, ma le sue risposte
avevano sempre avuto uno sfondo impregnato di lieve ironia o comunque
un tono duro che sarebbe riuscita a sostenere e fronteggiare. Ora,
quella critica l'aveva fatta sentire immatura, semplicemente perchè
si era resa conto che non era altro che la cruda e spietata verità.
Abbassò lo sguardo, deglutendo appena. Tom la osservò
con la coda dell'occhio, ancora urtato, e poi si rese conto di aver
forse esagerato. «D'accordo, non avrei dovuto dirlo. Mi hai già
spiegato che hai avuto paura e che non sei riuscita a farlo... Va
bene. Però sapevi a che conseguenze questo ti avrebbe portato
ed ora devi accettarle e soprattutto devi stringere i denti ed
affrontarle. Fatti trovare preparata e più forte di loro; lo
so che sei forte, Schmitz. Se non lo fossi, non staresti portando
ancora avanti questa gravidanza che non hai mai voluto.»
commentò Tom, distogliendo lo sguardo e posandolo sulla strada
alla sua sinistra. Monique sorrise appena: sapeva che si sentiva
sempre impacciato nel farle complimenti. «Possiamo ripartire in
pace e tranquillità?» le domandò successivamente,
tornando a guardarla. Monique annuì, tenendo basso lo sguardo,
con timidezza. Tom mise di nuovo in moto la macchina ed imboccò
la corsia. «Voglio che mi riempi la testa di chiacchiere, fino
a farmela scoppiare, da qui ad Amburgo, Schmitz. Non accetto questo
mutismo.» la stuzzicò, senza guardarla. La ragazza
sorrise grata.
**
Tom
aveva appena finito di posteggiare a ridosso del marciapiede, di
fronte a casa dei genitori di Monique, la quale sostava a lato del
cancello, dietro alla siepe, insicura sul da farsi. Quando il ragazzo
la raggiunse, si voltò verso di lui, nervosa.
«Che
c'è, ora?» le domandò perplesso.
«Non
posso entrare così! Vedrebbero subito la pancia e non avrei il
tempo di spiegare, che me li ritroverei già a terra, in preda
ad un infarto!» esclamò in poco più di un
sussurro la mora, per non rischiare di farsi sentire dai suoi
genitori. Tom sollevò gli occhi al cielo.
«Ma
che ho fatto di male...» borbottò, prima di sfilarsi
l'enorme felpa che gli fasciava il busto e buttarla sulle spalle di
Monique. «Avanti, mettitela.» la incoraggiò,
piuttosto sintetico. Monique sospirò ed obbedì,
ignorando il profumo, mischiato a tabacco, che quel capo emanava.
Successivamente si appostarono di fronte al cancelletto e Tom
citofonò, consapevole del fatto che altrimenti Monique vi
avrebbe impiegato un'eternità. Assieme, scorsero la figura di
Ester affacciarsi dal vetro e, con un enorme sorriso, precipitarsi ad
aprire.
«Ma
che sorpresa!» esclamò entusiasta, dopo aver aperto il
cancelletto, correndo loro in contro. Monique forzò un sorriso
sufficientemente credibile, sorprendendosi del fatto che Tom invece
apparisse assolutamente tranquillo e contento di rivedere quella
donna. Se in un altro momento lo avesse gradito, ora quasi la
infastidiva.
«Salve,
signora.» sorrise Tom, lasciandosi baciare le guance.
Successivamente Ester abbracciò sua figlia. Questa fece ben
attenzione a non esporsi troppo; aveva paura che si accorgesse del
suo gonfiore.
«Ciao,
papà.» salutò Monique, quando vide sbucare sulla
soglia Alfred. Il padre ricambiò con un sorriso ed un
movimento della mano, per poi schioccarle un lieve bacio sulla
guancia e stringere la mano a Tom.
Fecero
il proprio ingresso in casa. Monique sentiva il corpo fremere
violentemente da capo a piedi ed aveva una voglia matta di stringere
la mano del chitarrista, per trovare in qualche modo sostegno, ma al
contempo provava imbarazzo e non sarebbe di certo riuscita a fare
tutto ciò con disinvoltura. Prese un bel respiro, per poi
buttare fuori dalla sua bocca l'aria con agitazione, al che Tom –
come avendole letto nel pensiero – le posò una mano dietro
la schiena, incoraggiandola con lo sguardo ad entrare in cucina, dove
suo padre si era già seduto e sua madre preparava il caffè.
Insieme, anche loro fecero il proprio ingresso, fino a sedersi uno
affianco all'altra, di fronte ad Alfred.
«Siete
venuti a trovarci, che cari. Ci fa molto piacere.» continuava a
sorridere Ester, dando loro le spalle, alle prese con le tazzine e la
macchinetta. «Come state?» domandò entusiasta,
voltandosi successivamente con le tazzine in mano e porgendole a Tom
e Monique. Notando che Monique non sembrava intenzionata a
rispondere, Tom le venne in contro.
«Stiamo
bene.» sorrise esternando quella solita sicurezza che con
semplicità riusciva ad acquisire anche in situazioni delicate
e tese. «Voi?» domandò poi.
«Noi
ce la caviamo, come sempre.» sorrise la donna, affiancando suo
marito. Improvvisamente un fragoroso rumore di unghiette battute
ripetutamente sul pavimento, portò tutti e quattro a voltarsi
verso la porta della cucina, attraverso la quale Lilli fece
velocemente il proprio ingresso, per poi saltare con le zampe
anteriori addosso alle gambe di Tom. Scodinzolava, con la lingua
penzoloni, osservando in adorazione il ragazzo che aveva preso ad
accarezzarla riempiendola di complimenti. Monique sollevò
divertita un sopracciglio; che anche il suo cane si fosse preso una
cotta per il chitarrista?
«Ma
brava, vai a salutare prima lui.» disse con sarcasmo, rivolta
alla piccola cagnolina che ancora si beava delle attenzioni di Tom.
«Io
sono affascinante e lei è una femmina. È la natura.»
esortò il ragazzo, suscitando leggere risate in Ester ed
Alfred. Finalmente Lilli decise che era giunto il momento di salutare
anche la propria padrona che accettò quelle feste di buon
grado. Quando il quadrupede ne ebbe abbastanza, trotterellò
nuovamente verso il salotto, dove stanziava la sua morbida cuccia,
sovraffollata di cuscini e copertine.
«Come
vanno le cose con la band, Tom?» si informò
improvvisamente Ester, curiosa.
«Tutto
benissimo. Stiamo lavorando sul nuovo tour e devo dire che sta
venendo proprio bene. Siamo molto soddisfatti di quello che abbiamo
ideato.» rispose orgoglioso il moro.
«E
tu, tesoro? Stai lavorando di meno, vero? Ti vedo sempre un po'
sbattuta.» sorrise successivamente la donna, rivolta nella
direzione di Monique.
Come
improvvisamente catapultata sulla Terra, Monique si rese conto che il
motivo per cui era tornata ad Amburgo era custodito con gelosia nel
suo ventre e ben presto avrebbe dovuto rendere participi i suoi
genitori di quell'avvenimento. Si schiarì la voce e lanciò
un'occhiata eloquente e ansiosa al chitarrista, il quale comprese che
era arrivato il momento dei chiarimenti. Con sorpresa, sentì
la mano di Tom posarsi, sotto il tavolo, sopra alla sua,
accogliendola nella propria stretta calda, forte e rassicurante, come
per infonderle coraggio. Ricambiò quella stretta, mantenendo
lo sguardo basso e bevette anche quell'ultimo goccio di caffè
rimasto nella tazzina che l'aveva salvata momentaneamente da ciò
che ora stava andando ad affrontare.
«Mamma,
papà... Un motivo per cui sono venuta qui con Tom, in realtà,
c'è. Non era solo voglia di vedervi, ma bisogno e dovere di
dirvi una cosa molto importante.» parlò dopo aver preso
un bel respiro, mentre percepiva il pollice di Tom carezzarle
delicatamente la pelle. Gli occhi dei suoi genitori erano
attentamente posati sulla sua figura e la cosa, più che
gratificarla, la agitava maggiormente. «Veramente avrei dovuto
farlo molto tempo fa e mi rendo conto di aver aspettato decisamente
troppo. Non ve lo meritavate ma purtroppo la paura di deludervi è
stata più forte di me.» continuò il discorso,
sentendo le goccioline di sudore formarsi copiose sulla sua fronte.
«Tesoro,
così ci spaventi.» mormorò Ester, tesa.
«Non
voglio spaventarvi e spero non lo sarete neanche dopo. Ciò che
avrei dovuto dirvi subito è che...» prese un profondo
respiro – nello stesso attimo in cui Tom le strinse maggiormente la
mano – e poi decise che era arrivato il momento di completare
quella frase: «... Sono incinta.»
Fine.
Lo aveva detto. Ora anche l'ultimo tassello era stato posizionato al
proprio posto e ciò che sarebbe accaduto successivamente era
solo un banale dettaglio. Ciò che la faceva sentire bene era
quell'improvviso senso di leggerezza e limpidità che si erano
impadroniti del proprio corpo, anche se disturbati dagli scalpitii
del cuore, in attesa che i suoi genitori reagissero in qualche
maniera.
Spostò
lo sguardo incerto su entrambi e non seppe come classificare le
espressioni che li caratterizzava.
«Che
intendi dire...» commentò improvvisamente la madre con
faccia quasi scandalizzata. Monique si agitò... Non le era mai
piaciuto quello sguardo.
«Che...
Aspetto un bambino.» ripetè come fosse ovvio, ma con
discrezione, in modo da non risultare brusca.
Il
tonfo proveniente dalla mano di Ester battuta sul tavolo, fece
sobbalzare tutti quanti – compresa Lilli che abbaiò
spaventata dal salotto per qualche attimo, fino ad acquietarsi
nuovamente. «Mamma...» soffiò timorosa Monique,
guardandola dal basso, quando Ester si alzò frettolosamente
dalla sedia.
«A
che mese sei?» domandò la donna.
«Sesto.»
rispose Monique.
«E
quanto volevi aspettare ancora per dircelo?!» esclamò
fuori di sé Ester. Monique era consapevole del fatto che sua
madre non si infervorasse a quel modo troppo spesso e, quando
capitava, la situazione si poteva definire assai grave. Per un
momento desiderò tornare indietro nel tempo e non averle mai
detto tutto ciò o semplicemente non aver commesso l'errore di
aspettare tutti quei mesi per informarle della nuova vita a cui stava
andando in contro da qualche tempo. Si sentiva una stupida, un verme,
un'infame... L'essere peggiore esistente su quella Terra, quasi.
«Avevo
paura, mamma... Avevo paura di deludervi! Sai cosa significa avere
paura?» provò a difendersi la mora, stringendo anche lei
la presa di Tom. Tremava come una foglia ed aveva paura di sapere
come si sarebbe conclusa quella vicenda.
«Sì,
so cosa significa avere paura ma ciò non ti giustifica! E se
avevi paura di deluderci, mi dispiace, ma lo hai appena fatto.»
concluse Ester, uscendo successivamente a grandi passi dalla cucina.
Monique
non poteva crederci; non poteva assolutamente credere che sua madre
avesse reagito a quella maniera, nonostante le avesse dato quella
notizia. Da una parte era comprensibile; d'altronde aveva fatto
scorrere decisamente troppo tempo... Ma dall'altra, le aveva comunque
annunciato una bella notizia, una di quelle che sua madre aveva
sempre immaginato e sperato di ricevere con gli occhi brillanti di
felicità.
Era
rimasta immobile, seduta a quel tavolo – con la mano
improvvisamente debole, ancora stretta da quella di Tom – e suo
padre seduto di fronte a lei. Quest'ultimo si alzò dalla sedia
e, temendo che avrebbe abbandonato anche lui la stanza – unica
persona che mai e poi mai l'aveva giudicata – abbassò lo
sguardo sulle sue ginocchia, colpevole.
Trattenne
il fiato non appena avvertì le braccia forti e timide di suo
padre circondarle il collo, alle sue spalle, accogliendola in un
caloroso gesto di affetto... Uno di quelli rari, tra loro due. Tom le
aveva lasciato la mano, forse per permetterle di ricambiare quella
stretta, e restò ad osservare con tenerezza negli occhi quella
scena così dolce tra padre e figlia. Monique scoppiò in
un pianto ininterrotto ed abbracciò suo padre con tutta la
forza che aveva in corpo.
«Mi
dispiace, papà.» singhiozzò, contro il suo petto,
stringendogli la maglia fra le mani. Lui le accarezzò la testa
per poi schioccarle un bacio su di essa.
«Non
sarò io a giudicarti; non l'ho mai fatto. Io ti capisco,
tesoro.» sussurrò, facendo sorridere spontaneamente il
chitarrista. Monique si rannicchiò maggiormente addosso ad
Alfred, continuando a piangere. Quelle erano le parole che voleva
sentir pronunciare; quelle erano le parole che sperava di poter
sentire anche da sua madre; quelle erano le parole che per un attimo
le avevano permesso di non sentirsi totalmente accusata, totalmente
abbandonata a se stessa. «Vedrai che la mamma capirà.»
aggiunse Alfred.
«Ma
quando? Io ho bisogno anche di lei, in questo momento, non della sua
rabbia.»
«Forse
non si aspettava che le mentissi e ci è rimasta male. Non
preoccuparti, ci parlo io con lei.»
«Grazie,
papà.»
Sciolsero
quel caloroso abbraccio e Monique si asciugò il viso con le
mani.
«Sono
contento di diventare nonno.» ammise timidamente Alfred.
Monique sorrise appena. «Congratulazioni, ragazzi. Sono
contento anche che questo bambino avrà un padre come te, Tom.»
continuò, voltandosi successivamente verso il chitarrista, la
cui pelle assunse immediatamente una sfumatura color porpora.
«Oh,
no, non sono io il padre.» si affrettò a chiarire,
ridacchiando imbarazzato.
«E'
Christian, papà.» intervenne Monique, lugubre. Alfred la
osservò accigliato. «Ma non lo vuole, è per
questo che se n'è andato.» aggiunse, abbassando lo
sguardo. In una frazione di secondo sentì la mano di suo padre
donarle una carezza sulla testa, che le fece sollevare di nuovo lo
sguardo su di lui.
«Non
è di lui che hai bisogno, in questo momento.» le disse,
sorridendole appena. «Se volete, potete rimanere a dormire qui,
se la situazione con Ester non si metterà subito a posto.»
Monique
si voltò verso Tom e poi tornò ad osservare suo padre.
«Ehm,
adesso ne parliamo. Grazie.» rispose. Alfred sorrise ancora
qualche secondo e poi si congedò, uscendo dalla cucina, forse
per raggiungere sua moglie. Monique sospirò. Sentiva la pelle
del viso tirare per le troppe lacrime versate ma cercò di non
pensare troppo a ciò che aveva appena dovuto affrontare: non
poteva subire stress; doveva pensare al bambino. «Tom, tu torna
a Berlino. Rimarrò io qui. Non posso andare via senza prima
aver chiarito con mia madre.» disse improvvisamente al
chitarrista. Quest'ultimo corrugò le sopracciglia.
«Ma
che dici? Non ti lascio tornare a Berlino, da sola, in qualche
squallido pullman. Sto con te.» rispose il ragazzo con fare
deciso.
«Ma,
Tom, hai da fare con la band, soprattutto ora e...»
«Chiamerò
David e sistemerò tutto io. Per un giorno o due in più
non muore nessuno.»
«Il
problema è che non so quando chiariremo e se chiariremo.»
«Io
credo che tua madre non riuscirà a far passare troppo tempo. E
comunque non mi interessa quanto tempo occorrerà, io non ti
lascio tornare da sola, incinta, su un pullman. Sbaglio o ti ho
promesso di prendermi cura di te?»
Monique
sorrise e, socchiudendo gli occhi, abbracciò con delicatezza
il chitarrista che la strinse a sé, per poi schioccarle un
bacio sui capelli.
«Lo
stai già facendo da tanto, Tom.»
**
Le
ore pomeridiane stavano scorrendo in fretta, quasi esageratamente.
Ester non aveva voluto ancora saperne di parlare con sua figlia o per
lo meno uscire dalla propria stanza. Aveva abbandonato tutto, persino
le faccende domestiche alle quali si dedicava ogni giorno con cura.
Evidentemente non aveva intenzione di incrociare lo sguardo di
Monique.
Quest'ultima
continuava a provare un immenso dolore al petto. Non parlare con sua
madre le aveva sempre fatto male; era la cosa più orribile che
potesse succedere. Alla fine di ogni loro battibecco, il mutismo tra
loro due non durava più di un giorno e mezzo ma quella volta
aveva paura che tutto quanto avrebbe richiesto più tempo. A
dire il vero non sapeva nemmeno come avrebbe fatto a reggere quella
situazione. Una parte di lei le imponeva di restare, un'altra di
scappare e tornare a Berlino perchè quell'atmosfera era troppo
pesante da sostenere. Si sentiva per la prima volta come un pesce
fuor d'acqua in casa sua. Si sentiva come un'estranea, come una
persona di troppo... Non gradita. Eppure non voleva andarsene
rischiando di spezzare definitivamente il legame che aveva
consolidato con sua madre nel corso del tempo, anche se sapeva che
era troppo forte perchè ciò accadesse.
Fottuta
paura.
Sospirò
appena, continuando a donare carezze a Lilli – ignara del fatto che
in quella casa la tensione era tangibile – e osservando Tom, di
fronte a lei, fumare in silenzio con una mano nella tasca dei jeans
oversize.
Non
sapeva realmente come ringraziarlo per tutto quello che stava facendo
per lei. Nonostante fosse occupato con il lavoro e la band, si era
preso la briga di avvisare David di ciò che nel frattempo
stava accadendo ad Amburgo, trovando il suo consenso, seppur sudato.
Si sentiva un po' in colpa per questo, ma cercò di
concentrarsi solo ed esclusivamente sulla gratitudine che il suo
cuore provava per ogni suo aiuto.
«Pensavo...»
esortò improvvisamente il ragazzo, scrutando il vuoto
pensieroso. «Ti va di uscire fuori a cena, stasera? Non credo
che tua madre scenderebbe a mangiare e non mi va che stia ancora
chiusa in camera sua, senza mettere niente nello stomaco. Usciamo un
po' da qui, io e te, per lasciarla libera di riflettere con calma e
senza pressioni attorno. Che ne dici?» le propose spostando poi
gli occhi su di lei.
Monique
si sentì percossa da un piacevole brivido. Non era mai uscita
a cena con Tom, da sola. Le era sempre parso quasi fuori luogo e
troppo romantico. Eppure l'idea la entusiasmava e non poco,
nonostante in quel momento avesse ben poco da entusiasmarsi.
«E'
una buona idea.» rispose annuendo appena.
Effettivamente,
neanche a lei andava di mangiare in quella casa, sapendo che sua
madre se ne stava ancora chiusa in camera sua, rifiutandosi di
mettere qualcosa sotto i denti, a causa della sua presenza. Le
avrebbe lasciato lo spazio e il tempo per accettare le sue menzogne;
d'altronde era il prezzo da pagare per essersi comportata a quella
maniera ed ora doveva affrontarlo senza opporvisi.
Vide
con la coda dell'occhio il chitarrista spegnere la sigaretta nel
posa-cenere ed avvicinarsi a lei fino a sederlesi affianco, sullo
scalino di fronte alla porta di casa. Con sorpresa si sentì
avvolgere le spalle con un braccio, fino a farla poggiare al suo
petto. Le labbra carnose si posarono delicate sulla sua testa e ciò
la fece sorridere chiudendo con beatitudine gli occhi.
«Si
risolverà tutto, vedrai.» le sussurrò dolcemente,
continuando a coccolarla mentre Lilli li osservava scodinzolando.
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Capitolo 22 *** Twenty-One. Yielding ***
yielding
Twenty-one.
-
Yielding -
Il
buio si era ormai impadronito dell'intera Amburgo, nonostante fosse
solo l'ora di cena. Monique adorava osservare i paesaggi illuminati
semplicemente da quella fioca luce emessa dai lampioni ai lati della
strada e nient'altro. Il buio non le aveva mai fatto paura; al
contrario, l'aveva sempre fatta sentire a proprio agio.
Tom
guidava affianco a lei silenziosamente e come pensieroso, ma ciò
non la turbò più di tanto. Non era di certo l'unica ad
avere pensieri per la testa e preferiva rispettare quella sua
momentanea quiete.
Quando
la macchina si fermò, Monique spostò lo sguardo alla
sua destra, dove scorse un ristorante non troppo grande o lussuoso ma
piuttosto carino. Scese dall'enorme Cadillac e, assieme al
chitarrista, si incamminò all'interno di quel luogo così
caldo ed accogliente. Le luci erano lievemente soffuse e di un colore
arancione, tendente al giallastro. Era tutto così delicato e
così all'apparenza romantico che per un attimo Monique
dimenticò tutti i suoi problemi.
Con
una mano sulla sua schiena, Tom la guidò sino ad un tavolo più
appartato, in un angolo di quel ristorante. Si era in ogni caso
premurato di coprirsi adeguatamente, in modo tale che nessuno lo
scovasse a cena con una ragazza incinta, con la possibilità di
guadagnare innumerevoli soldi grazie ad un succulento scoop.
Si
sedettero uno di fronte all'altra e si sorrisero appena.
«Mi
piace questo posto. Non ci ero mai venuta, nonostante io sia
cresciuta qui ad Amburgo.» esortò Monique sinceramente
compiaciuta.
«Io
ci sono stato una volta, con mio fratello: eravamo di passaggio e ci
siamo fermati a mangiare qualcosa. Il cibo era squisito.»
rispose Tom, mentre adocchiarono in lontananza il cameriere camminare
nella loro direzione, fino ad affiancarli per posare loro sul tavolo
i menù. Quando si fu nuovamente allontanato, entrambi li
recuperarono per poter scegliere il pasto da consumare.
«Non
ti dispiace se prendo la carne, vero?» domandò la mora,
osservandolo di sbieco.
«Ma
va, scema. Solo perchè sono vegetariano non vuol dire che lo
devi diventare anche tu.» sorrise Tom scuotendo appena la
testa, mentre continuava a leggere.
«Allora
vada per la carne alla griglia.» concluse Monique posando
nuovamente il menù sul tavolo. Approfittò di quel
momento per osservare il chitarrista intento a optare per qualcosa
che lo convincesse.
Il
cuore le scalpitava in petto. Era unica la sensazione che quel
ragazzo le infondeva: protezione, dolcezza... Amore. Sì, forse
era decisamente amore ciò che provava per lui. Era un
sentimento troppo nuovo per lei, che mai con nessun altro aveva
provato, nemmeno con Christian, nonostante si fosse sempre convinta
di essere innamorata perdutamente di lui. Poteva esistere un
sentimento maggiore dell'amore? Forse no. Quindi non era mai stata
innamorata di Christian, in realtà? O era semplicemente più
innamorata di Tom di quanto non lo fosse mai stata di nessun altro?
«Io
prenderò la verdura alla griglia con contorno di patate,
invece.» concluse il ragazzo, poggiando sulla tovaglia il menù
ed alzando successivamente lo sguardo su di lei che venne quasi colta
alla sprovvista. «Che hai? Sei pensierosa.» le chiese
incuriosito.
«No,
nulla.» scosse la testa Monique, distogliendo subito lo
sguardo.
Proprio
in quell'istante, il cameriere sembrò leggerle nel pensiero.
Raggiunse nuovamente il tavolo, salvandola da una situazione di
completo impaccio, e prese le ordinazioni per poi volatilizzarsi
nuovamente. Ci fu qualche attimo ancora di silenzio, in cui entrambi
non seppero che dire. Forse per imbarazzo, forse per la stranezza di
quella situazione: si erano sempre distrutti con le parole ed ora
pareva alquanto assurdo che si trovassero a cenare da soli in un
ristorante come quello.
«Come
ti senti? Ti vedo un po' stanca.» esortò improvvisamente
Tom, scrutandola con attenzione.
«Sì,
oggi mi sento un po' fiacca. Sarà per il viaggio e per ciò
che è successo con mia madre. Ma, tutto sommato, sto bene
fisicamente.» rispose la ragazza, continuando a torturarsi le
mani riunite su tavolo. Senza pensarci, Tom posò le sue su di
esse e gliele carezzò appena. Monique avvertì il viso
prenderle quasi fuoco. Non ebbe il coraggio di muoversi in quella
presa, un po' perchè non voleva assolutamente che
quell'atmosfera si distruggesse con un suo semplice ed innocente
gesto, un po' perchè sentiva ogni parte del suo corpo
immobile, come impossibilitata di reagire.
«Vedrai
che tua madre già domani tornerà a parlarti. Ne sono
assolutamente convinto.» le sorrise appena il chitarrista, con
una dose di dolcezza impossibile da quantificare.
«Lo
spero.» sospirò lei posando lo sguardo sulle loro mani
intrecciate, con timidezza. Le mani di Tom erano grandi, molto di più
rispetto alle sue. Le dita lunghe ed affusolate. Emanavano un calore
rassicurante, un calore che neanche la più bollente lava
sarebbe stata in grado di infonderle. Le vene che le caratterizzavano
la mandavano letteralmente fuori di testa; aveva sempre trovato
particolarmente fascinosa la vista delle vene nei punti giusti. «Mi
fa... Mi fa piuttosto strano trovarmi qui con. te.» disse poi
timidamente, essendo perfettamente consapevole del fatto che il suo
viso si era colorato di un bel rosso acceso.
«Anche
a me.» ammise Tom con un lieve sorriso. «Dai, raccontami
un po' della tua infanzia.» la incitò successivamente,
sciogliendo la presa delle loro mani e tornando poi a poggiare la
schiena alla sedia. Monique aggrottò le sopracciglia,
scrutandolo attentamente.
«Che
vuoi sapere?» domandò tranquilla.
«Un
po' di tutto. Il rapporto con i tuoi, i primi amori, la scuola, gli
amici... Cose del genere. Tutto quello che so del tuo passato fino ad
ora è della tua prima volta, solamente perchè Bill era
troppo curioso!» ridacchiò il ragazzo, suscitando una
lieve risata anche in Monique, al ricordo di quella scena a tavola,
qualche mese prima.
«Beh...
Io e i miei genitori ci siamo sempre amati immensamente. Io e mia
madre, soprattutto, ci siamo sempre dimostrate estremo affetto, sia a
parole che a gesti. Per natura non sono una ragazza molto affettuosa
– in questo ho preso da mio padre che, come avrai notato, è
un uomo molto timido – ma con mia madre è tutto diverso. Con
lei mi sono sempre sentita libera di fare tutto ciò che mi
sentivo. Con mio padre, invece, i gesti affettuosi scarseggiano ma
non l'amore, in ogni caso. Io e lui ci siamo sempre capiti con un
solo sguardo e non vi è nemmeno bisogno di parole. Lui mi è
sempre stato vicino moralmente, a suo modo. Certo, l'affetto da parte
sua mi è un po' mancato ma... Tutto sommato, sono contenta di
lui e di certo non lo cambierei.»
Aveva
confessato tutto ciò con un sorriso spontaneo e sereno sul
volto, trovandosi a scrutare il vuoto di tanto in tanto, come assorta
in intimi pensieri inviolabili da nessuno.
«Mi
sono accorto di questo particolare rapporto che avete tu e lui, fatto
più che altro di silenzi ma di tanti sguardi. Però ti
posso assicurare che l'affetto è tangibile tra di voi. A mio
parere non sono solo i gesti ad alimentare un rapporto affettivo. Voi
siete complici... Siete uniti da una forza che va oltre il contatto
fisico. Credimi, so cosa vuol dire. Io e mio fratello ne siamo un
esempio lampante. Nemmeno io e lui ci scambiamo spesso abbracci o
baci o altro. Eppure anche a noi basta guardarci per sapere
esattamente che ci saremo sempre l'uno per l'altro e che il profondo
amore che ci lega non si spezzerà mai.» Le parole di Tom
le erano arrivate dritte al petto come una scarica elettrica
potentissima.
Era
disarmante. Non avrebbe mai potuto capire fin dove si sarebbero
spinte la sua maturità e la sua dolcezza. Probabilmente
nemmeno Jessica sarebbe stata in grado di farla sentire così
compresa, così sostenuta e assolutamente non giudicata. Gli
occhi del ragazzo trasmettevano infinita sincerità ed il fatto
che lei si stesse aprendo con lui – cosa che non faceva molto
spesso con nessuno – la stava estraniando per un momento dal mondo
reale, facendola sentire piena della tranquillità e della
serenità che si meritava, almeno per un po'.
«Sì,
credo che tu abbia ragione... Alla fine mi basta sapere che lui ci
sia. Prima mi ha dato la prova che lui mi accetterà sempre per
quella che sono, qualunque cosa mi accada.» annuì
Monique, sinceramente rapita dallo sguardo del moro, proprio nel
momento in cui venivano serviti i loro piatti. «E tu, con i
tuoi?» domandò successivamente, prendendo a tagliare la
carne fumante sotto di sé.
«Quello
più espansivo in famiglia è mio fratello. Lui e mia
madre sono come polipi. Una volta che si avvinghiano, è la
fine. Io sono un po' più chiuso ma, nonostante tutto, anche io
sono affettuoso con mia madre. Insomma, non la vedo per dei mesi e
quando torno a casa e la trovo lì, davanti a me, mi rimane
impossibile non saltarle addosso.» confidò Tom, per poi
portarsi alla bocca un po' di verdura.
«La
mia mente sta proiettando la fantastica immagine di te che salti in
braccio a tua madre.» sorrise Monique, dopo aver deglutito un
boccone.
«Povera
donna, la ucciderei. Diciamo che non le salto in braccio, dato che le
mie dimensioni sono leggermente aumentate dai miei cinque anni, ma la
travolgo comunque come uno Tsunami.» rise il chitarrista. «Con
i tuoi amici, invece? Sei espansiva?»
«Per
niente. Sono loro ad esserlo con me, allora mi sciolgo. Sennò
non parte mai da me, per prima, il gesto affettuoso. Devo dire che la
situazione cambia radicalmente con un mio ipotetico fidanzato.
Divento schifosamente melensa, anche se detesto il troppo
romanticismo. Diciamo che metto in mostra la mia più nascosta
tenerezza.»
«Penso
venga abbastanza naturale farlo quando si è...»
Monique
sollevò lo sguardo sul viso di Tom, a quell'esitazione, e poté
notare quanto in imbarazzo si sentisse in quel preciso istante.
Perchè si trovava così in difficoltà nel
pronunciare quella parola?
«Innamorati?»
gli venne in contro la ragazza. Tom annuì appena, abbassando
successivamente lo sguardo. Monique lo osservò ancora qualche
istante, con attenzione, come a voler scovare qualche strana
motivazione di quella difficoltà nell'affrontare il discorso.
«Ti sei mai innamorato, Tom?» le venne spontaneo porre
quella domanda, senza meditarvi.
«No.»
rispose prontamente lui. «Non saprei neanche come mi sentirei
se lo fossi. Credo che non lo capirò mai. Anzi, credo che io
non sia fatto per amare.» continuò con una strana luce
malinconica negli occhi, bevendo poi un sorso d'acqua.
«Sciocchezze.»
sorrise Monique, prendendolo alla sprovvista. Sollevò gli
occhi su di lei e sbattè qualche attimo le palpebre, come
accigliato. «Tutti siamo fatti per amare. Siamo connaturati
così, proprio perchè abbiamo un cuore. Non puoi non
essere in grado di amare, Tom. Non ci credo.» precisò
lei, serena.
«Andiamo,
Schmitz... Ormai mi conosci. Io con una ragazza cerco solamente il
sesso, nient'altro. Non sono capace di innamorarmi.»
«Beh,
non mi pare che tu stia cercando il sesso con me.»
Si
scambiarono un'occhiata fugace; brevi secondi in cui la pelle di Tom
diventò paonazza ed egli interruppe immediatamente quel
contatto visivo divenuto troppo imbarazzante.
«Che
c'entra... Con te è diverso.» borbottò il ragazzo
con una scrollata di spalle e voltandosi con il capo verso sinistra,
per non apparire troppo impacciato.
«Sono
una ragazza... Che c'è di diverso?» domandò
ingenuamente la mora, cercando il suo sguardo con curiosità.
Tom si voltò a guardarla adottando un'espressione piuttosto
intimidita, intrisa di tanti – forse troppi – significati. A quel
punto Monique capì e ciò la portò ad incupirsi.
«Ah, ma certo. È perchè io sono incinta. Non sono
più una ragazza, sono una donna.» commentò con un
sorriso amaro, abbassando lo sguardo sul suo piatto ormai vuoto.
«Sono già fuori commercio.» aggiunse poi con
sarcasmo. Sapeva che in qualche modo stava commettendo un madornale
errore a parlare a quella maniera, ma d'altronde era una ragazza
incredibilmente istintiva.
«Schmitz,
non andare a parare in altri discorsi. Lo sai cosa intendevo dire.»
cercò di porre rimedio a quella situazione che stava
lentamente andando a degenerare.
«No,
non lo so. Spiegamelo.» sputò seccamente Monique.
«Il
nostro rapporto è strano, è totalmente diverso. E
poi... Oh, Cristo santo, d'accordo. Sei anche incinta. Purtroppo tu
cerchi di negare l'evidenza, in qualche modo, ma non puoi farlo.»
«Perchè
voi uomini fate così tanta fatica a concepire l'idea di una
donna incinta?»
«Non
è che noi uomini non concepiamo l'idea della...»
«Siete
tutti uguali, in fin dei conti. Christian non ci ha messo né
uno né due a scaricarmi. Ora devo anche sentirmi una “donna
fuori commercio”, sempre per colpa di questa pancia di troppo.»
«Non
provare a paragonarmi a Christian! Schmitz, fammi parlare.»
«Per
dire che cosa? Ti sei spiegato benissimo, non preoccuparti.»
Tom
boccheggiò per qualche attimo, non sapendo come rispondere. Lo
destabilizzava, con ogni singola parola ed ogni volta non sapeva come
venir fuori da quelle situazioni. Odiava litigare con lei, lo odiava
con tutto il cuore, nonostante un tempo fosse il suo pane quotidiano.
Ogni volta, con lei, tutte le sue certezze svanivano.
L'unica
cosa di cui era certo, in quel momento, era che la serata era andata
a puttane.
**
Erano
usciti da quel ristorante in religioso silenzio. Monique aveva
stretto le proprie braccia al petto per proteggersi dal freddo e
camminava a qualche passo più avanti del ragazzo. Quest'ultimo
le osservava la schiena con sguardo cupo e le mani rifugiate nelle
tasche dei jeans.
Si
sentiva tremendamente in colpa per ciò che le aveva detto al
tavolo, nonostante si trattasse di parziale verità.
Non
voleva darle della “donna fuori commercio”; a dire il vero
nemmeno lo pensava. Il concetto che avrebbe tanto voluto esprimere
senza crearle disagio era totalmente diverso ed in quell'istante,
anche scavando nella sua mente contorta non avrebbe saputo spiegarlo
nemmeno a se stesso.
Sospirò
pesantemente cominciando a frugare nei suoi pensieri, alla ricerca di
un qualcosa di plausibile da dire e che non le avrebbe permesso di
dare in escandescenze, ma nulla.
Dal
suo canto, Monique camminava abbastanza spedita, respirando
nervosamente. Non aveva nessuna intenzione di voltarsi in direzione
del chitarrista che percepiva dietro di lei. Probabilmente perchè
ora si sentiva in imbarazzo, anche se l'orgoglio vi metteva il suo
buon peso.
Si
sentivano come ragazzini immaturi, troppo decisi ad avere entrambi
ragione per poter meditare con lucidità o semplicemente
mettere da parte ogni tipo di screzio.
Tom
era sì un tipo combattivo, ma non gli piaceva portare avanti
stupidi battibecchi in grado di distruggere la dolce atmosfera che si
era venuta a creare fra loro.
Allungò
appena una mano verso Monique, sino a posarla leggera sulla sua
spalla. Questa venne colta alla sprovvista: non si aspettava
minimamente un simile gesto dal chitarrista, così impuntò
sui propri piedi. Non fece in tempo a voltarsi nella sua direzione
che le possenti braccia la avvolsero interamente, donandole una
piacevole sensazione di calore e benessere. Le venne spontaneo
sorridere e chiudere gli occhi nello stesso istante in cui percepì
il capo del ragazzo posarsi sulla sua spalla.
Un
semplice gesto in grado di cancellare tutto ciò che
precedentemente era accaduto.
«Smettiamola
di tenerci i musi come i bambini.» le sussurrò appena
all'orecchio. «Scusami.» Dei piacevoli brividi percorsero
l'intero corpo di Monique, portandola a sollevare la propria mano,
sino a posarla all'indietro sul capo del chitarrista, ricoperto di
cornrows.
«Stronzo
di un Kaulitz...»
**
Inserì
nel silenzio più assoluto la chiave nella serratura della
porta di casa.
Era
mezzanotte passata e, non appena entrarono nella villetta, trovarono
quest'ultima completamente immersa nel buio e nel silenzio più
totali. Senza accendere la luce, cercarono a tentoni le scale tra una
piccola risata ed un'altra, non appena si scontravano contro qualche
mobile, esattamente dopo essersi intimati di non fare il minimo
rumore.
«Il
ginocchio, cazzo.» borbottò Tom, a bassa voce, sotto le
lievi risate – ridotte a poco più di sussurri – da parte
di Monique, la quale lo prese per mano, guidandolo zoppicante verso
le scale. Quando finalmente giunsero al secondo piano, si chiusero
velocemente nella camera della ragazza. A quel punto, Monique accese
la luce e si voltò in direzione di Tom, ancora imbronciato,
che si massaggiava un ginocchio.
«Sei
un disastro.» sorrise la mora, sfilandosi nel frattempo il
cappotto e gettandolo successivamente sulla piccola poltrona,
affianco al letto.
«Senza
offesa, ma è quel mobile che si trova in una posizione
decisamente sbagliata.» ribattè Tom, spogliandosi a sua
volta. Monique, cercò di ignorare le farfalle che avevano
preso a svolazzare incessanti nel suo stomaco assieme al calore che
si era impossessato violentemente delle sue gote e si avviò
all'armadio, dal quale recuperò un cuscino ed una coperta.
«Che stai facendo?» domandò il chitarrista,
accigliato.
«Vado
a dormire di sotto, in salotto, mi pare ovvio.» rispose
tranquillamente Monique.
«Ma
tu sei fuori di testa. Tu non ti metti a dormire, incinta, su un
divano.» la rimproverò il ragazzo, togliendole dalla
presa il cuscino e la coperta.
«Come
sei esagerato...»
«No,
sono premuroso, che è diverso.»
«Anche
troppo, se permetti.»
«Taci.
E poi non ti mangio. Me ne starò tranquillo sulla poltrona.»
Detto
questo, Tom si sedette sulla piccola poltrona e vi poggiò il
cuscino, coprendosi successivamente con la calda coperta. Doveva
ammettere che non era esattamente comoda, ma rimaneva comunque una
scelta migliore del pavimento duro e freddo.
Dopo
qualche attimo in cui Monique lo osservò attentamente, deglutì
appena e decise di parlare.
«Tom,
se vuoi puoi venire a dormire qui... Ci stiamo e poi quella poltrona
è scomoda.»
Aveva
pronunciato quelle parole con la timidezza negli occhi ed una
velocità inaudita. Non passarono molti secondi prima che la
sua mente cominciò a maledirla per quella richiesta,
decisamente discutibile. D'altronde erano una ragazza ed un ragazzo,
con dei precedenti determinanti, non due amiche d'infanzia prive di
qualsiasi pensiero che si spingesse oltre al semplice dormire. Non
che avessero combinato chissà cosa: Tom era anche contrario; a
maggior ragione perchè era incinta. Eppure le sembrava lo
stesso tutto troppo avventato.
«Se
non ti disturba...» disse vago il moro, ad insaputa di Monique.
Si sarebbe aspettata una risposta negativa che l'avrebbe fatta
sentire nell'imbarazzo più totale, eppure quella scelta le
fece tirare un mentale sospiro di sollievo.
«No.»
soffiò appena. Il suo cuore prese a galoppare non appena vide
Tom alzarsi dalla poltrona per sedersi sul letto, accanto a lei.
Sollevò le coperte e si infilò sotto ad esse. Una
ventata di quel profumo maschile che tanto le piaceva e che spesso
usava il ragazzo, le pervase i sensi, facendola sentire beata,
rilassata e ancora più stanca del solito. Tremava appena,
scrutandolo senza farsi notare, di fronte a sé, di profilo,
intento ad osservare un programma di musica alla televisione
precedentemente accesa da lei.
Aveva
pericolosamente voglia di avvicinarglisi, di stringersi a lui e
chiudere gli occhi in completa devozione. Voleva godersi appieno quel
profumo, quel calore, quella protezione. Così decise di
rischiare.
Avanzò
lentamente e quasi impercettibilmente sul materasso, fino a
raggiungere il corpo bollente del ragazzo. Lo guardava timidamente,
pregando che capisse il suo intento e le facilitasse il compito con
un semplice gesto. Fortunatamente il chitarrista parve comprenderla,
così che si voltò nella sua direzione con un lieve
sorriso e le avvolse le spalle con un braccio, invogliandola a
poggiare il proprio viso sul suo petto. La mano di Monique giacque
sul suo addome che lentamente si muoveva, a ritmo del suo respiro
rilassato. La mora chiuse gli occhi, inebriata da quella situazione
così piacevole e si beò del delicato suono del suo
respiro.
La
tranquillizzava, era un qualcosa di così dolce ed intimo,
solamente il sentirlo respirare, che in quel momento non avrebbe
avuto bisogno di altro. Sentiva il sonno prendere secondo dopo
secondo il sopravvento, ma l'emozione era decisamente più
forte di esso.
Non
seppe quanti minuti trascorsero da quando aveva poggiato l'orecchio
sul cuore del ragazzo, ma improvvisamente la stanza venne immersa nel
buio; segno che Tom aveva spento la televisione, senza che lei se ne
accorgesse. Il silenzio che piombò in quelle quattro mura fu
quasi assordante ma piuttosto piacevole, in cui Monique continuava ad
ascoltare solamente il respiro del moro ed il suo battito cardiaco.
«Sai,
Schmitz, io sono un tipo strano.» quelle parole sussurrate la
fecero quasi sobbalzare. «Mi raccomando sempre di non fare
cazzate ma poi queste riesco sempre a commetterle. In quest'ultimo
periodo, soprattutto, ne ho fatte tante, anche se tu non lo puoi
sapere. E devo dire che stasera sono particolarmente in vena di
cazzate. Per questo motivo ho voglia di farne un'altra che
probabilmente mi porterà dritto al patibolo.»
Monique
aggrottò le sopracciglia, anche se lui non lo poteva vedere,
ed attese che si muovesse o comunque continuasse a parlare. Non aveva
inteso cosa quelle parole volessero significare, così optò
per la semplice attesa.
Restò
immobile anche quando avvertì il corpo di Tom muoversi appena,
fino a sovrastarla quanto bastava per far sì che si
guardassero negli occhi, nonostante l'unica fioca luce penetrasse le
persiane della finestra. La mora deglutì a fatica
nell'ammirare quelle pagliuzze nocciola che la scrutavano fino a
trapassarle l'anima.
Furono
ancora pochi gli istanti in cui dovette trattenere il respiro,
timorosa di ciò che sarebbe accaduto, quando le labbra carnose
del ragazzo si posarono dolcemente sulle sue. Sgranare gli occhi fu
solamente un'azione spontanea e di riflesso a ciò che era
appena successo.
La
mente le si annebbiò e tutto quanto si azzerò. Aveva
perso la sensibilità degli arti; aveva per un attimo avuto
paura che il cuore le si fosse fermato per quanto devastante era
stata la sorpresa. Si sentiva come un'automa, come non avesse mai
dovuto affrontare situazioni simili nella sua vita. Pareva fosse la
prima volta che riceveva un bacio.
Il
suo cervello prese ad elaborare troppi pensieri in una volta, per far
sì che ne comprendesse soltanto uno. Uno di questi era
un'insistente domanda: perchè l'aveva respinta qualche tempo
prima ed ora era lui a prendere l'iniziativa? Che avesse cambiato
idea? Che volesse darle una possibilità? Forse si stava
solamente illudendo che potesse essere possibile. Precedentemente
aveva pronunciato la parola “cazzata” e, teoricamente, anche
quella doveva rappresentarne una. Non sapeva se ciò la rendeva
contenta o meno; tutto quello a cui dedicò la sua mente fu
solo il presente. Voleva godere con ogni fibra del suo corpo di quel
momento così tenero e perfetto.
Chiuse
gli occhi e circondò il collo del ragazzo con le proprie
braccia, sentendo il suo petto venire a contatto con il suo seno,
cosa che le fece quasi perdere i sensi per un attimo. Voleva sentirlo
ancora più vicino, ma allo stesso tempo non voleva turbarlo.
Lei avrebbe solamente subito... Non avrebbe fatto nulla se lui non
avesse voluto.
Tom
sembrava afflitto da sconosciute preoccupazioni e pareva sfogasse
tutto ciò in quel bacio così profondo. Catturò
fra i denti il labbro inferiore della ragazza, senza farle male e ciò
provocò un lieve gemito da parte di Monique. Adorava quel mix
di dolcezza e passionalità.
I
suoi baci umidi scesero sul suo mento, percorsero la sua pelle
bollente e cosparsa di brividi, fino a posarsi sul suo collo, dove
lasciò innumerevoli marchi violacei, segni del suo passaggio.
Le sue mani le stavano donando immenso calore lungo tutto il corpo,
intente a carezzarla. Più volte aveva indugiato sul suo
ventre, ma ciò non l'aveva fermato.
Monique
si stava facendo prendere dalla situazione con ogni cellula, tanto da
estraniarsi per un momento dalla realtà e commettere un gesto
forse avventato: insinuò le proprie mani al di sotto della
maglia del ragazzo, sfiorandogli la pelle rovente degli addominali
non troppo scolpiti e dei pettorali, con l'intento di sfilargliela.
Voleva stringerlo a sé senza costrizioni, senza impedimenti.
Voleva sentirlo per ciò che effettivamente era, non attraverso
pezzi di stoffa... Ne aveva un disperato bisogno.
Come
avendole letto nel pensiero, il chitarrista le strinse le mani
delicatamente fino a portargliele fuori da quel rifugio così
piacevole e poggiargliele sul materasso, affianco alla sua testa. La
guardò ancora qualche attimo negli occhi, fino a riprendere a
baciarla con maggior fervore. Monique non capiva quali fossero le sue
intenzioni, dal momento che le aveva impedito di togliere quella
barriera così fastidiosa fra loro.
Tom
riprese il proprio cammino verso il basso, con le labbra, fino a
sfiorarle il petto, mentre la sua mano scendeva verso l'orlo dei
pantaloni del pigiama. Alla mora si smorzò il fiato non appena
lo sentì superare lentamente quell'impedimento, fino a venire
ad un contatto diretto con ciò che mai nessun altro si sarebbe
permesso di violare in quella maniera. Eppure percepiva tutta la
tenerezza ed il riguardo che Tom metteva in ogni suo gesto e ciò
non la agitò, al contrario la fece rilassare, fino a farla
fluttuare in un mondo parallelo.
Sgranò
gli occhi, inarcando lievemente la schiena, nel momento in cui Tom
diede inizio ad una lenta e piacevole tortura con quella mano
particolarmente esperta.
Monique
non fece in tempo a chiedersi il motivo per cui il ragazzo stesse
facendo tutto quello e, a dire il vero, in quel momento nemmeno le
importava. Chiuse gli occhi, lasciandosi andare a sospiri affannati
che da un po' di mesi a quella parte aveva dimenticato cosa fossero.
D'altro canto, la lingua ed i denti del ragazzo impegnati a lambire
la sua gola, non le facilitavano il tutto. Con le mani afferrò
saldamente le sue spalle, respirando sempre più veloce, mentre
un inebriante calore si impossessava delle sue gote, accompagnando le
piccole goccioline di sudore che si stavano, ad una ad una, formando
sulla sua fronte. Avvertì improvvisamente la bocca di Tom
staccarsi dalla sua pelle più volte marchiata, e le venne
spontaneo aprire gli occhi per cercarlo con lo sguardo. Come un
enorme masso improvvisamente precipitato nel suo stomaco, si sentì
smorzare il fiato: il chitarrista era sempre lì, intento a
guardarla e a darle sempre più piacere. Quelle iridi color
cioccolato erano ipnotiche e non riuscì ad interrompere quel
bellissimo contatto visivo.
Cominciò
a muovere appena il bacino, nel momento in cui sentiva che l'apice di
quella perfetta agonia stava giungendo. Quasi impiantò le
unghie nelle spalle del ragazzo, mentre la schiena si inarcava e la
sua bocca rilasciava versi sempre più accesi. Forse per
zittirla, il chitarrista premette le proprie labbra sulle sue, senza
approfondire il contatto, mentre aumentava il ritmo dei suoi affondi
nel suo corpo e l'accompagnava al termine di quella magia.
Quest'ultima non tardò ad arrivare e, nel momento in cui
avvenne, Monique soffocò il proprio urlo estasiato sulle
labbra del chitarrista, ancora impresse alle sue. Un piacere
indescrivibile le aveva pervaso i sensi, accendendole un fuoco che,
piano piano, si era protratto lungo tutto il suo corpo.
Affannata,
riprese fiato con un lieve sorriso dipinto sul suo volto rilassato,
mentre Tom ritraeva la mano dal pigiama. Senza dire una sola parola,
la osservò ancora qualche istante negli occhi, come avesse
appena compiuto un gesto imperdonabile e dannatamente sbagliato.
Monique aggrottò appena le sopracciglia, non capendo cosa lo
spingesse a guardarla a quella maniera, fino a che non lo vide
allontanarsi da lei, con sguardo colpevole, fino a stendersi
nuovamente dalla sua parte del letto, dandole la schiena.
Per
tutta la notte, Monique restò immobile, in quella posizione,
ad osservare le sue spalle, scosse dal solo respiro.
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Capitolo 23 *** Twenty-Two. Fuck you ***
fuck you
Chapter
Twenty-Two.
-
Fuck you -
Confusione.
Ormai
da mesi, l'unica parola che completasse e descrivesse appieno i suoi
stati d'animo non era altra che quella.
I
suoi occhi erano ancora fissi sulla schiena del chitarrista, da tutta
la notte. Non aveva chiuso occhio, troppo agitata e per l'appunto
confusa per ciò che era successo la sera prima. Non riusciva a
porvi una spiegazione plausibile.
Perchè
Tom l'avrebbe “violata” a quella maniera, se le dava sempre
dimostrazione di non provare nulla per lei? Forse era davvero come
aveva detto lui a cena? Ovvero che lui nelle donne cercava solo il
sesso? Eppure non avevano fatto propriamente sesso. Alla fine era
stato lui ad allettarla, non il contrario; si era persino rifiutato
di farsi toccare ulteriormente da lei. Quindi perchè tutto
questo? Era stato un favoritismo? Era stato un momento di debolezza?
Un semplice sfizio da togliersi?
Non
aveva il coraggio di muovere un muscolo sul materasso, per paura che
lui la udisse. Voleva al contempo scendere da quel letto, divenuto
rovente sotto di lei. Come si sarebbe comportata? Già sapeva
che non sarebbe stata in grado di affrontare l'enorme imbarazzo, in
sua presenza, perchè altro non vi sarebbe stato se non quello.
Non sapeva nemmeno dire se si fosse pentito o meno, anche se dal suo
sguardo di qualche ora prima – subito dopo aver commesso quella
“cazzata”, come l'aveva definita lui – lasciava spazio a
pensieri puramente negativi. Avrebbe dovuto solamente attendere il
suo risveglio e nient'altro.
Ma
quel giorno prospettava anche un affronto con sua madre, nel caso
quest'ultima avesse deciso di rivolgerle finalmente la parola. Aveva
paura; paura per tutto ciò che sarebbe successo. E più
passava il tempo, più si domandava come potesse essere
possibile che tutti i guai la rintracciassero a quella maniera, senza
ritegno. Ne aveva già dovuti affrontare troppi nella sua vita
e non erano ancora finiti. Erano tutti lì, davanti a lei, ad
attendere che lei vi andasse in contro.
Buttò
nuovamente un occhio al chitarrista che non aveva ancora dato segni
di vita da quando si era voltato in quella direzione, un bel po' di
ore prima. Si ricordava di aver controllato addirittura che
respirasse, durante la notte.
Con
movimenti impercettibili, si mosse sul materasso, sollevando
lievemente la coperta per scivolarvi oltre. Quando poggiò i
piedi sul freddo pavimento, si voltò nuovamente verso di lui
per controllare che dormisse ancora. Nulla di strano; così si
alzò definitivamente per poi infilarsi le pantofole ed uscire
silenziosamente da quella stanza. Appena chiuse la porta, tirò
un sospiro di sollievo e successivamente si chiuse all'interno del
piccolo bagno adiacente alla sua camera. Vi si chiuse a chiave,
decidendo che di lì non sarebbe uscita almeno per un po'. Si
specchiò nell'enorme vetro che andava a sovrastare il
lavandino e si osservò con attenzione. Marchi violacei
stanziavano sulla pelle del suo collo, come a testimoniare che la
bocca del ragazzo fosse sul serio passata di lì.
Quando
i pensieri della sera prima tornarono a farsi nuovamente nitidi
dentro di lei, le sue guance si tinsero di un color porpora
decisamente più accentuato della sua naturale carnagione.
Però
era stato... Bello. Insomma, lei avrebbe preferito un contatto molto
più ravvicinato con il chitarrista, ma anche solamente questo
le poteva bastare. Rappresentava comunque uno scossone di quella
situazione, un qualcosa di nuovo – che fosse giusto o sbagliato non
le importava. Sapeva solamente che segni di pentimento, nei suoi
occhi, non ne leggeva.
**
Quando
uscì dal bagno, il corridoio era ancora vuoto e silenzioso.
Probabilmente Tom non si era alzato dal letto, nonostante fossero le
nove e mezza. Sapeva che era un tipo alquanto pigro e che l'arte del
dormire era ciò che meglio lo appagava, ma tutto questo la
rendeva piuttosto nervosa. Sentiva di c'entrare in qualche modo in
quel comportamento. Che non volesse alzarsi dal letto per non
vederla?
Con
questo persecutorio interrogativo, prese a scendere le scale, mentre
il suo cuore batteva all'impazzata: il pensiero di arrivare in cucina
e trovarvi sua madre la agitava ulteriormente e non passò
molto prima che questo timore si tramutasse in effettiva realtà.
Seduta
al tavolo, con una tazza di caffè fumante davanti al viso,
Ester fissava pensierosa il vuoto di fronte a sé, con la mano
a sorreggerle la testa. Due profonde occhiaie andavano a sottostare i
suoi occhi castani, segno che quella notte non aveva dormito, o per
lo meno non molto.
Quando
la donna sollevò lo sguardo su sua figlia, quest'ultima si
irrigidì sulla soglia della cucina, scrutandola a sua volta,
senza proferire parola. Aveva paura di dire o fare qualcosa di
sbagliato, in aggiunta a ciò che già aveva fatto.
D'altra parte, si rese conto che, se voleva tornare ad instaurare un
dialogo con sua madre, da qualche parte doveva pur cominciare.
«Ciao.»
la salutò mestamente, senza staccarle gli occhi di dosso,
mentre un leggero tremolio nella sua voce andava a contrastare la
sicurezza che voleva esternare. Con un colpo al cuore, vide Ester
ricambiare quel saluto con un semplice gesto del capo: forse nulla
era perduto.
Avanzò
con cautela nella stanzetta per dirigersi verso gli scaffali e
recuperare da dentro essi una tazza. Forse l'unico modo per non
avvertire quella pesante tensione, era comportarsi con disinvoltura,
ed una buona colazione, consumata con apparente indifferenza, era il
metodo migliore per uscire da quell'impaccio.
Si
sedette di fronte a sua madre, senza guardarla – per paura che
avesse qualcosa in contrario da dire – e, dopo essersi versata del
latte nella tazza, prese a mangiarvi qualche biscotto.
Istintivamente, si portò una mano al ventre, carezzandoselo
appena. Ultimamente le capitava spesso di farlo; probabilmente era
solo un gesto comune a tutte le donne incinte.
Attorno
a lei sentiva solo silenzio. Ester forse non aveva il coraggio di dar
vita ad un discorso pacifista con sua figlia o solamente la rabbia
era ancora dinamica dentro di lei.
Forza
e coraggio, si incitò mentalmente, prima di parlare.
«Quando
ho scoperto di essere incinta ho ridotto tutto il mio servizio di
bicchieri in frantumi.» esortò con il cuore scalpitante
e lo sguardo basso. «Non ne ero felice per nulla. Ancora di più
perchè il padre era Christian ed era successo tutto per
errore; un madornale errore che mai avrei dovuto permettere che
accadesse. Sai, mamma, ti ho già mentito una volta. Christian
non mi ha mai trattata bene – contrariamente a ciò che vi ho
sempre fatto credere: si è sempre approfittato di me e,
precisamente, del mio corpo. Eravamo arrivati ad un punto in cui
l'unico dialogo che capitava tenessimo, ogni tanto, era quello sulla
lista della spesa che puntualmente andavo a fare io, con le sue
richieste scritte su un foglietto. Ho affrontato un periodo lungo e
tetro perchè, pur vivendo assieme, non ci vedevamo più
durante la giornata a causa dei nostri lavori; per lo meno del mio.
Non ho mai capito in realtà cosa andasse a fare lui in giro,
fino alle due, tre di notte ma ero arrivata a non interessarmene più.
Quando tornava facevamo sesso senza dire una parola; tutto perchè
lo voleva lui ovviamente. Io ero giunta a non capire neanche cosa
volessi per me stessa. Forse era la libertà quella che più
bramavo ma bramavo anche un corpo privo di ematomi. Non l'ho mai
detto né a te né a papà ma di botte ne ho prese
tante da lui. Quando gli ho riferito che aveva combinato un bel
casino, a causa del suo bisogno eccessivo di sesso, si è fatto
le valige e se n'è andato senza esitare, ritenendo di non
essere pronto ad affrontare un peso simile. Ma non lo ero neanche io,
è questo il punto. Sin dal primo giorno, dal primo secondo, ho
odiato questo bambino. Ma non perchè era un bambino, ma perchè
era suo. Era frutto di un amore che non era amore. Era frutto
di un qualcosa di sporco, di un qualcosa di sbagliato e che mi ha
fatto soffrire per tantissimo tempo. Ho passato i mesi a nascondermi
dietro inutili bugie, senza pensare che tanto – prima o poi – la
verità sarebbe venuta a galla. Sistemi talvolta pericolosi per
mascherare la mia gravidanza. Mamma, se vi ho mentito, è stato
perchè voi mi avete cresciuta in un determinato modo: ho
sempre conservato i miei sani principi, come mi è stato
insegnato da voi. Ciò che mi è successo andava
totalmente contro a tutto quanto. Mi sembrava una cosa fuori dal
mondo, che voi non meritavate perchè non era ciò che
desideravate per me, che vi aspettavate per il mio futuro, insomma.
Avete sempre riposto fiducia in me e, dicendovi la verità,
credevo di distruggerla. Lo so, ho sbagliato ma... Ho ventun'anni,
per la miseria, e ho tutto il diritto di commettere errori.
L'importante è rendersene conto e rimediare, credo. Tutto qui,
mamma.» concluse con un profondo sospiro, finalmente liberatasi
da un peso troppo più grosso di lei.
Le
lacrime che nel frattempo si erano accumulate negli occhi di Ester
non le erano passate inosservate e, in qualche modo, si sentiva
sollevata per aver almeno suscitato qualche emozione in lei. Ciò
che successe in seguito la prese semplicemente alla sprovvista.
Nessuna parola; forse non ce n'era bisogno. Vide solamente sua madre
alzarsi dalla sedia per poi fare il giro del tavolo ed accoglierla fa
le sue braccia calde e protettive. Chiuse gli occhi, aggrottando le
sopracciglia – poiché le lacrime che presero a scorrere sul
suo viso furono una reazione puramente automatica – e strinse
quella donna che le aveva dato la vita e la serenità. Inalò
a pieni polmoni quell'odore famigliare, di casa, di affetto con il
quale era abituata ad addormentarsi la notte, quando aveva paura del
buio, ai tempi della sua adolescenza. E tutto questo bastò per
farle percepire nuovamente quel clima di amore, comprensione e mai di
abbandono che per qualche ora aveva perso.
**
Finalmente
aveva avuto l'occasione di parlare con sua madre, con maturità
e senza timori. Si erano scambiate pensieri, paure, sensazioni,
proprio come una volta. Ester aveva ammesso di essere contenta,
nonostante tutto, di diventare nonna e si era dichiarata un po'
delusa del fatto che il padre non fosse Tom: aveva sempre provato
simpatia per quel ragazzo. Lo aveva sempre reputato – per quel poco
che sapeva di lui – con la testa sulle spalle, maturo ed
estremamente dolce.
«Ti
parlo da mamma.» le aveva detto nel descrivere il chitarrista.
Monique aveva semplicemente annuito pensierosa, essendo consapevole
del fatto che quelle parole fossero dannatamente veritiere ma allo
stesso tempo che non lo aveva ancora affrontato e quindi non poteva
sapere in che direzione fosse sfociato il loro ambiguo rapporto.
Saliva
lentamente le scale, come avesse paura di trovalo davanti a sé
da un momento all'altro. Da quando si era alzata dal letto non lo
aveva ancora visto. Buttò un'occhiata al suo orologio da polso
e notò che erano le dieci e un quarto: probabilmente si era
svegliato. A quel pensiero, un'enorme sensazione di calore si
impossessò del suo stomaco, accompagnato ad un fastidioso
tremore che presto si protrasse lungo tutto il suo corpo.
Arrivata
in cima alle scale, sussultò appena notando che la porta della
sua stanza era semichiusa, segno che il chitarrista l'aveva varcata.
Prese un bel respiro e si avvicinò, fino ad aprirla
interamente per poter entrare in camera. Quest'ultima era vuota e
quasi si sentì sollevata da tale fatto, pur sapendo che prima
o poi avrebbe dovuto affrontarlo. Non terminò di formulare
quel pensiero che sentì dei passi leggeri dietro di sé.
Con il cuore scalpitante, si voltò fino ad incontrare l'alta
figura del ragazzo che, perfettamente vestito e profumato, la
scrutava con espressione intimidita.
«Ciao.»
le venne spontaneo dire, con timore, quasi incontrollata. Si torceva
continuamente le mani, per paura di una qualsiasi reazione da parte
del chitarrista che avrebbe potuto deluderla, in qualche modo, come
spesso era successo.
«Ciao.»
rispose Tom, con sguardo insicuro. Restarono secondi interminabili
l'uno di fronte all'altra senza dire mezza parola. L'imbarazzo
attorno a loro era tangibile, si percepiva immediatamente e la cosa
non poteva fare altro che infastidirla.
«Ho
chiarito con mia madre.» mormorò Monique, decidendo che
non era esattamente il momento per poter affrontare il discorso
riguardante la sera prima. Sapeva inoltre che Tom, molto
probabilmente, non sarebbe riuscito a sostenerlo: era un ragazzo
piuttosto chiuso in questo e un po' timoroso, non voleva metterlo
immediatamente a disagio per un qualcosa che si era sentito di fare e
di cui si sarebbe forse pentito successivamente. «Possiamo
tornare a Berlino.» aggiunse poi, torturandosi continuamente le
mani. Tom si limitò ad annuire come a disagio e ancora
intimidito. Monique odiava quel clima tra di loro. «Mi vesto e
andiamo.» concluse con freddezza.
**
La
tensione si era percepita anche durante i saluti: Tom non era
assolutamente in grado di fingere. Non sapeva adottare espressioni
utili a mascherare un sentimento “negativo”. Molto probabilmente
i genitori di Monique avevano intuito che qualcosa fra loro due non
quadrava, ma avevano preferito non passare per persone indiscrete e
quindi non avevano chiesto nulla a riguardo.
Il
viaggio di ritorno lo avevano passato interamente in silenzio: non
una parola di circostanza; nulla. Monique si era rifiutata di
chiedergli qualunque cosa persino in macchina, forse per paura di una
sua reazione negativa, forse per troppo imbarazzo. Non lo sapeva
nemmeno lei. L'unica cosa di cui era consapevole era che non ne aveva
avuta semplicemente l'intenzione.
Ma
ora che Tom aveva accostato sul marciapiede, di fronte casa della
ragazza, quest'ultima decise che non avrebbe potuto abbandonare
quell'auto senza prima aver affrontato un chiarimento.
«Senti,
Tom... Non possiamo far finta di nulla; per lo meno io. Ho bisogno di
sapere perchè l'hai fatto ed il motivo di questo tuo apparente
pentimento.» esortò, dopo aver preso coraggio. «So
che ti scoccia parlarne ma in questo momento la mia mente è
affollata da troppe domande e pochissime – se non inesistenti –
risposte.» aggiunse, cercando di apparire il più
convincente possibile. Il moro teneva ancora lo sguardo fisso sulla
strada davanti a sé, con espressione cupa. Lo vide irrigidire
la mascella e le sue mani grandi stringersi a vicenda sui suoi jeans
oversize.
«Non
ti dirò che non so perchè l'ho fatto perchè non
avrebbe senso e soprattutto non sarebbe vero.» cominciò
a parlare, deciso a non guardarla. «Voglio solo dirti che è
stato un errore. Un errore madornale di cui mi pento con tutto me
stesso.»
Monique
sentì per un attimo due mani che le stringevano violentemente
la gola, impedendole di respirare. Sarebbe stata pronta a tutto, se
l'era promesso, ma tutto sarebbe stata in grado di sentire, tranne
quello. Qualunque cosa fosse successa in seguito, non avrebbe mai
voluto vederlo pentito, perchè lei non lo era. Lei si era
lasciata andare alle sue attenzioni perchè il cuore le aveva
detto di fare così.
«Un...
Un errore?» balbettò incredula.
«Sì,
non avrei dovuto farlo.» confermò il ragazzo,
procurandole ancora più dolore al petto.
«E
perchè allora in quel momento eri convinto di quello che
facevi? Ci siamo guardati anche negli occhi, hai avuto tutto il tempo
per ripensarci ma non l'hai fatto. Perchè ora ti rimangi
tutto? Lo vedi qual'è il mio problema con te, Tom? Non sono
mai convinta al cento per cento di quello che succede tra noi. Non
riesco ad abituarmi ad una determinata situazione perchè
questa in poco tempo viene ribaltata da te. Non riesco a gioire di un
qualcosa perchè tu, due secondi dopo, la smonti. Sei
imprevedibile, ma il più delle volte in negativo, è
questo che mi fa paura!»
«Tu
avresti gioito di questa cosa?»
«Io
avrei gioito per tantissime cose! Avrei gioito per quel giorno a casa
mia, quando mi hai dato quei baci a fior di pelle, avrei gioito per
quella sera in albergo, in Malesia, quando ti ho baciato come
desideravo, avrei gioito anche per ieri sera, cazzo, se tu me ne
avessi dato la possibilità. E invece, guarda un po'? Non sono
riuscita a gioire per nessuna di queste cose, per colpa tua! Devi
capire che tu non puoi arrivare, stravolgermi le giornate e poi
sparire o rimangiarti tutto quello che hai detto o fatto,
giustificando tutto questo con “momenti di debolezza” o cose
simili. Io non sono un giocattolino o un oggetto esanime che puoi
prendere e farci quello che vuoi perchè tanto non sente nulla.
Io ce li ho dei sentimenti, purtroppo o per fortuna. Non ho mai avuto
certezze nella mia vita: le uniche sono state i miei genitori e la
gravidanza, fine! Per un momento ho pensato di aver trovato una
figura stabile anche in te ma, giorno dopo giorno, mi dimostri che
non è così!»
«La
situazione tra di noi è degenerata ed era proprio ciò
che non volevo accadesse. Io non potevo immaginare che tu ti saresti
interessata a me ed io, allo stesso tempo, ho commesso tantissimi
errori che forse ti hanno portato a confonderti le idee.»
«A
me confondono solamente i tuoi gesti, sempre così diversi fra
loro. Sui miei sentimenti per te sono sempre stata molto chiara e
consapevole, almeno con me stessa. Ormai penso non sia più
necessario nascondere che provo qualcosa per te che va oltre il
semplice affetto o un'ipotetica amicizia che poteva nascere ed
apparente era nata tra di noi. Ma tu continui a confondermi sul tuo
pensiero che non ho ancora capito quale sia!»
«Io
non volevo che tu vedessi in me una figura per la tua vita che io non
ti posso dare.»
«Ma
almeno dammi una motivazione! Mi devi sempre lasciare con un milione
di punti interrogativi per ogni frase che dici! Per lo meno dimmi:
Monique, non mi interessi, fattene una ragione e gira a largo!»
«Ma
io non penso questo! Perchè devi trarre le tue conclusioni?»
«Perchè
non me ne dai tu! Ecco perchè!»
«Non
è quello il punto: se non mi interessavi non facevo quello che
ho fatto ma... Non posso illuderti, cosa che invece ho fatto per
tutto questo tempo.»
Monique
sospirò nervosamente, massaggiandosi le tempie con le dita.
«Lo
vedi che una risposta chiara non sei in grado di darmela? Secondo te,
come posso capire un qualcosa se tu continui a farmi questi discorsi
generici e astratti?! Perchè stai parlando di illusione? Vuol
dire che non ti piaccio? È perchè sono incinta? Se è
così, dimmelo! Sono grande, so farmene una ragione su queste
cose!» domandò, cercando di mantenere calma e pazienza,
cose che stavano venendo pericolosamente a mancare.
«Non
vuol dire quello!» esclamò Tom, in difficoltà.
Monique sbattè una mano sulla portiera, palesemente scocciata
ed arrivata al limite di quella discussione.
«Sai
cosa c'è, Tom? Hai ventun'anni e sei maturo abbastanza per
capire come stanno le cose. Quando sarai in grado di fare un discorso
che fila e ragionevole, vieni pure a cercarmi, altrimenti fai come ti
pare...» disse prima di aprire la portiera e scendere
velocemente da quella macchina.
«Schmitz.»
cercò di chiamarla il chitarrista, ma quest'ultima prese a
camminare verso casa sua, ignorandolo. «Monique.»
La ragazza inchiodò sui propri piedi, come impietrita. Si
voltò verso di lui, quasi incredula a ciò che aveva
sentito: non l'aveva mai chiamata per nome. «Forse è
meglio che non ci vediamo più.» mormorò il moro,
con il dispiacere negli occhi.
Un
forte istinto omicida andò subito a coprire quel senso di
sorpresa momentaneo.
La
prendeva in giro? Gli piaceva prendersi, per caso, gioco di lei? Una
cosa era certa: lei non era più disposta a farsi trattare in
quel modo da un ragazzo.
«Tom?»
lo chiamò, stringendo le mani a pugno. «Vattene a
'fanculo.» ringhiò per poi voltarsi ed entrare nel suo
condominio. Sbatté con tutta la forza che possedeva il
portone, causando un fortissimo frastuono lungo le scale, per poi
poggiare la schiena contro di esso e scoppiare in un pianto
ininterrotto.
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Capitolo 24 *** Epilogue. Is this a goodbye? ***
epilogue
Epilogue.
-
Is this a goodbye? -
Erano
ormai passati due mesi e mezzo e Monique era giunta al fatidico nono
mese. In tutto quel periodo non aveva conosciuto altro che lacrime,
occhiaie e tanto dolore.
Non
aveva più visto Tom dall'ultimo litigio che avevano avuto
sotto casa sua. Era successo ciò che lui aveva chiesto, eppure
lei non riusciva a toglierselo dalla testa, come una stupida
ragazzina innamorata. Aveva sempre avuto una certa attrazione per i
ragazzi che la facevano irrimediabilmente soffrire; forse perchè
in fondo le piaceva. Si era sempre considerata una masochista per
natura e la cosa non la sorprendeva più di tanto.
La
rabbia era andata a riempire anche l'animo di Jessica, la quale era
venuta a sapere di tutta la vicenda ed ora viveva in simbiosi con
Monique, ancor più di prima.
Aveva
deciso di trasferirsi a casa sua, quell'ultimo periodo in cui il
bambino sarebbe potuto nascere da un momento all'altro. In caso di
emergenza, per lo meno, avrebbe potuto assisterla con immediatezza.
La
rossa aveva partecipato solamente a tanti pianti, da parte della sua
migliore amica e ciò l'aveva semplicemente mandata in bestia.
Aveva conosciuto Tom, molto tempo prima e, sin dall'inizio, si era
sempre affidata alla sua dolcezza; aveva riposto in lui tanta fiducia
e non vedeva l'ora che finalmente si dichiarasse a Monique.
Quell'ultimo evento però, le aveva fatto cambiare radicalmente
idea. Si chiedeva come fosse possibile un comportamento simile da
parte del ragazzo e non era disposta a credere che tutto ciò
che aveva detto alla mora fosse pura verità. Doveva esserci
decisamente altro, dietro tutta quella storia.
Monique
sedeva rannicchiata sul suo divano, intenta ad osservare senza
interesse un quiz televisivo.
La
pancia era cresciuta ulteriormente e ormai sentiva solo un grande
peso in ogni cosa che faceva. Ora desiderava solamente che il giorno
del parto arrivasse il più in fretta possibile, nonostante ciò
la terrorizzasse; il suo corpo non riusciva più a reggere.
Sospirò
afflitta, quando la figura del chitarrista si fece nitida nella sua
mente: aveva immaginato di averlo accanto a lei, il giorno in cui suo
figlio sarebbe nato, pur non essendo lui il padre. Avrebbe voluto
vicino a sé le due persone che adorava con tutta se stessa,
tra cui Jessica. Quel giorno se l'era sempre immaginato così.
Forse aveva lavorato un po' troppo con la fantasia, soprattutto sulla
presenza del chitarrista, ma vi aveva affidato talmente tanto le sue
speranze che niente l'aveva portata a dubitare.
Jessica,
nel frattempo, si era seduta accanto a lei, sul divano, in religioso
silenzio. La rossa aveva capito che durante quei suoi momenti di
riflessione, di tristezza improvvisa, aveva bisogno di essere
lasciata in pace, tranquilla ed in sola compagnia del suo dispiacere.
Le aveva sempre detto che era del tutto sbagliato e deleterio quel
suo modo di fare, ma Monique non voleva saperne di rallegrarsi in
qualunque modo, perchè avrebbe sempre sentito la voce del
chitarrista nelle sue orecchie, come un tormento.
Monique
tuttavia non aveva tagliato i ponti con il resto della band,
nonostante con Tom l'avesse fatto. Ogni tanto riceveva le solite
telefonate da loro o da David, incuriositi dal suo stato e vogliosi
di essere aggiornati su progressi e situazioni. Lei, nonostante
tutto, parlava con loro con la giusta serenità; d'altronde non
c'entravano nulla, in quella strana storia.
Le
faceva male sentire la voce di Bill e nemmeno un sussurro di quella
di suo fratello, ma ogni volta pregava perchè fosse affianco a
lui, nel momento della telefonata, per sapere qualcosa di lei, pur
non dandolo a vedere. Essere sognatrice aveva sempre fatto parte
della sua natura, glielo diceva anche sua madre.
Improvvisamente
udì il telefono di casa squillare e ciò la catapultò
nuovamente nella realtà che per un momento si era allontanata
pericolosamente da lei. Si voltò verso Jessica, la quale si
alzò velocemente per rispondere, accanto a lei.
«Pronto?
Oh, ciao. Sì, sì, è qui. Te la passo.»
detto questo, Jessica passò la cornetta a Monique, che
aggrottò le sopracciglia, chiedendole con il solo uso del
labiale chi fosse.
«Pronto?»
rispose, timorosa. Per un attimo sperò di sentire la voce del
chitarrista – quasi stupidamente – ma così non fu.
«Hey,
Monique, sono Gustav.» la voce del biondino la fece
sorridere dolcemente: era sempre un piacere parlare con lui.
«Hey,
ciao.» si rannicchiò nuovamente sul divano, con il
telefono all'orecchio ed un sorriso spontaneo sul volto.
«Come
stai?» le domandò premuroso, come sempre.
«Bene,
apparte che non vedo l'ora di partorire perchè questa pancia
sta diventando insopportabile. È un miracolo che io riesca
ancora a dormire nel mio letto.» ridacchiò la mora,
torcendosi una ciocca di capelli tra le dita. Udì la lieve
risata del batterista.
«E
il piccolo? Da sempre i suoi calcetti?»
«Quelli
non mancano mai... Ultimamente sono anche aumentati. Diciamo che ci
tiene a farsi sentire.»
«Quindi
sei decisa a non sapere se è maschio o femmina, fino
all'ultimo?»
«Esatto.
Voglio fare tutto quanto inconsapevole di ciò che ne uscirà
fuori.»
«Beh,
poi ci dovrai subito chiamare per dirci se sarà un lui o una
lei.»
Monique
esitò per qualche attimo. Non parlò; semplicemente
fissò il vuoto pensierosa. Un po' di tempo prima, non le
avevano detto che per quando il piccolo ci sarebbe stato, loro
l'avrebbero visto?
Aveva
paura di porre quella domanda, ma doveva sapere.
«Scusami,
Gustav ma... Non avevate detto che... Ci sareste stati?»
«Il
progetto del tour è stato terminato prima del previsto e
quindi sono state anticipate le date. Non le avevamo ancora
confermate alle fans e un po' di tempo fa sono uscite quelle
definitive. Non te l'ha detto Tom?»
Monique
strinse il filo della cornetta con tutta la forza che possedeva.
«No...
Non me l'ha detto.» rispose freddamente.
«Beh,
perchè... Partiamo domani.» Quelle parole furono
registrate dal suo cervello qualche secondo più tardi. Fu come
se non avesse compreso appieno cosa ciò volesse dire. «Per
questo ti ho chiamato... Per chiederti se domani vieni all'aeroporto,
così ci salutiamo.» aggiunse il biondo.
Faceva
quasi fatica a respirare. Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe
arrivato ma non credeva così presto e in una situazione del
genere, che solo ultimamente si era venuta a creare.
Chiuse
gli occhi, fino a stringere le palpebre quasi violentemente. Non
sarebbe riuscita a guardare nelle pagliuzze nocciola del
chitarrista... Non sarebbe riuscita a sopportare il suo silenzio, il
suo allontanamento, il suo non volerne sapere di lei. Non voleva
uscire da quell'aeroporto con la consapevolezza di non aver salutato
solamente una persona; quella che le era stata più vicino in
quel periodo, quella che amava.
«Non
lo so, Gustav...» mormorò tremante.
Stupida,
si disse. Gli altri non c'entrano.
«Monique...
So qual'è la tua situazione con Tom, in questo momento. Però,
ci teniamo che tu ci sia. Teniamo a salutarti, d'altronde ci siamo
tutti affezionati a te e... Non è giusto che ci rimettiamo sia
te che noi, per colpa di altri fatti.» provò
nuovamente Gustav con tono speranzoso, al che Monique si rese conto
che non avrebbe mai potuto dirgli di no.
«D'accordo,
Gustav. Lo faccio solo per vedere voi.» si arrese con un lieve
sospiro. Avrebbe potuto farcela. Doveva dimostrare che lei era più
forte di un ragazzo che l'aveva presa e trattata come meglio gli era
piaciuto, senza preoccuparsi dei suoi sentimenti. Sì, lei era
più forte.
«Grazie,
Monique... Allora ci vediamo domani mattina. Alle dieci in aeroporto,
d'accordo?»
«D'accordo.»
«A
domani.»
Passò
la cornetta a Jessica, con lo sguardo perso nel vuoto e come
un'automa. La rossa la prese e la ripose al suo posto, per poi
tornare a scrutarla incuriosita.
«Domani
partono.» soffiò Monique, senza guardarla, proprio
mentre sentiva un improvviso bruciore prendere spazio nei suoi occhi,
ormai fin troppo conosciuto.
**
Guardava
l'entrata di quell'aeroporto con distacco, da dietro il finestrino
dell'auto di Jessica. Si stringeva spasmodicamente le mani, esitando
sul da farsi. Poteva nitidamente riconoscere le figure dei ragazzi al
di là del vetro. Tutti aspettavano il suo arrivo. Tutti,
forse, eccetto uno.
Dannato
coraggio, veniva sempre a mancare quando si trattava di dare
dimostrazione a qualcuno. Maggiormente se questo qualcuno era il
ragazzo per cui aveva irrimediabilmente perso la testa.
«Dai...
Prima o poi lo devi affrontare.» la incoraggiò
mestamente la rossa, affianco a lei e con tono lieve. Solamente lei
era in grado di capire cosa provasse nel profondo. Quel senso di
amore infinito, accompagnato ad odio profondo. La felicità ed
il rifiuto nel doverlo rivedere dopo due mesi e mezzo di completo
silenzio. Tante domande, come sempre, andavano a formularsi nella sua
mente.
Come
avrebbe reagito nel rivederla? Avrebbe avuto il coraggio di
salutarla, dopo quello che si erano detti?
Decise
che rimanere in quella macchina a pensare sulle varie possibilità
era del tutto inutile; l'unico modo per scoprirlo era uscire di lì
e camminare dritta in contro alla realtà.
Sospirò
pesantemente e finalmente decise di scendere dall'autoveicolo. Salutò
Jessica con un gesto della mano: sapeva che sarebbe rimasta lì
in macchina, fino al suo ritorno, e forse era meglio così.
Avrebbe dovuto affrontare tutta quella situazione da sola, con le
proprie gambe.
Sentiva
il cuore scoppiarle da un momento all'altro in petto, mano a mano che
la distanza fra loro diminuiva. Le ante scorrevoli si aprirono
davanti a lei, non appena vi fu di fronte, e l'immagine della band si
fece più chiara. Il primo a vederla fu Georg, il quale si
illuminò in un radioso sorriso e le fece un cenno con la mano.
Avanti,
Monique, continuava a ripetersi mentalmente, mentre camminava
verso di loro. Gli occhi, per un attimo si posarono sul chitarrista e
rabbrividì nel constatare che quest'ultimo la guardava con
espressione affranta in viso. Non sembravano pochi mesi a
separarli... Sembravano infiniti anni.
«Ciao,
Monique.» la salutò calorosamente David, per poi
abbracciarla con affetto, facendo ben attenzione a non darle fastidio
al ventre. «Ma guarda questa pancia com'è cresciuta!»
esclamò entusiasta, subito dopo essersi separato da lei, la
quale sorrise intimidita.
«Già.»
mormorò.
«Non
puoi capire quanto mi scoccia non poter essere presente al momento
del parto! Avrei voluto vedere il fagottino sin dalla nascita,
accidenti!» si lamentò Bill, sbattendo uno stivale per
terra, com'era solito fare nei suoi momenti in cui i capricci
prendevano piede.
«Si
vede che doveva andare così. Se vuoi ti manderò una
foto.» ridacchiò Monique, ma ancora a disagio. Il
chitarrista era a qualche centimetro da lei, anche se non troppo
ravvicinato, e continuava a scrutarla in silenzio.
«Sì,
voglio la foto!» esclamò entusiasta il vocalist,
battendo ripetutamente le mani.
Monique
sorrise: quel simpatico vizio non se l'era ancora tolto.
«Sei
già al nono mese, vero?» domandò Georg.
«Sì,
tra non molto dovrebbe nascere.» annuì la mora, con una
lieve nota di emozione nella voce.
Non
credeva fosse possibile che un domani sarebbe stata entusiasta della
nascita del suo bambino o della sua bambina. Dal primo giorno aveva
odiato quell'esserino che lentamente si formava dentro di lei ma, con
il passare del tempo, non aveva potuto fare a meno di accettarlo e
soprattutto di amarlo. Aveva ancora seri dubbi su come sarebbe stata
in grado di crescerlo ma ultimamente aveva cercato di essere più
positiva a riguardo, anche con l'aiuto di Jessica che, sapeva, le
sarebbe sempre stata accanto, ad ogni difficoltà.
«Non
farcelo qui in aeroporto, mi raccomando.» scherzò
Gustav. Monique scoppiò a ridere.
«Penso
sia questione di giorni, non di minuti!» esclamò
divertita. «Comunque... Quando vi rivedrò?»
domandò successivamente, con timidezza, decisa a non degnare
di un solo sguardo Tom.
«Non
ne abbiamo la più pallida idea, anche perchè dopo il
tour dovranno tenere tantissime interviste, saremo sempre in viaggio,
tra Asia, America o altro. Non te lo so dire.» rispose David,
in tutta sincerità. «Sappi solo che ti vorrò di
nuovo al lavoro, eh.» le sorrise successivamente.
Monique
si sentì attraversata da una scossa elettrica.
Tornare
a lavorare per loro, non appena avrebbe potuto? Ciò
significava tornare a stare in contatto con il chitarrista per molte
ore della giornata? Non era convinta che per quel momento lo avrebbe
rimosso dalla testa e soprattutto dal cuore ma, d'altro canto, era
l'unico lavoro sicuro che possedeva.
«D'accordo.»
sorrise appena, abbassando lo sguardo sui suoi piedi, con fare
impacciato.
«E
ogni tanto porta il piccolo o la piccola allo studio, così ci
gioco un po' e svolgo i miei doveri di zio!» esclamò
Bill. «E ricordati che se sarà maschio, avrà come
secondo nome il mio!» aggiunse con sguardo altezzoso.
«Sì,
Bill, io mantengo le promesse.» rise Monique.
«Ragazzi,
forse è arrivato il momento dei saluti. Tra non molto avverrà
il check in.» annunciò David, con un gran dispiacere
negli occhi. «Ciao, piccolina. Ci vediamo, spero, presto. E
auguri per il piccolo o la piccola.» disse poi, abbracciando
affettuosamente la mora, la quale ricambiò la stretta. Non
seppe dire come mai le si formò un gran magone in gola,
d'altronde li avrebbe rivisti prima o dopo. Si premurò di dare
la colpa alla sua gravidanza, la quale la rendeva più
suscettibile e più facile alle lacrime, da qualche tempo.
Abbracciò,
uno ad uno, ogni componente della band, escluso Tom. A dire il vero,
era talmente frastornata che non capì nemmeno dove fosse.
Aveva paura di ricevere un'ennesima delusione, la mazzata finale;
quella che l'avrebbe fatta tornare a casa a pezzi.
Dopo
aver ricevuto l'ultimo bacio sulla guancia da parte di Bill, li vide
allontanarsi appena. Delusa, si voltò per uscire da
quell'aeroporto ma una voce ormai fin troppo conosciuta, la fece
inchiodare e sobbalzare.
«Monique.»
Tremante ed incontrollata, si voltò lentamente nella direzione
da cui proveniva quel piacevole e caldo richiamo. Di fronte a lei,
Tom la osservava timido e triste. Sentir pronunciare il proprio nome
per la seconda volta dal chitarrista era un qualcosa di
indescrivibile. Milioni di brividi si protrassero lungo tutto il suo
corpo. Non disse nulla semplicemente perchè nessuna parola
intelligente o adatta alla situazione le veniva in mente. Se l'aveva
fermata un motivo vi era e lui sapeva cosa dirle, perciò
decise di attendere una sua qualunque frase. «Volevo... Dirti
una cosa.» mormorò il chitarrista, stringendosi le mani.
Quell'azione nervosa non passò inosservata a Monique, la quale
non si sentiva da meno. Una grande ansia, accompagnata a voglia di
stringere forte a sé il ragazzo, si liberò in lei. «Ti
ricordi quando ti ho detto che non volevo illuderti con false
speranze?» le domandò cautamente. La mora si limitò
ad annuire appena, perchè altro non riusciva a fare. «Vedi...
La mia vita è fatta di questo: viaggi, concerti, groupies,
alcol. Io, non sono in grado di prendermi cura di te e non sono
soprattutto in grado di prendermi cura di un bambino. Sapevo che
sarebbe arrivato presto il momento in cui io sarei dovuto andare via
e per questo mi sono sempre spaccato la testa in quattro per non
farmi prendere da te e per far sì che tu non facessi lo stesso
con me. In macchina mi hai chiesto una spiegazione e io te la sto
dando: in tutto questo tempo, dal primo giorno in cui tu hai messo
piede nel nostro studio, io ho avuto paura di te. Sapevo che eri una
minaccia per me e che saresti stata una ragazza in grado di mandarmi
fuori di testa. Perchè eri dannatamente bella, perchè
eri dolce ed altruista, perchè eri così indifesa che
avevo voglia di proteggerti da tutto e da tutti. Ma al tempo stesso
sapevo che non avrei potuto e forse non avrei neanche saputo farlo,
in vista di questi avvenimenti. Non potremmo stare insieme, capisci,
Monique? Semplicemente perchè non riuscirei a sopportare la
troppa lontananza e, conoscendomi, non riuscirei neanche ad esserti
fedele. Stiamo parlando di tanti mesi di distacco, non di qualche
giorno ed io sono pur sempre un ragazzo con i propri bisogni. Per di
più un ragazzo che mai ha provato l'amore, quello vero. E io
non vorrei vederti stare male per me... Non di nuovo. È per
questo che ho sempre cercato di tenerti lontana, inizialmente,
trattandoti perfino male. Non volevo che tu ti affezionassi a me,
perchè poi io avrei fatto lo stesso con te e sarebbe stato più
difficile porre un muro fra noi due. Ma poi non sono riuscito a
negare l'evidenza e cioè che io sono sempre stato preso da te
e più continuavo a convincermi del contrario, più i
dubbi aumentavano, rendendomi nervoso. Questo spiega tutti gli errori
che ho fatto, avvicinandomi ulteriormente a te, con baci, tenerezze
e... L'ultima cosa che ho fatto. Perchè ho cercato di usare
sempre razionalità ma il mio istinto non ha potuto fare a meno
di agire quando più ne sentiva il bisogno. Averti vicino è
sempre stata una tortura, dico sul serio, eppure mi ero talmente
tanto preso a cuore la tua gravidanza che non avrei potuto ignorarti.
Mi dispiace se alla fine non sono riuscito a tenerti lontana da me e
che in tutto questo tempo ti ho solamente confuso le idee e fatto del
male; non era assolutamente mia intenzione. Spero solo tu abbia
capito il mio punto di vista e mi possa perdonare.»
Sapeva
che non sarebbe riuscita a reggere quello sguardo penetrante un
secondo di più.
Era
semplicemente incredula; in pochi secondi aveva risposto ad ogni
singola domanda che si era posta in tanti mesi, diventando pazza.
Tutto quel tempo a chiedersi cosa mai passasse per la testa del
chitarrista ed alla fine la risposta era semplice. Aveva sempre
escluso la possibilità che potesse essere attratto da lei, a
priori. Non perchè non l'avesse presa in considerazione, ma
perchè le pareva semplicemente assurdo e troppo bello e
semplice per essere vero. Non poteva negare di aver dubitato a
riguardo, in certi momenti, ma poi la sua mente era sempre tornata a
formulare ipotesi decisamente più pessimistiche e finalizzate
a provocarle ulteriore dolore.
Ora
si sentiva combattuta: da una parte, quella istintiva, si sentiva
felice di tale ammissione perchè ciò voleva dire che
non si era solamente fatta tanti film su loro due ma che ciò
era passato anche per il cervello del chitarrista; dall'altra, quella
dannatamente razionale, si sentiva furiosa. Si sentiva furiosa perchè
avrebbe potuto risparmiare tanti mesi di agonia, tanti mesi di
interrogativi e speranze sui sentimenti del ragazzo, quando in realtà
era tutto molto più semplice. Era stato solamente esasperato e
complicato dal moro, pur non avendolo fatto intenzionalmente, come le
aveva detto.
Abbassò
lo sguardo, stringendo le mani a pugno, nelle tasche del cappotto. Si
sentiva quasi presa in giro.
«So
che ti sentirai furiosa con me e non ti biasimo. Avrei potuto
risparmiarti tanti nervosismi, soprattutto perchè sei incinta.
Ma d'altro canto sono un ragazzo giovane e di errori e casini, a
quest'età, se ne commettono spesso. Non voglio assolutamente
giustificarmi ma... E' la verità.» disse mortificato.
«Tom,
muoviti, dobbiamo fare il check in!» gridò a qualche
metro di distanza il vocalist, non consapevole di ciò che nel
frattempo fra Tom e Monique stava accadendo.
«Bill,
un secondo, arrivo, cazzo!» esclamò nervosamente,
tornando poi ad osservare la mora in viso. «Ti prego, dimmi per
lo meno qualcosa. Non farmi partire in questo modo, senza avermi
assicurato che non mi odi.» la implorò con sguardo
timoroso.
Monique
non sapeva nemmeno che dire. Si sentiva strana, come non si trovasse
realmente in quell'aeroporto. Voleva allontanarlo da sé ma
allo stesso tempo non voleva separarsi da lui. Ed il tempo stava
scorrendo decisamente troppo in fretta per permetterle di ragionare
con la giusta calma.
«Non
so cosa vorresti che ti dicessi... I fatti sono questi e...
Sinceramente non saprei che dire. Qualunque cosa sarebbe inutile;
d'altronde, sei stato chiaro: fra noi non può esserci nulla.
Quindi, più che dirti “Ciao, Tom, fai buon viaggio”, non
saprei che fare.» mormorò apatica. Una frase priva di
enfasi, priva di rabbia... Solamente colma di tanta rassegnazione ed
impotenza.
«No,
Monique, per favore, non...»
«Tom!
Cosa vuoi che ti dica?! Mi hai appena chiuso una porta in faccia!
Pretendi che io ti salti addosso e ti abbracci con tutte le mie
forze, ripetendoti quanto io tenga a te e quanto mi mancherai?! Sono
una persona e ho dei sentimenti anche io! Mi sento ferita, mi pare
normale!»
«Io
non pretendo che tu faccia questo, ti chiedo solo di non guardarmi
con quegli occhi delusi. Fa male.»
«Anche
a me fa male tutto questo, Tom.»
«Lo
so e mi sento una merda, in questo momento, lo giuro!»
«E
quindi? Non riesco a capire cosa vuoi da me!»
«Vorrei
poter partire senza alcun rancore da parte tua. Vorrei poter tornare
a Berlino e sapere che posso salutarti con il sorriso in faccia.»
Monique
restò qualche attimo in silenzio, meditabonda su quelle
parole. Non poteva affrontare tutto ciò con quella
superficialità. Le cose non potevano tornare a posto da un
secondo all'altro. Non era un corpo esanime pronto a subire qualsiasi
pugnalata, senza percepire dolore.
Lo
scrutò attentamente, come rapita, fino a che non sollevò
con lentezza la mano per posarla sul suo braccio.
«Sono
contenta che tu riesca ad affrontare tutto quanto in modo così
semplice, Tom... Sono davvero contenta per te. Fai buon viaggio.»
disse affranta, facendo per voltarsi verso l'uscita, quando il
ragazzo la afferrò delicatamente per la mano.
«Monique,
per favore...» provò nuovamente, fino a che David, da
lontano, non richiamò la sua attenzione con maggiore enfasi.
Tom strinse gli occhi combattuto e pressato. «Per favore...»
ripetè in un soffio, dopo averli riaperti lentamente. Monique
si sentì come trafitta da una lamina tagliente, in quello
stesso istante. Sentiva che stava per scoppiare irrimediabilmente in
lacrime, ma non l'avrebbe fatto davanti a lui.
«Mi
mancherai.» sorrise appena, con gli occhi lucidi ed uno sguardo
triste in viso.
I
secondi in cui percepì le loro mani calde e lisce scivolare
fra loro, allontanandosi millimetro dopo millimetro sempre di più,
furono l'ultimo brivido che il suo cuore ebbe il piacere di provare
con lui, prima di osservare quell'aereo bianco sfrecciare veloce nel
cielo limpido ed infinito di Berlino.
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