What if...?

di _KyRa_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** One. Bowing to the facts ***
Capitolo 3: *** Two. Fear of the truth ***
Capitolo 4: *** Three. Enigmatic ***
Capitolo 5: *** Four. Metter of knowledge ***
Capitolo 6: *** Five. Further lies ***
Capitolo 7: *** Six. A lift by the enemy ***
Capitolo 8: *** Seven. You'll be a great mum ***
Capitolo 9: *** Eight. First signs ***
Capitolo 10: *** Nine. Risk ***
Capitolo 11: *** Ten. Unexplainable explanations ***
Capitolo 12: *** Eleven. Damned collapse ***
Capitolo 13: *** Twelve. A good reason ***
Capitolo 14: *** Thirteen. Turning point? ***
Capitolo 15: *** Fourteen. Come back to reality ***
Capitolo 16: *** Fifteen. Welcome to Malaysia ***
Capitolo 17: *** Sixteen. Illusion ***
Capitolo 18: *** Seventeen. He'll take care of her ***
Capitolo 19: *** Eighteen. Trembling ***
Capitolo 20: *** Nineteen. Living in clearness ***
Capitolo 21: *** Twenty. You have really disappointed me ***
Capitolo 22: *** Twenty-One. Yielding ***
Capitolo 23: *** Twenty-Two. Fuck you ***
Capitolo 24: *** Epilogue. Is this a goodbye? ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


prologue

Prologue.



La sua immagine riflessa nello specchio le riportava alla mente ciò che di più duro doveva affrontare nella sua vita; ciò che di lì a poco le avrebbe stravolto l'esistenza. Sentiva ancora l'amaro in bocca, sentiva di non essere assolutamente pronta a tutto quello. Era come se qualcuno la avesse presa di forza, per un braccio, e posta davanti al suo destino, vedendolo vorticare sempre più in basso, sempre più nel vuoto, in mezzo al quale si trovava.

Non riusciva a risalire; non riusciva a tornare a galla, in quell'oceano di tormenti, per respirare; aveva bisogno di ossigeno, ma non riusciva ad ottenerlo, continuando a lottare con se stessa.

I suoi occhi spenti la fissavano attraverso lo specchio, facendola sentire per un attimo sotto accusa o sporca di un qualche crimine non commesso. Si vergognava di se stessa; percepiva la voglia incontenibile di allungare le mani verso quella sua figura riflessa, torturandola dal dolore.

Chi era diventata? Un'estranea ai suoi occhi; non si riconosceva più. O forse non voleva accettare il fatto che quella persona fosse proprio lei, ostinandosi a nascondersi dietro una maschera che non le apparteneva, fatta solo di odio sconfinato.

Non avrebbe dovuto permettere al destino di decidere per lei. Lei avrebbe dovuto essere la padrona assoluta delle sue scelte e non aveva assolutamente bisogno dell'intervento di qualcun altro. Era sempre stata capace di gestire tutto quanto.

E allora come mai la situazione le era completamente sfuggita di mano a quel modo? Perchè si trattava solamente di fesserie: lei non era davvero in grado di gestire se stessa, non era in grado di proteggersi, né tanto meno di costruire la strada della sua vita, piastrella dopo piastrella, come credeva.

I suoi occhi non tardarono a calare sul suo ventre, facendola sentire tremendamente in colpa.

Non era quello che aveva sempre desiderato, non era quello di cui aveva bisogno in quel momento. Si sentiva ancora una bambina, piccola, immatura. Come poteva solo lontanamente pensare di compiere un salto talmente grande da gravare sulla sua intera vita?

Mai come quella volta si era odiata tanto.

Mai come quella volta aveva desiderato ardentemente di farsi del male.


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Capitolo 2
*** One. Bowing to the facts ***


bowng to the facts

Chapter One.
- Bowing to the facts -



Il rumore dei suoi passi fu l'unica cosa in grado di udire lungo quell'infinito corridoio; la cartellina dove teneva tutte le sue schede era stretta al suo petto, quasi con fare protettivo. Lei era così: attenta e protettiva con qualunque cosa fosse sua.

Non tardò molto prima che arrivasse nel suo ufficio. Il buio l'avvolse e, dopo aver posato alla cieca la cartellina sulla sua scrivania, raggiunse le finestre per sollevare le persiane, permettendo alla luce di fare il proprio ingresso in quella stanza. Aprì un'anta per far sì che un po' d'aria tedesca la rinfrescasse e successivamente andò a sedersi sulla sua poltrona in pelle nera. Mentre si accingeva ad aprire la cartellina, buttò un occhio all'orologio appeso alla parete. Le otto: di lì a poco sarebbero arrivati i ragazzi, tra cui il suo incubo ricorrente.

La sua famiglia non era mai stata molto agiata e di certo non poteva dire di aver sempre galleggiato nell'oro. Molto modesta, comprendeva sua madre – una donna di mezza età che faceva la casalinga – e suo padre, il quale doveva riuscire a far trovare il pane in casa grazie al solo aiuto del suo sudore. Nonostante questo, Monique non ne aveva mai risentito. Aveva sempre vissuto nell'assoluta normalità ed i suoi genitori non le avevano mai fatto mancare nulla. I problemi però avevano cominciato a sorgere una volta abbandonata la sua casa nativa, per trasferirsi in un monolocale e vivere da sola. Iniziava a capire cosa volesse dire lavorare e faticare per mantenersi, caricarsi di molte responsabilità di cui forse prima non conosceva nemmeno l'esistenza.

La fortuna le aveva concesso di trovare un lavoro come traduttrice. Avendo studiato l'inglese, lo spagnolo, il francese e l'italiano, non le era rimasto difficile ottenere quel posto a soli vent'anni, per di più per le ultime persone che avrebbe mai immaginato: i Tokio Hotel, la band tedesca più famosa del momento.

Con lei erano sempre stati tutti molto gentili, eccetto uno.

Tom Kaulitz – chiamato anche “SexGott”, “Gemello Cattivo”, “Sex Machine” e quant'altro – l'aveva presa in antipatia sin dal primo giorno e lei non aveva mai perso tempo a capire quale fosse il reale motivo. Tutto ciò che doveva fare con lui, era non perdere le staffe, o avrebbe perso anche quell'importante lavoro con la stessa velocità con cui l'aveva trovato, ed era decisamente l'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento.

Ora la situazione le era sfuggita di mano... Totalmente. Come avrebbe potuto confessare ai suoi datori di lavoro la realtà che si era venuta a creare? Il licenziamento sarebbe stato sicuramente immediato.

Scoprire di essere incinta, per di più di uno stronzo, era stato come cadere in un burrone... Cadere, cadere, senza fermarsi mai. La fine di quel burrone non giungeva e lei continuava a rotolare, giorno dopo giorno.

Una cosa era certa: nessuno sarebbe dovuto venire a conoscenza della sua gravidanza.

«Buon giorno, Monique!» un Bill raggiante come sempre, fece il suo allegro ingresso nell'ufficio, facendola bruscamente risvegliare dai propri pensieri. Le venne automatico portare una mano alla pancia, come a nascondere un qualcosa che ancora non poteva vedersi.

«Buon giorno, Bill.» sorrise lei cordialmente, dandosi della stupida mentalmente e riportando entrambe le mani sulla scrivania.

«Tra poco arriverà David con tutte le lettere delle fans.» le riferì. Monique annuì pensierosa. Guardò oltre le spalle del vocalist e non poté fare a meno di notare che il suo acerrimo nemico mancava all'appello, assieme a Georg e Gustav.

«Oggi sei da solo?» domandò piuttosto interessata e parzialmente sollevata al pensiero di trascorrere una giornata senza l'ombra inquietante del chitarrista che la teneva sott'occhio ad ogni minima mossa, pronto a criticare qualunque cosa vedesse fuori posto.

«No no, adesso gli altri arrivano. Si sono fermati alla macchinetta del caffè.» rispose gentilmente il moro.

Non aveva nulla a che fare con suo fratello Tom, e questo Monique continuava a pensarlo. Erano uno l'opposto dell'altro, nonostante fossero gemelli. Uno così gentile, generoso, dolce... L'altro rozzo, egoista e freddo. Poche volte rifletteva sul fatto che forse quel ragazzo volesse apparire a quel modo ma che in fondo nascondesse qualcosa di buono, ma ogni volta si trovava costretta a ricredersi.

Improvvisamente vide i tre ragazzi mancanti fare il loro ingresso nella stanza. Georg e Gustav la salutarono con il dovuto garbo, come sempre, mentre Tom – non che questo la sorprendesse – si limitò a grugnire un “Ciao”, decisamente poco interessato.

Ma per la prima volta non ne fece una questione personale e non si lasciò pervadere da ulteriore nervoso: al momento aveva problemi molto più pesanti di quello.

«Eccomi qua!» esclamò il manager della band, facendo irruzione tra di loro: un uomo giovane, di bell'aspetto e perennemente di buon umore, capace così di fare invidia a chiunque.

Posò una pila di fogli sulla scrivania di Monique, sorridendole cordialmente. «Ecco tutte le lettere delle fans. Avrai un bel da fare, sono il doppio dell'ultima volta.» disse con entusiasmo, come se questo potesse rallegrare Monique. Quest'ultima tirò le labbra in un sorriso forzato ed annuì, fingendosi interessata. «Buon lavoro, allora! Venite ragazzi.» concluse l'uomo, uscendo dall'ufficio.

«Ci vediamo più tardi.» le disse Bill, per poi seguire il passo del manager, assieme agli altri ragazzi.

Di nuovo sola, sospirò pesantemente, tornando ad accarezzarsi la pancia. Non voleva un bambino, non poteva averlo. Non era il momento... Non aveva né i soldi, né il tempo, né le capacità.

Le lacrime minacciarono di sgorgare dai propri occhi ma, preso un bel respiro e deglutendo il magone che le si era venuto a formare in gola, recuperò la prima lettera, prendendo a leggerla. Accanto a sé preparò un altro foglio bianco, sul quale scrisse successivamente la traduzione.

Nel suo lavoro aveva sempre dato il massimo, come in tutte le cose che faceva. Si era sempre impegnata fino alla morte e – cosa più importante – non si era mai lamentata. Come poteva una semplice creatura arrivare all'improvviso e distruggere quell'equilibrio che era riuscita a creare nella sua vita? Era troppo giovane ed aveva ancora tanto – forse troppo – da scoprire nel suo cammino, attraverso gli occhi infantili di una bambina. Perchè era così che si sentiva in quel momento: una bambina cresciuta troppo in fretta; una bambina che presto si sarebbe dovuta prendere cura di un altro bambino.

La penna sembrava marcare da sé quelle parole sul foglio. Non vi stava prestando particolare attenzione e di conseguenza non sapeva se quello che stava scrivendo potesse racchiudere un qualche senso logico; ma non riusciva nemmeno a ritrovare la concentrazione ormai persa.

Un improvviso tonfo sulla scrivania la fece sobbalzare violentemente, mentre il cuore prendeva a batterle furiosamente in petto. Quando sollevò lo sguardo trovò davanti a sé Tom, che la guardava con sguardo glaciale e disinteressato.

«David si è dimenticato di darti queste.» le disse freddamente, alludendo al mucchio di lettere che le aveva buttato malamente sul tavolo. Monique lo guardò attentamente negli occhi, non sapendo esattamente che dire.

«Sono altre lettere che devo tradurre?» domandò accigliata, sentendo la disperazione montarle dalle dita dei piedi, fino alla testa.

«Tu che dici?» rispose sgarbatamente e piuttosto scocciato il ragazzo. Monique annuì sorpresa. «Non ti paghiamo per girarti i pollici; dovresti solamente gioire alla vista di così tanto lavoro.» aggiunse quasi sprezzante. Un brivido di rabbia scosse Monique.

«Con tutto il rispetto, Tom... E' David che mi paga.» ribattè, pentendosene subito dopo, quando vide lo sguardo gelido di Tom posarsi sulla sua figura, mettendola dannatamente in soggezione.

«Ricordati che ad un mio schiocco di dita, tu perdi il lavoro, Schmitz. Quindi attenta a come parli. Ora continua il tuo lavoro.» fu poco più di un sussurro quello di Tom, a qualche centimetro di distanza dal viso di Monique che aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo. Guardò le spalle del moro mentre usciva dalla stanza, ripetendosi mentalmente che avrebbe dovuto astenersi dal rispondergli male o dal provocarlo: aveva ragione, ad un suo schiocco di dita, sarebbe uscita di lì di corsa e questo non poteva permetterselo. Non ora.


**


Gli occhi le si chiudevano, reclamando un po' di sana pausa, la sua mano doleva dal troppo scrivere ed il suo cervello stava letteralmente andando in panne, per lo sforzo di entrare mentalmente in una lingua diversa ogni cinque minuti. Si trovò a maledire mentalmente tutto quel successo che i quattro ragazzi avevano ottenuto, attorniandosi di infinite fan in preda a crisi ormonali e – doveva ammetterlo – dotate di una particolare fantasia nel riportare su carta dichiarazioni d'amore.

Le mancavano ancora tre lettere ed avrebbe finalmente terminato, per quella mattina. Erano le undici passate ed il suo turno sarebbe finito a mezzogiorno.

Aveva una terribile voglia di correre via di lì. Ogni secondo che passava lì dentro equivaleva all'ansia – inutile – di venire scoperta. Temeva che qualcuno venisse a sapere che era incinta, solamente guardandola negli occhi. Quello era il motivo per cui si era rifiutata di osservare nelle pupille chiunque, quel giorno, o almeno per non più di tre secondi.

Quando finalmente anche l'ultima lettera fu tradotta e la penna venne posata sulla scrivania, prese a stiracchiarsi sulla poltrona, chiudendo gli occhi, per poi massaggiarli appena con i polpastrelli. Aveva bisogno di riposare... Si sentiva eccessivamente stanca; più del solito, e la cosa la mandava in bestia, conoscendo perfettamente la causa di quella fastidiosa fiacca.

Prese i fogli bianchi che le erano avanzati e li ripose nella sua cartelletta, per poi alzarsi dalla poltrona. Dopo aver riordinato il tutto, si avviò verso l'uscita del suo ufficio, alla ricerca di David. Finalmente lo trovò intento ad osservare i suoi ragazzi suonare all'interno di una stanza insonorizzata, attraverso il vetro. Monique si fermò alle sue spalle, buttando un occhio nella stessa direzione: erano tutti straordinariamente concentrati in ciò che facevano e sembrava che attorno a loro non esistesse altro.

«Ho finito.» annunciò poi al manager, senza però staccare gli occhi dai quattro ragazzi. L'uomo, forse preso alla sprovvista, voltò di scatto il viso verso di lei, per poi sorriderle.

«Perfetto, allora, se vuoi, puoi andare.» le disse, tornando ad osservare la band.

«D'accordo. A domani.» rispose lei, dandogli le spalle e prendendo a camminare lungo il corridoio.

«Ah, Monique, una cosa.» si sentì richiamare quasi subito dal manager. Si voltò nuovamente verso di lui e lo vide venirle in contro. «Come sai, fra tre giorni i ragazzi saranno in Francia a tenere un'intervista ed un servizio fotografico. Mi serviresti per l'intervista. Te la senti di venire con noi? È questione di un giorno. Quello successivo saremo già di ritorno.» le domandò speranzoso.

Monique poté avvertire forte e chiaro un brivido di timore lungo la colonna vertebrale. Quello avrebbe significato dormire fuori casa: non se la sentiva di abbandonarla in quel momento, per qualunque motivo. Si fosse sentita male, se ne sarebbero sicuramente accorti tutti ed a quel punto la verità sarebbe venuta fuori con una certa ovvietà. Ma come avrebbe potuto giustificare al manager un suo rifiuto? Non aveva mai declinato una proposta del genere – che tra l'altro le avrebbe portato in tasca molti soldi – e più di una volta le era capitato di viaggiare assieme alla band, ma in circostanze leggermente diverse.

Sospirò appena e poi annuì.

«Certo. Verrò.» affermò, non troppo convinta. Questo parve passare inosservato a David che sorrise raggiante.

«Grazie, Monique. Allora, ci vediamo domani.» concluse il manager, voltandole le spalle ed allontanandosi da lei.

Lo sguardo della ragazza si incupì, mentre tornava a camminare verso l'uscita dello studio di registrazione.

Aveva accettato. Era stata una stupida e tutto perchè non aveva il coraggio di esporsi. Era una gravidanza quella che si stava preparando ad affrontare, non una partita a carte.

Sbuffò sonoramente, sbattendo la portiera della sua macchina e si voltò a guardare il vialetto, mentre ingranava la retromarcia. In pochi secondi si trovò fuori dal cancello e sulla strada che l'avrebbe riportata a casa.


**


Sbatté la porta del monolocale per poi buttare malamente le chiavi sulla ribaltina, affianco ad essa. Si diresse in cucina, decisa a trovare qualcosa da mangiare che avrebbe alleviato per lo meno i suoi nervi. Rovistò maldestramente nella dispensa, impaziente di sentire del cibo sotto i suoi denti, e ne tirò fuori una busta di patatine. Sapeva che le avrebbe fatto male e che non avrebbe dovuto per cause di forza maggiore, ma la fame nervosa chiamava.

Andò a sedersi sul divano ed accese la televisione, prendendo a cambiare continuamente canale, non riuscendo a trovarne uno che le interessasse davvero.

La verità era che non ne aveva la testa: i suoi pensieri erano altri e di certo un programma televisivo non l'avrebbe distolta da essi. Ancora si chiedeva come potesse essere arrivata a quel punto.

La sua storia con quel bastardo di Christian era cominciata un anno prima. Lui aveva due anni in più di lei e sin dal primo momento le aveva fatto credere di provare qualcosa di forte nei suoi confronti. Lei, da brava ragazza innamorata ed ingenua quale era, gli aveva creduto. Ovviamente con il passare del tempo, quando aveva deciso di concedersi totalmente a lui, la loro relazione era andata avanti solo di quello: sesso. Non esisteva più il dialogo, non esistevano più i sorrisi, le carezze disinteressate, le giornate passate a divertirsi, le parole dolci che si erano sempre detti inizialmente. La sua bella favola si era velocemente trasformata in un incubo.

L'abitudine di aspettarlo nel letto, già quasi del tutto priva di vestiti, alla sera, quando lui tornava tardi dal lavoro, semplicemente per il fatto che sapeva già come si sarebbe conclusa la nottata. Non una parola nel mentre. A volte nemmeno la salutava quando rientrava: si infilava nel letto, avvinghiandosi velocemente a lei, senza prima preoccuparsi di constatare che non stesse dormendo o non stesse male.

Sfortuna volle che in una di quelle tante occasioni era riuscito a metterla incinta. Non che l'avesse fatto di proposito, anzi... Lui odiava il solo pensiero dei bambini. Per questo motivo, quando due settimane prima gli aveva riferito di essere incinta, lui aveva deciso di sparire velocemente dalla sua vita, ritenendo di non essere pronto a mettere su famiglia a soli ventidue anni.

Ma neanche lei era pronta: aveva vent'anni. Cosa poteva fare? Anche lei doveva scappare? Ma pur scappando non avrebbe risolto niente; quell'esserino sarebbe rimasto nel suo grembo, l'avrebbe seguita ovunque, pretendendo di venire al mondo.

Soffocò un singhiozzo, portandosi alla bocca l'ennesimo pugno di patatine, con violenza.

Improvvisamente udì il campanello trillare. Sollevò gli occhi al soffitto, cercando di asciugarsi le lacrime che le si erano accumulate su di essi e, dopo aver poggiato il sacchetto di patatine sul tavolino di fronte al divano, camminò velocemente verso la porta per aprirla. Davanti a sé trovò la figura sorridente – nascondente però una nota malinconica negli occhi – della sua migliore amica, Jessica.

Quella ragazza dai capelli rossi era l'unico appiglio sicuro nella sua vita. Le era sempre stata vicino nei momenti di bisogno e non aveva esitato a farlo anche a quell'ultima rivelazione.

«Come stai?» le chiese retoricamente Jessica, entrando in casa mentre Monique richiudeva la porta.

«Potrei stare decisamente meglio.» rispose la mora con sguardo spento, dirigendosi poi nuovamente al divano, seguita dalla rossa che si sedette affianco a lei.

«Vedo che hai trovato il modo di scaricare i nervi.» notò Jessica, prendendo la busta di patatine e poggiandosela in grembo. «Devo ricordarti che fa male a lui o lei questa roba?» continuò, osservandola attentamente. Monique grugnì, strappandogliela dalle mani.

«Lo so, ma se permetti devo ancora cercare di entrare nella logica di essere incinta.» ribattè, riprendendo a mangiare spasmodicamente, sotto lo sguardo critico di Jessica.

«Dovresti farlo in fretta. Il primo mese è quasi terminato.» si premurò di rammentarle la rossa, poggiandosi meglio sullo schienale del divano. Monique sospirò scocciata e buttò il sacchetto ormai vuoto sul tavolino.

«Sei venuta per farmi la paternale? Non ne ho bisogno, grazie, sono già abbastanza disperata.» disse, alzandosi dal divano per entrare in cucina a prendere un sacchettino di caramelle gommose. Quando tornò a sedersi sul divano, Jessica sgranò gli occhi, strappandole di mano quell'ulteriore attentato alla salute.

«Ma sei impazzita?! Controllati, Monique! Sei incinta! Incinta! Non so se ti è chiaro!» le sbraitò contro. Monique sentì la rabbia farsi velocemente strada dentro di lei, gli occhi pizzicare e la gola chiudersi a causa di un fastidioso magone.

«Lo so! Lo so che sono incinta! E credimi, è l'ultima cosa che volevo capitasse! Non c'è bisogno che continui a ripetermelo, come se io non l'avessi ancora capito! Mi sta distruggendo la vita, mi sta rovinando! Vuoi che non me ne sia accorta?!» quelle urla avevano zittito Jessica, portandola a mordersi la lingua dallo spavento.

Monique non voleva qualcuno che le ricordasse quello che stava passando. Lo stava capendo fin troppo bene e sapeva che non poteva tornare indietro. Era già di per sé troppo doloroso da accettare, e sentirsi le prediche dalla sua migliore amica, l'unica persona in grado di capirla veramente, era piuttosto demoralizzante.

Sentì le lacrime calde e salate farsi lentamente strada lungo le sue gote arrossate. Una disperazione incontenibile aveva ormai preso parte dentro di lei e sarebbe stata dura da scemare. Aveva bisogno del sostegno di Jessica, quasi quanto l'aria che respirava; e questo non tardò ad arrivare. La rossa si sporse verso di lei, prendendosela tra le braccia, per poi sdraiarsi all'indietro sul divano, lasciando che Monique poggiasse la testa sulla sua spalla per poter dare libero sfogo al pianto che necessitava di uscire da troppo tempo. Prese ad accarezzarle lievemente i capelli con una mano, fissando il vuoto ed ascoltando in silenzio i suoi singhiozzi disperati.

«Andrà tutto bene, Monique. Andrà tutto bene perchè io ti starò sempre vicino.» le sussurrò all'orecchio, prima di posarle un tenero bacio sulla testa e lasciarla libera di sfogare il suo dolore.

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Capitolo 3
*** Two. Fear of the truth ***


fear of the truth

Chapter Two.
- Fear of the truth -



Gemette, riportando la testa fuori dal water, per poi andare a sciacquarsi la bocca al lavandino.

Stava tranquillamente traducendo delle lettere che le erano state assegnate nel suo ufficio, quando improvvisamente un senso di nausea l'aveva colta alla sprovvista, portandola a precipitarsi nel bagno lungo il corridoio. Aveva sempre avuto paura di vomitare sin da bambina, era una cosa che la mandava nel panico più totale.

Si osservò tremante e con le lacrime agli occhi allo specchio, mentre si passava una mano bagnata sul viso, per poi chiudere l'acqua ed asciugarsi con il telo poggiato vicino al lavello. Cercò di assumere un'espressione sicura, per non destare sospetto, ed uscì dal bagno. Si guardò attorno e corse successivamente verso il suo ufficio.

Quando vi entrò, impuntò sui propri piedi, quasi spaventata: Tom era davanti a lei, al centro della stanza, a darle le spalle. Il ragazzo doveva aver sentito il suo arrivo perchè si voltò nella sua direzione, osservandola con la solita freddezza.

«Hai da fare qui. Vedi di non andartene in giro a distrarti.» la ammonì, dandole di nuovo la schiena. Monique strinse i pugni con tutta la forza che possedeva in corpo.

«Io non mi distraggo.» sussurrò flebilmente, reprimendo la voglia di prenderlo a pugni. Lui non poteva capire cosa stava passando. Non poteva decisamente farlo.

Fece il giro della scrivania per risedersi sulla poltrona, decisa a rimettersi al lavoro. Il chitarrista, davanti a sé, non accennava ad andarsene, sfogliando distrattamente alcuni fogli che riportavano le traduzioni di Monique. Quest'ultima gli lanciava occhiate furtive, domandandosi quando l'avrebbe fatta respirare. Non poteva sorvegliarla costantemente a quella maniera.

«Non ti fidi di quello che faccio?» domandò incauta, riprendendo a scrivere e senza degnarlo di un ulteriore sguardo. Tom ripose i fogli sul tavolo e spostò lo sguardo su di lei.

«Non si sa mai.» rispose incolore, per poi lasciarla nuovamente sola in quella stanza.

Con un sospiro pesante, buttò la schiena all'indietro, poggiandosi stancamente allo schienale imbottito. Le sue dita andarono a sfiorare distrattamente la pelle del suo ventre, scostando di poco la maglietta.

La situazione stava degenerando. Presto i ragazzi e David avrebbero intuito che in lei vi era qualcosa che non andava e quel problema sarebbe diventato evidente con l'acquisto di qualche chilo in più. Si sentiva inchiodata, con le spalle al muro, senza via d'uscita. Era tutto così complicato e trovare una soluzione non sarebbe servito a niente, dal momento che non avrebbe mai potuto nascondere l'evidenza.

Fece una smorfia di disgusto, sentendo che la nausea non cessava a svanire, così come il mal di testa. Odiava star male fisicamente; non poteva sopportarlo.

«Hey, Monique. Ti vedo piuttosto stanca; prenditi una pausa, dai.» la voce di Bill aveva fatto capolino in quella stanza, come un fulmine a ciel sereno. Per questo motivo si affrettò a togliere la mano dal suo ventre, rimettendosi composta sulla poltrona. Quando sollevò lo sguardo, un infinito senso di tenerezza e gratitudine la invase: il vocalist le sorrideva, tenendo in mano una tazza di caffèlatte, accompagnata da una brioche interamente cosparsa di zucchero a velo. Prese a boccheggiare, non sapendo che dire. «Spero che ti piaccia la brioche con la marmellata.» aggiunse posandole la tazza sulla scrivania e porgendole la brioche avvolta nel tovagliolo. Si sentiva mortificata: in un altro momento avrebbe sicuramente apprezzato di più quel meraviglioso gesto. Come poteva dirgli che la nausea la uccideva e non se la sentiva di mettere nulla sotto i denti?

«Grazie, Bill. Sei... Molto gentile.» gli sorrise, adocchiando ripetutamente quel cornetto e deglutendo più volte ed a fatica i conati che tornavano a farsi sentire.

«Di nulla.» rispose il ragazzo, sedendosi sulla scrivania di fronte a lei ed osservandola attentamente. «Tutto bene?» le domandò dopo un po', notando il viso sbattuto.

«Sì, sì.» annuì lei più volte, prendendo poi un bel respiro per dare il primo piccolo morso alla brioche. Si trattenne dallo stringere le palpebre con espressione disgustata, per non offendere Bill, e si affrettò a bere un sorso di caffè.

«No perchè ti vedo un po' pallida.» continuò il vocalist.

«Sarà che non ho dormito molto, stanotte.» mentì lei, continuando a mangiare con una lentezza ed una fatica disarmanti. Bill annuì distrattamente. Finalmente Monique terminò di masticare ed accartocciò il tovagliolo nella sua mano, per poi finire di bere le ultime gocce di caffè. «Grazie, Bill.» gli sorrise, riponendo la tazza sulla scrivania e buttandoci dentro il tovagliolo.

«Di nulla. Allora, ti lascio al tuo lavoro.» concluse allegro per poi salutarla ed uscire dalla stanza.

Di nuovo sola, recuperò velocemente la bottiglietta d'acqua fresca che aveva portato con sé quella mattina e ne bevve più di metà in un solo sorso. Scivolando quasi congelata lungo la sua gola, la portò a chiudere gli occhi infastidita. Quando sarebbe terminata quella tortura?


**


«Dovresti prendere l'appuntamento per la prima ecografia, sai?» le rammentò Jessica che giocherellava distrattamente con la forchetta sul tavolo, aspettando che anche Monique si sedesse a tavola per poter mangiare.

Quest'ultima aveva invitato la rossa a cenare a casa sua: aveva dannatamente bisogno di compagnia e la sua era sicuramente la migliore.

Finalmente si sedette di fronte a lei e prese ad infilzare la carne sul piatto.

«No.» rispose monocorde, senza nemmeno guardarla. Percepì Jessica immobilizzarsi e fissarla sconcertata.

«Come no?» le domandò allibita, continuando a mantenere la forchetta a mezz'aria.

«No.» ripetè come fosse ovvio Monique, con una scrollata di spalle.

«Dico, sei impazzita, per caso? Devi farla un'ecografia, diamine! È importante!» esclamò la rossa quasi scandalizzata. Monique si incupì ulteriormente, rifiutandosi di sollevare lo sguardo su Jessica.

Fare un'ecografia sarebbe stato come ammettere definitivamente che era incinta e per un qualche strano motivo di codardia voleva continuare a vivere con la consapevolezza non dimostrata. Voleva forse racchiudersi nella menzogna, fino a che quei mesi non fossero effettivamente trascorsi. Fino a quel momento, probabilmente, non avrebbe mai accettato la sua gravidanza.

«So bene che è importante ma io non voglio farlo. O almeno non ora. Cerca di capirmi, Jess... Non è facile per me.» sussurrò, sollevando finalmente lo sguardo sulla sua amica che ora la guardava con severità.

«Io ti capisco eccome, Monique, ma ora penso proprio che tu stia esagerando e che ti stia comportando da bambina immatura.» rispose fermamente. Una scossa di indignazione attraversò Monique che lentamente percepiva la rabbia crescere.

«Credi che io stia esagerando?! Io sarei la bambina immatura?! Se non te ne sei accorta, Jessica, io sto lottando con un problema molto più grande di me, che mi ha sconvolto la vita! Ancora devo finire io di crescere e devo preoccuparmi che lo faccia anche questa creatura assieme a me! Ho tutto sulle mie spalle perchè i miei genitori non devono assolutamente sapere nulla... Ed io starei esagerando?! Vorrei che solo per un minuto, un fottutissimo minuto, tu potessi entrare nella mia testa e sentire quello che sto provando. Che razza di paura bastarda mi attanaglia lo stomaco, giorno e notte! Ma tu non puoi capire perchè non ci stai passando; ovvio che ti sembra tutto più facile! Tu pensi che io debba comportarmi come una normalissima donna incinta?! No, Jessica, mi dispiace ma proprio non posso!»

Aveva urlato per tutto il tempo. Le aveva sputato in faccia tutto quello che pensava, tutto quello di cui aveva mostruosamente paura, tutto quello che sentiva nel cuore. Aveva sfogato con lei gran parte del suo dolore, ma non sarebbe bastato. Jessica, per tutto il tempo, era rimasta in silenzio, ad osservarla con lieve stupore. Non si sarebbe mai aspettata una reazione del genere, almeno non in quel momento. Forse aveva sbagliato a scegliere quelle parole da dirle, ma non poteva fare a meno di pensare il significato che racchiudevano.

La rossa abbassò lo sguardo sul suo piatto, prendendosi una breve pausa, per poi parlare di nuovo senza guardarla.

«Scusa... Forse ho usato le parole sbagliate, me ne rendo conto. Ma tutto ciò che ti dico, se te lo dico è perchè tengo a te ed automaticamente tengo al bambino. Non fare quella faccia... Che ti piaccia o no, ormai questo bambino c'è e tu non puoi farci nulla. Non ti dico che devi saltare dalla gioia, perchè una gravidanza a quest'età non la auguro a nessuno. Ma per lo meno accettalo, Monique. È sangue del tuo sangue... E' un essere innocente che quando verrà al mondo desidererà di essere amato dalla sua mamma. Non è colpa sua se si trova nel tuo grembo, Monique. Come fai a non amarlo?» cercò di spiegarle con molta calma e con tutta la dolcezza di cui riusciva ad armarsi. Monique prese una pausa, per poi sospirare appena.

«Semplicemente perchè è di Christian... Ed io non sono pronta a diventare madre.» sussurrò freddamente, per poi alzarsi dalla sedia – con la carne ancora nel piatto – ed uscendo dalla cucina senza aggiungere altro.

Salì silenziosamente le scale fino a rintanarsi in camera sua, unico rifugio sicuro in grado di farla sentire protetta da qualsiasi pericolo esterno. Adagiò il suo corpo sulle coperte ancora sfatte e strinse a sé il cuscino, con tutta la forza che possedeva in corpo. Non appena i suoi occhi si chiusero, rilasciarono sulla federa calde e salate lacrime, che ormai – da tante notti – erano state protagoniste del suo malumore.

Quando la porta della sua stanza si riaprì, non si sorprese. Nemmeno dopo, quando Jessica si sdraiò affianco a lei, stringendola fortemente a sé. Per questo motivo non si dimenò nella sua presa; piuttosto la assecondò e la rafforzò.

Sentì la mano della sua migliore amica carezzarle lievemente la testa, mentre sosteneva il suo pianto silenzioso, e ciò la aiutò a ritrovare la calma, trascinandola lentamente in un sonno profondo.


**


Fosse stata una nuova collaboratrice, del tutto priva di esperienza, al suo primo giorno di lavoro, si sarebbe sicuramente scandalizzata nel constatare la grande quantità di lettere indirizzate a Tom Kaulitz, da parte di ragazze perennemente arrapate che avevano avuto il privilegio di passare una notte selvaggia con il chitarrista. Stando al giudizio di queste ultime, il ragazzo doveva essere una bomba del sesso estremo e passionale; ma stando allo scetticismo di Monique su tale argomento, doveva essere un normale ragazzo che aveva rapporti, non così fuori dal comune.

Il suo viso si contrasse in una smorfia e passò ad una lettera indirizzata a Bill, senza dubbio più casta e normale.

Proprio in quel momento il suo cellulare prese a squillare: sua madre. Già, erano giorni che non si sentivano... Per la precisione, da prima che lei scoprisse di essere incinta. L'unica cosa da fare era ignorarla spudoratamente, anche se la cosa le provocava una fastidiosissima fitta di dolore al petto. Era affezionata a sua madre, sin da quando era piccola, ed il non sentirla – o peggio, l'ignorarla – la faceva stare ancora più male. Non poteva rivelarle di essere incinta; non ancora.

Presto il cellulare smise di vibrare e lei poté sospirare rincuorata, tornando ad occuparsi del suo lavoro.

Distrattamente prese a pensare ai giorni a venire. L'indomani mattina sarebbe dovuta partire assieme alla band e a David. Avrebbe dovuto alloggiare in un albergo assieme a loro e questo la buttava ancora più giù. Si sarebbero accorti del suo malumore? Si sarebbero accorti che non si sentiva bene? Le avrebbero fatto domande?

«Hey, Monique, vieni. C'è tua madre al telefono, dice che non le rispondi.» le sorrise David, dopo essersi affacciato con la testa nella stanza.

Monique non sapeva se apprezzare quel riguardo da parte di David o meno. In certi momenti avrebbe tanto desiderato trucidarlo con un solo sguardo, come in quel momento... Ma d'altronde lui non poteva sapere che aveva ignorato appositamente quelle chiamate.

Non potendo più negare l'evidenza, si alzò dalla poltrona e lo seguì. Recuperò la cornetta del telefono fisso dello studio di registrazione, in mezzo al salotto che dava sul vetro della stanza dove si trovavano tutti gli strumenti dei ragazzi, e rispose non troppo convinta.

«Ciao, tesoro! Come stai? È da un po' che non ti fai sentire!»

Sua madre, Ester. La donna più solare e dolce che avesse mai avuto la possibilità di conoscere. Il bene che si volevano a vicenda era sconfinato e, proprio per lavoro, Monique era stata costretta a lasciarla sola con suo papà Alfred, per trasferirsi a Berlino, dalla lontana Amburgo.

«Ciao, mamma.» sorrise appena, mentre un incredibile senso di nostalgia prese a diradarsi dentro di lei. «Io sto bene... Tu?»

«Anche io. L'unica cosa è che mi manchi. Sono tre mesi che non ti fai vedere. Quando mi vieni a trovare?»

«Non so, mamma. La situazione qui è un po' complicata. Lo sai che devo lavorare, ho bisogno di soldi. Non posso permettermi troppe vacanze.»

«C'è Lilli che ti cerca, ogni tanto.»

Sorrise intenerita al pensiero del suo cane – un piccolo Cocker Spaniel, bianco e nero – che vagava per casa, alla ricerca della sua padrona. Aveva preso in considerazione di portarla con sé, ma sua madre ormai si era affezionata a quella piccola palla di pelo e comunque non avrebbe avuto abbastanza soldi per procurarle da mangiare: a malapena riusciva a mantenere se stessa.

«Falle una carezza da parte mia e dille che quando arrivo le porto un osso nuovo di zecca. Papà come sta?» chiese Monique, giocherellando con il filo della cornetta.

«Un po' di acciacchi ogni tanto. Ma è sempre giovane e bello.» Era incredibile come quei due fossero ancora uniti da un amore tanto forte. «Tesoro, tu sei sicura di stare bene?»

«Sì... Perchè?»

«Non so... Hai una voce strana; ti sento un po' mogia.»

«No, mamma, tranquilla. È solo la stanchezza, sto lavorando tanto in questo periodo. Domani sarò anche in Francia per un'intervista.»

«Oh, tesoro, che bello! Starò davanti al televisore tutto il giorno!»

«Mamma, l'intervista dura un'ora.»

«Non fa nulla!»

«Come vuoi. Adesso ti saluto. Appena posso vi vengo a trovare, promesso.»

«D'accordo. Ti voglio bene.»

«Anch'io, mamma.»

Riattaccò e prese un bel respiro, chiudendo gli occhi. Sarebbe dovuta uscire da quel pasticcio, prima o poi. Non poteva continuare a vivere nelle menzogne.

Quando rialzò lo sguardo, sussultò, ritrovandosi di fronte il chitarrista, intento a scrutarla con la solita espressione severa.

«Tutti i minuti che perdi verranno scalati dalla tua paga, ti conviene fare attenzione.» disse freddamente, per poi passarle affianco, sfiorandola appena con una spalla. Monique si portò distrattamente la mano sul punto che le aveva toccato e si voltò a guardarlo con l'ira negli occhi. Dandole le spalle, si accingeva a camminare con una mano in tasca e l'altra che teneva una bottiglietta d'acqua, fino a chiudersi nella stanza assieme agli altri per riprendere a suonare.

Monique reprimette un grugnito di disapprovazione: Tom era uscito momentaneamente per prendere quella dannata bottiglietta d'acqua dalla macchinetta di fronte a lei, ma era sicura che avesse solamente usato quella scusa per darle ancora il tormento.

Con lei non tirava fuori stupide frecciatine, quasi scherzose... No. Con lei era sempre terribilmente glaciale.

Non sapeva cosa spingesse il ragazzo a comportarsi ad una maniera tanto cattiva e spudorata nei suoi confronti. Non gli aveva mai risposto male, non gli aveva mai dato motivo di prenderla in antipatia.

Una cosa però era certa: non lo sopportava.


**


Sbatté il cambio di vestiti che aveva preparato per il viaggio in Francia nel piccolo borsone che poggiava sul suo letto e sbuffò sonoramente.

Non riusciva a mandare giù il comportamento di Tom nei suoi confronti.

Lavorava, si faceva il culo per guadagnare quei maledetti soldi che portava a casa per mantenersi; obbediva continuamente alle richieste di chiunque si trovasse lì dentro, anche se non era propriamente tenuta a farlo, ed in cambio riceveva un trattamento del genere. Proprio non riusciva a comprendere il meccanismo che animava quell'ambigua situazione.

Tutti erano gentili con lei. Tutti tranne lui.

La osservava in tutte le sue movenze quasi con odio, come se in una vita precedente o in un qualsiasi momento in cui la sua mente non era lucida, gli avesse fatto qualcosa di male.

Com'è che non riusciva a ricordare un episodio simile? Poteva per lo meno degnarla di una spiegazione plausibile? Non poteva accettare di essere trattata a quella maniera, senza nemmeno un chiarimento sul perchè. Ma presto quel chiarimento glielo avrebbe domandato; non poteva continuare a beccarsi le pseudo-minacce di Tom, costringendosi a fare finta di nulla. Anche lei aveva una dignità, proprio come quella del chitarrista, ed anche lei esigeva rispetto come lei stessa lo dava agli altri.

Chiuse quasi con schizofrenia la cerniera e poi buttò il borsone ai piedi del letto, con poca grazia. Sbatté le mani sul materasso e si sdraiò pesantemente su di esso.

Poco dopo si accorse di non aver agito a meraviglia, dato che si ritrovava inchinata sul water a rimettere anche l'anima. Strinse gli occhi, mentre le lacrime – le ennesime – colavano lungo le sue guance.

Non ce la faceva più. Se pensava che era già arrivata al capolinea della sua pazienza ed era solo all'inizio di tutto quello, le veniva voglia di buttarsi nel vuoto, dal suo terrazzo.

Si rialzò, dopo aver tirato l'acqua, ed andò a lavarsi i denti al lavandino. I suoi occhi erano perennemente fissi nei suoi, attraverso lo specchio, cercando di scovarvi all'interno una spiegazione a ciò che le era successo.

Spesso si fermava a riflettere sulla sua vita, chiedendosi se si fosse comportata male in determinate occasioni. Quella gravidanza inaspettata e non voluta era solamente la punizione per un qualcosa di sbagliato che aveva commesso? Avrebbe tanto voluto saperlo, visto che la testa le stava andando in fiamme.

Uscì dal bagno, spegnendo la luce e tornò in camera, dove il suo letto – spettatore di tanti incubi – la attendeva. Tirò le coperte, fino a scomparire al di sotto di esse; una lunga notte insonne la attendeva.

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Capitolo 4
*** Three. Enigmatic ***


enigmatic

Chapter Three.
- Enigmatic -



Mai avrebbe detto, nella sua ancora breve vita, che un domani avrebbe avuto l'impensabile opportunità di viaggiare su un aereo privato. Dal momento in cui si era seduta su uno di quei piccoli sedili in pelle color panna, aveva cominciato a prendere in considerazione che potesse non trattarsi della realtà. Il solo fatto che non se lo sarebbe mai potuto permettere, se non fosse stato per i Tokio Hotel, l'aveva letteralmente mandata nel pallone.

Al suo fianco, David sfogliava distrattamente un quotidiano, informandosi su tutto ciò che stava accadendo nella sua amata Germania; dietro di loro, Georg e Gustav dormivano beatamente l'uno sulla spalla dell'altro, senza preoccuparsi di smettere di russare, o per lo meno chiudere le loro bocche, elegantemente spalancate. Dai sedili anteriori a sé, invece, vedeva sbucare appena la testa di Bill ed il cappuccio di Tom, seduto affianco a lui. Quest'ultimo continuava a recitare la parte dell'asociale, mentre le cuffie che teneva fisse nelle sue orecchie, da un tempo interminabile, producevano della musica dal gusto piuttosto discutibile – forse rap. Con gli occhiali da sole calati sul naso, teneva il viso in direzione del piccolo corridoio, alla sua sinistra: aveva coraggiosamente ceduto il posto accanto all'oblò a Bill, vista la sua paura del vuoto. Il vocalist, dal suo canto, stava distrattamente giocherellando con una ciocca di capelli nera tra le dita, mentre masticava rumorosamente una cicca e dedicava la sua mente a chissà quale articolato pensiero.

Monique era al corrente di quanto in quel periodo i ragazzi non si stessero concedendo un attimo di tregua nella lavorazione del nuovo album. Stavano dedicando tutte le loro forze solamente a quello e si chiese per un momento come potessero tenere, nel frattempo, anche interviste o servizi fotografici in giro per l'Europa: probabilmente una vita del genere l'avrebbe presto ammazzata.

«Monique?» la voce dolce di Bill la risvegliò dai suoi profondi pensieri, portandola a planare il suo sguardo sul viso del vocalist, teneramente insinuato tra il suo sedile e quello di suo fratello, per sorriderle con affetto. «Vieni a fare una partita a carte qui con me? Mio fratello sta facendo l'orso.» le propose con una vaga speranza negli occhi. Monique non poté reprimere anch'ella un sorriso e si alzò dal suo sedile per accontentarlo. David ritirò a sé le gambe per permetterle di passare e questa, dopo aver fatto il giro affianco al chitarrista, si andò a sedere di fronte a Bill.

Per caso i suoi occhi avevano cercato Tom, il quale continuava a non dare segni di vita, dietro quegli scuri occhiali da sole. A braccia conserte, si era stretto nella sua felpa oversize nera, con le gambe larghe, ostinandosi a tenere le cuffie incollate alle sue orecchie; la sua testa era pesantemente poggiata al sedile e Monique non riuscì ad intuire se avesse gli occhi aperti o meno.

Talmente era assorta, che non si accorse del fatto che Bill aveva già posizionato le carte sul tavolino a scomparsa, in mezzo a loro. Si affrettò a recuperare le sue e cercò di concentrarsi sul gioco, ignorando gli improvvisi – seppur leggeri – conati di vomito che si erano premurati di tornare a farle visita.

Finchè la pancia non accennava a crescere – e fortunatamente avrebbe impiegato un bel po' di tempo per farlo – il problema non si poneva; o per lo meno, non del tutto. Fortunatamente avrebbe potuto bearsi di quel tempo determinante per spaccarsi la testa e trovare una soluzione che l'avrebbe aiutata a non perdere il lavoro. Quella gravidanza aveva portato con sé l'urgenza maggiore del guadagno sicuro e non avrebbe potuto ricominciare da zero per farsi assumere da qualcun altro – magari in un'occupazione che non sarebbe neanche stata mai all'altezza di quella attuale.

«Hey, Monique, tocca a te.» la richiamò Bill. La ragazza si destò nuovamente dalle sue preoccupazioni e buttò una carta a caso sul tavolino, concedendo un notevole punto al vocalist. «Sei distratta? Mi hai praticamente regalato il punto.» commentò nuovamente sorpreso, mentre riprendeva a distribuire le carte. Monique scosse velocemente la testa, incitandolo con la mano a continuare.

Ma ecco che improvvisamente necessitò di andare in bagno... Ultimamente le succedeva spesso.

«Ehm, Bill, vado un attimo in bagno. Arrivo subito.» annunciò la ragazza, del tutto impacciata e temendo che la sua vescica scoppiasse da un momento all'altro.

«E ti fidi a lasciarmi le tue carte?» domandò il vocalist perplesso, con il mazzo a mezz'aria.

«Conto sulla tua onestà.» sorrise frettolosamente Monique, per poi correre a chiudersi nel bagnetto. Non riusciva ben a comprendere come potesse essere così fastidiosa una gravidanza. Stando al parere di quasi tutte le mamme del mondo, aspettare un bambino doveva essere una cosa meravigliosa, un così detto “dono della natura”, che portava pace e serenità.

Da chi era partita una cazzata simile?

Tirò l'acqua ed uscì dalla cabina per poter lavarsi le mani al lavello. Inchiodò sui propri piedi quando vide che quest'ultimo era già stato occupato dal chitarrista, in cui vi si stava tranquillamente lavando le mani grandi e venose. Gli occhiali da sole coprivano ancora i suoi occhi, così come la sua felpa oversize fasciava il suo corpo snello ma abbastanza muscoloso.

Restò ferma ad osservarlo tramite lo specchio di fronte a loro, fino a che non vide Tom sollevare il capo.

«Che hai da fissare a quella maniera?» domandò freddamente, per poi spegnere l'acqua ed asciugarsi le mani affianco. Monique deglutì il mare di insulti che avrebbe voluto urlargli contro e riaprì il rubinetto per potersi lavare le mani anche lei.

«Attendevo semplicemente il mio turno.» rispose senza guardarlo e concentrandosi esclusivamente sulle sue mani, intente a sfregarsi fra loro, sotto il getto d'acqua fresca. Il moro le diede le spalle per avviarsi verso la porta del bagno, ma prima che questa venisse aperta, Monique decise di richiamare la sua attenzione. «Si può sapere qual'è il tuo problema con me?» Vide il ragazzo fermarsi, ma senza voltarsi nella sua direzione. A dire il vero non era neanche così convinta che la stesse ascoltando. «Mi ignori in continuazione oppure mi parli con freddezza, come se ti avessi fatto qualcosa. Vorrei sapere il motivo, se non è troppo.» spiegò, piuttosto scettica ed incrociando le braccia al petto per attendere una minima spiegazione da parte del chitarrista, se quest'ultimo si fosse degnato di accontentarla. Ma sapeva che non poteva essere così semplice vincere con lui.

«Non siamo così in confidenza, Schmitz.» si limitò a risponderle il ragazzo, sempre di spalle, prima di aprire la porta ed uscire definitivamente da quel bagnetto.

Monique rimase immobile dov'era, continuando a contemplare il vuoto che la figura alta ed imponente del chitarrista aveva lasciato. Che razza di risposta era “Non siamo così in confidenza”?

Per quanto si sforzasse di capire quel ragazzo, proprio non riusciva ad arrivare ad una deduzione logica. Per lei era un enigma, un rebus... Uno di quei tanti che sin da piccola aveva sempre odiato risolvere perchè le costava troppo tempo prezioso che avrebbe invece potuto spendere in altri modi, decisamente più costruttivi.

Con Tom era tutto un mistero e lei non era decisamente portata per la risoluzione di misteri.


**


La mancanza di un po' di sano ossigeno nei suoi polmoni, la portò a domandarsi cosa diavolo l'avesse spinta ad optare per le scale anziché l'ascensore. Inspirava ed espirava pesantemente, scortando con sé il borsone che – nonostante le ridotte dimensioni – sembrò essere lavorato col piombo.

La sua era una continua sfida con se stessa. Voleva dimostrarsi che avrebbe potuto fare le stesse cose di prima, quando ancora non era incinta; che non sarebbe stato di certo un bambino a fermarla, ma si sbagliava. Aveva sempre odiato la fiacca ed ultimamente sembrava che quest'ultima non facesse altro che perseguitarla.

Quando arrivò a destinazione, trovò i Tokio Hotel e David – assieme al bodyguard, Tobi – appostati in mezzo al corridoio dell'albergo, per appropriarsi delle stanze.

«Oh, eccoti, Monique. Pensavamo non arrivassi più.» le sorrise il manager, porgendole poi la tessera magnetica della sua stanza. «Sei nella trecentododici.» le riferì di nuovo. La ragazza si limitò ad annuire, mentre il cuore tornava lentamente a battere con regolarità nel suo petto. «Ora andate in stanza a rilassarvi un po'. Tra un'ora ci troviamo qui.» detto questo, David si ritirò nella sua.


**


«Monique, dobbiamo andare.» sentì la voce di Gustav piuttosto lontana, da dietro la porta della sua stanza. Troppo occupata a rimettere, non aveva nemmeno prestato attenzione all'orologio. Gemette dopo un ultimo conato e provò a farsi udire dal batterista il più naturalmente possibile.

«Arrivo!» più che un normale avviso, pareva una supplica strozzata e questo non passò inosservato al biondino che aggrottò le sopracciglia confuso.

«Hey, stai bene?» domandò cauto.

«Benissimo! Adesso arrivo!» esclamò nuovamente Monique, invogliandolo ad allontanarsi dalla porta... Cosa che però non fece.

«Schmitz, i tuoi comodi li fai un'altra volta! Abbiamo un'intervista, se non ti dispiace!» la voce furente di Tom le perforò le orecchie con violenza e la portò ad alzarsi, come non avesse avuto il controllo del suo corpo. Sentiva la testa girare, le tempie pulsare e la nausea non accennare a svanire, ma nonostante tutto fece quello che il chitarrista le aveva implicitamente ordinato. Quello era il potere del ragazzo: riuscire a convincerla in qualsiasi situazione. Monique era solita abbassare il capo davanti a lui, semplicemente perchè aveva paura. Eppure non avrebbe dovuto: quel ragazzo aveva la sua stessa età e ciò la mandava in bestia.

Tirò l'acqua e si andò a sciacquare la bocca: fortunatamente si era già preparata precedentemente per l'intervista. Prese un bel respiro ed uscì dalla stanza a sguardo basso. Vide davanti a sé solamente due paia di piedi, appartenenti al batterista ed al chitarrista. Non aveva il coraggio di alzare gli occhi su quelle due figure, temendo che avrebbero capito il suo segreto più intimo. Lo specchio era stato chiaro con lei, qualche secondo prima: il suo viso era molto pallido, lambito da delle macchiette violacee sotto gli occhi, che non sarebbero di certo passate inosservate.

«Che brutta cera che hai... Sei sicura di riuscire a venire?» le domandò Georg preoccupato, non appena si era avvicinato assieme a Bill.

«Cosa significa? Lei deve venire lo stesso, non può dare forfait all'ultimo minuto!» intervenne Tom, piuttosto irato.

«Non vi preoccupate, sto bene.» mentì la ragazza, sforzando un sorriso e, non appena il manager della band arrivò, si accinsero tutti quanti ad entrare in ascensore.

L'improvviso calore, accompagnato a timore, spinse Monique ad alzare appena lo sguardo permettendole di notare che il chitarrista si trovava ad una distanza decisamente troppo ravvicinata. Quest'ultimo pareva invece scocciato per quello stesso futile motivo, così Monique provò ad allontanarsi appena, per quanto possibile, andando ad urtare la schiena di Bill con la propria. Mormorò uno “Scusa” imbarazzato ed abbassò nuovamente lo sguardo. Se prima non voleva farsi notare dal chitarrista in tutta la sua fragilità e stupidità, ora poteva tranquillamente mandarsi a benedire da sola.


**


Non poté fare a meno di notare che quel giorno l'intervistatrice rientrava a far parte della ricca categoria da lei definita “Troppo galline per comprendere che provarci con un ventenne è di gran lunga umiliante per una quarantenne”. Non riusciva a capire come potesse una donna matura e con un lavoro determinante e di una certa importanza tra le mani comportarsi a quella maniera così spudorata, senza provare un minimo di vergogna.

L'intervista era cominciata ormai da mezz'ora e Monique non aveva fatto altro che adocchiare ammiccamenti di pessimo gusto e frasi intrise di doppi sensi da parte di quella donna francese. Aveva anche cercato con lo sguardo quello dei ragazzi, ma questi sembravano immuni da tali provocazioni, come fossero ormai abituati.

Si accinse a tradurre l'ennesima domanda che quella donna aveva posto alla band e successivamente la risposta di quest'ultima.

Trovava il tutto piuttosto noioso: non era la prima volta che assisteva ad un'intervista e, in tutto quel tempo, aveva ricevuto conferme su conferme del fatto che le domande fossero sempre le stesse, tra cui la più odiosa e scontata: “Perchè il nome Tokio Hotel?”. Ormai avrebbe potuto tranquillamente dare tutte le risposte, al posto dei ragazzi, ed inoltre era sicura che le fans avessero voglia di qualcosa di nuovo, per il semplice fatto che già sapevano vita, morte e miracoli dei loro quattro beniamini tedeschi e non avevano bisogno di sentirne ancora.

Dopo qualche domanda qua e là riguardo la realizzazione quasi portata a termine del nuovo album, che presto avrebbe sfondato in tutto il mondo, l'intervistatrice si decise a salutare i ragazzi con una calorosa stretta di mano e dei baci sulle guance di questi, facendo attenzione a mettere bene in risalto il decoltè non propriamente giovane ed interessante da vedere, come quello di una volta. Degnò di un saluto caratterizzato da una buona dose di enfasi in meno anche Monique e successivamente sparì dalla loro vista. David richiamò tutti quanti all'attenzione ed invitò i ragazzi a recarsi nella stanza affianco, quella dove si sarebbe tenuto il servizio fotografico, mentre Monique si rifugiò nel corridoio per soddisfare le proprie papille gustative con un po' di the freddo alla pesca, comprato al baretto affianco.

Si era ritrovata a percorrere quello stesso corridoio per minuti e minuti, tenendo saldamente in mano la lattina gelida e gocciolante e riflettendo su un qualcosa di concreto che potesse fare. Nel mentre, si era appostata all'entrata della stanza dove si trovavano i Tokio Hotel, illuminati dai continui scatti della macchina fotografica. Si era appoggiata allo stipite della porta con la spalla, continuando a sorseggiare di tanto in tanto il liquido freddo che colava lungo la sua gola, facendola piacevolmente rabbrividire. Osservò ogni singola movenza dei ragazzi e del fotografo, mentre accanto a lei David parlava distrattamente con Saki, senza prestare loro troppa attenzione. Probabilmente l'abitudine portava a provare quasi indifferenza per determinate cose.

Scrutò ogni componente della band, uno ad uno, cercando di scovare le differenze che li caratterizzavano, i particolari che forse in altri momenti non si era soffermata a notare... Tutto per semplice noia.

Sussultò appena, quando il chitarrista pensò bene di sorprenderla con un'occhiata nella sua direzione e cogliendola in flagrante. Si maledì mentalmente per aver guardato proprio lui in quell'esatta frazione di secondo, permettendogli così – forse – di montarsi un poco la testa, per quanto gli potesse interessare: quel particolare soggetto era molto incline all'egocentrismo e degnarlo di tutta quell'attenzione non gli faceva certo bene.

Si voltò piuttosto seccata e riprese la sua interminabile camminata lungo quel corridoio, del quale ormai aveva memorizzato ogni singola crepa e sfumatura.


**


Il tavolo era molto ampio e di forma circolare, ed ospitava sopra ad esso ogni tipo di cibo squisito con il quale, in un altro momento, Monique si sarebbe sicuramente riempita la pancia. La sala da pranzo dell'albergo era stata liberata appositamente per la band, al riparo da sguardi indiscreti. Monique era sicura di poter udire ancora le urla delle fan pazientemente appostate da ore all'entrata dell'albergo, senza però trarre alcun successo. Più ci pensava, più sentiva la pena per loro crescere, dovendo così reprimere la tentazione di farle entrare, solamente per non farle stare al freddo sino all'indomani mattina, quando assieme ai ragazzi sarebbe ripartita. Si limitò quindi a prestare attenzione alle parole di Bill, ignorando quelle urla disperate.

«... E poi continuava con quegli ammiccamenti; mi si sono rizzati i peli solo a guardarla.» aveva appena finito di commentare schifato, riguardo l'intervistatrice, e solo allora Monique si illuminò.

«Ah, ma allora ve ne siete accorti!» esclamò, come catapultata di nuovo nella realtà, con la carne a mezz'aria.

«Certo che ce ne siamo accorti, come non potevamo?» ridacchiò Georg, masticando voracemente.

«Beh, vi guardavo e non facevate una piega...» si giustificò Monique, per poi bere un sorso d'acqua.

«Era abbastanza ovvio. Ma tu non fai parte di questo mondo e non puoi capire, quindi non te lo sto neanche a spiegare.»

Monique aveva irrigidito tutti i muscoli; la mascella era serrata e le vene perfettamente visibili. Quell'intervento improvviso del chitarrista l'aveva decisamente spiazzata ed aveva suscitato in lei un pericoloso istinto omicida che ben presto avrebbe esternato, se in futuro quel ragazzo non le si fosse rivolto con il dovuto garbo. Quest'ultimo aveva parlato tenendo gli occhi bassi, sul piatto, con espressione apparentemente indifferente e continuando a mangiare come nulla fosse.

Monique strinse la forchetta in mano, fino a tingere le sue nocche di un colore biancastro – segno che si stava facendo male. Quasi sentì le proprie unghie conficcarsi nel palmo della sua mano, quando Bill decise di rompere quell'improvviso silenzio.

«Che ne dite se dopo mangiato ce ne andiamo a fumare nel giardino sul retro? Lì le fans non ci possono vedere.» domandò con leggero imbarazzo, guardando suo fratello di sottecchi.

Monique corrugò la fronte: che il vocalist sapesse qualcosa riguardo il comportamento del chitarrista, che anche lei si sforzava di capire?

Tom scrollò le spalle, annuendo distrattamente e continuando a mangiare la sua insalata.

«Io me ne andrò a dormire presto, ragazzi. Non fate troppo tardi anche voi, sennò domani mattina devo venire a buttarvi giù dal letto di forza.» intervenne David, sorseggiando un ultimo goccio d'acqua rimasto nel bicchiere.

«Tu vieni, Monique?» domandò Georg con un sorriso sincero sul volto. La ragazza annuì lievemente, ancora pensierosa.

Non riusciva proprio a venire a capo in quella situazione. In più sembrava proprio che Bill fosse al corrente di un qualcosa che neanche lei sapeva, ed ora aveva dannatamente voglia di capire, nonostante ciò non andasse ad intaccare troppo la sua vita come l'esserino che da qualche settimana ospitava dentro di sé.

Si toccò il ventre ancora perfettamente piatto, sotto al tavolo, posandovi una lieve carezza, senza farsi notare dai ragazzi. Quando sollevò lo sguardo, si accorse che Tom la stava guardando.

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Capitolo 5
*** Four. Metter of knowledge ***


metter of kowledge

Chapter Four.
- Metter of knowledge -



Il muro reso freddo dalla leggera brezza serale francese, a contatto con la sua schiena, le provocò una piacevole scarica di brividi lungo la colonna vertebrale. Il cielo scuro, sopra di lei, ospitava una gran quantità di stelle, rese perfettamente visibili, grazie all'assenza di ogni nuvola. I suoi piedi, fasciati da scarpe da ginnastica, erano a contatto con l'erba altrettanto fresca del giardino, sul retro dell'albergo. Disegnava cerchi invisibili su di esso con un piede, mentre i suoi occhi vagavano distrattamente verso l'alto, alla ricerca di un qualcosa che andasse oltre quel blu infinito.

I ragazzi erano a qualche passo da lei, intenti a chiacchierare mentre soddisfacevano i loro sensi con una sigaretta. Gustav era l'unico che aveva optato per dei polmoni in salute, mantenendo quindi le sue grosse mani nelle tasche dei suoi pantaloncini e rimanendo in silenzio, come era solito fare il più delle volte. Bill teneva tra le dita una sigaretta, con eleganza, poggiato con il bacino ad un muretto alle sue spalle e parlava con suo fratello, il quale anch'egli aspirava un po' di fumo, di tanto in tanto, dalla sua sigaretta, con una mano nella tasca dei suoi jeans oversize. Georg prestava semplicemente attenzione ai movimenti di Gustav, pensando a chissà cosa, mentre sedeva sul muretto, a qualche centimetro di distanza da Bill.

Monique non poteva fare a meno di osservare quella situazione di fronte a lei e studiare i quattro ragazzi attentamente. La sua attenzione veniva catturata spesso dalla figura alta ed imponente del chitarrista, portandola a vagare con la mente vero l'accaduto di qualche minuto prima, quando ancora sedevano al tavolo della sala da pranzo. I suoi comportamenti, ma soprattutto quelli di suo fratello Bill, le erano parsi a dir poco sospetti e non riusciva a non darvi un certo peso. Voleva capire se il vocalist fosse effettivamente al corrente di qualcosa a lei sconosciuto... Quello sguardo enigmatico che si era scambiato con Tom era stato del tutto strano.

«Hey, che fai qui da sola?» la voce di Gustav la riportò alla realtà, facendole voltare appena il capo alla sua sinistra. Non si era nemmeno accorta dell'avvicinamento del batterista, mentre era troppa assorta nei suoi pensieri. Sorrise appena, abbassando lo sguardo per qualche secondo.

«Nulla, contemplo il vuoto.» rispose gentilmente, stringendosi nelle spalle.

«Mmm... Scoperto qualcosa di interessante?» le domandò scherzoso.

«A dire il vero sì. Nel vuoto puoi vedere molte più cose di quanto tu possa credere, fidati.» sorrise la ragazza, tornando a poggiare la testa all'indietro, sul muro roccioso.

«Perchè non vieni lì con noi?» le propose successivamente il ragazzo, piegando leggermente il capo per guardarla in volto con espressione estremamente dolce sul volto.

«Perchè qualcuno non gradirebbe la mia presenza.» commentò con leggerissimo sarcasmo Monique, curvando appena le labbra all'insù.

«Tom è un tipo complicato, ma non è cattivo.» Monique sollevò le sopracciglia con espressione scettica. Non sapeva il motivo, ma non riusciva a credere fermamente a ciò che il batterista aveva appena detto. «Fa il buzzurro, l'antipatico e l'egoista, ma in realtà ha un cuore grande.» continuò ed a quel punto Monique non seppe trattenere una lieve risata. Le rimaneva piuttosto difficile concordare sul fatto che egli avesse un così detto cuore grande. «E' la verità.» le sorrise il biondino. «Può sembrar strano, ma è solo questione di conoscenza.» aggiunse.

«Sarà, ma è lui che non vuole farsi conoscere da me.» scrollò le spalle la ragazza, dando una veloce occhiata al chitarrista, alle prese in una conversazione con gli altri due.

«Tu hai mai provato a farti conoscere da lui?» le domandò dolcemente. Monique sollevò lo sguardo su di lui, specchiando i suoi occhi castani in quelli del ragazzo. A tale domanda non seppe dare risposta; forse perchè effettivamente non aveva mai provato ad intraprendere un discorso con il chitarrista. Aveva sempre e solo taciuto di fronte alle sue provocazioni; gli aveva solamente fatto notare la sua sgarbatezza nei suoi riguardi una volta, ma – pensandoci – non aveva mai provato a parlare d'altro con lui. D'altronde come avrebbe mai potuto farlo, visto il suo ripudio per lei? «Dai, vieni.» le intimò Gustav, invitandola ad avvicinarsi agli altri. Obbedì a quella richiesta e lo seguì fino a raggiungere il muretto in marmo bianco.

L'improvviso irrigidirsi ed il cambio di espressione di Tom non le passarono di certo inosservati, ma si ostinò a fare finta di nulla, mantenendo un semplice sorriso sul suo volto.

«Hey, Monique, vuoi una sigaretta?» le domandò Bill con estrema ilarità, porgendole il pacchetto.

«No, grazie, Bill, non fumo.» declinò gentilmente l'invito ed il vocalist lo infilò nuovamente in tasca. Anche l'avesse fatto, non avrebbe potuto.

«Domani si torna alla realtà di tutti i giorni... Cominciavano a piacermi questo albergo e Parigi.» esortò Georg, portandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi, perfettamente piastrata.

«Taci, io rivoglio il mio letto. Prima mi sono seduto su quello della mia stanza... E' duro come il marmo.» si lamentò Bill, sbuffando una boccata di fumo precedentemente inspirata.

«Tu ti lamenti sempre, Bill.» commentò Gustav, sorridendo appena.

«No, mi lamento quando è giusto farlo.» ribattè il moro, schiacciando la sigaretta sotto al piede.

«Oh, coglione, non puoi lasciarla per terra. Siamo in un albergo.» borbottò Tom, raccogliendola con la punta delle dita, piuttosto schifato, e buttandola successivamente nel bidone della spazzatura.

«Tu e le tue manie ambientaliste...» commentò Bill, sollevando gli occhi al cielo.

«Caso mai, io e la mia educazione.» ribattè nuovamente il chitarrista, dopo aver gettato anche la sua sigaretta. Monique sollevò un sopracciglio, senza farsi notare. Era solo con lei, allora, che sfoggiava il meglio di sé e della sua non educazione?

«Monique, non ci hai mai parlato veramente di te.» disse improvvisamente Gustav, guardandola con un piccolo sorriso in volto. Sapeva che lo stava facendo apposta, proprio per il loro precedente discorso.

«Già, è vero... Perchè non ci racconti un po' di te?» lo assecondò Georg, accomodandosi meglio su quel muretto.

Monique aveva sempre odiato parlare di sé, che fosse in bene o in male, non le era mai piaciuto... Ed ora aveva un'enorme motivazione in più per non farlo. Ma come poteva dire di no agli occhi curiosi di Georg?

«Beh, di me non c'è molto da dire. Da quando lavoro per voi, mi sono dovuta trasferire qui a Berlino: prima abitavo con i miei ad Amburgo.» cominciò con un lieve impaccio e con le mani rifugiate nelle tasche. Quando era nervosa, pregava perchè avesse delle tasche a disposizione, o avrebbe cominciato a torturarsi le mani ad ogni parola che pronunciava.

«Vivi da sola, quindi?» domandò Bill, piuttosto interessato.

«Sì.»

«Ti mancano i tuoi?»

«Molto ma, appena posso, li vado a trovare.»

«Tra l'altro, sei figlia unica vero? Sai, perchè io e Tom, per lo meno, possiamo sostenerci a vicenda. Quando sentiamo troppa mancanza dei famigliari, comunque ci diamo sostegno. Immagino che per te sia più difficile.»

«Beh, sì, lo è. Ma alla fine ho imparato a farci l'abitudine. Non serve che mi pianga addosso, non li fa avvicinare.»

«E non ce l'hai il ragazzo?»

Monique serrò la mascella, mentre la tempia prendeva a pulsarle velocemente.

«No.» sibilò a denti stretti. «Ma ho una migliore amica, che viene a stare da me molto spesso, per farmi un po' di compagnia.» decise di cambiare subito discorso, sforzando un sorriso nel pensare a Jessica.

«Strano che una bella ragazza come te non abbia il fidanzato.» commentò Bill quasi perplesso.

«Bill, che ne dici se andiamo a dormire? David poi si incazza... E' già l'una.» intervenne per la prima volta Tom in quel discorso. Il vocalist buttò un occhio al suo orologio da polso e poi annuì.

«Sì, hai ragione. Beh, Monique, avremo altre occasioni per parlare.» le sorrise amabilmente il ragazzo. Monique annuì non troppo convinta e seguì i ragazzi verso l'entrata dell'albergo.


**


Non riusciva a chiudere occhio. Per sbaglio, quella notte – vista la mancanza di sonno – aveva acceso la televisione della sua stanza d'albergo, a volume minimo, e la prima cosa che le era balzata all'occhio era stata una donna in procinto di partorite. Non poteva sentire, ma poteva perfettamente osservare il suo volto contratto in una smorfia di dolore. Aveva guardato qualche secondo quella scena alquanto macabra con sguardo perso e scandalizzato, fino a che non ebbe spento velocemente il televisore, alla vista della testa del bambino che cominciava ad uscire. Non aveva voluto assistere oltre. Era sempre stata fifona per certe cose e la sua soglia del dolore l'aveva sempre fregata in molte situazioni.

Così si era ritrovata nel letto, con due fanali al posto degli occhi, e con quell'unica immagine impressa nella mente, chiedendosi come mai avrebbe fatto ad affrontare una cosa simile. La paura aumentava attimo dopo attimo, così come i suoi battiti cardiaci, ragion per cui decise di alzarsi dal letto ed aprire silenziosamente la portafinestra che dava sul balconcino della sua camera. Una bella boccata d'aria non le avrebbe fatto male.

A contatto con la brezza fresca rabbrividì, stringendosi con le sue stesse braccia nel suo semplice pigiama grigio, ma poi un piacevole senso di sollievo la pervase. Si appoggiò con i gomiti sulla ringhiera e planò il suo sguardo sul paesaggio notturno di Parigi: senza dubbio era uno spettacolo degno di essere visto.

Nella sua mente apparve, in un lampo, uno schema del suo futuro incombente. Quel bambino non lo aveva ancora accettato... Forse da una parte l'aveva già fatto, scegliendo di tenerlo – ma per il semplice ed unico fatto che non avrebbe mai voluto uccidere una vita umana; quello non lo avrebbe mai fatto a prescindere. Non riusciva lo stesso, però, a visualizzarsi nei pesanti panni di madre. Quella parola le suonava anche troppo stonata, se accostata affianco al suo nome. A dire il vero non aveva mai pensato di diventare madre nemmeno in un futuro più lontano; per di più ora si trovava da sola, nonostante la presenza costante della sua migliore amica che, era sicura, ci sarebbe sempre stata per darle una mano.

Quando – per caso – voltò lo sguardo sulla sua destra, per poco non emise un urlo acuto che sarebbe stato in grado di risvegliare l'intera città dormiente. Tom era seduto sulla sedia in vimini del balconcino adiacente, intento a fumare una sigaretta, con una semplice tuta nera a fasciargli il corpo. Anche lui aveva tutta l'aria di essersi appena alzato dal letto – anche se qualche attimo prima di lei – ed aver indossato i primi capi trovati a portata di mano per non sentire freddo.

Monique si chiese cosa ci facesse ancora sveglio alle tre di notte, quando proprio lui, poco prima, aveva intimato ai suoi compagni di tornare in stanza per dormire, vista l'ora avanzata.

Evidentemente non si era accorto di lei perchè continuava a fumare come se nulla fosse, osservando con sguardo perso il paesaggio di fronte a sé. La ragazza non poté fare a meno di pensare che preso a quella maniera sembrava quasi un ragazzo dolce e profondo. Non aveva mai negato di trovarlo piuttosto carino, per quanto riguardava l'aspetto fisico, ma il suo carattere tremendamente testardo e scortese l'aveva sempre portata a non vedere altro in lui che i suoi difetti.

«Se vuoi, scattami una foto, così te la puoi guardare quanto vuoi senza infastidire me.» aveva parlato il ragazzo, senza degnarla di uno sguardo e facendo il tutto come se lei non fosse mai esistita. Monique, presa alla sprovvista, arrossì violentemente, reprimendo un pericolosissimo istinto omicida.

Quindi si era accorto della sua presenza...

«Mi chiedevo solo cosa ci facessi ancora sveglio, tutto qui.» borbottò quest'ultima, voltandosi nuovamente verso il paesaggio di fronte a lei. Rimasero qualche attimo in silenzio, fino a che Monique non decise di parlare di nuovo. «Non riesci a dormire?» domandò, scrutandolo appena con la coda dell'occhio.

«Non sono affari tuoi.» la liquidò il ragazzo, come sempre. Monique venne pervasa da mille e più brividi di rabbia, ma cercò di contenersi. Ricordava perfettamente le parole di Gustav di quella stessa sera... Tom è un tipo complicato, ma non è cattivo... Fa il buzzurro, l'antipatico e l'egoista, ma in realtà ha un cuore grande... E' solo questione di conoscenza. Doveva darvi ascolto? Ci avrebbe provato, ma la sua pazienza – comunque – stava arrivando al limite.

Sospirò appena, distogliendo nuovamente lo sguardo da lui per spremersi su un qualcosa che potesse dire.

«Sai cosa penso, Tom?» esortò improvvisamente, d'impulso.

«Non mi interessa saperlo.» ribattè il ragazzo, ma Monique agì come se non avesse mai parlato.

«Penso che tu abbia paura di conoscermi.»

«E perchè dovrei averne? Non mi interessa fare la tua conoscenza, tutto qui. Mi sei indifferente.»

«Se ti fossi del tutto indifferente, non ti comporteresti in modo tanto scorbutico con me.»

«Ne sei davvero sicura?» A quella domanda, entrambi si guardarono per qualche attimo. Lui con sguardo di sfida, penetrante e freddo; lei più insicura, ma solamente per il fatto che quelle occhiate cariche di odio la mandavano sempre nel pallone. Non appena il chitarrista distolse nuovamente lo sguardo, per continuare a fumare con tranquillità infinita, Monique riprese a respirare. «Ti consiglio di non essere così presuntuosa, Schmitz.» disse poi, portando fuori dalle sue labbra carnose e contornate dal piercing nero una nuvola di fumo grigiastra, ad ogni parola che pronunciava. Monique si era soffermata sui movimenti leggeri e quasi sensuali (?) della sua bocca, trovandosi a deglutire più volte. Come potevano delle labbra così ben fatte sputare tutte quelle cattiverie con così tanta facilità?

«La mia non è presunzione. Sto solo cercando di capire i tuoi strani comportamenti. Non puoi odiarmi, non si può odiare una persona senza nemmeno conoscerla.» disse Monique, cominciando ad alterarsi e rendendo così la sua voce più tremolante. Vide Tom sospirare scocciato e spegnere la sigaretta nel posacenere accanto a sé, per poi sollevarsi dalla sedia di vimini. Guardò Monique e si aggiustò il cappuccio della felpa dietro alle spalle.

«Sai che ti dico? Mi sono stufato di sentire le tue lamentele.» disse acido, voltandosi poi in direzione della sua portafinestra e camminando verso essa, con l'intento di tornare in camera sua a dormire. «Tu lavori per me, Schmitz, e basta. Non è scritto da nessuna parte che tra noi debba esserci un qualche rapporto differente; mettitelo in quella testa dura.» sibilò freddo, prima di chiudersi la porta in vetro alle spalle e tirare le tende, per permettergli di sparire dalla vista di Monique. Quest'ultima reprimette un urlo di ira e tornò in camera a grandi falcate.

Ci aveva provato, con lui, e non aveva concluso nulla. Al diavolo le parole di Gustav: Tom era solamente un bambino egoista.


**


«Sul serio ti ha risposto così?» lo voce di Jessica risuonò piuttosto sorpresa e sconcertata attraverso quell'apparecchio telefonico. Monique continuava a fare avanti e indietro per la sua camera d'albergo, gesticolando più e più volte, mentre attendeva che qualcuno la venisse a chiamare per la partenza.

Aveva raccontato la conversazione – se così si poteva chiamare – di quella notte che aveva dovuto tenere con quell'essere spregevole – detto anche Tom – alla sua migliore amica, in cerca di un appiglio su cui sfogare la propria rabbia.

Lei aveva fatto esattamente come le aveva consigliato Gustav: aveva cercato la conversazione; avrebbe anche provato a farsi conoscere per quanto possibile, ma Tom aveva troncato sul nascere quell'idea. Per lo meno lei la forza di volontà ce l'aveva messa ed aveva anche represso più volte la voglia di prenderlo a pugni. Più di quello, non sapeva proprio cos'altro dovesse fare. Lui non voleva instaurare un normalissimo rapporto civile con lei, e lei di certo non si sarebbe più sforzata di ottenerlo. D'altronde le interessava così tanto instaurare un rapporto con Tom?

«Sì! Avrei voluto tirargli una craniata in piena fronte per poi sputargli in un occhio, ma ha fatto in tempo a rinchiudersi in camera sua...» rispose Monique, presa dal nervoso. Udì la risata lieve di Jessica dall'altra parte del telefono e si imbronciò ulteriormente. «Non c'è niente da ridere.» obiettò. Improvvisamente sentì bussare alla porta della stanza.

«Monique? Sei pronta?» la chiamò David, da dietro essa.

«Sì eccomi! Ti devo lasciare, Jess, ci vediamo stasera.»

«D'accordo, a stasera.»

Monique ripose il cellulare nella tasca dei suoi jeans attillati e, preso il piccolo borsone, uscì dalla camera. Trovò in corridoio i quattro ragazzi al completo assieme a David e Tobi, pronti per ripartire. Lanciò una gelida occhiata a Tom, il quale la guardava come se mai nulla fosse successo, ma con la solita freddezza, e seguì il resto del gruppo verso l'ascensore.

Avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle quella vicenda di Parigi e concentrarsi esclusivamente su se stessa.


**


La crema alla nocciola stava rinfrescando piacevolmente la sua bocca. Rannicchiata sul divano, in pigiama, era intenta a ripulire un enorme cucchiaio ancora interamente ricoperto di gelato. Quale soluzione migliore se non quella, per sfogare i propri nervi?

Di fronte a lei, Jessica la osservava con lieve divertimento, spostando ogni tanto il suo sguardo sulla vaschetta ormai vuota, poggiata sul tavolino affianco al divano.

«Sei un pozzo senza fondo. Ormai mi rifiuto di dirti qualunque cosa.» ridacchiò, poggiando la testa sulla sua mano e continuando ad osservare la sua migliore amica, piacevolmente soddisfatta da quella mangiata. Quando Monique ripose il cucchiaio nella vaschetta, si stravaccò meglio sul divano, sospirando sorridente.

«Ora sì che sto bene.» commentò la castana, chiudendo gli occhi.

«Io comunque mi sono fatta una mia opinione di tutta questa storia.» esortò Jessica, improvvisamente, rigirandosi tra le dita una ciocca di capelli.

«Quale? Che Tom è un buzzurro, egoista, poppante con seri problemi di egocentrismo e presunzione?» domandò Monique, schifosamente ironica.

«Apparte quello.» tagliò corto la rossa. Monique si voltò verso di lei, attendendo che parlasse. «Non è che è attratto da te, a dispetto di ciò che vuole dimostrare?» domandò seriamente. La castana impiegò qualche secondo per afferrare pienamente il senso logico – se mai l'avesse avuto – di quella frase, per poi scoppiare a ridere quasi istericamente. «Noto con piacere che il pensiero ti diverte.» sorrise Jessica, sollevando un sopracciglio; al che Monique si ricompose.

«E' semplicemente impossibile. Mi odia dal profondo del cuore e non so il perchè. Ma comunque non mi interessa più.» rispose con superficialità, recuperando la vaschetta vuota di gelato ed incamminandosi verso la cucina per buttarla.


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Capitolo 6
*** Five. Further lies ***


further lies

Chapter Five.
- Further lies -



Le nausee continuavano a darle il tormento, senza sosta. Certo, poteva ritenersi sollevata per il fatto che fossero notevolmente diminuite rispetto ai primi tempi, ma ciò non la faceva comunque sorridere. Lavorare ed alzarsi improvvisamente, di corsa, per andare a rimettere in bagno, non era esattamente ciò che più la divertiva fare.

Era già la seconda volta che un conato l'aveva presa alla sprovvista quella mattina, facendole mollare a metà il lavoro su una lettera particolarmente articolata. Qualsiasi odore venisse a contatto con le sue narici, la mandava fuori di testa. Più volte si concentrava nel respirare con la bocca, anziché col naso, pensando che ciò potesse alleviare quella spregevole sensazione di nausea, ma inutilmente.

Quasi spezzò a metà la matita che teneva in mano, intenta a scrivere su un foglio di brutta la prima traduzione di quella lettera – nel caso avesse dovuto apportarvi modifiche –, per quanto la sua presa era forte e violenta attorno ad essa.

Il nervoso la stava attanagliando da troppi giorni ormai e sapeva perfettamente – nell'angolo più oscuro e remoto della sua mente – che la causa non era solamente la nausea. Una piccola percentuale di colpa ricadeva anche su un certo soggetto, particolarmente simpatico, di nome Tom Kaulitz. Da quella volta sul balconcino dell'albergo non le aveva mai più rivolto parola – non che questo stravolgesse particolarmente le loro abitudini – ma ciò che Monique riteneva più assurdo era il fatto che il chitarrista non si sprecasse nemmeno a rivolgerle delle provocazioni o delle cattiverie, alle quali si era sempre lasciato andare, solo per il gusto di farlo.

Ora nemmeno quelle. Ora vi era pura e totale indifferenza. E per la precisione, da cinque giorni.

La cosa che più le scocciava ammettere era di sentirsi misteriosamente infastidita dal quel comportamento. Si lamentava quando arrivava da lei solo per crearle disturbo e comportarsi da perfetto egoista e cattivo ragazzo – quale apparentemente dimostrava di essere – ma quell'indifferenza non faceva che indisporla ulteriormente, senza neanche conoscere il reale motivo. Ora che la lasciava in pace, avrebbe dovuto tirare un sospiro di sollievo, invece che rimuginarci troppo su. Non era quello che aveva sempre voluto, essere lasciata in pace dal chitarrista?

La ciliegina sulla torta fu la sua entrata nel secondo mese di gravidanza... E non ancora una fottutissima idea su come avrebbe potuto mascherare quella situazione. Sapeva che già dal terzo mese si sarebbe notato un leggero gonfiore del suo ventre. Certo, non tanto da destare sospetto in tutti gli altri, ma comunque abbastanza per far calare gli occhi – di chiunque la vedesse – su di esso. Avrebbero solamente creduto nell'acquisto di qualche chilo in più per qualche scorpacciata di troppo, era vero. Ma quando anche quel terzo mese sarebbe passato, accogliendo il quarto e il quinto, sarebbe stato ancora solo troppo cibo?


**


«Perchè sei scazzata?» domandò Monique alla sua migliore amica, quando si rese conto di essere giunta al termine della sua già scarsa pazienza e di non sopportare più quel silenzio spezzato solamente da battiti violenti delle loro posate sui piatti.

«Sai benissimo perchè sono scazzata.» ribattè Jessica, continuando a torturare quel povero piatto con il solo uso della forchetta. Monique, seduta di fronte a lei, la osservava in tutte le sue movenze, senza invece battere ciglio.

«Mi spiace contraddirti, ma in questo momento proprio mi sfugge.» ribattè, poggiando entrambe le braccia sul tavolo da pranzo.

«Sei ormai entrata nel secondo mese e non ancora ti sei degnata di fare una fottuta ecografia. Ti rendi conto che hai paura di semplicissime foto

«Quelle semplicissime foto rappresenterebbero la merda di futuro che mi sono andata a cercare.»

«Ma come puoi definire merda una cosa del genere? Ma ti senti almeno quando parli?»

«Sì, mi sento benissimo e ti ho già ripetuto che non mi servono le tue ramanzine.»

Detto questo, Monique si alzò da tavola con il suo piatto per poggiarlo nel lavandino, con l'intenzione di lavarlo. Non mosse un muscolo quando sentì la sedia dietro di sé strisciare rumorosamente contro il pavimento, dei passi affrettati allontanarsi sempre di più e la porta di casa sua sbattere violentemente.


**


Quei continui sbalzi d'umore la stavano rendendo sempre più intrattabile e la discussione avuta con Jessica, la sera prima, ne era stata un valido esempio. Con il passare delle ore notturne, si era facilmente resa conto di aver esagerato nel rivolgersi a lei a quella maniera, ma d'altro canto non poteva fare a meno di portare avanti le sue idee.

«Monique?» A quell'improvviso richiamo, la ragazza sollevò il capo dalla scrivania e trovò quello di Bill, timidamente affacciato nel suo ufficio. «Scusami se ti disturbo... Volevo sapere se ti andava di ascoltare una canzone che abbiamo appena terminato. Abbiamo bisogno del parere di qualcuno prima di registrarla o meno. Sulle altre siamo andati piuttosto sicuri, ma su questa abbiamo qualche dubbio.» le spiegò, ostinandosi a starsene oltre la soglia, come non volesse invadere il territorio di Monique.

Quest'ultima sorrise calorosamente ed annuì convinta, per poi alzarsi dalla poltrona e seguire il vocalist verso la stanza insonorizzata, dietro all'enorme vetro, dal quale li aveva già osservati all'opera, assieme a David. Al loro ingresso ricevette due enormi e sinceri sorrisi da parte di Gustav e Georg, mentre Tom – come sempre – appariva contrariato. Bill la fece accomodare su uno sgabello, di fronte a loro, e successivamente andò ad appostarsi al microfono, mentre gli altri ragazzi si preparavano con i propri strumenti. Tom aveva afferrato la chitarra acustica, per il sollievo di Monique: non era assolutamente in grado di udire chitarre elettriche, quel giorno, talmente era frastornata.

Gustav scandì il tempo, battendo le bacchette fra loro, e qualche secondo dopo la stanza venne pervasa da una piacevole melodia che ebbe il potere di rilassare Monique. Aveva un qualcosa di malinconico ma ciò lo gradiva.

«I hate my life... I can't... Sit still for one more single day I've... Been here waiting for... Something to live and die for... » la voce del vocalist pervase dolcemente le sue orecchie. Quelle parole entrarono nella sua pelle, una dopo l'altra, quasi indelebili e dolorose... Eppure così piacevoli al tempo stesso. Quasi trovò un qualcosa che le accomunasse a lei, ma non sapeva bene cosa. «In your shadow I can shine...» Bill continuava a cantare ad occhi chiusi, come rapito da se stesso e da quella canzone. Si trovava in un mondo tutto suo e non udiva nulla di ciò che gli accadeva attorno. Monique spostò lo sguardo sul fratello e notò la stessa espressione rapita, concentrata e quasi triste che lo caratterizzava. Le dita pizzicavano leggere quelle corde lisce, come se a malapena le toccassero.

Per un attimo Monique si estraniò dal resto, continuando a tenere d'occhio il viso del chitarrista. I suoi occhi socchiusi e persi nel vuoto di fronte a sé lasciavano trasparire l'amore che il ragazzo provava per quello strumento... Forse l'unico mezzo con il quale riusciva ad esternare le proprie emozioni e i propri sentimenti, non riuscendovi a parole o gesti. Forse Monique doveva conoscere sul serio quel lato nascosto del ragazzo... Come poteva essere quella persona la stessa che si divertiva a maltrattarla?

Le gote le si imporporarono ed il cuore perse un battito quando gli occhi seri e penetranti del chitarrista si sollevarono su di lei, scrutandola, scuro in volto. Distolse velocemente i propri, tornando a concentrarsi sull'esile figura del cantante, senza accorgersi che la canzone era quasi giunta al termine. Quando ciò avvenne, le altre tre paia di occhi la cercarono, in attesa di un qualche suo giudizio.

«E' bellissima.» soffiò appena la ragazza. Ed era la verità; era ciò che pensava: quella canzone l'aveva rapita.

«Davvero?» domandò Bill, come illuminato e con una lieve nota speranzosa nella voce.

«Certo, Bill, non vedo perchè dobbiate avere tutti questi dubbi. La trovo molto profonda, sia in fatto di parole che di musica.»

«Pensi non ci sia nulla da cambiare?»

«Assolutamente no. Penso che perderebbe troppo.»

«Grazie mille, Monique. Ora sono più convinto.»

Monique sorrise nel vedere l'espressione serena ed entusiasta che aveva preso parte sul volto di Bill. Sembrava un bambino felice di aver ottenuto una gustosa caramella come premio per un qualcosa di buono che era riuscito a combinare. Ed era contenta di essere stata lei ad avergli regalato quella caramella.


**


Decidere di tornare per un'intera giornata ad Amburgo, era stata un'idea dell'ultimo minuto. Le era bastato sentire nuovamente la voce di sua madre al telefono per rendersi conto che non sarebbe riuscita a far passare altro tempo, prima di visitare i suoi genitori: ne aveva bisogno anche lei.

Dopo il lungo viaggio, si sentì sollevata nello scorgere la sua casa nativa, svoltato l'ultimo angolo con la sua macchina. Un sorriso spontaneo e sincero le dipinse il volto, mentre un sospiro di sollievo attraversò le sue labbra dischiuse. Casa.

Scese dalla macchina ed attraversò il picciolo vialetto che l'avrebbe condotta all'entrata. Prese il suo mazzo di chiavi e, ancora prima che potesse inserire quella serviente nella toppa, la porta si aprì velocemente, rivelando dietro ad essa una donna di bell'aspetto, caratterizzata da capelli ed occhi dello stesso colore di quelli della figlia. Non vi furono tante parole: solo un abbraccio caloroso, capace di mozzare il fiato.

«Amore, finalmente sei arrivata!» esclamò la donna, continuando a stringere Monique fra le sue braccia. Quest'ultima si beò di quel tanto mancato calore mentre scorse suo padre affacciarsi alle spalle di Ester e scrutarla con un timido sorriso in volto.

Suo padre era sempre stato un uomo riservato e tremendamente scrupoloso. Non aveva mai negato l'affetto a sua figlia, ma era comunque di poche parole e di poche “tenerezze”. Era sempre Monique a premurarsi di concedergli un gesto affettuoso, perchè lui si sciogliesse e lo ricambiasse. Quando la stretta fra Monique e sua madre giunse al termine, arrivò il turno di Alfred.

«Ciao, tesoro.» le sussurrò, accarezzandole appena i morbidi capelli. Improvvisamente, due zampette che cercavano attenzione, portarono lo sguardo di Monique a deviare verso il pavimento. Lilli scodinzolava, aggrappata alle sue gambe con le zampe anteriori, attendendo un saluto.

«Ciao, piccolina!» esclamò Monique, accucciandosi affianco al piccolo animale ed accarezzandolo calorosamente. «Guarda cosa ti ho portato.» le comunicò frugando nella sua borsa e tirandone fuori un bell'osso nuovo. Il cane prese ad abbaiare, fino a che la ragazza non glielo porse. Soddisfatta, Lilli trotterellò dentro casa, mantenendo quel preziosissimo regalo fra i denti.


**


«Tesoro, ti vedo un po' sbattuta in viso... Sicura che non stai lavorando troppo?»

Il tono di sua madre era premuroso e preoccupato, come sempre. Seduti a tavola, consumavano il delizioso pranzetto preparato da Ester con tanto amore, in onore dell'arrivo della sua unica figlia.

Monique, per poco, non si strozzò con l'acqua che aveva appena ingerito e, dopo aver ripreso un colore di pelle più naturale, alzò lo sguardo sulla donna seduta affianco a suo marito.

«Non preoccuparti, sto bene... Lavoro il giusto, per ciò di cui ho bisogno.» la tranquillizzò Monique, piuttosto tesa.

«Se hai bisogno di un aiuto, tesoro, sai che possiamo dartelo, anche se piccolo...»

«No, mamma, ci manca. Ho vent'anni ed una mia indipendenza. Ho scelto apposta questo tipo di vita per non gravare più su di voi e farvi tirare un sospiro di sollievo, anche se leggero.»

«E infatti ti ringraziamo per questo, ma sul serio, per una volta non muore nessuno... Basta che mi dici di cosa hai bisogno e vediamo di...»

«No, mamma. Sul serio, ti ringrazio ma... No.»

«D'accordo, come vuoi. Però non strafare con tutto questo lavoro, ti vogliamo ancora viva tra qualche anno.»

«Grazie per il pensiero carino.»

Si scambiarono un sorriso divertito e poi calò nuovamente il silenzio, fino a che non venne nuovamente interrotto da Ester.

«Christian come sta? Come mai non è venuto?» sorrise la donna, ignara di tutto. Monique strinse con tutta la forza che possedeva in corpo la forchetta che ancora giaceva nella sua mano. A quel nome, un mucchio di pessimi ricordi le tornarono alla mente come proiettili e pregò un santo a lei sconosciuto perchè le desse la forza di rispondere senza infervorarsi.

«Oh ehm... A dire il vero, ci siamo lasciati.» borbottò, senza sollevare lo sguardo dal piatto. Le due paia di occhi improvvisamente puntati sulla sua figura, quasi li sentì trapassarla senza pietà. «Problemi caratteriali, insomma. È stata una decisione di comune accordo.» mentì spudoratamente, prima che uno dei due le chiedesse il motivo di tale scelta.

«Beh, mi dispiace... Mi piaceva Christian.» mormorò la donna, piuttosto cupa in volto. Alfred aveva taciuto tutto il tempo, ma il suo sguardo non mentiva: Monique sapeva che aveva qualcosa da dirle. Se sua madre avesse saputo cosa quel ragazzo – che le piaceva tanto – aveva avuto il coraggio di fare, sicuramente si sarebbe maledetta per averlo solo pensato.

«Già... C'è il dolce?!» cambiò discorso la ragazza, illuminandosi in un sorriso radioso, proprio come quando era piccola.


**


Se avesse fumato, in quel momento avrebbe tranquillamente alleviato i suoi tormenti con una bella sigaretta. Sedeva silenziosa sul gradino di fronte alla porta di casa dei suoi genitori, carezzando distrattamente il pelo morbido di Lilli – la quale non disprezzava quelle particolari attenzioni che le venivano riservate ogni qual volta metteva ben in risalto i suoi occhioni languidi – e rifletteva sul discorso avvenuto qualche istante prima a tavola, trovando tutta quella situazione piuttosto snervante.

Un improvviso e dolce tocco sulla sua spalla sinistra la destò dai suoi pensieri ed una figura alta e magra si sedette accanto a lei. Sorrise nell'osservare suo padre che la scrutava attentamente, come a voler cogliere ogni minimo particolare che il suo sguardo riuscisse a rilasciare. Il silenzio troneggiò ancora per qualche minuto, fino a che Alfred non attaccò bottone, come poche volte succedeva.

«Non mi è mai piaciuto Christian.» disse con la serenità più semplice negli occhi. Monique sorrise appena, abbassando lo sguardo.

«Lo so.» rispose. «Mi hai sempre detto il contrario per farmi un piacere... Ma io l'ho sempre saputo che non lo vedevi bene per me.» continuò, senza distogliere gli occhi dal cane che, nel frattempo, si era accomodato ai suoi piedi, a zampe all'aria, permettendole così di prendersi cura della sua pancia nera e bianca.

«Ti ho semplicemente lasciato fare. Ho rispettato le tue scelte senza metterci lingua, perchè... Sapevo che ci saresti arrivata da sola, prima o poi. Sei una ragazza intelligente.» spiegò l'uomo, continuando a non guardarla.

«Avrei voluto capirlo prima.»

«Guarda il lato positivo. Hai vent'anni, sei giovane. Hai ancora un'intera vita davanti per trovare l'uomo adatto a te. Non c'è fretta. Non hai neanche il problema del matrimonio o dei figli di mezzo, dato che con Christian non è stata tutta questa gran storia, nonostante sia durata abbastanza.» Monique fissò le mani sul gradino dove sedeva come a volersi tenere saldamente a terra e non voler ruzzolare giù per quell'immaginario dirupo che si era aperto davanti a lei con violenza. Cominciò a sudare freddo. La vicinanza così pericolosa di suo padre la rendeva piano piano più nervosa, sapendo di nascondere un problema molto più grande di lei. Se l'avesse guardato negli occhi, avrebbe ceduto. Non ce l'avrebbe più fatta a mentire; si premurò quindi di tenere gli occhi ben lontani da quella che era la sua figura. Quando Lilli reclamò altre coccole, la accontentò, deglutendo pesantemente e rimanendo in religioso silenzio. L'aria si era fatta più tesa, tangibile ed affilata come una lama... Ma questo poteva avvertirlo solo lei, sulla sua pelle chiara. «Spero tanto tu riesca a trovare un ragazzo che ti sappia amare immensamente per quello che sei.» aveva sussurrato suo padre, con le guance leggermente arrossate. Era la prima volta che si lasciava andare a “confessioni” così importanti e profonde con lei e questo Monique non poté fare altro che apprezzarlo.

«Grazie, papà.» sorrise la ragazza, guardandolo per la prima volta in viso, senza nascondere il sorriso sereno che aveva peso spazio sul suo volto. Alfred ricambiò quello sguardo intriso di tanti significati e, dopo aver dato due leggere pacche sul ginocchio di sua figlia, si rialzò dal gradino per rientrare in casa. Prima che l'uomo varcasse la soglia, Monique si voltò nella sua direzione, osservandolo dal basso. «Papà?» richiamò la sua attenzione. L'uomo girò lo sguardo nella sua direzione, attendendo. «Ti voglio bene.» ammise Monique, con voce tremolante e con il cuore che minacciava di sfondarle la cassa toracica. Alfred sembrò inizialmente sorpreso, ma poi rilassò le sue labbra in un sorriso sincero.

«Anche io te ne voglio.» rispose, per poi rientrare in casa.

Quello era decisamente un gran bel passo avanti.


**


La via del ritorno era buia, illuminata solamente dai pochi fari delle automobili. Non aveva preso l'autostrada: quella volta aveva preferito optare per un lungo percorso in mezzo alla campagna, che l'avrebbe condotta ugualmente a Berlino, anche se in tempi maggiori. Erano le dieci di sera e probabilmente sarebbe arrivata a casa per mezzanotte passata.

Il sonno aveva preso il sopravvento: si sentiva particolarmente spossata e probabilmente ciò era dato dallo stesso viaggio che aveva dovuto compiere quella mattina. Il meglio sarebbe stato fermarsi a dormire a casa dei suoi, come Ester le aveva consigliato, e ripartire l'indomani mattina, a mente più fresca. Eppure Monique aveva insistito per andarsene quella sera stessa con la scusa del lavoro. La verità era che aveva paura di destare sospetto nei suoi genitori, caso mai si fosse sentita male per un altro dei suoi conati di vomito improvvisi.

Le palpebre le si abbassavano sistematicamente, per poi riaprirsi a piccoli scatti. Si sfregò stancamente gli occhi, cercando inutilmente di scostare dalla sua vista quell'alone biancastro che si era venuto a creare davanti a sé.

Soffocò un urlo una frazione di secondo prima che succedesse l'irreparabile. Un albero avanzava a gran velocità nella sua direzione, ma prima che potesse raddrizzare il volante – sfuggitole a causa del sonno – sentì un doloroso colpo alle braccia, che riconobbe come l'airbag, ed un tonfo violento che la fece oscillare pericolosamente avanti e indietro con la schiena. Un immenso fumo biancastro si levò attorno a sé, cancellandole dalla vista tutto ciò che aveva attorno.

Prese a tossire, slacciandosi la cintura e facendosi poi aria per poter respirarne di pulita, senza successo. Aprì la portiera e scese barcollante dalla macchina. Fortunatamente non si era fatta nulla, ma quello era stato un vero miracolo. Si prese i capelli fra le mani tremanti e cerò subito il cellulare nella tasca dei suoi jeans. Il muso della macchina era completamente distrutto e certamente quel rottame non sarebbe stato in grado di riportarla a casa sana e salva.

Non poteva chiamare i suoi genitori: come minimo sarebbe venuto loro un infarto, e aveva deciso che di infarti ne avrebbero già avuti una volta venuti a scoprire della sua gravidanza... E per quello c'era tempo.

Digitò senza pensarci due volte il numero di Jessica ma si demoralizzò quando sentì che squillava a vuoto: probabilmente era ancora arrabbiata con lei per la sera della discussione a cena e si rifiutava di risponderle al telefono, non potendo immaginare cosa le fosse successo.

Cominciò a guardarsi attorno disperata. A quell'ora, per quel sentiero, di macchine non se ne vedevano molte e le uniche che passavano non si degnavano certamente di fermarsi e prestare soccorso.

Sospirando, provò a digitare il numero dello studio di registrazione, pensando che quello potesse essere la sua ultima spiaggia; ma era decisamente improbabile che i ragazzi si trovassero ancora lì a quell'ora.

«Pronto?» la voce di David la risvegliò dalle sue preoccupazioni, permettendole di scorgere una luce lontana in tutto quel disastro.

«David, meno male che ci sei.» esclamò la ragazza, rincuorata.

«Sì, adesso devo uscire e stavo giusto parlando con Tom di un paio di cose riguardo il nuovo album; c'è qualche problema? Come mai questa voce?»

«E' successo un casino. Ho fatto un incidente. Io sto bene, non ti preoccupare. Ho avuto un abbiocco improvviso e sono andata a sbattere con la macchina contro un albero. Stavo tornando da casa dei miei, sono ancora ad Amburgo ed è piuttosto distante da Berlino. Non so come fare a tornare indietro, sono a piedi e la mia migliore amica non risponde al telefono...»

«Oh mio Dio! Contro un albero?! Ma sei sicura di stare bene?!»

«Sì, David, io sto bene, davvero. Ma la macchina è distrutta e non so come tornare a casa.»

«Oddio, tesoro, come ti ho detto, adesso ho un impegno importante, Bill è a casa e Georg e Gustav lo stesso. Ti mando Tom che è qui accanto a me.»

«Cosa?! Ehm, ma no... David, no. Non stare a scomodarlo.»

«Macché scomodarlo! Dì un po', vorresti restare lì tutta la notte?! Avanti, dimmi precisamente dove ti trovi e riferirò tutto a Tom che ti verrà a prendere con la sua macchina. Però devi pazientare perchè prima del suo arrivo passerà qualche ora, come sai.»

Monique si sentì disarmata, con le spalle al muro. Aveva bisogno di tornare a casa, non poteva effettivamente restare lì per strada, accanto a quell'albero per tutta la notte, come le aveva detto David. Ma il pensiero che Tom potesse arrivare da solo la agitava e soprattutto non era nella posizione migliore per farlo scomodare a quella maniera. Lo avrebbe tremendamente scocciato, ancor di più perchè si trattava di lei. Ma d'altro canto era l'unico aiuto che era riuscita faticosamente a racimolare e non poteva tirarsi indietro.

Tirò un lungo sospiro e poi allungò la testa per leggere il cartello a qualche metro da lei e riferire al manager il nome esatto della strada dove si trovava.

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Capitolo 7
*** Six. A lift by the enemy ***


a lift by the enemy

Chapter Six.
- A lift by the enemy -



Aveva deciso di attendere l'arrivo del chitarrista rannicchiata sui sedili posteriori della sua automobile distrutta. Era ormai mezzanotte ed il clima notturno tedesco non era dei migliori. Così aveva passato quelle due lunghe ore a cercare un po' di tepore – per quanto fosse possibile – nella sua macchina.

Si portò una mano al ventre, domandandosi per qualche attimo se il bambino fosse in buone condizioni. L'urto era stato forte, ma era certa di ricordarsi di non aver sentito nulla sbattere contro la propria pancia.

Improvvisamente, due fari accecanti le disturbarono la vista – portandola a chiudere forte gli occhi – fino a che questi non vennero spenti. Allungò appena il collo per vedere, attraverso il finestrino, chi fosse e, con un tuffo al cuore, si rese conto che quella Cadillac nera apparteneva a Tom.

Non molto dopo, vide proprio il ragazzo scendere da quell'enorme vettura, decidendo quindi di uscire anche lei allo scoperto. Notò il moro osservare pensieroso il muso distrutto ed accartocciato della sua macchina, addosso all'albero, per poi spostare lo sguardo su di lei, che si sentì subito accusata.

«Ehm... Ciao.» mormorò Monique, piuttosto impacciata. «Scusa se ti ho fatto...»

«Sali.» la interruppe freddamente il chitarrista, dandole poi le spalle e risalendo in macchina. Monique sospirò amareggiata, preparandosi psicologicamente ad affrontare due lunghissime ore – se non di più – di viaggio con il chitarrista.

Una volta salita, si allacciò la cintura ed attese che Tom mettesse in moto per ripartire. Finalmente imboccarono di nuovo la strada ed il silenzio fu l'unico suono – quasi assordante – udibile in quell'autovettura. Monique osservava tesa il paesaggio del tutto buio al di fuori dell'auto, fino a che non si accorse che il chitarrista stava rallentando in direzione del casello autostradale. Il finestrino del guidatore venne abbassato scorrevolmente per recuperare il biglietto e poi rialzato per riaccelerare.

Il buio pesto – spezzato solamente dai fari della Cadillac e dalle luci delle gallerie, qualora ce ne fossero state –, il rumore lieve del motore come sottofondo... Erano situazioni che avevano sempre affascinato Monique. Viaggiare di notte le piaceva; lo trovava quasi romantico. Ciò la portò a domandarsi se vi potesse essere cosa più assurda del fatto che si stesse godendo tutto quello con Tom al suo fianco.

Voltò appena lo sguardo, senza farsi troppo notare, e lo scrutò con la coda dell'occhio. La mascella era serrata e quasi tesa, come il suo collo – dove poteva scorgere il suo pomo d'Adamo piuttosto pronunciato, fare su e giù di tanto in tanto. Una mano teneva morbida il volante, con il gomito poggiato sulla portiera, mentre l'altra giaceva tranquillamente sulla sua gamba: si vedeva che aveva dimestichezza con la guida. Il viso era serio e concentrato sulla strada di fronte a sé, e le sue labbra più scure e carnose venivano raramente inumidite dalla lingua... Quella stessa lingua che usava tanto bene per infastidirla. Il profilo del suo naso così dritto e ben fatto. I cornrows poggiavano ordinatamente in avanti, oltre le spalle, fino a sfiorare i pettorali coperti da un'enorme maglia grigia, oversize, e da una felpa nera delle stesse enormi dimensioni. La sua fronte era quasi interamente coperta da una bandana bianca, legata dietro la nuca a mo di fascia e gli orecchini neri riuscivano a risplendere sulle sue orecchie, attraverso il buio. Calò gli occhi sulla mano che riposava sul jeans coprente la sua gamba e si accorse – forse solo in quel momento – della sua grandezza: le dita lunghe ed affusolate, e alcune vene a ricoprire il dorso. Era doloroso ammetterlo, ma la fisionomia di quel ragazzo combaciava troppo con il suo modello ideale e la cosa la rendeva ancora più nervosa.

Distolse lo sguardo dall'analisi approfondita di quel corpo così ostile nei suoi riguardi e tornò a concentrarsi anche lei sulla strada, mentre entravano nella terza galleria.

«Apri il cruscotto.» esortò improvvisamente Tom, facendola quasi sobbalzare. Quel ragazzo era una perenne sorpresa: non si poteva mai sapere quando parlasse o quando tacesse. Monique obbedì e trovò all'interno del cruscotto un piccolo sacchetto di carta bianca. «David mi ha detto di dartelo.» concluse, senza guardarla. Monique aprì quel sacchettino e vi trovò all'interno una bottiglietta d'acqua, accompagnata a due pezzetti di focaccia e dei tovagliolini.

«Che carino.» commentò quasi senza accorgersene, pensando al manager ed alla sua gentilezza con un sorriso. «Ne vuoi una?» domandò poi, rivolta al chitarrista ed alludendo al secondo pezzo di focaccia.

«No.» fu la gelida risposta del ragazzo. Monique non attese neanche quel tanto agognato grazie – perchè sapeva non sarebbe mai arrivato – e diede il primo piccolo morso alla sua focaccia. «Vedi di non sbriciolare in macchina.» la avvertì Tom, con tono severo ed urtato.

«Sto facendo cadere le briciole nel sacchetto, Tom, non preoccuparti.» ribattè la ragazza alquanto scocciata da quell'atteggiamento poco fiducioso nei suoi confronti. «Non capisco proprio perchè fai così.» borbottò poi, voltandosi verso il suo finestrino e continuando a masticare.

«Non riattaccare.»

«Tranquillo, tranquillo... Non riattacco più, puoi starne certo.»

Il silenzio piombò di nuovo in mezzo a loro. Monique non poté però fare a meno di pensare che qualche parola, comunque, Tom aveva ricominciato a concedergliela, seppure negativa: era già un bel passo avanti.

Improvvisamente, il solito bisogno di correre al bagno si fece sentire, facendola pervadere velocemente dal panico. Come avrebbe spiegato quell'imminente urgenza al suo compagno di viaggio? L'avrebbe a dir poco derisa.

Ma non appena vide il cartello che avvisava che di lì a poco avrebbero incontrato un Autogrill, decise di approfittarne, disperata.

«Tom, ci possiamo fermare un attimo? Dovrei andare in bagno.» domandò speranzosa di un primo incredibile gesto di nobile gentilezza da parte del chitarrista – ergo, speranzosa di un miracolo impossibile.

«Non te la puoi tenere ancora un po'? Vorrei fermarmi il meno possibile, dato che è già mezzanotte e mezza.» disse Tom, continuando a guidare con apparente tranquillità.

«Ma comunque ti dovresti fermare dopo... Fermati adesso, è la stessa cosa. Ti prego, Tom, è urgente.» insistette Monique, quasi sull'orlo della disperazione, sentendo che la sua vescica non avrebbe retto ancora per molto. Dannata gravidanza.

«E va bene! Basta che stai zitta.» sbuffò Tom, altamente scocciato. Dopo qualche metro accostò fino ad entrare nell'area di servizio. Parcheggiò l'auto affianco a delle altre e spense il motore, permettendo a Monique di scendere. «Che sia una cosa veloce.» le disse ancora, prima che la ragazza prendesse a correre verso l'entrata dell'Autogrill.


**


Quando uscì dalla cabina, andò ad aprire l'acqua del lavandino per immergervi le proprie mani.

Quel viaggio stava diventando una tortura cinese. Ci fosse stato un altro tipo di rapporto tra loro, la situazione non sarebbe stata così fredda ed impacciata. Monique quasi si sentiva i muscoli indolenziti dalla tensione che l'aveva catturata fino a quel momento. Per quanto si sforzasse di stare tranquilla, non ci riusciva, poiché avvertiva lo sguardo gelido di Tom perforarla continuamente, nonostante non si posasse su di lei.

Sentiva come il bisogno di essere trattata diversamente da lui, voleva vedere un sorriso dipingersi su quelle labbra impeccabili, finalmente rivolto anche a lei.

Si passò l'acqua fresca sulle gote improvvisamente arrossate e poi si asciugò con dei fazzoletti di carta.


**


Uscita dall'Autogrill, trovò Tom poggiato alla macchina con la schiena, tenente fra le dita una sigaretta, e con una mano rifugiata nella tasca dei suoi jeans.

«Non ti vuoi prendere niente?» gli domandò più per cortesia che per altro.

«Svegliati, sono Tom Kaulitz. Non mi lascerebbero vivere, lì dentro.» ribattè il chitarrista, buttando la sigaretta per terra e schiacciandola con la scarpa firmata Nike.

«Non c'è nessuno dentro. È tardi.»

Il ragazzo la scrutò qualche attimo in volto, con il solito insopportabile distacco, come a volersi assicurare che non mentisse, e poi scrollò le spalle, camminando verso le scalette.

«Tu aspetta in macchina.» la ammonì, quando notò con la coda dell'occhio che Monique lo stava seguendo.

«Non posso venire anch'io?» domandò la ragazza risentita. Tom si voltò verso di lei, prendendola in contro piede. Del fumo bianco fuoriusciva dalle loro bocche socchiuse, a causa dei loro respiri, che si andava a mescolare quasi con armonia. Inaspettatamente il cuore di Monique prese a battere all'impazzata. Poche volte si guardavano realmente negli occhi... Forse mai.

«Devi comprare qualcosa?» le domandò urtato.

«Ehm... No.» rispose Monique con un'alzata di spalle, non vedendo dove si ponesse il problema.

«Allora – ribadisco – aspetta in macchina, non mi serve la tua compagnia.» tagliò corto il moro, ricominciando a camminare e lasciandola lì da sola. Monique represse un grugnito di disapprovazione e scalciò malamente un po' di ghiaccio che si era andato ad accumulare affianco alla scaletta. Imbronciata, strinse le braccia al petto e trottò pesantemente e sgraziatamente vero la Cadillac. Quando vi entrò, sbattè con curata violenza la portiera, approfittando dell'assenza di Tom che non le avrebbe potuto staccare la testa a morsi, non avendo assistito a quel gesto pericoloso nei confronti della sua preziosissima bambina.

Accavallò le gambe, agitando un piede quasi con schizofrenia. Non riusciva a capirlo. Per lei era un rebus impossibile da risolvere e ci aveva ormai rinunciato, già da un bel pezzo. Sembrava che la sua vicinanza gli desse fastidio, che quasi ne avesse paura. Quella non era indifferenza: se Tom fosse stato indifferente a lei, non si sarebbe fatto problemi nell'averla affianco... E di questo Monique se ne convinceva sempre di più. L'unica domande era: “Perchè?”.

Il rumore della portiera opposta alla sua che si apriva, la risvegliò dai suoi pensieri e la portò a planare lo sguardo alla sua sinistra, dove il chitarrista stava rientrando con un sacchettino in mano, trascinandosi dietro il lieve odore della sigaretta che aveva fumato qualche attimo prima. Richiuse la portiera e si mise a frugare all'interno della busta. Ne estrasse una lattina di Coca Cola che venne subito aperta e portata alle sue labbra. Monique si soffermò più del dovuto sul suo pomo d'Adamo che si muoveva ad ogni sorso, fino a che il ragazzo non smise di bere e non ripose la lattina affianco a sé. Mise in moto la macchina ed imboccò di nuovo la corsia dell'autostrada.

Il respiro di Monique era appena accelerato... Il nervoso non la abbandonava e non l'avrebbe mai fatto finchè non avesse scoperto quale fosse il problema di Tom con lei.

«Comunque sei un'irresponsabile.» esortò improvvisamente il chitarrista, portandola a voltare il proprio sguardo allibito verso di lui. «Se avevi tanto sonno, potevi dormire dai tuoi, invece che uscire in strada ed attentare alle vite degli altri e far scomodare me.» aggiunse scuro in volto. Monique si trovò a stringere i pugni sulle proprie gambe.

«Se non ti dispiace, quella che ha rischiato la vita stasera sono stata io. E ha insistito David per farti venire, io gli avevo anche detto di no.» ribattè indignata.

«Confermi comunque ciò che ho detto: potevi rimanere a dormire a casa dei tuoi, così evitavi tutto questo casino.»

«Tu non ti devi impicciare in cose che non sai. Possono esserci mille motivi per cui io non l'abbia fatto.»

«A me non interessa impicciarmi degli affari tuoi; sei solo tu quella che si diverte in queste cose.»

«Io non mi diverto in queste cose, cerco solo di capire dettagli di te che nessun altro membro della band mi ha negato.»

«Avevi detto che non avresti riattaccato.»

«Sei tu che hai tirato nuovamente in ballo il discorso!»

«Ti ho detto di stare attenta a come ti rivolgi a me, Schmitz, e – ribadisco – posso licenziarti anche ora.»

«E sentiamo, se non mi puoi così tanto vedere e dato che sono mesi che mi minacci con questa storia... Perchè non l'hai ancora fatto?!»

Monique si pentì immediatamente di ciò che aveva appena detto, ammutolendosi in una frazione di secondo e scrutando di sottecchi il ragazzo. Non doveva giocare col fuoco, non poteva perdere il lavoro. Con sua enorme sorpresa, Tom non rispose a quella domanda malamente posta, limitandosi ad osservare la strada di fronte a sé, senza replicare. Era riuscita a zittire Tom Kaulitz? Si rilassò sul sedile, riprendendo aria e cercando di far tornare i battiti del suo cuore ad una velocità più normale.


**


Aprì di scatto gli occhi, battendo più volte le palpebre e guardandosi attorno spaesata. Si trovava ancora in macchina, con il solito buio pesto attorno a lei e con la vista dell'autostrada che sfrecciava veloce. Si voltò verso la sua sinistra e vide Tom, ancora intento a guidare, con gli occhi più piccoli del solito. Probabilmente era stanco. Buttò un occhio all'enorme Rolex del ragazzo e notò che era l'una e mezza: aveva dormito mezz'ora. Vide il chitarrista voltarsi una frazione di secondo verso di lei, giusto per notare che si fosse risvegliata, e poi riporre lo sguardo sulla strada.

«Scusa, mi sono addormentata.» mormorò la ragazza, stropicciandosi appena un occhio.

«Tanto non mi cambia la vita che tu sia sveglia o meno. Anzi, perchè non ti rimetti a dormire? Così evito di sentirti parlare.» le propose il chitarrista con la stessa acidità di uno yogurt scaduto da mesi. Monique sospirò pesantemente, voltandosi verso il suo finestrino e scegliendo di non ribattere per non far scendere il finimondo. Non ne aveva la forza fisica, oltre che psicologica.

Improvvisamente sentì le palpitazioni aumentare ed uno sgradevole senso di vertigine, quando avvertì un forte conato di nausea raggiungerle la gola. Cominciò a tremare, cercando di concentrarsi e reprimerlo, ma temeva che avrebbe combinato un disastro in quella macchina, giocando pericolosamente con l'autocontrollo del chitarrista.

«Tom, ti prego, accosta.» disse tremante, facendo dei lunghi sospiri. Notò con la coda dell'occhio il ragazzo voltarsi verso di lei accigliato.

«Non se ne parla.» rispose categorico. «Ma stai male?» domandò poi freddamente, continuando ad osservarla in quello stato.

«Fermati o ti vomito in macchina!» esclamò lei di rimando, in preda ad una crisi di nervi. Il chitarrista non se lo fece ripetere ed accostò velocemente in un'area di servizio. Monique aprì istericamente la portiera e scese a gran velocità, fino a chinarsi e rimettere. La gola le bruciava e gli occhi le pizzicavano a causa dell'accumularsi di salate lacrime su di essi. Sentì la portiera dietro di lei sbattere e dei passi avvicinarsi alla sua figura. I suoi capelli vennero raccolti all'indietro ed una mano calda si posò sulla sua fronte.

«Ci mancava pure che soffrissi la macchina. Dio, ma avrai qualcosa di positivo?» sentì la voce scocciata di Tom alle sue spalle, mentre lei non aveva la forza di ribattere, presa dagli ulteriori conati. Lei non soffriva per niente la macchina... E se solo il ragazzo avesse saputo il vero motivo...

Finalmente la nausea cessò e lei si risollevò appena. Il ragazzo le lasciò i capelli morbidi liberi di ricadere sulle spalle e si allontanò, tornando alla macchina. Poco dopo si riavvicinò con la bottiglietta d'acqua che gli aveva dato David, che quasi lanciò a Monique.

«Grazie.» borbottò quest'ultima, sorseggiando un po' di quel liquido fresco ed asciugandosi gli occhi ancora umidi con un dito.

«Di questo passo torneremo a casa alle otto del mattino...» sbuffò Tom, poggiandosi con il bacino al guardrail alle sue spalle ed incrociando le braccia al petto per continuare a tenere d'occhio Monique.

«Senti, non è colpa mia.» si difese la ragazza, piuttosto scocciata, continuando a sorseggiare l'acqua.

«Se devi vomitare ancora, fallo. Non sali in macchina finchè non ti senti bene. Con quello che l'ho pagata...»

«Grazie del pensiero carino...» la voce di Monique sputava sarcasmo da tutti i pori. «Comunque ora sto bene, possiamo ripartire.» aggiunse, dandogli poi le spalle per dirigersi verso la macchina.

«Sei sicura?» sentì la voce sprezzante del chitarrista, dietro di lei.

«Come la morte.» tagliò corto la ragazza, richiudendo la portiera. Vide Tom fare il giro dell'auto e risalire su di essa. «Manca ancora molto?» si informò Monique, con voce un po' assonnata, voltandosi verso il chitarrista.

«Sai leggerli i cartelli?» ribattè annoiato il ragazzo, senza guardarla.

«Scusa, ma non vedo nessuno cartello in questo momento, altrimenti non te lo avrei chiesto, diamine!» sbottò lei, incrociando nuovamente le braccia al petto e voltandosi dalla parte opposta, imbronciata. Ci fu un attimo di silenzio, fino a che Tom non parlò di nuovo.

«Tra un'ora, massimo un'ora e mezza siamo a Berlino.»

«Bene.» sibilò Monique a denti stretti, senza girarsi o muovere un muscolo. Mancava ancora troppo tempo e non era così convinta di poter reggere oltre quella situazione. Sedere ad una distanza così ravvicinata da quel ragazzo le pesava e non poco, soprattutto quando la trattava così male.

Il silenzio tra loro due proseguì, fino a che Monique non udì un lieve sbadiglio da parte del ragazzo. Si voltò cauta verso di lui e lo vide che si passava una mano sugli occhi.

«Vuoi che guidi io? Il sonno mi è passato.» domandò inespressiva.

«Piuttosto mi faccio ammazzare.» ribattè lui scorbutico. Monique sollevò gli occhi al tettuccio e tornò a concentrarsi sulla strada. Non apprezzava neanche le poche gentilezze che gli offriva di tanto in tanto e la cosa la mandava in bestia. «Mi fermo un attimo o a casa non ci arriviamo più.» sussurrò il chitarrista, deviando verso un'ennesima area di servizio. Parcheggiò la macchina a pochi centimetri dal muro roccioso di fronte a loro e spense il motore. Monique si voltò curiosa verso di lui e lo vide appoggiare la testa all'indietro sul sedile e chiudere gli occhi, dopo essersi slacciato la cintura. Decise di rispettare quella momentanea pace, slacciandosi la cinghia e rilassandosi anch'ella sul proprio sedile.

Strani pensieri le attraversarono la mente, osservando i dolci lineamenti del chitarrista, estremamente rilassato in volto. Sembrava finalmente privo di qualsiasi arma perennemente puntata addosso a lei; sembrava debole ed indifeso, ma anche tremendamente dolce e... Protettivo? Non seppe con esattezza da dove quel termine l'avesse pescato, ma solamente che aveva raggiunto la sua mente con spontaneità, senza troppe riflessioni. Non vi era un motivo preciso... La spontaneità non conosce riflessione. Ed è anche la verità più cruda e malvagia, alla quale non ci si può ribellare.

L'istinto femminile di Monique la portava ad allungare una mano verso il volto del chitarrista per accarezzarlo con infinita delicatezza e tenerezza, ma poi si ricordava di cosa quello sguardo apparentemente dolce celasse. Senza contare che le avrebbe staccato quella mano a morsi, se solo ci avesse provato.

Decise di semplificare il tutto voltando il viso davanti a sé, in modo tale da non osservarlo più. Quasi sentiva il battito regolare del proprio cuore, per l'intensità di quel silenzio, e si limitava a dei respiri leggeri, temendo che una respirazione normale avrebbe fatto troppo rumore fino a disturbare il ragazzo dal suo momentaneo riposo.


**


Gli occhi le si sgranarono appena quando notò che si erano fatte le tre di notte. Si era miserabilmente addormentata anche lei, senza nemmeno accorgersene. Si voltò alla sua sinistra e vide Tom accoccolato su se stesso, a braccia conserte e con le labbra leggermente dischiuse. Respirava profondamente e quasi le dispiaceva doverlo svegliare.

«Tom?» sussurrò, per non spaventarlo o svegliarlo bruscamente. «Tom?» riprovò, ma il ragazzo sembrava completamente assorto nel sonno più profondo che l'avesse mai travolto. Decise di allungare una mano tremante verso di lui e gliela posò sulla spalla. Lo scrollò con infinita delicatezza pronunciando di nuovo il suo nome, fino a che le palpebre del chitarrista non si sollevarono appena, mettendo in mostra i suoi stanchi occhi nocciola. «Tom, sono le tre di notte, abbiamo dormito un sacco.» disse intimidita. Vide il ragazzo osservarla per qualche secondo perplesso, come non si ricordasse perchè fosse lì, fino a che non vide anche i suoi occhi posarsi sulla sua mano ancora poggiata alla spalla. A quel gesto, Monique la ritrasse di scatto, come si fosse scottata e si impegnò a non guardarlo. Quest'ultimo si schiarì la voce e si raddrizzò sul sedile. Si strofinò un attimo gli occhi, sospirando stancamente e poi si riallacciò la cintura, dando a Monique l'impulso di fare la stessa cosa.


**


Quando Tom accostò la macchina di fronte casa di Monique, erano le quattro e venti. La ragazza gli aveva riferito ogni tipo di istruzione per raggiungere il suo appartamento. Quasi la imbarazzava che Tom lo vedesse anche solo dall'esterno.

«Beh... Grazie, Tom.» balbettò la ragazza con un lieve rossore sulle gote, voltandosi verso di lui e notando che la stava guardando.

«Non l'ho fatto per te. L'ho fatto perchè me l'ha ordinato David.» ribattè orgoglioso, tornando ad osservare senza interesse la strada immobile, davanti a sé. Monique sorrise appena, trovando quella rivelazione quasi dolce.

«Beh, comunque sei stato gentile.» continuò tranquilla.

«Schmitz, ho sonno.» si lamentò Tom, passandosi una mano sulla faccia. Monique annuì e scese dalla macchina per poi richiudere la portiera. Rabbrividì per la brezza gelida notturna e, stringendosi nelle spalle, camminò lungo il vialetto, continuando ad udire silenzio alle sue spalle, con sorpresa: era convinta che il chitarrista sarebbe subito ripartito. Infilò le chiavi nel portone ed entrò. Una volta richiuso alle sue spalle, sentì il motore della Cadillac che si riaccendeva e si allontanava. Un lieve sorriso prese posto sul suo volto.

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Capitolo 8
*** Seven. You'll be a great mum ***


you'll be a great mum

Chapter Seven.
- You'll be a great mum -



Doveva ancora riuscire a mettere ben a fuoco il pavimento dove i suoi piedi si stavano lentamente e stancamente posando. La forza del sonno arretrato era nettamente superiore a quella mentale, nonostante quest'ultima cercasse di opporvisi con insuccesso. Aveva dormito sì e no due ore, prima di alzarsi nuovamente dal letto e recarsi allo studio di registrazione, pronta – o quasi – per una nuova ed estenuante giornata di lavoro.

La prima cosa che le balzò all'occhio fu l'immagine del chitarrista che non sembrava certamente più sveglio di lei. Sforzò un piccolo sorriso nella sua direzione, come a mostrargli ulteriormente la propria gratitudine per la notte precedente, ma – come previsto – quello rispose con sguardo truce, fino a voltarsi dalla parte opposta, come se nulla fosse. Quella volta Monique non la prese male... Sapeva che era stato comunque gentile con lei, anche se non lo voleva riconoscere e tanto bastava per capire che quello che frenava il ragazzo era puro e dannato orgoglio.

Entrò nel suo ufficio, dove la figura allegra di David le apparve velocemente davanti agli occhi.

«Monique! Vedo che Tom ti ha riportato a casa sana e salva!» esclamò il manager, con un ampio sorriso in volto.

«Sì, sì. Sana e salva. Guida molto bene, devo dire.» ridacchiò la ragazza, andando a sedersi sulla sua poltrona. «A proposito, grazie per le focacce e l'acqua, David, non avresti dovuto.» si ricordò della gentilezza mostratale da parte dell'uomo. Quest'ultimo la osservò perplesso, sbattendo le palpebre qualche secondo.

«Focacce e acqua?» domandò, credendo di non aver afferrato il concetto. Monique aggrottò le sopracciglia.

«Sì, la busta che mi hai fatto avere da Tom. Stanotte!» continuò la ragazza, chiedendosi con estrema preoccupazione se David soffrisse già di Alzheimer.

«No, tesoro, io non gli ho dato nessuna busta. Sono uscito di fretta per quell'impegno importante di cui ti parlavo. Prima di venirti a prendere, sarà stato Tom a passare in qualche bar e a comprarti quelle cose.» spiegò il manager in assoluta tranquillità, senza sapere che in quel modo la mente di Monique prendeva a vorticare in una dimensione parallela.

Tom era stato davvero così premuroso con lei? Le aveva fatto credere che quel gesto risalisse all'estrema bontà del manager, mentre invece era stata tutta opera sua.

Monique sorrise impercettibilmente, stringendosi con le proprie braccia.

Le piaceva... Quel senso improvviso di protezione e riguardo le piaceva.


**


Teneva il dito premuto su quel dannato campanello da circa dieci minuti. A lungo andare stava infastidendo anche se stessa, ma aveva deciso che di lì non avrebbe mosso un solo muscolo finchè Jessica non avesse aperto la porta di casa sua. Non poteva continuare ad ignorarla per l'eternità, a causa di una stupida ecografia. Non erano quelli buoni motivi per cui litigare!

Quando evidentemente anche la rossa arrivò al limite della sopportazione di quel fracasso, aprì con violenza la porta, osservando Monique con sguardo inceneritore.

«Hai finito con questo concerto?! Stare con i Tokio Hotel ti da alla testa!» esclamò furiosamente la ragazza, senza aprire interamente quella porta, come avesse timore che Monique potesse varcarne la soglia.

«Se ti dava così tanto fastidio potevi venire ad aprire un secolo fa!» ribattè la mora, infervorandosi appena. Subito reprimette quell'istinto omicida verso la sua migliore amica, ricordandosi che aveva raggiunto casa sua con un buon intento e cioè quello di chiarire, non di ucciderla. Prese un bel respiro, chiudendo gli occhi e poi ricominciò a parlare con più calma. «Mi fai entrare?» domandò, guardandola negli occhi.

«Non avevi detto che non avevi bisogno delle mie ramanzine? Non hai paura che te ne possa fare altre?» sputò acida Jessica.

«Jess?»

«Che c'è?»

«Smettila.»

Il silenzio piombò tra le due, spezzato solamente dai loro respiri. Jessica scrutò attentamente in volto Monique e poi decise di parlare di nuovo.

«C'è solo un modo perchè io la smetta.» annunciò infastidita, voltando il capo in una direzione che non combaciasse con quella della sua migliore amica.

«E sarebbe?» Monique inarcò un sopracciglio con sospetto.


**


«Ricordami di ucciderti, una volta finito tutto.» sibilò sprezzante la mora, mentre si ritrovava distesa su un lettino di ospedale, per attendere l'arrivo della dottoressa che le avrebbe fatto quella maledetta ecografia. Jessica, seduta accanto a lei, fece un gesto svogliato con la mano.

«Invece mi ringrazierai.» ribattè con poco interesse.

«Eccomi qua, ragazze, scusate l'attesa.» annunciò la donna, una volta fatto il proprio ingresso nella stanza circondata da enormi e bianche pareti. A dire il vero era tutto bianco attorno a loro e Monique cominciava a sentirsi in gabbia. «Allora, vediamo come cresce questo esserino...» esclamò la dottoressa, sedendosi affianco a Monique e cominciando a spalmarle una sostanza schifosamente gelatinosa e fredda sul ventre. La mora sentiva il ripudio farsi sempre più atroce dentro di lei. Voleva in un qualche modo assurdo fermare ciò che stava accadendo e che sapeva da quel giorno avrebbe segnato quelli a venire. Non poteva vederlo, non doveva.

Non voleva rendersi davvero conto di quello a cui la sua vita sarebbe presto andata in contro, non voleva e basta.

«No...» sussurrò con voce spezzata dall'ansia. Vide gli occhi della dottoressa posarsi perplessi sui suoi, assieme a quelli di Jessica, sedutale accanto.

«Come?» domandò la donna incerta.

«Non... Non voglio.» Monique continuò a pronunciare frasi sconnesse, ma Jessica la sovrastò con la voce.

«Faccia pure, è solo agitata.» intimò alla dottoressa, che però non sembrava ancora fermamente convinta.

«Tesoro, l'ecografia non è niente di doloroso o di spaventoso. È una cosa bellissima perchè potrai finalmente vedere il tuo bambino che si forma lentamente dentro di te.» cercò di rassicurarla con voce calda, al che Monique cominciò a piangere, ripetendo che no, non avrebbe voluto farlo, e voltandosi su un fianco, in direzione di Jessica, come a cercare sostegno.

«Le dispiace se le chiedo qualche minuto? O ha altre pazienti in attesa?» domandò la rossa alla dottoressa. La donna sorrise ed annuì comprensiva, per poi alzarsi ed abbandonare la stanza poco dopo.

Il silenzio piombò di nuovo in quella stanza. Ci furono interminabili secondi in cui Jessica osservava la sua migliore amica, ancora voltata su un fianco e lo sguardo perso nel vuoto, mentre le lacrime continuavano a solcare il suo viso triste. «Ce la puoi fare, Monique. Tu ce la puoi fare a diventare mamma.» la rassicurò con infinita delicatezza nel tono di voce. Monique scosse la testa più volte.

«Ma non voglio.» sibilò stancamente.

«Vuoi abortire

Monique sollevò lo sguardo su quello della sua migliore amica – a quella domanda posta con freddezza – e non vi lesse nulla se non serietà e determinazione. Attendeva una risposta, che quella fosse stata positiva o negativa non le avrebbe importato; voleva solo aiutarla a venire a capo in quella situazione complicata.

Voleva abortire? Era questo che voleva davvero? Uccidere una creatura, pur di vivere felice e senza preoccupazioni? No, non avrebbe vissuto felice dopo... Avrebbe vissuto con il tormento che l'avrebbe perseguitata giorno e notte, per il solo motivo di essere stata lei l'artefice della perdita di una vita umana.

«No.» soffiò, abbassando di nuovo lo sguardo e rendendosi lentamente conto che una scelta l'aveva già presa nel subconscio da un bel pezzo e che non avrebbe potuto tirarsi indietro.

Jessica sorrise impercettibilmente a quella risposta. Per quanto Monique potesse essere testarda riguardo molte cose, non era priva di cuore e questo lo sapeva bene. Aveva imparato a conoscerla nel corso degli anni, sia in bene che in male, ed era pronta a mettervi la mano sul fuoco.

Quel momento delicato venne interrotto dall'entrata della dottoressa nella stanza, con un dolce sorriso a lambirle il volto, alla quale bastò solo uno sguardo di assenso da parte della rossa, per iniziare con l'ecografia.


**


L'aveva visto. Aveva visto quell'esserino non ancora del tutto formato e qualcosa in lei si era smosso. Un'emozione indescrivibile a parole l'aveva pervasa nel momento in cui i suoi occhi avevano focalizzato quelle foto... Ed era questo ciò che più la spaventava. Il cuore aveva preso a batterle forte in petto, nell'attimo in cui la dottoressa aveva mostrato un sorriso dolce, riferendole che la creatura, per il momento, stava bene. Si era persino complimentata con lei, dicendole che si stava comportando in maniera eccelsa, perchè il piccolo stesse così in salute.

Io non ho mai fatto nulla pensando a lui, aveva riflettuto Monique a quelle dichiarazioni. Che possedesse un istinto materno del quale non era nemmeno a conoscenza?

No... Decisamente no.


**


Stava mettendo un po' d'ordine fra le varie schede sullo scaffale del suo ufficio, appena terminate un paio di traduzioni. Aveva scelto di rimanervi più a lungo, forse per il semplice fatto che non se la sentiva di tornare al suo appartamento. Ultimamente casa sua le dava un senso di affanno e di non libertà, cosa che non le era mai successa in vita sua.

Eppure i suoi pensieri, in quel preciso istante, erano completamente rivolti al chitarrista. Ancora non riusciva a togliersi dalla testa quel gesto così gentile e premuroso nei suoi riguardi che aveva fatto, con la speranza di non venire scoperto.

Voleva disperatamente ringraziarlo, fargli sapere che lei era a conoscenza di tutto ciò, per una ragione ancora non del tutto nota. Anzi, per niente nota. Voleva che lui sapesse anche che non ce l'aveva con lui, nonostante tutto, e che aveva un'incredibile voglia di conoscerlo e lasciarsi conoscere da lui, come gli altri componenti della band le avevano permesso.

Doveva andare a cercarlo? O avrebbe aspettato che si sarebbe fatto vivo lui? Forse la prima opzione era la più conveniente, visto e considerato che Tom, con lei, non voleva ancora avere niente a che fare e che l'evitava come la Peste ogni volta che poteva.

Così decise di prendere in mano la situazione e, trovato un po' di coraggio, uscì a grandi falcate dall'ufficio, alla ricerca del ragazzo.

Ma che sto facendo... si ritrovò a scuotere la testa perplessa, chiedendosi cos'avrebbe dimostrato o concluso nel ringraziarlo. D'altronde lui non voleva che si sapesse ciò che aveva fatto, no? Perchè dover smascherarlo a tutti i costi?

Non fece in tempo a voltarsi per tornare all'ufficio che una voce profonda e ben conosciuta le arrivò alle orecchie come un fulmine a ciel sereno. Quando sollevò lo sguardo sul proprietario, notò con un tuffo al cuore che si trattava proprio del chitarrista.

«Cosa stai facendo qui in giro? Non dovresti lavorare, Schmitz?» le domandò algido e scrutandola cupo in volto.

«A dire il vero ho finito già da un pezzo.» rispose impacciata Monique.

«E allora che ci fai ancora qui? Non dovresti tornare a casa?»

«Non... Non mi va.»

Notò il ragazzo inarcare un sopracciglio, perplesso: forse quella era l'unica espressione che non comprendesse l'incazzatura, la scocciatura o la tristezza, che gli avesse mai scorto in volto, e ne rimase quasi affascinata.

«Questo non è un parco giochi dove puoi stare ogni qual volta tu non voglia tornare a casa.» le fece notare Tom, tornando ad adottare il solito tono sprezzante e lo sguardo gelido che la ragazza odiava.

«Lo so bene, stavo riordinando i miei scaffali... Non me ne stavo con le mani in mano.» rispose con tranquillità infinita Monique. Le frecciatine di Tom non la scomponevano più. Ora non riusciva più a vedere solamente il marcio in quel ragazzo, ma semplicemente un tipo molto orgoglioso e geloso – se non possessivo – dei propri sentimenti. Stava imparando a scoprirlo, piano piano, e doveva rendersi conto che forse la teoria di Gustav, riguardo la conoscenza graduale, non era del tutto errata. «Ora vado però.» sorrise successivamente nel constatare che ancora una volta Tom pareva sorpreso. Gli diede le spalle e cominciò a camminare verso l'uscita, sentendo lo sguardo del ragazzo ancora puntato sulla sua schiena, quando improvvisamente si ricordò di ciò che voleva fare sin dall'inizio. «Ah...» esortò tornando a voltarsi verso di lui, anche se ad una distanza più accentuata. Lui era ancora lì a fissarla, con le mani in tasca. «Grazie per le focacce e l'acqua, Tom.» gli sorrise sinceramente e poté scorgere perfettamente il volto ed il collo del chitarrista irrigidirsi appena.

«Erano da parte di David, dovresti ringraziare lui.» ribattè indifferente.

«L'ho fatto effettivamente, ma lui mi ha detto che è stata un'idea tua e che lui non c'entra nulla.» continuò Monique, compiaciuta nel vedere Tom sempre più esterrefatto e colto in flagrante. «Per cui... Grazie a te.» concluse la mora, con dolcezza che quasi non riconobbe come sua. Tom fece per ribattere contrariato ma Monique lo precedette: «A domani, Tom.» gli sorrise, varcando la soglia dello studio di registrazione e chiudendosi la porta alle spalle.


**


Si era resa conto che viaggiare senza macchina era praticamente impossibile ma anche che i soldi per comprarsene una nuova non avevano mai sfiorato il suo portafogli nemmeno per sbaglio. Non le restava altro che chiedere a David di assumerla, oltre che come traduttrice, anche in qualcos'altro che avrebbe persino potuto comprendere la “cambia lampadine”, purché le avesse fruttato qualcosa.

Inoltre, più la gravidanza andava avanti, più aveva bisogno di soldi, o non ce l'avrebbe fatta sul serio con tutte le spese che aveva e che avrebbe dovuto sostenere, trovandosi presto sotto un ponte, presso un fiume puzzolente, con suo figlio o sua figlia in braccio ed un branco di cani randagi, affamati e con le pulci, attorno a loro.

Scosse la testa, cercando di scacciare quell'orribile prospettiva di vita dalla sua mente e bussò un paio di volte alla porta dell'ufficio di David, ricevendo subito dopo una risposta che la indusse ad aprirla.

David sedeva alla sua scrivania, intendo a compilare un numero indefinibile di carte che Monique non si impegnò ad interpretare.

«Hey, Monique.» la salutò il manager con un ampio sorriso in volto, non appena sollevò il capo.

«Avrei bisogno di parlarti.» disse timidamente la ragazza, richiudendo la porta ed avvicinandosi alla scrivania.

«Certo, siediti.» le sorrise David, gentilmente. Monique obbedì a quell'invito ed aspettò qualche secondo prima di riprendere a parlare: era un argomento delicato e non era nemmeno sicura che David potesse accoglierlo nella maniera più positiva, quindi avrebbe dovuto pesare le parole un bel po' di volte prima di esporle.

«Dunque... Come sai non ho più una macchina. In questi giorni mi sto spostando con i mezzi pubblici, ma non è il massimo della comodità. Devo sempre alzarmi dal letto troppe ore prima per venire a lavorare e diciamo che in questo periodo non me lo potrei neanche permettere. Comunque... Vorrei far riparare la mia macchina ma, come sai, le spese a riguardo sono davvero alte e di certo il mio stipendio non mi basta. Senza contare che arrivo a fine mese sempre per un pelo perchè ho i soldi contati...»

«Vuoi un aumento?»

«No! Cioè... Non senza fare nulla. Vorrei chiederti se ci sarebbe qualche altro impiego da darmi, oltre a quello di traduttrice... Giusto per arrotondare un po' le cifre. È un periodo davvero molto duro, David, e tradurre non mi basta più, purtroppo.»

«Quindi vorresti un'occupazione anche al pomeriggio?»

«Se possibile... Sì.»

Vide David rapito dai suoi pensieri, intento a strofinarsi la penna sul mento, con fare riflessivo. Evidentemente stava prendendo in considerazione un certo numero di occupazioni che avrebbe potuto assegnarle, per scegliere quello più adatto.

«Ti andrebbe bene qualsiasi cosa, quindi?» indagò ancora qualche attimo, giusto per essere certo che Monique non si facesse alcun tipo di problema.

«Qualsiasi, David, non ha importanza... Ne ho davvero bisogno.» rispose Monique, speranzosa. Lo vide riflettere ancora qualche secondo, fino a che non sollevò nuovamente lo sguardo su di lei, forse illuminato da una nuova idea.

«L'unica cosa che posso offrirti è questa: occuparti dello studio di registrazione. Intendo dire, pulire, riordinare... Cose del genere... Se a te non disturba ovviamente.» le propose David, con una lieve punta di imbarazzo nella voce. Forse si sentiva in difficoltà a proporle quel tipo di lavoro, ma lei non poteva che esserne felice e rincuorata.

«Ma no che non mi disturba, anzi! Quindi dovrei occuparmi dell'intero studio di registrazione, comprese le stanze dei ragazzi, quando rimangono a dormire qui?» si informò Monique. Il manager annuì. «Posso anche occuparmi della lavanderia, se vuoi. Cioè, lavare e stirare i vestiti dei ragazzi, sono molto brava in queste cose.»

David ridacchiò appena, sorpreso da quell'incredibile voglia di fare.

«Se non ti pesa, va bene anche quello.» le sorrise il manager, con sguardo rassicurante.

«Certo che no, David. Non so come ringraziarti, davvero!» esclamò la ragazza, quasi con le lacrime agli occhi. Reprimette l'istinto di buttarsi addosso a quell'uomo ed abbracciarlo con tutta la forza che possedeva in corpo: sarebbe stato decisamente poco professionale.

«Figurati, io ringrazio te. Puoi cominciare da domani... Ora torna pure a casa che ti vedo stanca.» Era vero: quella notte l'aveva passata nuovamente in bianco ed il motivo era quella dannata ecografia... Non riusciva a staccarvi gli occhi di dosso e anche quando l'aveva infilata nel suo armadio per la disperazione, non era riuscita a togliersi quell'immagine dalla testa, tanto che aveva tenuto gli occhi rivolti al soffitto fino a che le prime luci solari non ebbero fatto capolino nella sua stanza, attraverso la sua finestra. «E domani parleremo anche del tuo nuovo stipendio.»

«Va benissimo, David, grazie ancora.»

Monique si diresse verso la porta dell'ufficio per riaprirla, quando alle sue spalle sentì di nuovo David parlare.

«Solo una cosa, Monique... Perchè tutta questa fretta di lavorare il più possibile?»

Monique si sentì trapassare da una freccia infuocata.

Perchè il tempo stava scadendo, e presto non sarebbe più stata sola, ma in compagnia di un bambino da crescere ed accudire. E se non avesse trovato in fretta dei lavori sicuri... Non ce l'avrebbe fatta.

«Perchè non voglio gravare sui miei genitori, David. Voglio vivere giorno per giorno senza dovermi chiedere se ce la faccio ad arrivare alla fine del mese.» rispose Monique, prima di ricevere un sorriso comprensivo da parte del manager, che scomparve subito dopo, dietro la porta.


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Capitolo 9
*** Eight. First signs ***


first signs

Chapter Eight.
- First signs -



«Perchè mi guardi così?» la voce di Tom risuonò più dolce e calda del solito. Monique sgranò appena gli occhi, tremando sul posto e chiedendosi perchè le stesse ponendo quella domanda e soprattutto in quale modo assurdo lo stesse guardando, per far sì che lo facesse.

«Perchè me lo chiedi? Come ti sto...» balbettò, ma venne subito interrotta dal chitarrista che le ripetè la stessa domanda, senza staccarle gli occhi di dosso. Erano fissi su di lei, come fosse incantato, ma non la vedesse realmente. «Non capisco, Tom...» continuò la ragazza, mentre una strana sensazione la pervadeva: si sentiva inquieta, in imbarazzo... In seria difficoltà, e lo sguardo profondo del ragazzo di certo non l'aiutava.

«Cerchi tante risposte da me, ma sei te quella che deve fare chiarezza in sé stessa.» parlò di nuovo con voce ferma, tanto che prese in contro piede Monique.

«Perchè mi stai dicendo questo?» domandò basita. Il ragazzo non disse nulla. Semplicemente le si avvicinò con lentezza disarmante, senza staccare gli occhi perennemente impiantati nei suoi, e la sorprese con un gesto del tutto inaspettato: la sua mano grande e calda andò a posarsi sul suo ventre ancora piatto, donandole una lieve carezza dalla quale mille brividi si propagarono lungo il corpo inerme della ragazza.

«Fai chiarezza in te stessa, Monique.»


**


Mentre camminava lungo il corridoio dello studio di registrazione, a sguardo basso, la sua mente continuava ad essere invasa da quel sogno che aveva riempito il suo sonno quella stessa notte.

Non aveva mai sognato Tom prima di allora e tanto meno si sarebbe mai immaginata che accadesse.

La cosa, oltre che sorprenderla, le destava non poca preoccupazione. Si dice che nei sogni sia il subconscio a parlare... E che esprimano ciò che la persona desideri ardentemente, quasi senza accorgersene. Insomma, non era Tom ciò che desiderava ardentemente, giusto? Era praticamente impossibile.

Senza contare il fatto che lui stesso le avesse posato quella mano sul suo ventre, come a volerle far capire che sapeva, invogliandola a non mentire più.

Doveva far chiarezza in sé stessa... Che avesse un particolare significato? Che fossero parole veritiere e si trattasse di un messaggio?

Non riuscì a formulare altri pensieri che si ritrovò con il sedere a terra ed un cumulo di fogli sparsi sul pavimento, tutti fuoriusciti dalla sua cartellina. Emise un gemito di dolore, massaggiandosi in modo decisamente poco fine una natica, e quando sollevò lo sguardo trovò la causa del suo scontro, davanti a sé: il chitarrista era ancora in piedi, che l'osservava perplesso, senza battere ciglio o muovere un qualsiasi altro muscolo.

«Che stai combinando?» le domandò senza lasciar trapelare nessuna emozione particolare e continuando ad osservarla dall'alto del suo metro e ottanta.

Lei si trovava con il sedere per terra... Che doveva combinare? Decise di non incaponirsi più di tanto in quei ragionamenti inutili e si mise in ginocchio a riporre nella cartellina tutti i fogli persi.

Nemmeno un dannato scusa... Ma ciò non la sorprese più di tanto. O forse era lei quella a dover chiedere scusa, dato che era sovrappensiero e camminava senza guardare dove mettesse i piedi?

«Niente. Stavo andando a mettere a posto la cartellina e poi mi sarei messa a pulire lo studio.» rispose, continuando a riordinare il tutto e optando per il silenzio, il quale l'avrebbe portata a compiere decisamente meno errori.

«Pulire lo studio?» ripetè Tom ancora più confuso, senza scomodarsi per prestarle un aiuto e continuando ad osservarla con le mani in tasca.

«Sì, sono riuscita a farmi dare un'altra occupazione da David, assieme alle traduzioni... Sono un po' a corto di denaro.» spiegò Monique, domandandosi perchè stesse riferendo i suoi problemi proprio a lui, e rimettendosi in piedi, di fronte al ragazzo, per guardarlo negli occhi nocciola.

Doveva ammetterlo... Le facevano un certo effetto.

«Non te l'ho chiesto il motivo.» disse lui, chinandosi verso il pavimento.

«Non ho problemi a dirlo.» ribattè tranquillamente Monique, mentre Tom tornava di fronte a lei per porgerle un foglio che evidentemente aveva dimenticato a terra. «Grazie.» sussurrò afferrandolo e nascondendo la sorpresa per quel gesto apparentemente gentile, nonostante lo sguardo di Tom fosse sempre lo stesso: tagliente e distaccato. Ma quella volta vi leggeva una lieve differenza... Nemmeno lei sapeva dire in cosa quella differenza consistesse, ma riusciva comunque a notarla.

«Allora vai a lavorare, Schmitz.» la risvegliò dai propri pensieri, tornando ad acquisire l'atteggiamento gelido che lo caratterizzava maggiormente, per poi passarle affianco ed allontanarsi da lei.

Monique si chiese quando quel ragazzo l'avrebbe finita con quel dannato orgoglio, ma non poté fare a meno di sorridere nel pensarlo.


**


Aveva la fronte imperlata di sudore e la fiacca si stava facendo largo in lei già da un po', senza un minimo di ritegno, mentre la sua mano continuava a strofinare un panno bagnato su un mobile posto nel corridoio dello studio. Sapeva che la fatica si sarebbe triplicata, da quando aveva fatto quella richiesta a David, ma la necessità era più importante di qualsiasi altra cosa.

Si passò il dorso della mano sulla fronte e riprese a strofinare.

«Hey, Monique, ti prego, fai una pausa, mi viene male solo a guardarti.» sentì la voce di Georg affianco a lei. Si voltò e gli sorrise rassicurante.

«Georg, purtroppo i soldi non vengono dati a chi ozia.» rispose con tono amorevole.

«Ma non devi oziare. Una pausa puoi concedertela, no? È da ore che lavori senza fermarti un attimo.»

Gli occhi del bassista erano talmente carichi di premura e di affetto che Monique non ce la fece a dirgli di no.

«D'accordo.» sorrise la ragazza, posando lo straccio e raddrizzandosi con la schiena.

«Andiamo in giardino, ti va?» le propose di nuovo il rosso, scostandosi appena per farla passare per prima, da bravo gentiluomo. Monique annuì e si diresse assieme a lui al di fuori dello studio di registrazione.

Il sole picchiava con dolcezza sulle solo figure ed un piacevole odore di erba appena tagliata invase le narici di Monique, alla quale venne automatico stringersi nelle spalle, compiaciuta. Georg frugò nelle tasche dei suoi jeans fino a tirarne fuori un pacchetto di sigarette. Se ne accese una e prese a fumare in silenzio, osservando di tanto in tanto il cielo stranamente chiaro sopra di loro.

Era raro vedere un cielo particolarmente limpido a Berlino, eppure quel giorno il sole sembrava aver messo da parte la propria timidezza, per mostrarsi finalmente in tutto il suo splendore.

La ragazza si sentì subito meglio ed anche tremendamente grata a Georg per averla distratta con quel pensiero così carino.

«A che punto siete con il nuovo album?» domandò interessata, sedendosi sui gradini ed avvolgendosi le ginocchia con le braccia. Georg si appoggiò con la schiena ad un albero lì accanto, continuando a fumare, e la osservò sorridente.

«A buon punto. È quasi terminato.» rispose soddisfatto, aspirando un'altra boccata dalla sigaretta.

«Sono davvero curiosa di ascoltarlo.» sorrise Monique. Georg la ringraziò con lo sguardo, fino a che la ragazza non parlò di nuovo. «Quindi, presto inizierà il nuovo tour...»

«Già, non vedo l'ora. Abbiamo un sacco di progetti per la testa... Soprattutto Bill è una scatola straboccante di idee. Per ora abbiamo solo deciso il nome che daremo a questo tour e cioè “Humanoid City Tour”.»

«Mi ispira parecchio.»

«Vero? Speriamo che faccia lo stesso effetto sulle fans.»

«Le vostre fans ci saranno sempre a sostenervi, di quello non ti devi preoccupare.»

«Sì lo so. Però, sai, a volte ti viene da pensare a certe cose... Ti siedi e ti metti a fare un resoconto della tua vita. Parti col chiederti: “Come ci sono arrivato fin qui?”... Fino alla fatidica domanda: “ Riuscirò a portare avanti tutto questo ancora per molto?”»

«Ma certo che ci riuscirai, Georg. Ci riuscirete tutti quanti. Siete giovani, avete un successo straordinario, una bella presenza ed un talento notevole. Dire che ce la farete è riduttivo. Se siete riusciti a gestire tutto quanto fino ad ora, quando eravate più piccoli ed immaturi, figuriamoci in futuro...»

«Grazie, Monique... Sei sempre così carina con noi. Persino con quel buzzurro di Tom.»

Una risata limpida si levò nel giardino, da parte di tutti e due, per quell'ultima affermazione.

«Già, devo dire che la mia pazienza è quasi invidiabile.» ribattè la mora, in tono scherzoso. Improvvisamente, però, venne invasa da un nuovo ed assurdo pensiero. Fremeva dalla voglia di porre una domanda al bassista ma non sapeva quanto potesse convenirle farlo. Poteva venire fraintesa in qualsiasi modo; Georg poteva recepire il messaggio nel verso sbagliato. Eppure la voglia di sapere quasi la ammazzava. Insomma, di lui si poteva fidare, no? «Senti, Georg... Tom parla mai di me?» quella curiosità era scivolata attraverso le sue labbra quasi senza rendersene conto, ma ora ciò di cui aveva più bisogno era una risposta sincera e soddisfacente. Notò il rosso trattenersi qualche attimo, osservandola incuriosito e quindi chiarì: «Intendo, sia in bene che in male.»

Lo vide scrollare le spalle, aspirando un altro po' di fumo.

«Non più di tanto. Quasi mai ad essere sincero.» rispose, grattandosi la nuca e gettando a terra la sigaretta ormai consumata, per poi spegnerla con la scarpa da ginnastica. Monique non seppe come, ma quell'affermazione la deluse un poco. Cosa si aspettava? Che il chitarrista facesse dei lunghi discorsi, mostruosamente articolati, su di lei? Perchè poi? «Però ti posso dire che ogni mattina, appena entra in studio, chiede a David se sei già arrivata.» aggiunse improvvisamente il bassista, prendendola in contro piede con quella rivelazione, tanto che Monique si sentì arrossire troppo velocemente. Sollevò timidamente il viso verso quello di Georg, che le sorrise comprensivo come se la sapesse tanto lunga o l'avesse colta in flagrante. «Tranquilla... Non gli dirò che me l'hai chiesto.» disse in tono rassicurante, facendo in modo che Monique si sentisse ancora una volta grata a lui per aver capito. «Che ne dici, rientriamo?» propose successivamente il ragazzo, facendo un cenno con il capo verso l'entrata. Monique annuì con un sorriso intimidito e, con le mani in tasca e lo sguardo basso, si rialzò per seguire il rosso all'interno dello studio.


**


Il tempo stava passando decisamente troppo in fretta. Il terzo mese era arrivato quasi all'improvviso e Monique si sentiva estremamente a disagio.

Davanti allo specchio del bagno di casa sua, osservava il profilo del suo corpo. Un lieve gonfiore si andava a formare sul suo basso ventre, dove la sua mano si era posata per lasciarvi carezze circolari.

Un gran magone quasi le impediva di respirare e tutto il resto attorno a lei era fumo... Inesistente. Qualcosa di visibile, di tangibile, che andava ad affermare la presenza di quell'esserino dentro di sé. Non era assolutamente pronta ad affrontare tutto ciò, ma ora – assieme alla paura – stanziava nella sua anima un altro tipo di sentimento a lei prima sconosciuto: l'emozione.

Più volte aveva immaginato la sua figura con quella pancia di troppo, ma mai era riuscita a visualizzarla in maniera così nitida davanti ai suoi occhi e doveva ammettere che ciò che vedeva era quasi meglio di ciò che aveva immaginato.

La verità però, oltre ad essere accettata dalla diretta interessata, non poteva essere rivelata alle persone che le stavano vicino. Ragion per cui sul lavello, di fronte a lei, giaceva una panciera color pece.

La afferrò per le estremità e se la avvolse attorno al ventre, stringendo appena, giusto per far sparire quel piccolo gonfiore. Fece scivolare la maglia larga sopra ad essa e si ammirò nuovamente allo specchio. Perfettamente piatta, non avrebbe destato il minimo sospetto, anche se il suo cuore, in fondo, piangeva.


**


La camera del batterista era senza dubbio la più ordinata fra quelle dei ragazzi. L'aveva sempre immaginato che quel biondino le avrebbe dato meno lavoro di tutti gli altri. Entrare in quella stanza e trovare solamente il letto da rifare, era una gioia per i suoi occhi scuri. Le maglie erano perfettamente piegate, rintanate nel suo armadio, così come le scarpe e tutto ciò che caratterizzasse la stanza di un comune ragazzo.

Se ne faceva sempre più una ragione: Gustav Schäfer era da sposare.

«Hey.» la voce del “marito ideale” risuonò tra quelle pareti, proprio alle sue spalle, mentre stendeva la federa del cuscino con le mani. Quando si voltò verso di lui, notò che era completamente sudato e teneva ancora le bacchette della batteria fra le dita.

«State suonando fino alla morte?» sorrise la ragazza, scrutandolo attentamente.

«E' Bill che non è mai convinto di nulla e si ostina a ripetere tutto quanto ogni volta... Ci fa lavorare come dei muli. E poi dice di non essere il boss...» borbottò Gustav, recuperando dal suo armadio un asciugamano pulito. «Adesso la principessa ci ha concesso una pausa.» commentò ancora con sarcasmo, suscitando una lieve risata in Monique.

«E' solo un tipo perfezionista e preciso.» disse la ragazza, continuando a sorridere di buon umore, mentre il ragazzo si passava il telo sul collo..

«Tritapalle penso sia il termine più adeguato.»

«State parlando di me?» domandò sospettoso proprio Bill, affacciandosi con la testa nella camera del batterista.

«Come mai ti senti tirato in causa, al termine tritapalle? Coscienza sporca?» sollevò un sopracciglio Gustav con malizia, cosa che parve del tutto sorprendente a Monique. Il vocalist, per tutta risposta, gli mostrò la lingua – ornata dalla pallina metallica – e poi si rivolse alla ragazza con un sorriso smagliante, facendo capolino in camera.

«Stavo pensando...» cominciò il moro.

«Oddio, Bill ha pensato...» mormorò Gustav preoccupato, credendo di non essere udito dalle altre due presenze vicine a lui. Bill lo ignorò spudoratamente, dopo avergli tirato un'occhiataccia, e poi tornò a sorridere nella direzione di Monique.

«Perchè stasera non ceni con noi? Sai, io e gli altri abbiamo deciso di fermarci a dormire per continuare con le prove...»

«Tu l'hai deciso.» intervenne di nuovo Gustav, cupo in volto.

«Quindi, siccome mangiamo qui, che ne dici di onorarci con la tua presenza?» proseguì il vocalist, senza scomporsi all'obiezione del batterista.

Monique rabbrividì. Per un qualche strano motivo, la sua mente era velocemente atterrata di fronte al viso di Tom. Perchè era sempre presente nei suoi pensieri, ad ogni minima frase?

Rifletté qualche secondo su quella proposta, fatta con tanto amore e con la speranza dipinta negli occhi, valutandone i pro e i contro.

Pro: serata in bella compagnia ed occasione perfetta per dimenticare un momento tutti i suoi “impicci” e le sue preoccupazioni. Contro: lo sguardo gelido del chitarrista, perennemente posato sulla sua figura, che si sarebbe rintanato in una propria cupola fatta di silenzio e tensione.

Era proprio necessario che si domandasse anche il motivo per cui, improvvisamente, tra i “pro” le venne spontaneo aggiungere “presenza del chitarrista accanto a lei”?

«D'accordo.» accettò senza riempirsi di altre inutili e confusionarie seghe mentali: quel ragazzo la stava mandando pericolosamente fuori di testa. «Grazie.» aggiunse, tirando un sorriso sul suo volto. Bill si illuminò, contento per quell'ultima affermazione.

«Perfetto!» esclamò entusiasta. Successivamente il suo sguardo perplesso si puntò sulla figura di Monique – e non propriamente sul suo viso – mentre le sue labbra non lasciarono passare altre parole. La ragazza si sentì improvvisamente in imbarazzo e presa in causa, così si affrettò a chiedere spiegazioni.

«Che c'è?» domandò con timore.

«Monique.... Scusa se te lo chiedo ma... Ti è cresciuto il seno o sono i miei occhi che fanno cilecca?» mormorò il vocalist, senza staccare lo sguardo dal suo decolté.

Un calore asfissiante si propagò dalle dita dei suoi piedi, sino alla punta dei suoi capelli ed era convinta che un colore bordeaux sarebbe stato decisamente troppo chiaro per descrivere quello che era andato a dipingere il suo viso. Da quando l'angioletto Bill faceva domande simili?!

«Ma ti è cascata una tegola in testa, stanotte, mentre dormivi?! Andiamo a suonare, che è meglio!» esclamò fuori di sé e piuttosto allibito Gustav, posando le mani sulla schiena di Bill e spingendolo fuori dalla stanza.

Monique restò a fissare il vuoto abbandonato dai due ragazzi, con il respiro accelerato. Si lasciò cadere all'indietro, fino a sedersi sul letto del batterista, mentre una mano si andava a posare tremante alla sinistra del suo petto, dal quale il suo cuore minacciava di fuoriuscire con violenza.

Se n'era accorto.

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Capitolo 10
*** Nine. Risk ***


risk

Chapter Nine.
- Risk -



Non sapeva nemmeno lei cosa l'avesse spinta a mettere a soqquadro l'intero armadio. Per la prima volta nella sua vita si era ritrovata a reclamare dei bei vestiti; quell'esigenza era arriva all'improvviso, come una scarica elettrica che non avrebbe smesso di tormentarla fino a che quel vuoto non fosse stato colmato.

Ogni capo che possedeva, dal più corto al più lungo, dal più chiaro al più scuro, giaceva sul suo letto, ma nemmeno uno riusciva a catturare in particolar modo la sua attenzione. Il suo sguardo volava da uno all'altro, mentre il suo cervello elaborava contorte immagini di lei fasciata da quei vestiti. Neanche uno le ispirava un qualcosa di positivo.

Buttò un occhio all'orologio appeso alla parete e meditò qualche attimo. Sì, avrebbe fatto in tempo, se si fosse mossa all'istante.

Lasciò tutto com'era sul quel lenzuolo disordinato e corse fuori dalla sua stanza.

In quei momenti, solo una persona poteva aiutarla.


**


«Vuoi che ti presti qualcosa da mettere per stasera?» domandò Jessica, con sguardo a dir poco accigliato. «E da quando ti poni il problema di cosa metterti?» indagò di nuovo, mentre la faceva entrare in casa sua.

Monique aveva preso il primo pullman che aveva visto passare di fronte casa sua ed aveva raggiunto in fretta e furia quella della sua migliore amica, sperando che almeno lei potesse aiutarla in quell'enorme dilemma.

«Semplicemente mi sono accorta di essere un po' a corto di vestiti belli.» si difese Monique, cercando di non far notare il lieve rossore che era andato a dipingerle le gote.

«E come mai tutta questa smania di averne di belli? Un certo Tom Kaulitz potrebbe darmi una risposta?» domandò con malizia la rossa, mentre entrava in camera sua, seguita da Monique. Quest'ultima inchiodò sui propri piedi e la osservò con sguardo quasi oltraggiato.

«Ma che dici?! Tom non c'entra nulla.» ribattè, mentre un simpatico broncio si appropriò delle sue labbra.

«Oh, certo, scusa... Vuoi fare colpo su David. Perchè quel pezzo di fusto di Tom, quando puoi avere il suo manager?» la canzonò Jessica, senza abbandonare la propria teoria sul chitarrista.

«Smettila di sfottermi e aiutami!» esclamò Monique, battendo un piede a terra, non appena si accorse che il viso le stava per andare in fiamme.

Pezzo di fusto non era l'esatta definizione che avrebbe dato al chitarrista, ma il concetto vi si avvicinava molto.

Scosse la testa, domandandosi come certi pensieri le potessero attraversare la mente e si concentrò su ciò che Jessica le stava mostrando.

«Questo me lo sono messo ad un matrimonio.» spiegò, mettendo in mostra un bellissimo vestito color celeste, non troppo scollato o lavorato, molto morbido e di lunghezza media. Monique storse la bocca e scosse la testa. «Non ti piace?» domandò la rossa, accigliata.

«Non è che non mi piace... Mi si vedrebbe troppo il gonfiore alla pancia. E inoltre ho bisogno di un qualcosa di più accollato perchè quel raggio X vivente di Bill si è accorto che mi è cresciuto il seno.» rispose Monique, in un borbottio. Jessica scoppiò a ridere, riponendo il vestito nell'armadio. «Non c'è niente da ridere.» commentò quasi offesa Monique.

«Questo allora?» domandò Jessica, senza abbandonare il sorriso impresso sul suo volto.

«Perfetto per uno striptease.»

«Ma che dici?! È più accollato dell'altro!»

«Sì ma quello che ha guadagnato in alto l'ha perso in basso. Mi si vedrebbero tutte le gambe. È inguinale quel vestito!»

«E beh? Le gambe ce le hai ancora belle e toniche. Qual'è il problema?»

«Next!»

Jessica sbuffò riponendo anche quel capo nell'armadio. Successivamente recuperò una gonna di jeans ed un maglione nero.

«Che ne dici di questi, rompipalle?» domandò a Monique. La mora li osservò attentamente e poi rispose.

«Il maglione mi piace ma preferirei dei jeans, piuttosto che una gonna.»

«Come sei antica...» borbottò Jessica, voltandosi verso l'armadio e cercando dei jeans.

«Non sono antica. Lo sai benissimo che fino a qualche mese fa mettevo anche minigonne.» ribattè Monique, osservandola in tutti i suoi movimenti.

«Ecco, appunto, non riesco a capire cosa ti abbia fatto cambiare idea... E non dare la colpa alla gravidanza perchè non si vede ancora nulla.» Non seppe per quanto tempo ancora stettero davanti a quell'armadio ma, improvvisamente l'orologio annunciò a Monique che di lì a poco si sarebbe dovuta trovare allo studio di registrazione. «Senti, si sta facendo tardi. Decido io come ti devi vestire, truccare, pettinare e tu accetterai senza repliche. Muoviamoci!» esclamò Jessica, posando le mani sulle spalle di Monique e spingendola verso il bagno.


**


La porta dello studio di registrazione stanziava di fronte a lei in tutta la sua altezza. Era ferma su quel tappetino di benvenuto da minuti interminabili e le sue mani continuavano a contorcersi tra loro.

Jessica alla fine aveva avuto la meglio ed ora si ritrovava coperta a malapena dal secondo vestito che aveva rifiutato – quello nero, inguinale –, nonostante fosse accollato e non lasciasse intravedere il decoltè. Il suo ventre era perfettamente coperto da quest'ultimo e nessuno si sarebbe accorto di nulla, ma le sue gambe erano completamente nude e ciò la metteva particolarmente a disagio. Aveva paura che fosse troppo, che i ragazzi avrebbero sospettato che avesse optato per quel vestiario per far colpo su qualcuno in particolare e non sarebbe stato difficile ipotizzare su chi, vista la domanda che Monique aveva posto a Georg quel pomeriggio.

I suoi occhi erano contornati di un ombretto bianco che sfumava verso il nero e dalla matita color pece al loro interno. Le ciglia lunghe erano state perfettamente tirate su in una morbida curva da un buon mascara e la sua pelle era impregnata di un delicato profumo che le aveva regalato Jessica per il compleanno. I suoi piedi indossavano delle scarpe nere con il tacco, che si andavano a legare attorno alla caviglia con dei laccetti sottili, ed i suoi capelli scuri ricadevano perfettamente stirati sulle sue spalle nude.

Prese un bel respiro: erano le otto in punto e non avrebbe più potuto attendere oltre. Il suo dito, contornato da un sottile anello in oro bianco, andò a premere il tasto del campanello. Aveva le chiavi, ma quelle le usava solamente quando doveva lavorare; le sarebbe parso da maleducati entrare anche quella sera di sua spontanea volontà, per un semplice invito a cena.

Udì dei passi veloci al di là della porta, fino a che questa non venne aperta dall'allegro e pimpante Bill, che la accolse con uno splendido sorriso sulle labbra. Era perfettamente vestito e truccato ed un profumo da uomo, particolarmente forte ma gradevole, le invase piacevolmente le narici.

«Ciao, Monique! Entra.» esclamò il vocalist, facendole spazio per passare. Richiuse la porta e, poggiatale una mano sulla schiena, la guidò in cucina dove gli altri ragazzi la attendevano. «Come sei bella!» esclamò di nuovo il moro, osservandola dalla testa ai piedi, proprio mentre facevano il loro ingresso nella stanza. Monique arrossì, sussurrando un “Grazie” che forse Bill non aveva neanche udito.

Sentì presto gli occhi degli altri tre ragazzi posati su di lei e si maledì immediatamente per aver ceduto al volere di Jessica, sul vestito. Georg e Gustav la salutarono animatamente, facendole anche loro i complimenti per quella “trasformazione” mentre Tom si limitò a salutarla con un cenno del capo, senza però smettere di farle la radiografia completa del suo corpo.

Dovette ammettere che la cosa non le dispiacque minimamente, anzi... Le fece particolarmente piacere.

«Avanti, sediamoci che è pronto.» annunciò nuovamente Bill, mentre tutti obbedivano alla sua richiesta. Monique si sedette accanto a Gustav, mentre di fronte a lei prendeva posto Georg, con al suo fianco Tom. Bill li raggiunse con un'enorme pentola ed un mestolo. Si accinse a servirli uno ad uno, cominciando dalla ragazza per galanteria, per poi riporre il tutto sul bancone alle loro spalle e sedersi a capotavola, affianco a Monique.

«Bill, siamo sicuri che questa pasta sia commestibile?» domandò Gustav dubbioso, mentre girava la forchetta tra gli spaghetti.

«Certo che lo è, l'ho fatta io!» rispose il vocalist come fosse ovvio.

«E' proprio questo che mi preoccupa, se non si era capito.» commentò di nuovo il batterista.

«Zitto e mangia!»

Dopo essersi augurati “Buon appetito”, presero a mangiare. Monique constatò compiaciuta che ciò che aveva cucinato Bill era molto più che commestibile: era davvero buono.

«Complimenti, Bill. È molto buona.» sorrise la ragazza. Bill si illuminò in un sorriso radioso e le prese la mano per lasciarvi un bacio dallo schiocco rumoroso.

«Tu sì che sei da sposare.» disse il moro, riprendendo a mangiare.

«Per così poco?» ridacchiò la ragazza, inforcando un altro po' di spaghetti.

«Tom, passaci il pane, per favore.» chiese Bill a suo fratello, dall'altra parte del tavolo. Il chitarrista non rispose – sembrava piuttosto cupo in volto – e prese il cesto del pane, allungandolo. Monique distese a sua volta il braccio per prenderlo ed un calore intenso le percorse tutto il corpo, quando la sua mano andò a sfiorare quella calda di Tom, che ritrasse immediatamente come fosse stato scottato. I presenti a tavola sembravano non essersi accorti di tutto ciò, ma le guance di Monique stavano prendendo ad imporporarsi e non sarebbero di certo passate inosservate. «Grazie, Monique.» le sorrise Bill, recuperando il cesto. La ragazza non rispose; semplicemente portò alla bocca un altro po' di pasta, a sguardo basso, cercando di calmarsi.

«Monique, che ne dici se riprendiamo il discorso che abbiamo lasciato a metà, a Parigi? Non ci hai ancora detto molto di te.» propose improvvisamente Georg, masticando con poca grazia un boccone appena inforcato.

Una sensazione nuovamente sgradevole pervase per l'ennesima volta Monique.

«Ma te l'ho detto, Georg... Non c'è molto da dire.» rispose la ragazza, con un mezzo sorriso in volto.

«Dai, qualche pettegolezzo sui tuoi vecchi fidanzati. Siamo curiosi.» intervenne Bill, come una ragazzina in vena di Gossip.

«Inclusi i dettagli sconci.» le fece l'occhiolino il rosso, mentre Tom prendeva a tossire convulsamente. Gustav si affrettò a riempirgli il bicchiere d'acqua, mentre il bassista prese a battergli una mano sulla schiena. Il chitarrista era diventato bordeaux in faccia e gli occhi cominciarono a lacrimargli per lo sforzo. Bevve tutto in un sorso e quando posò il bicchiere sul tavolo, riprese a mangiare come nulla fosse. «Quindi?» sorrise nuovamente Georg, nella direzione di Monique.

«Ma quali dettagli sconci, Hagen!» rise nervosamente quest'ultima.

«Su su, mettici un po' al corrente. A che età la prima volta?» le venne in contro Bill.

«Ma Bill, saranno cazzi suoi?» giunse in difesa della povera ragazza Gustav.

«Io lo voglio sapere!» ribattè il vocalist, capriccioso come un bambino, per poi voltarsi nuovamente verso la ragazza. Quest'ultima spostò lo sguardo sul volto di tutti i presenti e notò che tutti la stavano osservando in attesa, compreso Tom, anche se con espressione meno interessata.

«Ehm, sedici.» borbottò la ragazza, per poi passarsi il tovagliolo sulle labbra e riporre la forchetta nel piatto vuoto.

«E lui quanti anni aveva?» si informò Bill, sempre più interessato.

«Diciotto.»

«La mia prima volta è stata uno schifo allucinante.» intervenne Georg, dopo aver bevuto un sorso d'acqua.

«Questo perchè sei un incapace, Hobbit.» rispose Tom, con un sorriso malizioso sul volto. Il primo sorriso che Monique ebbe l'onore di osservare. Ne rimase semplicemente incantata.

«Senti tu, Mr. SexGott dei miei calzoni, da quant'è che non scopi?» lo provocò il rosso, ricevendo subito dopo il tovagliolo del chitarrista in faccia.

«Non è colpa mia se siamo sempre rintanati qui dentro.» si difese Tom, sulle sue. Monique sentiva la faccia andarle a fuoco e non comprendeva bene il motivo.

Come mai quell'improvviso senso di sollievo nel sapere che Tom, da un po' di tempo, non si vedeva con una ragazza?

«Che brutta l'astinenza, eh?» lo stuzzicò di nuovo Georg, battendogli una mano sulla spalla con finto fare comprensivo e compassionevole. Tom se lo scrollò di dosso, tirandogli una fulminata con lo sguardo. «Ecco perchè sei così suscettibile in questo periodo. Astinenza da sesso!»

«Hobbit, finiscila.» lo minacciò per l'ennesima volta il chitarrista e finalmente il bassista lo lasciò in pace.

«Che scuola hai frequentato, Monique?» decise di cambiare discorso Gustav, al suo fianco, osservandola con attenzione ed interesse.

«Linguistico. Ma tutte le lingue che conosco le ho imparate soprattutto grazie ad alcuni amici stranieri dei miei genitori.»

«Beata te. Noi ora mastichiamo un po' di inglese, per forza di cose, ma siamo sempre un po' impacciati. Soprattutto Tom che, quando prende a balbettare, non lo ferma più nessuno.» ridacchiò Bill, osservando piuttosto divertito suo fratello.

«Oh, ma stasera vi siete messi tutti d'accordo per sfottermi?» domandò irritato il chitarrista.

«E' molto divertente, Tomi...» sorrise Bill, poggiando il mento sulle proprie mani.


**


Georg cantava da minuti interminabili una melodia a loro sconosciuta, completamente ubriaco. Dondolava sulla sedia da destra verso sinistra, mentre la sua mano teneva l'ennesimo bicchiere di Vodka che Tom aveva furbescamente tirato fuori dal mobile della cucina. Anche lui aveva bevuto, ma si poteva dire che reggeva l'alcool molto meglio del bassista. Gustav non aveva toccato neanche un goccio di quel liquido pericoloso e Bill invece sembrava ridotto alle stesse condizioni del rosso.

Monique aveva rifiutato di bere – la gravidanza non glielo avrebbe di certo permesso – anche se la tentazione era stata forte. Era troppo tempo che il suo corpo non ingeriva un po' di “sano” alcool e la mancanza cominciava a farsi sentire.

«Credo sia arrivato il momento per me di tornare a casa o non riuscirò a prendere in tempo l'ultimo pullman.» esortò improvvisamente Monique, dopo aver dato un'occhiata al suo orologio da polso.

«Come, come? Vorresti prendere il pullman a quest'ora? Non se ne parla.» intervenne Gustav, categorico. «Sai quanti uomini inaffidabili girano da quelle parti a quest'ora?» continuò il batterista premuroso.

«Ho capito, Gustav, ma come faccio a tornare a casa? La macchina ancora non ce l'ho.» rispose la ragazza, domandandosi effettivamente come avrebbe fatto.

«Ti fai accompagnare da qualcuno. Esclusi Georg e Bill perchè stanno dando di matto.» commentò Gustav, scoccando un'occhiata compassionevole ai due che ora cantavano insieme, abbracciati. «Tom, perchè non l'accompagni tu? Sei l'unico che sa già dove abita. Così io mi preoccupo di mettere a letto questi due cretini.» domandò poi, voltandosi nella direzione del chitarrista.

«Ma no...» cercò di ribattere Monique, ma il ragazzo la spiazzò scrollando le spalle e mormorando un “D'accordo”, privo di interesse. Lo osservò qualche istante, sbattendo le palpebre accigliata, fino a che Gustav non parlò di nuovo.

«Perfetto, allora, vieni che ti accompagno alla porta.» Monique e Tom si guardarono qualche attimo, per poi uscire dalla cucina insieme. Il batterista aveva aperto la porta, per poi dare un affettuoso bacio sulla guancia alla ragazza. «Allora, ci vediamo domani.» le sorrise il biondo. Monique annuì, ringraziò e poi seguì Tom fuori dallo studio. La porta alle loro spalle venne chiusa ed il silenzio tornò a sovrastarli. Monique gli camminava dietro e non poteva fare a meno di osservare la sua schiena, così alta ed ampia, proprio come piaceva a lei. Lo sguardo calò successivamente sulla mano del chitarrista ed un improvvisa voglia di afferrarla si fece largo dentro di lei.

Era inutile continuare a negarlo: più quel ragazzo la trattava male o semplicemente la ignorava, più si sentiva attratta da lui. Voleva trovare protezione fra le sue braccia o sentirsi semplicemente sussurrare delle parole carine e rassicuranti da lui, senza un motivo particolare. Ciò la spaventava parecchio.

Entrarono nella Cadillac e il ragazzo mise in moto, dopo essersi allacciato la cintura. Per qualche minuto non parlarono, in cui Monique si torturava le mani sulle sue gambe nude – tenute timidamente strette tra di loro, dato che il vestito si alzava ancora di più in quella posizione – fino a che la ragazza non decise che non avrebbe potuto sopportare oltre.

«Georg e Bill erano completamente andati.» ridacchiò appena, scrutando di sbieco il ragazzo per leggere sul suo volto una qualsiasi reazione. Quest'ultimo non si scompose, come aveva immaginato.

«Georg parte sempre non appena beve qualcosa. Bill non regge niente e solitamente non perde tempo a bere. Si vede che stasera ha voluto fare un po' il deficiente.» rispose Tom, sorprendendola. Il tono non era né brusco, né freddo. Semplicemente privo di una qualsiasi emozione tangibile: era già un passo avanti; significava che forse era in vena di instaurare un piccolo dialogo con lei, tanto per cominciare.

«Però sono simpatici.» continuò Monique, sperando con tutto il cuore che quella conversazione potesse continuare ancora per molto.

«L'umorismo all'Hobbit non manca.» commentò Tom, scrollando le spalle e senza mai staccare gli occhi dalla strada. «Tu non hai toccato niente.» affermò successivamente, senza cambiare espressione in viso.

«Non posso.» le scappò, ma cercò subito di rimediare: «Cioè, non potevo perchè poi, se mi fossi ubriacata, non sarei riuscita a tornare a casa in pullman da sola.»

«Saresti sul serio tornata in pullman?»

«Non avevo scelta.»

«Tu devi avere qualche rotella fuori posto. Vado a prendermi le sigarette, aspetta un attimo.»

Detto questo, il chitarrista accostò affianco ad un marciapiede e scese dalla macchina. Monique lo seguì con lo sguardo fino a che non lo vide fermarsi ad un distributore automatico.

Tu devi avere qualche rotella fuori posto. Che fosse un modo brusco per farle capire che anche lui sarebbe stato in pensiero per lei? Monique sorrise impercettibilmente. Voleva pensarlo perchè quell'idea... Le piaceva.

Improvvisamente vide Tom tornare alla macchina e, una volta a bordo, rimise in moto. Nemmeno lei seppe quanti minuti spremette il proprio cervello per partorire un altro buon argomento di cui parlare: forse solo in quel modo potevano cominciare ad instaurare il così detto rapporto civile di cui Monique aveva bisogno da tempo.

Purtroppo però i suoi tentativi vennero presto mandati in fumo nel momento in cui la Cadillac si fermò davanti casa sua. Non voleva scendere da quella macchina... Per qualche assurdo motivo, voleva restare lì dentro e parlare con lui; ne aveva disperatamente bisogno.

«Cazzo.» sentì la voce scocciata del chitarrista accanto a sé e voltò il suo sguardo verso di lui, piuttosto incuriosita. Lo vide tastarsi la felpa e i jeans, alla ricerca di un qualcosa a lei sconosciuto.

«Che succede?» domandò cauta.

«L'accendino... L'ho dimenticato allo studio. Ho bisogno di fumare una sigaretta.» rispose, ostinandosi a non guardarla neanche per errore. Solo in quel momento Monique venne trafitta da un'altra idea improvvisa.

Probabilmente avrebbe fatto un errore; il chitarrista l'avrebbe derisa o, ancora peggio, le avrebbe detto di no sostenendo che fosse impazzita, ma la sua voglia di non allontanarsi da lui – o almeno, non ancora – continuava a crescere, sempre di più.

Così, al diavolo la razionalità; quel che sarebbe successo, sarebbe successo.

«Se sali a casa mia te ne do uno.»


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Capitolo 11
*** Ten. Unexplainable explanations ***


unexplainable explanations

Chapter Ten.
- Unexplainable explanations -



Quando aprì la porta di casa sua, il cuore minacciava di sfondarle violentemente il petto. Sentiva la presenza del chitarrista alle sue spalle; poteva percepirne il respiro rilassato – forse per la prima volta da quando si trovava da solo con lei. Lo fece passare, facendo ben attenzione a non sfiorarlo nemmeno con un lembo del suo vestito corto e richiuse la porta.

«Ehm, vieni.» lo incitò la ragazza, facendogli strada nella sua umile e piccola dimora. Il ragazzo le ubbidì, facendo qualche lento passo in avanti e con le mani nelle tasche dei suoi jeans, mentre lo sguardo saettava da un punto all'altro, senza risultare troppo invadente.

Monique si domandò cosa le fosse passato per la testa, nell'esatto momento in cui gli aveva proposto di salire in casa sua per un semplice accendino. Era stata decisamente troppo avventata e il chitarrista, molto probabilmente, avrebbe creduto che lei volesse concludere dell'altro con lui. Ma allora, se così poteva essere, perchè aveva accettato, senza fare una piega?

Il suo viso era sempre privo di qualsiasi espressione che facesse per lo meno intuire a Monique quali fossero le sue impressioni su ciò che gli accadeva attorno, ma questo sembrava non volerle dare soddisfazione.

La ragazza entrò nella sua piccola cucina, seguita da lui – perennemente in silenzio e inespressivo – e prese a frugare in un cassetto del banco, fino a che non ne tirò fuori un accendino nero.

«Ecco.» disse al ragazzo, porgendoglielo e cercando di ignorare i brividi che si erano protratti lungo il suo corpo nel momento in cui la sua mano l'aveva sfiorata. «Puoi fumare sul balconcino, se vuoi.» aggiunse, andando ad aprire la piccola porta finestra che dava sul minuscolo spazio che poteva essere definito da lei “balconcino”. Tom la seguì di nuovo, senza dire mezza parola, fino a che non si ritrovarono entrambi avvolti dalla piacevole brezza serale di Berlino. Monique gli avvicinò un posacenere, sul tavolino affianco a loro, e restò in silenzio ad osservarlo mentre si accendeva – quasi con eleganza – la sigaretta tra le labbra.

Agli occhi di Monique, tutto ciò che lui faceva pareva elegante, ma allo stesso tempo intriso della giusta mascolinità che gli si addiceva solamente guardandolo.

Tirò la prima boccata di fumo, riponendo l'accendino sul tavolino, e poi l'espirò leggermente, osservando con sguardo penetrante il paesaggio di fronte a sé. Berlino di notte era affascinante.

«Grazie per l'accendino.» esortò improvvisamente il ragazzo, facendo quasi sobbalzare Monique.

«Oh, prego.» rispose impacciata, mentre le guance tornavano ad imporporarsi. Insomma era quella l'emozione che le trasmetteva il chitarrista? Si sentiva come ai suoi diciassette anni, quando si prendeva una cotta per un ragazzo del liceo. Percepiva le stesse emozioni di quel periodo. «Ti... Ti puoi sedere, se vuoi.» gli propose poi, indicando le due sedie in vimini accanto al tavolino.

«No, preferisco stare in piedi.» rifiutò l'invito il ragazzo, tornando a fumare in silenzio, dopo essersi appoggiato al muro alle sue spalle. Monique invece era andata a poggiare il bacino sulla ringhiera, di fronte a lui, cercando di non osservarlo troppo in ogni suo movimento, o l'avrebbe di sicuro colta in flagrante. Si sentiva ancora impacciata per quel vestito così corto e aveva quasi paura che gli occhi del chitarrista fossero perennemente posati sulle sue gambe nude. Gli lanciò una veloce occhiata e notò che si sbagliava: lo sguardo di Tom era ancora perso, oltre lei, sul paesaggio berlinese. «E' piccola casa tua.» esortò il ragazzo, senza guardarla. Monique restò qualche attimo in silenzio, chiedendosi se quello fosse un discorso degno di quel nome.

«Beh, comprendo che tu sia abituato a ben altro ma questo è tutto ciò che mi posso permettere al mome...»

«Mi piacciono le case piccole.» la interruppe lui, continuando a non guardarla. Monique sbattè appena le palpebre, osservandolo. Era serio, pensieroso... Assorto in un qualcosa che lei non capiva cosa potesse essere. Avrebbe tanto voluto fare un lungo viaggio nella sua mente, giusto per capire cosa gli passasse per la testa ogni qual volta si trovavano insieme. Nel suo subconscio pregava che lui non fosse davvero infastidito dalla sua presenza ma che, in qualche modo, l'apprezzasse, come lei inspiegabilmente apprezzava la sua. La trattava male, o con indifferenza, ma non poteva non desiderare lo stesso la sua vicinanza: tutto questo la mandava in paranoia. «Su chi volevi fare colpo con quel vestito, Schmitz?» domandò improvvisamente Tom, prendendola in contro piede. La ragazza diventò paonazza in viso, mentre le gambe presero a tremarle.

Credeva che non si fosse soffermato troppo sul suo abbigliamento. Era convinta che non avesse sospettato di nulla, ma evidentemente si era sbagliata.

«Su nessuno, Tom.» rispose, cercando di assumere un tono sicuro, ma senza successo. Per la prima volta lo sguardo di Tom si spostò sul suo viso e Monique rabbrividì, perdendosi nella profondità di quegli occhi nocciola.

«Voi ragazze non vi mettete mai qualcosa di elegante addosso se non è per fare colpo su qualcuno.» ribattè inaspettatamente il chitarrista. Si sentiva in trappola e voleva uscirne al più presto.

«Nel mio caso, questo vestito non è stato scelto per questo fine.» rispose, celando il lieve tremore che la stava pervadendo.

Tom spense la sigaretta nel posacenere, per poi staccarsi dal muro ed avvicinarsi alla ragazza. Monique sentiva il cuore esploderle ed il fiato mancarle. In pochi secondi, il chitarrista la affiancò sulla ringhiera, mantenendo comunque una giusta distanza. Aveva di nuovo distolto lo sguardo da lei, per tornare a concentrarsi sulla città notturna. «Bugiarda.» sussurrò nuovamente, senza guardarla. Monique venne trafitta da una scossa elettrica lungo la sua colonna vertebrale che la portò a voltarsi completamente nella direzione del ragazzo.

«Perchè sei così convinto del contrario? Non puoi sapere cosa mi sia passato per la testa quando ho messo questo schifoso vestito. Non mi conosci... Non hai voluto farlo.» ribattè, presa dal nervoso. Vide le mani del chitarrista stringere la ringhiera, fino a farsi diventare le nocche bianche.

«Basta con questa storia. Non puoi capire, Schmitz.» sibilò a denti stretti, continuando ad osservare il vuoto davanti a sé.

«Perchè dai per scontato che io non possa capire se neanche provi a spiegare?!»

«Perchè non c'è niente da spiegare!»

Tom si era alzato di scatto dalla ringhiera ed era rientrato in casa, ma Monique si affrettò a raggiungerlo e afferrargli la manica della felpa, alle sue spalle.

«Sono stufa, Tom! Sono stufa del tuo atteggiamento nei miei confronti! Sono una persona umana, non sono un cane o un oggetto che puoi trattare come ti pare! Anche io ho dei sentimenti come te!» urlò la ragazza, sentendo un gran magone farsi spazio nella sua gola. Tom si voltò di scatto, divincolandosi dalla sua ferrea presa.

«Ed è proprio per questo che mi tengo alla larga da te!» ribattè furioso. «Tu ti ostini a non capire! Guardi solamente in superficie le cose, senza provare ad andare oltre! Tu vedi in me solamente il ragazzo che ti tratta di merda, che cerca di mantenere le distanze con te, ma non ti sei mai fermata a riflettere sul motivo!»

«E invece è qui che ti sbagli, Tom! Io mi spacco la testa tutti i santi giorni per capire cosa passi per la tua! Quale sia questo assurdo motivo che ti spinge a stare alla larga da me, a non voler instaurare un rapporto civile, come ti ho già chiesto in passato!»

«E hai mai provato a darti una risposta?!» Monique non fece in tempo a riflettere su ciò che le aveva domandato, che il chitarrista le afferrò le spalle, sbattendola contro le mensole dietro di lei. Strinse gli occhi per il colpo doloroso che aveva ricevuto alla colonna vertebrale ed aprì lievemente gli occhi per accorgersi che Tom – o meglio, le sue labbra – si trovavano a pochi centimetri dalla sua bocca. Il respiro caldo e odorante di fumo del ragazzo le lambì il volto, mentre le sue mani non si staccavano dalle sue spalle tremanti. Si perse ad osservare gli occhi furenti che la scrutavano come turbati o tormentati da un qualcosa a lei sconosciuto. Era la prima volta che si trovava ad una distanza così ravvicinata con lui e la cosa, oltre che agitarla e spaventarla, le provocava un'immensa scarica di eccitazione sulla schiena. «La verità è che tu sei troppo accecata dalla rabbia verso il mio comportamento, per capire cosa veramente mi passa per la testa.» continuò il ragazzo, con tono più basso ma penetrante. La sua fronte era andata ad appoggiarsi su quella di Monique che, nel frattempo, non riusciva a dire una parola. Le braccia del chitarrista si erano appoggiate sul ripiano dietro di lei, in modo che la distanza fra loro fosse rimpicciolita ulteriormente. Monique sentiva i jeans del ragazzo carezzarle le gambe nude e il suo torace a contatto con il suo seno coperto dal vestito accollato. Sentiva il fiato mozzato e l'ansia mischiata a strana eccitazione pervaderla interamente.

Sgranò gli occhi quando sentì il tocco delle labbra di Tom sulla sua tempia. Un bacio. Un semplice bacio, intriso di infinita tenerezza che mai si sarebbe aspettata da lui prima di allora. Il cuore prese a martellarle più velocemente in petto e per un momento ebbe paura che potesse venirle un infarto. Dalla tempia, le labbra presero ad accarezzarla lievemente, fino ad arrivare sulla sua guancia liscia. Un altro bacio. Monique trattenne il fiato. Sentiva come una calamita attrarla verso quella bocca lievemente carnosa e dannatamente peretta, ma questa non arrivava mai dove lei voleva.

Senza pensarci, voltò il suo capo in direzione di quella meta tanto ambita, ma il ragazzo le posò delicatamente un dito sulle labbra, ancora prima che potesse baciarlo come lei desiderava. Lo vide aprire gli occhi e scrutarla con una strana luce malinconica al loro interno. Le accarezzò le labbra con quel dito, osservandole attentamente, per poi posare di nuovo lo sguardo sui suoi occhi truccati. «Questo è uno dei motivi per cui devo tenermi alla larga da te, Schmitz.» sussurrò a qualche millimetro dalla sua bocca. Le diede un lieve bacio sulla fronte, fino ad allontanarsi definitivamente da lei. Monique percepì un freddo improvviso ed una sgradevole sensazione di mancanza, quando sentì il corpo del chitarrista rompere il contatto con il suo ed un bisogno improvviso di sentirlo ancora più vicino di prima. La guardò ancora qualche attimo, fino a che non le diede le spalle per poter uscire da casa sua e abbandonarla di nuovo, avvolta nel silenzio.

Monique, restò impalata, dove il ragazzo l'aveva lasciata, per poi riprendere a respirare, mentre sentiva ancora il suo profumo addosso. Si portò una mano al petto cercando inutilmente un modo per calmare i suoi battiti accelerati. Le gambe, ancora tremanti, le cedettero, fino a farla rovinare a terra.

Ora la confusione la stava dilaniando... Sempre di più.


**


Tracciò un'altra riga nera sull'ennesima parola sbagliata che quella penna aveva marcato sul foglio bianco. Grugnì, portandosi una mano alla fronte e correggendo di nuovo tutto quanto.

Era distratta, stava lavorando in maniera deplorevole, come mai le era capitato in vita sua. Nella sua testa, sentimenti contrastanti combattevano tra loro: rabbia, emozione, tristezza, curiosità.

Il chitarrista era riuscito ad abbandonarla con quel mix di sensazioni che lentamente le stavano divorando il fegato.

Non poteva accettare tutto ciò: pretendeva delle spiegazioni. Tom non poteva interrompere la discussione con un semplice “Questo è uno dei motivi per cui devo tenermi alla larga da te.”. Stava giocando decisamente troppo sporco e la cosa la mandava letteralmente in bestia. A cosa si riferiva? Qual'era quel maledetto motivo?

Si prese la testa con entrambe le mani, stringendo le palpebre e gemendo dalla confusione.

Non le era mai capitato di dover affrontare le stranezze di un ragazzo così enigmatico, in vita sua. Bene o male tutti quanti erano stati fin troppo chiari con lei, a partire da Christian, ma Tom poteva essere considerato decisamente un caso patologico. Eppure sapeva che avrebbe dovuto porre fine a tutto quello: le sue preoccupazioni si stavano riversando anche sul suo lavoro e sulla gravidanza e certamente non andava bene.

Improvvisamente si portò un dito alla tempia, arrossendo impercettibilmente al solo pensiero che le labbra del chitarrista vi si erano posate con gentilezza; poi lo passò sulla guancia, poi sulla fronte, ripercorrendone i brividi provati nella sua mente. Voleva ancora quel contatto, anche se un nuovo timore si stava impossessando di lei.

Tom si era scostato, quando aveva tentato di baciarlo sulla bocca. Perchè glielo aveva impedito?

Le veniva da piangere; si sentiva inspiegabilmente rifiutata, non gradita... E voleva tanto comprenderne il motivo.

Un improvviso rumore di vetri in frantumi la destò dai suoi pensieri. Sentì delle urla dalla stanza affianco e un brivido le percorse la colonna vertebrale. Si alzò velocemente dalla sua poltrona in pelle e corse fuori dal suo ufficio, fino ad arrivare alla fonte di quel fracasso, dove inchiodò sui propri piedi, trattenendo il respiro di fronte alla scena che i gemelli le stavano proponendo: sembravano aver appena terminato una rissa in piena regola. I suoi occhi si posarono presto sulla mano ferita di Tom, dalla quale sgorgava un sottile rivolo di sangue – colpa del vetro frantumato a terra, che Monique non riuscì a riconoscere – e poi sul volto furente del gemello. Georg tratteneva Tom per le spalle, mentre Gustav stringeva un lembo della magli del vocalist.

«Ma che sta succedendo qui dentro?! Siete fuori di testa, per caso?!» esclamò David, rosso in viso dalla rabbia, facendo irruzione in quella stanza. «Avete quasi ventun'anni e ancora non avete imparato a controllare la vostra ira?! Non potete prendervi a botte ad ogni minima discussione!» continuò fuori di sé. Tom si scollò violentemente dalla presa di Georg e, con sguardo truce, uscì dalla stanza a grandi passi. «Si può sapere che è successo questa volta?» domandò successivamente il manager a Bill. Il ragazzo lo guardò con il fuco negli occhi e prese a urlare.

«Chiedilo a quel malato di mio fratello! È tutto oggi che gli girano i coglioni e non gli si può dire mezza parola!» detto questo, uscì anche lui dalla stanza, per poi rifugiarsi in giardino e sbattere la porta dello studio di registrazione con tutta la forza che aveva in corpo, tanto che Monique e il resto dei presenti strinsero le palpebre dal frastuono.

«Georg, Gustav, ripulite questo macello, per favore.» mormorò David, cupo in volto, per poi allontanarsi di nuovo e chiudersi nel suo ufficio. I due ragazzi sospirarono pesantemente, accontentando quella richiesta in silenzio.

«Cos'è successo?» domandò timidamente Monique, piegandosi sulle ginocchia per poterli aiutare con quei piccoli vetri frantumati.

«Tom è strano. È da stamattina che lo è. È scorbutico con tutti, non ha voglia di parlare... Non che non sia già successo altre volte, ma come oggi mai.» rispose Gustav, recuperando una scopa e una paletta.

«Odio quando le fa scontare agli altri.» borbottò Georg, dopo essersi portato una ciocca di capelli rossi dietro a un orecchio. «E se gli chiedi che cos'ha ti mangia con un solo sguardo.» aggiunse con fare scocciato.

«Ma addirittura picchiarsi con Bill?» chiese sempre più esterrefatta la ragazza.

«Quella non è una novità. Quando litigano si sa che si lanciano qualunque cosa capiti loro sottomano, da una parte all'altra della stanza.» scrollò le spalle il bassista, come fosse una cosa normale.

Una volta concluso il loro lavoro, si risollevarono da terra per poter gettare i pezzi di vetro in un cesto della spazzatura, lì vicino.

«Grazie, Monique.» le sorrise Gustav.

«Figurati.» rispose lei, piuttosto pensierosa. Quando i ragazzi si allontanarono per raggiungere entrambi mete diverse, girò sui propri piedi, con l'intenzione – forse assurda – di trovare il chitarrista, per capirne qualcosa di più. Sapeva perfettamente che si sarebbe infuriato anche con lei, mandandola in un paese molto lontano, ma la voglia di sapere batteva qualunque timore.

Salì le scale che avrebbero portato alle stanze dei ragazzi e, non appena sentì il suono melodico di una chitarra, lo seguì con l'udito, facendosi guidare fino a lui. Trovò la porta della camera del moro socchiusa e vi si avvicinò lentamente, potendo perfettamente riconoscere quella canzone che stava suonando: “In your shadow I can shine”. D'altronde era anche l'unica che le avevano fatto ascoltare e giudicare.

Una mano tremante si sollevò, fino ad andare a bussare lievemente sul legno liscio. Sentì la melodia arrestarsi e così decise di spostare di poco la porta, affacciandosi con il viso. Trovò il chitarrista seduto sul letto, con la chitarra in grembo e lo sguardo intriso di infinita malinconia.

«Posso?» domandò cauta. Non ricevette risposta, così lo prese per un “Sì” sottinteso. Fece il suo ingresso in quella stanza e si avvicinò leggermente impacciata al ragazzo, fino a sedersi sul letto, di fronte a lui. Gli occhi di Tom la studiavano attentamente, senza dare segno di una qualche espressione più amichevole, ma ciò non le importava. «Che succede, Tom?» gli domandò, osservandolo. Lo vide serrare la mascella.

«Non sono affari tuoi.» le rispose freddamente. Monique si sentì per un attimo offesa da quella risposta. Credeva che dopo i teneri baci che le aveva dato la sera prima, anche il suo atteggiamento sarebbe cambiato nei suoi confronti, cercando di trattarla con più gentilezza. Decise comunque di convincersi che quella risposta era stata data dalla rabbia del momento.

Abbassò lo sguardo sulle sue mani, ancora poggiate alla chitarra e aggrottò la fronte, notando che quella ferita perdeva ancora del sangue.

«Tom, stai ancora sanguinando alla mano. Devi disinfettare quel taglio.» esclamò la mora, sollevandosi velocemente dal materasso.

«No, Schmitz, stai ferma. Vieni qua.» borbottò il ragazzo, algido, mentre Monique si era già fiondata al bagno affianco alla sua stanza per recuperare un po' d'acqua ossigenata, del cotone ed una piccola garza bianca. Quando tornò da lui, lo trovò dove l'aveva lasciato, così ci si sedette di nuovo davanti.

«Dammi la mano.» gli intimò premurosa, allungando la propria.

«Schmitz, per favore, sto bene, non mi serve tutto questo.» sbuffò il chitarrista, ma Monique fu più veloce di lui e gli afferrò delicatamente la mano ferita. Una scarica elettrica si protrasse da dove la ragazza l'aveva toccato, sino ad ogni cellula del suo corpo e per un attimo sperò che la stessa sensazione l'avesse provata lui. Impregnò il discetto di cotone di un po' d'acqua ossigenata e poi, chiudendo la mano del chitarrista nella propria, cominciò a tamponarglielo lievemente sul dorso, cercando di non fargli male. Sentiva un calore piacevole in quella presa e cercò di concentrarsi solo ed esclusivamente su ciò che stava facendo, quando improvvisamente la mano del chitarrista strinse di scatto la sua. «Brucia, cazzo!» esclamò, stringendo appena anche le palpebre. Gli occhi di Monique si sollevarono sui suoi, mentre continuava il suo lavoro. Non si sarebbe mai più voluta staccare da quella presa forte... Le infondeva sicurezza.

Una volta finito, però, fu costretta ad abbandonarla, ormai lievemente sudata, per srotolare la garza. Prese di nuovo la mano del chitarrista e gliela fasciò con cura, ignorando lo sguardo di lui, puntato sul suo viso.

«Ecco fatto.» concluse la mora, osservando il suo lavoro. Tom ritrasse la mano e voltò lo sguardo in un'altra direzione. Monique sorrise, sapendo che non l'avrebbe mai ringraziata. «Senti, Tom... Io ero venuta qui per parlare. Avevo intenzione di chiederti delle spiegazioni, riguardo ieri sera, ma non lo farò. Almeno non ora. Hai bisogno di sbollire tutti i nervi che ti porti in corpo ed io non voglio essere una causa di ulteriore nervoso. Sappi solo che mi dovrai chiarire molte cose, perchè non mi accontento di quella frase lasciata in sospeso, dopo quello... Dopo quello che hai fatto.» disse poi, guardandolo attentamente negli occhi. Lui rispondeva allo sguardo, con una nota malinconica e pensierosa negli occhi, ma non rispose. A dire il vero, Monique non attendeva una risposta.

Si alzò dal letto e si diresse nuovamente alla porta di quella stanza, per poi uscire e lasciare il chitarrista pensieroso di nuovo solo, con la sua chitarra.

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Capitolo 12
*** Eleven. Damned collapse ***


damned collapse

Chapter Eleven.
- Damned collapse -



«Io te l'ho detto e rimango della mia idea: secondo me è preso da te.» Jessica aveva parlato, per poi portarsi alla bocca la tazza di tè fumante che teneva in mano, rannicchiata in un angolo del divano dove sedeva anche Monique, intenta a rigirarsi una ciocca di capelli attorno al dito indice.

Le aveva raccontato tutta la vicenda, avvenuta a casa sua, con il chitarrista, senza tralasciare un minimo dettaglio. Ogni brivido, ogni stretta, ogni respiro ed ogni sussurro era stato menzionato con un po' di nostalgia. Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo, rivivere tutto ciò senza giungere mai alla fine di quella discussione... Avrebbe ripetuto il tutto all'infinito, fino a stancarsi.

Ormai l'aveva ammesso anche a se stessa: Tom le piaceva e non poco. L'attrazione sia fisica che mentale che provava nei suoi confronti era troppo forte per poter essere ignorata. Eppure si domandava in che modo quei sentimenti avrebbero portato ad un buon fine, se il chitarrista si rifiutava di darle salde certezze.

«Se gli fossi davvero piaciuta, avrebbe lasciato che lo baciassi, senza porsi problemi.» mormorò Monique, abbassando lo sguardo sulle sue gambe incrociate sul divano.

«Ma cosa ne sai che non si è ritratto per un motivo preciso che conosce solo lui? Se non gli fossi piaciuta neanche un po', non ti avrebbe sbattuta al muro, dandoti tutti quei baci, e soprattutto dicendoti quelle cose.» ribattè Jessica con enfasi.

«Sarà... Ma tutto questo non mi convince.» borbottò la mora, poggiando la testa sulla sua mano.

«Chiedigli spiegazioni.»

«Gli ho già detto che lo farò. Ma non ho ancora trovato il momento giusto.»


**


Sospirò per l'ennesima volta, stendendo quell'odiosa coperta rossa sul letto del vocalist.

Come avrebbe potuto trovare un maledetto momento giusto per parlare col chitarrista, se questo ogni volta che la vedeva svoltava al primo angolo che trovava o era sempre occupato in qualche lavoro con la band?

Non le piaceva essere evitata; era una cosa che aveva sempre odiato sin da quando piangeva disperata, da bambina, per richiamare l'attenzione dei suoi genitori, intenti a fare altro e non potendo considerarla come lei si aspettava. Ora voleva, pretendeva quella considerazione da parte del chitarrista. D'altronde era lui che li aveva portati a quella situazione ambigua.

«Hey, Monique... Hai già rifatto il letto.» commentò Bill, una volta entrato nella stanza con sguardo piuttosto stanco. La ragazza si voltò incuriosita verso di lui, mentre lo vedeva passarsi una mano sul viso.

«Hey, sei stanco?» domandò retoricamente, dopo aver sistemato il cuscino.

«Stanotte non ho chiuso occhio; un mal di stomaco assurdo. E stamattina mi sono svegliato presto per lavorare su questo album che – sia ringraziato il Cielo – è quasi finito.» spiegò, avvicinandosi di qualche passo. «Ora volevo mettermi un po' nel letto a riposare, dato che ci siamo concessi una pausa. Per quello mi dispiace che hai appena rifatto il letto.» continuò osservandola con lieve imbarazzo.

«Oh, ma stai tranquillo, Bill. Il letto, tanto, va fatto per essere disfatto di nuovo.» ridacchiò Monique, battendogli una mano sulla spalla più volte. «Allora, buon riposo.» gli augurò successivamente, togliendo il disturbo da quella stanza. Una volta richiusa la porta, sospirò, decidendosi che quello sarebbe stato il momento adatto per parlare con Tom. Si erano presi una pausa ed il chitarrista non avrebbe potuto trovare scuse accettabili per non affrontarla.

Scese le scale a grandi passi, fino al piano terra, e – dopo essersi guardata intorno – constatò che il ragazzo doveva essere uscito in giardino a fumarsi una sigaretta.

Aprì velocemente la porta dello studio di registrazione, con espressione già irata, e impuntò sui propri piedi non appena lo vide fumare in compagnia di Georg. La delusione si impossessò di lei.

No, decisamente non poteva parlargli davanti al bassista.

Stava per richiudere la porta, quando la voce del rosso le trapanò le orecchie.

«Hey, Monique! Dove vai? Vieni a farci un po' di compagnia!»

Monique tornò ad affacciarsi in giardino, solo con il viso, e sorrise impacciata.

«Ehm, no, Georg, devo andare a finire di mettere a posto le vostre stanze.» rispose, stando ben attenta a non guardare negli occhi il chitarrista. Stava facendo una pessima figura con lui: senza dubbio pensava che lo stesse addirittura spiando.

Detto questo, si rifugiò velocemente nello studio di registrazione, richiudendo la porta. Salì le scale e si recò nella stanza di Tom – l'unica che ancora non aveva riordinato. Quando vi entrò, prese un bel respiro. Era assurdo: ogni volta che varcava la soglia di quella camera sembrava che il profumo del chitarrista le raggiungesse velocemente le narici, mandandola per un attimo fuori di testa. Probabilmente era solo una sua impressione, ma non poteva fare a meno di accorgersene.

Si avvicinò al letto del ragazzo e trovò su di esso tre maglie e due paia di jeans da piegare. Afferrò la prima maglia, cercando di concentrarsi solo ed esclusivamente sul proprio lavoro, il che voleva dire anche di non far caso al delizioso profumo che quei capi emanavano.

Chiuse gli occhi, portandosene uno al viso ed inspirando quell'odore inebriante, ma subito si trovò ad arrossire. Allontanò velocemente la maglia e si affrettò a piegarla, domandandosi come le venisse in mente di fare certe cose imbarazzanti.

Improvvisamente, mentre si accingeva a piegare il primo paio di jeans, si accorse che quella stanza stava ospitando un'altra presenza. Quando voltò il suo sguardo, sobbalzò, portandosi successivamente una mano al petto per riprendere quel poco d'ossigeno che aveva momentaneamente perso.

Tom era appena entrato in camera sua e si era fermato sulla soglia ad osservarla inespressivo.

Che avesse voluto trovarla per sua spontanea iniziativa, facilitandole il compito?

«Ciao.» borbottò Monique, per poi riabbassare lo sguardo sui jeans e continuare a stenderli con le mani. Sentì il moro avvicinarlesi ed il suo cuore cominciò ad accelerare i battiti.

Stai calma, si disse mentalmente, continuando a far finta di nulla su quei dannati e profumatissimi jeans.

«Mi volevi parlare, prima?» domandò tranquillo il chitarrista. Monique sentì una scossa scuoterla. Quella domanda l'aveva infastidita. Come poteva chiederle una cosa così scontata dopo quello che era successo?

«Se è per questo, è da giorni che voglio parlarti ma tu sei piuttosto sfuggente, devo dire.» sputò acida, continuando a non guardarlo. «E' stato piuttosto divertente inseguirti per tutto lo studio di registrazione... Mi sembrava di giocare a...»

«Lascia stare.» la interruppe, alludendo ai pantaloni che stava piegando. Lei lo ignorò, continuando nel suo intento. «Lascia stare.» ripetè lui, poggiandole una mano sulla sua, dalla quale un calore quasi insopportabile si sprigionò per tutto il suo corpo. Vi erano stati alcuni secondi in cui si erano guardati, mentre la stretta di Tom non si allentava, fino a che lui stesso non decise di interrompere quel contatto visivo, così come quello fisico. Lo vide grattarsi appena la nuca, e questa volta agì come lui le aveva chiesto. Posò i jeans sul letto ed incrociò le braccia al petto, voltandosi interamente verso di lui. Lo guardò come aspettandosi che lui parlasse. Voleva attendere; era curiosa di sapere cosa avesse da dirle. «Non ero ancora pronto per affrontare un certo discorso con te.» ammise, guardandola appena.

«Io non mangio la gente.» obiettò la ragazza, senza abbandonare quella sua posizione, apparentemente sicura di sé.

«Non è quello il motivo.» sbuffò Tom, distogliendo lo sguardo.

«E allora qual'è questo santissimo motivo? Esigo una risposta, Tom: voglio sapere perchè hai fatto quello che hai fatto a casa mia, quella sera... E soprattutto cosa voleva dire quella frase con cui mi hai lasciato come una mammalucca.»

«Schmitz, io credo che faresti meglio a dimenticare tutto.»

Il sangue di Monique si raggelò. Per un attimo non lo sentì più scorrere nelle vene e la cosa le fece mancare il fiato. Si sentiva un pezzo di marmo, poggiato lì, davanti a lui. E si sentiva dannatamente stupida.

La rabbia cominciò a montarle in corpo, mentre il sangue riprendeva a circolare, ma questa volta a maggior velocità. Il cuore batteva troppo forte per ridarle quel respiro regolare di cui tanto aveva bisogno in quel momento.

«Cioè, tu fai tutte quelle cose ed hai anche il coraggio di venire da me e dirmi di dimenticare tutto? Forse tu non lo sai, Tom, ma essere una famosa rockstar non ti da il diritto di comandare la gente a bacchetta! Non hai il potere di decidere quando e come far avvenire le cose! Un giorno non mi puoi prendere e sbattere al muro ed un altro pretendere che io neanche ci pensi! Non hai questo potere, soprattutto con me! Lavoro per te, è vero, ma se permetti sono ancora padrona della mia vita e me la gestisco come meglio credo! Non che un ragazzo della mia stessa età arriva e si permette di dirmi cosa devo o non devo provare e fare! Mi dispiace per te, Tom, ma io non dimentico! Almeno non finchè non avrò una fottuta spiegazione da te!» sputò tutte quelle parole con la rabbia che fuoriusciva da ogni poro della sua pelle. Il viso le si era fatto rosso dal nervoso, il respiro le si era accelerato maggiormente ed un incessante istinto omicida verso il chitarrista la tormentava con frasi come “Ammazzalo, ce l'hai lì davanti! Strozzalo con le sue stesse treccine!”. Il chitarrista, in tutto questo, era rimasto in silenzio, quasi esterrefatto da quella reazione che mai si sarebbe aspettato dalla ragazza.

Qualche tempo prima poteva parlarle in una determinata maniera e dettarle ordini, quando era ovvio che lei non sapesse come reagire e che il più delle volte abbassasse la testa ed obbedisse, ingoiando tutto ciò che di più crudo e violento voleva urlargli contro. Ora era disarmato. La ragazza aveva tirato fuori gli artigli e di certo questo l'aveva destabilizzato.

«Non c'è un motivo, Schmitz. In quel momento mi andava di fare così. Sarà stato il vestito troppo corto... Ed io sono un maschio, punto.» disse freddamente. Monique sentiva che presto il telegiornale avrebbe trasmesso la notizia di un “Tom Kaulitz tragicamente morto dopo una scaricata di craniate in fronte”.

«Il – il vestito troppo corto.» sussurrò la mora, mentre la tempia prendeva a pulsarle. «Mi vuoi far credere che quel dannato vestito sia stato la causa di tutto quello che è accaduto?! Dio, quanto sei patetico! Sei troppo presuntuoso, troppo orgoglioso per ammettere che quelle cose tu le abbia fatte per un motivo più serio!»

«Vedi di andarci piano con le parole, Schmitz! Ricordati che io ti posso sempre...»

«Allora fallo, Tom, cazzo! Licenziami! Dimostrami che hai le palle sotto quei fottuti pantaloni! Smettila di sottomettere le persone in questo modo solo per sentirti superiore e sicuro di te! Solo per avere il potere! Tu non sei nessuno, Tom!»

Il dolore acuto che le perforò una guancia non era nulla in confronto a quello che sentiva nel cuore. Del rossore cominciava a propagarsi sulla sua pelle chiara ma ciò non non le interessava. Ora la cosa che più la tormentava era solo una: Tom le aveva dato uno schiaffo.

Come una furia, si avventò sul chitarrista, mentre le lacrime prendevano a sgorgare dai suoi occhi pieni d'ira. Lo sguardo di Tom sembrava scioccato per ciò che egli stesso aveva fatto – forse pentito – ma in quel momento si preoccupava di difendersi dagli attacchi della mora, cercando di tenerla ferma per i polsi.

«Sei uno stronzo, ecco cosa sei! Ed io ancora che perdo tempo con te!» continuò ad esclamare la ragazza, senza smettere di piangere, finchè una fitta quasi soffocante al ventre non la fece urlare di dolore. Le gambe le cedettero e si ritrovò presto fra le braccia di Tom che l'aveva sorretta per un pelo. Il cuore del chitarrista galoppava in petto, ma Monique non poteva sentirlo. Quel dolore lancinante non passava e continuava a farla contorcere e gemere. Si portò entrambe le mani al ventre, piangendo quasi istericamente, mentre Tom continuava a sorreggerla impaurito.

«Che cazzo hai ora?!» esclamò non capendo cosa le stesse succedendo. La ragazza non rispondeva, continuava a lamentarsi, piegata su se stessa, così – dopo un'imprecazione – si abbassò appena, portandole un braccio sulla schiena ed uno sotto le sue ginocchia. La prese in braccio ed uscì velocemente dalla stanza.


**


Tom sedeva in sala d'aspetto da una mezz'ora buona ormai. Le sue gambe, piegate, continuavano a muoversi a scatti, com'era solito fare quando era nervoso, mentre le immagini della ragazza continuavano a passargli davanti agli occhi come treni in corsa.

Dopo che l'aveva presa in braccio, era svenuta, forse per il dolore. Una volta, sua madre Simone gli disse che per il dolore si poteva anche svenire, così si era auto convinto che la ragione fosse quella. Si era spaventato, doveva ammetterlo e non riusciva a capire cosa fosse successo alla ragazza.

Improvvisamente vide uscire una dottoressa dalla stanza dove era stata portata in fretta Monique e Tom, automaticamente e quasi senza accorgersene, si alzò dalla sedia per avvicinarsi alla donna.

«Come – come sta?» chiese un po' impacciato.

«Si è ripresa ed ora sta dormendo. Le abbiamo dato un calmante per il dolore.» sorrise appena la dottoressa.

«Che cos'ha avuto?» si informò di nuovo il chitarrista.

«Probabilmente un sovraccarico di nervi. Nella sua situazione può succedere e ci deve stare attenta. Il bambino ne risente molto... Per questo ha cominciato a sentire quelle fitte al ventre. Probabilmente il piccolo si “stava ribellando”.» sorrise dolcemente la donna. Tom aveva gli occhi sgranati; la confusione si stava impadronendo di lui. Il bambino? Di che piccolo parlava? «Comunque, non si preoccupi. Vostro figlio sta bene.» gli posò una mano sulla spalla. Tom la fissò inespressivo. Non riusciva neanche a sbattere le palpebre o per lo meno spostare la direzione delle sue pupille. Teneva gli occhi fissi sul viso della dottoressa senza proferire mezza parola ed una sgradevole sensazione allo stomaco prese a farsi viva dentro di lui. Quando la donna, con un ultimo sorriso, gli si allontanò, si sentì pervaso da una nuova ed inquietante consapevolezza.


**


Quando aprì gli occhi, il suo cranio sembrò trafitto da un centinaio di frecce infuocate. Una luce fastidiosa la stava accecando e ciò non le permetteva di aprire bene gli occhi. Impiegò qualche secondo per abituarsi a quella “nuova” dimensione terrestre e osservò il soffitto sopra di lei. Si trovava in un letto e le pareti attorno a lei erano tutte paurosamente bianche. Un brivido alla schiena le suggerì che si trovava in un ospedale: lei gli ospedali li odiava con tutto il cuore.

Come ci era finita lì? Fece mente locale, cercando di rammentare cosa fosse accaduto, fino a che l'immagine di lei che si avventava contro Tom non le riaffiorò alla mente. Deglutì rumorosamente, chiedendosi dove fosse il chitarrista e cosa fosse accaduto dopo. Ricordava solo un dolore improvviso, fortissimo – come forse non l'aveva mai provato in vita sua – e subito dopo il buio.

«Se ti stai chiedendo dove ti trovi, la risposta è: in ospedale.» una voce a lei ormai familiare le arrivò alle orecchie improvvisamente, facendola quasi sobbalzare. Voltò il viso alla sua sinistra e con gran stupore notò Tom, seduto sullo sgabello, accanto a lei. Il suo sguardo era cupo, quasi duro – ma non più del solito.

Si sollevò appena per mettersi seduta sul letto, con la schiena poggiata ai due cuscini alle sue spalle.

«Cosa mi è successo?» domandò confusa.

«Hai sentito un dolore al ventre ed hai cominciato ad urlare, fino a che non mi sei svenuta fra le braccia. Ti ho portato io qui.» rispose il ragazzo, senza battere ciglio. Sembrava arrabbiato e non riusciva a capirne il motivo. Non voleva credere che fosse ancora per la vicenda di qualche attimo prima.

«E... Il motivo?» domandò cauta.

«Il motivo per cui io ti ho portato qui o per cui ti sei sentita male?» chiese il ragazzo con nota scettica che mandò ancora più in confusione Monique. Perchè faceva così?

«Il motivo per cui mi sono sentita male.»

«Evidentemente ti sei incazzata più del dovuto ed il tuo bambino ne ha risentito.»

Il gelo si impossessò dell'intero corpo inerme di Monique. Il Mondo sembrò crollarle addosso in tutta la sua grandezza e in tutto il suo peso, schiacciandola sempre di più. Il cuore prese a martellarle in petto senza tregua ed il respiro si spezzò per lunghi attimi.

Non può essere, continuava a ripetersi nella mente. Non può essere, non può essere... No, no, no!

«Come – come sai del...» balbettò impaurita ma Tom la precedette alzando appena la voce.

«Dalla dottoressa! Ecco da chi lo sono venuto a sapere!» il ragazzo si alzò dalla sedia e prese a fare avanti e indietro per quella stanza, massaggiandosi le tempie e cercando di calmare il suo respiro affannato. Monique chiuse gli occhi, prendendosi il viso fra le mani e maledicendo quella donna. Tom finalmente si fermò, tornando a guardarla furioso. «Cosa aspettavi a dirlo, Schmitz?! Soprattutto a David! Avresti atteso di arrivare allo studio con qualche taglia in più per farci giungere ad una maledetta conclusione da soli?! Pensavi di fare la furba?!»

«No, Tom! Non pensavo di fare la furba! Non puoi capire in che situazione di merda mi trovo!» esclamò la ragazza con le lacrime agli occhi, ma cercando comunque di non agitarsi più del dovuto o avrebbe commesso lo stesso precedente errore.

«Tu hai cercato di mentirci! Ci hai preso in giro!»

«Non vi ho preso in giro, Tom! Avrei comunque trovato il modo di dirvelo! Ma io ora non potevo, David mi avrebbe licenziato, non capisci?! Ed io ho un fottuto bisogno di soldi, non posso rischiare, soprattutto ora che mi dovrò occupare anche di questo bambino!»

«Sei una stupida, irresponsabile!»

«Che cosa?! Io mi sono fatta il culo fino adesso per racimolare quanti più soldi potevo, fino a chiedere una seconda occupazione a David e tutto per non ritrovarmi sotto un ponte assieme a mio figlio, ed io sarei l'irresponsabile?!»

«Certo che lo sei! Nelle tue condizioni non puoi farlo! È inutile che fai l'eroina! Sei incinta, accetta la realtà e non puoi pretendere di lavorare tutte quelle ore!»

«Tom, ne ho bisogno!»

«Dio, che... Che faccia tosta che hai avuto, Schmitz!»

«Tom, non dirlo a David, ti prego!»

Tom la fulminò con lo sguardo e successivamente le diede le spalle, incamminandosi velocemente e con rabbia incontrollata alla porta. «Va' al diavolo, Schmitz.» tutto quello che ancora le sue labbra sussurrarono, prima che la porta venisse violentemente sbattuta.


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Capitolo 13
*** Twelve. A good reason ***


a good reason

Chapter Twelve.
- A good reason -



«Che senso ha scappare, me lo spieghi?» domandò Jessica esterrefatta, mentre Monique riponeva delle magliette e dei pantaloni in un piccolo borsone.

Aveva deciso che tornare a casa dai suoi genitori per un po' le avrebbe fatto bene: in quei giorni aveva accumulato tanto stress e non giovava di certo né a lei né al bambino. Avrebbe voluto rimuovere il viso del chitarrista dalla sua mente per un po' e l'unico modo era mantenervi le distanze. Inoltre il suo licenziamento poteva essere considerato imminente, dato che David sarebbe venuto a sapere della sua gravidanza proprio dal ragazzo. Avrebbe semplicemente accelerato i tempi.

«Non sto scappando. Sto semplicemente prendendo una pausa.» ribattè Monique, chiudendo la cerniera del borsone.

«Certo, quanto hai intenzione di farla durare questa pausa? Non puoi andartene così: sei senza macchina, sei incinta e terribilmente cocciuta per capire che non serve a nulla!»

«Tom deve uscire dalla mia vita per un po'. È colpa sua se vivo sotto stress.»

«Quindi è per lui che stai scappando.»

«Per l'ennesima volta, Jess: io non sto scappando.»

«Sì, invece! Stai facendo la codarda! Devi imparare ad affrontare le situazioni invece che evitarle, Monique! Hai vent'anni non due!» Monique la ignorò e, preso il borsone in mano, camminò velocemente verso la porta di casa. «Monique!» la richiamò la rossa con più enfasi. La mora si voltò un'ultima volta verso la sua migliore amica e, dopo uno sguardo gelido, uscì di casa. Attese che anche Jessica la seguisse e, quando questa lo fece contrariata, chiuse la porta a chiave. «Stai sbagliando.» sentì mormorare, prima di scendere velocemente le scale del condominio, ignorando quelle parole.


**


Il corpo di Tom giaceva sgraziatamente su una poltrona dello studio di registrazione. Fissava un punto nel vuoto, di fronte a sé, e nel frattempo giocherellava con i suoi cornrows. Attorno a lui, suo fratello, Georg e Gustav chiacchieravano animatamente, con infinito entusiasmo: l'album era terminato e presto sarebbe uscito in tutti i negozi di CD. Ciò implicava la loro partenza per il nuovo tour, di lì a qualche mese, che ora si stavano impegnando per organizzare. Non appena una parte del lavoro finiva, facendo credere che sarebbe arrivato finalmente un po' di riposo, ne arrivava altro da compiere.

Tom, quella mattina, non riusciva a gioire o a dimostrare il proprio entusiasmo – inesistente – come gli altri: la sua mente continuava a proiettare le immagini della sua discussione, avuta con Monique, il giorno prima. Riviveva quello schiaffo e non poteva fare a meno di darsi del coglione... Ma poi tornava a farsi vivo il ricordo della gravidanza, delle bugie... E tutto svaniva.

«Ragazzi, oggi Monique non verrà in studio. Mi ha mandato un messaggio: sua madre sta poco bene ed è dovuta partire per Amburgo.» esortò David, facendo il suo ingesso in quella stanza. Ciò attirò l'attenzione del chitarrista che spostò lo sguardo incuriosito verso di lui.

«Ah, d'accordo.» annuì perplesso Bill. «Che ha sua madre?» domandò successivamente.

«Non lo so, non me l'ha detto.» rispose il manager, grattandosi la testa.

«Sì, certo, so io cos'ha sua madre.» commentò Tom, alzandosi di scatto dal divano ed uscendo in fretta e furia dalla stanza. I ragazzi si scambiarono occhiate accigliate, non comprendendo lo strano comportamento del chitarrista in quei giorni.


**


Le sue dita si insinuavano da sole fra il morbido pelo di Lilli, comodamente accoccolata sul suo grembo, e il suo sguardo inespressivo era fisso sulla televisione davanti a sé, intenta a trasmettere un qualche programma a lei sconosciuto.

La sua mente vagava altrove e non era difficile immaginare dove. Insomma, aveva deciso di prendersi quella sorta di pausa per non dover fronteggiare il chitarrista ogni giorno e ciò non funzionava perchè quello tornava a tormentarla tra i suoi pensieri.

Assieme a lui, vi era David... Che fosse già venuto a sapere dal chitarrista della gravidanza? Conoscendo Tom, Monique poteva giurare che l'avesse fatto già da un bel pezzo: era quello il suo scopo, farla andare via e finalmente – ora che la possibilità si era presentata – non se la sarebbe lasciata sfuggire. La cosa la spaventava ma non riusciva a muovere nemmeno un muscolo dalla stanchezza per tutta quella situazione; dall'impossibilità di poter fare qualcosa. Non avrebbe potuto concludere nulla, non avrebbe potuto cambiare le carte in tavola. David l'avrebbe presto licenziata – ragion per cui il suo cellulare giaceva sul comodino affianco al divano, in attesa di qualche losca telefonata – e lei avrebbe dovuto accettarlo, senza minimamente ribellarsi.

«Hey, ti ho portato un po' di cioccolata calda.» sentì la voce dolce di sua madre fare il proprio ingresso nel salotto. Sollevò lo sguardo e la vide davanti a sé, sorridente, con due tazze di cioccolata fumante. L'odore era davvero invitante. «Avevo voglia di parlare un po' con te, come ai vecchi tempi, ti va?» continuò la donna, avvicinandosi al divano e sedendovisi sopra, di fronte a sua figlia.

Monique sorrise. Si ricordava perfettamente i pomeriggi passati assieme a sua madre, sedute sul divano, sotto una calda coperta se ciò avveniva di sera, con due enormi tazze di cioccolata calda: ottimo programma per alleviare i dolori.

La ragazza fece scendere gentilmente Lilli che, dopo un mugolio di dissenso, si raggomitolò sul tappeto, riprendendo il suo riposino. Ringraziò Ester e recuperò la tazza bollente. Prese a girare il cucchiaino al suo interno, soffiandovi di tanto in tanto, attendendo che divenisse per lo meno tiepida: pelarsi la lingua, ormai, era diventato il suo hobby.

«Come va, mamma?» domandò Monique, osservandola con un sorriso sincero in volto.

«Ah, non se ne parla, signorina. Qui sei tu quella che deve raccontare, non io. Forza, forza!»

La ragazza abbassò lo sguardo, intenerita da quel suo atteggiamento sempre piacevolmente protettivo ed affettuoso, per poi tornare a guardare sua madre e risponderle: «Di cosa vorresti che ti parlassi?»

«Beh, insomma, com'è la tua situazione a Berlino. Come va il lavoro... I tuoi amici... Parti da dove vuoi, io ti ascolto.»

«D'accordo.» acconsentì Monique, raggruppando le gambe sul divano. «Dunque... A Berlino mi trovo molto bene. È una grande città, bella e comoda. Diciamo che ho sempre avuto l'adorazione per queste grandi metropoli, lo sai anche tu. Il lavoro va a meraviglia, mi sono fatta dare da David anche un'occupazione pomeridiana, così, per arrotondare un po' le cifre e non trovarmi al verde nei momenti di necessità. Di amici non ne ho tanti ma Jessica vale per mille. Insomma, lei c'è sempre per me e io ci sono sempre per lei. Ci capiamo con un solo sguardo, è la sorella che non ho mai avuto. Spesso viene a mangiare da me o io vado a mangiare da lei. Capita anche che ci fermiamo a dormire insieme. È un rapporto molto solido e stretto e so per certo che lei non mi abbandonerebbe mai. Me l'ha dimostrato molte volte.» Ed era vero; il fatto della gravidanza ne era un valido esempio.

«Sì, mi è sempre piaciuta Jessica, sin dal primo momento che l'hai portata qui a farmela conoscere. Molto educata... Si vede che ti vuole bene.» annuì Ester, portandosi poi alle labbra un altro po' di cioccolata. Monique la imitò e poi tornò a parlare.

«E basta, penso non ci sia altro da dire.» concluse, ignorando il brivido d'ansia che le aveva percorso la colonna vertebrale. Mentire a sua madre e nasconderle una grande verità, era dura.

«E... In fatto di ragazzi?» domandò con cautela la donna. Monique si irrigidì improvvisamente. Odiava quel genere di discorsi, specialmente se la situazione non era rosa e fiori, come effettivamente si presentava.

«Non c'è nulla da dire. Dopo Christian non c'è stato nessun altro.» rispose vaga, per poi bere un altro po'.

«Beh, ma ci sarà qualcuno che ti piace?»

Insomma, dirglielo o non dirglielo? Monique studiò lo sguardo di sua madre e non poté fare a meno di notare che quell'espressione veniva da lei adottata quando sapeva qualcosa che andava oltre il semplice racconto che sua figlia le proponeva, credendo di farla franca. D'altronde, che male ci sarebbe stato a raccontarle che effettivamente qualcuno che le piaceva c'era? Ormai l'aveva capito, sapeva leggerla nel più profondo degli occhi; era sempre stata un libro aperto per sua madre.

«Beh, effettivamente qualcuno c'è.» ammise Monique, terribilmente rossa in viso. Ester battè le mani ripetutamente, gesto che Monique registrò come molto simile a quello che adottava Bill in certi momenti. Sorrise.

«Me lo sentivo! Avanti, voglio i dettagli. Com'è?» domandò interessata, sporgendosi appena più avanti con la schiena, come a voler seguire meglio la conversazione.

Uno stronzo dannatamente bello ed eccitante – nonché motivo del mio ritorno a casa – che da mesi minaccia di licenziarmi perchè apparentemente mi odia, che mi tratta male e che mi confonde le idee riguardo i suoi sentimenti, pensò a primo acchito Monique, ma poi si rese conto che forse non era la miglior descrizione con cui poterlo presentare.

«Ehm, è un bel ragazzo.» borbottò, rifugiandosi dietro la tazza di cioccolata.

«Pensi che mi basti? Andiamo, descrivimelo sia fisicamente che caratterialmente.» insistette la madre. Monique sospirò sorridendo con lo sguardo perso nel vuoto e, senza nemmeno accorgersene, prese a parlare con naturalezza, come non fosse stata lei a farlo.

«Fisicamente è... Semplicemente perfetto. I suoi occhi sono nocciola, di un taglio leggermente a mandorla. Il suo sguardo è perennemente profondo, sembra sempre che ti stia studiando quasi con freddezza, ma in realtà è solo il suo modo di farti capire che sa che ci sei. Il naso è leggermente all'insù, ma non troppo. Dritto, in proporzione con il suo viso. Il suo labbro inferiore è più carnoso rispetto a quello superiore ed è perforato da un piercing che, secondo me, gli calza a pennello. È alto, con un fisico magro – ma non troppo – e caratterizzato di muscoli non eccessivamente accentuati ma comunque presenti. La sua pelle è curata e di una lieve abbronzatura naturale che gli conferisce una bellezza ancora più evidente. Mi hanno rapito le mani: grandi e forti... Mi farebbero senza dubbio sentire protetta. Il suo sorriso mi spiazza. A volte viene da chiedermi se sia reale. E non posso fare a meno di sorridere anche io non appena vedo che lui lo fa. Non è eccessivamente chiacchierone ma ha sempre la battuta pronta ed il più delle volte ti diverte. Mi piace perchè vuole sempre fare il duro, ma se scavi a fondo ti accorgi di quanto in realtà possa essere fragile e tenero.» Si accorse che il suo cuore stava galoppando a velocità spropositata. Un fiume di parole. Non era riuscita a fermarsi e forse non avrebbe neanche voluto farlo: non aveva mai ammesso tutte quelle cose sul chitarrista e si sentiva finalmente liberata di un peso che portava gelosamente con sé, senza volerlo abbandonare, di fronte a nessuno. Non l'aveva mai fatto semplicemente perchè avrebbe anche dovuto ammettere che Tom le piaceva e non voleva farselo piacere. Ma trovare Ester lì, davanti a sé, a guardarla con tutto l'amore che solo una madre può dare alla propria figlia... Insomma, non era riuscita a trattenere i propri sentimenti. Ora provava quasi vergogna per ciò che aveva confessato. Sentiva di essersi lasciata eccessivamente andare, come fosse stata sola, e la cosa la metteva appena a disagio. «Oddio, che vergogna.» ridacchiò prendendosi il viso fra le mani, come fosse stata catapultata solo in quel momento sulla Terra, di fronte ad Ester. Quest'ultima sorrise, carezzando la testa a sua figlia.

«Non devi provare vergogna a dirmi queste cose. Sono contenta che tu senta tutto questo. Mi sembri davvero presa.» la incoraggiò la donna.

«Lo sono.» soffiò Monique malinconicamente, quasi sorprendendosi di averlo ammesso.

«Come si chiama?»

«Tom.»

«E dove l'hai conosciuto?»

«A dire il vero, lavoro per lui.»

«Ah, ma è uno dei ragazzi di cui mi parlavi? I ragazzi di David?»

«Eh già.»

«Sai, non ce li ho molto presenti, quindi non saprei dove andarmeli a pescare. Ma, dimmi un po', lui ricambia?»

«E' questo il punto: non lo so. Insomma, si comporta in modo strano. In certi momenti mi allontana ma in altri mi cerca e mi trasmette cose che...» sospirò senza concludere la frase.

«Ai ragazzi piace confondere, non mi dici nulla di nuovo. Tuo padre non mi guardava neanche, ai tempi. Quanti pianti...» commentò Ester con un lieve sorriso sul volto nel ricordare quelle cose. «Ma io ti dico di stare tranquilla perchè non sempre tutto è come pare. Può essere che lui ti voglia confondere, che lo faccia di proposito. Non sembra, ma si divertono, sai? Ovviamente se da questa persona non vogliono solo una sveltina. Lo fanno se vogliono qualcosa di più serio.»

A quelle parole, Monique venne pervasa da una scossa elettrica. Quell'idea le piaceva: qualcosa di serio... Con Tom? Le pareva quasi assurdo, ma non le suonava male. Forse stava cominciando a lavorare troppo di fantasia.

«Grazie.» sorrise alla madre, la quale ricambiò e le posò un dolce bacio sui capelli, per poi recuperare le tazze vuote e sparire in cucina.


**


Si ricordava perfettamente dove abitava. Sapeva che lì non l'avrebbe trovata, ma per lo meno avrebbe domandato a qualcuno se sapesse dove la sua vecchia casa si trovava, con precisione. Quella sera dell'incidente, era andato di corsa a recuperarla, ma l'aveva fatto già a qualche chilometro da casa dei suoi genitori e non poteva di certo immaginare dove questa si trovasse.

Il fatto che fosse sparita così, ignorando il suo lavoro, lo mandava semplicemente in bestia. Trovava assurdo che avesse deciso di scappare a quella maniera e personalmente odiava le persone che lo facevano. Non poteva accettare di vederla così priva di polso da nascondere tutte le proprie paure ed incertezze in una valigia e scappare sul primo pullman passante di fronte casa sua. Non riusciva a concepirlo.

Quando accostò con la macchina al marciapiede, diede un'occhiata verso il palazzo, controllando che ci fosse qualcuno. Si sganciò la cintura e scese dalla sua Cadillac per incamminarsi verso il portone. Quando si avvicinò al citofono, trovò il suo cognome: Schmitz. Se avesse suonato, non sarebbe servito a nulla, nessuno gli avrebbe risposto.

A dire il vero non riusciva neanche a comprendere il motivo per cui lo stesse facendo. D'altronde, che gliene importava se lei non fosse tornata al lavoro?

«Hey, cerchi qualcuno?» sentì una voce femminile alle sue spalle che quasi lo fece sobbalzare. Quando si voltò, trovò davanti a sé una ragazza dai capelli rossi, piuttosto carina, che lo guardava incuriosita. Non appena vide i suoi occhi sgranarsi, deglutì rumorosamente, temendo che fosse un'altra fan perversamente accanita. «Ma tu sei Tom!» esclamò, per l'appunto.

«No.» borbottò stupidamente il ragazzo. Non aveva neanche scelto di coprirsi adeguatamente il volto, perciò non era difficile riconoscerlo. Con sua grande sorpresa, la rossa gli sganciò una pacca sul braccio, piuttosto risentita.

«Non prendermi in giro, so benissimo che lo sei. Se stai cercando Monique, non è in casa. Io sono la sua migliore amica, Jessica. Stavo passando di qui per caso.» allungò successivamente la mano, in attesa che il chitarrista gliela stringesse. Quest'ultimo la osservava con sguardo accigliato. Da dove usciva fuori quella ragazza tutto pepe, che gli riservava tutta quella confidenza, al primo incontro?

Un po' esitate gliela strinse e poi iniziò a parlare: «Effettivamente non sto cercando lei. So che è a casa dei suoi genitori. Volevo solamente sapere dove si trova esattamente.»

«Ooh, e perchè ti interessa?» sorrise con malizia Jessica, a tal punto che Tom si sentì quasi in imbarazzo.

«Mi interessa perchè abbiamo bisogno della traduttrice e non possiamo perderla per dei capricci.» rispose sulla difensiva il ragazzo.

«Tom, perchè non le dici che ti piace e basta?»

Il chitarrista sobbalzò sul posto. Ma insomma, come si permetteva quella ragazza di parlargli a quella maniera, come lo conoscesse da una vita?

«Ma che stai dicendo? Non le devo dire assolutamente nulla, mi serve solo sapere dove abitano i suoi genitori.» ribattè piuttosto innervosito.

«Oh, beh, non è da tutti i ragazzi raggiungere una donzella anche a chilometri di distanza per riportarla indietro.» continuò a stuzzicarlo la rossa.

«Senti, mi sto innervosendo. Lasciamo stare.» sbottò Tom, dandole le spalle ed accingendosi a raggiungere di nuovo la sua macchina con le mani rifugiate nelle tasche dei jeans.

«Tieni.» sentì di nuovo la voce di Jessica, dietro di lui. Voltò appena il capo, con espressione severa in volto, e notò che la rossa gli stava porgendo un foglietto con una mano e tenendo una penna nell'altra. Lo prese incuriosito e notò che vi era riportato un indirizzo che non aveva mai sentito prima. «La troverai lì.» gli disse nuovamente.

Sollevò di nuovo lo sguardo truce su di lei e si intascò il foglietto.

«Grazie.» borbottò.

«Ha ragione Monique.» sorrise Jessica. «Sei un buzzurro, rozzo, poco gentile e decisamente urtante.» pronunciò quella frase con semplicità e buon umore, come fosse la cosa più normale da dire ad uno sconosciuto.

«Grazie.» ripetè il chitarrista, questa volta con sarcasmo.

«Però hai un cuore d'oro.» concluse la rossa, con tono più dolce, al che Tom si sorprese. Era davvero strana quella ragazza. «Buona fortuna, Kaulitz. Ne avrai bisogno, dato che credo non saprà resistere dallo scaraventarti una sedia in faccia, non appena ti vedrà.» aggiunse allegramente, prima di dargli le spalle. Tom non sapeva se ridere dalla semplicità con cui diceva le cose o preoccuparsi di ciò che effettivamente gli aveva riferito. Scosse la testa, piuttosto divertito e si incamminò di nuovo alla macchina. «Ah, Tom.» lo chiamò ancora la rossa. Spostò lo sguardo su di lei, attendendo che parlasse. «Dalle un buon motivo per tornare a casa.» gli sorrise, prima di voltarsi di nuovo e sparire dietro l'angolo.



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Capitolo 14
*** Thirteen. Turning point? ***


turning point?

Chapter Thirteen.
- Turning point? -



Quella mattina Monique si sentiva particolarmente di buon umore. Si era svegliata nel suo vecchio letto ad una piazza, quello che usava quando ancora era un'adolescente. Le lenzuola fresche e pulite giacevano leggere sul suo corpo intorpidito mentre una luce forte ma piacevole faceva capolino in quella stanza. Portò le braccia sopra la testa e, inspirando profondamente, stiracchiò i propri muscoli, sorridendo con naturalezza, cosa che forse non faceva da un po' di tempo. Si mise seduta sul letto e, strofinandosi un occhio, prese a cercare il suo orologio sul comodino affianco con lo sguardo. Le dieci. Sgranò appena gli occhi constatando che per la prima volta – dopo non sapeva quanto tempo – era riuscita a dormire in pace e serenità, senza strani pensieri a ronzarle in testa, preoccupazioni o conati.

Posò i piedi per terra e si sollevò lentamente dal materasso: i giramenti di testa erano frequenti, soprattutto al mattino. Uscì dalla stanza e si intrufolò in bagno, dove si accinse a lavarsi i denti, farsi una doccia senza lavarsi i capelli e spazzolarsi con cura. Ultimamente non aveva più avuto molto tempo per se stessa.

Chiusa nell'accappatoio bianco, si guardò allo specchio. Tante volte l'idea di riferire il fatto della gravidanza ai suoi genitori le attraversava la mente, ma assieme a lei la paura.

Slacciò appena l'accappatoio per scoprire la sua pancia e si voltò di profilo. Stava crescendo lentamente, ma sempre di più. Sapeva che presto sarebbe entrata nel quarto mese e tutto sarebbe stato più evidente.

Cercò di ignorare quei pensieri e se lo richiuse, facendo finta di nulla, per poi uscire dal bagno.


**


Scese le scale che la condussero al piano inferiore – perfettamente vestita –, fino a raggiungere la cucina. Suo padre era seduto al tavolo, intento a sorseggiare un po' di caffè, mentre sfogliava interessato un quotidiano. Sua madre stava invece trafficando ai fornelli, dandole le spalle.

«Buon giorno.» sorrise Monique, proprio come ai vecchi tempi, per poi schioccare un bacio sulla testa di suo padre e raggiungendo successivamente Ester, per cingere il suo corpo da dietro con le braccia e dargliene uno sulla guancia.

«Buon giorno, tesoro.» rispose la madre, mentre Monique si andava a sedere affianco ad Alfred che la guardò sorridendo sincero. «Hai dormito bene?» si informò la donna, sedendosi di fronte a lei, dopo aver posato sul tavolo le loro tazze di caffèlatte.

«Benissimo.» annuì Monique, sorseggiando poi un po' di quella bevanda calda. Improvvisamente il citofono squillò, annunciando l'arrivo di un qualche sconosciuto, al di fuori del cancello. «Mmm!» esclamò Monique, intenta ad ingoiare il caffèlatte. «Vado io.» Corse alla porta e la aprì, per poi percorrere il vialetto, fino a raggiungere il cancello. I suoi piedi impuntarono da soli, il suo respiro si smorzò e il cuore prese a compiere infinite capovolte nel suo petto.

Non poteva essere. Com'era arrivato lui lì? Era tutto sbagliato, non era così che doveva andare!

«Che – che ci fai tu qui?!» balbettò. Non sapeva se esserne contenta o irata. Lei si era rifugiata in quel posto per non vederlo per un po'... E lui si azzardava a sbucare a quel modo, rovinando tutti i suoi piani?

«Sai, Schmitz, ho sempre pensato che fossi una gran testa di cavolo.» commentò Tom, fastidiosamente tranquillo, osservandola come nulla fosse, con le mani in tasca. Il sangue di Monique ribollì nelle sue vene ed uno sconcertante tic si appropriò del suo occhio sinistro.

«Sei venuto sin qua per dirmi questo?» domandò, cercando di mantenere la calma, anche se quella stava minacciando di andare a farsi benedire già da un bel pezzo.

«A dire il vero no. Mi fai entrare?»

«Ma anche no!»

«Vedo che sei molto gentile con gli ospiti.»

«Tu non sei un ospite! Non te l'ho detto io di venire!»

«Senti, Schmitz, mi sono fatto tutti questi chilometri di macchina, due ore e mezza di viaggio per venire qua a parlarti e non accetto un rifiuto.»

«Ma chi te l'ha chiesto di farlo?!»

«Schmitz.»

Quell'ultimo borbottio riuscì a convincere Monique, la quale – sbuffando sonoramente – premette il pulsante per aprire il cancello automatico. I brividi cominciarono ad impossessarsi del suo corpo ed il batticuore continuava a tormentarla, mentre vedeva la figura del chitarrista entrare nel suo territorio ed avvicinarsi sempre di più a lei, senza staccarle gli occhi di dosso.

«Allora, che vuoi? Sei venuto a riferirmi di non tornare più in studio perchè David mi ha già licenziata? O sei venuto a rompere ancora le palle su quello che hai scoperto?» sputò acida, senza pensarci due volte.

«Siamo nervose, oggi?» domandò con sarcasmo il chitarrista.

«E' la tua presenza ad innervosirmi.»

«Lo prenderò per un complimento. Non mi inviti ad entrare in casa?»

«Cos'è tutta questa voglia di entrare in casa mia?»

«Non è voglia di entrare in casa tua, è voglia di non parlare qua fuori come fossi un barbone che non è degno di entrare nella tua umile dimora.»

«Dimmi di cosa vuoi parlare.»

«Della tua situazione.»

«Lavorativa o privata?»

«Entrambe.»

«Senti, Tom, se mi devi dire che David mi ha licenziata, muoviti a farlo perchè non ho voglia di sentire giri di parole, oggi.»

«David non sa nulla.»

«Oh, certo, e tu mi vuoi far credere di essere stato così sensibile da non...»

«Schmitz, David non sa un cazzo della tua grav...!»

Monique si scaraventò addosso al ragazzo, coprendogli la bocca con la mano e guardandosi nervosamente alle spalle, alla ricerca dei suoi genitori. Il suo cuore minacciava di sfondarle il petto: non poteva essere scoperta a quella maniera.

Sentiva le labbra morbide del chitarrista premere contro il suo palmo e ciò le causava una scarica elettrica da quel punto, per tutto il suo corpo. Il respiro del ragazzo così vicino. Si staccò velocemente, prendendo ad aggiustarsi la maglia larga che si era leggermente sollevata.

«Non pronunciare quella parola e non farti assolutamente sentire dai miei.» disse nervosamente, senza guardarlo negli occhi.

«Cosa... I tuoi genitori non sanno nulla?» domandò Tom esterrefatto.

«No.» rispose Monique con freddezza.

«Hey, Monique, chi era al...» le parole di Ester si interruppero, non appena vide il ragazzo con sua figlia. «Ehm, ciao.» sorrise perplessa, non riuscendo a cogliere chi fosse.

«Lui è Tom, mamma.» le riferì Monique, una volta voltatasi nella direzione di sua madre, con sguardo eloquente. Ester parve come illuminata e non impiegò molto prima di sgranare gli occhi, come avesse appreso un significato che andasse oltre quella semplice frase.

«Oh... Oooh! Tom!» esclamò, sorridendo entusiasta. Si avvicinò velocemente e gli porse la mano. «Piacere di conoscerti, io sono la mamma di Monique, Ester!» si presentò, mentre il ragazzo le stringeva la mano.

«Piacere, signora.» sorrise il chitarrista gentilmente. Monique sollevò gli occhi al cielo. Possibile che riuscisse ad essere così educato, quel razza di buzzurro?

«Sei venuto a trovare Monique?» domandò Ester, con gli occhi che le brillavano. Probabilmente si stava facendo molti – troppi – film mentali riguardo loro due.

«Diciamo di sì.» ridacchiò Tom, nascondendole la verità. Nonostante fosse una bugia, Monique non poté fare a meno di arrossire compiaciuta. Proprio in quel momento, vide suo padre sbucare dalla porta di casa. Fece un cenno di saluto con la mano a Tom, nonostante non lo conoscesse, ed il chitarrista ricambiò con un “Salve”.

«Vieni dentro, non stare qui fuori.» si premurò di farlo entrare in casa la donna, al che Tom si voltò verso Monique mostrandole un sorriso che sembrava più una smorfia soddisfatta. La ragazza lo fulminò con lo sguardo e, dopo aver sospirato pesantemente, seguì tutta la sua famiglia, più il ragazzo che le aveva reso la vita un Inferno, dentro casa sua.

Non appena ebbero varcato la soglia dell'appartamento, Lilli corse verso di loro, prendendo a saltellare davanti a Tom ed annusando continuamente i suoi jeans oversize. Monique si stupì nel vedere il ragazzo sorridere ed abbassarsi appena per carezzare la cagnolina. Insomma, era solo lei la pietra dello scandalo?

«Devi ripartire subito?» domandò Ester al chitarrista.

«Beh, dipende tutto da sua figlia, signora. In ogni caso devo essere allo studio prima di domani mattina.» rispose Tom.

«Perchè non ti fermi a pranzare con noi? Sarai stanco ed affamato per il viaggio e non mi va che tu riparta senza aver messo qualcosa nello stomaco.»

Monique avrebbe avuto tanta voglia di prendere per i capelli sua madre. Come le era saltato in mente di proporgli una cosa simile? Tom a pranzo, a casa sua e con i suoi genitori? Decisamente non fattibile.

«Beh, se non è un disturbo...» acconsentì Tom, intimidito. La mandibola di Monique minacciò di sbattere contro il pavimento. Aveva accettato?! «La ringrazio.» le sorrise poi.

«Ma figurati, è un piacere. E non darmi del lei, mi fa sentire vecchia. Chiamami Ester.»

«D'accordo, Ester.»

«Bene, io vi lascio soli ora.»

Detto questo, la donna si rifugiò in cucina assieme ad Alfred e Lilli, facendo in modo che un assordante silenzio si impadronisse di nuovo dei due ragazzi. Si osservarono di sbieco entrambi, come imbarazzati.

«Ma a che gioco stai giocando?» domandò la mora, voltandosi finalmente nella direzione del chitarrista.

«A nessuno, perchè?» rispose tranquillamente, osservandola come se nulla fosse.

«Cos'è tutta questa gentilezza?» indagò sospetta.

«Fa così strano vedermi in questo modo con un'estranea?»

«Sì, permettimelo.» Tom sorrise, soffocando una risatina, e scosse leggermente la testa. A Monique faceva strano osservarlo a quella maniera. Troppo tranquillo, gentile e di buon umore. Doveva per forza esserci qualcos'altro sotto. Scoccò un'occhiata all'orologio appeso alla parete e, con un tuffo al cuore, constatò che all'ora di pranzo mancava un'ora e mezza. Cos'avrebbe potuto combinare con lui in tutto quell'arco di tempo? Non erano amici e di certo non si sarebbero messi a giocare a dama. «Senti, vieni.» borbottò prendendo a salire le scale e sentendo i passi di Tom seguirla alle sue spalle. Cos'altro poteva fare se non invitarlo in camera sua per parlare? Li avrebbero di certo sentiti i suoi genitori e non le andava che scoprissero della sua gravidanza in quel modo.

Quando Monique aprì la porta, si pentì di avervi portato il chitarrista. Cosa pensava di fare? Cosa l'era saltato in mente?

«E' camera tua?» domandò tranquillamente il ragazzo, varcando quella soglia con le mani perennemente rifugiate nelle tasche dei jeans oversize.

«Sì.» sussurrò la ragazza, richiudendo la porta alle sue spalle ed osservandolo diffidente. Tom continuò a guardarsi per un po' intorno, fino a che non posò lo sguardo su di lei. Accadde talmente in fretta ed inaspettatamente che si sentì sussultare. «Allora, di cosa mi volevi parlare?» spezzò il silenzio la ragazza, andando a sedersi sulla sedia della sua scrivania, voltata nella direzione del chitarrista che, nel frattempo, si era seduto sul bordo del suo letto.

«Perchè sei venuta qui?» domandò il ragazzo, osservandola attentamente. Quello sguardo la faceva agitare; la concentrazione veniva in pochi secondi persa ed addio discorso intelligente.

«Avevo bisogno di staccare un po'.» rispose con una scrollata di spalle, benché il suo cuore battesse già furioso in petto.

«Staccare da cosa?»

«Dalla situazione che si era venuta a creare. Tu eri furioso e...» Vide il chitarrista abbassare lo sguardo sulle sue mani riunite in grembo. Le sembrava pensieroso... O forse pentito? «.. E David mi avrebbe licenziata. Avevo bisogno di tornare dai miei genitori per... Trovare un po' di pace.» continuò timidamente. Tom sollevò nuovamente lo sguardo su di lei, facendola rabbrividire.

«Te l'ho detto... A David non ho detto nulla. E per quanto riguarda quello che è successo in ospedale... Ero furioso perchè avevi mentito. Ero furioso per il modo in cui lo sono venuto a sapere.»

«Ma, Tom... Come volevi venirlo a sapere?»

«Da te.»

Quel poco più di un sussurro, accompagnato da uno sguardo profondo e serio, la fece sentire totalmente fuori luogo in quella stanza. Sentiva le mani sudarle fastidiosamente, mentre una sgradevole sensazione di vertigine non le abbandonava lo stomaco. Possibile che solo la sua presenza le facesse quell'effetto?

«Non potevo.» mormorò, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe.

«Per quanto tempo ancora l'avresti tenuto nascosto? E soprattutto come puoi tenerlo nascosto ai tuoi genitori? Presto sarà tutto più evidente. Non so neanche a che mese sei...»

Monique sorrise impercettibilmente nel vederlo grattarsi la nuca con fare estremamente e teneramente impacciato.

«Sto per entrare nel quarto, Tom.» gli riferì con una dolcezza estranea anche a lei. Da quando si parlavano in quel modo, senza insultarsi a vicenda? L'atmosfera era totalmente sconosciuta ad entrambi... Ma maledettamente piacevole.

«Io non sono pratico di queste cose... Non so neanche quando comincia a crescere la pancia, non so niente.» borbottò Tom in un imbarazzo che non gli apparteneva.

«Dal terzo comincia ad intravedersi qualcosa.» gli venne in contro Monique. Tom annuì, guardandola di tanto in tanto.

«Non mi sono mai accorto di nulla.» Monique preferì non spiegargli il motivo: l'avrebbe presa di nuovo a schiaffi se solo avesse udito la parola “panciera”. «Ma comunque non puoi continuare a fingere in questo modo.»

«Tom, è inutile che ci provi. Non ho alcuna intenzione di dirlo né a David né ai miei genitori. Verrebbe loro un infarto.»

«Ma come pensi che reagirebbero invece, se lo venissero a sapere vedendo il loro nipote già nato e cresciuto? Non pensi che verrebbe loro un infarto lo stesso?» Monique si appellò qualche attimo al silenzio, riflettendo. Tom non aveva tutti i torti; ma la paura non la faceva quasi respirare. La paura di deludere le uniche persone a lei care, oltre Jessica, apparendo come una poco di buono che era rimasta incinta per errore.

«Ho dannatamente paura della loro reazione.» ammise, rossa in viso.

«Che reazione? Pensi che butterebbero fuori di casa la loro figlia, incinta? Andiamo, Schmitz...»

«Non voglio essere per loro una delusione.»

«Non saresti mai per loro una delusione, perchè ti vogliono bene e ne vorrebbero anche a lui

Un fastidioso magone cominciò a dare l'allarme nella sua gola, facendola deglutire a fatica. I suoi occhi presero ad inumidirsi ma non voleva piangere davanti a Tom. Lei era forte. Eppure, come potevano delle semplici e piccole lacrime distruggere la determinazione umana?

Quelle gocce salate le riempirono gli occhi, non facendole più vedere nulla e minacciando di scorrere sul suo viso. Sapeva che Tom la stava guardando, accortosi del suo cambio d'umore; così si portò entrambe le mani al viso, piena di vergogna.

«Che situazione di merda.» esclamò a denti stretti, mentre prendeva a tremare, scossa dal pianto. «Sono un fallimento, un fallimento totale. Sono stufa.» si sfogò, più con se stessa che con lui. Continuava a singhiozzare silenziosamente, con le uniche forze che le erano rimaste, fino a che non sentì un caldo tocco sui suoi capelli. Sollevò gli occhi bagnati sulla figura di Tom, in piedi di fronte a lei, che le carezzava lentamente la testa. La guardava con una sorta di tenerezza nello sguardo ed era proprio quello che non voleva accadesse. Odiava essere compatita con tutta se stessa. «Tom, smettila di guardarmi così. Non ti devo far pena.» esclamò, rifugiando di nuovo il viso tra le sue mani. Quella del chitarrista scese sul suo braccio e lo strinse appena per farla alzare dalla sedia. Lo osservò stranita, mentre la guidava verso il suo corpo, fino a stringerla forte a sé. Sgranò gli occhi nel vuoto, oltre le spalle del chitarrista. La stava abbracciando? Aveva dannatamente bisogno di quelle manifestazioni d'affetto... Finalmente gliele stava concedendo?

«Sei una cretina.» le sussurrò, carezzandole la schiena ed i capelli, ma senza abbandonarla. Monique scoppiò in un pianto ininterrotto, aggrappandosi con forza alla felpa del chitarrista e trovando conforto tra quelle braccia così grandi e rassicuranti, mentre il profumo dei suoi enormi abiti le inebriava i sensi, facendola sentire per un attimo persa, in un mondo parallelo. Sfogò tutto quello che vi era da sfogare; tutto quello che aveva trovato soggiorno nel suo stomaco e nel suo cuore, come un enorme mattone, troppo pesante per essere trascinato assieme a lei. Si sentì afferrare il viso inondato di lacrime salate e guidarlo nella direzione dello sguardo del chitarrista. Con i pollici le asciugò le lacrime, sorridendole appena. Il suo cuore fece un balzo. «Scusami per lo schiaffo.» le disse, per la prima volta, seriamente dispiaciuto. Lo vide avvicinarsi, fino a posare le labbra sulla sua fronte, lasciandovi un leggero bacio – cosa che la mandò nuovamente nel pallone –, per poi farle riappoggiare la testa sul suo petto e tenerla fra le sue braccia. Chiuse gli occhi, facendosi cullare da quella piacevole sensazione di accettazione, ripetendosi nella mente che qualcosa stava cambiando.


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Capitolo 15
*** Fourteen. Come back to reality ***


come back to reality

Chapter Fourteen.
- Come back to reality -



Non seppe dire con esattezza quanto tempo fosse trascorso da quando si era rifugiata fra le braccia di Tom, per sfogare il proprio dolore. Sapeva solo che era ancora lì e stava dannatamente bene. Il calore del suo corpo era piacevolmente rilassante ed il suo profumo la stordiva letteralmente. Le sue continue carezze tra i capelli la mandavano in confusione, più di quanto già non fosse.

I suoi singhiozzi erano cessati da un bel pezzo, ma non aveva ancora trovato il coraggio di abbandonare quel corpo rassicurante.

«Mi hai inzuppato la maglia, Schmitz.» esortò improvvisamente Tom, senza muoversi di un muscolo.

«Come mai non mi sorprende che ricominci a fare lo stronzo?» borbottò Monique, allontanandosi dalla presa del ragazzo che cominciò a ridacchiare. Era musica per le sue orecchie: mai era capitato che ridesse o semplicemente sorridesse con lei e non voleva che smettesse di farlo; la faceva stare bene.

Tornò a sedersi sulla sedia asciugandosi le guance ancora leggermente bagnate, mentre Tom insinuava le mani in tasca abbassando lo sguardo, come imbarazzato. Che si fosse pentito di ciò che aveva fatto?

«Hai intenzione di tornare con me, allo studio di registrazione?» le domandò improvvisamente, sollevando di nuovo lo sguardo, mentre si sedeva sul materasso, dietro di lui. Monique sospirò pesantemente, guardandosi le punte delle scarpe.

«Non lo so.» mormorò, anche se l'idea di un altro viaggio in macchina con il ragazzo non le dispiaceva affatto.

«Era una domanda retorica, Schmitz. Io ti riporto a Berlino; sono venuto per questo. Non faccio i viaggi a vuoto.» la rimbeccò il chitarrista, ma senza tracce di freddezza nel tono di voce.

«Allora perchè mi fai le domande se poi ti rispondi da solo?» chiese scocciata la ragazza.

«Sono fatto così. Prendere o lasciare.» sorrise beffardo Tom.

«Lascio volentieri.» mentì Monique, per non dargli soddisfazione. Improvvisamente sentirono bussare alla porta e, successivamente, questa venne aperta, rivelando dietro essa il viso intimidito di Ester.

«Scusate se vi disturbo, ragazzi, ma è pronto da mangiare.» sorrise amabilmente. Tom e Monique annuirono, per poi alzarsi e scendere le scale assieme a lei. Quando entrarono in cucina, un delizioso profumo di arrosto raggiunse le narici di Monique: andava matta per quel piatto. Tutto d'un tratto però, un ricordo le attraversò la mente come un lampo.

«Mamma!» esclamò talmente forte che fece sobbalzare sia la diretta interessata, che Tom e suo padre.

«Che c'è?!» rispose quasi terrorizzata la donna, mentre apriva il forno.

«Hai fatto l'arrosto!»

«Sì... Se la memoria non mi fa cilecca, tu adori l'arrosto.»

«Tom è vegetariano.»

La bocca di Ester formò una grande “O” e si voltò ad osservare il ragazzo, impacciata.

«Davvero, tesoro?» domandò sorpresa e quasi mortificata. Tom si portò una mano dietro la nuca, con un sorriso imbarazzato.

«Ehm, sì, ma non ti preoccupare, Ester.» rispose.

«Oh no, no, stai tranquillo. Posso fare un po' di verdura o un po' di pasta!» si affrettò a rimediare la donna, dopo aver appoggiato la piccola teglia con l'arrosto fumante sul tavolo.

«Ma no, davvero, non cucinare nulla. Sei hai un po' di insalata, che è veloce da preparare, mangio volentieri quella.»

La pelle del chitarrista stava prendendo un colore decisamente più scuro di quello naturale e Monique se ne accorse, così decise di venirgli in contro.

«Ti preparo un po' di insalata con mozzarella, pomodoro e mais.» disse, voltandosi verso lo scaffale per recuperare il barattolino di mais. Aprì il frigo e prese la verdura assieme al pomodoro e alla mozzarella. Ricordava che quando Tom non aveva molta voglia di preparare qualcosa di troppo impegnativo, gli piaceva mangiare quello.

«Grazie.» rispose il ragazzo, sedendosi di fronte al padre di Monique. Quando tutto fu pronto, Monique poggiò la scodella con l'insalata sul tavolo, davanti al chitarrista che la ringraziò di nuovo. Non era decisamente abituata a tutte quelle gentilezze da parte sua ma ne era piacevolmente scossa. Si appostò sulla sedia affianco a lui ed Ester si andò a sedere vicino ad Alfred. Dopo essersi augurati “Buon appetito”, presero tutti a mangiare.

«Mamma, guarda che torno a Berlino con Tom.» annunciò improvvisamente Monique.

«Oh! D'accordo, tesoro.» rispose la donna, forse un po' dispiaciuta. «Mi raccomando, non strafare con il lavoro. Sei più pallida del solito.» continuò, osservandola di sbieco. Sentì gli occhi del chitarrista, affianco, perforarla e la cosa la fece appena rabbrividire: sapeva cosa stava pensando.

«Non ti preoccupare, Ester. La terrò d'occhio io.» rispose Tom, al posto suo. A quell'affermazione si sentì arrossire pericolosamente. L'idea le piaceva parecchio.


**


Una buona parte del viaggio l'avevano passata in silenzio, al contrario di come si sarebbe aspettata. Tom aveva acceso lo stereo della macchina, su una stazione radio a Monique sconosciuta ma comunque apprezzata, forse per spezzare quel silenzio imbarazzante. La ragazza, di tanto in tanto, lo osservava con la coda dell'occhio, per capire che intenzione avesse, se quella di parlare o tacere fino al loro arrivo a Berlino. Così, decise di prendere l'iniziativa: voleva parlare con lui, ora che le cose sembravano andare lentamente a posto.

«Hey, che hai?» gli domandò con cautela. Non si poteva mai sapere quali fossero le sue reazioni; era un ragazzo lunatico.

«Niente, rifletto.» rispose con una scrollata di spalle il chitarrista, senza mai staccare gli occhi dalla strada.

«Rifletti da un'ora.» gli fece notare Monique. Tom si voltò qualche secondo verso di lei e sorrise divertito, per poi tornare a concentrarsi sulla guida.

«Stavo solo pensando a questa situazione e mi chiedevo alcune cose.» ammise.

«Cioè?» Monique si sistemò meglio sul sedile, in modo tale da voltarsi appena nella sua direzione.

«Com'è successo?» le chiese, voltandosi di nuovo verso di lei per qualche secondo. Bastò quel piccolo spicchio di tempo per far sì che il cuore di Monique facesse una capovolta. Non poteva reagire così ogni volta che il chitarrista la guardava.

«Intendi, come sono rimasta incinta?» Vide Tom annuire. «Beh, sono andata a letto con un ragazzo.» sdrammatizzò, al che Tom le scoccò un'occhiata intrisa di sarcasmo.

«Ma dai? Pensavo ti fossi montata da sola.» scherzò il ragazzo, con la sua solita delicatezza. Monique sorrise appena e decise di prendere a raccontare le cose per filo e per segno, così com'erano.

«Ero fidanzata da un anno con un ragazzo di due anni più grande di me, Christian. Il solo pronunciare il suo nome mi da nausea. Mi aveva sempre fatto credere che io ero speciale per lui, che provasse qualcosa di forte per me e invece gli servivo solo per scopare.» sputò freddamente la ragazza. Tom la osservava di sbieco, di tanto in tanto, prestando attenzione a quel racconto. «Tornava a casa che io ero già a letto, pronta per soddisfare di nuovo i suoi bisogni. Non mi salutava neanche. Si infilava direttamente sotto le lenzuola, senza dirmi una parola. E ai tempi ne avevo bisogno; mi sentivo una poco di buono. Solo che non ho mai avuto il coraggio di lasciarlo. E in una di queste tante volte, sono rimasta incinta.» continuò.

«Ma... Voglio dire, non prendevate precauzioni?» intervenne Tom.

«Capitava, a volte, che non le prendessimo, ma sembrava che lui stesse comunque attento. Evidentemente, in una di quelle volte, ha sbagliato i tempi.»

«Coglione. Io preferisco non rischiare in questo modo. Se non posso non lo faccio, semplice.»

«A lui piaceva rischiare.»

«E non glielo potevi... Insomma, impedire?»

«Non mi piaceva farlo incazzare... Diventava violento.»

«Ti ha mai picchiata?»

«E' successo. Ma mi sono sempre impegnata perchè non accadesse troppo spesso.»

«E adesso lui dov'è?»

«Chi lo sa. Sarà in giro per il mondo a scopare con chi gli pare. Del bambino non ne vuole sapere. Se l'è filata non appena gli ho dato la notizia.»

«Ti ha lasciata da sola?»

Monique lo guardò per un attimo e si accorse che il suo viso era a dir poco esterrefatto. Come mai sembrava così sorpreso? Non era la prima volta che si sentiva di casi simili.

«Ovvio. È per questo che ho fatto tutto il casino per il lavoro. Dovrò mantenere il bambino da sola e mi servono soldi.» rispose la ragazza, studiandolo ancora per qualche secondo. Il chitarrista restò in silenzio, forse a rimuginare su ciò che Monique gli aveva detto. «Ma comunque ho Jessica che mi sta molto vicino.» aggiunse lei, cercando di spezzare quella pesante atmosfera che si era venuta a creare.

«Ah, la peperina rossa.» sorrise Tom.

«La conosci?» inarcò le sopracciglia Monique.

«E' lei che mi ha dato l'indirizzo dei tuoi.» Monique venne percorsa da un brivido e un sorriso spontaneo le si dipinse sul volto. La sua migliore amica aveva fatto questo per lei... L'affetto che provava nei confronti della rossa non era quantificabile e, nonostante sapesse che ci sarebbe sempre stata, non la credeva capace di arrivare a tanto. Quando l'avrebbe rivista, le sarebbe saltata al collo cospargendola di baci, ovunque capitasse. Era soprattutto merito suo se ora lei e Tom riuscivano ad avere per lo meno un dialogo civile. «Schmitz, è vero che le hai detto che sono un buzzurro, rozzo, poco gentile e decisamente urtante?» domandò improvvisamente il moro, riportando per filo e per segno le parole di Jessica, con un sorriso divertito in volto. Monique sobbalzò sul posto e sentì le gote prenderle fuoco. Gli aveva davvero detto tutto quello? Dopo i baci, l'avrebbe presa a testate.

«Deve essermi sfuggito, una volta.»


**


Era arrivata da poco a casa. Tom era subito andato via, sostenendo che aveva delle cose importanti da fare allo studio di registrazione. Nella sua mente era balenato l'assurdo pensiero di proporgli di salire a casa sua per offrirgli qualcosa, come ringraziamento per il passaggio, ma lui l'aveva battuta sul tempo. Sembrava che avesse intuito l'idea della mora e che avesse voluto evitare tutto quanto. Perchè? Perchè un momento l'avvicinava e un altro l'allontanava di nuovo? Era stato gentile con lei, anche quando si erano salutati; eppure pareva sempre che il chitarrista volesse comunque mantenere le giuste distanze. Non ne comprendeva il motivo e la testa sembrava stesse per esploderle da un momento all'altro, così decise che una bella camomilla non le avrebbe fatto male. Odiava prendere farmaci, anche per un semplice mal di testa o un mal di pancia: i metodi naturali erano quelli che preferiva in assoluto.

Improvvisamente, mentre controllava l'acqua nel pentolino in attesa che bollisse, sentì suonare il campanello. Aggrottò le sopracciglia: non aspettava nessuno. Uscì dalla cucina, per raggiungere la porta di casa ed aprirla. Lì, sul pianerottolo, Jessica le sorrideva ilare, con le braccia stese, lungo i suoi fianchi. Monique non ci pensò due volte: ricambiò quel sorriso e le si buttò al collo, stringendola con tutta la forza che possedeva. Le braccia della rossa andarono a cingerle il corpo, mentre insieme indietreggiavano in casa, per richiudere la porta.

«Vedo che una certa persona ti ha fatto mettere la testa a posto.» le sussurrò all'orecchio Jessica, con una dolcezza disarmante. Monique chiuse gli occhi e la strinse ancora più forte.

«Grazie.» rispose semplicemente, sapendo che non occorrevano altre parole.


**


Si erano ritrovate a ridere come pazze, sedute su quel divano, che ormai era diventato il loro nido per le confidenze, con una tazza di camomilla in mano.

«Io, uno di questi giorni, ti dovrò ammazzare. Come ti è saltato in mente di dire a Tom quelle cose?» ridacchiò Monique, per poi sorseggiare un altro po' della bevanda fumante e zuccherata.

«Oh, insomma, mi aveva risposto scorbuticamente. E poi, con quella faccia da pesce lesso che aveva, non ho resistito.» ribattè divertita Jessica, mentre riponeva sul tavolino affianco la tazza ormai vuota. Monique sorrise scuotendo la testa e, dato un ultimo sorso, la imitò. «Però devo dire che è stato carino a venirti a cercare. Sembrava un po' intimidito. Secondo me significa qualcosa. Qual'è il ragazzo che si fa due ore e mezza di macchina per raggiungere una ragazza, su!» continuò la rossa. Monique arrossì abbassando lo sguardo sulle sue gambe incrociate.

«Sì ma prima sembrava volersene andare a tutti i costi. Non mi ha neanche dato il tempo di chiedergli se voleva salire, che già se n'era andato. Sembrava che avesse capito tutto e la cosa mi preoccupa. Perchè vuole tenere queste maledette distanze da me? Alla fine, quando sono stata male, lui mi ha abbracciato senza problemi ed è stato anche dolce con me. Non lo capisco; cambia da un secondo all'altro.» mormorò mogia.

«Probabilmente è solo spaventato. Si sente preso da te ed ha paura che la cosa possa diventare seria. Si slancia in certi momenti, ma poi riacquista coscienza e si allontana di nuovo.»

«Mi farà diventare pazza così, però.»

«Amore, tutti gli uomini fanno diventare pazze, in qualche modo. È la prassi.»

«Che prassi di merda.»

Scoppiarono a ridere, abbandonando tutti i pensieri negativi che cercavano di affollare le loro menti.


**


Varcare quella soglia si era rivelato molto più difficile del previsto. Nonostante Tom le avesse assicurato più volte che David non sapeva nulla, sentiva comunque un nuovo peso in corpo. Sapeva che si sarebbe sentita sempre osservata, come giudicata, anche se non poteva essere possibile. Nessuno sapeva nulla, avrebbe dovuto accantonare le preoccupazioni;.ma queste tornavano continuamente, decise a non darle tregua.

Prese un bel respiro e, finalmente, infilò la chiave nella toppa. Aprì la porta dello studio di registrazione e si guardò attorno.

«Buon giorno.» salutò. Improvvisamente vide David svoltare l'angolo e sorriderle.

«Buon giorno, Monique! Tutto bene? Come sta tua madre?» le domandò premuroso.

«Oh, bene, bene. Si è ripresa.» mentì, poggiando le chiavi sulla ribaltina, per poi appendere il cappotto sull'appendiabiti dell'ingresso. Sembrava tutto tranquillo, al contrario di come aveva pensato.

«Bene, sono contento. Se vieni un attimo nel mio ufficio ti devo parlare di una cosa.»

Quella fu la frase fatidica; quella che fece scoppiare il cuore in petto a Monique. Quella che le fece maledire mentalmente il chitarrista per il fatto che l'aveva ingannata; che le aveva assicurato che non aveva proferito parola con nessuno riguardo la sua situazione... E invece era solamente una scusa per farla tornare indietro.

Stupida, ancora che ti vai a fidare, continuava a ripetersi nella testa, disperata, mano a mano che si avvicinava a quell'ufficio. Già vedeva nella sua testa la scena: David che le strappava il contratto di lavoro davanti agli occhi. Forse nella realtà sarebbe stato meno brutale, ma era tutto ciò che al momento riusciva a immaginare.

David chiuse la porta e la fece sedere sulla sedia di fronte alla sua scrivania, per poi accomodarsi anche lui al di là di essa.

«Dunque, ci sarebbe una cosa che ho saputo praticamente ieri.» cominciò il discorso. Monique sentiva l'irrefrenabile voglia di darsela a gambe. Non prima di aver strangolato il chitarrista però.

«Sì.» balbettò la ragazza, in attesa che il discorso prendesse piega.

«I ragazzi dovranno tenere delle interviste, dei servizi fotografici e delle Signing Session in Malesia. So che è lontano e che richiederebbe un bel po' di giorni ma... Tu saresti disponibile?»

Monique lo osservò senza fare una piega. Era rimasta semplicemente paralizzata. Le sue mani stringevano ancora i braccioli della sedia dal nervoso. Aveva capito bene? Come per magia, riprese a respirare ma sentì al contempo un disperato bisogno di bere.

«Torno subito, scusami.» soffiò, alzando un dito e sollevandosi dalla sedia per uscire da quell'ufficio, sotto lo sguardo sbigottito del manager.

Quindi era vero... Tom non aveva mai detto nulla. Per un attimo si sentì in colpa di averlo anche solo pensato e per non aver riposto fiducia in lui.

Recuperò la bottiglietta d'acqua dalla macchinetta e se la portò alle labbra per bearsi di quel liquido fresco che scese lungo la sua gola con lentezza. Si sentiva già meglio, nonostante avesse ancora il cuore scalpitante.

Sentì un ennesima capriola da parte di quest'ultimo, nel momento in cui notò proprio Tom svoltare l'angolo, intento a raggiungere probabilmente la sala insonorizzata, dov'erano riposti gli strumenti. Le fece un cenno col capo in segno di saluto e, nonostante Monique si fosse aspettata per lo meno un sorriso, le bastò.

«Sei meno buzzurro di quanto pensassi, Tom.» gli sorrise. Il chitarrista la osservò per qualche attimo perplesso: non poteva immaginare che si riferisse al fatto che aveva mantenuto il segreto. Senza attendere una risposta, fece di nuovo il suo ingresso nell'ufficio di David, per poi richiudere la porta e sedersi di fronte a lui. «Allora... Quando dovremmo partire?»


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Capitolo 16
*** Fifteen. Welcome to Malaysia ***


welcome to malaysia

Chapter Fifteen.
- Welcome to Malaysia -



Probabilmente, partire per la Malesia, nelle sue condizioni, non era stata la scelta migliore che potesse fare. La aspettavano cinque lunghi giorni in quella città asiatica. Cinque giorni in cui avrebbe passato il tempo, oltre a fare il proprio lavoro da brava traduttrice, a pregare che il bambino non desse qualche problema proprio in quel periodo – magari anche durante un'intervista. Jessica le aveva raccomandato di non strafare e di munirsi di ogni tipo di medicina o quant'altro, in caso di urgenza. La rossa non era tranquilla a riguardo e l'aveva minacciata di telefonarla ogni giorno, anche se ciò le avesse prosciugato i soldi dalla scheda telefonica. Monique non aveva potuto fare altro che acconsentire: vedere la sua migliore amica recuperare il coltellaccio che usava per tagliare le angurie e puntarglielo contro con sguardo minaccioso non era stato propriamente allettante.

Sospirò appena, cambiando canzone dal suo i-pod. Poggiò una tempia sul vetro dell'oblò e si beò dello splendido paesaggio sottostante, coperto di tanto in tanto da bianche nuvole, mentre l'aereo portava lei e il resto della band verso la Malesia.

Era affascinata da tutto ciò: non aveva mai lasciato casa per viaggi così lunghi. Se qualcuno le avesse chiesto se fosse mai andata all'estero, avrebbe risposto “In Francia, per lavoro”. Non aveva mai varcato i confini della Germania per puro piacere personale: vi era sempre di mezzo la sua professione. Certo, non le dispiaceva visitare posti nuovi; però prendersi una bella vacanza per conto proprio era un'idea che le piaceva parecchio ma che, per forza di cose, non avrebbe potuto mettere in pratica.


**


Quando giunsero in Malesia era piuttosto tardi. Il buio si era impossessato dell'intera città, illuminata solamente da lampioni e negozi ancora aperti. Monique si guardò attorno estasiata. Le piaceva quella città. Poteva non essere considerata una New York, ma era pur sempre affascinante.

Al suo fianco, Bill continuava a parlottare eccitato, battendo le mani curate di tanto in tanto, mentre osservavano i malesiani attraverso il vetro del furgone che li stava portando dritti al loro hotel. Per puro caso, Monique si fermò ad osservare proprio le mani del ragazzo e, con una piccolissima e divertente sensazione di invidia, constatò che le aveva più curate delle sue.

Tom era seduto sul lato sinistro, affianco al fratello, mentre Georg e Gustav giacevano di fronte a loro.

Improvvisamente il furgone nero accostò vicino ad un marciapiede e, affacciandosi appena, Monique vide davanti a loro un enorme albergo a cinque stelle, dalla stupenda fisionomia. Le fans urlanti erano già tutte attorno ad esso, mentre i bodyguard cercavano di tenerle al loro posto, con qualche difficoltà.

Tobi aprì la portiera del furgone e, posando una mano sulla testa di ognuno, fece scendere tutti i componenti della band, assieme a Monique.

Ormai Monique si era guadagnata la nomina di “Troia raccomandata”, ma aveva imparato a non darvi peso. Era abituata a ricevere insulti ovunque andasse e sfortuna voleva che lei capisse molte lingue straniere.

Una volta varcata la soglia dell'hotel – uscita indenne, apparte i suoi timpani, da quel branco di assatanate – si guardò attorno estasiata. Il lusso di quel posto era strabiliante; mai le era capitato di visitarne uno del genere, nemmeno a Parigi, e ne fu totalmente rapita.

Dopo che David ebbe risolto alcune pratiche alla reception, fece segno ai ragazzi di seguirlo verso l'ascensore. Raggiunsero il dodicesimo piano, dove si estendeva un'elegante moquette rossa lungo tutto il corridoio.

«Dunque, tenete le tessere delle vostre stanze. Bill, hai la trecentododici. Georg, la trecentoquattordici, Gustav la trecentosedici. Tom, la trecentotredici, io la trecentoquindici e Monique la trecentodiciassette.» riferì ad ognuno, porgendo la rispettiva tessera magnetica. Monique si guardò in giro e notò che le stanze con il numero dispari erano sulla destra e quelle con il numero pari sulla sinistra. Andò nella prima direzione assieme a David e Tom, mentre gli altri tre nella parte opposta. «Ci vediamo più tardi per la cena.» disse il manager prima di chiudersi nella sua stanza.


**


Il letto matrimoniale di Monique era totalmente in disordine, sovrastato da ogni tipo di indumento che aveva maldestramente tirato fuori dalla sua piccola valigia. Per cinque giorni avrebbe potuto tranquillamente riporre i propri vestiti nell'armadio.

Stava cominciando a riordinare il tutto, quando il suo telefono cominciò a squillare, poggiato sul comodino affianco al letto.

«Jess?» sorrise, dopo aver visualizzato il nome della rossa sul display.

«Sei atterrata ancora intera?» domandò prontamente la ragazza, dalla Germania. Monique non riuscì a soffocare una lieve risata. La protezione che ogni volta le dimostrava era adorabile.

«Sì, non ti preoccupare. La testa è ancora al suo posto.» rispose, tenendo il cellulare tra l'orecchio e la spalla, e riprendendo a riporre nell'armadio i suoi vestiti.

«Bene, che fai?»

«Infilo tutta la mia roba nell'armadio. Tra un quarto d'ora circa scenderò a cenare.»

«Il caso “Buzzurro”?»

«Il caso “Buzzurro” è rimasto tale e quale a prima. Non ci siamo scambiati mezza parola. Non mi sembra arrabbiato come al solito... Solamente sembra voglia starmi lontano, come ti ho detto.»

«Dagli tempo. Allora ci sentiamo domani, ora esco un pò. Un bacio.»

«Bacio.»

Ripose il telefono sul comodino e si impegnò per concludere il suo intento.

Improvvisamente sentì qualcuno bussare alla porta.

«Hey, Monique, noi scendiamo a cena, sei pronta?» sentì la voce di Gustav da dietro essa.

«Sì, arrivo. Dammi due minuti.» rispose la mora, affrettandosi a riporre tutto nell'armadio.

«Beh, io comincio a scendere con gli altri, tanto c'è ancora Tom che si deve alzare dal letto.»

Monique reprimette l'istinto di precipitarsi alla porta e strangolare quell'angioletto biondo: sapeva che lo stava facendo apposta. Da quando avevano avuto quella conversazione a Parigi, riguardo il chitarrista e il fatto che si dovessero conoscere meglio, aveva sempre fatto in modo che lei e il moro si ritrovassero soli.

Non rispose, anche perchè aveva sentito il batterista allontanarsi immediatamente – senza neanche concederle il tempo di prendere fiato – e scosse la testa, piegando ancora qualche maglietta sul letto. Quando finì di riporre tutto quanto nell'armadio, richiuse le ante e si posizionò di fronte allo specchio appeso verticalmente su un lato del muro. Si diede una sistemata ai capelli, per poi alzare la maglia fino al seno ed aggiustare la panciera, come meglio poteva.

Era ormai entrata nel quarto mese e tutti quei tentativi di copertura si stavano rivelando quasi inutili. Finchè avrebbe funzionato, avrebbe perseverato, pur rendendosi conto che ciò non avrebbe agevolato il bambino.

Dopo essersi ammirata ancora qualche secondo, si voltò e corse verso la sua valigia, ancora aperta. Ne recuperò il beauty-case e ne tirò fuori un po' di lucidalabbra. Il cuore scalpitava al solo pensiero che avrebbe visto il chitarrista, pur essendoci ormai abituata. Ultimamente si stava accorgendo che voleva sempre apparire perfetta davanti a lui, per quanto potesse, ed il solo pensiero le faceva imporporare le gote.

Sospirò, dopo aver infilato il lucidalabbra nel borsellino, e si voltò in direzione della porta. Quando uscì dalla stanza, il suo sguardo si spostò automaticamente sulla destra per vedere se anche il chitarrista stava uscendo o meno.

«Sono qui.» sentì proprio la sua voce provenire da sinistra. Una marea di brividi le percorsero il corpo, mentre si voltava verso di lui, trovandolo in piedi – in mezzo al corridoio – con le mani nelle tasche dei suoi jeans oversize. «Gustav mi ha detto di aspettarti.» aggiunse per poi prendere a camminare con disinvoltura, seguito dalla mora. Quest'ultima chiuse gli occhi e si trattenne dal maledire il biondino. Quando entrarono in ascensore e le ante si furono chiuse, le venne spontaneo trattenere il fiato. Sentiva i battiti cardiaci rimbombarle nelle orecchie e sapeva perfettamente che si trattava della vicinanza con il chitarrista. Quel dannatissimo profumo da uomo, che usava sempre, le stava inebriando i sensi, facendole perdere per un attimo la cognizione del tempo e dello spazio. «Come stai?» le chiese inaspettatamente il ragazzo, facendola quasi sobbalzare. Da quando si preoccupava di come stesse? «Intendo con lui.» aggiunse poi alludendo al suo ventre con lo sguardo, facendola rovinosamente cadere dalla bella e comoda nuvoletta sulla quale stava viaggiando da qualche secondo.

«Oh, bene.» rispose un po' amareggiata.

«Non senti ancora nulla?» si informò di nuovo il ragazzo, cercando di risultare inutilmente indifferente agli occhi della ragazza. Quest'ultima si sentì arrossire a quella domanda. Le faceva strano parlare di quelle cose con un ragazzo, soprattutto se questo era Tom.

«Ehm, a dire il vero no.» rispose, abbassando lo sguardo sul suo ventre.

«Però per essere al quarto mese non ti si è ingrossata tanto la pancia. È strano.» commentò successivamente, osservandola con attenzione, come perplesso. Monique si irrigidì immediatamente, distogliendo lo sguardo.

«Ehm, no, non credo. Non lo è.» si affrettò a ribattere, prendendo a pregare mentalmente che quelle dannate ante si aprissero in fretta.

«Schmitz, c'è qualcos'altro che dovrei sapere e non mi hai detto?» indagò con sospetto.

«Ma va, hai scoperto tutto quello che c'era da scoprire.» tagliò corto Monique per poi uscire in fretta e furia dall'ascensore, seguita da un chitarrista alquanto mal fiducioso.


**


Quando si erano appartati in giardino, dopo cena, Monique si sentiva estremamente a disagio. Percepiva lo sguardo accusatore di Tom perennemente puntato sulla sua figura e sapeva che il motivo era il suo discorso concluso in maniera poco credibile, in ascensore. Aveva paura che avesse capito qualcosa, era un ragazzo fin troppo sveglio. Nonostante in un altro momento gli occhi di Tom posati continuamente su di lei li avrebbe graditi, ora aveva un bisogno assurdo che questi venissero immediatamente allontanati.

«Ragazzi, io me ne vado in camera. Sono un po' stanca.» annunciò quindi, facendo voltare anche i tre ragazzi rimanenti nella sua direzione, con le sigarette in bocca, eccetto Gustav.

«Ma dai, rimani ancora un po' qui con noi.» rispose Bill dispiaciuto, sputando nel frattempo fuori dalle labbra un po' di fumo.

«No, davvero, ragazzi.» rispose Monique, facendo per voltarsi verso l'entrata, ma le braccia di Georg le circondarono la vita, sollevandola appena con fare scherzoso.

«Dobbiamo ancora raccontarci tante cose, signorina, dove credi di andare?» esclamò il rosso, inconsapevole del fatto che Monique aveva strizzato gli occhi.

«Georg, mettila giù!» l'urlo del chitarrista perforò loro le orecchie, mentre il ragazzo si precipitava a togliere Monique dalla presa del rosso, la quale si toccava appena la pancia, senza farsi notare. Il moro posò una mano sopra la sua, sul ventre, e fulminò Georg con lo sguardo.

«Hey, Tom, che ti prende? Volevo solo essere giocoso.» mormorò sorpreso il bassista. Tom si staccò prontamente da Monique per poi accendersi nervosamente la seconda sigaretta di quella serata. Monique era rossa in viso per ciò che il ragazzo aveva fatto: si era preoccupato che Georg potesse farle male, in quel modo. Stava diventando premuroso, pur non ammettendolo a parole.

«Non ti preoccupare, Georg, non è successo nulla.» lo rassicurò la mora, battendogli gentilmente una mano sulla spalla. «Ora però sarà meglio che me ne vada in camera, sul serio.» sorrise successivamente, per poi dare la buona notte a tutti quanti e ritirarsi all'interno dell'albergo.


**


La mattina seguente, Monique si sentiva particolarmente stordita. Percepiva la stessa sensazione che doveva sopportare dopo un'intera serata fatta di alcool e musica a tutto volume, quando ancora se la poteva concedere. Si strofinò le mani sulle palpebre, cercando di ignorare il fastidioso mal di testa che si era impossessato di lei, senza ritegno. Scostò le coperte che giacevano sul suo corpo intorpidito e scese dal letto lentamente. Un po' sbandante, riuscì a raggiungere il bagno, dove si specchiò incuriosita. Aveva il viso più pallido del solito e due grosse occhiaie glielo solcavano. Quella visione la destabilizzò per qualche istante, ma poi decise di ignorarla e lavarsi i denti. Si sciacquò la faccia e successivamente si diresse verso l'armadio per trovare qualcosa da indossare per la colazione.

Quella mattina, i ragazzi avrebbero dovuto tenere un'intervista ed ovviamente lei sarebbe dovuta andare con loro. Non si sentiva per niente bene e sperava che questo non gravasse sull'intera giornata. Doveva stare bene, doveva lavorare e non poteva permettersi di fallire proprio quel giorno. Avrebbe ingoiato il groppone che le infastidiva la gola ed avrebbe ignorato quello che le attanagliava lo stomaco.

Una volta vestita e lavata, uscì dalla sua stanza. Erano le otto e mezza e, senza ombra di dubbio, i ragazzi la stavano aspettando al piano inferiore, o anche loro si stavano preparando per scendere. Lungo il corridoio incrociò la figura di Georg, il quale si stava dirigendo verso l'ascensore, dandole le spalle.

«Hey, Hagen.» lo chiamò, sorridendo. Il rosso si voltò incuriosito verso di lei e ricambiò il sorriso.

«Buon giorno!» la salutò cordialmente, mentre lei lo affiancava per entrare assieme a lui in ascensore. Quando le ante si chiusero, la mora sentì gli occhi del bassista puntati insistentemente su di lei. In quei giorni ne sentiva decisamente troppi di occhi addosso. «Ti senti bene, Monique?» le domandò preoccupato.

«Sì, perchè?» rispose, osservandolo fintamente incuriosita.

«Sei un po' pallida.» le fece notare il ragazzo.

«No, sto bene.» gli sorrise tranquillamente, per poi uscire dall'ascensore, non appena le ante si aprirono. Ignorò il capogiro che la prese in contro piede all'improvviso e si incamminò, fino a raggiungere il tavolo dove erano già seduti tutti gli altri componenti del gruppo, assieme a David. Li stavano attendendo pazientemente e non appena li videro, li salutarono – senza risparmiarsi qualche battuta maliziosa sul fatto che arrivassero soli.

Monique fece finta di non aver visto lo sguardo indagatore del chitarrista e si sedette di fronte a lui, mentre Georg prendeva posto accanto a lei.

«Non ne ho voglia di parlare, stamattina.» borbottò Bill, passandosi stancamente una mano sul viso, al momento struccato. Monique lo osservò con attenzione e notò solo allora la notevole somiglianza con suo fratello.

«Oh, sarebbe la prima volta che non sentiremmo parlare Bill in un'intervista!» lo canzonò Gustav.

«Perchè non parli un po' tu, per una volta, al posto mio?» lo fulminò con lo sguardo il vocalist.

«Tu sei il così detto Leader della band, quindi parli tu, con tuo fratello. Io ne faccio volentieri a meno.»

«Ma se mio fratello si limita a flirtare con le intervistatrici.»

«Se sono carine, perchè non dovrei farlo? È più forte di me.» intervenne il chitarrista, mentre i camerieri portavano ogni tipo di bevanda calda al loro tavolo.

«Sembra che ci fai sesso, solo con uno sguardo.» ridacchiò Georg.

«Sono molto bravo in queste cose, effettivamente.» si vantò il moro compiaciuto. Monique si sentì arrossire ed un calore che da un po' di tempo non sentiva le pervase velocemente il corpo. Era... Eccitazione?!

«Spero soltanto che quella di oggi non sia una scostumata, come quella di Parigi. O per lo meno, che lo mettessero uomo, così... Meno problemi.» commentò Bill, spalmando un po' di marmellata su una fetta biscottata.

«Sì, ma non gay.» concluse Georg con la bocca piena.


**


Proprio come Bill aveva sperato, quel giorno l'intervistatore era un uomo – un ragazzo, per la precisione – e non apparentemente gay. Era anche piuttosto simpatico ed aveva instaurato immediatamente con la band un dialogo fatto di battute e risate. Anche Monique era divertita da quell'intervista così disinvolta e poco formale a dispetto di tutte quelle noiose e monotone che aveva dovuto subire altre volte.

Si era parlato in particolar modo dell'uscita imminente del nuovo album “Humanoid” - prevista per la settimana successiva –, di tutto il lavoro che vi era dietro e soprattutto di ciò che le fans si sarebbero dovute aspettare da esso.

I Tokio Hotel erano entusiasti di tutto ciò e non vedevano l'ora che questa loro nuova creazione sfondasse in tutto il mondo. Avevano voglia di farsi sentire per ciò che erano diventati, per i progressi che nel corso del tempo avevano fatto con sudore ed amore.

Un improvviso capogiro, portò Monique a chiudere gli occhi e tastarsi una tempia; gesto del tutto automatico. Cercò di concentrarsi ugualmente su ciò che l'intervistatore stava riferendo ai ragazzi, ma con molta fatica. Nel momento in cui i suoi occhi si riaprirono, incrociò – con un brivido lungo la colonna vertebrale – lo sguardo del chitarrista. Quest'ultimo la stava osservando con una strana preoccupazione; probabilmente sospettava che si trattasse della gravidanza.

Quando Monique sentì silenzio attorno a lei, si rese conto che l'intervistatore aveva finito di parlare e stava attendendo che lei traducesse ai ragazzi. Si voltò verso di lui e lo vide scrutarla con un sopracciglio alzato, come a chiedersi cosa stesse aspettando per parlare alla band.

«Può ripetere l'ultima frase?» domandò imbarazzata, nella sua lingua. Il ragazzo si schiarì la voce, buttando uno sguardo alla telecamera, con fare imbarazzato, e ripeté il tutto. Monique si voltò verso i Tokio Hotel e riferì loro tutto quanto.

Il suo sguardo era quasi vuoto, stanco e del tutto assente e questo Tom l'aveva notato da un bel pezzo.

Monique cominciò a sentire l'ansia montarle in corpo: non si sentiva bene e pregò che quell'intervista finisse al più presto.


**


Quando finalmente poté uscire da quella sala rovente – a causa delle luci fastidiosamente puntate addosso – camminò lungo il corridoio con un po' di fatica ma abbastanza veloce da raggiungere in pochi secondi il bagno. Chiuse la porta e si aggrappò con le mani al lavandino. Tutto intorno a lei continuava a vorticare senza sosta, dandole anche una sgradevole sensazione di nausea. Sapeva che non era classica nausea mattutina, quella che non si faceva più sentire da un bel pezzo, ed era questo che la destabilizzava. Cosa le stava succedendo?

La sua fronte era imperlata di sudore, le occhiaie più accentuate ed il viso sempre più pallido. Si sentiva tremendamente stanca, forse troppo, ed il suo corpo aveva cominciato a tremare.

Quando la porta affianco a lei si aprì, si spaventò. Non appena vide però, attraverso lo specchio, che Tom si era appostato dietro di lei, per guardarla tramite il vetro, si rasserenò. Rimasero qualche attimo in silenzio, semplicemente guardandosi.

«Non mi sento bene.» balbettò poi Monique, scrutandolo con un lieve sorriso.

«Ti ho visto.» rispose seriamente il ragazzo. La prese per le braccia e la fece voltare delicatamente nella sua direzione ed appoggiare con il bacino al lavandino. «E' da stamattina che sei pallida. Cosa ti senti?» le domandò con premura, senza staccarle le mani di dosso, come avesse paura che potesse cadere a terra da un momento all'altro.

«Ho le vertigini.» rispose appena. Tom le portò una mano alla fronte e le asciugò il lieve sudore che vi si era formato.

«E stai anche tremando. Non credi che ti stai stancando troppo? Non avresti dovuto accettare di venire con noi in Malesia.»

«Tom, non voglio ancora discutere su questo, ti prego.»

Il ragazzo stette in silenzio e poi si sporse oltre lei, sovrastandola col corpo, per aprire il rubinetto alle sue spalle. Quel contatto infuse piacevole calore lungo la pelle di Monique, la quale chiuse gli occhi, abbandonando il capo sul petto del chitarrista, quasi senza accorgersene. Respirò piacevolmente il profumo della sua felpa.

«Hey, non svenire, per favore.» mormorò Tom, osservandola preoccupato, mentre si bagnava la mano sotto l'acqua fredda. Le sollevò il viso e glielo bagnò delicatamente con essa, cercando per lo meno di rinfrescarla, per quanto fosse possibile. In quel momento, Monique rivide in lui la figura di un padre o un fidanzato premuroso.

I loro sguardi erano come magnetici. Si osservavano quasi penetrandosi nell'animo, a vicenda, mentre Tom continuava a lasciarle quelle carezze sul volto. Il cuore di Monique stava spingendo dolorosamente e ripetutamente contro il suo petto, mentre il fiato le si stava smorzando sempre di più.

Aveva un bisogno atroce di baciarlo. Se solo avesse avuto il coraggio e non avesse temuto un rifiuto, gli avrebbe preso il viso tra le mani e lo avrebbe baciato, senza spiegazioni. Ed il respiro profumato del ragazzo che si infrangeva contro le sue labbra non le era certo d'aiuto.

«Grazie.» soffiò appena, osservandolo con tutto l'affetto che aveva nel cuore. Sentì quasi le gambe cedere quando il ragazzo le sorrise impercettibilmente, scivolando dalla fronte alla guancia, con la mano. Lo vide avvicinarsi lentamente, fino a che non le posò le labbra su una tempia bagnata, producendo un silenzioso schiocco.

«Non c'è di che.»

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Capitolo 17
*** Sixteen. Illusion ***


illusion

Chapter Sixteen.
- Illusion -



Lungo tutto il tragitto per tornare all'albergo, Monique era rimasta in silenzio. Si sentiva ancora intontita e non aveva nemmeno la forza di parlare. Tom, accanto a lei, faceva finta di nulla, chiacchierando di tanto in tanto con gli altri componenti della band; eppure sapeva che anche lui era teso. Lo sentiva.


**


Quando si chiuse in camera, tirò un sospiro di sollievo. Non aveva più voglia di stare in mezzo alla gente. Sentiva solo il bisogno di stendersi sul letto – magari sentire al telefono Jessica – e bearsi di un salutare riposo. Erano le undici e mezza e di scendere a pranzare, di lì ad una mezz'ora circa, non se la sentiva.

Si alzò lentamente dal letto, nel momento in cui udì delle voci distinte nel corridoio, ed aprì la porta della sua stanza, affacciandosi. David stava parlando con Tobi, probabilmente riguardo qualche sistema di sicurezza, e non appena la vide, le sorrise.

«David, ti volevo dire che io non scendo a pranzo. Sono molto stanca e ho intenzione di riposarmi un po'.» gli riferì con apparente tranquillità sia nello sguardo che nel tono di voce.

«Non ti senti bene?» domandò subito, preoccupato, il manager.

«No, tranquillo. Ho solo bisogno di dormire. Stanotte non ho chiuso occhio.» lo rassicurò Monique. L'uomo annuì non troppo convinto e lasciò che la ragazza si richiudesse in camera.

Trasse un profondo respiro e si diresse verso il letto. Si sollevò la maglietta che portava e si tolse la fastidiosa panciera che stava cominciando a farle male. Sentiva come se non le permettesse di respirare in modo adeguato e di certo il bambino ne avrebbe risentito.

La poggiò sulla sedia accanto al bagno e poi si immerse nel caldo tepore delle morbide coperte che in poco tempo l'avvolsero. Chiuse gli occhi, sorridendo appena. Aveva proprio bisogno di stendersi un po'.

L'intervento di Tom in bagno le era stato d'aiuto; per lo meno le vertigini ora erano scomparse. Aveva solo un po' di mal di testa e un lieve dolore alla pancia, probabilmente causato dalla costrizione della panciera.

Ripensò con un po' di nostalgia a quel momento in bagno, diventato particolarmente intimo. I loro sguardi che si incrociavano come a volersi dire tante – troppe – cose; il respiro di Tom sul suo volto, le sue carezze. E l'irrefrenabile voglia di baciarlo.

Anche in quel momento il ragazzo sembrava l'avesse letta nel pensiero perchè l'aveva baciata sulla tempia in modo talmente veloce e spaurito da non passarle inosservato. Doveva capire cosa si nascondesse dietro quel comportamento così ambiguo. Forse non era il suo tipo di ragazza? O semplicemente lo spaventava il fatto che presto avrebbe partorito un bambino?

Mentre questi strazianti pensieri le affollavano la mente, Morfeo la accolse fra le sue braccia.


**


Uno strano rumore giunse alle sue orecchie, facendole lentamente sollevare le palpebre. Dapprima non capì cosa potesse essere: il mondo dei sogni era ancora vicino a lei. Quando finalmente aprì totalmente gli occhi e si diede uno sguardo attorno, capì che qualcuno stava bussando alla porta. Il timore prese subito possesso del suo corpo.

Si sollevò velocemente dal letto – forse troppo – e si portò una mano alla testa, poggiandosi successivamente al muro con l'altra per non rovinare a terra.

Dannati capogiri, pensò mentre si allacciava ad una velocità sovrumana la panciera attorno al ventre. Si tirò giù la maglia e spiccò una corsa verso la porta.

Quando la aprì, dietro essa si rivelò l'estasiante figura di Tom, che la guardava con quella perenne ed apparente indifferenza. Cercò di ignorare i propri battiti cardiaci che si ostinavano a ricordarle quanto fosse agitata nel trovarlo lì davanti a sé e sorrise timidamente. Abbassando lo sguardo, notò che tra le sue mani reggeva un piccolo vassoio con un po' di pane e dell'insalata al suo interno.

«Non va bene che non mangi nulla, Schmitz.» esortò il ragazzo, osservandola inespressivo. Monique sospirò e gli fece segno di entrare. Richiuse la porta e gli diede le spalle per raggiungere nuovamente il letto.

«Non ho fame, Tom.» rispose, rannicchiando le gambe al petto. A sua insaputa, il chitarrista le si sedette accanto, continuando ad offrirle ciò che le aveva portato.

«Non me ne frega niente che tu non ne abbia. Lui ne ha.» insistette, perforandola con lo sguardo. Monique si sentì rabbrividire: adorava vederlo in quelle vesti premurose; motivo per cui – con una smorfia – afferrò il vassoio e se lo appoggiò in grembo. «Stai ancora male?» le domandò mentre lei si prestava a spezzare un po' di pane.

«Le vertigini mi sono passate ma ho ancora un po' di mal di pancia e un forte mal di testa.» rispose la ragazza, per poi masticare un boccone.

«Non mi piace che tu abbia mal di pancia. Non sono un esperto di gravidanze ma so per certo che non è positivo che tu ne abbia. E poi non hai un filo di pancia e sei al quarto mese; com'è possibile?»

Monique si portò alla bocca un po' di insalata, ignorando le capovolte che il suo stomaco stava facendo. L'avrebbe semplicemente uccisa se gli avesse spiegato il motivo, non vi era via d'uscita.

«Non lo so.» sussurrò quasi impercettibilmente, posando il vassoio sul comodino affianco.

«Non la finisci?» le domandò Tom, torvo. Monique scosse la testa, sospirando e si sdraiò appena sul materasso, tenendo la testa alzata, contro il cuscino. Poggiò le mani sul ventre e si torturò le dita, osservandole disinteressata. Tom, accanto a lei, la scrutava pensieroso.

Non appena vide che il ragazzo allungava timidamente una mano verso il suo ventre, il suo cuore fece un balzo. Lo fermò velocemente, con la propria, stringendola appena. Il calore che essa le irradiò, la fece piacevolmente rabbrividire. Si fosse trovata in un'altra situazione e in un altro momento in quella stanza, avrebbe sicuramente concluso con lui qualcosa di concreto.

Non era il tipo di ragazza che mandava a dire agli altri le cose. Era sempre stata molto sicura di sé, per niente timorosa di venire respinta e doveva dire che quel suo modo di fare le aveva sempre portato soddisfazioni. Ora c'era di mezzo un bambino e la paura di un rifiuto era più che comprensibile.

Senza accorgersene, aveva intrecciato le proprie dita con quelle del chitarrista, accarezzandogliele appena. I loro occhi erano di nuovo in contatto, ma nessuno dei due voleva muoversi.

«Non vuoi che ti tocchi la pancia?» chiese perplesso il chitarrista, forse con una nota dispiaciuta nella voce.

«E' che... Non c'è niente da sentire.» mormorò la ragazza con lo sguardo perso. L'altra mano si era lentamente posata sulla guancia di Tom, carezzandola appena. Uno strano pensiero le stava attraversando la mente.

Aveva paura; maledettamente paura.

Il suo respiro tremava, così come la mano sul suo viso. Probabilmente il ragazzo lo avvertì, ma non distolse lo sguardo dai suoi occhi. Sembrava timoroso di un qualcosa a lei sconosciuto, con una lieve luce malinconica nello sguardo, ma decise di non pensarci o non avrebbe mai capito.

Si avvicinò appena al suo volto. I loro respiri si mischiavano accelerati e Monique sentì il cuore scoppiarle in petto.

Fermati, stupida, non farlo, continuava a ripeterle la mente... Ma era decisa a non darle retta per una volta e lasciarsi guidare dal proprio istinto. Vedeva lo sguardo del chitarrista farsi sempre più vacuo ed i suoi occhi socchiudersi appena, senza smettere di guardarla.

Forse era la volta buona. Forse non l'avrebbe respinta.

Lievemente, poggiò le labbra sulle sue ed una scossa elettrica la pervase senza ritegno. Erano morbide, bollenti ed il loro tocco delicato. Tante volte le aveva immaginate da sfiorare, da mordere, quasi con vergogna. Ma quel bacio era decisamente superiore a qualsiasi fantasia.

Sentì la mano del chitarrista, ancora intrecciata alla sua, tremare appena, mentre la stringeva poco più forte. Con il braccio gli circondò delicatamente il collo e lo attirò maggiormente a sé, esercitando una lieve pressione sulla sua bocca per far sì che quel bacio diventasse più profondo.

Tom si stava lasciando andare e Monique stava letteralmente perdendo i sensi.

Nel momento in cui lo sentì sdraiarsi accanto a lei e infilarle una mano tra i capelli sparsi sul cuscino, non seppe più dire come riuscisse ancora a respirare. La passionalità che li travolse la spaventò appena ma le piaceva maledettamente, fino a che non sentì il chitarrista sospirare affranto sulle sue labbra, per poi staccarsi velocemente da esse con uno schiocco umido.

«No, cazzo, no!» esclamò turbato il ragazzo, sedendosi sul materasso e dandole le spalle con la testa fra le mani.

Monique si sentì improvvisamente catapultata sulla Terra, mentre il silenzio aveva preso il proprio spazio in quella stanza, spezzato solamente dai sospiri accelerati dei due ragazzi. La mora si appoggiò piano sui gomiti, osservando la schiena del chitarrista con timore. Perchè stava reagendo a quella maniera?

Si morse tremante il labbro inferiore e si sedette, continuando a scrutarlo. Lui, d'altro canto, continuava a tenersi il viso fra le mani, senza dire mezza parola.

«Tom... Cosa...» provò timidamente la ragazza, fino a che non sentì il chitarrista sospirare di nuovo.

«Non possiamo, cazzo!» esclamò il ragazzo, senza guardarla. Monique sbattè appena le palpebre, non capendo perchè stesse dicendo questo.

«Perchè?» soffiò appena, non riuscendo a frenare il magone che stava lentamente prendendo piede nella sua gola.

«Perchè è tutto fottutamente sbagliato! Non posso illuderti con false speranze!»

Il mondo sembrò crollarle pesantemente addosso.

Illuderla con false speranze... Si era solamente illusa che Tom potesse provare qualcosa per lei? Un semplice bacio non era nulla; almeno, non per lui. Era stata avventata ed aveva commesso un enorme errore. Odiava il suo dannato istinto e si sarebbe maledetta per avergli dato corda.

«Quindi... Mi sono fatta solo film, è questo che stai dicendo.» mormorò appena, con lo sguardo basso e deluso.

«Non ho detto questo, cazzo.» rispose il chitarrista, voltandosi verso di lei con espressione crucciata.

«E allora cosa?! Sii un po' più chiaro perchè in tutto questo tempo non hai fatto altro che confondermi le idee!» si infervorò la ragazza.

«Non era mia intenzione.»

«E ora, Tom? Cosa ti passa per quella dannata testa?! Cosa devo fare? Anche questa volta dovrò fare finta che non sia successo nulla?!»

Gli occhi di Monique si riempirono repentinamente di lacrime, contro il suo volere. Lo sguardo affranto di Tom si posò sul suo.

«Non volevo ridurti in questo stato.» sussurrò dispiaciuto.

«Ah no?! Peccato che ci riesci ogni volta!» urlò la ragazza di rimando, facendo sentire ancora più colpevole il chitarrista di quanto già non fosse.

«Mi dispiace.» disse, abbassando lo sguardo sul materasso.

«Vattene.» rispose freddamente Monique, piangendo in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto.

«Senti...»

«Vattene, ti ho detto! Per una volta abbi rispetto per ciò che dico! Per una sola, maledettissima volta!» La osservò ancora qualche attimo con la tristezza negli occhi. Cosa faceva ancora fermo lì? Aveva deciso di farla soffrire maggiormente? Non era già abbastanza l'umiliazione che le stava facendo provare? «Tom, ti prego.» mormorò di nuovo Monique, quasi senza forze.

Non voleva farsi vedere in quelle condizioni da lui; non voleva che sapesse quanto soffrisse a causa sua. Non voleva passare per quella debole, ma i suoi desideri se ne stavano tranquillamente andando a puttane.

Finalmente, a quell'ultima richiesta, il ragazzo si sollevò dal materasso. Camminò lentamente verso la porta con sguardo basso e affranto.

«Sappi solo che non mi diverto a vederti soffrire così.» disse senza guardarla – suscitando così ancora più rabbia nella ragazza – per poi uscire dalla stanza.

Monique prese a singhiozzare incontrollata. Afferrò il suo cellulare dal comodino e lo scagliò con violenza contro la parete di fronte a sé, aprendolo in più pezzi. Si strappò con rabbia la panciera dal ventre, sentendo di nuovo quel dolore insopportabile ad esso, e si buttò sul cuscino per stringerlo con tutta la forza che possedeva.

Si stava innamorando di uno stronzo.

Di nuovo.


**


Se prima era abbastanza eccitata per quel viaggio in Malesia, ora non vedeva l'ora di tornare a casa, gettarsi fra le braccia di Jessica e cancellare dalla mente il volto del chitarrista. Sentiva un enorme peso alla bocca dello stomaco che le impediva anche solamente di guardarlo negli occhi.

Si erano ritrovati seduti a tavola, per cena, ed uno strano silenzio aleggiava attorno a loro. Che il chitarrista avesse già raccontato ai suoi amici come l'aveva umiliata per l'ennesima volta?

Voleva andarsene. Voleva alzarsi velocemente da quel tavolo, scappare dall'hotel e prendere il primo aereo che l'avrebbe riportata in Germania.

Riusciva a percepire gli occhi di Tom che, di tanto in tanto, la scrutavano quasi timidamente. Eppure lei non sentiva nulla, più nulla. Solo rabbia e voglia di scagliarsi contro di lui per restituirgli tutto il dolore che le stava facendo provare senza ritegno.

Perchè si era lasciato andare a quella maniera, se non gliene fregava nulla di lei? Aveva solamente bisogno di sfogare i propri bisogni e si era reso conto troppo tardi che lei era incinta?

Strinse con forza la forchetta che teneva fra le mani, serrando la mascella.


**


Aveva tanto bisogno di fare una passeggiata, fuori da quell'hotel ed estraniarsi un po'. Aveva bisogno di staccare un po' la spina o non si sarebbe ripresa mai più. La figura del chitarrista perennemente a contatto con i suoi occhi non la aiutava per nulla e voleva allontanarsene il più possibile.

Quel pomeriggio, i ragazzi avrebbero tenuto un servizio fotografico e lei sarebbe stata libera di fare ciò che voleva. Motivo per cui aveva chiesto a David di poter fare un giro per la Malesia, da sola, promettendo che avrebbe fatto ritorno per l'ora di cena. A quella richiesta, il manager aveva acconsentito subito, raccomandandole di fare attenzione, mentre Tom l'aveva guardata torvo, forse preoccupato e sicuramente contrario. L'aveva sfidato con un semplice sguardo, sino ad uscire dall'hotel. Non poteva prenderla in giro a quella maniera.

Si strinse nel cappotto e continuò a camminare lungo il marciapiede, osservando di tanto in tanto le vetrine di alcuni bei negozi. Aveva voglia di fare un po' di shopping – solitamente aiutava in quei casi – ma il suo portafoglio non era molto d'accordo.

Imboccò un piccolo vicolo, curiosa di sapere cosa ospitasse, quando dei passi affrettati diventarono sempre più udibili alle sue spalle. Si voltò perplessa ma non fece in tempo ad inquadrare il viso di chi apparentemente la stava seguendo che uno di loro – per la precisione, una ragazza – la scaraventò con le spalle al muro. Sentì le gambe tremare ed il cuore battere all'impazzata.

Quando riaprì gli occhi notò che quattro ragazze, tra cui quella che ancora la teneva immobile contro la roccia, la fissavano con odio. Ciò che presto le dissero in malesiano non era difficile da comprendere. Insulti gratuiti cominciarono a levarsi nella poca aria di quel vicolo, assieme a schiaffi e pugni sul viso. Monique non sentiva nemmeno la forza di ripararsi da tali violenze: semplicemente si circondò il ventre con fare automatico, sperando che mai e poi mai la colpissero lì e che quell'incubo terminasse al più presto.


**


Si sentiva umiliata, ancor più di prima. Era uscita da quell'hotel per stabilizzarsi, per non pensare al male psicologico che il chitarrista le aveva fatto provare; ne aveva subito anche di fisico. Era furiosa, era incredula... Eppure non aveva versato una lacrima.

Potevano quelle ragazze essere considerate fans dei Tokio Hotel? Erano dei mostri, non erano fans. Quello non era amore per la propria band preferita, era odio puro. Odiare chi sta vicino a ciò che si ama e fargli del male, vuol dire semplicemente odiare anche ciò che apparentemente si ama e non rispettarlo.

Non voleva vedere nessuno, tanto meno lui. Aveva tanta rabbia da sbollire ed avrebbe dovuto farlo da sola.

Si guardò allo specchio appeso al muro della sua stanza e non poté fare altro che provare schifo per quello che vedeva: lividi e tagli più o meno evidenti sul suo viso. Non poteva in ogni caso farsi vedere a quella maniera dai ragazzi; le avrebbero fatto domande su domande, soprattutto David, e non aveva assolutamente voglia di parlare.

Era maledettamente combattuta: era proprio quello il momento in cui avrebbe avuto tanto bisogno della presenza del chitarrista accanto a lei. Aveva bisogno che la stringesse a sé, che la facesse sentire protetta ed al sicuro; che le facesse sentire che mai più nessuno le avrebbe fatto del male. Ma poi le ritornava alla mente quel bacio e le sue parole... E tutto tornava grigio.

E proprio mentre stava per entrare in bagno per sciacquare dal suo viso quei segni che le sarebbero rimasti nel cuore, sentì bussare alla porta.


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Capitolo 18
*** Seventeen. He'll take care of her ***


he'll take care of her

Chapter Seventeen.
- He'll take care of her -



Doveva aprire? Se avesse fatto finta di non esserci, David sarebbe andato su tutte le furie, chiedendosi dove fosse finita. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non fingere. Ma come avrebbe giustificato i lividi sul suo volto?

«Chi è?» domandò tremante. Ci fu qualche istante in cui poté udire solamente il silenzio, fino a che la voce che parlò non la fece sobbalzare.

«Tom.» il suo tono sembrava mortificato, intimidito. Il proprio cuore fu tutto ciò che riusciva a sentire rimbombarle nelle orecchie. «Ti prego, aprimi.» parlò di nuovo da dietro la porta. Monique sospirò appena, avvicinandosi lentamente alla porta. Non poteva nascondersi in eterno.

Quando la aprì, alzò lo sguardo freddo sull'alta ed imponente figura del chitarrista. Aveva uno sguardo spento, dispiaciuto. Il suo torace era finalmente fasciato da una felpa più stretta, che metteva in risalto il suo fisico asciutto e leggermente muscoloso. Fu impossibile per Monique ignorare quei piacevoli brividi che si erano protratti lungo tutto il suo corpo, nell'osservarlo dalla testa ai piedi.

«Che cazzo hai fatto?» fu il seguente sussurro spiazzato e spaurito del ragazzo, che riportò alla realtà la mora, ricordandole che era stata precedentemente picchiata e che era ancora furiosa con lui.

«Shh!» lo ammonì, facendogli segno di entrare nella sua stanza. Non avrebbe dovuto farlo... Era ancora tutto troppo complicato per poter essere affrontato con lucidità. Troppi avvenimenti si erano scatenati in poco tempo e Monique aveva paura di non avere più la forza di rivangarli tutti.

Diede le spalle al chitarrista, andandosi a sedere sul suo letto, per poi trarre un lungo respiro. Tom le si avvicinò lentamente, sostando di fronte a lei, come avesse paura che se avesse bruciato troppo le distanze, gli sarebbe arrivato uno schiaffo in pieno volto.

«Chi è stato, Schmitz?» le chiese nuovamente, con la sua solita freddezza. Monique sorrise amaramente. Mai e poi mai sarebbe riuscita a farlo cambiare. Per quanto dolce potesse dimostrarsi a volte, la sua indole nei suoi confronti era quella e lei non era in grado di mutarla. Non rappresentava una figura così importante nella sua vita per poterlo fare.

«Le vostre dolci fans, Tom.» rispose scettica, osservandolo duramente negli occhi. Tom sembrava quasi non riuscire a sostenere quello sguardo, per la prima volta dopo tutti quei mesi e la cosa non poté fare altro che compiacerla. Per una volta, aveva lei in mano la situazione.

«Cosa?» sgranò gli occhi il ragazzo, scrutandola interdetto.

«Hai capito bene. Le vostre fans mi si sono avventate addosso e mi hanno picchiata. Penso sia abbastanza evidente, no?» replicò Monique, spazientita. La verità era che si sentiva tremendamente a disagio. Non vedeva l'ora che il chitarrista varcasse nuovamente la soglia di quella stanza, lasciandola sola con il suo dolore. Non riusciva a guardarlo negli occhi, ma doveva farlo. Doveva risultare forte, come era sempre stata nella sua vita difficile, e non sarebbe stato un ragazzo a mandarle a monte tutte le sue abitudini.

«Non ci posso credere... Ma come... Perchè?!» balbettò il moro incredulo.

«Vallo a chiedere a loro, Tom.» rispose in tono glaciale la ragazza. Vide il chitarrista passarsi nervosamente una mano sul viso.

«Era a questo che non volevo arrivare, cazzo!» esclamò, dandole le spalle per tirare un pugno alla parete. Monique aggrottò le sopracciglia: sembrava tormentato, irato, disperato. «Io lo sapevo che si arrivava anche a questo.» mormorò nuovamente.

«Che stai dicendo? Non riesco a capire.» domandò Monique, senza mostrare troppo interesse.

«Nulla.» concluse il chitarrista con un sospiro nervoso, per poi voltarsi nuovamente verso di lei. Le si avvicinò appena e le si inginocchiò davanti. «Tu stai bene?» le domandò.

«Come vuoi che stia? Mi sento umiliata!» esclamò lei, anche piuttosto nervosa che solo ora mostrasse quella sua preoccupazione. Prima la rifiutava e poi le faceva quelle domande come se nulla fosse accaduto fra loro. Era una cosa che non riusciva a sopportare perchè, comunque fosse andata, lei non avrebbe dimenticato.

Vide gli occhi del chitarrista osservarla comprensivo e la cosa la fece infervorare ancora di più. Non doveva guardarla a quella maniera, non con quello sguardo. Non doveva essere compatita da nessuno, soprattutto da lui.

«E... Il bambino?» aggiunse il ragazzo timoroso.

«Lui sta bene.» ribattè Monique, con tono leggermente infastidito. Restarono in silenzio ad osservarsi attentamente negli occhi. Monique sentiva un irrefrenabile bisogno di stringerlo forte a sé, così come di prenderlo a pugni. Non poteva guardarla a quella maniera, con quel viso così apparentemente dolce e indifeso. Non poteva.

Trattenne il fiato, quando vide il ragazzo allungare le mani verso di lei. La afferrò delicatamente per le braccia e la fece scivolare giù dal letto, fino a farla rannicchiare in braccio a lui. La abbracciò, insinuando il viso nei suoi capelli e cullandola appena, mentre il cuore di Monique faceva le capriole.

Non pensò oltre; semplicemente afferrò la felpa di Tom e si accoccolò meglio sul suo petto, mentre lacrime salate scivolavano lungo il suo viso, in silenzio. Poteva udire perfettamente i battiti accelerati del chitarrista e capì che forse non si era fatta dei film. Non voleva credere che lui non provasse qualcosa per lei, dopo tutto quello che aveva fatto. Che ci fosse un altro motivo, dietro tutto ciò? Che qualcosa gli impedisse di lasciarsi andare con lei?

Lo strinse maggiormente chiudendo gli occhi, mentre le mani del ragazzo le accarezzavano dolcemente la schiena.

«Mi dispiace che sia successo tutto questo. Non volevo accadesse.» le sussurrò all'orecchio, mortificato.

«Alla fine non è colpa vostra se alcune vostre fans sono delle pazze psicopatiche. Non potete farci nulla.» mormorò Monique, stordita dal profumo del ragazzo. Quest'ultimo sorrise malinconico, stampandole un bacio sulla testa.

«Tu sei sempre pronta a scusarci, a giustificarci... Anche quando non dovresti.» sospirò, poggiando una guancia su di essa.

«Perchè non dovrei? Non sono i vostri cani che sguinzagliate contro chi non sopportate. Sono tutte loro iniziative e voi non potete esserne al corrente. E se stai cercando di sentirti in colpa, Tom... Non ci provare neanche.»

Sentì la stretta del chitarrista farsi appena più forte ed un sospiro crucciato arrivarle alle orecchie.

«Io mi sento in colpa anche per...»

«No.»

«Cosa, no?»

«Non sentirti in colpa per quello. Lascia perdere.»

Tom sospirò di nuovo, senza fermare le carezze con cui era riuscito a tranquillizzare Monique, prendendo poi a sfiorarle anche i capelli.

La mora aveva deciso che non sarebbe più tornata sull'argomento; le era bastato sentire il cuore di Tom per capire che avrebbe dovuto comportarsi a quella maniera perchè il cuore è ciò che di più sincero una persona possiede. Si sarebbe fidata di quello che aveva sentito. Non avrebbe più provato a farsi avanti con lui... Se lui avesse voluto, l'avrebbe fatto con lei. Non era sicura che anche lui provasse dei sentimenti per lei, ma per lo meno ci sperava.

Improvvisamente, un brivido di paura le percorse la spina dorsale, nel momento in cui la mano del chitarrista, per errore, era andata ad insinuarsi al di sotto della sua maglia. L'aveva sentita fermarsi esattamente su quel punto. Trattenne il fiato. Ormai, ciò che era fatto, era fatto.

Come si era aspettata, il chitarrista la allontanò appena da lui, senza farla scendere dalle sue gambe, e la osservò aggrottando le sopracciglia. Abbassò lo sguardo e le sollevò la maglietta.

Probabilmente, in quel momento, Monique smise definitivamente di respirare. Vedere il viso del chitarrista sbiancare non era qualcosa di esattamente piacevole.

Quando lui sollevò di nuovo gli occhi sgranati su di lei, temette che avrebbe concluso il lavoro cominciato dalle malesiane.

«Tu sei pazza, cazzo!» esclamò il chitarrista, affrettandosi a toglierle la panciera, senza comunque farle male. Monique prese a tremare. «Cosa ti è saltato in testa?! Ti rendi conto che così fai del male al bambino?! Ma dove ti è finito il cervello?!»

«Tom...»

«No! Niente Tom! Sei un'irresponsabile! Sai che rischiavi di ucciderlo, con il passare del tempo?! Stupida!» Restò in silenzio, colpevole, perchè altro non poteva fare. Pugnalate, quelle parole. Nient'altro che pugnalate. Vedeva, con la coda dell'occhio, Tom che stringeva rabbioso quella panciera che l'aveva effettivamente fatta star male per mesi. Percepiva la sua ira, come se in quel modo avesse fatto un torto a lui. «Per tutto questo tempo hai tenuto questa dannata panciera... Non hai pensato alle conseguenze?! Avrei dovuto immaginarlo nel momento in cui ho notato che apparentemente non ti cresceva la pancia.» si era calmato, ma non nascondeva il nervoso che lo stava scuotendo senza ritegno.

«Ho dovuto farlo.» ribattè mogia Monique.

«Hai dovuto farlo?! Queste cose non si devono fare, Schmitz! Non ci si gioca, sono pericolose! È di una vita umana che stiamo parlando, non di un giocattolo!»

Si sentiva schifosamente in colpa. Quelle parole pesavano come macigni su di lei e probabilmente non si sarebbe mai perdonata ciò che aveva fatto. Quello che la mandava più in bestia era il fatto che avesse agito con la consapevolezza che ciò non fosse salutare per il bambino. Si era preoccupata prima di lei e del suo lavoro. Era una schifosa egoista.

«Io... Io non so neanche se sono pronta per avere un bambino, Tom. Non so neanche se lo voglio. Anzi, lo so... Io non lo volevo.» sussurrò, sedendosi sul freddo pavimento, affianco al ragazzo che la osservò perplesso. Non si era nemmeno resa conto che aveva parlato al passato, con quell'ultima frase.

«Come non sai nemmeno se lo vuoi? È un po' tardi per capirlo, non trovi?» rispose Tom, cercando di comprendere lo sfogo della ragazza.

«Insomma, Tom. A me i bambini neanche piacciono.» ammise, prendendosi la testa fra le mani. Tom restò qualche attimo in silenzio, scrutandola accigliato. «Non sono in grado di crescerne uno. Probabilmente non sarei neanche affettuosa, mi farebbe schifo cambiargli il pannolino, perderei le staffe se mi svegliasse il suo pianto durante la notte, uscirei di testa. Forse non sarei nemmeno in grado di crescerlo, di dargli una buona educazione, di aiutarlo con i compiti. Tom, non sono in grado di fare la madre!» sbottò Monique. Probabilmente stava tirando fuori tutto ciò che aveva tenuto dentro di sé per tutti quei mesi. Nemmeno con Jessica ne aveva mai avuto la possibilità, dato che la rossa l'avrebbe semplicemente rimproverata di peccare di immaturità. Ora, lì, con Tom, seduta per terra, sentiva di poter ammettere tutto quanto e, anche se lui non le avesse dato una risposta d'aiuto, non le sarebbe importato. Voleva sfogarsi; solo quello.

«Sai cosa penso? Che tutte le donne abbiano, chi più chi meno, un istinto materno. Alcune ce l'hanno più marcato, altre lo nascondono persino a loro stesse. Forse semplicemente perchè non lo vogliono tirare fuori. Probabilmente perchè si sono sempre convinte, come nel tuo caso, che i bambini non faranno mai parte della loro vita.» esortò il ragazzo, lasciando Monique di stucco. Tutto si sarebbe aspettata dal chitarrista, ma non un discorso intriso di tale maturità. «Insomma, voi donne siete connaturate così... Per dare al mondo i bambini. Ce l'avete dentro. Forse tu non lo senti ancora, ma sono sicuro che non appena partorirai e ti appoggeranno quel fagottino sul petto... Ti sentirai più mamma tu di qualsiasi altra donna.» Quelle parole arrivarono dritte al cuore di Monique come una scarica elettrica, mentre un gran magone le si formò in gola. Era davvero Tom Kaulitz il ragazzo che stava parlando, affianco a lei, con una mano dietro alla nuca e le gote lievemente rosse? Era davvero lui a parlare di istinto materno e di bambini? «E poi, andiamo, anche io dico tanto che non avrò bambini o che li avrò dai sessant'anni in poi... Ma credi davvero che se avessi mio figlio tra le braccia, anche domani, non mi scioglierei? Persino io mi sentirei dannatamente padre... Quindi tu non ti devi preoccupare. E sono sicuro che saprai comportanti al meglio con lui o lei... Non avere paura.» concluse senza guardarla, forse per imbarazzo. Monique non si sarebbe sentita mai all'altezza di rispondere a ciò che le aveva detto. Era tutto troppo profondo, troppo carino e perfetto per rispondere anche con un semplice “Grazie”.

Non disse nulla. Si limitò ad allacciargli le braccia al collo e respirare a fondo il suo profumo, per sentirsi immediatamente appagata. Poteva bastare.


**


«Tom, è una cazzata, ti prego.» si lamentò la mora, osservando il ragazzo ricurvo verso il suo armadio, alla ricerca di qualche sua magliettona oversize da prestarle.

«Tu non te la rimetti quella panciera, Schmitz. Anzi, dopo mangiato, permettimi di darci fuoco, tanto non ti servirà mai più.» ribattè il chitarrista, tirando finalmente fuori una maglietta verde. «Forza, mettitela.» le disse, porgendogliela. Monique sollevò un sopracciglio.

«Tom, mi faranno domande su domande.» replicò, afferrandola per poi rigirarsela fra le mani. Era incredibile come il profumo del ragazzo stanziasse in ogni suo capo.

«Vuoi che gli altri non si accorgano del gonfiore? Allora questo è l'unico modo, dato che le tue magliette, per quanto larghe alcune possano essere, non ti coprono abbastanza. Quindi, deciditi. O questo o niente. O la mia maglietta o la verità, Schmitz.» tagliò corto il moro, incrociando le braccia al petto. Monique sospirò e si decise: la verità avrebbe dovuto aspettare ancora un po'. Si incamminò verso il bagno e vi si chiuse dentro. Si sfilò velocemente la propria maglia e restò qualche secondo ad osservare il suo ventre. Era più gonfio e rotondo. Era buffo come, in un certo senso... Le piacesse.

Indossò la maglietta di Tom, cercando di non rimanere nuovamente stordita dall'odore, e sorrise notando che le arrivava quasi alle ginocchia. Era decisamente enorme per lei, ma per lo meno le nascondeva ogni singola traccia della gravidanza. Recuperò la sua maglia ed uscì dal bagno.

«A posto?» domandò Tom, voltandosi nella sua direzione ed osservandola dalla testa ai piedi. Infine si illuminò in un sorriso divertito. «Ti dona.» ridacchiò.


**


Gli occhi puntati pericolosamente e pieni di sospetto sulla sua figura non furono assolutamente inaspettati. Come aveva previsto, il suo ingresso nella sala da pranzo, affiancata da Tom e con la sua maglietta addosso, aveva suscitato abbastanza sospetto sui visi di chiunque per farla sentire in imbarazzo. Gli occhi dei ragazzi, compresi quelli di David, slittavano da lei a lui senza sosta, indubbiamente sospettosi. Monique si sentì subito a disagio ma con un incoraggiamento di Tom, al suo fianco, riuscirono a prendere posto al tavolo, vicini, assieme agli altri.

«Monique... E' una maglietta di Tom, quella?» domandò retoricamente Bill: sapeva perfettamente quali magliette indossasse suo fratello.

«Sì, è mia. Gliel'ho prestata perchè le sue le ha lavate tutte e questa testina non ne ha portate abbastanza con sé, da casa.» rispose Tom, in aiuto. Monique si sentì subito rincuorata.

«Già, ho contato male i giorni, sono sbadata.» sorrise la ragazza, piuttosto intimidita.

Quella, senza dubbio, non era la migliore delle scuse che avesse mai tirato fuori, ma per lo meno aveva messo a tacere ogni tipo di domanda, nonostante i dubbi su loro due ora permanessero.


**


Da qualche ora, Monique sentiva uno strano fastidio al ventre che non seppe classificare se come dolore o altro. Aveva semplicemente deciso di ignorarlo.

Era seduta sulla panchina posizionata in giardino, affianco a Gustav, e si divertiva ad osservare i battibecchi tra i gemelli, di fronte a loro.

«Lo sai che toccava a te chiamare mamma!» borbottò Bill, tenendo fra le dita la sua fidata sigaretta.

«Bill, ho avuto altri pensieri, non posso ricordarmi sempre tutto! Se mi dimentico qualcosa, per lo meno, ricordamelo.» ribattè lamentoso il chitarrista, dopo aver gettato un po' di cenere.

«Eh certo. Sono sempre io la mente tra noi due.»

«Bill, smettila di fare la vittima.»

Gustav, affianco a lei, sospirò.

«Non la smetterebbero mai.» commentò con un mezzo sorriso, mentre quella discussione continuava.

«Per lo meno si tengono occupati, in qualche modo, e non si annoiano.» sdrammatizzò Monique.

«Come se non lo fossimo già abbastanza.» ridacchiò il biondo.

Monique tornò ad osservare i due ragazzi, mentre Georg parlava animatamente al telefono a qualche metro di distanza.

Un immenso calore le attraversò il corpo, nel soffermarsi ad osservare il chitarrista. Tutto di lui le piaceva: il modo in cui si esprimeva, il modo in cui gesticolava animatamente quando non riusciva a dare peso con le parole ad un concetto, il modo in cui aggrottava le sopracciglia quando sembrava confuso o arrabbiato. I sospiri nervosi ai quali a volte si lasciava andare, quando non riusciva ad avere la meglio.

Era semplicemente incantata da quel ragazzo ed era curioso come tutto quanto fosse successo in pochi mesi.

Era proprio vero: le ragazze hanno una certa passione per i maschi che le trattano apparentemente male. A loro piace complicarsi la vita e così aveva fatto Monique. Quegli atteggiamenti così distaccati e scorbutici del ragazzo, l'avevano lentamente attratta a lui, senza troppe spiegazioni. Il fascino da “cattivo ragazzo” - cosa che in realtà non era – l'aveva letteralmente stregata. Ed ora non sapeva più come uscirne. Non poteva immaginare quale fosse la cosa migliore da fare: la sua testa le diceva di lasciar perdere, che molto probabilmente lui non si sarebbe piegato con lei e che non avrebbe avuto speranze; il suo cuore invece insisteva... Più che altro perchè non ce la faceva ad abbandonare la tenera idea di lei assieme a lui. Erano fantasie che qualsiasi ragazza con una buona dose di romanticismo nel sangue si sarebbe fatta.

«Ho notato che il tuo rapporto con Tom va meglio, ora.» esortò improvvisamente il batterista, risvegliandola dai propri pensieri. Monique si voltò verso di lui, con le sopracciglia inarcate – segno di una persona presa in contro piede – e lo vide sorriderle dolcemente.

«Oh, sì. Ora va meglio, andiamo più d'accordo.» annuì la ragazza, tornando ad osservare i gemelli.

«Te l'avevo detto che era solo questione di conoscenza e che Tom, alla fine, è un bravo ragazzo.»

Monique sorrise nel vuoto.

Sì... Era un bravo ragazzo.


**


Bussò un paio di volte alla porta del chitarrista, guardandosi attorno. Aveva paura che qualcuno la potesse scorgere lì in corridoio ed al momento aveva rimesso una sua maglietta leggermente più stretta: avrebbero sicuramente capito tutto se avessero abbassato solo di poco lo sguardo.

Finalmente il ragazzo aprì la porta, osservandola accigliato. Monique si sentì avvampare. Un inebriante profumo di bagnoschiuma le arrivò alle narici, mentre la splendida figura di Tom coperto semplicemente da un asciugamano in vita, la mandò su un altro pianeta, decisamente troppo lontano dalla Terra.

«Sono venuta a ridarti la maglia.» si sforzò di parlare, allungandogliela quasi timidamente.

«Ah, grazie... Vuoi entrare un attimo?» rispose il moro, dopo aver recuperato il suo indumento. Monique si stupì appena per quella richiesta ma cercò di non darlo a vedere.

«A dire il vero non mi sento molto bene.» si strinse nelle spalle.

«Che hai?» le domandò il chitarrista, aggrottando le sopracciglia. Monique si portò silenziosamente una mano al ventre e Tom, capita l'antifona, la prese delicatamente per un braccio e la fece entrare in stanza. «Sdraiati sul letto, io arrivo subito.» le riferì, chiudendosi poi in bagno.

Monique si guardò attorno, scrutando la stanza dove alloggiava temporaneamente il ragazzo. Era straordinariamente ordinato, decisamente più di lei, e rimase esterrefatta dal constatarlo. Non era cosa da tutti i giorni assistere a tale ordine da parte di un maschio.

Si avvicinò al letto matrimoniale e vi si stese sopra – come le era stato detto – dopo essersi tolta le ciabatte. Immerse il viso nel cuscino ed inspirò a fondo, non riuscendo a trattenersi dal sorridere. Poggiò successivamente la testa su di esso, qualche secondo prima che Tom uscisse di nuovo dal bagno, vestito e profumato. Spense la luce di quella stanzetta comunicante e si avvicinò a lei. Si sedette dalla parte opposta del materasso e le diede le spalle per recuperare il telefono. Monique vi buttò un occhio e notò che stava chiamando la reception.

«Salve, sono il signor Tom Kaulitz. Potrebbe far portare una tazza di camomilla alla stanza trecentotredici, per favore? Okay, grazie.» riattaccò e si voltò nella direzione di Monique che lo osservava accigliata. «Dovrebbe tranquillizzarti e, se non è nulla di grave, ti farà passare anche il dolore alla pancia.» le spiegò.

Un brivido le percorse la colonna vertebrale, mentre il suo cuore prese a battere all'impazzata. Perchè doveva assistere a tutta quella protezione da parte di un ragazzo che non poteva neanche avere?

«Grazie.» mormorò lei. Tom le si sedette per bene affianco e le allungò una mano alla maglietta.

«Posso?» le domandò osservandola appena negli occhi. Monique, come rapita, non seppe fare altro che annuire. Così, il chitarrista le afferrò i lembi di quel capo morbido e li sollevò lentamente con le mani, fino a poco prima del seno. Le scrutò il ventre con un sorriso intenerito, fino a posarci successivamente un palmo, con disarmante delicatezza. «Non senti ancora nulla?» le domandò cauto, dandole una veloce occhiata, mentre continuava a sfiorarle il ventre con dolcezza. Monique scosse appena il capo, pregando che la pelle d'oca che le si era protratta lungo le braccia, non facesse lo stesso anche sulla sua pancia. «Mi fa... Strano, tutto questo. È la prima volta che vedo così da vicino una donna incinta. E... Non avevo mai avuto il coraggio prima d'ora di fare una cosa simile.» ammise, continuando a sorridere e sfiorare la sua pelle con i polpastrelli. «Ti rendi conto che qui dentro c'è un esserino?» sussurrò di nuovo. Monique si sentì magicamente meglio, anche senza camomilla. Tom era una sorta di medicina per lei. Le venne automatico chiudere gli occhi con espressione beata.

Quel momento così delicato venne interrotto dal repentino bussare alla porta. I ragazzi si spaventarono, troppo presi dal momento, e si guardarono qualche secondo spauriti.

«Mettiti sotto le coperte.» le sussurrò Tom e Monique, dopo essersi tirata giù la maglietta, fece come le era stato detto, coprendosi fino al mento, mentre il ragazzo andava ad aprire. Con un sospiro di sollievo constatò che si trattava del facchino con la sua tazza di camomilla in mano. Dopo che Tom ebbe ringraziato e richiuso la porta, si voltò sorridente verso Monique. «Falso allarme.» disse, porgendole poi la tazza fumante.


**


Monique sgranò improvvisamente gli occhi, sentendo il fiato corto ed una lieve patina di sudore sulla sua pelle. Il buio era tutto intorno a lei e per un momento non si ricordò dove si trovasse. Voltò lo sguardo alla sua destra e notò che una radio sveglia lampeggiava il numero tre. Era notte fonda ed un dolore acuto le perforò il ventre.

Di nuovo quel fastidio... Non riusciva a spiegarsi come potesse essere possibile.

Un sospiro la fece voltare alla sua sinistra e, con un tuffo al cuore, scorse la figura di Tom distesa accanto a lei che dormiva beatamente. Non si sfioravano, erano semplicemente vicini, così tanto da percepire il calore rassicurante del suo corpo. Eppure Monique era agitata e sudava freddo, senza contare i continui dolori che la tormentavano. C'era qualcosa che non andava.

«Tom...» balbettò, mentre una gocciolina di sudore le colava lungo la tempia e prendeva a tremare. Il chitarrista non diede segno di aver sentito. «Tom...» riprovò agitata, al che il ragazzo aprì lentamente gli occhi, fino a posare lo sguardo assonnato su di lei. Lo vide alzare la testa dal cuscino ed osservarla perplesso.

«Che succede?» le domandò preoccupato, posandole una mano sul braccio umido.

«Non mi sento bene.»


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Capitolo 19
*** Eighteen. Trembling ***


trembling

Chapter Eighteen.
- Trembling -



Tom si stava vestendo alla velocità della luce, mentre Monique giaceva ancora sul suo letto, respirando affannosamente e tenendosi una mano al ventre. Il sudore le aveva ricoperto maggiormente il corpo, mentre il tremore l'aveva presa con più violenza. Tom aveva chiamato un taxi, nonostante fossero le tre di notte, e si era affrettato e mettersi addosso qualcosa al volo. Ogni tanto lanciava un'occhiata alla ragazza, per assicurarsi che non peggiorasse o che fosse ancora sveglia, mentre la paura lo invadeva sempre di più. Le corse vicino, affianco al letto e le portò un braccio sotto le spalle e uno sotto le ginocchia per poi tirarla su di peso. Delle fastidiose vertigini gli attanagliarono lo stomaco nel momento in cui la sentì così sudata e tremante.

«Hey, tranquilla, ti sto portando in ospedale.» le sussurrò, incamminandosi verso la porta della sua stanza.

«No, no, no...» continuava a ripetere Monique, quasi delirante, con sguardo spaventato. Solo allora Tom capì.

«Nessuno saprà nulla. Ho chiamato apposta un taxi... Ci sono solo io con te. Solo io.» la rassicurò per poi uscire silenziosamente in corridoio. Camminò velocemente verso l'ascensore ed attese nervosamente.

«Tom.» mormorò la mora, mentre le lacrime presero a solcarle il viso.

«Sono qui.» rispose il ragazzo con il cuore a mille.

«Ho paura.»

Tom la guardò e si sentì stringere dolorosamente lo stomaco nello scorgere il suo viso così tirato, spaurito e inondato di lacrime e dolore.

«Non devi averne. Ci sono io con te. Ti prometto che non ti abbandono, questa volta.» le disse per poi correre fuori dall'ascensore. Non si preoccupò nemmeno di accertarsi che fuori dall'hotel non ci fossero fans. Al momento aveva altri pensieri per la testa. Adocchiò il taxi, fermo, accanto al marciapiede e si affrettò a raggiungerlo, tenendo stretta Monique per non farla cadere. Aprì la portiera posteriore e vi entrò velocemente per poi richiuderla quasi con violenza. «To the hospital, please.» riferì immediatamente all'uomo alla guida e questo, senza fare ulteriori domande, mise in moto. Tom si adagiò per bene Monique fra le braccia e la cullò, accarezzandole la testa e cercando di tranquillizzarla. «Tra poco saremo in ospedale, capito? Stai tranquilla, andrà tutto bene.» ma con quelle parole stava cercando di auto convincere se stesso, prima di chiunque altro. Monique chiuse gli occhi, ancora dolorante, ed appoggiò la testa sul suo petto. Tom non riusciva a vederla così, era più forte di lui. «Excuse me, sir, could you go a little faster?» si rivolse al tassista.

«I'm sorry, boy. There are prohibitions.» rispose con calma l'uomo, al che il chitarrista si infervorò ancora di più.

«I don't give a fuck! Do you see this girl?! She's sick! So if you're not going to squash that damned accelerator, I'm going to report you!» urlò fuori di sé. Il tassista non se lo fece ripetere ed obbedì. «I see you got it.» commentò il chitarrista, tornando a rilassarsi sul sedile.

Doveva ammettere che le minacce gli erano sempre riuscite.


**


Si sentiva tanto come quel dannato giorno in cui era venuto a sapere della gravidanza di Monique dalla dottoressa, per unico e semplice errore.

Era di nuovo seduto in sala d'aspetto, con il viso fra le mani ed un'ansia che mai prima di allora aveva provato; nemmeno prima di un concerto. Vedere la ragazza in quelle condizioni l'aveva spaventato e non poco. Aveva una fottuta paura... Per lei e per il bambino. Se non fosse arrivato in tempo in quel maledetto ospedale non se lo sarebbe mai perdonato. Dovevano stare bene, entrambi.

«La signorina Schmitz l'ha portata lei?» chiese improvvisamente un dottore, nella sua lingua. Tom si alzò velocemente dalla sedia e lo guardò con la speranza negli occhi. Annuì incerto, volenteroso di ricevere solamente notizie sulla salute di Monique e del piccolo. «Ci sono delle complicazioni.» riferì l'uomo, con tono fastidiosamente professionale. Il cuore di Tom fece un balzo e per un attimo si sentì quasi svenire.

«Che tipo di complicazioni?» domandò tremante. Dannati dottori, sempre troppo vaghi.

«Sta rischiando un parto precoce. Il piccolo vuole già nascere, per questo sentiva quei dolori al basso ventre, la ragazza.» spiegò con calma il dottore. Tom si torturò le mani.

«Ma... E' solamente al quarto mese, com'è possibile?» chiese incredulo.

«Purtroppo sono cose che succedono. Tante volte è colpa dello stress che il bambino percepisce. La signorina sta lavorando o si sta affaticando, in questo periodo?» Tom deglutì a fatica e poi annuì, sentendosi quasi colpevole.

«Lavora.» ammise.

«Deve assolutamente smettere. Questi peggioramenti non ci volevano ed ora è costretta a passare una gravidanza a riposo... Se tutto andrà bene.»

«C-come se tutto andrà bene

«Purtroppo non si è ancora certi sulle condizioni del bambino. Se si riuscirà a calmare la situazione, impedendo che avvenga questo parto prematuro e se si riuscirà a calmare la madre, andrà tutto bene. Dipende molto da lei. Se non si riuscirà in questo intento... Molto probabilmente la ragazza perderà il bambino.»

Tom avrebbe tanto voluto prendere a pugni quell'uomo dagli occhi a mandorla. Come poteva dargli una notizia simile, con una tale tranquillità?

Gli si era semplicemente raggelato il sangue a quell'ultima ammissione.

Monique non poteva perdere il bambino, era fuori discussione. Doveva tenere duro e doveva collaborare, per lui.

«Posso vederla?» mormorò il ragazzo, pur essendo consapevole che forse stava chiedendo troppo.

«Ora no perchè i medici si stanno ancora occupando di lei. Stanno cercando di eliminare il pericolo. Sono nel bel mezzo di tutto quanto e non possono essere disturbati. Una volta finito, potrà vederla.» concluse l'uomo, per poi congedarsi e rientrare nella stanza dove era assistita Monique.

Tom si lasciò cadere all'indietro, di nuovo sulla sedia, con lo sguardo perso nel vuoto. Si sentiva tremare sempre di più, mentre la paura aumentava.

Cos'avrebbe fatto se avesse perso il bambino? Come avrebbe potuto prendere quella notizia se i medici non fossero riusciti a salvare la situazione? Dovevano assolutamente farcela. Dovevano.

Si alzò di nuovo dalla sedia e prese a camminare lungo il corridoio, nervosamente. Se fosse stato credente, avrebbe pregato per lei e per il bambino. Si sentiva maledettamente attaccato anche a lui ormai e non poteva sopportare l'idea che morisse. Non avrebbe nemmeno sopportato di vedere il dolore negli occhi di Monique ad una notizia simile; perchè per quanto lei potesse sostenere di non essere pronta a diventare madre, sapeva che teneva al piccolo.

Diede uno sguardo al Rolex che teneva al polso e notò che si erano fatte già le quattro meno un quarto di notte e di lì a qualche ora avrebbe dovuto tenere un'intervista con la sua band. Suo fratello neanche sapeva dov'era. Probabilmente stava anche dormendo sonni tranquilli. Ma era giusto così. Aveva promesso alla ragazza che non ne avrebbe fatto parola con nessuno e doveva rispettarla.

Ora l'impresa ardua sarebbe stata un'altra: convincerla a smettere di lavorare. Era piuttosto cocciuta e non sarebbe stato per niente facile riuscirvi. Si sarebbe solamente preoccupata dei soldi, cosa da una parte comprensibile, ma ciò non l'avrebbe resa senz'altro lucida da capire che tutto quel lavoro e quello stress facevano male al bambino e quell'ultimo avvenimento ne era stato la prova. Avrebbe dovuto arrivare ad un compromesso e già nella sua mente stava balenando un'idea.


**


Era passata mezz'ora dall'ultima volta che aveva guardato l'orologio e finalmente scorse la figura dello stesso medico, di qualche attimo prima, uscire nuovamente dalla stanza ed andargli in contro. Si affrettò a raggiungerlo con espressione interrogativa e preoccupata.

«Ho una bella notizia da darle. Il piccolo siamo riusciti a fermarlo e la ragazza si è calmata. Ora è fuori pericolo.» gli riferì, inespressivo. Tom tirò un sospiro di sollievo, illuminandosi invece in un radioso sorriso, mentre si passava una mano sul volto stanco. «Ora è semplicemente senza forze, è naturale. Stava subendo un vero e proprio travaglio che siamo riusciti a fermare in tempo. Se vuole, tra cinque minuti può entrare a vederla.» continuò l'uomo.

«D'accordo, grazie mille, dottore.» rispose Tom, pieno di gratitudine.

«E' il mio lavoro.» concluse il medico, per poi dargli le spalle e sparire lungo il corridoio.

Si sentiva sollevato come non mai.


**


Era spossata. Non aveva mai provato tanto dolore in vita sua. Le goccioline di sudore si stavano lentamente asciugando sul suo viso ed il suo respiro stava tornando regolare. Ora un solo pensiero stanziava nella sua mente: voleva vedere Tom. Aveva bisogno della sua figura vicino a lei. Aveva bisogno che le dicesse che non era successo nulla; che tutto andava bene. Sentendo per caso le parole dei medici, credeva di aver capito che la situazione era andata a posto ma, a dire il vero, non sapeva neanche cos'aveva rischiato.

Improvvisamente udì bussare alla porta e sperò con tutto il cuore che si trattasse di lui. Un sorriso enorme le si dipinse in volto, nel momento in cui constatò che si trattava proprio del chitarrista. Quest'ultimo le sorrise appena e richiuse la porta, per poi avvicinarlesi.

«Hey.» la salutò dolcemente, mentre si sedeva sulla sedia accanto al letto. «Come ti senti?» le domandò, posandole una mano sulla fronte umida e facendole poi delle carezze. Monique sospirò a quel contatto: il primo dolce di cui poteva bearsi, dopo tutto quel dolore.

«Stanca. Mi sento come se avessi appena finito di partorire.» mormorò con voce roca. Vide Tom sorridere intenerito, senza smettere di coccolarla.

«Beh, ci sei andata vicino.» sussurrò. Monique aggrottò le sopracciglia con fare perplesso, così lui spiegò: «Il dottore mi ha detto che hai rischiato un parto prematuro. Stavi subendo un vero a proprio travaglio, Schmitz.»

Monique sgranò gli occhi.

Un parto prematuro...

«Ma adesso il bambino?!» domandò con terrore, quasi senza accorgersene.

«Lui sta bene, non ti devi preoccupare. Ma sei stata fortunata. A tal proposito, ora farai quello che ti dico, senza obiettare. Ascoltami bene: il medico mi ha spiegato che con questo avvenimento, la tua gravidanza si è andata a complicare. Per questo motivo devi smettere di lavorare, affaticarti e fare qualunque cosa ti possa creare stress. Dovresti startene tranquilla, a casa tua, assieme a qualcuno.»

Monique pesò qualche attimo quelle parole. Ciò avrebbe voluto dire trovarsi appesa ad un filo, in fatto di denaro... Avrebbe voluto dire non avere abbastanza soldi per mantenere un bimbo.

«Ma io non... Non posso...» balbettò, scuotendo appena la testa, per quanto le fosse possibile.

«Se ti riferisci ai soldi, non ti devi preoccupare... Ci penserò io.» chiarì subito Tom, con risolutezza.

«Che cosa?! Non se ne parla! Io dei genitori ce li ho!»

«Ma hai detto che non vuoi gravare su di loro, perchè neanche loro si trovano in una condizione rosea. Io, invece, non ho problemi di soldi, come potrai constatare tu stessa, e se ho deciso di farti questo favore, accetta senza replicare.»

«Ma, Tom, io non...»

«Schmitz, non è un consiglio, è un ordine.»

Monique si zittì, deglutendo a fatica. Tom stava facendo tutto questo per lei?

«Tom, io... Non saprei come ripagarti.» disse timidamente.

«Un modo c'è.» scrollò le spalle lui, mentre insinuava le dita fra i capelli della mora. «Domani – o meglio, tra qualche ora – dirai a David della gravidanza e lascerai il lavoro.» continuò. Monique sgranò gli occhi. «Tanto lo dovresti fare comunque, prima o poi... E poi ti ho già detto che con i soldi ti aiuterò io, non appena ne avrai bisogno.»

Monique rifletté ancora qualche attimo.

Si sentiva un'incapace; non avrebbe potuto contare su Tom, non era il suo ragazzo né tanto meno un suo familiare. Trovava tutto dannatamente assurdo e da opportunisti. Ma d'altro canto, Tom era stato chiaro: non avrebbe accettato una risposta negativa. Le aveva offerto il proprio aiuto con la sincerità più limpida negli occhi. Le stava dimostrando quanto affetto provasse per lei, seppur non lo desse a vedere con gesti giornalieri, spontanei. Probabilmente avrebbe dovuto accettare... Effettivamente voleva che il bambino stesse bene. Quella gravidanza le aveva sconvolto la vita e non voleva che fosse fermata a metà del percorso, dopo tutti i sacrifici – e le cazzate – che aveva fatto. Voleva che in qualche modo ciò che aveva fatto ritornasse utile.

Sospirando, annuì appena.

«D'accordo.» si arrese.

«Finalmente! Sei difficile da convincere, eh?» sorrise Tom, arricciando una piccola ciocca di capelli della ragazza attorno al suo dito, con fare distratto. Monique abbassò lo sguardo, rossa in viso, forse più per quel gesto che per altro.

«Tom?» lo richiamò dopo un po'.

«Sì?»

«Una volta che lascio il lavoro... Voi sparirete?»

Quella domanda, più che rivolta a tutto il gruppo, aveva lui come destinatario. Si vergognava troppo per chiedergli una cosa simile, così aveva deciso di formulare quella domanda da lontano, girandoci intorno. Vide Tom sorridere, per poi alzarsi dalla sedia ed avvicinarlesi maggiormente. Si abbassò con il viso verso il suo, fino a sfiorarle una tempia con la fronte.

«Io mi prenderò cura di te. Te l'ho promesso in ascensore, no?»


**


Quella stessa mattina, Tom poteva essere paragonato tranquillamente ad un vegetale. Aveva dormito pressappoco due ore – forse meno – da quando era tornato dall'ospedale assieme a Monique, alle cinque. La ragazza si sentiva tremendamente in colpa a vederlo a quella maniera.

Due grosse occhiaie stanziavano sul suo viso, così come un pallore che non gli apparteneva. Le palpebre minacciavano di chiudersi mentre l'espressione sul suo volto non nascondeva il sonno represso. Come avrebbe potuto tenere un'intervista in quelle condizioni?

«Ricordati di dire a David quello che ti ho detto.» erano state le sue prime parole, rivolte a Monique, non appena l'aveva vista. Poi si era preoccupato di chiederle come si sentisse, cosa che la fece sorridere appena.

Aveva paura di conoscere la reazione del manager. Probabilmente si sarebbe infuriato per il fatto che glielo avesse tenuto nascosto, quel fatto, prima ancora della notizia in sé. Avrebbe dovuto pesare ogni minima parola, articolando un discorso degno di quel nome.

Aveva stabilito però, con Tom, che gli avrebbe parlato quella sera, quando tutto sarebbe parso meno movimentato.

Al momento, gli aveva riferito di non sentirsi per niente bene e di non poter quindi sostenere quell'intervista. David non l'aveva presa a male, anzi... Era stato molto comprensivo e le aveva permesso di riposarsi: una soluzione l'avrebbe trovata.

Monique aveva precedentemente chiesto al chitarrista se avesse potuto per lo meno tenere l'ultima intervista, quella mattina; dopotutto sarebbero ripartiti il giorno seguente. Inutile dire che il ragazzo era stato categorico con lei. Non se ne parlava: nessuna ultima intervista, nessun ulteriore sforzo.

Ora si trovava chiusa in camera sua, in attesa che la band tornasse. Stravaccata sul suo letto, si scambiava da un bel pò di tempo messaggi con Jessica, giusto per far scorrere i minuti più in fretta possibile.


Insomma, hai deciso di rivelare tutto?”


Le aveva scritto la rossa.


Per forza. Con Tom è inutile insistere.”


Ha fatto più che bene ad essere categorico con te. Sei una testa calda. Quando te lo dicevo io, di mollare tutto, non sentivi. Ora che l'ha detto il tuo amore è tutta un'altra cosa =P”


Il suo viso si colorò repentinamente di un rosso acceso. Ma cosa andava a blaterare?!


Macché mio amore! Se neanche stiamo insieme. E poi, è inutile, lui non vuole stare con me. Mi sto sempre più convincendo che non gli interesso nemmeno un po'. Per questo ho deciso di gettare la spugna e di aspettare un suo gesto, se arriverà. In caso negativo, non lo aspetterò tutta la vita, questo poco ma sicuro.”


Non avevi detto che non volevi più sentir parlare di uomini per molto tempo?”


Infatti è così. Ma non so perchè, con lui è totalmente diverso.”


Forse perchè ti trasmette quella sicurezza che cercavi e che credevi di aver perso definitivamente.”


Osservò il vuoto, constatando che le parole della rossa erano assolutamente veritiere. Effettivamente lei aveva deciso che gli uomini non avrebbero più messo piede nella sua vita per molto tempo, dopo quello che Christian le aveva fatto passare. Tutto questo perchè aveva perso fiducia nei loro confronti; si era convinta di non poterla ritrovare più in nessuno. Conoscendo Tom, però, si era dovuta ricredere.

Tom rappresentava esattamente il prototipo di ragazzo che cercava: premuroso, attento, affettuoso ma forte e duro quanto bastava. A volte timido, timoroso di esprimere le proprie emozioni, ma in grado di farlo in altri modi, se non a parole.

Le piaceva... Le piaceva da morire e la cosa la spaventava parecchio, oltre a farle spuntare un sorriso innocente e puro sul viso. Aveva paura che quel suo sentimento fosse campato per aria, che non conoscesse un buon fine. Che non fosse ricambiato, come effettivamente appariva. Eppure non poteva fare a meno di sentirlo nel cuore. Probabilmente doveva ancora capire di cosa si trattasse, ma ciò che più importava era che la faceva stare bene e che la faceva tornare a sentirsi un'adolescente alla sua prima cotta.

Sensazione assolutamente deliziosa.


Sì, forse è come dici tu. Anzi, sicuramente. Tom mi trasmette tanta sicurezza.”


Io ti auguro che questa cosa vada a buon fine perchè, da quello che mi dici e da quello che ho potuto constatare io, per quel poco in cui ci ho parlato, è un bravo ragazzo.”


Già... Grazie. Lo spero anche io. Ora ti saluto che tra un po' i ragazzi dovrebbero essere di ritorno ed io dovrò confessare la Grande Verità a David. Augurami buona fortuna.”


Buona fortuna, tesoro! Ne avrai bisogno!”


Sempre molto incoraggiante, te, mi raccomando -.-”


Posò il cellulare sul comodino e la testa sul cuscino.

Poteva farcela, non era una stupida... E con l'aiuto di Tom, tutto sarebbe andato per il meglio.

Si accarezzò leggermente la pancia, finalmente libera da costrizioni, ed abbassò lo sguardo su di essa.

«Insieme ce la faremo, piccolo, alla faccia di tutti quelli che crederanno il contrario.»


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Capitolo 20
*** Nineteen. Living in clearness ***


iving in clearness

Chapter Nineteen.
- Living in clearness -



Il primo pensiero che le attraversò la mente quella sera, seduta a tavola, assieme alla band e a David fu “Dattela subito a gambe”. Un silenzio di tomba aleggiava attorno a loro; tutto perchè aveva annunciato che aveva qualcosa di molto importante da riferire loro. Quattro paia di occhi si erano sollevati su di lei, attendendo incuriositi, mentre Tom – accanto a lei – teneva lo sguardo basso, consapevole di ciò che avrebbe sentito fuoriuscire dalle sue labbra.

«Dunque... Inizio col dire che è una cosa che avrei dovuto riferirvi già qualche mese fa ma, per forza di cose, non ho potuto farlo. Con gli ultimi avvenimenti ho capito – o meglio, Tom mi ha fatto capire – che non avrei potuto nascondere l'evidenza. E... L'evidenza è questa.» disse Monique per poi alzarsi in piedi e sollevare appena l'orlo della maglia, per scoprire il suo ventre gonfio. Tutti quanti avevano abbassato lo sguardo su di esso e non avevano proferito parola. L'ansia stava montando dentro di lei; non sapeva che pensare. Sapeva solo che aveva perso il conto di quante volte aveva deglutito ed aspettava con nervoso una qualsiasi reazione.

«Sei... Incinta.» mormorò Bill con una strana luce negli occhi. Monique annuì appena. «Ma è meraviglioso!» esclamò successivamente il ragazzo, riportando allegria in quell'aria così tesa. Si alzò dalla sua sedia e, dopo aver fatto il giro del tavolo, raggiunse Monique per abbracciarla delicatamente, facendole le congratulazioni. Gustav e Georg lo seguirono, avvolgendola in una calorosa stretta.

Alla mora non pareva possibile tale reazione. Per tutto quel tempo si era ammazzata di complessi, dubbi e timori, quando in realtà sarebbe bastato così poco.

E quando rivolse lo sguardo a David, con gioia, notò che sorrideva.


**


Il quinto mese era arrivato decisamente troppo in fretta. Tornata dalla Malesia aveva seguito diligentemente gli ordini – nonostante Tom li definisse semplici raccomandazioni – del chitarrista.

Doveva dire che tutto stava andando per il meglio. Da quando aveva smesso di lavorare, la stanchezza si faceva sentire meno e quei dolori insopportabili erano completamente svaniti. Ora conosceva unicamente periodi sereni, passati a chiacchierare con Jessica ed ogni tanto con i Tokio Hotel, quando li andava a trovare o erano loro ad andare a trovare lei. Tom la telefonava ogni giorno e, appena poteva, passava a casa sua, per vedere come procedesse la gravidanza.

Tutte quelle attenzioni la rendevano felice ma allo stesso tempo non capiva ancora quali fossero i sentimenti del ragazzo nei suoi confronti. Provava solo tanto affetto e protezione o qualcosa di più? Non era ancora riuscita a comprenderlo.

In fatto di sentimenti, Tom era molto bravo a nascondersi e a mandare fuori strada la diretta interessata. Al contempo, Monique cercava di non pensarci troppo e godersi quelle attenzioni e la frequente presenza del chitarrista nella sua vita. Ora stava bene, era quello l'importante.

Inoltre aveva scelto di non conoscere il sesso del bambino o della bambina... Voleva scoprire tutto quanto il giorno del parto, sarebbe stato più... Emozionante?

Ancora si chiedeva come avesse fatto Tom a farle quasi piacere l'idea di essere incinta. Ora pensava al giorno del parto come un qualcosa di bello e che non vedeva l'ora che arrivasse... Non come un qualcosa di spaventoso o quant'altro.

Ora si sentiva quasi pronta.


**


«Quando hai intenzione di dirlo ai tuoi?» quella domanda improvvisa l'aveva presa in contro piede. Stava tranquillamente giocando a carte con Jessica da qualche minuto e quella curiosità era uscita dalle sue labbra inaspettatamente. Nemmeno la guardava negli occhi: continuava a concentrarsi sul gioco, ma volenterosa di sapere. Meditò ancora qualche attimo, fino a che non rispose, buttando nel frattempo una carta sul tavolino davanti al divano.

«Non lo so.» ammise. La rossa sollevò gli occhi sul suo viso.

«Sai... Fra quattro mesi, il piccolo nasce.» le fece notare con sarcasmo.

«So benissimo quando nasce, non c'è bisogno che me lo ricordi.» ribattè Monique, squadrando tutte le carte in tavola.

«Hai intenzione di andare a trovare i tuoi direttamente con il bambino o la bambina in braccio, o hai il buon senso di avvisarli prima?»

«Non sono cose che si possono dire da un momento all'altro con leggerezza.»

«Nessuno infatti ti ha detto di parlarne loro con leggerezza. Non pensi che cinque mesi di riflessione siano anche troppi?» Monique non ebbe il tempo di rispondere che il campanello di casa suonò. «Vado io.» la precedette Jessica, notando che si stava per alzare. Corse alla porta e la aprì. «Oh, ciao, Tom!» sorrise cordialmente.

Tom sorrise divertito dal vedere la rossa davanti ai propri occhi. Ogni volta che andava a trovare Monique e la incontrava in quella casa, le loro conversazioni erano fatte di battute e frecciatine. La mora si divertiva ad ascoltarli prendersi in giro: era contenta di quel tipo di rapporto che si era venuto a creare tra di loro.

«Ciao.» rispose il ragazzo, facendo il proprio ingresso, mentre Jessica chiudeva di nuovo la porta. Voltandosi verso Monique, il ragazzo le fece un cenno col capo, sorridendo appena, e le si avvicinò. In mano teneva un sacchetto ma non gli chiese nulla sul contenuto. «Come stai?» le domandò, sedendosi accanto a lei sul divano, mentre Jessica si gettava sulla poltrona affianco.

«Come ieri, Tom, bene.» ridacchiò la mora.

«Oh, non fare la scocciata, ti fanno piacere tutte queste attenzioni.» la canzonò Jessica, con sguardo malizioso. Monique sollevò gli occhi su di lei e, se avesse potuto, avrebbe mandato una scarica di fulmini a colpirla in quel preciso istante. «D'accordo, io tolgo il disturbo!» aggiunse divertita la rossa, afferrato il concetto implicito.

«Ma no, non andartene perchè sono arrivato io. Magari stavate parlando.» intervenne Tom dispiaciuto, voltandosi appena verso di lei che invece si alzava dalla poltrona, sistemandosi la felpa.

«No, figurati, ho delle cose da fare.» rispose la rossa di buonissimo umore. Si avvicinò a Monique e le stampò un bacio sulla guancia. «Ci sentiamo... E rifletti su quello che ti ho detto, capocciona.» le raccomandò. «Ciao, Tom!» salutò poi il ragazzo, prima di uscire di casa.

Il silenzio tornò ad aleggiare in salotto. Monique scambiò più volte lo sguardo con Tom, sorridendo appena, fino a che il ragazzo non si decise a parlare.

«Ti ho portato un paio di cose.» annunciò, recuperando il sacchetto che aveva portato con sé e prendendo poi a frugarvi dentro. Monique gli si avvicinò incuriosita e sorpresa. Tom tirò fuori da esso un piccolo lettore Cd con della cuffie di media grandezza, per poi poggiarlo al tavolino e riprendere a frugare nella busta. Monique si accigliò appena, ma lo lasciò fare. «Et voilà!» esclamò allungando sotto il naso della mora un album musicale. Quando la ragazza abbassò lo sguardo, un brivido le attraversò la schiena. «L'abbiamo finito ed è uscito qualche settimana fa.» spiegò il ragazzo, mentre lei lo prendeva in mano per osservarlo con attenzione. Non se lo sarebbe mai aspettato dal chitarrista.

«Bella la copertina.» sorrise.

«Sarebbe stata molto più bella se fossi apparso anche io.» commentò Tom, stravaccandosi meglio sul divano. Monique gli lanciò un'occhiata scettica e divertita, per poi tornare ad osservare l'album.

«Grazie, effettivamente non me lo avevate ancora fatto sentire. Però non mi serve il lettore, ho lo stereo e....»

«Infatti quello non è per te.»

«Ah, no?»

«No. Ho sentito dire che molte donne incinte fanno ascoltare, con le cuffie, della musica al figlio... Dicono che fa bene e lo rilassa. Puoi provare, dato che ne hai bisogno.»

Monique si era incantata a guardarlo in viso. Era mai possibile che si facesse venire tutte quelle idee e lei nemmeno ci pensava? Ma soprattutto, cosa lo portava a fare tutto ciò per lei?

«Tom... Grazie, non so che dire.» balbettò, rossa in viso.

«Devi solo provarlo.» scrollò le spalle il chitarrista, per poi prendere i lembi della sua maglia e sollevarglieli appena. «Hey, tu, piccolino... Ci sei? Dai, fatti sentire dal SexGott in persona.» parlò, accostandosi con il viso al ventre. Monique sentì il cuore batterle all'impazzata. Se il chitarrista lo faceva apposta per provocarla, avrebbe potuto anche evitare per la sua incolumità mentale. Eppure non riusciva a non osservare con tenerezza quella scena così... Perfetta. «Dai, fatti sentire dallo zio Tom.» continuò il ragazzo, poggiando un orecchio sulla pelle calda della mora.

«Zio Tom?» sollevò un sopracciglio Monique, con un ghigno in volto.

«Dovrò pur rappresentare qualcuno per questo bambino. Almeno sono sicuro che il compito di “zio” me lo sono già accaparrato io.» si giustificò Tom, per poi recuperare il lettore Cd e l'album dalle mani di Monique. Chiuse il Cd all'interno del lettore e lo avviò. Successivamente poggiò le cuffie sulla pancia della ragazza ed attese.

«Mi sento un po' ridicola.» ridacchiò Monique, imbarazzata dall'evidente vicinanza del chitarrista.

«Naaah.» commentò Tom, con un'alzata di spalle.

«Se mio figlio ascolta la vostra musica, crescerà schizzato.»

«Scherzi? Crescerà intelligente e talentuoso come il sottoscritto. In questo modo, gli viene trasmessa tutta la mia bravura.»

«E perchè non la bravura di Bill?»

«Perchè la mia manda radiazioni decisamente più forti... Si percepisce maggiormente.»

Monique non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Non rideva per ciò che aveva detto, quanto per l'enfasi e la convinzione che vi aveva messo nel farlo. Anche il chitarrista si lasciò andare in una lieve risata, mentre continuava a tenere le cuffie sul ventre di Monique.

Se solo in tutta quella situazione, Monique avesse potuto considerarlo come il suo fidanzato, avrebbe coronato senza dubbio quella magnifica atmosfera.

Improvvisamente però si incupì... Prese a riflettere su ciò che le aveva detto Jessica, qualche minuto prima.

Aveva perfettamente ragione: i suoi genitori non meritavano di vivere ancora all'oscuro della sua gravidanza. Ma come avrebbero potuto prenderla? Ora avrebbero avuto un buon motivo per infervorarsi con lei, per il semplice fatto che aveva tenuto loro nascosta una questione così importante e delicata. Non avrebbe comunque saputo come cavarsela e l'idea di dover affrontare tutto da sola la spaventava e non poco.

Sollevò appena lo sguardo sul chitarrista, mordendosi un labbro, pensierosa.

Forse avrebbe potuto chiedere a lui di accompagnarla? Dopotutto aveva avuto modo di conoscere i suoi genitori e loro lo avevano preso molto bene. Forse la tensione si sarebbe alleggerita o forse no. Fatto era che Monique aveva bisogno di qualcuno che le stesse affianco, qualcuno a cui aggrapparsi nel momento della verità.

Il ragazzo si accorse dello sguardo della mora puntato assorto su di lui e sollevò i propri occhi in quelli di lei.

«Che c'è?» le chiese dolcemente, mentre con la mano continuava a tenere le cuffie sul suo ventre.

«Nulla...» scosse la testa Monique. «Pensavo solo... Che forse ha ragione Jessica. Devo dirlo ai miei genitori.» concluse, cercando di mostrarsi risoluta, ma con scarsi risultati. Tom rimase qualche attimo in silenzio, battendo ripetutamente le ciglia, come perplesso, e poi sorrise appena.

«Beh, era ora che ti decidessi.» commentò.

«Sì, però... Tom, vorrei che tu venissi con me.» sospirò velocemente la mora. Aveva optato per la schiettezza. Giri di parole non avrebbero portato a nulla; avrebbero solamente creato più confusione del necessario. Tom aprì la bocca per parlare ma non uscì da essa nessun suono. Boccheggiò ancora qualche secondo e poi si riprese.

«Io? Perchè io?» domandò accigliato.

«Perchè... Ho bisogno di qualcuno accanto quando il peggio succederà e... Mi fido di te. Puoi darmi la forza di affrontare tutto quanto. Ti prego.»

«Io posso anche venire, per carità. Lo sai che hai sempre il mio appoggio. Mi chiedevo solo, perchè non Jessica.»

«So che sembrerà stupido ed infantile ma... Per una questione di orgoglio. Lei mi aveva sempre detto di farlo ed io le avevo sempre risposto di no. Mi scoccia chiederlo a lei di venire con me. Per tutto il viaggio mi ripeterebbe “Alla fine ho vinto io”.»

Tom parve riflettervi ancora qualche secondo e poi scrollò le spalle, emettendo un gran sospiro.

«D'accordo, ti accompagnerò io.» accettò. Monique si illuminò in un radioso sorriso e, senza pensarci, gli avvolse le braccia attorno al collo.

«Grazie, Tom!» esclamò entusiasta. Tom sorrise appena, chiudendo gli occhi ed accarezzandole delicatamente la schiena.

«Di niente.» rispose in un sussurro, per poi darle un bacio sul collo che segnò Monique come un marchio rovente.


**


Quel giorno si poteva avvertire parecchia agitazione all'interno dello studio di registrazione. Tutti lavoravano duramente per far sì di creare un bello spettacolo per il nuovo tour che avrebbe lasciato le loro fans a bocca aperta. Le idee non mancavano e forse abbondavano eccessivamente; il punto era inventare cose fattibili e non strafare economicamente, nonostante se lo potessero permettere.

Ora avevano momentaneamente preso una pausa, sfruttata per riunirsi in giardino e fumare con calma e serenità una sigaretta. Il lavoro che avrebbero dovuto svolgere sarebbe stato ancora tanto e di certo un po' di riposo lo meritavano.

Monique aveva così deciso di andarli a trovare, visto il fatto che ultimamente aveva avuto possibilità di passare un po' di tempo solamente con Tom.

«Come procede il lavoro per questo nuovo tour? State arrivando ad una conclusione?» fu la domanda spontanea della ragazza, seduta sulla panchina assieme a Gustav. Tom stava poggiato al tronco d'albero, fumando con una mano in tasca, Bill lo affiancava, mentre Georg aveva scelto di sedersi sull'erba fresca.

«Abbiamo ancora un po' di cose da decidere... Però il progetto è già piuttosto delineato.» rispose Bill, dopo aver sputato un po' di fumo.

«E si sa, a grandi linee, quando il tour avrà inizio?»

«Fra cinque mesi, circa.»

«Tu avrai già partorito da un mese, Monique.» rifletté compiaciuto Georg. «Almeno avrò un mese per godermi la presenza del piccolo e svolgere il mio ruolo di zio.» continuò, buttando un po' di cenere.

«Hey! Quel compito me lo sono già preso io!» intervenne Tom, piuttosto contrariato.

«Non vale, anche io voglio essere chiamato “zio”!» esclamò il vocalist, gonfiando appena le guance ed aggrottando le sopracciglia. Monique scoppiò a ridere, sinceramente divertita da quella discussione.

«Facciamo così, tutti e quattro sarete zii, d'accordo?» cercò di porre fine a tutto ciò. I ragazzi si scambiarono delle occhiate poco convinte e poi sbuffarono scrollando le spalle, arresi.

Mi piacerebbe vedere Tom comportarsi da padre per il piccolo, assieme a me, formando una bella famiglia.

Monique sgranò gli occhi nel vuoto e scosse la testa, maledicendosi per quel pensiero decisamente impossibile da realizzare. Come poteva solamente immaginare certe cose? Tom non avrebbe mai accetto di recitare la parte del padre e soprattutto non avrebbe mai accettato lei in quelle condizioni, come ipotetica fidanzata. Probabilmente avrebbe dovuto farsene una ragione.

«Se è maschio lo devi chiamare Bill.» disse il cantante, con fare quasi ovvio.

«Ma sei imbecille?» gli domandò Gustav con un sopracciglio alzato.

«Perchè? Guarda che Bill è un bellissimo nome.» ribattè offeso il moro.

«Ma sarà una decisione di Monique?» commentò Georg, dopo aver buttato la sigaretta ormai terminata.

«Monique, dì agli altri che Bill è un bellissimo nome!»

Monique sbattè qualche attimo le palpebre, indecisa sul da farsi. Era vero, Bill era un bel nome, ma non voleva chiamare suo figlio a quel modo.

«Ehm, sì, è bello... Magari come secondo nome, eh?» cercò di trovare una soluzione, con un sorrisetto eloquente ed al tempo stesso imbarazzato. Bill si imbronciò e poi soffiò un “Va bene”, a braccia conserte.

«Schmitz, prega che sia una femmina; hai appena firmato la tua condanna.» parlò Tom, suscitando qualche piccola risata in mezzo al giardino.


**


Stava scaldando un po' di minestra ai fornelli, con l'intento di mangiare qualcosa di leggero e salutare, per poi inoltrarsi nel perfetto Mondo dei Sogni, vista la sua notevole stanchezza. Più i mesi passavano, più la pancia cresceva ed al tempo stesso la fatica aumentava. Pur essendo ancora al quinto mese, ma piuttosto vicina al sesto, si sentiva fin troppo fiacca. Non vedeva l'ora che il giorno del parto arrivasse, almeno avrebbe potuto tornare in forma, forte e... Giovane.

Improvvisamente il suo cellulare, poggiato sul tavolo della cucina, vibrò qualche secondo, avvisandola che qualcuno le aveva appena inviato un messaggio. Immaginò potesse trattarsi di Jessica, così recuperò il telefono. Un tuffo al cuore la fece quasi cadere a terra, nel momento in cui notò che il mittente non era Jessica, bensì Tom.


Hey, Schmitz. Domani è il mio giorno libero e stavo pensando che potrei approfittarne per accompagnarti dai tuoi genitori, visto che mi avevi chiesto di sostenerti. Beh, se ti va, fammi sapere.”


Ora sentiva l'aria mancarle.

Così presto...

Certo, aveva intenzione di parlare con i suoi genitori riguardo la gravidanza, ma chissà per quale futile ragione, nella sua testa aveva sempre pensato che l'avrebbe fatto più in là, pur non essendoci abbastanza tempo. Forse il suo subconscio sperava che quel momento non arrivasse mai ed ora che le si proponeva l'occasione, si sentiva in difficoltà.

Al diavolo, pensò, digitando sul cellulare la risposta.


Mi va... Grazie, Tom.”


Sospirò attendendo. Aveva fatto la scelta giusta... I suoi genitori non le avrebbero mai perdonato quell'importante segreto.


Te l'avevo promesso. Ti passo a prendere domani mattina alle nove e mezza, d'accordo? Buona notte.”


Monique sorrise appena. Era incredibile come quel ragazzo la sorprendesse ogni giorno di più con quei gesti altruisti e dolci.


D'accordo... 'Notte.”


Posò nuovamente il cellulare sul tavolo e si voltò a controllare la minestra ancora sul fuoco.

Un sorriso sereno e spontaneo era dipinto sul suo volto.


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Capitolo 21
*** Twenty. You have really disappointed me ***


you have really disappointed me

Chapter Twenty.
- You have really disappointed me -



Viaggiare in macchina – ed in particolar modo in autostrada – l'aveva sempre rilassata. Adorava chiacchierare con la persona di compagnia che aveva affianco e, per quanto assurdo potesse sembrare, più lungo il viaggio si prospettava, più possibilità aveva di divertirsi.

Quella mattina, però, nulla sembrava prospettarsi – per l'appunto – come lei tanto avrebbe sperato.

Seduta in macchina, accanto a Tom, continuava a torturarsi le mani, riunite in grembo, tenendo lo sguardo fisso sulla strada che sfrecciava veloce davanti a lei e sotto di lei, senza proferir parola.

Il chitarrista sembrava aver intuito il disagio della ragazza e spostava lo sguardo, ad intervalli regolari, da lei all'autostrada. Improvvisamente sbuffò e, trovata un'area di servizio, vi accostò con la macchina. Monique aggrottò le sopracciglia e, non capendo quali fossero le intenzioni del moro, si voltò accigliata verso di lui.

«Perchè ti sei fermato?» gli domandò, sbattendo più volte le palpebre. Tom sospirò nuovamente e, tenendo una mano poggiata al volante, si voltò nella sua direzione.

«Schmitz, io non ti porto dai tuoi genitori in queste condizioni. Ti devi calmare, Cristo santo.» borbottò. Era incredibile come da dolce ragazzo riuscisse a passare all'essere nuovamente rozzo. Non l'avrebbe mai ammesso, ma Monique aveva imparato ad adorare quel suo modo di fare.

«Sembra facile.» ribattè la mora, voltando lo sguardo di fronte a sé per osservare le altre macchine che veloci sfrecciavano a qualche metro da loro.

«Lo è! Insomma, sembra che tu stia andando in contro a morte certa!»

«Beh, come pensi che la possano prendere una notizia del genere?»

«Ti svegliavi prima, allora!» Monique percepì una scossa attraversarle la colonna vertebrale. Quella risposta inaspettata, schietta ed apparentemente fredda l'aveva fatta sentire in colpa e soprattutto piccola. Tom la rimproverava spesso, ma le sue risposte avevano sempre avuto uno sfondo impregnato di lieve ironia o comunque un tono duro che sarebbe riuscita a sostenere e fronteggiare. Ora, quella critica l'aveva fatta sentire immatura, semplicemente perchè si era resa conto che non era altro che la cruda e spietata verità. Abbassò lo sguardo, deglutendo appena. Tom la osservò con la coda dell'occhio, ancora urtato, e poi si rese conto di aver forse esagerato. «D'accordo, non avrei dovuto dirlo. Mi hai già spiegato che hai avuto paura e che non sei riuscita a farlo... Va bene. Però sapevi a che conseguenze questo ti avrebbe portato ed ora devi accettarle e soprattutto devi stringere i denti ed affrontarle. Fatti trovare preparata e più forte di loro; lo so che sei forte, Schmitz. Se non lo fossi, non staresti portando ancora avanti questa gravidanza che non hai mai voluto.» commentò Tom, distogliendo lo sguardo e posandolo sulla strada alla sua sinistra. Monique sorrise appena: sapeva che si sentiva sempre impacciato nel farle complimenti. «Possiamo ripartire in pace e tranquillità?» le domandò successivamente, tornando a guardarla. Monique annuì, tenendo basso lo sguardo, con timidezza. Tom mise di nuovo in moto la macchina ed imboccò la corsia. «Voglio che mi riempi la testa di chiacchiere, fino a farmela scoppiare, da qui ad Amburgo, Schmitz. Non accetto questo mutismo.» la stuzzicò, senza guardarla. La ragazza sorrise grata.


**


Tom aveva appena finito di posteggiare a ridosso del marciapiede, di fronte a casa dei genitori di Monique, la quale sostava a lato del cancello, dietro alla siepe, insicura sul da farsi. Quando il ragazzo la raggiunse, si voltò verso di lui, nervosa.

«Che c'è, ora?» le domandò perplesso.

«Non posso entrare così! Vedrebbero subito la pancia e non avrei il tempo di spiegare, che me li ritroverei già a terra, in preda ad un infarto!» esclamò in poco più di un sussurro la mora, per non rischiare di farsi sentire dai suoi genitori. Tom sollevò gli occhi al cielo.

«Ma che ho fatto di male...» borbottò, prima di sfilarsi l'enorme felpa che gli fasciava il busto e buttarla sulle spalle di Monique. «Avanti, mettitela.» la incoraggiò, piuttosto sintetico. Monique sospirò ed obbedì, ignorando il profumo, mischiato a tabacco, che quel capo emanava. Successivamente si appostarono di fronte al cancelletto e Tom citofonò, consapevole del fatto che altrimenti Monique vi avrebbe impiegato un'eternità. Assieme, scorsero la figura di Ester affacciarsi dal vetro e, con un enorme sorriso, precipitarsi ad aprire.

«Ma che sorpresa!» esclamò entusiasta, dopo aver aperto il cancelletto, correndo loro in contro. Monique forzò un sorriso sufficientemente credibile, sorprendendosi del fatto che Tom invece apparisse assolutamente tranquillo e contento di rivedere quella donna. Se in un altro momento lo avesse gradito, ora quasi la infastidiva.

«Salve, signora.» sorrise Tom, lasciandosi baciare le guance. Successivamente Ester abbracciò sua figlia. Questa fece ben attenzione a non esporsi troppo; aveva paura che si accorgesse del suo gonfiore.

«Ciao, papà.» salutò Monique, quando vide sbucare sulla soglia Alfred. Il padre ricambiò con un sorriso ed un movimento della mano, per poi schioccarle un lieve bacio sulla guancia e stringere la mano a Tom.

Fecero il proprio ingresso in casa. Monique sentiva il corpo fremere violentemente da capo a piedi ed aveva una voglia matta di stringere la mano del chitarrista, per trovare in qualche modo sostegno, ma al contempo provava imbarazzo e non sarebbe di certo riuscita a fare tutto ciò con disinvoltura. Prese un bel respiro, per poi buttare fuori dalla sua bocca l'aria con agitazione, al che Tom – come avendole letto nel pensiero – le posò una mano dietro la schiena, incoraggiandola con lo sguardo ad entrare in cucina, dove suo padre si era già seduto e sua madre preparava il caffè. Insieme, anche loro fecero il proprio ingresso, fino a sedersi uno affianco all'altra, di fronte ad Alfred.

«Siete venuti a trovarci, che cari. Ci fa molto piacere.» continuava a sorridere Ester, dando loro le spalle, alle prese con le tazzine e la macchinetta. «Come state?» domandò entusiasta, voltandosi successivamente con le tazzine in mano e porgendole a Tom e Monique. Notando che Monique non sembrava intenzionata a rispondere, Tom le venne in contro.

«Stiamo bene.» sorrise esternando quella solita sicurezza che con semplicità riusciva ad acquisire anche in situazioni delicate e tese. «Voi?» domandò poi.

«Noi ce la caviamo, come sempre.» sorrise la donna, affiancando suo marito. Improvvisamente un fragoroso rumore di unghiette battute ripetutamente sul pavimento, portò tutti e quattro a voltarsi verso la porta della cucina, attraverso la quale Lilli fece velocemente il proprio ingresso, per poi saltare con le zampe anteriori addosso alle gambe di Tom. Scodinzolava, con la lingua penzoloni, osservando in adorazione il ragazzo che aveva preso ad accarezzarla riempiendola di complimenti. Monique sollevò divertita un sopracciglio; che anche il suo cane si fosse preso una cotta per il chitarrista?

«Ma brava, vai a salutare prima lui.» disse con sarcasmo, rivolta alla piccola cagnolina che ancora si beava delle attenzioni di Tom.

«Io sono affascinante e lei è una femmina. È la natura.» esortò il ragazzo, suscitando leggere risate in Ester ed Alfred. Finalmente Lilli decise che era giunto il momento di salutare anche la propria padrona che accettò quelle feste di buon grado. Quando il quadrupede ne ebbe abbastanza, trotterellò nuovamente verso il salotto, dove stanziava la sua morbida cuccia, sovraffollata di cuscini e copertine.

«Come vanno le cose con la band, Tom?» si informò improvvisamente Ester, curiosa.

«Tutto benissimo. Stiamo lavorando sul nuovo tour e devo dire che sta venendo proprio bene. Siamo molto soddisfatti di quello che abbiamo ideato.» rispose orgoglioso il moro.

«E tu, tesoro? Stai lavorando di meno, vero? Ti vedo sempre un po' sbattuta.» sorrise successivamente la donna, rivolta nella direzione di Monique.

Come improvvisamente catapultata sulla Terra, Monique si rese conto che il motivo per cui era tornata ad Amburgo era custodito con gelosia nel suo ventre e ben presto avrebbe dovuto rendere participi i suoi genitori di quell'avvenimento. Si schiarì la voce e lanciò un'occhiata eloquente e ansiosa al chitarrista, il quale comprese che era arrivato il momento dei chiarimenti. Con sorpresa, sentì la mano di Tom posarsi, sotto il tavolo, sopra alla sua, accogliendola nella propria stretta calda, forte e rassicurante, come per infonderle coraggio. Ricambiò quella stretta, mantenendo lo sguardo basso e bevette anche quell'ultimo goccio di caffè rimasto nella tazzina che l'aveva salvata momentaneamente da ciò che ora stava andando ad affrontare.

«Mamma, papà... Un motivo per cui sono venuta qui con Tom, in realtà, c'è. Non era solo voglia di vedervi, ma bisogno e dovere di dirvi una cosa molto importante.» parlò dopo aver preso un bel respiro, mentre percepiva il pollice di Tom carezzarle delicatamente la pelle. Gli occhi dei suoi genitori erano attentamente posati sulla sua figura e la cosa, più che gratificarla, la agitava maggiormente. «Veramente avrei dovuto farlo molto tempo fa e mi rendo conto di aver aspettato decisamente troppo. Non ve lo meritavate ma purtroppo la paura di deludervi è stata più forte di me.» continuò il discorso, sentendo le goccioline di sudore formarsi copiose sulla sua fronte.

«Tesoro, così ci spaventi.» mormorò Ester, tesa.

«Non voglio spaventarvi e spero non lo sarete neanche dopo. Ciò che avrei dovuto dirvi subito è che...» prese un profondo respiro – nello stesso attimo in cui Tom le strinse maggiormente la mano – e poi decise che era arrivato il momento di completare quella frase: «... Sono incinta.»

Fine. Lo aveva detto. Ora anche l'ultimo tassello era stato posizionato al proprio posto e ciò che sarebbe accaduto successivamente era solo un banale dettaglio. Ciò che la faceva sentire bene era quell'improvviso senso di leggerezza e limpidità che si erano impadroniti del proprio corpo, anche se disturbati dagli scalpitii del cuore, in attesa che i suoi genitori reagissero in qualche maniera.

Spostò lo sguardo incerto su entrambi e non seppe come classificare le espressioni che li caratterizzava.

«Che intendi dire...» commentò improvvisamente la madre con faccia quasi scandalizzata. Monique si agitò... Non le era mai piaciuto quello sguardo.

«Che... Aspetto un bambino.» ripetè come fosse ovvio, ma con discrezione, in modo da non risultare brusca.

Il tonfo proveniente dalla mano di Ester battuta sul tavolo, fece sobbalzare tutti quanti – compresa Lilli che abbaiò spaventata dal salotto per qualche attimo, fino ad acquietarsi nuovamente. «Mamma...» soffiò timorosa Monique, guardandola dal basso, quando Ester si alzò frettolosamente dalla sedia.

«A che mese sei?» domandò la donna.

«Sesto.» rispose Monique.

«E quanto volevi aspettare ancora per dircelo?!» esclamò fuori di sé Ester. Monique era consapevole del fatto che sua madre non si infervorasse a quel modo troppo spesso e, quando capitava, la situazione si poteva definire assai grave. Per un momento desiderò tornare indietro nel tempo e non averle mai detto tutto ciò o semplicemente non aver commesso l'errore di aspettare tutti quei mesi per informarle della nuova vita a cui stava andando in contro da qualche tempo. Si sentiva una stupida, un verme, un'infame... L'essere peggiore esistente su quella Terra, quasi.

«Avevo paura, mamma... Avevo paura di deludervi! Sai cosa significa avere paura?» provò a difendersi la mora, stringendo anche lei la presa di Tom. Tremava come una foglia ed aveva paura di sapere come si sarebbe conclusa quella vicenda.

«Sì, so cosa significa avere paura ma ciò non ti giustifica! E se avevi paura di deluderci, mi dispiace, ma lo hai appena fatto.» concluse Ester, uscendo successivamente a grandi passi dalla cucina.

Monique non poteva crederci; non poteva assolutamente credere che sua madre avesse reagito a quella maniera, nonostante le avesse dato quella notizia. Da una parte era comprensibile; d'altronde aveva fatto scorrere decisamente troppo tempo... Ma dall'altra, le aveva comunque annunciato una bella notizia, una di quelle che sua madre aveva sempre immaginato e sperato di ricevere con gli occhi brillanti di felicità.

Era rimasta immobile, seduta a quel tavolo – con la mano improvvisamente debole, ancora stretta da quella di Tom – e suo padre seduto di fronte a lei. Quest'ultimo si alzò dalla sedia e, temendo che avrebbe abbandonato anche lui la stanza – unica persona che mai e poi mai l'aveva giudicata – abbassò lo sguardo sulle sue ginocchia, colpevole.

Trattenne il fiato non appena avvertì le braccia forti e timide di suo padre circondarle il collo, alle sue spalle, accogliendola in un caloroso gesto di affetto... Uno di quelli rari, tra loro due. Tom le aveva lasciato la mano, forse per permetterle di ricambiare quella stretta, e restò ad osservare con tenerezza negli occhi quella scena così dolce tra padre e figlia. Monique scoppiò in un pianto ininterrotto ed abbracciò suo padre con tutta la forza che aveva in corpo.

«Mi dispiace, papà.» singhiozzò, contro il suo petto, stringendogli la maglia fra le mani. Lui le accarezzò la testa per poi schioccarle un bacio su di essa.

«Non sarò io a giudicarti; non l'ho mai fatto. Io ti capisco, tesoro.» sussurrò, facendo sorridere spontaneamente il chitarrista. Monique si rannicchiò maggiormente addosso ad Alfred, continuando a piangere. Quelle erano le parole che voleva sentir pronunciare; quelle erano le parole che sperava di poter sentire anche da sua madre; quelle erano le parole che per un attimo le avevano permesso di non sentirsi totalmente accusata, totalmente abbandonata a se stessa. «Vedrai che la mamma capirà.» aggiunse Alfred.

«Ma quando? Io ho bisogno anche di lei, in questo momento, non della sua rabbia.»

«Forse non si aspettava che le mentissi e ci è rimasta male. Non preoccuparti, ci parlo io con lei.»

«Grazie, papà.»

Sciolsero quel caloroso abbraccio e Monique si asciugò il viso con le mani.

«Sono contento di diventare nonno.» ammise timidamente Alfred. Monique sorrise appena. «Congratulazioni, ragazzi. Sono contento anche che questo bambino avrà un padre come te, Tom.» continuò, voltandosi successivamente verso il chitarrista, la cui pelle assunse immediatamente una sfumatura color porpora.

«Oh, no, non sono io il padre.» si affrettò a chiarire, ridacchiando imbarazzato.

«E' Christian, papà.» intervenne Monique, lugubre. Alfred la osservò accigliato. «Ma non lo vuole, è per questo che se n'è andato.» aggiunse, abbassando lo sguardo. In una frazione di secondo sentì la mano di suo padre donarle una carezza sulla testa, che le fece sollevare di nuovo lo sguardo su di lui.

«Non è di lui che hai bisogno, in questo momento.» le disse, sorridendole appena. «Se volete, potete rimanere a dormire qui, se la situazione con Ester non si metterà subito a posto.»

Monique si voltò verso Tom e poi tornò ad osservare suo padre.

«Ehm, adesso ne parliamo. Grazie.» rispose. Alfred sorrise ancora qualche secondo e poi si congedò, uscendo dalla cucina, forse per raggiungere sua moglie. Monique sospirò. Sentiva la pelle del viso tirare per le troppe lacrime versate ma cercò di non pensare troppo a ciò che aveva appena dovuto affrontare: non poteva subire stress; doveva pensare al bambino. «Tom, tu torna a Berlino. Rimarrò io qui. Non posso andare via senza prima aver chiarito con mia madre.» disse improvvisamente al chitarrista. Quest'ultimo corrugò le sopracciglia.

«Ma che dici? Non ti lascio tornare a Berlino, da sola, in qualche squallido pullman. Sto con te.» rispose il ragazzo con fare deciso.

«Ma, Tom, hai da fare con la band, soprattutto ora e...»

«Chiamerò David e sistemerò tutto io. Per un giorno o due in più non muore nessuno.»

«Il problema è che non so quando chiariremo e se chiariremo.»

«Io credo che tua madre non riuscirà a far passare troppo tempo. E comunque non mi interessa quanto tempo occorrerà, io non ti lascio tornare da sola, incinta, su un pullman. Sbaglio o ti ho promesso di prendermi cura di te?»

Monique sorrise e, socchiudendo gli occhi, abbracciò con delicatezza il chitarrista che la strinse a sé, per poi schioccarle un bacio sui capelli.

«Lo stai già facendo da tanto, Tom.»


**


Le ore pomeridiane stavano scorrendo in fretta, quasi esageratamente. Ester non aveva voluto ancora saperne di parlare con sua figlia o per lo meno uscire dalla propria stanza. Aveva abbandonato tutto, persino le faccende domestiche alle quali si dedicava ogni giorno con cura. Evidentemente non aveva intenzione di incrociare lo sguardo di Monique.

Quest'ultima continuava a provare un immenso dolore al petto. Non parlare con sua madre le aveva sempre fatto male; era la cosa più orribile che potesse succedere. Alla fine di ogni loro battibecco, il mutismo tra loro due non durava più di un giorno e mezzo ma quella volta aveva paura che tutto quanto avrebbe richiesto più tempo. A dire il vero non sapeva nemmeno come avrebbe fatto a reggere quella situazione. Una parte di lei le imponeva di restare, un'altra di scappare e tornare a Berlino perchè quell'atmosfera era troppo pesante da sostenere. Si sentiva per la prima volta come un pesce fuor d'acqua in casa sua. Si sentiva come un'estranea, come una persona di troppo... Non gradita. Eppure non voleva andarsene rischiando di spezzare definitivamente il legame che aveva consolidato con sua madre nel corso del tempo, anche se sapeva che era troppo forte perchè ciò accadesse.

Fottuta paura.

Sospirò appena, continuando a donare carezze a Lilli – ignara del fatto che in quella casa la tensione era tangibile – e osservando Tom, di fronte a lei, fumare in silenzio con una mano nella tasca dei jeans oversize.

Non sapeva realmente come ringraziarlo per tutto quello che stava facendo per lei. Nonostante fosse occupato con il lavoro e la band, si era preso la briga di avvisare David di ciò che nel frattempo stava accadendo ad Amburgo, trovando il suo consenso, seppur sudato. Si sentiva un po' in colpa per questo, ma cercò di concentrarsi solo ed esclusivamente sulla gratitudine che il suo cuore provava per ogni suo aiuto.

«Pensavo...» esortò improvvisamente il ragazzo, scrutando il vuoto pensieroso. «Ti va di uscire fuori a cena, stasera? Non credo che tua madre scenderebbe a mangiare e non mi va che stia ancora chiusa in camera sua, senza mettere niente nello stomaco. Usciamo un po' da qui, io e te, per lasciarla libera di riflettere con calma e senza pressioni attorno. Che ne dici?» le propose spostando poi gli occhi su di lei.

Monique si sentì percossa da un piacevole brivido. Non era mai uscita a cena con Tom, da sola. Le era sempre parso quasi fuori luogo e troppo romantico. Eppure l'idea la entusiasmava e non poco, nonostante in quel momento avesse ben poco da entusiasmarsi.

«E' una buona idea.» rispose annuendo appena.

Effettivamente, neanche a lei andava di mangiare in quella casa, sapendo che sua madre se ne stava ancora chiusa in camera sua, rifiutandosi di mettere qualcosa sotto i denti, a causa della sua presenza. Le avrebbe lasciato lo spazio e il tempo per accettare le sue menzogne; d'altronde era il prezzo da pagare per essersi comportata a quella maniera ed ora doveva affrontarlo senza opporvisi.

Vide con la coda dell'occhio il chitarrista spegnere la sigaretta nel posa-cenere ed avvicinarsi a lei fino a sederlesi affianco, sullo scalino di fronte alla porta di casa. Con sorpresa si sentì avvolgere le spalle con un braccio, fino a farla poggiare al suo petto. Le labbra carnose si posarono delicate sulla sua testa e ciò la fece sorridere chiudendo con beatitudine gli occhi.

«Si risolverà tutto, vedrai.» le sussurrò dolcemente, continuando a coccolarla mentre Lilli li osservava scodinzolando.


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Capitolo 22
*** Twenty-One. Yielding ***


yielding

Twenty-one.
- Yielding -



Il buio si era ormai impadronito dell'intera Amburgo, nonostante fosse solo l'ora di cena. Monique adorava osservare i paesaggi illuminati semplicemente da quella fioca luce emessa dai lampioni ai lati della strada e nient'altro. Il buio non le aveva mai fatto paura; al contrario, l'aveva sempre fatta sentire a proprio agio.

Tom guidava affianco a lei silenziosamente e come pensieroso, ma ciò non la turbò più di tanto. Non era di certo l'unica ad avere pensieri per la testa e preferiva rispettare quella sua momentanea quiete.

Quando la macchina si fermò, Monique spostò lo sguardo alla sua destra, dove scorse un ristorante non troppo grande o lussuoso ma piuttosto carino. Scese dall'enorme Cadillac e, assieme al chitarrista, si incamminò all'interno di quel luogo così caldo ed accogliente. Le luci erano lievemente soffuse e di un colore arancione, tendente al giallastro. Era tutto così delicato e così all'apparenza romantico che per un attimo Monique dimenticò tutti i suoi problemi.

Con una mano sulla sua schiena, Tom la guidò sino ad un tavolo più appartato, in un angolo di quel ristorante. Si era in ogni caso premurato di coprirsi adeguatamente, in modo tale che nessuno lo scovasse a cena con una ragazza incinta, con la possibilità di guadagnare innumerevoli soldi grazie ad un succulento scoop.

Si sedettero uno di fronte all'altra e si sorrisero appena.

«Mi piace questo posto. Non ci ero mai venuta, nonostante io sia cresciuta qui ad Amburgo.» esortò Monique sinceramente compiaciuta.

«Io ci sono stato una volta, con mio fratello: eravamo di passaggio e ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il cibo era squisito.» rispose Tom, mentre adocchiarono in lontananza il cameriere camminare nella loro direzione, fino ad affiancarli per posare loro sul tavolo i menù. Quando si fu nuovamente allontanato, entrambi li recuperarono per poter scegliere il pasto da consumare.

«Non ti dispiace se prendo la carne, vero?» domandò la mora, osservandolo di sbieco.

«Ma va, scema. Solo perchè sono vegetariano non vuol dire che lo devi diventare anche tu.» sorrise Tom scuotendo appena la testa, mentre continuava a leggere.

«Allora vada per la carne alla griglia.» concluse Monique posando nuovamente il menù sul tavolo. Approfittò di quel momento per osservare il chitarrista intento a optare per qualcosa che lo convincesse.

Il cuore le scalpitava in petto. Era unica la sensazione che quel ragazzo le infondeva: protezione, dolcezza... Amore. Sì, forse era decisamente amore ciò che provava per lui. Era un sentimento troppo nuovo per lei, che mai con nessun altro aveva provato, nemmeno con Christian, nonostante si fosse sempre convinta di essere innamorata perdutamente di lui. Poteva esistere un sentimento maggiore dell'amore? Forse no. Quindi non era mai stata innamorata di Christian, in realtà? O era semplicemente più innamorata di Tom di quanto non lo fosse mai stata di nessun altro?

«Io prenderò la verdura alla griglia con contorno di patate, invece.» concluse il ragazzo, poggiando sulla tovaglia il menù ed alzando successivamente lo sguardo su di lei che venne quasi colta alla sprovvista. «Che hai? Sei pensierosa.» le chiese incuriosito.

«No, nulla.» scosse la testa Monique, distogliendo subito lo sguardo.

Proprio in quell'istante, il cameriere sembrò leggerle nel pensiero. Raggiunse nuovamente il tavolo, salvandola da una situazione di completo impaccio, e prese le ordinazioni per poi volatilizzarsi nuovamente. Ci fu qualche attimo ancora di silenzio, in cui entrambi non seppero che dire. Forse per imbarazzo, forse per la stranezza di quella situazione: si erano sempre distrutti con le parole ed ora pareva alquanto assurdo che si trovassero a cenare da soli in un ristorante come quello.

«Come ti senti? Ti vedo un po' stanca.» esortò improvvisamente Tom, scrutandola con attenzione.

«Sì, oggi mi sento un po' fiacca. Sarà per il viaggio e per ciò che è successo con mia madre. Ma, tutto sommato, sto bene fisicamente.» rispose la ragazza, continuando a torturarsi le mani riunite su tavolo. Senza pensarci, Tom posò le sue su di esse e gliele carezzò appena. Monique avvertì il viso prenderle quasi fuoco. Non ebbe il coraggio di muoversi in quella presa, un po' perchè non voleva assolutamente che quell'atmosfera si distruggesse con un suo semplice ed innocente gesto, un po' perchè sentiva ogni parte del suo corpo immobile, come impossibilitata di reagire.

«Vedrai che tua madre già domani tornerà a parlarti. Ne sono assolutamente convinto.» le sorrise appena il chitarrista, con una dose di dolcezza impossibile da quantificare.

«Lo spero.» sospirò lei posando lo sguardo sulle loro mani intrecciate, con timidezza. Le mani di Tom erano grandi, molto di più rispetto alle sue. Le dita lunghe ed affusolate. Emanavano un calore rassicurante, un calore che neanche la più bollente lava sarebbe stata in grado di infonderle. Le vene che le caratterizzavano la mandavano letteralmente fuori di testa; aveva sempre trovato particolarmente fascinosa la vista delle vene nei punti giusti. «Mi fa... Mi fa piuttosto strano trovarmi qui con. te.» disse poi timidamente, essendo perfettamente consapevole del fatto che il suo viso si era colorato di un bel rosso acceso.

«Anche a me.» ammise Tom con un lieve sorriso. «Dai, raccontami un po' della tua infanzia.» la incitò successivamente, sciogliendo la presa delle loro mani e tornando poi a poggiare la schiena alla sedia. Monique aggrottò le sopracciglia, scrutandolo attentamente.

«Che vuoi sapere?» domandò tranquilla.

«Un po' di tutto. Il rapporto con i tuoi, i primi amori, la scuola, gli amici... Cose del genere. Tutto quello che so del tuo passato fino ad ora è della tua prima volta, solamente perchè Bill era troppo curioso!» ridacchiò il ragazzo, suscitando una lieve risata anche in Monique, al ricordo di quella scena a tavola, qualche mese prima.

«Beh... Io e i miei genitori ci siamo sempre amati immensamente. Io e mia madre, soprattutto, ci siamo sempre dimostrate estremo affetto, sia a parole che a gesti. Per natura non sono una ragazza molto affettuosa – in questo ho preso da mio padre che, come avrai notato, è un uomo molto timido – ma con mia madre è tutto diverso. Con lei mi sono sempre sentita libera di fare tutto ciò che mi sentivo. Con mio padre, invece, i gesti affettuosi scarseggiano ma non l'amore, in ogni caso. Io e lui ci siamo sempre capiti con un solo sguardo e non vi è nemmeno bisogno di parole. Lui mi è sempre stato vicino moralmente, a suo modo. Certo, l'affetto da parte sua mi è un po' mancato ma... Tutto sommato, sono contenta di lui e di certo non lo cambierei.»

Aveva confessato tutto ciò con un sorriso spontaneo e sereno sul volto, trovandosi a scrutare il vuoto di tanto in tanto, come assorta in intimi pensieri inviolabili da nessuno.

«Mi sono accorto di questo particolare rapporto che avete tu e lui, fatto più che altro di silenzi ma di tanti sguardi. Però ti posso assicurare che l'affetto è tangibile tra di voi. A mio parere non sono solo i gesti ad alimentare un rapporto affettivo. Voi siete complici... Siete uniti da una forza che va oltre il contatto fisico. Credimi, so cosa vuol dire. Io e mio fratello ne siamo un esempio lampante. Nemmeno io e lui ci scambiamo spesso abbracci o baci o altro. Eppure anche a noi basta guardarci per sapere esattamente che ci saremo sempre l'uno per l'altro e che il profondo amore che ci lega non si spezzerà mai.» Le parole di Tom le erano arrivate dritte al petto come una scarica elettrica potentissima.

Era disarmante. Non avrebbe mai potuto capire fin dove si sarebbero spinte la sua maturità e la sua dolcezza. Probabilmente nemmeno Jessica sarebbe stata in grado di farla sentire così compresa, così sostenuta e assolutamente non giudicata. Gli occhi del ragazzo trasmettevano infinita sincerità ed il fatto che lei si stesse aprendo con lui – cosa che non faceva molto spesso con nessuno – la stava estraniando per un momento dal mondo reale, facendola sentire piena della tranquillità e della serenità che si meritava, almeno per un po'.

«Sì, credo che tu abbia ragione... Alla fine mi basta sapere che lui ci sia. Prima mi ha dato la prova che lui mi accetterà sempre per quella che sono, qualunque cosa mi accada.» annuì Monique, sinceramente rapita dallo sguardo del moro, proprio nel momento in cui venivano serviti i loro piatti. «E tu, con i tuoi?» domandò successivamente, prendendo a tagliare la carne fumante sotto di sé.

«Quello più espansivo in famiglia è mio fratello. Lui e mia madre sono come polipi. Una volta che si avvinghiano, è la fine. Io sono un po' più chiuso ma, nonostante tutto, anche io sono affettuoso con mia madre. Insomma, non la vedo per dei mesi e quando torno a casa e la trovo lì, davanti a me, mi rimane impossibile non saltarle addosso.» confidò Tom, per poi portarsi alla bocca un po' di verdura.

«La mia mente sta proiettando la fantastica immagine di te che salti in braccio a tua madre.» sorrise Monique, dopo aver deglutito un boccone.

«Povera donna, la ucciderei. Diciamo che non le salto in braccio, dato che le mie dimensioni sono leggermente aumentate dai miei cinque anni, ma la travolgo comunque come uno Tsunami.» rise il chitarrista. «Con i tuoi amici, invece? Sei espansiva?»

«Per niente. Sono loro ad esserlo con me, allora mi sciolgo. Sennò non parte mai da me, per prima, il gesto affettuoso. Devo dire che la situazione cambia radicalmente con un mio ipotetico fidanzato. Divento schifosamente melensa, anche se detesto il troppo romanticismo. Diciamo che metto in mostra la mia più nascosta tenerezza.»

«Penso venga abbastanza naturale farlo quando si è...»

Monique sollevò lo sguardo sul viso di Tom, a quell'esitazione, e poté notare quanto in imbarazzo si sentisse in quel preciso istante. Perchè si trovava così in difficoltà nel pronunciare quella parola?

«Innamorati?» gli venne in contro la ragazza. Tom annuì appena, abbassando successivamente lo sguardo. Monique lo osservò ancora qualche istante, con attenzione, come a voler scovare qualche strana motivazione di quella difficoltà nell'affrontare il discorso. «Ti sei mai innamorato, Tom?» le venne spontaneo porre quella domanda, senza meditarvi.

«No.» rispose prontamente lui. «Non saprei neanche come mi sentirei se lo fossi. Credo che non lo capirò mai. Anzi, credo che io non sia fatto per amare.» continuò con una strana luce malinconica negli occhi, bevendo poi un sorso d'acqua.

«Sciocchezze.» sorrise Monique, prendendolo alla sprovvista. Sollevò gli occhi su di lei e sbattè qualche attimo le palpebre, come accigliato. «Tutti siamo fatti per amare. Siamo connaturati così, proprio perchè abbiamo un cuore. Non puoi non essere in grado di amare, Tom. Non ci credo.» precisò lei, serena.

«Andiamo, Schmitz... Ormai mi conosci. Io con una ragazza cerco solamente il sesso, nient'altro. Non sono capace di innamorarmi.»

«Beh, non mi pare che tu stia cercando il sesso con me.»

Si scambiarono un'occhiata fugace; brevi secondi in cui la pelle di Tom diventò paonazza ed egli interruppe immediatamente quel contatto visivo divenuto troppo imbarazzante.

«Che c'entra... Con te è diverso.» borbottò il ragazzo con una scrollata di spalle e voltandosi con il capo verso sinistra, per non apparire troppo impacciato.

«Sono una ragazza... Che c'è di diverso?» domandò ingenuamente la mora, cercando il suo sguardo con curiosità. Tom si voltò a guardarla adottando un'espressione piuttosto intimidita, intrisa di tanti – forse troppi – significati. A quel punto Monique capì e ciò la portò ad incupirsi. «Ah, ma certo. È perchè io sono incinta. Non sono più una ragazza, sono una donna.» commentò con un sorriso amaro, abbassando lo sguardo sul suo piatto ormai vuoto. «Sono già fuori commercio.» aggiunse poi con sarcasmo. Sapeva che in qualche modo stava commettendo un madornale errore a parlare a quella maniera, ma d'altronde era una ragazza incredibilmente istintiva.

«Schmitz, non andare a parare in altri discorsi. Lo sai cosa intendevo dire.» cercò di porre rimedio a quella situazione che stava lentamente andando a degenerare.

«No, non lo so. Spiegamelo.» sputò seccamente Monique.

«Il nostro rapporto è strano, è totalmente diverso. E poi... Oh, Cristo santo, d'accordo. Sei anche incinta. Purtroppo tu cerchi di negare l'evidenza, in qualche modo, ma non puoi farlo.»

«Perchè voi uomini fate così tanta fatica a concepire l'idea di una donna incinta?»

«Non è che noi uomini non concepiamo l'idea della...»

«Siete tutti uguali, in fin dei conti. Christian non ci ha messo né uno né due a scaricarmi. Ora devo anche sentirmi una “donna fuori commercio”, sempre per colpa di questa pancia di troppo.»

«Non provare a paragonarmi a Christian! Schmitz, fammi parlare.»

«Per dire che cosa? Ti sei spiegato benissimo, non preoccuparti.»

Tom boccheggiò per qualche attimo, non sapendo come rispondere. Lo destabilizzava, con ogni singola parola ed ogni volta non sapeva come venir fuori da quelle situazioni. Odiava litigare con lei, lo odiava con tutto il cuore, nonostante un tempo fosse il suo pane quotidiano. Ogni volta, con lei, tutte le sue certezze svanivano.

L'unica cosa di cui era certo, in quel momento, era che la serata era andata a puttane.


**


Erano usciti da quel ristorante in religioso silenzio. Monique aveva stretto le proprie braccia al petto per proteggersi dal freddo e camminava a qualche passo più avanti del ragazzo. Quest'ultimo le osservava la schiena con sguardo cupo e le mani rifugiate nelle tasche dei jeans.

Si sentiva tremendamente in colpa per ciò che le aveva detto al tavolo, nonostante si trattasse di parziale verità.

Non voleva darle della “donna fuori commercio”; a dire il vero nemmeno lo pensava. Il concetto che avrebbe tanto voluto esprimere senza crearle disagio era totalmente diverso ed in quell'istante, anche scavando nella sua mente contorta non avrebbe saputo spiegarlo nemmeno a se stesso.

Sospirò pesantemente cominciando a frugare nei suoi pensieri, alla ricerca di un qualcosa di plausibile da dire e che non le avrebbe permesso di dare in escandescenze, ma nulla.

Dal suo canto, Monique camminava abbastanza spedita, respirando nervosamente. Non aveva nessuna intenzione di voltarsi in direzione del chitarrista che percepiva dietro di lei. Probabilmente perchè ora si sentiva in imbarazzo, anche se l'orgoglio vi metteva il suo buon peso.

Si sentivano come ragazzini immaturi, troppo decisi ad avere entrambi ragione per poter meditare con lucidità o semplicemente mettere da parte ogni tipo di screzio.

Tom era sì un tipo combattivo, ma non gli piaceva portare avanti stupidi battibecchi in grado di distruggere la dolce atmosfera che si era venuta a creare fra loro.

Allungò appena una mano verso Monique, sino a posarla leggera sulla sua spalla. Questa venne colta alla sprovvista: non si aspettava minimamente un simile gesto dal chitarrista, così impuntò sui propri piedi. Non fece in tempo a voltarsi nella sua direzione che le possenti braccia la avvolsero interamente, donandole una piacevole sensazione di calore e benessere. Le venne spontaneo sorridere e chiudere gli occhi nello stesso istante in cui percepì il capo del ragazzo posarsi sulla sua spalla.

Un semplice gesto in grado di cancellare tutto ciò che precedentemente era accaduto.

«Smettiamola di tenerci i musi come i bambini.» le sussurrò appena all'orecchio. «Scusami.» Dei piacevoli brividi percorsero l'intero corpo di Monique, portandola a sollevare la propria mano, sino a posarla all'indietro sul capo del chitarrista, ricoperto di cornrows.

«Stronzo di un Kaulitz...»


**


Inserì nel silenzio più assoluto la chiave nella serratura della porta di casa.

Era mezzanotte passata e, non appena entrarono nella villetta, trovarono quest'ultima completamente immersa nel buio e nel silenzio più totali. Senza accendere la luce, cercarono a tentoni le scale tra una piccola risata ed un'altra, non appena si scontravano contro qualche mobile, esattamente dopo essersi intimati di non fare il minimo rumore.

«Il ginocchio, cazzo.» borbottò Tom, a bassa voce, sotto le lievi risate – ridotte a poco più di sussurri – da parte di Monique, la quale lo prese per mano, guidandolo zoppicante verso le scale. Quando finalmente giunsero al secondo piano, si chiusero velocemente nella camera della ragazza. A quel punto, Monique accese la luce e si voltò in direzione di Tom, ancora imbronciato, che si massaggiava un ginocchio.

«Sei un disastro.» sorrise la mora, sfilandosi nel frattempo il cappotto e gettandolo successivamente sulla piccola poltrona, affianco al letto.

«Senza offesa, ma è quel mobile che si trova in una posizione decisamente sbagliata.» ribattè Tom, spogliandosi a sua volta. Monique, cercò di ignorare le farfalle che avevano preso a svolazzare incessanti nel suo stomaco assieme al calore che si era impossessato violentemente delle sue gote e si avviò all'armadio, dal quale recuperò un cuscino ed una coperta. «Che stai facendo?» domandò il chitarrista, accigliato.

«Vado a dormire di sotto, in salotto, mi pare ovvio.» rispose tranquillamente Monique.

«Ma tu sei fuori di testa. Tu non ti metti a dormire, incinta, su un divano.» la rimproverò il ragazzo, togliendole dalla presa il cuscino e la coperta.

«Come sei esagerato...»

«No, sono premuroso, che è diverso.»

«Anche troppo, se permetti.»

«Taci. E poi non ti mangio. Me ne starò tranquillo sulla poltrona.»

Detto questo, Tom si sedette sulla piccola poltrona e vi poggiò il cuscino, coprendosi successivamente con la calda coperta. Doveva ammettere che non era esattamente comoda, ma rimaneva comunque una scelta migliore del pavimento duro e freddo.

Dopo qualche attimo in cui Monique lo osservò attentamente, deglutì appena e decise di parlare.

«Tom, se vuoi puoi venire a dormire qui... Ci stiamo e poi quella poltrona è scomoda.»

Aveva pronunciato quelle parole con la timidezza negli occhi ed una velocità inaudita. Non passarono molti secondi prima che la sua mente cominciò a maledirla per quella richiesta, decisamente discutibile. D'altronde erano una ragazza ed un ragazzo, con dei precedenti determinanti, non due amiche d'infanzia prive di qualsiasi pensiero che si spingesse oltre al semplice dormire. Non che avessero combinato chissà cosa: Tom era anche contrario; a maggior ragione perchè era incinta. Eppure le sembrava lo stesso tutto troppo avventato.

«Se non ti disturba...» disse vago il moro, ad insaputa di Monique. Si sarebbe aspettata una risposta negativa che l'avrebbe fatta sentire nell'imbarazzo più totale, eppure quella scelta le fece tirare un mentale sospiro di sollievo.

«No.» soffiò appena. Il suo cuore prese a galoppare non appena vide Tom alzarsi dalla poltrona per sedersi sul letto, accanto a lei. Sollevò le coperte e si infilò sotto ad esse. Una ventata di quel profumo maschile che tanto le piaceva e che spesso usava il ragazzo, le pervase i sensi, facendola sentire beata, rilassata e ancora più stanca del solito. Tremava appena, scrutandolo senza farsi notare, di fronte a sé, di profilo, intento ad osservare un programma di musica alla televisione precedentemente accesa da lei.

Aveva pericolosamente voglia di avvicinarglisi, di stringersi a lui e chiudere gli occhi in completa devozione. Voleva godersi appieno quel profumo, quel calore, quella protezione. Così decise di rischiare.

Avanzò lentamente e quasi impercettibilmente sul materasso, fino a raggiungere il corpo bollente del ragazzo. Lo guardava timidamente, pregando che capisse il suo intento e le facilitasse il compito con un semplice gesto. Fortunatamente il chitarrista parve comprenderla, così che si voltò nella sua direzione con un lieve sorriso e le avvolse le spalle con un braccio, invogliandola a poggiare il proprio viso sul suo petto. La mano di Monique giacque sul suo addome che lentamente si muoveva, a ritmo del suo respiro rilassato. La mora chiuse gli occhi, inebriata da quella situazione così piacevole e si beò del delicato suono del suo respiro.

La tranquillizzava, era un qualcosa di così dolce ed intimo, solamente il sentirlo respirare, che in quel momento non avrebbe avuto bisogno di altro. Sentiva il sonno prendere secondo dopo secondo il sopravvento, ma l'emozione era decisamente più forte di esso.

Non seppe quanti minuti trascorsero da quando aveva poggiato l'orecchio sul cuore del ragazzo, ma improvvisamente la stanza venne immersa nel buio; segno che Tom aveva spento la televisione, senza che lei se ne accorgesse. Il silenzio che piombò in quelle quattro mura fu quasi assordante ma piuttosto piacevole, in cui Monique continuava ad ascoltare solamente il respiro del moro ed il suo battito cardiaco.

«Sai, Schmitz, io sono un tipo strano.» quelle parole sussurrate la fecero quasi sobbalzare. «Mi raccomando sempre di non fare cazzate ma poi queste riesco sempre a commetterle. In quest'ultimo periodo, soprattutto, ne ho fatte tante, anche se tu non lo puoi sapere. E devo dire che stasera sono particolarmente in vena di cazzate. Per questo motivo ho voglia di farne un'altra che probabilmente mi porterà dritto al patibolo.»

Monique aggrottò le sopracciglia, anche se lui non lo poteva vedere, ed attese che si muovesse o comunque continuasse a parlare. Non aveva inteso cosa quelle parole volessero significare, così optò per la semplice attesa.

Restò immobile anche quando avvertì il corpo di Tom muoversi appena, fino a sovrastarla quanto bastava per far sì che si guardassero negli occhi, nonostante l'unica fioca luce penetrasse le persiane della finestra. La mora deglutì a fatica nell'ammirare quelle pagliuzze nocciola che la scrutavano fino a trapassarle l'anima.

Furono ancora pochi gli istanti in cui dovette trattenere il respiro, timorosa di ciò che sarebbe accaduto, quando le labbra carnose del ragazzo si posarono dolcemente sulle sue. Sgranare gli occhi fu solamente un'azione spontanea e di riflesso a ciò che era appena successo.

La mente le si annebbiò e tutto quanto si azzerò. Aveva perso la sensibilità degli arti; aveva per un attimo avuto paura che il cuore le si fosse fermato per quanto devastante era stata la sorpresa. Si sentiva come un'automa, come non avesse mai dovuto affrontare situazioni simili nella sua vita. Pareva fosse la prima volta che riceveva un bacio.

Il suo cervello prese ad elaborare troppi pensieri in una volta, per far sì che ne comprendesse soltanto uno. Uno di questi era un'insistente domanda: perchè l'aveva respinta qualche tempo prima ed ora era lui a prendere l'iniziativa? Che avesse cambiato idea? Che volesse darle una possibilità? Forse si stava solamente illudendo che potesse essere possibile. Precedentemente aveva pronunciato la parola “cazzata” e, teoricamente, anche quella doveva rappresentarne una. Non sapeva se ciò la rendeva contenta o meno; tutto quello a cui dedicò la sua mente fu solo il presente. Voleva godere con ogni fibra del suo corpo di quel momento così tenero e perfetto.

Chiuse gli occhi e circondò il collo del ragazzo con le proprie braccia, sentendo il suo petto venire a contatto con il suo seno, cosa che le fece quasi perdere i sensi per un attimo. Voleva sentirlo ancora più vicino, ma allo stesso tempo non voleva turbarlo. Lei avrebbe solamente subito... Non avrebbe fatto nulla se lui non avesse voluto.

Tom sembrava afflitto da sconosciute preoccupazioni e pareva sfogasse tutto ciò in quel bacio così profondo. Catturò fra i denti il labbro inferiore della ragazza, senza farle male e ciò provocò un lieve gemito da parte di Monique. Adorava quel mix di dolcezza e passionalità.

I suoi baci umidi scesero sul suo mento, percorsero la sua pelle bollente e cosparsa di brividi, fino a posarsi sul suo collo, dove lasciò innumerevoli marchi violacei, segni del suo passaggio. Le sue mani le stavano donando immenso calore lungo tutto il corpo, intente a carezzarla. Più volte aveva indugiato sul suo ventre, ma ciò non l'aveva fermato.

Monique si stava facendo prendere dalla situazione con ogni cellula, tanto da estraniarsi per un momento dalla realtà e commettere un gesto forse avventato: insinuò le proprie mani al di sotto della maglia del ragazzo, sfiorandogli la pelle rovente degli addominali non troppo scolpiti e dei pettorali, con l'intento di sfilargliela. Voleva stringerlo a sé senza costrizioni, senza impedimenti. Voleva sentirlo per ciò che effettivamente era, non attraverso pezzi di stoffa... Ne aveva un disperato bisogno.

Come avendole letto nel pensiero, il chitarrista le strinse le mani delicatamente fino a portargliele fuori da quel rifugio così piacevole e poggiargliele sul materasso, affianco alla sua testa. La guardò ancora qualche attimo negli occhi, fino a riprendere a baciarla con maggior fervore. Monique non capiva quali fossero le sue intenzioni, dal momento che le aveva impedito di togliere quella barriera così fastidiosa fra loro.

Tom riprese il proprio cammino verso il basso, con le labbra, fino a sfiorarle il petto, mentre la sua mano scendeva verso l'orlo dei pantaloni del pigiama. Alla mora si smorzò il fiato non appena lo sentì superare lentamente quell'impedimento, fino a venire ad un contatto diretto con ciò che mai nessun altro si sarebbe permesso di violare in quella maniera. Eppure percepiva tutta la tenerezza ed il riguardo che Tom metteva in ogni suo gesto e ciò non la agitò, al contrario la fece rilassare, fino a farla fluttuare in un mondo parallelo.

Sgranò gli occhi, inarcando lievemente la schiena, nel momento in cui Tom diede inizio ad una lenta e piacevole tortura con quella mano particolarmente esperta.

Monique non fece in tempo a chiedersi il motivo per cui il ragazzo stesse facendo tutto quello e, a dire il vero, in quel momento nemmeno le importava. Chiuse gli occhi, lasciandosi andare a sospiri affannati che da un po' di mesi a quella parte aveva dimenticato cosa fossero. D'altro canto, la lingua ed i denti del ragazzo impegnati a lambire la sua gola, non le facilitavano il tutto. Con le mani afferrò saldamente le sue spalle, respirando sempre più veloce, mentre un inebriante calore si impossessava delle sue gote, accompagnando le piccole goccioline di sudore che si stavano, ad una ad una, formando sulla sua fronte. Avvertì improvvisamente la bocca di Tom staccarsi dalla sua pelle più volte marchiata, e le venne spontaneo aprire gli occhi per cercarlo con lo sguardo. Come un enorme masso improvvisamente precipitato nel suo stomaco, si sentì smorzare il fiato: il chitarrista era sempre lì, intento a guardarla e a darle sempre più piacere. Quelle iridi color cioccolato erano ipnotiche e non riuscì ad interrompere quel bellissimo contatto visivo.

Cominciò a muovere appena il bacino, nel momento in cui sentiva che l'apice di quella perfetta agonia stava giungendo. Quasi impiantò le unghie nelle spalle del ragazzo, mentre la schiena si inarcava e la sua bocca rilasciava versi sempre più accesi. Forse per zittirla, il chitarrista premette le proprie labbra sulle sue, senza approfondire il contatto, mentre aumentava il ritmo dei suoi affondi nel suo corpo e l'accompagnava al termine di quella magia. Quest'ultima non tardò ad arrivare e, nel momento in cui avvenne, Monique soffocò il proprio urlo estasiato sulle labbra del chitarrista, ancora impresse alle sue. Un piacere indescrivibile le aveva pervaso i sensi, accendendole un fuoco che, piano piano, si era protratto lungo tutto il suo corpo.

Affannata, riprese fiato con un lieve sorriso dipinto sul suo volto rilassato, mentre Tom ritraeva la mano dal pigiama. Senza dire una sola parola, la osservò ancora qualche istante negli occhi, come avesse appena compiuto un gesto imperdonabile e dannatamente sbagliato. Monique aggrottò appena le sopracciglia, non capendo cosa lo spingesse a guardarla a quella maniera, fino a che non lo vide allontanarsi da lei, con sguardo colpevole, fino a stendersi nuovamente dalla sua parte del letto, dandole la schiena.

Per tutta la notte, Monique restò immobile, in quella posizione, ad osservare le sue spalle, scosse dal solo respiro.


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Capitolo 23
*** Twenty-Two. Fuck you ***


fuck you

Chapter Twenty-Two.
- Fuck you -



Confusione.

Ormai da mesi, l'unica parola che completasse e descrivesse appieno i suoi stati d'animo non era altra che quella.

I suoi occhi erano ancora fissi sulla schiena del chitarrista, da tutta la notte. Non aveva chiuso occhio, troppo agitata e per l'appunto confusa per ciò che era successo la sera prima. Non riusciva a porvi una spiegazione plausibile.

Perchè Tom l'avrebbe “violata” a quella maniera, se le dava sempre dimostrazione di non provare nulla per lei? Forse era davvero come aveva detto lui a cena? Ovvero che lui nelle donne cercava solo il sesso? Eppure non avevano fatto propriamente sesso. Alla fine era stato lui ad allettarla, non il contrario; si era persino rifiutato di farsi toccare ulteriormente da lei. Quindi perchè tutto questo? Era stato un favoritismo? Era stato un momento di debolezza? Un semplice sfizio da togliersi?

Non aveva il coraggio di muovere un muscolo sul materasso, per paura che lui la udisse. Voleva al contempo scendere da quel letto, divenuto rovente sotto di lei. Come si sarebbe comportata? Già sapeva che non sarebbe stata in grado di affrontare l'enorme imbarazzo, in sua presenza, perchè altro non vi sarebbe stato se non quello. Non sapeva nemmeno dire se si fosse pentito o meno, anche se dal suo sguardo di qualche ora prima – subito dopo aver commesso quella “cazzata”, come l'aveva definita lui – lasciava spazio a pensieri puramente negativi. Avrebbe dovuto solamente attendere il suo risveglio e nient'altro.

Ma quel giorno prospettava anche un affronto con sua madre, nel caso quest'ultima avesse deciso di rivolgerle finalmente la parola. Aveva paura; paura per tutto ciò che sarebbe successo. E più passava il tempo, più si domandava come potesse essere possibile che tutti i guai la rintracciassero a quella maniera, senza ritegno. Ne aveva già dovuti affrontare troppi nella sua vita e non erano ancora finiti. Erano tutti lì, davanti a lei, ad attendere che lei vi andasse in contro.

Buttò nuovamente un occhio al chitarrista che non aveva ancora dato segni di vita da quando si era voltato in quella direzione, un bel po' di ore prima. Si ricordava di aver controllato addirittura che respirasse, durante la notte.

Con movimenti impercettibili, si mosse sul materasso, sollevando lievemente la coperta per scivolarvi oltre. Quando poggiò i piedi sul freddo pavimento, si voltò nuovamente verso di lui per controllare che dormisse ancora. Nulla di strano; così si alzò definitivamente per poi infilarsi le pantofole ed uscire silenziosamente da quella stanza. Appena chiuse la porta, tirò un sospiro di sollievo e successivamente si chiuse all'interno del piccolo bagno adiacente alla sua camera. Vi si chiuse a chiave, decidendo che di lì non sarebbe uscita almeno per un po'. Si specchiò nell'enorme vetro che andava a sovrastare il lavandino e si osservò con attenzione. Marchi violacei stanziavano sulla pelle del suo collo, come a testimoniare che la bocca del ragazzo fosse sul serio passata di lì.

Quando i pensieri della sera prima tornarono a farsi nuovamente nitidi dentro di lei, le sue guance si tinsero di un color porpora decisamente più accentuato della sua naturale carnagione.

Però era stato... Bello. Insomma, lei avrebbe preferito un contatto molto più ravvicinato con il chitarrista, ma anche solamente questo le poteva bastare. Rappresentava comunque uno scossone di quella situazione, un qualcosa di nuovo – che fosse giusto o sbagliato non le importava. Sapeva solamente che segni di pentimento, nei suoi occhi, non ne leggeva.


**


Quando uscì dal bagno, il corridoio era ancora vuoto e silenzioso. Probabilmente Tom non si era alzato dal letto, nonostante fossero le nove e mezza. Sapeva che era un tipo alquanto pigro e che l'arte del dormire era ciò che meglio lo appagava, ma tutto questo la rendeva piuttosto nervosa. Sentiva di c'entrare in qualche modo in quel comportamento. Che non volesse alzarsi dal letto per non vederla?

Con questo persecutorio interrogativo, prese a scendere le scale, mentre il suo cuore batteva all'impazzata: il pensiero di arrivare in cucina e trovarvi sua madre la agitava ulteriormente e non passò molto prima che questo timore si tramutasse in effettiva realtà.

Seduta al tavolo, con una tazza di caffè fumante davanti al viso, Ester fissava pensierosa il vuoto di fronte a sé, con la mano a sorreggerle la testa. Due profonde occhiaie andavano a sottostare i suoi occhi castani, segno che quella notte non aveva dormito, o per lo meno non molto.

Quando la donna sollevò lo sguardo su sua figlia, quest'ultima si irrigidì sulla soglia della cucina, scrutandola a sua volta, senza proferire parola. Aveva paura di dire o fare qualcosa di sbagliato, in aggiunta a ciò che già aveva fatto. D'altra parte, si rese conto che, se voleva tornare ad instaurare un dialogo con sua madre, da qualche parte doveva pur cominciare.

«Ciao.» la salutò mestamente, senza staccarle gli occhi di dosso, mentre un leggero tremolio nella sua voce andava a contrastare la sicurezza che voleva esternare. Con un colpo al cuore, vide Ester ricambiare quel saluto con un semplice gesto del capo: forse nulla era perduto.

Avanzò con cautela nella stanzetta per dirigersi verso gli scaffali e recuperare da dentro essi una tazza. Forse l'unico modo per non avvertire quella pesante tensione, era comportarsi con disinvoltura, ed una buona colazione, consumata con apparente indifferenza, era il metodo migliore per uscire da quell'impaccio.

Si sedette di fronte a sua madre, senza guardarla – per paura che avesse qualcosa in contrario da dire – e, dopo essersi versata del latte nella tazza, prese a mangiarvi qualche biscotto. Istintivamente, si portò una mano al ventre, carezzandoselo appena. Ultimamente le capitava spesso di farlo; probabilmente era solo un gesto comune a tutte le donne incinte.

Attorno a lei sentiva solo silenzio. Ester forse non aveva il coraggio di dar vita ad un discorso pacifista con sua figlia o solamente la rabbia era ancora dinamica dentro di lei.

Forza e coraggio, si incitò mentalmente, prima di parlare.

«Quando ho scoperto di essere incinta ho ridotto tutto il mio servizio di bicchieri in frantumi.» esortò con il cuore scalpitante e lo sguardo basso. «Non ne ero felice per nulla. Ancora di più perchè il padre era Christian ed era successo tutto per errore; un madornale errore che mai avrei dovuto permettere che accadesse. Sai, mamma, ti ho già mentito una volta. Christian non mi ha mai trattata bene – contrariamente a ciò che vi ho sempre fatto credere: si è sempre approfittato di me e, precisamente, del mio corpo. Eravamo arrivati ad un punto in cui l'unico dialogo che capitava tenessimo, ogni tanto, era quello sulla lista della spesa che puntualmente andavo a fare io, con le sue richieste scritte su un foglietto. Ho affrontato un periodo lungo e tetro perchè, pur vivendo assieme, non ci vedevamo più durante la giornata a causa dei nostri lavori; per lo meno del mio. Non ho mai capito in realtà cosa andasse a fare lui in giro, fino alle due, tre di notte ma ero arrivata a non interessarmene più. Quando tornava facevamo sesso senza dire una parola; tutto perchè lo voleva lui ovviamente. Io ero giunta a non capire neanche cosa volessi per me stessa. Forse era la libertà quella che più bramavo ma bramavo anche un corpo privo di ematomi. Non l'ho mai detto né a te né a papà ma di botte ne ho prese tante da lui. Quando gli ho riferito che aveva combinato un bel casino, a causa del suo bisogno eccessivo di sesso, si è fatto le valige e se n'è andato senza esitare, ritenendo di non essere pronto ad affrontare un peso simile. Ma non lo ero neanche io, è questo il punto. Sin dal primo giorno, dal primo secondo, ho odiato questo bambino. Ma non perchè era un bambino, ma perchè era suo. Era frutto di un amore che non era amore. Era frutto di un qualcosa di sporco, di un qualcosa di sbagliato e che mi ha fatto soffrire per tantissimo tempo. Ho passato i mesi a nascondermi dietro inutili bugie, senza pensare che tanto – prima o poi – la verità sarebbe venuta a galla. Sistemi talvolta pericolosi per mascherare la mia gravidanza. Mamma, se vi ho mentito, è stato perchè voi mi avete cresciuta in un determinato modo: ho sempre conservato i miei sani principi, come mi è stato insegnato da voi. Ciò che mi è successo andava totalmente contro a tutto quanto. Mi sembrava una cosa fuori dal mondo, che voi non meritavate perchè non era ciò che desideravate per me, che vi aspettavate per il mio futuro, insomma. Avete sempre riposto fiducia in me e, dicendovi la verità, credevo di distruggerla. Lo so, ho sbagliato ma... Ho ventun'anni, per la miseria, e ho tutto il diritto di commettere errori. L'importante è rendersene conto e rimediare, credo. Tutto qui, mamma.» concluse con un profondo sospiro, finalmente liberatasi da un peso troppo più grosso di lei.

Le lacrime che nel frattempo si erano accumulate negli occhi di Ester non le erano passate inosservate e, in qualche modo, si sentiva sollevata per aver almeno suscitato qualche emozione in lei. Ciò che successe in seguito la prese semplicemente alla sprovvista. Nessuna parola; forse non ce n'era bisogno. Vide solamente sua madre alzarsi dalla sedia per poi fare il giro del tavolo ed accoglierla fa le sue braccia calde e protettive. Chiuse gli occhi, aggrottando le sopracciglia – poiché le lacrime che presero a scorrere sul suo viso furono una reazione puramente automatica – e strinse quella donna che le aveva dato la vita e la serenità. Inalò a pieni polmoni quell'odore famigliare, di casa, di affetto con il quale era abituata ad addormentarsi la notte, quando aveva paura del buio, ai tempi della sua adolescenza. E tutto questo bastò per farle percepire nuovamente quel clima di amore, comprensione e mai di abbandono che per qualche ora aveva perso.


**


Finalmente aveva avuto l'occasione di parlare con sua madre, con maturità e senza timori. Si erano scambiate pensieri, paure, sensazioni, proprio come una volta. Ester aveva ammesso di essere contenta, nonostante tutto, di diventare nonna e si era dichiarata un po' delusa del fatto che il padre non fosse Tom: aveva sempre provato simpatia per quel ragazzo. Lo aveva sempre reputato – per quel poco che sapeva di lui – con la testa sulle spalle, maturo ed estremamente dolce.

«Ti parlo da mamma.» le aveva detto nel descrivere il chitarrista. Monique aveva semplicemente annuito pensierosa, essendo consapevole del fatto che quelle parole fossero dannatamente veritiere ma allo stesso tempo che non lo aveva ancora affrontato e quindi non poteva sapere in che direzione fosse sfociato il loro ambiguo rapporto.

Saliva lentamente le scale, come avesse paura di trovalo davanti a sé da un momento all'altro. Da quando si era alzata dal letto non lo aveva ancora visto. Buttò un'occhiata al suo orologio da polso e notò che erano le dieci e un quarto: probabilmente si era svegliato. A quel pensiero, un'enorme sensazione di calore si impossessò del suo stomaco, accompagnato ad un fastidioso tremore che presto si protrasse lungo tutto il suo corpo.

Arrivata in cima alle scale, sussultò appena notando che la porta della sua stanza era semichiusa, segno che il chitarrista l'aveva varcata. Prese un bel respiro e si avvicinò, fino ad aprirla interamente per poter entrare in camera. Quest'ultima era vuota e quasi si sentì sollevata da tale fatto, pur sapendo che prima o poi avrebbe dovuto affrontarlo. Non terminò di formulare quel pensiero che sentì dei passi leggeri dietro di sé. Con il cuore scalpitante, si voltò fino ad incontrare l'alta figura del ragazzo che, perfettamente vestito e profumato, la scrutava con espressione intimidita.

«Ciao.» le venne spontaneo dire, con timore, quasi incontrollata. Si torceva continuamente le mani, per paura di una qualsiasi reazione da parte del chitarrista che avrebbe potuto deluderla, in qualche modo, come spesso era successo.

«Ciao.» rispose Tom, con sguardo insicuro. Restarono secondi interminabili l'uno di fronte all'altra senza dire mezza parola. L'imbarazzo attorno a loro era tangibile, si percepiva immediatamente e la cosa non poteva fare altro che infastidirla.

«Ho chiarito con mia madre.» mormorò Monique, decidendo che non era esattamente il momento per poter affrontare il discorso riguardante la sera prima. Sapeva inoltre che Tom, molto probabilmente, non sarebbe riuscito a sostenerlo: era un ragazzo piuttosto chiuso in questo e un po' timoroso, non voleva metterlo immediatamente a disagio per un qualcosa che si era sentito di fare e di cui si sarebbe forse pentito successivamente. «Possiamo tornare a Berlino.» aggiunse poi, torturandosi continuamente le mani. Tom si limitò ad annuire come a disagio e ancora intimidito. Monique odiava quel clima tra di loro. «Mi vesto e andiamo.» concluse con freddezza.


**


La tensione si era percepita anche durante i saluti: Tom non era assolutamente in grado di fingere. Non sapeva adottare espressioni utili a mascherare un sentimento “negativo”. Molto probabilmente i genitori di Monique avevano intuito che qualcosa fra loro due non quadrava, ma avevano preferito non passare per persone indiscrete e quindi non avevano chiesto nulla a riguardo.

Il viaggio di ritorno lo avevano passato interamente in silenzio: non una parola di circostanza; nulla. Monique si era rifiutata di chiedergli qualunque cosa persino in macchina, forse per paura di una sua reazione negativa, forse per troppo imbarazzo. Non lo sapeva nemmeno lei. L'unica cosa di cui era consapevole era che non ne aveva avuta semplicemente l'intenzione.

Ma ora che Tom aveva accostato sul marciapiede, di fronte casa della ragazza, quest'ultima decise che non avrebbe potuto abbandonare quell'auto senza prima aver affrontato un chiarimento.

«Senti, Tom... Non possiamo far finta di nulla; per lo meno io. Ho bisogno di sapere perchè l'hai fatto ed il motivo di questo tuo apparente pentimento.» esortò, dopo aver preso coraggio. «So che ti scoccia parlarne ma in questo momento la mia mente è affollata da troppe domande e pochissime – se non inesistenti – risposte.» aggiunse, cercando di apparire il più convincente possibile. Il moro teneva ancora lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé, con espressione cupa. Lo vide irrigidire la mascella e le sue mani grandi stringersi a vicenda sui suoi jeans oversize.

«Non ti dirò che non so perchè l'ho fatto perchè non avrebbe senso e soprattutto non sarebbe vero.» cominciò a parlare, deciso a non guardarla. «Voglio solo dirti che è stato un errore. Un errore madornale di cui mi pento con tutto me stesso.»

Monique sentì per un attimo due mani che le stringevano violentemente la gola, impedendole di respirare. Sarebbe stata pronta a tutto, se l'era promesso, ma tutto sarebbe stata in grado di sentire, tranne quello. Qualunque cosa fosse successa in seguito, non avrebbe mai voluto vederlo pentito, perchè lei non lo era. Lei si era lasciata andare alle sue attenzioni perchè il cuore le aveva detto di fare così.

«Un... Un errore?» balbettò incredula.

«Sì, non avrei dovuto farlo.» confermò il ragazzo, procurandole ancora più dolore al petto.

«E perchè allora in quel momento eri convinto di quello che facevi? Ci siamo guardati anche negli occhi, hai avuto tutto il tempo per ripensarci ma non l'hai fatto. Perchè ora ti rimangi tutto? Lo vedi qual'è il mio problema con te, Tom? Non sono mai convinta al cento per cento di quello che succede tra noi. Non riesco ad abituarmi ad una determinata situazione perchè questa in poco tempo viene ribaltata da te. Non riesco a gioire di un qualcosa perchè tu, due secondi dopo, la smonti. Sei imprevedibile, ma il più delle volte in negativo, è questo che mi fa paura!»

«Tu avresti gioito di questa cosa?»

«Io avrei gioito per tantissime cose! Avrei gioito per quel giorno a casa mia, quando mi hai dato quei baci a fior di pelle, avrei gioito per quella sera in albergo, in Malesia, quando ti ho baciato come desideravo, avrei gioito anche per ieri sera, cazzo, se tu me ne avessi dato la possibilità. E invece, guarda un po'? Non sono riuscita a gioire per nessuna di queste cose, per colpa tua! Devi capire che tu non puoi arrivare, stravolgermi le giornate e poi sparire o rimangiarti tutto quello che hai detto o fatto, giustificando tutto questo con “momenti di debolezza” o cose simili. Io non sono un giocattolino o un oggetto esanime che puoi prendere e farci quello che vuoi perchè tanto non sente nulla. Io ce li ho dei sentimenti, purtroppo o per fortuna. Non ho mai avuto certezze nella mia vita: le uniche sono state i miei genitori e la gravidanza, fine! Per un momento ho pensato di aver trovato una figura stabile anche in te ma, giorno dopo giorno, mi dimostri che non è così!»

«La situazione tra di noi è degenerata ed era proprio ciò che non volevo accadesse. Io non potevo immaginare che tu ti saresti interessata a me ed io, allo stesso tempo, ho commesso tantissimi errori che forse ti hanno portato a confonderti le idee.»

«A me confondono solamente i tuoi gesti, sempre così diversi fra loro. Sui miei sentimenti per te sono sempre stata molto chiara e consapevole, almeno con me stessa. Ormai penso non sia più necessario nascondere che provo qualcosa per te che va oltre il semplice affetto o un'ipotetica amicizia che poteva nascere ed apparente era nata tra di noi. Ma tu continui a confondermi sul tuo pensiero che non ho ancora capito quale sia!»

«Io non volevo che tu vedessi in me una figura per la tua vita che io non ti posso dare.»

«Ma almeno dammi una motivazione! Mi devi sempre lasciare con un milione di punti interrogativi per ogni frase che dici! Per lo meno dimmi: Monique, non mi interessi, fattene una ragione e gira a largo!»

«Ma io non penso questo! Perchè devi trarre le tue conclusioni?»

«Perchè non me ne dai tu! Ecco perchè!»

«Non è quello il punto: se non mi interessavi non facevo quello che ho fatto ma... Non posso illuderti, cosa che invece ho fatto per tutto questo tempo.»

Monique sospirò nervosamente, massaggiandosi le tempie con le dita.

«Lo vedi che una risposta chiara non sei in grado di darmela? Secondo te, come posso capire un qualcosa se tu continui a farmi questi discorsi generici e astratti?! Perchè stai parlando di illusione? Vuol dire che non ti piaccio? È perchè sono incinta? Se è così, dimmelo! Sono grande, so farmene una ragione su queste cose!» domandò, cercando di mantenere calma e pazienza, cose che stavano venendo pericolosamente a mancare.

«Non vuol dire quello!» esclamò Tom, in difficoltà. Monique sbattè una mano sulla portiera, palesemente scocciata ed arrivata al limite di quella discussione.

«Sai cosa c'è, Tom? Hai ventun'anni e sei maturo abbastanza per capire come stanno le cose. Quando sarai in grado di fare un discorso che fila e ragionevole, vieni pure a cercarmi, altrimenti fai come ti pare...» disse prima di aprire la portiera e scendere velocemente da quella macchina.

«Schmitz.» cercò di chiamarla il chitarrista, ma quest'ultima prese a camminare verso casa sua, ignorandolo. «Monique.» La ragazza inchiodò sui propri piedi, come impietrita. Si voltò verso di lui, quasi incredula a ciò che aveva sentito: non l'aveva mai chiamata per nome. «Forse è meglio che non ci vediamo più.» mormorò il moro, con il dispiacere negli occhi.

Un forte istinto omicida andò subito a coprire quel senso di sorpresa momentaneo.

La prendeva in giro? Gli piaceva prendersi, per caso, gioco di lei? Una cosa era certa: lei non era più disposta a farsi trattare in quel modo da un ragazzo.

«Tom?» lo chiamò, stringendo le mani a pugno. «Vattene a 'fanculo.» ringhiò per poi voltarsi ed entrare nel suo condominio. Sbatté con tutta la forza che possedeva il portone, causando un fortissimo frastuono lungo le scale, per poi poggiare la schiena contro di esso e scoppiare in un pianto ininterrotto.

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Capitolo 24
*** Epilogue. Is this a goodbye? ***


epilogue

Epilogue.
- Is this a goodbye? -



Erano ormai passati due mesi e mezzo e Monique era giunta al fatidico nono mese. In tutto quel periodo non aveva conosciuto altro che lacrime, occhiaie e tanto dolore.

Non aveva più visto Tom dall'ultimo litigio che avevano avuto sotto casa sua. Era successo ciò che lui aveva chiesto, eppure lei non riusciva a toglierselo dalla testa, come una stupida ragazzina innamorata. Aveva sempre avuto una certa attrazione per i ragazzi che la facevano irrimediabilmente soffrire; forse perchè in fondo le piaceva. Si era sempre considerata una masochista per natura e la cosa non la sorprendeva più di tanto.

La rabbia era andata a riempire anche l'animo di Jessica, la quale era venuta a sapere di tutta la vicenda ed ora viveva in simbiosi con Monique, ancor più di prima.

Aveva deciso di trasferirsi a casa sua, quell'ultimo periodo in cui il bambino sarebbe potuto nascere da un momento all'altro. In caso di emergenza, per lo meno, avrebbe potuto assisterla con immediatezza.

La rossa aveva partecipato solamente a tanti pianti, da parte della sua migliore amica e ciò l'aveva semplicemente mandata in bestia. Aveva conosciuto Tom, molto tempo prima e, sin dall'inizio, si era sempre affidata alla sua dolcezza; aveva riposto in lui tanta fiducia e non vedeva l'ora che finalmente si dichiarasse a Monique. Quell'ultimo evento però, le aveva fatto cambiare radicalmente idea. Si chiedeva come fosse possibile un comportamento simile da parte del ragazzo e non era disposta a credere che tutto ciò che aveva detto alla mora fosse pura verità. Doveva esserci decisamente altro, dietro tutta quella storia.

Monique sedeva rannicchiata sul suo divano, intenta ad osservare senza interesse un quiz televisivo.

La pancia era cresciuta ulteriormente e ormai sentiva solo un grande peso in ogni cosa che faceva. Ora desiderava solamente che il giorno del parto arrivasse il più in fretta possibile, nonostante ciò la terrorizzasse; il suo corpo non riusciva più a reggere.

Sospirò afflitta, quando la figura del chitarrista si fece nitida nella sua mente: aveva immaginato di averlo accanto a lei, il giorno in cui suo figlio sarebbe nato, pur non essendo lui il padre. Avrebbe voluto vicino a sé le due persone che adorava con tutta se stessa, tra cui Jessica. Quel giorno se l'era sempre immaginato così. Forse aveva lavorato un po' troppo con la fantasia, soprattutto sulla presenza del chitarrista, ma vi aveva affidato talmente tanto le sue speranze che niente l'aveva portata a dubitare.

Jessica, nel frattempo, si era seduta accanto a lei, sul divano, in religioso silenzio. La rossa aveva capito che durante quei suoi momenti di riflessione, di tristezza improvvisa, aveva bisogno di essere lasciata in pace, tranquilla ed in sola compagnia del suo dispiacere. Le aveva sempre detto che era del tutto sbagliato e deleterio quel suo modo di fare, ma Monique non voleva saperne di rallegrarsi in qualunque modo, perchè avrebbe sempre sentito la voce del chitarrista nelle sue orecchie, come un tormento.

Monique tuttavia non aveva tagliato i ponti con il resto della band, nonostante con Tom l'avesse fatto. Ogni tanto riceveva le solite telefonate da loro o da David, incuriositi dal suo stato e vogliosi di essere aggiornati su progressi e situazioni. Lei, nonostante tutto, parlava con loro con la giusta serenità; d'altronde non c'entravano nulla, in quella strana storia.

Le faceva male sentire la voce di Bill e nemmeno un sussurro di quella di suo fratello, ma ogni volta pregava perchè fosse affianco a lui, nel momento della telefonata, per sapere qualcosa di lei, pur non dandolo a vedere. Essere sognatrice aveva sempre fatto parte della sua natura, glielo diceva anche sua madre.

Improvvisamente udì il telefono di casa squillare e ciò la catapultò nuovamente nella realtà che per un momento si era allontanata pericolosamente da lei. Si voltò verso Jessica, la quale si alzò velocemente per rispondere, accanto a lei.

«Pronto? Oh, ciao. Sì, sì, è qui. Te la passo.» detto questo, Jessica passò la cornetta a Monique, che aggrottò le sopracciglia, chiedendole con il solo uso del labiale chi fosse.

«Pronto?» rispose, timorosa. Per un attimo sperò di sentire la voce del chitarrista – quasi stupidamente – ma così non fu.

«Hey, Monique, sono Gustav.» la voce del biondino la fece sorridere dolcemente: era sempre un piacere parlare con lui.

«Hey, ciao.» si rannicchiò nuovamente sul divano, con il telefono all'orecchio ed un sorriso spontaneo sul volto.

«Come stai?» le domandò premuroso, come sempre.

«Bene, apparte che non vedo l'ora di partorire perchè questa pancia sta diventando insopportabile. È un miracolo che io riesca ancora a dormire nel mio letto.» ridacchiò la mora, torcendosi una ciocca di capelli tra le dita. Udì la lieve risata del batterista.

«E il piccolo? Da sempre i suoi calcetti?»

«Quelli non mancano mai... Ultimamente sono anche aumentati. Diciamo che ci tiene a farsi sentire.»

«Quindi sei decisa a non sapere se è maschio o femmina, fino all'ultimo?»

«Esatto. Voglio fare tutto quanto inconsapevole di ciò che ne uscirà fuori.»

«Beh, poi ci dovrai subito chiamare per dirci se sarà un lui o una lei.»

Monique esitò per qualche attimo. Non parlò; semplicemente fissò il vuoto pensierosa. Un po' di tempo prima, non le avevano detto che per quando il piccolo ci sarebbe stato, loro l'avrebbero visto?

Aveva paura di porre quella domanda, ma doveva sapere.

«Scusami, Gustav ma... Non avevate detto che... Ci sareste stati?»

«Il progetto del tour è stato terminato prima del previsto e quindi sono state anticipate le date. Non le avevamo ancora confermate alle fans e un po' di tempo fa sono uscite quelle definitive. Non te l'ha detto Tom?»

Monique strinse il filo della cornetta con tutta la forza che possedeva.

«No... Non me l'ha detto.» rispose freddamente.

«Beh, perchè... Partiamo domani.» Quelle parole furono registrate dal suo cervello qualche secondo più tardi. Fu come se non avesse compreso appieno cosa ciò volesse dire. «Per questo ti ho chiamato... Per chiederti se domani vieni all'aeroporto, così ci salutiamo.» aggiunse il biondo.

Faceva quasi fatica a respirare. Sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato ma non credeva così presto e in una situazione del genere, che solo ultimamente si era venuta a creare.

Chiuse gli occhi, fino a stringere le palpebre quasi violentemente. Non sarebbe riuscita a guardare nelle pagliuzze nocciola del chitarrista... Non sarebbe riuscita a sopportare il suo silenzio, il suo allontanamento, il suo non volerne sapere di lei. Non voleva uscire da quell'aeroporto con la consapevolezza di non aver salutato solamente una persona; quella che le era stata più vicino in quel periodo, quella che amava.

«Non lo so, Gustav...» mormorò tremante.

Stupida, si disse. Gli altri non c'entrano.

«Monique... So qual'è la tua situazione con Tom, in questo momento. Però, ci teniamo che tu ci sia. Teniamo a salutarti, d'altronde ci siamo tutti affezionati a te e... Non è giusto che ci rimettiamo sia te che noi, per colpa di altri fatti.» provò nuovamente Gustav con tono speranzoso, al che Monique si rese conto che non avrebbe mai potuto dirgli di no.

«D'accordo, Gustav. Lo faccio solo per vedere voi.» si arrese con un lieve sospiro. Avrebbe potuto farcela. Doveva dimostrare che lei era più forte di un ragazzo che l'aveva presa e trattata come meglio gli era piaciuto, senza preoccuparsi dei suoi sentimenti. Sì, lei era più forte.

«Grazie, Monique... Allora ci vediamo domani mattina. Alle dieci in aeroporto, d'accordo?»

«D'accordo.»

«A domani.»

Passò la cornetta a Jessica, con lo sguardo perso nel vuoto e come un'automa. La rossa la prese e la ripose al suo posto, per poi tornare a scrutarla incuriosita.

«Domani partono.» soffiò Monique, senza guardarla, proprio mentre sentiva un improvviso bruciore prendere spazio nei suoi occhi, ormai fin troppo conosciuto.


**


Guardava l'entrata di quell'aeroporto con distacco, da dietro il finestrino dell'auto di Jessica. Si stringeva spasmodicamente le mani, esitando sul da farsi. Poteva nitidamente riconoscere le figure dei ragazzi al di là del vetro. Tutti aspettavano il suo arrivo. Tutti, forse, eccetto uno.

Dannato coraggio, veniva sempre a mancare quando si trattava di dare dimostrazione a qualcuno. Maggiormente se questo qualcuno era il ragazzo per cui aveva irrimediabilmente perso la testa.

«Dai... Prima o poi lo devi affrontare.» la incoraggiò mestamente la rossa, affianco a lei e con tono lieve. Solamente lei era in grado di capire cosa provasse nel profondo. Quel senso di amore infinito, accompagnato ad odio profondo. La felicità ed il rifiuto nel doverlo rivedere dopo due mesi e mezzo di completo silenzio. Tante domande, come sempre, andavano a formularsi nella sua mente.

Come avrebbe reagito nel rivederla? Avrebbe avuto il coraggio di salutarla, dopo quello che si erano detti?

Decise che rimanere in quella macchina a pensare sulle varie possibilità era del tutto inutile; l'unico modo per scoprirlo era uscire di lì e camminare dritta in contro alla realtà.

Sospirò pesantemente e finalmente decise di scendere dall'autoveicolo. Salutò Jessica con un gesto della mano: sapeva che sarebbe rimasta lì in macchina, fino al suo ritorno, e forse era meglio così. Avrebbe dovuto affrontare tutta quella situazione da sola, con le proprie gambe.

Sentiva il cuore scoppiarle da un momento all'altro in petto, mano a mano che la distanza fra loro diminuiva. Le ante scorrevoli si aprirono davanti a lei, non appena vi fu di fronte, e l'immagine della band si fece più chiara. Il primo a vederla fu Georg, il quale si illuminò in un radioso sorriso e le fece un cenno con la mano.

Avanti, Monique, continuava a ripetersi mentalmente, mentre camminava verso di loro. Gli occhi, per un attimo si posarono sul chitarrista e rabbrividì nel constatare che quest'ultimo la guardava con espressione affranta in viso. Non sembravano pochi mesi a separarli... Sembravano infiniti anni.

«Ciao, Monique.» la salutò calorosamente David, per poi abbracciarla con affetto, facendo ben attenzione a non darle fastidio al ventre. «Ma guarda questa pancia com'è cresciuta!» esclamò entusiasta, subito dopo essersi separato da lei, la quale sorrise intimidita.

«Già.» mormorò.

«Non puoi capire quanto mi scoccia non poter essere presente al momento del parto! Avrei voluto vedere il fagottino sin dalla nascita, accidenti!» si lamentò Bill, sbattendo uno stivale per terra, com'era solito fare nei suoi momenti in cui i capricci prendevano piede.

«Si vede che doveva andare così. Se vuoi ti manderò una foto.» ridacchiò Monique, ma ancora a disagio. Il chitarrista era a qualche centimetro da lei, anche se non troppo ravvicinato, e continuava a scrutarla in silenzio.

«Sì, voglio la foto!» esclamò entusiasta il vocalist, battendo ripetutamente le mani.

Monique sorrise: quel simpatico vizio non se l'era ancora tolto.

«Sei già al nono mese, vero?» domandò Georg.

«Sì, tra non molto dovrebbe nascere.» annuì la mora, con una lieve nota di emozione nella voce.

Non credeva fosse possibile che un domani sarebbe stata entusiasta della nascita del suo bambino o della sua bambina. Dal primo giorno aveva odiato quell'esserino che lentamente si formava dentro di lei ma, con il passare del tempo, non aveva potuto fare a meno di accettarlo e soprattutto di amarlo. Aveva ancora seri dubbi su come sarebbe stata in grado di crescerlo ma ultimamente aveva cercato di essere più positiva a riguardo, anche con l'aiuto di Jessica che, sapeva, le sarebbe sempre stata accanto, ad ogni difficoltà.

«Non farcelo qui in aeroporto, mi raccomando.» scherzò Gustav. Monique scoppiò a ridere.

«Penso sia questione di giorni, non di minuti!» esclamò divertita. «Comunque... Quando vi rivedrò?» domandò successivamente, con timidezza, decisa a non degnare di un solo sguardo Tom.

«Non ne abbiamo la più pallida idea, anche perchè dopo il tour dovranno tenere tantissime interviste, saremo sempre in viaggio, tra Asia, America o altro. Non te lo so dire.» rispose David, in tutta sincerità. «Sappi solo che ti vorrò di nuovo al lavoro, eh.» le sorrise successivamente.

Monique si sentì attraversata da una scossa elettrica.

Tornare a lavorare per loro, non appena avrebbe potuto? Ciò significava tornare a stare in contatto con il chitarrista per molte ore della giornata? Non era convinta che per quel momento lo avrebbe rimosso dalla testa e soprattutto dal cuore ma, d'altro canto, era l'unico lavoro sicuro che possedeva.

«D'accordo.» sorrise appena, abbassando lo sguardo sui suoi piedi, con fare impacciato.

«E ogni tanto porta il piccolo o la piccola allo studio, così ci gioco un po' e svolgo i miei doveri di zio!» esclamò Bill. «E ricordati che se sarà maschio, avrà come secondo nome il mio!» aggiunse con sguardo altezzoso.

«Sì, Bill, io mantengo le promesse.» rise Monique.

«Ragazzi, forse è arrivato il momento dei saluti. Tra non molto avverrà il check in.» annunciò David, con un gran dispiacere negli occhi. «Ciao, piccolina. Ci vediamo, spero, presto. E auguri per il piccolo o la piccola.» disse poi, abbracciando affettuosamente la mora, la quale ricambiò la stretta. Non seppe dire come mai le si formò un gran magone in gola, d'altronde li avrebbe rivisti prima o dopo. Si premurò di dare la colpa alla sua gravidanza, la quale la rendeva più suscettibile e più facile alle lacrime, da qualche tempo.

Abbracciò, uno ad uno, ogni componente della band, escluso Tom. A dire il vero, era talmente frastornata che non capì nemmeno dove fosse. Aveva paura di ricevere un'ennesima delusione, la mazzata finale; quella che l'avrebbe fatta tornare a casa a pezzi.

Dopo aver ricevuto l'ultimo bacio sulla guancia da parte di Bill, li vide allontanarsi appena. Delusa, si voltò per uscire da quell'aeroporto ma una voce ormai fin troppo conosciuta, la fece inchiodare e sobbalzare.

«Monique.» Tremante ed incontrollata, si voltò lentamente nella direzione da cui proveniva quel piacevole e caldo richiamo. Di fronte a lei, Tom la osservava timido e triste. Sentir pronunciare il proprio nome per la seconda volta dal chitarrista era un qualcosa di indescrivibile. Milioni di brividi si protrassero lungo tutto il suo corpo. Non disse nulla semplicemente perchè nessuna parola intelligente o adatta alla situazione le veniva in mente. Se l'aveva fermata un motivo vi era e lui sapeva cosa dirle, perciò decise di attendere una sua qualunque frase. «Volevo... Dirti una cosa.» mormorò il chitarrista, stringendosi le mani. Quell'azione nervosa non passò inosservata a Monique, la quale non si sentiva da meno. Una grande ansia, accompagnata a voglia di stringere forte a sé il ragazzo, si liberò in lei. «Ti ricordi quando ti ho detto che non volevo illuderti con false speranze?» le domandò cautamente. La mora si limitò ad annuire appena, perchè altro non riusciva a fare. «Vedi... La mia vita è fatta di questo: viaggi, concerti, groupies, alcol. Io, non sono in grado di prendermi cura di te e non sono soprattutto in grado di prendermi cura di un bambino. Sapevo che sarebbe arrivato presto il momento in cui io sarei dovuto andare via e per questo mi sono sempre spaccato la testa in quattro per non farmi prendere da te e per far sì che tu non facessi lo stesso con me. In macchina mi hai chiesto una spiegazione e io te la sto dando: in tutto questo tempo, dal primo giorno in cui tu hai messo piede nel nostro studio, io ho avuto paura di te. Sapevo che eri una minaccia per me e che saresti stata una ragazza in grado di mandarmi fuori di testa. Perchè eri dannatamente bella, perchè eri dolce ed altruista, perchè eri così indifesa che avevo voglia di proteggerti da tutto e da tutti. Ma al tempo stesso sapevo che non avrei potuto e forse non avrei neanche saputo farlo, in vista di questi avvenimenti. Non potremmo stare insieme, capisci, Monique? Semplicemente perchè non riuscirei a sopportare la troppa lontananza e, conoscendomi, non riuscirei neanche ad esserti fedele. Stiamo parlando di tanti mesi di distacco, non di qualche giorno ed io sono pur sempre un ragazzo con i propri bisogni. Per di più un ragazzo che mai ha provato l'amore, quello vero. E io non vorrei vederti stare male per me... Non di nuovo. È per questo che ho sempre cercato di tenerti lontana, inizialmente, trattandoti perfino male. Non volevo che tu ti affezionassi a me, perchè poi io avrei fatto lo stesso con te e sarebbe stato più difficile porre un muro fra noi due. Ma poi non sono riuscito a negare l'evidenza e cioè che io sono sempre stato preso da te e più continuavo a convincermi del contrario, più i dubbi aumentavano, rendendomi nervoso. Questo spiega tutti gli errori che ho fatto, avvicinandomi ulteriormente a te, con baci, tenerezze e... L'ultima cosa che ho fatto. Perchè ho cercato di usare sempre razionalità ma il mio istinto non ha potuto fare a meno di agire quando più ne sentiva il bisogno. Averti vicino è sempre stata una tortura, dico sul serio, eppure mi ero talmente tanto preso a cuore la tua gravidanza che non avrei potuto ignorarti. Mi dispiace se alla fine non sono riuscito a tenerti lontana da me e che in tutto questo tempo ti ho solamente confuso le idee e fatto del male; non era assolutamente mia intenzione. Spero solo tu abbia capito il mio punto di vista e mi possa perdonare.»

Sapeva che non sarebbe riuscita a reggere quello sguardo penetrante un secondo di più.

Era semplicemente incredula; in pochi secondi aveva risposto ad ogni singola domanda che si era posta in tanti mesi, diventando pazza. Tutto quel tempo a chiedersi cosa mai passasse per la testa del chitarrista ed alla fine la risposta era semplice. Aveva sempre escluso la possibilità che potesse essere attratto da lei, a priori. Non perchè non l'avesse presa in considerazione, ma perchè le pareva semplicemente assurdo e troppo bello e semplice per essere vero. Non poteva negare di aver dubitato a riguardo, in certi momenti, ma poi la sua mente era sempre tornata a formulare ipotesi decisamente più pessimistiche e finalizzate a provocarle ulteriore dolore.

Ora si sentiva combattuta: da una parte, quella istintiva, si sentiva felice di tale ammissione perchè ciò voleva dire che non si era solamente fatta tanti film su loro due ma che ciò era passato anche per il cervello del chitarrista; dall'altra, quella dannatamente razionale, si sentiva furiosa. Si sentiva furiosa perchè avrebbe potuto risparmiare tanti mesi di agonia, tanti mesi di interrogativi e speranze sui sentimenti del ragazzo, quando in realtà era tutto molto più semplice. Era stato solamente esasperato e complicato dal moro, pur non avendolo fatto intenzionalmente, come le aveva detto.

Abbassò lo sguardo, stringendo le mani a pugno, nelle tasche del cappotto. Si sentiva quasi presa in giro.

«So che ti sentirai furiosa con me e non ti biasimo. Avrei potuto risparmiarti tanti nervosismi, soprattutto perchè sei incinta. Ma d'altro canto sono un ragazzo giovane e di errori e casini, a quest'età, se ne commettono spesso. Non voglio assolutamente giustificarmi ma... E' la verità.» disse mortificato.

«Tom, muoviti, dobbiamo fare il check in!» gridò a qualche metro di distanza il vocalist, non consapevole di ciò che nel frattempo fra Tom e Monique stava accadendo.

«Bill, un secondo, arrivo, cazzo!» esclamò nervosamente, tornando poi ad osservare la mora in viso. «Ti prego, dimmi per lo meno qualcosa. Non farmi partire in questo modo, senza avermi assicurato che non mi odi.» la implorò con sguardo timoroso.

Monique non sapeva nemmeno che dire. Si sentiva strana, come non si trovasse realmente in quell'aeroporto. Voleva allontanarlo da sé ma allo stesso tempo non voleva separarsi da lui. Ed il tempo stava scorrendo decisamente troppo in fretta per permetterle di ragionare con la giusta calma.

«Non so cosa vorresti che ti dicessi... I fatti sono questi e... Sinceramente non saprei che dire. Qualunque cosa sarebbe inutile; d'altronde, sei stato chiaro: fra noi non può esserci nulla. Quindi, più che dirti “Ciao, Tom, fai buon viaggio”, non saprei che fare.» mormorò apatica. Una frase priva di enfasi, priva di rabbia... Solamente colma di tanta rassegnazione ed impotenza.

«No, Monique, per favore, non...»

«Tom! Cosa vuoi che ti dica?! Mi hai appena chiuso una porta in faccia! Pretendi che io ti salti addosso e ti abbracci con tutte le mie forze, ripetendoti quanto io tenga a te e quanto mi mancherai?! Sono una persona e ho dei sentimenti anche io! Mi sento ferita, mi pare normale!»

«Io non pretendo che tu faccia questo, ti chiedo solo di non guardarmi con quegli occhi delusi. Fa male.»

«Anche a me fa male tutto questo, Tom.»

«Lo so e mi sento una merda, in questo momento, lo giuro!»

«E quindi? Non riesco a capire cosa vuoi da me!»

«Vorrei poter partire senza alcun rancore da parte tua. Vorrei poter tornare a Berlino e sapere che posso salutarti con il sorriso in faccia.»

Monique restò qualche attimo in silenzio, meditabonda su quelle parole. Non poteva affrontare tutto ciò con quella superficialità. Le cose non potevano tornare a posto da un secondo all'altro. Non era un corpo esanime pronto a subire qualsiasi pugnalata, senza percepire dolore.

Lo scrutò attentamente, come rapita, fino a che non sollevò con lentezza la mano per posarla sul suo braccio.

«Sono contenta che tu riesca ad affrontare tutto quanto in modo così semplice, Tom... Sono davvero contenta per te. Fai buon viaggio.» disse affranta, facendo per voltarsi verso l'uscita, quando il ragazzo la afferrò delicatamente per la mano.

«Monique, per favore...» provò nuovamente, fino a che David, da lontano, non richiamò la sua attenzione con maggiore enfasi. Tom strinse gli occhi combattuto e pressato. «Per favore...» ripetè in un soffio, dopo averli riaperti lentamente. Monique si sentì come trafitta da una lamina tagliente, in quello stesso istante. Sentiva che stava per scoppiare irrimediabilmente in lacrime, ma non l'avrebbe fatto davanti a lui.

«Mi mancherai.» sorrise appena, con gli occhi lucidi ed uno sguardo triste in viso.

I secondi in cui percepì le loro mani calde e lisce scivolare fra loro, allontanandosi millimetro dopo millimetro sempre di più, furono l'ultimo brivido che il suo cuore ebbe il piacere di provare con lui, prima di osservare quell'aereo bianco sfrecciare veloce nel cielo limpido ed infinito di Berlino.

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