Café

di crisalide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** Carnival ***
Capitolo 3: *** Il cuore di pietra e l'anima perduta ***
Capitolo 4: *** Oneiroi ***
Capitolo 5: *** Luce artificiale ***
Capitolo 6: *** Portatore di luce ***



Capitolo 1
*** prologo ***


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                                                             Café

 

 

La notte scura e piovosa questa sera, è più che uno splendido scenario.
La luce dei lampioni si perde e viene soffocata, mentre la pioggia, indifferente, scaccia dalle strade le persone indesiderate.
Solo i relitti si muovono, questa sera. Solo i dannati, i caduti.
I muri di tenebra sono sorti all’orizzonte per coprire il tramonto, e la luna e le stelle gli hanno lasciato il loro posto. Per splendere da qualche altra parte, in un’altra notte.

 Questa notte insonne avanza, verso un posto luminoso. Questa, è una notte pericolosa.

 Attenti umani, attenti a non perdervi.
“Non ritornerete più indietro.
Non vedrete più la vostra casa.”

È il sussurro di una voce che sembra cantare.
La pioggia, lava via le vostre tracce. La vostra immagine. La vostra vita. Perché la pioggia, dopotutto, non è che abbia mai portato via il dolore. Solo la sporcizia.
Complice pericolosa di questo teatro dannato.

“A cielo aperto.”

È proprio una canzoncina, un avvertimento soffocato dalla pioggia.
Non avete timore di tutto ciò, attori inconsapevoli?
Non sentite l’ansia crescere nei vostri corpi  fino a farvi correre, una corsa disperata e senza ragione? Poiché questa non è la vostra ansia, bensì ansia passiva: e come accade nel mondo, questo vuol dire che sarà sempre, peggiore dell’originale.
E allora correte, correte urlando nella vostra anima.
Rifugiatevi nei bar, attori.
Vi stiamo aspettando.
“Vi stiamo aspettando.”
Una canzone che si è elevata ad una promessa.

 “Mi scusi, potrei stare sotto l’ombrello con voi?” Una figura, avvolta in un cappotto nero più della notte malata si ferma e guarda il ragazzo che l’ha fermato sotto la pioggia. Non discrimina, porge volentieri l’ombrello per dare spazio alla figura bagnata che con tanta cortesia gli aveva posto una domanda così semplice, così cortese. Cantando.
Osserva la figura bagnata del ragazzo, eclettica: i suoi capelli bianchi sono appiccicati al volto pallido, in rivoli d’acqua che lo sporcano. Un cilindro in bilico sulla testa, sembra stia per cadere. Pare appena uscito da un teatro, ed il sorriso cortese ora somiglia quasi ad un ghigno.Un personaggio complesso, composito.
Che strani incontri si possono fare, in notti come queste.
Insieme l’uomo e il ragazzo passeggiano sotto l’ombrello, e intorno a loro la pioggia cade e nasconde, nasconde i passi degli scomparsi.
“ Dove deve andare? Non gliel’ho chiesto, quando l’ho incontrata.” Il ragazzo eclettico riprende la parola con voce suadente, sensuale. “ Per la verità avevo in mente di rifugiarmi in qualsiasi posto caldo che avessi incontrato, se mi avesse ispirato.” È vero, la figura avvolta nel cappotto quella sera era uscito per piacere, piacere portato dalla nebbia e dalla pioggia. Lo strano incontro con quel ragazzo in realtà lo faceva gioire. “ Se le cose stanno così, mi permetta di guidarla. Conosco un café che di certo catturerà la sua ispirazione”. Il ragazzo lo guarda sorridendo, cortese, nello sguardo la sicurezza che la sua proposta verrà accettata.
Fiducioso l’uomo segue il ragazzo, e all’eroinomane all’angolo sembrano quasi un cane e il suo padrone che lo tiene al guinzaglio. Il ragazzo con il cilindro sembra esser nato, da questa notte. Sembra esserne il figlio.
Finalmente, i due giungono ad un bar, con la vetrina caldamente illuminata dalle luci all’interno, ed il vetro appannato.
Entrano, il cane ed il padrone, facendo tintinnare la porta al loro ingresso. I pochi avventori voltano lo sguardo vacuo. Che strano, pensa l’uomo. Sembrano tutti vuoti.
Ma intanto la presenza calda e assuefacente del ragazzo lo porta più avanti, verso il fondo del locale con le pareti coperte dai pannelli di legno pregiato, dai tavoli alti. Sulla parete più lontana, dove si stanno dirigendo, c’è un camino acceso.
Che riempie il piccolo locale di calore e luce soffusa.
Seduto ad un tavolo accanto al camino acceso, un uomo sembra aspettare, e intorno a lui l’aria calda del cafè si trasforma nella pesante presenza dell’anima della nebbia e della notte. Posa lo sguardo sui due arrivati e immediatamente l’ultimo arrivato cade, in quello sguardo.
“ Ha appena preso la strada per giungere all’inferno, signore.” Il ragazzo sorride e si siede contro l’uomo seduto, sfregandosi contro il suo corpo e facendo quasi le fusa.
L’uomo misterioso, invece, non sembra accorgersene. “ La invito a sedersi alla nostra tavola, prego.” Fa un gesto ampio con il braccio, e lo straniero si siede subito, togliendosi il cappotto.
Costui guarda l’uomo che gli ha appena parlato, anacronistico. L’uomo davanti a lui sembra totalmente sorto da un’altra era, come se vivesse contemporaneamente in due realtà diverse.
“ Lo abbiamo tolto alla notte, quest’ oggi. Dal suo cupo grembo l’abbiamo strappato, per farlo morire nel mondo: ha seguito il mio servitore che lo ha portato da me, in questo piccolo café. Il café dei perduti, lo chiamano. Ora che è qui, il sole non sorgerà più nelle sue giornate, sa? Il tempo stesso, non avrà più significato. Si guardi intorno. Ognuna delle persone qui presenti appartengono ad un’era differente, e sono stai tutti portati qua da noi. Ora che per l’eternità farà parte di questa corte, non vuole sentire una storia?”
L’uomo si sente perduto, strappato alla sua vita.
( Quale vita?)
La sua miseria rende ogni giornata della sua VECCHIA vita uguale alla precedente. Squallida e vuota. Essere lì, in quello strano posto, rappresenta per lui una caduta e una rinascita. Rappresenta l’errore del sistema.
“Ogni sera, il nostro signore racconta della malizia e della miseria di questo ed altri mondi, di questa ed altre realtà. Le vuole sentire insieme a noi? Si sposterà con questo teatro itinerante?”  Il ragazzo pallido parla con sarcasmo, la risposta è già chiara per lui, fantasma giullare della corte rubata. L’uomo annuisce e si prepara al racconto.
Il bardo, signore delle menti della sua corte, mettendosi comodo, cinge con un braccio il ragazzo accoccolato al suo fianco, e guarda il nuovo arrivato con intensità. “Molto bene. Si metta comodo, prenda un caffè ed un dolce, perché fra poco inizierò la mia storia.”

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Capitolo 2
*** Carnival ***


 

Carnival

 

“Questa è una storia di neve e sangue”.

Il bardo sorride e respira piano. Accoglie il ragazzo giocoliere tra le sue braccia, lo cinge al suo petto caldo. Capelli color della neve in contrasto con la camicia rosso cupo.

E le ombre del fuoco che danzano sui volti.

Atmosfera lontana per gli occhi vuoti della corte rubata, poveri.

Hanno perso i fili della loro vita.

“ La neve era scesa ancora, quella notte.                                                                                                                                      Aveva soffocato nel suo silenzio il paese, sposandosi con le tenebre. 

Aveva inghiottito molti viandanti, quella notte, guidando i loro passi nel vuoto così che non torneranno mai più nelle loro case, i raminghi.

Il freddo e la tenebra erano passati disturbatori anche nei sogni dei senzatetto, visitandoli e togliendogli la vita piano piano, rubando loro il calore del sangue.

La mattina dopo, le strade del paese si sono riempite di nastri e coriandoli, di maschere e mantelli colorati.

Una lunga processione danzante e ridente, che lasciava le impronte di fango nella neve, violentando la sua purezza e butterandone la superficie riempendola di carta bagnata, che cedeva i suoi colori barbari corrompendo il freddo candore.

Occhi persi e spaventati di una bambola bambina che si è persa.

Occhi di vetro e labbra rosse appena socchiuse che incantano.

I suoi soffocati singhiozzi non si sentivano, erano coperti dalle fragorose grida delle maschere che le danzavano e le correvano intorno, la urtavano facendola cadere.

Nel ricordo della neve che ora è diventata fango.

Il freddo sole che splendeva in cielo esaltava i colori, le risa, le grida.

Scioglieva la neve, che poco a poco scompariva anche in cima ai rami spogli degli alberi.

E sui rami, macchie nere che con occhi fissi cercavano la preda.

Le loro piume nere erano presagi e le loro grida stridule profezie.

Canti di morte.

Intanto, sotto di loro la processione continuava, le madri ed i bambini coperti da tessuti colorati e sgargianti ballavano e giocavano con gli altri piccoli personaggi di fiabe incantate, pestando le loro lunghe gonne o i loro mantelli da principe, affrontandosi con spade di legno che producevano rumori secchi, forti.

I clown truccati elargivano sorrisi e risa sguaiate, simili a gargoyle rumorosi, incubi che la notte aspettano accanto al letto, sussurrando il proprio nome e ridendo nelle orecchie dei bambini.; i genitori delle piccole maschere ridevano e incitavano i propri figli , come pescivendoli ansiosi di vendere ed elogiare il proprio prodotto,  e si sentivano orgogliosi; felici di essere bravi genitori, davano piccole pacche affettuose ai propri figli.

Come medici supervisori di un reparto di pazzi.

I bambini, infine, erano marionette senza occhi che gridavano con voci stridule, giravano su sé stessi, correvano spingendo e sbracciandosi , deridevano e lanciavano coriandoli agli altri figuranti.

Il caos non ha ragione.

E non dà sicurezza agli occhi persi nei sogni.

Principi e principesse danzavano e si corteggiavano nel fango, fate e folletti si rincorrevano compiendo percorsi ampi, scivolando ricoprendosi di melma; purezza che un tempo è stata neve ed ora solamente acqua marrone, che si unisce costretta alla terra per creare il fango dell’esistenza comune.

Nella comunità il freddo, dono di una pallida mattina d’inverno, viene perduto e sciolto nel calore e nel sudore del corpo che si muove isterico, a scatti in balia del gioco e delle danze.

Delle grida stridule riecheggiavano dall’alto dei rami, -il freddo è dono- dicevano.

Il freddo che si unisce in comunione col corpo e lo rende proprio, diventa un tutt’uno e batte a ritmo con il cuore.

Rendere proprio il dono ed elevarsi ad una gioia superiore.

E  perdere i propri occhi nel cielo coperto e nelle nuvole, nell’aria e nel vento gelido, che non porta i sottili nastri di calore primaverile, i nastri della rinascita.

Tutto ciò è ancora lontano.

Così nella marcia dei pazzi, degli incubi, dei mercanti e delle piccole figure di fiabe incantate, si è perso il ricordo della neve e del freddo, della notte ladra di persone: gli occhi cuciti dalla realtà non vedono più lontano di sé stessi.

Soltanto una piccola figura, coperta da un cappuccio rosso, è idolo e reliquia della notte, la vittima designata: poiché pura e vergine, la realtà non l’ha ancora toccata.

Ed è per questo, che i cancelli dell’illusione si apriranno eterni davanti al suo pallido volto.

Nella corsa, nella caotica danza, tra grida e affronti, amori mascherati e giochi, lei non ha scelto: non ha calpestato la neve e con muto terrore ha portato i suoi tremanti passi nella processione.

Oh, quale orrore io qua vi racconto…

Era perduta, per coloro che felici e sorridenti la vedevano camminare e scostarsi con l’orrore negli occhi, guidava la lontana danza del suo corpo su note arcane, per sentieri poco percorsi, per farla sua.

La paura non ha moralità.

Tra gli spintoni e i corpi soffocanti, la bambola bambina dal rosso mantellino continuava il suo cammino incerto, protendendo le piccole mani pallide, esili manine tremanti nella cieca speranza e bisogno di trovare un appiglio sicuro, nell’ansia, nel terrore del suo piccolo cuore palpitante, il suo petto si alzava e si abbassava velocemente, e l’opprimente paura aveva riempito la piccola crisalide nella sua mente, provocando l’errore che da inizio alla follia; cadeva nell’oscuro pozzo  della disperazione senza potersi salvare,  annegava già nella fredda e buia acqua della fine, l’aria già mancava nei piccoli polmoni affaticati.

Nell’acqua fredda, già il muto silenzio presagiva la morte, e l’oblio cadeva nella mente della bambola bambina, portandola con sé.

Dall’altra parte dello specchio.

Una mano s’immerse.

Scacciò i demoni dell’oblio e del freddo, e con un urlo strozzato la  bambina riprese a respirare e aprì gli occhi, scoprendo gli incubi, i mercanti e il piccolo principe avventato ancora accanto a sé, ancora urlanti e sudati, ma lontani.

Una mano grande e calda, ora la proteggeva dalle danze e dalla follia, dalla comunità di orrori: un ragazzo pallido, imponeva la sua presenza su di loro, scacciano i demonietti danzanti: mano nella mano, lui e la bambina erano racchiusi in una teca di vetro, reliquiario.

Il ragazzo sorrise dolce alla bambina oramai rassicurata.

Camminavano piano, fuori dal tempo, con passi lenti avvolti dalla sacralità: il lungo cappotto nero del ragazzo squarciava i colori dei costumi, i neri capelli gli ricadevano sul volto bianco dall’espressione triste, come incantata, con lo sguardo lontano e la sottile bocca socchiusa, come se guardasse dentro un sogno.

Rumori del passato.

La bambola bambina, invece, aveva occhi solo  per l’angelo,  e camminava con la testa appena alzata, per guardargli il volto, mentre i suoi capelli le ricadevano in morbidi boccoli sulla mantellina.

Mano nella mano, uscirono dalla processione, incamminandosi nella neve intatta, bianca, e lasciando dietro di loro il ricordo del loro passaggio: le pesanti impronte dell’angelo, mentre le impronte della bambina scomparivano, dietro i suoi passi.

Un corvo si posa sulla spalla del ragazzo, e canta un requiem.

 

 

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Capitolo 3
*** Il cuore di pietra e l'anima perduta ***


          

                                              IL CUORE DI PIETRA E L'ANIMA PERDUTA

 

 

“Vi racconto una storia.”

 

“Tra le mille realtà confuse tra questo e altri mondi, c’era una volta una statua di marmo in un giardino. Lei aveva visto sfiorire mille amori in quel giardino, eppure d’amore andava cercando.

Il suo cuore di marmo… non si era lasciato decomporre dalle frivolezze e da fasulli amori che vivono vita di farfalla, non dalle lacrime e dai litigi bugiardi, non dai cuori di ferro: il suo cuore bianco era puro.

Nel giardino, senza ricordi discesero cento inverni e cento primavere.

Passavano, abbandonando petali di fiore o foglie morte sulla sua pelle fredda, accarezzandola nei giorni ventosi, lavandola nei grigi giorni di pioggia, coprendola con la neve fredda, ed il ghiaccio.

E la statua nell’eternità, diventò la genitrice del giardino che aveva visto crescere.

Il suo cuore batteva un colpo ogni mille anni.

Un breve palpito, per ricordare agli dei del piccolo miracolo nascosto tra le fronde dei salici.

Una vita donata ad un corpo di pietra bianca, e a degli occhi vuoti.

Eppure, lei scorgeva e sentiva, lei aveva abbastanza coscienza da dolersi e da gioire, se di gioia nel mondo si può parlare.

Un giorno, con le nebbie dell’autunno nel giardino entrò anche una fanciulla, che a lungo si attardò tra gli alberi e ai piedi della statua, sola. Lesse, scrisse lunghe lettere dimenticate e racconti immaginari, cantò di canzoni morte con voce flebile; ma la statua s’avvide che per lunghi periodi taceva e stava immobile, con gli occhi color del legno fissi nella nebbia o chissà dove, in quale realtà.

All’approssimarsi delle tenebre, la ragazza si ritirò tra le ombre e sparì nascosta dai veli della notte e della nebbia.

Quali furono i suoi sogni o i suoi pensieri quella notte, non ci è dato sapere.

Il giorno dopo, splendeva il sole sul giardino, e lei non tornò: ed ancora per giorni e giorni il sole splendette nel cielo, quasi come se fosse l’ultimo omaggio dei raggi tiepidi, prima dell’inverno.

Tempo che scorre nel tempo.

La statua si crogiolava sotto quest’ultimo sole, e si sentiva viva poiché i raggi riscaldavano le sue fredde membra di pietra, e così essa pensava che fosse la vita che scorreva nel corpo degli uomini mortali.

Morto il sole, la nebbia fece ritorno nel giardino, e con le sue grigie vesti portò anche la fanciulla.

Quest’ultima ancora lesse, scrisse e cantò.

Tuttavia, questa volta i suoi occhi perduti negli invisibili giochi della nebbia indugiarono più tempo sulla statua, e l’osservarono in silenzio, quegli specchi vuoti, che ogni tanto lasciavano fuggire lampi di dolore e malinconia; ma di rado, perché gli occhi non riflettono che l’anima, e la fanciulla da tempo aveva donato la sua alla bruma, e così dentro era vuota.

E così era persa.

Ed è forse per questo, che nel guardare la statua lei riconosceva se stessa, vuota dentro ed eterea.

Tra i pensieri immortale.

Così, forse per scherzo o per compassione, allungò le dita gelide a sfiorare la pietra, mani che nascondevano sotto la loro pelle diafana ancora il calore della vita pulsante, che scorreva trasportata nel sangue.

La fanciulla, non sapeva di star toccando un piccolo miracolo.

Una piccola illusione.

E se questa illusione fu maligna o miserevole, non si può sapere, e neanche gli dei lo seppero mai. Chi fu l’ingannato, tra la stessa statua e la fata eterea, non lo disse mai neppure il vento, che se ne sentì sussurrare, non ne parlò con nessuno.

Il destino, per una volta, non tirò mai i suoi dadi.

Semplicemente, se ne dimenticò.

La statua sentì il tocco leggero della fanciulla, e se ne sorprese, e ne provò piacere.

Un palpito.

Un palpito ogni mille anni.

Un palpito e una carezza: i doni che si scambiarono in quel giardino di certo furono i più sublimi di quell’era dimenticata.

In cambio del preziosissimo battito, la fanciulla si appoggiò contro la statua e le cantò una canzone nata dal silenzio, lettere d’amore che un poeta bambino scrisse prima di lasciare questo mondo.

Non si sopravvive, alla bellezza di una vita donata alla morte.

E si sa, la morte ha una certa debolezza per le canzoni così belle, e chiamò a se il bambino per cantargli le sue, per l’eternità.

Altresì la fanciulla, cantò tutta la canzone sino alla fine.

E la statua avrebbe voluto piangere, ma non aveva né occhi per farlo né lacrime da versare, così le donò il suo cuore poiché era quanto di più prezioso aveva.

Giunti, rimasero a sfiorarsi fino al calare delle tenebre, quando la fanciulla salutò con un bacio la statua che credeva vuota e la statua donò un ultimo pensiero prezioso alla fanciulla.

Quest’ultima, ancora, si ritirò tra i veli della nebbia che si perdono in quelli della notte, e accarezzata da entrambe le vesti, tornò alle loro terre, sparì in un mondo al di là dei sogni.

Quella notte, la fanciulla si concesse più volte ai demoni e alle ombre della buia corte delle tenebre.

E il giorno dopo, quando la nebbia coprì un’altra volta l’orizzonte, lei tornò nel giardino, e si sedette ancora ai piedi della statua.

Si smarrì la fanciulla, tra le foglie che cominciavano ormai a cadere dai rami bruni, tra l’erba umida e nell’aria.

La fanciulla danzò.

Buttò le braccia al cielo e fissò lo sguardo all’orizzonte lattiginoso, e il suo corpo s’arrese anch’esso alle movenze delle foglie che, cadute dai rami, si arrendono alla morte. E fu una danza folle e perduta nel tempo, e ogni volta che le braccia esili compivano leggiadri arabeschi l’aria fredda le lasciava passare.

Era impetuosa, leggera e nella sua scia l’intero giardino ammutolì.

E in questo silenzio, si udì uno schianto.

Nel cuore della statua, si era aperta una crepa profonda.

La danza era un’invocazione, era il dono e la preghiera che la fanciulla rivolse alla nebbia e alle tenebre ai quali demoni lei si era concessa più volte.

Quando cadde a terra sfinita, tutte le foglie ancora sui rami la seguirono.

E rimasero spogli e freddi, mentre ogni forma di vita nel giardino sospirò.

La statua tuttavia,era nata dal marmo, pertanto la disgrazia che era stata liberata nemmeno sfiorò, la sua pelle di pietra.

Lei credette che la danza della fanciulla fosse stata la più sublime forma d’arte di questa terra, la più pura, l’unica e irraggiungibile, la perfezione, sebbene la statua non conoscesse l’arte.

Lei ne faceva parte.

E guardò a lungo la fanciulla esanime sul letto di foglie, una macchia bianca distesa sul suo giaciglio dei colori dell’autunno, foglie che pure la coprivano, foglie che dettero la loro vita per lei.

Niente di più vano e inutile: donare la vita ad una ninfa puttana, una figlia prigioniera della nebbia che ha dimenticato cosa significa vivere, poiché la sua anima è imprigionata in catene eterne.

Una fata dal volto di maschera, che era al dì sopra di ogni emozione, perché oramai solo il dolore poteva raggiungerla.

La verità, non ha sapore perché non esiste nella sua  immobile realtà- la verità è lontana.

Passarono le ore.

E la statua quasi impazzì, perse il senno, sanguinò e nel suo cuore si aprì un’altra crepa.

Un cuore con una croce che lo spezzava, che lo marchiava.

Ma la passione fece dimenticare il dolore, e elevò la fanciulla tra le stelle del proprio firmamento, la racchiuse in un fiore e si immaginò cantarle canzoni con voce dolce per farla svegliare piano, e questi sogni erano dipinti di colori strani, perché la statua non conosceva la vita.

E allora bacia, bacia prima che le tue labbra diventino fredde, bacia finché le tue labbra sono ancora rosse.

E lei ancora lì, riversa tra le foglie così pallida e fredda da sembrare morta, socchiuse le labbra che diventarono rosse, come il sangue e come il cuore, e aprì gli occhi castani sul cielo coperto dalla nebbia.

“ Ti amo”.

E queste furono le sue parole, e non appena furono pronunciate, i suoi occhi divennero grigi come la bruma. Tutto in lei divenne di quel colore, tranne le labbra, rosse e vergini, mai cullate da un bacio.

La statua, non vedendo alcuna presenza tranne la sua, si appropriò di quell’amore, ma non aveva più un cuore dove porle. Però, di quest’amore lei visse, e fu il più grande e il più puro di quel mondo, e di quei tempi.”

Il bardo sorride, e si appoggia alla sua sedia, mentre i colori del fuoco nel camino gli lambiscono il viso.

Il giullare gli si avvicina “ Per chi era quell’amore? E la fanciulla, che fine ha fatto? Morì, in quel giardino?” Il bardo sorride ancora, e lo avvicina a sé “ Questa è un’altra storia. Ma tu sappi solo questo, l’amore della statua continuò.”

 

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Capitolo 4
*** Oneiroi ***


                                   

                                           

 

                                                                ONEIROI

 

 

 

 

“ Come faceva a provare sentimenti così forti, e a non avere vita?”

Il bardo sollevò il capo che prima teneva appena reclinato, a languire tra la penombra, sfiorato dai capelli corvini- con gli occhi chiusi.

Ombra, che cerca l’ombra divina- ombra dal cuore fatto di carne che ricerca l’ombra che è-  dalla caratteristica sacra.

Apre lentamente le labbra, in bilico parole che escono dal sangue caldo, per morire.

“ La statua provava sentimenti puri- perché non corrotti dalla realtà, quella che i mortali chiamano vita di relazioni, di parole, di rincorse. Lei non aveva vita, aveva un’anima e una porta, e aveva l’illusione. Nell’illusione incorrotta, poiché non soggetta allo scorrere del tempo e alla memoria, scorrono emozioni che i mortali hanno dimenticato di provare. Le emozioni non erano sue, era la statua che era loro- hai mai guardato la nebbia?” il bardo sorride, dolce e terrificante, rassicurante e lontano. “ Si può dire che la nebbia sia al di là di ogni emozione, mentre il marmo è materia- non mortale- ma pur sempre materia. Anche nel marmo, le piccole crisalidi dei miracoli trovano posto. Oh certo, tu pensa a questo- ne provi felicità? I suoi sentimenti le hanno fatto perdere il cuore, ora è solo un contenitore per il loro passaggio. Ecco perché, lei provava emozioni così forti- lei non era nulla.”

La cenere del camino vorticò ancora sul tavolo, si avvicinò al viso del bardo “ La statua non era viva, era morta, ma chi parlò al suo posto?” Il bardo sorrise ancora “ Dov’è la vita, che abbiamo perduto vivendo?”.

 

 

“ Toccò una nota, e la musica partì.

C’era una volta un sogno.

Era piccolo e gracile, perché nessuno l’aveva ancora cercato.

Era stretto dentro il suo grembo di vetro, e il liquido amniotico nel quale galleggiava era ormai vecchio.

Passava il suo tempo a contare le proprie ossa, perché quali sogni poteva avere un sogno?

Guardava i suoi fratelli nascere, ed alcuni morire, anche dopo essere diventati grandi e splendidi.

Altri ancora stentavano a nascere, o come lui non nascevano mai, solamente- esistevano.

Lì, sogni dimenticati.

Ed erano soli, soli ed amanti violentati dalla solitudine.

Oppressi dalla solitudine.

Quale madre poteva mai avere, un sogno?

Neanche… la concezione, di una carezza.

Solo tempo bianco e liquido amniotico, tempo che non passa passando, di nascosto, poiché i sogni non sanno che è, il tempo.

Sanno solo, cos’è la vita.

Pertanto attendeva, questo piccolo sogno, conoscendo l’attesa ma non la durata, di essere sognato.

E vedeva  altri sogni essere presi per mano, coscienti della sorte e del patibolo.

E ciò che più temeva, ammettendo che sapesse che è- la paura, era di addormentarsi.

I sogni stanchi, che cadevano assopiti, diventavano velocemente minuscoli, fino a sparire nel tiepido liquido che a sua volta avrebbe alimentato altri sogni.

Aveva paura di chiudere gli occhi,

                      non si sarebbe svegliato

il perché si intuisce, non c’è aldilà per i sogni.

C’è soltanto “il tempo” di perdersi e via, non si è più.

Non sapeva né parlare né camminare, lettere e parole, conosceva soltanto- immagini e sensazioni, pensieri che non avrebbe mai potuto spiegare né attribuire ad alcunché.

LUI era parole e lettere, movimenti e fedi, solo- di qualcun altro.

Però lui, era solo.

Contava le sue ossa.

Osservava.

Pativa.

Ma non dormiva.

… Non si addormentò mai questo sogno.

Solo, impazzì.”

 

Il bardo sorrise e

         uscì

  più non era

                nella sala.

Angosciato il Giullare-

lo trovò fuori dalle porte calde del Cafè, appoggiato al muro di pietra con lo sguardo perso tra la pioggia e l’ombra, tra l’innaturale bianco delle strade coperte da proiettili di giaccio.

Mentre respirava l’aria elettrica.

Quella notte, anche i suoi occhi non vedevano tanto in là.

La sua vista finiva, come quella di chiunque, nell’orizzonte troppo vicino delle cortine di pioggia.

Riposo di occhi.

Nessuno avrebbe mai osato immaginarlo, ma così- pareva un uomo. Un uomo in anacronistiche vesti in procinto di ricevere il dono di Morfeo.

Questa volta, non avrebbe intrattenuto il Dio, né i suoi fratelli: non avrebbe ispirato Fobetore e Fantaso, non li avrebbe donato i suoi occhi.

“ Sono stanco. Sento il temporale chiudere l’immenso. Mi protegge, questa tempesta.

  Si. Penso proprio che andrò a dormire.

  Cadrò

    addormentato” 

 

 

 

 

 

Nota dell'autrice:

 

Gli Oneiroi, secondo la mitologia greca sono i tre figli di Ipno, il dio del sonno.

Essi rappresentano tutte le forme del sogno: Morfeo, colui che " crea" il sogno, Fantaso, che crea tutti gli oggetti nel sogno, e Fobetore, che compare nei sogni sottoforma di esseri mostruosi, o più semplicemente viene personificato nell'incubo.

Il nome di tutte le divinità è riportato con la "trascrizione" italiana.

 

I tempi indecenti della pubblicazione di questo capitolo sono da attribuire al caldo, all'afa e al sole.

Ammiro sinceramente chiunque ancora segua questa raccolta.

 

 

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Capitolo 5
*** Luce artificiale ***


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LUCE ARTIFICIALE


Il fuoco lambiva la pietra.
A lungo era stata grigia e fredda, coperta da rimembranze di cenere, ma questa notte è di nuovo incandescente.
Gli occhi di una buffa e pietosa corte sono oramai secchi, mentre il Bardo, desto li guarda: il Giullare appoggiato al suo petto ride invece, che sarà mai questa notte? Un capriccio descrittivo, blasfemo. Ma a lui il poco sacro è sempre piaciuto, quindi non parla e non spiega, ride.
La presenza del narratore serpeggia in ogni cuore e lo riscalda… pietra e pupazzi. Qualcuno indovini cosa è chi!
« Ho raccolto sogni piccoli piccoli, quasi morenti, per me-
   ve li racconterò»
Riappare il luogo dove i perduti potrebbero trovarsi.

« C’era una volta,
un mondo dove la rovina degli uomini era stata così grande-che gli Dei decisero di velare il sole, e di dare agli occhi e alla pelle di ogni persona il colore della polvere.
L’orizzonte del cielo era sceso, e la penombra e la caligine dei fuochi lo attiravano vicino, troppo, allo sguardo.
Bruciano le cornee.
Incantevole, incantevole mondo-
                        Dove l’azzurro, è sogno  non più sporcato dal cielo
                   Dove il vento,  
                                     è cieco.
Si fa fatica.. ad immaginare una carezza leggera, con quella penombra.
            All’esterno o tra mura, la desolazione era la medesima, e solo il vero amore respirava, ma anche quello, questa volta non avrebbe salvato nessuno. Così, respirava. Fine a se stesso.
Neanche le rondini avevano più piacere di volare.
Il mare- provava disgusto a far specchiare il cielo su di sé.
Gli amanti a toccarsi, la PASSIONE    è  e   non dura,
E i bambini.. i bambini non poterono più rallegrarsi per i colori, e piano piano.. i loro occhi mutarono e le colorazioni perirono.
Eterne. Divine.
Solo i vecchi, potevano sapere. LORO erano CUSTODI di ciò che mai più sarebbe stato.
Chi avrebbe mai pensato che i colori sarebbero stati dimenticati? Perché fu così.
Bambini grigi correvano dietro farfalle grigie, tra l’erba grigia, morente.»

«Nacque un bambino.
Da un recesso di penombra e sangue, aprì gli occhi- in un mondo di penombra, avvolto dal caldo sangue materno.
Quel bimbo non nacque mai, non ebbe mai un inizio. Perché come, avrebbe potuto distinguere il mondo? Non lasciò mai il grembo. Ne portò via un pezzo.
Sussurrava, la penombra- pure la gloria del silenzio, era stata tolta agli uomini.
… quale ninna-nanna, avrebbe fatto addormentare il bambino?
Ma non era già notte, per lui?»

«Un’ombra camminava, l’abito sporco di fango.
E com’era alta, con una grande gobba sulla schiena… un cappuccio li copriva il volto.
Il suo incedere spaventava gli abitanti, così lento e strascicato, pesante.
La miseria degli uomini ciechi e grigi, si specchiava nelle impronte che sprofondando nel fango si riempivano di acqua putrida. Pulita. Punti di vista.
L’essere informe vacillò fermandosi, con gran sollievo di tutti, davanti ad una madre che piangeva sulla porta di casa sua- cullando il figlio che non era mai nato- disperandosi, per aver perduto e mai ricevuto, l’amore.
Si rivolse in lacrime, all’ombra.
Si sa, che solo quando si cade abbastanza in basso per eleggere il basso a Dio, lì- si può condividere la disperazione con chiunque.
  Vi è mai capitato di amare le lacrime?
  Beh, forse.. forse si può chiamare amore.
  Non è qualcosa di preciso.. è un sogno che svanisce nella nebbia.
  Vorrei.. vorrei distruzione per riempire il vuoto che ho dentro.
  -Perché.. è con le rovine che ci curiamo? Non basterebbe un fiore, un sorriso, il sogno della
   persona amata?-
   «No, le lacrime aprono e le rovine curano, è sempre stato profondamente così.»
   -Un sussurro e un urlo.
   Quale dei due è amore?-
   «Il dolore.»
   Per una volta, la risposta giusta era giunta al cuore giusto.
Al cuore che non era un cuore ma veli di anime antiche- morte o vita, nel corpo che non era corpo ma sogno. Arrivò la risposta dal significato unico per ognuno, un folle significato. Un significato scurrile e dai facili costumi- per tutti.
E fu allora, che gli abiti caddero davanti a migliaia di occhi, e svelarono il corpo deforme- da un busto ne nasceva un altro, in quel corpo.
      Ma ciò che colpì di più era- IL BIANCO
 Oh bianco perduto, morte di polvere, oh bianco di redenzione e divinità, d’illusione verso la sporca realtà, quel bianco dimenticato ma bellissimo, così puro e semplice, lì perché semplicemente- bianco.
Feriva, gli occhi, le migliaia di occhi quel bianco. Due bianchi corpi.
Di vermi.
Vagamente antropomorfi.
Catene, catene gravavano sulle spalle e sul corpo del primo, capelli neri e occhi avvolti da ombre.
« Ecco la morte» dissero i bambini.
Occhi vuoti guardavano il cielo, una bocca cucita da fili duri e ferro, una pelle così sottile e chiara da veder le vene sotto di essa e il cuore, pulsante- nel petto di colui che era più vicino al cielo, colui il quale corpo era formato solo a metà.
« Ecco la vita» dissero i bambini.
La polvere intanto, se n’era già andata da tempo. Ma come, questi piccoli uomini videro il bianco? Beh… lo sognarono: in fondo, era qualcosa di diverso.
Due dei erano scesi in terra e avevano scacciato la polvere, così.
Il fango si riempì di perdono, ma la morte e la vita non chiedevano che occhi… e si, anche polvere.
Per essere di nuovo dimenticati.
Così, l’intera miseria degli uomini adorò i due dei, senza nemmeno porsi la domanda: quindi vita è figlia della morte? Vita non vive senza morte?… ma in fondo, che è la vita? Non-polvere?
Dov’è la vita esattamente?
Continuò la fede nell’essere deforme.
Che altro non era- se non un sogno, di un bambino, che, ahimè- non conosceva il mondo.»


Perché si è fermato tre volte, Bardo?
« Per respirare»
Ma come!


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Capitolo 6
*** Portatore di luce ***


po

Portatore di luce

 

Dal suo castello di rovina,
portatore di luce, in notti spente.

 Ma il gelo, il gelo aveva spento ogni luce e si era infiltrato nelle ossa ed ora – solo ora – il portatore di luce con gelidi occhi mirava il cielo, che sopra di lui ora scorreva, ora cadeva.
I suoi pezzi, li riempivano le mani.
Gli coprivano l’orizzonte e l’orizzonte stesso, miserabile, si lasciava dipingere e modellare, da stracci d’eternità.
Era solo e stanco il portatore di luce, sebbene ogni notte un tocco diverso gli percorresse il corpo, e ricordi di calore gli facessero tremare l’animo gelato.
Ogni movimento, moriva.
Ombre gli scolpivano il volto e le labbra gli tremavano.
I suoi compagni, li aveva abbandonati da tempo. Li aveva lasciati in un grembo più caldo e sicuro di quelle rovine, in un luogo dove l’eternità si incolla alla pelle e da essa trasuda, in rivoli di fango e polvere. In grembo alla madre i suoi ex-compagni ancora lo aspettavano, d’ansie seviziati, poiché lui aveva tolto loro persino ogni promessa.
Ingannato, ed ingannatore – la pietra in rovina, altro non era testimone che di maldicenza; eppure non avrebbe parlato. Non a che di morte faceva empio sfoggio, e magnifici costumi.
Così, solo e senza parole il corpo pian piano acquisiva la rovina e la pietra, il freddo.
Stava morendo.
Pensare che il mondo di male va parlando: il mondo non sente, il mondo pronuncia lettere vuote.
I canti del Cielo, gli riempivano le orecchie. Invero, durante questi momenti le sue mani a scatti, creavano solchi nella polvere; e altro non creavano che disegni, immagini del suo cuore impazzito, stretto nell’agonia.
Spesso il Cielo, durante questa parabola di notti, giungeva alle rovine senza pretendere altro, che tener compagnia al portatore di luce, con la sua presenza e i suoi vuoti canti: ma lui, che era avaro di cuore e di orgoglio vestito, lo ignorava di sovente, preferendo continuare ad esser luce spenta nel buio della notte; oltretutto, era piuttosto certo che il Cielo, così espansivo e sporco, con la sua vicinanza l’avrebbe tutto insozzato. Si scostava, sdegnoso.
Col passare del tempo, le sue labbra si stavano spaccando.
Passava le ore della notte immobile, fissando il gelo che gli copriva gli occhi, pregando che il Sole non sorgesse più: così, non avrebbe più dovuto sfuggire al suo sguardo.
Dopo lunghe ore passate ad intonare canzoni d’infanzia il Cielo lo lasciava, infine, dicendo: “Lungi, lontano, lontano. Buonanotte.” Ma il portatore di luce non avrebbe dormito, anche il Cielo infondo lo sapeva: invero, era piuttosto sicuro che avesse paura dei sogni. Inoltre, temeva che il portatore muto non fosse neppure più capace di chiuderli, i suoi occhi; con ogni probabilità solo il Sole sarebbe riuscito a scioglierli. Ma anche questa era solo una supposizione: infatti, ad ogni alba dall’alto lo vedeva, a tentoni, barcollante e cieco sottrarsi allo sguardo dell’astro fratello: se ne andava. Nell’ombra, tra le ragnatele. Vergognoso.
Una sola volta, interrogato sul perché rifuggisse il Sole, che pure avrebbe potuto riscaldarlo e portargli del bene, il portatore di luce gli aveva risposto, con voce raschiante e piena di sdegno: “È nient’altro che ladro di miseria altrui, quell’infausto essere; ogni qualvolta che ti empie di sè, che con la sua luce non ti rivela nulla, ma piuttosto nasconde. Secca il marciume sulla pelle degli uomini per poi trasformarlo in polvere, polvere che mi opprime i polmoni. Ogni volta che sento tutto ciò ripetersi, vorrei rivolgergli tutte le maledizioni e gli improperi, perché anch’esso cada; purtroppo però, questo essere, mio nemico, non lo mostra neppure, il suo volto: la sua natura è troppo alta per rivolgersi alla terra! Così, lascia che gli altri si affannino a cercare nel suo riflesso sembianze umane e un’anima – invano, perché è la sua essenza stessa che esso mostra – essenza volgare, stupida. Anche quando ero bambino, e tutto era giovane ciò mi accecava, e mi faceva schiavo. Ora lo capisci il perché, non ne voglio essere toccato? Eppure tu, che mi visiti di continuo, spesso te lo poni nel grembo.”
Il Cielo, allora chinò il capo. Una muta vergogna fece il suo nido nel bassoventre, mentre la colpa, liquida, gli cadeva dagli occhi: era stato abbandonato.
Muto e vinto, struggendosi, se ne andò salendo nelle sue sale, dove chiamò a gran voce le nuvole, affinché si ponessero tra lui e la terra.
Dopodiché, si sdraiò sul suo giaciglio, e il Sole e la Luna giacquero e se abbandonarono il suo letto più volte: lui però, nemmeno li percepì al suo fianco. Lui, che sognava la terra, si rigirava tra le coperte senza pace, tormentato dagli incubi e dalle veglie dolorose; pure quando non sentì più il bisogno di dormire, preferì continuare a giacere nel letto, a fissare il suo sguardo su tutto, tranne che il mondo sottostante. Anche il suo cuore, a sua immagine, ogni tanto si dimenticava di battere.
Era scesa la notte, e nel suo castello di rovina, il portatore di luce non era più solo.
Anime, corpi dalla terra erano saliti come vermi, e strisciando veloci, accerchiandolo – ai suoi piedi,  si erano gettati – e ora, percorrevano il suo corpo ritrovato, con mani bollenti.
Gemendo, il portatore di luce abbassò il capo, tra i vermi. Questi, li si appesero al collo, lo strattonarono: infatti, col tempo anche la luce che gli aveva sempre rischiarato gli occhi si era abbassata, la stessa luce che li aveva sempre permesso di intravedere il suo cammino;  ora, questa li cingeva il collo stretta, facendoli mancare il respiro.
Costretto, gemeva, contorcendosi.
A scatti cercava di scacciare quegli incubi fatti di terra, con l’angoscia nel cuore, con le cinghie strette ai polmoni, cieco, dimenandosi: ma il peso dei corpi lo schiacciava alla pietra, dove per tutto quel trambusto la sua pelle si riempì di ferite ed abrasioni, che con il loro bruciore ancor di più, aumentavano l’agonia della massa brulicante di corpi. Volgeva il capo in cerca di vie di fuga, frenetico, cercando di sfuggire alle numerose membra che lo afferravano, lo graffiavano, facendolo sanguinare; ma gli stracci di cielo che aveva a lungo raccolto e i vermi, le anime facevano cadere misero il suo orizzonte.
Il sangue, colava.
Lento, umido, sulla pietra oramai scivolosa.
Intanto, il portatore di luce aveva perso persino il suo corpo, e il ghiaccio dei suoi occhi si era sciolto, imbrattandogli il viso. L’umido, bruciante umore che gocciolava dalle labbra dei suoi compagni li annebbiava la vista e li cementava il cuore, che avvolto dalla melma rallentava, perdeva il suo battere stremato.
Giaceva scomposto sul cemento.
Così, quando il giorno sorse e il Sole lo sorprese, attorno a lui il freddo si era sciolto, lasciando il suo corpo immerso in una pozzanghera pietosa, misera e sudicia come l’inferno da cui proveniva. Lo conobbe così il Sole, nudo e putrido, dalle membra e dall’anima disfatte: inorridì l’astro, alla vista del fratello.
Che, ahimè, era caduto a terra.
Passò un giorno intero, il portatore di luce tra le rovine ritirate del castello, la sua collezione di pietre; e delirava, delirava col senno suo sciolto sotto di sé.
Ma infine, infine con il sollievo della notte scese anche il suo amico Cielo, al suo fianco: il Sole, li aveva raccontato tutto. Pietoso, con la carità bruciante nel cuore che stava oramai decadendo, lo colse da terra e posò il capo del portatore di luce nel suo grembo. Non poteva lasciarlo, perché anche lui stava cadendo a pezzi.
Il Cielo, stava cadendo.
Pioveva, e la pioggia lavò il corpo sfinito ed ustionato dell’astro caduto.
Con le dita, il Cielo intanto gli pettinava i capelli, scioglieva i nodi per riscoprire dolci boccoli, che intrecciava nelle voluminose acconciature delle nuvole. Attorno al viso incavato creava cornici di sogni, che fossero magnifici, questa volta: al suo fianco, chiamò le aurore e gli arcobaleni, le albe e i crepuscoli, la pioggia d’estate e i venti di primavera.
Altresì quando si svegliò, il portatore di luce scoprì gioia e stupore che mai aveva conosciuto. Per un attimo, sorrise alla morte; disse allora il Cielo, piangendo: “ Lucifero, Lucifero, astro del mattino: conosci ora il mondo, che prima ti apparteneva e che mai mirasti, se non con occhi severi? Quale desiderio puoi avere, ora?” “ Le labbra, le tue labbra sono il mio più grande desiderio: labbra morbide, non bagnate d’umore come quelle che mi hanno percorso il corpo, di sovente. Piuttosto che il loro umido, marcio contatto preferisco che i miei occhi gelino e le mie labbra si spacchino. Cielo, Cielo, io solo ora ti amo. Amo la tua freddezza e la tua lontananza, dalle meraviglie che ti percorrono. Come la lontane stelle, che più non sono mie compagne. I miei compagni ora, marciscono sottoterra.”
E fu così, per l’amore di un momento, che il Cielo si allontanò dal calore e dal Sole, divenendo sempre più freddo, fino a congelare.
Ghiacciò il Cielo, e mentre così immobile restava, il suo cuore, smise di battere.
Di lui, rimase solamente la sua immagine, riflessa dal mare, e il suo ricordo, sulle labbra d’altri.

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