Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
L’ultima volta che vidi sul viso di mio fratello
un’espressione di gioia fu pressappoco vent’anni fa.
Io e lui eravamo gemelli, ma non equivocate. Non avevamo
nemmeno una traccia di quel legame che unisce due creature omozigoti, eravamo
in due mondi separati. Suppongo che io risiedessi in quello illuminato, lui in
quello buio.
Ma questa distinzione non mi venne offerta, bensì imposta da
lui, che ogni giorno mi rivolgeva un mero buongiorno forzato e poi spariva,
completamente.
Non aveva alcun interesse particolare, al contrario di me
che invece traboccavo di inutili hobby passeggeri. Lui non dedicava mai la sua
attenzione a qualcosa per più di mezz’ora, di solito andava girovagando nel
bosco malandato vicino casa, ma non ho idea di cosa provasse là dentro, non
gliel’ho mai chiesto.
Timidamente avevo paura di lui, lo temevo, ero certa che se
avessi rotto il suo religioso silenzio mi avrebbe picchiata. Così non lo feci
mai, pensando erroneamente che lui volesse così e che io non avevo nessun
diritto di sopraffare la sua volontà. Per me rappresentava una sorta di
divinità evanescente, non osavo mai ignorarlo ogni volta che mi passava vicino,
di solito la mia partecipazione consisteva in un lungo sguardo e lì si
interrompeva.
Io sentivo mio fratello vicino, eppure lontanissimo. A volte
lo udivo a un palmo dal mio naso, mentre mi urlava il suo dolore e la sua
tristezza, altre lo sentivo sparire e di colpo diventava come un ricordo.
Eppure nonostante lo avessi davanti, sembrava lo stesso un vago ricordo.
Lui era l’ombra di una persona, la sua presenza era appena
presente, non parlava mai e non esprimeva mai opinioni. Si limitava a
rispondere alle domande con monosillabi dettati dall’educazione ferrea che i
nostri genitori ci avevano imposto.
Lui era lì, ma probabilmente non lo voleva. La mamma non
poteva concepire che un ragazzino diquindici anni non possedesse vivacità, per lei la nostra età era un
prototipo di felicità, per mio fratello no. Non aveva mai riso.
Eravamo una famiglia molto povera, pertanto a volte ci
affibbiavano dei lavoretti sotto la sorveglianza di gente sconosciuta, io li
facevo sempre controvoglia, ma ero convinta che tutto questo giovasse per la
mia ambita e desiderata carriera da scrittrice di successo, si sa che sono le
esperienze a segnare la tua esistenza, più ne sapevo sul mondo meglio era.
Mio fratello,invece, sembrava farlo solo per obbedienza.
Lavorava in modo impeccabile,metteva
impegno e dedizione anche mentre spostava un mattone, ma la sua espressione era
atona, meccanica, priva di luce. Mi rattristavo per questo, mi chiedevo sempre
perché lui non riuscisse a svelarmi anche solo un tenue spiraglio della sua
personalità.
Avevamo quindici anni
a quel tempo e molte notti io rimanevo ad osservarlo, mentre dormiva
pacificamente nella sua parte di letto e quando dico pacificamente intendo che
non muoveva neppure un muscolo, sembrava morto. Forse lo era veramente, dentro.
Non aveva mai posato lo sguardo su di me, in tutta la mia
vita non avevo mai incrociato il suo sguardo di ghiaccio. Cominciai a pensare
che l’azzurro colore dei miei occhi non reggesse il confronto, mi convinsi che
lui non osava guardare degli occhi che impallidivano al suo cospetto.
Ma la mia speranza non cedeva, continuavo a guardarlo per
quanto mi era possibile e sembrava che a lui non desse fastidio, d’altronde
sembrava che nulla e nessuno potesse scalfire la sua aura, tanto era compatta e
solida. Tantomeno io, la sua gemella.
Tutto cominciò quando, mentre ciondolavo con una bambola di
pezza sporca davanti casa, sentii un miagolio sommesso. All’inizio pensai
fossero i soliti gatti di passaggio che infastidivano tutto il quartiere, poi
ascoltando meglio notai che sembrava provenire da un posto alto. Allora mi
voltai per cercare di individuarlo e lo scorsi immediatamente nel ramo più alto
della magnifica quercia che risiedeva nel campo incolto vicino casa. Era
terrorizzato, la sua espressione era di autentico terrore. Così, presa da un
violento moto di pietà, mi arrampicai velocemente sulla quercia e dolcemente lo
afferrai. Temevo che opponesse resistenza e volasse giù, invece rimase calmo e
si fece portar via senza alcun lamento. Ne fui contenta, poi lo lasciai andare,
ma lui non ne voleva sapere di filarsela tanto che s’infilo tra i miei calzoni
e cominciò a fare le fusa, a quel punto la tenerezza fu tale che lo presi in
braccio e cominciai a carezzarlo amorevolmente.
Improvvisamente sentii come una sensazione scivolarmi piano
lungo tutta la spina dorsale, la brezza autunnale scompigliava i miei capelli
castani e pensai fosse il vento, ma dentro di me sapevo che era qualcosa di ben
più importante.
Alzai lo sguardo e incrociai per la prima volta i
chiarissimi occhi di mio fratello che mi osservava da lontano, sentii lo
stomaco aggirarsi in strane capriole e il cuore saltò nella cassa toracica,
urtandola. Tutto ciò in un millesimo di secondo.
Se questi sono i sintomi di una gioia immane, pensai,non immagino quali siano quelli per una
delusione.
Fatto sta che lottai contro la mia ingente emozione e
sostenni lo sguardo affettuosamente e, non posso giurarci, penso che mi abbia
fatto un cenno di sorriso. Da lontano eraimprobabile che io potessi averlo anche solo scorto, magari si era trattata
di una distorsione causata dagli occhi, ma contava ciò che sentivo internamente
e se mi fossi solo convinta del suo sorriso, va bene se il cuore ne è felice.
Lo spettacolo durò solo qualche minuto, infatti dopo poco
sparì da dove era venuto e io mi sentii nuovamente sola e terribilmente
abbandonata. Purtroppo la mentalità di una giovane bambina non ne ha mai
abbastanza e il fatto che lui mi avesse finalmente donato il suo sguardo aveva
dato inizio a un circolo vizioso, dove ne avrei voluto ancora di più e di più.
Ero dipendente da lui? Forse si. Ma ne ero contenta.
Tutto ciò non accadde una seconda volta. Ma non era una
novità, mi ero abituata alla sua non presenza, e così era ridiventato dopo il
salvataggio del micino. Non potevo sapere che di nascosto lui gli faceva
compagnia, lo coccolava e amava come mai aveva fatto con nessun altro. Lo
scoprii successivamente, quando per la prima volta mio fratello, pianse.
Il gatto non aveva di che mangiare, per un po’ gli offrii il
pane della dispensa all’insaputa della mamma, ma non tardò molto ad
accorgersene, d’altronde le razioni a casa nostra erano limitate, la fame mordeva
tutti e anche solo un pezzo di pane mancante faceva la differenza.
Mi picchiò
selvaggiamente fino a che non avevo più neanche la forza di urlare, solo allora
mi lasciò accasciata sul pavimento logoro mentre mi stringevo le numerose parti
doloranti. Non era facile uscirne, ogni volta ci volevano mesi perché i lividi
scomparissero e nonostante ciò mi cacciò a lavorare.
Io non odiavo la mamma, anche lei faceva enormi sacrifici
per non lasciarci morire di fame, dopo che papà era morto in guerra eravamo
caduti in una penosa povertà che ci spingeva a dare tutti noi stessi solo per
poter vivere.
Non avevo mai desiderato morire, anche in tutta quella
povertà io non volevo morire, non volevo darla vinta a nessuno. Se qualcuno
aveva deciso così per noi, allora non gli avrei mai dato la soddisfazione di
cedere alla sua provocazione, mai.
La pensavo così fino a sedici anni, quando la mamma ci
annunciò che aspettava un bambino, ma che probabilmente lo avrebbe ucciso o
abbandonato. Non aveva soldi per mantenerlo.
Così disse, ucciderlo o abbandonarlo, ma non sembrava
convinta della seconda. Voleva uccidere un bambino. Voleva stroncare una vita a
cui era stato donato il permesso di nascere, voleva espiare le sue colpe
addossandole a lui. Mi salirono le lacrime.
<< Sei un essere spregevole, non capisci che quel
bambino ha il diritto di poter vivere come tutti noi? E poi come intendi fare?
Lo farai nascere e lo accoltellerai? Ne avrai il coraggio? Eh?>>
Il mio tono di voce era oltremodo furioso, ma sono sicura
che a lei non importava nulla. Mi guardava tranquillamente e ascoltava ogni
parola senza un minimo cenno di ripensamento, mi venne voglia di scappare.
<< Beh, sei ancora troppo piccola per tentare solo
marginalmente di capire cosa si prova nel sapere che non si hanno soldi per far
mangiare i propri figli. Vederli così talmente magri da farti venire voglia,
appunto, di ucciderli. Solo per difenderli da quell’agonia infernale. Voi siete
il mio sbaglio, lui è il mio sbaglio più grande. Siete degli errori, e tali
rimarrete nella mia coscienza per sempre. Mi sarei già uccisa mille anni fa se
voi non ci foste stati.>>
Non aveva urlato, aveva tenuto il suo discorso
pacificamente, senza inveire contro di me. Ma in quelle sue parole dure,
autentiche, si celava una cattiveria che mai avrei sospettato. Lei ci aveva
definiti sbagli, errori, ripensamenti, pesi che gravavano sulla sua
fallimentare vita. Nulla mi faceva sentire più inorridita. Quella non era mia
madre, quella era la donna che la guerra aveva partorito, la donna che aveva
visto l’odio e l’amore mischiarsi nella morte, la donna che aveva ucciso le sue
emozioni pur di non arrivare al suicidio, pur di vivere, pur di vivere morendo
giorno dopo giorno.
Per noi lei aveva continuato a sopportare quella leggera agonia,
quell’eterno, piccolo dolore che le dilaniava il cuore.
Ma tutto ciò, non le permetteva di uccidere una vita.
Mio fratello era accanto a me, come sempre non aveva detto
nulla e non aveva espresso opinioni, ma la sua espressione non era più totalmente
atona, percepii una flebile rabbia affiorare da tutti i pori della sua pelle,
sentii che impercettibilmente i suoi pugni si chiudevano e sentii che lambiva
un desiderio, e lo sapeva.
Ma non capii mai cosa il suo cuore gli suggeriva di fare,
non lo capii perché lui me lo rese impossibile. In quei giorni aveva anche
smesso di proferire quel sommesso “buongiorno”, non mangiava, beveva soltanto
per sopravvivere e tutto il giorno se ne stava fuori chissà dove.
Alla mamma non sembrava importare.
Io mi sentivo disperata, in quel momento la voglia di morire
mi si parò davanti e prendendomi la mano con voce suadente mi invitò da lei. La
scalciai. Dovevo fare ancora molte cose prima di andarmene. Non avevo tempo per
voler morire.
Andai fuori, affrontando la calura estiva che avvolgeva
tutto come un grande termosifone. Prima di precipitarmi nel bosco, però, notai
che il gatto era chino su qualcosa, mi avvicinai impercettibilmente e scoprii
perché mio fratello dimagriva a vista d’occhio. Donava tutto il pane al gatto.
Provai un’immensa compassione per lui, la voglia di trovarlo si accentuò e così
mi recai immediatamente tra gli alberi, con la sottile speranza di poter fare
qualcosa per lui.
Probabilmente ero una sciocca, d’altronde una persona vuota
come me non poteva pretendere di capire la profonda concezione del mondo che
provava mio fratello, di cui la mamma contribuì a rendere macabra.
So, però, che ce la misi tutta pur di comprenderlo. Avrei
donato la mia vita pur di renderlo felice. Ma non bastava, a lui non importava
nulla della mia vita e quindi non avrebbe mai barattato un bel nulla per essa.
Pensavo a queste cose mentre correvo a perdifiato, mentre le mie gambe si
muovevano cercandolo, chiamandolo, sfruttando la sua assenza.
Non lo trovai.
Girai l’intero bosco cinque volte e trafelata da un
impossibile sforzo per una ragazzina di sedici anni, ritornai a casa. Non era
neanche lì. Alla mamma non interessava, aveva anche mangiato il suo pane,
allora donai io il mio al gatto. Quando mi distesi su quel letto duro e vuoto,
mi venne da piangere.
Non era facile accettare il fatto
che mio fratello mi stesse prendendo in giro. La mattina dopo, infatti, lo
trovai seduto a tavola mentre mangiava il suo pane con un pizzico di latte, aveva
come di consueto la sua espressione indifferente e non mi aveva detto
buongiorno.
Io mi sedetti al mio posto e presi
da mangiare, ero talmente livida di rabbia che neanche lo guardai e non dissi
una parola, suppongo che lui lo notò, forse.
Mentre stavo inghiottendo un
durissimo pezzo di quello che chiamavano pane, ma che a me sembrava si
avvicinasse di più a un sasso, mamma se ne uscì così.
<< Domani vado a fare quella
cosa...>>
Logicamente con “quella cosa”
intendeva “uccidere il bambino”, non aveva neanche il coraggio di dirlo chiaro
e tondo se non dopo la prima volta, ero inorridita.
Io e mio fratello non dicemmo
nulla, come se nulla ci importasse.
Probabilmente era una delle
reazioni che ci riuscivano comuni, non dare soddisfazione alle persone quando
una cosa non ci va giù, anche se io la prima volta urlai.
Per tutto il giorno io non vidi in
giro il gatto, come se avesse intuito l’aria di malessere che aleggiava intorno
a casa. Mio fratello era sparito e io non avevo la minima intenzione di andarlo
a cercare, ero troppo arrabbiata, d’altronde all’età di sedici anni si ce la
prende molto facilmente.
Però...
Sentivo come se la disperazione di
mio fratello oltrepassasse di molto la mia.
Come se la sua rabbia fosse
oltremodo maggiore alla mia.
Avvertivo languidi guizzi di
vendetta partire dai pozzi canuti che erano i suoi occhi.
E ne ero terrorizzata.
Per questo non lo andai a cercare.
La mia vigliaccheria mi faceva
schifo, ero consapevole di non valere neanche la metà di ciò che rappresentava
la figura di mio fratello, il suo mistero, il suo odore, la sua presenza che
non si avvertiva mai.
Lui era l’immensità che io non
sarei mai riuscita a raggiungere, quell’infinito spazio che non sarei mai
riuscita a oltrepassare. La mia volontà era surclassata dal suo silenzio e io
avrei dato qualsiasi cosa pur di sapere cosa aveva in mente. Ma non mi era
concesso, il luccichio che avevo scorto nella sua persona oggi era solo frutto
di quell’ortodosso legame che si ha tra gemelli, nulla di più.
Decisi che stare lì a rimuginare
avrebbe risolto ben poco, ormai rassegnata e abituata alle miei frequenti
girandole di pensieri, mi avvia a scalare il mio monte personale, che io
definivo “Monte dei mille arcobaleni”.
Circa un anno prima, infatti, ero
rimasta sotto la pioggia mentre osservavo dalla cima del monte l’intero
panorama che sembrava rinsavire le mie leggere ferite, temevo una bronchite e
temevo di morire, ma non temevo la morte quando in gioco c’era la vita.
Suppongo che in mezzo a quella pioggia ghiacciata che mi faceva gelare il
sangue, ci fossero anche delle lacrime, ma non importava finché non ne ero
sicura. In fondo la mia vita era uno schifo, potevo anche permetterlo
nonostante fossecontro i miei principi...
Quando la pioggia finì, la nebbia
si diradò e fu come un sollievo per la mia esile anima che ancora così giovane
aveva vissuto tali violenze.
Non volevo tornare a casa,
nonostante fosse tardi e fossi fradicia, sapevo che in quelle condizioni mamma
mi avrebbe picchiato, ma non importava perché tanto lo avrebbe fatto comunque
visto che papà era appena andato in guerra e lei era in ansia. Pertanto se la
prendeva con me, sempre. Non aveva mai osato sfiorare mio fratello, forse anche
lei era terrorizzata dalla sua aura. Ma nei meandri del mio pensiero ero
sollevata di questo, se lei avesse picchiato mio fratello mi si sarebbe
spezzato il cuore.
Io amavo mio fratello, lo stimavo
con tutta la mia persona, provavo un affetto smisurato per lui e mi sarei fatta
uccidere per salvarlo. Ma questo non bastò, lui rifiutava tutto, tantomeno me.
Persa in quei futili pensieri, feci
appena in tempo ad accorgermi che molteplici arcobaleni si erano accavallati
uno sull’altro, mostrandomi un caloroso scherzo di colori tutto intorno, mentre
lo osservavo sentivo invadersi dentro di me una calda gioia, come un vasetto di
cioccolata bollente versato su una lastra di ghiaccio. Regalai a quell’attimo
un sorriso e scesi con una speranza rinvigorita, anche se sapevo di dovermi
preparare a un grave dolore una volta a casa.
Ripensavo a tutto ciò mentre mi
accingevo a scalare quel monte, c’era un sole splendente nel cielo ed era poco
probabile che piovesse, ma sapevo che da quell’altura la luce mi avrebbe
illuminato e avrebbe sciolto quel ghiaccio che si era nuovamente formato dentro
di me, avvolgendomi completamente nella sua fredda coperta.
Faticai non poco per arrivare,
mentre scalavo ero solita osservare la moltitudine di fiori che nascevano su
quelle rocce dall’apparenza antipatiche, mi piaceva osservare come la rugiada su
di loro sembrasse lacrime, tempo prima avevo sentito una canzone provenire
dalla radio del mercato vicino, il cantante diceva: “in questo mondo di guerra
e distruzione anche i fiori piangono e noi ci ostiniamo a credere sia
rugiada...”, si chiamava Jim Morrison se non ricordo male.
La realtà è che è la verità.
Tutto ciò che nel nostro limbo
della mente a noi sembra una menzogna è perché il limbo della nostra volontà ci
impone che esso sia così, noi sguazziamo in tutto ciò che ci pare universo ed è
invece un pugno di nulla, noi ci convinciamo delle nostre leggi pensando che
siano giuste, pensando che siano esatte. Noi pensiamo che tutto ciò che
decidiamo sia verità, lo sia. L’essenza della vita sta nello scoprire le bugie
dietro la nostra realtà, quando le avrai scovate, allora potrai morire in pace.
Per me mio fratello era una bugia
dietro la mia realtà.
Lui rappresentava un neo nella mia
visione del mondo, faceva si che tutto ciò che io credevo, si vanificasse nel
niente, precipitasse nell’oblio.
Ogni volta che mi sentivo felice,
lui uccideva la mia gioia e imprimeva dentro di me il dolore, ogni volta che mi
sentivo triste lui mi donava il suo sguardo e uccideva il mio dolore,
imprimendo la gioia. Lui rappresentava la funzione della mia vita, io ero sua,
ero la virgola sotto il suo punto, l’anello che incastona il diamante, la
cornice che decora il quadro, la lacrima che scorreva sul suo viso. Se lui
fosse morto, sarei morta anch’io.
Avevo accettato questa situazione
nel momento in cui nacqui, l’unione che mi legava a lui era inscindibile una
volta creata.
Arrivai alla cima, trafelata dalla
stanchezza e puntellata da quel fastidioso sudore che bagnava la mia fronte e
le mie gote, come sospettavo il sole calava su di me un indicibile calore
sovrumano che mi spossò all’inizio, poi mi ci abituai e lo trovai piacevole nel
suo essere accogliente, nell’attraversare il mio cuore come un cammello
attraversa la cruna di un ago.
Lo sentivo amalgamare la mia anima
come un impasto e stavo bene.
Mi addormentai.
Sognai di pagliacci piangenti, guanti
impregnati di sangue, rose nere a ridosso di un lago stagnante, insetti enormi
che divoravano un cadavere e lenzuola bianche che volteggiavano in una stanza
buia.
Quando tentai di svegliarmi vidi su
di me due occhi gialli che mi fissavano, allora vomitai tutta la paura che
quegli incubi avevano ridestato su di me, il gatto non sembrò scomporsi più di
tanto, si spostò leggermente per permettermi di alzarmi, e aspettò che io
finissi di esternare il mio terrore. Una volta che capii che si trattava del
micio il mio urlo si trasformò in una risata isterica, poi si dissolse e rimasi
con uno sguardo ebete a fissarlo debolmente. Fu mentre lo presi in braccio che
mi accorsi di essere completamente fradicia e capii che aveva appena smesso di
diluviare, pensai che riuscire a dormire sotto un incessante battere di gocce
stava ad indicare che ero veramente distrutta, e mi compiacqui del fatto che
ora mi sentissi totalmente rigenerata nonostante i mostruosi incubi in cui ero
incappata durante il sonno.
Ero ancora disorientata per
accorgermi che attorno a me si era ricreata quella magia di colori e di archi
formata dagli arcobaleni in simbiosi tra loro, ero troppo stanca e spaventata
per accorgermi che il mio cuore sanguinava troppo copiosamente per essere
rinsavito da quello spettacolo, la mia mente non colse più la luce, perché in
quel momento non c’era altro posto se non per la disperazione.
Ridiscesi il monte come meglio
potei date le mie condizioni, infatti l’intero mio corpo tremava convulsamente,
dandomi l’impressione di doversi sgretolare da un momento all’altro, i miei
denti battevano come in una battaglia dove la lingua si trovava in mezzo
vittima dell’assideramento. Portai con me il micio che stava accoccolato tra le
mie scheletriche braccia tremanti.
Cercai di consolarmi pensando a
calde coperte e un termosifone accogliente su cui appoggiarmi, fu peggio.
Allora mi vennero in mente le
immagini che provocarono un cataclisma nella mia mente deviata, quel susseguirsi
di scene raccapriccianti mi indicava un imminente disastro, la fine dell’inizio
e l’inizio della fine.
La fine di mio fratello e l’inizio
del mostro.
Ma non riuscivo a capire cosa
avesse in mente, e mai lo avrei scoperto se nonfosse stato per quel gatto insignificante che aveva totalmente cambiato
la mia vita, insignificante anch’essa.
Chissà forse quando due vite insignificanti vengono
ad unirsi viene fuori un bocciolo di vita che aspetta solo di sbocciare. Decisi
in quel momento di chiamarlo “Life”.
A un certo punto, quando ormai ero
vicina alla fine del monte, Life si dimenò sulle mie esili braccia imponendomi
di lasciarlo andare, così feci e si diresse verso quel bosco dove mio fratello
si inoltrava ogni giorno, ero indecisa se seguirlo o meno, d’altronde ero un
ghiacciolo vivente e sarei morta assiderata se non mi fossi avvolta in una
coperta il più presto possibile.
Ma ero altresì attratta da quel
bosco e sapevo che Life mi avrebbe guidata da mio fratello. Pertanto lo seguii
col cuore gonfio di lacrime e un groppo in gola di dimensioni gigantesche, cercai
con tutta me stessa di poterlo reprimere, ma fu tutta fatica sprecata.
Riuscivo a stento a camminare come
una persona civile, inciampavo ad ogni ostacolo a causa delle mie gambe
oltremodo tremanti.
Non capivo perché tutta
quest’agitazione al punto da voler piangere, non la capivo e mai l’avrei
capita, sapevo solo che la sentivo e ne dovevo tenere atto perché era l’unico
legame che avevo con mio fratello gemello.
Life intanto andava a passo veloce,
come se mi intimasse di accellerare, io però
continuavo a sentirmi intorpidita e non riuscivo ad andare più veloce di così, allora
decisi di fermarmi, con grande stupore del gatto che si girò a guardarmi
basito, io trassi un bel respiro profondo e dandomi un leggero colpo al petto
riaprii gli occhi con il groppo in gola che si era leggermente dissolto, con
mia grande gioia.
Era il far della sera quando sentii
che lo stavamo raggiungendo, di lì a poco infatti si stagliava uno degli alberi
più vecchi dell’intero bosco, un centenario che sembrava accogliere con calore
tutti coloro che si appostavano sotto i suoi raggrinziti rami.
Fu lì, sotto quella quercia
centenaria, che vidi mio fratello graffiarsi con le sue stesse dita in tutto il
corpo, in un silenzio tombale che avvolgeva l’intera flora come a partecipare a
quel doloroso rito funebre.
Mio fratello si stava interamente
lacerando e nonostante ciò la sua espressione non era mutata, questo rendeva
terribilmente orripilante la scena che si stava svolgendo davanti i miei occhi.
Life tremava, di paura suppongo, io
non riuscivo nemmeno a compiere un movimento involontario se non quello che mi
teneva in vita, ossia il battito del cuore, perfino le palpebre si erano
asciugate nel frattempo che, completamente sotto shock, osservavo quella scena
sanguinolenta che aveva come protagonista mio fratello.
Solo dopo molto tempo lui si girò
verso di me e giuro sulla testa di mia madre che quell’ atto provò seriamente
la mia sanità mentale.
Si girò e nel contemplarmi aveva
allargato un insolente sorriso, che però di dolce o divertente non aveva nulla.
Mi infondeva solo squilibrio, un
immenso squilibrio mentale di cui neanche lui probabilmente si rendeva conto,
mio fratello era diventato pazzo e io stessa in quel momento sentii qualcosa
spezzarsi, era la mia ragione che andava in frantumi.
La sua bocca era impregnata del suo
sangue, capii che non si trattava di graffi bensì di macchie solo quando lui
stesso affondò le sue labbra su un taglio e succhiò avidamente ciò che c’era da
succhiare, fu così che le mie gambe decisero di muoversi, non più controllate
dal lume di compostezza che avevo mantenuto fino a quel momento, furono quindi
libere di camminare. Mi avvicinai a lui piena di paura, terrore, speranza e
amore. Mi avvicinai a lui col solo proposito di salvarlo mentre le lacrime
acide scivolavano dalle mie gote gelide.
Il tramonto ci bagnava della sua
luce indefinita e sembrava ardessimo mentre invece eravamo invasi dal ghiaccio.
Mi avvicinai tendendo la mia piccola ed esile mano verso la sua schiena,
bofonchiando oscene frasi senza alcun senso, col groppo in gola che aveva fatto
il suo trionfale ingresso e non se ne sarebbe più andato facilmente, con la
disperazione che infondeva in me la forza di andare avanti e fermare lo scempio
che mio fratello stava facendo del suo corpo.
Singhiozzai avidamente, e le
lacrime furono talmente ossessive da non farmi più veder nulla, ma
l’immaginazione bastava per imprimere dentro la mia memoria il sangue vermiglio
che scorreva dalle sue ferite, e ciò mi faceva andare avanti, lo avrei toccato
con la mia mente, realizzando il contatto solo quando questo fosse avvenuto,
non prima, non dopo, durante.
Quando lo sfiorai sentii i suoi
denti affondare dentro la mia carne e la sua mano avvolgersi attorno la mia
nuca.
Le sue labbra fredde erano impresse nella mia pelle e come
una ventosa aspiravano tutto. Mi teneva ferma mentre stava prosciugandomi il
sangue, le sue mani erano posate delicatamente dietro la testa, intimandomi di
non muovermi, come al solito stava insinuandosi dentro di me, attraverso di me,
oltre me senza il mio permesso.
Il rito durò parecchi minuti, il mio terrore e la mia paura
erano svaniti completamente, il contatto di mio fratello mi aveva rinsavito e la
felicità aveva sopraffatto l’orrore, nonostante quel contatto fosse ciò di più
raccapricciante io avessi mai vissuto nella mia vita, mi appagava lo stesso.
Nonostante sapessi che era pazzo, matto, infermo
mentalmente, sapevo che stava mischiando il mio sangue con il suo, in modo che
anche se ci fossimo divisi un giorno il nostro sangue non avrebbe mai mentito.
Lui non aveva detto nulla di tutto ciò, ma io lo sapevo, non
chiedetemi perché.
Svenni.
Probabilmente il mio cuore non è uno dei più forti, infatti
le mie emozioni non ressero e tutto si annebbiò, non sentii tonfi perché mio
fratello mi stava tenendo, e questo mi rese ancora più felice. L’unico
rammarico fu il poco tempo che potei passare con lui in quello stretto contatto
che non scorderò mai per il resto dei miei giorni.
Sognai di vele, navi, barche e oceani. Lune sopra i laghi e
soli sopra i fiumi. Facce piangenti davanti uno specchio e mani sanguinanti che
brancolavano nel buio fitto. Immagini incoerenti, furiose, immagini che
trucidano il tuo pensiero, masticano la tua forza di volontà e spappolano il
tuo cervello.
Ero matta, ma nelle condizioni in cui stavamo non importava
molto...
Nel bel mezzo di quei sogni sconnessi, la mia mente percepì
un urlo, un’agghiacciante quanto inumano urlo provenire dalla cucina. Nel
momento in cui lo sentii seppi che non era un sogno e che era la realtà, tutto
ciò che stava avvenendo era purissima realtà che nulla aveva a che fare con
l’immaginario.
Sapevo chi era, sapevo chi aveva urlato, sapevo che dovevo
catapultarmi immediatamente giù da quello stramaledetto letto se non fosse che
le mie gambe erano pesanti come ferro e il sudore stava inondando il materasso
marcio.
Tremavo come in preda alle convulsioni e in quella mera
quanto pietosa situazioni, mi misi a ridere istericamente, una risata tanto
folle quanto incoerente.
Piangevo e ridevo perché ero esattamente al corrente di ciò
che stava succedendo di sotto e ancora prima di averlo visto, sapevo che
quell’urlo apparteneva a mia madre.
Dopo quell’acuto strido di corde vocali ne seguì un silenzio
mortale, fu con quella calma che riuscii a alzarmi malamente in piedi per
scendere giù e constatare con i miei occhi che quello che pensavo fosse vero.
Mentre scendevo le scale continuava a regnare il più
assoluto silenzio, tanto che iniziai di nuovo a tremare impercettibilmente, ma
non ci badai e mi diressi lentamente in quella stanza. Davanti alla soglia
sentii un conato di vomito salirmi su per lo stomaco e per poco non vomitai là,
mi seppi trattenere ed entrai trascinando quelle dannate gambe che di muoversi
non ne volevano più sapere.
Ciò che vidi mi paralizzò il cervello, mi lacerò il cuore,
mi asciugò gli occhi, mi pietrificò la lingua.
E’ indescrivibile ciò che provai in quell’istante,
probabilmente una volta che senti dentro di te il limpido terrore poi non lo
ricordi più per il contraccolpo che la memoria subisce subito dopo, fatto sta
che le mie pupille ondeggiarono furiosamente da una parte all’altra come a
voler fuggire da quella cruenta scena che mi si parava davanti.
La pancia di mia madre completamente sventrata mentre mio
fratello era lì accanto a lei a contemplare qualcosa di scuro dentro un
vasetto.
Capii poi che era il feto.
E mi accorsi poi che lui stava piangendo e ridendo, proprio
come feci io poco prima.
Mi accorsi in quel momento di averlo sempre saputo da quando
la mamma ci aveva comunicato che intendeva uccidere il bambino.
Mio fratello voleva tenerlo per se, mio fratello non aveva
accettato, mio fratello aveva rifiutato, mio fratello aveva ucciso la
mamma,mio fratello si era follemente
innamorato della pazzia e aveva gettato la sua vita nell’oblio delle più oscure
tenebre, per sopravvivere all’atroce fame della sua anima, per sopravvivere al
suo cuore che non era più suo, per non perdere se stesso.
Anche se, ne ero sicura, lui non era mai stato se stesso.
Lui era sempre stato l’ombra di una mente in pena, il
prototipo di essere umano che non ha chiesto di nascere, a cui gli è stata
impartita la lezione di vivere e a cui gli è stato negato morire.
Vomitai.
Vomitai la mia disperazione, il mio orrore, la mia paura, la
mia angoscia, tutte su quel sudicio pavimento secco e inaridito.
Scappai.
Scappai da lui che rideva, piangeva e aveva ricominciato a
graffiarsi lanciando zampilli di sangue ovunque, da lui che lui non era più.
“Pendulum”
...Fu tutto ciò che trovai scritto su un lurido foglietto di
carta quando ebbi il coraggio di tornare a casa. Era mezzanotte e il campanile
della città scoccò dodici volte.
<< Ho sentito parlare bene di te, pertanto ho deciso
di assegnarti un incarico molto importante che deve essere portato a termine
con la massima discrezione e velocità. Sei raccomandato da Ophelius,
il più grande mercenario di tutta l’America, che ne dici di lavorare per
qualche tempo sotto le mie direttive? >>
L’uomo incrociò le dita poggiando i gomiti sul tavolo di
acero pregiato, che stimava circa ottanta mila dollari, e aspettò paziente una risposta
dall’interlocutore che stava ritto in piedi dall’altra parte del tavolo
osservando con sguardo tranquillo l’intero locale tanto che sembrava non aver
udito una parola; quando l’altro smise di parlare fermò il suo sguardo su un
punto indefinito del tetto interamente gessato e dipinto con mille figure
astratte, stette in quella posizione per un tempo lunghissimo mentre sembrava
assorto in un grave pensiero.
<< Ad una condizione.>> disse mentre stava
ancora osservando i pentagoni raffigurati sull’angolo alto. L’altro uomo
strabuzzò gli occhi inorridito, strinse l’intreccio delle mani tanto che le
nocche divennero bianco-giallastre e aprì la bocca per inveirgli contro, ma
immediatamente si frenò pensando che se avesse perduto lui l’affare sarebbe saltato,
Ophelius gli aveva assicurato che nessun altro a
parte lui possedeva tale quantità di audacia e freddezza quanto quel ragazzo
dai capelli biondo cenere e gli occhi color del ghiaccio.
Ma non gli aveva accennato a delle “condizioni”.
Deglutì il boccone amaro con fatica e cercando di reprimere
la furia contro quell’atto di presunzione, sciolse le mani da quell’ormai
doloroso intreccio e le sistemò comode nella grande protuberanza che
rappresentava il suo addome. Sapeva che rischiava un attacco di cuore da un
momento all’altro, grazie a quel dottore incompetente che aveva dubitato della
sua perfetta sanità fisica e aveva osato dirgli che “ tutto quel grasso avrebbe
potuto otturare la vena che trasporta il sangue al cuore.” e sarebbe, così,
schiattato.
Ma cosa ne sapeva lui?
Cosa gliene importava?
Lo pagava per curarlo, non per fare sentenze su una
stramaledettissima morte.
Cacciò quel pensiero dalla sua testa, ora doveva
concentrarsi su quel ragazzo che fino a quel momento non l’aveva neanche
guardato negli occhi, prima di morire doveva concludere quell’affare urgente e
non avrebbe permesso a quel figlio di buona donna di mandare all’aria i suoi
piani, faceva meglio a dare una condizione soddisfacente altrimenti gli avrebbe
fatto passare il più brutto quarto d’ora della sua vita.
<< E, sentiamo, quale sarebbe questa condizione?
>> chiese, quindi, in tono di sfida che però il ragazzo non sembrò
cogliere, o almeno non sembrava gli importasse.
Fatto sta che a quella risposta si staccò dalle sue figure
geometriche e lo guardò, dritto negli occhi, cosa che lo fece tremare.
Infuriare.
Godere.
Aveva davanti un assassino a cui mancava l’umanità.
Un assassino a cui avevano strappato la lucidità.
Un assassino a cui Iddio aveva donato uno sguardo
trucidante.
Sconvolgente.
Paralizzante.
Era perfetto.
<< Io ucciderò per voi solo se la moglie della vittima
è incinta di meno di tre mesi. >>
Tranquillamente pronunciò la sua condizione, con il tono
pacato di chi non ha nulla da perdere o guadagnare. Con il tono di chi sa di
non poter essere ucciso neanche di fronte a un’ambasciata di militari, animali
o cannibali.
Con il tono di chi sa di essere immortale.
Stephen aveva conosciuto una miriade di serial killer.
Era a conoscenza della loro natura poco ortodossa, del loro
squilibrio mentale. Ne conosceva di tutti i tipi; i sadici che uccidevano per
piacere, i masochisti che facevano un sacrificio dopo ogni crimine, i matti che
tagliavano il corpo della vittima in tanti pezzettini e poi se li portavano a
casa, gli amanti del denaro a cui non importava un cazzo delle vittime bensì
del compenso, i passionali che godevano col sangue, i disperati che uccidevano
per “buone cause” quali potevano variare: dal salvare un parente da una
malattia al semplice procurarsi una dose di droga.
Ne aveva visti di tutti i tipi.
Ma non aveva mai avuto di fronte un tipo come lui.
Un tipo che non era nessuno, che non aveva personalità, che
non aveva obiettivi, che dava come condizione una cazzo di moglie incinta di
tre mesi!
Giunse alla conclusione che era maledettamente pazzo.
Ma non un pazzo normale. Bensì un pazzo che non si vede, un
invisibile matto che fa finta di essere normale, un umano privo di umanità la
cui descrizione migliore si avvicina a quella di un mostro dalle vesti di uomo.
Stephen rimase talmente spiazzato da quella risposta
chenon seppe spiccicare una maledetta
parola per dieci minuti buoni, nei quali l’altro continuò a fissarlo
pacatamente in attesa di una sua risposta.
Iniziò a sudare.
Si allentò la cravatta,nervosamente.
Quello sguardo lo stava facendo impazzire.
Riprese contegno e balbettando qualcosa di stupido lo invitò
a lasciare il suo recapito telefonico in modo da potergli dare una risposta il
più presto possibile. L’altro ubbidì e poi lasciò la stanza in perfetto silenzio,
come quando la morte fa il su ingresso indifferente e poi se ne va lasciandoti
a ricapitolare la tua vita di merda. Stephen prese il biglietto. Lo guardò.
C’era scritto “Pendulum”. Orpheus
gliel’aveva detto. Gli aveva detto tutto quel bastardo, tranne la cosa più
importante. Che quell’uomo era pazzo da legare.
Nella stanza l’orologio scoccò le due del pomeriggio.
Ti avevo promesso che
ti avrei dedicato una frase a fine capitolo, ed eccomi ad adempiere al mio
dovere.
Volevo ringraziare dal
profondo del cuore: Luka.
Per le sue puntuali
recensioni ai miei lavori, sempre sincero e schietto. Mi sproni davvero a dare
il mio meglio e a continuare questa strada tortuosa e piena di imprevisti.
Quando Jack uscì da quell’ufficio dove aveva tenuto
l’ennesimo colloquio di lavoro, non sentiva nulla, come sempre. Era talmente
apatico che non sudava neanche, nonostante i circa quaranta gradi che
aleggiavano allegramente intorno a lui.
Non si era mai chiesto se fosse davvero un umano, gli
importava poco, aveva trentasei anni e per quanto gli riguardava una sola cosa
gli importava, ed era a casa sua.
Solo che in quel momento aveva un altro lavoretto da
svolgere in santa pace, un lavoretto che amalgamava le sue non emozioni con il
sadismo.
Gli piaceva il sadismo.
Era forse l’unico comportamento che riuscisse a stuzzicarlo.
Così si diresse verso il luogo che gli aveva indicato Orpheus carico come una batteria e decisamente esaltato.
***
<< Buongiorno
signori e signore, pochi minuti fa ci è giunta notizia della ripresa delle
morti di donne in attesa, dopo un periodo di pausa durato circa due mesi.
L’ultima vittima, la signora GracyMenson, è stata trovata senza vita nel suo appartamento,
completamente sventrata. Gli inquirenti hanno controllato se fosse ancora
presente il feto e come previsto non ne hanno trovato traccia. Passiamo ora
alla prossima notizia...>>
Jack era illuminato dal solo bagliore della tv accesa, nella
penombra della sua stanza si scorse un flebile sorriso nascere dalle sue
labbra.
Louise era appena tornata da un viaggio all’estero per
pubblicizzare la sua ultima fatica, su cui aveva impiegato ben tre anni della sua
vita. Si intitolava “Meandri di una mente non protetta”, l’aveva scritto gettando
sulle parole tutte le sue emozioni e tutto ciò che sentiva di dover scrivere.
Era sicuramente un libro che di normale aveva poco, parlava infatti di un
soggetto non proprio sano di mente che rifiutava qualsiasi cura e a chiunque lo
chiamasse “pazzo” lui rispondeva che i matti erano coloro che si accorgevano
della sua stranezza, visto che riuscivano a scorgere della normalità in tutta
quella pazzia che li circondava. Era matto, ma lucido come una palla di vetro.
Era matto, ma ragionava velocemente tanto quanto un computer. Era un umano, ma
non lo era.
Quell’uomo che tutti dicevano di non conoscere si chiamava Jack.
Quando la donna varcò la soglia di casa sua erano le nove del
mattino e stanchissima per il viaggio si fiondò vestita sul letto piombando in
un sonno profondo che durò per ben otto ore. Si svegliò, infatti, alle cinque,
ancora intontita dalla grande mancanza di sonno che aveva accumulato in quei
giorni di sregolate attività che l’avevano spossata profondamente.
Si alzò e si diresse verso il bagno a farsi una bella doccia
rigenerante, mentre si toglieva di dosso i vestiti notò quanto era dimagrita in
quel periodo, stimava almeno altri due chili, tra lo stress e l’ansia di finire
quel romanzo a cui teneva più della sua stessa vita. Non ricordava più l’ultima
volta che aveva frequentato un uomo, ultimamente l’ossessione di quel libro era
stata tale da estraniarla completamente dal mondo esterno, tanto da farsi
portare cibo e acqua direttamente a casa. Non concepiva distrazioni mentre
lavorava su un racconto, significava per lei mancanza d’ispirazione e perdita
di importante materiale situato nella sua testa. Non voleva uomini che le
ronzassero intorno solo per spillarle denaro, non voleva amore perché in tutta
la sua vita non ci aveva mai creduto. D’altronde, che senso aveva perder tempo
su qualcuno che tanto poi non ti avrebbe più amata, o viceversa che non avresti
più amato? Non ce l’aveva un fottuto senso.
Continuava a fare il lavoro che aveva sognato fin da
piccola, che aveva agognato nell’adolescenza, che si era sudato nell’età
adulta.
Era una scrittrice di successo, aveva dedicato dieci anni
della sua vita a inventare trame d’ogni genere, poesie che avevano fatto
commuovere la gente, racconti che avevano toccato in fondo al cuore del più
duro. Ma anche disastri, critiche, consigli e insulti.
Li aveva accettati tutti allo stesso modo, cercando di
migliorare giorno per giorno, cercando di ritrovare la sua metà perduta.
Ma non avrebbe mai pensato che mancava così poco...
Uscita dal getto d’acqua bollente, Louise indossò un
accappatoio blu scuro e scese in cucina a prepararsi un bel tè freddo, mentre
passava dal tavolo della cucina afferrò il telecomando e svogliatamente accese
la tv sul telegiornale del pomeriggio dove un uomo tutto d’un pezzo stava
elencando le notizie.
Fino a quando non arrivò a quella fatale notizia,
l’uccisione della donna incinta e la sparizione del feto, che le fece scappar
di mano il pentolino che andò a rovesciarsi sul piano cottura insieme a tutto
il suo contenuto.
Louise si sentì svuotare la mente, come se fosse stata
risucchiata da un aspirapolvere, improvvisamente non seppe più controllare il
tremolio del suo corpo e le sue labbra iniziarono a balbettare.
<< Jack...Jack...Jack...Jack...>> lo ripeté
dieci, forse cento volte, per convincersi che non poteva essere lui, ma sapeva
benissimo che non poteva essere ALTRO che lui.
La cicatrice bruciava, Louise prese a massaggiarsi
l’avambraccio con sguardo terso e livido, perso nel vuoto, il dolore era
insopportabile ma sembrava non sentirlo, l’unica cosa che sentiva in quel
momento era l’imminente voglia di rivederlo. L’imminente voglia di ritrovare la
sua metà.
Jack sostava davanti alla finestra, immobile osservava il
volo di un uccello che si librava nel cielo ormai non del tutto azzurro, delle
nuvole minacciose all’orizzonte facevano presagire un bel temporale, tanto
meglio, sarebbe uscito e se lo sarebbe goduto.
Una fitta gli partì dalla spalla sinistra, non fece una
piega, rimase tranquillo mentre godeva il bruciore che la cicatrice gli donava.
Bastava e avanzava per farlo sentire vivo, per renderlo felice, per surriscaldare
la sua mente ghiacciata.
Stephen stava nervosamente tamburellando le dita nel ripiano
dove aveva deposto il telefono di casa anni orsono insieme alla sua defunta
moglie. Poggiava la cornetta all’orecchio e ricomponeva quel numero che ormai
sapeva a memoria.
Puntualmente rispondeva la maledetta voce che lo informava
che al momento non si trovava a casa e che avrebbe richiamato una volta
tornato.
Quel dannato di Orpheus lo stava
prendendo in giro e gliel’avrebbe fatta pagare, cascasse il mondo.
Ripose la cornetta poco gentilmente e infuriato come non mai
andò ad accendere la televisione in salotto, si diresse poi verso la cucina per
prepararsi un panino contenente le peggiori schifezze e al diavolo il cuore. I
metodi che utilizzava contro la rabbia erano strettamente personali e nessuno,
tantomeno quel dottore da strapazzo, gli avrebbe impedito di scaricare i nervi
sul cibo. Sedutosi, quindi, in poltrona, poté godersi uno dei tanti programmi
spazzatura che davano a quell’ora, dopotutto cosa nella sua vita non
rappresentava spazzatura?
Il suo lavoro consisteva nell’assoldare pazzi omicidi e far
uccidere persone che avrebbero potuto intralciarlo negli affari, anche quelli
poco puliti.
Sua moglie era morta di crepacuore dopo aver scoperto
l’unico suo tradimento, una scappatella con la segretaria. Amava sua moglie, ma
non aveva saputo resistere a quella puttanella di passaggio. Dopo il decesso
della consorte pensò bene di castrarsi, ma decise che non era una buona idea,
dopotutto sperava che la moglie ovunque si trovasse, sapesse che lui l’aveva
davvero amata durante i loro trenta lunghi anni di matrimonio. In caso
contrario, se ne rammaricava.
Mangiava cibo spazzatura da quando era nato, essendo vissuto
in una famiglia piuttosto benestante nulla gli era stato negato e questo poteva
rivelarsi un bene o un male, a seconda dei casi.
Probabilmente dopo la sua morte sarebbe andato all’inferno,
ma non se ne spaventava più di tanto, se lo meritava perciò era giusto.
Mentre faceva zapping, la sua mano si fermò per ascoltare le
notizie del telegiornale. L’uomo in giacca e cravatta lo osservava mite mentre
lentamente raccontava cosa stava succedendo in quel momento in America. Non
stava prestando molta attenzione, quando il suo orecchio udì “è ripresa la
lunga successione di uccisione di donne in gravidanza” e i suoi occhi si
spalancarono pieni di terrore.
Improvvisamente non aveva più fame.
La sua bocca si spalancò in una “o” convulsa e tremante,
ripensando al volto tranquillo di quell’uomo che oggi aveva varcato la soglia
del suo ufficio. Quell’uomo che per un momento aveva identificato come
l’incarnazione della morte.
Suonò il telefono.
“Degno da film dell’orrore” pensò Stephen e poi si maledisse
per quel pensiero sciocco in una situazione talmente delicata come quella dove
non riusciva neanche ad alzare la cornetta, terrificato. Scattò la segreteria
telefonica e squittì la voce di Orpheus.
<< Steve ho visto che mi hai cercato, scusa ma ero a
fare compere per mia figlia che domani fa undici anni, sai com’è i bambini a
quest’età sono piuttosto esigenti...>>
Risuonò una risata benevola, Stephen chiuse gli occhi e strinse
i pugni, se avessero parlato faccia a faccia gli avrebbe spaccato il naso. Non
gliene importava un cazzo di sua figlia.
<< So che sei in casa, l’orario di lavoro è finito da
un pezzo e mi chiedo perché non alzi quella cornetta, stai forse defecando
Steve?>>
Un'altra risata riempì il soggiorno, Stephen ormai livido di
rabbia si alzò ed afferrò la cornetta.
<< Maledizione non chiamarmi Steve, lo stai che mi da
fastidio!!!>> urlò in malo modo.
<< Oh ecco, ci sei, perché mi hai cercato
Steve?>> disse Orpheus con tono di sfida, Stephen
lo ignorò.
<< Ti ho chiamato per via del ragazzo che mi hai
mandato oggi, quello che si fa chiamare Pendulum...>>
Silenzio dall’altra parte.
<< Beh credo tu abbia omesso un bel particolare
importante, io ho conosciuto migliaia di serial killer e tu lo sai, ma lui è
completamente fuori come un balcone. Non hai idea di quale condizione mi ha
posto per...>>
<< Una donna incinta.>> lo interruppe Orpheus dall’altro capo del filo.
Stephen rimase di pietra, allora lo sapeva quel bastardo!
<< Avresti gentilmente potuto comunicarmi che
quell’uomo non sta bene mentalmente...>>
Orpheus sospirò.
<< Cos’ha di tanto strano la sua richiesta? Vuole
semplicemente una donna incinta, mica la luna. Basterà mandare qualcuno da lei
e ingravidarla artificialmente, il gioco è fatto e l’uomo è morto. Facile
no?>>
<< Facile un corno!!>> urlò di rimando Stephen.
<< Cosa è che ti preoccupa? Se non hai uomini posso
mandarne uno io...>>
Stephen strinse la cornetta.
<< Già è per me triste dover uccidere un uomo, non è
esagerato mandarne a morire tre in una sola volta?>> disse con la voce
strozzata.
Orpheus rise di gusto, per un
minuto circa.
<< Sei davvero divertente Steve, ma per tua
informazione non sei tu ad uccidere, bensì il nostro caro Pendulum
e poi hai mandato a morire circa un migliaio di uomini da che sei entrato in
affari, cosa vuoi che siano due in più? Cos’è, hai i rimorsi di coscienza
adesso? E’ troppo tardi. Quel che è fatto è fatto, per uccidere quell’uomo ti
serve Pendulum, senza di lui non puoi far nulla, e
per avere Pendulum devi dargli una donna incinta. Fallo,
pagalo e dimenticalo. Tu non hai idea delle sue condizioni quando l’ho trovato vent’anni
fa. Stava per morire dissanguato, ma ciononostante continuava a fissarmi con
quel suo sguardo carico di nessuna emozione, mi piacque, anzi lo adorai. Lo
curai e lo assoldai a soli sedici anni, lo addestrai e adesso è l’uomo che
vedi. Ma fin dal primo omicidio, mi ha chiesto di trovargli una donna incinta,
come ricompensa. Fu da lì che iniziarono le morti di donne in gravidanza, ne
avrà uccise migliaia, ma non ho idea di dove porti i feti.
Ora ti devo lasciare Stephen, non chiamarmi più, fa sapere
direttamente a Pendulum la tua risposta.>>
Clack.
Chiuso il discorso.
Stephen ricacciò indietro i sensi di colpa e compose un altro
numero.
Louise pensava questo quando il
moto d’emozione sfumò, quando si rese conto che ancora una volta suo fratello
le aveva lanciato un avviso lampeggiante, senza alcuna indicazione. Una stupida
lampadina accecante macchiata di rosso, macchiata di tutti quei delitti che
Jack aveva compiuto.
Louise aprì il frigo e prese un
po’ d’acqua, il solo pensiero di quella notte la faceva star male, quella notte
dove era scappata da lui e adesso se ne pentiva amaramente.
Perché Louise era Jack, ma Jack
non era Louise.
Un equazione non equa, un
uguaglianza non uguale, una somiglianza diversa, cosa era lei per suo fratello?
Una luce in cima al monte? O il baratro più profondo?
Probabilmente entrambi, l’unica
cosa certa era che per lei suo fratello rappresentava tutto. Forse anche
qualcosa di più del dovuto.
Rassegnata a dover fare come al
solito da sola, decise di aspettare l’indomani per fare qualsiasi cosa, sarebbe
stato completamente inutile girare a vuoto e avrebbe sprecato energie
superflue. Si, una sana dormita e poi inizia la ricerca. Non sapeva, però, che
quella decisione diede inizio all’incubo.
Quella maledetta luna incastonata
nel cielo sembra l’occhio divino.
Jack pensava che la luce lunare
si addicesse più di ogni altra alla sua indole, mite, atona e tranquilla. In
effetti era così, era come immergersi in un bagno di nulla ed uscire brillanti,
mentre goccioli di avidità e terrore, terrore di un giudizio che non arriverà
mai.
Jack guardava quella luna con
desiderio, ma non un desiderio ardente, un desiderio dettato solo
dall’astralità di quel cerchio tanto perfetto quanto misterioso.
Era affascinante.
Suadente.
Sapeva che non esisteva luna
senza stelle, né stelle senza luna. Questo lo eccitava, imprimeva in lui un
senso di calore e sentimento.
Perché Jack sapeva...
...che Louise era lui, ma lui non
era Louise. Lui non era Louise, lui le apparteneva, faceva parte di lei, ma non
era lei. Fin da piccolo la sua indole lo aveva sempre staccato da quello che si
pensava fosse un legame tra gemelli, Jack odiava i legami e li odiava tuttora.
Jack ama il niente, Jack ama il non vivere, Jack ama l’odio e la morte. Ma Jack
amava sua sorella, per dieci anni le era stato lontano, ma le aveva marchiato
l’avambraccio con un morso per far si che lei non si scordasse mai di lui.
Visto che lei era Jack.
Quando Louise si svegliò era
appena l’alba, non aveva dormito granché. Barche marce, pesci morti, fiori
appassiti e laghi di sangue l’avevano assillata per tutto il tempo. Non aveva
incubi da molto e ciò non era affatto rassicurante. Si alzò e andò a fare una
doccia fredda, non ebbe il tempo di fare colazione che squillò il telefono.
<< Pronto?>>
<< Al campanile, stasera,
ti aspetto.>>
Clack.
Chiuso.Fine.
Louise si sentì mancare il
respiro, era la sua voce, l’avrebbe riconosciuta fra mille. Stava per svenire
quando si diede due schiaffi e con un bel respiro andò a vestirsi.
Per tutto il giorno sedette
davanti l’orologio. Le due, le tre, le quattro, le cinque.
Tic tac tic tac...
Squillò di nuovo il telefono e
Louise si precipitò a rispondere rischiando di slogarsi seriamente un piede.
<> disse
quasi con voce isterica.
<< Louiseeeeeeeeeeeeeeeeee!!>>
squittì la voce di Anne. Louise chiuse gli occhi spazientita.
<< Anne, ciao...>>
<< Cara è da tanto che non
ci vediamo, cosa è questa voce? Stai male?>>
<< No, cioè, si ho un po’
di mal di testa...>>
<< Allora passo, devi
distrarti sei stata completamente immersa nel romanzo che non hai neanche avuto
un po’ di tempo da dedicarti ...>> continuò per due minuti buoni.
“Dannazione.” urlò Louise nella
sua mente. Che scocciatrice, le persone come Anne la facevano vomitare. Da
quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che chiedergli soldi. Che
andasse a quel paese.
<< ...a che ora possiamo
vederci?>> finì lei.
<< No, senti, ho bisogno di
dormire. Sembro un panda, ultimamente soffro un po’ di insonnia, sarà per
un'altra volta...>>
<< Oh, ma sicura di star
bene?>>
Doveva essere dura di
comprendonio, Louise sospirò.
<< Si, tranquilla.>>
<< Ok Lou,
ci sentiamo ciao!>>
<< Ciao, Anne...>>
Chiuse la cornetta e immaginò di
avere Anne lì davanti. Colpì il muro e iniziò a sanguinarle la mano, scoppiò a
piangere.
Si addormentò singhiozzando,
erano le otto e mezzo quando aprì gli occhi e la sua reazione fu di sgomento
più totale. Era tardissimo. Uscì di casa in fretta e furia dandosi prima un
occhiata allo specchio, non aveva neanche una ruga nonostante l’età e i ritmi
di vita intensi. Andava bene così, dopotutto.
Jack non le aveva detto orario,
ma sentiva che era comunque tardi, probabilmente era solo l’ansia di rivederlo,
fatto sta che stava correndo a perdifiato sotto la luce della luna.
Il campanile distava poco e
infatti lo raggiunse dopo pochi minuti di corsa estenuante, c’era uno spiazzale
circolare e girandosi intorno freneticamente arrivò a scorgere un bigliettino
affissato ad una porta molto antica e possente.
<< Pendulum..>>
c’era scritto. Il cuore di Louise prese a battere forte.
Cercò di spingere più che poté il
portone, ma solo dopo vari tentativi riuscì a spostarlo di qualche centimetro,
tanto bastava per aprirla scorrevolmente.
Una volta entrata vide tutto
buio, una distesa di tenebre che sembrava abbracciarla gelidamente, ghignando
parole senza significato, tremò.
Vide una flebile luce provenire
da un punto imprecisato in quel buio pesto, la seguì ciecamente mentre la luce
andava ingrandendosi mano a mano.
Quando entrò, ciò che vide mise a
dura prova il suo lume della ragione.
Barattoli pieni di piccoli
fagioli, feti li chiamano.
Non so descrivere bene cosa
provai vedendoli, si dice che dopo un forte shock si perdano completamente i
ricordi dell’accaduto, nel bene o nel male.
Mi ritrovai completamente
circondata da piccole creature uccise prima di nascere, innocenti grumoli di
cellule che stavano per compiere ciò che chiamano “il miracolo della vita”, ma
che ancora adesso è soltanto l’ingresso di uno spermatozoo dentro un ovulo,
nulla di eclatante. Nulla di sorprendente o divino.
Non c’era odore in quella stanza,
proprio come chi l’abitava, l’assenza di presenza regnava sovrana ovunque lui
mettesse piede, perfino quella debole lampada che emanava luce sembrava morta.
Sapevo che lui era seduto in quel
trono di pietra, stava aspettando un mio qualunque gesto, una mia qualsiasi
parola che confermasse la mia attitudine a ciò che avevo dinnanzi. Ma non ci
riuscii, non riuscii a muovermi, dopotutto era un comportamento frequente
quando di mezzo c’era lui...
Le lacrime fuoriuscirono da sole,
fu così che le mie gambe cedettero e mi presi il volto tra le mani.
<< Cosa... sei
diventato?>>cercai di
farfugliare.
Silenzio.
Come sempre, mi invitava, mi
tendeva la mano, si insinuava nella mia mente e poi mi abbandonava.
La solita stupida, piccola,
illusione.
<< Tu credi che io sia mai
stato qualcuno, Lou?>>
Tono inesistente, voce dissonante
e nessuna inclinazione che potesse far capire che espressione avesse. Ma aveva parlato,
mi aveva rivolto la parola dopo dieci anni, per darmi una risposta così vacua,
così evanescente. Tipico. Era inutile parlare.
<< Ciò che vedi, è frutto
della mia mente malata. Ciò che osservi sono le mille vite che mi sono preso
come ricompensa. Dio ha fatto si che uccidessi mio fratello, allora IO faccio
si che ne uccida mille altri. Dove sta la differenza? Se mia madre non voleva
quel figlio perché le altre donne dovrebbero averlo? Dove sta la giustizia? In
questo mondo c’è mai stata un po’ di coerenza?>>
Rimasi in silenzio. D’altronde
l’unico che qui non aveva coerenza era lui.
<< Forse, tutti questi
bambini che tu hai ucciso potevano costituire una ricompensa per nostro
fratello. Forse lui desiderava che loro nascessero, perché lui non ha potuto...>>
<< No. Lui prova vendetta.
Me lo ha detto. Parlo spesso con lui sai? Mi ha detto di uccidere tutti i
bambini che potevo, come espiazione del mio peccato e di quello di nostra
madre. “Uccidi” mi ha detto, “se non vuoi che io uccida te”. Me lo ha detto
quella sera, continua a ripetermelo ogni notte. Uccido per paura, per terrore,
per piacere, per goduria, per fottuto egoismo.>>
Era malato.
Mio fratello era malato,
completamente pazzo.
Mi alzai, cercai di non guardare
tutte quelle piccole anime che da me volevano vendetta, tanto era inutile, non
sarei mai riuscita a sfiorare mio fratello anche se avessi voluto...
<>
<< Ti brucia
ancora?>>
Guardai istintivamente la
cicatrice.
<< Si, a volte.>>
<< Ciò significa che non ti
sei mai scordata di me...>>
<>
Sopraffatta. Di nuovo. Da lui.
<< Ho letto il
libro.>>
Sussultai violentemente, aveva
letto il libro? Si era riconosciuto in lui?
<< ...Ah si?>>
<< Si, non continuare a
rimanere lì dietro, per favore.>>
Mi sarei avvicinata più
velocemente se solo queste cazzo di gambe fossero meno pesanti, pensai
stizzita. Arrivai accanto a lui davanti alla candela, sotto di essa stava il
feto di nostro fratello, lì immobile mentre sembrava osservarci dall’alto della
sua saggezza mai sviluppata.
<< Si chiamava Jack, non è
così?>>
<< Si, si chiamava
Jack...>>
<< Ho capito subito che
stavi parlando di me, a quanto pare pensi che sono pazzo, come tutti del
resto...>>
Lo guardai, per la prima volta
ebbi il coraggio di guardarlo dopo dieci anni, era un uomo. Capelli biondo
cenere e quegli occhi che di vivo non avevano nulla. Anche lui come me non
dimostrava ventisei anni, neanche una ruga.
<< No, penso che tu
rappresenti la normalità nella pazzia.>>
Improvvisamente sentii un gelo
avvolgere la parte destra del mio corpo, ne ero sicura, aveva posato lo sguardo
su di me. Non osai girarmi.
<< Oh si, quelle fottute
frasi da scrittore, frasi fatte senza nessun significato che tentano di far
colpo sul primo pirla che le legge. E’ così non è vero? Ci vivete di frasi
vuote, frasi che giudicano una persona senza sapere realmente nulla di
questa...>>
Mi si mozzò il respiro, in quel
momento mi sembrò di diventare improvvisamente una formica di fronte a un
elefante. Inghiottii e sudai lievemente.
<< Ti faccio così
paura?>>
Mi voltai istintivamente e ciò
che mi trovai davanti furono i suoi occhi. Mi osservava. Io ero terrorizzata,
eccitata, felice, disperata.
<< N-no..>>
<< Rilassati. >>
E questo bastò.
Una parola fece sciogliere tutta
l’ansia che si era creata in me, tutto il fervore dei miei sensi, tutto
l’orrore che quei feti mi vomitavano addosso.
Stephen spalancò gli occhi
incredulo, non sentiva sua figlia da mesi ormai, troppo impegnata a finire
l’università.
<< Hally
che sorpresa, mi avevi cercato?>>
<< Si, in casa e in
ufficio, ma avevi sempre quel maledetto telefono occupato...>> disse lei
stizzita.
<< Si, hai ragione, ho
avuto qualche problema con la linea telefonica ultimamente, mi spiace di averti
fatto preoccupare...>>
<< Su, non fa niente,
piuttosto devo darti una notizia!>>
Stephen notò dal tono eccitato
che doveva trattarsi di una bella notizia, aspettò che la figlia continuasse.
D’altronde c’erano voluti anni per superare l’odio che provava per lui. Dopo la
morte della madre, infatti, lei non gli rivolse più a parola per due lunghi
anni.
<< Prova ad
indovinare!>>
<< Ti manca l’ultimo
esame?>>
<< Ma no! L’università non
c’entra, va bene te lo dico io.>>
<< Forse è
meglio...>>
<< Pronto?>>
<< Si, dimmi cara.>>
<< Papà, aspetto un
bambino!>>
Un botto.
Il telefono ruzzolò per terra con
un gran baccano.
Le mani di Stephen presero a
tremare convulsamente, le sue pupille diventarono improvvisamente più chiare e
la lingua si seccò come quella di un morto.
<< Papà! Papà ci sei
ancora?>> intanto l’apparecchio lanciava voci allarmate.
Stephen non riuscì a prendere il
telefono, sentiva tutto il suo corpo irrigidito e poteva scommetterci che stava
per venirgli un infarto.
Sua figlia aspettava un bambino.
Sua figlia era incinta.
Sua figlia era una possibile
vittima di Pendulum.
Svenne.
<< Papà, come hai potuto?
Come hai potuto uccidere me e la mamma, come hai fatto ad ammazzare pure tuo
nipote? Sei un mostro, un essere repellente, mi fai schifo! Assassino!>>
Assassino
...ssino
...ino
...no.
Aprì gli occhi di soppiatto.
Nessun urlo, però. Il cuore batteva all’impazzata e non accennava a voler
smettere, Stephen cercò di ignorarlo e prese il telefono, con mano
eccezionalmente ferma. Compose il numero lentamente e si accinse a parlare con
l’interlocutore. Il suo sguardo era totalmente assente, sembrava un robot.
<>
<< Simon, sono
Stephen.>>
<< Signor Stephen, mi
dica.>>
<< Ho bisogno di un favore,
potresti venire immediatamente?>>
<< Nessun problema,
signore, arrivo subito.>>
<< Bene, a dopo.>>
Ripose la cornetta e si appoggiò
allo schienale, non aveva mutato il suo sguardo vuoto.
Aspettava. Guardò l’orologio e il
campanile risuonò le tre del pomeriggio. Una lacrima gli scivolò dal viso. Non
l’asciugò.
Passarono quindici minuti da che
aveva chiamato lo scagnozzo, quando sentì bussare alla porta. Bofonchiò un
lievissimo “avanti” e la porta si aprì leggermente. Simon si ergeva nel suo
metro e novanta d’altezza, allo stipite della porta mentre osservava il suo
capo nel più totale panico.
<< C-capo,
tutto ok?>> balbettò.
<< Si, siediti, devo
parlarti di un affare urgente, non voglio nessun indugio.>>
Non lo guardò in faccia mentre
pronunciava queste parole, Stephen guardava il vuoto, sembrava parlare per mano
di qualcun altro.
<< Si, capo.>>
<< E’ una questione che non
puoi assolutamente rifiutare, questa.>>
<< Certo.>>
<< Devi... ingravidare una
donna.>>
Simon per poco non cascò dalla
sedia, non credeva alle sue orecchie. Conosceva il capo da poco più di quattro anni,
ma mai gli aveva assegnato una missione tanto “strana”.
<< Ma cos...>>
<< Non hai il diritto di
esprimere qualsiasi genere di commento, ti devi attenere alle direttive, la
ingraviderai con l’inseminazione artificiale, una notte dove il marito non è
presente, chiaro?>>
Simon non era ancora riuscito a
realizzare quello che il capo gli stava ordinando di fare, dopo sei anni che
faceva quel lavoro, tutto ciò lo lasciava sgomento.
<< Ma a che
scopo...?>>
Stephen lo guardò in modo truce.
<< Vai ed esegui, la donna
si chiama Evelyne Moore. La voglio inseminata entro
stasera, intesi?>>
<>
<< Bene, ora sparisci dalla
mia vista. Chiamami dopo il fatto. >>
Simon uscì. Stephen si prese il volto tra le mani e cominciò
a singhiozzare
Rimasero lì fermi a guardare il
vuoto per una ventina di minuti, d’altronde non servivano parole per esprimere
le emozioni. Sarebbe stato unilaterale.
<< Lou..>>
Lui ruppe improvvisamente il
silenzio. Lei sussultò.
<< Dimmi...>>
<< Secondo te, in me, un
briciolo di umanità è rimasto?>>
Louise non rispose subito. Non si
fidava di se stessa e temeva di dire le parole sbagliate, lui però le aveva
intimato di star calma e così intendeva rimanere. Calma.
<< Sinceramente, non penso
tu ne abbia mai avuta.>>
Schietta. Sincera.
<< Hai ragione.>>
In quell’istante squillò il
telefono, un suono anch’esso atono, senza alcuna gioia.
<< Pronto?>>
<< Sono Stephen. Sei
solo?>>
<< No.>>
<< Non importa, ho la
moglie incinta, ora sbrigati a fare il tuo lavoro e poi sparisci dalla mia vita,
intesi?>>
La sua voce era dapprima
tremante, spaventata e orripilata. Poi un odio
crescente se ne impossessò e urlò le ultime parole con rabbia.
<< Certo. Provvederò
stasera, si assicuri che la condizione sia stata esaudita altrimenti dovrò
prendere dei provvedimenti. Arrivederci.>>
Clack.
Stephen sospirò, quell’incubo
stava finalmente per finire e nulla gli avrebbe procurato più gioia.
<< Scusa, Lou, ho un affare urgente da risolvere. Devo
scappare.>>
Con queste parole si alzò e
silenziosamente stava per andarsene.
<< Jack...>>
Lui si fermò.
<< Non farlo. Non uccidere.
Più.>>
Stava singhiozzando, ma non ebbe
il coraggio di voltarsi. Jack non rispose e con passo leggero uscì.
Non poteva fermarsi.
Semplicemente, non poteva.
Per lui quell’atto era diventato
come una penitenza. Il suo vivere dipendeva da ciò. Se non lo avesse fatto suo
fratello lo avrebbe ucciso. Si, doveva essere così.
Prese dalla tasca dei
pantalonila foto di
quell’insignificante uomo che doveva essere ucciso. Così era stato deciso per
lui.
E lui era l’angelo che gli
avrebbe portato la morte, a lui e a tutta la sua famiglia.
Un angelo che vive cibandosi di
vite umane.
Un angelo che vive morendo
dentro.
Un angelo che ha paura di vivere
più di quanta ne abbia di morire.
Ma lui non voleva morire, quel
triste angelo non voleva morire. Voleva portare a termine la sua missione e se
questa era quella di uccidere, allora lo avrebbe fatto.
Seminava terrore, paura, odio,
rancore. Ma tutti questi sentimenti li covava lui stesso dentro il suo cuore,
ammesso che ne possedesse uno, per questo gli veniva così facile vivere
togliendo la vita agli altri.
Si chiamava Paul Semantary, un ricco uomo d’affari che fondò la sua fortuna
sull’inganno e sul ricatto. Si sa, tutti hanno una ragione di vita a questo
mondo.
Quella di Paul era imbrogliare,
la sua era uccidere.
Paul era in ufficio. Jack si
addentrò nelle tenebre dell’edificio deserto, data l’ora, e si diresse verso
quello che era appunto il suo ufficio.
Provenivano dei
gemiti soffusi. Jack chiuse gli occhi, stava assistendo ad un adulterio, ma
nulla di tutto ciò era rilevante ai fini della missione. Avrebbe ucciso anche
la ragazza. Una o due non facevano differenza.
Lentamente si
avvicinò alla porta, la sua sagoma era invisibile, la sua aura nulla, la sua
presenza un’assenza. Aveva il dono di annullarsi sempre e comunque. Abbassò la
maniglia e aprì la porta. Davanti a lui si parò uno spettacolo al chiaro di
luna, la ragazza sopra di lui continuava a sussultare violentemente, preda di
un orgasmo. Jack non ci badò, non vi fu mutamento nella sua espressione. Nel
buio di quella stanza solo i suoi occhi risaltavano.
L’uomo si voltò,
ma fu troppo tardi. Un colpo uscì dalla pistola, con il silenziatore integrato,
silenziosa come lui. Mietitrice di vittime.
Una lieve scia
di fumo fuoriuscì dalla canna. Questo decretò la fine di due amanti, una
trapassata al cuore, uno trapassato al centro della testa. Dalla stessa,
medesima, pallottola.
Silenzioso come la morte, Jack
uscì dall’edificio. Aveva compiuto il suo lavoro, ora non restava che aspettare
un mese circa e andare a trovare la moglie del disgraziato, ma prima doveva
fare una visitina a Stephen, dopotutto il compenso era previsto, nonostante la
condizione posta.
La casa non era lontana, Jack
camminava lentamente guardando tutto e nulla, pensando a qualcosa di indefinito
che variava da suo fratello a Louise. Pensava spesso a Louise, ma non era certo
una novità. Gli aveva intimato di fermarsi, ma lei non poteva capire l’assurdo
stato di demenza mentale che si celava dentro di lui. A soli sedici anni aveva
capito di non star bene mentalmente, ma invece di curarsi, sfruttò il più
possibile la sua malattia per giungere al suo scopo. Certe notti elemosinava un
po’ di umanità, la bramava con tutto sé stesso e sapeva che non ne avrebbe mai
trovata nel suo misero corpo.
Ma Louise ce l’aveva.
Sapeva per certo che Louise
poteva donargliela in qualche modo.
Quella disperata ricerca era
arrivata ad una conclusione.
Non sapeva se provava affetto per
sua sorella. Probabilmente nel suo DNA non esistevano parole come quella, come
d’altronde non sentiva di provare alcun legame per lei. Ma sperava che quel
desiderio di umanità che trovava in lei potesse bastargli, potesse farle capire
che lei per lui contava qualcosa.
Louise era lui, ma lui non era
Louise.
Ma Louise era la sua umanità, e
questo bastava.
Arrivò al portone del palazzo,
suonò il campanello e aspettò risposta.
Stephen sapeva per certo che non
sarebbe andato avanti a lungo di questo passo.
Il terrore lo stava insediando
fino alle viscere più profonde del suo corpo, la speranza che Pendulum non si facesse più vivo era minima, il compenso
gli spettava comunque e lui sarebbe venuto.
Si, ne era convinto.
E il suo cuore avrebbe retto?
“Fai meglio a fare il bravo,
cuore maledetto, altrimenti ti faccio vedere...” pensò, ma subito dopo si diede
dell’imbecille, visto che il suo cuore poteva fare quel che gli pareva, aveva
interamente potere su di lui.
Se si fosse fermato lui sarebbe
morto.
Punto.
Fine della storia.
Rise di sé e pensò che il suo
cuore stesse facendo lo stesso. Sempre che un cuore possa ridere di gusto.
S’intende. Ma d’altronde la sua mente ormai girovagava per conto suo quindi
poteva anche permettersi simili fattezze.
Si stava rilassando.
Fino a che,
Il campanello non suonò.
Il campanello...
non suonò.
Stava perdendo i sensi, sentiva
il suo cuore galoppare e la sua mente addormentarsi. Il suo corpo irrigidirsi e
tutto stava diventando nero. Potevano essere un milione di persone diverse. Il
postino, il pizzaiolo, un amico, un collega, un passante, un corriere, il tipo
che porta la pubblicità, c’era anche la possibilità che avessero sbagliato a
suonare il campanello. Chissà perché, nessuna di queste ipotesi gli sembrava
veritiera.
Chiuse gli occhi nel tentativo di
reprimere il terrore, se era lui, avrebbe aspettato, anche tutta la notte.
Che uomo sei? Sei un verme! Viscido e marcio! Meriti di morire, come
hai fatto morire la mamma...
Non voglio avere un padre come te, sparisci dalla mia vita!
<>
Si ritrovò a prendere quel
dannato citofono e a sprofondare nell’oblio. Tanto ormai mancava poco.
<< Pendulum.>>
Voce atona, gelida e nulla. Come
al solito riusciva a farlo tremare da capo a piedi solo con una parola. Aprì.
Andò a sedersi nel suo ufficio,
in quel momento ricordò di non avergli mai detto l’indirizzo di casa sua. “ E’
stato Orpheus, sicuramente. Sta calmo, adesso.”Chinò la testa aspettando di veder superare
la soglia a quel demonio, si stava preparando psicologicamente, quando alzò la
testa e se lo ritrovò davanti.
Fu come se un migliaio di aghi
gli avesse trapassato il cuore, lui stava lì e lo guardava sorridendo.
Lo stava guardando con un sorriso
da pazzo.
Che di umano non aveva nulla.
Urlò con tutto quello che le sue
forze gli permettevano. Poi svenne.
Potevano essere passate ore, o minuti.
Per quanto gli riguardava non aveva sognato. Era come essere stati immersi
nell’olio del motore. Completamente nero. Tutto.
Quando aprì gli occhi si ritrovò Pendulus, rimirava il cubo di Rubik
in mano e lo girava come se fosse un gioiello di valore. L’aveva risolto.
<< Quanto tempo è
passato?>>
Pendulus
lo guardò tranquillamente, poi diede un rapido sguardo all’orologio.
<< Trenta minuti, o giù di
lì.>>
Impossibile. Impossibile. Era
riuscito a risolvere quel maledetto cubo in trenta dannati minuti? Lo stava
prendendo in giro. Ma ancora una volta si diede dello stupido, non era per
nulla importante quella questione, in quel momento.
<< Suppongo tu sia qui per
il suo compenso.>>
<< Proprio così. La somma
pattuita.>>
Stephen compilò un assegno.
<< Ecco, tieni. Adesso non
farti più vedere, per l’amor del cielo...>>
<< Come desidera, signor
Stephen.>>
Si alzò e si voltò, pronto per
andar via.
<< Ah, dimenticavo,
congratulazioni per sua figlia.>>
Il campanile scoccò dodici volte
quella notte.
Stephen si dondolava nel suo
studio, lamentandosi e piangendo.
Louise guardava la luna piena,
sperando.
Jack guardava suo fratello, ma
lui quella sera non voleva comunicare.
Non era fonda per un semplice
motivo, Evelyne non aveva idea di quanto fosse passato da quando la notte era
sopraggiunta al giorno. Non gliene importava un accidente, da quando il disastro
era avvenuto, tutto aveva perduto importanza ai suoi occhi.
Solo una cosa rivestiva la
ragione per cui continuava a vivere, voleva sapere. Voleva porre una semplice
domanda all’uomo artefice dei suoi malcontenti.
Sedeva sul bordo del letto, imbiancata
dalla luce lunare sembrava un fantasma. Ma d’altronde cosa aveva di meno? Solo
la consistenza del corpo, e quella maledetta creatura in più dentro di lei, che
non c’entrava niente.
Già, qualcunoaveva pensato bene di ingravidarla e poi
uccidere suo marito. La sua vita andava già a rotoli da un bel po’ di tempo.
Era a conoscenza dei tradimenti di suo marito con la segretaria, ciononostante
non aveva mai pensato al divorzio, pur non permettendo lui di toccarla durante
la notte. Non faceva l’amore da chissà quanto tempo, ma non le importava, non
aveva bisogno di quel lurido atto dove si suda come bestie, si gode come
animali e ci si abbassa al livello di demoni coperti dal buon senso.
Il sesso l’aveva sempre
ripugnata. Suo padre abusava di lei, in un modo osceno e disumano e come
succede sempre in questi casi, sua madre non ne fece mai parola con nessuno,
lasciando che sua figlia rimanesse vittima di uno squilibrato.
Facendo sì che sua figlia
entrasse nel varco dell’oblio della pazzia, calando il sipario alla ragione.
Ma anche suo marito non aveva
voluto altro da lei. Ogni maledetta volta che succedeva lei puntualmente
vomitava.
Ma cosa cazzo gliene importava a
lui?
Nulla.
Ovviamente.
Perciò un giorno decise di
troncarla lì e lui non ci mise molto a consolarsi. Ma andava bene, lei non
provava un sentimento d’affetto per suo marito da molto tempo. Non avevano
figli proprio per questo, ma sembrava che a nessuno dei due desse fastidio.
Molte volte lui l’aveva accusata,
senza l’ombra di una prova, di essere infedele.
Solo perché era una bellissima
donna.
Evelyne aveva i capelli biondi,
gli occhi azzurri e una carnagione chiara come il chiaro di luna che in quel
momento si stava confondendo con la sua pelle.
Lo sentiva.
Lui stava arrivando.
Per prendersi ciò che gli
appartiene.
I suoi occhi brillarono di una
luce che si proponeva di rivestire mille significati, ma che in realtà ne aveva
solo uno. Una luce di pura follia. Non celata, non manifestata.
Proprio come quella di...
<< Sei arrivato...
Pendulum.>> proruppe con un filo di voce la donna.
L’altro non rispose, era fermo
nell’atrio e quella situazione lo sorprese, mai nessuna donna lo aveva
aspettato, ma forse lei faceva un eccezione, d’altronde era fin troppo chiaro.
Quella donna aveva raggiunto il
limite della follia.
<< Sai, non ti ho aspettato
sveglia per tutte queste notti solo per dirti che mi hai rovinato la vita.
D’altronde lo sai già. Quante cose sai su di me? Mh? Forse tutto, forse niente,
forse la via di mezzo. Dopotutto la mia vita era già stata rovinata, tu le hai
dato il colpo di grazia, devo ringraziarti? Ero curiosa di vedere il tuo volto,
tuttavia. La verità è che ti ho aspettato perché mi stai salvando da una vita
che non volevo vivere, non ti capita mai di voler spezzare ciò che Dio ti ha
donato? Beh hai davanti la donna più codarda della terra, non ne avrei mai
avuto il coraggio perché ho paura di me stessa. Chissà probabilmente al posto
di uccidermi sarei diventata una serial killer, forse leggermente diversa da
te, ma d’altronde gli omicida non hanno poi chissà quali differenze,
no?>>
Si fermò, di colpo non sentì più
la presenza dell’uomo dietro di lei, era quella la spaventosa forza di
Pendulum?
La donna si morsicò il labbro e
un rivolo di sangue scorse dalle sue labbra al piccolo mento bianco. Era ancora
lì, solo che non le permetteva più di sentirlo.
<< Tu. Stai per porre fine
a questa mera esistenza. Quindi ti prego, fallo in fretta. Non urlerò anche se
mi farò male, lo sopporterò come ho sopportato anni d’inferno psicologico. Solo
un’ultima cosa, qual è il tuo vero nome?>>
Un attimo di silenzio.
<< Jack.>>
Evelyne abbassò lievemente il
capo, un sorriso amaro le solcò le labbra già contratte.
<< Non so per quale motivo tu
lo stia facendo, mi ero ripromessa di chiedertelo, ma penso tu non mi
risponderai mai. Ne hai tutte le ragioni. Ognuno ha i suoi segreti da
mantenere, io ti ho sbandierato i miei solo perché sto per morire.>>
Un’altra breve pausa, poi...
<< Fa un buon lavoro,
Jack.>>
E nel chiarore di quella luna
triste ed assente, lei si girò, con un sorriso dettato dalla disperazione e le
lacrime invisibili che aleggiavano sul suo volto esangue.
Proprio quando la sua anima cessò
finalmente di combattere contro il nulla.
Cessò di esistere, lasciando il
posto vacante.
Jack estrasse il coltello e con
passi fievoli si avvicinò alla vittima.
Aveva interamente ascoltato la
triste storia di quella donna, leggera e malinconica come un angelo solitario.
Estrasse il coltello e le si parò
davanti, ostacolando i raggi di luna, poggiando oscurità su quegli occhi ormai
privi di vita che osservavano il niente.
Jack si abbassò, le cinse il capo
come in un abbraccio e l’accoltellò.
La donna morì all’istante e
l’accasciò nel letto, poi fendette l’addome con un taglio netto e aprendosi
come una cerniera infilò la mano dentro, trovando subito ciò che cercava.
Infilò il fagiolo nel vasetto con
l’alcool, lo ripose nella tasca del giaccone e, ripensando alle sue parole,
tagliò la parte sinistra della gabbia toracica, estraendone il cuore.
Si lavò le mani, mise l’organo
dentro un contenitore trovato in casa e uscì nel gelo della notte.
Che non era fonda, per quanto gli
riguardava.
Il vento lo investiva, offendendo
la sua persona, stridendo contro il suo essere, sfidando la sua assenza.
Arrivò a casa a passo svelto,
ripose il barattolo alla sinistra di suo fratello e poi prese il cuore dal
contenitore. Sembrava battesse ancora, ma era solo un illusione del tatto. Lo
accostò allora alle fiamme del camino e questo cominciò a bruciare.
Fino a diventare cenere.
Jack aveva carbonizzato il cuore
di quella donna perché lei voleva che la sua esistenza fosse cancellata.
In quel momento, in piedi davanti
al camino, si chiese se avesse fatto un buon lavoro.
Poche volte nella vita aveva
pensato che non c’era davvero più nulla che andasse per il verso giusto.
L’ultima volta era stato per la
morte di sua moglie.
Stephen sedeva sulla sua poltrona
di pelle, da due giorni non osava alzarsi, puzzava come un maiale d’estate e
non aveva toccato né cibo né acqua. Non aveva la forza di muovere un muscolo e
i suoi occhi non ne volevano sapere di muoversi, terrorizzati dal fatto che in
ogni momento sua figlia poteva venir sventrata da uno squilibrato mentale.
Fu un attimo.
Nella sua mente si accese una
scritta rossa. “Se stai ancora lì seduto a poltrire, tua figlia morirà ancora
prima del previsto. Muovi quel culo, pelandrone.”
Le sue pupille si dilatarono e il
respiro rimase a metà. Era dannatamente vero, stava solo perdendo tempo.
Da quel fatidico giorno era già
passato un mese, la donna che aveva fatto ingravidare era stata uccisa, come da
copione. Stavolta le aveva anche strappato il cuore, quel bastardo senza
espressioni. Di nuovo un moto di disperazione lo stese.
Appoggiò la testa tra le braccia,
doveva darsi una mossa. Ora. Subito. Immediatamente.
Diede un pugno al tavolo e si
alzò di scatto. Si precipitò in cucina e svaligiò il contenuto del frigo. Dopo
essersi rimpinzato a dovere pensò al da farsi.
Doveva proteggere Hally, questo aveva la priorità. Come e quando non erano
rilevanti.
Fece una doccia, poi prese il
giaccone ed uscì di casa.
Hally
adorava stare davanti al camino.
Le faceva venire in mente tanti
ricordi della mamma. Quando era piccola i migliori momenti si passavano davanti
al fuoco. Questi pensieri la fecero intristire, ma quando passò la mano
sull’addome si ricordò della piccola creatura che stava crescendo in lei,così si rinsavì, d’altronde non provava più
rancore per suo padre.
Anche se non avevano mai
chiarito.
Lei non lo odiava più, nonostante
avesse ucciso la mamma con il suo fare superficiale, non riusciva più ad
odiarlo.
Quel bambino poi, l’aveva fatta
maturare dentro e fuori, si sentiva rinnovata e sentiva che certi comportamenti
erano totalmente inutili. La mamma era morta e tenere il muso a papà non
l’avrebbe fatta tornare in vita. Ciò l’aveva convinta a mettere di lato i
dissapori e ricominciare.
Sua madre era una persona splendida,
perfino quando litigava con suo padre non alzava mai la voce per non farla
spaventare. Sapeva che soffriva terribilmente, ma non perché l’avesse vista
piangere, questo mai, ma perché anche mentre sorrideva, la mamma aveva gli
occhi tristi.
Non si lamentava mai, non si
sfogava mai, non vomitava mai ciò che la tormentava. Quando crebbe, Hally volle interessarsi ai suoi problemi, ritenendosi
grande abbastanza da poter capire, ma sua madre fu irremovibile, le disse che
non doveva preoccuparsi di lei e che se la sarebbe cavata.
Le aveva, ovviamente, detto una
bugia.
Ma non gliene faceva una colpa,
si sa che i genitori sono portati a mentire ai propri bambini per non farli
preoccupare e ciò è proprio quello che aveva fatto lei.
Mentre era persa in uno sguardo
vuoto e pieno di ricordi, il campanello suonò.
Trasalì e si stupì di quella
reazione, ma non se ne curò e andò ad aprire. Con sua grande sorpresa suo padre
stava lì davanti a lei con un espressione strana, come di apprensione e di
terrore miste nella più totale disperazione.
<< Posso entrare,
cara?>> chiese.
<< A-ah si certo entra pure
papà...>> disse lei imbarazzata dalla situazione.
Suo padre entrò e si sistemò
nella poltrona davanti al camino, lei allora si sedette in quella accanto e per
un po’ lo scoppiettio del fuoco accompagno le loro presenze e il loro silenzio.
<< Ti starai chiedendo
perché sono qui, suppongo.>>
<< No, papà. Mi piace
pensare che tu sia qui per una semplice visita di cortesia. Anche se so che non
è così...>> disse lei rassegnata.
Stephen chiuse gli occhi, doveva
calmarsi.
<< So che non mi sono mai
rivelato un buon padre, nonostante io ti abbia sempre voluto un bene immenso. Però,
dopo tanti anni, ho il bisogno di chiarire con te alcune cose...>>
<< Papà, davvero, non ce
n’è più bisogno. Ti ho perdonato, perché devi rivangare di nuovo certe situazioni?>>
<< Devo, devo
assolutamente. Ti prego è importante che tu sappia ciò che ho da dirti.>>
<< E va bene, se proprio ci
tieni...>> sospirò.
<< Io ho sempre amato tua
madre, dal primo giorno che la conobbi ne fui pazzamente innamorato. Il giorno
del matrimonio ero talmente nervoso che non riuscivo neanche a vestirmi. Fu
così per tutti gli anni in cui fummo sposati, non ci fu mai un giorno in cui non
pensavo a lei. Nonostante la sua età rimaneva comunque la principessa di cui mi
ero innamorato. Tuttavia quella fu l’unica volta in cui un’altra donna riuscì a
farmi delle avance più spinte, quel giorno ero davvero stanco e non pensavo a
nulla. Ma fu quel giorno a rovinare la mia intera vita. Davvero, io non ho mai
tradito tua madre all’infuori di quella volta...>>
Hally
chiuse gli occhi e abbassò il capo.
<< Però non hai smesso con
i tuoi affari poco legittimi...>>
Stephen rimase pietrificato, non
aveva idea che sua figlia ne fosse a conoscenza.
<< Non me l’ha detto la
mamma, tantissimi anni fa origliai una conversazione tra te e uno scagnozzo,
rimasi talmente sconvolta che il giorno dopo scordai l’accaduto. Ma come è
logico, queste cose ritornano a galla quando meno te lo aspetti...>>
Stephen non rispose.
<< Sei venuto qui a dirmi
questo?>>
<< In realtà vorrei
proporti una cosa...>>
<< Sentiamo.>>
Stephen trasse un respiro
profondo e si girò a guardarla negli occhi.
<< Vorrei vivere insieme a
voi per qualche mese. Tre al massimo. Non darò fastidio, sarò muto come un
pesce e assente come un fantasma, procurerò io i soldi per le spese in più e
parteciperò agli oneri.>>
Hally
guardò suo padre con un espressione sbalordita.
<< Ma dici sul
serio?>>
<< Vuoi?>> disse
speranzoso.
<< Ma certo!! E poi Scott
sarà felice di avere il nonno a casa per un po’.>>
Stephen sorrise.
<< Ma non è troppo presto
per dargli un nome?>>
<< Penso e spero sia un
maschietto.>> disse lei con un sorriso sereno stampato sul viso.
Stephen si rabbuiò, strinse i
pugni e il suo sguardo si spense nel vuoto.
<< Ma ti rendi conto di
cosa mi stai chiedendo?>> disse Orpheus, con
tono poco conciliante.
Jack, dal canto suo, non ci badò.
<< Non venirmi a raccontare
che sarebbe un problema per te, procurarmeli.>> ribatté con la sua solita
voce atona.
<< Non è un problema per
me, ma non capisco a cosa possano servirti. Non l’hai mai fatto in dieci anni
di carriera...>>
<< Questa volta è
diverso.>>
<< Perché?>>
Jack posò il suo sguardo gelido
sopra quello di Orpheus, lo conosceva da dieci anni,
era stato il suo “salvatore”, ma chi gli aveva detto di salvarlo? Chi glielo
aveva chiesto?
Jack sapeva che a Orpheus non era mai importato di Jack, a Orpheus importava solo l’assassino che era Jack.
L’assoluta fermezza, tenacia,
perseveranza, che risiedevano nelle sue azioni prive di alcuno scopo, fatte
soltanto per dovere, per obbligo.
Jack non aveva mai rifiutato
alcun lavoro, dietro quella particolare ricompensa, ma non solo non ne aveva
rifiutati, li aveva sempre portati tutti a termine brillantemente. Questo faceva
di lui il cocco di Orpheus.
Per quanto gliene potesse
importare...
Difatti non gliene importava un
fico secco.
Ora che gli stava chiedendo un
favore, lui si rifiutava, ciò non creò in lui una sorta di rabbia. Lui non
provava nulla. Però sentì che c’era un ostacolo al suo progetto, che doveva
assolutamente abbattere.
<< Pensi di avere il
diritto di saperlo?>> rispose, infine, con un’altra domanda.
Orpheus
sospirò.
<< Ecco perché mi piaci.
Non riesco mai a vincere contro di te e la tua assurda assenza di carattere che
s’imprime dentro di me più di qualunque rabbia, ironia o rancore.>>
Jack non lo stava più guardando.
Non.
Gli.
Importava.
<< Ormai mi sembra di avere
a che fare coi capricci di un figlio adolescente, d’altronde ormai sei quasi
come un discendente. Un erede. E’ come se fossi tuo padre no? Anche se stento a
credere che tu abbia avuto dei genitori. Ho sempre avuto la sensazione che tu
fossi sceso giù da un astronave aliena.>>
Scoppiò in una gran risata.
Tutto ciò che invece provava Jack
era soltanto: noia.
Ultimamente, oltre al sadismo, la
noia era un’altra delle emozioni che gli veniva naturale esprimere. Forse
perché la noia non ha bisogno di cambiamenti di espressione, come la gioia, la
tristezza o il malumore.
Semplicemente provava noia, per
quell’uomo egocentrico che in tutti quegli anni si era divertito a guardarlo
come se fosse un fenomeno da baraccone.
Tuttavia non provava nulla per
lui, né rabbia né odio. Non se li meritava.
<< Allora?>> disse
interrompendo quella risata fastidiosa.
Orpheus
sospirò di nuovo.
<< Va bene, come vuoi,
quando te li devo fare avere?>>
<< Domani.>>
Nessuna domanda. Suonava come un
ordine.
<< Va bene. Domani te li
faccio mandare a casa da un ragazzo. Ma hai idea di come usarli?>>
<< Entro le dieci.>>
Si alzò, e silenziosamente uscì
da quell’appartamento, dirigendosi nel suo, dove si sentiva al sicuro.
<< Beh suppongo sia un
sì.>> disse Orpheus rassegnato, e rise di
nuovo.
Quando Louise sentì al
telegiornale la notizia della morte della donna incinta, si sentì le gambe
molli e un’indicibile voglia di piangere la pervase.
Non l’aveva ascoltata.
Non aveva ascoltato il suo
disperato richiamo di smetterla, di fermarsi.
Ma che sorpresa.
In quel momento provò un piccolo
odio nei suoi confronti, ma poi si bacchettò, pensando che lui non era
pienamente consapevole di ciò che faceva, d’altronde suo fratello non aveva
ricevuto la licenza della ragione, semplicemente si era adattato a ciò che gli
hanno inculcato.
E che la sua mente ha registrato.
Il fatto che lui vedesse il loro
fratello come un’entità capace di ucciderlo, faceva di lui una persona fragile.
Debole.
Che schermava le sue paure con la
completa assenza di emozioni.
Quella sera si sentiva
intorpidita, la sua testa era terribilmente offuscata e pensava di andare a
dormire, quando il suo stomaco avanzò un allarme.
Aveva fame, maledettamente.
Ma mentre si dirigeva verso la
cucina, udì delle urla provenire dalla casa accanto.
Sembrava che i due coniugi
stessero litigando per l’ennesima volta. Si dice che l’amore non è bello se non
è litigarello, ma dal canto suo ogni volta che
sentiva litigate del genere l’unica cosa che lasciavano nel suo cuore era
un’immensa tristezza.
Quella povera donna era arrivata
all’isterismo, dopo i frequenti sperperamenti di denaro da parte di quello
sciagurato del marito. Gliene stava dicendo di tutte. Alla fine lui andava via
e lei rimaneva rannicchiata sul pavimento a piangere.
In quel momento Louise sperò di
non litigare mai con Jack, difficilmente ne sopravvivrebbe. Ma subito dopo
pensò che era impossibile litigare con Jack. Lui non era capace di arrabbiarsi.
Questo pensiero la rese più serena.
Poi sentì degli oggetti
infrangersi al muro. La cosa stava degenerando.
Si chiese se fosse il caso di
intervenire.
No, decisamente.
Ma gli era passata la fame,
perciò si avvicinò all’uscio per vedere come si svolgeva la faccenda, ma quando
sentì la porta aprirsi e l’uomo uscire inveendo oscenamente contro la moglie,
non riuscì a trattenersi e aprì la porta per dirgliene quattro.
Giusto in quel momento la donna
aveva afferrato un coltello da cucina e lo aveva lanciato addosso a lui che lo
evitò abilmente.
Quel coltello adesso aveva preso
la sua direzione.
Minaccioso, veloce, tetro e
silenzioso.
Proprio come Jack.
E proprio come con Jack non
riuscì a muovere un muscolo.
Il coltello la evitò di pochi
millimetri andando ad infrangere la porta finestra subito dietro di lei. Il
rumore di vetro fu assordante dentro la sua testa, tanto che tutto cominciò a
girare.
L’ultima cosa che vide prima di
svenire fu la donna in preda alle lacrime e alle urla che le si avvicinava,
mentre il marito la guardò con uno sguardo torvo e scese le scale in perfetto
silenzio.
Nonostante la totale assenza di commenti
ho deciso di finire questa storia, ma solo per tenere fede al mio principio “Se
inizi, finisci.” e volevo solo ringraziare quei pochissimi lettori che
continuano a seguirmi, anche se non lasciate un commento grazie lo stesso.
Louise si svegliò mentre le luci
del tramonto invadevano la stanza. Era stata messa a letto e le avevano
rimboccato le coperte. “Sicuramente la povera vicina.” pensò sconsolata.
Le aveva pure lasciato un
bicchiere d’acqua, per accertarsi che appena svegliata avesse qualcosa con cui
idratarsi.
Decise allora di rimettersi in
sesto e di andarla a trovare, magari per donarle un po’ di consolazione...
Si vestì e si pettinò i capelli,
in quegli ultimi giorni era sciupata, aveva delle occhiaie paurose.
Probabilmente era la stanchezza, ma nonostante dormisse pienamente la notte non
riusciva mai a sentirsi risposata. Anzi c’era sempre qualcosa che la faceva
stare in ansia, ma non capiva di cosa si trattasse così ingoiava l’ansia e
permetteva che si estendesse, lentamente e passivamente. O per esprimerlo in
parole povere “ci aveva fatto l’abitudine”, sicuramente.
Si applicò un leggero trucco,
tanto per nascondere il pallore del suo viso, e uscì dalla porta suonando il
campanello di fronte.
In un piccolo studio nei pressi
della periferia della città, un dottore di media statura e debole di carattere
stava guardando fuori dalla finestra, mentre aspettava l’orario di chiusura per
poter giocare coi suoi adorati bambini.
Il chiaro di luna lo stava
invadendo.
Imparò quella sera che non era
mai nulla di buono.
Mentre stava chiudendo gli occhi,
immerso in quella luce lattea, bussarono alla porta.
Anzi non era corretto dire
“bussare”, fu un colpo secco, deciso, in un certo senso terrificante. Che non
chiedeva di entrare ma pretendeva l’ingresso.
Il dottore si sentì pietrificato
e non ebbe il coraggio di rispondere, a quel punto la maniglia si abbassò e lui
fece il suo ingresso.
Sotto quella luce sembrava non
avere occhi, ma quando il dottore guardò meglio scorse due cristalli color
ghiaccio.
Quell’uomo era entrato, aveva
richiuso la porta, ora stava lì sulla soglia e lo fissava. Il dottore pensò con
terrore che si trattasse di un demone, ma non per lo sguardo cattivo, bensì per
la scarica di adrenalina che aveva lanciato nel suo cuore appena entrato.
Come un biglietto solo andata per
l’inferno.
In quel momento si pentì
amaramente di aver spento la luce. In quella penombra era terrorizzato, gli
tremavano le gambe.
<< Posso aiutarla?>>
cercò di balbettare, indiscutibilmente a disagio.
L’altro uomo rimase in silenzio.
Poi parlò.
<< Lei, sa per caso
adoperare l’inseminazione artificiale, dottore?>>
Era talmente basito che in quel
momento non avrebbe neanche saputo tenere in mano uno stetoscopio, allora cercò
di calmarsi, dopotutto anche se quell’uomo sembrava un demone, aveva fatto una
richiesta fattibile e lui era un dottore. Demone o meno doveva prestargli
ascolto.
<< Si, ma prima dovrebbe
dirmi il motivo.>> disse cercando di accumulare tutta la calma possibile.
<< Un erede.>>
Una risposta secca. Che non
ammetteva repliche.
Un erede? Ma che diavolo aveva
quell’uomo?
Il dottore fu sul punto di
indirizzarlo da uno psichiatra, ma non appena si azzardò a riguardarlo negli
occhi, tutta la sua calma e la sua risolutezza andarono dritte nel cesso.
Fu catturato.
Sepolto.
Svuotato.
Fu lì che capì di non dover fare
domande. Al diavolo le procedure.
<< Mi dica. Quale procedura
vuole adottare? La classica?>>
Jack sapeva cosa intendeva il
dottore con “la classica”, ma non era possibile, decisamente.
<>
<< E’ impotente?>>
s’informò, allora.
<< No.>>
Il dottore strinse i pugni con un
movimento involontario.
Non era impotente.
Era matto da legare.
<< Allora le devo chiedere
se vuole procedere con la puntura dell’epididimo o con la biopsia
testicolare.>>
Jack lo guardò, freddamente.
Sinceramente non sapeva in cosa diavolo consistessero quelle procedure.
<< Qual è la più
veloce?>>
<< La prima.>>
<< Allora proceda con
quella.>> lo disse come se fosse un ordine, ma il dottore non pensava
proprio di farglielo notare.
<< Si tolga i pantaloni e
vada nell’altra stanza, arrivo subito.>>
Jack andò e il dottore s’infilò
la punta di un ago nelle gambe per dissolvere il torpore in cui era caduto. Funzionò.Andò nell’altra stanza e prese a Jack ciò di
cui aveva bisogno, senza alcun ulteriore domanda.
Louise passò dalla vicina ben due
ore, l’ascoltò mentre lei si confidava piangendo e l’abbracciò quando era
talmente debole da non poter più parlare.
Quella donnina era così sola che
non potevi non provar compassione per lei, ma Louise provava già abbastanza
compassione per sé stessa, senza dover preoccuparsi pure per gli altri. Decise
quindi che quella era l’unica volta che sarebbe andata da lei, potevano
diventare amiche ma nulla d’impegnativo, non ne aveva il tempo.
Ritornò a casa che era già buio,
il chiaro di luna dava sempre una strana tonalità alla sua casa, una tonalità
che l’assediava dall’interno, spingendola ad accendere tutte le luci.
Ma quella sera non osò.
Non riuscì a capire cosa gli
prendesse.
A quel punto capì che quelli
erano i chiari sintomi.
Camminò lentamente verso il
salotto, la tensione era altissima, arrivò sul ciglio della porta e vide ciò
che si aspettava.
Jack. Seduto in poltrona. Aveva
un bicchiere di vino in mano e fissava il nulla.
Dopo che
lo shock totale passò, Louise fece un sospiro profondo,
raccogliendo tutta la pazienza di cui disponeva.
<<
Pensi che un giorno potrò vederti entrare dalla porta come
qualunque persona civile?>> domandò leggermente seccata
e con una punta d’ironia.
Jack non
batté ciglio. Ovviamente.
<<
Vedo che ti sei già servito, mi fa piacere. Vado a prendere un
po’ d’acqua.>>
Ma non
sembrava che a Jack importasse, sembrava di parlare con un
soprammobile. Louise non ci badò.
Si
rinfrescò la gola con l’acqua ghiacciata e ritornò
in salotto.
Era
totalmente buio, ma non sentiva timore. Quella sera non riusciva ad
avere paura di Jack, forse per la prima e unica volta sembrava
consapevole di aver ricevuto una visita dal fratello, e non da un
matto.
Sorrise
e si sedette nella poltrona accanto, senza accendere il camino,
pensando che quel buio potesse parlare al posto loro.
Ma non
fu così. Jack si voltò a guardarla. Due spirali
infinite che le risucchiavano l’anima. Il suo sguardo era
tranquillo, sembrava guardare un bel quadro e lei si sentiva a
disagio. Molto.
Troppo.
Iniziò
a contorcersi le mani.
<<
Posso mangiare qui, stasera?>> domandò Jack,
impassibile.
Louise
era sbalordita, non avrebbe mai pensato che potesse accadere, aveva
l’occasione di cucinare per lui. Di fare qualcosa per lui. Di
dimostrare quell’affetto fraterno represso per lunghi anni.
Tutta
quell’agitazione le aveva annodato lo stomaco, che scelse
proprio quel momento per gorgogliare annoiato.
Louise
avvampò.
E fu in
quel momento che sentì una specie di soffio, che assomigliava
più ad una sommessa risata.
Era
stato Jack, nel buio totale di quella stanza Jack sembrava divertito.
Louise stava per piangere di gioia, ma per non rovinare quel momento
se ne rimase zitta.
Lo
guardò ed incontrò il suo sguardo divertito.
<<
V-vado a preparare la cena. Aspettami qui, accenditi la televisione
se ti va, il telecomando è sul comodino...>> disse,
imbarazzatissima dalla situazione.
<<
Certo.>>
Passarono
vari minuti, mentre Louise armeggiava in cucina, Jack era ancora
immerso nel silenzio di quella stanza buia, cominciava a provare uno
strano effetto, come un senso di calore. Ma poi ricordò
improvvisamente cosa era andato a fare là e il suo viso
ridiventò perfettamente inespressivo.
O.
Triste.
Jack non
voleva saperlo. Probabilmente Louise non l’avrebbe mai
perdonato.
Strinse
la mano nel bracciolo della poltrona.
Dov’era
finita la sua tenacia? Possibile che temesse la rabbia di sua
sorella? Da quando?
All’improvviso
iniziò a tremare, l’immagine di suo fratello aleggiava
nell’aria e un’altra emozione si prese gioco di lui.
Il
terrore.
Era
questo che provavano le vittime? Era questo che provava quel fallito
di Stephen? Era questo ciò che provavano tutti coloro che
avevano a che fare con lui?
Anche
sua sorella aveva provato terrore per lui, ma perché in questo
caso si sentiva... triste?
Doveva
fare in fretta. Sentiva che suo fratello stava facendo pressioni.
Stava
perdendo la retta via.
Per
colpa di Lou...
...che
era davanti la porta ad osservarlo.
Louise
l’aveva sentito. Jack aveva qualcosa di strano, forse era
meglio non farlo rimanere, tuttavia aveva voglia di stare in
compagnia.
Aveva
voglia di una persona accanto.
Aveva
voglia di suo fratello. Di Jack.
<<
Sto bene.>> disse lui come leggendole nel pensiero.
<<
Allora è pronto...>> sussurrò lei e andò a
sedersi.
Jack la
seguì, lentamente. Mentre si sedeva dall’altra parte del
tavolo, osservò cosa aveva preparato e si sentì un
altro tuffo al cuore.
Su
tavolo erano accuratamente riposti piatti di ogni genere, dalla
bistecca arrosto al riso al curry. Si chiese per quanto tempo era
rimasto in quella stanza a rimuginare.
Ma non
c’era tempo da perdere. Non era andato là per cianciare.
Ecco,
si, ora andava meglio. Solo uno sbandamento.
Ora, era
tutto a posto. Come prima.
Rimasero
in silenzio per parecchio tempo, poi Jack prese la bottiglia di vino
e se ne versò un po’. Ne versò anche a Louise.
Con un
particolare.
Fece
scivolare dalla manica della maglietta una polverina sottile e quasi
invisibile. Fu un istante e Louise non se ne accorse. Bevve insieme a
lui e dopo poco si addormentò.
In
silenzio, senza alcun lamento.
Jack si
ordinò di ritornare se stesso.
La prese
e la distese sul letto, le tolse i pantaloni e la lasciò nuda
dal ventre in giù. Poi andò fuori in veranda a prendere
gli apparecchi che gli aveva fatto mandare Orpheus e pazientemente li
dispose nella camera. Dalla valigia estrasse il Markler, un
dispositivo elettronico, e dopo aver depositato il liquido, lo infilò
nella cavità uterina. Accese i monitor e controllò che
fosse tutto apposto.
Lo era.
Adesso
arrivava la parte difficile.
Doveva
far sì che tutto andasse per il meglio e per farlo non doveva
far altro che aspettare che tutto il liquido entrasse. Rimase quindi
alzato a fissare pensosamente i monitor ronzanti. Solo una volta
guardò Louise che dormiva, ignara di tutto, e... si sentì
in colpa.
Fu in
quel momento che pensò di non vedere mai più Lou, o
addirittura di uccidersi.
Perché
Jack senza la sua freddezza, la sua tenacia, la sua determinazione,
la sua totale assenza di espressioni, non era nulla.
Jack, in
quel modo, non serviva a nessuno.
Né
a Orpheus.
Né
a suo fratello.
Strinse
i pugni.
No. non
l’avrebbe permesso costasse quel che costasse.
Una
volta finito il lavoro, estrasse il dispositivo, spense i macchinari,
rivestì Louise e la mise sotto le coperte.
Come un
fratello.
Scappò
via frastornato dalla disperazione mentre il campanile scoccava la
mezzanotte.
<<
Allora buona notte, papà!>> disse Hally sorridendo.
<<
Buona notte, cara.>>
Era
arrivata l’ora.
Quella
maledetta ora dove la gente va a dormire, risposa, sogna, riflette,
piange.
Ma
Stephen non faceva nulla di tutto ciò.
Stephen
tremava dal terrore, tremava dal presentimento che Pendulum facesse
il suo ingresso trionfale con il suo mantello nero, tipico di quei
fottuti cattivi dei film e uccidesse la sua amatissima figlia.
Stephen
passava le notti con gli occhi sbarrati, cercando di guardare da
tutte le parti contemporaneamente, vedendo in tutte le ombre qualcosa
di sospetto. Pensando di percepire presenze ovunque.
Sarebbe
impazzito. Di lì a poco non avrebbe più retto.
Quando
sua figlia andava a riposarsi, aspettava un po’, seduto nel suo
letto in attesa. Poi usciva dalla sua stanza e si rannicchiava allo
stipite della porta della stanza di lei, aspettando. Se ne andava
alle prime luci dell’alba ringraziando il cielo che il giorno
fosse finalmente sopraggiunto a quella maledetta notte che lo faceva
infuriare. Quando sua figlia notava le spaventose occhiaie, si
scusava dicendo che aveva l’insonnia e andava a dormire per
qualche ora, tanto per tenersi vivo.
Per non
morire di stenti.
Doveva
vivere anche se in quell’istante teneva in mano la morte di sua
figlia, viveva in bilico a un peso enorme, un passo falso e quella
morte sarebbe precipitata su di lei come un macigno, schiacciandola.
La vita
di sua figlia dipendeva da quanto lui era forte.
Ma lui
era forte?
Da
quanti anni si era dimostrato un mero vigliacco che basa i suoi
affari sulle uccisioni e non sull’impegno.
Un
vigliacco che è talmente ottuso da non capire l’immenso
dolore che provoca alla povera moglie. La moglie che ama. La moglie
che ha sempre amato e stimato.
Lui era
una nullità.
Lui
traeva vantaggio dagli altri, ma nessuno traeva vantaggio da lui. Non
riusciva a donare affetto neanche alle persone che più voleva
bene, tanto era arso dal denaro e dalla vita benestante che aveva
sempre condotto.
Era un
mostro. Un mostro celato da uomo d’affari.
Come si
permetteva a dare del mostro a Pendulum, quando lui lo era ancora di
più? Come osava giudicare quell’uomo, di cui gli eventi
hanno deviato la mente? Hanno cancellato ogni emozione, ogni parola,
ogni affetto.
D’altronde
la sua vita non valeva di più.
Appoggiò
la testa sulle braccia: sfinito, avvilito, frustrato triste e
disperato.
Pianse
lacrime amare e s’addormentò...
... lo
vide accasciarsi con la testa tra le braccia. Dopo un po’ non
lo vide muoversi più e decise che quello era il momento.
Annullò
la sua presenza.
Arrivò
di fronte a quell’uomo di cui ormai la vita sarebbe diventata
inutile.
Tutto.
Per.
Colpa.
Sua.
Ma che
senso aveva dirselo adesso? Aveva troncato tantissime vite felici.
Suo fratello voleva così e nessuno poteva opporsi. Lui era il
messaggero. Colui che non esprime opinioni alcune. Colui a cui viene
affidato il compito da eseguire. Colui che immerge la sua anima nel
pozzo della vita e poi la lascia affondare. Così da reprimere
qualunque forma di emozione.
Ma la
sua anima.
La
sua... anima, stava riaffiorando. La sentiva. La udiva. La percepiva.
La bramava e la desiderava.
Guardando
quell’inutile uomo sentì un sentimento. Distintamente.
Pietà,
commiserazione, altruismo, pentimento?
Non lo
sapeva. Ma stava accadendo di nuovo, stava sentendo qualcosa che la
sua mente stava urlando, qualcosa che lo sfiorava piano e che lui
aveva sempre respinto.
Scosse
forte la testa, non aveva tempo di pensarci, quel vecchio poteva
svegliarsi da un momento all’altro, così entrò
nella stanza e si adoperò a finire il suo lavoro nel minor
tempo possibile.
Non ci
furono rumori, né sensazioni. Jack prese il fagiolo, lo ripose
nel barattolo e scappò.
Non fu
una fuga come le altre, per tutta la sua vita aveva sempre camminato
adagio, per non far sentire la sua presenza invisibile. Aveva sempre
fatto il minor rumore possibile, ma questa volta...
Corse.
A
perdifiato.
Sentiva
la sua volontà vacillare, sentiva il suo cuore sottrarsi,
lamentarsi, urlare, gemere, sanguinare. E quell’anima,
quell’anima maledetta che riaffiorava in un mare di rose nere.
Dal suo
pozzo, anch’esso nero.
Jack
stava perdendo se stesso.
Jack non
riusciva più a rimanere impassibile. Jack stava impazzendo dal
dolore silenziosamente. Jack aveva paura.
Paura di
suo fratello.
Paura
dell’inutilità.
Paura di
Orpheus.
Paura di
se stesso.
Paura
dei suoi dieci anni di silenzio.
Vomitò
in un angolo e quel sudore che colava copioso dalla sua pelle faceva
sembrare che dai suoi occhi stessero finalmente uscendo lacrime.
Anche se
poi, non era così.
Quando
finì, tremava convulsamente e sentiva freddo. In altri casi
avrebbe pensato di andare a casa davanti al fuoco insieme a suo
fratello. Ma non quella sera.
Quella
sera aveva bisogno di lei. Quella sera desiderava solo lei. Quella
sera bramava il suo calore e desiderava un abbraccio, solo da lei.
Creare
uno strato sottile di cospicua resistenza, in modo da non
sorprendersi più di nulla. Questo è quello che feci
quando mi svegliai quella mattina, da sola.
Non mi
aspettavo nulla da Jack, non volevo nulla da lui, mai avevo preteso
qualcosa di più, mi ero sempre adattata a ciò che lui
voleva.
A ciò
che lui desiderava.
Per cui
non feci una piega e quella giornata passò lievemente, come un
velo trasparente. Nulla di spettacolare, nulla di eclatante.
Tutto,
eccezionalmente, noioso.
Io. Che
bramavo l’eccitazione dei sensi. Io. Che volevo l’agitazione
dell’anima. Io. Che desideravo le urla del mio cuore.
Mi stavo
spegnendo.
Piano,
piano il mio vigore faceva un passo indietro, ogni giorno. E ormai
era lontano da me. Lontano dalla mia persona.
Ero
fragile. Stanca. Umanamente e mentalmente distrutta.
Quel
giorno c’era il temporale. Da sempre avevo avuto un terrore
subliminale per lampi e tuoni, tanto da non riuscire più a
muovermi.
Ma quel
giorno non mi fecero un grande effetto. Quel giorno tutto passava
liscio sotto di me, niente mi scalfiva, mi colpiva, mi sorprendeva.
Quel
giorno c’era il temporale.
Seduta
in poltrona osservavo la rabbia divina del cielo. Lo scontro tra
nuvole calde e nuvole fredde, già, proprio come stava
avvenendo dentro di me.
Scontro.
Lite.
Guerra.
Tra i
miei sensi e la mia apatia. Stavo combattendo contro il nulla e
sembrava che quest’ultimo stesse vincendo.
Appoggiai
la testa allo schienale della poltrona, sarebbe stato bello morire in
quel momento di assoluta infermità. In cui azzeravo la mia
incerta volontà. Spezzare la vita quando il filo è già
sottile, troncare la vita quando il ramo è già secco.
Da
vigliacchi, no?
Ma non
aveva più nessuna fottuta importanza. Nessuna. Nessuna.
Chiusi
gli occhi ascoltando il ticchettio dell’orologio...
Tic
Tac Tic Tac...
E’
il tempo che scorre? E’ la fine che s’avvicina? E’
l’inizio che s’allontana? E’ la mia pura
indignazione contro la mia vita? E’ il tempo che si beffa di
me, ignorandomi?
Il mio
orecchio si tese verso lo scroscio della pioggia, riluttante. Era
rilassante, provocante. Sembrava che non dovesse più cessare,
sembrava che nella mia mente non dovesse esserci posto per
nient’altro se non per quello. D’un tratto l’idea
di lasciarmi trascinare da un fiume in un giorno del genere non era
poi così malvagia.
Mi
chiesi dov’era finita la determinazione che mi trovavo da
giovane. L’assoluto rifiuto della morte, l’assoluta
indignazione all’invito di quella strega.
E ora?
Ora la
chiamavo, la desideravo.
Mi
odiavo, mi detestavo. Ma non feci nulla contro di me. Mi limitai ad
osservare la pioggia e i tuoni, totalmente impassibile. Sembrava che
da quella notte il tempo del mio cuore si sia fermato, al contrario
del tempo della mia vita che continuava a scorrere.
Sentii
dei passi.
Goffi,
poco aggraziati, pesanti, disperati.
Sapevo
chi era. Ma non mi mossi. Non ci riuscii. La mia faccia non si mosse,
solo le pupille si spostarono lentamente verso la porta. Fu in quel
momento che la serratura scattò e la porta venne aperta. Fu in
quel momento che scoppiò un terribile tuono che illuminò
il suo volto fradicio, il suo volto che era una maschera di dolore.
Vedendomi così la sua espressione si inasprì ancora di
più.
Io
sorrisi debolmente.
<<
Vedo che.. ci siamo scambiati i ruoli.. Jack.>>
Lui
dilatò le pupille, inorridito. Poi si prese la testa tra le
mani e urlò.
Un urlo
che mi trapanò le orecchie e si insinuò nella mia
testa, ma non si mosse nulla.
Jack
s’inginocchiò. Lo guardavo. Mi fissava congelato dal
terrore.
<<
Che c’è? Perché mi guardi così? Hai paura
di me? L’ho avuta anch’io per te, per molto, molto tempo.
Sai? Lo sai?>> dissi con voce completamente atona.
Non
riuscivo a capire se nel suo viso bagnato dalla pioggia ci fossero
delle lacrime, ma importava veramente poco.
Si alzò
tentennando. Le mani protese. Mi cinse in un abbraccio, stringendomi
più del dovuto.
<<
Questo gesto, lo volevo fare io, tempo fa. Lo sai?>> continuai.
Non
rispose. Non era cambiato nulla sotto quel punto di vista. Ero
l’unica a parlare.
<<
Cosa c’è? Perché mi stai abbracciando? Perché
lo stai facendo? Cosa t’induce? Non vorrai mica mordermi di
nuovo? Vero?>>
Sussultò.
La mia cattiveria era illimitata in quel momento. Non ero io. Sentii
che il suo corpo stava tremando.
<<
Lou.>> disse con voce spezzata.
<<
Cosa?>>
<<
Perdonami...>>
I miei
occhi si chiusero in una fessura.
<<
Perdonarti? E per cosa?>>
<<
Ti ho messa incinta. Ieri.>> faticava a parlare.
Non ne
rimasi sorpresa, dopotutto.
<<
Probabilmente morirà. Non sono in grado di mantenere una
gravidanza, me lo ha detto il dottore. Sai? Sarà il primo feto
che prenderai legittimamente, non sei contento?>>
<<
Aiutami, Lou! Ti prego aiutami, aiutami, aiutami, AIUTAMI !!>>
<<
Aiutarti? Io, aiutare te? Mi spiace, Jack, non ne sono più in
grado...>>
Una
lacrima solcò il mio volto. Il ghiaccio subì una crepa
e Jack la percepì.
<<
Non voglio più farlo, non voglio più uccidere, ma se
non lo faccio lui mi ucciderà. Me lo ha giurato. Lo farà...>>
Rimasi
in silenzio.
<<
Lou...>>
Non
risposi.
<<
... ho paura.>>
Fu
allora che l’apatia si sciolse. Tutto quello che avevo cercato
di reprimere colò fuori. D’un tratto.
Ricambiai
il suo abbraccio, singhiozzando convulsamente.
<<
Scusami Jack. Scusa...>>
Un altro
tuono scoppiò nel cielo...
...
mentre Stephen rimaneva pietrificato davanti a sua figlia
completamente squartata. Mentre non riusciva nemmeno a piangere.
Mentre qualcosa nella sua mente s’incrinava definitivamente.
La schiuma provocata dall’infrangersi delle onde negli scogli.
Stephen sedeva immobile sulla cima di un’altura che dava
proprio sopra l’oceano, i suoi occhi guardavano fisso
l’orizzonte che accoglieva calorosamente quel sole che aveva
bisogno di un posto dove ripararsi dalla luna, suo vergognoso amore.
“ Papà! Papà! Ho trovato uno strano animale
nel giardino! Vieni a vedere!”
Probabilmente guardare i cicli della natura era l’unica cosa
che poteva permettersi, visto che erano così maledettamente
lenti, non si affrettavano a giungere al termine, anzi facevano si
che chi osservava ne assaporasse tutti gli assaggi, piano piano.
Piano. Piano.
“ Papà! Mi spingi con l’altalena? Guarda la
mamma ci sorride! Dai spingimi forte, forte!”
Se tutti nella vita quotidiana dessimo maggior peso a tutto,
probabilmente sapremmo goderci molto di più. Le emozioni, gli
affetti, l’amore, l’odio, il rancore, la gioia, la
felicità.
Tutti sentimenti che vanno e vengono, ci sfiorano, ci addolorano, ci
abbandonano, ci seducono e ci lasciano per loro propria volontà.
E noi? Noi. Non possiamo farci assolutamente, un bel niente.
“ Papà sei tornato tardi oggi! Avevi promesso di
portarmi al parco! Ti perdono solo se mi prometti che ci andiamo
domani!”
Una brezza leggera lo attraversa completamente.
Quel corpo completamente svuotato di qualsiasi cosa, che non ha mai
capito lo scopo del suo ruolo nel mondo. Che in quel momento
gradirebbe volar giù a distruggersi il capo tra quei scogli
scuri, ammalianti, severi e accoglienti.
Si, probabilmente l’avrebbe fatto, ma non era quello il momento
giusto.
“ Papà devo dirti una cosa, gradirei se ti sedessi,
sai è importante. Vedi so la tua particolare avversione per il
mio sesso opposto, però, io sono una ragazza ed è
normale che m’innamori. Per cui... mi sono fidanzata!”
Il suo abito nero svolazzava melodicamente insieme al vento, suo
complice. Era appena tornato dal funerale. Il suo stato d’animo
era completamente nullo. Sapeva che la gente aveva considerato il suo
comportamento come la conseguenza dello shock subito, ma non era
così.
Sembrava che si fosse poggiato un coperchio nella pentola dei suoi
sentimenti.
“Papà svegliati! Oggi devo dare l’esame! Mi
devi accompagnare, l’hai dimenticato? ...Dai augurami almeno in
bocca al lupo. Tra poco avrai una figlia diplomata no?”
Credere in sé stessi, avere autostima. Tutte parole inutili,
senza significato se tanto metterle in pratica era assolutamente
impossibile. Ogni essere umano teme il proprio fallimento dal
profondo del cuore, c’è chi nasconde questa paura, c’è
chi la esterna. Ma alla fine tutti la proviamo.
Tutti temiamo di precipitare giù nell’oblio della
vergogna.
“ Papà cosa è successo alla mamma? Sta male?
E’ ancora a letto, non ha mai dormito tanto. Sicuro che non
avete litigato? Mh?”
Beth.
Già. Beth.
Cosa starà pensando di suo marito in questo momento? Starà
scuotendo il capo in segno di diniego, come sempre senza alzare la
voce, lo stava guardando delusa? Rammaricata? Amareggiata?
Sicuramente. D’altronde l’aveva sempre pensato un
fallimento, anche se non gliel’aveva mai detto. Ma non lo era?
Non era un fallimento? Si, lo era. E si meritava di bruciare nelle
fiamme dell’inferno per la fottuta eternità.
“ Oh, papà. Ciao. Cos’ho? No, non ho niente.
Perché me lo chiedi? Ma no è la mia faccia normale. E
poi sono un po’ tesa per gli esami, scusa devo andare.”
Non poteva considerarsi un buon padre se non riusciva ad estrapolare
dalle sue labbra la verità, quella pura e genuina. Ma era
troppo impegnato con il lavoro sporco, dunque piuttosto che pensare
a come stessero le due persone più importanti della sua vita,
pensava il modo più silenzioso per uccidere un dannato uomo
qualunque senza significato.
“ Papà, scusa se ti chiamo. Volevo solo dirti che mi
sposo. Ma non credo sia opportuno che tu venga, mi spiace. Volevo
solo informartene. Ciao.”
L’affetto che aveva perso, l’amore che aveva smarrito con
la sua ignoranza. Si era disperato, si era morso l’anima. Si
era tirato su i capelli, ma niente ormai poteva restituirglielo.
Avrebbe donato se stesso pur di riuscirci.
Avrebbe anche donato il suo cuore, ma a chi cazzo poteva servire il
suo cuore corrotto?
“ Papà, scusa se per due anni non mi sono fatta
sentire, è che erroneamente me la sono presa con te per la
morte della mamma. Puoi perdonarmi? Io l’ho già fatto,
se vuoi puoi venirmi a trovare in casa, sei il benvenuto...”
Il sole stava scomparendo, rosso di vergogna. Mentre la luna faceva
il suo ingresso tranquillamente, pallida come la morte. Sembrava non
accorgersi dell’imbarazzo del sole che si nascondeva alla sua
vista, sembrava non importarle. D’altronde la luna era il
simbolo della tranquillità della notte. Nulla poteva scalfire
il suo egoismo, neanche l’amore.
“Scott sarà felice di avere il nonno con sé
per un po’ di tempo. Spero che sia un maschietto sai?”
Scusami.
“ Ok, ti ascolterò ma non ce n’è bisogno
visto che ti ho già perdonato.”
Perdonami di nuovo.
“Papà, ti voglio bene.”
Una lacrima scese silenziosamente dai suoi occhi, pochi istanti dopo
tutto il suo viso ne era inondato. In quel momento la notte prese il
posto del dì.
Era
notte fonda e Orpheus aspettava quella telefonata. Immerso
nell’oscurità della sua camera aveva la fronte
appoggiata ai palmi della mano e i capelli neri che ricadevano
stanchi sulle braccia.
Era
passata più di una settimana da quando quel maledetto l’aveva
combinata grossa.
Quando
il telefono squillò nessuna reazione prese il suo corpo, si
limitò a spostare il braccio e a prendere la cornetta.
<<
Sono Stephen.>>
Chi
altri? Chi se non lui? Orpheus si lasciò sfuggire una
risatina, ma se ne pentì subito dopo pensando che Stephen non
stava bene mentalmente, ne era più che certo.
<<
Prima che tu dica qualsiasi cosa. So cosa è successo e te lo
giuro non era previsto. Quel dannato ha fatto tutto da solo, ma giuro
che domani stesso lo vado a cercare e lo meno per benino.>>
Cosa
sperava di ottenere con quelle parole? Approvazione? Perdono?
Rinuncia? Pietà?
Sapeva
che era tutto maledettamente inutile.
Passarono
alcuni minuti in silenzio. Orpheus non osò parlare. D’altronde
era meglio starsene zitti in quelle circostanze.
Poi
tutto sembrò scorrere come sotto l’effetto di un
velocizzatore. Stephen scoppiò in una risata isterica, dettata
dalla pazzia. Una risata lunga, lenta, sembrava proprio che se la
stesse gustando. Era curioso ma Orpheus non ne rimase terrorizzato,
anzi aspettò tranquillamente che terminasse per rivelargli
cosa aveva in mente. Visto che lui lo sapeva già.
Doveva
prepararsi a dirgli addio.
Dire
addio all’uomo che aveva allevato.
Dire
addio all’uomo a cui aveva fatto da maestro.
Dire
addio all’uomo che era quasi come un figlio per lui.
Nel suo
lavoro accadevano sempre cose come queste, ma non sapeva perché,
stavolta gli faceva male. Gli infliggeva una piccola ferita nel cuore
che bruciava, pulsava e sanguinava.
In fondo
pensare a Jack era come pensare a un compagno.
Anche se
lui non aveva mai ricambiato i suoi sentimenti, Orpheus in quel
momento riuscì a rendersi conto di quanto teneva a quell’uomo.
Ma non poteva farci nulla, per Jack era finita.
Finita.
<<
Orpheus, ora ti chiederò una cosa. Giuro che se mi dici una
cazzata vengo lì e ti pianto una pallottola nel cervello. Vedi
di stare attento.>> il tono minaccioso era palpabile, e la sua
completa pazzia tangibile.
<<
Dimmi, Stephen.>> Orpheus chiuse gli occhi e si ordinò
di calmarsi. L’agitazione l’avrebbe solo portato ad un
passo falso.
<<
Quel bastardo, ha una sorella non è così?>> disse
in tono completamente asciutto.
Orpheus
sentì il palpito del cuore accelerare. Probabilmente potevano
dargli dello schifoso, egoista e amante del denaro, ma se Stephen
voleva uccidere la sua gemella, ben venga. Era la giusta punizione.
Anche se le possibilità che non uccidesse anche Jack erano
minime.
<<
Si. E’ la sua gemella. Posso anche darti l’indirizzo se
vuoi.>> “Tanto ormai...” aggiunse mentalmente.
<<
Si, mi risparmieresti un sacco di tempo.>>
Dopo
aver dettato l’indirizzo, Stephen rimase in silenzio per un
attimo. Orpheus capì dal ritmo del respiro che stava
piangendo.
<<
Steve, vecchio mio, mi dispiace. Sono consapevole che la causa
indiretta sono io che ti ho raccomandato Jack, ma te lo giuro non si
è mai spinto tanto oltre. Per cui davvero, se vuoi venire qui
ci facciamo una chiacchierata.>> provò Orpheus in tono
conciliante, senza alcuna speranza in particolare.
<<
E’ troppo tardi. Mi resta una sola cosa da fare. Ti prego non
metterti in mezzo.>>
<<
Non fare pazzie Steve...>>
Ma era
davvero troppo tardi. Stephen aveva già riagganciato.
Orpheus
tornò a poggiare la fronte sui palmi, mentre aspettava che il
disastro si compiesse...
Stephen
uscì di casa con passo svelto e leggero. Entrò in
macchina e accese il motore assieme alla sigaretta, poi guidò
verso il cimitero.
Le
strade erano deserte e i rumori nulli, era davvero rilassante guidare
in perfetta pace, se solo nel suo cuore non avesse avuto tutto
quell’orrore sarebbe potuto anche essere piacevole.
Ma stava
andando nella tomba di sua figlia.
E non
era per niente fottutamente piacevole.
Le mani
presero a stringere il volante e lottò contro la voglia di
urlare.
Quando
arrivò all’enorme cancello era, come sospettava, chiuso.
In quel momento iniziò a piovere e lui prese a scavalcare
l’inferriata arrugginita. Ci volle tempo e fatica per varcare
quel singolare ingresso ma ne valse la pena, appena si ritrovò
dall’altra parte si abbassò il cappello e si diresse
verso la tomba.
Non si
sarebbe mai aspettato che lì ci fosse anche Jimmy, il suo
genero.
Rimase
scolpito dallo stupore e per un po’ non riuscì a
muoversi.
<<
Cosa c’è, signor Crawl? Perché non si avvicina?
Ha forse paura che lo spirito di sua figlia si vendichi per aver
avuto un padre così fottutamente inutile?>>
Aveva la
voce completamente rotta dal pianto e stringeva i pugni.
Era un
uomo disperato.
Stephen
lo sapeva, ma non l’aveva mai preso in considerazione. Da bravo
egoista.
Si
avvicinò lentamente e si piazzò accanto a lui, a testa
china, mentre l’altro singhiozzava rumorosamente.
Mentre
guardava quella scultura in pietra, risalì quel groppo che non
lo aveva mai abbandonato.
<<
Un uomo...>> disse con voce sottile. << ...non dovrebbe
mai piangere.>>
E
dicendo questo si mise una mano davanti agli occhi, mentre Jimmy
s’inginocchiò quasi come se le gambe avessero ceduto.
Urlò.
Disperatamente.
Jack era
sdraiato di fianco a Louise e l’osservava dormire.
Fondamentalmente
era lei ad averlo sconvolto totalmente.
E
pensare che lui l’aspettava per continuare la sua opera. Aveva
invece ottenuto l’effetto completamente contrario, aveva dato
una fine a tutto.
Aveva
smesso di prendere le pasticche, non riusciva più a non
provare nulla. Tutto quello in cui credeva si stava sbriciolando e
stava diventando come grigia cenere.
Suo
fratello, si stava allontanando.
E per
questo lui tremava dal terrore, tremava da capo a piedi, nel modo più
terrificante in cui un uomo possa tremare.
Tremava
di morte.
Mentre
le sue pupille si assottigliavano e il respiro cominciava a venir
meno, sentì un calore avvolgergli la mano e istintivamente
spostò gli occhi su Louise, che lo stava guardando,
sorridendo.
Quegli
occhi azzurri carichi d’affetto infusero in lui un’aria
serena, tranquilla.
Quegli
occhi che aveva sempre evitato da bambino.
Louise
era la sua umanità, ma anche la sua salvezza.
Guardare
quella luce calda mi fece pensare a quella sera dove il tramonto
aveva invaso il mio cuore e quello di Jack, dove regnava il ghiaccio.
Però
ora Jack era accanto a me, e mi stava ancora stringendo la mano.
Toccandomi il ventre ero consapevole di portare la sua creatura, ma
istintivamente mi si accaniva contro la tristezza di non poter
portare avanti quella gravidanza.
Di
essere ancora una volta inutile per lui.
Il solo
fatto di sentire quel calore, di vedere il suo volto sereno e
tranquillo mentre dormiva immerso in chissà quale sogno, mi
rinfrancava e mi faceva provare emozioni immense.
Tanto
che una lacrima scorse il mio viso, tristemente e silenziosamente.
Strisciai
fuori la mia mano dalla sua e mi diressi verso il bagno a fare una
doccia. Mentre il getto dell’acqua calda mi batteva sul corpo
pensavo a mille aghi acuminati che mi trapassavano il cuore, quel
pensiero non aveva uno scopo né tantomeno un fine logico, era
solamente venuto a galla senza nessun perché.
Una
volta lavatami preparai la colazione.
Ci misi
l’anima, preparai un sacco di roba e sorrisi di cuore quando
lui spuntò nel vano della porta, ancora assonnato e con gli
occhi semichiusi.
In
quella veste sembrava proprio...un umano.
Quell’umano
che avevo sempre disperatamente invano cercato, quel fratello di cui
poter andare fiera, con cui potermi sfogare e con cui dividere metà
della mia vita.
Lui era
Jack.
Sorrisi
ampiamente e lo invitai a sedersi e a servirsi.
Lui
ancora non sembrava molto convinto e continuava a stropicciarsi un
occhio.
<<
Hai preparato tutto questo per me?>> chiese con la voce
impastata dal sonno.
Mi
sembrava di aver di fronte quel figlio mai avuto.
<<
Si, stupido, vieni e mangia, scommetto che stai morendo di fame.>>
E, come
volevasi dimostrare, il brontolio del suo stomaco mi diede ragione.
Si
sedette e cominciò a prendersi ciò che desiderava, lo
fissai per un po’, tanto da metterlo in imbarazzo, infatti si
fermò con la forchetta a mezz’aria e mi guardò
con aria interrogativa.
Io
scoppiai a ridere, risi di gusto per la prima volta in vita mia mi
sentii felice.
<<
Che c’è?>>
<<
Nulla. Ho ripensato che avrei tanto desiderato farlo da bambina.>>
Mi
guardo un attimo, sorpreso. Poi abbassò gli occhi e sembrò
incupirsi.
<<
Mi dispiace, Lou.>> disse con tono rammaricato.
<<
E’ acqua passata Jack, ora siamo qui, tu ed io. Finalmente due
metà ritrovate. Se ti andrà poi mi racconterai la tua
storia. Così che io possa comprenderti fin dove posso, e
affinché possa recuperare tutti questi anni d’assenza.>>
Jack
rimase in silenzio, poi sorrise.
Il suo
primo, vero sorriso. Per me. Io mi sentii invadere di gioia e gli
sorrisi di ricambio.
<<
Volentieri, sorellina.>>
Già,
penso che il momento più bello sia stato quello.
Nessun
rimpianto, rimorso o brutto ricordo.
Solo
gioia, felicità, stato d’animo eccellente.
Mai
avrei pensato che... da tutto ciò scaturisse l’inferno.
<<
Quando ero ancora un moccioso non mi piaceva nulla, almeno da cosa
posso ricordare non sono mai stato uno che si potesse affezionare a
qualcosa o qualcuno. Semplicemente tutto il mondo mi stava
indifferente, probabilmente ho preso dalla mamma.
Fatto
sta che lei lo trovava irritante e me lo faceva pesare ogni santo
giorno, stavo quasi diventando matto, infatti me ne andavo a
passeggiare nel bosco, dove di solito allevavo dei piccoli
animaletti. Molte volte ho tentato di trovare il coraggio di
chiederti se volevi venire con me, ma ogni volta che ci provavo ti
vedevo sempre intenta a far qualcosa così mi convincevo che
comunque tu non avessi bisogno di me e che, anzi, ti avrebbe dato
fastidio che io ti rivolgessi la parola. Allora me ne stavo per i
fatti miei a gironzolare qua e là.
<
Nostro
fratello, il demonio. E fu allora che mi affidò la missione.
Quella missione che sto compiendo ancora oggi. Mi spiace Lou,
davvero. >>
In quel
momento alzò i suoi occhi color ghiaccio e mi scrutò
nell’anima, mi sentii gelare.
<<
Ma è solo grazie a te se adesso ho una possibilità di
sconfiggere il mio terrore. Ti devo davvero molto, quando ho letto il
libro ho sentito la tua disperazione. La tua voglia di capire. Ma io
non sono pazzo, non lo sono. Non lo sono...>>
Si prese
il volto tra le mani e iniziò a tremare convulsamente, lo
abbracciai forte e aspettai che la crisi passasse.
Dopo
circa mezz’ora ci ritrovammo seduti nelle poltrone davanti al
camino scoppiettante, trassi un sospiro di sollievo e mi sfiorai il
ventre.
Poi lo
guardai, mentre era assorto nei suoi pensieri.
<<
Vado dal dottore, tra un po’ dovrebbe aprire.>> dissi,
aspettando la sua reazione, quasi desiderandola.
Ma non
avvenne nulla. Lui chiuse solo gli occhi. Temetti il peggio allora
tentai il tutto per tutto.
<<
Ci proverò, Jack. Ma le possibilità sono davvero
scarse.>>
Allora
aprì gli occhi.
<<
Di nuovo.>> disse.
Soltanto
questo.
Ma mi
bastò per scoppiare a piangere a dirotto, mentre lui ritornava
completamente privo d’espressione.
Tutto
ciò che desiderava era vendicare suo fratello con suo figlio,
ma se anche suo figlio venisse ucciso, cosa gli rimarrebbe?
<<
Scusami se non ne sono in grado, scusami se, alla fine, sono sempre
inutile. Scusami se alla fine non potrai mai dire di avere una
sorella che ti ha reso felice, scusami...>>
Jack si
girò, verso di me, non era più inespressivo.
<<
Stupida, non dirlo mai più. >> disse lentamente.
Così
aspettai le tre del pomeriggio, poi lo salutai e uscii. Col nodo in
gola perché sapevo già cosa mi aspettava una volta là.
Varcai
la soglia dello studio, nel mio abito sobrio e nella mia espressione
mortificata. Il dottore mi invitò a sedermi e ad esporgli il
problema.
Facile
per lui.
Fin
troppo.
<<
Sono incinta, ma sono consapevole che probabilmente non potrò
portare avanti la gravidanza. Volevo una conferma, tutto qui.>>
<<
E’ la prima volta?>>
Che
domanda inutile.
<<
No,>>
<<
Va bene, allora si tolga i pantaloni e si metta nella posizione del
lettino, arrivo subito.>>
Obbedii,
conoscevo le procedure d’altronde.
Mentre
mi sistemavo sentivo ancora quell’aleggiare di tristezza
impossessarsi di me, chissà se quel piccolo fagiolo lo
percepiva. No, probabilmente era troppo presto.
Il
dottore si piantò davanti al monitor e accese il macchinario
che cominciò a ronzare fastidiosamente, poi s’infilò
il guanto e mise la mano dentro, spingendo.
Io
chiusi gli occhi e non pensai più a nulla.
Dopo un
po’ di tempo sentii distintamente la voce del dottore. Non
afferrai propriamente tutto, ma l’ultima parte bastò per
far rimbalzare il mio cuore.
<<
... la gravidanza procede bene per essere solo alla prima settimana,
quindi per adesso non vedo nessun problema di carattere fisiologico.
Certo non me la sento di pronosticare il meglio adesso, ma neanche il
peggio. Quindi non stia così giù, signorina.>>
Mi
sorrise e io rimasi talmente pietrificata che credo di aver assunto
un aria da idiota, visto che lui si mise a ridere e mi intimò
di vestirmi e tornare a casa a riferire tutto a mio marito.
Ma non
importava il piccolo errore che aveva fatto.
Avevo
deciso che non sarei tornata da Jack, per un po’ volevo capire
cosa la sua mente avesse provato nel comunicare con qualcosa di
morto. Indipendentemente dalla risposta avevo deciso di andare a
trovare nostro fratello, che un nome non l’ha mai avuto.
Andai in
macchina e mi diressi verso quella che era l’abitazione di
Jack...
...mentre
il campanile scoccava le cinque del pomeriggio.
Era la
seconda volta che sostava lì davanti e nuovamente sentiva come
se aprendo quell’ingresso si sarebbe trovata invasa dal totale
abbandono e dalla totale miseria che quei piccoli feti esprimevano.
Non era
sconcertante, neanche terribile o orrendo, non faceva accapponare la
pelle.
Quello
spettacolo era soltanto triste.
Aveva il
dono di far aderire l’ansia al cuore con un’intensità
allucinante.
Aprì
la porta, che cigolò rumorosamente. “Avrebbe bisogno di
un po’ d’olio, vero Jack?” pensò con un
sorriso prima di addentrarsi in quella triste passerella.
Li volle
toccare tutti, per sentire se riusciva a captare qualcosa. Ma le
uniche cose che riusciva a percepire erano la disperazione di quelle
sfortunate mamme, ree di essere incinte.
Li
sfiorò ad uno ad uno e cercò di immaginare il volto, le
sembianze e i caratteri di ognuno di loro, fondamentalmente li
raffigurava per sentirsi bene, per far finta che tutto ciò non
fosse mai accaduto, ma non poteva cancellare l’orrore che suo
fratello aveva provocato. Era famoso in tutto il mondo come colui che
squarta le donne incinte, il mostro dei bambini, il rapitore dei feti
e chissà con quanti altri nomignoli.
Tutto
quello che aveva fatto non poteva venire cancellato.
Allora
smise di sfiorarli perché una maledetta morsa gli strinse il
cuore e fece salire il nodo in gola.
Si
avvicinò al barattolo che era venuta a visitare.
Al
fratello.
Al
demone.
All’essere
vivente che non era mai stato.
Alla
persona che non era mai potuta essere.
All’esistenza
che non era mai stata dimenticata.
Si dice
che un uomo muore solo quando viene dimenticato, l’aveva letto
da qualche parte, ma non ricordava dove. Fatto sta che era una frase
fatta bella e buona, ma soprattutto era vera.
Quella
piccola creatura era morta dieci anni prima, ma era ancora viva nel
cuore di Jack solo perché lui non era mai riuscito a
dimenticarlo veramente.
Davanti
a quella cosa informe ed immobile iniziarono a tremargli le gambe, al
solo pensiero di quanto terrore avesse provocato a Jack.
Lo
sfiorò e chiuse gli occhi. Poi parlò lentamente.
<<
Forse questa è la cosa più stupida che io abbia mai
fatto. Ma devo compiere questo gesto per liberare Jack da te,
fratello mio. So che probabilmente hai sempre avuto rancore verso la
mamma, ma non avevamo davvero soldi per poterti mantenere, lei faceva
già enormi sacrifici per riuscire a sfamare decentemente noi.
Ha solo sbagliato a non essere stata cauta. Ma non era una cattiva
donna. Anche se mi picchiava e distruggeva i nervi di Jack, lei ci
voleva bene. Nonostante tutto. So che probabilmente anche tu volevi
nascere, vivere, imparare a camminare, ridere, piangere, avere le
prime cotte, i primi desideri sessuali, i primi sogni. So che la
mamma ti ha impedito tutto questo. Ma ti prego, libera Jack da questo
legame, fa sì che almeno lui viva serenamente, che non sia più
terrorizzato dalla tua figura immobile. Che possa pensare a te solo
come a quel fratellino mai avuto. E non come a un demone. Quindi ti
prego, liberalo.>>
Abbassò
la mano e rimase per un po’ assorta nei suoi ricordi, quando
bussarono alla porta...
<<
Jack, caro il mio Jack, come va? Spero bene vero? Anzi si vede dalla
tua faccia che stai fottutamente bene. Bene allora voglio informarti
che grazie a te la mia vita se n’è andata a puttane. Che
ne dici se mi prendessi la mia bella rivincita eh?>>
Avevano
suonato alla porta, Jack ancora appisolato pensava fosse Louise che
aveva dimenticato le chiavi, così andò ad aprire. Ma
quando si vide davanti Stephen, il suo cuore mancò un colpo.
Mentre
quell’uomo parlava Jack s’intimò di calmarsi, non
era salutare agitarsi, lui lo avrebbe capito e attaccarlo sarebbe
stato più difficile. Non poteva farsi sopraffare dai sensi di
colpa, ora doveva solo sopravvivere, così pensò che in
quella situazione lui era avvantaggiato, visto che era molto più
veloce e agile di Stephen. Allora si calmò e aspettò
che fosse l’altro a fare la prima mossa.
<<
Cosa c’è? Perché mi guardi con quell’aria
tanto tranquilla? Ho una pistola, cazzo, una pistola! E tu sei
completamente disarmato, cosa cazzo ti fa stare così
tranquillo?>>
Agitò
la pistola per aria e la puntò sopra la fronte di Jack che non
aveva fatto una piega.
<<
Spara pure, se ciò può farti sentire meglio.>>
disse in tono totalmente atono.
<<
Figlio di puttana, tu con questa faccia da cazzo mi fai imbestialire
più di ogni altra cosa, dopo che ti avrò trapanato il
cervello ti fracasserò il cranio.>>
<<
Basta parlare.>>
Jack
capì dal suo tono che non c’era bisogno di attuare
nessuna strategia.
Stephen
lo stava guardando con uno sguardo furioso, terso, livido, da pazzo
omicida. Ma quegli occhi Jack li conosceva bene, non avrebbero mai
ucciso, erano molto diversi dai suoi.
Rimasero
così per parecchio tempo, la mano di Stephen tremava e non
riusciva a premere il grilletto, Jack chiuse gli occhi e afferrò
piano la pistola. Poi l’abbassò.
<<
Torna a casa.>> disse con un filo di voce.
Ma
Stephen afferrò la sua mano e conficcò la bocca della
pistola nel suo cuore. E piangendo lo supplicò.
<<
Sparami. Spara a quest’uomo inutile, spara a questa testa di
cazzo che non è riuscito a difendere nessuno dei suoi cari,
sparami e togli di mezzo questa agonia che mi sta consumando. Ti
prego spara bastardo!>>
Era del
tutto fuori di sé. Jack aveva ancora gli occhi chiusi.
<<
E’ davvero questo che vuoi?>>
<<
Si, dannazione, mi hai tolto tutto. Non mi resta altro che morire.>>
Allora
aprì gli occhi, erano lucidi. Stephen assunse un’
espressione sorpresa.
<<
Allora sei anche tu capace di commuoverti, chi mai avrebbe immaginato
che alla fine sarei stato così patetico da farti piangere. Ora
posso dire di non essere mai valso un cazzo in questa vita.
Facciamola finita, per favore.>>
<<
Mi dispiace.>>
Fu un
solo colpo, dritto al cuore.
Un’insignificante
pallottola che pone fine alla vita di un uomo, come un insignificante
fagiolo che distrugge la vita di un uomo.
Un
paradosso.
Stephen
barcollò.
<<
Se non vuoi perdere tua sorella, va a casa tua, bastardo...>>
balbettò.
Le luci dei lampioni illuminavano quella città, quadro di una
disperazione celata in malo modo, espressa per metà e uccisa per intero
Le luci dei lampioni illuminavano
quella città, quadro di una disperazione celata in malo modo, espressa per metà
e uccisa per intero.
Mentre
Louise apriva la porta, un presentimento le fece prevedere ciò che poi
effettivamente accadde.
Un uomo. Con la pistola. La
voleva. Uccidere.
L’unica azione che le venne in
mente di fare fu quella di ridere. Una strana risata,
malferma, poco lucida. L’uomo dal canto suo la guardò per qualche istante, poi
sorrise.
<< Vedo che trovi tanto
divertente il fatto che io ti stia puntando una cazzo
di arma nel centro della testa. Bene perché ti farà più ridere il grosso buco
che ti farò da qui a poco nel cervello.>>
Ma
Louise non riusciva a smettere. Era indubbiamente una risata piena di
nervosismo, ma era stanca di tremare, piangere, dimenarsi, urlare e disperarsi.
Cosa
rimaneva se non ridere?
Ma
l’uomo non sparò, fino a che Louise non smise di ridere, solo allora lei si
rese conto di quanto quella sua azione avesse messo in serio pericolo la sua
vita.
<< Bene, vedo che sei
rinsavita, mi sorprende il fatto che tu non mi abbia
ancora chiesto per quale motivo io lo stia facendo. D’altronde tu non sei Jack...>>
Louise chiuse gli occhi. Ma non parlò. Non c’era più nessuna traccia d’ilarità nel
suo volto.
<< Qualunque cosa sia successa, uccidermi non la risolverà, la persona che hai
perso non tornerà comunque in vita.>> disse Louise dopo che il silenzio
si era fatto pesante. Dicendo queste parole aveva assunto uno sguardo duro e lo
guardò dritto negli occhi.
Jimmy tremò da capo a piedi, un
po’ per la rabbia, un po’ per il terrore, un po’ per il freddo di quella
maledetta sera.
Lui tremò.
<< Ma
cosa cazzo ne vuoi sapere tu? Eh? Cosa vai blaterando?
Dici cose senza senso, ma te ne rendi conto? >>
<< Hai ragione, non so
nulla, non so niente di te, della persona che Jack ha
ucciso, della tua famiglia né della tua storia. Ma è così per
tutti, la vendetta non ha mai portato a nessun fine logico. Ti svuota,
ma non ti rende felice. Ti senti meglio, ma non ti ridà la persona che hai
perso. Allora ricaschi nell’oblio dei sensi e tutto ritorna come prima. E’
questo che vuoi? Jimmy?>>
L’uomo sbiancò.
<< C-come fai a sapere il
mio nome? M-maledetta, sei una strega, si, una strega!!>>
urlò,
ormai non c’era più nulla da fare, nella sua mente si era spento il meccanismo.
Louise sorrise.
<< Un giorno mentre
controllavo la posta, mi arrivò una lettera strana, che commentava la mia
ultima fatica. Quel tale mi disse di chiamarsi Jimmy e che molte volte pensava esattamente le cose che io avevo scritto. In
allegato c’era una poesia che mi fece tremare da capo a piedi. Mi rimase
impresso l’uso appropriato del linguaggio, la melodia e le sensazioni che
quelle parole ti marcavano a fuoco dentro. Ricordo
perfettamente che finiva con queste parole: “ Se dall’inferno non si può
fuggire, dalla vita si può morire. Meglio che niente.”, ricordo che m’innamorai di questo verso. Avrei voluto risponderti, ma
davvero mi mancavano le parole, e dirti che era
solamente bella avrebbe offeso quel capolavoro. Inoltre nella lettera c’era una
foto e una frase. “ Salutami, se mi vedi, mia cara scrittrice.”, allora
lasciati salutare, Jimmy.>>
Piangeva, perché quell’uomo tanto
fragile lo stava facendo.
Ad ogni parola che pronunciava il
suo volto si trasformava sempre più in una maschera di
dolore e, quando finì, non poté fare a meno di abbracciarlo.
<< Tu, tu sei Louise, la
scrittrice che amavo tanto, tu sei lei? Tu sei la persona che ha saputo farmi
piangere, che è entrata nel mio cuore senza il mio
permesso? >>
<< Si, Jimmy, sono
io.>>
La pioggia iniziò a battere, come
a voler amalgamare quelle due persone tanto simili da ripugnarsi a vicenda, ma tanto disperate da volersi bene senza nemmeno
essersi mai viste.
Jimmy singhiozzava
mentre si teneva ancorato a quella donna che aveva ammirato e stimato.
<< Mio padre,>> sussurrò.
Poi rimase in silenzio.
<< Ti ascolto.>>
lo incalzò Louise.
Non voleva entrare, non voleva assolutamente che quella pioggia smettesse di battere
su di loro.
<< Mio padre, abusava di
me, continuamente.>>
Jimmy strinse più forte.
<< E
io non riuscivo ad urlare, non riuscivo ad emettere alcun suono perché ero
terrorizzato, perché non capivo, perché ero convinto che papà mi facesse quello
perché voleva una femmina. Io... io non riuscivo a capire. Ma
non riuscivo neanche a piangere, a sfogarmi. Non lo dissi mai a nessuno. Ma indubbiamente da quegli episodi la mia mente ne soffrì le
cause. Ma non sono pazzo... non lo sono. Solo Hally mi
ha creduto, mi ha accolto tra le sue braccia, mi ha salvato. Solo lei credeva
che io fossi normale. Ma ora lei... ora lei è morta. E IO COSA DEVO FARE?>>
<< Vivi. Vivi per lei. Vivi
al posto suo e fa tutto ciò che lei desiderava fare.
Fallo in suo onore e vedrai che lei ne sarà felice...>>
Ma fu in
quel momento...
...che Jimmy
vide Jack spuntare dall’angolo buio della strada, trafelato dalla corsa.
Allora i suoi occhi si spalancarono.
La sua follia, divampò.
La sua ragione, morì.
La sua anima, si spense.
Si staccò da Louise, la
scaraventò lontano e non la guardò, poi successe tutto velocemente.
La sua pistola puntò Jack.
La sua mano premette il
grilletto.
La pallottola raggiunse uno
sterno. Ma non quello di Jack.
Louise era corsa in silenzio,
piangendo lacrime invisibili. Non poteva permettere che Jack venisse
ucciso, perché Jack era tutta la sua vita. Piuttosto preferiva morire lei.
Il dolore fu atroce, lancinante e
bruciante.
Ma non
era dolore ciò che provava Louise, bensì sconfitta.
Umiliazione.
Mortificazione.
Rimase tra le braccia di Jack, inerme e fragile come non lo era mai stata.
Sempre più fredda.
Sempre più gelida.
Jack la
guardava stralunato, sotto completo shock. In quel buio i suoi occhi sembravano
due scintille.
<< Jack,
cosa c’è? Perché mi guardi così?>>
Louise sorrideva, piangeva,
rideva e tremava.
<< Stai...
stai diventando fredda...>> sussurrò toccandole il viso.
<< Sarà che mi sono
finalmente liberata di tutto quel ghiaccio che ristorava nel mio cuore, Jack,
sarà che finalmente adesso sono libera...>>
Jimmy urlò. Si prese la testa tra
le mani e scappò via. Dopo poco si sentì uno sparo.
Louise chiuse gli occhi.
<< Era un brav’uomo, Jack,
non avercela con lui.>>
Jack non
rispose.
<< E’ un peccato,
però.>> osservò Louise, sempre sorridendo.
<< Cosa?>>
<< Sta piovendo, non posso
vedere se ci sono lacrime, nel tuo volto. Se avessi visto delle lacrime, avrei
potuto dire che hai ripreso perfettamente le emozioni,
ma non posso farlo.>>
Jack,
allora, singhiozzò.
<< Non morire...>>
<< Jack,
io non posso morire adesso. Non ora che ti ho ritrovato.>>
<< Lou, Lou, perché diventi
ancora più fredda?>>
<< Jack,
il bambino...>>
Louise tossì e sputò fuori molto
sangue. Poi riprese col fiatone cercando di sorridere.
<< Questo bambino, poteva
vivere. Me lo ha detto il dottore. Lo sai? Potevo essere utile, ma non lo sono
stata, per l’ennesima volta...>>
<< Smettila
di dirlo, smettila, smettila, smettila. Per favore...>>
Louise sorrise, per l’ultima
volta.
<< Anch’io
sto piangendo Jack, ma di felicità. Grazie...>>
Il solo fatto di restarmene lì
con le mani in mano mi faceva infuriare.
Io, Orpheus
Da Locus, 36 anni.
Non potevo lasciare da solo Jack.
Allora presi il giaccone e senza ombrello
mi avventurai in quella triste notte di pioggia.
Mentre camminavo ripensavo alla
mia vita, ai miei fallimenti, ai miei successi che erano stati dei fallimenti
per gli altri. Al mio giocare con le altrui esistenze, al mio sopravvalutare i
sentimenti, al mio soprassedere la morte senza davvero capirne il significato.
A me che non avevo mai sparato a
qualcuno e che adesso portavo una pistola che sembrava pesare come un macigno
nella tasca dei pantaloni.
Non immaginavo cosa avrei trovato
una volta sul posto, ma mi bastava sapere che non era nulla di buono.
Quando arrivai e vidi ciò che era
successo, capii che avevo ragione.
Jack era l’ombra di un uomo,
ormai.
Stava distruggendo ad uno ad uno
i barattoli e nel farlo silenziosamente, urlava ancora di più dentro. Era
ferito, interamente pieno di tagli e sanguinava copiosamente.
Io non mi mossi dal vano della
porta, non volevo interrompere quello che aveva iniziato. Così vidi dove voleva
arrivare, tenendo ben salda la pistola.
Non sembrò accorgersi di me.
Quelle ferite mi ricordavano
quando lo vidi la prima volta, pieno di sangue e sconvolto. Feci una smorfia e
chiusi gli occhi.
Prima o poi tutto ha una fine, a
volte viene da sé, a volte qualcuno te la impone.
Jack non era più in grado di
vivere e anche se io non ero nessuno per decidere la morte di un uomo, sapevo
che se lui avesse continuato a vivere anche un solo giorno avrebbe sofferto una
morte peggiore.
Agonica.
Piena di terrore.
E io non volevo.
Volevo donare a Jack una morte
fulminea che lo strappasse da quello struggimento.
Ma non in quel momento, dove lui
stava chiarendo i suoi sentimenti verso quella forma immobile che lo aveva
assoggettato per tutta la vita.
Jack si avvicinò a quel
barattolo, rimase così a lungo, come per prendere una decisione. Alla fine dopo
molto tempo alzò il braccio e lo afferrò. Poi sussurrò.
<< Mi hai rovinato
l’esistenza, ma ora morirai con me.>>
Aveva la voce orrendamente rotta
e mi sentii invaso dalla pietà.
Aprì il barattolo, prese il feto
e lasciò cadere tra gli altri il contenitore.
Alzò la mano alla bocca e...
... lo inghiottì.
Chiusi gli occhi, un moto di
nausea mi aveva rivoltato lo stomaco.
Quando li riaprii vidi Jack
guardarmi con uno sguardo da totale squilibrato e un sorriso oscenamente squallido
e terrificante.
<< Avanti, sparami, Orpheus. Da una fine a tutto, questa sera. Non è la tua
specialità far finire tutto quando ti pare? Per te la vita degli uomini vale
meno di zero, per cui vai. Sbrigati.>>
Non riuscivo a muovermi per
quanto ci provassi.
<< SPARA!>>
Lo guardai.
Mi avvicinai.
Lo abbracciai.
Presi la pistola dalla tasca e la
puntai davanti allo stomaco, lui era rimasto immobile.
In quel momento inspiegabilmente
scoppiai in singhiozzi come un bambino.
<< Ti voglio
bene...>> sussurrai.
Sparai.
Ponendo fine ancora una volta, a
tutto quanto.
Il famoso assassino che squartava le donne incinte è morto ieri ad un
ora imprecisata. La causa della morte è stata un colpo di pistola di piccolo
calibro. Nessun parente si è presentato all’obitorio, ma si suppone che l’altro
cadavere ritrovato nelle vicinanze appartenente alla scrittrice di successo LouiseArmstrong, sia anche
quello della sua gemella, data l’incredibile somiglianza. Il servizio a cura di
Mary Landon.
In quel cimitero di Oxford’s street vi erano due tombe vicine.
I volti raffigurati nelle piccole
foto rappresentavano due persone pressoché identiche.
La piccola didascalia annunciava
i loro nomi e la loro età.
In quel cimitero di Oxford’s street il sole sopravvenne alla pioggia.
Così che tutte le anime in pena,
potessero finalmente riposare in pace.