Pendulum —

di Aisu Yuurei
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vent'anni fa. ***
Capitolo 2: *** Absence. ***
Capitolo 3: *** Gli arcobaleni. ***
Capitolo 4: *** Rugiada ***
Capitolo 5: *** Life ***
Capitolo 6: *** .Pendulum. ***
Capitolo 7: *** Mad ***
Capitolo 8: *** Sadistic ***
Capitolo 9: *** Kill ***
Capitolo 10: *** Segnali ***
Capitolo 11: *** Barattoli ***
Capitolo 12: *** Hally ***
Capitolo 13: *** Non.Posso.Smettere. ***
Capitolo 14: *** Humanity ***
Capitolo 15: *** Evelyne Moore ***
Capitolo 16: *** Daughter ***
Capitolo 17: *** Coltello. ***
Capitolo 18: *** Welcome back ***
Capitolo 19: *** Fear ***
Capitolo 20: *** Wish ***
Capitolo 21: *** Nothing ***
Capitolo 22: *** Midnight ***
Capitolo 23: *** Blue eyes ***
Capitolo 24: *** Down ***
Capitolo 25: *** Guns ***
Capitolo 26: *** Death ***
Capitolo 27: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Vent'anni fa. ***


L’ultima volta che vidi sul viso di mio fratello un’espressione di gioia fu pressappoco vent’anni fa.

Io e lui eravamo gemelli, ma non equivocate. Non avevamo nemmeno una traccia di quel legame che unisce due creature omozigoti, eravamo in due mondi separati. Suppongo che io risiedessi in quello illuminato, lui in quello buio.

Ma questa distinzione non mi venne offerta, bensì imposta da lui, che ogni giorno mi rivolgeva un mero buongiorno forzato e poi spariva, completamente.

Non aveva alcun interesse particolare, al contrario di me che invece traboccavo di inutili hobby passeggeri. Lui non dedicava mai la sua attenzione a qualcosa per più di mezz’ora, di solito andava girovagando nel bosco malandato vicino casa, ma non ho idea di cosa provasse là dentro, non gliel’ho mai chiesto.

Timidamente avevo paura di lui, lo temevo, ero certa che se avessi rotto il suo religioso silenzio mi avrebbe picchiata. Così non lo feci mai, pensando erroneamente che lui volesse così e che io non avevo nessun diritto di sopraffare la sua volontà. Per me rappresentava una sorta di divinità evanescente, non osavo mai ignorarlo ogni volta che mi passava vicino, di solito la mia partecipazione consisteva in un lungo sguardo e lì si interrompeva.

Io sentivo mio fratello vicino, eppure lontanissimo. A volte lo udivo a un palmo dal mio naso, mentre mi urlava il suo dolore e la sua tristezza, altre lo sentivo sparire e di colpo diventava come un ricordo. Eppure nonostante lo avessi davanti, sembrava lo stesso un vago ricordo.

Lui era l’ombra di una persona, la sua presenza era appena presente, non parlava mai e non esprimeva mai opinioni. Si limitava a rispondere alle domande con monosillabi dettati dall’educazione ferrea che i nostri genitori ci avevano imposto.

Lui era lì, ma probabilmente non lo voleva. La mamma non poteva concepire che un ragazzino di  quindici anni non possedesse vivacità, per lei la nostra età era un prototipo di felicità, per mio fratello no. Non aveva mai riso.

Eravamo una famiglia molto povera, pertanto a volte ci affibbiavano dei lavoretti sotto la sorveglianza di gente sconosciuta, io li facevo sempre controvoglia, ma ero convinta che tutto questo giovasse per la mia ambita e desiderata carriera da scrittrice di successo, si sa che sono le esperienze a segnare la tua esistenza, più ne sapevo sul mondo meglio era.

Mio fratello,invece, sembrava farlo solo per obbedienza. Lavorava in modo impeccabile,  metteva impegno e dedizione anche mentre spostava un mattone, ma la sua espressione era atona, meccanica, priva di luce. Mi rattristavo per questo, mi chiedevo sempre perché lui non riuscisse a svelarmi anche solo un tenue spiraglio della sua personalità.

 Avevamo quindici anni a quel tempo e molte notti io rimanevo ad osservarlo, mentre dormiva pacificamente nella sua parte di letto e quando dico pacificamente intendo che non muoveva neppure un muscolo, sembrava morto. Forse lo era veramente, dentro.

Non aveva mai posato lo sguardo su di me, in tutta la mia vita non avevo mai incrociato il suo sguardo di ghiaccio. Cominciai a pensare che l’azzurro colore dei miei occhi non reggesse il confronto, mi convinsi che lui non osava guardare degli occhi che impallidivano al suo cospetto.

Ma la mia speranza non cedeva, continuavo a guardarlo per quanto mi era possibile e sembrava che a lui non desse fastidio, d’altronde sembrava che nulla e nessuno potesse scalfire la sua aura, tanto era compatta e solida. Tantomeno io, la sua gemella.

Tutto cominciò quando, mentre ciondolavo con una bambola di pezza sporca davanti casa, sentii un miagolio sommesso. All’inizio pensai fossero i soliti gatti di passaggio che infastidivano tutto il quartiere, poi ascoltando meglio notai che sembrava provenire da un posto alto. Allora mi voltai per cercare di individuarlo e lo scorsi immediatamente nel ramo più alto della magnifica quercia che risiedeva nel campo incolto vicino casa. Era terrorizzato, la sua espressione era di autentico terrore. Così, presa da un violento moto di pietà, mi arrampicai velocemente sulla quercia e dolcemente lo afferrai. Temevo che opponesse resistenza e volasse giù, invece rimase calmo e si fece portar via senza alcun lamento. Ne fui contenta, poi lo lasciai andare, ma lui non ne voleva sapere di filarsela tanto che s’infilo tra i miei calzoni e cominciò a fare le fusa, a quel punto la tenerezza fu tale che lo presi in braccio e cominciai a carezzarlo amorevolmente.

Improvvisamente sentii come una sensazione scivolarmi piano lungo tutta la spina dorsale, la brezza autunnale scompigliava i miei capelli castani e pensai fosse il vento, ma dentro di me sapevo che era qualcosa di ben più importante.

Alzai lo sguardo e incrociai per la prima volta i chiarissimi occhi di mio fratello che mi osservava da lontano, sentii lo stomaco aggirarsi in strane capriole e il cuore saltò nella cassa toracica, urtandola. Tutto ciò in un millesimo di secondo.

Se questi sono i sintomi di una gioia immane, pensai,  non immagino quali siano quelli per una delusione.

Fatto sta che lottai contro la mia ingente emozione e sostenni lo sguardo affettuosamente e, non posso giurarci, penso che mi abbia fatto un cenno di sorriso. Da lontano era  improbabile che io potessi averlo anche solo scorto, magari si era trattata di una distorsione causata dagli occhi, ma contava ciò che sentivo internamente e se mi fossi solo convinta del suo sorriso, va bene se il cuore ne è felice.

Lo spettacolo durò solo qualche minuto, infatti dopo poco sparì da dove era venuto e io mi sentii nuovamente sola e terribilmente abbandonata. Purtroppo la mentalità di una giovane bambina non ne ha mai abbastanza e il fatto che lui mi avesse finalmente donato il suo sguardo aveva dato inizio a un circolo vizioso, dove ne avrei voluto ancora di più e di più. Ero dipendente da lui? Forse si. Ma ne ero contenta.

Tutto ciò non accadde una seconda volta. Ma non era una novità, mi ero abituata alla sua non presenza, e così era ridiventato dopo il salvataggio del micino. Non potevo sapere che di nascosto lui gli faceva compagnia, lo coccolava e amava come mai aveva fatto con nessun altro. Lo scoprii successivamente, quando per la prima volta mio fratello, pianse.

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Capitolo 2
*** Absence. ***


Il gatto non aveva di che mangiare, per un po’ gli offrii il pane della dispensa all’insaputa della mamma, ma non tardò molto ad accorgersene, d’altronde le razioni a casa nostra erano limitate, la fame mordeva tutti e anche solo un pezzo di pane mancante faceva la differenza.

 Mi picchiò selvaggiamente fino a che non avevo più neanche la forza di urlare, solo allora mi lasciò accasciata sul pavimento logoro mentre mi stringevo le numerose parti doloranti. Non era facile uscirne, ogni volta ci volevano mesi perché i lividi scomparissero e nonostante ciò mi cacciò a lavorare.

Io non odiavo la mamma, anche lei faceva enormi sacrifici per non lasciarci morire di fame, dopo che papà era morto in guerra eravamo caduti in una penosa povertà che ci spingeva a dare tutti noi stessi solo per poter vivere.

Non avevo mai desiderato morire, anche in tutta quella povertà io non volevo morire, non volevo darla vinta a nessuno. Se qualcuno aveva deciso così per noi, allora non gli avrei mai dato la soddisfazione di cedere alla sua provocazione, mai.

La pensavo così fino a sedici anni, quando la mamma ci annunciò che aspettava un bambino, ma che probabilmente lo avrebbe ucciso o abbandonato. Non aveva soldi per mantenerlo.

Così disse, ucciderlo o abbandonarlo, ma non sembrava convinta della seconda. Voleva uccidere un bambino. Voleva stroncare una vita a cui era stato donato il permesso di nascere, voleva espiare le sue colpe addossandole a lui. Mi salirono le lacrime.

<< Sei un essere spregevole, non capisci che quel bambino ha il diritto di poter vivere come tutti noi? E poi come intendi fare? Lo farai nascere e lo accoltellerai? Ne avrai il coraggio? Eh?>>

Il mio tono di voce era oltremodo furioso, ma sono sicura che a lei non importava nulla. Mi guardava tranquillamente e ascoltava ogni parola senza un minimo cenno di ripensamento, mi venne voglia di scappare.

<< Beh, sei ancora troppo piccola per tentare solo marginalmente di capire cosa si prova nel sapere che non si hanno soldi per far mangiare i propri figli. Vederli così talmente magri da farti venire voglia, appunto, di ucciderli. Solo per difenderli da quell’agonia infernale. Voi siete il mio sbaglio, lui è il mio sbaglio più grande. Siete degli errori, e tali rimarrete nella mia coscienza per sempre. Mi sarei già uccisa mille anni fa se voi non ci foste stati.>>

Non aveva urlato, aveva tenuto il suo discorso pacificamente, senza inveire contro di me. Ma in quelle sue parole dure, autentiche, si celava una cattiveria che mai avrei sospettato. Lei ci aveva definiti sbagli, errori, ripensamenti, pesi che gravavano sulla sua fallimentare vita. Nulla mi faceva sentire più inorridita. Quella non era mia madre, quella era la donna che la guerra aveva partorito, la donna che aveva visto l’odio e l’amore mischiarsi nella morte, la donna che aveva ucciso le sue emozioni pur di non arrivare al suicidio, pur di vivere, pur di vivere morendo giorno dopo giorno.

Per noi lei aveva continuato a sopportare quella leggera agonia, quell’eterno, piccolo dolore che le dilaniava il cuore.

Ma tutto ciò, non le permetteva di uccidere una vita.

Mio fratello era accanto a me, come sempre non aveva detto nulla e non aveva espresso opinioni, ma la sua espressione non era più totalmente atona, percepii una flebile rabbia affiorare da tutti i pori della sua pelle, sentii che impercettibilmente i suoi pugni si chiudevano e sentii che lambiva un desiderio, e lo sapeva.

Ma non capii mai cosa il suo cuore gli suggeriva di fare, non lo capii perché lui me lo rese impossibile. In quei giorni aveva anche smesso di proferire quel sommesso “buongiorno”, non mangiava, beveva soltanto per sopravvivere e tutto il giorno se ne stava fuori chissà dove.

Alla mamma non sembrava importare.

Io mi sentivo disperata, in quel momento la voglia di morire mi si parò davanti e prendendomi la mano con voce suadente mi invitò da lei. La scalciai. Dovevo fare ancora molte cose prima di andarmene. Non avevo tempo per voler morire.

Andai fuori, affrontando la calura estiva che avvolgeva tutto come un grande termosifone. Prima di precipitarmi nel bosco, però, notai che il gatto era chino su qualcosa, mi avvicinai impercettibilmente e scoprii perché mio fratello dimagriva a vista d’occhio. Donava tutto il pane al gatto. Provai un’immensa compassione per lui, la voglia di trovarlo si accentuò e così mi recai immediatamente tra gli alberi, con la sottile speranza di poter fare qualcosa per lui.

Probabilmente ero una sciocca, d’altronde una persona vuota come me non poteva pretendere di capire la profonda concezione del mondo che provava mio fratello, di cui la mamma contribuì a rendere macabra.

So, però, che ce la misi tutta pur di comprenderlo. Avrei donato la mia vita pur di renderlo felice. Ma non bastava, a lui non importava nulla della mia vita e quindi non avrebbe mai barattato un bel nulla per essa. Pensavo a queste cose mentre correvo a perdifiato, mentre le mie gambe si muovevano cercandolo, chiamandolo, sfruttando la sua assenza. 

Non lo trovai.

Girai l’intero bosco cinque volte e trafelata da un impossibile sforzo per una ragazzina di sedici anni, ritornai a casa. Non era neanche lì. Alla mamma non interessava, aveva anche mangiato il suo pane, allora donai io il mio al gatto. Quando mi distesi su quel letto duro e vuoto, mi venne da piangere.

 

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Capitolo 3
*** Gli arcobaleni. ***


Non era facile accettare il fatto che mio fratello mi stesse prendendo in giro. La mattina dopo, infatti, lo trovai seduto a tavola mentre mangiava il suo pane con un pizzico di latte, aveva come di consueto la sua espressione indifferente e non mi aveva detto buongiorno.

Io mi sedetti al mio posto e presi da mangiare, ero talmente livida di rabbia che neanche lo guardai e non dissi una parola, suppongo che lui lo notò, forse.

Mentre stavo inghiottendo un durissimo pezzo di quello che chiamavano pane, ma che a me sembrava si avvicinasse di più a un sasso, mamma se ne uscì così.

<< Domani vado a fare quella cosa...>>

Logicamente con “quella cosa” intendeva “uccidere il bambino”, non aveva neanche il coraggio di dirlo chiaro e tondo se non dopo la prima volta, ero inorridita.

Io e mio fratello non dicemmo nulla, come se nulla ci importasse.

Probabilmente era una delle reazioni che ci riuscivano comuni, non dare soddisfazione alle persone quando una cosa non ci va giù, anche se io la prima volta urlai.

Per tutto il giorno io non vidi in giro il gatto, come se avesse intuito l’aria di malessere che aleggiava intorno a casa. Mio fratello era sparito e io non avevo la minima intenzione di andarlo a cercare, ero troppo arrabbiata, d’altronde all’età di sedici anni si ce la prende molto facilmente.

Però...

Sentivo come se la disperazione di mio fratello oltrepassasse di molto la mia.

Come se la sua rabbia fosse oltremodo maggiore alla mia.

Avvertivo languidi guizzi di vendetta partire dai pozzi canuti che erano i suoi occhi.

E ne ero terrorizzata.

Per questo non lo andai a cercare.

La mia vigliaccheria mi faceva schifo, ero consapevole di non valere neanche la metà di ciò che rappresentava la figura di mio fratello, il suo mistero, il suo odore, la sua presenza che non si avvertiva mai.

Lui era l’immensità che io non sarei mai riuscita a raggiungere, quell’infinito spazio che non sarei mai riuscita a oltrepassare. La mia volontà era surclassata dal suo silenzio e io avrei dato qualsiasi cosa pur di sapere cosa aveva in mente. Ma non mi era concesso, il luccichio che avevo scorto nella sua persona oggi era solo frutto di quell’ortodosso legame che si ha tra gemelli, nulla di più.

Decisi che stare lì a rimuginare avrebbe risolto ben poco, ormai rassegnata e abituata alle miei frequenti girandole di pensieri, mi avvia a scalare il mio monte personale, che io definivo “Monte dei mille arcobaleni”.

Circa un anno prima, infatti, ero rimasta sotto la pioggia mentre osservavo dalla cima del monte l’intero panorama che sembrava rinsavire le mie leggere ferite, temevo una bronchite e temevo di morire, ma non temevo la morte quando in gioco c’era la vita. Suppongo che in mezzo a quella pioggia ghiacciata che mi faceva gelare il sangue, ci fossero anche delle lacrime, ma non importava finché non ne ero sicura. In fondo la mia vita era uno schifo, potevo anche permetterlo nonostante fosse  contro i miei principi...

Quando la pioggia finì, la nebbia si diradò e fu come un sollievo per la mia esile anima che ancora così giovane aveva vissuto tali violenze.

Non volevo tornare a casa, nonostante fosse tardi e fossi fradicia, sapevo che in quelle condizioni mamma mi avrebbe picchiato, ma non importava perché tanto lo avrebbe fatto comunque visto che papà era appena andato in guerra e lei era in ansia. Pertanto se la prendeva con me, sempre. Non aveva mai osato sfiorare mio fratello, forse anche lei era terrorizzata dalla sua aura. Ma nei meandri del mio pensiero ero sollevata di questo, se lei avesse picchiato mio fratello mi si sarebbe spezzato il cuore.

Io amavo mio fratello, lo stimavo con tutta la mia persona, provavo un affetto smisurato per lui e mi sarei fatta uccidere per salvarlo. Ma questo non bastò, lui rifiutava tutto, tantomeno me.

 

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Capitolo 4
*** Rugiada ***


4

 

Persa in quei futili pensieri, feci appena in tempo ad accorgermi che molteplici arcobaleni si erano accavallati uno sull’altro, mostrandomi un caloroso scherzo di colori tutto intorno, mentre lo osservavo sentivo invadersi dentro di me una calda gioia, come un vasetto di cioccolata bollente versato su una lastra di ghiaccio. Regalai a quell’attimo un sorriso e scesi con una speranza rinvigorita, anche se sapevo di dovermi preparare a un grave dolore una volta a casa.

Ripensavo a tutto ciò mentre mi accingevo a scalare quel monte, c’era un sole splendente nel cielo ed era poco probabile che piovesse, ma sapevo che da quell’altura la luce mi avrebbe illuminato e avrebbe sciolto quel ghiaccio che si era nuovamente formato dentro di me, avvolgendomi completamente nella sua fredda coperta.

Faticai non poco per arrivare, mentre scalavo ero solita osservare la moltitudine di fiori che nascevano su quelle rocce dall’apparenza antipatiche, mi piaceva osservare come la rugiada su di loro sembrasse lacrime, tempo prima avevo sentito una canzone provenire dalla radio del mercato vicino, il cantante diceva: “in questo mondo di guerra e distruzione anche i fiori piangono e noi ci ostiniamo a credere sia rugiada...”, si chiamava Jim Morrison se non ricordo male.

La realtà è che è la verità.

Tutto ciò che nel nostro limbo della mente a noi sembra una menzogna è perché il limbo della nostra volontà ci impone che esso sia così, noi sguazziamo in tutto ciò che ci pare universo ed è invece un pugno di nulla, noi ci convinciamo delle nostre leggi pensando che siano giuste, pensando che siano esatte. Noi pensiamo che tutto ciò che decidiamo sia verità, lo sia. L’essenza della vita sta nello scoprire le bugie dietro la nostra realtà, quando le avrai scovate, allora potrai morire in pace.

Per me mio fratello era una bugia dietro la mia realtà.

Lui rappresentava un neo nella mia visione del mondo, faceva si che tutto ciò che io credevo, si vanificasse nel niente, precipitasse nell’oblio.

Ogni volta che mi sentivo felice, lui uccideva la mia gioia e imprimeva dentro di me il dolore, ogni volta che mi sentivo triste lui mi donava il suo sguardo e uccideva il mio dolore, imprimendo la gioia. Lui rappresentava la funzione della mia vita, io ero sua, ero la virgola sotto il suo punto, l’anello che incastona il diamante, la cornice che decora il quadro, la lacrima che scorreva sul suo viso. Se lui fosse morto, sarei morta anch’io.

Avevo accettato questa situazione nel momento in cui nacqui, l’unione che mi legava a lui era inscindibile una volta creata.

Arrivai alla cima, trafelata dalla stanchezza e puntellata da quel fastidioso sudore che bagnava la mia fronte e le mie gote, come sospettavo il sole calava su di me un indicibile calore sovrumano che mi spossò all’inizio, poi mi ci abituai e lo trovai piacevole nel suo essere accogliente, nell’attraversare il mio cuore come un cammello attraversa la cruna di un ago.

Lo sentivo amalgamare la mia anima come un impasto e stavo bene.

Mi addormentai.

Sognai di pagliacci piangenti, guanti impregnati di sangue, rose nere a ridosso di un lago stagnante, insetti enormi che divoravano un cadavere e lenzuola bianche che volteggiavano in una stanza buia.

Quando tentai di svegliarmi vidi su di me due occhi gialli che mi fissavano, allora vomitai tutta la paura che quegli incubi avevano ridestato su di me, il gatto non sembrò scomporsi più di tanto, si spostò leggermente per permettermi di alzarmi, e aspettò che io finissi di esternare il mio terrore. Una volta che capii che si trattava del micio il mio urlo si trasformò in una risata isterica, poi si dissolse e rimasi con uno sguardo ebete a fissarlo debolmente. Fu mentre lo presi in braccio che mi accorsi di essere completamente fradicia e capii che aveva appena smesso di diluviare, pensai che riuscire a dormire sotto un incessante battere di gocce stava ad indicare che ero veramente distrutta, e mi compiacqui del fatto che ora mi sentissi totalmente rigenerata nonostante i mostruosi incubi in cui ero incappata durante il sonno.

Ero ancora disorientata per accorgermi che attorno a me si era ricreata quella magia di colori e di archi formata dagli arcobaleni in simbiosi tra loro, ero troppo stanca e spaventata per accorgermi che il mio cuore sanguinava troppo copiosamente per essere rinsavito da quello spettacolo, la mia mente non colse più la luce, perché in quel momento non c’era altro posto se non per la disperazione.

 

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Capitolo 5
*** Life ***


Ridiscesi il monte come meglio potei date le mie condizioni, infatti l’intero mio corpo tremava convulsamente, dandomi l’impressione di doversi sgretolare da un momento all’altro, i miei denti battevano come in una battaglia dove la lingua si trovava in mezzo vittima dell’assideramento. Portai con me il micio che stava accoccolato tra le mie scheletriche braccia tremanti.

Cercai di consolarmi pensando a calde coperte e un termosifone accogliente su cui appoggiarmi, fu peggio.

Allora mi vennero in mente le immagini che provocarono un cataclisma nella mia mente deviata, quel susseguirsi di scene raccapriccianti mi indicava un imminente disastro, la fine dell’inizio e l’inizio della fine.

La fine di mio fratello e l’inizio del mostro.

Ma non riuscivo a capire cosa avesse in mente, e mai lo avrei scoperto se non  fosse stato per quel gatto insignificante che aveva totalmente cambiato la mia vita, insignificante anch’essa.

 Chissà forse quando due vite insignificanti vengono ad unirsi viene fuori un bocciolo di vita che aspetta solo di sbocciare. Decisi in quel momento di chiamarlo “Life”.

A un certo punto, quando ormai ero vicina alla fine del monte, Life si dimenò sulle mie esili braccia imponendomi di lasciarlo andare, così feci e si diresse verso quel bosco dove mio fratello si inoltrava ogni giorno, ero indecisa se seguirlo o meno, d’altronde ero un ghiacciolo vivente e sarei morta assiderata se non mi fossi avvolta in una coperta il più presto possibile.

Ma ero altresì attratta da quel bosco e sapevo che Life mi avrebbe guidata da mio fratello. Pertanto lo seguii col cuore gonfio di lacrime e un groppo in gola di dimensioni gigantesche, cercai con tutta me stessa di poterlo reprimere, ma fu tutta fatica sprecata.

Riuscivo a stento a camminare come una persona civile, inciampavo ad ogni ostacolo a causa delle mie gambe oltremodo tremanti.

Non capivo perché tutta quest’agitazione al punto da voler piangere, non la capivo e mai l’avrei capita, sapevo solo che la sentivo e ne dovevo tenere atto perché era l’unico legame che avevo con mio fratello gemello.

Life intanto andava a passo veloce, come se mi intimasse di accellerare, io però continuavo a sentirmi intorpidita e non riuscivo ad andare più veloce di così, allora decisi di fermarmi, con grande stupore del gatto che si girò a guardarmi basito, io trassi un bel respiro profondo e dandomi un leggero colpo al petto riaprii gli occhi con il groppo in gola che si era leggermente dissolto, con mia grande gioia.

Era il far della sera quando sentii che lo stavamo raggiungendo, di lì a poco infatti si stagliava uno degli alberi più vecchi dell’intero bosco, un centenario che sembrava accogliere con calore tutti coloro che si appostavano sotto i suoi raggrinziti rami.

Fu lì, sotto quella quercia centenaria, che vidi mio fratello graffiarsi con le sue stesse dita in tutto il corpo, in un silenzio tombale che avvolgeva l’intera flora come a partecipare a quel doloroso rito funebre.

Mio fratello si stava interamente lacerando e nonostante ciò la sua espressione non era mutata, questo rendeva terribilmente orripilante la scena che si stava svolgendo davanti i miei occhi.

Life tremava, di paura suppongo, io non riuscivo nemmeno a compiere un movimento involontario se non quello che mi teneva in vita, ossia il battito del cuore, perfino le palpebre si erano asciugate nel frattempo che, completamente sotto shock, osservavo quella scena sanguinolenta che aveva come protagonista mio fratello.

Solo dopo molto tempo lui si girò verso di me e giuro sulla testa di mia madre che quell’ atto provò seriamente la mia sanità mentale.

Si girò e nel contemplarmi aveva allargato un insolente sorriso, che però di dolce o divertente non aveva nulla.

Mi infondeva solo squilibrio, un immenso squilibrio mentale di cui neanche lui probabilmente si rendeva conto, mio fratello era diventato pazzo e io stessa in quel momento sentii qualcosa spezzarsi, era la mia ragione che andava in frantumi.

La sua bocca era impregnata del suo sangue, capii che non si trattava di graffi bensì di macchie solo quando lui stesso affondò le sue labbra su un taglio e succhiò avidamente ciò che c’era da succhiare, fu così che le mie gambe decisero di muoversi, non più controllate dal lume di compostezza che avevo mantenuto fino a quel momento, furono quindi libere di camminare. Mi avvicinai a lui piena di paura, terrore, speranza e amore. Mi avvicinai a lui col solo proposito di salvarlo mentre le lacrime acide scivolavano dalle mie gote gelide.

Il tramonto ci bagnava della sua luce indefinita e sembrava ardessimo mentre invece eravamo invasi dal ghiaccio. Mi avvicinai tendendo la mia piccola ed esile mano verso la sua schiena, bofonchiando oscene frasi senza alcun senso, col groppo in gola che aveva fatto il suo trionfale ingresso e non se ne sarebbe più andato facilmente, con la disperazione che infondeva in me la forza di andare avanti e fermare lo scempio che mio fratello stava facendo del suo corpo.

Singhiozzai avidamente, e le lacrime furono talmente ossessive da non farmi più veder nulla, ma l’immaginazione bastava per imprimere dentro la mia memoria il sangue vermiglio che scorreva dalle sue ferite, e ciò mi faceva andare avanti, lo avrei toccato con la mia mente, realizzando il contatto solo quando questo fosse avvenuto, non prima, non dopo, durante.

Quando lo sfiorai sentii i suoi denti affondare dentro la mia carne e la sua mano avvolgersi attorno la mia nuca.

 

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Capitolo 6
*** .Pendulum. ***


Le sue labbra fredde erano impresse nella mia pelle e come una ventosa aspiravano tutto. Mi teneva ferma mentre stava prosciugandomi il sangue, le sue mani erano posate delicatamente dietro la testa, intimandomi di non muovermi, come al solito stava insinuandosi dentro di me, attraverso di me, oltre me senza il mio permesso.

Il rito durò parecchi minuti, il mio terrore e la mia paura erano svaniti completamente, il contatto di mio fratello mi aveva rinsavito e la felicità aveva sopraffatto l’orrore, nonostante quel contatto fosse ciò di più raccapricciante io avessi mai vissuto nella mia vita, mi appagava lo stesso.

Nonostante sapessi che era pazzo, matto, infermo mentalmente, sapevo che stava mischiando il mio sangue con il suo, in modo che anche se ci fossimo divisi un giorno il nostro sangue non avrebbe mai mentito.

Lui non aveva detto nulla di tutto ciò, ma io lo sapevo, non chiedetemi perché.

Svenni.

Probabilmente il mio cuore non è uno dei più forti, infatti le mie emozioni non ressero e tutto si annebbiò, non sentii tonfi perché mio fratello mi stava tenendo, e questo mi rese ancora più felice. L’unico rammarico fu il poco tempo che potei passare con lui in quello stretto contatto che non scorderò mai per il resto dei miei giorni.

Sognai di vele, navi, barche e oceani. Lune sopra i laghi e soli sopra i fiumi. Facce piangenti davanti uno specchio e mani sanguinanti che brancolavano nel buio fitto. Immagini incoerenti, furiose, immagini che trucidano il tuo pensiero, masticano la tua forza di volontà e spappolano il tuo cervello.

Ero matta, ma nelle condizioni in cui stavamo non importava molto...

Nel bel mezzo di quei sogni sconnessi, la mia mente percepì un urlo, un’agghiacciante quanto inumano urlo provenire dalla cucina. Nel momento in cui lo sentii seppi che non era un sogno e che era la realtà, tutto ciò che stava avvenendo era purissima realtà che nulla aveva a che fare con l’immaginario.

Sapevo chi era, sapevo chi aveva urlato, sapevo che dovevo catapultarmi immediatamente giù da quello stramaledetto letto se non fosse che le mie gambe erano pesanti come ferro e il sudore stava inondando il materasso marcio.

Tremavo come in preda alle convulsioni e in quella mera quanto pietosa situazioni, mi misi a ridere istericamente, una risata tanto folle quanto incoerente.

Piangevo e ridevo perché ero esattamente al corrente di ciò che stava succedendo di sotto e ancora prima di averlo visto, sapevo che quell’urlo apparteneva a mia madre.

Dopo quell’acuto strido di corde vocali ne seguì un silenzio mortale, fu con quella calma che riuscii a alzarmi malamente in piedi per scendere giù e constatare con i miei occhi che quello che pensavo fosse vero.

Mentre scendevo le scale continuava a regnare il più assoluto silenzio, tanto che iniziai di nuovo a tremare impercettibilmente, ma non ci badai e mi diressi lentamente in quella stanza. Davanti alla soglia sentii un conato di vomito salirmi su per lo stomaco e per poco non vomitai là, mi seppi trattenere ed entrai trascinando quelle dannate gambe che di muoversi non ne volevano più sapere.

Ciò che vidi mi paralizzò il cervello, mi lacerò il cuore, mi asciugò gli occhi, mi pietrificò la lingua.

E’ indescrivibile ciò che provai in quell’istante, probabilmente una volta che senti dentro di te il limpido terrore poi non lo ricordi più per il contraccolpo che la memoria subisce subito dopo, fatto sta che le mie pupille ondeggiarono furiosamente da una parte all’altra come a voler fuggire da quella cruenta scena che mi si parava davanti.

La pancia di mia madre completamente sventrata mentre mio fratello era lì accanto a lei a contemplare qualcosa di scuro dentro un vasetto.

Capii poi che era il feto.

E mi accorsi poi che lui stava piangendo e ridendo, proprio come feci io poco prima.

Mi accorsi in quel momento di averlo sempre saputo da quando la mamma ci aveva comunicato che intendeva uccidere il bambino. 

Mio fratello voleva tenerlo per se, mio fratello non aveva accettato, mio fratello aveva rifiutato, mio fratello aveva ucciso la mamma,  mio fratello si era follemente innamorato della pazzia e aveva gettato la sua vita nell’oblio delle più oscure tenebre, per sopravvivere all’atroce fame della sua anima, per sopravvivere al suo cuore che non era più suo, per non perdere se stesso.

Anche se, ne ero sicura, lui non era mai stato se stesso.

Lui era sempre stato l’ombra di una mente in pena, il prototipo di essere umano che non ha chiesto di nascere, a cui gli è stata impartita la lezione di vivere e a cui gli è stato negato morire.

Vomitai.

Vomitai la mia disperazione, il mio orrore, la mia paura, la mia angoscia, tutte su quel sudicio pavimento secco e inaridito.

Scappai.

Scappai da lui che rideva, piangeva e aveva ricominciato a graffiarsi lanciando zampilli di sangue ovunque, da lui che lui non era più.

 

“Pendulum”

 

...Fu tutto ciò che trovai scritto su un lurido foglietto di carta quando ebbi il coraggio di tornare a casa. Era mezzanotte e il campanile della città scoccò dodici volte.

Da quella notte non rividi mai più mio fratello.

 

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Capitolo 7
*** Mad ***


<< Ho sentito parlare bene di te, pertanto ho deciso di assegnarti un incarico molto importante che deve essere portato a termine con la massima discrezione e velocità. Sei raccomandato da Ophelius, il più grande mercenario di tutta l’America, che ne dici di lavorare per qualche tempo sotto le mie direttive? >>

L’uomo incrociò le dita poggiando i gomiti sul tavolo di acero pregiato, che stimava circa ottanta mila dollari, e aspettò paziente una risposta dall’interlocutore che stava ritto in piedi dall’altra parte del tavolo osservando con sguardo tranquillo l’intero locale tanto che sembrava non aver udito una parola; quando l’altro smise di parlare fermò il suo sguardo su un punto indefinito del tetto interamente gessato e dipinto con mille figure astratte, stette in quella posizione per un tempo lunghissimo mentre sembrava assorto in un grave pensiero.

<< Ad una condizione.>> disse mentre stava ancora osservando i pentagoni raffigurati sull’angolo alto. L’altro uomo strabuzzò gli occhi inorridito, strinse l’intreccio delle mani tanto che le nocche divennero bianco-giallastre e aprì la bocca per inveirgli contro, ma immediatamente si frenò pensando che se avesse perduto lui l’affare sarebbe saltato, Ophelius gli aveva assicurato che nessun altro a parte lui possedeva tale quantità di audacia e freddezza quanto quel ragazzo dai capelli biondo cenere e gli occhi color del ghiaccio.

Ma non gli aveva accennato a delle “condizioni”.

Deglutì il boccone amaro con fatica e cercando di reprimere la furia contro quell’atto di presunzione, sciolse le mani da quell’ormai doloroso intreccio e le sistemò comode nella grande protuberanza che rappresentava il suo addome. Sapeva che rischiava un attacco di cuore da un momento all’altro, grazie a quel dottore incompetente che aveva dubitato della sua perfetta sanità fisica e aveva osato dirgli che “ tutto quel grasso avrebbe potuto otturare la vena che trasporta il sangue al cuore.” e sarebbe, così, schiattato.

Ma cosa ne sapeva lui?

Cosa gliene importava?

Lo pagava per curarlo, non per fare sentenze su una stramaledettissima morte.

Cacciò quel pensiero dalla sua testa, ora doveva concentrarsi su quel ragazzo che fino a quel momento non l’aveva neanche guardato negli occhi, prima di morire doveva concludere quell’affare urgente e non avrebbe permesso a quel figlio di buona donna di mandare all’aria i suoi piani, faceva meglio a dare una condizione soddisfacente altrimenti gli avrebbe fatto passare il più brutto quarto d’ora della sua vita.

<< E, sentiamo, quale sarebbe questa condizione? >> chiese, quindi, in tono di sfida che però il ragazzo non sembrò cogliere, o almeno non sembrava gli importasse.

Fatto sta che a quella risposta si staccò dalle sue figure geometriche e lo guardò, dritto negli occhi, cosa che lo fece tremare.

Infuriare.

Godere.

Aveva davanti un assassino a cui mancava l’umanità.

Un assassino a cui avevano strappato la lucidità.

Un assassino a cui Iddio aveva donato uno sguardo trucidante.

Sconvolgente.

Paralizzante.

Era perfetto.

<< Io ucciderò per voi solo se la moglie della vittima è incinta di meno di tre mesi. >>

Tranquillamente pronunciò la sua condizione, con il tono pacato di chi non ha nulla da perdere o guadagnare. Con il tono di chi sa di non poter essere ucciso neanche di fronte a un’ambasciata di militari, animali o cannibali.

Con il tono di chi sa di essere immortale.

Stephen aveva conosciuto una miriade di serial killer.

Era a conoscenza della loro natura poco ortodossa, del loro squilibrio mentale. Ne conosceva di tutti i tipi; i sadici che uccidevano per piacere, i masochisti che facevano un sacrificio dopo ogni crimine, i matti che tagliavano il corpo della vittima in tanti pezzettini e poi se li portavano a casa, gli amanti del denaro a cui non importava un cazzo delle vittime bensì del compenso, i passionali che godevano col sangue, i disperati che uccidevano per “buone cause” quali potevano variare: dal salvare un parente da una malattia al semplice procurarsi una dose di droga.

Ne aveva visti di tutti i tipi.

Ma non aveva mai avuto di fronte un tipo come lui.

Un tipo che non era nessuno, che non aveva personalità, che non aveva obiettivi, che dava come condizione una cazzo di moglie incinta di tre mesi!

Giunse alla conclusione che era maledettamente pazzo.

Ma non un pazzo normale. Bensì un pazzo che non si vede, un invisibile matto che fa finta di essere normale, un umano privo di umanità la cui descrizione migliore si avvicina a quella di un mostro dalle vesti di uomo.

Stephen rimase talmente spiazzato da quella risposta che  non seppe spiccicare una maledetta parola per dieci minuti buoni, nei quali l’altro continuò a fissarlo pacatamente in attesa di una sua risposta.

Iniziò a sudare.

Si allentò la cravatta,nervosamente.

Quello sguardo lo stava facendo impazzire.

Riprese contegno e balbettando qualcosa di stupido lo invitò a lasciare il suo recapito telefonico in modo da potergli dare una risposta il più presto possibile. L’altro ubbidì e poi lasciò la stanza in perfetto silenzio, come quando la morte fa il su ingresso indifferente e poi se ne va lasciandoti a ricapitolare la tua vita di merda. Stephen prese il biglietto. Lo guardò. C’era scritto “Pendulum”. Orpheus gliel’aveva detto. Gli aveva detto tutto quel bastardo, tranne la cosa più importante. Che quell’uomo era pazzo da legare.

Nella stanza l’orologio scoccò le due del pomeriggio.

 

 

 

Ti avevo promesso che ti avrei dedicato una frase a fine capitolo, ed eccomi ad adempiere al mio dovere.

Volevo ringraziare dal profondo del cuore: Luka.

Per le sue puntuali recensioni ai miei lavori, sempre sincero e schietto. Mi sproni davvero a dare il mio meglio e a continuare questa strada tortuosa e piena di imprevisti.

Ti auguro tutto il bene del mondo.

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Capitolo 8
*** Sadistic ***


8

 

Lui non era nessuno.

Quando Jack uscì da quell’ufficio dove aveva tenuto l’ennesimo colloquio di lavoro, non sentiva nulla, come sempre. Era talmente apatico che non sudava neanche, nonostante i circa quaranta gradi che aleggiavano allegramente intorno a lui.

Non si era mai chiesto se fosse davvero un umano, gli importava poco, aveva trentasei anni e per quanto gli riguardava una sola cosa gli importava, ed era a casa sua.

Solo che in quel momento aveva un altro lavoretto da svolgere in santa pace, un lavoretto che amalgamava le sue non emozioni con il sadismo.

Gli piaceva il sadismo.

Era forse l’unico comportamento che riuscisse a stuzzicarlo.

Così si diresse verso il luogo che gli aveva indicato Orpheus carico come una batteria e decisamente esaltato.

 

***

                                                           

<< Buongiorno signori e signore, pochi minuti fa ci è giunta notizia della ripresa delle morti di donne in attesa, dopo un periodo di pausa durato circa due mesi. L’ultima vittima, la signora Gracy Menson, è stata trovata senza vita nel suo appartamento, completamente sventrata. Gli inquirenti hanno controllato se fosse ancora presente il feto e come previsto non ne hanno trovato traccia. Passiamo ora alla prossima notizia...>>

 

Jack era illuminato dal solo bagliore della tv accesa, nella penombra della sua stanza si scorse un flebile sorriso nascere dalle sue labbra.

 

Louise era appena tornata da un viaggio all’estero per pubblicizzare la sua ultima fatica, su cui aveva impiegato ben tre anni della sua vita. Si intitolava “Meandri di una mente non protetta”, l’aveva scritto gettando sulle parole tutte le sue emozioni e tutto ciò che sentiva di dover scrivere. Era sicuramente un libro che di normale aveva poco, parlava infatti di un soggetto non proprio sano di mente che rifiutava qualsiasi cura e a chiunque lo chiamasse “pazzo” lui rispondeva che i matti erano coloro che si accorgevano della sua stranezza, visto che riuscivano a scorgere della normalità in tutta quella pazzia che li circondava. Era matto, ma lucido come una palla di vetro. Era matto, ma ragionava velocemente tanto quanto un computer. Era un umano, ma non lo era.

Quell’uomo che tutti dicevano di non conoscere si chiamava Jack.

 

Quando la donna varcò la soglia di casa sua erano le nove del mattino e stanchissima per il viaggio si fiondò vestita sul letto piombando in un sonno profondo che durò per ben otto ore. Si svegliò, infatti, alle cinque, ancora intontita dalla grande mancanza di sonno che aveva accumulato in quei giorni di sregolate attività che l’avevano spossata profondamente.

Si alzò e si diresse verso il bagno a farsi una bella doccia rigenerante, mentre si toglieva di dosso i vestiti notò quanto era dimagrita in quel periodo, stimava almeno altri due chili, tra lo stress e l’ansia di finire quel romanzo a cui teneva più della sua stessa vita. Non ricordava più l’ultima volta che aveva frequentato un uomo, ultimamente l’ossessione di quel libro era stata tale da estraniarla completamente dal mondo esterno, tanto da farsi portare cibo e acqua direttamente a casa. Non concepiva distrazioni mentre lavorava su un racconto, significava per lei mancanza d’ispirazione e perdita di importante materiale situato nella sua testa. Non voleva uomini che le ronzassero intorno solo per spillarle denaro, non voleva amore perché in tutta la sua vita non ci aveva mai creduto. D’altronde, che senso aveva perder tempo su qualcuno che tanto poi non ti avrebbe più amata, o viceversa che non avresti più amato? Non ce l’aveva un fottuto senso.

Continuava a fare il lavoro che aveva sognato fin da piccola, che aveva agognato nell’adolescenza, che si era sudato nell’età adulta.

Era una scrittrice di successo, aveva dedicato dieci anni della sua vita a inventare trame d’ogni genere, poesie che avevano fatto commuovere la gente, racconti che avevano toccato in fondo al cuore del più duro. Ma anche disastri, critiche, consigli e insulti.

Li aveva accettati tutti allo stesso modo, cercando di migliorare giorno per giorno, cercando di ritrovare la sua metà perduta.

Ma non avrebbe mai pensato che mancava così poco...

Uscita dal getto d’acqua bollente, Louise indossò un accappatoio blu scuro e scese in cucina a prepararsi un bel tè freddo, mentre passava dal tavolo della cucina afferrò il telecomando e svogliatamente accese la tv sul telegiornale del pomeriggio dove un uomo tutto d’un pezzo stava elencando le notizie.

Fino a quando non arrivò a quella fatale notizia, l’uccisione della donna incinta e la sparizione del feto, che le fece scappar di mano il pentolino che andò a rovesciarsi sul piano cottura insieme a tutto il suo contenuto.

Louise si sentì svuotare la mente, come se fosse stata risucchiata da un aspirapolvere, improvvisamente non seppe più controllare il tremolio del suo corpo e le sue labbra iniziarono a balbettare.

<< Jack...Jack...Jack...Jack...>> lo ripeté dieci, forse cento volte, per convincersi che non poteva essere lui, ma sapeva benissimo che non poteva essere ALTRO che lui.

La cicatrice bruciava, Louise prese a massaggiarsi l’avambraccio con sguardo terso e livido, perso nel vuoto, il dolore era insopportabile ma sembrava non sentirlo, l’unica cosa che sentiva in quel momento era l’imminente voglia di rivederlo. L’imminente voglia di ritrovare la sua metà.

 

Jack sostava davanti alla finestra, immobile osservava il volo di un uccello che si librava nel cielo ormai non del tutto azzurro, delle nuvole minacciose all’orizzonte facevano presagire un bel temporale, tanto meglio, sarebbe uscito e se lo sarebbe goduto.

Una fitta gli partì dalla spalla sinistra, non fece una piega, rimase tranquillo mentre godeva il bruciore che la cicatrice gli donava. Bastava e avanzava per farlo sentire vivo, per renderlo felice, per surriscaldare la sua mente ghiacciata.

 

<< Louise...>>

<>

 

Dissero all’unisono.

 

<< Aspettami.>>

 

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Capitolo 9
*** Kill ***


Stephen stava nervosamente tamburellando le dita nel ripiano dove aveva deposto il telefono di casa anni orsono insieme alla sua defunta moglie. Poggiava la cornetta all’orecchio e ricomponeva quel numero che ormai sapeva a memoria.

Puntualmente rispondeva la maledetta voce che lo informava che al momento non si trovava a casa e che avrebbe richiamato una volta tornato.

Quel dannato di Orpheus lo stava prendendo in giro e gliel’avrebbe fatta pagare, cascasse il mondo.

Ripose la cornetta poco gentilmente e infuriato come non mai andò ad accendere la televisione in salotto, si diresse poi verso la cucina per prepararsi un panino contenente le peggiori schifezze e al diavolo il cuore. I metodi che utilizzava contro la rabbia erano strettamente personali e nessuno, tantomeno quel dottore da strapazzo, gli avrebbe impedito di scaricare i nervi sul cibo. Sedutosi, quindi, in poltrona, poté godersi uno dei tanti programmi spazzatura che davano a quell’ora, dopotutto cosa nella sua vita non rappresentava spazzatura?

Il suo lavoro consisteva nell’assoldare pazzi omicidi e far uccidere persone che avrebbero potuto intralciarlo negli affari, anche quelli poco puliti.

Sua moglie era morta di crepacuore dopo aver scoperto l’unico suo tradimento, una scappatella con la segretaria. Amava sua moglie, ma non aveva saputo resistere a quella puttanella di passaggio. Dopo il decesso della consorte pensò bene di castrarsi, ma decise che non era una buona idea, dopotutto sperava che la moglie ovunque si trovasse, sapesse che lui l’aveva davvero amata durante i loro trenta lunghi anni di matrimonio. In caso contrario, se ne rammaricava.

Mangiava cibo spazzatura da quando era nato, essendo vissuto in una famiglia piuttosto benestante nulla gli era stato negato e questo poteva rivelarsi un bene o un male, a seconda dei casi.

Probabilmente dopo la sua morte sarebbe andato all’inferno, ma non se ne spaventava più di tanto, se lo meritava perciò era giusto.

Mentre faceva zapping, la sua mano si fermò per ascoltare le notizie del telegiornale. L’uomo in giacca e cravatta lo osservava mite mentre lentamente raccontava cosa stava succedendo in quel momento in America. Non stava prestando molta attenzione, quando il suo orecchio udì “è ripresa la lunga successione di uccisione di donne in gravidanza” e i suoi occhi si spalancarono pieni di terrore.

Improvvisamente non aveva più fame.

La sua bocca si spalancò in una “o” convulsa e tremante, ripensando al volto tranquillo di quell’uomo che oggi aveva varcato la soglia del suo ufficio. Quell’uomo che per un momento aveva identificato come l’incarnazione della morte.

Suonò il telefono.

“Degno da film dell’orrore” pensò Stephen e poi si maledisse per quel pensiero sciocco in una situazione talmente delicata come quella dove non riusciva neanche ad alzare la cornetta, terrificato. Scattò la segreteria telefonica e squittì la voce di Orpheus.

<< Steve ho visto che mi hai cercato, scusa ma ero a fare compere per mia figlia che domani fa undici anni, sai com’è i bambini a quest’età sono piuttosto esigenti...>>

Risuonò una risata benevola, Stephen chiuse gli occhi e strinse i pugni, se avessero parlato faccia a faccia gli avrebbe spaccato il naso. Non gliene importava un cazzo di sua figlia.

<< So che sei in casa, l’orario di lavoro è finito da un pezzo e mi chiedo perché non alzi quella cornetta, stai forse defecando Steve?>>

Un'altra risata riempì il soggiorno, Stephen ormai livido di rabbia si alzò ed afferrò la cornetta.

<< Maledizione non chiamarmi Steve, lo stai che mi da fastidio!!!>> urlò in malo modo.

<< Oh ecco, ci sei, perché mi hai cercato Steve?>> disse Orpheus con tono di sfida, Stephen lo ignorò.

<< Ti ho chiamato per via del ragazzo che mi hai mandato oggi, quello che si fa chiamare Pendulum...>>

Silenzio dall’altra parte.

<< Beh credo tu abbia omesso un bel particolare importante, io ho conosciuto migliaia di serial killer e tu lo sai, ma lui è completamente fuori come un balcone. Non hai idea di quale condizione mi ha posto per...>>

<< Una donna incinta.>> lo interruppe Orpheus dall’altro capo del filo.

Stephen rimase di pietra, allora lo sapeva quel bastardo!

<< Avresti gentilmente potuto comunicarmi che quell’uomo non sta bene mentalmente...>>

Orpheus sospirò.

<< Cos’ha di tanto strano la sua richiesta? Vuole semplicemente una donna incinta, mica la luna. Basterà mandare qualcuno da lei e ingravidarla artificialmente, il gioco è fatto e l’uomo è morto. Facile no?>>

<< Facile un corno!!>> urlò di rimando Stephen.

<< Cosa è che ti preoccupa? Se non hai uomini posso mandarne uno io...>>

Stephen strinse la cornetta.

<< Già è per me triste dover uccidere un uomo, non è esagerato mandarne a morire tre in una sola volta?>> disse con la voce strozzata.

Orpheus rise di gusto, per un minuto circa.

<< Sei davvero divertente Steve, ma per tua informazione non sei tu ad uccidere, bensì il nostro caro Pendulum e poi hai mandato a morire circa un migliaio di uomini da che sei entrato in affari, cosa vuoi che siano due in più? Cos’è, hai i rimorsi di coscienza adesso? E’ troppo tardi. Quel che è fatto è fatto, per uccidere quell’uomo ti serve Pendulum, senza di lui non puoi far nulla, e per avere Pendulum devi dargli una donna incinta. Fallo, pagalo e dimenticalo. Tu non hai idea delle sue condizioni quando l’ho trovato vent’anni fa. Stava per morire dissanguato, ma ciononostante continuava a fissarmi con quel suo sguardo carico di nessuna emozione, mi piacque, anzi lo adorai. Lo curai e lo assoldai a soli sedici anni, lo addestrai e adesso è l’uomo che vedi. Ma fin dal primo omicidio, mi ha chiesto di trovargli una donna incinta, come ricompensa. Fu da lì che iniziarono le morti di donne in gravidanza, ne avrà uccise migliaia, ma non ho idea di dove porti i feti.

Ora ti devo lasciare Stephen, non chiamarmi più, fa sapere direttamente a Pendulum la tua risposta.>>

Clack.

Chiuso il discorso.

Stephen ricacciò indietro i sensi di colpa e compose un altro numero.

L’orologio di casa scoccò le sette della sera.

 

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Capitolo 10
*** Segnali ***


“Ci risiamo.”

Louise pensava questo quando il moto d’emozione sfumò, quando si rese conto che ancora una volta suo fratello le aveva lanciato un avviso lampeggiante, senza alcuna indicazione. Una stupida lampadina accecante macchiata di rosso, macchiata di tutti quei delitti che Jack aveva compiuto.

Louise aprì il frigo e prese un po’ d’acqua, il solo pensiero di quella notte la faceva star male, quella notte dove era scappata da lui e adesso se ne pentiva amaramente.

Perché Louise era Jack, ma Jack non era Louise.

Un equazione non equa, un uguaglianza non uguale, una somiglianza diversa, cosa era lei per suo fratello? Una luce in cima al monte? O il baratro più profondo?

Probabilmente entrambi, l’unica cosa certa era che per lei suo fratello rappresentava tutto. Forse anche qualcosa di più del dovuto.

Rassegnata a dover fare come al solito da sola, decise di aspettare l’indomani per fare qualsiasi cosa, sarebbe stato completamente inutile girare a vuoto e avrebbe sprecato energie superflue. Si, una sana dormita e poi inizia la ricerca. Non sapeva, però, che quella decisione diede inizio all’incubo.

 

Quella maledetta luna incastonata nel cielo sembra l’occhio divino.

Jack pensava che la luce lunare si addicesse più di ogni altra alla sua indole, mite, atona e tranquilla. In effetti era così, era come immergersi in un bagno di nulla ed uscire brillanti, mentre goccioli di avidità e terrore, terrore di un giudizio che non arriverà mai.

Jack guardava quella luna con desiderio, ma non un desiderio ardente, un desiderio dettato solo dall’astralità di quel cerchio tanto perfetto quanto misterioso.

Era affascinante.

Suadente.

Sapeva che non esisteva luna senza stelle, né stelle senza luna. Questo lo eccitava, imprimeva in lui un senso di calore e sentimento.

Perché Jack sapeva...

...che Louise era lui, ma lui non era Louise. Lui non era Louise, lui le apparteneva, faceva parte di lei, ma non era lei. Fin da piccolo la sua indole lo aveva sempre staccato da quello che si pensava fosse un legame tra gemelli, Jack odiava i legami e li odiava tuttora. Jack ama il niente, Jack ama il non vivere, Jack ama l’odio e la morte. Ma Jack amava sua sorella, per dieci anni le era stato lontano, ma le aveva marchiato l’avambraccio con un morso per far si che lei non si scordasse mai di lui. Visto che lei era Jack.

 

Quando Louise si svegliò era appena l’alba, non aveva dormito granché. Barche marce, pesci morti, fiori appassiti e laghi di sangue l’avevano assillata per tutto il tempo. Non aveva incubi da molto e ciò non era affatto rassicurante. Si alzò e andò a fare una doccia fredda, non ebbe il tempo di fare colazione che squillò il telefono.

<< Pronto?>>

<< Al campanile, stasera, ti aspetto.>>

Clack.

Chiuso.Fine.

Louise si sentì mancare il respiro, era la sua voce, l’avrebbe riconosciuta fra mille. Stava per svenire quando si diede due schiaffi e con un bel respiro andò a vestirsi.

 

Per tutto il giorno sedette davanti l’orologio. Le due, le tre, le quattro, le cinque.

Tic tac tic tac...

Squillò di nuovo il telefono e Louise si precipitò a rispondere rischiando di slogarsi seriamente un piede.

<> disse quasi con voce isterica.

<< Louiseeeeeeeeeeeeeeeeee!!>> squittì la voce di Anne. Louise chiuse gli occhi spazientita.

<< Anne, ciao...>>

<< Cara è da tanto che non ci vediamo, cosa è questa voce? Stai male?>>

<< No, cioè, si ho un po’ di mal di testa...>>

<< Allora passo, devi distrarti sei stata completamente immersa nel romanzo che non hai neanche avuto un po’ di tempo da dedicarti ...>> continuò per due minuti buoni.

“Dannazione.” urlò Louise nella sua mente. Che scocciatrice, le persone come Anne la facevano vomitare. Da quando l’aveva conosciuta non aveva fatto altro che chiedergli soldi. Che andasse a quel paese.

<< ...a che ora possiamo vederci?>> finì lei.

<< No, senti, ho bisogno di dormire. Sembro un panda, ultimamente soffro un po’ di insonnia, sarà per un'altra volta...>>

<< Oh, ma sicura di star bene?>>

Doveva essere dura di comprendonio, Louise sospirò.

<< Si, tranquilla.>>

<< Ok Lou, ci sentiamo ciao!>>

<< Ciao, Anne...>>

Chiuse la cornetta e immaginò di avere Anne lì davanti. Colpì il muro e iniziò a sanguinarle la mano, scoppiò a piangere.

Si addormentò singhiozzando, erano le otto e mezzo quando aprì gli occhi e la sua reazione fu di sgomento più totale. Era tardissimo. Uscì di casa in fretta e furia dandosi prima un occhiata allo specchio, non aveva neanche una ruga nonostante l’età e i ritmi di vita intensi. Andava bene così, dopotutto.

Jack non le aveva detto orario, ma sentiva che era comunque tardi, probabilmente era solo l’ansia di rivederlo, fatto sta che stava correndo a perdifiato sotto la luce della luna.

Il campanile distava poco e infatti lo raggiunse dopo pochi minuti di corsa estenuante, c’era uno spiazzale circolare e girandosi intorno freneticamente arrivò a scorgere un bigliettino affissato ad una porta molto antica e possente.

<< Pendulum..>> c’era scritto. Il cuore di Louise prese a battere forte.

Cercò di spingere più che poté il portone, ma solo dopo vari tentativi riuscì a spostarlo di qualche centimetro, tanto bastava per aprirla scorrevolmente.

Una volta entrata vide tutto buio, una distesa di tenebre che sembrava abbracciarla gelidamente, ghignando parole senza significato, tremò.

Vide una flebile luce provenire da un punto imprecisato in quel buio pesto, la seguì ciecamente mentre la luce andava ingrandendosi mano a mano.

Quando entrò, ciò che vide mise a dura prova il suo lume della ragione.

 

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Capitolo 11
*** Barattoli ***


Barattoli.

Una miriade di barattoli.

Barattoli pieni di piccoli fagioli, feti li chiamano.

Non so descrivere bene cosa provai vedendoli, si dice che dopo un forte shock si perdano completamente i ricordi dell’accaduto, nel bene o nel male.

Mi ritrovai completamente circondata da piccole creature uccise prima di nascere, innocenti grumoli di cellule che stavano per compiere ciò che chiamano “il miracolo della vita”, ma che ancora adesso è soltanto l’ingresso di uno spermatozoo dentro un ovulo, nulla di eclatante. Nulla di sorprendente o divino.

Non c’era odore in quella stanza, proprio come chi l’abitava, l’assenza di presenza regnava sovrana ovunque lui mettesse piede, perfino quella debole lampada che emanava luce sembrava morta.

Sapevo che lui era seduto in quel trono di pietra, stava aspettando un mio qualunque gesto, una mia qualsiasi parola che confermasse la mia attitudine a ciò che avevo dinnanzi. Ma non ci riuscii, non riuscii a muovermi, dopotutto era un comportamento frequente quando di mezzo c’era lui...

Le lacrime fuoriuscirono da sole, fu così che le mie gambe cedettero e mi presi il volto tra le mani.

<< Cosa... sei diventato?>>  cercai di farfugliare.

Silenzio.

Come sempre, mi invitava, mi tendeva la mano, si insinuava nella mia mente e poi mi abbandonava.

La solita stupida, piccola, illusione.

<< Tu credi che io sia mai stato qualcuno, Lou?>>

Tono inesistente, voce dissonante e nessuna inclinazione che potesse far capire che espressione avesse. Ma aveva parlato, mi aveva rivolto la parola dopo dieci anni, per darmi una risposta così vacua, così evanescente. Tipico. Era inutile parlare.

<< Ciò che vedi, è frutto della mia mente malata. Ciò che osservi sono le mille vite che mi sono preso come ricompensa. Dio ha fatto si che uccidessi mio fratello, allora IO faccio si che ne uccida mille altri. Dove sta la differenza? Se mia madre non voleva quel figlio perché le altre donne dovrebbero averlo? Dove sta la giustizia? In questo mondo c’è mai stata un po’ di coerenza?>>

Rimasi in silenzio. D’altronde l’unico che qui non aveva coerenza era lui.

<< Forse, tutti questi bambini che tu hai ucciso potevano costituire una ricompensa per nostro fratello. Forse lui desiderava che loro nascessero, perché lui non ha potuto...>>

<< No. Lui prova vendetta. Me lo ha detto. Parlo spesso con lui sai? Mi ha detto di uccidere tutti i bambini che potevo, come espiazione del mio peccato e di quello di nostra madre. “Uccidi” mi ha detto, “se non vuoi che io uccida te”. Me lo ha detto quella sera, continua a ripetermelo ogni notte. Uccido per paura, per terrore, per piacere, per goduria, per fottuto egoismo.>>

Era malato.

Mio fratello era malato, completamente pazzo.

Mi alzai, cercai di non guardare tutte quelle piccole anime che da me volevano vendetta, tanto era inutile, non sarei mai riuscita a sfiorare mio fratello anche se avessi voluto...

<>

<< Ti brucia ancora?>>

Guardai istintivamente la cicatrice.

<< Si, a volte.>>

<< Ciò significa che non ti sei mai scordata di me...>>

<>

Sopraffatta. Di nuovo. Da lui.

<< Ho letto il libro.>>

Sussultai violentemente, aveva letto il libro? Si era riconosciuto in lui?

<< ...Ah si?>>

<< Si, non continuare a rimanere lì dietro, per favore.>>

Mi sarei avvicinata più velocemente se solo queste cazzo di gambe fossero meno pesanti, pensai stizzita. Arrivai accanto a lui davanti alla candela, sotto di essa stava il feto di nostro fratello, lì immobile mentre sembrava osservarci dall’alto della sua saggezza mai sviluppata.

<< Si chiamava Jack, non è così?>>

<< Si, si chiamava Jack...>>

<< Ho capito subito che stavi parlando di me, a quanto pare pensi che sono pazzo, come tutti del resto...>>

Lo guardai, per la prima volta ebbi il coraggio di guardarlo dopo dieci anni, era un uomo. Capelli biondo cenere e quegli occhi che di vivo non avevano nulla. Anche lui come me non dimostrava ventisei anni, neanche una ruga.

<< No, penso che tu rappresenti la normalità nella pazzia.>>

Improvvisamente sentii un gelo avvolgere la parte destra del mio corpo, ne ero sicura, aveva posato lo sguardo su di me. Non osai girarmi.

<< Oh si, quelle fottute frasi da scrittore, frasi fatte senza nessun significato che tentano di far colpo sul primo pirla che le legge. E’ così non è vero? Ci vivete di frasi vuote, frasi che giudicano una persona senza sapere realmente nulla di questa...>>

Mi si mozzò il respiro, in quel momento mi sembrò di diventare improvvisamente una formica di fronte a un elefante. Inghiottii e sudai lievemente.

<< Ti faccio così paura?>>

Mi voltai istintivamente e ciò che mi trovai davanti furono i suoi occhi. Mi osservava. Io ero terrorizzata, eccitata, felice, disperata.

<< N-no..>>

<< Rilassati. >>

E questo bastò.

Una parola fece sciogliere tutta l’ansia che si era creata in me, tutto il fervore dei miei sensi, tutto l’orrore che quei feti mi vomitavano addosso.

D’altronde io ero Jack. Ma lui non era me.

 

 

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Capitolo 12
*** Hally ***


<< Pronto?>>

<< Papà! Finalmente ti ho rintracciato!>>

Stephen spalancò gli occhi incredulo, non sentiva sua figlia da mesi ormai, troppo impegnata a finire l’università.

<< Hally che sorpresa, mi avevi cercato?>>

<< Si, in casa e in ufficio, ma avevi sempre quel maledetto telefono occupato...>> disse lei stizzita.

<< Si, hai ragione, ho avuto qualche problema con la linea telefonica ultimamente, mi spiace di averti fatto preoccupare...>>

<< Su, non fa niente, piuttosto devo darti una notizia!>>

Stephen notò dal tono eccitato che doveva trattarsi di una bella notizia, aspettò che la figlia continuasse. D’altronde c’erano voluti anni per superare l’odio che provava per lui. Dopo la morte della madre, infatti, lei non gli rivolse più a parola per due lunghi anni.

<< Prova ad indovinare!>>

<< Ti manca l’ultimo esame?>>

<< Ma no! L’università non c’entra, va bene te lo dico io.>>

<< Forse è meglio...>>

<< Pronto?>>

<< Si, dimmi cara.>>

<< Papà, aspetto un bambino!>>

Un botto.

Il telefono ruzzolò per terra con un gran baccano.

Le mani di Stephen presero a tremare convulsamente, le sue pupille diventarono improvvisamente più chiare e la lingua si seccò come quella di un morto.

<< Papà! Papà ci sei ancora?>> intanto l’apparecchio lanciava voci allarmate.

Stephen non riuscì a prendere il telefono, sentiva tutto il suo corpo irrigidito e poteva scommetterci che stava per venirgli un infarto.

Sua figlia aspettava un bambino.

Sua figlia era incinta.

Sua figlia era una possibile vittima di Pendulum.

Svenne.

 

<< Papà, come hai potuto? Come hai potuto uccidere me e la mamma, come hai fatto ad ammazzare pure tuo nipote? Sei un mostro, un essere repellente, mi fai schifo! Assassino!>>

Assassino

...ssino

...ino

...no.

 

Aprì gli occhi di soppiatto. Nessun urlo, però. Il cuore batteva all’impazzata e non accennava a voler smettere, Stephen cercò di ignorarlo e prese il telefono, con mano eccezionalmente ferma. Compose il numero lentamente e si accinse a parlare con l’interlocutore. Il suo sguardo era totalmente assente, sembrava un robot.

<>

<< Simon, sono Stephen.>>

<< Signor Stephen, mi dica.>>

<< Ho bisogno di un favore, potresti venire immediatamente?>>

<< Nessun problema, signore, arrivo subito.>>

<< Bene, a dopo.>>

Ripose la cornetta e si appoggiò allo schienale, non aveva mutato il suo sguardo vuoto.

Aspettava. Guardò l’orologio e il campanile risuonò le tre del pomeriggio. Una lacrima gli scivolò dal viso. Non l’asciugò.

Passarono quindici minuti da che aveva chiamato lo scagnozzo, quando sentì bussare alla porta. Bofonchiò un lievissimo “avanti” e la porta si aprì leggermente. Simon si ergeva nel suo metro e novanta d’altezza, allo stipite della porta mentre osservava il suo capo nel più totale panico.

<< C-capo, tutto ok?>> balbettò.

<< Si, siediti, devo parlarti di un affare urgente, non voglio nessun indugio.>>

Non lo guardò in faccia mentre pronunciava queste parole, Stephen guardava il vuoto, sembrava parlare per mano di qualcun altro.

<< Si, capo.>>

<< E’ una questione che non puoi assolutamente rifiutare, questa.>>

<< Certo.>>

<< Devi... ingravidare una donna.>>

Simon per poco non cascò dalla sedia, non credeva alle sue orecchie.  Conosceva il capo da poco più di quattro anni, ma mai gli aveva assegnato una missione tanto “strana”.

<< Ma cos...>>

<< Non hai il diritto di esprimere qualsiasi genere di commento, ti devi attenere alle direttive, la ingraviderai con l’inseminazione artificiale, una notte dove il marito non è presente, chiaro?>>

Simon non era ancora riuscito a realizzare quello che il capo gli stava ordinando di fare, dopo sei anni che faceva quel lavoro, tutto ciò lo lasciava sgomento.

<< Ma a che scopo...?>>

Stephen lo guardò in modo truce.

<< Vai ed esegui, la donna si chiama Evelyne Moore. La voglio inseminata entro stasera, intesi?>>

<>

<< Bene, ora sparisci dalla mia vista. Chiamami dopo il fatto. >>

Simon uscì. Stephen si prese il volto tra le mani e cominciò a singhiozzare

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Capitolo 13
*** Non.Posso.Smettere. ***


I respiri di Louise divennero regolari.

Rimasero lì fermi a guardare il vuoto per una ventina di minuti, d’altronde non servivano parole per esprimere le emozioni. Sarebbe stato unilaterale.

<< Lou..>>

Lui ruppe improvvisamente il silenzio. Lei sussultò.

<< Dimmi...>>

<< Secondo te, in me, un briciolo di umanità è rimasto?>>

Louise non rispose subito. Non si fidava di se stessa e temeva di dire le parole sbagliate, lui però le aveva intimato di star calma e così intendeva rimanere. Calma.

<< Sinceramente, non penso tu ne abbia mai avuta.>>

Schietta. Sincera.

<< Hai ragione.>>

In quell’istante squillò il telefono, un suono anch’esso atono, senza alcuna gioia.

<< Pronto?>>

<< Sono Stephen. Sei solo?>>

<< No.>>

<< Non importa, ho la moglie incinta, ora sbrigati a fare il tuo lavoro e poi sparisci dalla mia vita, intesi?>>

La sua voce era dapprima tremante, spaventata e orripilata. Poi un odio crescente se ne impossessò e urlò le ultime parole con rabbia.

<< Certo. Provvederò stasera, si assicuri che la condizione sia stata esaudita altrimenti dovrò prendere dei provvedimenti. Arrivederci.>>

Clack.

Stephen sospirò, quell’incubo stava finalmente per finire e nulla gli avrebbe procurato più gioia.

<< Scusa, Lou, ho un affare urgente da risolvere. Devo scappare.>>

Con queste parole si alzò e silenziosamente stava per andarsene.

<< Jack...>>

Lui si fermò.

<< Non farlo. Non uccidere. Più.>>

Stava singhiozzando, ma non ebbe il coraggio di voltarsi. Jack non rispose e con passo leggero uscì.

 

Non poteva fermarsi.

Semplicemente, non poteva.

Per lui quell’atto era diventato come una penitenza. Il suo vivere dipendeva da ciò. Se non lo avesse fatto suo fratello lo avrebbe ucciso. Si, doveva essere così.

Prese dalla tasca dei pantaloni  la foto di quell’insignificante uomo che doveva essere ucciso. Così era stato deciso per lui.

E lui era l’angelo che gli avrebbe portato la morte, a lui e a tutta la sua famiglia.

Un angelo che vive cibandosi di vite umane.

Un angelo che vive morendo dentro.

Un angelo che ha paura di vivere più di quanta ne abbia di morire.

Ma lui non voleva morire, quel triste angelo non voleva morire. Voleva portare a termine la sua missione e se questa era quella di uccidere, allora lo avrebbe fatto.

Seminava terrore, paura, odio, rancore. Ma tutti questi sentimenti li covava lui stesso dentro il suo cuore, ammesso che ne possedesse uno, per questo gli veniva così facile vivere togliendo la vita agli altri.

Si chiamava Paul Semantary, un ricco uomo d’affari che fondò la sua fortuna sull’inganno e sul ricatto. Si sa, tutti hanno una ragione di vita a questo mondo.

Quella di Paul era imbrogliare, la sua era uccidere.

Paul era in ufficio. Jack si addentrò nelle tenebre dell’edificio deserto, data l’ora, e si diresse verso quello che era appunto il suo ufficio.

Provenivano dei gemiti soffusi. Jack chiuse gli occhi, stava assistendo ad un adulterio, ma nulla di tutto ciò era rilevante ai fini della missione. Avrebbe ucciso anche la ragazza. Una o due non facevano differenza.

Lentamente si avvicinò alla porta, la sua sagoma era invisibile, la sua aura nulla, la sua presenza un’assenza. Aveva il dono di annullarsi sempre e comunque. Abbassò la maniglia e aprì la porta. Davanti a lui si parò uno spettacolo al chiaro di luna, la ragazza sopra di lui continuava a sussultare violentemente, preda di un orgasmo. Jack non ci badò, non vi fu mutamento nella sua espressione. Nel buio di quella stanza solo i suoi occhi risaltavano.

L’uomo si voltò, ma fu troppo tardi. Un colpo uscì dalla pistola, con il silenziatore integrato, silenziosa come lui. Mietitrice di vittime.

Una lieve scia di fumo fuoriuscì dalla canna. Questo decretò la fine di due amanti, una trapassata al cuore, uno trapassato al centro della testa. Dalla stessa, medesima, pallottola.

Il campanile rintoccò nove volte.

 

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Capitolo 14
*** Humanity ***


Silenzioso come la morte, Jack uscì dall’edificio. Aveva compiuto il suo lavoro, ora non restava che aspettare un mese circa e andare a trovare la moglie del disgraziato, ma prima doveva fare una visitina a Stephen, dopotutto il compenso era previsto, nonostante la condizione posta.

La casa non era lontana, Jack camminava lentamente guardando tutto e nulla, pensando a qualcosa di indefinito che variava da suo fratello a Louise. Pensava spesso a Louise, ma non era certo una novità. Gli aveva intimato di fermarsi, ma lei non poteva capire l’assurdo stato di demenza mentale che si celava dentro di lui. A soli sedici anni aveva capito di non star bene mentalmente, ma invece di curarsi, sfruttò il più possibile la sua malattia per giungere al suo scopo. Certe notti elemosinava un po’ di umanità, la bramava con tutto sé stesso e sapeva che non ne avrebbe mai trovata nel suo misero corpo.

Ma Louise ce l’aveva.

Sapeva per certo che Louise poteva donargliela in qualche modo.

Quella disperata ricerca era arrivata ad una conclusione.

Non sapeva se provava affetto per sua sorella. Probabilmente nel suo DNA non esistevano parole come quella, come d’altronde non sentiva di provare alcun legame per lei. Ma sperava che quel desiderio di umanità che trovava in lei potesse bastargli, potesse farle capire che lei per lui contava qualcosa.

Louise era lui, ma lui non era Louise.

Ma Louise era la sua umanità, e questo bastava.

Arrivò al portone del palazzo, suonò il campanello e aspettò risposta.

 

Stephen sapeva per certo che non sarebbe andato avanti a lungo di questo passo.

Il terrore lo stava insediando fino alle viscere più profonde del suo corpo, la speranza che Pendulum non si facesse più vivo era minima, il compenso gli spettava comunque e lui sarebbe venuto.

Si, ne era convinto.

E il suo cuore avrebbe retto?

“Fai meglio a fare il bravo, cuore maledetto, altrimenti ti faccio vedere...” pensò, ma subito dopo si diede dell’imbecille, visto che il suo cuore poteva fare quel che gli pareva, aveva interamente potere su di lui.

Se si fosse fermato lui sarebbe morto.

Punto.

Fine della storia.

Rise di sé e pensò che il suo cuore stesse facendo lo stesso. Sempre che un cuore possa ridere di gusto. S’intende. Ma d’altronde la sua mente ormai girovagava per conto suo quindi poteva anche permettersi simili fattezze.

Si stava rilassando.

Fino a che,

Il campanello non suonò.

Il campanello...

non suonò.

Stava perdendo i sensi, sentiva il suo cuore galoppare e la sua mente addormentarsi. Il suo corpo irrigidirsi e tutto stava diventando nero. Potevano essere un milione di persone diverse. Il postino, il pizzaiolo, un amico, un collega, un passante, un corriere, il tipo che porta la pubblicità, c’era anche la possibilità che avessero sbagliato a suonare il campanello. Chissà perché, nessuna di queste ipotesi gli sembrava veritiera.

Chiuse gli occhi nel tentativo di reprimere il terrore, se era lui, avrebbe aspettato, anche tutta la notte.

 

Che uomo sei? Sei un verme! Viscido e marcio! Meriti di morire, come hai fatto morire la mamma...

Non voglio avere un padre come te, sparisci dalla mia vita!

 

<>

Si ritrovò a prendere quel dannato citofono e a sprofondare nell’oblio. Tanto ormai mancava poco.

<< Pendulum.>>

Voce atona, gelida e nulla. Come al solito riusciva a farlo tremare da capo a piedi solo con una parola. Aprì.

Andò a sedersi nel suo ufficio, in quel momento ricordò di non avergli mai detto l’indirizzo di casa sua. “ E’ stato Orpheus, sicuramente. Sta calmo, adesso.”  Chinò la testa aspettando di veder superare la soglia a quel demonio, si stava preparando psicologicamente, quando alzò la testa e se lo ritrovò davanti.

Fu come se un migliaio di aghi gli avesse trapassato il cuore, lui stava lì e lo guardava sorridendo.

Lo stava guardando con un sorriso da pazzo.

Che di umano non aveva nulla.

Urlò con tutto quello che le sue forze gli permettevano. Poi svenne.

 

Potevano essere passate ore, o minuti. Per quanto gli riguardava non aveva sognato. Era come essere stati immersi nell’olio del motore. Completamente nero. Tutto.

Quando aprì gli occhi si ritrovò Pendulus, rimirava il cubo di Rubik in mano e lo girava come se fosse un gioiello di valore. L’aveva risolto.

<< Quanto tempo è passato?>>

Pendulus lo guardò tranquillamente, poi diede un rapido sguardo all’orologio.

<< Trenta minuti, o giù di lì.>>

Impossibile. Impossibile. Era riuscito a risolvere quel maledetto cubo in trenta dannati minuti? Lo stava prendendo in giro. Ma ancora una volta si diede dello stupido, non era per nulla importante quella questione, in quel momento.

<< Suppongo tu sia qui per il suo compenso.>>

<< Proprio così. La somma pattuita.>>

Stephen compilò un assegno.

<< Ecco, tieni. Adesso non farti più vedere, per l’amor del cielo...>>

<< Come desidera, signor Stephen.>>

Si alzò e si voltò, pronto per andar via.

<< Ah, dimenticavo, congratulazioni per sua figlia.>>

 

Il campanile scoccò dodici volte quella notte.

Stephen si dondolava nel suo studio, lamentandosi e piangendo.

Louise guardava la luna piena, sperando.

Jack guardava suo fratello, ma lui quella sera non voleva comunicare.

 

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Capitolo 15
*** Evelyne Moore ***


Era notte.

Non fonda, come di solito si dice in questi casi.

Non era fonda per un semplice motivo, Evelyne non aveva idea di quanto fosse passato da quando la notte era sopraggiunta al giorno. Non gliene importava un accidente, da quando il disastro era avvenuto, tutto aveva perduto importanza ai suoi occhi.

Solo una cosa rivestiva la ragione per cui continuava a vivere, voleva sapere. Voleva porre una semplice domanda all’uomo artefice dei suoi malcontenti.

Sedeva sul bordo del letto, imbiancata dalla luce lunare sembrava un fantasma. Ma d’altronde cosa aveva di meno? Solo la consistenza del corpo, e quella maledetta creatura in più dentro di lei, che non c’entrava niente.

Già, qualcuno  aveva pensato bene di ingravidarla e poi uccidere suo marito. La sua vita andava già a rotoli da un bel po’ di tempo. Era a conoscenza dei tradimenti di suo marito con la segretaria, ciononostante non aveva mai pensato al divorzio, pur non permettendo lui di toccarla durante la notte. Non faceva l’amore da chissà quanto tempo, ma non le importava, non aveva bisogno di quel lurido atto dove si suda come bestie, si gode come animali e ci si abbassa al livello di demoni coperti dal buon senso.

Il sesso l’aveva sempre ripugnata. Suo padre abusava di lei, in un modo osceno e disumano e come succede sempre in questi casi, sua madre non ne fece mai parola con nessuno, lasciando che sua figlia rimanesse vittima di uno squilibrato.

Facendo sì che sua figlia entrasse nel varco dell’oblio della pazzia, calando il sipario alla ragione.

Ma anche suo marito non aveva voluto altro da lei. Ogni maledetta volta che succedeva lei puntualmente vomitava.

Ma cosa cazzo gliene importava a lui?

Nulla.

Ovviamente.

Perciò un giorno decise di troncarla lì e lui non ci mise molto a consolarsi. Ma andava bene, lei non provava un sentimento d’affetto per suo marito da molto tempo. Non avevano figli proprio per questo, ma sembrava che a nessuno dei due desse fastidio.

Molte volte lui l’aveva accusata, senza l’ombra di una prova, di essere infedele.

Solo perché era una bellissima donna.

Evelyne aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e una carnagione chiara come il chiaro di luna che in quel momento si stava confondendo con la sua pelle.

Lo sentiva.

Lui stava arrivando.

Per prendersi ciò che gli appartiene.

I suoi occhi brillarono di una luce che si proponeva di rivestire mille significati, ma che in realtà ne aveva solo uno. Una luce di pura follia. Non celata, non manifestata.

Proprio come quella di...

<< Sei arrivato... Pendulum.>> proruppe con un filo di voce la donna.

L’altro non rispose, era fermo nell’atrio e quella situazione lo sorprese, mai nessuna donna lo aveva aspettato, ma forse lei faceva un eccezione, d’altronde era fin troppo chiaro.

Quella donna aveva raggiunto il limite della follia.

<< Sai, non ti ho aspettato sveglia per tutte queste notti solo per dirti che mi hai rovinato la vita. D’altronde lo sai già. Quante cose sai su di me? Mh? Forse tutto, forse niente, forse la via di mezzo. Dopotutto la mia vita era già stata rovinata, tu le hai dato il colpo di grazia, devo ringraziarti? Ero curiosa di vedere il tuo volto, tuttavia. La verità è che ti ho aspettato perché mi stai salvando da una vita che non volevo vivere, non ti capita mai di voler spezzare ciò che Dio ti ha donato? Beh hai davanti la donna più codarda della terra, non ne avrei mai avuto il coraggio perché ho paura di me stessa. Chissà probabilmente al posto di uccidermi sarei diventata una serial killer, forse leggermente diversa da te, ma d’altronde gli omicida non hanno poi chissà quali differenze, no?>>

Si fermò, di colpo non sentì più la presenza dell’uomo dietro di lei, era quella la spaventosa forza di Pendulum?

La donna si morsicò il labbro e un rivolo di sangue scorse dalle sue labbra al piccolo mento bianco. Era ancora lì, solo che non le permetteva più di sentirlo.

<< Tu. Stai per porre fine a questa mera esistenza. Quindi ti prego, fallo in fretta. Non urlerò anche se mi farò male, lo sopporterò come ho sopportato anni d’inferno psicologico. Solo un’ultima cosa, qual è il tuo vero nome?>>

Un attimo di silenzio.

<< Jack.>>

Evelyne abbassò lievemente il capo, un sorriso amaro le solcò le labbra già contratte.

<< Non so per quale motivo tu lo stia facendo, mi ero ripromessa di chiedertelo, ma penso tu non mi risponderai mai. Ne hai tutte le ragioni. Ognuno ha i suoi segreti da mantenere, io ti ho sbandierato i miei solo perché sto per morire.>>

Un’altra breve pausa, poi...

<< Fa un buon lavoro, Jack.>>

E nel chiarore di quella luna triste ed assente, lei si girò, con un sorriso dettato dalla disperazione e le lacrime invisibili che aleggiavano sul suo volto esangue.

Proprio quando la sua anima cessò finalmente di combattere contro il nulla.

Cessò di esistere, lasciando il posto vacante.

Jack estrasse il coltello e con passi fievoli si avvicinò alla vittima.

Aveva interamente ascoltato la triste storia di quella donna, leggera e malinconica come un angelo solitario.

Estrasse il coltello e le si parò davanti, ostacolando i raggi di luna, poggiando oscurità su quegli occhi ormai privi di vita che osservavano il niente.

Jack si abbassò, le cinse il capo come in un abbraccio e l’accoltellò.

La donna morì all’istante e l’accasciò nel letto, poi fendette l’addome con un taglio netto e aprendosi come una cerniera infilò la mano dentro, trovando subito ciò che cercava.

Infilò il fagiolo nel vasetto con l’alcool, lo ripose nella tasca del giaccone e, ripensando alle sue parole, tagliò la parte sinistra della gabbia toracica, estraendone il cuore.

Si lavò le mani, mise l’organo dentro un contenitore trovato in casa e uscì nel gelo della notte.

Che non era fonda, per quanto gli riguardava.

Il vento lo investiva, offendendo la sua persona, stridendo contro il suo essere, sfidando la sua assenza.

Arrivò a casa a passo svelto, ripose il barattolo alla sinistra di suo fratello e poi prese il cuore dal contenitore. Sembrava battesse ancora, ma era solo un illusione del tatto. Lo accostò allora alle fiamme del camino e questo cominciò a bruciare.

Fino a diventare cenere.

Jack aveva carbonizzato il cuore di quella donna perché lei voleva che la sua esistenza fosse cancellata.

In quel momento, in piedi davanti al camino, si chiese se avesse fatto un buon lavoro.

Rimase così tutta la notte.

 

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Capitolo 16
*** Daughter ***


Poche volte nella vita aveva pensato che non c’era davvero più nulla che andasse per il verso giusto.

L’ultima volta era stato per la morte di sua moglie.

Stephen sedeva sulla sua poltrona di pelle, da due giorni non osava alzarsi, puzzava come un maiale d’estate e non aveva toccato né cibo né acqua. Non aveva la forza di muovere un muscolo e i suoi occhi non ne volevano sapere di muoversi, terrorizzati dal fatto che in ogni momento sua figlia poteva venir sventrata da uno squilibrato mentale.

Fu un attimo.

Nella sua mente si accese una scritta rossa. “Se stai ancora lì seduto a poltrire, tua figlia morirà ancora prima del previsto. Muovi quel culo, pelandrone.”

Le sue pupille si dilatarono e il respiro rimase a metà. Era dannatamente vero, stava solo perdendo tempo.

Da quel fatidico giorno era già passato un mese, la donna che aveva fatto ingravidare era stata uccisa, come da copione. Stavolta le aveva anche strappato il cuore, quel bastardo senza espressioni. Di nuovo un moto di disperazione lo stese.

Appoggiò la testa tra le braccia, doveva darsi una mossa. Ora. Subito. Immediatamente.

Diede un pugno al tavolo e si alzò di scatto. Si precipitò in cucina e svaligiò il contenuto del frigo. Dopo essersi rimpinzato a dovere pensò al da farsi.

Doveva proteggere Hally, questo aveva la priorità. Come e quando non erano rilevanti.

Fece una doccia, poi prese il giaccone ed uscì di casa.

 

Hally adorava stare davanti al camino.

Le faceva venire in mente tanti ricordi della mamma. Quando era piccola i migliori momenti si passavano davanti al fuoco. Questi pensieri la fecero intristire, ma quando passò la mano sull’addome si ricordò della piccola creatura che stava crescendo in lei,  così si rinsavì, d’altronde non provava più rancore per suo padre.

Anche se non avevano mai chiarito.

Lei non lo odiava più, nonostante avesse ucciso la mamma con il suo fare superficiale, non riusciva più ad odiarlo.

Quel bambino poi, l’aveva fatta maturare dentro e fuori, si sentiva rinnovata e sentiva che certi comportamenti erano totalmente inutili. La mamma era morta e tenere il muso a papà non l’avrebbe fatta tornare in vita. Ciò l’aveva convinta a mettere di lato i dissapori e ricominciare.

Sua madre era una persona splendida, perfino quando litigava con suo padre non alzava mai la voce per non farla spaventare. Sapeva che soffriva terribilmente, ma non perché l’avesse vista piangere, questo mai, ma perché anche mentre sorrideva, la mamma aveva gli occhi tristi.

Non si lamentava mai, non si sfogava mai, non vomitava mai ciò che la tormentava. Quando crebbe, Hally volle interessarsi ai suoi problemi, ritenendosi grande abbastanza da poter capire, ma sua madre fu irremovibile, le disse che non doveva preoccuparsi di lei e che se la sarebbe cavata.

Le aveva, ovviamente, detto una bugia.

Ma non gliene faceva una colpa, si sa che i genitori sono portati a mentire ai propri bambini per non farli preoccupare e ciò è proprio quello che aveva fatto lei.

Mentre era persa in uno sguardo vuoto e pieno di ricordi, il campanello suonò.

Trasalì e si stupì di quella reazione, ma non se ne curò e andò ad aprire. Con sua grande sorpresa suo padre stava lì davanti a lei con un espressione strana, come di apprensione e di terrore miste nella più totale disperazione.

<< Posso entrare, cara?>> chiese.

<< A-ah si certo entra pure papà...>> disse lei imbarazzata dalla situazione.

Suo padre entrò e si sistemò nella poltrona davanti al camino, lei allora si sedette in quella accanto e per un po’ lo scoppiettio del fuoco accompagno le loro presenze e il loro silenzio.

<< Ti starai chiedendo perché sono qui, suppongo.>>

<< No, papà. Mi piace pensare che tu sia qui per una semplice visita di cortesia. Anche se so che non è così...>> disse lei rassegnata.

Stephen chiuse gli occhi, doveva calmarsi.

<< So che non mi sono mai rivelato un buon padre, nonostante io ti abbia sempre voluto un bene immenso. Però, dopo tanti anni, ho il bisogno di chiarire con te alcune cose...>>

<< Papà, davvero, non ce n’è più bisogno. Ti ho perdonato, perché devi rivangare di nuovo certe situazioni?>>

<< Devo, devo assolutamente. Ti prego è importante che tu sappia ciò che ho da dirti.>>

<< E va bene, se proprio ci tieni...>> sospirò.

<< Io ho sempre amato tua madre, dal primo giorno che la conobbi ne fui pazzamente innamorato. Il giorno del matrimonio ero talmente nervoso che non riuscivo neanche a vestirmi. Fu così per tutti gli anni in cui fummo sposati, non ci fu mai un giorno in cui non pensavo a lei. Nonostante la sua età rimaneva comunque la principessa di cui mi ero innamorato. Tuttavia quella fu l’unica volta in cui un’altra donna riuscì a farmi delle avance più spinte, quel giorno ero davvero stanco e non pensavo a nulla. Ma fu quel giorno a rovinare la mia intera vita. Davvero, io non ho mai tradito tua madre all’infuori di quella volta...>>

Hally chiuse gli occhi e abbassò il capo.

<< Però non hai smesso con i tuoi affari poco legittimi...>>

Stephen rimase pietrificato, non aveva idea che sua figlia ne fosse a conoscenza.

<< Non me l’ha detto la mamma, tantissimi anni fa origliai una conversazione tra te e uno scagnozzo, rimasi talmente sconvolta che il giorno dopo scordai l’accaduto. Ma come è logico, queste cose ritornano a galla quando meno te lo aspetti...>>

Stephen non rispose.

<< Sei venuto qui a dirmi questo?>>

<< In realtà vorrei proporti una cosa...>>

<< Sentiamo.>>

Stephen trasse un respiro profondo e si girò a guardarla negli occhi.

<< Vorrei vivere insieme a voi per qualche mese. Tre al massimo. Non darò fastidio, sarò muto come un pesce e assente come un fantasma, procurerò io i soldi per le spese in più e parteciperò agli oneri.>>

Hally guardò suo padre con un espressione sbalordita.

<< Ma dici sul serio?>>

<< Vuoi?>> disse speranzoso.

<< Ma certo!! E poi Scott sarà felice di avere il nonno a casa per un po’.>>

Stephen sorrise.

<< Ma non è troppo presto per dargli un nome?>>

<< Penso e spero sia un maschietto.>> disse lei con un sorriso sereno stampato sul viso.

Stephen si rabbuiò, strinse i pugni e il suo sguardo si spense nel vuoto.

“ La proteggerò, fosse l’ultima cosa che faccio.”

 

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Capitolo 17
*** Coltello. ***


<< Ma ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo?>> disse Orpheus, con tono poco conciliante.

Jack, dal canto suo, non ci badò.

<< Non venirmi a raccontare che sarebbe un problema per te, procurarmeli.>> ribatté con la sua solita voce atona.

<< Non è un problema per me, ma non capisco a cosa possano servirti. Non l’hai mai fatto in dieci anni di carriera...>>

<< Questa volta è diverso.>>

<< Perché?>>

Jack posò il suo sguardo gelido sopra quello di Orpheus, lo conosceva da dieci anni, era stato il suo “salvatore”, ma chi gli aveva detto di salvarlo? Chi glielo aveva chiesto?

Jack sapeva che a Orpheus non era mai importato di Jack, a Orpheus importava solo l’assassino che era Jack.

L’assoluta fermezza, tenacia, perseveranza, che risiedevano nelle sue azioni prive di alcuno scopo, fatte soltanto per dovere, per obbligo.

Jack non aveva mai rifiutato alcun lavoro, dietro quella particolare ricompensa, ma non solo non ne aveva rifiutati, li aveva sempre portati tutti a termine brillantemente. Questo faceva di lui il cocco di Orpheus.

Per quanto gliene potesse importare...

Difatti non gliene importava un fico secco.

Ora che gli stava chiedendo un favore, lui si rifiutava, ciò non creò in lui una sorta di rabbia. Lui non provava nulla. Però sentì che c’era un ostacolo al suo progetto, che doveva assolutamente abbattere.

<< Pensi di avere il diritto di saperlo?>> rispose, infine, con un’altra domanda.

Orpheus sospirò.

<< Ecco perché mi piaci. Non riesco mai a vincere contro di te e la tua assurda assenza di carattere che s’imprime dentro di me più di qualunque rabbia, ironia o rancore.>>

Jack non lo stava più guardando.

Non.

Gli.

Importava.

<< Ormai mi sembra di avere a che fare coi capricci di un figlio adolescente, d’altronde ormai sei quasi come un discendente. Un erede. E’ come se fossi tuo padre no? Anche se stento a credere che tu abbia avuto dei genitori. Ho sempre avuto la sensazione che tu fossi sceso giù da un astronave aliena.>>

Scoppiò in una gran risata.

Tutto ciò che invece provava Jack era soltanto: noia.

Ultimamente, oltre al sadismo, la noia era un’altra delle emozioni che gli veniva naturale esprimere. Forse perché la noia non ha bisogno di cambiamenti di espressione, come la gioia, la tristezza o il malumore.

Semplicemente provava noia, per quell’uomo egocentrico che in tutti quegli anni si era divertito a guardarlo come se fosse un fenomeno da baraccone.

Tuttavia non provava nulla per lui, né rabbia né odio. Non se li meritava.

<< Allora?>> disse interrompendo quella risata fastidiosa.

Orpheus sospirò di nuovo.

<< Va bene, come vuoi, quando te li devo fare avere?>>

<< Domani.>>

Nessuna domanda. Suonava come un ordine.

<< Va bene. Domani te li faccio mandare a casa da un ragazzo. Ma hai idea di come usarli?>>

<< Entro le dieci.>>

Si alzò, e silenziosamente uscì da quell’appartamento, dirigendosi nel suo, dove si sentiva al sicuro.

<< Beh suppongo sia un sì.>> disse Orpheus rassegnato, e rise di nuovo.

 

Quando Louise sentì al telegiornale la notizia della morte della donna incinta, si sentì le gambe molli e un’indicibile voglia di piangere la pervase.

Non l’aveva ascoltata.

Non aveva ascoltato il suo disperato richiamo di smetterla, di fermarsi.

Ma che sorpresa.

In quel momento provò un piccolo odio nei suoi confronti, ma poi si bacchettò, pensando che lui non era pienamente consapevole di ciò che faceva, d’altronde suo fratello non aveva ricevuto la licenza della ragione, semplicemente si era adattato a ciò che gli hanno inculcato.

E che la sua mente ha registrato.

Il fatto che lui vedesse il loro fratello come un’entità capace di ucciderlo, faceva di lui una persona fragile.

Debole.

Che schermava le sue paure con la completa assenza di emozioni.

Quella sera si sentiva intorpidita, la sua testa era terribilmente offuscata e pensava di andare a dormire, quando il suo stomaco avanzò un allarme.

Aveva fame, maledettamente.

Ma mentre si dirigeva verso la cucina, udì delle urla provenire dalla casa accanto.

Sembrava che i due coniugi stessero litigando per l’ennesima volta. Si dice che l’amore non è bello se non è litigarello, ma dal canto suo ogni volta che sentiva litigate del genere l’unica cosa che lasciavano nel suo cuore era un’immensa tristezza.

Quella povera donna era arrivata all’isterismo, dopo i frequenti sperperamenti di denaro da parte di quello sciagurato del marito. Gliene stava dicendo di tutte. Alla fine lui andava via e lei rimaneva rannicchiata sul pavimento a piangere.

In quel momento Louise sperò di non litigare mai con Jack, difficilmente ne sopravvivrebbe. Ma subito dopo pensò che era impossibile litigare con Jack. Lui non era capace di arrabbiarsi. Questo pensiero la rese più serena.

Poi sentì degli oggetti infrangersi al muro. La cosa stava degenerando.

Si chiese se fosse il caso di intervenire.

No, decisamente.

Ma gli era passata la fame, perciò si avvicinò all’uscio per vedere come si svolgeva la faccenda, ma quando sentì la porta aprirsi e l’uomo uscire inveendo oscenamente contro la moglie, non riuscì a trattenersi e aprì la porta per dirgliene quattro.

Giusto in quel momento la donna aveva afferrato un coltello da cucina e lo aveva lanciato addosso a lui che lo evitò abilmente.

Quel coltello adesso aveva preso la sua direzione.

Minaccioso, veloce, tetro e silenzioso.

Proprio come Jack.

E proprio come con Jack non riuscì a muovere un muscolo.

Il coltello la evitò di pochi millimetri andando ad infrangere la porta finestra subito dietro di lei. Il rumore di vetro fu assordante dentro la sua testa, tanto che tutto cominciò a girare.

L’ultima cosa che vide prima di svenire fu la donna in preda alle lacrime e alle urla che le si avvicinava, mentre il marito la guardò con uno sguardo torvo e scese le scale in perfetto silenzio.

 

 

Nonostante la totale assenza di commenti ho deciso di finire questa storia, ma solo per tenere fede al mio principio “Se inizi, finisci.” e volevo solo ringraziare quei pochissimi lettori che continuano a seguirmi, anche se non lasciate un commento grazie lo stesso.

 

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Capitolo 18
*** Welcome back ***


Louise si svegliò mentre le luci del tramonto invadevano la stanza. Era stata messa a letto e le avevano rimboccato le coperte. “Sicuramente la povera vicina.” pensò sconsolata.

Le aveva pure lasciato un bicchiere d’acqua, per accertarsi che appena svegliata avesse qualcosa con cui idratarsi.

Decise allora di rimettersi in sesto e di andarla a trovare, magari per donarle un po’ di consolazione...

Si vestì e si pettinò i capelli, in quegli ultimi giorni era sciupata, aveva delle occhiaie paurose. Probabilmente era la stanchezza, ma nonostante dormisse pienamente la notte non riusciva mai a sentirsi risposata. Anzi c’era sempre qualcosa che la faceva stare in ansia, ma non capiva di cosa si trattasse così ingoiava l’ansia e permetteva che si estendesse, lentamente e passivamente. O per esprimerlo in parole povere “ci aveva fatto l’abitudine”, sicuramente.

Si applicò un leggero trucco, tanto per nascondere il pallore del suo viso, e uscì dalla porta suonando il campanello di fronte.

 

In un piccolo studio nei pressi della periferia della città, un dottore di media statura e debole di carattere stava guardando fuori dalla finestra, mentre aspettava l’orario di chiusura per poter giocare coi suoi adorati bambini.

Il chiaro di luna lo stava invadendo.

Imparò quella sera che non era mai nulla di buono.

Mentre stava chiudendo gli occhi, immerso in quella luce lattea, bussarono alla porta.

Anzi non era corretto dire “bussare”, fu un colpo secco, deciso, in un certo senso terrificante. Che non chiedeva di entrare ma pretendeva l’ingresso.

Il dottore si sentì pietrificato e non ebbe il coraggio di rispondere, a quel punto la maniglia si abbassò e lui fece il suo ingresso.

Sotto quella luce sembrava non avere occhi, ma quando il dottore guardò meglio scorse due cristalli color ghiaccio.

Quell’uomo era entrato, aveva richiuso la porta, ora stava lì sulla soglia e lo fissava. Il dottore pensò con terrore che si trattasse di un demone, ma non per lo sguardo cattivo, bensì per la scarica di adrenalina che aveva lanciato nel suo cuore appena entrato.

Come un biglietto solo andata per l’inferno.

In quel momento si pentì amaramente di aver spento la luce. In quella penombra era terrorizzato, gli tremavano le gambe.

<< Posso aiutarla?>> cercò di balbettare, indiscutibilmente a disagio.

L’altro uomo rimase in silenzio.

Poi parlò.

<< Lei, sa per caso adoperare l’inseminazione artificiale, dottore?>>

Era talmente basito che in quel momento non avrebbe neanche saputo tenere in mano uno stetoscopio, allora cercò di calmarsi, dopotutto anche se quell’uomo sembrava un demone, aveva fatto una richiesta fattibile e lui era un dottore. Demone o meno doveva prestargli ascolto.

<< Si, ma prima dovrebbe dirmi il motivo.>> disse cercando di accumulare tutta la calma possibile.

<< Un erede.>>

Una risposta secca. Che non ammetteva repliche.

Un erede? Ma che diavolo aveva quell’uomo?

Il dottore fu sul punto di indirizzarlo da uno psichiatra, ma non appena si azzardò a riguardarlo negli occhi, tutta la sua calma e la sua risolutezza andarono dritte nel cesso.

Fu catturato.

Sepolto.

Svuotato.

Fu lì che capì di non dover fare domande. Al diavolo le procedure.

<< Mi dica. Quale procedura vuole adottare? La classica?>>

Jack sapeva cosa intendeva il dottore con “la classica”, ma non era possibile, decisamente.

<>

<< E’ impotente?>> s’informò, allora.

<< No.>>

Il dottore strinse i pugni con un movimento involontario.

Non era impotente.

Era matto da legare.

<< Allora le devo chiedere se vuole procedere con la puntura dell’epididimo o con la biopsia testicolare.>>

Jack lo guardò, freddamente. Sinceramente non sapeva in cosa diavolo consistessero quelle procedure.

<< Qual è la più veloce?>>

<< La prima.>>

<< Allora proceda con quella.>> lo disse come se fosse un ordine, ma il dottore non pensava proprio di farglielo notare.

<< Si tolga i pantaloni e vada nell’altra stanza, arrivo subito.>>

Jack andò e il dottore s’infilò la punta di un ago nelle gambe per dissolvere il torpore in cui era caduto. Funzionò.  Andò nell’altra stanza e prese a Jack ciò di cui aveva bisogno, senza alcun ulteriore domanda.

 

Louise passò dalla vicina ben due ore, l’ascoltò mentre lei si confidava piangendo e l’abbracciò quando era talmente debole da non poter più parlare.

Quella donnina era così sola che non potevi non provar compassione per lei, ma Louise provava già abbastanza compassione per sé stessa, senza dover preoccuparsi pure per gli altri. Decise quindi che quella era l’unica volta che sarebbe andata da lei, potevano diventare amiche ma nulla d’impegnativo, non ne aveva il tempo.

Ritornò a casa che era già buio, il chiaro di luna dava sempre una strana tonalità alla sua casa, una tonalità che l’assediava dall’interno, spingendola ad accendere tutte le luci.

Ma quella sera non osò.

Non riuscì a capire cosa gli prendesse.

A quel punto capì che quelli erano i chiari sintomi.

Camminò lentamente verso il salotto, la tensione era altissima, arrivò sul ciglio della porta e vide ciò che si aspettava.

Jack. Seduto in poltrona. Aveva un bicchiere di vino in mano e fissava il nulla.

<> sussurrò.

 

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Capitolo 19
*** Fear ***





Dopo che lo shock totale passò, Louise fece un sospiro profondo, raccogliendo tutta la pazienza di cui disponeva.

<< Pensi che un giorno potrò vederti entrare dalla porta come qualunque persona civile?>> domandò leggermente seccata e con una punta d’ironia.

Jack non batté ciglio. Ovviamente.

<< Vedo che ti sei già servito, mi fa piacere. Vado a prendere un po’ d’acqua.>>

Ma non sembrava che a Jack importasse, sembrava di parlare con un soprammobile. Louise non ci badò.

Si rinfrescò la gola con l’acqua ghiacciata e ritornò in salotto.

Era totalmente buio, ma non sentiva timore. Quella sera non riusciva ad avere paura di Jack, forse per la prima e unica volta sembrava consapevole di aver ricevuto una visita dal fratello, e non da un matto.

Sorrise e si sedette nella poltrona accanto, senza accendere il camino, pensando che quel buio potesse parlare al posto loro.

Ma non fu così. Jack si voltò a guardarla. Due spirali infinite che le risucchiavano l’anima. Il suo sguardo era tranquillo, sembrava guardare un bel quadro e lei si sentiva a disagio. Molto.

Troppo.

Iniziò a contorcersi le mani.

<< Posso mangiare qui, stasera?>> domandò Jack, impassibile.

Louise era sbalordita, non avrebbe mai pensato che potesse accadere, aveva l’occasione di cucinare per lui. Di fare qualcosa per lui. Di dimostrare quell’affetto fraterno represso per lunghi anni.

Tutta quell’agitazione le aveva annodato lo stomaco, che scelse proprio quel momento per gorgogliare annoiato.

Louise avvampò.

E fu in quel momento che sentì una specie di soffio, che assomigliava più ad una sommessa risata.

Era stato Jack, nel buio totale di quella stanza Jack sembrava divertito. Louise stava per piangere di gioia, ma per non rovinare quel momento se ne rimase zitta.

Lo guardò ed incontrò il suo sguardo divertito.

<< V-vado a preparare la cena. Aspettami qui, accenditi la televisione se ti va, il telecomando è sul comodino...>> disse, imbarazzatissima dalla situazione.

<< Certo.>>

Passarono vari minuti, mentre Louise armeggiava in cucina, Jack era ancora immerso nel silenzio di quella stanza buia, cominciava a provare uno strano effetto, come un senso di calore. Ma poi ricordò improvvisamente cosa era andato a fare là e il suo viso ridiventò perfettamente inespressivo.

O.

Triste.

Jack non voleva saperlo. Probabilmente Louise non l’avrebbe mai perdonato.

Strinse la mano nel bracciolo della poltrona.

Dov’era finita la sua tenacia? Possibile che temesse la rabbia di sua sorella? Da quando?

All’improvviso iniziò a tremare, l’immagine di suo fratello aleggiava nell’aria e un’altra emozione si prese gioco di lui.

Il terrore.

Era questo che provavano le vittime? Era questo che provava quel fallito di Stephen? Era questo ciò che provavano tutti coloro che avevano a che fare con lui?

Anche sua sorella aveva provato terrore per lui, ma perché in questo caso si sentiva... triste?

Doveva fare in fretta. Sentiva che suo fratello stava facendo pressioni.

Stava perdendo la retta via.

Per colpa di Lou...


...che era davanti la porta ad osservarlo.

Louise l’aveva sentito. Jack aveva qualcosa di strano, forse era meglio non farlo rimanere, tuttavia aveva voglia di stare in compagnia.

Aveva voglia di una persona accanto.

Aveva voglia di suo fratello. Di Jack.

<< Sto bene.>> disse lui come leggendole nel pensiero.

<< Allora è pronto...>> sussurrò lei e andò a sedersi.

Jack la seguì, lentamente. Mentre si sedeva dall’altra parte del tavolo, osservò cosa aveva preparato e si sentì un altro tuffo al cuore.

Su tavolo erano accuratamente riposti piatti di ogni genere, dalla bistecca arrosto al riso al curry. Si chiese per quanto tempo era rimasto in quella stanza a rimuginare.

Ma non c’era tempo da perdere. Non era andato là per cianciare.

Ecco, si, ora andava meglio. Solo uno sbandamento.

Ora, era tutto a posto. Come prima.

Rimasero in silenzio per parecchio tempo, poi Jack prese la bottiglia di vino e se ne versò un po’. Ne versò anche a Louise.

Con un particolare.

Fece scivolare dalla manica della maglietta una polverina sottile e quasi invisibile. Fu un istante e Louise non se ne accorse. Bevve insieme a lui e dopo poco si addormentò.

In silenzio, senza alcun lamento.

Jack si ordinò di ritornare se stesso.

La prese e la distese sul letto, le tolse i pantaloni e la lasciò nuda dal ventre in giù. Poi andò fuori in veranda a prendere gli apparecchi che gli aveva fatto mandare Orpheus e pazientemente li dispose nella camera. Dalla valigia estrasse il Markler, un dispositivo elettronico, e dopo aver depositato il liquido, lo infilò nella cavità uterina. Accese i monitor e controllò che fosse tutto apposto.

Lo era.

Adesso arrivava la parte difficile.

Doveva far sì che tutto andasse per il meglio e per farlo non doveva far altro che aspettare che tutto il liquido entrasse. Rimase quindi alzato a fissare pensosamente i monitor ronzanti. Solo una volta guardò Louise che dormiva, ignara di tutto, e... si sentì in colpa.

Fu in quel momento che pensò di non vedere mai più Lou, o addirittura di uccidersi.

Perché Jack senza la sua freddezza, la sua tenacia, la sua determinazione, la sua totale assenza di espressioni, non era nulla.

Jack, in quel modo, non serviva a nessuno.

Né a Orpheus.

Né a suo fratello.

Strinse i pugni.

No. non l’avrebbe permesso costasse quel che costasse.

Una volta finito il lavoro, estrasse il dispositivo, spense i macchinari, rivestì Louise e la mise sotto le coperte.

Come un fratello.

Scappò via frastornato dalla disperazione mentre il campanile scoccava la mezzanotte.

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Capitolo 20
*** Wish ***




<< Allora buona notte, papà!>> disse Hally sorridendo.

<< Buona notte, cara.>>

Era arrivata l’ora.

Quella maledetta ora dove la gente va a dormire, risposa, sogna, riflette, piange.

Ma Stephen non faceva nulla di tutto ciò.

Stephen tremava dal terrore, tremava dal presentimento che Pendulum facesse il suo ingresso trionfale con il suo mantello nero, tipico di quei fottuti cattivi dei film e uccidesse la sua amatissima figlia.

Stephen passava le notti con gli occhi sbarrati, cercando di guardare da tutte le parti contemporaneamente, vedendo in tutte le ombre qualcosa di sospetto. Pensando di percepire presenze ovunque.

Sarebbe impazzito. Di lì a poco non avrebbe più retto.

Quando sua figlia andava a riposarsi, aspettava un po’, seduto nel suo letto in attesa. Poi usciva dalla sua stanza e si rannicchiava allo stipite della porta della stanza di lei, aspettando. Se ne andava alle prime luci dell’alba ringraziando il cielo che il giorno fosse finalmente sopraggiunto a quella maledetta notte che lo faceva infuriare. Quando sua figlia notava le spaventose occhiaie, si scusava dicendo che aveva l’insonnia e andava a dormire per qualche ora, tanto per tenersi vivo.

Per non morire di stenti.

Doveva vivere anche se in quell’istante teneva in mano la morte di sua figlia, viveva in bilico a un peso enorme, un passo falso e quella morte sarebbe precipitata su di lei come un macigno, schiacciandola.

La vita di sua figlia dipendeva da quanto lui era forte.

Ma lui era forte?

Da quanti anni si era dimostrato un mero vigliacco che basa i suoi affari sulle uccisioni e non sull’impegno.

Un vigliacco che è talmente ottuso da non capire l’immenso dolore che provoca alla povera moglie. La moglie che ama. La moglie che ha sempre amato e stimato.

Lui era una nullità.

Lui traeva vantaggio dagli altri, ma nessuno traeva vantaggio da lui. Non riusciva a donare affetto neanche alle persone che più voleva bene, tanto era arso dal denaro e dalla vita benestante che aveva sempre condotto.

Era un mostro. Un mostro celato da uomo d’affari.

Come si permetteva a dare del mostro a Pendulum, quando lui lo era ancora di più? Come osava giudicare quell’uomo, di cui gli eventi hanno deviato la mente? Hanno cancellato ogni emozione, ogni parola, ogni affetto.

D’altronde la sua vita non valeva di più.

Appoggiò la testa sulle braccia: sfinito, avvilito, frustrato triste e disperato.

Pianse lacrime amare e s’addormentò...


... lo vide accasciarsi con la testa tra le braccia. Dopo un po’ non lo vide muoversi più e decise che quello era il momento.

Annullò la sua presenza.

Arrivò di fronte a quell’uomo di cui ormai la vita sarebbe diventata inutile.

Tutto.

Per.

Colpa.

Sua.

Ma che senso aveva dirselo adesso? Aveva troncato tantissime vite felici. Suo fratello voleva così e nessuno poteva opporsi. Lui era il messaggero. Colui che non esprime opinioni alcune. Colui a cui viene affidato il compito da eseguire. Colui che immerge la sua anima nel pozzo della vita e poi la lascia affondare. Così da reprimere qualunque forma di emozione.

Ma la sua anima.

La sua... anima, stava riaffiorando. La sentiva. La udiva. La percepiva. La bramava e la desiderava.

Guardando quell’inutile uomo sentì un sentimento. Distintamente.

Pietà, commiserazione, altruismo, pentimento?

Non lo sapeva. Ma stava accadendo di nuovo, stava sentendo qualcosa che la sua mente stava urlando, qualcosa che lo sfiorava piano e che lui aveva sempre respinto.

Scosse forte la testa, non aveva tempo di pensarci, quel vecchio poteva svegliarsi da un momento all’altro, così entrò nella stanza e si adoperò a finire il suo lavoro nel minor tempo possibile.

Non ci furono rumori, né sensazioni. Jack prese il fagiolo, lo ripose nel barattolo e scappò.

Non fu una fuga come le altre, per tutta la sua vita aveva sempre camminato adagio, per non far sentire la sua presenza invisibile. Aveva sempre fatto il minor rumore possibile, ma questa volta...

Corse.

A perdifiato.

Sentiva la sua volontà vacillare, sentiva il suo cuore sottrarsi, lamentarsi, urlare, gemere, sanguinare. E quell’anima, quell’anima maledetta che riaffiorava in un mare di rose nere.

Dal suo pozzo, anch’esso nero.

Jack stava perdendo se stesso.

Jack non riusciva più a rimanere impassibile. Jack stava impazzendo dal dolore silenziosamente. Jack aveva paura.

Paura di suo fratello.

Paura dell’inutilità.

Paura di Orpheus.

Paura di se stesso.

Paura dei suoi dieci anni di silenzio.

Vomitò in un angolo e quel sudore che colava copioso dalla sua pelle faceva sembrare che dai suoi occhi stessero finalmente uscendo lacrime.

Anche se poi, non era così.

Quando finì, tremava convulsamente e sentiva freddo. In altri casi avrebbe pensato di andare a casa davanti al fuoco insieme a suo fratello. Ma non quella sera.

Quella sera aveva bisogno di lei. Quella sera desiderava solo lei. Quella sera bramava il suo calore e desiderava un abbraccio, solo da lei.

Da Louise.

Lou.

Sua sorella.

La sua amata, sorella.

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Capitolo 21
*** Nothing ***




Creare uno strato sottile di cospicua resistenza, in modo da non sorprendersi più di nulla. Questo è quello che feci quando mi svegliai quella mattina, da sola.

Non mi aspettavo nulla da Jack, non volevo nulla da lui, mai avevo preteso qualcosa di più, mi ero sempre adattata a ciò che lui voleva.

A ciò che lui desiderava.

Per cui non feci una piega e quella giornata passò lievemente, come un velo trasparente. Nulla di spettacolare, nulla di eclatante.

Tutto, eccezionalmente, noioso.

Io. Che bramavo l’eccitazione dei sensi. Io. Che volevo l’agitazione dell’anima. Io. Che desideravo le urla del mio cuore.

Mi stavo spegnendo.

Piano, piano il mio vigore faceva un passo indietro, ogni giorno. E ormai era lontano da me. Lontano dalla mia persona.

Ero fragile. Stanca. Umanamente e mentalmente distrutta.

Quel giorno c’era il temporale. Da sempre avevo avuto un terrore subliminale per lampi e tuoni, tanto da non riuscire più a muovermi.

Ma quel giorno non mi fecero un grande effetto. Quel giorno tutto passava liscio sotto di me, niente mi scalfiva, mi colpiva, mi sorprendeva.

Quel giorno c’era il temporale.

Seduta in poltrona osservavo la rabbia divina del cielo. Lo scontro tra nuvole calde e nuvole fredde, già, proprio come stava avvenendo dentro di me.

Scontro.

Lite.

Guerra.

Tra i miei sensi e la mia apatia. Stavo combattendo contro il nulla e sembrava che quest’ultimo stesse vincendo.

Appoggiai la testa allo schienale della poltrona, sarebbe stato bello morire in quel momento di assoluta infermità. In cui azzeravo la mia incerta volontà. Spezzare la vita quando il filo è già sottile, troncare la vita quando il ramo è già secco.

Da vigliacchi, no?

Ma non aveva più nessuna fottuta importanza. Nessuna. Nessuna.

Chiusi gli occhi ascoltando il ticchettio dell’orologio...

Tic Tac Tic Tac...

E’ il tempo che scorre? E’ la fine che s’avvicina? E’ l’inizio che s’allontana? E’ la mia pura indignazione contro la mia vita? E’ il tempo che si beffa di me, ignorandomi?

Il mio orecchio si tese verso lo scroscio della pioggia, riluttante. Era rilassante, provocante. Sembrava che non dovesse più cessare, sembrava che nella mia mente non dovesse esserci posto per nient’altro se non per quello. D’un tratto l’idea di lasciarmi trascinare da un fiume in un giorno del genere non era poi così malvagia.

Mi chiesi dov’era finita la determinazione che mi trovavo da giovane. L’assoluto rifiuto della morte, l’assoluta indignazione all’invito di quella strega.

E ora?

Ora la chiamavo, la desideravo.

Mi odiavo, mi detestavo. Ma non feci nulla contro di me. Mi limitai ad osservare la pioggia e i tuoni, totalmente impassibile. Sembrava che da quella notte il tempo del mio cuore si sia fermato, al contrario del tempo della mia vita che continuava a scorrere.

Sentii dei passi.

Goffi, poco aggraziati, pesanti, disperati.

Sapevo chi era. Ma non mi mossi. Non ci riuscii. La mia faccia non si mosse, solo le pupille si spostarono lentamente verso la porta. Fu in quel momento che la serratura scattò e la porta venne aperta. Fu in quel momento che scoppiò un terribile tuono che illuminò il suo volto fradicio, il suo volto che era una maschera di dolore. Vedendomi così la sua espressione si inasprì ancora di più.

Io sorrisi debolmente.

<< Vedo che.. ci siamo scambiati i ruoli.. Jack.>>

Lui dilatò le pupille, inorridito. Poi si prese la testa tra le mani e urlò.

Un urlo che mi trapanò le orecchie e si insinuò nella mia testa, ma non si mosse nulla.

Jack s’inginocchiò. Lo guardavo. Mi fissava congelato dal terrore.

<< Che c’è? Perché mi guardi così? Hai paura di me? L’ho avuta anch’io per te, per molto, molto tempo. Sai? Lo sai?>> dissi con voce completamente atona.

Non riuscivo a capire se nel suo viso bagnato dalla pioggia ci fossero delle lacrime, ma importava veramente poco.

Si alzò tentennando. Le mani protese. Mi cinse in un abbraccio, stringendomi più del dovuto.

<< Questo gesto, lo volevo fare io, tempo fa. Lo sai?>> continuai.

Non rispose. Non era cambiato nulla sotto quel punto di vista. Ero l’unica a parlare.

<< Cosa c’è? Perché mi stai abbracciando? Perché lo stai facendo? Cosa t’induce? Non vorrai mica mordermi di nuovo? Vero?>>

Sussultò. La mia cattiveria era illimitata in quel momento. Non ero io. Sentii che il suo corpo stava tremando.

<< Lou.>> disse con voce spezzata.

<< Cosa?>>

<< Perdonami...>>

I miei occhi si chiusero in una fessura.

<< Perdonarti? E per cosa?>>

<< Ti ho messa incinta. Ieri.>> faticava a parlare.

Non ne rimasi sorpresa, dopotutto.

<< Probabilmente morirà. Non sono in grado di mantenere una gravidanza, me lo ha detto il dottore. Sai? Sarà il primo feto che prenderai legittimamente, non sei contento?>>

<< Aiutami, Lou! Ti prego aiutami, aiutami, aiutami, AIUTAMI !!>>

<< Aiutarti? Io, aiutare te? Mi spiace, Jack, non ne sono più in grado...>>

Una lacrima solcò il mio volto. Il ghiaccio subì una crepa e Jack la percepì.

<< Non voglio più farlo, non voglio più uccidere, ma se non lo faccio lui mi ucciderà. Me lo ha giurato. Lo farà...>>

Rimasi in silenzio.

<< Lou...>>

Non risposi.

<< ... ho paura.>>

Fu allora che l’apatia si sciolse. Tutto quello che avevo cercato di reprimere colò fuori. D’un tratto.

Ricambiai il suo abbraccio, singhiozzando convulsamente.

<< Scusami Jack. Scusa...>>

Un altro tuono scoppiò nel cielo...


... mentre Stephen rimaneva pietrificato davanti a sua figlia completamente squartata. Mentre non riusciva nemmeno a piangere. Mentre qualcosa nella sua mente s’incrinava definitivamente.

Mentre il suo istinto urlava un solo nome.

Jack.


...Il campanile suonò la mezzanotte...

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Capitolo 22
*** Midnight ***


La schiuma provocata dall’infrangersi delle onde negli scogli.

Stephen sedeva immobile sulla cima di un’altura che dava proprio sopra l’oceano, i suoi occhi guardavano fisso l’orizzonte che accoglieva calorosamente quel sole che aveva bisogno di un posto dove ripararsi dalla luna, suo vergognoso amore.


Papà! Papà! Ho trovato uno strano animale nel giardino! Vieni a vedere!”


Probabilmente guardare i cicli della natura era l’unica cosa che poteva permettersi, visto che erano così maledettamente lenti, non si affrettavano a giungere al termine, anzi facevano si che chi osservava ne assaporasse tutti gli assaggi, piano piano.

Piano. Piano.


Papà! Mi spingi con l’altalena? Guarda la mamma ci sorride! Dai spingimi forte, forte!”


Se tutti nella vita quotidiana dessimo maggior peso a tutto, probabilmente sapremmo goderci molto di più. Le emozioni, gli affetti, l’amore, l’odio, il rancore, la gioia, la felicità.

Tutti sentimenti che vanno e vengono, ci sfiorano, ci addolorano, ci abbandonano, ci seducono e ci lasciano per loro propria volontà.

E noi? Noi. Non possiamo farci assolutamente, un bel niente.


Papà sei tornato tardi oggi! Avevi promesso di portarmi al parco! Ti perdono solo se mi prometti che ci andiamo domani!”


Una brezza leggera lo attraversa completamente.

Quel corpo completamente svuotato di qualsiasi cosa, che non ha mai capito lo scopo del suo ruolo nel mondo. Che in quel momento gradirebbe volar giù a distruggersi il capo tra quei scogli scuri, ammalianti, severi e accoglienti.

Si, probabilmente l’avrebbe fatto, ma non era quello il momento giusto.


Papà devo dirti una cosa, gradirei se ti sedessi, sai è importante. Vedi so la tua particolare avversione per il mio sesso opposto, però, io sono una ragazza ed è normale che m’innamori. Per cui... mi sono fidanzata!”


Il suo abito nero svolazzava melodicamente insieme al vento, suo complice. Era appena tornato dal funerale. Il suo stato d’animo era completamente nullo. Sapeva che la gente aveva considerato il suo comportamento come la conseguenza dello shock subito, ma non era così.

Sembrava che si fosse poggiato un coperchio nella pentola dei suoi sentimenti.


Papà svegliati! Oggi devo dare l’esame! Mi devi accompagnare, l’hai dimenticato? ...Dai augurami almeno in bocca al lupo. Tra poco avrai una figlia diplomata no?”


Credere in sé stessi, avere autostima. Tutte parole inutili, senza significato se tanto metterle in pratica era assolutamente impossibile. Ogni essere umano teme il proprio fallimento dal profondo del cuore, c’è chi nasconde questa paura, c’è chi la esterna. Ma alla fine tutti la proviamo.

Tutti temiamo di precipitare giù nell’oblio della vergogna.


Papà cosa è successo alla mamma? Sta male? E’ ancora a letto, non ha mai dormito tanto. Sicuro che non avete litigato? Mh?”


Beth.

Già. Beth.

Cosa starà pensando di suo marito in questo momento? Starà scuotendo il capo in segno di diniego, come sempre senza alzare la voce, lo stava guardando delusa? Rammaricata? Amareggiata? Sicuramente. D’altronde l’aveva sempre pensato un fallimento, anche se non gliel’aveva mai detto. Ma non lo era? Non era un fallimento? Si, lo era. E si meritava di bruciare nelle fiamme dell’inferno per la fottuta eternità.


Oh, papà. Ciao. Cos’ho? No, non ho niente. Perché me lo chiedi? Ma no è la mia faccia normale. E poi sono un po’ tesa per gli esami, scusa devo andare.”


Non poteva considerarsi un buon padre se non riusciva ad estrapolare dalle sue labbra la verità, quella pura e genuina. Ma era troppo impegnato con il lavoro sporco, dunque piuttosto che pensare a come stessero le due persone più importanti della sua vita, pensava il modo più silenzioso per uccidere un dannato uomo qualunque senza significato.


Papà, scusa se ti chiamo. Volevo solo dirti che mi sposo. Ma non credo sia opportuno che tu venga, mi spiace. Volevo solo informartene. Ciao.”


L’affetto che aveva perso, l’amore che aveva smarrito con la sua ignoranza. Si era disperato, si era morso l’anima. Si era tirato su i capelli, ma niente ormai poteva restituirglielo. Avrebbe donato se stesso pur di riuscirci.

Avrebbe anche donato il suo cuore, ma a chi cazzo poteva servire il suo cuore corrotto?


Papà, scusa se per due anni non mi sono fatta sentire, è che erroneamente me la sono presa con te per la morte della mamma. Puoi perdonarmi? Io l’ho già fatto, se vuoi puoi venirmi a trovare in casa, sei il benvenuto...”


Il sole stava scomparendo, rosso di vergogna. Mentre la luna faceva il suo ingresso tranquillamente, pallida come la morte. Sembrava non accorgersi dell’imbarazzo del sole che si nascondeva alla sua vista, sembrava non importarle. D’altronde la luna era il simbolo della tranquillità della notte. Nulla poteva scalfire il suo egoismo, neanche l’amore.


Scott sarà felice di avere il nonno con sé per un po’ di tempo. Spero che sia un maschietto sai?”


Scusami.


Ok, ti ascolterò ma non ce n’è bisogno visto che ti ho già perdonato.”


Perdonami di nuovo.


Papà, ti voglio bene.”


Una lacrima scese silenziosamente dai suoi occhi, pochi istanti dopo tutto il suo viso ne era inondato. In quel momento la notte prese il posto del dì.

In attesa...

...della mezzanotte.

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Capitolo 23
*** Blue eyes ***




<>

Era notte fonda e Orpheus aspettava quella telefonata. Immerso nell’oscurità della sua camera aveva la fronte appoggiata ai palmi della mano e i capelli neri che ricadevano stanchi sulle braccia.

Era passata più di una settimana da quando quel maledetto l’aveva combinata grossa.

Quando il telefono squillò nessuna reazione prese il suo corpo, si limitò a spostare il braccio e a prendere la cornetta.

<< Sono Stephen.>>

Chi altri? Chi se non lui? Orpheus si lasciò sfuggire una risatina, ma se ne pentì subito dopo pensando che Stephen non stava bene mentalmente, ne era più che certo.

<< Prima che tu dica qualsiasi cosa. So cosa è successo e te lo giuro non era previsto. Quel dannato ha fatto tutto da solo, ma giuro che domani stesso lo vado a cercare e lo meno per benino.>>

Cosa sperava di ottenere con quelle parole? Approvazione? Perdono? Rinuncia? Pietà?

Sapeva che era tutto maledettamente inutile.

Passarono alcuni minuti in silenzio. Orpheus non osò parlare. D’altronde era meglio starsene zitti in quelle circostanze.

Poi tutto sembrò scorrere come sotto l’effetto di un velocizzatore. Stephen scoppiò in una risata isterica, dettata dalla pazzia. Una risata lunga, lenta, sembrava proprio che se la stesse gustando. Era curioso ma Orpheus non ne rimase terrorizzato, anzi aspettò tranquillamente che terminasse per rivelargli cosa aveva in mente. Visto che lui lo sapeva già.

Doveva prepararsi a dirgli addio.

Dire addio all’uomo che aveva allevato.

Dire addio all’uomo a cui aveva fatto da maestro.

Dire addio all’uomo che era quasi come un figlio per lui.

Nel suo lavoro accadevano sempre cose come queste, ma non sapeva perché, stavolta gli faceva male. Gli infliggeva una piccola ferita nel cuore che bruciava, pulsava e sanguinava.

In fondo pensare a Jack era come pensare a un compagno.

Anche se lui non aveva mai ricambiato i suoi sentimenti, Orpheus in quel momento riuscì a rendersi conto di quanto teneva a quell’uomo. Ma non poteva farci nulla, per Jack era finita.

Finita.

<< Orpheus, ora ti chiederò una cosa. Giuro che se mi dici una cazzata vengo lì e ti pianto una pallottola nel cervello. Vedi di stare attento.>> il tono minaccioso era palpabile, e la sua completa pazzia tangibile.

<< Dimmi, Stephen.>> Orpheus chiuse gli occhi e si ordinò di calmarsi. L’agitazione l’avrebbe solo portato ad un passo falso.

<< Quel bastardo, ha una sorella non è così?>> disse in tono completamente asciutto.

Orpheus sentì il palpito del cuore accelerare. Probabilmente potevano dargli dello schifoso, egoista e amante del denaro, ma se Stephen voleva uccidere la sua gemella, ben venga. Era la giusta punizione. Anche se le possibilità che non uccidesse anche Jack erano minime.

<< Si. E’ la sua gemella. Posso anche darti l’indirizzo se vuoi.>> “Tanto ormai...” aggiunse mentalmente.

<< Si, mi risparmieresti un sacco di tempo.>>

Dopo aver dettato l’indirizzo, Stephen rimase in silenzio per un attimo. Orpheus capì dal ritmo del respiro che stava piangendo.

<< Steve, vecchio mio, mi dispiace. Sono consapevole che la causa indiretta sono io che ti ho raccomandato Jack, ma te lo giuro non si è mai spinto tanto oltre. Per cui davvero, se vuoi venire qui ci facciamo una chiacchierata.>> provò Orpheus in tono conciliante, senza alcuna speranza in particolare.

<< E’ troppo tardi. Mi resta una sola cosa da fare. Ti prego non metterti in mezzo.>>

<< Non fare pazzie Steve...>>

Ma era davvero troppo tardi. Stephen aveva già riagganciato.

Orpheus tornò a poggiare la fronte sui palmi, mentre aspettava che il disastro si compiesse...


Stephen uscì di casa con passo svelto e leggero. Entrò in macchina e accese il motore assieme alla sigaretta, poi guidò verso il cimitero.

Le strade erano deserte e i rumori nulli, era davvero rilassante guidare in perfetta pace, se solo nel suo cuore non avesse avuto tutto quell’orrore sarebbe potuto anche essere piacevole.

Ma stava andando nella tomba di sua figlia.

E non era per niente fottutamente piacevole.

Le mani presero a stringere il volante e lottò contro la voglia di urlare.

Quando arrivò all’enorme cancello era, come sospettava, chiuso. In quel momento iniziò a piovere e lui prese a scavalcare l’inferriata arrugginita. Ci volle tempo e fatica per varcare quel singolare ingresso ma ne valse la pena, appena si ritrovò dall’altra parte si abbassò il cappello e si diresse verso la tomba.

Non si sarebbe mai aspettato che lì ci fosse anche Jimmy, il suo genero.

Rimase scolpito dallo stupore e per un po’ non riuscì a muoversi.

<< Cosa c’è, signor Crawl? Perché non si avvicina? Ha forse paura che lo spirito di sua figlia si vendichi per aver avuto un padre così fottutamente inutile?>>

Aveva la voce completamente rotta dal pianto e stringeva i pugni.

Era un uomo disperato.

Stephen lo sapeva, ma non l’aveva mai preso in considerazione. Da bravo egoista.

Si avvicinò lentamente e si piazzò accanto a lui, a testa china, mentre l’altro singhiozzava rumorosamente.

Mentre guardava quella scultura in pietra, risalì quel groppo che non lo aveva mai abbandonato.

<< Un uomo...>> disse con voce sottile. << ...non dovrebbe mai piangere.>>

E dicendo questo si mise una mano davanti agli occhi, mentre Jimmy s’inginocchiò quasi come se le gambe avessero ceduto.

Urlò. Disperatamente.


Jack era sdraiato di fianco a Louise e l’osservava dormire.

Fondamentalmente era lei ad averlo sconvolto totalmente.

E pensare che lui l’aspettava per continuare la sua opera. Aveva invece ottenuto l’effetto completamente contrario, aveva dato una fine a tutto.

Aveva smesso di prendere le pasticche, non riusciva più a non provare nulla. Tutto quello in cui credeva si stava sbriciolando e stava diventando come grigia cenere.

Suo fratello, si stava allontanando.

E per questo lui tremava dal terrore, tremava da capo a piedi, nel modo più terrificante in cui un uomo possa tremare.

Tremava di morte.

Mentre le sue pupille si assottigliavano e il respiro cominciava a venir meno, sentì un calore avvolgergli la mano e istintivamente spostò gli occhi su Louise, che lo stava guardando, sorridendo.

Quegli occhi azzurri carichi d’affetto infusero in lui un’aria serena, tranquilla.

Quegli occhi che aveva sempre evitato da bambino.

Louise era la sua umanità, ma anche la sua salvezza.

L’abbracciò e si addormentò poco dopo

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Capitolo 24
*** Down ***




Era l’alba quando mi svegliai.

Guardare quella luce calda mi fece pensare a quella sera dove il tramonto aveva invaso il mio cuore e quello di Jack, dove regnava il ghiaccio.

Però ora Jack era accanto a me, e mi stava ancora stringendo la mano. Toccandomi il ventre ero consapevole di portare la sua creatura, ma istintivamente mi si accaniva contro la tristezza di non poter portare avanti quella gravidanza.

Di essere ancora una volta inutile per lui.

Il solo fatto di sentire quel calore, di vedere il suo volto sereno e tranquillo mentre dormiva immerso in chissà quale sogno, mi rinfrancava e mi faceva provare emozioni immense.

Tanto che una lacrima scorse il mio viso, tristemente e silenziosamente.

Strisciai fuori la mia mano dalla sua e mi diressi verso il bagno a fare una doccia. Mentre il getto dell’acqua calda mi batteva sul corpo pensavo a mille aghi acuminati che mi trapassavano il cuore, quel pensiero non aveva uno scopo né tantomeno un fine logico, era solamente venuto a galla senza nessun perché.

Una volta lavatami preparai la colazione.

Ci misi l’anima, preparai un sacco di roba e sorrisi di cuore quando lui spuntò nel vano della porta, ancora assonnato e con gli occhi semichiusi.

In quella veste sembrava proprio...un umano.

Quell’umano che avevo sempre disperatamente invano cercato, quel fratello di cui poter andare fiera, con cui potermi sfogare e con cui dividere metà della mia vita.

Lui era Jack.

Sorrisi ampiamente e lo invitai a sedersi e a servirsi.

Lui ancora non sembrava molto convinto e continuava a stropicciarsi un occhio.

<< Hai preparato tutto questo per me?>> chiese con la voce impastata dal sonno.

Mi sembrava di aver di fronte quel figlio mai avuto.

<< Si, stupido, vieni e mangia, scommetto che stai morendo di fame.>>

E, come volevasi dimostrare, il brontolio del suo stomaco mi diede ragione.

Si sedette e cominciò a prendersi ciò che desiderava, lo fissai per un po’, tanto da metterlo in imbarazzo, infatti si fermò con la forchetta a mezz’aria e mi guardò con aria interrogativa.

Io scoppiai a ridere, risi di gusto per la prima volta in vita mia mi sentii felice.

<< Che c’è?>>

<< Nulla. Ho ripensato che avrei tanto desiderato farlo da bambina.>>

Mi guardo un attimo, sorpreso. Poi abbassò gli occhi e sembrò incupirsi.

<< Mi dispiace, Lou.>> disse con tono rammaricato.

<< E’ acqua passata Jack, ora siamo qui, tu ed io. Finalmente due metà ritrovate. Se ti andrà poi mi racconterai la tua storia. Così che io possa comprenderti fin dove posso, e affinché possa recuperare tutti questi anni d’assenza.>>

Jack rimase in silenzio, poi sorrise.

Il suo primo, vero sorriso. Per me. Io mi sentii invadere di gioia e gli sorrisi di ricambio.

<< Volentieri, sorellina.>>

Già, penso che il momento più bello sia stato quello.

Nessun rimpianto, rimorso o brutto ricordo.

Solo gioia, felicità, stato d’animo eccellente.

Mai avrei pensato che... da tutto ciò scaturisse l’inferno.


<< Quando ero ancora un moccioso non mi piaceva nulla, almeno da cosa posso ricordare non sono mai stato uno che si potesse affezionare a qualcosa o qualcuno. Semplicemente tutto il mondo mi stava indifferente, probabilmente ho preso dalla mamma.

Fatto sta che lei lo trovava irritante e me lo faceva pesare ogni santo giorno, stavo quasi diventando matto, infatti me ne andavo a passeggiare nel bosco, dove di solito allevavo dei piccoli animaletti. Molte volte ho tentato di trovare il coraggio di chiederti se volevi venire con me, ma ogni volta che ci provavo ti vedevo sempre intenta a far qualcosa così mi convincevo che comunque tu non avessi bisogno di me e che, anzi, ti avrebbe dato fastidio che io ti rivolgessi la parola. Allora me ne stavo per i fatti miei a gironzolare qua e là.

<

Nostro fratello, il demonio. E fu allora che mi affidò la missione. Quella missione che sto compiendo ancora oggi. Mi spiace Lou, davvero. >>

In quel momento alzò i suoi occhi color ghiaccio e mi scrutò nell’anima, mi sentii gelare.

<< Ma è solo grazie a te se adesso ho una possibilità di sconfiggere il mio terrore. Ti devo davvero molto, quando ho letto il libro ho sentito la tua disperazione. La tua voglia di capire. Ma io non sono pazzo, non lo sono. Non lo sono...>>

Si prese il volto tra le mani e iniziò a tremare convulsamente, lo abbracciai forte e aspettai che la crisi passasse.


Dopo circa mezz’ora ci ritrovammo seduti nelle poltrone davanti al camino scoppiettante, trassi un sospiro di sollievo e mi sfiorai il ventre.

Poi lo guardai, mentre era assorto nei suoi pensieri.

<< Vado dal dottore, tra un po’ dovrebbe aprire.>> dissi, aspettando la sua reazione, quasi desiderandola.

Ma non avvenne nulla. Lui chiuse solo gli occhi. Temetti il peggio allora tentai il tutto per tutto.

<< Ci proverò, Jack. Ma le possibilità sono davvero scarse.>>

Allora aprì gli occhi.

<< Di nuovo.>> disse.

Soltanto questo.

Ma mi bastò per scoppiare a piangere a dirotto, mentre lui ritornava completamente privo d’espressione.

Tutto ciò che desiderava era vendicare suo fratello con suo figlio, ma se anche suo figlio venisse ucciso, cosa gli rimarrebbe?

<< Scusami se non ne sono in grado, scusami se, alla fine, sono sempre inutile. Scusami se alla fine non potrai mai dire di avere una sorella che ti ha reso felice, scusami...>>

Jack si girò, verso di me, non era più inespressivo.

<< Stupida, non dirlo mai più. >> disse lentamente.

Così aspettai le tre del pomeriggio, poi lo salutai e uscii. Col nodo in gola perché sapevo già cosa mi aspettava una volta là.


Varcai la soglia dello studio, nel mio abito sobrio e nella mia espressione mortificata. Il dottore mi invitò a sedermi e ad esporgli il problema.

Facile per lui.

Fin troppo.

<< Sono incinta, ma sono consapevole che probabilmente non potrò portare avanti la gravidanza. Volevo una conferma, tutto qui.>>

<< E’ la prima volta?>>

Che domanda inutile.

<< No,>>

<< Va bene, allora si tolga i pantaloni e si metta nella posizione del lettino, arrivo subito.>>

Obbedii, conoscevo le procedure d’altronde.

Mentre mi sistemavo sentivo ancora quell’aleggiare di tristezza impossessarsi di me, chissà se quel piccolo fagiolo lo percepiva. No, probabilmente era troppo presto.

Il dottore si piantò davanti al monitor e accese il macchinario che cominciò a ronzare fastidiosamente, poi s’infilò il guanto e mise la mano dentro, spingendo.

Io chiusi gli occhi e non pensai più a nulla.

Dopo un po’ di tempo sentii distintamente la voce del dottore. Non afferrai propriamente tutto, ma l’ultima parte bastò per far rimbalzare il mio cuore.

<< ... la gravidanza procede bene per essere solo alla prima settimana, quindi per adesso non vedo nessun problema di carattere fisiologico. Certo non me la sento di pronosticare il meglio adesso, ma neanche il peggio. Quindi non stia così giù, signorina.>>

Mi sorrise e io rimasi talmente pietrificata che credo di aver assunto un aria da idiota, visto che lui si mise a ridere e mi intimò di vestirmi e tornare a casa a riferire tutto a mio marito.

Ma non importava il piccolo errore che aveva fatto.

Avevo deciso che non sarei tornata da Jack, per un po’ volevo capire cosa la sua mente avesse provato nel comunicare con qualcosa di morto. Indipendentemente dalla risposta avevo deciso di andare a trovare nostro fratello, che un nome non l’ha mai avuto.

Andai in macchina e mi diressi verso quella che era l’abitazione di Jack...

...mentre il campanile scoccava le cinque del pomeriggio.

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Capitolo 25
*** Guns ***




Davanti a quella porta si sentì mancare il fiato.

Era la seconda volta che sostava lì davanti e nuovamente sentiva come se aprendo quell’ingresso si sarebbe trovata invasa dal totale abbandono e dalla totale miseria che quei piccoli feti esprimevano.

Non era sconcertante, neanche terribile o orrendo, non faceva accapponare la pelle.

Quello spettacolo era soltanto triste.

Aveva il dono di far aderire l’ansia al cuore con un’intensità allucinante.

Aprì la porta, che cigolò rumorosamente. “Avrebbe bisogno di un po’ d’olio, vero Jack?” pensò con un sorriso prima di addentrarsi in quella triste passerella.

Li volle toccare tutti, per sentire se riusciva a captare qualcosa. Ma le uniche cose che riusciva a percepire erano la disperazione di quelle sfortunate mamme, ree di essere incinte.

Li sfiorò ad uno ad uno e cercò di immaginare il volto, le sembianze e i caratteri di ognuno di loro, fondamentalmente li raffigurava per sentirsi bene, per far finta che tutto ciò non fosse mai accaduto, ma non poteva cancellare l’orrore che suo fratello aveva provocato. Era famoso in tutto il mondo come colui che squarta le donne incinte, il mostro dei bambini, il rapitore dei feti e chissà con quanti altri nomignoli.

Tutto quello che aveva fatto non poteva venire cancellato.

Allora smise di sfiorarli perché una maledetta morsa gli strinse il cuore e fece salire il nodo in gola.

Si avvicinò al barattolo che era venuta a visitare.

Al fratello.

Al demone.

All’essere vivente che non era mai stato.

Alla persona che non era mai potuta essere.

All’esistenza che non era mai stata dimenticata.

Si dice che un uomo muore solo quando viene dimenticato, l’aveva letto da qualche parte, ma non ricordava dove. Fatto sta che era una frase fatta bella e buona, ma soprattutto era vera.

Quella piccola creatura era morta dieci anni prima, ma era ancora viva nel cuore di Jack solo perché lui non era mai riuscito a dimenticarlo veramente.

Davanti a quella cosa informe ed immobile iniziarono a tremargli le gambe, al solo pensiero di quanto terrore avesse provocato a Jack.

Lo sfiorò e chiuse gli occhi. Poi parlò lentamente.

<< Forse questa è la cosa più stupida che io abbia mai fatto. Ma devo compiere questo gesto per liberare Jack da te, fratello mio. So che probabilmente hai sempre avuto rancore verso la mamma, ma non avevamo davvero soldi per poterti mantenere, lei faceva già enormi sacrifici per riuscire a sfamare decentemente noi. Ha solo sbagliato a non essere stata cauta. Ma non era una cattiva donna. Anche se mi picchiava e distruggeva i nervi di Jack, lei ci voleva bene. Nonostante tutto. So che probabilmente anche tu volevi nascere, vivere, imparare a camminare, ridere, piangere, avere le prime cotte, i primi desideri sessuali, i primi sogni. So che la mamma ti ha impedito tutto questo. Ma ti prego, libera Jack da questo legame, fa sì che almeno lui viva serenamente, che non sia più terrorizzato dalla tua figura immobile. Che possa pensare a te solo come a quel fratellino mai avuto. E non come a un demone. Quindi ti prego, liberalo.>>

Abbassò la mano e rimase per un po’ assorta nei suoi ricordi, quando bussarono alla porta...


<< Jack, caro il mio Jack, come va? Spero bene vero? Anzi si vede dalla tua faccia che stai fottutamente bene. Bene allora voglio informarti che grazie a te la mia vita se n’è andata a puttane. Che ne dici se mi prendessi la mia bella rivincita eh?>>

Avevano suonato alla porta, Jack ancora appisolato pensava fosse Louise che aveva dimenticato le chiavi, così andò ad aprire. Ma quando si vide davanti Stephen, il suo cuore mancò un colpo.

Mentre quell’uomo parlava Jack s’intimò di calmarsi, non era salutare agitarsi, lui lo avrebbe capito e attaccarlo sarebbe stato più difficile. Non poteva farsi sopraffare dai sensi di colpa, ora doveva solo sopravvivere, così pensò che in quella situazione lui era avvantaggiato, visto che era molto più veloce e agile di Stephen. Allora si calmò e aspettò che fosse l’altro a fare la prima mossa.

<< Cosa c’è? Perché mi guardi con quell’aria tanto tranquilla? Ho una pistola, cazzo, una pistola! E tu sei completamente disarmato, cosa cazzo ti fa stare così tranquillo?>>

Agitò la pistola per aria e la puntò sopra la fronte di Jack che non aveva fatto una piega.

<< Spara pure, se ciò può farti sentire meglio.>> disse in tono totalmente atono.

<< Figlio di puttana, tu con questa faccia da cazzo mi fai imbestialire più di ogni altra cosa, dopo che ti avrò trapanato il cervello ti fracasserò il cranio.>>

<< Basta parlare.>>

Jack capì dal suo tono che non c’era bisogno di attuare nessuna strategia.

Stephen lo stava guardando con uno sguardo furioso, terso, livido, da pazzo omicida. Ma quegli occhi Jack li conosceva bene, non avrebbero mai ucciso, erano molto diversi dai suoi.

Rimasero così per parecchio tempo, la mano di Stephen tremava e non riusciva a premere il grilletto, Jack chiuse gli occhi e afferrò piano la pistola. Poi l’abbassò.

<< Torna a casa.>> disse con un filo di voce.

Ma Stephen afferrò la sua mano e conficcò la bocca della pistola nel suo cuore. E piangendo lo supplicò.

<< Sparami. Spara a quest’uomo inutile, spara a questa testa di cazzo che non è riuscito a difendere nessuno dei suoi cari, sparami e togli di mezzo questa agonia che mi sta consumando. Ti prego spara bastardo!>>

Era del tutto fuori di sé. Jack aveva ancora gli occhi chiusi.

<< E’ davvero questo che vuoi?>>

<< Si, dannazione, mi hai tolto tutto. Non mi resta altro che morire.>>

Allora aprì gli occhi, erano lucidi. Stephen assunse un’ espressione sorpresa.

<< Allora sei anche tu capace di commuoverti, chi mai avrebbe immaginato che alla fine sarei stato così patetico da farti piangere. Ora posso dire di non essere mai valso un cazzo in questa vita. Facciamola finita, per favore.>>

<< Mi dispiace.>>

Fu un solo colpo, dritto al cuore.

Un’insignificante pallottola che pone fine alla vita di un uomo, come un insignificante fagiolo che distrugge la vita di un uomo.

Un paradosso.

Stephen barcollò.

<< Se non vuoi perdere tua sorella, va a casa tua, bastardo...>> balbettò.

Poi le sue pupille persero vigore.

E lui spirò.

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Capitolo 26
*** Death ***


Le luci dei lampioni illuminavano quella città, quadro di una disperazione celata in malo modo, espressa per metà e uccisa per intero

Le luci dei lampioni illuminavano quella città, quadro di una disperazione celata in malo modo, espressa per metà e uccisa per intero.

Mentre Louise apriva la porta, un presentimento le fece prevedere ciò che poi effettivamente accadde.

Un uomo. Con la pistola. La voleva. Uccidere.

L’unica azione che le venne in mente di fare fu quella di ridere. Una strana risata, malferma, poco lucida. L’uomo dal canto suo la guardò per qualche istante, poi sorrise.

<< Vedo che trovi tanto divertente il fatto che io ti stia puntando una cazzo di arma nel centro della testa. Bene perché ti farà più ridere il grosso buco che ti farò da qui a poco nel cervello.>>

Ma Louise non riusciva a smettere. Era indubbiamente una risata piena di nervosismo, ma era stanca di tremare, piangere, dimenarsi, urlare e disperarsi.

Cosa rimaneva se non ridere?

Ma l’uomo non sparò, fino a che Louise non smise di ridere, solo allora lei si rese conto di quanto quella sua azione avesse messo in serio pericolo la sua vita.

<< Bene, vedo che sei rinsavita, mi sorprende il fatto che tu non mi abbia ancora chiesto per quale motivo io lo stia facendo. D’altronde tu non sei Jack...>>

Louise chiuse gli occhi. Ma non parlò. Non c’era più nessuna traccia d’ilarità nel suo volto.

<< Qualunque cosa sia successa, uccidermi non la risolverà, la persona che hai perso non tornerà comunque in vita.>> disse Louise dopo che il silenzio si era fatto pesante. Dicendo queste parole aveva assunto uno sguardo duro e lo guardò dritto negli occhi.

Jimmy tremò da capo a piedi, un po’ per la rabbia, un po’ per il terrore, un po’ per il freddo di quella maledetta sera.

Lui tremò.

<< Ma cosa cazzo ne vuoi sapere tu? Eh? Cosa vai blaterando? Dici cose senza senso, ma te ne rendi conto? >>

<< Hai ragione, non so nulla, non so niente di te, della persona che Jack ha ucciso, della tua famiglia né della tua storia. Ma è così per tutti, la vendetta non ha mai portato a nessun fine logico. Ti svuota, ma non ti rende felice. Ti senti meglio, ma non ti ridà la persona che hai perso. Allora ricaschi nell’oblio dei sensi e tutto ritorna come prima. E’ questo che vuoi? Jimmy?>>

L’uomo sbiancò.

<< C-come fai a sapere il mio nome? M-maledetta, sei una strega, si, una strega!!>>

urlò, ormai non c’era più nulla da fare, nella sua mente si era spento il meccanismo.

Louise sorrise.

<< Un giorno mentre controllavo la posta, mi arrivò una lettera strana, che commentava la mia ultima fatica. Quel tale mi disse di chiamarsi Jimmy e che molte volte pensava esattamente le cose che io avevo scritto. In allegato c’era una poesia che mi fece tremare da capo a piedi. Mi rimase impresso l’uso appropriato del linguaggio, la melodia e le sensazioni che quelle parole ti marcavano a fuoco dentro. Ricordo perfettamente che finiva con queste parole: “ Se dall’inferno non si può fuggire, dalla vita si può morire. Meglio che niente.”, ricordo che m’innamorai di questo verso. Avrei voluto risponderti, ma davvero mi mancavano le parole, e dirti che era solamente bella avrebbe offeso quel capolavoro. Inoltre nella lettera c’era una foto e una frase. “ Salutami, se mi vedi, mia cara scrittrice.”, allora lasciati salutare, Jimmy.>>

Piangeva, perché quell’uomo tanto fragile lo stava facendo.

Ad ogni parola che pronunciava il suo volto si trasformava sempre più in una maschera di dolore e, quando finì, non poté fare a meno di abbracciarlo.

<< Tu, tu sei Louise, la scrittrice che amavo tanto, tu sei lei? Tu sei la persona che ha saputo farmi piangere, che è entrata nel mio cuore senza il mio permesso? >>

<< Si, Jimmy, sono io.>>

La pioggia iniziò a battere, come a voler amalgamare quelle due persone tanto simili da ripugnarsi a vicenda, ma tanto disperate da volersi bene senza nemmeno essersi mai viste.

Jimmy singhiozzava mentre si teneva ancorato a quella donna che aveva ammirato e stimato.

<< Mio padre,>> sussurrò.

Poi rimase in silenzio.

<< Ti ascolto.>> lo incalzò Louise.

Non voleva entrare, non voleva assolutamente che quella pioggia smettesse di battere su di loro.

<< Mio padre, abusava di me, continuamente.>>

Jimmy strinse più forte.

<< E io non riuscivo ad urlare, non riuscivo ad emettere alcun suono perché ero terrorizzato, perché non capivo, perché ero convinto che papà mi facesse quello perché voleva una femmina. Io... io non riuscivo a capire. Ma non riuscivo neanche a piangere, a sfogarmi. Non lo dissi mai a nessuno. Ma indubbiamente da quegli episodi la mia mente ne soffrì le cause. Ma non sono pazzo... non lo sono. Solo Hally mi ha creduto, mi ha accolto tra le sue braccia, mi ha salvato. Solo lei credeva che io fossi normale. Ma ora lei... ora lei è morta. E IO COSA DEVO FARE?>>

<< Vivi. Vivi per lei. Vivi al posto suo e fa tutto ciò che lei desiderava fare. Fallo in suo onore e vedrai che lei ne sarà felice...>>

Ma fu in quel momento...

...che Jimmy vide Jack spuntare dall’angolo buio della strada, trafelato dalla corsa. Allora i suoi occhi si spalancarono.

La sua follia, divampò.

La sua ragione, morì.

La sua anima, si spense.

Si staccò da Louise, la scaraventò lontano e non la guardò, poi successe tutto velocemente.

La sua pistola puntò Jack.

La sua mano premette il grilletto.

La pallottola raggiunse uno sterno. Ma non quello di Jack.

Louise era corsa in silenzio, piangendo lacrime invisibili. Non poteva permettere che Jack venisse ucciso, perché Jack era tutta la sua vita. Piuttosto preferiva morire lei.

Il dolore fu atroce, lancinante e bruciante.

Ma non era dolore ciò che provava Louise, bensì sconfitta.

Umiliazione.

Mortificazione.

Rimase tra le braccia di Jack, inerme e fragile come non lo era mai stata.

Sempre più fredda.

Sempre più gelida.

Jack la guardava stralunato, sotto completo shock. In quel buio i suoi occhi sembravano due scintille.

<< Jack, cosa c’è? Perché mi guardi così?>>

Louise sorrideva, piangeva, rideva e tremava.

<< Stai... stai diventando fredda...>> sussurrò toccandole il viso.

<< Sarà che mi sono finalmente liberata di tutto quel ghiaccio che ristorava nel mio cuore, Jack, sarà che finalmente adesso sono libera...>>

 

Jimmy urlò. Si prese la testa tra le mani e scappò via. Dopo poco si sentì uno sparo.

 

Louise chiuse gli occhi.

<< Era un brav’uomo, Jack, non avercela con lui.>>

Jack non rispose.

<< E’ un peccato, però.>> osservò Louise, sempre sorridendo.

<< Cosa?>>

<< Sta piovendo, non posso vedere se ci sono lacrime, nel tuo volto. Se avessi visto delle lacrime, avrei potuto dire che hai ripreso perfettamente le emozioni, ma non posso farlo.>>

Jack, allora, singhiozzò.

<< Non morire...>>

<< Jack, io non posso morire adesso. Non ora che ti ho ritrovato.>>

<< Lou, Lou, perché diventi ancora più fredda?>>

<< Jack, il bambino...>>

Louise tossì e sputò fuori molto sangue. Poi riprese col fiatone cercando di sorridere.

<< Questo bambino, poteva vivere. Me lo ha detto il dottore. Lo sai? Potevo essere utile, ma non lo sono stata, per l’ennesima volta...>>

<< Smettila di dirlo, smettila, smettila, smettila. Per favore...>>

Louise sorrise, per l’ultima volta.

<< Anch’io sto piangendo Jack, ma di felicità. Grazie...>>

Il gelo si intensificò, Louise non c’era più.

E nemmeno Jack.

 

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Capitolo 27
*** Epilogue ***


Epilogo

Epilogo

 

Capii che non potevo aspettare oltre.

Il solo fatto di restarmene lì con le mani in mano mi faceva infuriare.

Io, Orpheus Da Locus, 36 anni.

Non potevo lasciare da solo Jack.

Allora presi il giaccone e senza ombrello mi avventurai in quella triste notte di pioggia.

Mentre camminavo ripensavo alla mia vita, ai miei fallimenti, ai miei successi che erano stati dei fallimenti per gli altri. Al mio giocare con le altrui esistenze, al mio sopravvalutare i sentimenti, al mio soprassedere la morte senza davvero capirne il significato.

A me che non avevo mai sparato a qualcuno e che adesso portavo una pistola che sembrava pesare come un macigno nella tasca dei pantaloni.

Non immaginavo cosa avrei trovato una volta sul posto, ma mi bastava sapere che non era nulla di buono.

Quando arrivai e vidi ciò che era successo, capii che avevo ragione.

Jack era l’ombra di un uomo, ormai.

Stava distruggendo ad uno ad uno i barattoli e nel farlo silenziosamente, urlava ancora di più dentro. Era ferito, interamente pieno di tagli e sanguinava copiosamente.

Io non mi mossi dal vano della porta, non volevo interrompere quello che aveva iniziato. Così vidi dove voleva arrivare, tenendo ben salda la pistola.

Non sembrò accorgersi di me.

Quelle ferite mi ricordavano quando lo vidi la prima volta, pieno di sangue e sconvolto. Feci una smorfia e chiusi gli occhi.

Prima o poi tutto ha una fine, a volte viene da sé, a volte qualcuno te la impone.

Jack non era più in grado di vivere e anche se io non ero nessuno per decidere la morte di un uomo, sapevo che se lui avesse continuato a vivere anche un solo giorno avrebbe sofferto una morte peggiore.

Agonica.

Piena di terrore.

E io non volevo.

Volevo donare a Jack una morte fulminea che lo strappasse da quello struggimento.

Ma non in quel momento, dove lui stava chiarendo i suoi sentimenti verso quella forma immobile che lo aveva assoggettato per tutta la vita.

Jack si avvicinò a quel barattolo, rimase così a lungo, come per prendere una decisione. Alla fine dopo molto tempo alzò il braccio e lo afferrò. Poi sussurrò.

<< Mi hai rovinato l’esistenza, ma ora morirai con me.>>

Aveva la voce orrendamente rotta e mi sentii invaso dalla pietà.

Aprì il barattolo, prese il feto e lasciò cadere tra gli altri il contenitore.

Alzò la mano alla bocca e...

... lo inghiottì.

Chiusi gli occhi, un moto di nausea mi aveva rivoltato lo stomaco.

Quando li riaprii vidi Jack guardarmi con uno sguardo da totale squilibrato e un sorriso oscenamente squallido e terrificante.

<< Avanti, sparami, Orpheus. Da una fine a tutto, questa sera. Non è la tua specialità far finire tutto quando ti pare? Per te la vita degli uomini vale meno di zero, per cui vai. Sbrigati.>>

Non riuscivo a muovermi per quanto ci provassi.

<< SPARA!>>

Lo guardai.

Mi avvicinai.

Lo abbracciai.

Presi la pistola dalla tasca e la puntai davanti allo stomaco, lui era rimasto immobile.

In quel momento inspiegabilmente scoppiai in singhiozzi come un bambino.

<< Ti voglio bene...>> sussurrai.

Sparai.

Ponendo fine ancora una volta, a tutto quanto.

 

 

 

Il famoso assassino che squartava le donne incinte è morto ieri ad un ora imprecisata. La causa della morte è stata un colpo di pistola di piccolo calibro. Nessun parente si è presentato all’obitorio, ma si suppone che l’altro cadavere ritrovato nelle vicinanze appartenente alla scrittrice di successo Louise Armstrong, sia anche quello della sua gemella, data l’incredibile somiglianza. Il servizio a cura di Mary Landon.

 

 

In quel cimitero di Oxford’s street vi erano due tombe vicine.

I volti raffigurati nelle piccole foto rappresentavano due persone pressoché identiche.

La piccola didascalia annunciava i loro nomi e la loro età.

In quel cimitero di Oxford’s street il sole sopravvenne alla pioggia.

Così che tutte le anime in pena, potessero finalmente riposare in pace.

Nel bene e nel male.

 

FINE

 

 

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