Cercavi giustizia, hai incontrato me

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Shame ***
Capitolo 3: *** Poker ***
Capitolo 4: *** Violence ***
Capitolo 5: *** Boxe ***
Capitolo 6: *** Volunteer ***
Capitolo 7: *** Afraid ***
Capitolo 8: *** Decision ***
Capitolo 9: *** Unlucky ***
Capitolo 10: *** Strong ***
Capitolo 11: *** Flute ***
Capitolo 12: *** Blow ***
Capitolo 13: *** Host ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


prologo

 

 

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Ho sentito una canzone una volta, anni fa, di cui il titolo mi si è impresso a fuoco nella memoria: “Cercavo giustizia e ho incontrato la legge

Non saprei dire per quale motivo mi colpì tanto eppure ancora oggi ripensandoci un brivido mi sale lungo la schiena.

Forse è perché in qualche modo rispecchia perfettamente tutto ciò in cui credo.

E io nella giustizia non ci credo.

Sono tanti quelli che si beano nella convinzione che esista, nell’idea che alla fine trionferà sempre.

Non è così: la giustizia non esiste e la legge lo dimostra.

Potrò sembrare cinico e ripetitivo ma la verità è che sono semplicemente realista.

Bastardo, fuorilegge, truffatore, apatico, insensibile… me ne hanno dette di tutti i colori e non me la sento di confutarne nessuna, perché in fondo lo sono sul serio.

Più di tutte però, sono stronzo.

Semplice, coincisa, sette lettere, il riassunto della mia vita: stronzo.

Quale avvocato non lo è?

Sono arrivato a chiedermi se è possibile che tutti gli avvocati sono stronzi perché solo gli stronzi possono diventare avvocati.

Bisogna ammettere che la cosa avrebbe senso.

Io però posso essere orgoglioso di dire che sono il più stronzo in assoluto.

Odio il mio lavoro, con tutto il cuore. Certo sono bravo: tanto bravo quanto stronzo.

Mi capita spesso di accomunarmi ad un personaggio creato da Carofiglio: Guido Guerrieri.

E’ anche lui un avvocato, bravo e dalla carriera non proprio onesta.

Non quanto la mia ci tengo a precisare. Se Guerrieri di tanto in tanto si salva tuttavia, con uscite degne di un eroe, a me non era mai capitato: avevo imparato a convivere con quel senso di disagio e malessere che ormai mi apparteneva. Non ci facevo quasi più caso.

Mi chiamavano “Faccia d’angelo

Se all’inizio era un nomignolo bonario, puramente attribuitomi per il viso candido e perfetto che attirava le ragazze come le api al miele, con il passare del tempo il significato del soprannome era pian piano cambiato, assumendo vari sottintesi.

Si era iniziato a pronunciarlo con un timore quasi reverenziale o in alternativa con totale disprezzo, perché il viso d’angelo era ingannevole: nascondeva un animo bastardo.

Chiunque mi conosceva lo sapeva.

Mai credere a ciò che il mio volto diceva.

Mai fidarsi delle mie espressioni.

Mai farsi distrarre dai miei occhi dorati.

La cosa più saggia da fare era stare attenti alle mie parole.

Ben attenti.

Anche così però c’era poco da fare: contro di me non si vinceva.

Non ero contento della mia vita, non ne ero soddisfatto.

A trentatré anni ancora single, sconsiderato e folle. Quelli che si consideravano miei amici mi invidiavano: per i soldi, per le donne, per tutto.

Ma io non la pensavo così.

Mi facevo schifo.

Ancora oggi non so dire per quale motivo accettai quel caso: era una pazzia, un modo come un altro per rovinarmi la carriera… e la vita.

Lo intuii dal primo momento che mi stavo cacciando in un bel guaio.

Qualcosa dentro di me mi aveva avvertito, gridandomi di scappare e voltare immediatamente le spalle a quegli occhi da cerbiatto che mi fissavano spauriti.

Ma non lo feci.

Ricambiai lo sguardo, mentre il mio abituale ghigno mi scompariva piano dalle labbra.

Mossi un passo verso quella figura esile e tremante.

E per qualche motivo che mi è ancora sconosciuto allungai la mano.

“Edward Cullen”

 

*

 

 

Ci tengo a precisare, non so di preciso il perché, che è la prima volta che scrivo qualcosa ispirandomi alla Meyer.

Di solito sono per lo più un’assidua frequentatrice della sezione “Originali, romantico” dove ho già pubblicato diverse cose.

Questa volta però ho ricevuto serie minacce e mi sono “decisa” a provare.

Non linciatemi.

E’ orrenda, forse. E lo si capisce già dal prologo, direte voi.

Tentar non nuoce, comunque. ^^

Spero in qualche commento, così per sapere se a qualcuno potrebbe anche solo un pochino interessare un tanto improbabile seguito **

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Capitolo 2
*** Shame ***


2

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Shame

 

- Vergognati-

La voce si insinuò piano, quasi cautamente, nei miei sogni.

Mossi lentamente la testa, sbattendola così involontariamente contro qualcosa. Sentii un mugolio uscirmi dalle lebbra ed ebbi l’impulso di allungare la mano verso il punto dolente, ma non ce la feci.

Non ne avevo la forza: mi sentivo completamente intorpidito, come se tutti i muscoli avessero deciso di scioperare all’unanimità.

Ammutinamento, pensai.

Socchiusi pigramente le palpebre, arrischiandomi a sbirciare il mondo esterno.

Non fui poi tanto sorpreso di trovare nella mia visuale solo una serie apparentemente infinita di fascicoli: uno scenario che conoscevo bene.

Era all’incirca l’ennesima volta che mi svegliavo con quello spettacolo semplicemente mozzafiato!

Nemmeno il rendermi conto che la voce sarcastica e biasimevole che sentivo stava esponendo i miei esatti pensieri, mi stupì poi tanto. Anche quello era diventato di routine ormai.

Cercai di muovermi ancora, ma al più piccolo movimento sentivo tutto il collo irrigidirsi e la schiena urlare dal dolore.

L’età che si fa sentire, temetti.

Doveva essere quello: stavo diventando esageratamente vecchio.

Quanto mi mancava a raggiungere i quaranta? Otto anni, una bazzecola.

Di lì a poco mi sarei ritrovato in una tomba.

Non mi passò neanche lontanamente per la testa che forse non erano già sintomi dei reumatismi i miei, ma semplicemente le conseguenze di troppe poche ore di sonno in una posizione decisamente ed assolutamente troppo scomoda.

Fortunatamente ci pensò sempre la stessa voce a farmelo notare.

Aveva preso quasi ad urlare a quel punto, martellandomi nella testa.

E che cavolo!

Un po’ di rispetto non è dovuto?

Una volta, quando si andava a svegliare un amico quasi in coma per via di un pauroso mix di alcool e fumo, lo si trattava con un certo riguardo!

- Tu! Ma ti rendi conto di come ti stai riducendo? Te ne rendi minimamente conto?!-

L’ultima parte l’aveva scandita per bene, quasi sillabandola, per accertarsi che lo stessi ascoltando.

In risposta, non so come, trovai la forza di tirarmi su e mettermi a sedere correttamente.

Lanciai un’occhiata in giro e mi ritrovai a guardare sconsolato il mio ufficio: non mi ero sbagliato, i fascicoli erano i miei e quindi logica deduzione, avevo dormito ancora una volta sulla scrivania.

Abbattuto più che mai mossi una mano verso la  bottiglia di scotch quasi vuota alla mia destra: un bel bicchierino appena sveglio ci voleva proprio. Non riuscii nell’intento, però: una mano più scattante della mia l’afferrò allontanandola rapidamente.

Alzai lo sguardo, fissando con occhi truci il giovane davanti a me: lui ricambiò tranquillo lo sguardo, con aria cattiva ed accigliata.

Non aveva intenzione di cedere.

Con un sospiro mi lasciai andare contro lo schienale della sedia, accasciandomi e piegando la testa all’indietro. Un’agile movimento del capo mi fece scendere sugli occhi gli occhiali scuri che prima tenevo a mo’ di frontino, la mano sinistra nel frattempo, l’avevo furtivamente introdotta nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori un pacchetto di sigarette.

Ancora una volta fui stroncato nell’atto.

Sentii che il pacchetto mi veniva tolto di mano e un ringhio sordo mi salì in gola.

Ora stavamo esagerando. Decisamente.

Tornai a cercare con gli occhi Jasper, ma lui non mi guardava: camminava per la stanza a passo svelto, girando attorno al divano, strusciando i piedi sul tappeto damascato, ignorando il sole che placido sorgeva fuori dall’immensa vetrata che occupava un’intera parete.

Non osservava niente in particolare: lasciava solamente vagare lo sguardo, fino a quando non lo fermò sulla mia scrivania. La studiò piano ed attentamente, scrutandone ogni dettaglio.

A partire dal disordine generale di faldoni, fascicoli, carte e penne, per poi concentrarsi sulle piccole cose come mozziconi di sigaretta, gocce di alcool rappreso, pacchetti vuoti di preservativi.

Non ne andavo fiero: ero sempre stato disordinato e me ne ero sempre fregato altamente.

Qualcosa però nel suo sguardo riuscì a mettermi a disagio.

Smisi di guardarlo: lo odiavo in quel momento.

Odiavo la mia coscienza.

Odiavo il mio grillo parlante.

Odiavo il mio migliore amico.

Avrei mandato a puttane il mondo intero in quel momento.

- Non mi piace-

Restai immobile, attendendo che continuasse senza guardarlo: il suo sguardo accusatorio non mi avrebbe cambiato niente. Ero già sofferente di per me, bastava così.

Dolorante per i muscoli, agonizzante per la sbronza.

Altro non mi serviva.

- Ti sei visto ultimamente? Da quant’è che non torni a casa tua? Da quant’è che dormi in questo stramaledetto ufficio?! Cazzo, Ed! Non puoi continuare così! Che c’è che non va? Che ti manca?!-

Pensai che erano tutte domande giuste.

Domande a cui non sapevo dare una risposta.

L’infallibile avvocato a corto di parole, scoop del secolo, signori e signore!

Accorrete numerosi a deridere lo sfigato dell’anno!

Scossi piano la testa, colpito ed abbattuto dalle mie stesse riflessioni.

Stavo perdendo la testa.

Sentii Jasper sedersi pesantemente su una sedia di fronte alla mia scrivania e prendere un gran respiro. Lo imitai, quasi incoscientemente, solo per fare qualcosa. E lui rise.

La tensione nella stanza sparì all’istante. Come se non ci fosse mai stata.

Sembrava quasi che lui non si fosse mai arrabbiato, che io non fossi mai crollato.

Jazz aveva quell’incredibile abilità: riusciva in qualche modo a condizionare gli altri. Imponeva ciò che più gli andava, poteva far credere e provare qualunque cosa.

Ma in fondo, era un venditore nato. Uno speculatore da paura.

Se non fosse stato tale, non sarebbe stato mio amico: chi è tanto stupido da diventare amico di un avvocato se non uno altrettanto stupido?

In questo caso però non si poteva parlare di stupidaggine, tutto fuorché quella.

- Non starai vivendo una precoce crisi di mezza età, Ed?-

Lo aveva chiesto con fare scherzoso, passandosi le mani sulla faccia e poggiando le gambe sulla scrivania, incurante delle cose che aveva così gettato in terra.

Per qualche motivo risi.

Una risata relativamente falsa: tutto era relativo in quella risposta non data.

La situazione si era alleggerita e il fatto che avesse smesso di gridare e fulminarmi con lo sguardo aiutava la mia emicrania; era anche vero però che pure quella domanda, seppur celata volutamente da un tono amichevole, era importante.

E io ancora una volta nell’arco di minuti non sapevo come rispondere.

Mi passai una mano sul viso, imitandolo ancora, per scacciare i cattivi pensieri. Mi tolsi gli occhiali, buttandoli via, lontani, sul pavimento. Quindi presi ad accarezzarmi i capelli, scompigliandoli e arruffandoli più di quanto già non lo fossero.

- Non lo so, Jazz. Non lo so che cazzo mi prende. So solo che non trovo più niente di interessante da fare. Non ho più nessuno sfizio. Non provo più nessuna emozione-

Avevo lentamente ingranato la marcia, partendo con una voce roca e sconnessa, per poi ritrovare il mio solito tono: calmo, appagante, ipnotico. Quello che mi faceva vincere i processi.

Sull’ultima frase ebbi un cedimento però.

Me ne accorsi io tanto quanto Jazz.

E conoscevamo il motivo.

Un buon avvocato certo, deve estraniarsi, imparare a vivere al di fuori.

C’era una moderazione per tutto, comunque.

E io avevo superato tutti i limiti.

Non provavo nulla. Niente.

E non andava bene, perché di solito questo non portava mai a nulla di buono.

Era già successo, ma a nessuno di quelli si poteva chiedere come ne fossero usciti: dei pochi di cui ancora si sapeva qualcosa o erano morti o rinchiusi in qualche manicomio.

Ipotesi di un futuro ben poco allettante.

Incontrai lo sguardo di Jasper e vi lessi un lampo di preoccupazione: che stessimo pensando alle stesse fottutissime cose?

- Non voglio perderti, Ed-

Lo aveva sussurrato, in quella che doveva essere una presa in giro ma che poi si era rivelata per ciò che era: seria inquietudine mista ad ansia ed apprensione.

Scossi la testa, ignorando le fitte che mi trapassarono le tempie per quel gesto avventato.

- Non dire stronzate, Jazz. Ne ho passate di peggiori-

Annuì cercando di convincersene, non sembrò farcela però e dopo aver fissato il pavimento per diversi minuti in silenzio, tornò a guardarmi, sorridendo appena.

- Ti va un caffè?-

Chiusi un istante gli occhi, per poi annuire subito. Come avrei fatto senza di lui?

Lo guardai ancora, scorrendone la figura alta e allampanata: era magro ed al tempo stesso atletico. Dava l’idea di poter far male, e molto, se solo avesse voluto.

Due occhi neri come l’ebano in un viso bianco e scavato, contornato da lunghi capelli lisci e neri che portava sempre legati in una coda di cavallo.

Vestiva in modo semplice, seppur ricercato: pantaloni neri e camicia bianca, giubbino nero.

Qualcuno lo avrebbe potuto scambiare per un vampiro.

- Ti aspetto giù: datti una sistemata che sennò mi rifiuto di farmi vedere in giro con te-

Stava per aggiungere qualcosa, una battuta sarcastica sul mio aspetto immagino, ma si trattenne mordendosi le labbra e uscendo silenziosamente dallo studio.

Io mi alzai, con qualche difficoltà, barcollando leggermente e avvicinandomi al bagno con passo incerto. Ci arrivai sano e salvo per miracolo e aprii l’acqua del lavandino.

Ci misi direttamente la testa sotto, godendo del getto di acqua gelata che piano mi inzuppava i capelli, scendendo lungo le guance e poi per il collo. Mi ci voleva proprio.

Tornai quindi in piedi, lisciandomi con gesto scocciato i jeans blu scuri e cercando inutilmente di togliere qualche piega dalla camicia celeste completamente sgualcita. Con l’acqua modellai i capelli, tirandoli all’indietro in un ciuffo scomposto. Arrotolai quindi le maniche fino al gomito.

Sentivo caldo e a ben dire, pensai. Luglio era alle porte, che mi aspettavo?

Studiai per qualche attimo il mio viso tirato, quei tratti che non riconoscevo più come miei: ruvidi, duri, concentrati… da uomo vero, si sarebbe potuto dire. Io non ero così però.

La leggera barbetta sulle mascelle contratte non era la mia.

Le sopracciglia costantemente corrugate non erano le mie.

Quant’era che non ridevo?

Quant’era che non sorridevo?!

Mi ritrovai solo nell’oro delle iridi.

Quello non era cambiato.

Con uno sbuffo scocciato uscii dal bagno ed afferrai la giacca che non avrei usato.

Uscii dallo studio sbattendo sonoramente la porta ed atteggiai le labbra in un ghigno: almeno in quell’ultima cosa non avevo imitato Jazz.

C’era una minuscola, recondita possibilità che non fossi completamente impazzito.

 

*

 

Ed ecco già il nuovo aggiornamento =)

Spero non vi faccia scappare tutti a gambe levate: lo so che è noioso, ma dovete pur ammettere che di solito i primi lo sono sempre ^^ La storia deve ancora iniziare =P

Ci tenevo già a ringraziarvi tutte comunque, ed in particolare quegli angeli che hanno recensito: ma come fate ad essere così brave?! Con poche parole riuscite a farmi scoppiare il cuore! ** Graaazie!!

Per concludere, volevo dirvi che i prossimi aggiornamenti non credo saranno altrettanto veloci: mi sono comportata da pazza e masochista iniziando anche questa nuova storia, avendone già molte altre da continuare O_o

Spero di non farvi attendere troppo tuttavia (se qualcuno attenderà è chiaro xD)

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Capitolo 3
*** Poker ***


poker

 

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

 

* Poker *

 

 

- E’ solo?-

Sollevai appena la testa, lanciando uno sguardo di sbieco al gorilla che bloccava l’entrata.

Doveva pesare tipo novanta chili, ponderai fra me e me mentre i miei occhi, nascosti dagli occhiali scuri, si alzavano verso il cielo.

No. Qui con me c’è la donna invisibile. Come, non la vede?!

Non dissi quelle parole però: sorridendo e con tono falsamente cortese, risposi diversamente.

- Sì, purtroppo. Che sfortuna eh, amico?-

Il buttafuori si scostò senza aggiungere altro e io entrai nel locale imprecando sotto voce.

Mi sentivo leggermente scorbutico quella sera.

Non mi sarei neanche lamentato di essere pestato dal gorilla, solo non mi andava di fare niente…

E il niente comprendeva anche il passare una serata al locale con gli amici.

E il niente comprendeva anche l’ubriacarmi come al solito, per poi finire con qualche sconosciuta e ritrovarmi non si sa come in coma nel mio ufficio.

Niente.

Avevo lavorato in fondo, no?

Dopo il caffè con Jasper quella mattina, ero tornato in ufficio, no?

Avevo lavorato: firmato pratiche, studiato documentazioni, preparato arringhe e discusso con i clienti… un pranzo quasi infinitesimale, sempre sulla mia tanto odiata scrivania, e poi di nuovo tutto daccapo, tutto uguale: pratiche, fascicoli, clienti.

La solita, odiosa, terribile routine.

E c’era anche chi mi invidiava... santo Dio, due giorni nella mia vita, e si sarebbero buttati da un ponte, poco ma sicuro.

Altri pochi mesi e mi ci sarei buttato io.

Lanciai uno sguardo svogliato e assente per il locale.

Crossover.

Così si chiamava.

Era stato il mio preferito: quello che riusciva a tirarmi su, in cui desideravo trasferirmi e passare il resto della vita. Ora non più, ora come tutto il resto del mondo, mi era completamente indifferente.

E la cosa, inutile dirlo, mi terrorizzava.

Lanciai un’occhiata all’orologio in fondo alla sala, sperando di vedere un’ora tarda, che mi indicasse un mio ritardo allucinante per cui non mi sarebbe rimasto altro che tornarmene a casa… sì, che battuta: in ufficio, sarebbe stato meglio dire!

Invece no: le lancette mi smentirono, eliminando ogni speranza.

Le undici.

Dannatamente presto.

Mi tolsi gli occhiali, passandomi una mano sul viso con gesto stanco.

Lasciai vagare lo sguardo per la sala quasi deserta: dietro il bancone un barista occupato a lavare una serie di bicchieri, pochi e radi occupanti ai numerosi tavoli ed una musica lieve e ritmica proveniente dalle scale in fondo, addossate al muro.

Mi rigirai la giacca fra le mani, cercando di ignorare e rimanere impassibile al caldo secco che aleggiava nell’aria: odiavo quel periodo dell’anno, il troppo caldo da alla testa… si perde la già poca capacità di connettere, di fare le scelte giuste e ci si ritrova invece succubi della propria mal celata stupidità senza nemmeno rendersene conto.

Cose che avrei sperimentato senza saperlo a breve distanza di tempo.

Con passo lento e svogliato mi incamminai verso la scala a chiocciola che portava al piano superiore: più appartato, meno illuminato, con musica e alcool a scelta e a volontà.

Proprio quello che mi ci voleva ora.

Non riuscii a mettere il piede sul primo gradino però, che una voce perentoria mi ingiunse di fermarmi subito: alzai lo sguardo, poggiando gli occhiali nella scollatura della camicia sbottonata ed incontrai quello dell’uomo che fino a poco prima era dietro il bancone.

- Non si può-

Sollevai le sopracciglia, stentando a credere a quelle parole.

Io non potevo?

Io?!

Sorrisi, pregustando il piacere che avrei provato stringendo le dita attorno al suo collo, mentre il pugno destro veloce e diretto lo raggiungeva al mento.

Ma non feci niente di tutto ciò e non lo avrei mai fatto.

Tanto più che mi accorsi solo in quel momento del fatto che il barista era uno nuovo e che quindi, probabilmente, non aveva ancora avuto l’onore e la sfortuna di conoscermi.

Feci per dire qualcosa, ma una voce proveniente dal piano di sopra mi bloccò la voce in gola:

- Frank, no. Non preoccuparti: il signore qui è Edward Cullen. Lui può-

Mi piacque oltre il lecito il modo in cui Jasper, scendendo qualche scalino e spuntando improvvisamente, aveva detto “lui può” .

Era stato gratificante, come se fossi più potente del presidente… di qualunque presidente.

E forse lo ero.

Ma no, così non andava: la dovevo smettere di avere pensieri del genere!

Era autolesionismo allo stato puro, santo Dio!

Cercai di tornare alla realtà, concentrandomi così sulle parole del barista che dopo aver spalancato gli occhi sorpreso aveva preso a scusarsi vivacemente con fare reverenziale:

- Signor Cullen! Mi scusi, davvero: io non credevo che.. non sapevo! Mi dispiace: è solo che al piano di sopra è successo un macello e il proprietario mi aveva detto di non far salire nessuno. Il signor Jasper però poteva… e anche quegli altri signori.. ma non credevo che lei fosse… lei-

Sorrisi forzatamente, scuotendo piano la testa e facendogli segno di fermarsi con le mani:

- Non fa niente-

Non aggiunsi altro, seguendo silenziosamente Jasper che senza dire niente mi sorrideva, ammiccando di tanto in tanto.

Strinsi gli occhi: non mi piaceva quando faceva così… non si presagiva mai nulla di buono.

Tentai anche di immaginare cosa gli potesse star passando per la testa ma non feci in tempo a connettere un solo pensiero logico che la vista del piano di sopra mi lasciò basito.

Lasciai scorrere lo sguardo su tutta la sala.

L’unica cosa rimasta intatta sembravano il parquet e i muri, per il resto era tutto sottosopra.

Una leggera brezza entrava dalle finestre aperte che davano sulla città oscurata.

Ma in quel momento tutta la mia attenzione era per il resto dell’arredamento: i tavoli sottosopra, le sedie nei posti più impensati, capovolte e semidistrutte, bicchieri e bottiglie rotte sopra, sotto e affianco al bancone… sembrava che un uragano avrebbe fatto meno danni.

Il mio sguardo si fermò sugli altri quattro uomini presenti: li riconobbi per amici di Jasper che, quando gli faceva comodo, diventavano anche amici miei.

Loro mi sorrisero, salutandomi con calore, mentre continuavano ad aggiustare l’angolo sinistro della stanza, quello più vicino al bancone: chi risistemava un tavolo, chi ordinava le sedie, chi si improvvisava barista preparando un numero di cocktail decisamente eccessivo.

Jasper mi poggiò una mano sulla spalla, spingendomi verso una sedia e facendomi cenno di sedermi affianco a lui. Io ubbidii, ancora stranito, continuando a studiare il caos generale.

- Cosa…?-

Jazz ridacchiò, facendo roteare il dito per aria:

- Newton e i suoi amichetti-

Respirai profondamente, lasciandomi poi andare contro la sedia con un sospiro.

Newton.

Il figlio del sindaco: privilegiato, idiota, figlio di… sindaco, purtroppo.

Scossi la testa, pensando a quanto quel fighetto senza cervello mi desse sui nervi.

La legge sembrava non poter nulla contro di lui.

Qualunque bravata facesse, qualunque reato commettesse, non era mai successo niente.

Mai.

La sua fedina penale era immacolata, quando invece sarebbe dovuta essere più lunga della lista dei debiti di Paperino.

Jasper continuò, ancor più divertito se possibile, a causa del mio atteggiamento irritato.

- Sembra che due sere fa si siano ubriacati di brutto, peggio del solito! E che dopo abbiano sfasciato questo posto… poi, ancora completamente ubriachi e fuori di loro naturalmente, sembra se ne siano andati di corsa, urlando e sbraitando come pazzi-

Mi passai le dita sugli occhi, stringendo i denti e mormorando:

- E il sindaco naturalmente…-

Jasper annuì, continuando per me, con voce incolore ed infastidita:

- Ha coperto tutti i danni, affermando che non ci fosse niente di cui occuparsi, perché sono ragazzi loro, giovani… non dovrebbero forse divertirsi, ora che possono?-

Verso la fine del discorso il suo tono era andato inasprendosi sempre di più e ora mi fissava con sconforto. Sospirò profondamente prima di continuare:

- Non oso immaginare quello che hanno potuto combinare usciti di qui-

Sorrisi tristemente, in quello che mi sembrò più un ghigno:

- Io non voglio immaginarlo e spero di non scoprirlo mai-

Jazz annuì, facendo segno agli altri di unirsi a noi ed estraendo dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte rosse e nere. Iniziando a mischiarle, mentre gli altri prendevano posto, continuò:

- Hai ragione. Meglio non pensarci. Un bel pokerino invece ci vuole proprio, non è vero?-

Non potei fare altro che annuire con gli occhi luminosi di Jazz puntati in viso ed i commenti positivi ed entusiasti degli altri.

E poker sia…

Jasper fu il primo a dare carte.

Presi le mie, una dopo l’altra, con gesti calcolati, voluti…

Adoravo quel gioco in fin dei conti: era il mio gioco preferito.

Quello che più mi piaceva.

Era un piacere ed al tempo stesso una condanna.

Perché ero bravo.

Dannatamente bravo.

Riuscivo a capire senza problemi quello che gli altri giocatori avevano.

Come se riuscissi a leggere i loro pensieri, come se ne fossi davvero in grado.

E quasi mi sembrava di riuscire a prevedere che carte avessero in mano.

Ci giocavo sempre all’università, in continuazione.

Peggio di una droga…

… meglio di un lavoro.

Sì, perché ci guadagnavo con il poker: con quelle sole cinque carte mi arraffavo tanti di quei soldi da rendere difficile credere che fosse tutto vero.

O meglio ancora, rendeva difficile credere che non stessi barando… e di brutto.

 Sarà stato per quello forse che smisi di giocare.

Per le troppe batoste prese: per quelle botte dannatamente forti che mi avevano dato.

Quando i soldi cominciarono ad essere tanti, davvero tanti, la convinzione che essere malmenati fosse davvero tanto necessario ed utile, cominciò a perdere consistenza.

E così persi anche io il vizio.

Riuscendo finalmente a godere di alzarmi una mattina senza avere un occhio nero o un labbro tumefatto, e rimanendo al tempo stesso con le tasche piene di soldi.

Poi, il lavoro di avvocato e le rendite successive, avevano riempito il vuoto lasciato dal gioco.

Il vuoto inteso come entrate fiscali, però.

Non quello del piacere.

Quel piacere unico, di potere, di vittoria riconosciuta e per niente inaspettata, che quelle cinque carte, sottili e fragili, erano capaci di darmi.

La prima mano la vinsi.

Così come la seconda e la terza, ed anche la quarta.

Una o due poi, mi decisi a lasciarle agli altri.

Perché per quanto ora fossi cresciuto, con un passato di boxe alle spalle e con una compagnia decisamente più rispettabile, vincere in continuazione non era mai un bene.

Quando mi ero finalmente deciso a ricominciare a giocare sul serio però, qualcosa ci interruppe.

O meglio qualcuno.

Ci voltammo tutti verso l’entrata, dove un ragazzone alto e muscoloso se ne stava impalato.

Ci fissava tutti, con occhi stretti ed attenti.

Lo studiai anche io: mi ricordava in modo impressionante i giocatori di rugby che vedevo in tv.

Lui si avvicinò piano, con passi lenti e mantenuti, alternando sguardo basso e alto.

Quasi non sapesse nemmeno lui come doversi comportare.

Non mi piacque quell’atteggiamento.

Per niente.

Avevo imparato a conoscere le persone, riconoscendone gli umori, le emozioni.

Non dico che riuscissi sempre né che mi fosse possibile capire in ogni  momento e comunque se qualcuno stesse mentendo. Sarebbe stato assurdo e stupido affermarlo.

Però ci riuscivo il più delle volte, e soprattutto in quel momento, con i sensi all’erta ed allenati da quelle ore passate a giocare a poker, riuscii a capire che qualcosa in quel giovane non andava.

Aveva l’aria insicura ma decisa.

Un ossimoro vivente.

Sapeva di dover fare qualcosa ed era intenzionato a farla, eppure al tempo stesso era timoroso, come se si vergognasse di quello che voleva… quasi ne avesse paura.

Nessuno degli altri con me disse niente, lo osservammo tutti in silenzio.

Ed ebbi l’impressione di essere l’unico ad aver capito che non era lì per caso.

Non voleva, come disse, giocare solo a poker.

Non voleva vincere solo un po’ di soldi.

No.

Il fatto che guardasse me, insistentemente, era un segno.

Il fatto che mi lanciasse alternativamente occhiate supplici o intimidatorie, no, non era un buon segno e lo capii subito. Per questo ancora oggi mi chiedo perché…

… perché non lasciai subito quel tavolo, scappando da quella situazione.

Perché rimasi lì, seduto, a giocare.

Perché ricambiai curioso lo sguardo di quel ragazzo.

E la risposta oggi la capisco.

Così come, a quel tempo, la capì il mio subconscio.

Quel ragazzo, con il suo mistero, era come una promessa.

Una speranza di vita, di cambiamento.

Ed io ne avevo bisogno.

Non desideravo altro.

Perciò non mi alzai.

E rimasi a giocare.

Con Emmett.

Emmet Swan.

 

*

 

 

E rieccomi

Vi prego di scusarmi per il ritardo, cercherò di non farlo mai più!

Se poi mi accorgo che continua a piacervi, prometto che pubblicherò il seguito così velocemente da stupirvi!

Però vi deve piacere, altrimenti perdo la voglia di scrivere ^^

Quindi, ringraziando tutti: da chi legge a quegli angeli che commentano *__*

Con un bacio vi saluto,

Miseichan

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Capitolo 4
*** Violence ***


violence

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

 Violence

 

 

Avevamo giocato per altre tre ore.

Per lo più in silenzio, ogni tanto ridendo, ogni tanto imprecando.

Nessun vero discorso.

Ed era strano: era strano perché avevamo bevuto, chi più chi meno.

E di solito l’alcool fa parlare anche troppo.

Ma in quelle tre ore no.

Non era stato così.

A bere meno di tutti, escluso Jazz che era astemio, era stato Emmett.

Il ragazzone del rugby non aveva bevuto nemmeno un goccio.

Qualche volta, per non insospettire i ragazzi, si era portato il bicchiere alle labbra, bagnandosele.

Ma non aveva bevuto.

E io, non so perché, lo imitai.

Mi limitai… molto.

Come non mi succedeva da tempo, un tempo indefinitamente lungo, arrivai a fine serata che ero ancora sobrio.

La cosa oltre a stupire me, stupì anche Jasper che come al solito mi teneva d’occhio.

Jazz mi fissò per un po’ con aria indagatrice, non capendo il motivo di quel mio comportamento.

Io lo ignorai, continuando a studiare Emmett.

Voleva qualcosa.

La voleva da me.

Il tutto ora era capire cosa e soprattutto, perché.

Alle tre e dieci minuti Jasper tolse le carte dal tavolo, con un gesto abile, da professionista, le fece sparire tutte. Erano svanite, così com’erano apparse.

E nello stesso modo i giocatori al tavolo si alzarono pian piano, allontanandosi veloci, scomparendo per le scale e uscendo rapidi dai miei pensieri.

Io quasi non me ne accorsi.

L’unica cosa che notai, oltre la figura di Emmett davanti a me, con i pugni stretti e contratti, fu la mano di Jasper sulla spalla che cercava di attirare la mia attenzione.

Mi girai verso di lui, quasi seccato dalla sua richiesta silenziosa.

- Mi dici qual è il problema?-

Lo guardai interrogativo, aspettando che si spiegasse:

- C’è un’aria a dir poco pesante, non so se te ne sei accorto: la tensione è paurosamente palpabile… è così solo per me? Non senti un certo disagio, Ed?-

Strinsi gli occhi e ignorando il suo tono sarcastico, mi avvicinai a lui per rispondere:

- E’ Emmett: vuole qualcosa da me, Jazz-

Anche Jasper studiò il ragazzo dall’altra parte del tavolo: aveva portato di nuovo il bicchiere alle labbra, sempre senza bere. Continuava poi a sfregare le mani l’una contro l’altra, come cercando di trattenersi, in un movimento che così risultava nervoso e ansioso.

Jasper annuì, allentando il nodo ormai completamente slabbrato della sua cravatta rossa.

- Già. Ed è qualcosa di grosso, temo. Se vuoi andare via ci penso io a lui-

Lo aveva detto con un velo di ironia ma ero sicuro che non avrebbe poi indugiato nemmeno un secondo a farlo per davvero.

Scossi la testa impercettibilmente, ancora non completamente sicuro, e socchiusi gli occhi:

- No, credo che non ce ne sia bisogno-

Jazz mi fissò confuso, non riuscendo ad analizzare il mio comportamento.

Fu quello forse a darmi la forza di reagire.

La sensazione di indipendenza che non riuscivo più ad identificare…

Mi alzai piano, prendendo la giacca poggiata sullo schienale della sedia ed evitando accuratamente di incontrare lo sguardo di Emmett, fermo su di me, mormorai:

- Signor Swan, viene via anche lei? La possiamo accompagnare da qualche parte?-

Emmett non rispose, spalancando leggermente gli occhi e stringendo i braccioli della sua sedia fra le dita. Aprì più volte la bocca, cercando di dire qualcosa, senza però riuscirci.

Jasper tentò anche di andargli in aiuto, ma lui si riprese prima:

- Signor Cullen, no! Aspetti…-

Non mi finsi sorpreso.

Semplicemente tornai a sedermi, poggiando i gomiti sul tavolo e prendendo il mento fra le mani.

Accennai con il viso ad Emmett, invogliandolo a parlare.

Curiosità.

Mi ingiunsi di vedere sotto quell’occhio la situazione: la mia era pura curiosità.

Doveva esserlo.

- Non è facile… non lo è per niente-

Alzai le sopracciglia, lanciando al ragazzone un’espressione vacua: iniziavo ad avere sonno.

Doveva muoversi se non voleva che mi addormentassi sul tavolo.

Lui scosse la testa, accasciandosi sulla sedia, e dopo qualche altro minuto di silenzio, con un sospiro prolungato, si decise finalmente a parlare:

- Mi ascolti: ho una sorella, Isabella. Lei… no…-

Prese un bel respiro, interrompendosi e riprendendo subito dopo:

- Lavoro come guardai notturna alla banca centrale. Due sere fa ero di turno-

Non mi piacque.

Il tono che stava usando: esterno, come se narrarlo coscientemente fosse troppo doloroso, non mi piacque per niente.

Così come quella semplice precisazione: “Due sere fa”, riuscì a farmi passare il sonno.

- Due sere fa, credo lo sappiate bene, Newton e altri ragazzi si sono ubriacati-

Dicendolo aveva indicato con un ampio gesto l’intera sala, accennando così ai danni presenti.

Non annuii, non diedi alcun segno di vita.

Emmett non sembrò notarlo: lo sguardo perso nel vuoto, nel ricordo della sera non così lontana…

Jasper al mio fianco seguiva la conversazione senza perdere una parola.

Se ne stava lì, teso come la corda di un arco, prevenuto quanto e forse più di me.

- Mia sorella come le dicevo, Isabella, è studentessa universitaria. Segue anche qualche corso con quel Newton, e lui diverse volte le aveva chiesto di uscire ma lei rifiutava sempre…-

Serrai la mascella, socchiudendo leggermente gli occhi.

Vi era stata una lieve alterazione nella voce: mentre pronunciava il nome del ragazzo.

- Due sere fa era sola in casa…io ero al lavoro… l’ho lasciata sola…-

Sembrava essersi bloccato, non riuscendo ad andare avanti.

Jasper si schiarì la gola, accavallando le gambe e lanciandomi uno sguardo.

Io non lo ricambiai: sapevo cosa voleva farmi notare.

Me ne ero accorto da solo.

Le cose non si mettevano bene…

- Newton è entrato in casa. Quel bastardo, quel, quel pezzo di…-

Lo bloccai, incrociando le braccia al petto e decidendomi a parlare: non andavamo bene.

- Signor Swan: Newton sarebbe entrato in casa sua, due sere fa?-

Lui sembrò riscuotersi finalmente: puntò i suoi occhi nei miei e non ero uno sguardo esattamente amichevole.

- Non sarebbe, lui è entrato in casa mia: ne ho le prove! C’è una telecamera in veranda e vi è ripreso lui che rompe la serratura ed…-

- E se pure fosse? Non è abbastanza per…-

Non mi lasciò concludere, sbattendo un pugno sul tavolo e serrando i denti.

- L’ha violentata, cazzo! Ha violentato mia sorella, quel figlio di puttana!-

Non dissi niente.

Non reagii nemmeno.

Ad avermi colpito non erano state le parole: quelle ormai quasi me le aspettavo.

Una parte di me già lo sapeva, lo aveva intuito.

A farmi male, a stringermi il petto, fu il modo in cui lo disse.

Disperato.

Disperato e furioso.

Di una belva che vuole e non può proteggere i suoi cuccioli.

- Isabella è sempre stata una ragazza solare, sempre allegra, sorridente. Forte. Lei è forte. Ma ho notato il cambiamento: lieve, nel suo comportamento… ora più che mai mi è chiaro. Non ce la fa. Ha dei crolli nervosi, delle crisi: scoppia a piangere di colpo, si chiude a riccio… non riesco neanche più ad abbracciarla…-

Aveva parlato tenendo lo sguardo basso, come se stesse riflettendo e ragionando.

L’ultima frase invece la mormorò fissandomi negli occhi, sorpreso e sconvolto dalle sue stesse parole.

- Non si fa neanche più abbracciare, Cristo Santo!-

Si era preso la testa fra le mani, torturandosi i corti capelli biondi con le dita e scuotendola piano.

Io mi passai il palmo sugli occhi, cercando di pensare, di isolarmi momentaneamente.

Ma non era facile.

Non con Emmett in quello stato.

Né con Jasper che al mio fianco serrava i pugni, come colto dalla stessa sofferenza dell’altro.

- Senta, ma è stata lei, sua sorella, a dirle che…-

Non continuai, lasciandoglielo intuire: era un argomento lievemente delicato, pensai sarcastico.

Emmett risollevò il capo, fissandomi truce.

- Voglio giustizia. Cullen, voglio giustizia, santo Dio! Quel grandissimo bastardo deve passare il resto della sua schifosa vita in galera per quanto mi riguarda! E se Bella lo vorrà morto invece, lo ucciderò con le mie mani!-

Scossi la testa, negando serio e concentrato:

- Non è possibile-

Lui ricambiò il mio sguardo sconcertato, osservandomi come fossi pazzo.

Ma io ero dalla parte del giusto, purtroppo.

- Non potrà avere giustizia, signor Swan. Né lei né sua sorella. Mi dispiace-

Emmett strinse il bordo del tavolo con le mani, e dalla sfumatura rossa che aveva assunto il suo volto, non mi sarei sorpreso se fosse riuscito a sbriciolarlo.

Ma non mi feci spaventare e continuai:

- Tutto quello che ha è un nastro con Newton che entra in casa sua. Dello stupro non ha prove se non la parola di sua sorella, ma mi permetta…-

Mi fermai un attimo, quasi fosse una pausa strategica, prima di riprendere:

- … è una parola senza valore-

Emmett chiuse un secondo gli occhi, respirando a fatica, e io ne approfittai:

- Ragioni Swan! Stiamo parlando di Newton, il figlio del sindaco! Cosa crede che potrei fare? Non ci sono prove, non ci sono testimoni, non abbiamo niente! Niente! Se intentassi una causa ne uscirei morto! Il figlio del sindaco infatti, si ritroverebbe con una medaglia all’onore: perché chissà come lui era irrotto in casa sua per salvare sua sorella! Chissà, da un incendio semmai! E quindi lui l’ha salvata, non violentata! Questo sarebbe l’esito del processo, Cristo!-

Ero scattato in piedi, preso dalla foga e dall’assurdità della richiesta fattami:

- Il.figlio.del.sindaco è intoccabile… mi dispiace-

Emmett mi seguì a ruota, alzandosi anche lui e allungando una mano verso di me, come per afferrarmi la camicia e tirarmi verso di lui.

Non ebbe modo di farlo però.

Jasper si alzò, frapponendosi fra di noi: parlò con voce calma ed incolore.

- Signori, calmi per cortesia-

Non erano state le parole, quanto il tono.

Un tono che avrebbe placato chiunque.

Emmett chiuse il pugno davanti sé, ripiegando il braccio lungo il busto.

- Mi sono rivolto a lei perché dicono sia il migliore in assoluto. Il più bravo. Quello che non si arrende mai e che alla fine vince. Me lo dimostri-

Lo aveva solo mormorato, come una preghiera ed una minaccia insieme.

Alzai gli occhi al cielo, prendendo un grosso respiro.

Afferrai nuovamente la giacca, facendo per allontanarmi.

Le dita di Emmett si strinsero attorno al mio braccio, tentando di fermarmi:

- Cullen…-

Io non mi girai né risposi, non ce n’era motivo.

- Ci pensi almeno, la prego-

Con uno strattone mi liberai dalla sua presa, scendendo gli scalini quasi di corsa.

Quando uscii l’aria appena fresca mi colpì in pieno.

No…

Era assurdo.

Era un suicidio.

Era da pazzi.

Non avrei accettato, per niente al mondo.

 

*

 

 

Ok, allora ad essere sinceri non ho avuto la certezza che la storia vi piaccia ^^

Cioè, ci sono stati dei commenti: bellissimi, assolutamente stupendi *__* a cui purtroppo non posso rispondere or ora, ma per il resto…

Perciò, questo cap l’ho postato, ma senza esserne sicura =D

Spero con tutto il cuore che vi piaccia, e che la storia stia prendendo una strada vagamente corretta…

Ad ogni modo, per correzioni, suggerimenti, insulti… sono sempre pronta e disponibile xD

Fatemi sapere,

un bacio,

Miseichan

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Capitolo 5
*** Boxe ***


box

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Boxe

 

 

- Ci hai pensato?-

Mi fermai.

Ansimando mi detersi una goccia di sudore che aveva appena cominciato a scendere lungo la tempia destra.

Mi piegai sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato e sperando che il dolore forte e continuo nel petto si attenuasse almeno un po’.

Eppure sapevo che non sarebbe stato così.

Non era il dolore di chi ha chiesto troppo al proprio corpo.

Non era il dolore provocato dai troppi pugni appena presi e mal parati.

Era il dolore che prova chi dentro di sé sa di essere indeciso.

Io lo ero.

Non avevo la più pallida idea di come comportarmi, di come affrontare la situazione.

Quello stato di ansia ed afflizione, mi ero totalmente nuovo.

Sconosciuto.

Arretrai, lasciandomi andare contro le funi che delimitavano il ring.

Si piegarono con me, riuscendo al tempo stesso a reggermi.

Abbassai lo sguardo, fissandolo sul rosso del pavimento, spostandolo solo fino al nero delle scarpette e raggiungendo al massimo il bianco dei calzettoni.

Non avevo alcuna intenzione di alzarlo.

Né sul resto del mio abbigliamento.

Né sui guantoni che mi avvolgevano le mani.

E men che meno sui due altri occupanti del ring.

“Ci hai pensato?”

Domanda da un milione di dollari.

Come potrei non averlo fatto?

Una certa persona non mi ha lasciato solo un secondo da stamattina.

Una certa persona non si è minimamente preoccupato della mia alquanto improbabile privacy.

Una certa persona ha continuato ad espormi la sua opinione, a ricordarmi il mio dovere, a ripetermi cosa stessi sbagliando, cosa avrei dovuto fare, perché, come, quando!

Sempre la stessa persona che ora era a meno di dieci metri da me: ferma, in piedi all’altro capo del campo, con gli occhi puntati su di me in un’espressione serafica.

Scossi piano la testa, agitando i capelli completamente umidi e scompigliati.

Non mi andava giù quella situazione.

Non mi andavano giù le parole di Jasper.

Che fossero giuste o no, che dovessi starlo a sentire o meno, non era quello né il momento né il modo di affrontare l’argomento!

Rialzai il capo, strappando con mal grazia il guantone dalla mano destra: lo lasciai cadere ai miei piedi, attirato dall’idea di cominciare anche a calpestarlo brutalmente.

Non lo feci.

Iniziai ad agitare la maglietta a giromanica, tenendola fra pollice ed indice e facendomi così vento.

Dovevo respirare.

Dovevo calmarmi.

O avrei rischiato di fare qualche cazzata di cui poi mi sarei pentito.

Come mio solito, d’altronde.

Lasciai vagare per un po’ lo sguardo, senza dire niente, fingendo di riflettere.

Osservai il ring, osservai il resto dell’attrezzatura come sacchi da boxe e pesi, sparsi lì intorno.

Non mi soffermai su niente in particolare, riuscendo a mala pena a connettere un pensiero coerente.

Forse la colpa era da attribuirsi al caldo.

Forse era dei pugni che Jasper, molto magnanimamente, si era premurato di affibbiarmi con grazia.

Forse della mia alquanto discutibile intelligenza che mi aveva suggerito di andare a fare box a casa di Carlisle, quando il quindici di Agosto era terribilmente vicino…

Carlisle.

Rigirai il viso verso Jasper, ignorandolo e concentrandomi invece sulla figura silenziosa seduta su uno sgabello, nell’angolo del ring, proprio di fronte a me.

- Secondo te…-

- Secondo me sei stato poco sulla difensiva-

Sospirai, togliendomi anche il secondo guantone con un gesto lento e svogliato.

- Carlisle, ti prego-

Fissai lo sguardo nei suoi occhi azzurri.

Mi avevano sempre colpito quegli occhi: riuscivano incredibilmente a farmi essere sincero.

Non riuscivo a mentirgli.

Mai.

Quegli occhi di un azzurro limpido e cristallino, disarmanti nella loro franchezza, erano il mio unico vero punto di riferimento. Quell’uomo, conosciuto meno di dieci anni prima, era meglio di qualunque padre avessi mai potuto desiderare.

Mi aveva salvato: quando meno avrebbe dovuto.

Gli avevo rubato la macchina, una bellissima auto, una delle tante come avrei poi scoperto.

Perché lui era un dottore, un ottimo dottore, ricco come d’altronde meritava.

E aveva tutto: villa, soldi e potere.

Quello che per me era tutto.

Per lui non era così, invece: lui preferiva altro, mi spiegò.

Avrebbe gettato tutto a puttane per lei, per sua moglie: per Esme.

Io non comprendevo e ancora non riuscivo a capirlo appieno: era un ragionamento assurdo secondo me, eppure lo rispettavo e avrei cercato sempre di non deluderlo.

Perché lui non mi aveva denunciato: mentì, davanti alla polizia, dicendo che la macchina me l’aveva prestata ma se ne era dimenticato. Dicendo che eravamo amici, che io andavo a fare a pugni con lui ogni week-and, quindi figurarsi se gli avrei mai rubato un auto!

E i poliziotti risero, sentendo che facevamo a pugni.

Risero perché sapevano che Carlisle era campione di boxe e che possedeva un ring in uno dei tanti soggiorni, ma soprattutto risero perché io allora ero appena ventenne ed ero troppo mingherlino, il tipo insomma che Carlisle avrebbe potuto stendere con un soffio.

Eppure qualcosa era scattato, o meglio scattò quando mi presentai a casa sua, meno di una settimana dopo il mio tentato furto, per ringraziarlo.

Con gli occhi bassi, un sorrisetto appena accennato, ed una sottospecie di timore reverenziale andai da lui e chiesi scusa.

Lui mi sorrise, dicendo che non era successo niente, che se volevo quella macchina me l’avrebbe regalata… e poi una cosa tira l’altra, prima un sorso insieme, quindi un po’ di calcio in televisione, alla fine per davvero ci prendemmo a pugni. Sul ring.

Il ring, quello di Carlisle.

Quello che imparai ad amare, quasi a venerare.

Perché su quel pavimento rosso, mentre scaricavo la tensione e ridevo con l’uomo che era stato il mio salvatore, riuscivo anche a prendere decisioni, parlando e discutendo con lui.

Lui che aveva sempre ragione.

Ed era stato su quel ring che avevo deciso di cominciare a studiare legge.

Era stato per Carlisle che ero diventato un avvocato.

Lo stesso Carlisle che mi conosceva meglio di me stesso, che mi capiva e mi trattava come un figlio. Il Carlisle per cui avrei dato tutto me stesso.

Lo guardai, con aria supplice e sconfortata: la stessa che avevo ogni volta che salivo sul ring.

Lui mi sorrise, passandosi una mano fra i capelli e togliendosi gli occhiali.

- Ci spostiamo in salotto?-

Scossi la testa, indicando con il mento Jasper, fermo vicino a lui, ansante come me.

Dovevamo discutere, ora.

- Carlisle, ho bisogno di sapere cosa ne pensi! Ho ragione, sei d’accordo? Jasper non ragiona, non capisce come e perché…-

Lui mi interruppe, gentilmente, sollevando appena una mano.

Mi zittii all’istante, aspettando che parlasse.

- Edward, ragazzo, tu ancora non mi hai detto la tua opinione: non mi hai spiegato come la pensi. Voi due siete arrivati qui, scambiandovi battutine acide e, permettetemi, per me alquanto senza senso: questo perché, siamo sinceri, non vi siete degnati neanche di dirmi su cosa non vi troviate d’accordo. E’ quel caso di cui mi parlavi stamattina al telefono, Jasper?-

Aveva cominciato a parlare, con un sorriso sornione stampato in faccia, contento, si vedeva subito, per il semplice fatto che noi fossimo lì con lui.

Non gli interessava altro.

Se anche avessimo litigando per un omicidio, commesso da noi per altro, lui avrebbe continuato ad amarci incondizionatamente. Semplicemente perché eravamo noi: Eddy e Jazz.

Verso la fine del discorso però, aveva assunto un tono vagamente severo.

Jasper annuì, piegandosi sui talloni e poggiando la fronte sui pugni chiusi.

Carlisle annuì gravemente, cominciando a capire la situazione.

Puntò i suoi occhi innocenti nei miei, concentrandosi e riflettendo.

- Non ti va, Edward?-

Alzai gli occhi al cielo, sbuffando silenziosamente.

Ma che domande erano? Che diavolo di domande erano!?

- Non mi va? Non mi va, Carlisle!? Ma ti sembra che mi possa andare? E’ un suicidio accettare una cosa del genere, te ne rendi conto? Sarebbe come, no che dico, è come mettersi contro il sindaco! Mi metto contro l’intera città? Vuoi vedermi in galera? In fondo, dietro le sbarre, sarei dovuto finirci dieci anni fa, no?-

Carlisle provò ancora a fermarmi, ma io lo ignorai: ora ero riuscito ad aprirmi finalmente e non mi sarei fermato, no, avrei continuato fino in fondo.

- Non posso mettermi contro il sindaco. Ma a parte che non posso, ignoriamo questo, pensiamo invece a cosa servirebbe: a che pro? Mi dici sempre di riflettere sulle conseguenze delle mie azioni. Benissimo, l’ho fatto: se accetto il caso, l’unica conseguenza sarà la mia fine. Altro non si potrà ottenere. Capisci?-

Jasper prese a fare di no con il capo, ma Carlisle sembrava non star dando ascolto né a me né a lui.

- Ascoltatemi…-

Si passò le dita sugli occhi, massaggiandoseli piano e riprese a parlare:

- Io credo che sia un caso importante: di quelli a cui sarebbe il caso di dedicarsi, dando tutti se stessi. E su questo Jasper ha ragione. Allo stesso tempo però, Jasper, devi ammettere che Edward non ha torto: lui ci sta dando la sua visione da avvocato. E invischiarsi in un’azione  legale contro il figlio del sindaco, senza avere per altro prove schiaccianti, non è esattamente il meglio per una carriera ancora non al culmine-

Annuii, assecondando il pensiero di Carlisle, sapendo che come sempre aveva ragione e che la parte del suo discorso che più mi interessava era la prima: “un caso a cui bisognerebbe dedicarsi, dando tutti se stessi”

Era quello il punto: ero pronto?

Volevo impegnarmi fino a quel punto?

Feci spallucce, sapendo che in conclusione non avevamo risolto niente e che il succo del discorso era solo un monito per me, un qualcosa che alla fine già sapevo: dovevo pensarci.

Scesi dal ring, sconfortato più di prima.

- Riprendiamo io e te, Jasper-

La frase di Carlisle mi giunse smorzata mentre uscivo dalla stanza: mi avviai lungo il corridoio, notando a mala pena i tantissimi dipinti che decoravano le pareti eleganti.

Girai per la villa senza meta, incurante dei corridoi e delle stanza per cui passavo.

La vista e la mente inebetite dal caldo secco, pressante e tremendamente opprimente.

- Edward-

La voce calma, serena e squillante mi frenò di colpo, prendendomi impreparato.

Misi a fuoco la stanza: le pareti colorate, i tavoli che la riempivano, ed in particolar modo la signora che modellava la creta su di un piatto rotante: sorridente, mi osservava con aria materna.

- Esme, ciao. Non credevo fossi in casa-

Lei continuò a giocare con quel materiale morbido e plasmabile, guardando me con la coda dell’occhio, studiandomi in silenzio.

- Sai Edward, negli ultimi tempi ho parlato molto con Jasper-

Lo aveva detto con tono pacato, dolce; riuscì comunque a farmi capire che voleva parlare.

E che io non potevo scappare.

Esme era fatta così: poteva sembrare innocua, una mammina tipica dei film americani, di quelle delle pubblicità del Mulino Bianco; lei però non era solo così: era anche potenzialmente pericolosa. Una leonessa pronta all’attacco.

Una leonessa che sa quando è il momento di attaccare.

E quello era il momento.

- Jasper era preoccupato, per te. Diceva che non eri più tu, che eri l’ombra di te stesso: apatico, fuori dal mondo. Abbiamo persino scherzato che tu stessi potendo attraversare una prematura crisi di mezza età, Edward-

Si fermò un attimo, prendendo un bel respiro.

Io ne approfittai, muovendomi e sedendomi su di un divano bianco, di fronte a lei.

Mi misi in punta: teso e a disagio.

Lei sembrò non farci caso, continuando imperterrita a modellare quello che ora mi ricordava sempre di più un vaso: fu quel suo modo di fare a farmi capire che era preoccupata anche lei per me.

Molto preoccupata.

Feci per dire qualcosa, con la speranza alquanto vana di riuscire in qualche modo a tirarla su.

Non volevo che stesse in pensiero, soprattutto se non ce n’era bisogno.

Ma era poi davvero così?

Lei si voltò verso di me: fissandomi finalmente con i suoi grandi e profondi occhi verdi.

Un verde particolarmente bagnato in quel momento.

- Esme…-

Scosse la testa, passandosi il gomito sotto l’occhio e sorridendomi.

- No, Edward. Ascoltami. Mi fa male, mi fa davvero tanto male vederti così. Cosa ti è successo? Eri un bravo ragazzo, e lo sei ancora, credimi. Ma soprattutto avevi un gran cuore, enorme. E’ per questo che mi sei sempre piaciuto, che ti ho sempre tenuto come un figlio. E lo stesso vale per Carlisle. Credimi: avevi ed hai delle enormi potenzialità. Non capisco perché ora ti sembri tutto nero: prima ti piaceva il tuo lavoro. Lo affrontavi sempre con il sorriso sulle labbra, pronto a tutto, desideroso di dare e raggiungere il massimo. Ora? Cosa è cambiato? Non ti interessa più niente?-

Riportò lo sguardo sul vaso, mentre il mio si perdeva dietro ricordi che non mi sembravano nemmeno miei, tanto erano remoti nella mia mente.

- Sei sempre stato un ottimo avvocato, lo sai. Quando… quando i poliziotti ti portarono qui, con le manette, dicendoci che ti avevano trovato al volante dell’auto… non eri affatto intimorito: piuttosto sicuro di te, pronto a tutto, come se fossi lì per uscirtene con un’arringa che ci avrebbe spiazzati tutti. Eppure a me sembravi anche tanto spaventato, lo sai? Non hai idea di che voglia pazza avessi di correrti incontro e stringerti fra le braccia per rassicurarti-

Sospirò, fermando improvvisamente le mani e tornando a guardarmi con gli occhi ancora più umidi.

- Ecco, ora è di nuovo così, forse anche peggio. Perché mi sembra quasi che il tuo cuore non batta più. Non sei morto, tesoro. Devi solo ritrovare il piacere della vita. E sono sicura che in qualche modo ci riuscirai-

Sentii gli occhi che mi pizzicavano e distolsi lo sguardo, ma la voce dolce di lei continuò:

- Non sei morto. Il tuo cuore batte e lo farà ancora per molto, Edward. Anzi, sono sicura che presto comincerà a battere anche molto più del necessario. Devi solo capire come, quando… cosa fare. Impara a cogliere i segnali, Edward. Devi aggrapparti a quelle cose che in qualche modo ti fanno sentire vivo. Quelle che in qualche modo ti fanno pensare, che ti fanno battere il cuore. Cercale, Edward. E non lasciartele sfuggire-

Cerca le cose che ti fanno sentire vivo.

Cerca le cose che ti fanno battere il cuore.

Cercale.

E non lasciartele sfuggire.

 

*

 

 

 

Ok, a parte dirvi e ripetervi all’infinito che siete fantastiche, che i vostri commenti mi fanno andare in brodo di giuggiole e che vi adoro incondizionatamente… che dire?

Vado di fretta, come al solito del resto. E temo che il capitolo sia orrendo, ma non saprei…

Forse è troppo lungo, noioso, voi che dite?

Fatemi sapere, che se non vi piace lo riscrivo ^^

Comunque, a chi può interessare, nel prossimo cap gli occhi di cerbiatto menzionati all’inizio arriveranno **

Detto questo, scappo proprio ^^

Un bacio,

Miseichan

 

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Capitolo 6
*** Volunteer ***


5

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

 

Volunteer

 

 

- Tu sei completamente folle, secondo me!-

Sollevai il bicchiere, a mo’ di brindisi, in direzione del barista.

Marcello.        

Era di origini italiane lui: siciliano, per la precisione.

E si sentiva, così come si vedeva: dal suo modo di parlare, di fare, di comportarsi… era forse una delle rare persone a non avere paura di me e che anzi, mi trattava quale lo stronzo che ero.

Strinsi gli occhi, senza dire niente: sapevo che sarebbe stato lui a parlare ora, era il suo turno.

Io avevo dato aria alla bocca per quasi mezz’ora: gli avevo raccontato cosa era successo ultimamente, spiegandogli perché mi fossi ridotto a rintanarmi nel suo bar alle tre del pomeriggio per bere alcool senza alcun ritegno.

E lui aveva ascoltato, senza fiatare e continuando a riempire il bicchiere.

Bisogna vederlo sempre mezzo pieno, diceva Marcello.

Verso la fine del mio appassionante racconto però, non me lo ripeteva più: se ne stava immobile davanti a me, fissandomi con aria enigmatica. Non sapevo cosa dedurne.

Forse perché in quel momento mi scorreva più alcool che sangue nelle vene.

La sua affermazione era stata chiara però: perfettamente esplicita.

Non vi erano possibilità di aver capito male, di aver frainteso… no, poche parole cristalline.

Sei completamente folle

Ma, grazie! Davvero: questa mi mancava.

Continuò, senza che io accennassi niente: fece tutto da solo.

- Edward, credimi: non devi nemmeno pensarci. Chiama quel certo Emmett e digli che per quanto ti riguarda può tranquillamente andare a farsi f...-

Sbattei il bicchiere vuoto sul bancone, interrompendolo.

Lui si allontanò di qualche passo, poggiandosi con la schiena al ripiano alle sue spalle e sospirando.

Riprese a pulire i bicchieri con uno strofinaccio, senza riempire nuovamente il mio.

Aveva deciso che avevo bevuto troppo.

Con il mento accennò al borsone sullo sgabello accanto al mio:

- Boxe?-

Annuii, riuscendo ancora a sentire la sensazione di sudore sul petto e sulla schiena.

Me ne ero andato da casa di Carlisle, ero quasi fuggito veramente, e mi ero subito rinchiuso nel bar di Marcello: avevo decisamente bisogno di una doccia.

Non mi andava di muovermi però.

E inoltre ero anche seriamente dubbioso sul fatto che avrei potuto riuscirci, ad alzarmi da quello sgabello… chissà come sarebbe stato morirci sopra.

Mi accasciai sul bancone, piegando la testa sul braccio e nascondendo la fronte ed il viso.

Odiavo quando il mio cervello si prendeva i diritti d’autore sui pensieri: eliminava tutti quelli anche solo vagamente sensati lasciando posto a quelli privi del più piccolo accenno di logica.

Marcello ridacchiava, divertito forse dalla mia sempre più evidente e prorompente pazzia.

Ma che potevo farci?

Forse era una qualche malattia congenita e non dipendeva da me.

O forse quei bei neuroni di cui andavo tanto fiero avevano deciso di traslocare in massa.

Io non ero così.

Non la davo vinta a dei neuroni.

Me li sarei andati a riprendere, tirandoli per le orecchie e rispedendoli nel mio cervello.

Dovevano lavorare, dovevano fare le loro belle sinapsi e ridarmi la possibilità di pensare!

Sollevai il capo, con un ghigno stampato in faccia: il mio ghigno.

Il ghigno dell’occorrenza, così lo chiamavo.

Era quello che mi veniva più facilmente.

Strafottente, spudorato, impertinente, uno di quelli che ti rendeva una faccia da schiaffi.

E la mia era una stupenda faccia da schiaffi.

Feci per dire qualcosa a Marcello ma lui non guardava me.

Era concentrato su un’immagine alle mie spalle.

Dondolai leggermente la testa, indeciso se girarmi o meno: avevo sentito la campanella della porta, quella che ti avvisa quando qualcuno entra nel locale, e sentendola avevo già evitato di voltarmi.

L’espressione sorpresa ed ammirata di Marcello però attizzò la mia curiosità.

Il suo viso aveva assunto una forma tondeggiante: la mascella lievemente aperta, i denti gialli appena visibili, i baffi neri scompigliati, la barbetta rossa apparentemente più grande… gli occhi piccoli e neri dilatati.

Non resistetti più e mi voltai anche io in direzione della porta.

Non l’avessi mai fatto…

I miei occhi si bloccarono, come incapaci di muoversi, immancabilmente ed irrevocabilmente legati alla figura della persona appena entrata.

Una ragazza.

Una semplice ragazza, quasi banale nella sua normalità.

Eppure qualcosa di strano c’era: un che di sconosciuto che mi impediva di smettere di guardarla, che legava il mio sguardo a lei e non mi permetteva di staccarlo.

Non saprei ancora dire cosa fosse. Forse semplicemente colpa del mio cervello malato e quello era un nuovo sintomo ancora mai sperimentato.

Ma no, era qualcosa di più, un qualcosa di molto più importante.

Studiai la sua immagine: i lunghi capelli castani, il viso dai tratti morbidi, la figura snella, non troppo alta, il sorriso timido e, contemporaneamente, furbo.

Un’accoppiata che non avevo mai visto.

Mentre la campanella suonava di nuovo gli occhi di lei si alzarono, incontrando i miei.

Ne rimasi fulminato.

Un paio di occhi a dir poco magnetici, incredibili…

Scossi impercettibilmente la testa: non erano da me pensieri di quel genere!

Eppure… eppure quel qualcosa di non ben identificato era tornato: amplificato all’ennesima potenza. Potente come non mai.

L’effetto che quei due pozzi al cioccolato ebbero sul mio cuore fu un che di indescrivibile.

Se nell’attimo in cui si fissarono nei miei persi un battito, negli istanti successivi il ritmo cardiaco si eguagliò a quello di un maratoneta agli ultimi dieci metri.

Furioso, incostante, affannoso ed eccitato.

Tutto insieme.

Tutto mischiato ed amalgamato.

Come non mi capitava da… come non mi era mai capitato.

Non so cosa riuscì a farmi spostare lo sguardo: forse Marcello che si schiariva la voce, o il leggero tremore che improvvisamente ebbero i pozzi in cui mi ero perso.

Ad ogni modo i miei occhi si mossero, allargando la loro visuale ed inquadrando il nuovo venuto.

Me lo aspettavo quasi.

Non mi sorprese più di tanto riconoscere il ragazzone del rugby in colui che accompagnava la ragazza ad un tavolo, neanche fosse per me una conseguenza logica.

Era come se, una volta provato quel qualcosa, una volta sentito finalmente il mio cuore ancora in petto, dopo così tanto tempo… una volta capito che era merito di lei…

Era come se una parte di me avesse sempre saputo che era lei.

Il veder comparire Emmet al suo fianco, fu solo la conferma.

Era Isabella.

Era Bella.

La Bella dagli occhi cioccolato ed il sorriso enigmatico.

La Bella per cui il mio cuore si era risvegliato.

Tamburellai con le dita sul bancone e questa volta Marcello riempì il bicchiere: lo afferrai saldamente, aspettando il momento giusto, il momento dell’azione.

Non si fece attendere troppo.

Emmett si alzò, allontanandosi.

Mi alzai anche io.

E a passo misurato mi avvicinai al tavolo di Bella.

Non avrei saputo dire che faccia avessi, l’unica certezza era che il ghigno era scomparso.

Il mio bel ghigno, anche lui, aveva raggiunto gli ormai ben lontani neuroni.

E come biasimarlo, del resto?

Ne aveva tutte le ragioni.

In fondo, la mia camminata, era come quella di un condannato a morte.

L’unica differenza era che io mi stavo offrendo volontario.

Con altri tre passi, infatti, avrei raggiunto lei.

La mia nuova cliente.

 

*

Sono in ritardo?

Vi prego di scusarmi, davvero non era mia intenzione ma sapete com'è: ultimo sprint di fine maggio ^^ 

Non ho quasi più tempo e temo lo noterete da questo nuovo, cortissimo cap...

E' orrendo vero?

Lo immaginavo e me ne dispiaccio,,, solo ho l'autostima sotto i piedi...

Se vi va, fatemi sapere che ve ne pare, come ve la passate... qualunque cosa, purché serva a distrarmi un po' !! **

Ad ogni modo grazie di cuore a tutti: chi legge, chi commenta, tutti!

Se vi può far piacere, per quando non avete nulla proprio da fare, vi lascio qui sotto i link di alcune altre mie storie: 

quelle (per inciso) che credo continuerò in tempi accettabili ^^

 

Do I have to cry for you?

Bacio di mezzanotte

Dodici ore di follia

 

Provatele e fatemi sapere, se non avete meglio da fare ^^

Un bacio,

Miseichan

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Capitolo 7
*** Afraid ***


afraid

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Afraid

 

 

Edward.

No, forse meglio Cullen.

No, ancora non andava bene: e se fossi rimasto semplicemente in silenzio?

Semmai con un sorriso ebete stampato in faccia ed un’espressione indifesa…

Scossi la testa, chiudendo gli occhi e sperando che la confusione appena scatenatasi nel mio cervello lasciasse il posto alla solita apatia.

Non sembrava stesse andando così, però.

L’apatia non tornava.

Quel bel senso di estraniamento assoluto, in cui nulla mi toccava, sembrava non appartenermi più.

Era come se improvvisamente tutto ciò che avevo in corpo si fosse deciso a risvegliarsi.

Non era così che doveva andare.

No.

A me l’apatia serviva.

Io dovevo estraniarmi.

O non avrei potuto fare il mio lavoro: perché io ero un avvocato.

E un avvocato non può avere quel po’ po’ di casino in corpo, santo Dio!

Riaprii gli occhi, dando le spalle alla causa del mio sconvolgimento e tornando a fissare il bancone appena lasciato: forse era il caso che vi tornassi, cominciando semmai a dare anche testate al muro… così forse, c’era da sperare, che i neuroni avrebbero ripreso a fare le loro belle sinapsi.

Fu in quel momento che incontrai lo sguardo di Marcello: era sorpreso.

Solo quello: sorpreso.

Da me, dalla mia faccia, dal mio comportamento.

E anch’io lo ero, solo non ero tanto stupido da andarglielo a dire.

Esatto… io non ero stupido.

La testa pian piano smise di pulsare e notai con piacere come il locale smise di vorticare attorno a me: bene, eravamo sulla buona strada.

Poggiai una mano al muro, reggendomi in piedi: okay, potevo farcela.

Presi diversi bei respiri, profondi e sicuri.

Riuscii a riprendere lentamente il controllo sul mio viso, sul respiro, su tutto.

Ero Edward Cullen, in fin dei conti, per la miseria!

L’Edward Cullen capace di affrontare chiunque, qualunque cosa.

Continuai a ripetermi quella sottospecie di litania, con fare via via più convincente: al punto da riuscire ad indossare nuovamente la solita maschera, la faccia d’angelo.

La mia maschera.

Quella che mi apparteneva, senza la quale mi sentivo perso, vulnerabile.

La maschera che conteneva e gestiva la mia insostituibile apatia.

Smisi di guardare Marcello: sollevai le spalle e puntai gli occhi sul mio obiettivo.

Potevo farcela.

Mi avvicinai a quel tavolo con passo sicuro.

Un ghigno ad inarcarmi le labbra, un’ espressione convinta negli occhi.

Finzione, pura finzione: tutta apparenza.

Solo io lo sapevo, però.

Solo io lo sapevo, per fortuna…

Quando quel paio di occhi cioccolato si sollevarono, fermandosi nei miei, temetti che stessi per mandare tutto a puttane: una parte di me avrebbe voluto sorriderle con fare rassicurante, un’altra parte non desiderava altro che saltarle addosso… c’era anche una terza parte tuttavia: quella che doveva assolutamente prevalere, quella che avrebbe continuato a fingere, limitandosi a compiere il proprio lavoro in maniera impersonale. Era quella parte che dovevo interpretare.

E lo avrei fatto.

Quei due vortici al cioccolato mi sorrisero, illuminandosi, senza alcuna ragione apparente.

E il mio cuore sorrise con loro.

Mi mantenni a distanza: in piedi, rigido, una mano sullo schienale della sedia che era di fronte a lei.

Sorrise.

Di getto, in modo prorompente e contagioso: come se quello fosse il momento più bello della sua vita… e ridacchiò: sottovoce, trattenendosi, guardandomi al contempo con aria interrogativa.

Chi ero? Cosa volevo da lei?

Questo si stava chiedendo e ne aveva tutte le ragioni.

Non sorrisi.

Continuai a fissarla, restando fermo davanti a lei.

Ne studiai ogni movimento, indeciso sul da farsi.

Quando mi accorsi che il suo sorriso si era fatto incerto, mi convinsi che era il momento di parlare:

- Edward Cullen -

Potendo, credo che mi sarei volentieri preso a calci da solo.

Dove era finito il mio cosiddetto, tanto ammirato, charme?!

Da quando in qua, io, riuscivo a dire solo il mio nome e il mio cognome ad una ragazza?!

Non ebbi però il tempo di pianificare alcun metodo di autopunizione: lei infatti tornò a sorridere, più radiosa di quanto già non fosse.

Alzandosi soltanto per metà mi porse la mano, divertita forse dalla mia apparente inadeguatezza:

- Bella Swan -

Le strinsi la mano, prolungando più del dovuto il contatto, per poi lasciarla andare di scatto e crollare a sedere sulla sedia con aria distrutta.

Non era mai stato tanto stancante avere a che fare con qualcuno.

Mai.

Bella ridacchiò ancora, prendendomi in contropiede: santo Dio, era tanto divertente vedermi andare in pezzi? O forse no, non era quello, perché ad andare in pezzi era ciò che avevo dentro: il fuori era ancora protetto egregiamente dalla mia utilissima maschera.

Cosa c’era allora di tanto divertente?

Fu lei stessa a spiegarmelo, parlando sottovoce e in modo vagamente concitato:

- Sei sempre di così poche parole quando ci provi con una ragazza? -

Inorridii all’istante, iniziando improvvisamente ad accarezzare l’idea di fuggire a gambe levate.

Cosa…?!

Credeva… credeva che io ci stessi provando?

No, porca miseria, no!

Così complicavamo le cose, non andavamo bene!

E quella bella strada giusta e diritta che avevamo intrapreso, o che almeno io avevo preso?!

Che fine aveva fatto?

Con la coda dell’occhio mi sembrò di vederla, mentre si allontanava sempre più e in modo irreversibile. Ma bene… fuori strada e alla grande!

- No, senti… Bella…-

Mi agitai sulla sedia, passandomi una mano fra i capelli e facendo allo stesso tempo segno a Marcello di portare da bere.

Bella strinse gli occhi, studiando la mia espressione, poi si protese sul tavolo, poggiando i gomiti sulla superficie ed il viso sulle mani: sorrise, completamente a proprio agio.

Aspettava qualcosa.

Aspettava forse che io dicessi qualcosa.

Ma cosa?

- Studi? -

Mi sorpresi: tanto io quanto lei, per ciò che avevo chiesto.

Cosa diavolo c’entrava adesso?

Per quale fottutissimo motivo non avevo detto a chiare lettere che ero un avvocato?

Per quale porco motivo avevo appena deciso di omettere quel particolare?!

- Sì, sociologia. Tu? -

Aveva preso a sorridere di nuovo, attorcigliando una ciocca di capelli con il dito indice.

Reclinai leggermente la testa all’indietro, sospirando in maniera impercettibile.

Quando risollevai lo sguardo, incontrando gli occhi di lei, le regalai il mio miglio ghigno:

- E’ così importante? -

Non avevo risposto e non avevo intenzione di farlo.

Lo sapevo io… e lo sapeva anche lei.

Non disse niente però, fissandomi semplicemente divertita:

- Vuoi fare il misterioso, eh? -

Smise di giocare con la ciocca di capelli, soffiando invece fra le labbra per rialzare la frangetta.

Io non dissi niente, attendendo che fosse lei a dire qualcosa.

Doveva fare la prima mossa.

Per il semplice motivo che mi ero messo da solo in un bel guaio.

Continuai ad osservarla, non riuscendo a smettere di perdermi in quegli occhi.

- Non sono qui da sola -

Inarcai un sopracciglio, cercando di capire perché me lo avesse detto.

Credeva fossi un maniaco e voleva avvisarmi che non avrei ottenuto niente…

… o voleva dirmi che se volevo ottenere qualcosa dovevo darmi una mossa?

Scossi la testa, deridendomi da solo.

Che cavolo di pensieri mi passavano per la testa?

Eppure quella frase ebbe un certo effetto su di me: in qualche modo mi riportò bruscamente alla realtà. Con sole cinque parole era riuscita a farmi tornare in me.

Perché il fatto che non era sola, andava a braccetto con la presenza di Emmett.

Emmett, il ragazzone del rugby.

Emmett che probabilmente l’aveva portata lì nella speranza che ci fossi anche io.

Emmett, il fratello che voleva giustizia.

E ricordai che il mio compito non era quello di starmene lì, in silenzio, a fare il “misterioso”.

- Frequenti l’Università, vero? –

Bella si rimise a sedere in modo corretto, presa in contropiede dalla mia rapida inversione di marcia.

- Sì… perché? -

Annuii, ignorando il fatto che mi stessi per comportare ancora una volta da perfetto stronzo.

Con un sospiro, mi decisi a continuare: quella era la mia essenza in fin dei conti.

- Hai qualche corso con Mike, Bella? -

Smise di sorridere, lasciando i capelli e qualsiasi atteggiamento amichevole.

Rispose dopo qualche istante di silenzio, tentennando e balbettando in modo quasi impercettibile.

- .. C-chi? -

Il ghigno non era sparito dal mio volto e ne ero perfettamente conscio.

Così come sapevo di starmi rendendo improvvisamente odioso.

Di starmi mostrando per quello che ero: un lurido avvocato.

- Mike Newton, Bella. Il figlio del sindaco -

Lei si spostò al’indietro, come cercando di mettere la maggiore distanza possibile fra di noi.

- N-no… cioè… ma perché? Cosa te ne importa? Non sono affari… -

- Hai o no qualche corso in comune con lui, Bella? –

Incontrò il mio sguardo e ne rimasi sconcertato: non erano più gli stessi.

Non erano gli stessi occhi che mi avevano incantata.

Non erano gli stessi occhi per cui avrei fatto qualsiasi cosa.

Erano spenti, tristi, spaventati.

Due vortici di paura.

E quella dannatissima paura ero stato io a scatenarla.

- Io non… perché? Non… -

Sospirai.

Un sospiro che probabilmente sembrò invece uno sbuffo nervoso.

Ma non ci potevo fare niente.

Non era con lei che ce l’avevo.

Era me che odiavo.

Lo stronzo che doveva fare le domande.

Lo stronzo che doveva ottenere informazioni.

Lo stronzo che doveva scavare nella mente di una bellissima e solare ragazza per trovarvi cose che potevano ridurla in uno stato di puro terrore e disperazione.

Era quello stronzo che odiavo, con tutto me stesso.

Mi allungai sul tavolo, verso di lei.

Cercando di annullare la distanza, ma tanto io mi avvicinavo tanto lei arretrava, sempre più scossa.

- Bella, guardami. Bella mi devi rispondere -

Lei scosse la testa, prima lentamente poi sempre con maggiore forza.

La determinazione di chi non vuole accettare la realtà.

Con uno scatto si alzò, facendo rovesciare la sedia e senza rivolgermi nemmeno la più piccola occhiata, corse fuori dal locale.

 

*

 

E ce l’ho fatta!! ^^

Spero che a qualcuno farà piacere xD No, scherzo… mi scuso per il ritardo, spero che ci sia ancora qualcuno interessato a questo delirio ^^

Non do giudizi, ho scoperto di esserne incapace.

Fatemi sapere voi: è decente, carino, potevo fare meglio….

… ci sono cose che non avete capito o che non sono chiare… ditemi tutto, senza remore ^^

Per il resto, immagino che ringraziarvi sia poco: dovrei farvi erigere una statua! **

Siete fantastiche: recensioni magnifiche, davvero **  Troppo buone, ragazze *__*

Non smettete però ^^

Alla prossima!

 

Risposte alle recensioni:

 

 ANNALISACULLEN:  Ciao ^^ Eccolo  l’aggiornamento! In ritardo lo so, ma c’è xD  Son contenta che il cap precedente ti sia piaciuto! Graziee ** Spero che anche questo non ti dispiaccia ^^ Si sentono sempre le emozioni, o mi sono persa per strada? ^^

 

 giova71: Ciao ^^ Eh si, primo incontro in un bar, che te ne pare? Troppo banale o ovvio? Fammi sapere, mi raccomando xD Per gli ulteriori sviluppi, bè non posso dire niente ma qualcosa non temere, accadrà **

 

wilard:  Ciao ^^ Non preoccuparti se non hai commentato prima! Anzi, è solo un onore che tu lo abbia fatto! Sono contentissima ti piaccia: certo, sono entrambi un po’ incasinati come protagonisti, ma hai ragione… stare insieme per un po’ non può che fargli del bene! ** Spero di non averti delusa ^^

 

 free09: Ciao ^^ addirittura stupendo come cap? WO, così mi fai commuovere! ^^ Allora per scoprire qualcosa in più sul comportamenti di Emmett temo dovrai aspettare il prossimo cap. spero tu ce la faccia e non ti annoi prima ^^ E’ sempre un piacere! **

 

 trevifra: Ciao ^^ Lo sai che mi hai fatto perdere un battito? Addirittura fantastico il mio modo di scrivere… wo ** Graziee! ^^ Questo invece fa schifo, vero? xD

 

 ChiaraBella: Chiaraaaaa!! Batti un colpo appena ci sei!! ^^ Scherzo ero io ad essere scomparsa! Sono tornata però e non ti lascio più! ** Gemellina, mi segui ancora, vero? Ti piace sempre? **  Lo sai che ci tengo alla tua opinione, non essere troppo cattiva, però xD

 

 Mr Darcy: Ho continuato visto? E ti amo anche io lo sai? Il tuo commento è stato a dir poco incredibile! Ma dicevi davvero? Perché wo… potrei solo ringraziarti all’infinito e ancora non basterebbe! ^^ Ora però ho il timore di aver deluso tutte le tue aspettative con questo cap… che dici? **

 

 AriRock: Vanno bene come sviluppi? Troppo poco ancora, vero? Eee.. ma le cose arriveranno, solo tempo al tempo xD Ti piace ancora o non sei nemmeno riuscita ad arrivare a fine capitolo? Fammi sapere, mi raccomando! **

 

 artemide88: Ciao ^^ Spero che un po’ di risposte te le abbia date questo cap. per le altre invece, credo dovrai pazientare fino al prossimo… ** Com’era? Orrendo? Mi sono persa, vero? Fra un neurone disconnesso e l’alcool xD o forse è solo Edward che mi questo effetto ^^  Grazie comunque, davvero, di cuore! **

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Decision ***


8 decision

 

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Decision

 

 

- Ma che razza di persona sei?! -

Non sollevai lo sguardo, continuando a fissare con occhi vacui il posto vuoto dinanzi a me.

Presi un bel respiro, preparandomi ad affrontare Emmett.

Lui, che in pochi passi rapidi e violenti, mi si era avvicinato.

Lui, che aveva sbattuto con forza il pugno sul tavolo, con il chiaro intento di farmi capire cosa gli passava in quel momento per la testa.

A pensarci bene, poi, c’erano buone possibilità che il pugno avrebbe preferito darlo a me invece che al tavolo. Ottime possibilità.

E lo capii quando incrociai il suo sguardo: c’era rabbia in quegli occhi.

Rabbia mista confusamente ad odio e paura.

Sentii le labbra incresparsi automaticamente nel solito ghigno.

Eh sì, eravamo tornati alla normalità: solo io ero in grado di provocare tutti in una volta sentimenti così contrastanti.

- Le è sembrato il modo di comportarsi? E che diavolo, ma un po’ di tatto, no?! Le avevo spiegato la situazione, Cristo Santo! Cosa le è saltato in mente?! L’hai fatta scappare! -

Era confuso, più di quanto lui stesso ne fosse cosciente.

Lo capii da come parlava: in modo sconnesso, indeciso se darmi del tu o del lei.

Non sapeva come comportarsi.

E a quanto pareva non lo sapevo nemmeno io.

Mi alzai in piedi, fermandomi di fronte a lui e fissando i miei occhi nei suoi.

- Swan, si calmi. So cosa sto facendo. Mi dispiace dirglielo ma sarò obbligato ad usare un metodo così duro con sua sorella… -

Emmett sgranò gli occhi, guardandomi incredulo.

Non mi lasciò concludere, iniziando quasi a gridare:

- Lei non è obbligato a fare niente! Non deve assolutamente rivolgersi più in questo modo a Bella! E’ sconvolta, santo Dio! Non può prenderla così.. lei me la rovina e… -

Scossi la testa, convinto.

No.

Questa volta avevo ragione, io. Dovevo solo farlo capire anche a lui.

- Swan, sono un avvocato. Che ci creda o no, so quello che sto facendo. Devo comportarmi così.

Forse non se ne è accorto, ma Bella non ha ancora capito. Non ha assimilato cosa le è successo.

Lei sta negando. Nega a se stessa, Swan! Non vuole accettare la realtà e se lei per prima non la accetta, io non posso fare niente per aiutarvi –

Mi pentii quasi subito di quell’uscita.

Avevo sottinteso che in qualche modo li avrei aiutati.

Non era vero.

Perché dentro di me sapevo di essere impotente in quella situazione.

Forse allora non sarebbe servito a niente far aprire gli occhi a Bella.

Forse sarebbe stato meglio lasciarla in pace.

Nel mondo parallelo che si era costruita, perché così sarebbe stata meglio.

A cosa sarebbe servito farla soffrire, farle rivivere i momenti più brutti della sua vita, se poi non ne avrei comunque potuto ricavare niente?

Indietreggiai inconsciamente, indeciso più di prima.

Stavo sbagliando tutto?

Incrociai ancora una volta lo sguardo di Emmett e capii che no, non stavo sbagliando.

Dovevo andare avanti, per me, per lei… per noi.

- Swan, mi hai capito? -

Lui annuì appena, in modo quasi impercettibile.

Quando parlò lo fece con una voce che non sembrava la sua:

- Hai ragione. Ero io che non volevo crederci: pensavo fosse una buona cosa quel suo essere comunque allegra, eppure lo sapevo che non doveva essere così, che non era normale. Sarebbe stato più appropriato che piangesse in continuazione, vero? -

Annuii, dandogli ragione.

Quello sarebbe stato un normale modo di reagire.

- Dove la trovo, Swan? -

Emmett non rispose subito, perdendosi nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso sul pavimento.

Non gli misi fretta, sapendo che sarebbe stato solo nocivo.

L’ennesima mossa sbagliata.

Se mi avesse risposto avrebbe significato avere da lui quella che poteva essere vagamente interpretata come fiducia.

Ma ero poi davvero pronto ad avere la sua fiducia?

- Biblioteca -

 

Attraversai il grande portone di legno con passi lenti e calcolati, così silenziosi da far dubitare anche me di star davvero camminando.

Passeggiai per l’atrio, costeggiando il lungo bancone e scambiando un’ occhiata distratta con la bibliotecaria: era una donnina minuta, con gli occhi resi enormi da un paio di occhiali così spessi da far pensare che senza, non avrebbe visto assolutamente niente.

Con quegli occhiali poi, le iridi assumevano un colore che ricordava distintamente il viola.

Per qualche motivo assurdo mi provava simpatia, allo stesso tempo però, sapevo che gran parte di quest ultima era dovuta al fatto che non ci fossimo mai scambiati nemmeno una parola.

Accennai ad un saluto con il capo, poi mi decisi ad entrare nel vivo della sala.

Percorsi il primo corridoio piano, colmo ancora di indecisione.

Sapevo però, di essere ancora in tempo per girarmi ed uscire alla velocità della luce.

Non lo avrei fatto però, e me ne convinsi mentre con decisioni attraversavo il corridoio principale.

L’avrei trovata.

Mi guardai attorno, lanciando occhiate superficiali sugli altri, pochi, che erano lì.

Diversi ragazzi, alcuni addormentati sui divanetti, altri proni su libri con aria decisamente annoiata.

Inspirai, assaporando quello che mi piaceva identificare come odore di legno: tutto in quella biblioteca era fatto di legno, a parte i libri è chiaro.

Mi guardai ancora attorno ma di lei nessuna traccia.

Una ragazza mi si avvicinò: piccolina, capelli neri e occhi ancora più scuri.

Mi osservava in silenzio da diversi minuti, fingendo di star invece guardando lo schermo del suo portatile. Non mi andava di parlare con nessuno che non fosse lei in quel momento e la ragione mi invitava ad allontanarmi rapidamente.

Eppure non lo feci.

Stranamente, sorprendendomi, non mi spostai.

Rimasi fermo, incoraggiando così la piccola ragazza a raggiungermi.

Lei con un sorriso allora, cogliendo forse il tacito invito, in pochi saltelli annullò la distanza fra di noi. Un sorriso abbagliante, quello era l’unico modo per descriverlo.

Non poteva essere più alta di un metro e cinquantacinque, ma non per questo sembrava indifesa.

Tutto il contrario.

Con un soffio fece alzare la corta frangia di capelli neri che le copriva gli occhi.

- Ho come l’impressione che tu abbia bisogno di aiuto -

Lo disse con sicurezza, come se fosse una semplice constatazione che forse non era nemmeno necessario fare. Nonostante il tono più che sicuro, la voce cristallina mi spiazzò.

- Come? -

Lei sorrise ancor di più, in modo furbo questa volta:

- Posso aiutarti? -

Scossi la testa, pentendomi di essermi fermato:

- No. Grazie lo stesso -

Non ero riuscito a controllare il tono di voce e probabilmente suonai alquanto scortese.

Mi voltai, smettendo di osservare quella sottospecie di elfo sbarazzino.

Lei però, non si lasciò abbattere.

Con la piccola mano, afferrò un lembo della mia camicia.

Non tirò, semplicemente la strinse con le dita.

E io mi fermai di nuovo, voltandomi per incenerirla con lo sguardo.

- Alice, molto piacere. Tu sei… -

- Edward –

Risposi con voce tagliente e non me ne pentii.

Continuai a guardare truce la sua mano, ma lei non sembrava intenzionata a lasciare la presa.

- Mi dici chi cerchi? -

Strinsi gli occhi, assotigliandoli.

Cosa voleva quella? Poteva mai aiutarmi?

Le regalai uno dei miei migliori ghigni, il più irrisorio che avevo.

- Cerco una ragazza: Bella. Puoi aiutarmi? -

Appena avevo cominciato a parlare lei aveva lasciato andare la mia camicia, portandosi invece un dito alle labbra, con aria pensierosa.

Dopo pochi attimi si rilassò in un ampio sorriso, guardandomi con aria divertita:

- Castana, occhi umidi, aspetto di cucciolo indifeso? -

Non risposi, ma probabilmente la mia espressione le bastò.

Annuendo con convinzione allungò il braccio, indicandomi il fondo della grande sala.

- Ultimo corridoio. E’ seduta per terra contro lo scaffale -

Aprii la bocca per dire qualcosa ma non ne uscì niente.

Mi aveva aiutato.

Quella sottospecie di elfo era davvero riuscita ad aiutarmi.

Annuii, senza fare o dire altro e lei sorrise.

Come ad incoraggiarmi, poggiò la mano sulla mia schiena, sospingendomi.

- Vai. Ce la puoi fare -

Non so perché, ma quelle poche, semplici parole, mi sostennero.

Mi incamminai, acquistando via via maggiore sicurezza.

Poco prima di raggiungere l’ultimo corridoio mi voltai un istante, incontrando lo sguardo della piccola incantatrice sorridente.

- Grazie, Alice -

Lo mimai solamente, senza davvero pronunciare le parole.

Lei però capì, annuendo impercettibilmente e tornando al suo portatile.

Non mi accorsi quasi di star voltando l’angolo, perciò la figura di Bella, accoccolata per terra, mi colpì diritta al cuore. Non ero preparato.

La osservai, piegandomi silenziosamente sui calcagni, per trovarmi alla sua altezza.

E con orrore mi resi conto di quanto fosse fragile in quel momento.

Tremava, stringendosi le ginocchia fra le braccia, e teneva la testa reclinata all’indietro, poggiata agli scaffali, con gli occhi serrati.

Feci per dire qualcosa, anche se non avevo la più pallida idea di come cominciare.

Lei però non me ne diede tempo.

Per un motivo a me ancora oscuro, aprì gli occhi fissandoli subito nei miei.

Mi aveva sentito?

Li spalancò, riconoscendomi, e prese ad arretrare, arrancando piano.

Scosse la testa, come non riuscendo a credere alla mia presenza.

- Bella… -

Lo avevo sussurrato, solo sussurrato, eppure su di lei ebbe l’effetto contrario.

Scattò in piedi, arretrando ancor di più e rischiando di sbattere contro una libreria.

- Cosa vuoi da me?! Và via! -

Lo aveva detto con voce incolore, una voce che nascondeva una grandissima paura.

Ed ero io a spaventarla.

- Bella, se per favore mi ascoltassi… -

- No! Non ho intenzione di sentire niente! Devi andartene! –

Aveva alzato la voce questa volta, arrivando quasi a gridare.

La osservai mentre si passava una mano fra i capelli più e più volte, in un gesto nervoso, tentando di calmarsi e controllare il respiro.

Mi venne da sorridere: non ero io quello fissato con le mani nei capelli?

Ma non sorrisi.

Mi arruffai invece i capelli, prendendo un bel respiro.

- Non me ne vado. No, se non mi ascolti -

Lei rise, di una risata nervosa, con un sottofondo che mi ricordò tanto il pianto.

Mi voltò le spalle, camminando incerta ed allontanandosi.

Aspettai solo qualche istante, poi mi alzai anche io e la seguii.

Non avrebbe vinto così.

- Bella! Bella, aspetta -

Non si fermò, ma non si era neppure allontanata.

In pochi passi la raggiunsi e senza pensarci le poggiai una mano sulla spalla.

Mi pentii immediatamente del gesto, non appena lei si fu voltata, fissandomi sconvolta.

Come se mi fossi bruciato tolsi di scatto la mano, lasciandola ed arretrando.

Che cazzata avevo fatto?

Lei mi fissò con quegli occhioni ora pieni di lacrime.

Sembrava non riuscisse nemmeno a muoversi.

- Bella, sono un avvocato. Voglio aiutarti -

Lei scosse appena la testa, socchiudendo gli occhi.

- Non ho bisogno di un avvocato -

Avevo una voglia incredibile di annullare ogni distanza ed abbracciarla.

Volevo che smettesse di soffrire.

Volevo aiutarla, più di quanto riuscissi ad ammettere.

Non potevo avvicinarmi però, e lo sapevo: la sua reazione al mio minimo contatto era stata più che chiara. Era presto, troppo presto.

- Hai bisogno di aiuto, però, Bella -

Mi sorpresi di quanto la mia voce fosse uscita dolce, un tono che non credevo di avere.

Lei scosse la testa, questa volta con decisione.

- No. Và via, per favore -

Non avrei voluto andarmene, per niente al mondo.

Eppure il modo in cui lo disse, in cui me lo chiese… capii di aver perso.

Non potevo fare niente.

Annuii piano, sentendomi sconfitto. Un senso di tristezza mi avvolse improvviso, ma sapevo di non poterci fare niente. Era lei che non voleva.

E l’ultima cosa che volevo era farle del male.

Feci per allontanarmi, accennando appena un saluto.

Qualcosa però mi fermò.

Bella mi fermò.

Involontariamente, forse, però lo fece.

Alzò un braccio, come a volermi afferrare per bloccarmi, ed allo stesso tempo un grido soffocato le uscì dalla bocca. Terrore.

Terrore, quello vidi nei suoi occhi, non appena li incrociai.

Mi bloccai all’istante, fermandomi accanto a lei.

E fu quando mi voltai, seguendo il suo sguardo fisso sulla porta, che ne capii il motivo.

Circondato da un gruppo di ragazzi, appoggiato al bancone nell’atrio, c’era lui.

Mike Newton.

 

*

 

Troppo lungo?

Probabilmente sì, e se vi ho annoiato vi giuro, non era mia intenzione.

La storia comincia a svolgersi, come avrete notato... se avete domande o qualsiasi dubbi, vi prego, fatemelo notare ^^

Per il resto vado di fretta, nonostante ciò ho la faccia tosta di farvi un paio di richieste assurde xD

Allora, per prima cosa, davvero ci terrei a sapere anche una piccolissima opinione da parte dei numerosissimi lettori silenziosi...

... voi non ci crederete, ma io ho la fobia che chi non commenti, lo faccia perché in realtà c'è qualcosa che non gli piace nella storia ^^

Ecco, nel caso fosse così, davvero mi piacerebbe sapere cosa, per correggermi, capite? =)

Poi...

seconda richiesta: stamattina mi è capitato di leggere del nuovo concorso, quello per le scene lemon...

E così mi è venuta la pazza idea di provare a scrivere una storia a raiting rosso **

E' sempre su Edward e Bella, e vi assicuro, essendo la prima che scrivo più spinta ci sono ottime probabilità che faccia schifo.

Nel caso però, in cui a qualcuno vada di provarla...

vi lascio il link, che non si sa mai! ^^

 

Un agosto di fuoco

 

Entro stasera dovrei riuscire a postare il secondo capitolo

Fatemi sapere che ve ne pare ^^

Un bacio

Miseichan

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Capitolo 9
*** Unlucky ***


Unlucky

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Unlucky

 

 

- Bella! -

Scossi la testa, avvicinandomi a lei di un passo ancora.

Non mi sentiva.

O forse, io non riuscivo a farmi ascoltare.

Le voltai le spalle, solo per un attimo. Solamente per vedere lui.

Se ne stava lì, con i suoi amici, chino sul bancone.

Ci dava le spalle.

Non si era nemmeno accorto di noi probabilmente.

Bella però lo aveva visto: da quando era entrato era solo lui che guardava.

Lo osservai anche io, mentre con aria superiore ed irriverente si rivolgeva alla signora con gli occhiali a mezzaluna. Lei non lo sopportava e si vedeva lontano un miglio. Lui non sembrava farci caso: continuava a parlarle, indifferente al disagio di lei.

La signora stava giocherellando nervosamente con un tagliacarte che si rigirava fra le dita.

Non mi sarei sorpreso più di tanto se da un momento all’altro glielo avesse conficcato fra le costole, quel tagliacarte.

In fondo, era quello che si meritava, caro il mio Mike Newton.

Smisi di guardarlo, sentendomi quasi nauseato.

Tornai invece ad osservare Bella.

Non si era ancora mossa: lo sguardo vacuo ed al contempo terrorizzato.

- Bella -

Niente.

Come se non esistessi.

- Bella, guardami, per favore -

Ponderai l’idea di annullare ogni distanza e toccarla: afferrarle la mano e trascinarla via.

Doveva scuotersi.

Dovevo portarla via.

Ad ogni costo.

“ Non farlo! ”

A bloccarmi il piede a mezz’aria fu una vocina.

Un’ esile e ragionevole voce, proveniente direttamente dalla mia testa.

Arretrai, avvallando sempre più la mia personale ipotesi di star uscendo di senno.

Era la prima volta che sentivo quella vocina.

Eppure sapevo di doverla ascoltare.

“ Sai benissimo che così peggiorerai solo le cose ”

Questo mi diceva la vocina.

E aveva ragione.

Lanciai uno sguardo a Bella, terribilmente fragile in quel momento.

Sembrava sul punto di svenire, scossa da fremiti leggeri eppure devastanti.

A stento tratteneva le lacrime.

Cosa avrei ottenuto toccandola e terrorizzandola ancor di più?

Ripensai a quando poco prima avevo tentato di fermarla, a come si era irrigidita, a come mi aveva guardato… no, non era assolutamente pronta ad alcun contatto fisico.

- Edward -

Sobbalzai sentendomi chiamare e persi un battito non appena capii che era stata Bella a farlo.

Tornai ad avvicinarmi, cautamente questa volta.

Aveva gli occhi pieni di lacrime trattenute ed il viso di un pallore preoccupante.

Il labbro inferiore prese improvvisamente a tremarle:

- Portami via, ti prego -

Era stato un sussurro.

Con voce rotta me lo aveva chiesto, in quella che era una disperata richiesta di aiuto.

Non ebbi bisogno di girarmi: con la coda dell’occhio lo vidi mentre lasciava il bancone e sorridente, faceva per avvicinarsi a noi.

No, così non andava assolutamente bene.

Perché doveva sopportare tanto?

Perché quella povera ragazza ora doveva riaffrontare il suo incubo?!

“ Stai ottenendo quello che volevi ”

La sentii chiaramente questa volta: molto più marcata di come lo era stata prima.

“ Volevi che accettasse la cosa? Benissimo, sta succedendo. Vedendolo, trovandosi faccia a faccia con lui, con Mike Newton… Isabella non potrà più negare la cosa. Non potrà più nasconderla, men che meno a se stessa. Quello che sta provando ora, riuscirà solo a riportarle tutto alla mente, facendole capire ed accettare che non era un incubo ”

Quando la vocina pronunciò il suo nome, quando disse Isabella, allora capii.

Fredda, distaccata, professionale.

Con sgomento realizzai che la vocina era la mia.

Era la voce dell’Edward Cullen avvocato.

Prima non l’avevo mai sentita perché io mi comportavo sempre da avvocato.

Io ero l’avvocato.

Ora invece, per la prima volta, a farmi decidere non era la vocina, quanto le emozioni.

Sensazioni, desideri, che solo Bella riusciva a provocarmi.

L’avvocato in qualche modo lo stavo mettendo da parte, cosa mai successa.

Cosa sbagliata, principalmente.

Lo sapevo, del resto.

Mai farsi coinvolgere, Santo Dio!

Mai, mai, mai, farsi coinvolgere.

Me lo stava ripetendo anche la vocina: petulante, coscienziosa.

Avrei voluto sbeffeggiarla, quella dannata vocina.

Ma sia per lei, sia per me, in quel momento sarebbe stato come parlare con il muro.

- Bella, ascoltami: dobbiamo andare via. Adesso! -

Lei, per la prima volta da quando Mike era entrato, si girò verso di me.

Incontrai il suo sguardo, perdendomi nei suoi occhi.

Erano due vortici marroni: rassegnazione, disperazione, paura, rabbia… solo alcuni dei sentimenti che vi lessi. C’era in lei una lotta in corso. Emozioni contrastanti che non sapeva come affrontare.

“ Va bene così. Deve affrontare la cosa, deve arrivare quasi a padroneggiarla. Non avrete speranze altrimenti al processo. Non che ne abbiate, per carità ”

Un senso di inquietudine mi assalì mentre ascoltavo la vocina.

Aveva ragione.

Non mi importava però, per quanto fosse vero, non volevo che lei soffrisse.

- Bella… -

- Non ce la faccio –

Mi sentii impotente, terribilmente ed invariabilmente impotente.

Con un gesto istintivo, drastico, mi portai davanti a lei.

Non potevo abbracciarla, non potevo toccarla.

Dovevo proteggerla, però.

E per quanto mi era possibile lo avrei fatto.

Alzai di nuovo lo sguardo, su Mike Newton questa volta.

Si avvicinava sempre di più, spostando alternativamente gli occhi da Bella a me.

Ci osservava, divertito, sentendosi superiore.

Cercai di nasconderla il più possibile, come a farle scudo con il mio corpo.

Non sopportavo che lui la guardasse.

Con una mano si agitò i corti capelli biondi, poi salutò con la mano Bella, ignorando me.

Mi sembrò di riuscire a sentire lo sconforto assoluto di lei, come desiderasse con tutta se stessa di scappare, il più lontano possibile da lui, senza riuscire tuttavia a farlo.

Una rabbia cieca mi invase, riconoscendo in quel ragazzetto la causa del dolore di Bella.

Perché non soffriva anche lui?

Come poteva essere giusto che lui se ne stesse lì, completamente indifferente?

Non era neanche lontanamente ammissibile una cosa del genere.

O almeno, non lo era per me.

Digrignai i denti, desideroso unicamente di avventarmi contro di lui.

Dovevo distruggerlo, farlo soffrire.

Per il semplice fatto che ora stava sorridendo.

Glielo avrei tolto a forza quel sorriso dalla bocca.

- Isabella, che piacere incontrarti -

Non arretrai, continuando a stare davanti a Bella: fra lei e Mike.

Sentii di odiare profondamente quel ragazzo: per come la guardava, irrisorio, tranquillo… sapeva e godeva del fatto di essere invulnerabile.

Iniziò a prendere forma in me la volontà intoccabile che io, proprio io, avrei potuto renderlo finalmente vulnerabile. Dovevo riuscirci, a tutti i costi.

- Come, non mi saluti nemmeno, Bella? -

Con la coda dell’occhio osservai Bella, attento alle sue reazioni, pronto ad afferrarla al volo nel caso le cose si fossero messe male.

Ad ogni parola del ragazzo, la voglia di picchiarlo a sangue si faceva sempre più forte.

Volevo, dovevo, fargli del male.

Ora, in quel corridoio.

Subito.

“ Sei forse uscito di testa? Non ti azzardare a toccarlo nemmeno con un dito! Cosa ne ricaveresti? Un’effimera consolazione personale? E poi? A parte ritrovarti in galera per aggressione al figlio del sindaco? Se finisci dietro le spalle, lei chi l’aiuterà? ”

Con rammarico mi accorsi ancora una volta della ragione della vocina.

Da avvocato non mi sarebbe mai neanche lontanamente passato per la testa di fare una cosa del genere, eppure ora mi sentivo tutto tranne che un avvocato.

E volevo picchiarlo, con tutto me stesso.

- Eh, le ragazze… valle a capire! Mi deludi così, Bella. Mi fai restare male –

Sogghignava mentre diceva quelle cose.

Guardando Bella e ammiccando agli amici poco dietro di lui.

Quando lei, troppo provata, con una mano si aggrappò a me, Mike sembrò finalmente notarmi.

Inizialmente lo ignorai, concentrandomi sulle tremanti dita di Bella, arpionate alla mia spalla.

Poi mi voltai di nuovo verso di lui, guardandolo come si guarda un rifiuto umano.

- Tu sei? Un amico di Isabella? -

- Non sono affari che ti riguardano –

Volevo andarmene, ora che ero ancora in grado di fermarmi.

Ora che non lo avevo ancora ucciso a mani nude.

Non potevo però, non con Bella in quelle condizioni.

Gli occhi di Mike si fissarono nei miei con insistenza: non gli era piaciuta la mia risposta.

- Sì, un suo amico. Problemi? -

Avevo cercato di parlare piano, con voce incolore. Non ero riuscito però a nascondere l’astio.

E lui se ne accorse, inarcando le sopracciglia.

- Mike Newton –

Porse la mano, aspettando impaziente che facessi altrettanto.

Con estrema riluttanza lo feci, conscio che era l’unica cosa da fare.

- Edward Cullen -

Ci stringemmo la mano, i suoi occhi sempre puntati su di me.

- Cullen… mi è familiare. Aspetta, aspetta… -

Portai le braccia lungo i fianchi, stringendo i pugni.

Mike si finse pensieroso, aggrottando le sopracciglia, poi di colpo spianò la fronte, sorridente.

Sgranò un po’ gli occhi, cambiando improvvisamente sguardo.

- Cullen. Cullen, l’avvocato? -

Non risposi, tutte le forze concentrate nel tenere ferme le braccia.

- Sì, sì. Sono sicuro. E come conosci Bella? Non dirmi che ha bisogno di una tua consulenza! Per cosa, poi? Qualche furtarello da quattro soldi? -

Ridacchiò, squadrandomi irrisorio.

- A me piuttosto, sembra necessiti di un dottore. Sono convinto che un avvocato non le occorra -

Il suo sguardo ora si era fatto severo.

Era uno sguardo di sfida.

Prima che potessi fare qualunque cosa, un piccolo tornado bruno mi superò di corsa.

Passandomi davanti, si fermò poi alle mie spalle.

Riconobbi Alice solo sentendone la voce.

- Bella, finalmente ti ho trovata! Dobbiamo andare, siamo già in ritardo! -

Un tono che a chiunque appariva solo concitato, a me suonò anche preoccupato.

Alice strinse prontamente la mano di Bella, tirandola presso di sé.

Senza guardare nessuno poi, né me né Mike, si avviò verso l’uscita alle mie spalle.

L’unica cosa che ricordo chiaramente di quel momento, oltre la riconoscenza che provai nei suoi confronti, fu la breve frase che mi rivolse.

Una frase coincisa, sicura.

Una frase che aspiravo a sentire con ogni molecola del mio essere.

Una frase che colsi al volo, senza pensarci due volte.

“ Fallo adesso ”

Meno di due secondi dopo, il mio pugno si abbatté sulla mascella di Mike Newton.

 

*

 

Benissimo, ce l’ho fatta alla fine! ^^

Vi spiego: sono in una sottospecie di pseudo vacanza…

Qui però non esiste Internet =D

Perciò, ve lo dico con estrema afflizione, non so con che frequenza riuscirò ad aggiornare.

Dipende da quando riuscirò a connettermi, anche solo per pochi minuti ^^

Spero, con tutto il cuore, che questi possibili ritardi non vi facciano passare la voglia di leggere!

Mi manchereste troppo, vi avviso! **

Un bacio enorme,

Sara

 

 

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Capitolo 10
*** Strong ***


10 strong

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Strong

 

 

Strinsi di più lo strofinaccio attorno alle nocche.

Quel fresco era piacevole, un sollievo inaspettato.

Mi sistemai meglio sulla sedia, distendendo le gambe e reclinando leggermente il capo all’indietro.

- Cosa diavolo ti è saltato in mente?! -

La porta che avevo di fronte si aprì di scatto, in maniera prorompente, sbattendo furiosamente contro il muro e facendo cadere una parte di intonaco.

Jasper entrò come una furia, reso ancora più alto e temibile dalla rabbia.

Cercai di pensare all’ultima volta che lo avevo visto così arrabbiato.

Non mi riuscì di ricordarlo.

Ero confuso, terribilmente confuso.

Le urla di Jazz poi, non mi aiutavano di certo.

- Tu sei un pazzo. Un folle! Non ci sono altre spiegazioni! Hai… hai colpito Newton! -

Sembrava non riuscirsene a capacitare lui stesso.

Camminava avanti e indietro per la stanza.

Proprio davanti alla mia scrivania.

Un moto perpetuo, come il moto di un pendolo.

- Lo hai colpito! In… in un luogo pubblico! Con dei testimoni! -

Si passò ancora le mani sul viso, fermandosi questa volta.

Poggiò i palmi sulla scrivania, fissandomi in viso.

- Che diavolo ti è preso, Edward? Hai deciso di rovinarti da solo? Se  già la situazione era drastica prima… se già la possibilità di vincere ed ottenere giustizia prima era effimera, quasi eterea… ora è assolutamente impossibile! Perché? -

Ridacchiò nervosamente, mettendosi a sedere e scuotendo la testa:

- Perché quel cazzone dell’avvocato, con la sua celebre testa di cazzo, ha fatto la cazzata di colpire la faccia di cazzo di quel coglione del figlio del sindaco! -

Mi venne da ridere a sentirglielo dire.

Jasper non si esprimeva mai in termini così volgari.

Doveva essere davvero arrabbiato.

Arrabbiato e deluso.

Come dargli torto del resto?

Avevo fatto probabilmente la più grande stronzata degli ultimi vent’anni!

- Perché? Mi dici perché lo hai fatto, Edward? Che cazzo ti è saltato in mente? -

- Gliel’ho detto io –

Sollevammo in contemporanea lo sguardo, girandoci sorpresi verso la porta.

Ad entrare era stata Alice, sorridente e maliziosa.

Jasper la guardò esasperato, non credendo a quelle parole.

- Cosa? -

Alice fece un paio di saltelli, fermandosi in piedi al fianco di Jasper.

- Gliel’ho detto io di colpirlo -

Jazz mi lanciò un’occhiata incredula, prima di tornare a guardare Alice.

Scattò in piedi, osservandola furioso.

Sorrisi, un sorriso fiacco, guardandoli.

Entrambi seri, entrambi testardi, entrambi convinti.

Trenta centimetri di scompenso di altezza.

Un gigante e una fatina.

- Tu… tu gli avresti consigliato di prenderlo a pugni?! -

- Sì –

Alice annuì, sorridendo questa volta con aria caparbia.

- Ma sai lui chi era? -

- Chi è, vuoi dire: non è morto, purtroppo. E sì: è Mike Newton –

- Il figlio del sindaco! –

Le ricordò Jasper, guardandola come fosse pazza.

- Lo so. Ma sai quanto me ne importa? Quello si merita di essere picchiato a vita -

Jasper sospirò, spostando lo sguardo su di me:

- E tu avresti dato ascolto a questo folletto svampito?! -

Alice richiamò la sua attenzione prima che potessi dire qualunque cosa:

- Folletto svampito a chi?! Ma vedi dove te ne devi andare, razza di testa di… -

Si trattene prima di continuare, lanciandogli occhiate offese ed irritate.

- Mi spieghi qual è il tuo problema? -

- Nei testimoni che ci porteranno tutti al fresco forse?! –

Alice tornò a sorridere, sadica ed irrisoria.

- Ah, fammi pensare… c’era la bibliotecaria: quella placida nonnetta che, oltre a non vederci, detesta amabilmente il Newton e afferma di non averlo visto oggi -

Alice continuò, elencando sulle dita e guardando divertita Jasper:

- Oppure alludi ai pochi altri ragazzi presenti: quelli di cui il più grande desiderio è prendere a pugni Newton. Loro neanche hanno visto Mike in biblioteca oggi -

Jasper aprì la bocca per dire qualcosa, sorpreso e incredulo come mai.

Alice però non gliene diede modo:

- O pensavi alle telecamere? Forse non sai che si sono rotte la settimana scorsa e ancora nessuno le ha aggiustate. Altrimenti… -

Jasper la zittì, preso totalmente in contropiede.

A stento riuscivo io a credere alle parole della ragazza.

Davvero era così?

Non c’era nessun problema, sul serio?

Nessuno avrebbe detto la verità?

Avrebbero tutti mentito, coprendo il mio gesto come mai successo?

- E gli amici di Newton? -

Jasper aveva ritrovato improvvisamente la parola.

Guardò Alice soddisfatto, quasi contento che qualcosa nel discorso di lei non fosse stato contato.

- Ci ho già pensato io agli amici -

Jasper sgranò gli occhi, convinto dalla sicurezza di lei.

E io non potei fare a meno di guardarla adorante.

Era stata incredibile.

- Altre perplessità? -

Jasper negò, lanciando ad Alice quello che poteva essere uno sguardo di scuse.

Lei sembrò accettarlo in parte, tornando a sorridere.

Quando parlò, lo fece con il riso nella voce:

- Chiamami ancora folletto svampito e giuro, te la faccio pagare cara -

Jasper le sorrise, annuendo divertito.

Rimasero qualche attimo a fissarsi in silenzio, osservandosi.

Li guardai anche io, sorpreso ed incuriosito da quella coppia alternativa.

A parlare fu Alice, rompendo il silenzio.

- Edward, lei è nell’altra stanza –

Sobbalzai, trovandomi finalmente chiamato in causa.

Lei è di là.

Quattro parole che riuscirono a farmi impazzire il circolo cardiaco.

Alice sembrò accorgersene.

Mi sorrise, incoraggiante.

- Raggiungila appena te la senti. Dovete parlare -

La guardai, totalmente perso.

Non ero pronto, non me la sentivo.

Non ne avevo alcun diritto.

Non volevo.

- Ce la puoi fare -

Era stata sempre Alice a parlare, divertita dalla mia espressione.

- Noi andiamo, così vi lasciamo soli -

Spostai gli occhi su Jasper, guardandolo incredulo.

Voleva andarsene?

Mi avrebbe lasciato solo con Bella?

Perché?!

Non feci in tempo a chiederlo che la risposta arrivò.

Fu Jasper stesso a darmela.

- Ti posso offrire un caffè? -

Non lo aveva chiesto a me, naturalmente.

Lo aveva chiesto ad Alice.

Lei gli sorrise, contenta.

- Veramente preferirei un pranzo, se per te è lo stesso -

Jasper ridacchiò, annuendo sollevato.

Senza nemmeno salutarmi uscirono dall’ufficio.

Che bella scusa avevano trovato.

Dire di lasciarci soli per restare da soli.

Bravi, davvero.

Mi alzai, tenendo ancora lo straccio bagnato sulla mano, e mi avviai verso l’altra stanza.

La stanza in cui si trovava lei.

Lei per cui avevo colpito Newton.

E ne avevo ricavato tanto da quel pugno.

Dolore, certo.

E una soddisfazione incredibile, anche.

Esaltazione, quasi.

Cose che non credevo più di sapere cosa fossero.

Così, soddisfatto ed esaltato, aprii la porta.

 

*

 

 

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Capitolo 11
*** Flute ***


11

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Flute

 

 

Fissai il bicchiere di fronte a me.

Era molto simile ai flute: alto, sinuoso, di vetro pregiato.

Un bicchiere decisamente invitante. Ancora di più lo era poi il suo contenuto.

Raramente riuscivo a resistere a quello.

Quanto tempo era che non ne gustavo più ? Una vita, probabilmente.

Molto di più anzi. Molto più di una vita.

Come era possibile allora che mi trovassi lì, in quel momento ?

A quel tavolino, con quel bicchiere davanti ?

Non riuscivo a capacitarmene.

Sapevo di star sbagliando, di star commettendo quello che molto probabilmente era un errore.

Non me ne importava, però.

Sentivo di doverlo fare.

Sentivo di star facendo la cosa giusta.

Non avrei cambiato idea per niente al mondo e ne andavo fiero.

Sorrisi, internamente.

Sorrisi a me stesso.

Come non facevo da tempo immemore.

Sorrisi allo stronzo che era in me.

Uno stronzo che per qualche assurda ragione in quel momento mi andava a genio.

Lanciai un altro sguardo al bicchiere e annuii.

Sì, ne ero certo, avevo fatto bene.

Certo, una certa vocina non era d’accordo. Una vocina che mi apparteneva. La mia vocina.

Quella che mi piaceva chiamare la “vocina dell’avvocato”.

No, lei non era proprio della mia opinione.

Eppure, andavo fiero di poter affermare una cosa.

Non me ne fregava un cazzo.

 

Ricordo distintamente la paura.

Quella che mi aveva assalito pochi istanti prima che riuscissi ad aprire la porta.

Era stata una paura forte, involontaria, impensata.

Una paura contro cui mi sembrava di non potere niente.

Perché ?

Cosa diavolo c’era di là, capace di spaventarmi a tal punto?

Era la ragazza, era quello che rappresentava?

Ma era Bella o Isabella a farmi paura?

Era la ragazza con gli occhi da cerbiatto o la cliente che aveva subito una violenza?

Quale delle due non volevo affrontare?

Lo capii senza nemmeno rendermene conto. Fu una consapevolezza che mi si insinuò lentamente nel cervello. Una cosa di cui mi convinsi subito.

La risposta che avevo sempre avuto.

Di entrambe.

Era la ragazza, punto. Solo e semplicemente lei.

Lei nell’insieme.

Lei che non so come riusciva ad avere quell’effetto su di me.

Sul mio cuore.

Lei.

Chiusi gli occhi, capendo di non potere più nulla e aprii la porta.

Quella stanza era la mia seconda casa: l’aveva fatta costruire Jasper, lo ricordo come fosse ieri.

Mi trovò addormentato ben dieci volte sulla scrivania, nel mio ufficio.

All’undicesima volta si decise.

Jasper è sempre stato un tipo da decisioni irremovibili.

E quella volta aveva deciso che se non poteva convincermi a tornarmene a casa tutte le sere, voleva comunque mettersi la coscienza in pace in qualche modo.

In che modo?

Fece svuotare la camera più vicina e al suo interno creò quello che era un misto fra camera da letto e soggiorno: la arredò personalmente.

Un letto ad una piazza e mezzo, un armadio, tappeti e poi divani e poltrone a volontà.

Sembrava avesse voluto renderla il più morbido possibile.

Quasi a contrastare gli spigoli che la vita presentava ad ogni conto.

Lasciai vagare lo sguardo per la stanza, cercando lei con lo sguardo.

Mi vergognai di me stesso, rendendomi conto che una parte di me non desiderava altro che lei si fosse volatilizzata.

Questo perché non sapevo cosa dirle.

Né il me persona né il me avvocato lo sapeva.

E poi la vidi.

Strinsi gli occhi, trattenendo a difficoltà un sospiro: era bellissima.

Una visione che non avrei dimenticato.

Un’ immagine che non avrei mai voluto smettere di guardare.

Si era quasi mimetizzata, affondando nella poltrona.

Aveva scelto quella più grande, la più soffice, la mia preferita.

Quella per cui di solito lottavo con le unghie.

Quella in cui Jasper non osava mai sedersi.

La stessa che in quel momento mi sembrava fosse perfetta per lei.

Senza scarpe, solo un paio di jeans ed una felpa la coprivano: una felpa che ci misi poco a riconoscere come mia.

Rossa, con Snoopy disegnato sul davanti.

Mi avvicinai cauto, osservandola semplicemente.

Se ne stava rannicchiata: la testa leggermente reclinata all’indietro e le gambe piegate al petto.

Sembrava al tempo stesso fragile e dura.

“ Posso?”

La vidi trasalire, accorgendosi della mia presenza solo in quel momento.

Annuì, atteggiando le labbra in quello che mi sembrò un sorriso di convenienza.

Sentii una stretta al cuore, mentre prendevo posto su un divano, di fronte a lei.

Non era felice di vedermi?

- No, idiota! Tu sei quello stronzo di avvocato che l’ha maltrattata. Cosa ti aspettavi? …

E rieccola la mia carissima vocina.

Mi chiesi se fosse possibile mandare a farsi fottere una vocina?

Presto o tardi lo avrei fatto, ne ero certo.

“ Ho preso questa, non ti spiace vero?”

Sollevai lo sguardo, smettendo di fissare con insistenza la punta delle scarpe, per vedere cosa mi stava mostrando: la felpa che indossava.

Scossi la testa, facendole capire che no, non me ne importava niente.

Poteva prendere tutto quello che voleva.

Anche svaligiarmi l’ufficio se era quello che desiderava.

“ Certo che no. E’ comoda?”

Forse fu una mia impressione, ma mi parve che il sorriso si fosse fatto un poco più sincero.

“ Molto”

Ci fu qualche istante di silenzio imbarazzato, poi le riprese a parlare, quasi si sentisse in dovere di spiegare:

“ E’ solo che non mi sono sentita molto bene e… a un certo punto mi sono venuti anche i brividi e Alice, bè è stata lei a darmi la felpa e…”

Annuii, cercando inutilmente di addolcire quella che ero sicuro fosse un’espressione severa.

Non potevo farci nulla probabilmente: era la mia espressione.

“ Davvero non fa niente, credimi”

Cercai di sorriderle ed allo stesso tempo di non pensare al caldo che faceva in quella stanza.

Come se non bastasse Agosto alle porte…

“ Conosci Alice, quindi?”

“ No”

Sgranai gli occhi, preso in contropiede.

“ Eppure mi era sembrato che… cioè, da come ti ha parlato e dal modo in cui si comportava”

“ Oh, lo so: ha sorpreso anche me, del resto. L’avevo solo intravista di sfuggita qualche volta all’università. Mai per più di qualche minuto, comunque.

Oggi è stata la prima vera volta che ci siamo parlate. E’ stata dolcissima. Mi ha davvero… aiutata. Confortata”

Annuii ancora, mi sembrava di non saper fare altro.

E di colpo mi sentii in dovere di chiederglielo. Dovevo.

“ Come stai, Bella?”

Lo avevo chiesto io.

Io, Edward.

Non Edward l’avvocato.

Se anche la vocetta aveva detto qualcosa, io non l’avevo sentita.

Lei sbiancò, poi avvampò.

In rapida successione.

Quando riuscì a dire qualcosa c’era ancora un vago rossore a colorarle le guance.

“ Io… bene, come dovrei stare? Perché? Perché me lo chiedi?”

“ Perché mi interessa saperlo”

“ E perché mai?”

“ Non posso essere preoccupato?”

“ No”

“ Perché?”

“ Perché non mi conosci”

Sospirai.

Questo odiavo delle conversazioni a tu per tu.

Aveva ragione, del resto.

Non la conoscevo.

Eppure avrei voluto farlo con tutto me stesso.

“ Hai ragione”

“ Allora smetti di seguirmi”

“ No”

“ Perché?!”

“ Perché vorrei farlo”

“ Cosa?”

“ Conoscerti”

Fu lei questa volta a non sapere cosa dire.

Fu lei a restare in silenzio. Lei a guardarmi incerta e dubbiosa.

“ Io… non…”

Era solo un balbettio sconnesso il suo. Parole buttate lì, senza senso.

“ Voglio aiutarti, Bella”

“ Non ho bisogno di aiuto”

Mi passai una mano sul viso, conscio di quanto fosse complicata la situazione.

Dovevo lasciar parlare la vocina?

Dovevo lasciar parlare l’avvocato?

Dovevo ridurmi ad attaccare?

Avrei detto le solite cose, quelle che colpiscono davvero una persona? Quelle che la fiaccano?

Cose del tipo:

- Sì, che ne hai bisogno invece! Ne hai bisogno perché hai subito una violenza e ancora non riesci a realizzarlo e ad ammetterlo con te stessa!

Ne hai bisogno perché mi è sembrato che quello stronzo avesse ancora intenzione di divertirsi un po’ con te.

Ne hai bisogno perché ogni volta che lo vedi inizi a tremare come una foglia e gli occhi ti si riempiono di lacrime!

Ne hai bisogno perché io voglio dartelo, santo Dio e voglio vederti sorridere ancora! …-

Ecco cosa avrebbe detto l’avvocato.

Cose che probabilmente avrebbero avuto il loro effetto.

Invece non dissi niente.

Niente.

Non fiatai.

Rimasi in silenzio, semplicemente fissandola.

E feci bene. Benissimo. La decisione migliore della mia vita.

Perché fu lei a parlare poco dopo.

In un bisbiglio, niente più che un sussurro:

“ Non è di quell’aiuto che ho bisogno, Edward”

Mi sentii vibrare.

Per quello che aveva detto, per il modo in cui lo aveva detto.

Per il significato di ciò che aveva detto.

Che aiuto voleva, allora?

Ah, io lo sapevo.

Lo avevo sempre saputo.

E fu per quello che non mi sorpresi più di tanto di quello che sentii dire alla mia voce.

Indipendentemente dal cervello, avevo parlato.

Indipendentemente dal cervello e dipendente dal cuore.

“ Ti andrebbe un gelato, Bella?”

 

E fu con un sorriso che afferrai il cucchiaino.

 

*

   

 

 

 

Salve ! ^^

Tanto per cominciare, buon luglio a tutti! E con questo è inteso anche buone vacanza, buon bagno, buon sole e tutti gli annessi e connessi!

Mi sembra, sempre che non sbaglio (colpa del sole) di avervi già parlato del mio confinamento in un paesino sperduto…

Ora come ora, sono ancora lì!

Non andate in ansia per me =D è oltremodo divertente ritrovarsi a socializzare con quelli del luogo, stando qui però c’è un lato oscuro della medaglia…

Niente Internet.

Niente connessione sta a significare niente efp e quindi niente aggiornamenti.

E’ orrendo quello che vi sto facendo lo so, proprio per questo avendo a disposizione solo pochi minuti mi sono premurata di aggiornarvi almeno di un capitolo tutte le storie.

Per chi ne segue più di una, spero di aver fatto bene, di non aver deluso nessuno.

E per chi ne segue solo una in particolare, bè non so che dire: io di più non posso fare in questo momento… perché non fate un azzardo allora e finito il capitolo non ne provate qualcun'altra di storia? C’è la ben remota possibilità che vi vada a genio ^^

Lasciandovi, posso solo assicurarvi che appena ho un minuto libero lo passo scrivendo.

Un bacione a tutti!

 

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Capitolo 12
*** Blow ***


avv

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Blow

 

Inspira.

Espira.

- Bella… -

Inspira ancora.

- Domani che fai, Bella? -

Espira.

Avrei inspirato ancora una volta, il dito che carezzava convulsamente il cucchiaino, se non avessi avvertito chiaramente i suoi occhi che si fissavano improvvisamente su di me.

Inspira. Cerca di inspirare. Devi inspirare.

- Perché? -

Sorrisi esasperato, lasciando perdere con stizza il cucchiaino. Perché. Aveva chiesto perché!

Scossi la testa, chiudendo piano gli occhi. Cosa avrei dovuto rispondere?

Che mangiare quel gelato con lei era stata la cosa più bella, eccitante, viva… che avessi fatto da un anno a quella parte? Che per qualche assurdo motivo non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso? Che parlare con lei, ridere con lei, stare con lei, era tutto ciò che desiderassi?

Potevo dirlo?

Potevo gridarlo? Cercare di farle capire cosa stesse scatenando in me?

O dovevo prima convincerne me stesso?

La solita vocina, quella dell’avvocato, aveva ormai perso la voce a furia di sgridarmi. Ma c’era poco da fare: non c’era partaccia che reggesse. Per me quella ragazza non era più una cliente, non lo era mai stata. Non mi interessava in quel senso, non volevo assalirla, tartassarla di domande e sconvolgerla. Semplicemente iniziavo a temere che non ne sarei stato in grado.

- Edward? -

Riaprii gli occhi di scatto, incontrando subito quelli di lei. Sorrisi, stringendomi nelle spalle.

- Non mi hai risposto – mormorai, riprendendo a giocare con il cucchiaino.

- Nemmeno tu –

Lasciai che il sorriso scomparisse poco alla volta dalle mie labbra, sporgendomi sul tavolo ed avvicinando il mio viso al suo. Lei arretrò istintivamente di qualche centimetro, guardandomi senza capire. E ora?

E per la prima volta, feci quello che un avvocato non fa mai: dissi la verità.

Una mezza verità.

- Per tutto il weekend apriranno una mostra sul lungomare – spiegai, la voce che sembrava essere sul punto di morirmi in gola. – Così mi chiedevo… - sollevai lo sguardo verso di lei, indeciso.

Con un sospiro mi accasciai di nuovo sulla sedia. Dannazione!

Cosa diavolo mi passava per la testa? Un gelato e mi credevo in diritto di invitarla fuori?!

Scossi la testa, incredulo del mio stesso comportamento.

Mi avvicinavo sempre più a quel flebile confine che porta alla follia.

Sempre senza guardarla mi sentii finalmente tornare in me e fu con voce più sicura che continuai:

- Niente. Volevo solo sapere se ti andava di venire con me, ma fa finta di niente -

Un sorriso irrisorio, una sbirciatina alla sua espressione.

E fu allora che rimasi sorpreso.

Perché Bella non aveva espressione. Sembrava indossare una maschera, una qualche protezione dal mondo esterno che le consentiva al tempo stesso di non far minimamente intuire a chi le era vicino cosa le frullasse per la testa.

Assottigliai lo sguardo, cercando di capire se qualcosa non andasse.

- Bella? -

Al primo richiamo non rispose, indifferente come se nemmeno mi avesse sentito.

Mi sporsi di nuovo sul tavolo, avvicinandomi a lei, ma era come se non fosse più con me.

Preoccupato, le sfiorai una mano: un tocco leggero, quasi inconsistente.

Una carezza leggera come le ali di una farfalla.

- Non posso -

Scattò, così: all’improvviso. Subito dopo che le mie dita le avevano sfiorato la mano.

- Come? -

Non feci in tempo a concludere la domanda che già era in piedi. I movimenti agitati, lo sguardo sfuggente, mi lanciò appena un sorriso tirato ed apertamente falso.

- Devo andare – bisbigliò, allontanandosi di qualche passo – Grazie per il gelato -

La guardai uscire, chiudendosi la porta alle spalle. Poi i miei occhi tornarono automaticamente al posto vuoto che avevo davanti. E lì si bloccarono, incapaci di spostarsi.

Cos’è che era successo?

Sorrisi mestamente, prendendomi la testa fra le mani.

- Sono un idiota – cantilenai – Nient’altro che un idiota. Idiota. Idiota -

Avrei sbattuto volentieri anche la testa sul tavolo, ma l’espressione di un cameriere di passaggio mi ricordò che forse non era il caso.

No, avrei aspettato… sarei tornato prima in ufficio, ecco.

Certo, mi dissi, lasciando sovrappensiero qualche banconota sotto il centrotavola: in ufficio c’era la scrivania. Scrivania in noce, sospirai soddisfatto: il noce sarebbe andato bene.

Mi alzai in piedi, lanciando un ultimo sguardo alla sedia dall’altro lato del tavolo.

Che gran stronzata che avevo fatto.

Sorridendo con rassegnazione afferrai il cucchiaino ed uscii senza più guardarmi indietro.

Di cos’è che le avevo parlato, poi? Ridacchiai, contenendomi a stento. Ah, Dio Mio… e non avevo neanche bevuto!

Continuai a sghignazzare, camminando senza avere la minima idea di dove stessi andando. Prima o poi tanto da qualche parte sarei pur arrivato.

Non vedevo la strada, non vedevo il marciapiede. Non vedevo assolutamente niente.

Di musica, sì, le avevo parlato di musica.

E di Jasper, sì, non so come c’era finito anche Jazz nel discorso. E dopo?

Mi fermai un attimo, fissando con disapprovazione la punta delle mie scarpe. Proprio loro che non c’entravano niente.

E dopo?

Quando mi venne in mente scoppiai definitivamente a ridere. Non riuscii più a trattenermi.

Del gelato, ecco di cosa le avevo parlato! Di come mi mancasse, di quanto mi facesse piacere stare lì e … Dio, Dio, Dio! Che cosa pietosa.

Poco ci mancava che le spiegassi anche come tutta la mia vita oramai mi facesse schifo. “Sai Bella, da un po’ di tempo a questa parte ho cominciato a prendere in considerazione l’idea di suicidarmi. Tu che ne dici, sarebbe una buona cosa?

Reclinai la testa all’indietro, lasciando che lo sguardo si perdesse nel cielo che mai come in quel momento attirava la mia attenzione. Iniziava ad imbrunire.

- Guarda chi si vede -

Continuai a guardare le nuvole appena accennate sopra di me, certo che quella voce non ce l’avesse con me. Sentii anche i fischi e i mormorii di approvazione che seguirono, ancora convinto che non si riferissero a me. Tranquillo, relativamente calmo. Ero in pace con il mondo o ad essere sinceri semplicemente, me ne infischiavo altamente.

Stanco.

- Non si degna neanche di guardarci, l’angioletto -

A quel punto probabilmente avrei dovuto intuire qualcosa. Ci sono ottime possibilità che fin dalla prima frase lo avessi fatto.

Eppure ancora non mi decidevo ad abbassare lo sguardo.

Che ce l’avessero con me o no, me ne infischiavo.

Volevo infischiarmene. Con tutto me stesso.

- Non è una vergogna? – chiese ancora la voce, sempre più vicina – Credevo che chi ha il coraggio di colpire Mike fosse anche provvisto di un paio di palle. Mi sbagliavo? -

E successe. Quello che non volevo succedesse.

Una concatenazione di parole, di accenni, di stoccate.

Coraggio, Mike, Palle.

Fu per colpa di quelle parole che la vocetta dell’avvocato tornò. Non più come sottofondo. No, tornò più forte di prima, decisa a riprendere il controllo.

Sicura di poter riottenere il potere che aveva sempre avuto su di me.

E aveva ragione.

Perché in fondo la vocetta dell’avvocato era la mia. Che diritto avevo perciò di scacciarla?

- Mike? – chiesi, riabbassando lo sguardo senza fretta – Mike, chi? -

La risata scoppiò istantanea. Prorompente.

Osservai i tre uomini che ridevano: uno a destra, uno a sinistra e l’ultimo davanti a me.

Enormi, brutti, minacciosi.

Che il principino figlio di papà avesse mandato i suoi sgherri per avere vendetta?

- Non scherzare, avvocantucolo – mormorò uno dei tre.

- Non ci piacciono gli scherzi – rincarò un altro.

Mi strinsi nelle spalle, infilando le mani nelle tasche. Alternai lentamente lo sguardo su tutti e tre.

- Posso fare qualcosa per voi? -

Risero di nuovo. Avvicinandosi di più, stringendo il cerchio.

- Ci è giunta voce… - iniziò il palestrato alla mia destra, interrompendosi per passare una mano sulla testa pelata - … solo una voce, sia chiaro -

A continuare fu poi il gigante che avevo di fronte: un metro e novanta per, decisamente, troppi chili di muscoli.

Solo per un istante presi in considerazione l’ipotesi di fingermi morto: non si faceva così per sfuggire alla furia omicida degli orsi?

- Si dice, angioletto, che tu stia prendendo in considerazione l’idea di lavorare per le persone sbagliate – sibilò, stringendo i denti.

Feci per dire qualcosa, ma l’altro fu più veloce di me.

- Siamo certi che non commetterai un tale sbaglio – ringhiò – Faresti una scortesia a qualcuno di molto importante, sai? Non credo ti convenga -

Sorrisi, contento di aver ritrovato il mio sorriso. Quello vero. Non quello che mi aveva strappato il gelato né quello che Bella riusciva a provocarmi.

Il sorriso dell’avvocato.

- Se permettete, signori – sussurrai – Sono convinto di saper decidere da solo ciò che mi conviene -

Loro sorrisero, muovendo un passo avanti in contemporanea.

- Oh, noi lo speriamo – rispose uno dei tre, senza che riuscissi a capire quale – Solo, vogliamo assicurarci che ci sia qualcosa a ricordarti cosa è per te positivo… -

Diritto nello stomaco. Non lo avevo nemmeno visto arrivare.

- … e cosa invece non lo è. -

Il secondo pugno partì dal basso, centrando in pieno il mento.

Gli altri non li vidi.

Neanche li sentii.

Solo ad una cosa riuscivo a pensare.

Un avvocato non se ne può infischiare.

Mai.

 

*

 

 

* Sventola piano una manina, indecisa se farsi vedere o no*

 

Okay, sono viva.

Non so se interessa a qualcuno ma lo dico: sono viva, in salute e chi più ne ha più ne metta.

Certo sono anche in ritardo. Sono incoerente, bastarda, ignobile… odiata.

Sì, molto probabilmente sono anche odiata. Da tutti voi.

Da tutti quelli che per qualche assurdo motivo seguono le mie storie.

Per il semplice motivo che mi sono assentata per un lasso di tempo incredibilmente lungo.

Non ho scuse, lo so io e lo sapete voi.

L’unico modo che ho per provare a farmi perdonare è, forse, (ammesso e non concesso che a qualcuno vada ancora di leggere qualcosa di mio)… dicevo l’unica cosa che forse posso fare è continuare a scrivere queste orribili storie.

In ogni caso, per me rappresentano ancora qualcosa.

Non so per voi né se saranno lette, seguite o, miracolosamente, commentate.

Sono tornata, però… si spera per non sparire di nuovo.

Se c’è ancora qualcuno, bè, batta un colpo ^^

Un bacione,

Sara

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Host ***


2

Cercavi giustizia, hai incontrato me

 

Host

 

 

 

Troppo.

Quando finalmente riuscii a riprendere i sensi, quello che sentii fu troppo.

Un ronzio ininterrotto nelle orecchie, un pulsare ritmico alle tempie. L’odore di sangue nell’aria.

E la cosa più fastidiosa era probabilmente la certezza che il sangue fosse il mio.

Impiegai diversi minuti a convincere il resto del mondo a fermarsi. Quindi, con tutte le difficoltà annesse, tentai di mettermi a sedere.

Una volta riuscitoci, mi ritrovai a dover discutere di nuovo con il mondo: ma perché non la smetteva di girare, porca miseria?!

Mugugnai, chiudendo gli occhi.

Perché tutte a me? Perché?!

Riaprendo lentamente le palpebre, lanciai un’occhiata prudente alla strada: deserta. Mancava poco alla fine dell’isolato e ancora meno al mio ufficio, eppure l’idea di camminare, in quel momento mi sembrava assurda. Lasciai che lo sguardo indugiasse sulle macchie rosse che imbrattavano la strada. Non erano ben visibili: rischiarate appena dalla luce del lampione alle mie spalle.

Erano però numerose macchie, il che significava tanto sangue.

E se quel sangue era mio, la domanda sorgeva naturale: perché non mi sentivo dilaniare dal dolore?

Incerto della mia stessa decisione mi alzai in piedi, le gambe divaricate e le mani sulle ginocchia, cercando di non sbilanciarmi e rimanere approssimativamente eretto. Avvertii chiaramente il pulsare alla testa che aumentava, mentre un dolore sordo allo stomaco si faceva sentire per la prima volta. C’era però qualcosa che non andava: il viso, ecco cosa.

Era come se fosse tutto sotto anestesia, il che non andava bene per niente.

Sollevai una mano, l’intenzione di sfiorare la prima zona sopra il collo, ma all’ultimo cambiai idea.

Meglio aspettare, decisi. Che fosse per codardia, per premura o per qualunque altra cosa.

Presi un bel respiro, il cervello che cominciava a carburare e m’incamminai.

Normalmente impiegavo poco più di cinque minuti a percorrere la distanza che mi separava dall’ultimo palazzo.

Normalmente quella stessa distanza la percorrevo in silenzio.

Non fu così.

Impiegai quasi venti minuti e non un solo secondo riuscii a godere il silenzio che mi avvolgeva.

Fra un inciampo e uno sbilanciamento, fra una pausa e l’altra, tutto quello che sentii fu una vocetta stridula e soddisfatta. Una vocetta orgogliosa, vincitrice.

Una vocetta che non faceva altro che rinfacciarmi i miei errori: dall’aver colpito Mike all’aver offerto un gelato a Bella. Errori, errori, nient’altro che errori.

E aveva ragione.

Non potevo che darle ragione. Annuivo fra me e me, concordavo, acconsentivo.

Quasi non mi accorsi di essere arrivato davanti al portone del palazzo: immerso in una penombra sconcertante, rischiai anzi di sbatterci contro. Quando vidi la maniglia tanto familiare fissarmi perplessa capii di aver raggiunto la mia meta. Misi solo un piede sullo scalino, le dita che frugavano nelle tasche alla ricerca disperata delle chiavi e fu per grazia divina che le trovai.

- Leggermente brillo, avvocato? -

Trasalii, colto alla sprovvista ed arretrai d’istinto, finendo con il battere la schiena contro il muro.

Mi accorsi solo in quel momento della figura seduta sullo scalino, poco lontano da me: non riuscivo a distinguerne i tratti, sapevo soltanto che non mi andava di parlare.

- Ha bisogno di una mano? -

La voce, non potei fare a meno di costatare, era senza alcun dubbio femminile: dolce, pacata, volutamente voluttuosa.

Non c’era alcun cenno di minaccia in quella voce, ma solo interesse, premura e sfida.

Scossi la testa, girando le chiavi nella toppa ed abbassando finalmente la maniglia.

Entrai nel palazzo, facendo per chiudere la porta ma la mano di lei me lo impedì, poggiandosi sul vetro e spingendo per aprire.

- Ho bisogno di parlare con lei, avvocato -

- Io invece non ne sento il bisogno, le assicuro –

Cercai ancora di chiudere, ma lei oppose resistenza.

- Per favore -

Supplica. Era come se mi stesse pregando. Lasciai andare la porta, stanco di spingere. Le forze che lentamente sembravano abbandonare il mio corpo.

Lei entrò, chiudendosela alle spalle.

Ancora stordito, iniziai a salire le scale. Quattro rampe, mi ripetevo: sono solo quattro rampe.

La porta dell’ufficio mi apparve dinanzi come un miraggio: sollevato all’idea di rientrare finalmente in un luogo sicuro, feci gli ultimi scalini con slancio.

Fu con impazienza che mi fiondai all’interno della stanza: le chiavi ancora in una mano e le dita strette attorno alla maniglia.

Una parte di me avrebbe voluto poter crollare a terra e baciare il pavimento.

Conscio solo vagamente della presenza alle mie spalle, lasciai la porta aperta dietro di me. Gettai le chiavi sul primo piano orizzontale e mi avviai verso il bagno, senza curarmi di accendere le luci.

Conoscevo quei luoghi a menadito, non avrei potuto sbagliare.

Con un calcio ben assestato aprii la porta del bagno, avvicinandomi cauto al lavandino.

Sempre senza accendere la luce mi guardai attorno, senza sapere cosa fare.

- Problemi? -

La voce proveniva dalla mia sinistra: con la coda dell’occhio individuai la ragazza poggiata allo stipite della porta e mi strinsi nelle spalle. Ignorandola, arrotolai le maniche della camicia fino ai gomiti e presi un bel respiro.

Il cuore in gola, le mani aggrappate al lavandino, accesi con un dito la luce sotto lo specchio.

La stanza si rischiarò lentamente, dandomi modo di vedere pian piano i tratti del viso che stentavo a riconoscere come mio.

Un fischio soffocato partì dalla mia indesiderata ospite.

- Sei messo proprio male – mormorò, la voce che si affievoliva.

Non risposi, limitandomi a guardare con sconcerto il mio volto riflesso nello specchio appannato.

Porca Eva, come mi avevano ridotto…

Un occhio violaceo e tumefatto, il labbro inferiore spaccato, lo zigomo gonfio e il naso sanguinante.

Come diavolo era possibile che non sentissi assolutamente niente dal collo in su?

Sconvolto, aprii il rubinetto dell’acqua fredda e la lasciai scorrere per qualche minuto. Sarebbe stato il caso di farmi vedere da un medico?

Sgranai gli occhi, il pensiero che andava a Carlisle senza neanche passare per il via: cosa avrebbe detto Carlisle? Trattenni il respiro, sentendo già nelle orecchie le urla che Esme avrebbe cacciato. No, non potevo assolutamente presentarmi da loro in questo stato.

Poco ma sicuro, avrei dovuto aspettare un bel po’.

Mi piegai sul lavandino, sciacquando per prime le mani. Le riempii di sapone alla vaniglia, il mio preferito, e ripetei l’operazione diverse volte, prima di trovare il coraggio di passare al viso.

Lo sciacquai lentamente, con attenzione. Cercai di togliere tutto il sangue, sia fresco che rappreso.

Impiegai più dieci minuti e fu con sollievo che sentii il volto riprendere sensibilità.

In quel momento la sensibilità equivaleva al dolore, ma era sicuramente meglio così.

- Cos’è, hanno cercato di rovinarle quella bella faccia d’angelo che si ritrova? -

 Afferrai l’asciugamano alle mie spalle e mi voltai verso di lei. Tamponandomi con prudenza, cercai di asciugarmi ed al tempo stesso di non toccare zone lese.

Mi sembrava impossibile: ogni punto che toccavo bruciava come se la stoffa fosse un tizzone ardente. Con una smorfia l’allontanai dal viso.

- Cosa vuole da me? – chiesi, frustrato e contrariato.

Non avevo più neanche il diritto di soffrire in santa pace, porca miseria!?

- Un lavoro -

Sgranai gli occhi, puntandoli immediatamente su di lei.

Avevo capito bene?

La osservai da capo a piedi, chiedendomi se le allucinazioni non fossero un effetto dovuto al recente pestaggio.

La figura slanciata ed esile, vestiti ricercati, lunghi capelli biondi e labbra carnose in un viso sottile e decisamente attraente.

Indugiai senza rendermene conto sulle curve della ragazza, furono poi le sue parole a riportarmi alla realtà.

- Mi sono laureata in legge – cominciò, fissando sicura gli occhi azzurri nei miei – Ciò che più desidero è diventare un avvocato. Lei è il migliore e lo sa bene -

Si fermò solo un attimo, le labbra che le tremavano.

- Voglio imparare da lei – sentenziò, un sorrisetto appena visibile sul volto teso e concentrato.

Sorrisi, incredulo a quelle parole, scuotendo impercettibilmente la testa.

- Non se ne parla -  dichiarai, la voce dura.

- Non deve pagarmi – sussurrò lei, il dubbio che le s’insinuava nello sguardo – Sarebbe solo un tirocinio –

Scossi la testa, mentre una fitta di dolore mi costringeva a serrare le labbra.

- Sono disposta a lavorare come segretaria, come assistente… quello che vuole – provò ancora lei.

Feci per dire qualcosa ma il sapore di sangue sulla lingua mi bloccò.

Con la coda dell’occhio mi osservai allo specchio: il labbro aveva ripreso a sanguinare.

Avvicinai titubante l’asciugamano alla bocca, timoroso di procurarmi soltanto nuovo dolore, quando la mano piccola ed elegante della ragazza mi fermò il polso.

Mi tolse il panno dalle mani, avvicinandosi e sollevandosi sulle punte per potermi guardare meglio.

- Ci penso io – sussurrò, il fiato che mi solleticava il mento.

Un sorriso appena accennato sulle labbra, mi tamponò il labbro senza che sentissi alcun dolore.

- Non mi sono presentata – disse, puntando gli occhi nei miei.

Non mi mossi, lasciando che mi poggiasse una mano sul braccio.

Si avvicinò ancora di un passo e poggiò le labbra sulla mia guancia, parlandomi nell’orecchio:

- Rosalie – bisbigliò, facendomi rabbrividire – Rosalie Hale -

Socchiusi gli occhi, la mente che si svuotava.

Non riuscivo a collegare i pensieri, a trattenerli… fuggivano via, infischiandosene di me.

Avrei dovuto capirlo che non era un bene, così come avrei dovuto accorgermi del rumore di una porta che veniva spalancata. 

 

*

 

 

Ed ecco il nuovo capitolo!

Dite la verità, sono stata veloce? ^^

 

Mmm… da dove comincio?

Per prima cosa vorrei ringraziarvi tutti ** Mi aspettavo di essere linciata e invece, ricevo più commenti di quanti ne abbia mai ricevuti *__*

Stavo per piangere, ragazze, lo sapete? Siete riuscite a farmi commuovere ^^

Ho risposto a tutte, come potete vedere o nella vostra posta o nella pagina recensioni, e devo ammettere che ringraziarvi all’infinito non sarebbe sufficiente. Siete state fantastiche, uniche, magnifiche!

Spero di risentirvi, di sapere cosa ne pensate, voi e i tanti altri lettori silenziosi =)

Ancora grazie e un bacione a tutti,

Sara

 

 

 

 

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