Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Capitolo 1 - That's so easy *** Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Just an illusion *** Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Welcome back *** Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Tease *** Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Follow you into the dark *** Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Escape *** Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Ain't a good girl *** Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Naive *** Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Turn the lights on *** Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Lie to me *** Capitolo 11: *** Capitolo 11 - The Prom Night *** Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Christmas Holidays *** Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Her big bullshit *** Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Time is running out *** Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Canadian wind [Part 1. It's your fault] *** Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Canadian wind [Part 2. Pray, baby, pray] *** Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Imbalance *** Capitolo 18: *** Capitolo 18 - She loves me not *** Capitolo 19: *** Capitolo 19 - The choise *** Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Fly, fall, burn *** Capitolo 21: *** Epilogo - Up in the air ***
Quell’estate
la metropoli era stata avvolta in una cappa di caldo infernale quasi più
potente di quelle che gli anni precedenti l’avevano assalita, innescando nei
numerosi abitanti il desiderio irrealizzabile di rifugiarsi nei propri
frigoriferi per sfuggire all’afa insopportabile. Quando una rara bava di vento
faceva la propria comparsa, era lotta all’ultimo sangue per gli studenti della
Renton High School che davano via a vere e proprie battaglie per accaparrarsi i
posti vicino alle finestra. Una volta che anche quella
brezza si fosse dileguata, i tanto bramati banchi sarebbero diventati oggetto
di repulsione, probabilmente perché tenere le finestre aperte per tutto il
resto della giornata alla ricerca di un po’ di fresco comportava anche il raggi del sole accecanti e bollenti, che durante i noiosi
corsi estivi di recupero erano il colpo di grazia per qualsiasi studente
lavativo che si rispetti. Eppure, mentre la voce dell’anziana professoressa di
chimica, anche lei arresasi davanti all’evidenza che anche quell’anno la scuola
avrebbe innalzato la media delle bocciature, c’era sempre qualche povero
sfigato che restava in balia del caldo per tutta la mattina. La scuola non
avrebbe certo alzato un dito per installare dei condizionatori d’aria, i soldi
per quelli erano stati spesi per un nuovo ufficio per il preside. Tanti altri
poveri studenti incapaci persino di rispondere ad un quesito di scuola
elementare avrebbero dovuto patire un mix micidiale di afa e noia scolastica:
inutile dire che, quella mattina d’Agosto, il posto vicino alla finestra era
toccato a Duff.
Il
russare di Slash divenne persino più forte della voce della vecchiaccia, che
non osava alzare lo sguardo dai suoi appunti ed era probabilmente sul punto di
raggiungere il suo allievo nel mondo dei sogni: Duff gettò veloce
un’occhiataccia all’ignara massa di ricci neri che copriva il banco al suo
fianco, prima di percorrere con lo sguardo l’intero perimetro della stanza. Era
ovvio a tutti che nessuno di loro sarebbero riuscito a prendere il diploma,
nemmeno con i corsi di recupero: Steven era intento nel costruire aeroplanini
di carta con le pagine di un quaderno su cui non aveva mai scritto, Maxie
fissava al vuoto davanti a sé aggiustandosi di tanto in tanto il reggiseno
senza curarsi dei presenti. Anche Michelle dormiva nel banco vicino all’amica,
probabilmente stremata da un’altra nottata di lavoro per lei, che probabilmente
da una settimana non tornava a casa. Gli altri erano più o meno ridotti come loro,
ragazzetti sfigati dei quali pochi erano presi in considerazione: probabilmente
quegli altri stronzi dei suoi compagni, Izzy e Axl, erano a dormire della
grossa dopo il casino della notte precedente nel magazzino, ad attenderli.
Quanto a Duff… beh, non aveva idea di cosa parlassero le formule che la
professoressa elencava con voce apatica: non aveva mai aperto il libro, e non
aveva intenzione di farlo in quel momento.Quando sarebbe arrivato l’esame, avrebbero trovato una scorciatoia
giusto per avere qualcos’altro di cui lamentarsi, tanto nessuno dei loro
trucchi avrebbe funzionato.
Il
ragazzo spostò pigramente gli occhi sulle aiuole che circondavano la decadente
scuola pubblica, i fiori e l’erba rinsecchiti dal caldo che le ricoprivano
incartapecoriti. Il cancello arrugginito in fondo al viale di cemento armato
gli regalava la vista di una strada grigia ed assolata percorsa da macchine scassate ed erosa dallo smog, di certo non uno dei
migliori panorami. Il sole cominciava a farsi sentire sulla sua testa già
provata dagli eccessi di quelle ultime sere, mentre una fastidiosa emicrania
iniziava a martellare sulle sue tempie. Spostò un ciuffo biondo, rigorosamente
cotonato, da davanti i begli occhi verdi, infastidito da ciò che lo circondava,
prima fra tutti la sedia sul quale era seduto: troppo
bassa per la sua statura, come al solito. Nei pensieri si confondevano le note
dell’ultima canzone sfornata dal buon Izzy Stradlin, gli accordi che doveva
ripassare, le parole dei cori, le parti del ritornello che assolutamente
dovevano riprovare. Tutto si mischiava in un groviglio di fantasie che lo
portavano lentamente lontano da quel posto che lui considerava inutile, su un
palco di qualche locale o stadio famoso, circondato da fan urlanti che
acclamavano loro e la loro meravigliosa musica. Era inutile cercare di salvare
ancora la sua carriera accademica, tanto valeva fantasticare: tanto, non gli
serviva un diploma, un pezzo di carta stampata dove un paio di bacucchi
avrebbero scritto di lui come di un “membro civile della società”, quando lui
sapeva benissimo di essere poco più che un criminale. Non che gli desse
fastidio, anzi, era probabilmente la vita che sognava da quando, ragazzino,
appendeva i poster di Sid Vicious alle pareti della cameretta di Seattle. Poi Duff
sbadigliò sonoramente, senza essere minimamente preoccupato della maleducazione
di quel gesto, e tornò alla realtà: quanto mancava ancora prima che potessero
andare a casa?
Non
s’accorse subito del veicolo che faceva il suo ingresso nel viale della scuola,
forse proprio perché perso nel suo vaneggiamento personale su quante chitarre
basso avrebbe potuto comprare una volta famoso. Del resto, nella classe nessuno
si mosse al rombo basso del motore che faceva le fusa e pian piano si
avvicinava. La moto nera attirò il suo sguardo soltanto quando quello che era
diventato un piacevole rumore di sottofondo si fermò, uscendo così dal perfetto
insieme di elementi che consentivano il suo viaggio mentale. La prima
impressione, quando ancora il conducente era a bordo della moto, fu di
perplessità, dovuta più al fatto di trovarsi ancora nel mondo dei sogni che
altri: aguzzando la vista, Duff iniziò a notare particolari che lo lasciarono
piuttosto stupefatto. La moto, da corsa come si vedono nei film di agenti
segreti, era stata evidentemente tirata a lucido di fresco, la vernice nera che
la ricopriva quasi brillava al sole: quel veicolo trasudava fior di quattrini,
quelli che erano probabilmente stati spesi per comprare un gioiellino del
genere. Ma fu il motociclista a lasciarlo piuttosto basito: dopo una manovra
abile con cui infilò la moto sotto un grande albero, l’unico posto all’ombra,
proprio nel parcheggio riservato ai docenti, si guardò attorno attraverso il
casco dello stesso colore del mezzo, slacciandoselo lentamente. Ma c’era
qualcosa che non andava: non era certo il corpo che ci si sarebbe aspettato di
vedere a cavallo di una moto. Era forse un po’ troppo lontano perché Duff
captasse ogni singolo dettaglio della ragazza, ma bastarono pochi secondi
perché il suo cervello trasmettesse a tutto il corpo una singolare sensazione
di energia.
Smontata
dalla moto, la sconosciuta si sfilò il casco con movimenti studiati, vanesi,
sfoderando una lucente chioma di lunghi capelli rossi che agitò, portando il
casco fra le braccia. Duff si sporse verso la finestra, attirato dalla
curiosità che l’apparizione della rossa aveva destato in lui: la guardò
osservare l’ambiente attorno a sé, il parco deserto ed ingiallito, mettendo a
fuoco la sua figura ogni secondo più nitida. Era
evidente che il caldo era stata un scusa soddisfacente
per lasciare scoperte le lunghe gambe pallide, fasciate soltanto d’un paio di
stivali da motociclista e da dei pantaloncini di jeans sfilacciati, mentre i
capelli rossi ancora più lunghi di come se li era immaginati contornavano oltre
che un bel visetto anche un top nero che si modellava sulle sue forme gentili.
La ragazza, dopo aver evidentemente appurato d’essere sola nel parcheggio, si
chinò a sfilarsi con elegante noncuranza gli stivali di pelle prima di aprire
la sella della moto che celava il piccolo bagagliaio. Duff poté vederla
estrarre un paio di scarpe nere dal tacco pericolosamente alto, riponendo gli
stivali che aveva usato per andare in moto prima d’infilarle in fretta,
riparando i piedi dall’asfalto bollente. Recuperata una borsa sempre scura, la
sconosciuta uscì dal posto dove aveva parcheggiato il suo gioiellino, cosicché
i raggi del sole potessero illuminare la sua figura irta sui tacchi a spillo.
Duff
non la perse di vista un secondo mentre con una camminata aggraziata si avviava
verso l’entrata della scuola, sempre più vicina: i tratti del suo volto si
delineavano sempre di più, giungendo alla mente del ragazzo
armonici. Non riuscì comunque a rifletterci su più di tanto, mentre
l’adrenalina per la comparsa di una nuova preda all’orizzonte prendeva il suo
cervello molto più d’una noiosa lezione di matematica. Non si diede la pena di
svegliare Slash, che al suo fianco ancora dormiva beato, né di chiedere il
permesso all’insegnante di uscire, limitandosi a mormorare un distratto “Vado
in bagno”. La vecchia non si sarebbe nemmeno accorta della sua assenza, senza
degnarlo di uno sguardo quando le passò proprio davanti diretto verso la porta:
il torpore dell’afa che aveva preso il resto della classe gli garantì la strada
spianata verso l’uscita. Probabilmente la ragazza sconosciuta doveva essere
appena entrata a scuola: Duff non perse tempo a domandarsi il motivo della sua
presenza, chi fosse o cosa le avrebbe detto, agendo d’impulso e dirigendosi
verso lo scale che lo avrebbero portato all’ingresso.
Di una cosa era sicuro al cento per cento: era una delle ragazze più carine che
avesse mai visto… e non era tipo da lasciarsi scappare un’occasione del genere.
L’atrio
era vuoto, quasi triste alla vista di chi ci entrava la prima volta, spoglio se
non per qualche sedia lungo la parete: probabilmente la sala gremita di
studenti confusionari e ridenti avrebbe fatto un altro effetto, eppure la
ragazza fu contenta lo stesso dell’eco dei suoi passi che rimbalzava sulle pareti bianco sporco. Gli spazi erano ampi, secondo i
canoni architettonici di qualsiasi scuola finanziata dallo Stato, ovvero il
genere di edificio che lei non aveva mai frequentato: abituata all’ostentazione
opulenta di ricchezza da parte delle scuola s’in dagli
arredamenti, il cambiamento non riscontrò contrasto in Adrien che, ferma per
pochi secondi all’ingresso, osservava annoiata ciò che la circondava. Le labbra
sottili erano piegate nel broncio regale che aveva assunto in Inghilterra, così
simile a quello della sua amica Met ed ormai quotidiano sul suo volto spruzzato
di efelidi. Nulla, nemmeno un semplice bidello che si fosse accorto dell’arrivo
della sua moto rombante: alla Kennedy o al King Edward l’accoglienza sarebbe
stata immediata e sicuramente calorosa, tutto sarebbe stato sbrigato alla
minima sillaba del suo cognome importante e famoso, e lei avrebbe regalato uno
dei suoi sorrisi abbaglianti al fortunato di turno perché tutto avesse termine
presto, molto presto. Certo, non era una circostanza normale: non si sarebbe
mai iscritta ad una scuola pubblica se non ci fosse stato un motivo preciso, e
quello che lei serbava nel suo cuore era bello grosso.
Alla
fine, non erano state tante le cose di cui aveva sentito nostalgia della California:
i suoi familiari, no di certo, la scuola nemmeno, quelle sanguisughe di cui
s’era attorniata a scuola neppure. Forse solo lo sferzare l’aria del casco che
copriva la sua testa mentre con la moto accelerava nella partenza era stato
motivo di tristezza: per il resto, aveva saputo adattarsi anche a Londra, agli
snob che la popolavano tanto quanto Los Angeles e che soccombevano al suo
fascino e alle sue parole studiate come tutti gli altri. Era stato tutto così
facile, anche quando era sembrato che il mondo stesse per crollarle addosso:
persino convincere Alan e Lisette a lasciarla iscriversi alla “scuola dei
plebei”, come la chiamavano loro usando termini medievali, era stato un gioco
da ragazzi. Ma in fondo, per lei era sempre tutto fin troppo facile, quando con
uno schiocco di dita ed uno sbattere di ciglia otteneva ciò che voleva senza
chiedere per favore. Era così facile. Afferrò un paio di opuscoli su droga ed
alcol abbandonati su un misero tavolino nei pressi
dell’enorme porta d’ingresso, mischiandoli con indifferenza prima di passare
oltre, senza il benché minimo motivo, senza interesse nei loro confronti.
Aggirarsi per una stanza così grande e allo stesso tempo così vuota era
insolitamente attraente, forse per l’abitudine di Adrien allo sfarzo onnipresente:
lei era lì, da qualche parte in quel miscuglio di stanze tutte uguali,
incastrata in uno corso di recupero. Non appena era
tornata a Los Angeles qualche giorno prima, Adrien le aveva telefonato per
mettersi d’accordo di trovarsi quel giorno a scuola, per la firma degli ultimi
moduli d’iscrizione. Ma nessuno sembrava farsi vivo fra quelle mura malamente
dipinte.
-
Ehi – aveva sentito dei passi avvicinarsi e aveva voltato le spalle alla fonte
di quel rumore, fingendosi interessata dagli opuscoli che lei stessa aveva
mischiato per amor di teatralità. Erano passi svelti che coprirono la distanza
da quelle che aveva intravisto come scale e il punto in cui si trovava. – Serve
una mano? – la scusa più antica del mondo: Adrien era vagamente divertita dalla
voce maschile che le aveva posto quella domanda, senza essere sorpresa di non
riconoscere il timbro della persona che stava aspettando. Sfoderando la sua
adorabile espressione annoiata, curvò appena le labbra in un ghigno enigmatico,
volgendosi finalmente a guardare il suo interlocutore. Squadrandolo con
attenzione, solo una cosa le parve non combaciate nello schema perfetto che già
s’era prefissata, ovvero la sicurezza con il quale il
ragazzo la fissava in attesa di risposta. Carino, biondo, una pertica
nonostante i suoi tacchi indossati con facilità le donassero un’altezza più che
discreta, a prima vista il solito ragazzino che giocava a fare la rockstar: ne
aveva visti tanti come lui in giro, e li aveva mangiati tutti per colazione. –
Sì, sto cercando la segreteria. – mormorò in risposta con voce melliflua, lenta
e misurata, senza togliere dal faccino minuto quell’espressione di inesorabile
mistero che da iniziale maschera aveva fatto sua nel corso degli anni. La
mattina si prospettava divertente.
-
Se vuoi ti posso accompagnare – vista da vicino era tutto un altro effetto:
dopo la scatto improvviso che quasi l’aveva fatto cadere dalle scale ampie e
ripide, ritrovarsi davanti quella figura alta sottile l’aveva reso soddisfatto.
Ecco un’altra preda, un altro corpo da possedere come un trofeo davanti ai suoi
amici in preparazione ad una notte di sballo, in barba allo studio e alle
responsabilità. Era stato il momento in cui si era voltata a rendere tutto più
difficile: nulla apparentemente era cambiato nel suo corpo armonioso come
quello di tante altre. Ma quegli occhi lo stavano letteralmente incollando al
pavimento, gli impedivano di muoversi nel pendere dalle labbra rosee della
sconosciuta finché quella non avesse smesso di parlare. Ficcando le mani nelle
tasche degli aderenti pantaloni in pelle, riuscì ad opporsi al desiderio
assurdo di balbettare, ammiccando coraggiosamente dopo la proposta in apparenza
altruista: un’analisi più dettagliata non aveva rivelato nient’altro che una
delle solite fighette misteriose. Dopo essersi soffermato palesemente sul suo
corpo latteo con gli occhi verdi, si concentro sui dettagli del viso:
circondato da una cascata di capelli rossi vagamente stinti, era composto di
tratti particolari, caratteristici dell’Europa nordica. Gli zigomi erano alti,
dal taglio proprio sotto l’occhio che li rendeva graziosi, al centro un naso
lievemente all’insù decorato di poche lentiggini. La bocca era piena,
sottolineata da uno strato di matita chiara che si confondeva nell’insieme. –
Piacere, sono Duff – non tese la mano per presentarsi come persona educata,
limitandosi ad assumere un cipiglio sfrontato degno di un cantante di sua
conoscenza. Era bella come l’aveva vista fuori dalla finestra… ma l’effetto era
un altro, indescrivibilmente differente.
-
Piacere, Duff – la voce della ragazza era affabile, il suo corpo immobile senza
segno dei normali approcci tipici di una presentazione fra due conosciuti.
Conservava quell’aria quasi impassibile, come se sapesse cose di cui il ragazzo
non poteva avere la più pallida idea, che rendeva impossibili da comprendere i
pensieri che le passavano di testa in quel momento. Eppure, con quel il tono
disponibile con cui gli aveva risposto, sembrava aperta alle,
emh, nuove conoscenze. – Spiacente, ma non credo che tu sia la persona
da cui cerco un aiuto – beh, almeno la fregatura l’aveva individuata al primo
istante: erano quegli occhi a confonderlo, proprio come la sua prima
impressione gli aveva confermato. Circondati da uno spesso intreccio di matite nera e blu, erano di un’indefinibile colore tra il
grigio e l’azzurro che ricordava i cieli grigi del Nord… e ti confondevano: era
calamite che attiravano magnetiche la tua attenzione, distraendoti. Quasi era
stato impercettibile il cambio della voce, nonostante da un tono chiaramente
mieloso fosse passata ad un rifiuto della sua compagnia. – Ma questo non vuol
mica dire che non posso darti una mano – l’importante era non lasciar vedere
quanto quello strano gioco potesse prenderlo in contropiede. Il ragazzo sfoderò
uno dei suoi migliori sorrisi sghembi, senza distogliere lo sguardo da quello
della ragazza, o per lo meno dal suo corpo. Era come se fosse appena sbocciata
una guerra nascosta nelle loro menti, qualcosa che attraeva entrambi
spingendoli a sfruttare il massimo di sé stessi per vincere la battaglia.
-
Allora potevi indicarla subito, invece di perdere tempo a pavoneggiarti – i
suoi atteggiamenti delicati formavano un ossimoro con l’attacco celato dalla
sua frase, mentre con un gesto rapido spostava i lunghi capelli su una spalla
scoprendo il collo da cigno. Duff la guardava perplesso, in attesa della
prossima mossa di quell’enigma di ragazza, senza nemmeno accorgersi di come
l’avesse gabbato non rivelandogli il suo nome: contemporaneamente, era quasi
ammaliato dalle movenze di quello strano personaggio, senza riuscire a
prevederne le mosse. – Fatti perdonare e risparmiami una noiosa ricerca… -
miagolò tornando all’affabilità con cui s’era rivolta a lui inizialmente,
confondendolo sempre di più. Quale fosse l’obbiettivo della sconosciuta, Duff
non riusciva a capirlo: passava da un estremo all’altro, da un apparente
rifiuto ad un tentativo di corteggiamento camuffato, senza dargli tempo di
scegliere in cosa credere. La osservò torvo per lo stato in cui l’aveva fatto
piombare per interminabili secondi, mentre lei rispondeva a quegli occhi verdi
con lo stesso sorriso che aveva mantenuto da quanto, spavaldo, l’aveva
chiamata. Sembrava innocua, rifugiata in quel faccino adorabile che si
ritrovava… sembrava, insomma, quell’espressione improvvisamente calma e
disponibile era così carina. – Beh, magari possiamo trovare un compromesso –
sul volto di Duff si aprì un nuovo sorriso, sicuro di sé come quando quella
conversazione era nata: le sue spalle erano di nuovo rilassate, quella ragazza
sempre più attraente nel mistero di cui era vestita.
-
Del tipo? – aveva abboccato: era tutto bastato su poche semplici regole che i
maschi non erano mai stati in grado di leggere nelle smaliziate donne come lei,
troppo furbe per scoprire così le proprie carte. Lascia che annusi l’osso, poi
toglilo di scatto quando tenta di morderlo, e vedrai che ogni povero cagnetto
bramerà il suo pasto sempre di più. Assunto un nuovo atteggiamento, da docile a
diffidente a suadente come una gatta selvatica, Adrien lo guardò sbattendo
accuratamente le lunghe ciglia: in fondo, erano tutti uguali, così schiavi dei
loro ormoni. – Sai… suono in una band, siamo molto bravi… Stasera diamo una
festa, facciamo un paio di prove e poi viene su un sacco di gente, sono pieni
di roba… ti va di venire? Sarebbe… divertente – certo, era uno schiavo dei propri ormoni molto carino: alto, snello, una folta
chioma di capelli biondi dall’aria ossigenata quanto quelli di una Barbie,
un’andatura da musicista inconfondibile e dei lineamenti felini quasi femminei,
affascinanti. Le sopracciglia erano inarcate, il cipiglio sul suo viso
inconfondibile: i doppi sensi in quell’invito apparentemente normale andavano
colti con furbizia, cercati nell’espressione che aveva assunto. Adrien non
accennò ad un cambiamento della maschera del suo volto, limitandosi a fissarlo
intensamente come se fosse stata un’adolescente qualsiasi ardente per un colpo
di fulmine. Era così facile: certo che sarebbe stato divertente. – Dove
sarebbero queste… prove? – più che prove, era il preludio di un rave party coi
fiocchi.
Afferrando
un volantino qualsiasi, senza nemmeno degnare di uno sguardo le avvertenze
sull’uso di droghe pesanti in giovane età, Duff si fece passare una penna che
la sconosciuta estrasse dalla propria borsa. Impossibile confondere
l’espressione soddisfatta di chi riesce sempre a fare un centro perfetto – Se
poi non ci trovi, questo è il numero di telefono… non so come potrà esserti
utile, visto che la connessione l’ha messa su un nostro amico della centrale
elettrica e spesso salta, però vale la pena tentare -. Era quasi incredibile
come, ebbro del furore di una nuova conquista, non si fosse nemmeno accorto di
come non sapesse assolutamente nulla, nemmeno il nome della bella ragazza che aveva
di fronte. Lei gli sorrise intascando l’opuscolo che
il ragazzo le porse, dopo averci scribacchiato sopra un paio di parole in
calligrafia disordinata. Se aveva per un momento pensato che quella sconosciuta
avesse potuto dargli picche su due piedi, s’era evidentemente sbagliato: tutti
loro, nessuno escluso, godevano di un fascino che attirava le ragazze come
calamite. Altro che fusione di nomi, Guns N’Roses celava ben altre motivazioni:
erano armi letale che spaccavano cuori, infrangevano
sogni, vivevano in mondo che permetteva loro il divertimento sfrenato in barba
ai sentimenti delle donne che avevano la sfortuna d’incappare nella loro
strada. Lasciandosi dietro il profumo del fiore spinoso che meglio li
rappresentava.
-
Signorina Miller – una voce profonda risuonò nel corridoio qualche secondo dopo
che la ragazza ebbe infilato l’indirizzo nella borsa nera, interrompendo quello
strano gioco di sguardo che fra loro generava energia. Una donna dai vaporosi
capelli color del rame, vestita di un impeccabile completo grigio, era appena
comparsa da chissà quale corridoio, avanzando verso di loro reggendo fra le
braccia una pila di cartelline dall’aria minacciosa. Trasudava la severità con il quale molto probabilmente insegnava, invecchiando quelli
che non potevano essere più di quarant’anni nonostante la bellezza del suo
volto austero. – La stavo aspettando. McKagan, non dovresti essere a recupero
di chimica? – domandò con voce secca, il tono che non ammetteva repliche. Ci si
sarebbe aspettato di vedere quella donna in qualche famosa scuola privata a
bacchettare futuri manager e dirigenti, di certo non in una mediocre scuola
pubblica come quella. Robin Keenan, la donna dall’oscuro passato, ecco come la
chiamavano i suoi studenti dopo ogni dura lezione sugli innumerevoli poeti che
la professoressa conosceva a menadito. Era arrivata alla Renton circa un anno
prima iniziando a dettar legge a studenti ed insegnanti, che la temevano per
via delle sue tante lauree e del timore che incuteva a tutti, nessuno escluso.
Giravano voci sul motivo della sua assunzione in un istituto così scadente, una
meno vera dell’altro. – Emh, sì, signora… Beh, ciao – Duff non si fece pregare,
girò sui tacchi concedendosi un’ultima occhiata alla bella sconosciuta,
soddisfatto e desideroso di andare il più lontano possibile dalla
professoressa. Peccato, sarebbe stata un gran pezzo di
donna… beh, ormai non importava più di tanto. Non sarebbe andato in bianco,
quella notte.
-
Si sieda, signor McKagan – la classe era quasi esattamente come l’aveva
lasciata, immersa in quella noia mortale di calore da cui era scappato. Solo,
Slash sembrava essersi destato dal torpore di cui era rimasto vittima,
limitandosi a fissare un punto indeterminato nel muro, sopra la spalla della
vecchia professoressa che abbozzò un tentativo di farsi rispettare verso il
ragazzo in piedi, che riprese il proprio posto senza badarle. Non riusciva a
togliersi dalla faccia un sorrisetto ebete di vittoria, lo sapeva: qualcuno dei
suoi amici aveva già notato quel suo strano atteggiamento. – Beh…? – Steven,
che sedava nel banco davanti al loro, s’era già voltato in attesa di novità
elettrizzanti, senza ovviamente curarsi del tono della voce troppo alto.
Nessuno avrebbe avuto la forza di riprenderlo. – Ah, ma è successo qualcosa? –
Duff sbuffò davanti allo stato confusionale del suo compagno di banco, che non
era in grado di guardare negli occhi a causa della folta chioma di ricci che
copriva una buona porzione di viso. Maxie, accortasi dell’improvvisa riunione
dei tre ragazzi, fissava insistentemente dalla loro parte, scostando
regolarmente il ciuffo biondo platino dagli occhi: inutile, Duff non avrebbe
parlato della bella sconosciuta all’amica. Non intendeva farsi fregare la
ragazza da una lesbica. – Ho rimorchiato una rossa da paura, stronzo! –
annunciò beffardo, prendendo indirettamente in giro Slash rimarcando come
l’amico avrebbe potuto far conquiste allo stesso modo se fosse stato un po’ più
sveglio.
-
E dove? Alla macchinetta del caffè? – domandò sarcastico il biondo, per poi scoppiare
in una risata sguainata insieme a Slash, guadagnando contemporaneamente
un’occhiata assassina da parte del loro amico ed una infastidita
dalla professoressa, che imperterrita spiegava. Sì, sarebbero stati bocciati
tutti. – Ma va, deficiente! Non rideresti tanto se… Ma vedrai, stasera, che
sventola che ho rimorchiato! – mugugnò Duff, senza lasciarsi abbattere dalle
battute più che normali di quei due amici, alle quali si sarebbero aggiunti i
commenti di Izzy ed Axl una volta fatto ritorno a quel buco dove convivevano tutti insieme. I due ragazzi vicino a lui continuarono a
prenderlo in giro sempre più debolmente, vista la sicurezza che l’amico
ostentava in volto: Maxie continuava ad osservarli cercando di carpire pezzi di
conversazione, ottenendo solo un paio di sorrisi beffardi da parte di Duff. La
ragazza aveva svegliato in qualche modo Michelle, forse alle
ricerca di un aiuto in quella missione di spionaggio: la bruna dai tratti
messicani che le era seduta accanto non sembrava dar segno di voler collaborare,
sbadigliando ad intervalli regolari. Per un momento, fra le risatine di Steven
e Slash, il ragazzo si chiese dove avesse passato la notte precedente: forse
incastrata in qualche ostello di periferia, forse a casa di qualche amico
spacciatore… di sicuro non era tornata a casa da suo padre. Quella settimana,
aveva già fatto la sua comparsa abituale nel buco di appartamento di quel
pivello.
-
No, ma sul serio… dove l’hai trovata sta rossa da paura? – dall’espressione
seria e soddisfatta di Duff, Steven doveva aver capito che l’amico non stava
giocando loro qualche scherzo di pessimo gusto: improvvisamente, dopo il primo
scoppio di l’ilarità, sia lui che il bell’addormentato
si fecero attenti alle parole del ragazzo, che continuava a sorridere soddisfatto.
Se c’era una cosa che li mandava in fibrillazione più della musica spacca
timpani che smerciavano fra piccoli locali e il loro magazzino, era l’apertura
della caccia alla nuova bellezza di turno… ed era sottointeso che il fortunato
scelto dalla preda in questione avrebbe poi passato il divertimento agli amici.
– Hai presente la moto di prima? – non appena i due annuirono, Duff disegnò a
mezz’aria il contorno di curve mozzafiato con le lunghe dita, il genere di
corpo che apprezzavano di più. – Te lo dico io, da star male… in ogni caso, ah
detto che passa dalle nostre parti stasera… sai che intendo – ammiccando in
maniera da lasciar poco spazio all’immaginazione degli amici, le poche parole
di Duff vennero accolti da esclamazioni entusiaste, mentre tutto ciò che
avrebbero dovuto sapere sulla composizione degli elementi andava disperso
nell’afa dell’aula. Ormai le ragazze, come tutti i presenti che s’erano accorti
della conversazione fra i tre nell’angolo della stanza, venendo a conoscenza
dell’ennesima conquista di quei ragazzini gasati: solo il rombo di una moto
vicina li distrasse dal celebrare il proprio successo. Fecero in tempo solo a
scorgere un lampo di capelli rossi prima che la sconosciuta sfrecciasse verso
il cancello e si addentrasse nella giungla di macchine: dopo un iniziale
momento dedicato ai tentativi di avvistare ancora la moto nera che si dileguava
nel traffico, Duff sorrise, indicando il punto in cui la sua conquista era
scomparsa.
-
Beh, come cazzo hai detto che si chiamava? – probabilmente anche se non avesse
aggiunto la tipica parolaccia rafforzativa, l’effetto devastante sarebbe stato
lo stesso: Duff spalancò gli occhi stupefatto dall’assenza di
quell’informazione nella sua mente. Si era presentati sì, lui aveva detto il
suo nome… ma lei aveva esordito con uno suadente
“piacere”, con quel suo comportamento da gatta morta. E ovviamente, la priorità
del ragazzo non era certo stata venire a conoscenza di qualcosa di scontato,
banale come il nome, totalmente inutile per la missione con la quale aveva
abbandonato i corsi di recupero. – Ba… be… te… - iniziò a balbettare le prime
sillabe che gli balenarono in mente, tenendo gli occhi fissi sul cancello. –
Che cazzo…? – incominciò Slash, sporgendosi verso l’amico come per sentire
meglio una ripetizione del nome della fantomatica ragazza, desideroso almeno di
fingere che ciò gli interessasse. Qualche secondo dopo, la mano di Steven calò
sul capo ricciuto del ragazzo, assestandogli una poderosa manata che lasciò che
qualche bestemmia scappasse dalla bocca del povero chitarrista. – Babette,
ignorante! Sarà straniera… è così? – il tono della voce del batterista era
esattamente quello di chi la sapeva lunga su molti fatti: ignorava le proteste
scurrili di Slash, che ancora massaggiava il punto in cui l’aveva colpito, in
attesa della conferma di Duff sulle origini della ragazza misteriosa. Ma il
ragazzo non lo stava più ascoltando, la mente lontana sui progetti della sera,
su una vittoria che già pregustava come di fronte ad un lauto banchetto: il volto
della sconosciuta, di Babette, non accennava a levare le tende dai suoi
pensieri.
-
Che cosa voleva? – pochi minuti prima, Adrien, a sua insaputa appena
ribattezzata Babette, se la rideva sotto i baffi seguendo il ticchettio delle
lucide scarpette della professoressa Robin Keenan
lungo un corridoio banale, privo di qualsiasi tipo di decorazione. Quasi non
sentì la voce della donna porle quella domanda sospettosa, tanto stentava a
trattenere una risata cristallina per quel nuovo giochetto. Non aveva la benché
minima intenzione di recarsi a casa di quattro ragazzini che fingevano di
essere le nuove rockstar, e nemmeno di rivedere quell’adorabile biondino che
aveva appena abbindolato. La città era piena di altri posti dove passare notti
di fuoco, e il ritorno in quella discarica che chiamavano scuola sarebbe stato
ancora più divertente se ad attenderla c’era già un cuoricino spezzato. –
Niente… Mi aveva scambiato per un’altra – inventò in fretta una risposta con la
freddezza tipica dei bugiardi professionisti, varcando la soglia della stanza
che la rigida donna le aveva indicato. Lo stanzino era la lugubre sede di una
vecchia fotocopiatrice ammassata insieme a pile di vecchi documenti in un
angolo: una finestrella capitata lì quasi per caso lasciava che la luce
penetrasse nello stanzino insieme al caldo asfissiante. Potevano essere
dovunque, tranne che in una quantomeno decente segreteria. – C’è per caso
qualcuno che ti spia, Robe? Hai sempre avuto tendenze estremistiche per quanto
riguarda la discrezione! – la donna davanti a lei sembrava aver iniziato a
respirare normalmente soltanto nell’istante in cui chiuse dietro di lei la
porta della stanza, girando due volte la chiave nella serratura.
-
Sul serio, potrebbero pensare che tu ti stia trasformando in una psicopatica e
che in questo momento tu mi stia tenendo in ostaggio… specie se il tuo datore
di lavoro è simile al vecchio Igor! – mentre prendeva posto proprio sulla
fotocopiatrice chiusa con un elegante balzo, parlando con il tono di voce
affascinante con cui l’aveva conosciuta, Robin Keenan si lasciò sfuggire una risatina nervosa alle battutine con cui la ragazza
l’aveva accolta. Gettò le cartelline a terra come se fossero qualcosa di
sporco, disgustoso, prima di raggiungere la rossa che ancora la fissava con
quell’enigmatico sorrisetto stampato in volto, quasi a volerla sfidare. Sì,
Adrien sfidava sempre tutti, senza fare distinzioni: aveva voglia di dimostrare
di essere al di sopra di quegli inetti mediocri borghesi che la circondavano.
Forse era stato proprio quello, il loro punto d’unione: mentre la osservava
prendere un pacchetto di sigarette dall’eterna borsa nera, la donna cominciò a
pensare di avere di fronte uno strano miraggio, tanto era il tempo passato dal
loro ultimo incontro. Accettando la nicotina che le veniva offerta con gesti
noncuranti, abituali, sorrise, finalmente sicura di un altro punto della sua
vita ricongiunto con gli altri. – Sono contenta che tu sia tornata. -.
Ehi,
l’avevo detto che sarei tornata presto! Mantengo sempre le promesse! Bene, ecco
che una nuova storia prende forma… non sono sicura della piega che potrebbe
prendere, dovrebbe essere più breve della mia precedente
“Love willtearusapart”, ma anche quella
doveva essere una storia di quindici capitoli -.- perciò si vedrà! Intanto
ringrazio ancora tutte le persone che hanno seguito le disavventure di Naz e
che avranno la pazienza di leggere quelle di Adrien/Babette! Spero che questo
primo capitolo non sia uno schifo xD fatemi sapere!
La storia inizia nel 1984, Adrien e Linda hanno 18 anni, Duff e Maxie 20,
Steven, Slash e Michelle 19, Axl ed Izzy 22, Robin 39. Alcuni dei personaggi li
vedrete nei prossimi capitoli, io intanto metto le fotoJ Devo premettere che, per persone come
Michelle e Linda, ho preso ispirazione da persone che hanno influito veramente
nella vita dei Guns: comunque ciò che scrivo è puramente frutto della mia
immaginazione, ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale. So che non è andata esattamente così, che in realtà Duff non ha fatto le superiori a Los Angeles... diciamo che ho cambiato un pochino il normale corso degli eventi! Il nome della scuola è un omaggio al mitico Renton di "Trainspotting" ;) Enjoy
“ I saw your picture hangin’ on the back of my
door,
won’t
give you my heart:
no one
lives there anymore. ”
(Crystal Castles –
Not in love)
-
Allora, è tutto apposto, tesoro? – aveva appena parcheggiato la moto nell’ampio
giardino della villa, quando un’alta figura longilinea le si avvicinò: non ci
volle molto per individuare la solita nota di fastidio che la donna cercava di
nascondere dietro un sorriso tirato. Ormai sapeva alla perfezione la tecnica
con la quale Lisette cercava di sembrare per lo meno interessata alla parte
della sua vita che non rappresentava uno scoop per i
tabloid. – Tutto apposto – Adrien le rivolse un sorriso ancora più finto,
limitandosi ad un’occhiata fugace prima di tornare a sistemare l’adorata moto.
Le parole che aveva scambiato con sua madre dal ritorno dall’Inghilterra
potevano essere contate sulle punte delle dite, e la ragazza non credeva di
ricordare più di due telefonate ricevute durante il soggiorno al collegio. Si
volse di nuovo verso la donna che ancora la fissava come alla ricerca di
qualche malattia, assumendo un atteggiamento rassicurante non troppo
convincente, apposta per lasciare che Lisette si torturasse da sola sui dilemmi
della figlia. Era indubbio che le due s’assomigliassero notevolmente, nei
tratti aristocratici, nelle forme armoniose e nell’eleganza: la differenza
sostanziale era che Adrien possedeva quel fascino trasudante di sicurezza che
Lisette aveva perso negli anni, rimanendo soltanto una bellezza priva di
qualsiasi sostanza. Forse proprio a causa della figlia. – Non capisco ancora
perché tu abbia dovuto tingere i tuoi bellissimi capelli in un rosso così…
dozzinale – la ragazza alzò gli occhi al cielo terso, scostandoli dalla chioma
color del grano della donna, quella che una volta aveva posseduto anche lei.
-
E, cara, non capisco nemmeno questa scelta… quella scuola… - il bicchiere di
vino bianco che Lisette reggeva in mano traballava visibilmente mentre quella
si lanciava in una nuova serie di rimproveri, parlando con Adrien come se fosse
stata un’amica da salotto invece che una figlia adorata. Era il tono con il
quale più o meno sua madre si rivolgeva a tutti, dando per scontato la propria
superiorità. – Mamma. Te l’ho già detto. Nonostante sia una scuola pubblica, ha
totalizzato una delle più alte medie nazionali del paese. – col cazzo: la
Renton High School vantava il più alto numero di studenti incapaci di superare
gli esami finali di tutta la California, Robin s’era curato bene di sottolinearlo
amareggiata durante una delle sue tante telefonate alla ragazza. Non per
dissuaderla dall’iscriversi allo stesso istituto dove lei insegnava, solo per
lamentarsi di come una del suo calibro fosse stata costretta a lavorare in una
topaia. – Ma sì, lo so… Me l’hai detto, lo so – evidentemente Lisette era
troppo interessata alla cura di sé stessa e de suoi quasi cinquant’anni per
indagare a fondo: meglio credere sulla parola a quella strana figlia, sarebbe
stati solo tempo risparmiato da dedicare ad altro. La donna ingurgito un lungo
sorso del vino bianco migliore sul mercato, guardando ancora una volta con
Adrien prima incamminarsi verso le vetrate lustre del retro della villa: aveva
cercato di produrre lo stesso effetto profondo che quegli occhi delle nevi
esercitavano su di lei, su tutti. Aveva cercato d’inchiodarla al pavimento, di
far sentire sua figlia piccola in confronti a lei e al suo potere di madre:
tutto ciò che aveva ottenuto era una poco fedele imitazione di quella ragazza,
di quel suo sguardo grigio.
Il
punto era che Lisette Schneider, con i suoi capelli biondi che necessitavano
ormai di un aiuto del parrucchiere per mantenere lo splendore, con gli anni che
si stavano portando via la sua leggendaria bellezza svedese, non era cattiva.
Era semplicemente convinta di aver ragione, di non sbagliare: non avrebbe
saputo dove andare se si fosse scostata dal sentiero che s’era prefissata da
quando Reese era scomparso. – Alan è in casa? – rabbrividì, dopo essere entrata
dalla fastosa porta a vetri nel salone sul retro della casa: aveva in qualche
modo sperato che Adrien si fosse ritirata nella dependance, dove aveva
sistemato le sue cose dal ritorno dal collegio inglese, ignorando ostinata i
passi che l’avevano seguita lungo il vialetto. Non s’affrettò a risponderle, dirigendosi
verso il mobiletto di palissandro intarsiato che conteneva ogni qualità di vino
importato possibile, leggendo con attenzione le etichette più per avere una
scusa per non essere trafitta di nuovo dagli occhi di James su un viso d’angelo
che per puro gusto. – No, tesoro. È a lavoro, come sempre – dopo aver versato
una dose generosa di Pinot nel bicchiere, riuscì a pescare l’ennesimo sorriso
troppo lezioso da regalare ad Adrien, che sembrava però non ascoltarla: la
ragazza sembrava impegnata a setacciare la stanza alla ricerca di qualcosa alla donna ignoto.
La
ragazza non avrebbe mai dato a vedere a Lisette il proprio sollievo nel sentire
la conferma dell’assenza del suo secondo patrigno. Il leggero ghigno enigmatico
rimaneva stampato sul suo volto come sempre, mentre un peso fluttuava fuori dal
suo corpo: non poteva proprio tollerarlo. Non sopportava né la presenza stessa
di quell’uomo corpulento e sempre allegro in una stanza, né vedere sua madre
abbandonata fra le braccia di quell’uomo rispettabile ma banale. Ma la cosa che
più odiava era che Alan cercava anche disperatamente di essere qualcosa di
simile ad un padre per Adrien, cosa che forse aveva potuto funzionare con una
bambina smidollata come Annalou ma che infastidiva soltanto la ragazza. – Bene.
– mormorò, lasciando intuire di proposito la propria soddisfazione alla madre,
ignorando bellamente il suo muto rimprovero. Quando suo padre era morto e
Lisette s’era ritrovata per le mani tutti quei soldi, era troppo piccola per poter
comprendere l’enormità di un secondo matrimonio: la stampa era stata un’avida
carogna sulla morte di James Miller, uno degli magnati
del petrolio statunitense, e il fatto che sua moglie fosse intenzionata a
risposarsi solo un anno dopo il tragico avvenimento aveva tracciato segni
indelebili su Adrien e Reese. La ragazza avrebbe compreso soltanto in seguito
il significato di quelle parole stampate sulla carta a caratteri cubitali. Poi
era arrivato in casa loro quel Donnie McDowell, quel banchiere, e questo aveva
comportato la nascita di Annalou ed un carico troppo pesante di misteri per dei
bambini. Allora ancora stavano a New York, ancora
Lisette non era stata in grado di disfarsi di un ricordo scandaloso nonostante
le domande insistenti dei bambini su “il luogo speciale dove era andato papà”.
Era milionaria, i ricchi spesso danno per scontato di avere ogni soluzione ai
problemi della vita.
E
poi c’era stato il caso Reese, anni ed anni dopo: Adrien ricordava quei giorni
ancora vividi con asprezza, la scomparsa di ogni sua speranza di cancellare il
tracciato di sangue che aveva seguito lei e la sua famiglia negli anni della
sua infanzia. Non appena era stato chiaro a tutti che le indagini della polizia
come le pratiche di divorzio da McDowell sarebbero state lente, avevano fatto i
bagagli e comprato un’enorme villa a Los Angeles, scappando dalla
East Coast senza trovare la minima tranquillità. I fantasmi del passato
aleggiavano ancora fra le tre donne, spaventando Annalou, deprimendo Lisette e
instaurandosi nel cuore di una tredicenne che aveva ereditato tutto il carisma
del padre e che aveva continuato a crescere nel veleno. Quando era arrivato
Alan Niven nel cuore a pezzi della povera donna, l’atmosfera lugubre di una
casa da sogno s’era trasformata in una finzione rose e
fiori che Adrien odiava. – Adrien, tesoro… Ti prego,
cerca di essere un po’ più gentile nei confronti di Alan. So che ce l’hai
ancora con lui per la storia del collegio, ma l’ha fatto solo per il tuo bene…
non hai idea come siamo stati in ansia quando abbiamo saputo… - Lisette dovette
interrompersi nell’incrociare il gelo nello sguardo della figlia per non
rischiare di soffocare sotto quel peso. Era solo un altro dei suoi tentativi di
aprirsi un varco nella barriera di Adrien, un’ennesima giustificazione a tutti
i doni e regali vuoti di cui aveva sempre circondato la ragazza da Reese, da
James, da sempre: nulla riusciva a fermare il tremolio delle sue mani
nell’attendere la sentenza di sua figlia.
-
Sai, mamma, ti trovo ingrassata – passò qualche secondo prima che il sorriso
sul volto di Adrien si allargasse in una forma crudele di falsa compassione. –
Non l’ho certo notato subito, ma aguzzando la vista potrei persino dire che i
tuoi fianchi sono un tantino più rotondi… Dovresti
stare più attenta, o quel meraviglioso Yves Saint Laurent rosso non ti entrerà
più… sarebbe un peccato, non credi? – c’era una nota spaventosamente sadica
nella voce della ragazza che solo con una certa dose di attenzione qualcuno
avrebbe potuto cogliere. Lisette era troppo impegnata a costringersi a non
scoppiare in lacrime amare davanti alla malvagità di sua figlia, alla cruda
realtà: quel poco di dignità che le rimaneva mentre Adrien la umiliava, la
teneva stretta a sé per la prossima volta che avrebbe cercato di capire cosa
c’era che non andava. – Sì… sì, hai ragione... dovremmo comprare dei libri per
la scuola… - tutto ciò che si sentiva in grado di fare era annuire come sempre,
lasciare che anche quella sconfitta scorresse via insieme alle altre. La
ragazza la fissò per un momento con la stessa crudeltà con la quale l’aveva
umiliata un attimo prima, per poi tornare a cercare qualcosa che solo lei
conosceva. – Certo. Oggi ho incontrato una delle professoresse, mamma: vedrai,
lo so che l’idea di una scuola pubblica è rivoltante, ma piacerà anche a te. –
il suo tono velato non ammetteva repliche, in quel gioco di ruoli
improvvisamente scambiati. Era sempre stato così: Lisette non aveva potere,
Adrien succhiava la sua energia vitale, il rispetto che aveva sempre bramato dalla
gente.
-
Sei tornata! – c’era qualcosa che non andava: Adrien aveva progettato di non
sentire quella voce acuta e incredibilmente fastidiosa fino
almeno fino alla fine dell’estate. Ed invece le bastò voltarsi per trovarsi
davanti agli occhi una piccoletta dai capelli biondi con ancora qualche strana
divisa scolastica addosso, che la fissava colma di gioia saltellando sul posto.
– Annalou, che bello. Non dovresti essere a Stoccolma? – nonostante da sempre
la ragazza fosse una brava attrice, non riuscì a sopprimere una nota d’ironia
nell’accogliere la sorellastra, che le corse incontro
abbracciandola senza ovviamente essere ricambiata. Annalou era sempre stata
troppo ingenua per accorgersi di quei dettagli. – Sono tornata qualche giorno
fa, ma mi sono fermata a Santa Monica per conoscere i genitori di Brad. Ti ho
parlato di Brad? Gioca a squash! I suoi sono adorabili, possiedono alcuni campi
da tennis proprio dove una volta… -. Annalou adorava Adrien: era il suo
modello, il suo idolo, ciò da cui prendeva ispirazione nel tentare di imitare
quegli atteggiamenti che avrebbero accresciuto la sua età agli occhi degli
altri. Nella sua mente, la figura della sorellastra era proiettata enorme e
brillante, al centro di un sacco di attenzioni da persone popolari, ragazzi: il
suo modo di camminare, di scuotere i capelli e di parlare attirava sempre gli
sguardi di tutti. Non c’era persona che non fosse assolutamente concentrato su
di lei e sulle sue qualità quando Adrien. Per questo, fin da quando entrambe
erano piccolissime, ne aveva fatto una sorta di migliore amica della quale
raccontava agli altri, inventandosi talmente tanti particolari di quella
relazione immaginaria da finire per crederci lei stessa.
Era
una Lisette in miniatura, senza una minima traccia del banchiere di cui non
aveva molti ricordi felici o di qualsiasi altro genere: mentre la quindicenne
continuava a blaterare del suo soggiorno nella terra natale
della madre, Adrien gettava l’occhio di tanto in tanto sulla figura di Annalou
e su quella di Lisette, che continuava a tenere lo sguardo incollato su di lei.
Probabilmente s’aspettava una frecciatina stavolta diretta alla sorellina,
qualcosa che minasse soltanto a demoralizzarla completamente: nell’espressione
contratta del viso della donna c’era l’aspettativa carica di tensione, che
invano ella cercava di attutire con lunghe sorsate di vino. -… e ogni giorno
andavo in un piccolo bar dietro il college, una cosa deliziosa! Nonna ha detto
di andarla a trovare, dice che non ti vede da troppo tempo! Ah, sono così
felice che sia tornata anche tu! – in barba alla silenziosa sfida di sua madre,
Adrien non disse proprio nulla, per niente intenzionata a spezzare l’atmosfera
di ansia di cui Annalou sembrava non essersi accorta. La maggior accennò un
annuire svogliato ai racconti della sorellina, come se le avesse appena
raccontato qualcosa d’incredibilmente irritante. – Prendo in prestito la
stilografica di Alan – le liquidò mostrando loro l’oggetto della sua ricerca,
senza essere contrastata da Lisette nonostante quella fosse una delle penne più
costose della collezione del marito.
-
Cara, Higgins dovrebbe averti lasciato il pranzo in frigorifero, l’ho congedato
mezz’ora fa… - la ragazza era sul punto di varcare la vetrata per tornare nella
tranquillità della dependance sul retro, quando sua madre la richiamò
bruscamente. Se quello era un tentativo di trattenerla ancora un po’, di
cercare di provare ancora il proprio bisogno della figlia, Lisette seppe
mascherarlo al meglio dopo le umiliazioni precedenti. – Ci farebbe tanto
piacere che ti unissi a noi per cena, visto che è da quasi un anno che non ci
ritroviamo tutti assieme… che ne dici? – dopo l’iniziale freddezza però sul
volto della donna sembrò comparire un tratto di dolcezza, mentre la voce
s’ammorbidì appena. Adrien la guardò intensamente, ignorando bellamente le
esortazioni della sorella minore che per lei era totalmente irrilevante: pareva
che sua madre stesse cercando davvero di farle capire quanto teneva alla sua
presenza a tavola. Forse aveva persino sentito la mancanza della sua presenza
ingombrante, di quel suo modo di metterla in soggezione. – Ho da fare. – poche
parole bastarono a rimarcare quanto la buona volontà di Lisette non fosse
sufficiente. Da quando era tornata non aveva visto una sola traccia delle
fotografie con le quali aveva adornato lei stessa il salotto, tutte
improvvisamente scomparse: si concesse un ennesimo sorriso malvagio, lasciando
che Lisette intuisse da sola il perché di quel rifiuto. Poi, girando sui
tacchi, tornò alla dependance.
Passando
oltre la grande piscina e i vialetti curati dall’aspetto mediterraneo, si
poteva avere la piena visione del suo piccolo paradiso privato: un edificio
composto da mura bianche circondate da fiori di cui si occupavano i
giardinieri, dalle vetrate ampie dalle quali si scorgevano gli interni.
Un’ennesima piscina, meno vistosa di quella che separava la dependance dal
resto della villa, era nascosta dietro l’unico pian terreno della costruzione
che aveva deciso di adottare come casa. Adrien lasciò le alte scarpe sulla
soglia della porta a vetri, prima di entrare nell’ambiente fresco dell’aria del
condizionatore e guardarsi attorno, finalmente nella sua isoletta scollegata
dal resto del mondo. Era tornata in America soltanto qualche giorno prima e non
aveva ancora avuto tempo di respirare l’aria della sola parte di quel terreno
che considerava casa. Ogni cosa nell’arredamento moderno era al suo posto,
perfettamente spolverata e lucidata dai domestici: la ragazza passò
delicatamente le dita sul dipinto in stile pop art che era il suo preferito,
sorridendo. Si sentiva quasi in vena di spendere chissà quanti dollari per una
telefonata oltre oceano: la voce di Meredith sarebbe stato un toccasana per la
noia che minacciava di appesantirle la giornata. Poi si sentì attratta da un
particolare dell’ampia saletta che fungeva da cucina, qualcosa che era
incredibilmente fuori posto. Sopra il piano di cottura immacolato e da lei mai
toccato, mancava una cornice bianca e piuttosto appariscente che negli anni
aveva sistemato lei stessa un anno prima, dopo essersi trasferita lontano dal
cuore della villa. Allo stesso modo erano scomparse altre fotografie che s’era
tanto divertita a disperdere nella cucina e nel salotto. Le prove della sua
silenziosa sofferenza, i tentativi di dare raccapriccio a Lisette erano spariti
dai muri bianchi, ridipinti prima del suo ritorno, ma non Adrien non tardo a
ritrovarli.
In
una stanzetta adibita a magazzino per gli articoli della casa dei domestici, la
ragazza trovò uno scatolone piuttosto comune, sigillato pesantemente con molti
strati di scoch. Adrien vi si precipitò come un leone affamato, strappandolo e
lacerandoli finchè quello non volle aprirsi. La prima cosa che vide del suo
interno fu l’immagine di un’allegra famigliola elegante, vestita di tutto punto
come per una serata di gala. Una Lisette molto più giovane sorrideva gioviale
all’obbiettivo, sfoderando un fisico che avrebbe fatto invidia a molte fasciato
dalla seta rossa di un abito da cocktail natalizio. Al suo fianco, un uomo distinto
in un completo nero gessato cingeva con un braccio le spalle della donna, sul
viso l’espressione che tante volte Adrien aveva potuto ammirare allo specchio:
gli occhi grigio-azzurri erano terribilmente familiari. La bambina in piedi
davanti all’uomo era incredibilmente bionda, coperta di graziose lentiggini e
semplicemente orgogliosa dell’abito d’organza dorato che la faceva assomigliare
ad una fatina. Sorrideva, elegante dei suoi tre anni. La pugnalata allo stomaco
era però il bambino più alto della graziosa bimba, uguale al padre nel suo
completo da uomo d’affari nonostante non dimostrasse di più di sette anni: il
suo corpo era leggermente inclinato verso la sorella, quasi volesse proteggerla
da ogni male. Ci volle solo una manciata di secondi prima che Adrien sorridesse
soddisfatta in quella foto di famiglia scattata molto tempo prima, ebbra di
un’altra vittoria conquistata. Qualche minuto dopo, con una sigaretta accesa
fra le labbra solo per diffondere l’alquanto sgradito odore di fumo per la casa,
già stava risistemando la prima cornice al suo posto con chiodi e martello.
Nonostante non fosse minimamente capace di lavori domestici decenti, il sorriso
vuoto del ragazzo nella fotografia era meglio di qualunque balsamo. Era la sua
vendetta.
-
E così l’addetto alla sicurezza ci ha sbattuti tutti fuori, senza sapere che
tanto saremmo rientrati per le scale di sicurezza… certo, sul tetto abbiamo
trovato la porta d’emergenza chiusa e per entrare abbiamo distrutto il sistema
di areazione, ma la faccia del buttafuori quando la mattina ci ha visti uscire
insieme agli altri è stata impagabile – era chiaro che il collegio inglese non
era servito a calmare la voglia di distruzione di Adrien, nonostante i buoni
propositi del signor Niven. Robin, alzando il bicchiere stracolmo di gin
tonico, si abbandonò in una fragorosa risata prima di inghiottire un lungo
sorso di alcol: Adrien rise con lei, prima di imitarla con il whiskey che aveva
ordinato. Era da un anno che non metteva piede nell’angusto, buio pub sul una strada
laterale poco distante dalla Kennedy High School, dal lato opposto della città
rispetto alla Renton. – Oh, ce l’hanno fatta pagare con poco, alla fine è
bastata una telefonata del padre di Met e siamo usciti tutti, schedati ma
fuori. È stata una cosa esilarante! – mentre la ragazza si reggeva a malapena
dalle risate nel ricordo delle sue rocambolesche avventure nel cuore di Londra,
Robin la fissava ammaliata e, in qualche modo, dolce. Aveva sentito una
profonda nostalgia per quegli incontri clandestini fuori dalle mura scolastiche
dopo che Adrien era stata buttata fuori dalla scuola privata per spaccio di
droga. Le mura lustre della Kennedy erano diventate subito, vuote, sbiadite.
-
Immagino! Mi dispiace solo per Alan… tutti i soldi spesi per la tua istruzione,
buttati per l’anima del cazzo… - non c’era alcuna nota di rimprovero nella sua
voce, solo una sottile ironia che destò un’ilarità ancora più forte in Adrien.
Non c’era cosa più pericolosa, ambigua e sinistra di una relazione fra studente
ed insegnante per gli occhi della gente: ogni moralismo sul rispetto reciproco
andava distrutto quando entravano in scena i pettegolezzi, e questo entrambe
l’avevano sempre saputo. “Io posso aiutarti” era iniziato tutto come una sorta
di rivincita per una delle tante umiliazioni che la signorina Miller infliggeva
ai professori della Kennedy: Robin, che già allora s’era addolcita per l’amante
che aveva trovato nel vicepreside, s’era avvicinata a lei come il buon
samaritano al vagabondo. “In me puoi vedere un’amica” era stata per una
scommessa con sé stessa che Adrien aveva accettato di vedere la sua
professoressa di lettere fuori dalla scuola. Non certo per quella menzogna che
era il destino nel quale credeva Robin, convinzione alimentata dal suo
licenziamento dopo la partenza di Adrien, sempre a causa della dolce relazione
con il vicepreside. S’era ritrovata in quel buco della Renton nonostante le sue
lauree, e per di più senza la sua fidata compagna alla quale scaricare tutte le
sue afflizioni. – Beh, per lo meno non ho perso l’anno… i soldi fanno sempre
molti miracoli – affermò la ragazza, spostando subito l’argomento dal suo
patrigno. – Ma tu che hai fatto? Al telefono non mi hai mai detto nulla di
sostanziale… come sta Josh? -.
-
Josh sta bene – la donna tagliò corto sul proprio marito, svuotando in un colpo
il bicchiere per poi accantonarlo insieme agli altri che lo avevano preceduto
sul tavolino. – Beh, forse è stato un anno un po’ noioso… - non era
assolutamente vero, ma era proprio questa la cosa che aveva in comune con
Adrien: erano entrambe convinte di essere troppo per gli altri, e perciò
tendevano ed esibire la propria sicurezza. La loro similitudine risultava agli
occhi di Robin un colpo di fortuna, un modo per rispecchiarsi in qualcuno che
suscitava in lei così tanti ricordi. – Però… c’è un ragazzo a scuola, un po’
ottuso forse, ma davvero… beh, sì, l’hai visto anche tu… - aggiunse poi,
ammiccando verso la ragazza reprimendo la vena di sospetto che balenava nei
suoi pensieri da quella mattina: Michael era uno degli allievi più lenti e
cocciuti che avesse mai avuto, ma insieme ai suoi amici formava un bel gruppo
di carne fresca che lei non aveva mancato di notare. E ancora prima che la loro
amicizia sbocciasse dal nulla, alla scuola privata Adrien era nota non solo per
il suo cognome, i suoi soldi e l’atteggiamento spregiudicato: il suo fascino,
la sua arma segreta, era nota a molti esemplari della popolazione maschile. –
Ah, l’ossigenato… Non mi dirai che hai deciso di ricominciare? – il tono
neutrale di Adrien ebbe un effetto terapeutico sui nervi della donna:
nonostante la ragazza non avesse detto nulla, era assolutamente convinta che non avrebbe alzato un dito su Michael. L’avrebbe espresso
subito altrimenti, avrebbe fatto sicuramente così. Doveva essere così.
-
Ma dai, è un ragazzino, un faccino carino non mi fa crollare! – entrambe
iniziarono di nuovo a ridere della situazione assurda, così pittoresca da
sembrare parte integrante di un film. Erano le sette di sera, dalla porta
principale s’intravvedeva uno dei famosi tramonti di Los Angeles ed erano
entrambe mezze ubriache in quel bar di caproni. Parlavano della cotta di Robin
per uno studente come qualcosa di normale, dimentiche del povero Josh che tanto
aveva sopportato e della famiglia Niven che attendeva invano il ritorno della
figlia maggiore per cena. E Robin era troppo su di giri, con la testa talmente
piena di fantasticherie per notare il cipiglio interessato che Adrien aveva
assunto nel guardarla: di lì a poche ore lo stesso ragazzo di cui stavano
discutendo avrebbe capito d’essere stato ingannato come tutti gli altri. La
tentazione di rivelare alla compagna d’aver sconfitto anche lei, di come
l’oggetto del suo desiderio e di quelle frasi sciocche l’avesse invitata ad una
festa con un chiaro secondo fine. Ma sarebbe stato divertente? Il ritorno a
scuola si avvicinava, e Robin era una persona troppo matura per rimanere
succube di un bamboccio per molto tempo: che senso aveva rivelarle che il loro
sodalizio, basato sulla superiorità di entrambe sugli altri, fosse
semplicemente costruito sull’adulazione dell’una verso l’altro? Anche quella
era una competizione. Sorridendo di come Robin fosse visibilmente brilla, la
ragazza si assicurò che fosse quantomeno sana per guidare fino a casa, ridendo
con lei. Era quanto di più simile ad un’amica avesse mai trovato.
-
Rossa, ti fai un giro con noi? – ma il fatto che la donna avesse dei doveri
coniugali non implicava la fine della serata per Adrien. La moto non era
parcheggiata lontano, ma la ragazza non aveva alcun desiderio di tornare alla
villa e sorbirsi un’allegra riunione di famiglia. Quattro ragazzi erano
appoggiati al muro dello sporco pub, e ammiccavano al suo indirizzo in una
maniera che lasciava ben poco spazio all’immaginazione: Adrien sorrise loro maliziosa,
lasciando che si crogiolassero ancora un po’ nel dubbio di poter godere della
sua compagnia. Era bastato un solo sguardo per capire quanto essi
la desiderassero, nessuno escluso: anche loro avrebbero fatto parte della
ragnatela di persone che attorno a lei tesseva. Dando loro la schiena, Adrien
frugò impaziente nella borsa nera, prima di spostare gli occhi di ghiaccio sul
punto in cui la macchina di Robin era scomparsa nel traffico. Era stato facile
trasportare oltre oceano le pillole bianche che spuntarono da una delle tasche
interne, a bordo di un jet privato che recava le
iniziali dei Miller su un lato: un paio di quelle, e il mondo svaniva,
lasciando che a brillare fossero solo lei e le stelle. Un paio di quelle, e
sarebbe stata sempre Adrien, ma in una maniera più amplia, più leggera: il
vantaggio dell’LSD era la percezione del mondo
distorta, l’esperienza sempre nuova che procurava. Era pronta per dare inizio
alla serata.
-
Michelle! Sei uno schianto, cazzo! – era noto a tutti come Slash fosse un
ruffiano, da sveglio: alle sue spalle, un buio magazzino incastrato fra altri
palazzi simili a quelli già era gremito di gente. Qualcuno stava suonando la
batteria con furia, accompagnato da alcuni accordi di chitarra appena
abbozzati, e tutti sapevano bene chi fossero i misteriosi musicisti. Michelle
si avvicinò ai tre ragazzi fermi sul ciglio della strada, sorridendo sorniona
al complimento dell’amico, nient’altro che u metodo
per ottenere una scopata gratuita. – Sì, parla, parla… - gli rispose infatti gettandogli amichevolmente le braccia al collo, per
poi scoccare un’occhiata alle due ragazze che la seguivano. – Tesoro, sei un
incanto… - era più o meno il teatrino che si ripeteva ogni sera: Maxie scoppiò
in una risata sguainata davanti ai modi falsamente galanti del ragazzo dai
capelli rossi che aveva abbracciato Michelle, attirando lo sguardo assassino di
questo. – Ciao, signore, dove sono le tue donne? – Axl era devoto nei confronti
del suo battibeccare serale con la biondina, cosa che avveniva puntualmente da
quando Michelle li aveva presentati qualche tempo prima. Mentre ognuno di loro
s’abbandonava ad un attacco d’ilarità sconvolgente a dispetto di Maxie, la
folla di ragazzi di ogni età continuava a fluire verso l’edificio alle loro
spalle. La notte stava rapidamente calando e nell’aria si respirava l’odore
dell’ennesima festicciola estiva a base di sballo: era ciò che aveva reso famosi quei cinque ragazzini che si spacciavano per
rockstar, quasi più della loro musica. – E comunque, Maxie, tu non sai
apprezzare le innumerevoli doti di un figo come me… non sai apprezzare le doti
di nessuno! – persino la ragazza in questione non seppe trattenere le risate
davanti alla dimostrazione del grande ego di Axl Rose. Solo due ragazzi erano
rimasti in disparte, entrambi immersi in tormentati pensieri.
-
Piccola Linda, siamo cresciute durante l’estate! – l’inguaribile rubacuori che
era Slash però non poteva certo resistere davanti ad una qualsiasi ragazza
dall’aspetto quanto meno “scopabile”, come diceva lui. Non guastava certo il
fatto che le gambe della ragazzina che aveva sempre conosciuto come la
secchiona della scuola fossero cresciute di trenta centimetri dall’ultima volta
che l’aveva vista. – Ciao – Michelle alzò gli occhi al cielo blu scuro davanti
alla solita timidezza dell’amica, che nascose il viso dietro i lunghi capelli
color cioccolato. – Oh, Linda è troppo imbarazzata per ringraziarti,
probabilmente fra due anni ti spedirà una lettera… - il commento della ragazza
verso l’amica non era intenzionato a ferirla, ma dopo lo scroscio di risate che
seguì quelle parole nulla fu facilitato per la povera Linda. Si limitò a
scoccare un’occhiata arrabbiata in direzione di Michelle, che le sorrise
amichevolmente non appena s’accorse di quel segno di vita: non le avrebbe mai
confessato quanto in realtà le stesse a cuore. – Ciao Duff… - fu però proprio
la più timida del gruppo a notare l’alto ragazzo che era rimasto isolato fino a
quel momento. Certo, fissava la luce rossastra della sigaretta che teneva in
mano al posto della sua faccia in ombra, ma nessuno sembrò notare quel
dettaglio: improvvisamente l’unica persona che non pareva aver voglia di unirsi
alla conversazione si ritrovò al centro dell’attenzione del gruppetto. – Stai
ancora aspettando la tua principessa? – domandò sarcastica Maxie, dopo essersi
scollata di dosso un irruente Axl che minacciava di farla cadere a terra sotto la sua spinte moleste.
-
Ah, ah, ah! Sto morendo dal ridere! – il tono burbero del ragazzo era
tutt’altro che conciliante, la quantità di nicotina che sembrava voler aspirare
in una volta altamente preoccupante. Scrutava la strada con attenzione senza
mai scorgere il bagliore rossastro dei capelli che cercava, senza udire il
rombo di una moto familiare: sul suo volto una minacciosa espressione
arrabbiata aveva preso posto stabilmente. – Niente da fare, sfigato. Ti ha dato
buca questa… Babitte? – esordì Axl beffardo, portando le braccia attorno alle
spalle di Michelle e Linda, suscitando in loro sentimenti talmente contrastati
da far dubitare della loro salda amicizia. – Babette,
stronzo… e che cazzo, non le ho mica dato un orario! Una arriva quando cazzo
gli pare! – a dispetto delle sue parole tolleranti, l’impazienza di trovare
almeno un segno della presenza della ragazza misteriosa era chiara nei suoi
gesti. Non degnò di uno sguardo gli amici ancora intenti a prenderlo in giro in
ogni maniera possibile, convinto che prima o poi sarebbe arrivata, convinto
d’aver fatto colpo quella mattina. Sul viso di quella ragazza c’era un chiaro
cipiglio, un indizio evidente di come avesse recepito il suo messaggio… -
Senti, stronzo, ma lo vedi quante fottute persone stanno aspettando che si
attacchi qualcosa? Mettitela via, la tizia lì,
Babette, non viene dai tipetti tutti ossa e ossigeno in testa come te! Se c’era
il sottoscritto… - prese a vantarsi Slash, beccandosi un forte colpo sul capo
da Maxie come prova di quanto il suo fantomatico fascino fosse un’invenzione di
sua fantasia.
-
Beh, siete morti tutti? – dietro di loro, una voce strascicata come se fosse
appartenuta ad una persona appena sveglia richiamò la loro attenzione: beato di
una sigarette che penzolava dalle sue labbra, Izzy
Stradlin stava venendo loro incontro con le braccia aperte, l’espressione
perfettamente tranquilla. Indossava il più strano assortimento di vestiti mai visti prima e la coppola che gli copriva i capelli corvini
non sembrava farlo soffrire per il caldo che nell’aria soffocava tutti. –
Allora, ‘sta Babette? Sei tu? Ma non eri rossa? –
domandò senza nessun alcun interessa apparente indicando Linda, la quale
arrossì vistosamente portando però le mani sui fianchi. – Ma come? Non mi riconosci, drogato? – dalla dimensione delle pupille
dell’amico, la ragazza non sembrava aver sbagliato di tanto, sfoggiando
finalmente qualcosa che assomigliasse vagamente ad un carattere dopo il primo
iniziale imbarazzo. – Gli ha dato buca, Stradlin! Mister
Seduttore qui è solo uno sfigatello! – rispose precedendo qualsiasi altra
battuta Axl, allungandosi poi per cercare di stringere fra l’indice e il
pollice la guancia di Duff, che imprecando si scostò. – Dai,
McKagan, sembri una femminuccia permalosa! Andiamo dentro, diamo inizio a
questa festa e se questa Babette si presenta va bene, altrimenti chi se ne
frega, no? – come al solito, la saggezza schietta di Izzy conciliava le
opinioni di tutti senza che si sfociasse in una nuova serie di prese in giro.
Il magazzino ormai era pieno di gente che attendevano l’inizio della festa:
nessuno avrebbe chiesto di meglio.
-
Dai, Duff! Stasera posso stare qui solo fino a mezzanotte, poi devo essere al
locale per lavorare, quindi muoviti! – e Michelle, la quale fretta era più che
motivata, fu accontentata presto: dei capelli rossi che avevano attirato il suo
sguardo quella mattina neanche l’ombra, e l’orda di persone semisconosciute che
pretendeva dello sballo li reclamava. Lasciando che le dita scorressero sul
fidato basso, mentre le prese elettriche dell’angusto angolo in cui stavano
suonando quasi esplodevano, Duff liberò anche la tensione che quella vana
attesa gli aveva procurato. Era così automatico il processo che permetteva loro
di confondere i propri corpi fra la folla, di accettare qualsiasi tipo di canna
passasse loro vicino. Bastava non fare altro che non vivere calpestando la
terra con la propria voglia di urlare al mondo ogni insulto possibile, in barba
ai corsi estivi che li aspettavano la mattina. Non uscì più a controllare il
possibile arrivo della sua fantomatica Babette, trasportato in un’orda di
sensazione che solo una giusta dose di alcol, musica e droghe di ogni tipo
sapevano dare. Erano giovani e fottutamente incoscienti, ed una ragazza di
passaggio non riusciva a rovinare la loro giornata. La notte li aveva
abbracciati con l’amorevolezza di una madre, malsana nel buio, inghiottendo le
loro menti, le loro ansie, l’alba che li attendeva.
“Illumina,
annulla le paure, oh
luna,
nulla è uguale.”
(Verdena
– Luna)
Secondo
capitolo! Beh, è incredibile ricominciare da capo, ero abituata a due cifre in
ogni capitolo xD beh, dopo questi commentini mediocri
e del tutto inutile, vi espongo la novità di questa storia. siccome
trovo sempre ispirazione in molte (troppe) canzoni, voglio lasciare degli
stralci di queste in ogni chappy, in modo che voi tutti sappiate l’importanza
che esse hanno avuto per me. La musica è vita! Non voglio annoiarvi troppo -.- perciò comunico che, nonostante ci sia l’opzione
“rispondi” per le recensioni, sono affezionata alle pubblicazioni delle
risposte ai vostri commenti e manterrò questa tradizione J
AmyHale:
io non so come fa a starti simpatica Adrien. Io la odio, anche se alla fine
l’ho creata io (alla fine?!). No, non va bene: sto
sclerando, e anche tanto… forse perché sono stata due ore attaccata al computer
per poter finire in tempo perché QUALCUNO (Ma non faccio nomi u.u) potesse commentare in tempo il capitolo… -.-“ e comunque lo so che è bella la foto di Maxie: l’ho
scelta io, per forza è bella!
_LittleAxl_:
per il nome, mi stai già simpatica ;) mi hai riconosciuto subito per la struttura
della pagina? Beh, anche quella è una specie di firma, no? Più
che altro, scelgo questi caratteri per comodità: visto che sono molto miope, mi
piace che le parole si leggano belle grandi… emh, lo so, sono noiosa… però
consolati: se mi avessi beccato in un momento di follia la risposta sarebbe
stata illeggibile! Grazie per la recensione ;)
aivlis8822: no, guarda, hai scritto due parole ma già
da quel “Sei una figa” stavo morendo dal ridere! Io adoro le tue recensioni,
anche con poco sono divertenti xD sono contenta che
ti piaccia l’inizio, spero continuerai a seguirmi a lungo! Anche se, come ho
già detto, questa storia dovrebbe essere molto più
corta rispetto alla precedente! Grazie per il commento ;)
Sylvie
Denbrough: ecco, cara, sono contenta che tu abbia commentato! Nonostante sia
soltanto all’inizio, hai già centrato il punto di questa storia: Adrien è stata
creata dalla sottoscritta per essere odiata ed insieme amato, proprio perché è
una specie di “anti-Naz”. Credo che, come tu abbia
potuto notare da questo secondo capitolo, sia tutto il contrario della mia
precedente protagonista… anche se forse per certi versi si assomigliano!
Comunque grazie per i bei complimenti e per la rece!
IoMe: tuke! Anche se a me non interessa il
tuo parere (u.u) perché sei una traditrice e ti sei
beccata un più facendo la biografia di Avril Lavigne (bleah!)… Recensisci! Sono
in ansia, non so come sia venuto questo capitolo e mi fa schifo! Come sempre,
del resto -.- lavora, schiava!
Già
si sentivano il borbottio ansioso e sonnolento che di lì a poco avrebbero
ripreso il proprio ruolo di sveglia quotidiana: ancora Linda non aveva varcato
il cancello di ferro battuto, tanto simile alle sbarre di una prigione, che già
le voci degli studenti avevano invaso le sue orecchie. Stringendo a sé la
pesante borsa a tracolla, la ragazza saluto con un bacio affettuoso sulla
guancia la madre, smontando dalla ordinaria auto
grigia per incamminarsi verso l’entrata della Renton. Non c’era giorno che
passasse in quella scuola da quattro soldi senza che Linda si ripetesse quanto
squallido fosse quel posto, quanto fosse patetico che quello fosse l’unico
istituto alla portata delle tasche di molti. S’aggiustò i lunghi capelli
marroni portandoli dietro le orecchie, nonostante sapesse che alla prima
avvisaglia d’imbarazzo questi sarebbero scivolati a coprirle il viso. Los
Angeles appariva quasi più mediocre di quanto non fosse già vista dalle sporche
vetrate della Renton, eppure il suo carattere gentile le imponeva di opporsi
alla negatività che quel posto emanava. “Piccola Linda”, l’avrebbe canzonata
Michelle con quello sguardo di rimprovero che le riservava “Sempre a cercare il
lato positivo di tutto, anche quando non c’è”. La ragazza sbuffò di quei
pensieri, guardandosi attorno per cercare fra le teste degli studenti quella
dell’amica: non poteva certo biasimare Michelle per quella sua visione della
vita. Solo, aveva il timore che a forza di starle accanto si
sarebbe trasformata in una pessimista cronica quanto lei.
Prima
che avesse tempo di accorgersi dalla figura alle sue spalle, una mano calò
sulla sua testa per arruffarle violentemente i lunghi capelli, ignorando la sua
imprecazione di paura per il gesto improvviso. – Ah, la Renton! Ci si potrebbe
comporre dei poemi sopra: è evidente che questa scuola mi ama, è il secondo
anno di fila che mi bocciano. – Linda moriva dalla voglia di chiederle come
mai, nonostante quella sua vena poetica e filodrammatica che avrebbe dovuto
renderla un asso in almeno tutte le materie umanistiche, Maxie fosse ancora
bloccata all’ultimo anno di scuola. Si voltò corrucciata per il dolore alla
testa a guardare l’amica, che le sorrideva con gli occhi azzurri coperti dal
ciuffo tinto di biondo platino. – Ti ho spaventata? – chiese divertita,
intenzionata a prendersi gioco di lei come tutti gli altri: non che Linda fosse
una persona antipatica, ma aveva sempre un’aria così fragile che non scherzarci
sopra era praticamente impossibile. – Ehi, brutte troie – quasi si fossero
messe tutte d’accordo per farla morire d’infarto, Michelle spuntò alle sue
spalle pochi secondi dopo che la ragazza si fu voltata verso Maxie,
affiancandole. Aveva la solita sonnolenza che le causavano le ore tarde in cui
usava tornare da lavoro, e nessuna delle due sapeva dove avesse dormito quella
notte. Michelle si era accontentata di una vita fatta di ospitalità da parte
degli esseri più improbabili del pianeta. – Pronte a sorbirvi il discorso del buon vecchio Craig? -.
Craig
Williams era il beneamato preside della Renton High School, anche se era noto
il suo menefreghismo nei confronti dell’istituto: era strano come ogni anno
fosse in grado di trovare la strada per la scuola, tenendosi stretto quel
lavoro soltanto per poter permettersi di mantenere ogni su vizietto. – Io dico
che non viene, o per lo meno arriva tra due ore e ci diranno che ha avuto un
impegno urgente solo per non fargli fare la figura dell’idiota – affermò Maxie
con l’aria di chi sapeva il fatto suo. L’anno precedente era andata esattamente
in quella maniera, e quello prima ancora pure: Williams non s’impegnava affatto
per dare l’esempio agli studenti, che però su di lui inventavano leggende
sempre più inverosimili. – Guarda chi si vede! – il sarcasmo con il quale
Michelle accolse i tre ragazzi che avanzavano tra la folla salutando tutti con
familiarità era evidente. Gli insegnanti non avevano avuto pietà per nessuno ai
corsi estivi, nemmeno quando avevano insistito sul fatto che con un diploma li
avrebbero avuti tutti fuori dai piedi una buona volta. Settembre così aveva
richiamato all’appello anche i più scapestrati ed irrispettosi degli studenti,
che marciavano attraverso il cortile spavaldi: né Duff
né Slash né Steven sembravano preoccupati di aver perso l’anno e il diploma. –
Mi amano tutti talmente tanto da non volermi mollare, che ci posso fare? – fu
il riccio a parlare per primo, gli occhi nascosti sotto la chioma ribelle ma un
sorriso ben visibile stampato in viso. Allargò le braccia verso di loro per
abbracciarle, ma tutto ciò che ottenne furono risate di scherno.
-
Sfigato, l’ho già fatta io questa battuta! – dopo che Maxie ebbe rivendicato i
diritti d’autore del regale aforisma, s’incamminarono tutti stringendo i libri
nuovi verso l’entrata della scuola. Questa era già gremita di studenti per
niente desiderosi di riprendere a studiare: l’atmosfera estiva che ancora regnava
su di loro era palpabile e non avrebbe reso facile il lavoro agli insegnanti. –
E comunque, quest’anno non ci possono bocciare… insomma, dai, non vedono l’ora
di liberarsi di noi! Magari proviamo a prendere un cazzo di sufficienza… -
commentò distratto Duff, intuendo egli stesso quanto fossero vuote quelle
promesse di mettersi a studiare: nessuno di loro aveva la forza di scostare
l’attenzione dalla musica e dal divertimento per mettersi sui libri. Steven
annuì svogliato alle sue parole: bastò un’occhiata con il resto della
combriccola per confermare i suoi pensieri. – Magari, puoi provare a
prostituirti con la Pitterman, tanto quella è talmente vecchia da accettare
anche delle bestie come te, ed è sicuramente il meglio che riusciresti a tirare
su… - destando l’ilarità dei presenti, Duff ne approfittò della situazione
tragica che si prospettava anche per quell’anno scolastico per prendere in giro
Slash. Quando però, dopo aver seguito il resto degli studenti nella palestra,
si accorsero che la vecchia professoressa di chimica Pitterman aveva sentito
ogni parola nonostante la sordità, decisero di comune accordo di restarsene
muti a ridacchiare. Anche quell’anno scolastico era incominciato nel migliore
dei modi.
Era
in ritardo, in un ritardo pazzesco, e ciò non poteva smuovere di meno il suo
animo: se ne stava sdraiata sui sedili posteriori dell’auto nera masticando
distrattamente la gomma americana. – Signorina, i suoi
genitori hanno tanto insistito, io seguo sol le loro indicazioni – era per pura
simpatia nei confronti di John Russell che aveva accettato di prendere la
limousine di Alan, quello che il povero autista aveva appena definito “suo
genitore. Destreggiandosi in maniera abile fra il traffico, l’omone al
volante tentava di scusarsi con la ragazza senza che questa ascoltasse una
parola, sicura della tiritera che l’autista stava cercando di rifilarle. – Alan
– lo interruppe, marcando bene la differenza fra i due appellativi tra loro
usati – Non doveva. Mi aspetto di trovare la mia moto nel cortile della scuola
alla fine delle lezioni, chiaro? – i suoi modi autoritari e gelidi lasciarono
muto Russell, che si limitò ad annuire esterrefatto dai modi improvvisamente
freddi della ragazza. Adrien aveva sempre provato una certa simpatia nei
confronti di Russell solo perché, con la sua stazza e la sua voce baritonale,
emanava sicurezza e potere. Ma non poteva tollerare quell’improvvisa
intromissione di Alan nei suoi mezzi di trasporto, e ogni briciolo di rabbia
verso il patrigno andava a riversarsi sul povero malcapitato di turno. Una
volta arrivata davanti alla scuola, sbatté con violenza la portiera dell’auto
dietro di sé senza degnare di uno sguardo l’uomo: quell’edificio era
esattamente con lo ricordava. Sciatto e banale.
Dopo
aver varcato il cancello di ferro che ispirava depressione, la ragazza riuscì
ad intravvedere la sala d’ingresso attraverso i vetri: nonostante al suo arrivo
fosse perfettamente deserta, la vide riempirsi sempre di più di studenti,
probabilmente di ritorno dal discorso del preside che lei aveva saltato. Con la
solita espressione annoiata in viso, Adrien scosse la testa davanti a quella
massa di poveretti, cercando di combattere contro il fastidio per la spiacevole
sorpresa di quella mattina. Nulla doveva minacciare di sopraffarla, di togliere
la maschera di freddo fascino che si portava sempre appresso. Robin era lì
dentro, da qualche parte, la stava probabilmente cercando fra le teste anonime
degli studenti. La ragazza rallentò l’andatura, attendendo che le classi si
ritirassero lasciando il corridoio deserto: dalla borsa di pelle nera che
pendeva da una spalla estrasse un foglio stropicciato. Gliel’aveva consegnato
la professoressa il giorno in cui era venuta in quella scuola a riempire i
moduli d’iscrizione, il giorno in cui aveva fatto quello scherzo allo
sbarbatello biondo: sorrise fra sé e sé al ricordo dello spilungone, salendo le
scale grigie alla ricerca dell’aula di chimica. Ciò che era rimasto dell’estate
era volato, trascorso fra allucinazioni da LSD con alcuni vecchi compagni di scuola
e incontri clandestini con Robin, o alla peggio un tuffo nella piscina annessa
alla dependance. Era stato facile abbandonare le memorie del tipo di cui non si
ricordava nemmeno il nome: si ritrovò in un enorme corridoio bianco, spoglio,
sorridendo in quel modo enigmatico che aveva fatto colpo su Duff un piano più
in basso. Sarebbe stato divertente.
Quell’anno
era davvero destinato ad andare male quanto i precedenti: tanto per cominciare,
Williams si era straordinariamente ricordato di essere il preside di quella
scuola e li aveva intrattenuti con un discorso mediocre ricco di battutine per
niente divertenti. Poi avevano appreso con orrore da Linda, che era molto più
diligente di loro cinque messi insieme, che la prima lezione sarebbe stata
proprio quella materia inutile che era chimica. La Pitterman, la cui voce
monotona e soporifera non sembrava essere migliorata dall’esame orale in cui li
aveva bocciati, stava appunto spiegando loro quanto fossero importanti
costanza e studio nell’ultimo anno accademico. Slash non sembrava
rendersi conto di come il suo sbuffare apertamente e dondolare la testa avanti
indietro non passasse inosservato alla vecchia, che accigliata prolungava il
discorso attraverso una serie di citazioni. Ma il compagno banco del ragazzo
non era affatto intenzionato a fermare quelle smorfie: erano sempre meglio di
una prova d’ingresso a sorpresa in laboratorio, dove avevano quasi fatto
esplodere tutto. Combattere la noia era però un’impresa: Michelle, che con
Linda aveva occupato il banco davanti a loro, stava già cadendo vittima del
sonno al contrario dell’amica che ascoltava impassibile. Maxie, qualche banco
più in là, corteggiava spudoratamente un’ignara ragazzina, e non pareva aver
voglia di prestar loro attenzione. Steven invece contemplava l’intonaco con
insolita concentrazione, e ben presto avrebbe seguito Michelle nel mondo dei
sogni.
Le
sagge parole della Pitterman furono però interrotte dall’ingresso di una delle
signorine che lavoravano come bidelle, una “rara” bellezza sulla sessantina che
aveva carne di una balena bianca ma che in compenso non aveva nemmeno un dente.
Questa si chinò in fretta a bisbigliare qualcosa nell’orecchio dell’anziana
professoressa, forse pensando che quella avrebbe udito tutto per filo e per
segno. – Chi? – esclamò infatti la vecchia, guardando
la bidella con un cipiglio perplesso, come se fosse tutta sua la colpa di
qualsiasi cosa fosse successo. La bidella allora, esasperata dagli acciacchi
della vecchiaia che le impedivano di tornare a leggere le sue riviste di gossip
in santa pace, le passò il biglietto che aveva trovato appeso in segreteria.
Gettando un’occhiata nervosa alla porta semiaperta, aspetto impaziente che la
professoressa inforcasse gli occhiali e leggesse. – Oh, sì. Bene, falla
entrare. – gracchiò questa dopo aver spalancato gli occhi come in preda ad una
strana forma di ictus. Tutti rizzarono il capo all’istante a quel segnale di
vaga novità che era entrato in classe, fissando ancora assonnati dopo i discorso della Pitterman la porta. Niente che
interrompesse qualsiasi sproloquio vecchio stile sull’importanza
dell’educazione e di un diploma nella società poteva essere nocivo: la
curiosità nelle decine di occhi che seguirono la bidella era palpabile. – Bene.
Emh… avete una nuova compagna… - non poteva esserci una presentazione peggiore.
Fu
come se la potenza di un vento gelido avesse investito Duff nel momento stesso
in cui la ragazza ebbe varcato la porta, congelandogli il sorriso beffardo sul
volto. – Ragazzi, questa è Adrien Miller. Adrien è appena ritornata
dall’Inghilterra e spero che vi impegnate per
accoglierla nei migliori dei modi – la ragazza ancora ferma all’ingresso della
porta non sembrava in vena di stringere amicizia con qualsiasi cosa: invece di
guardare l’insegnante che si stava impegnando per essere d’esempio, o i nuovi
compagni di classe, gli occhi grigi vagavano per l’aula con aria annoiata. Le
calze strappate, gli stivaletti borchiati, la minigonna rosso sangue, la
canotta bianca che lasciava intravvedere la biancheria: tutto di lei sembrava
più adatto ad un concerto che ad una scuola, e di certo se ne rendeva conto. –
Allora, Adrien, sono la professoressa di chimica, la signorina Pitterman. Perché
non ti presenti? Parlaci del tuo soggiorno in Inghilterra. – era evidente che i
tentativi dell’anziana signora di coinvolgere la nuova studentessa si sarebbero
rivelati inutili. La ragazza, ignorando gli sguardi curiosi degli allievi e
dell’insegnante, sembrava passare in rassegna l’ambiente spoglio e semplice
della stanza, soffermandosi poco su quelli che sarebbero stati i suoi nuovi
compagni di classe. Voltandosi a guadare i volti degli amici, mosso da una
strana forza invisibile che s’era appena impadronita di lui, Duff trovò la
fauna maschile della classe scandagliare abilmente le grazie della nuova
arrivata. Forse, se non si fosse lasciato prendere dalla sorpresa di ritrovare
quel volto familiare, avrebbe notato l’occhiata maliziosa scoccatagli dalla
nuova arrivata.
-
Sono stata cacciata dalla scuola privata perché vendevo hashish alle primine, così
il mio patrigno mi ha sbattuta in uno stramaledetto collegio e si è tolto i
sensi di colpa. – la presunzione sul volto della nuova arrivata era palpabile,
fastidiosa quanto incredibilmente affascinante. Il modo in cui aveva parlato,
con la voce strascicata dalla noia, era talmente differente da come si sarebbe
espresso una qualsiasi altra persona da renderla avvolta da una sorta d’aura
magnetica: Duff si sentì improvvisamente sconvolto nel riconoscere la faccia che
aveva odiato e dimenticato. Il sorriso poi, era lo stesso: che cosa stesse
pensando in quel momento la ragazza, era impossibile da capire, ma lasciava
presumere che non stesse tramando nulla di buono. E, per pochi secondi, il
ragazzo dovette reprimere l’irresistibile tentazione di sporgersi oltre il
banco per assicurarsi che il lampo inquietante che le aveva visto negli occhi
grigi nel guardare la professoressa attonita fosse soltanto frutto della sua
immaginazione. – Sì… Avremo modo di conoscerci, signorina Miller. C’è un posto
libero vicino ad Adler, si sieda – a quelle parole, biascicate da una Pitterman
del tutto anormale, la classe trattenne il fiato. La deferenza nel tono di voce
dell’anziana professoressa non era sfuggito a nessuno, e nemmeno il modo in cui
aveva sottolineato il nome della nuova arrivata. Quest’ultima lasciò che l’aria
gelasse attorno a lei per qualche istante, abbastanza per
imprimere a fuoco quel momento nelle menti e nei pettegolezzi che avrebbero
viaggiato per l’edificio di lì a poco. Poi, come se niente fosse, volteggiò tra
i banchi con grazia inaspettata, prendendo posto al banco vuoto e pieno di
scarabocchi al fianco di un incredulo Steven. Duff poté giurare d’aver visto
l’ombra d’un ghigno sul volto lentigginoso di Babette, di Adrien, o di come cavolo
si chiamasse.
-
Allora, com’erano le cose in Inghilterra? E’ vero che lì le ragazze sono tutte
cozze? – la ragazza non sentì subito le parole del suo nuovo compagno di banco:
era occupata a contenere il sorrisetto sulle labbra nel fissare la testa bionda
del ragazzo appena qualche banco più in là, una fila avanti. Era evidente che
il suo teatrino era piaciuto al pubblico che aveva trovato in quella marmaglia
di ragazzini, tutti intenti a bisbigliare commenti fra loro mentre la vecchia
riprendeva a spiegare qualcosa di cui non sapeva nulla e che non avrebbe
ascoltato. – Dicono che anche il cibo faccia schifo! – incurante del volume
della voce troppo alto, il suo vicino non sembrava intenzionato ad arrendersi:
Adrien spostò lo sguardo dalla tenta bionda a quello
che lo professoressa aveva detto si chiamava Adler. Non seppe trattenere un
cipiglio curioso davanti a quel bambino rinchiuso in un corpo da ragazzo, che
sembrava in preda ad un attacco di logorrea: senza attendere le risposte alle
domande che inizialmente le aveva posto, Adler s’era appena lanciato in un
monologo sull’Inghilterra. – Però credo che in una situazione estrema mangerei
anche cibo inglese, sempre mangiabile è, no? Ehi, ma tu sei inglese? – si fermò
soltanto davanti a quell’interrogativo, dopo un paio di minuti da quando la
ragazza aveva smesso di ascoltarlo. Adrien scostò lo sguardo dall’oggetto della
sua ilarità sommessa, prima di fissare quello strano soggetto e rispondere, in
tono asciutto – No. -.
-
Sì, è vero, non hai l’aria inglese –
annuì pensieroso il ragazzo, ricominciando a parlare da solo come se nulla
fosse successo. Adrien rimase immobile per poco, senza
dare a vedere quanto fosse rimasta sbigottita da quello strano comportamento,
prima lasciar cadere la borsa sul banco con un sonoro tonfo. Nonostante quel
gesto non interruppe minimamente il soliloqui di
Adler, ottenne l’effetto desiderato: una ventina di teste si girarono ad
osservarla ancora, in attesa di qualche altra azione memorabile. Adrien, che
teatralmente aveva lasciato la mano sospesa a mezz’aria sopra la borsa, sorrise
in maniera enigmatica, scostando in fretta lo sguardo dalla testa bionda per
portarlo sulla professoressa senza che qualcuno se ne accorgesse. Era sicura
che il diretto interessato si sarebbe voltato a
guardarla, era sicura che si sarebbe parlato del suo spettacolo. – Ha qualche
domanda, signorina Miller? – domandò, visibilmente più seccata di prima,
l’insegnante, accigliata attraverso le lenti degli occhiali. – Ho solo
appoggiato le mie cose. – rispose in tono falsamente innocente, sfacciata. Il
silenzio che regnò sulla classe parve illuminarla come se fosse stata sotto dei
riflettori, prima che con un sospiro rassegnato la Pitterman tornasse al suo
noioso discorso. – Dicono che le rosse siano irascibili, però a me piacciono.
Tu, per esempio, sei un pezzo di gnocca… - con il sottofondo del suo strano
compagno di banco, Adrien si volse a guardare il motivo per cui si stava
divertendo così tanto. Quel ragazzino era ancora fermo con lo sguardo puntato su
di lei, come quella sottospecie di pecora che gli era seduta vicino.
Babette.
L’aveva odiata, e poi s’era scordato di lei come se nulla fosse successo e
aveva continuato a godersi l’estate, senza domandarsi il motivo per cui avesse
fatto visita alla scuola quel giorno d’agosto. – Che caratterino, la fighetta…
- sul volto di Slash era impresso un ghigno poco rassicurante mentre entrambi
ancora fissavano la ragazza. Duff deglutì rumorosamente, sperando vivamente che
nessuno s’accorgesse dell’improvviso fervore che emanava, senza trovare una
qualsiasi parola adatta a rispondere la commento
malizioso dell’amico. Aveva voglia di alzarsi in piedi e tirare un pugno a quel
delizioso faccino che soddisfatto, mandando al diavolo qualsiasi forma di
rispetto per il gentil sesso: tutto l’imbarazzo provato quella sera in cui non
l’aveva vista arrivare era riaffiorato lentamente, l’orgoglio ancora bruciante.
Il culmine dell’irritazione arrivò poi quando quei suoi fantomatici occhi grigi
si spostarono proprio sul punto in cui erano seduti, divertiti dalla smorfia
che scorsero sul volto di Duff. E, mentre Slash ammiccava senza il minimo senso
del pudore a quella stronza mascherata da angioletto che aveva tutta l’aria di
prenderlo in giro, il ragazzo stinse i pugni. Poteva meritare qualsiasi insulto
potesse passere per la mente di Duff, ma in quel momento era bella esattamente
come quando l’aveva vista arrivare per la prima volta a cavallo della sua moto.
-
Ehi! – era sicuramente una delle situazioni più ambigue e divertenti in cui si
fosse mai trovata: dopo essersi assicurata che l’ossigenato l’avesse
riconosciuta e puntualmente fulminata con gli occhi, aveva distolto lo sguardo
da lui e da quel caprone che aveva come vicino di banco, smaliziata. Aveva
finto di porre attenzione al ragazzo al suo fianco, rispondendo con uno sguardo
interrogativo al suo richiamo ma senza perdere di vista il obbiettivo:
mandare fuori dai gangheri il ragazzo che ancora la stava guardando. Mentre
osservava incuriosite l’espressione di Adler, che sembrava aver appena ricevuto
l’illuminazione divina, porto un dito alla bocca rosea in modo che sembrasse un
gesto innocente. A stento riuscì a trattenere un sorriso di vittoria. – Ma sei
tu? – la domanda, apparentemente priva di senso, sembrava racchiudere un
significato che lasciò perplessa la ragazza. – Sei tu Babette? – ogni dettaglio
della descrizione fornita da Duff secoli prima sembrava combaciare se
s’aggiungeva che Steven, che stupido non era anche se
faceva di tutto per sembrarlo, aveva notato quello strano scambio di sguardi
che c’era stato. Ma visto che del soprannome che le era
stato appioppato in mancanza del suo nome vero Adrien non sapeva assolutamente
nulla, il cipiglio disgustato nella sua espressione fu più che prevedibile: che
razza di nome ridicolo era quello? – Sai, la schizofrenia è considerata un
disturbo della psiche grave. Fatti ricoverare. – commentò tranquillamente,
lasciando giustamente sconvolto un innocente Adler. E d’improvviso tutti si
ritrovarono a desiderare che la campanella suonasse alla svelta.
-
L’ho già vista da qualche parte – il corridoio era talmente affollato che il
tranquillo passeggiare alla ricerca dei propri armadietti era un sogno remoto
ed impossibile. – Non mi è nuova, e neanche il cognome. Miller… - a parlare, al
centro del gruppetto di persone che si destreggiava fra le file di studenti
disordinati e già stufi di studiare, era Michelle: il volto della nuova
compagna di classe era impresso nei pensieri dei ragazzi, mentre controllavano
distrattamente i numeri sugli armadietti verdi alla ricerca ognuno del proprio.
– Beh, mi chiedo che cazzo ci faccia qui. Ma avete visto come ha risposto alla
vecchia Pitterman? Okay, cazzo, lo facciamo anche noi… Ma aveva una puzza sotto
il naso! Signorina Miller, con me al massimo usa il “lei”: quella lì si pulisce
il culo con i verdoni, ve lo dico io! – la finezza di Maxie non era mai stata
di alti livelli, ma con quello sfogo diede sfoggio di ogni espressione appresa
dagli svariati fratelli maggiori. Linda annuì incerta, come se non sapesse se
fosse una buona idea parlar male della nuova arrivata che nemmeno conoscevano,
prima di puntare lo sguardo verso i ragazzi in attesa del loro parere. – Ma dai, tutti possono avere una giornata alla cazzo! Sei prevenuta solo perché… - nonostante Slash non fosse
riuscito ad inventare su due piedi un motivo per l’antipatia dell’amica nei
confronti di Adrien Miller, i suoi pensieri furono piuttosto chiari. Era palese
che la nuova arrivata aveva fatto parlare di sé, nel
bene quanto nel male, ed i ragazzi delle sezioni dell’ultimo anno era già
sull’attenti. – Non può essere troppo male, sembrava simpatica. – affermò
Steven, quasi dimentico della conversazione avvenuta tra lui ed Adrien: se non
avesse avuto l’idea di passare il tempo a guardarle la scollatura ignorando i
commenti stizziti che gli aveva lanciato, forse l’avrebbe pensata come le
ragazze.
-
E comunque l’ho già vista. – arrivati alla serie di armadietti nella quale vi
erano i loro, l’argomento Miller fu messo da parte con poche parole: Michelle
aveva il cipiglio battagliero che lasciava intendere che non avrebbe mollato
l’osso facilmente. – Mi basterà chiedere in giro… Senti Max, non è che hai un
letto libero stasera? C’è una nuova amica di mio padre a casa e credo che darei
di matto se dovessi tornare da lavoro e trovarli a scopare sul lampadario del
soggiorno. – sembrava che, almeno per il resto della pausa pranzo, non si
sarebbe più discusso della ragazza nuova e misteriosa. Lasciare i pesanti libri
di testo negli armadietti dalla vernice scrostata per andare in sala mensa e
potersi lamentare di piatti disgustosi che erano serviti era prerogativa di
tutti. Slash e Steven si sbellicavano dalle risate per una battuta di pessimo
gusto, le ragazza avevano formato un gruppo a parte
per parlare della sistemazione notturna di Michelle. Ma c’era qualcuno a cui
una bruciatura più fastidiosa dava ancora fastidio, e il problema stava
beatamente riordinando i libri in un armadietto qualche metro più in là. Era
impossibile non notarla, quando gli abiti appariscenti si addicevano più ad una
sfilata di moda rock n’roll che ad un ambiente comune come quello. E al ragazzo
seccava, seccava tutto: che nonostante quelle chiare sfide di sguardi e la
certezza che lo avesse riconosciuto lei non si fosse ancora degnata di
rivolgergli la parola. E che se ne stesse al centro dell’attenzione, che tutti
la divorassero con gli occhi e con la curiosità.
-
Duff, dove vai? – la vocina flebile di Linda era inutile nel chiasso della
folla di studenti, mentre con lunghe falcate il ragazzo in questione
abbandonava il gruppo di amici, raggiungendo ci che in
lui destava tanta rabbia. Probabilmente lo vide arrivare con la coda
nell’occhio, mentre Duff scostava le persone che lo urtavano facendosi largo
fra gli studenti che lo salutavano. Ed era ancora più certo che, per amor di
teatro, Adrien Miller alias Babette lo avesse ignorato bellamente in attesa che
fosse lui a servirle sé stesso su un piatto d’argento. – Che si dice? –
nonostante i suoi movimenti lasciassero intendere l’audacia di una persona
sicura di sé e calma, il tono di voce scontroso era il preludio della tempesta.
Chiudendo lo sportellino dell’armadietto, la ragazza lo vide appoggiato ad uno
di essi, le braccia incrociate al petto in attesa di una sua parola. Era stato
facile prevedere come e quando Duff avrebbe cercato di avvicinarla,
probabilmente per avere delle spiegazioni dalla faccia che aveva fatto. – Ci
siamo già visti, o sbaglio? – se lo sarebbe mangiato a colazione. Sul proprio
viso angelico, Adrien aveva fatto spuntare la stessa maschera con la quale il
ragazzo l’aveva conosciuta, furba: non aveva intenzione di lasciarsi incantare
dalle accuse che sarebbero piovute di lì a poco. Se c’era una cosa che non
aveva intenzione di fare, era giustificarsi con qualcuno: non l’aveva mai fatto
e non aveva intenzione di cominciare in quel momento.
Stronza.
Sembrava che la ragazza avesse quella parola scritta in fronte, a caratteri
cubitali: si capiva da come lo fissava, impassibile se non per quell’accento di
supponenza che aveva addosso, dalla domanda che gli aveva posto, derisoria. –
Sei davvero spiritosa. Quasi quanto troia. – a mali
estremi, estremi rimedi. Accortosi di dover usare le stesse armi della ragazza
per poter vincere, Duff sfoggiò un sorriso innaturale, in un’imitazione
vendicativa dell’aurea di mistero della persona che aveva davanti. – E’
divertente atteggiarsi da fighetta irraggiungibile e sparare balle per far
perdere tempo alla gente come hai fatto con me? – le parole uscivano dalla sua
bocca come veleno di serpente senza che Duff avesse il tempo di riflettere su
ciò che stava dicendo. Era troppo difficile scorgere la rete sottile del ragno
tessuta alle sue spalle, mentre la rabbia per il rifiuto che credeva lontano
miglia prendeva su di lui il sopravvento. – I tuoi complimenti mi commuovono. –
smielata, Adrien si portò una mano sul cuore nell’essere etichettata con quei
termini garbati, conscia del fatto che chi aveva assistito al suo spettacolo
quella mattina li stesse guardando. Duff aggrottò le sopracciglia, sempre più
tentato di strozzare quell’angelo: era bella da star male. – Ma io non ho mai
detto che sarei venuta quella festa. -.
Patetico.
Quasi non s’era accorto che s’erano spostati verso la fine del corridoio, tanto
era impegnato a cercare di mantenere intatto il suo orgoglio di maschio. O a
fingere di non sbavare dietro alle sue gonne come tutti gli altri. – Hai un
sacco di qualità nascoste, sai? Oltre ad essere troia, sei anche stronza. –
optando per la tecnica dell’insulto facile, stava smascherando con assurda
facilità le delusione per essere stato rifiutato.
Prendendo in mano una delle penne nel contenitore fissato il muro, Adrien
distolse lo sguardo annoiato dal ragazzo per portarlo sulla lista delle materie
opzionali che avrebbero potuto frequentare. – Offendermi non servirà a farti
sentire più virile, Duff. E nemmeno a
farti entrare nelle mie mutande, o in quelle di Babette. Davvero ti sei
inventato un nome da dire ai tuoi amici? – replicò, scrivendo il proprio nome i grafia obliqua sotto le tre materie designate. Si
trattenne dallo sbuffare sonoramente nel notare che anche Duff aveva afferrato
una penna, ma invece di guardare le liste fissava lei con ira, limitandosi a
scrivere il proprio nome dove la ragazza era passata. – Smettila di sparare
balle, e tiratela di meno. Non sei nulla di speciale, sei soltanto una stronza
che gioca a fare la superiore. – non fu in grado di fermarsi davanti a quel
tentativo di difendersi del ragazzo, scoppiando in una risata tintinnante,
beffarda. Se credeva di scalfirla con quei ridicoli insulti, s’era sbagliato di
grosso. Era solo il primo giorno di scuola, e Duff non aveva la più pallida
idea di stesse per sbattere. In realtà, nessuno dei due lo sapeva. – La tua
ragazza si sta chiedendo cosa stai facendo, e io se fossi in te non la farei
aspettare. Io ho modi migliori per
sprecare il mio tempo. – e con ciò lo lasciò lì, disarmato, per scappare al
piano inferiore dove, in uno sgabuzzino, Robin la stava aspettando.
-
Buongiorno, scolaretti, avete dato un bacio alla maestra da parte nostra? – era
incredibile come non potesse soffocare le sue manie di esibizionismo anche
soltanto per prenderli in giro. Axl ed Izzy, ignorando i richiami che il
personale della scuola aveva avanzato loro gli anni precedenti, li guardavano
marciare verso di loro: il rosso non aveva perso l’occasione di scoccare
un’occhiata ardente alla professoressa Keenan, che disgustata aveva accelerato
il passo. Non era la prima volta che qualcuno degli amici di McKagan e
compagnia le faceva commenti rozzi, costringendola a ripetersi che
l’indifferenza era l’arma migliore. – Cosa sono quelle facce? – chiese Izzy
agli amici in arrivo, più discreto del ragazzo al suo fianco: aveva notato le
espressioni sconvolte degli altri tre, ed era pronto ad usarle a proprio
vantaggio. – Due ore! Due ore di discorso sul corretto comportamento da
mantenere in classe! Williams si è bevuto il cervello! – esclamò Slash
riemergendo dal coma in cui era sprofondato sul discorso pomeridiano del
preside, dando sfogo al proprio stupore. Le risate dei due ragazzi che non
frequentavano la Renton non si fecero attendere mentre il cortile si riempiva
di studenti che s’affrettavano a tornare a casa. – Ridete,
stronzi, ridete! Dove sono le ragazze? Oh, fanculo! – persino Steven, che
solitamente prendeva con gioia infantile qualsiasi cosa la vita gli donasse,
sembrava stremato da quel primo pomeriggio. – Che cazzo di materie hai scelto
per domani? – dopo che i tre ebbero tappato la bocca ad Axl ed Izzy e le prese
in giro furono cessate, Steven ebbe una delle sue solite illuminazioni
improvvise. Voltatosi insieme a Slash per interrogare Duff, assunse
un’espressione che in condizioni normali sarebbe stata ridicola.
-
Ah… emh… - la testa di Duff infatti non era del tutto
sintonizzata sulla sequela di derisioni da parte di Axl ed Izzy, che avendo
tranquillamente finito il liceo si divertivano a tormentarli. Quella spiazzante
domanda lo lasciò a bocca aperto non tanto per la difficoltà, che era minima,
quanto per l’assenza di una risposta. – Io… - non se lo ricordava: nonostante
avesse dato un’occhiata alle proprie scelte, qualcuno insidiatosi nei suoi
pensieri gliele aveva fatte scordare. Come del resto aveva avvelenato il resto
della sua giornata lasciando che il filo conduttore di ogni discorso si
perdesse nella rabbia che ancora ribolliva. – Ah, sì, Duff era troppo occupato
per potersene ricordare! Sapete chi abbiamo incontrato? – sghignazzò Slash, che
lanciava frecciatine di quel tipo dopo la pubblica umiliazione di Duff da parte
di una rossa di loro conoscenza. Forse Steven era stato ostacolato dalle
risposte secche e pratiche della sua nuova vicina di banco nell’aula della
professoressa Pitterman, ma dopo aver estorto all’amico ossigenato poche
informazioni non aveva impiegato molto a fare due più due. – Zitto, caprone. –
gli intimò Duff, guardandosi attorno fingendo di controllare che nessuno
sentisse, alla ricerca in realtà della persona di cui stava parlando l’amico.
Prima però che Slash facesse in tempo a soddisfare la curiosità dei loro due
amici, il cuore di Duff perse un battito: qualcosa d’indefinito, di veloce e di
pericoloso gli era passato in fianco senza tranciargli il braccio per un pelo.
–
Ehilà! – era di Axl la voce che aveva appena parlato, un misto di sorpresa e
del tono stesso che aveva usato con la professoressa Keenan
qualche minuto prima. Lunghe gambe fasciate da calze nere strappate
avvolgevano la moto nera che aveva quasi investito Duff, ora ferma davanti al
cancello in attesa di passare oltre la folla di studenti che bloccava il
passaggio. Duff strinse i denti, senza degnarsi di controllare la reazione
degli amici quando il nome “Babette” pronunciato dalla voce di Slash si
dissolse nell’aria. Dalla visiera del casco nero, un paio di occhi grigi
s’erano voltati a fissarlo divertiti dallo spavento che il ragazzo aveva appena
preso, al passaggio di Adrien. – Ehi, tesoro! – mentre la risata fragorosa di
Izzy s’univa alla polvere sollevata dal veicolo, il richiamo di Axl verso la
ragazza che come un’amazzone accelerò verso le strade della metropoli destò un
altro po’ dell’amaro sapore nella bocca di Duff. Non riuscì a fare a meno di
trovarla sempre più odiosa, nei ricordi dell’umiliazione di quell’estate e di
quella mattina. Ed era pure fottutamente bella.
“ Some claim to have the fortitude
to
shrewd to blow the interlude
sustaining
pain to set a mood
step
out to be renewed. ”
(Red Hot Chili Peppers – Tell me baby)
Sono
di corsa! Chiudo il capitolo con la mia personale opinione su quest’ultimo,
negativa come sempre, e passo direttamente alla risposta alle recensioni!
AmyHale:
so che probabilmente sei bloccata tra i parenti e che leggerai più tardi questo
capitolo, ma ti prego, criticami in maniera spietata! Non so perché, ma ho
l’impressione di essere stata particolarmente patetica (vocabolo del giorno)
nello scrivere il numero tre! E tu che ti aspettavi tanto! L Mi spiace!
aivlis8822: sì anch’io la odio u.u
ma è un personaggio su cui si può scrivere di tutto e che si può vedere da
diverse angolazioni! Niven, l’odiato padrino di Adrien: ho aggiunto questo
particolare all’ultimo momento perché in questa storia vorrei parlare di più
della carriera dei Guns, ma non so se ci riuscirò… no, non hai problemi
d’immaginazione, anzi! Le foto sono soltanto un modo per farvi capire come vedo
io i miei personaggi, ma è bello che voi li immaginiate in maniera diversa! Li caratterizzate ;)
Sylvie
Denbrough: Naomi e Cook! A me piacciono un sacco, soprattutto la prima, e
ovviamente adoro Skins ;) mi piace da un lato questo
tuo paragone con Maxie ed Axl, anche se non vorrei cadere nel banale e magari
plagiare la coppia: se succede, fammelo sapere subito così mi fustigo (ahah scherzo!). Sono contenta che ti sia piaciuto l’ultimo
capitolo, spero che questo sia all’altezza anche se ho
qualche dubbio. Ti ringrazio anche dei complimenti sui miei gusti musicali,
cerco sempre di ascoltare di tutto J spero di saperti suggerire bene!
IoMe: te l’ho già detto a scuola, ma lo ripeto anche qui perché è
d’obbligo… come chi è Michael?! Oltre al fatto che c’è
scritto che parlano del ragazzo incontrato da Adrien quella mattina, bastava
fare il collegamento xD comunque, spero che questo
capitolo non sia confuso come il precedente, mi è dispiaciuto tanto L recensisci, schiava!
_LittleAxl_:
oh, qualcuno che capisce la mia necessità di stare incollata al computer per
vederci! xD No, dai, non
sono così disperata, occhiali e lenti a contatto sono utili perché altrimenti
non vedrei davvero nulla! Fare un libro? xD
Oltre al fatto che non credo sarei all’altezza, non so se si possa pubblicare
un libro sui Guns N’Roses… potrebbero non prenderla bene xDahahaha
and I can't help myself, all I wanna hear her say is "are you mine"? ”
(Arctic Monkeys - R U Mine)
-
Hai fatto amicizia, allora? – era una chiara provocazione: il sorrisetto
malizioso sul volto della donna ne era prova, mentre quella consapevolezza
irritava di poco la ragazza. Adrien posò il bicchiere vuoto sul tavolino di
cristallo del soggiorno, facendo schioccar le labbra senza apparentemente
essere scalfita da quella domanda. – Non sono interessata. E… - affermò, per
poi alzare l’indice in aria ad interrompere Robin, che già era pronta a
ripartire all’attacco con un ghigno beffardo sempre più ampio sul bel viso. –
Non è perché sono un’associale, come dici tu. Vedo altre persone fuori dalla
scuola e non è necessario essere gentili ed amichevoli con ogni straccione
s’incontri. – alla risatina che seguì quella breve spiegazione, Adrien alzò gli
occhi al soffitto, premendo forte il mozzicone di sigaretta nel posacenere. Era
da un mese che sopportava le frecciatine della donna sulla solitudine di cui
s’era circondata a scuola, fatta eccezione per i momenti rubati in un bagno o
in uno sgabuzzino nei quali loro due riuscivano a
scambiare sì e no due parole. Era inimmaginabile pensare che una persona come
lei fosse del tutto priva di amici, quando la dependance era sempre affollata
di vecchi compagni di scuola o, per la maggior parte, sconosciuti incontrati
per caso. Meredith poi la chiamava spesso per organizzare un bramato viaggetto
per le vacanze di Natale. Il fatto che semplicemente deviasse il contatto con
gli altri studenti della Renton era però, inspiegabilmente per Adrien, motivo
d’ilarità della sua professoressa di lettere.
-
E tu, hai fatto amicizia? – la punzecchiò vendicativa, osservandola mentre
aspirava lentamente il fumo della sigaretta: sapeva di coglierla di sorpresa,
soprattutto perché l’aveva sorpresa a fissare ancora una volta la porta della
dependance. Era preoccupata che qualcuno, poco importava chi, potesse entrare e
scoprire così l’incontro clandestino che per la prima volta s’era tenuta a casa
della ragazza: era troppo impegnata per parlare del suo nuovo amichetto. – Calvin…
è carino, ha una bella macchina sportiva… ma, ehi! Io sono sposata! – era una
scusa che, dopo i numerosi precedenti amanti che andavano a contaminare la
fedina coniugale di Robin, non reggeva più. Stavolta fu Adrien a sorridere
davanti all’espressione rilassata che cercava di nascondere i sensi di colpa
della donna: le aveva sentito dire quella frase anche poco prima che venisse
scoperta la relazione con il vicepreside della loro ex scuola. – Senti,
continuo a pensare che non sia sicuro per te vederci qui… - certo, da come
parlava con quell’insopportabile tono ansioso sembrava che le amanti fossero
loro. Adrien se ne stava distesa sul comodo divano di pelle, personificando la
calma più totale, mentre Robin rimaneva rigidamente seduta sulla poltrona di
fronte a sorseggiare il cocktail che la ragazza aveva sapientemente preparato.
– Non entrerà nessuno – ribatté, sbuffando: in realtà, il resto della famiglia
era via per una breve vacanza a Maiorca, come regalo dei quindici anni di
Annalou. Ma la ragazza s’era guardata bene dal rivelarlo alla donna.
-
E poi, io sto qui e tu dovresti fare i compiti che ti ho assegnato:voglio vedere quella ricerca lunedì sulla mia cattedra… -
aggiunse la professoressa, con un cipiglio severo poco convincente: Adrien non
rispose, continuando a sorridere mantenendo la stessa espressione impassibile
di chi la sa realmente lunga. I suoi voti a scuola, per quel primo mese,
stazionavano sulla C meno, e lei se ne sentiva soddisfatta. Era uno dei tanti
vantaggi dell’avere un cognome importante ed una storia commovente alle spalle,
il fatto che gli insegnanti fossero talmente terrorizzati da lei da non
scendere mai a darle un’insufficienza. E le montagne di soldi che aveva in
svariati conti non guastavano mai. – Smettila. Li farò domani, domani è domenica, no? – biascicò, tanto per porre fine a
quell’assurdo teatrino quando entrambe sapevano che quei compiti non sarebbero
arrivati, considerati dall’allieva un totale spreco di tempo. – Stasera, non
posso. Do una festa, ci sono un paio di ragazzi che ho conosciuto al bar… e tu
sei invitata. – alle numerose battaglie perse di quell’assurda coppia di
amiche, andavano ad aggiungersi i continui inviti di Adrien a festini e
concerti, bellamente ignorati da Robin. Una questione di dignità che la ragazza
associava in segreto ad una paura folle di essere scoperta ancora in
“atteggiamenti poco consoni ad una figura del suo calibro”. – Esco a cena con
Josh, fuori Los Angeles… e non mi guardare con quella faccia! – sbottò,
dimentica per un attimo del ruolo di insegnate esigente e persona responsabile
per pochi attimi: aveva capito che Adrien sapeva già cosa avrebbe risposto
all’invito, e che la ragazza aveva insistito soltanto per punzecchiarla.
Sospirò, prima che tutto tornasse alla normalità: frequentare quella ragazza
stava diventando una sfida oltre l’impossibile.
-
Mi stai ascoltando? – la risposta era ovviamente no: anche se l’amica non
avesse individuato la direzione verso cui puntava il suo sguardo, il suo
terribile tentativo di nascondere la sorpresa l’avrebbe smascherato comunque. –
Oh, sì, una cosa fantastica! Forte! – Duff intuì subito dalla faccia di Maxie
di aver sbagliato completamente le parole, affrettandosi così a fingere
d’essere molto interessato ad una curiosa macchia di ruggine sul corrimano
della ringhiera. L’allegro ciarlare degli studenti che si godevano gli ultimi
minuti di pausa pranzo nel largo parco dietro la scuola impedì che l’atmosfera
tra loro diventasse improvvisamente gelida. – Ti ho chiesto se sia dov’è andata
Michelle... – lo informò stizzita la ragazza, fulminandolo mentalmente
un’ultima volta prima di spostare l’attenzione suo
malgrado sull’oggetto della distrazione dell’amico. – Siete così disgustosi,
voi maschi. – non era la prima volta che Duff si sorbiva uno dei discorsi
contro il femministi di Maxie, i quali si ripetevano
costantemente nel tentativo vano di demoralizzarli. Ma detto in quel contesto,
quando entrambi occhieggiavano con particolare attenzione la scena che si
presentava davanti ai loro occhi, il significato che assunse fu diverso. Duff
deglutì senza però proferir parola, timoroso
d’incappare nell’ennesima figura di merda che sarebbe senza dubbio servita
soltanto a rimarcare quel suo enorme fastidio nei confronti di tutti ciò che
riguardasse Adrien Miller. Quella sua passabile imitazione d’indifferenza non
aveva retto sin dal primo giorno di scuola.
I
due ragazzi osservarono da lontano il motivo delle loro mute discussioni,
nascosto all’ombra di un grande albero in un punto del parco vicino al
cancello. Il ragazzo con cui Adrien parlava, pelato nel giusto stile skinhead,
si guardò attorno per assicurarsi di non essere spiato da alcun insegnante
prima di estrarre dalla tasca dei pantaloni un blister dai dubbi contenuti: il
sorriso della ragazza fu visibile da metri e metri di distanza non appena ricevette
in mano il suo acquisto. Un grosso fascio di banconote sparì con noncuranza nei
meandri delle tasche dell’energumeno, e con altrettanta rapidità Adrien fece
scivolare le pasticche nella borsa. Duff digrignò i denti silenzioso, prima di
voltarsi per sedersi con finta allegri sulla
ringhiera, frugando nella propria borsa per cercare un pacchetto di sigarette
per cui nessuno gli avrebbe detto nulla. Maxie allungò la mano, ben sapendo che
ci sarebbe stata della sana nicotina anche per lei: teoricamente agli studenti
era vietato fumare, ma ogni professore chiudeva un occhio per poter soddisfare il
vizietto insieme agli alunni. A nessuno importava della salute di nessuno. –
Allora, dove hai detto che è andata Michelle? – nel tentativo di spostare
l’attenzione generale su un qualsiasi altro argomento, Duff si dimenticò del
precedente discorso, guadagnandosi di nuovo l’incomprensione dell’amica.
Ignorando l’irritazione negli occhi azzurri di Maxie, prese una grossa boccata
di fumo strizzando gli occhi quando un raggio di sole spuntò fra le fronde
degli alberi colpendolo in pieno viso. Il trucco non stava nel saper fingere
gelo nei confronti della troia, bastava ostentare anche solo una parvenza
d’indifferenza: gli altri lo avrebbero lasciato stare.
-
Ohi, dov’è Michelle? – la scomparsa della loro amica sembrava essere diventato
l’argomento del giorno del gruppo: quando la domanda saltò fuori anche
all’arrivo di Slash, appena ripresosi dal sonnellino mattutino con il quale
affrontava le lezioni, i due si limitarono a scrollare le spalle. – Beh, domani
sera suonano poco distante dalla collina di Hollywood,
in un garage di proprietà del vecchi Billy Beeching, sai, quello che ci ha
passato quel grammo di fumo buono… - l’assenza inspiegabile di Michelle non
distoglieva però il chitarrista dai progetti di una serata d’evasione
all’insegna del devasto, o semplicemente di un paio d’ore lontano dal lercio
magazzino. Né, se per questo, proibiva a Duff di dare una sbirciata alle
proprie spalle mentre lentamente la sigaretta raggiungeva il filtro. – Ha
ceduto in affitto la baracca a una cover band dei Ramones, e hanno detto che
girerà un sacco di buona roba… Avete impegni? E’ sicuro, hanno controllato che
gli sbirri non sospettino della zona… - mentre Maxie si mostrava parecchio
interessata all’imminente concerto degli amici di Beeching, il ragazzo
individuò la figura che gli interessava ora seduta sotto lo stesso albero. Una
gamba pendeva giù dal muretto prossimo all’enorme pianta, mentre la schiena e i
capelli rossi erano appoggiati alla corteccia: leggeva un libro di cui Duff non
riusciva a vedere il titolo, e fumava, solitaria. Aveva un’aria talmente
rilassata e strafottente da mandarlo completamente fuori di testa, e il
pensiero della festa non bastava a distrarlo: si rigirò di scatto verso i due
amici, mentendo palesemente sul proprio interessamento.
-
Stev…? – ma Slash non riuscì mai a terminare di pronunciare il nome dell’amico,
anche quello volatilizzatosi tra la marea di studenti. Una voce squillante fece
trasalire i presenti, minacciando di far fare un volo giù dalla ringhiera il
povero Duff, ancora intrappolato nei propri pensieri. – Ve l’avevo detto che
l’avevo già sentita da qualche parte! – nessuno dei tre si rese subito conto
che luce era stata fatta sul mistero di Michelle, ora davanti a loro con un
sorriso che s’allargava man mano che i secondi passavano. Alle sue spalle,
Linda reggeva una pila improbabile di libri sull’argomento di storia di cui
stavano parlando e di cui loro quattro erano, ovviamente, deplorevolmente
ignoranti. – Io l’avevo detto, e alla fine avevo ragione! Perché al contrario
di voi, qualcuno li legge i giornali… - nonostante non avessero mai viso la
ragazza leggere qualcosa tranne che le locandine di qualche film romantico in
arrivo, tutti si concentrarono sull’insieme di fogli stropicciati che quella
reggeva in mano. Era una vecchia edizione di un editoriale locale della
metropoli californiana, qualcosa di cui sia Duff che gli altri ignoravano
completamente l’esistenza. – E quando il nostro topino di biblioteca mi ha
detto che a scuola c’era l’archivio con i vecchi giornali, mi è venuto in
mente! – soddisfatta, indicò un articolo sul fondo della prima pagina. mentre alle sue spalle Linda scaricava il proprio pesante
carico sopra uno dei tavoli di legno, forse perché già al corrente delle
scoperte dell’amica. In ogni caso, tutti i presenti furono sicuramente più
attratti dalle notizie di lei.
“Rampolla
del petrolio scoperta spacciatrice di droga”. Il titolo poteva commentarsi da
solo, mentre coloro che leggevano rimanevano a bocca aperta davanti al nome che
seguiva subito sotto i grossi caratteri neri. – Adrien Miller, sedicenne figli
dell’industriale e magnate dei pozzi petroliferi in Texas James Miller,
deceduto nel 1971 e dell’ex modella svedese Lisette Schneider, è stata
arrestata lo scorso mercoledì dopo essere stata sorpresa nell’atto di spacciare
droghe leggere ad alcune coetanee dell’istituto d’istruzione privata J. F.
Kennedy. La ragazza aveva con se due grammi di hashish ed uno di marjuana. Il
patrigno, il manager delle star Alan Niven, non ha
voluto rispondere alle domande dei giornalisti, e la sua segreteria lo dichiara
irraggiungibile… Beh, c’è un approfondimento sulla famiglia a pagina 13, ma non
sono andata a guardare! Alan Niven, ragazzi… - il cipiglio vittorioso di
Michelle non era niente in confronto allo stupore dei ragazzi. Le nome lettere che formavano il nome di uno dei più
influenti manager dell’industria musicale di Los Angeles erano state musica per
loro sin dai loro primi giorni come gruppo. Ed era il patrigno della stessa
ragazza che se ne stava poco più in là a leggere un libro. – Ecco dove l’avevo
già sentito, cazzo! Vi ricordate quando avevo trovato Niven nel vecchio locale
giù a South Los Angeles? “Avrai l’età di mia figlia Adrien”, cazzo, lo so che
poteva essere una coincidenza ma me lo sentivo! -.
In
realtà, era stata più una questione di fortuna che del fantomatico sesto senso
di Michelle, che circa un anno e mezzo prima era incappata in quello stesso
articolo girovagando per la casa di uno sconosciuto dopo una festa, mezza
drogata. La ragazza non ricordava di certo la lettura a causa dell’effetto
pesante degli stupefacenti, ma un rimasuglio di lucidità aveva fatto in modo
che il nome di Adrien le fosse rimasto impresso nella memoria. – Non stai
scherzando, vero? – Duff s’allungò di scatto per strapparle il giornale dalle
mani, volendo accertarsi di persona che ciò che l’amica aveva appena letto non
fosse altro che un insieme di fandonie. Anche Maxie si sporse verso di lui,
incredula: tutto combaciava pericolosamente su quel pezzetto di carta stampata.
– Cazzo, Alan Niven! Ma chi se lo immaginava… e guarda che dice poi sul padre!
L’avevamo capito che era piena di soldi, ma chi se lo immaginava! Ma che cazzo
ci fa qui? – l’incapacità di Slash di esporre i propri soliloqui a bassa voce
fece tremare i ragazzi, prima che Michelle avesse il buon senso di tappargli
una bocca con la mano. Erano rare le persone determinate come l’amica ad andare
fino in fondo, e nonostante tutti non avessero fatto caso alle sue parole dei
primi giorni di scuola era riuscita a procurare quella preziosa informazione.
Non aveva intenzione di farsi sputtanare da quell’animale. – Alan Niven, vi
rendete conto? – ripeté una volta liberato dalla stretta dell’amica, in un
sussurro, quasi temesse di poter rompere quel momento in mille pezzi: nessuno
aveva più il coraggio di voltarsi verso il grande albero sotto di cui Adrien
Miller ancora leggeva beatamente.
L’unica
con abbastanza coraggio da rompere il silenzio religioso in cui tutti erano
piombati fu Linda, che però non rinunciò alla sua aria di discrezione per quei
futili motivi: un imbarazzato colpo di tosse si sollevo dal punto in cui era
seduta, i libri sparsi sul tavolo. – Che c’è? – chiese Michelle, allarmata
dall’intervento dell’amica che solitamente non respirava nemmeno senza essere
interpellata. Linda, serrando le labbra in maniera minacciosa prima di parlare,
assunse la più ansiosa delle espressioni del suo repertorio. – Steven – era
bastato quel nome a far scattare la sirena della polizia nelle teste di ognuno
di loro: quattro teste si volsero improvvisamente nel punto in cui prima Adrien
Miller leggeva solitaria. La chioma bionda e lanosa del batterista risaltava
nel verde dalle sfumature giallastre del parco stranamente in sintonia col
paesaggio: sembrava di stare osservando una grossa pecora. – Oh. – quello fu
l’unico commento di Maxie mentre tutti trattenevano il respiro, quasi davanti
ad uno di quei film dell’orrore che davano al cinema. Steven Adler s’era
avvicinato pericolosamente, spuntato fuori da chissà quale buco nero nel quale
era sprofondato a fumarsi la canna dell’una, alla loro preda. Quest’ultima,
oltre ad aver ostentato una grande irritazione nei confronti di ogni essere
umano osasse cercare di elevarsi alla sua altezza, aveva dimostrato quanto il
ragazzo potesse trasformarsi da adorabile compagno di banco a numero uno nelle
liste dei maggiori serial killer. – Siamo fottuti. -.
Quello
che però non osavano immaginare i cinque personaggi che osservavano la scena in
quel momento, era l’incredibile divertimento che Adrien trovava nel buffo
personaggio che era Steven. – Ciao, figa di legno. – la salutò candido quanto
un bambino cresciuto a parolacce, guardandola dall’alto prima di sedersi al suo
fianco. Adrien alzò svogliatamente lo sguardo dalla lettura affascinante in cui
s’era persa, posando gli occhi grigi sul ragazzo prima di sorridere, enigmatica
come sempre. – Ciao, Steven. – era curioso come quel bambino troppo cresciuto
si rivolgesse a lei con quegli epiteti che avrebbero fatto arrabbiare qualsiasi
altra ragazza. Piegando l’angolo della pagina dove era arrivata come
segnalibro, Adrien chiuse il volume per potersi dedicare all’elaborazione di
una serie di risposte auliche che Steven non avrebbe capito, in attesa. Il
ragazzo la guardava con un sorriso divertito impresso sul viso infantile,
sapendo di avere su di sé gli sguardi di quegli sfigati dei suoi amici, in
particolare di uno. – Che robaccia è? – domandò, sporgendosi poi per leggere
perplesso il titolo del libro che la ragazza stringeva fra le dita. Di lì a
poca la campanella avrebbe richiamato gli studenti alle lezioni supplementari,
dove i due compagni di banco sarebbero stati divisi per recarsi l’una a
fotografia, con Duff che per caso
s’era iscritto alla stessa materia, l’altro a giornalismo dove in realtà
cazzeggiava alla grande.
-
Lolita, Nabokov – rispose, il tono di voce di chi la sa lunga, prima di
ricacciare alla svelta il libro nella borsa di pelle: non aveva intenzione di
rinunciare all’atteggiamento impassibile che sempre portava con sé, nemmeno con
un adorabile bambino come Steven. Il ragazzo, per di più, la fissava come se
gli avesse appena confessato un terribile reato, lo sguardo spento al nome
dell’autore che doveva aver confuso per qualche tipo di stupefacente. In
lontananza, lo squillo stridulo della campanella richiamò tutti gli studenti
alle lezioni pomeridiani, fra gli sbuffi generali: Adrien chiese placidamente
gli occhi, godendosi il calore del raggi del sole,
prima di alzarsi rassegnata ad un altro pomeriggio di mediocrità. Il volto di
Steven non esprimeva nient’altro che amarezza pura. – Senti, non ho problemi a
lasciarti qui. – alzando gli occhi al cielo nel capire che la pigrizia del
ragazzo avrebbe solo rallentato la marcia verso la fine di quello che per lei
era un supplizio, girò sui tacchi incamminandosi verso la scuola. Subito udì
dei passi seguirla, senza però farci troppo caso: i suoi occhi s’erano posato
su un gruppo di persone seduti dall’altra parte del viale interrato d’uscita
dalla scuola. Era ovvio che l’allegra scenetta tra lei e il suo compagno di
banco riscuoteva pubblico. – Aspettami,
stronza! – il bello di Steven era che tutti quegli insulti erano pronunciati
con la stessa innocenza di un bimbo che chiede una caramella. Probabilmente era
talmente abituato a quelle parole da non capirne nemmeno il significato.
-
Senti, domani sera… - la ragazza passò davanti al gruppetto che costituiva il
loro pubblico senza degnarli di un’occhiata prima di essere raggiunta da
Steven, trafelato. Anni e anni di sigarette non dovevano aver fatto troppo bene
ai polmoni del ragazzo, che dopo appena qualche metro aveva già il fiatone. –
Domani sera c’è una festa nei pressi della collina di Hollywood. Un paio di
persone che suonano, roba sul punk, e ti giuro che ci trovi di tutto… sarà
figo. Vieni? Il posto è un garage dalle parti dei vecchi depositi, quelli che
adesso stanno buttando già… - le parole erano spezzate dal suo respirare
affannoso, ma il suo viso paffuto era piuttosto speranzoso. Continuando a
camminare abbastanza velocemente perché il ragazzo continuasse a stancarsi,
Adrien si volse a lanciargli un’occhiata univoca. – No. – fu la risposta secca,
quasi spietata, mentre i meccanismi nella sua testa già si mettevano in moto
pronti all’azione. La nuca iniziava a pizzicarle per gli sguardi delle persone
che sentiva su di sé, una dolce sensazione di sicurezza iniziò ad invaderla:
era corta la distanza che ormai li divideva dall’entrata sul retro della scuola.
– Avanti, perché no? – insistette Steven, nonostante fosse ben consapevole di
non essere più ascoltato. Quel suo ottimismo esagerato lo spingeva ad essere
testardo oltre i limiti, nei suoi occhi ancora c’era qualche residuo di
speranza in un sì da parte della ragazza. – Non credo ci sarò. Ho altri
impegni. – rimanere nel vago, lasciare che una persona si crogiolasse di fronte
alle varie possibilità che il beneficio del dubbio concedeva era però una delle
specialità di Adrien, mentre sul viso angelico si delineava un sorriso
impercettibile che il ragazzo non notò.
-
Beh, allora ci vediamo là! – come se neanche avesse sentito le sue risposte
negative, una volta arrivati dentro Steven la salutò
allegramente, prima di dirigersi verso le scale insieme al resto degli studenti
del suo corso. Non ci volle molto prima che il resto della banda tornasse alla
scuola, facendo ovviamente finta di non aver minimamente spiato quei pochi
secondi in cui aveva liquidato il tentativo di Steven d’invitarla ad un festino
coi fiocchi. Anche la testa ossigenata le passò davanti senza guardarla,
immerso fino al collo in quel giochetto che durava dal primo giorno di scuola,
quell’ignorarsi con odio che sprizzava da tutti i pori. Non riuscì a reprimere
un ghigno mentre, tranquilla come se l’idea che le stava balenando in testa in
quel momento non esistesse, prendeva posto ad uno degli alti sgabelli dei
tavoli nell’aula di fotografia. La professoressa era una di quelle novelline
appena uscite dall’università, precarie, che balbettava ed arrossiva anche solo
per fare l’appello degli studenti. Un po’ come quella Linda, quella secchiona
che trotterellava dietro come un cagnolino alla lesbica e quella’altra ragazza
sempre appresso a Duff, Michelle. La tipica insegnate facile da eludere: troppo
distratta per seguire spiegazione sulle basi della fotografia, Adrien spostò lo
sguardo sulla lunga figura del ragazzo biondo, seduto a pochi posti più in là
insieme a qualche balordo della loro classe. Lo sapeva lei, che lui era
completamente partito: si vedeva lontano un miglio da come la fissava di
nascosto, dalle battutacce con cui se ne usciva davanti ai suoi amici. Ma
presto si sarebbero divertiti tutti e due: era una questione di principio che
Adrien, con la tempra di una vincitrice nata, voleva portare fino in fondo. Non
avrebbe mollato la presa sul quel ragazzino così facilmente.
-
Ma lo capisci, cazzo? La figliastra di Alan Niven! –
la sala da biliardo era intasata di fumo: il grigiore si accumulava sul
soffitto, dove nella luce tremolante delle lampade formava una nebbia di
catrame. Era almeno mezz’ora che Slash ripeteva sempre la stessa frase, con
rabbia che andava man mano aumentando, sventolando sotto il naso dell’amico il
giornale rubato ad un’offesissima Michelle. L’irritazione crescente era dovuta
per lo più alla testardaggine che il giocatore mostrava davanti alle sue
notizie fresche, rispondendo cinicamente ogni volta che le chiacchiere del
chitarrista gli facevano perdere una palla. – Ho capito,
cazzo! Smettila di fare il coglione, ho bisogno di concentrarmi… - già Axl non
era un abile giocatore di biliardo, se poi ci si metteva anche Slash con i suoi
strilli acuto e il suo cazzo di giornale, allora poteva anche ritirarsi e
concedere la vittoria a quello sbandato di Izzy. – Se ti fermassi un attimo a
riflettere su ciò che Slash ti sta dicendo, forse non saresti così incazzoso! –
si levò una voce dall’angolo degli sniffatori di tabacco, probabilmente di
Steven che, dopo aver saputo le informazioni fornite dalla loro amica, s’era
dimostrato su di giri quanto il chitarrista. La palla rossa andò in buca
diritta, quasi violenta, toccando elegantemente le sponde del tavolo in una
manovra da maestro: Axl sospirò, prima di passare il gommino sulla punta della
stecca, mentre il suo avversario si scostava dal piano. Il cantante non avrebbe
mai ammesso che lui, principiante, era sul punto di perdere clamorosamente
contro l’esperto giocatore che era Izzy nonostante le evidenze. A quel punto
però, faceva molto affidamento sui suoi amati colpi di fortuna.
-
Non abbiamo bisogno di scoparci una fottutissima fighetta per sfondare, okay?
Ci abbiamo già provato con Michelle, quella volta che avevamo scoperto che
Niven era suo cliente! – disse esasperato, interrompendo l’ennesima
esclamazione di Slash e colpendo con inaspettata precisione la palla bianca sul
tavolo. Ovviamente, non ne ricavò nemmeno un punto nonostante il colpo da
maestro. – Senti, stai davvero mettendo a confronto una spogliarellista
minorenne qualsiasi e sua figlia? – stavolta era stato Duff, inaspettatamente,
a parlare, quando era rimasto zitto per la maggior parte della discussione in
un angolo a fumare, alzandosi ogni tanto per raggiungere Steven e il suo
tabacco. Axl si rialzò stiracchiando i muscoli indolenziti per l’immobilità a
cui si costringeva nel colpire le palle, sbuffando alle parole degli amici: chi
aveva bisogno dell’aiuto della bambola rossa? Sarebbe morto prima di chiedere a
qualcun altro una mano per raggiungere il successo che già avevano in tasca:
era già stato penoso venire a sapere, qualche anno prima, che Michelle aveva
tentato di adescare Niven ricavando semplicemente qualche commentino stizzito.
– Forse tu non riesci a ficcartelo in quel cervellino che ti ritrovi, ma questa
è un’occasione d’oro! – le parole degli amici gli entravano da un orecchio ed
uscivano dall’altro senza sfiorarlo minimante. Alzò lo sguardo sull’amico Izzy,
che aveva appena mandato l’ennesima palla in buca: questo gli restituì
un’occhiata divertita, come se quella situazione fosse soltanto un buffo
spettacolino che non lo riguardava minimamente.
-
Ehi, avete detto anche voi che quella è una frigida, con un palo su per il culo
che rende intrattabile, no? – esordì, ponendo fine a quella penosa partita con
la scusa di dover prendere parte più attivamente alla discussione. Slash lo
guardò con amarezza sedersi sul rivestimento verde del tavolo da biliardo,
imbronciato per quel suo comportamento apparentemente menefreghista: avevano
davanti una grande possibilità, dovevano soltanto muovere le pedine giuste.
Tentò di parlare, di sparare qualsiasi cazzata sulla sua esperienza
nell’ammorbidire le donne per ottenere da loro ciò che si vuole, ma la mano
alzata di Axl lo interruppe nuovamente. – E poi, come pensi di farti presentare
a papino? Vai lì, te la scopi, e mettiamo in chiaro che non
te la darà mai, e poi le dici “Senti, ti ricordi della band di cui ti parlava
lo sfigato del mio amico? Facci ottenere un contratto,
in cambio del mio uccello.”? Coglione, quella è una stronza fatta e
finita. – nonostante non avesse mai avuto l’occasione di conoscere di persona
il cinismo sadico di Adrien Miller, sembrava che il rosso elencasse le
caratteristiche della ragazza. Sul viso aveva un’aria d’esperienza
inequivocabile, la stessa di chi è già stato fregato troppe volte. – E
comunque, noi non abbiamo bisogno di aiuto! Abbiamo un fottuto talento, vero
Jeff? Jeff? – com’era prevedibile che Axl cercasse il supporto del suo migliore
amico, un demagogo perfetto che sapeva come trascinare tutti dalla propria
parte. Purtroppo però, Izzy Stradlin era un filoso a rate e mai troppo
affidabile: sembrava infatti essersi volatilizzato dal
punto in cui prima se ne stava tranquillo a cincischiare con la stecca da
biliardo.
-
Zitto, mi sono venuti in mente degli accordi perfetti… - biascicò infatti in risposta alla richiesta di sostegno morale di
Axl, chinò su alcuni fogli bianchi che si portava dietro in caso d’ispirazioni
improvvise come quelle. L’amico sbuffò rumorosamente, cercando di trasmettere
ai quattro il suo disprezzo sia per quello che considerava un tradimento, sia per
l’idea di andare ad elemosinare favori alla Miller: lo sapeva, tanto, che il
pensiero non andava a genio a nessuno più di tanto. – Non si può proprio
parlare con te… - dopo qualche secondo di sfida silenziosa, Slash gettò il
vecchio giornale, che la biblioteca della scuola non avrebbe più visto, nel
punto in cui stava seduto Duff per poi buttarsi su uno dei divani consunti
della saletta privata di quello squallido pub. Per qualche attimo l’unico
rumore che tutti quanti udirono fu il risucchio molesto del naso di Steven. –
Che sfigati. Ce l’avete su con quella soltanto perché non la da
a nessuno, io al posto vostro la lascerei perdere… - ovviamente però Axl
non poteva reprimere una battuta di pura cattiveria sull’argomento, la smania
di mettersi in mostra troppo forte. Un sorriso furbo si delineo fra i suoi
tratti delicati, mentre si distendeva completamente tra le palle da biliardo
ancora sul piano verde. Slash imprecò, per poi aggiungere qualcosa che nessuno riuscì
a tradurre in una lingua comprensibile. Nessuno dei cinque e degli altri
balordi presenti si accorse dei passi leggeri che scesero le scale che
portavano alla sala poco dopo.
-
Emh, Duff? – la vocina flebile di Linda era l’ultima che il ragazzo si aspettava
di sentire, con la mente completamente concentrata su ben altri pensieri. Sulla
soglia del seminterrato buio, la figura esile della ragazza si affacciava
timidamente con i sempiterni libroni stretti al petto, quasi non fosse tornata
a casa a respirare dopo la scuola. Fra le risatine degli uomini alla vista della ragazza fresca ed imbarazzata, Slash e Duff
si alzarono per raggiungerla, sorpresi che lei conoscesse l’ubicazione di un
postaccio del genere. – Vi… vi ho portato i compiti, quelli che mi avevate
chiesto di fare… ho cambiato qualcosa ma… - il rossore sulle sue guance era
adorabile, i compiti scritti in bella grafia su foglie puliti
ancora di più: i ragazzi la abbracciarono d’impeto, ricoprendola di
ringraziamenti vagamente ruffiani, facendola scappare balbettante. Quella
ragazza non avrebbe mai superato quell’insensata timidezza che la bloccava da
sempre. – Ecco, Duffy, ripiega su quella! Secondo me sarebbe felice di una sana
scopata, forse le farebbe pure bene! – uno scroscio di risate seguì
l’affermazione di Izzy, il quale lo chiamò persino con quello stupido nomignolo
da omosessuale per puro gusto di mandarlo su tutte le furie. Non aveva neanche
mai contemplato l’idea di violare la virtù della piccola Linda, troppo
innocente ai suoi occhi anche solo per formularci pensieri sopra… e poi, non
era assolutamente nulla in confronto a quella stronza, bella da morire.
-
Ma ti pare! Senti, dopo torniamo a quel buco dove viviamo… ho voglia di provare
qualcosa, altrimenti mi dimentico come cazzo si fa a suonare! – fu però Slash a
rispondere per lui, apparentemente rinvigorito dalla discussione con l’amico,
forse per la certezza di avere qualcosa da presentare ai professori domani. A
dispetto di ciò che aveva appena detto, si ributtò sul divano occupando tutto
lo spazio disponibile, iniziando a sparare una serie di battute di pessima
qualità che attirarono le risate dei presenti più per la loro pateticità che
per altro. Duff rimase in piedi sullo stipite del seminterrato adibito a sala
da biliardo, cercando fra le giacche degli amici un pacchetto di sigarette per
poi rubare una di quest’ultime al rifornito Izzy. Forse quello lo colse pure
sul fatto, ma doveva essere troppo concentrato su un paio di note
brillanti uscite da quella sua mente da pensatore per insultarlo. –
Ordino un paio di birre per tutti… ma offrite voi, cazzo, io sono a secco… -
Steven, riemerso dall’angolo in cui s’era rintanato a tentare di sballarsi con
le schifezze che era riuscito a rimediare, si diresse improvvisamente verso il
piano superiore, probabilmente per tornare dalla graziosa barista a farle la
corte. Duff arricciò il naso al solo pensiero: anche quella aveva i capelli
tinti di un rosso sgargiante. Forse fu proprio perché la sua testa era stata
sintonizzata sul canale Miller per tutta la giornata che il suo sguardo cadde
sul vecchio giornale, scivolato a terra dopo che Slash lo aveva abbandonato al
suo destino. La curiosità era irrefrenabile e la noia che lo minacciava se
avesse deciso di rimanere immobile a far niente era un’ottima scusa per
riprendere in mano quei fogli consunti al posto della ricerca di Linda.
E
non tornarono al magazzino per il resto della nottata: la birra, insieme alle
persone sconosciute che iniziarono ad affollare la bettola dopo poco, scese a
fiumi per le loro gole avide. I fogli dell’ultimo colpo di genio di Izzy
Stradlin finirono dimenticati sotto il tavolo da biliardo, una grossa impronta
di scarpone incisa sulla carta bianca. Sopra invece il piano di gioco, Steven
s’improvviso cantante per l’ilarità dei presenti, dopo che un paio di pinte di
liquido ambrato ebbero rimarcato perché il suo ruolo nella band fosse quello
del batterista. E le parole stampate sulle pagine giallastre di quel vecchio
giornale vennero assorbite dal cervello annaffiato di alcol di Duff come da una
spugna: quella piccola porzione di verità di cui nessuno s’era curato sembrava
così assurda sotto l’effetto di quelle magiche pozioni. – La città del paradiso
un cazzo… - non seppe nemmeno come si ritrovò abbracciato ad un più che brillo
Slash, che dopo aver tessuto le lodi del Jack Daniel’s
mormorava frasi sconnesse di dubbio senso. – Qui le ragazze o sono delle troie
represse e snob, o sono delle secchione del cazzo come quella Lindsay… o come
si chiama, o sono sfigate come la mia Micha che non ha fatto male a nessuno e
si ritrova con una vita di merda… oppure, sono infigate, come Maxie. – e in
quei tremendi postumi di sbronza fu impossibile non scorgere un filo di verità.
“ Drugs are good,
they
let you do things that you know you not should
and when
you do ‘em people think that you’re cool. ”
(NOFX – Drugs are
good)
Okay,
capitolo della serie “niente di che”, mi serviva per fare un po’ di mente
locale prima del bang, del colpo di scena… meglio che smetta di parlare prima
di spiattellare qualche particolare rilevante! Più che altro, la mia tastiera
sta dando di matto: gli errori di battitura saranno considerato
molto normali, e purtroppo la mia pignoleria è sconfitta dalla necessità
di scappare a finire i compiti di greco! u.u
AmyHale:
no, la canzone non stava! Magari nei prossimi capitoli xD
comunque tu sei proprio troia a lasciarmi in un momento del genere, sono in
panico. Non mi piace questo capitolo, cercherò di rimediare col prossimo, che
sarà sicuramente molto più ricco di sorprese di questo! Non scrivo qui la
storia di Babette, è una piccola parte che si svilupperà nella storia e che
ovviamente non ti dico xD
_LittleAxl_:
sono contenta che ti piaccia la storia, è sempre molto bello ricevere commenti
positivi. Danno la carica, anche se magari sei praticamente cieca ahah! Comunque, magari potrei riscriverla senza i Guns ma
con una band inventata, forse quello potrebbe diventar un libro… ma non sarebbe
più la stessa cosa senza LORO! J
Sylvie
Denbrough: sì, ma si parla sempre di me, di come scrivo, della mia storia e bla, bla, bla!
(E per forza, stai commentando la mia storia -.-“ FAIL) comunque, voglio vedere qualche TUO lavoro! A quel
che dici, abbiamo uno stile simile nella prolissità, ma voglio leggere! Dai,
perché non pubblichi qualche tuo scritto? Comunque, grazie per la recensione
positiva, le apprezzo sempre e non smetterò mai di ripetertelo! J
aivlis8822: lo so! Ho trovato la frase di Pavese per
caso, stavo girovagando su Tumblr (più che altro,
stavo cercando di capire come funzione -.-), l’ho letta e ho detto “è questa!”.
Sì, anch’io la trovo odiosa: qualche giorno fa una mia amica mi ha detto
“povero Duff, sembra un cagnolino”, spero non sia davvero così e che lei stesse
solo esagerando xD del resto però, la storia si
chiama “Naive”, lei deve essere un po’ stronza per far quadrare tutto u.u
IoMe: tuke! Donna! Hai fatto greco? Perché
io no! O.O al massimo c’è l’ora di Cusin :D comunque mi diverto un
sacco a leggere recensioni come l’ultima che mi hai lasciato, dove esponi tutti
i tuoi ragionamenti contorti e compagnia bella! Le tue teorie su come andrà a
finire sono il massimo xD hai visto che l’ho messa,
la figa di legno xD?
Capitolo 5 *** Capitolo 5 - Follow you into the dark ***
Naive
Naive
Capitolo 5 – Follow you into the dark
Run from the one who comes to find you,
wait for the night that comes to hide.
Your eyes black like an animal, black like an animal,
crossing the water, lead them to die.
(Chelsea Wolfe - Feral Love)
La
festa era decollata: il buio avvolgeva le quattro mura di cemento armato nel
suo dolce abbraccio, gli altoparlanti collegati a qualche presa illegale
sputavano a tutto volume la voce del vocalist e l’assolo rude di una chitarra.
L’intreccio di arti e cervelli che sotto quel palco improvvisato era pari
all’effetto di una buona dose di stupefacenti: gli effetti collaterali erano la
vertigine, la paura delle forme che si distorcevano all’interno di quel vortice
di persone. Ah sì, e ovviamente il puro terrore del vuoto non appena si
riusciva ad uscire di lì. E in un angolo remoto, quello più vicino al bancone
organizzato da una serie di loschi individui colmi di boccali imbrattati di
polveri bianche, un’isola di divanetti permetteva a pochi eletti di godersi la
festa lontano dalla marmaglia. Quando cominciò a non capire più nulla di ciò
che accadeva attorno a lui, fra musica, risate, urla e il blu fluorescente
delle luci sul soffitto, Slash seppe di essere pronto per dare inizio al devasto. Quasi sparito fra le pieghe di un divano sporco,
appoggi una guancia ai cuscini per vedere il sorriso idiota di Axl che
ricambiava il vuoto nel suo sguardo. – E comunque, siamo meglio noi! – nessuno
badò al commento acido del cantante. Era uno dei tanti che puntualmente sparava
davanti ad una dimostrazione di bravura da parte della concorrenza.
-
Qualcuno vada a prendere dell’altro Jack! – urlò Steven, superando il forte
rumore della musica ed alzando come prova l’ultima bottiglia vuota del prezioso
whiskey. Nessuno sembrò badarlo, ma tutti sapevano che era in arrivo un
ennesimo rifornimento di alcol dai meandri di quel garage che improvvisamente
sembrava immenso. Quando poi qualcuno avrebbe presentato loro il conto, se la
sarebbero data a gambe, ma per il momento la priorità era distruggere anche
l’ultimo neurone rimasto nelle loro teste. Duff si alzò dal divanetto su cui
era disteso, scrollandosi di dosso una ragazzina che non avrebbe potuto aver
più di sedici anni, decisamente troppo fatto per sperare che l’amico nei
pantaloni potesse dare segni di vita. Si era appena sniffato una striscia di
qualcosa di sconosciuto insieme ad Izzy, e i resti di polverina bianca erano
sparsi sul tavolo già unto di per sé. Beh, non aveva molta importanza,
l’avevano sgraffignata ad un pivello che probabilmente aveva meno peli pubici
di sua madre. – Dov’è finita la borsa di Linda? – il dispiacere vero e proprio
sarebbe arrivato soltanto a sbornia smaltita: aveva promesso all’amica di
badare alle sue cose mentre Michelle la trascinava a ballare in quel casino. Ma
della borsa di cuoio marrone neanche l’ombra: con una scrollata di spalle, il
ragazzo decise che ci avrebbe pensato dopo. Accettò con gratitudine un
bicchiere colmo di liquido ambrato che Izzy gli offrì qualche secondo dopo,
brindando con lui e con uno sconosciuta dal muso da
carlino per un motivo che nessuno seppe decifrare.
-
Guarda chi c’è! – fu impossibile sentire Steven quando per la prima volta gridò
l’avvertimento, con un sorriso strano che distorceva i lineamenti da bambino e
le pupille come spilli. Seguire la direzione del suo dito indice fra la gente
che ballava, invece, fu decisamente più facile: Duff non fu mai in grado di
dire se non l’avesse già vista ma semplicemente non notata. Ma al richiamo
dell’amico, nella sua testa s’accese qualcosa che irruppe al di là delle
barriere che lo sballo della festa aveva eretto nella sua mente. Uno scintillio
di capelli troppo rossi per essere naturale attirò lo sguardo di coloro che
sapevano cosa cercare nella folla. Le luci bluastre riflettevano bagliori
sinistri fra quelle figure che si muovevano a l’unisono:
ci vollero più o meno dieci decimi di secondo perché la ragazza fosse
inghiottita nuovamente dal gorgo, ma l’immagine che si impresse nella sua mente
fu potente. – Chi c’è? – si sentì domandare dalle profondità di uno dei divani,
mentre veloce Axl si rialzava dal torpore delle sostanze stupefacenti che si
era calato insieme agli altri. Le novità non rappresentavano che uno dei tanti
sfizi in una festa già movimentata, e tutti bramavano a non perdersene nemmeno
uno. Duff strabuzzò gli occhi, allungandosi per scorgere ancora il volto
familiare di Adrien, il suo corpo flessuoso avvolto dalla seta blu ballare con
movimenti sinuosi, decisamente più reattivo di prima. Il dito indice di Steven era
ancora sospeso a mezz’aria, ad indicare stavolta un’indaffarata Maxie intenta a
darci dentro con una ragazza dai tratti mascolini.
-
Sarà stata un’allucinazione! – la presa in giro arrivò da Slash, che aveva
tentato come gli altri di trovare la sagoma della rossa fra la folla senza
successo. Il ragazzo assestò una poderosa pacca sulla spalla di Steven, che
dalla sorpresa si rovesciò buona dosa del contenuto del bicchiere sulla maglia
degli Iron Maiden. Sì, doveva essere stata un’allucinazione: nessuno di loro
aveva creduto all’amico quando aveva annunciato di avere invitato Adrien al
concerto, tantomeno c’era qualcuno che credeva che lei sarebbe venuta. – E’
troppo snob quella per noi, amico! – asserì Duff con uno strano tono di voce
che nessuno riuscì a recepire, tra i colpi violenti delle bacchette del
batterista della band sulle casse. Quell’interruzione non significava
assolutamente niente nella loro voglia di distruzione, come ripeteva sempre Axl
nei suoi usuali momenti di megalomania. Eppure quel bagliore, quella persona tanto desiderata era apparsa sul serio, come un fulmine a
ciel sereno, in quel locale ingombro di giovani come loro. Duff si costrinse a
volgere lo sguardo ai suoi amici, deglutendo prima di ributtarsi sui divani a
cercare cosa rimaneva della sua dose. – Ehilà! Che si dice? – come per la borsa
di Linda, tutte le stronzate di quei momenti fuori dal mondo sarebbero pesate
solamente a luci accese: il rimorso per quel cenno maleducato al saluto
caloroso di Michelle sarebbe venuto. Intanto però la ragazza, offesa dal
comportamento del bassista che aveva la testa da tutt’altra parte, si tuffò
senza tanti complimenti fra le braccia di Slash, alla ricerca di una
consolazione in quella relazione complicata che i due si portavano dietro. La
pelle della ragazza, come appurò il chitarrista passando la lingua sul suo
collo da cigno, aveva lo stesso sapore del sesso, dopo che era stata in mezzo a
quel casino a scatenare i propri muscoli a ritmo dei Ramones. Sì, sembrava
proprio un’altra stupenda festicciola come le tante altre che erano passate,
che sarebbero arrivate.
-
Chi è quel bel culetto che sta con Babette? – ma Steven, a cui Duff non aveva
mai voluto bene tanto quanto quei pochi istanti, aveva avuto una maledetta
ragione. Ora che il centro s’era spostato dalla folla di sballati che s’agitava
sotto il palco al bancone improvvisato dove s’erano riforniti, avere chiara la
situazione era facile anche dai divanetti sporchi dove erano stesi loro. E
quell’angelo, accompagnato da una ragazza bruna che non conoscevano, se ne
stava in bella mostrava davanti agli occhi di tutti, che la mangiavano nel
chiedersi chi fosse la bella sconosciuta apparsa per caso. – Cosa? – Michelle avrebbe dovuto essere abituata a quelle manifestazioni di
mania sessuale nei confronti di altre da parte di Slash, eppure riusciva a
prendersela lo stesso. Ma nessuno sarebbe andato a confortarla stavolta, non
quando quella chicca succulenta s’era appena manifestata davanti ai loro occhi.
Duff scattò in piedi, inciampando nel tavoli fra le
risa di scherno di Axl, senza mai perdere di vista Adrien che sembrava non
degnarlo di uno sguardo. Era buio, eppure quella stronza riusciva a brillare
ovunque. Era forse l’anfetamina ad amplificare i suoi sensi, a deformarli,
eppure era sicuro che non fossero soltanto i suoi occhi verdi a trovare la
ragazza ancora più bella di sempre. La gambe lunghe
erano scoperte da un corto vestito di un colore indefinibile da quella
distanza, la guaina del corpetto abbracciava dolcemente il suo petto e i
capelli rossi erano tirati indietro da due invisibili forcine, a scoprire il
viso truccato di nero. E, mentre le parole stampate su un giornale dimenticato
risalivano alla mente veloci, striscianti, Duff non
poté fare a meno di trovarla un’autentica fata della notte. “Io so il tuo
segreto”.
Il
rumore di una nuova lite appena scoppiata fra Slash e Michelle si fece lontano,
mentre il sibilo in un orecchio della voce di Axl assumeva nuovi, inaspettati
significati. – Bella davvero, questa Babette. – qualcosa dal forte calore,
quasi letale, iniziò a ribollire dentro la carne di Duff, nelle profondità del
suo corpo stordito. Il ghigno dell’amico si trasformò improvvisamente in un
viso di bastardo da prendere a ceffoni, solo per quello sgarbato quanto
innocente complimento: lui era l’unico che s’era interessato a scoprire i suoi
segreti, e lei era sua. Esclusivamente sua. – Andiamo. – e fu così che,
sull’esempio della lunga serie di esperienze alla Axl
Rose, prese una decisione del tutto impulsiva che coinvolse il povero Steven,
capitato nei suoi piani per caso quando non desiderava altro che tornare ad una
bottiglia. Fece in tempo a vedere l’occhiata maliziosa che Izzy gli scoccò
prima che questo fosse trascinato via da una splendida mulatta che bramava le
sue attenzioni. Poi i suoi occhi, come se non ci fossero stati abbastanza lampi
improvvisi in quella folle nottata, furono attirati come una calamita da uno
sguardo innevato che lo perforò. Se n’era accorta, la stronza, e aveva pure il
coraggio di ridere fra i baffi ed ignorarlo, in modo che fosse lui a correrle
dietro come un cagnolino: un cenno a Steven, che ancora sembrava non capire,
bastò per dare quella svolta che da quando l’aveva vista tra gli armadietti
pretendeva da sé stesso. “ Io so il tuo segreto”, e di lì a poco anche lei
l’avrebbe scoperto.
-
Avevi detto di essere sicura! – alzò
gli occhi al soffitto in una chiara smorfia esasperata, trattenendo la folle
soddisfazione che era scoppiata in lei nel vedere la reazione della donna.
Robin sbraitava come mai aveva fatto, le gote rosse sotto le luci cupe, bene
attenta a nascondere il proprio viso dietro i capelli cotonati. – Sicura,
cazzo! Io adesso come faccio? – Adrien sorrise appena a quella sua ansia, senza
dare a vedere come si stesse divertendo, come l’avesse fatto apposta. Robin era
un’altra, nel buio della festa, dieci anni di meno sul volto sapientemente
truccato e altrettanti tolti grazie alla scarsa illuminazione, eppure quella
preoccupazione alla vista dei suoi alunni era in grado d’invecchiarla. Era stato
così facile fregarla, prendendola per i suoi punti deboli, rimarcando come
ormai la sua giovinezza se ne fosse andata. L’occasione di umiliare tutti s’era
presentata su un piatto d’argento a Adrien, che era stata troppo furba per non
coglierla. – Non ti ho mai detto d’essere sicura di niente! – era bastato
dosare le parole da usare per girare quella semplice festa a suo favore, per
fare in modo che Robin si sentisse vecchia
nel rifiutare il suo invito. E aveva funzionato, quel suo piano diabolico: la
donna aveva abboccato all’esca, pur di non ammettere di aver ceduto agli anni e
al mondo.
Aveva
passato tutto il pomeriggio davanti allo specchio, a truccarsi ed abbellire il
proprio corpo come se fosse tornata di nuovo ragazza, mentre Josh la guardava
con un misto di pietà e autocommiserazione. Quell’uomo s’era abituato da tempo
alla trasformazione del rapporto fra marito e moglie a quello di una tata e
della bambina a cui essa badava. Robin s’era sentita trasportare indietro nel
tempo, passando sulle labbra quel rossetto che le dimezzava il numero dei suoi
che gravava sulle sue spalle. Improvvisamente l’idea di andare a quella festa,
di accontentare Adrien per una volta le era apparsa come un raggio di sole:
avrebbero potuto riprendersi quegli anni folli con un vestito più attillato di
quelli sotto cui si nascondeva. E forse sarebbe stata
in grado d’ignorare l’ennesimo bastoncino sul quale la
tanto attesa striscia blu non sarebbe apparsa, di soffocare tutto nei ricordi:
se ciò sarebbe accaduto, sarebbe stato tutto merito di Adrien. Non s’era resa
conto di quanto fosse pericoloso che quella ragazzina la comprendesse così
bene, che avesse intuito fino all’ultimo dei suoi pensieri. Aveva giocato su
quel suo desiderio di sentirsi ancora libera, giovane, d’essere giovane,
esattamente come una bambina gioca con le bambole. Aveva estrapolato quel suo
pentimento d’essersi adeguata ad un futuro comodo, alle lauree e alle porte
aperte dei soldi, e adesso tutte quelle emozioni erano nelle sue mani. Nelle
mani di Adrien, quelle più pericolose in cui potessero risiedere sentimenti del
genere.
–
Che fai adesso, ti metti a piangere? Lo sapevi che avresti rischiato! –
guardandola buttare giù d’un fiato il whiskey nel suo bicchiere, Adrien seppe
di aver fatto centro. L’aveva abbindolata ore al telefono, aveva suscitato in
lei il desiderio di tornare ai vecchi tempi, le aveva fatto credere che tutto
era sicuro. E Robin aveva creduto che il suo bamboccio, quello per cui aveva
una cotta segreta ed insensata, si sarebbe tenuto alla larga dal luogo del suo
tentativo. – Avanti, vattene se vuoi! – esclamò, prima d’imitarla prendendo un
sorso del liquido ambrato che subito le bruciò in gola. – Ma chi ti credi di
essere, ragazzina? – quella protesta, quel tentativo di rimarcare il rispetto
che Adrien avrebbe dovuto portare alla loro differenza d’età, il suo
risentimento furono totalmente vani. Era una battaglia che aveva già perso da
quando si erano incontrate: lei, donna matura e rispettabile, era completamente
succube di quella che lei aveva chiamato ragazzina, e che esercitava su di lei
un potere assoluto. Abbassando lo sguardo a terra nel tentativo di nascondere
l’umiliazione riuscì soltanto ad ammetterla ancora di più. Non si accorse
nemmeno della direzione in cui puntavano quegli occhi grigi capaci di metterla
al tappeto, tanto la loro immagine vivida la teneva incollata in quel punto,
sottomessa. – Abbiamo visite… - e fu incredibile il tono casuale con cui Adrien
fu in grado di mentirle ancora, come quando aveva assicurato Robin che sarebbe
stata una festa grandiosa. Tutto stava per precipitare.
-
Ehi. – quella voce eruppe in un grido insolitamente pacato, che sconfisse la
barriera di musica assordante. Robin non ebbe il coraggio di voltarsi e
mostrare il suo volto, seppure protetto dall’oscurità, inconsapevolmente
preparata a qualcosa del genere. Il ghigno sottile della ragazza poteva
illudere un povero pivello qualunque, ma non sapeva mentire a lei, che in
qualche modo era sua eguale. – Me ne vado… - la spinse apposta nel farsi largo
verso l’uscita di quel posto infernale, di quel groviglio di corpi così
sensuale e di quel ragazzino che nemmeno voleva voltarsi a vedere. Non sarebbe
mai stato abbastanza per ripagarla di quello strano
sentimento che le aveva messo addosso, quell’odio che in qualche modo
contrastava con l’amicizia che pensava si fosse creata in quegli anni. Eppure
già allora sapeva che l’indomani le avrebbe telefonato, le avrebbe chiesto di
vederla. Qualcuno le fischiò dietro, le gridò qualcosa di osceno attutito dal punk
spacca timpani, e l’irresistibile tentazione di voltarsi e tornare indietro la
chiamò come il canto di una sirena. Ma sarebbe stato fatale e, soprattutto,
completamente inutile: l’aveva fatto apposta, quella stronza, a portarla lì,
giusto per farle capire quanto, in confronto al suo fascino, lei fosse solo una
piccola pulce. Forse era proprio quella che l’attirava di più, forse fu proprio
quella strana, terribile consapevolezza a farla esitare dall’uscire quei pochi
secondi in più che le chiarirono tutto.
-
Dove va la tua amica? – ci si sentiva così bene, nel vincere ancora una
scommessa contro sé stessa. Era una sensazione di cui lei non avrebbe mai avuto
abbastanza: Adrien, sorridendo dell’uscita di scena di quella donna travestita
da giovane spericolata, accostò il bicchiere quasi vuoto alle labbra. Indugiò
volutamente sulla figura che s’allontanava, senza badare alla domanda di
Steven, di cui in quel momento non le importava niente. Si sentiva
incredibilmente bene. – Chi era? – alla seconda domanda, pronunciata da una
voce completamente diversa, si voltò senza rinunciare al sorriso provocatorio
con cui aveva vinto. Incrociò i suoi occhi verde scuro
nel buio prima che questi scendessero a squadrare il suo corpo, lo stesso che
Annalou aveva elogiato durante i suoi preparativi: che era bellissimo, e di cui
aveva la consapevolezza totale. – Non ha alcuna importanza. – e non ne aveva:
tutto sarebbe andato come aveva premeditato, e lei aveva un copione da seguire
scrupolosamente se voleva assicurarsi di colpire il bersaglio al centro. Voleva
centrarlo, guardare come tutti si spezzassero esattamente a metà sotto il suo
tocco. Il volto di Duff espresse lo sconcerto per come i loro occhi grigi
s’incatenarono, di come ancora una volta quella stronza, nel giro di pochi
secondi, lo avesse attirato nella propria tela di ragno. Era una trappola,
quella di Adrien, e lui non vedeva l’ora di buttarcisi a capofitto. – La band
va forte. – la bocca della ragazza era così sensuale quando parlava.
La
domanda principale era dove la ragazza intendesse arrivare, l’incognita più
difficile da decifrare in quel sorriso dalle mille sfaccettature. Il fatto che
poi quello stesso viso lo strangolasse in una morsa che gli impediva di
respirare normalmente non era d’alcun aiuto: nemmeno il buio riusciva a
mitigare l’effetto di quegli occhi. Erano così freddi, eppure bruciavano sulla
sua pelle. – Sì. – Steven faceva rimbalzare lo sguardo dall’uno all’altra,
osservando con il suo solito candore le reazioni dei loro corpi. La carica che
scorreva lo teneva a distanza, avrebbe intimidito chiunque. Persino quella
semplice sillaba, uscita dalla bocca di Duff quasi per caso, dava l’idea di ciò
che era in procinto d’accadere. Gli eventi sarebbero stati mascherati come
qualcosa di assolutamente normale, avrebbero provocato un’onda d’urto anomala,
e nessuno se ne sarebbe reso conto. Sul volto in ombra di Duff si aprì un
sorriso ambiguo, una pallida imitazione di quello della ragazza: sapevano di
giocare ben oltre le regole, ed era ciò che li attiava.
– Ti va di ballare? – Adrien dovette urlare due volte quella domanda dalla
semplicità spiazzante, sbagliata in quel contesto. Era come se avesse avuto un
improvviso vuoto di memoria di fronte all’attrazione della pista da ballo e,
inevitabilmente, di qualcos’altro.
-
Dai, è la mia canzone preferita! Devo assolutamente ballarla! – si ritrovò a
fissarla talmente intensamente da non riuscire a rispondere alla sua richiesta,
mentre Steven, che come al solito non capiva un accidente di ciò che stava
succedendo, gli lanciava poderose gomitate fra le costole per farlo svegliare. La
ragazza appoggiò il bicchiere sul bancone, scuotendo i capelli soddisfatta a
ritmo di note fin troppo familiari di una canzone appena attaccata dalla band.
– Io vado! – e le parole che ci si sarebbe aspettato di sentire strillate con
voce da adolescente in crisi ormonale furono pronunciate con soavità. Adrien
gli concesse un sorriso tentatore prima di muovere le sue lunghe gambe verso la
pista da ballo, il mare di corpi che urlavano. Duff non sperava di capire
qualcosa di quel comportamento ambiguo. Pregava semplicemente, come stregato
dalle movenze della ragazza, di non dover mai essere costretto a smettere di
guardarla agitarsi, accennare i primi passi di danza con eleganza. Purtroppo però
la preghiera non fu esaudita. – Cosa? – lei gli aveva appena chiesto di
ballare. Ed improvvisamente tutti i suoi tiri mancini, tutte le brutte parole
sussurrate nel tentativo di scacciare la sua immagine, nulla contava più.
Riconoscere la canzone fu facilissimo, osservarla mentre già questa la
coinvolgeva dalle prima note pure. E lui non sapeva
ballare.
- Avanti, sfigato! – se Steven, in un atto di
carità col secondo fine di potersene tornare ai divani e magari rimorchiare
anche lui una rossa coi fiocchi mosso dall’anfetamina, non l’avesse spinto, non
si sarebbe mai mosso di lì. E invece quel bastardo, quel grande amico, lo
spinse direttamente nel campo magnetico di Adrien: l’attrazione era
paragonabile a quella di due poli opposti, la resistenza era impossibile. I
suoi piedi si mossero da soli verso di lei, accolti dalla sua espressione
intermittente illuminata di blu, impassibile, e dalle braccia che
s’avvinghiarono al collo del ragazzo. Avrebbero potuto
tornare ad odiarsi dopo quel ballo, per il momento avrebbero atteso le ultime
note sperando che durassero all’infinito. Fu subito chiaro che Adrien non
avrebbe ceduto le redini di quel gioco maledetto tanto facilmente, con la
determinazione tipica di chi è abituato a governare. Lo scontro fra i loro bacini
fu una decisione della ragazza, un impeto che crebbe in entrambi mentre pelle
diversa, di sconosciuti, toccava la loro oltre la barriera che avrebbe tenuto
divise le loro menti dal resto della festa. Nessuno dei due fu in grado di dire
se quel caldo asfissiante era dettato dal loro sfregarsi contro gli altri
ballerini, oppure da un fuoco interno appena nato, ma l’aria che respirarono
divenne improvvisamente pesante. I loro corpi, vicini, incredibilmente vicini,
emanavano scariche elettriche ad ogni battito del cuore, ad ogni movimento del
bacino. Adrien gli stava insegnando a ballare in pochi secondi, mentre il mondo
a cui erano attaccati spariva per entrambi. La loro debolezza era gioia
selvaggia in quel momento.
E
la ragazza se ne accorse, tremando sotto l’unico sguardo che fu in grado di
piegarla per poco, per poi fuggire subito: doveva
sottrarsi a qualcosa che minacciava così tanto l’equilibrio che aveva
scrupolosamente sostituito. Dissimilò quel suo turbamento come era abituata a
fare, lottando contro sé stessa per non scappare fra la folla lontano da quello
che aveva sempre considerato solo un ragazzino. Duff la sentì voltarsi, dargli
le spalle prima che i loro corpi aderissero di nuovo, come una sola pelle.
Deviava il suo sguardo, fuggiva da quelle sensazioni non premeditate, da ciò
che non costituiva il suo piano. La stoffa delicata del suo vestito, la pelle
dei pantaloni di Duff non bastava a dividere le loro essenze connesse, questa
era la minaccia peggiore. Il ritmo della canzone aumentò, e con quello anche i
movimenti dei loro corpi allacciati: era inutile cercare di pensare a qualsiasi
cosa non fosse l’altro, ormai persino il cervello calcolatore di Adrien era
stato spento da una forza maggiore. Più in là, oltre la loro bolla di sapone,
c’era un furore che impazzava nel resto delle persone che li circondavano. Se
fossero stati anche solo un po’ più attenti, avrebbero potuto sentire il grido
di Axl prima che questo salisse su uno dei tavoli a ballare fra due biondine.
Avrebbero potuto avvistare Maxie litigare con un amore da una notata, oppure
avrebbero visto Michelle scagliare ubriaca il proprio bicchiere vuoto contro
Slash, in lacrime. Ma cosa importava di più di loro, del buio? – Io so il tuo
segreto, stronza. -.
L’aveva
sentito chiaramente, quando s’era accostato al suo orecchio per sussurrarle
quelle parole di odio e di passione, di qualcosa covato da tempo. Oltre la
barriera del suono e dell’orgoglio, adesso era lui a tenerla in pugno
nonostante entrambi non furono in grado di capirlo subito. Non era importante
menzionare quel segreto mormorato per sbaglio, tanto quanto l’esistenza di
questo. Adrien spalancò gli occhi guardando oltre il muro di corpi e quello di
cemento, oltre la collina di Hollywood dove erano abbassati gli edifici abbandonati,
altre l’Oceano Pacifico. Al di là della maschera che
aveva portato dai primi anni della sua vita, c’era un solo, ributtante segreto
che aveva relegato nella cartaccia dei giornali scandalistici. Era appeso alle
pareti della sua dependance e nella mente di Duff. Aveva lottato per far finta
che quella non fosse la sua unica debolezza, riuscendo a mentire a sé stessa
facendola passare per qualcosa che mai più sarebbe tornato. – Cosa? – ma Duff
non avrebbe sentito la sua domanda in quella confusione, l’avrebbe solo intuita
e probabilmente avrebbe sorriso, di quel suo stupore. In qualche modo, era
riuscito ad intaccare il suo mondo di ghiaccio. E l’urlo che uscì dalle labbra
della ragazza quando due mani le afferrarono le spalle costringendola a
voltarsi fu ancora più sorprendente.
Era
una vittoria vedere la sorpresa per quel gesto improvviso e per la rivelazione
deformarle il viso, distorcere la sua impassibilità. Attorno a lei le onde che
prima aveva visto tramite la droga erano scomparse, lasciando posto all’unica
immagine di lei. La costrinse a volgersi verso di lui, a donargli il privilegio
di godere dei suoi occhi quando questi erano così fragili, non più velati. Si
mossero automaticamente l’uno verso l’altro quando il
legame fra i loro sguardi divenne insostenibile, abbassando le palpebre su quel
momento. Le loro labbra si unirono in un sapore di alcol amaro, di fatica,
bisognose di catturarsi l’una con l’altra in un bacio famelico. Smisero di
ballare rimanendo immobili a ricevere le spinte della gente che ancora si
dimenava attorno a loro, le braccia abbandonate attorno ai loro corpi e il
contatto delle loro lingue che li rendeva dipendenti. Era come provare una
droga nuova ed incredibilmente forte, osservare l’effetto che questa esercita
sul corpo al primo impatto, chiedersi se ne vale la pena di prenderne ancora e
rimandare quella decisione in attesa che le forme e i colori tornino normali. Se
prima avevano accennato in un impeto di follia ad un segreto che Adrien
racchiudeva nel cuore, ora il tesoro da custodire di nascosto era loro, li
univa quasi quanto il contatto fra i loro corpi e i loro visi. – Sei
bellissima. – qual era l’importanza di tutti gli insulti che le aveva dedicato,
in confronti a ciò che stavano vivendo in quegli attimi in cui il mondo
sembrava esplodere?
E
poi, veloce come era iniziato, l’incantesimo finì: le labbra gonfie del ragazzo
cercarono invano quelle di Adrien, che s’era sottratta a loro. Negli occhi
grigi erano scomparse tutte le prove della fragilità che l’aveva attraversata,
svanito l’effetto della formula magica di Duff. Come aveva potuto sperare che
quel bacio durasse all’infinito, sapendo con chi aveva a che fare? Adrien
sorrise, assaporando sulla lingua qualcosa di nuovo che si costrinse ad
etichettare e a riporre in un angolo della sua mente, conscia di come erano
stati osservati fino a quel momento. Il suo corpo tremava e bramava ancora il
tocco del ragazzo che aveva di fronte, non quello di persone sconosciute che la
urtavano, la sua mente impediva anche solo la formulazione di quel desiderio.
Nel buio, tutto era possibile. – Avanti. – la sua bocca si mosse da sola,
tracciando nell’aria le parole di cui suono non sarebbe mai stato recepito.
Quella notte erano privati di qualsiasi altro senso che non fosse quello del tatto,
e da quello lei fuggiva in modo costante. Duff la vide a stento muovere quei
passi delicati all’indietro, addentrandosi sempre di più nel groviglio vivente
che lo chiamò a sé non appena lei vi si avvicinò. Non
doveva perderla di vista, doveva seguirla anche nel buio più profondo, per
ritrovare la stessa ragazza che aveva conosciuto in un bacio
poco prima. Sapeva che non gliel’avrebbe resa così facile, ma il suo
corpo reclamava quel diritto, lo istigava al lottare. E anche quando con gli
occhi non fu più in grado di trovarla, continuò a cercare.
Forse
solo quella momentanea lontananza, quel poter pensare anche solo un poco a
sangue freddo mentre si faceva largo fra la massa di assatanati e la musica
tornava a spaccargli i timpani, era stata in grado di fargli capire quale fosse
il punto della situazione. Sembravano improvvisamente passati secoli da quando
era arrivato al garage con l’intenzione di godersi al meglio la serata. Adrien
era riuscita a cambiare le carte in tavola con poche semplici mosse di cui,
secondo il ragazzo, non s’era resa conta nemmeno lei, nonostante quel notevole
autocontrollo. Duff ebbe improvvisamente voglia di gridare, di saltare talmente
in alto da poter afferrare una di quelle luci che non erano utili a nulla nella
sua ricerca e di romperla dalla rabbia: sarebbe servito soltanto a far calare
l’oscurità totale, ma in qualche modo sarebbe anche stato diverso.
Inconsapevolmente sapeva che passi muovere per ritrovare quella fonte di
calore, ma la testa gli doleva ed era affollata di centinaia di pensieri: si
ritrovò a roteare su sé stesso, spinto dai movimenti bruschi della gente che
ancora riusciva a godersi tutto quello. Chissà dov’erano i suoi amici: era la
prima volta da quando aveva deciso di raggiungere Adrien al bar che se lo chiedeva.
E chissà anche chi era quella ragazza che l’aveva accompagnata, la quale
identità era nascosta come quasi tutte le cose che riguardavano Adrien. Era
incredibile. Era stupefacente, in tutti i sensi. Più setacciava il locale, più
perdeva le speranze.
E
poi la rivide. Ritornata nel suo guscio di alterigia e magnificenza, sembrava
vederlo perfettamente nonostante quel maledetto buio ingannatore, gli occhi
puntati proprio sulla sua figura al centro della pista. Era appoggiata al muro
in bilico sui tacchi improponibili di quegli stivali, che allungavano le sue
gambe molto più del necessario, e continuava a fissarlo con quel sorriso che lo
fece sentire nudo. Aveva capito quanto s’era compromessa con quel bacio rubato,
dettato da una forza maggiore sconosciuta, e non intendeva compiere due volte
lo stesso errore. Ma non avrebbe mentito ancora, questo proprio no: lo voleva
quanto lui e, per almeno quella porzione di notte che rimaneva, avrebbe
accettato quelle catene. A prova di ciò, era in piedi vicino ad una porta
scardinata che conduceva ad un luogo ignoto, sepolto ancora
di più nel buio di quella sala gremita di gente. Duff la vide attraverso le
teste che gli offuscavano la vista, fortunato nella propria altezza, e notò
come muta lo chiamava a sé con discrezione, accentuando il collegamento fra di loro. Quando riuscì a scavalcare gli sconosciuti e a
raggiungerla, Adrien gli sorrise allo stesso modo in
cui l’aveva salutato, maliziosa e forte di un fascino che aveva ritrovato solo
per proteggersi da lui: le prese per mano, sorprendentemente delicata,
guardandolo profondamente prima di portarlo verso quella porta. L’avrebbe
seguita nel buio, a qualunque costo.
Succedeva
sempre così: quando qualcosa fra di loro andava storto
per qualche futile motivo, riuscivano a riparare ai loro violenti litigi e musi
lunghi prima della fine della nottata. Il tempo di bere un bicchiere in più, di
scaraventarlo addosso all’altro magari, e poi tornavano a crescere le rose e i
fiori nel loro giardino, profumando di miele. Si sarebbero scatenati in un
angolo in un po’ di sesso sfrenato, sarebbero diventati zuccherosi a vicenda, e
poi Michelle sarebbe dovuta andare a lavoro e avrebbero ritrovato il
compromesso di amicizia che li teneva uniti. Tutte queste vicende erano
denominate fase uno, l’alcol, due, la rissa, tre, la
pace, quattro, il sesso, cinque, la verità. E, mentre sgattaiolavano verso un
angolo più appartato adatto alle romanticherie che soggiornavano nei loro
stereotipi, se avessero avuto tempo di discuterne avrebbero convenuto che in
quel momento si trovavano alla fase più divertente, la quattro. Le altre erano
soltanto noiosa routine. – Ti giuro, adesso basta con
le scuse, andrà tutto bene. – come se Slash si aspettasse veramente che la
ragazza avrebbe creduto a quelle false speranze. Era troppo furba per pensare
che il ragazzo non avrebbe mai più ceduto alle grazie di un’altra, troppo
affezionata a lui per rompere definitivamente quella sottospecie di relazione, davvero
troppo intelligente per ribadire il concetto di fedeltà quando lei lavorava
come spogliarellista.
Ma
i loro famelici baci, quell’esplorarsi a vicenda di mani birichine e corpi
sudati, dovette interrompersi bruscamente. Il luogo nascosto ad occhi
indiscreti era stato trovato, il vecchio bagno dell’edificio sarebbe stato
perfetto: solo, era già occupato da qualche altra coppietta. Slash e Michelle,
ancora abbracciati ed affannati per quella corsa oltre la folla contornata da
coccole passionali, s’interruppero quando ormai erano già dentro alla stanza.
Le due sagome sul fondo erano fin troppo familiari, ma l’oscurità, la loro
compagna d’avventure e amante nei loro letti, non giocò subito a loro favore,
impedendogli di riconoscerle subito. I gemiti che provenivano dalle due figure
però non accennarono a smettere, come se i due individui non fossero stati
affatto disturbati dalla loro presenza… o non se ne fossero affatto accorti. –
Dai andiamo. – ma era risaputo che fra i due Michelle era la più sveglia, con
un passato burrascoso come insegnante ed una vista più acuta di quella del
ragazzo, ostacolato dai ricci ribelli. Represse una risata, concedendosi un
ghigno furbo di cui Slash non comprese subito il
significato: e mentre questo era impegnato a decifrare ancora l’identità dei
due amanti sorpresi, Michelle lo strattono verso la porta, verso la musica. –
Dai andiamo! –.
“ And I know she knows I’m not fond of asking,
true or
false, it may be…
She’s still out to get me. ”
(The Kooks – Naïve)
Sentite,
non so come sia venuto questo capitolo. Credo sia molto psichedelico, diciamo
che la seconda parte è stata ispirata dalla canzone “Alice Practice”
dei Crystal Castles, con tanto di video sulla serie “Skins”.
Chi la conosce, saprà trovare un paio di analogie, forse. La canzone che
ballano inizialmente doveva essere precisata, poi però ho deciso di prenderne
spunto per un sondaggio J ditemi voi,
fatemi sapere le vostre opinioni. La domanda è: secondo voi, qual è la canzone
che Adrien e Duff ballano? Sono curiosa ;)
Annuncio
importante: per il ponte dell’Immacolata, ho in programma una breve vacanza a
Milano, per i giorni di martedì e mercoledì. Per questo non so se sarò in grado
di postare prima o dopo questi giorni, ergo il nuovo capitolo non sarà
pubblicato secondo la scansione temporale che ho mantenuto fino a questo
momento. Se non dovessi essere in grado di aggiornare per lunedì, beh… auguro a
tutti buone vacanze, se queste ci sono ;)
AmyHale: u.u dico
solo una cosa: ZUPPA.
_LittleAxl_:
grazie cara per i bei complimenti Ji vostri commenti
sono la mia forza, non avete idea di come sapere che la storia vi piace e vi
prende mi spinga a proseguire! Grazie per la recensione, spero che il capitolo
ti sia piaciuto!
Sylvie Denbrough: name.of.my.mail@virgilio.it! Manda la tua storia qui, e io appena posso la
leggo J possibilmente un capitolo alla volta, anche perché ahah non sono una macchina! E comunque sono sicura che tu
sia in grado di scrivere molto bene, basta vedere le belle recensioni che mi
lasci: già quelle sono strutturate in modo articolato e perfetto, non posso che
aspettarmi il meglio dalle tue storie ;) grazie per i complimenti, spero che
questo capitolo ti sia piaciuto!
aivlis8822: forse hai letto male, ma non ti preoccupare
xD la frase finale è di Slash ubriaco, grazie a
questo capitolo si dovrebbe capire che è lui perché dice “la mia Micha”! Niente
di grave comunque, la tua recensione positiva è sempre divertente e mi rende
molto contenta! Anch’io adoro Steven, nell’ultima storia stava sempre a
pomiciare con Christie ed ho voluto fargli assumere un ruolo più rilevante in
questa ;)
IoMe: sì, sei sempre la ultima, e per questo meriti trecento
frustate! In ginocchio e fai la proskynesis! In questo periodo sei particolarmente portata per scrivere bellissime
recensioni o sbaglio? ;) dai, voglio vedere anche la
tua storia pubblicata! ;)
Miss_Rose:
ahahah, non hai niente da farti perdonare, succede!
Anch’io sono sepolta dalla scuola, ieri ho passato quattro ore e mezza a
studiare J ti fai perdonare con questo bel commento
comunque, mi piace sempre leggere le tue recensioni perché mi danno un quadro
completo di come è stato recepito il capitolo! Poi, sì, direi che hai
inquadrato la storia, anzi, hai descritto Adrien meglio di me xD grazie per il commento!
Scottava.
La stanza scottava, con il suo muro di piastrelle ghiacciate e gli spifferi
d’aria che entravano dalla finestrella rotta: sembrava di essere appena
precipitati nell’inferno, tanto il caldo era opprimente. E l’epicentro di quel
fuoco era la sua bocca, che lasciava scie incandescenti sulla sua pelle bianca,
piccoli segni rossi che non sarebbero scomparsi facilmente. Le mani del ragazzo
risalirono lungo le cosce lasciate scoperte dalla gonna leggera del vestito,
ormai rialzata fino al ventre, assaporando il tocco liscio della sua pelle. I
capelli rossi di Adrien si scostarono dal suo viso non appena la ragazza
inclinò la testa all’indietro, contro il muro, in un gemito soffocato. Era come
avere a che fare con un’altra persona, un’altra entità abbandonata al piacere
che il ragazzo le donava. Ancora una volta il buio faceva il doppiogioco, li
privava della vista ma anche della paura di liberarsi di ogni dogma, la paura
d’incrociare gli occhi dell’altro e porre fine all’incantesimo. La musica
pulsava attraverso le pareti violenta, quasi spaccandone l’intonaco polveroso,
sbattendo contro i loro corpi in un’onda d’urto. Duff rialzò il viso dalla
scollatura della ragazza per tornare a baciarle le labbra, rosee e gonfie di
passione, mentre sentiva le gambe di Adrien allacciarsi più strette attorno al
suo bacino. I loro respiri affannati ed irregolari creavano una sinfonia ancora
più potente del punk che spaccava loro i timpani, l’unica fra le due che
veramente contasse in quel momento.
Se
anche fossero entrate altre persone, oltre ai due amici che poco prima erano
apparsi all’ingresso del piccolo bagno in disuso, non vi avrebbero posto
attenzione. Era talmente coinvolti l’uno dai gesti dell’altra da escludere il
resto del mondo dai loro istinti intrecciati: il cervello s’era scollegato già
da un pezzo. I loro vestiti non erano una barriera abbastanza resistente per tenerli lontani, i loro pregiudizi erano già crollati.
Non importava ciò che sarebbe successo dopo, sarebbe stato bello anche solo
ricordare quegli attimi rubati alla notte nell’unire i loro corpi di fretta,
con furia ed irruenza. Non c’era alcun bisogno di sussurrare paroline di
circostanza quando entrambi sapevano che nessuno dei due avrebbe ascoltato ciò
che l’altro avrebbe avuto da dire. Fuori da quello stanzino polveroso, anche la
festa aveva giunto l’apice, si stava consumando al meglio. La gente che
gridava, che ballava e faceva l’amore esattamente come loro era entrata nella
dimensione d’estasi composta di pura illusione, ma terribilmente entusiasmante.
Il cocktail di musica assordante, alcol e pasticche rubate a genitori depressi
erano accentuate dalle perle di saggezza tipiche degli ubriachi, che
attraversavano il garage senza la possibilità di essere ricordate. Izzy si
rialzò dal divano stropicciando gli occhi, ancora troppo confuso per capire di
essere svenuto in mezzo a tutta quella confusione. Passò una mano sulla bocca
nel tentativo di pulirsi da un filo di bava e dal saporaccio amaro che era
diventato suo compagno. Le facce amiche attorno a lui sembravano ancora
allucinazioni.
Ma
alla musica si mischiò qualcosa di sinistro, qualcosa che di primo acchito mise
in allarme pochi esperti che s’affrettarono a darsela a gambe. Nel suono degli
strumenti rudemente suonati si intrufolò una sirena vagamente familiare, che
mano a mano che cresceva d’intensità diventava anche più pericolosa.
Evidentemente, la festa non era stata protetta come l’amico storico della
nostra banda di ragazzi aveva assicurato: il posto brulicava di talmente tante
sostanze illegali da aver attirato il lungo braccio della legge, per una volta
non troppo lavativo per intervenire. E, quando dal fondo della sala si levò un
agghiacciante grido più adatto ad un film dell’orrore che ad un rave party,
tutti seppero esattamente cosa fare: scappare, senza sapere né dove né come, ma
scappare. Niente era più temuto dei manganelli e di una schedatura alla
centrale di polizia, almeno per chi aveva già precedenti, e pochi in quelle
quattro mura di cemento avevano la fedina pulita. – Via, via, via! – Maxie
afferrò la mano di Linda, che cercava affannata la propria borsa sotto i
divanetti, trascinandola verso le diverse uscite dell’edificio. Sapevano già
dove trovarsi una volta lontani da quel posto e ben nascosti dalle azioni di
retata, non aveva senso temporeggiare per cercarsi l’un con l’altro quando
addosso avevano più piantine di una serra. Le pupille non mentivano. Quel
contava era andarsene il più lontano possibile da quel posto.
-
Che cazzo succede? – i rumori del panico e dell’arrivo della polizia non erano
sfuggiti nemmeno ai due amanti che avevamo lasciato piuttosto indaffarati nel
bagno. Bastò affacciarsi all’entrata dello stanzino per intuire che qualcosa
non stava andando esattamente per il verso giusto, e le sirene da fuori
lasciavano ben poco all’immaginazione. Duff si volse di scatto a guardare la
ragazza, quando fu chiaro che la calca di gente che si stava riversando fuori
dall’edificio non avrebbe permesso loro di muoversi. Quando quel traffico di
persone sarebbe stato smaltito, uscire da lì sarebbe stato come buttarsi fra le
fauci dei leoni. – Vieni, di qua! – gridò Adrien per superare il caos,
artigliando con una mano la maglietta nera del ragazzo per riportarlo
all’interno dell’angusto bagno. L’unica fonte di luce in quelle quattro mura
era una finestrella rotta che rappresentava, fra schegge di vetro e di legno,
l’unica possibilità di fuga. Le urla dalla sala principale riecheggiarono
ampie, segno che l’edificio si stava svuotando con rapidità a loro nemica. –
Aiutami a salire! – sibilò Adrien quando s’accorse che su quei tacchi maledetti
scavalcare il balcone non sarebbe stato per niente facile. Confuso per la
velocità con cui gli eventi si stavano succedendo, Duff avvolse la proprie braccia attorno al vitino sottile della ragazza,
issandola con la forza che gli era rimasta in corpo dalla nottata. Mentre i
loro cuori sembravano stare per esplodere da un momento all’altro, l’adrenalina
delle loro vene mischiò i loro pensieri: il loro istinto era la loro unica
guida.
Strisciando
attraverso l’apertura sul giardino dove parecchie persone stavano cercando una
via di fuga oltre le colline, Adrien sbucò fuori dal bagno, cadendo sull’erba.
Da qualche parte nel suo corpo, un dolore si fece più acuto, eppure non fu in
grado nemmeno di identificare la nuova ferita: si rialzò da terra ansimante,
cercando di ricordare cosa s’era riproposta di fare in quel momento. Duff
atterrò al suo fianco, avvantaggiato dalla sua altezza nel scavalcare la
finestrella, guardandola in attesa di un’idea brillante che li portasse lontano
da quel posto. Le persone che nella fuga li urtarono passarono improvvisamente
in secondo piano rispetto alla paura di essere arrestati, l’ennesima volta per
entrambi. – Di qua! – poi le dita sottili della mano di Adrien si chiusero
attorno al posto del ragazzo, strattonandolo lontano dalla facciata principale
del palazzo, verso una via secondaria imboccata da altre persone. Nel panico,
era stato molto più facile seguire la massa. – E gli altri? – seppero entrambi
che quella era una domanda inutile in momento del genere: era meglio pensare
prima di tutto a salvare la propria, di faccia. I loro passi si unirono a
quelli di molti altri, frettolosi, facendoli quasi inciampare lungo le stradine
che portavano ai centri abitati sui soffici pendii. I polmoni del povero bassista
reclamarono dopo poco una sosta in quella corsa sfrenata che sembrava non
terminare mai, contaminati dopo anni di sigarette. Adrien però non diede cenno
di volersi fermare finché, rimasti soli a correre per le strade buie, non
sbucarono in un parcheggio quasi deserto.
-
Fermati! – portandosi una mano sul ventre nel punto in cui la milza doleva,
Duff si sottrasse alla stretta della ragazza per fermarsi bruscamente, cercando
di riprendere fiato. I secondi passarono come secoli mentre il cuore ancora
martellava nel petto, quasi cercando di sfuggire dalla gabbia di ossa in cui
era celato. Adrien si volse a guardarlo, appoggiando le mani alle ginocchia
piegate con il fiato corto, anche lei stremata per la folle corsa. I piedi le
dolevano come non mai in quegli scomodi stivaletti, tutto il suo corpo tremava
per lo sforzo di quello scatto improvviso e per lo spavento colossale, ma non
era certo il momento di starsene fermi immobili. Fissò per pochi istanti il
ragazzo, cercando di ricollegare i pensieri l’uno all’altro, prima di
riprendersi e girare sui tacchi. – Dove cazzo vai? – non appena la vide
allontanarsi, Duff le corse dietro, un po’ per riflesso istintivo, un po’
perché nessuno avrebbe voluto starsene in quel luogo
sconosciuto dopo essere appena scampato ad una retata. Non appena constatò che
la ragazza non si sarebbe voltata al suo richiamo, sentì la rabbia montare di
nuovo in lui, animandolo di energia nuova. – Ti costa così tanto aspettarmi, cazzo? – sputò con tutta l’ira che riuscì a
trovare, contagiato dall’adrenalina che alterava la sua voce e il suo stato
d’animo.
-
Voglia andarmene di qui, e anche alla svelta, okay? Non me ne frega un cazzo se
non ti va di muovere il culo. – la verità era che, per quei minuti di fuga a
rotta di collo, Adrien aveva avuto una fottuta paura di essere arrestata
ancora. Una nuova visita al commissariato avrebbe garantito ad Alan il permesso
di sua madre per sbatterla in qualche riformatorio dell’Europa dell’Est, tutto
per “il suo bene”. Certo, non avrebbe mai ammesso di essersi lasciata prendere
dal panico per una volta, sarebbe stato uguale a proclamarsi umana a tutti gli
effetti. E lei era superiore. – Puoi anche fare a meno di seguirmi. – ma i
passi del ragazzo già seguivano il ticchettio dei suoi stivaletti lungo l’asfalto,
frettolosi. Non si volse nemmeno a guardarlo nel sibilare quelle parole con un
tono incattivito, simile al verso di una tigre in gabbia istigata da una folla
di curiosi. L’aria s’era fatta più fresca da quando la festa era incominciata,
lasciando il segno sul suo corpo in movimento attraverso piccoli brividi che le
correvano lungo la schiena, scuotendola. – Sei tu che mi hai trascinato via con
te. – la verità nella voce del ragazzo contrastò in maniera assurda con la sua
voce da cucciolo ferito, quasi infantile, che suscitò in Adrien una risata
priva di alcuna gioia, insensata. Nonostante fosse esattamente successo così,
il comportamento della ragazza come al solito ribaltava indirettamente la
situazione, in modo che lei vestisse sempre i panni dell’innocente. – Stronza.
– mormorò Duff, trattenendosi dall’afferrare i lunghi capelli rossi per
picchiarla a sangue. Quella ragazza suscitava in lui i più rari istinti
omicidi.
-
Ho bisogno di fumare una sigaretta. – la moto lucida li attendeva qualche vicolo
più in là, parcheggiata in doppia fila rispetto ad un drappello di auto anonime
dei tranquilli abitanti del quartiere. Il respiro di entrambi sembrava stare
tornando lentamente normale: nella mente di Duff si accese quindi una nuova
priorità da soddisfare, quella di assorbire una quantità sufficiente di
nicotina per calmarlo. Ma, tastando accuratamente le tasche degli aderenti
pantaloni in pelle, si ricordò perfettamente dove aveva visto l’ultima volta il
proprio pacchetto di sigarette. Abbandonato su uno di quei divanetti dove aveva
passato buona parte della nottata. – Bene. – sentenziò la ragazza, senza
rallentare l’andatura con la quale raggiunse il suo adorato mezzo. Pareva non
aver capito l’entità del bisogno di Duff e, se per questo, neanche le sue parole.
– Non è che ne hai una? – chiese quindi il ragazzo, non troppo rammaricato di
dover chiedere un favore a quella stronza, per lo meno non quando l’astinenza
da fumo durava da un paio d’ore. Ma, quando vide la ragazza ignorarlo
bellamente, comprese che le intenzioni di Adrien erano ben altre. – Ehi, non mi
dai un passaggio? – esclamò, rivolgendo la propria attenzione non più
all’assenza di sigarette, ma alla ragazza affaccendata attorno alla moto ma con
una faccia completamente sconvolta. – Non me ne frega niente se voi fumare una
sigaretta, io voglio andarmene di qui. – rispose secca la ragazza, infilandosi
le mani fra i capelli nel tentativo di recuperare il contegno con cui si
muoveva. Davanti a loro però si presentava un problema molto più grande del
pacchetto di Marlboro dimenticato da qualche parte: per la prima volta dopo
tanto tempo, la sua fedelissima moto l’aveva lasciata a piedi. O quasi.
–
E poi, non ho le chiavi. – l’impassibilità con cui gli diede quella tragicomica
notizia fu ciò che stupì maggiormente Duff, che di tutto si aspettava tranne
quello. Era inverosimile che la perfetta Adrien ammettesse di aver lasciato le
chiavi del suo gioiellino da qualche parte quando aveva più bisogno di
scappare. – Le avevo date a quella mia amica perché le tenesse nella sua borsa,
ma quando se n’è andata non me le ha ridate. – anticipò la domanda del ragazzo
con crescente fastidio nel tono di voce, segno che se non avessero trovato una
soluzione al più presto Duff avrebbe subito il peggio di lei. E, nonostante si
sforzassero di riflettere, ogni strada tentassero d’imboccare si chiudeva
all’istante davanti a loro. Dopo qualche minuto, il ragazzo urlò la più grossa
bestemmia che doveva essergli passata per la mente in quel momento, tirando un
calcio ad una macchina lì vicino. Quella purtroppo reagì all’istante, iniziando
ad emanare un suono acuto e veloce che entrambi riconobbero come un allarme. –
Andiamocene, cazzo. – quando ebbero sollevato di peso la moto per parcheggiarla
consono secondo quel fottuto codice stradale, si avviarono verso una direzione
a caso. Erano stanchi e nessuno dei due aveva voglia di parlare con l’altro di
ciò che era successo fra loro, troppo orgogliosi per avanzare una qualsiasi
proposta. – Dove andiamo? – camminarono per un po’ finché il suono dell’allarme
non divenne un vago ricordo, sempre più spaesati
nell’agglomerato di casermoni tutti uguali e di fari di macchine che gli
abbagliavano di continuo. Poi a Duff venne in mente la possibilità che stessero
vagando alla cieca ed iniziò a preoccuparsi.
-
Non so te, ma io vado a casa. – la sicurezza nella voce di Adrien non vacillò
nemmeno sotto la spietata convinzione di non avere la più pallida idea di dove
si trovasse. Los Angeles era una città a dir poco immensa e chi affermava di conoscerne
ogni angolo non poteva che sbagliarsi di grosso. E la storia della moto
bruciava troppo per farle capire che sarebbe bastato gettare un’occhiata ai
cartelli. – Sei stupida? Vuoi andartene da sola per la
città a quest’ora di notte? Come minimo una banda di ciccioni ti stupra e poi
ti lascia morire per strada. – le rispose Duff, avvicinandosi inconsapevolmente
alla ragazza come per farle capire che la sua presenza l’avrebbe protetta,
senza levarle gli occhi di dosso. Era semplicemente odiosa, in quel momento,
nel fingere di non avere né freddo né paura del
pericolo che avrebbe potuto correre. – Da quando ci siamo fatti così premurosi?
– nel suo tipico gesto sfacciato, Adrien alzò gli occhi al cielo mentre sul suo
volto appariva una smorfia altezzosa. La sua voce stava tornando dello stesso
tono di sempre, impassibile ed affascinante, ma lo shock di quella serie di
eventi precipitosi aveva spaccato la sua maschera irraggiungibile. Nessuno dei
due era in grado di capire come mai la cosa risultasse così normale. – Fai poco
la stronza, OK? Non ti voglio avere sulla coscienza. – dall’irritazione di Duff
si poteva scorgere un pizzico di verità in ciò che aveva detto. Era inutile
punzecchiarsi a vicenda.
Rimasero
per un po’ in silenzio, camminando lungo i marciapiedi come due automi, troppo
immersi nelle proprie riflessioni per poter davvero pensare a dove stessero
andando. Le loro membra indolenzite reclamavano il diritto ad un po’ di
meritato riposo senza essere ascoltate: rifugiarsi in uno di quei tuguri di pub
ancora aperti non allettava nessuno dei due, specie se ciò li allontanava dal
momento in cui non sarebbero stati più solo loro due. La sensazione di disagio
che si trasmettevano a vicenda era a dir poco insopportabile. – Non vuoi sapere
il tuo segreto? – le parole appena pronunciate da Duff sembravano tremendamente
casuali, nonostante fossero il frutto dei pensieri che ronzavano nella sua
testa da quando avevano lasciato la moto. La ragazza continuò a guardare avanti
senza dare segni di turbamento, mantenendo la stessa andatura di sempre.
Nell’attendere la fatidica risposta, il ragazzo si sentì assalire da mille
dubbi che aveva lasciato fuori dal proprio cervello fino a quel momento. Ancora
non riusciva ad assimilare ciò che fra loro era successo, e probabilmente non
l’avrebbe capito finché non si fosse ritrovato in una situazione quantomeno
quotidiana. – No. – rispose alla fine Adrien, dopo aver lasciato che i minuti
passassero al loro fianco come macigni. Quando Duff si volse a fissarla con
ansia, si accorse che quegli occhi grigi ancora non accennavano a posarsi su di
lui, freddi come il ghiaccio.
-
Perché no? In fondo, è pur sempre qualcosa che ti riguarda… - non sapeva bene
come etichettare ciò che aveva scoperto leggendo un giornale che gli altri
avevano ignorato. Era qualcosa che aveva preso forma nella sua mente nel
momento meno appropriato per le scoperte, e su cui poi aveva rimuginato per
ventiquattro ore prima di trovarsi Adrien davanti. Quelle parole sbiadite sulla
carta stracciata avevano dato un senso talmente grande da lasciarlo di stucco,
incapace di decidere cosa fare. Aveva la possibilità di prenderla alla
sprovvista e vincerla, per una volta, eppure… - Appunto. E’, come dici tu, un
mio segreto. Qualcosa che mi riguarda. Il che vuol dire che lo so già, e che
quindi non ho bisogno che sia tu a farmelo sapere. – sul volto pallido coperto
di minuscole efelidi si aprì uno di quei sorrisi che Duff aveva temuto di
rivedere, misterioso, che non lasciava trasparire alcun
emozione. Era diventato di nuovo impossibile decifrare i pensieri di
quella mente contorta. Al ragazzo rimaneva soltanto la logica inattaccabile
descritta in quelle parole minuziosamente scelte, che però avevano deformato le
sue frasi a proprio vantaggio. E, nonostante sapeva benissimo che qualsiasi
altro attacco sarebbe stato respinto con efficacia, riprovò lo stesso a
scalfire la corazza di Adrien. – Sai cosa voglio dire. – a quel punto si
domandò, per la prima volta con sincerità, perché fosse così ostinato a
rivangare quell’argomento. Era perché pensava che lei avesse bisogno di essere
scossa al punto giusto, o perché lui stesso cercava disperatamente di capirla
più di quanto gli fosse consentito?
Ma
altro tempo passò senza che una qualsiasi risposta accettabile arrivasse, mentre
le strade si facevano sempre meno familiari. Era tutto uguale attorno a loro,
stessi lampioni, stessi blocchi di cemento e stesse piante incartapecorite. A
tener loro compagnia c’erano soltanto i suoni dei loro passi ritmati e dei loro
respiri che poco a poco iniziavano ad andare all’unisono. Poi qualcosa di
simile ad un sospiro rassegnato uscì dalle labbra di Adrien, prima che questa
si fermasse di colpa in mezzo al marciapiede, fissando Duff con occhi straniti.
– Di grazia, hai la più remoto idea di dove siamo? –
il ragazzo, che era avanzato ancora di qualche passo prima di accorgersi che
Adrien s’era fermata, constatò solo in quel momento la serietà della loro
situazione. Avevano continuato a camminare fino a perdere completamente di
vista il punto in cui avevano lasciato la moto, e il paesaggio attorno a loro
non offriva nessun indizio. – Potresti anche tu cercare di capirlo, no? –
deciso però a tenere testa all’aria saccente con gli aveva
posto la domanda, Duff incrociò le braccia la petto. In quel momento il bisogno
di nicotina premeva sempre più impellente nella sua testa, martellando nelle
tempie. Adrien lo stava provocando nel chiaro tentativo di suscitare una nuova
discussione, cercando di scaricare su di lui la colpa del loro smarrimento. La
ragazza sbuffò infastidita, scostando alcune ciocche di capelli rossi che
ribelli erano scese a coprirle il viso: nessuno dei due sapeva bene cosa dire
per attaccare meglio l’altro. Il loro giochetto era ripreso senza che se ne
accorgessero, e la passione che li aveva travolti qualche ora prima sembrava
essersi dissolta. Forse.
–
Almeno sai che ora sono? – azzardò la ragazza dopo ormai minuti che se ne
stavano in silenzio l’uno davanti all’altra, senza
cavare un ragno dal buco. In un muto accordo ripresero a camminare fianco a
fianco, alla ricerca di qualcosa che li aiutasse ad andarsene di lì. La notte
non sembrava dar cenno di voler liberare il giorno, durando secoli che
scricchiolavano come una serie d’ingranaggi arrugginiti nelle loro teste. Duff
poté giurare di sentire persino il ronzio sommesso dei meccanismi del cervello
di Adrien lavorare frenetici, senza lasciar possibilità di essere letti e
capiti. – Deve essere l’una, forse l’una e mezza… Ma se pensi che questo ci
aiuti, allora… - non terminò mai la frase. Improvvisamente fra i suoi pensieri
era apparso un lampo di luce, mentre gli occhi verdi si facevano
improvvisamente lontani. Da quando erano stati sorpresi dalla polizia non aveva
pensato un secondo, troppo preso dai problemi del momento, a dove fossero i
suoi amici in quel momento. Ma quell’orario detto per caso era lo stesso a cui
solitamente Michelle li abbandonava per andare a lavoro, in un locale piuttosto
malfamato, squallido… poco lontano dalla collina dove si era tenuta la festa. –
Ah, che deficiente! – come aveva fatto a non pensarci prima? Ignorando
l’annuire della ragazza, probabilmente a confermare l’esclamazione priva di
senso che gli era appena uscita di bocca, la afferrò per il polso come
precedentemente lei aveva fatto con lui, entusiasta. – So dove andare. –
s’interruppe però quando gli occhi caddero su qualcosa che non aveva ancora
notato, che sotto la luce del lampione era chiaro in modo sconvolgente.
-
Cazzo, ma ti sei fatta male? – Adrien s’era accorta da subito del vetro rotto
della finestrella del bagno che le aveva tagliato il vestito e graffiato il
ventre, ma gli eventi che avevano seguito quella fuga rocambolesca avevano
provveduto a cancellare il dolore dalla sua testa. Una chiazza scura sul
tessuto blu risaltava ora si poteva vedere sull’abito, evidente sotto la luce
tremolante. Il lembo di pelle che s’intravvedeva dalla stoffa lacerata era
leggermente insanguinato, anche il flusso era ormai stato bloccato contro il
vestito sporco. – Ah… Beh, non è proprio nulla! – dopo il primo iniziale
spavento, la ferita non appariva troppo profonda né dolorosa, anche se il
pungente fastidio s’era fatto più vivido nelle sue sensazioni. Duff le si
avvicinò, infilando appena le dita nella fessura creata dalla stoffa strappata,
alla ricerca di un qualsiasi aspetto minaccioso di quel taglietto che potesse
metterli in allarme. La sottile linea rossastra era esaltata dalla pelle
lattea, ma il sangue s’era già rappreso e sarebbe bastato qualche goccia di
disinfettante a sistemare tutto. Il problema che però stava per bussare alle
loro porte era un altro.
–
Non mi fa male, sul serio. – Duff alzò lo sguardo dalla ferita al volto della
ragazza quando quella cercò di convincerlo del suo stato di salute, constatando
subito la loro vicinanza. S’erano tenuti a debita distanza l’uno dall’altra
dalla fine della festa, e quel nuovo, semplice, contatto tra le dita del ragazza e il ventre piatto di Adrien resuscitò nella
loro mente i pensieri poco casti del loro ballo, della loro scappatella. Era
bastato così poco per rianimarli: il ragazza lo fissò
intuendo i suoi pensieri, soffocando con la vista di quegli occhi verdi di
nuovo infiammati dal desiderio le paure che la scuotevano. Avrebbe affrontato i
propri demoni più tardi. In controluce rispetto a lei, il volto di Duff
appariva sfuggevole, senza che i suoi occhi riuscissero a distinguerne icontorni indefiniti
da quel gioco di luci. Per reazione istintiva allo sguardo grigio di Adrien, il
ragazzo fece scivolare la mano lungo la gonna del vestito, fino a raggiungerne
le estremità. Poco contava il fatto che fossero in una strada pubblica e che
avrebbero dovuto cercare la direzione per il locale di Michelle. Sul viso
impassibile di Adrien si aprì un ghignò malizioso che
prima Duff non le aveva visto: la ragazza avvicinò al suo volto il proprio,
alzandosi in punta dei piedi senza il vantaggio dei tacchi alti, che ancora
stringeva in mano. Quando il ragazzo sentì quelle labbra sottili depositare un
leggero bacio sul proprio collo pallido, brividi che non avevano niente a che
fare col freddo lo attraversarono. Gli bastò poco per seguirla ancora nel buio,
in un vicolo scelto fra i tanti di quel quartiere sconosciuto.
-
Ti ha proprio beccato, eh? – ignorando i lamenti di Slash quando depose il
batuffolo di ovatta imbevuto di acqua ossigenata sul sopracciglio rotto, Izzy
continuò imperturbabile il suo lavoro provvisorio d’infermiere. La seconda lite
della serata fra il chitarrista e Michelle avevano prodotto un calcio bene
assestato della ragazza nelle parti intime del poveretto, che era caduto a
terra procurandosi un bel taglio sopra l’occhio destro. – Quella sarà la causa
della mia morte, te lo dico io… - nonostante la ferita non fosse niente di
particolare, i gioielli di famiglia di Slash ancora dolevano per l’incontro con
le scarpe col tacco della ragazza. Izzy scoppiò in una risata rauca, simile ad
un latrato, prima di tornare a medicare l’amico che si lanciò in una nuova
serie di smorfie insensate di dolore. – Sei proprio una femminuccia. Grande e
grosso per niente… E’ lei quella che porta i pantaloni, te lo dico sempre! –
l’affermazione non proprio filosofica di Izzy nascondeva un’esilarante parte di
verità, di cui i due non si dilungarono a parlare. Il ragazzo a cui avevano
chiesto ospitalità per curare le ferite di Slash li stava guardando in
cagnesco, ansioso di poter scomparire con la stangona bionda che aveva
rimorchiato e che lo aspettava in camera da letto. Avvertendo l’impazienza del
padrone di casa, i ragazzi si affrettarono a svignarsela da quel buco di casa
per tornare dagli altri, sghignazzando contro quel pivello. Il resto della
compagnia li aspettava davanti ad un locale con un’insegna al neon ad
intermittenza, ridendo come matti delle condizioni di Slash.
-
Ancora nessun avvistamento? – Linda se ne stava in un angolino a tremare ancora
come una foglia per l’arrivo improvviso della polizia alla festa; Maxie invece
era il ritratto del relax, il braccio tatuato sulle spalle di una biondina
niente male con cui ogni tanti riprendeva a pomiciare, adocchiata anche da Axl;
quest’ultimo beveva da una lattina di birra fregata dal locale alle loro
spalle, godendosi le attenzioni di una burrosa mora di cui probabilmente non
conosceva nemmeno il nome; Steven se ne stava seduto fra un paio di ragazzi
loro amici, a ridere a fumare le poche sigarette rimaste del pacchetto che Izzy
gli aveva ceduto a malincuore. – Te lo dico io, Duff non si fa vedere fino a
dopodomani. Avrà trovato un letto su cui lavorarsi per bene la sua Babette. –
rispose Axl, prima di lasciare che la mora si dedicasse all’esplorazione
dettagliata della sua cavità orale. Era ormai passato un indefinita
ma sicuramente discreta quantità di tempo da quando avevano abbandonato il
locale, riuscendo a salvare le chiappe dai manganelli per il rotto della cuffia,
ma Duff sembrava essere scomparso con quella Adrien. Da dentro lo squallido
locale proveniva musica assordante e a dir poco orribile, niente a che vedere
che le melodie di qualità che producevano loro. Slash sospirò, senza però dare
segni di turbamento davanti al postaccio in cui la sua ragazza era costretta a
lavorare per portare a casa più soldi di quelli che avrebbe guadagnato a fare
la cameriera. Izzy lo fissò, ben sapendo che dopo l’ultima litigata la cosa
doveva pesargli ancora di più: l’amico aveva avuto tempo per abituarsi ai ritmi
insani di Michelle, ma non per accettarli.
Poi
Linda sollevò lo sguardo che sembrava aver conficcato nell’asfalto scuro,
rivolgendolo verso due figure che avevano appena svoltato l’angolo della strada
principale. Le labbra della ragazza si strinsero in una smorfia indecifrabile
alla vista dei lunghi capelli rossi di una delle due sagome, prima che anche
gli altri li avvistassero. – Chi si vede! – gridò Izzy agitando una mano in
direzione di Duff e della sua adorabile accompagnatrice. Il ragazzo notò lo
strano sorriso sul volto dell’amico, come se Adrien gli avesse appena
raccontato qualcosa d’incredibilmente divertente. Ma, a giudicare da come i due
s’era dati da fare in pubblico durante quel loro ballo scatenato, quell’espressione
doveva essere dovuta a ben più delle capacità oratorie della ragazza. Uno alla
volta, tutti i presenti si voltarono in direzione dei nuovi arrivati, curiosi
di scoprire in qualche modo se tutto fosse andato secondo le loro aspettative.
Axl colse al volo l’occasione per esibirsi in una serie di battutine esplicite
prima dell’arrivo dei due. – Ehi, le hai strappato i vestiti di dosso? –
commentò Slash ghignando, dopo aver notato la rottura nell’abito che Adrien
indossava. Né quest’ultima né Duff si degnarono di rispondere agli amici,
guardandosi complici per pochi secondi, prima che il ragazzo si gettasse alla
ricerca di qualche bramata sigaretta. Prima che qualcuno potesse porre
qualsiasi domanda, discreta o meno, uno dei ragazzi del gruppetto di Steven si
alzò di scatto, sorprendendo tutti. – Adrien! – senza accorgersi di come Duff
l’aveva squadrato in cagnesco, il ragazzo si avvicinò alla rossa con un sorriso
decisamente troppo vivace.
-
Tyler! – persino Maxie aveva smesso di pomiciare con la sua biondina per
seguire quello scambio di battute poco rassicuranti. Adrien ricambiò il sorriso
di Tyler con addosso l’aura misteriosa di sempre,
senza curarsi di spiegare ai presenti come s’erano ritrovati con un conoscente
in comune. La ragazza gli si avvicinò quasi dimenticandosi di Duff, che aveva
preso posto fra i suoi amici fingendo di non essere minimante interessato a
Tyler. Izzy si lasciò scappare una risata che riuscì a far passare per un colpo
di tosse molto strano, prima di prendere posto vicino al bassista e mollargli
una poderosa pacca sulla spalla. Il brusio del chiacchiericcio allegro tipico
della fine della notte si diffuse nell’aria, un piacevole diversivo alla musica
di bassa qualità che proveniva dal locale. Ogni tanto quasi tutti si concedevano
di origliare la conversazione fra Adrien, che attirava su di sé gli sguardi dei
presenti come una calamita, e Tyler, che pian piano si stava prendendo sempre
più confidenza con la ragazza. Nessuno poteva sapere che s’erano conosciuti
proprio il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta Duff e Adrien,
fuori dal bar in cui lei aveva dato appuntamento a Robin. Di certo il bassista
non si stava impegnando per mascherare il proprio disappunto per le mani
ingombranti del ragazzo sui fianchi di Adrien, che sorrideva soddisfatta. – Che
stronzate… - sussurrò fra sé e sé Maxie guardando impassibile la scenetta da
teatro di basso livello che si consumava davanti a lei, mentre la biondina al
suo fianco annuiva con vigore. Il pezzetto di orizzonte che s’intravvedeva dai
grandi blocchi di edifici andava facendosi più chiaro, proiettando nel cielo
scuro sfumature differente d’alba.
I
pensieri che ognuno formulava in quei momenti di transazione fra una delle tanti notte andate e di un nuovo, schifoso giorno
erano più o meno distanti dalla realtà che li circondava. Tutti però erano
ancora in grado di fare affidamento alla confusione che s’erano indotti tramite
un miscuglio esplosivo di sballo. Sentirsi tramortiti da una vita di
divertimento rendeva più facile quella serie di azioni sconsiderati in cui
s’impegnavano. Fingere di non provare gelosia nei confronti di una delle tante,
ignorare l’arrivo del sole che rischiarava quel quartiere squallido, mentire
spudoratamente soltanto per godere della rabbia degli altri. Anche nel caso di
Michelle era solo questione di saper nascondere abilmente sotto uno strato di
bugie quanto quel lavoro le facesse schifo. – Via, scimmione! Se credi che mi
vada di scopare adesso sei proprio fuori strada! –
uscendo dal retro della bettola in cui s’era spogliata a pagamento, la ragazza
bloccò con schiettezza il tentativo di Slash di farsi perdonare la seconda
scappatella nel giro di poche ore. La compagnia che aveva lasciato fuori dal
locale s’era trasformata considerevolmente: Linda se n’era andata, Maxie con la
sua conquista pure, Tyler anche, per la gioia di Duff che chiacchierava
entusiasta con quella Adrien. – Qualcuno mi da un
letto per stanotte? Non ho voglia di scarpinare fino a casa! – continuando ad
ignorare le parole di Slash, Michelle si unì platealmente al gruppetto, usando
la solita scusa per giustificare la sua assenza prolungata dalla casa paterna.
Adrien
si voltò verso di lei senza essere in grado di rinunciare ad un cipiglio
altezzoso, sorridendole: Duff, in piedi davanti a lei, continuava a parlarle di
cose che lei non stava ascoltando. Tyler se n’era andato da poco e il ragazzo
non aveva perso tempo per reclamare la sua attenzione, quasi ognuno avesse il
proprio turno per parlare con lei. E ora quella Michelle, la persona che
avevano aspettato fino a quel momento dietro quello squallido posto per finte
battone, elemosinava ospitalità. Quegli strani drammi umani di persone così
diverse da lei erano insolitamente divertenti. – Puoi stare da me. –
interrompendo sul più bello un discorso sul punk rock che inglese che aveva
coinvolto pienamente Duff, Adrien rivolse un cenno d’intesa a Michelle, che
sembrava sorpresa. Volgendo lo sguardo poi verso il ragazzo con cui stava
parlando, notò con piacere abilmente mascherato come questo sembrasse piuttosto
stupito. La ragazza aveva capito con precisione la lunghezza d’onda dei suoi
pensieri, decisa a non lasciarsi cogliere impreparata ancora una volta. – Ma…
Non torni a casa con me? – la risposta alla domanda di Duff arrivò con un colpo
di clacson poco distante dal punto in cui si trovavano. Nello stupore generale,
i presenti appurarono che, al contrario di ciò che avevano pensato, Tyler non
se n’era affatto andato. – Ho detto così? – la falsa innocenza ostentata da
Adrien contribuì a rendere la sua uscita di scena altamente plateale. Solo la
risata di Michelle, mentre entrambe saltavano nei sedili posteriori della
Cadillac di Tyler, riuscì a evidenziare lo stato d’animo di Slash, Duff e di
tutti gli altri ragazzi, così differente dall’ilarità delle due. Un dito medio
elegantemente alzato fu il loro saluto mentre la notte fuggiva insieme a loro.
Always looking straight, thinking, counting, all the hours you wait:
see you on a dark night.
(Grimes - Oblivion)
Eccomi
tornata da un giorno di shopping, cioccolata e arte moderna a Milano,
completamente distrutta. Credevo di dover aggiornare domani, invece sono
tornata prima del previsto: tanto meglio, no? xD OK, piccoli chiarimenti! Prima di tutto, la
canzone di Pink: non è propriamente il mio genere, però tutto sommato la
cantante fa un buon pop-rock e la canzone si addiceva
al capitolo! Poi, voglio dedicare ad Adrien (la mia bambina xD)
la canzone dei Joy Division
con cui ho aperto il chappy, sono andata a leggere il testo e l’ho trovato molto
adatto! Parlando sempre di canzoni, quella su cui Adrien e Duff ballano nello
scorso capitolo è “Should I stay or should I go?” dei mitici The Clash,
il che significa che Miss_Rose con la sua intuizione dell’ultimo minuto ha
indovinato. Sono però andata ad ascoltare le canzoni da voi suggerite che non
conoscevo già e devo dire che sono tutte molto belle! ^.^
AmyHale:
i cinesi ubriachi al ristorante coreano sono stati il massimo xD tornando alla storia, intendo pesante nel senso di
scrittura. Forse sono stata un po’ troppo ridondante… vorrei fidarmi ciecamente
di quello che dici, però il mio complesso d’inferiorità mi blocca!
Miss_Rose:
come hai già letto, l’ultima canzone che hai suggerito è quella giusta. Oltre
che stupenda, il testo era anche piuttosto appropriato ;) Reese: beh, è
naturale che tu ti ponga queste domande xD non ho
ancora spiegato ciò che è successo, attendendo il momento della storia più
propizio! Non ti preoccupare, non manca tanto, luce sarà fatta su questo
mistero xD
_LittleAxl_:
Skins! Come farei senza di loro? E’ uno dei pochi
telefilm che mi abbia mai coinvolto! J Poi ho scritto lo scorso capitolo guardando questo e questo video, perciò è
naturale che sia riuscito un po’ psichedelico! Grazie, ho passato delle
bellissime vacanze e sono tornata piena d’ispirazione! J
Sylvie
Denbrough: te l’ho già detto che adoro le tue recensioni? Sì, forse troppe
volte, non vorrei essere noiosa ma… te lo ripeto lo stesso! Beh, l’amicizia con
Robin è sicuramente uno dei legami più stretti che Adrien ha, ma bisogna sempre
tenere in conto della persona con cui abbiamo a che fare xD
Slash e Michelle: già i loro nomi accoppiati dicono tutto! Un’idea brillante
che mi è venuta all’ultimo secondo!
aivlis8822: ma sì, guarda che capisco un
incomprensione, i miei capitoli sono talmente lunghi che è naturale che alla
fine uno sia stanco e che abbia una svista xD il
sondaggio sulla canzone era infatti per immergervi un po’ di più nel vostro
punto di vista, e anche se epoca e genere non coincidono una persona può
immaginare una scena con qualsiasi canzone le venga in mente xD
IoMe: lo ripeto, tu in questo periodo hai
un dono per le recensioni! Sono bellissime da leggere! Ma ricordati che voglio
vedere anche la tua storia pubblicata AL PIU’ PRESTO… uff,
mi sei mancata in questi giorni! Domani non so come cazzo riuscirò a svegliarmi
ma… see you tomorrow!
drivin’ your friends crazy with your life's insanity. ”
(Guns N’Roses – My
Michelle)
Quella
però non sarebbe stata la serata fortunata di Tyler: bastarono poche parole per
convincerlo a cederle gli ultimi psicofarmaci di contrabbandando e mandarlo a
casa a mani vuote. Quando Adrien si chiuse la porta della dependance alle
spalle con un sospiro sfinito, aveva già perso di vista la sua ospite che non
s’era fatta alcun problema a girare per la casa. Quando la rossa ritrovò
Michelle, la ragazza era già distesa sull’enorme letto a due piazze nella sua
camera da letto. – La tua casa è una figata! – il tour panoramico della dimora
della sua famiglia era bastato per mandare in estasi la nuova arrivata, che
aveva rinunciato ad un’ennesima porzione di sonno per esplorare la dependance
di Adrien mentre questa intratteneva Tyler. La padrona di casa si appoggiò allo
stipite della porta con discrezione, alzando gli occhi al soffitto nell’attesa
che Michelle si addormentasse. – Fra quante ore dobbiamo andare a scuola? –
dopo aver soffocato uno sbadiglio infatti, la ragazza
pose quella domanda con voce strascicata: faticava a mantenere gli occhi
aperti. Adrien la guardò perplessa, chiedendosi come facesse a sopportare
quell’estenuante routine senza le comodità che lei aveva a disposizione. –
Quattro ore. – disse, gettando un’occhiata veloce all’orologio digitale sul
comodino a fianco del letto. Ma la sua risposta non arrivò mai alla
destinataria, velocemente sprofondata fra le braccia di Morfeo: era incredibile
come la sensuale Michelle svanisse col sonno, lasciando spazio all’innocenza di
una bambina.
Non
avrebbe mai ammesso come in quel momento la invidiasse da morire: nonostante
quella vita al limite di ogni settore riusciva ancora a godere di sonni
tranquilli. Che essi fossero frutto di una stanchezza infinita e perenne più di
tanto non contava, quando l’unico modo per trovare una calma decente per Adrien
era in dosi da due o tre pillole. Quando queste scarseggiavano o non facevano
subito effetto, tutto si concentrava sempre nell’ostentare impassibilità e
magnetismo. La ragazza chiuse la porta della camera dopo aver passato qualche
minuto a fissare il vuoto, cercando inconsciamente di carpire i sogni di
Michelle. Non appena quest’ultima s’era addormentata, Adrien non era più
riuscita a reggere quella vaga imitazioni di serenità con cui aveva dato ai
ragazzi il benservito. Calciando via gli stivali e sfilandosi il vestito rotto
con rabbia, si precipitò in cucina dove, dalle vetrate, qualche raggio di sole
proiettava sfumature d’ombra negli interni. Cercò di controllare il respiro,
fingendo persino con sé stessa di non sapere il motivo di
quell’iperventilazione improvvisa. Il graffio rosso di sangue era ancora ben
visibile ed irritato sul suo ventre, proprio sopra la lettera tatuata sulla sua
pelle bianca. Nel posare lo sguardo su quell’insignificante ma bruciante segno
si sentiva ancora debole. Sembrava quasi che su quella parte del suo corpo
fossero rimasti i segni dei polpastrelli di quel ragazzino, fiammanti quanto la
ferita.
Con
uno scattò si volto verso il lavandino quasi sempre inutilizzato del piano
cottura: aprì velocemente la manopola dell’acqua, lasciando che questa restasse
ghiacciata. Le gocce gelate che le bagnarono il viso diedero l’illusione di
smorzare quel bruciore che, per quanto cercasse di convincersi, andava oltre quelle poche gocce di sangue rappreso. Ciocche di capelli
bagnati si attaccarono al contorno del viso distorto da una smorfia di rabbia.
Non riusciva accettare quel ribaltamento improvviso del suo equilibrio. Non
quando sapeva benissimo che lo doveva ad un biondo da strapazzo che aveva snobbato, una delle tante insignificanti prede di cui si era
circondata. Forse sentiva quel bisogno impellente di toglierselo di dosso
perché Duff aveva scoperto qualcosa che quelli che l’avevano preceduto avevano
fatto finta di non vedere. “Io so il tuo segreto”, una bomba ad orologeria
racchiusa dentro cinque piccole parole. Poco importava che fosse a conoscenza
di ogni suo segreto: ciò che realmente contava era che in qualche modo si fosse
interessato a lei. Era quello che rendeva il suo sconvolgimento, la fiamma che
aveva iniziato ad ardere da quando l’aveva toccato così spaventosa. Quasi come
vittima di un’affascinante tentazione, l’occhio della ragazza cadde su un
sacchettino di plastica lì abbandonato. Sarebbe andata a scuola lo stesso,
aveva bisogno del suo sceneggiato di scuse con Robin, ma le pillole
dall’origine ignota erano un richiamo selvaggio. Quasi quanto le loro gemelle
nascoste in una piccola credenza in alto che tutti i domestici fingevano di non
vedere. Dopo averle inghiottite con fatica, il sorriso di un bambino vestito da
uomo fu l’ultima cosa che vide nitidamente.
Michelle
era sola quando si risvegliò: lo seppe ancora prima di gridare il nome della
sua ospitante in attesa di una risposta. Quando un appartamento è deserto, il
silenzio che lo pervade è incontaminato, senza il ronzio dei pensieri di una
persona che cerca di nascondersi: lo sapeva bene, la ragazza. Stiracchiandosi a
lungo sul comodo letto su cui aveva dormito, impiegò eterni minuti ad
allontanarsi da tutta quella comodità. Le vetrate che sostenevano l’edificio
lasciavano passare la luce di un altro assolato giorno della California, che
infastidì i suoi occhi abituati al buio. Tutto attorno a lei trasudava sfarzo e
denaro, senza neanche un dito di polvere sui mobili dai colori freddi, dallo
stile moderno e raffinato. Non era mai stata in un posto così bello, talmente
simile alla casa dei suoi sogni da farla star mare: a piedi nudi girovagò di
stanza in stanza rinunciando anche agli ultimi residui di sonno. Ignorò il
biglietto su cui Adrien aveva scarabocchiato qualche avvertimento di cortesia,
sapendo già che vi avrebbe trovato poche parole di circostanza. Sorrise fra sé
e sé, prima di lasciarsi cadere sul divano in pelle del soggiorno con un
sacchetto di biscotti trovato fra le credenze. Forse, soltanto per un minuto o
due, avrebbe potuto immaginare di vivere realmente in una dimora del genere, in
attesa di un marito bello e ricco che l’avrebbe baciata e l’avrebbe ricoperta
di regali. Circondata da quel lusso, quella piccola fantasia personale
diventava tremendamente reale.
-
Qui
tu es? – ma spesso
l’immaginazione gioca brutti scherzi, lasciandoci soffermare troppo su quelli
che sono soltanto suoi prodotti e allontanandoci dalla realtà. Per lo meno, la
signora di colore ferma sulla soglia della dependance che fissava Michelle con
cipiglio assassino doveva pensarla così. La ragazza, alzandosi di scatto e
malvolentieri dalla bella pelle nera del divano, si sforzò di tradurre la
domanda della donna, o per lo meno di riconoscerne l’accento, trovando infine
ogni suo sforzo vano. – Sono un’amica di Adrien! Adrien Miller, sono una sua
amica! – nemmeno la donna aveva però l’aria di capire quelle spiegazioni
balbettate e vaghe, accompagnate da gesti frenetici delle mani. La sconosciuta,
appoggiando le mani sui fianchi burrosi, assunse un’espressione ancora più
rabbiosa della precedente, elevando alla potenza ennesima l’ansia della povera
ragazza. In quel momento, quelle comodità regalate da Adrien anche solo per
quella mattina apparivano come una trappola bene studiata. E la donna, a metà fra
un sicario ed una pescivendola dei vecchi film italiani, era sicuramente il
cacciatore. – Qui tu es? Tu ne peaux pas rester ici, je vais a téléphoner à la police ! – sbraitava con il vocione
infervorato, torturando con le mani il grande grembiule bianco. Michelle
indietreggiò di qualche passo, cercando con gli occhi una possibile via di fuga
nel caso il donnone avesse avuto intenzione d’attaccarla. Appariva in tutto e
per tutto una domestica qualsiasi, ma l’aspetto era talmente feroce da metterle
una tremenda fifa. Alcune lettere biascicate in fretta e suoni gutturali senza
senso logico non aiutarono ulteriormente la ragazza a redimersi agli occhi
dell’arrabbiata sconosciuta.
Poi
oltre le vetrate apparve una sagoma messa in ombra dalla luce del sole, una
donna in costume da bagno dall’espressione sbigottita. – Vivienne? – domandò
con voce acuta, puntando lo sguardo coperto da enormi occhiali scuri sulla
ragazza ancora tremante all’idea di un possibile attacco del donnone.
Quest’ultima però sembrò diventare tutta d’un tratto docile come un agnellino
al solo suono della voce di quella che evidentemente era la padrona di casa. –
Sono… Sono un’amica di Adrien! – tentò di scusarsi Michelle, alzando le mani in
alto in segno di resa come davanti ad un agente di polizia, trattenendo il riso
davanti a quella metafora balenata nella sua mente al momento sbagliato. La
donna appena apparsa si tolse gli appariscenti occhiali, assottigliando lo
sguardo come nel tentativo di individuare qualsiasi tipo di bugia. Poi si volse
al carro armato vivente al suo fianco, bisbigliano qualche cosa nella lingua
parlata dal donnone: un ordine di andarsene, probabilmente, che pochi secondi
dopo il carro armato eseguì. – Scusa. Abbiamo avuto delle recenti introduzioni
da parte dei ladruncoli della zona, e Vivienne era preoccupata. E’ sudafricana,
parla solo la sua lingua nativa e il francese. – dopo qualche momento
d’imbarazzante silenzio, quella che doveva essere la madre di Adrien le si
avvicinò spiegandole la situazione con voce strascicata, quasi timorosa. Doveva
aver passato la cinquantina d’anni, ma nell’insieme risultava sia abbastanza in
forma per la sua età, sia incredibilmente sciupata. C’era qualcosa di triste
nel suo sguardo, qualcosa che appesantì le parole della risposta di Michelle,
ancora stupita. – Non si preoccupi. – le solite parole di circostanza.
-
Allora, sei un’amica di Adrien? Vai a scuola con lei? – era evidentemente che
la figlia non era l’argomento di conversazione preferito da Lisette Schneider
Niven. I suoi occhi fuggivano quelli imbarazzati di Michelle, frugando la
stanza senza avere il coraggio di addentrarsi in quel mondo: era semplicemente
la presenza discreta di una donna che non era nata per essere madre. – Sì… ieri
sera mi sono sentita male, ed Adrien è stata così gentile da lasciarmi dormire
qui. – la bugia inventata su due piedi dalla ragazza sembrò sortire uno strano
effetto sulla donna, che si volse a guardarla indagatrice. Se anche avesse
intuito che le parole di Michelle non erano altro che un tentativo di evitare
qualsiasi altra domanda, non lo diede a vedere. – Ti ha ospitato… Beh, avrei
voluto che me lo chiedesse ma… Ormai, chi la contiene più quella ragazza? Anche
Annalou sta iniziando a diventare un po’ ribelle… - Michelle non ebbe il
coraggio di dirle che non aveva la più pallida idea di chi fosse Annalou, non
davanti all’espressione con la quale parlava. Nascondeva l’avvilirsi che
probabilmente accompagnava le sue giornate sotto svariati tentativi di
ripetersi che tutto va bene, tipico della gente ricca e spaventata dai problemi
della vita. La ragazza si chiese da quanto tempo ormai Lisette non si
confidasse con qualunque sulla sua vita.
-
Emh… Beh, io adesso vado, signora. Grazie… sì, dell’ospitalità e di tutto… -
desiderosa di sottrarsi alla malinconia che quella donna sprizzava da tutti i
pori, Michelle mise insieme alla svelta un altro paio di parole di circostanza.
Si chinò alla svelta a raccogliere il sacchetto di bischetti che alla comparsa
del donnone aveva gettato a terra, guardandosi attorno alla ricerca di
qualcos’altro di cui occuparsi. A quel punto, avrebbe preferito trovarsi fra le
sgrinfie del carro armato che ascoltare ancora le confidenze di Lisette sulle
figlie. – Sì, sì, hai ragione. Ha rimesso le foto…- le parole della donna non
giunsero nemmeno alle sue orecchie mentre Michelle rimetteva ciò che aveva
spostato al suo posto. Non aveva idea di quali foto stesse parlando Lisette, e
non voleva nemmeno saperlo: la sua fantasia interrotta di brusco sembrava
lontana anni luce. Ancora vestita di tutto punto dalla sera precedente, si curò
soltanto d’infilare in tasca una banconota da cinquanta dollari abbandonata su
uno dei tavolini. Con passi svelti su scarpe con tacco da quattro soldi,
oltrepassò la figura della donna uscendo nell’ampio e curato giardino della
villa. Non si curò nemmeno di salutarla, capendo che non sarebbe stata
ricambiata da come Lisette fissava una delle cornici appesi ai muri perfetti
della dependance. Sarebbe stato difficile immaginare come una persona avesse
potuto sentirsi inadeguata in una situazione del genere se non l’avesse provata
sulla propria pelle.
-
Pronto? Pronto? Parlo con casa Marshall? – un indeterminato lasso di tempo più
tardi, la ragazza si trovava su una delle strade adiacenti all’imponente dimora
dei Niven, strizzata in una sporca cabina telefonica. Sulla cornetta qualcuno
aveva scritto con un indelebile nero un numero ed un invito a chiamare il
suddetto, ma decisamente a Michelle non interessava. Dall’altro capo del
telefono si udivano rumori sommessi, risolini di bambini, il suono della vita
domestica che nel giorno prende forma. Un grugnito sommesso rispose alle sue
domande, lasciando che fosse lei a decifrare a chi appartenesse quella voce
indaffarata. – Sono Michelle, Jenny! Sophie è andata a scuola? – se solo Maxie
avesse saputo che stava parlando con sua madre chiamandola con il suo nome di
battesimo, l’avrebbe ammazzata. Non passava giorno che l’amica non ribadisse
quanto “Sophie” fosse più adatto ad una ballerina in completo rosa e espressione
di zucchero filato. – Ah sì, sei Michelle… - la voce
velata della donna le fece intuire che probabilmente era troppo occupata a
badare alla numerosa prole che ad imparare a memoria i nomi degli amici di una
dei suoi tanti figli. – Sì, Sophie è a scuola… credo. Perché è successo
qualcosa? – solo allora Jenny parve dimostrare una vaga emozione,
improvvisamente ansiosa sul conto della ribelle ragazza. Michelle iniziò a
pensare che forse non era stata un’idea così brillante porre quelle domande
scontate: s’era lasciato guidare da un’intuizione come sempre, pensando che
dopo la serata devastante Maxie avesse adottato la sua stessa tecnica e fosse
rimasta a dormire.
–
No, no, Jenny, non ti preoccupare… E’ tutto apposto. – attese invano di
ricevere una qualsiasi risposta diversa da uno schiamazzo di bambino
capriccioso, uno dei fratelli minori di Maxie che reclamava l’attenzione della
mamma. Quando fu chiaro che Jenny aveva lasciato la cornetta del telefono per
porgere orecchio ai figli, Michelle riattaccò con un sospiro. Avrebbe voluto
chiamare la madre di Linda o di qualche altra compagna di scuola, ma l’istinto
le diceva che tutte loro erano in qualche aula chine sui libri e comportarsi da
brave ragazze. E i loro genitori non tolleravano la presenza della diversità di
Michelle nelle vite delle loro figliuole. La ragazza uscì dalla cabina
sbattendo la porta con violenza, addentrandosi nelle vie che l’avrebbero
condotta fuori da Bel Air. Il lusso di cui era circondata e che prima l’aveva
portata su fantastici sogni sulle vite degli altri appariva ora ingombrante,
pronto a soffocarla. Forse era perché stava iniziando a farsi largo fra i suoi
tentativi di fuga un pensiero inequivocabile che indicava una sola possibilità.
– Porca puttana! – per quanto fosse seducente con la minigonna nera e la
canottiera che avrebbe vestito a pennello una bambina, quei vestiti erano
sporchi. Puzzavano di sudore, di tabacco, e nelle sue più nefaste riflessioni
Michelle era in grado di sentire persino l’odore del Night Club in cui lavorava.
E se non poteva chiedere in prestito qualche vestito ad una conoscente, le
rimaneva una sola strada da intraprendere: fare una visita a casa.
Non
aveva idea di che ore fossero, ma nessuno la squadrava per il suo abbigliamento
notturno: le strade di Los Angeles popolavano fin dalle prime luci dell’alba di
ragazze che i genitori di Linda avrebbero chiamato “poco per bene”. Il sole
picchiava sul suo capo coperto dai riccioli scuri, che ondeggiavano ad ogni
suoi frettoloso passo sui marciapiedi coperti di sporcizia. Era già passata
un’ora da quando aveva lasciato la cabina telefonica, giocandosi gli ultimi
spiccioli per una telefonata che non le aveva portato nulla. E adesso
camminava, pagando il prezzo di ciò fissando autobus e taxi passare davanti ai suoi
occhi strapieni di gente con un lavoro fisso, una casa, figli e un mutuo. Ai
suoi occhi colmi di fantasie irrealizzabile che
nascondeva al mondo, sembravano tutti schifosamente uguali. Passando davanti
alle vetrine di uno degli angusti locali tipici di quella zona periferica, uno
sdentato operaio le sorrise languido, fra le risate
dei colleghi. – Fottiti, ciccione. – Michelle non era
fatta per ignorare quelle provocazioni insulse: mostrò un elegante dito medio
all’uomo che rise di lei sguaiatamente. – Puttana! – l’eco di quella parole le giunse alle orecchie fra le risate
generali, colpendola sulle cicatrici create dal tempo. Quell’epiteto non faceva
più male, ormai.
Trovò
le chiavi al solito posto, nascoste sotto lo zerbino ed un solido strato di
polvere: le afferrò fra le punte del pollice e dell’indice, disgustata. Se la
fortuna girava, un volta ogni tanto, dalla sua parte,
Matt sarebbe stato a letto con una delle sue squallide compagne, a dormire come
un bambino dopo una notte di mediocri amplessi. Certo, bisognava tenere in
conto che la vita sembrava averle riservato una serie
di sfortune non da poco, nonostante lei se la cavasse egregiamente nello
schivarle. – Papà? – che suono strano, quella parola
pronunciata con la sua voce. Credeva quasi d’averla disimparata col tempo. Il
silenzio dell’appartamento non era convincente, un ronzio cupo di un computer
l’accolse dopo qualche secondo. Evidentemente, Matt era troppo occupato a
masturbarsi davanti alle foto di prorompenti asiatiche per rispondere alla sua
unica figlia. Michelle fece il suo ingresso nell’appartamentino non troppo
decorato, arredato del minimo indispensabile per vivere. Quando sua madre era
vissuta fra quelle quattro mura, riusciva a far sembrare colorato quel posto
anche alla bimba che la ragazza era stata. Certo, era quasi sicuramente merito
della droga. – Prendo dei vestiti. – mormorò discreta, attenta a non fare
troppo rumore: istigare bislacchi sentimenti paterni non era il suo obiettivo.
Doveva semplicemente cambiarsi ad andarsene di lì, per poi tornare un
pomeriggio quando certamente Matt sarebbe stato a lavoro… o a bighellonare con
quei suoi sciatti amici.
-
Ah, tesoro! – non riuscì però ad evitare di passare davanti alla postazione del
computer, sistemata alla bell’e meglio nello stretto corridoio. Matt non era
più attraente come lo era stato da giovane: la calvizie incipiente aveva
lasciato una pelata lustra, la pancia era a fatica contenuta dai pantaloni
sporchi di mostarda. Il rumore del cliccare del mouse alla comparsa di Michelle
fece supporre alla ragazza che il caldo incontro con
qualche prostituta online fosse terminato. – Come stai? Come mai non sei a
scuola? – chiese, guardandola con gli occhietti acquosi nella parodia di un
padre amorevole. Michelle non riuscì a esibire nient’altro che una smorfia
ingannevole, prima di oltrepassare l’uomo con passi svelti. S’infilò nella
propria camera, alla ricerca di vestiti puliti: il ribrezzo profondo le
accapponò la pelle mentre sentiva la sedia del computer muoversi nel corridoio.
– Oggi è vacanza… - biascicò frugando nei cassetti semivuoti, sapendo che
nonostante la sua scusa non fosse nemmeno lontanamente credibile sarebbe
bastata. – Ah sì… sì, mi ricordavo che era una cosa del genere… - l’improvviso
soliloquio di Matt Young provocò in Michelle una serie di risatine convulse,
che soffocò portandosi un paio di jeans sulla faccia. Non c’era gioia in quella
voglia di ridere a crepapelle, soltanto impotenza davanti alla natura dell’uomo
che le aveva dato la vita: destava tornare in quella casa. – Karen dov’è? –
domandò poi senza riuscire a trattenersi, scossa da
una nuova serie di brividi alla nomina dell’ultima donna del padre. Questo
sbuffò rumorosamente, mentre alla svelta la ragazza infilava i vestiti puliti e
ficcava in una borsa quelli sporchi. – Beh… è andata. E’ da un paio di giorni
che non la vedo… Bah, era una troia. – certo che lo era: chi poteva farsi
scopare da un balordo del genere se non una disperata?
-
Già… - annuì distrattamente Michelle dopo essersi infilata una camicetta
striminzita, cercando di contenere i commenti sarcastici suscitati dalle
affermazioni dell’uomo. Si fermò soltanto per ascoltare i rumori provenienti
dal corridoio, controllando che a Matt non passasse per la testa l’idea di
entrare nella camera. Non avrebbe sopportato di trovarsi nella stessa stanza
con quel coglione senza insultarlo. – Micha, sai che sei cresciuta? A casa non
ti si vede mai… - quando ritornò nell’angusto corridoio trovò gli occhi di
colui che avrebbe dovuto essere suo padre vagare sul suo corpo. La luce di
sempre gli illuminava, creando bagliori di fuoco nelle iridi libidinose persino
nei confronti della figlia. La ragazza arricciò le labbra, lasciando che il
proprio disgusto affluisse in direzione dell’uomo, ricambiando lo sguardo con un’incredibile
freddezza in cui non c’era traccia di rimpianti. Odiava che la chiamasse in
quel modo, con il soprannome che tutti tendevano ad associarle. Un tempo quelle
cinque lettere erano state pronunciate con amore, da una donna troppo bella
perché il mondo non l’avesse presa di mira. In quella casa non era rimasta
alcuna fotografia di Leah. – Io torno sempre, papà… solo, quando torno io tu
non ci sei mai. – senza rinunciare alla formalità del titolo familiare che
senza merito Matt si era preso, Michelle gli sorrise
senza gioia. La repulsione per quel verme era difficile da contenere, battuta
soltanto dalla voglia di andarsene di lì. Anche quando da sola si ritrovava a
ripescare vestiti da quel sudicio appartamento, si sentiva oppressa in quel
luogo. Era come starsene intrappolati in una gabbia fatta di ricordi spessi e
di risentimenti che mai sarebbero passati.
Matt
non trovò alcuna possibilità d’impedire alla figlia di uscire, né s’impegnò per
farlo. Stringendo con forza le dita attorno al manico della borsa che aveva
preso, Michelle si costrinse a fare attenzione ai gradini delle scale del
condominio per non cadere. La voglia di rompere ciò che le capitava a tiro era
forte, la chiamava come una necessità primaria. Chissà quanto tempo era passato
dall’ultima volta che aveva fatto visita alla tomba grigia nel cimitero
dall’altra parte della città: forse temeva di non riuscire più a rievocare
l’immagine eterea di sua madre che aveva prodotto da bambina. Sapeva, in fondo,
che il veleno aveva nel cuore se n’era andato con gli anni ma aveva lasciato la
sua traccia, una scia di sangue che l’aveva cambiata. Camminare per le strade
vuote e spente nonostante il sole accecante e il clima di Los Angeles non
suscitava in lei alcuna emozione, ma gli occhi vitrei e il sorriso di Leah
Young sulla foto sbiadita di una tomba l’avrebbero distrutta. Bastava soltanto
ricordare l’espressione di Matt, un uomo consumato dai vizi negati in passato,
per far star male Michelle. Procedendo a passo svelto per alcune viuzze
secondarie, diretta verso una meta ben precisa, si concentrò sul proprio
respiro. I rumori delle macchine e di quella città tanto grande quanto brutta,
grigia, finta vennero estraniati dalla sua testa ingombra di pensieri. Sarebbe
impazzita, un giorno.
Non
sperava di trovare Slash al magazzino: sapeva che in quel momento stava
dormendo sul banco del laboratorio di scienze, con Steven che cercava di
tendergli qualche scherzo. Ma aveva bisogno di un posto dove lasciare le sue
cose, e anche di distrarsi quanto bastava per dimenticare gli spiacevoli
incontri. L’edificio grigio era incassato fra altri stabili simili, ma il
portellone d’ingresso era sollevato lasciando intravvedere l’interno. La
confusione che si delineava man mano che la ragazza s’avvicinava era impressionante:
cautamente, varco la soglia osservando i mobili rovesciati, le coperte sparse
sui pavimenti, i cocci di bottiglie rotte e la cucina coperta da avanzi di take
away e cartoni di pizza. Due figure sdraiate, una per terra e l’altra su un
materasso in un angolo, sembravano non dare segni apparenti di vita, nonostante
il portone aperto. La grande batteria e le chitarre erano accatastate
nell’angolo più vicino alle prese elettriche, pronte per essere portate via da
qualsiasi ladro. Michelle sbuffò, avvicinandosi al corpo dalla molta chioma di
capelli neri, dando un piccolo colpetto con la punta della scarpa alla spalla
nuda che emergeva dalle lenzuola. Un prolungato suono gutturale si levò dal
volto coperto di Izzy, segno che almeno uno dei due ragazzi era vivo: Axl però
continuava a respirare pesantemente, apparentemente indisturbato.
-
Ero sveglio, ero sveglio… avevo tutto sotto controllo… - dopo aver sbadigliato
rumorosamente senza curarsi di portare la mano davanti alla bocca, Izzy si levò
a sedere sul pavimento freddo. Il suo sguardo era torvo su Michelle nonostante
i postumi del sonno gli appannassero la vista. La ragazza sorrise maliziosa al
suo primo, debole tentativo di alzarsi in piedi, guardandolo vacillare e poi
cadere di nuovo a terra: doveva esserci andato pesante con il divertimento, la
sera precedente. Izzy sospirò rassegnato, come se tutte quelle formalità come
alzarsi, prepararsi per una nuova giornata e parlare fossero soltanto delle
seccature per lui, che ovviamente era l’antitesi della quotidianità. – Dove hai
lasciato il Signor Marshall? Di solito è sempre con te a cercare di
convertirti… - era tipico di Izzy notare particolari e porre domande che alla
gente normale non sarebbero mai passate per la testa, riuscendo a mettere in
imbarazzo chiunque. Ignorando all’allusione ad un ipotetico debole dell’amica
Maxie per lei, cosa che sapeva essere falsa, rise leggermente senza trovare
parole adatte per rispondere. Izzy rimase in silenzio, capendo che ciò che era
riuscito a zittire Michelle non meritava di essere menzionato: tutti avevano
rinunciato da tempo a discutere di famiglia, semplicemente per i ricordi
dolorosi che l’argomento suscitava. Il ragazzo, dopo aver passato alcuni minuti
a stiracchiarsi, si diresse verso l’angolo cottura incurante
di mostrarsi in mutande all’intero vicinato. Prese a frugare nel frigo
maleodorante, in piedi per chissà quale grazie divina, passandoci dentro quelle che sembrarono ore prima di riemergere, seccato. – Ma
non c’è proprio un cazzo in questo fottuto buco? -.
Il
bisogno di soldi si poteva annusare nell’aria, che si faceva rarefatta a quei
pensieri: da quando s’era trasferiti in quella città, quasi per caso nella
ricerca sfrenata del successo, avevano dato per scontato che tutto si sarebbe
prostrato ai loro piedi. Sentivano di meritarsi in modo profondo qualcosa di
più. Era stato proprio quello a non far tenere loro conto delle conseguenze di
simili scelte: lavoracchiare qua e là per pochi centesimi, tirare su qualcosa
con qualche concerto in squallidi inferni di periferia per pagare il salato
affitto non bastava più. Izzy prese un sorso dal cartone del latte che aveva
trovato nel frigo, prima di voltarsi disgustato a sputarlo nel labello: era
rancido. Michelle s’era lasciata cadere su uno dei divani, improvvisamente
stanca, gettando in un angolo la borsa piena di vestiti sporchi a cui l’amico
non aveva posto troppa attenzione. Erano attorniati dalla distruzione in cui
buttavano via i loro sudati risparmi: vestiti sporchi, sigarette, alcol,
disordine. Dopo che il silenzio calò su di loro in una cappa di freddo ed
imbarazzo per quei pensieri che sapevano essere uguali nelle loro menti, Izzy
raccolse una camicia da terra. – Micha… non è per caso che hai dei soldi?
Giuro, te li ridò! – e la ragazza ebbe di colpo la mezza idea di arrabbiarsi,
per quel soprannome infantile che l’amico aveva osato usare contro di lei, per
convincerla. Volse lo sguardo su di lui, osservandolo abbottonarsi un esempio
della sua stravaganza sotto forma di tessuto a strisce. La negazione salì in
bocca spontanea a Michelle, prima che sospirasse e recuperasse i cinquanta
dollari rubati da casa Niven quella mattina, porgendoli al ragazzo.
Era
stato tremendamente difficile per Izzy abbassarsi a chiedere aiuto a qualcuno,
Michelle lo sapeva: era forse l’unica cosa che lo accomunava con il ragazzo
beatamente addormentato sul materasso. E, probabilmente, anche l’unico punto
d’incontro in una incredibilmente solida amicizia. – Sveglia, coglione! – il
moretto se n’era già andato da un po’, con un sorriso velato sulle labbra a
modificare il volto solitamente schivo, impassibile. La ragazza s’era
avvicinata ad Axl con insolita effervescenza, assestandogli un poderoso
schiaffo sul sedere coperto soltanto da un lenzuolo macchiato. Quando il rosso
si alzò di scattò gridando imprecazione contro quel
risveglio inaspettato e sgradevole, Michelle rise di gusto senza apprezzare
fino in fondo il suono della propria risata. Per quanto l’attimo fosse stato
divertente, per quanto le bestemmie di Axl fossero comiche, c’era qualcosa di
realmente sinistro nel suo ridere. C’era il riflesso della solitudine che aveva
provato quando Izzy l’aveva lasciato sola, senza nessuno con cui parlare. – Che
rompipalle… - sbuffò il ragazzo dopo aver osservato il cambio d’espressione di
Michelle, ancora intontito dal sonno a cui era stato bruscamente sottratto.
Fuori, la città stava dando il meglio di sé per farli sentire parte integrante
di un mondo d’ingranaggi perfetti: c’era chi era riuscito a combaciare alla
perfezione con un modello di vita disegnato da altri. C’erano poi loro, le
quali giovani esistenze si era presentate già sconquassate: a loro avevano
messo a disposizione soltanto le possibilità di rialzarsi e mettere da soli
tutto in ordine, o di perdersi in illusioni dettati da ciò che in quel momento
circondava Axl e Michelle, e tutti gli altri. – Dicono che il sesso mattutino
aiuti la circolazione sanguigna. – e, alle parole del ragazzo, Michelle annuì,
prima di afferrare i lembi della camiciola ed abbandonarsi alla seconda scelta
delle loro diverse vite.
- Beh, cos’è tutto questo disgusto? – erano
rimasti poi fermi ad aspettare il ritorno di Izzy e, successivamente, quello
degli altri. Allargando le braccia in segno di sconcerto, Michelle ignorò lo
sguardo accusatore del suo ragazzo, concentrandosi sul mancato saluto di Duff,
dall’espressione corrucciata. Steven, dopo aver riso sguaiatamente del teatrino
dei suoi amici, si lanciò alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti: se
a volte sembrava che lui fosse il più sciocco, in realtà era soltanto perché
era l’unico in grado di mantenersi sempre rilassato. – Lascia perdere, Michelle. Il signorino è arrabbiato perché la sua
figa di legno non l’ha neanche guardato. – il viso livido del bassista la
diceva lunga. Presto anche la ragazza si unì alle risate senza ritegno di
Steven, semplicemente perché coinvolta dalla sua ilarità. E perché, dopo il
litigio della sera precedente di cui Slash portava ancora il segno sul
sopracciglio, voleva che il chitarrista la vedesse felice come non mai. La
vendetta è un’arma altamente letale. – E a te come è andata, nella tana
dell’orco? – proseguì poi Steven, riprendendosi dalla
convulsioni che quasi gli avevano impedito di respirare. Duff si gettò sullo
stesso materasso dove poco prima Axl aveva dormito e su cui l’amico e Michelle
avevano fatto sesso, lasciando che il fumo grigiastro di una sigaretta appena
accesa lo isolasse dalle battutine. Axl, dall’altra parte della stanza,
scarabocchiava frettolosamente su un foglio qualche lampo di genio insieme a
Izzy, che chinato verso il rosso aspirava grosse boccate di fumo da quella che
sembrava una canna appena rollata. Dove avesse trovato la droga, questo era un
mistero. In compenso, nessuno avrebbe creduto che le poche provviste con lo quali era tornato dal supermercato avessero mandato in
fumo cinquanta dollari.
-
Adesso vieni con me… - era esattamente ciò che Michelle stava aspettando:
sussultò dallo spavento quando la presa di Slash la costrinse improvvisamente a
seguirlo. Il ragazzo alzò velocemente il portellone del magazzino,
trascinandola all’esterno sotto lo sguardo apatico del resto dei presenti, che
s’aspettavano un’esplosione del genere. Era semplicemente routine. – Andiamo…
Si può sapere cosa ti ho fatto stavolta? Non posso nemmeno fare i complimenti
ad un'altra che tu salti subito e fai la stronza… - mentre il ragazzo
gesticolava come un forsennato e deviava il suo sguardo per potersi concentrare
nel tentativo di farla sentire in colpa, Michelle sorrise a sua insaputa. Il
loro circolo vizioso non era stato interrotto nemmeno dalle faccende amorose
degli altri, che sembravano non toccarli affatto. Era tipico di del ragazzo
cercare di giustificare l’ennesimo tradimento che andava ad aggiungersi alle
lunghe liste di entrambi, come se non fosse stato chiaro che la pantera che
aveva meritato le sue attenzioni non fosse stata accontentata mentre Michelle
si stava spogliando per altri. – E poi, dai, lo sai
qual è la prima regola. “Tutti amano Michelle”, no? Dai, non ho fatto nulla di
male… - senza aver seguito il filo logico del discorso di Slash, alla ragazza
sembrarono abbastanza ridicole quelle parole. Ma il volto che spuntava
attraverso al foresta di boccoli neri era
assolutamente adorabile, come la prima volta che le aveva sorriso e le aveva
chiesto se poteva sedersi accanto a lei su un marciapiede buio. Erano quasi i
ricordi di un’altra persona, ma una cosa era sicura: né Axl, né qualsiasi uomo
con il quale fosse mai stata per mero divertimento avrebbero retto il confronto
con quella bestiaccia. Gli si avvicinò, passando delicatamente le mani sulla
maglietta di uno dei suoi tanti gruppi preferiti, ampliando il proprio sorriso
quando vide il ragazzo apparentemente rude intimidito dai suoi occhi. – Credevo
che la prima regola fosse “Sesso, droga e rock n’roll”… - erano quelle le cose
per cui valeva la pena avere una vita diversa.
“ A
volte il mondo può sembrare un luogo ostile e sinistro.
Ma credeteci quando diciamo che ci sono più
cose buone che cattive.
Dovette osservare con attenzione. E quella
che cosa che magari vi appare
una serie di
sfortunati eventi, può, di fatto, essere il primo passo di un viaggio. ”
(LemonySnicket)
Eccomi
qui… Emh, ragazze, ho avuto un calo pazzesco di autostima e d’ispirazione. Mi
sono successe un paio di cose in questi giorni, ho perso la concentrazione e
non ho avuto molto tempo per scrivere. Perciò mi scuso subito se questo
capitolo non è il massimo, soprattutto perché è il capitolo su Michelle e io ci
tenevo parecchio. Mi dispiace anche per il ritardo, come ho già detto ero messa
piuttosto maluccio. Ma prometto che il prossimo sarà all’altezza degli altri,
anche perché sarà molto importante! Lmi dispiace ancora se questo non è
troppo coinvolgente, scusatemi molto.
AmyHale:
ah, non sai quante cose devo raccontarti su ieri sera! Perché tutto deve
succedere al momento sbagliato, perché rendo sempre tutto così complicato?
Ecco, ho fatto pure la rima -.- vabbé, sono in panico
visto che tu non hai letto prima il capitolo. Torna! Mi manchi! E lo so che ti
viene in mente la birra, quella dei Simpsons si chiama Duff xD
_LittleAxl_:
ahah, grazie cara ;) lo so
che quella donna è impossibile, poveretto! Però, come ho già detto altre volte,
Adrien è un personaggio perfetto su cui scrivere, lo si può vedere sotto varie
angolazioni! Grazie delle recensione J
Sylvie
Denbrough: no, guarda, questa è la prova che il blocco dello scrittore è una
malattia che colpisce tutti, anche la sottoscritta. Per lo meno, riesco sempre
a postare xD Dai, non vedo l’ora di leggere la tua
storia! I disegni però non so riuscita a trovarli, forse la mia testa è un po’
bacata in questi giorno per motivi sentimentali… xD
indicameli, sono curiosa di vederli! No, la borsa era di Linda, non di Michelle
xD e ho ascoltato Attitude
e credo che tu abbia ragione: molto Adrien. Vedrò di metterla in uno dei
prossimi capitoli!
Miss_Rose:
Uh, la tua recensione ha suscitato in me sentimenti contrastanti. Quando mi hai
detto di non aver mai letto uno scontro con la polizia in una storia dei Guns
ho tirato un sospiro di sollievo, perché mi fa intendere che la storia ha
qualcosa di originale. Spero però che non assomigli troppo a SkinsxD il paragone con Effy ci sta, ma avvertimi se i personaggi sono troppo
simili. Tengo molto alla loro originalità J grazie per l’avvertimento, ho controllato e spero di aver
individuato tutti gli errori!
aivlis8822: Beh, sì, dai per quanto sembri un alieno
sbucato fuori da chissà quale galassia, Adrien nasconde un lato umano xD però bisogna anche dire che è Duff che si fa trattare
così, non è solo lei ad essere stronza. Ecco, da come parlo si può capire che i
personaggi ormai hanno preso il controllo ed io mi limito a trascrivere solo
ciò che combinano xD
IoMe:
tuke, basta recensioni così. Sarà che ero in periodo
storto, ma ci ho messo una vita a leggerla xD però è
bella, ribadisco che sei ispirata per i commenti in questo periodo! Il fatto
che adesso ti piaccia Adrien mi ha lasciata basita! Proprio tu che la odiavi xD beh, alla fine l’hai capita! O.O
domani probabilmente non vengo a scuola, non sto troppo bene! see you!
-
Certo che posso darti una mano! – per pochi minuti Linda
pensò davvero d’essere stata finalmente assunta in paradiso. Lo squittio della
sua voce fu talmente entusiasta che, non appena si rese conto del cipiglio
divertito del ragazzo a quella vigorosa risposta, arrossì fino alle punte dei
capelli. Il silenzio che seguì fu talmente imbarazzato che persino i loro passi,
mischiati a quelli dei centinaia di studenti che
transitavano sotto i portici della scuola come ogni giorni, parvero persino
fastidiosi. – Cioè, ecco… in che cosa hai bisogno di aiuto? – se “ripetizioni”
era solitamente una parola avvolta da oscuri significati, davanti al sorriso di
Duff in quel momento Linda non fu in grado di non trovarla perfetta. Il ragazzo
annuì leggermente, trasformando la propria espressione dalla spigliata di
sempre a pensierosa: era difficile scegliere le materie in cui andava peggio,
visto che non era noto per essere un alunno diligente. – Un po’ in tutto,
credo… beh, senti, ci penserò. Devo anche parlarne con gli altri, sai, dovresti
dare lezioni un po’ a tutti… - spiegò dispiaciuto per il gravoso incarico che
si vedeva costretto ad assegnare all’amica. Era stata però una necessità, dopo
l’ennesima insufficienza in tutte le materie: la loro voglia di applicarsi in
qualcosa che consideravano inutile era sotto zero, ma nessuno voleva passare un
altro anno trincerato fra le inospitali mura della
Renton. Linda non era un genio in ogni materia, ma di comune accordo con Steven
e Slash aveva deciso che era sicuramente l’unica persona abbastanza paziente per insegnare loro qualcosa.
-
Sì, sì, certo! – squittì nuovamente la ragazza dopo qualche secondo di
silenzio, cercando di mascherare la delusione che l’aveva colta alle parole di
Duff. Stringendo i libri al petto ancora più forte di prima, annuì
vigorosamente, contenta almeno in parte di osservare il ragazzo rincuorato
dalle sue affermazioni. Ancora una volta, Linda si trovava a fare i conti con
tutti quei sogni adolescenziali di cui Michelle si lamentava tanto. L’amica le
diceva sempre che avrebbe dovuto mollare la parte teorica e passare a quella
pratica, utilizzando le sue esatte parole. Sospirò debolmente, mentre insieme
tornavano a camminare muti diretti alla lezione che insieme seguivano, prima
che la ragazza riprendesse di nuovo in mano la situazione. – Beh, ci
organizzeremo… magari prima della verifica passo da
voi, o qualcosa del genere… giusto? – mentre il suo viso andava nuovamente a
fuoco sotto lo sguardo di Duff, ritrovò il tono di voce intimidito che la
caratterizzava. Infrante le fantasie momentanee, era stato facile tornare ad
essere la solita noiosa e fin troppo imbarazzata Linda. – Oh sì… giusto! –
commentò il ragazzo, dandole un piccolo colpo sulla spalla. Sperando vivamente
che non si fosse accorto del suo sussulto a quel semplice contatto, Linda
continuò a tenere lo sguardo fisso a terra. – Proprio, non ti chiederei così tanto
se non fossi proprio disperato… - quando l’amico iniziò a straparlare, la parte
più insofferente della ragazza incominciò a pensare che forse quel “disperato”
avrebbe potuto risparmiarselo. Cos’era lei, il mostro di Loch Ness? Purtroppo
però i suoi pensieri e la voce di Duff furono fermati da un’apparizione nel
corridoio.
Sembrava
uscita da un film: era chiaro come li stesse aspettando, la schiena appoggiata
al muro e le braccia incrociate sotto il seno, il volto rilassato che però
scrutava la folla in una chiara ricerca. Fissando Duff, Linda si accorse come
egli fosse nervoso nel guardare la ragazza che aveva attirato la loro
attenzione. Lo osservò deglutire ansioso, ammutolito e ormai col cervello
lontano anni luce dal punto in cui si trovavano e dalla loro conversazione.
Nell’ultimo mese, era successo spesso. – Beh… io vado… - sussurrò la ragazza,
per niente stupita dalla flebilità della propria voce davanti alla bellezza e
al fascino di Adrien. Era meglio correggere i pensieri formulati prima: stava
aspettando lui, mentre lei, Linda, era solo un’insignificante pulce che Adrien
non degno di uno sguardo. Quando la rossa infatti si
accorse dei loro sguardi e delle loro sagome ferme al centro della calca di
persone che li urtavano, aveva sorriso lievemente, abbastanza perché tutti
notassero quel cambiamento d’espressione. Fra la popolazione della scuola s’era
fatta notare, in quei trenta giorni in cui non gli aveva rivolto né sguardo né
parola, soprattutto nella parte maschile. Duff contrasse la mascella, mentre la
ragazza al suo fianco altalenava lo sguardo da quelle due persone
improvvisamente unite da qualcosa d’invisibile agli occhi. Voleva andarsene da
lì, lontano dal sorriso di Adrien, ma l’attesa della reazione del ragazzo
sembrava farla sperare, fremente. – Tienimi il posto. – tre parole prima di
essere liquidata. Linda si lasciò andare all’ennesimo sospiro, troppo semplice,
troppo tranquilla, maledettamente paziente per dar peso alla propria
frustrazione.
La
campanella squillò, per amor di coincidenza, pochi attimi dopo che Duff ebbe
deciso di dirigersi verso la figura di Adrien elegantemente in attesa. La
ragazza liberò il ghignò sul suo volto grazioso,
imprimendolo di una malizia in netto contrasto col suo aspetto angelico: al
collo era appesa una macchina fotografica d’ultima generazione, che passava
inosservata in quel contesto. Gli occhi verdi che aveva evitato per tutto quel
tempo puntavano proprio su di lei, con la stessa rabbia con cui l’avevano
spiata durante quel periodo di silenzio. E, mentre Duff si fermava proprio di
fronte a lei lasciando che il resto degli studenti si recasse a qualche noiosa
lezione, si disse che doveva essere completamente ammattita. Senza che entrambi
avessero la possibilità di notarla, la solitudine avvolse il corridoio deserto
se non per le loro sagome fronteggianti. Rimasero a guardarsi in quel silenzio
che giocava a loro vantaggio: Adrien assorbì la carica nello sguardo del
ragazzo come da una fonte di energia, chiedendosi cosa si sarebbe inventata per
giustificare quella nuova idea insensata anche per lei. Beh, qualcosa si
sarebbe inventata: anche con le bugie inventate sul momento, solitamente non
sbagliava mai. – Avrei bisogno di una mano… Sai, per quel compito di fotografia
su i ritratti e sui singoli soggetto… Forse tu puoi
aiutarmi. – il tono suadente della sua voce giunse alle orecchie di Duff come
un balsamo, nonostante il ragazzo stesse facendo di tutto per convincersi ad
allontanarsi da quella stronza. Qualsiasi nuovo gioco fosse nato dalla
misteriosa mente della ragazza, nessuno dei due sembrava capirlo.
-
Ah, sì, hai bisogno di una mano… - commentò sarcastico senza staccare gli occhi
da quell’espressione che tutto lasciava presupporre tranne buoni propositi. Un
mese, ecco quant’era passato. Un mese da quando s’erano toccati, da quando
avevano ballato ed erano scappati in una notte che avrebbe potuto essere come tutti le altre. E lei s’era sentito così stupido,
nell’aspettare ogni giorno una qualsiasi parola, anche solo un saluto quando la
vedeva passare per i corridoi, come un qualsiasi adolescente brufoloso e
inesperto. Ascoltava le voci che alle varie feste circolavano sulla nuova
ragazza facile che Adrien s’era costruita attorno, prima di rimorchiare una
serie di femmine senza volto che più di un paio d’ore non duravano. – Guarda,
ne hai una destra ed una sinistra. Devi cliccare un pulsante per scattare le
foto. Buona fortuna. – proseguì amaro, cercando un qualsiasi segno di
vacillazione in quel sorriso misterioso che sembrava perseguitarlo. La ragazza
invece pareva non soffrire per niente dell’ostilità che lui mostrava, con la solito ombra alle spalle di chi in qualche modo la sa
lunga. – Non sei gentile. – e se c’era un’altra cosa, fra le tante, che non
poteva proprio sopportare, era quel falso tono innocente con il quale tendeva a
catturarlo. Quella specie di broncio evidentemente teatrale che Adrien gli
stava mostrando in quel momento era terribilmente fastidioso, adorabile,
sensuale. Duff rilasciò un lungo sospiro, avvertendo con ansia le barriere in
cui s’era ostinato a credere crollare una dopo l’altra. Possibile che quella
strega fosse in grado di simili magie? – Che cosa vuoi? -.
-
Esattamente quello che ho detto. – era una battaglia che il ragazzo non poteva
e, soprattutto, non voleva più vincere. Era stata incredibilmente rapida, dopo
il rancore che lui aveva covato per il suo comportamento lunatico, a
scioglierlo e a riprenderlo con sé. Accarezzandosi una ciocca
di capelli color del fuoco, Adrien si staccò dal muro prima di portare
la mano alla macchina fotografica. Gli si avvicinò, conscia del potere che
esercitava su di lui, su tutti: quel senso di controllo le dava talmente tanto
piacere da farle dimenticare il vuoto che aveva trovato quando aveva capito che
anche lui era in grado di smuovere qualcosa, nelle profondità del suo animo
contorto. – Ho solo bisogno di una mano. – aggiunse, avvicinandosi sempre di
più al corpo alto e snello del bassista, coinvolto ormai dalla situazione
pericolosa. Chiunque fosse passato di lì in quel momento avrebbe potuto usare
la visione a proprio vantaggio, chi spedendoli verso una punizione, chi
spargendo ulteriori voci per la scuola. Eppure nulla importava, in confronto
alla possibilità di proseguire quell’assurdo scambio di ruoli, nella contesa
per tenere le redini di quella stramba relazione. – Per favore. – il tono canzonatori di quelle ultime due parole fu il colpo
di grazia. Sembrava una bambina implorante la madre per altre caramelle, ma
c’era qualcosa d’incredibilmente sbagliato che la rendeva unica nel suo genere.
Spostando lo sguardo come se tutto ciò gli costasse molto, Duff si aprì in un
lieve sorriso che equivalse immediatamente ad una risposta positiva.
Richiudendosi in quel loro rinnovato silenzio speciale, carico di cose che non
si sarebbero mai detti, si lasciò trascinare ancora una volta per mano, nel
buio.
Se
avesse dovuto scegliere un momento da lei odiato sopra ogni altro,
probabilmente sarebbero stati proprio quei pochi minuti che fra una lezione e
l’altra andavano a braccetto col suo perenne mal di testa. Non contenti di
poter scorrazzare per i corridoi al cambio dell’ora, gli studenti
s’intrattenevano in classe con un chiacchiericcio continuo, uno sgradevole
ronzio che martellava sulle tempie di Robin inesorabile. Era forse troppo
chiedere che, mentre l’insegnante controllava i vari registri, quegli ignoranti
a cui era costretta ad insegnare restassero zitti? Evidentemente sì. – Qualcuno
sa dirmi… - sbattendo con violenza il registro chiuso sulla cattedra, esclamò quelle poche parole iniziali seccata, facendo cessare la
massa informe di bisbigli che la infastidivano. -… perché McKagan e Miller
sembrano improvvisamente essersi volatilizzati? – Robin aveva notato subito che
qualcosa mancava a quello che per lei era sempre stato solo arredamento in un aula. Fra tutte quelle teste anonime mancavano proprio
quelle a cui era interessata in qualche modo. La professoressa strinse i denti
davanti al silenzio improvviso della classe, osservando tutte quelle paia di
occhi osservarsi le une con le altre alla ricerca del prossimo pettegolezzo.
Conosceva Adrien forse meglio di sé stessa, e quell’assenza poteva non
significare nulla, semplicemente poteva non aver più avuto voglia di proseguire
con quelle lezioni che lei trovava inutile. L’insicurezza nasceva appunto
perché era meglio lasciare da parte i verbi al condizionale, se si parlava di
quella ragazza.
Al
suo posto, fra le chiacchiere riprese da chi in quel posto non sapeva
rinunciare ai pettegolezzi, Linda si morse il labbro inferiore, stringendo con
le mani il quaderno pronto sul suo banco. La sedia vuota al suo fianco attraeva
il suo sguardo senza poter fare a meno di ricordarle chi doveva occuparla,
l’assente. L’aveva saputo sin da subito, sin da quando aveva notato quegli
sguardi, che quel posto era destinato a restar vuoto e la richiesta di tenerlo
riservato nascondeva il favore che le avrebbe voluto chiedere. – Duff… Emh,
Michael è stato male. E’ in infermeria… credo! – fra lo stupore generale e il
gossip di chi sospettava centrasse la bella ragazza dai capelli fiammanti,
Linda balbettò quella scusante arrossendo. Risultava credibile anche
nell’arrossire imbarazzata per aver parlato, poiché la sua timidezza era
sicuramente uno dei tratti in cui si distingueva: odiava quella parte di lei,
così insicura. Anche in quel momento, in cui le era tornata utile. Era stata,
ancora un volta, così ingenua. – Perfetto. –
contrariamente allo stato d’animo della sua studentessa, quello della
professoressa che si ergeva in piedi davanti alla lavagna lievitò improvvisamente.
In infermeria, le due parole più belle che Robin potesse sentire in quel
momento: essendo un’attrice molto più brava della povera Linda, la sua
espressione arcigna non mutò di una virgola. Ma la certezza che Adrien in quel
momento fosse da tutt’altra parte a godersi un giorno immeritato di riposo
ballava nella sua testa. In fondo, l’amica l’aveva rassicurata più e più volte
sulla scappatella avuta che non aveva intenzione di ripetere. Per un attimo,
aveva creduto che Michael McKagan centrasse qualcosa con la rossa… che sciocca.
La
risata tintinnò come un mazzo di campanelle per le pareti di vetro della
camera, illuminandola più del possibile. Il ragazzo si puntellò sui gomiti,
alzando lo sguardo stupito versa la compagna che ancora teneva le mani sul
proprio ventre contratto dal riso. Era un suono completamente nuovo, puro ma
privo di qualsiasi inibizione. I denti perlacei scoperti dalla ragazza
apparvero subito deliziosi, come del resto tutto ciò che riguardava lei in
quegli istanti. – Beh, cos’è quella faccia? – quando il tono canzonatorio di
Adrien andò a sostituirsi alla risata, Duff si rese conto d’aver assunto
un’espressione tremendamente perfetta. Non aveva rinunciato però al sorriso che
gli allungava le labbra sottili da quella mattina e che minacciava di
procurargli un crampo ai muscoli facciali. – Non mi ricordi di averti mai
sentito ridere. – non poteva esserci affermazione più vero.
La ragazza appoggiò i gomiti alla superficie morbida del letto, gli occhi grigi
fissi sul volto del suo interlocutore come nel tentativo di scavargli l’anima.
Duff si sentì rabbrividire per il tocco invisibile di quello sguardo, che lo
bruciava. Lasciò che le sue iridi di un verde scuro ed impalpabile
percorressero ogni centimetro del corpo di Adrien, coperto da un solo paio di
mutandine nere e da una maglietta troppo larga che gli aveva rubato. Ebbe come
l’impressione che l’ascolto del suono del suo ridere fosse stata una grande
concessione che non sarebbe tornata per molto tempo. – Beh, cos’è quella
faccia? – la riprese poi, cercando di tenere testa a quello sguardo importante,
pesante.
-
Adesso non mi copiare. – quando alla chetichella se l’erano svignata dal
parcheggio della scuola a bordo della moto nera della ragazza, Duff non aveva
avuto la più pallida idea di dove lo stesse
conducendo. Era stata una maniera di reinterpretare la prima volta che s’era
lasciato prendere per mano verso l’ignoto, nonostante situazione e spazi
differissero completamente fra loro. Un salto nel buio. Poi, dopo essersi
stretto alla vita sottile di Adrien lamentandosi ad alta voce di sentirsi una
femminuccia mentre sfrecciavano per le strade di Los Angeles, s’erano ritrovati
lì. Un’enorme villa fra le tante simili che aveva sempre visto soltanto da
lontano si era stagliata di fronte a lui, mentre la sua guida posteggiava il
proprio gioiello in un angolo ombroso. Non aveva però fatto in tempo a
chiedersi quanti soldi fossero stati buttati per un edificio del genere. Quasi
non aveva potuto ammirare lo stupendo vialetto secondario che l’aveva condotto
in quell’edificio circondato da vetrate, in quella camera da letto. Dopo che
l’aveva vista abbandonare il proprio veicolo col sorriso enigmatico per sempre,
nessuno dei due aveva resistito tanto da permettere l’altro di parlare. – Che
permalosa. – era assurdo come s’era evoluta tutta quella faccenda: quello ieri
su cui avevano tanto rimuginato, in cui fingevano di non vedersi e di non
interessarsi alle incognite che costituivano i pensieri dell’altro, era troppo
lontano. Come tutto ciò che li aveva riguardati fino a quei momenti, era
semplicemente stata una valanga di eventi troppo veloci in successione per
essere seguiti con correttezza.
-
Non sono qui per farmi deridere da un bamboccio che marina la scuola. – Duff
sospirò a quelle parole beffarde quanto innocenti, osservandola portare
teatralmente le mani dietro la testa per poi distendersi ancora sui morbidi
cuscini di piume. Rimarcare di essere stato convinto con una serie di maliziose
azioni a saltare le lezioni non sarebbe servito a nulla, tanto quella ragazza
l’avrebbe voluta vinta comunque. E lui non era il tipo da battaglie, contese o
richieste varie. Semplicemente, agiva, proprio come fece in quel momento:
levandosi dalla scomoda posizione assunta per poterla guardare, avanzò strisciando
verso la figura rilassata di Adrien. Nonostante la ragazza si fosse accorta di
quell’assalto, non si spostò di un centimetro: si limitò a chiudere gli occhi
in modo che il sorriso sul suo volto fosse più bello e solido. Le mani del
ragazzo sciolsero le sue braccia per poterle bloccare i polsi sopra la testa,
intrappolandola con la sua forza e contemporaneamente con la sua semplicità.
Avvertì il tocco delle labbra di Duff sulle proprie soltanto dopo secondi che
parvero infinita, leggero come le ali di una farfalla eppure carico di una
passione che avevano appena consumato. Sotto quel contatto Adrien fremette,
smaniosa di conoscere ancora di più del mondo che si celava dietro quel
ragazzino troppo cresciuto. Voleva di più: i polpastrelli del ragazzo scivolarono
sul tessuto leggero della maglia, percorrendo la linea della sua figura
esattamente come prima aveva fatto con gli occhi. Entrambe le mani da pianista
lasciarono i suoi polsi senza però liberarla dalle catene, mentre sospiri lievi
diventavano musica di sottofondo. Poi tutto si fermò.
-
Eh? – era strano osservarlo dal basso mentre la sua espressione era dilatata in
quella maniera: aveva lo stesso cipiglio di un gatto in procinto d’attaccare,
eppure c’era qualcosa d’inafferrabile nel suo improvviso freno. Era più di
quanto Adrien potesse sopportare: solitamente, era lei ad essere impossibile da
comprendere per le persone che la circondavano. Poi s’accorse del punto che il
ragazzo stava fissando, scoperto dalla maglietta alzata a scoprirle il ventre
nella precedente discesa di Duff: un po’ più in basso da dove una volta c’era
un graffio rosso che entrambi ricordavano bene, spiccava il suo tatuaggio. I
contorni di una lettera abbastanza grande da risultare visibile, vicino al
visibile osso del bacino, nera d’inchiostro come una notte buia, le stesse che
ricorrono nei film in contemporanea a qualche ricordo
nefasto. – Erre. – lesse con voce impassibile il ragazzo, prima di chinarsi
nuovamente a sfiorare con le dita i bordi del disegno, con la curiosità di un
bambino. Adrien lo osservò attentamente in quella sequenza di movimenti lenti,
misurati apposta per rendere quel momento diverso da tutti gli altri. Quando
tornò ad avvertire le lunghe dita da pianista sulla sua pelle calda delle gesta
bruscamente interrotte un attimo prima, sospirò senza dare a vedere nessuna
emozione. C’era qualcosa che entrambi sapevano di aver assolutamente bisogno di
dire, senza che però ciò si manifestasse nelle loro menti assorte a spiegar
loro la combinazione esatta delle lettere. Forse, ciò che li oppresse tanto in
quel momento erano semplici elucubrazioni dettati da pensieri improvvisi su cui
non avevano riflettuto: i polpastrelli delicati di Duff seguirono tutto il
profilo della lettera prima che il ragazzo dicesse qualcosa.
-
I miei tatuaggi sono più originali. – sei Adrien non fosse stata abbastanza
furba da mantenere il suo solito contegno, forse avrebbe spalancato la bocca
dallo stupore esattamente come aveva visto fare ai protagonisti dei cartoni
animati da piccola. La smorfia beffarda sul volto del ragazzo era qualcosa che
sul momento non aveva capito, così sbagliata nella tensione che s’era creata
con la scoperta del tatuaggio. Ma Duff non lasciava supporre che negli attimi
precedenti avessero trattato argomenti diversi dai compiti scolastici o dalle
faccende quotidiane. Staccando le mani dalla pelle della ragazza, le portò ad
indicare i disegni indelebili nei vari punti del corpo, soddisfatto di essi. –
Oh, sicuramente. – annuì Adrien per prenderlo in giro, prima di beccarsi
un’occhiataccia scherzosa dal ragazzo che ancora la sovrastava. E
improvvisamente intuì tutto, come se il significato di quei momenti fosse
sempre stato nascosto nell’ovvietà e lei non l’avesse mai visto. Lui sapeva il
suo segreto: quante volte gliel’aveva ripetuto, quella seria lontana in cui
insieme s’erano dati alla fuga? Ed insieme a ciò che conosceva aveva letto i
ricordi nascosti dietro quella erre, ignorandoli volutamente: non né avrebbe
parlato, evidentemente non lo desiderava più. Era genuino da togliere il fiato –
Ridi, ridi. Ho il mio fascino, intanto. – le rispose con tono divertito il
ragazzo, notando il lieve cambio d’espressione fra i suoi tratti sempre
enigmatici. Nonostante le riflessioni del momento, Adrien non aveva rinunciato
alla maschera, non ancora.
-
Suoni? – furono molti i particolari della ragazza che Duff fu in grado di
afferrare solo in quel momento, ancora di più quelli che non avrebbe mai
scoperto. In un angolo remoto dell’enorme stanza a letto, appoggiata ad un muro bianco ed illuminata dal sole che sbucava dalle
grandi vetrate, c’era una chitarra acustica apparentemente abbandonata. Passava
inosservata ad un occhio inesperto o disinteressato, ma l’attenzione da
musicista del ragazzo era stata traviata soltanto per poco
dal pensiero fisso di Adrien abbandonata a lui. Il fascino delle corde dorate
era un’attrazione irresistibile. – No. – una risposta semplice ed inaspettata,
che non giustificava affatto la presenza di uno strumento musicale in quel
luogo. Duff si volse a fissare la ragazza stupefatto da quella negazione
espressa sempre con quella falsa innocenza, ricevendo soltanto un’alzata di
spalle come spiegazione. Si alzò da lei, rotolando dall’altra sponda del letto
verso la chitarra lucida, per poi tendersi in avanti per afferrarla.
Prendendola in grembo, fu chiaro che Adrien non mentiva riguardo le proprie attitudini musicale: lo strumento era primo dei
minuscoli graffietti, della polvere nelle fessure, delle ditate tipiche di un
oggetto costantemente preso in mano, amato. Premendo con i polpastrelli le
corde tese nel comporre un do minore, Duff strinse i denti quando il suono che
produsse rivelò quanto la chitarra fosse scordata. Ma non levò gli occhi da
essa, rapito dalla cura con cui era stata conservata, non suonata, avvertendo
la ragazza raggiungerlo e prendere posto al suo fianco.
-
Reese Miller. – una volta pronunciato quel nome, avrebbe voluto non aver mai
letto l’incisione artigianale su un lato dello strumento, in elegante
calligrafia nera. In un modo o nell’altro, compariva sempre quel nome fra di loro a sterzare l’atmosfera: il segreto, l’argomento
proibito. Istintivamente alzò gli occhi dalla chitarra ad Adrien, che
ricambiava il suo sguardo che non lasciava trapelare alcun stupore, alcuna
voglia di gridargli di posare quel prezioso oggetto collegato al fratello. Gli
era capitato spesso, da quando in uno stato di leggera ebbrezza Duff aveva
posato gli occhi su un articolo di giornale apparentemente innocuo, di pensare
a ciò che aveva scoperto. Quando poi l’occasione di far luce su quel mistero
gli si era presentata, la ragazza aveva messo in chiaro come avesse bloccato
ogni strada che portasse al fratello, ed insieme a quell’avvertimento il
bassista aveva perso la voglia di saperne di più. Anche in quel momento, quando
per pur caso aveva notato quei piccoli particolari che nella vita di Adrien
facevano inevitabilmente capo alla sua famiglia dilaniata, Duff si rese conto
che in ogni caso avrebbe preferito non sapere. Dopo aver domato la propria
curiosità, era giunta ala conclusione che i Miller e il loro passato non lo
riguardavano, decisione contaminata anche dal suo strano odio verso il
comportamento della ragazza. Quest’ultima, dopo interminabili secondi che il
ragazzo passò a tentare di decifrare l’enigma nei suoi occhi freddi,
agghiaccianti, si gettò all’indietro sul materasso, privandolo del contatto
così intimo con il suo sguardo.
-
Se n’è andato. Ancora tempo fa… a volte è incredibile come il tempo scorra
velocemente senza che noi ce ne accorgiamo. – qualunque cosa stesse accadendo,
Duff non poteva avere idea di cosa passasse per la testa contorta di quella
fiamma di capelli rossi. – Era stanco, non aveva voglia di diventare un
banchiere, di starsene tra i soldi. E non aveva chissà quali ideali morali, o
cose del genere… semplicemente, amava starsene per conto suo. Non avrei mai
creduto che mi lasciasse. – il ragazzo deglutì, per poi lasciarsi
inconsapevolmente cadere a poco a poco accanto ad Adrien, sulle coperte di lino
morbido, a guardare il soffitto bianco e a cercare di ascoltarla. –
Naturalmente, ci sono state delle ricerche. Ma New York è una città grande, e
non l’hanno mai trovato. Non sappiamo nemmeno se avesse preso soldi con sé, se
avesse avuto l’intenzione di andare da un amico, se sia ancora vivo… Oh, ma è
morto. Lo so che è morto, lo conoscevo… sarebbe tornato, prima o poi. Vuol dire
che è morto. – la cosa più insopportabile di tutte era quel tono di voce
indifferente, distaccato dal luogo in cui si trovavano e dalla
persone di cui lei stava raccontando. Incuteva quasi un senso di profondo
terrore, davanti alla noncuranza con cui affrontava i ricordi che stava
riesumando.
–
Poi i tabloid sono impazziti, oh. La notizia più
succulenta per mesi, uno scandola quasi più forte del
suicidio di James Miller. Se solo sapessero… se solo sapessero che in realtà il
grande magnate, colui che teneva in pugno il petrolio d’America, ha avuto
un’overdose nel bagno di casa nostra… altro che suicidio! Tutta la verità
insabbiata! – poi ci fu quella risata. Si levò dalle labbra di Adrien come il
cinguettio di un usignolo, inquietante nel contesto in cui risuonava.
Sbagliata, inquinava l’aria che stavano respirando, rendendola più pesante come
se questa s’addensasse per l’odio celato in quel ridere convulso, isterico. Quando
questa terminò, disperdendosi nella miriade di suoni che scuotevano il mondo,
la nausea s’attaccò alle loro pelli avvolgendoli delle sue spire pericolose.
Duff, aspettandosi che il punto nel muro che con tanto ardore fissava cercando
di non innervosirsi troppo, desiderò con tutto sé stesso di poter tornare
indietro. Avrebbe maledettamente voluto non sapere nulla, lasciare che ci fosse
quella sottile barriera ancora a dividerlo dalla Adrien
completa, integra che tanto lo spaventava. Nemmeno concentrarsi sui loro
respiri congiunti servì a scacciare dalla sua testa la consapevolezza
dell’atmosfera di tensione. Non gliel’aveva chiesto, di metterlo a conoscenza
di quel passato d’intrighi, morte e denaro, e anche se lei fosse stata meno
impulsiva e avesse iniziato ad accennare quel discorso l’avrebbe fermata.
Quando il ragazzo aveva insistito, una sera troppo lontana, perché insieme ne
parlassero, Adrien s’era rifiutata attraverso subdoli giochi di parole di
svelare il mistero del fratello e del padre defunto. Ed ora, quando ciò che
Duff voleva di meno era sapere tutta la verità e nient’altro che la verità, lei
l’aveva stupito con quella confessione improvvisa.
Ma
Adrien era stupefacente, in tutti i sensi. Qualunque cosa si provasse ad
immaginare sul futuro di quella ragazza, la sua prossima mossa rimaneva
imprevedibile. S’era trovata costretta a crescere in poco tempo, a farsi furba
in un mondo di squali che l’avevano deviata, lasciando che diventasse ciò che
era. Aveva la capacità di leggere tutto delle persone quasi queste fossero
libri aperti dai caratteri grandi, mentre la cappa di nebbia che l’avvolgeva la
rendeva sfocata, inafferrabile per gli altri. Nei suoi occhi scorgevi un
effetto pari a quello di una droga potente, che alterava forme e colori della realtà
in pochi secondi. Una volta portata alla bocca quella sostanza composta dal suo
viso angelico e dalle sue frasi taglienti, tutto era in mano al caso. Chi era
fortunato, veniva catturato da un vortice di emozioni che regalava
all’interessato forse più incognite che risposte, ma lasciava in bocca un gusto
di piacere. Chi invece era colpito da un bad trip veniva inevitabilmente
travolto dall’incubo. E quando l’effetto della droga finiva, il ricordo svaniva
con esso, stordendo l’anima e il corpo sotto il suo potere. Ecco, Adrien era
una potente sostanza stupefacente che, non contenta della distruzione di cui si
cibava costantemente, creava una dipendenza cieca ed assoluta che impediva a
chiunque di vedere al di là della maschera. Nel silenzio di quei momenti di
riflessione, Duff non azzardò a voltarsi a guardarle il viso, il delicato
profilo, l’espressione che temeva di scoprire: fuggiva dalla consapevolezza di
essere già totalmente schiavo di quella ragazza incomprensibile, rimandando i
tempi in cui sarebbe stato costretto ad affrontare quei demoni e a venire a
patti con la realtà. Lo faceva sentire così ingenuo, rischiando di morire
d’overdose.
-
E tu invece? Cosa mi dici di voi? – come se nulla fosse realmente accaduto, con
un colpo di reni la ragazza si posizionò a pancia in giù sul morbido letto,
fissando Duff in attesa del suo, di racconto. Ancora perso nella contemplazione
dei pensieri che gli frullavano in testa, il ragazzo non si curò di riflettere
sulla risposta da fornire ad Adrien. La ignorò come in una situazione normale
non avrebbe mai fatto, e ciò non passò inosservato alla ragazza. Nel suo cuore
nacquero sensazioni contrastanti che, timide come pulcini, si sarebbero fatte
sentire soltanto più tardi, nella notte inquieta prima della solita dose di
sonniferi e pillole. Priva della pazienza necessaria per consentire al biondo
di digerire le informazione appena apprese, Adrien non
riuscì a resistere dal destare il ragazzo da quei sogni ad occhi aperti
assestandogli un sonoro schiaffo sul ventre nudo. – Ahia! – esclamò Duff col
respiro mozzato dal colpo, mentre una nuova serie di risate prendevano vita
dalla ragazza stesa al suo fianco. Questa si guadagnò un’occhiata assassina da
parte della sua vittima, che massaggiò la propria pancia dolente prima di
tornare alle proprie perplessità. – Cosa ti dico di noi? – domandò, incerto se
fosse stata quella la domanda posta. Il silenzio di chi acconsente gli fece
intuire che aveva l’obbligo di proseguire. – Siamo noi. Così come ci vedi. Cos’altro c’è da sapere? Axl è fuori come un balcone, Slash
è una bestia, Steven un cretino, Izzy è quasi sempre imbottito di droga… e io,
beh, io sono io. – quell’assurda descrizione di quello che era diventato il suo
mondo fu soltanto in grado di aumentare l’ilarità della ragazza. Vederla ridere
di gusto, lanciata in quel divertimento, sentirla parlare tanto quanto prima in
quell’agghiacciante racconto era un lato di lei talmente nuovo che ancora Duff non sapeva se etichettare come buono o cattivo.
-
Suoniamo, ecco tutto. La nostra musica è viva, è
davvero parte di noi… in qualche modo ci rappresenta. Poi… mmh, fammi pensare…
- avvertendo i nervi sciogliersi all’apparente ritorno alla normalità della
situazione, assunse un’aria scherzosa da gran pensatore, portando le dita sotto
il mento in un’imitazione di minuto filosofico. – Beviamo tanto. Io per lo
meno, ma anche gli altri… ti dovrei far vedere il magazzino, è una fogna, però
in tutta quella merda c’è qualcosa di carino! – l’assurdità delle sue parole,
l’incapacità di ripescare le memorie delle difficoltà che ognuno dei ragazzi
aveva affrontato e di ammettere che la strada era ancora tutta in salita lo
spiazzò. Ma ancora di più lo colpì la serietà che scorse sul volto di quella
ragazza, lo strano cipiglio che lo fece sentire ancora più frustrato quando si
rese conto di non essere in grado di decifrarlo. Tutto ricominciava. – E sabato
suoniamo. Non è il nostro primo concerto, ma Izzy è
riuscito a rimediarci non so come una serata in un locale poco distante da
Venice Beach… E’ una cosa abbastanza grossa, mi ci vorrebbe un po’ di sostegno
morale. – quel concerto era l’occasione per la quale fremevano da un sacco di
tempo passato a provare in attesa di una luce in fondo al tunnel. E Adrien, al
suo fianco, con quell’aria stranita e in qualche modo turbata da riflessione
che solo lei poteva conoscere, era ciò che voleva adesso. Accarezzando lieve la
schiena della ragazza, trovando ingombrante quella
semplice maglia nera, pregò ardentemente che le due cose potessero combaciare.
Adrien
dal canto suo si trovava a pregare, per la prima volta nella sua vita,
quell’entità sconosciuta che a detta dei religiosi governava quel mondo malato.
Pregava che Duff non fosse stato ancora facilitato troppo nel carpire i suoi
pensieri, sperava che non fosse ancora in grado di capire. La marea composta
dagli impulsi pericolosi che il suo cervello registrava a quelle carezze e
dalle parole del ragazza minacciava d’investirla senza
pietà. E non poteva permetterlo, a qualsiasi costo. Eppure c’era qualcosa che,
a differenza del solito, le impediva di resistere alla tentazione di
abbandonarsi ai sentimenti:forse il bagliore genuino,
la sanità di chi non ha il cuore contaminato dall’odio che si poteva scorgere
negli occhi di un verde profondo che in quel momento la fissavano, in attesa.
Un concerto, si trattava di andare ad un concerto e nulla più. Per un attimo,
solo uno, il volto della ragazza divenne duro come la
pietra, scolpito in pochi anni passati in fretta. Poi tutto ritornò ad essere
rilassato: sì, sarebbe andata a quel concerto. E contemporaneamente si sarebbe
liberata di quella debolezza che la faceva sentire così ingenua: aveva in mano
le chiavi del suo cuore, e poteva giocarci come voleva. Alzandosi con movenze
feline, gattonò sopra il corpo disteso del ragazzo, guardandolo piena di
malizia ed ebbra di quella nuova potenza che la rinvigoriva, dopo la paura. Con
un movimento fluido, si liberò della maglia che gli aveva rubato, gettandola
lontano, insieme a tutto il resto. – Adesso ti faccio vedere io, un bel
concerto dal vivo… -.
She's morphine, queen of my vaccine, my love, my love, love, love.
Muscle to muscle and toe to toe, the fear has gripped me but here I go,
My heart sinks as I jump up, your hand grips hand as my eyes shut.
(Alt J - Breezeblocks)
Siamo
arrivati finalmente a questo capitolo! Un po’ di luce, e l’inizio dei capitoli
a sfondo un po’ più drammatico (prima sono andata sul legger xD) spero che sia venuto come volevo, perché di alcune
parti sono molto orgogliosa, altre mi fanno un po’ schifo. Devo dire che vedere
i due “Naive” del titolo della storia e di quello del
capitolo attaccati mi fa un po’ senso :P però non credo che ci sia
parola più adatta per denominare questo importante chappy! Ultimo chiarimento:
la citazione presa dal film “L’arte del sogno” va pensata in questa maniera,
ovvero Duff pone la domanda, Adrien risponde, anche se i sessi sono invertiti.
Beh, si può vedere anche al contrario… fatemi sapere ;)
AmyHale:
… Dinkleberg! E comunque la tua ultima recensione faceva veramente pena xD ma che ti prende in questo periodo? Ah, l’amore è
nell’aria -.- sono l’ultima persona che dovrebbe parlare, lo so! Vabbè, per
questa volta passa, però sappi che adesso voglio una recensione bella, ma anche
tanto! Sì, lo so: Maxie si chiama Sophie xD
Miss_Rose:
non me la sono presa! Anzi, visto il mio amore infinito per Skins
da un lato mi ha fatto piacere J il mio unico timore è quello di non essere originale, ma da ciò
che dici non mi sembra che ciò sia vero. Sono io che mi devo tranquillizzare xD non ti preoccupare, le vite di Linda e di Maxie saranno
approfondite nei prossimi capitoli, anche se la seconda rimarrà un po’ sullo
sfondo… solo un po’ ;) grazie come al solito per i complimenti!
Sylvie
Denbrough: sarà che sono un po’ ignorante, ma ancora non riesco a trovare i
tuoi disegni! Uffa! E sì che cerco, eh! Vabbè, sarà soltanto questione di occhio,
sono un po’ distratta in questi giorni! Mi spiace, ma non so chi sia Barbie O.O lo so, sono deplorevolmente ignorante! Però sono
contenta che il capitolo su Michelle ti sia piaciuto! Mi piace molto come
personaggi J. Attendo la
tua storia con ansia e anche una possibile fic su
questa Barbie, mi raccomando ;)
_LittleAxl_:
anche a me piace molto Michelle come personaggio, spero solo di averla resa
bene come avrei voluto… ma, da quello che capisco dalla tua recensione, mi pare
proprio di sì J sono contenta!
Grazie per i complimenti e per il commento!
aivlis8822: dai, non mi merito tutti questi
complimenti! Sul serio, a tutte quante, grazie: leggere recensioni così
positive infonde una carica pazzesca! E sono contenta che ti piacciano anche le
mie risposte, a me piace molto scriverle xD non se se Michelle e Slash si amano, però di sicuro sono una
bella coppia, su questo concordiamo entrambe ;) grazie ancora!
Capitolo 9 *** Capitolo 9 - Turn the lights on ***
Naive
Naive
Capitolo 9 – Turn
the lights on
“ Prima
o poi mi sparerai alle spalle, Angie:
credi in ciò che
fai,
senza lacrime mi
distruggerai. ”
(Verdena – Angie)
L’uomo
teneva il capo chino sulla pila di fogli plastificati, cercando di capire il
più possibile delle solite sciocchezze, nonostante le palpebre iniziassero a
farsi pesanti. La sola fonte d’illuminazione della stanza era una tremolante
lampada che rischiarava di poco la scrivania, nel buio dell’ufficio sontuoso.
L’ora che le lancette dell’orologio segnavano era piuttosto tarda, non
abbastanza evidentemente per segnare la fine della
fatiche lavorative: la penna scorreva veloce sui blocchetti di appunti,
segnando numeri a cui telefonare, persone da incontrare. La fronte imperlata di
sudore dell’uomo riluceva al fioco lume, i tratti del volto segnato da poche ma
profonde rughe esprimevano la stanchezza che si sforzava di sopportare. Solo
dopo due ore dal suo ritorno alla villa si prese qualche
minuti di pausa, allontanandosi dal piano ligneo con un sospiro
sommesso. Il suo sguardo vivido, azzurro come un cielo terso, cadde sul sorriso
di donna intrappolato in una cornice elegante al centro della sua scrivania.
Gli occhi della bella signora bionda della foto erano vitrei sulla plastica, ma
l’aria distesa e serena esercitarono subito un effetto calmante su Alan Niven.
Avrebbe desiderato raggiungere Lisette a letto, invece che stare in quello
studio a svolgere pratiche fastidiose ma necessarie: la carne è debole
all’amore e, soprattutto, al sonno. Di ritorno da un concerto sold out della
sua ultima scoperta, l’uomo non poteva che essere stufo di quella lunga
giornata.
-
E’ permesso? – al suono di quella voce familiare quanto sgradevole, Alan
sussultò sulla poltrona di velluto verde su cui era accomodato. Volgendo gli
occhi alla porta della stanza, osservò la figura snella e alta a cui la luce
della sua lampada non rendeva giustizia, che lo guardava di rimando con la
solita espressione indifferente. Non era certo una sorpresa trovare Adrien alzata
a quell’ora della notte, come altre volte era successo. Nelle numerose
occasioni in cui rincasava dopo serate di lavoro e incontri con gli artisti,
s’era fermato spesso come in quel momento ad ascoltare la sua presenza smuovere
la casa, silenziosa ma allo stesso tempo irruente, desiderosa di ricevere
attenzione. Fra i tanti disturbi di cui era convinto di cui la ragazza
soffriva, l’insonnia era sicuramente il più innocuo: ella si limitava a
rubacchiare qualche film dalla grande libreria in soggiorno, o a salire alla
sua vecchia camera da letto sempre pronta ad accoglierla per recuperare un
qualsiasi effetto personale. Alan la lasciva fare, attendendo con pazienza il
momento in cui si sarebbe ritrovato solo. Mai però Adrien era entrata nel suo
studio di propria volontà, senza nascondere l’avversione nei suoi confronti. –
Certo, vieni pure. – dopo un primo attimo di imbarazzo, l’uomo s’affrettò ad
allungare una mano verso di lei, segnandole con un cenno la sua libertà
d’entrare. Col passo di una gatta, la ragazza fece il suo ingrasso nell’ufficio vestita di un semplice pigiama leggero,
osservando l’ambiente senza dare segno di voler parlare. Alan si schiarì la
voce con un colpo di tosse, esprimendo il proprio disagio.
-
C’è qualcosa che non va? – se c’era una cosa che tutti in quella famiglia,
persino Annalou, ammettevano fra i difetti di Adrien, era quella sua insana
ostilità verso il padre adottivo. C’erano giorni in cui, a causa delle continue
assenze di Alan e della tendenza della ragazza a fuggire la sua presenza,
nemmeno si parlavano. Nel tono premuroso dell’uomo era impossibile non scorgere infatti quel pizzico di sospetto che ruppe l’atmosfera di
normalità: i sospetti che nascevano in quella strana visita non erano
trascurabili. – No, niente. – con l’aria di chi cade dalle nuvole assolutamente
inadatta a lei, la rossa scostò lo sguardo da uno dei grandi quadri appesi alle
pareti, un capolavoro del futurismo importato dall’Italia. La mancanza di
spiegazioni sulla sua presenza lasciò adesso ad Alan un senso di frustrazione
che cercò di soffocare sotto rassicurazioni inutili: tentava di convincersi di
avere comunque a che fare con una ragazza stramba, per quanto bella e
fascinosa. Probabilmente l’odio nei suoi confronti, che da quando l’aveva
spedita in Inghilterra era aumentato a dismisura, l’aveva spinta a cercare
d’infastidirlo con un incursione notturna nel suo
studio. Eppure, qualcosa davvero non quadrava: quella ragazza non faceva mai
nulla per nulla. – Il lavoro, tutto bene? – l’uomo non poteva sapere che era
proprio quello, l’obbiettivo della figliastra: creare nel suo cuore un’onda
anomala di sospetto, d’insicurezza. Era la sua tecnica preferita per rapire il
cuore degli altri.
-
Sì… come al solito. Perché me lo chiedi? – più i minuti scorrevano in quella
stanza immersa nella penombra, più Adrien trovava quell’omuncolo scontato,
squallido. Se anche il suo viso angelico non era storpiato dal disgusto che
provava in quel momento, quasi istintivo, dentro di sé gemeva per lasciarlo
crogiolarsi nei suoi mediocri pensieri con qualche sarcasmo. Ma alla domanda
del patrigno, la ragazza finalmente gli concesse il proprio sguardo, ormai
davanti alla scrivania di legno massiccio, in piedi davanti a lui. Sorridendo,
la consapevolezza del potere che anche solo le loro posizioni le concedevano,
l’uno rannicchiato su una poltrona quasi a proteggersi
dall’ombra dell’altra che incombeva. – Mera curiosità. – tutto, nel suo
atteggiamento, lasciava presupporre tutto il contrario di ciò che aveva
affermato. Quella farsa era parte integrante di una recitazione studiata
apposta per ottenere i risultati che s’era prefissata prima di entrare in
quella casa, quella sera. – Sabato vado ad un concerto nei pressi di Venice
Beach. Un locale che si chiama Blue, iniziano alle dieci e mezza o giù per di
lì. Mi hanno detto sia interessante. – nei pochi secondi intrappolati fra le
due sentenze, alla ragazza parve quasi di sentire Alan trattenere il respiro,
in attesa del colpo di pistola. Il compiacimento per quelle parole buttate lì per
caso, per quegli indicativo che la scioglievano da qualsiasi permesso che una
ragazza della sua età avrebbe chiesto al padre, il consiglio che indirettamente
gli stava donando, erano tutti segni della sua superiorità. E, diavolo, era una
sensazione fantastica: con il sorriso sulle labbra, lasciò nella solitudine
l’uomo, ancora a bocca aperte per quei precipitosi eventi.
Per
la prima volta nella sua vita breve ed intensa, Slash si rese conto di sentirsi
nervoso. Ma non provava quel genere di ansia che in genere assale la gente per
dubbi senza risposta fulminea o per faccende quotidiane irrisolte, il genere di
emozione con cui il ragazzo affrontava problemi ben più grandi. No. Alzando la
mano per poter afferrare la bottiglia colma di liquido ambrato sul tavolino al
quale era appoggiato, la vide tremare. Era seduto per terra, con la schiena
contro la gamba del mobile, solo perché aveva appurato che stare normalmente
seduto lo infastidiva a morte. In quel groviglio di fili elettrici e caos che
formava il backstage del locale, riusciva ancora a scorgere i propri amici
oltre il vetro del Jack Daniel’s. Ma anche se non
avesse potuto vederli, ascoltarli, avrebbe saputo di essere scosso dalle loro
medesime sensazioni: oltre le mura di cemento opprimenti, i rumori della sala
del locale giungevano a loro come per aumentare quel nervosismo. Davanti a lui,
sbracato su una poltroncina che aveva visto sicuramente tempi migliori, Izzy si
godeva una sigaretta come se quella fosse stata l’ultima della sua vita. Un
breve scambio di sguardi lasciò intuire ad ognuno di loro che avrebbero voluto
abbracciare le loro vere donne, quelle composte di corde ed elettricità che li
aspettavano sul palco. Axl blaterava a proposito di argomenti che non avevano
né capo né coda, giusto per sprecare fiato quando quello era per lui l’arma
indispensabile. Duff percorreva il perimetro della saletta con lunghe falcate,
senza nascondere l’ansia che l’aveva preso da quando le ragazze se n’erano
andate. L’unico che mostrava una parvenza di tranquillità era Steven, che dopo
non aver rinunciato alle bacchette in mano nemmeno per pochi secondi aveva
preso posto al fianco del riccio, facendosi passare ad intervalli regolari la
bottiglia di whiskey.
-
Ricordatevi che siamo i migliori sulla piazza. Cazzo, i migliori! – nessuno di
loro riuscì ma ad essere completamente sicuro di aver udito le parole
arrabbiate di Axl, che avrebbero dovuto essere degli incoraggiamenti di un
frontman premuroso: la folla che li attendeva oltre la parete di compensato che
separava le varie quinte del palco impedì loro di collegare correttamente i
sensi al cervello. Non avevano mai suonato davanti ad un pubblico così
numeroso. C’erano talmente tanti ragazzi, così diversi fra loro in quella massa
di colori e volti che li rendeva tutti uguali, che la
sgradevole sensazioni di vuoto allo stomaco non si fece attendere dal
colpirli, lasciando che si pentissero di aver ingurgitato talmente tanto alcol
senza aver mangiato nulla. La voce annoiata del ragazzo dai capelli sparati
verso l’alto dal gel annunciò il loro imminente spettacolo, suscitando risatine
e sussurri da parte dei presenti che non avevano mai sentito nominare la band:
per loro, altro non erano che cinque fra i tanti ragazzini spauriti che
cercavano di farsi strada in quel mondo di squali a colpi di chitarra. Non
erano lì in una sola ricerca di sballo: erano lì per giudicarli, per farli a
pezzi se avessero fallito, per osannare i loro nomi se con la loro musica
avessero sfondato. Tranquillizzato di pochissimo dal peso della chitarra che lo
attendeva in un angolo, Slash la imbracciò sicuro che in un attimo si sarebbe
dimenticato ogni accordo provato. Dalla folla si levarono alcuni colpi di tosse
impazienti, qualcuno gridò qualche spiritosaggine: il ragazzo fece in tempo
soltanto a individuare di sfuggita una zazzera bionda che avrebbe
potuto appartenere a Maxie, prima di lasciarsi trasportare dall’istinto
che quelle corde gli innescavano dentro.
Era
più potente di qualsiasi altra cosa al mondo, quella
strana energia che simultaneamente prese a scorrere nelle vene di quei cinque
ragazzini in cui nessuno mai aveva avuto fiducia. Era il frutto di lavori di
pomeriggi chini su fogli e insieme dell’adrenalina che fluiva attraverso gli
arti, la voce il corpo intero. Axl iniziò a gridare parolacce al microfono
sulle note dell’introduzione del riccio, già dimentico di ciò che lo
circondava, destando così la curiosità della folla. Tutti gli altri lo
seguirono evidenziando ognuno il proprio stile così diverso, che unito a quello
dei compagni creava una perfetta sinfonia. Era musica, la ragione per cui
trovandosi davanti ai loro strumenti sentivano crescere la determinazione con
cui desideravano spaccare il mondo. Quando la voce rude e violenta del vocalist
incominciò a fendere l’aria con parole che profumavano della loro vita, anche
la folla ai loro piedi si rese conto di quel magico incantesimo che li univa.
Il contatto di Izzy che aveva procurato loro l’ingaggio probabilmente stava
saltando di gioia, ma nessuno di loro ci avrebbe mai pensato per il resto della
sera. Lo stesso moretto, in un angolo con sigaretta in bocca e cuore alla
chitarra, si sentiva travolto dalla stessa sensazione. Era come volare. Ed
erano bravi, fottutamente bravi, come avrebbe detto Axl se non fosse stato
troppo impegnato a riversare la propria rabbia nel microfono. Il pubblico aveva
l’impressione di pensarla allo stesso modo, unendosi alle urla del cantante,
ballando sui loro testi. Ma nessun altro avrebbe potuto capire come si
sentivano loro cinque in quel momento: era un segreto che loro condividevano
con il mondo, un segreto celato in un angolo del loro cuore.
Le
odiava. Odiava i loro strilli appena sotto il palco che spaccavano i timpani a
chiunque e le rendeva ancora più insopportabili, odiava incrociare lo sguardo triste
che l’amica manteneva dal qualche giorno prima. – Sono molto bravi, vero? –
eppure Maxie presto si decide a tener fede alla
promessa fatta la bassista, sporgendosi seppur con riluttanza verso la ragazza
seduta al suo fianco, urlando per superare con la voce un potente assolo di
Slash. Erano uno strano gruppetto, loro quattro, sedute sugli scomodi sgabelli
al bancone del bar del locale mentre attorno a loro confusione e sballo
regnavano sovrani. La sua vicina rispose con un breve cenno del capo, impassibile
come sempre, affrettandosi a sorseggiare un drink a bassa gradazione ormai
quasi prosciugato. L’espressione di Maxie quando s’accorse che quel tentativo
d’instaurare una conversazione con Adrien, come promesso a Duff, era stato
penoso non mutò quando s’accorse che le strilla di Michelle s’erano unite
quelle delle ragazzine che idolatravano la band. Nello sgabello di sinistra infatti, fra la biondina e Linda, l’amica si agitava e si
sgolava cercando di esprimere tutto il proprio appoggio nei confronti dei
ragazzi, al contrario della moretta che le sedava a fianco, che sembrava voler
scomparire.
-
Ah, lì hai visti? Sono grandiosi, cazzo! – nemmeno all’entusiasta Michelle
passò inosservato il comportamento da defunta di Linda, che se ne stava
appoggiata con un gomito al bancone e combatteva contro il mal di testa insorto
dopo la seconda birra. Il suo sguardo era fisso oltre la coltre di ombre
indistinte delle persone che ballavano in pista, sul grande palco dove gli
amici si stavano esibendo. Nemmeno gli incitamenti dell’amica riuscirono a
farle scostare gli occhi da lì. Solo di tanto in tanto si concedeva un’occhiata
fugace verso la figura che chiudeva la loro fila,
dall’altra parte rispetto a dove era seduta lei come a rimarcare la differenza
fra loro. – Sì. – rispose febbrilmente dopo già tempo da quando Michelle le
aveva parlato, senza sperare di essere sentita. Avvertiva su di sé lo sguardo
insistente di Maxie che non le dava tregua dal pomeriggio in cui Duff aveva portato
la rossa al magazzino: la presentazione timorosa del biondo, come se ci fosse
stato bisogno di chiarire il nome altisonante della ragazza che sedeva al loro
fianco, l’aveva colpita come un pugno sul naso. Era stata la prova che ciò che
quella mattina l’aveva tormentata era vera, senza poter essere battuto dal suo
tentativo d’illudersi. – Fa caldo! – dopo aver scostato gli occhi indagatori
dal profilo dell’amica, Maxie tornò a quello della rossa, che sembrava
annoiarsi sempre più. Non riusciva a nascondere l’irritazione che quell’aria indifferente
a tutto e a tutti le trasmetteva: era bella proprio
come gli occhi di Duff le avevano sempre detto.
-
Linda! Barbie mi ha detto ieri che Stubbs ha spostato le sere libere e che
stasera devo andare su. Mi presteresti la macchina per mezzanotte? – dopo un
paio di tentativi per farsi udire dalla ragazza, Michelle fu finalmente in
grado di comunicarle la domanda, con la tipica espressione di chi cade
improvvisamente dalle nuvole. Era sempre questione di lavoro, quando le luci di
un locale e il divertimento che la circondava si oscuravano. Il suo sorriso
s’incrinò nel porre quella semplice richiesta, ma non scomparve subito. Almeno,
non finché non vide Linda scuotere la testa in maniera dispiaciuta, con
l’espressione sofferente a causa dell’emicrania. – Devo tornare a casa per le
undici, mio padre mi ammazza se rientro più tardi. L’ultima volta mi ha
aspettato alzato. – infatti, se non era il lavoro era la sfortuna contro la
quale lottava da sempre a tenderle colpi bassi come quello. Con sospiro, Michelle
esibì i denti perlacei in uno dei suoi sorrisi più smaglianti, senza scomporsi
minimamente davanti al nuovo ostacolo. – Figurati. Mi farò dare un passaggio da
qualcuno. – alzando le spalle con un atteggiamento di noncuranza, guardandosi
attorno per evitare che questo si posasse ancora una volta sullo sguardo
affranto di Linda, che dava segno di essere piuttosto brilla. Non aveva mai
retto troppo bene quel poco alcol che si costringeva ad ingurgitare.
-
Oh, ma io ho la moto parcheggiata qua vicino, se vuoi ti accompagno io. – Maxie
fece appena in tempo a capire il significato della conversazione delle due
amiche che un quarto interlocutore s’immise fra le loro parole: Adrien
sorrideva loro con eleganza, agitando ciò che rimaneva della sua bevanda. Tre paia
di occhi fissavano sbigottiti la persona che aveva dato l’impressione di voler
tacere per tutta la serata, improvvisamente affabile, dall’aspetto quasi
mutato. Il silenzio che le pervase sembrò gelare la musica assordante che le
attorniava, le note dell’ennesima canzone bloccata nel molto in cui la ragazza
aveva parlato. Poi, tutto tornò come prima. – Grazie! Beh, sei gentile, ci si
mette un po’, bisogna andare verso i locali a… Beh, ti dirò dopo. – Michelle
pareva deliziata della proposta della rossa, visibilmente più serena davanti
alla prospettiva di passaggio sicuro. Aveva bisogno di quei soldi, e saltare
una serata equivaleva a paga di fine settimana diminuita.
Il suo entusiasmo però fu attutito da un’occhiata assassina dell’amica bionda,
che ancora teneva la bocca aperta davanti a quell’assurda situazione. Linda
invece non ne era partecipe, tornò al coinvolgimento che il concerto ed una
persona sul quel palco che appariva troppo lontana le offrivano, dopo essersi
limitata a guardare con malinconia Adrien. Qualunque cosa avesse pensato Maxie,
in quel momento era troppo sbigottita per esporlo: Linda lo sapeva, la
conosceva da tanto di quel tempo da elencare a menadito le caratteristiche
dell’amica. Con un sospiro, si concentrò sul ragazzo ed annullò il resto.
C’era
qualcosa che non andava. C’era qualcosa che Maxie cercava di ficcarsi a forza
nel cervello ma che non passava la solida barriera di circospezione che s’era
innalzata sin dalla prima occhiata che aveva lanciato a quella rossa da
strapazzo. La osservò ridere e scherzare con Michelle, notando quanto la
situazione si fosse ribaltata: le due si sporgevano l’una verso l’altra con
aria complice, cercando di inserirla nella conversazione sulla band mentre
Maxie restava immobile come un ghiacciolo. E la osservò, ancora e ancora: non
si riusciva a scorgere un briciolo dell’alterigia e dell’indifferenza che aveva
ostentato, ed era stato proprio quel cambiamento improvviso a destare il
sospetto nella ragazza. – Andiamo a ballare, cazzo!
Quelle troiette laggiù stanno facendo troppo casino per i miei gusti! – squittì
poi Michelle, con lo stesso timbro vocale delle ragazzine che regalavano
sguardi languidi ai ragazzi sul palco. Maxie si sforzò di non ribattere con
qualche frase seccata per il puro gusto di farla arrabbiare, vedendola d’un
tratto così socievole nei confronti della nuova Adrien. Quest’ultima annuì alla
proposta della brunetta, sul volto un’espressione nuova e differente delineata
dai pensieri ignoti al resto del mondo che ronzavano nella sua mente. C’era
qualcosa di rassicurante in quel sorriso comparso dal nulla, che nella
diffidenza di Maxie partorì una domanda: era così pericolosa come aveva
pensato?
-
Ehi, ragazza con due tette enormi a ore dodici. – e nel
scegliere al bivio quale strada imboccare, Maxie optò per la via di mezzo:
nella luce peccaminosa del locale intravide qualcosa che avrebbe potuto
distrarla da quelle visioni cospiratrici, una ragazza dalla pelle scura e dalle
curve prorompenti. Di solito, i suoi tentativi di abbordare un’eterosessuale
occupavano la maggior parte della serata, e la preda avvistata era coinvolta in
un sensuale ballo con un tipico tamarro di periferia. Se quelle due volevano
ballare, se Michelle voleva giocare alle amiche per sempre con quella rossa
improvvisamente trasformatasi in un’innocua fanciulla, lei voleva starne fuori.
Aveva troppi dubbi per la testa. Si alzò dagli scomodi sgabelli verso il punto
in cui aveva avvistato la bella mora, lontano da quell’assurda situazione,
dimenticandosi dei problemi che s’ostinava a porsi e iniziando a godersi la
serata, almeno per quei cinque minuti in cui si prospettava mare calmo. –
Oddio! Suonano questa, io la adoro! E’ una delle loro canzoni migliori! – nell’ombra,
Michelle non si accorse del ghigno irrisori comparso
per pochi attimi sul volto di Adrien, scomparso prima che questo tornasse a
splendere nel suo pallore sotto le luci ad intermittenza. Anche se fossero
state alla luce del giorno, la ragazza sarebbe stata troppo presa dalla foga di
lanciarsi in una danza sfrenata nel tentativo di scacciare quelle piccole
sgualdrine da Slash per poter prestare realmente attenzione alla rossa. Ovunque
andasse, quel buio intrigante giocava a vantaggio di Adrien.
Mentre
la ragazza che l’aveva trascinata in mezzo alla confusione più totale si
muoveva fra quella marea di corpi come un’ossessa al ritmo della batteria di
Steven, la rossa non staccò lo sguardo dal bar. Lo sguardo da pulcino spaurito
addosso a colei che era rimasta attaccata allo sporco bancone la incuriosì.
Aveva passato la serata a recitare spudoratamente nell’osservare Linda
contorcersi in quella passione segreta che avevano capito tutti tranne, a quel
che pareva, l’oggetto del desiderio di quella ragazzina. Adrien abbozzò qualche
movimento su quella musica continuando a squadrare la testa coperta di capelli
dritti come spaghetti di Linda, con un sorriso stampato in volto. Pochi
bicchieri attorniavano la figurina al bancone, sufficienti per giustificare gli
occhi lucidi e le guance arrossate che era segno della sbronza. Conosceva la
direzione verso cui quegli occhioni marroni erano puntati: il ragazzo alto e
biondo sul palco era uno splendore, era irrimediabilmente suo e Linda ne era
innamorata persa. La rossa lo aveva intuito sin da quando li aveva visti
arrivare sotto i portici della scuola, forse anche prima di quell’incontro
attraverso occhiata fugaci con cui aveva spiato Duff. –
Linda non si sente bene. Forse è meglio che vada a farle compagnia! –
attraverso il rumore urlò quelle poche parola a
Michelle, che rispose con un’alzata di spalle. Probabilmente non aveva nemmeno
capito il significato della frase gridata dalla ragazza, ma non rappresentava
un problema. Presto, lo avrebbero capito tutti.
Non
avrebbe toccato mai più una singola goccia di alcol: aveva chiuso con qualsiasi
cosa riguardasse quel modo sfrenato di raggiungere un’effimera illusione di
felicità. Gli unici sentimenti che riusciva a provare erano il disgusto per la
bile che sentiva risalire alla bocca e la confusione che le forme indistinte
che vedeva le creavano. E la figura appena ricomparsa, china su di lei con un
sorriso materno. – Ci siamo prese una sbornia triste, a quanto vedo! – e anche
in quel momento, piena dei fumi dell’alcol che salivano dal suo stomaco per
darle alla testa, colse la sfumatura d’ironia nella voce di Adrien che rese
tutto più difficile. Maledisse l’idea di bere quel goccio di troppo (per
dimenticare, aveva detto una volta uno strafatto Steven) che le
era saltata in testa quella sera, maledisse anche quella dannata
discrezione che le avrebbe impedito di prendere a pugni quel sorriso falso sui
suoi occhi di ghiaccio. – Mi viene da vomitare… - dopo aver pensato con poca
lucidità ad ogni insulto immaginabile, Linda se ne uscì con quella lamentosa e
debole vocina, giusto per sottolineare il pietoso stato in cui era ridotta. Quasi
non si accorse della pressione attorno al polso delle lunghe dita della ragazza
che la costrinse ad alzarsi. Le disse qualcosa che nella confusione, del locale
della sua testa, la moretta non afferrò, limitandosi a seguire la forza del
braccio che la trascinava attraverso la sala, scontrandosi con ballerini
provetti e volti sconosciuti.
Linda
non aveva mai preso una sbronza in vita sua: ciò non vuol dire che non avesse
mai toccato un goccio di alcol, cosa impossibile vista la compagnia che
frequentava. Semplicemente si guardava dagli stravizi di cui Michelle tesseva
le lodi. Forse fu proprio quell’essere scivolata su qualcosa che aveva sempre
rinnegato a farla stare realmente male, quando china su un
sporco gabinetto vomito anche l’anima. Mentre la sua bocca veniva invasa dal
sapore amaro della bile e i suoi pensieri si svuotavano in balia del dolore di
stomaco, si rese conto che ciò che realmente bruciava era il tocco della
persona che, dietro di lei, si curava di scostarle i capelli dalla faccia.
Poteva giurarci, quella ragazza infernale stava
sorridendo. – Se non sei abituata non dovresti bere,
piccola Linda. – Piccola. Avevano tutti il pallino di quell’aggettivano che le
accollavano nonostante si sforzasse di dimostrare a tutti quanto potesse
valere, ance con i suoi modi frenati e timidi. Sarebbe rimasta piccola, anche
per Duff. – Dai, rialzati. – era insopportabile: quella malcelata ironia, il
tono con cui cercava di mascherare da premura la presa in giro che le
rivolgeva, la sua espressione appannata dalle lacrime che offuscavano la sua
vista. Ovunque cercasse di appoggiarsi in quel bagno, andando a sbattere contro
tutto, Adrien rimaneva una presenza dietro di lei in grado di coprire anche la
sua ombra. Esercitava un controllo su di lei, sugli altri, che nemmeno i sensi
offuscati dall’alcol e le parolacce che sapeva di indirizzarle potevano
sconfiggere. C’era qualcosa in lei che rendeva succubi della sua presenza
coloro che le giravano attorno.
-
Una ragazzo così carina e graziosa, e nessuno a consolarla da una delusione
così amara… - erano rimaste in silenzio per interminabili minuti, mentre nel bagno stranamente deserto Linda provvedeva a sciacquarsi
il viso sudato con dell’acqua fredda. Dopo essersi pentita di quella decisione
che era sembrata un rimedio veloce alla sbornia e che invece le aveva donato un
bruciore agli occhi per il trucco colato, udì quelle parole. Sembravano un
soffio di vento, tanta era la delicatezza con le quali erano state pronunciate.
Con il volto ancora grondante di gocce gelate, lentamente si volse a guardare
Adrien che se ne stava con la schiena appoggiata alle
piastrella bianche e sporche del bagno. Era la stessa posizione che aveva
assunto nell’aspettare Duff, sotto i portici, quel giorno in cui i loro giochi
erano ripartiti. – Non devi reprimere i tuoi sentimenti in questa maniera.
Capisco che le tue aspettative possano essere state deluse, ma non è il caso di
fingere che tutto vada bene: nel caso non te l’abbiano già detto, non sei una
brava attrice, la tua indifferenza non regge e ti rende solo più patetica di
quanto tu non sia già. – era melliflua, con quel
sorriso appena accennato impresso in un volto da prendere a sberle. Ma Linda
rimase in silenzio: era quasi necessario rimanere muti davanti all’eleganza con
cui la stava assassinando.
-
Che c’è, hai perso la lingua? Oh… dimenticavo che tu non parli. La piccola
Linda è troppo timida per difendersi da sola, per imporsi, per farsi notare.
Non è così? – nonostante le forme e i contorni di ciò che la circondava fossero
ancora sfumati e imprecisi, quelle frasi letali risuonarono nella sua mente
come campane in una chiesa abbandonata. Se avesse avuto la forza di
concentrarsi sul loro significato, forse avrebbe persino udito l’eco
dell’umiliazione che Adrien stava cercando d’infliggerle con un certo successo.
Senza riuscire a rimanere dritta per troppo a causa dell’alcol che era in
circolo ancora nel suo corpo, trovò un sostegno nel lavandino dietro di sé,
rendendosi se possibile ancora più piccola rispetto alla ragazza davanti a lei.
Era impossibile decretare se si trattasse di pura suggestione o di una reale
superiorità, anche a livello fisico, di Adrien. – Ma di cosa stai parlando? –
chiese Linda, ma fu inutile: il sussurrò che uscì
dalle sue labbra sapeva ancora dei succhi gastrici che l’avevano indebolita
ulteriormente, la sua forza di fronte a quegli attacchi acuti e calcolati era
diminuita. Ma, soprattutto, pensava a Duff. Nella sua mente si delineavano i
tratti delicati del viso del ragazzo, il suo sorriso furbo e i suoi occhi che
brillavano nel baciare Adrien, l’elegante creatura contro cui
si stava misurando. Non aveva alcuna speranza. Senza rendersene conto, Linda si
lasciò sconfiggere facilmente.
-
Lo sai, oh, eccome se lo sai. Stagli lontano. Dai solo
fastidio a me e a lui con questo tuo comportamento da cagnolino fedele, ti
rendi ridicola e credimi quando dico che non c’è bisogno di rimarcare quanto tu
sia infantile. Piccola Linda, vero? So quanto odi che
tutti ti chiamino piccola, quanto detesti il fatto che tutti ti considerino
ancora una bambina indifesa… Forse, se m’impegnassi, potrei conoscerti meglio
di quanto tu possa credere. – trovò della verità in quelle
parola dolci e taglienti come lame di rasoi che la lasciò senza fiato,
sottolineando la sensazione di occlusione che attanagliava il suo stomaco.
Senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla riga sottile delle labbra della
ragazza curvate verso l’alto, non fu in grado di pensare a come controbattere,
o forse semplicemente non ci riusciva. La voce era come bloccata nella gola
riarsa dai residui di alcol e bile. Adrien era bellissima, anche in quel
momento così estraneo alla graziosità del suo viso Linda non poteva fare a meno
di notare quanto potessero essere affascinanti posizione
e contorno del suo corpo flessuoso. – Sappiamo entrambe che ciò che desideri è
mio, piccola Linda. Non ci puoi fare niente, e le occhiate che gli lanci, quei
tuoi strani tentativi di approccio non funzioneranno. Evita quindi d’infastidirmi,
perché se hai anche solo la metà del cervello che dimostri, hai capito che
mettersi contro di me può far solo male. Ci vediamo a scuola. – e con
quell’ultimo colpo di grazia la lasciò inerte, appoggiata al bordo dello sporco
lavandino, col senso di nausea ad indebolirla fisicamente e la consapevolezza
della sua supremazia a distruggerle il cervello, insieme all’alcol.
Passarono
infiniti millesimi di secondo prima che Linda fosse in grado di muoversi
ancora, e il su primo gesto dopo la paresi che sembrava averla colta fu quello
di cercare il proprio riflesso al lurido specchio di quel bagnetto. La luce al
neon incominciava ad illuminare la stanza ad intermittenza, e un crepo si diramava in piccole schegge di vetro lungo un
margine della superficie fredda, eppure Linda incontrò con facilità i propri
occhi. Essi rimandavano il bagliore che spesso aveva colto quando aveva cercato
di trovare, nella propria immagine, qualcosa di diverso. Avrebbe voluto con
tutta sé stessa non essere costretta a notare il fantasma dagli occhi grigi che
si prendeva gioco di lei alle sue spalle, vivido nell’illusione di un incubo.
E, senza poter rinunciare ad infliggersi lei stessa un’altra coltellata fra le
tante ricevute, si trovò ad assaporare ancora il dolce ricordo di Duff. Doveva
aver finito di suonare, magari la stava cercando, aspettando per parlare con
lei e godersi il resto della serata in sua compagnia, felice della sua
presenza. Poi nella sua mente affiorò anche il pensiero di Adrien, in modo da
cancellare anche le ultime vaghe speranze. Il volto incorniciato da ciocche
marroni e flosce le rimandava lo sguardo rancoroso, eppure sempre così docile e
gentile. Piccolo, gracile anche quello, come tutto ciò che la riguardava. E,
con un improvviso conato, riprese a vomitare.
Mentre
si chiudeva la porta bianca alle spalle e percorreva lo stretto corridoio che
l’avrebbe riportata alla sala principale, la ragazza si sentì euforica.
Mulinando i capelli rossi con una delle sue mosse più aggraziate, non riuscì a
fare a meno di ricambiare uno degli sguardi ardenti che un ragazzo dai capelli
scuri le aveva lanciato passandole a fianco. Fuori una. Era stato quasi
divertente prendersi gioco di lei in quel modo, facile come rubare le caramelle
ad un bambino: aveva odiato quell’espressione perenne da innocente ragazzina
sin da quando l’aveva vista per la prima volta, ma ci aveva giocato. Era stata
paziente, aveva recitato bene la propria parte come sempre e poi aveva colto al
volo l’occasione di stenderla. Con passi svelti, Adrien s’inoltrò nella folla
di persone che ora ballava a ritmo di un pezzo improvvisato dal deejay di
turno, tutti troppo ubriachi per poter rendersi conto dell’orribile mix di
suoni che stavano ascoltando. Guardandosi attorno ritornò alla solita
impassibilità fredda e misteriosa, prima di attraversare la sala con non poca
fatica ed infilarsi nella porticina laterale che a inizio spettacolo Michelle
le aveva indicato. Dopo un lavoro così faticoso, occorreva accertarsi di poter
ottenere una degna ricompensa.
-
Ehi! – neanche l’avesse chiamato ad alta voce, l’alto ragazzo comparve non
appena aprì la porta che portava alle quinte, imperlato di sudore e coperto
soltanto da un paio di aderenti pantaloni in pelle. Le pupille dilatate con il
quale la fissava chiarivano che Duff doveva aver già pregustato uno dei regali
di dopo concerto: le urla del resto della band che festeggiava il successo
accompagnarono l’ingresso dei due ragazzi, già avvinghiati l’uno all’altra,
all’angusto camerino che aveva affibbiato loro. La rossa non si curò nemmeno di
salutare gli altri, impegnata a mantenersi in equilibrio mentre senza pudore il
ragazzo le sfilava il vestito, di fretta, incurante degli amici presenti. Con
la lingua del bassista che disegnava il profilo del suo collo abile, la sensazione
di vittoria si amplificò a mille sotto il desiderio che egli le trasmetteva,
come se fosse stata al centro del suo mondo. Trovarono posto su una poltrona in
un angolo, rompendo con furia le barriere che ostacolavano una congiunzione che
inibiva i sensi, che li rendeva ingenui e dimentichi di tutto il resto. Persino
Linda sembrava un remoto ricordo, persino le paura che
Adrien nascondeva in un remoto spicchio del suo cuore su quella pseudo
relazione con Duff furono abbandonate nella confusione che creavano
esclusivamente per loro e che per pochi minuti li rendeva sereni. Certo, si
convinse la ragazza, aveva fatto abbastanza per quella sera: Duff sarebbe stato
il suo piccolo premio, nulla più. La sua distrazione prima di fuggire con
Michelle e dimenticare tutto ancora.
“ And I wish I was special, you’re so fuckin’
special
but I’m
a creep, I’m a weirdo:
what
the hell am I doing here?
I don’t belong here. ”
(Radiohead – Creep)
Venia!
Chiedo perdono per questo enorme ritardo, ma i miei professori si sono messi in
testa che sia meglio riempirci di verifiche prima che con le vacanze i nostri
cervelli vadano al macero -.- in più ho dovuto affrontare una delle più grosse
crisi d’ispirazione che abbia mai avuto, perciò credo fermamente che questo
capitolo faccia schifo in ogni senso. Più che altro,
ci sono delle parte che fanno veramente vomitare, ma
lo posto lo stesso perché ormai quel che è fatto è fatto, e io non sono la
tipica persona che torna indietro. Purtroppo, non riesco a rispondere ad ognuna
delle stupende recensioni che mi avete lasciato, perciò ringrazio IoMe,
AmyHale, Sylvie Denbrough, Miss_Rose, aivlis8822, _LittleAxl_
e le persone che leggono e che seguono. Vi amo!
Ultime
cose: ovviamente la canzone dei Radiohead è POV Linda
xD la odio, è una piattola, è stata creata da me per
poter giocare a freccette con la sua immagine. Ma piace a molte di voi, e per
questo siete tutte sfigate u.u no, scherzo, non mi
permetterei mai. A volte anche Linda può rivelarsi utile, anche lei è sfuggita
al mio controllo xD esattamente come successo con
Love willtearusapart.
Ringrazio
poi Sylvie Denbrough, che ha disegnato alcune immagini
stupenda della vecchia Naz, e che io mi sento in dovere di postare anche
qui. Rappresentano Naz prima e dopo gli anni di lontananza da Izzy, con tanto
di Daniel. Spero vi piacciano (e così sarà) quanto sono piaciute a me: grazie Syl!
-
Amore… Basta, devo andare… - più tentava di liberarsi dalla sua stretta rude
più il ragazzo si stringeva a lei, quasi avesse a che fare con un polipo
gigante. Sotto la pressione delle labbra di Slash, la brunetta non poté far
altro che biascicare un surrogato di supplica, senza avere realmente
l’intenzione di allontanarsi dal copro del riccio che
la premeva contro il muro ruvido. Ma il campanello d’allarme per il tempo che
scorreva avaro, privandoli di quei momenti rubati alla festa di fine concerto,
suonava già da un pezzo nella testa di Michelle, che dopo vari tentennamenti
con una spinta decisa lo allontanò da sé. – Cazzo, ti ho detto che devo andare!
– gridò, senza però riuscire a nascondere il dispiacere di doverlo abbandonare
così, ubriaco fino al midollo e senza nemmeno un assaggio del premio che gli
aveva promesso per un così bel concerto. L’espressione sul volto del
chitarrista si fece a dir poco allibita, quasi si potessero udire le sue
speranze infrangersi una dopo l’altra. A quel pensiero, la ragazza gli sorrise, suadente. – Dopo torno, ti aspetto giù al
magazzino… Dai, non incazzarti, eh? – gli disse abbandonando il tono seccato
usato per scostarlo poco prima, allacciando nuovamente le braccia attorno al
collo di quel suo cavaliere così fuori dagli schemi. Ritardo o no, poteva
trovare il tempo per salutare Slash alla loro maniera.
Una
nuvola di fumo dolciastro la accolse quando, mano nella mano col riccio, tornò
allo stanzino che la direzione del locale aveva concesso loro in un atto di
falsa carità. Esso proveniva più che altro dalla grande canna rollata con cura
da Steven, ormai giunta a metà mentre questo e Izzy se la passavano l’un con
l’altro da bravi amici. La camera era leggermente sovraffollata per quelle
dimensioni così ridotte, e l’aria impregnata di quella sostanza stupefacente
era quasi irrespirabile. Michelle trovò subito chi cercava, guardando con occhi esperto negli angoli in cui era possibile per le
coppiette appartarsi e svolgere in tranquillità faccende non proprio pubbliche.
L’insieme di arti e sospiri che rappresentava in quel momento Duff e Adrien non
la imbarazzò minimamente, mentre il contatto con Slash si sciolse non appena
quest’ultimo decide di unirsi agli amici per sballarsi un altro po’. No, non
era la prima volta che la ragazza assisteva a scene di sesso fra quelli che per
lei erano come una famiglia: il vero problema era come richiamare l’attenzione
della rossa in modo che potesse mantenere la promessa e portarla al Night Club.
Adrien sembrava fin troppo indaffarata per degnarla anche solo di un’occhiata. –
Ehi, Micha, dov’eri finita? – sentì la voce di Axl chiamarla, voltandosi solo
per trovare gli occhi verdi fissarla in forma insolita, segno che per il suo
cervello era passata una quantità in più di coca rispetto al solito. Gli sorrise, prima di farsi coraggio e afferrare saldamente
le spalle della rossa.
-
Scusa, biondo, ma te la devo portare via. – era
coperta soltanto dalle mutandine quando Michelle la costrinse ad alzarsi, ad
allontanarsi da lui. Ogni volta che Adrien si sottraeva al contatto col suo
corpo così improvvisamente, anche solo per sbaglio, una sensazione di freddo
che andava al di là della pura fisicità invadeva Duff, anche restava stordito
per quello sbalzo di temperatura. Ogni volta che la ragazza si trovava a
guardarlo dall’alto in quella maniera, a parlargli con gli occhi di come avesse
bisogno di tornare fra le sue braccia tanto quanto lo bramava a lui, ogni
stanza ghiacciava. Era sensazioni così stupide che provocavano una ridarella
sciocca che si interrompeva ancora prima d’iniziare, quando il ragazzo
s’accorgeva che come in quel momento Adrien ci avrebbe messo un po’ a tornare
da lui. – Ma che cazz…? – lo stato confusionale che segue un passionale
rapporto sessuale aveva preso possesso del suo cervello, lasciando che la
stanza fosse sfocata attraverso i suoi occhi annebbiati da tutto. Eppure, vide
con chiarezza la sagoma di Michelle mentre Adrien cercava con un sorriso il
proprio abitino nero. – Che stronza. – commentò Adrien ridendo dell’espressione
smarrita di Duff, che spostava lo sguardo attonito da una ragazza all’altra in
attesa di spiegazione. Non gli era piaciuto come gli avevano sottratto la sua
dose.
-
Eh, non te la sarai mica presa? Che c’è, il tuo uccello funziona a gettoni? –
mentre la rossa si rivestiva in silenzio senza riuscire a trovare nella
confusione della stanza il proprio reggiseno, Michelle approfittò della
confusione di Duff per pungolarlo. Era evidente che il meccanismo nei suoi
pantaloni era stato profondamente deluso nell’aspettativa. – Ma questa storia
da dove salta fuori? – il biondino però ignorò il commento dell’amica per
rivolgersi direttamente alla fonte dei suoi guai: Adrien alzò frettolosamente
lo sguardo su lui, come se non fosse stata minimamente toccata dalla brusca
interruzione. Passò una mano fra i capelli color fiamma per ravvivarli, prima di
degnarsi di rispondere alla domanda del ragazzo. – Ma che ti frega?
L’accompagno a lavoro, gliel’avevo promesso prima. Dai, torno… non devi mica
metterti a piangere! – in realtà, il fastidio per l’intromissione di Michelle
in quella che poteva essere una delle più grandi scopate della sua vita s’era
fatta sentire nel suo orgoglio punzecchiato. Ma, fra le tante possibilità,
quella di stuzzicare il ragazzo e lasciarlo crogiolare nell’attesa del suo
ritorno era decisamente la più allettante. – Dio, voi due siete insopportabili!
Fammi un favore, vai a fartelo mettere in culo da Slash! – in una situazione
normale, probabilmente il bel bassista non si sarebbe mai rivoltò con parole
così amare all’amica di sempre, che girò sui tacchi e uscì dalla stanza
sbattendo violentemente la porta. Ma i neuroni seriamente danneggiati da litri
di whiskey scivolato a fiumi giù per la gola arida da due ore di canto avevano
giocato un ruolo fondamentale in quella sfuriata.
-
Senti, se sei in grado di aspettare okay, altrimenti puoi farti consolare da
mamma! – la risata senza gioia della ragazza si perse nella confusione di
quello stanzino sovraffollato: avvolta di nuovo dalla pelle nera di un corto
vestito, le gote arrossate dei baci rubati a Duff pochi minuti prima, se ne
stava con le mani sui fianchi in piedi davanti al bassista, con un cipiglio
esasperato. Sembrava gli stesse concedendo un grande
favore, perdendo tempo a comportarsi da fidanzatina soffocata di attenzioni. –
Vai al diavolo! – aveva previsto la reazione carica d’ira del biondo, che le
agitò contro una mano in segno di minaccia prima di voltarle le spalle ed
afferrare un pacchetto di qualche marca scadente di sigarette da uno dei
tavoli. Rubando anche un accendino abbandonato, accese con difficoltà la lunga
sigaretta bianca che teneva in bocca, prima di ricevere un inaspettato bacio
sulla guancia. – Coglione! – quando sbalordito da quel gesto si voltò verso la
ragazza che, sorridendo malandrina, gli mostrò un elegante dito medio prima di
dirigersi verso l’uscita della stanza in fretta. Era matta, pensò Duff tirando una grossa boccata di fumo che gli riempì
i polmoni di catrame. E, guardandole le lunghe gambe scoperte dalla poca stoffa
che la copriva e ricordando il suo sorriso suadente oltre la cortina di capelli
rossi che scomparve oltre la porta, si rese conto che sarebbe stato in grado
d’ignorarla veramente soltanto fino a quando non sarebbe tornata da lui.
Axl
ridacchiò in un angolo di quella scenetta, deridendo l’espressione stupita e
assolutamente ridicola dell’amico prima di allungarsi verso una bottiglia di
Jack Daniel’s posata sul tavolo, godendosi le attenzioni di una ragazza non
particolarmente carina ma abbastanza formosa da soddisfarlo. Quella Adrien era un furia della natura e tutti avevano avuto modo di accorgersene
in quei pochi giorni in cui s’era infiltrata nel loro gruppo tramite quella
pertica del loro bassista. Dopo che ebbe ascoltato la bestemmia lanciata al suo
indirizzo da Duff, il ragazzo tornò ridacchiando ad occuparsi della bocca della
sua accompagnatrice, mentre la porta d’ingresso alla stanza si schiudeva di
nuovo. Una valanga di voci conosciute o meno investì i ragazzi e gli altri già
presenti nella piccola stanza, portando congratulazioni per il concerto e la
promessa di una notte che era ancora giovane e che sarebbe stata la più bella
della loro vita. Ogni serata partiva con quel presupposto. – Ehilà! – alla
vista dell’orda di groupies ben disposte e compagni di baldoria, Steven si alzò
in piedi con sorprendente agilità, nonostante si fosse ingoiato le ultime
riserve di anfetamina. Una ridacchiante ragazza si offrì prontamente a lui,
entrambi si nascosero subito nell’oscurità. Non si curarono nemmeno di chiedere
a Duff di lasciare l’angolo in cui s’era rintanato quando presero il posto che
era stato suo e di Adrien: pian piano il ragazzo si unì con un sorriso alla
festa, che era appena incominciata.
-
Hai visto Linda? -e,
velocemente com’era scoppiata in quello stanzino lugubre, la bomba che aveva
segnato l’inizio di una nuova parte della notte si spostò al centro del locale,
dove l’ora di andare a dormire era un tabù riservato a chi non sapeva godersi
la vita. Maxie con uno strattono costrinse Axl a spostare l’attenzione da
quella che non era la prima né l’ultima della lunga lista di ragazze destinate
a passare per il suo letto, preoccupata. Le dita della sua mano destra erano
allacciate alla sensuale mora che, dopo aver bevuto chissà quante birre, aveva
deciso di tenerle compagnia, ma il suo sguardo era assente. Era strano che
Linda non l’avesse nemmeno salutata. – Ma che cazzo ne so io? La tua signora
aspetta! – l’interruzione non era evidentemente stata gradita, che scoccò uno
sguardo fugace alla nuova amica della biondina prima di tornare alla propria.
Del resto dei ragazzi, neanche l’ombra: la moretta sbuffò infastidita qualcosa
che Maxie non riuscì ad afferrare, allontanandosi poi indispettita. Ma era
l’ultima cosa a cui avrebbe rivoltò la propria attenzione: avendo già consumato
tutto ciò che aveva bramato in una delle retrovie del locale, la ragazza era
passata a ben altre preoccupazioni.
Non
le era sfuggito l’apparente aiuto che quella rossa
infernale sembrava aver dato a Linda, quando un’oretta o forse una settimana
prima s’erano avviate insieme verso il bagno. Maxie si diede della stupida,
senza essere in grado di distinguere alcunché in quella marea di volti tutti
uguali. Era stato palese il malessere dell’amica dopo che avevano abbandonato
il bancone: per lei, che non aveva mai bevuto troppo un paio di alcolici.
Mentre un nodo alla gola insorgeva nella biondina nel pensare a ciò, ammise a
sé stessa che la scusa con la quale l’aveva lasciata fare, sperando che
trovasse consolazione dalla delusioni amorose in
quelle sostanze mischiate, non reggeva: aveva avuto troppa voglia di allontanarsi
da quei dialoghi senza capo né coda, troppo desiderio di seguire le sue formose
prede. E, quando l’aveva vista allontanarsi con Adrien, aveva semplicemente
ignorato la faccenda, col risultato che Linda era sparita. O quasi. – Ehi! – su
una fulminea occhiata a farle scorgere la chioma arruffata dell’amica fra la
folla. C’era qualcosa che non andava: facendosi largo fra la folla, Maxie vide
la ragazza mano nella mano con un ragazzo sconosciuto e di dubbie intenzioni,
che sghignazzava con un paio di balordi. Ogni tanto, notò la biondina
nell’avvicinarsi al gruppetto, il tizio si rivolgeva a Linda sempre con quello
stupido sogghigno, ottenendo dalla brunetta soltanto un annuire stanco come
risposta, segno che non era completamente in sé. Qualcosa si bloccò nello
stomaco vuoto di Maxie, che sentendo aumentare la voglia di picchiare qualcuno
con uno scattò si aprì un varco fra tutte quelle persone. – Linda! -.
Ma
proprio quando stava per convincersi di essere arrivata proprio al momento
opportuno per salvare la situazione, incrociò lo sguardo dell’amica trovandolo
illuminato da uno strano sentimento. Gli occhi arrossati la fissava di rimando
con astio, come del resto guardavano tutto ciò che li circondava. – Linda, ma
che ci fai qui? – non appena Maxie fu abbastanza vicina da farsi udire
chiaramente dalla ragazza, notò con chiarezza che qualcosa aveva abbandonato la
timida ragazzina che aveva sempre conosciuto, trovando un’estranea ad
attenderla nel peggiore dei modi. Ignorò le battutine ricche di allusione e di
inviti a passare la serata a divertirsi con quegli sfigati, senza staccare gli
occhi azzurri dalla smorfia che Linda aveva assunto, attendendo con ostinazione
una risposta. Il silenzio le avvolse come una presenza immobile, puntando un’inspiegabile dito di accusa contro la biondina che, man
mano che il tempo scorreva, si rendeva conto dello stato pietoso in cui era
ridotta l’amica: gli occhi che aveva creduto arrossati per il pianto erano un
effetto collaterale del fumo, e il suo odio per la situazione orribile e per il
trattamento da bimba che sempre riceveva. Maxie avrebbe intuito però
quell’ultima parte soltanto in seguito, nel cuore della notte, al sicuro fra le
coperte di una casa poco accogliente, e tutto ciò le avrebbe mozzato il
respiro. Sentendo montare la rabbia dentro di sé quando si accorse che lo
sconosciuto e Linda avevano intenzione di levare le tende, si intromise fra
loro, afferrando la ragazza per un braccio. – Lasciamo stare,
cazzo! Lasciami stare! – ma a quello strillo acuto, innaturale, la liberò
all’istante, fissandola con occhi spalancati. Automaticamente, si scostò da lei
e dalla lama affilata che era il suo sguardo, trovando irriconoscibile e
avvertendo la sensazione d’inutilità pervaderla.
La
perse all’istante di vista: Linda scomparve fra la folla con quella personalità
ibrida fra due mondi e con lo sconosciuto, lasciando Maxie a crogiolare nelle
ipotesi per spiegare un mutamento del genere. Si trattene dal correre a
cercarla per ciò che poi avrebbe identificato come vigliaccheria, sapendo che
una volta resasi conto di quell’assurdo comportamento, Linda se ne sarebbe
pentita. Eppure la risposta alle incognite che ruotavano attorno all’amica
arrivò spontanea, mentre la biondina attraversava il locale trasportata dal
proprio subconscio, in un fruscio di lunghi capelli rossi che apparve
all’improvviso. Eccola là, sorridente e magnetica come sempre, ad accettare un
bicchiere contenente un liquido trasparente offertole da Steven in quel
momento, poco distante dal bancone. Lo sguardo folle ed irriconoscibile di
Linda si fece vivido nel buio mentre, con grandi falcate, Maxie si faceva largo
fra la folla a forza di spinte: quella centrava sempre in tutto, quella aveva
messo a soqquadro tutta la loro amata normalità. – Babette! Adrien! – la chiamò
a gran voce, senza essere in grado di rinunciare allo stupido soprannome con il
quale aveva imparato a conoscerla. Steven s’era già dileguato quando la
biondina raggiunse la ragazza, che si volse verso di lei con il migliore dei
suoi sguardi meravigliati. Sapeva dove Maxie stava per andare a parare, ma
quella era una battaglia che non doveva vincere, non contro di lei. – Che cazzo
hai fatto a Linda? Cosa le hai detto? – sbraitò la ragazza, cercando di
resistere agli occhi grigi di Adrien che opponevano una strenua resistenza ai
suoi attacchi non verbali.
E
quando le labbra rosee della ragazza si schiusero nell’oscurità, il suo sorriso
maligno brillò di luce propria, intimorendo Maxie più del necessario: avvertì
il coraggio e la rabbia con la quale era partita per punirla abbandonarla in un
soffio di vento, davanti al luccichio che intravide in quello sguardo fuori dal
comune. – Non le ho detto nulla che non sapesse già. E non le ho fatto niente,
per la cronaca l’ho vista passare di qui un attimo fa e stava benissimo. Era in
compagnia, no? – per pochi, terribili istanti, Maxie cominciò a credere sul
serio che avrebbe perso presto il controllo e avrebbe finito per uccidere con
le sue stesse mani quello strano tsunami che si divertiva a prendersi gioco di
lei, facendo la finta tonta. Se ne stavano ferme una
davanti all’altra, sotto le luci intermittenti che concedevano la sola
possibilità di guardarsi negli occhi a sprazzi, eppure sentire la presenza
invadente e temibile di Adrien era fin troppo facile. Quel tono di voce mirava
a farle perdere immediatamente le staffe, quella rossa sapeva come giocare:
aveva cercato di farla passare immediatamente dalla parte del torto. Ma Maxie
non avrebbe permesso di farsi prendere in giro come tutti gli altri. – Sai benissimo
quello che intendo. Le hai rifilato qualcosa, o semplicemente l’hai riempita
d’insulti quando siete andate in bagno? Non cercare di fregarmi. A me non
racconti balle. – era incredibile come si capissero Adrien capisse benissimo la
sua interlocutrice nonostante la musica assordante. Forse, le parole che le
stava gridando erano così scontate da prevaricare anche il rumore della stanza.
-
Lascia che sia io a fare le domande. Credi davvero di conoscermi così bene da
permetterti di tirare ad indovinare quello che io potrei aver fatto? – la sua
perfetta tranquillità in confronto al nervosismo dettato dalla rabbia della
biondina era già la prima prova della sua imminente, ennesima, vittoria. Non
appena la vide aprire la bocca per ribattere, alzò la mano facendole segno di
fermarsi, senza fare a meno di quel sorriso con cui l’aveva accolta, come una
condanna. La seconda prova arrivò quando si accorse che al suo cenno la bionda
era rimasta muta, pronta ad offrirsi a lei come bambola con cui giocare, allo
stesso modo di Linda. – Credi davvero di conoscerla così bene da poter ficcare
il naso nei suoi affari quando non centri un cazzo? Non hai alcun diritto di
farle da mammina e venire a parlare con me se lei non ne ha intenzione. –
saltava subito all’occhio nell’udire quella conversazione il motivo per cui
Linda era incapace di camminare con le proprie gambe nelle situazioni più
difficoltose, al di là del carattere timido e docile che poteva frenarla solo
fino ad un certo punto. E, osservando la mascella di Maxie contrarsi a quelle
parole dure ma vere almeno in parte, Adrien capì che anche la ragazza che aveva
di fronte aveva compreso. Era stato facile battere, in quel bagnetto lugubre,
una bambina che era sempre stata circondata da amicizie che l’avevano difesa senza
insegnarle a sopravvivere con le proprie forze. Non aveva previsto che però la
biondina non si sarebbe lasciata sopraffare con poche parole mirate a ferire.
-
Te lo ripeto, nel caso tu non l’abbia capito: non mi freghi. Quando l’ho vista andar via poco fa era sconvolta, e
sono sicura che centri tu. Che cazzo stai cercando di fare, con questi tuoi
atteggiamenti? Credi che siamo tutti dei coglioni? – aveva aspettato prima di
rispondere. Si era assicurata di ricordare come respirare prima di mettersi alla
ricerca di parole che suscitassero lo stesso effetto. In quello sguardo
impassibile brillava una nota di sadismo che impressionava, ricca di
significati sottintesi in frasi studiate per metterla al tappeto. Ma poche
volte nella sua vita Maxie aveva permesso a sé stessa di crollare, e di certo
non l’avrebbe fatto per una ragazzina insolente che giocava a manipolare le
persone a cui più teneva. Linda aveva bisogno di lei in quel momento: Adrien
non meritava la sua attenzione, quando la sua amica era chissà dove a smaltire
sbornia e delusione in compagnia di un pervertito. – Non sono Duff, che si è
innamorato di te anche se non so come faccia ad
adorare una bambola di plastica come te. Non sono Linda, che è troppo gentile
per dirti che sei una puttana, né Michelle che tende a dare fiducia a chiunque
sembra darle una mano. Non farò mai parte della schiera di vermi che ti leccano
il culo solo perché fai finta di essere importante e superiore, quando non sei
niente. A me non racconti balle, stronza. Lasciala stare, lasciaci stare: non
abbiamo tempo per i tuoi giochetti psicologici. – aveva di colpo rimosso la
punizione per cui inizialmente era andata da lei, decisa soltanto ad andarsene
lontano da quella ragazza ed escluderla della sua vita. Maxie sapeva benissimo,
mentre spariva dalla vista di Adrien fra la folla, che lei sarebbe rimasta lì
ad aspettare un suo passo falso per distruggerla definitivamente. Ma lei non
avrebbe perso quella guerra.
Pietrificata:
era quella la parola giusta per descriverla, per parlare dello stato del suo
corpo e dei suoi pensieri. Mentre sul suo volto si delineava un’espressione di
rabbia dalla forza gigantesca, vuotò in un colpo il bicchiere di liquore che
Steven le aveva offerto, posandolo poi sul bancone con talmente tanta violenza
da riuscire a sbeccarlo. Ignorando le proteste del barista che s’era accorto di
quel danno, voltò le spalle al punto in cui Maxie era sparita, addentrandosi
nella folla. Ancora non riusciva a capacitarsi di come quell’insulsa ragazza si
fosse permessa di parlarle in quel modo. L’improvviso bisogno di agire
s’impadronì del suo cervello mente, raggiungendo il centro della pista, iniziò
a dimenarsi con foga e sensualità a ritmo di una musica sconosciuta che
comunque non arrivava a mischiarsi ai suoi pensieri. Rifugiarsi nell’istinto
mentre il ritmo le riempiva le vene divenne l’unico modo per fuggire il ricordo
delle parole amare che Maxie le aveva sputato contro. Non poteva farsi
condizionare da quello che la biondina le aveva detto. Non poteva farsi
condizionare da nulla. E, come un fulmine a ciel sereno, nei suoi pensieri
s’infilò il volto di Duff, sorridente come l’aveva visto poche mattine prima
quando s’erano nascosti al mondo nella sua camera, ebbri dell’adrenalina degli
amanti. Un paio di mani rudi, estranee l’attrassero ad un corpo invadente senza
domandarle niente, mentre la bocca di uno sconosciuto tracciava i contorni del
suo collo. Stringendo i denti mentre quello di Duff si trasformava in un
pensiero fisso e bruciante, si volse verso l’estraneo per concedergli le
proprie labbra. Era l’unico modo per dimostrare a tutti che, qualunque cosa
fosse successo, lei era più forte. Sempre.
-
Si sta divertendo, eh? – da quando l’avevano individuata tra la folla a quegli
occhi verdi e di colpo vuoti non era sfuggito un
movimento compiuto da quell’angelo dai capelli rossi. O meglio, diavolo. Duff
strinse le dita attorno al collo della bottiglia quasi vuota, senza degnarsi di
volgersi verso la fonte di quel commento sarcastico a lui diretto. Aveva già
riconosciuto la voce, non era necessario scorgere la burla nei suoi confronti
anche nel cipiglio beffardo che sicuramente l’amico aveva assunto. – Non
dovresti andare a prendere Michelle? – disse però la prima cosa che gli venne
in mente per provare a levarsi dai piedi Slash, che sbuffò per soffocare una
risata. Era abbastanza faticoso non essere in grado di scostare gli occhi da
Adrien, che sembrava essere parecchio impegnata con un tizio nerboruto che la
stava praticamente spalmando sulla parete del locale, Duff non aveva intenzione
di sopportare anche le battutine del chitarrista. Appoggiandosi al muro con una
spalla e continuando ad osservare la scena disgustosa che si stava consumando a
pochi metri di distanza, lo sentì avvicinarsi e raggiungerlo al suo fianco, ma
ancora non volse lo sguardo su di lui. – Proprio un bello spettacolo. Geloso,
Duffy? – dopo che furono trascorsi pochi attimi di silenzio imbarazzante,
l’ennesima provocazione di Slash non tardò a presentarsi. Duff era sicuro che
il chitarrista conoscesse alla perfezione il suo stato d’animo comprendendolo
proprio perché con la sua eterna ragazza s’era già trovato in quella
situazione. Non gli rispose, meditando sul suo confuso stato d’animo alla
ricerca di una vera spiegazione a ciò che gli stava rodendo il cuore.
-
Non stiamo insieme. – alla fine, dopo averci riflettuto sopra per quelli che
parvero infiniti secondi, optò per quella secca frase che, entrambi lo
sapevano, non rispondeva alla domanda posta se non per sottintesi. Si disse che
doveva essere davvero ubriaco per confidare nella perspicacia di Slash. –
Nemmeno io e Michelle. Circa. – ma, al contrario di ciò che pensava il suo
migliore amico, il riccio aveva troppa esperienza alle spalle in fatto di
gelosie per non poter ridere di lui rivedendo sé stesso in quello sguardo
ardente d’ira. Quando il tizio con cui Adrien stava pomiciando senza pudore le
infilò una mano sotto la gonna del vestito, proprio dove quelle che sembravano
eternità prima Duff aveva accarezzato la ragazza, la vena del collo del biondo
iniziò a pulsare in maniera preoccupante. – Dove vuoi andare a parare? – gli
era impossibile però sottrarsi a quella tortura: quando gli sarebbe bastato
posare lo sguardo su una delle tante ragazze in sala che sarebbero state ben
disposte nei suoi confronti, non poteva semplicemente ignorare ciò che stava
accadendo. Poco prima, lei gli aveva detto che sarebbe tornata in fretta da
lui. – Voglio dire – dopo una pausa significativa che sottolineò l’istinto
teatrale di Slash, l’amico li si avvicinò poggiandogli
una mano sulla spalla, mentre con l’altra gli sottraeva la bottiglia. – Che se
continui a star qui a mettere il muso e a goderti il suo spettacolino, ti
trasformerai in un assassino prima ancora di riuscire a farci ottenere un cazzo
di contratto. – il riccio sorrise, quando si accorse di essere riuscito ad
ottenere un segno di attenzione da parte dell’amico. Un paio di occhi verdi lo
stavano fissando adesso, colmi di rabbia.
-
Stai insinuando che sono geloso? – se lo stava dicendo da solo: si rese conto
soltanto dopo aver parlato che Slash avrebbe sicuramente usato quella domanda
retorica contro di lui. Spostò immediatamente i profondi occhi sulla sagoma
oscurata da quelle dannate luci intermittenti, con la strana sensazione che lei
sapesse esattamente che in quel mondo la stava fissando. Qualunque cosa si
sarebbe inventata quando l’alba sarebbe calata su di loro, Duff non aveva
intenzione di farsi mettere nel sacco un’altra volta. Ma, si sa, i buoni
propositi sono destinati a sparire con l’alba. – L’hai detto tu, amico. – come
da copione, Slash allargò le braccia come ad enfatizzare l’evidenza dei loro
discorsi. Qualcosa punse nel vivo il cuore del bassista che si limitò a
lanciare contro l’amico una bestemmia, che accrebbe soltanto l’ilarità del riccio.
– Si può sapere perché te la prendi tanto? L’hai detto tu che sei… OK, va bene,
ho capito. – Slash era sul punto d’intavolare un nuovo discorso sulla presunta,
anzi, evidente gelosia di Duff, che però lo zittì con uno sguardo truce che
avrebbe potuto uccidere. Non l’avrebbe mai ammesso: era come confessare a sé
stesso la sua inevitabile dipendenza da quella ragazza così strana, magnetica,
letale.
-
Senti, non stiamo insieme, lei può andare con chi vuole e lo posso fare
anch’io. – allora perché, con tutte quelle belle parole che gli scivolavano
fuori di bocca così facilmente, non era in grado di andarsene da qualche parte
con una graziosa sconosciuta? Senza il coraggio di voltarsi a guardare il ghignò che sicuramente il ragazzo al suo fianco aveva
sfoderato, si allungò per afferrare lo bottiglia che Slash aveva cercato di
fregargli, svuotandola prima che quello avesse il tempo di reclamarla. Ne volle
subito un’altra, ardentemente. – Nemmeno io e Michelle stiamo assieme, io vado
con chi voglio e lei pure, ma questo non vuol dire che non sono geloso. – il
tono di voce con cui il chitarrista pronunciò quella frase contribuì soltanto a
far crescere l’irritazione di Duff: sembrava stessero discutendo di una cosa
perfettamente normale, del tempo o di quante corde di ricambio avrebbero dovuto
comprare. Invece il biondino desiderava il supporto del suo migliore amico, non
la sua derisione. Lo voleva al suo fianco in una sequela d’insulti rivolti a
quella sgualdrina che lo stava deliberatamente prendendo per i fondelli, voleva
che gli desse man forte nel cercare una vendetta adatta. Non che lo accusasse
di essere geloso. Era come essere
attaccato da due fronti diversi, senza possibilità di potersi difendere da due
colpi in contemporanea. – E’ diverso. – ruggì, sentendo l’ira crescere.
-
E invece no. – ma Slash ribattè testardo, allontanandosi di qualche passo dalla
figura fremente dell’amico, intenzionato a tornare a far baldoria con gli altri
sparsi per il locale. Era perfettamente inutile starsene lì a fingere di non
stare litigando per qualcosa che valeva così poco: aveva avvistato Izzy poco
lontano e moriva dalla voglia di chiedergli se era avanzato un po’ di buon
fumo. – Oh, ma andiamo, a me non racconti stronzate. Sapevi che sarebbe andata
così, quella ha un motel nelle mutande! Tanto domani mattina sarai di nuovo a
sbavare dietro le sue gonne. Le piaci, e lo sai, non serve a un cazzo fare il
fidanzatino geloso. – allo vista però del broncio di
Duff che non accennava a scomparire, il ragazzo perse la pazienza a sbottò ciò
che pensava senza inibizioni, abituato ad agire senza prima riflettere.
Lanciandogli un’ultima occhiata irritata, Slash scomparve dalla sua vista dando
una poderosa pacca sulla spalla ad un Izzy intento a nutrire i guadagni del
concerto vendendo a due ragazzine dall’aria sperduta un po’ di polvere rubata
in giro. E, nonostante attorno a lui ballassero e si scatenassero centinaia di
suoi coetanei, il biondo sentì un freddo polare di solitudine attanagliargli le
viscere. Anche lei e il suo compagno erano spariti dalla sua vista, magari
imboscati chissà dove mentre nel cervello della ragazza frullavano chissà quali
prese in giro nei suoi confronti. Non doveva pensarci. Quello era il trucco:
non era la sua ragazza, lui non le avrebbe chiesto di diventarlo e tantomeno si
sarebbe messo a frignare come una donnicciola per un pelo di fastidio per
quelle visioni. L’indomani le avrebbe detto che con lei non avrebbe più avuto
nulla a che fare. “Domani le sbaverai di
nuovo dietro”. – Fanculo! – sbottò, prima di gettarsi nella mischia di
ballerini.
Robin
Keenan stringeva i libri al petto con insolita forza: persino la sua
espressione solitamente austera s’era trasformata in una dimostrazione di
rabbia inusuale per un tipo controllato come lei, che andava però consumandosi
all’ombra dell’ultimo settore di porticato del Dipartimento di Scienze della
Renton, lontano da sguardi indiscreti. I suoi occhi colore del cielo erano
illuminati da luce diversa, mentre restavano puntati su due figure di studenti
apparentemente comuni che si scambiano effusioni, abbracciati in mezzo alla
coltre di alunni che discutevano e si rilassavano in quel cambio dell’ora. La
presa delle sue dita sul bordo di un quaderno grigio divenne più potente non
appena vide la ragazza dai capelli rossi sorridere al biondino, prima che
questo tornasse a baciarla con trasporto. Illusa.
Un collega le rivolse qualche parola che lei comprese a malapena, affrettandosi
a rispondere con monosillabi per liquidarlo. Le parve, per un momento, che
Adrien l’avesse guardata per pochi decimi di secondo, stretta nell’abbraccio
sensuale di Michael che le parlava con entusiasmo. Ma fu un secondo che passò
con rapidità. Gli occhi grigi della ragazza, se si erano mossi, erano tornati
subito a posarsi sul suo accompagnatore, a cui continuò a dedicare le proprie
attenzioni. La donna strinse i denti nell’aspettare che il suo alunno lasciasse
sola Adrien, prima di avere la conferma che i suoi sospetti erano fondati: una
volta che nel giardino della scuola furono rimaste sole, la rossa la guardò
attentamente invitandola in silenzio ad avvicinarsi, senza abbassarsi al
livello di raggiungerla lei stessa.
-
Non avevi detto che non stavate assieme? – il sibilo che uscì dalle sue labbra
tinte di un rosso vermiglio non assomigliava per niente alla voce apatica ma
dura con cui spiegava e parlava normalmente. Erano sole in quello spiazzo di
erba rinsecchita e malcurata, come lo erano state in migliaia di altre
occasioni, eppure per la prima volta Robin avvertì una parvenza di timore nei confronti
della ragazza nella propria anima. Adrien si limitò ad arricciare le labbra,
come a dar segno che quella discussione già dal principio la stava annoiando.
Altezzosa, portò una mano su un fianco e l’altra a sistemare la borsa a
tracolla, preparandosi ad andarsene. – Non stiamo insieme, infatti. Questo non ti da il diritto di saltarmi addosso ogni volta che ci vedi
parlare. – nonostante sapesse alla perfezione che ciò che prima aveva fatto con
Duff fosse molto più che un semplice “parlare”,
come diceva lei, non si fece scrupoli a usare quelle banali scuse. Robin,
conoscendola alla perfezione, sapeva che la ragazza non si stava rifugiando
dietro scuse campate in aria, ma queste erano mediocri
proprio perché ella non riteneva di dover giustificare il suo
comportamento. Nulla contava il fatto che la donna avesse creduto alle sue
parole quando l’aveva assicurata sulla mancanza di sentimenti per quello
studente che aveva attirato la sua attenzione fra tanti e che comunque non
avrebbe potuto avere. – Avanti, dimmi la verità. A me non racconti balle, hai capito, ragazzina? – la sua voce era un tremito, lo sguardo
di Adrien furente.
-
Se proprio ci tieni a parlarne, lo faremo oggi, stessa ora, stesso posto. Ma
non mi seccare. Non sei mia madre, cazzo, non devi sapere tutto quello che
faccio. – agitando le mani in gesti teatrali, Adrien sfruttò quel momento di
stupore dell’amica per compiere la propria uscita di scena e rivendicare il
diritto all’ultima parola. Mentre la guardava allontanarsi ancheggiando verso l’entrata
principale della scuola, Robin pensò che poco importava
che fossero entrambe in ritardo per le lezioni. Avrebbe voluto gridare
qualcosa, fermarla e magari prenderla a sberle, per farle capire chi delle due
meritava di più il rispetto dell’altra. Ma non fece nulla di tutto ciò. Dopo
essere rimasta immobile come una statua per un secondo, girò sui tacchi e
s’incamminò verso l’ingresso secondario all’aula insegnanti,
trattenendo le lacrime per la vergogna. S’era fatta mettere fuori gioco da una
bambina, ancora. L’insana voglia di controllo e manipolazione di Adrien stava
prendendo il sopravvento anche su di lei, come sul drappello di ammiratori che
già s’era formato a scuola. Per un attimo, la mente della donna si concentrò
sul ragazzo dal viso d’angelo che per lei non era altro che un capriccio, e che
la sua amica le aveva soffiato. Beh, se la sarebbe fatta passare, come sempre.
Aveva altro di più importante a cui pensare. Come sempre.
“ Been dazed and confused
for so
long, it’s not true:
wanted a
woman, never bargained for you. ”
(Led Zeppelin – Dazed
and Confused)
Bene.
Allora, rendendomi conto di non essere in grado di rispondere alle recensioni
nemmeno stavolta (ragazze, mi dispiace, sono distrutta ç_ç),
faccio a tutte gli auguri di buon Natale, anche se devo dire che non essendo
credente per me è semplicemente un pretesto per fare i regali. Ovviamente
ringrazio chi recensisce, ovvero AmyHale, Miss_Rose, _LittleAxl_, IoMe, Sylvie
Denbrough, aivlis8822 e anche Lau_McKagan, che ringrazio in modo speciale
perché ha trovato il tempo per commentare questa mia modesta opera J dico solo ad aivlis8822 che, con le sue
teorie, è andata molto vicino ad alcune parti, ne ha azzeccato altre mentre
altre ancora purtroppo no, ma scoprirà ;). Poi, Sylvie, grazie per avermi
spedito il secondo capitolo di “Nice Boys”, ho gi
incominciato a leggerlo e ti spedirò la recensione appena possibile!
Questo
capitolo è un po’ così, ammetto che non sono soddisfatta, come al solito. Credo
che potrei impegnarmi di più, se volessi, ma in questo periodo l’ispirazione va
e viene e credo che mi stia prendendo un po’ in giro. -.- bah! Auguri ancora!
Ricordava
ancora i sorrisi di scherno che erano apparsi quando i primi, grandi fogli rosa
erano apparsi per i muri solitamente spogli della scuola. Passando la terza
mano di rossetto scuro sulle labbra piene, la ragazza sorrise al proprio
riflesso e a quello della figuretta bionda che la fissava alle sue spalle,
sospirando d’ammirazione. – Una di queste sere, potrei venire con te… - ma
Adrien non ascoltava nemmeno la sorella, la quale era già partita per un’altra
delle missioni di persuasione verso la rossa al fine di lasciarla venire ad una
delle feste dei suoi amici, destinata anche quella al fallimento. Non era la
serata giusta per pensare a come lasciare l’amaro in bocca ancora una volta ad
Annalou. La ragazza sistemò le pieghe del vestito di seta rosso che le arrivava
al ginocchio, passando poi le mani sullo chignon che le stringeva i capelli. Il
suo cavaliere l’avrebbe aspettata davanti all’entrata della scuola, le aveva
detto sbuffando dopo la resa. C’era voluto un po’ per convincerlo a partecipare
ad un simile “raduno di checche e yuppie che ballano musica scadente”, come
aveva chiamato il ballo invernale della Renton. Le sembrava di trovarsi in uno
di quei film da quattro soldi appropinquati solitamente a ragazze troppo brutte
per sperare che il loro principe azzurro pieno di cliché esistesse realmente.
Una sola cosa era diversa da come tutti avrebbero immaginato una favola del
genere. “Io non sono una
principessa”.
-
Mio signore. – fra le risate generali, Axl si esibì in un teatrale inchino alla
vista della ragazza vestita di uno smoking gessato troppo grande per il suo
fisico androgino. Maxie gli riservò l’occhiata speciale da serial killer che
solitamente usava con sua madre. – Sono più elegante di te, che sembri appena
uscito da Nightmare. Non sei un po’ troppo vecchio per partecipare ad un ballo
della scuola? – la lingua tagliente della biondina colpì ancora, ripagando
l’amico della stessa moneta senza però cancellargli il ghigno beffardo dalla
faccia. In fondo, si volevano bene. Molto in fondo. – Ah, ah, ah. – la fermò
Axl in modo saccente, alzando il dito indice per puntarglielo contro in modo
accusatorio, quasi fosse un giudice davanti ad un imputato. – Qui parliamo a
sproposito. Dov’è la tua dama? La mia è proprio qui, ma non posso dire
altrettanto di te! – detto ciò, lasciò che una prosperosa ragazzina che non
dimostrava più di sedici anni gli si avvinghiasse al braccio, al settimo cielo.
Il ragazzo aveva accettato quell’invito su ordine degli amici, in modo da poter
trascorrere quell’assurda serata con loro. – Io sarò la tua dama, Maxie. Non voglio ballare con Slash, tutti gli
anni mi sono trovata con le scarpe rovinate per tutte le volte che me le ha
pestate. – Michelle sbucò fuori dal nulla aggrappandosi al collo dell’amica
come avrebbe fatto con un amante, nonostante l’aria irriverente di entrambe
rompesse l’atmosfera. Alle loro spalle, il chitarrista tirato in causa fece
finta di vomitare, suscitando altro riso dai presenti.
-
Ma qui abbiamo la nuova Miss America, direttamente dai quartieri della media
borghesia di Los Angeles… Linda Johnson! – passò qualche minuto prima che
nell’aria si diffondesse la buffa imitazione di un conduttore televisivo di
Steven, che indicava con orgoglio l’amica sul punto di raggiungere il
gruppetto. Linda si nascose dietro i lunghi capelli castani nel tentativo di
nascondere il rossore che le colorava le gote, iniziando a pensare che forse
quel vestito nero era stata una scelta un po’ troppo provocante. In realtà era
il suo imbarazzo a distorcere la realtà, poiché il vestito discreto e semplice
s’intonava alla perfezione con la sua personalità riservata, facendola apparire
deliziosa. Sorrise al suo simpatico cavaliere, senza curarsi del fatto di
essere appena più alta di lui con i tacchi, sperando vivamente di aver fatto la
scelta giusta accettando l’invito di Steven. Un tuffo al cuore però la colpì
quando tra i volti amici intravide quello di Duff sorriderle contento. – Izzy?
– fortunatamente, la domanda di Michelle arrivò in tempo per distogliere la sua
attenzione dalla sensazione gradevole ma al contempo dolorosa che aveva
iniziato ad opprimerle il petto. – Ha detto che questa cosa non fa per lui. Sai
com’è, mica come il nostro donnaiolo qui che si lascia
convincere da un po’ di mercanzia in mostra. – rispose prontamente Maxie,
alludendo alla svampita accompagnatrice di Axl che si concesse una risatina
sommessa. La sua dama, invece, non capì l’allusione.
L’impazienza
corrodeva Duff, senza permettergli di godersi a fondo la compagnia degli amici
e le loro battute mentre lo sguardo cadeva irrimediabilmente verso il cancello
della scuola. L’aveva costretto a mettersi in ghingheri e a scovare nel mucchio
di vestiti che aveva a disposizione una camicia pulita e un paio di bretelle
che in quel momento gli stavano letteralmente segando le spalle, ed era pure in
ritardo. Tipico di Adrien: con uno sbuffo che nulla centrava con le risate
delle persone che lo attorniavano, il ragazzo pensò che avrebbe dovuto
prevederlo. E, nonostante quella piccola dose di rancore che quando si trattava
della rossa non abbandonava mai il suo cuore, Duff non poteva fare a meno che
attenderla con ardore. Erano due settimane che tutto stava andando per il
meglio, senza che nessuno di loro mostrasse intenzione di chiarire quella
confusa situazione sentimentale. Il biondino credeva di potersi permettere
ancora il lusso di sperare che, con quello strano angelo dalle abitudini
pericolose, qualcosa potesse funzionare. – Ciao! – il saluto strillato da
Michelle fece voltare i presenti verso il cancello, mentre la ragazza agitava
la mano verso la ragazza che aveva appena fatto la propria comparsa. Nessuno
vide Maxie storcere il naso alla vista della rossa che s’incamminava lungo il
viale della scuola, nessuno si curò del rossore accentuato sulle guance di
Linda: tutti si stavano lentamente abituando a quell’inspiegabile situazione e
a quei fitti misteri. Quel che importava era godersi, per quel che era
possibile, quello stupido ballo, e pregare che finisse presto.
Bellissima,
era bellissima, era la sua dama, era sua. Duff le andò incontro con un sorrise
stampato sul volto da angelo, gratificato dall’espressione di tranquillità che
disegnava il viso truccato alla perfezione della ragazza che aveva davanti.
Adrien gli rispose porgendogli la mano libera dall’ingombro della borsetta,
squadrandolo velocemente con gli occhi grigi prima di concedersi a sua volta un
sorriso. – Ma come siamo eleganti stasera. Qui qualcuno si è impegnato. – per
quanto quella voce suadente e piena di fascino lodasse compiaciuta
l’abbigliamento e l’aspetto del biondo, tutti stavano ammirando l’opera che
ella aveva compiuto su sé stessa, con quell’impalpabile vestito rosso vecchio
stile che modellava le sue forme e la rendeva mirabile. Passarono pochi secondi
di silenzio prima che Adrien, stufa di quell’atmosfera di sentimentale
deferenza che s’era venuta a creare, sfoderasse una divertente linguaccia che
stonò in quella scena. – Oh, adesso non uscirtene con qualche complimento
dell’ultimo secondo per dimostrare che possiedi un lato romantico. – alzando
gli occhi al cielo, lo prese in giro nascondendo abilmente la soddisfazione che
aveva preso a palpitarle in cuore. Tutti avrebbero dovuto guardarla quella
sera. Era stato il suo obbiettivo fin dall’inizio. – Ma che cazzo dici?
Guardati, sei tutta impomatata! Sembri una yuppie. – il commento irrisorio del
ragazzo le tappò la bocca. Un ghigno beffardo comparve sul viso del bassista,
che con quelle poche parole s’era scostato dal piano perfetto che era comparso
nella mente di Adrien. Ci vollero pochi istanti perché la rossa riacquisisse il
controllo di sé stessa, accogliendo la battuta di spirito con il solito,
elegante, dito medio.
Nella
palestra, allestita alla bell’e meglio per l’occasione, gli insegnanti
pattugliavano le zone che più sapevano sarebbero state puntate dalle coppiette
per potersela svignare a pomiciare nei meandri dell’edificio. Robin si aggiustò
il discreto vestito grigio perla che aveva indossato per l’occasione,
guardandosi attorno nella malcelata speranza di scovare ancora le due figure
che nella folla di studenti ballavano sulle note di “My generation” dei The
Who. Quante belle parole le aveva inculcato quella vipera, tutte che andavano
buttate nel gabinetto ogni qualvolta la sorprendeva a flirtare con Michael. Ma
era sempre meravigliosamente facile prendere la strada che conduceva ad Adrien
e a quel suo sguardo innocente che celava malignità. Le aveva detto che non
sarebbe nemmeno venuta al ballo, eppure Robin era sicura di averla vista a
braccetto con un cavaliere biondo che niente aveva a che fare col principe
azzurro delle favole. Era imprevedibile. E la donna era fottutamente gelosa. –
Del punch, Robin? – il sorriso languido del professore di Spagnolo, un
grassoccio uomo con il riporto che rispondeva al nome di Signor Carlton, non
venne in alcun modo ricambiato dal freddo piegarsi delle labbra carnose della
collega, che accettò il bicchiere e lo liquidò con un ringraziamento
frettoloso. Aveva bisogno di parlarle. Aveva bisogno di gridarle contro, ancora
una volta, il suo sconforto per quelle umiliazioni, nella speranza di ricevere
ancora quelle rassicurazioni menzognere che facevano ricominciare da capo quel
circolo vizioso.
Il
rumore delle loro risate non era il solo a riempire l’aria del corridoio in
apparenza deserto: altre figure erano nascoste nell’ombra dagli occhi
indiscreti degli insegnati, pagati per sorvegliare ma abbastanza pigri per chiudere un occhio davanti alle coppie di studenti che
sgattaiolavano altrove per concludere in bellezza in ballo. In fondo, ancora
quella sera, e poi sarebbe stata vacanza. – Aspetta. Queste scarpe mi stanno
uccidendo. – fra una risata e l’altra, il sussurro di Adrien giunse alle
orecchie del ragazzo rotto dal respiro pesante per la corsa appena fatta. Duff
rise della vista della sua accompagnatrice, che a fatica si toglieva le alte
scarpette col laccetto che aveva indossato per quella sera, prima di ricevere
in risposta a quella derisione una sonora pacca sulla schiena. Ripresero la
ricerca di un angolo appartato e solitario con la stessa ilarità, divertiti da
quella situazione così adolescenziale, quasi normale. – Hai fatto bene a
toglierle. Ma anche questo vestito ti uccide. E’ una situazione piuttosto
simile, non trovi? – non appena si furono infilati nei bagni della palestra, le
mani di Duff corsero sulla seta rossa che avvolgeva la ragazza mentre sul volto
di questa si disegnava un ghigno astuto. Le loro labbra si cercarono con
impazienza, isolando i loro pensieri dal resto del mondo: sarebbe potuta
esplodere una bimba, finché il tocco di Duff avrebbe fatto vibrare il suo corpo
come una corda di violino, o di basso in questo caso, allora lei sarebbe stata
tranquilla.
-
Che c’è? – quando però le membra della ragazza, bloccate fra il corpo snello
del biondo e il muro freddo del bagno, s’irrigidirono in maniera innaturale,
Duff capì che c’era qualcosa che non andava. Cercò d’incrociare gli occhi grigi
di Adrien, trovandoli però puntati verso qualcosa che oltre le sue spalle,
freddi e di una sfumatura stinta simile ad un cielo coperto da pesanti nuvole.
– No, nulla. – si affrettò a rispondere lei con un tono improvvisamente
impassibile, cercando di colmare il silenzio che s’era creato fra loro tanto da
renderlo privo d’importanza. Appoggiando saldamente la
mani al petto coperto dalla camicia ormai sgualcita del ragazzo, lo scostò da
sé con una spinta decisa, senza lasciar trapelare la minima emozione. Lo
sguardo, però, era ancora fisso sul punto che Duff individuò come l’ingresso al
bagno della palestra. – Che succede adesso? – no, no, no. Non quando tutto
sembrava stare andando per il meglio: impotente contro la sua voglia di
allontanarlo completamente immotivata, il ragazzo si passò una mano fra i
capelli, domandandosi con crescente ira che diavolo le stesse
prendendo in quel momento. Ma, prima che potesse aggiungere altro, un sorriso
splendendo gli si parò davanti insieme all’effetto calmante che
quell’espressione angelica e priva di problemi esercitava su di lui. – Senti,
vado un attimo a… cercare Michelle. Mi sono appena ricordata che devo
accordarmi con lei per il ritorno, e l’ho vista litigare con Slash qualche attimo
fa… torno subito. – e con movimenti fluidi da serpe Adrien si dileguò. Il
biondo rimase solo al centro dell’angusto bagnetto, un’aria stupita dipinta in
volto e il rumore del litigio fra la ragazza e i tacchi altri in sottofondo,
prima che i passi si dileguassero. Stringendo i pugni e ringhiando a chi non
era con lui in quel momento, Duff s’affrettò a seguirla.
-
A me non piace David Bowie. – il numero delle persone contate all’inizio della
serata era drasticamente ridotto rispetto ai presenti in quel momento, ma la
palestra era comunque decisamente piena. La band ingaggiata dal preside per
intrattenere studenti ed insegnanti s’era lanciata nell’esecuzione del brano
“Let’s dance” del cantante verso cui Steven, trascinando fuori dalla folla
danzante la sua esasperata dama, aveva espresso la propria ostilità. Mentre
osservava il biondo versare del punch ormai corretto da numerose bottiglie di
vodka nascoste nelle maniche di molti studenti libertini, Linda trasse il
sospiro di sollievo che tanto aveva bramato. Aveva perso la cognizione del
tempo tanto aveva ballato, e i suoi piedi imbrigliati in stivali troppo alti
per i suoi gusti reclamavano riposo. – E comunque la band fa schifo! – il
batterista si curò di ribadire, mentre le porgeva un bicchiere colmo di liquido
rossastro, il concetto già espresso in compagnia di Axl e Slash all’inizio
della sera. L’unica differenza era che il rosso era scomparso quasi subito
insieme all’adorabile gallina con cui aveva partecipato al ballo, mentre il
chitarrista era impegnato nel litigio serale con Michelle. Per la precisione i
due stavano dando spettacolo all’entrata dell’edificio gridando l’uno contro l’altra parole che la censura non avrebbe mai tollerato. –
Sì, hai ragione. – per la verità, a Linda quella band innocua e rassicurante
piaceva molto, almeno quanto le piaceva David Bowie. Ma non era il caso di
rovinare ulteriormente una serata già predestinata al fallimento.
Steven
era sempre stato il bambino del gruppo: era dedito all’agire impulsivamente, e
ciò comprendeva anche la benedizione, e insieme maledizione, di parlare a
sproposito e sparare a raffica pensieri partoriti al momento. Ma non era
stupido, e sebbene fosse oggetto di numerose prese in giro nessuno lo
considerava tale. Così il ragazzo si lasciò scappare un sorriso divertito alla
secca affermazione della sua dama, che, con il bicchiere a coprirle il
malcelato broncio e lo sguardo puntato dove, qualche attimo prima, erano
scomparsi due persone di loro conoscenza, era assolutamente deliziosa. – Ehi,
lo sai che ti stai versando il punch sul vestito? – al sussultò che scosse il copro di Linda a quella scherzosa domanda, si liberò in una
fragorosa risata che fece voltare alcuni ragazzi che sostavano nelle loro
vicinanze. Il bicchiere di punch era perfettamente equilibrato, e quando la
moretta se ne accorse l’espressione che balenò sul suo viso suscitò soltanto
altra ilarità da parte del batterista. – Linda, mi sembra di capire che tu
abbia un bel po’ di cosa a cui pensare, però forse è meglio non scollegare totalmente
la spina… - guardandola arrossire per essere stata colta sul fatto, Steven la
rassicurò con una battutina. A dispetto della perspicacia che con quelle frasi
aveva dimostrato, i pensieri che frullavano nella testa della ragazza da un po’
di giorni erano noti a tutti. Tranne ovviamente al diretto interessato,
occupato in quel momento a godersi le grazie di Adrien. – No… Cioè scusa, io
non volevo… insomma… - il balbettio sconnesso di Linda fu più che sufficiente
per fargli intuire che aveva ragione.
-
Senti, piccola… - alzando gli occhi al cielo in un gesto che alla ragazza
ricordò molto una persona poco gradito, Steven vuotò il bicchiere che s’era
procurato in un colpo solo, prima di riprendere a parlare. – L’abbiamo capito
tutti che stai morendo dietro il tizio con i capelli ossigenati, ma non trovi
di stare un tantino esagerando? E con questo – il batterista alzò una mano per
fermare la rappresaglia da parte di Linda contro il significato di quel
“tutti”, notando la sfumatura color pomodoro sulle guance della moretta farsi
leggermente più scura. – Non dico che devi far finta che nulla sia successo,
eccetera, eccetera. Però, dico, l’hai visto? E’ completamente partito per
quella rossa da paura che sì, beh, se lo porta dietro come un cagnolino ma,
andiamo, chi non le darebbe una bottarella? E’ così… emh, sì, dov’eravamo
rimasti? Il punto è… - resosi conto che la dettagliata descrizione di ciò che
una buona parte della fauna maschile della scuola avrebbe voluto fare con
Adrien non avrebbe aiutato la piccola Linda, Steven si affrettò a cambiare
discorso, incespicando nelle proprie parole. La ragazza, alla vista del buffo
biondino che, passandosi una mano tra i capelli indomabile, tentava di
recuperare il filo delle sue frasi, si lasciò scappare una risatina poco
convinta che comunque la rilassò un poco. – Che anche se Duff sta con Adrien,
non devi metterti a fare la calza, a piangere e che cazzo ne so io in attesa
che ritorni dalla guerra come una vecchia. Sì, forse non dovevo dirla in questi
termini, però credo di aver reso bene l’idea… - il cipiglio convinto di Steven
fu una buona scusa per lanciarsi in una rinnovata ilarità.
Senza
sentirsi in grado di aggiungere altro all’esaustiva spiegazione dell’amico,
Linda appoggiò con un sorriso il bicchiere di punch al tavolo delle vivande
senza averne toccato una sola goccia. – Dai, torniamo a ballare. – offrì la
propria mano a Steven con una timidezza appena accennata, la voce bassa ma
decisa. Il ragazzo aggrottò le sopraciglia davanti alla mancanza di commenti da
parte dell’amica su ciò che le aveva appena detto, prima di annuire fra sé e sé
e accettare il contatto che quella gli stava offrendo. Non avrebbe più fatto
domande né parlato dello stato sentimentale della moretta per tutta la sera,
nemmeno quando, dopo qualche bicchiere e un ballo di troppo, si sarebbe uniti a
tutte le coppiette che si nascondevano nei meandri della scuola a concludere in
bellezza il ballo. E, anche se si fossero parlati, non avrebbero comunque
saputo cosa dire. Ma mentre si scatenavano su ciò che rimenava della canzone
del cantante odiato da Steven, Linda si rese conto di dovere tanto ai buffi e
sconnessi discorsi dell’amico. Lo scarso entusiasmo che aveva dimostrato
davanti alla prospettiva di passare la notte del ballo con il batterista era
stato sostituito dalla piacevole sensazione delle sue mani sul proprio corpo,
che alleviavano il nodo allo stomaco che da settimane non accennava a
lasciarla. Non pensò più a Duff, riservando quelle amare riflessioni al momento
in cui si sarebbe coricata al sicuro nel proprio letto e avrebbe versato altre
lacrime inutili. Almeno per pochi minuti, poteva concedersi il lusso di non
pensarci.
-
… una stupida infatuazione! – la parole giungevano ovattate alle sue orecchie mentre,
cercando di muoversi più lentamente possibile, annullava la distanza che lo
separava del punto in cui credeva di aver visto sparire Adrien. Gli ingranaggi
del suo cervello si misero in moto proprio nel momento in cui iniziò a
percepire stralci di una discussione che si stava consumando pochi metri più in
là. Il parco sul retro della scuola pullulava di gente nascosta e la musica
proveniente dalla palestra contribuiva all’atmosfera peccaminosa che lo
avvolgeva. Duff continuò ad avanzare finché, nei pressi di un albero sotto cui qualche tempo prima aveva visto leggere una rossa di sua
conoscenza, scorse due figure che litigavano animatamente. – Ma si può sapere
da dove viene tutta questa stupida gelosia? Non fai altro che parlare che ti
sto mentendo, che potevo fare a meno di stare con lui fra tutti, e tutte queste cazzate!
Io non ho fatto proprio niente! – il ragazzo ci mise poco per identificare
Adrien nella voce che in quel momento stava sibilando fredda le proprie
ragioni. Sporgendosi un poco oltre la robusta corteccia del grande albero era
facile individuare lo scintillio dei capelli rossi che sempre sembravano
brillare di luce propria, torturati in quel momento dai gesti nervosi della
ragazza. – Sei tu che mi stai raccontando un sacco di cazzate! Ma credi di
potermi prendere in giro così facilmente, ragazzina? Parla chiaro, smettila di
dire bugie! – l’incognita aleggiava dunque attorno all’interlocutrice della sua
dama, che sembrava infervorata tanto quanto lei. Il significato di quella
conversazione venne messo da parte mentre la luce di un lampione illuminava
l’altra donna. Duff, per pochi attimi, si scoprì a trattenere il fiato, mentre
davanti ai suoi occhi compariva l’ultima persona che si sarebbe aspettato di
vedere. “La professoressa Keenan?”.
-
Io non ti ho detto proprio nulla! E se parliamo di ragazzini, qui, allora devi
tenere in contro di avere un paio d’anni
a complicarti la vita! – la risposta della ragazza non si fece attendere,
mentre il volto non lasciava intravvedere alcunché del veleno che stava
sputando se non attraverso lo sguardo assottigliato dalla rabbia. Il suo corpo
parlava per lei attraverso piccoli dettagli che nel buio Duff individuò con
facilità: contrazioni e gesti svelti e secchi lasciavano trasparire l’ansia di
quella situazione. – Se vuoi metterla su un piano bellico, non ti aspettare che
io rinunci a fare quel cazzo che voglio solo per un tuo capriccio! Non ti devo
nessuna spiegazione! – il dito indice della rossa si sollevò contro la donna,
che dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non
indietreggiare davanti a quello sguardo deciso. Robin strinse i denti, sentendo
montare dentro di sé una rabbia inumana. – E io ne ho abbastanza di dovermi
sempre piegare alle voglie di una bambina viziata come te! L’unica che non
riesce a capire qua sei tu! E non è solo riguardo lui! – la voce secca della donna si levò di un tono più alto
rispetto a prima, forse incattivita dalle nuova accusa
di Adrien che non accennava a demordere. La mente del ragazzo, ancora nascosto
nell’ombra, era intenta a lavorare freneticamente quando quelle ultime parole
della professoressa bloccarono i meccanismi dei suoi ragionamenti. Un’unica
conclusione bussò alla sua porta prima che avesse il tempo di riprendere a
pensare, a cercare qualcosa di più logico. Il suo cuore perse un battito quando
il significato improvviso di quella scenetta lo colpì alle spalle, prendendolo
di sorpresa. Poi accadde qualcosa che fermò tutto. – E’ il fatto che tu lo
faccia apposta! E… - nel tentativo di
mantenere un equilibrio seppur precario, un rumore di scricchiolio si levò
nell’aria. In un attimo, il biondo si ritrovò addosso due
paia di occhi.
-
Oh, cazzo… - e, per la prima volta da quella che sembrava una vita intera,
Robin Keenan lasciò scivolare il rigido controllo su sé stessa come un bambino
con un palloncino, guardandolo svanire di fronte all’evidenza che quella
conversazione non era più privata ormai. La ragazza al suo fianco invece non
mosse un muscolo, tramutando la propria espressione in ghiaccio allo stato
puro, imbrigliando le emozioni contrastanti che stava provando in una morsa
letale. L’imbarazzo per essere stato scoperto fu nulla, nel cuore di Duff, in
confronto all’improvviso istinto di alzarsi in tutta la sua statura e gridare
al mondo la propria confusione. Tutti e tre però sembravano essere rimasti
senza voce, mentre le parole che avrebbero potuto dire o gridare morivano nelle
loro gole nell’attimo stesso in cui venivano pensate. – Ma… - incominciò il
ragazzo, credendo che quelle due semplici lettere fossero l’ideale per iniziare
ad esprimere il proprio sconcerto, senza però riuscire a trovarvi un seguito.
Ciò però parve smuovere la paralisi in cui era sprofondata Adrien. Sì, in senso
negativo. Il cipiglio che assunse e l’occhiata che lanciò di traverso al
bassista comunicarono soltanto l’istinto omicidio che pareva sul punto di
possederla in quell’istante. C’era un che di folle in quegli occhi. E
d’inquietante. Senza troppi complimenti, la ragazza girò sui tacchi e se ne
andò verso la scuola.
Il
primo, reale istinto di Duff fu quello di correrle dietro, fermarla e scuoterla
bruscamente per le spalle fino a strillare in faccia l’ordine di dargli una
spiegazione una volta per tutte. Il secondo fu quello di voltarsi dalla parte
opposta e correre via da quello squallido edificio, magari raggiungendo Izzy al
magazzino o alla sala da biliardo per farsi uno spinello e dimenticare tutto.
Poi i vividi occhi verdi, sgranati per lo stupore, del bassista si posarono
sulla sagoma ancora presente in quel giardino illuminato di notte: Robin lo
fissava di rimando trasmettendo essenzialmente la stessa emozione che
l’esclamazione da lei lanciata poco prima descriveva alla perfezione. Sgomento
misto alla paura di qualcosa di più grande, e pericoloso. – Si può sapere che
cazzo succede?! – passò del tempo prima che,
stringendo i pugni fino a conficcarsi le dita nella carne dolorante, Duff
riacquistasse il contegno necessario per buttarlo ancora nel gabinetto, urlando
contro la propria professoressa il tormento che lo scuoteva. – Perché diavolo
nessuno si degna di darmi una fottuta spiegazione? – continuò poco dopo, appena
un po’ più calmo. La situazione paradossale in cui si sentiva catapultato
indicava ad un’unica conclusione, per la quale cercò conferma nello sguardo
limpido di una donna che mai aveva visto realmente. Era talmente assurdo da non
poterlo sopportare, erano talmente tanti i misteri che quella ragazza, e ora
anche quella donna, gli celavano che il biondino si chiese per quanto avrebbe
potuto fingere che Adrien non stesse effettivamente parlando di lui, della loro relazione e della gelosia
di Robin Keenan nei loro
confronti. Nel silenzio, la donna sospirò.
Scappare.
Ecco cosa doveva fare: incespicando con i tacchi nel terreno saturo d’acqua
dall’ultima pioggerella, Adrien fece rotta verso l’entrata della palestra. Una
speranza che mai aveva avuto la colse impreparata, prendendo possesso della sua
mente confusa dal turbine di pensieri che vi si aggiravano: forse, avrebbe
potuto confondersi fra la folla. Un ragazza in abito
da sera non sarebbe risultata stupefacente in mezzo ad una massa di giovani
eleganti che si godevano le ultime ore del ballo. Col fiato corto per la corsa
che inavvertitamente aveva intrapreso per raggiungere l’edificio, si rianimò
con la prospettiva di stare da sola nella folla per un po’, affrettando
ulteriormente il passo. Dello chignon in cui aveva legato i capelli quelli che
sembravano secoli prima non rimaneva molto, distrutto dagli scatti delle sue
mani e dalla frenesia che aveva animato la festa. Non riusciva a togliersi
dalla testa lo sguardo di Duff, il modo in cui aveva colto un altro dei suoi
segreti. Un sempliciotto, un aspirante musicista che passava il tempo a bere
con amici scapestrati ed ingenui quanto lui, un trofeo che avrebbe difeso con
le unghie e con i denti anche da quanto più simile ad un’amica avesse mai
incontrato. I suoi occhi erano stati così vividi in quel buio che aveva
rischiato, per pochi terribili istanti, d’inghiottirla. Le
parola che poteva aver sentito la compromettevano, svelavano il rapporto con
Robin, ma soprattutto mettevano a nudo ciò che aveva protetto con tutta sé
stessa. I suoi sentimenti.
Nella
sala era evidente che la situazione era sfuggita di mano ai professori ormai da
un bel po’. Il punch, inevitabilmente corretto, aveva dato alla testa non solo
i numerosi studenti che si comportavano come se fossero stati al peggiore dei
rave party, ma anche agli ignari insegnante che
avevano bevuto. La band rallegrava l’atmosfera con una buona esecuzione di
“Love me do” dei The Beatles, che contribuiva a
catapultare lo scenario del ballo in qualche decennio addietro. Il desiderio di
mimetizzarsi di Adrien non fu dunque esaudito, come a rimarcare quanto quello
andasse contro la sua natura spettacolare: la ragazza si aggirò come un pulcino
spaurito fra la gente, setacciando la stanza con lo sguardo alla ricerca di
qualcosa, qualsiasi cosa, che spostasse il suo pensiero lontano dalle
angosciose vicende di cui faceva parte. Era passato così tanto tempo
dall’ultima volta che si era sentita così sperduta:
l’abitudine alla pressione a cui tutti quei dubbi, quelle confessioni la
stavano sottoponendo aveva abbandonato la sua mente molto tempo prima, davanti
ad una bara lucida e vuota. E, scontrandosi con molti corpi sconosciuti che non
le suggerivano nulla, Adrien cercava una risposta per potersi liberare di
quelle sensazioni. Vedeva occhi verdi da tutte le parti, e la voce di Robin
giungeva tagliente alla sua memoria. Doveva perdere la capacità di ragionare
per un attimo. Un minuto o due, sarebbero bastati. –
Ehi, Babette! Ma che hai? – e la soluzione le si presentò davanti sotto la
sensuale forma di Axl Rose.
Non
era passato molto tempo da quando, abbandonata Robin Keenan
e i suoi tentativi di spiegarsi confusamente sotto il grande albero in giardino,
aveva cominciato a cercarla. Si muoveva insolitamente calmo fra i luoghi che
avevano visto, nei mesi precedenti, il suo tormento per quel demonio,
scostandosi ogni volta che un ragazzino ubriaco rischiava di urtarlo. Dopo aver
appurato che in sala nessuna ragazza assomigliasse anche solo vagamente ad
Adrien, Duff si era spinto nello stesso corridoio dove appena un’ora prima
aveva corso mano nella mano con lei, evitando occhi indiscreti per restare
soli. Si fermò soltanto un attimo, vinto dalla voglia di respirare a fondo e
cogliere l’ossigeno nell’aria viziata che soffocava in quel corridoio stretto e
sovraffollato. Ma, una volta accontentato quel desiderio nascosto in una parte
ormai sepolta di sé, il ragazzo si chiese se fosse ancora in grado di respirare.
Aveva il fiato mozzato da qualcosa di pesante che gli gravava sulle spalle.
Limitandosi ad uno sbuffare innaturale, riprese le proprie ricerche dopo pochi
secondi di pausa. Aveva bisogno di risposte. La maschera del suo volto era
impassibile davanti ai conoscenti che scorgeva nell’oscurità, alle voci, ai
saluti, alla festa che si consumava: era come se fosse stato sedato,
insensibili ai cambiamenti attorno a lui. “Dove sei?”.
La
risposta giunse da sola. Era come se il suo corpo, guidato dall’inconscio e
dallo stesso istinto di cui aveva imparato a non fidarsi, l’avessero portato a
destinazione automaticamente. Era lo stesso bagno dove erano stati prima, e se
si fosse concentrato, se Duff avesse concesso spazio alla fantasia appena per
un momento, avrebbe rintracciato anche la nota aspra ma piacevole del profumo
di Adrien. C’erano altre persone che non lo degnarono di uno sguardo quando
fece il proprio ingresso, percorrendo il perimetro della stanza con gli spenti
occhi verdi. Il tempismo, certe volte, è proprio perfetto. Una porta di uno
degli angusti gabinetti in fila lungo la parete si spalancò di scatto,
suscitando lo spavento dei presenti che non s’aspettavano un simile botto. Durò
poco, quel trambusto, prima che la tranquilla voglia di concludere la festa con
una canna riconquistasse gli studenti. Ma il tempo sembrò smettere di scorrere
proprio in quel secondo. Appoggiata alla porta appena aperta del gabinetto,
Adrien lo fissava inespressiva tanto quanto lui, gli occhi luccicanti come
altre volte Duff li aveva visti, scarmigliata e con le mani occupate a lisciare
le pieghe del vestito che prima lui stesso aveva tentato di sfilarle. E
individuò anche la sagoma, riemergente dall’angusto spazio che il gabinetto
aveva offerto loro, di Axl che con fatica aggiustava la cerniera degli aderenti
pantaloni, incurante della sua presenza.
Qualcosa
lo investì in quegli occhi grigi in cui aveva creduto di potersi perdere ancora.
Qualcosa che lo colpì come dell’acqua ghiacciata sulla pelle rovente, gettando
il cemento sulla maschera di freddezza che aveva indossato. Si sentì incatenato
in quella discussione silenziosa che nel buio lo stava pericolosamente
congiungendo ad Adrien Miller, e sentì il desiderio crescente di scoprire cosa
sarebbe potuto accadere se avesse afferrato quel bel faccino impassibile e
l’avesse scaraventato a terra. Ma non lo fece. Rimase immobile, a sostenere
l’indifferenza ostentata dalla ragazza, che non tentava ormai più di sistemarsi
nel suo grazioso completo o di dare l’impressione che tutto fosse assolutamente
perfetto. Qualcosa era crollato, oltre quella barriera di pelle di porcellana e
frasi taglienti. Con la lentezza assoluta di chi sente di star vivendo
un’esperienza extracorporea, Duff diede le spalle alla rossa, dirigendosi con
passi misurati verso l’uscita di quella stanza. Non diede l’impressione di
accorgersi di essere seguito finché, senza nemmeno rendersene conto, non giunse
davanti ai cancelli di ferro battuto da cui l’aveva vista entrare con la sua
moto una mattina afosa d’estate. Eppure il ticchettio delle sue scarpe l’aveva
perseguitato nel guscio impermeabile che gli permetteva di farsi scivolare addosso ogni cosa, almeno finché non sarebbe arrivata
l’alba. Quando tutto fu talmente insopportabile da spezzare anche la sua apparente
impassibilità, il biondino si fermò, al centro del vialetto, voltandosi verso
la sagoma affusolata che non aveva bisogno di presentazioni. “Perché?” avrebbe
voluto gridare, una domanda semplice di un’unica parola che avrebbe riassunto
tutto ciò che era accaduto fra loro, ciò che l’aveva
trasformato in una bambola di pezza fra le dita della ragazza. E lo
vide, lo vide chiaramente: la crepa che si delineava sul freddo ghiaccio della
corazza di Adrien, visibile sul suo viso come sotto i riflettori. Senza bisogno
di una domanda di Duff, la rossa parlò. – Perché mi sento in trappola. -.
So come close, close to me,
and I'll come closer to you.
'Cause in the end of the night when all we have is gone,
yes in the end of the night when I can be with you.
(Zola Jesus - Night)
NOTE DELL’AUTRICE
Basta,
questo entra nella storia dei capitoli scritti male. Non lo so, come al solito
ci sono delle parti che mi soddisfano appena e altre che invece detesto, e non
so perché mi ostino a postare. Questa è la pignoleria: vorresti che tutto fosse
perfetto, soprattutto per quanto riguarda il tempo. Essendo maledettamente
puntuale, non posso fare a meno di rispettare la tabella oraria dei post.
Okay,
prima che io continui a lamentarmi passiamo alle citazioni. La canzone degli ArcticMonkeys ha un significato
molto più profondo di quello che si può intuire a prima vista, dopo che avrete
letto potrete intuirlo. Quella di Delta Goodrem ha
sostituito invece una canzone che comunque mi ha ispirato, ma che non potevo
citare poiché non centra niente con ciò che è successo, più o meno. La canzone
in questione è “Sheloves
you” dei The Beatles.
“My
generation” e “Let’s dance” sono un pallido e molto nascosto riferimento al
film “I love Radio Rock”, come del resto l’atmosfera anni sessanta che pervade
il ballo d’inverno. Me lo sono visto tre volte nel giro di due giorni (sì, sono
stata piena di cosa da fare), perciò non potevo fare a meno di citarlo.
La
scena in cui Duff vede Adrien nel bagno e Axl intento a sistemarsi la zip dei pantaloni è invece un chiaro riferimento al video
della canzone da cui prende il nome la storia, “Naive” dei The Kooks. Alla fine infatti c’è una
scena analoga, perciò vi ho cercato il richiamo.
Non
riesco a rispondere alle recensioni neanche questo giro. Crucciatemi pure, se
volete, mi rendo conto di essere maleducata, ma sono stanchissima e potrei
scrivere cose davvero stupide. Ringrazio quindi le persone che hanno
commentato, le carissime Lau_McKagan, AmyHale, Sylvie Denbrough, Miss_Rose,
aivlis8822, _LittleAxl_ e IoMe. Siete voi che mi
spronate ad andare avanti, con i vostri bellissimi complimenti. GRAZIE, anche a
chi segue la storia e a chi la legge.
-
L’aeroporto? – il ghigno sul volto della ragazza non lasciava presagire nulla
di buono. Il biondino si sfilò il casco nero irritato dallo stato in cui
quest’ultimo riduceva i suoi lunghi capelli, prima di portarlo sotto braccio e
concentrarsi nuovamente sulla persona che aveva davanti. La domanda di Duff era
più che lecita, ma non sembrava che Adrien fosse intenzionata a fornirgli
risposte. Come sempre, del resto. – Che ci facciamo qui? – quando fu chiaro che
il silenzio in cui stavano precipitando non avrebbe portato a nulla di buono,
il bassista mutò la propria espressione nel tentativo di esprimere il proprio
disagio davanti a quell’incognita. Il viavai che li circondava davanti
all’edificio, palesemente gremito di gente indaffarata, non contribuiva a
mitigare la situazione. Ma, quando vide la ragazza avvicinarsi a lui dopo aver
riposto le chiavi della moto nella borsa a tracolla per schioccargli un sonoro
bacio sulla guancia, i nervi tesi di Duff si rilassarono visibilmente. – Fai
troppe domande, Sid Vicious. – fu quella la spiegazione che Adrien fornì ad uno
stupido ragazzo, mentre passava le dita sulla catena che avvolgeva il collo
candido del suddetto e lo guardava con lo stesso sorriso enigmatico di sempre.
Poi lo prese per mano, conducendolo verso l’entrata del grande aeroporto di Los
Angeles.
Si
lasciarono alle spalle il cielo tinto del grigio cupo delle nuvole, per
addentrarsi nel caos di valigie e chiacchiericcio che li accolse una volta
dentro il grande edificio grigio. Sul viso del ragazzo era dipinta
un’espressione d’incredulo sospetto, gli occhi verdi fissi sulla testolina
rossa che ancora lo guidava in quel turbinio di gente sempre diversa. Aveva
rinunciato in partenza a fare troppe domande, come aveva detto lei. Non sarebbe
servito a nulla: del resto, poteva affermare di non sapere ancora niente di niente. Non avevano più parlato dalla sera del ballo. Si erano
limitati a dondolarsi a ritmo di una smielata canzone di Aretha Franklin, dopo
quella misteriosa frase di Adrien che l’aveva scosso nel profondo. Nei giorni
dopo non aveva più posto una sola domanda su Robin Keenan, sul comportamento da
manicomio della rossa o sul presunto ed improbabile futuro di quella relazione
al limite dell’assurdo. Era rimasto zitto anche Axl, che si comportava come se
nulla fosse accaduto e che molto probabilmente era ignaro del fatto che l’amico
avesse scoperto il tradimento della sua ragazza. Duff si era accorto che quello
strano accordo di mutismo che era calato su di loro funzionava alla grande, a
dispetto di ciò che avrebbe pensato qualsiasi persona normale in una situazione
del genere. La scuola era sospesa per le vacanze di Natale e lui non aveva
avuto occasione di rivedere la professoressa Keenan, anche se faticava ad
immaginarsela ancora in quei panni dopo la conversazione che aveva origliato.
E, se anche i dubbi che in lui si erano insinuati quella sera tornavano a
tormentarlo durante il sonno o nei rari momenti di tranquillità, quando era con
Adrien faceva sempre un passo indietro, limitandosi a dell’ottimo sesso e
chiacchiere di cortesia. Andava bene. Forse. – Ecco, siamo arrivati. – si
bloccò di scatto, rischiando di andare a sbattere contro la ragazza che s’era
fermata di colpo in mezzo allo spazio di attesa per i voli. Prima che potesse
fare in tempo a chiedere spiegazioni, una voce acuta attirò la loro attenzione.
-
Ehi! Ehi, Adrien! – le parole stridule che si erano levate dalla marmaglia di
gente di ritorno dai viaggi festivi apparteneva ad una ragazza non troppo alta,
che saltellava su e giù agitando le braccia per richiamarli. I
capelli biondo platino le permettevano di spiccare nonostante la scarsa
altezza, e il sorriso che giaceva sul suo volto trasmetteva entusiasmo. Duff
fece in tempo a cogliere la complicità nello sguardo che Adrien gli aveva
rivolto prima di essere trascinato in direzione della sconosciuta. – Adrien! –
due tipi molto differenti fra loro si erano affiancati alla biondina, uno alto
quanto il bassista e un po’ allampanato, e l’altro snello e delle movenze
strane, non troppo ortodosse. Duff si chiese dove diavolo quel mostriciattolo
che gli stringeva saldamente la mano lo stesso conducendo ancora una volta. –
Ciao! Come state? – la rossa però interruppe il loro contatto per correre
incontro ai tre individui, abbracciandoli vigorosamente uno a uno ma mantenendo
il contegno assoluto che mai abbandonava. Si soffermò soprattutto sulla
ragazza, che ancora non aveva smesso di saltellare sul posto tanto doveva
essere contenta. – Come sto io? Come stai tu! Tesoro, sei uno schianto! –
quelle parole suonarono troppo frivole e svampite nelle orecchie di Duff, che
si lasciò scappare un sorrisetto divertito mantenendo la propria posizione alle
spalle della propria ragazza. Non riuscì però, neanche desiderandolo con tutto
il cuore, a passare inosservato.
-
Oh, Meredith, questo è Duff, il mio… beh, Duff questi sono Meredith, Jason e
Damien. – quasi non si notò l’esitazione nella voce della rossa durante quelle sbrigative presentazione: il sorriso smagliante e i gesti
elegante con i quali indicò prima la sconosciuta, poi il ragazzo allampanato e
quello strano trasudavano una rinnovata sicurezza, nonostante tutte le domande
che in quel momento riempivano il cervello di Duff. Il ragazzo rischiò per
qualche istante di rimanere bloccato ad osservare quell’enigma che Adrien
rappresentava nelle sue azioni, prima di scuotersi da quell’improvviso torpore
ed allungare la mano a stringere quelle dei nuovi arrivati, mantenendo un
sorrisetto di circostanza. – Sono appena arrivati dall’Inghilterra,
trascorreranno le vacanze di Natale qui a Los Angeles. – e, davanti alle poche
frasi esplicative che la ragazza gli concesse, il biondino non poté fare a meno
di domandarsi, per l’ennesima volta in quei pochi giorni in cui si erano
frequentati, perché Adrien non si fosse degnata di dirglielo. Sarebbero bastate poche semplici parole, un accenno
anche prima di costringerlo a salire sulla sua moto per trascinarlo fino
all’aeroporto una mattina di dicembre insolitamente fredda
per la California. Ma no, evidentemente era sempre quello odioso mistero la
scelta più allettante. – Umh, ma non ci aveva parlato di… - Damien, il ragazzo
strano, lo squadrò con un’occhiata che scatenò brividi insensati lungo la
schiena di Duff, con gli occhi grandi che spuntavano eccessivamente curiosi
dagli occhiali da sole completamente inutili per il cielo di quella giornata. Un’occhiataccia
in qualche modo discreta di Adrien mise a tacere l’inglese.
-
Senti, ma… - avevano trascorso una sostanziosa mezz’ora all’interno della
confusione dell’aeroporto, mentre le due ragazze si sussurravano agitate le
ultime novità nell’orecchio e i maschi si esaminavano a vicenda, imbarazzati.
Le possibilità di chiedere qualsiasi cosa ad Adrien erano state relegate dalla
ragazza stessa all’unico momento dall’arrivo degli inglesi in cui lei e Duff si
trovarono da soli, ovvero al ritorno alla moto mentre Meredith e compagnia li
avrebbero preso un taxi per l’albergo in cui avrebbero alloggiato. Il bassista
si chinò sulla rossa con aria cospiratrice, imitando per pochi istanti gli
atteggiamenti assunti da quella e dalla biondina ormai scomparsa qualche attimo
prima. – Esattamente che problema hanno quei due tipi, Jason e Damien? No,
perché mi hanno squadrato in silenzio tutto il tempo. – la verità era che Duff
avrebbe desiderato ardentemente fermarla per pretendere di parlarle, anche solo
per un attimo, faccia a faccia, prima che quella temibile tranquillità
rischiasse di fargli dimenticare i dubbi di quelle giornate. All’ultimo
momento, però, qualcosa in lui di estremamente potente e fastidioso aveva
deviato le spinose domande. – Oh, Jason è abbastanza timido, e comunque è di
poche parole. E’ il ragazzo di Meredith. – Adrien alzò le spalle, per poi
infilarsi il casco con rapidità per nascondere il ghigno nascente davanti alla
perplessità di Duff. Come se si fosse dimenticata per sbaglio di fornire
spiegazioni sullo “strano” Damien, frugò nella borsa alla ricerca delle lucide
chiavi della moto, consapevole che il ragazzo si stava preparando al doloroso
obbligo di stringersi a lei quando sarebbero sfrecciati via per le strade di
Los Angeles, quello che lui aveva definito un affronto alla sua virilità. Non
notò il sorriso furbo del biondino provocato dall’enfasi con cui lei stessa
aveva precisato come Meredith fosse già occupata.
La
dependance era avvolta nell’oscurità, eppure se un buon osservatore avesse
aguzzato bene la vista avrebbe potuto notare lo scintillio dorato della festa
che a poche ore dal suo inizio già raggiungeva il proprio apice. In un angolo
remoto della stanza adibita a salottino uno stereo diffondeva a tutto volume le
note di un pezzo dei Led Zeppelin, su cui danzavano le persone che affollavano
l’edificio. Era stato dopo alcuni scontri con la polizia e l’arresto di un
confuso Steven con relativo rilascio dietro salata cauzione che il nostro
gruppetto aveva deciso di ritrovarsi nella dimora dei Miller gentilmente
offerta da Adrien per festeggiare il Capodanno. Un enorme passaparola aveva
portato al riempimento dei locali, all’insaputa dei padroni di casa che per le
vacanze si erano concessi un viaggio alle Maldive. Dopo aver letteralmente
costretto Annalou a fermarsi a dormire da una delle amiche di scuola dopo il
suo party in bianco e nero con i rampolli dell’alta società, i ragazzi avevano
dato il via alle danze. – Questa casa è… enorme! – l’angolino apparentemente
tranquillo che pochi eletti si erano ritagliati attorno al divano di pelle del
soggiorno era un’isola in quel mare di teste e membra che si dimenavano a ritmo
di “Black Dog”. A parlare era stato Slash, che per l’ennesima volta aveva
espresso il proprio stupore davanti al lusso della casa che avrebbe collegato
al famoso manager Alan Niven, se fosse stato abbastanza sobrio per ragionare sopra le parentele della ragazza che, seduta
al suo fianco, gli sorrideva.
Michelle
aveva tenuto il proprio ragazzo al guinzaglio per tutta la sera dopo il tentativo
di questo di fare un’intima conoscenza con la graziosa Meredith, ma non poteva
non compiacersi del fatto di aver passato molte delle nottate precedenti come
ospite a casa di Adrien, che le aveva generosamente concesso l’alloggio. La
rossa, ebbra del successo che la sua festa
stava riscuotendo, avvertì il braccio di Duff pesare sulle proprie spalle, uno
dei tanti silenziosi gesti del ragazzo per fargli avvertire la propria
presenza. Oramai, vivevano proprio così: di gesti e di silenzio, di musi lunghi
alternate a vivaci chiacchierate prive di senso, oltre che di sesso. – Non sono
sicura di conoscere tutta questa gente. – urlò la ragazza nell’orecchio al
biondino al suo fianco, che le rispose con un ghignò
divertito. Non c’era nessun rancore nella voce della padrona di casa, soltanto
soddisfazione per quell’evento. Gli occhi grigi scorsero fra la folla prima
Jason ballare con una moretta che per niente assomigliava alla sua Meredith,
poi la suddetta biondina parlare con un interessato e quanto mai fatto Izzy
appoggiati al bancone del piano bar. Tutti si erano accorti di come l’inglese e
il chitarrista dell’ormai abbastanza conosciuto gruppo si fossero subito
trovati d’accordo. – Tesoro questa festa è d-i-v-i-n-a!
Ma dove li avevi nascosti questi fino ad adesso? – in attimo gli occhi di Slash
e di Duff furono addosso ad un eccitato Damien, che dopo aver osservato a lungo
al fauna nella festa si era alzato per schizzare fra
la folla, entusiasta per qualcosa che i ragazzi avevano intuito soltanto in
quel momento. – Tesoro, se mi cade il portafoglio uno di questi giorni, stai
bene attenta che quel tizio non sia dietro di me quando lo raccolgo. – e con
quello stupido commento, Slash e Michelle si congedarono per passare gli ultimi
minuti prima del nuovo anno nella camera da letto di Adrien.
-
Vado in bagno. – nonostante l’atmosfera del nuovo anno incombente rallegrasse
ulteriormente il clima di festa che da sempre caratterizzava Los Angeles, per
Duff quella era decisamente una di quelle serate in cui avrebbe preferito di
gran lunga chiudersi nel magazzino con una birra ed una chitarra. Una leggera
ma alquanto fastidiosa emicrania l’aveva accompagnato per tutto l’arco della
giornata e si era fatta asfissiante, con quella musica assordante e tutte
quelle persone sconosciute che lo trattavano da amico di sempre. Perciò non
obbiettò quando Adrien, con un ennesimo, abbagliante sorriso degno della
pubblicità di un dentifricio, lo lascio da solo sul divano con quella scusa
patetica per abbandonarlo. Normalmente avrebbe risposto a quel tentativo di
svignarsela fra le braccia di un altro con una serie d’imprecazioni, quella
sera semplicemente lasciò correre. Forse avrebbe trovato tranquillità. – Ehi,
vieni a farti un cannone della pace con noi! – dopo qualche minuto di beata
solitudine, il suo riposo venne interrotto da un entusiasta Axl munito di una
suddetta canna verdognola. Non si curò nemmeno di rispondergli, osservandolo
scomparire fra la folla esattamente come Adrien aveva fatto poco prima. Sospirò,
gettando uno sguardo alla follia che lo circondava cercando d’individuarla fra
la folla, invano. Sospirò: l’umore pessimo di cui si era munito per quella
serata che avrebbe dovuto essere allegra fece persino in modo che, quando una
voce sopra le altre iniziò il conto alla rovescia, passasse gli ultimi secondi
dell’anno a lamentarsi con sé stesso.
La
gente corse fuori, quasi in preda ad uno strano raptus di pazzia, mentre l’aria
si riempiva dei rumori dei botti e dei fuochi d’artificio che avrebbero
illuminato la città. L’immenso giardino dei Miller avrebbe sentito presto le conseguenza della calca che su di esso si dimenava, delle
persone che calpestavano le aiuole meticolosamente curate e si rotolavano
nell’erba. Duff sbuffò davanti a tutto quell’entusiasmo per lui sciocco e
futile, alzandosi dal comodo divano soltanto per dirigersi verso il piano bar
allestito da Adrien. Aveva bisogno di qualcosa di forte, e subito. Mal di testa
o meno. – Come mai tutto solo? – la voce alle sue spalle lo fece sussultare,
inaspettata. Si stava giusto versando una dose generosa di Jack Daniel’s nel
primo bicchiere in apparenza pulito che aveva trovato, ma lo spaventò
improvviso ebbe la meglio sulla presa della sua mano sul vetro. Mentre il
liquido ambrato si riversava lesto sulla superficie fredda del piano bar,
Meredith o l’Inglese, come era stata da poco soprannominata dalla comitiva di
cui faceva parte anche Duff, non sembrava dar segno di dispiacere per quello
spreco. Il ghigno divertito parlava da sé. – Oh, lascia stare. Probabilmente
prima di domani mattina i domestici avranno tirato a lucido tutta la
distruzione della dependance. Credo ci siano abituati. A proposito, auguri. –
davanti alle colorite imprecazioni del ragazzo, la biondina levò alto il
proprio bicchiere, colmo di una bevanda non identificata ma dall’aspetto
pericoloso, brindando con quelle parole affilate al nuovo anno. Duff alzò le
spalle senza conoscere bene il significato di quel gesto: non avrebbe comunque
ripulito quel disastro. Decisamente, non sarebbe stato nel suo stile.
-
E così, tu sei il ragazzo di Adrien –
quella semplice constatazione, con tanto di epiteto enfatizzato dal tono di
voce della ragazza, lo fece trasalire ancora più dello spavento di poco prima.
Il sorriso di Meredith si fece immediatamente più disteso nel notare quella
reazione, ma nei suoi occhi non c’era traccia di malignità. Sembrava soltanto
si stesse divertendo molto. – Giusto? – aggiunse quindi, sempre con una voce
leggermente melliflua, carezzevole. Il biondino alzò gli occhi al cielo in
un’imitazione da dilettanti degli atteggiamenti della sua ragazza, che comunque comunicò alla sua interlocutrice lo stato
d’animo che lo tormentava. Non c’era risposta alla conferma chiesta da
Meredith: come s’era premurato di ripetere a sé stesso e ai curiosi che in quei
giorni lo avevano tartassato di domande, lui non sapeva niente di niente. – Più
o meno. – all’ultimo secondo però si vergognò quasi di quel silenzio,
improvvisamente faccia a faccia con la confusione in cui si era costretto a
vivere. Forse quella risposta evasiva avrebbe sviato qualsiasi tentativo di
proseguire una conversazione sul delicato argomento. – Sai, non avrei mai
pensato che avrei sentito queste parole – ciò che seguì però lo lasciò di
stucco Mai e poi mai si sarebbe aspettato che la ragazza che sorseggiava
distrattamente il proprio drink avrebbe esordito in quella maniera. Come se non
fossero state sufficienti tutte le incognite che l’avevano torturato in quel
giorni. – Quali parole, scusa? – grugnì quindi, quasi stupito del proprio tono burbero.
Cavolo, doveva essere proprio stanco per aver abbandonato la propria maschera
di persona quantomeno gentile. Sì, aveva proprio bisogno di bere qualcosa di
forte.
-
Oh, che Adrien ha un ragazzo, più o meno.
– Duff incominciò a chiedersi se l’inglese non lo stesse
prendendo in giro, ma tutto nell’espressione di quella affermava il contrario.
Era straordinariamente seria. – E’ una persona con cui è molto difficile
parlare. Ancora adesso, mi chiedo quanti segreti mi nasconda e perché lo
faccia. Poi, beh, mi ripeto che non sono cazzi miei. E’ stupefacente, non
trovi? – a nulla servì iniziare a porsi domande sulla precaria sobrietà della
ragazza: indipendentemente dal tasso di alcol nel suo sangue, Duff non poté
fare a meno di specchiarsi con efficacia nelle sue parole, mentre nella sua
testa affiorava il ricordo di un volto angelico e sorridente, dai contorni
indefiniti. – Già. – Meredith non udì quella risposta sommessa, desiderosa di
poter procacciarsi altre bottiglie da svuotare e di tornare in allegra
compagnia del fidanzatino, che doveva aver abbandonato l’americana con cui si
era precedentemente trastullato. Il bassista la osservò unirsi alla folla nel
giardino, prima che i suoi occhi verdi si facessero vacui e pensosi. Che Adrien
fosse una persona non troppo incline a parlare di sé, di ciò se n’era già
accorto: la natura di quella ragazza enigmatica e mozzafiato sembrava più
incline ad indurre gli altri a parlare di lei, senza metter parola ai discorsi
che nascevano dai suoi comportamenti. Ma lui ci stava provando, sul serio:
leggere nel libro costituito dai pensieri di quella rossa era più difficile
della storia del cammello e della cruna dell’ago, diamine. Come poteva sapere
quale fosse il passo giusto, se quella lo escludeva limitando quella relazione,
se così poteva essere chiamata, a sesso meraviglioso ed
intesa in quegli atroci silenzi che lo devastavano? Nel dubbio, Duff
decise di lasciar perdere il bicchiere sbeccato in cui avrebbe voluto versarsi
il whiskey, per poi afferrare la bottiglia di Jack Daniel’s stessa.
Se
alzandosi dal divano di pelle qualche ora prima il bassista aveva cercato
rimedio contro l’emicrania, quando la luce cominciò a filtrare attraverso le
vetrate della dependance Duff si rese conto di aver sbagliato strategia. Avvertendo
un saporaccio amaro in bocca, lanciò un’occhiata sonnolenta a ciò che lo
circondava prima di compiere lo sforzo di alzarsi. Aveva dormito sul pavimento,
a giudicare dalla visione sfocata che i suoi occhi ancora stanchi gli stavano
dando. Eppure c’era qualcosa di strano: era troppo morbido. Abbassò lo sguardo, faticando a mantenere una decente
posizione eretta, impiegando pochi secondi di riflessione prima di realizzare
di aver dormito su… - Steve! – la sua voce era un roco tuono, trasfigurata dal
risveglio dopo un’altra notte di stravizzi, che però non sembrò destare il
biondo steso supino sul pavimento. Del resto, se non l’aveva svegliato nemmeno
il peso del suo corpo durante il sonno Duff non poteva sperare che le sue
lamentele ci sarebbero riuscite. Si allontanò dalla figura dell’amico dormiente
con un velo di disgusto, constatando che per lo meno le sue inclinazioni
sessuali non dovevano essere mutate. Cercando d’ignorare il martellare delle
tempie che lo assillava e il retrogusto di liquore che aveva in bocca, il
ragazzo si concentrò sulla situazione che aveva attorno. L’ambiente della
dependance era distrutto. La maggior parte della gente se n’era andata dopo i
festeggiamenti, lasciando soltanto poche figure solitarie a vomitare nell’ampio
giardino, o a dormire nelle posizioni più strane. I
quel momento, il bassista era fin troppo distratto dal proprio, familiare
malessere post sbornia per ricordare l’allusione al lavoro impeccabile dei
domestici di casa Miller di Meredith. O anche solo per ricordare Meredith. –
Buongiorno – la sua attenzione fu attirata però da una voce alle sue spalle.
Non
era la prima volta da quando l’aveva conosciuto che Duff si chiedeva come
diavolo Izzy Stradlin riuscisse a trascorrere nottate all’insegna dello stile
di vita rock n’roll al quale si erano votati e uscirne indenne, o per lo meno
con la patina di tranquillità dietro cui si rifugiava
spesso. Anche in quel momento, mentre il biondino si sentiva distrutto, il
chitarrista esibiva un sorriso discreto mentre sorseggiava una tazza di caffè
preparato nell’elegante cucina di Adrien. – Un cazzo. – fu quella la fine
risposta dell’amico, che con l’espressione di chi desidererebbe ardentemente
dormire cento anni, si sporse oltre la figura del moretto per individuare la
fonte del caffè. – L’ho bevuto tutto. Se vuoi, ne è rimasto un po’ nella tazza.
– quasi gli avesse letto nel pensiero, Izzy gli porse la propria offerta con un
lieve movimento della mano, scrutandolo oltre la ceramica dipinta di blu. Duff
scosse la testa prima di aprirsi in un ghigno di beffa molto simile a quello
che perenne giaceva sul volto del loro amico Axl. – Non sono frocio. – per qualsiasi persona di
larghe vedute il commento del giovane sarebbe stato quantomeno offensivo. Izzy
riuscì soltanto a trovare quella frase una ridicola reazione ad un non troppo
piacevole risveglio. – A proposito, il vostro amico Damien non è poi così
irritante. La sua improvvisa passione per Slash e il contrattacco di Michelle
sono state un magnifico spettacolo stanotte. – lasciandosi sfuggire una risata simile ad un latrato, il ragazzo portò alle
labbra la tazza, svuotandola del suo contenuto e cercando di non sbeffeggiare
troppo l’espressione disgustata dell’amico. Non era sicuro di aver compreso se
quella era dovuta al colpo di fulmine dell’inglese per il loro chitarrista o al
fatto di essersi perso quell’intrattenimento. – Ma, da quel che ho capito,
anche tu sei stato travolto dal fascino britannico. – ribatté quindi Duff,
imitando con un sorrisino le posizioni composte delle guardie reali a
Buckingham Palace.
-
Meredith è molto piacevole. – Izzy in
risposta annuì distratto, lo sguardo improvvisamente lontano e sicuramente
soffermato su i ricordi della serata. – Certo, nulla a che vedere con le svedesi. – aggiunse poi con un sogghigno,
evidentemente intenzionato a fare allusioni alle doti di una rossa bene nota al
suo amico. Il quale però esibiva un’espressione dispersa che lasciò di stucco
il moretto. – Beh, Adrien non ti ha detto che sua madre viene dalla Svezia? –
il primo, stupido pensiero che passò per il cervello in movimento di Duff fu
che ciò spiegava come mai qualcuno, in un raptus di follia non identificato,
avesse scritto a caratteri cubitali con un indelebile “In Scandinavia lo fanno
meglio” su una parete del magazzino. Poi subentrò una rabbia che lo infervorò a
tal punto da provocare in Izzy un atteggiamento di difesa che lo convinse ad
arretrare di un passo. – Cazzo, ma parlate mai voi? –
apparentemente persa la nota di charme che faceva parte del suo carattere, Izzy
diede sfoggio ad una delicatezza pari a quella di uno Slash ubriaco in un
negozio di cristalli. Quando però notò la vena sul collo del biondino
cominciare a pulsare al limite del consenso di qualsiasi cardiologo, decise di
dare una calmata alle proprie battutine. – Sai qual è la differenza tra quello
schianto di Meredith e la tua Adrien? – dopo lunghi istanti di silenzio in cui
al giovane parve di udire l’ira di Duff sfrigolare come braci ardenti, si
decise a parlare su ciò che da tempo gli premeva di dire. – Se Meredith vuole
qualcosa, medita con attenzione e sfoggia le sue carte in maniera opportuna ed
impeccabile. Se la tua Adrien vuole qualcosa, una combinazione di sfortuna,
istinto e del timore che suscita negli altri le apre tutte le porte. Credo sia
per questo che sono amiche. Ora, va dalla tua Bella Addormentata, Principessa
sul Pisello o quello che vuoi. Ci vediamo alle prove oggi pomeriggio. – detto
ciò, Izzy si esibì in una perfetta uscita di scena, lasciando che Duff rodesse
con i suoi demoni.
La
festa del secolo. Se ne sarebbe parlato per mesi, anzi no, per anni. Tutti le avrebbero fatto i
complimenti. E anche se dei complimenti di tutti la ragazza non sapeva proprio
che farsene, era comunque piacevole pensare che il suo nome sarebbe passato di
bocca in bocca, nella buona e nella cattiva sorte. Dare spettacolo stava ad
Adrien Miller come chitarra stava a Slash, e non
poteva esistere accoppiata migliore. – Vattene. – gettando il mozzicone di
sigaretta con grazia impropria sull’erba verde del prato curato della dimora di
famiglia, con voce aspra la rossa intimò al ragazzo che riposava sul suo grande
letto di levare immediatamente le tende. Se il malcapitato aveva pensato che
dopo essersi dato alla pazza gioia e aver goduto delle sue grazie avrebbe potuto
anche usufruire degli agi che lo
circondavano, si sbagliava di grosso. – Fuori. – il cipiglio impaurito del
giovane era giustificabile, data l’espressione di rabbia della ragazza che,
piantandogli le unghie affilate nella spalla, lo costrinse ad alzarsi senza
dargli la possibilità di rivestirsi. Voleva vedere un’altra persona in quel
momento. – Avanti. – lo incitò con voce rotta da un
furia ben congegnata, ovviamente falsa. Era divertente dare il tormento a
qualche sbarbatello. Si sistemò con cure le pieghe della gonna e della maglia
che aveva indossato, prima di lanciare un’occhiata di sufficienza al ragazzo
confuso. – Sei ancora qui? – domandò con astio, prima di essere interrotta
dall’aprirsi della porta.
-
Fuori dalle palle. Ora. – sorrise
istintivamente nell’udire quella voce, appena alterata dai postumi di un sbronza. Non si curò del fatto che Duff avesse visto il
ragazzo che le aveva tenuto compagnia durante la notte, ora sbattuto fuori
dalla stanza senza vestiti: le aveva perdonato cose ben peggiori. E comunque,
non aveva bisogno della sua misericordia per farsi amare da lui. – Ehilà. Dove
sei stato tutta la notte? Ti ho cercato per un sacco di tempo. – quella era una
bugia, ed entrambi se ne accorsero
istintivamente con estrema amarezza. Ancora prima di voltarsi, Adrien intuì che
qualcosa nel ragazzo non stava seguendo il consueto copione da lei scritto per
quelle situazioni: il suo respiro era troppo lieve, come se non si stesse
sforzando di restare calmo; il suo corpo troppo immobile, non già proteso verso
di lei nell’ennesimo tentativo di marcare il proprio territorio; i suoi occhi,
quando li incrociò con cautela, non emanavano il gelido autocontrollo di sempre
davanti a quel tradimento che andava ad accatastarsi agli altri. Riflettevano
una disperazione muta che punse il cuore della ragazza come spilli di ghiaccio
e che, per via di quella inaspettata reazione del suo corpo, provocò in lei un sussultò quasi silenzioso, ma che la scosse dalle
fondamenta. – Cosa c’è? – chiese con sospetto, fissandolo per poter leggere
come al solito le sfaccettature della sua anima, quel libro che per lei il
biondino teneva sempre aperto e pronto all’uso. Ma vi trovò sempre la stessa,
temibile tristezza che aveva scorto in quelle profonde iridi verdi, e che irrigidì
le sue membra. Era già capitato, nel bel mezzo di un giardino malcurato, con i
piedi che dolevano per i tacchi a spillo, di trovarsi a fronteggiarlo in quelle
condizioni. “Perché mi sento in trappola”
erano parole che ancora puzzavano di un dolore cieco, che tornò a colpirla.
-
Cosa c’è? – era troppo calmo nel ripetere la sua domanda. Era troppo calmo
anche mentre stringeva i pugni con forza senza levare da lei il suo sguardo che
la bloccava al pavimento, i loro ruoli invertiti per una volta. – C’è che ti
devo parlare. Tu devi parlare con me.
– ignorando l’occhiata altamente perplessa che la ragazza gli scoccò, Duff si
avvicinò di qualche passo, con esagerata lentezza che tradiva il suo tentativo
di non reagire con la forza a tutto ciò che stava accadendo. Incontrando il
fuoco mischiato alla malinconia dei suoi occhi, Adrien strinse le labbra,
improvvisamente persa. Era qualcosa che non poteva
sopportare, non sapere che passo muovere, tradita dall’istinto e dalla fortuna
di cui poco prima Izzy aveva parlato ad un molto più tranquillo Duff. La faceva
sentire oppressa dal peso di essere come tutti gli altri. E si sentiva ingenua.
– Io non ti ho chiesto nulla. Nemmeno per invitarti a quella festa, ti ho fatto
una domanda seria. Però stavolta ne ho bisogno,
perché potrei andare fuori di testa da un momento all’altro per colpa tua e del
tuo fottuto silenzio. – la voce del bassista però iniziò a tremare, minacciosa,
ed Adrien iniziò a comprendere ciò che stava succedendo. Ma non riusciva a
sciogliere la catena di loro sguardi, nonostante desiderasse ardentemente
fuggire dalle sue parole come sempre aveva fatto. Non poteva far altro che
stare lì, ferma a provare per una volta lo stesso dolore del ragazzo che aveva
di fronte quando, con tutto il peso della sua coscienza, lo schiacciava a
terra.
-
Ma devi capire che a volte io ho bisogno di spiegazioni, anche se non ce la
faccio a chiedertele. Dovresti
capirlo. Perché forse potrei accettarti e star zitto per un sacco di tempo, ma
buona parte dei miei neuroni si suiciderebbero nel
tentativo. Anche adesso, non riesco a ricordarmi perché mi sono innamorato di te. – in un gesto che
Adrien mai e poi mai avrebbe pensato di riuscire a fare, fu in grado di
esprimere l’effetto che quella dichiarazione indiretta, prepotente nella sua
genuinità, ebbe sul suo cuore: si portò le mani alla bocca, oltraggiando in
qualche modo le parole di Duff sul suo silenzio, ma sottolineandone la
veridicità in maniera pericolosamente semplice. Per anni aveva ammucchiato
avvenimenti, pensieri, azioni in schedari ordinati, dosi di emozioni che aveva
impilato una sopra l’altra. Quel ragazzo era riuscito a distruggere tutta
quella meticolosità con tre parole. La luce invernale di un sole coperto dalle
nuvole, plumbee come gli occhi della rossa, sembrò invadere solo in quel
momento la stanza. – Non riesco a ricordarmelo, e sai perché? Perché in tutto
questo tempo non mi ha mai detto un motivo per cui questa mia grossa cazzata
sia stata giusta. Forse me ne hai dato motivo, ma non me l’hai mai detto e nemmeno
chiesto. E io non ce la faccio più. Parlami. Ho bisogno che tu riesca a fidarti
di me, a raccontarmi anche i dettagli più insignificanti e che
tu mi faccia incazzare di brutto per qualcosa che hai detto, non per qualcosa
che ho intuito attraverso le tue azioni. – come se avesse corso per miglia
senza una meta, Duff aveva il respiro affannoso. Qualcosa, negli angoli più
profondi del suo cuore ancora privi dell’immagine stereotipata che s’era
costruito attorno, lo abbandonò per sempre.
-
Anche perché me lo devi: mi sto comportando come una femminuccia, e lo sforzo è
doppio visto che ho un dopo sbronza. – all’ultimo, non
riuscì a sopportarlo: forse perché comunque non era abituato a dichiararsi così
apertamente a chiunque, Duff fu in grado di porre il suo discorso come uno
scherzo e pentirsene amaramente in seguito. Abbozzò quindi un sorriso,
accorgendosi poi di vedere realmente la ragazza, per la prima volta da quando
era entrato nella stanza, nonostante i suoi occhi non si fossero scostati dal
suo volto per un minuto. Lei non rideva. Semplicemente ricambiava il suo
sguardo impassibile nell’espressione, ma con un’intensità tale da stravolgerlo:
sembrava di poter scorgere l’ombra nei suoi occhi chiari, tempestosi, di vedere
le parole che le aveva confessato ripetersi ed acquistare forma, interezza. In
quel muto assenso, Duff scoprì che avevano tutto il tempo del mondo, che lei ci
avrebbe provato e che forse aveva compreso. Non parlò, ma il suo sguardo che avrebbe potuto essere scambiato per disprezzo era in realtà
carico di promessa a cui nessuno dei due aveva mai pensato. Il ragazzo, traendo
un sospiro mentre l’aria si faceva più pesante e densa, levò la mano con calma,
per poterla ritrarre su avesse scorto un velo di
minaccia nel viso di Adrien, e quando la trovò perfettamente tranquilla, passò
le dita sulla guancia nivea della rossa senza infondervi tutta la tenerezza
necessaria. – Adesso – mormorò, continuando la lenta danza dei polpastrelli
sulla pelle fredda, impacciato come solo un maschio sa essere in balia delle
proprie emozioni – Sto molto meglio. -.
La
risposta della ragazza non tardi ad arrivare. Non
seppe riconoscere l’esatta sequenza dei suoi movimenti, ma se un secondo prima
era immobile davanti al suo tocco, Duff si ritrovò con le braccia di Adrien al
collo e le loro labbra unite prima che potesse proferir parola. C’era qualcosa
di estremamente disperato nel modo in cui aveva cercato un contatto fra di loro che andava al di là della semplice fisicità che
tanto l’aveva tormentato. Quando, perdendo l’equilibrio nell’impeto di
quell’abbraccio, caddero fra le lenzuola stropicciate del letto, anche solo
quando le dita sottili della rossa scostarono il tessuto della maglietta del
ragazzo per saggiare la pelle con la loro morbidezza, una scossa di elettricità
che mai avrebbero pensato di donarsi a vicenda li percosse. – Sì. – fu l’unica,
semplice parole che il giovane le permise di
sussurrare, mentre la stringeva più forte. Era l’affermazione, intrisa delle
conferme che aveva aspettato per tutto quel tempo, che suggellò il loro patto
invisibile. Si sarebbero parlati, proprio in quella stanza, esattamente come
avevano cercato goffamente di fare tempo prima. Mentre il mondo fuori dalle
vetrate e dalle pareti immacolate di casa Miller avrebbe continuato a scorrere
e i loro amici avrebbero protestato per la loro assenza. Sarebbe stata la luce
invernale di una Los Angeles non ancora invasa dal tepore del mezzogiorno la
loro unica compagna, insieme al nodo alla gola che mutilò i loro discorsi e li
costrinse ad abbracciarsi di più, per non precipitare nell’oblio.
If I had a heart I could love you,
if I had a voice I would sing.
After the night when I wake up
I'll see what tomorrow brings.
(Fever Ray - If I had a heart)
NOTE
DELL’AUTRICE
Okay.
Questo capitolo potrebbe essere degno
di essere menzionato nell’albo di quelli usciti decentemente. Più o meno sono abbastanza sicura di molte parti e
ciò mi da un vago senso di sollievo. Yeah.
Comunque, la canzone de Le Vibrazioni l’ho adorata, spero che piaccia anche a
voi se vorrete sentirla. Vi prometto che riprenderò al più presto a rispondere
alle recensioni, quando mi sarò ripresa dalla sbornia di Capodanno, anche
perché non potrò usare questa scusa in eterno. Perdonate la negligenza di
questa povera scrittrice mancata xD a proposito,
tanti auguri!
Volevo anche
sottolineare un madornale errore del capitolo tre, fortunatamente non del tutto
a causa mia. Riguarda la prima citazione della pagina: non di Cesare Pavese
come avevo scritto, ma di Ennio Flaiano. La mia fonte di citazioni mi aveva
passato la frase per fare un paragone con la sottoscritta (-.-) ma si è
sbagliato a scrivere confondendola con un’altra. Avrei potuto
andare a controllare prima, ma mi è venuto in mente soltanto adesso.
Perdonatemi.
Grazie a AmyHale,
Miss_Rose, Lau_McKagan, aivlis8822, IoMe e Sylvie Denbrough per le loro
fantastiche recensioni, soprattutto a quest’ultima chi, dimostrando una
nascente pazzia (xD) mi ha inserita fra la lista
delle autrici preferite. Un bacio enorme, siete la mia forza!
Capitolo 13 *** Capitolo 13 - Her big bullshit ***
Naive
Naive
Capitolo 13 – Her big bullshit
“ I took the wrong road
that
led to the wrong tendencies. ”
(Depeche Mode –
Wrong)
Il
tonfo e lo strillo che precedette le risatine ruppe il religioso silenzio in
cui era sprofondata l’aula. Quando la professoressa alzò lo sguardo,
irrigidendosi ancora di più nella cappa di nervosismo che l’avvolgeva, non fu
subito in grado di riconoscere il colpevole del misfatto. Ma i sussurri che ora
sconvolgevano la calma che tanto aveva faticato ad instaurare per il compito in
classe erano poco meno di un’offesa personale nei suoi confronti, perciò la
determinazione che l’animava presto vinse su chi tentava di coprire il fautore
di quel baccano. – Adler – sibilò, assumendo un’espressione che avrebbe fatto
tremare anche il più spietato dittatore della terra – Riponi immediatamente
quel serpente nella valigetta
dell’asilo nido, smettila d’importunare Johnson e esci subito da quest’aula.
Per quanto riguarda il tuo compito, ritieniti fortunato se non opterò per
consegnarlo al preside. – il resto degli studenti ridacchiò mentre Steven si
alzava malamente, facendo dondolare fra le mani la biscia di gomma che aveva
lasciato cadere sul banco di Linda. Il ragazzo chiuse la porta della stanza
alle proprie spalle con una bestemmia talmente blasfema che Robin dovette far
finta di non sentire per prendere il controllo. Riabbassò lo sguardo sul
proprio registro, come sempre faceva quando si trovava in quella classe:
detestava la consapevolezza che un paio di occhi grigi erano pronti a deriderla
in ogni istante.
-
Chiunque si azzardi a parlare da ora in avanti seguirà Adler. Continuate pure.
– solo due persone in quella stanza notarono il lieve tremito nella voce della
professoressa Keenan, improvvisamente assorta nella correzione di altri compiti
in classe. Duff si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo,
lanciando un’occhiata veloce al banco in precedenza occupato da Steven, ora
vuoto, e all’occupante di quello a fianco: il ghigno sul volto di Adrien
lasciava presupporre che si stesse divertendo un mondo, come sempre. Alzando
gli occhi al soffitto proprio negli istanti in cui i loro sguardi
s’intercettarono, un gesto che aveva appreso da lei, ritornò a concentrarsi sul
proprio compito, chiedendosi perché l’entità misteriosa che decideva le sorti
di quello schifo di mondo si stesse divertendo a metterlo così in difficoltà. E
non era soltanto un riferimento alla verifica su Shakespeare. Per un secondo, i
suoi occhi puntarono la sagoma di Linda, le sue guance rosse per l’imbarazzo di
quello scherzo infantile che l’aveva turbata. Avevano passato ore nella
biblioteca polverosa della scuola, a ripassare sugli accurati appunti che le
aveva preso per sé stessa ma che aveva condiviso con loro, e lui non ricordava
niente. E nemmeno Slash, a giudicare da come la matita del suo vicino di banco
si muoveva rapida sul foglio del compito tracciandoci sopra disegni di teschi e
persone sanguinanti. – Altri quindici minuti. – il tempo stava passando troppo
in fretta. Chiamando a raccolta quel piccolo barlume di concentrazione che gli
restava in corpo, si affrettò a scribacchiare qualche altra parola vuota.
-
Si può sapere perché sei sempre così tranquilla? – nell’affollato corridoio
sembrava non essere rimasto abbastanza ossigeno per tutti gli studenti che lo
attraversavano. Sembrò quasi un miracolo riuscire a raggiungere l’uscita che
dava sul parco, fra le spinte e i lividi che avevano dovuto procurare e
ricevere per giungere fino a lì. Slash stava osservando i lineamenti del volto
della propria ragazza, incredibilmente rilassati dopo quella difficile
verifica. Michelle gli lanciò uno sguardo di sufficienza, come se la risposta
fosse stata ovvia. – Perché, mio caro scimmione, io ogni tanto studio, a
differenza di qualcun altro. – in risposta alla frecciatina della brunetta, il
chitarrista iniziò a mugugnare qualcosa che assomigliava vagamente a un “bocciata”, guadagnandosi un’occhiata assassina da parte
della ragazza. Il gruppetto rise di quell’assurda scenetta, che tanto aveva a
che fare con un litigio a sfondo coniugale, iniziando ad attraversare il parco
verso il Dipartimento di Scienze. – Beh, noi anatomia l’abbiamo ripassata. –
Duff non si accorse dell’astio nello sguardo di Maxie, che dietro lui ed Adrien camminava impettita fingendo come di consueto
che non esistessero. La rossa, invece, rispose alla sua battuta con un’occhiata
maliziosa che a nessuno sfuggì, come la mano del ragazzo sul suo fianco.
Andava
tutto bene. Era una mattinata di fine febbraio, e ciò non poteva che
significare l’inizio del caldo torrido per la capitale della California: alle
colonne del porticato sotto il quale ogni studente ragionevole si rifugiava
alla ricerca dell’ombra erano affissi i primi avvisi sulla gita che avrebbe
interessato le classi dell’ultimo anno, in Canada. Da quando Jason, Damien e
Meredith se n’erano andati, quest’ultima lasciandosi in America un compiaciuto
Izzy, erano sprofondati in una sorta di calma apparente pronta a sbriciolarsi
in qualsiasi momento, ma ancora sorprendentemente in piedi. C’erano stati
attimi in cui sia Duff che Adrien avevano temuto che un colpo di frusta troppo
forte avrebbe fatto crollare quel legame nato fra loro
che definivano genericamente relazione,
ad esempio al momento di tornare a scuola. Ma Robin Keenan s’era trascinata tra
loro con il fantasma del ricordo del ballo scolastico soltanto durante le
noiose lezioni di letteratura. La sorprendente reazione della ragazza, che
sghignazzava di continuò quando la professoressa si
trovava costretta ad interrogare il biondino e questi si dimostrava agitato e
talvolta balbuziente, non era riuscita ad eliminare il dubbio non del tutto
dissipato dalla testa del ragazzo. Pur essendo ormai venuto a conoscenza della
natura dell’amicizia fra la donna ed Adrien, non s’era ancora azzardato a
chiedere conferma sull’argomento di litigio fra le due, che secondo la versione
della rossa ancora non s’erano riconciliate. “Io” era un chiodo fisso che non riusciva a scacciare, ma che aveva
scoperto di essere in grado di ignorare. Andava tutto maledettamente bene.
-
Che si fa stasera? – una voce alle loro spalle li fece sobbalzare dallo
spavento e, a seguire, imprecare in maniera molto colorita. Steven aveva fatto
la sua comparsa con il consueto atteggiamento da giullare di corte ed un
sorriso pacifico stampato sul volto da bambino. Con un gesto amichevole, aveva
passato un braccio attorno alle spalle di Linda, che si ostinava a mantenere il
proprio volto nascosto tra la coltre di lunghi capelli. – Niente di speciale,
OK? Io sono distrutta, e non posso gestire ogni giorno in modo da potervi
donare lo sballo assoluto. – come al solito, la determinata Michelle prese in
mano la situazione prima di qualunque altro, fortunatamente senza accorgersi
dell’occhiata interessata di Slash al deretano di una cheerleader che passava in
quel momento. La proposta venne subito accettata da Maxie, che si impegnò per
dare man forte all’amica. – Ho voglia di una serata come quelle dell’estate scorsa, quando eravamo solo noi al magazzino. – nessuno si
accorse delle velate frecciatine lanciate dalla biondina, che intanto aveva
abbracciato scherzosamente Michelle, ad Adrien, che comunque non dava segno di
essere turbata. Soltanto un lampo, che i loro occhi seppero notare con
precisione, scorse fra loro, allargando il divario insostenibile che giaceva
fra le loro mentalità. Non aveva fatto niente per nasconderle, in quegli ultimi
mesi, che per lei sarebbe comunque rimasta un’intrusa ed una sgualdrina.
L’importante era che nessuno degli altri se ne accorgesse e che, soprattutto,
l’esistenza di Linda rimanesse limpida e serena: quello era il compromesso che
manteneva l’equilibrio. – A che ora ci troviamo? -.
-
Non vieni? – si accorse soltanto dopo alcuni secondi che la presa della mano di
Duff intrecciata alla propria stava esercitando una pressione maggiore di
quella usata per solcare il corridoio affollati della
Renton. Volse lo sguardo di scatto verso quello del ragazzo, un’espressione
leggermente confusa che stonava con quella di noia arricchita da una punta di
malizia che si portava dietro. Incredibilmente, il ragazzo intuì immediatamente
quale fosse la distrazione che l’aveva bloccata davanti alla porta del
laboratorio di chimica. Segna degnare la coppia di uno sguardo, la donna stava
attraversando il corridoio con la cartellina austera stretta fra le mani. Nei
tratti del volto di Robin Keenan però si leggeva quanto le costasse mantenere
una certa dignità davanti a quei due, che in quel periodo rappresentavano il
fulcro delle sue angosce. Quando il ticchettio delle scarpe della professoressa
sparì nei meandri della scuola, Duff si azzardò a parlare ancora. – Tutto bene?
– era una situazione strana, ma facile da nascondere.
Il silenzio di Adrien, che lui stesso aveva smussato riemergendo dalle briglie
che la ragazza gli aveva precedentemente messo, non aveva lasciato intuire
alcuna novità nel suo rapporto con la donna. Era però troppo chiedere che
quella ragazza non fingesse in quelle situazioni. Forse, aveva imparato a
conoscere abbastanza le sue reazioni da sapere almeno quando era il caso di lasciar
correre una discussione inutile. – Certo. – dopo aver scrutato il cipiglio
sicuro e rilassato della ragazza, il biondino le sorrise e la trascinò
nell’aula.
Non
era più così divertente. Ammirando il proprio riflesso allo specchio nella luce
esplosiva che proveniva dalle vetrate che tanto adorava, Adrien non trovò un
buon motivo per sorridere alla propria stupenda immagine. Quando quella storia
era ricominciata, quando le lezioni erano riprese, era stato sicuramente un
piacevole passatempo stuzzicarla. Il senso di potere che sentiva scorrere nelle
proprie vene quando intuiva, dalle mosse oculate ma completamente sbagliate di
Robin, era straordinario. Ma Adrien non era tagliata per la routine, e quel
giochetto era finito per diventarne parte: era certa che la donna non sarebbe
mai stata in grado di lasciarsi alle spalle quell’umiliazione e il suo
imbarazzo rigido e controllato era patetico, ma era finita per diventare noiosa. La ragazza si passò una mano fra
i capelli rossi, scompigliandoli appena alla ricerca di un look per sbalordire
anche nella serata “vecchio stile”, come avrebbe detto la ridicola Maxie. Ma,
propria quando stava per raggiungere la soluzione a quella delicata decisione,
udì la porta della propria camera da letto aprirsi, reagendo con un sussulto. –
Brad mi ha dato ancora buca! E’
ridicolo! – si chiese da chi Annalou avesse imparato a recitare così male: da
lei, no di certo. Perché, quando la ragazzina fece il proprio sgradito ingresso
nella stanza per tuffarsi letteralmente sul grande letto, era stato subito
chiaro lo scopo della sua visita, oltre la consegna della dose di adulazione
giornaliera: “portami con te a conoscere i tuoi amici sicuramente
fighissimi”. Un sospirò fin troppo rumoroso giunse
alle orecchie di Adrien, che non distolse lo sguardo dallo specchio.
-
Beh, digli che se riporta lo scontrino c’à una discreta possibilità che riceva
indietro la caparra. – quella battuta, pronunciata con una voce così
disinteressata, venne soffocata e bellamente ignorata da una nuova protesta della
ragazzina sdraiata sul letto, che non colse il sarcasmo della sorellastra e non
si preoccupò nemmeno di spiegarle chi diavolo fosse Brad. Naturalmente, la
mancanza di quell’informazione non toccava minimamente la rossa. – E stasera
Mary ha annullato gli inviti per le ragazza del
circolo di nuoto sincronizzato per la festa da debuttante della cugina della
sua amica di Santa Monica, una certa Betty, e la scusa è che altrimenti sarebbe
stata sovraffollata! Me ne dovrò
stare in casa, tutta sola a sorbirmi qualche soap opera… - ma c’era davvero un
legame di sangue fra loro? L’unica festa da debuttante che Adrien si era
costretta a sorbire era stata la propria, a sedici anni, e naturalmente s’era
premurata di rinchiudersi nelle cucine della villa affittata da sua madre a
bere whiskey con una cameriera portoricana. Bei tempi. – Adry, oh, stai così
bene con i capelli raccolti in quella maniera. – la ragazza, ancora seduta
davanti allo specchio, lasciò andare le ciocche di capelli che aveva sollevato
con le dita in una parodia di chignon, reprimendo un brivido. La superficie
riflettente le forniva l’immagine del sorriso della sorellina, ricco di una
speranza che alimento il fastidio pulsante che aveva sempre provato nei suoi
confronti. Usurpatrice. Scoprendo i denti perfetti in un’espressione benevola e
accomodante, con un movimento eccessivamente flessuoso del busto si voltò a
guardare Annalou, che attendeva la risposta alla sua implicita domanda
nonostante i rifiuti che in una vita aveva accumulato alle proprie spalle. – Ti
va di uscire con me stasera? – Adrien non ascoltò nemmeno i gridolini eccitati
della sorellina, che batteva le mani come una svampita davanti alla proposta
che da sempre attendeva. Si sarebbe assicurata di trasformare quella serata
nella più brutta di quell’inutile vita.
Imprevedibile.
Era un vocabolo che rientrava spesso nel vocabolario per descrivere la loro
vita quotidiana, se quei cinque ragazzi fossero stati abbastanza svegli da
utilizzare in ogni situazione un lessico abbastanza ampio. Da quando si era
messo con quella strana ragazza poi, Duff aveva imparato a non meravigliarsi
più davanti a niente. Ma quando vide la moto nera e ormai familiare percorrere
la strada del magazzino, non poté fare a meno di stupirsi per le braccia esili che attorniavano la vita di Adrien alla
guida, nonostante la rossa ne avesse fatte di peggiori. Il motivo per cui il
ragazzo si stupì così era tanto futile quanto insospettabile. Era decisamente
improbabile che una persona affascinante come Adrien fosse priva di amici e
vita sociale: la gente la salutava in molti dei luoghi in cui il gruppetto
passava la serata, e a scuola salutava tutti e si mostrava parzialmente
cordiale, nella sua aurea di mistero. Ma, da quando avevano iniziato a
frequentarsi, la rossa non aveva mai mostrato il bisogno di incontrare amiche
che non vedeva da tanto, staccarsi dalla compagnia che aveva trovato in loro
per altri o passare del tempo con una persona cara ma a Duff sconosciuta. Ecco
perché quando si rese conto per la prima volta, appoggiato al portellone del
magazzino insieme ai propri coinquilini,
della nuova arrivata, iniziò a covare un genere di sospetto non troppo nuovo ai
suoi pensieri. – Ehi! – agitando debolmente la mano, richiamò l’attenzione
delle due figure, scese in quel momento dalla moto parcheggiata sul ciglio
della strada.
-
Ehi, Adrien, non ci presenti la tua amica? – uno dei fatti più strani di quella faccenda era che l’ospite speciale della ragazza
quella sera sembrava essere uscita dal club delle matricole di qualche scuola privata locale. Se si escludeva l’espressione sognante e un tantino stupida dipinta sul
volto della ragazzina, il suo abbigliamento costoso e il suo aspetto ordinato
le conferivano l’aspetto di una piccola ereditiera. E nel ghigno della rossa
c’era qualcosa di non troppo rassicurante. – Mia sorella, Annalou. – rispose
coincisa ad Axl, che s’era già lanciato negli onori di casa con la ragazzina,
che annuiva entusiasta. Furono quelle parole a sbloccare l’atmosfera creatasi
nel drappello che aveva atteso l’arrivo di Adrien: Maxie, che aspettava
appoggiata con la schiena al muro dall’altro capo dell’entrata al magazzino
rispetto al biondo, inghiottì un altro sorso della propria birra prima di
tornarsene dentro, seguita a ruota da un’indifferente Linda. Michelle si
precipitò a bloccare Adrien prima che questa avesse tempo di scambiare un paio
di intimi saluti col proprio ragazzo, iniziando a sproloquiare su chissà quale
argomento da donne, mentre Izzy osservava la scena
apparentemente disinteressato, ascoltando distrattamente le chiacchiere
di Steven e di altri due ragazzi loro amici. E Annalou sembrava essere appena
atterrata nel Paese dei Balocchi.
-
Tu allora sei il bassista! – lo strillo che seguì il languido bacio di benvenuto che
si scambiarono Adrien e Duff però riuscì a stupire anche la rossa: il suo
sguardo gelido si spostò subito sulla figurina che additava in maniera
indecente la sua sagoma allacciata a quella del proprio ragazzo. – Tu come lo
sai? – domandò di getto, quasi aggressiva davanti alla notizia evidentemente
trapelata. Senza notare l’occhiata di sbieco che le lanciò il biondino, osservò
la ragazzina alzare le spalle con noncuranza. – Ho chiesto in giro! Che
importanza ha? Beh, che si fa? C’è una festa? – Irritante. Usurpatrice. Aveva meditato dopo averle chiesto di getto di
seguirla a quella che secondo Maxie avrebbe dovuto essere una festicciola per
pochi intimi. Inizialmente, il senso che vi aveva trovato era stato una
terribile voglia di farle passare le pene dell’inferno, che lei aveva
interpretato nella maniera sbagliata. Mentre Annalou otteneva il permesso dalla
loro reticente madre d’intrattenersi fino a mezzanotte con gli amici di Adry, aveva però elaborato la
situazione. Oh, non aveva sbagliato, non aveva sbagliato nulla. Aveva colto
l’occasione perfetta per innescare un nuovo meccanismo di divertimento. Così,
come tante volte era successo nella sua vita, Adrien aveva sorriso a sé stessa,
ripescando dalle assi mobili sotto il suo letto due bustine perfettamente
sigillate che aveva guardato con una luce indefinibile. Annalou non aveva mai
fatto mistero del desiderio cocente di essere come la sorella maggiore. Bene,
il suo desiderio sarebbe stato esaudito.
-
Quindi tu sei figlia di Niven, il manager musicale? – c’era un’unica parola per
descrivere tutto quello ed era paradiso:
mentre quel ragazzo da urlo, che le era stato presentato come Axl, le
appoggiava un braccio sulle spalle su quel divano così rock n’roll, Annalou si guardava attorno notando la miriade di
differenze che c’erano fra il mondo di Adrien e quello che aveva sempre
frequentato. Al posto di tavole imbandite, vestiti firmati e conversazioni
pompose, la sorella maggiore, il suo idolo ed esempio, frequentava ambienti
così… pericolosi, modaioli, divertenti, irrimediabilmente cool. Ogni persona presente nella stanza aveva una personalità che
colpiva e conquistava, lontana dai saloni sfarzosi che si era abituata ad
accettare. Ma d’altronde, non c’era qualcosa che Adrien facesse che non fosse
perfetta: fin da quando aveva imparato a camminare, la ragazzina aveva cercato
di seguire le orme del fascino della rossa, guardandola sempre con occhi grandi
e sognanti. Anche in quel momento, seduta sull’altro divano insieme a quel suo
ragazzo così sexy, a pomiciare a
ridere con la sua naturale grazia, le visione dilatata
delle sue qualità giungeva ad Annalou come monito ad imitarla. – Ehi, parlo con
te! – ma il ragazzo così tremendamente carino seduto al suo fianco reclamava la
sua attenzione, con un sorriso un po’ incerto davanti a quello strano
comportamento. La ragazzina rispose con un trillo di voce, quasi saltando da
seduta sul divano scombussolato da un passato di notti folli. – No. Mio padre
dirige una catena di banche di Chicago. Non lo vedo da due anni. Ma Alan è un
grande! Voglio dire, è così cool! –
Axl ancora la fissava come se fosse stata uno strano fenomeno paranormale, ma
la sua mano aveva iniziato una lenta risalita sulla coscia di Annalou, fasciata
da un paio di costosi jeans.
Duff
squadrò con insistenza la sorella della ragazza che teneva fra le braccia,
ancora perplesso: s’era voltato quando l’aveva vista improvvisamente iperattiva
nelle sgrinfie di certo non raccomandabili di Axl, ma non aveva mai discostato
veramente l’attenzione dalla sua presenza. Solo le labbra esigenti di Adrien lo
richiamarono alla realtà, richiedendo che buona parte del suo cervello si
concentrasse su esse. Ma c’era qualcosa di strano, e quel pensiero era tornato
troppe volte in quella serata ad affliggerlo. – Si può sapere che ti prende? –
quando con un gesto istintivo scostò la mano della rossa dalla cintola dei
propri pantaloni però iniziò a dubitare seriamente della propria sanità mentale. La domanda indagatrice della ragazza fu
solo il riflesso dei pensieri di entrambi: lanciando una nuova occhiata alla
figuretta eccitata di Annalou, il biondino scosse la testa. – Niente ma… - ma
era troppo innaturale, l’atteggiamento freddo e insofferente che la rossa stava
dimostrando per la propria sorellina. Troppo poco protettiva, la mancanza di
attenzioni verso il lento lavoro di conquista che Axl stava attuando sulla
biondina. Perché l’aveva portata lì, ancora abbastanza piccola da poterla
proteggere in qualche modo dai loro atteggiamenti fuori dei
limite, se quell’odio che le dimostrava era vero? Il filo dei suoi pensieri fu
interrotto proprio dalla voce della ragazzina, che richiamò tutti.
All’inizio,
tutti pensarono che si fosse sbagliata a pronunciare le parole. Ciò che la
ragazzina aveva praticamente gridato era stato praticamente incomprensibile. Poi
però il bassista avvertì Adrien irrigidirsi nel suo abbraccio, e i tratti del
suo volto angelico e regolare farsi duri, carichi di un’ira che Annalou
sembrava non vedere. - Detta är fullständigt absurt. Nu käften. – ogni sillaba mormorata a denti stretti
sembrava essere stata immersa in un mare di ostilità, che a dispetto delle
rigide regole di autocontrollo che solitamente la ragazza imponeva a sé stessa
trasparivano anche dai suoi gesti e dal suo viso. Svedese. Qualcosa che univa
quelle due entità diverse fino ad isolarle da chi non possedeva la conoscenza
di quella lingua, e che evidentemente disturbava la rossa tanto quando
soddisfaceva la sorellina, tornata a bearsi delle attenzioni ambigue di Axl.
Prima che Duff potesse chiederle se ci fosse qualcosa che non andasse, il
sorriso era già tornato a piegare quelle labbra ad arco di Cupido, intriso del
suo fascino poco rassicurante. – Ti va di scaldare un po’ l’atmosfera? – era
sicuramente l’ultima domanda che il ragazzo si sarebbe aspettato. Ma, quando dalla
borsa di pelle e borchie della ragazza affiorarono due inequivocabili bustine
trasparenti, il suo cervello riprese a ronzare nuovamente frastornato. In un
angolo, dove Slash, Izzy, Maxie e alcuni dei ragazzi invitati avevano formato
una bisca clandestina, tutte le teste si alzarono contemporaneamente verso ciò
che racchiudevano le dita di Adrien. Nel posto in cui Michelle e Steven stavano
chiacchierando amabilmente dei fatti propri con Linda ed un ragazzo che
mostrava parecchio interesse per quest’ultima pure.
C’erano
stati momenti, nella breve vita di Annalou, in cui la ragazzina non aveva
seriamente trovato parole per descrivere la grande ammirazione che provava per
la sorella maggiore. Fin da quando i pargoli della famiglia erano stati tre,
gli occhi con cui guardava Adrien erano diversi da quelli riservati a Reese,
comunque punto di forza nella loro cerchia di fratelli. Sua madre non era mai
stata assente, almeno con lei, e suo padre, per quanto distante e in
competizione con il ricordo nebuloso di un uomo morto che l’aveva contagiata di
riflesso, aveva cercato di darle tutto finché il matrimonio con Lisette non era
andato a rotoli. Ma, per Annalou, c’era sempre stata solo ed esclusivamente
Adrien. Da bambine era un’ancora a cui si era aggrappata con forza davanti alla
paura che quel mondo così grande incuteva al proprio carattere fragile, fino ad
ignorare i tentativi della maggiore di sottrarsi ad un legame troppo intimo.
Quando era scomparso Reese, quel sentimento nei confronti di Adrien era mutato
ancora. Quando al funerale dalla bara vuota di cui condividevano il ricordo
erano state circondate da persone piangenti e dispiaciute, Adrien non aveva
versato alcuna lacrima. Era rimasta impettita, conservando la propria beltà di
fronte al dolore, e in quella sofferenza celata accuratamente Annalou aveva
scorto una forza per cui aveva provato invidia, ma anche rispetto. Idolatria:
il rapporto con la sorella maggiore da allora era stato fondato solo su quello.
E ad entrambe era sempre bastato.
Ma
quelle cose fra le sue mani… Tutti
improvvisamente attorno a lei erano diventati entusiasti, si protendevano verso
Adrien con deferenza più accentuata di prima, mentre
questa si beava di quelle attenzioni con un largo sorriso. Persino la biondina,
quella che stando alle parole di Axl era lesbica e che aveva guardato male sua
sorella per tutta la serata, adesso la ringraziava dopo aver afferrato due
minuscole pillole bianche. La felicità negli occhi di Annalou s’era fatta
vitrea, falsa mentre cercava di non far vedere il tremito delle sue mani. Non
le era mai piaciuta, la droga. La spaventava, esattamente come tutto ciò che le
era sconosciuto e che la poteva alterare: perciò quasi sussultò quando il bel
ragazzo che le aveva tenuto compagnia per tutta la serata tornò da lei con un
largo ghigno. – Babette, tua sorella sta tremando come una foglia! – seguì a
quelle parole una risata sguainata a cui riuscì a rispondere con una smorfia
che avrebbe potuto essere scambiata per un sintomo di
entusiasmo solo per sbaglio. Gli occhi grigi della sua sorellona, della sua
grande eroina, si fissarono si di lei con gioia maligna, ardendo come chiare
braci. – Ma che stai dicendo! Annalou ci è abituata, vero? Annalou si diverte
un sacco con i suoi amici! – e per un attimo scorse oltre la buccia di cui
quella ragazza improvvisamente così perfida era rivestita. Fu solo un attimo,
ma bastò per farle comprendere quale fosse il vero scopo di Adrien, o di
Babette, come l’aveva appena chiamata Axl. Davanti a quel ghigno infame,
Annalou seppe soltanto sorridere di riflesso, ascoltando la paura farsi strada
nei suoi pensieri.
Attorno
a lei presto si creò il delirio: sul divano dove prima Adrien e Duff si erano
scambiati tenerezze tipiche degli innamorati, gli stessi erano distesi e
sembravano aver perso ogni senso del pudore, la mano del ragazzo sotto la gonna
a pieghe della rossa, che rideva. Maxie e quella ragazza a prima vista timida e
riservata che si chiamava Linda avevano allestito uno spettacolino per gli
avventori del magazzino, e stavano pomiciando sotto gli occhi di tutti.
Michelle, la brunetta che aveva accolto Adrien con tanto affetto, stava
sbraitando in maniera disumana contro il proprio ragazzo che non aveva l’aria
di stare ascoltando attentamente, concentrato com’era sul cucchiaio arrugginito
su cui Izzy stava passando un accendino. Steven suonava la batteria con foga:
era stato il primo a favorire della scorta che la rossa aveva portato al
magazzino. E forse sarebbe stato anche bravo, se il ritmo con u cui picchiava
violentemente le proprie bacchette di legno sulla batteria sistemata vicino
alle brande non fosse uscito da un contorto rompicapo che un acido stava
disegnando nella sua mente. “Tesoro, tu non prendi niente?
“ ad Annalou sembrava che qualcun altro le avesse rivolto
ancora quella viscida domanda, come era successo pochi minuti prima. Ma
in quel momento tutti erano troppo presi dallo sballo per badare ad una
ragazzina spaurita che osservava quelle scene con disgusto. Voleva andarsene.
-
Ehi, piccola Babette. – l’aveva trovato veramente molto fico, appena arrivata,
ed era stata lusingata dal ricevere tutte quelle attenzioni da un ragazza bello e più grande di lei. Ora, mentre lo
guardava avvicinarsi alla sedia mezza rotte dove aveva
trovato rifugio, non riusciva a fare a meno di chiedersi come fosse stato
possibile per lei essere stata così stupida. – Perché non vieni a divertirti
con me? Come mai non ho preso anche tu qualche pillolina magica? – le pupille
ridotte a punte di spillo parlavano per lui, mentre quelle domande insinuanti e
ambigue si perdevano nell’aria improvvisamente soffocante. Annalou represse un
nuovo tremito, senza riconoscere bene cosa realmente la spaventasse in quel
momento. – La mamma mi ha sempre detto di non accettare caramelle dagli
sconosciuti. – in un attimo di sfrontatezza, le parole che più sarebbero state
adatte a quella sorella che sembrava così lontana le uscirono di bocca. Pochi
secondi dopo, temette di dover lottare contro le conseguenze della propria
sfacciataggine, poi si rese conto che il sorriso nei tratti quasi femminei di
Axl s’era allargato. Era troppo fatto per poter comprendere la sfida dietro
quell’affermazione apparentemente innocente. Quando i suoi passi lo portarono
ancora più vicino alla figura della ragazzina, questa chiuse gli occhi e cercò
di evadere nel buio dalla prigione in cui quella sera la sua ingenuità l’aveva
rinchiusa.
Quella
notte Annalou perse qualcosa di molto importante. No, non la verginità come
qualsiasi persona andrebbe a pensare in una situazione del genere: quella se
l’era già presa la Scandinavia e un bruto dal fisico mozzafiato che, ironia
della sorte, si chiamava Mikael. Sotto il peso del corpo di Axl però, la
ragazzina si rese conto di aver per la fiducia,
insieme alle lacrime silenziose che era sfuggite ai suoi occhi. Le sembrò, ad
un certo punto di quella serata da incubo, di scorgere la sfumatura di grigio
degli occhi di Adrien e, se anche quella visione così reale fosse stata
un’allucinazione dettata dalla malinconia, non se ne sorprese. Per tutti quegli
anni aveva vissuto cercando d’imitare la gabbia dorata nella quale, ora lo
sapeva, la rossa s’era rinchiusa, senza riuscire mai a vedere oltre quella
barriera luccicante: se ne fosse stata in grado, se avesse veramente avuto
accesso alla reale entità della sorella maggiore, allora forse sarebbe stata in
grado di scorgere l’intensa fragilità che spingeva Adrien a distruggere tutto
ciò che la incontrava. E, anche se comunque non avrebbe potuto far niente per
starle vicino, l’avrebbe compresa al posto di riempire cornici di foto rubate
nel tentativo di vedere sé stessa in quel fascino potente quanto un’arma.
Quando, poche ore dopo, si ritrovò seduta a terra con la schiena contro il muro
di quello sporco magazzino, rifletté su quella rivelazione e sul cambiamento
che essa aveva dettato dentro di lei: era troppo tardi per tornare indietro.
Adrien Miller, come ringraziamento per gli anni in cui era stata ammirata e
rimirata con devozione, le aveva dato l’unica cosa che sesso, qualche
bicchierino e genitori assenti non erano riusciti a donarle: la sensazione di
essere abbastanza grande per affrontare il mondo e di
essere sempre troppo piccola per vincere contro di esso.
-
Allora, piccola Annalou. – un paio di occhi verdi, appartenenti ad un corpo
disteso di sbieco sul divano, osservarono la rossa avanzare verso il punto in
cui la ragazzina era rannicchiata, per poi piegarsi sulle ginocchia e
raggiungerla a terra con un sorriso folle, maligno. – Ti sei divertita? E’ uno
sballo, vero? Terribilmente divertente, vero? – tutte quelle domande incalzanti
procurarono un brivido che scosse Duff per tutta la lunghezza della spina
dorsale, la sensazione di pesantezza che gli impediva di muoversi e di pensare
su ciò che stava accadendo. – Adesso sai cosa si prova ad essere come me. Non è
una festa come te l’eri immaginato, almeno non per te: sei troppo debole per
questo. Era quello che hai sognato per anni, ma non sarai mai abbastanza per essere me. –
c’era perfidia nelle parole di Adrien, mentre gli occhi tempestosi non si
staccavano da quelli grandi e vitrei di Annalou. – Torna nel vero Paese dei Balocchi, Annalou. Tutto
questo non fa per te, io non faccio
per te. Condividere un paio di geni non ti renderà mai migliore di quella che
io sono. – detto ciò, la ragazza si rialzò e, guardando la figura a terra
dall’alto dei suoi tacchi, le fece cenno di rialzarsi. Nessuna delle persone in
quella stanza, quasi tutte messe fuori gioco dalla pesante consumazione di
droga della serata, avrebbe sentito comunque i rintocchi di un ipotetico orologio
che batteva la mezzanotte. Forse solo Michelle, che
con uno sforzo immane aveva rubato le chiavi della macchina di Maxie e si
accingeva ad andare a lavoro. Le due sorelle, che davvero non avrebbero potuto
essere più diverse, si dileguarono nella notte.
Senza
dare a vedere alcuna voglia di alzarsi da quel divano sfondato, Duff fissò
ancora per un po’ il punto in cui quelle due anime s’erano confrontate, dopo quella che doveva essere stata una vita di bugie. Da quella
posizione, il biondino riusciva a vedere anche Izzy, che si agitava debolmente
in preda a chissà quale incubo, steso a terra. Sentiva la mente stranamente
vuota, come compagnia soltanto l’eco delle parole che aveva udito. “Mai migliore di quella che sono io”.
Quante volte l’aveva pensato, davanti alla bellezza aristocratica e ai modi
affascinanti di quella strega. Se forse gli fossero rimasti alcuni neuroni dopo
l’intervento dell’eroina, che prendeva da poco e saltuariamente ma che era
entrata in circolo nel suo sangue quella sera, forse si sarebbe alzato e
sarebbe scappato a gambe levate, il più lontano possibile dai segni di
squilibrio che Adrien emanava. Invece, si limitò ad alzare la testa a e a
voltarla dall’altra parte, a fissare la tappezzeria sciatta del divano dove era
sdraiato a pancia in giù. Abbassò le palpebre sulle iridi verdi, stanco come
non mai, e cedette al sonno arrendevole per cercare di fuggire alle frasi
ricorrenti che lo tormentavano. Non sapeva che anche quelli che erano i suoi
amici e sarebbero stati i compagni per un’avventura più grande stavano, in quel
momento, attraversando una crisi da acido come lui, ognuno coi suoi demoni. Si
abbandono alle braccia di Morfeo, cercando conforto e, nel sogno, Adrien. “Mai migliore di quella che sono io”.
“
Capita a volte di sentirsi per un minuto felici,
non fatevi cogliere
dal panico:
è questione di un
attimo e passa. ”
(GesualdoBufalino)
NOTE
DELL’AUTRICE
Come
sapete, sono passata ad un metodo di risposta alle recensioni più pratico e
veloce, dati i problemi che la maniera che ho sempre utilizzato si stava
rivelando un tantino problematica. Ciò mi permette di
eliminare un problema di tempo.
Allora,
capitolo un tantino statico all’inizio, giusto per fare il punto della
situazione dopo le varie rivelazioni degli scorsi
capitolo. Spero di non essere noiosa, mi rendo conto che in questa storia il
corso degli eventi è un po’ lento, ma a differenza di Love willtearusapart
(che come trama era anche più lunga perché comprendeva gli eventi dell’arco di
due anni) questa storia se la prende molto con calma.
Mi
rendo conto che Annalou non è stata citata granché, questo perché per Adrien la
sua esistenza conta poco, ve ne sarete rese conto. La
caratterista che bisogna notare, è che la nostra rossa combina il suo gran
casino alla sorella perché tormentare Robin la
stava annoiando. Tenetelo bene a mente.
All’inizio,
ho scelto lo scherzo del serpente perché è tipico dei film americani, e mi
sembrava si adattasse molto a Steven.
Il ripassino di
anatomia è una citazione
plurima, presente in molti film. L’ultimo che mi viene in mente in cui c’è un
accenno a ciò è il film “La meglio
gioventù ”, che consiglio caldamente. Grande
capolavoro italiano.
Nel
punto in cui si parla di Annalou, più o meno il terzultimo paragrafo, la
sequenza con cui si descrive lo stato emotivo della poveretta non è totalmente
di mia invenzione. Mi sono ispirata ad un pezzo del libro “La banda dei brocchi ” di Jonhatan Coe,
in cui si parla di Doug. Il nome del ragazzo scandinavo di Annalou, oltre ad
essere un ovvio riferimento all’attuale ragazzo della sorella maggiore, è anche
un implicito tributo al protagonista del celeberrimo libro “Uomini che odiano le donne ” di StiegLarsson.
Passiamo
alla dimostrazione della mia vastissima (-.-”) conoscenza
dello svedese, ovvero al dialogo in lingua delle sorelle. La traduzione della risposta di Adrien è “Questo è assolutamente
ridicolo. Adesso taci”. Ciò mi
da modo di dare il via ad un nuovo sondaggio, ovvero: cos’ha chiesto o detto
Annalou alla nostra bella protagonista? Non ci sono indizi che possano
aiutarvi, perciò non pretendo che indoviniate, anche perché è qualcosa mi molto stupido. Voglio però sapere che cosa ne pensate,
magari ciò potrebbe darmi idee per degli sviluppi futuri.
Quasi
dimenticavo! Vi lascio il nuovo disegno di Sylvie Denbrough, stavolta su Adrien
in versione angioletto che schiaccia il mondo fra le sue mani!
Capitolo 14 *** Capitolo 14 - Time is running out ***
Naive
Naive
Capitolo 14 – Time is running out
“ And our time is running out,
you
can’t push it underground,
we
can’t stop it screaming out. ”
(Muse – Time is
running out)
Folla
in delirio. Alcol a volontà. Altoparlanti sul punto di rompersi tanto forte era
la musica. Questi erano gli elementi che determinavano il futuro successo di
una band emergente in quegli anni favolosi di eccesso e baldoria, e Alan Niven
lo sapeva bene: era ciò che cercava in ogni gruppetto che si presentava alla
sua porta a chiedere un aiuto. E quella sera, dall’alto della sua tribuna
isolata, con un bicchiere di whiskey con ghiaccio fra le mani, era sicuro che a
fine concerto sarebbe stato invaso dalla solita,
motivante soddisfazione. – Che ne dici, Ted? – il suo
assistente temeva sempre il momento della serata in cui il suo capo avrebbe
chiesto il suo parere. Dalla faccia da poker di quell’uomo che incuteva così
tanta soggezione non si riusciva a percepire nulla del suo stato d’animo,
perciò ogni risposta poteva essere quella sbagliata. Ted deglutì rumorosamente
prima di rispondere – Mi sembrano bravi, ma hanno ancora tanta strada da fare…
- era la frase jolly, che consentiva al povero assistente di non schierarsi da
alcuna parte. Si chiese se fossero davvero le luci abbaglianti e roventi della
sala a imperare la sua fronte alta di sudore, e non l’ansia che il capo gli
suscitava. Alan unì le punte delle dita portando le mani davanti alla bocca, in
un gesto che mozzò il respiro al povero Ted dallo spavento. Aveva sbagliato, sicuramente.
– Vai a farti dare il loro recapito. – per una volta, pensò Niven, la sua
figliastra gli era stata utile.
Non
avrebbe mai capito perché quei tali spagnoli avessero sprecato tempo prezioso
della loro vita ad inventare un’altra lingua da aggiungere alle altre che già
esistevano. Alla terza riga del quinto capitolo di quell’insulso libro di testo,
Duff avrebbe scambiato volentieri tutto l’oro del mondo per potersene andare da
quella biblioteca che puzzava di vecchio e andare a schiacciare un doveroso
pisolino da qualche parte, lontano da lì. Alzò lo sguardo sulla ragazza seduta
di fronte a lui, cercando il suo viso con la stessa smorfia di una donna sul
punto di partorire. Ma il viso di Adrien era celato dalla sua fitta coltre di
capelli rossi. – Mi vuoi spiegare perché siamo qui? – non era nello stile di
quella matta che aveva come ragazza, trascinarlo a studiare, proprio lei che probabilmente non aveva toccato libro da
quando l’avevano espulsa dal college privato che aveva frequentato. Lui l’aveva
seguita soltanto perché colto alla sprovvista davanti ad un improvviso slancio
di passione verso lo studio, e probabilmente non si sarebbe opposto nemmeno se
avesse conosciuto le intenzioni della ragazza quando lo aveva sbatacchiato per i corridoio della scuola, quel pomeriggio. – Perché –
rispose lei, con voce stranamente assorta – dobbiamo prepararci per il compito
in classe. – non aveva nemmeno staccato gli occhi dal volume che stava
leggendo, per parlargli. Duff sbuffò, intenzionato a stuzzicarla ancora per
poter guadagnare tempo prima di essere costretto a tornare allo spagnolo. Per
lo meno, Linda faceva qualche sforzo per invogliarlo a studiare. – Ecco, questo
non è un buon motivo. -.
“Che cos’hai fatto a mia figlia?!”. Da qualche parte in quel triste luogo, la
bibliotecaria intimò al biondino di tacere al posto suo, in modo da non dover
interrompere le fantasie di quel momento. Adrien represse una smorfia di
disgusto, mentre le parole che Lisette le aveva praticamente urlato
riecheggiavano nella sua testa. Lo scarso appetito di Annalou alla colazione
dopo la serata trascorsa con gli amici della sorella aveva messo in allarme la
vecchia, che non aveva esitato a prendersela con Adrien quando era stato
evidente che la ragazzina non avrebbe proferito parola su quanto successo. La
ragazza strinse i denti, ignorando le proteste del proprio ragazzo su quella giornata
inaspettata di studio. Come se lei non fosse stata sua figlia, come se lei
fosse stata una perfetta estranea che aveva osato scalfire la luce dei suoi
occhi: se Lisette aveva creduto di farle paura, s’era sbagliata di grosso.
“Reese non era tuo figlio quando è
stato il momento.” – Ehi, mi stai ascoltando? – quando però il tono di voce di
Duff era mutato da insistente a preoccupato, la rossa
aveva alzato gli occhi dalla parola stampata sul libro di spagnolo, la stessa
che in dieci minuti aveva letto tre volte senza comprenderne il reale
significato. – Sì, sì, certo che ti ascolto. – mormorò, fissando il volto
perplesso del ragazzo. Adorabile. Il
motivo per cui l’aveva trascinato lì era stata la pura vendetta.
Maestrina era un epiteto che s’addiceva molto alla
figura della piccola Linda, che sembrava non aver afferrato il discorso di
Adrien quando le aveva intimato di farsi da parte nella sua relazione con Duff.
Almeno, così la rossa la pensava. Fatto sta che, dopo essersi fatta raccontare
da Michelle i dettagli delle presunte ripetizioni della brunetta ai loro
rispettivi ragazzi fingendo nonchalance, aveva deciso di portare il bassista in
biblioteca, contro ogni loro etica. – Senti, perché non abbandoniamo questo
postaccio, i libri e tutto il resto e non andiamo a goderci la natura, l’aria
aperta e tutte quelle stronzate? – lo sguardo che le aveva lanciato Duff oltre
la barriera formata dai dizionari di spagnolo lasciava intendere che l’unica
natura che il ragazzo era intenzionato ad esplorare fosse quella del corpo
della rossa. Adrien lo guardò per pochi istanti con indifferenza, prima di
lasciarsi scappare un sorriso biricchino e tornare all’esercizio che stava
complicando. Il biondino impiegò alcuni secondi per comprendere il suo rifiuto
e, come la ragazza aveva immaginato, si lasciò ricadere contro la sedia con un
sonoro sbuffare. – Certe volte mi chiedo perché
ti sei messa con me. – i maschi, si sa, non sono in grado di cogliere
l’importanza di riflettere anche solo un poco prima di aprir bocca. Duff si
rese conto che forse avrebbe fatto meglio a stare zitto e buono a studiare
soltanto dopo aver lasciato che l’esclamazione sfuggisse dalle sue labbra,
producendo un silenzio imbarazzante condito da un’occhiata di gelo di Adrien.
-
Credo che tu sappia benissimo perché
non mi degnerò di rispondere a questa domanda. – con fare altezzoso, la ragazza
si alzò di scatto, quasi rovesciando la sedia su cui poco prima era stata
seduta, iniziando ad afferrare i fogli sparsi sul banco con rabbia malcelata.
La linea della sua mascella era contratta in una smorfia che Duff aveva
imparato a conoscere, e che era segno di un vacillamento dell’autocontrollo
della rossa. In fretta, il ragazzo passò in rassegna l’archivio delle frasi
fatte che adoperava in quelle circostanze alla ricerca di quella migliore per
calmare le acque in quel momento, ma prima che potesse arrivare ad una
soluzione Adrien l’aveva già lasciato solo. Per qualche misero istante, il
bassista provò l’impulso quasi doloroso di alzarsi e correrle dietro, gridando
scuse altisonanti. – Fanculo. – dopo essere rimasto seduto per una quantità
indefinita di secondi a fissare le due parole dell’incipit
ce aveva scritto al proprio tema per l’insulsa lingua neolatina che stava
studiando, sbuffò. Le sarebbe passato. Non aveva certo intenzione, in
pomeriggio che avrebbe potuto essere impiegato al
meglio, di sopportare le turbe mentali di quella strana ragazza. Sarebbe andato
a cercare Slash, com’era giusto che fosse: forse, l’amico avrebbe saputo
trovare una spiegazione a quei comportamenti femminili inspiegabile. Mentre
però ficcava con forza i propri appunti nella borsa che utilizzava per scuola,
Duff si rese conto che probabilmente il ragazzo ne sapeva meno di lui sulle
donne. In fondo, stava con Michelle.
Gettò ancora un’occhiata ai dizionari abbandonati sul tavolino della
biblioteca: senza Linda, non avrebbe mai capito un accidenti di spagnolo.
Dannata scuola.
-
Hai il mio permesso, sai? – con una precisione quasi divina, la ragazza era
stata capace di coglierla nel momento meno opportuno per la sana lite che da
quasi due mesi si stavano risparmiando luna con l’altra. Robin, che faticò non
poco per nascondere come al suono della voce di Adrien l’acqua della
bottiglietta da cui stava bevendo le fosse andata di traverso, si voltò con le
mani strette sul manico della propria cartella, pronta ad andarsene. La rossa
se ne stava appoggiata ad una delle colonne del porticato della Renton,
guardandola con un ghigno indecifrabile. – Miller. – la salutò freddamente,
peccando nell’arte della recitazione che avrebbe voluto conoscere: non poteva
nascondere il suo malumore alla comparsa della vecchia amica peggio di così. –
Non so di cosa tu stia parlando. – aggiunse quindi rapidamente, prima di
cercare una possibilità per un’uscita di classe. Evidentemente, era passato
troppo tempo dall’ultima volta che aveva fatto i conti con Adrien Miller, anche
se le conseguenze delle tante batoste ricevute ancora dolevano. – Lo vedo, sai, come lo guardi in classe. Te lo mangi con gli
occhi, a volte avrei voluto alzarmi in piedi e dirti di non sbavare troppo,
altrimenti il trucco ti sarebbe colato. – a dispetto del significato aspro e
controverso di quella frase, il tono di voce della ragazza era candido come non
mai. Forse fu proprio quello il fattore che frenò Robin dal lasciare l’edificio
scolastico: se anche di frecciatine simile ne aveva
già viste, quella voce così innocente compariva una volta su un milione.
-
Smettila di tormentarmi. – s’era promessa, prima di proferir parole, di evitare
in qualsiasi modo un tono di voce supplichevole, ma i buoni propositi non
servirono a molto. La voce di Robin era quella di una povera vittima che si
rivolgeva al proprio carnefice, nel tentativo di farsi liberare. E, se proprio
la si voleva guardare da un punto di vista cruento, quella situazione non
distava granché dal paragone. – Te lo ripeto, te lo puoi fare quando vuoi. A me
non da fastidio. L’importante è che non ti venga un esaurimento nervoso a causa
dei tuoi ormoni surriscaldati, e se questo comporta donarti il mio ragazzo come
stallone, allora te lo concedo. – quella scenetta aveva un pizzico di surreale
che quasi nascondeva l’aspetto inquietante delle affermazioni di Adrien. Robin
avrebbe preferito con tutte le proprie forze se la ragazza fosse scoppiata a
ridere, soddisfatta della prese in giro che le stava
rivolgendo, ma la rossa appariva fin troppo seria. – Ma di cosa stia parlando?
– a quel punto, una leggera nota di perplessità s’insinuò nella voce incrinata
della donna, rigida ed eccessivamente composta davanti all’assurdità dei
discorsi della ragazza. Dove volesse andare a parere, era impossibile da
comprendere. – Magari prova ad abbordarlo quando andiamo in Canada. In fondo,
sei una bella donna. – Adrien annuì fra sé e sé, come per mostrarsi concorde
con la logica inattaccabile delle proprie parole, la stessa che Robin non
riusciva a vedere. C’era solo qualcosa di realmente certo nelle affermazioni
della rossa, anche quella causa di una miriade di dubbi. “Sta cercando di dirmi che devo portarmi a letto Michael McKagan?”.
-
Senti, non ho tempo da perdere. Afferra il concetto, professoressa. – Robin
aprì la bocca per ribattere ma il suono rauco che produsse segnalò che
l’insulto che aveva pensato di rivolgere alla ragazza era rimasto bloccato
nella gola, togliendole il fiato. Quando Adrien se ne accorse, sul volto
contornato da minuscole e graziose efelidi si aprì un sorriso poco
rassicurante, con il quale abbandono i portici. La donna rimase immobile, con
ancora le mani a stringere rudemente la propria cartella di cuoio, mentre il
suono delle scarpe della rossa riempiva il corridoio per pochi attimi prima di
scomparire. Eppure, la donna avrebbe potuto scommetterci sopra, la presenza di
quella che per lei era stata un’amica era ancora lì in attesa di una decisione.
Scuotendo appena la testa, Robin cercò di distrarsi ravvivandosi i capelli
vaporosi ma riuscì a malapena a desistere dal strapparli davanti
all’umiliazione appena subita. Ancora una volta era stata in silenzio a
lasciare che Adrien giocasse con la ragnatela che lei stessa aveva tessuto
attorno a sé. In un gesto poco consono alla sua figura, la donna portò le
unghie ai denti iniziando a morderle, nervosa: ogni parola pronunciata dalla
rossa rimbombava nella sua testa, aumentando la confusione che vi regnava.
Gettò un rapido sguardo all’orologio appeso alla parete esterna, le quali lancette segnavano il ritardo sulla sua tabella di
marcia: suo marito la stava aspettando. Gli aveva promesso la sera prima che
sarebbero andati insieme al cinema, come da tanto tempo non facevano. “Te lo mangi con gli occhi”.
Improvvisamente, il volto di fanciullo di Michael comparve della sua mente,
scomparso dal segno evidente di negazione che aveva visto su un bastoncino
bianco ormai fin troppo familiare. Subito dopo, Robin Keenan sentì il
bisogno di urlare.
Saul
Hudson, in arte o per gli amici Slash, era alle prese con alcuni problemi
esistenziali che minacciavano di sciupargli quel tiepido pomeriggio. Innanzi
tutto, s’era ritrovato improvvisamente solo in quel buco di magazzino in cui
viveva insieme a quegli sbandati del suo gruppo, senza saper spiegare l’assenza
del baccano che solitamente animava quel luogo. Poi, s’era ricordato che da due
settimane stava rimandando la doverosa telefonata a sua madre, ma s’era subito
disfatto di quel grattacapo considerando di non aver la più pallida idea di
dove la buona donna si trovasse in quel momento. Infine, c’era il problema, il dubbio che lo stava
tormentando da giorni e giorni. Il ragazzo si guardò attorno, godendo
pigramente dei raggi di sole che entravano dal portellone d’ingresso aperto,
prima di dirigersi istintivamente verso la propria chitarra, riposta in un
angolo insieme a quegli degli amici. Decisamente, la
cura ad ogni male da lui preferita. Non appena ne sentì il peso leggero addosso
e porto le dita alle corde, ormai esperto dell’anatomia della fedele compagna,
riuscì a sentire la pace che stava cercando. Chiuse gli occhi e ispirò una
delle ultime boccate di fumo dalla sigaretta che penzolava dalle sue labbra, e
che aveva accumulato tanta di quella cenere da rischiare di crollare e
sporcarlo da un momento all’altro. “Non pensi ad altro che alla musica, a me non pensi mai! Oh, ma il tempo di star
dietro a quelle troiette che ti scopi ce l’hai…”.
Ma non aveva deciso di sgomberare la mente da pensieri nefasti?
-
Ehi. – uno degli sbandati sopra citati fece la sua comparsa proprio quando il
riccio stava incominciando a concentrate tutta la
propria attenzione su alcuni accordi di chitarra improvvisati, confermando la
teoria del tempismo perfetto. Duff, comunque, aveva un
cera molto simile alla sua. Mentre il nuovo arrivato gettava malamente la borsa
scolastica nel primo buco libero che gli era capitato,
Slash osservò i suoi movimento comprendendone i sentimenti. – Beh? – gli bastò
domandare, con un grugnito simile al verso di un orso grizzly. Era già
abbastanza spossato per contro proprio, ma il tempo per ascoltare i grattacapi
dell’amico l’aveva trovato: cosa non si fa per amicizia… “Il tempo di star dietro a quelle troiette che ti scopi ce l’hai!”.
Appunto. – Ci ho litigato ancora, ma non ho ben capito come ho fatto. –
fortunatamente, al mondo sembrava ci fosse qualcuno in grado di comprenderlo.
Alzò appena lo sguardo dalla chitarra per portarlo sull’amico, che si era
gettato su uno dei due divani armeggiando col telecomando di una piccola
televisione portatile presa ad un minimarket prodigo di sconti e che, come al
solito, dava problemi. Per un po’, i due rimasero in un solidale silenzio
mentre Duff spostava le sottili antenne di quel malefico aggeggio alla ricerca
di qualsiasi programma potesse fare compagnia alle loro chiacchiere, poco
importava di che tipo. Poi, in seguito ad un colpo di tosse del biondino, Slash
parlò – Dio, non fate altro che litigare tu e quella Babette. – il fatto che,
dopo ormai mesi di assidua frequentazione, il soprannome assurdo che si era
inventato al primo incontro con Adrien persistesse tra gli amici irritava
profondamente Duff. Gli ricordava come già da allora avesse saputo tendergli
astute trappole letali.
-
Cazzo, non lo faccio mica apposta! – non sfuggì a nessuno dei due l’uso della
prima persona singolare del bassista, ma il dettaglio venne presto messo da
parte quando Duff proseguì. – Ma lei è impossibile! – se non sopportava la
scempiaggine che vedeva nel nomignolo “Babette”, il ragazzo comunque non
sembrava far nessuno sforzo per sradicare quell’abitudine. Ogni volta che parlava
di quella relazione al limite del ridicolo, il nome di Adrien gli bloccava il
fiato in gola. Slash lo osservò attentamente prima di annuire, senza far
trasparire dall’espressione assorta del viso alcuna emozione. Quando il
biondino si accorse di essere riuscito a raggiungere soltanto un programma per
bambine con quel televisore malandato, lo lasciò perdere per dedicarsi
amorevolmente ad un pacchetto di sigarette. – E guarda che tu e Micha vi
scannate molto di più… - eccolo, il colpo che s’aspettava già da quando quella
conversazione era incominciata. Il chitarrista inspirò profondamente l’aria
densa di nicotina prima di spingere con le dita il mozzicone sul fondo di un
bicchiere vuoto, nonostante questo si fosse già spento da solo. – Credo di
piantarla. – sputò infine le parole che gli avevano scombussolato stomaco e
cervello in quegli ultimi giorni: gli sembrò persino di scorgere una nota
simile alla voce della sua ormai non più stabile ragazza. Ma a quel pensiero
subito scosse la testa, provocando una serie di onde fra i ricci ribelli: stava
facendo la prima, dannata cosa giusta da chissà quanto tempo speso in
stupidaggini. Non era il tempo di fare i sentimentalisti.
-
Ah.- in qualsiasi altra occasione, l’affermazione di Slash avrebbe suscitato in
Duff soltanto un senso di rassegnazione: era ormai evidente a tutti che la
storia fra il riccio e Michelle, cominciata agli inizi della scuola, stava
andando decisamente a catafascio. In quel momento però, riuscì ad accorgersi
soltanto del nodo che aveva iniziato a dolergli nella pancia da quando l’amico
aveva pronunciato la propria sentenza. “ Credo
che tu sappia benissimo perché non mi
degnerò di rispondere a questa domanda”. Il copione immaginario che
sfrecciò a disturbare ulteriormente le riflessioni del ragazzo: se anche Slash
stesse aspettando di sentirsi dire che lui lo avrebbe imitato sul piano
sentimentale, non diede alcun segno di delusione. Semplicemente, il riccio
abbandonò l’amata chitarra, l’unica “donna” che probabilmente l’avrebbe
accompagnato per tutta la vita, per afferrare il pacchetto di sigarette appena
scartato da Duff e gettarsi nella ricerca di un accendino. – Ehi, cazzoni! –
Axl Rose non era mai stato la persona giusta al momento giusto. Anzi, aveva
sempre dimostrato una spiccata dote per fare la propria comparsa nelle
situazioni meno opportune, tanto che i ragazzi, da bravi amici, s’erano
abituati all’inopportuna onnipresenza del loro stravagante frontman. Ciò non lo
rendeva ovviamente più sensibile all’umore della gente che lo circondava. –
Beh, che succede? Che cazzo sono ‘ste facce? – domandò quando non ricevette
alcuna risposta al saluto, raggiungendo con passo molleggiato il frigo per
prendere una birra fresca. – Beh? – il tono si fece lievemente più sospettoso
quando il funereo silenzio proseguì. Passarono attimi pesanti da gestire, in
cui ognuno cercò disperatamente di ritornare al fianco dei compagni com’era
giusto che fosse. – Niente, Axl. -.
Il
sole stava già tramontando oltre la foresta di grattacieli ed edifici che
costituiva la metropoli quando Maxie vide la ragazza camminare solitaria sull’erba
secca e giallognola. Quel fazzoletto di terra che alcuni chiamavano
impropriamente parco rappresentava una scorciatoia per raggiungere la zona
industriale del quartiere, dove abitavano i ragazzi: solitamente, la biondina
passava per quel luogo poco curato e quasi malinconico per raggiungere il
magazzino, ma non le era mai capitato d’incontrare lì Michelle. Quest’ultima infatti o l’attendeva già all’abitazione degli amici o
arrivava da tutt’altra parte. Eppure, la figura di donna che si ergeva proprio
al centro del parco con aria smarrita in chissà quali pensieri era proprio lei:
i capelli bruni, ricci e indomabili erano inconfondibili. – Ehi! – non c’era
voluto molto perché Maxie intuisse che qualcosa evidentemente non andava. Non
solo il semplice fatto che si trovasse da quelle parti ma che non sembrasse
intenzionata a visitare Slash e gli altri era alquanto strano, ma
nell’espressione assorta dell’amica la ragazza era riuscita a scorgere qualcosa
di poco rassicurante. Con passi affrettati che quasi la fecero inciampare
nell’immondizia sparsa per quel giardinetto, la raggiunse, mentre Michelle
alzava lo sguardo verso di lei. – Ehi! – rispose la brunetta, fingendo
evidentemente una tranquillità che non era propria di quel momento. Il sorriso
che rivolse a Maxie era uno dei più falsi e dei più tristi che le avesse mai
visto in faccio. La biondina corrugò le sopracciglia, sospettosa e preoccupata. – Che hai? -.
Il sospirò che Michelle si lasciò scappare dalle labbra
piene confermò ogni dubbio: qualcosa era successo, e l’aspetto dell’amica non
prometteva nulla di buono. La brunetta apparve d’un tratto
concentrata, come se stesse cercando le parole adatte per spiegare il
fatto che le era accaduto. Ma, prima che potesse anche solo aprir bocca, la
verità saltò ai vividi occhi azzurri di Maxie come un fulmine a ciel sereno: una ciocca di capelli color cioccolato ricadeva in posizione
inusuale rispetto alla solita acconciatura di Michelle, coprendole un lembo
della pelle della fronte in modo disordinato. Questa però non era evidentemente
abbastanza per nascondere il lungo livido violaceo che
deturpava la tempia della ragazza, il quale spiccava sulla sua pelle ambrata. –
Oh, cazzo! – senza poter impedire all’imprecazione di scappare dalla sua bocca,
la biondina allungò una mano per sfiorare appena l’evidente botta, delicata nel
timore di poterle far male. Una smorfia che però non aveva niente a che fare
con il dolore comparve sul volto di Michelle, che non impedì all’amica di
scostare la ciocca di capelli per poter avere la chiara visione di quella
scoperta. – Oddio, ma chi diavolo è stato? – in qualche modo, Maxie aveva già
la risposta: non c’era bisogno di un’acuta riflessione per comprendere l’entità
di quel livido che doleva di più per il significato che celava che per il
semplice lato fisico. Incontrando gli occhi scuri e grandi di Michelle, la
ragazza si sentì invadere da una rabbia innaturale.
-
Dio, Michelle… - la brunetta teneva gli occhi bassi per l’umiliazione che aveva
invaso ogni fibra del suo corpo, senza il coraggio di scostare il tocco
amorevole dell’amica dal proprio viso solitamente così bello e solare. Era
sicura che, se avesse solo osato guardare l’espressione che sicuramente era
disegnata sul volto di Maxie, vi avrebbe trovato solo
della compassione che non desiderava. – Non dire niente, hai capito? – quando
non riuscì più a sopportare quell’atmosfera, si sottrasse bruscamente alle cure
dell’amica, con una voce dura che s’incrinò appena quando la ragazza si
trattenne dallo specificare la persona cui con Maxie avrebbe
dovuto rimanere zitta. Per la biondina però la ragazza era come un libro
aperto, e capì immediatamente a chi si stesse riferendo. – Non l’ho mai fatto.
– rispose, arrabbiata davanti all’ostilità che Michelle stava dimostrando
all’aiuto che aveva cercato di donarle. Respirò a fondo, controllando le
proprie emozioni per non peggiorare la situazione, prima di proseguire. – Ma
come cazzo fai ad andare avanti così? – non si rese però conto di quando
indelicata fosse stata quella domanda, che lei aveva formulato in buona fede.
Ma il fulmine che attraverso gli occhi scuri dell’amica fu abbastanza per avvisarla di essere in entrata in un terreno che era
sempre stato proibito per tutti. Quando Maxie aprì la bocca per giustificarsi,
anche soltanto per rompere il silenzio che aveva ricevuto in risposta dalla
ragazza, Michelle alzò una mano per fermarla. Le labbra della brunetta erano
contratte, serrate quasi con sforzo come se stesse impedendo a sé stessa di
urlare contro l’amica.
-
Non è successo niente. Un incidente, me ne sono capitati di peggio. Questo qui
poi… aveva bevuto, è un tizio che conosco, non mi avrebbe mai fatto del male. –
dopo qualche secondo di pesante mutismo da parte di entrambe, giunse finalmente
la spiegazione di Michelle, che ora parlava con un tono flebile fin troppo
diverso da quello adoperato precedentemente. Sembrava persino più piccola, più
fragile agli occhi di Maxie abituati a vederla forte e fiera di sé nonostante
tutto. Ma quelle poche parole erano vuote, già sentite in centinaia di
discussioni simili avvenute fra di loro in passato.
Era sempre così: o erano un po’ ubriachi, o perdevano la pazienza e agivano
senza pensare, o chissà quante altre bugie. Mai che fossero definiti dalla
ragazza come avrebbero dovuto essere chiamati: porci
convinti di tenere in mano il mondo, che si permettevano di maltrattare le
donne che soddisfacevano le loro voglie e in cambio ricevevano soltanto
violenza. – Che… che cosa dice Stubbs, stavolta? – Maxie dovette ricorrere a
tutta la propria forza di volontà per non commentare ciò che l’amica le aveva
appena raccontato. Spostò il peso da una gamba all’altra, prestando una innaturale attenzione allo scricchiolio dell’erba secca
sotto i proprio scarponi, e prese a mangiucchiare in fretta le unghie della
mano sinistra. Quella falsa comprensione non avrebbe retto a lungo. – Che
dovevo star zitta. Che faceva in modo che non succedesse più e che mi aumenterà
lo stipendio. – sporgendo il labbro inferiore in un broncio quasi infantile,
Michelle le lanciò una chiara provocazione. La sensazione di dejà vu era troppo
forte per entrambe, mentre sembrava che la ragazza ripetesse a memoria le
promesse che il capo mai aveva mantenuto. E, lasciandosi trasportare dall’ira,
Maxie raccolse la sfida.
-
Ma ti senti quando parli? Cazzo! – sbottò la biondina, prendendo a camminare
avanti e indietro mentre Michelle, irrigidendosi all’improvviso, rimaneva ferma
immobile al centro di quello squallido parco. – Sai benissimo che questa cosa
non succederà mai! – erano i discorsi
che avevano già affrontato mille e mille volte, che suscitavano le ire di Maxie
ma a cui non era mai riuscita a trovare una soluzione diversa da quella della
brunetta. Fu per questo che interruppe così presto il proprio sfogo, abituata
alla testardaggine di Michelle e disarmata dalla sua logica inattaccabile: per
quanto il suo fosse un lavoro abbietto che lei stessa disprezzava, era tutto
ciò che poteva fare per sopravvivere senza abbandonarsi alla mercé del proprio
disgustoso padre. Non potendo lavorare di giorno e non essendo stata in grado
di trovare un incarico notturno decente, era stata costretta ad accettare di
diventare una spogliarellista. E quella scelta aveva comportato botte, vergogna e illusioni.
Aveva umiliato quell’orgoglio che aveva sempre cercato di mantenere vivo in sé
stessa. “Ma cosa posso fare?”. –
Basta. – anche se era chiaro che Maxie si sarebbe accontentata di quei
rimproveri e le sarebbe stata accanto comunque, la ragazza si sentì in dover di
marcare di nuovo i limiti con l’amica. Si guardarono, per istanti che parvero
secoli, cercando di toccarsi l’una con l’altra senza muoversi di un centimetro
dai loro posti. Poi, la biondina sospirò. – Dai, andiamo. – e si diressero
verso il magazzino.
-
Ehilà. – due ore di silenzio e di tormento sembravano più che sufficienti ad
Adrien per un giorno qualunque come quello. Per questo, facendo il proprio
ingresso al magazzino dopo aver lasciato la moto nera al solito parcheggio, la rossa
si gettò quasi subito al collo del proprio ragazzo senza trovare particolare
ostilità. Una discussione come quella avvenuta alla biblioteca era pane quotidiano, che non avrebbe mai
significato nulla per una relazione che aveva sopportato di peggio nella sua
breve vita. Duff la accolse con un abbraccio possessivo, senza però azzardarsi
ad incontrare gli occhi grigi che tanto temeva. S’erano già perdonati a
vicenda, per modo di dire, ma il
ragazzo era sicuro che da qualche parte del suo cuore ci fosse ancora uno
straccio di dignità da preservare. In un angolo in ombra, Izzy si lasciò
scappare uno sbuffo che cercò di far passare per un colpo di tosse molesto. –
Ciao Babette. – Axl, che da solo occupava uno degli striminziti divani che i
ragazzi avevano a disposizione, la saluto in tono impersonale, troppo assorto
da un programma di musica alla televisione e dalla birra ghiacciata che
stringeva fra le dita. Maxie grugnì, stretta nell’esiguo spazio che il rosso le
aveva concesso, senza dar segni di aver visto la nuova arrivata entrare. Adrien
si trattenne dallo scoppiare a ridere. – Se ci tenete a vivere, non andate
fuori prima di un quarto d’ora. – la testa perennemente scarmigliata di Steven
apparve poco dopo, mentre sul viso di bambino giaceva un espressione
quanto mai atterrita. Subito l’attenzione della stanza si concentrò su di lui.
-
Micha e Slash stanno… - non fece in tempo a finire la frase, che alte urla
stridule si levarono dal viottolo che separava il magazzino da un altro
edificio, uno dei luoghi favoriti dalla coppia per i loro simpatici litigi.
Steven gettò una veloce occhiata al portellone del magazzino, come se stesse
prendendo in considerazione l’idea di chiuderlo e di pregare perché l’ennesima
discussione finisse presto, poi con un alzata di
spalle si diresse verso il piccolo frigo. Subito, l’attenzione di tutti per gli
insulti che stavano volando oltre la parete, fra cui “porco bastardo” e “puttanella”,
scese sotto zero. Soltanto due persone sembrarono
reagire allo scoppio improvviso di quella che avrebbe potuto essere una delle
tante litigate che appassionavano tanto Slash e Michelle. Maxie spostò lo
sguardo dallo schermo tremolante della televisione per puntarlo verso il lembo
di città che s’intravvedeva dall’ingresso dell’edificio, pronta a correre in
soccorso dell’amica se ce ne fosse stato bisogno. Duff strinse più forte a sé
Adrien, guadagnandosi lo sguardo perplesso di questa, contraendo la mascella in
modo da lasciar trasparire il nervosismo. “Ecco,
si mollano.”. – Che c’è? – la domanda, in cui si scorgeva un filo
d’irritazione, della ragazza fra le sue braccia lo riportò alla realtà: abbassò
gli occhi ad incontrare quelli della ragazza, che avevano assunto la sfumatura
color tempesta che riservava ai momenti in cui cercava di leggergli l’anima. –
Niente, sto pensando ai soldi che ci servono per andare in Canada. – fu subito
evidente che quella bugia non aveva centrato il bersaglio.
Il
primo indizio che qualcosa non stava procedendo nel solito verso fu quando le
urla cessarono dopo pochi minuti dal loro inizio: solitamente, le discussioni
di Michelle e Slash occupavano una buona fetta del loro tempo libero, mentre il
resto era dedicato alla riconciliazione. Quell’anomalia suscitò il disagio di
chi fingeva di non ascoltare interessato quella sequela di bestemmie dirette
all’altro, mentre uno strano silenzio avvolgeva il magazzino. Izzy tossicchiò
ancora, come a voler spezzare l’imbarazzo appena sceso su di loro, ma non
riuscì nel proprio intento: per minuti, forse ore, attesero un qualsiasi rumore
che li avvisasse di una ripresa del litigio dopo una breve ed insignificante
interruzione, accontentati dal solo ronzio del televisore. Poi il ticchettio
delle scarpe assurdamente alte della brunetta riempì poco a poco quel vuoto
lasciato dall’interruzione delle chiacchiere. Tutti trattennero
inconsapevolmente il fiato, come davanti ad un film particolarmente ricco di
suspense. Nessuno fu in grado di proferir parola: la sagoma snella e
traballante di Michelle fece la propria comparsa all’interno del magazzino per
pochi, fugaci istanti. Le sue mani afferrarono la borsa con una violenza quasi
dolorosa per chi osservava la scena, i capelli indomabili coprivano le tracce
del pianto sul suo viso mentre lasciava quel postaccio rapidamente, mormorando
soltanto – Andatevene tutti a fanculo -. Dopo quelli
che sembrarono anni di ghiaccio e venti gelidi, Maxie lasciò andare un profondo
sospiro. – Credo che Michelle non verrà in gita. – detto ciò, si precipitò ad
inseguire l’amica. Di Slash, nemmeno l’ombra.
“Oh, oh, break it! Break another little bit of my heart
now, darling, yeah, oh, oh, have a! Have another little piece of my heart
now, baby, You know you
got it, child, if it makes you feel good. ”
(Janis
Joplin – Piece of my heart)
NOTE DELL’AUTRICE
Scusate se mi sono fatta attendere in questi giorni, il ritorno a
scuola è stato traumatico e pieno d’interrogazioni: nonostante la mia
ispirazione, in cui non speravo più già da un bel po’, non mi è stato concesso
molto tempo per scrivere, e questo potrebbe avere influito sul risultato -.-
perciò, come al solito, mi dispiace se questo capitolo non sarà all’altezza
delle aspettative.
Ovviamente il titolo richiama la canzone dei Muse, ho pensato si
accordasse con il clima: noto con piacere, rileggendolo, che vengono citati
quasi tutti i personaggi, o almeno una buona parte, e ciò mi piace. Non è un
capitolo troppo importante, o quasi: ci sono molte cose che accadono
velocemente, ma il clou della storia deve ancora arrivareJe, come penso che abbiate già capito, si concentra nella
ormai prossima gita in Canada. Ho usato questo capitolo per riprendere alcune
questioni in sospeso, come quella di Alan Niven.
Mi scuso per non aver sottolineato in precedenza qualcosa che
probabilmente non è passato inosservato, ovvero che a volte i personaggi
abbiamo un linguaggio scurrile e sgrammaticato. No, non sono errori miei
(almeno quelli), scrivo apposta così proprio per sottolineare il fatto che non
credo che i ragazzi ponessero particolare attenzione al linguaggio. Adrien è un
caso a parte, poiché tende a voler essere sempre perfetta, lo avrete notato.
Non ci sono particolari citazioni in questo capitolo: Ted, il nome
dell’assistente ansioso di Niven, è un omaggio al simpatico avvocato leccapiedi
del dottor Kelso, della serie “Scrubs”,
che io personalmente adoro.
Il dialogo in svedese del capitolo precedente, quello fra Adrien e
la sua sfigatissima sorellina Annalou (xD), riguarda
una proposta di quest’ultima per un’uscita a quattro: la ragazzina, sua sorella
maggiore, Duff e il nostro Axl. E’ stato comunque divertente leggere le vostre
opinioni, grazie per le vostre risposte e il vostro affetto.
Vi lascio con un altro capolavoro di Sylvie Denbrough, sulla scena
finale del capitolo “The Prom Night”.
Capitolo 15 *** Capitolo 15 - Canadian wind [Part 1. It's your fault] ***
Naive
Naive
Capitolo 15 – Canadian wind
[Part 1. It’s your fault]
“ La
paura d’innamorarsi
non è forse già un
po’ d’amore? ”
(Cesare Pavese)
Il
paesaggio urbano scorreva veloce oltre il finestrino come sulla pellicola di un
vecchio film, sfocato dal continuo condensarsi del suo respiro che appannava il
vetro. Attorno a lei, solo le risa eccitate e il vociare dei suoi compagni di
scuola, che giungeva come un irritante ronzio alle sue orecchie ancora
sensibili dopo la brusca sveglia mattutina. Al suo fianco, il ragazzo aveva
cercato di attirare la sua attenzione per un po’ prima di rinunciare e voltarsi
a parlare di musica con i propri amici, seduti sui sedili posteriori. Adrien
sbuffò, osservando la patina biancastra che copriva il finestrino per un attimo
prima di concederle nuovamente la vista di Montréal. “Stupido, stupidissimo clima antartico”. Il fatto che fosse marzo
non sembrava aver impedito alle nuvole sopra la città canadese di riversare le
proprie lacrime sugli edifici, che erano adesso ricoperti di un sottile strato
di neve. A marzo. E tutti loro, che erano abituati al clima perennemente estivo
della compianta L.A., appena scesi dall’aereo avevano capito di essere
irrimediabilmente nella merda. – Ma si può sapere che cazzo hai?! – non l’aveva nemmeno sentito parlare. La rossa rivolse
il proprio sguardo a Duff, che la osservava inviperito seduto sul sedile vicino
al suo, soltanto quando si accorse che quello aveva alzato il tono della voce.
Si strinse attorno alle spalle il semplice giubbotto
di pelle che si era portata, come tanti altri sognatori che avevano pensato di
trovare in Canada solo una dolce brezza primaverile, spostando ancora lo
sguardo sulla città. – Ho mal di testa, tutto qui -. “Non lo so. Non lo so, che cos’ho”.
Duff,
imitandola, volse di nuovo il capo dalla parte opposta rispetto alla ragazza,
ascoltando Slash e un ragazzo del loro anno seduti
dietro di loro parlare dell’ultimo CD degli AC/DC
soltanto con un orecchio. Come al solito, quella rossa intrattabile finiva per
ammazzare anche la più potente delle sue euforie. Non riusciva a rendergli la
vita migliore nemmeno davanti alla prospettiva di passare tre giorni insieme in
una città romantica, pensiero che a Duff rivoltava lo stomaco per tutte le
smancerie incluse ma che avrebbe dovuto mandare in visibilio qualsiasi ragazza.
Eppure eccola lì, la solita Adrien con broncio appena accennato sul visetto
delizioso e sguardo enigmatico ed indecifrabile. La detestava. “Stupida, stupidissima testona”. Dal suo
posto, interno alla corriera per via dell’eccesso di galanteria che lo aveva
indotto a cedere alla propria ragazza il sedile accanto al finestrino, riusciva
a scorgere la testa di Linda. Stava chiacchierando con una loro compagna di
classe, con cui Duff aveva avuto poco a che fare e di cui nemmeno ricordava il
nome. Scosse la testa senza alcun motivo, prima di scoccare una nuova occhiata
ad Adrien. I suoi occhi grigi erano apparentemente persi nella contemplazione
di Montreal. Ma il ragazzo aveva imparato a conoscere abbastanza bene le sue
mosse per intuire che a qualcosa le stava arrovellando il cervello. Sospirò
quasi impercettibilmente, riportando l’attenzione sulla trama dell’orrido
tessuto di cui erano rivestiti i posti a sedere. Si chiese di nuovo perché
sprecava il tempo con una così. “Non lo
so. Ma, Dio, sei stupenda”.
La
Vieux-Montréal, ovvero i quartieri caratteristici della metropoli canadese, era
sicuramente uno spettacolo suggestivo per qualsiasi viaggiatore navigato ed
interessato. Per l’ultimo anno della Renton High School, rappresentava
semplicemente un’occasione per non dover passare le mattinate sui libri e stare
insieme lontano da una Los Angeles conosciuta ormai a menadito. Da che mondo è
mondo, non ha alcuna importanza la destinazione di una gita, ogni studente sarà
felice di poter godere di una libertà che i professori tenteranno vanamente di
limitare. Non appena fu però messo piede giù dalla traballante corriera pagata
dalla scuola, improvvisamente tre quarti degli studenti presenti cambiarono
idea. Quella gita avrebbe fatto schifo. - … nel 1615, quando Samuel de
Champlain perseguì l’obbiettivo di diffondere la religione cattolica fra i
nativi della Nuova Francia… –. “Mai più”.
La professoressa Keenan si chiese ancora perché stesse perdendo tempo con
quelle teste calde che sicuramente non stavano ascoltando una sola parola della
sua dettagliata spiegazione sulla fondazione di Montréal. Piccoli fiocchi di
neve continuavano a posarsi sopra la sua testa, che sicuramente era ridotta
peggio della criniera di un vecchio leone, e il vento imperversava su di loro
senza pietà. Anche se comunque l’ululato del maltempo non si fosse mangiato
ogni parola che usciva dalla sua bocca, si trovava a spiegare la storia di una
città stupenda agli unici esseri al mondo che non avrebbero saputo apprezzarla.
I
suoi colleghi ovviamente non si curavano di darle manforte: la professoressa di
storia dell’arte, che avrebbe dovuto soccorrerla e concederle un meritato
riposo con un’esauriente descrizione della basilica di Notre-Dame, stava amabilmente
flirtando con Gerald Bobbins, l’insegnate d’educazione fisica e uno degli
uomini più viscidi mai visti. Robin si trattenne dall’arricciare il naso dal
disgusto, lanciando loro un’occhiata sprezzante che questi non notarono
affatto. Che spettacolo squallido. Riportò l’attenzione sulla piccola folla di
studenti che nemmeno fingevano di darle corda, bene attenta ad evitare una
chioma di capelli rossi fin troppo familiare. Evitava il suo sguardo da giorni,
si era rifiutata d’incontrarla e aveva cercato di mostrarsi indifferente, ma le
sue parole la perseguitavano. - … e nell’8 settembre 1760 il… il duca di Lévis…
- “Maledizione”. Non riuscì ad
evitarlo, era stato più forte di lei. Era impossibile non distinguerlo, grazie
alle sue gambe chilometriche che gli garantivano un’altezza notabile,
valorizzata dalla vaporosa chioma bionda portata com’era di tendenza in quegli
anni. Oltre al suo bell’aspetto, che comunque non passava inosservato alla
maggior parte della popolazione femminile, c’era qualcos’altro in lui che
l’attrasse in quei decimi di secondo. L’indecifrabile contrazione dei tratti di
Michael McKagan divenne quasi fuoco sulla sua pelle quando Robin s’accorse che
gli occhi verde scuro del ragazzo erano puntati su di
lei. “Stupida, stupidissima donna”.
-
… il duca di Lévis si arrese all’esercito britannico, comandato dal lord
Jeffery Amherst. – quando le risatine che s’era diffuse fra gli studenti al suo
improvviso pietrificarsi la riscossero, Robin Keenan proseguì imperterrita il
proprio curato discorso sulla storia di Montréal. Nessuno avrebbe notato il
rossore che le tinse le guancie, probabilmente più attribuito al freddo polare
del Canada che ad un possibile imbarazzo. Quest’ultima
infatti non era coerente al concetto di dittatrice impietosa che la
Renton High School aveva associato in quegli ultimi due anni alla professoressa
di lettere. Il fatto che anche la severissima donna avesse avuto un momento di
confusione non la rendeva più umana, visti i suoi precedenti. Solo una risata,
gelida quanto il vento che sferzava contro i poveri Californiani, spiccava fra
lo scherno, apparentemente priva di qualsiasi allegria. Passò praticamente
inosservata fra le decine di migliaia di argomenti decisamente più interessanti
per quegli adolescenti, ma non scappò a Robin. Che ebbe il tempo di godere di
una fredda occhiata carica di dubbi prima che gli occhi
grigio tempesta che da tutta la giornata evitava si scostassero da lei.
Un respiro profondo, di quelli che ogni buon amico consiglia ad un agitato per
recuperare un minimo di calma, bastò per far scomparire il tremolio nella voce
di Robin ma non nel suo animo. C’erano solo tre persone che s’era
effettivamente accorte che l’interruzione nel suo discorso era stata causata da
un effetto collaterale del fascino angelico di uno dei suoi studenti. Il
ragazzo in questione, che non sembrava in grado di toglierle gli occhi rabbiosi
di dosso; un solitario Saul Hudson stranamente senza l’inseparabile Adler, che
invece di porsi delle domande sull’accaduto l’aveva semplicemente ignorato,
iniziando a raccontare un sfilza di mediocri
barzellette; e, a causa della solita sfortuna che perseguitava la povera
professoressa, Adrien Miller.
-
Senti… - trovò il coraggio di prenderla in disparte per chiedere spiegazioni
soltanto quando le classi si fermarono davanti alla cattedrale di Notre-Dame
per un pranzo al sacco consumato al freddo e al gelo. L’aveva osservata da
lontano fin da quando erano scesi dal caldo pullman, attendendo invano
qualsiasi tentativo di approccio da parte della ragazza. Poi, si era accorto di
essersi completamente stufato. Il colmo era stato quella risata davanti alla
figuraccia della Keenan, evidentemente collegata a lui. – Tu e la…tizia, sì,
beh… la Keenan, vi vedete ancora? – dopo aver gradevolmente constatato di aver
ricevuto la stessa considerazione di uno scarafaggio, Duff sputò fuori con una
certa irritazione la domanda che gli opprimeva il tempo. Adrien, che aveva
l’aria di averlo visto solo in quel momento e che non sembrava aver intenzione
di pranzare, si voltò verso di lui con espressione lievemente sorpresa. – No,
certo che no. -. “Bugiarda”. “Non mi credi”. Come per confermare ciò
che aveva appena detto, la rossa scosse il capo con fermezza. Poi, gli diede
nuovamente alle spalle per osservare con curioso interesse la facciata in stile
neogotico della chiesa. Per qualche terribile istante, Duff pensò seriamente di
aver perso il controllo dei propri muscoli e di stare per strangolarla. –
Allora me lo spieghi come mai lei ha
fatto quella figura di merda oggi e tu ti sei sbellicata dalle risate davanti a
tutti? -.
Non
voleva vederlo. Non voleva parlargli, e nemmeno sapere di trovarsi a pochi
metri da lui. Non voleva soprattutto essere cosciente del fatto di non essere in grado d’ignorarlo, ed era
forse ciò che la comprometteva di più. S’era svegliata quella mattina convinta
di possedere l’atteggiamento di sempre nei confronti di tutti, ma il nodo allo
stomaco che aveva provato riscontrando che era la prima sera da parecchio tempo
che non dormivano insieme l’aveva scombussolata. Inaspettato. Era stato così normale trovarsi abbracciata a lui
tutte le mattine, non aveva importanza il luogo o le modalità del risveglio,
che il senso di vuoto che aveva provato di fronte alla necessità di separarsi
per la notte prima della gita aveva influito sul suo umore. E sulle sue
certezze, incrinandole una dopo l’altra. – Perché era ridicola, ecco perché. –
fortunatamente, Madre Natura non solo aveva deciso di
donarle un fisico mozzafiato, ma anche un’innata capacità di controllo sulle
proprie emozioni, da cui derivava una sorprendente propensione alla bugia. Il
suo volto non si scostò neanche pur un secondo dalla freddezza che indossava
nel pronunciare quelle parole così distanti dalla verità. – Ah, sì? Allora
dimmi anche che cazzo hai stamattina? Dio, pensavo che poteva
essere… - il biondino s’interruppe a metà frase, guardandola con astio.
-
Evidentemente hai pensato male. – rispose prontamente, con lo stesso tono di
voce secco del ragazzo che aveva davanti, prima che entrambi piombassero nella
dimensione onirica che li accoglieva durante quei loro aquile di sguardi. Era
come se i loro occhi cercassero disperatamente un punto di fusione che unisse i
loro proprietari, ma ogni volta c’era quella sottile barriera di ghiaccio così
difficile da spezzare. – Non ho intenzione di sopportare i tuoi giramenti di
palle per tutta la gita. Quindi, datti una calmata, non ho bisogno di sorbirmi
anche i tuoi problemi. – dopo che fu palese ad entrambi che quel silenzio non
avrebbe portato a conclusioni diverse da quelle prefissate dal loro litigo,
Duff cercò la semplice via dell’uscita di scena plateale. Si sentì sorpreso
quando la smorfia sul volto di Adrien lasciò intendere che la ragazza non aveva
intenzione di ribattere, ma girò ugualmente sui tacchi per tornare dall’amico
Slash. Si concesse soltanto di rivolgerle, una volta tornato al gruppo
costituito dalla maggior parte degli studenti americani, un’occhiata di sbieco:
trovò la vista della sua schiena flessuosa ad attenderlo, poiché la rossa s’era
di nuovo voltata ad osservare la facciata della cattedrale. Digrignò i denti,
lottando duramente contro l’impulso di esibirsi in una memorabile scenata
contro quella strega. Non doveva essere curioso di sapere che cosa le fosse
successo, non aveva intenzione di rovinare quei giorni per gli sbalzi d’umore
di una ragazzina. Sarebbero stati esclusivamente cazzi suoi.
Nessuno
dei due si era accorto della silenziosa spettatrice del battibecco, nascosta in
un angolo con alcune amiche e protetta dal solito, impalpabile velo di
timidezza che le consentiva di passare inosservata. Gli occhi marroni di Linda
avevano però seguito con attenzione i movimenti di ciascuno dei due soggetti.
La ragazza scosse la testa, suscitando le occhiate curiose di alcune delle sue
compagne, sedute sulle gradinate della cattedrale a discutere di moda. Maxie
sedeva poco distante, lontana da quelle che lei considerava soltanto un mucchio
di inutili esseri viventi ma che, Linda lo sapeva, le
incutevano una certa soggezione. Solo perché si considerava diversa. La moretta sbuffò, accentuando
ancora di più l’aria da stramba che in pochi secondi le compagne di scuola le
avevano attribuito. Spostò lo sguardo da Maxie ad un'altra figura solitaria,
dalla lunga chioma rossa, che da diversi minuti se ne stava immobile a fissare
indifferente la spettacolare facciata della Notre-Dame di Montréal. Addentando
il panino sollevata nell’avvertire il vuoto allo stomaco colmarsi, osservò
Adrien Miller con discrezione per diversi minuti, fino a che non vide Slash
avvicinarsi alla rossa per bisbigliarle qualcosa nell’orecchio. Nello spostare
apparentemente l’attenzione sul dibattito incentrato sulle gonne vintage delle
amiche che la attorniavano, Linda si trovò ad affrontare il nodo alla gola che
sembrava impedirle di respirare normalmente. Se Steven fosse stato lì con lei
avrebbe saputo sicuramente come distrarla con qualche divertente aneddoto nato
dalla convivenza con i ragazzi. Ma il batterista non aveva partecipato alla
gita, ed anche se non lo aveva espressamente detto Linda sapeva che era stato
per un atto di altruismo nei confronti del suo migliore amico: se qualcuno
aveva bisogno di starsene lontano da Los Angeles e da una certa Michelle,
quello era Slash.
Era
passato diverso tempo dall’ultima volta che aveva parlato davvero con Adrien, ma i ricordi più spiacevoli di
quell’incontro non si erano ancora dissolti. Ignorare i saluti maliziosi della
ragazza e nascondere il rossore che le imporporava le guance di conseguenza a
quelle indirette prese in giro erano stati gli unici contatti che avessero
avuto in quei mesi. Dopo aver ingoiato l’ultimo pezzettino del panino che aveva
preparato lei stessa per il proprio pranzo al sacco, si azzardò a lanciare
un’occhiata fugace all’alto ragazzo poco distante dal suo gruppetto. Duff non
sembrava per niente felice, e questo l’aveva capito anche il tipetto
mingherlino che aveva dovuto subire la sua irritazione. “Smettila, Linda”. Cercando di ricomporre il proprio controllo di fronte
all’emozione che una serie di pensieri sul biondo avevano in lei suscitato,
ripeté fra sé e sé le parole che Steven le aveva detto al Ballo d’Inverno,
ormai diventate un mantra che precedeva ogni ripetizione che forniva al
bassista e a Slash. Alla sua sinistra, vide Adrien guardarsi attorno
furtivamente prima di estrarre qualcosa dalla propria borsa e posarlo rapida
nella mano aperta del riccio. Sul volto di quest’ultimo si aprì immediatamente
un ghignò furbo, l’altra era completamente seria. Linda
portò le dita alle tempie, iniziando a massaggiarle con delicati movimenti
circolari: qualunque cosa stesse succedendo in quel momento, non lo voleva
assolutamente sapere. Aveva promesso a sé stessa che avrebbe lasciato perdere
per sempre qualunque cosa riguardasse Adrien Miller e, soprattutto, Duff
McKagan. Aveva avvolto per sempre quella catena di ferrò
arrugginito attorno al proprio cuore.
Ma
Linda Johnson dovette ricredersi quando, davanti ad una massiccia porta in
legno scuro, lesse impietrita le lettere che componevano la sua condanna a morte.
Il foglio bianco appeso alla superficie lignea era uguale a quelli appesi a
tutte le altre camerate, ma nessuno dei suoi compagni di scuola se ne stava
impalato davanti alla soglia della propria stanza nell’ostello che la Renton
s’era potuto permettere come se avesse appena visto un fantasma. “Fantasma è la parola giusta”. Era nei
guai, nei guai fino al collo. – Ah, bene, sono in camera con te. – puntuale
come la morte. La voce che aveva imparato ad evitare richiamò la sua attenzione
proveniente da un punto dietro di lei, ma Linda non ebbe il coraggio di
voltarsi subito. Misurò ogni movimento in modo da impiegare più tempo possibile
per voltarsi e trovarsi faccia a faccia con l’evidenza che quella gita, che
s’era persino prospettata gradevole, si sarebbe trasformata in un incubo. Al
contrario di lei, la persona con cui avrebbe condiviso la stanza per due notti
sembrava tranquilla, perfino entusiasta. Teneva con una mano il trolley di
pelle nera e con l’altra si pettinava con gesti eleganti una
ciocca di capelli color del fuoco, mentre la spina dorsale di Linda
sembrava irrigidirsi man mano che i minuti scorrevano. – Vogliamo entrare? –
Adrien le rivolse quello che probabilmente era uno dei suoi sorrisi più
smaglianti, prima di precederla entrando nella spartana camera. Sì, decisamente
quella gita sarebbe stata un incubo.
-
Ragazzi, fatemi entrare. – il giro d’ispezione per controllare che le finestre
delle camere al pianterreno e le porte dei terrazzini ai piani superiori dello
squallido ostello era perfettamente inutile. Nessuna minaccia o protesta da
parte del più temuto degli insegnanti avrebbe impedito ad un paio di eccitati
studenti di sgattaiolare fuori la notte per godersi alcune ore di baldoria con
il resto della comitiva. Eppure la professoressa Keenan, ligia al dovere come
sempre nonostante la spossatezza che le aveva regalato delle appariscenti
occhiaie violacee, non sarebbe andata a letto senza prima aver svolto ogni suo
compito. Purtroppo, le erano toccate le stanze del primo piano, segno che qualcosa
in lei doveva funzionare davvero male per attirare così tanta sfortuna.
“McKagan, Hudson” recitava il foglietto appeso alla porta della camera. –
Ragazzi, aprite immediatamente, devo controllare che le imposte siano chiuse. –
ripeté, martellando le nocche un po’ più forte sulla porta. Pochi secondi e
sarebbe tutto finito. “Pochi secondi, e
poi potrai tornare a letto con le tue infantili fantasie”. – Emh,
professoressa… - ecco. Non poteva ovviamente filare tutto liscio. –
Professoressa… Io non credo di sentirmi molto bene… Ho, tipo, mal di testa e
una cosa così, ma non mi sono portato niente dietro. – la figura che scivolò
attraverso la fessura che costituiva l’apertura della porta della camera
suscitò in lei un respiro esasperato e al contempo malinconico che non riuscì a
trattenere. Poi, iniziò a preoccuparsi.
Si
sentiva un quattordicenne. Un maledetto adolescente con una forte sindrome di
Peter Pan, incapace di muovere un passo senza cercare la mano rassicurante
della mamma. Accentuò, di riflesso al nervosismo che lo stava cogliendo mentre
attraversava l’attiguo corridoio, il finto tremolio con cui scuoteva il proprio
corpo in una vaga parodia di malessere. Slash gliel’avrebbe pagata sul serio, e
anche quella lunatica della sua ragazza. – Insomma, il signor Smith mi aveva
comunicato che a disposizione dei clienti vi sarebbe sempre stata una
valigetta. Presumo che vi sia dell’aspirina al suo interno. – formulando
pensieri poco eleganti su dove avrebbe preferito infilare all’amico ricciuto,
che giaceva su uno dei letti della loro camera stravolto da un bad trip,
l’aspirina di cui parlava la Keenan. Quando giunsero alla squallida sala
d’ingresso dell’ostello, trovarono le luci spente. Probabilmente il vecchio
matto che gestiva quella topaia aveva preferito chiudere la baracca e recarsi a
folleggiare in centro città. lasciando i clienti al
loro destino. – Sì, deve essere qui, da qualche parte. – Duff era cosciente del
fatto di non essere mai stato un bravo attore, fin dalle prime recite
dell’asilo in cui l’avevano camuffato da banana in una rappresentazione della
Catena Alimentare. In quell’occasione, era scoppiato a piangere davanti a tutti
i genitori presenti all’evento. Mentre quindi la professoressa gli dava le
spalle per cercare qualcosa nei pressi del bancone del receptionist, osservò i
movimenti della donna e desiderando ardentemente una sigaretta. La Keenan
teneva gli occhi puntati sulla consunta moquette, e a fatica nascondeva il
rossore imbarazzato che le dipingeva le gote. Alle flebili luci esterne, che
costituivano la sola loro fonte d’illuminazione, e senza l’aria castigata e
severa di sempre, sembrava persino bella.
-
Professoressa – continuò a fingere d’ignorarlo quando udì il rumore di quegli
improbabili scarponi avvicinarsi a lei, senza ricorrere alla riserva di
coraggio ormai quasi esaurita e alzare lo sguardo su di lei. Continuò così a
frugare fra le scatoline impolverate contenute nel ripiano sotto il bancone
nonostante fosse palese che nessuno in quel momento aveva
il benché minimo bisogno di un’aspirina. – Professoressa – chiamò ancora, a
qualche passo di distanza dalla figura ricurva della donna. – Dimmi, McKagan! – Robin si congratulò con sé stessa quando,
riuscendo finalmente ad aprire la bocca, parlò in un tono chiaro e coinciso che
non rispecchiava affatto il suo stato d’animo. Il suo cervello era in pieno
tilt da quando si era aperta la porta della camera che il biondino condivideva
con Hudson e se l’era trovato davanti. – Professoressa, mi guardi – il tono del
ragazzo però mutò di colpo. Improvvisamente, una sfumatura metallica e ostile
nella sua voce la convinse che ormai non era più possibile evitare l’ambiguità
della situazione. “Ora, sei veramente
fregata Robin”. Si alzò con esagerata lentezza, prima di incontrare con le
iridi celesti i pozzi di un verde profondo che erano gli occhi di Michael
McKagan. – Professoressa, io le piaccio? – e, per una
attimo, pensò veramente che il suo cuore fosse sul punto di smettere di
battere. Il tono carezzevole, così diverso dalla voce che aveva scorto nel
ragazzo prima, le bloccò il respiro.
Vulnerabilità:
era questo ciò che trovò quando tolse la maschera di donna saggia e severa di
Robin. Un brivido involontario che percorse la spina dorsale della donna e che
questa non riuscì a mascherare lo convinse, trasformando l’emozione che ogni
poro dell’insegnante sprizzava in qualcosa di palpabile. Duff provò la forte
tentazione di sollevare una mano e posarla sulla guancia di quella che per lui
era una perfetta sconosciuta: aveva la sensazione che vi avrebbe trovato solo
un velo di cartapesta, e non il calore che la pelle umana solitamente umana. Ma non si mosse. – Che cosa? – domandò
balbettando Robin, avvertendo le proprie membra contrarsi dolorosamente
nonostante l’assoluta immobilità del suo corpo. Era come se fosse diventata più
piccola, abbastanza fragile per crollare alla prima
avvisaglia dell’imminente sisma. Ma non
si mosse. – Professoressa, mi fa un favore? – la richiesta non ancora
svelta di Duff giunse alla sue orecchio in un
sussurro, tanto che per un attimo pensò d non aver realmente capito la natura
delle parole. – Professoressa, ho bisogno di scappare. – non fu mai sicura che
quelle ultime parole, prima del cataclisma, fossero realmente state pronunciate
dallo stesso ragazzo che ridusse a zero la distanza fra loro. Quando le labbra
del biondino si posarono sul suo collo dopo che le dita lunghe e nivee le
scostarono le ciocche ingombranti di capelli castani, Robin Keenan ebbe la
certezza di non stare capendo più niente. Si abbandono senza pretese né
proteste fra le braccia della disperazione e del ragazzo, avvertendo le
ginocchia cedere e il suo corpo raggiungere la moquette sporca dell’ostello.
Duff s’intrufolò nel suo corpo e nei suoi pensieri in punta dei piedi, per poi
esplodere con lei nei flutti della propria rabbia. “Se sono innamorato di te, è colpa tua e
della tua stupidità. Adrien Miller, ti amo e la colpa è tutta tua”.
-
Sai… - con la schiena curva su un libro ingiallito che sarebbe stato più adatto
alla vetrina di un antiquariato che alla libreria personale di una giovane
ragazza, Linda sarebbe rimasta molto volentieri assorta nella lettura di
“Oliver Twist” di Dickens, se non fosse stata per quella voce. Alzando la testa
dalle righe che l’avevano catturata, lasciò che nel proprio campo visivo
entrasse la piccola pozza d’acqua che il corpo ancora bagnato e avvolto da un
candido asciugamano stava creando sulle piastrelle del pavimento del bagno che
s’intravvedeva attraverso la porta aperta. Aveva sperato di poter godere della
solitudine della stanza e del proprio libro per un po’, prima che Adrien
uscisse dalla doccia. Se l’avesse sentita, avrebbe immediatamente attuato il
piano e sarebbe scappata nella camera che Maxie condivideva con una ragazza del
loro anno. Ma Dickens le aveva teso una trappola involontaria, con il suo
stupendo romanzo. – Saremmo potute diventare grandi amiche, io e te. – il
sorriso enigmatico dalle sfumature inquietanti che aveva fatto la propria
comparsa sul volto di Adrien andava a braccetto con lo scalpore che quella
frase, così inappropriata, aveva suscitato in Linda. Ricordandosi in fretta di
chiudere la bocca e celare, per quanto possibile il proprio stupore, la ragazza
iniziò lentamente ad assimilare il significato di quelle parole oscure. – Ma di
c-cosa stai parlando? -.
-
Lo sai, oh, eccome se lo sai. – la sensazione di dejà vu impregnò tutta la
stanza del proprio amaro sapore. La tensione salì tanto da poter essere
tagliata con un coltello, mentre gli occhi grandi ed innocenti di Linda
s’incatenavano a quelli tempestosi e brillanti di una strana emozione di
Adrien. Quest’ultima portò una mano a ravvivare i lunghi capelli umidi, a cui
l’acqua aveva donato una sfumatura più intensa, rimanendo immobile all’ingresso
del piccolo bagno. – Non dirmi che non ci hai mai pensato. A come sarebbe
potuto essere, se non ci fosse stato Duff. – No, Linda non aveva nemmeno
sfiorato l’idea di quella possibilità, e la rossa l’aveva capito da subito. Ma
stava giocando con la vulnerabilità della sua avversaria, sfruttando l’occasione
di metterla a tacere di nuovo senza un preciso motivo. Le gote della moretta si
tinsero di una sfumatura vergognosa di rosso, svelando il suo disagio e
tradendola, come al solito. – Beh, io… insomma… - ma come ribattere ad
un’affermazione come quella? L’alternativa a mentire spudoratamente era
dichiarare guerra, ed era l’ultima cosa di cui la sfortunata Linda aveva
bisogno. Quella strega l’aveva fatto apposta, premendole le spalle contro il
muro un’altra volta. “Cosa vuoi da me?”
avrebbe voluto gridare la ragazza, che invece rimase immobile e rigida sul
proprio letto spartano. Un sorriso tremolante le distorse il volto, più simile
ad una smorfia di dolore che ad un’espressione di gioia.
-
Ma noi possiamo ancora essere amiche,
vero, piccola Linda? – proseguì allora Adrien,
contenta del silenzio che seguì il balbuziente tentativo di schernirsi dal suo
attacco della ragazza. L’appellativo con cui si era a lei rivolta
tempo prima, nel bagno lugubre e poco illuminato in cui l’aveva
schiacciata, si mescolò a quella richiesta falsa ma dolce come il miele. Era il
suo modo per porre indirettamente i termini di un accordo che non avrebbe
portato a niente. Piccola era un
aggettivo direttamente proporzionale al potere che aveva e avrebbe continuato
ad esercitare su di lei, spaventandola da lontano. – In fondo, per te è ormai
passato… - ed improvvisamente Linda sentì montare dentro di sé un odio
profondo, quasi doloroso persino per lei che lo stava provando. E quella
potenza l’accecò per pochi attimi, abbastanza perché ponesse attenzione
all’immagine che la sua mentre proiettò fra ricordi vividi. Duff che baciava lei, che sorrideva per lei e che adorava lei.
Ed Adrien Miller non ne aveva ancora abbastanza. – No? – se fosse stata così
ingenua da pensare che quella sicurezza, d’un tratto
vacillante nell’incalzarla ad una risposta, potesse essere scalfita, forse
sarebbe caduta nella tela tessuta dalla rossa. Invece sorrise, illuminandosi di
una felicità discreta che proprio da Adrien aveva imparato ad ostentare.
-
Certo – non poteva esserci affermazione più falsa di quella. E, nello stesso
momento in cui aprì bocca, qualcosa fra gli esseri umani che erano celati
dietro quelle menzogne si ruppe definitivamente. Linda Johnson aveva solo
creduto di aver odiato Adrien Miller più di qualsiasi altra cosa al mondo,
finché quella sera in una città lontana dalla metropoli che aveva visto i loro
travagli quell’insolente ragazza commise l’errore di sottovalutarla. Ogni
legame, che fosse stato di solida antipatia come il loro o della possibile
armonia che Adrien predicava con tanta ipocrisia, cessò di esistere. A voce, si
dichiararono amicizia, dando il via alla battaglia. – Bene. Io vado a trovare
Duff, allora. Ci vediamo dopo. – con ancora il sorriso sulle labbra, Linda
tornò alle avventure dell’orfanello di Dickens, dopo aver accuratamente notato
il brivido che corse lungo la schiena della rossa. Udì il frusciò
dei vestiti di cui la ragazza si stava abbigliando senza battere ciglio, senza
aggiungere altro. “Credi di fregarmi di
nuovo, troia?” la timida, piccola Linda non era mai stata così determinata
in vita sua. Che Adrien andasse pure a trovare Duff, il ragazzo che ancora
amava e a cui quella strega aveva strappato il cuore. Da lei, non avrebbe avuto
più nulla. Mai più.
Qualcun
altro stava maledicendo Adrien Miller in quel momento, tanto che se anche solo
un membro di quel gruppetto fosse uscito allo scoperto abbandonando il terrore
che quella ragazza incuteva ne avrebbero potuto fare uno sport nazionale. Slash
si tirò le coperte fin sopra la testa quando la porta della propria stanza si
aprì, cercando di contenere le convulsione che
scuotevano il suo corpo. “Merda”. Se
fosse stato un insegnante, avrebbe avuto il suo bel da fare per spiegare come
s’era procurato la pillola di LSD che gli aveva procurato quel bad trip. Se
avesse anche solo osato raccontare che la signorina
Miller aveva nascosto l’equivalente di mille dollari di stupefacenti in una
vecchia scatoletta di farmaci, sicuramente nessuno gli avrebbe creduto.
Fortunatamente per lui, fu proprio la spacciatrice in questione a presentarsi
alla sua porta. Da sotto le spesse e polverose coperte
di lana, Slash mugugnò qualcosa che Adrien non riuscì ad afferrare. – Ti ho
chiesto – ripeté spazientita, con lo stesso tono che avrebbe usato per
rivolgersi ad un viscido vermiciattolo – dov’è andato Duff? -. Non era nel
carattere di Slash limare la verità per non ferire il prossimo, con la
delicatezza di un orso grizzly che si ritrovava. Aggiungendo a ciò il volto di
Michelle che nella realtà distorta dall’acido compariva a tratti regolari, Adrien
ottenne di sapere l’ultima cosa che avrebbe voluto sentire. – Via con la
Keenan. – ecco, le aveva rivelato l’informazione per cui era venuta. Adesso,
che andasse a farsi fottere.
I
sospiri che riempivano la stanza erano rumori semplicemente disgustosi, che ferirono le sue orecchie
come lo stridio di un gesso sulla lavagna. Non si accorse nemmeno che i graffi
che associò al proprio padiglione auricolare colpirono in realtà la carne
fragile del cuore, che iniziò a pulsare a rilento. Era stato tremendamente
facile trovarli: se avessero iniziato a dar spettacolo nel centro di Montréal,
sarebbe stata la stessa identica cosa. “Sembra quasi che si siano voluti far trovare. Che schifo!” pensò Adrien, appoggiando la propria schiena alla
parete del corridoio che dava sulla sala d’ingresso e avvertendo il muro cedere
sotto il peso della propria coscienza e di ciò che stava udendo.
Avrebbe sgretolato con le sue mani quella pietra di pessima qualità, se avesse
avuto la forza fisica necessaria. Non osava sporgersi oltre la barriera fisica
che ancora la divideva dallo scoprire con i propri occhi i due corpi allacciati
dietro il bancone, alla mercé degli sguardi di chiunque sarebbe potuto passare.
Non le serviva nemmeno. Aveva passato troppo tempo ad ascoltare una delle due
persone che emanava quei sospiri, aveva dedicato troppa passione a suscitare il
roco ansito del ragazzo che in quel momento aveva ricambiato ogni sgradito
favore che Adrien gli avesse dedicato. E nemmeno per un attimo le passò per la
testa il pensiero che la colpa avrebbe potuto essere sua. Conficcandosi le
unghie nei palmi delle mani quando un grido strozzato della donna confermò il
piacere che aveva appena accolto quei due patetici,
udì le parole che innescarono in lei il meccanismo di vendetta. Se ne andò a
passo svelto, cercando di non svelare la propria presenza. Avrebbero pagato.
Avrebbero pagato tutto.
“ Bene,
nutri l’odio migliore con assiduità
dagli ambascia e
rancore,
lui t’accecherà. ”
(Marlene Kuntz – L’odio migliore)
NOTE DELL’AUTRICE
Eccomi qui, in una ritardo che ormai è diventata consuetudine. Grazie a chi
ancora mi sopporta J
Intanto,
la storia è aumentata di un capitolo poiché la gita in Canada richiede una
descrizione talmente dettagliata da non poter essere contenuta in un solo
capitolo. Beh, non è un problema per me, ho già avvisato che la storia è
relativamente più corta della precedente Love willtearusapart,
e capitolo più capitolo meno ormai siamo quasi al termine.
La
scelta di Montréal come città Canadese visitata dalla scuola non è casuale.
Inizialmente pensavo di scegliere Toronto ma poi ho cambiato idea: visto che i
ragazzi delle scuole americane possono scegliere di studiare svariate lingue
assieme, mi è parso più saggio optare per una città francofona. Gli accenni di
storia sono tratti molto liberamente da Wikipedia, così come le scarse
informazioni che si leggono sulla cattedrale di Notre-Dame. Ma pareva
appropriato fornire alla nostra Adrien uno scenario “neogotico”.
Non
so se un adolescente possa soffrire della sindrome di Peter Pan, ma mi sembra
che suoni abbastanza bene xD.
Il
proprietario dell’ostello ha un cognome inglese perché, se fossi una
professoressa incaricata di gestire una gita, manterrei distante l’approccio
con la lingua dal sopravvivere in territorio straniero. In più, “Smith” è un
elogio al protagonista de “La Cantatrice
calva” di Eugène Ionesco, che io e la compagnia teatrale di cui faccio
parte porteremo in scena quest’anno.
La
recita sulla Catena Alimentare è un colpo di genio dettato dal cuore xD.
Il
dejà vu di Linda ed Adrien riguarda l’ultima scena del capitolo 9, “Turn the lights on”. Sì, quando Adrien ha iniziato ad essere stronza
sul serio con tutti.
Grazie
alle persone che commentano e seguono, siete la mia forza. Vi amo!
(Le luci della centrale elettrica – Quando tornerai dall’estero)
“Dimmi che ci sarai”. Quattro parole
pesanti come macigni, di un colore plumbeo e minaccioso, che oscillavano nella
sua mente scalciando lontano i pensieri che avrebbero potuto distrarlo. La voce
che le aveva sussurrate al suo orecchio suonava ora incredibilmente sbagliata:
la nota di disperazione in quel tono vellutato era chiara e gli rivoltava lo
stomaco. Altre parole, altri discorsi attorno a lui si mischiavano in una sorta
di strano incantesimo di cui non riusciva a carpire l’essenza. Tutto andava
avanti senza che lui vi prestasse alcuna attenzione: le battutacce di Slash, a
cui avrebbe riso volentieri se non fosse stato per quelle quattro parole, la
spiegazione della professoressa di storia dell’arte, che comunque non avrebbero
suscitato il suo interesse… Tutti quei suoni andavano disperdendosi nell’aria
senza tornare al destinatario, che con lo sguardo fisso su un punto qualsiasi
della città che lo circondava non era in grado di sottrarsi ai propri ricordi.
Faceva male. Un male sordo, composto di fitte lancinanti che lo coglievano in
ogni parte del corpo, un male che aveva sottovalutato. Era un senso di colpa che non avrebbe voluto, non
avrebbe dovuto provare. Era inesorabilmente sbagliato. “Dimmi che ci rivedremo”. Duff McKagan si sentiva definitivamente
fottuto.
-
Ehi… - eccolo, il tuffo al cuore che stava aspettando inconsapevolmente. Il
tocco delicato delle dita sul suo braccio avvolto dalla pelle del chiodo che
indossava sembrò una scossa elettrica troppo potente per un qualsiasi uomo. Si
pentì di essersi voltato a fissare la fonte di quella corrente non appena si
rese conto che non avrebbe comunque potuto resistere alla tentazione
d’incontrare i suoi occhi. – Come stai? – per pochi secondi, Duff credette sul
serio di essere dentro un segno. O dentro un incubo. Ma gli occhi di Adrien
rilucevano una serenità che addosso non le aveva mai visto e che, se possibile,
riuscì ad inquietarlo ancora di più. – Bene. Perché me lo chiedi? – c’era
qualcosa di strano nella premura con cui lei gli aveva rivolto la parola. Il
tocco semplice e dannatamente sensuale che ancora premeva sulla sua spalla si
fece di poco più intenso, come se lei si stesse trattenendo dal staccargli un
braccio brutalmente. Quella della rossa era la calma che precede un assassinio.
– Niente. Ho fatto male? – la punta di malizia che scaturì da quella domanda
apertamente civettuola lo rassicurò, ma non bastò a spegnere completamente le
sue inquietudini. Scorse la luce in quegli occhi dello stesso colore del cielo
canadese sopra di loro, e si scoprì a pregare una qualsiasi entità sconosciuta
perché i suoi presentimenti non fossero corretti. “Lei sa”.
Davanti
al silenzio del ragazzo, Adrien si concesse un sorriso che avrebbe potuto
essere di circostanza ma che nascondeva ben altre emozioni. Le parole di
un’appassionata e triste Robin Keenan non avevano trovato alloggio solo nella
mente del biondo. – No. Beh, è… strano. – scuotendo la testa con vigore, Duff
non riuscì a non balbettare nel formulare una risposta che suonasse più o meno
sicura. Si affrettò a passarle un braccio attorno alle spalle, prima di essere
travolto da un’ondata di possessività nei confronti di quella ragazza. Incrociò
ancora una volta il suo sguardo, limpido e custode degli innumerevoli segreti
che nascondeva nel complicato meccanismo che sbuffava sotto la coltre di
capelli rossi, e gli sembrò di esplodere. La strinse fra le braccia, incurante
delle risatine dei compagni e delle occhiatacce dei professori, i quali
comunque erano abbastanza stanchi di quella irritante gita scolastica da
dimenticarsi di riprenderli. Il ragazzo socchiuse gli occhi, tuffando il naso
nei capelli color del fuoco di Adrien, prima di sussurrare – Sei una stupida. –
un’affermazione priva di una motivazione in particolare. Brividi corsero giù
per le schiene di entrambi, prima che Slash reclamasse l’attenzione dell’amico
e lo distogliesse da azioni che, secondo l’opinione del riccio, nella loro
dolcezza rivelavano un’omosessualità repressa. Il sorriso però non venne
cancellato dal volto della rossa, illusorio. “Brutti i sensi di colpa, eh?”.
Una
delle silenziose spettatrici di quell’insolita scena d’affetto della coppia
tirò un sospiro di sollievo non appena Duff venne allontanato dalla ragazza.
Robin non sentiva di essere in grado di dominare i propri istinti, non più: se
qualcuno a conoscenza degli intrecci di quei giorni oscuri le avesse parlato di
sentimenti, la donna avrebbe riso di gusto per la prima volta dopo tanto tempo.
Era una questione di collezionismo: la sala personale dei trofei di quella
fragile creatura racchiusa in un corpo da femme fatale non era ancora completa.
E vedere la propria acerrima nemica, che al contempo era stata confidente e
amica come mai nessuno nell’insipida vita della professoressa, stretta a Duff
come poche ore prima era stata lei era un punto a suo svantaggio. Quel ragazzo
era davvero bello. Celata nel gruppetto degli insegnanti che passavano quei
minuti a sperare che tutto finisse presto, Robin si lasciò sfuggire un altro sospiro. Ed Adrien, la sola che nella coltre di
studenti disinteressati alle spiegazioni sull’ennesimo monumento prestasse
attenzione a quella figura solitaria in mezzo a tutto, non mancò di notare ciò
con una certa soddisfazione. Il bello sarebbe arrivato quando il sole che
rischiarava Montréal attraverso le nubi grigie sarebbe calato verso
l’orizzonte. E l’avrebbero pagata.
-
Bleah, coglione, stai diventando una femminuccia – era ovvio per entrambi che
il vero motivo del fastidio pungente di Slash era in realtà una scomoda
nostalgia. La vista del momento apparentemente romantico fra il proprio
migliore amico e la rossa aveva rievocato nei suoi pensieri alcuni ricordi
difficili da sopportare. Duff rise con voce stranamente arrochita, imponendo a
sé stesso di non voltarsi a cercare ancora un paio di occhi grigi capaci
d’inghiottirlo. Di nuovo, la sgradevole sensazione di vuoto allo stomaco lo
assalì, mentre le immagini di ciò che era successo dietro il bancone
dell’ostello si succedevano nella sua mente come un film. – Ma zitto, cazzone,
che disturbi le signorine che vogliono stare attente. – la destinataria dell’indiretta
battutina era proprio davanti a loro, china su un block notes sul quale faceva
scorrere con innaturale velocità la penna, trascrivendo il noioso discorso
dell’insegnante praticamente parola per parola. I due ragazzi la circondarono,
posandole in contemporanea le mani sulle spalle per leggermente, scherzando.
Linda sussultò dallo spavento, tracciando per sbaglio un lungo sbaffo
d’inchiostro blu sugli appunti immacolati. – Ma dai! Guardate che disastro! –sembrava che ai due
ragazzi non importasse granché di aver appena “rovinato” la lezione che la
ragazza stava preparando per loro. I due presero a ridere sguaiatamente per la
reazione della loro amica che, rossa dall’imbarazzo della confusione di cui era
stata involontariamente complice, esponeva sul viso delicato il suo migliore
broncio.
-
Sempre a rompere le palle agli altri! – alle loro voci ridenti si unì quella
falsamente seccata di Maxie, che poco distante da loro aveva trovato fin troppo
buffa la povera Linda ma che cercava comunque di dimostrarle una sorta di
solidarietà femminile. La sua espressione la smascherava, rivelando ogni suo
sforzo per non scoppiare a ridere. Senza notare il suo pallido tentativo di
difenderla, la moretta le rispose con una piccola linguaccia. – Maxie, sei
troppo acida. Sorridi! – Slash non tardò a riprendere l’amica con un sorriso
sornione, da buontempone qual’era – So come farti passare tutta questa voglia
di fare la stronza. – ammiccò quindi in sua direzione, per poi mordersi la lingua
non appena il volto piangente di Michelle balzò nella sua mente. Trattenendosi
dal commentare con ancora più cattiveria, Maxie portò la propria attenzione
verso Duff. – Dove hai lasciato la tua troietta? – si era spinta troppo in là,
contagiata da un’irritazione dovuta ad un miscuglio d’insonnia notturna e
pessimo carattere. Si tratto di pochi attimi, in cui un lampo attraverso il
verde intenso degli occhi del biondino. – Taci – sibilò, prima di rivolgere
un’occhiata alla rossa poco distante da loro – Si può sapere che ti ha fatto? –
domandò in seguito, in ton arrabbiato per l’ennesimo attacco dell’amica nei
confronti della sua ragazza. “Sono io la
troia di turno” pensò Duff.
I
vividi occhi azzurri di Maxie incontrarono quelli scuri e turbati di Linda, prima
che quest’ultima riportasse lo sguardo al cemento sotto i propri piedi. Il
patto di silenzio suggellato mesi prima era stato scritto nello sguardo della
moretta in quella sera in cui, per la prima volta dopo anni di amicizia, si era
rifiutata di confidare un segreto all’amica del cuore. La vergogna le aveva
impedito di confessare le crudeli parole di Adrien Miller, che lei stessa aveva
lasciato scivolare sulla propria pelle ad ustionarla, ma non aveva annientato
un odio istintivo di Maxie per quell’angelica e al contempo malefica rossa. –
Se la tira troppo, te lo dico sempre. – con quella dichiarazione di sufficienza
la biondina chiuse il discorso, ignorando le occhiate gonfie d’ira di Duff.
Forse, se fosse stata più attenta a quell’ostilità che il delicato argomento
suscitava in lui, Maxie avrebbe scorto il rimorso nascosto dall’amico e avrebbe
compreso i guai in un paradiso tutt’altro che tranquillo. La risatina convulsa
di Slash smorzò però quella strana atmosfera. – Che deficiente di donna! – commentò
il riccio, prima di assestare una poderosa pacca sulla spalla del biondino, il
quale quasi cadde in avanti sotto il colpo. Tipiche scene di un’amicizia basata
sul badare tranquillamente ai propri affari, come solo i maschi sanno fare.
-
Non riesco a capire come fai a non annoiarti a morte. – dopo qualche minuto di
spensierate battute che gettarono ombra alla spiegazione finale
dell’insofferente docente di storia dell’arte, gli argomenti di conversazione
del gruppo si esaurirono. Gli studenti seguirono gli insegnanti attraverso la
città, interessati a visitarla quanto a prendere appunti. Fu all’unica figura
che rileggeva le sottili righe tracciate in una fitta scrittura incomprensibile
su un ordinatissimo quaderno che Duff si rivolse, ficcando le mani in tasca e
rimpiangendo di non poter fumare davanti a tutti i professori che tenevano
d’occhio i suoi compagni. – Eh? – domandò sovrappensiero Linda, prima di
distogliere lo sguardo dalla data di fondazione della città di Montréal.– Oh, no! Cioè… no, no, insomma, basta… farci
l’abitudine! – “Sei ridicola”. Quel
ragazzo aveva l’innata capacità di farle uscire dalla bocca sottile le idiozie
più imbarazzanti. Abbassando lo sguardo al cemento grigio del marciapiede su
cui gli studenti della Renton si stavano strizzando, immaginò in quegli occhi
verdi e profondi una perplessità prossima all’ironia. Se avesse alzato lo
sguardo però, avrebbe letto sull’espressione di Duff solo un affettuoso
divertimento. – Se lo dici tu. – l’assecondò il ragazzo, pensando con finta
ansia al fatto che, una volta tornati a Los Angeles, avrebbe dovuto ricopiare
quegli appunti apparentemente infiniti. Il suo lato melodrammatico da rockstar
gli impose però di domandarsi se sarebbe tornato in California
vivo.
-
Già – biascicò la moretta, prima di voltare di poco la testa per gettare
un’occhiata di sbieco alle loro spalle, senza riuscire a trattenersi. La testa
rossa che stava cercando teneva gli occhi fissi su una loro compagna di classe
e le labbra appena incurvate in un sorriso indifferente, mentre la sua
interlocutrice s’impegnava per trasformare la conversazione che evidentemente
stavano intrattenendo in un monologo. Linda si ritrovò a chiedersi se il non
essere spiata rappresentasse per lei un sollievo o una sfortuna. Prima di trovare
una risposta soddisfacente, si lasciò dominare dall’istinto, lasciando che i
pensieri corressero a briglia sciolta verso le proprie corde vocali. – Senti…
Se non ti disturbo, avrei… bisogno di parlarti. Quando puoi. Sempre se ti va. –
ecco, l’aveva detto. Era stato più facile di quello che aveva creduto fino a
poche ore prima. Osservò le sopracciglia scure di Duff aggrottarsi davanti a
quella inaspettata richiesta, come a formulare dubbi e domande che il ragazzo
non pronunciò mai. – Okay. – si limitò a rispondere, un po’ scioccato e
confuso, senza sentirsi in grado di aggiungere altro. Abbozzò un timido
sorriso, che venne ricambiato con altrettanta discrezione della compagna. Poi
il silenzio li divise, creando una barriera che, scivolando attraverso le imperfezioni
di una porta chiusa ed invisibile, riempì di spifferi i loro spazi vuoti.
Nessuno si accorse del gelo in un paio di occhi tenebrosi, prima che questi si
concentrassero nuovamente sulla noiosa operazione di stringere l’amicizia con
Jane Wellington.
A
Los Angeles picchiava, come di consueto, un sole impietoso che dannava i
numerosi abitanti della metropoli. Nel Sud della West
Coast il vento incessante e le bufere dell’imprevedibile clima canadese erano
soltanto un miraggio, e Izzy, che ormai abitava da un po’ in quel caldo afoso,
lo sapeva bene. Dopo alcuni minuti passati fermo immobile con la chitarra fra
le braccia, cercando di togliere le impronte delle dita da essa con uno
straccio che non si sarebbe potuto dire pulito, si arrese all’idea di un ennesimo
pomeriggio di ozio. Dalla sagoma di Steven, come al solito buttato sul divano
in assenza di un modo migliore per ammazzare il tempo, proveniva il solo
incipit della sinfonia di russare che avrebbe preso il via a momenti. Axl
girovagava per le poche zone ombrose del magazzino, attendendo che una parvenza
di brezza fresca allettasse quel buco che loro chiamavano casa. Il rosso
inoltre canticchiava fra sé e sé le parole confuse di una canzone che Izzy non
aveva mai sentito. Cercò a tentoni, senza sollevare lo
sguardo dal punto nel muro in cui teneva fissi i propri occhi neri, un
pacchetto qualsiasi di sigarette, ascoltando con attenzione l’amico. – E’
nuova? – chiese infine, aggiungendo al sonoro sonno di Steven un suono
decisamente più gradevole. Il canto di Axl s’interruppe solo perché questo si
aprisse in un ghigno quasi mefistofelico.
-
In fase di rielaborazione. – si limitò a rispondere il vocalist, prima di
riprendere quel motivetto ancora incompleto. Izzy sospirò profondamente,
tentato dallo scuotere la testa con disapprovazione:
finché ogni singolo progetto nella sua testa non risultava perfetto, Axl si
rifiutava di condividere i propri pensieri con il mondo. “Siamo i critici più severi di noi stessi” pensò saggiamente il
moretto, appoggiando al muro la schiena e allungandosi di traverso l’insieme di
cassette per la frutta su cui era seduto. Le dita pizzicarono abilmente, con la
delicatezza che di solito si dedica alla donna amata, le corde della chitarra,
producendo qualche limpida nota. – Per favore, sveglia Steven. Questo rumore mi
ha fatto venire il mal di testa. – con maniera quasi da gentiluomo per gli
standard del magazzino ed una smorfia irritata sul volto, Izzy non dimostrava
il malessere di cui parlava. Ma Axl non si sarebbe certo lasciato scappare
quella scusa per infastidire il prossimo senza un preciso motivo. Era nel suo
carattere cercare sempre una nuova preda a cui distruggere l’anima a suon di
prese in giro e scherzi pungenti. Si avvicinò di soppiatto, per quanto lo
permettessero le cianfrusaglie sparse sul pavimento, al divano su cui dormiva
Steven, preparandosi all’attacco. E il telefono suonò.
Tutti
e tre, persino il biondino in stato di dormiveglia, si sorpresero
immediatamente di quel suono. L’apparecchio, mezzo distrutto dopo che Slash, in
un attacco di follia, l’aveva scaraventato contro uno dei muri e Duff, pieno di
buona volontà ma privo di qualsiasi senso pratico, aveva tentato di ripararlo,
non dava segni di vita da settimane. Era diventato un semplice soprammobile,
attaccato alle prese della corrente per poche ore al giorno, per alimentare la
vana speranza di una ripresa da parte dei meccanismi. Dopo un attimo di
smarrimento, Axl corse alla cornetta. – Sì? – rispose con tono irriverente e
beffardo, incurante del fatto che la prima chiamata dopo settimane di stato
vegetale di quel trabiccolo avrebbe dovuto essere
sfruttata. Izzy sorrise fra sé e sé, trattenendosi a stento dallo scoppiare a
ridere: quel rosso era un autentico fenomeno da baraccone, lo era stato sin da
bambino e probabilmente lo sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni. Ma
guai che qualcuno si azzardasse a riferirglielo. La chioma stopposa di Steven
riaffiorò dai cuscini sfondati del divanetto: senza curarsi di mettersi la mano
davanti alla bocca, il batterista sbadigliò confuso per il robusto risveglio.
Per pochi attimi, la tranquillità regnò sovrana in quel tripudio di caos.
Poi
Axl sbiancò: la sua carnagione già pallida assunse un delicato colorito
verdognolo che allarmò subito i compagni tanto quanto il suo trattenere il
respiro con forza. – Chi? – lo sentirono domandare, mentre la sagoma di
Michelle, che approfittava dell’assenza del proprio ex per andare a trovare i
ragazzi, compariva in lontananza. – Oh, cazzo. Beh, sì, cioè, siamo noi. – Axl
incespicò nelle proprie parole, generando negli altri un senso di profondo
disagio. Axl non balbettava né divagava mai,
per nessuno. – Sì, cioè… Beh, ma come ci avete trovato? – un coltello non
troppo affilato avrebbe potuto fare a fette la tensione che s’era mischiata
all’aria della stanza. Prima che l’amica potesse salutarli con un entusiasmo da
molto tempo un po’ falso, Izzy si portò l’indice alla
labbra segnalandole di star zitta. Dapprima perplessa, Michelle divenne subito
seria. – Ah. – poteva essere chiunque. Poliziotti, avvocati, spacciatori
vendicativi, semplicemente qualche idiota che voleva farla pagare ad uno di
loro per centinaia di motivi. Il cervello di Izzy iniziò a lavorare, ogni
complesso meccanismo della sua mente da grande pensatore in erba si focalizzò
sulla figura dell’amico in piedi, con la cornetta attaccata all’orecchio. “Me la sento, siamo fottuti” il sorriso
luminoso di Axl però cancello le sue preoccupazioni.
Le
porte della sala da pranzo erano socchiuse, proiettando una striscia di luce
calda sulla parete spoglia e triste del corridoio. Il vociare che proveniva
dalla stanza era di tali proporzioni da lasciar credere che ogni studente
stesse consumando la pessima cena garantita dall’ostello. La scusa dell’urgenza
di andare in bagno di Duff non avrebbe retto per più di un quarto d’ora, ma
quel tempo sarebbe stato sufficiente per cancellare ogni errore. Doveva
rimuovere quel senso di colpa che gli stava rivoltando lo stomaco da ore. “Fatti viva” aveva
sperato che la professoressa, alla quale aveva chiesto il permesso di recarsi
fuori dalla sala, potesse intuire al volo la sua muta, e falsa, richiesta.
Eppure a calpestare la moquette lisa e scolorite c’era soltanto lui, unico
ascoltatore della marea di chiacchiere inutili che si perdevano nel gruppo di
studenti della Renton. “Beh, sempre
meglio che guardare Slash ingozzarsi come un maiale” cercò di consolarsi il
biondino quando, dando un’occhiata all’orologio appeso al muro, constatò che
qualcuno avrebbe notato la sua assenza. Adrien: il primo pensiero, o speranza,
fu che uscisse lei a cercarlo al posto della donna che stava aspettando. In
quel suo irresistibile desiderio di vederla comparire Duff ritrovò un bambino
vigliacco e sperduto. Aveva combinato quel guaio, e avrebbe rimediato. Non gli
passò nemmeno lontanamente per la testa che qualcun altro avesse voluto
quell’incresciosa situazione al posto suo.
-
Eccoti – niente gli impedì di trattenere il respiro alla vista del corpo
sinuoso della professoressa Keenan che faceva la propria uscita dalla sala da
pranzo dell’ostello. C’era una malizia in quegli occhi, un tempo caldi e pieni di vita, che suscitò in Duff una grande pena.
– Non abbiamo molto tempo… comunque sono contenta che tu mi abbia ascoltata. –
che modo carino di definire ciò che avevano fatto. Il bassista si trattenne dal
simulare un conato di vomito, ma evidentemente Robin lesse l’emozione che
provava sul suo volto. Le labbra carnose della donna s’incresparono, dando vita
a piccolissime rughe agli angoli della bocca. Per quello che parve un secolo,
nessuno di loro disse nulla. – Senta, prof… a me
questa cosa non mi va. Insomma, lei è… bella,
ma io sono innamorato di… - ah già. Ecco dove si era nascosto l’ostacolo più
grande fino a quel momento: il ragazzo alzò lo sguardo dal pavimento per
cercare una comprensione in quello di Robin, la quale aveva serrato la mascella
in un’espressione dura. – Io spero che possa capire,
prof… Dio. – la bestemmia che seguì chiamò all’appello ogni santo del paradiso.
E, per qualche attimo, la professoressa Keenan avvertì tutto il cielo caderle
addosso. Ogni lezione passata tamburello contro le sue tempie in un indefinito
arco di tempo, finché con un sorriso appartenente all’eterea presenza che
aleggiava fra lei e Duff non si decise a prendere in mano la situazione.
Slash
alzò la testa dal proprio piatto soltanto dopo il terzo richiamo di Maxie che,
seduta davanti a lui al lungo tavolo della sala da pranzo, sventolava con
impazienza una mano davanti al suo volto. Quella che avrebbe dovuto essere una
salsiccia giaceva sul suo piatto completamente a pezzi, e la forchetta che il
ragazzo teneva in mano sembrava muoversi automaticamente: era stato talmente
immerso nei propri pensieri da perdere il contatto con la realtà. Persino le
gambe erano invase dal tipico formicolio che indica i muscoli addormentati. –
Stavo pensando all’ultimo pezzo che abbiamo provato con i ragazzi. – borbottò,
con una voce profonda ed irritata che avrebbe potuto
appartenere benissimo ad un orso inferocito. Non era mai stato tropo bravo a
raccontare le bugie, e forse era anche per quello che si era lasciato crescere
i capelli. Ogni riccio era una protezione che lo allontanava dall’essere
scoperto. – Sì, bravo. – si lasciò condizionare dal tono sarcastico della
perspicace Maxie, che istigò in lui una voglia pazzesca di alzarsi e fare a
pezzi qualcosa. No, non era per niente bravo, anzi. Avvertì il forte bisogno di
tenere fra le braccia la propria chitarra, quella parte di sé in cui trovava
consolazione ed amore e che gli mancava da morire.
-
Dov’è finito il tuo amico? – il posto al suo fianco era vuoto da parecchi
minuti, tanto da sembrare libero da sempre. Il riccio alzò le spalle, grugnendo
di non farsi gli affari di Duff: probabilmente era andato a svuotare la
vescica, non poteva conoscere ogni spostamento dell’amico. Maxie aggrottò le sopracciglia biondo cenere, spostando poi lo sguardo alla
ricerca di qualcos’altro su cui scaricare il proprio umorismo cinico. Si
sentiva pentita di aver seguito Linda in quel posto per sprecare tempo a visitare
musei e monumenti, lontano dalla propria caotica casa e dall’amica Michelle.
Maxie era sicura che anche Slash la pensasse alla stessa maniera, in ogni
senso. La moretta al suo fianco chiacchierava tranquilla con una loro
lentigginosa compagna di classe, ma la ragazza sapeva che nessuno in quella
stanza stava ascoltando realmente il proprio interlocutore. Gli essere umani
sono così presi da sé stessi da escludere dalla loro natura qualsiasi
sentimento li renda inclini all’ascolto e alla comprensione. – Guardala, la smorfiosa! – borbottò fra sé e sé, indirizzando
un’occhiataccia in piena regola alla persona che stava passando in quel
momento. Adrien, mano nella mano con quella che doveva essere la nuova
amichetta del cuore Jane “Piattola” Wellington, stava lasciando la stanza con
un grosso sorriso sulle labbra. Chissà se quella secchiona avrebbe resistito
più di tre minuti sotto gli influssi di quella strega, si chiese Maxie.
In
quella sera, o meglio, in quei tre giorni in cui tutto sembrò andare a catafascio,
ognuno dei protagonisti di quella macabra storia commise l’errore sottile di
pensare di capire la mente complessa di Adrien. Persino Piattola Wellington,
occhiali dalla spessa montatura floreale sul naso e una fioritura di brufoli
intimidatoria, nonostante il suo ruolo da semplice comparsa sbaglio credendo
per poche ore di gloria che quella rossa desiderasse qualcosa di normale, per una ragazza della sua età.
– Ma che dici? Non ci credo! – l’eccesso di risatine isteriche della Wellington
era pari a quello di molte sue coetanee da lei considerate dal quoziente
intellettivo inferiore. Adrien annuì convinta, con un’espressione innocente che
non sarebbe mai stata parte di lei, prima di sporgersi verso la compagna
continuando a camminare, con una mano davanti alla bocca nell’imitazione di un
gesto confidenziale. – Ti giuro che li ho visti! Nemmeno io ci potevo credere!
– quella poveretta era uguale a tutte le ingenue della sua età, convinte di
poter stringere il mondo fra le mani forti dei loro miseri difetti. La
tentazione di un’amica bella e temuta aveva abbassato subito ogni difesa
adolescenziale della sciocca Jane: non c’era voluto molto per abbindolarla.
Adrien
Miller non aveva mai desiderato niente di normale, nemmeno da bambina:
controcorrente era anche la scintilla che nei suoi brillava quando si guardava
attorno e gridava di volere la luna. In quel momento, l’unica, grande voglia
della ragazza era segnare il territorio perché nessun altra s’avvicinasse a
Duff McKagan: Robin non aveva saputo vedere attraverso l’ironia, la beffa della
sfida che le aveva lanciato, e nonostante i ricordi gradevoli seppur insipidi stava per perdere anche lei. Come tempo
addietro un saggio ed alcolizzato Izzy aveva rivelato a un certo biondino,
quando Adrien desiderava ardentemente il possesso di qualcosa, ricorreva
all’unione di tre elementi che tendevano a non deluderla mai. Istinto, fortuna,
e il timore che incuteva agli altri. Poteva godere del poter che l’essere nata
sotto una buona e ridente stella. – Dovrebbero essere qui. Li ho visti andare
via prima… - sghignazzò come un’oca giuliva, mentre il volto butterato di Jane
si faceva sempre più curioso ed incredulo. Il corridoio sarebbe stato buio se
non fosse stata per la sottile linea di luce che proveniva dalla sala da
pranzo. Ombre tremolanti s’erano create sulle pareti bianco sporco,
contribuendo a creare un’atmosfera di suspense che avrebbe attanagliato le
viscere di chiunque. – Sono qui, da qualche parte. – non c’impiegarono molto a
trovarli.
Piccolo,
angusto. Quel posto puzzava della loro storia, se così si poteva chiamare,
clandestina. Buio, forse una scelta istintiva che gli avrebbe consentito di non
vederla, di fingere che fra le sue braccia vi fosse un altro corpo e che la
bocca che lo baciava con passione appartenesse ad un’altra. Uno sgabuzzino,
classico luogo d’incontro per ogni coppietta discreta e non del tutto
autorizzata a vedersi: le mani di Robin corsero subito alla cintola dei
pantaloni di pelle del ragazzo, bramose di approfondire ogni contatto e fingere
che andasse tutto bene. – Chiudi… la porta – sussurrò fra un gemito e l’altro,
notando solo con la coda nell’occhio lo spiraglio della porta dello stanzino
che ancora forniva la visione del mondo esterno a quella che sarebbe stata
un’isola felice e fittizia. Duff non si curò ovviamente della sua richiesta,
adoperandosi perché anche la professoressa se ne dimenticasse alla svelta. Non
sapeva bene come quella caricatura di Adrien l’avesse convinto ad imboscarsi
per quella che sarebbe stata una sveltina coi fiocchi. Forse i sensi di colpa
che aveva provato la sera precedente non l’avevano lacerato abbastanza da
allontanarlo dalle vie di fuga che la donna gli poteva offrire. Forse, era solo
il brutto sogno di un grande ipocrita.
-
Non mi lasciare. – quando le braccia della donna si strinsero attorno alle sue
spalle forti, come aveva serrato gambe alla sua vita, la supplica di Robin
sembrò essere l’unico rumore dello sgabuzzino. Non esistettero più le scope che
rovinavano a terra travolte dall’impeto della loro passione, né i fantasmi
delle risate che giungevano lontane dagli angoli dell’ostello. – Ti prego, Michael, non mi lasciare. – e Duff acconsentì per
metà, con un’ultima spinta, prima di comprendere che quella era la richiesta
pietosa che quella donna rivolgeva a tutti non necessariamente a parole. Aveva
a che fare con un’anima sola alla ricerca disperata di qualcosa per lui
indefinito. Aveva perduto la propria giovinezza in una bolla di sapone, come
ogni essere umano, ma non aveva saputo affrontare una vita che era andata
avanti senza di lei, lasciandole la morte in un ventre che non sarebbe mai
cresciuto. La accontentò, trattenendola ancora contro il muro ingombro di
strofinacci appesi a chiodi arrugginiti, sentendosi inutile davanti alla
propria incapacità di trasmetterle il calore richiesto. Forse, se non fosse
stato per il contesto sbagliato e per le strade separate che avevano percorso,
avrebbe potuto voler bene a quella donna, nella solitudine che sprigionava.
Rimasero in silenzio.
-
Dio! E io che non ci credevo! – erano lontane miglia e miglia dal compito che
aveva occupato loro pochi secondi: era bastato quel tempo esiguo per accorgersi
dei sospiri e delle grida spezzate, perché Jane gettasse una frettolosa
occhiata allo spiraglio che dava sul ripostiglio e scorgesse la faccia e i
riccioli di Robin “Generale” Keenan. Poi erano corse via. – Ma è una cosa schifosa! Cioè, quando lo saprà… -
Adrien non la stava ascoltando. Aveva la schiena rigida contro la parete, il
fiatone che le gonfiava il petto dopo la fuga lontano dallo stanzino e la morte
negli occhi che fissavano un piccolo ragno dare la scalata alla parete di
fronte. Era stato anche peggio di come se l’era ricordato. Sopportare le
chiacchiere di Jane per tutta la giornata non era valso nemmeno un centesimo,
davanti all’impeto dell’amore mascherato in cui erano avvolte le due sagome
intrecciate. Aveva creduto che la terra le mancasse sotto i piedi, prima di
trovare il solido appoggio del proprio autocontrollo. Resistere, si trattava
solo di resistere: tutto quello che stava facendo era per sé stessa, per una
giusta vendetta che entrambi meritavano di subire. Entrambi. Duff. Avrebbero dovuto essere le sue unghie ad affondare
nella schiena solida del ragazzo. Duff.
Entrambi? – Ehi, mi stai ascoltando? -.
-
Certo! – rispose prontamente, con un sorriso che le nacque spontaneo sulle
labbra vermiglie di rossetto. Jane la fissava come se si stesse rivolgendo ad
un asino, trattamento per il quale solitamente sarebbe stata punita duramente.
Ma la testa di Adrien era piena di troppi pensieri per poter formulare una
rispostaccia corretta, e ciò spaventava la rossa che appoggiò i palmi della mani alla parete dietro di lei. – Ti ho chiesto se hai
visto chi era con la Keenan! Era uno studente o un professore? – il cuore di
Adrien saltò nel vuoto dietro la pietra in cui era stata intagliata
un’espressione indifferente. Non lo sapeva. E si trattò semplicemente di
scegliere, d’imboccare una delle due strade al bivio in cui era arrivata. La
metà di entrambe era sconosciuta, ma c’era qualcosa di certo in una sola di
esse. Duff. Lo odiava nel profondo
dell’anima, ma le apparteneva. E lei pretendeva la luna, come quando era
bambina, pretendeva un cuore attorno a cui aveva stretto un cappio e che
probabilmente le sarebbe sfuggito. – Era uno studente, credo. Non l’ho visto in
faccia. -.
“ Tutto
ciò da cui stavi fuggendo
torna come valanga
più grande. ”
(Marta sui tubi – Vecchi difetti)
NOTE
DELL’AUTRICE
Eccomi,
mi raffreddata che mai. Premetto che inizialmente ero soddisfatta nello
scrivere questo capitolo, poi mi sono ammalata e l’ispirazione è andata un po’
perduta. In parole povere, credo di aver scritto un bel po’ di stronzate ma…
ormai, o la va o la spacca.
Ecco
la vendetta di Adrien, che all’ultimo torna indietro e decide di salvare Duff.
E’ amore? Di certo la povera professoressa Keenan non sente l’affetto
dell’allieva. O della maestra, a seconda dei casi.
La
canzone de Le luci della centrale elettrica è un chiaro collegamento a tutti i
riferimenti agli occhi che ci sono in questo capitolo, che probabilmente vi
avranno annoiato fino alla morte (fa le corna). E poi, io adoro Vasco e dovevo
assolutamente mettere una citazione dalle sue canzoni.
La
frase di Izzy “Siamo i critici più severi
di noi stessi” deve averla detta qualche grande pensatore,
ma ho provato a fare una breve ricerca in Internet e non riesco a trovare alcun
nome. Se qualcuno mi potesse dare una mano nel caso lo sapesse già, sarei molto
contenta. In ogni caso, se mi mandate al diavolo è lo stesso.
Jane
Wellington è un personaggio di mia invenzione, si chiama Piattola in una specie
di omaggi a Ginny Weasley di Harry Potter, che viene sempre definita così ma
che io adoro, rispetto a questa stupida secchiona.
Scrivere
“a me mi” nel discorso di Duff mi è costato uno sforzo
immane e qualche minuto di autocommiserazione. Chiedo venia.
Grazie
alle mie commentatrici e alle mie fans (!). Come dicono i comici de “Il mondo
degli emo”, vi lowwo.
che il proprio ruolo
sia quello del protagonista. ”
(InvisibleMonsters – Chuck Palahniuk)
Erano
state necessaria due settimane, o poco più. Quindici giorni di polemiche,
risate e sotterfugi, prima che ogni singolo dettaglio dell’intreccio uscisse
alla luce del sole, sotto gli occhi scandalizzati di tutti. Avevano trattenuto
il respiro tutti, anche chi era stato uno spettatore di quelle rivelazioni, ognuno
sotto il medesimo abbraccio di chi aveva mosso le pedine sulla scacchiera. Ogni
evento si era succeduto così in fretta da lasciare a malapena il tempo di
rielaborare la situazione, instaurando in tutti gli animi una sensazione di
freddezza attraverso cui osservarono il tempo correre. Camminando per i
corridoi della scuola, quasi tutti vuoti poiché a quell’ora del pomeriggio gli
unici studenti presenti erano secchioni e lestofanti puniti, la ragazza avvertì
scivolare via per la prima volta dopo giorni un minimo di tensione. I nervi del
collo, che insieme al reticolo di vene bluastre avevano segnato di rabbia e
nervosismo la sua pelle diafana, si distesero nell’ascoltare il rumore dei
tacchi sui pavimenti appena lucidati da svogliate bidelle. Ancora non riusciva
a credere che tutto stesse per giungere al termine. L’aveva avuta vinta di
nuovo: aveva innalzato il proprio trofeo quando le proteste di Sarah Hoffman in
Wellington per il comportamento indecoroso del corpo insegnanti davanti alla
povera figlioletta avevano allarmato persino lo spensierato preside Williams. Allora perché non riusciva ancora ad
avvertire il dolce sapore della soddisfazione sul palato? Non ci doveva
pensare: stava andando a trovare il frutto delle sue fatiche.
Sgualdrina. “I miei figli non possono essere istruiti
da una donna che cerca di sedurli”. Con un sospiro, ripose l’ennesimo plico di
appunti sul programma che avrebbe voluto svolgere sulla letteratura francese in
uno dei due scatoloni. Pochi raggi di un sole non troppo caldo penetravano
dalle persiane abbassate dell’aula professori, quattro mura strette e coperte
da scaffali metallici pieni di registri ed ipocrisia. “Devi capirmi, hai già
dei… precedenti”. Indecorosa. Un
volto giovane e fresco offuscò l’ordinato procedimento secondo cui avrebbe
dovuto riordinare i propri effetti personali. Il volto di Michael McKagan era
ancora distorto da una gioia che lei non poteva spiegare, che il ragazzo aveva
tentato di mascherare con il dispiacere che aveva provato per lei. Era stato
all’oscurità di un cubicolo nel bagno delle femmine che Robin gli aveva
confessato che l’avevano obbligata a dimettersi. Fedeltà. “Devi farci il nome dello studente con cui sei stata
vista”. Aveva taciuto la sua identità, gli aveva confessato, ricevendo come ringraziamento
un semplice sorriso che l’aveva pugnalata allo stomaco. Robin respirò a fondo,
guardandosi attorno: quella scuola era una cloaca da cui sarebbe scappata con
felicità. Ma l’essere buttata fuori a calci da una madre bigotta e
completamente ignara dei suoi crucci aveva ferito ancora di più il suo
orgoglio. Ancora di più.
-
Allora – Robin avrebbe continuato a chiedersi, negli anni che avrebbe trascorso
lontano dal proprio passato, come avesse potuto soffocare ogni sentimento
davanti alla puntualità con cui lei era venuta a godere del proprio successo.
Quando il suo nome era venuto fuori alla riunione con il preside in cui la
rappresentante dei genitori Sarah Hoffman Wellington
aveva presentato reclamo per “una condotta scandalosa e immorale”, ogni lettera
aveva aperto un graffio nel petto della donna, dove la vana speranza di trovare
ancora qualcosa nella falsità di quell’amicizia aveva risieduto ed era stata
distrutta. Tutte le notti di quei giorni vuoti in cui, esonerata dal lavoro,
Robin si era rinchiusa in casa aveva cercato la figura di Josh dall’altra parte
del letto senza trovare il marito, mentre la rabbia per quella ragazza
cresceva. Josh aveva presentato in fretta la richiesta di divorzio infierendo
all’orologio di una donna che non riconosceva più un ultimo colpo, e per tutto
quel tempo la donna non aveva pensato altro a come Adrien Miller meritasse la
colpa di tutte i suoi guai. Ma in quel momento, con quella presenza ingombrante
alle spalle e le mani indaffarate a sistemare il proprio perfetto schedario,
Robin scoprì di provare una grande pena, più forte della rabbia: per loro, per
Michael, per l’abisso in cui erano caduti tutti. – Non hai la strana sensazione
di dejà vu, Rob? Fare le valigie per te è ormai qualcosa di familiare! -.
Aveva
previsto che l’avrebbe attaccata con qualche frase del genere. La donna sentì
la propria spina dorsale irrigidirsi sotto il peso dei ricordi di una scena
effettivamente simile, quasi due anni prima quando al Kennedy l’avevano
licenziata per la relazione con il vicepreside del lussuoso istituto. Anche
allora, per cause diverse ma ricche di analogie, Adrien era stata al suo fianco
con un sorrisetto divertito dalla situazione. Robin non si voltò. – Vattene
via. – mormorò semplicemente, con la voce alterata da una durezza che mai
avrebbe pensato di riservare alla ragazza. Non sperava ovviamente che Adrien
eseguisse il suo ordine senza prima burlarsi di lei ed elogiare i propri
successi, ma non si sentiva in grado di rinfacciare l’inganno che quella strega
aveva tessuto ai suoi danni e in cui era caduta come un’ingenua. Perciò si
affidò all’autocontrollo che Adrien stessa le aveva insegnato a mantenere in
ogni situazione, preferendo il silenzio e il fuggire quello sguardo fumoso. –
Oh, Robin, al Kennedy non ti hanno insegnato niente? L’educazione dove l’hai
lasciata? Saluta la tua amica come si confà ad un’elegante signora come te! –
ma i passi che alle sue spalle s’avvicinavano a lei con studiata lentezza
furono la goccia che fece traboccare il vaso.
-
Stammi lontana. Avvicinati di un altro passo e non risponderò delle mie azioni!
– un dolore pungente ruppe la pena che provava per Adrien e per il ghigno che
la rossa aveva stampato sulla faccia: con la schiena contro il grande tavolo al
centro della sala professori, fra le mani un tagliacarte antico, un dei vezzi da collezione che rappresentavano una Robin
morta e sepolta. Osservò con disgusto il lampo di divertimento che attraverso
il grigio nello sguardo della ragazza, la quale
portava un viso un’espressione inquietante, quasi maniacale, che ne distorceva
i lineamenti aristocratici. – Mi vuoi uccidere, Rob? –
nessuna delle due seppe mai dare una risposta a quella domanda, che avrebbe
potuto suonare esagerata se non fosse stato per il tremito che scuoteva le mani
della donna e che rendeva i contorni delle pupille della
ragazza indefiniti. – Avanti. Tanto non ne sei capace. – le sicurezza che si nascondeva in quelle lettere era fondata
sulla conoscenza che Adrien sembrava dimostrare nei confronti di Robin. Avvertì
la stretta della propria mano sul metallo freddo farsi debole, e catene di cui
mai si era accorta stringersi invece attorno al proprio cuore. I raggi del sole
scomparvero, coperti da una nuvola di passaggio, ma fra loro, fra due persone
così diversi che avevano promesso il mondo sul loro legame, il freddo era sceso
già da tempo.
-
Perché tu ne saresti capace – non era una domanda. Era una terribile
affermazione, velata da una beffa che Robin non era in grado d’ostentare
davanti alla potente verità che sentiva pesarle nel petto. Abbassò con amarezza
il tagliacarte argentato, senza abbandonare con lo sguardo l’espressione
schernitrice di Adrien. – Non meriti neanche una briciola di quel ragazzo. Non
meriti niente, e quando ti renderai conto di non essere una principessa al
centro del mondo sarà troppo tardi. Vai via. – la solennità con cui le punto
l’indice addosso, indirizzandolo proprio al petto, e la freddezza che aleggiava
in quella predizione che sapeva di addio zittì per la prima volta in quegli
anni l’imbattibile Adrien Miller. Quando la ragazza cercò la sottomissione in
una donna che era riuscita a soggiogare senza troppi giri di parole e trovò
soltanto il vuoto che solitamente lascia una morte, le fu impossibile non
indietreggiare impercettibilmente, posando la scarpetta appena un millimetro
più indietro del pezzetto di pavimento su cui stava in piedi. Bastò. Le labbra
carnose di Robin s’incurvarono appena, senza alcuna gioia da trasmettere al
mondo, o almeno a lei. Era diversa, cambiata da quella tempesta: era sola in
parte per colpa sua, e non aveva mancato di farlo pesare alla ragazza per
quanto potesse, combattendo anche dopo essere stata spogliata di ogni arma.
Senza aggiungere altro, la donna diede le spalle ad Adrien, riprendendo a
sistemare i propri effetti personali.
Poi
arrivò la risata. Si aspettava che quella voce intrisa di altezzosità le
lanciasse con grazia qualche frecciatina a cui non avrebbe saputo ribattere,
come era nello stile di Adrien. Invece ogni nota vibrò cristallina nell’aria,
aumentando di volume man mano che i secondi passarono. Era un suono che la
mente di Robin avrebbe associato per anni a due occhi dilatati da chissà quale
emozione che quel giorno, nella sala professori, non ebbe il coraggio di
guardare. La pelle le si accapponò, mentre due forti brividi scuotevano la sua
schiena. Non era possibile scorgere alcuna felicità nella risata della rossa,
che aveva conservato la propria posizione senza ovviamente ascoltare
l’esortazione della donna a lasciare la stanza. Quel riso era intriso di uno
scherno profondo e amaro, che lasciava presupporre un forte disgusto per
l’eterna vittima di Adrien. Ma c’era anche qualcos’altro. Al di là di ciò che
comunque Robin avrebbe potuto aspettarsi da una risata in quel momento, c’era
una melodia nella voce contratta dal ridere della ragazza che la inquietò nel
profondo. La donna si scoprì impaurita dallo squilibrio che seguì l’eco delle
risate di Adrien quando quest’ultima, impiegando un tempo che la professoressa
non seppe definire, lasciò la stanza e lei, per sempre. Qualcosa di storto e di
sbagliato, che lei, da stupida e cieca come ogni persona che aveva raccolto
ogni parola della rossa come oro colato, non aveva mia notato. Con vergogna,
Robin chinò il capo sul lavoro di una vita e scoppiò in lacrime.
Duff
McKagan era confuso come non lo era mai stato prima. Appoggiando il capo
coperto da una folta chioma di spettinati capelli biondi al proprio armadietto,
ascoltò il rumore delle chiacchiere degli studenti della Renton senza trovarvi
la distrazione che cercava. – Muoviti, cretino! Oggi Axl vuole provare tutto il
pomeriggio, e ci fa il culo se torniamo in ritardo ancora! – l’avvertimento
solare e genuino di Steven entrò da un orecchio ed uscì dall’altro, riuscendo
soltanto a smuovere un po’ il ragazzo dal suo stato comatoso. Un sorriso stanco
si aprì sul volto dai tratti felini di Duff al pensiero dell’ultima sfuriata di
Axl sulla loro incompetenza: nell’aspetto del frontman aveva trovato parecchie
analogie con un ricordo di mamma McKagan ai tempi delle famose bricconate di un
bambino biondo e insolitamente alto. Prima, ovviamente, che il rosso tornasse
ad essere fannullone quanto loro. – Dai, amico! Lo
show deve andare avanti! - sussultò quando la folta chioma di Slash comparve
all’improvviso da dietro un armadietto, prima che il chitarrista gli mozzasse
il fiato con una gomitata sulle costole che avrebbe dovuto essere amichevole.
Mentre Duff si massaggiava la parte dolorante, mormorando una scusa per potersi
fermare cinque minuti di più a scuola, i due amici corsero via lungo il
corridoio giocando a tirarsi pugni, cantando il famoso testo dei Queen.
Duff
McKagan era felice, o almeno una parte di lui lo era. Il motivo per cui Axl
insisteva per sottoporli ad estenuanti prove ogni giorno, per cui lui, Slash e
Steven avevano marinato le ripetizioni con un’esasperata ma sempre timida
Linda, per l’adrenalina che scorreva nelle loro vene a velocità innaturale
poteva essere riassunto in due parole: “Alan
Niven”. Quel nome era diventato un codice che puntualmente innescava in
loro una scintilla di euforia al pensiero di ciò che li attendeva per quel
sabato, proprio quello. Duff osservò pigramente Michelle spuntare dall’angolo
di un corridoio, ricordando gli avvenimenti delle settimane precedenti. Guardò
la brunetta scontrarsi con Slash nel mezzo del corridoio, poiché nella foga di
fare il buffone il riccio non si era accorto dell’assonnata Michelle.
L’impaccio che entrambi dimostrarono quando, cercando di oltrepassare la figura
dell’altro con un sorriso imbarazzato sui volti di entrambi, non riuscirono a
fare altro che ostacolare il passaggio dell’altro provocò in Duff una reazione
diabetica a causa della tenerezza della situazione. Un uomo balbuziente di nome
Ted aveva chiamato, dopo vari tentativi di stabilire una connessione al
telefono che molti operatori del centralino avevano dichiarato inesistente,
nello stesso afoso pomeriggio in cui Slash e Duff si erano trovati ad
affrontare il clima antartico di Montréal. E nessuno dei restanti membri dei
Guns al magazzino aveva trovato un motivo plausibile per rifiutare, quando quel
tale Ted aveva detto loro che Alan Niven li voleva incontrare: in pochi minuti
il loro prossimo concerto in uno dei locali più in voga della malavita
Californiana era stato fissato. Allo stesso tempo, un dubbio pungente aveva
messo le radici sotto la sua pelle e non se n’era più andato.
Duff
McKagan era incredibilmente distratto, di questo se n’erano accorti tutti. In
primis i suoi compagni della band, che erano stati costretti a riprenderlo in
continuazione quando, durante una sessione di prove all’ombra del loro piccolo
magazzino, sbagliava ritmo o nota col suo fedele basso. Poi ovviamente si era
aggiunta un’adorabile Maxie, che non s’era astenuta da commentini sarcastici
che riguardavano la gabbia nel quale il biondino
sembrava rinchiudersi spesso e volentieri. Persino Michelle, che in quel
momento non sembrava troppo distante dal posto fra le nuvole che la testa di
Duff si era guadagnata, s’era accorta che in lui c’era qualcosa che non andava.
Quando Steven pensò bene di trascinare via il chitarrista con un sorrisone di
circostanza, allora Michelle parve ricordare ciò di cui si stava occupando
prima dello scontro con Slash, riprendendo a camminare forte del rossore sulle
guance nascosto dalla pelle ambrata. Nonostante le preoccupazioni amorose della
ragazza, questa non privò Duff di un’espressione perplessa quando il bassista
non rispose al suo saluto, poiché era troppo occupato a riflettere
sull’assurdità della scena. Quando l’amica scomparve, lievemente offesa, il
ragazzo si lasciò scappare un sospiro esasperato: l’unica che sembrava non
essersi accorta dello strano comportamento assunto da Duff dopo la gita
sembrava essere Adrien.
In
definitiva, Duff era profondamente irritato da tutto e da tutti. Sentiva che la
sua vita stava scivolando via dalle sue mani, dal suo controllo, andando avanti
mentre lui era costretto ad arrancarle dietro trascinando il peso dei ricordi.
Era come se ogni evento, nonostante l’esaltante possibilità che s’era aperta
come il famigerato portone protagonista di un altrettanto famoso detto, si
fosse cristallizzato a due settimane precedenti, quando aveva scelto di
buttarsi a capofitto in un vortice che lo stava trascinando verso luoghi
sconosciuti. L’annuncio del licenziamento di Robin Keenan aveva suscitato uno
scalpore inaudito all’interno della Renton: l’insegnante più qualificata che
avesse mai messo piede in quel tugurio di scuola era stata costretta alle
dimissioni a causa di una presunta liaisonproprio con
uno studente. Jane Wellington vantava il proprio successo sfilando con aria
soddisfatta per i corridoi, godendosi la grandinata di domande curiose che la
stavano rendendo la ragazza più popolare dell’istituto. Duff aveva sentito un
cappio spesso stringersi attorno al suo collo sotto gli sguardi di tutti, come
se il velo che stava impedendo che la verità venisse a galla si stesse
assottigliando sempre di più. Non l’aveva aiutato il fatto che la donna, sua ex
amante e suo incubo ricorrente, l’avesse braccato prima della fine delle
lezioni la settimana precedente per quello che entrambi avevano interpretato
come il peggiore degli addii.
Ma
il ragazzo si era sentito realmente nei panni di un condannato alla forca
quando Piattola Wellington, per le cheerleader più svampite adesso solo
“Janie”, aveva pronunciato il primo nome certo collegato all’oscura faccenda. Non
era stato lo stupore la prima emozione che aveva provato quando aveva udito la
voce sul coinvolgimento della signorina
Adrien Miller nella faccenda Keenan, no. Era stato letteralmente colto da un
senso di panico che gli aveva persino
tolto l’appetito. Non era stato solo un cattivo presentimento quando, a
Montréal, aveva creduto che gli occhi grigi della rossa fossero stati
attraversati da un lampo diverso, incolore, consapevole. Quando le prime
chiacchiere all’interno degli studenti avevano incominciato, aveva creduto di
essere in procinto di subire la più tremenda delle vendette, o per lo meno un
destino simile a quello della sfortunata Robin. Anche
la tortura sarebbe stata migliore di ciò che in realtà aveva riempito quelle
due settimane: il niente. Non l’aveva degnato sgridato, né offeso, né tantomeno
mollato, ma in compenso sembrava avergli tolto parola, sguardo, esistenza. Da quando erano tornati da
Montréal, Adrien gli aveva rivolto sì e no un paio di parole di circostanza,
senza più presentarsi ad alcun festino né parlare di Alan Niven. Lo stava ignorando, e Duff si sentiva troppo
vigliacco per contrastarla.
Con
un ultimo sospiro profondo, che lo fece sentire disgustosamente somigliante
alla protagonista di una soap opera, stacco la testa dalla superficie
dell’armadietto, incamminandosi il corridoio quasi vuoto verso l’uscita.
Sistemando con fastidio crescente il moschettone con cui aveva sostituito la
chiusura rotta della borsa a tracolla, detesto con foga ogni singolo dettaglio
del guaio in cui si era cacciato. Anche se non lo avrebbe mai ammesso al
ragazzo duro ed orgoglioso che albergavano in lui, si vergognava come non mai:
parlarne con qualcuno era fuori discussione. Non poteva nemmeno sopportare che
il suo segreto fosse divulgato, anche senza volere ai quattro venti: confidarsi
con uno dei suoi amici, per quanto essi potessero
essere comprensivi, sarebbe stato come offrire la notizia alla stampa. Radio Slash. Qualcosa nel suo stomaco si
mosse, qualcosa di astratto che lo punse sul vivo. Robin Keenan. Avrebbe voluto che non fosse mai esistita, eppure gli
era impossibile odiarla. Lettere lampeggianti andarono a formare la domanda che
aleggiava nella sua testa, ritenuta da molti vuota. “Ma se non fosse stata lei, avresti reagito allo stesso modo?”.
Immaginò sé stesso a stringere fra la braccia una
sconosciuta senza volto, prima che il ricordo del Ballo d’Inverno spazzasse via
quell’assurda fantasia. Ma certo. Lui era innamorato di Adrien. D’improvviso,
si sentì l’uomo più sfortunato sulla faccia della Terra.
Non
fu sorpreso di trovarla appena fuori dalle porte d’ingresso della Renton. Il
suo tono di voce profondo, rilassato e sensuale era inconfondibile, in
confronto agli squittii eccitati della ragazza dai capelli corvini con cui
stava discutendo. Il volto di Adrien per un estraneo non avrebbe tradito alcuna
emozione, ma a Duff bastò un’occhiata per capire che quella conversazione la
stava annoiando terribilmente. L’eleganza della rossa traspariva anche
nell’imprevedibilità del suo autocontrollo. – Devo andare… - la reazione alla
comparsa del ragazzo fu immediata: una scintilla brillo
nella profondità dei suoi occhi grigi, prima che premesse il casco nero contro
il proprio ventre e liquidasse la propria interlocutrice con poco. La moretta
la salutò con un sorriso solare, prima di scoccare un’occhiata eloquente a
Duff, ancora fermo sulla soglia dell’istituto. Non era difficile intuire che
non tirava buona aria per intrattenersi a chiacchierare con un’allegra
coppietta. – Adrien… Dammi un passaggio… - esclamò il biondino, raggiungendola
con pochi passi grazie alle lunghe gambe. Gli parve che la ragazza avesse
accelerato impercettibilmente il passo al suo avvicinarsi, ma con un enorme
sforzo di volontà Duff ignorò il fatto.
Camminarono
fianco a fianco sul terreno polveroso, verso il parcheggio ormai deserto. Solo
una coppia di studentesse si trovava ancora nel parco: non appena li videro
avvicinarsi alla moto ormai familiare, una delle due si coprì la bocca con la
mano per sussurrare all’altra qualcosa che doveva essere molto divertente. Le
due infatti scoppiarono in una tintinnante risatina. –
Senti… - titubante, Duff non afferrò il casco di riserva che Adrien gli stava
porgendo: l’espressione della ragazza non lasciava dubbi sull’irritazione e
l’esasperazione che in quel momento stava provando. Quale fosse il preciso
motivo, era impossibile indovinarlo. – Ma tu sai niente del concerto… cioè, ci
ha parlato tu con tuo… padre, insomma, Niven? – senza riuscire ad evitare
d’incespicare nelle proprie parole, Duff si passò una mano fra gli arruffati
capelli biondi, spostando lo sguardo dall’asfalto ai suoi piedi al viso della
rossa. La quale non mosse un muscolo. – No. Dovrei saperlo? – la sua risposta
però fu troppo secca per passare inosservata al biondino, che assottigliò lo
sguardo come nel tentativo di leggerle l’anima. Le labbra di Adrien erano una
linea sottile di tensione, ciò che la tradiva in quella maschera di perfetta
tranquillità. – No, cioè… non so, è che domenica sera suoniamo in un locale che
si chiama, tipo, Troubadour. E c’è tuo padre, ci ha convocato lui per il
concerto. – nonostante avesse ben chiaro di aver appena fatto l’ultimo di una
lunga serie di passi falsi, Duff non seppe più tornare indietro. Doveva
debellare almeno quel dubbio, almeno quello. Il resto, lo avrebbero riposto in
un cassetto qualsiasi. “Ci sei tu, dietro
tutto?”.
-
Non è mio padre – il tono della voce della ragazza si alzò di un’ottava, un
cambiamento che durò una frazione di secondo e che fu sufficiente per scuotere
la terra. L’odio sembrava muovere persino i suoi sottili capelli rossi, che
seguivano in realtà la scia di una brezza fresca da cui nessuno dei due sembrò
trarre piacere. – E comunque non sapevo niente… -. Primo allarme. Qualcosa nella barriera di Adrien pareva sul punto
di crollare: Duff iniziò a spostare il peso del corpo da un piede all’altro, le
spalle ricurve e le mani in tasca, nervoso. Ma certo che sapeva: si poteva
leggere sul volto della ragazza, come se portasse un’insegna sulla fronte, che
Alan Niven non si era mosso in solitudine nello scovarli e convocarli. Come e
perché centrasse Adrien, era facilmente intuibile. Secondo allarme. – Te la sei presa? – con voce burbera, Duff
innalzò attorno a sè il principio di una difesa contro l’attacco che si
aspettava potesse giungere da un momento all’altro. Le dita della ragazza che
mantenevano la presa sul suo casco sembravano trattenersi dallo sferrare un pugno
al biondino. – No – rispose in fretta la rossa, recuperando un sorriso vago,
enigmatico – Lo vuoi questo passaggio, sì o no? -. Pronto intervento. Erano bastate due settimane per far crollare
tutto, cinque minuti per recuperare le redini della situazione. Senza
aggiungere altro, Adrien salì sulla moto e lo lasciò a piedi.
Era
un tugurio: non c’era molti aggettivi per descrivere il locale in cui
entrarono, se non squallido e maleodorante. L’ombra di un palco li accolse
malvolentieri: sul fondo della sala cupa c’erano venti metri quadrati di un
legno di bassa qualità, su cui stavano trafficando quelli che dovevano essere i
tecnici delle luci e dei suoni. Il Troubadour, il luogo che accoglieva ogni
sera la crema della società musicale Californiana secondo l’assistente di
Niven, era uno dei posti peggiori che i ragazzi avessero mai visto. Alcuni
avventori s’erano già radunati in una notevole folla davanti al lungo bancone,
dove alcuni energumeni dall’aspetto losco ed un paio di signorine dall’aria
seccata erano indaffarati nell’accontentare ogni cliente. L’aspetto di alcuni
personaggi era alquanto dubbio, ma avevano sicuramente visto di peggio: il vero
problema era tutto il resto. – Ma che
schifezza! Dov’è la birra? – sbottò Slash, assicurando guardingo alla propria
schiena la custodia della propria preziosa chitarra. Non appena gli fu chiaro
che avrebbe ottenuto soltanto un silenzio allibito come risposta dai suo compagni, alzò le spalle. – Dai,
cazzo! Hanno detto che almeno la
birra era gratis! -.
Il
primo dopo il chitarrista a riscuotersi dallo stato di shock in cui erano
piombati fu ovviamente Steven: il sorriso da birbante che si aprì sul suo volto
fu l’ennesima conferma del suo spirito ottimista. – Guarda quella stra-gnocca!
Le si vedono pure le tonsille! – aggregandosi al
riccio per la ricerca dei lati positivi del Troubadour, indicò con entusiasmo
una prosperosa brunetta che in quel momento stava ancheggiando su un paio di
scarpe molto simili a dei trampoli. Assestando poi a Duff una gomitata sulle costole
che provocò alla vittima un innaturale attacco di tosse, il batterista ricercò
la sua approvazione. – Nessuno andrà da nessuna parte finchè troviamo quel
tizio, Ted Qualcosa. – con una voce aspra che non prometteva nulla di buona,
Axl si affrettò, da bravo frontman, a riprendere il controllo della situazione.
Si scambiò un cenno d’intesa con Izzy, il quale appariva impassibile davanti
alla chiara delusione generale, prima di avanzare di qualche passo, guardandosi
attorno. Nonostante gli strumenti musicali che portavano con loro fornissero un
segnale lampante a chiunque lavorasse nel locale, nessuno si fece vivo per
accompagnare la band della serata a fare anche solo la metà di un sound check.
Nell’angoscioso girovagare per il Troubadour in cui sprecarono una ventina di
minuti, i ragazzi incominciarono a credere che il fantomatico Alan Niven li
avesse presi in giro.
-
Oh, eccovi qua! – quando ormai avevano perso ogni speranza e lasciato che
Steven cercasse di rimorchiare la seducente sconosciuta precedentemente
avvistata, una bassa ragazzina con in bocca una gomma
americana rosa fece loro cenno di avvicinarsi, palesemente stizzita. – Sono ore che vi stiamo aspettando! Non c’è
più serietà… - con un paio di gesti bruschi, indicò le custodie che i ragazzi
avevano con loro e li guardò dall’alto in basso con fastidio. Nei suoi occhi
pesantemente truccati poteva essere letta la parola bambini. – Senti, si può sapere
che ca…? – qualunque insultò avesse in mente di dire in quel momento, Axl fu
frenato in tempo da un saggio Izzy, che premendo con forza una mano sulla bocca
dell’amico rivolse un sorriso storto alla ragazzina. – Scusaci, c’era traffico
sulla 5th Avenue – il tono gentile sembrò acquietare la giovane
dipendente del locale, che lanciò un’ultima occhiata di profondo disgusto ad
Axl prima di annuire lievemente con la testa. – Seguitemi, il signor Niven
vuole parlare con voi prima che andiate in scena – non dimostrava più di sedici
anni e il suo modo di fare era altezzoso e snob, ma i tutti si affrettarono a seguirla
in silenzio.
Col un movimento rapido, Duff si abbassò per sussurrare all’orecchio
del rosso con un sibilo teso – Non fare cazzate -. L’eco dei loro passi che
salivano rapidi una stretta scala immersa nel buio era coperta dal suono assordante
di una melodia rock che evidentemente serviva a distrarre i clienti attendendo
che il concerto cominciasse. Il bassista non aveva mai desiderato tanto avere
una sigaretta fra le labbra come in quel momento, nonostante in poche ore
avesse dato fondo ad un pacchetto. Ogni nervo del suo corpo era una corda di
violino, ogni muscolo sembrava non obbedire più agli ordini del suo cervello,
tanto che un paio di volte inciampò in quei ripidi gradini, rischiando di
rovinare a terra e di fare la figura dell’idiota. Gettando un’occhiata di
striscio a Slash, dedusse che l’amico stesse desiderando la medesima cosa,
vista la brutalità con cui stringeva a sé la chitarra. Axl borbottava
impercettibilmente volgari imprecazioni fra sé e sé, con un’espressione
minacciosa sul viso ma la mente concentrata sull’obiettivo della serata. Izzy
appariva impassibile e perfettamente calmo, ma chiunque l’avesse guardato con
serietà negli occhi avrebbe potuto avvertire l’emozione che scorreva nelle sue
vene. Steven, al contrario, era semplicemente sé stesso: carico, pronto a
spaccare il mondo con le bacchette di legno che teneva infilate nella tasca
posteriore degli aderenti jeans, un sorriso ad addolcire il suo viso
insolitamente determinato.
-
Erika! Dove eri finita?! E questi sono i… - arrivati
al piano superiore, scoprirono che ad attenderli davanti ad una porta nera
dalla vernice un po’ scrostata v’erano due scimmioni dall’aria poco sveglia,
accompagnati da un buffo ometto con gli occhiali, stempiato e con la fronte
imperlata dal sudore. Teneva in mano una cartellina dall’aria professionale su
cui posò lo sguardo dopo aver esaminato con agitazione il gruppetto che gli si
era parato davanti. – I “Lines N’Noses”?
– Erika trattenne una risata davanti alla balbuzie di Ted, l’uomo con cui Axl
aveva parlato per telefono, e all’incredibile gaffe che aveva appena compiuto.
Ogni membro della band agì istintivamente alla vista della vena sul collo
dell’irascibile front-man: quattro paia di mani
trattennero il rosso dallo saltare addosso al povero assistente. Negli occhi
del povero Ted albergò un barlume di terrore non appena si accorse dell’odio
profondo che Axl sprizzava da tutti i pori. – Guns N’Roses – ancora una volta,
Izzy intervenne prima che l’amico potesse dirigere la propria frustrazione
verso quel buffo ometto, ricevendo la muta gratitudine degli altri tre. – Beh,
non ha alcuna importanza. Muovetevi, tra un quarto d’ora dovete scendere a
sistemare gli strumenti, e non ho intenzione di tornare a chiamarvi! Il signor
Niven non ama perdere tempo! – con il suo tono cinico ed altezzoso, Erika riscosse
tutti dalla situazione surreale ed irritante che si era creata, indicando la
porta ancora chiusa. Duff strinse i denti, avvertendo il tentativo del proprio
cuore di evadere dalla gabbia di ossa in cui era rinchiuso. Doveva andare tutto per il meglio,
dannazione.
Nei
loro ricordi, quei pochi istanti sarebbe stati senza tempo: nel varcare la
soglia che li divideva dal conoscere colui che sarebbe stato il fautore del
loro successo, ogni aspettativa che si erano imposti di non formulare riempì i
loro pensieri. Era un’occasione che poche persone potevano vantarsi di aver
ricevuto, e il film della vita che poteva attenderli era fin troppo seducente. Le
pareti non pulsavano più di musica in quella stanza buia ed insonorizzata, un
controsenso che creò in loro uno strano squilibrio. C’era qualcosa di
sbagliato. – Buonasera ragazzi – l’uomo che tese loro la propria mano segnata
dagli anni che avanzavano avrebbe suscitato un incredibile senso di sicurezza,
sprigionato dall’abbigliamento curato e dalla voce profonda. Avrebbe. Ogni
sillaba era un tremito che quel distinto signore, poco associabile alla
strampalata industria musicale ma un asso in quel settore, non era in grado di
reprimere. Una minuscola goccia di sudore già brillava sulla pelle abbronzata,
lungo l’attaccatura dei capelli, e nonostante la temperatura elevata della
California anche uno stolto l’avrebbe associata all’agitazione impresso sul suo
volto. Era il primo di una serie d’incontri che avrebbero prodotto migliaia di
dollari e cinque celebrità, ed Alan Niven era più nervoso di tutti i ragazzi messi
insieme.
-
Bene, vedo che vi siete portati degli strumenti. Abbiamo garantito per una
batteria che è già stata montata sul palco… - una seconda figura in completo
gessato riemerse dalla penombra del piccolo ufficio, accogliendoli con un
sorriso alquanto sdentato prima di richiamare l’attenzione di Niven con un
fasullo colpo di tosse. – Ah, ma permettetemi di presentarvi al signor Zutaut,
un amico di una casa discografica di Los Angeles… - mentre le parole del
manager si perdevano nel vuoto, nessuno osò fiatare. Anche il grottesco Zutaut,
che dell’aspetto professionale di Niven aveva ben poco ma che appariva molto
più tranquillo, sembrava frastornato dal comportamento dell’uomo. Con un punto
di domanda stampato sulla fronte, Axl non si stava certo impegnando per
nascondere il proprio malcontento: l’aria che si respirava era satura di quella
che appariva come una barzelletta. “Che
schifo”. – Senta, noi andiamo a sistemarci… - fu come se non avesse parlato
nessuno: Niven continuò a sproloquiare sull’importanza dei giovani nella
musica, alzando appena il tono della voce per prevaricare quella del rosso. La
stretta della mano di Izzy sul braccio di Axl aumentò, mentre la mascella di
quest’ultime si contrasse ferocemente. Che importanza aveva non rovinare tutto
come pochi insulti, se già la piega di quella serata era delle peggiori? Sbagliato. Dove stava l’errore di
quell’atmosfera. – Ma… Avrete sicuramente conosciuto mia figlia Adrien… - la
voce di Niven, esitante, si ridusse ad una bava di vento caldo in luogo in cui,
improvvisamente l’aria mancava. Duff avvertì le proprie dita chiudersi a pugno
istintivamente, piegate ad una volontà che ridusse i suoi lineamenti ad una
maschera di rabbia, vera come mai nella sua vita. “No. Non è possibile. Cazzo”.
Seduto su una poltrona alle spalle del padre, c’era Adrien Miller.
“ I'll take advantage while You hang me out to dry But I can't see you every night for
free. ”
(Nirvana
– About a girl)
NOTE
DELL’AUTRICE
Okay,
fucilatemi pure.
Lo
so che sono in un ritardo tremendo: due settimane giuste senza aggiornamenti,
secondo i miei standard è poco meno che un crimine. Okay che magari non vi
cambia la vita non sapere come la storia prosegue, però essendo io
tremendamente pignola sotto molti punti di vista mi sento molto in colpa.
Chiedo venia. La verità è che per diversi giorni non ho scritto, poiché mi
sembrava di essere arrivata ad un punto morto e ho dovuto riorganizzare
parecchie cose di Naive. Adesso spero di aver fatto chiarezza in me, visto che
ci avviciniamo sempre di più alla fine.
Detta
papale papale, Adrien è matta. Sì, lo so, sono
talmente scema da aver creato un personaggio seriamente fuori di testa e averlo
lasciato ridurre in piccoli pezzettini la vita di uno dei nostri adorati Guns.
Mi sembrava giusto, però: visto i ragazzi hanno distrutto la vita a Naz, l’ho
vendicata affibbiando loro Adrien. Da notare anche il deterioramento della
comunicazione fra Adrien e Duff: se il nostro biondo all’inizio era sicuro di
sé e sfoggiava un atteggiamento da “sono figo, bravo e voi mi amate” in stile
Axl, adesso sembra quasi che voglia scomparire. Ma le cose stanno per cambiare…
o no?
Ovviamente
è facile da capire il collegamento con Lines
N’Noses. E’ il soprannome che daranno loro in Inghilterra a causa della
loro fama come tossici: adesso sono ancora bambini piuttosto innocenti, anche
se in alcune occasioni si sono dimostrati particolarmente psichedelici (vedi
cap. 5).
La
citazione di Palahniuk è semplice da capire. I ruoli combaciano con le tre
persone al centro della storia e del capitolo.
Direi
che la storia di Adrien è molto “About a girl”.
Secondo il concetto adottato da Kurt Cobain, ovviamente.
“Janie”,
che nella pronuncia inglese assomiglia abbastanza a “Ginny”, vuol essere un
ulteriore riferimento alla piccola di casa Weasley nei libri di Harry Potter.
Capitolo 18 *** Capitolo 18 - She loves me not ***
Naive
Naive
Capitolo
18 – Shelovesmenot
“ I’ve given up,
I’m sick of feeling:
is
there nothing you can say? ”
(Linkin
Park – Given up)
Il
ghigno sul volto della ragazza era un tripudio di soddisfazione: con un
bicchiere dal contenuto sospetto in mano, si alzò sinuosa dalla poltroncina per
raggiungere il patrigno, che superava di una spanna in altezza. Ignorando lo
sguardo lascivo di Zutaut e quello nervoso di Niven, Adrien distese il proprio
sorriso davanti ai volti pietrificati dei presenti. – Certo che ci conosciamo,Alan.
Tre di loro sono miei compagni di classe. – il suo tono ostentava un’educata
sorpresa, come se non fosse stato chiaro quanto quella scena fosse stata
studiata ed architettata alla perfezione. Nella sua elegante alterigia, Adrien
era persino più bella del solito, e li scrutava uno ad uno ebbra di una
sensazione di possesso fra le mani. – Suonano meravigliosamente, non trovi?
Sono molto contenta che Alan mi abbia invitata, stasera. – leziosa e melliflua,
ammiccò all’indirizzo di Zutaut, che si affrettò ad annuire convinto nonostante
probabilmente non avesse capito nulla della frase della rossa. Niven invece non
sembrava aver mai incontrato alcuna gioia per la presenza della figliastra: la
mascella squadrata e prominente dell’uomo era tesa e la fronte solcata da
profonde rughe di espressione lasciava trasparire tutto il disagio che stava
cercando di contenere. Lei.
Semplicemente, non poteva essere lì: ogni suo gesto gelava il sangue.
Sentiva
gli occhi grigi di quel demonio sulla propria pelle: bruciavano come il
contatto con una spessa lastra di ghiaccio, ed in fondo le differenze non erano
così leggere. Adrien sembrava aver artigliato con le sue unghie laccate di
rosso ogni avvenimento della serata. Duff deglutì, trattenendo la strana e
consapevole collera che si era impadronita di lui: quasi avvertiva il fruscio
delle dita della rossa che si muovevano sul suo petto, suadenti, prima che esse
si trasformassero in metallo e si facessero largo sanguinarie nella gabbia
toracica. Ogni secondo di silenzio pesava quanto un macigno. – Signori… - dopo un rauco colpo di tosse,
il biondino si decise a parlare: il suono di una voce distorta che non sembrava
appartenergli sorprese i presenti – Noi andiamo a prepararci -. Con un gesto
frettoloso, afferrò la spalla di Slash, il più vicino a lui, per poi condurlo
con foga verso la porta della stanza. Udendo il grugnito d’assenso di Axl e i
passi pesanti degli anfibi militari alle proprie spalla,
capì che anche gli altri tre l’avevano seguito. Si concentrò su una crepa del
muro, l’ultima immagine che ebbe dell’ufficio di Alan Miller al Troubadour, per
non esplodere di rabbia e fare dietro-front, in cerca di spiegazioni. Non fu
però in grado di isolare la propria mente le note di una risatina femminile,
sommessa ma non soffocata. Poteva voler dire solo una cosa: lei era lì per lui.
-
Che cazzo hai fatto, si può sapere? – non appena ebbero raggiunto un luogo
abbastanza lontano dalla stanzetta buia, Duff sentì un paio di mani afferrare
il colletto della sua maglia. Il ragazzo chiuse gli occhi mentre veniva spinto
brutalmente contro un muro, sentendosi un vigliacco per la propria incapacità
di fronteggiare la delusione negli occhi di Axl. Non aveva alcuna colpa, eppure
sentiva di stare affogando nel rimorso. – Calmi, cazzo! – nonostante al rosso
mancassero i centimetri d’altezza che invece abbondavano nel suo bassista, i
presenti sapevano che in una situazione del genere poteva dimostrarsi più
violento di un pugile peso massimo. Quando Duff si decise a rialzare le
palpebre, trovò il volto dell’amico contorto da un’espressione che lasciava
intendere ogni suo pensiero: orgoglio ferito, e anche in profondità. Axl non
era famoso per il proprio autocontrollo. – Niente. Non ho fatto niente – sibilò
il biondino, spingendo con forza il ragazzo lontano da sé. Non poteva lasciare
che Axl gli offrisse un’occasione per sfogare la propria ira, non quando erano
così vicini al concerto. Con la coda nell’occhio, vide Steven avvicinarsi,
pronto ad intervenire.
-
Allora perché la tua troietta stava facendo la smorfiosa con paparino?! – gridò il rosso, fissandolo con rabbia mentre Duff
accoglieva impotente il risentimento di tutto il gruppo. Axl era completamente
fuori di sé. Il bassista contrasse la mascella, cercando di respirare a fondo,
lentamente. Non appena però Izzy si fece avanti, afferrando saldamente con una
mano la spalla dell’amico di sempre come per trattenerlo, la tensione parve
attenuarsi lievemente: lo sguardo del moretto era carico di determinazione ed
incuteva una certa soggezione. – Adesso basta, okay? Abbiamo uno spettacolo da
fare e voi state qui a litigare come ragazzine! – nonostante il tono della voce
fosse contenuto come sempre, qualcosa nelle sue parole ghiacciò gli animi dei
due litiganti, che non smisero comunque di guardarsi in cagnesco. Forse, era
stato il semplice ragionare a far luce su quelle sciocchezze. – L’occasione
della vita, okay? Non m’importa niente se Adrien c’è dentro, ci penseremo dopo!
– constatando che nessuno sembrava essersi calmato, Izzy scattò di colpo,
alzando la voce come accadeva di rado. Diede un calcio al muro, come prova
della sua pazienza portata al limite, guardandoli seriamente per pochi secondi,
prima di girarsi e dirigersi verso il backstage con la propria fedele chitarra.
Borbottando maledizioni, Axl lo seguì con fierezza, apparentemente per nulla
intimidito. Duff si trovò gli occhi preoccupati di Steven e Slash addosso. –
Andiamo – grugnì, prima d’infilare le mani in tasca e avviarsi a propria volta.
Sarebbe stata una lunga notte.
Erano
maledettamente bravi. Forse, musicalmente parlando, non erano il massimo della
tecnica e dell’innovazione: band con la loro cultura musicale e con brani
simili pullulavano Los Angeles. Ma loro si stavano dimostrando così arrabbiati: il ragazzo dai capelli
rossi, quello che inizialmente aveva preso per una femmina, in quel momento si
stava strusciando sul microfono come una spogliarellista, sorprendendo il
pubblico con una voce graffiante, quasi sgradevole, in un meraviglioso
contrasto con l’immagine che dava di sé. Il batterista, seminascosto dietro
cumuli di apparecchiature, sembrava voler fracassare ogni cassa il prima possibile per raggiungere l’affascinante moretta
che si stava dimenando sotto il palco. I due chitarristi formavano un ossimoro
interessante, l’uno calmo ed apparentemente catturato in un mondo noto soltanto
a lui, l’altro una furia della natura che saltava sul palco senza dare
l’impressione di essere stanco. Il visetto angelico del bassista non gli
impediva di completare il quadro, coprendo con lunghe falcate tutto il piccolo
palco, quasi a volerlo riempire con le proprie emozioni. L’uomo si passò le
dita sul mento, osservando il concerto che si consumava dall’impalcatura
sopraelevata riservata alle personalità importanti che, a dispetto della brutta
fama del Troubadour, si contendevano un posto al locale. Nonostante lo
spettacolo, non si sentiva in grado d’ignorare lo sguardo che premeva sulla sua
schiena e la presenza eterea alle sue spalle. – Bravi, no? Te l’avevo detto. -.
Alan
Niven non aveva certo in programma la presenza della figliastra, quella sera.
Non appena l’uomo si volse a fissare gli occhi grigi e tremendamente estranei
di Adrien, sentì il disagio che aveva provato ad inizio serata tornare ad
opprimergli il petto. – Già. – si limitò a borbottare, cercando in ogni modo di
mantenere una certa dose di contegno. Avvertendo i passi della ragazza
avvicinarsi alla propria postazione, si lasciò però scappare un sospiro che
trasudava d’esasperazione. Adrien non aveva fornito alcuna spiegazione sul
motivo della propria presenza: l’aveva trovata all’entrata del locale dopo
essere sceso dalla propria auto, con il suo solito sorriso enigmatico stampato
sulle labbra. Dopo un iniziale sgomento, l’aveva accolta nel lugubre ufficio
che il Troubadour era solito riservargli credendo che l’alone di mistero che
circondava quella strana ragazza non potesse scalfire la sua professionalità,
ma si era sbagliato. Adrien era sempre stata in grado di abbattere ogni singola
barriera che la divideva dall’innalzarsi sul mondo. Del resto, probabilmente
non era l’unico a pensarla in quel modo: non uno dei ragazzi aveva mostrato un
briciolo d’entusiasmo alla comparsa di Adrien. Anzi. – Sai,
credo proprio che non dovresti scritturarli. – la voce della ragazza sembrava
provenire dal nulla.
-
Perché? – chiese di scatto Niven, volgendo la testa verso la sagoma della
figliastra ora al suo fianco, che osservava le sue reazioni con una strana
espressione sul viso. Si pentì subito, dopo pochi secondi di attenta
riflessione, di aver posto quella domanda: avrebbe dovuto negare
immediatamente, invece di offrire la possibilità ad Adrien di trascinarlo in
una spirale d’inganni. – Osservali bene – la mano che la rossa aveva appoggiato
sulla spalla dell’uomo improvvisamente si stava dimostrando pesante da
sopportare. Senza staccare gli occhi grigi dal viso perplesso e guardingo del
manager, la ragazza prese a girargli attorno, sospendendo la frase in un limbo
di mistero, prima di raggiungere la sinistra dell’uomo. – Sono carini… Il
pubblico sembra apprezzarli. Sono uguali a tutti gli altri. – Alan non seppe
spiegare perché, tutt’ad un tratto, le parole di Adrien stridettero nell’aria
come unghie su una lavagna. Parvero quasi spegnere la musica e i rumori nel
mondo. Si ritrovò investito dalla potenza di quello sguardo, ricco di pensieri
che, pensò, non sarebbe mai riuscito a comprendere del tutto: quando se l’era
trovata davanti, poco più che ragazzina, aveva provato la medesima sensazione
di rivoltamento allo stomaco. Come se Adrien potesse leggergli nella mente,
conoscere i suoi timori e manipolarli a proprio piacimento. Era stata lei a
suggerirgli quel gruppo, e ora senza permesso ribaltava ogni pedina sulla sua
scacchiera secondo le regole di un gioco che nessuno capiva. – Non è vero. So
fare il mio lavoro, Adrien. – sbottò, tentando di sembrare convinto.
-
Ho affermato il contrario? – senza interrompere la danza con la quale lo
circondava col corpo e con l’animo, la ragazza si morse il labbro in
un’espressione d’innocenza che sul suo volto appariva traviata. – Il punto è
che questi qua non andranno da nessuna parte, Alan. – l’uomo tornò a fissare il
palco, dove quelli che la rossa definiva falliti in partenza incitavano la
folla a cantare con loro il testo di qualche cover. – Credi a me – la voce di
Adrien s’era ridotta ad un sussurro ma riecheggiava nella sua testa al ritmo
della canzone che minacciava di far esplodere gli altoparlanti sparsi per tutto
il Troubadour. E, nonostante si rifiutasse per principio di posare di nuovo lo
sguardo sulla propria figliastra, Alan si scoprì affannato da quella situazione
e da ciò che lo circondava. Era terribile la confusione per un uomo come lui,
razionale ed organizzato, e quella ragazza era abbastanza brava da scombinare i
suoi principi. Sospirò: ricordò la sera in cui era entrato nella propria camera
da letto e aveva trovato Lisette affacciata alle grandi vetrate con vista
sull’immenso giardino, gli occhi fissi sulla dependance. “Ha bisogno di qualcuno che sappia darle amore vero” erano state le
parole di una donna sconfitta che racchiudeva in sé una madre morta
prematuramente. Si chiese dunque, rimanendo in silenzio sotto gli occhi della
rossa, cosa avessero fatto quei ragazzi per meritare la vendetta di una strega
così potente. L’immagine del volto d sua moglie ingombrarono nuovamente la sua
testa. Adrien coltivava un odio profondo verso tutti, indistintamente. – Torna
a casa, Adrien. So fare il mio lavoro. – ripeté. “Ha bisogno di uno psicologo”.
La
ragazza non si fece pregare, sapendo di aver vinto su tutti i fronti. Con un
sorriso storto, quasi deformato in confronto a quelli affascinanti che soleva
regalare a chi soccombeva alla sua persona, voltò la schiena ad Alan per andare
a recuperare la propria borsa ed una giacchetta leggera. La musica le avrebbe
trapanato i timpani se non fosse stata così concentrata nel celebrare la
propria vittoria. Lanciò uno sguardo distratto al gruppo di poltroncine
occupate dai deretani più regali dello squallore Californiano, da cui Zutaut la
osservava languido. “Bingo”.
Sprofondando in un buio amico ai confini del piano sopraelevato, si fermò
ancora un po’ a fissare con una curiosità stupefacente come il corpo di Alan
svelasse ogni segreto del suo riflettere. Le lancette sull’orologio che portava
al polso descrissero piccoli cerchi, le sole prove di come quel suo interesse
fosse una scusa per aspettare la fine del concerto. Le rughe sul volto del suo
patrigno si fecero più scavate man mano che il tempo
fuggiva, inesorabilmente. Quando sentì nel proprio cuore il bisogno estremo di
spostare il mirino del proprio fucile, ancora e ancora, decise di abbandonare
quel posto che fin da subito aveva considerato disgustoso. “Topi, vermi, e due centimetri di polvere che
non viene spolverata da anni” era solo la descrizione della fauna del
Troubadour. Con una risatina, iniziò a scendere le scale.
-
Ehi! Alla grande! – il popolo del Troubadour era in visibilio, dai clienti
abituali che si destreggiavano con esperienza fra la folla madida di sudore ai
novellini intimiditi e ubriachi dopo pochi giri di tequila. Per quel locale di
periferia, grande solo la metà dei grandi nomi della Sunset Boulevard, erano
passate molte delle band emergenti che facevano scalpore in quegli anni. Fra il
pubblico dei Guns N’Roses quella sera si erano nascoste le due ragazze che,
dopo vari stratagemmi falliti, erano riuscite a varcare la sorveglianza e ad
intrufolarsi nei camerini. Il sorriso di Maxie era entusiasta e carico di
qualche droga che probabilmente aveva ingoiato nel bagno delle femmine. – Ehi! –
le ore appena trascorse sullo stretto palco sembravano aver cancellato i
nefasti ricordi del colloquio con Niven dalle menti dei cinque ragazzi, che
saltavano come pazzi nella stanzetta a loro assegnata
e lasciavano che la birra scorresse nelle loro gole a fiumi. Abbracciarono la
biondina e Linda, che la seguiva con parifelicità, a dispetto delle proteste
delle due ragazze riguardo i corpi sudati dei maschi. – Siete stati bravissimi.
– dolce come il miele, Linda era resa bella dalla stessa gioia che
sprigionavano quei pazzi scatenati.
-
Spacchiamo il culo! – gridò Slash, agitato e ridente, prima di alzare il volto
al soffitto e liberare un urlo che serbava nel petto da quando aveva varcato la
soglia del Troubadour. Un attimo dopo però, si riprese, tornando immediatamente
serio – Ma Michelle? – domandò, con la stessa voce di un bimbo rimasto senza
doni il giorno di Natale. Nel suo aspetto trasandato e col volto coperto dalla
sua personale matassa di riccioli neri, sembrava un cartone animato. Subito,
tutti scoppiarono a ridere. – Emh. Duff? – gli invitanti rumori della festa che
proseguiva nella sala del Troubadour indussero i ragazzi a lasciare i camerini
poco dopo l’arrivo degli amici, chiudendo a chiave con una cautela quasi morbosa
la porta della stanzetta per impedire il furto dei preziosi strumenti. Farsi
largo tra quella folla di visi tutti uguali e così diversi era un’impresa
insignificante rispetto ai tentativi di comunicare l’un con l’altro. E Linda,
dopo quattro tentativi di richiamare l’attenzione del biondino, aveva ricordato
il motivo per cui non le erano mai piaciute le feste di quella portata. – Sì? –
i muscoli facciali di Duff sembravano paralizzati in un sorriso soddisfatto, lo
stesso che illuminava i volti dei suoi compagni. Scostando una ciocca ribelle
di capelli ossigenati dal viso accaldato, si volse a guardare la ragazza mentre
gli ultimi rimasugli di adrenalina si depositavano sul fondo del suo stomaco.
Era
stata un’emozione fantastica, potente, che l’aveva proiettato in un futuro
vicino mentre con le dita sfiorava le corde del proprio basso. Quando Duff
aveva varcato la sottile barriera che gli aveva permesso di godere degli occhi
del Troubadour, aveva scordato ogni altro concerto a cui avesse preso parte fino
a quel momento, etichettando quello come il migliore di sempre. Non sapeva
anche che l’avrebbe pensato di ogni spettacolo che avrebbe fatto negli anni a
venire. – Emh… Cioè, sei stato bravissimo – il rossore che comparve sulle
guance della ragazza scatenò in lei un’irritazione verso se stessa familiare.
Se c’era una parte della vecchia Linda che non era ancora riuscita ad
abbandonare, quella era la timidezza. Forse un osso troppo duro, forse
semplicemente un tratto distintivo indissolubile. – Grazie, Linda – nel sorriso
del ragazzo c’era una forte gratitudine per quel complimento balbettato,
delizioso nell’impaccio dell’amica. Attorno a loro, regnava un caos in netto
contrasto con quella tenerezza. – Cosa vi ha detto Niven? – Appunto. C’era qualcosa che non quadrava, qualcosa che
opprimeva quell’euforia. Il grugnito che sconvolse l’espressione felice di Duff
trasmise a Linda quella sensazione d’inadeguatezza che si prova davanti ai
problemi impossibili da risolvere.
-
Lunga storia, amica. Ma non parlatene ora perché Axl sta venendo da questa
parte. Con delle birre. – sbucato fuori dal nulla e con la medesima aria di un
giulivo folletto dei boschi, Steven appoggiò una mano sulla spalla di Linda per
richiamare amichevolmente la sua attenzione. Duff corrugò le sopracciglia
davanti allo sguardo significativo che i due si scambiarono, prima di tornare
ai torbidi ricordi del sorriso di Adrien. Sadismo,
ecco cos’era quello: l’aveva lasciato sospeso nel vuoto per tutti quei giorni,
in attesa che un segno sostituisse un silenzio opprimente, finché il ragazzo
non aveva semplicemente smesso di attendere e aveva abbassato la guardia.
Perciò l’iniziale sbalordimento nell’averla vista alla
spalle di Niven aveva lasciato in fretta il posto a quella rabbia cieca. Non
aveva più alcun dubbio: quella di Adrien era una missione punitiva, un modo per
fargli capire che aveva visto e non era disposta a dimenticare. La vendetta. Per qualche secondo, il
biondino si scordò di Linda e di Steven, chiudendo gli occhi ed ondeggiando
nella culla di rumori infernali che costituivano le pareti di quel locale.
Aprendo gli occhi, avvertì l’inquietudine prendere possesso del suo corpo. –
Duff, adesso ho voglia di sballarmi. Perciò se devi uccidere qualcuno, rimanda
i tuoi programmi e vieni a farti una birra. – dove sarebbero finiti senza il
candore urbano di Steven Adler?
Avrebbe
seguito subito Steven, se non fosse stato attratto dall’istinto più forte di
gettare un’occhiata al soffitto e poi più in basso, dove un corrimano
evidenziava il piano sopraelevato del locale. Probabilmente la sua espressione
non doveva essere delle migliori, perché quando il lampo fu svanito trovo su di
sé gli occhi perplessi di Linda e Steven. – Che avete da guardare? – il suo
tono di voce non confermava la tranquillità che cercava di ostentare. La
ragazza intuì subito che qualcosa aveva smosso ancora di più il bassista,
seguendo la linea del suo sguardo alla ricerca del problema. Il buio del soffitto
sembrava inghiottirli, minaccioso, mentre le sole luci della sala, quelle del
palco e del bar, tremolavano deboli sotto il suo dominio. Alzando le spalle,
Steven si diresse verso il resto della combriccola, mentre Linda rivolgeva
nuovamente lo sguardo a Duff, sempre più preoccupata. Il ragazzo, dopo essere
uscito dallo stato catatonico in cui era piombato, scosse violentemente il
capo. – Andiamo, avanti – sbottò prima di sporgersi verso l’amica ed afferrarle
il braccio per sospingerla in direzione degli altri. “Stai proprio andando fuori di testa, amico” quel pensiero servì solo
a confonderlo. Laddove il bassista aveva creduto di aver scorto il ghigno
malizioso di Adrien, Alan Niven li stava osservando.
-
Ancora?! Giuro che se fa qualcosa la ammazzo! – Vedremo era una parola che Duff odiava
s’in da piccolo. Quelle sette lettere imponevano uno
stato d’immobilità all’andamento del mondo: di conseguenza, mentre attendeva
che quel tempo futuro si trasformasse in un presente, lui si sentiva obbligato
a restare passivo. Cosa ovviamente non gradita. Era con quella medesima parola
che Alan Niven li aveva liquidati dopo appena cinque minuti di riunione, due
settimane prima. Maggio aveva portato un odore fresco e nuovo nella torrida Los
Angeles, insieme ad un gruppetto di minacciose nuvole plumbee all’orizzonte, e
quel Vedremo sembrava essere
destinata a rimanere per sempre l’ultima parola del manager nelle loro teste. –
Ma dico, mi ascolti mai? – nella voce di Maxie la rabbia stava crescendo
secondo dopo secondo, ed ogni individuo con un briciolo di sale in zucca
avrebbe intuito che la cosa più conveniente da fare era darle ascolto. I corridoio della Renton, affollati come sempre durante un
cambio dell’ora, sembravano essersi ristretti a causa dello sovraffollamento.
Duff si strofinò in fretta gli occhi gonfi di sonno, reduce dall’ennesimo
concerto in un qualche piccolo locale nei sobborghi della metropoli. – Dimmi, rompipalle -.
Il
motivo del fastidio di Maxie, prossimo ad un’ira funesta che avrebbe fatto
impallidire Achille, se ne stava in bella mostra davanti alla fila di
armadietti verdastri vicino alle scale. Era costituito da due sagome
stranamente vicine, occupate in una conversazione o, per meglio dire, in un
monologo che accentuava le loro differenze. Una delle due, come dimostrò
l’irrigidimento involontario del corpo di Duff quando l’amica gliela indicò,
racchiudeva nella propria figura snella una marea di problemi. – E allora? – la
domanda retorica, pronunciata dal biondino in modo insolitamente secco, non
sembrò disturbare Maxie quanto il ragazzo stesso, che fremeva letteralmente per
mantenere il proprio aspetto impassibile. Il gioco del silenzio a cui Adrien
Miller aveva dato il via al ritorno dalla gita in Canada era stato accolto da
Duff con grande tenacia proprio a causa del famoso Vedremo sopracitato. “Non m’importa. No, no, no e no”.
Anche uno sciocco avrebbe capito che un uomo di classe e professionale, almeno
stando a quanto si diceva in giro, come Alan Niven non dimostrava alcuna
agitazione, se non per una causa specifica. E, come dimostravano gli eventi,
Adrien tendeva ad essere al centro di qualsiasi uragano. Così Duff, da pedina
remissiva nelle mani del demonio, aveva deciso di non cercarla, d’ignorarla a
propria volta.
-
Allora?!
Allora, mi chiedi! Oh, ma certo, tu non ti sei mai accorto di nulla, preso da…
da… te! – quando l’appena incominciato sfogo di Maxie però incominciò a
superare un confine mai nominato, le orecchie di Duff si teserò verso il
criptico messaggio delle parole dell’amica. – Cosa intendi dire? – chiese
confuso, aggrottando le sopracciglia biondo cenere,
senza però perdere di vista le figure di Adrien e di Linda davanti
all’armadietto di quell’ultima. Non si accorse nemmeno che la riposta
dell’amica si fece attendere per alcuni minuti, che aveva trattenuto il respiro
quando aveva capito di aver detto troppo, venendo meno ad una promessa di cui
Duff non sapeva niente. La sua mente viaggiava per congetture e
contemporaneamente era concentrata sulla scenetta qualche metro più in là. Le
due ragazze si sorridevano, l’una sicura ed affascinante, l’altra incerta,
rossa in volto. Poi Linda aveva bisbigliò quelle che erano probabilmente le sue
prima parole in tutta la conversazione, dileguandosi in fretto
sotto il grigio insolitamente dolce di Adrien. La tenerezza di quest’ultima si
tramutò però in una compassione altezzosa, non appena Linda distolse da lei lo
sguardo. – Intendo dire – la voce di Maxie era tesa come una corda di violino,
mentre veloce afferrava il proprio zaino a terra e s’accingeva ad andarsene –
che se le fa qualcos’altro la uccido,
la tua troia. E sul serio, stavolta. -.
Il
trillo della campanella che richiamò gli studenti all’ordine coprì l’eco della
voce di Maxie nella sua testa. La ragazza era già lontana, diretta verso la
prossima classe, mentre Duff sentiva che, se avesse deciso di muoversi, non
sarebbe riuscito a coordinare i propri muscoli. “Che cosa significa?” non c’era bisogno di porsi certe domande. Le
affermazioni della biondina non avrebbero potuto essere più chiare di così. Un
nugolo di ragazzini uscì dal suo campo visivo, concedendogli ancora la visione
di Adrien che, allontanatasi verso il proprio armadietto, recuperava in fretta
alcuni libri dal proprio armadietto prima di chiudere con forza l’anta di
questo. Nel corridoio risuonarono le ultime risate prima che il rumore della
porta del laboratorio di chimica, lasciando poi che il silenzio fosse il solo
ostacolo fra loro. Nello sguardo di Adrien il ragazzo lesse l’attesa, quella in
cui probabilmente si era cullata quando, minuti prima, si era accorta di essere
osservata. Duff non seppe dire se proprio quel silenzio denso, quasi palpabile,
se fu quello a smuovere qualcosa nel suo animo. Ma in pochi istanti capì perché
il Vedremo di Alan Niven l’avesse
offeso così tanto: non era una persona fatta per ignorare. Aveva bisogno di agire,
e quello era il momento giusto.
-
Ciao Duff – il salutò della rossa suonò fin troppo
dolce e tranquillo mentre, con ampie falcate, il ragazzo le si avvicinava.
Sapeva di avere impressa sul volto la minaccia con cui avrebbe dovuto
spaventarla, ma allo stesso tempo non sperava che quel futile dettaglio potesse
preoccupare Adrien. Le si fermò davanti per un’infinità di tempo, a pochissimi
centimetri di distanza, scambiando con lei pochi sguardi terribilmente
neutrali. Si scoprì a cercare in quegli occhi grigi un motivo, un qualsiasi
pretesto per frenare la decisione presa poco prima, dettata dal proprio istinto
e dalle parole di Maxie. Lasciato trascorrere anche più tempo del necessario,
Duff si concesse un sospiro. Poi, con uno scatto fulmineo, strinse fra le dita
i polsi della ragazza per poi spingerla contro gli armadietti. Il rumore del
corpo della rossa che sbatteva contro il metallo scadente risuonò con un
clangore per l’ambiente vuoto. – Tu. Tu stai cercando di ammazzarmi, cazzo. –
la voce con cui sibilò quell’accusa non sembrava appartenergli. Fissò con
ferocia il volto di Adrien, apparentemente per nulla sconvolto dalle sue
azioni. Dissimulazione. Come era
brava a mentire a tutti.
-
Mi ami? – sputò, avvicinando il proprio volto a quello della ragazza, sperando
in un qualsiasi segno, anche minuscolo, che provasse il timore di Adrien in
quel momento. Nulla. Nemmeno il corpo della rossa sembrava dibattersi per
liberarsi dalla costrizione che Duff le stava imponendo. – Ti ho fatto una
domanda, cazzo! Dammi una risposta sincera, almeno una volta! – nonostante
sapesse che, se non voleva attirare nei corridoi ogni persona presente in
quella scuola, doveva costringersi ad abbassare il tono. Ma in quel momento era
qualcosa d’impossibile. Leggere l’impassibilità sul volto angelico di Adrien
gli procurava un dolore sordo in tutto il corpo. “Reagisci, maledizione! Dammi qualcosa di vero!” – Mi ami? – ripeté, aspro ma
calmandosi un poco, in attesa. – Ma certo che ti amo,
Duff! Sono la tua ragazza! – parole dolci come il miele, profonde e cariche di
commozione. E forse ci sarebbe anche cascato, Duff, in quella risposta
pronunciata con autentica convinzione, se non fosse stato per il sorriso che
sopraggiunse sulle labbra sottili della ragazza. Del tutto fuori luogo, in
contrasto con tutto ciò che conosceva di lei,
innaturale, falso. Quel sorriso era
un’altra menzogna, come ciò che gli aveva appena detto. Quella sera, ripensando
a quella totale sconnessione che aveva avvertito fra di
loro, si sarebbe giudicato un cretino.
-
E allora cosa vuoi da me? – come se la ragazza non gli avesse nemmeno risposto,
come se gli avesse semplicemente detto no. La presa attorno ai polsi delicati
si fece più forte, violenta, ma il gemito di dolore che Duff si aspettava di
sentire non arrivò mai. Solo una piccola, insignificante soddisfazione rilassò
i suoi muscoli tesi: sul volto di Adrien era spuntata un’espressione appena più
dura, appena più reale. La rossa aveva evidentemente capito che il giochetto
che portava la sua firma stava giungendo alla fine: restava da vedere chi ne
sarebbe uscito vincitore. – Che diavolo vuoi da me? – Duff aveva però smesso di
attendere una qualsivoglia risposta: oramai, era in grado di darsela da solo.
La chiave per concludere quel gioco era sempre stata davanti a lui, abbastanza
vicina perché potesse prenderla, nascosta ai suoi occhi bendati da un amore
falso in cui aveva creduto, come un qualsiasi innamorato, come un qualsiasi
cieco. Ora che aveva finalmente superato
ogni barriera, era deciso a chiudere la porta a chiave in faccia a quel demonio
che era Adrien Miller. – E’ finita. Cazzo se è finita. -.
Quando
si accorse che la ragazza aveva sgranato gli occhi dallo stupore, fu sul punto
di fare la cosa più stupida a cui potesse pensare in un momento di tale
tensione. Trattenne una risata, constatando che, nonostante tutto ciò che era
accaduto, Adrien non avesse minimamente pensato che fosse sul punto di mollarla. A quel punto, non seppe più
dire chi dei due fosse il più ingenuo. Con un ultimo tremito, avvertì la rabbia
dissolversi ed un sorriso tutt’altro che allegro distendersi sul proprio viso.
Si allontanò da lei, lasciando che le sue braccia pallide, le stesse che
l’avevano stretto con forza per tante notti, ricadessero inerti lungo i fianchi
sottili della rossa. – Da questo momento, voglio che ti
mi stia lontana. E anche da Linda, da Maxie e da tutti gli altri. Ci devi lasciare in pace, hai capito? –
lo sguardo che le rivolse fu un tentativo di romperla dentro, come lei aveva
fatto tante volte nei momenti di debolezza del ragazzo. – Non voglio più avere
nulla a che fare con te, puttana. –
sputò infine, mentre l’ultima nota del suo rancore si spense nell’aria attorno
a loro. Quando Duff si accorse di avere il fiatone, capì che era il momento di
voltare le spalle per non fare ritorno. Adrien era bella come un angelo
nell’incredulità che la attanagliava. Stringendo saldamente la propria borsa a
tracolla, il ragazzo girò i tacchi dirigendosi verso la propria classe,
camminando ad un metro da terra.
Poter
quasi toccare l’euforia che quel
momento aveva scatenato in quello che era ormai il suo ex fidanzata fu il colpo
più duro. Una fitta allo stomaco, come se fosse appena stato trapassato da un
coltello arrugginito, portò alla sua mente ricordi lontani che rimosse con poco
sforzo, come aveva imparato negli anni. Sul suo viso l’ondata di stupore
iniziale era già scomparsa, rimpiazzata dalle bellezza
altera ed ingannevole di sempre. Nessuno avrebbe notato la tempesta che
imperversava dentro la sua testa, come sempre. Rimase immobile ad ascoltare i
rumori dei passi pesanti, impacciati a causa di quelle gambe lunghe e quella
postura scorretta, che si dirigevano verso un’aula di cui lei non conosceva il
nome. Non seguivano gli stessi corsi, a parte letteratura e chimica. A pensarci
bene, non avevano mai seguito nulla insieme, nemmeno lo scorrere del conto alla
rovescia che era scattato nell’istante in cui Adrien si era rifiutata di
partecipare alla famosa festa. Tutt’ad un tratto, la ragazza si ritrovò a
correre per quel corridoio vuoto con l’intenzione di fermare Duff, prima di
rendersi conto di essere rimasta immobile con la schiena contro gli armadietti.
Autocontrollo. Non poteva permettersi
delle allucinazioni. Non poteva permettersi di esporsi troppo. Solo quando sentì
in fondo alle scale la voce di una bidella gracchiare delle indicazioni ad una
collega, capì di aver smesso di respirare da tempo. Ravvivandosi i capelli,
mosse un passo verso la propria strada, quella sbagliata che percorreva da
sempre, pensando alla scusa per il ritardo da presentare alla prossima Signora
Nessuno.
“ Dolce
e instabile condanna,
mi ha portato troppo
in là:
vedo solo sbarre,
vedo una prigione umida,
vedo poca verità. ”
(Subsonica – Abitudine)
NOTE
DELL’AUTRICE
Faccio
in fretta perché ho pochissimo tempo e devo ancora far luce sul mistero di una
versione di latino che non riesco a tradurre xD
povera me. Come avete potuto vedere, questa settimana sono riuscita ad
aggiornare un po’ prima. Non sono ancora tornata ai tempi di una volta, ma
faccio progressi. Perdonate questa povera somara che deve studiare come una
stupida.
Okay,
l’ha mollata. Finalmente: ci ha messo diciotto capitoli per farlo, ma alla fine
ci è riuscito. Piccoli Duff crescono J posso dire che mi sento come una mammina orgogliosa? No,
ovviamente, ma lasciate perdere le mie affermazioni e proseguiamo.
Non
ci sono troppe precisazioni da fare. Come ho detto, Robin è uscita dai giochi
lo scorso capitolo, e adesso la partita prosegue in mano esclusivamente alla
nostra malata mentale preferita.
Ovviamente,
il parere che Niven da sui nostri Guns nell’osservali
durante il concerto è completamente inventato dalla sottoscritta. Precisamente,
sarebbe il parere della sottoscritta
tramutato nella mia visione del povero Alan Niven. Vi svelo un segreto: nella
stesura originale di Naive, il manager ed Adrien avrebbero dovuto essere
amanti, poi però ho tagliato le parti che li ritraevano come tali. Mi sembrava
di cattivo gusto, accentuare così il potere che Adrien esercita sugli uomini.
Sarà anche affascinante, ma è pur sempre pazza.
Visto
che mi sto facendo desiderare molto in questo periodo, sto pensando seriamente
di farvi una sorpresina in questi giorni. Non vi dico di cosa si tratta perché
non sono sicura di farcela, ma spero vivamente di pubblicarla. Sono nostalgica
in questi giorni.
Credete
che sia finita? Buahahah, illuse. Mancano ancora un
paio di capitoli prima della parola FINE, e tutto ancora
può succedere. Intanto, ribadisco che via amo tutte, per le vostre belle
recensioni. Smack.
Poche
persone sapevano cogliere le diverse sfumature di cui si tingeva la pelle umana
sotto la pioggia. La ragazza, gli occhi brucianti a causa delle gocce d’acqua
che scivolavano lungo il suo viso, lasciò che la propria mano ondeggiasse
avanti e indietro, sotto il proprio sguardo. “Meraviglioso” era un aggettivo che, secondo lei, non bastava a
descrivere ciò che stava osservando. Ognuna delle sue dita si sdoppiava,
lasciando piccoli pezzetti di pelle sospesi a mezz’aria prima che,
puntualmente, svanissero. Lo scroscio della pioggia che, incessante, si
abbatteva su Los Angeles non sembrava disturbarla. Al contrario, lo strano
rituale a cui aveva dato il via assumeva una nota mistica proprio grazie al
temporale. “Assolutamente meraviglioso”
e, mentre la mano destra continuava a disegnare cerchi invisibili nell’aria
densa d’umidità, la sinistra stringeva con forza sempre maggiore l’oggetto che
da ore non accennava a mollare. Il rumore di carta stropicciata si aggiunse a
quello dell’acqua. Era una sensazione fantastica: le sembrava di stare
stritolando il proprio mondo e, contemporaneamente, stava cercando di afferrare
ciò che ancora non aveva ai propri piedi.
-
Adrien! Per l’amore del cielo! – non udì nemmeno il rumore sordo della porta a
vetri aperta violentemente. Ogni secondo era di pieno stupore, osservando il
deformarsi ipnotico delle proprie dita. – Si può sapere che ti salta in testa?
– in una città generalmente calda come Los Angeles, gli ombrelli a disposizione
nelle case dei cittadini erano sempre troppo pochi e troppo piccoli. Quello che
Lisette afferrò per poter raggiungere la figlia, in piedi sotto il temporale propria al centro del lussureggiante giardino,
si dimostrò poi di una particolare inutilità. Pesanti gocce d’acqua piovana
intaccarono subito l’eleganza del tailleur della donna, non appena questa tentò
di mettere al riparo anche la ragazza. Adrien non accennò un solo movimento per
lasciar intendere di essersi accorta della presenza della madre. – Torna
dentro, diamine! – poche volte nella sua vita Lisette si era concessa
d’imprecare, un atto da lei giudicato volgare e plebeo, ed ogni volta il destinatario del gesto era lo stesso.
Sistemando una ciocca dell’impeccabile acconciatura dietro l’orecchio, la donna
tentò invano a parole di attirare l’attenzione della ragazza. Le bastò poi
un’occhiata ai suoi occhi, le due trappole mortali che tendeva ad evitare
durante i colloqui con la figlia, per capire che, in quel momento, per la testa
di Adrien non passava assolutamente nulla. Le pupille grigie erano dilatate ed
assenti. – Adrien! Rispondimi! -.
Solo
a quella supplica che aveva sentito pronunciare da Lisette un milione di volte,
la ragazza si volse a guardarla. Il sorriso che le distese le labbra era privo
di qualsiasi emozione e fu di breve durata, prima che Adrien tornasse con lo
sguardo verso l’alto, verso il cielo plumbeo. La mano che prima aveva sventolato
a mezz’aria in un gesto che Lisette non riusciva a comprendere portò nel campo
visivo della ragazza una ciocca dei suoi lunghi capelli bagnati. – Dovrei
rifarmi la tinta – a quell’affermazione, la donna spalancò la bocca senza che
da essa ne uscisse alcun suono. Qualsiasi discorso ragionevole, o per lo meno
di senso compiuto, avrebbe dovuto formulare in quel momento, era sicura che le sarebbe venuto in mente solo più tardi, lontano da una
figlia sorda e cieca. – Suppongo di essere innamorata – non c’era nulla di
frivolo o di romantico nella voce di Adrien: quella che pronunciò avrebbe
potuto essere un’affermazione come un’altra, sul tempo o sulle ultime vicende
politiche. Proprio per quell’inquietante motivo, Lisette capì che la ragazza
non le stava mentendo. La pioggia cominciò ad inumidirle i capelli biondi
quando, nell’emozione di quella nuova consapevolezza, si dimenticò di mantenere
l’ombrello diritto. Dopo anni di silenzio costante, sentiva sulle dita la
pressione del primo pezzetto di realtà di una figlia sconosciuta.
Quando
le braccia della madre si chiusero attorno alle spalle esili
di Adrien, la ragazza avvertì un profondo senso di fastidio a cui però non
diede particolare peso. Ogni attimo continuava a scivolare via velocemente,
sprecato, ed ella sapeva che non ne sarebbero trascorsi molti prima che Lisette
si rendesse conto che il suo sentimentalismo era soltanto un altro mattone nel
muro che le divideva. La profonda commozione della donna era un elemento come
un altro del paesaggio dei giardini della dimora dei Miller. – Mamma, il
bottone della tua giacca sta per saltare. – il braccio di Adrien, costretto a
piegarsi dall’abbraccio di Lisette, era ancora sospeso a mezz’aria ed occupato
nell’enigmatico rituale della mano. La sua voce, unita al rumore incessante
della pioggia, profumava dell’indifferenza con cui, ancora una volta, feriva la propria madre. Qualsiasi insulto, anche la violenza
fisica, ogni cosa sarebbe stata migliore di quell’impassibilità: quando Lisette
si decise a staccarsi da quel corpo tanto freddo
da sembrare senza vita, di riflesso si sentì morta dentro. – Adrien, ti prego,
torna in casa… - il flebile gemito delle sue parole si perse nel vento.
-
Ho da fare, mamma – lo faceva sembrare talmente semplice, lasciarla sempre con un
dolore lancinante al petto, inerme. Concentrandosi per non invocare il nome
della figlia implorandola di rimanere, cosa che Lisette si era sempre rifiutata
di fare, strinse la mano attorno al manico metallico dell’ombrellino con tutta
la forza che possedeva in corpo. Udì semplicemente i passi, eleganti ed
aggraziati come sempre, di Adrien percorrere il lembo di terra che la separava
dal suo rifugio, dalla dependance. L’unica cosa che attirò la sua attenzione
nel tumulto che aveva in testa fu il fastidioso suono simile a quello di un
foglio accartocciato. Prima di lanciarsi nella solita uscita di scena da
vincitrice, Adrien si era curata di pestare col tacco l’oggetto bianco che in
quel momento giaceva sul prato, sotto lo sguardo di Lisette. La donna sospirò,
esausta come se avesse vissuto dieci anni nel giro di un secondo. Poi, si chinò
a raccogliere da terra la foto che la figlia s’era premurata di farle
pervenire. “Oh, Adrien” come se non
conoscesse già a memoria le fattezze della persona nella foto. Lisette sentì
subito l’impulso forte di stringere a sé Alan, ovunque il marito fosse in quel
momento. Voltandosi, scoprì Annalou, la sua dolce, piccola principessa,
fissarla attraverso le porte a vetri della villa. Negli occhi solitamente
vivaci della ragazzina ritrovò l’ombra della tranquillità con cui Adrien
solitamente guardava le proprie vittime, prima di appiccare loro fuoco. Abbassò
le palpebre, escluse il mondo dalla propria testa ed infine si sentì
profondamente fallita.
-
Avanti. Con questo abbiamo finito. – in tutti gli anni della propria carriera
scolastica, Saul Hudson, in arte Slash, non aveva mai fatto mistero della
repulsione che provava puntualmente davanti ad un libro su qualsivoglia
materia. Chiunque avrebbe affermato, davanti alla visione del ragazzo
letteralmente stravaccato sulla cigolante sedia della biblioteca, il collo
reclinato all’indietro e la bocca spalancata in una simulazione di morte, che
Linda Johnson meritava il premio come migliore insegnante degli Stati Uniti.
Come maestra d’asilo. – Avanti, un
ultimo sforzo. Devi rispondere alle domande che ti pongo, poi insieme contiamo
gli errori. – la voce della ragazza, con il capo immerso in un grosso tomo
dalle fitte spiegazioni, tradiva una certa esasperazione. Linda era però nota
ai numerosi tredicenni a cui aveva dato ripetizioni anche per la sua infinita
(e, talvolta, impossibile) pazienza.
Aspettò con un sorrisetto apprensivo sulle labbra che Slash emettesse un verso
gutturale di assenso, prima di domandare – Come mastro Chicot uccide sua zia
Magloire? -. La speranza che, nel silenzio religioso piombato improvvisamente
sul tavolo di lavoro, la ragazza nutrì era palpabile. Il riccio sembrava infatti particolarmente concentrato per trovare la
risposta. – La fa ubriacare, no? Con quel cazzo di fusticino. – Linda non gli permise di andare oltre. Mantenendo con
fatica un’espressione comprensiva, ma portando istintivamente le dita a
massaggiarsi le tempie, disse. – In francese,
Slash. Stiamo ripassando francese. -.
La
risatina che provenne dalla terza figura, nascosta nell’ombra dall’inizio della
lezione, provocò un sobbalzo sia nell’indisciplinato allievo sia nella maestra.
Era il primo suono diversa da un grugnito primitivo
che Duff emetteva da quando era giunto in biblioteca. – Ma non l’avevi detto! E
tu cosa ridi, cazzone? – diversi cori di “sssh” si
levarono dagli alti scaffali della stanza, cosa che si era ripetuta ogni cinque
minuti dopo l’arrivo del trio. – Chiedilo a lui, scusa! – offeso per la
figuraccia appena commessa, Slash indicò con rabbia l’amico, che si affrettò ad
abbassare gli occhi sul libro di letteratura francese, una delle materie da lui
più odiate. Non aveva neanche la più pallida idea di chi fossero mastro Chicot
e zia Magloire. – Okay. – dopo essersi concessa un lungo respiro ed aver capito
che gliene servivano altri cento, Linda richiuse con
gentilezza il proprio libro, alzando lo sguardo sul riccio con un sorriso
materno. – Okay. Evidentemente non è giornata: ci troviamo
domani alla stessa ora e ricominciamo da capo. E dite a Steven di farsi vivo, ogni tanto. – non c’era alcun
risentimento per la lezione disastrosa, l’ultima di una serie che andava
aumentando paurosamente.
-
Scusa, piccola – Slash non notò nemmeno il lieve irrigidirsi della ragazza
quando, pronunciando quel “piccola”
con disinvoltura, fu chiaro che non intendeva rivolgersi a lei con malizia, ma
sottolineare invece la sua fragilità. Il riccio era troppo impegnato ad
assicurarsi che le cuciture del proprio zaino non cedessero sotto il peso di
tutti i libri di testo. – Ma ho un appuntamento, se capisci che intendo… - un
occhiolino malizioso seguì quelle poche parole, a cui Linda rispose con un
sorriso di circostanza, senza intendere alcunché.-
Ti prometto che per domani saprò tutto! Te lo giuro su… su… beh, te lo giuro! Au revoir!
– la pronuncia di Slash era così terribile dal provocare brividi lungo la
schiena della brunetta. Duff non fu più in grado di trattenere una risata
balorda, che suscitò subito numerose proteste dagli individui, a parere del bassista sinistri e viscidi, che si aggiravano per la
biblioteca. – Non te la prendere, ma me la filo anch’io – no, Linda non se la
sarebbe presa: se l’aspettava, rassegnata. Alzò lo sguardo su Duff per
incontrare negli occhi verde cupo il senso di colpa che il ragazzo stava
provando per l’ennesimo due di picche dato alle ripetizioni. Il sorriso gentile
della ragazza s’incrinò un poco, ma non scomparve. – Figurati. Credo che andrò
a casa anch’io. – gli occhi scuri di Linda si ridussero però a due fessure, mentre
una strana sensazione s’insinuava in lei. Era
tristezza quella sul viso di Duff o…?
Ascoltare
Duff blaterare sull’ultimo disco di chissà quale sconosciuta band, mentre i
loro passi risuonavano sotto i portici deserti della Renton High School, le
procurava ancora un lieve dolore al petto. Quando Linda si trovò a dover fare
passare per un colpetto di tosse un sospiro piuttosto rumoroso, scoprì anche di
non ricordare le parole che Steven le aveva ripetuto per quasi cinque mesi. I
moniti dell’amico divenivano un mantra che si ripeteva prima di andare a
dormire, ma che puntualmente rimuoveva dalla testa davanti a Duff McKagan. “Linda Johnson, sei davvero un rifiuto umano” pensò la ragazza con un gran
sorriso, mentre il biondino al suo fianco continuava la propria litania sugli
AC/DC. Alcuni raggi di sole le colpirono il viso, costringendola a socchiudere
gli occhi. L’aria di Los Angeles era un miscuglio di umidità e gas di scarico,
il tipico odore che sopraggiungeva dopo un acquazzone come quello precedente. -
… assurdo! Cioè, non so se mi spiego, ma quell’uomo riesce a suonare come un
Dio la chitarra, a fare di corsa un palco di cinquanta metri, avanti e
indietro, e non è mai stanco. Capisci
che intendo? – “No” avrebbe voluto
rispondere Linda. Per una volta, sarebbe stata completamente sincera con sé
stessa. – Duff, ti devo dire una cosa. – le parole le scapparono di bocca
talmente velocemente da renderle irreali, come frutto della sua immaginazione.
Ma,
a dispetto delle sensazioni e dell’ansia di Linda, Duff aveva compreso ogni
parola dell’interruzione della ragazza. E, con lo stesso atteggiamento di un
condannato all’ergastolo davanti al tono grave dell’amica, si chiese perché
eventi di una certa importanza sembrassero essersi condensati in un’unica
giornata. – Cosa? – maggio, oltre ad un notevole aumento delle temperature,
aveva comportato l’affollarsi attorno alla scuola di un cospicuo numero di
studenti a rischio di bocciatura. Un paio di studenti li salutarono quando
raggiunsero l’uscita della scuola. Senza fare caso al silenzio che era sceso a
separarlo da Linda, Duff prese a frugare dentro la propria malandata borsa,
alla ricerca di un pacchetto di sigarette schiacciato. Quando se ne accese una,
ricevendo un’occhiataccia da una ragazzina di passaggio, sentì crescere in sé
un senso di soddisfazione. Poi lo sguardo del ragazzo cadde sul volto di Linda,
cancellando ogni tranquillità: sembrava che la moretta fosse sul punto di avere
un attacco d’asma. La ragazza infatti teneva lo
sguardo fisso a terra e respirava con la bocca dischiusa, quasi in
iperventilazione. – Linda, ma ti senti b…? – il biondino non finì mai la frase.
Nello stesso momento in cui aprì bocca, Linda si volse verso di lui di scatto,
in preda a quella che sembrava una crisi mistica. – Mi piaci. Un sacco. Tu mi
piaci un sacco. Ecco. -.
“Oh!”. Entrambi spalancarono gli occhi dallo
stupore, cercando con fatica di assimilare ciò che era appena accaduto. L’eco
delle parole di Linda nelle loro teste era così potente da sembrare reale,
tanto che, per un momento, i ragazzi si scordarono del luogo in cui si
trovavano, degli argomenti di cui avevano discusso in precedenza, dell’amicizia
che fra loro c’era sempre stata. Nonostante il suo cervello gli stesse
impedendo produrre una qualsiasi fra di senso compiuto,
Duff aprì la bocca per dire qualcosa che rompesse il silenzio, che per lo meno
impedisse a Linda di guardarlo come paralizzata. Si dimenticò però di avere la
sigaretta appena accesa in bocca. – Cazzo! – imprecò, quando la sottile stecca
bianca cadde sulla ghiaia del viale d’ingresso della Renton. Il ragazzo si
chinò frettolosamente a raccoglierla, bestemmiando senza pudore, prima di
rialzarsi e gettarla lontano. Il suo sguardo afflitto per quella perdita cercava di mascherare la
confusione che in lui regnava. Quando si decise a portare nuovamente gli occhi
verdi sulla moretta al suo fianco, dopo interminabili minuti di nulla, la
scoprì con il volto coperto dai capelli, il capo chino a terra. – Linda… -
incominciò, passandosi sulla fronte per scostare una ciocca ribelle, capendo di
stare comportandosi da perfetto idiota. – Linda, non so che dirti… - nella
mente del ragazzo, fioccarono complimenti sarcastici verso la propria
eloquenza.
-
No! – lo interruppe bruscamente Linda, rialzando di scattò
la testa senza però avere il coraggio di guardarlo negli occhi. “Oddio, l’ho fatto. L’ho fatto sul serio.” – Cioè… No, non
c’è bisogno che tu dica qualcosa. Io non mi aspetto… - quali erano le parole
giuste, in un momento del genere? O, per lo meno, esistevano? Linda temeva
l’attimo in cui avrebbe dovuto alzare lo sguardo verso il volto di Duff, su cui
era certa di trovare un’espressione di pietà, o di derisione. -… Niente. Non mi
aspetto niente. Non so neanche perché l’ho detto. – non lo sapeva proprio. La
ragazza aveva sentito un improvviso impulso, dettato da un inconscio che doveva
essere stato ubriaco, per portarla a
muovere un passo del genere. Due anni di amore silenzioso e devoto, come solo
un adolescente appassionato e carico d’immagini di telefilm può riuscire a
provare, che aveva buttato al vento con una dichiarazione penosa. – Insomma, tu
stai con Adrien, e io non avrei dovuto parlare. Non so cosa mi sia preso,
scusami tanto. – la moretta avrebbe voluto con tutta sé stessa gettare a terra
i libri e correre lontano, a seppellire sé stessa e la propria idiozia. Ma le
gambe avevano assunto improvvisamente la stessa consistenza della pietra,
impedendole di muoversi.
-
Ho mollato Adrien – affermarlo fu come un riflesso, dettato dal puro istinto,
anche se si sentiva come se non fosse ancora in grado di comprendere il reale
significato di quelle parole. Probabilmente, l’anima di Duff aveva realizzato
molto tempo prima che la sua storia (se così si poteva definire) con la rossa
era finita, ma la sua testa ci avrebbe impiegato ancora un po’ per
comprenderlo. “Oh!” Linda sapeva che
quel barlume di speranza che, alle parole del biondino, si era acceso
improvvisamente nel suo cuore era sbagliato, oltre che masochista da parte sua.
Ma, nonostante quella consapevolezza, la ragazza non riuscì a non sollevare
ulteriormente il viso, gli occhi sul cancello della Renton, prima di mormorare
con un filo di voce in più. – E… -. Appena Duff capì che la situazione in cui
si era deciso a rivelare il suo rinnovato status di single era decisamente
quella meno appropriata, riprese ad insultare la propria sfortuna. Quella
giornata si stava rivelando più lunga e complicata del previsto; – Niente,
Linda. Tu per me sei una grande amica. – e quello era invece uno dei momenti
più imbarazzanti della sua vita. Con lo sguardo percorse i tratti delicati del
viso dell’amica mentre su questi compariva una delusione dall’aspetto antico.
-
Certo. Sul serio, va bene così. – stranamente, non appena Duff confermò ciò che
da tempo conosceva, Linda si sentì bene come mai le era capitato in vita sua. “L’ho fatto sul serio” un sorriso sereno,
che copriva la tristezza profonda che era normale in un simile frangente, le
distese il viso. Forse ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo prima che
potesse sentirsi in pace con sé stessa, ma il macigno che solitamente le pesava
sullo stomaco si era dissolto. – Io… - al contrario di molte persone della sua
età, il biondino poteva affermare di non aver mai subito pesanti mutazioni
caratteriali, nell’arco della sua breve vita. Era sempre stato poco abile nel
destreggiarsi con le parole, forse a causa della semplicità genuina che
racchiudeva in fondo al cuore. – In questo momento, ho davvero bisogno di
un’amica. – sapeva che la domanda racchiusa in quell’affermazione apparentemente
casuale era pesante da rivolgerle, in un momento del genere. Proprio per questo
evitò d’incrociare immediatamente lo sguardo di Linda, aspettandosi da lei
un’espressione risentita ma giusta. Quando però ebbe il coraggio di sollevare
gli occhi, trovò soltanto una straordinaria dolcezza appena velata d’ombra. La
verità era che, a differenza di quanto avrebbe fatto lui al suo posto, la
ragazza aveva deciso di accontentarsi, ma questo il Duff non sembrava capirlo.
Sarebbe stata una spalla su cui trattenere le lacrime, un ripiego, sarebbe
stata come… “Steven” – Vieni qui –
Linda allargò le braccia, prima che il biondino la raggiungesse e la avvolgesse
nella propria stretta. La ragazza abbassò le palpebre, godendosi con dolore
quei pochi attimi di felicità anche un po’ finta, ma che per il momento le
bastava. Poi riaprì gli occhi e la vide.
Adrien
se ne stava davanti al cancello, immobile. Doveva essere appena arrivata, ma a
Linda parve che in realtà li stesse osservando da lontano da molto tempo. – Duff…-
bastò un colpetto veloce sulla spalla e l’udire il tono improvvisamente
allarmato dell’amica per capire. In cuor suo sapeva che era una cosa assurda,
ma aveva sentito gli occhi grigi della rossa scuotergli le vertebre della
schiena, avvertendolo del suo arrivo. Sciolse quindi l’abbraccio, voltandosi
verso il verdetto. Subito il ragazzo intuì che qualcosa, più del solito, non
quadrava. La lunga chioma era umida, le incorniciava il viso
cereo arruffata, e la tinta stava iniziando a scolorire. Ma era l’espressione
sul viso di Adrien a rassicurarlo poco, e per istinto il biondino sapeva che,
quando accadeva qualcosa del genere, non c’era da aspettarsi nulla di buono. In
quelle pozze di piombo che erano gli occhi della ragazza, qualcosa si era
trasfigurato. Lentamente, dallo stato di paralisi in cui l’aveva vista, la
rossa indossò una nuova maschera, distorcendo i lineamenti aristocratici del
viso per un’emozione che andava oltre la rabbia. La osservò coprire la distanza
fra lei e il luogo in cui si trovavano lui e Linda con ampie falcate, diversa,
terribilmente simile alla persona malvagia che si era sempre rifiutato di
vedere. Accadde tutto in pochi secondi. Quando Adrien si trovò davanti a loro,
alzò la mano per caricare con potenza: Duff chiuse gli occhi, attendendo la
potenza dello schiaffo forte della decisione che non avrebbe abbandonato. Il
suono del colpo risuonò per tutto il parco.
-
Te l’avevo detto! – riaprì di colpo gli occhi: lo schiaffo, che aveva pensato
si sarebbe scaricato contro la sua guancia, non era arrivato. Sul volto di
Adrien c’era il demone che aveva sempre tenuto nascosto, mentre guardava con
ira profonda Linda. La ragazza aveva portato la mano nel punto in cui la rossa
l’aveva colpita con tutta la propria forza, piegata su sé stessa sia per la
sorpresa che per il dolore. Istintivamente, Duff arretrò: quel gesto l’avrebbe
tormentato, quella sera, ma in quel momento non poté non optare per la
vigliaccheria. Perché, nel momento stesso in cui Linda aveva fatto cenno di
rialzarsi, Adrien aveva colpito ancora. Con una ginocchiata che l’aveva colpita
in piena fronte. – Te l’avevo detto di stargli lontano! – la voce che gridava
non era neanche lontanamente simile a quella suadente della persona che aveva
amato per mesi. Impietrito, guardo Linda cadere a terra, sulla ghiaia fredda
del vialetto, mentre i suoi gemiti di dolore riempivano l’aria. La rossa
continuava a divorarla con gli occhi, in preda ad una furia incredibile:
aspettò qualche secondo, quasi per assicurasse che il
colpo precedente avesse messo fuori gioco la sua avversaria, prima di calciarla
ancora all’addome.
-
Ma che diavolo stai facendo? – quando si decise ad agire, Duff si mosse come
governato da un’altra entità. Una folla di curiosi fra coloro che ancora si
trovavano a scuola si era già radunata attorno alle due ragazze, senza però
muovere un dito per fermare Adrien. Il biondino si tuffò in avanti, alle spalle
della rossa, afferrandola per la vita ed allontanandola da Linda stesa a terra
prima che potesse peggiorare la situazione. L’ennesimo urlo disumano della
ragazza riecheggiò nell’aria, mentre questa scalciava per liberarsi dalla
stretta di Duff. – Cazzo! Stai ferma! – protestò a sua volta il biondino,
lasciandola cadere malamente quando gli fu chiaro che non sarebbe riuscita a
trattenerla ancora per molto. Gettò un’occhiata di traverso a Linda, la quale
era già stata attorniata da un ronzio di voci confuse, prima di posare
nuovamente gli occhi su Adrien. La ragazza aveva ritrovato l’equilibrio, ma
fremeva d’emozione ed ancora gli dava le spalle. Quando però si volse a
guardarlo, un moto di paura, vera paura, si sollevò nell’animo del biondino.
Negli occhi spalancati ed iniettati di sangue di Adrien, qualcosa gli affondo
un pugnale nel petto. Il volto che gli aveva fatto perdere la testa era
scomparso, sostituito da un’espressione che, vittima di quell’esperienza
extracorporea che stava vivendo, non si sarebbe ricordato. Non era più così
bella.
Approfittò
subito di quell’incertezza che era lampante negli occhi verde scuro del giovane.
Prima che Duff se ne rendesse conto, una bocca avida ed esigente aveva coperto
la sua, mentre il tocco violento di due mani familiari lo costringevano a quel
contatto. In quello che nemmeno meritava il nome di bacio, Adrien aveva chiuso
in modo romantico gli occhi, forse trasportata da una
favola velenosa che aveva creato attorno a sé, attorno a loro. I mormorii della
gente, le indicazioni, la folla fu immediatamente qualcosa di lontano, e il
ragazzo fu tentato di stringere ancora quel corpo caldo fra le braccia. Sapeva
che non vi avrebbe trovato altro che finzione, ma non poteva fare a meno di
desiderare ancora l’immagine di Adrien, l’unica cosa di lei che gli aveva
suscitato un amore devoto. In un secondo, le mani grandi del biondino furono
sui polsi della ragazza, spingendola con brutalità lontano dal proprio cuore.
Le sottili labbra di storsero in un ringhio per
perforò i timpani del povero Duff. Uno davanti
all’altra, si fronteggiarono. “Amami. Amami, amami,
amami. Amami nonostante tutti, nonostante tutto. Ama tutto di me. Amami, ti prego.” la supplica
nell’animo della ragazza rimase nascosta, e lo sarebbe stata per sempre.
Scosso dall’odio e dall’amore, Duff sputò poche, coincise parole. – Tu sei
pazza. -.
-
Qualcuno la porti in infermeria! – fu il richiamo dietro alle
sua spalle, voce sgraziata di una ragazzina qualunque, a riportarlo alla
realtà. Linda era ancora a terra, rinvenuta dai colpi ma con una guancia
coperta del sangue che le sgorgava da un taglio sul sopracciglio. La moretta si
teneva anche una mano sulle costole, nel punto in cui quella l’aveva colpita: un tipo nerboruto la stava aiutando ad
alzarsi. “Linda. Adrien. Linda.” – Cazzo! – imprecò,
inginocchiandosi davanti all’amica, che aveva lo sguardo spento di chi non ha
del tutto chiara la situazione. Mentre il ragazzone la sollevava di peso,
avendo compreso che la ragazza non era in grado di alzarsi, Duff si gettò
un’occhiata alle spalle. Era stata come un fantasma. Adrien si era
semplicemente dissolta, lasciando l’eco del proprio sguardo allucinato ad
allineare le particelle di polvere in un ricordo inquietante. Il biondino
deglutì, avvertendo un senso di vertigine, l’origine del
quale era poco chiara. – Andiamo – mormorò, mentre la popolazione
studentesca della Renton si divideva fra i soccorritori della vittima e coloro
che avrebbe portato il succulento pettegolezzo per tutta Los Angeles. Di
quell’angelo, di quel demonio, neanche l’ombra. Con fatica, Duff si rialzò in
piedi e seguì il gruppetto diretto all’infermeria.
Non
fu in grado di allungare lo sguardo oltre le grandi spalle di quel ragazzone,
per accertarsi che Linda stesse bene. Forse perché non l’aveva vista
allontanarsi dalla scuola con i propri occhi, ma era come e la presenza di
Adrien fosse alle sue spalle, in mezzo a quel gruppetto di facce poco note che
stava attraversando i corridoi, bisbigliando. Ad ogni passo gli sembrava che il
pavimento fosse sul punto di sfuggirgli da sotto i piedi, ad ogni secondo che
passava si faceva più forte la sensazione di essere prigioniero nel corpo di
qualcun altro. Alcuni degli insegnanti ancora a scuola si avvicinarono,
chiedendo spiegazioni, ma Duff non avvertì nessuno
delle decine di occhi che si posarono su di lui. L’unica cosa su cui si sentiva
in grado di concentrarsi era respirare: la sua testa era talmente piena di
pensieri, ricordi, azioni che non avrebbe mai compiuto da scollegarlo dal resto
del mondo. – Io mi fermo qui – non riuscì a capire nemmeno lui a chi si stesse
precisamente rivolgendo. Il drappello di gente infatti,
dopo aver salito le scale, passò davanti alla fila di armadietti verdastri,
ovvero ciò che era stato il suo palcoscenico, quella mattina. Immobile
all’improvviso al centro del corridoio, in un silenzio fatto del ronzio
incessante del mondo, il ragazzo si portò una mano al collo, trovando soltanto
il bordo della maglietta ruvida.
Adrien
Miller era senz’altro capace di nascondere i propri segreti gelosamente:
l’alone di mistero che l’avvolgeva era difficile da dissolvere. Ma era umana,
si ritrovò a pensare stranamente Duff, mentre con lo sguardo cercava
l’armadietto della ragazza. Era umana, e come il resto della sua razza
commetteva errori anche piccolissimi, ma comunque reali. E il suo sbaglio più
grande era senza dubbio la supponenza, che colore che l’avevano rimirata in
quegli anni avevano contribuito a costruire. Il biondino allungò le dita verso
quella scatoletta dall’alluminio arrugginito, degnando appena di uno sguardo il
numero 91 disegnato sopra in vernice nera. Adrien Miller custodiva segreti
pericolosi per gli altri e per sé stessa, e Duff poteva vantarsi per averne
scoperto anche solo una piccolissima parte. Il codice d’apertura
dell’armadietto scolastico della ragazza era uno di quelli: era bastata
un’occhiata, un giorno come tanti, per memorizzare una sequenza di numeri
apparentemente casuali. La cassaforte dove Adrien aveva rinchiuso la catena col
lucchetto che il biondino era solito portare al collo era ora fra le sue mani.
E quando ne vide l’interno, il ragazzo rimase completamente senza fiato.
Libri
di scuola, cartacce, un walkman ultimo modello, tutti questi oggetti giacevano
sul fondo del mobile, innocui, comuni. Nessuno di loro saltava all’occhio, non
quando le pareti dell’armadietto erano rivestite di parole: volti sorridenti lo guardarono appena aprì l’anta
scrostata, titoli altisonanti lo accolsero, accattivanti. L’armadietto di
Adrien era stato accuratamente foderato di giornali ingialliti o meno,
strappati in malo modo ed appesi con una buona dose di nastro adesivo. E
l’affascinante viso che spiccava sulla carta era sempre lo stesso. “Tu sei pazza” la voce che stava
monopolizzando i suoi pensieri era la sua, ma il reale significato di quelle
parole gli fu chiaro soltanto dopo aver letto il primo degli innumerevoli
titoli. “06 Maggio 1979: rampollo della
Miller&Co. scompare senza lasciar traccia” eccolo lì, il suo lucchetto
argentato, sopra la pila di libri di scuola improvvisamente troppo puri per un
posto del genere. Proprio sotto la foto di quel giovane attraente e così simile
alla proprietaria di quell’ammasso di latta, che per Duff era sempre stato solo
un fantasma.
Fu
come se, dopo anni di cecità, la luce gli si fosse parata davanti con tutta la
propria potenza accecante. L’impulso di scappare lontano era forte, alimentato
da tutto quel tempo trascorso da quando aveva iniziato a provare quell’istinto,
ma contemporaneamente non riusciva a staccare gli occhi di Reese Miller.
Strinse la catena di sua proprietà in una mano, il lucchetto di sicurezza
dell’armadietto nell’altra: le cifre erano allineate in modo da comporre il
numero 1979. Ogni foto presente era
in bianco e in nero, ma Duff era certo che, se fossero
state a colori, avrebbe ritrovato gli occhi di ghiaccio di Adrien nel sorriso
affabile di un Reese Miller che esisteva soltanto per la sorella. Quel
giovanotto così carismatico aveva abbandonato una tredicenne, esattamente sei
anni prima: l’aveva costretta a crescere troppo in fretta, a pretendere l’amore
che lei stessa aveva provato per la figura del fratello maggiore, nonostante tutto
ciò che Reese aveva fatto per tradirla. “Amami,
ti prego” era stato forse l’unico col coraggio di donare ad Adrien quella
devozione totale che lei stessa racchiudeva per lo spettro di quegli articoli
di giornale? Duff non era certo di voler sapere la risposta. Sapeva di stare
celando la verità al mondo, rinchiudendola nel proprio cuore, ma in quei pochi
attimi si rese conto di essere assolutamente convinto delle proprie scelte.
Chiuse gli occhi, chiuse l’anta dell’armadietto, chiuse quel capitolo della sua
vita. Poi, si precipitò in infermeria.
“
E’come sai, tu sei per me colpevole:
quello che fai non
crea più attenzione,
non coinvolge. ”
(Verdena – Phantastica)
NOTE
DELL’AUTRICE
E
siamo arrivati al capitolo più importante! Non l’ultimo, ma il più importante u.u Diciamo che stranamente alcune parti mi soddisfano
abbastanza, ma l’insieme potrebbe essere risultato pesante. Spero in commenti
positivi, sono nervosa come al solito :P siamo quasi alla fine, e non voglio
rovinare la storia.
In
questo capitolo ci sono parecchie citazioni nascoste.
La
prima, l’avrete riconosciuta tutte, è chiaramente riferita alla canzone “Anotherbrick in the wall” dei meravigliosi Pink Floyd, situata in uno dei
primi paragrafi su Adrien e Lisette. All’inizio della storia, mi sono scordata
di dirvi che la madre di Adrien mi è stata ispirata dalla figura di Lisette deZoete, la zia di Rianne nel
libro “Il mondo ai miei piedi” di
Leslie Lokko.
Mastro
Chicot e zia Magloire sono personaggi di una novella di Guy
de Maupassant, “Il
fusticino”. In questo ultimo periodo mi sto appassionando a questo autore,
perciò non so se definire oltraggioso il modo in cui ne parla Slash xD ma, del resto, Slash rimane comunque adorabile.
“Amami.
Amami, amami, amami. Amami nonostante tutti, nonostante tutto. Ama tutto di me.
Amami, ti prego.” e in
riferimento molto libero al libro “Invisible monsters” di Chuck Palahniuk ed al
personaggio di Evie negli ultimi capitoli. Quello scrittore è un genio.
La
data della morte di Reese dovrebbe essere coerente a ciò che ho scritto in
precedenza: alla scomparsa del fratello Adrien aveva tredici anni, nel 1985 la
ragazza ne ha diciannove. Se c’è qualche errore, avvertitemi pure.
Infine,
non posso fare a meno di sottolineare che siamo giunti alla terza canzone dei
fantastici Verdena che inserisco come citazione nei capitoli di questa storia.
Evidentemente, i loro testi psichedelici sono fonte d’ispirazione per un
personaggio psichedelico come Adrien.
Per
quanto riguarda la fantomatica sorpresa, ci sto lavorando xD
non so per quando sarà pronta, ma vi prometto che riuscirò a pubblicarla. Anche
con la terza influenza nell’arco di due mesi.
Un
bacione a tutte le persone che mi sostengono: via adoro!
your Heart-Shaped
box for weeks, I was drawn into your magnet tar pit
trap . ”
(Nirvana – Heart
Shaped Box)
-
Non ci posso credere – a Linda sarebbe tanto piaciuto sprofondare nel letto
candido, su cui l’avevano obbligata a stendersi, e scomparire da quella stanza.
Il viavai che aveva reso la stanza affollata nelle due ore precedenti, e che le
aveva procurato una crisi di claustrofobia, era appena stato sostituito da un
vuoto ancora più opprimente. – Non ci posso credere – Linda sospirò. Michelle
era seduta sul bordo del suo letto, e le stringeva la mano come se fosse stata
sul punto di morire. Steven, sbucato fuori da chissà dove, non sembrava essere
in grado di stare fermo: girovagava incessantemente per la stanza, gettando
guardinghe e del tutto inutili occhiate fuori dalla finestra. La gentile e
rugosa infermiera che le aveva disinfettato il taglio sul sopracciglio, che si
era procurata cadendo a terra, era appena uscita dalla stanza. – Non ci posso
propr… - da quando era arrivata a scuola trafelata, Michelle non aveva fatto
altro che ribadire la propria incredulità, forte del supporto di Steven che
continuava ad annuire alle sue frasi. Linda maledisse mentalmente lo sciagurato
anonimo che aveva deciso di fare una telefonata al magazzino dei ragazzi. Aveva
aggiunto all’agonia che rappresentava l’attesa del ritorno dei suoi genitori,
in quel momento nell’ufficio della vicepreside, anche quella dell’arrivo di
Maxie, Axl o chissà chi altri. – L’ho capito, che non ci puoi credere – disse
mesta, appoggiando il capo ai cuscini del letto.
-
Ma, insomma, non ci posso credere! –
squittì Michelle, vagamente offesa, saltando in piedi ed unendosi a Steven in
quella specie di danza tribale attorno al suo letto. Se non fosse stato per l’incredibile
stanchezza e la sua naturale pazienza, Linda sarebbe scoppiata in un pianto
esasperato. – Chi l’avrebbe detto… Lei!
Non ci posso credere! – la figura in ombra, seduta in un angolo remoto della
stanza, ebbe un sobbalzo quando l’agitata brunetta citò in causa colei che
aveva spedito Linda in infermeria. La povera vittima invece, che era stata
consolata da alcune decine di studenti a lei sconosciuti nelle ore precedenti,
non mostrò alcuna reazione. – Nessuno se lo sarebbe immaginato – decretò con un
cipiglio saggio Steven, incrociando le braccia e gettando un’occhiata di
traverso a Duff, il quale però teneva lo sguardo incollato al muro. L’amico non
si era mosso da quando erano giunti in quella stanzetta, senza proferire alcuna
parola. Con un sospiro, il batterista scostò gli occhi dall’altro, per poi
riprendere il proprio buffo avanti-indietro. Michelle lo imitò.
-
Sono arrivata appena ho potuto! Quel cazzone guida come nonna Marshall! Cosa ti ha fatto?!
– probabilmente nemmeno la stessa Maxie aveva compreso ciò che le era uscito di
bocca, data la velocità della sua voce. La ragazza aveva spalancato le porte
dell’infermeria, precipitandosi al letto e gridando come una matta. Linda provò
il forte impulso di chiedere gli occhi e fingere di dormire, giusto per
sfuggire a quello che sarebbe stato l’ennesimo interrogatorio, ma si trattenne.
– Quello che vedi, Maxie. – rispose a bassa voce,
indicando svogliatamente la ferita sul sopracciglio che ancora bruciava per il
disinfettante. – Io non guido come la tua stupida nonna! – la protesta di Axl
si perse nei meandri della mente della brunetta, che con un certo sforzo riuscì
anche ad ignorare le imprecazioni della biondina. Nella stanza si scatenò un
nuovo brusio, dettato dalle voci nervose dei presenti. Ancora mezza distesa
sullo scomodo letto, Linda sollevò lo sguardo soltanto per cercare quello di
Duff, invano. Il ragazzo sembrava completamente estraneo alla situazione, con
un’espressione dura sul volto dai lineamenti dolci. Loro erano gli unici a non
parlare, perché entrambi sapevano che non sarebbe servito a nulla.
-
Vorrei sapere come cazzo fai a stare così calma!
– se l’aspettava. Da quando era cominciato quel lungo quarto d’ora di assurde
strilla e frasi sconnesse, Linda non aveva fatto altro che attendere che
qualcuno le ponesse quella fatidica domanda. E la morettina poteva persino
affermare di aver previsto che la mittente di quella domanda sarebbe stata
Maxie. Aveva sentito i vividi occhi azzurri dell’amica bruciare
sull’espressione assorta del proprio viso, sin da quando era entrata nella
stanza seguita da Axl, il quale non nascondeva certo la sua voglia di lasciare
quel posto. Linda era anche certa di aver sentito, per qualche secondo, il
risentimento della biondina sulla pelle. Il perché di quel sentimento non era
difficile da immaginare. – Non sai fare altro che stare lì, in silenzio, come
una bambola rotta! Reagisci! O ti va bene che lei ti abbia fatto questo? –. Linda alzò lo sguardo ad incrociare
quello dell’amica, stringendo i denti. Delusione, ecco cosa leggeva negli occhi
di Maxie. – Adrien fa solo una gran pena. E questo mi rende molto più reattiva
di te. – qualcosa, nell’immagine che tutti avevano sempre avuto della vecchia
Linda, si spezzò. Il suono doloroso di quel nuovo distacco si riversò nello
stupore di Maxie e di tutti i presenti, negli occhi sgranati del ragazzo seduto
qualche metro più in là. Ma Linda parve non farci caso. Era stanca che tutti le
ripetessero quanto Adrien fosse malata ma
che nessuno lo capisse realmente, nascondendo la sua reale essenza dietro
insulti facili e pronomi.
-
Marshall! L’infermeria non è un pub! – mai, prima di allora, aveva adorato la
vecchia infermiera della scuola così tanto. Proprio nel momento in cui era
stata sul punto di arrossire ed abbassare lo sguardo davanti al silenzio
generale, ecco comparire l’arzilla signora, pronta a metterla involontariamente
al riparo da danni ben più grandi della mancanza di riposo. – Vi voglio tutti
fuori di qui! La signorina Johnson ha bisogno di riposo! – a nulla servirono le
proteste di Michelle e Steven. L’infermiera era irremovibile, la stanza doveva
essere vuota prima dell’arrivo dei genitori di Linda. Con la scusa di dover
prestare attenzioni alle raccomandazioni della signora sul suo taglio al
sopracciglio, Linda distolse lo sguardo da Maxie, la quale
era ferma nel punto in cui la risposta inaspettata della ragazza l’aveva
immobilizzata. Non aveva voglia di leggerle negli occhi azzurri il dispiacere
per la durezza con cui si era preoccupata
per lei. L’avrebbe perdonata senza attendere scuse verbali che non
sarebbero arrivate, ma solo dopo. In quel momento, Linda aveva solo bisogno di
un po’ di silenzio. E di una conferma in particolare. – Colpisci duro, Lindie –
per poco non si lasciò scappare un sussultò quando si
trovò la figura di Axl davanti. Il ghigno sul volto del ragazzo era leggero, ma
dalle presenza comunque ingombrante. Imitando un
pugile, sferrò un paio di pugni a vuoto, guardandola beffardo senza lasciar
intendere il motivo di quei gesti. La moretta lo fissò allontanarsi insieme a
Maxie, la quale le aveva già dato le spalle, e pensò che l’unica persona in
grado di capire quel ragazzo sarebbe sempre stata Izzy. Sospirò.
-
Cazzo, che seccatura di donna… - sbuffò Michelle, lanciandosi un’occhiata alle
spalle come per controllare che la combriccola non l’avesse lasciata sola. Poi
si voltò di nuovo verso la ragazza, con un sorriso benevolo sugli occhi ma lo
sguardo assente, come se la sua testa in quel momento fosse stata concentrata
su un luogo distante, in una dimensione onirica. Linda le lanciò uno sguardo
perplesso, in attesa di una qualche spiegazione o anche solo di una parola,
cercando di non pensare né a Maxie né a… beh, a tutto il resto. – Dai, insomma.
Passerà. – come se si fosse trattato di una strana malattia. Sensuale e
provocante nei panni di spogliarellista, agli occhi di Linda Michelle sarebbe
sempre risultata una persona un po’ buffa, troppo bella nella propria
semplicità nascosta per un mondo come quello. – Ci vediamo piccola. – non fece
neanche caso all’odiato soprannome, quella volta: l’amica le diede un buffetto
sulla spalla, non compassionevole, soltanto gentile, prima di catapultarsi
fuori. – Sono in ritardo! Mi dispiace! Ma che succede…? – La voce baritonale e
veloce di Slash si spense nel suono dello strillo acuto della brunetta. Il
ragazzo, trafelato dopo una corsa che doveva aver messo a dura prova i deboli
polmoni, cercando di varcare la soglia dell’infermeria, aveva investito
Michelle col proprio corpo. – Scimmione! Scimmione!
Sei in ritardo, sì! Ti ho chiamato ore
fa, e spero che tu abbia una buona scusa per… - il battibecco si perse nei
corridoi della Renton. Amaramente Linda si chiese quanto tempo ci avrebbero
impiegato per tornare insieme.
Rimaneva
solo una persona nella stanza, che aveva alimentato una goccia alla volta il
carico di aspettativa che vibrava nelle vene di Linda. – McKagan, tu non
andare. Il preside vuole parlarti. – si limitò ad aggiungere la vecchia
infermiera, indifferente, prima di tornare a sistemare alcuni farmaci negli
scaffali. Se, quando la stanza era stata piena di gente, la ragazza aveva
cercato di evitare di guardare Duff, adesso che erano rimasti soli non poteva
farne a meno. Gli ingranaggi della sua mente razionale cercavano le parole
giuste da dire, ma una piccola ed importante parte del suo cuore si chiedeva se
esse esistessero, se ci fosse qualcosa di giusto da fare con quell’enigma di
ragazzo. Con la testa appoggiata alla finestra e lo sguardo al cielo, i
contorni del suo corpo apparivano indefiniti, inafferrabili. E, tutto sommato,
Linda non si sentiva tenuta a dire alcunché. – Ho bisogno di aria nuova. – la
ragazza aveva appena formulato quel pensiero, quando dalla bocca di Duff uscì
quella frase. Probabilmente, nessuno dei due afferrò immediatamente le
molteplici verità nascoste in quelle poche lettere. Il futuro sembrava ancora
una minaccia, più che una promessa, ma Linda seppe
subito che, qualunque cosa sarebbe successa, almeno per un po’ avrebbero goduto
di un momento di pausa. Tutti e due. Duff si alzò e, a dispetto di tutto, uscì
dalla stanza.
Il
locale era esattamente come se lo ricordava: il fumo creava una sorta di nebbia
sul soffitto, e la poca aria che rimaneva doveva essere divisa fra tutti gli
avventori che affollano lo stretto ambiente. L’odore di sudore e di birra
diventava sopportabile solo con l’abitudine, ed Adrien Miller poteva vantarsi di non sentire alcuna puzza.
Non dopo tutti i mesi trascorsi in quel tugurio, che era stato teatro di uno
dei suoi più grandi segreti. La ragazzo portò il
bicchiere alle labbra, mentre sentiva addosso gli sguardi lascivi di un paio di
barbuti balordi seduti all’angolo. Accavallò le gambe, bene attenta
a non distogliere lo sguardo dalla crepa che percorreva tutto il muro dietro il
bancone. Un’espressione seccata, o una manifestazione di apprezzamento, tutti
questi segni rassicurano una persona indipendentemente dal profitto che ne
trae. Il vuoto negli occhi di Adrien avrebbe fatto scappare a gambe levate i
due uomini, privandola di ogni divertimento. E questo lei lo sapeva benissimo.
Quel
pomeriggio ogni passo che l’aveva portata fuori dal cancello della scuola aveva
privato il suo corpo di peso, come se stesse galleggiando nell’aria. Aveva
continuato a camminare, finché non si era ritrovata a correre fra la folla di
Los Angeles, anche quando aveva oltrepassato il punto in cui aveva lasciato la
propria moto. Lo scorrere del tempo era stato scandito dal rumore dei propri
passi sul cemento, mentre il resto del mondo scendeva nel più completo
silenzio. Si era resa conto che forse avrebbe dovuto fermarsi un’eternità dopo
il calcio all’addome della piccola Linda, eterea come un fantasma fra le
persone che la guardavano con diffidenza. Adrien sapeva di aver provato
un’infinita quantità di emozioni, che avevano stravolto non solo il suo animo e
anche il suo fisico. Ma non se ne rendeva conto: ogni volta che provava a
setacciare i propri sentimenti alla ricerca di qualcosa che la sconvolgesse,
trovava solo un educato stupore per il modo in cui il suo corpo aveva perso il
controllo, spingendola a fare tutta quella strada di corsa. Anche il quel
momento, seduta sullo sgabello dello sporco pub, sentiva il cuore vuoto e un strano ronzio nel cervello.
Tornata
a casa, aveva provato a telefonare a Meredith, una, due,
tre volte, finché non aveva riposto la cornetta del telefono una volta per
tutte. Era rimasta chissà quanto a fissare il proprio riflesso nello specchio,
immobile nell’ingresso della dependance, avvertendo unicamente la spiacevole
sensazione di essere immateriale. Poi aveva preso le chiavi della moto e se
n’era andata ancora. Non aveva pensato di raggiungere quel posto, le sue dita
attorno ai comandi della moto avevano agito da sole. E il barlume di coscienza
che ancora brillava in lei, in quel momento, le stava suggerendo di andarsene.
La figura di Robin Keenan, che la sua mente creava seduta e sorridente sullo
sgabello al suo fianco, era troppo vivida. I colori che illuminavano
l’ologramma della donna le pizzicavano gli occhi, prima che Adrien sbattesse le
palpebre e cancellasse la fantasia. “Che
cosa strana” pensò, sorseggiando il drink ad alta gradazione. Aguzzando
l’udito, si accorse che i due uomini che l’avevano puntata stavano parlando
dello stratagemma migliore per rimorchiarla. Con un gesto veloce della mano,
afferrò l’orlo della propria gonna di jeans, sollevandolo a scoprire le cosce
oltre il limite della decenza. Riempire il vuoto che la feriva più di qualsiasi
esplosione di emozioni era una priorità dettata dalle regole che si era
imposta. Lascia che annusi l’osso, poi
toglilo di scatto quando tenta di morderlo.
-
Adrien! Sei proprio tu? – una voce trillante richiamò la sua attenzione,
emergendo dal brusio e dalla mediocre musica degli altoparlanti. Adrien non
riuscì a reprimere una smorfia, prima di voltarsi a vedere chi fosse
intervenuto a guastarle il divertimento: se i due uomini agivano secondo il
copione di qualsiasi essere maschile, come era probabile che accadesse,
spaventati dall’entrata in scena di una nuova figura in quel momento erano prossimi
alla ritirata. Addio passatempo. – Da quanto tempo! – la ragazza che le stava
venendo incontro non aveva un’aria particolarmente familiare. Carina, vestita
secondo i dettami della moda giovanile, in apparenza solare, era il genere di
persona che Adrien amava classificare nelle banalità. “Non come Robin”. Non ricordava di averla mai incontrata prima
d’ora. – Ciao! – trillò, sfoderando il proprio migliore sorriso entusiasta. Lo
sguardo spiritato, la voce diabolica che aveva fatto tremare Duff McKagan quel
pomeriggio, tutti quei dettagli della vera lei erano scomparsi. La nuova
arrivata, dai tratti orientali e sicuramente molto carina, si sporse per
baciarla sulle guance. Se anche aveva fatto fuggire i suoi corteggiatori,
poteva rivelarsi un’alternativa, un nuovo modo per trascorrere la serata. – Qua
ci lavora Naz! Ti ricordi di Naz? Oh sarà così contenta di… -.
Bastò
un movimento di quella svampita, un impercettibile spostamento che permise alla
rossa di guardare oltre la sua spalla. Non fece nemmeno in tempo a chiedersi
chi diavolo fosse Naz. La persona che era appena entrata nel suo campo visivo
era l’ultima che si aspettava di trovare non in un luogo del genere, ma in un momento del genere. Istintivamente
sorrise, prima ancora di comprendere la ragione per il neonato entusiasmo.
Tutto stava per diventare molto più intrigante. – Scusa… - mormorò,
interrompendo il monologo della propria interlocutrice. Questa le rivolse uno
sguardo perplesso, a cui rispose con un sorrisetto tirato, di cortesia, prima
di appoggiarle il proprio bicchiere quasi vuoto fra le mani e superarla con
pochi passi. Non si curò di prendere visione dell’espressione scandalizzata
della moretta, non gliene importava nulla. La figura che aveva individuato se
ne stava seduto sopra uno dei tavolini, attorniato da sbruffoni e eccentrici
individui che brindavano a chissà cosa con ettolitri di birra. Chissà perché
non era accompagnato dalla sua squadretta, si chiese Adrien. Sarebbe stato
interessante trovare lui, scoprire le
emozioni che sicuramente avrebbe saputo suscitare in lui. Vedere come dopo tutto era ancora succube della sua presenza. Perché doveva essere succube di lei. Era
inimmaginabile il contrario. Ma Adrien si sarebbe accontentata dell’unico dei
suoi amici che ancora non era passato per il suo letto.
Izzy
inarcò un sopracciglio quando la vide arrivare, il passo da modella in
contrasto con ogni elemento di quella bettola. Portò il boccale colmo di birra
alla bocca senza perderla di vista, assicurandosi che avesse puntato proprio
lui, che quel sorriso da seduttrice fosse riservato alla sua persona.
L’espressione sul viso del moretto era indecifrabile. – Ciao! Ma che cosa ci
fai qui? – non poteva suonare più falsa e pretenziosa agli occhi del ragazzo.
Prima che avesse il tempo di risponderle, una serie di esclamazioni volgari si
levò da parte degli amici di bevute che erano in sua compagnia. Izzy non perse
neanche un bagliore emanato dalla scintilla che scattava in quegli occhi grigi,
appena un complimento, educato o meno, giungeva alle orecchie della rossa. Era
qualcosa che andava al di là della semplice vanità. Ingurgitando un nuovo sorso
di birra fresca, Izzy si domandò come mai quella strana ragazza si fosse fatta
vedere, nonostante la probabilità che la notizia degli eventi pomeridiani
l’avesse raggiunto era alta. “Povera,
piccola Linda”. – Un giro. – rispose semplicemente dopo un lungo silenzio.
-
Ti dispiace se mi unisco alla comitiva? – per un attimo, il sorriso
affascinante di Adrien Miller parve vacillare sotto le lampade al neon di bassa
qualità, sotto gli occhi di tutti i presenti. Fu una stoccata di disagio che
mandò in confusione chi già era caduto ai suoi piedi, prima che la gravità che
l’orbita della ragazza esercitava lo acchiappasse nuovamente. C’era una strana
smorfia sul volto di Izzy, un sorriso storto che nascondeva un’indecifrabile
mistero. Che scioglieva,
letteralmente, e non nell’accezione positiva del termine. La rossa era abituata
a provare quelle sensazioni osservandole riflesse negli occhi delle proprie
vittime. – Certo che no. – si limitò a rispondere il moretto, ammiccando
all’indirizzo della ragazza. Il sollievo che quel piccolo gesto generò fu quasi
travolgente. No, non c’era alcun dubbio. Come
tutti gli altri: Izzy Stradlin sarebbe stato una nuova tacca alla sua
collezione, un altro uomo che l’avrebbe amata nonostante tutto. Dopo che ebbe
preso posto al tavolo e che ebbe incantato qualche balordo con un paio di
astuti giochi di parole, lo sfiorarsi delle loro mani le diede l’inequivocabile
risposta. Quella notte, Adrien si sarebbe fatta amare da Izzy. Come tutti da gli altri. Come da Duff.
-
L’avresti fatto anche tu? – Axl si sarebbe incazzato. Si sarebbe incazzato a morte, e probabilmente una volta
riuniti tutti in magazzino gli avrebbe fatto vedere i sorci verdi. Ma diamine,
se ne era valsa la pena: con la macchina che aveva fregato al suo migliore
amico, avrebbe potuto portare la ragazza seduta sul sedile anteriore del
passeggero in capo al mondo. E, conoscendosi, Slash sapeva che, con la giuste dose di alcol nello stomaco, avrebbe potuto
portarla anche sulla luna. – Cosa? – purtroppo per lui, l’esaminatrice statale
che l’aveva bocciato all’esame di guida qualche anno prima aveva ogni ragione
del mondo. Bastavano le labbra sensuali di Michelle Young a distrarlo: in quel
momento, ogni occhi del riccio stavano rincorrendo le linee dell’abito aderente
della ragazza, mentre la suddetta, in u impeto di
disperazione all’ennesimo semaforo rosso ignorato, teneva le mani strette
attorno alla cintura di sicurezza. Lo sguardo bruno di Michelle era però carico
di determinazione. – Avresti fatto anche tu… tutto questo… per lei? – le parole
sembravano morirle in gola. Slash aggrottò le sopracciglia scure.
-
Non picchierei mai una signora! – sbottò offeso, portando per la prima volta da
quando erano partiti lo sguardo sulla strada intasata di macchine. Quelle
domande ipnotiche di Michelle non lo stavano aiutando a ricordare dove fosse
quel ristorante carino e chiccoso dove
avrebbe voluto portarla. Se anche gli era sembrato che quel mastino travestito
da bambola avesse abbassato la guardia e scordato la disastrosa fine della loro
storia, pensò Slash, non era così. – Non sto parlando di quello! – strillò la
ragazza, spazientita dall’incapacità del riccio di capire le sue parole. Il
ragazzo fu certo che il proprio padiglione auricolare non sarebbe più stato lo
stesso. – E spiegati, cazzo! – sbraitò, spedendo gentilmente a quel paese ogni
buon proposito di comportarsi come un galantuomo. Le donne! Avrebbero sempre
adottato la tecnica migliore per mandarlo nel pallone, ad ogni suo tentativo di
redimersi dai propri errori. –
Rallenta! – gridò in risposta Michelle, dopo un’ardita manovra del ragazzo con
cui sorpassarono un grosso camion sgusciando nel traffico, ben sopra i limiti
di velocità consentiti.
-
Dico, come Duff… Avresti fatto come lui? – non appena l’atmosfera da corsa
clandestina si calmò, ecco che Michelle decise di avanzare la domanda. Poche
parole elusive bastarono per vedere sbiancare le nocche delle grandi mani di
Slash, strette sul volante come se fosse stato il suo unico appiglio. La
ragazza deglutì, riflettendo a lungo prima di continuare, mentre edifici tutti
uguali e facce sorridenti scorrevano sfocate dietro i finestrini. I raggi del
sole sul punto di tramontare colpirono i loro visi e il loro silenzio. –
Ameresti… una ragazza così tanto da ignorare ogni suo difetto? – ormai avevano
perso ogni chiarezza sui soggetti di quelle frasi. I diversi significati
nascosti in una domanda, pronunciata dalla brunetta in un tono di circostanza,
erano dolorosi se associati ai ricordi di un pomeriggio non troppo lontano, in
cui Slash aveva sottolineato come non fosse portato per le relazioni. Il
ragazzo si azzardò a gettare un’occhiata alla propria interlocutrice, trovando
gli occhi neri di questa fissi sulla strada davanti a loro. Velocemente, il
riccio scostò il proprio sguardo prima di dare a Michelle un buon motivo per
incatenarsi a lui ancora di più. Comprendere che quella ragazza aveva bisogno
di sentirsi dire la verità non sarebbe mai equivalso ad una dichiarazione da
romanzo rosa. Slash non le avrebbe mai donato tutto l’affetto profondo di cui
lei sentiva necessità, sarebbe stato in grado soltanto di provarci. Ed ogni
cosa che il ragazzo non disse valse più di mille parole. – Ti va se ci facciamo
una pizza? -.
Oh,
era meraviglioso. Era meraviglioso sentire il proprio stomaco vuoto riempirsi
di alcol, così come il deserto nel suo cuore si stava riempiendo di tutte quella sensazioni che le erano mancate quel
pomeriggio. Soddisfazione. Euforia. Amore.
Un amore diverso da quello di cui tutti gli altri si accontentavano, dettato da
quell’incontrollabile consapevolezza che tutti i presenti erano ai suoi piedi.
Adrien chiuse gli occhi, reclinò il capo all’indietro e, sorridendo, convertì
la propria adrenalina in un grido liberatorio. – Così, piccola! – rispose
qualcuno, mentre rialzando le palpebre la ragazza trovava attorno a lei la
stanza girare. La musica che pompavano gli altoparlanti era soltanto una delle
tante sostanze che l’avevano spinta ad alzarsi in piedi sul tavolo ed iniziare
a ballare. In quel momento, continuando a volteggiare su sé stessa al centro
della scarsa illuminazione della stanza, non ricordava nemmeno come erano
arrivati a quella festa. Quasi per sbaglio, incrociò lo sguardo divertito di
Izzy che, seduto in qualche sfocato angolo di una stanza semisconosciuta, la
indicò ad alcuni ragazzi con cui stava chiacchierando. L’ammiccare malizioso
del ragazzo a tutti quelli sconosciuti parve rinvigorirla. Gettando l’ennesima
bottiglia di birra svuota alle proprie spalle, incurante della marea di gente
che come lei stava ballando, Adrien riprese a volteggiare, il sorriso sulle
labbra.
Izzy
inarcò le sopracciglia, mentre uno dei tanti spacciatori d’hashish della festa
gli urlava qualcosa nelle orecchie senza comunque farsi comprendere. Nel buio
della stanza, rischiarata soltanto da alcune luci al neon provenienti da chissà
dove, la marea di capelli di un rosso sbiadito si agitava fuori tempo: ponendo
attenzione alla scarsa qualità della canzone tipicamente pop che stava
spaccando loro i timpani, il ragazzo si domandò se non fosse un bene il
deleterio senso del ritmo di Adrien. – Sono cinquanta dollari a pezzo! – il
moretto si voltò di scatto verso il brutte ceffo al
proprio fianco, che mostrò un sorriso che da tempo non vedeva il dentifricio
non appena Izzy fece un cenno affermativo con il capo. Quasi di pari passo con
quello della benzina, il prezzo della droga aumentava sempre di più. – E’ una
fregatura! – gridò il chitarrista, pur prendendo a frugare nelle proprie tasche
alla ricerca di qualche bigliettone. Lo spacciatore, che era anche il
proprietario della casa in cui si stava svolgendo la festa, sembrò leccarsi i
baffi alla vista dei dollari che il moretto si era guadagnato col sudore,
insieme al resto del gruppo. Denaro, droga, amore, ognuno è schiavo di qualche
particolare croce.
Dopo
che entrambi ebbero intascato le proprie ricchezze, Izzy tornò a guardare la
figura al centro dell’attenzione generale. Era facile abbandonarsi all’energia
ingannevole di quel corpo che ondeggiava, cadere nella scatola a forma di cuore
dove Adrien custodiva tutti i propri burattini. Ricordò come, sin dal primo
momento in cui l’aveva vista, non gli era piaciuta quella scintilla strana che
la ragazza serbava nello sguardo. Nell’affrontare un mondo sprecato e i
fallimenti continui tipici della vita, ognuno di loro si dimostrava
tremendamente arrabbiato, furioso anche senza un motivo consistente. Persone
come Michelle, vittime di una punizione immeritata, come Axl o Maxie, facili
all’ira per natura, persino come la piccola Linda, che però soffocava i propri
sentimenti attraverso la differenza; come Duff,
pieno di una forte delusione che lo accomunava a tanti
altri della loro generazione: era la rabbia a muovere tutta quella gente. Ma
non Adrien. Appena Izzy si trovò abbastanza vicino al tavolo per farsi udire
dalla ragazza, questa si lasciò cadere all’indietro: con riflessi pronti il
moretto la afferrò, imprecando rudemente quando per poco non persero
l’equilibrio. – Portami via. – il chitarrista non seppe mai se Adrien pronunciò
veramente quella parole, mentre gli allacciava le
braccia la collo. Ma gli chiarì definitivamente che quella ragazza non ce
l’aveva realmente con qualcuno, era solo disperata.
Izzy
Stradlin non era un santo, e probabilmente non lo sarebbe mai stato. Doveva
probabilmente ancora nascere la persona in grado di incastrarlo in qualche
schema morale. E quando Adrien avvicinò a quello del ragazzo il proprio
delicato faccino, che nascondeva tanti segreti ma non mutava in bellezza, non
si fece pregare ad accontentare il forte desiderio della ragazza di sentirsi
amata. Se la rossa era abituata ad accontentare uno sconosciuto, pur di colmare
la voragine che celava nel proprio cuore, non erano certo
affari suoi. Lui era giovane, disinibito, e con in
corpo qualche ettolitro di superalcolici vari, e quella strana ragazza era più
ingenua di quanto la gente pensasse. Guidato dalle indicazioni ricevuto in
precedenza dallo spacciatore, risalì facilmente le scale di una casa ancora
avvolta nelle tenebre, dalle forme e colori a loro sconosciute. Adrien non
accennava ad allentare la stretta delle braccia attorno alle spalle
del moretto, la testa nascosta nel collo di Izzy in un gesto simile a quello
dei bimbi, negli attimi di smarrimento. Il ragazzo si rese conto di essere
turbato dal pensiero di trovare sul viso sconvolgente di Adrien un’espressione
semplicemente diversa, ma quel
pensiero scomparve non appena trovò una stanza da letto, stranamente libera. I
sentimenti di una delle tante non sarebbero mai stati affari suoi.
Mentre
Izzy la spogliava degli ultimi indumenti, entrambi distesi su un letto
sconosciuto, Adrien dovette reprimere l’impulso di sorridere per l’enorme,
balsamica soddisfazione che stava provando in quel momento. Non avrebbe più
avuto bisogno di preoccuparsi, di perdere il controllo su sé stessa, di
commettere gli sbagli di quel pomeriggio: Izzy le avrebbe donato sé stesso,
come tutti gli altri, sarebbe caduto nella sua tela. Doveva farlo. Sì, sarebbe successo, pensava Adrien mentre si
compiaceva della foga con cui il ragazzo la toccava. Sarebbe stato come se
nulla fosse accaduto, come se Reese Miller non fosse mai esistito, come con… “Duff”. Il cambiamento fu impercettibile
quanto improvviso: il buio, che da sempre si era dimostrato confidente ed
amante della rossa, permise ad Izzy di non accorgersi della mascella contratta
della ragazza, mentre questa si trovava incapace di bloccare la sequenza dei
propri pensieri. Duff si era arreso: l’amara verità la colpì con tutta la forza
possibile, mentre con lentezza quasi atemporale distoglieva lo sguardo dal
volto distorto di Izzy, appoggiando la guancia sul cuscino maleodorante. Non
avrebbe versato alcuna lacrima: dentro di lei, la tredicenne ormai morta stava
già piangendo.
Fu
guardando il muro alla propria destra, l’intonaco grigio nella penombra, che
con il resto del proprio corpo si aggrappò ad Izzy. Forse Adrien sperava di
aver trovato qualcun altro che non la lasciasse più, qualcun altro che
apprezzasse i lati peggiori della sua personalità come lei aveva amato quelli
del fratello scomparso. Ma tutto attorno a lei era troppo freddo: quella volta,
aveva perso sul serio. – Dove vai? – non si accorse quasi dell’attimo preciso
in cui Izzy si allontanò dal suo corpo. Semplicemente, quando Adrien si decise
ad scostare lo sguardo dalle crepe nel muro, trovò il ragazzo seduto sul bordo
del letto, intento ad infilarsi la maglietta. Il moretto si volse a guardarla,
le sopracciglia aggrottate e le labbra assottigliate da chissà quale
sentimento. – Credevi che sarei rimasto qui per sempre? – era stata una domanda
pronunciata con così tanta spontaneità da risultare stridente con l’espressione
del chitarrista. Nel volto di Izzy, la ragazza vide soltanto un’immensa pietà:
quella smorfia continuò a perseguitarla anche dopo che lui se ne fu andato. Si
strinse in quelle lenzuola, distante da quel luogo mille miglia, ad ascoltare i
rumori della festa che si spegneva. Sapeva benissimo che le chiavi della moto
erano custodite in una delle tasche della minigonna, abbandonata ai piedi del
letto, ma non si alzò. Voleva fingere di non essere il mostro orribile che era
diventata, un attimo in più. – Buonanotte, Duff -.
A
non troppi chilometri di distanza, Duff McKagan si stava spiacevolmente
rendendo conto che quella notte non sarebbe riuscito a prendere sonno. Con un
sospiro, si rigirò sullo scomodo divano, constatando amaramente che le proprie
lunghe gambe sporgevano di tutto il polpaccio oltre il bordo del mobile. Il
magazzino era deserto: chissà dov’erano gli altri. Imbucati in qualche rave
party, o a casa di qualche ragazza carina alla quale avevano straparlato di
amore eterno. Il ragazzo sbuffò. Si sentiva infinitamente debole, per non
essere in grado d’ignorare il tuffo al cuore che lo scuoteva non appena qualche
ricordo di troppo s’insinuava fra i suoi pensieri. “Questa è la fine, vecchio mio” la
sensazione di essere stata trasformata nell’eroina di qualche soap opera gli
riempi il palato di un retrogusto amaro, che nulla aveva a che fare con
l’ironia di quell’affermazione. Avrebbe potuto ripetersi infinite volte che
quel giorno era stato in realtà l’inizio di qualcosa di nuovo: l’unica emozione
che in quel momento poteva riempirgli il cuore era quell’inesorabile delusione.
La felicità sarebbe arrivata: in quel momento c’era solo tutto
i cocci dell’uomo che aveva cercato di essere, al fianco di Adrien. –
Buonanotte -.
“ So much hate
for the
ones we love? ”
(Placebo – Running up
that hill)
NOTE DELL’AUTRICE
Okay,
sono di frettissima. Vi annuncio che il prossimo sarà l’ultimo capitolo di
questa storia, che è finalmente giunta al termine J nonostante sia durata meno di Love willtearusapart, vi giuro che avevo smesso di sperare di poter
cliccare “Completa”. E’ stato molto difficile scrivere di Adrien, della sua
storia morbosa e complicata con Duff, di come lei abbia rovinato le vite di
tutti. Ma sono contenta di aver portato a termine questo lavoro, perché mi ha
aiutata a maturare il mio stile di autrice. Per lo meno, io mi sento così:
cresciuta in queste righe, pronta per una nuova sfida. Dopo questa storia, mi
prenderò un periodo di pausa e mi asterrò da scrivere fan fiction. Ma non vi
preoccupate (!), tornerò: ho un sacco di altre storie da scrivereJ (Aiuto N.d.Voi).
Parliamo delle citazioni in questo capitolo:
non sono proprio riuscita a fare a meno di ficcare un’altra frase di Palahniuk,
nella parte dedicata a Linda e Duff. “Da
quand’è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?”
da Invisible Monsters: ormai posso dire che Shannon MacFarland
è la mia maggiore fonte d’ispirazione. Squilibrata proprio come Adrien. Axl che imita un pugile, poi,
è una omaggio a Fight Club.
Avete
riconosciuto, vero, la ragazza che avvicina al bar avvicina Adrien? xD
Michelle
e Slash non torneranno insieme: il fatto è che il ragazzo non accetterà mai il
lavoro di Micha. Preserveranno però un rapporto di amicizia. Oddio, troppi
spoiler del prossimo capitolo!
Naive
è direttamente consecutiva a Love willtearusapart:
siamo nel maggio 1985, e fra qualche giorno Izzy troverà Naz vomitante nel
vicolo di un locale di periferia. L’Izzy malvagio che avete visto in questo
capitolo è il lato oscuro dello stesso ragazzo che perderà la testa per Naz,
semplicemente Adrien non gli piace. Le persone possono essere crudeli.
Io
vi amo. Anche per questa storia, mi avete donato una fiducia immensa e io ve ne
sono immensamente grata. Giuro, ho adorato tutte le vostre recensioni e spero
di non avervi davvero deluso! Grazie. Grazie, grazie, grazie.
E non mi scrivere, non mi chiamare, non mi
pensare,
perché da oggi un’altra cosa cerco, e sono
certo
sarà diverso da quella cosa che ho perso. ”
(Articolo 31 – Un’altra cosa che ho perso)
- Non puoi stare dicendo sul
serio - Izzy lo guardò ghignando, appoggiandosi con una spalla al muro
polveroso, incurante dell’intonaco che andò a depositarsi sulla camicia. Il
magazzino piombò nel silenzio più assoluto, inquilini compresi. Axl, dopo
qualche secondo d’immobilità dovuta allo stupore, imitò il ghigno beffardo
dell’amico di una vita, godendosi l’espressione sul volto di Duff. Slash, come
se fosse stato l’attore di un film comico da quattro soldi, cercò di passare
inosservato canticchiando fra sé e sé qualcosa che assomigliava vagamente a
“Michelle” dei Beatles, mentre Steven, essendosi appena risvegliato in pieno
dopo sbornia, aveva l’aria di non aver capito nulla. – Non puoi essere serio,
cazzo! – la voce di Duff, il timbro della quale preludeva ad una sfuriata coi
fiocchi, rispecchiava esattamente la vasta gamma di emozioni che stava
attraversando il corpo del ragazzo in quel momento. La rabbia che le novità di
Izzy avevano scatenato era sul punto di esplodere. – Non vedo perché dovrei
venirti a raccontare una cosa del genere, se non fosse vera – ribatté
tranquillo il moretto, trattenendosi dallo scoppiare a ridere.
- Bella zoccola – ovviamente,
non sarebbe potuto mancare l’intelligente commento di un Axl Rose
particolarmente in vena di punzecchiare qualche povera vittima. Duff volse la
testa verso il rosso talmente velocemente da farsi quasi male: l’occhiata che
lanciò al cantante avrebbe spaventato anche un pugile professionista. – Taci,
che ti sei scopato anche sua sorella! – la grassa risata di Axl risuonò per le
quattro mura del magazzino, e Duff ebbe la tentazione di scagliarsi addosso a
quel pallone gonfiato dell’amico per sfogare la propria rabbia. Riuscì a
trattenersi soltanto quando notò che, in quello che avrebbe dovuto essere un
gesto di ostentata baldanza, Axl aveva sbattuto la testa contro la testata in
legno del divano, rivestita da un cuscino che non aveva attutito il colpo.
Scostò lo sguardo dal ragazzo, che con indifferenza cercava di soffocare le
proprie smorfie di dolore. - Che stronzi… - la bestemmia che seguì
quell’imprecazione contro i propri amici avrebbe scandalizzato un camionista.
Duff girò sui tacchi, ben deciso a cercare un pacchetto di sigarette e ad
ignorare la beffa stampata sul viso di Izzy. Fu allora che incrociò lo sguardo
di Slash.
Colto sul fatto mentre,
ostentando quel disinteresse che equivaleva ad una dichiarazione di
colpevolezza, cercava di sgattaiolare verso il portellone aperto del magazzino,
incontrando lo sguardo ancora annebbiato dalle precedenti rivelazioni del
biondino, Slash si fermò di colpo. Sul viso per metà coperto dalla cascata di
riccioli neri spuntò una sorta di sorriso, una smorfia tirata che rivelava uno
strano disagio. Quando il chitarrista si accorse dell’aggrottarsi delle
sopracciglia dell’amico, il cervello del quale stava arrivando velocemente
all’unica conclusione possibile, prese ad annuire senza un motivo preciso, come
se quel gesto potesse mitigare l’esplosione che stava per coglierli. – No… - il
fatto che Duff non avesse alzato subito la voce avrebbe dovuto rappresentare un
punto a suo favore, ma Slash riuscì a sentirsi solo più teso. Non era portato
per le bugie, e nemmeno per tacere: se portava con sé una scomoda verità, qualsiasi
persona gliel’avrebbe letto in faccia. – Quando? – non si accorse
immediatamente della domanda del biondino. Il riccio era più impegnato ad
ignorare le risatine sommesse di Axl e Izzy.
- Duff, amico… - fin
dall’inizio del proprio discorso, Slash comprese di stare sbagliando. Alla sola
menzione dell’appellativo che usavano fra di loro scherzosamente, la furia
comparve sul volto solitamente pacifico del bassista. Slash si passò una mano
fra i capelli, abbassando lo sguardo al suolo ma senza essere in grado di
levarsi dalla faccia un tirato, fastidioso sorriso che sapeva di scusa. – Avevo
appena scaricato Michelle… E lei me l’ha tirato fuori dai pantaloni! Eravamo in
gita, ti ricordi? Stavo male, ti ricordi? E’ una cosa strana… - decise di
tacere una buona volta quando gli occhi spalancati di Duff rischiarono
seriamente di staccarsi dalle loro orbite. “In gita” era tutto chiaro: aveva sempre saputo che Adrien era
venuta in qualche modo a conoscenza della scappatella con la Keenan. Prima di
tutto, i rapporti tra la rossa e la professoressa non erano mai stati uguali a
quelli fra uno studenti e un docente qualsiasi: tutte le voci che erano
circolate dopo il licenziamento di Robin avevano contribuito ad alimentare le
certezze di Duff. Qualunque relazione vi fosse stata tra Adrien e Robin Keenan
negli anni precedenti, al Ballo d’Inverno era andata distrutta. E, come da
copione, in Canada la ragazza aveva cercato vendetta. Ma aveva fatto di più: li
aveva fregati entrambi, l’insegnante e Duff. Si era portata a letto il suo
migliore amico.
Come d’altronde aveva fatto
anche lui. Ma questo Duff non poteva saperlo con certezza. – Sì, sì, bravi. Sul
serio, bravi! – il biondino li guardò uno ad uno truce, persino il povero
Steven che, con i capelli conciati peggio di un cespuglio di rovi, non aveva
ancora compreso l’argomento della conversazione. Axl sembrava sul punto di
soffocarsi a causa delle risatine isteriche che lo scuotevano: per un attimo,
Duff sperò che accadesse. Quando si accorse che anche Izzy stentava a trattenere
il riso, il ragazzo rivolse loro un sarcastico battimani. Slash saltellava sul
posto come se fosse stato colto da un impellente bisogno di orinare, senza il
coraggio però di muovere un passo fuori dal magazzino. Era più nervoso che mai.
– Fottetevi tutti! – al bassista bastarono pochi passi per raggiungere
l’angolino dove erano appoggiate al muro due malandate chitarre acustiche.
Doveva assolutamente trovare un modo per incanalare la propria rabbia fuori dal
corpo, o avrebbe fatto una strage. – E a Steven non dici niente? Anche lui se
l’è trombata! – le parole di Slash lo raggiunsero poco prima che afferrasse uno
dei due strumenti. Duff si concesse un sospiro profondo, prima di battere
violentemente il palmo della mano sulla propria fronte.
Sembravano
passati anni da quella scena, sostante sul sottilissimo confine che divide la
tragedia dalla commedia. Anni, eppure era passato poco meno di un mese. –
McKagan, indossa quel tocco e mettiti in fila, immediatamente! – un’inviperita e ipertesa professoressa Pitterman
quasi lo travolse, mentre controllando per l’ennesima volta che tutti gli
studenti dell’ultimo anno fossero presenti ripercorreva la lunghezza del retro
del palco. Sembrava che quell’anno il corpo insegnanti della Renton si fosse
impegnato il doppio per allestire la cerimonia di consegna dei diplomi. Forse,
pensò con amarezza e al contempo divertimento Duff, perché finalmente se ne
sarebbero andati via loro. Fissò con
astio il tocco che aveva fra le mani, dall’aspetto vecchio e polveroso nonostante
fosse nuovo di zecca, e pensò preoccupato al cespuglio che sicuramente in quel
momento aveva al posto dei capelli. L’unica consolazione era che, per quanto
ridicolo sarebbe apparso con quel coso,
il suo destino sarebbe sempre stato migliore di quello del povero Slash. Dopo
aver giustamente respirato a fondo alla ricerca di un po’ di coraggio, era sul
punto d’indossare il tocco quando qualcuno gli assestò una violenta manata
sulla schiena.
-
Ci stiamo diplomando! – a giudicare dal tono incredulo della voce di Steven,
nemmeno lui avrebbe creduto prima di quel giorno che potesse accadere
realmente. Anche se, nella graduatoria scolastica, le loro sufficienze li
avevano resi in grado di lasciare la scuola, tutti sapevano che quei voti erano
stati il frutto dell’esasperazione dei professori che li avevano detestati in
quegli anni. – E guarda Slash! – la risata sguaiata di Steven esplose
all’improvviso, attirando le occhiatacce di alcune studentesse con cui non
avevano mai parlato. Il dito del batterista era puntato su una figura molto
curiosa, che a prima vista sarebbe potuto sembrare un manichino con una strana
parrucca in testa. In realtà, era semplicemente Slash, che non ne aveva voluto
sapere di pettinare all’indietro i ribelli ricci e che in quel momento, molto
probabilmente, non era in grado di vedere un tubo. Duff si lasciò contagiare dall’ilarità
di Steven per quella buffa scena, trovandosi a massaggiarsi le costole
doloranti per il troppo ridere. – Stronzi – il grugnito del chitarrista che,
avvicinatosi, sembrava avere l’intenzione di fare a botte, riuscì soltanto a
divertirli di più.
-
Adler! – il richiamo militaresco della Pitterman li fece scattare tutti
sull’attenti: Steven fu persino tentato dall’eseguire il tipico saluto dei
marines, ma si rese conto che, finché non avesse stretto fra le mani
quell’accidente di diploma, sarebbe stato meglio non stuzzicare troppo la
professoressa. – Smettila di gozzovigliare con McKagan e Hudson! – nonostante
nessuno dei tre sapesse il significato del verbo “gozzovigliare”, compresero
tutti dall’espressione psicopatica della Pitterman che era meglio eseguire gli
ordini. Purtroppo, Steven non fu in grado di trattenersi oltre – Signorsì,
signora! – gridò, facendo sussultare dallo spavento le stesse studentesse che prima
li avevano squadrati di malocchio. Slash, che stava cercando di soffocare una
risata, sembrava sul punto di soffocare sé stesso. – Hudson, corri al tuo posto
prima che decida di bocciarvi tutti in chimica, anche quest’anno! – Duff si chiese come fosse possibile che
l’insegnante, pur rimanendo una docile vecchietta per i nove mesi scolastici,
il giorno della consegna dei diplomi si trasformasse in una tale belva. Prima
che la Pitterman potesse aggiungere altro però, i due ragazzi scattarono verso
il gruppetto di studenti.
Riconoscere
i capelli di Maxie, freschi di una nuova passata di tinta biondo platino, in
mezzo a quel mare di teste non fu un’impresa difficile: oltre che dalla
riconoscibile chioma bionda della ragazza, Duff fu aiutato dal volume della
voce con cui quella si stava lamentando di tutto. - … e poi, cazzo, fa caldo!
Perché dobbiamo indossare questa roba? Tu, poi! – l’infinita pazienza della
martire che, come sempre, aveva accettato di stare ad ascoltare le infinite
tiritere contro ogni cosa di Maxie avrebbe dovuto essere dichiarata patrimonio
dell’umanità. Del resto, pensò avvicinandosi con un sorrisetto ilare Duff, la
vittima era la stessa che aveva accettato, tempo addietro, di fare da
insegnante a lui e a Slash. – Ciao! – Linda e la biondina si voltarono verso di
lui, salutandolo con un cenno del capo. – Ciao fighetta da quattro soldi. – il
ragazzo non si curò della solita cordialità di Maxie, che normalmente lasciava
presumere il buon umore di quest’ultima. La moretta gli rivolse uno sguardo
sconsolato, prima di tornare a guardare l’amica che, stufa di lamentarsi delle
pesanti toghe che indossavano, prese ad inveire contro le rate dell’università.
-
Ehi… – quando Maxie decise che le loro risposte monosillabiche non erano in
grado di soddisfare la loro voglia di conversazione, i due ragazzi tirarono un
sospiro di sollievo. Duff si passò una mano sulla fronte, maledicendo il caldo
californiano e la tradizionale cerimonia all’aperto che li stava privando
dell’aria condizionata. Da dietro il palco, che era stato allestito per
l’occasione, un brusio crescente di voci fece loro capire che la consegna dei
diplomi stava per avere inizio. – Prima del nostro anno, allora! Complimenti! –
proseguì Duff, indicando il drappo giallo che contraddistingueva la toga di
Linda da tutte le altre. La ragazza arrossì, abbassando lo sguardo, ma in
compenso gli regalò un sorriso gioioso che lasciava trasparire tutta la
soddisfazione che stava provando. – Grazie – rispose, prima di lasciare spazio
ad un imbarazzante silenzio che occupò qualche minuto. Erano stati giorni
difficili, che erano durati ere geologiche e che li aveva visti lontani, l’uno
dall’altra e da tutto ciò che poteva legarli al passato. Lo sforzo che Duff
compì per indirizzare la conversazione verso i risultati scolastici di entrambi
lo lasciò basito, sottolineando i limiti che si erano posti in quell’ultimo
mese.
-
Lei… lei non c’è? – se c’era qualcosa che Linda Johnson aveva imparato da lei, era la capacità di dissimulare i
propri sentimenti; ed era destinata ad essere un’abilità che Duff non avrebbe
mai padroneggiato. Mentre il tono della ragazza fu di circostanza, per niente
coerente al tumulto interiore che le aveva provocato fare quella domanda, il
biondino esternò tutto il proprio disagio nell’espressione del viso.
Deglutendo, si passò un mano fra i capelli che non aveva ancora provveduto a
coprire col tocco, cercando di apparire calmo ed indifferente. – Non lo so. Non
è affar mio. – per un mese, da quel giorno in cui la verità aveva preso a sberle
tutti quanti, Duff non era stato capace d’impedirsi di fissare durante le
lezioni il banco vuoto di Adrien Miller. Nessuno aveva fatto domande
sull’episodio che aveva visto il presunto triangolo amoroso come protagonista,
anche se le voci di corridoio erano state tante, ed indiscrete. Se anche Duff
avesse avuto il coraggio di ammettere l’esistenza del triangolo e,
contemporaneamente, di dichiarare che il terzo elemento non era stata la povera
Linda, ormai la bomba era esplosa. L’assenza chiacchierata di Adrien li aveva
privati di ogni privacy, li aveva riempiti di dubbi e l’unico silenzio che era
stata in grado di costruire era quello che aveva allontanato la moretta e Duff.
-
Immagino di no – ma nemmeno l’ormai impenetrabile Linda riuscì ad esimersi dall’infilare
una vena di sarcasmo in quelle poche sillabe. Duff non si trattenne dal
guardarla con gli occhi fuori dalle orbite, mentre la ragazza tenne lo sguardo
fisso davanti a sé, preservando in apparenza quel velo di timidezza che era
stato il suo cruccio per anni, e che in quel momento le conferì una dolcezza
affascinante. Prima che il biondino potesse dire qualcosa d’incredibilmente
stupido, un sudatissimo professore di spagnolo corse loro incontro, il sorriso
rivolto a Linda. – Johnson, prima che tutti gli studenti ricevano il proprio
diploma, avrà luogo il tuo discorso. – approfittando del fatto che l’uomo
sembrava non essersi neanche accorto della sua presenza, Duff distolse lo
sguardo dalla ragazza e dal resto del mondo, gli occhi verdi rivolti verso il
cielo terso di giugno. “Non finirà mai”
pensò, stranamente senza alcuna punta di amarezza. Non sarebbe mai finito il
tormento del marchio che Adrien aveva inciso col fuoco sulla sua pelle,
attraverso mesi di bugie ed inganni che l’avevano quasi ucciso, ma che
contemporaneamente l’avevano temprato in vista del futuro. Quando aveva chiuso
lo porta di quell’armadietto immondo, il ragazzo era stato convinto che quel
capitolo della sua vita si fosse chiuso: semplicemente, si era sbagliato. I
ricordi avrebbero bruciato per sempre: non rimaneva altro che imparare dagli
errori. Improvvisamente, spostando lo sguardo verso i portici lontani
dell’edificio scolastico, qualcosa d’inaspettato s’intrufolo nel suo campo
visivo.
-
Ehi, Linda! – “No, ti prego. E’ già abbastanza
difficile così.” la ragazza si voltò con un sorriso leggero al richiamo di
Duff, invece di raggiungere l’inizio della fila ordinata di studenti che andava
formandosi. Il discorso di fine anno spettava a lei, in quanto alunna coi
risultati migliori alle graduatorie, e se prima di quel momento aveva tremato
come una foglia al pensiero di dover parlare davanti a tutti, ora smaniava di
concedersi al pubblico. Eppure, nonostante la fretta, non fu in grado
d’impedirsi di attenere che il biondino si posizionasse davanti a lei. Pian
piano, la sensazione di vuoto allo stomaco che aveva provato ogni volte che
Duff sfoderava quel sorrisetto nervoso che preludeva ad una cattiva notizia,
quella era riuscita a soffocarla; eppure, i piccoli gesti con cui il biondino
tirava fuori il lato più bello di sé stesso riuscivano ancora ad alterarle
l’umore. Lezione di Adrien Miller numero
uno: non lasciare mai e poi mai che gli altri notino che la parte più
fragile di te dipende dalle loro azioni. E’ una debolezza inutile che si
concede chi è abituato a perdere. – Sì? – domandò Linda, quando si accorse che
Duff stava avendo delle difficoltà a parlare. L’imbarazzo era visibile sul
volto del ragazzo per via delle chiazze rossastre che gli coloravano le guance.
– Mi chiedevo… ci vai con qualcuno al ballo di stasera? – domandò infine con
strafottenza. “Oh, è adorabile”.
-
Veramente, sì… - abbassando i grandi occhi marroni sull’erba secca e poco
curata del giardino della Renton, Linda confesso impedendosi di scoprire la
sorpresa fin troppo indiscreta sul volto di Duff. Non aveva voglia di sentire
ancora una volta sottolineare quanto fosse stupefacente l’idea che lei uscisse
con qualcuno. – Ci vado con Ethan… il quarterback della squadra di football,
sai. – quando per la prima Ethan Cooper le aveva rivolto la parola, non aveva
la più pallida idea di trovarsi di fronte al gentile ragazzo che l’aveva
soccorsa quando Adrien aveva dimostrato a tutto quanto folle fosse. Anche dopo,
quando aveva incominciato ad aspettarla per accompagnarla a casa dopo le
lezioni, aveva continuato a non sapersi spiegare ciò che stava accadendo. Non è Duff, aveva ripetuto per giorni la
vocina malevola nella sua testa finché non si era decisa a rivolgere un sorriso
radioso ad Ethan, accettando il suo invito al ballo di fine anno. Nessuno
sarebbe mai stato come Duff, né nella vita reale né nel cuore di Linda, ma la
ragazza non trovava neanche più lo stesso gusto della sofferenza in una
battaglia che considerava persa. – Oh. Già… anch’io ci vado, con un’amica delle
nuove ragazze di Izzy e Steve… Beh, immagino che ci vedremo là. – la prima bava
di vento della giornata scompigliò loro i capelli, rendendo invisibili le
persone che attorno a loro parlavano. Gli sguardi che si rivolsero furono pieni
di calore, mentre nei loro stomaci si diffondeva la sensazione di vuoto di una
delusione che avrebbe compreso solo dopo anni.
La
donna fu tentata di togliersi il foulard che aveva avvolto attorno al proprio
capo quella mattina, lasciando la villa per mettere per la prima volta piede
nei luoghi di sua figlia. Le dita scattarono per pochi istanti verso il nodo di
sete sotto al collo, dove un leggero strato di sudore ricordava alla sua pelle
perfetta quando il caldo potesse essere fastidioso; poi, come scottata, le
riabbassò, con un sospiro. Era meglio non farsi vedere, anche se nessuno
l’avrebbe riconosciuta per ciò che era veramente: se anche si fosse scoperta,
sarebbe rimasta agli occhi di tutti Lisette Schneider-Niven. In quel momento,
non si sentiva né l’ex modella né la moglie perfetta che rappresentava. “Una pessima madre” pensò con amarezza “Ecco cosa sei”. Tristemente, quel
pensiero non le suscitò l’immenso dispiacere che sarebbe stato normale provare.
In lontananza, oltre un cumulo disordinato di sedie di plastica, gli studenti
lanciarono in aria i propri tocchi nel classico gesto d’esultanza alla fine
della carriera scolastica. Solo uno rimase in disparte, senza muovere un dito,
ma questo Lisette non lo notò.
Camminare
per quei posti, che avevano conosciuta Adrien molto più di Lisette, era come
essere al centro di un’esperienza extracorporea, trascendentale. La donna si
guardava attorno, cercando con gli occhi gli angoli in cui quella figlia
sconosciuta aveva cercato ombra, rifugio, il conforto che lei non era stata in
grado di donarle dopo la scomparsa di Reese. Si figurava la ragazza sorridere a
qualche incauto compagno che aveva commesso l’errore di avvicinarsi troppo alla
sua rete di perfette menzogne, e la confrontava con la figurina che si era
rinchiusa in casa per un mese a quella parte; la paragonava al fantasma che
quella mattina aveva scelto di abbandonare tutti, sulle orme del fratello. “Me ne torno a New York City” aveva
semplicemente detto, stando seduta sul bordo del proprio letto e continuando a
darle le spalle, come se invece di stare parlando con sua madre stesse
semplicemente esprimendo un pensiero ad alta voce. Un nodo spesso e doloroso si
era formato nella gola di Lisette, che come sempre non aveva saputo negare, che
come sempre non aveva saputo dirle alcunché. Non l’aveva accompagnata
all’aeroporto, dopo averla osservata in silenzio preparare una valigia: la
donna nutriva la speranza che, non permettendo alla partenza di Adrien di
fossilizzarsi in un ricordo, avrebbe potuto fingere che fosse ancora con lei.
Come avevano fatto per anni. Come lei aveva fatto con Reese.
Il
momento migliore di un viaggio in aereo è il suo inizio. I secondi esatti in
cui il bestione di acciaio si stacca dal suolo, magari bruscamente per una
manovra scorretta del pilota, la visione che si ha dal minuscolo finestrino
della terra che si allontana, anche la sensazione sgradevole delle orecchie
tappate: tutte cose che Adrien Miller stava letteralmente adorando, seduta su
una comoda poltrona della prima classe, eppure così rigida e fredda. Gli occhi
erano fissi oltre il vetro del finestrino, verso l’infinito cielo che
costituiva l’unico elemento non mutevole del paesaggio urbano: in realtà,
Adrien non stava osservando niente di particolare fuori dalla bolla metallica
dell’aereo. L’unica cosa che riusciva a vedere era il suo mondo cadere a terra,
briciola dopo briciola. “Amore” la
voce di Duff, il nomignolo con cui si era rivolto a lei tante volte, non
riusciva a non suonare stucchevole e falsa fra i suoi pensieri. Pensandoci in
continuazione, la ragazza le aveva tolto la limpida sincerità che l’aveva fatta
squillare, pronunciata dalle labbra dolci del biondino.
Aveva
scelto New York, come città verso cui scappare: non Londra, dove forse una
Meredith distratta e confusa fra i ricordi l’avrebbe attesa; non Santa Monica,
dove avrebbe potuto conservare l’aria di Los Angeles lontano da ciò che l’aveva
contaminata. New York. Dove è cominciato
tutto, avrebbe definito lei la motivazione del luogo della sua fuga, se
qualcuno gliel’avesse chiesto; dove sei
esplosa, dentro e fuori, sarebbero state le parole più vere, che la ragazza
non avrebbe mai pronunciato. – Desidera qualcosa, signorina? – una hostess dal
viso gentile, rotondo e gonfio di una felicità tranquilla fra quattro mura
imbiancate di fresco e bambini piccoli che strillano, si sporse verso di lei,
servizievole. Adrien avrebbe desiderato tanto permettere a sé stessa di
risponderle sgarbatamente, magari ferendole l’anima in profondità: il controllo
sul proprio istinto che aveva perso nell’ultimo periodo era stato tanto,
davvero troppo. – No, grazie – rispose affabile, voltando la testa per
trapassarla con uno sguardo che rimase freddo nonostante l’educazione e la
classe della sua voce vellutata. La donna si allontanò, leggermente confusa, ed
Adrien si lasciò scappare un sospiro: quegli erano gli attimi in cui la storia
finiva.
E
si sentiva sospesa nell’aria, letteralmente: in un punto oscuro della sua
mente, la cintura di sicurezza e le pareti dell’aereo scomparivano ad
intervalli regolari, lasciandola precipitare in un vuoto che, lei lo sapeva,
non sarebbe mai terminato in una schianto. Duff era lontano. Robin era lontana.
I rumori delle ali d’acciaio che sferzavano le nuvole erano appena accennati,
dietro la lastra che la separava dal resto del mondo. I suoi respiri profondi
rimasero la sua unica compagnia, avendo chiuso gli occhi, finché un’insistente
prurito mentale non la costrinse a cercare la persona che in quel momento la
stava fissando. “Oh” un uomo, o poco
più. Nulla di che: completo grigio ed anonimo, capelli radi sulla nuca ed
ingrigiti sulle tempie, fronte imperlata da un sudore di vecchiaia che avanza.
E la stava fissando con lascivia. O,
meglio, se avesse saputo oltrepassare la sottile linea che determina la
consapevolezza di sé stessi, avrebbe capito che stava fissando le sue gambe
lunghe, scoperte da una minigonna. A stento trattenne un sorrisetto
compiaciuto: dentro di lei, una bimba scoppiò in lacrime. Ma poteva ignorarla
ancora un po’.
Grand Forks, North Dakota
May 21st 1987
Adrien.
Ti scrivo queste poche righe,
anche se credo non le leggerai;
appena vedrai il nome del
mittente, le getterai in un cestino e prenderai in giro il mio lato
melodrammatico
come hai sempre fatto.
Ma vale la pena tentare.
Ho fatto fatica a reperire il
tuo indirizzo: tua madre non sapeva nemmeno della mia esistenza, ma
mi ha aiutato comunque. Deve
tenere a te, dopotutto.
Mi sono svegliata, una mattina,
e ho scoperto di non farcela più:
dovevo parlare con te, dirti
ciò che non ti ho detto.
E, forse, il fatto che tu non
leggerai nulla di ci che ti sto scrivendo non cambierà le cose:
non hai mai ascoltato;
forse sono solo io che ho
bisogno di parlare.
Amo un uomo: è dolce, gentile,
premuroso, divertente
come una volta credevo fossi
tu. Josh,
con lui ogni tanto mi sento.
Vive a Huston, insegna filosofia.
Ma questo di certo non
t’interessa:
aspetto una figlia, e una volta
forse le avrei dato il tuo stesso nome;
adesso, non riuscirei a
crescerla sapendo che potremmo allontanarci come è successo a noi.
A volte, sento la tua mancanza,
ma sono lampi che scompaiono
presto. Non era la fine che mi
sarei aspettata, quando ti ho conosciuta.
Forse, è davvero meglio così,
meglio che tu mi abbia ferita,
meglio che tu abbia triturato
la mia vita,
meglio che me ne sia accorta,
seppur tardi.
Vedo spesso Michael alla
televisione, cambiato, cresciuto, forse persino invecchiato,
come tutti noi. Osservare
i cambiamenti del suo viso non
mi provoca più colpi al cuore da tempo, ormai.
Ti ha amata, e l’hai fatto
anche tu. Almeno in parte;
di questo sono sicura.
Vorrei che questo angolo che mi
sono ritagliata per pensarti potesse concludersi in un modo diverso,
ma, per noi, non ci sono mai
state parole facili.
Robin
“ I'm not saying its your fault, although you could have done more: oh, you're so naive yet so. ”
[…]
“ You’re such an ugly thing
for someone so beautiful. ”
[…]
“ Just
don’t let me down. ”
(The
Kooks – Naïve)
NOTE DELL’AUTRICE
Anche quest’avventura è finite: mi sembra proprio strano, non è la
stessa sensazione d’esultanza che ho provato alla fine di Love willtearusapart; ma il senso di soddisfazione, quello è anche
maggiore. Sarà perché, come dicevo anche nei precedenti capitoli, questa storia
mi ha fatta crescere.
Veniamo ai dettagli tecnici: il ricordo di Duff che c’è all’inizio
e la parte iniziale della consegna dei diplomi dovrebbero servire a
sdrammatizzare un po’, ma ormai sono abituata a scrivere di fatti tristi,
violenti e tragici, perciò la mia vena umoristica potrebbe far pena. Pazienza.
Credo che l’ultima parte dell’epilogo sia venuta bene. Negli ultimi paragrafi
su Adrien si può notare un riferimento al finale de “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. Non per quanto riguarda alla trama, quanto alla
struttura lessicale.
Stranamente,
non ci sono altre particolari citazioni in questo brano: tutto è fuoriuscito
dalla mia mente.
Il
fatto che poi Slash canti “Michelle”
non è un caso, per le signore che adorano il nostro chitarrista insieme
all’omonima cantata dai Beatles. Non si sono proprio lasciati, s’intuisce dal
finale dei paragrafi finali dell’ultimo capitolo: certo, non potrà mai esserci
qualcosa di serio. Diciamo, sono una coppia molto aperta.
Grazie
a tutte voi, che mi avete sostenuta fino alla fine: scrivere questa storia
sarebbe stato impossibile senza i vostri commenti, le vostre dritte,
l’aspettativa di leggere i vostri complimenti e le vostre critiche dopo aver
postato. Vi adoro, sul serio. Spero che ognuna di voi continuerà a seguirmi
quando, a fine aprile, comincerò la mia nuova storia. Per farmi pubblicità, vi
lascio il titolo: “SCOOP – L’errore più grande”.
E’
in arrivo anche una Missing Moments di cinque
appuntamenti su Love willtearusapart. Di quest’ultima
però, non so dirvi la data precisa.
Grazie
ai Kooks, che con la loro canzone mi hanno ispirata e
supportata.