Rette parallele di Aurelia major (/viewuser.php?uid=20934)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mattutino a due voci ***
Capitolo 2: *** Je ne regrette rien ***
Capitolo 3: *** Piange il telefono ***
Capitolo 4: *** Nei vestiti, nel vento, nelle parole ***
Capitolo 5: *** That's amore ***
Capitolo 6: *** My fair lady ***
Capitolo 7: *** Eva contro Eva ***
Capitolo 1 *** Mattutino a due voci ***
“A volte la vita con sue
imprevedibili giravolte ti porta là dove
mai avresti creduto d’approdare.”
Questo il
pensiero di Haruka dopo aver sputato l’ultimo
rimasuglio del disgustoso amalgama del quale sentiva ancora
l’orrendo sapore in
bocca.
“Adesso
che succede?” Si
chiese Michiru aprendo un occhio e guardando in direzione del bagno.
Magari era
ancora mezza intontita dal sonno, ma le era parso chiaramente
d’udire l’inequivocabile
rumore di chi si sta strozzando, immediatamente seguito da una sequela
d’improperi
a lei diretti e nient’affatto velati.
Haruka
poggiò le mani al lavabo, e guardandosi fissa nello
specchio soprastante, si di disse che quanto stava scendendo,
vorticando per lo
scarico, giù fino alle fogne a far compagnia ai ratti, altro
non erano che i rimanenti
brandelli della sua dignità.
“Quella
donna mi sta facendo a pezzi…”
Pensò
e, scuotendo il capo sconfortata poggiò la fronte alla
superficie fredda ed inanimata, come a cercare nel suo stesso riflesso
la forza
per sopportare ed andare avanti. Amava Michiru, nessun ripensamento a
riguardo,
ma, quando accadevano simili cose, si chiedeva se per caso questa non
stesse impartendole
una lenta e trasversale punizione per i suoi passati indugi e tutto il
tempo
durante il quale l’aveva fatta trepidare in fremente attesa.
“Maledizione”,
rifletté,
sbatacchiando gli stipi e perlustrandone le mensole, presa nella caccia
che
quotidianamente la vedeva alla disperata ricerca dei suoi pochi, miseri
e ormai
dispersi averi, “sapevo che non sarebbe stata una
passeggiata, come pure che la
convivenza si nutre di compromessi e vicendevole spirito
d’abnegazione. Ma
questo è il colmo!”
“Ma
che diavolo sta
combinando?”
Silenziosamente
Michiru scivolò tra le lenzuola e a passi felpati si
approssimò alla porta. Indispettita
per quanto si vedeva costretta a fare, nonché dal fatto che
era lì, lì per riaddormentarsi,
quando Haruka aveva ricominciato con quel baccano d’inferno,
poggiò l’occhio
alla toppa e inorridita vide che l’intero contenuto del suo
beautycase veniva
fatto oggetto d’esperimenti aeronautici. Ad uno ad uno
infatti venivano presi,
sommariamente osservati e infine fatti volare in direzione imprecisata.
“Dove
accidenti è il collutorio?!”
Con una manata
definitiva Haruka sperperò migliaia di yen di
prodotti cosmetici mentre, con le fauci in fiamme, rifletteva sulla
natura
contraddittoria del legame che la teneva avvinta. E, siccome le ore
antelucane
si prestano particolarmente bene alle recriminazioni,
rifletté sul fatto che
ultimamente la sua routine era stata alquanto stravolta. E, intanto che
la sua ricerca
proseguiva nei cassetti, continuava a ragionare dicendosi che
sì, probabilmente
la sua precedente vita era fin troppo solitaria e priva
d’amore, ma che il ritrovarsi
il tubetto di crema depilatoria della sua dolce metà laddove
normalmente teneva
il dentifricio, e improvvida lavarcisi i denti, la faceva alquanto
dubitare della
giustezza della sua scelta.
“Perché
non si può cominciare la giornata così!”
“La
solita
rincoglionita.”
Pensò
Michiru quando
afferrò la cagione che aveva scatenata la bestia
così presto. E d’accordo, forse
non avrebbe dovuto lasciare quella roba a portata di mano,
però chi era a
lamentarsi al minimo segno di ricrescita? La faceva facile lei, era
bionda e
fingeva di essere un maschio, quindi come poteva capire? Inoltre una
disattenzione poteva capitare, come se poi sua signoria, non
più tardi di una
settimana prima, non le avesse mosso la medesima obiezione a riguardo.
Per cui
com’è che era? Se Haruka si beveva le sue lenti a
contatto, scambiando il contenitore
in cui le aveva lasciate in ammollo sul comodino per un bicchiere
d’acqua di
fonte, era colpa dello stress. Viceversa, se lei tralasciava di riporre
un
tubetto, che con tutta evidenza non era dentifricio, sia per
l’odore, che
per consistenza, per non parlare dell’evidente
illustrazione sull’involucro, era senza fallo una
disordinata?
“Se
così è, ben ti sta
amore mio.”
E detto
ciò Michiru se
ne ritornò al calduccio.
Trovata
finalmente la sospirata bottiglia Haruka vi si
attaccò come un avvinazzato. E, ingollando il mentolato
fluido, non poté far a
meno di notare quanto la tinta di quel balsamo per le sue gengive
urlanti fosse
somigliante al colore dei capelli che tanto le piaceva accarezzare,
nonché del
vello che Michiru eliminava mediante la letale crema che aveva avuto
modo di degustare.
Folgorata quindi comprese che il sunto a margine di quella convivenza,
altro non
era che la labile differenza che intercorreva tra un pelo e un capello.
“E io
che sarei, un apostrofo biondo tra una depilata e
l’altra?!”
Si chiese, per
poi concluderne che come persona ormai si ritrovava
ad essere diventata, né più né meno,
il netto risultante tra la gioia d’averla
accanto e i fastidi che ne potevano derivare. Una partita doppia
insomma, dove
il benessere dell’addormentarsi tra le sue braccia veniva
equamente bilanciato l’indomani
nell’aprire il garage e scoprire che la fiancata della spider
era rigata e
sverniciata.
“Quisquilie
davanti all’altare del
grande amore d’accordo”,
ammise
sbuffando, “ma certe considerazioni fanno male
all’orgoglio e ancor di più all’igiene
dentale!”
“Eccola
che ritorna.”
A bella posta
Michiru fece
finta di dormire, come se non volesse essere disturbata, anche se, al
primo
sentore del ruotare della porta sui cardini, abilmente s’era
mossa per far sì
che le lenzuola le scivolassero completamente di dosso e apparisse, a
chi
faceva il suo ingresso, come la versione aggiornata della Maya.
Sospirò
lievemente e sperò che il volto non la tradisse, mentre
tutta una serie di
pensieri le attraversava la mente e gli angoli della bocca le si
volevano per
forza piegare all’insù in un sorisetto di malizia
mal trattenuta.
“Che
farà adesso?”
A passo di
carica Haruka varcò la soglia, aveva tutta
l’intenzione
infatti di farle una ramanzina senza fine per quanto accaduto ma, alla
vista di
lei che giaceva dormiente, e completamente vulnerabile, tra le coltri,
rimase
interdetta sull’uscio. Chiaramente non era la prima volta che
la vedeva in
negligé, anzi, la tigre del materasso ne aveva
un’intera collezione da
sfoggiare, né considerava soltanto adesso quanto le sue
forme fossero diafane e
delicate se paragonate alle sue. Ma a quel punto, su due piedi e con
ancora un
grumo d’epilady incastrato tra i molari, capì
infine quanto fosse solo mera apparenza e
chi davvero comandasse in quella casa. Perciò non aveva assolutamente nessuna
possibilità di salvarsi.
“Mm,
tesoro.”
Mormorò
Michiru
impunita, dandole una prolungata carezza al volto, quando
l’altra, vinta e
assai perplessa, la svegliò.
“Piccola
donna, grandi rotture!”
Sentenziò
saggiamente Haruka. Ma non diede voce a quest’intuizione,
e porgendole la vestaglia, si avviò verso la cucina
ripromettendosi di esaminare
bene la scatola e il contenuto prima di mettere su il caffè.
N.d.A.
Eccomi qui nuovamente alle prese con queste due
impedite.
Devo dire che un po’ mi mancavano, oltre
al fatto che ogni promessa è
un debito e che avevo voglia di divertirmi un po’ a mettere
alla berlina tutte
le seriosità cui le avevo fatte oggetto in precedenza. Non
so dove mi porterà questa
sorta di divertissment, giacché nel pieno delle mie
facoltà mentali ammetto di
sapere dove il tutto comincia, ma
d’ignorare
totalmente le infinite variabili che quest’esperimento
potrà assumere. Una cosa
sola è sicura, impererà un canone inverso dove le
sicurezze acclarate in precedenza
verranno sovvertite dal paradosso.
Già che ci sono spendo due righe per gli
altri miei lavori in corso.
Per quanto riguarda “Ricordati di
me” è prossimo l’aggiornamento,
“Andante” invece è una gravidanza un
po’ più complicata, ma spero presto di
uscire dal mio stallo. Quanto alle “Figlie della
tigre”, pure se non
sembrerebbe, la cucciolata è ancora viva,
tant’è, pensavo
di riscriverla ex novo, in quanto, a
rileggerla, trovo l’attuale stesura insoddisfacente.
“Osmosi” invece prosegue
sul suo binario discontinuo, ma del resto, essendo una serie di storie
slegate
l’una dall’altra, va bene così.
Infine ne approfitto per ringraziare chi, con la
sorprendente richiesta
d’un messaggio autografo, mi
ha riempito
di soddisfazione, ma pure d’imbarazzo. Giuro, non me
l’aspettavo affatto,
perciò grazie infinite, poiché per un
irripetibile momento m’è
parso d’avverare un sogno a lungo
vagheggiato.
Bene, per il momento è tutto
e mi auguro che quest’esperimento diverta
chi legge nella stessa misura di chi l’ha scritto.
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Capitolo 2 *** Je ne regrette rien ***
“Non!
Je ne regrette…Non!
Je ne regrette rien!”
Cantò
sottovoce Haruka tentando d’imitare la dolente cadenza
di Edith Piaf.
Chiaramente non
era quello il momento di darsi ai
citazionismi, tantomeno ai classici della musica francese. Tuttavia, se
pensava
alla posizione imbarazzante cui si trovava, sentiva crescere rigogliosa
in sé la
necessità d’una giustificazione cui appigliarsi.
Di più, se si soffermava a
riflettere su quel che l’aspettava, diventava un bisogno
addirittura
impellente.
In ogni caso,
pur sentendosi ridicola, non era sua
intenzione recedere, né muoversi di lì, per cui
trattenne il fiato e rimase
immobile, in attesa.
“Perché
sono
costretta a questo? Perché?!”
Si chiese in
preda all’esasperazione e, mai come in quel
momento, avvertii d’essere
sull’orlo
delle lacrime. Lei, quella tutta d’un pezzo, proprio lei,
quella che non
piangeva mai.
Pure la
vitalità del suo pensiero ancora una volta la
salvò poiché,
al culmine della crisi, come in una sorta di catarsi, dal nirvana delle
cazzate
giunse su di lei, calando come puro spirito, una risposta ad
illuminarla.
Conosceva pochi
proverbi per la verità, ma per sua fortuna non
ignorava affatto quello che voleva in amore e guerra tutto concesso.
Per cui, pensò
per sillogismo, cedere sarebbe equivalso a perdere sia la guerra che
l’amore. Giusto?
Giustissimo,
tanto che decise seduta stante di riprendere in
mano le redini della propria vita e non soggiacere all’altrui
volontà.
“Corvo
Rosso non avrai il mio scalpo!”
Esclamò
invitta, quindi uscì dal bagno e, sprezzante del
pericolo, nonché del completo fresco di stiratura che
l’aspettava sul letto,
percorse il corridoio silenziosamente.
Ora viene il
difficile, pensò.
Già,
si trattava d’individuare da dove potesse arrivare il
suo attacco a sorpresa. Concentrata valutò le alternative:
alla sua destra
c’era la svolta che portava in cucina, a sinistra le camere
da letto, di fronte
la sala. Cosa avrebbe scelto Michiru?
Lo ignorava e
sentendo crescere la tensione si appiattì fino
a diventare tutt’uno con la rientranza della parete. Non
c’era da scherzare, anche
il minimo errore poteva esserle fatale adesso, ché tra le
mura del loro nido d’amore
aveva avuto luogo un conflitto tremendo, culminante nella spietata
caccia
all’uomo in corso. O per meglio dire, alla donna. Ma
perché star a
sottilizzare?
Tesoooooooro,
dove ti sei cacciata?
Con
raccapriccio Haruka udì il temuto richiamo farsi
più
vicino. Quella non era che l’ouverture di ciò che
poteva essere la sua caduta
dalla grazia. Trepidante ne ascoltò il soave timbro,
tentando nel frattempo di
cogliere l’eco dei passi felpati che si approssimavano.
Quella maledetta furbastra
di Michiru aveva abbandonato il suo precedente punto
d’appostamento e ora
girava a cerchi sempre più stretti in cerca di lei.
Lei, non
più amazzone, ma inerme preda.
“A
certe cose non ci si abitua facilmente.”
Pensò
risentita, ma non doveva distrarsi, poiché il suo rifugio
provvisorio non le
consentiva seguire le
traiettorie né il progredire della sua aguzzina. In ogni
caso comunque era
palese il tono sinistro che quell’appello grondante dolcezza
celava. Il
medesimo, pensò attraversata da un fremito di terrore, che
doveva avere la
vecchina di Hansel e Gretel.
Pure doveva
superare l’impasse di quella situazione precaria,
non poteva trattenersi
troppo a lungo
nello stesso luogo, perciò, scostando appena, appena il capo
dalla parete, si
diede a scrutare il pavimento fin dove le riuscì di
allungare il collo. Tutto
taceva e nulla sembrava cambiato, ma se lo sentiva nelle ossa, stava
arrivando
a ghermirla.
Sì,
stava dirigendosi dalla sua parte. E non era tanto il sesto
senso a dirglielo, quanto piuttosto l’assoluta convinzione
che, trattandosi di
stanarla, Michiru
si sarebbe dimostrata più
efficace di un cane da tartufi.
Creare una
diversione l’avrebbe senz’altro aiutata, quindi
si tolse una pantofola e la lanciò in direzione opposta alla
sua. Una mossa
efficace questa, in quanto, appena scorse la silhouette
dell’altra far capolino
alla curva del corridoio, con uno scatto degno del suo passato
d’atleta, s’involò
nella direzione opposta, ficcandosi nella prima stanza disponibile.
“Salva!”
Fece
tutt’allegra nascondendosi dietro ad un mobile e,
estremamente paga di sé stessa, prese a gloriarsi
perché la sua dolce metà,
essendo costretta a perlustrare a palmo a palmo ogni angolo, non aveva
potuto
avere il tempo d’accorgersi della sua scaltra manovra.
Purtroppo per
lei però si rese conto fin troppo presto
d’aver fatto una pessima scelta, perché, miseria
infame, aveva riparato
nell’unica stanza della casa sprovvista di
porte comunicanti.
“Porca
vacca!”
Pensò
mentre il sorriso di trionfo le appassiva sulle labbra
per lasciare spazio alla costernazione. Aveva commesso un errore
madornale e ormai
di vie di fuga non gliene rimaneva che una e una sola. E il peggio era
che
sembrava Michiru si stesse dirigendo esattamente dalla sua parte.
“A
meno che…”
Mormorò
voltandosi a fissare intensamente le portefinestre
che davano sul terrazzo. Poteva riparare sul loggione vero, fuori
però c’erano 4
gradi e addosso non aveva che l’accappatoio. Pure non
c’era tempo per
gingillarsi e lei non poteva assolutamente arrendersi. Non poteva
accidenti!
“Anzi”,
si convinse senza darsi il tempo di ripensarci e
lasciando scorrere silenziosamente l’anta, “il
ballatoio ha un valore aggiunto.
Gira tutt’intorno all’appartamento e mi
da’ la possibilità di osservarne le
mosse non vista. E prevenire è meglio che curare!”
Ne concluse
determinata mentre un freddo cane l’accoglieva.
Involontariamente
rabbrividì, rattrappendosi sotto l’esiguo
indumento e accomodandoselo più
strettamente possibile addosso, tentò
d’incoraggiarsi in qualche modo.
“In
fondo, hai visto mai un colpo di fortuna? Semmai
dovessi aver freddo, un varco lo
troverò per rientrare.”
In effetti
Haruka fidava sul dettaglio che in genere
entrambe avevano cura di lasciare uno spiraglio aperto per consentire
alla
gatta di entrare e uscire. Peccato però ignorasse che la sua
ancora di salvezza
dormiva acciambellata sul divano.
Andiamo Haruka,
non
fare l’idiota!
Vociò
Michiru da un punto equidistante, più o meno,
stimò Haruka
mentre il venticello del nord le solleticava le pudenda, in
prossimità della
cucina. E infatti non si sbagliava, tant’è che
quando si allungò cautamente
oltre il vetro della finestra, ebbe tutto l’agio di vederla
mentre cercava di
snidarla da eventuali nascondigli cui avesse potuto riparare.
Spalancò la
dispensa, provò dietro al frigo e persino sotto il tavolo
abbassandosi di
soppiatto ed agitando tra le gambe delle sedie la scopa che aveva in
pugno.
“Ma che
m’ha presa per
un sorcio?”
Si chiese
piccata Haruka mentre, parimenti stizzita, Michiru
si fermava a considerare il da farsi fissando l’orologio alla
parete.
Era quasi ora
di cena, il che voleva dire che cominciavano
ad essere veramente in ritardo e, Haruka lo sapeva perfettamente, se
c’era una cosa
che mandava in bestia la sua dolce metà, era esattamente
quella.
Haruka vieni
fuori
spontaneamente e nessuno si farà del male!
L’urlo
ammonitore fu appunto la conferma dei suoi pensieri,
Michiru era furibonda ed era evidente anche dallo slancio con il quale
aveva
ripreso la caccia. Uno screening a tappeto praticamente e, a tal punto
energico,
che le tulle del suo abito si sollevavano per quanto veloce andava.
Con occhio
critico Haruka ne osservò la mise.
“E’
splendida col turchese.”
Non
poté fare a meno di dirsi intanto che si soffiava sulle
mani completamente
prive di sensibilità.
Inoltre, notò con disappunto, per farle piacere quella
marpiona aveva persino avuto
la faccia tosta di mettersi il pendente che le aveva regalato al suo
ultimo
compleanno.
Particolare
questo che avrebbe potuto farla sentire in colpa
se non fosse stato che sapeva benissimo non l’avesse fatto
per compiacerla. Tutt’altro
casomai, perché quella cura nell’addobbarsi a
festa era diretta ad uno scopo che
con lei aveva a che fare assai poco e per il quale Michiru aveva avuto
persino
l’ardire di dirle cosa doveva mettersi addosso.
“A
me? Manco fossi una poppante!”
Mugugnò
risentita, ruminando disappunto. Niente da fare, non
le andava proprio giù e le era al punto indigesto che,
voltandosi approssimativamente
nella sua direzione e considerando che non l’avrebbe mai
saputo, né avrebbe
potuto deplorarla in proposito, succintamente le fece il gesto
dell’ombrello.
“Tié”,
pensò incattivita, “lo sapevi che non mi andava e
hai
tentato comunque di fregarmi! Ora t’attacchi!”
A questo punto,
avendo espletato questo atto da persona
matura e consapevole, la
sua mossa successiva
fu di strappare dai vasi in fiore una manciata di foglie e ramoscelli,
onde
mimetizzare la sua fin troppo visibile chioma, dopodiché
cominciò ad avanzare
rasente i davanzali progredendo abbassata sui talloni.
Così,
di finestra in finestra, assistette ad un addivieni talmente
senza senso che cominciò
a chiedersi se
per caso Michiru non avesse desistito.
Pensiero questo
che successivamente le fece ipotizzare che
in quel frangente le sue sinapsi si fossero completamente surgelate,
altrimenti
avrebbe capito subito quel che l’altra stava facendo e,
soprattutto, avrebbe
tentato in qualche modo di fermarla.
Ma
tant’è, quando ne afferrò il recondito
scopo era già
troppo tardi.
Infatti Michiru
per prima cosa si diresse all’andito e, una
volta verificato che non se la fosse filata alla chetichella,
giacché scarpe e
soprabito erano al solito posto, aveva provveduto a sprangare
l’uscio intascandone
le chiavi. Poi, sistematicamente, era balzata di camera in camera
aprendone le
porte con un calcio, controllando ogni anfratto e infine bloccandone le
aperture, esattamente come avrebbe fatto un agente della narcotici a
Tijuana.
Peccato le
mancasse un fucile a canne mozze tra le mani,
pensò Haruka assistendo allibita a quella scena, in caso
contrario il quadro
sarebbe stato completo.
Ma aveva poco
da fare l’ironica, lo sapeva, poiché tutto
quello sprangar usci aveva il solo scopo di metterla in trappola e ora
non le
restava che operare una scelta drastica per cavarsi
d’impaccio: o si buttava di
sotto, oppure si rassegnava ad essere presto agguantata e messa di
fronte al
fatto compiuto.
“MAI!”
Esclamò
pronta a combattere fino all’ultimo respiro ma,
quando constatò che l’altra stava attraversando di
gran carriera il salotto e puntava
dritta al terrazzo, non trovò niente di meglio da fare che
nascondersi dietro
al ficus nano. E il peggio fu che, per meglio confondersi con
l'ambiente,
atteggiò pure la posizione di corpo e delle braccia a guisa
in quella che
supponeva essere la forma d’ipotetici arbusti.
Poteva essere
peggio di così?
Si chiese
tremando dal freddo, mentre il suono dei tacchi di
Michiru avanzava fino ad arrestarsi a pochi metri da lei. Ne
seguì un
momentaneo silenzio, interrotto poi dal rumore inequivocabile di un
piede che
batteva impaziente al suolo.
Haruka dovresti
vergognarti!
Si
sentì apostrofare intanto che ancora giocava a fare il
camaleonte con pessimi risultati. Accidenti, forse tutto sommato il
fusto del
ficus non era coprente come aveva immaginato. Che fare adesso? Venirne
fuori
con aria da penitente o sbraitare ancora una volta le proprie
motivazioni?
Chissà,
in ogni caso tentò d’assumere un’aria il
più
dignitosa possibile e si fece avanti, anche se, con le labbra blu, le
foglie
ancora tra i capelli e l’andatura esitante con cui le si
presentò, si rese
conto di non essere esattamente la quintessenza del decoro.
Tra
l’altro, sebbene stesse evitando accuratamente di
guardarla negli occhi, riusciva
comunque
a vederne le braccia conserte e piglio tutt’altro che
amorevole con il quale la
stava affrontando. Non c’era pietà nel suo cuore?
Neanche un poco?
Ora, se vuoi
tornare
dentro, sai cosa devi garantirmi… In caso contrario, giuro,
ti lascio qua fuori
a crepare dal freddo senza neppure una scatola di fiammiferi!
Evidentemente
no, che donna senza misericordia!
A quel punto
che poteva risponderle? Certamente non era
nelle sue intenzioni far la fine della piccola fiammiferaia,
perciò chinando il
capo promise, anche se assai di malavoglia.
Con uno
strattone Michiru se la tirò appresso e in breve si
ritrovò in poltrona, avvolta nel piumone e coi piedi immersi
in una bacinella
nella quale Michiru, bollitore alla mano, continuava a versare acqua
calda.
Naturalmente
non che le cure delle quali stava venendo fatta
oggetto fossero amorevoli, anzi aveva il vago sospetto che il non
essere stata
presa ad unghiate avesse come unica motivazione il fatto che sarebbe
dovuta
essere presentabile di lì a poco.
Rabbrividì
accucciandosi ancor di più sotto la trapunta,
sapeva quel che l’aspettava e, nonostante avesse fatto di
tutto per evitarlo,
infine le toccava comunque.
Poi
sentì la mano dell’altra che le si appoggiava
sulla
fronte e ne scrutò l’espressione preoccupata
sentendo rinascere in sé la
speranza.
“Ce
l’ho?”
Chiese
trepidante augurandosi d’avere un febbrone tale da
riuscire a scampare al capestro.
Michiru
volutamente la lasciò a crogiolarsi in quella pia
illusione per qualche secondo, poi, prendendole il volto tra le mani e
piegandosi fino a trovarsi alla sua stessa altezza, ghignò
malefica.
Non ce
l’hai e ora vai
a vestirti…Ma prima mi spiegheresti una buona volta
perché ogni volta che mia
madre c’invita a cena devi montare tutto sto teatrino?!
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Capitolo 3 *** Piange il telefono ***
“Cosa
c’è di peggio”, pensò Haruka,
alzandosi e sbuffando infastidita, “del telefono
che squilla mentre sei lì, lì per
mangiare?”
Di
sicuro poteva esserci di peggio d’una
chiamata
inopportuna, ciononostante, in quel preciso momento,
l’incomodo era tale
da farle sanguinare il cuore. E non tanto per
l’ignoto che la cornetta
poteva celare, quanto perché intempestivo lo
squillo andava ad
interrompere l’indugiare voluttuoso, protratto fino
allo spasmo, che
precedeva l’assestamento del fatal morso
alla baguette farcita che
aveva davanti.
In
effetti, nei riguardi di quello sfilatino, Haruka si sentiva un
po’ come
Giulietta che, pensando a Romeo, filosofeggiava al balcone. Del resto,
si
diceva annuendo compunta, se è vero che una rosa
è tale anche se chiamata con
altro nome, allo stesso tempo la sua era
una cena e non lo era. O perlomeno, non solo. Eh sì
perché giungendo dopo
un'intensa giornata lavorativa, trascorsa perlopiù a
digiuno, quello che ad
occhi profani poteva sembrare un semplice pasto, era invece il
coronarsi d’un
sogno lungamente vagheggiato, d’una chimera covata in segreto
ed assaporata
fino a quell’istante soltanto con la fantasia. E per questo,
non appena varcata
la soglia di casa, si era prodigata in ogni modo possibile per dar
corpo all’ideale.
Tanto che ne aveva curato amorevolmente gestazione e nascita,
poiché, checché
ne dicesse la pubblicità, una miserabile merendina
nulla poteva contro la
fame. Soprattutto contro ad una fame atavica come la sua.
Detto
ciò facile arguire quindi che, nel momento in cui il
telefono trillava, era con
sommo diletto che la nostra s’apprestava a celebrare, dello
spropositato panino,
il rituale di morte e resurrezione. Posto che, per
quest’ultima, Haruka
supponeva ci volesse qualche istante in
più, ma non molto. Giusto
il tempo di sintonizzarsi sulla partita e poi, complice la birra
facente
funzione di prefica col quale intendeva accompagnarlo, ne avrebbe
cantato il de
profundis con un rutto pieno di
soddisfazione.
Propositi
da camionista? Giusto un filo, ma il boato che si proponeva
d’effondere sarebbe
stato reso ancora più gratificante dal dettaglio che
Michiru era fuori
casa da giorni e altrettanti ne sarebbero passati prima che tornasse.
Il che
voleva dire che finalmente poteva indulgere nel gratificare la propria
natura
squisitamente animale senza correre il rischio di essere per questo
deplorata. Di
conseguenza, considerato la totalità delle delizie che la
maledetta telefonata
stava interrompendo sul nascere, il mix d’improperi e
parolacce che le
scaturirono dalle sottili labbra, trovavano molto più che
una semplice
giustificazione. E quindi fu ruminando contumelie che alzò
il ricevitore.
“Chi
è?!” Abbaiò pronta ad azzannare
verbalmente, se non letteralmente, l’incauto
interlocutore.
“Risposta
sbagliata.” Fece Michiru con un tono tale che ad Haruka parve
di vederle
mettere su il broncio come se ce l’avesse avuta davanti.
“E
che volevi sapere quanti fagioli ci sono nel barattolo?!”
Ribatté sarcastica
per prendere tempo. Porca zozza, che s’era scordata stavolta?
Il loro
anniversario? La commemorazione nazionale della giornata del violino,
viola e
violoncello? La prima dentizione di suo nonno?
L’annuale sagra del tofu
sul bassopiano dell’Hokkaido? Ma perché,
perché si era scelta una donna che
insisteva a complicarle la vita con una serie inimmaginabile di
dettagli del
tutto superflui?!
“Ci
avrei giurato che te ne saresti dimenticata!” Venne
rimbrottata
immediatamente, al che, onde scoprire l’arcano e
con spirito sacrificato,
Haruka s’apprestò alla lapidazione che, lo sapeva,
ne sarebbe conseguita. Già,
in genere le toccava almeno un quarto d’ora di lamentele e
recriminazioni
inerenti la sua scarsa sensibilità prima che si decidesse di
venire al punto.
“Hai
assolutamente ragione.” Assentì con voce da
penitente per farla corta e, con
sommo spirito di rassegnazione, si riaccomodò sul divano
tirando a sé il
tavolino su cui era posata la cena. Perché,
d’accordo sorbirsi tutta la
manfrina, ma aveva intenzione di continuare a rifocillarsi mentre
quella la
metteva in croce. “Perdonami amore mio, ti prego scusami se
puoi.” Aggiunse con
accenti patetici afferrando saldamente il telecomando e sintonizzandosi
sul
primo canale, giusto in tempo per vedere le squadre che scendevano in
campo.
“Come posso fare ammenda?” Chiese infine mentre
partivano gli inni nazionali e
stappava la birra.
“Facciamo
sesso telefonico?” Fu la risposta che ne ebbe e che
rischiò di farla strozzare,
giacché dalla sorpresa le andò di traverso il
boccone. E fu sputacchiando a
coda di pavone che capì che a nulla sarebbe valso obiettare,
anche se, nei
giorni precedenti alla separazione, di quello gliene aveva data una
dose tale
da persuadersi che sarebbe stata sufficiente a placarla almeno per sei
mesi. Beata
ingenuità! Pensò facendosi beffe di sé
stessa. Ma come poteva essere altrimenti,
visto che, dopo appena una settimana, quella ninfomane vanificava la
totalità
delle sue prestazioni chiedendole una performance da hot line?
Ora,
si disse dopo un’abbondante sorsata, atta sia a mitigare la
meraviglia, che
salvarla dal soffocamento, non che una sedicente pudicizia le impedisse
di
prestarsi. Però, chiosò guardando con cupidigia
il festino che s’era con tanta
cura preparata, poteva mai posporre la cena, scordarsi della partita e
rimandare il concerto di flati a cui teneva tanto per darsi ad una
simile sceneggiata?
Ma non esiste proprio! Pensò
risoluta. E alé, in un colpo solo
aveva salvaguardato sia la dignità che l’appetito.
Eppure, aveva voglia di
sopportarne poi le conseguenze? Se la sentiva di passare attraverso la
trafila
di ripicche, dispetti e rotture che ne sarebbero conseguite? Ne valeva
davvero la
pena? Decisamente no, si disse sospirando, anche perché
Michiru era
un’indiscussa maestra quando si trattava di farle pagare con
ogni mezzo il fio
di quelle che reputava le sue mancanze. Per cui l’unica era
assecondarla e far
finta che.
In
fondo,
pensò Haruka
scrollando le spalle e ormai arresa all’idea di simulare la
focosità della
copula, ogni donna prima o poi ha finto.
Così
fu che decisero di comune accordo di mettere giù e
ricominciare daccapo con
tutti i santi crismi. Va’ da sé che, siccome le
sciagure non giungono mai da
sole, Haruka era fermamente convinta di poter sostenere quello show
seguitando,
senza difficoltà alcuna, a fare quanto stava facendo. Tanto
che ne poteva
sapere Michiru se, mentre ci dava dentro di libido, all’altro
capo del filo lei
banchettava e drinkettava? Nulla ovviamente. Di conseguenza, quando il
telefono
trillò nuovamente, Haruka a cuor leggero poté
risponderle suadente: “Salve, qui
è lo studio del dottor Lingua, come posso
aiutarla?”
Ottimo
esordio non c’è che dire, peccato che, mentre
Michiru le spiegava nel dettaglio
la natura del suo problema, illustrandole con dovizia di particolari
come
soccorrerla, Haruka commise l’errore di mettere il vivavoce.
Del resto, come
accidenti poteva tenere in mano contemporaneamente cornetta,
panino e
birra?
“Dì
un po’, non avrai mica la tv accesa?” Le chiese
Michiru mutando registro
vocale. In effetti il timbro passò dal tono de la favorita dell’harem
a quello sospettoso di un
investigatore del filone noir degli anni 30.
“Macché
scherzi?” Replicò impunita l’altra
mentre lesta, e solo momentaneamente, depositava
sul tavolo le vivande per abbassare il volume. Senza spegnere
naturalmente. E
come avrebbe potuto? L’attacco patrio infatti aveva appena
preso possesso della
palla e stava superando la linea di centrocampo. A parte questo
comunque, le
restava sempre d’occuparsi della sua vogliosa fidanzata,
quindi si riscosse un
attimo e, affettando una cadenza ardente, per prendere tempo le chiese
di
descriverle nel dettaglio le sue azioni.
“Ora
mi spoglio…” Le rispose Michiru voluttuosa.
“Sì…”
Fece mentre seguiva intenta la serie di dribbling cui si stava
producendo il
suo attaccante preferito.
“Ho
su della biancheria molto sexy e ho caldo, tanto
caldo…” Continuò la novella
Messalina andandoci pesante quanto a celati sottintesi.
“Sì…”
Mormorò Haruka piena d’ansia, non tanto per le
aspettative che Michiru credeva
di star generando, quanto perché quel cretino si era fatto
imballare in mezzo a
due difensori.
“Devo
toglierla?” Chiese persuasa di star aumentando in modo
esponenziale la suspense
di quella che credeva essere un’appassionata compartecipe.
“Vai…
vai porca puttana, vai!!” Ululò Haruka
all’indirizzo del giocatore, che
finalmente si era liberato, senza pensare alle conseguenze del suo urlo
primordiale. Anzi, quando la palla entrò in rete, si
produsse perfino in una
sequela ininterrotta di sì che
infiammarono viepiù la sua bollente
interlocutrice. Già perché, sebbene trovasse
tutto quell’entusiasmo
spropositato, si convinse seduta stante che tale era la mancanza che
straziava
la sua dolce metà, da infiammarsi d’entusiasmo
persino ad un accenno appena,
appena succinto. Pensiero questo che la riempì di delizia e
la convinse maggiormente
a calcare i toni.
“Sono
nuda adesso, cosa mi fai?” Chiese invitante come avrebbe
potuto chiederlo
Lola-Lola in reggicalze e a cavallo della sedia.
“Mmm.”
Fu l’oscura risposta che ne ebbe. Naturalmente lo prese per
un sensuale invito
a seguitare, quand’invece era il mugolato di chi finalmente
stava saziando
l’appetito. In effetti Haruka stava mangiando con gran gusto
e a suo modo
davvero stava sperimentando l’estasi. Tanto che, dopo un
silenzio prolungato,
interrotto solo dal rumore lieve prodotto dalle mascelle che
tracimavano, capì
che doveva assolutamente uscire da quell’impasse. Purtroppo
per lei però non
aveva affatto seguito il filo del discorso e non riusciva proprio ad
immaginarsi fin dove si fosse potuta spingere Michiru nel suo delirio.
Per sua
fortuna però un break pubblicitario arrivò
provvidenziale a darle manforte,
giacché, innanzi ad uno spot dell’ortofrutta ebbe
l’illuminazione.
“Che
pere!” Esclamò, suggerita sia da quel che vedeva
che dal suo stomaco ruggente. “Che
spettacolo, me le mangerei.” Aggiunse improvvida staccando
vigorosamente un
boccone e triturandolo, talmente tanto, che l’eco
inequivocabile di quella
strage mangereccia giunse anche all’altro capo del filo. In
effetti stava
producendo lo stesso rumore di un’impastatrice industriale e
Michiru, la quale
era certa non avessero aperto un
cementificio
sugli Champs Elysees, immediatamente subodorò.
“Che
stai facendo?!” Urlò intimidatoria dopo
gl’istanti di silenzio, atti alla
comprensione e carichi di significato, che le erano occorsi a
realizzare che l’evidente
lussuria, con delizia ravvisata giusto qualche istante prima nella
compartecipazione
di Haruka, nulla aveva a che fare con lei.
“Nulla!”
Ribatté la sospettata mentre nel suo immaginario la sagoma
di Michiru, da senza
veli che era, si rivestiva immediatamente del saio vermiglio di
Torquemada.
“Balle,
tu ti stai ingozzando!” Dichiarò stentorea
quest’ultima puntando l’indice
accusatore innanzi a sé, come se davvero avesse potuto
cavarle gli occhi seduta
stante. Ma il peggio fu che in quel momento catartico, durante il quale
Haruka
avrebbe dovuto impegnare la totalità delle sue
facoltà cognitive per trarsi
d’impaccio, la sua attenzione purtroppo venne prepotentemente
richiamata da un
rumore sospetto. E così, mentre tentava di convincere la sua
collerica metà
d’essere oltremodo coinvolta in quel giochetto telefonico,
imbastendo
motivazioni mirabolanti tese a difendere l’indifendibile, con
un piede cercava
di allontanare la gatta che nel frattempo le era saltata addosso,
attirata com’era
dal profumo del pingue spuntino.
“Ma
ti pare che in un momento simile possa pensare al cibo?”
Affermò suadente,
avendo pure la faccia tosta d’insinuare nella voce una punta
di stupore offeso,
intanto che posava piatto e bottiglia sulla poltrona e afferrava
saldamente la
micia per la pelle del collo.
“Haruka
dimmi la verità!” L’ammonì a
quel punto Michiru, la quale era preda d’un
profondo conflitto interiore in quanto, se da un lato era fortemente
persuasa
di piantarle un casino per quell’evidente presa per il
sedere, dall’altro era assai
tentata a soprassedere e riprendere da dove si erano interrotte.
Magari, si
disse tentando di tenere a bada l’impazienza, poteva tornarci
sopra più in là e
castigarla come si meritava. Ma adesso... Indi e per cui pose la
questione in
modo tale da salvare capra e cavoli, ovvero, di gratificare corpo e
amor
proprio indignato.
“Giurin,
giuretta.” Fece Haruka ormai talmente in bambola, presa
com’era tra svariati
fuochi, da non sapere più se badare alla partita, lanciare
in terrazza la gatta
(che aveva ancora tra le braccia), sollevarsi dall’arsura che
la stava
prendendo a causa del nervoso (bevendosi tutta una cassa di birra e
vaffanculo)
o di buttare tutto nella mondezza, telefono compreso.
Per
questo, e solo per questo, giacché solo chi davvero ama ha
il nerbo di dire l’indicibile,
si sentì chiedere dalla gentildonna all’altro capo
del filo: “Allora dimmi dove
hai le mani!”
A
questo punto, visto che Michiru voleva la verità
e che effettivamente dicendoglielo sapeva di farle cosa gradita,
nonché di
salvarsi dal capestro, fu sincera.
“Nel
pelo!” Rispose, omettendo di chiarire che si trattava di
quello della gatta. In
fondo si trattava d’un peccatuccio d’omissione, ma
sufficiente da riportare il
sereno.
“Di
già?” Rispose infatti la violinista sorpresa, in
effetti, essendo quella la
loro prima performance telefonica, non pensava Haruka si prestasse
così
facilmente e soprattutto si spingesse con tanta velocità in
zona Cesarini. Pure
così pareva e non poteva che compiacersene. E
bontà sua che era convinta di
quello giacché, nel frattempo, buttata fuori dalla stanza la
gatta, quest’ultima
ormai stremata da quella manfrina, lanciandosi cadere di peso in
poltrona e
dimentica d’averci poggiato vivande e beveraggi, diede un
gemito frustrato.
“Tesoro,
tutto bene?” Chiese Michiru allarmata.
“Sono
tutta bagnata!” Sbottò Haruka fregandosene delle
conseguenze, troppo infatti l’aveva
shoccata la tragedia di ritrovarsi i resti del suo glorioso panino
spiaccicati
alle terga. Ma Michiru non poteva sapere, né lei poteva
confessarglielo,
perciò, quando si sentì dare pure
dell’egoista, non le restò che accasciarsi al
suolo, prendersi la testa nelle mani e lasciar scorrere amare lacrime
di delusione
e rimpianto.
“Hai
pensato solo a te!” Stava concludendo intanto la
sesso-defraudata, al che la
nostra, seduta in una pozza di birra, col culo imbrattato di maionese e
la
serata completamente rovinata, era ormai definitivamente matura per dar
voce al
sentimento. Perché, d’accordo che le cose
importanti son sempre le più
difficili da dire, ma per tutti alfine giunge il momento di emulare
Kevin
Costner e lasciar fluire le parole non dette.
“Michi,
gioia”, mormorò infatti con ingannevole calma,
“fammi la cortesia”, aggiunse perdendo
via, via la
compostezza, “guardati un
porno e non mi rompere i coglioni!”
Le
intimò e senza attenderne riposta, con somma soddisfazione,
buttò giù.
Dopodiché staccò telefono, spense il cellulare,
la connessione internet, sradicò
il citofono e, tanto per essere sicura
al cento per cento, andò pure a sparare ad un paio di
piccioni che
volteggiavano da quelle parti.
Fatto
ciò pareva aver riacquistato una certa
tranquillità, ma quando dalla tv riecheggiò
la voce di Stevie Wonder e le
prime note di I Just Called To Say I Love You, non le restò che
sparare
un colpo anche a quella.
“Domani
me la ricompro.” Si disse mentre si dirigeva in cucina per
prepararsi qualcosa
d’altro da mangiare, intanto che molti dei suoi condomini
provvedevano ad
avvertire la polizia.
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Capitolo 4 *** Nei vestiti, nel vento, nelle parole ***
Fischiettava e
spensierata uscì dall’ascensore con le
movenze feline d’un teatrale paso doble.
Dopodiché, ritirando lentamente al
corpo la gamba flessa, fece perno sull’altra e con un mezzo
giro s’apprestò
alla porta di casa. Un ghigno premeditato le aleggiava sulle labbra e
tra le
mani aveva una rosa rosso sangue, il cui stelo aveva accuratamente
privato
delle spine, intanto che attendeva d’arrivare
all’ultimo piano.
Era di ritorno
da un set fotografico, dove si era svolta una
prolungata sessione di scatti, che avrebbero corredato
l’articolo di un noto
mensile a lei dedicato. Perciò aveva ancora indosso i ferri
del mestiere, il che
voleva dire che non avrebbe avuto bisogno di cambiarsi per quel che
aveva in
mente. Per la verità l’idea le era venuta proprio
mentre, di nero vestita,
dalle scarpe a punta fino al leggero tratto di matita con il quale la
truccatrice le aveva contornato gli occhi, tenendo tra le braccia una
modella
da capogiro, ballava con lei un’intrigante milonga.
Insomma si
sentiva irresistibile ed era pronta a
pavoneggiarsi anche più del suo solito. E
d’accordo che quel giorno non
ricorreva nessuna occasione particolare, né che dovesse
farsi perdonare
qualcosa, però
aveva voglia di
coinvolgere la sua metà in un qualcosa
d’imprevisto ed insolitamente romantico.
Per cui, una volta tanto, i quattro salti di cui sentiva
l’esigenza non erano
quelli in padella e neppure sul materasso, bensì letterali.
E voleva perdersi con
Michiru nelle spire di un torbido tango.
Aveva
già in mente persino il vestito che quest’ultima
doveva
mettersi addosso a tal fine: quello rosso con la scollatura da capogiro
sulla
schiena. Ovvero, quello che la ragazza aveva comprato da un bel pezzo e
che
ancora giaceva avvolto nella sua carta velina, perché le
aveva impedito
categoricamente d’indossare. Del resto era inevitabile
giacché, quando Michiru gliel’aveva
mostrato, le erano tornate in mente molte delle sue fantasie
adolescenziali, soprattutto
quelle perlopiù disseminate di pin-up in sottoveste
vermiglia. E per questo aveva
dato luogo ad una serie d’obiezioni che avrebbero fatto
l’invidia di Otello e
aveva imposto il suo arbitrario veto, generando l’inevitabile
lite. In ogni
caso, dopo quella discussione assai accesa, sebbene fossero passati
mesi, non ci
erano più tornate sopra.
“Ma
stasera c’è il condono e per me se lo
può mettere!” Si
disse aprendo la porta e dirigendosi, ridacchiando, verso la
livingroom. Strano,
la stanza era deserta malgrado Michiru le avesse assicurato che sarebbe
rimasta
in casa, ciononostante, dopo un sommario controllo, comunque non la
trovò.
“Ahi,
ahi.” Pensò fermandosi silenziosamente davanti
alla
porta dello studio, ovvero il personalissimo sancta
santorum di Michiru. Lì suonava e dipingeva e vi
si poteva
accedere solo se espressamente invitati. Quindi, se si ci era
rintanata, non
c’era speranza alcuna e le sarebbe toccato di dare
irrimediabilmente addio a
tutti i suoi progetti danzanti.
Cauta e facendo
attenzione a non far rumore, s’apprestò
all’uscio, gettò un’occhiata oltre il
battente socchiuso e si fermò a
guardarla. Era là infatti, se ne stava in piedi davanti al
telaio e sembrava
indugiare indecisa. I pennelli erano a mollo nel barattolo
dell’acqua, i colori
accuratamente riposti nella loro scatola di palissandro e la tela
ancora d’un
bianco virgineo. Probabilmente stava studiando la prospettiva o
decidendo la
tinta con cui tracciare le linee base, giacché aveva il capo
un po’ di traverso
e le vezzose lenti da presbite calate a metà del naso.
Un adorabile
insieme che involontariamente le strappò un
sorriso, visto che sapeva benissimo che quello non era
l’atteggiamento voluto
di una snobistica bohemienne, ma la conseguenza d’un
imprevisto non calcolato.
Già, in effetti Michiru aveva volutamente scelto quella
stanza per sé in virtù
del suggestivo lucernario che le lasciava cadere addosso copiosa la
luce del
sole e volentieri se ne lasciava investire. Peccato però non
avesse pensato a
quanto potesse darle fastidio. Per cui, onde proteggere le sensibili
iridi
celesti, le toccava assumere quella peculiare ed interlocutoria posa.
Affascinata e
dimentica di tutto il resto, ché raro era il
privilegio di poterlo fare senza che lei se ne accorgesse,
continuò ad osservarla.
Ad un occhio distratto Michiru sarebbe potuta sembrare apparentemente
immobile
ma, nonostante se ne stesse con le braccia mollemente poggiate alla
sinuosa
linea dei fianchi, le palpebre socchiuse e il volto aureolato dai
capelli che
aveva lasciati sciolti, lei sapeva invece che in quel momento la
ragazza era preda
d’una sorta di travaglio. Status questo che la faceva
completamente dimentica
del circostante, perché completamente concentrata su
sé stessa. E a tal fine ispirava
ed espirava impercettibile, temporeggiando in attesa che i suoi fremiti
più
profondi si liberassero e prendessero a dilagare.
“Non
è bello che me ne stia qui a spiare un momento
così
personale.” Considerò sentendosi un po’
in colpa e costringendosi ad allontanarsi,
sebbene andarsene le costasse fatica. E, intanto che si toglieva di
dosso gli eleganti
paramenti che non pensava più utilizzabili per quel giorno,
ripensava a quando di
comune accordo avevano deciso di convivere. A quel punto infatti gli
era parsa la
conseguenza più naturale all’evoluzione del loro
rapporto. E così, da un giorno
all’altro, quando all’epoca era ancora solita
definire casa sua, con piglio
possessivo, come il mio appartamento, Michiru
si era stabilita ipso facto presso di lei. E forse anche per questo
motivo inizialmente
Michiru si era mossa alquanto titubante tra quelle mura. Appariva a
disagio e
le chiedeva continuamente il permesso di fare questo o quello. Una
situazione
difficile da gestire e che aveva preso a cambiare solo quando, con una
felice
intuizione, ebbe capito di quanto Michiru avesse bisogno di uno spazio
solo suo.
Perciò, con finta noncuranza, l’invitò
a sceglierselo e a farci ciò che più le
pareva. Risultato?
Dopo qualche
settimana, visibilmente più rilassata e a suo agio, Michiru
le mostrò il
risultato delle sue decisioni, ovvero, una stanza priva di qualsiasi
orpello e
dalle pareti lasciate volutamente spoglie, perché il concavo
potesse essere colmato
dalla sua creatività e i soli colori presenti fossero
unicamente quelli
affastellati dalle sue mani.
Ripensando
condiscendente alla reazione sorpresa avuta in
quel frangente, entrò nella cabina della doccia e si disse
che probabilmente il
suo stupore era dovuto soprattutto al fatto che allora era agli albori
della
comprensione e dell’innamoramento e perciò
doppiamente stranita. D’altronde, ad
essere sincera fino in fondo, non si sarebbe mai e poi mai immaginata
che le
opere di una pittrice, la stessa per la quale accidentalmente aveva
perso la
testa, potessero nascere traendo forma ed espressione
dall’alveo delle
percezioni sensibili che Michiru riusciva ad evocare attraverso i sensi
in quel
vuoto apparente. Certo, con l’andare del tempo aveva imparato
a conviverci, anche
perché poteva accadere che d’un tratto, senza che
nulla fosse all’apparenza
mutato o accaduto, Michiru protendesse la mano verso i pennelli e
cominciasse a
dipingere. Così, di punto in bianco ed interrompendo
all’istante qualsiasi cosa
stesse facendo in quel momento. Ne era stata più volte
sbigottita testimone,
tanto che infine Michiru si era quasi vista costretta a confessarle che
spesso,
dipingendo o suonando il violino, per non menzionare quando nuotava per
ore ed
ore in piscina, si ritirava come in una sorta di dimensione parallela,
dove
poteva avanzare e regredire a suo piacimento sull’altalena
del tempo.
Dichiarazione
questa che l’aveva colpita come un pugno nello
stomaco, giacché era chiaro che in quelle sospensioni
oniriche non aveva posto
e che mai avrebbe potuto essere là con lei a dondolarsi tra
passato e futuro. Naturalmente
non gliel’aveva detto, se ne vergognava e non voleva
apparirle oltremodo
invadente. In ogni caso, dacché aveva realizzato questo
alienante concetto e
Michiru, col sorriso sulle labbra e l’espressione
già rapita, si ritirava in
quella stanza per tornare al suo personalissimo universo, ne soffriva e
si
sentiva dolorosamente tagliata fuori.
“E
forse l’invidio anche.” Si disse entrando in cucina
e
cominciando a tirare fuori le vivande per la cena. Normalmente era
l’altra a
cucinare, ma, visto che era in balia dell’estro,
preferì non disturbarla e se
ne assunse il compito. Pure, annodandosi il grembiule alla cintola e
sciacquando le verdure nel lavandino, si ritrovò a sospirare
triste.
No,
pensò riprendendo le fila del suo soliloquio, non era
invidia la sua. Eppure il poter escludere tutto quanto non fosse
strettamente
connesso a sé stessi, anche se per poco, seppure per il solo
spazio di uno
spartito o di un disegno, era un raro dono. E da qualsiasi angolazione
la si
volesse vedere, il comportamento di Michiru era comunque un
allontanarsi che la
metteva a parte. Momentaneo d’accordo, però,
finché le loro strade non s’erano
incrociate, era stata fortemente persuasa che fosse lei quella che si
staccava,
estraniandosi e mantenendo le distanze. E invece, guarda un
po’? Si sbagliava e
di grosso pure. Quindi, checché mostrasse agli altri e
soprattutto a colei che
amava, la verità era che non ne era più capace.
Se mai lo era stata.
“Mi
hai messa a nudo Michiru.” Pensò dolente
continuando a
preparare come se niente fosse e sbattendosene altamente del fatto che
le
stavano venendo i lucciconi. “La tua anima brilla e
così i tuoi occhi, che mi
ritrovo a fissare intensamente senza motivo e solo perché
sono i tuoi. Quando mi
prendi le mani dolcemente mi manca il fiato ed è per questo
che fuggo, fingendo
un fastidio che m’impongo e che è a me che fa
più male, anche se ti lascio
credere il contrario. Sei la leva che m’innalza e lo specchio
che mi ha ridato
il privilegio dei sogni, perché incatenandomi mi hai resa
libera, dando un senso
a quello che non ne aveva. Per te e con te accanto è come se
avessi la forza di
scatenare le tempeste e donare pioggia alla terra riarsa. Ti sei
impossessata
del mio corpo, respiri nei miei respiri e m’hai sfondato il
petto e la testa,
portandomi tra le onde delle tue emozioni… e per questo,
quando ti chiudi in
quella maledetta stanza, quando vivi ed esisti nonostante me,
indipendentemente
da me, io mi sento di morire, anche se voglio di vivere e per farlo ho
bisogno
del tuo calore!”
Ecco
l’aveva ammesso infine e, come temuto, accidenti a lei,
le lacrime le attraversavano il viso, picchiettando la tovaglia con la
quale nel
frattempo, alla stregua d’un automa, aveva imbandito il
tavolo. Rabbiosa ci
sbatté i pugni e volentieri se ne sarebbe andata anche lei
in qualche mondo
fantastico. Magari in uno dove poter essere insensibile come le sarebbe
piaciuto, lasciandosi scivolare addosso, con un’indifferente
scrollata di
spalle, ogni sensazione. Facile per Michiru esortarla ad essere meno
criptica,
dicendole persino che piangere aiutava a crescere. Stronzate, era
deleterio e odiava
le sue debolezze, questa in particolare, con lo stesso accanimento con
cui
l’amava. Sgraziatamente si asciugò gli occhi e
giusto in tempo, giacché d’un
tratto Michiru apparve sulla soglia.
“Non
ci posso credere, hai cucinato!”
L’apostrofò scherzosa
mimando un esagerato stupore.
Presa di
contropiede stornò lo sguardo dalla sua traiettoria
e subito abbassò le mani per togliersele dalla faccia.
Quindi, ficcò la testa
nel frigorifero e da quell’anfratto le rispose con una
frecciatina acida
alludente al fatto che, mentre qualcuna di sua conoscenza si dava alla
composizione delle nature morte, per forza a lei toccava di dedicarsi a
quelle
cotte.
Deliziata da
quell’ironia corrosiva Michiru rise di gusto,
ma poi, notando infine gli occhi rossi e l’espressione amara
dell’altra si
allertò. “Ehi che succede?” Chiese
facendosi vicina.
“Che
vuoi che sia?” Rispose evitandola ed assumendo il
solito piglio tra lo scocciato ed il sarcastico.
“Quello che succede quando affetti le
cipolle!”
“Sì,
eh?” Poco persuasa Michiru fece per ribattere, ma poi,
ravvisata
all’istante la riottosità che le stava venendo
riservata, decise che non era il
caso d’insistere. Fece finta di nulla e sorridendo si
avvicinò ai tegami che
borbottavano sui fornelli. “Guarda, guarda”,
aggiunse scoperchiando una pentola
e annusandone il contenuto, “allora il profumino che arrivava
nel mio studio
non me lo sono immaginato.”
“Pare
di no.” Replicò distaccata, ma senza riuscire a
dissimulare del tutto il risentimento che la sola menzione a quella
stanza le
suscitava. E per questo di nuovo ne evitò lo sguardo,
mostrandosi affaccendata
a stappare una bottiglia di vino. Quindi, poggiandosi al piano di
lavoro, si
riempì il bicchiere e le buttò lì un
beffardo: “Allora, quale capolavoro immortale
hai partorito stavolta?”
Per tutta
risposta Michiru sorrise serafica e si riempì il
calice a sua volta, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo
decantare e
le si accostò. “E’ strano.”
Esordì fermandosi ad appena un passo e fissandola intenta.
“Avevo in mente di fare tutt’altro, la mia
intenzione era quella di dipingere quel
tratto di costa che da Kobe s’inoltra verso il mare. Sai,
quello con la strada
che sembra inoltrarsi all’infinito e le case che degradano
verso lo sprofondo.
Te ne avevo parlato, ricordi?”
“Certo
che me ne ricordo, mi hai fatto una testa così!”
Ribatté pungente, voltandosi a bella posta per dare una
rimescolata alla zuppa
e rifiutando cocciutamente quelle offerte di pace.
“Invece”,
proseguì imperterrita Michiru, “improvvisamente e
chissà da dove ho avvertito, vago e appena accennato, un
profumo che mi ha
fatto cambiare idea. In un certo senso si potrebbe dire che
è stato quello a
guidare la mia mano.”
“Più
che un profumo, doveva trattarsi di una miasma. Perché
solo una puzza infernale potrebbe superare le barriere invalicabili di
cui è
dotato il tuo eremo!” Fece caustica al fine di scuoterne
l’imperturbabilità, ma
immediatamente venne tacitata da un dito sulle labbra.
“Ascolta
fino in fondo Haruka.” L’ammonì
paziente, solo per
sentirsi ribattere, in modo ancor più impertinente, con un sì, mamma.
“Non
ho pensato affatto a quanto stavo facendo, seguivo l’idea
portante e basta. Però quell’essenza mi ha
ricordato il giardino dei miei nonni
e allora ho capito che chiunque fosse a profumare così, era
là che mi stava
aspettando.”
“Sarà
stato l’invincibile Shogun Michi, ché me lo
ricordo
bene il giardino di tua nonna!” Replicò mordace,
ripensando all’atavica oasi
della famiglia Kaioh. Un pezzo di terra d’antica genesi e
arcaicamente
corredato di tempietti di pietra e fontane di bambù, nel
quale le era toccato
partecipare ad una retriva cerimonia del tè, per la quale
l’avevano pure
obbligata ad indossare il kimono. E,
visto
che per lei quella era la prima volta, aveva trovato sia
l’indumento che la
postura cui era stata costretta, assolutamente scomodi.
“Già,
ma quel che forse non ti ricordi è che, oltre il muro
di cinta, c’è una piana erbosa disseminata di
poggi.” Le rammentò avvicinandosi
ancor di più e ficcandosi, vincendone a fatica la
maldisposta resistenza, tra
le sue braccia. Poi, poggiandosi di schiena e accoccolandole la testa
su di una
spalla, l’invitò ad abbracciarla, ché
non mordeva mica.
Uno sbuffo
scocciato
e una stretta riluttante fu tutto quello che ne
ricavò.
“Dov’ero
rimasta?” Chiese senza riuscire a reprimere un
sorrisetto condiscendente.
“Ai
poetici poggi.” Ribatté con voce soave facendole
il
verso.
“Giusto.
In effetti pensavo a quelli mentre dipingevo, immaginandomi
nuovamente decenne nel percorrerli a perdifiato. E sai cosa? Avevo
ragione, qualcuno
m’attendeva e non ero sola, perché avanti a me
correva, scalza e senza meta, un’allampanata
figura che pareva avesse le ali ai piedi. Ciononostante, quando si
è accorta
che la ricorrevo e che non riuscivo a raggiungerla, si è
fermata e mi ha
aspettato.”
“Io
non l’avrei fatto.” Affermò lapidaria e
mendace, al fine
di smentire qualsiasi sottinteso l’altra volesse darle ad
intendere. Pure, esposta
al tiro di quello sguardo carico di allusioni, abbassò gli
occhi contrita.
“Balle.”
E con
quest’esclamazione Michiru, ruotando nel circolo delle
sue braccia fino a trovarsi viso contro viso, lentamente e con enfasi,
le avvicinò
il naso all’incavo del collo e inspirò
profondamente.
“E
che tu ci creda o no, è stato un profumo acre di sudore a
trascinarmi lì, ma anche a riportarmi qui adesso.”
E detto questo
si staccò, per poi darle un colpetto che
l’invitava
a spostarsi, per farle tirare fuori i piatti dalla dispensa.
Ché non c’era molto
altro da aggiungere e, chi voleva capire, stava avendo modo
d’intendere.
In ogni caso
comunque, quella sera ballarono e, con suo
immenso stupore, Michiru
volle danzare tra
le pareti spoglie del suo studio.
N.d.A.
Non
è colpa mia, anzi si potrebbe dire che hanno fatto tutto
loro, prendendo il sopravvento sui miei propositi ridanciani e fidando
sulla complicità
di un cd degli Avion Travel che ascoltavo in sottofondo. E infatti il
titolo prende
spunto da un verso di una loro canzone. Che altro posso dire? Vero che
questa
raccolta è nata sotto il segno del comico e che fin qui si
è nutrita di paradossi
e farsa grottesca, ma in fondo non penso sia tanto strana questa
parentesi un
po’ meno gioconda. E, del resto, pure queste due pazze hanno
diritto ogni tanto
ad un minimo di serietà, no?
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Capitolo 5 *** That's amore ***
Tranquillità
e operoso raccoglimento.
Ecco
che cosa avrebbe suggerito, ad un osservatore casuale, la posa in cui
Setsuna si
rilassava alla fine della sua giornata, quando finalmente chiudeva i
pesanti
tomi di astrofisica e andava ad accoccolarsi sulla sua poltrona
preferita. Dove,
paga della quiete di cui si circondava e nella quale prosperava,
chiudeva gli
occhi e lasciava che i lunghi capelli cadessero a coprirle parte della
curva
del fianco, intanto che aggraziata poggiava il gomito sul bracciolo e
si protendeva
verso la tazza fumante di tè appena fatto.
Un
giorno come tanti, una sera qualunque nella sua routine. “Che
pace.” Pensò e
stava giusto portandosi il recipiente alle labbra, quando il campanello
fece
udire imprevisto il suo trillo.
“Strano.”
Si disse andando ad aprire, non aspettava nessuno e in genere le sue
conoscenze
si premunivano sempre di avvertirla prima di passare a trovarla,
ché spesso
faceva le ore piccole nel laboratorio
dell’università. In ogni caso comunque
quella visita inattesa non l’infastidiva e a cuor leggero si
apprestò alla
porta, atteggiando il volto ad una gradevole espressione di benvenuto.
Ignorava
infatti che il compimento di quell’atto
d’ospitalità avrebbe messo una pietra
tombale sul suo riposo, ma ne ebbe le prime avvisaglie quando
sull’uscio la sua
imperturbabile calma ebbe il primo, di una lunga serie, dei tracolli
imprevisti
che quella sera il destino le aveva riservato. Pure non fu tanto
l’identità del
visitatore a sorprenderla, quanto lo stato in cui versava. Tanto che
non ci provò
neppure a mascherare lo sconcerto innanzi all’inequivocabile
avvilimento che fisionomia
Michiru denotava e lo sconforto palese dell’amica in un sol
colpo la trasportò a
ritroso attraverso il tunnel dei ricordi, giù,
giù, fino agli albori della loro
conoscenza. Già, anche in quel frangente le era piombata
d’improvviso tra capo
e collo in un giorno di pioggia mentre era intenta a studiare e il
bollitore
per il tè fischiava.
Comparazione
questa che immediatamente mise Setsuna sul chi vive, in quanto, a tutta
prima, la
congruenza le sembrava fin troppo fortuita per non essere foriera di
qualche
catastrofe. “Ahi, ahi”, si disse intanto che il
sospetto prendeva sempre più
piede dentro di lei, “questa visita preannuncia
guai”.
Ciononostante
non diede fiato alla sue fosche previsioni, ché con quella
faccia l’altra di
tutto aveva bisogno, tranne che delle sue profezie da Cassandra nel
deserto.
Perciò sollecita l’invitò ad entrare e,
mettendole un braccio attorno alle
minute spalle, la sospinse gentilmente, ma con fermezza, verso il
divano. Nel
frattempo comunque non poté evitare che i suoi pensieri
s’involassero in svariate
e plausibili tangenti le quali, sebbene assai numerose, inevitabilmente
convergevano
nel medesimo interrogativo: Che ha combinato stavolta Haruka?
Domanda
questa che la portava nuovamente al raffronto con gli avvenimenti del
passato
come se fosse una sorta di dejavù, salvo per il fatto che ai
tempi lei e
Michiru erano pressoché sconosciute l’una
all’altra, anche se poi il tempo, gli
avvenimenti e l’assiduo frequentarsi le avevano rese molto
più che amiche.
“Confidenti
sarebbe stata la parola più adatta.”
Pensò. “Eppure”, aggiunse,
sogguardandola mentre
la ragazza inane si lasciava cadere a peso morto sui morbidi cuscini,
“sembra
così sconvolta da non avere neppure l’energia per
reagire.”
Un
particolare questo assai preoccupante ai suoi occhi proprio
perché, sempre
seguitando nel giochino del paragone tra le due situazioni, in quella
precedente, malgrado non avessero abbastanza confidenza da rivolgersi
la parola,
Michiru non aveva avuta nessuna remora a prenderla autoritariamente di
petto affinché
le dicesse quanto sapeva. Cioè poco e niente, esattamente
come allo stato
attuale e il fatto che adesso invece non le chiedesse nulla, ma si
limitasse
semplicemente a cercare il conforto della sua presenza, la metteva
oltremodo in
ansia.
“Devo
piantarla coi corsi e ricorsi storici.” S’impose
osservandone lo scarso mordente
e l’aria stravolta. Accidenti, appariva intimamente scossa,
per non menzionare
il fatto che aveva gli occhi pesti come se avesse pianto durante tutto
il
tragitto che l’aveva portata fin lì. Insomma
c’era pressante l’esigenza di mettere
le carte in tavola, ma da dove cominciare?
“Quella
è pazza.” Affermò Michiru di punto in
bianco, togliendola dall’impasse ma
mettendola in uno, se possibile, ancora più gravoso. E
infatti Setsuna si mosse
un po’ a disagio sotto quello sguardo cilestrino, che in quel
momento appariva stranamente
vitreo. Comunque sia non era tanto l’affermazione in
sé per sé a crearle
disagio, giacché il
fatto che Haruka
fosse una pazza furiosa per lei era un dettaglio da tempo acclarato e
addirittura lapalissiano. No, quel che faceva stare sulle spine
piuttosto era
il timore che quanto stava per esserle rivelato avrebbe potuto metterla
nella
terribile condizione di dover
schierarsi
per l’una o per l’altra. Evenienza che rifuggiva
come la peste e che faceva
sempre di tutto per scongiurare, portandosi spesso nella traiettoria
pericolosa
dei piatti che si tiravano appresso, al fine di pacificarle e mantenere
intatto
il legame e l’affetto che portava ad ambedue.
“Dai.”
Si incitò per darsi coraggio e soprattutto perché
come al solito, ancora una
volta e
nunc
et semper
in saecula saeculorum, per il bene della patria le
toccava prendere il toro per le corna. “Ti
va di parlarne?” L’invitò quindi e, come
per il sopracitato bovino,
quell’esortazione ebbe su Michiru lo stesso effetto di una
cappa scarlatta
fatta sventolare in Plalza de Toros.
“Prima
dammi qualcosa da bere.” Fu la risposta e, visto che Setsuna
allungò la mano
verso la teiera, sorprendentemente Michiru sibilò:
“Non quella sbobba per
educande Setsuna, voglio qualcosa di forte!”
“Meno
male che sono pronta a tutte le evenienze.” Pensò
quest’ultima cercando di non
stupirsi, andando verso il cucinino e tornandone con alcune di
bottiglie di
sake. Un tragitto breve certo, ma sufficiente per fantasticare su una
versione
di Michiru imbolsita, sciattamente abbigliata e con la bocca spalancata
da un
riso sguaiato, protagonista assoluta di un festino dove, per la delizia
degli
astanti, ballava la famosa danza dei ventagli. “Praticamente
uguale sputata
alla signora Ichinose alla Ikkoku Kan.” Pensò
tentando di scacciare il
raccapriccio e porgendole quanto le era stato chiesto.
Ma
forse chissà erano già entrate in una delle loro
fasi di totale simbiosi
mentale, giacché Michiru ignorò
quell’inutile orpello che era il bicchiere e,
proprio come l’ubriacona testé evocata, le
strappò il boccione dalle mani e vi
si attaccò con foga. A questo punto Setsuna non
poté che chiedersi a lei quale
parte sarebbe toccata, Akemi o Setsuya? E vallo a sapere, in ogni caso,
dopo
una sorsata abbondante, Michiru senza ulteriori indugi la
fissò con occhi di
fuoco e diede fiato alle trombe.
“L’altro
giorno sarei dovuta restare a provare in auditorium fino a
tardi”, cominciò,
“invece avevo dimenticato uno spartito importante e sono
dovuta tornare a
casa.”
“Non
attesa immagino.” Fece Setsuna, andando dritta
all’essenziale, persuasa d’aver
capito immediatamente di cosa si trattasse e convinta quindi che
tentare
d’indorare la pillola sarebbe stato del tutto inutile.
“Esatto.”
Fu la risposta, dopodiché il silenzio, un tacere che Setsuna
percepì carico di
significati, tanto che in quella pausa prolungata ci vide suffragate
tutte le
sue saccenti illazioni e che dovette pungolarla perché
andasse avanti. Oltre al
fatto che nel
frattempo Michiru s’era
nuovamente attaccata alla bottiglia. “Non dirmelo”,
esclamò dunque mantenendo
la compostezza e il tono autorevole che supponeva si dovesse tenere
innanzi a
quello che era fuori da ogni dubbio uno scenario adulterino,
“l’hai beccata a
letto con un’altra?”
“No,
peggio.” Replicò Michiru con voce terrea.
“L’ho sorpresa con l’uccello tra le
mani.”
Inutile
dire che sulla placida ragazza questa risposta esplosiva ebbe un
effetto a dir
poco devastante, tant’è che la sua prima reazione
fu di strapparle la bottiglia
di modo che anche Michiru potesse beneficiare dello stupore novello
nell’osservarla tracannare come un’avvinazzata di
lungo corso. Pure non c’era
spazio per riflessioni estranee a quella rivelazione e Setsuna, che
sperava
tanto d’aver capito male e che più di ogni altra
cosa non voleva assolutamente
immaginarsi la scena di Haruka alle prese con certi… argomenti, chiese esitante:
“Era a letto con un uomo?”
“No
cara, altrimenti non sarei qui, ti pare?” Rilanciò
Michiru con espressione quanto
mai esplicativa e lo sguardo leggermente annebbiato di una che
è sulla soglia
di una solenne sbornia. In effetti non aveva detto a Setsuna che aveva
cominciato ad alzare il gomito molto prima che maturasse la decisione
di andare
a trovarla. In ogni caso la sola menzione del tradimento fu sufficiente
a
renderne l’angelicato volto in un qualcosa di molto simile a
quello di
un’erinni, tanto che Setsuna subito intese che nel qual caso
Michiru davvero non
sarebbe potuta essere là. Già, con Haruka morta
ammazzata e giacente all’obitorio,
probabilmente sarebbe stata in stato d’arresto, per non
menzionare poi la fine
cruenta che avrebbe riservato al supposto compagno di merende.
E
qui per un folle attimo, dando briglia sciolta alla sua fantasia
alimentata a
base di innumerevoli thriller, Setsuna presunse che, amante
com’era del
sashimi, Michiru avrebbe anche potuto ridurre entrambi gli adulteri in
tanti
piccoli pezzi da mettere in salamoia e da guarnire e aromatizzare
successivamente,
al fine di gustarseli accompagnati con bella Sapporo gelata. Come
Hannibal
Lecter praticamente, rendendo lei, nell’atto postumo di
andarla a trovare, attraversando
il corridoio del carcere di massima sicurezza, una novella Clarice
Starling. “Ok,
mi ha dato alla testa.” Ammise spassionata prendendo, a scopo
terapeutico e
lenitivo, un altro sorso copioso dalla fiasca piena di magia.
Dopodiché, con la
serietà tipica di chi è sul filo esiguo tra
l’essere ciucca e coi sensi
acutizzati dall’alcool, la sollecitò ad
esplicarsi. “E allora scusa, ma di
quale uccello stiamo parlando?”
“Dell’ara
brasiliana che s’è comprata perché le
tenga compagnia mentre studia.” Replicò
sdegnata generando nella sua interlocutrice un immenso sollievo, ma
soprattutto
una grassa gragnola di risate. “C’è poco
da ridere”, continuò stizzita,
“mettiti un attimo nei miei panni e dimmi come ti sentiresti
tu se la persona
che si professa innamorata di te preferisce accompagnarsi ad una bestia
piuttosto che a te! E per inciso, l’ha pure battezzata Saudade quella deficiente, spero tanto
che la gatta se la mangi
accidenti a lei!”
“Non
lo so”, riuscì a balbettare Setsuna preda
com’era della ridarella, “penso solo
che il pappagallo ci metterà meno tempo di te a ripetere
tutte le parolacce che
sente!”
“Okay,
lasciamo perdere per un attimo questa cosa.” Propose nel
tentativo di riportare
la conversazione su di un binario di serietà ed agitando la
mano allo stesso
modo che avrebbe usato per scacciare una mosca. “A questo
punto è meglio che ti
racconti tutto, sennò passo io per la squilibrata della
situazione.”
“E
lasciamo perdere l’uccello, tanto ormai ne abbiamo fatta una
filosofia di
vita.” Replicò Setsuna giocando coi doppi sensi e
alludendo parimenti al fatto
che la cronica mancanza di tempo l’impediva di cercarsi un
fidanzato, ma l’altra
era troppo presa dai propri crucci per badarci e non colse.
“Suna
amica mia”, cominciò accorata Michiru, alla quale
l’alcool faceva l’effetto di
renderla viepiù veemente nel pigiare sull’emotivo,
“tu sai quali e quante
fantasie abbia avute su Haruka finché non ci siamo messe
insieme.”
“Come
no”, rispose dandole una vigorosa pacca sulle spalle e, visto
che già gli antichi
romani duemila anni prima avevano enunciato che in
sakè veritas, non ebbe nessuna remora a
spiattellarle come la
pensasse a riguardo, “e se è per questo ancora
continui, facendomi due marroni
così.”
“Per
forza!” Replicò Michiru con enfasi, sbattendo il
palmo sul tavolino in mezzo a
loro. Dopodiché sbottò in un succinto e assai
poco elegante porca zozza
giacché s’era fatta male.
“E’ sempre così indecifrabile accidenti
a lei!”
“Uhh
e quale abisso di mistero hai scoperchiato vivendoci
assieme?” La rintuzzò
Setsuna ormai nuovamente preda della ridarella, un po’ per
quel che aveva
appena visto, ma soprattutto perché era in piena fase
allegrotta. In effetti si
stava divertendo tanto e si rammaricò assai di non aver a
portata di mano una
telecamera con cui immortalare l’amica che, impeccabilmente
vestita e pettinata
con la sua apparente aria snob, trincava ed imprecava peggio
d’uno scaricatore
di porto.
“Non
t’immagineresti mai, Suna, mai!” Proruppe a questo
punto Michiru che,
diversamente da lei, era nel gorgo della sbronza triste e
perciò molto facile
alla commozione. E infatti fu scoppiando a piangere che le si
gettò tra le
braccia, allorché Setsuna per solidarietà
l’abbracciò e cominciò a frignare con
lei.
“Che
ti ha fatto quella carogna? Dillo a Setsuna tua!”
Esclamò come nelle migliori
sceneggiate napoletane.
“E’
una maniaca fissata! Conosci qualcun altro che tiene le sneakers
allineate su
una mensola secondo l’uso che ne deve fare? E guai a
spostargliele, mi fa delle
storie esagerate se mi azzardo!”
Non
esagerava, in effetti Haruka davvero soleva disporre le sue scarpe
mediante una
millimetrica precisione, determinata non solo dal colore e dal modello,
ma
anche dal grado d’usura e d’impiego.
Tant’è, nella sua stanza aveva appunto una
serie di ripiani ove facevano bella mostra di sé scarpette
da corsa, da marcia,
da bici, da moto, oltre ai geta dei quali andava fierissima e che
ultimamente
usava per casa, facendo rimbombare i suoi passi fin al piano terra. In
effetti
qualche inquilino già aveva cominciato a lamentarsi per quel
ciabattare che gli
risuonava alle orecchie con lo stesso clangore di una trottata di
cavalleria.
“E
fosse solo quello.” Singhiozzò Michiru determinata
ormai a vuotare il sacco,
ché il tormento per quanto stava andando scoprendo
dacché avevano casa assieme,
non le dava più pace. “Da quando ha cominciato a
studiare per quei maledetti esami
d’ammissione al MIT è nervosa peggio di una gatta
incinta e sai cosa fa quando
si vuole prendere un momento di relax?”
“Si
mette a testa in giù e fa le spaccate?”
Congetturò Setsuna carezzandole la
testa e ripescando dalla memoria una delle abitudini che
d’Haruka più l’avevano
sconcertata quand’ancora
vivevano insieme
negli States.
“Sì
anche.” Rispose sbrigativa, come se l’amica avesse
menzionato un’abitudine talmente
normale da risultare trascurabile nel dettaglio. “Ma non
è questo il punto,
perché dei del cielo, se hai in casa me a tua completa
disposizione, e
capiscimi bene che intendo dire con la locuzione a completa
disposizione, ma
porca vacca come minimo pretenderesti un’orgia di coccole,
giusto?!”
“Troppo
semplice come spiegazione.” Ponderò Setsuna
annuendo a più riprese, non tanto
per la saggezza dell’ammonizione, quanto perché le
girava maledettamente la
testa per tutto il sakè bevuto fin lì. Inoltre,
considerato l’effetto che le
stava facendo, a quel movimento ondulato cominciò a prendere
un colorito verde,
indi dovette smetterla malgrado l’aria assennata che le dava.
E quando si fu
ripresa un tantino dal voltastomaco continuò: “E
invece che fa la nostra eroina?”
“Ancora
scarpe, ti rendi conto? Tira fuori tutte quelle che ci sono in casa e
si mette
a lustrarle manco per vivere facesse lo sciuscià! Ti giuro,
per settimane ho
continuato a chiedermi com’era possibile che me le ritrovassi
sempre lucidate a
specchio nonostante non le pulissi mai. Poi una notte mi sono
svegliata, nel
letto non c’era e l’ho trovata al tavolo della
cucina che spazzolava e ci dava
dentro. E il bello sai qual è?”
“Che
si veste e si trucca da cantante dei Kiss quando lo fa?”
Ipotizzò Setsuna alla
ricerca della soluzione più assurda. In effetti, le
suggerirono le voci di
dentro che i fumi alcolici le stavano evocando, precettando Michiru,
lei stessa
ed Hitomi, al prossimo Halloween avrebbero potuto interpretare la band
al
completo.
“Peggio,
dopo aver studiato si ripassa gli argomenti lavorando a
maglia!” Sbottò Michiru
ripensando a quando
aveva scoperchiato
quest’ennesimo altarino. E grande era stato il suo sconcerto
quando se l’era
trovata davanti che sferruzzava matematicando. Certo, da quando era
cominciato
il tour de force di Haruka sui libri stava godendo di un inconsueta
generosità
manifatturiera da parte sua. Ché studiando, studiando le
aveva sferruzzato una
sciarpa, un maglione dal complicato
intreccio e persino un bel paio di mutandoni di lana, hai visto mai ci
fosse l’eventualità
che tenesse un concerto pro orsi bianchi al Polo? Certo, pensava, un
regalo è
sempre bello per chi lo fa e per chi lo riceve, pure questa mania
dell’apprendimento
tramite il lavoro a maglia stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di
conversazione tra loro. Infatti negli ultimi tempi, qualsiasi domanda
le
rivolgesse, veniva zittita inevitabilmente con un: “Per
favore Michi, sto
contando le maglie.”
“Ti
rendi conto Suna?!” Chiese senza riuscire a reprimere un
singhiozzo il quale,
più che di pena amorosa, era dovuto al fatto che ormai
avevano dato definitivamente
fondo alle bottiglie.
“Eh
vabbé dai, in fin dei conti si tratta di una cosa
innocua.”
“Innocua
un corno! L’altro giorno siamo scese a comprare i giornali e
quella svergognata
dell’edicola quando le ha chiesto di darle Confidenze
sai che le ha risposto? Che ha il culo scolpito nel marmo!”
“Non
sarà mica la prima allupata che le fa un complimento
sconcio, ormai avresti
dovuto farci il callo.”
“Forse,
ma io rivoglio la mia donna! Quella che mi mollava con tutti i piatti
da lavare
perché aveva voglia di farsi un giro in moto e assolutamente
per i fatti suoi! Rivoglio
quella che al massimo mi grugniva buongiorno al mattino e mi ringhiava
di non
romperle alla sola menzione dell’immondizia da portare
dabbasso! Ma soprattutto
rivoglio quella che invece di vestirmi di lana merinos, mi faceva la
lingerie a
coriandoli nei momenti meno opportuni! Non mi piace questa versione
casalinga
disperata Setsuna, rivoglio la bastarda senza creanza di cui mi sono
innamorata
e me ne frego se questo significa che verrà bocciata,
minchia!”
“E
allora andiamoglielo a dire!” Esclamò invitta,
scoppiando in un applauso
spontaneo al culmine di quell’arringa. E Michiru, ormai
completamente incapace
di connettere, ma soprattutto
talmente
annebbiata da non cogliere le conseguenze derivanti da quanto stavano
per fare,
entusiasta approvò.
Così
fu che le due furono caricate da un taxista il quale, impietosito dalla
deboscia
di quelle che era più che evidente fossero delle ragazze di
ottima famiglia
alle prese con la loro prima sbronza, le portò attraverso la
città e poi
addirittura fino all’ascensore del palazzo. Lì poi
si soffermò a raccomandarsi caldamente
col portiere al fine che s’accertasse
arrivassero
a casa sane e salve, ma pure
non dessero
fuoco all’intero stabile. Non che l’uomo fosse un
malpensante, anzi in linea di
massima era una persona tollerante e che soprattutto si faceva gli
affari suoi,
ciononostante dopo l’incessante blaterare che gli era toccato
sentire durante tutto
il tragitto, voleva essere certo che quelle due non causassero altri
danni all’umanità.
Quanto al portiere e la mission impossibile
che gli era stata affidata, chiaro
che non
poteva portarle fin tra le coltri e rimboccar loro pure le lenzuola,
però tentò
di fare del suo meglio accompagnandole nell’ascesa fino
all’ultimo piano e,
visto che ormai aveva afferrato di chi stessero parlando e in che
termini, gli
parve di afferrare appieno la reale portata della ciucca che teneva
avvinte
quelle isteriche. Haruka Tenou il pilota
sciupafemmine che si comporta come una dama di San Vincenzo? Che razza
di
fregnaccia! Pensò ridacchiando della
stupidità femminile e poi, visto che
le accurate esplorazioni speleologiche di Michiru nella sua borsetta
non
riuscivano a cavarne fuori le chiavi e che lui si era decisamente rotto
le
scatole di star lì ad aspettare come un cretino, con
decisione pigiò il campanello,
nella speranza che l’idolo di tutti i macho fosse in casa.
C’era
ovviamente e quando, ancor beata nella sua ignoranza, Haruka
aprì la porta si
ritrovò davanti uno scenario che neppure nei suoi incubi
peggiori avrebbe
potuto immaginare, ché spostando lo sguardo stupefatto dalla
figura del
portiere ghignante a quella di Setsuna che la guardava con aperta
sfida,
sebbene fosse piegata in una genuflessione innaturale sulle gambe
dischiuse a
X, per finire su Michiru che col rossetto sbavato e i capelli da
facocero le
inveiva contro con parole incomprensibili, meditò per un
attimo di chiudere la
porta e far finta di non conoscerli.
Ma
non poté, anche perché la donna di cui era
innamorata con un Prendimi a pesci in faccia
come una volta
carogna! le stava praticamente ordinando di trattarla male
se ancora l’amava,
intanto che il portiere del suo palazzo le stava suggerendo di
contenerne gli
atteggiamenti licenziosi con un garbato Signore
meglio che non la mandi più da sola in giro la sua fidanzata,
per finire con
la sua migliore amica che la stava decisamente esortando a darle rapida
un paio
di ceffoni e a togliersi di torno perché aveva urgente
bisogno della toilette intimandole
Picchiala e fammi andare al cesso Haru!. Tutto
ciò mentre il pappagallo, oltremodo innervosito da quella
cacofonia, faceva
piovere su di loro a raffica l’ultima parolina che aveva
imparato. Per cui,
mentre Saudade continuava a ripetere Coglione!
Coglione! dall’alto del suo trespolo, cosa poteva
fare Haruka se non
congedare cortesemente l’uomo e prendere quelle due per la
collottola al fine
di metterle immediatamente con la testa sotto l’acqua fredda?
Nulla
appunto, salvo far loro una cagnara senza fine, per poi andare a
rompere il
muso al portiere spifferone, quando l’indomani si
ritrovò etichettata come una
vera e propria mammoletta e con l’intera faccenda, oltremodo
romanzata, scritta
pari pari sulla cronaca pettegola del giornale del mattino.
Morale
della favola? Nelle settimane che seguirono, col diradarsi della mole
dello
studio, anche le sue manie si affievolirono e pian piano tutto
tornò alla
normalità. Quanto alle due baccanti poi, da quella sera
evitarono accuratamente
qualsiasi alcolico, sia perché il solo odore le nauseava, ma
soprattutto perché
avevano impressa a lettere di fuoco nel cervello la promessa che Haruka
aveva
fatto loro mentre pareva volesse affogarle sotto il getto della doccia.
Ché semmai
le avesse beccate a bere, aveva giurato strapazzandole esattamente come
Michiru
aveva desiderato facesse, le avrebbe prese a schiaffoni a due mani
finché la
somma non sarebbe diventata dispari. Insomma, fattisi due conti,
Michiru e Setsuna capirono che in fondo anche quello era
amore.
N.d.A.
Beh,
quasi mi verrebbe da dire bentornata stupidaggine! Ma, celie a parte,
sento di
dover fare una
piccola precisazione,
giacché presumo che chi non abbia letto le precedenti
avventure cui ho fatto
protagoniste queste due mentecatte, alcuni passaggi potrebbero
risultare ostici.
Indi rimando chi sentisse l’esigenza di un chiarimento in
proposito al capitolo
14 di “Ipotesi per un ritratto a colori” sperando
che non suoni quale pubblicità
occulta. Quanto all’espediente della storiella becera
dell’edicolante e della
rivista Confidenze mi si perdoni
l’abuso
in virtù del fatto che quest’ultimo capitolo
prende spunto esattamente dal
rammentare questa barzelletta che faceva furore ai tempi della mia
infanzia. Il
che la dice lunga sulla cialtronaggine dei fervori creativi che
m’ispirano… ;)
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Capitolo 6 *** My fair lady ***
Era consapevole
do star camminando sul filo sottile dell’esaurimento
nervoso, lo sapeva, eccome se lo sapeva. Parimenti, al di là
di ogni
ragionevole dubbio, era cosciente che per lo stato miserabile in cui
versava attualmente
non poteva dar la
colpa a nessun altro
che non fosse sé stessa.
Voltò
il capo per dare un’occhiata circolare alle pareti
anguste della sua cella, valutò
il modo
ridicolo cui era stata costretta a conciarsi e, tentata dalla voglia di
prendersi a schiaffi da sola, si chiese ancora una volta
perché, accidenti alla
sua testaccia dura, non imparava ad essere più conciliante e
far finta di nulla.
Se
l’avesse fatto per un mese non sarebbe stata privata della
sua casa, dei suoi vestiti e, cosa fondamentale, di starsene beatamente
a cavalcioni
tra svariate culture, così come aveva sempre fatto.
“Sono
stata una vera imbecille.” Si disse e,
contemporaneamente, scordandosi che era di delicata fattura, a causa
dell’ira a
lungo repressa diede un calcio al tramezzo che separava la sua
stanzetta dal
corridoio, mandandone in pezzi l’intelaiatura di legno e
carta. Ecco ben gli
sta! Pensò fregandosene se in tal modo avrebbe dato al
vecchio cerbero un’ulteriore
scusa per darle addosso. “Eh già”,
proruppe quindi a voce alta stavolta, inalberando
una smorfia risentita e agitando il pugno in direzione imprecisata,
“la frutta
non cade mai troppo lontano dall’albero, vero?!”
Pure, si disse
tentando di darsi una calmata e dando la
stura alle domande postume, sarebbe stato davvero tanto difficile da
parte sua assentire
e sorvolare per una volta, una soltanto, sulle immense puttanate che
spesso Michiru
esternava? Porco mondo, perché proprio non le era riuscito
di dirle: sì amore,
hai ragione tu, hai davvero avuto un’esperienza tremenda?
Se
l’avesse fatto si sarebbe risparmiata il calvario di
quelle settimane, pure, ora che ne era a un passo dalla conclusione,
comunque
restava della sua idea iniziale. Non avrebbe potuto.
Perché
dinnanzi a
certe assurdità non si può! Sbottò una voce
prepotente dal suo essere più profondo. Dopodiché
la medesima voce, tuonando e
rimembrando il punto di non ritorno della genesi del suo travaglio,
soggiunse: Perché se è
vero che c’è il silenzio degli
innocenti, il suo è stato di sicuro il casino dei colpevoli!
Ed ecco
com’erano andate le cose.
Stavano
conversando cuore a cuore sul divano, preda di quel
relax che segue un amplesso particolarmente ben riuscito e fecondo,
scambiandosi quelle confidenze tanto più frivole e
zuccherose di quanto
comunemente piaccia ammettere. Così, in balia di
quell’umore benevolo e
incalzata dalle domande di Michiru in materia, ché pareva
non ne avesse mai
abbastanza di ficcare il naso in certe faccende, si era lasciata andare
a tutta
una serie di memorie inerenti il periodo della sua pubertà.
Cosa che non
mancava mai di renderla eccessivamente compiaciuta di sé
stessa, giacché
riteneva le difficoltà affrontate prima, durante e dopo
l’abbandono di sua
madre, prove forgianti cui avrebbero anche potuto schiacciarla, se non
fosse
stata la persona forte e meravigliosa che era.
Okay,
rifletté al ricordo tentando di fare sinceramente mea culpa, forse aveva peccato un filino
di vanagloria, ma Michiru non asseriva d’amarla anche per
questo? Invece,
visibilmente piccata, quasi il suo fosse stato un discorso fatto
nell’intento
di sminuirla, aveva controbattuto a quelle asserzioni uscendosene con l’affermazione che
capiva perfettamente cosa
intendesse, in quanto, anche se pareva le loro situazioni difettassero
quanto a
parità, piuttosto erano comparabili, giacché
anche lei aveva affrontato e
superato parecchi frangenti ostici.
“Guarda
che nemmeno il mio è stato un percorso facile.”
Aveva detto districandosi dal suo abbraccio e tirandosi su per
guardarla in
faccia con un cipiglio tutt’altro che amorevole. “E
ti assicuro che lo status e
la ricchezza della mia famiglia non ha fatto altro che renderlo
più duro.”
Al che, messa
al cospetto della sua metà, che altezzosa faceva
affermazioni sociologiche in tenuta adamitica, Haruka aveva fatto
l’imperdonabile errore di sghignazzare sarcastica e
risponderle per le rime. Anche
perché, visto che era chiaro stessero rapidamente andando
incontro ad un battibecco
e che generalmente erano solite risolvere le loro divergenze tra le
lenzuola,
pensò bene di buttare ulteriore benzina sul fuoco. Tanto
erano già in fase
talamo. Che poi Michiru dicesse sul serio o meno era un altro paio di
maniche.
Di certo, si era detta incredula supponendo che enfatizzasse le cose a
dismisura, non c’era da fare paragoni tra
l’infanzia dorata della sua bella e
la trafila di case di contrizione e famiglie affidatarie con cui aveva
avuto a
che fare lei, giusto?
“Perché
un conto è scherzare”, le chiarì
beffarda, inarcando
un sopracciglio e cominciando ad avvertire un certo nervosismo, anzi
diciamo
pure una notevole incazzatura, “ma ben altro crederci
davvero.” Dopodiché, senza
darle neanche il tempo di risponderle, visto che Michiru nel frattempo
aveva
messo su quell’espressione di offesa superiorità
che tanto le dava sui nervi,
con accenti vibranti aveva continuato: “Siamo oneste amore
mio, mentre a te
insegnavano ad usare la limetta per le unghie a me toccava scazzottare
persino
per un tozzo di pane!”
Chiaro quindi
che a questa malsana uscita Michiru, che ormai
sospettava da un bel pezzo che Haruka calcasse a bella posta la mano
sulla
visione dickensiana dell’insieme solo per il fatto che lei, oltre che abbiente, era pure
nobile nascita,
aveva replicato ironica: “E dì un po’
tesoro a te è morto prima il nonno o la
scimmietta? Ah no scusami, ti sto confondendo con il dolce
Remì! Anzi sai che
ti dico? Perché non ti fai crescere i capelli,
così ti fai i codini e puoi fare
pure Candy Candy?!”
“Ma
stai zitta, tu non sai che significa prendersi le
pulci!”
“E tu
non hai idea di quanto sia difficoltoso l’ikebana!”
Da qui in poi
avevano preso ad urlare di brutto, scambiandosi
una lunga sequela di accuse, offese ed insulti assortiti, che tra
l’altro le
aveva portate a tirare in ballo le rispettive discendenze su, su fino
all’origine della stirpe. E a tutt’oggi Haruka
supponeva che, sebbene la colpa fosse
equamente condivisibile, probabilmente avrebbe dovuto metterci nel
mucchio pure
quella sua sempiterna e dannata predisposizione a cercare, sempre e
comunque,
il pelo nell’uovo. D’accordo, ne era consapevole,
ciononostante proprio non ce
la faceva, era più forte di lei e profondamente insito nella
sua più intima
natura. Ma come avrebbe potuto, innanzi alla boiata pazzesca che
Michiru le
aveva buttata lì con convinzione, evitare di mettere i
puntini sulle i?!
Non si
può! Non
potevo! Pensò inginocchiandosi sotto i raggi della
luna.
Già,
non poteva. Ma di conseguenza la sua dolce metà, che
quanto a testa dura, malgrado l’apparenza, le stava
assolutamente alla pari,
aveva pensato bene di lavare quella presunta onta in modo infame. E
aveva avuto
buon gioco a stuzzicarle
l’amor
proprio, nonché il rigoglioso spirito
di competizione che la contraddistinguevano e spesso mettevano in
ambasce, giacché
di punto in bianco se n’era uscita con una proposta
sorprendente.
Di
più, l’aveva fatto facendo balenare quella sua
espressione peculiare, quella che Haruka a sue spese e nel tempo aveva
imparato
a temere e a tentare di non provocare, il che avrebbe dovuto metterla
sull’avviso. Pure, innanzi a quelle sembianze, che quanto più
sembravano amabili e innocenti,
tanto più erano letali e diaboliche, giacché al
sorriso con cui l’omaggiava si
contrapponevano le correnti sotterranee che le serpeggiavano
nell’azzurro delle
iridi, ancora le aveva tenuto cocciutamente testa.
E infatti alla
delicata donzella era bastato un niente per
incastrarla nel più blando dei modi, lanciandole a
mo’ di sfida una
provocazione e di fatto fregandola.
“Sai
che ti dico?” Aveva esclamato appunto, vibrando del
brivido di voluttà assoluta di chi sa di stare
lì, lì per metterlo in quel
posto al proprio interlocutore. “Se il paragone non regge
affatto e la mia
educazione è stata un letto di rose rispetto alla tua,
allora che ne dici di
fare una scommessa? Ti
assicuro cara
che sarà una bazzecola per una donna temprata dalle miserie
e le durezze della
vita come te!”
Aveva aggiunto
poi senza specificare più di tanto che,
quella che poteva sembrare una gara, era invece un ingrato corso di
sopravvivenza. Già e non poteva essere altrimenti,
giacché consisteva nel
vivere un mese a casa Kaioh in modo da poter sperimentare sulla sua
stessa pelle
le medesime tecniche formative, mediante le quali lo stuolo di tate,
maestre,
educatrici e governanti, presiedute da quell’avvoltoio
ingrugnito di sua nonna,
avevano fatto di Michiru una signora. La posta in palio era diventare
in quel
breve lasso di tempo una donna di classe. Oltre al fatto di uscirne
viva
naturalmente.
“Visto
che ritieni siano bazzecole che ti costa?” Ne aveva
concluso buttando lì, con falsa noncuranza, la sua trappola
infernale. Al che,
messa così la cosa, pur subodorando l’inghippo,
Haruka si era vista
praticamente costretta ad accettare. Anzi l’aveva fatto con
fierezza, spiegando
alto il suo vessillo da amazzone invitta, chiudendo gli occhi e
buttandosi
incosciente nel baratro.
E detto fatto,
l’indomani si era trovata niente po’ po’
di
meno che al cospetto del Triunvirato Nero testé riunito da
Michiru. La trimurti
era composta da sua nonna, la veneranda decana Akiko Kaioh-Sama,
dall’istitutrice che l’aveva catechizzata, una che
ad Haruka aveva ricordato
molto la signora Tsukikage de “Il grande sogno di
Maya”, quantunque non fosse
cecata e anzi avesse due occhi da falco predatore, cosa che ebbe a
scoprire a
sue spese successivamente, e infine da Takagi, un’autentica
geisha a fine
carriera per sopraggiunti limiti d’età e servizio.
Un trio che avrebbe dovuto
trasformarla in un’autentica gentildonna, ma che piuttosto
negli intenti di
Michiru sospettava avrebbe dovuto renderle la vita un inferno.
E
così era stato in effetti, giacché da quando
aveva messo
piede nel feudo dei Kaioh quelle arpie non l’avevano mai
lasciata in pace. Alternativamente,
o tutte e tre insieme olè, presiedevano a quelle che loro
chiamavano lezioni,
ma che in sostanza somigliavano molto ad un tribunale
dell’inquisizione. Così
tra arte, poesia, educazione e compagnia bella, avrebbero dovuto
renderla ad un
qualcosa di molto simile ad una dama di
corte. E visto che Haruka era Haruka aveva accettato senza battere
ciglio la competizione
e le crudeltà con cui la vessavano con il consueto slancio.
Ma già dopo qualche
giorno non ne poteva davvero più.
Un esempio? La
composizione di quei maledettissimi Haiku.
Doveva poetare e per farlo la
vecchia la faceva inginocchiare al centro della stanza, ovviamente
inguainata
in un kimono quanto più fiorato possibile, con
l’obi stretto talmente tanto,
che si sentiva schizzare fuori le budella dalla gola.
Dopodiché, bacchetta
minacciosamente stretta in mano, l’ingiungeva di comporre
all’impronta, lasciandosi
ispirare dalla natura.
“Pensa
all’amore.” Diceva la
vecchia, spronandola quando il silenzio si faceva prolungato.
“Sì,
l’amore ai tempi del colera,
brutta puzzona!” Pensava Haruka, giacché la
nonnina sparava delle flatulenze
micidiali ma, siccome era talmente persuasa della sua
nobiltà, era convinta di
cacare coriandoli, perciò laddove tanfo c’era, a
suo modo di vedere, l’unica
imputabile era lei. Ché in quanto plebea poteva essere la
sola in quella stanza
a produrre olezzi immondi. Sia come sia Haruka non poteva certo
ispirarsi a
quel tipo di natura per lasciarsi influenzare dalla musa, per cui aveva
chiuso
gli occhi e ascoltato attenta il rumore della pioggia sulle grondaie.
Al che
aveva ghignato e colta da ispirazione aveva preso a declamare:
Gocce…
gocce… gocce…
Due gocce di
pioggia cadono sulla lamiera
Tikke
takke,
tikke takke
Takke
tikke,
takke tikke
Alla finestra
volto le spalle
Mi si sono
rotte le… orecchie
A questo sfoggio di maestria
compositiva,
perché la vecchia marpiona aveva inteso benissimo cosa
Haruka si fosse rotta,
anzi frantumata, in realtà, il cerbero ingrugnito
l’aveva lungamente presa a
bacchettate sul groppone, smentendo all’istante due false
impressioni: che
fosse minuta e senza forze, invece picchiava più
d’un fabbro, e che una vera dama
disdegnasse l’esercizio delle legnate.
Balle, la
picchiava notte e
giorno come un tamburo, ogni sbaglio era buono per farle una cappotta e
lei all’inizio
ne aveva fatti tanti di errori accidenti! Ma il picco di perfidia
l’aveva
raggiunto quando l’aveva malmenata persino dopo la sua
rovinosa caduta. Dalle
scale? Dallo sgabello? Dalla grazia? Peggio, dagli zori con le zeppe.
Diciotto centimetri
di tacco, manco fossero gli Armadillo di
Alexander
Mc Queen, sui
quali si pretendeva non solo camminasse, ma ballasse pure. Chiaro che
come
aveva solo tentato di muovere due passi era caduta a faccia in avanti e
s’era
pure scheggiata gli incisivi, in quanto le maniche del, sempre
maledetto,
kimono che aveva addosso erano così strette che non era
riuscita a protendere
le braccia per attutire il colpo.
Con Takagi la
geisha poi le cose erano andate un filino
peggio, giacché l’acclamata artista trovava che la
sua danza dei ventagli fosse
più simile all’adescamento di un travestito. Per
non parlare dei vocalizzi
improbabili che intonava qualora doveva accompagnarsi con lo shamisen. E
aveva voglia Haruka a spiegarle che lei non aveva assolutamente
cognizione
dei canti tradizionali. Già, l’unica canzone
vagamente antica che conosceva era
la sigla del Grande Mazinga, perciò le aveva cantata quella,
scatenandone le
ire funeste. Stesso discorso per quanto riguardava il kabuki, ma
lì più che di
mancanza d’espressione o mimica, si era trattato di un
fraintendimento
strutturale, nonché del palesarsi di sentimento autentico.
Del resto, che altro
avrebbe potuto fare, quando sfinita delle continue sollecitazioni ad
esprimere
i suoi stati d’animo con la gestualità compita, se
non far scattare un braccio
e mostrare il dito medio alla donna? Accidenti se non era una
manifestazione
gestuale di sofferenza quella! Peccato che Takagi non avesse affatto
apprezzato,
così come la trimurti al completo non gradiva nessuno dei
suoi sforzi, ivi
compresa la tecnica particolare che usava per darsi il trucco. Beh,
lì non
poteva dar tanto torto alle tre, giacché più che
un make-up si disegnava sulla
faccia dei veri e propri Kandinsky. Anche se il
capolavoro massimo l’aveva
fatto alla menzione del mizuage.
Già,
quando infine aveva capito di che diavolo stessero parlando,
aveva fatto un commento assai salace sul fatto che, per quanto
riguardava
Michiru, non c’era stato bisogno di nessuna base
d’asta. “Kaioh-Sama”, aveva
detto con la faccia da faina, “praticamente me l’ha
messa in mano senza che
dovessi manco chiedergliela!”
Va da
sé che questa chiosa le era costata una gragnola di
mazzate più cospicua del solito, ma che cavolo, almeno la
soddisfazione di
dirle che la sua angelica nipote era una vera zoccola se la doveva
togliere! Anche
perché quell’infame, dacché
l’aveva fatta recludere, non si era affatto
peritata di farsi sentire. Di sicuro seguiva i suoi progressi, se tali
ottimisticamente li si voleva chiamare, informandosi presso le sue
compari, ma
con lei manco un fiato.
Ed era stata
questo in conclusione, unita alla somma delle umiliazioni
e dei limoni amari che le avevano fatto inghiottire fin lì,
a far scattare in
lei una molla. E il desiderio di rivalsa aveva compiuto il miracolo,
tanto che
da quel momento in poi aveva chiuso la mente ad ogni se e ma e si era
impegnata
con tutta sé stessa per riuscire. E stupefatte le tre cesse,
quattro se si
voleva contare pure Michiru, avevano assistito alla sua straordinaria
trasformazione. Ché la rude, irascibile, scalcinata,
scortese, sgraziata, sacrilega
e mascolina virago che era Haruka si era trasformata in un fiorellino.
Oddio, fiorellone
casomai, visto che le proporzioni e stazza erano quel che erano e di
certo non
potevano cambiare, ma ciononostante, addirittura due giorni prima della
data
pattuita, Haruka era arrivata al traguardo che nessuna di loro aveva
mai supposto
potesse raggiungere.
Certo si
sentiva tanto un trans, ma aveva vinto lei.
Ad ogni modo
quella era la sua ultima notte sotto quel tetto
e, salvo per l’attacco d’ira estemporanea avuto
poco prima, fin qui le era
riuscito di tenere a bada la sua contrarietà. Ma ora poteva
lasciarla andare ed
affermare a chiare lettere che ogni cosa in quella stramaledetta dimora
parlava
troppo d’un passato di generazioni che avevano assurto, e
ancora sbandieravano
pretenziosi, un ruolo di casta assai elevato. Ci tenevano da morire a
far
sfoggio della loro superiorità ed era una gran rottura di
palle. E d’accordo
che un tempo tra quelle stesse mura aveva vissuto e imperato uno
shogun, cosa
che da un mese a quella parte le veniva ripetuta ad ogni pie sospinto
fino alla
nausea, ma c’era un limite a tutto. E la pazienza di Haruka,
che mai aveva brillato
per copiosità, era allo stremo.
Per cui
considerò la posizione a picco sulla città
dell’edificio,
quasi fosse un tempio pagano ove idolatrare quei dei in terra che si
sentivano
i Kaioh; ascoltò il sospiro lieve della brezza estiva
sembrava lambire, quasi
senza toccarli, i merli puntuti del tetto spiovente;
immaginò la casa covare su
sé stessa al fine di conservare le millenarie tradizioni e,
nel silenzio antico
e sovrano che vi regnava, facendosi strada attraverso il morbido manto
dell’oscurità, infine la sua voce proruppe
trionfante.
“Ma
vaffanculo!”
Urlò
lasciando che i modulii di quel grido riverberassero
per la casa. Dopodiché afferrò l’opera
immortale di Sei Shonagon, la stessa
sulla quale stava sgobbando dacché aveva varcato quelle
porte, poiché per fare
di lei una vera signora non c’era nulla di meglio che le
squisite annotazioni
della dama di corte dell’era Heian, e le fece fare un
pindarico volo
nell’azzurro fino ad esaurirsi con un tonfo acquoso
là al centro del giardino. Un
tiro mica a caso, anzi. E peccato si trattasse di un’edizione
tutt’altro che
rara, pensò Haruka ghignando. Già, Kaioh-Sama si
era ben guardata da metterle
tra le mani un libro che non fosse altro che brossura economica. Lei
era una gajin, e ad una mezza
giapponese-svedese-americanizzata non si deve rispetto, vero?
Pure, si chiese
sorvolando sul classismo di quella megera, chissà
se quella carogna vetusta aveva considerato le variabili impreviste e
il furore
che a lungo aveva fomentato. Forse no, ma in ogni caso, ne concluse,
probabilmente
le verrà un colpo quando scoprirà che persino un
libricino da pochi yen,
scagliato con forza in direzione del laghetto, ha ucciso sul colpo una
delle
sue preferite e pregiatissime carpe!
“Tié
e carpe la carpa adesso, brutta befana!” Ridacchiò
stagliandosi
nel vano della finestra come uno spirito maligno deciso a vendicarsi.
“Edmond
Dantes mi fa una pippa!” Disse quindi mentre il piano
mefistofelico su cui
aveva meditato nelle sue notti insonni finalmente prendeva forma. Fece
le
ultime opportune telefonate, per assicurarsi che tutto fosse pronto, e
lieta si
congratulò con se stessa perché si stava
risolvendo adamantino in tutti i suoi
dettagli ed incastri.
“Ahahahahahahahah!!!”
Rise sguaiata e sinistra pregustando
la dolce vendetta, tremenda vendetta.
Così
fu che, all’indomani della sua partenza, le sue
aguzzine si ritrovarono incaprettate e completamente abbandonate a loro
stesse
nell’augusta dimora. La servitù era stata
nottetempo congedata, previa una
bella mazzetta in contanti, e nessuno poteva udirne gli strilli mentre
una branco
di babbuini delle montagne devastava tutto. Di più, alcuni
si spinsero pure a
far alle tre delle spudorate avance sessuali.
Del resto
Haruka aveva provveduto apposta a cospargerle
abbondantemente di miele perché ciò avvenisse.
Quanto alle bestie, era da un
bel pezzo che ne aveva concordato l’arrivo, facendone
arrivare una partita
direttamente dalle foreste thailandesi. Perché si sa, quando
sei una stella
dell’automobilismo, pagata molto di più di quanto
potresti spendere
normalmente, qualche sfizio te lo puoi togliere. Soprattutto se hai una
madre
girovaga, hippie e pulciosa che si ritrova agganci e maniglie
particolari in
ogni parte del globo.
Quanto a
Michiru… beh, considerato il concorso di colpa, Haruka
poteva permettersi di essere un po’ più
indulgente. All’apparenza naturalmente,
giacché una tortura psicologica è molto
più fine di una fisica. Per cui, visto
che per una femmina gelosa non c’è niente di
peggio che il sospetto del
tradimento, quello le avrebbe servito. Ma solo il sospetto…
ahah!
Così,
mentre sfrecciava sulla sua cabriolet lungo la strada
costiera, attivò l’auricolare e la
chiamò.
“Pronto
tesoro? Bene, bene. Sì poi ti fai raccontare da tua
nonna… sempre che riesca ad arrivare al telefono
beninteso… niente, niente, poi
capirai… No, non torno per il momento. Perché? Ho
deciso di restare a Kyoto… no,
non è una vacanza… sai cosa amore? Sono riuscita
talmente bene come maiko che
ho deciso di entrare in una okiya per
diventare una geisha professionista… su, su non fare
così! Avevi proprio
ragione comunque eh? E’ dura diventare una signora, ma
finalmente lo sono anch’io…
Michi, ma che razza di modo di esprimersi è questo? Via, una
gentildonna non si
esprime così e, perdona il termine, puttana lo dici a tua
sorella… beh comunque
piantala di urlare, perché tanto adesso ti devo
salutare… ma prima lascia che
ti dedichi un haiku:
Nella campagna
vado
lontano
Mentre tra i
fiori
cresce giallo il grano
A te penso
ascoltando
il cuculo
Cara Michiru
ora te lo
pigli in…
“Ciao
amore, un bacio!” Concluse mentre l’altra la
riempiva
di improperi e maledizioni in modo assai poco femmineo.
N.d.A.
Forse ho
esagerato.
Forse non si
può mettere alla berlina così Memorie
di una geisha, Le note del Guanciale
e My fair lady. Eppure,
quale che
sia il risultato, gradimento o ingiurie, mi sono divertita davvero
tanto! :D
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Capitolo 7 *** Eva contro Eva ***
La
vanità è donna, dice l’adagio.
Giusto,
sacrosanta verità. Soprattutto in alcuni casi.
Peccato
però che, nella loro sconfinata sapienza, nella notte dei
tempi, i saggi che per
il bene dei posteri diedero origine ad utili proverbi e massime, non
avessero
previsto eccezioni al quadrato. Anzi, nel caso di Haruka e Michiru, la
vanità
non andava solo moltiplicata per sé stessa ed il suo
coefficiente d’impatto sul
prossimo, ma addirittura al cubo e con effetti entropici
sull’universo.
Invero,
se quei vegliardi giudiziosi si fossero posti l’assioma
riferendosi a loro due,
femmine non solo conviventi, ma ognuna regina nella sua categoria e
molto restia
a cedere lo scettro, di certo quel particolare proverbio sarebbe stato
un po’
più esplicativo.
Se
ci aggiungiamo poi che la natura malauguratamente, o fortunatamente se
la si
vuole vedere dal loro punto di vista, aveva provviste entrambe
d’un innegabile
eccellenza e quindi ad una preoccupante propensione nel darsi un sacco
d'arie, in
modi del tutto speculari giacché le particolarità
pavoneggianti dell’una e
dell’altra potevano innescare
processi
ineluttabili di distruzione, allora quei vecchietti senza dubbio
più che un
motto avrebbero suggerito ai loro progenitori di non moltiplicarsi o, a
limite,
di sopprimerle alla nascita. Se non altro per il bene
dell’umanità.
Ma
andiamo per ordine, giacché, per raccontare questa triste
vicenda, bisogna
specificare fin da subito che c’è
vanità e vanità. Per cui è bene
esplicitare
immediatamente che quelle di Haruka e Michiru erano assai differenti
tra loro.
La
violinista infatti era dotata d’un tipo di
altezzosità discreta, quasi
impalpabile e a tal punto naturale, da sembrare addirittura assente.
Come dire
che la maggior parte dei suoi interlocutori se ne lasciavano fuorviare
e che ai
più Michiru appariva talmente modesta e alla mano che
sarebbe stato addirittura
una calunnia delittuosa definirla piena di sé. Chiaramente
ciò avveniva perché quest’ultima,
bontà sua, poteva fregiarsi di una bellezza preraffaellita,
tipo madonna con e
senza bambino, e di modi tanto graziosi e delicati da rendere
invisibile agli
occhi ed alle orecchie altrui il suo alto tasso di boria.
Va
da sé che la Vanitosa Delicatessen, ceppo antropologico cui
Michiru apparteneva,
era
normalmente affetta da un bipolarismo alla dottor Jekyll e Mr Hide. Di
conseguenza, sua radicata e inoppugnabile convinzione era di non essere
per
niente fatua. Al
punto che, se la sua
consapevolezza di ciò fosse stata risvegliata, la cosa
avrebbe potuto minarne
seriamente la stabilità.
Quanto
ad Haruka invece, la sua anamnesi di primo acchito appariva assai
peggiore essendo
essa affetta da una sindrome di vanità aggressiva,
soprannominata dagli esperti
del settore con il nome di Sindrome da A.L.O. Ossia
l’Arroganza alla Lady Oscar, giacché se
non fosse stato per il capello corto e la millantata
identità maschile, Haruka sarebbe
stata la candidata ideale a portarne lo scettro di novella emula per il
nuovo
millennio. Ma, al di là delle mere somiglianze fisiche e
strutturali, nonché
della sua propensione a fare il gallo sulla mondezza sempre e comunque
ed
insidiare l’incorruttibilità delle fanciulle
più nobili, la presunzione della
bionda non era altro che il frutto di anni ed anni di complimenti e
lisciamenti
di penne gratuiti e addirittura pretesi. Tanto che, semmai ce ne avesse
avvertito mancanza, la pena fisiologica era una sequela di lamentele
infinite e
di bronci assai difficili da stemperare.
Lapalissiano
quindi che per lei, da sempre pasciutasi alle lusinghe altrui, rispetto
alla vanità
della sua compagna, veniva posseduta da una consapevolezza di
sé bella che
sveglia e che sarebbe molto meglio non mortificare. Altrimenti le
conseguenze non
sono solo sarebbero state uccelli per diabetici, ma addirittura pali
per i turchi.
E per coloro non ne capissero il velato senso, li si rimanda alle
famose
supposte dell’Anatolia, ovverosia quelle inoculate con tanta
delizia dal
Principe Vlad dei Carpazi agli ottomani invasori.
Data
questa necessaria premessa, ciò che di seguito
verrà narrato è la cruenta
tenzone che si scatenò tra Haruka e Michiru a causa dello
scontro titanico tra
le loro disfunzioni radicate.
Era
una giornata come tante e nell’appartamento
dell’amore miss Splendida
Splendente, da sempre convinta di essere fantastica, persino
mentre si toglieva i calli dai
piedoni, fissava sovrappensiero la sua bella intenta ad intrattenere il
presidente di una famosa associazione filantropica e la sua assistente.
Una
volta tanto un simile appuntamento non si svolgeva
nell’ufficio del suo
impresario ma tra le mura domestiche poiché Michiru, quando
si trattava di
beneficenza, tendeva ad essere molto meno formale.
Quanto
ad Haruka, si era attavolata con loro per forza di cose, non aveva
nulla da
fare ed era curiosa, e perciò sorbiva tranquilla il suo
caffè persa nei propri
pensieri. Ciononostante le era palese che i due pendevano letteralmente
dalle
labbra di Michiru e che la guardavano con tanta ammirazione che, una
volta
tanto, escludeva lei dal centro della scena. Quindi, visto che
generalmente
quand’erano insieme era lei l’accentratrice, lungi
dall’adontarsene, per il
momento tentò, stranamente, non di prenderla come
un’offesa al suo amor
proprio, quanto come un’occasione per valutarla con
disincanto, come se le
fosse estranea e quella fosse la prima volta che la vedesse.
“Bona.”
Fu il primo pensiero. “Eccitante.” Il successivo.
“Elegante”. Quello dopo. Poi,
tanto per non smentirsi pensò: “Culo di
marmo.” Ed era inevitabile, dal momento
che Michiru si alzò per prendere altro tè e le
diede la schiena.
E
non si stupì affatto della sua spassionata valutazione
perché, nonostante la
buriana dei primi mesi di passione si fosse leggermente sedata, ma non
tanto da
non darle addosso in qualsiasi momento e ambiente congeniale (dalla
casa al suo
camerino), Haruka non poteva non classificarla con quegli innegabili
termini.
Pure, al di là delle sue compiaciute stime, si disse che
normalmente Michiru
sembrava non dare peso alle sue pregevolezze. Se ne schermiva e
perlopiù le
faceva passare come se fossero banalità. Per la qual cosa,
seguitò a riflettere
la bionda, non senza una punta di stizza irragionevole, in lei
trovavano
terreno fertile tutti gli appaltatori di spettacoli filantropici, i
quali
spesso ne richiedevano la delicata presenza e superba prestazione per
sponsorizzare le loro opere.
“E
chissà”, si chiese fissando l’uomo che
le stava prospettando l’ennesima
esibizione, “se anche sta mummia imbiancata medita gli stessi
aggettivi.”
Indubbiamente,
calcolò, quando Michiru suonava le donazioni si elevavano di
pari passo con l’altezza
delle sue tette. Quindi, ne concluse ghignando, presa dalle sue
meditazioni e
perdendosi parte significativa della conversazione, il principio primo
della
democrazia doveva essere cambiato.
“La
maggiorata vince sempre!” Pensò e
sghignazzò silenziosa, valutando i seni a
coppa di champagne di fronte a lei. D’un tratto
però si accorse che tre coppie
d’occhi interrogativi la fissavano. Evidentemente ad un certo
punto, mentre era
in estatica contemplazione dei capitelli corinzi della sua donna e i
pensieri
le scivolavano in un mondo di piaceri e sconcezze, le avevano chiesto
qualcosa.
Ma cosa?
Diede
un colpetto di tosse per darsi un tono e con la solita faccia di bronzo
cercò
di pararsi le terga chiedendo: “In che senso?”
“Nel
senso”, fece l’anziano benefattore, ma non
abbastanza attempato, pensò Haruka
intercettandone lo sguardo, da non buttare di tanto in tanto
l’occhio al
decolté di Michiru, sebbene nel frattempo le si stesse
rivolgendo col tono che
si usa con i ritardati, “che se lei accettasse la nostra
proposta sarebbe un
bel gesto.”
“Proposta?
Quale Proposta?” Pensò mentre quello continuava ad
errare dalle parti della
scollatura con occhio da rapace. Così, per distoglierne
l’attenzione dalla sua
evidente ignoranza, ma soprattutto dallo scollo generoso di Michiru,
fece finta
di allungare le gambe e gli tirò un bel calcione sotto al
tavolo. Dopodiché,
chiedendo scusa per le sue lunghe ed impacciate estremità,
si rivolse con un
sorriso affascinante
all’assistente del tizio in cerca di ragguagli.
“Ma
di preciso che cosa mi si sta chiedendo di fare?” Chiese
inclinando la testa e
accompagnando il suo sorriso magico ad uno sguardo obliquo che, lo
sapeva
benissimo, faceva tremare gli elastici delle mutande a tutte le donne
dai nove
ai novant’anni.
“Basterebbe
la presenza.” Rispose quella con aria sognante, al che
Michiru, che già si stava
teletrasportando nelle fantasie della segretaria, la quale si stava
immaginando
nel suo triste ufficio, non più tanto mesto, posizionata a
sponda di scrivania
con Haruka che le faceva il servizio completo più gli
straordinari, troncò
bruscamente quel quadretto idilliaco sbottando seccamente:
“Beh ma che
significa? Mica può fare la bella statuina!”
Dettò
ciò e resasi conto di aver perso molto della sua dolce
apparenza,
opportunamente celò il mostro verde dietro una facciata
soave e continuò:
“Haruka al massimo potrebbe fare una comparsata, ma mi
dispiacerebbe molto se poi
che si sentisse del fuori luogo. In fondo non ha nulla per cui esibirsi
in quel
contesto.” Aggiunse con aria partecipe, ma lasciando
intendere a chi la
conosceva bene, che la cosa poco le garbava.
Errore,
imperdonabile sbaglio, giacché niente scatenava di
più in diavoletto bizzoso
che covava nei meandri tortuosi dell’indole iraconda di
Haruka.
Chi
si credeva di essere quella bamboccia per vietare qualcosa a lei?
Pensò infatti
molto più che impermalita. E d’accordo che non
sapeva affatto che accidenti
volessero quei due da lei e che in effetti al massimo poteva suonare i
piattini
in quel gotha di talenti musicali, ma
se
pure si fosse trattato di leggere in yiddish le istruzioni di una
friggitrice
ad un pubblico di scimpanzé, avrebbe accettato comunque. Per
quale ragione? Perché
la sua donna pensava di poterglielo proibire, minchia!
Quindi,
ignorando Michiru come se non avesse proferito parola,
guardò i due ed annuì
meditabonda. “Accetto.” Affermò
guardando sfidante Michiru, inconsapevole ancora
di cosa avrebbe fatto poi una volta sul palco e spalancando le porte di
quello
che poi sarebbe stato un inferno.
“In
fondo”, continuò sempre fissando di tralice a
Michiru, che la guardava
nascondendo a stento l’ira, “un evento che si
rispetti non può dirsi tale senza
di me. E poi“, proseguì senza pensarci proprio a
mitigare la presunzione delle
sue sparate, “se i protagonisti di questo spettacolo sono
esclusivamente
persone dalla indiscussa classe ed eleganza”, e qui
gratificò di un cenno la
violinista che per un momento, uno solo, credette che le si stesse
facendo un
complimento, salvo poi venire immediatamente smentita,
“qualsiasi
manifestazione di questo tipo alla lunga diventa una vera e propria
palla. Due
coglioni così! Accidenti, dopo un paio d’assolo a
base di musica da camera,
dormirebbero tutti e addio pingui donazioni!”
Detto
ciò, finalmente l’uomo si distrasse dai bon bon
magici di Michiru e capì
all’istante l’antifona. Certo non gli era del tutto
chiaro, ma qualcosa dentro
di lui intuì che Haruka si nutriva dell’altrui
attenzione così come i
pipistrelli vampiro delle pampas sudamericane, i quali necessitano
quotidianamente di una quantità di sangue pari al peso del
proprio corpo, sennò
le cellule del loro cervello muoiono. Indi comprese che, con la
presenza di un
simile fenomeno sul palco, quella maratona di bontà avrebbe
avuto una tale dose
di pepe da evitare qualsiasi collasso comatoso. Pertanto la
precettò entusiasta,
ignorando che a quella manovra Michiru ebbe un soprassalto visibile.
“Cooooosa?!?!?!”
Pensò infatti allibita. Dividere la con
quell’egocentrica?! Ma non se ne
parlava! Eppure continuò a sorridere serena a beneficio
degli astanti, i quali
mai avrebbero immaginato quanto le si stava scatenando a quella
prospettiva.
Già,
Michiru, anche se in maniera molto più subdola ed inconscia,
seguiva la medesima
dieta vampiresca di Haruka e di conseguenza esigeva le luci della
ribalta tutte
per sé. Ciononostante non poteva opporsi, pena perdere quel
suo disincanto tutto
acqua e sapone.
Quanto
ad Haruka, non se l’immaginava per niente, era del tutto
all'oscuro del bisogno
di Michiru di essere continuamente incensata. Ordunque, anche volendo
andare a
cercare il pelo nell’uovo, ma pure da qualche altra parte
trattandosi di loro
due, non poteva sapere ciò che le veniva debitamente
nascosto. Anche perché
Michiru asserendo di essere la meno petulante, ovvero
l’adulta della coppia, ne
faceva un vessillo da spiattellarle ad ogni occasione. Certo, dopo sei
mesi di
convivenza Haruka forse avrebbe potuto fare uno sforzo
d’immaginazione,
probabilmente avrebbe dovuto applicare quantomeno la sua profonda,
molto
profonda in alcuni casi, conoscenza dell’intimo femminile per
capirlo da sola.
E presumibilmente le si sarebbe fatto torto nel farglielo notare, anche
se, va
detto, un minimo di galanteria da parte sua sarebbe stata prassi. La
normalità
insomma.
Ma
visto che Haruka era Haruka, davanti ad uno stimolo muto ed indotto,
tipo una lingerie
nuova, o un differente french, un trucco più accurato, un
costume da bagno
tanto succinto da essere inesistente o uno spacco decisamente
vertiginoso,
preferiva che fosse l’arrapamento a parlare laddove un mare
di chiacchiere
perditempo non avrebbero reso altrettanto bene l’idea e
avrebbero posticipato la
calata in posizione orizzontale.
O
in piedi. O in ginocchio. O circense volendo, quando per una felice
coincidenza
si ritrovavano entrambe col medesimo pensierino dopo una lunga seduta
di
stretching in palestra o in piscina.
Comunque
sia Michiru, dacché aveva affidato il suo cuore, e non solo,
nelle grandi mani
di Haruka, aveva visto calare vertiginosamente la sua dose giornaliera
di
moine. Indubbiamente l’allenatore sbavava per lei, ogni
occasione era buona
infatti per prenderle la mano ed aiutarla ad uscire dalla vasca, per
non
parlare della faccia che faceva quando se la ritrovava davanti tutta
bagnata e
coperta solo dal sottile costume olimpionico. Stesso dicasi per i suoi
colleghi
orchestrali, fiori e cotillon abbondavano nel suo camerino e doveva
difendersi
da ogni sorta di serenata, romanticheria dandy e minacce di suicidio,
poiché la
vena fatalista dei suoi colleghi artisti era piuttosto accentuata. I
compagni
di studio poi facevano a gara per sederle vicino, per il brivido,
purtroppo
solo momentaneo, di poterne respirare il profumo e
d’osservarla da vicino.
E guai a camminare in strada, se c’era un
cantiere aperto veniva subissata di fischi e spesso gli operai addetti
alla
manutenzione delle fogne erano finiti a gambe all’aria nelle
chiuse dopo aver
avuto la visione fugace delle sue cosce.
Insomma
da questi, ai ragazzini che affollavano il metrò, su, su
fino ai demiurghi
delle vari filarmoniche con cui si esibiva, i quali nonostante i
capelli
bianchi e le mani tremule, viaggiavano ben forniti di viagra nella pia
speranza
di un suo gradevole assenso, tutti facevano a gara per dirle e
dimostrarle
quant’era bella, affascinante, incantevole e, in definitiva,
gnocca.
Ma
un conto è quando un complimento ti viene fatto da un
maniaco in tuta da
lavoro, divisa scolastica o frak, ben altro invece sarebbe stato se a
sussurrarlo fosse stata la voce suadente di colei che amava e che
magari in
quel momento se ne fosse stata addirittura in posa per lei. Magari
coperta solo
da un solo tralcio di vite come un novello Dioniso.
Ma
Haruka era Haruka e Michiru preferiva di gran lunga non fare una piega,
né lamentarsene,
perché ci aveva messo tanto ad accalappiarla e non voleva
che per una stupida
questione d’amor proprio tutto finisse a ramengo. Senza
contare che le dosi di
sesso selvaggio a cui si era rapidamente assuefatta avevano funto da
repellente
allo scontento. In fondo, si diceva china sul libro di fisica,
applicando quale
ripasso, ma anche come soprappiù, la regola del rasoio di
Occam, poteva essere lo
stesso ad ogni situazione no?
Perciò,
se a parità di soluzioni quella più semplice era
quella esatta, ne aveva
concluso che era molto meglio un orgasmo multiplo garantito,
anziché una lite
basata sulla mancanza di riguardo che caratterizzava Haruka. E per
questo
motivo le acque erano rimaste chete. Ma lo tsunami incarnato da
quell’ingaggio
stava cominciando a montare. Anche se, naturalmente, gli organizzatori
le avevano
assicurato che sarebbe stata la star assoluta della serata. Sebbene,
avessero chiosato
tra il suadente ed il ragionevole, visto che il nome di Haruka era di
primissimo piano come il suo e tale da attirare altrettanta gente, e di
conseguenza altrettanti cospicui fondi, che ne pensava se avesse fatto
da
presentatore alla serata? Loro
trovavano
che quella veste le calzasse a pennello.
Così
una si era elettrizzata e l’altra sdegnata, pur facendo finta
di nulla, ed alla
fine un’entusiasta Haruka aveva accettato e Michiru aveva
cominciato a
masticare amaro.
“Non
le basta fare la civetta con tutto il creato?” Ruminava notte
per notte man a
mano che il giorno del loro duetto si avvicinava. “Adesso
deve venire a fare la
zoccola anche nel mio territorio?!”
E
così fu che quando la famigerata sera giunse la
manifestazione Uniti per
l’Africa fin dalle prime battute prese a tramutarsi in
qualcosa di molto simile
ad una rissa verbale, intervallata da siparietti osé.
Ma
del resto né Haruka, né gli organizzatori, al
momento della stipula potevano
prevedere il macello che sarebbe successo a metterle nello stesso
pollaio, scatenando
la competizione tra l’ego mostruoso di Michiru e quello
altrettanto monumentale
di Haruka. Praticamente Gozzilla contro Gamera.
Così
fu che tutta azzimata, nel suo smoking più abbagliante,
Haruka si diede a
presentare quella serata di gala. Parlantina e verve non le mancavano,
spudoratezza meno che mai. Quindi il pubblico si divertì
moltissimo alle sue
battutine, agli intermezzi spassosi con i vari comici di grido con cui
duettò ed
al sensualissimo tango cui si diede con la vocalist dei Gotan Project
sulle
note di Differente, mentre Michiru dalle quinte faceva finta di provare
mentre in
realtà si rodeva il fegato.
“Se
non le toglie subito la mano dal culo giuro che le spacco il violino
sul muso!”
Pensò al culmine del ballo quando, per l’appunto,
la nostra, onde coreografare
correttamente quella danza sensuale, andava a porre alla cantante una
mano sulle
terga e l’altra ad afferrarle il viso per mimare un ardente
bacio seguito da un
altrettanto plateale casquet.
Va
detto che onestamente lo sbaciucchio più che simulato fu
autentico, ma Haruka
non se ne preoccupò, presa com’era
dall’ebbrezza del momento. E poi, in fondo,
c’erano solo qualche migliaio di persone
nell’auditorium, compresa Michiru, che
l’avevano vista, giusto? Mica tanti in fondo, senza contare
che era di dominio
pubblico la sua passione per quel ballo e per quel gruppo. Era andata a
tutti i
loro concerti su suolo nazionale sì o no? Era finita sui
giornali anche per
questo! E allora? Dov’era il problema??
Ah,
candida Haruka. Donna dalle verità lampanti e dalle
spiegazioni sempre logiche!
Doveva immaginarselo che sarebbe bastato questo ad aizzare
l’ira funesta della
pelide Michiru, non già figlia di Peleo, ma pelide in quanto
le si erano
rizzati tutti i peli dalla rabbia.
Eppure
fece di più, andò oltre, giacché,
quando fu il momento dell’esibizione della
sua amata si profuse per donarle la presentazione più
roboante e spettacolosa
possibile.
“Ed
ora ladies and gentleman, madame set messieurs, signore e
signori”, fece mentre
le luci della ribalta illuminavano lei sola, “ho
l’onore, nonché il piacere di
presentarvi un momento di assoluta
perfezione…” Volutamente qui si
fermò per prolungare fino allo spasmo
l’attesa e quindi continuò magniloquente,
“… un momento che in genere ho il
privilegio di gustare da sola, ma che stasera condivido con
voi… una grande
artista, una grande donna che viene ad offrirci la sua splendida arte
nonché la
sua affascinante persona... signori e signore, le vostre mani devono
darsele di
santa ragione per applaudirla… ecco a voi
Michiruuuuuuuuuuuuu
Kaioooooooooooohhhhh!”
Dopo
questo po’ po’ d’introduzione Michiru
fece il suo ingresso millantando modestia
e sorridendo sobria, quasi a voler contraltare il chiassoso cappello
fattole da
Haruka. Inoltre l’espressione soave ben le occorreva per
celare accuratamente
l’incazzatura che ancora le bruciava dentro per lo
spettacolino di poco prima.
Per cui, quando fu a portata d’orecchio della bionda,
simulò un sussurro grato
e le sibilò all’orecchio un troia di una potenza
tale, che se fosse stato una
pallottola avrebbe potuto stendere un elefante.
Haruka
a quell’appellativo ed al tono di foce furibondo con il quale
era stato
proferito, non perse un grammo di savoirfaire, ma anzi le sorrise
amorevole
davanti al pubblico e prese a riempirla di complimenti, piuttosto che
dare il
via all’esibizione mentre nella cabina di regia gli addetti
si disperavano e
quelli dell’impianto luci non sapevano che fare.
“Guardatela
tutti, quant’è incantevole.”
Cominciò a dire prendendole una mano e facendole
fare un volteggio perché gli astanti potessero rimirarsela
adeguatamente avanti
e indietro. “Non trovate che questo vestito esalti
viepiù la sua bellezza?”
Domandò retorica facendo scorrere una mano sul raso lucido
del peplo che
indossava. Poi prese un’espressione affranta guardandone
l’acconciatura dopodiché,
magnanima, attorcigliandosi una setosa ciocca attorno alle dita,
continuò:
“Peccato che con in capelli tirati su mi ricordi molto Marge
Simpson!”
Un
boato di risate coprì il “beccati
questo!” che le rifilò Haruka a quel punto,
ma Michiru era una donna che aveva molte frecce al suo arco.
“Prego
signori e signore”, fece dolce accostandosi al microfono
quando il fragore
dell’ilarità cominciò a scemare,
“vengo qui stasera a voi per una serata di
musica e magia. Il contrario, vi assicuro, di quel che mi tocca vivendo
con
questo bel tomo.” Fece ghignando e guardandola da sotto in su
con fare
valutativo, mentre il direttore di scena cercava di attirarne
l’attenzione
sbandierando come un disperato il copione. Anche perché
erano in diretta sul
canale nazionale.
Michiru
fece finta di non vederlo, indi girò attorno alla bionda
accarezzandole appena
le spalle e prese a decantare le beltà del suo uomo.
“Bell’oggetto per arredare
la casa, nevvero?” Chiese mentre in sala ricominciavano a
scrosciare le risate.
“Certo voi lo vedete qui stasera bardato a festa. Ma sapeste
che cosa avvilente
è tornare a casa e ritrovarmelo in salotto con le mutande di
lana, i calzini a
metà polpaccio che tristemente pesca da un ramen istantaneo
mentre l’aria è ammorbata
dalle sue ascelle pestilenziali!” Detto ciò
avvicinò l’impertinente nasino
all’insù alla zona incriminata e, per la delizia
del pubblico pagante, esclamò
in un sorpreso:” Accidenti amore, hai fatto la doccia per
l’occasione!”
Con
questo Michiru credeva di averla stesa, ma Haruka era pronta di spirito
e
soprattutto, durante la sortita della sua bella, le aveva giurato una
sanguinosa vendetta, tale da far impallidire Edmond Dantés.
Di
conseguenza, mentre ormai il regista si dava manifestamente a craniate
nel muro
e il direttore di produzione già si vedeva ad elemosinare
sotto i ponti,
sorrise divertita come se quello fosse stato un battibecco ben
orchestrato e
precedentemente concordato.
“Sapete
una cosa?” Fece portandosi sul bordo del palcoscenico e
dialogando col pubblico
come un consumato anchorman. “Michiru Kaioh è un
portento, ha un talento
innegabile, eppure lo coltiva assidua… sempre a solfeggiare,
notte e giorno…
giorno e notte… proprio stanotte sapete l’ho
sentita chiaramente, invece di
dormire stava solfeggiando… addirittura in bagno
pensate… tirava certi do di
petto che tremavano i vetri… accidenti, non lo sapevo che la
crema di fagioli
di miso facesse così bene alle corde vocali!”
Esclamò mentre gli uomini in
platea ridevano sguaiatamente e le signore ostentavano stupore
scandalizzato.
Per non parlare degli addetti tutti che se avessero potuto le avrebbero
fucilate sul posto.
Pure
gli alti papaveri della tv di stato ancora non le avevano censurate,
continuando a mandare in onda il tutto, giacché lo share
stava raggiungendo
delle vette mai viste prima. E
quando
Michiru si portò in avanti intenzionata a replicare e Haruka
gleil’impedì,
aggiungendo un’altra delle sue perle, “Le so fare
anch’io le serate di musica e
magia… infatti dopo che la trombo deve sparire!”,
improvvisamente le famiglie
che erano davanti alla tv videro comparire le vedute nazionali
accompagnate
dalla musica d’arpa de
"Le sonate
di clavicembalo" di Pietro Domenico Paradisi.
Sfortuna
questa che non toccò invece a quanti erano là, i
quali seguirono con pedissequo
interesse, nonché tanta partecipazione, le donne
parteggiando apertamente per
Michiru, gli uomini dichiaratamente per Haruka,
l’alterco colorito che ne seguì.
“A
chi fai sparire immondizia!?”
“A
te imbecille!”
“Perché
non te ne ritorni da quella zotica?!” Sbottò la
violinista puntando il dito in
direzione di Shanaya Yamamay che casualmente era seduta in prima fila.
“E
tu perché non torni da quella tirachiodi di tua
madre?!” Fece Haruka indicando
Sachiko Kaioh che era tornata da Vienna per l’occasione e
pentita assai tentava
di nascondersi sotto la calda coltre del suo visone. Ciò
comunque non le impedì
di vedere la sua leggiadra figliola scagliare il suo preziosissimo
Stradivari
in direzione di Haruka e quest’ultima afferrarlo al volo
perché non si
fracassasse. A questo punto il regista decise di rischiare il tutto per
tutto e
mandò in scena contemporaneamente il corpo di ballo della
delegazione francese,
che entrò a passo di carica mentre l’orchestra
suonava il Can Can, e il soprano
russo Yulia Michova vestita da Grimilde che proprio non sapeva che
cazzo fare
in quel casotto. Di più, con voce stridula attraverso
l’interfono comunicò a
tutti gli altri partecipanti di precipitarsi sulla ribalta,
perciò maghi,
equilibristi, il coro polifonico dell’abbazia benedettina di
Montecassino e
l’intero cast dei teatri Nō, Kyōgen e Takarazuka, tutte
vestite da maschi, si
precipitarono in scena finendo gli uni addosso agli altri provocando
una ressa
che presto degenerò in rissa.
Così
fu che le attrici otokoyaku cominciarono a scazzottarsi con i pii
confratelli,
mentre musumeyaku si presero ad unghiate e tirate di capelli con le
ballerine
francesi che mostravano loro il sedere in segno di disprezzo. Michiru
tirò
appresso ad Haruka tutti gli attrezzi dei giocolieri, facendole un
onorevole
occhio nero con una clavetta, mentre quest’ultima dal
cilindro del mago
continuava ad estrarre conigli e colombe che non le erano per nulla
utili al
contrattacco né la difesa. Intanto i funamboli nel caos
generale rischiarono di
strozzarsi con le loro funi e la cantante cominciò a
bestemmiare, con degli
acuti davvero pregevoli, nel dialetto natale di Minsk.
A
questo punto, disperato il regista fece chiudere il sipari, generando
così lo
sconcerto e la rabbia del pubblico pagante, che in quanto tale voleva
assistere
a quel grandioso spettacolo, che tracimò dalla platea fin
sulle tavole del
palcoscenico in una vera e propria invasione di campo. Vendette
represse e
ritorsioni a lungo covate all’interno dell’alta
società trovarono finalmente
sfogo in quel tumulto, famiglie appartenenti da generazioni alle caste
di
samurai e shogun se le suonarono di santa ragione in nome dei loro avi,
mentre
quelli che discendevano da i ronin fungevano da picchiatori liberi. In
quella
baraonda Michiru andò a caccia di Shanaya per cavarle
finalmente gli occhi,
mentre Haruka dovette difendersi da Sachiko che tentò di
strangolarla con il
suo collo di zibellino.
Il
programma in tv ebbe uno share altissimo, le donazioni fioccarono, ma
l’authority della decenza decretò dure condanne
per tutti coloro. Quanto ad
Haruka e Michiru furono condannate per direttissima a seicento ore di
lavoro
socialmente utile.
E
così, giorni dopo, se ne stavano in tuta da lavoro a
spazzare le strade. I
paparazzi ci andarono a nozze, i fan ne approfittarono per avvicinarle
e tra un
bidone d’umido e uno d’indifferrenziata trovarono
il modo anche di
riappacificarsi tra di loro dopo una settimana di gelo. Tanto, che
quando
arrivò la proposta di replicare il loro magnifico show in
concomitanza del natale,
Haruka non ebbe affatto bisogno di pensarci per declinare la gentile
offerta…
N.d.A.
Arieccomi
dopo una lunga latitanza, vi sono mancata? Azz chi è che mi
ha fatto una
pernacchia?! Scherzi a parte mi scuso, coprendomi il capo di cenere,
con quanti
seguono le avventure di queste due dementi per il tempo lungo per cui
le ho
trascurate. Non è stata una cosa volontaria ma, siccome
spero di esprimermi
sempre al mio meglio, laddove ho creduto di non esserne in grado, ho
preferito
attendere tempi migliori. Percò i mesi sono trascorsi e me
ne sono restata nel
mio antro. Spero tanto che questo ritorno sia gradito e che questa
nuova follia
lo sia altrettanto. Un grazie speciale a tutti quelli che mi seguono e
commentano. ;)
Aurelia
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