Rette parallele

di Aurelia major
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mattutino a due voci ***
Capitolo 2: *** Je ne regrette rien ***
Capitolo 3: *** Piange il telefono ***
Capitolo 4: *** Nei vestiti, nel vento, nelle parole ***
Capitolo 5: *** That's amore ***
Capitolo 6: *** My fair lady ***
Capitolo 7: *** Eva contro Eva ***



Capitolo 1
*** Mattutino a due voci ***


 

 
“A volte la vita con  sue imprevedibili giravolte ti porta là dove mai avresti creduto d’approdare.”

Questo il pensiero di Haruka dopo aver sputato l’ultimo rimasuglio del disgustoso amalgama del quale sentiva ancora l’orrendo sapore in bocca. 

 

“Adesso che succede?” Si chiese Michiru aprendo un occhio e guardando in direzione del bagno. Magari era ancora mezza intontita dal sonno, ma le era parso chiaramente d’udire l’inequivocabile rumore di chi si sta strozzando, immediatamente seguito da una sequela d’improperi a lei diretti e nient’affatto velati.   

 

Haruka poggiò le mani al lavabo, e guardandosi fissa nello specchio soprastante, si di disse che quanto stava scendendo, vorticando per lo scarico, giù fino alle fogne a far compagnia ai ratti, altro non erano che i rimanenti brandelli della sua dignità.

“Quella donna mi sta facendo a pezzi…”

Pensò e, scuotendo il capo sconfortata poggiò la fronte alla superficie fredda ed inanimata, come a cercare nel suo stesso riflesso la forza per sopportare ed andare avanti. Amava Michiru, nessun ripensamento a riguardo, ma, quando accadevano simili cose, si chiedeva se per caso questa non stesse impartendole una lenta e trasversale punizione per i suoi passati indugi e tutto il tempo durante il quale l’aveva fatta trepidare in fremente attesa.  

Maledizione”, rifletté, sbatacchiando gli stipi e perlustrandone le mensole, presa nella caccia che quotidianamente la vedeva alla disperata ricerca dei suoi pochi, miseri e ormai dispersi averi, “sapevo che non sarebbe stata una passeggiata, come pure che la convivenza si nutre di compromessi e vicendevole spirito d’abnegazione. Ma questo è il colmo!”

 

“Ma che diavolo sta combinando?”

Silenziosamente Michiru scivolò tra le lenzuola e a passi felpati si approssimò alla porta. Indispettita per quanto si vedeva costretta a fare, nonché dal fatto che era lì, lì per riaddormentarsi, quando Haruka aveva ricominciato con quel baccano d’inferno, poggiò l’occhio alla toppa e inorridita vide che l’intero contenuto del suo beautycase veniva fatto oggetto d’esperimenti aeronautici. Ad uno ad uno infatti venivano presi, sommariamente osservati e infine fatti volare in direzione imprecisata.

 

“Dove accidenti è il collutorio?!”

Con una manata definitiva Haruka sperperò migliaia di yen di prodotti cosmetici mentre, con le fauci in fiamme, rifletteva sulla natura contraddittoria del legame che la teneva avvinta. E, siccome le ore antelucane si prestano particolarmente bene alle recriminazioni, rifletté sul fatto che ultimamente la sua routine era stata alquanto stravolta. E, intanto che la sua ricerca proseguiva nei cassetti, continuava a ragionare dicendosi che sì, probabilmente la sua precedente vita era fin troppo solitaria e priva d’amore, ma che il ritrovarsi il tubetto di crema depilatoria della sua dolce metà laddove normalmente teneva il dentifricio, e improvvida lavarcisi i denti, la faceva alquanto dubitare della giustezza della sua scelta.

“Perché non si può cominciare la giornata così!”

 

“La solita rincoglionita.”

Pensò Michiru quando afferrò la cagione che aveva scatenata la bestia così presto. E d’accordo, forse non avrebbe dovuto lasciare quella roba a portata di mano, però chi era a lamentarsi al minimo segno di ricrescita? La faceva facile lei, era bionda e fingeva di essere un maschio, quindi come poteva capire? Inoltre una disattenzione poteva capitare, come se poi sua signoria, non più tardi di una settimana prima, non le avesse mosso la medesima obiezione a riguardo. Per cui com’è che era? Se Haruka si beveva le sue lenti a contatto, scambiando il contenitore in cui le aveva lasciate in ammollo sul comodino per un bicchiere d’acqua di fonte, era colpa dello stress. Viceversa, se lei tralasciava di riporre un tubetto, che con tutta evidenza non era dentifricio, sia per l’odore,  che per consistenza, per non parlare dell’evidente illustrazione sull’involucro, era senza fallo una disordinata?

“Se così è, ben ti sta amore mio.”

E detto ciò Michiru se ne ritornò al calduccio.

 

Trovata finalmente la sospirata bottiglia Haruka vi si attaccò come un avvinazzato. E, ingollando il mentolato fluido, non poté far a meno di notare quanto la tinta di quel balsamo per le sue gengive urlanti fosse somigliante al colore dei capelli che tanto le piaceva accarezzare, nonché del vello che Michiru eliminava mediante la letale crema che aveva avuto modo di degustare. Folgorata quindi comprese che il sunto a margine di quella convivenza, altro non era che la labile differenza che intercorreva tra un pelo e un capello.

“E io che sarei, un apostrofo biondo tra una depilata e l’altra?!”  

Si chiese, per poi concluderne che come persona ormai si ritrovava ad essere diventata, né più né meno, il netto risultante tra la gioia d’averla accanto e i fastidi che ne potevano derivare. Una partita doppia insomma, dove il benessere dell’addormentarsi tra le sue braccia veniva equamente bilanciato l’indomani nell’aprire il garage e scoprire che la fiancata della spider era rigata e sverniciata.

Quisquilie davanti all’altare del grande amore d’accordo, ammise sbuffando, “ma certe considerazioni fanno male all’orgoglio e ancor di più all’igiene dentale!”  

 

“Eccola che ritorna.”

A bella posta Michiru fece finta di dormire, come se non volesse essere disturbata, anche se, al primo sentore del ruotare della porta sui cardini, abilmente s’era mossa per far sì che le lenzuola le scivolassero completamente di dosso e apparisse, a chi faceva il suo ingresso, come la versione aggiornata della Maya. Sospirò lievemente e sperò che il volto non la tradisse, mentre tutta una serie di pensieri le attraversava la mente e gli angoli della bocca le si volevano per forza piegare all’insù in un sorisetto di malizia mal trattenuta.

“Che farà adesso?”

 

A passo di carica Haruka varcò la soglia, aveva tutta l’intenzione infatti di farle una ramanzina senza fine per quanto accaduto ma, alla vista di lei che giaceva dormiente, e completamente vulnerabile, tra le coltri, rimase interdetta sull’uscio. Chiaramente non era la prima volta che la vedeva in negligé, anzi, la tigre del materasso ne aveva un’intera collezione da sfoggiare, né considerava soltanto adesso quanto le sue forme fossero diafane e delicate se paragonate alle sue. Ma a quel punto, su due piedi e con ancora un grumo d’epilady incastrato tra i molari,  capì infine quanto fosse solo mera apparenza e chi davvero comandasse in quella casa. Perciò non aveva  assolutamente nessuna possibilità di salvarsi.

 

“Mm, tesoro.”

Mormorò Michiru impunita, dandole una prolungata carezza al volto, quando l’altra, vinta e assai perplessa, la svegliò.

 

“Piccola donna, grandi rotture!”

Sentenziò saggiamente Haruka. Ma non diede voce a quest’intuizione, e porgendole la vestaglia, si avviò verso la cucina ripromettendosi di esaminare bene la scatola e il contenuto prima di mettere su il caffè.   

 

N.d.A.  

Eccomi qui nuovamente alle prese con queste due impedite.

Devo dire che un po’ mi mancavano, oltre al fatto che ogni promessa è un debito e che avevo voglia di divertirmi un po’ a mettere alla berlina tutte le seriosità cui le avevo fatte oggetto in precedenza. Non so dove mi porterà questa sorta di divertissment, giacché nel pieno delle mie facoltà mentali ammetto di sapere dove il tutto comincia,  ma d’ignorare totalmente le infinite variabili che quest’esperimento potrà assumere. Una cosa sola è sicura, impererà un canone inverso dove le sicurezze acclarate in  precedenza verranno sovvertite dal paradosso.

Già che ci sono spendo due righe per gli altri miei lavori in corso.

Per quanto riguarda “Ricordati di me” è prossimo l’aggiornamento, “Andante” invece è una gravidanza un po’ più complicata, ma spero presto di uscire dal mio stallo. Quanto alle “Figlie della tigre”, pure se non sembrerebbe, la cucciolata è ancora viva, tant’è,  pensavo di riscriverla ex novo, in quanto, a rileggerla, trovo l’attuale stesura insoddisfacente. “Osmosi” invece prosegue sul suo binario discontinuo, ma del resto, essendo una serie di storie slegate l’una dall’altra, va bene così.

Infine ne approfitto per ringraziare chi, con la sorprendente richiesta d’un messaggio autografo,  mi ha riempito di soddisfazione, ma pure d’imbarazzo. Giuro, non me l’aspettavo affatto, perciò grazie infinite, poiché per un irripetibile momento  m’è parso d’avverare un sogno a lungo vagheggiato.

Bene, per il momento è tutto e mi auguro che quest’esperimento diverta chi legge nella stessa misura di chi l’ha scritto.

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Capitolo 2
*** Je ne regrette rien ***


 

 

 

 

“Non! Je ne regrette…Non! Je ne regrette rien!”

Cantò sottovoce Haruka tentando d’imitare la dolente cadenza di Edith Piaf.

Chiaramente non era quello il momento di darsi ai citazionismi, tantomeno ai classici della musica francese. Tuttavia, se pensava alla posizione imbarazzante cui si trovava, sentiva crescere rigogliosa in sé la necessità d’una giustificazione cui appigliarsi. Di più, se si soffermava a riflettere su quel che l’aspettava, diventava un bisogno addirittura impellente.

In ogni caso, pur sentendosi ridicola, non era sua intenzione recedere, né muoversi di lì, per cui trattenne il fiato e rimase immobile, in attesa.

 “Perché sono costretta a questo? Perché?!”

Si chiese in preda all’esasperazione e, mai come in quel momento, avvertii   d’essere sull’orlo delle lacrime. Lei, quella tutta d’un pezzo, proprio lei, quella che non piangeva mai.

Pure la vitalità del suo pensiero ancora una volta la salvò poiché, al culmine della crisi, come in una sorta di catarsi, dal nirvana delle cazzate giunse su di lei, calando come puro spirito, una risposta ad illuminarla.

Conosceva pochi proverbi per la verità, ma per sua fortuna non ignorava affatto quello che voleva in amore e guerra tutto concesso. Per cui, pensò per sillogismo, cedere sarebbe equivalso a perdere sia la guerra che l’amore. Giusto?

Giustissimo, tanto che decise seduta stante di riprendere in mano le redini della propria vita e non soggiacere all’altrui volontà.

“Corvo Rosso non avrai il mio scalpo!”

Esclamò invitta, quindi uscì dal bagno e, sprezzante del pericolo, nonché del completo fresco di stiratura che l’aspettava sul letto, percorse il corridoio silenziosamente.

Ora viene il difficile, pensò.

Già, si trattava d’individuare da dove potesse arrivare il suo attacco a sorpresa. Concentrata valutò le alternative: alla sua destra c’era la svolta che portava in cucina, a sinistra le camere da letto, di fronte la sala. Cosa avrebbe scelto Michiru?

Lo ignorava e sentendo crescere la tensione si appiattì fino a diventare tutt’uno con la rientranza della parete. Non c’era da scherzare, anche il minimo errore poteva esserle fatale adesso, ché tra le mura del loro nido d’amore aveva avuto luogo un conflitto tremendo, culminante nella spietata caccia all’uomo in corso. O per meglio dire, alla donna. Ma perché star a sottilizzare?   

 

 Tesoooooooro, dove ti sei cacciata?

 

Con raccapriccio Haruka udì il temuto richiamo farsi più vicino. Quella non era che l’ouverture di ciò che poteva essere la sua caduta dalla grazia. Trepidante ne ascoltò il soave timbro, tentando nel frattempo di cogliere l’eco dei passi felpati che si approssimavano. Quella maledetta furbastra di Michiru aveva abbandonato il suo precedente punto d’appostamento e ora girava a cerchi sempre più stretti in cerca di lei.

Lei, non più amazzone, ma inerme preda.

“A certe cose non ci si abitua facilmente.”

Pensò risentita, ma non doveva distrarsi, poiché il suo rifugio provvisorio  non le consentiva seguire le traiettorie né il progredire della sua aguzzina. In ogni caso comunque era palese il tono sinistro che quell’appello grondante dolcezza celava. Il medesimo, pensò attraversata da un fremito di terrore, che doveva avere la vecchina di Hansel e Gretel.

Pure doveva superare l’impasse di quella situazione precaria, non poteva  trattenersi troppo a lungo nello stesso luogo, perciò, scostando appena, appena il capo dalla parete, si diede a scrutare il pavimento fin dove le riuscì di allungare il collo. Tutto taceva e nulla sembrava cambiato, ma se lo sentiva nelle ossa, stava arrivando a ghermirla.

Sì, stava dirigendosi dalla sua parte. E non era tanto il sesto senso a dirglielo, quanto piuttosto l’assoluta convinzione che, trattandosi di stanarla,  Michiru si sarebbe dimostrata più efficace di un cane da tartufi. 

Creare una diversione l’avrebbe senz’altro aiutata, quindi si tolse una pantofola e la lanciò in direzione opposta alla sua. Una mossa efficace questa, in quanto, appena scorse la silhouette dell’altra far capolino alla curva del corridoio, con uno scatto degno del suo passato d’atleta, s’involò nella direzione opposta, ficcandosi nella prima stanza disponibile.  

“Salva!”

Fece tutt’allegra nascondendosi dietro ad un mobile e, estremamente paga di sé stessa, prese a gloriarsi perché la sua dolce metà, essendo costretta a perlustrare a palmo a palmo ogni angolo, non aveva potuto avere il tempo d’accorgersi della sua scaltra manovra.

Purtroppo per lei però si rese conto fin troppo presto d’aver fatto una pessima scelta, perché, miseria infame, aveva riparato nell’unica stanza della casa sprovvista di  porte comunicanti.

“Porca vacca!”

Pensò mentre il sorriso di trionfo le appassiva sulle labbra per lasciare spazio alla costernazione. Aveva commesso un errore madornale e ormai di vie di fuga non gliene rimaneva che una e una sola. E il peggio era che sembrava Michiru si stesse dirigendo esattamente dalla sua parte.

“A meno che…”

Mormorò voltandosi a fissare intensamente le portefinestre che davano sul terrazzo. Poteva riparare sul loggione vero, fuori però c’erano 4 gradi e addosso non aveva che l’accappatoio. Pure non c’era tempo per gingillarsi e lei non poteva assolutamente arrendersi. Non poteva accidenti!

“Anzi”, si convinse senza darsi il tempo di ripensarci e lasciando scorrere silenziosamente l’anta, “il ballatoio ha un valore aggiunto. Gira tutt’intorno all’appartamento e mi da’ la possibilità di osservarne le mosse non vista. E prevenire è meglio che curare!”

Ne concluse determinata mentre un freddo cane l’accoglieva. Involontariamente rabbrividì, rattrappendosi sotto l’esiguo indumento e accomodandoselo più strettamente possibile addosso, tentò d’incoraggiarsi in qualche modo.

“In fondo, hai visto mai un colpo di fortuna? Semmai dovessi aver freddo, un varco lo troverò per rientrare.”

In effetti Haruka fidava sul dettaglio che in genere entrambe avevano cura di lasciare uno spiraglio aperto per consentire alla gatta di entrare e uscire. Peccato però ignorasse che la sua ancora di salvezza dormiva acciambellata sul divano.   

 

Andiamo Haruka, non fare l’idiota!

 

Vociò Michiru da un punto equidistante, più o meno, stimò Haruka mentre il venticello del nord le solleticava le pudenda, in prossimità della cucina. E infatti non si sbagliava, tant’è che quando si allungò cautamente oltre il vetro della finestra, ebbe tutto l’agio di vederla mentre cercava di snidarla da eventuali nascondigli cui avesse potuto riparare. Spalancò la dispensa, provò dietro al frigo e persino sotto il tavolo abbassandosi di soppiatto ed agitando tra le gambe delle sedie la scopa che aveva in pugno.

 “Ma che m’ha presa per un sorcio?”

Si chiese piccata Haruka mentre, parimenti stizzita, Michiru si fermava a considerare il da farsi fissando l’orologio alla parete.

Era quasi ora di cena, il che voleva dire che cominciavano ad essere veramente in ritardo e, Haruka lo sapeva perfettamente, se c’era una cosa che mandava in bestia la sua dolce metà, era esattamente quella.    

 

Haruka vieni fuori spontaneamente e nessuno si farà del male!

 

L’urlo ammonitore fu appunto la conferma dei suoi pensieri, Michiru era furibonda ed era evidente anche dallo slancio con il quale aveva ripreso la caccia. Uno screening a tappeto praticamente e, a tal punto energico, che le tulle del suo abito si sollevavano per quanto veloce andava.  

Con occhio critico Haruka ne osservò la mise.

“E’ splendida col turchese.”

Non poté fare a meno di dirsi intanto che si soffiava sulle mani  completamente prive di sensibilità. Inoltre, notò con disappunto, per farle piacere quella marpiona aveva persino avuto la faccia tosta di mettersi il pendente che le aveva regalato al suo ultimo compleanno.

Particolare questo che avrebbe potuto farla sentire in colpa se non fosse stato che sapeva benissimo non l’avesse fatto per compiacerla. Tutt’altro casomai, perché quella cura nell’addobbarsi a festa era diretta ad uno scopo che con lei aveva a che fare assai poco e per il quale Michiru aveva avuto persino l’ardire di dirle cosa doveva mettersi addosso.

“A me? Manco fossi una poppante!”

Mugugnò risentita, ruminando disappunto. Niente da fare, non le andava proprio giù e le era al punto indigesto che, voltandosi approssimativamente nella sua direzione e considerando che non l’avrebbe mai saputo, né avrebbe potuto deplorarla in proposito, succintamente le fece il gesto dell’ombrello.  

“Tié”, pensò incattivita, “lo sapevi che non mi andava e hai tentato comunque di fregarmi! Ora t’attacchi!”

A questo punto, avendo espletato questo atto da persona matura e consapevole,  la sua mossa successiva fu di strappare dai vasi in fiore una manciata di foglie e ramoscelli, onde mimetizzare la sua fin troppo visibile chioma, dopodiché cominciò ad avanzare rasente i davanzali progredendo abbassata sui talloni.

Così, di finestra in finestra, assistette ad un addivieni talmente senza senso che  cominciò a chiedersi se per caso Michiru non avesse desistito.

Pensiero questo che successivamente le fece ipotizzare che in quel frangente le sue sinapsi si fossero completamente surgelate, altrimenti avrebbe capito subito quel che l’altra stava facendo e, soprattutto, avrebbe tentato in qualche modo di fermarla.

Ma tant’è, quando ne afferrò il recondito scopo era già troppo tardi.  

Infatti Michiru per prima cosa si diresse all’andito e, una volta verificato che non se la fosse filata alla chetichella, giacché scarpe e soprabito erano al solito posto, aveva provveduto a sprangare l’uscio intascandone le chiavi. Poi, sistematicamente, era balzata di camera in camera aprendone le porte con un calcio, controllando ogni anfratto e infine bloccandone le aperture, esattamente come avrebbe fatto un agente della narcotici a Tijuana.

Peccato le mancasse un fucile a canne mozze tra le mani, pensò Haruka assistendo allibita a quella scena, in caso contrario il quadro sarebbe stato completo.  

Ma aveva poco da fare l’ironica, lo sapeva, poiché tutto quello sprangar usci aveva il solo scopo di metterla in trappola e ora non le restava che operare una scelta drastica per cavarsi d’impaccio: o si buttava di sotto, oppure si rassegnava ad essere presto agguantata e messa di fronte al fatto compiuto. 

“MAI!”

Esclamò pronta a combattere fino all’ultimo respiro ma, quando constatò che l’altra stava attraversando di gran carriera il salotto e puntava dritta al terrazzo, non trovò niente di meglio da fare che nascondersi dietro al ficus nano. E il peggio fu che, per meglio confondersi con l'ambiente, atteggiò pure la posizione di corpo e delle braccia a guisa in quella che supponeva essere la forma d’ipotetici arbusti.

Poteva essere peggio di così?

Si chiese tremando dal freddo, mentre il suono dei tacchi di Michiru avanzava fino ad arrestarsi a pochi metri da lei. Ne seguì un momentaneo silenzio, interrotto poi dal rumore inequivocabile di un piede che batteva impaziente al suolo.

 

Haruka dovresti vergognarti!

 

Si sentì apostrofare intanto che ancora giocava a fare il camaleonte con pessimi risultati. Accidenti, forse tutto sommato il fusto del ficus non era coprente come aveva immaginato. Che fare adesso? Venirne fuori con aria da penitente o sbraitare ancora una volta le proprie motivazioni?

Chissà, in ogni caso tentò d’assumere un’aria il più dignitosa possibile e si fece avanti, anche se, con le labbra blu, le foglie ancora tra i capelli e l’andatura esitante con cui le si presentò, si rese conto di non essere esattamente la quintessenza del decoro.

Tra l’altro, sebbene stesse evitando accuratamente di guardarla negli occhi,  riusciva comunque a vederne le braccia conserte e piglio tutt’altro che amorevole con il quale la stava affrontando. Non c’era pietà nel suo cuore? Neanche un poco?

 

Ora, se vuoi tornare dentro, sai cosa devi garantirmi… In caso contrario, giuro, ti lascio qua fuori a crepare dal freddo senza neppure una scatola di fiammiferi!

 

Evidentemente no, che donna senza misericordia!

A quel punto che poteva risponderle? Certamente non era nelle sue intenzioni far la fine della piccola fiammiferaia, perciò chinando il capo promise, anche se assai di malavoglia.

Con uno strattone Michiru se la tirò appresso e in breve si ritrovò in poltrona, avvolta nel piumone e coi piedi immersi in una bacinella nella quale Michiru, bollitore alla mano, continuava a versare acqua calda.

Naturalmente non che le cure delle quali stava venendo fatta oggetto fossero amorevoli, anzi aveva il vago sospetto che il non essere stata presa ad unghiate avesse come unica motivazione il fatto che sarebbe dovuta essere presentabile di lì a poco. 

Rabbrividì accucciandosi ancor di più sotto la trapunta, sapeva quel che l’aspettava e, nonostante avesse fatto di tutto per evitarlo, infine le toccava comunque.

Poi sentì la mano dell’altra che le si appoggiava sulla fronte e ne scrutò l’espressione preoccupata sentendo rinascere in sé la speranza.

 “Ce l’ho?”

Chiese trepidante augurandosi d’avere un febbrone tale da riuscire a scampare al capestro.  

Michiru volutamente la lasciò a crogiolarsi in quella pia illusione per qualche secondo, poi, prendendole il volto tra le mani e piegandosi fino a trovarsi alla sua stessa altezza, ghignò malefica.

 

Non ce l’hai e ora vai a vestirti…Ma prima mi spiegheresti una buona volta perché ogni volta che mia madre c’invita a cena devi montare tutto sto teatrino?!  

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Piange il telefono ***


“Cosa c’è di peggio”, pensò Haruka, alzandosi e sbuffando infastidita, “del telefono che squilla mentre sei lì, lì per mangiare?”

Di sicuro poteva esserci di peggio d’una chiamata inopportuna, ciononostante, in quel preciso momento, l’incomodo era tale da farle sanguinare il cuore. E non tanto per l’ignoto che la cornetta poteva celare, quanto perché intempestivo lo squillo andava ad interrompere l’indugiare voluttuoso, protratto fino allo spasmo, che precedeva l’assestamento del fatal morso alla baguette farcita che aveva davanti.

In effetti, nei riguardi di quello sfilatino, Haruka si sentiva un po’ come Giulietta che, pensando a Romeo, filosofeggiava al balcone. Del resto, si diceva annuendo compunta, se è vero che una rosa è tale anche se chiamata con altro nome, allo stesso tempo la sua  era una cena e non lo era. O perlomeno, non solo. Eh sì perché giungendo  dopo un'intensa giornata lavorativa, trascorsa perlopiù a digiuno, quello che ad occhi profani poteva sembrare un semplice pasto, era invece il coronarsi d’un sogno lungamente vagheggiato, d’una chimera covata in segreto ed assaporata fino a quell’istante soltanto con la fantasia. E per questo, non appena varcata la soglia di casa, si era prodigata in ogni modo possibile per dar corpo all’ideale. Tanto che ne aveva curato amorevolmente gestazione e nascita, poiché, checché ne dicesse la pubblicità,  una miserabile merendina nulla poteva contro la fame. Soprattutto contro ad una fame atavica come la sua.

Detto ciò facile arguire quindi che, nel momento in cui il telefono trillava, era con sommo diletto che la nostra s’apprestava a celebrare, dello spropositato panino, il rituale di morte e resurrezione. Posto che, per quest’ultima, Haruka supponeva ci volesse qualche istante in più, ma non molto. Giusto il tempo di sintonizzarsi sulla partita e poi, complice la birra facente funzione di prefica col quale intendeva accompagnarlo, ne avrebbe cantato il de profundis con un rutto pieno di soddisfazione.  

Propositi da camionista? Giusto un filo, ma il boato che si proponeva d’effondere sarebbe stato reso ancora più gratificante dal dettaglio che  Michiru era fuori casa da giorni e altrettanti ne sarebbero passati prima che tornasse. Il che voleva dire che finalmente poteva indulgere nel gratificare la propria natura squisitamente animale senza correre il rischio di essere per questo deplorata. Di conseguenza, considerato la totalità delle delizie che la maledetta telefonata stava interrompendo sul nascere, il mix d’improperi e parolacce che le scaturirono dalle sottili labbra, trovavano molto più che una semplice giustificazione. E quindi fu ruminando contumelie che alzò il ricevitore.

“Chi è?!” Abbaiò pronta ad azzannare verbalmente, se non letteralmente, l’incauto interlocutore.

“Risposta sbagliata.” Fece Michiru con un tono tale che ad Haruka parve di vederle mettere su il broncio come se ce l’avesse avuta davanti.

“E che volevi sapere quanti fagioli ci sono nel barattolo?!” Ribatté sarcastica per prendere tempo. Porca zozza, che s’era scordata stavolta? Il loro anniversario? La commemorazione nazionale della giornata del violino, viola e violoncello? La prima dentizione di suo nonno?  L’annuale sagra del tofu sul bassopiano dell’Hokkaido? Ma perché, perché si era scelta una donna che insisteva a complicarle la vita con una serie inimmaginabile di dettagli del tutto superflui?!

“Ci avrei giurato che te ne saresti dimenticata!” Venne rimbrottata  immediatamente, al che, onde scoprire l’arcano e con spirito sacrificato, Haruka s’apprestò alla lapidazione che, lo sapeva, ne sarebbe conseguita. Già, in genere le toccava almeno un quarto d’ora di lamentele e recriminazioni inerenti la sua scarsa sensibilità prima che si decidesse di venire al punto.

“Hai assolutamente ragione.” Assentì con voce da penitente per farla corta e, con sommo spirito di rassegnazione, si riaccomodò sul divano tirando a sé il tavolino su cui era posata la cena. Perché, d’accordo sorbirsi tutta la manfrina, ma aveva intenzione di continuare a rifocillarsi mentre quella la metteva in croce. “Perdonami amore mio, ti prego scusami se puoi.” Aggiunse con accenti patetici afferrando saldamente il telecomando e sintonizzandosi sul primo canale, giusto in tempo per vedere le squadre che scendevano in campo. “Come posso fare ammenda?” Chiese infine mentre partivano gli inni nazionali e stappava la birra.

“Facciamo sesso telefonico?” Fu la risposta che ne ebbe e che rischiò di farla strozzare, giacché dalla sorpresa le andò di traverso il boccone. E fu sputacchiando a coda di pavone che capì che a nulla sarebbe valso obiettare, anche se, nei giorni precedenti alla separazione, di quello gliene aveva data una dose tale da persuadersi che sarebbe stata sufficiente a placarla almeno per sei mesi. Beata ingenuità! Pensò facendosi beffe di sé stessa. Ma come poteva essere altrimenti, visto che, dopo appena una settimana, quella ninfomane vanificava la totalità delle sue prestazioni chiedendole una performance da hot line?

Ora, si disse dopo un’abbondante sorsata, atta sia a mitigare la meraviglia, che salvarla dal soffocamento, non che una sedicente pudicizia le impedisse di prestarsi. Però, chiosò guardando con cupidigia il festino che s’era con tanta cura preparata, poteva mai posporre la cena, scordarsi della partita e rimandare il concerto di flati a cui teneva tanto per darsi ad una simile sceneggiata?  Ma non esiste proprio! Pensò risoluta. E alé, in un colpo solo aveva salvaguardato sia la dignità che l’appetito. Eppure, aveva voglia di sopportarne poi le conseguenze? Se la sentiva di passare attraverso la trafila di ripicche, dispetti e rotture che ne sarebbero conseguite? Ne valeva davvero la pena? Decisamente no, si disse sospirando, anche perché Michiru era un’indiscussa maestra quando si trattava di farle pagare con ogni mezzo il fio di quelle che reputava le sue mancanze. Per cui l’unica era assecondarla e far finta che.

In fondo, pensò Haruka scrollando le spalle e ormai arresa all’idea di simulare la focosità della copula, ogni donna prima o poi ha finto.

Così fu che decisero di comune accordo di mettere giù e ricominciare daccapo con tutti i santi crismi. Va’ da sé che, siccome le sciagure non giungono mai da sole, Haruka era fermamente convinta di poter sostenere quello show seguitando, senza difficoltà alcuna, a fare quanto stava facendo. Tanto che ne poteva sapere Michiru se, mentre ci dava dentro di libido, all’altro capo del filo lei banchettava e drinkettava? Nulla ovviamente. Di conseguenza, quando il telefono trillò nuovamente, Haruka a cuor leggero poté risponderle suadente: “Salve, qui è lo studio del dottor Lingua, come posso aiutarla?”

Ottimo esordio non c’è che dire, peccato che, mentre Michiru le spiegava nel dettaglio la natura del suo problema, illustrandole con dovizia di particolari come soccorrerla, Haruka commise l’errore di mettere il vivavoce. Del resto, come accidenti poteva tenere in mano contemporaneamente cornetta, panino e birra?

“Dì un po’, non avrai mica la tv accesa?” Le chiese Michiru mutando registro vocale. In effetti il timbro passò dal tono de la favorita dell’harem a quello sospettoso di un investigatore del filone noir degli anni 30.

“Macché scherzi?” Replicò impunita l’altra mentre lesta, e solo momentaneamente, depositava sul tavolo le vivande per abbassare il volume. Senza spegnere naturalmente. E come avrebbe potuto? L’attacco patrio infatti aveva appena preso possesso della palla e stava superando la linea di centrocampo. A parte questo comunque, le restava sempre d’occuparsi della sua vogliosa fidanzata, quindi si riscosse un attimo e, affettando una cadenza ardente, per prendere tempo le chiese di descriverle nel dettaglio le sue azioni.   

“Ora mi spoglio…” Le rispose Michiru voluttuosa.

“Sì…” Fece mentre seguiva intenta la serie di dribbling cui si stava producendo il suo attaccante preferito.

“Ho su della biancheria molto sexy e ho caldo, tanto caldo…” Continuò la novella Messalina andandoci pesante quanto a celati sottintesi.

“Sì…” Mormorò Haruka piena d’ansia, non tanto per le aspettative che Michiru credeva di star generando, quanto perché quel cretino si era fatto imballare in mezzo a due difensori.

“Devo toglierla?” Chiese persuasa di star aumentando in modo esponenziale la suspense di quella che credeva essere un’appassionata compartecipe.

“Vai… vai porca puttana, vai!!” Ululò Haruka all’indirizzo del giocatore, che finalmente si era liberato, senza pensare alle conseguenze del suo urlo primordiale. Anzi, quando la palla entrò in rete, si produsse perfino in una sequela ininterrotta di  che infiammarono viepiù la sua bollente interlocutrice. Già perché, sebbene trovasse tutto quell’entusiasmo spropositato, si convinse seduta stante che tale era la mancanza che straziava la sua dolce metà, da infiammarsi d’entusiasmo persino ad un accenno appena, appena succinto. Pensiero questo che la riempì di delizia e la convinse maggiormente a calcare i toni.

“Sono nuda adesso, cosa mi fai?” Chiese invitante come avrebbe potuto chiederlo Lola-Lola in reggicalze e a cavallo della sedia.

“Mmm.” Fu l’oscura risposta che ne ebbe. Naturalmente lo prese per un sensuale invito a seguitare, quand’invece era il mugolato di chi finalmente stava saziando l’appetito. In effetti Haruka stava mangiando con gran gusto e a suo modo davvero stava sperimentando l’estasi. Tanto che, dopo un silenzio prolungato, interrotto solo dal rumore lieve prodotto dalle mascelle che tracimavano, capì che doveva assolutamente uscire da quell’impasse. Purtroppo per lei però non aveva affatto seguito il filo del discorso e non riusciva proprio ad immaginarsi fin dove si fosse potuta spingere Michiru nel suo delirio. Per sua fortuna però un break pubblicitario arrivò provvidenziale a darle manforte, giacché, innanzi ad uno spot dell’ortofrutta ebbe l’illuminazione.

“Che pere!” Esclamò, suggerita sia da quel che vedeva che dal suo stomaco ruggente. “Che spettacolo, me le mangerei.” Aggiunse improvvida staccando vigorosamente un boccone e triturandolo, talmente tanto, che l’eco inequivocabile di quella strage mangereccia giunse anche all’altro capo del filo. In effetti stava producendo lo stesso rumore di un’impastatrice industriale e Michiru, la quale era certa non avessero aperto  un cementificio sugli Champs Elysees, immediatamente subodorò.

“Che stai facendo?!” Urlò intimidatoria dopo gl’istanti di silenzio, atti alla comprensione e carichi di significato, che le erano occorsi a realizzare che l’evidente lussuria, con delizia ravvisata giusto qualche istante prima nella compartecipazione di Haruka, nulla aveva a che fare con lei.  

“Nulla!” Ribatté la sospettata mentre nel suo immaginario la sagoma di Michiru, da senza veli che era, si rivestiva immediatamente del saio vermiglio di Torquemada.

“Balle, tu ti stai ingozzando!” Dichiarò stentorea quest’ultima puntando l’indice accusatore innanzi a sé, come se davvero avesse potuto cavarle gli occhi seduta stante. Ma il peggio fu che in quel momento catartico, durante il quale Haruka avrebbe dovuto impegnare la totalità delle sue facoltà cognitive per trarsi d’impaccio, la sua attenzione purtroppo venne prepotentemente richiamata da un rumore sospetto. E così, mentre tentava di convincere la sua collerica metà d’essere oltremodo coinvolta in quel giochetto telefonico, imbastendo motivazioni mirabolanti tese a difendere l’indifendibile, con un piede cercava di allontanare la gatta che nel frattempo le era saltata addosso, attirata com’era dal profumo del pingue spuntino.

“Ma ti pare che in un momento simile possa pensare al cibo?” Affermò suadente, avendo pure la faccia tosta d’insinuare nella voce una punta di stupore offeso, intanto che posava piatto e bottiglia sulla poltrona e afferrava saldamente la micia per la pelle del collo.

“Haruka dimmi la verità!” L’ammonì a quel punto Michiru, la quale era preda d’un profondo conflitto interiore in quanto, se da un lato era fortemente persuasa di piantarle un casino per quell’evidente presa per il sedere, dall’altro era assai tentata a soprassedere e riprendere da dove si erano interrotte. Magari, si disse tentando di tenere a bada l’impazienza, poteva tornarci sopra più in là e castigarla come si meritava. Ma adesso... Indi e per cui pose la questione in modo tale da salvare capra e cavoli, ovvero, di gratificare corpo e amor proprio indignato.

“Giurin, giuretta.” Fece Haruka ormai talmente in bambola, presa com’era tra svariati fuochi, da non sapere più se badare alla partita, lanciare in terrazza la gatta (che aveva ancora tra le braccia), sollevarsi dall’arsura che la stava prendendo a causa del nervoso (bevendosi tutta una cassa di birra e vaffanculo) o di buttare tutto nella mondezza, telefono compreso.

Per questo, e solo per questo, giacché solo chi davvero ama ha il nerbo di dire l’indicibile, si sentì chiedere dalla gentildonna all’altro capo del filo: “Allora dimmi dove hai le mani!”

 A questo punto, visto che Michiru voleva la verità e che effettivamente dicendoglielo sapeva di farle cosa gradita, nonché di salvarsi dal capestro, fu sincera.

“Nel pelo!” Rispose, omettendo di chiarire che si trattava di quello della gatta. In fondo si trattava d’un peccatuccio d’omissione, ma sufficiente da riportare il sereno.  

“Di già?” Rispose infatti la violinista sorpresa, in effetti, essendo quella la loro prima performance telefonica, non pensava Haruka si prestasse così facilmente e soprattutto si spingesse con tanta velocità in zona Cesarini. Pure così pareva e non poteva che compiacersene. E bontà sua che era convinta di quello giacché, nel frattempo, buttata fuori dalla stanza la gatta, quest’ultima ormai stremata da quella manfrina, lanciandosi cadere di peso in poltrona e dimentica d’averci poggiato vivande e beveraggi, diede un gemito frustrato.

“Tesoro, tutto bene?” Chiese Michiru allarmata.

“Sono tutta bagnata!” Sbottò Haruka fregandosene delle conseguenze, troppo infatti l’aveva shoccata la tragedia di ritrovarsi i resti del suo glorioso panino spiaccicati alle terga. Ma Michiru non poteva sapere, né lei poteva confessarglielo, perciò, quando si sentì dare pure dell’egoista, non le restò che accasciarsi al suolo, prendersi la testa nelle mani e lasciar scorrere amare lacrime di delusione e rimpianto.

“Hai pensato solo a te!” Stava concludendo intanto la sesso-defraudata, al che la nostra, seduta in una pozza di birra, col culo imbrattato di maionese e la serata completamente rovinata, era ormai definitivamente matura per dar voce al sentimento. Perché, d’accordo che le cose importanti son sempre le più difficili da dire, ma per tutti alfine giunge il momento di emulare Kevin Costner e lasciar fluire le parole non dette.

“Michi, gioia”, mormorò infatti con ingannevole calma, “fammi la cortesia”, aggiunse perdendo via, via  la compostezza, “guardati un porno e non mi rompere i coglioni!”

Le intimò e senza attenderne riposta, con somma soddisfazione, buttò giù. Dopodiché staccò telefono, spense il cellulare, la connessione internet,  sradicò il citofono e, tanto per essere sicura al cento per cento, andò pure a sparare ad un paio di piccioni che volteggiavano da quelle parti.

Fatto ciò pareva aver riacquistato una certa tranquillità, ma quando dalla tv riecheggiò la voce di Stevie Wonder e le prime note di I Just Called To Say I Love You, non le restò che sparare un colpo anche a quella.

“Domani me la ricompro.” Si disse mentre si dirigeva in cucina per prepararsi qualcosa d’altro da mangiare, intanto che molti dei suoi condomini provvedevano ad avvertire la polizia.

 

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Capitolo 4
*** Nei vestiti, nel vento, nelle parole ***


Fischiettava e spensierata uscì dall’ascensore con le movenze feline d’un teatrale paso doble. Dopodiché, ritirando lentamente al corpo la gamba flessa, fece perno sull’altra e con un mezzo giro s’apprestò alla porta di casa. Un ghigno premeditato le aleggiava sulle labbra e tra le mani aveva una rosa rosso sangue, il cui stelo aveva accuratamente privato delle spine, intanto che attendeva d’arrivare all’ultimo piano.

Era di ritorno da un set fotografico, dove si era svolta una prolungata sessione di scatti, che avrebbero corredato l’articolo di un noto mensile a lei dedicato. Perciò aveva ancora indosso i ferri del mestiere, il che voleva dire che non avrebbe avuto bisogno di cambiarsi per quel che aveva in mente. Per la verità l’idea le era venuta proprio mentre, di nero vestita, dalle scarpe a punta fino al leggero tratto di matita con il quale la truccatrice le aveva contornato gli occhi, tenendo tra le braccia una modella da capogiro, ballava con lei un’intrigante milonga.

Insomma si sentiva irresistibile ed era pronta a pavoneggiarsi anche più del suo solito. E d’accordo che quel giorno non ricorreva nessuna occasione particolare, né che dovesse farsi perdonare qualcosa,  però aveva voglia di coinvolgere la sua metà in un qualcosa d’imprevisto ed insolitamente romantico. Per cui, una volta tanto, i quattro salti di cui sentiva l’esigenza non erano quelli in padella e neppure sul materasso, bensì letterali. E voleva perdersi con Michiru nelle spire di un torbido tango.

Aveva già in mente persino il vestito che quest’ultima doveva mettersi addosso a tal fine: quello rosso con la scollatura da capogiro sulla schiena. Ovvero, quello che la ragazza aveva comprato da un bel pezzo e che ancora giaceva avvolto nella sua carta velina, perché le aveva impedito categoricamente d’indossare. Del resto era inevitabile giacché, quando Michiru gliel’aveva mostrato, le erano tornate in mente molte delle sue fantasie adolescenziali, soprattutto quelle perlopiù disseminate di pin-up in sottoveste vermiglia. E per questo aveva dato luogo ad una serie d’obiezioni che avrebbero fatto l’invidia di Otello e aveva imposto il suo arbitrario veto, generando l’inevitabile lite. In ogni caso, dopo quella discussione assai accesa, sebbene fossero passati mesi, non ci erano più tornate sopra.

“Ma stasera c’è il condono e per me se lo può mettere!” Si disse aprendo la porta e dirigendosi, ridacchiando, verso la livingroom. Strano, la stanza era deserta malgrado Michiru le avesse assicurato che sarebbe rimasta in casa, ciononostante, dopo un sommario controllo, comunque non la trovò.

“Ahi, ahi.” Pensò fermandosi silenziosamente davanti alla porta dello studio, ovvero il personalissimo sancta santorum di Michiru. Lì suonava e dipingeva e vi si poteva accedere solo se espressamente invitati. Quindi, se si ci era rintanata, non c’era speranza alcuna e le sarebbe toccato di dare irrimediabilmente addio a tutti i suoi progetti danzanti. 

Cauta e facendo attenzione a non far rumore, s’apprestò all’uscio, gettò un’occhiata oltre il battente socchiuso e si fermò a guardarla. Era là infatti, se ne stava in piedi davanti al telaio e sembrava indugiare indecisa. I pennelli erano a mollo nel barattolo dell’acqua, i colori accuratamente riposti nella loro scatola di palissandro e la tela ancora d’un bianco virgineo. Probabilmente stava studiando la prospettiva o decidendo la tinta con cui tracciare le linee base, giacché aveva il capo un po’ di traverso e le vezzose lenti da presbite calate a metà del naso.

Un adorabile insieme che involontariamente le strappò un sorriso, visto che sapeva benissimo che quello non era l’atteggiamento voluto di una snobistica bohemienne, ma la conseguenza d’un imprevisto non calcolato. Già, in effetti Michiru aveva volutamente scelto quella stanza per sé in virtù del suggestivo lucernario che le lasciava cadere addosso copiosa la luce del sole e volentieri se ne lasciava investire. Peccato però non avesse pensato a quanto potesse darle fastidio. Per cui, onde proteggere le sensibili iridi celesti, le toccava assumere quella peculiare ed interlocutoria posa.

Affascinata e dimentica di tutto il resto, ché raro era il privilegio di poterlo fare senza che lei se ne accorgesse, continuò ad osservarla. Ad un occhio distratto Michiru sarebbe potuta sembrare apparentemente immobile ma, nonostante se ne stesse con le braccia mollemente poggiate alla sinuosa linea dei fianchi, le palpebre socchiuse e il volto aureolato dai capelli che aveva lasciati sciolti, lei sapeva invece che in quel momento la ragazza era preda d’una sorta di travaglio. Status questo che la faceva completamente dimentica del circostante, perché completamente concentrata su sé stessa. E a tal fine ispirava ed espirava impercettibile, temporeggiando in attesa che i suoi fremiti più profondi si liberassero e prendessero a dilagare.

“Non è bello che me ne stia qui a spiare un momento così personale.” Considerò sentendosi un po’ in colpa e costringendosi ad allontanarsi, sebbene andarsene le costasse fatica. E, intanto che si toglieva di dosso gli eleganti paramenti che non pensava più utilizzabili per quel giorno, ripensava a quando di comune accordo avevano deciso di convivere. A quel punto infatti gli era parsa la conseguenza più naturale all’evoluzione del loro rapporto. E così, da un giorno all’altro, quando all’epoca era ancora solita definire casa sua, con piglio possessivo, come il mio appartamento, Michiru si era stabilita ipso facto presso di lei. E forse anche per questo motivo inizialmente Michiru si era mossa alquanto titubante tra quelle mura. Appariva a disagio e le chiedeva continuamente il permesso di fare questo o quello. Una situazione difficile da gestire e che aveva preso a cambiare solo quando, con una felice intuizione, ebbe capito di quanto Michiru avesse bisogno di uno spazio solo suo. Perciò, con finta noncuranza, l’invitò a sceglierselo e a farci ciò che più le pareva.  Risultato? Dopo qualche settimana, visibilmente più rilassata e a suo agio, Michiru le mostrò il risultato delle sue decisioni, ovvero, una stanza priva di qualsiasi orpello e dalle pareti lasciate volutamente spoglie, perché il concavo potesse essere colmato dalla sua creatività e i soli colori presenti fossero unicamente quelli affastellati dalle sue mani.

Ripensando condiscendente alla reazione sorpresa avuta in quel frangente, entrò nella cabina della doccia e si disse che probabilmente il suo stupore era dovuto soprattutto al fatto che allora era agli albori della comprensione e dell’innamoramento e perciò doppiamente stranita. D’altronde, ad essere sincera fino in fondo, non si sarebbe mai e poi mai immaginata che le opere di una pittrice, la stessa per la quale accidentalmente aveva perso la testa, potessero nascere traendo forma ed espressione dall’alveo delle percezioni sensibili che Michiru riusciva ad evocare attraverso i sensi in quel vuoto apparente. Certo, con l’andare del tempo aveva imparato a conviverci, anche perché poteva accadere che d’un tratto, senza che nulla fosse all’apparenza mutato o accaduto, Michiru protendesse la mano verso i pennelli e cominciasse a dipingere. Così, di punto in bianco ed interrompendo all’istante qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento. Ne era stata più volte sbigottita testimone, tanto che infine Michiru si era quasi vista costretta a confessarle che spesso, dipingendo o suonando il violino, per non menzionare quando nuotava per ore ed ore in piscina, si ritirava come in una sorta di dimensione parallela, dove poteva avanzare e regredire a suo piacimento sull’altalena del tempo.

Dichiarazione questa che l’aveva colpita come un pugno nello stomaco, giacché era chiaro che in quelle sospensioni oniriche non aveva posto e che mai avrebbe potuto essere là con lei a dondolarsi tra passato e futuro. Naturalmente non gliel’aveva detto, se ne vergognava e non voleva apparirle oltremodo invadente. In ogni caso, dacché aveva realizzato questo alienante concetto e Michiru, col sorriso sulle labbra e l’espressione già rapita, si ritirava in quella stanza per tornare al suo personalissimo universo, ne soffriva e si sentiva dolorosamente tagliata fuori.

“E forse l’invidio anche.” Si disse entrando in cucina e cominciando a tirare fuori le vivande per la cena. Normalmente era l’altra a cucinare, ma, visto che era in balia dell’estro, preferì non disturbarla e se ne assunse il compito. Pure, annodandosi il grembiule alla cintola e sciacquando le verdure nel lavandino, si ritrovò a sospirare triste.

No, pensò riprendendo le fila del suo soliloquio, non era invidia la sua. Eppure il poter escludere tutto quanto non fosse strettamente connesso a sé stessi, anche se per poco, seppure per il solo spazio di uno spartito o di un disegno, era un raro dono. E da qualsiasi angolazione la si volesse vedere, il comportamento di Michiru era comunque un allontanarsi che la metteva a parte. Momentaneo d’accordo, però, finché le loro strade non s’erano incrociate, era stata fortemente persuasa che fosse lei quella che si staccava, estraniandosi e mantenendo le distanze. E invece, guarda un po’? Si sbagliava e di grosso pure. Quindi, checché mostrasse agli altri e soprattutto a colei che amava, la verità era che non ne era più capace. Se mai lo era stata.

“Mi hai messa a nudo Michiru.” Pensò dolente continuando a preparare come se niente fosse e sbattendosene altamente del fatto che le stavano venendo i lucciconi. “La tua anima brilla e così i tuoi occhi, che mi ritrovo a fissare intensamente senza motivo e solo perché sono i tuoi. Quando mi prendi le mani dolcemente mi manca il fiato ed è per questo che fuggo, fingendo un fastidio che m’impongo e che è a me che fa più male, anche se ti lascio credere il contrario. Sei la leva che m’innalza e lo specchio che mi ha ridato il privilegio dei sogni, perché incatenandomi mi hai resa libera, dando un senso a quello che non ne aveva. Per te e con te accanto è come se avessi la forza di scatenare le tempeste e donare pioggia alla terra riarsa. Ti sei impossessata del mio corpo, respiri nei miei respiri e m’hai sfondato il petto e la testa, portandomi tra le onde delle tue emozioni… e per questo, quando ti chiudi in quella maledetta stanza, quando vivi ed esisti nonostante me, indipendentemente da me, io mi sento di morire, anche se voglio di vivere e per farlo ho bisogno del tuo calore!”

Ecco l’aveva ammesso infine e, come temuto, accidenti a lei, le lacrime le attraversavano il viso, picchiettando la tovaglia con la quale nel frattempo, alla stregua d’un automa, aveva imbandito il tavolo. Rabbiosa ci sbatté i pugni e volentieri se ne sarebbe andata anche lei in qualche mondo fantastico. Magari in uno dove poter essere insensibile come le sarebbe piaciuto, lasciandosi scivolare addosso, con un’indifferente scrollata di spalle, ogni sensazione. Facile per Michiru esortarla ad essere meno criptica, dicendole persino che piangere aiutava a crescere. Stronzate, era deleterio e odiava le sue debolezze, questa in particolare, con lo stesso accanimento con cui l’amava. Sgraziatamente si asciugò gli occhi e giusto in tempo, giacché d’un tratto Michiru apparve sulla soglia.

“Non ci posso credere, hai cucinato!” L’apostrofò scherzosa mimando un esagerato stupore.

Presa di contropiede stornò lo sguardo dalla sua traiettoria e subito abbassò le mani per togliersele dalla faccia. Quindi, ficcò la testa nel frigorifero e da quell’anfratto le rispose con una frecciatina acida alludente al fatto che, mentre qualcuna di sua conoscenza si dava alla composizione delle nature morte, per forza a lei toccava di dedicarsi a quelle cotte.

Deliziata da quell’ironia corrosiva Michiru rise di gusto, ma poi, notando infine gli occhi rossi e l’espressione amara dell’altra si allertò. “Ehi che succede?” Chiese facendosi vicina.

“Che vuoi che sia?” Rispose evitandola ed assumendo il solito piglio tra lo scocciato ed il sarcastico.  “Quello che succede quando affetti le cipolle!”

“Sì, eh?” Poco persuasa Michiru fece per ribattere, ma poi, ravvisata all’istante la riottosità che le stava venendo riservata, decise che non era il caso d’insistere. Fece finta di nulla e sorridendo si avvicinò ai tegami che borbottavano sui fornelli. “Guarda, guarda”, aggiunse scoperchiando una pentola e annusandone il contenuto, “allora il profumino che arrivava nel mio studio non me lo sono immaginato.”

“Pare di no.” Replicò distaccata, ma senza riuscire a dissimulare del tutto il risentimento che la sola menzione a quella stanza le suscitava. E per questo di nuovo ne evitò lo sguardo, mostrandosi affaccendata a stappare una bottiglia di vino. Quindi, poggiandosi al piano di lavoro, si riempì il bicchiere e le buttò lì un beffardo: “Allora, quale capolavoro immortale hai partorito stavolta?”

Per tutta risposta Michiru sorrise serafica e si riempì il calice a sua volta, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo decantare e le si accostò. “E’ strano.” Esordì fermandosi ad appena un passo e fissandola intenta. “Avevo in mente di fare tutt’altro, la mia intenzione era quella di dipingere quel tratto di costa che da Kobe s’inoltra verso il mare. Sai, quello con la strada che sembra inoltrarsi all’infinito e le case che degradano verso lo sprofondo. Te ne avevo parlato, ricordi?”

“Certo che me ne ricordo, mi hai fatto una testa così!” Ribatté pungente, voltandosi a bella posta per dare una rimescolata alla zuppa e rifiutando cocciutamente quelle offerte di pace.   

“Invece”, proseguì imperterrita Michiru, “improvvisamente e chissà da dove ho avvertito, vago e appena accennato, un profumo che mi ha fatto cambiare idea. In un certo senso si potrebbe dire che è stato quello a guidare la mia mano.”

“Più che un profumo, doveva trattarsi di una miasma. Perché solo una puzza infernale potrebbe superare le barriere invalicabili di cui è dotato il tuo eremo!” Fece caustica al fine di scuoterne l’imperturbabilità, ma immediatamente venne tacitata da un dito sulle labbra.

“Ascolta fino in fondo Haruka.” L’ammonì paziente, solo per sentirsi ribattere, in modo ancor più impertinente, con un sì, mamma.

“Non ho pensato affatto a quanto stavo facendo, seguivo l’idea portante e basta. Però quell’essenza mi ha ricordato il giardino dei miei nonni e allora ho capito che chiunque fosse a profumare così, era là che mi stava aspettando.”

“Sarà stato l’invincibile Shogun Michi, ché me lo ricordo bene il giardino di tua nonna!” Replicò mordace, ripensando all’atavica oasi della famiglia Kaioh. Un pezzo di terra d’antica genesi e arcaicamente corredato di tempietti di pietra e fontane di bambù, nel quale le era toccato partecipare ad una retriva cerimonia del tè, per la quale l’avevano pure obbligata ad indossare il kimono.  E, visto che per lei quella era la prima volta, aveva trovato sia l’indumento che la postura cui era stata costretta, assolutamente scomodi.

“Già, ma quel che forse non ti ricordi è che, oltre il muro di cinta, c’è una piana erbosa disseminata di poggi.” Le rammentò avvicinandosi ancor di più e ficcandosi, vincendone a fatica la maldisposta resistenza, tra le sue braccia. Poi, poggiandosi di schiena e accoccolandole la testa su di una spalla, l’invitò ad abbracciarla, ché non mordeva mica.

Uno sbuffo scocciato  e una stretta riluttante fu tutto quello che ne ricavò.  

“Dov’ero rimasta?” Chiese senza riuscire a reprimere un sorrisetto condiscendente.

“Ai poetici poggi.” Ribatté con voce soave facendole il verso.

“Giusto. In effetti pensavo a quelli mentre dipingevo, immaginandomi nuovamente decenne nel percorrerli a perdifiato. E sai cosa? Avevo ragione, qualcuno m’attendeva e non ero sola, perché avanti a me correva, scalza e senza meta, un’allampanata figura che pareva avesse le ali ai piedi. Ciononostante, quando si è accorta che la ricorrevo e che non riuscivo a raggiungerla, si è fermata e mi ha aspettato.”

“Io non l’avrei fatto.” Affermò lapidaria e mendace, al fine di smentire qualsiasi sottinteso l’altra volesse darle ad intendere. Pure, esposta al tiro di quello sguardo carico di allusioni, abbassò gli occhi contrita.   

“Balle.”

E con quest’esclamazione Michiru, ruotando nel circolo delle sue braccia fino a trovarsi viso contro viso, lentamente e con enfasi, le avvicinò il naso all’incavo del collo e inspirò profondamente.

“E che tu ci creda o no, è stato un profumo acre di sudore a trascinarmi lì, ma anche a riportarmi qui adesso.”  

E detto questo si staccò, per poi darle un colpetto che l’invitava a spostarsi, per farle tirare fuori i piatti dalla dispensa. Ché non c’era molto altro da aggiungere e, chi voleva capire, stava avendo modo d’intendere.

In ogni caso comunque, quella sera ballarono e, con suo immenso stupore,  Michiru volle danzare tra le pareti spoglie del suo studio.

 

 

 

N.d.A.

Non è colpa mia, anzi si potrebbe dire che hanno fatto tutto loro, prendendo il sopravvento sui miei propositi ridanciani e fidando sulla complicità di un cd degli Avion Travel che ascoltavo in sottofondo. E infatti il titolo prende spunto da un verso di una loro canzone. Che altro posso dire? Vero che questa raccolta è nata sotto il segno del comico e che fin qui si è nutrita di paradossi e farsa grottesca, ma in fondo non penso sia tanto strana questa parentesi un po’ meno gioconda. E, del resto, pure queste due pazze hanno diritto ogni tanto ad un minimo di serietà, no?    

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Capitolo 5
*** That's amore ***


Tranquillità e operoso raccoglimento.

Ecco che cosa avrebbe suggerito, ad un osservatore casuale, la posa in cui Setsuna si rilassava alla fine della sua giornata, quando finalmente chiudeva i pesanti tomi di astrofisica e andava ad accoccolarsi sulla sua poltrona preferita. Dove, paga della quiete di cui si circondava e nella quale prosperava, chiudeva gli occhi e lasciava che i lunghi capelli cadessero a coprirle parte della curva del fianco, intanto che aggraziata poggiava il gomito sul bracciolo e si protendeva verso la tazza fumante di tè appena fatto.

Un giorno come tanti, una sera qualunque nella sua routine. “Che pace.” Pensò e stava giusto portandosi il recipiente alle labbra, quando il campanello fece udire imprevisto il suo trillo.

“Strano.” Si disse andando ad aprire, non aspettava nessuno e in genere le sue conoscenze si premunivano sempre di avvertirla prima di passare a trovarla, ché spesso faceva le ore piccole nel laboratorio dell’università. In ogni caso comunque quella visita inattesa non l’infastidiva e a cuor leggero si apprestò alla porta, atteggiando il volto ad una gradevole espressione di benvenuto. Ignorava infatti che il compimento di quell’atto d’ospitalità avrebbe messo una pietra tombale sul suo riposo, ma ne ebbe le prime avvisaglie quando sull’uscio la sua imperturbabile calma ebbe il primo, di una lunga serie, dei tracolli imprevisti che quella sera il destino le aveva riservato. Pure non fu tanto l’identità del visitatore a sorprenderla, quanto lo stato in cui versava. Tanto che non ci provò neppure a mascherare lo sconcerto innanzi all’inequivocabile avvilimento che fisionomia Michiru denotava e lo sconforto palese dell’amica in un sol colpo la trasportò a ritroso attraverso il tunnel dei ricordi, giù, giù, fino agli albori della loro conoscenza. Già, anche in quel frangente le era piombata d’improvviso tra capo e collo in un giorno di pioggia mentre era intenta a studiare e il bollitore per il tè fischiava.

Comparazione questa che immediatamente mise Setsuna sul chi vive, in quanto, a tutta prima, la congruenza le sembrava fin troppo fortuita per non essere foriera di qualche catastrofe. “Ahi, ahi”, si disse intanto che il sospetto prendeva sempre più piede dentro di lei, “questa visita preannuncia guai”.

Ciononostante non diede fiato alla sue fosche previsioni, ché con quella faccia l’altra di tutto aveva bisogno, tranne che delle sue profezie da Cassandra nel deserto. Perciò sollecita l’invitò ad entrare e, mettendole un braccio attorno alle minute spalle, la sospinse gentilmente, ma con fermezza, verso il divano. Nel frattempo comunque non poté evitare che i suoi pensieri s’involassero in svariate e plausibili tangenti le quali, sebbene assai numerose, inevitabilmente convergevano nel medesimo interrogativo: Che ha combinato stavolta Haruka?

Domanda questa che la portava nuovamente al raffronto con gli avvenimenti del passato come se fosse una sorta di dejavù, salvo per il fatto che ai tempi lei e Michiru erano pressoché sconosciute l’una all’altra, anche se poi il tempo, gli avvenimenti e l’assiduo frequentarsi le avevano rese molto più che amiche.  

“Confidenti sarebbe stata la parola più adatta.” Pensò. “Eppure”, aggiunse, sogguardandola mentre la ragazza inane si lasciava cadere a peso morto sui morbidi cuscini, “sembra così sconvolta da non avere neppure l’energia per reagire.”

Un particolare questo assai preoccupante ai suoi occhi proprio perché, sempre seguitando nel giochino del paragone tra le due situazioni, in quella precedente, malgrado non avessero abbastanza confidenza da rivolgersi la parola, Michiru non aveva avuta nessuna remora a prenderla autoritariamente di petto affinché le dicesse quanto sapeva. Cioè poco e niente, esattamente come allo stato attuale e il fatto che adesso invece non le chiedesse nulla, ma si limitasse semplicemente a cercare il conforto della sua presenza, la metteva oltremodo in ansia.

“Devo piantarla coi corsi e ricorsi storici.” S’impose osservandone lo scarso mordente e l’aria stravolta. Accidenti, appariva intimamente scossa, per non menzionare il fatto che aveva gli occhi pesti come se avesse pianto durante tutto il tragitto che l’aveva portata fin lì. Insomma c’era pressante l’esigenza di mettere le carte in tavola, ma da dove cominciare?

“Quella è pazza.” Affermò Michiru di punto in bianco, togliendola dall’impasse ma mettendola in uno, se possibile, ancora più gravoso. E infatti Setsuna si mosse un po’ a disagio sotto quello sguardo cilestrino, che in quel momento appariva stranamente vitreo. Comunque sia non era tanto l’affermazione in sé per sé a crearle disagio, giacché  il fatto che Haruka fosse una pazza furiosa per lei era un dettaglio da tempo acclarato e addirittura lapalissiano. No, quel che faceva stare sulle spine piuttosto era il timore che quanto stava per esserle rivelato avrebbe potuto metterla nella terribile condizione di  dover schierarsi per l’una o per l’altra. Evenienza che rifuggiva come la peste e che faceva sempre di tutto per scongiurare, portandosi spesso nella traiettoria pericolosa dei piatti che si tiravano appresso, al fine di pacificarle e mantenere intatto il legame e l’affetto che portava ad ambedue.

“Dai.” Si incitò per darsi coraggio e soprattutto perché come al solito, ancora una volta e

nunc et semper in saecula saeculorum, per il bene della patria le toccava prendere il toro per le corna. “Ti va di parlarne?” L’invitò quindi e, come per il sopracitato bovino, quell’esortazione ebbe su Michiru lo stesso effetto di una cappa scarlatta fatta sventolare in Plalza de Toros.

“Prima dammi qualcosa da bere.” Fu la risposta e, visto che Setsuna allungò la mano verso la teiera, sorprendentemente Michiru sibilò: “Non quella sbobba per educande Setsuna, voglio qualcosa di forte!”

“Meno male che sono pronta a tutte le evenienze.” Pensò quest’ultima cercando di non stupirsi, andando verso il cucinino e tornandone con alcune di bottiglie di sake. Un tragitto breve certo, ma sufficiente per fantasticare su una versione di Michiru imbolsita, sciattamente abbigliata e con la bocca spalancata da un riso sguaiato, protagonista assoluta di un festino dove, per la delizia degli astanti, ballava la famosa danza dei ventagli. “Praticamente uguale sputata alla signora Ichinose alla Ikkoku Kan.” Pensò tentando di scacciare il raccapriccio e porgendole quanto le era stato chiesto.

Ma forse chissà erano già entrate in una delle loro fasi di totale simbiosi mentale, giacché Michiru ignorò quell’inutile orpello che era il bicchiere e, proprio come l’ubriacona testé evocata, le strappò il boccione dalle mani e vi si attaccò con foga. A questo punto Setsuna non poté che chiedersi a lei quale parte sarebbe toccata, Akemi o Setsuya? E vallo a sapere, in ogni caso, dopo una sorsata abbondante, Michiru senza ulteriori indugi la fissò con occhi di fuoco e diede fiato alle trombe.

“L’altro giorno sarei dovuta restare a provare in auditorium fino a tardi”, cominciò, “invece avevo dimenticato uno spartito importante e sono dovuta tornare a casa.”

“Non attesa immagino.” Fece Setsuna, andando dritta all’essenziale, persuasa d’aver capito immediatamente di cosa si trattasse e convinta quindi che tentare d’indorare la pillola sarebbe stato del tutto inutile.

“Esatto.” Fu la risposta, dopodiché il silenzio, un tacere che Setsuna percepì carico di significati, tanto che in quella pausa prolungata ci vide suffragate tutte le sue saccenti illazioni e che dovette pungolarla perché andasse avanti. Oltre al fatto che  nel frattempo Michiru s’era nuovamente attaccata alla bottiglia. “Non dirmelo”, esclamò dunque mantenendo la compostezza e il tono autorevole che supponeva si dovesse tenere innanzi a quello che era fuori da ogni dubbio uno scenario adulterino, “l’hai beccata a letto con un’altra?”

“No, peggio.” Replicò Michiru con voce terrea. “L’ho sorpresa con l’uccello tra le mani.”

Inutile dire che sulla placida ragazza questa risposta esplosiva ebbe un effetto a dir poco devastante, tant’è che la sua prima reazione fu di strapparle la bottiglia di modo che anche Michiru potesse beneficiare dello stupore novello nell’osservarla tracannare come un’avvinazzata di lungo corso. Pure non c’era spazio per riflessioni estranee a quella rivelazione e Setsuna, che sperava tanto d’aver capito male e che più di ogni altra cosa non voleva assolutamente immaginarsi la scena di Haruka alle prese con certi… argomenti, chiese esitante: “Era a letto con un uomo?”

“No cara, altrimenti non sarei qui, ti pare?” Rilanciò Michiru con espressione quanto mai esplicativa e lo sguardo leggermente annebbiato di una che è sulla soglia di una solenne sbornia. In effetti non aveva detto a Setsuna che aveva cominciato ad alzare il gomito molto prima che maturasse la decisione di andare a trovarla. In ogni caso la sola menzione del tradimento fu sufficiente a renderne l’angelicato volto in un qualcosa di molto simile a quello di un’erinni, tanto che Setsuna subito intese che nel qual caso Michiru davvero non sarebbe potuta essere là. Già, con Haruka morta ammazzata e giacente all’obitorio, probabilmente sarebbe stata in stato d’arresto, per non menzionare poi la fine cruenta che avrebbe riservato al supposto compagno di merende.

E qui per un folle attimo, dando briglia sciolta alla sua fantasia alimentata a base di innumerevoli thriller, Setsuna presunse che, amante com’era del sashimi, Michiru avrebbe anche potuto ridurre entrambi gli adulteri in tanti piccoli pezzi da mettere in salamoia e da guarnire e aromatizzare successivamente, al fine di gustarseli accompagnati con bella Sapporo gelata. Come Hannibal Lecter praticamente, rendendo lei, nell’atto postumo di andarla a trovare, attraversando il corridoio del carcere di massima sicurezza, una novella Clarice Starling. “Ok, mi ha dato alla testa.” Ammise spassionata prendendo, a scopo terapeutico e lenitivo, un altro sorso copioso dalla fiasca piena di magia. Dopodiché, con la serietà tipica di chi è sul filo esiguo tra l’essere ciucca e coi sensi acutizzati dall’alcool, la sollecitò ad esplicarsi. “E allora scusa, ma di quale uccello stiamo parlando?”

“Dell’ara brasiliana che s’è comprata perché le tenga compagnia mentre studia.” Replicò sdegnata generando nella sua interlocutrice un immenso sollievo, ma soprattutto una grassa gragnola di risate. “C’è poco da ridere”, continuò stizzita, “mettiti un attimo nei miei panni e dimmi come ti sentiresti tu se la persona che si professa innamorata di te preferisce accompagnarsi ad una bestia piuttosto che a te! E per inciso, l’ha pure battezzata Saudade quella deficiente, spero tanto che la gatta se la mangi accidenti a lei!”

“Non lo so”, riuscì a balbettare Setsuna preda com’era della ridarella, “penso solo che il pappagallo ci metterà meno tempo di te a ripetere tutte le parolacce che sente!”

“Okay, lasciamo perdere per un attimo questa cosa.” Propose nel tentativo di riportare la conversazione su di un binario di serietà ed agitando la mano allo stesso modo che avrebbe usato per scacciare una mosca. “A questo punto è meglio che ti racconti tutto, sennò passo io per la squilibrata della situazione.”

“E lasciamo perdere l’uccello, tanto ormai ne abbiamo fatta una filosofia di vita.” Replicò Setsuna giocando coi doppi sensi e alludendo parimenti al fatto che la cronica mancanza di tempo l’impediva di cercarsi un fidanzato, ma l’altra era troppo presa dai propri crucci per badarci e non colse.   

“Suna amica mia”, cominciò accorata Michiru, alla quale l’alcool faceva l’effetto di renderla viepiù veemente nel pigiare sull’emotivo, “tu sai quali e quante fantasie abbia avute su Haruka finché non ci siamo messe insieme.”

“Come no”, rispose dandole una vigorosa pacca sulle spalle e, visto che già gli antichi romani duemila anni prima avevano enunciato che in sakè veritas, non ebbe nessuna remora a spiattellarle come la pensasse a riguardo, “e se è per questo ancora continui, facendomi due marroni così.”

“Per forza!” Replicò Michiru con enfasi, sbattendo il palmo sul tavolino in mezzo a loro. Dopodiché sbottò in un succinto e assai poco elegante porca zozza giacché s’era fatta male. “E’ sempre così indecifrabile accidenti a lei!”

“Uhh e quale abisso di mistero hai scoperchiato vivendoci assieme?” La rintuzzò Setsuna ormai nuovamente preda della ridarella, un po’ per quel che aveva appena visto, ma soprattutto perché era in piena fase allegrotta. In effetti si stava divertendo tanto e si rammaricò assai di non aver a portata di mano una telecamera con cui immortalare l’amica che, impeccabilmente vestita e pettinata con la sua apparente aria snob, trincava ed imprecava peggio d’uno scaricatore di porto.

“Non t’immagineresti mai, Suna, mai!” Proruppe a questo punto Michiru che, diversamente da lei, era nel gorgo della sbronza triste e perciò molto facile alla commozione. E infatti fu scoppiando a piangere che le si gettò tra le braccia, allorché Setsuna per solidarietà l’abbracciò e cominciò a frignare con lei.

“Che ti ha fatto quella carogna? Dillo a Setsuna tua!” Esclamò come nelle migliori sceneggiate napoletane.

“E’ una maniaca fissata! Conosci qualcun altro che tiene le sneakers allineate su una mensola secondo l’uso che ne deve fare? E guai a spostargliele, mi fa delle storie esagerate se mi azzardo!”

Non esagerava, in effetti Haruka davvero soleva disporre le sue scarpe mediante una millimetrica precisione, determinata non solo dal colore e dal modello, ma anche dal grado d’usura e d’impiego. Tant’è, nella sua stanza aveva appunto una serie di ripiani ove facevano bella mostra di sé scarpette da corsa, da marcia, da bici, da moto, oltre ai geta dei quali andava fierissima e che ultimamente usava per casa, facendo rimbombare i suoi passi fin al piano terra. In effetti qualche inquilino già aveva cominciato a lamentarsi per quel ciabattare che gli risuonava alle orecchie con lo stesso clangore di una trottata di cavalleria.

“E fosse solo quello.” Singhiozzò Michiru determinata ormai a vuotare il sacco, ché il tormento per quanto stava andando scoprendo dacché avevano casa assieme, non le dava più pace. “Da quando ha cominciato a studiare per quei maledetti esami d’ammissione al MIT è nervosa peggio di una gatta incinta e sai cosa fa quando si vuole prendere un momento di relax?”

“Si mette a testa in giù e fa le spaccate?” Congetturò Setsuna carezzandole la testa e ripescando dalla memoria una delle abitudini che d’Haruka più l’avevano sconcertata  quand’ancora vivevano insieme negli States. 

“Sì anche.” Rispose sbrigativa, come se l’amica avesse menzionato un’abitudine talmente normale da risultare trascurabile nel dettaglio. “Ma non è questo il punto, perché dei del cielo, se hai in casa me a tua completa disposizione, e capiscimi bene che intendo dire con la locuzione a completa disposizione, ma porca vacca come minimo pretenderesti un’orgia di coccole, giusto?!”

“Troppo semplice come spiegazione.” Ponderò Setsuna annuendo a più riprese, non tanto per la saggezza dell’ammonizione, quanto perché le girava maledettamente la testa per tutto il sakè bevuto fin lì. Inoltre, considerato l’effetto che le stava facendo, a quel movimento ondulato cominciò a prendere un colorito verde, indi dovette smetterla malgrado l’aria assennata che le dava. E quando si fu ripresa un tantino dal voltastomaco continuò: “E invece che fa la nostra eroina?”

“Ancora scarpe, ti rendi conto? Tira fuori tutte quelle che ci sono in casa e si mette a lustrarle manco per vivere facesse lo sciuscià! Ti giuro, per settimane ho continuato a chiedermi com’era possibile che me le ritrovassi sempre lucidate a specchio nonostante non le pulissi mai. Poi una notte mi sono svegliata, nel letto non c’era e l’ho trovata al tavolo della cucina che spazzolava e ci dava dentro. E il bello sai qual è?”

“Che si veste e si trucca da cantante dei Kiss quando lo fa?” Ipotizzò Setsuna alla ricerca della soluzione più assurda. In effetti, le suggerirono le voci di dentro che i fumi alcolici le stavano evocando, precettando Michiru, lei stessa ed Hitomi, al prossimo Halloween avrebbero potuto interpretare la band al completo.   

“Peggio, dopo aver studiato si ripassa gli argomenti lavorando a maglia!” Sbottò Michiru  ripensando a quando aveva scoperchiato quest’ennesimo altarino. E grande era stato il suo sconcerto quando se l’era trovata davanti che sferruzzava matematicando. Certo, da quando era cominciato il tour de force di Haruka sui libri stava godendo di un inconsueta generosità manifatturiera da parte sua. Ché studiando, studiando le aveva sferruzzato  una sciarpa, un maglione dal complicato intreccio e persino un bel paio di mutandoni di lana, hai visto mai ci fosse l’eventualità che tenesse un concerto pro orsi bianchi al Polo? Certo, pensava, un regalo è sempre bello per chi lo fa e per chi lo riceve, pure questa mania dell’apprendimento tramite il lavoro a maglia stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di conversazione tra loro. Infatti negli ultimi tempi, qualsiasi domanda le rivolgesse, veniva zittita inevitabilmente con un: “Per favore Michi, sto contando le maglie.”

“Ti rendi conto Suna?!” Chiese senza riuscire a reprimere un singhiozzo il quale, più che di pena amorosa, era dovuto al fatto che ormai avevano dato definitivamente fondo alle bottiglie.

“Eh vabbé dai, in fin dei conti si tratta di una cosa innocua.”

“Innocua un corno! L’altro giorno siamo scese a comprare i giornali e quella svergognata dell’edicola quando le ha chiesto di darle Confidenze sai che le ha risposto? Che ha il culo scolpito nel marmo!”

“Non sarà mica la prima allupata che le fa un complimento sconcio, ormai avresti dovuto farci il callo.”

“Forse, ma io rivoglio la mia donna! Quella che mi mollava con tutti i piatti da lavare perché aveva voglia di farsi un giro in moto e assolutamente per i fatti suoi! Rivoglio quella che al massimo mi grugniva buongiorno al mattino e mi ringhiava di non romperle alla sola menzione dell’immondizia da portare dabbasso! Ma soprattutto rivoglio quella che invece di vestirmi di lana merinos, mi faceva la lingerie a coriandoli nei momenti meno opportuni! Non mi piace questa versione casalinga disperata Setsuna, rivoglio la bastarda senza creanza di cui mi sono innamorata e me ne frego se questo significa che verrà bocciata, minchia!”

“E allora andiamoglielo a dire!” Esclamò invitta, scoppiando in un applauso spontaneo al culmine di quell’arringa. E Michiru, ormai completamente incapace di connettere, ma  soprattutto talmente annebbiata da non cogliere le conseguenze derivanti da quanto stavano per fare, entusiasta approvò.

Così fu che le due furono caricate da un taxista il quale, impietosito dalla deboscia di quelle che era più che evidente fossero delle ragazze di ottima famiglia alle prese con la loro prima sbronza, le portò attraverso la città e poi addirittura fino all’ascensore del palazzo. Lì poi si soffermò a raccomandarsi caldamente col portiere al fine che  s’accertasse arrivassero a casa sane e salve, ma  pure non dessero fuoco all’intero stabile. Non che l’uomo fosse un malpensante, anzi in linea di massima era una persona tollerante e che soprattutto si faceva gli affari suoi, ciononostante dopo l’incessante blaterare che gli era toccato sentire durante tutto il tragitto, voleva essere certo che quelle due non causassero altri danni all’umanità. Quanto al portiere e la mission impossibile che gli era stata affidata,  chiaro che non poteva portarle fin tra le coltri e rimboccar loro pure le lenzuola, però tentò di fare del suo meglio accompagnandole nell’ascesa fino all’ultimo piano e, visto che ormai aveva afferrato di chi stessero parlando e in che termini, gli parve di afferrare appieno la reale portata della ciucca che teneva avvinte quelle isteriche. Haruka Tenou il pilota sciupafemmine che si comporta come una dama di San Vincenzo? Che razza di fregnaccia! Pensò ridacchiando della stupidità femminile e poi, visto che le accurate esplorazioni speleologiche di Michiru nella sua borsetta non riuscivano a cavarne fuori le chiavi e che lui si era decisamente rotto le scatole di star lì ad aspettare come un cretino, con decisione pigiò il campanello, nella speranza che l’idolo di tutti i macho fosse in casa.

C’era ovviamente e quando, ancor beata nella sua ignoranza, Haruka aprì la porta si ritrovò davanti uno scenario che neppure nei suoi incubi peggiori avrebbe potuto immaginare, ché spostando lo sguardo stupefatto dalla figura del portiere ghignante a quella di Setsuna che la guardava con aperta sfida, sebbene fosse piegata in una genuflessione innaturale sulle gambe dischiuse a X, per finire su Michiru che col rossetto sbavato e i capelli da facocero le inveiva contro con parole incomprensibili, meditò per un attimo di chiudere la porta e far finta di non conoscerli.

Ma non poté, anche perché la donna di cui era innamorata con un Prendimi a pesci in faccia come una volta carogna! le stava praticamente ordinando di trattarla male se ancora l’amava, intanto che il portiere del suo palazzo le stava suggerendo di contenerne gli atteggiamenti licenziosi con un garbato Signore meglio che non la mandi più da sola in giro la sua fidanzata, per finire con la sua migliore amica che la stava decisamente esortando a darle rapida un paio di ceffoni e a togliersi di torno perché aveva urgente bisogno della toilette intimandole Picchiala e fammi andare al cesso Haru!. Tutto ciò mentre il pappagallo, oltremodo innervosito da quella cacofonia, faceva piovere su di loro a raffica l’ultima parolina che aveva imparato. Per cui, mentre Saudade continuava a ripetere Coglione! Coglione! dall’alto del suo trespolo, cosa poteva fare Haruka se non congedare cortesemente l’uomo e prendere quelle due per la collottola al fine di metterle immediatamente con la testa sotto l’acqua fredda?

Nulla appunto, salvo far loro una cagnara senza fine, per poi andare a rompere il muso al portiere spifferone, quando l’indomani si ritrovò etichettata come una vera e propria mammoletta e con l’intera faccenda, oltremodo romanzata, scritta pari pari sulla cronaca pettegola del giornale del mattino.

Morale della favola? Nelle settimane che seguirono, col diradarsi della mole dello studio, anche le sue manie si affievolirono e pian piano tutto tornò alla normalità. Quanto alle due baccanti poi, da quella sera evitarono accuratamente qualsiasi alcolico, sia perché il solo odore le nauseava, ma soprattutto perché avevano impressa a lettere di fuoco nel cervello la promessa che Haruka aveva fatto loro mentre pareva volesse affogarle sotto il getto della doccia. Ché semmai le avesse beccate a bere, aveva giurato strapazzandole esattamente come Michiru aveva desiderato facesse, le avrebbe prese a schiaffoni a due mani finché la somma non sarebbe diventata dispari. Insomma, fattisi due conti, Michiru e Setsuna capirono che in fondo anche quello era amore. 

 

 

 

 

N.d.A.

Beh, quasi mi verrebbe da dire bentornata stupidaggine! Ma, celie a parte, sento di dover fare  una piccola precisazione, giacché presumo che chi non abbia letto le precedenti avventure cui ho fatto protagoniste queste due mentecatte, alcuni passaggi potrebbero risultare ostici. Indi rimando chi sentisse l’esigenza di un chiarimento in proposito al capitolo 14 di “Ipotesi per un ritratto a colori” sperando che non suoni quale pubblicità occulta. Quanto all’espediente della storiella becera dell’edicolante e della rivista Confidenze mi si perdoni l’abuso in virtù del fatto che quest’ultimo capitolo prende spunto esattamente dal rammentare questa barzelletta che faceva furore ai tempi della mia infanzia. Il che la dice lunga sulla cialtronaggine dei fervori creativi che m’ispirano… ;)  

 

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Capitolo 6
*** My fair lady ***


Era consapevole do star camminando sul filo sottile dell’esaurimento nervoso, lo sapeva, eccome se lo sapeva. Parimenti, al di là di ogni ragionevole dubbio, era cosciente che per lo stato miserabile in cui versava attualmente non poteva  dar la colpa a nessun altro che non fosse sé stessa.

Voltò il capo per dare un’occhiata circolare alle pareti anguste della sua cella,  valutò il modo ridicolo cui era stata costretta a conciarsi e, tentata dalla voglia di prendersi a schiaffi da sola, si chiese ancora una volta perché, accidenti alla sua testaccia dura, non imparava ad essere più conciliante e far finta di nulla.

Se l’avesse fatto per un mese non sarebbe stata privata della sua casa, dei suoi vestiti e, cosa fondamentale, di starsene beatamente a cavalcioni tra svariate culture, così come aveva sempre fatto.  

“Sono stata una vera imbecille.” Si disse e, contemporaneamente, scordandosi che era di delicata fattura, a causa dell’ira a lungo repressa diede un calcio al tramezzo che separava la sua stanzetta dal corridoio, mandandone in pezzi l’intelaiatura di legno e carta. Ecco ben gli sta! Pensò fregandosene se in tal modo avrebbe dato al vecchio cerbero un’ulteriore scusa per darle addosso. “Eh già”, proruppe quindi a voce alta stavolta, inalberando una smorfia risentita e agitando il pugno in direzione imprecisata, “la frutta non cade mai troppo lontano dall’albero, vero?!”

Pure, si disse tentando di darsi una calmata e dando la stura alle domande postume, sarebbe stato davvero tanto difficile da parte sua assentire e sorvolare per una volta, una soltanto, sulle immense puttanate che spesso Michiru esternava? Porco mondo, perché proprio non le era riuscito di dirle: sì amore, hai ragione tu, hai davvero avuto un’esperienza tremenda?

Se l’avesse fatto si sarebbe risparmiata il calvario di quelle settimane, pure, ora che ne era a un passo dalla conclusione, comunque restava della sua idea iniziale. Non avrebbe potuto.

Perché dinnanzi a certe assurdità non si può!  Sbottò una voce prepotente dal suo essere più profondo. Dopodiché la medesima voce, tuonando e rimembrando il punto di non ritorno della genesi del suo travaglio, soggiunse: Perché se è vero che c’è il silenzio degli innocenti, il suo è stato di sicuro il casino dei colpevoli!

Ed ecco com’erano andate le cose.

Stavano conversando cuore a cuore sul divano, preda di quel relax che segue un amplesso particolarmente ben riuscito e fecondo, scambiandosi quelle confidenze tanto più frivole e zuccherose di quanto comunemente piaccia ammettere. Così, in balia di quell’umore benevolo e incalzata dalle domande di Michiru in materia, ché pareva non ne avesse mai abbastanza di ficcare il naso in certe faccende, si era lasciata andare a tutta una serie di memorie inerenti il periodo della sua pubertà. Cosa che non mancava mai di renderla eccessivamente compiaciuta di sé stessa, giacché riteneva le difficoltà affrontate prima, durante e dopo l’abbandono di sua madre, prove forgianti cui avrebbero anche potuto schiacciarla, se non fosse stata la persona forte e meravigliosa che era.

Okay, rifletté al ricordo tentando di fare sinceramente mea culpa, forse aveva peccato un filino di vanagloria, ma Michiru non asseriva d’amarla anche per questo? Invece, visibilmente piccata, quasi il suo fosse stato un discorso fatto nell’intento di sminuirla, aveva controbattuto a quelle asserzioni uscendosene con  l’affermazione che capiva perfettamente cosa intendesse, in quanto, anche se pareva le loro situazioni difettassero quanto a parità, piuttosto erano comparabili, giacché anche lei aveva affrontato e superato parecchi frangenti ostici.

“Guarda che nemmeno il mio è stato un percorso facile.” Aveva detto districandosi dal suo abbraccio e tirandosi su per guardarla in faccia con un cipiglio tutt’altro che amorevole. “E ti assicuro che lo status e la ricchezza della mia famiglia non ha fatto altro che renderlo più duro.”

Al che, messa al cospetto della sua metà, che altezzosa faceva affermazioni sociologiche in tenuta adamitica, Haruka aveva fatto l’imperdonabile errore di sghignazzare sarcastica e risponderle per le rime. Anche perché, visto che era chiaro stessero rapidamente andando incontro ad un battibecco e che generalmente erano solite risolvere le loro divergenze tra le lenzuola, pensò bene di buttare ulteriore benzina sul fuoco. Tanto erano già in fase talamo. Che poi Michiru dicesse sul serio o meno era un altro paio di maniche. Di certo, si era detta incredula supponendo che enfatizzasse le cose a dismisura, non c’era da fare paragoni tra l’infanzia dorata della sua bella e la trafila di case di contrizione e famiglie affidatarie con cui aveva avuto a che fare lei, giusto?

“Perché un conto è scherzare”, le chiarì beffarda, inarcando un sopracciglio e cominciando ad avvertire un certo nervosismo, anzi diciamo pure una notevole incazzatura, “ma ben altro crederci davvero.” Dopodiché, senza darle neanche il tempo di risponderle, visto che Michiru nel frattempo aveva messo su quell’espressione di offesa superiorità che tanto le dava sui nervi, con accenti vibranti aveva continuato: “Siamo oneste amore mio, mentre a te insegnavano ad usare la limetta per le unghie a me toccava scazzottare persino per un tozzo di pane!”

Chiaro quindi che a questa malsana uscita Michiru, che ormai sospettava da un bel pezzo che Haruka calcasse a bella posta la mano sulla visione dickensiana dell’insieme solo per il fatto che lei,  oltre che abbiente, era pure nobile nascita, aveva replicato ironica: “E dì un po’ tesoro a te è morto prima il nonno o la scimmietta? Ah no scusami, ti sto confondendo con il dolce Remì! Anzi sai che ti dico? Perché non ti fai crescere i capelli, così ti fai i codini e puoi fare pure Candy Candy?!”

“Ma stai zitta, tu non sai che significa prendersi le pulci!”

“E tu non hai idea di quanto sia difficoltoso l’ikebana!”

Da qui in poi avevano preso ad urlare di brutto, scambiandosi una lunga sequela di accuse, offese ed insulti assortiti, che tra l’altro le aveva portate a tirare in ballo le rispettive discendenze su, su fino all’origine della stirpe. E a tutt’oggi Haruka supponeva che, sebbene la colpa fosse equamente condivisibile, probabilmente avrebbe dovuto metterci nel mucchio pure quella sua sempiterna e dannata predisposizione a cercare, sempre e comunque, il pelo nell’uovo. D’accordo, ne era consapevole, ciononostante proprio non ce la faceva, era più forte di lei e profondamente insito nella sua più intima natura. Ma come avrebbe potuto, innanzi alla boiata pazzesca che Michiru le aveva buttata lì con convinzione, evitare di mettere i puntini sulle i?!

Non si può! Non potevo! Pensò inginocchiandosi sotto i raggi della luna.

Già, non poteva. Ma di conseguenza la sua dolce metà, che quanto a testa dura, malgrado l’apparenza, le stava assolutamente alla pari, aveva pensato bene di lavare quella presunta onta in modo infame. E aveva avuto buon gioco a  stuzzicarle  l’amor proprio, nonché il rigoglioso spirito di competizione che la contraddistinguevano e spesso mettevano in ambasce, giacché di punto in bianco se n’era uscita con una proposta sorprendente.

Di più, l’aveva fatto facendo balenare quella sua espressione peculiare, quella che Haruka a sue spese e nel tempo aveva imparato a temere e a tentare di non provocare, il che avrebbe dovuto metterla sull’avviso. Pure, innanzi a quelle sembianze,  che quanto più sembravano amabili e innocenti, tanto più erano letali e diaboliche, giacché al sorriso con cui l’omaggiava si contrapponevano le correnti sotterranee che le serpeggiavano nell’azzurro delle iridi, ancora le aveva tenuto cocciutamente testa.

E infatti alla delicata donzella era bastato un niente per incastrarla nel più blando dei modi, lanciandole a mo’ di sfida una provocazione e di fatto fregandola.

“Sai che ti dico?” Aveva esclamato appunto, vibrando del brivido di voluttà assoluta di chi sa di stare lì, lì per metterlo in quel posto al proprio interlocutore. “Se il paragone non regge affatto e la mia educazione è stata un letto di rose rispetto alla tua, allora che ne dici di fare una scommessa?   Ti assicuro cara che sarà una bazzecola per una donna temprata dalle miserie e le durezze della vita come te!”

Aveva aggiunto poi senza specificare più di tanto che, quella che poteva sembrare una gara, era invece un ingrato corso di sopravvivenza. Già e non poteva essere altrimenti, giacché consisteva nel vivere un mese a casa Kaioh in modo da poter sperimentare sulla sua stessa pelle le medesime tecniche formative, mediante le quali lo stuolo di tate, maestre, educatrici e governanti, presiedute da quell’avvoltoio ingrugnito di sua nonna, avevano fatto di Michiru una signora. La posta in palio era diventare in quel breve lasso di tempo una donna di classe. Oltre al fatto di uscirne viva naturalmente.

“Visto che ritieni siano bazzecole che ti costa?” Ne aveva concluso buttando lì, con falsa noncuranza, la sua trappola infernale. Al che, messa così la cosa, pur subodorando l’inghippo, Haruka si era vista praticamente costretta ad accettare. Anzi l’aveva fatto con fierezza, spiegando alto il suo vessillo da amazzone invitta, chiudendo gli occhi e buttandosi incosciente nel baratro.

E detto fatto, l’indomani si era trovata niente po’ po’ di meno che al cospetto del Triunvirato Nero testé riunito da Michiru. La trimurti era composta da sua nonna, la veneranda decana Akiko Kaioh-Sama, dall’istitutrice che l’aveva catechizzata, una che ad Haruka aveva ricordato molto la signora Tsukikage de “Il grande sogno di Maya”, quantunque non fosse cecata e anzi avesse due occhi da falco predatore, cosa che ebbe a scoprire a sue spese successivamente, e infine da Takagi, un’autentica geisha a fine carriera per sopraggiunti limiti d’età e servizio. Un trio che avrebbe dovuto trasformarla in un’autentica gentildonna, ma che piuttosto negli intenti di Michiru sospettava avrebbe dovuto renderle la vita un inferno.

E così era stato in effetti, giacché da quando aveva messo piede nel feudo dei Kaioh quelle arpie non l’avevano mai lasciata in pace. Alternativamente, o tutte e tre insieme olè, presiedevano a quelle che loro chiamavano lezioni, ma che in sostanza somigliavano molto ad un tribunale dell’inquisizione. Così tra arte, poesia, educazione e compagnia bella, avrebbero dovuto renderla ad  un qualcosa di molto simile ad una dama di corte. E visto che Haruka era Haruka aveva accettato senza battere ciglio la competizione e le crudeltà con cui la vessavano con il consueto slancio. Ma già dopo qualche giorno non ne poteva davvero più.

Un esempio? La composizione di quei maledettissimi Haiku. Doveva poetare e per farlo la vecchia la faceva inginocchiare al centro della stanza, ovviamente inguainata in un kimono quanto più fiorato possibile, con l’obi stretto talmente tanto, che si sentiva schizzare fuori le budella dalla gola. Dopodiché, bacchetta minacciosamente stretta in mano, l’ingiungeva di comporre all’impronta, lasciandosi ispirare dalla natura.

“Pensa all’amore.” Diceva la vecchia, spronandola quando il silenzio si faceva prolungato.

“Sì, l’amore ai tempi del colera, brutta puzzona!” Pensava Haruka, giacché la nonnina sparava delle flatulenze micidiali ma, siccome era talmente persuasa della sua nobiltà, era convinta di cacare coriandoli, perciò laddove tanfo c’era, a suo modo di vedere, l’unica imputabile era lei. Ché in quanto plebea poteva essere la sola in quella stanza a produrre olezzi immondi. Sia come sia Haruka non poteva certo ispirarsi a quel tipo di natura per lasciarsi influenzare dalla musa, per cui aveva chiuso gli occhi e ascoltato attenta il rumore della pioggia sulle grondaie. Al che aveva ghignato e colta da ispirazione aveva preso a declamare:

Gocce… gocce… gocce…

Due gocce di pioggia cadono sulla lamiera

Tikke takke, tikke takke

Takke tikke, takke tikke

Alla finestra volto le spalle

Mi si sono rotte le… orecchie

 A questo sfoggio di maestria compositiva, perché la vecchia marpiona aveva inteso benissimo cosa Haruka si fosse rotta, anzi frantumata, in realtà, il cerbero ingrugnito l’aveva lungamente presa a bacchettate sul groppone, smentendo all’istante due false impressioni: che fosse minuta e senza forze, invece picchiava più d’un fabbro, e che una vera dama disdegnasse l’esercizio delle legnate.

Balle, la picchiava notte e giorno come un tamburo, ogni sbaglio era buono per farle una cappotta e lei all’inizio ne aveva fatti tanti di errori accidenti! Ma il picco di perfidia l’aveva raggiunto quando l’aveva malmenata persino dopo la sua rovinosa caduta. Dalle scale? Dallo sgabello? Dalla grazia? Peggio, dagli zori con le zeppe. Diciotto centimetri di tacco, manco fossero gli Armadillo di Alexander Mc Queen, sui quali si pretendeva non solo camminasse, ma ballasse pure. Chiaro che come aveva solo tentato di muovere due passi era caduta a faccia in avanti e s’era pure scheggiata gli incisivi, in quanto le maniche del, sempre maledetto, kimono che aveva addosso erano così strette che non era riuscita a protendere le braccia per attutire il colpo.

Con Takagi la geisha poi le cose erano andate un filino peggio, giacché l’acclamata artista trovava che la sua danza dei ventagli fosse più simile all’adescamento di un travestito. Per non parlare dei vocalizzi improbabili che intonava qualora doveva accompagnarsi con lo shamisen. E aveva voglia Haruka a spiegarle che lei non aveva assolutamente cognizione dei canti tradizionali. Già, l’unica canzone vagamente antica che conosceva era la sigla del Grande Mazinga, perciò le aveva cantata quella, scatenandone le ire funeste. Stesso discorso per quanto riguardava il kabuki, ma lì più che di mancanza d’espressione o mimica, si era trattato di un fraintendimento strutturale, nonché del palesarsi di sentimento autentico. Del resto, che altro avrebbe potuto fare, quando sfinita delle continue sollecitazioni ad esprimere i suoi stati d’animo con la gestualità compita, se non far scattare un braccio e mostrare il dito medio alla donna? Accidenti se non era una manifestazione gestuale di sofferenza quella! Peccato che Takagi non avesse affatto apprezzato, così come la trimurti al completo non gradiva nessuno dei suoi sforzi, ivi compresa la tecnica particolare che usava per darsi il trucco. Beh, lì non poteva dar tanto torto alle tre, giacché più che un make-up si disegnava sulla faccia dei veri e propri Kandinsky. Anche se il capolavoro massimo l’aveva fatto alla menzione del mizuage.

Già, quando infine aveva capito di che diavolo stessero parlando, aveva fatto un commento assai salace sul fatto che, per quanto riguardava Michiru, non c’era stato bisogno di nessuna base d’asta. “Kaioh-Sama”, aveva detto con la faccia da faina, “praticamente me l’ha messa in mano senza che dovessi manco chiedergliela!”

Va da sé che questa chiosa le era costata una gragnola di mazzate più cospicua del solito, ma che cavolo, almeno la soddisfazione di dirle che la sua angelica nipote era una vera zoccola se la doveva togliere! Anche perché quell’infame, dacché l’aveva fatta recludere, non si era affatto peritata di farsi sentire. Di sicuro seguiva i suoi progressi, se tali ottimisticamente li si voleva chiamare, informandosi presso le sue compari, ma con lei manco un fiato.

Ed era stata questo in conclusione, unita alla somma delle umiliazioni e dei limoni amari che le avevano fatto inghiottire fin lì, a far scattare in lei una molla. E il desiderio di rivalsa aveva compiuto il miracolo, tanto che da quel momento in poi aveva chiuso la mente ad ogni se e ma e si era impegnata con tutta sé stessa per riuscire. E stupefatte le tre cesse, quattro se si voleva contare pure Michiru, avevano assistito alla sua straordinaria trasformazione. Ché la rude, irascibile, scalcinata, scortese, sgraziata, sacrilega e mascolina virago che era Haruka si era trasformata in un fiorellino. Oddio, fiorellone casomai, visto che le proporzioni e stazza erano quel che erano e di certo non potevano cambiare, ma ciononostante, addirittura due giorni prima della data pattuita, Haruka era arrivata al traguardo che nessuna di loro aveva mai supposto potesse raggiungere.

Certo si sentiva tanto un trans, ma aveva vinto lei.

Ad ogni modo quella era la sua ultima notte sotto quel tetto e, salvo per l’attacco d’ira estemporanea avuto poco prima, fin qui le era riuscito di tenere a bada la sua contrarietà. Ma ora poteva lasciarla andare ed affermare a chiare lettere che ogni cosa in quella stramaledetta dimora parlava troppo d’un passato di generazioni che avevano assurto, e ancora sbandieravano pretenziosi, un ruolo di casta assai elevato. Ci tenevano da morire a far sfoggio della loro superiorità ed era una gran rottura di palle. E d’accordo che un tempo tra quelle stesse mura aveva vissuto e imperato uno shogun, cosa che da un mese a quella parte le veniva ripetuta ad ogni pie sospinto fino alla nausea, ma c’era un limite a tutto. E la pazienza di Haruka, che mai aveva brillato per copiosità, era allo stremo.

Per cui considerò la posizione a picco sulla città dell’edificio, quasi fosse un tempio pagano ove idolatrare quei dei in terra che si sentivano i Kaioh; ascoltò il sospiro lieve della brezza estiva sembrava lambire, quasi senza toccarli, i merli puntuti del tetto spiovente; immaginò la casa covare su sé stessa al fine di conservare le millenarie tradizioni e, nel silenzio antico e sovrano che vi regnava, facendosi strada attraverso il morbido manto dell’oscurità, infine la sua voce proruppe trionfante.

“Ma vaffanculo!”

Urlò lasciando che i modulii di quel grido riverberassero per la casa. Dopodiché afferrò l’opera immortale di Sei Shonagon, la stessa sulla quale stava sgobbando dacché aveva varcato quelle porte, poiché per fare di lei una vera signora non c’era nulla di meglio che le squisite annotazioni della dama di corte dell’era Heian, e le fece fare un pindarico volo nell’azzurro fino ad esaurirsi con un tonfo acquoso là al centro del giardino. Un tiro mica a caso, anzi. E peccato si trattasse di un’edizione tutt’altro che rara, pensò Haruka ghignando. Già, Kaioh-Sama si era ben guardata da metterle tra le mani un libro che non fosse altro che brossura economica. Lei era una gajin, e ad una mezza giapponese-svedese-americanizzata non si deve rispetto, vero?

Pure, si chiese sorvolando sul classismo di quella megera, chissà se quella carogna vetusta aveva considerato le variabili impreviste e il furore che a lungo aveva fomentato. Forse no, ma in ogni caso, ne concluse, probabilmente le verrà un colpo quando scoprirà che persino un libricino da pochi yen, scagliato con forza in direzione del laghetto, ha ucciso sul colpo una delle sue preferite e pregiatissime carpe!

“Tié e carpe la carpa adesso, brutta befana!” Ridacchiò stagliandosi nel vano della finestra come uno spirito maligno deciso a vendicarsi. “Edmond Dantes mi fa una pippa!” Disse quindi mentre il piano mefistofelico su cui aveva meditato nelle sue notti insonni finalmente prendeva forma. Fece le ultime opportune telefonate, per assicurarsi che tutto fosse pronto, e lieta si congratulò con se stessa perché si stava risolvendo adamantino in tutti i suoi dettagli ed incastri.

“Ahahahahahahahah!!!” Rise sguaiata e sinistra pregustando la dolce vendetta, tremenda vendetta.

Così fu che, all’indomani della sua partenza, le sue aguzzine si ritrovarono incaprettate e completamente abbandonate a loro stesse nell’augusta dimora. La servitù era stata nottetempo congedata, previa una bella mazzetta in contanti, e nessuno poteva udirne gli strilli mentre una branco di babbuini delle montagne devastava tutto. Di più, alcuni si spinsero pure a far alle tre delle spudorate avance sessuali.

Del resto Haruka aveva provveduto apposta a cospargerle abbondantemente di miele perché ciò avvenisse. Quanto alle bestie, era da un bel pezzo che ne aveva concordato l’arrivo, facendone arrivare una partita direttamente dalle foreste thailandesi. Perché si sa, quando sei una stella dell’automobilismo, pagata molto di più di quanto potresti spendere normalmente, qualche sfizio te lo puoi togliere. Soprattutto se hai una madre girovaga, hippie e pulciosa che si ritrova agganci e maniglie particolari in ogni parte del globo.  

Quanto a Michiru… beh, considerato il concorso di colpa, Haruka poteva permettersi di essere un po’ più indulgente. All’apparenza naturalmente, giacché una tortura psicologica è molto più fine di una fisica. Per cui, visto che per una femmina gelosa non c’è niente di peggio che il sospetto del tradimento, quello le avrebbe servito. Ma solo il sospetto… ahah!

Così, mentre sfrecciava sulla sua cabriolet lungo la strada costiera, attivò l’auricolare e la chiamò.

“Pronto tesoro? Bene, bene. Sì poi ti fai raccontare da tua nonna… sempre che riesca ad arrivare al telefono beninteso… niente, niente, poi capirai… No, non torno per il momento. Perché? Ho deciso di restare a Kyoto… no, non è una vacanza… sai cosa amore? Sono riuscita talmente bene come  maiko che ho deciso di entrare in una okiya per diventare una geisha professionista… su, su non fare così! Avevi proprio ragione comunque eh? E’ dura diventare una signora, ma finalmente lo sono anch’io… Michi, ma che razza di modo di esprimersi è questo? Via, una gentildonna non si esprime così e, perdona il termine, puttana lo dici a tua sorella… beh comunque piantala di urlare, perché tanto adesso ti devo salutare… ma prima lascia che ti dedichi un haiku:

 

Nella campagna vado lontano

Mentre tra i fiori cresce giallo il grano

A te penso ascoltando il cuculo

Cara Michiru ora te lo pigli in…

 

“Ciao amore, un bacio!” Concluse mentre l’altra la riempiva di improperi e maledizioni in modo assai poco femmineo.

 

 

N.d.A.

Forse ho esagerato.

Forse non si può mettere alla berlina così Memorie di una geisha, Le note del Guanciale e My fair lady. Eppure, quale che sia il risultato, gradimento o ingiurie, mi sono divertita davvero tanto! :D  

 

 

       

 

 

 

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Capitolo 7
*** Eva contro Eva ***


 

 

 

 

La vanità è donna, dice l’adagio.

Giusto, sacrosanta verità. Soprattutto in alcuni casi.

Peccato però che, nella loro sconfinata sapienza, nella notte dei tempi, i saggi che per il bene dei posteri diedero origine ad utili proverbi e massime, non avessero previsto eccezioni al quadrato. Anzi, nel caso di Haruka e Michiru, la vanità non andava solo moltiplicata per sé stessa ed il suo coefficiente d’impatto sul prossimo, ma addirittura al cubo e con effetti entropici sull’universo.  

Invero, se quei vegliardi giudiziosi si fossero posti l’assioma riferendosi a loro due, femmine non solo conviventi, ma ognuna regina nella sua categoria e molto restia a cedere lo scettro, di certo quel particolare proverbio sarebbe stato un po’ più esplicativo.

Se ci aggiungiamo poi che la natura malauguratamente, o fortunatamente se la si vuole vedere dal loro punto di vista, aveva provviste entrambe d’un innegabile eccellenza e quindi ad una preoccupante propensione nel darsi un sacco d'arie, in modi del tutto speculari giacché le particolarità pavoneggianti dell’una e dell’altra potevano innescare  processi ineluttabili di distruzione, allora quei vecchietti senza dubbio più che un motto avrebbero suggerito ai loro progenitori di non moltiplicarsi o, a limite, di sopprimerle alla nascita. Se non altro per il bene dell’umanità.

Ma andiamo per ordine, giacché, per raccontare questa triste vicenda, bisogna specificare fin da subito che c’è vanità e vanità. Per cui è bene esplicitare immediatamente che quelle di Haruka e Michiru erano assai differenti tra loro.

La violinista infatti era dotata d’un tipo di altezzosità discreta, quasi impalpabile e a tal punto naturale, da sembrare addirittura assente. Come dire che la maggior parte dei suoi interlocutori se ne lasciavano fuorviare e che ai più Michiru appariva talmente modesta e alla mano che sarebbe stato addirittura una calunnia delittuosa definirla piena di sé. Chiaramente ciò avveniva perché quest’ultima, bontà sua, poteva fregiarsi di una bellezza preraffaellita, tipo madonna con e senza bambino, e di modi tanto graziosi e delicati da rendere invisibile agli occhi ed alle orecchie altrui il suo alto tasso di boria.

Va da sé che la Vanitosa Delicatessen, ceppo antropologico cui Michiru apparteneva,   era normalmente affetta da un bipolarismo alla dottor Jekyll e Mr Hide. Di conseguenza, sua radicata e inoppugnabile convinzione era di non essere per niente fatua.  Al punto che, se la sua consapevolezza di ciò fosse stata risvegliata, la cosa avrebbe potuto minarne seriamente la stabilità.  

Quanto ad Haruka invece, la sua anamnesi di primo acchito appariva assai peggiore essendo essa affetta da una sindrome di vanità aggressiva, soprannominata dagli esperti del settore con il nome di Sindrome da A.L.O.  Ossia l’Arroganza alla Lady Oscar, giacché se non fosse stato per il capello corto e la millantata identità maschile, Haruka sarebbe stata la candidata ideale a portarne lo scettro di novella emula per il nuovo millennio. Ma, al di là delle mere somiglianze fisiche e strutturali, nonché della sua propensione a fare il gallo sulla mondezza sempre e comunque ed insidiare l’incorruttibilità delle fanciulle più nobili, la presunzione della bionda non era altro che il frutto di anni ed anni di complimenti e lisciamenti di penne gratuiti e addirittura pretesi. Tanto che, semmai ce ne avesse avvertito mancanza, la pena fisiologica era una sequela di lamentele infinite e di bronci assai difficili da stemperare.

Lapalissiano quindi che per lei, da sempre pasciutasi alle lusinghe altrui, rispetto alla vanità della sua compagna, veniva posseduta da una consapevolezza di sé bella che sveglia e che sarebbe molto meglio non mortificare. Altrimenti le conseguenze non sono solo sarebbero state uccelli per diabetici, ma addirittura pali per i turchi. E per coloro non ne capissero il velato senso, li si rimanda alle famose supposte dell’Anatolia, ovverosia quelle inoculate con tanta delizia dal Principe Vlad dei Carpazi agli ottomani invasori.  

Data questa necessaria premessa, ciò che di seguito verrà narrato è la cruenta tenzone che si scatenò tra Haruka e Michiru a causa dello scontro titanico tra le loro disfunzioni radicate.

Era una giornata come tante e nell’appartamento dell’amore miss Splendida Splendente, da sempre convinta di essere fantastica,  persino mentre si toglieva i calli dai piedoni, fissava sovrappensiero la sua bella intenta ad intrattenere il presidente di una famosa associazione filantropica e la sua assistente.

Una volta tanto un simile appuntamento non si svolgeva nell’ufficio del suo impresario ma tra le mura domestiche poiché Michiru, quando si trattava di beneficenza, tendeva ad essere molto meno formale.

Quanto ad Haruka, si era attavolata con loro per forza di cose, non aveva nulla da fare ed era curiosa, e perciò sorbiva tranquilla il suo caffè persa nei propri pensieri. Ciononostante le era palese che i due pendevano letteralmente dalle labbra di Michiru e che la guardavano con tanta ammirazione che, una volta tanto, escludeva lei dal centro della scena. Quindi, visto che generalmente quand’erano insieme era lei l’accentratrice, lungi dall’adontarsene, per il momento tentò, stranamente, non di prenderla come un’offesa al suo amor proprio, quanto come un’occasione per valutarla con disincanto, come se le fosse estranea e quella fosse la prima volta che la vedesse.

“Bona.” Fu il primo pensiero. “Eccitante.” Il successivo. “Elegante”. Quello dopo. Poi, tanto per non smentirsi pensò: “Culo di marmo.” Ed era inevitabile, dal momento che Michiru si alzò per prendere altro tè e le diede la schiena.

E non si stupì affatto della sua spassionata valutazione perché, nonostante la buriana dei primi mesi di passione si fosse leggermente sedata, ma non tanto da non darle addosso in qualsiasi momento e ambiente congeniale (dalla casa al suo camerino), Haruka non poteva non classificarla con quegli innegabili termini. Pure, al di là delle sue compiaciute stime, si disse che normalmente Michiru sembrava non dare peso alle sue pregevolezze. Se ne schermiva e perlopiù le faceva passare come se fossero banalità. Per la qual cosa, seguitò a riflettere la bionda, non senza una punta di stizza irragionevole, in lei trovavano terreno fertile tutti gli appaltatori di spettacoli filantropici, i quali spesso ne richiedevano la delicata presenza e superba prestazione per sponsorizzare le loro opere.

“E chissà”, si chiese fissando l’uomo che le stava prospettando l’ennesima esibizione, “se anche sta mummia imbiancata medita gli stessi aggettivi.”

Indubbiamente, calcolò, quando Michiru suonava le donazioni si elevavano di pari passo con l’altezza delle sue tette. Quindi, ne concluse ghignando, presa dalle sue meditazioni e perdendosi parte significativa della conversazione, il principio primo della democrazia doveva essere cambiato.

“La maggiorata vince sempre!” Pensò e sghignazzò silenziosa, valutando i seni a coppa di champagne di fronte a lei. D’un tratto però si accorse che tre coppie d’occhi interrogativi la fissavano. Evidentemente ad un certo punto, mentre era in estatica contemplazione dei capitelli corinzi della sua donna e i pensieri le scivolavano in un mondo di piaceri e sconcezze, le avevano chiesto qualcosa. Ma cosa?

Diede un colpetto di tosse per darsi un tono e con la solita faccia di bronzo cercò di pararsi le terga chiedendo: “In che senso?”

“Nel senso”, fece l’anziano benefattore, ma non abbastanza attempato, pensò Haruka intercettandone lo sguardo, da non buttare di tanto in tanto l’occhio al decolté di Michiru, sebbene nel frattempo le si stesse rivolgendo col tono che si usa con i ritardati, “che se lei accettasse la nostra proposta sarebbe un bel gesto.”

“Proposta? Quale Proposta?” Pensò mentre quello continuava ad errare dalle parti della scollatura con occhio da rapace. Così, per distoglierne l’attenzione dalla sua evidente ignoranza, ma soprattutto dallo scollo generoso di Michiru, fece finta di allungare le gambe e gli tirò un bel calcione sotto al tavolo. Dopodiché, chiedendo scusa per le sue lunghe ed impacciate estremità, si  rivolse con un sorriso affascinante all’assistente del tizio in cerca di ragguagli.

“Ma di preciso che cosa mi si sta chiedendo di fare?” Chiese inclinando la testa e accompagnando il suo sorriso magico ad uno sguardo obliquo che, lo sapeva benissimo, faceva tremare gli elastici delle mutande a tutte le donne dai nove ai novant’anni.

“Basterebbe la presenza.” Rispose quella con aria sognante, al che Michiru, che già si stava teletrasportando nelle fantasie della segretaria, la quale si stava immaginando nel suo triste ufficio, non più tanto mesto, posizionata a sponda di scrivania con Haruka che le faceva il servizio completo più gli straordinari, troncò bruscamente quel quadretto idilliaco sbottando seccamente: “Beh ma che significa? Mica può fare la bella statuina!”

Dettò ciò e resasi conto di aver perso molto della sua dolce apparenza, opportunamente celò il mostro verde dietro una facciata soave e continuò: “Haruka al massimo potrebbe fare una comparsata, ma mi dispiacerebbe molto se poi che si sentisse del fuori luogo. In fondo non ha nulla per cui esibirsi in quel contesto.” Aggiunse con aria partecipe, ma lasciando intendere a chi la conosceva bene, che la cosa poco le garbava.

Errore, imperdonabile sbaglio, giacché niente scatenava di più in diavoletto bizzoso che covava nei meandri tortuosi dell’indole iraconda di Haruka.

Chi si credeva di essere quella bamboccia per vietare qualcosa a lei? Pensò infatti molto più che impermalita. E d’accordo che non sapeva affatto che accidenti volessero quei due da lei e che in effetti al massimo poteva suonare i piattini in quel gotha di talenti musicali,  ma se pure si fosse trattato di leggere in yiddish le istruzioni di una friggitrice ad un pubblico di scimpanzé, avrebbe accettato comunque. Per quale ragione? Perché la sua donna pensava di poterglielo proibire, minchia!

Quindi, ignorando Michiru come se non avesse proferito parola, guardò i due ed annuì meditabonda. “Accetto.” Affermò guardando sfidante Michiru, inconsapevole ancora di cosa avrebbe fatto poi una volta sul palco e spalancando le porte di quello che poi sarebbe stato un inferno.

“In fondo”, continuò sempre fissando di tralice a Michiru, che la guardava nascondendo a stento l’ira, “un evento che si rispetti non può dirsi tale senza di me. E poi“, proseguì senza pensarci proprio a mitigare la presunzione delle sue sparate, “se i protagonisti di questo spettacolo sono esclusivamente persone dalla indiscussa classe ed eleganza”, e qui gratificò di un cenno la violinista che per un momento, uno solo, credette che le si stesse facendo un complimento, salvo poi venire immediatamente smentita, “qualsiasi manifestazione di questo tipo alla lunga diventa una vera e propria palla. Due coglioni così! Accidenti, dopo un paio d’assolo a base di musica da camera, dormirebbero tutti e addio pingui donazioni!”

Detto ciò, finalmente l’uomo si distrasse dai bon bon magici di Michiru e capì all’istante l’antifona. Certo non gli era del tutto chiaro, ma qualcosa dentro di lui intuì che Haruka si nutriva dell’altrui attenzione così come i pipistrelli vampiro delle pampas sudamericane, i quali necessitano quotidianamente di una quantità di sangue pari al peso del proprio corpo, sennò le cellule del loro cervello muoiono. Indi comprese che, con la presenza di un simile fenomeno sul palco, quella maratona di bontà avrebbe avuto una tale dose di pepe da evitare qualsiasi collasso comatoso. Pertanto la precettò entusiasta, ignorando che a quella manovra Michiru ebbe un soprassalto visibile.

“Cooooosa?!?!?!” Pensò infatti allibita. Dividere la con quell’egocentrica?! Ma non se ne parlava! Eppure continuò a sorridere serena a beneficio degli astanti, i quali mai avrebbero immaginato quanto le si stava scatenando a quella prospettiva.

Già, Michiru, anche se in maniera molto più subdola ed inconscia, seguiva la medesima dieta vampiresca di Haruka e di conseguenza esigeva le luci della ribalta tutte per sé. Ciononostante non poteva opporsi, pena perdere quel suo disincanto tutto acqua e sapone.  

Quanto ad Haruka, non se l’immaginava per niente, era del tutto all'oscuro del bisogno di Michiru di essere continuamente incensata. Ordunque, anche volendo andare a cercare il pelo nell’uovo, ma pure da qualche altra parte trattandosi di loro due, non poteva sapere ciò che le veniva debitamente nascosto. Anche perché Michiru asserendo di essere la meno petulante, ovvero l’adulta della coppia, ne faceva un vessillo da spiattellarle ad ogni occasione. Certo, dopo sei mesi di convivenza Haruka forse avrebbe potuto fare uno sforzo d’immaginazione, probabilmente avrebbe dovuto applicare quantomeno la sua profonda, molto profonda in alcuni casi, conoscenza dell’intimo femminile per capirlo da sola. E presumibilmente le si sarebbe fatto torto nel farglielo notare, anche se, va detto, un minimo di galanteria da parte sua sarebbe stata prassi. La normalità insomma.

Ma visto che Haruka era Haruka, davanti ad uno stimolo muto ed indotto, tipo una lingerie nuova, o un differente french, un trucco più accurato, un costume da bagno tanto succinto da essere inesistente o uno spacco decisamente vertiginoso, preferiva che fosse l’arrapamento a parlare laddove un mare di chiacchiere perditempo non avrebbero reso altrettanto bene l’idea e avrebbero posticipato la calata in posizione orizzontale.

O in piedi. O in ginocchio. O circense volendo, quando per una felice coincidenza si ritrovavano entrambe col medesimo pensierino dopo una lunga seduta di stretching in palestra o in piscina.

Comunque sia Michiru, dacché aveva affidato il suo cuore, e non solo, nelle grandi mani di Haruka, aveva visto calare vertiginosamente la sua dose giornaliera di moine. Indubbiamente l’allenatore sbavava per lei, ogni occasione era buona infatti per prenderle la mano ed aiutarla ad uscire dalla vasca, per non parlare della faccia che faceva quando se la ritrovava davanti tutta bagnata e coperta solo dal sottile costume olimpionico. Stesso dicasi per i suoi colleghi orchestrali, fiori e cotillon abbondavano nel suo camerino e doveva difendersi da ogni sorta di serenata, romanticheria dandy e minacce di suicidio, poiché la vena fatalista dei suoi colleghi artisti era piuttosto accentuata. I compagni di studio poi facevano a gara per sederle vicino, per il brivido, purtroppo solo momentaneo, di poterne respirare il profumo e d’osservarla da vicino.  E guai a camminare in strada, se c’era un cantiere aperto veniva subissata di fischi e spesso gli operai addetti alla manutenzione delle fogne erano finiti a gambe all’aria nelle chiuse dopo aver avuto la visione fugace delle sue cosce.

Insomma da questi, ai ragazzini che affollavano il metrò, su, su fino ai demiurghi delle vari filarmoniche con cui si esibiva, i quali nonostante i capelli bianchi e le mani tremule, viaggiavano ben forniti di viagra nella pia speranza di un suo gradevole assenso, tutti facevano a gara per dirle e dimostrarle quant’era bella, affascinante, incantevole e, in definitiva, gnocca.

Ma un conto è quando un complimento ti viene fatto da un maniaco in tuta da lavoro, divisa scolastica o frak, ben altro invece sarebbe stato se a sussurrarlo fosse stata la voce suadente di colei che amava e che magari in quel momento se ne fosse stata addirittura in posa per lei. Magari coperta solo da un solo tralcio di vite come un novello Dioniso.

Ma Haruka era Haruka e Michiru preferiva di gran lunga non fare una piega, né lamentarsene, perché ci aveva messo tanto ad accalappiarla e non voleva che per una stupida questione d’amor proprio tutto finisse a ramengo. Senza contare che le dosi di sesso selvaggio a cui si era rapidamente assuefatta avevano funto da repellente allo scontento. In fondo, si diceva china sul libro di fisica, applicando quale ripasso, ma anche come soprappiù, la regola del rasoio di Occam, poteva essere lo stesso ad ogni situazione no?

Perciò, se a parità di soluzioni quella più semplice era quella esatta, ne aveva concluso che era molto meglio un orgasmo multiplo garantito, anziché una lite basata sulla mancanza di riguardo che caratterizzava Haruka. E per questo motivo le acque erano rimaste chete. Ma lo tsunami incarnato da quell’ingaggio stava cominciando a montare. Anche se, naturalmente, gli organizzatori le avevano assicurato che sarebbe stata la star assoluta della serata. Sebbene, avessero chiosato tra il suadente ed il ragionevole, visto che il nome di Haruka era di primissimo piano come il suo e tale da attirare altrettanta gente, e di conseguenza altrettanti cospicui fondi, che ne pensava se avesse fatto da presentatore alla serata?  Loro trovavano che quella veste le calzasse a pennello.

Così una si era elettrizzata e l’altra sdegnata, pur facendo finta di nulla, ed alla fine un’entusiasta Haruka aveva accettato e Michiru aveva cominciato a masticare amaro.

“Non le basta fare la civetta con tutto il creato?” Ruminava notte per notte man a mano che il giorno del loro duetto si avvicinava. “Adesso deve venire a fare la zoccola anche nel mio territorio?!”

E così fu che quando la famigerata sera giunse la manifestazione Uniti per l’Africa fin dalle prime battute prese a tramutarsi in qualcosa di molto simile ad una rissa verbale, intervallata da siparietti osé.  

Ma del resto né Haruka, né gli organizzatori, al momento della stipula potevano prevedere il macello che sarebbe successo a metterle nello stesso pollaio, scatenando la competizione tra l’ego mostruoso di Michiru e quello altrettanto monumentale di Haruka. Praticamente Gozzilla contro Gamera.  

Così fu che tutta azzimata, nel suo smoking più abbagliante, Haruka si diede a presentare quella serata di gala. Parlantina e verve non le mancavano, spudoratezza meno che mai. Quindi il pubblico si divertì moltissimo alle sue battutine, agli intermezzi spassosi con i vari comici di grido con cui duettò ed al sensualissimo tango cui si diede con la vocalist dei Gotan Project sulle note di Differente, mentre Michiru dalle quinte faceva finta di provare mentre in realtà si rodeva il fegato.

“Se non le toglie subito la mano dal culo giuro che le spacco il violino sul muso!” Pensò al culmine del ballo quando, per l’appunto, la nostra, onde coreografare correttamente quella danza sensuale, andava a porre alla cantante una mano sulle terga e l’altra ad afferrarle il viso per mimare un ardente bacio seguito da un altrettanto plateale casquet.

Va detto che onestamente lo sbaciucchio più che simulato fu autentico, ma Haruka non se ne preoccupò, presa com’era dall’ebbrezza del momento. E poi, in fondo, c’erano solo qualche migliaio di persone nell’auditorium, compresa Michiru, che l’avevano vista, giusto? Mica tanti in fondo, senza contare che era di dominio pubblico la sua passione per quel ballo e per quel gruppo. Era andata a tutti i loro concerti su suolo nazionale sì o no? Era finita sui giornali anche per questo! E allora? Dov’era il problema??

Ah, candida Haruka. Donna dalle verità lampanti e dalle spiegazioni sempre logiche! Doveva immaginarselo che sarebbe bastato questo ad aizzare l’ira funesta della pelide Michiru, non già figlia di Peleo, ma pelide in quanto le si erano rizzati tutti i peli dalla rabbia.

Eppure fece di più, andò oltre, giacché, quando fu il momento dell’esibizione della sua amata si profuse per donarle la presentazione più roboante e spettacolosa possibile.    

“Ed ora ladies and gentleman, madame set messieurs, signore e signori”, fece mentre le luci della ribalta illuminavano lei sola, “ho l’onore, nonché il piacere di presentarvi un momento di assoluta  perfezione…” Volutamente qui si fermò per prolungare fino allo spasmo l’attesa e quindi continuò magniloquente, “… un momento che in genere ho il privilegio di gustare da sola, ma che stasera condivido con voi… una grande artista, una grande donna che viene ad offrirci la sua splendida arte nonché la sua affascinante persona... signori e signore, le vostre mani devono darsele di santa ragione per applaudirla… ecco a voi Michiruuuuuuuuuuuuu Kaioooooooooooohhhhh!”

Dopo questo po’ po’ d’introduzione Michiru fece il suo ingresso millantando modestia e sorridendo sobria, quasi a voler contraltare il chiassoso cappello fattole da Haruka. Inoltre l’espressione soave ben le occorreva per celare accuratamente l’incazzatura che ancora le bruciava dentro per lo spettacolino di poco prima. Per cui, quando fu a portata d’orecchio della bionda, simulò un sussurro grato e le sibilò all’orecchio un troia di una potenza tale, che se fosse stato una pallottola avrebbe potuto stendere un elefante.

Haruka a quell’appellativo ed al tono di foce furibondo con il quale era stato proferito, non perse un grammo di savoirfaire, ma anzi le sorrise amorevole davanti al pubblico e prese a riempirla di complimenti, piuttosto che dare il via all’esibizione mentre nella cabina di regia gli addetti si disperavano e quelli dell’impianto luci non sapevano che fare.

“Guardatela tutti, quant’è incantevole.” Cominciò a dire prendendole una mano e facendole fare un volteggio perché gli astanti potessero rimirarsela adeguatamente avanti e indietro. “Non trovate che questo vestito esalti viepiù la sua bellezza?” Domandò retorica facendo scorrere una mano sul raso lucido del peplo che indossava. Poi prese un’espressione affranta guardandone l’acconciatura dopodiché, magnanima, attorcigliandosi una setosa ciocca attorno alle dita, continuò: “Peccato che con in capelli tirati su mi ricordi molto Marge Simpson!”

Un boato di risate coprì il “beccati questo!” che le rifilò Haruka a quel punto, ma Michiru era una donna che aveva molte frecce al suo arco.

“Prego signori e signore”, fece dolce accostandosi al microfono quando il fragore dell’ilarità cominciò a scemare, “vengo qui stasera a voi per una serata di musica e magia. Il contrario, vi assicuro, di quel che mi tocca vivendo con questo bel tomo.” Fece ghignando e guardandola da sotto in su con fare valutativo, mentre il direttore di scena cercava di attirarne l’attenzione sbandierando come un disperato il copione. Anche perché erano in diretta sul canale nazionale.

Michiru fece finta di non vederlo, indi girò attorno alla bionda accarezzandole appena le spalle e prese a decantare le beltà del suo uomo. “Bell’oggetto per arredare la casa, nevvero?” Chiese mentre in sala ricominciavano a scrosciare le risate. “Certo voi lo vedete qui stasera bardato a festa. Ma sapeste che cosa avvilente è tornare a casa e ritrovarmelo in salotto con le mutande di lana, i calzini a metà polpaccio che tristemente pesca da un ramen istantaneo mentre l’aria è ammorbata dalle sue ascelle pestilenziali!” Detto ciò avvicinò l’impertinente nasino all’insù alla zona incriminata e, per la delizia del pubblico pagante, esclamò in un sorpreso:” Accidenti amore, hai fatto la doccia per l’occasione!”

Con questo Michiru credeva di averla stesa, ma Haruka era pronta di spirito e soprattutto, durante la sortita della sua bella, le aveva giurato una sanguinosa vendetta, tale da far impallidire Edmond Dantés.    

Di conseguenza, mentre ormai il regista si dava manifestamente a craniate nel muro e il direttore di produzione già si vedeva ad elemosinare sotto i ponti, sorrise divertita come se quello fosse stato un battibecco ben orchestrato e precedentemente concordato.

“Sapete una cosa?” Fece portandosi sul bordo del palcoscenico e dialogando col pubblico come un consumato anchorman. “Michiru Kaioh è un portento, ha un talento innegabile, eppure lo coltiva assidua… sempre a solfeggiare, notte e giorno… giorno e notte… proprio stanotte sapete l’ho sentita chiaramente, invece di dormire stava solfeggiando… addirittura in bagno pensate… tirava certi do di petto che tremavano i vetri… accidenti, non lo sapevo che la crema di fagioli di miso facesse così bene alle corde vocali!” Esclamò mentre gli uomini in platea ridevano sguaiatamente e le signore ostentavano stupore scandalizzato. Per non parlare degli addetti tutti che se avessero potuto le avrebbero fucilate sul posto.

Pure gli alti papaveri della tv di stato ancora non le avevano censurate, continuando a mandare in onda il tutto, giacché lo share stava raggiungendo delle vette mai viste prima.  E quando Michiru si portò in avanti intenzionata a replicare e Haruka gleil’impedì, aggiungendo un’altra delle sue perle, “Le so fare anch’io le serate di musica e magia… infatti dopo che la trombo deve sparire!”, improvvisamente le famiglie che erano davanti alla tv videro comparire le vedute nazionali accompagnate dalla musica d’arpa  de "Le sonate di clavicembalo" di Pietro Domenico Paradisi.

Sfortuna questa che non toccò invece a quanti erano là, i quali seguirono con pedissequo interesse, nonché tanta partecipazione, le donne parteggiando apertamente per Michiru, gli uomini dichiaratamente per Haruka,  l’alterco colorito che ne seguì.

“A chi fai sparire immondizia!?”

“A te imbecille!”

“Perché non te ne ritorni da quella zotica?!” Sbottò la violinista puntando il dito in direzione di Shanaya Yamamay che casualmente era seduta in prima fila.

“E tu perché non torni da quella tirachiodi di tua madre?!” Fece Haruka indicando Sachiko Kaioh che era tornata da Vienna per l’occasione e pentita assai tentava di nascondersi sotto la calda coltre del suo visone. Ciò comunque non le impedì di vedere la sua leggiadra figliola scagliare il suo preziosissimo Stradivari in direzione di Haruka e quest’ultima afferrarlo al volo perché non si fracassasse. A questo punto il regista decise di rischiare il tutto per tutto e mandò in scena contemporaneamente il corpo di ballo della delegazione francese, che entrò a passo di carica mentre l’orchestra suonava il Can Can, e il soprano russo Yulia Michova vestita da Grimilde che proprio non sapeva che cazzo fare in quel casotto. Di più, con voce stridula attraverso l’interfono comunicò a tutti gli altri partecipanti di precipitarsi sulla ribalta, perciò maghi, equilibristi, il coro polifonico dell’abbazia benedettina di Montecassino e l’intero cast dei teatri Nō, Kyōgen e Takarazuka, tutte vestite da maschi, si precipitarono in scena finendo gli uni addosso agli altri provocando una ressa che presto degenerò in rissa.

Così fu che le attrici otokoyaku cominciarono a scazzottarsi con i pii confratelli, mentre musumeyaku si presero ad unghiate e tirate di capelli con le ballerine francesi che mostravano loro il sedere in segno di disprezzo. Michiru tirò appresso ad Haruka tutti gli attrezzi dei giocolieri, facendole un onorevole occhio nero con una clavetta, mentre quest’ultima dal cilindro del mago continuava ad estrarre conigli e colombe che non le erano per nulla utili al contrattacco né la difesa. Intanto i funamboli nel caos generale rischiarono di strozzarsi con le loro funi e la cantante cominciò a bestemmiare, con degli acuti davvero pregevoli, nel dialetto natale di Minsk.

A questo punto, disperato il regista fece chiudere il sipari, generando così lo sconcerto e la rabbia del pubblico pagante, che in quanto tale voleva assistere a quel grandioso spettacolo, che tracimò dalla platea fin sulle tavole del palcoscenico in una vera e propria invasione di campo. Vendette represse e ritorsioni a lungo covate all’interno dell’alta società trovarono finalmente sfogo in quel tumulto, famiglie appartenenti da generazioni alle caste di samurai e shogun se le suonarono di santa ragione in nome dei loro avi, mentre quelli che discendevano da i ronin fungevano da picchiatori liberi. In quella baraonda Michiru andò a caccia di Shanaya per cavarle finalmente gli occhi, mentre Haruka dovette difendersi da Sachiko che tentò di strangolarla con il suo collo di zibellino.

Il programma in tv ebbe uno share altissimo, le donazioni fioccarono, ma l’authority della decenza decretò dure condanne per tutti coloro. Quanto ad Haruka e Michiru furono condannate per direttissima a seicento ore di lavoro socialmente utile.

E così, giorni dopo, se ne stavano in tuta da lavoro a spazzare le strade. I paparazzi ci andarono a nozze, i fan ne approfittarono per avvicinarle e tra un bidone d’umido e uno d’indifferrenziata trovarono il modo anche di riappacificarsi tra di loro dopo una settimana di gelo. Tanto, che quando arrivò la proposta di replicare il loro magnifico show in concomitanza del natale, Haruka non ebbe affatto bisogno di pensarci per declinare la gentile offerta…

 

 

 

N.d.A.

Arieccomi dopo una lunga latitanza, vi sono mancata? Azz chi è che mi ha fatto una pernacchia?! Scherzi a parte mi scuso, coprendomi il capo di cenere, con quanti seguono le avventure di queste due dementi per il tempo lungo per cui le ho trascurate. Non è stata una cosa volontaria ma, siccome spero di esprimermi sempre al mio meglio, laddove ho creduto di non esserne in grado, ho preferito attendere tempi migliori. Percò i mesi sono trascorsi e me ne sono restata nel mio antro. Spero tanto che questo ritorno sia gradito e che questa nuova follia lo sia altrettanto. Un grazie speciale a tutti quelli che mi seguono e commentano. ;)

Aurelia

 

 

 

 

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