L'ultimo cavaliere di ClaudiaSwan (/viewuser.php?uid=72682)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
prologo
A Francesca.
Amica,
confidente, sorella.
Ti voglio bene, Moglie!
Prologo
Potrei dire che mi sono innamorato di lei non appena la
vidi.
Sarebbe romantico.
Potrei dire che nella sventura lei fu l’unica nota positiva.
Ma non sarebbe vero.
Potrei dire che in quello che lei è stata per me non c’è
nulla di vero.
Ma è impossibile.
Lei è stata incredibilmente reale.
Un catafalco rovinato dal tempo e una spada in una teca è
tutto ciò che rimane di lei.
Il mondo non conosce il nome della donna meravigliosa che è
stata e forse quei pochi che vengono fin quassù nemmeno si rammentano del suo
viso d’angelo ritratto sulla pietra calcarea.
Sul pieghevole che si può ritirare da un banchetto
all’ingresso della chiesa c’è scritto solo “nobildonna del XIII secolo. Le
cronache non riportano il suo nome né le circostanze della sua morte. Si
presume appartenga alla stirpe dei Folkung e che fu probabilmente una
benefattrice del convento”.
Lo era nobile.
Lo era folkung.
Non era una benefattrice.
Era una ribelle.
Un’impavida.
E io non mi perdonerò mai di averla abbandonata.
Catherine.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
capitolo 1
Benvenuti cari lettori. Vi prego di leggere attentamente
questa introduzione prima di avventurarvi nella lettura.
La storia che state per leggere pretende infatti che io citi
le fonti a cui mi sono ispirata affinché tutto possa svolgersi nella
correttezza e nel rispetto del diritto d’autore altrui.
L’autore a cui faccio riferimento esplicito è Jan Guillou,
autore del “romanzo delle crociate”, una quadrilogia che raccoglie “il
templare”, “il saladino”, “la badessa” e “l’erede del templare”.
La storia che intendo raccontare si colloca al termine del
terzo libro, riprendendo tuttavia alcuni spezzoni e situazioni dell’ultimo
libro.
Personaggi come Arn Magnusson, Cecilia Algotsdotter, Bengt
Elinsson, Sigurd di Forsvik e alcuni altri che emergeranno nel corso della
narrazione come personaggi minori, sono di sua esclusiva proprietà. Tuttavia la
maggior parte dei nomi presenti nel racconto appartengono a personaggi storici
realmente esistiti, così come i luoghi.
Avviso fin da ora che verranno citati alcuni riferimenti
storici reali antecedenti alla mia narrazione, di cui vi verrà data spiegazione
al fondo del capitolo e verranno segnalati con un asterisco. Per il resto,
ovviamente ho piegato la storia così com’è scritta sui manuali alla mia
narrazione, e perciò confido che le eventuali imprecisioni, gli eventuali
errori storici, vengano perdonati e letti alla luce di quest’esigenza.
Detto questo, vi lascio alla lettura, sperando che questa
storia decisamente anomala in questo fandom si guadagni il vostro apprezzamento
capitolo dopo capitolo.
Capitolo 1
Correva l’anno del Signore 1263, poco prima di Sant’Eskil,
quando le notti iniziano a farsi chiare e si avvicina il periodo della semina,
quando i prati sconfinati che circondavano la tenuta di Arnas, nel
Vastergotland, si riempirono di tende multicolori. Non fosse stato per gli
scudi araldici ben piantati nel terreno che svettavano verniciati a fresco, per
il gran via vai di piccoli apprendisti maniscalchi che entravano e uscivano
dalle piccole fucine di fortuna e per il vociare allegro della folla che arrivava
fino alle orecchie dei signori della tenuta, si poteva pensare che la
roccaforte costruita più di cinquant’anni prima dal grande Arn Magnusson stesse
per essere presa d’assedio.
- tutto questo trambusto per uno stupido torneo- borbottò
tra sé e sé la giovane folkung guardando giù dai merli dell’ampio muro di cinta
a nord.
Catherine Birgersdotter era stanca di cercare di capire le
linee imperscrutabili della politica matrimoniale. Erano pensieri senza capo ma
tutti quanti con una coda: un erede, ovviamente maschio, avrebbe salvato molte
più vite in caso di guerra che non l’addestramento di uno squadrone intero di
cavalleria pesante folkung. Che la sposa non fosse proprio felice della via
prescelta dal proprio padre all’ultima assemblea di stirpe, non era di
rilevante importanza per nessuno.
Donne.
Un cruccio continuo, dalla nascita fino al matrimonio, ecco
cos’erano. Sin dal primo vagito, il loro destino era segnato.
Poche avevano la fortuna che ebbe sua bisnonna, Cecilia
Algotsdotter, con suo bisnonno Arn Magnusson: sposarsi per amore.
La loro fu una triste storia, minacciata in più occasioni
dagli interessi in gioco per la lotta alla corona degli Erik e Catherine amava
sempre farsela raccontare da nonna Ingrid, nelle lunghe sere d’inverno davanti
al fuoco.
Nonno Magnus era il primo frutto di quell’amore, un amore
ancora acerbo ma già molto forte, tanto da non essere intimidito dall’ammenda
che avere un figlio fuori dal matrimonio prevedeva.
Se anche il loro amore, così forte e così temprato dai lunghi
anni di penitenza, scampò per un soffio agli intrighi degli uomini, che
opinione poteva avere lei, figlia più giovane dello jarl, di un torneo in cui
il premio sarebbe stata la sua mano?
Che opinione poteva avere, Catherine, di un padre che,
contro ogni aspettativa, sprecava un’importante mezzo di alleanza, quale lei si
era rassegnata ormai da lungo tempo ad essere, per affidarlo al caso?
Un folkung non infrange mai un giuramento.
Mai.
Ne andrebbe dell’onore dell’intera stirpe, e anche in questo
il matrimonio dei suoi bisnonni ne era stato prova concreta.
Un vero folkung non si rimangia mai la parola data.
Che ne sarebbe stato di lei se ad uscire vittorioso dal
torneo fosse stato il marito sbagliato per il regno?
Che ne sarebbe stato dell’onore di suo padre?
Che ne sarebbe stato dei suoi fratelli se avessero deciso di
accettare un più che probabile duello per salvarlo quell’onore?
Per quanto pregasse la Beata Vergine, che sempre si era
dimostrata benevola verso la sua famiglia, in cerca di risposte o per lo meno
di segni che gliele facessero intuire, Catherine non vedeva saggezza nella
scelta del proprio padre, e sebbene fosse questa la scusa ufficiale che si era
data, quella ufficiosa era che non aveva smesso di sperare in una vita diversa
per sé stessa, possibilmente che non comportasse né il velo di una sposa né
quello di una suora.
Ma era una donna.
Una folkung.
Una figlia di Bjalbo.
E ciò bastava a ricordarle che non aveva via di scampo.
***
La vita di Robert Thomas Pattinson era cambiata al punto che
spesso gli sembrava tutto un sogno. Mai avrebbe potuto immaginare gli
avvenimenti degli ultimi anni, né momenti più bui né più felici.
Eppure era lì, nella sua tenda, alle porte di una sperduta
roccaforte svedese a passare la cote sul filo della sua spada.
Molti furono i pensieri e le paure che lo attanagliarono in
quell’ora di preparazione.
Se lo avessero scoperto?
Essere scoperto significava essere messo ai ceppi sulla
pubblica piazza e poi ucciso. Almeno, in Danimarca era così.
Il quell’angolo di mondo dimenticato da Dio valeva la stessa
regola? O ti uccidevano seduta stante, con un rapido colpo di spada?
Sicuramente no. Morire sulla lama di un’arma così nobile era
un privilegio dei soli signori, non di un inutile attore che, chissà come e
chissà per quale motivo, era finito dentro al suo libro preferito e per
sopravvivere aveva dovuto inventarsi una nuova professione.
Per quanto fosse sempre stato una persona fantasiosa, non
aveva saputo pensarsi niente di meno che cavaliere. Ed era un cavaliere che
aveva serie difficoltà di sopravvivenza in un mondo in cui per portare una
spada bisognava essere in grado di sanguinare blu.
Se tutto fosse andato bene avrebbe potuto morire falciato
dalla mezza luna di una scure e non andare incontro alla nera mietitrice con un
cappio al collo.
Capitò all’improvviso, una notte di circa quattro anni
prima. Un attimo era coricato sul suo letto, tra le sue lenzuola sfatte con una
copia de “la Badessa” tra le mani, quello dopo si ritrovò sdraiato con la
faccia nella neve e niente altro che una sottile camiciola di lino, un
pantalone di morbida pelle e stivali al ginocchio addosso.
A volte si sforzava di ricordare qualche particolare in più
del suo arrivo in Svezia, ma, a parte questo piccolo dettaglio del titolo del
libro che stava leggendo, non ricordava altro.
Sapeva solo che nonostante il gelo, che aveva rischiato di
rendere la sua vita all’alto dei cieli prima del dovuto, non era poi chissà
quanto rammaricato della sua sorte.
Nel suo mondo, nel 2011, avrebbero detto che era
semplicemente un venticinquenne con la sensibilità di un bambino, che con una
spada di cartone foderata di carta stagnola correva per casa a cavallo di una
scopa immaginando di essere un cavaliere. Troppo grande per questi giochi,
troppo grande per questi sogni ormai del tutto irrealizzabili in quella che era
la realtà del suo tempo.
Non erano molto distanti dalla realtà, a ben vedere. Robert
era esattamente ancora quel bambino nella sua testa, ma fin troppo cosciente
del fatto che per le strade si girasse sulle auto e non a cavallo e che si
indossassero completi scuri con cravatta e non cotte di maglia per affrontare i
nemici in battaglia. Che diamine! Nemmeno più le spade erano spade! Con un
cellulare si risolveva ogni cosa.
Camminando in mezzo alla tempesta di neve, quindi, era quasi
contento di ciò che gli era capitato, anche se, non importa quanti anni
passavano, continuava a sembrargli tutto assurdo e impossibile. Un sogno,
appunto.
Non aveva avuto particolari difficoltà ad adattarsi alla sua
nuova vita. Aveva letto quanto bastava di saghe, miti e leggende medioevali per
capire come girassero le cose, soprattutto in quell’angolo di mondo decisamente
troppo a Nord dell’Europa per essere davvero considerato ancora “mondo”.
Era nella terra dei folkung, dei signori dal mantello azzurro
con un leone rampante argenteo sullo scudo e i cavalli arabi bardati di cotte
di maglia sotto le gualdrappe con i colori di stirpe.
Aveva letto e riletto mille, milioni di volte delle
avventure del leggendario Arn Magnusson di Arnas, il cavaliere templare che,
tornato dalla Terrasanta, aveva portato la pace nel suo paese natale devastato
da anni di lotte per il potere.
Miracolato e donato all’opera di Dio sulla terra, Arn era
cresciuto in monastero, educato all’arte della guerra da tale frate Guilbert e
alla filosofia da padre Henri. Rispedito nel mondo secolare, l’ingenuità, sua
eredità dell’educazione ricevuta tra i monaci, l’aveva portato a un guaio
dietro l’altro ma anche a tante conquiste, fino a che, come ogni uomo, fu vinto
dall’amore per una giovane: Cecilia Algotsdotter.
Fu la sorella di lei, per invidia ed egoismo, a condurli
alla rovina utilizzando la confessione a una badessa di fazione nemica come
arma. Per essersi congiunti carnalmente prima del matrimonio, vennero
condannati a vent’anni di penitenza, da scontare rispettivamente in convento e
in Terrasanta.
Robert non era quindi poi tanto sprovveduto quando si trovò
a vagare in quelle terre devastate dal gelo cercando di inventarsi un modo per
sopravvivere. Sapeva chi reggeva il potere, come e perché veniva gestito da chi
e quale fosse lo schieramento delle fazioni nemiche.
E proprio perché conosceva così bene la sua nuova realtà
avrebbe dovuto essere più accorto e saggio, accontentandosi di diventare un
servo, magari a Forsvik, la tenuta dell’ormai defunto herr Arn, dove sapeva che
sarebbe stato immediatamente affrancato.
Ma il suo sogno era decisamente diverso. Perché avere un
forcone in mano quando poteva avere una spada?
Non fu facile trovare le persone giuste, ma si sa che in
ogni contrada che si rispetti c’è sempre il bifolco che, per quanto tema la
forca, non può proprio fare a meno di giocarsi l’osso del collo in una mano a
tu per tu con la sorte in cui sa già che, presto o tardi, sarà il banco a vincere.
Sigge di Skara apparteneva a quel pugno di indigeni liberi che
professavano ancora la religione dei propri padri, troppo scettici nei
confronti di quello che loro chiamavano “il Cristo Bianco” e troppo sospettosi
di quei vescovi bardati d’oro e preziosi i cui occhi brillavano di fronte a un
sacchetto di monete d’argento per potersi convertire alla nuova fede. Era
quindi il candidato ideale, secondo Robert, a fargli da spalla: ben addentro
alla vita bassa del popolo e sufficientemente incosciente per poter agire in
frode a tutte le regole che governavano il paese. E soprattutto era una specie
di tuttofare.
Di fronte a un compenso stimato al cinquanta per cento dei
futuri guadagni, Sigge accettò immediatamente l’accordo con Robert,
prodigandosi anche in fretta per procurarsi l’occorrente: un’armatura, un
cavallo, delle armi e un bravo chierico corrotto che falsificasse una patente
di nobiltà inventata di sana pianta.
Era davvero una fortuna che quei barbari del nord avessero
iniziato a coltivare interesse per i tornei tra cavalieri come in ogni angolo
d’Europa, altrimenti Robert non avrebbe saputo proprio che inventarsi per
sopravvivere.
Non che ci avesse pensato in realtà così seriamente. Era
stata la prima idea che gli era balenata in mente con un’immagine nitida di
Heath Ledger che cavalcava, lancia in resta, gridando “William!!!!” prima di
disarcionare il suo avversario in una giostra. E da bravo attore, aveva seguito
il suo esempio, cercando di entrare in quel personaggio al meglio delle sue
capacità per non essere scoperto.
E fino a quel momento non se l’era cavata poi così male.
Aveva vinto molti tornei, si era fatto un nome da quelle parti.
Sir Robert Thomas Pattinson da Barnes aveva ormai un suo
peso in Danimarca e in Norvegia, dove si era diretto a cercare qualcuno che gli
insegnasse l’arte in cui voleva cimentarsi. Certo, non era un nome che suonava
bene come Magnus Maneskold, o Ebbe Sunesson … o Bengt Elinsson, molto più
adatti, geograficamente parlando ma… aveva il “son” alla fine… sicchè era riconosciuto
come figlio di qualcuno almeno. Di uno che si chiamava “Pattin”, nome che
veniva accettato senza troppi sorrisi di scherno perché era straniero e nella
terra di quel cavaliere tanto forte poteva essere un nome come Eskil, o Birger
o Magnus dalle loro parti.
In ogni caso, era di fatto un cavaliere capace che sudava
freddo ad ogni iscrizione quando Sigge, suo araldo all’occasione, presentava la
pergamena del suo attestato di nobiltà.
Se fosse andato tutto bene, quella sarebbe stata l’ultima
volta che avrebbe temuto per la sua testa.
In palio non c’erano oggetti d’oro facilmente rivendibili.
C’era molto di più.
C’era una folkung.
E non una folkung qualsiasi, ma la nipote di Arn Magnusson
in persona.
E c’era una terra in cui vivere: Forsvik.
Sposarla non avrebbe significato soltanto ottenere il
legittimo diritto a portare una spada, ma entrare in una delle famiglie più
nobili e più rispettate di tutto lo Sveland.
Sposarla avrebbe significato entrare davvero nella storia di
cui aveva tanto letto e sognato e in cui aveva tutta l’intenzione di rimanere.
Non poteva perdere.
Non poteva assolutamente perdere.
E fu con questo pensiero che continuò a passare la cote
sulla sua spada fino a che fosse in grado di tagliare a metà un capello
lasciato cadere sul suo filo.
- Robert! - lo chiamò la voce di Sigge fuori dalla tenda non
appena ripose la sua arma nel fodero.
Quando uscì fuori dalla sua tenda verde, Robert venne quasi
abbagliato dalla luce del sole che aveva tenuto lontano per troppe ore e per
qualche minuto faticò a mettere a fuoco la figura del suo araldo che era
controsole. Ma anche con la vista offuscata dalle macchie, la figura di Sigge
non era certamente confondibile.
Alto e imponente, aveva la struttura fisica di un uomo che
ha lavorato a lungo come servo. Muscoloso e solido, con i capelli rossicci e
gli occhi scuri, assemblava in sé tutte le caratteristiche salienti dei tratti
svedesi. Nonostante l’aspetto minaccioso, era un uomo buono. Uno di quegli
uomini che sono costretti a reinventarsi giorno dopo giorno per la
sopravvivenza, ma era anche uno di quegli uomini che non si lamentano della
propria misera condizione ma anzi sanno che non si troverebbero a proprio agio
in qualsiasi altra vita.
Sigge affermava, senza mentire, che l’ultima cosa che
desiderava nella sua vita era un mantello azzurro. La libertà sopra ogni cosa
era l’unico mantello che era disposto a portare.
- se sei ancora convinto di quello che stai per fare, il tuo
cavallo è pronto- disse Sigge con la sua voce profonda e dura.
- più che convinto, amico mio. Più che convinto- gli rispose
Robert seguendolo poco distante dalla tenda dove il suo stallone già bardato lo
stava aspettando.
- le lance sono già state consegnate?- gli chiese
aggiustandosi meglio la cotta di maglia sui polsi prima di afferrare il guanto
ferrato che gli veniva dato.
- si. L’armiere ha fatto un po’ di storie per il compenso.
Sentirsi dire che l’avremmo pagato metà subito e metà dopo il torneo non gli ha
fatto molto piacere. Credo che se non dovessi vincere, Sir Robert, ci
converrebbe darci alla fuga senza nemmeno levare la tenda- scherzò Sigge.
Non era permesso alle persone di rango inferiore di
rivolgersi al proprio signore senza anteporre il titolo davanti al nome, ma
Robert non era realmente un nobile.
A ben vedere era un furfante anche peggiore di lui, dato che
aveva lanciato questa folle idea che però, da tre anni a quella parte, era
risultata vincente. Quando Sigge in privato lo chiamava Sir era chiaramente per burlarsi di lui.
- non levare la tenda, Sigge? Sul serio?-
- parola mia, Robert, che Odino scagli su di me la sua mazza
se mento. Quell’armiere sarebbe in grado di piazzarsi di fronte al cancello
dell’arena pur di non farti andare via senza essere pagato-
- in questo caso, allora, mi conviene vincere-
- non so quanto ti convenga, invece- commentò tutto a un
tratto serio l’araldo.
- oh, Sigge andiamo! Non essere sentimentale!- lo canzonò
Robert già pensando alla commozione che l’omaccione faceva di tutto per
nascondere quando si parlava di quanto la loro vita sarebbe cambiata se avesse
preso moglie. Avevano sviluppato negli anni una vera e autentica amicizia, che
aveva finito per prescindere dall’accordo di affari che li aveva tenuti legati
inizialmente.
Se Robert si fosse sposato sarebbero cambiate molte cose.
- non sono sentimentale, Robert. Penso alle conseguenze!-
- si, al fatto che la nostra testa non rischierà più di
rotolare dentro una cesta! È un bel cambiamento in effetti. Merita una
riflessione-
- sai cosa intendo. Solo i cavalieri veri giostrano, e solo i
veri cavalieri sposano una folkung. Se per qualche bizzarria del destino si
venisse a scoprire anche dopo un eventuale matrimonio che non lo sei, ti
conviene pregare seriamente di essere entrato nelle grazie dello jarl per non
subire la croce di fuoco. Quella di Bjalbo non è una famiglia con cui vale la
pena scherzare.-
Già, la croce di fuoco. C’era giusto quel piccolo problema.
Trovarsi di fronte al patto che proteggeva la vita e l’onore di tutti i folkung
era praticamente come guardare in viso la morte stessa, perché di quello si
trattava. Disonora gravemente un folkung o offendilo fisicamente e non
arriverai a vedere il terzo tramonto dopo aver commesso la tua colpa.
Meglio dunque essere positivi e pregare la Beata Vergine e
San Giorgio di non farlo scoprire. Sarà stato il periodo di pieno ardore
cristiano, ma si ritrovò a pregare più del solito e con più convinzione da
quando era nelle terre del nord.
- nessuno lo verrà a sapere. Vincerò, mi sposerò, indosserò
un mantello azzurro e tu verrai con me. Ho sentito dire che lo jarl ha
intenzione di dare in dote niente meno che Forsvik- disse Robert montando a
cavallo e cercando di cambiare parzialmente discorso.
- è così, infatti. Molti vogliono quella guarnigione. Sai
bene cosa significhi per la loro stirpe-
- certo che lo so. E lì che i folkung sfornano i migliori
elementi del loro esercito-
- esattamente. E il fatto che sia stata la fondata da Arn
Magnusson in persona non ti fa pensare?-
- a cosa?-
- a quante poche probabilità di vincere avrai, Robert-
Non aveva mai visto Sigge così preoccupato. Seriamente
preoccupato. E se uno come Sigge era tanto inquieto voleva dire che forse tutti
i torti per impensierirsi non li aveva. Ma non doveva certo preoccuparsi della
sua vittoria. Scorrendo mentalmente gli elenchi degli scudi araldici in lizza,
non ricordò nessun avversario particolarmente temibile, non più del solito
almeno.
Ma c’erano almeno due scudi blu con un leone rampante su tre
fiumi d’argento, e questo, in effetti, complicava un po’ le cose.
- e perché mai? Bengt Elinsson è ormai vecchio e non è più
in grado di brandire niente di più pesante di un boccale di birra. Sir Sigurd e
Sir Oddvar sono più o meno nelle sue stesse condizioni. I cavalieri più forti
del regno sono tutti seduti sugli scranni del palco e non su una sella, chi
dovrei temere?-
- il figlio di Alde Arnsdotter, Edwar, vorrà mantenere la
casa di suo nonno. Dicono che sia molto bravo, senza contare che il suo
insegnante è stato suo padre Sigurd in persona, il comandante del primo
squadrone di cavalleria leggera. È stato uno dei primi a essere nominato
cavaliere da re Erik- ipotizzò Sigge porgendo a Robert le briglie di Chimal, il
suo cavallo.
- e con questo?-
- ci saranno i folkung migliori in lizza per la mano di
Chaterine Birgersdotter. Lo jarl non darebbe mai Forsvik se non fosse
praticamente certo che finisca nelle mani di un altro folkung-
- e allora perché non vietare l’iscrizione al torneo agli
stranieri?-
- non pretendo di conoscere i piani di quella vecchia e
astuta volpe dello jarl, ma qualcosa bolle in pentola. Mi rifiuto di credere
che doni la mano della figlia a un pretendente scelto dal caso e le dia anche
quella tenuta come dote-
- i figli maschi di Birger sono tutti accasati o ancora
troppo piccoli per entrare persino in apprendistato. Forse ha esaurito già
tutti i legami matrimoniali utili alla stabilità della corona- considerò
Robert, più per partecipare alle elucubrazioni mentali dell’amico che non per
reale interessamento.
- O semplicemente non può far sposare sua figlia con una
delle figlie del re. La regina Rikissa ha sfornato un esercito di femmine -
- c’è sempre suo figlio Valdemar -
- Valdemar è solo uno dei suoi tanti bastardi. Ha scelto
quello concepito con la dama di corte di più nobili natali e l’ha fatto figlio
suo. Uno smacco bello e buono per i danesi. Mi chiedo perché i folkung
continuino a sostenere gli Erik se hanno mani in pasta dappertutto. I commerci
sono anni ormai che vengono gestiti qui ad Arnas da Sir Torgils e la parte più
forte nell’esercito è della stirpe di Bjalbo. La scuola di Forsvik sforna ogni
anno ottimi elementi da guerra. Persino la maggior parte degli jarl, per non
parlare del maresciallo del re… Avrebbe potuto dare Chaterine in sposa
direttamente a uno dei cavalieri che insegnano alla scuola. Sarebbe stato più
saggio. O darla al figlio del re… Valdemar, un erik. Può anche essere un
bastardo, ma è stato riconosciuto come membro della famiglia reale all’ultima
assemblea di stirpe. Se avessero un figlio maschio, erediterebbe la corona e ci
sarebbe un folkung sul trono- rifletté Sigge con una mano sotto il mento e
l’espressione assorta mentre si dirigevano entrambi verso l’arena.
Pochi minuti ancora e il primo torneo di Arnas avrebbe avuto
inizio.
- qualcuno dice che ci abbia provato ma che il re abbia
temporeggiato a lungo prima di dire che non era ancora tempo per accasare suo
figlio- disse ancora l’araldo, porgendo a Robert lo scudo con il blasone
inventato. Un giglio dorato in campo blu.
I gigli dorati in campo blu e i tre leoni coronati in campo
rosso erano le insegne di Re Riccardo, ma paragonarsi a un re era decisamente
eccessivo. Tuttavia non aveva resistito alla tentazione di portare in giostra i
colori della sua terra. Sebbene parlasse correttamente lo svedese e il danese
per via della sua permanenza in terra straniera, Robert non aveva mai smesso di
essere prima di tutto inglese.
- non gareggiare, Robert. Sento puzza di guai- gli disse
ancora Sigge mettendogli una mano sul braccio prima che quello balzasse
agilmente sul suo destriero.
- gareggerò, invece. Qualsiasi cosa tu dica, ci tengo più
alla mia testa straniera che non alle strategie matrimoniali di un vecchio -
gli rispose Robert con un sorriso, prima di infilarsi l’elmo e aggiustarsi lo
scudo al braccio.
- spero almeno che sia graziosa- scherzò girando il cavallo
per entrare nello stadio.
- è una folkung, è sicuramente più che graziosa!-
- beh… sarò un marito fortunato allora-
- sempre che ne usciate vincente e sulle vostre gambe, Sir!-
gli gridò dietro Sigge, osservandolo entrare nello stadio assieme ad un altro
cavaliere che partecipava alla gara.
Aveva proprio una bruttissima sensazione.
***
La notte non portò alcun consiglio alla giovane Catherine, e
nemmeno il mattino. Nemmeno il momento in cui la serva Suom le fece calare il pesante
velo blu davanti agli occhi, attraverso la cui trama distingueva a malapena i
contorni della sua stanza ancora semibuia.
Nemmeno la Vergine Maria aveva risposto alle sue preghiere.
Era forse caduta vittima della superbia pensando che la
Madre del Cristo avrebbe dovuto risponderle in qualche modo, facendole capire
se aveva deciso di abbandonare al proprio cammino le sorti dei folkung che
nell’ultimo secolo le avevano dato di certo molti pensieri?
Si, sicuramente doveva essere così. E immediatamente le si
rivolse ancora, ma per chiederle perdono per il suo peccato e dire che
qualunque sarebbe stata la Sua volontà, ella vi si sarebbe rimessa.
- Fru Catherine?- la chiamò Suom facendole segno di andare,
ricordandole che non poteva più indugiare oltre nell’anticamera del suo
destino.
In silenzio, con la morte nel cuore ma con il contegno di una
degna signora di Arnas, Catherine raggiunse le scale che l’avrebbero condotta
alla sala dei banchetti e poi fuori, dietro le scuderie, dove già da giorni era
stato allestito un piccolo stadio per le giostre.
Passo dopo passo, cercò di consolarsi dicendo che non era la
prima né l’ultima donna che avrebbe condiviso il talamo con uno sconosciuto di
cui sarebbe diventata moglie. Che tutti quanti avrebbero voluto vivere come gli
eroi e le eroine delle ballate di cui avevano ascoltato e poi sognato ad occhi
aperti le avventure, ma che tutti, prima o poi, avrebbero dovuto rassegnarsi al
fatto che la loro vita non avrebbe mai ispirato una canzone, che l’onore della
famiglia e della corona erano le cose più importanti per cui vivere e per cui
valesse ben la pena sacrificarsi.
- Fru Catherine- si inchinò Sigurd di Forsvik, il comandante
del primo squadrone di cavalleria leggera folkung, che aveva avuto l’onore di
essere addestrato da Arn Magnusson in persona, un templare della Terrasanta.
Vestito della sua pesante cotta di maglia e con i piedi
calzati d’acciaio, Sigurd seguì il passo della sua signora, com’era d’uso.
Doveva sempre esserci un seguito per la sposa, anche se in quella particolare
occasione ella era a casa sua. Anzi, in quella particolare occasione, era il
rappresentante in carica più anziano dei capitani dei vari reggimenti a dover
accompagnare la dama sul palco d’onore.
Catherine, solitamente scocciata da tutte queste cerimonie e
solennità, soprattutto per il fatto che costui fosse stato il suo insegnante
per diversi anni a Forsvik, accolse bene l’uomo e si fece seguire senza
proteste. Colta da un’ispirazione improvvisa, indotta per lo più dai passi
pesanti del cavaliere alle sue spalle, iniziò a sorridere pensando tra sé e sé
che forse non tutto era perduto.
***
La gente di Arnas non era molto avvezza al trambusto dei
tornei, e in genere, dei duelli di qualsiasi tipo. C’era stato qualche torneo
degli scapoli, i giochi che si svolgono in onore degli addii al celibato prima
dei matrimoni, ma nulla di più. A memoria d’uomo, nessun torneo fu tanto
emozionante quanto quello in onore del matrimonio di herr Arn e fru Cecilia.
Gli scudi araldici degli Sverker usati come bersagli per la gara di tiro con
l’arco erano ancora appesi nella sala dei banchetti, prove tangibili della
bravura degli arcieri che vi avevano preso parte. Ogni scudo aveva impiantato
al centro un mazzo di frecce lanciate da una distanza di ben cinquanta passi in
modo tanto preciso da entrare tutte quante nel cerchio di una corona.
Ma a parte quel giorno di festa, la tenuta non vedeva spesso
prove di forza e cavalleria, almeno non quante ne vedevano Nas, o Forsvik, o
Ulvasa, o Lena...
Arnas era il centro nevralgico degli affari del regno, ove
entravano e uscivano merci di ogni tipo, dove si producevano manufatti che venivano
esportati fino in Danimarca e dove erano conservati forzieri talmente carichi
che potevano fare quasi concorrenza alla tesoreria della più piccola
guarnigione templare in Terrasanta, e considerando la ricchezza sconfinata
dell’esercito del Signore, era davvero tutto dire. Arnas era il cervello della
potenza secolare, Nas il cuore e Forsvik il pugno di ferro.
Purtroppo anche avere un ruolo così importante, che faceva
sentire i suoi abitanti più che orgogliosi, dopo qualche tempo smetteva di
essere interessante.
Robert pensò fosse quello che spingesse anche i servi, oltre
alla gente libera, a lottare con le unghie e coi denti per guadagnarsi un posto
buono per vedere l’arena.
I cavalieri erano già tutti pronti, con i cavalli che
grattavano gli zoccoli sullo sterrato, tutti bardati delle gualdrappe coi
colori del casato del proprio cavaliere.
C’era uno Sverker, il cui cavallo esibiva il rosso e il nero
e lo scudo appeso alla sella mostrava un grifone nero con il becco spalancato.
Ma Robert non riusciva a riconoscere l’armatura del cavaliere.
C’erano tre folkung, tutti con il leone rampante sui tre
fiumi argentati. Gli sembrò di distinguere Edwar Sigurdsson, come aveva detto
Sigge. E quello sul cavallo nero con la criniera argentea doveva essere suo
fratello Eskil. Un po’ strano che fossero in gara. Erano cugini di secondo
grado con la giovane Catherine, ma probabilmente tentavano di vincere la mano
della cugina per qualcun altro.
Ad ogni modo, erano il suo problema più grande assieme ad un
altro cavaliere ammantato di azzurro che non riconobbe, perché gli altri
contendenti sembravano molto male in arnese. Alcuni di loro avevano addirittura
bisogno che li si aiutasse a montare a cavallo per via del peso dell’armatura.
A giudicare dai decori dorati e dalle piume dei loro elmi, dovevano essere
nobili norvegesi.
- ci sono i figli di Sigurd. Te l’avevo detto- disse Sigge
raggiungendo Robert con la lancia che avrebbe dovuto portare per la sfilata
sotto il palco dei padroni di casa.
- sono i cugini di Birger jarl… Non riesco a capire perché
gareggino- disse Robert afferrandola.
- posso sempre tentare di scoprirlo-
- fallo- ordinò Robert girando il cavallo per iniziare a
seguire gli altri cavalieri in giro per lo spiazzo. - Così potrò capire quanto
fanno sul serio-
- consideratelo fatto, Sir-
Ben tre cavalieri folkung in gara erano un bel problema,
anche se si era aspettato di vederne molti di più.
A ben vedere, si era aspettato anche molti più cavalieri, ma
mentre già giravano al passo attorno all’ellisse dell’arena, contò solamente
altri tredici pretendenti escluso sé stesso.
A un occhio esperto agli intrecci disegnati dalla lotta per
il potere come quello di Ingrid Ylva, la madre di Birger jarl, che aveva fatto
parte del regno delle vedove, quella situazione poteva realmente apparire fosca
e presagio di sventura. E per quanto avesse sempre avuto fama di essere una
donna saggia, toccata dalla benedizione di poter vedere il futuro, quella volta
anche per lei le cortine del tempo restarono sigillate, lasciandola sola,
seduta accanto a suo figlio Birger, con il suo brutto presentimento.
Solo Ingrid Ylva poteva realmente accorgersi che in una gara
in cui i folkung erano solo tre c’era qualcosa che non quadrava. In realtà
anche Sigge se ne accorse, ma la sua condizione di libero faceva sì che non
potesse far niente per cambiare il corso delle cose.
Se entrambi lo avessero fatto, con il senno di poi, la storia
sarebbe andata diversamente.
Ma la storia non si fa con i se e Robert non era che un cavaliere senza terra e anche senza
titolo, più propenso a rallegrarsi della sua fortuna di avere solo tre
avversari davvero forti su tredici che potessero ostacolare la sua vittoria.
Fosse stato un uomo con più esperienza delle insidie del mondo secolare
probabilmente avrebbe seguito il consiglio del suo araldo.
Fece il giro d’onore attorno al campo, sollevò la lancia
davanti al palco del signore e sbirciò con la coda dell’occhio la promessa
sposa, senza però riuscire realmente a vederla poiché portava un lungo velo che
le celava il volto.
Quando si diresse al cancello ad attendere il suo turno di
gara, Sigge lo stava già aspettando.
Sollevò svelto la celata dell’elmo e scrutò il suo araldo.
- scoperto qualcosa?-
- si… e non è nulla di buono, come temevo- gli rispose aspro
quello, afferrando le redini di Chimal per poi legarle ad una staccionata.
- gareggiano per Forsvik. Faranno molto sul serio- continuò
Sigge, controllando un ultima volta gli zoccoli del destriero, più per
intrattenersi in un’attività che non per reale bisogno. - A quanto pare, herr
Birger ed herr Sigurd hanno avuto qualche incomprensione negli ultimi anni.
Vogliono prendersi la guarnigione. Della mano della cugina gli importa poco-
Per un attimo, la mente di Robert fu attraversata da un’idea
ben poco onorevole, che anche il solo proporla gli sarebbe costata un duello.
Accordarsi con i due cavalieri sulla vittoria per avere in premio la sposa e
lasciare loro la tenuta sarebbe stato come sminuire le loro abilità di
cavalieri, come ingannarli sulla sua bravura. Offendere il loro onore con una
simile offerta non sarebbe stata una mossa saggia.
- com’è stato stabilito l’ordine di gara?- domandò con la
gola secca, temendo già per il futuro dei suoi piani.
- sei dannatamente fortunato, Robert. L’estrazione degli
scudi li ha messi praticamente l’uno contro l’altro già al secondo turno. E il
terzo folkung è nella loro stessa sezione. Sei stato talmente fortunato che ti
ritroverai solo con uno di loro in finale. Lo sverker dovresti incontrarlo in
semifinale e tutti gli altri… non possono nemmeno dirsi cavalieri-
- visto, Sigge? La Beata Vergine e San Giorgio sono dalla
mia parte!-
- io parlerei più di fortuna sfacciata che non di
intercessioni. Credo che le tue vergini e i tuoi santi abbiano di meglio da
fare, ovunque essi siano, che non proteggere un mascalzone come te- scherzò quello
aspettando che Robert smontasse.
- si chiama fede, Sigge. Solo fede-
Le giostre sono un gioco di abilità cavalleresca molto più
pericoloso di quanto a primo acchito si possa immaginare. Quelli che paiono
solo uomini a cavallo con in braccio una stecca, in realtà sono delle
pericolose macchine da sfondamento. Solo il peso di una cotta di maglia era di
circa dieci chili, senza contare le armature complete che alcuni signori
avevano iniziato a portare che arrivavano a pesare anche più del doppio. Il
fatto che un cavaliere ci si muovesse agevolmente al suo interno era già indice
di una grande forza fisica, anche senza tener presente il gravame di una lancia
misura standard.
Un colpo inferto da un braccio poderoso come quello che
sembravano presentare i cavalieri ammantati d’azzurro avrebbe provocato seri
dolori anche all’avversario protetto dalla migliore armatura del mondo.
La grazia con cui eseguivano i movimenti, la facilità con
cui governavano il proprio cavallo e l’ardimento che mostravano di fronte ad
ogni avversario, fecero si che Robert, per la prima volta, temesse seriamente
per la propria vita.
Era magnifico vedere con i suoi occhi la maestria di questi
indomiti cavalieri di cui aveva letto a lungo, ed al contempo era spaventoso
pensare di dover competere contro una simile bravura.
Come aveva previsto Sigge, arrivò all’ultimo turno di gara
senza nemmeno stancarsi. I suoi avversari erano stati prede molto facili,
impacciati nelle loro armature eleganti ma troppo pesanti e scomode da portare.
Non ebbe nemmeno il dubbio di potercela fare, vincendo tutte
le volte con due soli assalti ognuno da tre punti e senza incassare nemmeno
mezzo colpo.
Ma contro il folkung che sarebbe arrivato in finale non
avrebbe avuto nemmeno una possibilità di vittoria. Il suo ego si sgonfiò come
un palloncino bucato nel momento esatto in cui vide Edwar Sigurdsson abbassare
la celata dell’elmo e prepararsi all’attacco di fronte al cavaliere di Bjalbo
cui non sapeva dare un nome. L’araldo di Biger jarl lo chiamò Sir Magnus da
Visby, ma nessuno sapeva chi fosse.
Fu una lotta alla pari, fatta di colpi che continuavano a
scivolare sugli scudi in cui nessuno finiva sbalzato di sella, ma alla terza ed
ultima tenzone, lo sconosciuto folkung si coprì di vergogna infrangendo una
delle regole fondamentali dei guerrieri di Forsvik, dove sicuramente era stato
addestrato. Non poté nascondere di aver mirato al volto e di essere arrivato ad
un pollice dal centrarlo. Così ci si comportava in guerra, non in un torneo. Un
colpo del genere poteva essere mortale anche con una lancia spuntata. Lì Robert
iniziò seriamente a rimpiangere di non aver seguito il consiglio di Sigge.
Era stato oltremodo presuntuoso da parte sua anche solo
accarezzare il sogno di poter vincere contro simili leggende viventi,
consapevolezza che venne ad essere ancora più grande nel momento in cui anche
il secondo Sigurdsson venne brutalmente cacciato fuori dai giochi con un colpo
che non solo l’aveva sbalzato, ma era anche riuscito a fargli rotolare via
l’elmo.
- per le balle di Odino!- fu l’unico commento di Sigge.
- non avrei saputo dirlo meglio - confermò Robert con la
gola del tutto arida.
- ritirati, Robert. Sei ancora in tempo. Dimmi di sì e io
vado subito a mettere il lenzuolo bianco sul tuo scudo araldico -
- non posso ritirarmi ora -
- ma hai visto cos’è capace di fare quel demone con il
mantello blu! Ti farai ammazzare! La promessa di una sposa vale tanto quanto la
tua testa?-
- la promessa di non dovermi più preoccupare della mia
testa, non la sposa-
- non ti facevo così stupido, Robert. Non so se ti rendi
conto del fatto che rischi di non avere nemmeno più una testa di cui
preoccuparti!-
Sigge aveva indubbiamente ragione. Sotto tutti i punti di
vista aveva ragione. Sotto tutti i punti tranne uno.
Robert si attardò a guardare da lontano il suo avversario, e
mentre lo osservava smontare da cavallo, si accorse di un tremore più che
appena accennato delle sue gambe. Registrò il modo in cui il folkung si
aggrappò alla sella e si portò una mano al petto, aprendo e stringendo il pugno
più e più volte.
- è stanco, Sigge. Si regge a mala pena in piedi, mentre io
sono più che riposato - asserì recuperando i suoi guanti ferrati. - Respira
male, e il colpo che gli ha sferrato Eskil Sigurdsson al secondo assalto l’ha
debilitato parecchio -
- non vincerai comunque. Quello è un folkung!-
- ma nemmeno morirò. Sarà anche un folkung… ma è stanco-
- tu sei tutto suonato. Guardalo bene! È un reietto! Porta
lo scudo sverniciato da addestramento, non ha un araldo e nemmeno uno scudiero.
Nessuno sa chi sia e nessuno l’ha visto in volto. Sir Magnus da Visby è vapore
per questa gente! Quello gareggia per Forsvik.! Salirà in groppa anche sputando
sangue e combatterà contro Tor in persona pur di mettere piede come padrone in
quella guarnigione!-
- senti Sigge, ma da che parte stai?-
- purtroppo solo da quella di un idiota!- sbottò l’araldo
prima di slegare le redini di Chimal e passarle a Robert in un gesto di stizza.
Questo, senza dire più nemmeno una parola, balzò in sella e
calzò le staffe. Sistemò gli schinieri e tese silenziosamente una mano per
afferrare la lancia.
Il dubbio della debolezza sopraggiunta dell’avversario era
un beneficio su cui bisognava giocare, senza contare che se si fosse ritirato
Robert avrebbe perso la faccia con sé stesso.
Tante, troppe volte aveva condannato senza pietà il
comportamento dei cavalieri pavidi nelle sue letture. Tante, troppe volte si
era detto che lui non sarebbe mai stato quel genere di uomo.
I rumori gli arrivavano più chiari e più forti alle
orecchie, amplificati dall’eco del suo elmo ormai completamente abbassato.
Il nitrito del cavallo, il suo sbuffo… il grattare degli
zoccoli sulla terra battuta… la voce di qualcuno che li annunciava. L’ombra di
un fazzoletto bianco che toccava terra… e poi partì.
La lizza che divideva i due campi degli avversari scorreva
come una striscia indistinta agli occhi di entrambi i contendenti che già
sollevavano la lancia e attendevano di sferrare il colpo.
Robert resse il primo assalto, sebbene il colpo che lo aveva
toccato al petto gli avesse tolto il fiato.
La seconda volta fu sbalzato di sella come un guanto,
centrato da un colpo sferrato con il piatto della lancia in maniera tanto
imprevedibile che parte del successo del colpo fu proprio la sorpresa.
Non si fece troppo male e rimontò immediatamente in groppa a
Chimal.
A quel punto ormai tutti gli altri cavalieri si erano uniti
agli spettatori. Gli occhi di tutti erano dunque fissi su loro due e nessuno
ignorava chi avrebbe vinto, sebbene tutti pregassero che Sir Robert Pattinson
da Barnes non si facesse troppo male. Era già stato un eroe a restare in sella
al primo assalto contro il folkung, meritava di uscire dalla lizza sulle sue
gambe.
Ma la stanchezza di Sir Magnus era diventata evidente anche
a chi non l’avesse notata in precedenza. Per poco non aveva fatto cadere a
terra la terza ed ultima lancia prima di sistemarsela sotto il braccio e per un
istante il suo stesso equilibrio sullo stallone nero che cavalcava vacillò.
All’ultimo assalto fecero entrambi centro e fu solo una
questione di fortuna che fece restare in sella il folkung e sbalzare a terra
Robert, e questa volta il suo volo sembrò più pericoloso perché atterrò sulla
schiena.
Sigge corse subito al suo fianco, alzandogli delicatamente
la testa e sfilandogli l’elmo, borbottando qualche parola che suonava come -
razza di idiota incosciente!-
- è sempre bello vederti, Sigge- scherzò Robert con un
sorriso e il fiato corto mentre cercava di rialzarsi.
- certo che è bello vedermi, stupido caprone bardato da
cavaliere! Se mi vedi vuol dire che sei vivo anche se non ho idea del perché tu
lo sia!- ribattè burbero l’araldo aiutando l’altro a sollevarsi da terra.
- dalle mie parti si direbbe che ho “culo”-
Sigge non fece in tempo a chiedere cosa Robert volesse dire
perché lo squillo di tromba dell’araldo di Birger Magnusson, dall’alto del
palchetto, lo interruppe chiamando il vincitore davanti alla pedana del
signore.
Lo jarl non era esattamente un uomo possente, ma aveva
qualcosa nel contegno, nella postura, che lo facevano apparire alquanto imponente.
I suoi abiti di foggia straniera erano tinti dei colori della stirpe ed il
camicione ricamato sulla cotta di maglia era l’unico vezzo che si era concesso.
Il blu era straordinariamente profondo e il leone rampante dei folkung sembrava
muoversi e quasi ruggire ad ogni suo minimo movimento.
Rigido e impostato si avvicinò alla ringhiera di legno del
suo palco, tendendo una mano indietro alla figlia che lo stava seguendo.
Ancora piegato sulle ginocchia, con il respiro grosso e
affaticato, Robert guardò la speranza del suo futuro passare nelle mani di un
altro.
- cavaliere! Vincitore! Oggi hai dimostrato il tuo valore-
tuonò la voce profonda dello jarl, accompagnando sua figlia accanto a lui. -
Come cavaliere di Forsvik e compagno folkung ti dico che sei stato scorretto
con i tuoi compagni e che non meriteresti il premio…-
Un brusio di assenso si levò alle spalle dello jarl, da
uomini e donne che avevano colto i colpi bassi sferrati da Sir Magnus contro
Sir Edwar e contro Sir Eskil pur di aggiudicarsi la vittoria.
Anche la testa ancora fulva dello jarl annuiva con cipiglio
serioso, ma presto alzò una mano e il silenzio tornò sul palco dei signori.
- … Ma è anche vero che se un simile comportamento è
concesso in guerra e non nei giochi, in questo caso non è la semplice corona
d’oro di vincitore di un torneo di scapoli ad essere in palio, bensì la mia
amatissima figlia con una dote degna di una regina-
La tensione che vibrava tutt’attorno allo stadio era
palpabile. Ogni silenzio dello jarl corrispondeva ad una lunga ed estenuante
agonia per gli spettatori. Chi si chiedeva se Birger Magnusson si sarebbe
rimangiato la parola, visto il grado di folkung minore del vincitore; chi se gli avrebbe passato per valida la
vittoria; chi ancora se non ci sarebbe stato un duello in cui l’offesa
all’onore dei due fratelli poteva essere riparato. Nessuno prendeva in
considerazione Robert.
Lui invece era lì, chino sulle ginocchia flesse, a chiedersi
se c’era anche solo una minima possibilità che la scorrettezza del suo
avversario venisse pagata dando la vittoria al secondo classificato, o se lo
jarl avesse intenzione di dare sua figlia a uno dei fratelli per riparare
l’offesa subita in un torneo svoltosi tra le mura della sua casa.
Osservò a lungo la figura di Birger Magnusson fissare quella
scura del cavaliere inginocchiato sotto il suo palco, le mani guantate di ferro
aggrappate all’elsa della lunga spada.
Solo quest’ultimo sembrava tranquillo, come se fosse
totalmente estraneo al mondo al di fuori della sua armatura. Nonostante la stretta
celata dell’elmo del cavaliere, Robert riusciva a vedere i suoi occhi chiusi e
apparentemente rilassati, come se non potesse avere nulla da temere. Come se
già sapesse come sarebbero andate le cose di lì a poco e dovesse prestare la
propria attenzione a qualche riflessione personale più importante.
- la tua vittoria, dunque, Sir Magnus, non è disonorevole.
Non sei venuto fin qui dalla lontana Visby per tirare qualche colpo in un
torneo senza scopo. Sei venuto per una moglie e per una terra, e sapere che sei
disposto a lottare per esse mi da speranza di non dovermi mai pentire di questo
torneo. Ora alzati, cavaliere, e liberati dell’elmo, cosicché io possa guardare
in faccia il figlio che accolgo nella mia casa -
Il fatto che tutti, nonostante le parole dello jarl,
pensassero che la vittoria fosse stata ugualmente disonorevole non disturbò il
silenzio carico d’aspettativa che si diffuse sul pubblico.
Con calma, il cavaliere si alzò e con altrettanta calma
rinfoderò la sua spada al fianco prima di muovere qualche passo tutt’altro che
stentato in direzione del palco d’onore.
Quando finalmente sollevò una mano e l’avvicinò all’elmo,
tutti quanti trattennero rumorosamente il fiato, rendendo il silenzio ancora
più teso.
E la tensione fu condannata a durare ancora per molto tempo,
perché quello che uscì da sotto l’elmo del cavaliere fu una folta e lunga
chioma rossa.
- salute, padre - disse Sir Magnus da Visby. Niente di meno
che Catherine Birgersdotter.
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Chiarimento storico: per capire bene la storia, occorre che
siate a conoscenza degli schieramenti.
Casato folkung
(albero genealogico)
Casato erik (famiglia reale)
(albero genealogico)
Casato sverker (ex famiglia reale che tenta di riconquistare
il trono. Esso era andato perduto e riconquistato in più occasioni. Tutto
iniziò con l’assassinio di Erik il Santo, padre di Knut Eriksson a sua volta
padre di Erik Knutsson che è il re in carica nella mia ff. Ucciso Erik il
Santo, la corona passò a uno sverker che venne a sua volta ucciso da Knut
Eriksson. Alla sua morte, una questione di strategia politica fece tornare la
corona in casa Sverker con la promessa che sarebbe stata poi restituita a Erik
Knutsson, legittimo erede del precedente monarca. Il tradimento da parte della
promessa dello Sverker si concluse con l’ennesima lotta che vide quest’ultimo
alleato ai danesi tornare in patria a riprendersi la corona che Erik Knutsson
si era posato in capo senza legittimazione della Chiesa. La battaglia di
Gestilren confermò re Erik Knutsson, non ponendo però del tutto fine alla
guerra per la corona tra le due fazioni, poiché gli Sverker mantengono un erede
al trono. In tutto ciò i folkung sono sempre alleati degli erik e acerrimi
nemici degli sverker, sebbene per mantenere la pace essi non esitino a
concludere matrimoni tra i loro figli e quelli della fazione nemica)
Birger Magnusson jarl. Di sua figlia Catherine non vi è
traccia biografica tranne che nell’elenco dei suoi figli.
Erik Kuntsson. La storia reale lo vede morto nel 1216, ma la
mia lo prevede ancora vivo e vegeto, prendendomi la prima libertà necessaria
allo svolgimento della ff. Conosco la storia reale riportata nell’ultimo
romanzo di Guillou, ma riproporla a voi tale e quale ingarbugliava troppo le
fila del racconto.
Mi rendo conto che tutto ciò è un po’ insolito e complesso
per una ff nel fandom attori, ma spero che con le dovute guide ai riferimenti
storici possiate orientarvi senza difficoltà.
Per quanto riguarda le risposte alle recensioni, utilizzo la
nuova applicazione messa a disposizione del sito. A proposito degli
aggiornamenti... i tempi saranno lunghi dovuti allo studio, alla
lunghezza dei capitoli e all'aggiornamento di altre storie.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
capitolo 2
Care lettrici, se siete ancora lì, buon pomeriggio. Se non
ci siete più vi capisco. Mi odierei anche io. -.-“
Per questo ho deciso di pubblicare l’ultimo capitolo che in
realtà tenevo da parte da più di 5 mesi, attendendo di finire il 3 (rimasto a
metà).
Lo pubblico cogliendo l’occasione per raccontarvi cosa sta
succedendo a me e alle mie storie, visto che ultimamente siamo latitanti qua
sul sito.
Perché non aggiorno?... semplicemente perché non scrivo più.
O almeno… provo a scrivere e cancello, o non porto mai alla fine quello che
scrivo. Ho passato 6 mesi sentimentalmente tragici e tutte le storie che avevo
in mente si sono congelate. Così “L’ultimo cavaliere” è rimasto fermo a metà de
3 capitolo, “tienimi” a metà del 5, “red dresses” non credo la finirò mai visto
l’aura profetica di quella storia nei confronti della mia vita reale… per il
resto c’è qualche one shot incompiuta nella mia cartella file, e una breve fan
fiction in tema vampiresco ferma al 3 capitolo che non sa come andare avanti,
oltre a varie scartoffie, tra cui la famosa Dramione che deve vedere ancora
nascere il capitolo 2 anche se sugli appunti è praticamente finita. Questa è la
situazione file.
So che nelle risposte alle recensioni e ai messaggi privati
ho spesso risposto che avrei aggiornato, e credetemi… vorrei farlo sul serio.
Ma davvero, è un periodo che non riesco proprio a scrivere. Avevo addirittura
meditato di cancellarmi da sito, ma qualcuno più saggio e lungimirante, la mia
Angioletta, mi ha fatto riflettere e sono ancora qui a occupare lo spazio di un
account e qualche kbyte di un server. Spero di riuscire a finire, prima o poi,
ogni storia. Ma per favore, non chiedetemi quando perché davvero non saprei
dirvi.
Le poche energie creative devo spenderle in altro tipo di
scrittura, cioè la tesi. Tra le altre cose sono molto impegnata con l’uni e la
sera sono troppo stanca per riuscire a meditare scritture di qualsiasi altro
genere.
Quanto alle letture, ho visto i consigli di lettura che mi
date, e i vostri lavori che mi chiedete di leggere, ma per ora sto seguendo
solo una ff. Non per qualcosa, ma il fatto che l’abbia iniziata da subito e
l’aggiornamento arrivi con calma dopo molti giorni mi permette di seguirla con
la dovuta attenzione. Alcune storie le ho inserite secondo la mia ripartizione
mentale tra preferite e da ricordare e appena avrò tregua le leggerò
certamente.
Ecco qua… questo è quanto.
Ho messo l’avviso qua perché ho tolto il blog dalla
circolazione. Quando riprenderò a scrivere (perché prima o poi ci riuscirò
perché la propria pelle, anche se ammaccata, si vende a caro prezzo) magari ne
farò un altro.
Sperando di avervi fatto cosa gradita nonostante le minacce
di morte e consapevole del fatto che forse non è questo il capitolo che proprio
attendevate… spero di rivedervi presto.
Un bacio grande
Claudiaswan
Capitolo 2
A distanza di anni, qualcuno disse che lo jarl Birger
Magnusson si era rivelato ancora una volta il degno erede del compianto Birger
Brosa.
Entrambi avevano ottenuto la carica di jarl del regno molto
giovani; entrambi erano abili uomini d’arme e astuti uomini d’affari; entrambi
venuti fuori dallo stesso stelo nobile della stirpe di Bjalbo.
Quel qualcuno disse che i due jarl erano simili anche nella
particolare intonazione della voce nelle discussioni che riguardavano faccende
matrimoniali.
Se Birger Brosa aveva fatto tremare le mura del castello di
Nas il giorno in cui suo nipote Arn Magnusson era venuto per pretendere la mano
della sua amata Cecilia, Birger Magnusson aveva fatto sussultare i pesanti
portoni di quercia della sala dei banchetti di Arnas.
Subito dopo aver scoperto il volto della presunta figlia,
che poi si era rivelata essere la serva Suom, lo jarl aveva mantenuto la sua
compostezza, non dando nemmeno la soddisfazione alla figlia ancora con l’elmo
sottobraccio di vederlo diventare di un intenso rosso Sverker. Freddo e
imperioso, aveva mantenuto il silenzio, scendendo dal palco e poi dirigendosi
verso la sala dei banchetti, fermandosi solo per voltarsi un attimo e attendere
che lo si seguisse. Ma una volta fatta sgombrare la sala e sigillata la porta
d’ingresso, lo jarl scaricò tutta la sua rabbia in un malrovescio che colpì
Catherine in pieno volto, facendola accasciare in terra come uno straccio.
- tu non hai idea del pasticcio in cui ci hai cacciati
tutti!- tuonò osservando la figura della figlia.
- tu e tu sola sarai la causa del disonore e della rovina
della nostra casa!- inveì ancora slacciandosi la spada dal fianco per lasciarla
cadere rumorosamente sul tavolo.
A onor del vero, bisogna dire che Catherine non batté
ciglio, non pianse e nemmeno si azzardò a guardare in volto il proprio padre
mentre questi le scaricava addosso tutta la sua rabbia.
Birger Magnusson passò circa un’ora a gridare alle mura
della sala di quanto il gesto della figlia fosse stato tanto sconsiderato
quanto deleterio, di quanto ella fosse stata una stupida a dubitare delle
decisioni del proprio padre quando nessuno nell’intera stirpe di Bjalbo, e
nemmeno nelle file di mantelli blu degli Erik, avesse mai osato farlo. Le disse
di come avesse disonorato non solo lui, ma anche due dei più forti cavalieri
folkung del loro esercito, stracciati in un torneo da una donna che per di più
aveva vinto scorrettamente. Le disse quanto tutto questo gli sarebbe costato in
termini di amicizie, duelli per ristabilire l’onore, guerre e denaro.
Dal canto suo Catherine non ascoltava il proprio padre.
Si era isolata in un mondo tutto suo, come quando era
bambina e pregava la Santa Madre di Dio di farla svegliare maschio, un giorno,
per poter diventare un vero cavaliere come suo padre e i suoi nonni prima di
lei. Per questo motivo i rimproveri dello jarl non riuscivano minimamente a
scalfirla. Aveva passato tutta la vita ad essere consapevole del suo ruolo e a
desiderarne un altro.
Sapeva tutto di come si organizzava un banchetto, di come si
dovessero accogliere gli ospiti, di come dare diposizioni per la conservazione
dei prosciutti salati e i tempi di cottura di qualsiasi carne che venisse
frollata e appesa nelle loro ghiacciaie. Sarebbe stata in grado di essere una
buona padrona di casa e una buona moglie.
Ma la vita di sua madre Ingeborg e quella delle mogli dei
suoi fratelli non l’aveva mai affascinata tanto quella dei bambini che all’età
di cinque anni venivano mandati in addestramento ai vari castelli per diventare
dei cavalieri.
Ne aveva visti tanti entrare bambini piangenti e uscirne
ragazzi fieri e con una spada alla cintola su splendidi stalloni corazzati,
guardati con rispetto da tutti e pronti per fantastiche avventure. Una
crociata, l’assedio di un castello, il corteo di una sposa che rischiava di
essere rapita dai troll durante il suo viaggio verso la chiesa…
Una donna aveva una vita ben più monotona di quella di un
uomo, e per quanto si sforzasse non riuscì mai a capire perché da lei, una
donna, ci si aspettasse che tenesse acceso un camino e sfornasse figli per
l’uomo che qualcun altro avrebbe scelto al suo posto. Perché una donna non
poteva tendere un arco lungo in guerra? Le era concesso apprendere l’arte per
tenersi in esercizio fisico, ma perché sprecare eventuali doti solo per il tiro
a segno? Una donna non poteva forse essere in grado di brandire una spada come
un uomo? Non poteva forse portare su di sé il peso di un’armatura? Non poteva
essere forse libera di scegliere il proprio destino come un uomo?
Mentre suo padre la rimproverava con toni sempre più aspri,
Catherine si rispose che una donna poteva fare tutto quello e anche di più, e
che, scorrettezza o meno, era stata lei, una donna, a sconfiggere ben due
cavalieri fatti e finiti. Scorrettezza o meno, se lei non fosse stata in grado
di fare tutto ciò, non sarebbero stati disarcionati nemmeno se fossero corsi
incontro alla sua lancia disarmati e senza elmo.
Non osava parlare, non osava quasi respirare di fronte al
volto violaceo e iracondo del padre, perciò semplicemente attese che fosse lui
a stancarsi, a sedersi su una panca, a poggiare fiaccamente un braccio sul
tavolo e urlare un’ultima volta perché gli si portasse della birra. Dopo che
quest’ultima si trovò in un boccale alla portata della sua mano, lo jarl si
passò una mano sul volto stanco e pieno di cicatrici, ricordi di tante guerre
vinte con la spada in mano per difendere tutto ciò che, a parer suo, Catherine
aveva appena reso inutile con il suo folle e altrettanto inutile gesto.
- tu, stupida ragazzina, hai buttato al vento nel giro di
una sola mattinata tutto quello per cui centinaia di uomini hanno lottato e
perso la vita per anni- concluse tristemente prima di prendere un lungo sorso.
- perdonate, padre. Perdonate il mio gesto e le mie parole,
se le cose stanno veramente come dite- sussurrò umile Catherine, non osando
guardare altro che il pavimento.
- come sarebbe a dire “se le cose stanno veramente come
dite”? Con chi credi di avere a che fare, ragazzina?!- tuonò lo jarl sbattendo
sul tavolo il suo boccale e rovesciando sul ripiano una notevole quantità del
suo contenuto.
- Con voi, che siete stato sempre un padre gentile e
premuroso, ma di cui sinceramente fatico a comprendere la decisione di darmi
sposa al vincitore di un torneo-
- sei mia figlia! Sei una folkung! Tu non devi capire. Devi
solo adeguarti alle decisioni che tuo padre prende per te!-
- alle decisioni di mio padre o dello jarl del regno?-
Catherine era la quarta dei figli legittimi dello jarl e la
sesta se si contavano anche il fratello e le due sorelle che aveva avuto da fru
Signy fuori dal talamo nuziale. Sapeva molto bene con quanta sottomissione una
figlia dovesse rivolgersi al proprio padre, quanta della sua personalità
avrebbe dovuto sacrificare in sua presenza e con quanta umiltà dovesse evitare
di guardarlo apertamente in viso durante una discussione. Ma ella era una
fanciulla che non si era mai posta queste serie di limitazioni. Se c’era una
cosa che sua nonna Ingrid Ylva avesse tenuto a trasmetterle più della
conoscenza delle erbe e dei funghi, era la
caparbietà di non abbassare mai realmente il capo di fronte a un uomo,
padre, fratello, marito o re che fosse.
- le mie decisioni! Come jarl e come padre!- sbraitò Birger
jarl di nuovo rosso in volto.
- perdonate padre, ma la distinzione gioca un’importante
differenza- continuò caparbia la giovane, senza smettere di guardare gli occhi
neri del padre. - Come jarl… potrei rinunciare alla mia vittoria e inchinarmi
al vostro volere. Come padre… ho vinto un torneo in cui era in palio la mia
mano. Ho vinto la mia mano, ho vinto me stessa e la mia dote e come figlia
emancipata, con una tenuta e dei beni, sono libera di amministrarli come meglio
credo. O volete farmi credere che la parola di un folkung non è più il giuramento
più garantito che possa essere prestato?-
- come osi parlarmi in questo modo? Come osi mettere in
discussione le mie decisioni? Come osi rispondere di libertà, di proprietà e di
giuramenti con me? Io sono tuo padre e tu farai ciò che ti viene ordinato! Da
me che sono tuo padre, da me che sono il tuo jarl dei folkung e da me che sono
tuo jarl del regno!-
- sappiamo entrambi che finirà così. Ma continuo a non
capire -
- non devi capire!- gridò ancora lo jarl, che ormai cercava
di esercitare un notevole controllo sulla sua persona per non alzare ancora una
mano su sua figlia.- Hai disonorato me, la tua famiglia e la tua stessa stirpe.
Hai disonorato tua madre, i tuoi fratelli, i tuoi cugini. Come ammenda dovresti
rinchiuderti in convento ad espiare i tuoi peccati!-
- padre non avete mai creduto in queste cose, e voi meglio
di me sapete come il rinchiudersi a recitare salmi e preghiere non abbia alcun
effetto su ciò che accade nel mondo temporale-
- non è questo il punto!-
- perdonate, e qual è il punto?-
- piccola insolente e ingrata! Il punto è che preferiresti
veder rotolare la tua testa in una cesta?-
- certo che no. E d’altra parte non vedo come la
decapitazione possa salvare il vostro onore. Se i miei cugini si sentono tanto
offesi nella loro virilità, che seguano le tradizioni e mi sfidino al duello o
dovrò pensare che la mia morte servirà solo a lavare un onore fittizio- disse
Catherine, calma come se stesse discorrendo di ricami con la sua dama di
compagnia.
- cosa intendi dire?- chiese Birger Jarl tra i denti.
Conosceva i suoi figli. Sebbene fosse sempre stato preso dai
suoi incarichi importanti, prima come solo jarl dei folkung e poi anche come
jarl del re, non si poteva dire che fosse un padre assente.
Era stato lui a insegnare a cavalcare a Catherine, così come
agli altri suoi figli. Sempre lui aveva insegnato a tutti loro a tendere un
arco e ad usare anche l’elsa della spada come parte utile dell’arma nella
difesa. Conosceva bene la tempra e il valore della sua progenie. Ma non
conosceva nessuno di loro come Catherine.
La sua mente acuta, la lingua pronta e la calma con cui
esponeva i suoi ragionamenti lo rendevano segretamente orgoglioso della propria
creatura e il motivo che lo rendeva sì fiero era lo stesso che gli portava
rammarico. Se fosse nata maschio sarebbe stata un ottimo jarl.
- intendo dire che ho dimostrato di essere un cavaliere di
Forsvik quanto Edwar e quanto Eskil, padre. Che morirei per la colpa di essere
brava quanto un uomo a imbracciare lancia e scudo. Se ho usato la scorrettezza
negli ultimi assalti è stato perché ho ritenuto la mia vita più importante di
un duello. Che io sappia, nessun folkung è mai stato giustiziato per essere in
grado di montare, combattere, gareggiare e salvarsi. E non c’è nessuna legge
che vieta alle donne di poter fare i soldati-
- lo vieta la decenza!- ribattè con vigore, ma meno convinto
della sua posizione, lo jarl.
- la decenza non è la legge, padre. O devo dedurre che le
lunghe nottate passate con vostro fratello, il langman Eskil, a parlare di come
un regno giusto si regga sul terzo pilastro della legge fossero solo discorsi
vani?-
Lo jarl rimase paralizzato nell’udire quelle parole, colto
sul vivo in quello che riteneva fosse l’unico, ma anche il più cocente,
fallimento della sua reggenza.
Legge. Una parola vuota in quel paese governato da codici
d’onore e ordalia.
- se voi mi mandate a morte, o anche solo in un convento,
padre, dimostrerete che la legge che cercate di far attecchire nel regno non
vale più dello scritto di un bardo, perché sareste il primo ad aggirarla per i
vostri scopi d’onore. A cosa servono i decreti sull’inviolabilità della casa,
della donna… sulla separazione del potere temporale da quello spirituale, sul
divieto della vendetta di sangue se voi permetterete che mi venga fatto questo
torto?- continuò Catherine andando a inginocchiarsi davanti al proprio padre e
prendendogli la mano nella sua.
- sei proprio nipote di tua nonna Ingrid, figlia mia. E di
mia nonna Cecilia. Non fossi certo del tuo albero genealogico, direi che anche
la regina Blanka e Ulvhide Emundsdotter hanno concorso alla tua nascita- disse
lo jarl completamente impotente davanti alla dolcezza disarmante della figlia.
- essere la nipote di due delle quattro vedove che hanno
retto di fatto il regno dopo Gestilren ha avuto certamente la sua influenza
sulla mia tempra, padre, così come sulla vostra- rispose ella con un mezzo
sorriso furbo.
- già. Ciò non toglie che tu abbia combinato un grosso guaio
cui non sarà facile porre rimedio-
Non era facile porre rimedio no. Per quanto disprezzasse la
cosa, l’onore era una legge che voleva essere rispettata sopra ogni cosa in
quella terra. Per quanto disprezzasse la cosa, quel codice tramandato di padre
in figlio, di generazione in generazione, pretendeva che si rispettasse qualsiasi
promessa fatta, che si adempissero tutti gli obblighi, che si vendicassero
tutti gli oltraggi e che si mantenesse coerenza nelle proprie decisioni
importanti. Che non si chiedesse di poter cambiare le carte se Dio stesso, o la
beata Vergine, o la fortuna, o chi per loro avesse voltato le spalle e
dispensato sventura.
- posso chiedervi, padre, il motivo di tutto questo? Perché
dare la mia mano al vincitore di un torneo e non ad un altro Erik? Se non
sbaglio, i vostri piani erano quelli di arrivare alla corona con un’attenta
politica matrimoniale. A che scopo farmi sposare un uomo che non amo e che per
di più non sarebbe utile alla nostra causa?
- ci sono dei rivoltosi che stanno incendiando e devastando
tutte le tenute che trovano sul loro cammino nell’Ostergotland. Per ora hanno
avuto la saggezza di non attaccare i nostri possedimenti, ma i nostri colori
non potranno tenerli lontano ancora a lungo. Quel che è peggio è che non
sappiamo se agiscono sotto un’insegna e se la risposta fosse si non sappiamo di
quale si tratti. Noi Folkung dobbiamo salvaguardare noi stessi prima ancora del
re in questa faccenda-
Lo jarl fece un pausa, passandosi una mano sugli occhi con
aria stanca. Tutti gli anni di lotta al potere, di alleanze e disfatte, di
guerre… avevano fatto sì che si sentisse molto più vecchio e affaticato di
quanto il suo fisico suggerisse agli occhi. La corporatura robusta e asciutta,
temprata da ore di lavoro di spada e di coltello, nascondevano un uomo che si
sentiva di aver vissuto ben più dei suoi cinquantatre anni. E le decisioni che
andavano prese per far fronte alla nuova minaccia che gravava severa come una
spada di Damocle sulla sua famiglia non faceva che aggiungere altri anni alle
sue spalle.
- Il tuo matrimonio sarebbe servito a proteggere Forsvik.
Mia zia Alde ha ottenuto Lena quando ha sposato herr Sigurd, e nessuno meglio
di me sa quanto un uomo come Sigurd e i suoi figli sarebbero degni di Forsvik.
Per eredità la guarnigione è finita a noi, Catherine, ma io sono sempre a
Bjalbo, a Nas ed Arnas, non ho tempo di guardare Forsvik. I tuoi fratelli fanno
tutti parte del consiglio del re e Forsvik… non avrebbe un valido capo in caso
di attacco.-
- non potevate semplicemente cederla a herr Sigurd? Se
pensate che sia il migliore… non potreste…?-
- no, figlia mia. Non posso. Non accetterebbe. Sigurd è un
uomo d’onore, così come lo sono io. Non accetterebbe mai una tenuta da me senza
nulla in cambio-
- ma avete detto voi che è molto legato a Forsvik! Avete
detto voi che era casa di sua moglie!-
- l’ho detto. Ma abbiamo dei vecchi rancori che ci separano,
Catherine. Non possono essere messi da parte così, nemmeno se si tratta di
Forsvik. Se non l’avessi messa in palio come tua dote non si sarebbe fatto
avanti a reclamarla-
A parte sua madre Ingrid Ylva, nessuno sapeva quale fosse
l’origine di suddetti “vecchi rancori”. Tutto era avvenuto quando era solo un
ragazzo al matrimonio di sua zia Alde, sua coetanea e compagna di studi
nell’infanzia, con il cavaliere ancora senza terra Sigurd di Forsvik.
Tutti quanti, compreso lo stesso Sigurd, attribuivano il
motivo di tutto quell’astio a una battuta infelice lanciata con disprezzo
dall’allora poco più che adolescente e ubriaco Birger all’indirizzo dello
sposo, deridendo le sue origini di servo davanti a tutti i suoi ospiti,
cogliendo consapevolmente il suo punto debole. Per quanto nessuno gli diede
importanza perché ciò che contava era l’impresa con cui herr Sigurd, maestro
d’armi a Forsvik, si era guadagnato gli speroni d’oro di cavaliere,
l’avvenimento raggelò i rapporti tra Birger e il suo insegnante. Nessuno, a
parte Ingrid Ylva, seppe mai il motivo per cui Birger sputò quelle parole
velenose a un banchetto di nozze. Nessuno seppe mai del profondo amore che
nutriva per la giovane Alde, bollato dalla morale cristiana come incestuoso. E
non era il caso di tirarlo fuori in quel momento, né davanti a sua figlia, né
come pretesto per riconciliarsi con Sir Sigurd ed evitare vendette d’onore da
parte dei suoi figli.
- e se Edwar o Eskil avessero vinto…?- domandò Catherine,
riscotendolo dal piccolo tuffo nel passato.
- saresti andata in sposa a uno di loro due, si-
- ma…-
- i matrimoni tra cugini sono approvati da tempo dalla Santa
Sede. È una faccenda più comune di quanto tu possa immaginare- rispose
meccanicamente lo jarl, allontanando i suoi pensieri dalla conversazione per
studiare la linea di condotta che avrebbe provocato meno danni.
- e se si fossero presentati altri folkung a tentare
l’impresa?-
- non li avrebbero sconfitti-
- io li ho sconfitti, padre. Entrambi-
- tu hai giocato sporco, figlia mia. Nessun vero cavaliere
di Forsvik avrebbe osato fare quello che hai fatto tu-
- dunque? Cosa ne sarà di me? Cosa intendete fare del mio
matrimonio e della mia vita?-
Birger Magnusson guardò il volto di sua figlia. Aveva preso
i lineamenti dolci da sua madre, così come la profondità dei suoi occhi grigi,
caratteristici della stirpe degli erik dei quali quest’ultima era discendente
diretta. Ma i capelli fulvi, l’espressione sicura, la dote del saper parlare
fino a piegare il discorso ai propri desideri, quella era un’eredità solo sua.
Sangue folkung e sangue erik correva nelle vene di quella fanciulla in un
connubio che dire perfetto era un’eresia. Era un vero e proprio miracolo. Il
meglio di entrambe le stirpi concentrate in un unico essere. Se solo fosse
stata un uomo.
- andrai sposa al secondo classificato. A quello straniero -
- padre, ma avete appena detto che…-
- non posso darti in sposa adesso a uno dei tuoi cugini,
Catherine. Si sentirebbero offesi e sviliti. Si sentirebbero come se avessero
ricevuto un risarcimento e non una vittoria e questo non farebbe che
approfondire ancora di più la frattura tra me ed herr Sigurd, e solo Dio sa
quanto questo peggiorerebbe ulteriormente la nostra posizione ora che dobbiamo
stare uniti più che mai. Dovrai sposare lo straniero -
- e che ne sarà di Forsvik?-
- non posso rimangiarmi la parola data, figlia mia. La tua
punizione paradossalmente sarà diventare signora di Forsvik, proteggerla come
farebbe un uomo e amministrarla con la stessa dovizia di tua nonna Cecilia. Per
paradosso, ti devo dare ciò che hai vinto- sentenziò lo jarl, rendendo la sua
figlia più cara più vicina a un uomo di quanto ella avrebbe mai potuto essere.
***
Da quando re Erik aveva preso la corona e la battaglia di
Gestilren aveva sancito il suo diritto a portarla sul capo, i matrimoni furono
più che abbondanti lì nel lontano Vastergotland. Quasi tutte le tenute del
regno, dopo il periodo del lutto osservato in memoria dei propri morti, caduti
coraggiosamente sotto il vessillo dell’erik, cercarono felicità e rinnovamento
nel combinare sposalizi e preparare banchetti. Ci fu quello di Sune Folkesson
con Helena Sverkerson, che si ricordava più per l’imponenza dello squadrone di
cavalleria che accompagnò lo sposo a reclamare la sua promessa davanti alle
mura del convento di Gudhem che non per le nozze in sè. Ci fu quello di Alde
Arnsdotter e di Sir Sigurd di Forsvik, che raccolse così tanti invitati
affezionati agli sposi da necessitare di ben tre sale dei banchetti per
accoglierli tutti quanti. Ci fu quello del re Erik Knutsson con la sorella del
re danese Valdemar, Rikissa, che passò alla storia per il corteo di tutto
rispetto che accompagnò la futura regina al castello di Nas.
Ci furono molti matrimoni che si distinsero per qualche
particolare capace di far sospirare i cuori più romantici e strappare almeno un
sorriso a quelli più cinici.
Quello di Catherine Birgersdotter con Sir Robert Thomas
Pattinson da Barnes passò alla storia senz’altro come il più curioso di tutti.
Nessuno osò obbiettare alcunché quando uno scarmigliato e
stanco jarl si arrampicò sul suo palco d’onore davanti all’arena e chiamò il
secondo classificato del torneo davanti a sé. Nessuno osò lasciar sfuggire
nemmeno un lamento scontento quando lo stesso jarl posò la mano di sua figlia,
ancora abbigliata dell’usbergo e della cotta d’arme dei colori e con i simboli
della sua stirpe, su quella dello straniero. Nessuno, proprio nessuno, osò
lasciarsi andare a manifestazioni di delusione di qualsiasi genere e specie
quando annunciò a gran voce del banchetto di fidanzamento che si sarebbe tenuto
quella sera stessa.
Non che non ve ne fosse di delusione, o perlomeno di
perplessità, ma tutti quanti avevano almeno una buona ragione per tacere. La
più forte e la più convincente di tutte era senz’altro quella che riguardava la
fiducia che l’intero regno riponeva in Birger Magnusson.
Non una decisione presa senza essere adeguatamente
soppesata, non un passo falso compiuto tenendo un conto accurato di tutte le
conseguenze che esso avrebbe comportato. Non un solo gesto di pietà verso i
propri familiari nel caso in cui le azioni di costoro minacciassero la pace.
Fu la fiducia nella sua saggezza a dissuadere i figli di
herr Sigurd a cercare di vendicare l’onore oltraggiato (che poi si disse non lo
fosse realmente in quanto erano stati battuti con la scorrettezza); fu il
timore di aizzare le ire del folkung a fare allontanare lo sverker, che,
sebbene fosse stato sconfitto dal secondo classificato in una tornata diversa
da quella della damigella, avrebbe voluto vedere invalidato l’intero torneo; fu
semplicemente la consapevolezza di non avere in realtà nulla a che fare con
quella stirpe che fece allontanare tutti gli altri.
In tutto questo, Robert era rimasto impassibile.
Solo lo sguardo attento di Sigge e quello sospettoso di
Ingrid Ylva percepirono l’ansia che celava il volto apparentemente calmo e
rilassato del ragazzo mentre entrava nella salata dei banchetti decorata di
ramoscelli di sorbo.
Ansia che restava trasfigurata dall’impassibilità anche
quando fu accompagnato al tavolo d’onore e fatto accomodare accanto alla sua
promessa, alla sinistra della quale sedeva una schiera di dodici fanciulle.
Nella fine camicia di lino bianco, il farsetto di pregiato
velluto nero e le calzebraghe accuratamente infilate nei morbidi stivali di
pelle della migliore fattura, Robert non si differenziava particolarmente dai
dodici uomini seduti alla sua destra sul palco. Certo, praticamente tutte le
donne della sala non facevano che occhieggiarlo, incuriosite e affascinate da
quel cavaliere tanto timido quanto bello che, pugni serrati sul tavolo,
guardava fisso davanti a sé con i suoi splendidi occhi azzurro cielo. Persino
la zazzera castano dorata tutta scompigliata che portava con disinvoltura era
motivo di curiosità, più che giustificata dal fatto che il quell’angolo di
mondo solo i servi portavano i capelli corti mentre i signori usavano portarli
sciolti e lunghi appena sotto le spalle. Robert continuava a mostrarsi
impassibile.
Non batté ciglio all’entrata dello jarl e della sua
consorte, che andarono a prendere posto ai loro soliti scranni poco più in
basso del tavolo dei fidanzati. Restò pressoché immobile quando la madre della
fidanzata tornò ad alzarsi ed avanzare nella sua direzione posando sulla sua
testa e su quella di Catherine una corona intrecciata di rametti di sorbo,
com’era tradizione. Abbandonò la sua posa rigida solo dopo che lo jarl diede
inizio alla festa, bevendo dal corno di famiglia e invitando i suoi ospiti a godere
del buon cibo e dell’ottima birra che sarebbero stati serviti in abbondanza.
Aveva rivissuto più e più volte nella sua mente il momento
della sua sconfitta, guardando con gli occhi dell’immaginazione la sua ultima
caduta da cavallo come se non fosse lui il cavaliere tossicchiante e disteso
sulla schiena sulla terra battuta dell’arena. Era più che cosciente del fatto
che la dea fortuna quel giorno doveva avergli voltato le spalle di proposito
poiché la sua caduta poteva considerarsi solo come un suo capriccio. Più
ripensava all’ultimo assalto, più si rendeva conto di questa verità. Il suo
avversario si era inarcato e disteso sul dorso del suo cavallo incassando il
colpo e se non fosse stato per i piedi ben piantati nelle staffe sarebbe
certamente caduto a terra come lui. Aveva perso.
E proprio perché aveva perso non riusciva a capacitarsi
della sua presenza a quel tavolo. Era stato facile accettare la sconfitta, ma
quella strana vittoria era davvero difficile da capire per lui.
Si era ritrovato inspiegabilmente a tenere la mano della sua
futura sposa davanti a un pubblico muto, poi ad essere trasferito dalla sua
tenda alla sala d’armi del castello, allestita per l’occasione a fungere da
dormitorio per i cavalieri stranieri giunti in occasione del torneo e che
avrebbero partecipato al banchetto della sera. Solo un ragazzo molto alto e
snello dalla folta chioma bionda e gli occhi scuri, di cui ignorava tuttora il
nome, gli aveva rivolto amichevolmente la parola mentre sistemava i suoi abiti
da cerimonia sul letto accanto al suo, mentre tutti gli altri ordinavano in
silenzio i propri effetti personali. E quello stesso ragazzo era l’unica faccia
familiare al suo tavolo, cosa che lo metteva ancora più a disagio.
A voler essere franchi, non sarebbe potuta andargli meglio
di così, ma persino nella sua rediviva fortuna sfacciata Robert ebbe il
buonsenso di preoccuparsi. C’era sempre un secondo fine dietro un matrimonio e
quello che lo turbava era il non sapere di che gioco era diventato una pedina.
Forse era quel timore che gli aveva impedito e continuava a
impedirgli di non far vagare nemmeno un secondo lo sguardo su Catherine:
avrebbe potuto leggere il suo destino negli occhi di lei.
- Sir Robert Pattinson, giusto?-
Come sentì il suo nome, Robert si rianimò dal suo stato di
semitrance accorgendosi delle portate fumanti che erano apparse quasi per magia
sul tavolo e che richiedevano che lui estraesse immediatamente il pugnale dalla
cintola e vi facesse onore.
A parlare era stata una graziosa damigella, seduta proprio
accanto a quella che era a tutti gli effetti la sua fidanzata, nonostante egli
non avesse alzato nemmeno una volta lo sguardo su di lei da quando si era
seduti. Aveva setosi capelli castani boccoluti che ricadevano gentilmente sulle
esili spalle, striati di quando in quando da ciocche leggermente più chiare, e
profondi occhi nocciola che rivelavano tutta la sua dolcezza, ma anche tutta la
sua sagacia. O almeno, a questo fecero pensare ad un primo sguardo estraneo di
Robert che voltò il capo nella sua direzione, attento a non guardare fru
Catherine, e si mise in ascolto.
- perdonate la mia sfacciataggine, ma ho saputo che siete
inglese e non ho saputo trattenermi. È così difficile trovare un compatriota da
queste parti - disse la ragazza in tono amabile.
- immagino, milady. Io stesso in quattro anni di permanenza
in questo paese non ho incontrato nessuno che venisse dalla mia madrepatria. Di
dove siete voi?- chiese Robert educato, sentendo la tensione sciogliersi un po’
mentre sorseggiava distrattamente dal suo boccale di birra.
- da Thurso, nell’estremo nord dell’isola-
A Robert ci volle qualche secondo per fare mente locale.
L’estremo nord dell’isola era territorio scozzese, e questo non faceva
propriamente di lei un’inglese. Stessa regina, ma comunque una nazione a parte.
Poi si ricordò del fatto che a quel tempo William Wallace doveva ancora
nascere, e ciò faceva della sua commensale una compatriota a tutti gli effetti.
Come si sarebbe offeso Mel Gibson se avesse considerato inglese la ragazza!
- e voi? da Barnes?-
- si, è vicino Londra -
- non proprio vicini di casa, dunque. Perdonate, non mi sono
presentata. Mi chiamo Elizabeth. Haraldsdotter-
- Harald non è un nome inglese-
- in effetti no, sir. È mia madre a essere inglese. Mio
padre è lo jarl norvegese Harald Oysteynsson-
- e siete mai stata in Inghilterra?-
- vi ho passato la mia infanzia e parte della mia
adolescenza, sir. Non so se rimpiangere le piogge inglesi o maledire le nevi
del Vastergotland-
- non è una scelta facile, in effetti-
Non si soffermò a osservarla, anche se sentiva gli occhi
della fanciulla su di sé come se volessero scandagliarlo millimetro per
millimetro alla ricerca di qualcosa. Si concentrò, invece, sulla generosa
porzione di agnello arrosto con timo e altre erbe aromatiche che il suo vicino
gli aveva messo nel piatto ridendo della sua indecisione nel servirsi
autonomamente. Per quanto lui e Sigge si fossero esercitati e avessero
preparato tutto nel dettaglio in caso di vittoria, a parte che nel vestito non
si sentiva affatto a proprio agio in nulla. Era troppa l’etichetta che non
conosceva perché Jan Guillou non vi si era mai soffermato abbastanza. Aveva
solo capito che gli uomini in quell’angolo di mondo, in genere, mangiavano e
bevevano fino a scoppiare per onorare l’ospitalità loro offerta, ma quella
regola valeva anche nella casa di Birger Magnusson?
Fortunatamente il suo vicino di letto intervenne a toglierlo
dall’imbarazzo, servendogli un cosciotto succulento nel piatto mentre lui era
occupato a parlare con la damigella.
Con calma estrasse il suo coltello dalla cintola e, prima di
utilizzarlo per tagliare una fetta di quella carne profumata, lo pulì con cura
su uno dei panni di lino messi a disposizione di ogni commensale.
Ecco, se c’era una cosa che gli mancava del suo tempo erano
le posate.
Stava giusto per portarsi un secondo boccone d’agnello alla
bocca, quando lady Elisabeth tornò a rivolgergli la parola.
- avete detto che siete qui solo da quattro anni?-
- si, milady, l’ho detto- rispose lasciando perdere il
boccone ancora in bilico sulla punta della sua lama.
- e che notizie portate dalla nostra madrepatria?-
Se c’erano due cose che gli mancavano del suo tempo, erano
le posate e i libri di storia.
Per guadagnare tempo nella risposta, Robert si cacciò un
pezzo enorme di agnello in bocca e iniziò a masticarlo lentamente. Quel che
sapeva di storia medievale inglese aveva solo a che fare con Re Riccardo,
dopodiché aveva un buco nero al posto della memoria fino al giungere di Enrico
VIII. E tutto quel che sapeva di Re Riccardo lo doveva a Robin Hood e a poche
righe lette nel secondo volume della saga nella quale si era ritrovato a dover
vivere.
In effetti, a volerci riflettere, non si capacitava della
sua ignoranza in materia. La sua passione per miti e leggende medievali avrebbe
dovuto portarlo a interessarsi principalmente della storia del suo stesso
paese, per antonomasia ricca di storie su cavalieri, draghi e quant’altro ma le
sue conoscenze si limitavano alla storia di Artù Pendragon, della strega
Morgana, del druido Merlino e di Excalibur. Se mai fosse tornato a casa, quella era certamente una lacuna a
cui doveva porre rimedio. Nel frattempo avrebbe dovuto arrangiarsi con il
principe dei ladri, sperando che nei circa cinquant’anni trascorsi dalle
notizie portate da Arn Magnusson in persona dalla Terrasanta la situazione
inglese fosse rimasta pressoché immutata. Speranza ovviamente vana già
dall’inizio.
- beh… le notizie che ho non sono molte in effetti…-
tergiversò cercando di scegliere tra la versione cinematografica di Russel
Crowe e quella di Kevin Kostner, deciso a tirare a indovinare. Difficile
scelta. Nel primo Re Riccardo muore durante un assedio e nel secondo torna in
patria. Riccardo vivo o morto? Scelta difficilissima.
Dando fiducia all’ultimo arrivato e più anticonformista
Robin Hood, Robert si buttò su Russel Crowe, lasciando che Re Riccardo si
suicidasse lanciandosi all’attacco dritto dentro un nugolo di frecce che
cadevano dai bastioni di una roccaforte.
Se c’erano tre cose che gli mancavano del suo tempo, erano
le posate, i libri di storia e Wikipedia.
- quando sono partito il principe Giovanni aveva appena
usurpato il trono di suo fratello Riccardo, ma di più non so. Come ho detto,
non ho più incontrato alcun conterraneo a parte voi- rispose evasivo concentrandosi
sul suo piatto, sicuro del fatto che prima o poi Giovanni senza Terra su quel
trono ci sarebbe salito. Lo diceva anche la Disney!
- mmm… si, ne ho sentito parlare. In ogni caso questa storia
è morta con lui. Dovete avere di certo un’età notevole, Sir. Siete per caso una
sorta di creatura leggendaria?- osservò ella piluccando distrattamente dal suo
piatto mentre, accanto a lei, fru Catherine non riuscì a trattenersi dal
nascondere un sorriso con il dorso della mano.
- come prego?- rantolò Robert quasi soffocandosi con la
birra che stava sorseggiando.
- nulla - ridacchiò lady Elizabeth asciugandosi le labbra
con il tovagliolo di lino prima di bere dal suo bicchiere.
- Lissy non essere maleducata - la rimbrottò con un mezzo
sorriso Catherine.
- non sono maleducata, Cath. Faccio solo conversazione-
Robert non ne era del tutto sicuro, ma qualcosa gli faceva
intuire che aveva scelto la versione di Robin Hood sbagliata. Ecco, lo sapeva
nel profondo che doveva dare retta a Kevin Kostner!
La fortuna gli aveva voltato le spalle per l’ennesima volta
nella stessa giornata, lasciandolo in compagnia di un feroce mal di testa, una
mezza crisi di panico e seri problemi respiratori, sintomi tipici che si
presentavano ogniqualvolta si trovasse a dover affrontare i postumi di quella
che nel ventunesimo secolo si usava definire una “figura di merda”.
Diventato rosso dall’imbarazzo fino alla punta dei capelli,
preoccupato dell’onere di scavarsi la fossa e seppellirvisi dalla vergogna,
Robert in un primo momento non si accorse dello sguardo indagatore di fru
Catherine. Solo quando per sbaglio urtò il suo braccio e farfugliò delle scuse
insensate si rese conto di un paio di occhi grigi che cercavano di carpire i
suoi. Luminosi e bellissimi ma totalmente impenetrabili, lo fissavano senza
lasciar trapelare nemmeno per errore lo scopo dell’osservazione che stavano
conducendo con così tanta attenzione. Tutto quello che Robert poteva fare era
stare fermo, immobile. Esattamente come lo tratteneva quello sguardo argenteo
che gli dava la sensazione di esser investigato fin nell’intimo. Si sentiva
nudo davanti all’algido portamento di quella che sarebbe diventata la sua
signora entro un paio d’ore.
Per un attimo, un solo attimo, ebbe l’impressione di esser
stato scoperto e nulla sul viso di lei gli diede modo di non pensarlo.
Fu un minuto lunghissimo quello che tenne legati i loro
sguardi, prima che la connessione venisse sciolta da un improvviso suonare di
tamburelli e battere di mani.
La osservò alzarsi rigida e impostata, elegante nel suo
raffinato abito di velluto verde scuro, per seguire giù dal palco lady
Elizabeth e le altre undici fanciulle fuori dalla sala. Senza perdere contegno,
fru Catherine attese che le sue damigelle accettassero delle coroncine simili
alla sua ma decorate con bacche rosse e che se le appuntassero sul capo, prima
di seguirle nel freddo della notte fuori dalla sala del banchetto.
- ehi, inglese. Sono passati quarantasette anni da quando
Giovanni non è più sul trono. Sei rimasto un po’ indietro con le cronache o
sbaglio?-
A parlare era stata la voce del suo vicino che lo stava
osservando divertito dietro una ciocca scomposta di capelli biondi che gli
ricadevano sul volto. Sempre sorridendo, alzò il boccale di birra nella sua
direzione e bevve alla sua salute.
Se c’erano quattro cose che gli mancavano del suo tempo,
erano le posate, i libri di storia, Wikipedia e gli ansiolitici.
Re Riccardo Cuor di Leone
Robin Hood
con Russel Crowe
Robin Hood
con Kevin Kostner
Per chi fosse interessato a capire gli antefatti della storia che sto
scrivendo, vi avviso che esiste un film "Arn, l'ultimo cavaliere"... lo
trovate in streaming.
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