Misunderstood di Antu_ (/viewuser.php?uid=104654)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap. 1 ***
Capitolo 3: *** Cap. 2 ***
Capitolo 4: *** Cap. 3 ***
Capitolo 5: *** Cap. 4 ***
Capitolo 6: *** Cap. 5 ***
Capitolo 7: *** Cap. 6 ***
Capitolo 8: *** Cap. 7 ***
Capitolo 9: *** Cap. 8 ***
Capitolo 10: *** Cap. 8 ***
Capitolo 11: *** Cap. 9 ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Si
girò sull’altro
lato della poltrona e fissò sua figlia, la sua bambina, stesa su quello
sterile
letto di ospedale. Improvvisamente scoppiò in lacrime, quelle stesse
lacrime
che aveva cercato di trattenere così a lungo al punto da sentirsi
bruciare
dentro, cominciarono a scendere, bagnandogli tutto il viso. Non
riusciva a
guardarla, non poteva; era troppo doloroso. Ciò che era successo lo
torturava,
si sentiva dannatamente in colpa per non essere riuscito ad impedirlo;
lui,
Spencer Reid, con ben più di 25 anni di esperienza nel F.B.I. non era
riuscito
ad evitare che sua figlia fosse rapita.
Distogliendo
lo sguardo, notò sua moglie in corridoio agitare la cartella di
Elizabeth in
aria mentre parlava con un suo collega.
Fece
un
respiro profondo, cercando di calmarsi e senza rendersene conto si
addormentò.
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Capitolo 2 *** Cap. 1 ***
“Pensai a quello che mi aveva detto sul
coraggio, su come bisognasse toccare il fondo per vedere chiaro se
stessi”
(Erika Jong, Paura di volare.)
“Papà,
papà.”
Alzò
lo
sguardo e vide sua figlia in piedi sulla soglia della porta battere i
piedi
nervosamente. “Dimmi, Ellie. Ti serve qualcosa?” le chiese sorridendo
mentre si
toglieva gli occhiali.
“Mi
devi
accompagnare a scuola, la macchina è ancora dal meccanico e mamma è già
andata
in ospedale...” gli disse, guardando per terra. Non sopportava di dover
chiedere un passaggio a suo padre, erano anni ormai che ne faceva a
meno.
“E
l’autobus
non è passato?Jules mi ha detto che...”
“Si è
passato, solo che io l’ho perso. Allora me lo dai questo passaggio o
devo
chiamare a qualcun’altro? “ gli rispose stizzita interrompendolo.
“No,
va
bene. Ti accompagno io, tanto devo portare pure tuo fratello a scuola.
Aspettami
giù, finisco qui e vi porto” disse, sistemando le ultime carte sparse
sulla
scrivania.
“Ok…”
farfugliò sua figlia, scomparendo in corridoio.
Scese
al
piano di sotto e notò che i suoi figli erano già saliti in macchina, si
affrettò a raccogliere i fascicoli ed uscì di casa.
“Niente
zaino, Ellie?” le chiese mentre accendeva il motore.
“No,
tanto i
libri sono già a scuola” le rispose mentre si sistemava la cintura.
“Quindi
niente compiti…” dedusse un po’ infastidito. Il totale menefreghismo di
sua
figlia riguardo la scuola lo lasciava sempre perplesso.
“Non è
mica
una novità” osservò Thomas ridendo.
“Come
sei
spiritoso” rispose Elizabeth facendo una smorfia.
“Ragazzi,
vi
prego. Non cominciate” li
pregò Spencer
quasi pentendosi di aver accettato di accompagnarli.
Accese
la
radio e si diresse verso la scuola
di Ellie, cercando di far il più presto possibile. Era in tremendo
ritardo,
ancora una volta. Ormai erano tutti abituati ai suoi ritardi.
“Puoi
lasciarmi
qui” disse sua figlia, interrompendo il filo dei suoi pensieri.
“Ma se
non
siamo neanche al cancello!” replicò Spencer “Manca circa mezzo
isolato...”
disse, premendo comunque il pedale del freno, tanto lo sapeva che non
avrebbe
vinto contro sua figlia, non ci era mai riuscito.
“Vado
a piedi.
Ciao, ci vediamo dopo” gli disse, mentre scendeva sbattendo lo
sportello e s’incamminò
immediatamente verso il cancello dove l’aspettavano i suoi amici.
“Ce
l’hai
fatta, Reid. Pensavamo che non ti saresti presentata...” le disse Colin
non
appena era arrivata.
“Perchè
non
sarei dovuta venire?” chiese, guardando perplessa l’amico.
“C’è
l’interrogazione di biologia oggi, Els” le ricordò Nicole, ridendo.
“Oddio,
me
n’ero completamente scordata!e adesso che faccio? non ho toccato
libro...” “Come al
solito, d’altronde” disse
continuando mentre Nicole e Colin scoppiavano a ridere.
“C’è
tuo padre
o mi sbaglio?” li interruppe Blair, indicando la berlina nera con le
frecce di
emergenza accese.
“Si, è
lui”
confermò, sospirando. Fece immediatamente un segno con la mano al padre
invitandolo ad andarsene.
Spencer
la
guardò e partì. “Beh se non altro oggi a scuola è entrata...” pensò.
Era a
conoscenza delle continue assenze di sua figlia, e ovviamente anche dei
suoi
pessimi voti.
La
verità era
che lui e quella ragazza non avevano nulla in comune, a parte
l’aspetto. Già,
Elizabeth era identica a lui, gli stessi capelli, gli stessi occhi...
Ma
caratterialmente non gli somigliava affatto, anzi a dire il vero non
somigliava
nemmeno a sua madre.
Era
una cosa a
sé, l’unico suo interesse era la musica. A volte si chiedeva se avrebbe
mai
combinato qualcosa nella vita, a parte guai ovviamente, ma preferiva
non
pensarci; in fin dei conti era più semplice così.
Entrata
nell’aula, si affrettò a raggiungere il suo posto, in fondo all’aula.
Sperava
ardentemente che la professoressa Andrews non la vedesse, non oggi
almeno,
un’altra F non era esattamente tra i suoi piani, sperava di poter
recuperare nel
migliore dei modi possibili, e di certo l’ennesimo brutto voto non
avrebbe
giovato alla sua ormai precaria situazione. Sapeva di doversi
impegnare, che
forse, anzi molto probabilmente, non ce l’avrebbe fatta a passare
quell’ultimo
anno. Ma nonostante questa consapevolezza, Elizabeth faceva finta di
nulla,
continuando a far la stessa cosa di sempre.
Mentre
pensava
ad una probabile scusa per saltare l’interrogazione, notò i suoi
compagni
intenti a ripetere senza sosta e si mise a ridere nel vederli così
disperati.
“Allora,
vediamo chi dobbiamo interrogare oggi…” affermò la professoressa, non
appena
entrò in classe, “Ma prima, facciamo appello” disse continuando.
Alla
vista
della professoressa Elizabeth si allarmò, aveva sperato fino all’ultimo
in un
suo non arrivo, ma come al solito nulla andava come desiderava.
“Bene,
bene.
Vediamo chi è messa peggio” disse una volta finito l’appello e fingendo
di
osservare il registro continuò “Reid, a quanto pare quest’anno non
aspiri più
alla F, ma addirittura al non classificato” osservò mentre la classe
scoppiava
in una fragorosa risata.
“Zitti…”
intimò
ai ragazzi “Allora, Elizabeth mi concederai l’onore di interrogarti o
dovrò aspettare
ancora un po’?” chiese la professoressa con tono ironico.
“Temo
professoressa che dovrà aspettare ancora un po’… davvero spiacente” le
rispose
la ragazza con lo stesso tono.
“Bene, Reid. Non mi lasci
altra scelta, F”
“Sempre
meglio
di non classificato” rispose Elizabeth alzando le spalle e provocando
un’altra
risata dei compagni.
“Preferisco
non
commentare questa tua battuta” affermò acida la professoressa “Allora
vediamo
chi possiamo interrogazione…” proseguì.
Per il
resto
dell’ora Elizabeth non parlò, si perse nel suo mondo senza curarsi del
resto.
Era nel suo rifugio dove nessuno l’avrebbe mai raggiunta, dove non
c’era
nessuno da deludere. In effetti, nonostante il suo apparente
menefreghismo, Elizabeth
capiva che questa sarebbe stata l’ennesima delusione per i suoi
genitori,
soprattutto per suo padre. Era convinta che sebbene i suoi voti fossero
l’uno
peggiore dell’altro, suo padre si aspettasse ancora grandi cose da lei,
aspettative che lei avrebbe inevitabilmente infranto.
Il
suono della
campanella riportò Elizabeth alla realtà, si affrettò a raccogliere le
sue cose
e si avviò verso l’uscita. “Elizabeth, scusa puoi venire un attimo” la
chiamò
la professoressa indicandole il banco di fronte la cattedra.
Fece
un respiro
profondo e andò incontro la professoressa, sapeva che cosa le avrebbe
detto, la
stessa che ormai le avevano detto e ripetuto tutti gli altri
professori.
“Siediti”
le
disse con un tono pacato.
“Preferisco
stare in piedi, se non le dispiace”
“Allora…senti,
credo
che tu sappia che la situazione è pessima” esordì, indicandole la
sfilza di
assente e impreparati del registro.
“Si,
ne sono a
conoscenza” rispose Elizabeth abbassando lo sguardo. In un certo senso
si
vergognava.
“Ormai
l’unico
modo per recuperare, oltre al farti interrogare ovviamente, sono i
corsi
pomeridiani per avere qualche punto extra, altrimenti la vedo difficile
ad
esserti sincera” disse.
“Certamente,
farò qualche corso. Non si preoccupi” la rassicurò la ragazza con tono
poco
convinto.
“Bene,
allora
ci vediamo alla prossima lezione. Mi raccomando, studia” affermò la
professoressa guardandola negli occhi.
“Si,
farò anche
quello” rispose lasciando la classe.
“Allora,
Els
che voleva la prof?” chiese Nicole mentre si dirigevano verso l’aula di
spagnolo.
“Nada,
praticamente mi ha detto che devo fare qualche corso per rimediare
qualche
punto” rispose “Ma figurati se li faccio” continuò ridendo.
“Els
invece
penso che li dovresti proprio fare, altrimenti si mette male…”
“Già,
mi sa che
hai ragione” farfugliò la ragazza mordendosi le labbra.
“Non
dirmelo,
hai preso un’altra F” affermò sua sorella Jules che in quel momento
sbucava dal
bagno.
“Si,
ma tu come
lo sai ?” le chiese sorpresa.
“Voci
di
corridoio...” rispose facendo la misteriosa “Stavolta papà ti ammazza
davvero” continuò
Jules.
“Solo
se tu
parli, altrimenti non dovrebbe proprio a venirlo a sapere” l’intimò
Elizabeth.
“Cosa
mi offri in
cambio del mio silenzio?” le chiese sua sorella facendo il suo miglior
sorriso.
“Ti
risparmi
uno schiaffo, mi sembra un’ottima offerta” le rispose bruscamente
Elizabeth.
“Non
abbastanza. Preparati, sarà una lunga punizione” affermò sua sorella
divertita
“Beh
mi sa che
non dovrai aspettare a lungo per la condanna a morte” disse Nicole
indicando
Spencer, fermo in corridoio.
“Papà…”
dissero
le ragazze guardandosi.
“Spencer
sei
venuto a controllarmi ?” gli chiese Elizabeth mentre gli andava
incontro.
“No,
non sono
qui per controllarti, e da quando mi chiami Spencer ?” le chiese
stranito.
“Da
adesso” gli
rispose con noncuranza.
“Papà,
Ellie ha
preso un’altra F.” disse Jules, abbracciando sua sorella.
“Un’altra
F,
Elizabeth ?” chiese rassegnato.
“Si,
un’altra.
Ma scusa se non sei venuto a controllarmi, che ci fai qui?” gli chiese
incrociando le braccia.
“Sono
venuto
con la squadra, una ragazza del 3° anno si è suicidata” affermò mentre
leggeva
alcuni documenti.
“Ma
cosa
c’entra l’unità analisi comportale con un suicidio?” gli domandò la
ragazza non
convinta del risposta del padre.
“A
quanto pare,
si tratta di un suicidio sospetto” asserì “Comunque ora devo andare”
continuò notando il
suo amico nonché
capo Derek Morgan uscire dall’ufficio del preside.
“Zio
Derek! ” gridarono
le due ragazze non appena lo videro.
“Ciao
ragazzine…”
disse loro mentre scompigliava i loro capelli. “Scusate, ma dobbiamo
proprio
andare” proseguì.
“Ci
vediamo
stasera” le rassicurò Spencer “E tu…” indicando Elizabeth “Nel
frattempo
inventati una buona scusa per giustificare quella F” la minacciò il
padre.
“Un’altra
?Ma
sei proprio incorreggibile!” esclamò Derek mentre scuoteva la testa
ridendo.
“Si,
si, mi
inventerò un’ottima scusa. Non preoccuparti” gli disse rispondendogli
per le
rime.
“Lo
spero per
te” l’avvertì Spencer lasciandola in corridoio con l’amica e la sorella.
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Capitolo 3 *** Cap. 2 ***
“Bisogna saper sfidare il volere degli dèi se
si vuol conservare il loro favore” (Alexander Lernet-Holenia)
Mentre
era
fermo allo stop, Spencer guardò l’orologio, erano le 23:37.
“Sicuramente
Madison starà già dormendo” pensò; ultimamente non si vedevano molto,
tra i
turni in ospedale sempre più sballati di sua moglie e i suoi che
normali non
erano mai stati, praticamente l’unico momento che trascorrevano insieme
era quello
della colazione, sempre se nessuno dei due riceveva una chiamata
d’urgenza.
Parcheggiando
nel vialetto di casa, notò la luce di camera di Elizabeth spegnersi
improvvisamente; “Pensi di essere furba, ma io sono più furbo di te”
disse tra
sé e sé, e scese dalla macchina prendendo in mano la sua borsa a
tracolla con
dentro i fascicoli del caso da analizzare.
Una
volta
entrato, cercò di non fare troppo rumore per non svegliare gli altri e
si
diresse immediatamente verso camera di sua figlia.
“Ellie,
lo so
che non stai dormendo. Quando dormi, russi” affermò suo padre
accendendo la
luce della stanza, mentre Elizabeth si girava dall’altro lato del letto
dando
le spalle a Spencer e tirando la coperta verso di sé.
“Ellie
è
inutile che fai così. Vieni di là e non farti richiamare” le disse e
lasciò la
stanza.
Capendo
di non
aver altra scelta, decise a malincuore di alzarsi. In effetti parlare
con suo
padre era l’ultimo dei suoi desideri in quel momento. Nonostante ciò
cercò le
pantofole, s’infilò una felpa e si avviò verso lo studio, dove suo
padre
l’aspettava in piedi con le braccia incrociate.
“Allora,
si può
sapere che intenzioni hai quest’anno?” le chiese mentre buttava sulla
scrivania
la borsa, facendo cadere alcuni documenti. “Insomma non che tu ti sia
mai molto
impegnata, ma qualcosa per arrivare alla sufficienza la studiavi”
continuò.
“Si,
lo so. Non
sto facendo nulla, ecc, ecc” gli
rispose
con tono indifferente, dopo essersi seduta sulla scrivania.
“C’è
qualcosa
che non va? Hai dubbi su qualche argomento? Perché se è così, basta
dirlo. Una
mano te la do io, lo sai che non sarebbe affatto un problema” le
domandò
guardandola dritta negli occhi per cercare di capire se sua figlia
nascondesse
qualcosa.
“Si,
si. Tu mi
aiuti, lo so” disse con tono sempre più annoiato. “Ma questa è Chelsea
Garrison!” esclamò indicando una delle foto cadute sulla scrivania. “E’
lei la
ragazza che…” chiese senza riuscire a completare la frase.
“La
conoscevi?”
gli domandò Spencer notando l’espressione amareggiata di Elizabeth.
“Si,
Chelsea cantava
in un gruppo; spesso si sono esibiti al “Quartiere Blu” e sono andata a
sentirli” gli raccontò. “Non posso credere che sia suicidata, era una
ragazza
così piena di vita. L’ultima volta che l’ho vista, mi ha raccontato che
gli era
stato offerto un contratto discografico e che i suoi erano d’accordo.
Non
capisco perché compiere un gesto così estremo, non ha senso…”
“E’
quello che
vogliamo scoprire” rispose suo padre posandole una mano sulla spalla
per
rincuorarla. “Ora vai a letto, è tardi e domani c’è scuola” proseguì.
Elizabeth
annuì
e saltò giù dalla scrivania senza smettere di fissare la foto
dell’amica.
“Ha
sofferto?”
gli chiese mentre s’incamminava verso la porta. A quella domanda
Spencer
preferì non rispondere, non voleva mentire a sua figlia ma nemmeno
raccontarle
quanto dolorosi erano stati gli ultimi minuti di Chelsea Garrison, non
c’era
alcun bisogno di farlo.
“Ho
capito…”
affermò sua figlia intuendo che la risposta di suo padre non sarebbe
stata
molto piacevole e si diresse verso la sua stanza, lasciando suo padre
da solo
in mezzo ai fascicoli.
Dopo
circa un’ora,
Spencer decise di andare a dormire. Lasciò tutte le carte sparse sulla
scrivania e spense le luci.
Entrato
in
camera da letto, si svestì, cercando di fare il più in fretta
possibile, e
indossò il pigiama.
“Sei
tu,
Spence?” chiese Madison con voce completamente assonnata mentre Spencer
s’infilava nel letto. “Si, sono io…” sussurrò accarezzandole i capelli.
“Che
ore sono?”
gli chiese facendo un lungo sbadiglio. “E’ l’una e mezza passata” le
rispose;
“Ho parlato con Ellie prima, ha preso un’altra F”
proseguì.
“Si,
me l’ha
accennato a cena” affermò Madison.
“Io
non la
capisco. Voglio dire, ha qualche problema? Che le sta capitando?”
domandò
parlando più con se stesso che con sua moglie.
“Spence,
la
verità è che non c’è nulla da capire. Nostra figlia non ha nessun
problema, è
un’adolescente e, in quanto tale, non fa altro che il suo lavoro”
spiegò a suo
marito.
“E
quale
sarebbe?” chiese Spencer non capendo il filo del discorso. “Farti
impazzire!”
esclamò sua moglie con tono divertito.
“Allora
sta
facendo un ottimo lavoro” rispose lasciandosi sfuggire una leggera
risata.
“Non
preoccuparti, amore. Vedrai che prima o poi metterà la testa a posto.
E’ solo
una fase e nient’altro. Ora dormi e smettila di pensare ad Ellie, farai
sogni
più tranquilli” gli suggerì.
Poi
gli diede
un bacio sulla guancia e si rimise a dormire, girandosi dall’altra
parte del
letto.
Elizabeth
invece quella notte non riuscì a chiudere occhio. Non faceva altro che
pensare a
Chelsea e al suo suicidio. La notizia l’aveva sconvolta, era tutto così
strano.
Perché
mai una
ragazza di 17 anni con una vita apparentemente felice avrebbe deciso di
togliersi la vita? Era un qualcosa che non riusciva a spiegarsi.
Ripensò
all’ultima conversazione avuta con Chelsea, a quanto fosse contenta, e
alle sue
parole: “Finalmente tutto va nel verso giusto”, dette poco prima di
salire
sull’autobus, dette qualche giorno prima del suo misterioso suicidio.
Ma in
maniera
particolare pensò ai suoi genitori, soprattutto al fratello di Chelsea,
Steve.
Lui e Chelsea erano molto legati, passavano molto tempo insieme. Era
stato
Steve ad incoraggiare la sorella a prendere delle lezioni di canto,
intuendo le
sue potenzialità. Ma ora Chelsea non c’era più e Elizabeth non riusciva
ad
accettarlo.
Si
alzò ancora
prima che suonasse la sveglia e si fece una doccia, cercando di
liberare un po’
la mente. Mentre l’acqua le scivolava addosso, chiuse gli occhi e si
massaggiò
le palpebre. Rimase sotto la doccia per più di un’ora, ferma senza far
nulla, ascoltando
unicamente il suono dello spruzzo d’acqua; fino a quando non sentì sua
madre
chiamarla dal piano di sotto per la colazione.
S’asciugò
in
fretta e scese giù dopo essersi vestita.
“Buongiorno,
Ellie”
esclamò sua madre non appena la vide entrare in cucina. “Latte e
cereali?” le
chiese indicandole la scatola di corn flakes sul tavolo della cucina.
“Va
bene…”
sussurrò Elizabeth senza aver prestato molta attenzione alle parole di
sua
madre. “Papà se n’è già andato?” le chiese dopo aver notato dalla
finestra che
la macchina non era nel vialetto.
“Si,
se n’è
appena andato. L’hanno chiamato d’urgenza” rispose Madison mentre
porgeva a sua
figlia la scodella piena di latte.
“Ellie,
ho
saputo di Chelsea. Se ne vuoi parlare, sappi che io sono qui” le disse
sorridendole.
“Grazie.
Ti
dispiace se vado? Non mi vanno più i cereali” le domandò indicando la
scodella
piena all’orlo di cereali.
“Si,
vai. Non
preoccuparti. A dopo, allora” le rispose mentre sua figlia usciva dalla
cucina.
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Capitolo 4 *** Cap. 3 ***
“Siamo prossimi al risveglio quando
sogniamo di sognare” (Novalis)
Arrivato
in
ufficio, Spencer fu subito messo al corrente sulle ultime novità del
caso. “Si
chiamava Mary Alice Evans, 21 anni, lavorava come segreteria in uno
studio
legale in centro” lo informò JJ, porgendole la foto della vittima. “E’
stata
trovata seduta su una panchina del parco” continuò, indicando la
panchina nella
foto.
“Nel
parco?
Perché mai l’S.I. avrebbe deciso di lasciarla lì? È molto più
rischioso…”
affermò perplesso guardando fisso la collega. “Sempre se esiste un
S.I.”
aggiunse JJ.
“Com’è morta?” chiese poi
mentre poggiava i
fascicoli sulla scrivania.
“Per
quanto ne
sappiamo, si è tagliata le vene” gli rispose “Anne sta parlando con i
genitori
della vittima, sono appena arrivati” disse continuando.
“Bene,
Morgan è
stato informato?” le domandò “Si, sta venendo qui”
“Ciò
che non
riesco a capire è la vittimologia. Non c’è alcun nesso fra le due
vittime”
disse JJ, guardando il tabellone su cui erano stati aggiunti tutti i
dati.
“Già,
cosa può
accumunare due ragazze di età diverse?” si domandò Spencer.
“Non
solo età
diverse, ma anche etnia e quartiere diversi. Chelsea Garrison era
bianca e la
sua famiglia godeva di un’ottima situazione finanziaria, invece la
famiglia di Mary
Alice, oltre ad essere di origini afroamericane, aveva grossi problemi
economici”
aggiunse la collega.
“Il
che esclude
la possibilità che le due frequentassero gli stessi posti” dedusse
Spencer,
sempre più confuso.
“Allora, a quanto pare la
nostra vittima
sarebbe stata di recente contattata da un’agente di moda, che le
avrebbe
offerto la possibilità di lavorare per un’agenzia a New York” esordì
Anne,
appena tornata dal colloquio con gli Evans.
“Un’agente
di
moda hai detto?” le domandò, ricordando la conversazione avuta con sua
figlia
la sera prima.
“Si,
un certo
Louis Davis mi pare, ora non ricordo. Ma perché è così importante?” gli
chiese
Anne, che nonostante lavorasse nell’unità già da più di due anni, non
si era ancora
abituata ai ragionamenti un po’ stravaganti del dottor Reid.
“Anche
Chelsea
era stata contattata di recente da un’agente. Forse è questo il
collegamento
fra le due vittime” le spiegò Spencer “Vai da Garcia e chiedile delle
informazioni su questo Louis Davis” continuò.
“Spence,
Penelope non lavora più con noi” le ricordò JJ scuotendo la testa.
“Giusto…
vai da
Lucas” ordinò alla giovane collega, ridendo. La verità è che,
nonostante
Penelope non lavorasse con loro da più di 6 mesi, Spencer ancora non
riusciva a
capacitarsene, e ad essere sinceri quella pazza le mancava parecchio;
era
sempre riuscita a rallegrare tutti con le sue battute e con quel suo
modo di
fare completamente inadeguato ad un’agente del F.B.I., ma che tanto lo
divertiva.
“Noi
invece
potremmo andare dai Garrison per chiedere maggiori informazioni”
propose JJ.
“Giusto,
andiamo. Informa anche Morgan” disse rivolgendosi ad Anne.
Anche
a scuola
di Elizabeth si prospettava una mattinata molto difficile, la notizia
del
suicidio di Chelsea si era ormai diffusa, suscitando grande scalpore.
“La
preside ha
convocato tutti nell’aula magna…Colin è già lì” disse Blair mentre
Elizabeth e
Nicole posavano i libri nell’armadietto. “Vuole parlarci del…” continuò
la
ragazza senza riuscire a finire la frase.
“…suicidio
di
Chelsea” disse, terminando la frase, Elizabeth.
“Già”
risposero
le altre due all’unisono; Infine si avviarono lentamente verso l’aula
magna,
facendosi coraggio a vicenda.
Una
volta
entrate, s’affrettarono a prendere posto, senza creare confusione per
non
disturbare le persone intorno.
“Oggi
abbiamo
appreso una notizia che ha gettato tutti noi nello sconforto: la
scomparsa di
Chelsea; una ragazza straordinaria, amata da chiunque abbia avuto il
piacere, e
l’onore aggiungerei, di conoscerla…” esordì la preside, ma Elizabeth
non
ascoltava le sue parole, guardava fisso verso Matthew, il ragazzo di
Chelsea,
seduto in prima fila insieme agli amici della defunta ragazza.
Ad un
certo
punto, notò che il ragazzo si alzò, lasciando l’aula e senza pensarci
un attimo
lo seguì.
“Matt”
lo
chiamò prendendogli d’istinto la mano, dopo averlo raggiunto in
corridoio.
“Tutto bene?” gli chiese facendogli un sorriso forzato.
“Si,
tutto
bene. Non ce la facevo a rimanere lì dentro, mi sentivo mancare l’aria.
Sentire
il discorso della Stevens su Chelsea mi riesce impossibile …” le
confessò il
ragazzo con un filo di voce.
“È
comprensibile. Dai, andiamo fuori a prendere una boccata d’aria”
suggerì
Elizabeth, guidandolo verso il cortile.
“Mi
sembra di
vivere in un incubo. Chelsea era sempre allegra, non si faceva mai
abbattere da
niente, era lei a tirarmi su di morale, quando ero giù ed ora io non so
come
fare” le confidò “Non posso credere che Chelsea abbia deciso di
suicidarsi, mi
sembra una cosa talmente assurda, voglio dire perché non mi ha mai
detto di
essere infelice? Perché non mi ha detto addio, neanche una lettera ha
lasciato…” continuò tenendosi la testa fra le mani. Era distrutto, non
riusciva
ad accettare ciò che era successo, anzi non poteva.
“Non
dovrei
dirtelo” le rispose Elizabeth “Molto probabilmente Chelsea non si è
suicidata”
continuò pentendosi immediatamente di averlo detto; sapeva che non
doveva, ma
nel vedere Matthew in quelle condizioni non era riuscita a trattenersi.
“Che
vuoi
dire?” le chiese, non capendo il senso delle parole dell’amica.
“Chelsea
è
stata uccisa. Pensaci bene, non hai mai mostrato neanche un minimo
segno
d’infelicità ed improvvisamente si suicida? È estremamente improbabile”
affermò
Elizabeth sedendosi accanto a Matthew.
“Ma tu
ne sei
sicura?” domandò il ragazzo.
“È ciò
che mi
ha detto mio padre. La sua squadra sta analizzando il caso” spiegò
“Sono sicura
che loro riusciranno ad andare in fondo a questa faccenda, se c’è
qualcuno
responsabile di quanto successo, la pagherà” esclamò Elizabeth con tono
di
sfida.
“In
ogni caso
le cose non cambieranno, Chelsea non tornerà” ribadì, alzandosi dalla
panchina
e lasciando il cortile.
“Scusami,
ma
ora devo andare. Grazie di tutto comunque…” le disse e rientrò a scuola.
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Capitolo 5 *** Cap. 4 ***
“Ogni impulso che tentiamo di soffocare,
germoglia nella nostra mente, e c’intossica” (Oscar Wilde, Il ritratto
di
Dorian Gray)
“Quindi
mi sta dicendo che il fatto che due ragazze, a cui lei aveva offerto un
contratto, si siano suicidate a distanza di due giorni è una pura
coincidenza?”
intimò Spencer guardando il sospettato con estrema indifferenza.
“A
quanto pare, si. Io non ricordo nemmeno chi siano queste ragazze! Ha
idea di
quante persone si rivolgono a me?” rispose Davis con noncuranza.
“Devo
dedurre che lei offre contratti a chi le capita a tiro?” gli domandò.
“Deduca
quel che gli pare…” farfugliò Davis con tono sempre più annoiato. A
quelle
parole, Spencer uscì fuori dalla stanza, sbattendo la porta; quell’uomo
era
riuscito ad irritarlo profondamente; c’era qualcosa in lui che non
quadrava,
aveva un brutto presentimento, come se avvertisse che qualcosa di molto
peggio
sarebbe successa, senza riuscire capire cosa. Morgan lo raggiunse
immediatamente con aria estremamente contrariata, “Ma come ti è saltato
in
mente di uscire in quel modo?” gli urlò indicando lo studio di Davis.
Spencer
non rispose, sapeva di aver sbagliato ma non aveva alcuna voglia di
ammetterlo.
“Sarà meglio che tu torni lì dentro e ti comporti come ci si aspetta
che tu
faccia, hai capito Reid?” gli disse. Spencer annuì e rientrò nella
stanza.
“Non
abbiamo nessuna prova per poterlo in centrale” comunicò Anne sottovoce,
fissando
il collega con espressione preoccupata “Credo che dobbiamo lasciar
perdere”
continuò.
“Lasciar
perdere? Non se ne parla, lui ha a che fare con questa storia ne sono
più
convinto!” esclamò Spencer
“Mi
dispiace, Reid. Ma credo che dovrai rinunciare. Ha ragione Anderson,
non
abbiamo uno straccio di prova per poter insistere, e poi per oggi hai
fatto
abbastanza danni, non credi?” disse Morgan.
“Ci
vuole ancora molto? Avrei un appuntamento tra mezz’ora” li interruppe
Davis
guardando l’orologio che portava al polso.
“Non
si preoccupi, non lo tratteniamo oltre. Arrivederci” annunciò Anne ed
uscì
dallo studio accompagnata dagli altri due agenti.
“Spencer
si può capire che ti è preso lì dentro?” le domandò Anne mentre si
sistemava i
capelli.
“Ho
perso un po’ il controllo…” sussurrò “Un po’? Eri praticamente uscito
fuori di
testa” affermò con tono divertito.
“Solo
il pensiero che ciò che è successo a Chelsea Garrison sarebbe potuto
succedere
ad Elizabeth, mi fa impazzire” le rispose Spencer.
“Si,
ma non è successo. Quindi stai calmo, ok? Non ci servi quando fai
l’esaurito!”
gli disse facendogli un sorriso.
“Ragazzi,
venite in sala riunioni. Lucas ha scoperto qualcosa d’interessante
riguardo
Davis” li chiamò JJ.
“Allora,
a quanto pare quelli di Mary Alice Evans e Chelsea Garrison non sono
gli unici
suicidi che vedono coinvolto Davis” annunciò Lucas una volta seduti
tutti.
“La
scorsa primavera a Richmond due ragazzi, James Duff e Tim Brown, 16 e
20 anni,
entrambi membri di una band come Chelsea, si sono improvvisamente
suicidati
poco prima di firmare un contratto discografico di tre anni con
l’agenzia di
Davis” disse mostrando le foto dei due ragazzi sullo schermo.
“Due
ragazzi?” chiese perplessa Anne guardando gli altri.
“Questo
cambia del tutto la vittimologia” affermò JJ. “Già” confermò Spencer
sempre più
confuso.
“Credevamo
che fossero le ragazze gli obiettivi dell’ S.I.” continuò.
“Come
sono morti?” domandò Morgan. “Duff si è impiccato, mentre Brown si è
buttato
dal 10° piano del palazzo in cui abitava assieme alla sua ragazza”
rispose.
“Nessun
collegamento con Davis oltre il contratto?” chiese Spencer.
“No,
nessuno. Gli agenti che hanno seguito le indagini le hanno chiuse dopo
pochi
giorni, Davis non è stato nemmeno interrogato” spiegò Lucas.
“Vorrà
dire che aspetta a noi capire il ruolo di Davis in questi suicidi, se
ne ha
veramente uno” affermò Morgan e si diresse verso il suo ufficio
lasciando i
suoi colleghi in sala riunioni.
“Come
procede
l’indagine?” chiese Elizabeth a suo padre la mattina seguente mentre
facevano
colazione.
“Punto
morto.
Non riusciamo a trovare un qualche appiglio per fermare Davis” confessò
Spencer.
“L’ufficio
vuole chiudere l’indagine” proseguì.
“Chiudere
l’indagine? Ma sono impazziti! Chelsea non si è uccisa, e neanche
quell’altra
ragazza. Come fanno a chiudere l’indagine?” esclamò Elizabeth furiosa.
Non
riusciva a credere che l’F.B.I. avesse deciso di far finta che non
fossero
degli omicidi.
“Non
abbiamo
prove per poter andare avanti. Senza contare il fatto che, a parte
Davis, tutto
sembra indicare che questi ragazzi si siano suicidati” le disse.
“Chelsea
non si
è uccisa, hai capito? La verità è non t’importa nulla di scoprire chi è
stato!”
gli urlò contro.
“Ma
come ti
salta in mente di dire una cosa simile? È logico che mi interessa, ma
non posso
farci nulla se l’ufficio chiude l’indagine, tra l’altro l’F.B.I. non
indaga sui
suicidi, questo dovresti saperlo”
“Comunque
Elizabeth
ti prego, non peggiorare la situazione” lo pregò Spencer notando
l’espressione di
odio cieco di sua figlia.
“Non
preoccuparti, non ti darò alcun fastidio” gli rispose con tono acido.
“Non
usare quel
tono con me, hai capito signorina?” la minacciò Spencer.
“Io
uso il tono
che voglio. Le tue minacce non hanno alcun valore” aggiunse la ragazza.
“Non
hai alcun
diritto di mancarmi di rispetto. Smettila subito e non costringermi a
fare
qualcosa di cui potrei pentirmi” affermò Spencer.
“Vaffanculo”
disse Elizabeth in tutta risposta e se ne andò.
“Elizabeth,
torna qui immediatamente!” le gridò Spencer, ma ormai sua figlia non lo
ascoltava più. “Che è successo?” chiese Madison entrata in cucina dopo
aver
sentito le urla dei due.
“Niente,
un’altra litigata con Elizabeth. Come al solito, nemmeno oggi è
riuscita a
farne a meno” le rispose.
“Spence,
lascia
perdere. Lo sai com’è fatta nostra figlia, Ellie è impulsiva e a volte
dice
cose senza pensarci.” Cercò di rassicurarlo e si sedette accanto a lui.
“In
ogni caso ecco
il tuo regalo” gli disse, porgendogli un pacco rosso con un enorme
fiocco blu
sopra.
“Maddie,
ma
dai! Credevo che oramai non ci facessimo più regali ad ogni compleanno”
“E
invece no!
Allora aprilo” insistette Madison mordendosi le labbra, fremeva dalla
curiosità
di vedere la reazione di suo marito.
“Va
bene…” le
disse scartando il pacco. “E’ bellissimo!” esclamò commosso
abbracciando
Madison. Era una fotografia incorniciata che ritraeva loro insieme ai
ragazzi,
scattata qualche anno fa, nel Hyde Park a Londra durante una vacanza.
Si
ricordava bene quella vacanza; Madison infatti dopo aver partecipato ad
una
gara di nuoto nel Tamigi si era ammalata di polmonite, costringendoli a
rinviare la partenza di circa due settimane, ma soprattutto perché
quella fu
l’ultima vacanza che avevano trascorso tutti insieme prima che il suo
rapporto
con sua figlia andasse in frantumi. In effetti, fino a poco tempo fa,
tra i due
c’era una grande intesa; Elizabeth si confidava con lui ed era Spencer
la
persona a cui si rivolgeva quando aveva un qualche problema o anche per
un
semplice consiglio. Ma all’improvviso qualcosa fra loro si ruppe ed
Elizabeth
smise di cercarlo.
Ora si
chiedeva
se questa situazione sarebbe durata per sempre o se un giorno sarebbe
tornato
tutto come prima.
“Sono
contenta
che ti piaccia. Ora scusami, ma devo andare in ospedale, ho il turno di
pomeriggio. Ci vediamo dopo” gli disse, poi gli diede un bacio sulla
fronte e
se ne andò.
“A
dopo!”
rispose, salutandola con la mano. Dopo essersi versato un’altra tazza
di caffè,
andò nello studio, posò la fotografia sulla scrivania e rimase lì in
silenzio a
fissarla.
Arrivata
a
casa, Elizabeth buttò lo zaino sul pavimento e prese subito la
chitarra,
sentiva il bisogno urgente di suonare qualcosa, ma soprattutto di
smettere di
pensare. La notizia della chiusura delle indagini l’aveva profondamente
turbata, sentiva la necessità di fare qualcosa, non poteva accettare
che la
morte di Chelsea fosse considerata un suicidio quando la verità era che
era
stata uccisa.
Era
completamente
immersa nei suoi pensieri quando lo squillo del telefono riportò
Elizabeth alla
realtà; “Non c’è nessuno che risponde?” gridò dopo aver sentito il
telefono
squillare tre volte.
S’affrettò
a
scendere le scale e alzò la cornetta del telefono.
“Pronto?”
“Morgan? Come mai ci hai messo così tanto a rispondere?” le domandò
Diana.
“Nonna,
ciao” esclamò
Elizabeth, riconoscendo
subito la voce di sua nonna, d’altronde era l’unica persona al mondo a
chiamarla con il suo secondo nome.
“Scusa se ci ho messo un
po’, ma credevo che
ci fosse Jules a casa, invece sono sola. Comunque dimmi, è successo
qualcosa?” chiese
sua nipote preoccupata; sua nonna non telefonava mai, a parte che
quando si era
cacciata in qualche guaio, cosa che ultimamente succedeva spesso.
Elizabeth le
voleva un gran bene, le piaceva passare del tempo insieme a lei, ma ciò
che
amava di più di lei era la sua stravaganza; con sua nonna, infatti, si
sentiva
libera di fare e dire qualsiasi cosa, parlavano ore e ore delle cose
più assurde
senza mai stancarsi.
“No,
non è
successo nulla. Ho chiamato solo per gli auguri di compleanno a
Spencer”
“Nonna,
oggi
non è il compleanno di papà…” affermò con sicurezza.
“Si,
invece. Il
compleanno di tuo padre è il 27 marzo, è una delle poche cose che mi
ricordo!”
esclamò Diana un po’ confusa.
“Oggi
è 27?!”
domandò allarmata Elizabeth. “Si, Ellie”
“Oh merda…” sussurrò la
ragazza dopo aver
realizzato di essersi scordata del compleanno di suo padre.
“Come
tesoro?
Non ho capito” le domandò.
“Nulla,
nonna.
Senti papà non c’è adesso. Ti faccio chiamare più tardi, ok?”
“Si,
va bene.
Ci sentiamo allora” rispose e chiuse la telefonata.
“E ora
che
faccio?” si chiese. Doveva come minimo comprargli un regalo per farsi
perdonare, specialmente dopo averlo mandato a quel paese il giorno del
suo
compleanno, anche se era convinta che non sarebbe servito a molto e poi
non
aveva la minima idea di cosa avrebbe potuto regalargli, in effetti fare
regali
non era il suo forte. Perciò decise di farsi aiutarsi dalle sue amiche,
e dopo
averle chiamate andò al centro commerciale .
“Allora
Ellie,
cosa hai in mente?” le domandò Nicole, una volta arrivate.
“Non
lo so, ho
solo 20 dollari, quindi qualcosa di poco costoso” rispose guardandosi
intorno
alla ricerca di qualcosa che colpisse la sua attenzione.
“Che
ne dici di
questa camicia? Secondo potrebbe andar bene, e poi Spencer sta
benissimo con il
celeste” propose
Blair.
“Quanto
costa?”
le chiese. “45 dollari” rispose controllando il cartellino del prezzo.
“Cosa?!
Non se
ne parla proprio!” esclamò con fervore. “Hai ragione, è un po’ troppo
costosa.
Comunque le starebbe davvero bene, quasi quasi gliela compro io” disse
con aria
sognante.
“Smettila,
Blair!” la minacciò Elizabeth; la cotta di Blair per suo padre la
irritava parecchio,
a volte pensava che venisse a casa sua unicamente per vedere Spencer.
“Andiamo
via
prima che Blair gliela compri sul serio” affermò Nicole ridendo.
“Ma io
non ho
comprato nulla…” farfugliò Elizabeth.
“Scusa, ma è proprio
necessario che gli compri
qualcosa? Perché non gli suoni una canzone? Secondo me è più bello, è
più
personale. Senza contare il fatto che tuo padre l’apprezzerebbe molto
di più”
le suggerì l’amica. “Mi associo” disse Blair prendendo a braccetto
Nicole.
“Si,
avete
ragione voi” rispose Elizabeth dopo averci riflettuto sopra. “Ora
andiamo da
Nima’s!” disse indicando la vetrina del negozio di fronte.
“A
fare che?”
domandò Blair. “A comprare il braccialetto che è in vetrina” rispose,
avviandosi
dall’altra parte, in fin dei conti in qualche modo li doveva spendere
quei
soldi.
“Posso
entrare?” domandò Elizabeth dopo aver bussato alla porta dello studio.
“Si,
certo!
Entra pure…” le rispose Spencer, mettendo da parte i fascicoli.
“Buon
compleanno” gli disse cercando di far finta di nulla. “Scusa per
stamattina,
non lo pensavo veramente…” sussurrò fissando il pavimento.
“Non
ti
preoccupare, Ellie. Non è successo nulla” la rassicurò Spencer.
“Sapessi
chi mi
ha ricordato il tuo compleanno!” esclamò sua figlia, cambiando
argomento, “Nonna
Diana!” continuò, scoppiando a ridere.
“Mamma?”
chiese
sorpreso Spencer, scoppiando anche lui a ridere.
“Incredibile,
vero? Cioè la stessa nonna che ci manda dei regali ogni tre mesi perché
non si
ricorda mai quando sono i nostri compleanni, mi ha ricordato del tuo”.
Fece una
pausa per prendere fiato e continuò: “Senti ho provato a comprarti un
regalo,
ma non ho concluso nulla, in compenso mi sono comprata questo
braccialetto!”
disse mostrandogli il braccialetto che portava al polso. “E’ molto
bello”
rispose ironico Spencer.
“Comunque
io un
regalo te lo vorrei comunque fare, ma devi venire con me giù di sotto”
e si
diresse verso le scale.
“Accomodati”
suggerì a suo padre, indicando la poltrona accanto al pianoforte.
Spencer si
sedette e si sistemò un cuscino dietro la schiena. Elizabeth dopo
essersi
accertata di avere l’attenzione di suo padre, fece un respiro profondo
per
calmarsi e cominciò a suonare. Era la prima volta che suonava qualcosa
per suo
padre, ad essere sinceri Elizabeth suonava solo per se stessa; non
amava molto
esibirsi, in effetti essere al centro dell’attenzione la metteva a
disagio,
anche se con il suo atteggiamento non faceva altro che ottenere il
contrario.
Mentre suonava notò l’espressione sbalordita di suo padre, il quale
rimase
incanto dopo aver sentito Elizabeth suonare, non pensava che fosse così
brava.
“Ma dove hai imparato a suonare così?” le chiese muovendo le dita come
se
stesse suonando il piano. “A casa! Al contrario di quello che pensi tu,
io
qualcosa la combino” affermò sua figlia con tono scherzoso.
“Sei
veramente
brava, Ellie. L’hai composta tu?” domandò incuriosito.
“Mmm…si.
Sto
scrivendo anche il testo, ma per il momento è solo musica” spiegò
Elizabeth
mentre sistemava gli spartiti.
“Quando
finisci
di scriverlo, me lo devi assolutamente cantare!” affermò Spencer
alzandosi
dalla poltrona.
“Va
bene, se ci
tieni…” rispose sua figlia stupita per la reazione di suo padre.
“Comunque io
vado, ho un po’ di compiti da fare, cioè dovrei fare qualcosa.
Buonanotte”
continuò, poi salì le scale portandosi con sé gli spartiti.
“Sbaglio
o hai
appena tenuto una conversazione civile con Elizabeth?” chiese sua
moglie che
nel frattempo era rientrata a casa.
“Si,
mi ha
chiesto scusa e mi ha suonato una sua canzone. Non avevo idea che
suonasse così
bene, mi ha ricordato te quando ci siamo conosciuti. Infatti se tu non
avessi
suonato quella sera, forse non saremmo qui adesso” le ricordò Spencer.
“Ma se
avevi
perso la testa per me ancora prima che cominciassi a suonare!
D’altronde non
posso darti torto, insomma le luci soffuse del locale ed io che ero
dannatamente sexy, non poteva andare diversamente” disse vantandosi.
“Che
ne dici se
andiamo a cena fuori? È il tuo compleanno, festeggiamo!” gli propose.
“E i
ragazzi?”
chiese perplesso Spencer. “Non preoccuparti! Non sentiranno la nostra
mancanza”
le rispose. “Dai, andiamo! Sarà come avere 28 anni di nuovo!” esclamò
trascinando suo marito verso la porta.
“Maddie,
tu non
hai mai smesso di avere 28 anni!” le disse prendendo il cappotto.
“Hai
ragione” e
poi si baciarono.
“Dove
sono
mamma e papà?” domandò Elizabeth a Jules. “Sono andati a cena fuori” le
rispose
“Io e Thomas vogliamo ordinare la pizza, per te va bene?” le chiese.
“Si,
va benissimo.
Appena arriva chiamami. Io sono di sopra, devo finire una ricerca”
mentì
Elizabeth. “Ok…” rispose Jules che non aveva prestato molta attenzione
alle
parole di Elizabeth.
Elizabeth
salì
al piano di sopra in fretta e dopo essersi accertata che suo fratello
fosse di
sotto, entrò nello studio di suo padre, chiudendosi la porta alle
spalle.
Cercava i fascicoli del caso, era sicura che suo padre li aveva
lasciati lì, lo
faceva sempre.
“Eccoli!”
esclamò dopo averli trovati. Li lesse velocemente senza trovare però
l’indirizzo di Davis. Poi notò il notebook di suo padre, “Sicuramente
tutte le
informazioni saranno lì…” pensò.
Lo
accese
convinta di non trovare nessun ostacolo, ma non fu così; infatti il
computer
era protetto da una password e lei non aveva idea di quale fosse. Dopo
una
serie di tentativi andati a vuoto, stava per rinunciare quando si
ricordò di
una conversazione avuta con Penelope.
“Zia Penny che fai?”
“Nulla, sbircio le conversazioni di Kevin”
“Ma non è violazione della privacy questa?”
“Tesoro mio, leggere le conversazioni di
tuo marito non è violazione della privacy, ma uno dei tuoi diritti in
quanto
moglie!”
“Beh, questo cambia decisamente le cose. Ma
se il computer è protetto da una password come si fa?”
“Che domande! Ti faccio vedere, è semplicissimo,
basta che premi qui e scrivi questo ed ecco fatto”
“Mhm…interessante! Vedrò di metterlo in
pratica”
“Assolutamente tesoro, è un ottimo modo per
tenere tutto sotto controllo!”
“Bene,
allora
devo premere qui poi scrivere…” disse a voce alta augurandosi vivamente
che
quel sistema funzionasse. Dopo qualche minuto di attesa, comparvero
tutti i
file di suo padre.
“Ci
sono
riuscita. Grazie, zia Penny!” esclamò Elizabeth parlando da sola. Poi
cercò
l’indirizzo di Davis, lo scrisse su un foglio ed uscì dallo studio. Ora
sapeva
cosa avrebbe fatto il giorno dopo.
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Capitolo 6 *** Cap. 5 ***
“La forza non ha luogo dove c’è bisogno di
abilità.” (Erodoto)
Elizabeth
scese
dalla macchina e rimase in piedi, poggiata contro la porta
dell’automobile,
davanti al cancello della scuola. Per non destare sospetti, era uscita
presto
quella mattina inventandosi una scusa intoccabile, non a caso uno dei
pregi di
Ellie era la sua straordinaria abilità nel dire bugie; “Potrei lavorare
per
CIA!” si disse compiaciuta ripensando alla sua scusa. Nonostante la sua
apparente calma, era piuttosto nervosa; stava per affrontare un rischio
non
indifferente, ma aveva deciso di andare a fondo a quella faccenda,
avrebbe
trovato lei l’indizio che avrebbe aiutato la squadra di suo padre a
proseguire
l’indagine. D’altronde era sicura di riuscire, suo padre l’aveva
allenata per
questo. Già, Spencer non lasciava i fascicoli dei casi da lui seguiti
sulla
scrivania per caso, sapeva benissimo che sua figlia li leggeva ed
infatti era
proprio questo lo scopo di Spencer: che sua figlia li leggesse, capisse
e
assimilasse tutto quello che poteva perché era convinto che sarebbe
stata lei a
proseguire la carriera di profiler. In quel momento si ricordò quando
si
svegliava in piena notte urlando dopo aver sognato l’S.I. del caso e
suo padre la
consolava,
ripetendole
sempre la frase:“Ellie, non preoccuparti.
L’abbiamo preso, non ricordi?”.
“E se non lo prendi, che succede?” le
chiese una volta, tremando ancora per l’incubo appena avuto, “Se non lo prendo io, lo prendi tu, tesoro” le aveva risposto mentre le
rimboccava le
coperte.
Gli
incubi li
aveva ancora, ma ormai non urlava più e suo padre non veniva più in
camera sua
a consolarla. Ormai era pronta, avrebbe catturato lei l’S.I., ma aveva
bisogno
di una copertura ed era proprio questo il motivo del per cui era uscita
presto
di casa. Infatti aspettava Colin, il suo amico di sempre, lui non
faceva mai
troppe domande e avrebbe accettato di coprirla senza fare inutili
storie, a
differenza di Blair e Nicole che avrebbero preteso che raccontasse il
motivo
della sua “fuga” da scuola. “Ma dove diavolo sei Cole?” si chiese,
mentre
guardava l’orologio, lui arrivava sempre in anticipo e proprio oggi che
non
voleva essere vista da nessuno Colin era in ritardo.
Era
sul punto
di chiamarlo sul cellulare quando lo vide sbucare dal bar di fronte la
scuola.
“Ecco,
dov’eri!
Al bar! Ma da quando fai colazione con i fichetti?” gli chiese non
appena fu
davanti a lei, indicando i membri della squadra di football,
abbracciati alle
cheerleaders, guardandoli pensò come mai sua sorella non fosse lì, in
fin dei
conti anche lei era una cheerleader.
“Mi
stavi
aspettando? E tanto per la cronaca, sono stato invitato da Taylor” le
rispose
orgoglioso, lanciando uno sguardo verso la ragazza.
“Ah
ah!ti piacciono
le more! Bravo bravo” esclamò dandogli una pacca sulla spalla. “Senti,
devo
chiederti un favore. Puoi coprirmi pomeriggio? Ho detto ai miei che mi
fermavo
da te dopo la scuola” proseguì.
“E
invece dove
vai?” domandò Colin, notando l’espressione nervosa dell’amica.
“Non
posso
dirtelo. Ma non preoccuparti, andrà tutto bene” lo rassicurò.
“Els
sei
sicura? Insomma non starai mica per fare una della tue cazzate, vero?”
l’accusò, incrociando le braccia sul petto. Quella situazione non gli
piaceva
per niente, si sentiva che avrebbe combinato qualche guaio, ma non
capiva quali
fossero le sue intenzioni.
“Ma
smettila!
Quando fai così, sembri proprio mio padre” affermò ridendo.
“Allora?
Mi
copri?” gli chiese facendo finta di inginocchiarsi.
“Si,
va bene.
Ma appena sei a casa, mi chiami subito!” le ordinò, facendole un mezzo
sorriso.
“Grazie
grazie!
Ti devo un favore. Ci sentiamo dopo, ciao” rispose. Poi lo salutò con
un bacio
sulla guancia e salì in macchina, partendo a tutta velocità.
“Speriamo
bene”
si disse, guardando Ellie sorpassare tre auto in una volta.
“Allora,
l’indirizzo
dovrebbe essere questo: 13, Warren Avenue” disse dopo aver sbirciato il
numero
civico. Dopodiché spense il motore e rimase ferma ad osservare la casa
a
distanza non troppo ravvicinata. Le tende del soggiorno non erano
completamente
chiuse, il che le consentiva di guardare dentro la casa. Dopo circa una
ventina
di minuti vide Davis entrare in soggiorno. Aveva in mano una pila di
fotografie
che sembrava mangiare con gli occhi. “A quanto pare il bastardo le
fotografa
prima di buttarle da qualche parte” esclamò a voce alta, ripensando a
Mary
Alice che era stata trovata su una panchina del parco situato, tra
l’altro, a
pochi isolati da casa sua.
Davis
posò le
fotografie sul tavolo e sparì dalla visuale di Elizabeth, “Dove sarà
andato?”
pensò; non vedendolo tornare, fu tentata dallo scendere dalla macchina
per
spiarlo dal retro della casa, stava per aprire lo sportello della
macchina
quando si rese conto che un po’ troppo rischioso, non era armata e non
avrebbe
avuto modo di difendersi nel caso che Davis l’avesse vista, perciò
rimase
dentro la macchina, accese la radio e s’accomodò sul sedile. Mentre
aspettava
rifletté sulla sua prossima mossa, leggendo il fascicolo del caso aveva
notato
una certa periodicità tra un omicidio e l’altro e secondo i suoi
calcoli, che
erano gli stessi del team di Spencer, Davis avrebbe colpito quella sera
stessa.
Se era così non bastava spiarlo, Davis non avrebbe dato appuntamento
alla
potenziale vittima a casa sua, era troppo azzardato soprattutto dopo
che
l’F.B.I. lo aveva interrogato. Tuttavia quello che ancora non era
chiaro ad
Ellie era il modus operandi; come faceva Davis a dare l’apparenza che
si
trattasse di suicidi? Era questa la domanda che si poneva Elizabeth, di
certo
non si poteva pensare che le minacciasse con una pistola, a quel punto
era più
semplicemente ucciderle lui stesso. Tuttavia sulle vittime non era
stata
trovata alcuna traccia di droga, almeno secondo quanto era stato
rilevato
dall’esame tossicologico.
Era
completamente immersa nelle sue congetture quando notò Davis comparire
in
soggiorno, stavolta in mano aveva un bicchiere di whisky che poggiò sul
tavolo,
si sedette sulla poltrona e si accese una sigaretta. Dal modo in cui
sputava il
fumo sembrava alquanto irritato, Elizabeth si chiese cosa gli fosse
andato
storto. Spense la sigaretta dopo appena tre tiri e cominciò a
sorseggiare il
whisky, aveva lo sguardo fisso verso la finestra, per un minuto Ellie
si chiese
se l’avesse notata, ma considerando la distanza dalla casa e la
posizione di
Davis si tranquillizzò, era impossibile che l’avesse vista. Era ormai
sul punto
di finire anche il whisky, quando qualcosa lo interrupe; si frugò le
tasche e
prese il cellulare, non appena ebbe risposto si alzò immediatamente
dalla
poltrona e cominciò a gesticolare nervosamente, poi chiuse il
cellulare, prese
le chiavi della macchina ed uscì di casa. Elizabeth aspettò che si fu
allontanato e dopo essersi assicurata che nessuno l’avesse notata,
accese il
motore e partì all’inseguimento di Davis. Ecco la sua seconda mossa.
“Cole,
ma Ellie
non è venuta oggi a scuola?” gli chiese Jules dopo aver notato che sua
sorella
non era a mensa.
“Ellie?
Si è
venuta, ma non pranza qui oggi. È andata fuori con Blair” mentì
velocemente
Colin, approfittando della reale uscita di Blair.
“Ah!
Ho
capito…” rispose Jules poco convinta. “Quindi dopo scuola viene da te?”
gli
domandò decisa a torchiarlo un altro po’.
“Si,
viene da
me. Perché me lo chiedi?” le domandò a sua volta. Voleva assicurarsi
che Jules
non sospettasse nulla, conoscendola era sicuro che se avesse avuto il
minimo
sospetto che sua sorella aveva marinato la scuola sarebbe subito andata
a
raccontare tutto ai suoi.
“Così.
Lei
sempre mi accompagna a casa dopo le prove con le cheerleaders, ma oggi
mamma mi
ha detto che non c’era, quindi dovrò prendere l’autobus…” le rispose
con
noncuranza.
“Eh
già!”
esclamò Colin “Ora devo andare, ho un’interrogazione e vorrei ripassare
qualcosa prima. A domani” le disse, poi s’allontanò velocemente prima
che Jules
gli facesse qualche altra domanda.
“Mhm…
che
strano. Quei due hanno combinato sicuramente qualcosa” disse a voce
alta,
seguendo con lo sguardo Cole che usciva dalla mensa urtando mezza
scuola.
“Quei
due chi?”
le chiese Jacob. Jacob era il ragazzo che gli piaceva, o meglio con cui
si
augurava che nascesse qualcosa. Ma per il momento erano semplici amici
e a lei
stava bene così.
“Mia
sorella
Ellie e l’amico. Mi sa proprio che ha saltato scuola oggi, chissà dove
sarà
andata” gli rispose girandosi verso di lui.
“Secondo
me ti
preoccupi troppo per tua sorella e poco per te. Julie, sono sicuro che
lei sa
quello che fa” le disse mentre posava la mela mangiucchiata sul vassoio
della
ragazza.
“Secondo
me
invece non sa proprio quello che fa” affermò con sicurezza. “Ma ora non
m’importa! Andiamo fuori? Ci sono le altre cheers che mi aspettano”
continuò.
“Certo!
Sono ai
tuoi ordini, ricordi?” le rispose ironizzando sul fatto che Jules si
comportava
come se comandasse lei la scuola, ed in un certo senso era così.
Poi le
offrì il
braccio e insieme si diressero verso il cortile.
Era
all’inseguimento di Davis da circa una ventina di minuti, ormai si
erano
allontanati dal centro di Washington, avevano attraversato Gordon
Boulevard
diretti verso Tyson Corner, quando la macchina di Ellie cominciò a fare
i
capricci. “Mandy, ti prego! Non abbandonarmi adesso!” disse colpendo
con
fermezza il cruscotto della macchina. Adorava quell’auto, nonostante
fosse
parecchio malandata e mantenerla fosse una vera e propria impresa. Le
aveva
dato il nome di Mandy alla sua Chevrolet circa una settimana dopo
l’acquisto;
l’aveva comprata con i suoi risparmi dopo aver lavorato per due anni da
Bloomer, lavoro che destava ma che le permise di comprare la sua prima
auto.
La
macchina
emise un rantolo e dopo pochi minuti riprese la sua normale andatura,
“Grazie
tesoro!” esclamò, poi notò che Davis aveva svoltato a destra, diretto
verso una
strada senz’uscita.
L’uomo
parcheggiò
davanti una casa all’apparenza abbandonata, scese dalla macchina e
entrò dando
un calcio al cancello di legno ormai inumidito. Elizabeth parcheggiò
sul
marciapiede di fronte, chiuse i finestrini, sistemò la sua borsa,
controllando
di aver preso il cellulare, e scese dalla macchina. Rimase per un po’
ferma
davanti al cancello, poi decise di entrare scavalcando il cancello per
non fare
troppo rumore.
Avanzò
lungo il
vialetto d’ingresso cosparso di foglie secche e vecchi inserti
pubblicitari, guardando
giù, verso le mattonelle notò che queste erano coperte di macchie di
sangue
come se qualcuno avesse trascinato un corpo; “A quanto pare è qui che
porta le
sue vittime” pensò, poi prestando più attenzione alla scia di sangue,
si
diresse verso la porta di quella che un tempo doveva essere stata una
casa
coloniale, quando notò all’improvviso comparire Davis assieme ad un
uomo alto
di colore; Elizabeth, presa dal panico, si nascose dietro una panca in
acciaio
arrugginito.
“Sei
un
coglione, John. Che cazzo hai combinato? Ora che cosa dovrei fare? Sei
il
solito coglione di sempre” urlò Davis contro l’uomo.
“Che
dovevo
fare? Lei non si muoveva più e così ho interrotto la dose”
“E chi
te l‘ha
ordinato? Ora dovrai ucciderla con altri mezzi, hai capito? Io non la
voglio.
Ora non mi serve più”
“Ucciderla
con
altri mezzi? Io non posso ucciderla…” balbettò l’uomo distogliendo lo
sguardo.
“Non
vuoi
ucciderla? Indovina un po’? Non me ne fotte un cazzo che non vuoi,
intesi?”
continuò Davis spingendo l’uomo contro il muro.
Elizabeth
approfittando della discussione fra i due cercò di scappare passando da
dietro
le erbacce e strisciando contro la parete, ma quando arrivò vicino al
cancello
d’ingresso inciampò nella radice sporgente di un albero, provocando un
gran
tonfo.
“Che è
stato?”
chiese Davis avviandosi verso l’ingresso, Elizabeth trattenne il
respiro,
immobilizzandosi, consapevole di aver fatto una grande cazzata, si
augurava
vivamente che Davis non la vedesse. Non sentendo più i passi di Davis
nel
vialetto, pensò di averla scampata quando all’improvviso sentì una mano
posarsi
sulla sua spalla.
“John,
abbiamo
visite” esclamò Davis alla vista di Elizabeth “Ma quanto sei carina!”
le disse
girandole il mento verso di sé, Elizabeth si contrasse e Davis la
strinse
ancora più forte facendole chiudere gli occhi per il dolore.
“Lou,
lasciala
stare. È solo una ragazzina, sicuramente sarà entrata qui per caso”
farfugliò
l’uomo guardando Ellie.
“Tu
dici?
Vediamo chi è questa ragazzina” affermò, poi prese la borsa di Ellie e
cominciò
a frugarvi dentro alla ricerca della carta d’identità. “Elizabeth
Morgan Reid”
lesse Davis una volta trovata.
“A
quanto pare
abbiamo la figlia dell’agente Reid fra noi” “Ti ha mandato papino?”
aggiunse.
“Lascia
stare
mio padre”
“Prendi
le sue
difese? Ma quanto sei tenera! Ora non posso mica lasciarti andare. Ci
rimarrei
troppo male. Vero, John?” disse rivolgendosi verso l’amico ridendo.
“La
figlia di
un federale? Lou non è troppo rischioso?” domandò John cambiando
espressione.
“No,
John. Non
preoccuparti, anzi sarà proprio divertente” affermò Davis lanciandosi
in una
fragorosa risata. “Portala dentro” ordinò poi all’amico lasciando
cadere
Elizabeth per terra.
“Spencer,
Ellie
per caso ti ha detto se veniva a cena?” domandò Madison a suo marito,
nel frattempo
sbatteva le uova per la frittata con una mano mentre con l’altra teneva
il
telefono.
“Non
mi ha
detto nulla in proposito, ma credo che rimarrà da Colin a cena, come al
solito.
Ora scusami ma devo chiudere, qui in ufficio è un casino” rispose
fissando la
pila di fascicoli che JJ gli aveva lasciato sulla scrivania.
“Va
bene.
Allora a stasera” gli rispose chiudendo la telefonata senza lasciare il
tempo a
Spencer di rispondere. Aveva il vizio d’interrompere le telefonate
senz’alcun
preavviso, cosa che lo irritava alquanto.
Prevedendo
una
lunga serata ad analizzare fascicoli, decise di farsi una tazza di
caffè e si
diresse verso la “cucina” dell’ufficio. Mentre andava, notò Anne
flirtare con
lo stagista in corridoio e Lucas combattere contro una scatola di tonno.
Si
versò il
caffè nella sua tazza e ritornò alla sua postazione. Prima d’immergersi
completamente nel lavoro, decise di concedersi cinque minuti di pausa
per
rilassare la mente, poggiò la tazza sulla scrivania e chiuse gli occhi.
“Spence
ti è
arrivata questa” lo interruppe JJ indicandogli una busta gialla con il
suo nome
scritto sopra.
“Che
cos’è?” le
chiese con aria sorpresa. ”Non ne ho proprio idea” rispose facendo
spallucce.
Spencer
prese
la busta in mano e l’aprì, dentro trovò una memory card avvolta in un
fazzoletto di seta. Accese il computer ed inserì la memory, dopo pochi
minuti
si aprì una finestra con tante cartelle vuote, cercò velocemente quella
destinata a lui e la cliccò, mentre aspettava che si avviasse prese di
nuovo la
tazza di caffè. Improvvisamente comparvero una serie d’immagini che
ritraevano
Elizabeth legata ad una sedia, Spencer sgranò gli occhi e lasciò cadere
la
tazza che si frantumò in mille pezzi dopo aver toccato il pavimento.
“Spence
che è
successo?” gli chiese JJ corsa alla scrivania assieme a Morgan dopo
aver
sentito la tazza frantumarsi.
“Oddio…”
esclamò JJ alla vista delle immagini.
“Credi
che…?
“Ti
prego, JJ”
farfugliò e prendendosi la testa fra le mani continuò: “Come ha fatto
ad
arrivare ad Ellie? Io non capisco… io…” non riusciva a completare
nessuna
frase; era troppo sconvolto, non riusciva a credere che la sua bambina
fosse
stata rapita da un folle omicida per cui non erano riusciti neanche a
tracciare
un profilo.
In
quel momento
squillò il telefono, Morgan dopo aver dato il segnale a Lucas di
avviare il
dispositivo per localizzare la telefonata, rispose. “Voglio parlare con
l’agente Reid” esordì una voce fredda dall’altro capo del telefono.
“Bastardo!
Ridammi mia figlia” esclamò Spencer dopo aver strappato il telefono
dalle mani
di Derek.
“Non
così in
fretta, agente Reid. Voglio aiutarla però, le do ventiquattro ore per
trovare e
salvare sua figlia, altrimenti beh lo sa che succede” e chiuse subito
la
telefonata.
“Bastardo!
Non
chiudere” urlò Spencer alla cornetta ormai muta.
“Siamo
riusciti
a rintracciare la telefonata?” chiese Derek a Lucas. “Niente, è stata
troppo
veloce” rispose rammaricato.
A
quelle parole
Spencer batté il pugno contro la scrivania e buttò tutti i fascicoli
per terra.
“Reid,
calmati.
Devi essere lucido” disse Derek rivolgendosi all’amico e posandogli una
mano
sulla spalla.
“Che
cosa? Mi
dovrei calmare? Se fosse successo a Megan saresti calmo e lucido?”.
Derek
non
rispose, sapeva benissimo che nemmeno lui sarebbe rimasto calmo.
Nessuno ci
sarebbe riuscito.
“Scusate,
ma
devo andare” disse Spencer avviandosi verso la porta a vetro scorrevole
del
bureau.
Scese
nel
parcheggio, accese il motore e partì a tutta velocità. Fuori pioveva a
dirotto,
non riusciva a vedere nulla nonostante i tergicristalli fossero
avviati. Sapeva
benissimo dove stava andando, a casa dell’unica persona che sarebbe
stato in
grado di dargli una mano in quel momento. Guidò come una furia, senza
fermarsi
a nessuno stop e rispettare i vari semafori, per circa un’ora. Poi
giunto a
destinazione, scese dalla macchina e bussò alla porta.
Dopo
alcuni
minuti di attesa, un ragazzo biondo alto aprì la porta; “Spencer che ci
fai
qui?” esclamò il ragazzo con aria stupita nel vederlo lì sotto la
pioggia
incessante. “Jack, c’è tuo padre?” gli domandò con aria afflitta. Non
reggeva
più la tensione, era emotivamente sfinito.
“Si,
certo.
Entra pure” gli disse facendosi da parte per lasciarlo passare. Poi
andò a
chiamare suo padre, che ne stava nel suo studio intento a leggere un
libro. Aaron
comparve in soggiorno dopo pochi minuti, era sorpreso nel vedere il
vecchio
collega a casa alle nove passate. “Cosa è successo?” gli chiese dopo
aver
notato l’espressione di sofferenza di Spencer.
“Hotch,
ho
bisogno di te. Ellie è stata rapita” disse tutto d’un fiato lasciandosi
cadere
sulla poltrona.
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Capitolo 7 *** Cap. 6 ***
“E’ un
buon padre
quello che conosce suo figlio” (William Shakespeare)
“Ellie è stata rapita? Come è
potuto succedere?” chiese
Aaron, in quel momento si rese conto di non ricordarsi il volto della
figlia di
Spencer, ma conosceva bene il volto di Spencer: era il volto di chi è
disperato, di chi sente il mondo crollargli addosso.
“Non lo so, non lo so…” era tutto
ciò che riusciva a
farfugliare. Era confuso, nulla di tutto quello che stava vivendo aveva
senso
per lui. “L’unica cosa che so che è mia figlia è uscita per andare a
scuola e
non è più tornata” aggiunse.
“Madison lo sa?”
“Non gliel’ho ancora detto. Non so
come dirglielo…”
rispose, nascondendo il viso fra le mani.
“Devi dirglielo. Ora andiamo,
abbiamo una lunga nottata
davanti a noi” affermò facendo un leggero sorriso per tirar su l’amico.
Spencer
annuì e si alzò dalla poltrona, poi salutò Jack che durante tutta la
conversazione era rimasto zitto in un angolo, e sempre in silenzio il
ragazzo
guardò Spencer uscire dalla stanza.
“Papà la troverete, vero?” gli
domandò poco prima che suo
padre uscisse di casa. Conosceva bene Ellie, così come anche Henry,
erano
cresciuti insieme per molti versi e aveva imparato a volerle bene,
nonostante a
volte lo facesse innervosire con il suo modo di fare da ragazza
“ribelle”, ma
come precisava sempre Henry “can che abbaia, non morde”, ed era così
infatti.
“Non preoccuparti” e uscì di casa,
sparendo dietro la
porta. Jack rimase per un po’ fermo in soggiorno, poi salì in camera e
chiamò
Henry; non poteva nascondergli un fatto del genere.
“Henry, Ellie è stata rapita…” gli
disse non appena il
ragazzo rispose al telefono.
“Perché stiamo andando verso
Walker Mill?” chiese Spencer
notando che avevano preso l’uscita di Pennsylvania Avenue.
“La squadra non è completa”
rispose senza aggiungere
altro. Proseguirono per un altro tratto e si fermarono davanti ad una
casa
rossa sorvegliata da un grosso pastore tedesco che appena li vede si
mise a
ringhiare.
“Hotch, ma dove mi hai portato?”
domandò guardando il
cane rabbioso con un certo sospetto. Aaron non lo rispose, e
s’incamminò verso
l’ingresso. “Buono, Steve” disse al cane quando gli passò davanti.
Giunto alla porta bussò e rimase
ad aspettare; “Vieni
Reid” gli disse facendogli segno con la mano di venire verso di lui,
Spencer
passò davanti al cane affrettando il passo e si piazzò dietro ad Hotch.
“Aaron Hotchner, spero che tu
abbia una buona scusa per
avermi disturbato a quest’ora” esordì David Rossi, appena aprì la porta
e si
trovò davanti Hotch.
“Ottima, David. Mia figlia è stata
rapita” disse Spencer
spostandosi da dietro Hotch.
“Andiamo” gli rispose senza
esitare un attimo e prendendo
la giacca dall’appendiabiti.
“Se non vi dispiace, io vorrei
prima andare a casa” disse
a bassa voce.
“Va bene, noi andiamo con la
macchina di Rossi. Ci
vediamo in ufficio” rispose Aaron. “Tranquillo, Spencer. Ti prometto
che andrà
tutto bene” aggiunse per rassicurarlo. Poi si diresse verso Rossi che
nel
frattempo aveva preso le chiavi della macchina, salì in macchina e
partirono.
Spencer rimase in piedi solo
davanti al cancello della
casa di David, incerto su cosa dire a Madison; non trovava le parole
per
iniziare quella conversazione, probabilmente la più difficile della sua
vita,
doveva dire a sua moglie che la loro figlia maggiore era stata rapita
da un
S.I.; ora capiva cosa aveva provato Hotch quando Foyet lo aveva
costretto ad
allontanarsi dalla sua famiglia, cosa aveva provato quando seppe della
morte di
Haley, cosa significasse sentirsi impotenti, sapere che una persona che
ami è
in pericolo e non poter far nulla per salvarla.
Salì in macchina, fece un respiro
profondo per farsi
coraggio e partì. Cercò di concentrarsi il più possibile sulla guida,
di non
pensare alla sua Ellie, ma era inevitabile; non poteva non pensarla,
anche se
sapeva che sua figlia sarebbe stata all’altezza della situazione, ne
era
convinto. Elizabeth era una ragazza abbastanza furba, ma soprattutto
aveva
coraggio da vendere. Sarebbe riuscita a resistere fino a quando lui non
l’avesse trovata.
Arrivò a casa, scese dalla
macchina lasciando il motore
acceso. Entrò in casa, augurandosi di non incontrare subito Madison,
ancora non
sapeva bene cosa le avrebbe detto, ma invece Madison era proprio lì con
il
telefono in mano.
“Tua figlia è in un mare di guai,
non so dove sia. Ho
chiamato a casa di Colin e Florence mi ha detto che non è stata da loro
oggi
pomeriggio” annunciò a suo marito non appena lo vide.
“Lo so, Maddie”
“Lo sai? Ti ha chiamato?” le
chiese incredula, non
riusciva a credere che Elizabeth avesse chiamato Spencer.
“Maddie… devo dirti una cosa, ma
prima siediti”
“Spencer, mi stai spaventando
così” disse, ma ubbidì;
posò il telefono sul tavolo al centro della stanza e si sedette sul
divano.
“Tesoro, Ellie non è andata a
pranzo da Colin perché è
stata rapita”. Madison ebbe un mancamento e chiuse gli occhi,
sforzandosi di
non piangere.
“Rapita? Spencer che stai dicendo?
Non capisco…”
balbettò, aveva sempre temuto che suo marito potesse essere rapito o
ferito da un
S.I., ma il rapimento di sua figlia non aveva alcun senso.
“Sei sicuro? Com’è potuto
accadere?” continuò.
“Si, amore. È così, ho ricevuto
delle fotografie… è stato
Davis, il manager che abbia interrogato martedì”
“Voglio vederle” esclamò,
alzandosi dal divano.
“E’ meglio che non le veda…”
“Spencer, non dirmi ciò che posso
e non posso vedere, hai
capito?” urlò, allontanandosi da Spencer che provava ad abbracciarla.
“Maddie, la troverò. Non lascerò
che le accada nulla, lo
giuro” rassicurò sua moglie, stringendole le mani.
“Anche se so quanto possa essere
diffiicile, voglio che
tu stia tranquilla e che ti fidi di me, me lo prometti?”
“Si…” sussurrò, lasciandosi
scappare una lacrima che le
bagnò il viso.
“Ora vado in ufficio. Anche Hotch
e Rossi ci daranno una
mano” affermò, dirigendosi verso la porta d’ingresso.
“Vengo con te” gli disse
prendendolo per un braccio.
“No, Maddie. Devi parlare con
Jules e Thomas, se vieni in
ufficio non ha alcun senso”
“Porterò Jules e Tom a casa di
Jane e vengo lì”
insistette.
“Va bene…”
e si
avviò verso la porta.
“Spencer, quanto tempo? “ gli
chiese.
“Quanto tempo?” domandò voltandosi
verso di lei
“Si, insomma sono vent’anni che ho
a che fare con il tuo
lavoro, e so bene che per ogni vittima c’è una scadenza ben precisa.
Qual è
quella di Ellie?”
“Oh, si. Ventiquattro ore…”
“Hai ventiquattro ore per portare
mia figlia a casa”
rispose fredda. Spencer annuì e se ne andò.
Madison stette ferma sulla soglia
della porta incerta sul
da farsi, poi si fece coraggio e compose il numero di Jane.
“Pronto?” rispose l’amica dopo
aver lasciato squillare il
telefono per un po’.
“Jane, sono Madison… Ho bisogno di
un favore” sussurrò
non appena sentì la sua voce.
“Mads, che è successo? È capitato
qualcosa a Spencer?” le
domandò preoccupata che dal tono della voce di Madison aveva intuito
che
qualcosa non andava.
“No… Ellie è stata rapita…”
“Eliza? Che cosa?” esclamò Jane
sorpresa da quanto aveva
appena sentito.
“Jane, posso portare Jules e Tom
da te? Non voglio che
rimangano qui da soli…” le
chiese,
sforzandosi di non piangere. Aveva paura per sua figlia, paura di non
vederla
mai più.
“Certo, tesoro. Li vengo a
prendere io assieme a Jake,
ok? Stai tranquilla, tra poco sono lì”
“Grazie…” farfugliò e chiuse la
telefonata.
Madison salì le scale e andò in
camera di Jules, che
stava ripassando la coreografia per il giorno dopo; si stava allenando
duramente per il corso interscolastico che si sarebbe tenuto a breve e
che
avrebbe deciso la loro partecipazione alle regionali di cheerleading.
“Jules, scusami. Ti devo parlare”
esordì Madison,
spegnendo lo stereo.
“Mamma, dimmi. Che è successo?” le
domandò notando l’espressione
angosciata di sua madre.
“Julie, Ellie è stata rapita dal
S.I. del caso di tuo
padre…” le rispose secca, effettivamente non c’erano modi di semplici
per
comunicare una simile notizia perciò preferì essere diretta, poi si
sedette sul
letto; era stremata, non riusciva più parlare, si sentiva come svuotata.
“Oh…” fu tutto quello che riuscì a
dire; per un attimo
rimase ferma in silenzio, poi si fece coraggio e s’avvicinò alla madre.
“Sono
sicura che papà la troverà” e le posò la testa sulla spalla in cerca di
conforto.
“Trovare chi?” chiese Tom che le
aveva sentite parlare
mentre andava in bagno.
“Ellie, tesoro. È stata rapita…”
ripeté Madison
asciugandosi le lacrime. “Vieni qui” aggiunse poi allungando la mano.
“Mamma… e se fosse troppo tardi?”
domandò il ragazzo; la
notizia lo aveva lasciato senza parole, non poteva credere che sua
sorella fosse
stata rapita, si augurava calorosamente che suo padre la trovasse, ma
soprattutto che fosse ancora viva, non riusciva neanche a pensare ad
una vita
senza sua sorella.
“La troverà, Tom. Io mi fido di
papà” esclamò Jules fra
le lacrime, aveva provato a non piangere, non ci era riuscita. Pensare
all’eventualità
che sua sorella potesse non tornare, l’aveva profondamente scossa.
“Ragazzi, voglio che andiate a
casa di Jane, io invece
raggiungerò vostro padre in ufficio. Prendete il pigiama e un ricambio,
vi
aspetto sotto” disse loro, poi li abbracciò forte e uscì dalla camera.
Tom rimase seduto sul letto senza
dire una parola,
pensava ad Ellie, a come doveva sentirsi in quel momento. “Tom, vai a
prendere
le tue cose, dai” le disse Jules che aveva ormai preso tutto, si
avvicinò a
Thomas e gli offrì la mano; Tom la guardò e annuì, poi andò in camera
sua e
prese il pigiama.
Tornando verso camera di Jules, si
fermò sulla soglia
della stanza di Ellie, ed entrò. Prese il pupazzo preferito di sua
sorella, si
sedette sul tappeto abbracciandolo. “Tommy che fai qui dentro?” gli
chiese
Jules sedendosi vicino a lui per terra “Lo sai che se Ellie lo viene a
sapere,
si arrabbia. Non vuole che stiamo qui…” farfugliò.
“Le ho preso Mister Skippy, quando
papà la troverà sono
sicuro che le farà piacere averlo…” rispose indicando l’orsacchiotto di
peluche
un po’ sgualcito.
“Già…”
gli disse,
si rese conto che la prima volta in tanti anni lei e suo fratello
stavano
insieme, si pentì di essere a volte così presa da stessa al punto da
trascurare
tutti gli altri; non era egoista, ma semplicemente come le ripeteva
sempre suo
padre, non riusciva a calibrare il suo tempo.
“Ragazzi…” li chiamò Madison “Ma
dove siete? Ah, eccovi…”
disse dopo averli trovati, vederli insieme con quell’aria triste le
spezzò il
cuore, più di quanto non lo fosse già. Si maledisse per aver detto loro
cosa
stava succedendo, avrebbe dovuto inventarsi una bugia, ma sapeva che
non era
giusto mentire e perciò si rincuorò pensando di aver fatto la cosa
giusta.
“E’ arrivata Jane” aggiunse e
scese di sotto seguiti da
Jules e Tom che procedevano in un silenzio tombale.
“Jules, vuoi guidare tu?” le
chiese Jake, sventolandole
le chiavi dell’auto davanti al naso, pensando che forse l’avrebbe
aiutata a
distrarsi almeno per un po’.
“Ellie non mi ha ancora insegnato
…” sussurrò trattenendo
le lacrime.
“Sono sicuro che lo farà, c’è un
sacco di tempo ancora”
le disse “Bene, andiamo! Jane ha lasciato la pizza in forno, non vorrei
che si
bruciasse. Insomma già è abbastanza rovinata di suo” continuò con aria
ironica.
“Come sei spiritoso!” rispose sua
moglie con una smorfia,
poi abbracciò Madison sussurrandole di farsi coraggio e aiutò i ragazzi
a
mettere le cose nel cofano.
“Ok, ci sentiamo più tardi.
Comportatevi bene” raccomandò
ai suoi figli, dando loro un bacio sulla testa.
“Mamma, mi prometti che se succede
qualcosa di brutto me
lo dirai senza fare nessun giro di parole?” le chiese Thomas poco prima
di
salire in macchina.
“Va bene, tesoro” rispose poi gli
diede un altro bacio, e
li guardò partire. Entrò immediatamente in casa chiudendosi la porta
alle
spalle. Prese in telefono e chiamò i suoi, sentiva un bisogno urgente
di avere
i suoi genitori lì accanto a lei.
“Pronto?” rispose al telefono sua
madre con voce
assonnata, in effetti stava già dormendo.
“Mamma…” disse Madison con voce
spezzata.
“Bambina, che è successo? Non
dirmi che è capitato
qualcosa a Spencer!” affermò, aveva sempre avuto la paura che il suo
genero
potesse ferirsi o peggio morire facendo quel “lavoro da cacciatore”
come diceva
sempre lei.
“No, mamma. Ellie…” non riuscì a
completare la frase,
fece un respiro profondo e proseguì: “E’ stata rapita”
“Rapita? Oddio” esclamò e
immediatamente si sedette sulla
sedia, si sentiva prossima ad un mancamento. La sua prima nipotina
rapita non
riusciva a capacitarsene, questo era oltre l’accettabile.
“Voglio che veniate qui” le chiese
Madison, sapeva che
senza sua madre non sarebbe riuscita ad affrontare la situazione e un
eventuale
risvolto negativo; amava Spencer e confidava in lui, ma riconosceva che
neanche
lui sarebbe stato in grado di sostenerla in quel momento.
“Certo, tesoro. Adesso andiamo
all’aeroporto e prendiamo
il primo volo. Mi raccomando Maddie, non fare cavolate” le disse, anche
se non
riusciva nemmeno ad immaginare come sua figlia dovesse sentirsi in quel
momento
si rendeva conto che ciò che le stava capitando poteva far crollare il
suo
autocontrollo.
“Si, mamma…” e chiuse. Poi prese
il cappotto e salì in
macchina diretta verso la sede di Quantico.
Elizabeth si svegliò, si accorse
di non riuscire a
muoversi, si sentiva intorpidita come se tutto il suo corpo fosse
addormentato;
guardò per terra e notò di avere mani e piedi legati, improvvisamente
si rese
conto di non ricordarsi minimamente come fosse giunta lì. Pensò ai suoi
ultimi
ricordi e un brivido le attraversò la schiena:
“Smettila di muoverti, hai capito?
E non ti azzardare ad
urlare, altrimenti mi costringerai a farti molto male” le aveva detto
Davis,
puntandole una glock alla testa, poi spinse Elizabeth che cadendo in
avanti emise
un gemito, a quel punto John si era avvicinato e gli aveva iniettato un
liquido
blu nel braccio e tutto diventò buio. Ripensando a quello che le era
successo, Ellie
cominciò a piangere, desiderò fortemente di poter tornare bambina,
chiamò i
suoi genitori anche se se sapeva che non sarebbero arrivati… Si sentì
una
stupida ad aver pensato di riuscire da sola, si era messa in pericolo
inutilmente. “Mi dispiace, papà…” disse con le lacrime agli occhi per
poi
ricadere in una sorta di dormiveglia. Migliaia di ricordi le
affiorarono la mente;
vide se stessa, seduta sul divano, con una scatola di cereali in mano,
aveva
poco più di 3 anni, suo padre l’aveva rimproverata dicendo che non
doveva
mangiare dalla scatola, lei però aveva continuato imperterrita perché
era più
divertente così, poi la porta si aprì ed entrò sua nonna Natalie con
una bimba
in braccio avvolta in una mantellina rosa; sua nonna mise la bambina in
braccio
a suo padre, che si avvicinò a lei e le disse:”Guarda, Ellie! Questa è
la tua
sorellina!”; il primo ricordo di sua sorella Jules svanì e si ritrovò
nel letto
matrimoniale sdraiata accanto a sua madre che si accarezzava il
pancione,
“Mamma, ma quando nascerà mi vorrai ancora bene?” le
aveva chiesto “Ma certo, sciocchina. Tu e
la tua sorellina sarete sempre le mie due bimbe adorabili” affermò sorridendo “E io
sarò sempre il tuo
raggio di sole?” le
chiese ancora
“Sempre” le rispose
poi l’abbracciò
stretta stretta e le fece solletico; lo scenario cambiò ancora, ora si
trovava nel
deserto del Nevada in piedi davanti ad una tenda da campeggio, “Nonno,
ma per
forza dovevamo venire qui?” gli aveva chiesto, era più molto grande,
aveva
circa 13 anni. “Ellie sei proprio come tuo padre! Sempre a lamentarsi…”
imitando il modo di gesticolare di suo padre “Vieni qui! Senti l’odore
della
terra. Ha il profumo del mare” continuò
avvicinandole un pugno di terra al naso, Ellie starnutì urlando:“Che
schifo!”,
suo fratello invece dopo aver annusato la terra, confermò quanto detto
da suo
nonno felice della nuova scoperta. “Siete due pazzi! Questo è il
deserto! Qui
mare non ce n’è! Come fa la terra a profumare di sale? A meno che un
tempo di
qui non passasse un fiume, ma in ogni caso non può essere perché quella
è acqua
dolce mica salata” esclamò scioccata dall’affermazione di suo fratello
“Ellie,
certe cose non le devi capire, ma solo sentire” disse suo nonno; il
ricordo di
suo nonno nel deserto si sfumò, ora se ne stava seduta davanti a suo
padre che
le spiegava la lezione di fisica di quella settimana: “La corrente
elettrica è
un moto ordinato di cariche, nel senso che le cariche negative scendono
lungo
la differenza di potenziale, quelle positive invece risalgono. Ellie,
ma mi
stai seguendo?” le aveva chiesto dandole un leggero scossone, Ellie
annuì ma in
realtà non lo stava affatto sentendo, pensava ad Henry e al pomeriggio
che
avevano appena passato insieme. L’aveva sempre considerato un buon
amico, ma
ultimamente in lui ci aveva visto qualcosa di più e non le dispiaceva
affatto,
al pensiero sorrise mentre suo padre continuava a blaterare sulla
differenza di
potenziale…
Il rumore di passi nella stanza la
distolse dai suoi
ricordi, guardò verso la porta e vide John che trafficava con delle
siringhe.
“Che stai facendo?” gli chiese quando lo vide avvicinarsi a lei
intenzionato a
iniettarle qualcosa.
“Questo ti darà un po’ di
sollievo. Non ti farà alcun
male” affermò poi le iniettò il liquido nel braccio.
“Perché lo fai? Lo so che non vuoi
farlo, me ne sono
accorta. Puoi aiutarmi e ti prometto che mio padre ti farà ottenere una
riduzione della pena, tutto quello che devi fare è chiamarlo” propose
fiduciosa, credeva che se John si fosse sentito coperto l’avrebbe
sicuramente
aiutata, invece l’uomo dopo un momento d’esitazione scosse la testa.
“Sarai
incriminato per quattro omicidi, cinque con quello che ti sei accollato
oggi e
sei se ucciderete anche me, insomma John siamo già ad un centinaio di
anni di
carcere” sottolineò la ragazza sperando che il pensiero di passare il
resto
della sua esistenza in prigione lo persuadesse ad aiutarla.
“Mi dispiace, ragazzina. Ma se
qualcosa dovesse andare
storto, io verrò punito con la morte e perciò preferisco il carcere”
disse e se
ne andò lasciando Ellie da sola che qualche minuto più tardi cominciò a
sentire
la testa pesante dopodiché tutto divenne buio di nuovo.
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Capitolo 8 *** Cap. 7 ***
“(…)la
giustizia
del mondo che punisce chi ha le ali e non vola (…)” (Baciami ancora,
Jovanotti)
Jules guardava fissa la pioggia
sbattere contro la
finestra mentre sorseggiava una tazza di tè.
Odiava il tè, ma Jane glielo aveva
gentilmente offerto e
in quella situazione non se l’era sentita di rifiutare.
Erano ormai passate tre ore da
quando sua madre aveva
dato loro la notizia e ancora non aveva ricevuto nessuna novità. Stava
passando
in rassegna gli ultimi due giorni per cercare di capire se qualcosa le
fosse
sfuggito quando le venne in mente la conversazione avuta con Colin
quella
mattina stessa.
“Che stupida a non averci pensato
prima” si disse
mordendosi il labbro poi si precipitò di sotto dove suo fratello
assieme a Jane
e Jake giocava a monopoly.
“Jane posso usare il telefono?
Devo chiamare mamma” le
chiese prendendo in mano il cordless. “Certo tesoro” le rispose
annuendo.
“Tutto bene?” aggiunse scrutando con attenzione l’espressione di Jules
che
aveva ancora gli occhi rossi e gonfi dal pianto. “Si, tutto bene. Vado
di sopra”
le rispose di fretta e salì velocemente le scale. Jane le gettò
un’ultima
occhiata e ritornò alla propria partita. “Tocca a te, Tom” disse
sollecitando
il ragazzo che sembrava essersi perso anche lui nei suoi pensieri.
Una volta entrata nella stanza, si
chiuse la porta alle
spalle e chiamò sua madre; il telefono squillò diverse volte senza
alcuna
risposta, alla fine quando Jules stava quasi per rinunciare sua madre
rispose.
“Pronto?” “Mamma, sono Jules. Devo
dirti una cosa…”
esordì con una voce fioca.
“Dimmi, è successo qualcosa?” le
chiese allarmata, non si
aspettava una chiamata da sua figlia e dopo il rapimento di Ellie era
pronta al
peggio.
“No, niente. Mi è venuta in mente
la conversazione con
Cole stamattina. Credo che Ellie a scuola non sia mai venuta” continuò.
“Come mai venuta?” domandò con
espressione incerta.
Spencer che era seduto vicino a lei sentì quanto Jules aveva appena
detto e le
prese il telefono dalle mani. “Spiegati meglio, Jules”
“Stamattina Ellie non era in mensa
così ho chiesto a Cole
come mai non ci fosse e lui mi ha detto che era uscita con Blair, ma
poi
all’uscita ho visto Blair e lei non c’era. Credo che Blair avrebbe
riferito qualcosa
se Ellie fosse sparita mentre era con lei” disse tutt’un fiato “Penso
che Cole
la stesse coprendo, questo spiegherebbe perché si è inventato una
bugia”
continuò.
“Coprendo? Per fare cosa? Oddio…”
esclamò al telefono.
Improvvisamente tutto gli fu chiaro, Davis non aveva premeditato il
rapimento
di Ellie, ma era stata lei ad andare da lui; avrebbe dovuto capirlo
subito, sua
figlia era rimasta profondamente scossa dall’annuncio della chiusura
delle
indagini al punto da decidere di procedere da sola per cercare una
prova
incriminante e aveva i mezzi per farlo. Lui lasciava sempre i fascicoli
dei
vari casi in casa, le era bastato entrare nello studio e prenderli. In
quel
momento si maledisse per aver compiuto il tremendo errore di
condividere con
Ellie il suo lavoro. Non aveva la maturità per affrontarlo e perlopiù
era molto
impulsiva come dimostrava la decisione avventata che aveva preso senza
consultarsi con nessuno.
“Papà… ci sei?” domandò Jules che
aveva per un momento
pensato che fosse caduta la linea. “Si, tesoro. Grazie, questo ci è di
aiuto”
la salutò e chiuse la telefonata.
“Lo pensi davvero?” le domandò
Madison mentre Spencer
andava verso Anne. “Cosa?”
“Che Ellie abbia fatto una cosa
tanto stupida come
questa” sottolineò. “Si, lo penso davvero…” e se ne andò. Madison
mentre
guardava la figura di suo marito dileguarsi dietro la porta di sala
riunioni pensò
che questa era la prima volta in tanti anni di matrimonio che metteva
piede nel
bureau, per un momento si pentì di esserci andata, la sua presenza in
quel
luogo non avrebbe che reso le cose più difficili a Spencer, ma d’altra
parte
sentiva il bisogno di stargli vicino per ricordargli che non era da
solo ad
affrontare quella situazione.
“Madison, come stai?” le chiese JJ
e si sedette vicina a
lei. Le rivolse un sorriso per infonderle coraggio, riusciva a capire
come
dovesse sentirsi in quel momento, aveva troppi anni di lavoro alle
spalle e
aveva ormai visto molte scene come questa. Nonostante ciò non sapeva
cosa
dirle, non si trattava del famigliare di una vittima a cui rivolgere
qualche
parola di conforto, si trattava di Madison, la moglie di un suo
collega, ma
prima di tutto una sua amica. “Cerco di resistere…” rispose lei, JJ le
fece un
mezzo sorriso e rimase in silenzio.
“Henry come se la passa? Quando
torna dall’università?”
domandò Madison per cercare di distrarsi.
“Bene, è alle prese con gli esami.
Si sta impegnando
moltissimo. Penso che rimarrà a Providence per un po’” le spiegò.
“E alla sua Dada non la viene più
a trovare?”
“Ti ricordi quando ti chiamava
così?” disse JJ, Madison
abbozzò un sorriso. “Veramente mi chiama tutt’ora così” aggiunse.
“Scusa JJ, ma ti vuole Morgan” le
interruppe Anne,
rivolgendo un saluto a Madison che ricambiò.
“Certamente” disse alla ragazza.
“Scusami” salutò Madison
e se ne andò seguita da Anne.
“JJ, mi serve che tenga a bada i
media. Il fatto che la
figlia di un agente federale sia stata rapita non sfuggirà di certo
alla
stampa, ma dobbiamo evitare che lo rendano di dominio pubblico;
potrebbe
incoraggiare ancora di più Davis”
“Certo” gli rispose e lasciò
subito la stanza. “Noi
dobbiamo tracciare un profilo, ma soprattutto dobbiamo capire quale sia
il
modus operandi” riprese Derek rivolgendosi ai suoi vecchi colleghi
seduti sulle
poltrone di sala riunioni come un tempo.
“Cosa sappiamo di questo Davis?”
chiese Rossi. “Non
molto” gli rispose. “A quanto pare, si è laureato in Economia e
Management sei
anni fa ed è subito stato assunto dalla Disc Enterprises di Richmond”
“Come mai si trova qui adesso?”
domandò ancora Rossi. “Ha
chiesto il trasferimento poco meno di tre mesi fa e l’hanno mandato
alla sede
di Washington” spiegò Lucas. “Le date sembravano coincidere” azzardò il
ragazzo
girandosi verso Morgan in segno di approvazione, il quale annuì. “Così
pare”
confermò poi, guardando Spencer che sembrava sempre più assente.
“Bene, Walker vai con Reid a casa
di Colin, chissà magari
sa qualcosa riguardo i piani di Elizabeth” disse poi ad Anne che scattò
subito
in piedi e si precipitò alla porta. “Spencer, mi raccomando” gli disse
Morgan
poco prima che uscisse.
Nell’ascensore Spencer non scambiò
nemmeno una parola con
Anne, continuava a pensare ad Elizabeth, a cosa dovesse sentire in quel
momento.
Si augurava ardentemente che stesse bene, ma soprattutto che si tenesse
duro
fino a che non l’avesse trovata, non avrebbe sopportato di perderla. A
quel
pensiero sentì gli occhi inumidirsi, cercò di trattenere le lacrime,
“Non è
momento di lasciarsi andare” si disse facendo un respiro profondo.
“Guido io” gli disse Anne,
scuotendo le chiavi dell’auto,
Spencer annuì. Poi aspettò che aprisse la macchina e vi salì. A quel
punto,
Anne mise in moto e partì, ogni tanto si voltava in direzione di
Spencer che
fissava il finestrino con uno sguardo inespressivo. “Vedrai che la
troveremo e
andrà tutto bene” gli disse non sopportando più di vederlo in quello
stato.
Spencer sorrise senza dirle nulla poi non appena notò casa di Colin la
invitò
ad accostare e scese dalla macchina senza aspettarla. Anne parcheggiò
in una
manovra e scese velocizzando il passo per raggiungere Spencer che
oramai era
arrivato alla porta. Spencer bussò e poi guardò l’orologio, erano le
undici e
mezza di sera passate, aspettò qualche minuto e non sentendo nessun
passo
all’interno della casa bussò di nuovo. A quel momento la porta si aprì
ed uscì
Florence, la madre di Colin.
“Spencer?” chiese sorpresa di
vederlo lì a quell’ora.
“Scusa l’orario, ma è urgente” le spiegò.
“Entra pure” disse che nel
frattempo era stata raggiunta
dal marito, Michael.
“E’ successo qualcosa ad Ellie?”
gli chiese Michael
notando l’espressione angosciata di Spencer. “Si…” confermò Anne.
“Vorremmo parlare con suo figlio
se non le dispiace”
continuò con tono cortese.
“Certo” disse Florence che si alzò
per andare a chiamare
il figlio che era nella sua stanza.
“Che ha combinato Ellie?” domandò
Michael che non aveva
ancora ben capito la gravità della situazione. “E’ stata rapita” disse
Spencer
guardando per terra.
“Come sarebbe rapita?” chiese
Colin appena arrivato. “Tu
ne sai qualcosa?” gli domandò Spencer.
“No, assolutamente. L’ho vista
stamattina, mi ha chiesto
di coprirla perché doveva fare una cosa” spiegò ragazzo terrorizzato da
quanto
aveva appena scoperto.
“Non ti ha detto dove stesse
andando?” chiese ancora
Spencer scrutando il ragazzo per assicurarsi che dicesse la verità.
“No, non mi ha detto nulla. Non
sarà mica andata…” disse
senza completare la frase. “A questo punto credo proprio di si”
concluse
Spencer con tono rammaricato. “E come lo sai che è stata rapita?” gli
domandò
il ragazzo ancora incredulo. “Ho ricevuto una telefonata dal rapitore”
rispose
Spencer senza accennare alle fotografie per non spaventarlo ancora di
più.
“Oddio, se lo avessi saputo non
l’avrei mai coperta!”
esclamò il ragazzo. “Ma come le è saltato in mente di fare una cosa
simile?”
chiese Florence scioccata da quanto aveva sentito.
“Non lo so... Scusatemi ancora per
il disturbo” ripeté e
salutò i genitori di Colin seguito da Anne che strinse la mano ai due.
“Mi
raccomando, se dovessi ricevere qualche squillo o messaggio, chiamami
subito”
raccomandò al ragazzo e uscì dalla casa.
“Bene, perlomeno ora sappiamo che
non è stato
premeditato” affermò Anne riferendosi al rapimento di Elizabeth mentre
salivano
di nuovo in macchina. “Questo non migliora la situazione in ogni caso”
disse
Spencer, cercando di capire cosa avesse fatto sua figlia per cacciarsi
in un
simile guaio.
“Quello che ancora non riesco a
capire è il modus
operandi” disse poi Spencer riflettendo sulle precedenti vittime. “Come
mai
sembrano dei suicidi…” continuò, parlando più con se stesso che con la
collega.
“Io avrei un’idea. Ma devo fare
prima delle ricerche”
affermò invece Anne mentre guidava concentrata sulla strada.
“Che hai in mente?” le chiese
Spencer incuriosito dalla
sicurezza con cui Anne si espresse.
“Droga” gli rispose con tono secco
e senza aggiungere
nulla di più. Spencer la guardò, era sul punto di replicare, ma
fissando lo
sguardo di Anne si convinse che aveva sicuramente avuto un’intuizione
geniale.
D’altronde, si è rivelata spesso un elemento valido e utile proprio per
il suo
pensare fuori dagli schemi.
“Mi fido di te. Tienimi informato”
le disse infine per
incoraggiarla. Rimasero in silenzio del tragitto, giunti al bureau si
separarono. Anne andò subito da Lucas, mentre Spencer raggiunse Derek
che stava
ancora discutendo sul caso con Hotch e Rossi.
“Devi andare dal ‘capo’ ” gli
comunicò Derek appena lo
vide entrare.
“Dal capo?” domandò Spencer
sconcertato. “Si, ti ha
chiamato prima” confermò Derek.
Spencer annuì ed uscì
immediatamente dalla stanza. Mentre
si dirigeva verso lo studio che un tempo era stato della Strauss,
ripensò ai
suoi primi anni alla BAU, tantissimi ricordi gli affiorano alla mente.
Erano
cambiate tante cose, lui era cambiato da allora al punto da non
riconoscersi
più.
Si diede una sistemata e aprì la
porta richiudendosela
immediatamente alle sue spalle dopo essere entrato.
“Reid, accomodati” gli disse Emily
indicando con la mano
di fronte a lei.
“Preferisco rimanere in piedi”
rispose. “Come preferisci”
“Allora, quello che sto per
chiederti non è affatto
semplice, ma purtroppo sono costretta. Spencer mi dispiace ma devo
chiederti di
lasciare il caso, sei coinvolto emotivamente, com’è normale che sia, e
questo
potrebbe offuscare il tuo giudizio”
“Offuscare il mio giudizio?
Prentiss che diavolo stai
dicendo?” le gridò contro Spencer inorridito dalla proposta.
“Non ho intenzione di abbandonare
il caso. Si tratta di
mia figlia” continuò.
“Proprio per questo ti chiedo di
farti da parte, Spencer”
gli disse Prentiss mantenendo lo stesso tono di calmo d’inizio
conversazione.
“Credimi, è la decisione più saggia” aggiunse alzandosi dalla sedia e
raggiungendolo in mezzo alla stanza.
“Prentiss, mi dispiace ma non mi è
possibile” le rispose
lasciandole intendere che non sarebbe riuscita ad ottenere alcun
compromesso.
“Mi costringi a prendere
provvedimenti” lo minacciò Emily
nella speranza che desistesse dal continuare a seguire il caso.
“Fai quello che ti pare” le
rispose e si avviò verso la
porta dello studio, era sul punto di aprire la porta quando si voltò
verso di
lei; “Non sei più la Emily che conoscevo, lei non mi avrebbe mai
chiesto una
cosa simile” le disse guardandola negli occhi. Emily non rispose e
abbassò
subito lo sguardo in segno di scusa.
“Ciao Emily” la salutò ed uscì
dalla stanza. Non aveva
intenzione di perdere altro tempo, doveva ritrovare sua figlia.
“Lucas, ho bisogno che tu faccia
una ricerca per me” disse
Anne sedendosi accanto a Lucas che si girò verso di lei con espressione
incerta. “Che tipo di ricerca?” gli chiese poi.
“Droghe che provocano
allucinazioni, qualcosa tipo LSD ma
che possa passare inosservato in un esame non molto accurato” gli
spiegò.
“Mhm…vediamo” e cominciò subito a
digitare sulla tastiera
sotto lo sguardo incuriosito di Anne che tentava di seguire le scritte
che
apparivano sullo schermo senza molto successo.
“Vediamo se sei più bravo di
Garcia” lo sfidò dandogli un
colpetto sulla schiena.
“Non provare a distrarmi” gli
disse rivolgendo un sorriso
e aumentando ancora di più la velocità con cui muoveva le dita sulla
tastiera.
“Forse ho qualcosa per te” le
disse con tono serio. “PCP
e ketamina provocano forti sensazioni di distacco e dissociazione fra
l’ambiente e se stessi” continuò.
“Ketamina e PCP? Mi serve qualcosa
di più…”
“Che ne dici del destrometorfano?
È una medicina contro
la tosse molto diffusa, insomma qualcosa che l’SI può procurarsi
facilmente e
che mischiato a qualche altra droga un po’ più forte…”
“…può provocare effetti come
quelli della ketamina e PCP
senza lasciare tracce evidenti” concluse Anne, alzandosi e avviandosi
verso la
porta.
“Grazie” gli disse poi
lanciandogli un bacio con la mano
che Lucas finse di acchiappare, adorava quei giochetti che facevano
ogni volta
che erano certi che nessuno li vedesse.
“Comunque Garcia era più brava”
esclamò Anne sulla soglia
della porta e immediatamente corse via senza lasciare il tempo a Lucas
di
replicare.
“Forse ho capito il modus
operandi” annunciò Anne facendo
irruzione in sala riunioni dove erano tutti riuniti.
“Illuminaci” le disse Rossi
invitandola a sedere accanto
a lui.
“Le droga. Molto probabilmente
utilizza il
destrometorfano, è una medicina contro la tosse, ma se modificata può
indurre
allucinazioni tali da indurre qualcuno a suicidarsi senza che possa
opporre
resistenza”
“Le modificherebbe Davis queste
droghe?” chiese JJ.
“Beh, questo in effetti mi lascia
perplessa. Non credo
che lui abbia le conoscenze per poterlo fare, ma soprattutto il tempo
infatti
bisogna somministrarle più volte per avere l’effetto desiderato”
“Quindi pensi che abbia un
complice?” le domandò Spencer.
“Non so, potrebbe?” chiese Anne
girandosi verso Morgan.
“Beh in effetti non avevano preso in considerazione la possibilità che
avesse
un complice, ma sicuramente questa possibilità spiegherebbe molte cose”
disse
lui.
“Dobbiamo cercare qualcuno che
abbia una certa
dimestichezza con le droghe e i loro trattamenti, qualcuno laureato in
farmacia
o in chimica” affermò Hotch.
“Scusate ma cosa ne ricaverebbe?”
domandò Anne.
“Non so, magari Davis lo paga”
azzardò Rossi. “Qual è il
pagamento per l’uccisione di una ragazzina?” domandò Spencer, sempre
più
turbato.
Rossi lo guardò e non rispose, in
quel momento pensò che
forse la decisione di Emily non fosse del tutto sbagliata, Spencer era
troppo
coinvolto per ragionare in maniera lucida e nel loro lavoro farsi
coinvolgere
equivaleva a commettere un grosso errore.
“Non credo si tratta di un
semplice pagamento, deve
esserci qualcos’altro dietro” disse invece Hotch riflettendo su cosa
potesse
indurlo ad aiutare Davis.
“E se fosse sotto ricatto?”
domandò JJ. “Che tipo di
ricatto?” chiese Rossi.
“Forse tiene in ostaggio la sua
famiglia” ipotizzò lei.
“La famiglia? Non credo” rispose Hotch. “Se consideriamo i primi due
suicidi,
stiamo parlando di un periodo di tempo di oltre un anno. Avrebbe ormai
trovato
una soluzione” concluse.
“Sono d’accordo. Forse si tratta
di qualcuno che inizialmente
era in difficoltà tali da non poter farne a meno e che ora non sa come
uscirne”
disse Anne.
“Vai da Cooper, cercate qualcuno
che abbia perso in
lavoro poco prima dell’inizio degli ‘omicidi-suicidi’, magari qualcuno
fortemente indebitato che abbia subito qualche trauma anche a livello
affettivo
nello stesso periodo” le ordinò Derek, Anne annuì e senza perdere altro
tempo
si diresse verso l’ “ufficio-sgabuzzino” di Lucas.
“Noi andiamo a casa di Davis,
magari troviamo qualche
indizio” propose Derek rivolgendosi a Rossi e Hotch.
“JJ, rimani con Anne e informateci
se avete trovato un
possibile sospettato” ordinò alla collega che lasciò la stanza per
raggiungere
gli altri due.
“Tu, Reid rimani qui. Stai con
Madison, credo che abbia
bisogno di te …” gli disse abbassando la voce mentre gli altri uscivano.
“Si …” sussurrò lui annuendo con
il capo, Derek gli diede
un pacca sulla spalle ed uscì.
“Tienimi informato” gli disse
Spencer, Derek si girò e
annuì poi affrettò il passo per raggiungere gli altri due che ormai
erano quasi
all’ascensore.
Spencer raggiunse Madison che era
seduta alla sua
scrivania con una tazza fumante di tè in mano. Aveva ancora gli occhi
arrossati
dal pianto ed un’espressione funerea dipinta sul volto. Appena la notò,
pensò
di non averla mai vista in quelle condizioni e si sentì male, ma
soprattutto in
colpa. Era sua la colpa di quello stavano vivendo, sua e della sua
distrazione
che non l’aveva fatto accorgere di quello che sua figlia stava
progettando
proprio sotto i suoi occhi. Si avvicinò nel tentativo di abbracciarla,
ma lei
schivò l’abbraccio.
“Novità?” gli chiese posando la
tazza sulla scrivania.
“Stiamo seguendo una pista. Anne forse ha capito il modus operandi”
sciorinò
senza scendere nello specifico, non c’era bisogno di spiegarle tutto
nei minimi
dettagli, stava già soffrendo abbastanza così si disse.
“Ho saputo che ti ha convocato
Emily” affermò lei
cercando di sviare il discorso.
“Chi te l’ha detto?” gli chiese.
“JJ quando eri con Anne.
E’ successo qualcosa?” gli domandò notando l’espressione un po’
amareggiata di
Spencer.
“No, nulla. Tutto sistemato” mentì
lui e cambiò subito
argomento: “Vai a casa, Maddie. Che devi fare qui? Ti accompagno io …”
gli
propose, augurandosi che accettasse, averla lì gli rendeva tutto più
difficile.
“Va bene …” acconsentì senza
opporre molta resistenza.
“Comunque non c’è bisogno che mi accompagni” continuò mentre Spencer
l’aiutava
ad alzarsi.
“Sei sicura? Per me non è un
problema” le domandò ancora.
“Sicura, stai tranquillo” gli
ripeté, abbozzò un sorriso
si strinse a lui; “La troverai, vero?” gli sussurrò all’orecchio.
“Ad ogni costo” le rispose dandole
un bacio sulla fronte,
Madison si staccò e annuì, poi lo salutò e lasciò immediatamente la
sede della
BAU.
Mentre tornava a casa, Madison
ripensò a quelle ultime
ore, le sembrava tutto così irreale, come se non fosse mai successo,
come se
fosse un incubo da cui presto si sarebbe svegliata.
Chiuse gli occhi per un attimo e
le parse di vedere sua
figlia in cima alle scale che la salutava, era sporca di terra e aveva
una
coperta bianca che reggeva con una sola mano; “Ho freddo, mamma” le disse guardandola con
un’espressione vuota
e priva di vita. “Ellie!” urlò aprendo gli occhi, in quel momento ebbe
il
crollo tanto sperato. Cominciò a singhiozzare senza riuscire a
controllarsi,
aveva il respiro affannato come se ogni singhiozzo le impedisse di
respirare, le
lacrime le annebbiarono completamente la vista e a quel punto dovette
accostare.
Cercò di calmarsi, fece diversi
respiri profondi e si
asciugò le lacrime con la manica della camicia che indossava, era sul
punto di
immettersi nella carreggiata quando squillò il cellulare. “Pronto?”
disse senza
controllare chi fosse. “Maddie sono mamma, senti arriviamo verso le
quattro e
mezza del mattino, prima non c’è nessun volo … Tu come stai?” le chiese
anche
se sapeva che tale domanda fosse completamente inutile.
“Non benissimo. Sono preoccupata,
non so cosa fare”
rispose con la voce ancora rotta dal pianto.
“Oh tesoro, devi aver fiducia,
vedrai che tutto si
sistemerà” disse cercando di rabbonirla. “I ragazzi come l’hanno
presa?”
domandò.
“Sono scoppiati a piangere appena
l’hanno saputo,
soprattutto Thomas. Lui vive nel terrore per Spencer, quando ha saputo
di Ellie
…” s’interruppe; non riusciva a continuare, si sentiva di nuovo sul
punto di
crollare.
“Maddie? Stai bene?” le chiese sua
madre allarmata. “S i…
scusa mamma, ma devo chiudere adesso” le disse cercando di ricacciare
indietro
le lacrime.
“Va bene. Chiama se hai bisogno di
una qualsiasi cosa,
noi arriviamo presto comunque” rispose, Madison la salutò e chiuse la
telefonata. Rimase un attimo ferma cercando di raccogliere le poche
forze che
le erano rimaste e partì. Durante il tragitto verso casa, non fece
altro che
pensare ad Ellie, cercava inutilmente di convincersi che sarebbe andato
tutto
bene, ma non ci riusciva, aveva paura che Ellie potesse cedere, che non
riuscisse a superarlo, pensando ad una simile eventualità provò una
forte fitta
allo stomaco. Cercò di scacciare quel pensiero ed accelerò, voleva
arrivare a
casa, aveva un urgente bisogno di stendersi.
“Come sta andando?” chiese JJ
entrando nella stanza. “Non
bene” le rispose Anne. “Abbiamo 30 nomi e non sappiamo più come
restringere il
campo” continuò Lucas al posto di Anne.
“Abbiamo cercato persone
licenziate da aziende
farmaceutiche nei dintorni di Richmond, che abbiano affrontato divorzi
difficili, la perdita di qualche persona cara, che abbiano compiuto
qualche
reato minore…” elencò Anne con aria sconsolata.
“Avete provato con i debiti di
gioco?” domandò JJ dopo
aver ascoltato accuratamente le parole di Anne.
“Debiti di gioco, eh? Cerco
subito!” esclamò Lucas
cominciando a digitare velocemente le varie informazioni sulla tastiera.
“Allora, forse abbiamo qualcosa:
licenziato da un’azienda
farmaceutica di Richmond a febbraio dell’anno scorso” lesse Lucas.
“Due mesi prima della morte di
Duff e Brown” disse JJ
ripensando alle informazioni raccolte fino ad allora.
“Ha divorziato poco dopo da sua
moglie a causa dei suoi
problemi con il gioco d’azzardo. E sentite qui, poco più di tre mesi fa
si è
trasferito a Washington ma non risulta impiegato presso qualche
azienda”
concluse Lucas girandosi verso le due colleghe. In quel momento entrò
Spencer
che era al telefono con Derek.
“Forse sappiamo cosa faccia Davis
con le vittime prima di
ucciderle” li informò Spencer riferendo le parole di Derek.
“Noi invece abbiamo un nome: John
Martin” disse Anne.
“Senza la
speranza
è impossibile trovare l'insperato.”
Eraclito
Elizabeth si svegliò,
immediatamente si accorse di essere
in un’altra stanza. Guardandosi intorno notò delle fotografie sparse su
un
tavolo in fondo alla stanza; dalla finestra penetrava una luce molto
debole,
“sarà sicuramente l’alba” si disse, fu in quel momento che sentì un
gemito
proveniente dall’angolo opposto dalla stanza. “C’è qualcuno?” chiese la
ragazza
cercando di individuare il punto da cui proveniva la voce.
“Stai tranquilla, andrà tutto
bene” cercò di
rassicurarla. “Vedrai che riusciremo ad uscire da qui”
A quel punto la ragazza tentò di
alzarsi, ma non ci
riuscì, anche il minimo sforzo le causava un forte senso di nausea.
“Non
provare ad alzarti” le consigliò Elizabeth “Stai ferma”.
“Dove siamo?” le chiese la ragazza
tentando di rizzarsi
sulla schiena.
“Siamo appena fuori Washington”.
“Quando ti ha
catturata?” le domandò poi.
“Non so, forse ieri. Io non
ricordo nulla…” esordì la
ragazza con evidente tono confuso.
“Mi aveva dato appuntamento in un
locale, io ero fuori
che aspettavo. Poi tutt’un tratto ho sentito un uomo dietro le mie
spalle, e da
quel punto tutto è diventato buio” spiegò.
Elizabeth si chiese come fosse
possibile che fosse stata
catturata davanti ad un locale senza che nessuno se ne accorgesse. “Mi chiamo Elizabeth, tu?”
“Lucy. Scusa, ma anche tu sei qui…”
“No” la
interruppe. “Sono
finita qui per altri
motivi…”
“Non ricordi nulla di quello che
ti è successo?” le
chiese cercando di sviare il discorso.
“No, solo quell’uomo che
m’iniettava qualcosa” le
rispose, poi si bloccò e rimase ferma con lo sguardo fisso nel vuoto.
“Ricordo
dei lampi di luce e una strana melodia di sottofondo” aggiunse.
“Le fotografie” pensò
subito Elizabeth. “Ma la musica cosa ci conta?”. Troppi dubbi aveva
ancora, era
riuscita a comprendere il modus operandi, non riusciva a capire ancora
cosa
facesse alle vittime prima di ucciderle, si chiese se quelle fotografie
posate
sul tavolo non le svelassero il segreto.
“Scusa, come mai sei così sicura
che usciremo fuori da
qui?” le chiese Lucy.
“Mio padre è un agente, ci
troverà” o almeno così
credeva, era sicura che suo padre non avrebbe mai smesso di cercarla,
non si
sarebbe mai arreso, ma allo stesso tempo si augurava che suo padre la
trovasse
prima che fosse troppo tardi.
“Speriamo…” sussurrò la ragazza.
Elizabeth tentò di
alzarsi, ma venne spinta verso giù dalle corde, erano troppe corte.
Doveva
assolutamente riuscire ad allentarle, si sentiva il corpo totalmente
addormentato.
Stava cercando di allentare i nodi
quando la porta si
aprì, “Ragazzina risparmia la fatica” le disse Davis appena entrato.
“Tu prendi l’altra e portala di
là. Io mi occupo di lei”
continuò rivolgendosi a John che aveva la testa abbassata. L’uomo prese
la
ragazza che tentò di inutilmente svincolarsi. “Sssh” disse alla
ragazza. “Tra
poco tutto sarà finito” gli sentì dire Elizabeth in corridoio. Si
chiese se
anche per lei tra poco sarebbe tutto finito. Sentì un brivido lungo la
schiena
e le lacrime inumidirle gli occhi, le ricacciò indietro facendosi
forza. Lei
sarebbe uscita da quella situazione, lei ne sarebbe stata capace, “Non
devi
cedere Ellie, se cedi è finita” si disse.
“Cosa le farete?”chiese con tono
di sfida a Davis che la
scrutava con aria interrogatoria. “Sei curiosa?” le domandò. “Papino
non lo
sa?”
“Io non lo so…” sussurrò la
ragazza. Non poteva
confessare che nemmeno suo padre sapeva cosa facesse alle sue vittime,
non
poteva confessare che l’ufficio aveva addirittura smesso di seguire il
caso.
Elizabeth preoccupata si chiese se suo padre avesse già capito cosa
facesse
alle vittime, se suo padre sapesse già dove si trovava.”Non mi
cercheresti se
io mi perdessi” gli
aveva urlato una
volta dopo che era tornata ubriaca da una festa, qualcosa che capitava
spesso
di recente, suo padre che prima l’aveva rimproverata si sedette: “Non
smetterei
mai cercarti” le
aveva detto; il ricordo
di quelle parole la rincuorarono; “Papà non mi lascerà marcire qui
dentro” si
ripeté più di una volta.
“Vuoi vedere cosa le facciamo? Te
lo faccio vedere subito”
affermò Davis, sciolse le corde e la trascinò con veemenza, prendendola
per un
braccio, lungo il corridoio. Quando aprì la porta della stanza dove si
trovava
Lucy, Elizabeth rimase pietrificata davanti alla scena che le si aprì
davanti
agli occhi, la stanza le sembrò un set cinematografico; notò tutta
l’attrezzatura necessaria per girare, diverse macchine fotografiche
professionali e i pannelli fotografici riflettenti accalcati sullo
sfondo;
seduta al centro della stanza vide Lucy, era vestita di bianco, si rese
conto
anche che l’avevano truccata e pettinata, sulle palpebre era stato
applicato un
ombretto grigio fumé sfumato mentre sulle labbra un rossetto rosso
fuoco, i
capelli erano stati raccolti in un chignon mentre alcune ciocche erano
state
lasciate libere. La ragazza era immobile, aveva lo sguardo fisso come
se fosse
una bambola di pezza, “Adesso giochiamo” annunciò Davis che fece segno
a John
di accendere la cinepresa. “Che lo spettacolo cominci” dichiarò l’uomo
una volta
acceso l’attrezzo, a quel punto su Lucy venne puntata un occhio di bue.
“Canta”
le ordinò, la ragazza bisbigliò qualcosa e cominciò a cantare,
Elizabeth la
guardava sconcertata, non capiva cosa stesse succedendo, poi tutto le
fu
chiaro: Lucy era drogata, non era in grado di comprendere cosa stesse
facendo,
non sentiva altro che le parole di Davis, come se fosse ipnotizzata,
solo che
era un’ipnosi da cui non si sarebbe più svegliata.
Rimase impalata in piedi senza
sapere cosa avrebbe potuto
fare, capì immediatamente che i progetti di Davis si sarebbero spinti
molto più
in là di una semplice canzone, per Lucy era arrivata la fine, ora
restava solo
da capire quale fine le fosse stata destinata.
Davis si avvicinò alla ragazza e
le sussurrò qualcosa
all’orecchio, poi le consegnò in mano un cofanetto di raso nero e tornò
a
sedere. Elizabeth non riuscì a vedere cosa fosse custodito nel
cofanetto, notò
solo qualcosa scintillare nella penombra, ma non poté identificare cosa
fosse.
Fu allora che successe qualcosa
che Elizabeth non si
aspettava, Lucy estrasse un’arma dal cofanetto e se la portò alle
tempie, Davis
annuì e la ragazza pose il dito sul grilletto.
Elizabeth urlò inutilmente alla
ragazza pregandola di non
farlo, ma lei non poteva sentirla. Di fronte alla reazione di
Elizabeth, Davis
rise: “Non capisci che è troppo tardi?” disse l’uomo prendendosi gioco
della
ragazza, che chiuse gli occhi, non voleva vedere, non poteva vedere
Lucy
distruggere la propria vita in pochi secondi.
La ragazza gemette, quasi avesse
avuto per un attimo
coscienza di quello che stava per succedere, ma quel momento di
lucidità fu
veloce come un lampo; la ragazza premette il grilletto tra le risate di
Davis e
le preghiere di John, ponendo fine alla propria vita in un boato.
Il suono dello sparo penetrò nelle
orecchie di Elizabeth
che si sentì mancare, scoppiò in lacrime cadendo a terra.
Il corpo ormai abbandonato da ogni
soffio di vita fu
spostato da John che si allontanò dalla stanza passando accanto ad
Elizabeth
che stava rannicchiata per terra dondolandosi, Davis si diresse verso
di lei:
“Adesso hai paura, vero?” le disse alzandole il mento per guardarla
negli occhi
annebbiati dalle lacrime, poi se ne andò chiudendosi la porta dietro le
spalle
e lasciando Elizabeth piangere al buio.
Le continue vibrazioni del suo
cellulare svegliarono
Nicole addormentata sul libro di spagnolo, con gli occhi ancora chiusi
cercò il
cellulare che smise di suonare quando lo prese in mano. “Sei chiamate
perse”
lesse sul display, “Colin!” esclamò sorpresa dopo aver controllato il
registro
delle chiamate, dal momento che le parse strano che Colin avesse
insistito più
di una volta non esitò a richiamare l’amicò.
“Cole che succede?” gli chiese
dopo che il ragazzo ebbe
risposto. Colin con la voce rotta dal pianto farfugliò il nome di Ellie
seguito
da una frase che Nicole non riuscì a capire. La ragazza capì subito che
doveva
trattarsi di qualcosa di grave e si allarmò: “Che è successo? Che è
successo ad
Ellie?” chiese. Colin fece un respiro profondo per cercare di calmarsi
e
rispose: “E’ stata rapita”.
“Come rapita?”
domandò, per un momento pensò che Colin si fosse
sbagliato. “Ma sei
sicuro?”
“Si, me l’ha detto Spencer…”
spiegò senza accennare alle
fotografie.
“Oddio, ma non si sa nulla?”, ora
anche Nicole era prossima
alle lacrime, non sopportava l’idea che ad Ellie potesse capitare
qualcosa di
brutto. “No, niente…”
“Hai chiamato Blair?” gli chiese
tentando di
controllarsi. “No, ancora no…”
“La chiamo io” gli disse. “Stai
tranquillo, vedrai che
Spencer la troverà, è il suo lavoro” cercò di rassicurarlo, sapeva
quanto a
Colin stesse a cuore Ellie perciò le fu facile immaginare quanto
potesse farlo
soffrire una simile situazione. “Già… Chiamami se ci sono novità” le
rispose e
riattaccò.
Nicole rimase ferma incerta su
cosa dire a Blair, doveva
calibrare bene le parole, Blair era una persona molto sensibile, si
sarebbe
senz’altro subito spaventata. Una volta decise le parole da rivolgere
all’amica, compose il numero e aspettò che la ragazza rispondesse.
“Blair,
scusa per l’orario ma devo dirti una cosa…” esordì un po’ titubante
Nicole, non
appena Blair rispose. “Che cosa è successo?” le chiese preoccupata,
Nicole
cercando di calmarla le consigliò di non agitarsi, poi le spiegò il
motivo
della sua telefonata: “Ellie si è cacciata nei guai”
“Che ha combinato adesso?” domandò
seccata, era abituata
alle continue stupidaggini di Elizabeth perciò non si sorprese.
“Colin mi ha detto che è stata
rapita, glielo ha riferito
Spencer”.
“Rapita? Ma che dici? Ieri sera
era collegata con il
cellulare…” Blair si bloccò di colpo, come se avesse appena ricordato
qualcosa.
“Non mi ha risposto però”
“E’ ancora collegata?” le chiese
Nicole, forse Spencer e
la sua squadra avrebbero potuto rintracciarla pensò.
“Ehm...controllo” e digitò subito
sul portatile la
password. Dopo qualche minuto di attesa Blair rispose: “Si, è ancora in
linea”
“Lo dobbiamo dire a Spencer…” “Hai
il numero?”
“Si, ma forse loro hanno già
provato a rintracciarla in
questo modo” disse la ragazza riflettendo.
“Non puoi saperlo, diciamoglielo
lo stesso” “Ok,
chiamo subito”
“Ci sentiamo dopo” salutò l’amica
e riattaccò. Ora doveva
chiamare Spencer.
Erano nella casa di John Martin,
quando il cellulare
cominciò a squillare. Sussultò, ogni chiamata poteva essere una cattiva
notizia,
certo poteva essere anche buona, ma l’ottimismo in questa fase della
sua vita
l’aveva abbandonato e non sarebbe di certo tornato in questa
particolare
situazione.
Prima di rispondere, lesse il
numero sul display, non lo
riconobbe. “Chi è questo?” pensò prima di rispondere.
“Pronto…” disse la ragazza, la
voce gli era famigliare,
ma non era riuscito ad identificarla.
“Chi sei?” chiese Spencer. “Sono
Blair, l’amica di
Ellie…”
“Blair!” esclamò l’uomo,
riconoscendola immediatamente.
“Hai qualche notizia?” le domandò, infatti pensò che quello poteva
essere
l’unico motivo che avrebbe potuto spingere la ragazza a chiamarlo.
“Ehm… non esattamente. Ellie è
collegata su Internet con
il cellulare, non so magari riuscireste a rintracciarla…”
“Su Internet hai detto? Ma il
cellulare non è
raggiungibile…” gli sembrava impossibile che potesse essergli sfuggito.
“Non so, a me appare in linea”
confermò la ragazza un po’
stranita.
“Blair, facci un favore, prova a
contattarla. Io adesso
chiamo il nostro analista informatico che si metterà in contatto con
te. Forse
riusciamo a rintracciare Ellie” disse alla ragazzina che non tardò a
mettersi
in contatto con l’amica e riattaccò. Questa possibilità di rintracciare
sua
figlia lo rincuorò, la possibilità di riabbracciarla non gli sembrò più
così
lontana. “Chi era?” chiese Anne, non appena Spencer ebbe concluso la
telefonata.
“Blair, un’amica di mia figlia.
Forse abbiamo un modo per
rintracciare Ellie” disse con un sorriso, sapeva che era sbagliato
illudersi,
ma non riuscì a trattenersi. “Dobbiamo chiamare subito Lucas e dirgli
di
mettersi in contatto con Blair”
“Ottimo! Faccio subito”
e chiamò subito Lucas aggiornandolo sul da farsi. Poi
insieme si
diressero verso il bureau speranzosi; finalmente dopo una notte insonne
con la
stanchezza che cominciava a farsi sentire, sentirono di essere vicini
ad una
possibile soluzione.
“Blair, sono Lucas, l’analista
informatico” si presentò
l’uomo dopo essersi messo in contatto con la ragazza.
“Adesso entrerò nel tuo sistema e
insieme proveremo a
rintracciare Ellie, va bene?”
“Si…” e notò subito delle finestre
sul suo portatile
aprirsi. “Ok, ci sono”
“Prova a rintracciare Ellie. Io
controllo le
ricetrasmettenti delle zone, se è collegata un qualche segnale, anche
se
debole, lo dovrò pure avvertire”
“Va bene” rispose Blair, e inviò
subito all’amica un
messaggio sul social network dove solitamente si contattavano.
“Ok… usate una rete protetta tra
di voi?” chiese Lucas,
afferrando subito il motivo per cui prima gli era sfuggito il segnale
del cellulare
di Ellie.
“Si, è un regalo di Penny” rispose
Blair con tono
affermativo. “Garcia…” farfugliò l’uomo, qualunque cosa facesse
sembrava che
avrebbe dovuto fare i conti con lei.
“Benissimo… sono quasi riuscito a
rintracciare il punto
da cui proviene il segnale” disse Lucas.
“Provo a inserire le coordinate…”
continuò.
“Grazie, Blair il tuo aiuto è
stato prezioso” le disse
poi. “Riuscirete a rintracciarla adesso?”
“Penso di si” esclamò con tono
speranzoso, non era ancora
sicuro che il segnale gli avrebbe garantito la possibilità di
rintracciare
l’esatto punto dove si trovava Elizabeth, ma almeno avrebbe ristretto
l’area di
ricerca.
“Va bene…” rispose la ragazza
immediatamente salutata da
Lucas che si rimise subito al lavoro. Ora sapeva dove cercare.
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Capitolo 9 *** Cap. 8 ***
“La fede
comincia
appunto là dove la ragione finisce” . Søren Kierkegaard
“Ho trovato il segnale del
cellulare di Elizabeth”
annunciò Lucas appena Spencer mise piede nell’open space del bureau. “Purtroppo non sono
riuscito ad individuare
il punto specifico” proseguì suscitando il disappunto di Spencer.
“Se contattassimo Garcia?” propose
Anne. “Si, è l’unica
cosa da fare. Garcia ha creato per le ragazze una rete protetta,
sicuramente
lei saprà come sbloccare del tutto il segnale” le rispose.
“Bene, la chiamo subito” affermò
la donna e si diresse
verso la propria scrivania.
“Spencer hanno trovato un corpo a
Leesburg Pike” lo informò
JJ che aveva appena ricevuto la notizia, a quelle parole Spencer si
sentì
mancare.
“Non è Ellie, non può essere lei” si ripeteva mentre si
dirigevano verso il
luogo del ritrovamento.
Arrivati sul posto, Spencer chiuse
gli occhi, non voleva
guardare. Aveva paura. Non si era mai sentito così impotente come in
quel
momento, così vicino ad una crisi nervosa al punto che non ebbe il
coraggio di
avvicinarsi al corpo.
“Non è lei” annunciò Derek senza
mascherare il suo
sollievo. Spencer fece un profondo respiro, si portò le mani dietro la
testa
tirando indietro i capelli per provare a calmarsi.
“Il corpo è di Lucy Sprouse,
l’hanno appena identificato”
li informò Rossi. “E’ scomparsa martedì sera, l’ultima volta che i suoi
genitori l’hanno vista si stava recando ad un appuntamento con Davis”
“Bene, dobbiamo informare la
famiglia” disse Hotch. “Torniamo
a Quantico, qui non c’è più nulla da fare” continuò guardando il corpo
massacrato della ragazza, improvvisamente si ricordò il dolore e la
frustrazione provati durante gli anni di lavoro presso l’unità, e provò
un
forte desiderio di tornare a casa; lontano da tutto questo, lontano da
quei
ricordi che lo avevano tormentato tutte le notti per anni.
“Meno male, non è lei” disse Anne
a Spencer mentre
tornavano al bureau.
“Hai visto quello che è successo a
quella ragazza?” le
domandò.
“Si…” sussurrò la collega che
rimase in silenzio da quel
momento; sapeva che se non la trovavano in fretta, presto avrebbero
pianto
un’altra perdita. Il ritrovamento di un altro corpo significava che
dovevano
accelerare i tempi, non c’era un minuto da perdere. Dovevano sbrigarsi.
Anche Spencer non parlò per il
resto del tragitto, era
concentrato sul profilo di Davis. Pensava a dove avrebbe potuto
portarla, da
quanto si era evinto dalle fotografie trovate nella casa di Davis,
l’uomo seguiva
dei copioni ben precisi trasformando la morte delle vittime in recite
da
mettere in scena per alimentare le sue fantasie. Questo richiedeva un
luogo
lontano dalla città per evitare possibili disturbi, ma nemmeno molto in
modo da
potersi spostare facilmente e in fretta, oltre che un ampio spazio per
poter
contenere tutte le attrezzature necessarie.
“Devi pensare Spencer, non farti
sopraffare. Pensa,
pensa. Non puoi fallire adesso”
continuava a dirsi nonostante si sentisse sempre più vuoto
e affranto,
tutto ciò che desiderava in quel momento era riabbracciare sua figlia,
la sua
Ellie. “Non preoccuparti amore, papà sta arrivando”
pensò guardando la fotografia di sua figlia
che portava sempre con sé nel portafoglio.
Nel frattempo Penelope, appena
arrivata, si era messa al
lavoro, era quasi riuscita a rintracciare il punto preciso da cui
proveniva il
segnale.
“Certo che sei brava!” fu il
commento di Lucas dopo
averla vista al lavoro. “E’ il mio sistema, so come gestirlo” affermò
lei con
un cenno di sorriso. “Prima o poi imparerai anche tu” gli disse JJ in
tono
ironico.
“Ci siamo… Kingsley Road, 650”
annunciò la donna
girandosi verso di loro. “Chiamo Spencer” affermò JJ prendendo il
telefono.
“Spencer, abbiamo rintracciato il
segnale del cellulare
di Ellie” lo informò indicandogli il posto.
“Benissimo, andiamo subito lì” rispose lui e chiuse la
telefonata.
“Pensate che l’abbiamo trovata?”
chiese Lucas alle due
donne. “Non lo so, ma lo spero davvero” commentò JJ, anche lei
desiderava che
quella situazione finisse al più presto, non sopportava vedere Spencer
in quel
modo. Si sentiva male, ormai era sul punto di crollare. L’uomo annuì e
uscì
dalla stanza, aveva bisogno di una tazza di caffè.
“Come l’ha presa Madison?” domandò Penelope a JJ una
volta rimaste sole.
“E’ distrutta, nessuno si
aspettava una cosa del genere
tantomeno lei” le rispose.
“Appena l’ho vista, mi sono
sentita male per lei. Nessuno
dovrebbe vivere una situazione del genere”
“Già” sussurrò Penelope cercando
di immaginarsi come si
sarebbe potuta sentire lei al posto di Madison. Il solo pensiero che il
suo
adorato bambino potesse venir rapito la fece rabbrividire, ripensò a
Spencer e
Madison e si commosse fino alle lacrime, JJ l’abbracciò senza dirle
nulla e
insieme si diressero verso l’open space.
Anne Walker affiancata dal collega
Spencer Reid guidò più
veloce che poté sfrecciando con la berlina nera fra il traffico di quel
giovedì
mattina. Non appena Spencer riconobbe la macchina di Ellie, capì subito
che era
stata portata lì per depistarli.”Non è qui…” urlò in preda alla
disperazione,
mancava poco alla scadenza del tempo concessogli da Davis, e ancora non
avevano
idea di dove fosse Ellie.
“Cazzo!” urlò sbattendo la
portiera dell’auto. “Il
cellulare è qui…” affermò Anne dopo averlo preso dalla borsa ed inviò
un
messaggio per avvertire gli altri.
“Praticamente siamo al punto di
partenza?” domandò
Spencer irritato.
“Non proprio. Potremmo stilare un
profilo geografico”
suggerì lei.
“Un profilo geografico?” chiese
alla collega. “Abbiamo
solo due punti: il luogo di ritrovo del corpo di Lucy Sprouse e questo.
Non
possiamo stilare un profilo…” rispose dopo aver valutato la proposta.
“E se provassimo a rintracciare
con il GPS la posizione
dell’automobile di Davis?” propose la donna.
“Davis dovrà pure essersi spostato
in qualche modo per
ritornare indietro…”
“Già, hai ragione. Chiamiamo
Anderson e vediamo” rispose
e avviò la chiamata subito dopo.
“Lucas, senti controlla se riesci
con il GPS a rilevare
la posizione della macchina di Davis” gli ordinò.
“Certo, faccio subito…”. Dopo
qualche minuto di silenzio,
l’analista informatico rispose: “La macchina di Davis risulta
parcheggiata
davanti casa sua…”
Spencer passò il telefono ad Anne
e si allontanò, la
collega lo guardò ma non provò a richiamarlo e riprese a parlare con
Lucas:
“Allora, la macchina è parcheggiata davanti casa. Per caso, Davis aveva
a
disposizione una macchina aziendale?”
gli domandò. “Si. Nessun’altra auto risulta intestata a
lui”
“E a John Martin? Forse
l’automobile usata è intestata a
lui” suggerì lei.
“Vedo subito… Si, ha un’auto a suo
nome, provo a
rintracciarla”. Anne lo sentì digitare sulla tastiera e cominciò a
pregare
affinché fosse una buona notizia. “Allora la macchina in…”
“E’ sempre nelle vicinanze,
giusto?” gli domandò. “Si...”
confermò.
“Ottimo, ora potremmo stilare un
profilo geografico. Ti
ringrazio”
“Sempre a tua disposizione, cara”
fu la sua risposta e la
salutò.
“Reid ti ho trovato il terzo
punto” annunciò al collega
che s’incamminò verso di lei.
“Su, andiamo”
continuò
e insieme salirono di corsa nell’auto diretti verso il bureau.
Madison si svegliò di colpo al
suono del campanello
addormentatasi sul divano. Aveva dormito molto poco e male quella
notte,
svegliandosi più volte per via degli incubi. Il campanello suonò
un’altra
volta, a quel punto s’incamminò verso la porta sistemandosi sulle
spalle uno
scialle. Erano i suoi genitori, aprì il cancello e andò loro incontro.
“Mamma,
papà”
esclamò appena li vide. Sua madre le sorrise e corse anche lei
andandole
incontro, invece suo padre James rimase in disparte mentre le due si
abbracciavano.
“Tesoro, come stai?” le chiese
Natalie prendendole la
testa fra le mani. Madison la guardò, e dopo un attimo di riflessione,
rispose:
“Sto meglio, voglio dire, ho fiducia che Spencer la troverà”.
“Ne sono sicuro, Mads. È il suo
lavoro” affermò suo padre
posandole una mano sulla spalla di sua figlia, Madison annuì e baciò la
mano,
ormai rugosa, di suo padre come faceva da quando era bambina.
“Su, entriamo in casa” disse sua
madre offrendo il
braccio a tutti e due.
“I ragazzi?” le domandò una volta
dentro. “Sono ancora da
Jane. In mattinata li passo a prendere” fu la risposta di Madison che
si adagiò
sul divano facendo loro spazio.
“Hai novità? Hanno scoperto
qualcosa sul perché questo
qui abbia rapito Elizabeth?” chiese suo padre, al telefono non avevano
potuto
parlare quindi era allo scuro dei dettagli.
“A quanto pare, è stata Ellie ad
andare da lui” chiarì
Madison facendo un sospiro, ancora non riusciva a capire come Elizabeth
avesse
potuto fare una cosa tanto stupida.
“Come è stata lei? E come lo
sapete?” domandò Natalie
evidentemente scioccata dalla notizia.
“Si, Ellie è rimasta così
sconvolta quando ha saputo
della possibilità che chiudessero le indagini al punto da decidere di
procurarsi delle prove da sola” spiegò, dopo una breve pausa, riprese
il
racconto:
“Ieri mattina ha chiesto a Colin,
un suo amico, di
coprirla dal momento che doveva saltare la scuola. Colin ovviamente,
essendo
ignaro delle reali intenzioni di Ellie, ha accettato, e lei è andata da
Davis
senza dire a nessuno dove fosse diretta”
“Oddio, come le è saltato in mente
di fare una cavolata
simile?” affermò suo padre alzandosi dalla poltrona su cui si era
seduto nel
frattempo.
“Elizabeth è sempre stata
impulsiva, probabilmente non ha
pensato alla possibili conseguenze delle sue azioni, lo sapete com’è
fatta…”
tentò di giustificarla Madison, anche se si rendeva conto che stavolta
aveva
esagerato.
Poi si spostò una ciocca di
capelli che le ricadeva sul
viso e si asciugò gli occhi con un piccolo fazzoletto che estrasse
dalla tasca
del pantalone che indossava.
Sua madre l’abbracciò di nuovo
tirandola a sé, e la
rassicurò: “Andrà tutto bene, vedrai”
“E se non fosse così? E se Spencer
non dovesse farcela?
Io che faccio?” urlò disperata, improvvisamente tutte le sue paure, che
la
stavano consumando dentro, tornarono prendendo il sopravvento. Sentì di
nuovo
le lacrime vicine, ma stavolta non si preoccupò di trattenerle e
cominciò a
piangere fra le braccia di sua madre.
“No, bambina. Non devi dire così,
hai capito? Devi avere
fiducia” disse suo padre avvicinandosi.
“Dio non lascerà che le succeda
nulla di male, vedrai che
tornerà a casa sana e salva” confermò
sua madre.
“Su, dai. Andiamo a bere una tazza
di tè in cucina” disse
poi e l’accompagnò per la mano lungo il corridoio mentre Madison si
asciugava
le lacrime.
La porta si aprì improvvisamente e
la stanza si inondò di
una luce gialla e fastidiosa che costrinse Elizabeth a strizzare gli
occhi. Un
forte odore di sigaro mischiato a whisky le penetrò le narici
provocandole una
smorfia di disgusto. Era Davis.
L’uomo accese le luci e sistemò
una sedia di fronte alla
ragazza che arretrò di qualche passo; quel gesto gli provocò una
risata, “Credi
davvero di potermi sfuggire ragazzina?” le domandò ironico.
“Io non ho paura di te. È la tua
puzza che mi dà
fastidio” rispose Elizabeth acida.
Davis rise un’altra volta, e si
alzò in piedi. “Sai, ho
pensato molto a come mi potrei divertire con te” esordì l’uomo con tono
riflessivo. “Che cosa posso fare con la figlia dell’agente Reid?” e si
avvicinò
a lei.
“Ucciderti sarebbe troppo poco, io
voglio che tu soffra e
tuo papino sia lì per vederti” le disse guardandola dritta negli occhi,
Elizabeth non vacillò, rimase lì a fissarlo.
“Avrai bisogno di bere molto di
più per trovare quel
coraggio” gli disse. “La verità è che sei solo un lurido schifoso
pervertito
che non sarebbe in grado neanche di colpire una ragazzina, per questo
le
droghi. Solo così puoi avere il pieno controllo sulle loro azioni. Sei
solo un
debole” continuò Elizabeth decisa a sfidarlo.
“E’ questo che pensi di me?
Permettimi di smentirti”
affermò Davis, poi la prese per un braccio e la trascinò fuori dalla
stanza,
Elizabeth si contorse dal dolore, ma non urlò. Si trattenne mordendosi
le
labbra, a quel punto Davis si girò verso di lei e con forza la colpì
più volte
finché Elizabeth non si accasciò a terra.
“Non scherzare con me, ragazzina”
l’intimò Davis che se
ne andò subito dopo. John che aveva assistito alla scena senza farsi
notare si
sedette per terra vicino ad Elizabeth che si girò verso di lui. La
ragazza vide
John mostrarle una siringa e annuì. Stavolta non oppose resistenza,
stavolta ne
aveva bisogno.
Qualche minuto dopo i suoni
diventarono indistinti, la
testa smise di girarle, e il suo corpo non avvertì più alcun dolore. E
tutto divenne
buio, ancora una volta.
Anne Walker e Spencer Reid fecero
ingresso nell’open
space e si diressero subito verso la mappa che JJ aveva appena
sistemato come
da loro richiesto.
“Allora il corpo di Lucy Sprouse è
stata trovato in
Leesburg Pike” iniziò Anne facendo il riepilogo.
“Che si trova esattamente qui”
rispose Spencer collocando
una puntina nel punto segnato dalla mappa.
“La macchina di Ellie in Kingsley
Road” proseguì Anne,
ponendo anche lei la puntina nella mappa.
“E la macchina di John in Ring
Road” completò Spencer
sistemando l’ultima puntina.
“Ok, Spencer. Adesso tocca a te,
sei tu il mago dei
profili geografici” disse la giovane collega. “Anche perché a me non
vuoi
insegnarlo…” sussurrò lei in tono scherzoso per sdrammatizzare.
“Quando tutto questo sarà finito,
ti prometto che vedrò
dì insegnarti qualcosa, ora scusami…”
le
disse.
“Oh, si!scusa…” e si fece subito
da parte lasciando il
dottor Reid ai suoi calcoli e speculazioni.
L’uomo cominciò a tracciare
velocemente delle linee sulla
mappa che Anne provò a decifrare senza alcun successo.
“Calcolando il tempo necessario
per scaricare il corpo
dalla macchina e trascinarlo al luogo dell’abbandono, i due non possono
aver…”
lo sentì mormorare Anne.
Ad un certo punto si voltò verso
di lei, e dopo aver
riflettuto qualche altro secondo, annunciò alla collega: “Considerando
che
tutte queste strade hanno la Gallows Road credo che l’area da prendere
in
considerazione sia questa” disse e cerchiò subito l’area sulla mappa.
“Ok, qui cosa abbiamo?” domandò
lei a Lucas che nel frattempo
si era unito a loro, l’uomo si recò nel ufficio e digitò velocemente le
coordinate.
“Pessime notizie” dichiarò al suo
ritorno. “E’ un
complesso di vecchie case coloniali abbandonate…”
“In poche parole mi stai dicendo
che Ellie potrebbe
essere ovunque” disse rassegnato Spencer, sembrava che ogni suo sforzo
fosse
inutile.
“Cosa possiamo fare?” domandò Anne
ed entrambi.
“Parliamo con Morgan e vediamo
come possiamo
organizzarci” suggerì Reid.
“Già… Spencer posso parlarti?” gli
disse la donna che
guardò l’analista informatico facendogli capire che doveva
allontanarsi, l’uomo
annuì e se ne andò. Aveva intuito cosa stava per dire Anne, la stessa
cosa che
pensavano tutti, ma che nessuno aveva il coraggio di dire.
“Spencer… credo che tu sappia che
ora è il momento di
farsi da parte” esordì Anne. Spencer le rivolse uno sguardo di odio e
provò a
replicare, ma Anne lo zittì immediatamente con la mano.
“Fammi parlare” gli disse e
continuò il discorso: “Devi
sapere che io sono dalla tua parte, insomma ti capisco, Spencer”
“Non credo che tu possa capire,
Anne”
“E invece si. Ma devi capire anche
noi, Prentiss ti vuole
fuori dal caso, e nessuno di noi per il momento ti ha detto qualcosa
riguardo
la tua indifferenza agli ordini del capo responsabile, ma adesso ti
spingeresti
troppo oltre”
“Walker non aspetta a te dirmi
cosa devo e non devo fare”
le rispose in tono acido. Il modo in cui si rivolse a lei la sorprese,
mai
l’aveva chiamata con il cognome da quando era entrata nell’unità e mai
l’aveva
rimproverata.
“Spencer, scusami. Io
semplicemente…” provò a parlare, ma
era troppo sconcertata.
“Non c’è bisogno. Ora scusami, ma
ho da fare” disse e
se ne andò.
“Morgan”
lo chiamò
Spencer distogliendo dalla conversazione in cui era impegnato.
“So dove dobbiamo cercare” annunciò una volta che
Derek fece segno agli
altri di allontanarsi.
“Lo so. Stiamo appunto discutendo
su come procedere” lo
informò.
“Ah” disse Spencer. “Cosa avete in
mente?” gli domandò
poi.
“Perlustreremo l’area con i cani,
è il metodo più sicuro.
Ci servirà un indumento di Ellie”
“Prendi il maglioncino che era in
borsa” disse a JJ che
andò subito a prenderlo.
“Mi stai dicendo che avete
intenzione di cercare mia
figlia con i cani? Ma mi prendi in giro?” urlò Spencer attirando su di
sé gli
sguardi di tutti.
“Reid, calmati. Comunque è l’unico
modo, non possiamo
mica fare un’irruzione in ogni singola casa. Attireremmo ancora di più
l’attenzione”
“Perché invece dei cani possano
inosservati?” domandò
l’uomo, dalla voce si percepiva il suo astio.
“Hai qualche idea migliore Reid?”
gli rispose a tono.
“No…” disse l’uomo sotto voce.
“Allora si farà così” gli rispose
e prese in mano il maglioncino che gli porse JJ, e si diresse verso la
squadra
che aveva appena radunato.
“Reid, stai qui. Ti terremo
aggiornato” dichiarò
sulla soglia dell’ascensore.
Spencer aspettò che Morgan e gli
altri andassero via poi
prese le sue cose e si avviò verso l’ascensore. Prentiss, uscita dal
suo
ufficio in quel momento, notò l’agente mentre entrava nell’ascensore,
corse
nell’open space per impedirgli di lasciare il bureau arrivando giusto
in tempo
per evitare che le porte si chiudessero; “Reid dove pensi di andare?”
gli
chiese posando una mano sulla porta che in quell’istante si riaprirono.
L’uomo la guardò con una strana
luce negli occhi che
lasciò Emily esterrefatta. “Mi dispiace Emily, ma non ho intenzione di
restare
qui”, poi premette il bottone del piano terra e le porte dell’ascensore
si
richiusero lasciando Emily senza la possibilità di replicare.
“Ragazzina! Svegliati…” “Su, dai!”
La voce di John seguita da uno
strano torpore che invase
il suo fragile corpo svegliarono Elizabeth dal “coma” in cui era
ricaduta. John
continuò a scuoterla finché la ragazza non si svegliò del tutto.
“Ragazzina, ho visto dei cani e un
sacco di poliziotti
pattugliare mentre facevo il mio giro di perlustrazione” le disse
appena ebbe
ottenuto la sua attenzione.
“Credo che tuo padre ti abbia
trovato” continuò facendo
un sorriso. “Forse dopotutto l’idea di rapire la figlia di un federale
non è
stata del tutto un errore” pensò, gli sarebbe costato il carcere ma
almeno
quell’incubo sarebbe finalmente finito.
“Papà…” disse Elizabeth cercando
di concentrarsi sulle
parole dell’uomo.
“Stammi a sentire Elizabeth”
ricominciò chiamandola per
nome. “Io ti ho appena iniettato una sostanza che contrasterà l’azione
del
farmaco, ma tu devi fare finta di essere ancora sotto l’effetto dei
tranquillanti e al momento opportuno te la svigni, ok?”
“E tu?” gli domandò la ragazza.
“Non preoccuparti per me,
ragazzina. Io me la caverò in qualche modo” la rassicurò. “Ora vado, mi
raccomando”
“Grazie…” sussurrò, ma ormai John
era uscito dalla stanza
e non poté più sentirla.
Spencer guidava da più di un’ora,
ormai si stava avvicinando
ad Ellie, lo sentiva. Non riusciva a spiegarlo, ma sapeva che era lì,
vicina a
lui. L’avvertiva come se avesse una connessione diretta con lei,
qualcosa che in
quel momento lo guidava. Forse era l’istinto, forse il destino o forse
semplicemente era qualcosa che non era più in grado di spiegare:
l’amore. Ci
aveva messo ventotto anni della sua vita per capire che esistevano cose
che non
potevano essere spiegate, e gli era bastato un solo sorriso dei suoi
figli per
capire che qualsiasi cosa avessero detto o fatto non avrebbe mai potuto
abbandonarli. Già, lui non poteva fare ai suoi figli quello che suo
padre aveva
fatto a lui semplicemente perché non ci sarebbe mai riuscito.
Nonostante
fossero passati tanti anni e in apparenza lui e suo padre fossero
diventati
buoni amici, in realtà Spencer non l’aveva mai perdonato, e forse mai
ci
sarebbe riuscito.
Si fermò davanti ad un cancello di
legno e scese dalla
macchina. Era sicuro che era arrivato, entrò dentro cercando di non
fare
rumore. Camminò sul vialetto fino a quando la sua attenzione non fu
catturata
da qualcosa di scintillante: era il braccialetto di Elizabeth. “Ero
sicuro che
eri qui” disse guardando il braccialetto che mise in tasca e si
abbandonò ad un
respiro di sollievo; finalmente era arrivato, ora doveva solo
riprendersi sua
figlia. Fu in quel momento che il suo cellulare cominciò a vibrare,
dopo
essersi assicurato che nessuno l’aveva visto dentro, rispose. Era
Derek.
“Morgan” disse appena ebbe
risposto alla chiamata.
“Reid dove cavolo sei?” disse
l’uomo. Era tremendamente arrabbiato,
non avrebbe dovuto disobbedire ad un suo ordine.
“Derek i rimproveri a dopo. Ho
trovato Ellie, venite a
Tyson Corner” gli disse.
“Reid non muoverti finché non
siamo arrivati” lo
raccomandò Derek, ma ormai Spencer era dentro e non aveva intenzione di
tornare
indietro. “Certo, non preoccuparti” mentì e chiuse la telefonata.
Rimase fermo sul vialetto incerto
sul da farsi, doveva
pensare ad una strategia, ma alla fine decise di agire d’istinto, cosa
del tutto
nuova per lui, ed entrò in casa. Una volta dentro prese la pistola in
mano e
cominciò a percorrere il corridoio della grande casa coloniale.
Si accorse immediatamente che in
casa non c’era nessuno,
ringraziò il cielo per questo, ma doveva comunque sbrigarsi. Non poteva
correre
il rischio che Davis arrivasse o si accorgesse della sua presenza prima
che
Ellie fosse al sicuro con lui.
Entrò nella prima stanza che trovò
lungo il corridoio;
Ellie non era lì, sul tavolo in fondo alla stanza vide i farmaci
utilizzati da
Martin e fu subito attirato da un composto di taurina. “Taurina? Ma è
una
sostanza eccitante…” rifletté, tuttavia decise di non perdere tempo
facendo
ipotesi, non era il momento più consono per farlo e lasciò la stanza.
Mentre camminava sentì qualcuno
tossire in fondo al
corridoio; “Ellie sei tu?” la chiamò accelerando il passo.
“Papà…” disse la ragazza sotto
voce, era ancora sotto
shock per quanto era accaduto, e per un momento pensò di essersi
immaginata la
sua voce. “Papà sono qui…” lo richiamò.
Spencer aprì la porta della
stanza; “Elizabeth…” esclamò
non appena la vide e corse verso di lei.
“Tesoro stai bene?” le chiese
dandole un bacio sulla
fronte e abbracciandola, era sul punto di piangere. Non riusciva a
credere di
averla trovata, si sentiva infinitamente sollevato.
“Si, sto bene. Dobbiamo sbrigarci,
Davis tornerà fra
poco” gli disse schiarendosi la voce, aveva ancora paura anche se suo
padre era
lì con lei. “Certo…” poi la prese in braccio e si avviò verso la porta
cercando
di fare il più in fretta possibile.
“Posso camminare, John prima mi ha
dato qualcosa per
contrastare l’effetto dei tranquillanti” gli disse, Spencer la posò per
terra e
la prese per la mano. “Ecco a cosa serviva il composto di taurina”
pensò.
“Ero sicura che saresti arrivato”
sussurrò Ellie mentre
camminavano lungo il corridoio .
“Non avrei mai permesso che ti
facessero del male”
rispose e si girò verso di lei, fu allora che notò i lividi sul suo
corpo.
“Ellie che ti hanno fatto?” le domandò prendendole il viso fra le mani.
“Non è
nulla, io sto bene” ripeté anche se mentiva, il dolore non era affatto
passato,
e ad ogni passo aumentava sempre di più, ma non voleva preoccuparlo.
Tutto ciò
che voleva era uscire di lì e porre fine a quell’incubo.
“Tesoro…”ripeté più volte, non
riusciva a dire altro, era
troppo sconvolto. Il solo pensiero di ciò che aveva affrontato sua
figlia lo
distruggeva. L’abbracciò di nuovo, Elizabeth non riuscendo più a
trattenersi
scoppiò a piangere.
“Ho avuto tanta paura…” confessò
abbracciata a suo padre.
“Lucy quella ragazza, lei…”
“Lo so, lo so” disse Spencer
stringendola a sé con
delicatezza per non farle male.
“Che bella scena, meno male che
sono arrivato, me la
sarei persa” esclamò Davis appena arrivato insieme a John. Elizabeth
sussultò e
gemette nascondendosi dietro suo padre. Spencer guardò Davis e lo
intimò a non
avvicinarsi.
“Agente Reid non credo che lei sia
nella posizione di
poter decidere come si svolgerà quest’incontro” esordì l’uomo facendo
un
sorriso malizioso.
“Noi siamo in due e lei invece…
Beh lei ha il supporto di
una ragazzina” continuò. “Devo ammettere che mi ha dato filo da
torcere, ma alla
fine l’ho sistemata” e si avvicinò a loro. “Non ti avvicinare o ti
giuro che ti
ammazzo” lo minacciò di nuovo Spencer puntandogli la pistola contro.
“John metti fine a questa storia”
gli disse Davis. John
rimase fermo, non avrebbe seguito Davis anche in questo, era pronto ad
assumersi le sue responsabilità, non avrebbe ucciso un’altra persona.
“John ti ho detto di mettere fine
a questa storia” ripeté
Davis a voce più alta.
“Lou è finita” disse l’uomo, Davis
si girò verso di lui,
mise la mano in tasca e cacciò una pistola.
“Decido io quando è finita”
affermò, era fuori controllo
ormai. “Lou non c’è bisogno che fai così…” ribadì John avvicinandosi a
lui.
Davis rise e sparò a John puntando dritto allo stomaco, l’uomo si
accasciò a
terra, portandosi la mano alla ferita e lasciando cadere pistola.
Elizabeth
urlò per lo spavento e strinse la mano di Spencer rimanendo sempre
dietro di
lui, Davis si girò verso Spencer; “Siamo solo noi adesso” affermò
abbandonandosi ad una risata.
“Non ne uscirai vivo” lo sfidò
Spencer guardandolo dritto
negli occhi.
Davis si avvicinò a lui
puntandogli sempre la pistola
contro, a quel punto Spencer si lanciò in un corpo
a corpo con Davis tentando di togliergli la
pistola.
L’uomo spinse Spencer contro il
muro e si avvicinò ancora
di più a lui. “Pessima scelta, agente Reid” gli disse nell’orecchio.
“Prima mi occuperò di te e dopo di
quella bastarda di tua
figlia” proseguì l’uomo.
Reid con tutta la forza che aveva
in corpo spinse via
Davis che barcollò senza cadere; l’uomo rise ancora e si lanciò su
Spencer ancora
una volta che non riuscì a bilanciare il peso e cadde per terra dopo
che Davis
lo ebbe colpito con la canna della pistola. Davis si affrettò a
disarmarlo e
spinse l’arma con il piede.
Elizabeth
di
fronte a quella situazione decise d’intervenire per salvare suo padre e
approfittando della distrazione di Davis strisciò fino alla pistola di
Martin.
Spencer con la coda dell’occhio si accorse quello che stava facendo sua
figlia
e tentò di tenere occupato Davis. Appena la prese Elizabeth fece un
segno a suo
padre e si alzò in piedi.
“Dì le tue ultime preghiere” disse
Davis ponendo il dito
sul grilletto, in quel momento Elizabeth sparò colpendo Davis ad un
piede e
lasciò cadere la pistola che riprese immediatamente. L’uomo urlò dal
dolore e
si girò verso Elizabeth che arretrò di qualche passo; “Ragazzina non
avresti
dovuto farlo” l’intimò, nel frattempo Spencer si alzò in piedi e
riprese
possesso della pistola.
“Io non lo farei se fossi in te”
disse Davis avendo
notato Spencer con la pistola in mano; “Hai molto da perdere” aggiunse
e indicò
Elizabeth che rabbrividì. Spencer sapeva che non avrebbe esitato a
sparare
perciò non si mosse.
Fu in quel momento che sentirono
la sirena: il resto
della squadra era arrivato.
Davis pensò in fretta, era
consapevole che se rimaneva
ancora non sarebbe riuscito a scappare, non c’era tempo da perdere
perciò sparò
contro il muro dove era poggiata Elizabeth per distrarre Spencer che
corse
verso sua figlia.
“Non è finita qui, agente Reid. Ci
rivedremo ancora”
disse prima di uscire, poi si diede alla fuga utilizzando il giardino
sul
retro.
Spencer non si mosse, non partì al
suo inseguimento.
Rimase seduto per terra vicino ad Elizabeth che piangeva cercando di
consolarla: “E’ tutto finito, amore” le disse. Pochi minuti dopo
entrarono gli
SWAT seguiti da Derek e Hotch.
“Reid tutto bene?” chiese Derek.
“Si… Davis è scappato, non sono
riuscito a fermarlo”
rispose Spencer.
“Non fa niente, lo prenderemo”
affermò Derek poi diede
ordine di sgomberare la scena e di chiamare l’ambulanza per Elizabeth.
Un agente accompagnò Spencer ed
Ellie fuori dove li
aspettava Anne che sistemò una coperta sulle spalle della ragazza.
“Grazie… e
scusami per prima” le disse Spencer riferendosi a quanto accaduto.
“Non fa nulla, è tutto a
posto”rispose Anne con un
sorriso che Spencer ricambiò e si allontanò lasciandoli soli.
Spencer
strinse la
mano di sua figlia che gli fece un debole sorriso; in
quel momento una macchina si fermò davanti
alla casa e scese Madison assieme a Jules e Thomas che corsero verso la
sorella.
Thomas le diede il Mister Skippy e l’abbracciò senza dirle nulla.
“Grazie …”
sussurrò al fratello e strinse la mano a Jules rimasta in piedi accanto
a
Thomas.
“Bambina … stai bene?“ le chiese
Madison in preda alla
commozione abbracciandola anche a lei.
“Sto bene mamma, ma se mi
stringete ancora di più
soffoco” rispose Elizabeth con tono scherzoso, i due si staccarono da
Ellie e
risero. Madison poi si avvicinò a Spencer; “Stai bene?” gli chiese
prendendolo
per mano.
“Si, adesso si” rispose l’uomo.
Dopo un po’ arrivò l’ambulanza ed
Elizabeth fu portata in
ospedale dove avrebbe trascorso la notte in osservazione. Finalmente
era tutto
finito, ora solo una cosa restava da fare: prendere Davis.
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Capitolo 10 *** Cap. 8 ***
"Una cattiva azione non
ci tormenta appena
compiuta, ma a distanza di molto tempo, quando la si ricorda, perché il
ricordo
non si spegne." Jean Jacques
Rousseau
“Spencer … Spencer” si sentì
chiamare da una voce che
ormai riconosceva come la sua, era quella di sua moglie. Madison gli
accarezzò
delicatamente i capelli spostandogli le ciocche ribelli che gli
ricadeva sul
viso, Spencer fece un respiro profondo e si ricompose.
“Vai a casa, tanto qui è tutto a
posto” gli disse,
sedendosi al centro del letto dove Elizabeth dormiva stringendo a sé il
peluche
portatogli da suo fratello. “Ellie non si sveglierà ancora per un po’”;
si girò
verso sua figlia e allungò la mano per sfiorarle il viso.
“Cos’è successo con George?” le
domandò ricordandosi
improvvisamente di averla vista discutere con lui poco prima di
addormentarsi.
“Nulla, voleva che Ellie rimanesse
un altro giorno, ma io
voglio portarla a casa” spiegò lei. Poi si alzò dal letto e si diresse
verso la
finestra. Fuori pioveva, era preoccupata anche se non lo dava a vedere,
sapeva
che Davis era ancora a piede libero e finché non l’avessero catturato
né Ellie
e né Spencer sarebbero stati al sicuro. Sospirò e chiuse gli occhi come
per
scacciare quel pensiero e si rigirò verso suo marito che osservava
Elizabeth
dormire perso nei suoi pensieri.
Anche lui in quel momento pensava
a Davis, doveva mettere
le mani su quel viscido figlio di puttana e fargliela pagare per ciò
che aveva fatto
a sua figlia. Ma ora non era il momento più adatto per abbandonarsi
alla
rabbia, una persona più importante aveva bisogno di lui e quella
persona era
Ellie; sapeva, meglio di chiunque altro, quanto quell’esperienza
potesse essere
devastante, quanto fosse difficile superarla senza l’aiuto di qualcuno.
Ma
conosceva Elizabeth, e in questo gli somigliava tantissimo, ed era
consapevole
che entrare nel mondo in cui sua figlia si era rifugiata sarebbe stato
difficile, se non impossibile.
Anche lui si alzò e diresse verso
la finestra, prese la
mano di Madison nella sua e la strinse debolmente.
“Lo prenderò, non preoccuparti. E
troveremo un modo di
uscirne” le disse intuendo la preoccupazione di sua moglie dal suo
sguardo, i
loro pensieri erano entrambi rivolti verso di lei, verso Ellie; così
come anche
le loro preghiere e speravano ardentemente che tutto si sarebbe
aggiustato,
prima o poi.
“Mi chiedo come faremo a prendere
Davis …” furono queste
le parole che Anne pronunciò tornati dall’ospedale dove si erano
accertati
delle condizioni di Elizabeth e che contenevano in loro tutta
l’insicurezza che
si era insidiata negli animi dei membri della squadra dell’Unità
Analisi
Comportamentale.
“Lo faremo in qualche modo”
rispose Derek senza
distogliere lo sguardo dai fascicoli che aveva in mano, effettivamente
l’attuale agente supervisore aveva un altro pensiero, non meno grave:
doveva
giustificare le azioni del suo sottoposto, ovvero di Spencer. Già,
Emily aveva
richiesto un rapporto dettagliato di come si erano svolti gli eventi,
in modo
particolare di come Spencer avesse ritrovato Elizabeth e soprattutto di
come
fosse giunto nel nascondiglio di Davis nonostante gli fosse stato
ordinato di
rimanere nell’ufficio.
Ma soprattutto doveva trovare le
parole giuste per
spiegare a Spencer che forse sua figlia non avrebbe superato
quell’incidente
facilmente, convinzione che si era fatta breccia nella sua mente
immediatamente
ripensando ad Ellie, la figlia del detective Spice, e a quanto per lei
fosse
stato arduo andare avanti e riacquistare un po’ della fiducia e
sicurezza
persa; ma soprattutto conosceva quella ragazzina quasi quanto i suoi
genitori,
l’aveva vista crescere e sapeva che nonostante sembrasse felice e
spensierata,
la realtà era che Elizabeth aveva tante paure e ansie, che
quell’atteggiamento
in apparenza normale e forse troppo esuberante nascondeva una certa
angoscia
che nemmeno lei riusciva a spiegarsi, e soprattutto per cui non era in
grado di
chiedere aiuto.
Lo squillo del cellulare lo
distolse dai suoi pensieri;
era Nancy, sua moglie. “Derek, come sta Ellie?” domandò la donna dal
forte
accento francese nonostante ormai vivesse negli Stati Uniti da oltre
venti
anni.
“Fisicamente bene, si riprenderà.
Ma psicologicamente io …”
non completò la frase, sua moglie era altrettanto consapevole
dell’instabilità
della figlia di Spencer.
“Dici che potrebbe commettere
qualche altra sciocchezza?”
domandò dal tono si riusciva a capire che era anche lei preoccupata.
“Non so, potrebbe …” nel frattempo
si era allontanato
dalla sala riunioni per cercare un po’ di privacy richiudendosi nel suo
ufficio. “Ma faremo
in modo che non
succeda” aggiunse sedendosi sulla poltrona del suo ufficio.
“Madison? Sta bene?” s’informò la
donna, pensando a come
potesse aver gestito la situazione l’amica.
“Si, sta bene. È riuscita ad
affrontare il tutto senza
perdersi d’animo, la conosci meglio di me. E’ forte”
“Già …” “E tu, amore? Quando pensi
di tornare a casa?”
chiese mentre spingeva la valigia dentro casa essendo appena rientrata
da un
seminario sull’arte impressionista che aveva tenuto a Baltimora per
qualche
giorno.
“Sto bene, starò meglio quando
avremo preso questo
bastardo. Tornerò il prima possibile. Megan? Si è comportata bene?”
chiese dal
momento non era riuscito a chiamare sua figlia durante i giorni del
seminario.
“Oh! Bien sûr cheri!” esclamò sua
moglie. “Nostra figlia
diventerà un’artista”.
A quell’affermazione , Derek
scoppiò a ridere.
“Un’artista in casa basta e avanza” disse pensando ai pennelli, colori,
tele
sparsi per casa che sua moglie utilizzava nel suo lavoro.
“Certo.. certo!” rispose Nancy
scoppiando anche lei a
ridere. “Bene, ci sentiamo dopo allora caro”
“Si, a dopo” chiuse la telefonata
sorridendo e socchiuse
gli occhi. Ora voleva solo rilassarsi.
“Toc, toc si può?” disse Blair
entrando nella stanza di
ospedale dove soggiornava temporaneamente Elizabeth seguita dagli altri
due
amici, Nicole e Colin.
“Oh! Certo!” fu la risposta di
Madison che si alzò dalla
poltrona dove si era seduta, dirigendosi verso di loro per salutarli.
“Cuccioli della prateria mi siete
venuti a trovare?”
esclamò Ellie rivolgendo loro un enorme sorriso.
“Si e non avremmo dovuto visto che
sei una cretina e non
meriti la nostra presenza qui!” rispose Colin con finto tono
arrabbiato.
“Ma che diavolo ti è saltato in
mente?” la riprese
Nicole. “È vero che noi diciamo sempre che sei WonderEllie, ma questo è
troppo
pure lei!” proseguì Blair mentre gli altri due annuivano. Madison
rimase ad
ascoltarli senza parlare ed aspettando che sua figlia almeno ai suoi
amici
rispondesse per vedere come si giustificava.
“Ma non vi hanno detto mai che non
si dovrebbe tempestare
di domandare, anzi no, puntare il dito contro qualcuno che ha appena
subito un
trauma come il mio?” ironizzò lei mettendosi seduta sul letto e
sistemando i
cuscini per poggiare la schiena.
“Ma stai zitta!” commentò Colin
sedendosi sul letto e provò
a darle una leggera spinta, ma Ellie si spostò dalla sua traiettoria
facendogli
la linguetta.
“Ragazzi se ci siete voi, io
andrei. Vado a vedere
qualche paziente!” annunciò Madison poi salutò tutti ed uscì dalla
stanza.
“Ma tuo padre?” chiese Blair
improvvisamente accortasi
dell’assenza dell’uomo. “Boh! Sarà da qualche parte a fare telefonate!”
rispose
con noncuranza facendo spallucce.
“Allora che è successo in questi
giorni? Qualche nuovo
fidanzamento, anzi no, rottura?” domandò rivolgendo un’occhiata carica
di
curiosità.
“Scusa tu ci stai chiedendo cosa è
successo in questi
giorni quando tu …” s’interruppe Nicole guardando interdetta l’amica
come gli
altri due.
“Ehm … si” rispose lei guardandoli
come se non capisse
come mai le stessero dicendo una cosa del genere. “Allora Brooke sta
ancora con
Josh si o no?” domandò.
“Si, ci sta ancora e la crisi è
passata!” la informò
Nicole decisa anche lei a far finta di nulla proprio come l’amica. Gli
altri
due si scambiarono un’altra occhiata incerta e si unirono alla
conversazione.
In quel momento Spencer entrò
nella stanza e si sedette
sulla poltrona dopo aver salutato gli amici di sua figlia. Rimase lì ad
osservarli parlare, anche se più che osservare i suoi amici, fissava
lei: Ellie.
Tutto indicava che avesse rimosso
l’accaduto o facesse
finta di nulla per non spaventare i suoi amici ai quali non aveva
rivelato
alcun dettaglio. Si chiese cosa stesse in realtà pensando in quel
frangente, se
non sapesse che Ellie non avrebbe mai dimenticato, certezza che
proveniva dallo
sguardo che gli aveva rivolto quando parlava di Lucy al momento del
ritrovamento, avrebbe pensato che sua figlia aveva semplicemente deciso
di non
pensare più a quell’orribile esperienza che aveva appena vissuto.
Era ancora in ascolto quando la
porta si aprì ed entrò
qualcuno che non si aspettava di vedere. Quella visione gli suscitò una
piacevole sensazione, era contento che fosse lì. “Henry” esclamarono i
quattro
ragazzi che gli rivolsero un sorriso.
“Hey! Gente!” ricambiò lui
salutando gli amici della
ragazza con un bacio sulla guancia, poi si girò verso Spencer e salutò
anche
lui.
“Che ci fai qui? Non dovresti
essere a Providence a fare
qualche esame?” lo scherzò Ellie mentre lui si sedeva sul letto vicino
a lei.
“Va bene, visto che tu sei qui”
disse Blair riferendosi a
Henry. “Noi magari potremmo andare …” continuò lanciando un’occhiata
complice a
Nicole che sorrise e aggiunse: “Già io devo andare in quel posto a
prendere
quella cosa che mi ha chiesto mia madre”
“Che cosa devi comprare? E dove?
Non mi hai detto nulla
prima” domandò sconcertato Colin che non aveva afferrato il motivo di
quell’improvvisa
partenza.
“Te lo dico strada facendo ...” lo
rispose Nicole
prendendolo per un braccio e trascinandolo fuori dalla stanza
nonostante le
proteste del ragazzo sotto lo sguardo divertito di Henry, Ellie e
Blair.
“Beh anch’io vado. Devo chiamare
Morgan” annunciò Spencer
e alzandosi dalla poltrona. Sua figlia annuì e lo salutò con un cenno
della
mano e altrettanto fece Henry. “A dopo” disse l’uomo e chiuse la porta.
“Questa volta l’hai combinata
grossa” la rimproverò Henry
senza riuscire tuttavia a tenere un tono serio.
“Anche tu mi rimproveri?” si
lamentò lei tirandosi le
coperte sulla testa per non farsi vedere.
“Si, anch’io ti rimprovero” tirò
giù le coperte e prese
le sue mani nelle sue. “Non farlo più, ok? Sennò io chi potrò prendere
in giro
per la sua totale ignoranza?” la rimbeccò facendo un sorriso.
Ellie ricambiò. “Vedrò di tenermi
fuori dai guai così
siamo sicuri che avrai sempre qualcuno con confrontare la tua immensa
intelligenza” ironizzò lei.
“Brava, era questo che volevo
sentire” rispose lasciando
sfuggire una leggera risata.
Natalie entrò nella reception del
Howard University
Hospital e rimase ferma davanti al bancone di questa senza sapere bene
cosa
stesse cercando. “Signora le serve aiuto?” domandò la giovane
incaricata della
reception rivolgendo un sorriso rassicurante.
“Ehm… si. Mia nipote… Elizabeth… è
stata ricoverata qui”
balbettò la donna cercando di recuperare un po’ di sicurezza.
“Elizabeth come?” chiese la
giovane digitando già il nome
della ragazza sulla tastiera.
“Mamma…”
la chiamò
sua figlia appena la riconobbe. Si avvicinò alle due posando alcune
cartelle
sul bancone; “L’accompagno io” informò la receptionist che annuì
tornando al
suo lavoro di archiviazione delle cartelle lasciate dal personale.
“E’ al primo piano, preferisci
prendere l’ascensore o
usiamo le scale?” domandò Madison avviandosi comunque verso le scale
dal
momento che odiava gli ascensori.
“Prendiamo le scale” rispose sua
madre intuendo che la
preferenza di sua figlia. Durante il breve tragitto le due donne
rimasero in
silenzio, lanciandosi ogni tanto delle occhiate. Madison riusciva a
percepire
la tensione che si accumulava nell’animo di sua madre ad ogni gradino
in più
salito, ma voleva aspettare a che fosse lei a parlare dal momento che
sapeva
esattamente cosa le avrebbe detto.
E quel metodo funzionò perché
infatti sua madre poco
prima di entrare nel corridoio che le avrebbe condotte in camera di
Elizabeth
fece la fatidica domanda: “Cosa devo aspettarmi?”
“La verità, mamma, è che non lo so
nemmeno io. È così
strana Ellie da quando…” provò a spiegare Madison senza saper bene cosa
dire.
“Non ne parla?” chiese sua madre
cogliendo il senso di
quella frase lasciata a metà da sua figlia.
“Esatto!” confermò lei. “Fa finta
di nulla, io non so se
questo sia un bene o un male” aggiunse con tono preoccupato.
“Ho paura che se non ne parla, se
si tiene tutto dentro,
possa commettere lo stesso errore che feci io” continuò Madison
cercando un po’
di conforto negli occhi di sua madre che non glielo offrirono.
“Vedrai, andrà tutto bene” la
rassicurò con tono poco
convinto.
Fu in quel momento che
incrociarono Spencer nel corridoio
con in mano il cellulare e
il fascicolo
di Davis mentre fissava uno dei tanti quadri appesi lungo le pareti.
“Spencer” lo richiamò sua suocera
per catturare la sua
attenzione, infatti l’uomo si girò verso di loro.
“Oh! Natalie! Sei arrivata!”
esclamò senza molto
entusiasmo. La donna fece un mezzo sorriso e tornò a fissare sua figlia
aspettando che entrasse nella stanza.
“C’è qualcuno?” domandò Madison a
Spencer prima di aprire
la porta della camera.
“Dovrebbe esserci Henry” la
rispose velocemente. “Henry?
Davvero?”; anche Madison si rallegrò di quella visita, era sicura che
se
Elizabeth non aveva intenzione di parlare con loro, almeno lo avrebbe
fatto con
Henry.
Spencer annuì e aprì la porta
della stanza facendo
passare sua suocera.
“Nonna!” trillò Ellie non appena
vide sua nonna entrare,
si alzò dal letto di scatto per salutarla ma dovette risedersi a causa
di un
capogiro, sentiva ancora il corpo intorpidito. Henry si avvicinò a lei
come per
aiutarla, ma Elizabeth gli fece capire segno di star bene “Tesoro
ancora non
puoi alzarti” le disse sua madre avvicinandosi anche lei.
Natalie nel frattempo l’abbracciò
e si sedette accanto
alla nipote sul letto dopo che Henry si fu spostato per fare spazio.
“Stai bene?” le domandò sua nonna
prendendola per
mano. “Certo nonna,
è tutto ok” sorrise
lei ma scostò subito lo sguardo fissando la finestra per non far capire
quanto
fosse preoccupata e quanto quelle parole che aveva ormai detto e
ripetuto
fossero false.
Una settimana dopo Elizabeth,
ormai dismessa
dall’ospedale da qualche giorno, fu portata da suo padre negli uffici
dell’unità analisi comportale dove era stata convocata da Emily
Prentiss. Era
arrivato il momento di fare la tanto attesa deposizione, cosa la
innervosiva terribilmente
perché avrebbe dovuto descrivere nei dettagli cosa era accaduto in quei
due
giorni, e lei non voleva. Perché descrivere significava ricordare e
tutto ciò
che lei voleva fare era dimenticare. Ma la consapevolezza che Davis era
in
attesa di un errore di valutazione di suo padre glielo impediva, non si
sarebbe
mai potuta sentire al sicuro finché l’uomo che aveva fatto crollare la
sua
fragile sicurezza non fosse stato catturato.
Tutte le notti fingeva di andare a
dormire, ma in realtà
restava sveglia a causa degli incubi in cui riviveva quell’esperienza
mille
volte ancora. Sentiva il sussurro della voce di Davis nelle orecchie ed
a volte
le pareva anche di sentire il suo odore, aveva paura non solo per sé,
ma anche
per suo padre. A quel pensiero rabbrividì, Spencer si girò verso di lei
e le
strinse la mano. “Aspetta qui” le disse e le indicò le sedie
posizionate
davanti l’ufficio di Emily ed entrò nella stanza per avvisare l’ex
collega che
sua figlia era pronta a deporre.
Elizabeth cominciò a guardarsi
intorno, era la prima
volta che si trovava in quella parte dell’ufficio, o meglio di solito
più
lontano dell’open space durante le sue visite inattese non andava: era
troppo
nervosa perciò decise di contare fino a cento per calmarsi, esercizio
che Colin
le aveva insegnato tempo fa. “Quando vedi la Currie conta fino 100 così
non la
rispondi male e chissà magari a fine anno ti promuove” le aveva detto
quella
volta riferendosi alla professoressa di storia che Ellie aveva in odio,
ricordandosi di quell’episodio per un momento sorrise, ma poi le sue
preoccupazioni le caddero di nuovo addosso.
Poggiò le mani sulla sedia come
per sostenersi e sospirò,
si girò verso la porta ancora chiusa, sentì la voce concitata di suo
padre e
quella più calma di Prentiss, stavano discutendo di lei. Ricominciò a
contare:
“1…2...3” “4…5…6”
“Ellie va tutto bene?” le domandò
Anne guardandola un po’
stranita.
“Si, certo! Tutto ok…” balbettò
lei. “Aspetto di entrare”
aggiunse fingendo un tono fermo di voce che però non le riuscì.
Anne le sorrise e bussò alla porta
che si aprì lasciando
passare la donna dentro per poi richiudersi nuovamente.
Dopo poco più di cinque minuti suo
padre uscì avvisandola
che appena Anne fosse uscita lei doveva entrare, Ellie annuì e salutò
con un
cenno del capo il padre che scese di sotto.
“Allora come l’hai trovata?”
chiese Prentiss alla giovane
profiler una volta rimaste sole.
“Diciamo che è un vulcano sul
punto di esplodere” affermò
la bionda appoggiandosi contro lo schienale della sedia girevole.
“Quindi
potrebbe crollare da un momento all’altro?” domandò ancora la mora per
meglio
avere chiara la situazione.
“Potrebbe succedere” rispose senza
aggiungere altro.
“Bene, è meglio che la facciamo entrare” affermò Emily infine indicando
con il
dito la porta, Anne si alzò e salutò Prentiss uscendo dalla stanza.
“Vai cara, Emily ti aspetta” le
comunicò poco prima di
sparire anche lei per le scale. Elizabeth fece un altro respiro
profondo ed
entrò. “Accomodati” le disse Emily alzandosi in piedi e indicandole la
sedia
dove fino a poco prima era seduta la collega di suo padre.
Elizabeth si sedette e rimase in
silenzio in attesa di
una domanda. “Come stai?” le domandò Emily per rompere il ghiaccio, la
ragazza
la guardò attonita, aprì la bocca e la richiuse. Dopo aver inspirato
nuovamente, parlò: “Credo che questa parte della conversazione la
potremmo
saltare. Chiedimi quello che devi chiedermi e chiudiamola qui”
Emily di fronte a quella risposta
acida della ragazza
sollevò il sopracciglio, si schiarì la voce e le rispose: “Bene, se è
quello
che vuoi”
“Cosa è successo Elizabeth quando
tuo padre è arrivato?”
domandò la donna poggiando le braccia sulla scrivania e spostandosi
leggermente
in avanti. “Non c’è scritto sul rapporto?” domandò lei un po’ stizzita.
“Si, ma io voglio saperlo da te”
le rispose utilizzando
il medesimo tono acido della ragazza di poco prima.
“Mio padre è arrivato quando Davis
non c’era, non so dove
fosse andato. Io ero nella stanza in fondo al corridoio perciò non mi
sono
accorta subito della sua presenza, ma sapevo che sarebbe arrivato”
iniziò il
racconto Ellie interrotto subito da una domanda di Emily: “Come mai lo
sapevi?”
“Me l’aveva detto John mentre mi
somministrava il
composto per contrastare l’effetto dei tranquillanti” le rispose.
“Quindi John voleva aiutarti?”
s’accertò Emily. Elizabeth
confermò con un cenno del capo.
“Davis ha ucciso John?” chiese
alla ragazza che
cominciava ad innervosirsi nuovamente.
“Si, non abbiamo potuto aiutarlo”
disse con un velo di
tristezza nella voce. “Cosa è successo dopo?”
“Papà e Davis hanno cominciato a
litigare e Davis era
riuscito a disarmare papà” s’interruppe, le si era formato un grappolo
in gola,
deglutì e riprese il racconto: “Così io ho fatto quel che dovevo fare”
“Hai sparato Davis?” domandò anche
se non aveva alcun
bisogno di conferme.
“Si, ma ho una pessima mira quindi
a malapena il piede ho
preso, perciò più che sparare diciamo che l’ho sfiorato con il
proiettile”
chiarì Elizabeth tenendo fisso lo sguardo sulla mora per osservare la
sua
reazione.
“Credo che la pessima mira sia una
caratteristica della
famiglia Reid” provò ad ironizzare Emily senza ottenere risposte nella
ragazza.
A quel punto la mora divenne nuovamente seria e si apprestò a
concludere il
colloquio, facendo una domanda che inquietò la ragazza: “Credi che se
non
avessi fatto qualcosa Davis avrebbe ucciso tuo padre?”
“Non ho dubbi, aveva la
possibilità di farlo e
soprattutto non si desiderava altro” rispose dopo una breve pausa.
“Per me è sufficiente così, puoi
andare” affermò la
donna, compilò velocemente una scheda e accompagnò la ragazza alla
porta.
“Cosa hai scritto nella
valutazione?” domandò Elizabeth
alla mora quando giunsero alla porta intuendo che fosse quello il
contenuto
della scheda che aveva appena compilato.
“Non si ritiene indispensabile di
sottoporre la vittima
ad un trattamento psicoterapeutico” sciorinò la donna tenendo ferma la
porta
dell’ufficio con il palmo della mano.
“Non si ritiene indispensabile, ma
è consigliato”
concluse la ragazza, poi dopo essersi congedato da Emily uscì dalla
stanza e
scese le scale sotto lo sguardo vigile dell’ex collega di suo padre.
“Andiamo a casa?” chiese Elizabeth
a suo padre dopo
essere entrata nella sala riunioni senza aver chiesto il permesso.
L’intera squadra della BAU si
voltò verso di lei con aria
attonita, fu Spencer il primo a reagire.
“Tra un attimo, dobbiamo
concludere una cosa” la rispose.
“Io voglio tornare adesso non tra un po’ ” replicò acida la ragazza
incrociando
le braccia e portandosele al petto.
“Dobbiamo discutere di qualcosa
che ti riguarda perciò
siediti” le ordinò l’uomo ignorando l’atteggiamento indisponente di sua
figlia
e avvicinandole una sedia dove Elizabeth si sedette senza protestare
oltre.
“Penso che ti renderai conto che
non puoi uscire di casa
senza qualcuno che ti controlli” esordì Derek. Elizabeth annuì, “Cosa
avete
intenzione di fare? Mi rinchiudete in casa?” domandò.
“No, ma sarai costantemente
sorvegliata fino a che non
avremmo catturato Davis” spiegò Derek con il consenso degli altri
agenti
presenti nella stanza.
“Non andrò a scuola? Perché è un
posto decisamente
pericoloso e poco controllabile” suggerì la ragazza con tono piuttosto
leggero.
“Certo che andrai a scuola,
Elizabeth” tagliò corto suo
padre suscitando il disappunto di lei che sbuffò.
“Ellie vorremo che tu capissi che
questo non è un gioco e
che tu sei seriamente in pericolo” riepilogò Derek guardando dritto
negli occhi
la figlia del suo collega per vedere se queste parole suscitavano in
lei una
qualche reazione.
“Lo so, non sono mica stupida”
borbottò lei sospirando
rumorosamente, dopodiché riprese il discorso: “Quindi qual è la
prossima
mossa?”
“Organizzeremo dei turni di
sorveglianza a scuola mentre
sarai lì, tu continuerai la tua solita routine. Ovviamente sarai sempre
controllata e per un po’ eviterai i posti affollati, tipo i centri
commerciali
e le discoteche” le spiegò Spencer.
“A me questa non pare la solita
routine…” replicò lei per
niente contenta delle condizioni appena sciorinate da suo padre.
“Elizabeth, è per il tuo bene”
intervenne Hotch rimasto
in silenzio fino a quel momento. “Sono sicuro che i tuoi amici non
avranno
nulla da ridire se per qualche sabato non uscite” continuò l’uomo con
tono
paterno.
Elizabeth annuì e sorrise per la
prima volta da quando
ero entrata nella stanza, “Penso che a Colin in effetti non dispiacerà,
è da un
po’ che insiste sul fatto che vuole trascorrere una serata tranquilla
giocando
a “Indovina chi?” ”si auto convinse, guardando gli altri in cerca di
approvazione che ottenne immediatamente.
“Quindi siamo d’accordo? Smetterai
di fare la wild girl
per un po’?” ironizzò Derek facendo un ampio sorriso.
“Si, ma solo per un po’” lo
rispose con lo stesso tono
allegro utilizzati dall’uomo.
La conversazione si spostò su
argomenti più piacevoli il
che consentì ad Elizabeth così come anche agli agenti di rilassarsi e
di
allentare la tensione anche solo per un attimo e senza pensare al
domani e a
ciò che gli aspettava, ma c’era qualcuno nell’ombra che non smetteva di
pensare
e aspettava il momento per agire e ormai il tempo stava per scadere.
Lui era pronto e questa volta non
avrebbe fallito.
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Capitolo 11 *** Cap. 9 ***
“E so
anche che
potrebbe essere che anch’io fallisca/Ma so che tu eri come me/Con
qualcuno
deluso da te” (Numb, Linkin Park)
Diverse settimane trascorsero
senza apparenti risvolti
nelle indagini, le ricerche compiute sia da Garcia quanto da Lucas non
sembravano condurre ad alcun risultato. Davis sembrava scomparso, o per
lo meno
nessuna traccia aveva lasciato di sé, tuttavia Spencer sapeva che la
sua
temporanea scomparsa non poteva che significare che il nostro uomo
stava
tramando qualcosa di sempre più pericoloso, a quel pensiero un brivido
gli
attraversò la schiena. Non c’era un minuto da perdere, doveva fare
tutto quello
che in suo possesso per porre finalmente fine a quella storia.
E con quest’intenzione raggiunse
Quantico un mercoledì di
mattina presto.
“Allora qualche novità?” domandò
l’uomo al loro analista
informatico intento a incrociare dati su dati.
“Buongiorno Spencer” lo salutò
Lucas. “Comunque ancora
nulla” rispose scuotendo la testa.
“Continua” gli disse Spencer e
dopo averlo opportunamente
salutato. L’analista informatico annuì e tornò al lavoro.
L’open space era completamente
vuota quella mattina per
una qualche ragione che Spencer non seppe spiegarsi e che non gli
interessava
particolarmente.
Si sedette alla sua scrivania
gettando un’occhiata al
piano di sopra dove notò Derek ed Emily discutere nell’ufficio di
quest’ultima,
incuriosito decise di raggiungerli.
“Spencer, proprio te stavo
cercando” gli comunicò Emily
non appena lo vide.
“Vi ho visto e ho pensato di
salire” rispose lui
infilandosi le mani in tasca, non si sentiva a suo agio in quella
situazione,
qualcosa dentro di sé gli diceva che quella conversazione non avrebbe
portato a
nulla di buono.
“Fatto bene, fatto bene …” mormorò
la mora poi si rivolse
a Derek invitandolo a lasciarli soli. L’uomo non se lo fece ripetere
due volte
e si allontanò rivolgendo a Spencer un sorriso di circostanza.
“Emily cosa c’è?” domandò l’uomo,
dal tono si poteva
percepire la sua stanchezza e soprattutto il desiderio di vedere posta
una fine
a quella situazione che non lo faceva più dormire la notte.
“Credo che tu sappia bene cosa sto
per dirti” affermò con
evidente sicurezza la mora. Reid annuì e dopo qualche secondo di
riflessione
parlò: “Lo so, devo sottoporre Elizabeth a qualche terapia o cose così”
“Spencer so che può essere
difficile per te accettare che
lei non sia instabile …” la mora s’interruppe per deglutire e riprese
il
discorso per essersi umettata le labbra. “Insomma è tua figlia, posso
capirlo.
E poi tu hai già vissuto un’esperienza simile con tua madre …”
“Tu non capisci, tu non hai figli”
l’addittò l’uomo con
tono rabbioso, odiava quando si rivolgeva a lui con finto tono
dispiaciuto, ma
soprattutto odiava quando gli altri fingevano di sapere cosa si dovesse
provare
quando si prende la difficile decisione di rinchiudere la propria madre
in una
clinica psichiatrica.
“E un’altra cosa, Emily, lascia
stare mia madre” concluse
il discorso e lasciò la mora in corridoio senza nemmeno salutarla.
Ad un’ora di distanza dagli uffici
dell’unità analisi comportale
di Quantico, Elizabeth Reid si alzava da letto dopo l’ennesima notte
insonne. Uscì dalla
sua stanza ed entrò
in bagno chiudendosi a chiave dentro.
Osservò la propria figura riflessa
nello specchio e
sussultò. “Ho un aspetto orrendo …” disse toccandosi il viso con le
punte delle
dita e sfiorando le profonde occhiaie nere che le si erano formate
sotto gli
occhi.
Le sembrava non riconoscersi più,
non era lei quella che
le stava davanti. Era sempre convinta che la vera lei fosse ancora
rinchiusa in
quello stanzino buio dove Davis l’aveva drogata per due interminabili
giorni in
attesa che qualcuno la venisse a salvare. Sentì gli occhi bruciare e
qualche secondo
dopo lacrime silenziose cominciarono a scendere lungo le guance pallide
di
nuovo.
Poggiò una mano sul lavandino e
aprì con l’altra il
rubinetto dell’acqua per lavarsi il viso. “Basta, basta piangere”
s’impose la
ragazza fregandosi con le mani insaponate il viso.
Ma ormai non reggeva più, non
aveva più voglia di fingere
che tutto fosse okay, che lei stesse bene. Lei
non stava bene ed era stanca di tutto. Di tutti.
Si guardò di nuovo allo specchio,
la sua espressione era
cambiata. Un lampo di luce attraversò i suoi occhi, doveva fare
qualcosa per
ovviare ai suoi pensieri che si susseguivano instancabili nella sua
mente e lei
sapeva cosa.
Fu così che quando erano ormai
tutti accesi i lampioni
nella strade di Washington Elizabeth a passo sostenuto si avviava verso
la
fermata dell’autobus eludendo la scorta a cui suo padre l’aveva
assegnata.
Non era stato difficile
ingannarli, come tutte le sere
era uscita a buttare la spazzatura, quella sera però non aveva
utilizzato il
solito cassonetto da cui era ben visibile qualsiasi sua mossa, infatti
riferì
ai due agenti che il cassonetto era troppo pieno e che avrebbe
utilizzato
quelli in fondo la strada, i due avevano annuito ed erano ritornati
alla loro
conversazione sulla partita di Super Bowl della domenica scorsa.
Elizabeth
approfittando della distrazione dei due si allontanò velocemente, girò
l’angolo
e corse fino a che non fu giunta in fondo la strada, a quel punto prese
la
scorciatoia attraverso il parco e arrivò alla fermata.
“Finalmente libera …” si disse, si
sedette sulla panchina
e rimase lì ad aspettare l’autobus che arrivò circa una decina di
minuti dopo.
Vi salì e si sedette in uno degli ultimi sedili dopodiché spense il
cellulare.
Non aveva voglia di sentire nessuno. Non quella sera.
“Ryan, ma Elizabeth è passata?”
domandò uno dei due
agenti allungando il collo verso i cassonetti per vedere se la ragazza
fosse
lì.
“Ehm … non lo so. Io credo di no
…” rispose l’altro con
tono preoccupato passandosi la mano destra sulla nuca.
A quel punto si diressero verso i
cassonetti dove
trovarono la busta che fino a poco fa Elizabeth stringeva in mano
posata per
terra. Non ci volle molto per capire cosa fosse successo; Elizabeth era
scappata e loro non se n’erano accorti.
“Reid… Reid ci ammazza!”urlò Ryan
entrato nel panico calciando
la busta che cadde rovesciando per terra tutto il suo contenuto.
L’altro agente rimase in silenzio
cercando di riflettere
su come si fosse svolta l’azione. Non l’avevano rapita, fatto su cui
non vi era
alcun dubbio, il che giocava a loro vantaggio. Si era allontana di sua
spontanea volontà; “Ma per andare dove?” fu
la domanda che si pose l’agente. Non riuscendo a giungere ad una
conclusione
plausibile, decise d’interrompere il piagnisteo a cui si era
abbandonato
l’altro.
“Su, dai!Ryan… Dobbiamo dirlo a
Reid” gli comunicò e si
mise subito in cammino verso l’abitazione della famiglia Reid seguito
dal suo
collega che camminava riluttante.
I due bussarono alla porta e
rimasero in attesa. “E’
aperto” si sentì provenire da una voce dentro casa. Era quella di Jules.
“Cara ci potresti chiamare un
attimo tuo padre?” le
chiese gentilmente il più calmo tra i due agenti.
“E’ successo qualcosa?” domandò
lei, il tono che aveva
usato l’uomo l’aveva allertata.
“Nulla… nulla. I soliti rapporti
di routine” mentì lui,
la ragazza annuì e andò a chiamare suo padre che si presentò in salotto
poco
minuti dopo.
“Hopps, Stewart che fate qui?”
s’informò subito Reid
stranito dalla loro presenza in casa sua.
“Agente Reid, devo dargli una
notizia per nulla
piacevole” esordì Hopps; a quelle parole l’uomo trasalì.
“Elizabeth è scappata …” mormorò
mortificato l’agente
mentre abbassava la testa non riuscendo a sostenere lo sguardo di
Spencer.
“Cosa?!” gridò Spencer sbattendo
il pugno contro il
tavolo del salotto. “Il vostro unico compito era quello di sorvegliarla
e ve la
siete fatta sfuggire” continuò diventando paonazzo in viso.
“Lei era andata a buttare la
spazzatura, ci aveva detto
che …” balbettò l’uomo cercando di dare una spiegazione che Spencer
interruppe
bruscamente.
“Non m’interessa quello che vi
aveva detto!Vi avevo
avvertito che ne sarebbe stata capace…” rispose mettendosi a sedere
sulla
poltrona.
“Noi non crediamo che ci sia Davis
dietro a questo” disse
l’altro agente più sicuro ora che Spencer si era leggermente calmato.
L’uomo sollevò la testa verso di
lui e lo fissò. “Certo
che non c’è Davis dietro a questo” asserì lui. Si alzò dalla poltrona e
provò a
chiamare sul cellulare di sua figlia. “Il
telefono da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo
di
richiamare più tardi” rispose una voce metallica dall’altro
capo del
telefono.
“C’è la segreteria” informò gli
altri due che aveva
aspettato in silenzio mentre Reid telefonava.
“Dove crede che possa essere
andata?” gli domandò
Stewart. “Non lo so. Non ne ho la più pallida idea” rispose l’uomo
spostandosi
verso la finestra. “Spero solo che stia bene” continuò.
Dopodiché congedò i due uomini
dicendo loro di rimanere
reperibili nel caso in cui Elizabeth si fosse fatta viva e si risedette
sulla
poltrona del salotto.
“Vedrai che tornerà questa notte.
Sarà sicuramente andata
a ballare” gli disse Jules che aveva assistito a tutta la conversazione
in
disparte. Suo padre si voltò verso di lei e sorrise. Tuttavia il suo
sorriso
era spento, come spento era stato il tono di voce di sua figlia minore.
L’autobus era ormai giunto a fine
corsa quando Elizabeth
scese, camminò spedita verso uno dei tanti locali notturni aperti
quella notte
e si soffermò sull’ingresso.
“Ragazzina ce li hai diciotto
anni?” domandò un uomo alto
e robusto di colore posizionato sull’entrata. Elizabeth annuì e
cominciò a
frugarsi nelle tasche alla ricerca della carta d’identità. L’uomo le
fece segno
con la testa che non era necessario e la fece entrare senza accertarsi
che
avesse detto la verità.
Entrata nel locale, fu subito
stordita dal fumo e dalle
luci della piccola sala che componeva il locale in fondo alla quale si
trovava
il bar. Si diresse immediatamente verso quest’ultimo facendosi largo
attraverso
la folla, più volte fu fermata da ragazzi che l’invitavano a ballare e
più
volte fu costretta a dar loro degli spintoni per liberarsi dalla loro
presa,
infine raggiunse il bar e si sedette su uno dei pochi sgabelli liberi
in attesa
di venir servita.
“Se non li chiami, difficilmente
ti serviranno” le disse
uno che si girò verso lei lanciando un’occhiata maliziosa verso la sua
figura.
“Ma visto che sei carina, vediamo
se posso aiutarti io”
continuò, poi chiamò il barista che a quanto lasciò intendere era un
suo amico
e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il barista si voltò verso
Elizabeth e si
lasciò sfuggire una risatina per poi rimettersi al lavoro.
Dopo pochi secondi le venne
offerto un bicchiere colmo
fino all’orlo con un liquido bluastro che Elizabeth bevve senza nemmeno
chiedere cosa fosse dopodiché la sua nuova conoscenza l’invitò a
ballare e lei
accettò. Erano quasi arrivati al centro della pista quando la testa
cominciò a
girarle, perse più volte l’equilibro andando a sbattere contro le altre
persone
che le stavano attorno mentre il suo compagno rideva.
Poi la prese e la spinse contro la
sua volontà verso il
privet sotto gli occhi degli altri che continuarono a ballare come se
nulla
fosse. Più di una volta Elizabeth tentò di ribellarsi senza tuttavia
riuscire a
scrollarsi di dosso le sue mani che le tenevano stretti i fianchi; “Se
collabori, finirà presto” le disse sporgendosi verso di lei che annuì
chiudendo
gli occhi.
Le sollevò lentamente la maglietta
toccandole il seno,
provò a baciarle la bocca ma Elizabeth spostava il viso di lato per
impedirglielo pregandolo di lasciarla andare.
“Ti avevo detto di collaborare e
non lo stai facendo” la
minacciò lui prendendole con una mano il mento e muovendolo verso di
lui, la
bloccò con l’altra e provò ancora una volta a baciarla contro la sua
volontà.
In quel momento in cui Elizabeth
si stava per arrendere,
qualcuno arrivò alle spalle del suo molestatore e lo spinse facendolo
cadere
per terra.
“Se la tocchi ancora, ti farai
molto male. E’ una
promessa” gli intimò Henry abbassandosi verso di lui per guardarlo
meglio in
viso, il ragazzo annuì, si alzò barcollando e si allontanò velocemente
senza
voltarsi indietro.
Henry aiutò Ellie che tremava
ancora dalla paura ad
alzarsi dicendole che l’avrebbe accompagnata casa, lei acconsentì
facendo un
cenno con il capo poi si aggrappò ad Henry che la portò fuori dopo aver
avvisato
i suoi amici che se ne andava.
Durante il tragitto in macchina
non si scambiarono una
parola anche se diverse volte Elizabeth tentò di spiegargli come si
fosse
cacciata in quel guaio, infine stremata e ancora intontita si
addormentò poco
prima di arrivare a casa.
Henry scese dalla macchina e bussò
alla porta, fu Spencer
ad aprirgli. “Ho trovato Elizabeth e l’ho portata a casa” spiegò
semplicemente
al suo padrino senza raccontargli cosa fosse successo.
Poi insieme fecero entrare la
ragazza in casa e
l’adagiarono sul divano dove continuò a dormire, nel frattempo Madison
era
scesa nel salotto, salutò il ragazzo e sistemò una coperta sulle gambe
di
Elizabeth.
A quel punto Henry si congedò
dicendo che sarebbe passato
l’indomani mattina, Spencer lo ringraziò mentre l’accompagnava
all’ingresso e
chiuse la porta a chiave una volta che il ragazzo se ne fu andato.
Madison era seduta sulla poltrona
con lo sguardo fisso su
sua figlia quando Spencer si avvicinò a lei posandole una mano sulla
spalla,
sua moglie alzò il viso verso di lui rivolgendogli un’occhiata
inespressiva per
qualche secondo per poi tornare a guardare Ellie. “Sai a volte mi
chiedo dove
sia …” gli disse a bassa voce come se temesse di svegliarla.
“Anche io” confessò Spencer mentre
Madison posava la sua
mano su quella del marito.
L’indomani mattina un senso di
nausea accompagnato da una
leggera vertigine svegliò Elizabeth che si trovò nel soggiorno di casa
senza
sapere come vi fosse giunta, andò in cucina a prendere un bicchiere e
mentre
tornava in soggiorno s’imbatté in suo padre. Si guardarono per qualche
secondo
e infine Spencer parlò: “Si può sapere che hai in testa?” la rimproverò
l’uomo
mentre la ragazza abbassava la testa.
“Non lo capisci che non ti tengo
sotto protezione per mio
sfizio personale, ma perché sono davvero preoccupato per te?” continuò
con tono
furioso, era davvero arrabbiato per l’incoscienza mostrata da sua
figlia che
non spiaccicava parola.
“E poi in quelle condizioni ti
presenti a casa? Dio solo
sa come Henry ti abbia trovato. Per te, Elizabeth, è uno scherzo
questo? Non lo
so, dimmelo tu”
“Che vuoi che ti dica? Forse si”
gli rispose con tono
arrogante. “E poi tu sei l’ultima persona che può giudicarmi” continuò
la
ragazza.
“Elizabeth, sono stanco di te e
delle tue cazzate. Cresci
un po’” continuò il rimprovero Spencer sperando che le sue parole
ottenessero
un qualche effetto sulla ragazza che invece s’infuriò ancora di più.
“Se sei così stanco di me e delle
mie cazzate, perché non
mi hai fatta morire? A quest’ora ti saresti liberato di me” urlò
avviandosi
verso la porta d’ingresso.
“Elizabeth torna qui, dove credi
di andare?” la richiamò
suo padre prendendola per il braccio.
“Lontano da te perché mi sono
stancata dei tuoi rimproveri
del tutto inutili” affermò Elizabeth con tono rabbioso.
“La verità è che tu sei
esattamente come me. Anche tu hai
deluso qualcuno e quel qualcuno sono io” concluse, poi si liberò dalla
presa
del padre approfittando del momento di debolezza provocato da quelle
parole
fredde che lo ferirono profondamente ed uscì di casa dopo aver preso le
chiavi
della sua Chevrolet posate sul tavolino d’ingresso.
Guidò a lungo senza una precisa
meta fino a che le
lacrime che le sgorgavano incessantemente dagli occhi la costrinsero a
fermarsi. Rimase per diversi minuti con la testa appoggiata contro il
volante
della macchina mentre singhiozzava ripensando a ciò che aveva detto a
suo
padre. Sapeva di aver sbagliato, di aver ferito suo padre con quelle
parole
insensate, ma non era riuscita a controllarsi ed era tremendamente
arrivata con
se stessa per averlo fatto.
Quando fu in grado di assumere
nuovamente il controllo di
sé, ripartì diretta verso casa di Henry, parcheggiò davanti al vialetto
e dopo
aver fatto un respiro profondo per farsi coraggio scese.
Ad aprirle la porta fu sua zia JJ
che la salutò
calorosamente del tutto ignara di quello che era successo la sera
prima,
Elizabeth le domandò se Henry fosse in casa e la donna le rispose che
era in
giardino.
La ragazza chiese il permesso di
raggiungerlo e poi si
diresse verso il giardino dove trovò Henry intento a fare degli
esercizi di
algebra lineare con le cuffie alle orecchie. “Tu non smetti mai di
studiare,
eh?” esordì lei timidamente mentre si sedeva nella sedia libera accanto
al
ragazzo che sussultò al suono della sua voce.
“Che ci fai qui? Stai bene?”
domandò alla ragazza
togliendo le cuffie. “Si sto bene” confermò lei facendo un sorriso che
Henry
non ricambiò.
“Ellie non c’è bisogno che ti dica
che hai fatto una grande
cazzata, vero?” le disse rimproverandola anche lui. “Insomma tutti ti
diciamo
di stare lontana dai guai e tu li vai a cercare? Ti poteva capitare
qualcosa di
brutto se io …”
“Smettila, cazzo! Smettetela
tutti” urlò lei alzandosi in
piedi. “Sono stanca di sentirmi dire che sbaglio, che sono una cretina,
che non
ne combino una giusta. Ne ho abbastanza”
“Allora smettila di fare così!”
gridò anche lui per
niente intimorito dal tono rabbioso di Elizabeth.
“Ho sbagliato a venire qui, tu sei
come tutti gli altri
non capisci” l’accusò lei uscendo dal giardino sotto lo sguardo
incredulo di JJ
accorsa lì a seguito alle urla.
La ragazza salutò la zia e se ne
andò ignorando JJ che
tentava di farsi spiegare cosa fosse successo.
Non aveva alcuna voglia di tornare
a casa in quel momento
perciò andò nella casa dell’unica persona che sapeva non l’avrebbe mai
giudicata o rimproverata nonostante tutto, ovvero sua zia Penelope.
La donna non si sorprese nel
vederla ferma lì davanti
all’ingresso, la fece entrare e si offrì a prepararle una tazza di tè.
“Ellie che è successo?” le domandò
dopo averle dato in
mano una tazza fumante.
“Nulla …” mormorò lei. “Mi
dispiace se sono piombata qui
senza preavviso ma non sapevo dove andare e non volevo tornare a
casa”le spiegò
mentre prendeva un sorso di tè.
“Casa nostra sarà aperta per te”
disse Kevin entrato in
cucina, Penelope annuì per confermare quanto detto dal marito e
sorrise; “Dov’è
Alex?” domandò poi Elizabeth allo scopo d’introdurre un nuovo discorso.
“E’ a casa di un amichetto”
rispose la donna versandosi
anche lei una tazza di tè.
“A proposito, il gioco è
fortissimo. Ci ho giocato
l’altra volta con Tom, ovviamente ho perso. Lui sa già tutti i
trucchetti”
“Colpa mia” confessò Kevin alzando
le mani verso l’alto
come per scusarsi mentre rideva.
“Stiamo lavorando alla
continuazione, Tank girl tornerà a
colpire con le sue caccole infuocate e ovviamente i rutti” le rivelò
Penelope
con tono divertito.
Elizabeth sorrise rimanendo in
silenzio. “Sai tesoro
dovremmo dire a tuo padre che sei qui, sarà sicuramente preoccupato”
suggerì la
donna tornando seria.
“Non c’è bisogno, io sto andando
via. Se dovesse chiamare
digli che sono da Dumbo” disse Elizabeth, Penelope le rivolse uno
sguardo
incredulo e l’accompagnò alla porta d’ingresso. A quel punto Elizabeth
la
ringraziò abbracciandola e se ne andò. Penelope rientrò in casa e
chiamò
Spencer riferendo dove Elizabeth fosse diretta nonostante non avesse la
minima
idea di quello che la ragazza intendesse.
Appena ricevette la chiamata da
Penelope, Spencer uscì di
casa; sapeva esattamente dove fosse andata sua figlia e non voleva
perdere un
minuto di più.
“Eccoti …” le disse non appena fu
arrivato, la ragazza
seduta su una panchina piuttosto piccola si spostò leggermente per fare
spazio
a suo padre.
“Non sapevo che avessero chiuso il
parco. Quando è
successo?” gli domandò con tono dispiaciuto.
“Cinque anni fa, il 21 ottobre se
non mi sbaglio” rispose
mentre si sedeva anche lui. “Come mai non l’ho saputo?”
“Non mi hai più chiesto di
portarti al parco” disse lui.
Elizabeth guardò verso lo scivolo ormai rovinato e vecchio da cui si
era
lanciata tante volte da bambina e parlò: “Quando abbiamo smesso di
venire al
parco?”
“Non lo so, ma non ha importanza.
L’importante è che ci
siamo tornati”. Ellie si girò verso di lui e l’abbracciò sussurrando un
“mi dispiace”, suo padre le diede un
bacio sulla fronte e la strinse.
“Su, dai! Andiamo a casa” disse
infine l’uomo liberandosi
dall’abbraccio di sua figlia e insieme tornarono a casa.
Il suono delle
nocche contro
il legno di mogano della porta che separava il suo studio dal corridoio
distolse Spencer dall’analisi dei fascicoli che stava in quel momento
rivedendo. Invitò la persona dietro la porta ad entrare e con piacere
scoprì
che era sua figlia maggiore, erano giorni che non usciva dalla sua
stanza se
non per andare a scuola e mangiare. Sapeva che non fosse arrabbiata,
perciò le
aveva lasciato i suoi spazi, capiva e accettava la sua esigenza di
riflettere
su ciò che aveva vissuto in quell’ultimo periodo.
“Ehm… io mi chiedevo se fosse
possibile uscire a fare una
passeggiata … sai io …” esordì la ragazza con lo sguardo basso mentre
si
torturava le punte dei suoi capelli castano dorato.
“Sei annoiata, vero?” le domandò
sorridendo e aggiunse
con tono divertito: “E direi che lo sei davvero molto se mi stai
chiedendo di
fare una passeggiata con te”
La ragazza annuì lasciandosi
sfuggire una leggera
risatina e gli rispose utilizzando il suo stesso tono divertito: “Beh
tu
comunque non mi faresti uscire con i miei amici quindi diciamo pure che
non ho
scelta”
“Allora andiamo?” insistette,
desiderava davvero uscire
quel pomeriggio a fare una passeggiata al parco.
“Certo, certo” si affrettò a
rimettere i fogli sparsi per
la scrivania nelle cartelle ed uscirono dallo stanzino.
“Devo prendere le chiavi della
macchina?” domandò a sua
figlia dato che non aveva ben chiaro dove volesse andare.
“Ehm… direi si . Volevo andare al
Park Hyatt, c’è una
specie di fiera oggi. “Aspettando
l’estate” si chiama” gli spiegò con tono entusiasta, d’altra
parte fin da
bambina aveva amato le fiere che organizzavano spesso e volentieri a
Washington
e di conseguenza obbligato Spencer ad accompagnarla con la complicità
di sua
madre che adorava le fiere quanto lei.
“Dovevo intuire che si trattava di
una fiera” ripose
scuotendo la testa. “Meno male che ho prelevato ieri” continuò e
scoppiò a
ridere seguito da sua figlia.
Prima di uscire chiesero a Jules e
Thomas se volessero
andare con loro,ma i due risposero che preferivano restare a casa. Poi
Spencer
raccomandò sua suocera di avvisarlo immediatamente caso mai chiamasse
qualcuno,
infine salirono in macchina e partirono alla volta di Park Hyatt.
“E’ un peccato che mamma sia in
ospedale. A quanto pare
ha deciso di rubarti il titolo di stakanovista dell’anno. Immagino
quanto sarai
dispiaciuto ” ironizzò lei posando la sua mano su quella di suo padre
che si
girò verso di lei scuotendo la testa. “Sei una scema, lo sai vero?” le
disse
con lo stesso tono ironico utilizzato da Ellie.
“Si, credo di saperlo. Ma d’altra
parte ho preso da te
quindi non poteva essere diversamente ” lo stuzzicò lei, Spencer
preferì non
rispondere e l’invitò ad accendere la radio. Ellie si sintonizzò sulla
prima
stazione radio che casualmente stava trasmettendo la sua canzone
preferita e
incominciò a cantare a squarciagola facendo finta di avere un microfono
in mano
suscitando le risate di suo padre che assisteva allo spettacolo.
Arrivarono nella zona Park Hyatt
dopo circa un quarto
d’ora, parcheggiarono ad un paio d’isolati da quest’ultimo lungo per
via della
mancanza di parcheggi perciò
camminarono
a piedi. Dopo un po’ Elizabeth notò l’ennesimo SUV nero appostato
dietro l’angolo
e roteò gli occhi innervosita.
“Perché li hai chiamati?” gli
domandò sbuffando. “Credevo
che oggi mi sarei risparmiata la loro compagnia!”
“Ellie, non fare così. Lo sai,
potrebbe essere pericoloso
perciò preferisco non rischiare” spiegò semplicemente suo padre.
Elizabeth annuì rassegnata. “Dovrò
farci l’abitudine
allora” disse a voce bassa, suo padre le mise il braccio intorno alle
spalle
per incoraggiarla e le propose di prendere i popcorn, proposta che la
ragazza
accettò volentieri.
Trascorsero insieme un piacevole
pomeriggio tra risate e
scherzi, infine quando incominciava a calare il sole decisero di
tornare a
casa.
Erano
pronti a
salire in macchina quando Spencer si accorse che qualcuno li stava
osservando,
immediatamente ordinò a sua figlia di farsi indietro, la ragazza obbedì
senza
fare domande. Poi con un gesto appena percepibile chiamò i rinforzi e
si portò
una mano alla custodia della pistola.
In quel momento l’uomo uscì allo
scoperto zoppicando
senza attirare apparentemente l’attenzione di nessuno, ma Spencer così
come
anche Elizabeth non tardò a riconoscerlo: era Davis.
“Vedo dr Reid che ci rincontriamo
di nuovo finalmente!”
esordì l’uomo sul cui volto era comparso uno strano ghigno che spaventò
ancora
di più la ragazza.
“Cominciavo a preoccuparmi,
pensavo che non avrei mai più
avuto il piacere di rivedere sua figlia” continuò Davis accompagnando
le sue
parole con un’occhiata maliziosa che fece irrigidire Spencer dalla
rabbia.
“Lascia stare Elizabeth,
prenditela con me” lo sfidò
Spencer facendo un passo in avanti. “Sono qui, che aspetti?” aggiunse
compiendo
ancora una volta un passo in avanti, Elizabeth allungò la mano per
sfiorargli
il braccio in modo da impedirgli di avvicinarsi ancora di più ma
Spencer ben
deciso a porre fine a quella storia l’ignorò e estrasse la pistola
puntandola
contro Davis che rise.
“Tutto qui, dr Reid? Una sola
pistola?” domandò
divertito. “No, due” disse una voce alle sue spalle che gli puntò un
pistola
contro la testa. “Io al posto tuo non farei scherzi e poserei la
pistola” tuonò
la voce di Derek raggiunto nel frattempo da un’intera squadra di SWAT
che
circondarono Davis costretto a posare la pistola e ad alzare le mani in
alto.
Spencer raggiunse Ellie che si era
allontanata non appena
aveva visto arrivare Derek scortata da uno dei tanti SWAT giunti sul
posto. “E’
tutto finito adesso” le disse abbracciandola, Ellie si aggrappò a lui
nascondendo il viso contro il petto di suo padre che gli accarezzava i
capelli.
“Voglio andare a casa” gli disse distaccandosi, Spencer annuì e chiamò
Anne
arrivata assieme a JJ in quel momento chiedendole se per favore poteva
accompagnarla a casa, la donna si rese subito disponibile ma Elizabeth
disse di
preferire andare da sola. Spencer si accertò che stesse bene e
acconsentì alla
richiesta di Ellie. L’accompagnò alla macchina raccomandandole di stare
attenta, poi una volta che fu salita in macchina si allontanò
dirigendosi verso
Derek che stava mettendo ai polsi di Davis le manette.
“Agente
Reid dovrebbe
saperlo ormai che le persone come me non si catturano ma si fanno
catturare” borbottò
Davis mentre Derek stringeva con un’insolita forza, che provocò
all’assassino
più di una smorfia di dolore, i polsi con le manette.
Reid
si voltò verso l’uomo
in cerca di spiegazioni e aggrottò la fronte; “Che vuoi dire?” domandò.
Questa
domanda suscitò una risata maliziosa nell’uomo che mormorò a fior di
labbra un
“vedrai”. E fu allora che un rumore sordo ferì le orecchie dei presenti
e
un’ondata di calore li colpì, Spencer si rigirò in seguito a quel suono
atroce
e ciò che vide lo devastò colpendolo come mille proiettili al secondo.
La
macchina, dove poco
prima che era salita sua figlia, era diventata un cumulo di rottami
ardenti. Un
fumo nero intenso si sollevò in aria accompagnato dal rumore delle
sirene delle
macchine e dei negozi vicini.
“Elizabeth!”
urlò l’uomo
scoppiato in lacrime che incominciò a correre verso quel che restava
della sua
macchina e combattendo contro la nebbia di fumo che gli impediva di
proseguire
poiché gli ostacolava la vista; il fumo gli entrò nei polmoni
rapidamente
provocandogli una tosse convulsa, ma lui non si arrestò e quando giunse
alla
macchina con una forza che nessuno avrebbe detto che aveva fece uscire
il corpo
di sua figlia dall’automobile.
Si
allontanò il più
possibile con in braccio Elizabeth che giaceva immobile tra sue braccia
e si
sedette sulla strada stringendola sempre a sé.
“Ellie,
amore. Guardami” le
disse con la voce rotta dal pianto prendendo il viso annerito dal fumo
della
ragazza con la mano e girandolo verso di sé. “Andrà tutto bene, andrà
tutto
bene …” sussurrò tra i singhiozzi.
Elizabeth
alzò debolmente
le palpebre e con gli occhi socchiusi mosse le labbra da cui non fu
emesso
alcun suono. “Sssh! Risparmia le forze” la cullò suo padre allentando
la presa
per timore di farle male. “Mi dispiace davvero …” mormorò lei con la
voce che
sfumò in un rantolo. Ormai respirava affannosamente e il suo corpo
s’immobilizzava sempre di più, come se la vitalità che un tempo lo
contraddistingueva stesse a poco a poco scomparendo.
“Ti
dispiace? Che dici
amore?”; le sue parole tuttavia non furono più ascoltate da Ellie che
smise di
muoversi abbandonando la testa all’indietro. “Elizabeth … Elizabeth” la
chiamò
più volte l’uomo scuotendola leggermente come per svegliarla da un
sonno
profondo. “No … no ...” urlò con il tono sempre più concitato, gli
sembrava di
non riuscire più a respirare. Aveva il viso rigato dalle lacrime che
sgorgavano
calde dai suoi occhi e bagnavano le guance ormai pallide di Ellie.
Tutto
intorno a lui pareva
immobile stranamente calmo come se non esistesse null’altro che lui e
lei. Ma
da quel caos calmo si levò una risata che s’insinuò nelle orecchie
dell’agente
Reid. Era la risata di Davis.
Spencer
si alzò posando
delicatamente il corpo di sua figlia e si diresse verso l’uomo che gli
aveva
rubato ciò che aveva di più prezioso nella vita. “Bastardo” gridò
guardando
Davis che aveva dipinta sul volto un’espressione compiaciuta. Estrasse
la
pistola dalla custodia e gliela puntò contro, fu allora che due mani le
bloccarono le braccia facendo si che il colpo venisse sparato in aria.
“Spencer
… Spencer no” lo
fermò Derek con gli occhi lucidi. Reid lasciò cadere la pistola che fu
prontamente spostata con un calcio dall’uomo di colore e s’abbandonò a
un
pianto convulso tra le braccia del’amico contro il petto del quale
sbatteva i
pugni.
“Mi
dispiace.. mi dispiace”
sussurrò più volte Derek abbandonandosi anche lui ad un pianto
silenzioso. Con un
cenno della testa diede ordine di far allontanare Davis portato
immediatamente
via da una volante della polizia. Anne rimasta ferma per tutto il tempo
reagì
su consiglio di JJ che tremava come una foglia.
La
bionda si avvicinò a
Spencer e provò a parlare ma finì per scuotere la testa senza riuscire
a dire
neanche solo una parola. Derek si staccò da Spencer e provò mentalmente
a
pensare a quello che avrebbero dovuto fare adesso. Il suo pensiero andò
ad una
sola persona: Madison. Si passò le mani per la testa pelata e provò a
calmarsi
respirando profondamente ma a nulla servì. Poi chiamò JJ che si diresse
verso
di lui con un gesto sistematico mentre continuava a guardare con la
coda
dell’occhio Spencer che era tornato da Elizabeth dondolandosi per terra
con lei
fra le braccia.
“Dobbiamo…
dobbiamo andare
da Madison” balbettò l’uomo che continuava a scuotere la testa.
“Io…
io non posso” rispose
JJ con la voce rotta dal pianto. La donna scosse la testa per
rafforzare la sua
affermazione mentre Derek la prendeva per le spalle continuandole a
ripetere
che era la cosa giusta da fare.
“Se
succedesse a te, non
vorresti a dirtelo fossero delle facce amiche?” le domandò l’uomo di
colore
cercando negli occhi arrossati dal pianto della vecchia amica una
risposta
affermativa. La donna annuì tra le lacrime e sussurrò un “si” appena
appena
udibile.
Entrambi
si fecero forza e
salirono in macchina dopo aver detto all’agente Walker di portare
Spencer a
Quantico che annuì
con poco convinzione
deglutendo vistosamente. Mentre partivano giunse loro il suono della
sirena
dell’ambulanza arrivata troppo tardi.
Troppo
tardi ormai.
La
berlina nera dei due
agenti del F.B.I. si fermò davanti all’abitazione del loro collega,
Derek
spense il motore e si slacciò la cintura imitato da JJ, ma nessuno dei
due
scese. “Coraggio, JJ. Dobbiamo dirglielo” disse più a se stesso che
alla
bionda.
Rimasero
fermi per qualche
altro istante ed infine aprirono le portiere dell’auto e scesero
diretti verso
la porta di casa di Reid che in quel momento si aprì lasciando uscire
Madison
che si diresse verso di loro dal momento che li aveva visti dalla
finestra.
“Ragazzi
che ci fate qui?”
domandò loro con un sorriso che svanì immediatamente quando notò la
loro
espressione rammaricata e gli occhi arrossati dal pianto.
“Che
cosa è successo?”
domandò di conseguenza agitandosi di conseguenza anche se non capiva
bene
perché, una strana sensazione s’impadronì di lei come se qualcosa le si
fosse
spezzato dentro.
I
due rimasero in silenzio
mentre JJ abbassò lo sguardo ricominciando a piangere.
“Dov’è
Spencer?” chiese con
un tono di voce sempre più alterato, Derek scosse la testa senza
riuscire
ancora a parlare. “Dov’è Elizabeth?” domandò ancora una volta Madison
cercando
una risposta nel volto dell’amico che al suono di quel nome mormorò un
“mi
dispiace” accompagnato da una lacrima che scese lungo il viso.
Fu
allora che Madison
realizzò cosa era successo e le parse di avere un mancamento, deglutì
profondamente e guardò Derek ormai scoppiato in lacrime che continuava
a dire
“mi dispiace” nascondendo il viso fra le mani.
La
donna si portò una mano
al basso ventre e cadde per terra in silenzio. Si sentiva vuota e
confusa, si
passò le mani per i capelli e il viso e incominciò ad urlare con la
voce rotta
dal pianto davanti ai colleghi di suo marito incapaci di reagire. Sua
madre
appena la sentì gridare uscì di casa seguita da Jules che venne
bloccata da sua
nonna che le ordinò di tornare in casa e andare da suo fratello in
piedi sulle
scale con espressione incerta. Jules annuì e tornò indietro senza
sapere bene
il perché richiudendosi la porta alle spalle.
“Madison…
tesoro” disse sua
madre posando una mano sulle spalle di sua figlia che si girò verso di
lei
urlandole di lasciarla stare. Natalie rimase pietrificata e guardò i
suoi
colleghi di suo genero e scoppiò anche lei in lacrime.
In quel momento anche altri
vicini uscirono di
casa per capire cosa fosse successo dal momento che avevano sentito
Madison
urlare più di volte. Non ebbero bisogno di spiegazioni per comprendere
quanto
fosse accaduto, alcuni di loro rientrarono in casa scuotendo la testa
mentre
altri, i più coraggiosi, si avvicinarono alla casa della famiglia Reid
per
offrire il loro aiuto a Natalie che tremava e piangeva come una
bambina.
Madison
raccolse tutte le
forze che aveva e si alzò in piedi aiutata da una vicina di casa;
“Voglio
vederla…” comunicò a bassa voce ai due amici. Derek annuì, non poteva
impedirglielo d’altra parte.
Fece
cenno a JJ che annuì
anche lei guardando Madison per la prima volta da quando era arrivata.
I tre
salirono in macchina e rimasero in silenzio per il tutto tragitto.
Tutto ciò
che si sentiva era il suono del pianto di Madison che guardava fuori
dal
finestrino con un’espressione vuota.
Nel
frattempo Reid era
stato portato nei piani bassi della sede del F.B.I. dove si trovavano
gli
obitori, il corpo ormai freddo di sua figlia era stato posato su una
barella di
metallo in una delle tante sale illuminata da una luce diafana che si
diffondeva
per la stanza.
Appena
entrato si gettò sul
corpo di Ellie continuando a ripetere di perdonarlo. Non ricordava più
come si
fossero svolti gli eventi, tutto gli sembrava confuso ed irreale. Tutto
ciò che
risuonava nella sua mente erano le ultime parole di Elizabeth che lo
tormentavano.
Il
pianto sommesso
dall’uomo fu interrotto dal rumore dei passi di sua moglie appena
entrata nella
stanza. Spencer si girò verso di lei e incontrò la sua espressione
addolorata e
si diresse verso Madison, la prese per mano e la condusse verso
Elizabeth caduta
in un sonno profondo da cui più non si sarebbe svegliata.
La
donna accarezzò i
capelli biondo dorati e il viso della figlia, diede un bacio sulla sua
fronte e
sussurrando al suo orecchio parole che Spencer non riuscì a capire e
che
nemmeno Elizabeth avrebbe mai più sentito. Poi si allontanò poggiandosi
sulla
parete e scivolando verso il basso fino a toccare terra.
Anche Spencer che aveva
assistito alla scena
si sedette anche lui per terra accanto a sua moglie che prese per mano
mentre
ascoltava i suoi singhiozzi che tentava inutilmente di soffocare.
“Ha
detto qualcosa?” gli
domandò con la voce roca per via del pianto. “Si.. che ci voleva bene”
mentì
lui, aveva deciso di tenersi per lui le ultime parole di Elizabeth per
aumentare ancora di più il dolore incommensurabile della sua famiglia.
Madison
si voltò verso di lui, gli gettò le braccia al collo e ricominciò a
piangere.
Rimasero
in quella
posizione per diversi minuti o forse per diverse ore, ma che se fossero
minuti
o ore non aveva importanza. Al dire il vero nulla aveva più importanza
ormai.
Quella
notte Madison e
Spencer non si ritirano a casa, dovevano organizzare il funerale della
loro
figlia maggiore che si sarebbe tenuto il giorno dopo contrariamente
alla prassi
grazie all’aiuto di Derek che aveva chiesto agli uffici di acconsentire
a
questa richiesta. Tuttavia nessuno in casa Reid riuscì comunque a
dormire.
Jules e Thomas si chiusero nella stanza degli ospiti e si coricarono
nello
stesso letto dove per tanti anni loro assieme alla sorella avevano
dormito
nelle notti d’estate.
Mentre
i loro nonni assieme
a Brian, il fratello di Madison accorso da Chicago dove viveva assieme
alla sua
famiglia, al piano di sotto tentavano di sistemare la casa che avrebbe
accolto
amici e familiari dopo la cerimonia. Anche Penelope era con loro.
Verso
le quattro del
mattino arrivarono a casa Madison e Spencer, dovevano scegliere i
vestiti con
cui sarebbe stata seppellita Elizabeth. Ad aiutare Madison fu Penelope
che la
condusse in camera di Ellie per mano facendole costantemente coraggio
mentre
Spencer si rinchiuse nel suo studio. Poco prima di arrivare a casa sua
moglie
gli aveva chiesto di scrivere un discorso.
“Non
posso…” aveva
sussurrato tutt’un fiato. “Spencer non vorrei
che lo facesse nessun’altro a parte te” lo aveva pregato
lei
stringendogli la mano, a quel punto l’uomo fece segno di sì con la
testa e
promise che lo avrebbe fatto.
E
così mentre cominciava ad
albeggiare, l’ormai stanco agente del F.B.I. scrisse un breve discorso
su un
foglio strappato da uno dei quaderni di Ellie, lo mise in tasca e scese
di
sotto mentre continuava a ripensare alle parole con cui avrebbe
commemorato sua
figlia.
Entrato
in salotto, vide
Jules e Thomas seduti sul divano, avevano gli occhi arrossati dal
pianto e lo
sguardo spento, nessuno di loro aveva dormito quella notte; quella
visione li
devastò il cuore, non avrebbe mai voluto che nessuno delle persone a
lui care
vivesse una simile tragedia, ma soprattutto mai avrebbe pensato che
sarebbe
potuto accadere alla sua famiglia.
L’uomo
si sedette vicino ai
suoi figli per cercare di far loro coraggio, “Ragazzi…” disse
guardandoli ma
non continuò la frase, non aveva alcun senso farlo. Nulla di quello che
avrebbe
potuto dire o fare li avrebbe mai confortati, non esistevano parole che
potessero alleviare il loro dolore e lo sapeva.
Arrivato
il momento di
andare, Madison li chiamò assieme a sua suocera Natalie.
“Spencer,
dai. Dobbiamo
andare” gli disse sua moglie dandogli la mano per aiutarlo ad alzarsi,
l’uomo
gliela strinse e si mise in piede. “Maddie…” sussurrò, ma lei distolse
lo
sguardo fingendo di non aver ascoltato; quel gesto gli fece ancora più
male, aveva
bisogno di lei in quel momento più che mai, ma Madison non poteva
essergli
vicino. Aveva bisogno di rielaborare l’accaduto, desiderava solo
restare da
sola con il proprio dolore per poter realizzare quanto era avvenuto
anche se
quell’atteggiamento li avrebbe distrutti e lei n’era cosciente.
Fu
un breve e soprattutto
silenzioso viaggio quello che portò la famiglia Reid dalla loro casa al
cimitero, mentre si allontanavano ebbero la sensazione che quella casa
dove
avevano fino a quel momento vissuto
non
appartenesse più a loro dal momento che era fredda e vuota, come se la
vitalità
che riusciva prima a trasmettere fosse scomparsa assieme ad Ellie. Si
sentivano
traditi, soprattutto Spencer. Ciò che era successo aveva svegliato in
lui
vecchi impulsi che credeva di aver represso, o meglio che la vita
felice e
appagante che aveva condotto fino a quel momento aveva soffocato, ma
ora erano
riaffiorati e forse non avrebbe potuto ignorarli facilmente.
I
funerali ai quali
parteciparono soltanto i famigliari e amici stretti, secondo quanto
desiderato
sia da Madison che da Spencer, si svolsero nel pomeriggio; la cerimonia
come
previsto fu molto breve.
I
resti di Elizabeth furono
collocati in un feretro, rimasto chiuso durante tutta la funzione, dal
colore
blu notte come richiesto da entrambi, essendo il colore preferito della
loro
bambina. Poco prima di dare ad Ellie l’estremo saluto, padre Richardson
fece un
cenno a Spencer invitandolo a dire qualche parola.
L’uomo
si recò al centro
dove padre Richardson l’aspettava. Il prete diede a Spencer una pacca
sulla
spalla per fargli coraggio e si allontanò.
Quando
fu pronto Spencer
prese il foglio che aveva lasciato in tasca e cominciò a leggerlo:
“Ellie
era…”. Improvvisamente si bloccò, riguardò il foglio su cui aveva
scritto
quelle parole che mai avrebbe voluto pronunciare, si schiarì la voce e
riprese:
“Non
voglio parlarvi di chi
fosse Elizabeth, oggi voglio presentarvi una persona che Ellie non ha
mai
conosciuto: la splendida donna che sarebbe diventata, una madre e una
amica
eccezionale.
Ellie,
voglio dirti ciò che
non ti ho mai detto perché ero convinto che avremmo avuto tempo, ma
purtroppo
così non è stato; il destino ci ha diviso troppo presto, amore,
portandoti via
dalla tua famiglia… portandoti via da me. Ricordo ancora il giorno in
cui sei
nata, la felicità che avevo provato quando ti ho presa per la prima
volta fra
le braccia. Eri il più bel regalo che avessi mai ricevuto, hai riempito
la mia
vita di calore e luce.
Amore,
avrei davvero voluto
che ti vedessi attraverso i miei occhi affinché capissi quanto io fossi
orgoglioso di te, della persona che eri diventata, perché non avessi
più dubbi
su quanto io ti amassi, e perché sapessi che tutti i nostri litigi a me
mai
sono importati.
Avrei
voluto poterti stare
vicino nei momenti più difficili della tua vita per consolarti, per
dirti che
sarebbe andato tutto bene. Avrei voluto essere un padre migliore per te
…” a
quel punto s’interruppe, aveva gli occhi velati dalle lacrime, non
riusciva a
proseguire. “Mi dispiace …” disse agli altri e s’allontanò.
Madison
lo raggiunse
immediatamente, e lo abbracciò stretto. Non poteva lasciarlo da solo
ora,
“Sssh” gli sussurrò all’orecchio quando Spencer ricominciò a
singhiozzare tra
le braccia di quella donna che rappresentava gli ultimi venti anni
della sua
vita, con cui aveva condiviso gioie e dolori e avvertì per un forte
senso di
colpa, “Come ho potuto farti questo…” pensò tra le lacrime.
“Come
faremo adesso?” le
domandò. “Non lo so, non lo so” rispose lei. Gli accarezzò le guancie e
gli
asciugò le lacrime.
“Dobbiamo
farci coraggio
per i ragazzi. Hanno bisogno di noi”
“Lo
so …”, fu allora che li
raggiunsero Jules e Thomas. “Tutto ok?” chiese timidamente Jules
avvicinandosi
a suo padre. “Si…”rispose lui.
Madison
li strinse in un abbraccio
baciandoli sulla fronte, e insieme ritornarono per dare l’ultimo saluto
ad
Elizabeth.
I
presenti si girarono
verso di loro e JJ andò incontro a Spencer consegnandoli i fiori
avrebbero
posato a breve sul feretro; avevano scelto il girasole, il fiore che
meglio la
rappresentava. Madison accompagnò Jules che fu la prima a lasciare il
fiore
accompagnato da un bigliettino, anche Thomas lasciò un biglietto così
come
anche i tre migliori amici di Elizabeth. Colin posò una mano sulla bara
in
segno di saluto, mentre Nicole e Blair lo tenevano per mano. “Non ti
scorderemo
mai” questa era la frase scritta sul biglietto che avevano lasciato poi
si
allontanarono lasciando spazio a Penelope che aveva in mano una
stellina di
peluche insieme al fiore.
“Ciao
stellina” disse la
donna in lacrime. “Abbi cura di tutti noi” posò il fiore e il peluche e
si
voltò verso suo marito Kevin che le tendeva la mano.
Man
mano i presenti
salutarono Elizabeth fino a che fu il turno di Madison.
La
donna rimase ferma davanti
alla bara, poi accarezzò il feretro e lasciò il fiore. Spencer la
raggiunse e
le posò le mani sulle spalle, la donna si voltò verso di lui e si fece
da parte
dirigendosi verso i figli rimasti vicino a sua madre.
Spencer
rimasto da solo
posò il girasole e socchiuse gli occhi. Ripensò a sua figlia e alle sue
ultime
parole e scoppiò nuovamente in lacrime senza riuscire a trattenere
singhiozzi
che gli impedivano di respirare ; inspirò a fondo per cercare di
calmarsi, mandò
un bacio ad Ellie posando le punta delle dita per l’ultima volta sul
feretro
che avrebbe custodito da allora in poi il corpo di sua figlia, poi
lasciò il
cimitero assieme a Derek che l’aveva aspettato in disparte.
“Non
sai quanto mi
dispiace, davvero” gli disse l’uomo con gli occhi lucidi e gli posò una
mano
sulla spalla.
“Non
avrei mai voluto che
…” continuò, ma Spencer lo interruppe con un cenno della mano.
“Non
c’è bisogno, lo so”
affermò l’uomo con aria affranta. Derek annuì e l’accompagnò fuori.
Anche
questa giornata era
finita.
Qualche settimana dopo Spencer
ricevette qualcosa che non
si aspettava. Colin si era presentato un pomeriggio a casa con un
pacchetto che
gli aveva lasciato senza trattenersi a lungo.
“E’ di Elizabeth, lei te l’avrebbe
dato ma …” aveva
mormorato il ragazzo senza riuscire a trattenere una lacrima che scese
lungo la
guancia. Spencer provò a sorridergli, ma tutto ciò che riuscì a
sfoggiare fu
una smorfia storta, ringraziò il ragazzo che si congedò e aprì il
pacchetto.
Dentro vi trovò un cd e un foglio piegato con scritto “per papà”,
riconobbe
subito la calligrafia di sua figlia, per un momento esitò ad aprirlo.
Non
sapeva cosa aveva scritto, sapeva solo che questa era l’ultima lettera
che lei gli
aveva scritto. Non ce ne sarebbero state altre, mai più.
Aprì il foglio e lesse la lettera:
“Tu avevi detto che volevi sentire la
canzone una volta
scritto il testo, e allora io beh ho inciso questo. Spero davvero ti
piaccia,
ma se non è così non dirmelo però. Siamo d’accordo?
Ti voglio bene, Ellie.”
Rilesse quelle parole diverse volte
che si fissarono
indelebili nella sua mente, poi ripiegò il foglio e lo mise in tasca.
Prese il
cd, con cura lo collocò nel lettore e avviò il dispositivo premendo il
tasto
play.
La voce di Elizabeth risuonò
cristallina nella stanza riempiendola
e dandogli la sensazione che lei fosse lì con lui.
Si concentrò sulle parole della
canzone che parevano così
irreali e si lasciò cullare da quella voce che gli pareva di aver
dimenticato …
“I was a little
girl alone in my little world who dreamed of a little home for me.
I played pretend between the trees, and fed my houseguests bark and
leaves, and
laughed in my pretty bed of green.
I had a dream
That I could fly from the highest swing.
I had a dream.
Long walks in the dark through woods grown behind the park, I asked God
who I'm
supposed to be.
The stars smiled down on me, God answered in silent reverie. I said a
prayer
and fell asleep.
I had a dream
That I could fly from the highest tree.
I had a dream.
Now I'm old and feeling grey. I don't know what's left to say about
this life
I'm willing to leave.
I lived it full and I lived it well, there's many tales I've lived to
tell.
I'm ready now,
I'm ready now, I'm ready now to fly from the highest wing.
I had
a dream”
Inevitabilmente si commosse. Era
bellissima, per lui era
bellissima. Ma lei non l’avrebbe mai saputo.
Elizabeth, le parole che non ti ho
detto.
Per tutta
la vita
andare avanti,
cercare i
tuoi
occhi negli occhi degli altri.
Far finta
di
niente, far finta che oggi sia un
giorno normale.
Un anno
che passa,
un anno in salita.
Che senso
di vuoto,
che brutta ferita.
Delusa da
te, da
me. Da quello che non ti ho dato.
(Per tutta la vita, Noemi)
Tre anni dopo
I giorni diventarono settimane, e
le settimane mesi.
Tutto sembrò tornare perfettamente normale.
Eppure quando quel silenzio a cui
si era ormai abituato e
per molti versi costretto sé stesso pareva soffocarlo, Spencer Reid
andava in
camera di Elizabeth dove nulla era stato spostato come se il tempo si
fosse
fermato a quel maledetto venerdì di tre anni fa, si sdraiava sul letto
e
affondava il viso nel suo cuscino che profumava ancora come lei per
attutire il
suono dei suoi singhiozzi che incontrollabili si susseguivano
togliendogli il
respiro.
E poi un giorno come un altro
successe qualcosa.
“Spencer, puoi venire giù?” lo
chiamò Madison dal piano
di sotto. Uscì dallo studio e sentì diverse voci provenire dal salotto,
dal
loro tono allegro Spencer dedusse che doveva essere arrivata.
“Papà allora te la dai una mossa o
ti devo mandare un
invito?” lo scherzò Jules con la sua solita voce squillante.
“Arrivo” urlò Spencer
precipitandosi dalle scale.
“Finalmente ce l’hai fatta” lo salutò sua figlia dandogli un bacio
sulla
guancia.
“Dov’è?” le chiese impaziente
allungando il collo per
guardare fuori dalla porta. “E’
con Tom
e Jake, stanno scendendo il passeggino” spiegò sua figlia che
contemporaneamente andò verso l’ingresso tenendo ferma con il piede la
porta
per facilitarli l’accesso, a quel punto Jake entrò di spalle sollevando
il
passeggino per superare il gradino mentre Tom lo spingeva in avanti.
“Su vieni dalla mamma” disse Jules
abbassandosi verso la
bimba e allargando le braccia per afferrarla una volta che il
passeggino fu
sistemato dai due dentro.
Anche Madison si avvicinò assieme
a Spencer e le fece un
buffetto sulla guancia della bimba che rise di gusto scuotendo i ricci
biondi
che le incorniciavano il viso mentre si voltava verso i nonni.
“Lizzie, sei stata dall’altra
nonna? Ti sono mancata?” le
disse Madison prendendola in braccio. “Ha mangiato?” domandò poi
Spencer a
Jules che scosse la testa in segno negativo e gli disse che era tutto
già
pronto dentro la borsa.
Tom si offrì per farla mangiare e
la prese mentre Madison
sedeva sul seggiolone la bimba che si sporgeva in avanti per toccare i
capelli
del nonno.
Tom prese il cucchiaino riempito
fino all’orlo con la
zuppetta di riso che Jules aveva preparato poco prima. “Lizzie, su dai”
devi
mangiare” l’incoraggiò suo zio avvicinando il cucchiaio al suo viso
mentre lei
scuoteva la testa e gonfiava le guance.
“Dai,lo so che sei una brava
bimba. Apri la boccuccia” le
disse poi, la bimba aprì la bocca e ingoiò la prima cucchiaiata.
Ma alla seconda fece un piccolo
scherzetto allo zio
spuntandogliela, Tom con le dita si tolse la pappa masticata da sua
nipote dal
viso urlando “che schifo” tra le
risate degli altri.
“Se ci fosse stata Elizabeth
avrebbe scritto una canzone
su questo” affermò
con molta
naturalezza Jules
tra una risata e
l’altra, tutto si voltarono verso di lei al suono di quel nome che da
tempo
nessuno aveva il coraggio di pronunciare e la ragazza subito colpita da
un
improvviso senso di colpa si portò una mano verso la bocca.
Tom invece ignorando la reazione
degli altri disse: “E si
sarebbe mangiata anche il riso di Lizzie”
“Anche se poi sarebbe stata male
tutta la notte perché il
riso non lo digeriva bene” concluse Madison facendo un sorriso che sia
Jules
che Tom ricambiarono.
“Perché non andiamo al parco?”
propose Jake. “E’ una
bella giornata”; Madison e Tom si mostrarono subito entusiasti della
proposta ,
ma Jules replicò dicendo di avere diversi compiti da fare.
“Ellie non li avrebbe fatti”
affermò Spencer facendo anche
lui un debole sorriso. “Già, hai ragione” asserì lei poi prese la
giacchettina
di Lizzie e gliela infilò.
Madison aiutò Jake a portare fuori
il passeggino mentre
Tom abbassava la serranda della finestra del soggiorno, Spencer però si
scusò
dicendo che non sarebbe andato subito con loro e che li avrebbe
raggiunti dopo.
Gli altri annuirono senza domandargli cosa dovesse fare e uscirono.
Spencer indossò la giacca che
aveva appeso la sera prima
all’appendiabiti, prese le chiavi della macchina ed uscì anche lui.
Mentre percorreva quella strada,
che non compieva da più
di tre anni, si ricordò di quel pomeriggio in cui vi entrò per la prima
volta e
inevitabilmente una lacrima scese lentamente lunga la guancia; non
tardò molto
a raggiungere il cimitero, tuttavia rimase a lungo sul suo ingresso
senza
trovare il coraggio di varcarlo.
Infine qualcosa si mosse dentro di
lui e lo spinse ed
entrò dirigendosi automaticamente verso il luogo in cui era sepolta
Elizabeth.
A lungo aveva pensato a ciò che
avrebbe fatto il giorno
in cui avesse trovato la forza di andare a trovarla, ma in quel momento
nulla
di tutto ciò che aveva potuto pensare di dire o fare fu detto o fatto.
Le
parole sgorgarono dalla sua bocca senza alcun apparente sforzo rompendo
il
silenzio che caratterizzava quel luogo sacro.
“Ciao, amore. Mi dispiace se in
tutti questi mesi, anzi
anni, non ho mai avuto il coraggio di venirti a trovare, ma la verità è
che mi
era convinto che venirti a trovare significava ammettere che non c‘eri
più ed
io non ero pronto. Mi manchi terribilmente, la tua assenza credo che
sarà
qualcosa a cui mai riuscirò ad abituarmi, mi mancano le tue risate, le
tue
battute, persino le nostre litigate. Ellie, mi manca la tua voce, darei
qualunque cosa per poterla sentire ancora ...”
“In questi ultimi tre anni non c’è
stato giorno in cui
non mi sia incolpato per ciò che ti è successo, per ciò che io ho permesso che ti succedesse. Sai,
gli altri mi dicono che non c’era nulla che io potessi fare, che io non
potevo
saperlo, ma si sbagliano; dovevo morire io quel pomeriggio, non tu. E non mi potrò mai perdonare per
questo …
… Nei giorni successivi alla tua
morte mi sono tormentato
continuamente ripetendomi che non avevo fatto abbastanza per renderti
felice,
ma poi ho sentito quella canzone, la tua canzone, e ho capito che tu
eri felice
e questo mi ha rassicurato, sai? Forse dopo tutto non sono stato un
pessimo
padre per te …”
“Tante cose sono cambiate da
quando non ci sei più,
avremmo tanto voluto che tu fossi stata con noi quando è nata Lizzie,
Maddie è impazzita,
la conosci com’è fatta, lei adora
i bambini …”
“Lizzie ci ha salvato, a me e tua
madre intendo. Non so
cosa sarebbe successo se non fosse arrivata, ho sempre pensato che tu
ce l’hai
mandata, forse è una stupidaggine ma io non smetto mai di pensarlo …
… Tua mamma mi dice sempre che un
giorno ci rincontreremo
tutti insieme in paradiso. Io mi auguro che sia vero perché voglio
tanto
rivederti e riabbracciarti di nuovo …”
Il flusso delle sue parole fu
interrotto dal custode, uomo
di mezza età dall’aria bonaria; “Dev’essere stata una ragazza molto
amata. C’è
sempre qualcuno che viene a trovarla” gli disse mentre spazzava le
diverse
foglie secche sparse per terra.
“E’ sempre così triste quando
muoiono così giovani,
soprattutto in quel modo così atroce…” continuò scuotendo la testa
mentre con
il braccio si poggiava sul rastrello. “Mi scusi l’indiscrezione, ma lei
chi è?
Non l’ho mai visto qui”
Spencer si voltò verso l’uomo che
gli abbozzava un
sorriso e rispose: “Sono il padre”. L’uomo aprì la bocca come per dire
qualcosa
ma la richiuse rapidamente, poi Spencer lo salutò cortesemente ed uscì
dal
cimitero mentre il custode ritornava alle sue faccende.
A volte la vita ci pone di fronte
a situazioni che non
sappiamo fronteggiare perché non possiamo, o semplicemente perché non
vogliamo
farlo. Ma la vita è frenetica e continua ad andare avanti anche senza
di te e
Spencer lo sapeva.
Perciò a distanza di tre anni da
quel terribile
pomeriggio che gli aveva devastato in pochi secondi la vita, decise che
era
pronto a riappropriarsi di quell’esistenza che gli stava sfuggendo
sempre di
più dalle mani trovando così la forza di ricominciare di nuovo.
Perché era quello che la sua
Elizabeth avrebbe fatto e
lui voleva che fosse orgogliosa di lui.
Fine.
È una
mia
personale convinzione che quando subisci una perdita così grande ed
inaspettata, ciò che di più bello ti può capitare è di assistere alla
nascita
di una nuova vita perché i bambini ci ricordano che esiste qualcosa di
puro e
meraviglioso in questa vita che merita di essere vissuta, assorbendola
fino
all’ultima goccia.
So che
mai una
persona potrà prendere il posto di un’altra, che mai una persona a noi
cara
potrà essere dimenticata ma so anche che è importante e necessario che
quando
la pensiamo non ricordiamo quegli ultimi minuti che ce l’hanno portata
via ma
piuttosto quei bei momenti che abbiamo trascorso con lei; ed è per
questo che
ho creato Lizzie, perché così ogni volta che si penserà ad Ellie non
sarà mai
più tanto doloroso poiché si avrà in mente lei, Lizzie, che porta il
nome di
una persona che non la potrà mai conoscere ma che siamo sicuri che la
proteggerà.
Spero
che leggere
questa storia vi sia piaciuto quanto a me è piaciuto scriverla. Grazie
di
avermi seguito.
Antonella.
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